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Italian Pages 162 [161] Year 2017
LA STORIA
LE STORIE
€ 17,50
EBRAISMO, CRISTIANESIMO E ISLAM NEL MONDO GLOBALE
Mar ta Margotti
RELIGIONI E SECOLARIZZAZIONI
Marta Margotti, storica, insegna all’Università di Torino. Si è dedicata agli studi sul rapporto tra chiesa e modernità, sui preti operai e sulla storia sociale delle donne. Fa parte dei comitati scientifici della Fondazione “Don Primo Mazzolari” e dell’Istituto “Paolo VI”.
MARTA MARGOTTI
La cronaca propone sempre più spesso occasioni per riflettere sul rapporto tra religioni e politica: dall’educazione familiare ai simboli religiosi nei luoghi pubblici, dai cambiamenti di regime alle intromissioni delle credenze morali nell’elaborazione delle leggi. Di fronte alle tensioni attuali è opportuno conoscere le origini di questo rapporto contrastato: misurare quale impatto abbiano avuto i conflitti tra sacro e secolare sulla scuola, sul matrimonio, sulla scienza o sulla organizzazione delle società aiuta a comprendere come le fedi hanno contribuito a forgiare il mondo globalizzato. La ricca dialettica tra fenomeni religiosi e processi di secolarizzazione è frutto di percorsi che nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam hanno seguito traiettorie diverse, ma che si sono tra loro continuamente incrociati. Uno sguardo plurale, che riflette su fedi e forme differenti dell’attuale pensiero laico e, allo stesso tempo, coglie le loro influenze reciproche lungo i secoli.
RELIGIONI E SECOLARIZZAZIONI
LA STORIA
LE STORIE
La storia & le storie
Marta Margotti
Religioni e secolarizzazioni Ebraismo, cristianesimo e islam nel mondo globale
copertina: progetto grafico di Tiziana Di Molfetta realizzato da Eicon, Torino impaginazione: Lexis, Torino Immagine in copertina: Medhat Shafik, Mesopotamia II, 2009. Courtesy
, Torino
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi storici dell’Università degli Studi di Torino, Fondi Miur 2008, nell’ambito del Progetto di ricerca di interesse nazionale “Religioni, modernizzazione e culture nella storia contemporanea”
La legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla protezione del diritto d’autore, modificata dalla legge 18 agosto 2000 n. 248, tutela la proprietà intellettuale e i diritti connessi al suo esercizio. Senza autorizzazione sono vietate la riproduzione e l’archiviazione, anche parziali e anche per uso didattico, con qualsiasi mezzo, sia del contenuto di quest’opera sia della forma editoriale con la quale essa è pubblicata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. prima edizione italiana, novembre 2012 © 2012 by Rosenberg & Sellier per il testo © 2012 by Rosenberg & Sellier per la copertina via Andrea Doria 14, 10123 Torino fax 011.8127808
www.rosenbergesellier.it isbn 13: 978-88-7885-235-8
iNDICE
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Introduzione
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1. I confini della storia
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2. Società in movimento 2.1. Fedi e società moderne 2.2. Famiglie nella secolarizzazione 2.3. Le religioni a scuola
85 102 120
3. La politica delle religioni 3.1. La laicità dello stato 3.2. Il potere della fede 3.3. Religioni rivelate e democrazia politica
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4. I nuovi interrogativi 4.1. Un mondo uscito da Dio 4.2. “Multisacro” o “multisecolare”?
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Indice dei nomi
a nostra figlia Sara
Introduzione
La globalizzazione dei fenomeni religiosi ha origini antiche, anche se soltanto in epoca contemporanea ha assunto dimensioni tali da coinvolgere spazi geografici e ambienti sociali prima soltanto sfiorati dai processi di integrazione planetaria. Si tratta della medesima tendenza che caratterizza i fenomeni di secolarizzazione che, anzi, proprio perché spesso percepiti come espressione dell’uscita dagli assetti sociali ereditati dal passato, si sono diffusi su scala mondiale soprattutto nel corso del Novecento, anche se non in maniera uniforme, accompagnando la modernizzazione delle strutture sociali e delle mentalità collettive. Nonostante l’apparente paradosso, religioni e secolarizzazioni coesistono nelle società contemporanee, in un rapporto, ora più, ora meno teso, sottoposto a continue mutazioni, di cui può essere utile osservare le origini per valutare la complessità dei percorsi seguiti e la molteplicità degli esiti di una relazione ormai secolare. La prospettiva storica lungo cui si sviluppa questo libro intende offrire alcuni elementi per considerare la “lunga durata” di questi nessi e sottolineare la complessità di fenomeni che, altrimenti, rischiano di essere appiattiti sugli ultimi eventi della cronaca. Vi sono, in effetti, alcune questioni che mostrano la perdurante ambivalenza del rapporto tra dimensione religiosa e processi di secolarizzazione, come anche la varietà delle radici di una relazione che, sorta nell’Europa occidentale in epoca moderna, lega in modo inscindibile due fenomeni che, pur essendo per molti aspetti opposti, non sono per questo tra loro indipendenti. Gli interrogativi, dunque, non mancano. Come si è sviluppato nell’età moderna il rapporto tra la considerazione sociale della centralità della fede in Dio 7
e l’affermazione della sua estraneità o la sua totale negazione? Quali relazioni vi sono state nel passato tra modernizzazione della società e persistenza del sacro? Lungo quali percorsi si sono sviluppati i fenomeni di secolarizzazione e come si sono riflessi nelle trasformazioni che, con velocità crescente negli ultimi decenni, hanno coinvolto anche la percezione del sacro? Le fedi come hanno influenzato l’elaborazione delle culture politiche nella storia contemporanea? Quanto hanno ostacolato o favorito la diffusione delle istituzioni democratiche? Però, analogamente, in che modo i fenomeni di secolarizzazione hanno contribuito alle trasformazioni delle tradizioni e del pensiero teologico delle diverse confessioni religiose? La scelta di mettere l’accento sul numero plurale delle realtà indagate – religioni, secolarizzazioni – intende mostrare l’ipotesi da cui prende avvio questo libro. Come diverse sono tra loro le fedi in una dimensione soprannaturale della vita, così lo sono le visioni mondane della realtà, e questa pluralità si riflette negli innumerevoli percorsi lungo cui si sono sviluppati i rapporti tra le comunità religiose e gli stati, come pure tra il singolo individuo e la società: storicamente, fenomeni religiosi e fenomeni di secolarizzazione si sono senza sosta scontrati, annullati e integrati tra loro, tanto che i loro rapporti – in cui si sono mescolati antagonismo tenace e necessità di coesistenza – hanno contribuito in modo sostanziale alla costruzione dei diversi sistemi sociali e politici in epoca moderna e contemporanea. La variabilità di tali relazioni appare ancora più evidente confrontando le differenti situazioni emerse in aree diverse del pianeta e osservando come i processi di integrazione planetaria abbiano influito su (e siano stati influenzati da) quei rapporti. Se la molteplicità di situazioni impone di maneggiare con cautela modelli che intendono spiegare in modo univoco i processi di autonomia dal sacro nelle differenti società, lo scambio avvenuto a livello globale tra culture religiose e culture secolari può diventare un’utile chiave di lettura per indagare l’origine dei loro mutamenti e per capire in quale misura i loro rapporti siano debitori – oggi come nel passato – della circolazione di idee, pratiche sociali e istituzioni avvenuta fuori delle aree dove queste ultime sono sorte. Anche restringendo il campo di osservazione alle zone di tradizionale radicamento delle tre grandi religioni monoteisti8
che – ebraismo, cristianesimo, islam – sarebbe fuorviante ridurre la ricostruzione storica del rapporto delle singole fedi con i fenomeni di secolarizzazione alla semplice contrapposizione di principi, simboli e strutture organizzative. Da alcuni secoli, si è di fronte a un’interazione tra visioni religiose e visioni secolari che non soltanto ha contribuito a definire i modi con cui nelle società si è sviluppato e diffuso quello che Max Weber ha definito il «disincanto del mondo»1, ma che ha trasformato in profondità le stesse confessioni religiose, più di quanto esse siano portate a riconoscere. Osservare la storia del rapporto tra “società di Dio” e “società degli uomini” in una prospettiva globale consente di ricostruire le rotte attraverso cui si sono diffuse e si sono influenzate reciprocamente visioni del mondo anche molto diverse tra loro, ipotizzando che in questi spostamenti attraverso lo spazio e le civiltà (veri e propri transfer di culture e di pratiche sociali) vi siano le origini di discontinuità altrimenti incomprensibili nelle vicende delle società. Adottando questa “ottica globalizzante”, dimostratasi fruttuosa per lo studio di altri fatti storici, i fenomeni religiosi possono essere analizzati riservando «maggiore attenzione ai meccanismi di acculturazione e ai fenomeni di meticciato attivati dagli incontri interculturali, in alternativa alla retorica dell’alterità e dell’incompatibilità culturale»2. Si può, anzi, considerare che il livello di scambio raggiunto dalle diverse forme di transnational transcendence, come definite dall’antropologo Thomas J. Csordas, sia un utile indicatore dei più generali fenomeni di globalizzazione proprio per la complessa interazione tra fattori sociali, culturali, economici e politici generata dalle diverse esperienze religiose3. Per quanto tale tendenza sia più evidente per le vicende recenti, si possono rintracciare segnali di questo “scambio tra le fedi” anche nel passato. È possibile ampliare tale discorso all’analisi 1 Cfr. M. Weber, Scienza come vocazione, in Id., Scienza come vocazione e altri testi di etica e scienza sociale, a cura di P.L. Di Giorgi, Milano, Angeli, 1996, pp. 41-84. L’edizione originale del saggio Wissenschaft als Beruf è del 1919. 2 L. Di Fiore e M. Meriggi, World history. Le nuove rotte della storia, Roma-Bari, Laterza, 2011. 3 Cfr. T.J. Csordas (a cura di), Transnational transcendence. Essays on religion and globalization, Berkeley - Los Angeles - London, University of California Press, 2009.
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storica dei processi di secolarizzazione emersi in aree diverse del pianeta, considerando che anche in questi casi l’influenza culturale della globalizzazione non è stata unidirezionale, da un centro dinamico (lo spazio europeo, in particolare) a una periferia passiva. Una volta che si sono aperti canali lungo cui i fenomeni religiosi come quelli di secolarizzazione si sono diffusi e si sono combinati su scala mondiale, il flusso degli scambi è stato multidirezionale, con esiti che in epoca contemporanea appaiono tanto più deflagranti, quanto più intenso è stato il ritmo della comunicazione4. Il termine “globalizzazione”, dagli anni Novanta del Novecento frequentemente usato – e in alcuni casi abusato – in ambito economico, sociologico, politologico e nel mondo della comunicazione, si propone di rappresentare il processo che tende a mettere in relazione i singoli come i gruppi umani su scala planetaria, facilitando la circolazione di beni e servizi, ma anche di comportamenti, mentalità e stili di vita. È una parola nata per descrivere il presente, le sue dimensioni e le sue dinamiche di sviluppo, ma disegna anche le prospettive lungo cui si sta muovendo il pianeta: le società presenti e, si ipotizza, le società future sono segnate dall’interdipendenza che comporta una connessione continua tra eventi verificatisi in luoghi diversi, anche molto distanti tra loro. Soltanto in tempi recenti, la globalizzazione della religione è divenuta oggetto di studio nelle scienze umane, soprattutto in campo sociologico5, 4 Osservando la multidirezionalità degli scambi tra fenomeni religiosi, Csordas afferma: «We can think of this either in a kind of world-as-neural-network image in which religious manifestations can issue from any node and proceed in any direction or in a kind of postmodern free-floating-signifier image in which religious impulses are decentered and float like dandelion seeds in the breeze of the cultural imaginary»; T. J. Csordas, Introduction. Modalities of Transnational Transcendence, in Id. (a cura di), Transnational transcendence cit., p. 4. Sulle dinamiche del cambiamento, possono essere utilmente considerate le suggestioni contenute in K. Polanyi, La grande trasformazione, introduzione di A. Salsano, Torino, Einaudi, 1974 (l’edizione originale è del 1944). 5 Cfr. P.L. Berger, Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo, Bologna, il Mulino, 1994; J. Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, Bologna, il Mulino, 2000; A. Aldridge, La religione nel mondo contemporaneo. Una prospettiva sociologica, Bologna, il Mulino, 2005; P. Norris e R. Inglehart, Sacro e secolare. Religione e
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mentre una simile intensa attenzione non sembra aver toccato l’analisi storica della mondializzazione del sacro e del secolare6. Gli studi storici che, sollecitati dalla prospettiva globale, hanno proposto una lettura del passato attenta alle connessioni tra differenti spazi geografici e culturali possono però offrire utili suggestioni per meglio comprendere il reciproco influsso prodottosi nella storia tra religioni e secolarizzazioni7. Le migrazioni umane, che dalla metà dell’Ottocento hanno avuto dimensioni di massa, sono state tra i principali veicoli della trasmissione da una parte all’altra del pianeta di visioni del mondo diverse da quelle tradizionalmente presenti in un particolare territorio. Allo stesso modo, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa ha permesso con crescente facilità lo scambio di informazioni, la diffusione di comportamenti e la conoscenza di istituzioni presenti in regioni tra loro geograficamente distanti, con una circolazione che ha favorito l’ibridazione delle diverse e particolari forme del rapporto con il sacro. La presenza, infine, di organizzazioni più o meno complesse il cui obiettivo era (ed è) propugnare fedi, programmi politici o iniziative sociali (a volte in accordo tra loro, altre in competizione accanita) ha rappresentato un ulteriore strumento attraverso cui sono state superate le distanze: per mezzo di missionari e militanti di partito, agitatori rivoluzionari, attivisti e predicatori itineranti (veri e propri “mediatori culturali” tra mondi diversi), il sacro e il secolare si sono trasmessi e si sono politica nel mondo globalizzato, Bologna, il Mulino, 2007; O. Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Milano, Feltrinelli, 2009; P. Berger, G. Davie e E. Fokas, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Bologna, il Mulino, 2010. Per la situazione italiana, cfr. le considerazioni e i dati raccolti in F. Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, Bologna, il Mulino, 2011. 6 Per uno studio storico delle religioni in prospettiva globale, che si ferma però alle soglie dell’epoca moderna, cfr. D. Johnson e J. Elliot Johnson, Universal religions in world history. The spread of universal religions. Buddhism, Christianity, and Islam to 1500, Maidenhead, McGraw-Hill, 2007. 7 Cfr. le riflessioni su questo tema proposte da A. Giovagnoli, Storia e globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2003, in particolare pp. 202-230. Per una presentazione delle categorie della “storia globale”, cfr. A.G. Hopkins (a cura di), Globalization in world history, London, Pimlico, 2002; P. Manning, Navigating world history. Historians create a global past, New York, Palgrave, 2003; Di Fiore e Meriggi, World history cit.
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mescolati, originando quei «paradoxes du métissage» di cui ora osserviamo gli esiti estremi, ma non definitivi�8. L’analisi dei rapporti instauratisi in passato tra religioni e secolarizzazioni sviluppata nelle pagine seguenti propone un approccio globale alla questione e, proprio considerando lo sfondo estremamente mutevole su cui si muove, intende offrire alcune coordinate introduttive utili a orientarsi in territori soltanto marginalmente esplorati dagli storici. La scelta di circoscrivere l’osservazione alle tre “religioni del Libro” è un limite consapevolmente posto a questa ricerca, non tanto perché altre confessioni non abbiano un peso rilevante o non siano toccate da fenomeni assimilabili alla secolarizzazione, ma in quanto le tre fedi monoteistiche hanno tra loro tratti, luoghi di influenza e traiettorie, almeno in parte, comuni. La comparazione risulterebbe, infatti, più frammentata se ampliata ad altre “esperienze del sacro” e, non da ultimo, richiederebbe specifiche ed estese competenze su mondi assai complessi. Dopo aver sondato nel primo capitolo la varietà di concetti e di realtà riconducibile ai termini “religione” e “secolarizzazione”, nella seconda parte sono illustrate alcune trasformazioni sociali che storicamente hanno interagito con il mutamento dei rapporti tra dimensione sacrale e dimensione mondana. I cambiamenti intervenuti nei legami famigliari e nell’educazione delle giovani generazioni sono stati considerati, infatti, come casi sintomatici dei riflessi che l’antagonismo o la sintonia tra visioni secolari e visioni religiose della realtà hanno avuto sui comportamenti individuali in epoca contemporanea, ma anche come esempi di quanto questi stessi mutamenti abbiano provocato profonde e durature trasformazioni nei sistemi giuridici degli stati e nelle stesse istituzioni del sacro. Nel terzo capitolo, è indagato il ruolo svolto dalle istituzioni politiche e da quelle ecclesiastiche nei processi di legittimazione religiosa dello spazio pubblico e nelle contese sorte intorno ai provvedimenti di laicizzazione degli stati: 8 Così si intitolava il congresso francese organizzato nel 1998 dal Comité des travaux historiques et scientifiques; cfr. J.-L. Bonniol (a cura di), Paradoxes du métissage. 123e Congrès national des sociétés historiques et scientifiques, Antilles-Guyane, 1998, Paris, Cths, 2001. La categoria storica di “meticciato” è utilmente adottata da S. Gruzinski, Les quatre parties du monde. Histoire d’une mondialisation, Paris, Martinière, 2004.
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le trasformazioni dei sistemi giuridici, le vicende dei totalitarismi nel Novecento e i nessi tra religioni e democrazia mostrano la complessità e l’ambiguità delle relazioni createsi nella società di massa tra “autorità in nome degli uomini” e “autorità in nome di Dio”, impegnate in un confronto dall’equilibrio spesso precario e discusso. Nel quarto capitolo, sono ricostruite le origini storiche e gli sviluppi di alcune questioni che attualmente sollecitano in modo acuto il rapporto tra religioni e secolarizzazioni: la crisi dei sistemi politici statali e le controversie sui limiti della scienza, la diffusione di società multiculturali e l’indebolimento dei legami comunitari tradizionali sono elementi la cui evoluzione porta a registrare non tanto la vittoria di uno dei due contendenti, quanto la mutevole articolazione che nell’età contemporanea continua a caratterizzare il rapporto tra religioni e secolarizzazioni, simile più a un conflittuale intreccio dagli sbocchi imprevedibili che a una monolitica quanto rigida estraneità. La presenza in uno stesso territorio di diverse tradizioni religiose, come il loro confronto e lo scambio di miti, riti e simboli, non è un dato esclusivo dell’epoca attuale, dato che pure in passato esse sono state fattori di conflitto e di integrazione sociale�9. L’attuale tendenza alla globalizzazione ha accelerato il trasferimento su scala planetaria di gruppi umani e delle loro culture e ha favorito il contatto fra tradizioni religiose differenti, come anche la diffusione di visioni secolarizzate della realtà. La convivenza sociale in una situazione di pluralismo culturale è un valore che proprio le travagliate vicende storiche aiutano a meglio apprezzare. Ricostruire le origini delle relazioni tra sacro e secolare in una prospettiva globale, evitando semplificazioni svianti e catastrofismi immotivati, può aiutare a capire le ragioni del loro instabile equilibrio, ma anche a comprendere come sia possibile tenere insieme libertà individuali e legami comunitari nell’ingarbugliato “villaggio globale”.
9 Cfr. G. Filoramo e F. Remotti (a cura di), Pluralismo religioso e modelli di convivenza. Atti del Convegno di Torino, 20-21 settembre 2006, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009.
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1. I confini della storia
Religione e secolarizzazione rappresentano due dimensioni che, in un gioco di reciproci influssi e di rimandi incrociati, hanno contribuito almeno negli ultimi cinque secoli alla costruzione di mentalità e comportamenti, organizzazioni e leggi che, in parte notevole, condizionano gli assetti delle società odierne. Questi fenomeni, apparentemente contrari, proprio per la loro tendenza a superare i confini nazionali, possono essere osservati per meglio comprendere quali sono le origini del mondo globale e per seguire alcuni degli scambi che si sono prodotti in epoca contemporanea tra aree del pianeta anche geograficamente distanti. Le vicende attuali, come quelle di epoche precedenti, continuano a intrecciarsi con gli avvenimenti religiosi, a dispetto delle ipotesi che indicavano nell’“eclissi del sacro” l’orizzonte verso cui si muovevano le società industrializzate. Anche in tempi recenti, la religione non ha cessato di segnare in misura rilevante lo sviluppo non soltanto della cultura e delle idee, ma anche delle strutture sociali, delle istituzioni politiche e della stessa vita economica, nonostante che a fianco e spesso in contrapposizione a essa si sia sviluppata una serie di processi raccolti sotto il termine “secolarizzazione”. Religione e secolarizzazione non sono semplicemente le facce opposte della medesima medaglia, definendosi l’una attraverso la negazione dell’altra, ma appaiono come un complesso di fenomeni così profondamente collegati tra loro, quasi avvolti l’uno nell’altro, che in alcuni casi risulta difficile stabilire dove finisca l’influsso della prima e comincino gli effetti della seconda. Dall’inizio degli anni Novanta del Novecento, si sono moltiplicate le discussioni sul ruolo delle religioni nell’età “dopo 15
moderna” e sulla loro capacità di influenza in ambito sociale e politico, come anche le riflessioni sui fondamenti dello stato laico e sulle possibilità di indicare un insieme di riferimenti comunemente accettati per fondare una convivenza pacifica in una società multiculturale. Un misuratore parziale, ma comunque indicativo, di questo interesse è dato dai libri pubblicati negli ultimi anni sulla funzione svolta dalle istituzioni religiose nelle società contemporanee e sul contributo delle fedi nella definizione delle identità collettive. In questo ambito, sono stati soprattutto due temi ad aver attirato l’interesse maggiore: la laicità delle istituzioni pubbliche e l’identità religiosa nella costruzione di un’etica pubblica condivisa1. A quello che potrebbe apparire un sorprendente “revival religioso” – o, meglio, un “revival del religioso” – hanno dato il loro contributo sociologi, politologi, giuristi e storici, oltre che teologi e filosofi, rispondendo a sollecitazioni che superano le singole situazioni nazionali. L’interesse per il ruolo del religioso nella vita pubblica risponde a ragioni di varia natura, legate soprattutto all’incertezza della situazione politica globale e al disorientamento di fronte a trasformazioni sociali e culturali che sfuggono in parte notevole alle possibilità di regolazione e di autoregolazione. Non è comunque casuale che tale attenzione sia coincisa con la crisi nelle relazioni internazionali seguita al crollo del sistema sovietico e alla fine dello scontro bipolare e che, dopo gli attentati terroristici nei cieli statunitensi dell’11 settembre 2001, a Bali nel 2002, a Londra e Madrid nel 2004 e 2005, si siano affollate le discussioni sul rapporto tra mondo occidentale e islam, oltre che sulle radici religiose delle guerre che costellano il pianeta. Per esempio, su 352 titoli contenenti il termine “laicità” comparsi dall’inizio degli anni Settanta e censiti in Italia dal Servizio bibliotecario nazionale, ne risultano pubblicati 22 dal 1972 al 1981, 47 dal 1982 al 1991, 55 dal 1992 al 2001 e 228 (quasi due terzi) dal 2002 al 2011. Una verifica si può fare con altri termini e con ricerche bibliografiche più raffinate, con risultati però analoghi anche in altri contesti linguistici. Il termine “laïcité” nel catalogo della Bibliothèque nationale de France compare 398 volte nei titoli di testi a stampa pubblicati nello stesso quarantennio: 14 dal 1972 al 1981, 62 dal 1982 al 1991, 83 dal 1992 al 2001 e 239 dal 2002 al 2011, in quest’ultimo caso pari quasi a due terzi del totale. 1
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Con la fine dell’Unione Sovietica e il suo sistema di potere internazionale, la contrapposizione tra i blocchi che aveva regolato per quasi cinquant’anni le relazioni internazionali è stata sostituita da una più sfuggente competizione per l’egemonia mondiale dove, a fianco delle spinte economiche e militari, sembrano giocare un ruolo fondamentale le identità culturali e le appartenenze religiose. Per alcuni osservatori, lo scontro delle ideologie sarebbe stato sostituito dallo scontro delle civiltà (come nella discussa teoria di Samuel Huntington2), tanto che le componenti culturali e religiose sarebbero alla base dei conflitti che hanno attraversato il pianeta dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Quanto siano carenti queste letture delle dinamiche mondiali che enfatizzano il ruolo delle religioni come motore di inestinguibili conflitti planetari, come anche le diverse (ma alla fine convergenti) teorie sulla fine della storia (come quelle sostenute da Francis Fukuyama3), è mostrato dall’osservazione – banale, ma autoevidente – che la storia non è né iniziata, né finita con la dissoluzione del blocco sovietico e che la diversità tra culture non è sufficiente a spiegare l’origine dei conflitti. Come in passato nelle prevalenti interpretazioni sociali e politiche vi è stata una diffusa sottovalutazione dei fattori religiosi nella storia delle società moderne, così ora si corre il rischio opposto (e ugualmente mistificante) di considerare le religioni come l’elemento determinante i maggiori fenomeni globali. In ogni caso, dopo la fine del conflitto bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, alle diverse confessioni cristiane, alle varie correnti dell’islam e ai movimenti dell’ebraismo è stato assegnato uno spazio sulla scena internazionale che, pur non avendo mai abbandonato, si trovano ora a presidiare con un ruolo che nei decenni precedenti non pareva esser più appartenuto loro in misura così rilevante. 2 Cfr. S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997. Il libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1996 sviluppa le tesi presentate dallo stesso autore nel saggio The clash of civilizations?, «Foreign Affairs», 1993, n. 3, pp. 22-49. Più recentemente, cfr. Id., La nuova America. Le sfide della società multiculturale, Milano, Garzanti, 2005. 3 Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.
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Per evitare letture distorte del ruolo delle religioni nell’epoca post secolare, può essere utile compiere un percorso che aiuti a individuare dal punto di vista storico gli elementi caratterizzanti le relazioni tra dimensione sacrale e dimensione secolare e, più precisamente, tra credenze religiose e culture, tra istituzioni ecclesiastiche e strutture statali. Il punto di partenza è la considerazione che con il passare del tempo, così come le mentalità o le forme di organizzazione sociale si sono modificate continuamente, sono variati sia la rilevanza sociale del legame con il trascendente dei singoli e dei gruppi, sia i contenuti stessi del credere, quasi sempre presentati dalle autorità religiose e creduti dai fedeli come immutabili. Nel “tempo della modernità” (in particolare, dal xvi secolo in avanti a iniziare dall’Europa), il paesaggio è progressivamente cambiato a causa della diffusione di opinioni e la nascita di istituzioni secolarizzate che hanno condizionato le scelte dei singoli individui come delle autorità politiche4. I processi di modernizzazione (spesso – anche se non necessariamente – alimentati dall’industrializzazione delle economie e dall’urbanizzazione delle comunità umane) si sono accompagnati alla crescita del pluralismo culturale: questa molteplicità delle culture radicate in uno stesso territorio è stata causa e conseguenza dell’articolazione complessiva delle strutture sociali, che ha indebolito la tradizionale tendenza all’omogeneità (anche religiosa) dei gruppi umani. Non si tratta di un dato totalmente nuovo: l’universalismo delle fedi monoteistiche ha avuto storicamente una parte rilevante nel generare e alimentare i processi di globalizzazione. A differenza del passato, però, la velocità degli attuali cambiamenti sociali e l’intensità degli scambi culturali hanno sollecitato in maniera inedita le religioni, che nelle società della dopo modernità sono state sottoposte a tensioni dalla complessità prima sconosciuta che, con crescente difficoltà, riescono a ricomporre al loro interno. Proprio perché tali tensioni provengono in misura rilevante dal confronto con le mentalità e le istituzioni secolari (che producono economia, scienza e politica), l’osservazione dei 4 Cfr. M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Torino, Einaudi, 1992; F. De Giorgi, Laicità europea. Processi storici, categorie, ambiti, Brescia, Morcelliana, 2007.
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modi con cui nella storia si sono definite le relazioni tra religioni e processi di secolarizzazione può aiutare a comprendere alcune delle dinamiche essenziali della globalizzazione, quelle di oggi come del passato. La difficoltà di delimitazione del campo di una simile indagine storica è confermata dalla galassia di definizioni elaborate per descrivere il processo di distacco dei singoli e delle collettività dal controllo del religioso5. Una prima generale (e necessariamente generica) definizione presenta la secolarizzazione come «il fenomeno socio-culturale di autonomia e autoaffermazione dell’uomo-nel-secolo»6. Tale formulazione mostra una realtà religiosamente neutra, lasciando sullo sfondo il fatto che storicamente la secolarizzazione si è affermata come movimento di progressiva autonomia dalla religione dei diversi aspetti dell’esistenza individuale e della vita collettiva. Il termine “secolarizzazione”, in particolare negli studi sociologici e nella scienza politica contemporanea, è usato per indicare l’abbandono di un «comportamento di tipo sacro, l’allontanamento da schemi tradizionali, da posizioni dogmatiche e aprioristiche»7. Seppur sia diversa tra gli storici la valutazione dell’importanza dei diversi passaggi8, questo movimento di autonomia dal sa5 Sul concetto di “secolarizzazione”, cfr. H. Lübbe, La secolarizzazione. Storia e analisi di un concetto, Bologna, il Mulino, 1970. Si vedano anche le considerazioni contenute in O. Chadwick, Società e pensiero laico. Le radici della secolarizzazione nella mentalità europea dell’Ottocento, Torino, Sei, 1990; G. Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Roma-Bari, Laterza, 1994; R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1999; G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 20052; A. Rigobello, Laicità e secolarizzazione, in G. Dalla Torre (a cura di), Lessico della laicità, Roma, Studium, 2007, pp. 197-204; F. Botturi, Secolarizzazione e laicità, in P. Donati (a cura di), Laicità: la ricerca dell’universale nelle differenze, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 295-337. 6 P. Vanzan, Editoriale, in D. Callahan (a cura di), Dibattito su “La città secolare”, Brescia, Queriniana, 1972, p. 37. 7 G. Pasquino, Secolarizzazione, in N. Bobbio e N. Matteucci (dir.), Dizionario di politica, Torino, Utet, 1976, p. 904. 8 Cfr., per esempio, F. Bolgiani, V. Ferrone e F. Margiotta Broglio (a cura di), Chiesa cattolica e modernità. Atti del Convegno della Fondazione Michele Pellegrino, Bologna, il Mulino, 2004, dove emerge la diversità di posizioni
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cro si è realizzato attraverso percorsi che è possibile collocare abbastanza esattamente in tempi e spazi definiti e che, emerso con la Lotta per le investiture nell’xi e xii secolo, giunse a un suo snodo fondamentale nell’Europa cristiana del xvi secolo. Se storicamente l’autonomia dal sacro e, ancor prima, la distinzione tra sacro e profano hanno avuto una più netta definizione attraverso le vicende dell’Occidente cristiano, è possibile rilevare come in tutte le tradizioni monoteistiche l’incontro-scontro tra il religioso e il profano emerga come un dato costitutivo, condizionando continuamente l’elaborazione delle riflessioni teologiche e la concreta prassi delle comunità. Non è in ogni caso indifferente alla direzione seguita dalle trasformazioni dell’atteggiamento di distacco dal religioso, sul piano sia individuale, sia politico, il fatto che i fenomeni di secolarizzazione siano sorti inizialmente in relazione e, spesso, in contrapposizione all’ideale storico della cristianità9. L’origine all’interno di questo contesto sociale e culturale ha avuto come conseguenza il fatto che le tendenze alla secolarizzazione, una volta diffusesi in ambienti diversi da quelli europei e di tradizione cristiana, abbiano mantenuto una sorta di marchio d’origine che ha condizionato le forme assunte nelle nuove realtà e che, in taluni casi, ha provocato reazioni di segno contrario particolarmente accese. La secolarizzazione appare quindi un orientamento di lungo periodo e di portata globale che, in particolare nel corso del Novecento, ha registrato un diverso e diffuso radicamento, soltanto in parte condizionato dalla differente organizzazione politica degli stati. Proprio per le implicazioni sociali, culturali e giuridico-istituzionali, i processi di secolarizzazione si sono presentati come fenomeni complessi, a tratti ambivalenti, tanto che appare opportuno evitare schematizzazioni che pretendono espresse da Vincenzo Ferrone e Paolo Prodi, che possono essere assunte come esemplificative delle posizioni “neoilluministiche” e “postilluministiche” intorno all’interpretazione delle origini della modernità. Su questo dibattito, cfr. anche De Giorgi, Laicità europea cit., pp. 11-12. 9 Cfr. F. Bolgiani, Introduzione al problema della scristianizzazione, Torino, Celid, 1987; P. Nepi, La critica della cristianità nelle teorie della secolarizzazione, in G. Campanini e P. Nepi, Cristianità e modernità. Religione e società civile nell’epoca della secolarizzazione, Roma, Ave, 1992, pp. 141-157.
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di spiegare in modo uniforme la loro evoluzione in situazioni storiche differenti. Esistono però alcuni elementi comuni alle diverse forme di secolarizzazione. Da un lato, essa rappresenta la fuoriuscita dall’universo religioso da parte dei singoli e delle istituzioni; dall’altro, anche se in modo meno evidente, si configura come un processo di trasformazione religiosa, vale a dire di mutamento delle istituzioni, dei riti e delle credenze religiose, indotto dal cambiamento della percezione della realtà avvenuto a livello sociale. I due movimenti si sono storicamente condizionati a vicenda e proprio il loro differente modo di rispondere alle reciproche sollecitazioni ha segnato in profondità il volto delle diverse società in epoca moderna. La religione, intesa come «insieme di credenze e di riti che collegano uno o più individui con uno o più esseri extraumani»10, è una dimensione costante nella storia dell’umanità, tanto che i fenomeni di secolarizzazione possono sembrare elementi di discontinuità in questa vicenda. Le tre grandi religioni monoteistiche, che si possono definire come l’insieme di credenze in un unico essere soprannaturale fondate sulla rivelazione compiuta da quella divinità agli uomini, sono riconducibili a istituzioni diverse e caratterizzate da riti liturgici, luoghi di culto, prescrizioni, contenuti dottrinali e gerarchie precise, con una notevolissima capacità di influenza sulle società dove si sono diffuse nel corso delle diverse epoche storiche. Allo stesso tempo, però, quelle stesse religioni sono state mutate dal contatto con quelle culture che hanno contribuito a plasmare, sia nelle loro forme esteriori che in alcuni caratteri costitutivi. Non sarebbe comprensibile la monarchia giudaica dal ix al vii secolo avanti era volgare tralasciando il ruolo svolto in essa dai profeti, come risulterebbero inintelleggibili l’economia dell’Europa occidentale medievale e l’espansione del mondo arabo nel bacino mediterraneo tra il vii e l’viii secolo era volgare senza considerare, rispettivamente, la funzione svolta dalle istituzioni monastiche cristiane e il ruolo della predicazione musulmana. Similmente, la spiritualità ebraica uscì profondamente trasformata dalla diaspora seguita alla distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme da parte 10 Religione, voce in G. Filoramo (dir.), Dizionario delle religioni, Torino, Einaudi, 1993, p. 621.
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dei romani nel 70 e.v. e lo sviluppo delle comunità cristiane fu condizionato dal cosiddetto “Editto di Costantino” del 313 che consentiva loro di professare liberamente la propria fede, mentre la riflessione islamica sul potere fu elaborata tra il vii e l’viii secolo in stretta simbiosi con il potere politico del califfato conquistato dalla dinastia omayyade. Queste tre “religioni di salvezza” hanno garantito per secoli non soltanto norme comportamentali e istituzioni in cui uomini e donne per generazioni sono cresciuti e si sono riconosciuti, ma hanno offerto agli individui un senso e un’identità sovrastante la personale esistenza. La secolarizzazione appare, in questa prospettiva, come lo spostamento del luogo e degli attori della salvezza individuale e collettiva. Se nella visione religiosa della realtà la salvezza si realizza grazie a un “Altro” (percepito come entità soprannaturale) e si compie pienamente in un luogo e in un tempo “totalmente altri” rispetto alla storia (paradiso, regno dei cieli, aldilà…), nella prospettiva secolarizzata la salvezza è un dovere affidato al singolo o allo stato, da realizzare unicamente nella società umana, senza riferimenti a una dimensione soprannaturale. Non si tratta soltanto di un mutamento di strumenti da utilizzare o di obiettivi particolari da raggiungere, ma di un radicale rovesciamento di senso che coinvolge singoli individui e intere società. Il termine “religione”, seppur usato correntemente per definire questi diversi universi di fedi, rischia di enfatizzare alcuni elementi e di lasciarne in ombra altri. Oltre a essere debitrice della sua origine latina, dove religio indicava il culto e i rituali praticati nella Roma antica, la parola sottolinea ciò che unisce l’uomo a Dio. Se per i cristiani, soprattutto in epoca contemporanea, il vocabolo descrive la sfera della fede e del culto percepita come distinta da altre sfere, la cui competenza e le cui regole sono affidate ad autorità non religiose, per i musulmani la parola din, di origine araba e adottata nelle numerose lingue dell’islam, fa riferimento agli obblighi che Dio impone alle sue “creature ragionevoli”, il cui primo dovere è sottomettersi e affidarsi volontariamente a Dio. Per tale motivo, nonostante le trasformazioni di significato avvenute nella storia e acceleratesi in tempi recenti anche a causa dei processi di globalizzazione, l’islam «non è (non era?) affatto una religione ma soprattutto una cultura, una civiltà, un modo di vivere in cui la relazione 22
con la divinità era certo cruciale ma tale da lasciare ampi spazi all’intervento del temporale»11. Una sovrapposizione di piani, seppur lungo percorsi diversi, esiste per l’ebraismo che «non può essere assunto come un insieme normativo e dottrinale, cioè come una religione, né è totalmente identificabile con la globalità delle vicende storiche e culturali di un determinato gruppo umano, e infine non può neanche essere completamente ridotto alla miriade di vicende e di identità individuali proprie della vita dei singoli ebrei»12; l’ebraismo riassume in sé queste diverse dimensioni, dove fedeltà alla Torà (la rivelazione divina), appartenenza a un popolo e riferimento a una terra sono tratti specifici che ne costituiscono l’identità, pur rimanendo un’aspirazione mai compiutamente realizzata. Anche l’analisi del vocabolo “secolarizzazione” può aiutare a chiarire la sua evoluzione nel tempo e a orientarsi nella galassia di significati legati a tale concetto. Il termine deriva dal latino saeculum (con il significato di età, generazione, epoca, tempo e – per gli scrittori cristiani – mondo, vita morale) ed è presente in tutte le lingue europee con questa derivazione diretta (per esempio, in inglese secularization, in francese sécularisation, in spagnolo secularización, in tedesco Säkularisierung), seppur con significati non del tutto coincidenti13. L’uso di questo termine è attestato a partire dal 1646 e precisamente dalle trattative per la pace di Westfalia, dove fu usato per definire il processo di sottrazione di un territorio 11 G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino, Einaudi, 1996, p. 10. Cfr. anche B. Lewis, L’Europa e l’Islam, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 6-7. 12 P. Stefani, Gli ebrei, Bologna, il Mulino, 2006, p. 10. 13 Per rilevare il cambiamento di significati avvenuto nello spostamento da un ambiente linguistico a un altro come prodotto di precise vicende storiche, si può osservare che in tedesco esistono tre termini per definire, con accezioni diverse, la secolarizzazione (Säkularisation, Säkularisierung, Verweltlichung), mentre si assiste a un uso molto ridotto di vocaboli derivati dal latino laicus e con significati analoghi a quelli presenti nelle lingue neolatine e anglosassoni (nel diritto canonico sono presenti laisieren e Laisierung, mentre il termine Laie è usato in un campo semantico in parte diverso). Per alcune precisazioni su questi aspetti, cfr. F.-X. Kaufmann, Gegenwärtige Herausforderungen der Kirchen durch die Säkularisierung, in Säkularisation und Säkularisierung 1803-2003, Münster, Aschendorff, 2004, pp. 103-106.
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o di un’istituzione alla giurisdizione e al controllo del potere ecclesiastico�14. Successivamente questo termine indicò il passaggio dei beni ecclesiastici al potere civile, in particolare con la Rivoluzione francese del 1789 e nel periodo napoleonico, estendendosi ai territori passati sotto il controllo di Parigi. Con un significato diverso, il termine ricorre anche nel diritto canonico della chiesa cattolica (in latino, saecularizatio) per indicare sia il passaggio dell’amministrazione di beni da un ordine o da una congregazione religiosa al clero secolare, vale a dire ai chierici incardinati nell’organizzazione diocesana (secolarizzazione reale), sia lo scioglimento dai voti e dagli altri obblighi della vita religiosa accordato a un religioso (secolarizzazione personale)�15. A fianco del termine secolarizzazione, è possibile collocare altri vocaboli che ne richiamano, in tutto o in parte, il significato, e pongono l’accento su aspetti particolari oppure contengono un giudizio di valore sul fenomeno descritto. Con il termine secolarismo, per esempio, si vuole indicare l’ideologia che si ritiene sia alla base dei processi di secolarizzazione, un pensiero che è considerato dai suoi avversari come distruttore dell’idea di religione, quasi un sinonimo di immanentismo e materialismo. Per definire l’«età del disincanto», l’avvento della «città secolare», l’epoca dell’«eclissi del sacro» e l’«età secolare»�16, sono stati utilizzati – ora come sinonimi, ora con significati anche molto diversi – termini che rappresentano la secolarizzazione come negazione di una realtà in qualche misura riconducibile all’universo dei significati religiosi; tra questi vocaboli vi sono, per esempio, desacralizzazione, scristianizzazione, demitizzazione, ateismo, agnosticismo, indifferentismo religioso, miscredenza, incredulità, aconfessionalismo, irreligione, declericalizzazione, 14 S. Acquaviva e E. Pace, Sociologia delle religioni. Problemi e prospettive, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1992, p. 145; O. Tschannen, Les théories de la sécularisation, Genève, Droz, 1992, p. 91. 15 Cfr. J. Kowal, Uscita definitiva dall’istituto religioso dei professi di voti perpetui. Evoluzione storica e disciplina attuale, Roma, Editrice Pontificia Università Gregoriana, 1997. 16 Cfr. Weber, La scienza come professione cit.; H. Cox, La città secolare, Firenze, Vallecchi, 1968; S. Acquaviva, L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, Milano, Edizioni di Comunità, 1961; C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.
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antireligioso, anticlericale, empio, scettico. Non tutto ciò che nega una religione, però, è direttamente ascrivibile alla secolarizzazione. I termini eretico, infedele, eterodosso e scismatico, per esempio, descrivono un individuo o un movimento che non necessariamente nega valore alla religione, ma, al contrario, si inserisce all’interno di una visione religiosa considerata concorrenziale rispetto a quella che si ritiene fedele, ortodossa, istituzionale. Vi sono altri termini che indicano, in positivo, fenomeni simili, tra cui laicizzazione, libero pensiero, modernizzazione, razionalizzazione, razionalismo e – soprattutto in ambito teologico e filosofico – secolarità, modernità e laicità. Con una curvatura meno neutra, sono usate le parole secolarismo, laicismo, mondanizzazione, anticlericalismo, modernismo, ateismo, agnosticismo, paganesimo e neopaganesimo�17. Si tratta, a ben vedere, di un insieme di vocaboli che, pur legati da analogie, non soltanto sono riferibili di volta in volta più opportunamente a singole epoche e vicende storiche, ma rimandano a basi di partenza e a punti di approdo, anche teorici, in alcuni casi diametralmente opposti. Oltre le differenze semantiche e l’uso nei diversi ambienti culturali, restano aperti gli interrogativi sulle origini della secolarizzazione e sulla sua evoluzione nei secoli e nelle varie società. In sintesi, quali fenomeni si sono voluti descrivere ricorrendo al termine “secolarizzazione”? Quali le cause che li hanno provocati? Quali caratteri sono rimasti immutati nel tempo e quali hanno subito cambiamenti radicali? Quale percezione vi è stata della loro rilevanza? Quali giudizi sono stati formulati da parte delle varie confessioni religiose? Come sono cambiate le strategie ecclesiastiche per affrontare questa insorgenza? Come sono uscite trasformate le istituzioni religiose e quelle civili dal confronto con la modernità? Qual è il ruolo riservato alla religione nei paesi di tradizionale radicamento delle tre maggiori religioni monoteistiche nonostante la secolarizzazione? Come, infine, i processi di secolarizzazione hanno permesso la diffusione delle religioni su scala globale? 17 Cfr. P. Daled, Aux origines du principe de “laïcité”, in A. Dierkens e J.-P. Schreiber (a cura di), Laïcité et sécularisation dans l’Union européenne, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 2006, pp. 35-43.
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Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, il termine secolarizzazione ha esteso la sua gamma di significati e, dall’uso tecnico, strettamente politico e giuridico, è passato a descrivere un insieme di fenomeni sociali e culturali che non necessariamente si riferiscono a situazioni in cui beni o figure ecclesiastiche escono dalla giurisdizione canonica. Anche sugli esiti di questa traslazione di significati non tutti si ritrovano d’accordo e diverse sono le accezioni che storici, sociologi, ecclesiastici e politici hanno di volta in volta attribuito al termine secolarizzazione. La secolarizzazione è intesa nelle scienze sociali e religiose come «tutti quei processi di laicizzazione della cultura che, a partire dalla crisi della società feudale e dalla nascita della società moderna, si affermano nell’area europea»18 e, più in generale, come la «perdita di influenza della religione e delle chiese nella società»19. Per alcuni sociologi, la società si secolarizza quando «si determina su un tipo di razionalità sganciata da ogni considerazione religiosa, senza comunque necessariamente rigettare la religione e meno ancora l’ideologia»20. Le teorie proposte da sociologi e filosofi sull’“eclissi del sacro” nelle società industriali sono state criticate in quanto ritenute segnate da precisi limiti, tra cui l’«incapacità di prendere in considerazione il fenomeno della globalizzazione», vale a dire di superare «le frontiere del mondo industriale occidentale», considerando la secolarizzazione «un processo totalmente endogeno al mondo capitalistico avanzato»21. Il “paradigma della secolarizzazione” è stato messo in discussione, in particolare dagli anni Settanta del Novecento, parallelamente alle crescenti critiche portate alle ipotesi di una modernità universale, che ipotizzavano la diffusione su scala planetaria del modello occidentale di sviluppo: ciò che è stato contestato è la validità universale di un’interpretazione dell’evoluzione delle società giudicate inesorabilmente indirizzate verso l’espulsione
Acquaviva e Pace, Sociologia delle religioni cit., p. 145. Secolarizzazione, voce in Filoramo (dir.), Dizionario delle religioni cit., p. 687. 20 é. Poulat, Chiesa contro borghesia. Introduzione al divenire del cattolicesimo contemporaneo, Casale Monferrato, Marietti, 1984. 21 Tschannen, Les théories de la sécularisation cit., p. 371. 18 19
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del sacro dal loro orizzonte. Anzi, lo scorcio finale del Novecento è stato interpretato sempre più diffusamente come l’emergere di un tempo “post secolarizzato”22. La fragilità di schemi interpretativi centrati sul “paradigma della secolarizzazione” risulta evidente sia analizzando in maniera non superficiale le più recenti tendenze sociali dell’Occidente, sia spostandosi fuori dello spazio europeo. Per alcuni sociologi delle religioni, bisogna «essere cauti» quando ci si interroga sulla secolarizzazione nelle società islamiche23, mentre da tempo osservatori delle dinamiche sociali emerse nei paesi occidentali ritengono che anche «le chiese e le religioni in Europa non sembrano confinate ai margini né del processo di integrazione sociale né del mutamento»24. Si assiste, secondo quanto sostiene José Casanova nel suo volume Oltre la secolarizzazione, a «un duplice processo di ripoliticizzazione della sfera morale e religiosa privata e di rinormativizzazione della sfera politica ed economica pubblica»25. Anche soltanto osservando i diversi percorsi seguiti dai processi di separazione tra stato e chiese e confrontando paesi che hanno raggiunto livelli simili di modernizzazione sociale ed economica, per esempio, nell’Europa continentale e nel Nordamerica, risulta evidente quanto il rapporto tra religioni e secolarizzazioni non segua modelli univoci di distacco dal sacro, ma che, in numerosi casi, si assista a quella che è stata definita la «rivincita di Dio»26. Il ritorno del religioso nello spazio pubblico (o meglio la ridefinizione del suo ruolo nelle società post secolari) sembra essere stato generato proprio dall’insicurezza prodotta dai progressi scientifici percepiti come slegati da qualsiasi limite etico, dall’incertezza lasciata dal crollo delle ideologie politiche e dalla precarietà provocata dalla globalizzazione economica che ha avuto, tra le sue conseguenze, l’intensificazione dei contatti tra culture e religioni dalle tradizioni anche molto distanti.
Cfr. D. Pizzuti (a cura di), Sociologia della religione, Roma, Borla, 1985, p. 297. 23 E. Pace, Islam e Occidente, Roma, Ed. Lavoro, 1995, p. 78. 24 F. Garelli, Forza della religione e debolezza della fede, Bologna, il Mulino, 1996, p. 202. 25 Casanova, Oltre la secolarizzazione cit., p. 11. 26 G. Kepel, La rivincita di Dio, Milano, Rizzoli, 1991. 22
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La secolarizzazione, nonostante si sia sovente manifestata come negazione del sacro, trova una parte delle sue fondamenta nella religione e per questo mantiene un rapporto ambivalente con quello che potrebbe apparire semplicemente come il suo contrario. Per il teologo protestante Friedrich Gogarten, la secolarizzazione è «radicata nella fede cristiana e ne è una conseguenza legittima»: si tratta della «mondanizzazione del mondo»27. Anche da parte musulmana si rivendica, come sostenuto dall’intellettuale tunisino Abdelmajid Charfi, che «la trascendenza assoluta di Dio nell’islam, lungi dall’essere un handicap sulla via della secolarizzazione è, al contrario, un importante fattore che la favorisce e che può intrattenere, quando le circostanze vi si prestino, un rapporto dialettico con le strutture “pratiche” della società»28. Per alcuni studiosi della realtà giudaica, la tradizione ebraica è nel metodo «una tradizione laica, che come tale va ripresa e sviluppata», come sostiene Amos Luzzato29. Simili affermazioni sembrano, però, mal conciliarsi sia con l’insorgenza delle tendenze fondamentaliste presenti in tutte le religioni, sia con i pronunciamenti di autorevoli rappresentanti delle varie gerarchie ecclesiastiche che considerano la diffusione dei valori della società moderna una minaccia per la fede e la morale dei singoli e, ancor più, per la sussistenza della stessa società umana. Il monoteismo – o, meglio, la tradizione biblica – fonda, in un certo senso, la desacralizzazione e la demitizzazione della realtà. Dio è rappresentato come una presenza “totalmente altra” rispetto all’umanità e rispetto al mondo, e il creato esiste con una sua relativa autonomia, nonostante la possibilità di intervento del divino nelle vicende terrene. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è unico, creatore del mondo e trascendente, tanto da non essere identificato con alcun fenomeno 27 Cfr. F. Gogarten, Destino e speranza dell’epoca moderna. La secolarizzazione come problema teologico, Brescia, Morcelliana, 1972. 28 Cfr. A. Charfi, La sécularisation dans les sociétés arabo-musulmanes modernes, «Islamochristiana», 1982, n. 8, pp. 57-67; Id., La pensée islamique, rupture et fidélité, Paris, Albin Michel, 2008. 29 A. Luzzatto, Chi è l’ebreo? L’identificazione ebraica tra Israel e la Diaspora, in D. Bidussa (a cura di), Ebrei moderni. Identità e stereotipi culturali, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 46.
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della natura. Nel libro biblico della Genesi, i racconti della creazione, recuperando elementi della cosmogonia mesopotamica, sottolineano sia la discontinuità tra Dio e l’umanità, sia quella tra l’umanità e il resto del creato. In questa costruzione teologica, la creazione è demitizzata e perde ogni attributo magico, e, allo stesso tempo, è riservata unicamente a Dio la possibilità di modificare la storia dell’umanità, dei singoli individui come delle comunità30. Per l’ebraismo, il Dio trascendente è innanzitutto il Dio di Israele, vale a dire del popolo con cui ha stretto un’alleanza e cui ha promesso una terra. Paradossalmente, però, il popolo ebraico ha vissuto per secoli la propria fede senza abitare nella terra promessa e, «da quasi due secoli, è colpito da un processo di sfaldamento e di dissoluzione interna, causato dalla vanificazione di ogni suo contenuto nazionale specifico»31, nonostante la formazione dello Stato di Israele nel 1948. E proprio il ritorno nella “Terra di Israele” (in ebraico, Eretz Yisrael ) ha addensato una serie di interrogativi che toccano l’identità stessa degli ebrei. Dove si realizza la vita dell’ebreo, nella diaspora o in Israele? L’orizzonte verso cui si muove è l’assimilazione nei diversi paesi di origine o il ritorno nella terra promessa? E ancora: l’identità degli ebrei si radica nella loro fede religiosa o nell’appartenenza a una nazione? Non c’è contraddizione tra lo Stato di Israele che afferma la sua laicità e l’esistenza di quella stessa nazione resa possibile sulla base di un diritto alla terra fondato su premesse religiose? Le risposte diverse date negli ambienti ebraici a simili interrogativi mostrano la difficoltà di indicare una sola via di uscita al dilemma dell’identità, anche perché gli ebrei non sono «definibili solo in relazione a un credo religioso […]. Gli ebrei sono il risultato di un costante confronto con la storia e con altri gruppi umani con cui hanno convissuto; sono l’esito di un processo di ibridazione, rimescolamento, riscrittura dei propri modi di essere e di pensare»32.
30 Cfr. P. Stefani, Gli alberi si misero in cammino. Visioni bibliche della politica, Assisi, Cittadella, 2011. 31 Cfr. Luzzato, Chi è l’ebreo? cit., p. 59. 32 S. Meghnagi, Un luogo nell’anima. Gli ebrei come caso emblematico, Roma, Donzelli, 2008, p. 62.
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La questione dell’identità investe non soltanto i singoli credenti, ma tutte le comunità ebraiche che nello Stato di Israele sembrerebbero aver trovato una soluzione “moderna” alla questione della terra promessa, che solleva però non poche riflessioni proprio intorno al rapporto tra il sacro e il secolare�33. Si tratta di una tensione che si è sovrapposta a quella provocata dalla shoah. Le riflessioni di tipo religioso che sono scaturite dallo sterminio degli ebrei da parte del regime nazionalsocialista durante la seconda guerra mondiale hanno segnato la consapevolezza degli ebrei, il popolo eletto da Dio, che ha sperimentato il silenzio di Dio nei campi di concentramento. Secondo alcuni ebrei, di fronte allo sterminio Dio non ha parlato e quindi non si può più parlare di Dio, in quanto Dio è morto. Primo Levi, riflettendo sulla shoah, considerò: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo»�34. L’incapacità della fede di rispondere alla tragica provocazione del genocidio ha comportato per molti ebrei il ripensamento della propria fede e, per altri, il suo rifiuto radicale, e proprio gli esiti diversi di tali considerazioni confermano la difficoltà – non soltanto per la tradizione giudaica – di risolvere in modo univoco le questioni poste nell’epoca della modernità. Le vicende travagliate del popolo ebraico (minoranza di volta in volta emarginata, perseguitata, emancipata), la tendenza ad assimilarsi nei paesi della diaspora, la laicità proclamata dello Stato di Israele e la vicinanza a modelli culturali fortemente modernizzati rendono, però, i processi di secolarizzazione presenti negli ambienti ebraici caratterizzati da elementi particolari, non del tutto riconducibili a fenomeni analoghi all’interno di altre tradizioni religiose�35. 33 Cfr. A. Luzzato, Il posto degli ebrei, Torino, Einaudi, 2003, pp. 54-66; D. Bidussa, La religione civica israeliana, in Id. (a cura di), Le religioni e il mondo moderno, vol. II, L’ebraismo, Torino, Einaudi, 2008, pp. 354-382. 34 Cfr. F. Camon, Conversazione con Primo Levi, Milano, Garzanti, 1991, p. 10. Per una sintesi delle discussioni sulla “morte di Dio”, cfr. I. Kajon, Il dibattito teologico-filosofico di fronte ad Auschwitz, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del xx secolo, vol. III, Riflessioni, luoghi e politiche della memoria, Torino, Utet, 2006, pp. 239-279. 35 Cfr. A.B. Yehoshua, Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare, Roma, Edizioni e/o, 1996; I. Kajon, Ebraismo laico. La sua storia e il suo
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Anche per la religione cristiana, l’uomo è superiore alle altre creature e sua è la responsabilità del mondo che Dio gli ha affidato. Il mondo è una realtà positiva, corrotta soltanto dal peccato dell’uomo. L’incarnazione di Dio in Gesù permette ai cristiani di affermare che non esiste inconciliabilità tra Dio e il mondo e che l’umanità e il resto della creazione devono essere salvati a partire dalla loro dimensione terrena: l’opposizione tra Dio e il mondo di cui parla la fede cristiana non riguarda le realtà mondane in sé, ma ciò che si è corrotto per diventare “questo” mondo�36. Secondo il teologo Karl Rahner, infatti, il «mondo secolarizzato e pluralistico è il mondo della Bibbia […]: nonostante tutte le divisioni che talvolta sembrano sconvolgere così tragicamente la nostra esistenza, si tratta di quello stesso mondo che Dio ha reso oggetto del suo amore al punto da accettarlo e da dare per esso la propria vita»�37. Il testo evangelico, senza negare il dovere di obbedienza alle due diverse autorità di Cesare e di Dio, fonda la distinzione tra dimensione secolare e dimensione religiosa�38. Nonostante questo riferimento originario (e spesso partendo da esso), nelle nazioni di tradizione cristiana dove i fenomeni di modernizzazione si sono presentati con anticipo e con maggiore vastità rispetto ad altre aree geografiche, la secolarizzazione fu, in primo luogo, il prodotto del contrasto tra la sfera civile e quella religiosa. La volontà di alcuni sovrani nell’Europa occidentale di emanciparsi dal controllo delle chiese portò, tra il xvi e il xvii secolo, a rimarcare le differenze di ruoli, a segnare i confini dei poteri e a togliere competenze alle istituzioni religiose che videro modificarsi la senso oggi, Assisi, Cittadella, 2012, e, più in generale, P. Stefani, Introduzione all’ebraismo, Brescia, Queriniana, 20042. 36 Cfr. Gogarten, Destino e speranza dell’epoca moderna cit. 37 K. Rahner, Considerazioni teologiche sulla secolarizzazione, Roma, Edizioni Paoline, 1969, p. 78. Per una recente ripresa nella teologia italiana di questi temi, cfr. S. Dianich, Chiesa e laicità dello Stato. La questione teologica, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2011; G. Ferretti, Essere cristiani oggi. Il “nostro” cristianesimo nel moderno mondo secolare, Leumann, Elledici, 2011; R. Repole, Come stelle in terra. La Chiesa nell’epoca della secolarizzazione, Assisi, Cittadella, 2012. 38 Cfr. M. Rizzi, Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare in Occidente, Bologna, il Mulino, 2009.
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propria influenza nella società, ma che, a loro volta, crearono e potenziarono nuovi strumenti (scuole e associazioni e, poi, dall’Ottocento, sindacati e partiti) in grado di fronteggiare le sfide provenienti da governi considerati sovvertitori dell’ordine sacro. In secondo luogo, i conflitti tra cattolici e protestanti nell’Europa moderna condizionarono lo sviluppo nel Vecchio continente dei fenomeni di secolarizzazione che si definirono innanzi tutto come processi di “libertà dalle religioni” delle autorità politiche; diversamente, nelle colonie nordamericane, l’arrivo di uomini e donne fuggiti dall’Europa per motivi di fede, e quindi alla ricerca della “libertà di religione”, rese possibile la permanenza della centralità dei riferimenti religiosi nella vita pubblica, pur all’interno di una netta separazione dello stato dalle diverse confessioni�39. Da parte sua, l’islam ha inteso eliminare la maggior parte dei canali di mediazione con il sacro (misteri, miracoli, magia), rinviando l’uomo alla sua responsabilità. La fede musulmana si basa su un apparato dogmatico estremamente conciso e il legame tra dimensione divina e dimensione umana è assicurato dal tramite della Parola di Dio di cui il Corano è la versione privilegiata, rivelata in linguaggio umano al profeta Muhammad. Come accade anche per altre confessioni religiose, il riconoscersi nella medesima fede non si riduce per l’islam all’affermazione di un credo religioso, ma richiama un’identità comune e un sistema di valori che pervadono la vita quotidiana e la mentalità del musulmano osservante. L’appartenenza del musulmano alla comunità islamica (umma) è definita dal riferimento al Corano e dall’imitazione del Profeta realizzata attraverso il ricorso ai testi fondanti della tradizione (sunna); si tratta di un’identità che si struttura attraverso la ripetizione di azioni che sono individuali e allo stesso tempo collettive, in quanto compiute dai credenti nello stesso momento, come la preghiera rituale, il pellegrinaggio alla Mecca e il digiuno nel mese di ramadan�40. L’islam, nonostante questa forte tensione all’unità spirituale, ha prodotto storicamente una pluralità sociale che è esplicitamente riconosciuta dal Corano, dove è scritto: «O uomini, in verità 39 40
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Cfr. Berger, Davie e Fokas, America religiosa, Europa laica? cit. Cfr. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., pp. 17-19.
Noi v’abbiam creato da un maschio e da una femmina e abbiam fatto di voi popoli vari e tribù a che vi conosceste a vicenda, ma il più nobile tra voi è colui che più teme Iddio» (49,13). Le vicende delle civiltà musulmane hanno prodotto realtà sociali in cui è considerata fondamentale l’unità tra spirituale e temporale, tra religione e politica, tra morale religiosa e diritto civile. Il califfato, cui era attribuito il compito di salvaguardare l’islam e di garantire l’applicazione della sharia, fu soppresso dalle autorità turche nel 1924 in concomitanza con l’abolizione del sultanato e la nascita della repubblica fondata su principi laici e, benché il titolo servisse ormai quasi unicamente per legittimare il potere del sultano ottomano, la sua sparizione creò un vuoto nella comunità islamica�41. Si trattò del primo atto di secolarizzazione formale delle società musulmane, anche se fenomeni di allontanamento dal sacro si erano già manifestati in precedenza, generati non tanto dalla decadenza del potere del sultano-califfo (evidente già nei decenni precedenti la sua soppressione ufficiale), quanto dai tentativi di riforma avviati dall’amministrazione ottomana nel corso dell’Ottocento e dal controllo coloniale europeo di territori di radicamento dell’islam. Tali tendenze laicizzatrici ebbero poi ulteriori sviluppi in seguito agli orientamenti di stampo laico assunti inizialmente dai nuovi stati nazionali dopo il raggiungimento dell’indipendenza dalle potenze europee. L’atteggiamento generalmente mostrato dai musulmani verso le autorità religiose esemplifica il diverso orientamento seguito dalle società islamiche in rapporto ai fenomeni di secolarizzazione, se confrontato con quello emerso in molti paesi di tradi-
41 Il titolo di califfo (khalifa: successore, vicario del Profeta) era tradizionalmente attribuito ai successori del profeta Muhammad, in quanto guida dei musulmani, con autorità su tutti i credenti. Dal xv secolo, questo appellativo fu destinato in modo crescente ai sultani ottomani che, in ogni caso, esercitavano un potere pienamente secolare; all’inizio del xix secolo, questo titolo aveva significati soprattutto simbolici per legittimare il potere del sultano all’interno dell’impero ottomano e, sul piano internazionale, per reclamare il diritto di governare i musulmani che si trovavano in territori controllati dai cristiani. Cfr. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., pp. 232-238; B. De Poli, I musulmani nel terzo millennio. Laicità e secolarizzazione nel mondo islamico, Roma, Carocci, 2007, pp. 27-42.
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zione cristiana. A differenza di quanto accaduto in Occidente, le istituzioni ufficiali dell’islam non sono quasi mai state messe in discussione, nemmeno in corrispondenza di fenomeni di radicale trasformazione sociale, e la loro contestazione non si è risolta solitamente nella contrapposizione con il potere civile, ma nella riaffermazione delle prerogative della politica sulla religione, sulla base della rilettura del messaggio originario�42. Il ritorno alle origini, e non l’innovazione, ha rappresentato la tensione tradizionalmente presente nella cultura islamica che aiuta a comprendere gli ostacoli incontrati dalla diffusione delle istanze riformiste, non soltanto di quelle importate dall’Occidente, ma anche di quelle originatesi nel mondo musulmano. I tentativi di modernizzare l’islam, come quelli sostenuti dal salafismo riformista sorto nella metà del xix secolo in Egitto o quelli promossi dalle ristrette élites occidentalizzate a capo dei movimenti di liberazione anticoloniali del xx secolo, furono ostacolati dal conservatorismo delle istituzioni religiose e ancor più dal mancato sostegno delle popolazioni, in parte notevole legate a forme di devozione che rigettavano cambiamenti percepiti come corruttori del nucleo originario della fede musulmana. Pur con diverse declinazioni, nella cultura islamica è generalmente attribuito un connotato negativo a ogni creazione originale posteriore alla profezia portata da Muhammad, in quanto ogni innovazione (che in Occidente è alla base dell’idea di modernità) presuppone la rottura con la fonte primigenia, in cui si radica il richiamo identitario della umma. Per la maggior parte dei musulmani, «è sul già accaduto, e a posteriori, che si possono e si devono costruire principî cui uniformarsi per ricreare la situazione entro cui l’utopia sia realizzabile»�43. Riformare, aggiornare e rinnovare entrano in contraddizione con il movimento a ritroso che, nella tradizione islamica, è costitutivo della tensione verso l’ordine assoluto originario che è Dio. Anche per questi motivi, valutare i fenomeni di secolarizzazione nell’islam in chiave storica comporta di ricorrere con estrema
42 Cfr. M. Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2009; Id., Ideologia e politica nell’Islam. Fra utopia e prassi, Bologna, il Mulino, 2008. 43 Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., p. 18.
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accortezza alle categorie e ai metodi di indagine lungamente usati nella cultura occidentale per analizzare processi simili�44. Pur considerando soltanto questa prima sommaria rassegna di questioni, risulta evidente come sotto il termine “secolarizzazione” siano stati raccolti, a volte disordinatamente, fenomeni soltanto in parte riconducibili a dinamiche confrontabili tra loro. Si tratta di mentalità e comportamenti che implicano gradi diversi di allontanamento dalla fede e dalle istituzioni religiose e che, seppur diffusi su scala mondiale attraverso i medesimi processi di globalizzazione, sono stati recepiti in modi anche molto dissimili nelle differenti situazioni locali. Il distacco dall’universo religioso deve quindi essere considerato valutando la complessità che caratterizza ogni trasmissione dei processi culturali e osservando gli esiti prodotti, sul piano individuale, sociale e politico, da scelte all’apparenza simili. Evidentemente, per i singoli individui (ma anche per le autorità religiose e, in alcuni casi, per i poteri civili) può avere un significato diverso negare valore alle istituzioni del sacro oppure ai precetti morali o ai riti liturgici o ai dogmi della fede oppure, ancora, alla credenza in un essere soprannaturale. Si tratta di giudizi che si oppongono ad aspetti diversi della religione e che non comportano necessariamente lo stesso atteggiamento verso la fede: dal punto di vista individuale, si può credere in Dio rifiutando gli insegnamenti morali impartiti dalla gerarchia, oppure riconoscersi appartenente a una confessione religiosa senza condividerne la teologia espressa dalle autorità, oppure essere fedele agli appuntamenti cultuali pur contestando la piena legittima delle istituzioni religiose. Si tratta di atteggiamenti e mentalità che i fenomeni di globalizzazione hanno contribuito a diffondere su scala planetaria (nonostante la diversa numerosità dei credenti delle tre confessioni monoteistiche) e che sono stati variamente declinati nelle differenti comunità religiose e nelle varie realtà politiche. Le trasformazioni sociali e i sistemi politici hanno costantemente interagito con i fenomeni di secolarizzazione che, se osservati nelle loro origini e nel loro movimento storico, 44 Cfr. M. Charfi, Islam et liberté. Le malentendu historique, Paris, Albin Michel, 1998; P. Branca e A. Cuciniello, Destini incrociati. Europa e islam, Milano, Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2007.
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possono mostrare più chiaramente il moto continuo di adattamento delle religioni ai mutamenti delle società contemporanee e l’influenza esercitata dalle vicende religiose nello sviluppo complessivo della realtà.
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2. Società in movimento
2.1. Fedi e società moderne L’interpretazione della secolarizzazione come esito necessario dell’evoluzione delle società contemporanee, in cui il sacro sarebbe destinato a dissolversi in modo quasi meccanico di fronte alla modernizzazione, è stata messa in discussione dagli studi storici e dalle ricerche empiriche dei sociologi, in particolare degli studiosi dei fenomeni religiosi, proprio perché tale lettura ipotizza un andamento lineare e indifferenziato dello sviluppo sociale, modellato sul percorso seguito dalle società occidentali1. Pur potendo osservare soprattutto negli ultimi due secoli la diffusione a livello mondiale dei processi di secolarizzazione, con elementi comuni tra le diverse aree geografiche e all’interno delle singole società, legati in particolare alla crescita dei sistemi sociali industrializzati e urbanizzati, ciò che appare costante storicamente non è tanto la scomparsa del senso del sacro, quanto la continua ridefinizione della funzione della religione, sia nella sfera pubblica, sia nella sfera privata. Anzi, proprio l’analisi nel lungo periodo del caso europeo dove i moderni fenomeni di secolarizzazione si sono presentati per primi permette di rilevare sia l’incidenza delle trasformazioni del rapporto tra sacro e secolare nelle vicende storiche dell’Occidente, sia le ragioni della loro capacità di diffusione a livello mondiale, sia le ricadute portate anche in questo ambito dalla globalizzazione. Tra il Seicento e il Settecento, la crescita in Europa delle nuove classi borghesi legata allo sviluppo di nuovi sistemi di produzione 1
Cfr. Casanova, Oltre la secolarizzazione cit., pp. 21-75.
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e di scambio commerciale provocò la diffusione di nuovi valori e di un nuovo ethos collettivo che mutò progressivamente il panorama sociale e culturale dell’Occidente. In questo periodo, le nuove “virtù” borghesi forgiarono le forze morali costitutive della mentalità delle classi emergenti: non era più la nascita all’interno di una data casata nobiliare ad attribuire valore e posizione sociale all’individuo, ma la sua abilità di fare, di costruire e di accrescere la propria capacità produttiva. In un primo momento, si assistette all’indubbia compenetrazione tra i valori religiosi e la nascente società borghese moderna, tanto che si configurò «una secolarizzazione progressiva dei valori cristiani»2. La spinta al successo economico induceva le classi borghesi a praticare, prima ancora che a teorizzare, una condotta di vita improntata all’operosità e al risparmio, all’abolizione dell’ozio e all’uso controllato del tempo, al rifiuto del lusso ostentato e dei divertimenti signorili. Un simile atteggiamento era considerato rispondente al dettato evangelico e rispettoso degli insegnamenti ecclesiastici. In particolare, negli ambienti cristiani protestanti, questa “etica della professione” si accordava con la visione religiosa proposta dalle chiese riformate: la vocazione dei credenti si esprimeva nell’affermazione personale nel campo professionale che diventava il terreno della più alta autorealizzazione morale. Gradualmente, però, tali ideali persero i legami che avevano con la tradizione cristiana, tanto da allontanarsene e incarnarsi in una visione borghese del mondo che tendeva a non riconoscere alcuna efficacia nella sfera economica ai principi religiosi. Il ridimensionamento di fatto delle virtù cristiane a scapito di quelle ritenute fondanti la sfera economica comportò l’attribuzione all’uomo di un fine interamente laicizzato, come diventare – di volta in volta – un commerciante di successo, un “honnête homme”, un cittadino rispettabile. Si tratta, secondo l’evocativa definizione di Weber, del «disincanto del mondo» che, attraverso l’affermazione di stati dall’apparato burocratico sempre più strutturato e lo sviluppo delle imprese capitalistiche, sembrò provocare la crescente insensibilità verso la sfera del sacro da parte dell’uomo moderno. 2 E. Roggero e G. Bof, Chiesa e modernizzazione, Torino, Marietti, 1980, p. 36.
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I processi di industrializzazione costituirono un ulteriore fattore di accelerazione del cambiamento nel rapporto tra sacro e secolare. Dal Settecento, il prevalere degli elementi scientifici e tecnici nello svolgimento delle attività economiche e, poi, progressivamente, nei diversi aspetti della vita individuale e collettiva rese possibile il controllo di molti fenomeni naturali e un aumento dei livelli di produzione che non aveva avuto eguali nelle epoche precedenti, tanto da far apparire l’umanità – e la civiltà europea soprattutto – in una situazione di superiorità assoluta rispetto al resto del creato. La cultura positivistica, in particolare nella seconda metà dell’Ottocento, giunse a teorizzare questo stadio di sviluppo dell’umanità come il più avanzato dal punto di vista intellettuale e storico. Lo stesso concetto di “creazione” perse il suo riferimento a un Dio personale (come quello definito dalle teologie cristiane) per divenire il prodotto del caso o delle necessità evoluzionistiche oppure, al limite, l’opera di un “Architetto supremo” (come prospettato dalla visione deista, ricorrente, per esempio, nei gruppi massonici) 3. L’espansione coloniale europea e lo sviluppo di sistemi economici transcontinentali favorirono, in modo crescente nell’Ottocento e nel Novecento, l’integrazione economica planetaria che apparve il veicolo potente di diffusione di una cultura mondiale indifferenziata che, insieme ai medesimi prodotti, agli stessi comportamenti e alle identiche mode, sembrava preludere alla creazione di un universo simbolico uguale come le regole fissate per il mercato economico. Gli stessi progetti totalitari (che ebbero la loro manifestazione dopo la Grande guerra nell’Unione Sovietica, nell’Italia fascista e nella Germania nazionalsocialista), fondati sulla preminenza assoluta della politica sulla società e sui singoli individui, furono rilevanti fattori di secolarizzazione, il cui influsso superò le frontiere degli stati in cui erano nati e il periodo della loro effettiva realizzazione: alla loro base vi erano movimenti politici atei e antireligiosi (che si richiamavano però a simboli, riti e credenze derivanti dall’universo religioso) che, di fatto, si ponevano in concorrenza con le visione religiose
3 Cfr. F. Conti, Massoneria e religioni civili. Cultura laica e liturgie politiche tra xviii e xx secolo, Bologna, il Mulino, 2008.
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tradizionali4. Soprattutto con la crescita economica seguita alla seconda guerra mondiale, l’accesso ai consumi, sognato o realizzato, pareva adombrare la sostituzione dei valori spirituali con obiettivi puramente materiali e con oggetti considerati non soltanto uno strumento, ma il fine dell’esistenza. La secolarizzazione, giunta a questo punto, aveva completato la sua traiettoria? Si era determinata non soltanto la separazione tra sfera religiosa e sfera temporale, ma l’annullamento della prima a favore della seconda? L’umano aveva sopraffatto il divino? La religione era stata sostituita dalle “cose”, togliendo dall’orizzonte degli individui l’ansia della ricerca di Dio o anche soltanto una remota nostalgia del sacro? Considerando le diverse traiettorie seguite dalle società contemporanee emerge, in realtà, la complessità dei rapporti tra sacro e secolare che si sono rivelati particolarmente sensibili agli scambi tra culture, tanto da poter essere considerati una sorta di cartina di tornasole del grado di reazione delle società ai fenomeni di globalizzazione. I processi di secolarizzazione osservati in una prospettiva storica globale rivelano l’influenza esercitata dalla cultura europea, ma anche l’estrema mutevolezza dei dati di partenza nel momento in cui si sono innestati in contesti diversi da quelli originari e la notevole permeabilità delle società, in particolare di quelle occidentali, agli apporti provenienti dall’esterno. La razionalizzazione dei processi di produzione e la globalizzazione delle economie, se da un lato hanno teso a dare maggiore continuità e sicurezza ai flussi di beni e servizi necessari per il mantenimento delle società di massa, dall’altro hanno favorito (e in certi casi hanno presupposto) la formazione di consistenti migrazioni umane dalle zone rurali verso le città o, comunque, verso le aree di sfruttamento delle risorse economiche. La forte Cfr. G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, 1815-1933, Bologna, il Mulino, 1975; M. Flores (a cura di), Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Milano, Bruno Mondadori, 1998; M. Burleigh, In nome di Dio. Religione, politica e totalitarismo da Hitler ad Al Qaeda, Milano, Rizzoli, 2006; E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, Carocci, 2008; Id., Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi, Milano, Feltrinelli, 2010. 4
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mobilità territoriale delle popolazioni non soltanto ha determinato il contatto e la mescolanza di individui provenienti da realtà sociali diverse, ma ha pure prodotto un generale processo di allentamento dei legami famigliari, di diminuzione del controllo sociale e di sradicamento dalle tradizioni di provenienza. Dalla metà dell’Ottocento, la dimensione di massa delle migrazioni transcontinentali ha accresciuto in misura esponenziale questo processo di osmosi, con ricadute sia nelle società di approdo, sia nei paesi di origine. Non è un caso che le istituzioni religiose delle diverse confessioni abbiano solitamente considerato le esperienze migratorie intraprese dai rispettivi fedeli come pericolose occasioni di allontanamento dalla fede, dovute al contatto con comportamenti e mentalità secolarizzati, tanto da investire notevoli risorse materiali e umane per garantire l’assistenza ai migranti. In ogni caso, l’esito prodotto dalle migrazioni è stato la rielaborazione delle identità di origine e, in particolare, di quella religiosa: gli spostamenti di popolazione, cambiando il contesto sociale di riferimento dei migranti, hanno favorito la trasformazione dei rapporti con il sacro assimilati nelle società non urbane e pre industriali di provenienza, dove l’universo di senso offerto dalle credenze e dalle istituzioni religiose ha svolto – e svolge – un ruolo fondante le identità individuali e collettive5. Allo stesso modo, la pluralità di fedi prodotta dai fenomeni migratori ha reso più complesse le società di approdo, indebolendone la tendenziale unità confessionale e mettendone sotto tensione le rispettive “matrici religiose”6. A seguito della differenziazione delle funzioni avvenuta nelle società complesse (legata alla crisi dei modelli di produzione tradizionali, delle strutture famigliari di tipo patriarcale e dei riferimenti sociali e culturali precedenti), la religione ha perso la sua capacità di essere l’unico fattore di integrazione sociale7. Le religioni generalmente non sono più considerate portatrici 5 In una prospettiva antropologica, cfr. M. Aime, Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004; M. Rytter e K. Fog Olwig (a cura di), Mobile bodies, mobile souls. Family, religion and migration in a global world, Aarhus, Aarhus University Press, 2011. 6 Cfr. P. Donati e I. Colozzi, Religione, società civile e stato: quale progetto?, Bologna, Edb, 2002. 7 Cfr. N. Luhmann, Funzione della religione, Brescia, Morcelliana, 1991.
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di valori e di norme vincolanti per tutti, mentre è cresciuta la tendenza al riconoscimento della piena autonomia degli individui ritenuti liberi di scegliere di fronte alla molteplicità di offerte religiose. Nel tempo della secolarizzazione, anche soltanto osservando il caso europeo dove più radicale pare l’allontanamento dalla religione, non si è quindi assistito alla dissoluzione del sacro: nella dopo modernità, la fede ha continuato a mantenere una rilevanza anche sociale, ma, proprio perché rispetto al passato sono radicalmente cambiate le condizioni della credenza personale, la religione, osserva il sociologo canadese Charles Taylor, «viene considerata come un’opzione tra le altre e spesso non come la più facile da abbracciare»8. Si tratta di tendenze che, seppure con intensità diversa, hanno interessato in modo diffuso le religioni monoteistiche nell’Ottocento e, soprattutto, nel Novecento, scavalcando i confini nazionali, e, anche se le particolari condizioni politiche e sociali dei vari contesti locali hanno determinato esiti non uniformi, è possibile rilevare come i fenomeni di secolarizzazione abbiano sempre provocato la trasformazione dei contenuti e delle istituzioni delle confessioni religiose. L’affermazione di modelli di sviluppo economico di dimensioni globali e la diffusione di forme di pluralismo politico e culturale hanno trascinato con sé un’evoluzione sociale che, se da una parte ha fatto diminuire la tradizionale capacità di incidenza dei fattori religiosi, dall’altro ha provocato reazioni delle istituzioni del sacro decisamente differenziate. Con sensibili diversità anche al loro interno, le istituzioni dell’islam, le comunità cristiane e le correnti dell’ebraismo hanno risposto e rispondono alla modernizzazione attraverso strategie che vanno dal rifiuto radicale all’accettazione critica, dall’attenzione preoccupata all’adeguamento delle forme della propria presenza nella società. I giudizi formulati dai gruppi religiosi e le iniziative prese da queste stesse comunità per far fronte ai fenomeni di secolarizzazione, a loro volta, hanno inserito nuovi elementi nelle dinamiche tra sacro e secolare, ora sollecitando l’azione dei fedeli, ora spingendo le autorità politiche a intervenire, ora provocando, a volte contrariamente alle proprie intenzioni, cambiamenti nelle loro tradizioni. 8
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Taylor, L’età secolare cit., p. 13.
Nonostante sia forte in tutte le confessioni monoteistiche il richiamo alla conservazione delle eredità del passato, l’osservazione delle vicende delle religioni in epoca contemporanea rivela come le fedi, oltre a essere state trasformate dai fenomeni di secolarizzazione, siano state agenti del cambiamento all’interno di quegli stessi processi, modificando consuetudini antiche e, in alcuni casi, dando vita a vere e proprie “invenzioni della tradizione”9. La definizione dei principi dei diritti umani, tra i più evidenti simboli della secolarizzazione, ha trovato storicamente una forte opposizione da parte di molte confessioni religiose, ma, allo stesso tempo, seppur attraverso percorsi non privi di contraddizioni, ha ricevuto impulso anche grazie all’azione dei credenti. I mutamenti intervenuti nella chiesa cattolica nell’Ottocento e nel Novecento mostrano come questa dinamica di conservazione e di innovazione di fronte ai processi di secolarizzazione si sia sviluppata, intrecciando elaborazioni teologiche e azione dei fedeli10. L’atteggiamento di radicale contrasto alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata durante la Rivoluzione francese nel 1789, di stampo illuminista, considerata negatrice dell’ordine naturale espresso dalla dottrina cattolica, fu confermato nei decenni successivi da autorevoli pronunciamenti dei papi che consideravano quell’atto la sintesi degli “errori” della società moderna, iniziati con la Riforma protestante. La necessità di rispondere all’emergente “questione operaia” dei paesi industrializzati portò il papa Leone XIII a ribadire nell’enciclica Rerum novarum del 1891 la contrarietà della chiesa ai principi “moderni” di eguaglianza, considerando che «togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile […] poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini» (n. 14). Pur volendo manifestare l’intransigente opposizione della chiesa alla modernità, però, quello stesso documento legittimò le iniziative dei cattolici in campo sociale che, tra l’altro, favorirono l’introduzione nelle legislazioni nazionali di provvedimenti in 9 Su questo concetto, cfr. E.J. Hobsbawm e T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1983. 10 Cfr. G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Casale Monferrato, Marietti, 1985; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino, Einaudi, 1993.
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difesa dei diritti dei cittadini. Dopo la Grande guerra, di fronte alla formazione delle società di massa e all’ascesa degli stati totalitari, la chiesa formulò una visione dei rapporti sociali dove l’opposizione verso l’individualismo e il socialismo, in funzione innanzi tutto della tutela delle prerogative ecclesiastiche, portò a un cauto inserimento della difesa dei diritti umani all’interno della dottrina cattolica in vista di una “restaurazione sociale” basata sul rinnovamento dei costumi e sulla cristianizzazione della vita economica e politica. Nel radiomessaggio natalizio del 1941, considerando le origini del conflitto mondiale, Pio XII precisò che «tutelare l’intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere». I dibattiti teologici sviluppatisi tra le due guerre e, ancor più, la necessità di trovare strumenti per regolare i rapporti degli individui nelle società laicizzate favorirono l’accettazione da parte cattolica della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dalle Nazioni Unite nel 1948. Soprattutto a partire dall’esperienza dei cattolici che, rifacendosi anche al magistero sociale dei pontefici, nel secondo dopoguerra parteciparono alla costruzione delle società democratiche emersero posizioni che reclamavano un più chiaro orientamento della chiesa verso il riconoscimento dei diritti umani nelle società, rinvenendone i fondamenti nella stessa tradizione cristiana. I contatti ecumenici con gli ambienti protestanti, che su tali questioni avevano maturato una nutrita riflessione, permisero a una parte della teologia cattolica (in particolare nei paesi anglosassoni) di proporre una fondazione cristiana dei diritti umani. Giovanni XXIII, nella Mater et magistra del 1961, si fece interprete di alcune di queste istanze, rese ancora più evidenti dall’osservazione degli sviluppi delle relazioni internazionali, indicando, tra l’altro, la necessità di stabilire criteri di «giustizia ed equità» validi «sempre e ovunque» (nn. 58-59), in particolare in campo sociale. Cadevano gli accenti polemici verso il progresso, anche se la valutazione positiva di molti aspetti della società moderna era mitigata dal richiamo alla necessità di rispettare l’ordine morale fondato da Dio. Anche sulla scorta delle discussioni del Concilio vaticano II (che dal 1962 al 1965 avviò un’opera di “aggiornamento” del cattolicesimo), Paolo VI indicò il valore positivo delle conquiste delle società contemporanee circa i diritti dell’uomo, pur rimanendo presente la condanna 44
alle deformazioni che si riteneva fossero state portate dall’assolutizzazione di questi principi11. Tale richiamo critico, basato sul rifiuto del relativismo etico e sul riferimento alla centralità della “legge naturale”, si è accentuato nei pronunciamenti dei due successori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, anche se, nei fatti, numerose organizzazioni cattoliche hanno continuato a promuovere interventi a difesa dei diritti umani, per esempio, attraverso forme di soccorso a livello internazionale e in precise situazioni di esclusione sociale. La traiettoria seguita mostra come – il più delle volte senza mai smentire esplicitamente quanto affermato in precedenza – una parte notevole del cattolicesimo contemporaneo sia giunta a riconoscere la validità di alcuni valori caratteristici della modernità, propri della cultura laica, dalla Rivoluzione francese in avanti, pur affermando una distanza che non intende colmare 12. Nell’epoca contemporanea, il discorso cattolico, più che definire i sistemi sociali e culturali degli spazi in cui tradizionalmente si è diffuso (in primo luogo, anche se non esclusivamente, il mondo occidentale), appare essere stato caratterizzato dalla scelta di enfatizzare la propria identità comunitaria nel crescente pluralismo, ma anche di rivendicare la propria funzione essenziale nelle società occidentali, i cui valori – è ricordato ripetutamente – si radicano nella tradizione cristiana13. Anche il rapporto delle riflessioni teologiche e delle istituzioni religiose con la scienza e il metodo scientifico (anch’essi tra i più potenti dispositivi della secolarizzazione) può mostrare il reciproco influsso creatosi tra il sacro e il secolare, come pure lo scambio 11 Per una sintesi, cfr. G. Campanini, La dottrina sociale della Chiesa. Le acquisizioni e le nuove sfide, Bologna, Edb, 2007. 12 Cfr. D. Menozzi, Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, Bologna, il Mulino, 2012. 13 Cfr. Id., La Chiesa cattolica, in G. Filoramo e D. Menozzi (a cura di), Storia del cristianesimo. L’età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 131-257. Per una sintesi delle questioni del rapporto tra islam e diritti umani, cfr. F. Zannini, Musulmani nella città secolare, Assisi, Cittadella, 2010, pp. 69-83. Per una prospettiva ebraica, cfr. l’intervento di Riccardo Di Segni pubblicato nel volume curato dalla Comunità ebraica di Venezia, Oltre la notte. Memoria della Shoah e diritti umani. In occasione degli 80 anni di Elie Wiesel, Firenze, Giuntina, Firenze, 2009.
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avvenuto tra le diverse confessioni. Dalla fine dell’Ottocento, a partire dal centro di diffusione rappresentato dalla Germania, le scienze bibliche apparvero subito uno dei poli più innovativi e problematici dell’applicazione del metodo scientifico, a causa delle numerose questioni legate all’esegesi dei testi sacri e alla storia antica del Vicino Oriente che avevano immediate ricadute sulle concezioni religiose. Fu inizialmente il protestantesimo liberale a promuovere il sistematico uso del metodo storico scientifico per l’interpretazione dei testi scritturistici: dato che la rivelazione divina si era manifestata nella storia, l’esegesi biblica condotta attraverso il metodo storico-critico usato nelle scienze storiche profane era ritenuta l’unica autorità in grado di legittimare ogni discorso teologico. Gli esponenti dell’ebraismo liberale ottocentesco assunsero e arricchirono tale impostazione all’interno dei loro studi: nel tentativo di conciliare scienza e tradizione religiosa e di costruire una religione moderna, attraverso l’applicazione degli strumenti scientifici ai testi dell’ebraismo, fecero emergere un elemento unificante, capace di tenere insieme esponenti di diverse correnti del giudaismo – laiche, ortodosse moderne e riformatrici – pur divise su molte altre questioni teologiche e politiche. Nonostante la marginalità di queste posizioni all’interno degli ambienti giudaici, la «rilevanza di questo polo intellettuale è incommensurabile: seppure segregata e obbligata a lavorare in condizioni non sempre ottimali, essa si rivela estremamente efficace nel fare circolare i risultati delle sue ricerche in altri paesi europei»14. Simile per molti versi al faticoso sviluppo delle scienze religiose in campo cattolico (con le dure condanne delle gerarchie ecclesiastiche che vedevano il pericoloso addentrarsi del “modernismo” nella chiesa), la maturazione nella cultura ebraica della critica biblica e degli studi orientalistici si nutrì degli intensi e accesi dibattiti soprattutto con i biblisti protestanti, favorendo la circolazione di nuove categorie teologiche nel giudaismo europeo e l’osmosi di metodi di studio tra confessioni diverse. La
14 C. Facchini, Voci dell’ebraismo liberale. Costruire una religione moderna, in Ebraismo cit., p. 179. Per il cristianesimo, cfr. H.-J. Kraus, L’Antico Testamento nella ricerca storico-critica dalla Riforma ad oggi, Bologna, il Mulino, 1975: R. Fabris (a cura di), La Bibbia nell’epoca moderna e contemporanea, Bologna, Edb, 1992.
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cultura islamica si è avvicinata con maggiore difficoltà all’esegesi scientifica dei testi sacri, soprattutto perché il Corano (da qur’an: ripetizione ad alta voce) è Parola di Dio nel senso più assoluto del termine: non soltanto è privilegiata la tradizione orale più che quella scritta, ma per il credente il Corano non è opera umana, ma è la Parola stessa di Dio, per questo, in teoria, immutata e immutabile, definita «rivelazione del Signore del creato […] in lingua araba chiara»15. Questo non ha impedito che nell’islam, già in epoca medievale, si sviluppasse un colto lavoro interpretativo, che si è ravvivato soprattutto nel Novecento, anche di fronte alla necessità di rispondere alle sollecitazioni provenienti dalla cultura europea. L’esegesi, esercitata in particolare negli ambienti più interessati al rinnovamento dell’islam e al confronto con la modernità, ha sottoposto a indagine storica, letteraria e filosofica il testo coranico, mettendo in rilievo la sua capacità di essere veicolo di cambiamento della realtà, pur rimanendo fedeli alle pratiche e alle credenze fondamentali della religione musulmana. Questi tentativi, emersi in particolare in Egitto e in Sudan, hanno consentito di offrire un’interpretazione della Rivelazione aperta a nuove prospettive, ma, allo stesso tempo, hanno suscitato reazioni fortemente negative in alcuni settori del mondo musulmano, non a caso tra quelli più tradizionalisti e ostili alla modernità, mossi da intenti più politici che teologici�16. La complessa dinamica di innovazione e conservazione del passato riscontrabile in tutte le confessioni religiose, se osservata dal punto di vista della storia sociale, può offrire ulteriori conferme del rapporto che, in modo sempre più intenso negli ultimi due secoli, esiste tra tendenze alla globalizzazione e radicamento locale, anche se non mancano le difficoltà per condurre una comparazione storica a questo livello. Vi è da considerare, innanzi tutto, che gli studi demografici sui fenomeni religiosi sono stati osservati a lungo con sospetto, quando non sono stati osteggiati apertamente, da molte istituzioni Cfr. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., pp. 48-52. Cfr. M. Campanini, L’esegesi musulmana del Corano nel secolo Ventesimo, Brescia, Morcelliana, 2008; A. Saeed, Tendenze fondamentali dell’odierna esegesi coranica e idee emergenti per un approccio contestuale al Corano, in R. Tottoli (a cura di), Le religioni e il mondo moderno, vol. III, Islam, Torino, Einaudi, 2009, pp. 295-315. 15 16
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ecclesiastiche, anche per timore che i risultati potessero rivelare un indebolimento della propria rilevanza sociale e, indirettamente, favorire la tendenza all’allontanamento dei fedeli. Tale giudizio negativo ha reso, a volte, estremamente difficoltosa la raccolta dei dati, sia per l’impossibilità di eseguire le rilevazioni nei pressi dei luoghi di culto, sia per la diffidenza con la quale i credenti sono stati indotti a rispondere alle domande degli intervistatori. L’ostilità con la quale le istituzioni cattoliche, negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, considerarono le prime ricerche di sociologia religiosa condotte dal canonico Gabriel Le Bras in Francia non si esaurì in tempi brevi17 e, in Italia, ancora all’inizio degli anni Sessanta, l’indagine statistica non appariva a molta parte della gerarchia ecclesiastica uno strumento neutrale per descrivere i fenomeni religiosi in atto. Ancora oggi, per esempio, in alcune nazioni di tradizione islamica, non è stata superata l’opposizione nei confronti di strumenti che, messi a punto dalle scienze sociali, ritengono di poter misurare l’incidenza del sacro nella vita collettiva e pure nell’esperienza individuale. D’altra parte, le finalità politiche con cui possono essere usati i risultati della “contabilità delle anime” (per esempio, nel caso dei censimenti realizzati nel 2011 negli stati sorti dalla disgregazione della Jugoslavia, con la rilevazione anche dell’appartenenza etnica, linguistica e religiosa) possono far sorgere dubbi nelle comunità religiose che non necessariamente sono riconducibili alla refrattarietà verso i metodi e le acquisizioni delle scienze. Non è comunque univoca tra gli storici delle religioni (come pure tra i sociologi) la scelta dei dati da considerare per rilevare il grado di adesione alla fede dei singoli e delle collettività. Il livello della pratica religiosa potrebbe apparire il dato più efficace per misurare l’adesione a una data confessione religiosa: attraverso l’analisi comparata della frequenza ai momenti cultuali sembrerebbe possibile accertare quanti siano i praticanti e quanto siano rispettati i precetti liturgici delle singole comunità. Fedeltà ai riti nella sinagoga per gli ebrei, assiduità alla messa domenicale e alle liturgie pasquali per i cristiani e presenza alla preghiera del venerdì nelle moschee per i musulmani potrebbero 17 Cfr. G. Le Bras, Introduction à l’histoire de la pratique religieuse en France, 2 voll., Paris, Presses universitaires de France, 1942-1945.
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essere considerati comportamenti che, in quanto statisticamente rilevabili e confrontabili tra loro, sembrerebbero in grado di individuare somiglianze e diversità tra le varie comunità. Più significativa potrebbe risultare la rilevazione del ricorso ai riti religiosi per consacrare i momenti forti della vita di ciascun individuo: nascita, ingresso nell’età adulta, matrimonio e morte sono consacrati attraverso riti di passaggio che, se celebrati all’interno di una comunità religiosa, possono rappresentare il segno visibile della rilevanza personale e sociale accordata alla religione. Allo stesso modo, la partecipazione dei bambini alle iniziative di istruzione religiosa, in particolare a quelle organizzate dalle istituzioni ecclesiastiche, può essere studiata per individuare il grado di attaccamento delle famiglie alla trasmissione di certe credenze e di precisi valori alle giovani generazioni. Anche l’obsolescenza delle strutture organizzative, la mancata osservanza delle indicazioni comportamentali (per esempio, intorno ai divieti alimentari e alla dimensione della sessualità) e la contestazione delle autorità religiose possono essere assunte come indici, sempre più raffinati, del progressivo affievolirsi del ricorso al sacro. Gli strumenti statistici, però, soffrono di limiti in alcuni casi difficilmente superabili per gli storici. Ancor prima della frammentarietà e della scarsa sistematicità dei dati a disposizione per le epoche passate, infatti, a porre problema è il differente significato attribuito dalle varie confessioni religiose alle pratiche svolte nei luoghi comunitari di culto. Per esempio, può essere significativo considerare la partecipazione dei fedeli ai momenti cultuali, ma più difficile risulta stabilire quanto quelle presenze siano dettate da convinzione personale sulla rilevanza sacrale dei gesti ripetuti in quelle occasioni e quanto siano indotte dal controllo sociale esercitato dalle comunità di appartenenza. Pur esistendo, inoltre, alcune somiglianze tra i precetti sul culto delle tre grandi religioni monoteistiche, non sempre essi risultano immediatamente confrontabili, anche per il significato parzialmente diverso datone all’interno delle diverse tradizioni. Circoncisione e battesimo, pur segnando l’ingresso del nuovo nato nelle comunità di fede, non hanno lo stesso significato per le comunità che le praticano, e il rito battesimale non ha lo stesso significato in tutte le chiese cristiane. Il raggiungimento della maturità, poi, è sottolineato con rilevanza diversa nelle 49
differenti comunità e la festa ebraica di bar mitzvah con la quale il ragazzo tredicenne diventa direttamente responsabile dell’osservanza di tutti i precetti ha una portata differente dal sacramento della confermazione nelle comunità cattoliche. Ancora maggiori difficoltà emergono se si intendono confrontare le serie storiche relative all’accesso alle “professioni religiose”: ulama, pastori, preti e rabbini non soltanto hanno svolto e svolgono ruoli diversi, ma la loro selezione e la loro autorità all’interno delle comunità non permette agevoli comparazioni tra figure all’apparenza simili. Il rispetto del vasto campo delle prescrizioni morali nei diversi contesti religiosi, poi, sfugge pressoché a qualsiasi confronto scientificamente rilevante in quanto risulta molto differente sia la capacità normativa delle singole confessioni, sia la loro possibilità di obbligare i fedeli al rispetto delle leggi. Anche se non sempre agevolmente confrontabili passando da un contesto sociale all’altro, i cambiamenti avvenuti nella storia contemporanea permettono di considerare come i processi di modernizzazione culturale, con la crescita degli scambi a livello globale e del pluralismo sul piano locale, siano stati favoriti, oltre che dalle migrazioni di uomini e donne e dalla diffusione delle comunicazioni di massa, dall’azione delle comunità religiose che, però, in non pochi casi, si sono opposte a questa tendenza alla differenziazione, nonostante l’universalismo che caratterizza molte confessioni, a iniziare dai monoteismi. Di fronte al moltiplicarsi delle forme di religiosità, percepite come non autoctone e quindi estranee a una particolare realtà locale, molte confessioni hanno manifestato la propria apprensione per timore della rottura dell’unità religiosa della società e dell’erosione della propria capacità di incidenza nella vita individuale e collettiva. All’origine dei processi storici di laicizzazione degli stati, il pluralismo religioso è stato alimentato dalla globalizzazione, tanto da apparire in epoca contemporanea la declinazione – nel campo delle scelte di fede – della molteplicità di opzioni rilevabile sul piano culturale, politico e commerciale. L’evoluzione delle società nell’Ottocento e nel Novecento secondo paradigmi tecnici e scientifici non ha determinato la scomparsa della religione, ma la dilatazione di mentalità e comportamenti secolari e, insieme, la diffusione di una pluralità di fedi che, in modo disordinato e apparentemente casuale, popolano la modernità. 50
2.2. Famiglie nella secolarizzazione L’evoluzione dei modelli di famiglia in epoca contemporanea presenta notevoli aspetti di interesse per valutare il mobile confine che separa e unisce atteggiamenti pubblici e comportamenti privati, ma anche influenza delle istituzioni religiose e potere politico. Nelle società “tradizionali” (con tutta l’indeterminatezza e l’ambiguità che questa definizione porta con sé), l’appartenenza religiosa non era definita soltanto attraverso la credenza personale, ma comportava la condivisione sociale di un’identità basata su una comune visione del mondo. La comunità religiosa, che si sovrapponeva, sino a identificarsi, con la comunità umana di appartenenza, era luogo di senso, di regole e di affetti su cui si fondava la coesione della collettività. Per tale motivo, i rapporti famigliari – proprio per la loro capacità di rappresentare e fondare la coesione comunitaria – sono sempre stati oggetto di un particolare sforzo normativo da parte delle “religioni del Libro”18. Da una parte, soltanto il vincolo coniugale regolato dalle norme sacre permetteva di soddisfare in maniera lecita i bisogni sessuali e di assicurare la perpetuazione della specie in modo da garantire la continuità e la coesione della comunità; dall’altra, le tradizioni religiose intendevano riconoscere e codificare, attraverso la definizione di precise gerarchie famigliari, anche l’immagine dei rapporti di potere all’interno della società. I processi di secolarizzazione che hanno investito l’istituto matrimoniale in epoca contemporanea, proprio per la loro ricaduta – simbolica e reale – rispetto agli assetti sociali interpretati dalle norme religiose, hanno trovato quasi sempre l’opposizione degli ambienti religiosi “conservatori”, che hanno visto in questi fenomeni la rottura dei legami sociali tradizionali e, a seguito di questa frattura, il rischio di disgregazione dell’intera comunità. Osservando le trasformazioni subite dall’istituto famigliare in età contemporanea, è possibile rilevare come la circolazione a livello mondiale di modelli giuridici e di comportamenti collettivi tra loro anche profondamente diversi abbia influito sia sugli atteggiamenti dei singoli, sia sulle scelte delle autorità pubbliche 18 Cfr. S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam a confronto, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 224-227.
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nella regolamentazione delle scelte matrimoniali all’interno dello spazio pubblico. Proprio a causa dell’alto livello di osmosi tra modelli famigliari, mutamenti della società e definizione dei sistemi normativi, i processi di globalizzazione, soprattutto nel corso del Novecento, hanno favorito la trasformazione e la diffusione in aree diverse del pianeta di atteggiamenti individuali e di decisioni delle istituzioni pubbliche intorno alla struttura e al ruolo delle famiglie, che si allontanano a volte dalle tradizioni locali e dalle norme religiose. Proprio l’osservazione dei comportamenti e delle leggi che regolano questo ambito altamente sensibile conferma quanto fenomeni religiosi e fenomeni di secolarizzazione costituiscano fattori che, tra rigetti e influssi reciproci, hanno interagito continuamente tra loro, superando le barriere dei confini nazionali. All’interno della famiglia, snodo cruciale tra dimensione personale e dimensione sociale dell’esistenza, in modo immediato, infatti, è possibile osservare la condotta degli individui e l’espressione delle loro aspettative fondamentali, come anche le relazioni tra le generazioni e tra i generi19. I mutamenti subiti dalle strutture famigliari segnalano, più di altri indicatori, quanto i modelli di riferimento provenienti non soltanto dalle autorità civili, ma anche dalle autorità religiose, siano stati recepiti nelle diverse società e come le idee di famiglia provenienti da altri contesti – anche geograficamente distanti – abbiano influenzato i modi di considerare l’organizzazione delle relazioni nel matrimonio. Allo stesso tempo, le trasformazioni avvenute nell’organizzazione e nei ruoli famigliari hanno influito sui modi con cui le istituzioni politiche e religiose hanno giudicato e regolato le scelte riguardanti le famiglie. Ricorrendo a una prospettiva storica, è possibile rilevare le concordanze e le divergenze contenute nelle idee di famiglia proposte nel tempo dalle istituzioni statali e da quelle religiose e ricostruire i ripetuti conflitti sorti intorno alle reciproche competenze. Non si è mai trattato unicamente di contrasti tra il potere politico e quello religioso. In modo più
19 Cfr. R. Deliège, Antropologia della famiglia e della parentela, Roma, Borla, 20082; P.G. Solinas, La famiglia. Un’antropologia delle relazioni primarie, Roma, Carocci, 2010. In una prospettiva storica comparativa, cfr. J. Goody, La famiglia nella storia europea, Roma-Bari, Laterza, 2000.
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complesso, si è assistito a un’interazione continua tra le autorità e la popolazione, tra la norma e la prassi, che impone di considerare la reale capacità di incidenza dei modelli proposti dalle istituzioni nel vissuto quotidiano degli individui e i meccanismi attraverso i quali i nuclei famigliari hanno risposto a queste sollecitazioni. In particolare, la definizione dei caratteri dell’istituto matrimoniale non fu mai un processo lineare, ma il risultato della complessa interazione tra aspirazioni individuali, strutture della società, influenza di modelli esterni e concorrenza tra istituzioni politiche e religiose20. All’interno di questa analisi, assume un rilievo notevole la considerazione dei mutamenti intervenuti nella condizione della donna. L’universo femminile, rispetto a quello maschile, appare il soggetto che ha subito in modo più accentuato le conseguenze dei processi di modernizzazione e che, allo stesso tempo, ne ha condizionato in modo determinante lo sviluppo. Soprattutto nel corso del Novecento, la religiosità femminile ha subito cambiamenti per certi aspetti radicali, e non soltanto rispetto ai livelli di frequenza alle funzioni religiose, segnalando, anche in questo ambito specifico, la tendenza all’omologazione di ruoli e di mentalità tra i due sessi caratteristico delle società moderne21. Osservando le trasformazioni dell’istituto famigliare in una prospettiva di lungo periodo, è possibile rilevare quanto, oltre ad essere state influenzate in modo rilevante dai mutamenti avvenuti in ambito politico ed economico, abbiano risentito lungamente delle tradizioni e dei vincoli religiosi, come mostrano le vicende avvenute in Europa. Dal xii secolo, con il consolidamento della giurisdizione ecclesiastica sui matrimoni, le istituzioni religiose tesero con maggiore determinazione a far transitare sotto la propria autorità i riti nuziali (divenuti momento di celebrazione di un sacramento) e il giudizio sulla validità dei patti coniugali, in contrasto, a volte, da una parte, con i genitori e, dall’altra, con i signori feudali prima e con le autorità statali poi. Anche le norme canoniche della chiesa di Roma, per quanto indirizzate a Cfr. J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Torino, Sei, 1989. Cfr. Donne sante, sante donne. Esperienza religiosa e storia di genere, a cura della Società italiana delle storiche, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996. 20 21
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far valere le prerogative dell’autorità ecclesiastica e richiamandosi a un fondamento divino, furono condizionate dalla realtà esistente che il potere religioso intendeva regolare, più che sovvertire22. La definizione di particolari norme religiose permetteva di segnare la distanza rispetto ad altre comunità religiose e di tracciare limiti circa la possibilità di contatti tra persone appartenenti a confessioni diverse. Si trattò di un’esigenza resa più urgente dalle divisioni emerse all’interno del cristianesimo che, dopo lo scisma culminato nella reciproca scomunica del 1054 tra l’ortodossia orientale e il cattolicesimo occidentale, fu divisa dal xvi secolo dalla frattura tra la chiesa di Roma e le chiese della Riforma. Oltre a questo, la mobilità sociale e geografica, acceleratasi in epoca moderna all’interno dell’Europa e nei territori coloniali conquistati dalle potenze europee, rendeva più frequenti le possibilità di unioni coniugali tra uomini e donne di fedi diverse e la necessità di un loro disciplinamento. Fu proprio a causa dell’intreccio di interessi materiali e di valori simbolici contenuti nell’istituto matrimoniale che il monopolio da parte delle autorità religiose dei suoi aspetti giuridici, e non soltanto etici e spirituali, è stato uno degli elementi a essere messo primariamente e continuamente in discussione nel corso dei processi di laicizzazione. Anche in questo caso, è possibile osservare come tra gli elementi che contribuirono all’accelerazione dei cambiamenti dei rapporti tra stati e chiese cristiane vi fu il rapido passaggio da una nazione all’altra di riferimenti culturali e di modelli giuridici, in particolare dal Settecento, con la diffusione delle idee illuministiche e delle politiche ecclesiastiche giurisdizionaliste promosse dai sovrani assoluti23. Nonostante la permanenza dei conflitti sulla regolamentazione del diritto di famiglia, le vicende dei paesi europei dal xviii secolo in avanti possono essere osservate come esempio della relativa autonomia dei processi di modernizzazione sociale dell’istituto famigliare rispetto ai progetti espressi dalle autorità ecclesiastiche e da quelle politiche. Soprattutto dalla fine dell’Ottocento, i crescenti
22 Cfr. W. Seccombe, Le trasformazioni della famiglia nell’Europa nordoccidentale. Mille anni di storia tra feudalesimo e capitalismo, Scandicci, La Nuova Italia, 1997, p. 205. 23 Cfr. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente cit., pp. 202-305.
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flussi migratori delle popolazioni dalle campagne alle città e da una parte all’altra dei confini nazionali, insieme alla diffusione di strutture economiche che indebolivano la centralità della famiglia come primario luogo della produzione, contribuirono, infatti, a erodere il tradizionale ruolo svolto dall’istituto matrimoniale, a iniziare dai territori caratterizzati da una più alta mobilità sociale. Ciò non significò la perdita di controllo sugli individui da parte delle autorità religiose e delle autorità politiche, ma implicò che mentalità e comportamenti collettivi, indotti principalmente dai fenomeni di urbanizzazione, dai nuovi sistemi di produzione e dal contatto con culture diverse, contribuissero a mutare progressivamente la percezione che i singoli avevano dei principi trasmessi dalla sfera religiosa e da quella politica, attraverso un loro adattamento progressivo alle mutevoli e concrete esigenze quotidiane. Anche queste trasformazioni dei riferimenti costitutivi le identità collettive sollecitarono le confessioni cristiane e gli stati a porsi sempre più in concorrenza per stabilire le norme che regolavano l’istituto famigliare con l’obiettivo di disciplinare quei comportamenti che mettevano a rischio la stabilità sociale e di affermare la rispettiva capacità di controllo della società. Per giustificare la competenza civile sul matrimonio, gli stati occidentali assecondarono la tendenza, emersa già nel corso del xviii secolo, a dissociare sul piano giuridico il contratto coniugale dal sacramento e ad affermare sul piano politico la necessità di consolidare la famiglia basata sul matrimonio quale garante dell’ordine sociale. La Rivoluzione francese rappresentò una tappa fondamentale nel processo di secolarizzazione del matrimonio, con le funzioni affidate all’ufficiale di stato civile e l’introduzione del divorzio. Si trattò di norme che trovarono in parte una loro organica trattazione nel Codice civile del 1804 che rappresentò il veicolo attraverso cui i principi della laicità – anche in tema matrimoniale – si diffusero in Europa, sia nei territori controllati in maniera diretta dall’impero napoleonico, sia in altri stati che, ispirandosi a quella legislazione, recepirono parzialmente i principi rivoluzionari. Con la caduta di Napoleone e l’affermazione del legittimismo monarchico, il periodo della Restaurazione vide la cancellazione delle norme più contestate nel diritto civile matrimoniale, innanzi tutto in tema di divorzio, lasciando però immutati alcuni principi stabiliti dal Codice del 1804, in particolare quelli che rappresentavano la 55
trasposizione laica di norme religiose (per esempio, sulla maggiore età matrimoniale e sulle pubblicazioni). Di fronte all’affermarsi dei sistemi giuridici liberali nel corso dell’Ottocento che tendevano a definire i diritti e i doveri degli individui, il magistero cattolico enfatizzò i valori e le prerogative espressi dalla famiglia. Il singolo che non ricopriva ruoli ecclesiastici aveva una propria funzione in quanto inserito nel contesto famigliare; l’uomo e la donna erano figli prima e poi, rispettivamente, padre e madre e in quanto tali erano riconosciuti all’interno della comunità cristiana. I timori con i quali la chiesa cattolica aveva osservato la diffusione di comportamenti “moderni” sembrarono confermati dalla crisi di fine Ottocento e dalle devastazioni provocate dalla prima guerra mondiale. Nel generale clima di disorientamento seguito alla conclusione del conflitto, la famiglia cristiana fu presentata come il punto di riferimento fondamentale cui ancorare la rinascita della civiltà, alimentando il “mito familistico” che notevole fortuna ebbe negli anni seguenti, e non soltanto nel cattolicesimo. Si trattava di un modello ideale e idealizzato che non aveva riscontri nella realtà. Era proposta, infatti, l’immagine del marito-padre impegnato nella direzione della famiglia e nell’educazione cristiana dei figli e quella della moglie-madre “angelo del focolare”, dedita alla cura dei figli e della casa, attorniati dalla prole numerosa ritratta in atteggiamento di docile obbedienza. All’interno di questo quadro, il magistero ecclesiastico considerava il lavoro femminile extradomestico un fatto di carattere eccezionale, legato a situazioni di emergenza e quindi destinato a ridimensionarsi per riportare la donna all’interno alle mura casalinghe. Sfumavano in questa visione i problemi di ordine pratico che incombevano quotidianamente soprattutto sulle donne e le difficoltà concrete che ogni famiglia doveva affrontare per garantire la propria sopravvivenza24. L’espansione, avvenuta tra la metà dell’Ottocento e il primo conflitto mondiale nelle aree maggiormente industrializzate dell’Occidente, del modello di famiglia borghese – più ristretta numericamente ed espressione di un nuovo ruolo sociale della donna – coinvolse innanzi tutto i ceti socialmente più elevati e 24 Cfr. P. Gaiotti De Biase, Vissuto religioso e secolarizzazione. Le donne nella “rivoluzione più lunga”, Roma, Studium, 2006, pp. 37-56.
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poi gli ambienti operai, anche se a questa tendenza non rimase del tutto estranea la popolazione rurale25. Il numero delle famiglie allargate in cui erano presenti, oltre al marito, alla moglie e ai figli, anche un certo numero di parenti e affini aveva iniziato a decrescere già dalla metà dell’Ottocento, con notevoli differenze tra le aree rurali e quelle segnate da precoci fenomeni di industrializzazione, pure nei paesi mediterranei e dell’Europa orientale che apparivano generalmente caratterizzati da sistemi sociali più tradizionali. Come in Francia, anche in vaste aree dell’Europa centrale la laicizzazione delle istituzioni pubbliche soprattutto nella seconda metà del Novecento si accompagnò al mutamento dei comportamenti privati – evidenti in ambito famigliare – che apparivano ispirati a uno spirito di indifferenza, quando non apertamente in contrasto, verso qualsiasi orientamento religioso. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti, pur in una situazione culturale dove il riferimento alla religione continuava a essere fortemente diffuso nella popolazione, il radicamento all’interno delle famiglie di stili di vita “modernizzati” fu dovuto più alla pervasività della “società dei consumi” che a un progetto perseguito dall’autorità politica. Urbanizzazione e industrializzazione, da un lato, restringimento dei nuclei famigliari e diminuzione delle nascite, accompagnata dal calo della mortalità, in particolare infantile, dall’altro, provocarono la diffusione di modelli di famiglia che contrastavano con quelli proposti in particolare dalla predicazione cattolica, in cui predominavano un paesaggio prettamente rurale, il richiamo al rispetto dell’autorità paterna e l’ideale della fecondità femminile. Queste immagini tentavano di recuperare valori tradizionali che si pensava potessero frenare i processi di secolarizzazione che, nell’Europa nordoccidentale prima e in molte aree dei paesi mediterranei poi, si stavano manifestando in modo evidente. A differenza di altre nazioni occidentali, Italia, Spagna e Portogallo, ancora alla metà del Novecento, sembravano essere stati preservati dalla diffusione massiccia di fenomeni che segnalavano il distacco di fasce consistenti della popolazione dal riferimento 25 A. Janssens, Trasformazione economica, lavoro delle donne e vita familiare, in M. Barbagli e D.I. Kertzer (a cura di), Storia della famiglia in Europa. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 109-176.
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alla religione. La situazione della penisola italiana e di quella iberica nel primo dopoguerra era apparsa alla chiesa cattolica un terreno fertile per coltivare un ideale di famiglia rispondente agli insegnamenti cristiani. Ad accrescere la diffusa impressione di trovarsi di fronte a un caso particolare rispetto alle tendenze registrate nei paesi in cui più ampio era il terreno conquistato dalla secolarizzazione contribuì l’assunzione da parte del nascente regime fascista e, in seguito, ancor più dalla dittatura franchista della visione tradizionale di famiglia proposta dalla chiesa cattolica. Il fascismo, che inizialmente non possedeva una propria elaborazione originale sul tema della famiglia, soprattutto dopo la firma dei Patti lateranensi con lo stato italiano nel 1929 sfruttò la convergenza con il cattolicesimo per diffondere i propri ideali di ordine e di autorità26. Più stretto apparve il legame tra la chiesa e lo stato nella Spagna governata da Francisco Franco, che poté dispiegare in un ampio arco di tempo, dal 1939 al 1975, la sua azione politica improntata alla triade “Dio, Patria, Famiglia”; la consonanza ideologica tra le due istituzioni, però, non riuscì a contenere la diffusione di comportamenti distanti dal modello di famiglia estesa, prolifica e “rurale” propagandato dal regime e dalle autorità cattoliche, soprattutto nelle regioni più industrializzate e dove erano presenti sentimenti di indifferenza, quando non di ostilità, verso il cattolicesimo (in particolare nella Spagna centrale e meridionale)27. Ancora più radicale fu la frattura prodotta dalla Rivoluzione bolscevica del 1917 nei territori russi, fortemente segnati dall’influenza delle Chiese ortodosse, ma dove vi era pure una rilevante presenza dell’islam28. Nella Russia zarista, il matrimonio era considerato un’istituzione religiosa la cui celebrazione e il cui scioglimento erano di competenza della chiesa ortodossa; nonostante la prevalenza del modello famigliare patriarcale, la morale religiosa ortodossa, alla quale si ispirava largamente la normativa giuridica
26 Cfr. C. Dau Novelli, Famiglia e modernizzazione in Italia tra le due guerre, Roma, Studium, 1994. 27 Cfr. P. Ginsborg, Le politiche sulla famiglia dei grandi dittatori, in Barbagli e Kertzer (a cura di), Storia della famiglia in Europa cit., pp. 270-274. 28 Cfr. P. Ronfani, Il diritto di famiglia in Europa, in Barbagli e Kertzer (a cura di), Storia della famiglia in Europa cit., p. 193.
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sulla famiglia, aveva come fondamento una costellazione di simboli e valori “femminili”, come la carità, l’umiltà e la compassione, che riflettevano l’importanza attribuita al ruolo materno nella cultura russa e una non forte opposizione tra i ruoli di genere. Gli ideali comunisti che intendevano promuovere l’emancipazione della donna, insieme ai provvedimenti di collettivizzazione dell’economia e ai progetti di sradicamento delle tradizione religiose, si scontrarono con una struttura sociale tradizionale che fu squassata dalla rivoluzione dall’alto che, soprattutto dal 1929, impose trasferimenti forzati verso le città a milioni di persone per sostenere l’industrializzazione del paese29. In un arco di tempo brevissimo, fu scardinato il riferimento rappresentato dalle autorità religiose e furono ribaltate le tradizionali relazioni di sottomissione dei giovani agli anziani; la famiglia mononucleare, anche se prolifica, divenne il modello prevalente nelle repubbliche sovietiche, anche se, soprattutto nelle aree più isolate, rimasero ampie zone dove la capillare rete di controllo del regime mostrava rilevanti smagliature. Il modello famigliare sovietico, dai tratti volutamente secolarizzati, si diffuse nel secondo dopoguerra insieme all’espansione del potere internazionale dell’Urss. Nei paesi dell’Europa orientale, esso si radicò all’interno di società già in parte interessate nei decenni precedenti da consistenti fenomeni di secolarizzazione, come, per esempio, la Cecoslovacchia, mentre in alcuni casi, in particolare in Polonia, le politiche famigliari dei governi comunisti (con l’introduzione di norme che rendevano agevole il ricorso al divorzio e all’aborto) trovarono l’opposizione delle istituzioni religiose che però riuscirono soltanto marginalmente a influire sulle trasformazioni complessive delle strutture sociali che portavano al crescente abbandono dei riferimenti all’idea tradizionale di famiglia. L’avvicinamento di alcuni governi dell’area mediorientale negli anni Settanta alla sfera di influenza sovietica (in particolare, Siria e Egitto, ma anche Libia e Iraq) contribuì alla diffusione di processi di laicizzazione, anche in campo famigliare, che, in realtà, erano già comparsi durante il periodo coloniale. Il Cfr. A. Blum, Famiglie socialiste?, in ibidem, pp. 290-338; C. CarpiDonne e famiglia nella Russia sovietica. Caduta di un mito bolscevico, Milano, Angeli, 1998. 29
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contatto con sistemi legislativi e mentalità di origine europea aveva influenzato modelli famigliari plasmati sia dalla tradizione islamica, sia dalle particolari condizioni sociali, dove prevalevano strutture patriarcali tipiche soprattutto delle comunità dedite all’agricoltura e alla pastorizia. Pur esistendo nelle società di tradizione musulmana un insieme di atteggiamenti culturali e di istituzioni che si ritrovano simili in tempi e luoghi diversi, è necessario considerare che esso rappresenta, oggi come nel passato, «un quadro di riferimento ideologico-religioso intrecciato a concrete vicende storiche e a precedenti costumi regionali»30; per tale motivo anche nell’evoluzione delle relazioni famigliari, a partire dal rapporto tra uomo e donna, è difficile stabilire quanto sia da attribuire alle prescrizioni del Corano, quanto alle interpretazioni successive e quanto alle pratiche sociali sedimentatesi nel tempo. La predicazione del profeta Muhammad portò un certo miglioramento della considerazione della donna nelle società arabe, sia negli ambienti nomadici, sia nei centri urbani, dove all’uomo era attribuito il possesso esclusivo della donna. Nel Corano, oltre a dichiarare l’obbligo del rispetto del pudore femminile, fu affermato un preciso ordine gerarchico tra i sessi, con la sottomissione della donna all’uomo, come d’altra parte era presente nella quasi totalità delle civiltà coeve, compresa quella europea cristiana; in ogni caso, era prescritto che i coniugi ponessero tra loro «compassione e amore» (30,21)31, le donne potessero avere proprietà a loro nome e non fossero obbligate a contribuire con i loro beni al sostentamento della famiglia. Per la sharia, prodotto di notevoli contaminazioni storiche, il matrimonio è valido se sono presenti la capacità giuridica delle parti, il consenso dei futuri sposi, l’intervento del tutore per la donna e la costituzione del mahr, la somma attribuita alla donna dalla famiglia dello sposo che rimane nel suo possesso esclusivo. Quest’ultimo elemento, che permetteva alla moglie di non dar conto al coniuge della gestione dei propri averi, rendeva la situazione patrimoniale Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., p. 133. Le mogli «agiscano con i mariti come i mariti agiscono con loro, con gentilezza; tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto, e Dio è potente e saggio» (2,228). 30 31
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della donna nel mondo islamico migliore rispetto a quella nei territori di tradizione cristiana, almeno fino a quando le norme giuridiche dei paesi occidentali introdussero la separazione dei beni, con la possibilità per la moglie di gestire autonomamente rispetto al marito i propri interessi patrimoniali. Il mahr, con il suo intreccio di norme dedotte dalle fonti del diritto islamico e regolato in modo anche molto diverso nelle differenti aree di influenza dell’islam e nei vari periodi storici, rende evidente come si tratti di «uno dei numerosissimi casi in cui l’interpretazione giuridica e le decisioni dei detentori del potere disponevano di ampio spazio per regolamentare in maniera assolutamente legittima, ma con conseguenze addirittura opposte, l’impatto sociale di certe norme ambigue del dettato coranico»32. Nel mondo islamico, la regolazione degli usi e delle leggi matrimoniali, attraverso cui con maggiore chiarezza rispetto ad altri ambiti è possibile osservare lo statuto personale dell’uomo e della donna, è entrata in forte tensione dal contatto con le tradizioni delle popolazioni convertite alla fede musulmana, tanto da dare origine a una dinamica di continuo adattamento tra principi e prassi. Secondo Vercellin, «nonostante la pretesa totalizzante della sharia di essere espressione della volontà eterna di Dio e quindi tale che ogni musulmano in qualsiasi territorio, epoca o circostanza possa e debba riconoscervisi, solamente alcune disposizioni di essa sono state in effetti applicate anche nell’ambito delle relazioni matrimoniali»33. La definizione dei rapporti tra i coniugi, soprattutto nelle società più periferiche rispetto alla penisola arabica e alle zone della prima espansione musulmana, fu quindi il risultato della mediazione – non sempre agevole – fra tradizioni locali e influenze della cultura islamica, dando vita a una pluralità di sistemi normativi destinati a regolare la sfera famigliare34. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., p. 145. Ibidem, p. 147. 34 A Giava, per esempio, dove il ruolo sociale riconosciuto alla donna era generalmente elevato, le dispute intorno alla poligamia furono ricorrenti, mentre la possibilità data dalla sharia al marito di ripudiare la moglie si tradusse nella forte precarietà dei vincoli matrimoniali rispetto alle regioni centrali del mondo musulmano. In India, dove la cultura autoctona accettava con difficoltà le norme islamiche sul ripudio e sulla poligamia, le procedure 32
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Le trasformazioni avvenute nel diritto di famiglia all’interno del mondo musulmano nell’Ottocento e nel Novecento mostrano la correlazione fra trasformazioni sociali, rilevanza dei riferimenti religiosi, esigenze politiche interne e influenza di modelli giuridici esterni. La debolezza dell’impero ottomano, rilevabile già nel xix secolo, risultò ancora più evidente dai contatti prodotti dall’espansione e dall’occupazione coloniale europea nel Medio Oriente e nel Maghreb. L’azione dei colonizzatori ebbe un sensibile e, spesso, violento impatto sulle società islamiche che reagirono variamente di fronte alle concezioni ideologiche e ai sistemi giuridici occidentali, identificati con la modernità. La convinzione, maturata in molti ambienti intellettuali ottomani, del ritardo accumulato dalla cultura islamica soprattutto dal xv secolo in avanti portò a una prima accettazione entusiastica dei portati della modernità, con l’introduzione di leggi che, contrariamente a ciò che era accaduto in passato, erano applicate in modo uguale a musulmani e non musulmani, a iniziare dal nuovo codice di diritto penale del 1843 e, in seguito, dal codice civile e da quello commerciale. Simili tendenze si registrarono nella prima metà dell’Ottocento anche in Egitto che, anche in seguito alla creazione di un regno di fatto autonomo dalla Sublime Porta ottomana, permise la modernizzazione della burocrazia, dell’esercito e del sistema dell’istruzione e alimentò le correnti culturali che premevano per una riforma dell’islam. Pur con accenti diversi, intellettuali e riformatori sociali avevano l’intenzione di favorire lo sviluppo della società musulmana attraverso il rinnovamento radicale della cultura e delle istituzioni segnate dalla religione che doveva essere considerata non più un dato monopolizzante l’organizzazione della società, ma un fatto personale e privato. Non fu un caso, però, che a fianco di queste trasformazioni “modernizzanti” del sistema giuridico la sharia continuò a regolare in molte società islamiche il diritto di famiglia, anche se, in alcuni casi, norme sociali di stampo patriarcale continuarono a prevalere anche sulla legge religiosa (per esempio, nel diritto successorio)35.
definite localmente resero, nei fatti, particolarmente difficile l’accesso a queste pratiche; cfr. ibidem, pp. 147-148. 35 Cfr. Campanini e Mezran, Arcipelago Islam cit., p. 15; De Poli, I musulmani nel terzo millennio cit., pp. 144-146.
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Sempre e ovunque di faticosa realizzazione, le riforme dello statuto personale (vale a dire dell’insieme delle norme relative alla capacità giuridica delle persone, al matrimonio, alla filiazione e alle successioni) incontrarono nei territori islamici più o meno direttamente sottoposti al potere coloniale un doppio ostacolo: da una parte, le autorità europee ritenevano che tali norme fossero irrilevanti per l’amministrazione politica di quei territori e, dall’altra, volevano evitare che interventi dall’alto su questa delicata materia producessero scontri tra le diverse componenti della società e contestazioni verso il potere coloniale. Nonostante le rigidità rimaste a lungo in questo ambito della legislazione, proposte di riforma emersero dall’interno delle società islamiche anche in seguito ai dibattiti sulla condizione della donna: il fermento emerso nelle società islamiche, in particolare dalla fine dell’Ottocento, prospettarono l’entrata della donna nella vita sociale non soltanto in quanto moglie e madre, ma come lavoratrice e intellettuale. La nascita dei primi movimenti femministi all’inizio del Novecento e la loro azione svolta soprattutto a livello sociale e caritativo contribuirono a promuovere l’istruzione delle bambine e la tutela della salute delle donne, oltre a modificare abitudini tradizionali, come per esempio, i matrimoni precoci, in realtà ricorrenti nelle società arabe sia tra i musulmani, sia tra i cristiani. A fianco di queste correnti tese a “modernizzare l’islam”, si svilupparono posizioni che puntavano a “islamizzare la modernità”, affermando la capacità della tradizione musulmana di governare lo sviluppo del mondo moderno. Questa reinterpretazione della tradizione islamica coinvolse la considerazione dei rapporti famigliari e della condizione femminile che, basandosi su una rilettura del Corano e una rielaborazione dei valori dell’islam, intendeva rivedere i tradizionali rapporti tra i sessi per giungere, tra l’altro, al riconoscimento dell’uguaglianza tra uomo e donna, senza necessariamente riferirsi al modello occidentale. Le trasformazioni sociali ed economiche avvenute nella prima metà del Novecento e la rivoluzione dei costumi provocata dal contatto con le istituzioni e le culture “moderne” dell’Occidente avevano portato, infatti, un numero crescente di donne a emanciparsi parzialmente dalla tutela maschile, provocando però reazioni di senso contrario che si orientarono al recupero della tradizione e, soprattutto dopo la decolonizzazione, verso 63
i modelli femminili reinventati dagli islamisti radicali. Nella seconda metà del Novecento, gli intenti riformatori dei movimenti femministi islamici, se da un lato intendevano rifiutare le forme occidentali della modernizzazione, che in molti casi si era mostrata attraverso la presenza prevaricante del colonialismo europeo, dall’altro si esprimevano attraverso il recupero della valenza egualitaria dell’islam, ritenuta una risposta al conflitto di identità prodotto dal confronto con la modernità, specie per quanto riguardava la condizione delle donne36. Nel Maghreb, in ogni caso, il cambiamento del diritto di famiglia, pur con tempi e dinamiche diverse, si ebbe soltanto nel secondo dopoguerra, dopo il raggiungimento dell’indipendenza37. Subito dopo la liberazione dal controllo coloniale francese, nel 1956 la Tunisia riformò lo statuto personale e il Marocco l’anno successivo, attraverso la cosiddetta mudawwana (“raccolta”), improntata alla sharia della tradizione malekita prevalente nel Nordafrica; in Algeria, al contrario, il diritto di famiglia fu codificato soltanto nel 1984, a ventidue anni dall’indipendenza. Le norme sulla famiglia, considerata unità di base della società su cui fondare la nuova identità nazionale, furono così codificate attribuendo in parte allo stato campi tradizionalmente di competenza delle autorità religiose. Nonostante queste leggi aderissero in gran parte alle norme della sharia, estremamente dettagliata su questi temi, la costruzione giuridica operata dallo stato, oltre a rendere conoscibili a tutti i cittadini la legislazione, intendeva prospettare le basi su cui si volevano costruire le istituzioni della nazione. Le norme tunisine, per esempio, vietarono il ripudio e la poligamia, previsti invece dalla tradizione islamica, confermando l’intento “rivoluzionario” della nuova classe dirigente; la legge algerina, di impianto conservatore, mantenne invece ferma la disparità tra uomo e donna all’interno della famiglia, mentre gli sviluppi della mudawwana riflessero il costante e cauto riformismo della 36 Cfr. T. Ramadan, L’Islam in Occidente. La costruzione di una nuova identità musulmana, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 183-189; V. Rosignoli, Le nuove tendenze dell’Islam contemporaneo (iv): il femminismo islamico, in Campanini e Mezran, Arcipelago Islam cit., p. 158. 37 Cfr. R. Aluffi Beck-Peccoz (a cura di), Le leggi del diritto di famiglia negli Stati arabi del Nord-Africa, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1998.
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monarchia marocchina. Lo statuto personale marocchino del 1957 ribadiva l’inferiorità della donna nei rapporti privati: doveva ricevere l’approvazione per le nozze da un tutore appartenente alla sua famiglia, era tenuta all’obbedienza al marito, capo e responsabile unico del mantenimento del nucleo famigliare, e non poteva opporsi né al ripudio (facoltà concessa soltanto al marito), né alla poligamia38. I successivi cambiamenti intervenuti nella legislazione marocchina resero evidente la tensione prodotta tra norme giuridiche, trasformazioni sociali e processi di globalizzazione. Dagli anni Settanta, infatti, sempre più forti furono le pressioni per riformare lo statuto personale, anche a causa dello sfasamento prodotto dai cambiamenti dei costumi sociali e dai principi di non discriminazione verso le donne introdotti in altre parti del diritto marocchino e riconosciuti dal governo attraverso l’approvazione di convenzioni internazionali. L’innalzamento dell’età media degli sposi, il crescente livello di istruzione delle ragazze, i ruoli ricoperti dalle donne nelle attività economiche e l’esperienza migratoria vissuta nei paesi occidentali fecero percepire a fasce sempre più ampie della popolazione le norme esistenti come superate o, addirittura, come violenze nei confronti del mondo femminile. Le iniziative dei movimenti femministi islamici contribuirono alla progressiva riforma del diritto di famiglia, nonostante l’opposizione degli ambienti più conservatori: la legge approvata nel 1993 dal re Mohammed VI, che introduceva soltanto marginali cambiamenti allo statuto personale, e la proposta di un Piano d’azione per l’integrazione della donna allo sviluppo (poi non approvato) suscitarono la reazione dei gruppi islamisti che ribadirono l’obbligo di fedeltà alle norme religiose, anche per preservare l’identità marocchina dall’omologazione culturale con l’Occidente. L’azione del movimento femminile marocchino e l’appoggio determinante assicurato dal re resero possibile la cauta riforma introdotta dal Codice di famiglia del 2004 che si mantenne nel quadro normativo islamico, dando però un’interpretazione in senso progressista e innovatore dei testi sacri anche appoggiandosi alla pratica dell’ijtihad, lo sforzo 38 Cfr. R. Aluffi Beck-Peccoz, La modernizzazione del diritto di famiglia nei paesi arabi, Milano, Giuffrè, 1990.
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interpretativo delle fonti normative islamiche condotto dal giurista39. Non tutti i diritti riconosciuti dal nuovo Codice alle donne marocchine risultano di facile applicazione in una società largamente «tradizionale, rurale e legata a valori patriarcali, in cui la stragrande maggioranza delle donne sono analfabete e dipendenti economicamente dai mariti»40. Sintomatico, in questo senso, è il caso della poligamia, considerato fortemente simbolico del ruolo subordinato della donna nella cultura musulmana. Nonostante la sovrabbondante attenzione riservata in Occidente a questo istituto previsto dal Corano, storicamente esso è stato circoscritto soltanto ad alcuni settori delle società islamiche. Il divieto per gli uomini di avere contemporaneamente più di una moglie fu inizialmente introdotto nell’ambito delle più generali politiche di laicizzazione degli stati (come per esempio in Turchia, dove la poligamia fu abolita nel 1926, e in Unione Sovietica, Albania e Cina in seguito all’avvento dei regimi comunisti). Più che i dibattiti teologici sull’interpretazione delle fonti del diritto musulmano, anche in questo caso, però, la progressiva diminuzione delle famiglie poligamiche nei territori islamici nel corso del Novecento è stata portata soprattutto dal mutamento delle condizioni socio-economiche generali e dalla trasformazione della condizione femminile che hanno portato 39 Secondo il Codice del 2004, esiste uguaglianza dei coniugi nel matrimonio, il tutore non è più necessario per le donne maggiorenni, il divorzio è possibile anche su iniziativa della moglie, seppur continui a essere prevista la facoltà di ripudio da parte del marito, sottoposta però a forti limitazioni. La poligamia è vincolata all’approvazione del giudice, mentre la madre può avere, contrariamente al passato, la custodia dei figli in caso di scioglimento del matrimonio, ricevendo una somma per il loro mantenimento; la madre perde però il diritto alla custodia dei figli in caso di nuovo matrimonio. Sono infine riconosciuti i matrimoni di cittadini marocchini contratti all’estero secondo le norme locali (quindi senza la presenza di notai musulmani), introducendo indirettamente un elemento di laicizzazione del diritto di famiglia. Cfr. Ministère de la justice, Guide pratique du code de la famille, Rabat, Association de diffusion de l’information juridique et judiciaire, 2005. Cfr. anche R. Castellaccio, Donne e diritto di famiglia in Marocco. Una riflessione storico-antropologica, Rimini, Il Cerchio, 2012. 40 S. Grandi, Il diritto di famiglia in Marocco, in Il nuovo codice di famiglia del Marocco. Un progetto di formazione e sensibilizzazione, Torino, Cicsene, 2006, p. 60.
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alla diffusione del modello di famiglia mononucleare, simile a quello prevalente nelle società europee41. L’esistenza di traiettorie simili all’interno delle comunità ebraiche è confermata dal fatto che attualmente, sia nella diaspora, sia in Israele, prevalgono modelli famigliari “moderni” che segnalano l’assorbimento all’interno del vissuto dei credenti di mentalità e pratiche secolarizzate e che, comunque, rivelano il continuo e vario tentativo di sintesi tra religiosità tradizionale e assimilazione a stili di vita modernizzati. Non mancano, in particolare nella variegata galassia di gruppi dell’intransigentismo religioso (dalle correnti “ortodosse” alle frange fondamentaliste), posizioni che intendono affermare, a partire dall’organizzazione dei ruoli nella famiglia, il ruolo preminente delle tradizioni religiose, seppur spesso queste appaiano il frutto di una “invenzione” recente42. Più in generale, l’affermarsi del modello di famiglia composta unicamente da genitori e figli, la differenziazione dei ruoli sociali e di genere, la diminuzione delle nascite, il crescente ricorso al divorzio anche su iniziativa delle donne e la crescita delle unioni di fatto e dei matrimoni civili (dove previsti dalle leggi statali) sono, per molti aspetti, i dati rilevabili della presenza di fenomeni crescenti di secolarizzazione, che sono il frutto della mescolanza fra costumi radicati nella cultura locale – anche religiosa – e atteggiamenti diffusisi attraverso la globalizzazione. Le difformità registrabili tra paesi dalle diverse tradizioni confessionali, tra centri urbani e zone rurali, ma anche tra ceti sociali differenti, più che indicare una differente permeabilità dei diversi discorsi religiosi alle innovazioni culturali e sociali, rappresentano gli esiti di adattamenti diversi alla modernizzazione di quelle stesse tradizioni. La stretta analogia esistente tra cambiamenti intervenuti nell’ambito famigliare e trasformazioni del religioso nelle società contemporanee appare ancora più evidente se si considera la parabola percorsa dal rapporto tra credente e religione, da un lato, e tra figli e genitori, dall’altro. Sia le istituzioni del sacro, sia quelle famigliari hanno mostrato una certa capacità di tenuta all’interno delle società moderne, ma a costo di trasformazioni radicali nelle G. Vercellin, Tra veli e turbanti. Rituali sociali e vita privata nei mondi dell’Islam, Venezia, Marsilio, 20022. 42 Cfr. E. Pace e R. Guolo, I fondamentalismi, Roma-Bari, Laterza, 2002. 41
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relazioni tra i soggetti che le compongono, avvenute nell’arco di poche generazioni. Nell’analizzare i cambiamenti intervenuti in epoca contemporanea, in particolare nelle famiglie europee e americane, è stato notato che ormai «si è conclusa l’epoca in cui era vietato ai figli di rivolgere domande ai genitori, per aprirsi l’epoca in cui è vietato ai genitori di non rispondere alle più imbarazzanti domande dei figli. Accade sempre più spesso che i genitori siano invitati a giustificarsi davanti ai figli. La trasformazione non è di poco conto e richiederà ancora tempo per essere assorbita»43. Tendenze analoghe si sono manifestate nel rapporto degli individui con le istituzioni mediatrici del sacro. Nella chiesa cattolica, in particolare con le aperture prospettate dal Concilio vaticano II all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, alla considerazione di una comunità cristiana gerarchicamente ordinata si è giustapposta l’immagine del “popolo di Dio”, in cui i legami devono essere improntati alla comunione e il criterio ispiratore dell’azione degli ecclesiastici come dei laici credenti deve essere quello del servizio reciproco44. La diffusione di queste tendenze rispondeva a cambiamenti intervenuti nel cattolicesimo negli anni precedenti e, allo stesso tempo, hanno alimentato le successive trasformazioni delle strutture ecclesiastiche, come anche i movimenti di contestazione e di riforma del cattolicesimo. La richiesta di maggiore partecipazione ai meccanismi decisionali, l’intervento dei laici nella gestione della vita delle comunità parrocchiali e delle diocesi, le discussioni sul ruolo della donna nella chiesa e sul sacerdozio femminile sono segnali del mutamento sollecitato alle forme dell’organizzazione ecclesiastica e, più in profondità, ai modi in cui è definita l’autorità. Una simile evoluzione ha toccato sia l’elaborazione del magistero, sia l’organizzazione delle istituzioni ecclesiastiche e ha creato non pochi contrasti con le correnti che sostengono una visione fortemente gerarchica della chiesa. Si tratta di tensioni rilevabili nelle diverse tradizioni religiose, dove, per esempio, i dibattiti provocati dalla possibilità 43 P. Melograni, Introduzione, in Id. (a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. xviii. Cfr. più in generale E. Becchi, Il nostro secolo, in E. Becchi e D. Julia (a cura di), Storia dell’infanzia, vol. ii, Dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1996. 44 Cfr. G. Turbanti, Un concilio per il mondo moderno. La redazione della costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II, Bologna, il Mulino, 2000.
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di accesso delle donne a ruoli di guida nelle comunità religiose hanno provocato costantemente forti lacerazioni interne�45. La novità inscritta in una simile situazione è debitrice dei processi di cambiamento delle società contemporanee e ha portato vantaggi – ma anche svantaggi – ai padri come ai figli, alle gerarchie preposte a organizzare il sacro come ai fedeli. Sono caduti modelli di riferimento certi che avevano ispirato per secoli i comportamenti di uomini e donne nei loro rapporti con la dimensione famigliare e con quella religiosa. Le regole del passato non appaiono più costringenti e, allo stesso tempo, i nuovi modelli proposti non sono così convincenti da essere accolti senza esitazioni. Considerando le trasformazioni della famiglia in età contemporanea, è possibile osservare che, un tempo, «l’accettazione dell’autorità paterna consentiva ai figli di non sprecare energie poiché, di fronte alle occasioni della vita, essi non si ponevano troppe domande e tendevano a reagire come avrebbero reagito i genitori. Oggi, la sempre più avvertibile assenza di un padre interiorizzato costringe i figli a impegnarsi in continue e defatiganti scelte. Per esercitare la libertà, bisogna disporsi ogni giorno a pagarne il prezzo»�46. Anche nella sfera religiosa, il declino di un “padre interiorizzato” lascia spazio per il credente al faticoso esercizio della libertà. Quanto questo cammino di consapevolezza individuale e di trasformazione delle comunità sia impervio, quando non apertamente rifiutato da parte dei fedeli che si rifugiano in una più rassicurante deferenza all’autorità o che aspirano a un ribaltamento radicale degli assetti sociali e politici, è mostrato dai tentativi di negare l’inevitabilità di tale processo da parte di gruppi tradizionalisti e movimenti fondamentalisti. Anche in questo caso, il rimpianto per un passato immaginato carico di potere e di prestigio per i padri, per le autorità e per la legge divina è destinato a scontrarsi con una realtà che, a livello individuale e collettivo, è uscita radicalmente trasformata dalla modernità�47.
45 Cfr. M. Introvigne e J.G. Melton, L’ebraismo moderno, Leumann, Elledici, 2004, pp. 59-78; Rosignoli, Le nuove tendenze dell’Islam contemporaneo cit., pp. 165-167. 46 Melograni, Introduzione cit., p. xviii. 47 Per le complesse origini e trasformazioni del radicalismo religioso, cfr.
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2.3. Le religioni a scuola La scuola rappresenta uno dei luoghi in cui, con più determinazione e virulenza, si è manifestato il conflitto tra istituzioni ecclesiastiche e stati moderni. Il controllo dell’educazione delle giovani generazioni ha costituito, infatti, un obiettivo primario nelle strategie delle autorità religiose e delle autorità civili che hanno agito all’interno dei processi di secolarizzazione. Governare l’istruzione è stato (ed è) considerato lo strumento privilegiato non soltanto per costruire il bagaglio di conoscenze degli studenti, ma anche per trasmettere ai giovani, fuori dell’ambiente famigliare, valori, simboli e, soprattutto, identità. Il sapere è l’esito di percorsi complessi, in quanto è «il frutto di attività in cui persone e collettività ricostruiscono e ridefiniscono il proprio peculiare rapporto con la realtà, accettando o rifiutando valori, modi di essere e di pensare»48. L’istruzione, a iniziare da quella impartita nelle scuole, è legata a specifiche condizioni economiche e sociali ed è spesso influenzata dall’appartenenza di classe o dal sesso, ma anche dalle diversità etniche, linguistiche e demografiche. Proprio per lo stretto legame tra educazione e identità, oggi come nel passato il controllo dei contenuti degli insegnamenti scolastici e, più in generale, dei processi formativi è stato al centro del confronto e, spesso, dello scontro tra autorità, intenzionate a trasmettere agli individui e alle comunità una precisa idea di società. In epoca contemporanea, i fenomeni di integrazione economica e culturale a livello planetario hanno ulteriormente complicato le tensioni intorno ai processi educativi che appaiono sollecitati a rispondere a nuove questioni (per esempio, quelle sollevate dalle acquisizioni scientifiche) che pongono spesso in discussione le norme desunte dai testi sacri e dalle tradizioni. Per lungo tempo monopolio pressoché esclusivo delle istituS. Allievi, D. Bidussa e P. Naso, Il libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi, Torino, Claudiana, 2000; R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, Roma-Bari, Laterza 2002; Guolo e Pace, I fondamentalismi cit.; K. Kienzler, Fondamentalismi religiosi. Cristianesimo, ebraismo, islam, Roma, Carocci, 2003; M. Introvigne, Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa, Casale Monferrato, Marietti, 2004. 48 S. Meghnagi, Tra riproduzione e produzione culturale. L’educazione presso gli ebrei, in Le religioni e il mondo moderno, vol. II, L’ebraismo cit., p. 196.
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zioni religiose, l’alfabetizzazione di base e l’istruzione letteraria, filosofica e scientifica si sono spesso sovrapposte all’insegnamento teologico, in una confusione di piani funzionale alla conservazione e alla trasmissione di un preciso universo di significati. All’interno di una concezione della cultura definita dagli imperativi della fede, l’istruzione è considerata un fatto religioso e rimanda continuamente a una visione sacrale del mondo. Anche quando non si tratta di insegnamento religioso in senso stretto, vale a dire di spiegazione dei testi sacri, delle pratiche di culto e dei principi morali, la chiave religiosa è spesso usata per interpretare le diverse materie, tanto che non sempre è percepita l’esigenza di distinguere tra saperi differenti. D’altro canto, in una simile situazione, il corpo docente è costituito in gran parte da personale formatosi in istituzioni religiose e investito del compito di comunicare nozioni, di impartire un insegnamento morale e di educare a certi comportamenti che non contrastino con i principi religiosi. Nell’età moderna, nei paesi di tradizione cattolica, i primi rudimenti della lettura e della scrittura erano solitamente impartiti sui testi di catechismo, mentre nelle nazioni protestanti la Bibbia era il libro su cui i ragazzi imparavano a leggere. Nel mondo islamico, l’arabo classico si apprende a partire dal Corano e la scuola coranica, oltre a permettere la conoscenza del testo sacro necessaria a una corretta pratica religiosa, immerge i bambini nella lingua del testo sacro che non è quella usata tra le mura domestiche. Lo studio del Talmud nelle comunità ebraiche ha avvicinato nei secoli passati – e ancora oggi – gli studenti alla comprensione della lingua del sacro e, allo stesso tempo, alla conoscenza della storia di Israele, elementi che rafforzano il senso di appartenenza al “popolo eletto”. Durante la loro formazione, gli stati moderni hanno cercato di condurre sotto la propria giurisdizione il settore scolastico, scontrandosi con le resistenze delle istituzioni religiose che ne rivendicavano la competenza. Quanto fosse cruciale questo campo è dimostrato dal fatto che gli argomenti portati a sostegno delle proprie ragioni dalle due parti superavano il tema circoscritto dell’istruzione dei giovani, per mettere in questione la complessiva visione della società. I differenti sistemi scolastici presenti attualmente in Europa sono l’esito di percorsi debitori di vicende storiche, spesso secolari, e di cambiamenti più recenti, a dimostrazione della varietà di situazioni prodotte nelle 71
singole realtà locale sia dai processi di secolarizzazione, sia dai fenomeni di globalizzazione49. Sistemi legislativi ispirati a principi di laicità (e quindi non soltanto quelli dove è più netta la separazione tra lo stato e le istituzioni religiose, come in Francia) non escludono che le scuole confessionali, come altri istituti di formazione privati, siano sostenute economicamente dai bilanci pubblici. Vi sono paesi in cui la scuola privata confessionale è finanziata ampiamente dallo stato, per esempio, in Irlanda, Belgio e Olanda. Nei Paesi Bassi, per superare le controversie sul finanziamento dell’istruzione, dal 1917 è in vigore un sistema di segmentazione verticale (la cosiddetta “pilarizzazione”), in base al quale le scuole dipendenti dalle confessioni religiose ricevono contributi dallo stato. Inizialmente destinata agli istituti protestanti e cattolici, questa norma è stata in seguito estesa ad altri gruppi religiosi e filosofici e più recentemente alle scuole islamiche che, seppur poco numerose (si tratta dell’1 per cento circa dei centri scolastici olandesi, con una trentina di istituti elementari e due scuole medie, attive dai primi anni Duemila), hanno un valore simbolico rilevante. Vi sono altri stati (come la Grecia) che hanno mantenuto una netta separazione tra i due ambiti, lasciando alla scelta e all’onere della famiglia la possibilità di iscrivere i propri figli a una scuola confessionale50. La questione, in ogni caso, non appare definitivamente chiusa, neanche in Europa, e, periodicamente, si ripresentano polemiche e rivendicazioni non tanto circa la legittimità dell’esistenza di istituti di istruzione gestiti da enti religiosi, essendo la libertà 49 Per la presentazione dei casi nazionali e per alcune considerazioni complessive sui rapporti tra religioni e scuola in Europa, cfr. J.-P. Willaime, Europe et religions. Les enjeux du xxi siècle, Paris, Fayard, 2004; E. Genre e F. Pajer, L’Unione Europea e la sfida delle religioni. Verso una nuova presenza della religione nella scuola, Claudiana, Torino 2005. In una prospettiva storico-sociologica, cfr. La religione degli europei. Fede, cultura religiosa e modernità in Francia, Italia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e Ungheria, a cura di D. Hervieu-Léger, F. Garelli, S. Giner, S. Sarasa, J.A. Beckford, K.-F. Daiber e M. Tomka, Torino, Fondazione Agnelli, 1992; Identités religieuses en Europe, Paris, La Découverte, 1996. 50 Nel paese ellenico, esiste l’eccezione delle scuole coraniche nella Tracia finanziate dallo stato, sulla base di prerogative sancite con il Trattato di Losanna, firmato dopo la guerra greco-turca del 1919-1922 che si concluse con lo scambio di popolazione tra i due stati.
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di insegnamento uno dei principi caratteristici degli stati moderni liberali, quanto intorno al dovere dello stato di sostenere economicamente tali iniziative. Il rapporto tra diffusione della scolarizzazione di massa e intervento delle istituzioni religiose in campo educativo non ha seguito un percorso lineare. In effetti, anche nell’area europea l’istruzione primaria, benché formalmente obbligatoria in alcune nazioni già dall’Ottocento, ha interessato la totalità della popolazione con tempi lenti e diseguali. All’inizio del Novecento, circa un terzo della popolazione giovanile italiana non sapeva né leggere, né scrivere (nonostante una legge del 1877 avesse reso obbligatoria l’istruzione elementare per i bambini dai sei ai nove anni). Negli stessi anni, in Belgio, poco più del 10 per cento dei giovani si trovava in questa condizione contro una situazione della Germania e della Francia in cui la quasi totalità dei ragazzi aveva raggiunto un’istruzione di base. Lo sforzo per giungere alla scolarizzazione di massa ha continuato a impegnare gran parte degli stati contemporanei che sono ricorsi alla collaborazione delle istituzioni educative religiose sulla base sia delle risorse pubbliche disponibili, sia dei più generali orientamenti di politica ecclesiastica dei singoli governi. Di fronte alle carenze delle strutture pubbliche, ma anche alla volontà di settori delle classi politiche di mantenere l’influsso delle istituzioni del sacro nel campo educativo, le strutture religiose hanno giocato e continuano a giocare un ruolo determinante nel supplire alle mancanze dello stato, garantendo, in alcuni casi, ad ampie fasce della popolazione l’accesso alle basi dell’istruzione. La scuola appare uno dei campi su cui, in epoca moderna, si sono spostati i conflitti religiosi e dove la volontà di egemonia e di compromesso delle parti sono continuamente messe in discussione. Da parte dello stato, il controllo della scuola significa possedere gli strumenti per guidare la formazione dei cittadini secondo linee proprie e per trasmettere valori ritenuti prioritari nella definizione dell’identità nazionale. Per questo motivo, alcune considerazioni possono essere formulate non soltanto attraverso il confronto dei programmi scolastici stabiliti dai diversi governi nazionali, ma anche dall’analisi dei testi adottati per l’insegnamento delle varie materie e dei controlli e dei vincoli posti all’istruzione privata. Dal punto di vista delle istituzioni religiose, l’espansione della scuola pubblica pone il 73
problema del calo della propria influenza nella formazione dei giovani e delle classi dirigenti e, in modo più generale, della diminuzione della propria capacità di direzione della società. Di fronte ai processi di laicizzazione che hanno interessato la scuola, in particolare la chiesa cattolica ha reagito non soltanto rivendicando la propria funzione educativa e battendosi per il mantenimento della propria presenza nel sistema formativo delle diverse nazioni, con istituti almeno parzialmente finanziati dallo stato, ma anche predisponendo strumenti in grado di fronteggiare quella che è considerata la prevalenza di correnti di pensiero “laiciste” presenti nella scuola pubblica: associazioni di insegnanti, gruppi di studenti, case editrici, riviste, corsi di aggiornamento e convegni costituiscono la fitta rete di iniziative attraverso le quali il cattolicesimo ha cercato di inserire la propria influenza all’interno degli istituti di insegnamento pubblico. Tale movimento ha avuto come conseguenza, da un lato, la possibilità per la chiesa di rappresentare interessi diffusi in settori della società e, dall’altro, la necessità dei fedeli di uscire da un atteggiamento puramente difensivo e di considerare le potenzialità offerte dall’universo scolastico, con un’indubbia ricaduta sulla complessiva elaborazione del magistero cattolico in materia di educazione. Osservando le vicende europee del Novecento, si può inoltre considerare il ruolo svolto da uomini politici e da forze di governo di ispirazione cristiana (sia cattolici, sia protestanti) nel favorire il passaggio da una strategia incentrata sulla tutela degli interessi ecclesiastici a un’azione più articolata, il cui obiettivo era, all’interno del sostegno alla scolarizzazione di massa, la salvaguardia dei valori religiosi che si ritenevano fondanti le rispettive identità nazionali51. In questa ottica, è possibile considerare, per esempio, le scelte di politica scolastica della classe dirigente cattolica italiana nell’immediato secondo dopoguerra che, nonostante la volontà e le richieste ecclesiastiche, aveva individuato nei bassi livelli di alfabetizzazione uno dei limiti maggiori a un adeguato sviluppo sociale ed economico del paese. Cfr. L. Pazzaglia, Movimento cattolico e questione scolastica, in F. Traniello e G. Campanini (dir.), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, vol. I, tomo II, Torino, Marietti, 1981, pp. 72-84; A. Gaudio, La politica scolastica dei cattolici. Dai programmi all’azione di governo 1943-1953, Brescia, La Scuola, 1991. 51
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Il confronto tra istituzioni pubbliche e istituzioni religiose non si esaurisce soltanto nella definizione dello statuto della scuola privata confessionale all’interno del sistema scolastico statale, ma investe la possibilità e le forme dell’insegnamento della religione negli istituti di istruzione pubblica. In Europa, di fronte all’espansione del controllo statale della scuola, le chiese cristiane (con più recenti interventi da parte di rappresentanti di altre confessioni) hanno costantemente rivendicato la necessità di inserire all’interno dei vari cicli di studio una qualche forma di istruzione religiosa, richieste accolte in modi differenti nelle varie epoche e nazioni. Attualmente, l’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche segue modelli fortemente diversificati, tanto che il quadro europeo si caratterizza per una complessa varietà di interventi, esistendo una vasta gamma di soluzioni che si inscrivono tra i due casi estremi della realtà greca e di quella danese52. Nella penisola ellenica, nonostante sia garantita formalmente la libertà religiosa, nelle scuole pubbliche è stato reso obbligatorio l’insegnamento della religione ortodossa. All’opposto vi è la situazione della Danimarca (per molti versi simile a quella britannica) dove, nonostante che la chiesa evangelica luterana sia la chiesa nazionale e goda di vantaggi particolari da parte dello stato, la scuola pubblica offre un insegnamento di cultura religiosa non confessionale: esso si propone essenzialmente come un corso di storia delle religioni, i cui programmi scaturiscono dall’accordo tra il Ministero dell’educazione nazionale e l’associazione degli insegnanti, sotto il controllo del Parlamento, e senza l’intervento delle comunità religiose. È evidente come, in un caso, il forte legame tra identità greca e tradizione ortodossa e, nel caso danese, la presenza di una realtà sociale profondamente secolarizzata abbiano prodotto, per quanto riguarda l’insegnamento religioso pubblico, esiti molto diversi. Per questo motivo, per analizzare le realtà presenti nei vari paesi è necessario considerare non soltanto l’inquadramento giuridico adottato, ma pure i processi storici che hanno condotto a tali soluzioni. Nei paesi di tradizione cristiana, attualmente l’istruzione religiosa impartita nelle scuole pubbliche è prevista, di volta in 52 Cfr. F. Pajer (a cura di), Europa, scuola, religioni. Monoteismi e confessioni cristiane per una nuova cittadinanza europea, Torino, Sei, 2005.
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volta, come disciplina ordinaria, opzionale, facoltativa o parascolare, di stampo catechetico, confessionale o aconfessionale, originata da decisioni di tipo costituzionale, concordatario, parlamentare o assunte in ambito locale, affidata a personale laico o religioso formatosi in istituzioni ora pubbliche, ora private. A fianco del caso greco, che prevede un insegnamento confessionale obbligatorio dal quale possono essere esonerati soltanto gli studenti non ortodossi, ve ne sono altri (oltre alla Danimarca, vi sono Svezia, Austria e Finlandia) in cui i corsi di religione, pur essendo obbligatori, non sono confessionali. In Germania, Lussemburgo e Gran Bretagna l’insegnamento è obbligatorio, ma vi è la possibilità per gli studenti di essere esonerati. In altre nazioni, gli istituti scolastici sono tenuti a proporre lezioni di religione la cui frequenza per gli studenti è però facoltativa (come in Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Irlanda e Italia). In Belgio, lo stato si mantiene in una posizione di neutralità e garantisce nelle scuole pubbliche l’insegnamento religioso di tutti i culti riconosciuti. La Francia appare un caso tutto particolare (simile a quello statunitense), in quanto la netta separazione tra stato e confessioni religiose ha prodotto la soppressione di qualsiasi corso di istruzione religiosa nelle scuole pubbliche53. L’intreccio tra eredità del passato, vincoli giuridici, ethos collettivo, pressioni ecclesiastiche e rivendicazioni della laicità dello stato è evidente nell’evoluzione subita in Italia dall’insegnamento scolastico della religione cattolica54. Successivi provvedimenti seguiti all’unificazione italiana, sostenuti dalla classe politica ispirata alle correnti culturali anticlericali, tesero alla progressiva cancellazione dell’influenza della religione cattolica dalle istituzioni e dai programmi scolastici. L’attenuazione dei toni della polemica anticlericale all’inizio del Novecento e, poi, l’avvento al potere del governo fascista favorirono un’inversione di tendenza, con l’insegnamento obbligatorio della dottrina cattolica, considerato coronamento dell’intero percorso Berger, Davie e Fokas, America religiosa, Europa laica? cit., pp. 115-124. Cfr. A. Gaudio, Scuole cattoliche e formazione di base, in A. Melloni (dir.), Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato. 1861-2011, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, pp. 755-766. 53 54
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educativo. Tale ultima normativa rimase sostanzialmente in vigore anche con l’approvazione della Costituzione repubblicana e, dopo l’accordo di revisione del Concordato firmato nel 1984 tra governo italiano e Santa Sede, si giunse, l’anno successivo, a un’intesa tra Ministero della pubblica istruzione e Conferenza episcopale italiana per riesaminare le modalità dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole non universitarie di ogni ordine e grado, con la possibilità per gli studenti di avvalersi o meno di tale insegnamento. Se la scelta operata inizialmente dalla grande maggioranza delle famiglie e degli studenti italiani a favore dell’ora di religione fu letta come il diffuso riferimento alla tradizione cattolica presente nel paese, la continua diminuzione degli studenti che si sono avvalsi di tale insegnamento nel passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori sembra confermare la tendenza al distacco crescente dalle forme tradizionali dell’appartenenza religiosa, in particolare delle giovani generazioni. Per quanto riguarda lo statuto degli insegnanti di religione in Italia, essi sono dipendenti pubblici la cui formazione è affidata alla chiesa cattolica e la cui nomina (come l’eventuale revoca dell’incarico) avviene da parte dell’autorità scolastica d’intesa con quella ecclesiastica (vale a dire il vescovo locale). Il mantenimento dell’insegnamento confessionale nelle scuole pubbliche e il “doppio binario” al quale sono soggetti gli insegnanti di religione ripropongono l’annosa questione dell’effettiva autonomia della scuola e, più in generale, delle istituzioni pubbliche dalla sfera religiosa. Se, da un lato, in alcuni casi, sono sottolineati i limiti propri di un insegnamento religioso confessionale impartito negli istituti pubblici, da parte di molti osservatori di formazione sia laica, sia religiosa, si ritiene necessario prevedere nel curriculum scolastico di ogni studente una solida conoscenza della dimensione storica e culturale (e quindi anche degli aspetti religiosi) dell’ambiente in cui vive. Anche in Francia, dove la difesa della laicità dello stato si è tradizionalmente accompagnata all’esclusione dalle scuole pubbliche di qualsiasi insegnamento religioso, esponenti della cultura laica hanno espresso la necessità di istituire un corso di storia delle religioni rispettoso delle diverse realtà confessionali per sopperire alla mancanza di conoscenze degli studenti in questo ambito e questo proprio per fondare un 77
«nuovo patto laico» in grado di permettere una convivenza pacifica tra culture differenti55. Si tratta di soluzioni simili a quelle che sono state proposte nei paesi dell’Europa centro-orientale dopo la caduta dei regimi comunisti e l’affermazione sul piano legislativo della libertà di religione e di coscienza. Dopo i rivolgimenti avvenuti tra il 1989 e il 1991, i sistemi educativi di queste nazioni hanno definito forme di istruzione religiosa nelle scuole pubbliche anche molto differenti tra loro, sia per i diversi rapporti instauratisi tra autorità statali e autorità religiose (in particolare, con le chiese ortodosse e con la chiesa cattolica), sia per le varie – e a volte discordanti – posizioni espresse dalle numerose forze politiche e culturali. In questi paesi, le confessioni religiose hanno affrontato non senza difficoltà la nuova situazione di pluralismo: in alcuni casi, sono state portate a rivendicare una presenza identitaria all’interno del sistema dell’istruzione, come anche in altri spazi pubblici, esigendo dalle autorità politiche di definire l’introduzione dell’insegnamento confessionale nelle scuole. Pur partendo da situazioni istituzionali e legislative molto simili (fortemente debitrici del modello sovietico), in queste nazioni le decisioni su tale controverso problema sono state anche molto diverse tra loro. Vi sono casi in cui non sono previste forme di insegnamento religioso nelle scuole pubbliche (in Russia, ma anche in alcuni paesi balcanici, come Albania, Macedonia, Serbia e Slovenia). In altri stati, le comunità religiose sono autorizzate a tenere corsi confessionali facoltativi (Bulgaria, Croazia, Polonia, Slovacchia, Ungheria), mentre in altri ancora sono offerti agli studenti anche insegnamenti religiosi non confessionali (come in Estonia e in Lituania). In Lettonia e nella Repubblica Ceca, invece, vi è un sistema di “opzionalità obbligatoria”, dove gli studenti e le studentesse possono scegliere tra un insegnamento confessionale e un corso di etica o di storia delle religioni. Le differenti soluzioni attuate
55 Cfr. J. Baubérot, Vers un nouveau pacte laïque?, Paris, Seuil, 1990, pp. 155-168. Più in generale, cfr. L’insegnamento della storia delle religioni in Europa tra scuola e università, numero monografico di «Studi e materiali di storia delle religioni», 2009, n. 2; M.C. Giorda, La materia invisibile. Storia delle religioni a scuola. Una proposta, Bologna, Emi, 2011.
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riflettono la diversità di rapporti di forza esistenti nei diversi paesi tra autorità statali e autorità religiose, ma anche l’emergere di “laicità contrastate” che rendono impossibile individuare un modello unico di uscita dal “socialismo reale” anche per quanto riguarda i rapporti tra istruzione pubblica e insegnamento della religione. Vi è però un dato che pare accomunare gran parte delle popolazioni dell’Europa orientale: decenni di sistematici processi di secolarizzazione condotti dai regimi comunisti, da un lato, e più generali fenomeni di modernizzazione tipici delle società industriali, dall’altro, hanno avuto come esito una diffusa situazione di agnosticismo che non è stata totalmente ribaltata dal cambiamento portato dalla nuova condizione di libertà che, nell’era postsovietica, è stata garantita, seppur in modi differenti, alle confessioni religiose56. Simili per molti aspetti ai modelli europei, i sistemi scolastici dei paesi a maggioranza musulmana si distinguono attualmente per alcune particolarità dovute, più che alle tradizioni islamiche, alle specifiche vicende storiche e politiche dell’ultimo secolo57. La cultura e le istituzioni scolastiche musulmane, caratterizzate dalla centralità delle discipline religiose58, subirono un radicale sconvolgimento a partire dal xix secolo, in seguito all’espansione coloniale europea. Alcuni tentativi di riforma interna dei sistemi dell’istruzione dei paesi islamici furono avviati nella seconda metà dell’Ottocento, fortemente influenzati dai modelli europei. La riforma del sistema scolastico nell’impero ottomano fu sancita dalla Costituzione del 1876 che prevedeva la distinzione tra istruzione religiosa, affidata agli ulama (gli esperti di diritto e di teologia) senza alcuna interferenza delle autorità dello stato, e istruzione pubblica di matrice secolarizzata, gestita dal governo: la scuola pubblica era libera, gratuita e laica, risentendo nella 56 Cfr., per esempio, A. Soubigou, Les laïcités contrastées en République tchèque et en Slovaquie, in A. Dierkens e J.-P. Schreiber (a cura di), Laïcité et sécularisation dans l’Union européenne cit., pp. 119-135. Più in generale, cfr. A. Nesti, P. De Marco e A. Jacopozzi (a cura di), Religioni e crisi sociale. Oriente e occidente d’Europa a confronto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998; A. Rizzi, Europa. La formazione della coscienza moderna, Padova, Messaggero, 2004. 57 Cfr. De Poli, I musulmani nel terzo millennio cit., pp. 157-171. 58 Cfr. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., pp. 241-244.
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sua impostazione dal modello francese, in particolare per le scuole secondarie. Un ulteriore elemento di differenziazione fu portato dalla crescente presenza di scuole gestite dai missionari cristiani, favorita dalle amministrazioni coloniali allo scopo di diffondere, oltre al cristianesimo, anche la lingua e la cultura della madre patria. Le politiche scolastiche nei territori coloniali, nonostante le varianti legate ai modelli scolastici delle potenze europee, rimasero sotto lo stretto controllo degli occupanti che indebolirono le istituzioni educative locali e discriminarono nell’accesso all’istruzione tra coloni e popolazione autoctona. Oltre alla volontà dei governi coloniali di mantenere in una situazione di inferiorità culturale le popolazioni native, emersero forti timori tra i gruppi di potere (locali ed europei) di veder diffondersi in quei territori idee sovversive, di ispirazione democratica, socialista o liberale. Nonostante queste circostanze, la necessità di formare tecnici e burocrati in grado di gestire le moderne istituzioni economiche, tecniche e amministrative favorì la diffusione di quelle “scienze della ragione” che, basandosi sul metodo scientifico, relativizzavano di fatto la visione religiosa del mondo. Anche se alcune forme di insegnamento religioso erano presenti nelle scuole pubbliche, esse erano marginali e si limitavano alla conoscenza degli elementi di base dell’islam, mentre la formazione delle figure destinate alle attività strettamente religiose (ulama ed esperti della sharia) era affidata alle madrasa che, però, persero una parte notevole del loro precedente prestigio59. La traccia dell’influenza coloniale è rimasta fortemente incisa nei sistemi scolastici dei paesi di tradizione islamica dopo il raggiungimento dell’indipendenza politica, anche se proprio intorno alla rilevanza delle discipline religiose è possibile percepire le maggiori differenze rispetto al passato. La gamma di soluzioni va dalla situazione della Turchia a quella dell’Arabia Saudita. Dal 1924, in Turchia, con la rivoluzione kemalista (ma una situazione simile si verificò nell’Albania comunista nel secondo dopoguerra), l’istruzione pubblica fu totalmente laicizzata all’interno del progetto complessivo di deislamizzare la nazione; furono soppresse le madrasa e abolito qualsiasi 59
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Cfr. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., p. 121.
insegnamento religioso nelle scuole statali. In seguito alle forti pressioni popolari, dagli anni Cinquanta furono introdotti alcuni corsi di cultura islamica nelle scuole pubbliche e poi furono avviate alcune scuole superiori di istruzione religiosa e la Facoltà teologica di Ankara, in modo simile a quelle presenti in Europa e nei paesi arabi. In Arabia Saudita, il conservatorismo dell’élite wahhabita ha impedito pressoché qualsiasi tipo di riforma scolastica, mantenendo la centralità delle materie religiose in tutti i percorsi scolastici e sottoponendo al controllo delle autorità islamiche i programmi e le istituzioni dell’istruzione pubblica. Negli altri paesi di tradizione musulmana, pur esistendo una certa varietà di soluzioni adottate in materia d’istruzione religiosa, essa si limita attualmente alla sola presenza dell’insegnamento della dottrina islamica. L’insegnamento religioso impartito nelle scuole secondarie è basato sulla memorizzazione del pensiero di autori classici e raramente fa appello al metodo storico-critico nella considerazione dei fatti religiosi. Soltanto gli specialisti che studiano la religione e la filosofia a livello universitario hanno la possibilità di accedere a discussioni sui temi teologici. Proprio la crisi che sta attraversando l’educazione nei paesi islamici conferma l’entità del contrasto non risolto tra modernità e tradizione musulmana. Mentre la scuola coranica tende a scomparire, soprattutto nei centri urbani più estesi, relegata nelle aree rurali e marginali dei paesi islamici, nelle scuole pubbliche non esiste continuità tra i contenuti insegnati durante i corsi di discipline “moderne” (essenzialmente le scienze) e quelli impartiti nelle materie letterarie e religiose. Le nuove generazioni di genitori, in particolare quelle appartenenti alle masse cittadine e alle élites occidentalizzate, impartiscono sovente ai figli un’educazione che vorrebbe tenere insieme gli elementi della cultura islamica e certi aspetti del sapere moderno, ottenendo un risultato ibrido che è stato accolto spesso con difficoltà dai ragazzi proprio perché non ha risolto al suo interno le tensioni tra due concezioni del mondo che sono percepite spesso come inconciliabili. Due elementi paiono però caratterizzare l’attuale rapporto tra istruzione e islam. Da una parte, il discorso religioso diffuso attraverso il sistema scolastico dei paesi musulmani serve alle autorità politiche per legittimare il proprio potere di fronte alla nazione, più che a valorizzare le tradizioni spirituali e culturali islamiche. In questo contesto, «l’Islam si dimostra per i governi 81
un linguaggio veicolare imprescindibile dell’ideologia nazionalista», tanto che «nei sistemi scolastici odierni l’educazione non è più al servizio della religione ma dello stato nazionale, ed è parimenti al servizio dello stato anche l’insegnamento religioso»60. Dall’altra parte, anche se spesso piegato per finalità politiche, l’insegnamento religioso musulmano, richiesto da gran parte della popolazione, non produce necessariamente un orientamento islamista radicale ed estremista più di quanto si verifichi in seguito a una formazione di tipo secolare, come dimostrano le biografie di molti jihadisti, spesso cresciuti in Occidente. Anzi, l’ignoranza religiosa, quando non una vera e propria azione di mistificazione delle fonti e della storia dell’islam, è un carattere ricorrente nei discorsi del radicalismo islamista che, anche se osservato nel suo rapporto con l’istruzione religiosa, conferma la sua matrice molto più politica e secolare che culturale o religiosa in senso stretto61. Le difficoltà di integrare “scienze della religione” e “scienze della ragione” sono accentuate nel momento in cui i giovani di origine islamica immigrati entrano nelle scuole dei paesi occidentali62. Oltre a dover fare i conti con una lingua diversa da quella famigliare, gli studenti immigrati sono immersi in un insieme di insegnamenti che fa continuamente riferimento a una visione del mondo – scientifica, razionale, utilitaristica – cui essi spesso si sentono estranei. Allo stesso tempo, il proprio universo culturale è generalmente messo ai margini dall’insegnamento corrente, apparendo di fatto svalutato di fronte alla pervasività del modello occidentale. L’Occidente è interpretato come portatore di una cultura forte in cui hanno un posto di rilievo la libertà, il culto della giovinezza, la tensione verso il futuro, l’individualismo, i testi scritti e le immagini, in una parola, la modernità, cui si contrappone la cultura originaria (anche religiosa) caratterizzata dall’importanza accordata agli obblighi, alla vecchiaia, al passato, alla solidarietà famigliare, alla comunica-
De Poli, I musulmani nel terzo millennio cit., pp. 168-169. Cfr. L. Ozzano, Fondamentalismo e democrazia. La destra religiosa alla conquista della sfera pubblica in India, Israele e Turchia, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 57-59. 62 Cfr. Ramadan, L’Islam in Occidente cit., in particolare pp. 170-183. 60 61
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zione orale e alla tradizione. La soluzione adottata dai ragazzi e dalle ragazze, spesso, è di evitare lo scontro diretto tra i due mondi di appartenenza considerati in gran parte contrastanti, ma ugualmente vitali. Genitori e insegnanti si incontrano raramente e gli studenti filtrano le informazioni provenienti dall’una e dall’altra sponda, trasmettendo un’immagine il più possibile rispondente alle aspettative delle parti, attenti a non urtare le singole sensibilità. A scuola portati ad apprendere all’interno di una visione secolare della realtà, a casa sollecitati a schierarsi a fianco della cultura d’origine, i giovani immigrati sommano sovente alle difficoltà proprie dell’apprendimento scolastico in un paese straniero la continua tensione tra due modelli educativi e, alla fine, culturali con i quali devono comunque convivere. Il crescente numero di studenti di confessioni diverse presenti nelle scuole europee pone il problema dell’insegnamento religioso rivolto loro. La possibilità di esonero dall’ora di religione, ove prevista, non risolve il problema delle alternative percorribili, in particolare di fronte all’eventuale richiesta di poter assistere a corsi di religione diversi da quelli eventualmente offerti dalle scuole. La mancanza di accordi specifici, dovuta anche alla difficoltà per alcune confessioni religiose – in particolare per le comunità islamiche – di riconoscere un organismo unico che ne assuma la rappresentanza di fronte allo stato, spesso non ha permesso l’inserimento dell’insegnamento di religioni diverse da quelle tradizionalmente presenti nelle scuole pubbliche. Si tratta di una questione che potenzialmente è in grado di riaprire antiche polemiche e innescare nuovi dibattiti, anche alla luce delle trasformazioni demografiche e culturali provocate dai fenomeni migratori. Non si tratta soltanto di definire quali “insegnamenti religiosi” di tipo confessionale possano essere impartiti nelle scuole pubbliche, ma anche quale ruolo si intenda dare all’“insegnamento delle religioni” all’interno dei percorsi scolastici di tutti gli studenti. In particolare, le strutture ministeriali dovranno stabilire quali saranno i programmi da seguire, a chi spetterà la nomina degli insegnanti di religione, quale sarà la preparazione richiesta a questi nuovi docenti e chi impartirà loro tale formazione. Le esperienze in corso nei diversi paesi europei dove da più tempo vi è una presenza multiconfessionale possono essere di notevole aiuto per definire le rotte lungo cui orientare l’insegnamento della religione, ma è anche possibile 83
che la pluralità delle fedi porterà a riconsiderare nelle differenti realtà nazionali le soluzioni sino ad ora adottate per garantire l’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche�63. In epoca contemporanea, nonostante che la scuola abbia rappresentato uno dei luoghi in cui i processi di laicizzazione si sono manifestati con maggiore chiarezza, gli stati hanno spesso scelto di inserire nel corredo didattico degli studenti una qualche forma di insegnamento religioso in quanto considerato rilevante nella formazione dei valori fondamentali del cittadino. In effetti, la diffusione dell’istruzione pubblica non implica, per sé, una diminuita influenza delle confessioni religiose nella formazione delle giovani generazioni e, in genere, nelle società, come sostenuto per esempio da una certa apologetica cattolica ottocentesca, ma indubbiamente inserisce elementi che portano a considerare la religione come una materia come le altre, soggetta a discussione e a interpretazioni diverse a seconda dei punti di vista. Paradossalmente, la religione confessionale esce indebolita dalla presenza del suo insegnameno nel contesto scolastico. Le aspettative di cui è stato spesso caricato l’insegnamento della religione, sovente fortemente richiesto dalle istituzioni religiose, non hanno certamente contribuito a una serena considerazione delle sue finalità, delle sue possibilità e dei suoi limiti. Ripensare l’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche fuori da intenti polemici può forse aiutare le diverse anime culturali presenti nelle società moderne a trovare una soluzione all’esigenza di conoscenza della dimensione del sacro, considerata da più parti essenziale alla formazione degli individui e alla coesistenza sociale.
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Cfr. Genre e Pajer, L’Unione Europea e la sfida delle religioni cit., p. 7.
3. La politica delle religioni
3.1. La laicità dello stato Il filo tenace che unisce religione e politica ha attraversato l’intera vicenda delle società umane e in epoca contemporanea non ha cessato di tessere una tela che, con crescenti differenze, continua ad avvolgere lo spazio globale. È evidente come ad accomunare epoche e territori tra loro anche molto distanti vi sia l’influenza reciprocamente giocata tra potere religioso e potere politico. La potestà spirituale e la potestà civile si sono ora confuse, ora spalleggiate, ora fronteggiate, ora combattute apertamente, ma non si sono mai ignorate, contendendosi gli spazi del controllo dei comportamenti privati, della vita pubblica e anche della coscienza degli uomini e delle donne. L’autorità di Dio è stata richiamata per fondare l’autorità degli uomini, ora in nome di esigenze spirituali, ora di urgenze terrene. Nel corso della storia, si è assistito all’«inevitabile coinvolgimento di Dio nella politica (con tutta l’ambiguità immanente al suo rapporto col mondo)» e se ne può constatare «tanto la potenza mobilitante, liberatoria, quanto la trasformazione in auctoritas stabilizzante, e anche in insegna di guerra o di rivoluzione»1. Anche la costruzione di uno spazio pubblico fondato sulla sovranità del popolo, non legittimato quindi direttamente attraverso il richiamo al potere di Dio, spesso si è manifestata come una lotta contro l’autorità religiosa o attraverso l’elaborazione di un pensiero politico che
1 C. Galli, In nome di Dio, in C. Galli e P. Stefani, Non nominare il nome di Dio invano, Bologna, il Mulino, 2011, p. 98.
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è apparso per molti versi una teologia politica secolarizzata2. Ancora più complesso appare il discorso se si considerano le forme assunte in epoca moderna dalla “religione della politica” (sia nella variante della “religione civile”, sia della “religione politica”), attraverso cui partiti politici e apparati statali hanno costruito e rafforzato il proprio potere. Pur sorgendo entrambe con la nascita della democrazia moderna di massa e promuovendo una vera e propria “sacralizzazione della politica”, la religione civile (rispettosa delle libertà individuali e garante della convivenza di ideologie diverse, come accaduto negli Stati Uniti) e la religione politica (fondata sull’intollerante monopolio del potere e sulla subordinazione forzata degli individui e delle collettività, come nel regime nazionalsocialista tedesco) si sono sviluppate lungo strade divergenti. Ad accomunare le differenti versioni della religione della politica vi era, però, il fatto che si proponessero tutte come «concezioni globali dell’esistenza umana, assumendo aspetti vari di religioni laiche, che volevano sostituire le religioni tradizionali con una nuova religione dell’umanità»3. Proprio la molteplicità di esperienze storiche non permette di attribuire ai nessi tra religione e politica un senso univoco, anche perché non sempre appaiono chiari i ruoli degli attori che si sono contesi la scena, oggi come nel passato. La distinzione tra potere religioso e potere politico, infatti, è il prodotto di un processo storico che è giunto a definire, in particolare dal xvi secolo in avanti nell’Europa occidentale, il principio di laicità delle istituzioni politiche, con un tratto di discontinuità rispetto al passato e al percorso intrapreso in altre regioni del pianeta. È possibile rintracciare le origini del concetto di laicità dello stato, presente in forma embrionale già nella polis greca, seguendo le riflessioni che la patristica dei primi secoli cristiani e la teologia medievale (in particolare, con Guglielmo da Occam e Marsilio da Padova) elaborarono per precisare le fonti di legittimazione e le competenze dei poteri, religioso da una parte e temporale dall’altra. Dall’xi secolo, si consolidò progressivamente una
2 Cfr. Bolgiani, Ferrone e Margiotta Broglio (a cura di), Chiesa cattolica e modernità cit. 3 E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. xv.
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teologia politica in ambito cristiano che tendeva a definire il dualismo tra autorità spirituale e autorità temporale, risalendo alle parole di Gesù riportate nel Vangelo di Matteo: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (22,21). Secondo il giurista Ernst-Wolfgang Böckenförde, il principio di secolarizzazione che ha portato alla separazione tra religione e politica ha origine nella «Lotta delle Investiture (1057-1122), quel confronto politico-spirituale condotto con la massima decisione da parte sia del papato sia dell’impero, per l’assetto da dare alla cristianità occidentale»4. Il dualismo cristiano, reso possibile dallo sviluppo di questa riflessione all’interno della tradizione dell’Occidente greco-latino, ha impedito l’identificazione tra teologica e politica e, ancor prima, tra istituzioni religiose e istituzioni secolari. Tale distinzione, al tempo stesso speculativa e giuridico-istituzionale, e il concreto affermarsi di particolari condizioni sociali e politiche sono state le premesse del sorgere innanzi tutto in Occidente dei processi di laicizzazione. Le “guerre di religione” che dilaniarono l’Europa tra il xvi e il xvii secolo opponendo cattolici e protestanti furono conflitti provocati dalla necessità di ridefinire non soltanto gli spazi di influenza e di diffusione delle diverse confessioni cristiane, ma anche le sfere di competenza delle autorità secolari e religiose. La necessità di far cessare le sanguinose contrapposizioni portò, in parte oltre le intenzioni dei protagonisti, alla formazione di stati dalla struttura unicamente mondana e politica. L’editto di Nantes, con cui nel 1598 Enrico IV garantì l’esistenza degli ugonotti nel Regno di Francia e sancì che si poteva essere cittadini con i pieni diritti pur non appartenendo alla “vera religione” (vale a dire quella cattolica), stabiliva pure di fatto – se non di diritto – che la religione non era più una componente indispensabile per fondare l’ordinamento politico. Diversa fu la parabola seguita dall’Oriente cristiano, dove è prevalsa una relazione tra autorità politiche e religiose basata sulla consonanza (la cosiddetta “sinfonia” ortodossa): si tratta di un’impronta così profonda che, non soltanto ha condizionato 4 E.W. Böckenförde, La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione, in Id., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 35.
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le vicende politico-religiose dei territori dove si sono radicate le chiese ortodosse (vale a dire le confessioni cristiane che si fondano sui pronunciamenti teologici dei primi sette concili ecumenici, da quello di Nicea I del 325 a quello di Nicea II del 787), ma ha lasciato il segno anche nelle forme in cui i processi di secolarizzazione si sono manifestati in tali società. Nell’impero bizantino, prima, e nella monarchia russa, poi, come in seguito nelle altre nazioni dell’Europa orientale, l’accordo tra la chiesa e il potere politico si è fondato sul presupposto che le due autorità non fossero altro che due ordini attraverso cui si esprimeva l’unico potere sacro indiviso: la sovranità di Dio era considerata unica e, quindi, imperatore e patriarca, posti al vertice dell’ordine religioso e dell’ordine politico, erano insieme gestori del sacro e dovevano reciprocamente sostenersi per salvaguardare l’unità della fede, segno e sostanza dell’unità religiosa e politica. La capacità di tenuta e la diffusione di questo modello simbiotico di relazione tra politica e religione, anche dopo la caduta dell’Impero cristiano di Costantinopoli nel 1453 per opera degli ottomani, confermano la forza derivante dalla reciproca legittimazione delle due istituzioni che, proprio perché accomunate dalla difesa della “vera fede” (l’ortodossia, appunto) hanno formato una diarchia a lungo indissolubile. Nonostante le diversità esistenti tra le varie articolazioni delle chiese orientali e i ricorrenti conflitti tra autorità politica e religiosa, la teologia politica dell’ortodossia ha con continuità manifestato la tendenza «alla massima unificazione, fondata sull’unicità dell’impero – fondamento della sua universalità – e, all’interno di esso, all’unità del potere, non distinguibile come avviene invece nella tradizione occidentale, tra sfera civile e religiosa»5. Proprio questa sovrapposizione, sulla quale si basava la legittimazione del potere politico e l’identificazione della chiesa con il destino nazionale dei popoli dove l’ortodossia si era radicata, rese i sistemi politici dell’Europa orientale refrattari ai processi di secolarizzazione sviluppatisi a Occidente e soltanto la frattura rivoluzionaria comunista ruppe, a iniziare dalla Russia del 1917, la secolare diarchia chiesa-impero. 5 G. Filoramo, Il sacro e il potere. Il caso cristiano, Torino, Einaudi, 2009, p. 183.
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Osservata dal punto di vista politico, la secolarizzazione è dunque «l’affermarsi del moderno visto dal lato degli effetti esercitati sulla precedente civiltà di impregnazione religiosa»6. Le tappe di questo percorso hanno portato alla nascita dello stato moderno come forma di ordinamento politico in cui vi è un «potere unitario, sovrano all’esterno, all’interno supremo e più elevato della condizione giuridica tradizionale, potenzialmente onnicomprensivo nella sua competenza, e avente di contro la società politicamente e gerarchicamente livellata dei sudditi (di pari diritti), ovvero dei cittadini dello Stato»7. La secolarizzazione ha significato per le istituzioni politiche sottrarsi al controllo esercitato dal potere ecclesiastico e, specularmente, ha offerto la possibilità alle comunità religiose di svincolarsi dal dominio delle potestà laiche. La tendenza a mantenere il monopolio del sacro da parte delle chiese cristiane (nelle comunità fedeli a Roma, come in quelle nate dalla Riforma protestante) e la loro incapacità di imporre una res publica teocratica ha comportato la desacralizzazione della politica e la depoliticizzazione del sacro, anche contro la volontà di quelle stesse istituzioni ecclesiastiche8. Allo stesso modo, pur essendosi verificati ripetuti tentativi di sottoporre le chiese al potere temporale (ne sono esempi il cesaropapismo, il regalismo, il giurisdizionalismo), nelle società occidentali essi non si sono mai tradotti in durature forme di subordinazione e, tanto meno, di confusione istituzionale tra i due piani. Infatti, «storicamente la Chiesa è stata troppo debole per imporre la ierocrazia in tutto l’Occidente, ma è stata troppo forte per lasciarsi imporre un cesaropapismo monocratico. In ogni caso le relazioni Stato-Chiesa sono state per lungo tempo una sim6 Cfr. L. Lombardi Vallauri, L’orizzonte problematico «Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno», in G. Dilcher e L. Lombardi Vallauri (a cura di), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Milano, Giuffrè, 1981, p. 44. 7 Böckenförde, La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione cit., p. 34. 8 Cfr. P. Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Bologna, il Mulino, 1992; A. Spadaro, Libertà di coscienza e laicità nello Stato costituzionale. Sulle radici “religiose” dello Stato “laico”, Torino, Giappichelli, 2008.
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biosi bipolare, una dualistica concordia discors»9. Il dualismo originario tra sacro e profano ha reso possibile una distinzione che ha contribuito – non da sola e non senza contrasti – allo sviluppo dell’umanesimo e del razionalismo occidentale, che sono stati le premesse alla definizione del concetto di laicità, a sua volta presupposto (necessario, ma non sufficiente) all’affermazione dei diritti umani, della libertà politica, del pluralismo e della democrazia10. Sia le elaborazioni teoriche, sia le concrete realizzazioni della laicità, quindi, non hanno coinvolto soltanto la dimensione dei rapporti tra le istituzioni (vale a dire, tra gli stati e le comunità religiose), ma pure le relazioni tra lo stato e gli individui, dato che a essere implicato è stato anche l’insieme di questioni sollevate dalla distinzione tra diritto e morale e dal difficile equilibrio tra rispetto della legge e libertà di coscienza11. Nonostante che, soprattutto attraverso l’imperialismo coloniale europeo, questa concezione “moderna” dei rapporti politici e le sue istituzioni si siano diffuse in tutti i continenti del globo, in particolare nell’Ottocento e nel Novecento, la persistenza di visioni “tradizionali” dell’organizzazione delle società ha attraversato e superato quello che appariva come l’ineluttabile traguardo cui il progresso avrebbe portato il governo delle collettività umane. Al contrario, l’attuale crescente tendenza alla globalizzazione propone interrogativi circa la capacità della “modernità tradizionale” di regolare i rapporti tra gli stati e le istituzioni religiose sulla base di presupposti ritenuti universalmente applicabili (in modo specifico, quelli sorti nell’Europa De Giorgi, Laicità europea cit., p. 19. Sul rapporto tra cristianesimo e democrazia, cfr. A. Di Giovine, Democrazia e religione: spunti di sintesi, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Problemi pratici della laicità agli inizia del secolo xxi. Atti del xxii Convegno Annuale. Napoli, 26-27 ottobre 2007, Padova, Cedam, 2008, pp. 383-415. Sui fondamenti greci della laicità, M. Giangiulio, Radici greche, in Laicità. Una geografia delle nostre radici, a cura di G. Boniolo, Torino, Einaudi, 2006, pp. 240-257. 11 Rimane ancora di estremo interesse la ricostruzione offerta nel volume, pubblicato per la prima volta nel 1901, di F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Milano, Feltrinelli, 1991. 9
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occidentale) e, alla fine, di garantire attraverso questi una pacifica convivenza nelle società dopo moderne12. Lo stesso concetto di “laicità” non appare del tutto soddisfacente per interpretare i diversi sviluppi storici registrati nei rapporti tra dimensione religiosa e dimensione politica nelle varie aree del pianeta, proprio perché si tratta di una categoria fortemente condizionata dall’originaria storia europea. La cultura laica contemporanea, di stampo occidentale, «contrappone ai dommatismi la libertà di religione e la libertà di critica delle religioni, perché le eresie dell’oggi possono essere le ortodossie del domani; e presuppone pertanto che nessuna certezza sia indiscutibile e che le sole certezze ragionevoli siano quelle che sorgono dalla discussione stessa»�13. Anche in questo caso, si può tentare di superare la difficoltà di definire in modo sintetico processi storici complessi, considerando la laicità come un indicatore utile per comprendere quanto questo prodotto singolare delle vicende dell’Europa abbia condizionato le soluzioni emerse altrove per affrontare le questioni portate dal contatto delle società con la modernizzazione economica, sociale e politica occidentale. Allo stesso modo, le diverse forme assunte dalla laicità negli stati europei� possono essere analizzate per valutare quanto esse siano cambiate, in particolare dalla seconda metà del Novecento, per rispondere alle esigenze create dalla crescente presenza di individui e comunità appartenenti a confessioni religiose non cristiane14. La laicizzazione della politica e la secolarizzazione della società sorsero, dunque, storicamente in Occidente come movimento 12 R. Gritti, La politica del sacro. Laicità, religione, fondamentalismi nel mondo globalizzato, Milano, Guerini, 2004; F. Macioce, Una filosofia della laicità, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 143-170. 13 V. Zanone, Laicismo, in Dizionario di politica cit., p. 513. Cfr. anche F. Traniello, F. Bolgiani e F. Margiotta Broglio (a cura di), Stato e Chiesa in Italia. Le radici di una svolta. Atti del Convegno della Fondazione Michele Pellegrino, Università di Torino, 23 novembre 2007, Bologna, il Mulino, 2009, e gli interventi raccolti in Cultura laica e cultura religiosa: un contrasto insuperabile?, «Teoria politica», 2011, pp. 283-324. 14 Cfr. G. Dalla Torre, Europa. Quale laicità?, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2003. Più in generale, cfr. L. Paoletti (a cura di), L’identità in conflitto dell’Europa. Cristianesimo, laicità, laicismo, Bologna, il Mulino, 2005.
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d’opposizione, o comunque d’autonomia, degli organismi civili della sfera religiosa e, da un punto di vista giuridico-istituzionale, questo processo si realizzò nella separazione dello stato dalle confessioni religiose tradizionalmente presenti nel suo territorio. In questo moto, furono coinvolte le istituzioni pubbliche che, in alcuni casi, si fecero promotrici di tale percorso di uscita dalla tutela ecclesiastica, mentre in altri casi furono interpreti di cambiamenti avvenuti in precedenza in modo sotterraneo, ma non meno dirompente, nella società�15. Nel primo ambito, è possibile collocare la vicenda francese che assume un aspetto emblematico, anche se non generalizzabile in modo immediato considerando altre realtà all’apparenza simili (come nel caso delle politiche anticlericali del Messico rivoluzionario dal 1917 dove nella costruzione dell’identità nazionale giocarono un ruolo determinante i conflitti con la chiesa e con le popolazioni indigene�16); la capacità di propagazione di questi modelli di regolazione delle relazioni tra il sacro e il secolare è mostrato dalle strategie in parte analoghe che furono adottate in Turchia per modernizzare e occidentalizzare il paese tra gli anni Venti e Trenta del Novecento e in Siria e in Iraq dal Partito arabo della Rinascita, il Ba’th, fondato negli anni Quaranta sulla base di ideali nazionalistici e illuministici liberaleggianti, con frequenti – e non sempre coerenti – richiami al socialismo. Alla seconda tipologia si può ricondurre, invece, la situazione statunitense in cui il rapporto tra politica e religione ha assunto caratteri particolari, legati anche alle vicende che portarono, nel corso del Seicento e del Settecento, alla nascita della Confederazione. La Rivoluzione francese del 1789, sulla spinta delle idee illuministiche, diede voce ben presto alle tendenze laicizzatrici presenti in una parte dei suoi sostenitori. La richiesta di separazione tra stato e chiesa, ritenuta qualificante per il nuovo ordine, aveva le sue radici anche in motivazioni anticlericali e irreligiose che, diffuse soprattutto in una parte dei ceti borghesi e in ambienti 15 Cfr. J. Baubérot, P. D’Hollander e M. Estivalezes (dir.), Laïcité et séparation des Eglises et de l’état. Histoire et actualité, Limoges, Pulim, 2006. 16 Cfr. M. De Giuseppe, Messico 1900-1930. Stato, Chiesa e popoli indigeni, Brescia, Morcelliana, 2007. Per i precedenti, cfr. R. Cannelli, Nazione cattolica e Stato laico. Il conflitto politico-religioso in Messico dall’Indipendenza alla rivoluzione (1821-1914), Milano, Guerini, 2002.
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intellettuali, si contrapponevano al pensiero cristiano considerato ormai superato dalle nuove correnti filosofiche e dalle acquisizioni delle scoperte scientifiche. Non si trattava soltanto di sancire l’emancipazione della ragione da ogni forma di dipendenza esterna e quindi di rifiutare l’autorità dei dogmi religiosi e delle chiese tradizionali, ma anche di proporre un nuovo credo laico, una religione secolare, vale a dire «una sorta di vera e propria religione senza clero, senza dogmi e senza riti. Una religione integralmente laica, che esalta[va] valori quali il progresso, la scienza, la difesa dei diritti umani e la rivendicazione dell’autonomia assoluta della ragione»�17. Nella Francia rivoluzionaria del 1789, la volontà di sostituire alle vecchie strutture dell’Ancien régime un nuovo stato fondato sull’uguaglianza, sulla libertà e sulla fraternità dei cittadini ebbe inizialmente l’appoggio anche di una parte delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, in particolare del basso clero; questo consenso si assottigliò nell’arco di pochi mesi quando iniziarono a essere confiscati i beni delle chiese, furono aboliti, insieme ai diritti feudali e ai titoli nobiliari, i voti monastici, fu imposto il giuramento civico agli ecclesiastici e con la costituzione civile del clero fu sancita l’elezione dei vescovi e dei parroci da parte del popolo. Fu proprio il problema religioso a sollevare le maggiori reazioni nel paese: al clero “costituzionale”, che aveva accettato le decisioni dell’assemblea rivoluzionaria, si contrapposero i preti “refrattari” che rifiutarono di prestare il giuramento richiesto dallo stato, forti della condanna papale del marzo 1791 e dell’appoggio di parte della popolazione. La volontà di togliere qualsiasi influenza del cattolicesimo dalla sfera politica portò al tentativo di sostituire il cristianesimo con una religione essenzialmente nazionale, fondata sul culto dell’Ente supremo e che si esprimeva attraverso una gerarchia, una morale e liturgie che intendevano trasformare ideali e simboli cristiani in un compiuto credo laico. Nel 1801, Napoleone Bonaparte pose fine a questa situazione, concludendo con il papa Pio VII un concordato che riconosceva la religione cattolica come la fede della maggioranza dei francesi. Nella chiesa francese fu ristabilita l’autorità pontificia e furono ridisegnati i confini delle diocesi; la designazione dei vescovi fu 17
Religione secolare, voce in Dizionario delle religioni cit., p. 623.
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concessa al capo dello stato, mentre al papa fu riservata la loro consacrazione. Il concordato restò in vigore per un secolo, vale a dire fino al 1905, quando l’Assemblea nazionale francese approvò la legge sulla separazione tra lo stato e le chiese: lo stato tagliava ogni legame formale con le istituzioni religiose e se, da una parte, aboliva ogni sostentamento finanziario alle attività ecclesiastiche, dall’altra, perdeva ogni diritto a intervenire nelle nomine episcopali. Nessuna confessione religiosa era in questo modo privilegiata e, allo stesso tempo, si sanciva la distinzione tra la sfera temporale e la sfera spirituale rispetto alla quale lo stato dichiarava la sua incompetenza�18. Nel mondo islamico, la Turchia attraversò un processo in parte simile. Mustafà Kemal (poi appellato Atatürk, “padre di tutti i turchi”), nominato presidente dell’Assemblea nazionale nel 1920, abolì il sultanato e nel 1924, dopo la sua elezione a presidente della repubblica, soppresse il califfato, il titolo attribuito ai successori di Maometto riconosciuti legittimi. Il potere del califfato era ormai scivolato nel discredito, insieme al decadente prestigio dell’impero ottomano, dimostratosi incapace di governare i suoi vasti territori. Questa decisione aveva non soltanto un valore simbolico-spirituale, ma anche politico, ossia la rinuncia a realizzare l’unità del paese sulla base di motivazioni religiose, vale a dire appellandosi all’unione di tutti i musulmani dell’antico impero ottomano. La laicizzazione dello stato proseguì nel campo scolastico e giudiziario; gli ordini religiosi furono aboliti, fu proibito l’uso di abiti religiosi fuori dei luoghi di culto e imposta la recitazione del Corano in turco e non più in lingua araba. Nel 1928, la separazione tra stato e islam divenne ufficiale con l’eliminazione dalla Costituzione di qualsiasi riferimento alla fede musulmana come religione della nazione turca. Successivamente, il divieto della poligamia, la legge sul divorzio e la concessione del voto alle donne si scontrarono con le tradizioni prevalenti nella società debitrici della cultura musulmana e delle usanze locali. L’azione di Mustafà
18 Cfr. J. Baubérot, Laïcité 1905-2005, entre passion et raison, Paris, Seuil, 2004; J.-P. Chantin e D. Moulinet (dir.), La séparation de 1905. Les hommes et les lieux, Paris, Éd. de l’Atelier, 2005; é. Poulat e M. Gelbard, Scruter la loi de 1905. La République française et la Religion, Paris, Fayard, 2010.
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Kemal per imporre l’occidentalizzazione e la modernizzazione del paese in forza del nazionalismo turco fu possibile anche per la presenza di un regime autoritario che mantenne per oltre vent’anni la Turchia sotto il governo di un partito unico e sollevò le reazioni delle correnti più intransigenti dell’islamismo che rivendicarono la necessità di ristabilire l’unità tra religione e potere politico, in nome della umma, la comunità dei credenti, sulla base delle prescrizioni del Corano, espressione diretta della volontà di Dio�19. Negli Stati Uniti si verificò un processo che seguì una traiettoria radicalmente diversa, anche se gli esiti, dal punto di vista giuridico, potrebbero apparire simili. La Convenzione che elaborò la Costituzione del 1787 recepì le richieste provenienti da diverse confessioni religiose di sancire la separazione tra stato e chiese, proprio per evitare il riprodursi di situazioni di conflitto tra potere spirituale e potere temporale e per allontanare il rischio di persecuzioni religiose che avevano provocato alcuni dei primi consistenti flussi migratori verso il Nordamerica. Un simile impianto giuridico non determinò l’emarginazione delle chiese dalla vita pubblica statunitense, ma, anzi, grazie alla separazione, fu garantito lo sviluppo autonomo delle diverse confessioni religiose che permise loro una notevole possibilità di penetrazione nel tessuto sociale e una rilevante capacità di pressione sulle decisioni politiche20. In entrambi i casi di separazione, indotta o anticipatrice di istanze modernizzatrici, lo stato assunse, seppur in misura diversa, compiti fino ad allora affidati alle istituzioni religiose, da un lato ingrandendo la propria struttura burocratica e il numero dei suoi dipendenti, dall’altro accollandosi l’onere della gestione di tali nuovi servizi. A fianco dei settori tradizionalmente di competenza dello stato, quali la giustizia, l’ordine pubblico e l’esercito, si aggiunsero progressivamente la tenuta dei registri anagrafici, la celebrazione dei matrimoni e la gestione dei cimiteri, l’istruzione, la tutela della salute dei cittadini e delle categorie sociali più deboli (orfani, invalidi, minori). La concorrenza, più o meno acuta Cfr. T. Zarcone, La Turquie moderne et l’Islam, Paris, Flammarion, 2004. Cfr. Gentile, Le religioni della politica cit., pp. 31-44. Più in generale, cfr. R. Bellah, La religione civile in America, Brescia, Morcelliana, 2007. 19
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secondo le epoche e le circostanze, con le istituzioni ecclesiastiche rimase una costante tra le più evidenti delle società modernizzate: la rottura del monopolio ecclesiastico in alcuni settori della vita sociale ebbe una ricaduta politica immediata, vale a dire la possibilità da parte dello stato di controllare la vita dell’individuo e dei movimenti collettivi, estendendo in questo modo la sua possibilità di influenza e di direzione dell’intera società. Come affermato da Arturo Carlo Jemolo, la società laica, e con essa il principio della laicità dello stato, appare «solamente quando si riconosce l’uguaglianza dei diritti agli uomini di ogni confessione, e anche a quelli che non accettano nessuna religione»21. Si tratta di un processo di differenziazione che storicamente appare non lineare. Non è possibile seguire i suoi diversi sviluppi, infatti, se non considerando come sono cambiate nel tempo le concezioni della società civile e dello stato sostenute dalle autorità politiche e dalle autorità religiose nei singoli contesti, ma anche se non si precisa come si sono definiti i rispettivi ruoli e le reciproche relazioni. Per quanto diversi siano stati gli esiti, è possibile osservare come le discussioni intorno ai principi di laicità abbiano registrato maggiore fermento quando più intensi sono stati i conflitti tra autorità politica e autorità religiosa (per esempio, nella Francia del 1905 oppure di fronte alla costituzione messicana del 1917 dalla forte impronta anticlericale o con l’avvento dei regimi totalitari europei): in quelle circostanze, non soltanto furono messi in discussione equilibri, in alcuni casi secolari, ma ai diversi interlocutori era chiaro che in gioco vi fosse la possibilità per l’una o per l’altra parte di controllare beni, funzioni, competenze e potere e, in ultimo, di affermare la propria capacità di guida della società. Almeno sino alla Grande guerra, le autorità religiose cristiane concentrarono la propria attenzione sulle conseguenze portate dalla secolarizzazione “dall’alto”, conservando spesso la convinzione che la maggioranza della popolazione, in particolare i ceti popolari, fosse contraria al movimento di delegittimazione “laicista” della religione. A ben vedere, però, fenomeni di tale portata, seppur guidati da ristretti gruppi dirigenti, furono possibili e si definirono come processi di lunga durata in quanto, 21 A.C. Jemolo, Le problème de la laïcité en Italie, in La laïcité, Paris, Presses Universitaires de France, 1960, p. 462.
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anche negli ambienti ritenuti largamente immuni dagli influssi laicizzatori, si stavano diffondendo comportamenti e mentalità sempre più indifferenti alle prescrizioni religiose. La chiesa cattolica colse queste trasformazioni con molta lentezza e in modo indistinto, puntando l’attenzione soprattutto sul calo della pratica religiosa presso alcune categorie sociali. Nel corso del Settecento e dell’Ottocento, gli intellettuali laici europei, parte della nobiltà e della borghesia apparivano i ceti sociali più coinvolti in questo movimento di distacco dalla frequenza ai riti e dalle prescrizioni morali tradizionali, sollevando, da un lato, la condanna del magistero ecclesiastico e, dall’altro, alcuni tentativi per un loro recupero, per esempio, attraverso la predicazione. Da parte cattolica, questi segnali di distacco furono indistintamente denunciati come mossi da intenti anticlericali e irreligiosi che, seppur presenti soprattutto nei paesi latini, rappresentavano soltanto un aspetto di un fenomeno dai confini più frastagliati22. In realtà, alla maggior parte della gerarchia ecclesiastica sfuggì, almeno sino alla seconda metà del Novecento, quanto incidessero sugli atteggiamenti di distacco dal sacro le trasformazioni che stavano coinvolgendo le classi popolari, in particolare i lavoratori protagonisti dei processi di inurbamento e di industrializzazione. La progressiva crescita di questi ceti, anche in nazioni di più recente e limitato sviluppo industriale, come l’Italia o la Spagna, la parallela diminuzione della presenza ai riti e alle pratiche religiose (in particolare degli uomini adulti) e la diffusione dei movimenti operai, soprattutto di ispirazione anarchica e socialista, con la loro propaganda antireligiosa resero evidente alla chiesa che il fronte contro cui battersi si era allargato. In questo contesto, si sviluppò un insieme di iniziative che, sotto la definizione di movimento sociale cattolico, è stato descritto come la «risposta laicale del cattolicesimo alla laicizzazione liberale dello stato e della società»23. Si trattava Cfr. V. Zanone, Laicismo cit., pp. 511-515; G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Casale Monferrato, Marietti, 1985; Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione cit. 23 Presentazione dell’opera, in F. Traniello e G. Campanini (dir.), Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, vol. I, tomo I, Torino, Marietti, 1981, p. ix. 22
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di un intervento svolto con strumenti in gran parte nuovi non soltanto da parte del clero, ma anche dei fedeli laici cattolici. Questa partecipazione organizzata mutò, in modo inizialmente impercettibile, ma continuo e radicale, l’autoconsapevolezza e il ruolo del laicato cattolico (considerato comunque per molto tempo gregario dell’azione della gerarchia ecclesiastica), tanto da contribuire sia alla riformulazione dell’ecclesiologia (vale a dire della riflessione teologica sulla struttura della chiesa), sia ai cambiamenti delle stesse istituzioni ecclesiastiche. La teologia emersa nel protestantesimo aveva contestato la concezione cattolica dei rapporti tra comunità cristiana e potere temporale, accusandola di affermare una continuità diretta tra Gesù Cristo e la chiesa, filiazione contraria al dettato evangelico e, alla fine, funzionale alla politica di potenza del papato. Lutero aveva opposto alla teoria delle “due spade” quella dei “due regni”: esisteva un regno interiore, dove vigeva la libertà del cristiano, e un regno esteriore, dove prevalevano il mondo e la servitù. In pratica, alla chiesa era affidata la costituzione del “regno del Vangelo” e al principe la costituzione del “regno della legge”, che per i sudditi si traduceva nel dovere di obbedienza ai poteri mondani. Si trattava della teorizzazione su basi religiose della separazione tra istituzioni religiose e organismi politici che, soprattutto in ambito calvinista, ebbe ampia fortuna, oscillando però tra progetti ierocratici, in cui i poteri dell’autorità civile erano assunti dall’autorità religiosa (come nella Ginevra di Calvino), e rivendicazione della libertà politica, sia di stampo moderato, sia radicale24. Di fatto, le chiese riformate, che in Europa erano state elemento essenziale per la nascita di numerosi stati nazionali, non sfuggirono all’identificazione con le strutture religiose e sociali di un dato paese, tanto che il protestantesimo divenne in molti luoghi la religione di stato. A fianco di questa osmosi tra autorità politiche e autorità ecclesiastiche, non mancarono – come nei Paesi Bassi e in Inghilterra nel xvii secolo – movimenti di dissenso verso le istituzioni in nome della libertà di coscienza, dell’uguaglianza sociale e della tolleranza religiosa25. Attingendo alla medesima Cfr. Filoramo, Il sacro e il potere cit., pp. 148-165. Cfr. P. Adamo, La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella Rivoluzione inglese. 1640-1649, Milano, Angeli, 1998. 24 25
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radice teologica, molti esponenti del protestantesimo francese (che rappresentava una minoranza della popolazione di fronte alla maggioritaria presenza dei cattolici) furono alla guida di movimenti che nell’Ottocento e nel Novecento, sostennero con più determinazione la laicità dello stato, influendo in modo decisivo sull’elaborazione della legge di separazione tra stato e chiese del 1905. Tra Ottocento e Novecento, i progressivi cambiamenti intervenuti nelle istituzioni statali contribuirono a mutare radicalmente mentalità e comportamenti religiosi: l’appartenenza a una certa comunità civile non era più mediata dal legame con una definita confessione religiosa e i momenti della nascita, del matrimonio e della morte del cittadino furono sempre più regolati dallo stato che tolse progressivamente rilevanza civile all’ecclesiastica “contabilità delle anime”. Non si trattava soltanto di un semplice trasferimento di competenze, ma della sottrazione alla sfera religiosa di ruoli ritenuti essenziali per la costruzione dell’istituzione statale. Nel corso dell’Ottocento, le chiese cristiane mantennero una notevole capacità di influsso e di controllo sulla realtà sociale, ma poco per volta l’acquisizione da parte dello stato di tale potere (essenziale per la sussistenza di una qualsiasi autorità) introdusse fattori che contribuirono al progressivo allontanamento dalla religione di fasce sempre più ampie della popolazione. Le regole della convivenza civile non erano più necessariamente dettate dalla rispondenza a norme morali di origine religiosa e il mancato rispetto delle leggi statali non poneva fuori della comunità di fede, ma era sanzionata dall’autorità dello stato. Si trattava di processi che lentamente mutavano, in settori sempre più consistenti della popolazione, il modo di considerare la religione, la cui incidenza tese a essere relegata sempre più nella sfera dei comportamenti privati e della coscienza individuale. La laicizzazione dello stato procedeva togliendo spazi all’intervento delle chiese e l’integrazione nell’entità statale dei cittadini-fedeli sembrava avvenire a discapito dei legami con le comunità religiose dei fedeli-cittadini. «L’ostilità era allora un’altra forma di interesse», considera Jean-Marie Mayeur nel suo studio sulle vicende che portarono alla separazione tra lo 99
stato e le chiese in Francia26. La forma accanita assunta, in alcuni casi, dall’opposizione degli stati alle chiese nel corso dell’Ottocento e del Novecento testimonia la rilevanza mantenuta dalla religione nelle vicende dei diversi paesi europei, rilevanza così pervasiva da mettere in discussione non soltanto le possibilità di azione delle istituzioni pubbliche, ma la legittimità stessa dello stato. In modo apparentemente paradossale, però, si tentò di recuperare l’universo simbolico richiamato dalla religione, spogliato dai suoi contenuti teologici, usato dagli stati per rafforzare la propria capacità di presa sulle masse popolari, in particolare nei momenti di emergenza causati da tensioni interne o da conflitti con paesi stranieri. La pluralità di ambiti toccati dalla questione della laicità (dalla teologia al diritto, dalla filosofia alla politica) aiuta a comprendere le ragioni dei forti contrasti incontrati dai tentativi di trasferire tale paradigma dei rapporti tra stati e comunità religiose in contesti diversi da quelli occidentali. La relazione particolare tra potere politico e potere religioso sviluppatasi nella Russia zarista ebbe una violenta cesura con la rivoluzione bolscevica del 1917. Più che alla separazione dello stato dalla chiesa, l’ideologia del marxismo-leninismo sovietico mirava all’annientamento delle istituzioni e della fede dell’ortodossia russa, come anche delle altre confessioni religiose, in vista della costruzione della società comunista�27. La strategia antireligiosa definita dall’ideo logia sovietica subì, in realtà, numerosi aggiustamenti tattici, determinati di volta in volta da esigenze di conservazione o di rafforzamento del potere da parte delle autorità comuniste. Nel perseguire la politica di sradicamento della religione, gli apparati del potere sovietico si mossero lungo due direttrici, spesso convergenti, ma non coincidenti. Vi era un’impostazione ideologica, sostenuta soprattutto dalle strutture di partito, da cui «derivava inevitabilmente un’ostilità irriducibile verso la religione, che motivò e provocò diverse ondate persecutorie nei confronti dei 26 J.M. Mayeur, La séparation des Eglises et de l’état, Paris, Éd. Ouvrières, 1991, p. 8. 27 Cfr. R. Calimani, Passione e tragedia. La storia degli ebrei russi, Milano, Mondadori, 2006; A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Bologna, il Mulino, 2007; A. Roccucci, Stalin e il patriarca. La Chiesa ortodossa e il potere sovietico, Torino, Einaudi, 2011.
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credenti»�28. Un orientamento giuridico-burocratico caratterizzò, invece, gli organismi dello stato sovietico creati per gestire la politica ecclesiastica del regime, attraverso cui si intendeva instaurare una “legalità burocratica” cui dovevano sottostare tutte le istituzioni religiose e che puntava al controllo di tutti gli aspetti della vita delle comunità religiose. Gli esiti del processo rivoluzionario, in ogni caso, possono essere interpretati come una secolarizzazione di elementi religiosi preesistenti: il modello di legittimazione del potere fondato sulla prevalenza di un’unica religione (vale a dire quella ortodossa) adottato per secoli dallo zarismo fu assunto dai bolscevichi, con la differenza che, dalla loro presa del potere, l’unica “fede” ammessa fu il marxismoleninismo e lo stato si identificò non più con una chiesa, ma con un partito unico. All’interno della politica secolarizzatrice dei regimi comunisti, in ogni caso, il rapporto delle istituzioni politiche con le gerarchie ortodosse continuò a giocare un ruolo rilevante, sia in termini di controllo della residuale attività delle comunità religiose, sia per trovare un indispensabile sostegno nei momenti di crisi nazionale (come, per esempio, di fronte all’invasione nazionalsocialista e fascista dei territori russi). E proprio la storica identificazione delle chiese ortodosse (e in particolare di quella russa) con i destini nazionali ha reso possibile, dopo la caduta dei regimi comunisti, in una situazione di laicizzazione delle istituzioni statali e di intensa secolarizzazione dei costumi, il riproporsi dell’ortodossia come fattore rilevante di identità. Nell’Est europeo, dopo il 1989, la nascita di nuove nazionalità dalla forte carica identitaria, anche confessionale, e il richiamo a motivi religiosi per giustificare lo scatenamento di conflitti tra le popolazioni confermano come, nonostante le mutate condizioni, istituzioni religiose e istituzioni politiche appaiano spesso fortemente impegnate a costruire un accordo che rinnova i principi (e i reciproci vantaggi) della tradizionale “sinfonia” ortodossa.
28
Roccucci, Stalin e il patriarca cit., p. xix.
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3.2. Il potere della fede Secondo le considerazioni proposte da Max Weber, la formazione dei sistemi giuridici può essere osservata come un lungo processo di secolarizzazione (con la separazione da altri sistemi normativi, come quelli etici e religiosi) e l’esito di una tendenza alla razionalizzazione che ha portato alla cancellazione dal diritto statale degli originari elementi sacrali29. Una simile ricostruzione teorica, fortemente dipendente dalla prospettiva europea, mostra però molti limiti se applicata alla situazione di altre parti del mondo dove prevalgono tradizioni religiose diverse da quelle cristiane e la secolarizzazione del diritto, pur essendo presente, non ha avuto un rilievo centrale come ha avuto in Occidente. La necessità di «provincializzare l’Europa»30 nella ricostruzione del passato, come evocato dallo storico indiano Dipesh Chakrabarty, è resa evidente dalla tendenza che negli ultimi decenni in modo crescente ha condizionato i modi attraverso cui le leggi sono state prodotte e applicate: la “globalizzazione del diritto”, vale a dire quel fenomeno che tende, all’interno di un sempre più rapido cambiamento delle norme giuridiche degli stati, a una loro crescente uniformità nello spazio mondiale, sta portando al declino dell’egemonia giuridica occidentale e all’aumento degli scambi tra sistemi normativi diversi (una sorta di shopping del diritto), soprattutto sotto la spinta delle esigenze dei mercati transnazionali31. Proprio la necessità di moltiplicare i punti di osservazione dei fenomeni storici per offrire un’interpretazione più articolata del passato sollecita a usare con estrema cautela categorie che rischiano di semplificare la complessità dei rapporti emersi tra secolarizzazione e diritto. È perciò legittimo chiedersi, come fa il giurista Silvio Ferrari, «se sia corretto procedere alla classificazione dei diversi sistemi giuridici a partire dal grado di separazione del diritto dalla religione, dalla politica, dalla tradizione, oppure se
29 Cfr. M. Weber, Economia e società, vol. III, Sociologia del diritto, Milano, Edizioni di Comunità, 1995, pp. 130-153. 30 Cfr. D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Roma, Meltemi, 2004. 31 Cfr. F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, il Mulino, 2005.
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questo approccio (chiaramente influenzato dall’analisi weberiana) non costituisca un’altra proiezione di modelli eurocentrici su realtà che potrebbero essere meglio analizzate a partire da altre chiavi interpretative»32. Il problema della laicità dello stato negli ambienti ebraici e in quelli musulmani si è posto, infatti, in modo differente rispetto alle società di tradizione cristiana, in particolare in Occidente, sia per i diversi fondamenti dati ai rispettivi sistemi giuridici, sia per le varie vicende storiche che ne hanno caratterizzato lo sviluppo. Al centro di tale questione vi è il ruolo della legge religiosa nella definizione degli ordinamenti giuridici che, a contatto con i processi di secolarizzazione, ha subito forti sollecitazioni anche in quelle aree del pianeta dove la laicità della politica è parsa un “prodotto di importazione”, in gran parte legato alle conquiste coloniali europee dei secoli xix e xx. In particolare nei paesi di tradizione islamica, è mancato a lungo il soggetto che in Europa ha rappresentato il promotore della secolarizzazione, vale a dire lo stato nazionale; i principi di laicità portati dalle potenze coloniali sono stati rapidamente giustapposti alle strutture sociali esistenti nei territori di conquista, senza che queste fossero state toccate da quella progressiva e sotterranea trasformazione avvenuta in Occidente nel corso di secoli. Pur essendo emerse nel mondo musulmano prima dell’epoca coloniale alcune circoscritte esperienze di secolarizzazione del diritto, soprattutto per risolvere alcune questioni non contemplate dalle norme religiose, non si sono create le condizioni complessive che permettessero di affrontare dal punto di vista teorico la distinzione tra diritto religioso e diritto secolare. Seppur in maniera diversa, la mancanza di uno stato nazionale ha influito anche sulla definizione dei rapporti tra dimensione politica e dimensione religiosa nella tradizione ebraica. Le diaspore degli ebrei in territori sia dell’Oriente, sia dell’Occidente, hanno impedito storicamente la formazione di riflessioni e istituzioni giuridiche unitarie all’interno delle diverse comunità, nonostante comune fosse il richiamo alla fedeltà ai precetti religiosi e alla legge rivelata da Dio, alla base dell’unità e dell’unicità del popolo di Israele. La stretta connessione tra religione e diritto, proprio 32
Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi cit., p. 56.
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perché costitutiva dell’identità ebraica, è sempre stata considerata indissolubile, limitando la possibilità di elaborazione di una concezione secolarizzata dei sistemi giuridici. Le norme contenute nella Torá, nella Mishná (la trascrizione della legge orale avvenuta dal primo secolo dell’era volgare) e nel Talmud (i commenti alla Legge elaborati nelle assemblee dei saggi in Palestina e Babilonia tra il v e il vi secolo e.v.) sono fonti di produzione normativa con un ampio campo di applicazione che pongono forti condizionamenti all’interpretazione e al cambiamento. Nella storia dell’ebraismo, come nell’islam, raramente è stata teorizzata l’autonomia della dimensione spirituale dalla dimensione secolare nei termini in cui è stata elaborata, seppur in misura relativa, nella tradizione cristiana. La halachá, la legge religiosa ebraica, regola tutte le questioni temporali, allo stesso modo in cui si occupa del rapporto tra i singoli e Dio. Nel pensiero giudaico, il potere politico è posto a fianco del potere religioso che esprime una morale vincolante anche nell’ambito temporale, in quanto, al contrario del cristianesimo, non circoscrive la sua autorità al destino soprannaturale dell’uomo. Una simile concezione è stata favorita, oltre che dalle premesse teologiche dell’ebraismo, dalla mancanza di un’istituzione simile a quella ecclesiastica (in particolare del cattolicesimo), caratterizzata da una forte struttura organizzata e da ministri di culto “ordinati”: come nel mondo musulmano, tale assenza ha facilitato l’identificazione tra comunità religiosa e comunità politica e ha reso problematica la definizione di uno spazio di rapporti regolati da un potere indipendente dall’autorità religiosa33. Per lungo tempo, in particolare dopo la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme nel i secolo e.v., le diverse comunità ebraiche hanno vissuto, spesso discriminate e sottoposte a persecuzioni, in contesti tra loro molto diversi, costruendo un instabile e variegato equilibrio determinato dalle locali e particolari condizioni religiose e politiche. In questa nuova situazione, «a causa del venir meno di un reale centro religioso-nazionale a Gerusalemme, del sorgere dell’esigenza urgente di conservazione dell’unità del popolo e della necessità di difesa nei confronti di un ambiente prevalente ostile, si [ebbe] l’affermazione della coincidenza tra 33
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Cfr. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi cit., pp. 242-243.
la comunità di preghiera e la comunità nazionale, l’identità tra il popolo sacerdote e il popolo esistente nel tempo»34. Nei territori di tradizione cristiana e all’interno del mondo islamico, gli ebrei hanno a lungo salvaguardato una certa autonomia istituzionale che ha permesso loro di praticare la propria religione e di applicare la legislazione giudaica all’interno della comunità. I cambiamenti portati dalle “leggi di emancipazione”, approvate dalla fine del Settecento in Europa, comportarono per gli ebrei, insieme all’acquisizione dei diritti e dei doveri degli altri cittadini, la progressiva perdita del forte vincolo comunitario determinato dall’unità tra diritto e religione, con il conseguente declino del diritto ebraico. Contribuì all’allentamento dei legami identitari anche la tendenza di molti israeliti all’integrazione nei diversi contesti nazionali, tanto che per «un certo numero di ebrei – particolarmente nel ceto borghese e benestante in Germania – i valori universalistici dell’ebraismo non [erano] poi così diversi da quelli di un protestantesimo conciliante e liberale, interpretato attraverso le categorie della filosofia classica tedesca»35. In Occidente, nel corso dell’Ottocento, la secolarizzazione dei sistemi giuridici e la diffusa assimilazione degli ebrei alle società circostanti produssero quindi un allentamento dell’unità che aveva preservato l’identità ebraica nei secoli precedenti; diversa fu la situazione in Africa settentrionale e in Medio Oriente, dove le prerogative tradizionali furono mantenute più a lungo, con la presenza di tribunali ebraici cui era concesso di assumere decisioni vincolanti per l’intera comunità anche in ambito civile e penale. Negli ultimi due secoli, la secolarizzazione dei sistemi giuridici e la diffusione all’interno del mondo ebraico di riflessioni intorno al tema della laicità hanno posto sotto tensione la tradizionale concezione giudaica dell’unità tra religione e diritto. In particolare, negli anni del processo di emancipazione, furono inizialmente gli esponenti dei movimenti dell’haskalh, del chassidismo e della riforma a insistere sul ruolo della libera attività dell’uomo nel campo della religiosità, dando impulso alla riflessione sull’“ebraismo laico”. Le diverse correnti sviluppatesi dalla seconda metà dell’Ottocento all’interno del movimento sionista, che afferma34 35
Kajon, Ebraismo laico cit., p. 10. Introvigne e Melton, L’ebraismo moderno cit., pp. 59-60.
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vano la necessità di un ritorno a Sion, alla Gerusalemme dei padri, mantennero costante il richiamo a ideali etici e religiosi e a un’azione concreta per la realizzazione di quei principi. Nel corso del Novecento, e ancora oggi, pure in alcune frange del giudaismo ortodosso, che intende mantenersi separato dalle mentalità e dai comportamenti derivati dalla società moderna, emersero posizioni che intendevano affermare un’identità ebraica aperta al mondo e partecipe della modernità36. Il problema delle relazioni tra dimensione secolare e dimensione spirituale si è posto in modo rinnovato con la nascita dello Stato di Israele nel 1948. Nella nuova entità statale, fondata sulla spinta dei teorici del sionismo che, dalla fine dell’Ottocento, avevano ipotizzato il ritorno nella Terra di Israele generalmente senza richiamarsi a principi religiosi, fu sancita la separazione della religione dallo stato, ma l’aspirazione alla laicità è rimasta legata allo spirito religioso ebraico, in un equilibrio mobile, a tratti ambivalente, non sempre risolto dagli stessi legislatori. Israele non possiede, infatti, una legge costituzionale, la cui elaborazione si riteneva avrebbe provocato una divisione nella giovane nazione. Dal punto di vista giuridico, la religione non è un fattore di discriminazione tra i cittadini, le istituzioni religiose non godono di alcuno statuto speciale e lo stato non interviene nello svolgimento delle loro attività, a meno che non compiano atti contrari alla legge; allo stesso tempo, non riconosce a esse alcuna funzione politica. Nella realtà, però, l’appartenenza religiosa determina in gran parte la posizione dei cittadini nella scala sociale, l’autorità delle associazioni religiose ebraiche è riconosciuta nell’ambito civile (per esempio, sul terreno giudiziario per le cause relative a matrimoni e divorzi), la scuola statale prevede un insegnamento biblico di tipo confessionale e la vita sociale è segnata dai riti religiosi: il riposo sabbatico, le festività e la circoncisione dei bambini fanno parte del costume di gran parte della popolazione e, di là dalla credenza personale nel Dio di Israele, informano la vita di tutta la nazione. Risulta valido quanto affermato nel 1960 dal filosofo Emmanuel Lévinas, secondo cui «in questo Paese realista e innamorato del visibile, il destino metafisico di 36 Sulle origini e gli sviluppi delle riflessioni sulla laicità in ambito ebraico, cfr. Kajon, Ebraismo laico cit., pp. 19-68.
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Israele continua a contare» e la relazione tra appartenenza a un popolo e a una religione rimane un intreccio non risolto, e per ora non risolvibile37. In ogni caso, è possibile rilevare come, con continuità, l’ebraismo abbia teso a far coincidere la fedeltà al patto di alleanza con Dio al rispetto delle norme giuridiche che governano i vari aspetti della vita degli individui e delle comunità. Questa concezione ha portato storicamente l’ebraismo a insistere maggiormente sull’osservanza della legge religiosa piuttosto che sul comportamento eticamente corretto, come anche ha determinato una maggiore difficoltà a far maturare al suo interno una visione laica dei rapporti tra potere politico e potere religioso di stampo occidentale. Si tratta di un elemento che avvicina sensibilmente la concezione ebraica del rapporto tra diritto e morale a quella islamica, tanto che vi è la possibilità di scorgere un segnale dell’influenza che, su questo punto determinante, ha avuto la tradizione israelitica sul modo di definire il rapporto tra politica e religione nel mondo musulmano38. Le diverse tradizioni emerse storicamente nell’islam hanno considerato la religione una concezione complessiva della realtà che affida alla dimensione del sacro una guida per l’azione degli individui e delle comunità e in cui un ruolo prevalente è affidato alla dimensione del sacro. Il rispetto dei “cinque pilastri” (la professione di fede nell’unicità di Dio, la preghiera rituale, il digiuno nel tempo del ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca e l’elemosina per i poveri) è alla base della vita dei fedeli dell’islam che per questo motivo può essere considerato più un’ortoprassi che un’ortodossia. L’affermazione del rapporto diretto del credente con Dio ha portato, da una parte, alla pluralità di orientamenti all’interno dell’islam (manifestatasi già immediatamente dopo la morte di Muhammad) e, dall’altra, alla mancanza di una casta sacerdotale. L’intermediario tra Dio e gli uomini, infatti, non è il clero, ma un libro, il Corano, che E. Lévinas, La laïcité dans l’état d’Israël, in La laïcité cit., p. 560. Secondo Ferrari, è «significativo che i termini usati nella lingua ebraica ed araba per designare la legge religiosa – sharia e halachá, che significano strada, cammino – abbiano una valenza etica più diretta del termine preso a prestito dal vocabolario greco (κανών, canone: regola, misura) per designare la legge della Chiesa cattolica»; Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi cit., p. 91. 37 38
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indica le regole non soltanto della fede e del culto, ma anche del comportamento sociale, dell’organizzazione politica, del diritto privato e pubblico. Secondo i sunniti (che attualmente sono circa il 90% dei musulmani), la funzione di guida della comunità è svolta dagli ulama, i quali però esprimono opinioni che non sono vincolanti se non per coloro che si sottomettono alle indicazioni di quella scuola; nell’islam sciita vi è invece una gerarchia di ulama, intermediari tra i fedeli e l’imam, che discende dal Profeta ed è l’unico autorizzato a interpretare le norme religiose39. Forme di differenziazione tra autorità religiose e autorità politiche sono riscontrabili già nelle prime fasi di assestamento dell’islam, come dimostra l’aspra dialettica tra califfi e ulama che produsse una precoce distinzione di funzioni, riscontrabile già dalla fine del vii secolo, con i successori dei primi califfi “ben guidati” della cosiddetta “epoca d’oro” (661-680)�40. Il Corano e la sunna (la tradizione del Profeta tramandata attraverso gli hadith, i racconti profetici, con valore normativo) rappresentano le fonti dell’islam che si presenta come una concezione del mondo in cui il riferimento al sacro ha un ruolo fondamentale e che guida sia la pratica cultuale, sia il retto comportamento. L’islam, che si definì come religione rigorosamente monoteistica, naturale, profetica, del Libro e antidogmatica, si profilò quindi, già dalle origini, dotata di una forte unità tra ortodossia e ortoprassi che aveva un’immediata ricaduta nella sfera sociale: questa tendenza unificante condi-
39 A parte una minoranza che venera un imam vivente, la maggioranza degli sciiti ritiene valida la dottrina dell’imamato, secondo cui la funzione di interprete infallibile della sharia era affidata alla figura sacralizzata dell’imam, discendente del Profeta o investito del potere di guida dall’imam che lo aveva preceduto: la disputa sulla validità della successione (all’origine della scissione tra sunniti e sciiti) da contesa di carattere politico-religioso divenne elemento di divisione anche sul piano teologico. In ogni caso, è da sottolineare che «tutta la dottrina che riguarda questa figura e la sua funzione di interprete infallibile della sharia è stata elaborata quando gli Imam non esistevano più fisicamente e pertanto anche il loro pensiero è stato recuperato in una sunna, aggiuntiva a quella del Profeta»; Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., p. 238. 40 Campanini e Mezran, Arcipelago Islam cit., pp. xix-xx.
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zionò l’evoluzione della religione musulmana e, in particolare, la sua considerazione della vita politica�41. Esiste una compenetrazione tra din (religione) e dawla (stato), tra sacro e profano, tra norme religiose e leggi civili, dimensioni che il pensiero islamico classico tende a non dividere, apparendo su questo punto distante dall’idea di laicità emersa in Occidente, basata invece sulla distinzione tra le due sfere. Secondo le diverse correnti dell’islam, il fine della società politica non è diverso da quello della comunità dei fedeli, proprio perché le due entità si identificano, e le regole di funzionamento della società civile sono presenti nel Corano: i governanti, quindi, non hanno il compito di elaborare una legislazione autonoma, ma di osservare correttamente la legge coranica attraverso la quale si potrà ottenere la giustizia in terra. Dato che l’autorità appartiene soltanto a Dio (e soltanto in questo senso l’islam può essere definito una teocrazia), sia gli ulama, sia i governanti non devono interpretare la legge, ma applicarla. Considerato che, però, né il Corano, né il Profeta hanno dato regole precise per legittimare l’organizzazione del potere nell’islam, la teoria musulmana non privilegia alcuna forma politica: di fatto, con la morte del Profeta è venuto a mancare l’unico “inviato di Dio” in grado di rendere esplicito il volere divino e quindi non può esserci più teocrazia diretta. Per questo motivo, «nell’Islam il “potere legittimo” equivale in definitiva sempre al “potere di fatto”, ossia al “potere” tout court»�42, anche se per essere esercitato deve avere gli attributi previsti dalla sharia. Il potere deve continuamente consolidarsi e legittimarsi, anche per la possibilità di verifica riconosciuta agli ulama: se il potere legislativo risiede nel Corano e nei testi fondanti la tradizione (sunna) e il potere giudiziario spetta a qualsiasi credente moralmente retto, il potere esecutivo – nella sua unitaria dimensione spirituale e civile – è affidato a un intermediario di Dio, al tempo stesso “vicario” (khalifa) di Dio e del suo Profeta e “guida” (imam) della comunità, che l’insieme dei credenti riconosce come tale e cui presta giuramento di obbedienza. Per la cultura musulmana, il modello politico di riferimento rimase costantemente la comunità originaria di Medina guida41 42
Cfr. ibidem, p. ix. Ibidem, p. 331.
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ta dal Profeta, tanto che «l’unità tra politica e religione resta aspirazione ideale e nostalgia per la “comunità impossibile”»�43. La tensione tra l’ideale immaginato e le concrete realizzazioni storiche se, da una parte, non ha impedito a questo modello di mantenere immutata nel tempo la sua forza di mobilitazione nelle società musulmane, dall’altra, ha frenato i tentativi di legittimare il potere su una base che non fosse religiosa e, quindi, di dare piena autonomia alla sfera politica. Infatti, «gravato dal confronto con il Mito delle origini e il peso della Legge religiosa, l’universo musulmano non riesce a produrre quel “disincanto del mondo” che darà vita prima al nascente capitalismo europeo, poi alla lenta ma progressiva affermazione della concezione del popolo come sovrano che sfocerà nella democrazia»�44. Le letture dell’islam come una fede in cui non vi è distinzione tra politica e religione risultano in ogni caso semplificatrici di una realtà molto più variegata, sia che si osservino le trasformazioni avvenute nella storia delle civiltà musulmane, sia che si confrontino le tendenze del mondo musulmano contemporaneo. L’affermazione teorica che nell’islam religione e politica si riflettono reciprocamente si precisò, infatti, soltanto dal xiv secolo, nel contesto della crisi della civiltà musulmana alla ricerca di una base dottrinale in grado di rispondere alle concrete difficoltà di governo delle società. D’altra parte, in particolare nel corso del Novecento, si sono affermate nell’islam correnti di pensiero e movimenti sociali che sostenevano l’integrale identificazione tra il politico e il religioso (come i Fratelli musulmani fondati nel 1928 in Egitto) e posizioni teoriche, assunte da gruppi politicamente attivi, che rivendicavano la necessità di una distinzione tra le due dimensioni, oltre che la fondazione islamica dei diritti umani�45. Non si comprenderebbero, però, il percorso attraverso cui queste diverse posizioni si sono definite e le dinamiche dei 43 R. Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 40. 44 Ibidem. 45 Cfr., per esempio, Charfi, Islam et liberté cit., pp. 99-104; A.A. AnNa’im, Riforma islamica. Diritti umani e libertà nell’Islam contemporaneo, Roma-Bari, Laterza, 2011. Per una sintesi dei temi, cfr. M. Nordio e G. Vercellin (a cura di), Islam e diritti umani: un (falso?) problema, Reggio Emilia, Diabasis, 2005.
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loro conflitti se non considerando i modi in cui, almeno negli ultimi due secoli, le società islamiche sono entrate in contatto con le culture occidentali. Nelle diverse aree dove sono prevalse le tradizioni musulmane, le vicende storiche hanno portato ad applicazioni differenti dei principi della “teoogia politica” islamica che, dal xix secolo hanno subito un’ulteriore e profonda trasformazione sia dall’esperienza della dominazione coloniale, sia dalla diffusione di correnti di pensiero e di movimenti politici di tipo riformista in campo religioso, culturale e politico. In particolare, nella seconda metà dell’Ottocento, nel periodo denominato Tanzimat (parola turca che significa “riforme”), l’impero ottomano cercò risposte alla crisi del modello islamico, tentando di evitare la mera imitazione dell’Occidente: in seguito all’azione riformatrice di intellettuali e alti funzionari, il sultano concesse nel 1876 la Costituzione e l’istituzione di un’assemblea consultiva elettiva che collaborava con il sovrano per amministrare l’impero. Nel corso del Novecento, a fianco di movimenti del “riformismo islamico”, che puntavano a rileggere l’eredità religiosa in senso modernizzante, ne emersero altri, formati da intellettuali e funzionari di formazione laica, sostenitori del secolarismo, del liberalismo e della sovranità popolare, che tendevano ad abbandonare ogni riferimento all’islam in campo politico, come i Giovani turchi che guidarono la nascita della repubblica dopo la prima guerra mondiale. La dissoluzione del califfato a Istanbul nel 1924 rappresentò una cesura fondamentale nella storia dell’islam contemporaneo, discrimine percepito da alcuni come una liberazione e per altri come una deleteria rottura della tradizionale unità musulmana. Anche in questo caso, le interpretazioni della tradizione coranica offrirono giustificazioni sia ai sostenitori della conservazione degli istituti del passato, sia ai fautori della modernizzazione della giovane repubblica che affermavano la necessità della separazione dei poteri e dell’introduzione dei principi di laicità di derivazione europea. A fronte dei musulmani liberali che, anche fuori della penisola anatolica, guardarono all’esempio turco per indicare una strada per la modernizzazione politica, emersero correnti di pensiero (in particolare nelle università di El Azhar al Cairo e di Zitouna a Tunisi, tra le principali sedi dell’elaborazione intellettuale e spirituale dell’islam sunnita) 111
che considerarono la laicizzazione avvenuta in Turchia e la scomparsa del califfato come la distruzione del cardine su cui si basava lo stato islamico da tredici secoli. La sparizione dell’istituzione attraverso cui si riteneva si potessero imporre le norme dell’islam ai fedeli (passibili di morte in caso di apostasia) e, quando possibile, agli infedeli (attraverso il jihad), anche se storicamente questo non si era sempre realizzato, fu un trauma per i teologi che ritenevano la dimensione politica e la dimensione religiosa intimamente legate, tanto da essere indissolubili. La contrarietà ai principi di laicità divenne l’elemento propulsore di movimenti sociali che, non a caso, si formarono negli anni immediatamente successivi alla fine del califfato come reazione alla perdita di un centro unificatore dell’islam. Per quanto mitizzato, il periodo delle origini dell’islam divenne il riferimento dei gruppi fondamentalisti sorti inizialmente nel Nordafrica, tra cui i Fratelli musulmani fondati nel 1928, che ritenevano che la fine del califfato fosse una conseguenza dei tentativi di modernizzazione della società di derivazione occidentale. Non fu estranea a questa reazione sia la violenta imposizione delle politiche laicizzatrici in Turchia, sia, soprattutto, la contrastata presenza delle potenze colonizzatrici europee nella maggior parte dei territori di tradizione islamica. Modernità secolarizzatrice, religione cristiana e sfruttamento coloniale si fusero nel risentimento contro l’Occidente che si accompagnò all’appello al ritorno alla sharia e allo stato islamico, spesso in forme mitizzate e decontestualizzate46. Nonostante le scissioni avvenute negli anni successivi all’interno dei Fratelli musulmani, questi elementi rimasero costanti in molta predicazione religiosa e nella propaganda politica, in particolare dei gruppi fondamentalisti che furono alimentati e, al tempo stesso, alimentarono il ritorno di una parte del mondo musulmano all’islam come risposta politica e religiosa di fronte alla secolarizzazione. Nei paesi che hanno subito più da vicino l’influenza della cultura occidentale, per esempio l’Egitto, il Libano o l’area del Maghreb, si sono confrontati negli anni successivi all’indipendenza generalmente due schieramenti, il primo “laico”, che per ragioni diverse tende alla separazione della sfera politica da 46
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Cfr. Roy, La santa ignoranza cit.
quella religiosa, e il secondo “islamico”, multiforme e variegato, il quale vuole riaffermare i valori messi ai margini dai processi di modernizzazione. Alla fine del Novecento, la costruzione di uno stato “moderno” e la ricerca del consenso di massa nei paesi di tradizione islamica, ha seguito due modelli che Enzo Pace ha sintetizzato nelle immagine dell’“elmetto” e del “turbante”. Nel primo caso, «la secolarizzazione dell’Islam sfocia nell’idea di uno stato guidato da un capo politico-militare»; nel secondo, la possibilità di governare è garantita dall’«ombra del turbante degli ulama (gli esperti della legge coranica) e degli ayatollah (le autorità religiose secondo gli sciiti)»47. Risveglio religioso, affermazione dell’identità culturale collettiva, ritorno alle fonti originarie dell’islam e opposizione politica sono i diversi volti assunti dal fondamentalismo che, nella sua ricerca di un legame tra religione e vita civile, ripropone il dilemma, presente in tutte le società moderne, circa la necessità di stabilire un nesso tra etica e politica. In molta parte del mondo islamico, e non soltanto negli stati di tradizione araba, si è assistito, alla «ritradizionalizzazione per eccesso di modernità»48, vale a dire alla reazione generata dai risultati catastrofici del contatto con l’Occidente coloniale e delle politiche condotte dalle élites “laiche”, “socialiste” e “nazionaliste”. L’islamismo è «l’esito quasi obbligato dell’enorme vuoto lasciato dal duplice crollo delle strutture tradizionali e dei modelli importati dall’Occidente»49, tanto da rendere possibile, a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la diffusione in strati sempre più ampi della popolazione di questa reazione che è al tempo stesso identitaria, antinazionale e contro la modernità occidentale. Anche dopo l’indipendenza nazionale, nei paesi musulmani, la centralizzazione dei sistemi giudiziari, i movimenti di riforma delle categorie giuridiche tradizionali, la razionalizzazione che ha accompagnato la codificazione del diritto e una certa, seppur parziale, secolarizzazione del sistema
47 E. Pace, Islam e occidente, Roma, Edizioni Lavoro, 1995, p. 91. Cfr. anche Id., Il turbante e l’elmetto. La secolarizzazione nell’Islam, «il Mulino», 1991, n. 2, pp. 234-243. 48 Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia? cit., p. 97. 49 Ibidem.
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giuridico statale, con l’allentamento della sua dipendenza dalla sharia (per citare soltanto alcuni aspetti legati all’ambito giuridico) hanno cambiato radicalmente lo sfondo su cui avviene l’“innovazione fondamentalista” e ne condizionano l’azione. Le diverse soluzioni adottate nei paesi dalla maggioritaria presenza islamica, come pure le richieste emerse durante i movimenti di protesta della “primavera araba” innescatisi nel 2011 e le successive reazioni fondamentaliste, confermano come l’esperienza della secolarizzazione politica, sociale e culturale abbia irrimediabilmente mutato il mondo musulmano rispetto al passato. Si tratta, in Oriente come in Occidente, di ridefinire il senso della laicità, i suoi riferimenti e le sue applicazioni, considerando quanto la globalizzazione abbia cambiato e stia trasformando il panorama complessivo. Nell’islam, esiste uno spazio di laicità possibile, sia in termini teorici che pratici: la sharia, infatti, è un orizzonte di riferimento cui si deve ispirare la politica che, però, può mantenere un certo spazio di azione autonomo. L’estensione della sharia e la sua capacità di regolare la società civile, però, rendono ristretto tale spazio e proprio questo limite differenzia «le potenzialità espansive della nozione di laicità nel mondo islamico e in quello occidentale»50. Le tensioni ricorrenti tra diverse visioni islamiche di organizzazione della società si configurano sia come il prodotto di fenomeni storici di integrazione planetaria, sia come una conseguenza dei processi di secolarizzazione che tendono, non tanto a espellere la religione dalla sfera pubblica, ma a ridefinire il suo ruolo nel regolare le forme in cui si strutturano le comunità. È una tendenza che si ritrova anche nelle altre confessioni monoteistiche e accomuna società anche geograficamente molto distanti. Immerse nei fenomeni di secolarizzazione e di globalizzazione, le religioni (e non soltanto l’islam) sono state sottoposte a sollecitazioni che hanno prodotto radicali trasformazioni rispetto al passato, sia per quanto riguarda le forme della religiosità e i modi di espressione collettiva della fede, sia i contenuti stessi del rapporto con il sacro dei singoli individui. Un discorso a parte merita il rapporto tra questione religiosa e questione nazionale attraverso cui è possibile osservare, da una 50
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Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi cit., p. 51.
prospettiva particolare, le relazioni tra fede e politica. Secondo Anthony D. Smith, la «nazione moderna si è trasformata in quella che le comunità etnoreligiose erano nel passato: comunità con una storia e un destino comuni, che conferivano ai mortali un senso di immortalità fornito dal giudizio della posterità, piuttosto che dal giudizio divino dell’aldilà»51. In alcuni casi, il nazionalismo si è sostituito a tradizioni in declino; in altri, invece, si è alleato con religioni a diffusione mondiale, come risulta evidente dalle vicende storiche delle varie confessioni cristiane. Le chiese ortodosse, che hanno tradizionalmente sottolineato il legame con una precisa comunità etnica, nel corso del Novecento (e anche sotto i regimi comunisti), con una certa continuità con il passato hanno perseguito una strategia di accordo sostanziale con l’autorità statale (imposta o ricercata) e di promozione dell’identità nazionale, anche in funzione dell’affermazione dei propri caratteri distintivi rispetto alle altre comunità ortodosse52. Le comunità protestanti, la cui nascita è stata favorita, in alcune circostanze, dall’emergere di rivendicazioni di indipendenza nazionale, hanno manifestato da questo punto di vista una certa analogia con le strategie seguite dalle chiese orientali, anche in funzione di una propria differenziazione dalle tendenze ultramontane dei cattolici, sostenitrici di un’ineliminabile fedeltà a Roma. Anche in ambito cattolico, però, la chiesa ha giocato un ruolo di primo piano nella definizione dell’identità nazionale: a partire soprattutto dall’Ottocento, le vicende del Belgio, della Polonia e dell’Irlanda dimostrano lo stretto legame esistente tra rivendicazioni dell’indipendenza nazionale, sentimenti religiosi della popolazione e sostegno delle gerarchie ecclesiastiche, seppure il caso italiano (dove le vicende risorgimentali sono state condizionate dalla presenza dell’antico Stato della chiesa su cui il pontefice esercitava anche
A.D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, Bologna, il Mulino, 1998, p. 166. 52 Cfr. R. Morozzo della Rocca, Passaggio a Oriente. La modernità e l’Europa ortodossa, Brescia, Morcelliana, 2012. Sul rapporto tra religione e nazione nell’Oriente europeo in epoca sovietica, cfr. D.J. Dunn (a cura di), Religion & Nationalism in Eastern Europe & the Soviet Union, BoulderLondon, Lynne Rienner, 1987. 51
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un’autorità temporale) si configuri come un’eccezione rispetto alle dinamiche svoltesi in altri paesi53. Particolarmente controverso è il rapporto tra la tradizione islamica e la questione della nazionalità, sia per ragioni dottrinali, sia per le vicende storiche che hanno caratterizzato la formazione degli stati nei territori originariamente musulmani. L’affermazione coranica dell’esistenza di un’unica comunità dei credenti musulmani, infatti, non è immediatamente conciliabile con gli elementi fondanti i moderni stati nazionali che, nelle aree ex coloniali, si formarono attraverso un processo di stampo secolare, spesso animato da intenti laicizzatori, e dove un ruolo determinante fu giocato dal nazionalismo pan-arabo. Queste condizioni furono ulteriormente aggravate dal regime prevaricante e autoritario instaurato nelle colonie dalle potenze occidentali che, tra le molte eredità, lasciarono la definizione di frontiere tracciate a tavolino, le cui conseguenze furono infauste quanto durature. Vi fu poi quello che Massimo Campanini definisce «un vero e proprio “tradimento” dell’Europa e dell’Occidente nei confronti dei musulmani»54, vale a dire il mancato rispetto degli accordi pattuiti in vista della definizione dei nuovi stati nazionali in Medio Oriente. Nel Nordafrica e nella Mezzaluna fertile, l’impatto combinato tra imposizione del principio di nazionalità (in gran parte non basato su precedenti storici) e processi di laicizzazione dall’alto provocò la repentina trasformazione degli equilibri di potere e, soprattutto, una crisi identitaria nella popolazione che, in parte notevole, percepiva la legittimità delle istituzioni politiche e sociali come fondata sulla religione islamica. I tentativi di evoluzione in senso liberale della politica nazionale nel mondo arabo, in particolare in Egitto tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento, con l’emergere di partiti animati da intenti riformistici, si scontrarono con il perdurante controllo esercitato dalle potenze coloniali che, insieme al dispotismo delle classi dirigenti locali, contribuì a frenare le possibilità di uno sviluppo autonomo di tali tendenze. Un caso particolare è rappresentato dal Marocco dove la creazione di Cfr. F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2007. 54 Campanini e Mezran, Arcipelago Islam cit., p. 30. 53
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un’identità marocchina fu guidata dal re Mohammed V che riuscì a integrare le diverse componenti etniche presenti nel territorio dello stato nato dopo il riconoscimento franco-spagnolo dell’indipendenza nel 1956. Ancora più forte e, al tempo stesso ambivalente, è il legame tra ebraismo e nazionalità, e non soltanto per quanto riguarda il processo di formazione dello Stato di Israele. Il sionismo ha rappresentato un’aspirazione alla realizzazione di un progetto nazionale (variamente disegnato dalle sue diverse componenti), la rivendicazione della Terra promessa (non necessariamente su basi religiose) e un movimento nazionalista «anti-nazionalista, ovvero fondato su categorie opposte a quelle riconoscibili sia nei nazionalismi classici europei, sia in quelli coloniali»55. L’idea del ritorno alla “terra di Israele” e, in particolare, a Gerusalemme, radicata nei riti e nella spiritualità ebraica, si trasformò in un ideale politico con il sionismo, prodotto culturale dell’illuminismo europeo, che nacque laico e contrario all’intervento della religione nella politica. L’utopia coltivata da una piccola minoranza divenne una realtà nel 1948 per l’azione di un coeso e determinato gruppo di militanti dai tratti rivoluzionari, gli interessi strategici delle potenze europee e l’incertezza del quadro internazionale del secondo dopoguerra, ma anche per la forza evocativa di un mito nazionale che poteva essere interpretato come la ripresa di temi biblici. L’incerta distinzione tra popolo, popolazione e religione, dopo una dispersione di duemila anni, ha accompagnato la realizzazione della “nazione degli ebrei” che trovò numerosi ostacoli al suo compimento56. Si trattava di impedimenti presenti sia all’interno dello stesso ebraismo (a causa della difficoltà di distinguere tra organizzazione secolare e organizzazione religiosa), sia dovuti al governo coloniale europeo (che controllava e sfruttava i territori di Eretz Yisrael), sia, ancora, causati dalla contemporanea crescita del nazionalismo pan-arabo che puntava all’acquisizione dei territori che avevano al loro
D. Bidussa, Le culture del sionismo. Un profilo, in D. Bidussa, E. Collotti Pischel e R. Scardi (a cura di), Identità e storia degli ebrei, Milano, Angeli, 2000, p. 164. 56 Cfr. A. Luzzato, Il posto degli ebrei, Torino, Einaudi, 2003, pp. 54-63, V.D. Segre, Le metamorfosi di Israele, Torino, Utet, 2006, pp. 5-17. 55
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centro Gerusalemme, città santa anche per l’islam�57. Il discorso nazionale per l’ebraismo, però, è ancora più ampio e supera la questione israeliana. L’identità del popolo ebraico è, infatti, legata alla peculiare identificazione tra religione e nazionalità, dato che secondo la legge mosaica la vocazione degli ebrei è di essere «un popolo di sacerdoti e una nazione sacra» (Esodo 19,6). Questa convinzione, all’origine della loro esistenza collettiva, maturata nella storia bimillenaria della diaspora e condizionata dalla fondazione dello Stato di Israele, appare estremamente problematica, in quanto, secondo Abraham B. Yehoshua, «l’appartenenza a una determinata nazione, così come a una determinata famiglia, non è subordinata all’accettazione di una particolare religione, di un determinato sistema di valori, né a nessun’altra condizione preliminare»�58. Si tratta di un paradosso che attraversa l’identità ebraica, in Israele e nei paesi della diaspora, dove in realtà molti ebrei appaiono fortemente assimilati e ritengono che la propria nazionalità sia unica, vale a dire quella del paese in cui vivono: si tratta di tendenze che si delineano nel presente e che «non è dato sapere se annuncino un nuovo corso o se rimarranno episodi isolati nella storia ebraica e israeliana giacché il doppio filo dell’identità nazional-religiosa si va parimenti rafforzando»�59. I processi di nation building confermano quanto le complesse relazioni tra politica e religione abbiano risentito delle contaminazioni avvenute tra sistemi giuridici e culturali diversi. Osservando le differenti traiettorie attraverso cui sono stati definiti e applicati i principi di laicità risulta evidente come questi siano stati condizionati dalle tradizioni religiose in cui si sono originati e si sono innestati, oltre che dalle concrete situazioni sociali e politiche che gli stessi processi di laicizzazione hanno contribuito a modificare. Se è chiara, nonostante le sue numerose varianti nazionali, l’impronta europea e occidentale della laicità, ugualmente innegabili sono le trasformazioni che tali principi hanno subito a contatto di tradizioni religiose diverse da quelle
57 Cfr. C. Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Roma-Bari, Laterza, 2010. 58 A.B. Yehoshua, Antisemitismo e sionismo. Una discussione, Torino, Einaudi, 2004, p. 82. 59 Ibidem, p. 86.
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cristiane, come dimostrano le dinamiche che sono emerse in molti paesi a maggioranza islamica e in Israele. Allo stesso modo, soprattutto dalla seconda metà del Novecento, il modello originario di laicità è stato messo in discussione nelle stesse società occidentali, anche in seguito alla presenza sempre più numerosa di cittadini e di immigrati dalle differenti appartenenze religiose che hanno posto agli stati questioni inedite o in precedenza non considerate. Così il confronto con le diverse forme di secolarizzazione ha spesso suscitato – per contrasto o per imitazione – trasformazioni, in alcuni casi molto profonde, nelle visioni del mondo dei fedeli e nell’organizzazione delle istituzioni pubbliche, pure laddove la separazione della dimensione politica e della dimensione religiosa non è formalmente riconosciuta. Anche osservata dal punto di vista dei processi di laicizzazione, l’attuale epoca globale ha radici profonde, con scambi che hanno implicato la trasformazione sia del religioso, sia del secolare, producendo eredità che continuano a pesare ancora oggi. Le mentalità e i comportamenti collettivi sono stati trasformati dal contatto e dalla mescolanza di tradizioni diverse, ma anche i sistemi giuridici, seppur più rigidi, non sono rimasti indenni da questi incroci. «L’epoca contemporanea, che alcuni qualificano con il termine “meticciato”, ad indicare l’estremo dinamismo tra le culture e le religioni che dà vita a nuove forme di convivenza, è caratterizzata da una contaminazione tra le identità che penetra negli ordinamenti»; proprio per questo «si può affermare che immigrazione e nuove presenze religiose facciano emergere la trama profonda degli ordinamenti giuridici, quanto gli aspetti più originali delle diverse sensibilità sociali»�60. In realtà, la velocità con cui, in tempi più recenti, si sono manifestati gli effetti della globalizzazione ha sottoposto a nuove tensioni il rapporto tra religione e politica già di per sé complesso. Dalla fine del Novecento, proprio la propensione all’integrazione planetaria, se, da una parte, ha favorito la creazione di comunità transnazionali, dove il rapporto con un preciso territorio è sfumato sino a scomparire, dall’altra, ha alimentato la frammen60 A. Pin, Laicità e islam nell’ordinamento italiano. Una questione di metodo, Padova, Cedam, 2010, p. 261. Cfr. anche P. Gomarasca, Meticciato: convivenza o confusione?, Venezia, Marcianum Press, 2009.
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tazione che ha prodotto nuove forme di aggregazione sociale, fondate su una forte identità, e la rinascita dei fondamentalismi religiosi, dei nazionalismi su base etnica e, più in generale, degli antagonismi tra gruppi che intendono affermare la loro preminenza. La riscoperta del particolarismo, avvenuta nel più recente contesto della globalizzazione, si è dunque sviluppata in un quadro di riferimento in cui anche la secolarizzazione risulta cambiata rispetto al passato: più che l’espulsione degli elementi religiosi dall’orizzonte degli individui e delle collettività, la mondializzazione ha prodotto l’attribuzione di nuovi significati al rapporto con il trascendente e nuovi ruoli alle istituzioni del sacro. Anche la relazione tra religioni e secolarizzazioni in un mondo complesso e globalizzato può essere «declinata non soltanto secondo le dimensioni della diversità e della differenza, ma anche secondo la loro inter-relazione, considerando il sorgere di dinamismi di sincretismo e di relativizzazione»�61. Credenze religiose e comportamenti secolarizzati possono allora convivere negli stessi individui senza apparenti contraddizioni, così come è possibile ritrovare nelle società e nelle istituzioni degli stati, pure in quelle largamente laicizzate, una miscela di dipendenza dalle fedi e affermazione dell’autonomia che crea un equilibrio dalle molte contraddizioni e dagli esiti incerti. 3.3. Religioni rivelate e democrazia politica La democrazia costituisce un nucleo problematico del confronto tra religioni e modernità. L’affermazione dei principi democratici, in effetti, si è sovente scontrata con concezioni teologiche che negavano legittimità a tali elaborazioni del pensiero politico e i processi di democratizzazione si sono spesso configurati come occasioni in cui si sono sviluppati movimenti di opposizione o di emancipazione dalle istituzioni religiose. Nell’Europa continentale, in particolare, l’affermazione di sistemi democratici si è accompagnata sovente a fenomeni di secolarizzazione, quasi a rappresentarne il versante politico-istituzionale. È necessario però 61 G. Giordan, Dall’uno al molteplice. Dispositivi di legittimazione nell’epoca del pluralismo, Torino, Libreria Stampatori, 2003, p. 237.
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domandarsi se questo parallelismo sia sempre e ovunque valido o se, anche in questa circostanza, la complessità delle situazioni richieda di utilizzare con cautela categorie interpretative che ricorrono a lineari meccanismi di causa-effetto. Le vicende storiche contemporanee, anche in questo caso, mostrano la varietà e la mobilità delle situazioni se si considerano epoche, aree geografiche, confessioni religiose e sistemi politici diversi. Le trasformazioni del pensiero politico e delle dottrine teologiche, insieme ai mutamenti delle istituzioni politiche e di quelle religiose, possono essere considerate per comprendere i percorsi attraverso i quali è avvenuto il confronto, lo scontro o l’accordo tra religione e democrazia, ma anche per individuarne le reciproche e non marginali influenze. Si tratta di dinamiche che, con la fine della “guerra fredda”, si sono accelerate, dando alla religione un ruolo che sembrava essere stato messo ai margini in quello che è stato definito il “secolo breve”62. La democrazia, che si può definire il «governo popolare, con istituzioni rappresentative, di cittadini uguali, capaci di associarsi e dotati di diritti civili e sociali»63, ha le sue radici remote nella riflessione filosofica e nella prassi delle città della Grecia classica, anche se è possibile individuare il fondamento di alcuni suoi elementi anche nella tradizione monoteistica64. Dal xviii secolo in avanti, i teorici che erano alla ricerca di una forma di governo in grado di contrastare l’assolutismo delle monarchie europee 62 Cfr. H.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995. Sul dibattito intorno ai rapporti tra democrazia e religione, cfr. M. Nicoletti (a cura di), Homo politicus. I dilemmi della democrazia, Padova, Gregoriana, 1998; A. Ferrara (a cura di), Religione e politica nella società post-secolare, Roma, Meltemi, 2009. 63 S. Mastellone, Storia della democrazia in Europa da Montesquieu a Kelsen, Torino, Utet, 1986, p. 410. Più in generale, cfr. G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, il Mulino, 19693, e, con aggiornati riferimenti bibliografici, L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. II, Teoria della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 20092. 64 Secondo Stefano Levi Della Torre, si possono rilevare «alcuni aspetti dell’archeologia religiosa sottesa all’idea secolarizzata di persona e di autorità politica come elementi della democrazia. L’idea di democrazia non ha soltanto la nota origine greca […]; ha anche un’origine teologica, o più precisamente teocratica, e propriamente monoteistica»; S. Levi Della Torre, Laicità, grazie a Dio, Torino, Einaudi, 2012, p. 60.
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proposero alcuni progetti che tendevano a definire la necessità della separazione dei tre poteri (esecutivo, giudiziario, legislativo), a partire dalle intuizioni di Montesquieu, e a determinare il contenuto del contratto sociale che stabiliva l’uguaglianza dei cittadini, sulla scorta del pensiero elaborato da Jean-Jacques Rousseau. Alcune chiese nate dalla Riforma ispirarono molta parte delle riflessioni e delle istituzioni democratiche sorte, in particolare, nelle nazioni anglosassoni e si collocarono su posizioni opposte a quelle sostenute, nel corso dell’Ottocento e ancora nel Novecento, dalla gerarchia cattolica intorno all’organizzazione politica delle società. La religione civile degli Stati Uniti, strumento di integrazione sociale e politica nella nuova democrazia di individui appartenenti a confessioni diverse, trova nelle chiese protestanti una parte notevole delle sue radici, come pure nella consistente presenza di cattolici irlandesi emigrati per sottrarsi alle pesanti discriminazioni inglesi. Le chiese della Riforma protestante si nutrirono e, a loro volta, alimentarono una nuova ascetica religiosa che volendo marcare la differenza con la tradizione cattolica insisteva sulla necessità di realizzare la propria vocazione non fuggendo dal mondo, ma inserendosi nella vita attiva e nelle professioni, nella convinzione che Dio seguisse con benevolenza i passi di coloro che erano stati predestinati alla salvezza. Secondo Max Weber, si trattava di un’ascesi laica che, soprattutto attraverso l’interpretazione offerta dagli ambienti puritani nel corso del xvii secolo, si può collocare tra gli elementi originari dello spirito borghese; nei decenni successivi, l’intreccio tra realtà economica, nuova mentalità, istituzioni pubbliche e valori religiosi apparve saldamente unito e portatore di capacità di innovazione nel campo della riflessione politica, in particolare in materia di democrazia. I valori religiosi si trasformarono progressivamente in principi secolarizzati: il fine dell’uomo non era più la sua salvezza spirituale, ma la realizzazione visibile del successo terreno; il suo scopo non consisteva più nell’essere riconosciuto degno di sedersi nell’assemblea dei credenti, ma nell’essere un cittadino rispettabile. Si realizzava un distacco dalla matrice religiosa dei valori morali, tanto che l’ethos civile divenne sempre più indifferente e autonomo dalla fonte che lo aveva generato. L’apertura del pensiero protestante alla cultura moderna accentuò l’opposizione del magistero cattolico alle teorie politiche 122
democratiche. Dal 1799, anno della pubblicazione dell’opera Sulla religione: discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, del pastore e teologo protestante Friedrich Schleiermacher65, fino alla prima guerra mondiale, nelle chiese della Riforma si sviluppò e predominò la corrente teologica indicata come “protestantesimo liberale” che intendeva accordare i vari aspetti della religione cristiana con la società moderna. Un simile intento passava attraverso non soltanto il rinnovamento liturgico, degli studi biblici e della storia ecclesiastica, ma anche la valorizzazione degli elementi portati dalla cultura moderna: il confronto tra opinioni diverse era fonte di arricchimento intellettuale; la concorrenza, accettata come principio regolatore della realtà economica, era applicabile anche alla vita politica; l’uguaglianza di possibilità teoricamente concessa a tutti i cittadini sanciva il valore positivo della mobilità sociale. Tale larga fiducia nei valori della cultura moderna ebbe però una brusca caduta di fronte agli orrori della Grande guerra e all’affermazione dei regimi totalitari degli anni seguenti. Già in precedenza, alcune voci critiche all’interno del protestantesimo avevano rilevato il distacco esistente tra le istituzioni religiose e gli ambienti operai, distanza ancora più marcata rispetto a ciò che si registrava nella chiesa cattolica per la generale forte identificazione tra comunità riformate e classi borghesi. Le teorie del “socialismo religioso” sostenute da alcuni pensatori, in particolare di lingua tedesca, anche se poco diffuse e considerate con sospetto dalla maggioranza delle chiese protestanti, indicavano nella rivoluzione proletaria il modo concreto di realizzazione del cristianesimo, negando l’identificazione tra ateismo e socialismo. Nella loro opinione, al contrario, l’ateismo era considerato un tratto caratteristico delle classi borghesi e contro esse dovevano rivoltarsi i veri credenti. In questa prospettiva, l’impegno sociale delle comunità cristiane doveva costituire un imperativo in grado di superare la concezione puramente spiritualistica della religione imputata al protestantesimo liberale e di permettere una serrata battaglia contro le ingiustizie sociali. L’atteggiamento di sudditanza dimostrato da autorevoli esponenti delle comunità protestanti tedesche verso il nazionalsocialismo riacutizzò le critiche verso posizioni che nella Deutsche 65
Cfr. l’edizione dell’opera curata da S. Spera, Brescia, Queriniana, 20052.
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Evangelische Kirche, divenuta chiesa dello stato tedesco, giunsero a impedire il culto ai cristiani che non appartenevano alla razza ariana, a richiedere ai pastori un giuramento di fedeltà al Führer, a espellere gli ebrei convertiti e a cancellare gli elementi giudaizzanti presenti nei Vangeli. Per alcuni teologi evangelici, quali lo svizzero Karl Barth, i tedeschi Martin Niemöller e Dietrich Bonhoeffer, il cristianesimo era incompatibile con il nazismo in quanto le radici del regime hitleriano erano essenzialmente antireligiose e totalitarie, dato che considerava lo stato il principio assoluto cui uniformare tutta la vita civile e ogni scelta individuale. I cristiani che costituirono nel 1934 la chiesa confessante (Bekennende Kirche) rivendicarono la propria sottomissione alla sola autorità della Parola di Dio e, pur dichiarandosi appartenenti alla chiesa evangelica tedesca, rifiutarono di riconoscere la legittimità del regime ecclesiastico esistente in Germania. Tale scelta religiosa aveva un’immediata ricaduta politica, in quanto portava alla condanna inappellabile dello stato totalitario nazionalsocialista che, per alcuni, si tradusse in azioni di resistenza al regime, a rischio della propria vita (lo stesso Bonhoeffer fu impiccato in carcere nell’aprile del 1945). La chiesa cattolica espresse a lungo la sua opposizione rispetto alle varie manifestazioni dello spirito democratico, contestando il principio della sovranità popolare quale fondamento dell’autorità dello stato, teoria considerata inaccettabile per la dottrina della chiesa di Roma in quanto negava l’origine divina del potere66. Il Sillabo del 1864 (un elenco di proposizioni estratte da documenti pontifici), pur non avendo valore dogmatico, riflesse chiaramente l’atteggiamento cattolico di radicale opposizione ai principi politici liberali. A inasprire ulteriormente il confronto con gli stati moderni contribuì, poi, la perdita del potere temporale da parte del papato in conseguenza alla presa di Roma per opera dell’esercito italiano, nel 1870. Negli anni successivi, recuperando in parte le riflessioni di Tommaso d’Aquino, i pontefici tesero 66 Cfr. P. Scoppola, La democrazia nel pensiero cattolico del Novecento, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, vol. VI, Torino, Utet, 19792, pp. 109-190; A. Acerbi, Chiesa e democrazia. Da Leone XIII al Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 1991; F. Bolgiani, F. Margiotta Broglio e R. Mazzola (a cura di), Chiese cristiane, pluralismo religioso e democrazia liberale in Europa, Bologna, il Mulino, 2006.
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però a distinguere l’origine del potere (comunque ritenuta di natura divina) dalla designazione al suo esercizio (che poteva essere affidata al popolo attraverso le elezioni) e a mostrare l’indifferenza della chiesa di fronte alle diverse forme di governo, aprendo la strada ai successivi sviluppi della dottrina cattolica sulla democrazia. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la nascita in ambito cattolico dei primi movimenti di democrazia cristiana manifestò la novità, ma anche la problematicità, del trasferimento sul piano dell’azione politica dei principi espressi dalla dottrina sociale. I fautori della prima democrazia cristiana, proprio partendo da considerazioni di carattere religioso e appoggiandosi ad alcune affermazioni dell’insegnamento pontificio, insistettero sulla necessità di considerare la democrazia politica essenziale alla realizzazione della democrazia sociale, escludendo, di fatto, l’idea del ritorno a uno stato confessionale. In Francia e in Italia, però, la tenace opposizione delle tendenze cattoliche conservatrici favorì le posizioni politiche clerico-moderate e portò alla rapida dissoluzione dei gruppi democratico-cristiani, colpiti anche dagli interventi censori vaticani. Di fronte alla diffusione dei movimenti socialisti in Europa, alla nascita dell’Unione Sovietica, alla crisi degli stati liberali e all’avvento del fascismo e del nazionalsocialismo, la chiesa cattolica, pur ribadendo il rifiuto del liberalismo e del comunismo, condannò le tesi nazionaliste del movimento dell’Action française e le teorie razziste propagate dal regime hitleriano. Si trattava di critiche formulate però rivendicando prevalentemente i diritti della chiesa e l’esclusivo primato della sede vaticana a giudicare l’attività politica, non soltanto dei cattolici. A queste posizioni seppur inizialmente in modo contrastato si affiancarono correnti di pensiero ispirate alla filosofia personalista, in particolare attraverso il contributo di Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, che favorirono il lento cambiamento della dottrina sociale cattolica sulla democrazia, ma anche nuove considerazioni teologiche: il riconoscimento del ruolo dei fedeli laici nella comunità cattolica e la definizione di chiesa come popolo di Dio espressi dal Concilio vaticano II (1962-1965) possono, infatti, essere interpretati come la ricaduta in ambito teologico di istanze maturate nella vita politica, in particolare a opera del pensiero democratico. Ciò che il magistero cattolico considerò accettabile per l’organizzazione 125
della società civile, vale a dire il ricorso al metodo democratico per la definizione delle leggi e per la scelta dei governanti, non era in ogni caso ritenuto applicabile alla vita interna della comunità cattolica. Anche in seguito alle vicende politiche che interessarono l’Oriente europeo dal xix secolo, le chiese ortodosse (in particolare quella russa) reagirono alla diffusione delle tendenze democratiche. Nell’Ottocento, di fronte all’emergere di spinte populistiche, con il corollario di atti terroristici rivolti in primo luogo contro il potere zarista, e alla diffusione di correnti di pensiero ispirate, di volta in volta, all’illuminismo, all’anarchismo o al socialismo, i sovrani considerarono sempre più la chiesa come sostegno alla propria autocrazia e come elemento di unificazione delle diverse nazionalità sottomesse alla Grande Russia. Questa politica imperiale si tradusse nell’intensificazione del programma di russificazione, nel quale l’elemento ortodossonazionalistico assumeva un rilievo assoluto e in forza del quale dovevano essere annullate le diversità culturali, anche religiose, presenti nella società. Una simile fusione tra potere autocratico zarista e ortodossia contribuì a determinare, almeno in parte, l’opposizione della gerarchia ecclesiastica a qualsiasi apertura in senso democratico della vita politica e rafforzò le premesse antireligiose dei rivoluzionari che, dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, scatenarono una violenta persecuzione contro la chiesa. Le istituzioni ortodosse, sottoposte come le altre comunità religiose a vessazioni continue da parte del regime comunista, si rifugiarono sempre più nella cura della liturgia, essendo impedite ufficialmente la predicazione e la catechesi verso i fedeli. L’esilio, la carcerazione e l’eliminazione fisica di numerosi esponenti della chiesa ortodossa limitarono fortemente il rinnovamento del pensiero teologico. Di fatto, la dipendenza della chiesa ortodossa dal potere politico, seppur in un quadro istituzionale e ideologico radicalmente mutato, continuò anche durante il regime bolscevico. La strategia della chiesa ortodossa russa, anche dopo la morte di Stalin nel 1953, non fu «una scelta per l’opposizione al regime, ma nemmeno quella per una sottomissione inerte. Essa era ormai consapevole che il sistema sovietico fosse un regime politico destinato a durare, con il quale si dovevano trovare le modalità di una convivenza, ma nel quale si doveva anche tentare di radicare una presenza 126
significativa» 67. Qualsiasi riflessione sulla politica e, ancor più sulla democrazia, già estranea alla cultura religiosa ortodossa, risultò così impedita68. Tra i credenti rifugiatisi all’estero, però, proprio le condizioni di persecuzione presenti in Unione Sovietica stimolarono un’originale riflessione sul senso della libertà nelle società moderne che ebbe un particolare rilievo nella vasta opera di Sergej Bulgakov e, soprattutto, di Nikolaj Berdjaev. L’esilio in Francia dei due intellettuali fu l’occasione di intensi contatti con gli ambienti intellettuali, in particolare cattolici, interessati alla formulazione di una riflessione nuova sui rapporti tra fede e storia, contribuendo in modo determinante alla definizione del pensiero personalista comunitario che, soprattutto tra le due guerre mondiali, pose ripetutamente l’accento sulle potenzialità e sui limiti dei sistemi democratici69. La tradizione di autocrazia radicata nell’area più orientale dell’Europa, consolidata dal regime sovietico, impedì lo sviluppo degli istituti democratici e lasciò una pesante eredità anche dopo la dissoluzione del potere comunista nel 1991. Con la fine del regime, la chiesa ortodossa ritrovò possibilità di azione e un rilevante ruolo sulla scena pubblica, tanto da intervenire in modo influente nelle scelte dei governi di Mosca e non soltanto in materia di politica ecclesiastica. Nel 1997, la decisione, in seguito ritirata, di considerare pienamente legittima la presenza soltanto delle confessioni tradizionalmente esistenti sul territorio russo (escludendo, di fatto, la comunità cattolica e quelle protestanti) era stata sollecitata da forze nazionalistiche e da una parte della chiesa ortodossa, segnalando la difficoltà diffusa di confrontarsi con la situazione di pluralismo culturale. In modo più generale, il tendenziale disinteresse per la dimensione storica affermato dalle comunità ortodosse (che generalmente non avevano elaborato un proprio originale pensiero politico) si confermò negli anni del post comunismo, anche se segnali di un certo mutamento 67 Roccucci, Stalin e il patriarca cit., p. 477. Cfr. anche F. Bolgiani, Linee di storia del cristianesimo e della Chiesa in Russia dalla rivoluzione del 1905 ai giorni nostri, Torino, 1989-1990. 68 Per una presentazione generale, cfr. K.C. Felmy, La teologia ortodossa contemporanea. Una introduzione, Brescia, Queriniana, 1999. 69 Cfr. A. Giustino Vitolo e G. Lami, Storia e filosofia in N.A. Berdjaev, Milano, Angeli, 2009.
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di atteggiamento può essere colto dal fatto che nel 2000 fu approvato dal sinodo episcopale della chiesa russa un documento (il primo della sua storia) sui fondamenti della dottrina sociale70. Se lo sviluppo di una compiuta riflessione dei cristiani ortodossi sulla democrazia fu ostacolato dalla prolungata situazione politica di dispotismo e di dittatura in cui vissero molte chiese orientali europee, diversa fu l’intensità del dibattito su questi temi maturato dopo la seconda guerra mondiale sia in ambito cattolico, sia riformato. Particolare interesse suscitò, tra gli anni Sessanta e Settanta, la cosiddetta “teologia politica” che intendeva legare strettamente scelte di fede e azione in ambito pubblico, promuovendo un impegno diretto dei credenti nelle lotte sociali per contrastare i metodi oppressivi dei governi, ma anche quella che era ritenuta la compromissione mondana delle chiese71. Secondo il teologo cattolico tedesco Johann Baptist Metz, Dio prendeva decisamente la difesa delle «libertà dimenticate» nelle nazioni industrializzate e, ancor più, si schierava per i «socialmente più poveri» dei paesi in via di sviluppo. La prospettiva escatologica cristiana legava «la causa della libertà una e indivisibile […] alla sorte degli impotenti che non hanno altra forza che quella dell’amore, altra alleata che la memoria sovversiva della speranza della libertà non ancora realizzata»72. In questa prospettiva, la speranza cristiana non poteva limitarsi a una speculazione teorica, ma incideva direttamente nella vita dei credenti e della chiesa, in quanto la «memoria sovversiva di Gesù Cristo» conteneva una forza di critica sociale che spingeva a solidarizzare con gli oppressi. 70 Cfr. G. Codevilla, Laicità dello Stato e separatismo nella Russia di Putin, in A. G. Chizzoniti (a cura di), Chiesa cattolica ed Europa centro-orientale. Libertà religiosa e processo di democratizzazione, Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 138-454. 71 Cfr., oltre a J.B. Metz, Sul concetto della nuova teologia politica. 1967-1997, Brescia, Queriniana, 1998, il volume di M. Xhaufflaire, Introduzione alla teologica politica di Johann Baptist Metz, Brescia, Queriniana, 1974. Per una presentazione complessiva dei temi e dei testi, cfr. J. B. Metz et al., Dibattito sulla “teologia politica”, Brescia, Queriniana, 1972; K. Füssel et al., Ancora sulla “teologia politica”: il dibattito continua, Brescia, Queriniana, 1975. 72 J.B. Metz, Zur Präsenz der Kirche in der Gesellschaft, cit. in Xhaufflaire, Introduzione alla teologica politica di Johann Baptist Metz cit., p. 60.
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Simili posizioni trovarono in alcune comunità cristiane, in particolare dell’America Latina, un terreno di sviluppo, anche per gli interrogativi sollevati dalle profonde ed endemiche diseguaglianze sociali ed economiche. Secondo queste riflessioni, dalla fede discendeva la necessaria scelta a favore dei poveri che doveva tradursi in una concreta lotta politica rivoluzionaria, in grado di condurre il popolo al potere. Su linee in parte simili, si mosse la riflessione condotta dai “teologi della liberazione”, tra cui il brasiliano Leonardo Boff e il peruviano Gustavo Gutiérrez, che intendevano ancorare la personale opera di studiosi a una conseguente prassi pastorale in alcune tra le zone più marginali del continente latino-americano73. Le tesi dei “teologi della liberazione” furono ripetutamente censurate dalle autorità ecclesiastiche cattoliche, in quanto le soluzioni proposte furono ritenute unicamente attente al dato economico, avvicinandosi a posizioni materialistiche inaccettabili per la dottrina sociale della chiesa. La teologia maturata nelle condizioni di estrema povertà e di sfruttamento dell’America latina contrastava in alcuni aspetti essenziali con la dottrina sociale espressa dai vertici vaticani, anche a causa delle frequenti critiche portate alle istituzioni cattoliche che, in diverse realtà del Continente, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, avevano stretto solidi legami con alcuni governi dittatoriali in nome della tutela delle prerogative della chiesa. Nonostante le differenti valutazioni che ne sono state date, le teologie politiche sorte in ambito cristiano rimandavano alla domanda sulla possibilità di dare un fondamento etico alle scelte politiche, affinché esse non fossero lasciate all’arbitrio assoluto della volontà umana, ma si radicassero in un sistema di valori in grado di porre un limite al potere dello stato. Non è un caso che alcune posizioni della teologia della liberazione siano state riprese e rielaborate da altre comunità cristiane in altri continenti, in particolare in Africa, ma anche all’interno della tradizione islamica�74. 73 Cfr. G. Gutiérrez, Teologia della liberazione. Prospettive, Brescia, Queriniana, 1972; L. Boff, Gesù Cristo liberatore, Assisi, Cittadella, 1973. Più in generale, cfr. S. Scatena, La teologia della liberazione in America Latina, Roma, Carocci, 2008; L. Ceci, La teologia della liberazione in America Latina. L’opera di Gustavo Gutiérrez, Milano, Angeli, 1999. 74 Cfr., per esempio, L. Boff e V. Elizondo (a cura di), Teologie del Terzo
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Per gli ebrei presenti in Europa e nel Nordamerica, la concessione di alcuni diritti civili da parte del potere politico e, in seguito, l’applicazione dei principi democratici significò l’emancipazione e l’uscita da secoli di discriminazione e, in molti casi, di aperta persecuzione. Alcune tappe significative segnarono questo complesso passaggio: nel 1782, l’atto di tolleranza di Giuseppe II permise agli ebrei presenti nell’impero austriaco di esercitare alcune professioni sino a quel momento precluse loro; nel 1787, nella Costituzione degli Stati Uniti fu sancita la tolleranza religiosa; nel 1791, l’Assemblea costituente francese votò l’emancipazione degli ebrei e negli anni successivi, a seguito delle conquiste napoleoniche, provvedimenti simili furono adottati in altre aree europee. Nonostante l’ambivalenza dei percorsi emancipativi delle comunità israelitiche, sempre più in bilico tra inclusione e omologazione, la cultura ebraica fu influenzata profondamente dalle nuove correnti di pensiero ispirate dall’illuminismo e sia coloro che puntavano a una piena integrazione degli ebrei nei paesi della diaspora, sia coloro che auspicavano il ritorno alla “terra d’Israele” sostenevano posizioni che si appoggiavano al pensiero politico democratico di origine liberale e, in altri casi, di matrice socialista o anarchica75. Proprio a causa delle vicende che portarono alla sua creazione nel 1948, lo Stato di Israele si presenta come un’istituzione politica caratterizzata dagli istituti democratici propri delle democrazie occidentali. I sionisti che a partire dall’Ottocento, sulla base delle teorie di Moses Hess e Theodor Herzl, si batterono per la fondazione di una patria per il popolo ebraico non si basavano su considerazioni di tipo religioso, ma prettamente politiche. In queste elaborazioni, era forte l’influsso delle teorie socialiste, e i kibbutz, nucleo della vita economica e sociale della nuova nazione, si fondavano su un’organizzazione di tipo comunitario, in cui l’uguaglianza tra tutti i componenti, la vita in comune e mondo: convergenze e differenze, Brescia, Queriniana, 1988. Per la “teologia della liberazione” islamica, cfr. H. Hanafi, Islam in the modern world, vol. II, Tradition, revolution and culture, Heliopolis, Dar Kebaa Bookshop, 1995, p. 119-227. 75 Cfr. le considerazioni di Bidussa, I nodi dell’Emancipazione: inclusione sociale e omologazione culturale, in Bidussa, Collotti Pischel e Scardi (a cura di), Identità e storia degli ebrei cit., pp. 75-79.
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la rinuncia alla proprietà individuale e al salario costituivano la realizzazione di un ideale politico, prima ancora che religioso. L’influenza del pensiero politico greco sulla democrazia non toccò direttamente la cultura musulmana e, a parte alcune limitate riflessioni, l’idea democratica rimase per lungo tempo fuori delle preoccupazioni teoriche dell’islam. Per il pensiero politico islamico classico, la democrazia era una delle possibili forme non virtuose di organizzazione della società. Il tentativo di accordare pensiero politico moderno sulla democrazia e tradizione religiosa musulmana si scontrò con la convinzione dell’impossibilità di scindere nell’islam la dimensione religiosa da quella temporale, in quanto la prima si riteneva inglobasse necessariamente la seconda, negando la possibilità di un’organizzazione puramente mondana della realtà umana. La cosiddetta “tradizione lunga” dell’islam (il cui nucleo centrale è la teoria dell’obbedienza dovuta, secondo cui il governante legittimo è colui che conquista e conserva il potere) poneva – e pone ancora oggi – come unica condizione che il governante difendesse la comunità musulmana dai nemici esterni e consentisse la pratica religiosa: l’obbedienza della comunità era – ed è – dovuta finché regge la bay’a, vale a dire il patto tra governato e governante che stabilisce gli obblighi reciproci. Il sovrano era tale per volontà divina, ma anche (almeno in via teorica) per volontà popolare (o, meglio, dei credenti) che si manifestava attraverso la bay’a: si era di fronte a quella che è stata definita «una monarchia assoluta fondata contestualmente sul consenso popolare»76. Nel corso dell’Ottocento, il contatto con le teorie democratiche e le imprese coloniali europee imposero al mondo islamico un confronto improvviso con i principi e le istituzioni della modernità, perturbando un ambiente sociale e politico che era rimasto a lungo estraneo alle correnti culturali e politiche sviluppatesi in Occidente. Dal punto di vista teorico, alcuni autori islamici (tra cui, tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento, gli egiziani al-Jabarti e Rifa’a al-Tahtawi) considerarono che il progresso e la potenza occidentali erano dovuti, non soltanto alle 76 Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano cit., p. 333. Cfr. anche Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia? cit., pp. 35-38; M. Talbi, Islam e libero pensiero. Laicità e democrazia nel mondo musulmano, Torino, Utet, 2005.
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riforme introdotte in campo economico e scolastico, ma anche al principio di libertà, alla giustizia politica e alle istituzioni democratiche e costituzionali77. Queste idee politiche non erano considerate incompatibili con i principi dell’islam, ma, anzi, erano ritenute radicate nella religione musulmana che imponeva ai credenti di rispettare questi principi in quanto doveri collettivi. Fu in seguito alla diffusione di queste aspirazioni alla riforma in campo politico a rendere possibile, in particolare nell’Impero ottomano dalla fine dell’Ottocento, l’introduzione di alcuni istituti democratici di stampo liberale, prima non conosciuti nei paesi di tradizione islamica, come le carte costituzionali e le assemblee parlamentari rappresentative. Il tentativo di islamizzare la modernità, vale a dire di ritrovare degli equivalenti alle idee moderne nel patrimonio musulmano classico, portò alcuni pensatori ad assumere come sinonimo della democrazia la tradizionale pratica della consultazione di origine coranica. In realtà, nel Corano e nella tradizione successiva, il profeta Muhammad e i suoi successori non erano obbligati a chiedere consiglio alla comunità e le decisioni proposte dai consiglieri non erano vincolanti. La consultazione islamica poteva riguardare soltanto argomenti relativi ad aspetti materiali, come la guerra e i rapporti sociali, mentre erano esclusi tutti quegli argomenti che avevano un rapporto diretto con la rivelazione divina, quindi i contenuti della fede in senso stretto, le norme sul culto, il codice morale e le sanzioni penali. L’introduzione nei territori di tradizione islamica, nel corso dell’Ottocento, delle idee e di alcune istituzioni della democrazia liberale rispondeva alla volontà di una parte delle classi dirigenti (a volte influenzata dai modelli laici occidentali, altre volte sostenitrice di un’originale alleanza tra “religiosi” e “laici”) di limitare il potere delle dinastie ereditarie e assolute, come accadde in Turchia e durante la Rivoluzione costituzionale iraniana iniziata nel 190678. Tali movimenti di riforma si muovevano all’interno di richieste di rinnovamento generale dei costumi e della società Cfr. Campanini e Mezran, Arcipelago Islam cit., pp. 13-18. Cfr. E. Abrahamian, Storia dell’Iran dai primi del Novecento a oggi, Roma, Donzelli, 2009; F. Sabahi, Storia dell’Iran, 1890-2008, Milano, Bruno Mondadori, 2009. 77 78
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e non tanto di democratizzazione dell’intero sistema istituzionale. In ogni caso, la dominazione coloniale europea pose presto fine a questi pur limitati tentativi. Dopo la caduta dell’impero ottomano, le esperienze sorte in Iraq, in Siria, in Libano e in Egitto non approdarono a risultati diversi, anche per i continui interventi delle potenze europee per mantenere il controllo geopolitico su quelle aree strategiche. Dalla fine del secondo conflitto mondiale agli anni Sessanta, in alcune nazioni arabe, successivi colpi di stato portarono al potere dittature militari di ispirazione nazionalista (per esempio, in Iraq, Siria ed Egitto), mentre regimi monarchici si impiantarono stabilmente in Arabia Saudita, Kuwait e Giordania79. Negli anni successivi, nei paesi di tradizione islamica, i movimenti di indipendenza nazionale, la fondazione di nuovi stati e un relativo sviluppo economico reso possibile dalla vasta disponibilità di risorse petrolifere non furono accompagnati da una sostanziale diffusione di prassi democratiche. Nonostante l’esistenza in quasi tutte le nazioni di quest’area degli istituti formali della democrazia (costituzione scritta, separazione dei poteri, enunciazione dei diritti fondamentali del cittadino, multipartitismo politico, sistema elettivo per gli organi istituzionali rappresentativi) non vi è al loro interno un reale “governo del popolo”. La richiesta di democrazia proveniente da questi paesi e la progressione dell’integralismo islamico mostrano due modi di rapportarsi alla modernità all’apparenza inconciliabili: da un lato, i fondamentalisti chiedono l’introduzione di principi inaccettabili in un sistema democratico di stampo liberale (per alcuni, per esempio, il ritorno del califfato, la mobilitazione per la guerra santa e l’applicazione della legge coranica, la sharia); dall’altro lato, nei paesi islamici non si è riusciti a instaurare democrazie durature senza il concorso degli integralisti e la loro esclusione dalle istituzioni pubbliche, come nell’Algeria degli anni Novanta, è potuta avvenire soltanto seguendo pratiche antidemocratiche. In questa situazione contraddittoria, gli islamisti – che pur sono una parte minoritaria della popolazione – intendono far prevalere la fede musulmana in ogni aspetto della vita individuale e 79 Cfr. M. Campanini, Storia del Medio Oriente, Bologna, il Mulino, 2008; J.L. Gelvin, Storia del Medio Oriente moderno, Torino, Einaudi, 2009.
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collettiva, richiamando la necessità del ritorno alle origini80. Tali discorsi hanno una forte capacità di penetrazione, sia tra le masse diseredate, sia tra le élites intellettuali, in quanto anche i regimi che pur hanno assunto le forme delle democrazie liberali di stampo occidentale, oltre ad averne spesso negato la sostanza, sono caratterizzati da nepotismi, corruzione e incapacità di realizzare le promesse di sviluppo equilibrato. Soprattutto, però, i fondamentalisti radicali «beneficiano dell’immenso vantaggio dell’assenza di un contro-discorso credibile. Perché, nella maggior parte dei paesi musulmani, gli atteggiamenti reali come il discorso ufficiale dei governanti traducono una modernità esitante, non integrata e non conciliata con l’islam»81. Secondo lo studioso Yadh Ben Achour, «nell’Europa cristiana la battaglia tra la chiesa e la nascente laicità fu una lotta di retroguardia e per diverse ragioni fu la politica a prevalere. Nel mondo arabo-islamico invece la visione religiosa si impose definitivamente proprio grazie all’appoggio del potere politico che aveva tutto l’interesse di darsi un’aureola di sacralità»82. Potere politico e potere religioso, nelle nazioni di tradizione araba, continuano a mantenersi in un instabile equilibrio, che si regge sul reciproco scambio di legittimazione e sostegno, tanto che tale soluzione delle tensioni appare la risposta islamica alle questioni poste dalla modernità. La carenza di radicate tradizioni democratiche liberali nei paesi musulmani (come, d’altra parte, in vaste aree del continente africano e di quello asiatico anche non di tradizione islamica) e l’orizzonte teologico e giuridico nel quale la religione islamica si muove lasciano irrisolti numerosi interrogativi circa il futuro della democrazia in questi territori. È a causa dell’islam (ma il discorso si può ugualmente declinare per il cristianesimo e l’ebraismo) se in alcune nazioni non si è avviato un pieno sviluppo della democrazia? Posta in questo modo, la domanda rischia di non trovare una risposta fondata, 80 Cfr. Al-Qaeda. I testi, presentati da G. Kepel, a cura di J.-P. Milelli, Roma-Bari, Laterza, 2006. 81 Charfi, Islam et liberté cit. Cfr. anche G. Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam, Roma-Bari, Laterza, 2004. 82 Y. Ben Achour, L’état nouveau et la philosophie politique et juridique occidentale, cit. in P. Branca, Voci dell’Islam moderno, Genova, Marietti, 1991, p. 76.
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ma soltanto di indicare ipotesi non dimostrabili circa ciò che sarebbe potuto accadere se il pensiero islamico (o quello cristiano o quello ebraico) fosse stato diverso. Il confronto tra religioni e democrazia deve essere portato su un piano storicamente verificabile e, concretamente, esaminare la coerenza dei diritti civili propri delle moderne democrazie con le interpretazioni che di volta in volta sono state date ai testi fondanti le diverse confessioni, da un lato, e con la pratica di questi stessi valori all’interno delle differenti comunità religiose, dall’altro. Il problema del rapporto tra pluralismo politico e verità religiosa, a questo proposito, può essere chiarificatore. Le tre religioni monoteistiche del “Libro”, in quanto si ritengono portatrici di verità rivelate e quindi direttamente ispirate da Dio, non possono accettare l’esistenza di opinioni diverse al loro interno circa alcuni punti considerati intangibili. Ritengono, inoltre, che la religione non possa limitarsi a un puro atto di fede, ma debba ispirare, almeno indirettamente, tutta l’attività umana e, quindi, anche le scelte politiche. L’autorità religiosa ritiene, infine, di poter intervenire in alcune circostanze, diversamente definite dalle varie confessioni, per far rispettare i suoi precetti e per sanzionare posizioni ritenute non conformi alla legge. La rottura dell’unità dei credenti ha rappresentato e continua a essere, per le differenti religioni, un problema cruciale. Il popolo ebraico è uno, la comunità cristiana è una, l’umma è una, ma differenti sono i significati che sono dati a questa idea di unità. Ogni confessione religiosa mostra di possedere un proprio criterio per determinare il livello sul quale tale unità si deve collocare (la dottrina teologica, i precetti cultuali, le norme morali, i fondamenti culturali, le decisioni politiche) e i vincoli che l’autorità religiosa può porre ai credenti e alle collettività per quanto riguarda la scelta nei singoli ambiti. I principi della democrazia moderna hanno scavalcato questo dilemma: la dinamica propria dei sistemi pluripartitici presuppone l’esistenza di opinioni diverse che si incontrano sul “mercato politico” e ricercano il consenso dei cittadini, i quali hanno la possibilità di cambiare idea senza essere perseguiti per questo. Tale mutabilità sembra contrastare con una visione religiosa del mondo che si vuole radicata in un’entità divina per definizione immutabile e con istituzioni che, a volte, distinguono con difficoltà fra devianza politica ed eresia religiosa 135
e che sono portate ad accusare della prima chi è considerato colpevole della seconda�83. La nascita dei partiti confessionali e di ispirazione religiosa ha rappresentato una strada attraverso la quale gruppi di credenti, appoggiati in alcuni casi dalle rispettive autorità ecclesiastiche, hanno tentato di affermare sul piano politico-istituzionale scelte orientate da valori religiosi e di giocare la carta dell’unità di fede per fini politici. Si tratta di realtà che si pongono sul confine sempre mobile tra associazionismo confessionale e aggregazione politica (rivendicando l’appoggio del primo per sostenere la capacità di azione della seconda) e che devono fare i conti non soltanto con l’esistenza di un sistema multipartitico che pone i vari gruppi politici in concorrenza tra loro, ma anche con la pluralità di opzioni politiche presenti nelle comunità religiose di riferimento. La secolarizzazione sembrerebbe aver messo ai margini l’incidenza della fede nella vita individuale, ma, in modo apparentemente contraddittorio, il pluralismo generato nel tempo della modernità ha dato alle forze religiose la possibilità di giocare un ruolo centrale nella vita politica e sociale, data la loro capacità di esprimere valori comuni, di raccogliere consenso e di divenire gruppo di pressione determinante anche nelle scelte di governi che pur proclamano la propria laicità. Tra i paradossi della modernità, vi è anche quello di istituzioni al loro interno sostanzialmente non democratiche (come le diverse comunità religiose nelle quali, generalmente, non esiste una guida eletta dai fedeli, non vi sono istituti rappresentativi, i credenti non sono tutti uguali e non sempre i diritti civili di matrice liberale sono rispettati) che hanno generato movimenti che, servendosi del metodo democratico, partecipano alla competizione politica dei vari paesi, accettando nei fatti (anche se non sempre dal punto di vista teorico) il relativismo che caratterizza una simile impostazione della vita pubblica. Se la politica democratica è «un’attività svolta da persone ordinarie, che prendono coscienza della natura collettiva dei loro problemi, si riuniscono e si associano per discuterne, per progettare soluzioni, per rivendi83 M. Guasco, Politica e Stato nelle grandi religioni monoteistiche, Milano, Angeli, 1986, p. 21.
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care diritti»�84, i gruppi politici di ispirazione religiosa appaiono sovente più pronti di altri ad aggregare le esigenze popolari, sia per la loro capacità di trasmettere contenuti politici attraverso linguaggi religiosi ampiamente comprensibili dalle masse, sia per il loro radicamento in ampi settori della società. L’interrogativo non sta soltanto nella capacità o meno di tali partiti, una volta al potere, di rispettare le regole della democrazia che hanno permesso la loro affermazione, ma anche nell’influenza che i principi politici democratici possono avere all’interno delle comunità religiose. Vi è da chiedersi, infatti, quali conseguenze possono avere il trasferimento dei valori del pluralismo dal piano politico a quello religioso e, in concreto, l’esistenza, all’interno delle singole confessioni di opzioni di fondo che, pur ispirandosi allo stesso sistema di credenze, giungono a sostenere non soltanto teorie politiche, proposte di legge e azioni di governo tra loro opposte, ma anche visioni teologiche e scelte di azione religiosa radicalmente diverse. Per molte confessioni religiose, il confronto con il tema della democrazia, cadute le punte più acute del conflitto con le istituzioni politiche, si è ora spostato al loro interno.
84 V. Pazé, In nome del popolo. Il problema democratico, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 113.
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4. I nuovi interrogativi
4.1. Un mondo uscito da Dio Di fronte alle trasformazioni che hanno investito la sfera del sacro in epoca contemporanea è necessario interrogarsi sul senso di questi cambiamenti e sulle tendenze inscritte in fenomeni che superano i confini della storia religiosa per comprendere orizzonti più vasti. In effetti, non si tratta soltanto di valutare i mutamenti delle pratiche religiose individuali e la loro incidenza nella vita collettiva o l’evoluzione interna delle singole istituzioni ecclesiastiche, ma di considerare la complessiva e ben più profonda rivoluzione avvenuta (e tuttora in corso) nelle strutture sociali e nelle mentalità degli individui di fronte ai moderni processi di globalizzazione che hanno contribuito a mutare i rapporti tra il sacro e il secolare. Ci troviamo di fronte a “un mondo uscito da Dio”, secondo l’evocativa immagine suggerita da émile Poulat1. Il tempo della modernità e della dopo modernità è erede di un passato religioso da cui non può negare di discendere: troppi sono i simboli, le memorie, le parole e le architetture ancora oggi presenti che vi rimandano continuamente. Questi segni, però, mantengono spesso un legame sempre più tenue con il passato e, soprattutto, con l’universo di significati che si trova alla loro origine. Allo stesso tempo, la religione non è scomparsa dall’orizzonte culturale e sociale degli uomini e delle donne dell’epoca contemporanea e, tanto meno, può essere considerata un residuo di imperfetti processi di secolarizzazione, destinato a dissolversi 1 Cfr. É. Poulat, L’era post-cristiana. Un mondo uscito da Dio, Torino, Sei, 1996.
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nel momento in cui si sarà completata la parabola della modernità. Negli ultimi due secoli in modo sempre più rapido, i processi di globalizzazione hanno permesso la circolazione di acquisizioni che hanno messo in crisi le strutture tradizionali delle società dove il riferimento al sacro fondava ogni aspetto della realtà, dall’identità degli individui alla legittimazione del potere. Osservando la storia contemporanea, è possibile considerare come il rapporto dei singoli e delle società con la dimensione religiosa sia stato soggetto a più radicali trasformazioni di fronte alla comparsa di strutture produttive di tipo industriale, alla diffusione del razionalismo scientifico, alla massiccia urbanizzazione e ai fenomeni di sradicamento massivo dalle culture e dalle società tradizionali (specialmente rurali); allo stesso modo, questa tendenza è stata accentuata nel momento in cui le istituzioni pubbliche hanno sancito la propria autonomia dai gruppi religiosi, sono diminuite le occasioni di socializzazione dei singoli ed è cresciuta la propensione all’individualismo. Nonostante le visioni sacrali della realtà siano state messe in crisi dalla diffusione planetaria di questi fenomeni, nell’epoca della modernità e della dopo modernità la secolarizzazione non si è affermata come il nuovo nome della religione. La religione, ora depotenziata e marginalizzata dai momenti decisivi della vita pubblica e individuale, ora rivendicata come fonte di legittimazione e di identità dei singoli e delle comunità, anche nel mondo globale continua a offrire simboli, istituzioni e tempi di aggregazione a centinaia di milioni di persone in ogni angolo del pianeta. Infatti, la «globalizzazione ha proprio questo di paradossale: mentre fa scomparire i vecchi punti di riferimento tradizionali, risveglia appassionate affermazioni identitarie che spesso confinano con il ripiegamento in se stessi e l’auto-esclusione»2. Per alcuni si tratta di instaurare il “regime della verità”, come mostrano i molti fondamentalismi presenti in tutte le religioni. Essi sono «l’indicatore sensibilissimo della crisi della tenuta dei legami sociali, della perdita di ideali e infine del disorientamento rispetto ai valori e così via. I movimenti radicali si incaricano per così dire di riflettere ad alta voce (spesso troppo alta e assordan2 Ramadan, L’Islam in Occidente. La costruzione di una nuova identità musulmana cit., p. 14.
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te) sulla crisi della società moderna, sul suo apparente senso di indifferenza nei confronti di Dio e dei valori ultimi»3. Per altri si tratta della “religione dello scenario”, in cui la fede, come afferma Franco Garelli, «fa da sfondo all’esistenza dei soggetti [e] ha la sola funzione di non lasciare vuota la scena, ma non è in grado di informare in senso forte il copione, di determinare il contesto di riferimento dell’attore»4. Altri hanno accettato, più o meno consapevolmente, di convivere con il “paradosso del sacro”. Altri ancora ricercano una “fede senza religione”. Altri si pongono “al di là delle fedi”, dove i confini tra un’appartenenza e l’altra appaiono sempre più sfumati, in una sorta di sincretismo del sentimento religioso che ingloba le diversità e annulla le differenze. Eppure in questo panorama religioso, caratterizzato da profili indefiniti, da contenuti spesso nebulosi e da prospettive in dissolvenza, si inseriscono alcuni dati che si segnalano per la loro nitidezza. In primo luogo, alla perdita di incidenza delle tradizionali istituzioni religiose nella vita individuale, soprattutto per quanto riguarda la sfera dei comportamenti famigliari e personali, non ha corrisposto un analogo deperimento della loro capacità di intervento in molti settori della società civile per rispondere a bisogni anche non strettamente spirituali e cultuali. Si tratta delle numerose iniziative di carattere sociale, assistenziale e sanitario, nell’ambito scolastico e della cultura (dalle scuole dell’infanzia agli istituti di istruzione superiore, dagli ospedali ai mass media), promosse e sostenute dalle organizzazioni religiose, che non si possono considerare come la semplice prosecuzione di interventi simili predisposti in passato. La fioritura di tali esperienze rappresenta in modo esemplare la capacità di molte istituzioni religiose di far fronte ai fenomeni di laicizzazione degli stati e ai tentativi di riduzione dell’importanza delle fedi nella vita pubblica. Se, da un lato, questa imponente rete di assistenza ha ereditato la delega data storicamente dalle istituzioni politiche a quelle religiose per rispondere alle necessità delle popolazioni,
E. Pace, Il regime della verità, Bologna, il Mulino, 1998, p. 165. Cfr. anche E. Bianchi e G. Kepel, Dentro il fondamentalismo, introduzione di A. Melloni, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. 4 F. Garelli, Forza della religione e debolezza della fede, il Mulino, Bologna, 1986. 3
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dall’altro lato, la loro presenza in epoca contemporanea si è connotata per alcuni caratteri che, in certi casi, hanno posto tali interventi in concorrenza diretta con le politiche pubbliche di welfare state. La capacità di rapido adattamento alle richieste provenienti dalla società, la minore burocratizzazione rispetto alla macchina pubblica, la possibilità di attingere con una certa facilità alle forze del volontariato e ai finanziamenti privati hanno reso simili iniziative un potente strumento di supplenza di fronte alle carenze dello stato, ma anche un mezzo per sostenere la proposta spirituale, culturale e politica dei diversi gruppi religiosi. Si è di fronte a una apparente contraddizione: la crescita dello stato sociale ha contribuito al depotenziamento delle istituzioni ecclesiastiche come agenzie di socializzazione, di controllo e di intervento sociale, investendo progressivamente di queste funzioni la scuola statale, gli ospedali civili e i centri pubblici di assistenza; allo stesso tempo, però, quelle stesse istituzioni di ispirazione religiosa hanno creato per sé nuovi spazi e nuovi compiti e sono riuscite a inserirsi nell’articolazione sempre più complessa degli stati, per esempio, superando più facilmente i confini nazionali resi permeabili dai processi di globalizzazione. Nelle società, e in particolare in quelle democratiche, nessun gruppo sociale riesce a ricoprire ruoli totalizzanti e le istituzioni religiose, dovendo vivere in una situazione di pluralismo, sono costrette a definire il proprio campo di azione, selezionando e migliorando la qualità del proprio intervento. E proprio questa ridefinizione delle funzioni svolte dai gruppi religiosi rappresenta un elemento cruciale delle dinamiche che stanno cambiando la percezione del sacro nella società attuali5. In secondo luogo, la lenta erosione della sfera del sacro indotta dalla modernizzazione dei fattori economici e sociali ha provocato, accanto al ridimensionamento delle varie forme di “religione di chiesa”, la ricerca di nuove “agenzie” in grado di soddisfare i bisogni spirituali dell’individuo, siano esse rappresentate dai predicatori via etere o dal confuso mercato dei miracoli e della magia. L’ateismo e l’indifferentismo religioso convivono con queste credenze che, anzi, appaiono diffuse soprattutto dove sono 5 Cfr. G. Filoramo e F. Pajer, Di che Dio sei? Tante religioni un solo mondo, Torino, Sei, 2011.
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venuti a cadere i tradizionali riferimenti offerti dalla “religione di chiesa”. Si tratta di credenze che sottintendono la possibilità di un intervento continuo e puntuale del soprannaturale nella vita terrena, intervento che però si ritiene essere orientato dalle richieste, principalmente materiali, dell’uomo. La magia, con il suo corollario di riti che sfociano spesso nella superstizione, fa irrompere l’irrazionale in un mondo che considera se stesso fondamentalmente razionale e guidato da regole che non prevedono l’esistenza di alcuna dimensione soprannaturale. In alcuni casi (per esempio nei riti della macumba brasiliana), si assiste a una commistione di elementi recuperati dall’apparato liturgico-dottrinale del cattolicesimo con altri derivati dai culti “primitivi”, uniti a forme magico-esoteriche che ritengono di poter mettere l’uomo in contatto diretto con la divinità. La credenza nei diavoli e nelle streghe, la ricerca di comunicazione con il mondo angelico, le varie forme di satanismo ed esoterismo confermano il “paradosso del sacro” registrabile nelle società tecnicamente progredite, vale a dire «il fatto, accertabile empiricamente, che quanto più una società si razionalizza tanto più si accresce la fame, per così dire, del sovramondano e dell’invisibile»6. Il sacro non è sparito dalle società moderne, ma ha assunto forme nuove, nuovi rituali, nuovi luoghi di manifestazione (dove la religiosità più che ridursi a una dimensione privata della fede è una componente di lifestyles condivisi7), togliendo alle “religioni di chiesa” il monopolio della gestione del rapporto con il “totalmente altro” e lasciando al singolo individuo la possibilità di costruirsi il proprio personale bricolage religioso. In terzo luogo, ogni tentativo di cancellare con forza l’impronta religiosa del passato o di accelerare i processi di secolarizzazione provoca reazioni di riappropriazione del sacro da parte di gruppi più o meno ampi, fenomeni che vanno dalla riscoperta delle tradizioni religiose (come accadde in Unione Sovietica e in altri paesi del “socialismo reale”) alle varie forme di integralismo religioso (per esempio, nella Turchia di Kemal Atatürk, nell’Iran dello scià Reza Pahlevi e nell’Afghanistan invaso dai sovietici, per F. Ferrarotti, Una fede senza dogmi, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 175. Su questo aspetto, cfr. L. Berzano e C. Genova, I lifestyles nella partecipazione religiosa, Torino, Il Segnalibro, 2008. 6 7
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quanto riguarda il mondo islamico, o nella Francia laicizzata e nella Spagna post franchista, per le aree di tradizione cattolica). Se la secolarizzazione appare come la ricerca di totale autonomia dalla sfera religiosa degli individui e della società, il fondamentalismo nelle sue diverse manifestazioni può essere definito come la volontà di ricondurre tutto ciò che è profano nel sacro, esprimendo «quasi sempre un forte bisogno di unificare le sfere oggi ordinariamente separate del secolare e del religioso; da qui, anche, la forte tendenza alla ritualizzazione della vita, ridando vita a tradizioni anche desuete, con forte valenza simbolica, che in qualche modo tentino di imporre i simboli religiosi tradizionali al mondo secolare»8. Il fondamentalismo è l’altra faccia della secolarizzazione, la reazione alla diffusione di modelli di organizzazione della società, di mentalità e di comportamenti che non rispondono a una concezione religiosa del mondo. Pur richiamandosi con forza a specifiche tradizioni locali, i diversi fondamentalismi religiosi sono fenomeni politici di portata globale accomunati da una contraddizione di fondo, in quanto hanno la caratteristica di «opporsi a un tempo alla modernità culturale e scaturire dal suo contesto storico globale»�9. Questo tratto è particolarmente evidente nell’islam contemporaneo che però «non è un’isola culturale, è un fenomeno globale, che subisce e accompagna la globalizzazione», in quanto «fenomeni complessi come l’individualizzazione del rapporto con la religione o la comunitarizzazione del gruppo religioso (secondo la logica del “noi e gli altri”) si ritrovano anche nel cristianesimo e nella religione ebraica»�10. La laicizzazione dall’alto e il rapido cambiamento nel vissuto religioso collettivo favoriscono quindi, in modi diversi, il sorgere di movimenti radicali, i quali sembrano avere maggior capacità di presa dove i processi di allontanamento dalla tradizione sono percepiti socialmente come più dirompenti. Allo stesso tempo, la
8 S. Allievi, Gli islamisti. I fondamentalisti nei paesi musulmani, in Allievi, Bidussa e Naso (a cura di), Il Libro e la spada cit., p. 78. 9 B. Tibi, Il fondamentalismo religioso, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 17. 10 O. Roy, Global muslim. Le radici occidentali del nuovo Islam, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 12.
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tradizione è riscoperta, reinventata e riempita di nuovi significati da parte di leaders politico-religiosi emergenti che, in alcuni casi, si pongono in concorrenza con le tradizionali gerarchie religiose. Il fondamentalismo, che non si traduce in maniera automatica e necessaria nel ricorso alla violenza per far prevalere i propri argomenti, implica però il rifiuto del compromesso, del pluralismo e del confronto con le ragioni dell’altro e, pur costituendosi spesso come “partito di Dio”, si muove nell’ambito politico come nel campo religioso in una logica totalizzante. L’ortodossia ebraica, l’integralismo cattolico, la rinascita islamica e i movimenti radicali protestanti (come anche quelli sorti nelle comunità sikh e indù e nelle sette giapponesi) chiedono ai credenti una mobilitazione politica di ispirazione religiosa, in nome di un cambiamento sociale e istituzionale che renda visibile il divino. I vari fondamentalismi si differenziano, oltre che per i riferimenti a una specifica comunità di appartenenza, per le ricadute della loro azione che hanno determinato specifiche forme organizzative e hanno influenzato la diffusione dei loro progetti, ma hanno in comune la medesima opposizione al pluralismo democratico di stampo occidentale. Le ideologie politiche elaborate dai diversi gruppi del fondamentalismo sorti nelle società asiatiche e africane si sono orientate generalmente a contrastare sia lo stato nazionale laico, sia la presenza di istituzioni e comportamenti “moderni” tra la popolazione, in quanto realtà riconducibili al mondo occidentale che si ritiene estraneo, anzi antagonista, rispetto alla propria specifica tradizione religiosa. L’espansione registrata soprattutto dalla fine degli anni Sessanta dai movimenti fondamentalisti nati all’interno dell’evangelismo nordamericano e la diffusione di tendenze analoghe nelle altre confessioni cristiane, nell’ebraismo e nell’islam confermano quanto questo moderno “ritorno alle origini” si radichi in esigenze sociali e culturali (soprattutto di identità e di sicurezza) presenti a livello planetario, e che, allo stesso tempo, abbia trovato un determinante fattore di propagazione proprio in quei fenomeni di globalizzazione contro cui intende opporsi. Si tratta quindi di un movimento di politicizzazione della religione e di sacralizzazione della politica che, richiamandosi a un passato spesso mitizzato, immagina di poter giungere a un’organizzazione teocratica della società che però è caratterizzata dagli elementi propri di quella modernità politica di cui retoricamente dichiara di 144
essere alternativo. La mobilitazione delle masse, l’organizzazione del consenso, l’uso sistematico dei mezzi di comunicazione e la stessa attribuzione di riferimenti sacrali all’azione politica sono fattori che non permettono di considerare il fondamentalismo un tradizionalismo o un’ortodossia, ma impongono di osservarlo come un fenomeno che, richiamandosi a un messaggio di salvezza religioso e rifiutando il pluralismo, il laicismo, il relativismo e la tolleranza di stampo liberale, rappresenta una risposta alla crisi che ha investito le società nell’epoca della globalizzazione modernizzante. Pur appellandosi a un nucleo identitario che ha un forte radicamento territoriale, questi movimenti riescono a svilupparsi all’interno di uno spazio planetario e hanno una loro manifestazione parossistica nelle azioni dei terroristi che superano facilmente le frontiere nazionali, sulla base di una teologia politica che sembra negare ogni possibilità di mediazione. Questi “combattenti per Dio” operano in una situazione sociale e politica in cui è diffusa la disponibilità a un’identificazione estrema con la religione e sfruttano i sentimenti identitari per una mobilitazione distruttiva che sposta il conflitto tra civiltà – ritenuto insanabile – nell’arena globale, dove, dopo la fine della “guerra fredda”, nessun potere sovrano riesce a esercitare un reale controllo�11. Reazioni radicali all’incertezza creata dalla modernità laica e occidentale, i fondamentalismi possono essere interpretati come risposte estreme a un’inquietudine che, però, è più generale e produce domande di “senso” che, secondo non pochi osservatori, pongono «più di qualche problema a una cultura “laica” forse troppo sicura di sé»�12. Le società dopo moderne portano, quindi, i segni profondi dell’eredità sacrale del passato, ma, contemporaneamente, camminano in un presente nel quale il bagaglio religioso con cui sono partite tende a trasformarsi progressivamente. Si può affermare, per esempio, che negli ultimi due secoli le chiese cristiane hanno guadagnato in libertà ciò che hanno perduto in autorità, e Cfr. R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, Roma-Bari, Laterza, 2002; M. Juergensmeyer, Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Roma-Bari, Laterza, 2003; G.A. Almond, R.S. Appleby e E. Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, Bologna, il Mulino, 2006. 12 Cfr. Allievi, Bidussa e Naso (a cura di), Il Libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi cit., p. 6. 11
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questa trasformazione non ha inciso unicamente sul loro modo di rapportarsi con i poteri pubblici o sull’influenza esercitata sui comportamenti dei credenti, ma ha toccato i fondamenti della fede da esse proclamati. Le verità professate non soltanto hanno cambiato il loro statuto e il loro ruolo all’interno dell’organizzazione sociale e della vita culturale contemporanea, ma il clima di libertà diffuso nelle società moderne ha determinato cambiamenti nei contenuti del loro messaggio religioso, compresi i riferimenti teologici essenziali. Più in generale, i fenomeni di secolarizzazione, spesso provocati e accompagnati dalla crescita del pluralismo culturale e della differenziazione sociale, hanno cambiato la sfera religiosa che di fronte alle spinte della globalizzazione tende ancor più ad articolarsi: si è creata così una sorta di “supermercato transnazionale delle religioni” che si affianca a quello delle merci, a quello delle culture, delle opzioni politiche e delle scelte etiche, offrendo ai potenziali clienti una pluralità di opportunità. In questo orizzonte dalle dimensioni globali, il parallelo riemergere di fenomeni che tendono a rafforzare le tradizioni locali e le identità particolari, a iniziare da quelle religiose, può essere letto come la reazione alla perdita di riferimenti saldi cui ancorare, insieme alla vita individuale, il senso delle scelte collettive. Il declino, soprattutto in Occidente, di riferimenti sacrali socialmente condivisi in grado di legittimare l’autorità politica, infatti, non ha risolto la questione centrale per ogni società, vale a dire su quali presupposti fondare la convivenza civile e secondo quali principi governarla. Anche in questo ambito, il rapporto tra sacro e secolare non si è sviluppato secondo traiettorie univoche e la secolarizzazione, più che l’espulsione di Dio dallo spazio pubblico, si è manifestata come un processo di articolazione e di ridefinizione del ruolo della religione. Non è un caso che le soluzioni proposte per offrire un consenso (anche soltanto minimale) alle moderne organizzazioni del potere pubblico siano state spesso definite, a seconda delle circostanze, “religione civile”, “religione civica”, “religione secolare” o “religione politica”, mentre rituali, formule e simboli della politica hanno costantemente rielaborato elementi presenti nelle liturgie sacre. Non si è trattato, necessariamente, di processi di negazione dell’universo religioso, vale a dire del rifiuto del sacro in nome del profano sacralizzato, ma, appunto, di una sua diversa collocazione, in cui sono recuperati elementi della tradizione e promossi nuovi atteggiamenti. 146
Le discussioni intorno alla “religione civile” rendono evidente questo intrecciarsi di livelli e di linguaggi diversi. Definita da Gian Enrico Rusconi come «l’insieme dei discorsi e degli atteggiamenti pubblici, con valore e intento normativo, dotati di simbolismo e di codice religioso che si riferiscono alla formazione e affermazione della comunità nazionale»�13, la “religione civile” si costituisce in riferimento a realtà prettamente politiche, le quali, però, ricorrono a una legittimazione che esula dal solo piano secolare. Ogni processo di formazione dello stato, infatti, pur essendo totalmente realizzato sul piano umano e politico, ha un senso trascendente e necessita di un consenso metapolitico: la sfera politica dichiara che da sola non può legittimarsi, ma ha bisogno di conferme che le permettano di essere riconosciuta e accettata dai cittadini come potere in grado di governare la società. La legittimazione dello stato moderno, abbandonata la strada del riconoscimento da parte della “religione di chiesa”, rende necessaria l’“invenzione” della religione civile, elemento più indefinito rispetto alla prima, ma non meno necessario alla sussistenza di una qualsiasi entità statale. Venuto meno il riferimento al trascendente, rimane la necessità di definire elementi unificatori degli ordinamenti politici, perché come ha sintetizzato Böckenförde in una nota formula, «lo stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire»�14. Le numerose discussioni suscitate da questa interpretazione dello stato moderno rendono evidente quanto su questo snodo si giochi la possibilità – e la difficoltà – di trovare gli elementi su cui fondare la convivenza civile senza tradire i principi di laicità, ma anche come sia indispensabile definire un insieme di valori condivisi e, ancor prima, favorire la creazione di un tessuto sociale in grado di rendere possibile l’esistenza di quella stessa comunità�15. Secolarizzazione della religione e religione secolare si intrecciano 13 G.E. Rusconi, Patria e repubblica, Bologna, il Mulino, 1997, p. 20. Cfr. anche Id., Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino, Einaudi, 2000. 14 Böckenförde, La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione cit., p. 53. 15 Cfr. S. Zamagni e A. Guarnieri, Laicità e relativismo nella società postsecolare, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 9-28; O. Roy, Islam alla sfida della laicità, Venezia, Marsilio, 2008.
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a definire, in un disegno in chiaroscuro, il volto della modernità che, determinata per quanto riguarda gli argomenti del passato da rigettare, non appare altrettanto sicura circa la strada da imboccare. Non si tratta di questioni di poco conto. La perdita del riferimento a valori in grado di regolare la convivenza civile si profila come la premessa a una possibile frantumazione delle ragioni del vivere insieme e, al limite estremo, all’autodistruzione dell’umanità. Per evitare tale eventualità (che non ha precedenti nella storia, tanto da apparire come il carattere drammaticamente caratteristico delle società moderne), le soluzioni a disposizione appaiono vaghe e inadeguate rispetto all’urgenza dei problemi. Come possono essere posti dei freni ai disastri ecologici? Chi può indicare la soglia davanti alla quale fermare le sperimentazioni genetiche o la corsa agli armamenti? Esistono dei limiti alle “ferree” leggi dell’economia? Quali sono i confini della politica e quali valori devono orientare le scelte dei governanti? E ancora: le “religioni di chiesa” possono ancora affermare norme morali inviolabili valide per tutti? E, una volta affermati tali principi, con quale autorità possono farli rispettare? Sono questioni che interrogano l’etica, sia essa laica o religiosa, e che richiedono un supplemento di ricerca che interpella in modo radicale la libertà degli uomini e delle donne di oggi. 4.2. “Multisacro” o “multisecolare”? Relegata per gran parte del Novecento tra le eredità abbandonate del passato, con intensità crescente dalla fine della “guerra fredda”, la possibilità di assistere a guerre di religione si è ripresentata periodicamente sulla scena internazionale. Soprattutto con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la conclusione del confronto militare tra i blocchi e la crisi delle ideologie politiche secolari, dagli anni Novanta del Novecento sono aumentate le tensioni che hanno trovato nell’elemento religioso un potente fattore di coagulo e di contrapposizione. Gruppi, popolazioni e nazioni continuano a scontrarsi alzando il vessillo della religione come motivo e giustificazione del ricorso alla forza per risolvere i conflitti. Esiste un collegamento storicamente verificabile tra violenza e religione, dato che le fedi, proprio in 148
quanto in grado di costruire identità forti e durevoli, sono state spesso all’origine di guerre feroci. Non esiste sempre una causalità diretta tra i due elementi, ma è possibile rintracciare un filo che attraversa la storia e che ha portato, da un lato, i credenti delle diverse fedi a ricorrere alla violenza per giustificare le rispettive verità e, dall’altro, le varie forme di potere a legittimare le proprie azioni violente rivendicando l’appoggio della religione16. Si tratta di un rapporto contraddittorio che tiene insieme la “guerra santa” e le “tregue di Dio”, l’attribuzione alla divinità di nomi ispirati al gruppo semantico della “pace” (Dio misericordioso, Dio amore, Dio clemente, Datore di pace) e nomi indubbiamente violenti (Dio degli eserciti, Colui che abbatte, il Soggiogatore, l’ira di Dio). In realtà, il «problema del rapporto tra la religione da una parte e la pace e la violenza dall’altra non risiede nella rivelazione, nella dottrina, nei contenuti dei testi sacri in sé, quanto piuttosto nell’azione – tutta umana e “secolare” – di interpretazione, gestione e uso sociale del messaggio sacro»17. Combattere per Dio, e non soltanto spiritualmente, ha rappresentato per interi popoli e generazioni la via maestra per raggiungere la salvezza eterna18. Le crociate, da questo punto di vista, sono solo un esempio della potenziale forza mortifera racchiusa nella religione. Allo stesso modo, nella cultura islamica, nel jihad (letteralmente, lo sforzo per la fede) è stato spesso riproposto il medesimo incrocio tra tensione spirituale per il raggiungimento della perfezione e la lotta violenta per l’affermazione della verità religiosa. Le dottrine politiche sviluppatesi nell’Occidente moderno hanno ripreso il concetto cristiano di “guerra santa”, secolarizzandolo e sostituendovi le varie teorie della “guerra giusta”. Le “guerre sante” sono state spesso considerate dai cristiani non soltanto quelle ordinate direttamente da Dio raccontate nell’Antico Testamento, ma anche quelle proclamate dalle autorità ecclesiastiche per combattere gli eretici e
Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980; F. GenLa violenza nella religione, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1991. 17 R. Gritti, La politica del sacro. Laicità, religione, fondamentalismi nel mondo globalizzato, Milano, Guerini, 2004, p. 222. 18 Cfr. P. Crépon, Le religioni e la guerra, Genova, il melangolo, 1992. 16
tiloni,
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gli infedeli (spesso al grido di «Dio lo vuole»)19. L’applicazione da parte degli stati moderni delle teorie della “guerra giusta” ha trovato nella legittimazione religiosa (con l’asserzione «Dio è con noi»), oltre che in ragioni politiche, la sua capacità di mobilitazione delle popolazioni contro un nemico disegnato spesso con la fisionomia del miscredente20. Nell’islam, tale passaggio dalla dogmatica all’etica e al diritto non è avvenuto negli stessi termini, tanto che i teorici del fondamentalismo, in particolare dagli anni Trenta del Novecento, hanno potuto basare i loro progetti radicali affermando l’inesistenza di distinzioni tra dimensione religiosa e dimensione temporale, in campo politico come per altri aspetti della vita individuale e collettiva. La religione ha costituito un mezzo potente per legittimare poteri e giustificare violenze perpetrate non soltanto nei confronti delle altre fedi religiose, ma anche all’interno delle singole confessioni contro coloro che erano considerati eretici. Gli ultimi decenni offrono uno scenario che mostra una netta divaricazione rispetto ai conflitti combattuti per gran parte del Novecento, dove sembravano prevalere motivazioni di carattere dichiaratamente secolare. Ancora più evidente appare questa distanza se si considerano i gruppi terroristici internazionali: alla fine degli anni Sessanta, nessuna di queste organizzazioni aveva una connotazione religiosa, mentre all’inizio del Duemila, pur continuando a esistere formazioni con un’ideologia secolare, a livello globale sembrano prevalere le organizzazioni che ispirano le loro azioni a un fondamento religioso21. In Algeria, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, le formazioni dei Gruppi islamici armati hanno invocato con la stessa violenta determinazione la necessità del risveglio religioso del paese e la caduta del governo militare, sterminando interi villaggi inermi. La guerra nei 19 Cfr. J. Flori, La guerra santa. La formazione dell’idea di Crociata nell’Occidente cristiano, Bologna, il Mulino, 2003; M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Cristiani in armi. Da sant’Agostino a papa Wojtyla, Roma-Bari, Laterza, 2006. 20 Cfr. M. Franzinelli e R. Bottoni (a cura di), Chiesa e guerra. Dalla «benedizione delle armi» alla «Pacem in Terris», Bologna, il Mulino, 2005; D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna, il Mulino, 2008. 21 Cfr. R. Gritti, La politica del sacro cit., pp. 226-232.
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territori della ex Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento ha dato modo alle diverse fazioni in lotta di esibire il sostegno delle rispettive fedi cattolica, ortodossa o musulmana, richiamo che ha ulteriormente approfondito le divisioni tra i contendenti. Nella britannica Irlanda del Nord, dopo numerosi e infruttuosi tentativi di conciliazione, si è quasi risolta la secolare tensione tra gruppi cattolici e anglicani che si sono in passato fronteggiati ricorrendo ad azioni di estrema violenza. La questione palestinese è resa ancor più complicata dalla presenza di forti elementi di identificazione religiosa, con gli ebrei da un lato e i musulmani e la minoranza cristiana dall’altro a rivendicare i rispettivi diritti su una terra da tutte le fazioni considerata “santa”. Gli attentati suicidi dei terroristi islamisti, a iniziare dagli attacchi contro i militari israeliani, americani e francesi in Libano nel 1983-1984 da parte degli Hizbullah, le rivendicazioni armate degli indipendentisti nel Kurdistan iracheno e turco, come quelle in Cecenia dopo la fine dell’Unione Sovietica, le guerre nel Golfo nel 1990-1991 e nel 2003-2011 contro l’Iraq guidate dalle truppe statunitensi o il conflitto in Afghanistan combattuto pure dagli “alleati occidentali” dal 2001 contro i talebani sono stati interpretati anche come la manifestazione dello “scontro di civiltà”, e quindi di religioni, tra Oriente e Occidente. La versione fondamentalista delle religioni, prerogativa di gruppi minoritari che ricorrono a messaggi politico-religiosi estremamente semplificati, ma anche per questo efficaci e influenti, ha portato a diffondere progetti teocratici che hanno avuto ampio risalto nei discorsi dei loro oppositori politici e sui mezzi di comunicazione di massa, a loro volta artefici – più o meno consapevoli – della propagazione di idee generatrici di conflitti. Non è estranea a questa tendenza alla lettura polarizzata dei rapporti tra le culture religiose la diffusione di posizioni che, anche in una prospettiva storica, accentuano l’elemento di irriducibile conflittualità del confronto tra le civiltà, in particolare tra islam e cristianesimo22. 22 Cfr., per esempio, le posizioni espresse da B. Lewis, che, fin dagli anni Settanta, ha accentuato la continuità storica rintracciabile nel conflitto tra islam e Occidente, nei volumi Il linguaggio politico dell’Islam, Roma-Bari, Laterza, 1991; Il suicidio dell’islam, Milano, Mondadori, 2002; Le origini della rabbia musulmana. Millecinquecento anni di confronto tra Islam e Occidente, Milano, Mondadori, 2009.
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Dietro ogni scontro in nome di Dio, in realtà, è possibile scorgere spesso con facilità altre cause, meno spirituali e altrettanto potenti (siano queste la volontà di controllo politico di determinati territori, la gestione esclusiva di risorse economiche oppure l’egemonia nelle relazioni internazionali), ma ciò non toglie che proprio la religione riesca sovente a catalizzare e a far detonare elementi altrimenti disaggregati. Nell’era della globalizzazione economica, delle comunicazioni satellitari, di internet e dell’informazione in tempo reale, ma anche delle migrazioni di popolazioni da un continente all’altro e della lotta per la sopravvivenza delle identità culturali particolari, la crescente vicinanza tra le religioni può trasformarsi sia in un proficuo dialogo ecumenico, sia nello scontro insanabile tra visioni del mondo diverse. Per tale motivo, è possibile sostenere che «il dialogo ecumenico interreligioso oggi è tutt’altro che la specialità di alcuni irenici religiosi estranei al mondo; oggi stesso ha per la prima volta nella storia il carattere di un desideratum pressante anche dal punto di vista della politica mondiale; esso può aiutare a rendere la nostra terra più abitabile, perché più pacifica e più riconciliata»23. La responsabilità delle diverse religioni, in una simile prospettiva, assume un rilievo tutto particolare e impone, innanzi tutto alle varie istituzioni, di scegliere la pace come via d’uscita alle tentazioni – mai sopite – di uso della forza per imporre una particolare scelta di fede. Rispetto alla conflittualità tra religioni o, al contrario, al loro incontro pacifico esiste un’ulteriore alternativa. Vi è una terza possibilità, vale a dire che nella società moderna, di fronte alla pluralità di opzioni religiose o, più modestamente, conquistati dal sogno di una felicità materiale, scompaia in modo sommesso il riferimento al trascendente, ai suoi valori e alle sue tradizioni nelle forme fino ad ora conosciute, rendendo irrilevante nell’orizzonte della vita individuale il riferimento a una dimensione “totalmente altra”. La forte mobilità che caratterizza le società contemporanee ha provocato il continuo contatto e la mescolanza tra individui provenienti non soltanto da ceti, ma anche da culture e da aree geografiche tra loro molto distanti. Tali fenomeni, provocati nella 23 H. Küng, J. Van Ess, H. Von Stietencron e H. Bechert, Cristianesimo e religioni universali, Milano, Mondadori, 1986, p. 524.
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maggioranza dei casi da motivazioni di tipo economico, hanno avuto sviluppi diversi in ogni paese, ma appare come un dato comune la trasformazione dei lineamenti del panorama religioso delle singole società. Nelle nazioni europee, la presenza significativa di minoranze religiose non cristiane si è limitata per lungo tempo quasi esclusivamente alle comunità ebraiche radicate da secoli e sopravvissute, tra tolleranza e persecuzioni, grazie anche alla strenua conservazione del proprio patrimonio di cultura e di culto; vi erano poi presenze minoritarie delle comunità musulmane nei Balcani, mentre rimanevano memorie dell’importante presenza islamica nella penisola iberica e nell’Italia meridionale. Anche all’interno di territori dove era prevalente l’islam vi è stata storicamente una disseminazione di presenze religiose minoritarie per periodi più o meno lunghi, come accaduto per le comunità ebraiche e cristiane nelle regioni mediorientali e nel Nordafrica. In epoca moderna, però, questa tendenza si è accelerata e ha ampliato le sue dimensioni: il mutamento delle strutture produttive, il sorgere di nuove classi sociali, le conquiste coloniali e gli eventi bellici hanno provocato spostamenti di masse umane attraverso i continenti che non avevano avuto precedenti. Ogni individuo, ma anche ogni gruppo etnico, si è mosso portando con sé un bagaglio di tradizioni e di mentalità destinato a trasformarsi in modo più o meno radicale nel volgere di pochi anni. Il passare delle generazioni e la progressiva integrazione nel tessuto sociale di approdo hanno accelerato le mutazioni del patrimonio culturale dei migranti che, seppur non totalmente assimilato a quello prevalente nel paese di arrivo, è diventato diverso dalle eredità di partenza24. La pluralità e la mescolanza di appartenenze religiose, tratto caratteristico dell’età della globalizzazione, si confronta però continuamente con la tendenza alla secolarizzazione che, nonostante il protagonismo sociale e politico delle fedi, rimane un dato evidente della contemporaneità. Le società attuali pongono le differenti religioni di fronte a un identico dilemma, nonostante la diversità dei punti di partenza, vale a dire la necessità di fare 24 Numerosi sono gli studi che si sono occupati dei cambiamenti dell’islam nelle comunità immigrate nei paesi occidentali: per una sintesi, cfr. J. Goody, Islam ed Europa, Milano, Cortina, 2004.
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continuamente i conti con la possibilità del mondo di esistere senza Dio. La secolarizzazione, per questo motivo, rappresenta non tanto l’esito finale dell’evoluzione moderna delle società, ma un’atmosfera, intangibile quanto influente, che in parte esse stesse hanno determinato e che, in ogni caso, di là da ogni tentativo di conservare immutato il proprio patrimonio dottrinale e spirituale, obbliga la religiosità individuale e le istituzioni ecclesiastiche a cambiare. La religione può essere un fattore di integrazione sociale di settori della popolazione spesso ai margini di tali processi, ma anche una fonte di evidenze etiche per l’intera comunità politica. Il problema sta proprio nel riuscire a definire il punto di equilibrio tra la conservazione di un’identità religiosa in grado di offrire valori all’intera comunità e l’accettazione del pluralismo che tende a stemperare le differenze e a cercare la mediazione tra le parti. Le religioni, in particolare quelle monoteistiche, proclamano alcune verità che non si ritiene possano essere negate o negoziate, pena il dissolvimento del loro nucleo vitale. L’elezione esclusiva di Israele in quanto popolo di Dio è per il giudaismo una verità indiscutibile, come per il cristianesimo la definizione di Gesù Cristo quale Figlio di Dio e per l’islam la convinzione che il Corano sia Parola di Dio dettata direttamente al profeta Muhammad. Anche su questi temi nevralgici le religioni possono riuscire a confrontarsi: il dialogo tra le religioni, sul piano teologico e su quello delle prassi delle diverse comunità, può costituire un utile banco di prova circa le possibilità delle società contemporanee di riconoscere e rispettare la pluralità di scelte dei singoli e dei gruppi, senza appiattire in un’uniforme e indefinita amalgama le risorse di senso e di solidarietà presenti in ciascuna di esse. Si tratta di interrogativi che richiamano le questioni più ampie del multiculturalismo, al centro di dibattiti tra filosofi, sociologi e politologi che, superando i singoli casi nazionali, osservano le attuali crisi alimentate dalla globalizzazione25. Le discussioni 25 Il concetto di multiculturalismo ha avuto ampia diffusione in ambito filosofico e politologico soprattutto a partire dal saggio di C. Taylor, The Politics of Recognition, in Multiculturalism and “The Politics of Recognition”, Princeton, Princeton University Press, 1992 (traduzione italiana: La politica del riconoscimento, in J. Habermas e C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 9-62).
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sollevate dalla costruzione di edifici di culto diversi da quelli delle confessioni religiose tradizionalmente presenti in un territorio e i dibattiti sull’uso in luoghi pubblici di simboli che definiscono l’appartenenza religiosa (dal velo delle donne islamiche al crocefisso cristiano, alla kipà ebraica)26 confermano quanto i crescenti fenomeni di integrazione planetaria impongano di considerare le religioni non soltanto in quanto istituzioni che si pongono in relazione con gli stati, ma come elementi di un più complesso sistema dove interagiscono tradizioni del passato e nuove identità culturali, interessi sovranazionali e specificità locali. Il multiculturalismo descrive «la crescente compresenza in un medesimo spazio sociale, giuridico e politico di forme di vita relative a gruppi minoritari, le quali si profilano e si affermano come differenti rispetto alle abitudini, preferenze e valori tipici del gruppo culturalmente dominante»27. Tale situazione, che attualmente ha raggiunto dimensioni del tutto diverse rispetto al passato, sollecita a trovare i fondamenti e le forme di una realizzabile convivenza. La «presunzione di uguale valore» delle diverse culture, secondo il filosofo canadese Charles Taylor, è una possibile «via di mezzo fra la domanda, inautentica e omogeneizzante, di un riconoscimento di uguale valore da un lato e il misurarsi da soli entro i propri criteri etnocentrici dall’altro»28. La coesistenza di diverse tradizioni su scala mondiale e all’interno delle singole società è un’evidenza, ma, al tempo stesso, può essere un progetto che – estendendo le riflessioni elaborate da Taylor – può aiutare 26 Per una sintesi delle questioni, cfr. P. Cavanna, I segni della discordia. Laicità e simboli religiosi in Francia, Torino, Giappichelli, 2004; R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto e P. Veronesi (a cura di), La laicità crocifissa. Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino, Giappichelli, 2004; Commissione Stasi, Rapporto sulla laicità. Velo islamico e simboli religiosi nella società europea, prefazione di S. Romano, postfazione di E. Bianchi, Milano, Scheiwiller, 2004; A. Renaut e A. Tourain, Un débat sur la laïcité, Paris, Stock, 2005; S. Ferrari (a cura di), Islam ed Europa. I simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente, Roma, Carocci, 2006; S. Allievi, La guerra delle moschee. L’Europa e la sfida del pluralismo religioso, Venezia, Marsilio, 2010. 27 B. Henri e A. Pirni, Introduzione, in Id., La via identitaria al multiculturalismo. Charles Taylor e oltre, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006, p. 8. Cfr. anche C. Galli (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, Bologna, il Mulino, 2006. 28 Taylor, La politica del riconoscimento cit., p. 61.
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anche la comprensione reciproca delle fedi: «avere il senso del limite della nostra parte nell’intera storia dell’uomo» aiuta a superare l’«estrema arroganza» dell’esclusione a priori della dignità dell’altro e ad affermare, invece, la possibilità che tutte le culture (e quindi anche le culture religiose) «possiedano quasi certamente qualcosa che merita da parte nostra ammirazione e rispetto, anche se è accompagnato da molte cose che dobbiamo aborrire e respingere»29. Se queste prospettive possono condurre, se portate all’estremo, a considerare le differenze tra le varie culture (e quindi anche tra le religioni) come irrilevanti, tanto da rafforzare l’«affermazione della irrelazionalità del mondo sociale»�30 che pare caratterizzare la dopo modernità, queste stesse letture della realtà possono sollecitare la ricerca di punti di contatto tra i singoli e tra le comunità in grado di colmare la carenza di senso e di relazioni nelle società attuali�31. La possibilità di trovare nella storia le tracce continue di quei contatti permette di misurare con maggior precisione le reali dimensioni del mondo globale e anche di scorgere nella dialettica tra sacro e secolare e, ancor prima, nel dialogo tra laici e credenti e fedeli delle diverse religioni un’opportunità concreta per la convivenza umana.
Ibidem, p. 62. P. Donati, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, p. 208. 31 Sono numerose le pubblicazioni che negli ultimi anni hanno affrontato, con prospettive e intenti diversi, questo tema: cfr., per esempio, E. Bianchi, La differenza cristiana, Torino, Einaudi, 1997; M. Talbi, Le vie del dialogo nell’islam, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1999; G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Roma-Bari, Laterza, 2005; A. Riccardi, Convivere, Roma-Bari, Laterza, 2006; D. Grossman, Costruire ponti per la pace. Una conversazione con Gad Lerner e un’antologia di testi, Casale Monferrato, Sonda, 2007; U. Beck, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Roma-Bari, Laterza, 2009. 29 30
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INDICE DEI NOMI
Abrahamian, Ervand 132 Acerbi, Antonio 124 Acquaviva, Sabino 24, 26 Adamo, Pietro 98 Aime, Marco 41 Aldridge, Alan 10 al-Jabarti, Abd-al-Rahman 131 Allievi, Stefano 70, 143, 145, 155 Almond, Gabriel A. 145 al-Tahtawi, Rifa’a 131 Aluffi Beck-Peccoz, Roberta 64, 65 An-Na’im, Abdullahi A. 110 Appleby, R. Scott 145 Barbagli, Marzio 57, 58 Barth, Karl 124 Baubérot, Jean 78, 92, 94 Becchi, Egle 68 Bechert, Heinz 152 Beck, Ulrich 156 Beckford, James A. 72 Ben Achour, Yadh 134 Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) 45 Berdjaev, Nikolaj 127 Berger, Peter L. 10, 11, 32, 76 Berzano, Luigi 142 Bianchi, Enzo 140, 155, 156 Bidussa, David 28, 30, 70, 117, 130, 143, 145 Bin, Roberto 155 Blum, Alain 59 Bobbio, Norberto 19
Böckenförde, Ernst-Wolfgang 87, 89, 147 Bof, Giampiero 38 Boff, Leonardo 129 Bolgiani, Franco 19, 20, 86, 91, 124, 127 Bonaparte, Napoleone 55, 93 Bonhoeffer, Dietrich 124 Boniolo, Giovanni 90 Bonniol, Jean-Luc 12 Bottoni, Riccardo 150 Botturi, Francesco 19 Branca, Paolo 35, 134 Brunelli, Giuditta 155 Bulgakov, Sergej 127 Burleigh, Michael 40 Calimani, Riccardo 100 Callahan, Daniel 19 Calvino, Giovanni (Jean Cauvin) 98 Camon, Ferdinando 30 Campanini, Giorgio 20, 45, 74 Campanini, Massimo 34, 47, 62, 64, 108, 116, 132, 133 Cannelli, Riccardo 92 Carpinelli, Cristina 59 Casanova, José 10, 27, 37 Castellaccio, Rossella 66 Cavanna, Paolo 155 Ceci, Lucia 129 Chadwick, Owen 19 Chakrabarty, Dipesh 102 Chantin, Jean-Pierre 94
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Charfi, Abdelmajid 28 Charfi, Mohamed 35, 110, 134 Chizzoniti, Antonio G. 128 Codevilla, Giovanni 128 Collotti Pischel, Enrica 117, 130 Colozzi, Ivo 41 Conti, Fulvio 39 Costantino (imperatore) 22 Cox, Harvey 24 Crépon, Pierre 149 Csordas, Thomas J. 9, 10 Cuciniello, Antonio 35 Daiber, Karl-Fritz 72 Daled, Pierre 25 Dalla Torre, Giuseppe 19, 91 Dau Novelli, Cecilia 58 Davie, Grace 11, 32, 76 De Giorgi, Fulvio 18, 20, 90 De Giuseppe, Massimo 92 Deliège, Robert 52 De Marco, Pietro 79 De Poli, Barbara 33, 62, 79, 82 D’Hollander, Paul 92 Dianich, Severino 31 Dierkens, Alain 25, 79 Di Fiore, Laura 9, 11 Di Giorgi, Pietro L. 9 Di Giovine, Alfonso 90 Dilcher, Gerhard 89 Di Segni, Riccardo 45 Donati, Pierpaolo 19, 41, 156 Dunn, Dennis J. 115 Elizondo, Virgil 129 Elliot Johnson, Jean 11 Enrico IV (re di Francia e di Navarra) 87 Estivalezes, Mireille 92 Fabris, Rinaldo 46 Facchini, Cristiana 46 Felmy, Karl Christian 127 Ferrajoli, Luigi 121 Ferrarotti, Franco 142 Ferrara, Alessandro 121
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Ferrari, Silvio 51, 102-104, 107, 114, 155 Ferretti, Giovanni 31 Ferrone, Vincenzo 19, 20, 86 Filoramo, Giovanni 88, 98, 141 Flores, Marcello 40 Flori, Jean 150 Fog Olwig, Karen 41 Fokas, Effie 11, 32, 76 Franco, Francisco 58 Franzinelli, Mimmo 150 Fukuyama, Francis 17 Fumagalli Beonio Brocchieri, Maria teresa 150 Gaiotti De Biase, Paola 56 Galgano, Francesco 102 Galli, Carlo 85, 155 Garelli, Franco 11, 27, 72, 140 Gauchet, Marcel 18 Gaudemet, Jean 53, 54 Gaudio, Angelo 74, 76 Gelbard, Maurice 94 Gelvin, James L. 133 Genova, Carlo 142 Genre, Ermanno 72, 84 Gentile, Emilio 40, 86, 95 Gentiloni, Filippo 149 Giangiulio, Maurizio 90 Giner, Salvador 72 Ginsborg, Paul 58 Giorda, Maria Chiara 78 Giordan, Giuseppe 120 Giovagnoli, Agostino 11 Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli) 44 Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła) 45 Girard, René 149 Giuseppe II d’Asburgo-Lorena 130 Giustino Vitolo, Angela 127 Gogarten, Friedrich 28, 31 Gomarasca, Paolo 119 Goody, Jack 52, 153 Grandi, Silvia 66 Graziosi, Andrea 100 Gritti, Roberto 91, 149, 150 Grossman, David 156
Gruzinski, Serge 12 Guarnieri, Adriano 147 Guasco, Maurilio 136 Guglielmo da Occam 86 Guolo, Renzo 67, 70, 110, 113, 131, 145 Gutiérrez, Gustavo 129 Habermas, Jurgen 154 Hanafi, Hassan 130 Henri, Barbara 155 Hervieu-Léger, Danièle 72 Herzl, Theodor 130 Hess, Moses 130 Hobsbawm, Eric J. 43, 121 Hopkins, Antony G. 11 Huntington, Samuel 17 Inglehart, Ronald 10 Introvigne, Massimo 69, 70, 105 Jacopozzi, Alfredo 79 Janssens, Angélique 57 Jemolo, Arturo Carlo 96 Johnson, Donald 11 Juergensmeyer, Mark 145 Julia, Dominique 68 Kajon, Irene 30, 105, 106 Kaufmann, Franz-Xaver 23 Kemal, Mustafà Atatürk 94, 95, 142 Kepel, Gilles 27, 134, 140 Kertzer, David I. 57, 58 Kienzler, Klaus 70 Kowal, Janusz 24 Kraus, Hans-Joachim 46 Küng, Hans 152 Lami, Giulia 127 Le Bras, Gabriel 48 Leone XIII (Gioacchino Pecci) 43 Levi, Primo 30 Levi Della Torre, Stefano 121 Lévinas, Emmanuel 106, 107 Lewis, Bernard 23, 151 Lombardi Vallauri, Luigi 89 Lübbe, Hermann 19
Luhmann, Niklas 41 Luzzato, Amos 28, 29, 30, 117 Macioce, Fabio 91 Manning, Patrick 11 Margiotta Broglio, Francesco 19, 86, 91, 124 Maritain, Jacques 125 Marramao, Giacomo 19 Marsilio da Padova 86 Mastellone, Salvo 121 Matteucci, Nicola 19 Mayeur, Jean-Marie 99, 100 Mazzola, Roberto 124 Meghnagi, Saul 29, 70 Melloni, Alberto 76, 140 Melograni, Piero 68, 69 Melton, J. Gordon 69, 105 Menozzi, Daniele 43, 45, 97, 150 Meriggi, Marco 9, 11 Metz, Johann Baptist 128 Mezran, Karim 62, 64, 108, 116, 132 Miccoli, Giovanni 43 Milelli, Jean-Pierre 134 Mohammed V (re del Marocco) 117 Mohammed VI (re del Marocco) 65 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat (barone de la Brède e de) 122 Morozzo della Rocca, Roberto 115 Mosse, George L. 40 Moulinet, Daniel 94 Mounier, Emmanuel 125 Muhammad (Maometto) 32-34, 60, 107, 132, 154 Nepi, Paolo 20 Nesti, Arnaldo 79 Nicoletti, Michele 121 Niemöller, Martin 124 Nordio, Mario 110 Norris, Pippa 10 Ozzano, Luca 82 Pace, Enzo 24, 26, 27, 67, 70, 113, 140 Pahlevi, Mohammad Reza 142
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Pajer, Flavio 72, 75, 84, 141 Paoletti, Laura 91 Paolo VI (Giovanni Battista Montini) 44 Pasquino, Gianfranco 19 Pazé, Valentina 137 Pazzaglia, Luciano 74 Pin, Andrea 119 Pio VII (Barnaba Chiaramonti) 93 Pio XII (Eugenio Pacelli) 44 Pirni, Alberto 155 Pizzuti, Domenico 27 Polanyi, Karl 10 Poulat, Émile 26, 94, 138 Preterossi, Geminello 87, 156 Prodi, Paolo 20, 89 Pugiotto, Andrea 155 Rahner, Karl 31 Ramadan, Tariq 64, 82, 139 Ranger, Terence 43 Rémond, René 19 Remotti, Francesco 13 Renaut, Alain 155 Repole, Roberto 31 Riccardi, Andrea 156 Rigobello, Armando 19 Rizzi, Armido 79 Rizzi, Marco 31 Roccucci, Adriano 100, 101, 127 Roggero, Elio 38 Romano, Sergio 155 Ronfani, Paola 58 Rosignoli, Valeria 64, 69 Rousseau, Jean-Jacques 122 Roy, Olivier 11, 112, 143, 147 Ruffini, Francesco 90 Rusconi, Gian Enrico 147 Rytter, Mikkel 41 Sabahi, Farian 132 Saeed, Abdullah 47 Salsano, Alfredo 10 Sarasa, Sebastián 72 Sartori, Giovanni 121 Scardi, Raffaella 117, 130
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Scatena, Silvia 129 Schleiermacher, Friedrich 123 Schreiber, Jean-Philippe 25, 79 Scoppola, Pietro 124 Seccombe, Wally 54 Segre, Vittorio Dan 117 Sivan, Emmanuel 145 Smith, Anthony D. 115 Solinas, Pier Giorgio 52 Soubigou, Alain 79 Spadaro, Antonino 89 Spera, Salvatore 123 Stalin (Josif Vissarionovicˇ Džugaš vili) 126 Stefani, Piero 23, 29, 31, 85 Talbi, Mohamed 131, 156 Taylor, Charles 24, 42, 154, 155 Tibi, Bassam 143 Tomka, Miklós 72 Tommaso d’Aquino 124 Tottoli, Roberto 47 Tourain, Alain 155 Traniello, Francesco 74, 91, 97, 116 Tschannen, Olivier 24, 26 Turbanti, Giovanni 68 Van Ess, Josef 152 Vanzan, Piersandro 19 Vercelli, Claudio 118 Vercellin, Giorgio 23, 32-34, 47, 60, 61, 67, 79, 80, 108, 110, 131 Veronesi, Paolo 155 Von Stietencron, Heinrich 152 Weber, Max 9, 24, 38, 102, 122 Willaime, Jean-Paul 72 Xhaufflaire, Marcel 128 Yehoshua, Abraham B. 30, 118 Zamagni, Stefano 147 Zannini, Francesco 45 Zanone, Valerio 91, 97 Zarcone, Thierry 95