L'immagine spezzata. Il cinema di Claude Lanzmann 8889908149, 9788889908143

Il libro di Ivelise Perniola mostra come l'opera di Lanzmann non si esaurisca nel film-evento del 1985, ma abbia un

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Italian Pages 208 [196] Year 2007

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L'immagine spezzata. Il cinema di Claude Lanzmann
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L’immagine spezzata - Prefazione - Edizioni Kaplan

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L’immagine spezzata

https://books.openedition.org/edizionikaplan/177

| Ivelise Perniola

Prefazione Giorgio De Vincenti p. 7-8

Texte intégral 1

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Con questo volume inizia la seconda serie della collana “Spettacolo e Comunicazione”, con un nuovo editore giovane e motivato, che fa del cinema e dell’audiovisivo il suo territorio privilegiato. E ci piace iniziare con questo volume di Ivelise Perniola, dedicato a un autore “difficile”, a un intellettuale celebrato ma sottilmente scomodo, Claude Lanzmann, critico e regista, che con il suo Shoah ha segnato nel 1985 un luogo ineludibile di confronto nel dibattito sulle pratiche dell’audiovisione. Confronto che investe sia gli aspetti formali sia quelli politici

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e morali che al tema dei media sono collegati, oggi più che mai. Usiamo non a caso le parole “audiovisione” e “media” piuttosto che la parola “cinema”, perché se è indubbiamente alla settima arte (e all’“Arte” tout court, con la maiuscola) che l’opera di Lanzmann appartiene di diritto, le questioni che essa solleva e il genere di pratica realizzativa da cui è generata sono così radicate nella rete degli scambi tra reale e virtuale, così innervate nel tessuto della comunicazione, della storia e della cultura, da lanciarsi come un frammento aperto nella eterogenea e multiforme galassia mediatica contemporanea. Un frammento, una serie di frammenti del dolore dell’uomo – e dell’orrore dell’uomo che ha voluto disumanizzarsi – offerti da Lanzmann alla circolazione delle idee con un gesto tutt’altro che frammentario, dalle precise valenze etiche e umanistiche. Un gesto che appare scandaloso perché sottratto alle regole che a quella circolazione sono imposte da logiche di separatezza del reale dal virtuale, regole tese a che nulla del virtuale che sia fuori della norma possa tradursi in scelta di vita, e in scelta politica. Il libro ci conduce lungo un complesso itinerario, in cui gli elementi disciplinari più specifici (l’opzione dell’autore francese per un cinema d’intervento rigoroso e severo fino alla crudeltà; e giustamente Perniola convoca qui Antonin Artaud, in ragione dell’unica positività pensabile, quella della consapevolezza legata al ritorno del rimosso, alla scrittura della memoria) rinviano costantemente da un lato alla vita e alla storia (del cineasta, dei testimoni che rivivono l’orrore raccontandolo) e dall’altro all’attualità del discorso culturale, di cui vengono mostrati la necessità e l’urgenza. Quella che il libro ci rende familiare è dunque l’immagine di un intellettuale autentico, la sua avventura esistenziale, che lo porta a collocarsi sempre più in mezzo alle cose, a calarsi

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sempre più dentro una vicenda, quella del popolo ebraico, il suo popolo, ai margini della quale era a lungo restato. E la relazione di Lanzmann con l’universo mediatico appare provocatoria e scandalosa proprio per questo, per il fatto cioè di averci coinvolto, negli ultimi trentacinque anni, in un percorso di carattere al tempo stesso privato e planetario. E la sua pacatezza, la sua severità, la sua crudeltà, ma anche le sue dolcezze, sono il segno di un itinerario di crescita personale con il quale ci invita a sintonizzarci, perché anche noi possiamo procedere con lui alla scoperta del disumano. Tutto questo nel segno di quell’attività di critico, intellettuale e direttore di «Les Temps Modernes», la prestigiosa rivista fondata da Jean-Paul Sartre, cui può essere ricondotta la sua forte tensione verso il rilancio dei saperi sul terreno di un dibattito delle idee ampio, condiviso e produttore di “verità”. Il merito di Ivelise Perniola è condurci con acume e competenza lungo questo itinerario, con una partecipazione interpretativa e morale che conferisce a questo studio la valenza che più ci sta a cuore nel momento in cui inauguriamo la nuova serie: quella di un preciso gesto al tempo stesso intellettuale, umanistico ed etico. Giorgio De Vincenti Novembre 2007

Auteur

Giorgio De Vincenti Giorgio De Vincenti è professore ordinario di Storia e Critica del Cinema presso l’Università Roma Tre.

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© Edizioni Kaplan, 2007 Conditions d’utilisation : http://www.openedition.org/6540

Référence électronique du chapitre DE VINCENTI, Giorgio. Prefazione In : L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.177.

Référence électronique du livre PERNIOLA, Ivelise. L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann. Nouvelle édition [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.171. Compatible avec Zotero

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L’immagine spezzata - Premessa - Edizioni Kaplan

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| Ivelise Perniola

Premessa p. 9-11

Texte intégral 1

Claude Lanzmann nonostante sia l’autore di uno dei film più importanti degli ultimi decenni, rimane, nel contesto italiano, una figura non sufficientemente conosciuta. La ragione principale va ricercata nella proverbiale miopia dei distributori nazionali e degli addetti alle programmazioni televisive, che sino a oggi, non hanno mai1 mostrato integralmente, in sala o sulle reti pubbliche, il film che più di ogni altro descrive l’immane tragedia dello sterminio ebraico, Shoah (1985). Un’opera che a partire dall’evocativo titolo (in antico ebraico significa “distruzione”) ha rimesso in discussione la rappresentazione del cosiddetto Olocausto, come veniva impropriamente definito lo sterminio sino a che

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il film di Lanzmann non ha fornito un termine più adatto e più corretto, attraverso l’immissione nel linguaggio comune di una parola intraducibile, universale, priva di connotazioni religiose. Shoah, come cercheremo di dimostrare in questo lavoro, è un’opera capitale sotto vari punti di vista: non è un documentario storico, né una ricostruzione, non è un film sulla memoria, né una raccolta di testimonianze con finalità didattiche, non si inserisce all’interno di nessun discorso istituzionale, non è commissionato dall’esterno, ma nasce da una necessità interiore. Shoah, come ama ripetere Lanzmann, è una finzione del reale e nello stesso tempo, con la sua dilatata durata di nove ore e mezza, è un filmesperienza, in grado di mutare il rapporto dello spettatore con il mondo, di aprire un varco nel buco nero dello sterminio, offrendo un contatto reale con i sopravvissuti. In quanto finzione del reale, il film di Lanzmann è anche una riflessione sul cinema e sulle potenzialità dell’immagine: il regista francese rifiuta l’inserimento di qualsiasi tipo di immagine di repertorio, riportando l’evento a una dimensione costantemente ancorata al presente e introducendo le basi estetiche di una nuova iconoclastia, quanto mai provvidenziale in un momento di proliferazione di immagini “inutili” come quello in cui stiamo vivendo. Shoah è, dunque, un film sulla storia, sul cinema, sui delicati meccanismi del rappresentabile, sul valore della testimonianza, sulla gestione politica della memoria storica, sulla definitiva e moderna rottura delle categorie costrittive della finzione e del documentario, sulla messa in scena della della realtà e sulla realtà come messa in scena. Tuttavia, l’opera di Lanzmann non si esaurisce nel filmevento del 1985, ma ha un prima e un dopo. Il prima-Shoah è caratterizzato da una pluridecennale attività nella redazione della rivista, fondata da Jean-Paul Sartre e da Simone de Beauvoir, «Les Temps Modernes», della quale Lanzmann assume la direzione a partire dal 1986, anno della morte

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della de Beauvoir e che dirige ancora attualmente. All’inizio degli anni Settanta decide di intraprendere un viaggio in Israele, finalizzato alla redazione di un libro-reportage che non vedrà mai la luce, ma il cui progetto di fondo confluirà nel suo film d’esordio, Pourquoi Israel (1973), primo segnale di una consapevolezza espressiva che porterà il cinema al centro del suo discorso teorico e creativo. Il dopo-Shoah è curiosamente caratterizzato da un ritorno in Israele per la realizzazione di Tsahal (1994), centrato, come si deduce dal titolo, sull’organizzazione dell’esercito israeliano e sulla difficoltà di vivere in un paese costantemente accerchiato. Negli anni successivi, Shoah continua a suscitare interesse, destando una molteplicità di interventi teorici e di riflessioni, al punto che Lanzmann, consapevole del potere inesauribile del lavoro, realizza due “appendici” all’opera madre, ma del tutto autonome dal punto di vista tematico, che sono Un vivant qui passe (1997) e Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures (2001). Gli scritti dedicati al regista francese si sono focalizzati soprattutto su Shoah, trascurando le altre quattro opere, che ad esso sono comunque strettamente legate. Il presente volume, partendo dall’importante ruolo formativo e intellettuale svolto all’interno della rivista sartriana, vuole colmare una lacuna quanto mai grave, offrendo uno sguardo completo su quello che ormai a livello internazionale è considerato uno dei più importanti registi viventi. Desidero ringraziare Giorgio De Vincenti per l’importante ruolo svolto nella redazione di questo volume, per l’attenzione e i preziosi suggerimenti. Senza il suo aiuto questo volume non avrebbe visto la luce. Ringrazio inoltre Lucilla Albano per aver letto con scrupolosità il lavoro nelle varie fasi della sua stesura, arricchendolo con consigli bibliografici, suggestioni teoriche e impagabili indicazioni. Ringrazio, infine, per l’aiuto fornitomi nel reperimento dei

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materiali Elisa Galeati, Massimo Locatelli, Annamaria Licciardello, Michele Fadda, il “Pitigliani” di Roma nella persona di Micaela Vitale, il gentilissimo personale della biblioteca “Guillaume Apollinaire” del Centro Studi ItaloFrancese dell’Università Roma Tre e la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano. © Edizioni Kaplan, 2007 Conditions d’utilisation : http://www.openedition.org/6540

Référence électronique du chapitre PERNIOLA, Ivelise. Premessa In : L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.192.

Référence électronique du livre PERNIOLA, Ivelise. L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann. Nouvelle édition [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.171. Compatible avec Zotero

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L’immagine spezzata - Parte prima. Un’eredità difficile - Edizioni Kaplan

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| Ivelise Perniola

Parte prima. Un’eredità difficile p. 13-43

Texte intégral L’ebreo è un uomo che gli altri uomini ritengono ebreo Jean-Paul Sartre, Réflexions sur la question juive

1. Profilo di un franco-giudeo 1

Come in ogni monografia che si rispetti, occorre incominciare dall’inizio. Claude Lanzmann nasce a Parigi il 27 novembre 1925. Durante la seconda guerra mondiale si manifestano già in lui i segni di un’irruenta passione politica

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che lo portano a diventare una delle stelle di punta della resistenza del liceo “Blaise Pascal” di Clermont-Ferrand. L’ostilità crescente nei confronti degli ebrei, che si trasformerà di lì a poco in aperta persecuzione, viene vissuta da Lanzmann in maniera contraddittoria: pur sentendo di appartenere alle radici repubblicane della Francia libera e illuminata, egli si trova a dover convivere, improvvisamente, con atteggiamenti di inspiegabile odio e di aperta conflittualità. Il giovane Lanzmann incomincia a percepire la propria appartenenza all’ebraismo come una sorta di marchio proveniente dall’esterno, che mal si accorda con gli ideali atei e democratici che lo avevano accompagnato negli anni della sua formazione. La cultura francese ha avuto alcune figure di intellettuali ebrei nei quali il giovane Lanzmann (quello che non conosceva ancora in profondità l’enormità della Shoah) si sarebbe potuto facilmente identificare. Halévy nel 1828 dichiarava: «Occorre, in parole povere, che per loro [per gli ebrei di cultura francese] il nome di ebreo divenga l’accessorio e il nome di francese l’elemento principale»1. I valori della Rivoluzione francese rivestivano per molti un’importanza superiore a quelli diffusi dalla Torah. Il padre della sociologia, Emile Durkheim, sacrificò spesso la fedeltà al popolo ebraico, al quale apparteneva, per la difesa dei valori della repubblica francese. L’affare Dreyfus riportò alla luce, in maniera brutale e inaspettata, la radice profondamente antisemita della borghesia francese, ponendo molti intellettuali franco-giudei di fronte alla difficile scelta: difendere la Francia o difendere le proprie origini (anche quando queste origini si accompagnano a una visione della vita autenticamente atea, come nel caso di Lanzmann)? Lo stesso Lanzmann si trovò di fronte ad un analogo dilemma, nel momento in cui l’antisemitismo francese si inasprì e l’illusoria integrazione di un tempo cominciò a sgretolarsi sotto il peso del vetusto pregiudizio e dell’odio

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razziale. Per un giovane che si sentiva prima di tutto francese e poi secondariamente ebreo si trattò di un colpo durissimo. Il destino degli ebrei sembrava improvvisamente diventato indifferente alla gran parte del popolo francese; quello stesso popolo in mezzo al quale Lanzmann era cresciuto e nel quale, sino a quel momento, si era riconosciuto. Come ricorda lo stesso Lanzmann in un prezioso intervento di carattere autobiografico: Avevo vent’anni, uscivo dalla Resistenza e dalla guerra e mi ricordo che di fronte a questo comportamento [il rinnovato antisemitismo francese post-bellico] mi perseguitava sempre la stessa angosciante domanda, che formulavo in questo modo: ‘come sorridergli? come ritrovare la fiducia in loro? come parlargli? vivere? coabitare sotto lo stesso tetto?’. [...] La verità è che noi non eravamo più francesi e nemmeno ebrei fino in fondo2.

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L’incontro con un testo capitale, le Réflexions sur la question juive3 del filosofo francese Jean-Paul Sartre, allontana, in parte, la crisi esistenziale del giovane Lanzmann e lo porta a contatto con uno dei baluardi della resistenza intellettuale in una Francia oscurantista e sempre più apertamente antisemita. Come ricorda l’intellettuale francese: Questo libro era molto forte, molto radicale; dipingeva nel modo più rigoroso il ritratto dell’antisemitismo. Naturalmente Sartre non cercava di riflettere sul giudaismo in quanto tale, e del resto, ho avuto con lui lunghe discussioni su questo punto. Sartre era sempre aperto alla discussione, al confronto4.

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Il testo di Sartre raccomandava agli ebrei di trovare dentro di loro, liberamente, in completa autonomia da imposizioni religiose o sociali, la propria strada nel mondo e la propria modalità di essere ebrei, rifiutando o per meglio dire conciliando le proprie contraddizioni (come l’aver sostenuto la guerra di indipendenza degli algerini e successivamnete appoggiare la politica di Israele, una delle grandi

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“contraddizioni” che verranno rimproverate a Lanzmann alcuni anni dopo) in nome di una libera capacità di giudizio; Sartre arrivava a sostenere, provocatoriamente, che non sono gli ebrei ad aver creato l’antisemitismo, ma l’antisemitismo ad aver creato gli ebrei, offrendo agli ebrei stessi un nuovo, originale, punto di vista dal quale poter rileggere la propria storia: Per quanto mi riguarda, so che ho camminato per le strade e respirato diversamente dopo aver letto le Réflexions sur la question juive. Anche se infestata da antisemiti, potevo vivere lo stesso nella Francia di Sartre: ho risollevato la testa a partire da quel giorno e non l’ho più abbassata5.

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Il rapporto con Sartre, prima professionale e poi strettamente personale e affettivo, avrà per Lanzmann, come vedremo, un’importanza enorme negli anni a venire. L’esperienza, le numerose disillusioni della storia e della vita hanno condotto Lanzmann ad una progressiva rivalutazione del proprio ebraismo, vissuto sotto il filtro di una cultura che rimane profondamente francese; l’intellettuale franco-giudeo assume, dunque, nel corso del suo cammino, un atteggiamento che lo porta ad essere nello stesso tempo fedele alle leggi della Repubblica e alla memoria della persecuzione, unendo, in questo modo, il rispetto per la cultura di provenienza e la solidarietà per il popolo di appartenenza. Dopo essersi laureato in filosofia presso l’Ecole d’Etudes Superieures di Parigi, Lanzmann ottiene un posto come lettore di filosofia e di letteratura francese presso l’Università di Berlino nel biennio 1948-1949, approfittando di questo periodo per approfondire la conoscenza della cultura tedesca. Nel 1952, l’intellettuale francese entra nel gruppo di «Les Temps Modernes», la rivista fondata da Sartre e da Simone de Beauvoir nel 1945; dal 1954, il nome di Lanzmann entra a far parte, a pieno diritto, nel comitato di redazione della rivista, della quale, dall’estate del 1986, diventa

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direttore e principale animatore. La direzione de «Les Temps Modernes» diventa per Lanzmann un lavoro a tempo pieno, al quale dedica ogni energia e nel quale fa confluire il dibattito, sorprendente per numero di ammiratori e di detrattori, suscitato dall’uscita del suo capolavoro Shoah (1985), al punto che, come vedremo, è possibile parlare di un periodo pre-Shoah e di un periodo post-Shoah. Negli ultimi vent’anni, Lanzmann si è diviso tra la direzione della storica rivista e la diffusione capillare del suo film in giro per il mondo; il carattere duro e intransigente, che lo ha reso spesso uno sgradito interlocutore per molti, lo porta ancora, ad ottant’anni compiuti, a difendere con indefessa energia la memoria della Shoah e a sostenere la nascita e la diffusione di una forma di antisemitismo, quanto mai minacciosa, collegata con l’ostilità di buona parte degli intellettuali e della sinistra mondiale nei confronti di Israele, ostilità politica che si trasforma sovente in ostilità etnica e in intolleranza religiosa. La comunicazione con i giovani, sempre attiva grazie ai seminari estivi che il regista francese tiene presso la European Graduate School di Saas-Fee, in Svizzera, rimane per Lanzmann la priorità assoluta, per scongiurare l’ignoranza e la non-conoscenza del passato. Il cinema rimane un capitolo a parte. Il punto di osservazione privilegiato di questo volume, sarà proprio il “mondo di immagini” prodotto da Lanzmann dal 1973 (anno di esordio dietro la macchina da presa con Pourquoi Israel) al 2001 (anno di realizzazione del suo ultimo film Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures). Nell’arco di ventotto anni, Lanzmann gira altri tre film, oltre ai due già citati: Shoah (1985), Tsahal (1994) e Un vivant qui passe (1997). Ognuno di questi film nasce dalla necessità di parlare, di intervenire attivamente, portando avanti un punto di vista differente, “contro-informativo”. I due nuclei tematici intorno ai quali ruota il cinema di Lanzmann sono la Shoah e la nascita (e la sopravvivenza) dello stato israeliano. Lanzmann è, del resto,

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uno dei pochissimi registi al mondo a lavorare, con indefessa energia, intorno ad uno stesso tema. Il regista francese sente l’energica necessità di dover intervenire in maniera “testamentaria” su queste due tematiche collegate non solo con la propria identità ebraica, ma con la tragica storia del ventesimo secolo. Shoah è il Film sulla distruzione degli ebrei d’Europa, così come Tsahal (con le sue cinque ore e mezza di durata) è il Film sull’esercito israeliano: difficilmente, dopo queste due opere, ci sarà qualcosa d’altro da dire sull’argomento. Questo atteggiamento intransigente ha portato a Lanzmann numerosi nemici; principalmente, tutti coloro che si sono messi “in concorrenza” con il regista francese, tentando di sostituire la propria ultima parola con la sua (emblematico lo scontro tra Lanzmann e il filosofo francese Georges Didi-Huberman o tra lo stesso Lanzmann e Jean-Luc Godard). La scelta del mezzo-cinema è rapportabile ad una sorta di insoddisfazione progressiva nei confronti della parola scritta, prodotta più che altro dall’impossibilità di raggiungere vasti strati di pubblico. Il cinema allarga enormemente l’eco di una parola che si vuole porre come politicamente “assertiva”. Il cinema, inoltre, permette di entrare in contatto con lo sguardo dell’altro, di visualizzarlo: esso riflette il punto di vista; nuovamente, non siamo lontani dalle teorizzazioni di Sartre: L’Altro è innanzitutto sinonimo di decentramento e reversibilità del punto di vista. [...]. Non posso incrociare lo sguardo altrui senza essere all’istante rinviato dal mondo al mio modo di apparire e da quegli occhi alla persona che mi guarda6.

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Il cinema attiva un cortocircuito tra osservatore ed osservato, rimandando ad uno l’immagine dell’altro: per un cinema basato sulla testimonianza, come quello di Lanzmann, questo cortocircuito è fondamentale. Il valore della testimonianza risalta appieno nel momento in cui ci si trova

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di fronte al testimone, con il suo volto, il suo sguardo, il suo pensiero e la sua memoria; un testimone con il quale non viene permessa alcuna forma di identificazione, perché negli occhi della persona che mi guarda vedrò sempre un altro e mai l’immagine di me stesso. Da questo punto di vista, il cinema di Lanzmann va categoricamente contro una delle basi dell’esperienza cinematografica che è appunto quella dell’identificazione. Le immagini del regista francese devono produrre disidentificazione, senso di alterità, irriducibilità dell’esperienza del testimone: «Lo iato che mi separa dall’Altro è tutto tranne che un’illusione»7. Il cinema di Lanzmann è un cinema logocentrico e iconoclasta, ma questo non nega che sia anche un cinema di grande qualità formale e di grande maestria affabulatoria: cinema della parola, del racconto, della testimonianza, ma anche cinema di volti, di luoghi, di movimenti. Lanzmann non è un cinefilo, ma è un intellettuale nel senso più autentico del termine: un uomo di pensiero che utilizza lo strumento-cinema per diffondere la conoscenza e la (sua) verità. Il regista francese procede nella sua carriera attraverso continui attacchi: tace su ciò che approva e attacca tutto ciò che va contro le basi sulle quali si fonda la sua opera (dal serial-TV anni Settanta Holocaust, fino a Spielberg e Benigni); capace di sfoderare una dialettica pressoché inattaccabile, Lanzmann difficilmente si fa cogliere in contraddizione dai suoi “avversari”, procedendo a colpi di frasi sferzanti da oltre trent’anni, si è guadagnato la strada dell’olimpo cinematografico e (forse) una vittoria ideologica in un mondo nel quale le immagini effettivamente contano sempre meno e sono sempre più lontane dalla verità. Ma su tutto questo avremo modo di tornare.

2. Il modello-Sartre: «Les Temps Modernes» (1945-1985) 11

Il primo numero di «Les Temps Modernes» esce nell’ottobre

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del 1945. La presentazione di Sartre, fondatore e direttore, pensata per aprire un dibattito sulla letteratura impegnata, inaugura le prime pagine della rivista; la quale, dall’anno della sua fondazione sino ad oggi, manterrà una veste grafica pressoché inalterata: copertina in cartoncino leggero, di colore chiaro (bianco o crema), indice stampato direttamente sulla copertina, formato maneggevole (un piccolo “livre de poche”), pagine numerose, esclusione di qualsiasi immagine, saggi lunghi, sempre ricchi di note e molto curati dal punto di vista redazionale. Si può dire che in sessant’anni di vita nulla è cambiato. Il primo numero della rivista porta le tracce del terribile conflitto appena conclusosi (non poteva essere diversamente) e contiene gli interventi di Maurice Merleau-Ponty e di Raymond Aron sulla guerra e la pace; il numero 2 vede, tra gli altri, un saggio di Simone de Beauvoir sulla morale e un intervento di Claude Lefort su socialismo e totalitarismo. La direzione sartriana si dimostra da subito molto attenta alla politica internazionale, offrendo a molti studiosi di varie nazionalità l’opportunità di intervenire sulla situazione politica delle loro nazioni di appartenenza (ci saranno nel corso degli anni dossier dedicati ai più svariati paesi, dall’America Latina al Giappone, dall’Africa nordorientale all’Italia). Grande importanza viene data, almeno nel primo ventennio, alla letteratura: molti scrittori emergenti hanno la possibilità di proporre ad un pubblico selezionato le loro fatiche, guadagnandosi l’onore di una vetrina che con il passare degli anni acquisirà un prestigio sempre maggiore. La letteratura a sfondo biografico viene privilegiata (Sartre seleziona nei primi anni un vasto numero di diari, di epistolari, di memoriali), mentre la sfera del fantastico viene lasciata a margine. Molti giovani autori esordienti riusciranno a trovare, solo dopo la pubblicazione su «Les Temps Modernes», editori intraprendenti disposti a sostenerli. La poesia compare in piccole dosi, ma anche ad essa si richiede uno sfondo politico, un’espressione di

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impegno nella società e nella storia. L’engagement, il compromettersi fino in fondo per la difesa di valori prima di tutto politici, è il trait-d’union che collega, in una morsa strettissima, i membri della redazione, che nel 1946 vede raccolti: Aron, de Beauvoir, Leiris, Merleau-Ponty, Ollivier e Paulhan. Lo sterminio degli ebrei entra in “prima persona” tra gli argomenti chiave della rivista: il primo intervento dedicato all’immane tragedia che aveva colpito il popolo ebraico e che proprio allora diveniva di dominio pubblico è, infatti, un estratto dal testo autobiografico di David Rousset, sopravvissuto ai campi di concentramento, Les jours de notre mort8(testo che in forma completa confluirà nel libro più famoso di Rousset, L’universo concentrazionario). Sartre decide di non intervenire direttamente sull’argomento, lasciando che un testimone introduca ai lettori l’enormità della tragedia appena consumatasi. È importante notare come questa scelta del Testimone (non solo in riferimento alla Shoah, ma di fronte ad ogni grande stravolgimento della storia), parta da Sartre e vada, poi, ad influenzare così profondamente lo stesso Lanzmann; sulla rivista sartriana la società, l’Altro, vengono prima raccontati dall’interno e poi commentati dall’esterno, in un continuo processo di rimando, di confronto, tra il dentro e il fuori. Un testimone indiretto, un giornalista, sarà chiamato a esporre le fasi salienti del processo di Norimberga9; Jean Pouillon commenta con tono piuttosto critico i momenti culminanti del processo ai criminali nazisti, evidenziando come il sistema giurisdizionale francese avrebbe, in questo caso, funzionato meglio di quello americano, dotato di giudici deboli, conniventi e poco esperti di fronte ad un processo che poteva essere (ma non fu) la grande occasione di riscatto per le vittime del nazionalsocialismo. Il 1947 è l’anno chiave per la formazione dello stato di Israele: mentre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite decide la spartizione della

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Palestina, Yéhouda Hadachi riflette sulla debolezza di un’idea sionista superata ormai dalla realtà dei fatti: Tanto la posizione del Sionismo, in quanto partner di una potenza politica, si è indebolita, tanto la realtà ebraica in Palestina, suscitata dal Sionismo, è viva e forte. Noi assistiamo laggiù al fenomeno tipico, ma non eccezionale, di una ideologia superata dalle sue realizzazioni10.

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La posizione redazionale della rivista si mostrerà inizialmente piuttosto cauta di fronte alla formazione dello stato di Israele, sul quale si riserverà giudizi ed opinioni soltanto a distanza di qualche anno. «Les Temps Modernes» continuano a seguire nell’ultimo biennio degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta una strategia di rimemorazione costante della tragedia ebraica (non dimentichiamo che si tratta di anni nei quali si preferiva ancora evitare l’argomento): nel 1948 esce uno splendido saggio di Jean Cayrol11 sui sogni concentrazionari: i sogni, pazientemente raccolti durante i terribili giorni di prigionia dallo scrittore stesso, degli internati nei campi della morte. Il saggio di Cayrol apre un periodo di interesse psicoanalitico; alcuni esponenti chiave del nazionalsocialismo, a partire ovviamente da Hitler sino al famigerato dottor Mengele12, vengono messi sotto la lente dell’osservazione psicoanalitica, per cercare nei traumi dell’infanzia le origini della follia e della malvagità che segnerà la loro maturità. Nel luglio 1952, sul n. 81 della rivista sartriana, compare per la prima volta il nome di Lanzmann, con un articolo dal titolo Il fallait que ça soigne, resoconto di una manifestazione (tenutasi a Parigi il 18 maggio 1952) contro la visita del generale Ridgway, organizzata dal partito comunista e finita, prevedibilmente, nella repressione poliziesca. Folgorato dalla lettura di Sartre, l’allora ventisettenne futuro regista entra a far parte dei collaboratori della rivista in pianta stabile (anche se il suo

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nome verrà accreditato tra i redattori soltanto nel 1954), ponendosi, sin dall’inizio, come uno dei più fedeli discepoli del filosofo francese. La digressione sulle modalità di approccio alla Shoah e alla diaspora della rivista sartriana ci è sembrata utile per capire di quale base interpretativa si fosse nutrito lo stesso Lanzmann prima di partecipare attivamente alle scelte redazionali della rivista. È indubbio che la rivista abbia rappresentato per Lanzmann una vera e propria palestra di formazione, dalla quale attingere un metodo, un modo di pensare, una visione del mondo che si porranno, negli anni a venire, in diretta continuità con l’imprinting sartriano; non va dimenticato che «Les Temps Modernes» nell’arco di oltre sessanta anni di storia ha avuto soltanto tre direttori: Sartre, de Beauvoir e Lanzmann. L’uno evidente diramazione dell’altro. L’occasione della creazione di un nuovo periodico di chiara matrice antisemita, «Rivarol», offre a Lanzmann l’occasione di scrivere un sardonico articolo sulle risorgenze dell’antisemitismo nella placida Francia degli anni Cinquanta. Anticomunismo e antisemitismo diventano il minimo comun denominatore di una stessa lotta, condotta con gli stessi mezzi, da individui che fanno del vittimismo il loro punto di forza: sentirsi minacciati dai comunisti o dagli ebrei non cambia i termini della questione. Sin da questo intervento, il giovane Lanzmann si segnala per una scrittura ironica e nutrita di paradossi; se in piena guerra fredda l’anticomunismo vive il suo momento di gloria, l’antisemitismo, apparentemente sopito, è diventato un’attività snobistica ed elitaria: Ma è precisamente dal suo abbandono che l’antisemitismo si guadagna al momento la gloria, il suo punto d’onore e il suo carattere. È per questo che sosteniamo che ha cambiato di senso. Come quei falliti, che stremati dalla concorrenza dei grandi gruppi, decidono un giorno che il commercio è immorale e diventano mistici, gli antisemiti lasciano agli anticomunisti gli istinti più bassi. L’anticomunismo è

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volgare, l’antisemitismo è di essenza spirituale13.

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La lezione sartriana filtra con naturalezza dalle parole convinte e agguerrite di Lanzmann, che ironizza pungente su questi nuovi “nemici” senza farsi intimidire. L’antisemita è un malato, da compatire, come emerge da un saggio apparso nel 1953, Le rôle des expériences de la vie quotidienne dans la structuration des préjugés de l’antisemitisme nazi14: studio di psicologia sociale sul milieu nel quale si formano gli individui antisemiti. Il saggio, accompagnato da un’ampia scelta di documenti, si focalizza sull’educazione dell’antisemita, basata su di una risposta emozionale e non razionale (si insegna a odiare l’ebreo). Nel numero di dicembre 1953, Lanzmann entra a far parte “ufficialmente” della redazione de «Les Temps Modernes», insieme a Jean Cau e Marcel Peju. Il ruolo, all’inizio, non è ancora ben definito, il giovane intellettuale scrive discontinuamente, recensendo libri, commentando fatti di politica interna ed estera e, per una volta sola, nel febbraio del 1954, occupandosi anche di cinema. L’occasione è data dall’uscita di un film minore The Big Secret (il vero titolo del film è Above and Beyond [Il prezzo del dovere, 1952]) di Melvin Frank e Norman Panama con Robert Taylor, patriottico docudrama centrato sul bombardamento di Hiroshima, raccontato dal punto di vista del comandante dell’Enola Gay. Il tono della recensione è alquanto sarcastico, focalizzato più sul messaggio fazioso che sulle (scarse) qualità formali dell’opera. Tuttavia, l’incertezza iniziale si risolve a favore dell’impegno politico e Lanzmann interverrà, nell’arco di tutta la direzione sartriana (ovvero fino al 1980), in maniera sporadica e discontinua, ma sempre focalizzandosi sulle questioni che gli stanno più a cuore: l’antisemitismo, la Shoah, l’impegno per i paesi del terzo mondo, l’anticolonialismo, l’appartenenza alla sinistra. Proprio su quest’ultimo argomento, il nostro scrive un imponente saggio (il più lungo comparso su «Les Temps

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Modernes» recante la sua firma), intitolato, semplicemente, L’homme de gauche; l’idea di fondo è abbastanza chiara: ogni divenire che si attua ricade nell’ordine costituito, ma il passaggio da un ordine ad un altro implica un momento negativo, la sinistra è l’incarnazione di questo momento. La sinistra si dà come momento di rifiuto. L’uomo di sinistra si muove imperterrito verso un fine che crede immutabile, ma che invece muta con il mutare della storia; l’uomo di destra, invece, si muove seguendo le opportunità del momento: egli è un opportunista. La sinistra, secondo Lanzmann, si fonda su tre principi fondamentali: nel mondo umano nulla è mai naturale, tutto è provocato da uomini che sfruttano altri uomini; il capitalismo alimenta nel proletariato alcune illusioni, come l’utopia della meritocrazia o quella dell’accontentarsi di quello che si ha perché il regno dei cieli appartiene al povero; c’è oppressione fin quando l’accesso all’umano non viene aperto a tutti, non basta offrire beni materiali, bisogna rendere uomini i “sotto-uomini”. In parole povere, l’uomo è l’avvenire dell’uomo. L’autore sottoscrive pienamente tali principi, evidenziando come lo psicologismo e il moralismo siano entrambi dannosi per l’uomo: entrambi illudono gli individui, allontanandoli dall’analisi criticopolitica dei processi storici, il primo affermando che gli uomini non sono uguali e il secondo affermando il contrario. L’invito al pensiero critico è ben esemplificato in chiusura del saggio con l’esempio della rivolta dei marinai sul Potëmkin, stanchi di essere ingannati e costretti a mangiare una “carne piena di vermi”: Occorre ricondurre l’uomo alla sorgente della verità, sotto ogni aspetto. Quando Pascal sostiene che un segno della follia umana è la preoccupazione che l’uomo ha per il proprio avvenire, è lui a mostrarsi di scarse vedute: il fatto che l’uomo sia in pena per il proprio avvenire prova che l’avvenire appartiene al suo presente e che Pascal si è fatto una falsa idea sia degli uomini che del tempo15.

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Il tono è energico e volontaristico, l’uomo di sinistra, come Lanzmann, è un uomo di azione, che non si fa illudere e che non si fa neanche false illusioni sulle promesse di riscatto che il capitalismo propugna come anticorpo per la sua sopravvivenza. Tuttavia, l’Ungheria è dietro l’angolo e presto i carri armati sovietici marceranno su Budapest, lasciando attonito “l’uomo di sinistra”: Lanzmann, sempre estremamente coerente, neanche allora, pur condannando, in accordo con la redazione, il ricorso alla forza, rinnegherà i tre principi fondamentali della sinistra, nei quali ha continuato a credere, si può dire, sino ad oggi. Il biennio 1956-57 dedica scarsa attenzione alla Shoah e alla questione israeliana. Con l’eccezione di un discutibile e discusso intervento di Robert Misrahi, De la question juive à l’existence d’Israel («Les Temps Modernes», 121), al quale fecero seguito tre brevi interventi di risposta, rispettivamente di Richard Maruel, M’hamed Férid Ghazi e Rémi Dreyfus, l’attenzione della redazione è completamente catalizzata dai fatti d’Ungheria e dalla caduta dello stalinismo. Di fronte al cataclisma storico vissuto dai partiti comunisti di tutto il mondo, la redazione della rivista sartriana rimane compatta (cosa che non accadrà, come vedremo, in occasione della Guerra d’Algeria): la linea di condotta prevede una ferma condanna dei metodi utilizzati dall’Unione Sovietica, ma anche l’invito alla comprensione, all’analisi del fenomeno, per indagarne le ragioni, senza per questo dover rinnegare le proprie basi politiche. Lanzmann, dopo tre anni di silenzio, torna a scrivere nel 195816, su un argomento piuttosto lontano dalle sue corde, ma attraverso il quale riesce a dar fondo al suo sostanziale e mai celato anticattolicesimo: con tono umoristico e polemico, Lanzmann espone il caso giudiziario, che aveva sconvolto la Francia dell’epoca, di un curato di campagna, accusato di omicidio, e clamorosamente assolto. L’occasione offre il destro a Lanzmann per scagliarsi contro l’ipocrisia e la

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malafede della Chiesa Cattolica, interessata cinicamente a mettere a tacere lo scandalo e a proteggere comunque un suo esponente. La questione israeliana viene, invece, coperta in questi ultimi anni Cinquanta da Robert Misrahi, il quale, in maniera completamente acritica, loda l’operato di Israele e addossa agli arabi le cause della loro stessa insoddisfazione, arrivando a tracciare un quadro manicheista, ben poco convincente. Il primo intervento che cerca di ridimensionare colpe e meriti sopraggiunge piuttosto tardi con Uri Avnery, fondatore e direttore del movimento “Action sémitique”, che promuove la collaborazione tra arabi ed ebrei contro le minacce esterne17. Tuttavia, l’intervento di Avnery viene accolto con indignazione da Misrahi e da altri studiosi della questione israeliana, rendendo evidente una certa faziosità filo-israeliana nella gestione redazionale dello spinoso problema. Quanto le opinioni di Lanzmann abbiano inciso nelle scelte editoriali dell’epoca non ci è dato saperlo, anche se, negli anni della sua direzione, il problema-Israele è stato sicuramente approcciato con più distacco e con più apertura critica, arrivando in alcuni momenti particolarmente delicati, a rifiutare le modalità di intervento politico del governo israeliano nei confronti dei palestinesi (ad esempio in occasione delle stragi di Sabra e Chatila nel settembre 1982). Gli anni Sessanta sono dominati dalla guerra d’Algeria. Il nome di Lanzmann compare tra i numerosi firmatari della Déclaration sur le droit à l’insoumission dans la guerre d’Algerie (agosto-settembre 1960). La rivista, apertamente anti-francese e schierata accanto alla battaglia di autodeterminazione algerina, diventa oggetto di numerosi attacchi censori da parte delle forze statali di controllo della stampa. Un articolo di Lanzmann, L’Humaniste et ses chiens, sull’azione repressiva di una forza di polizia ausiliaria in due quartieri parigini, viene censurato e ne viene proibita la pubblicazione in extremis. Nel 1961, per far fronte alla difficile situazione politica, la rivista tenta un esperimento di

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direzione collettiva, in modo tale che l’azione censoria si ridistribuisca equamente tra tutti i membri della redazione e non vada sempre a colpire soltanto la figura di Sartre. La responsabilità delle questioni politiche viene presa da Sartre, da Lanzmann e da Marcel Péju. La rivista attraversa in questi anni una fase di militanza estrema a fianco degli indipendentisti arabi, che conduce la redazione a ripensare in termini più problematici anche l’approccio alla questione palestinese. Lanzmann si schiera apertamente con gli algerini e con tutti quei francesi finiti in carcere per aver sostenuto la lotta d’indipendenza; nel dicembre del 1961, scrive, a proposito di uno sciopero della fame di militanti algerini rinchiusi nelle prigioni francesi, parole di scottante attualità: Non è giusto dire che si lasciano morire. Essi si fanno morire, si tratta di un’azione. Non c’è margine d’errore: se gli si spiega che la loro morte è necessaria alla vittoria; che il popolo algerino gli chiede di sacrificarsi, essi andranno fino in fondo18.

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Nel 1962, la Guerra d’Algeria porta ad una spaccatura all’interno della redazione: Marcel Péju, uno dei nomi di punta della rivista sartriana e co-direttore per otto anni, viene costretto alle dimissioni, a causa, a parer suo, dell’eccessivo impegno nella difesa del fronte di liberazione algerino. Sartre non si pronuncia sulle reali ragioni della spaccatura, dichiarando semplicemente che la decisione di estromettere Péju è stata presa in accordo con gli altri tre redattori, tra i quali, naturalmente Lanzmann. Il posto di Péju viene preso da Francis Jeanson. Nel novembre del 1961, Misrahi interviene su un altro degli argomenti “caldi” del periodo19, ovvero il processo Eichmann, tenutosi a Gerusalemme tra il 1960 e il 1961. Il processo viene interpretato, da Misrahi, non come una condanna nei confronti di un uomo spregevole, ma come la possibilità storica di far rinascere Israele dalle ceneri del

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proprio passato. La redazione, tuttavia, si mantiene piuttosto fredda di fronte al processo Eichmann: non viene dato grande rilievo a quello che la stampa dell’epoca considerava il primo vero processo agli esecutori dello sterminio ebraico (a Norimberga, la Shoah compariva come uno dei crimini commessi dal partito nazionalsocialista e non come il crimine più grave in assoluto), né viene data rilevanza al testo fondamentale di Hanna Arendt20, scritto proprio in occasione del processo Eichmann e che, dietro l’apparenza di una cronaca giornalistica dell’evento, nascondeva una critica esplicita al comportamento dei capi delle comunità ebraiche durante le varie fasi della Soluzione Finale. La redazione, nei primi turbolenti anni Sessanta preferisce focalizzarsi sulla fine del colonialismo e sui crescenti movimenti di insurrezione giovanile statunitensi: l’ascesa delle minoranze nere, la lotta femminista, la rivolta nei confronti del Potere e il dissenso verso la guerra del Vietnam. Nei confronti della guerra del Vietnam si scatena una vera offensiva (Sartre parla di genocido del popolo vietnamita): numerosi interventi attaccano le modalità di gestione di un conflitto condotto con metodi in tutto e per tutto analoghi a quelli che la corte americana aveva condannato durante il processo di Norimberga. Nel 1965, il governo di Bonn decide di far cadere in prescrizione, a distanza di venti anni, i crimini hitleriani, anche per proteggere da possibili “incursioni” israeliane i numerosi ex-nazisti presenti tra le file del nuovo governo tedesco. La redazione della rivista sartriana esprime il proprio dissenso e non è escluso che proprio questa storica decisione sia alla base dello sdegno di Lanzmann nei confronti dei numerosi tentativi di insabbiamento della Shoah, perpetrati, con vari mezzi (politici, pubblicitari, culturali), nell’arco degli ultimi sessanta anni. I giorni caldi della guerra dei Sei Giorni, nel 1967, vedono la pubblicazione di un dossier hors-série interamente dedicato al conflitto arabo-israeliano, dimostrando un’apertura completa nei

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confronti di tutti i fronti caldi della politica internazionale. L’inasprirsi della guerra in Israele conduce al riemergere di una nuova forma di antisemitismo, collegata con l’ostilità nei confronti della politica israeliana e che la redazione della rivista non mancherà mai di condannare con la stessa decisione con la quale aveva sempre condannato ogni forma di odio nei confronti del popolo ebraico. Il 1970 registra un piccolo terremoto interno alla redazione: Pingaud e Pontalis danno le dimissioni dal comitato di redazione a causa delle posizioni estremistiche assunte, a parer loro, dalla rivista; i due ex-redattori si riferiscono esplicitamente ad un articolo di André Gorz apparso sul numero 285 e intitolato, provocatoriamente, Détruire l’université. L’invito a distruggere il sapere, perfettamente conforme agli umori nichilisti post-sessantotteschi, non era evidentemente piaciuto ai due prestigiosi redattori che abbandonano il loro posto, lasciando una redazione così composta: de Beauvoir, Bost, Gorz, Lanzmann, Pouillon e Sartre. La nuova redazione imprime alla rivista una svolta verso l’estremismo politico; i saggi dedicati alla cultura, alla filosofia, alla letteratura lasciano quasi completamente il posto ad interventi militanti (talvolta anche anonimi, come un curioso saggio centrato sul rapporto tra l’eroina e il capitalismo, apparso sul numero 308 del 1972) concentrati sulla lotta di classe, sull’attualità del leninismo e sulle battaglie del femminismo. La questione ebraica, in questo decennio di turbolenze, passa in secondo piano, per ritornare di estrema attualità, con la messa in onda sulla televisione americana del “famigerato” sceneggiato Holocaust (1978). Lo sceneggiato televisivo, che, come vedremo, segna il primo passo verso l’americanizzazione della Shoah – il cui apice viene toccato da Schindler’s List di Steven Spielberg (Schindler’s List – La lista di Schindler, 1993) e dalla successiva creazione, da parte dello stesso, della Shoah Foundation –, produrrà uno scontro piuttosto violento tra

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Christian Zimmer, editorialista della rivista, e Claude Lanzmann. Zimmer descrive le caratteristiche di uno sceneggiato di modesta fattura, destinato alla superficiale programmazione della TV generalista, tuttavia, pur evidenziandone gli innegabili difetti, ne difende lo spirito e la capacità di allargare ad un vasto bacino d’utenza la conoscenza della storia recente. I detrattori dello sceneggiato si sono avvalsi di due ordini di accuse: l’irrappresentabilità dell’Olocausto (l’enormità e la tragicità dell’evento negano a priori la possibilità di qualsiasi rappresentazione) e la specificità delle vittime ebree, che si sentono “differenti” da tutte le altre e, a confronto delle quali, le altre vittime della Storia sono banali, ovvero, prive di specificità. Zimmer confuta la presunta specificità delle vittime della Shoah, riportandole all’interno della storia e dunque del visibile: Una tale attitudine [la tesi dell’irrappresentabilità della Shoah] è perfettamente in accordo con una certa negazione della storia: perché quest’ultima non può essere solo testo, verità astratta. La finzione fa parte della storia, perché la storia è la memoria e la memoria è creatrice, creatrice d’immagini. Il documento da solo non è storia: in ogni storia c’è ricostruzione (ovvero, ancora una volta, finzione)21.

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Lanzmann risponde a Zimmer con durezza, accusandolo di antisemitismo e costringendolo a lasciare la rivista. In un testo programmatico di quello che sarà il futuro Shoah, Lanzmann espone la propria “teoria dell’irrappresentabilità”: Malgrado i milioni di morti sui due campi, malgrado l’orrore di Hiroshima o di Dresda, si sa che i sei milioni di ebrei assassinati non sono vittime come le altre: questo crimine esorbitante è di un’altra natura, di un’altra qualità, è un crimine senza nome che gli stessi assassini nazisti non osavano nominare, come se commettendolo l’avessero reso impossibile: alla lettera, un crimine innominabile22.

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I sei milioni di ebrei assassinati rappresentano per noi la presenza di un’assenza e l’assenza, in quanto tale, non può

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lasciare immagini. Come si può notare, ancor prima delle innumerevoli accuse che piomberanno addosso a Lanzmann, dopo l’uscita di Shoah, nel 1985, l’intellettuale francese espone con estrema chiarezza un’idea iconoclasta che respinge l’immagine, senza però respingere la parola, la testimonianza, che diventa il punto di partenza e il punto di arrivo di ogni rimemorazione dello sterminio ebraico. Oltre la parola non sarà mai possibile andare. Nel 1980, dopo essere rimasto alla direzione della rivista fino all’ultimo giorno, con indefessa energia, Jean-Paul Sartre muore. L’annuncio viene dato sul numero di maggio. Il nome del filosofo francese si imprime sulla copertina della rivista (dov’è ancor oggi) con il titolo onorifico di fondateur e in assoluta continuità, dopo qualche numero di gestione collettiva, il timone viene preso, con grande dignità e rispetto, da Simone de Beauvoir. Il comitato di redazione nel novembre del 1980 risulta così formato: de Beauvoir, Bost, Etcherelli, George, Gorz, Lanzmann, Pignon, Pouillon e Rigoulot. Proprio nel novembre del 1980, Lanzmann interviene provocatoriamente con un articolo dal titolo, Le temps de la deraison, approvato unanimamente da tutto il comitato direttivo, scritto ad un anno di distanza dall’assassinio di Pierre Goldman, un attivista ebreo e collaboratore della rivista sartriana, ucciso di fronte alla sinagoga parigina da assassini ancora in libertà. L’autore si sofferma sulle spaccature che dividono il popolo ebraico, incapace, proprio a causa dell’eccessiva frammentarietà, di far fronte ad un rinascente antisemitismo più unito e compatto che mai. Lanzmann accusa, senza giri di parole, la borghesia francese e le istituzioni, che lasciano passare sotto silenzio un omicidio in piena regola e che sottovalutano il pericolo di inasprimento dell’intolleranza politica e religiosa: Prima di Goldman c’è stato Curiel e una lunga serie di violenze, sedici omicidi rivendicati da gruppi di neo nazisti e tutti rimasti impuniti. Come se fosse, al giorno d’oggi,

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naturale e ammesso in Francia l’assassinio di ebrei e di militanti politici, o di ebrei militanti politici, e senza che ciò porti nessuna conseguenza, come se fosse la cosa più normale del mondo23.

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La freddezza del governo francese di fronte alle nuove forme di antisemitismo viene più volte sottolineata dai redattori della rivista nell’arco degli anni Settanta e Ottanta; per tale ragione, il viaggio dell’allora presidente François Mitterand, in Israele, nel 1982, verrà interpretato da Lanzmann come il primo esplicito atto di sostegno e di aiuto offerto dalla Francia al popolo ebraico. Il viaggio di Mitterand riveste un’importanza simbolica in quanto espressione di una riconoscenza (in francese si usa la parola reconnaissance per indicare sia “riconoscenza” che “riconoscimento”), secondo la doppia accezione del termine: da un lato, riconoscenza per quanto offerto alla Francia dagli ebrei in termini di vite e in termini di contributi nei più svariati campi del sapere, dall’altro, riconoscimento ufficiale dello stato d’Israele e della linea di condotta politica adottata dall’allora presidente Begin. Una politica controversa e discussa, soprattutto a seguito delle modalità con le quali era stata condotta la guerra del Libano, culminata con i massacri di Sabra e Chatila per mano degli israeliani. Lanzmann, pur condannando le azioni commesse nei campi palestinesi, rifiuta l’aprioristica criminalizzazione di tutto lo stato israeliano, dichiarandosi colpevole in prima persona24 per non aver compreso la gravità del conflitto libanese. La difesa dello stato israeliano diventa, in questi primi anni Ottanta, la priorità della rivista in relazione alla questione ebraica. L’Olocausto, apparentemente messo da parte, era invece il pensiero principale di Lanzmann da oltre dieci anni; ci vollero, infatti, esattamente dieci anni per offrire al pubblico Shoah, un film pazientemente preparato in silenzio e con estrema pazienza. Se sul fronte della militanza editoriale, Lanzmann lavorava sul presente, nel privato raccoglieva le

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testimonianze del passato.

3. Il dopo-Sartre: «Les Temps Modernes» (1985-2005) 29

Il 1985 è un anno di svolta: esce nelle sale Shoah. Il film avrà un tale impatto critico internazionale da poter individuare nell’arco del percorso artistico di Lanzmann, come già precedentemente evidenziato, un periodo pre-Shoah e un periodo post-Shoah. La frattura che si viene a creare non investe soltanto l’opera di Lanzmann, ma si ripercuote con forza all’interno della rivista sartriana, che, a partire proprio dal 1985, diventa il pulpito privilegiato per l’(auto)difesa del regista francese. «Les Temps Modernes» si trasforma lentamente nello strumento privilegiato per la diffusione dello scontro tra Lanzmann e i suoi numerosissimi avversari. Il primo articolo dedicato a Shoah si segnala per toni di estatica ammirazione, sottolineando l’assoluta abnegazione dell’autore e le sofferenze attraversate nella genesi di un’opera di importanza epocale: Quest’uomo [Lanzmann] è, dunque, stato per dieci anni nel cuore dell’orrore. Ritroviamo in questo fatto un problema fondamentale, che getta una luce violenta sull’altro versante dell’ascesi: il cammino di sofferenza del creatore, il prezzo che ha dovuto pagare per darci Shoah”25.

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Pur considerando l’opera di Lanzmann estremamente importante all’interno della storia del cinema di non fiction, rimane comunque aperta la questione se sia giusto o meno trasformare una rivista in veicolo di autodifesa e in efficace strumento di autopromozione per oltre vent’anni (tuttora, escono con cadenza periodica saggi interpretativi sul film di Lanzmann o interventi che lo citano più o meno direttamente come opera imprescindibile). Sicuramente una rivista rappresenta un campo ineguagliabile per spostare l’attacco estemporaneo di un quotidiano in una articolata discussione culturale e, molto probabilmente, l’intenzione

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primaria di Lanzmann è stata proprio quella di affossare le accuse sotto una ragionata ed estesa difesa intellettuale. Il dibattito su Shoah è così uscito dall’estemporaneità della cronaca per entrare nella durevolezza della storia, grazie all’attenta operazione compiuta da Lanzmann. Le idee del regista francese vengono veicolate attraverso fedeli espositori del verbo iconoclasta o da Lanzmann stesso, sotto la forma privilegiata dell’intervista. L’intervista permette un apparente distanziamento dalla materia trattata; la risposta sollecitata è qualitativamente differente dall’asserzione volontaria. L’intervista, rilasciata spesso sotto l’onda dell’emozione, concede, in ultima istanza, la possibilità della ritrattazione, opportunità raramente concessa al saggista. Lanzmann si sottopone all’intervista, lasciando agli altri la responsabilità della dichiarazione unica. La tendenza si radicalizza a partire dal 1986, anno della morte di Simone de Beauvoir e della nuova direzione di Lanzmann; nel 1987 il comitato di redazione è così formato: Henriette Asseo, Claire Etcherelli, Michel Giraud, Sylvie Le Bon-de Beauvoir, Sami Naïr e Jean Pouillon. Dal gennaio 1995 la rivista passa da mensile a bimestrale. Il primo numero della nuova direzione (479) è uno speciale dedicato all’Africa del Sud, pensato per rimanere fedele alla linea sartriana dell’anticolonialismo. I maggiori esponenti del pensiero africano vengono chiamati a intervenire su scottanti questioni politiche e culturali. La direzione di Lanzmann, pur lasciando inalterata la struttura grafica e tematica della rivista, introduce alcune innovazioni, espressione della volontà di creare una politica culturale, caratterizzata da una discontinuità nella continuità. Il cinema, che aveva avuto per anni una sezione fissa (curata, per molti anni, da quel Christian Zimmer dimessosi dopo la pubblicazione dell’intervento su Holocaust), viene sacrificato per lasciare uno spazio fisso alle cronache teatrali, curate da Micheline B. Servin. Ovviamente, la questione ebraica, le dinamiche del

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conflitto ebraico-palestinese, la Shoah, le episodiche risorgenze dell’antisemitismo vengono ad assumere un’importanza maggiore rispetto alla direzione sartriana e al breve intermezzo della de Beauvoir, tuttavia le problematiche di politica internazionale, sempre analizzate attraverso la lente di osservazione dell’interpretazione storico-culturale, rimangono prioritarie, così come lo erano sempre state. Il nuovo direttore, seguendo l’esempio di Sartre, si schiera al fianco dei popoli oppressi e degli individui condannati, imprigionati, allontanati per le loro idee politiche o il loro credo religioso; in questa battaglia per la libertà si inserisce anche lo sdegno che la redazione dichiara per la fatwa (condanna a morte emessa dai leader religiosi musulmani) subita dallo scrittore Salman Rushdie nel 1989. Lo sdegno, come sempre, contempla una buona dose di autocritica: Questo voyeurismo planetario, forma moderna della nonassistenza a chi si trova in pericolo, non è privo di una buona dose di razzismo. Perché l’affare dei Versetti [I versetti satanici, titolo del libro per il quale Rushdie è stato condannato], lo scontro Khomeini-Rushdie, con l’intervento di pakistani e indiani, appare al profano come una battaglia di neri in un tunnel. È la sola offesa all’Islam di cui si possa essere certi, noi ne siamo responsabili26.

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Il senso civico di una responsabilità che ci investe sempre e comunque, anche quando siamo lontani, anche quando non sappiamo (l’ignoranza non è mai ammessa), porta Lanzmann a dichiararsi ugualmente colpevole della Shoah, della violenta repressione condotta dai francesi in Algeria, dei massacri di Sabra e Chatila, della fatwa emessa contro Rushdie, dando in fondo una risposta postuma e del tutto personale a quell’interrogativo sospeso che chiudeva Nuit et bruillard di Alain Resnais (Notte e nebbia, 1956): chi è responsabile? Sul finire degli anni Ottanta, l’uscita del volume Les

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assassins de la mémoire dello storico Pierre Vidal-Naquet, interamente dedicato alla confutazione delle teorie revisioniste del famigerato Faurisson, solleva un vespaio di polemiche che la rivista sartriana non può fare a meno di registrare fedelmente, ospitando più volte sulle proprie pagine gli interventi dello storico francese. Vidal-Naquet, del resto, nel suo volume, spende parole di elogio per il film di Lanzmann: La scrittura non è l’unica modalità della storia. Perché un film come Shoah è una grande opera storica e non, per esempio, un insieme di racconti? Non si tratta né di una ricostruzione romanzesca come Holocaust, né di un documentario (vi si legge un solo documento dell’epoca, relativo ai camion di Chelmno), ma di un film in cui gli uomini di oggi parlano di ciò che fu ieri27.

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Vidal-Naquet ha espresso più volte l’idea che le carenze della storiografia francese sull’argomento concentrazionario, dovute principalmente al timore e alla vergogna di trattare un argomento spinoso come la repubblica di Vichy e al sospetto nei confronti della storia contemporanea, siano state colmate in maniera ineccepibile da Shoah. Il tema del revisionismo si rivelerà presto per Lanzmann un’arma a doppio taglio: spesso i suoi detrattori lo accuseranno di fare il gioco dei vari Faurisson. La negazione dell’immagine può tendere pericolosamente verso la negazione dell’evento: nessuna immagine, nessuna storia. Tuttavia, uno dei modi con il quale Lanzmann respingerà tali accuse si manifesta proprio nella scelta di ospitare sulle pagine della rivista un numero sempre maggiore di interventi dedicati al tema del revisionismo negazionista. Dal dicembre del 1988, entra a far parte del comitato di redazione, per brevissimo tempo, il regista Marcel Ophuls, con il quale Lanzmann avrà un duro scontro, che porterà alla rottura definitiva, alcuni anni dopo (registrato puntualmente dai «Cahiers du Cinéma» e sul quale avremo modo di

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ritornare). Ophuls, autore nel 1971 de Le chagrin et la pitié, eccezionale documento storico sul collaborazionismo di Vichy, è il primo cineasta, oltre Lanzmann, ad entrare, seppur per breve tempo, nella redazione de «Les Temps Modernes». L’apparente unità di intenti (per la scelta delle tematiche) si rivelerà presto estremamente fragile e illusoria (tra la altre ragioni, anche per una diversa interpretazione del documento storico). Ogni nuovo documento, ogni nuova acquisizione che permetta una apertura nelle conoscenze relative alla Shoah viene accolta con entusiasmo dalla redazione della rivista: nel 1994 (n. 550) viene pubblicato un ampio estratto del diario di Adam Czerniakow, trovato tra le macerie del ghetto di Varsavia e redatto tra il settembre del 1939 e il luglio del 1942, prima che la violenza nazista si abbattesse sugli abitanti del ghetto. Lanzmann attribuisce molta importanza al documento e si dimostra lieto di poterne leggere anche una traduzione in francese, favorendo con il suo lavoro di infaticabile storico della Shoah, il ritrovamento e la pubblicazione di testi ritenuti scomparsi o sconosciuti (uno stesso lavoro era stato condotto nel 1987 con la pubblicazione dell’inedito Rapport du maitreforestier May, documento dell’addetto alle foreste polacche durante la Soluzione Finale). Nel 1996 si festeggia il cinquantenario della rivista, il direttore progetta un numero speciale, nel quale invita a collaborare tutti coloro che sono stati più o meno coinvolti nella straordinaria e longeva impresa de «Les Temps Modernes». Il filosofo Jacques Derrida, che non ha mai scritto sulla rivista, ma per il quale ha rappresentato un luogo di crescita e di formazione culturale, è incaricato di aprire il numero speciale, dopo l’introduzione di prassi del direttore. Derrida può testimoniare, può condividere una parte della sua memoria con quella dei lettori della rivista, pur non essendo mai stato interno: «fuori ma dentro, dentro ma fuori, è la sola posizione della vera testimonianza»28, chiosa Lanzmann.

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Gli ultimi dieci anni sono storia recente. Lanzmann continua a dare estrema importanza a tutte le nuove opere storiche, teatrali, cinematografiche riguardanti il tema concentrazionario. Non c’è volume, film o dichiarazione che non passi sotto il severo vaglio dell’intellettuale francese, accusato, a più riprese, di voler imporre, come unica e incontrovertibile, la sua interpretazione della Shoah, senza lasciar ad altri alcuna possibilità di intervento, né tanto meno di dissenso. Negli ultimi anni si sono registrati sulle pagine della rivista alcuni casi emblematici; uno dei quali è certamente il coro di polemiche sollevatosi in Francia a seguito della pubblicazione del libro di Daniel Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, nel 1997. Il testo di Goldhagen tenta, con grande abilità affabulatoria, di scagionare il popolo tedesco dalle decennali accuse di collaborazionismo con il governo nazista, addossando la colpa su di un manipolo di pazzi e sanguinari collaboratori di Hitler, ai quali andrebbe ascritta la completa responsabilità della guerra, delle persecuzioni e dello sterminio degli ebrei. Il successo internazionale del libro (un vero e proprio bestseller storico) preoccupa non poco Lanzmann, intimorito dalla possibilità che si possa diffondere una interpretazione del nazismo non consona con la realtà dei fatti. Come evidenzia lo stesso Lanzmann in un polemico intervento: Avremmo così propagato la menzogna che il nazismo fosse il prodotto di un pugno di criminali, esonerando i tedeschi nel loro insieme da qualsiasi implicazione sull’antisemitismo, sul propagarsi della violenza e, infine, sulla “morte dolce” nelle camere a gas, che Goldhagen, nella sua foga tautologica, osa descrivere come “epifenomeni”, liberando così i tedeschi, i suoi lettori e lui stesso, dall’obbligo di dover pensare e affrontare ciò che c’è di assolutamente unico e senza precedenti nella distruzione degli ebrei d’Europa29.

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Le ultime parole di quest’attacco in piena regola rimandano al titolo del volume più importante di uno storico molto

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stimato da Lanzmann, Raoul Hilberg, autore, per l’appunto, de La distruzione degli ebrei d’Europa. Hilberg stesso, di solito restio agli interventi sulla carta stampata, interviene poche pagine innanzi all’articolo del direttore, per decostruire le fantasiose interpretazioni di Goldhagen e per evidenziarne, ancora una volta, la pericolosità. Gli attacchi si indirizzano, come rilevato, su vari fronti e se, più innanzi, ci focalizzeremo sul recente scontro Lanzmann/DidiHuberman, che ha “appassionato” il dibattito culturale francese e che ha sollevato importanti questioni di ordine metodologico, non possiamo tacere sull’accoglienza che hanno ricevuto da parte della redazione di «Les Temps Modernes» i vari film di finzione e documentari, realizzati negli ultimi anni e centrati sulla rievocazione della Shoah. Sul numero 608 del 2000 escono due interessanti e ben articolati saggi che hanno come obiettivo principale l’attacco a due film sulla Shoah, un documentario, The Last Days di James Moll, coprodotto da Steven Spielberg per la Shoah Foundation e un film di finzione, La vita è bella di Roberto Benigni, uscito nelle sale italiane tre anni prima, ma recensito solo ora, a debita distanza dal battage pubblicitario e dall’onda del successo commerciale. La condanna è senza appello per entrambi i film. Il documentario di Moll si presta a molteplici critiche, con le quali non possiamo non essere d’accordo; prima di tutto, il film manca di qualsiasi indicazione sulle fonti storiche che vengono utilizzate: il regista fa ampio ricorso a filmati d’archivio dei quali non viene indicata la provenienza, né la datazione, né tanto meno l’attribuzione; le informazioni che vengono fornite sono approssimative e, talvolta, scorrette; non viene data alcuna importanza al valore scientifico del documento ma si cerca soltanto di amplificare al massimo il valore emozionale. A Moll non interessa informare, ma commuovere; per tale ragione, l’autore ricorre ad una continua spettacolarizzazione degli eventi, manipolati in maniera tale da produrre nello

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spettatore la massima empatia con i personaggi, scampati allo sterminio, che raccontano la loro storia, emblematicamente circondati dall’affetto dei loro cari. Moll propone un messaggio di vicinanza umana, cercando di equiparare il dolore degli scampati a quello provato da qualsiasi spettatore di fronte alle grandi tragedie della vita, Lanzmann, dal canto suo, come vedremo, con Shoah, cerca di allontanare l’esperienza vissuta nei campi di concentramento da qualsiasi altra esperienza esistenziale, promuovendo nello spettatore un sentimento di distanza e di dis-identificazione. Il documentario di Moll, ideato per essere un documentario sulla Shoah manca a pieno il suo obiettivo: The Last Days si presenta come un album sulla vita ebraica, sulla vita dei vivi, quando un film sulla Shoah dovrebbe essere piuttosto un film sulla vita dei morti. Qui loro non hanno posto. Ci si aspetta dei testimoni e ci vengono offerte storie di vita. Ma quando si fa così, si squalificano gli intervistati in quanto Testimoni. Li si fa parlare su loro stessi quando essi avrebbero potuto parlare sugli altri. In tutto ciò, The Last Days non è un film sulla Shoah, ma un film sulla vita dei sopravvissuti alla Shoah30.

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Il film di Moll ci manda a casa con la coscienza tranquilla, dopo aver versato la lacrimuccia di rito e senza sentirci, in fondo, autenticamente cambiati. Il risultato dell’intera operazione, sulla falsariga delle tante iniziative analoghe promosse dalla Shoah Foundation in questi ultimi anni, è una inutile pedagogia delle lacrime, amplificata da un sottofondo di musica sentimentale e dalla consolatoria sensazione che gli ebrei siano stati sterminati per permettere oggi, ai sopravvissuti, di condurre una serena vita famigliare oltre-oceano, accolti anche loro nel generoso grembo del sogno americano (non era in fondo anche il finale di Schindler’s List?). Inutile aggiungere che per Lanzmann non c’è consolazione, che le vite perdute non saranno mai

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rimpiazzate e che non c’è possibilità di addolcire il male assoluto, né di comprenderlo nelle sue dinamiche più profonde e “umane”, c’è solo possibilità di ascoltare i testimoni, anche senza capirli fino in fondo, e diventare, a nostra volta, testimoni nel tempo e nello spazio. Non poteva passare indenne dal severo vaglio della rivista sartriana, l’operazione comico-commerciale del duo BenigniCerami, caso emblematico di una banalizzazione irriverente della Shoah fatta passare dalla stampa come tributo alle vittime del tragico genocidio, almeno secondo il parere della redazione della rivista sartriana. Per lo studioso Michel Henochsberg il tema de La vita è bella è puramente pretestuale; si tratta, infatti, di un film costruito sulla figura di un attore e non di un attore al servizio di una narrazione: la Shoah diventa un set qualsiasi (reso tanto più artificiale per meglio adeguarsi al tono comico del personaggio), al pari di quelle ambientazioni tipiche del cinema comico seriale che vedevano il personaggio centrale spostarsi di volta in volta in set sempre più avventurosi e improbabili (così come abbiamo i vari Gianni e Pinotto al Polo Nord, Gianni e Pinotto a Hollywood e Gianni e Pinotto alla legione straniera possiamo avere qui un Benigni ad Auschwitz seguito a qualche anno di distanza da un Benigni in Iraq). La costruzione dei personaggi del film, che non possiede in alcun modo le caratteristiche del racconto ma piuttosto quelle della parodia, è priva di qualsiasi approfondimento psicologico e storico; al centro c’è Benigni e tutti gli altri personaggi si muovono nella vicenda come inespressivi figuranti, chiamati a fare da contorno al buffone. Il tono dell’attacco si fa via via più serrato: Il peggio de La vita è bella è che Benigni cerca di imporci dei sorrisi, vuole produrre in noi un’emozione legata al dipanarsi della narrazione, all’interno di un luogo, di una scenografia, che rifiuta a priori questo tipo di reazione: il progetto di Benigni, sotto l’apparenza del racconto, è indegno perché fa

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di noi degli spensierati irresponsabili. Benigni, il militante umanista, distrugge in noi tutto ciò che ci lega ancora ad un’umanità elementare31.

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Indubbiamente il tono apocalittico di Henochsberg attribuisce a Benigni poteri eccessivi e sicuramente al di fuori delle sue intenzioni, rimane comunque da sottolineare che la costruzione di una visione falsa ed edulcorata di Auschwitz (da non trascurare il vero e proprio falso storico della liberazione del campo che nel film viene attribuita agli americani e non ai russi) rischia di produrre pericolose forme di amnesia: prima di tutto un’amnesia del concetto storico di Auschwitz, che consiste, in continuità con quanto detto precedentemente, nell’utilizzare il campo come scenografia con finalità esteriori alla storia reale e in secondo luogo un’amnesia della realtà concentrazionaria di Auschwitz, basata sulla sostanziale edulcorazione di quello che dovrebbe essere un campo della morte e appare invece come un innocuo décor di cartone. Si aggiunga, a tutto ciò, la falsa giudeità del personaggio, l’incapacità di costruire sul ruolo di Benigni le tracce di una qualsivoglia forma di appartenenza al popolo ebraico (l’autore cita l’esempio riuscito di Alain Delon, straordinario interprete di Mr. Klein di Losey (Id., 1976), nel quale rivestiva con grande abilità il ruolo di un ebreo pur non essendolo realmente) e l’abile operazione di marketing condotta dai distributori per far sì che il film ottenesse il nullaosta delle autorità ebraiche. Sempre alle striscianti strategie del marketing è ascrivibile il plauso ottenuto in Israele, dove il film ha conquistato svariati premi e riconoscimenti, frutto, secondo Henochsberg, del prevalere di una lobby ebraica interessata più alla massima diffusione della tematica concentrazionaria che alla qualità e al vero messaggio delle opere prodotte. L’ampia parentesi dedicata a The Last Days e a La vita è bella ci è sembrata utile per indicare quanto la serietà metodologica di Shoah si sia venuta a trasformare per i redattori di «Les Temps

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Modernes» e per Lanzmann stesso in una sorta di pietra di paragone con la quale confrontare tutte le opere cinematografiche realizzate sul medesimo argomento. Ogni film ha ricevuto lodi o stroncature, senza via di mezzo: Mr. Klein di Losey e Pasażerka di Munk (La passeggera, 1963) hanno ottenuto pareri positivi, mentre Schindler’s List di Spielberg e Un spécialiste, portrait d’un criminel moderne di Sivan (Uno specialista – Ritratto di un criminale moderno, 1999) documentario pluripremiato sul processo Eichmann, hanno ricevuto sonori dissensi. Il giudizio espresso non è mai estetico (per quanto de La vita è bella vengano anche sottolineate le scarse qualità formali), ma sempre etico, riconfermando la tendenza tutta francese a considerare sempre un carrello come una questione di morale. Il progetto direttivo di Lanzmann è caratterizzato, in questi ultimi anni, da una coerente e ben delineata strategia culturale, basata contemporaneamente sulla politica (l’engagement di sartriana memoria non viene mai meno) e sulla pedagogia. Lanzmann interviene in occasione della guerra in Kosovo, nel 1999, o nel caso dell’attacco alle Twin Towers del 2001, esponendo sempre con fermezza il proprio punto di vista, contrario ad ogni guerra (anche all’ultima contro l’Iraq di Saddam Hussein) e alle generalizzazioni di comodo (come quella che vede la sinistra schierata con i palestinesi e la destra con gli israeliani). Lanzmann non teme le contraddizioni e ammira la coerenza. Per tale ragione, il fronte dell’engagement va di pari passo con l’impegno pedagogico e con la volontà di diffondere il più possibile, attraverso la rivista, con proiezioni, seminari, interventi, lezioni universitarie in giro per il mondo, la lezione di Shoah (una lezione egualmente etica e formale) e, nello stesso tempo, contrastare le interpretazioni aberranti che cercano costantemente di ridurre lo sterminio ebraico ad uno dei tanti mali del mondo, creando comparazioni tra il Rwanda e la Germania hitleriana o tra il Milosevic di turno e le SS

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naziste. Senza nulla togliere alle grandi tragedie della storia, la Shoah va ricordata per la sua eccezionalità e non per la sua banalità, per quanto questa posizione abbia sollevato e tuttora sollevi molti dubbi e perplessità. Gli anni di Lanzmann nella redazione de «Les Temps Modernes» sono pari ad una vita intera: tra le pagine della rivista, il regista francese ha trovato alleanze, sostegno, l’energia per portare a compimento la sua opera più ambiziosa e poi per difenderla. Per tale ragione ci è sembrato importante aprire con le parole di Lanzmann, con la sua scrittura sarcastica ed irruenta per affrontare poi le immagini, che forse nel caso dell’intellettuale francese iconoclasta, sarebbe meglio definire “parole visive”. © Edizioni Kaplan, 2007 Conditions d’utilisation : http://www.openedition.org/6540

Référence électronique du chapitre PERNIOLA, Ivelise. Parte prima. Un’eredità difficile In : L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.193.

Référence électronique du livre PERNIOLA, Ivelise. L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann. Nouvelle édition [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.171. Compatible avec Zotero

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| Ivelise Perniola

Parte seconda. Il miracolo triste: le due facce di Israele p. 44-94

Texte intégral In questo paese che non crede ai miracoli, non essere realista! (Detto dei pionieri israeliani)

1. Ricordare, testimoniare, perdonare 1

L’ebreo della diaspora vive il rapporto con Israele in maniera

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controversa: da un lato, sente che questo paese combattuto e combattente, accogliente e ostile, di latte e di miele, ma anche di veleno e di terra amara e polverosa, rappresenta l’unico luogo nel quale gli ebrei hanno trovato rifugio dopo millenni di persecuzioni e di instabilità, dall’altro, però, sente l’assoluta “improbabilità” di un luogo che obbliga l’ebreo ad assumere nei confronti di altri quello stesso atteggiamento di comando e di controllo tanto odiato, per secoli, nei vari persecutori. L’ebreo della diaspora sceglie di non condividere le leggi del comando, della guerra e della violenza, pur amando l’idea di Israele, un’idea frutto più dell’astrazione utopica che della realtà concreta. L’ebreo della diaspora, il più delle volte, non conosce nemmeno la terra “promessa”; ne ha sentito parlare, ha letto libri, si tiene informato sulle alterne vicende che la insanguinano, ammira coloro che abbandonano la temporanea sicurezza dell’occidentalità per mettere in gioco la propria vita e quella dei propri cari in un paese che non può assicurare la sopravvivenza di nessuno, neanche di se stesso. L’ebreo della diaspora, come Lanzmann, è nello stesso tempo attratto e respinto da Israele: lo vuole conoscere, mantenendo, però la distanza di sicurezza; nella fattispecie, Lanzmann vuole conoscere Israele ma ne ignora la lingua, principale veicolo di coesione religiosa e nazionale. Lo iato linguistico è l’elemento più forte che divide l’ebreo israeliano dall’ebreo della diaspora: essere fratelli, ma non parlare la stessa lingua. Nei due film che Lanzmann dedica al paese mediorientale, Pourquoi Israel (1973) e Tsahal (1994), l’interprete (anzi, vari interpreti, dal momento che le lingue parlate nel primo film sono molteplici) fa da filtro tra il regista francese e i vari interlocutori, innalzando una sorta di muro culturale, emblema di una diversità incolmabile e di una differenza irriducibile di orizzonti. I due film di Lanzmann, pur molto differenti (sono realizzati, non casualmente, a venti anni di distanza l’uno dall’altro), portano avanti alcune istanze

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comuni alla sensibilità dell’ebreo occidentale, ponendosi, oltre che come film dedicati a Israele anche come opere che indagano la condizione dell’ebreo “lontano” dalla contingenza della drammatica realtà israeliana. Il grande teorico della letteratura George Steiner, intellettuale ebreo apolide nella sua appartenenza esclusiva alla società delle lettere e acuto indagatore del che cosa significhi essere ebreo dopo la Shoah, ha dedicato al sogno utopico di Israele alcune interessanti pagine che ci riportano alla mente l’approccio di Lanzmann. Steiner sente su di sé la colpa di non aver “vissuto” lo sterminio, di essere stato altrove, in una dimensione spazio-temporale inconciliabile con la più grande tragedia del suo popolo; eppure, nonostante, la possibile minaccia di una recrudescenza antisemita in un occidente che non è mai così civile e democratico come sembra, rifiuta di trasferirsi in Israele. Il nazionalismo, piaga politica del ventesimo secolo, causa delle più grandi tragedie, dalla Shoah alla guerra nei Balcani, rappresenta, secondo Steiner, un approccio politico all’esistenza da estirpare in maniera radicale. Il nazionalismo, che forse, per una crudele ironia della storia, nacque in Israele con l’idea della possibile “elezione” di un popolo al di sopra di tutti gli altri, causa principale della persecuzione antiebraica del ventesimo secolo, si ripresenta sotto forma quanto mai minacciosa proprio in Israele: L’uomo non è un albero, non ha radici, ma ha gambe che lo mettono in relazione con altri esseri umani e che lo spingono, letteralmente, verso lo scavalcamento dei confini. Israele, per poter sopravvivere è dovuto ricorrere alle armi pericolose del nazionalismo, vivendo nel continuo controllo dei propri confini e sentendosi minacciato da un’alterità in costante agguato, al di là del checkpoint, al di là del muro. Lo stato-nazione, retaggio di un passato storico da dimenticare: «è un’amara reliquia, un’assurdità nel secolo degli uomini affollati. Ed è estraneo ad alcuni degli elementi più radicali e più umani dello spirito ebraico»2. Per tale ragione, per

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sfuggire allo spettro del nazionalismo, che si ripresenta sempre sotto mentite spoglie, Steiner, pur comprendendo la fertile portata della terra promessa, decide di non andare a vivere in Israele, decide di continuare a vivere nella diaspora, secolare maledizione e punto di forza dell’ebreo, che trasforma l’eterno vagare in marca d’orgoglio. Lanzmann compie una analoga scelta, considerandosi sempre un franco-giudeo (l’ordine dei termini non è casuale) e portando avanti con orgoglio la propria occidentalità, soprattutto quando il termine di opposizione non è il panarabismo minaccioso, ma l’americanismo fagocitatore della storia europea.

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La problematica della mancanza di uno stato-nazione si ricollega implicitamente al sostanziale rifiuto ebraico della storia o, per meglio dire, del “fare storia”. Il popolo ebraico è stato per molti secoli un popolo per il quale la storia umana coincideva fatalmente con la storia religiosa; nessun approccio scientifico, nessun metodo storiografico era concesso di fronte alla convinzione che il popolo eletto dovesse, per forza di cose, sottrarsi alle leggi storiche che regolavano le alterne vicende di tutti gli altri popoli. Nonostante la Bibbia inviti continuamente gli ebrei a “non dimenticare”, la pratica della storiografia rimane per molti secoli un terreno minato. Soltanto, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si assiste ad un inedito sviluppo storiografico, collegato con la risorgenza dell’utopia nazionalista, tuttavia, il tentativo di affrancarsi dalla storia religiosa viene costantemente affossato dalla volontà tutta politica di non concedere agli ebrei speranze nazionali. I tentativi di indagine storiografica si vanno spesso ad infrangere contro l’imprescindibile legame tra storia e religione, come evidenzia Yosef H. Yerushalmi, grande studioso dell’argomento: «Fra tutte le storie, quella del popolo ebraico è la più refrattaria a ogni tipo di secolarizzazione perchè a differenza di quasi tutte le altre è sempre stata considerata sacra»3. I due film che Lanzmann

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dedica ad Israele cercano di costruire, tassello dopo tassello, immagine dopo immagine, una storia laica, che fa della Shoah il proprio evento fondatore, lo spartiacque che reimmette con violenza il popolo ebraico all’interno del flusso storico; dalla Shoah in poi, ci dice Lanzmann, gli ebrei devono abbandonare la commistione tra religione e storia, e tornare con i piedi per terra in una realtà drammatica ed umanamente possibile. È utile interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto Claude Lanzmann a scegliere il cinema come mezzo privilegiato di analisi storica; l’intellettuale francese proveniva, infatti, come abbiamo visto, da una gavetta principalmente letteraria: la profonda amicizia con Sartre e de Beauvoir, il lavoro redazionale presso una rivista come «Les Temps Modernes», che dedicava poco spazio al cinema e moltissimo al documento storico e alla letteratura, avevano formato una figura affascinata, almeno esteriormente, più dalla parola scritta che dall’immagine in movimento. Tuttavia, Lanzmann decide, nel 1972, di intraprendere un viaggio in Israele, alla ricerca delle tracce storiche che il giovane paese incominciava proprio allora a lasciare alle proprie spalle. La carenza storiografica del popolo ebraico trova nel cinema uno strumento privilegiato, uno strumento che si riallaccia ontologicamente alla radice del termine stesso; la storia, termine che proviene dal greco e che significa “descrizione”, “resoconto”, ha a che fare con la visione e con la registrazione degli avvenimenti attraverso l’uso critico della memoria e del giudizio. Lanzmann filma la storia nel suo farsi e ritorna, venti anni dopo, in Israele per vedere quante delle promesse fatte sono state mantenute e quanto il passaggio della storia abbia inciso sugli animi degli israeliani. Il verbo zakhar (ricorda) ricorre nella Bibbia in maniera ossessiva (Yerushalmi ha calcolato che ritorna per almeno centosessantanove volte), eppure, il rapporto dell’ebreo con la memoria è un rapporto delicato e

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controverso. Lanzmann invita i suoi testimoni a ricordare, senza spingerli ad una sterile rimemorazione di un passato sepolto, ma invitandoli a trasformare il ricordo in testimonianza e quindi in storia. Il cinema registra la testimonianza, la rende visibile, la priva di filtri ideologici e interpretativi (con l’eccezione delle scelte linguistico-formali) e si offre ad un pubblico molto più vasto della pagina scritta. L’imperativo biblico, zakhar, diventa da Pourquoi Israel a Sobibor, un imperativo morale; dal primo all’ultimo film, Lanzmann interviene attivamente, da protagonista, nella contemporanea trascrizione della storia ebraica; ciò che un tempo si trasmetteva oralmente di padre in figlio, adesso passa attraverso metri e metri di pellicola impressa e lasciata in visione ai posteri. La centralità della testimonianza nell’opera di Lanzmann ci conduce ad approfondire le teorizzazioni del filosofo francese Paul Ricoeur, acuto indagatore del rapporto tra tempo, memoria, oblio e perdono, estremi che si inseguono produttivamente lungo l’intera carriera del regista francese. Il primo aspetto che mette in luce una vicinanza teorica tra Ricoeur e Lanzmann è il valore accordato alla testimonianza; valore che, secondo il filosofo francese, si fa tanto più prezioso nel momento in cui lo storico decide di trasformare la rievocazione sterile di un ricordo soggettivo in un fertile passaggio del testimone, in grado non solo di ricordare il passato (o la passeità come preferisce dire Ricoeur) ma anche di agire preventivamente sul futuro. L’utilità postuma della testimonianza viene subito identificata da Lanzmann, che, sin da Pourquoi Israel, costruisce il proprio lavoro registico intorno alla raccolta delle testimonianze orali. La testimonianza è in grado progressivamente di sostituire l’icona, retaggio dell’intepretazione aristotelica della memoria come impronta, che conduce ad una localizzazione figurativa del passato (mi ricordo determinate immagini del passato che hanno lasciato nella mia anima un’impronta):

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Ricoeur intravede in questa sostituzione la possibilità di trasformare la testimonianza in qualcosa di attivo, di produttivo, privandola del rapporto privilegiato con l’immaginazione e mettendola in contatto diretto con la progettualità dell’avvenire. Lanzmann, rifiutando con convinzione una delle grandi prerogative del cinema, ovvero quella di “visualizzare” il ricordo, di sposare il racconto con l’icona, allontana le sue opere dall’ancoraggio con il passato per farne materiale d’apprendimento per la posterità. Secondo un processo del tutto analogo, Ricoeur intravede la possibilità di utilizzare la testimonianza per re-interpretare il passato; se l’accaduto è incancellabile, se non si può tornare indietro due volte nella stessa temporalità (la grande lezione del Vertigo hitchcockiano), tuttavia è possibile ridare un senso nuovo al passato; il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte: Il passato ha un senso aperto, modificabile, anche, in base al confronto delle testimonianze; ecco che in Pourquoi Israel l’accostamento dialettico delle interviste produce una sorta di riscrittura della storia del paese mediorientale: non esiste un solo passato, ma tanti quante sono le differenti testimonianze. Ed ecco che i venti anni che separano il primo film di Lanzmann da Tsahal si possono leggere anche come l’emblema di un cimitero di promesse non mantenute: il senso del primo film si viene a formare a partire dal confronto con il terzo. Tsahal è quello che Israele è diventato a venti anni di distanza, venti anni di cambiamenti e di immobilità, venti anni durante i quali la storia dei territori occupati e dei loro coloni ha assunto i toni tragici di un inarrestabile corsa del destino. Tuttavia, il discorso è disperato, ma non disperante: Lanzmann ancora una volta sembra incarnare le teorizzazioni del filosofo francese, nel momento in cui, da testimone passivo degli eventi, si trasforma in motore propulsivo del cambiamento, in educatore pubblico (ruolo che, come abbiamo visto, conduce, negli ultimi anni con sempre maggiore convinzione dalle pagine della rivista che dirige): «Non è più compito dello storico di professione, ma lo è di coloro che possiamo chiamare educatori pubblici, di cui dovrebbero far parte

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anche i politici, quello di risvegliare e rianimare queste promesse non mantenute»6. Il regista francese, senza influenzare, senza corrompere con l’uso fazioso del montaggio, costruisce una storia d’Israele, dal racconto biblico fino agli accordi di Oslo, senza ricorrere a nessuna immagine di repertorio, ma riuscendo a far emergere un senso storico soltanto dal fragile avvicendarsi delle testimonianze.

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L’oblio e il perdono rappresentano il rovescio della medaglia del ricordo. In Pourquoi Israel osserviamo quanto sia potente la forza di quello che Ricoeur definisce “oblio selettivo”, ovvero tutta quella parte del rimosso della memoria collettiva a fini istituzionali, di protezione dell’identità nazionale; non a caso il film ritorna spesso sui luoghi di gestione archivistica della memoria: all’inizio e alla fine, con le riprese all’interno dello Yad Vashem, il museo dell’Olocausto a Gerusalemme e nel mezzo, con la lunga intervista al direttore del museo di Dimona. Il museo istituzionalizza l’oblio, decretando, attraverso la propria politica archivistica, che cosa si debba ricordare e cosa si debba dimenticare: soltanto le testimonianze (come le interviste ai primi coloni di Dimona che “contraddicono” le parole del direttore del museo) sono in grado di sovvertire l’ordine memoriale dell’istituzione e quindi di “perdonare” le colpe della storia. L’istituzione non perdona, ratifica; solo gli uomini, i superstiti, possono perdonare: Lanzmann non ci chiede di dimenticare, ma di interpretare; l’oblio attivo che pretende da noi è il risultato della conoscenza; non l’oblio passivo dei colpevoli, ma l’oblio attivo di coloro che perdonano perché hanno visto e vissuto troppo, solo a loro e a nessun altro appartiene il dono del perdono.

2. Un paese altamente improbabile: Lanzmann in Israele

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L’idea di realizzare un film sulla realtà in formazione di un paese problematico come Israele nasce indubbiamente sulle pagine di «Les Temps Modernes». Lanzmann non si era ancora accostato alla regia cinematografica; i suoi contatti con il cinema erano stati, sino ad allora, costanti ma lontani, paralleli al suo percorso di intellettuale engagé. Gli anni Settanta si aprono con i preoccupanti segnali di una violenta controffensiva araba; il successo fulmineo e inaspettato della Guerra dei Sei Giorni aveva portato molti israeliani a sopravvalutare le proprie forze e la propria capacità di resistenza, trascurando il desiderio di rivalsa del mondo arabo. Nel settembre del 1972 undici membri della delegazione israeliana alle Olimpiadi di Monaco in Germania vengono assassinati da terroristi arabi, mentre il consulente per i problemi agricoli al consolato israeliano a Londra, Ami Shehori, viene ucciso da un pacco bomba spedito da terroristi arabi dall’Olanda. All’inizio del 1973, nel momento in cui Lanzmann si trovava nel paese mediorientale per le riprese del suo film, in seguito a nuovi attentati terroristici arabi, raid israeliani contro basi libanesi uccidono, tra gli altri, tre leader dei movimenti palestinesi; la fase della vendetta è in pieno svolgimento. Alla fine del 1973, il 6 ottobre, giorno dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccano simultaneamente Israele; dal 6 al 24 ottobre si gioca una guerra sanguinosissima che annienterà, fisicamente e psicologicamente, un’intera generazione di giovani soldati israeliani. Il film di Lanzmann, però, non prevede ancora la grande svolta della guerra dell’ottobre 1973 e registra in maniera sottile soltanto le fasi che porteranno alla deflagrazione del conflitto, fasi tanto più drammatiche perché vissute con una sostanziale incoscienza da parte degli israeliani stessi. La rivista di Sartre, dal canto suo, osserva a distanza le varie fasi del conflitto arabo-israeliano, influenzando con prese di posizione dure e controverse, le opinioni dei redattori e dei lettori. Lanzmann dopo aver

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osservato, a distanza, decide di mettersi in gioco in prima persona e di partire, armato soltanto di una macchina da presa, di alcuni collaboratori tecnici, di un gruppo di scelti interpreti e di una domanda assillante e assordante: Pourquoi Israel? Perché Israele? La questione israeliana era comparsa sulle pagine della rivista sartriana sin dal 1947, l’anno nel quale l’ONU approva formalmente la spartizione della Palestina. I primi interventi che compaiono sulla rivista si caratterizzano per un appoggio incondizionato al nuovo paese, destinato ad accogliere i milioni di ebrei scampati alle persecuzioni e ai campi di concentramento hitleriani. La terribile realtà della Shoah, da poco venuta alla luce, turba profondamente gli animi degli occidentali; ebrei e non ebrei sono accomunati da un generale senso di colpa che pervade la società del secondo dopoguerra: gli uni sentono la colpa di essere sopravvissuti, gli altri di non aver agito e di aver ignorato l’immensa tragedia che si andava svolgendo davanti ai loro occhi. La nascita di Israele si viene configurando, dunque, nell’opinione pubblica come una possibilità di rinascita per il popolo ebraico, un’occasione unica nella storia di un popolo reietto e senza patria. L’urgenza politica del paese nascente porta alla pubblicazione, su «Les Temps Modernes», di alcuni interventi di virulento sionismo. Sionismo, caso emblematico di una ideologia superata dalle proprie realizzazioni: la Palestina è più avanti delle sterili elucubrazioni dei vari governanti riuniti intorno a un tavolo per decidere le sorti di milioni di ebrei; la lotta dell’ebreo per la riconquista del suo territorio supera l’invito alla calma dell’ebreo della diaspora, che invita alla ragionevolezza e alla moderazione, come si evince dalle righe di un intervento dell’epoca: L’israeliano (che l’autore definisce ancora “palestinese”) vive in una situazione d’urgenza, il sionista europeo in una situazione contrattuale: due atteggiamenti inconciliabili,

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ancora vivi nel 1973, quando Lanzmann intervistando numerosi israeliani riporterà a galla l’atteggiamento di sfida e di rivalsa nei confronti degli ebrei che hanno scelto di non trasferirsi nella terra promessa.

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L’appoggio incondizionato ad Israele emerge anche dalle parole stesse di Lanzmann, in un intervento del 1965, quando ormai la situazione del conflitto con gli arabi si era già incanalata in un aperto scontro tra fazioni opposte, i falchi israeliani e i membri dell’appena nata Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP): Da questa felice espressione, il diritto di avere dei diritti, mutuata dal libro di Robert Misrahi, recensito all’interno dell’articolo, si trae il significato del primo film di Lanzmann. Il diritto di avere dei diritti è la base sulla quale si fonda il diritto di Israele ad esistere e ad esercitare le forme di potere, forse discutibili ma storicamente ratificate, che contraddistinguono tutti gli altri paesi del mondo. Se il mondo si ostina a sottolineare l’alterità dell’ebreo rispetto agli altri uomini, allora, è giusto che l’ebreo rivendichi, infine, la sua diversità e pretenda l’esistenza di un paese in grado di accoglierlo e di difenderlo. Lo spunto di riflessione dell’intervento di Lanzmann ruota intorno all’interrogativo su cosa significhi essere ebreo in tempo di pace e quale sia la differenza tra l’essere ebreo in Israele ed esserlo in Francia, in un contesto che, almeno nel 1965, sembrava più insicuro e più soggetto alle risorgenze di nuove forme di antisemitismo. La persecuzione, secondo Lanzmann, ha profondamente danneggiato i rapporti degli ebrei tra di loro, arrivando a mettere in dubbio persino la solidità dei legami di famiglia. Gli ebrei, dopo la Shoah, si sono trasformati in un aggregato di solitudini, alla continua ricerca di un paese e di un popolo del quale sentirsi parte. Il tema della solitudine dell’uomo ebreo, che nasce sulle pagine della rivista sartriana, sarà un aspetto centrale di Pourquoi Israel, nel momento in cui Lanzmann decide di filmare le migliaia di ebrei russi in fuga dal loro paese e alla ricerca nel sogno sionista di una fratellanza di sangue. Tuttavia i sogni hanno vita breve e la dura realtà del paese infrangerà le rosee speranze degli

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immigrati russi, ricondotti, loro malgrado, ad una condizione di subalternità, retaggio del loro paese d’origine. Israele è un paese difficile, ci ripete Lanzmann, a più riprese, tuttavia, occorre preservarne l’integrità e il diritto all’esistenza, in quanto è l’unico luogo nel quale l’ebreo può sentirsi fino in fondo libero; l’unico luogo nel quale l’ebreo recupera la propria unità, cessando di essere doppio: la doppiezza prodotta dall’irriducibilità dello sguardo altrui e dell’altrui giudizio sulla propria individualità, percepita come unica eppure sempre ricondotta all’appartenenza ebraica, comune denominatore che gli altri attribuiscono, giudicando senza pensare.

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Se alcuni interventi ci sono stati d’aiuto per comprendere quali fossero le basi teoriche sulle quali il giovane Lanzmann andava costruendo la propria personale opinione sull’essere ebreo e sulla legittimità dello stato israeliano, va anche detto che i fermenti rivoluzionari post-sessantottini e la terribile sconfitta della guerra dello Yom Kippur, portarono Lanzmann a smussare i toni forse troppo populisti della prima opera, per abbracciare posizioni più moderate e sicuramente più realiste. Nel novembre del 1973, sull’onda della guerra appena conclusa, esce sulla rivista sartriana un editoriale collettivo, dedicato al conflitto arabo-israeliano, e che mette parzialmente in dubbio le posizioni filo-israeliane sino ad allora sostenute, analizzando la problematica del conflitto da un punto di vista più politico e meno partigiano (la guerra tra arabi ed ebrei faceva da schermo, nel 1973, al blocco russo-americano). È prevedibile che la vittoria araba conduca i palestinesi a pretendere un numero sempre maggiore di territori e ad avanzare pretese sempre più difficili da accontentare, aprendo così una frattura insanabile con Israele. Ricorrere ad argomenti che fanno leva sull’appartenenza ebraica della terra promessa non conduce, tuttavia, a nessun risultato e si rivela controproducente: «Il ricorso a questo genere di argomenti è senza sbocchi e alla fine illusorio: in nessun luogo ci sono degli aborigeni e

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nessuno, in fondo, è mai a casa propria. Il possesso di un territorio è sempre una questione di occupazione, più o meno lunga»10; d’altronde, sostiene l’editoriale, la Palestina era una terra contesa già da molti anni, essendo passata dalla dominazione ottomana a quella inglese senza soluzione di continuità ed essendo stata liberata dal giogo britannico proprio grazie all’iniziativa del popolo ebraico e non certo di quello arabo. L’editoriale non offre soluzioni, irrealistiche da dare, ma fornisce spunti di riflessione, invitando il lettore a capire che cosa si nasconda dietro un conflitto che non si basa su di un fervente manicheismo ma su precise strategie politiche internazionali. La rivista sartriana aveva compreso, con largo anticipo, che il problema mediorientale non era una questione locale, risolvibile con un accordo e un paio di firme da parte dei due contendenti, ma una questione globale che metteva in gioco forze lontane e interessi economici di portata internazionale. Per quanto in Pourquoi Israel il tema del conflitto con gli arabi palestinesi venga affrontato in maniera trasversale, occupando solo una piccola parte all’interno dell’economia dell’opera (il tema ritornerà in maniera molto più approfondita in Tsahal), emerge già un approccio problematico al tema, che rifugge dai facili schematismi in auge all’epoca e con i quali si riduceva il conflitto ad una sterile contrapposizione tra destra filo-israeliana e sinistra filo-palestinese. Lanzmann, uomo di sinistra, sosterrà sempre in maniera critica il diritto di esistere di Israele, senza, per questo, entrare mai in contraddizione con la propria formazione ideologica. Un altro tema che si annuncia dalle pagine della rivista sartriana e che confluirà problematicamente nell’opera prima di Lanzmann è, indubbiamente, il timore di una risorgenza violenta dell’antisemitismo. Uno dei testi chiave, più volte citato da «Les Temps Modernes», per comprendere le radici dell’antisemitismo e per ricondurlo ad una dimensione trans-storica, impossibile da superare, è

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certamente L’uomo Mosè e la religione monoteistica11 di Sigmund Freud. Freud identifica quattro ragioni principali che hanno storicamente prodotto l’odio contro gli ebrei: 1. La naturale ostilità del senso comunitario delle masse contro una minoranza estranea: gli ebrei sono stati percepiti da sempre come una minoranza pericolosa, perché esterna al corpo della nazione o del gruppo di appartenenza, e quindi da espellere o sopprimere. 2. La resistenza degli ebrei contro ogni forma di oppressione: la forza del popolo ebraico nel far fronte con coraggio e con tenacia ad ogni avversità ha prodotto nei loro confronti una sorta di invidia da parte delle nazioni più deboli, che si è manifestata in un susseguirsi di sempre nuove forme persecutorie. 3. La gelosia nei confronti del popolo primigenio e odio latente nei confronti del Cristianesimo: l’antisemitismo risulta essere più forte in quei paesi originariamente politeisti, convertiti forzatamente al Cristianesimo, come la Germania, e che vorrebbero inconsciamente ritornare alla loro condizione iniziale, riversando l’odio che hanno per la religione ufficiale verso coloro che ritengono principalmente responsabili della loro conversione forzata. 4. La circoncisione: un costume che richiama l’evirazione produce presso alcune società orrore e timore, provocando l’ostilità nei confronti dei popoli che la praticano. L’unione di queste ragioni non ha fatto altro che produrre forme sempre più virulente di persecuzione e di repressione, sino ad arrivare alla tragedia massima della Shoah, la persecuzione finale, la Soluzione Finale che aspirava follemente ad eliminare alla radice il problema ebraico; alcuni anni prima dei campi di concentramento, l’intellettuale tedesco Thedor Lessing vedeva nel sionismo l’unica via d’uscita ad una situazione che già allora, ingenuamente, riteneva senza speranza: Alla base di Pourquoi Israel c’è proprio questo prendere in

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mano il proprio destino, questa volontà di sostenere l’unico luogo al mondo nel quale l’ebreo può essere tale senza doversi nascondere, senza doversi assimilare. Se nel 1979, poteva ancora accadere che un ebreo attivista, Pierre Goldman, fosse ucciso di fronte alla Sinagoga di Parigi, senza che gli assassini venissero catturati, allora, Israele continua a rappresentare l’unico sbocco di sopravvivenza per gli ebrei della diaspora; dal momento che la Shoah, come aveva già intuito Hanna Arendt, non è necessariamente un capitolo unico nella storia della (dis)umanità.

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In occasione dello storico viaggio di François Mitterand in Israele, nel 1982, Lanzmann scriverà un sentito articolo di ringraziamento nei confronti di un uomo che, con un gesto politico e diplomatico, ha offerto al paese mediorientale la possibilità di un riconoscimento ufficiale, dopo le innumerevoli ingiustizie subite: Questo intervento, dedicato alla visita di uno statista francese in un paese altamente improbabile, come Israele, rappresenta la migliore introduzione al viaggio di Lanzmann nella terra promessa; uno stato la cui esistenza è costantemente minacciata, ma che tuttavia, pur nella drammatica prosaicità della sua storia, continua a credere sempre disperatamente ai miracoli.

3. Pourquoi Israel 18

Pourquoi Israel è il racconto di un viaggio finalizzato alla conoscenza di un paese che Lanzmann percepisce come affascinante e misterioso, utopico e terribilmente pragmatico. Il titolo stesso dell’opera si apre a molteplici significati: da un lato si tratta di una interrogazione sospesa alla quale il film si propone di fornire una risposta. Perché migliaia di ebrei della diaspora scelgono, a un certo punto della loro vita, di trasferirsi in Israele? Perchè proprio Israele? Quali speranze i nuovi arrivati investono nel paese che dopo secoli di persecuzioni ha finalmente accolto il popolo israelita? Perché Israele? È la domanda che

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Lanzmann pone alle migliaia di ebrei russi arrivati, nel 1973, affamati, poveri, senza casa e senza lavoro, alla ricerca di una vita migliore e di un luogo nel quale sentirsi a casa. Sotto un altro punto di vista, però, perchè Israele?, è anche l’accorato appello che Lanzmann rivolge ad un paese che accoglie i suoi figli, ingannandoli con false promesse e che vive, con troppa naturalezza, sommerso dalle contraddizioni e da menzogne più o meno pericolose. Perché, Israele, hai fatto questo? Perché spingi migliaia di persone ad abbandonare le loro origini per venire da te, quando poi non mantieni quel che prometti? Perché inganni i tuoi stessi figli? Perché non riesci a vivere in accordo con i fratelli arabi? Perché prendi e non restituisci? Queste domande formano il sottotesto dell’opera prima di Lanzmann, costruita sul duplice scontro tra interrogativi discordi e contraddittori; un doppio interrogativo rivolto a chi accoglie e a chi viene accolto, a chi mente, a fin di bene, e a chi alla fine tradisce, sentendosi tradito. Pourquoi Israel è prodotto da Vera Belmont e dedicato ad Angelika Schrobsdorff, scrittrice e futura moglie dello stesso Lanzmann. Nessuno meglio della Schrobsdorff poteva incarnare la conflittualità israeliana e il fatto che il primo film dell’intellettuale francese sia dedicato a lei nasconde più di un significato. Angelika Schrobsdorff nasce in Germania da madre ebrea, convertita al cattolicesimo, e da padre protestante, membro dell’alta aristocrazia tedesca. Insieme alla madre, Angelika, sfugge al nazismo e ai campi rifugiandosi, all’ultimo momento, in Bulgaria; un fratello, attivo nella resistenza armata, viene assassinato, così come la nonna materna, che condividerà nei campi di sterminio la sorte di altri sei milioni di ebrei. La scrittrice tedesca, molto nota in patria e recentemente tradotta anche in francese e in inglese, dopo una vita trascorsa alla ricerca di una identità lacerata, decide venti anni orsono, nel 1985, di trasferirsi in Israele. Oggi sembra che voglia abbandonare il paese

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ebraico, che non sopporta più e nel quale non si è mai veramente integrata. Gli ultimi sviluppi della vicenda biografica di Angelika Schrobsdorff sembrano, paradossalmente, chiudere un cerchio apertosi trentadue anni fa: sopravvivere alla Shoah, sentirsi in colpa, sentirsi abbandonati in un mondo ostile, cercare rifugio nella terra promessa e, infine, sentirsi traditi anche da questa terra, per morire, forse, con la consapevolezza di cui parlava Steiner, capendo, troppo tardi, che solo gli alberi hanno le radici, mentre gli uomini camminano ed entrano in relazione l’uno con l’altro. La storia di Angelika è la storia di milioni di ebrei e di buona parte delle persone che Lanzmann intervista nella sua opera prima, un’opera che acquisisce significato con il passare del tempo e con i mutamenti della storia. I titoli di testa scorrono muti davanti ad una stella di Davide su sfondo giallo, il colore che gli ebrei dovevano portare sotto il nazismo per essere identificati. Il canto e non la parola ha la funzione di aprire il film: Gert Granach, che nel 1933 era un membro della gioventù comunista di Berlino e nel 1973 è un cittadino di Gerusalemme, canta, accompagnandosi con una fisarmonica, una canzone antinazista in tedesco. Granach, sempre cantando, tornerà ancora svariate volte nell’arco delle oltre tre ore di durata dell’opera. La storia della Shoah e della resistenza ebraica al nazismo è una storia che si deve tramandare di padre in figlio e che non deve mai essere dimenticata; per tale ragione, il canto, la ballata, diventa il mezzo più efficace per tramandare ai figli le sofferenze dei padri. Il canto in tedesco lascia allora il posto ad un canto tradizionale ebraico, che accompagna la lenta panoramica della macchina da presa sui nomi dei sei milioni di ebrei morti nei campi, incisi, in tedesco e in ebraico, sul pavimento del museo dell’Olocausto di Gerusalemme, lo Yad Vashem. La lezione deve passare di padre in figlio e i figli sono proprio quelli che si recano in visita con la scuola allo Yad Vashem, per leggere, incisi sul pavimento, i nomi di quei

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sei milioni di morti; per entrare in contatto con l’archivio della morte. Che cosa sanno le nuove generazioni? Quanto sono consapevoli del tragico passato vissuto dal proprio popolo? I giovani israeliani sono in grado di governare nel futuro un paese che nasce dalle ceneri della Shoah? I ragazzi cercano di rispondere a tali domande: la macchina da presa, tenuta in spalla, sta addosso agli adolescenti ebrei, mettendo a confronto serrato i volti della nuova generazione e quelli della vecchia, degli internati, che guardano, tristi, dalle fotografie appese alle pareti del museo. La gioventù israeliana presenta, tuttavia, molteplici sfaccettature; agli studenti in visita allo Yad Vashem si contrappongono i giovani che scelgono la vita nel kibbutz e quelli impegnati nella vita militare. Secondo l’agricoltore Beno Grunbaum: «Il vero spirito del kibbutz è che ora i nostri figli possano andare a testa alta»; eppure, secondo Ygal Yadin, professore di archeologia ed ex CSM dell’esercito: «Oggi Israele ha bisogno di soldati e di piloti». Da un lato, la scelta non violenta di una società comunitaria, di chiara impronta comunista, dall’altro la necessità della difesa e del sacrificio di tante giovani vite per assicurare l’impenetrabilità del minacciato confine israeliano. Nel mezzo, tra i “comunisti” dei kibbutz e i soldati, ci sono gli ebrei ortodossi, che rifiutano il servizio di leva obbligatorio ed annunciano, casa per casa, quartiere per quartiere, l’inizio dello Shabbat. Nel frattempo, la cerimonia di giuramento dei soldati si svolge, accompagnata da preghiere rituali, di fronte al muro del pianto, il simbolo religioso più importante per gli ebrei ortodossi. Israele ci appare, sin dall’inizio, una terra di contrasti. La terra promessa comunista, ortodossa, militarizzata non entra in collisione con il nuovo Israele capitalista, reduce dal boom economico e dallo sviluppo degli anni Sessanta. Le località sciistiche alla moda sono prese d’assalto durante i mesi invernali, come in qualsiasi paese occidentale; le boutique fanno rifornimento degli ultimi abiti alla moda, mentre le

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giovani israeliane provano l’ebbrezza del consumismo sfrenato. Le vie residenziali di Gerusalemme, con le loro villette a schiera e le automobili parcheggiate in giardino, scimmiottano il sogno americano. Il commercio, in tutte le sue forme, si espande a macchia sul piccolo paese mediorientale. Il rapporto degli ebrei americani con Israele è basato sulla reciproca consapevolezza di un aiuto futuro. Israele rappresenta per gli ebrei americani un rifugio cui fare ricorso nel caso di un utopico inasprimento dell’antisemitismo in USA, mentre, per gli ebrei israeliani, l’America rappresenta la sicurezza economica, la certezza di un aiuto nell’eventualità che la guerra con i palestinesi prenda pieghe troppo distruttive; se è vero che, come sostiene Werblowsky, professore di storia delle religioni all’Università di Gerusalemme, «il solo punto fermo di ogni ebreo è Israele», allora si spiega la rituale visita che ogni ebreo americano credente compie, almeno una volta nella vita, nella terra promessa. Lanzmann riprende, senza celare una punta di sarcasmo, gli acquisti di un gruppo di ebrei americani benestanti in un supermercato di Gerusalemme: i carrelli si riempiono rapidamente, in mezzo a lodi di apprezzamento per la qualità superiore del cibo israeliano e tra divertiti ammiccamenti verso la macchina da presa. Tuttavia, la guerra fredda si gioca anche sul suolo israeliano e alle visite “turistiche” dei facoltosi americani si contrappone l’emigrazione disperata di migliaia di ebrei russi. L’Alyah, la migrazione verso lo stato ebraico, ha rappresentato per molti cittadini sovietici l’unica possibilità per sfuggire a condizioni di vita estremamente precarie e alle periodiche ondate di antisemitismo che hanno flagellato nel secolo scorso il blocco comunista. Il 1973 vede arrivare in Israele ben centomila ebrei russi, letteralmente in fuga dal loro paese d’origine. Un ondata analoga si avrà nel 1991, all’indomani del crollo del sistema comunista e nel 1991, come nel 1973:

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Lanzmann ha il merito e la delicatezza di seguire le tappe della mancata integrazione, a partire dal momento in cui i nuovi arrivati sbarcano all’aeroporto di Tel Aviv sino al momento in cui, dopo aver ricevuto una casa (magari non dove volevano loro) e un lavoro (magari non quello che volevano loro) decidono o di integrarsi o di abbandonare la terra ex-promessa verso nuovi sogni e nuove speranze.

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Le interviste raccolte all’aeroporto sono particolarmente toccanti; molti dei nuovi arrivati sono anziani, non conoscono una parola di ebraico, escono per la prima volta dal loro piccolo paese d’origine, si muovono solamente seguendo il desiderio di riabbracciare parenti emigrati in Israele molti anni prima; Lanzmann favorisce e riprende uno di questi incontri: due fratelli, ormai anziani, che non si vedono da trentadue anni vengono fatti incontrare, davanti alla macchina da presa, da Lanzmann, che intercede con le autorità israeliane perché il ricongiungimento familiare possa avvenire nel minor tempo possibile. L’incontro è ripreso con partecipazione emotiva, ma senza pietismi; la macchina da presa si allontana nel momento in cui l’emozione rischia di scadere nel sentimentalismo. Altri incontri si susseguono a rapido ritmo, mentre un pescatore esprime a sorpresa un concetto sartriano: «È il mondo che vede la differenza tra un ebreo e un non ebreo», dichiara laconicamente. Il punto di accoglienza, organizzato dal governo israeliano, ha il compito di smistare i nuovi arrivati in varie parti del paese; le prime speranze si vanno ad infrangere contro il funzionario di turno. La politica degli arrivi è stata organizzata secondo una precisa logica di distribuzione della quale i nuovi arrivati non vogliono sentir parlare: tutti vogliono andare a Gerusalemme, dove dichiarano di avere parenti e opportunità lavorative. La regola impone, invece, che i nuovi arrivati vengano mandati nelle zone economicamente più depresse, dove troveranno un lavoro e una casa ad attenderli, in modo tale che l’arrivo massiccio di nuova manodopera possa rappresentare un

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trampolino di lancio per la difficile economia israeliana. La Legge del ritorno (promulgata il 5 luglio 1950, prevede che: «Qualunque ebreo ha il diritto di immigrare in Israele») impone, in questi casi, l’obbligo della menzogna: molti neoimmigrati vengono calmati, promettendo loro quello che poi non verrà mantenuto. Emblematico è il caso di una famiglia russa, formata da due giovani genitori e una bambina di circa sei/sette anni: Lanzmann estrae il loro caso dalla massa di singole vicende particolari che si dipanano davanti al funzionario dell’immigrazione e decide di seguirli per osservare, da vicino, che cosa Israele offra ai nuovi arrivati e come essi interagiscano con la nuova realtà. Lanzmann accompagna in pullman la famiglia russa verso la nuova città che gli è stata assegnata; essi hanno richiesto una località sul mare, Elat, per far vivere la bambina in un ambiente salubre, ed è stato loro assicurato che la località dove andranno ad abitare non dista più dieci chilometri dal posto richiesto. Il regista li accompagna a visitare il muro del pianto, luogo magico per ogni ebreo, e, carico di aspettative, il giovane russo si avvicina al luogo sacro con gli occhi colmi di pianto e di speranza. La macchina da presa stacca su questo momento topico, per ritornare in un momento successivo sulle evoluzioni della vicenda: è trascorso appena un mese e il russo ha già deciso di abbandonare Israele per tentare la fortuna negli Stati Uniti. Nella terra promessa si è sentito emarginato e discriminato in quanto russo; partito con l’idea di raggiungere un luogo nel quale la sua identità di ebreo avrebbe sostituito qualsiasi altra forma di appartenenza ha constatato con amarezza che la realtà dei fatti era alquanto diversa: «Ho capito che Israele è la sedicesima repubblica dell’Unione Sovietica e io odio troppo l’Unione Sovietica per restare ancora qui». Nonostante il lavoro e un appartamento di tre stanze, offerto dal governo, la famiglia russa si è sentita tradita e ingannata. La località che gli era stata promessa doveva distare dieci chilometri dal mare e ne distava, invece,

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trecento («E questa è stata la prima menzogna che mi hanno raccontato»); il russo aveva chiesto di poter svolgere la professione di autista e, invece, è finito a fare l’operaio; sul luogo di lavoro si sente discriminato e trattato diversamente dagli ebrei israeliani; la moglie e la figlia non si sono integrate nella nuova realtà. Lanzmann registra, provocando con domande mirate e palesando con fermezza le contraddizioni in cui cade l’intervistato, lo sfogo del giovane russo, il cui volto e la cui voce sono profondamente mutati rispetto al momento dell’arrivo: gli occhi si sono incrudeliti, il tono della voce è diventato secco e polemico, l’espressione del volto tradisce livore e delusione. Il contrasto tra il prima e dopo è troppo netto per non provocare nello spettatore una naturale adesione al punto di vista del regista francese che legge nel comportamento dell’uomo soltanto ingratitudine e insoddisfazione esistenziale, al punto da chiudere l’intervista con un risentito: «Gli dica che dovunque andrà non sarà mai soddisfatto!», rivolto all’interprete. L’arrivo dei russi porta in primo piano una questione spinosa: come si concilia l’esistenza e la legge dello stato con la questione religiosa? Lo stato ha bisogno di una massiccia immigrazione per rilanciare l’economia e per sostenere la difesa militare, mentre l’ala ortodossa della Knesset (il Parlamento ebraico) vuole limitare l’ingresso nel paese a coloro che sono ebrei sia da parte di madre che da parte di padre, al punto che vengono accolti a braccia aperte autentici ebrei miscredenti e rispediti indietro o emarginati ebrei parziali ma profondamente credenti. La fedeltà al sangue arriva a produrre pericolosi corto circuiti. La Legge del ritorno, aperta al compromesso e all’accoglienza quasi indiscriminata, viene corretta da un aspro giro di vite dal governo di Golda Meier, che nel 1970, dichiara proibita la registrazione come ebrei di cittadini nati da matrimoni misti quando la madre non è ebrea. Per contestualizzare i disagi provocati nelle ali più illuminate da tale sconfinamento della

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legge rabbinica nelle leggi dello stato laico, Lanzmann riprende il caso di un ebreo sposato con una donna inglese, non ebrea, accusato formalmente di aver diviso il popolo ebraico e come tale emarginato dal lavoro e dai rapporti sociali. Lo stesso regista si sente coinvolto in prima persona nel dibattito, tenendo spesso a puntualizzare contemporaneamente la propria identità ebraica e il proprio ateismo; rivolgendo domande sull’apparente contraddizione tra l’essere un ebreo e un ateo a un ortodosso, Lanzmann riceve una disarmante e ipocrita risposta: «Ogni ebreo è un buon ebreo, deve solo migliorare se stesso», dove ovviamente il miglioramento coincide con l’adesione incondizionata alle leggi rabbiniche. Lanzmann, pur non volendo ‘migliorare’ se stesso, si sente profondamente ebreo, per il legame di identità sociale e comunitario che l’essere ebreo comporta; per la radici culturali e per il terribile destino che ha accomunato, senza distinzioni, ebrei credenti ed ebrei atei. Eppure Israele, stato laico condizionato dalla religione, vive in un mare di contraddizioni: i rabbini non vogliono mandare i ragazzi a svolgere il servizio di leva obbligatorio, eppure, durante il giuramento dei soldati al muro del pianto non viene distribuito il Manuale del soldato, ma la Bibbia; Israele si fonda sulla spinta travolgente del movimento sionista, eppure, per molti ortodossi, come abbiamo modo di ascoltare nel film, «il regime sionista è un regime eretico». Cosa che non stupirebbe più di tanto se si prendesse alla lettera il sionismo delirante di Abraham Yoffe, generale della Riserva e Promotore della Salvaguardia Naturale, che progetta di riportare tutte le specie animali in Israele, proponendo, senza ironia, un piano organizzato di “sionismo animale”. L’evidenziazione dei conflitti interni al giovane stato prosegue con la schiacciante dicotomia tra i lavoratori portuali di una delle numerose città marittime israeliane e i giovani borghesi-socialisti dei kibbutz. Lanzmann monta

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dialetticamente i due approcci al reale, evidenziando l’idealismo sterile dei giovani borghesi e la concretezza umana del proletariato. Tra i comunisti del kibbutz e i lavoratori del porto si viene ad aprire una frattura insanabile. Associazione volontaria di individui liberi, il kibbutz è retto da una democrazia diretta e alla base della sua organizzazione c’è il principio che tutto è di tutti e niente è di qualcuno. I kibbutz raccoglievano, nel 1973, il 3% della popolazione, ponendosi come isole felici per pochi privilegiati e disinteressati che potevano e volevano vivere senza denaro nella condivisione sociale dei beni e nell’abolizione dei nuclei famigliari («vivo nel kibbutz per vivere in una società giusta» dice un intervistato); tuttavia il calo della tensione ideologica e l’arrivo dirompente del consumismo, elementi già riscontrabili in Pourquoi Israel, hanno minato le ragioni prime dello spirito del kibbutz, trasformandolo in qualcosa di altro: L’approccio di Lanzmann ai giovani idealisti del kibbutz sposa questa tesi dello storico Barnavi, evidenziando come il vero coraggio stia nell’affrontare la violenza del reale (come fanno i portuali) e non nell’autoesilio dorato dell’anima bella.

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Israele è un paese che accoglie e che respinge, che obbliga alla fede e che tollera l’ateismo, che spinge all’idealismo e che si confronta con il più concreto pragmatismo, che arma e che uccide coloro che un tempo venivano uccisi da uomini armati. Come si sente un ebreo a mettere in carcere un altro ebreo? A internarlo? A rinchiuderlo in una cella in condizioni disumane? Come si sente un ebreo a picchiare a sangue un altro ebreo durante le manifestazioni di protesta? Come vivono le forze dell’ordine questa curiosa legge del contrappasso? I corpi di polizia che il regista francese interpella su queste spinose questioni si mostrano reticenti, minimizzando la responsabilità del proprio ruolo, e anzi, ricordando la terribile sorte capitata ad alcuni dei loro famigliari nei campi di concentramento nazisti. La macchina

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da presa compie allora un pericoloso “scavallamento di campo” e va a riprendere i detenuti ebrei, le vittime delle forze di polizia. Il risultato non è più incoraggiante; i prigionieri sono sospettosi e non si lasciano andare con facilità alle pressanti questioni del regista, riportando costantemente la loro situazione ad una situazione di normalità (al reato segue la pena, non conta chi si è e da chi si viene incarcerati). Per molti giovani prigionieri l’unico rammarico è quello di non poter più far parte dell’esercito (con la fedina penale sporca non si è più ammessi tra le file dello Tsahal, l’esercito israeliano): «Qui da noi non essere ammessi nell’esercito è un disonore». L’argomento della difesa militare, centrale nel film del 1994, qui viene appena trattato, soprattutto in relazione alla durezza delle condizioni di vita in prossimità del confine con i territori occupati e all’interno dei territori stessi. L’ampio dispiegamento di forze destinate a controllare la sicurezza dei confini nazionali produce, in molti israeliani, un ambivalente senso di sicurezza e di claustrofobia nello stesso tempo; Lanzmann riprende i duri controlli ai check-point di Gaza e le pesanti limitazioni inferte al popolo palestinese: il regista non giudica, ma non censura; Israele, in fondo, è anche questo. La questione dei territori occupati viene trattata con obiettività e Lanzmann è il primo a ritenere anacronistica e insensata l’idea della realizzazione del Grande Israele, propugnata con fideistica convinzione da alcuni esponenti delle ali ultra-nazionaliste israeliane. Accanto al punto di vista di coloro che non vogliono restituire i territori agli arabi (come Baruch Narshom, sostenitore del Grande Israele e integralista religioso di Hebron), Lanzmann espone anche la particolare prospettiva dei soldati che devono, per forza di cose, prestare servizio nei territori occupati («È un lavoro sporco») e ai quali verrà dato ampio spazio in Tsahal. L’ultima parte di Pourquoi Israel si concentra su una vicenda particolarmente toccante: la storia della città di

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Dimona. Lanzmann entra nel museo cittadino per raccogliere le parole del direttore del museo, Leon Roisch, al quale alterna le testimonianze di alcuni anziani abitanti. Dimona è un città nella quale molti ebrei di varia provenienza vennero spinti a trasferirsi nel lontano 1955, durante uno dei periodi di maggior afflusso verso la terra promessa: «Credevano di trovare una città e invece trovarono il deserto», ricorda Roisch, aggiungendo: «Bisognava costruire il paese e popolarlo e per popolarlo era necessario mentire». Dimona era una città inesistente nella quale vennero fatte confluire migliaia di persone, illuse da false promesse, sicure di trovare in quel luogo, dal nome sconosciuto, una casa e un lavoro; non trovarono nulla, soltanto un immenso deserto. Dopo la delusione iniziale, l’impegno per garantirsi la sopravvivenza prese forza nei nuovi arrivati, al punto che il paese venne soprannominato Dimiona (“sogno”, “immaginazione” in lingua ebraica); tuttavia, le condizioni di vita erano dure e il terreno faticava a produrre i frutti necessari per il sostentamento della popolazione, ecco che Dimiona prese allora l’amaro nome di Dimrona (“lacrima”). A distanza di poco meno di venti anni, Dimiona è una cittadina fiorente e ben avviata, amata dai suoi abitanti, che hanno contribuito a costruirla e che ora, dalle loro stesse dichiarazioni, non abbandonerebbero per nessun posto al mondo. Leon Roisch si commuove pensando alle dure vicende vissute dalla sua città e al pensiero della nipotina appena nata, la prima generazione nata a Dimona; Lanzmann accoglie con un abbraccio fraterno le lacrime di quest’uomo, commosso dalla storia di un paese dalla vita difficile. Dimona accoglie ora un luogo destinato alla memoria dei sei milioni di ebrei morti durante la Shoah (la Foresta dei Martiri) e ha stretto un curioso gemellaggio con la cittadina tedesca di Amdernach, della quale accoglie, ogni anno, il sindaco. La macchina da presa registra l’annuale incontro tra le due comunità, quella ebraica e quella tedesca,

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unite, anche se tra malumori, controversie ed evidenti imbarazzi, verso la via di una difficile riconciliazione. Pourquoi Israel ha una chiusura ad anello, finisce nello stesso luogo in cui è iniziato: il museo Yad Vashem di Gerusalemme, quasi a sottolineare come la Shoah rappresenti i due estremi entro i quali si muove l’esistenza di Israele: il passato da non dimenticare e il futuro, per impedire che tragedie del genere si verifichino ancora. La Shoah come ricordo e come monito. Soltanto che sul finale, Lanzmann si mette direttamente in gioco: fermo, accanto all’archivista, ascolta con partecipazione l’elenco delle persone che hanno il suo stesso cognome e che sono morte nei campi di sterminio. Il regista stesso sottolinea, a distanza di anni, l’importanza di questo momento: Il nome di ebreo diventa più importante del nome anagrafico, l’identità collettiva supera l’identità individuale. Non a caso, la sequenza pre-finale dello Yad Vashem, scivola via sulle emblematiche note di una canzone di speranza tedesca, cantata da Gert Granach: «Andiamo verso la luce. Fratelli, marciamo verso il sole e la libertà, andiamo verso la luce. Fratelli, la schiavitù è finita, la nostra ultima battaglia sarà la più sacra». Pourquoi Israel, registra ancora, nel 1973, le speranze di una rappacificazione con il mondo arabo, il sentimento di una superiorità militare e morale, le ferite del passato e il desiderio di raccontare al mondo intero il terribile destino del popolo israelita; si chiude con un senso di speranza non ancora funestato dalla guerra, che pochi mesi dopo, spazzerà via un intera generazione.

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L’opera prima di Lanzmann si pone, all’interno della filmografia del regista francese, come il film che introduce tutti gli elementi estetico-formali che le opere successive porteranno a compimento, senza distaccarsi eccessivamente dal modello originario. Il rifiuto del filmato di repertorio, l’utilizzazione di un montaggio dialettico, il lavoro sul suono, la macchina da presa partecipante e la metodologia dell’intervista “provocatoria”, sono solo alcuni degli aspetti

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ricorrenti del cinema di Lanzmann che compaiono per la prima volta proprio in Pourquoi Israel. L’approccio di Lanzmann con il cinema è un approccio immediato, non filtrato da poetiche preconcette o da dogmatismi scolastici; è un cinema che nasce dall’urgenza di parlare, di esprimersi, di creare le basi per un’informazione “alternativa” ai canali istituzionali. I primi lavori realizzati per la televisione (per le trasmissioni “Dim Dam Dom” e “Panorama”), in semplice veste di giornalista, non lasciavano all’intellettuale francese la possibilità di intervenire in prima persona sul materiale girato. La volontà di “impossessarsi dell’immagine” è una delle spinte più forti di avvicinamento al cinema. Abituato alle armi sottili della scrittura e del confronto dialettico, Lanzmann, tuttavia, crede poco alle potenzialità della settima arte: Lanzmann esclude dal campo delle potenzialità del cinema le possibilità manipolatorie offerte dal montaggio, o per meglio dire, la possibilità di far “convivere” sulla stessa pellicola materiale appositamente girato e materiale di repertorio. La scelta più forte del cineasta francese è proprio quella di escludere volontariamente qualsiasi filmato d’archivio, qualsiasi immagine che non aderisca completamente alla fattualità del momento, alla compresenza tra soggetto riprendente e oggetto ripreso. Ecco, allora, che il montaggio diventa una possibilità di costruzione del testo filmico, al pari di una penna in mano allo scrittore (quasi un montagestylo, parafrasando Astruc), espressione del pensiero piuttosto che strumento della manipolazione: «Il montaggio è qualcosa di centrale per me, perché è la scrittura stessa, lo stile del film. Posso dire che sono arrivato al cinema attraverso il montaggio»18. Il montaggio in Pourquoi Israel si costruisce attraverso una serie di contrapposizioni dialettiche sia di carattere tematico che di carattere morale: borghesia/proletariato; vittime/carnefici; polizia/criminali; speranza/delusione; ortodossia/eresia. Il regista francese monta le immagini in modo tale da creare contrasto e, quindi, dibattito, confronto intellettuale. Senza alcun

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commento, senza intervento esterno, le immagini parlano da sole, esprimono concetti in base alla modalità attraverso la quale sono accostate le une alle altre: il serrato dialogo a distanza tra i pescatori e i borghesi del kibbutz esprime al meglio la capacità di costruzione dialettica del montaggio; la visione pragmatica del conflitto di classe viene messa a diretto confronto con l’interpretazione ideologica; l’impossibilità di instaurare un dialogo rappresenta la risultante di due forze opposte che, pur volendo interagire, sono destinate a non incontrarsi mai. Il suono ricopre la funzione classica del reportage, agendo attraverso una depurazione dei rumori d’ambiente a vantaggio della chiarezza e dell’intelligibilità delle parole dell’intervistato. Lanzmann gioca con una sapiente gestione dei silenzi e delle pause e utilizza con parsimonia la musica extradiegetica: canti ebraici, dal ritmo piuttosto sostenuto, accompagnano le immagini dell’ambiente urbano israeliano (le riprese degli striscioni di benvenuto alle varie delegazioni in visita nella terra promessa), mentre la musica diegetica si ripresenta, quasi a scandire il film in tre parti distinte, con i canti di Gert Granach, canti di rivolta e di speranza. Il messaggio, mai esplicitato lungo tutto il film, filtra non attraverso la parola, ma attraverso il canto, incarnato da una figura di esule che collega, simbolicamente, la persecuzione hitleriana e l’approdo nella terra di Sion; collegamento che rappresenta l’elemento tematico più forte di Pourquoi Israel.

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Sin dall’opera prima, Lanzmann utilizza come strumento privilegiato del suo cinema l’intervista, inserendosi all’interno di una corrente del documentario francese che vede nella “testimonianza” la cifra distintiva del documento (basti pensare a Marcel Ophuls con Hotel Terminus o PierreOscar Levy con Le Premier Convoi). Lanzmann, tuttavia, non si limita a montare in sequenza una serie di testimonianze ed opinioni, più o meno condivisibili; pur non intervenendo in maniera invasiva “provoca” l’intervistato, costringendolo spesso a mettersi su posizioni ideologiche estremistiche, che proprio per la loro radicalità, dimostrano

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tutta la loro debolezza (esemplare è l’incontro con l’ebreo ortodosso che Lanzmann provoca sino a fargli dire che è meglio un vero ebreo ateo di un convertito religioso, un vero e proprio paradosso dell’ipocrisia integralista). La provocazione, vera e propria arte dell’intellettuale francese che ne fa ampio ricorso anche sulle pagine de «Les Temps Modernes», non contempla la messa in gioco diretta dell’intervistatore, il quale si tiene sempre fuori dall’immagine; è dal fuori campo che parte la provocazione. Tuttavia, alcune volte, Lanzmann abbandona la sicurezza dell’invisibilità per mettersi direttamente in gioco, trasformando il suo cinema di testimonianza in un cinema di partecipazione; le prime fasi della vicenda della famiglia russa vengono seguite con condivisione emotiva, al punto che il regista stesso scende dal pullman con il giovane russo per visitare, con gli occhi dell’innocenza e dello stupore, il Muro del Pianto. Lanzmann, pur essendo ateo, “partecipa” emotivamente alla religiosità altrui, scorgendo in essa il desiderio di sentire il proprio ebraismo, la propria appartenenza ad un popolo, dopo tante persecuzioni e discriminazioni. Una seconda volta, di fronte alle lacrime improvvise del direttore del Museo di Dimona, Lanzmann non riesce più a mantenere il distacco necessario e sente l’imperativo morale di intervenire, di entrare nel campo e di abbracciare e consolare l’uomo. Il regista francese rimane nel fuori campo, sin quando non vi è una necessità “emotiva” che lo spinga, improvvisamente, ad entrare nell’inquadratura, facendo sentire la propria vicinanza. L’intervento diretto dell’autore diventa tanto più significativo, quanto raro è il suo palesarsi. Cinema della testimonianza e cinema della partecipazione, questi sono gli elementi che emergono con forza e che caratterizzeranno tutte le opere successive, al punto che Pourquoi Israel potrà essere considerato da Lanzmann come il primo atto di una trilogia:

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Lanzmann, a partire da Pourquoi Israel, elabora un’idea di cinema, una poetica, che, dal punto di vista formale, rimarrà identica sino ad oggi; quello che cambia è lo spirito, sono le idee che filtrano dalle opere, le opinioni, i punti di vista, che la tecnica della provocazione non manca mai di rendere espliciti. L’accoglienza della critica al primo film di Lanzmann fu piuttosto fredda e alquanto unanime nel mettere più in evidenza i difetti dell’opera rispetto ai pregi, da alcuni considerati del tutto trascurabili in confronto con l’enormità delle tesi sostenute. Il clima politico dell’epoca non favoriva sicuramente il dialogo e vale la pena ricordare l’isolato tentativo di Pierre Luc Séguillon, autore di una recensione che si proponeva di evidenziare in pari merito pregi e difetti del documentario; l’autore ascriveva tra i meriti la capacità di trasmettere non tanto una visione oggettiva del paese mediorientale quanto una visione autoriflessiva: Il film, nella sua concretezza e con tutte le sue omissioni, rispecchia l’immagine che il paese ha di se stesso; un’immagine sicuramente faziosa, irrealistica, lontana dalla pressante attualità dei conflitti quotidiani con gli arabi, ma pur tuttavia degna di essere riportata. L’accusa si dispiega secondo le coordinate di tutti gli altri attacchi al film: dove sono gli arabi? Una parte così importante della realtà israeliana? Dove sono le organizzazioni anti-sioniste? Dov’è la realtà dolente fatta di razzismo e di intolleranza? I critici sono concordi nel rifiutare l’approccio filo-sionista del regista francese, accusandolo di mistificare la realtà dei fatti: Il milieu politico francese non favorì certamente un libero scambio di idee e il film di Lanzmann, deciso ad affermare il proprio punto di vista senza compromessi e concessioni uscì piuttosto male dal primo scontro con la critica militante. Lo scontro, dopo la tregua di Shoah, accolto unanimamente come un capolavoro, si riaccenderà alcuni anni dopo, con il secondo film di “ambientazione” israeliana. Tuttavia, venti anni dopo, Israele non è più il paese che il regista francese aveva incontrato nel 1973, ma uno stato-nazione in costante allerta bellica, pronto ad aggredire e a difendersi con le armi

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più evolute. Non si parlerà più di terra promessa, ma di Tsahal, esercito!

4. Tsahal 30

I due lunghi soggiorni israeliani, a distanza di venti anni l’uno dall’altro, hanno portato Lanzmann a “diventare” ebreo; l’identità ebraica, prima del contatto rivelatore con il cinema e con la ricerca effettuata per i due film “israeliani” e soprattutto per Shoah, era precedentemente travolta dalle due identità predominanti di ateo e di francofono. L’insegnamento dei Lumi e di Sartre erano per il giovane Lanzmann ben più pressanti dei precetti della Torah. Il contatto con la realtà israeliana prima e con la terribile tragedia dello sterminio poi, hanno modificato le coordinate esistenziali del regista, che, pur mantenendo una sostanziale posizione di scetticismo religioso (sottolineata con particolare virulenza soprattutto in Pourquoi Israel) si sente spinto con sempre maggior trasporto a condividere la sorte del suo popolo di appartenenza. Ecco allora che l’essere ebreo non è una condizione di nascita, ma diventa una questione di scelta, di libero arbitrio. L’atteggiamento di Lanzmann, la sua evidente trasformazione esistenziale, si sposa perfettamente con le considerazioni di un importante intellettuale israeliano, Abraham B. Yehoshua: Nonostante Yehoshua poco prima prenda le distanze dalla posizione sartriana, sulla quale, come abbiamo visto, si fonda la formazione intellettuale di Lanzmann («Tutte le teorie pseudo-sartriane, che pretendono di fondare l’appartenenza ebraica sull’esistenza del non ebreo o dell’antisemitismo che obbliga l’ebreo a identificarsi, sono ridicole»23), è tuttavia incontrovertibile il fatto che la presa di coscienza del regista francese si attui attraverso un movimento progressivo che dal 1973 ad oggi segna le tappe di una sempre maggiore adesione tra il proprio destino individuale e quello del popolo ebraico. Le differenze tra ebreo, sionista e israeliano, che per Yehoshua sono così importanti, per Lanzmann

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sembrano passare in secondo piano; in Tsahal l’essere ebreo coincide con l’essere israeliano e con il volere l’affermazione militare del proprio paese di appartenenza. Il trauma della Shoah lega i cittadini di Israele, li fa sentire uniti, ma nello stesso tempo, li spinge all’aggressività, alla necessità presunta dell’autodifesa ad ogni costo. Non è facile giocare con le parole, quando la confusione è volontaria e permette di governare meglio e con più forza. L’Israele del 1994 non è più quello del 1973, molte cose sono cambiate, si sono combattute alcune sanguinose guerre e molte battaglie hanno inasprito gli animi, al punto che, come vedremo, l’atteggiamento del regista stesso è, a distanza di venti anni, radicalmente cambiato.

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La preparazione di Tsahal, come per tutti i film di Lanzmann, è stata lunga e impegnativa; il regista ha viaggiato per oltre cinque anni tra la Francia e Israele per compiere sopralluoghi, organizzare incontri e registrare interviste e alla fine, le cinque ore definitive di durata del film rappresentano una minima parte del materiale girato. I primi anni Novanta in Israele sono segnati da alcuni sanguinosi e drammatici eventi che trasformano progressivamente l’impostazione iniziale del film; il quale registra, nel suo sviluppo, l’atmosfera di tensione crescente che si respirava nel paese in quegli anni. Il 20 maggio del 1990, un fanatico israeliano spara contro un gruppo di lavoratori arabi, uccidendone sette; tra il 1990 e il 1991 si concretizza la prima guerra del Golfo: in 42 giorni di guerra (dal 17 dicembre 1990 al 28 febbraio 1991) l’Iraq lancia contro Israele ben 39 missili Scud, esasperando il senso di minaccia che ossessiona da decenni il popolo israeliano. Il 23 giugno del 1992 i laburisti di Rabin vincono a sorpresa le elezioni con 64 seggi politici su 120, tuttavia, il sogno di pace alimentato dalle azioni del nuovo leader si va ad infrangere il 4 novembre del 1995, quando Rabin cade sotto i colpi di pistola di un estremista della destra ortodossa. I primi passi del processo di pace, promosso da Rabin e Shimon Peres,

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l’allora ministro degli esteri, prevedeva come primo passo il ritiro graduale dai territori occupati di Gaza e Gerico e il successivo riconoscimento dell’autorità palestinese; ovviamente un passo del genere non poteva essere bene accetto dalla maggior parte della popolazione di coloni dei territori, i quali si sentirono traditi dal nuovo governo. Il 25 febbraio 1994, un colono ebreo militante del Kach (movimento ultraortodosso ebraico) uccide 30 fedeli riuniti in preghiera nella Moschea di Hebron, bloccando, con il suo folle gesto, i negoziati di pace. Il film di Lanzmann descrive con partecipazione il clima di tensione che Israele viveva in questi anni cruciali, registrando, con ovvie omissioni e con inevitabili prese di posizione, l’ostilità crescente tra i coloni ebrei dei territori occupati e le popolazioni palestinesi. Un film dedicato all’esercito non poteva non mettere in evidenza l’invasiva presenza delle forze armate nella vita quotidiana del paese mediorientale; una presenza che al giorno d’oggi, a seguito del crescente numero di attentati kamikaze, è diventata pervasiva, come sottolinea l’intellettuale israeliano Michel Warschawski, in un libro emblematicamente intitolato A precipizio – La crisi della società israeliana: Tsahal, con i suoi dieci anni di anticipo, rispetto al testo citato prefigura già l’esistenza di un perenne stato di allerta, di un continuo stato di polizia, accettato dai civili senza fastidio, ma come una imprescindibile garanzia di sopravvivenza. Il film, infatti, pur essendo stato realizzato prima dell’assassinio di Rabin, non indulge in un facile ottimismo, ma sembra anticipare, suo malgrado, la svolta drammatica che il paese prenderà di lì a poco. Tsahal (o Tzahal) è la contrazione di Tzevat Haganah leIsrael, “Forze Armate di Difesa di Israele”, ovvero l’esercito. Fondato nel 1948, Tsahal si struttura sin da subito come un esercito tradizionale, con il proprio codice, le proprie uniformi, la propria gerarchia. La leva è obbligatoria e più lunga che negli altri paesi: tre anni di servizio militare per gli

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uomini e due per le donne, a partire dai diciotto anni di età. Tuttavia ogni israeliano rimane un soldato per tutta la vita, dal momento che la sicurezza del paese non può essere garantita senza un numero enormemente ampio di riservisti. Per sei settimane l’anno, fino al cinquantacinquesimo anno di età, ogni cittadino israeliano deve combattere per le forze armate nazionali, trasformando l’esperienza militare, da episodica, come negli altri paesi, a esistenzialmente rilevante. Per trentasette anni, l’uomo israeliano si trova nel ruolo di cittadino-soldato, di difensore della patria, di vittima o di carnefice; può aderire o meno alle ragioni del conflitto, l’unica cosa che gli viene richiesta, per quarantadue giorni l’anno, è quella di combattere, uccidere o morire. L’assurdità di una tale situazione, che colpisce immediatamente la sensibilità di un occidentale, è che lo status quo viene accettato con assoluta rassegnazione o indifferenza dalla maggior parte degli israeliani. Anche un intellettuale pacifista come David Grossmann, intervistato da Lanzmann in Tsahal, ricorda, a malincuore, il disappunto con cui, nel 1982, era stato richiamato per combattere in Libano, una guerra della quale non condivideva le ragioni, ma alla quale aveva, nonostante tutto, partecipato in qualità di riservista. Dai diciotto anni ai cinquantacinque e oltre (dal momento che ogni genitore affida poi all’esercito i propri figli e nipoti) Tsahal è al centro della vita di ogni uomo israeliano, volente o nolente, falco o colomba. Ecco che un’intera generazione si è trovata coinvolta nelle tre guerre più sanguinose combattute dal paese mediorientale: la guerra dei Sei Giorni, la guerra dello Yom Kippour e la guerra del Libano, attraverso una spirale di violenza che non sembrava arrestarsi mai. La disciplina, di fronte ad un periodo così esteso nel tempo di leva obbligatoria, è più blanda rispetto ad altri eserciti nazionali: il carattere viene forgiato nel tempo, privilegiando la durata all’intensità. I soldati vengono utilizzati nei ruoli più disparati, dal

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mantenimento della sicurezza pubblica sino all’impegno in qualità di agricoltori nei territori occupati, divenendo così una presenza fissa nel paesaggio israeliano. I soldati assumono così una conformazione geo-antropologica, vivono nel paesaggio, chiusi in enormi testuggini-carro armato, fermi nelle trincee con le loro divise che si mimetizzano con il colore del deserto, i soldati aderiscono al terreno come sassi, immobili nella vita e nella morte. L’esercito, protagonista assoluto della vita sociale e politica di Israele, è, infine, il protagonista principale di quella che Grossmann definisce ironicamente, «la lavanderia delle parole», ovvero l’ipocrita trasformazione verbale che i mass media operano sulle azioni più o meno trasparenti commesse dall’esercito: L’ironia di Grossmann non stempera la cruda realtà dei fatti, in un paese dove ogni azione dello Tsahal è legittimata e autorizzata e dove i vertici dell’esercito comandano spesso più dei capi di stato (senza dimenticare che dalle fila dell’esercito provengono due primi ministri come Barak e Sharon). Il film di Lanzmann registra fedelmente, forse troppo, la realtà dei fatti, affidando la parola il più delle volte proprio a coloro che hanno fatto del “lavaggio delle parole” un mestiere diplomatico.

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Tsahal è una produzione franco-tedesca. Lanzmann si avvale di collaboratori fidati, come Sabine Mamou al montaggio e Dominique Chapuis alla fotografia. Il film, della durata di 300 minuti circa ha una strutturazione piuttosto classica; diviso per gruppi tematici affronta in maniera approfondita i vari aspetti della vita e dell’organizzazione militare israeliana. Tsahal, dedicato a Felix e ad Angelique, inizia su sfondo nero, in off si sentono i “suoni della guerra”: spari, movimenti di truppe, grida, comandi in codice. La prima intervista, ad un riservista anonimo, toccato dall’ascolto dei rumori bellici, è centrata sulla paura. Il primo contatto con il mondo dello Tsahal non esalta il coraggio dei suoi uomini, ma la loro umanità, il loro essere come tutti preda della

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paura, il sentimento più comune in guerra. Attraverso l’ascolto Lanzmann riproduce nell’interlocutore una condizione emotiva, uno stato d’animo appartenente al passato che ritorna prepotentemente in un presente considerato sicuro, ma la cui sicurezza si rivela effimera al pari dell’esistenza di ogni combattente. Yuval Neria, un altro riservista, ha perso nella guerra dello Yom Kippour il novanta per cento dei suoi amici. La guerra più dura e dolorosa sostenuta da Israele ha visto scomparire nel giro di pochi giorni un’intera generazione di soldati, venendo ricordata a distanza di venti anni come una vera e propria esecuzione di massa. Lanzmann si aggira in silenzio in mezzo alle lapidi di quella guerra. L’esercito, tuttavia, mostra un volto umano, nel momento in cui un riservista ricorda che il regolamento militare vuole che quando una famiglia perde un figlio in guerra, gli altri figli coinvolti nello stesso conflitto facciano immediatamente ritorno a casa, dal momento che: «Sacrifica la vita, ma la stirpe deve continuare». La sopravvivenza del popolo israeliano risulta essere più importante della vittoria di qualsiasi guerra, in un paese nel quale esistere rappresenta la battaglia più grande e dura. I temi iniziali di Tsahal (la paura, la fine di una generazione, il valore della famiglia) sono accompagnati da immagini di addestramento bellico; non vi è nessuna immagine di repertorio, ma soltanto immagini del presente che nella loro ripetitiva monotonia raccolgono la figurazione di ogni possibile guerra: i carri armati che si muovono pesanti nel deserto, i soldati estenuati da lunghe attese, le esercitazioni con le armi, i momenti di pausa alternati ai momenti di allerta. Il tutto immerso nell’assolato panorama israeliano, ieri come oggi. Se in Shoah, i luoghi, sui quali indugiava la macchina da presa, avevano ormai cancellato le tracce del passato, in Tsahal la contemporaneità continua a recare le stesse impronte del passato, in un paese dove la guerra non è mai finita.

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L’unica cosa che muta, in un paesaggio sempre uguale a se stesso, è la potenza delle armi. I carri armati israeliani, forniti di un innovativo motore anteriore, sono diventati i migliori al mondo, i più potenti, i più micidiali. L’esercito israeliano debole nell’aviazione e nella fanteria ha puntato tutte le risorse sulle armi pesanti, come sottolinea il riservista Yuval Neria: «Il carro armato è una macchina molto strana, non è per niente umana, ma è molto dinamica e molto vitale. La si può guidare come un trattore, è più comoda di una jeep, è molto bella». Il carro armato è per il soldato israeliano una seconda casa. Il soldato scelto Leibovitch arriva a sostenere che il suono dei proiettili dall’interno del carro armato è simile a una musica, operando un’agghiacciante tentativo di estetizzazione della morte. Lanzmann registra le dichiarazioni d’amore dei soldati per il mezzo che li rende ai loro occhi invulnerabili e riprende, con un lungo travelling dall’alto su di una fabbrica di carri armati, le diverse e delicate fasi di costruzione della micidiale arma. Il tour della fabbrica ha una guida d’eccezione, il generale Israel Tal, artefice della rinascita dell’esercito israeliano e sostenitore della forza delle armi pesanti. Lanzmann intervista questo signore della guerra senza avanzare provocazioni, ma registrando fedelmente i suoi discorsi guerrafondai. Lo spirito critico, che in Pourquoi Israel era forte e ben presente, qui si stempera in una freddezza che porta il regista ad accettare qualsiasi tipo di affermazione senza reagire, o per meglio dire, senza interagire con il proprio interlocutore. Le nazionalistiche dichiarazioni dei vertici dell’esercito si accompagnano, in Tsahal, con le convinte prese di posizione dei soldati semplici, ignare pedine in un gioco più grande di loro. I riservisti ricordano sgomenti il loro stupore nel constatare che mentre loro rischiavano la vita ogni minuto, durante le guerre dei Sei Giorni e dello Yom Kippour, nelle città, la vita continuava come sempre, tra locali e cinema alla moda;

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nessuno sembrava capire quello che stava realmente succedendo a pochi chilometri di distanza dalle “luci della città”. Come si può responsabilizzare un soldato, se prima non si responsabilizza un intero popolo? Questa è la domanda che serpeggia ancora, a distanza di anni, dietro gli occhi stanchi di questi ex-giovani. Il discorso strategico segna il passo successivo di Tsahal. La miglior difesa è l’attacco, questa è la linea d’azione proposta e seriamente sostenuta da Ariel Sharon, nome di battaglia Arik, ripreso mentre con bucolica serenità si muove nell’orto della sua vasta tenuta. Sharon ricorda il momento in cui venne richiamato, come generale riservista, a comandare le manovre d’attacco durante la guerra dello Yom Kippour e di come reagì nell’immediato. La strategia subito attuata dal virulento generale si compose, subito, di tre fasi: attacco, difesa, ritirata. La stessa linea d’attacco viene sostenuta dal tenente Ehud Barak, del quale inizialmente sentiamo soltanto la voce off. Il tenente (futuro primo ministro come Sharon) ricorda come, sin dall’inizio, la strategia sia stata quella di portare la guerra nei paesi arabi e non combattere sul proprio territorio per non subire perdite civili. Una strategia che, però, non riguarda solo una guerra o una battaglia, ma tutta la dolorosa storia recente d’Israele: «Se vogliamo riassumere tutta l’esperienza israeliana degli ultimi quarantaquattro anni si tratta di una battaglia senza fine per l’indipendenza segnata da episodi salienti che caratterizzano le grandi guerre». Le interviste a Sharon e a Barak vengono condotte con fredda oggettività, anche in questo caso, Lanzmann non lancia provocazioni e non mette i propri interlocutori in difficoltà; tutto si svolge come se gli intervistati fossero già a conoscenza delle domande e si sentissero sicuri di non essere colti in fallo nei loro punti deboli. Ovviamente non vi è nessun accenno alle criminose azioni condotte da Sharon in occasione della guerra del Libano, né tanto meno si fa riferimento al massacro di civili

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palestinesi a Sabra e a Chatila ad opera di miliziani falangisti perpetrato, per l’appunto, sotto gli occhi dell’esercito israeliano. Lanzmann, forse per lasciar trasparire la verità senza provocarla, lascia che i suoi interlocutori si sentano a proprio agio, sorridano, facciano battute, descrivano azioni di guerra e di morte come semplici mosse di un’appassionante partita a scacchi. Sicuramente il punto più alto di distacco dalla cruda tragicità dei fatti viene raggiunto quando Barak, che nel film si autodefinisce un “visionario pratico”, racconta la “divertente” organizzazione di un’azione diretta dal Mossad, i servizi segreti israeliani, ai danni di alcuni esponenti di spicco dell’OLP e probabili mandanti dell’uccisione degli undici atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco del 1972. Barak, per portare a termine gli omicidi commissionati dai servizi segreti, dovette travestirsi da donna, con tanto di trucco e di seno finto. A distanza di venti anni, il segreto e la colpa si perdono sotto l’inarrestabile desiderio di raccontare un aneddoto “buffo”, all’interno della propria carriera militare. La medesima inspiegabile allegria traspare dal racconto della propria esperienza come capo di stato maggiore e dal ricordare quanto i soldati siano sotto stress nel momento in cui si trovano coinvolti in un attacco, al punto da addormentarsi ogni quindici secondi. Sharon, dal canto suo, ci “istruisce” su come far fronte ad un’imboscata, sostenendo, con assoluta serenità, che è meglio uccidere che farsi uccidere, quindi, nuovamente la miglior difesa è sempre l’attacco. La guerra e la morte diventano per questi mastini dell’esercito una serie di episodi, più o meno collegati, da raccontare con il sorriso sulle labbra durante una gradevole conversazione; e Lanzmann, in questo caso, gli offre il destro per continuare a fingere che tutto sia giusto e normale. La fedeltà al proprio generale è un altro dei capisaldi sui quali si deve forgiare il carattere del soldato modello; nel 1973, Yossi Ben Hanan, uno degli alti gradi dello Tsahal, interruppe il sospirato viaggio di nozze in Nepal per tornare

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in Israele a combattere a capo della brigata Barak ridotta allo sbando. La fedeltà, dopo la paura, è il sentimento che muove con più forza lo spirito del combattente. La tesi è confermata da una serie di spiazzanti interviste a un gruppo di giovani che si prepara ad entrare nell’esercito; la vita di questi ragazzi incomincia a ruotare intorno all’esercito a partire da due anni prima dell’ingresso nell’arma; l’adolescenza è bruciata dall’addestramento militare, così come il carattere si plasma ad essere piegato dall’autorità e la volontà scivola sotto i dettami dell’obbedienza. Un giovane dichiara senza riflettere: «Siamo soldati, il mio compito è difendere il paese, rischiando la vita». Non è un caso, se uno di loro dichiara, in tono convincente: «Tutti i nostri coetanei israeliani conoscono qualcuno che è morto nell’esercito». Il senso di sottomissione all’esercito e di conseguenza allo Stato, è ben descritto da David Grossmann, che, con le sue sagge parole, segna il momento più alto della riflessione in Tsahal; contrariamente ai francesi, che credono che lo Stato sia al servizio del cittadino: «Molti di noi pensano che i nostri diritti naturali ce li abbia dati lo Stato e che lo Stato possa toglierceli». Il giovane israeliano è terrorizzato dall’idea di non compiere sino in fondo il proprio dovere e di vedersi, per questo, togliere il diritto a ritenersi autenticamente “figlio di Israele”. Secondo lo scrittore israeliano, l’evento traumatico della Shoah ha lasciato negli ebrei un istinto di aggressività mai sopito, un senso di impotente frustrazione che si va poi a riversare in un contesto ambientale regolato dalla forza, dalla violenza, dall’oppressione e dalla disuguaglianza gerarchica. La china discendente verso la quale sta precipitando il paese mediorientale non lascia aperte molte vie all’ottimismo, al punto che Grossmann sostiene di non riuscire a guardare avanti e di non arrivare neanche ad immaginare come sarà, se ci sarà ancora, Israele nel 2025. Pessimismo della ragione e pessimismo della volontà si accompagnano nelle parole di quest’uomo che ha continuato, nell’arco degli anni, a

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denunciare, inascoltato, le ingiustizie della politica israeliana e le condizioni di oppressione del popolo palestinese. L’ineguale rapporto di forza che spinge i giovani ad una sottomissione incondizionata ai dettami dell’esercito è ben esemplificato da una sequenza piuttosto coinvolgente a livello emotivo: il primo lancio con il paracadute. Il regista posiziona la macchina da presa su di un aereo militare che sta volando ad alta quota, in prossimità del portellone di lancio; i soldati, precedentemente addestrati su come effettuare il volo ed aprire il paracadute, vengono spinti giù dall’aereo in maniera frettolosa, uno dopo l’altro. Alcuni, spaventati dalla brutalità dell’operazione e dalla naturale paura del vuoto e dell’ignoto, cercano di opporre una debole resistenza, aggrappandosi ai lati dell’uscita, ma una spinta ancor più violenta della precedente li precipita verso un destino che l’obiettivo non ci mostra, preso a riprendere la monotona ritualità di questo rito d’iniziazione. L’aviazione rappresenta per molti giovani il corpo più prestigioso; essere ammessi a farne parte per molti è l’unico scopo di vita. Lanzmann raccoglie, questa volta con maggiore partecipazione umana, alcune dichiarazioni di ragazzi che si preparano per ottenere il brevetto di volo militare: alcuni di loro saranno ammessi, mentre altri saranno respinti. Il regista francese attende i risultati insieme ai ragazzi e registra il giubilo degli ammessi e la delusione dei respinti, di coloro che dovranno trovarsi un’altra ragione di vita, dopo l’enorme investimento emotivo riposto in un impresa fallita. Un ragazzo profondamente deluso schiva la macchina da presa invitando il regista a rivolgersi a persone più felici di lui (R.: «Dovrebbe riprendere persone più felici... è più interessante»; L.: «Non ne sono certo»), non rendendosi conto che, in quel momento, il suo volto triste ha molto più significato dei sorrisi trionfanti che lo circondano. La tensione che si respira nella sala d’attesa rispecchia perfettamente il rapporto di sottomissione che i giovani

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israeliani hanno con l’istituzione militare, vista da molti come l’opportunità professionale più onorevole e più consona ad un vero patriota. Il rifiuto corrisponde ad un profondo fallimento esistenziale, dal quale, poi, molti faticano a riprendersi. L’ultima parte di Tsahal risulta essere la più stimolante dal punto di vista dialettico. Entrano in campo nuovi interlocutori, tutt’altro che secondari nella storia del paese mediorientale: gli arabi. Lanzmann, finalmente, si incammina su un percorso meno agevole, trattando la spinosa questione dei territori occupati. Il primo approccio con la situazione militare nella Striscia di Gaza avviene in occasione della perlustrazione dell’esercito nelle stretto dedalo di vie del quartiere arabo. I soldati israeliani entrano in un territorio che è loro sostanzialmente estraneo, ponendosi, fisicamente, in netto contrasto con la realtà ambientale: i soldati si muovono e vengono percepiti dagli arabi come corpi estranei, da espellere. Il comandante della Striscia di Gaza, generale Schmuel Zucker, espone, con sicurezza, al regista francese le tecniche di sopravvivenza in una zona così pericolosa: come muoversi, a che velocità guidare l’automobile per evitare di essere colpiti dalle pietre, come relazionarsi con la popolazione araba; Lanzmann questa volta ascolta non senza celare inquietudine e disapprovazione. Alcuni soldati riservisti sono stati richiamati a compiere il “proprio dovere” nei territori occupati, che risultano essere, per la maggior parte di soldati ed ex soldati, il luogo peggiore dove poter essere mandati. Il rifiuto aperto, l’odio palese della popolazione araba nei loro confronti rende estremamente difficoltosa la gestione della vita quotidiana, continuamente sotto il tiro dell’attacco nemico, dell’assalto condotto con armi o con pietre e sempre finalizzato all’omicidio, all’annientamento della forza d’occupazione. La questione della legittima difesa non è più problema relegato alle battaglie, ma un principio di

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sopravvivenza quotidiana. I soldati sottolineano come chi presti servizio a Gaza debba essere sempre pronto a sparare per primo, anche nel dubbio, anche contro minorenni, anche contro coloro che lo attaccano con armi impari. Dopo oltre tre ore e mezzo di proiezione, Lanzmann dà la parola alla parte avversa, il “nemico” contro il quale lo Tsahal trae la propria linfa vitale e la propria energia guerresca. Il nemico, così spesso evocato nel corso del film, così minaccioso e temibile, si presenta sotto le sembianze di poveri uomini e di povere donne vestite di stracci, in attesa di subire umilianti controlli ai varchi della stazione della zona occupata. Il regista rivolge agli arabi domande precise («Che cosa pensate di tutti questi controlli?», «Vi danno fastidio?»), ricevendo in cambio risposte vaghe e sfuggenti. Gli intervistati hanno paura dell’ebreo che gli avvicina il microfono con atteggiamento “falsamente” amichevole; temono che si tratti di una trappola e quindi preferiscono non rispondere oppure negare l’evidenza, sostenendo che i controlli sono prassi normale e sopportabile. In questo caso, emblematicamente, la paura è più forte della verità. Gli arabi di Gaza sono tutti schedati: ad ogni nome corrispondono un volto e una serie di dati inseriti in un computer (precedenti, eventuale partecipazione ad azioni terroristiche, parentele e amicizie sospette, stato di famiglia); chiunque sia alla ricerca di un lavoro (una gran parte degli arabi nei territori occupati sono disoccupati) deve sottoporsi ad una trafila di controlli e di interrogatori. Lanzmann intervista un arabo, padre di dieci figli, e disoccupato. L’intervista viene condotta con leggerezza e il regista dimostra nei confronti dell’uomo una singolare solidarietà umana. Lanzmann chiede all’arabo perché abbia generato così tanti figli se poi non è in grado di mantenerli e l’uomo, con il sorriso sulle labbra, risponde, sibillino, che non è lui a volere i figli, ma Dio che glieli manda. E ovviamente con Dio non si scende a patti. Tuttavia, le penose immagini degli arabi in attesa di un impiego o

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sottomessi a umilianti controlli, non distolgono Lanzmann dall’idea che in fondo, tutto questo, sia necessario per salvaguardare la sicurezza di Israele, come avrà modo di dichiarare in seguito: Se il regista francese non ha dubbi sull’effettiva utilità dei continui controlli sulla popolazione palestinese, ne nutre ben di più sull’effettiva necessità di mantenere lo stato di occupazione a distanza di oltre vent’anni dalla fine della guerra dei Sei Giorni. Il dissenso del regista si unisce a quello degli scrittori Grossmann ed Amos Oz, da sempre impegnati contro l’occupazione dei territori. Grossmann sostiene la necessità di dire la verità, facendo fronte a tentativi di censura e di oscuramento ideologico (lo scrittore è stato più volte accusato di danneggiare l’immagine di Israele con le sue idee progressiste), in quanto: «Il dovere di un vero ebreo è quello di dire la verità».

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L’ultimo momento chiave di Tsahal è una lunga, estenuante, intervista a Uri Ariel, un colono, deciso a trascorrere nei territori occupati tutto il resto della sua esistenza e ad assicurare ai suoi discendenti lo stesso diritto. Di fronte a questo bizzarro e integralista interlocutore, Lanzmann ritrova la sua verve polemica e la sua volontà di provocazione, prospettando ad Uri la possibilità che un giorno il governo israeliano possa decidere di restituire all’autorità palestinese almeno una parte dei territori (cosa sorprendentemente verificatasi nell’estate del 2005, su decisione del primo ministro Ariel Sharon). Il colono sembra non voler nemmeno prendere in considerazione un’ipotesi, ai suoi occhi, così peregrina e arriva a dichiarare che, semmai una cosa del genere dovesse succedere egli sarebbe anche disposto a vivere come straniero in terra palestinese. Lanzmann, con la foga anticolonialista che aveva caratterizzato le sue battaglie editoriali in occasione della guerra d’Algeria, non molla la presa e lo costringe a ritornare sull’assurdità delle sue dichiarazioni, innescando con il colono un dialogo basato sulla più sostanziale

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incomprensione reciproca e che si scioglie, a sorpresa, in un abbraccio, dettato più dalla stanchezza e dalla pietà che dal raggiungimento di una vera empatia comunicativa. Uri Ariel è convinto di essere dalla parte della ragione: Il colloquio con Uri è dilatato, rispetto all’economia del film e alla durata media delle altre interviste, quasi come a voler sottolineare che il tempo non facilita il dialogo, ma anzi, spesso, accresce gli equivoci e favorisce l’inasprimento dei rapporti, chiara metafora di quanto accaduto tra ebrei ed arabi. L’ultima immagine del film vede un giovane soldato trionfante fare capolino dalla testa di un carro armato: non è un’immagine di pace, né di dialogo, ma una rappresentazione visiva di una sfida aperta. Lanzmann chiude la sua monumentale opera sull’esercito israeliano, asserendo l’assoluta necessità dell’autodifesa militare ed esaltando lo spirito di abnegazione dei giovani che sacrificano la loro vita per la sicurezza e per la sopravvivenza del loro paese.

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La finalità, in un certo senso propagandistica, dell’opera, risultò subito evidente anche agli occhi della critica: Sicuramente la finalità del regista non era di natura didattica, quanto politica: affermare e sostenere la necessità dell’armata israeliana e, soprattutto, difenderla agli occhi dell’opinione pubblica europea, troppo incline a istituire pericolosi paragoni tra i capi maggiori dello Tsahal e i vertici del partito nazista. Ovviamente per portare a buon fine il proprio proposito occorreva lasciare in secondo piano le figure di spicco del popolo palestinese, creando una forte discrepanza ideologica tra le dichiarazioni di intellettuali ebrei “illuminati” come Grossmann e Oz e le parole ingenue e impaurite dei pochi arabi interpellati, elemento acutamente rilevato anche da Guy Gauthier: «I Palestinesi presenti nel film (interrogati sui loro rapporti con l’esercito) non hanno alcuna possibilità di far ascoltare le loro argomentazioni: i loro discorsi, quelli della povera gente dalla vita difficile, non hanno la seduzione della parola degli intellettuali palestinesi»29. Il discorso argomentato dei capi

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dell’esercito e il discorso illuminato degli intellettuali ebrei non può competere con il discorso ingenuo del popolo palestinese, relegato in secondo piano, sbrigativamente e volontariamente marginalizzato. Sarebbe stato forse più equo mettere a confronto interlocutori che giocassero ad armi pari, in modo tale da argomentare con la medesima forza i torti e le ragioni di entrambe le parti; ma, come abbiamo dedotto dalle dichiarazioni dello stesso Lanzmann, il film doveva essere necessariamente di parte e giustificare il massiccio ricorso alle armi del popolo israeliano.

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Tuttavia, i palestinesi non sono gli unici grandi assenti di Tsahal. Tra gli esclusi fanno capolino anche le donne. Scelta ovvia se ci trovassimo di fronte ad una qualsiasi altra struttura militare, fortino chiuso, maschilista e sessuofobico, ma non di fronte all’esercito israeliano, che chiede alle “sue” donne di dedicare ben due anni della propria vita alla difesa del paese. L’assenza della figura femminile, o la sua assoluta marginalità, è un dato ricorrente nel cinema del regista francese. Ci sono poche donne e silenziose in Pourquoi Israel; ci sono pochissime figure femminili rilevanti, nonostante l’ampiezza delle testimonianze raccolte, in Shoah; e non ci sono praticamente donne in Tsahal; come rileva Dominick La Capra: «In Tsahal il ruolo delle donne è fin troppo limitato considerando che l’esercito israeliano è conosciuto nel mondo per il loro ampio contributo. In linea di massima, le donne o vengono viste e non ascoltate, oppure (nel ruolo di interpreti) vengono ascoltate, ma non viste»30. La donna, figura sfuggente, non può essere vista ed ascoltata nello stesso tempo (basti pensare in Pourquoi Israel alla coppia di russi neo-emigrati, nella quale la donna aveva solo la funzione di supporto del marito, al quale era affidato il “diritto” di parlare). Le ragioni di tale clamorosa esclusione sono, probabilmente, di natura più inconscia che volontaria. Il milieu culturale de «Les Temps Modernes» non era certamente caratterizzato da una esclusione delle figure femminili, considerando l’enorme ruolo svolto all’interno

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della rivista, prima come redattrice e poi come direttrice, da Simone de Beauvoir, vero e proprio simbolo generazionale della rivalsa intellettuale della donna. Inoltre, Lanzmann nei suoi scritti ha sempre dimostrato un grande rispetto e una grande sensibilità nei confronti delle questioni femminili, invitando, anche in qualità di direttore della rivista sartriana, molte collaboratrici a scrivere sui più svariati argomenti. La ragione della presunta misoginia di Lanzmann va ricercata, a parer nostro, nell’approccio che il regista francese ha avuto sin dall’inizio nei confronti del mezzo cinematografico. Il cinema, per Lanzmann, non è uno strumento didattico, non è un mezzo di indagine storica, né tanto meno uno strumento di documentazione, quanto piuttosto un potente mezzo di identificazione e di autoaffermazione. Il regista francese cerca, attraverso il cinema, lo strumento per affermare la propria identità di ebreo, sopravvissuto alla Shoah e di uomo, sopravvissuto alla lotta per la costruzione e l’affermazione di Israele, sanando con il cinema e quindi con l’unico strumento che è in grado di maneggiare con fermezza, il doppio insanabile senso di colpa: essere un ebreo sopravvissuto ai suoi simili ed essere, nello stesso tempo, anche un ebreo della diaspora; un ebreo che ha scelto di tenersi lontano dai punti caldi del conflitto e che non ha mantenuto la promessa che ogni ebreo, in ogni parte del mondo, rinnova ogni dodici mesi: «L’anno prossimo... a Gerusalemme». Ecco, allora che Lanzmann deve trovare nei suoi interlocutori un punto di identificazione, una possibilità di rispecchiamento e, lasciando la parola al suo doppio, un margine di discolpa. In Tsahal, la partecipazione del regista, la sua entrata in campo è decisamente ridimensionata rispetto a Pourquoi Israel. Se nell’opera prima, Lanzmann si metteva in gioco in prima persona, fisicamente e ideologicamente, nel suo terzo film, preferisce costruire una distanza fisica e ideologica con il suo interlocutore, con pochissime eccezioni: il giovane

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soldato israeliano respinto dall’aviazione e il colono, nella parte conclusiva del film. In entrambi i casi, Lanzmann è consapevole della propria forza, della propria fermezza emotiva e della superiorità delle sue affermazioni; si sente, quindi, in grado di esporsi, considerandosi al sicuro. Come sottolinea Francesco Casetti, in una interessante rilettura del pensiero sartriano, nel momento in cui un soggetto si trova ad essere guardato (nel nostro caso dal pubblico) la sua relazione con il mondo circostante cambia radicalmente: «La situazione cambia ulteriormente: scoprendomi visto, io mi scopro a mia volta oggetto di uno sguardo altrui, ma anche oggetto un po’ speciale, capace di strutturare per l’altro il mondo attorno a me e insieme capace di sottrarglielo (e di sottrarmi a lui)»31. Per essere in grado di strutturare il mondo altrui, occorre avere la certezza della propria posizione del mondo, occorre essere sicuri di voler passare da un ruolo secondario a un ruolo primario. La scelta di non intervenire all’interno delle numerose interviste dedicate ad esponenti più o meno influenti dell’esercito, è dettata, quindi, dalla chiara volontà di non strutturare le risposte altrui e di non rompere l’equilibrio impari tra intervistatore ed intervistato, relazione, resa tanto più squilibrata dalla costante presenza di interpreti che creano un’ulteriore barriera divisoria. Se nell’opera prima, Lanzmann si faceva spesso riprendere insieme ai suoi interlocutori, adesso si limita a registrare testimonianze, tenendosi al di fuori dell’immagine, evita di dover dare giudizi e devolve la sua abilità registica e giornalistica interamente alla difesa della causa israeliana, arrivando a realizzare, quello che probabilmente è il suo film meno personale e meno autoriale in senso stretto; l’autore si nasconde dietro le idee altrui, che condivide sino a un certo punto, ma che ha deciso di difendere comunque, in quanto non si gioca la battaglia di un film, ma quella della sopravvivenza di un popolo. La scelta della trasparenza produce, piuttosto naturalmente,

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una regia discreta e invisibile; le interviste vengono condotte in maniera tradizionale, spesso secondo un’impostazione televisiva: mezzi primi piani frontali, illuminazione omogenea, tagli di montaggio discreti. Di stampo televisivo è anche la scelta di far parlare gli intervistati in inglese (con traduzione simultanea di un interprete che copre con la sua voce la voce dell’interpellato) o, più raramente, in francese, scelta non condivisa dalla critica: Indubbiamente, la scelta linguistica produce un ulteriore distanziamento con la materia trattata; l’inglese è la lingua della diplomazia, lingua neutra, che non comporta scelte di campo troppo nette. Il montaggio è lineare e sotto alcuni aspetti monotono: le interviste si alternano con lunghe panoramiche sui desertici paesaggi israeliani (in off si odono alcune volte le parole degli intervistati, altre musiche tradizionali). Il netto rifiuto di filmati di repertorio viene mal compensato da sequenze troppo lunghe e troppo povere di interesse informativo. Paesaggi e spostamenti di truppe riempiono con monotonia i passaggi tra un’intervista e l’altra. La macchina da presa, sempre funzionale alla resa migliore dell’intervista, si lancia raramente in movimenti “arditi” e/o autoriali; le uniche eccezioni sono rappresentate dai momenti in cui l’occhio del regista sente la necessità di amplificare l’identificazione, già presente come sottotesto lungo tutta l’opera, inserendo riprese soggettive, volte ad amplificare l’empatia tra l’intervistato e lo spettatore; basti pensare alle immagini che accompagnano il racconto di Miki Betzer, alto esponente dell’esercito e “compagno” di Barak nell’omicidio dei presunti mandanti palestinesi della strage di Monaco; Betzer descrive le drammatiche fasi di un suo ferimento durante una sanguinosa battaglia contro gli arabi: colpito in diversi punti del corpo, camminava come in trance in mezzo alle pallottole che sfrecciavano a pochi centimetri da lui. La macchina da presa segue, in pieno giorno, simulando un passo incerto e spaventato, un cammino che potrebbe essere quello di Betzer, mentre in off si odono le parole del riservista. I momenti di personificazione dello sguardo della macchina da presa sono, comunque, rari e

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sempre funzionali ad un accrescimento della drammaticità del racconto testimoniale, secondo un procedimento già adottato, con le opportune differenze, anche in Shoah.

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Tsahal non è certamente un film facile, accolto in maniera controversa all’epoca della sua uscita, contestato violentemente da alcuni gruppi di estrema destra e sgradito, nello stesso tempo, ad ampi settori della sinistra più radicale e filo-palestinese, il film di Lanzmann scontenta apparentemente tutti; tuttavia, interpretata alla luce dell’intera filmografia del regista francese, l’opera assume un significato più comprensibile: la Shoah ha prodotto nel popolo ebraico una ferita impossibile da sanare e che, a distanza di anni, trova parziale sollievo soltanto nell’espressione della violenza subita in violenza inflitta (concetto del resto ben spiegato da Grossmann proprio in Tsahal); la paura, il timore di un nuovo tentativo di distruzione, il terrore della morte e dell’estinzione conducono gli israeliani di oggi a investire tutte le loro forze psichiche e fisiche nell’autodifesa e nell’eliminazione, prima di tutto morale, dell’avversario. Lanzmann dà voce al represso, a tutto ciò che difficilmente viene palesato di fronte alle telecamere di un telegiornale, per far comprendere a se stesso prima che a noi, che la violenza, il più delle volte, non conduce al perdono, ma genera altra violenza, negli ebrei come negli arabi, come, del resto, aveva già compreso Leopardi quando sosteneva che: «L’uomo tanto può fare e patire quanto egli è assuefatto di fare e di patire». © Edizioni Kaplan, 2007 Conditions d’utilisation : http://www.openedition.org/6540

Référence électronique du chapitre PERNIOLA, Ivelise. Parte seconda. Il miracolo triste: le due facce di Israele In : L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. 10.4000/books.edizionikaplan.194.

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Référence électronique du livre PERNIOLA, Ivelise. L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann. Nouvelle édition [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.171. Compatible avec Zotero

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| Ivelise Perniola

Parte terza. Per una figurazione della Shoah p. 95-187

Texte intégral L’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente ditrutto. Maurice Blanchot

1. Verso il film-evento: Shoah 1

Claude Lanzmann lavora alla preparazione di Shoah per

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undici anni; anni impiegati nella ricerca dei sopravvissuti allo sterminio ebraico, dei testimoni polacchi, con il loro radicato e persistente antisemitismo, degli ex-nazisti, ancora arroccati sulle loro posizioni di autodifesa e di ottuso alibismo; anni trascorsi alla ricerca di una forma, di una chiave che permettesse alle innumerevoli testimonianze raccolte di trasformarsi in qualcosa di vivo, di forte, rompendo con energia la parete divisoria del passato, dietro la quale l’opinione pubblica aveva confinato la tragedia storica della Shoah, una tragedia da ricordare, da commemorare, ma da tenere a debita distanza; anni vissuti tra incertezze e ripensamenti, testimoniati dai numerosi interventi che il regista ha rilasciato a seguito dell’uscita del film e che rendono questa opera tanto più preziosa, proprio perché realizzata con umiltà e con fatica, con impegno e con totale abnegazione. Undici anni vissuti corpo a corpo con la massima tragedia del ventesimo secolo, con l’irrappresentabile, con l’indicibile, con tutto ciò che di più ripugnante e indegno si possa immaginare; undici anni attraverso i quali, un’opera cinematografica si è piano piano trasformata in un’opera del pensiero, in un saggio sul rapporto che l’uomo contemporaneo intrattiene con l’immagine, con la visione, con la percezione del tempo e dello spazio; dieci anni consacrati alla realizzazione di un lavoro che fuoriesce da qualsiasi classificazione possibile, con i suoi “insostenibili” 570 minuti di proiezione, trasformandosi da opera cinematografica in esperienza della visione, al punto che, a parere di molti studiosi del film, la visione di Shoah è paragonabile alle grandi esperienze estetiche dell’esistenza, ad una tappa nel cammino della vita, ad un incontro che si fissa nella memoria e nella psiche con irremovibile forza. Per cinque anni e mezzo, Lanzmann si dedica esclusivamente alla selezione e al montaggio delle oltre trecentocinquanta ore di ripresa effettuate; l’estenuante lavoro in moviola è retto e governato da una attenta struttura

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interna: nulla è lasciato al caso o alla creazione di facili effetti di contrappunto (quali potrebbero essere gli arbitrari accostamenti tra carnefice e vittima, realizzati per produrre effetti di distorsione “ironica”). L’intera composizione dell’opera è pensata in funzione di una interpretazione filosofica delle dimensioni cronologico-spaziali dell’agire, e del subire, umano. Shoah, come vedremo, non si muove lungo i percorsi obbligati del documentario di impostazione storica, né l’autore si preoccupa di fornire agli spettatori strumenti troppo trasparenti di carattere meramente informativo; Shoah è costruito come una sinfonia di voci, con riprese, ritorni, aperture improvvise e chiusure circolari, una sinfonia costruita sulla compresenza spaziale del passato e del presente. Le motivazioni che hanno spinto Lanzmann a ideare, a realizzare e a seguire, ormai da oltre vent’anni, un’opera riverberante, che a distanza di tempo, continua a vivere con indefessa energia e a produrre elaborazioni teoriche di volta in volta originali, sono molteplici e di natura differente. Il motore primo è dettato da una richiesta esterna: gli amici israeliani, conosciuti in occasione delle riprese di Pourquoi Israel, avevano suggerito a Lanzmann la realizzazione di un film dedicato alla Shoah, un film che avrebbe potuto rendere giustizia ai milioni di vittime della follia nazista. Un film del genere, avrebbe spinto il regista francese ad interrogarsi sulla percezione della propria identità ebraica; un’identità sino ad allora rimossa sotto la pesante coltre dell’educazione paterna, tesa a favorire l’assimilazione alla società francese e l’occultamento della propria diversità. L’ebraismo era stato vissuto dal giovane Lanzmann come un’identità segreta da vivere di nascosto, come una minaccia potenziale che avrebbe potuto incrinare quell’assimilazione così faticosamente raggiunta. Il primo confronto con quest’identità rimossa sarà prodotto dall’incontro con Sartre, come si è detto, e con il progressivo autoconvincimento che è

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l’antisemita a fornire l’ebreo di un’identità e non viceversa. L’approccio sartriano si troverà, però, messo a dura prova dal difficile viaggio, un viaggio “iniziatico” si potrebbe dire, in Israele, laddove il regista francese percepirà su di sé, per la prima volta, le tracce di una paralizzante crisi di identità (al punto che il libro-reportage che doveva scrivere sul paese medio-orientale non verrà mai scritto e confluirà in larga parte nella sua prima opera cinematografica). La sfida, sollevatagli dalle nuove stimolanti conoscenze in terra ebraica, tra le quali vi era anche la futura moglie, Angelika, ebrea di origine tedesca, diventa, quindi, per il regista francese, una ricerca della propria identità, un recupero del rimosso, una riappropriazione, in età adulta, di un passato mai vissuto, che va a produrre una serie di concause che renderanno l’impegno intrapreso una missione da compiere ad ogni costo. In primo luogo, l’interiorità e l’alterità nei confronti della tragedia ebraica: Lanzmann, in quanto ebreo, sente, nei confronti, delle vittime della Shoah, una sorta di empatia, dettata dalla comune appartenenza al medesimo orizzonte religioso-rituale. Il regista vive dall’interno la Shoah, percependo se stesso come un sopravvissuto e quindi come un testimone indiretto della tragedia vissuta dal suo popolo, senza escludere da questo senso di sopravvivenza un possibile e psicologicamente comprovato senso di colpa, per essere riuscito a salvarsi, o per meglio dire, a non essere coinvolto, a fronte dello sterminio quasi totale della propria gente. Nello stesso tempo, però, proprio in quanto “sopravvissuto”, storicamente scampato alla deportazione, Lanzmann è esterno alla Shoah: il suo ruolo è irriducibile rispetto a quello di coloro che hanno visto e sentito sulla propria pelle le tracce dello sterminio. La dialettica interno/esterno, che si pone come il punto di approccio di Lanzmann alla tematica della Shoah, rappresenta il fil rouge di tutta l’opera; a vivere l’esteriorità come trauma originario non è soltanto l’autore, testimone indiretto degli

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avvenimenti, ma anche i sopravvissuti, coloro che si sono salvati, perché rimasti al di là delle camere a gas, al di là della sottile barriera che separava allora la vita dalla morte. In secondo luogo, un altro elemento che ha spinto Lanzmann a realizzare Shoah è stata la progressiva mistificazione mediatica che, tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, è stata operata sul suolo statunitense, attraverso un vero e proprio processo di appropriazione indiretta della tragedia ebraica. La forte presenza numerica di ebrei della diaspora in terra nord americana e la loro crescente influenza sul piano economico-produttivo ha rappresentato per l’industria culturale dell’audiovisivo e in particolar modo della produzione televisiva, un appetibile bacino di utenza da accontentare e da soddisfare con la realizzazione di prodotti pensati per gratificare la sete di memoria e di rispetto del popolo ebraico. Negli anni che vedevano Lanzmann impegnato nella sofferta realizzazione di Shoah, lo sceneggiato americano Holocaust (trasmesso dalla NBC dal 16 al 19 aprile 1978 e diretto da Marvin J. Chomsky) riscuoteva un successo impensato in ogni parte del mondo, offrendo al pubblico televisivo un’immagine della tragedia ebraica filtrata dai valori democratici della società americana. La “commemorazione” televisiva si trasforma così, secondo l’ottica del regista francese, in una forma di liquidazione preventiva, prodotta dalla riduzione all’interno delle categorie spettacolari dell’intrattenimento di matrice industriale dell’irriducibilità dell’esperienza concentrazionaria; come ebbe modo di sottolineare lo stesso Lanzmann, all’indomani della messa in onda francese del serial tv: Riportare la Shoah all’interno delle categorie del cinema classico corrisponde ad operare un’azione di normalizzazione. Il serial tv Holocaust vedeva, infatti, protagonista una famiglia ebrea, i Weiss, per la sorte della quale, il pubblico si appassionava, come a qualsiasi altra

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vicenda drammaticamente costruita: l’individuo spiccava sulla massa, l’uomo comune si trasformava in personaggio secondo la migliore tradizione del cinema hollywoodiano. Ai protagonisti “buoni” si opponeva la controparte “cattiva”, i Dorf, la famiglia nazista, trascinata nel gorgo infernale dalla follia hitleriana e dalle incontrollabili circostanze dell’esistenza. Lo sterminio ebraico diventa, agli occhi dell’indistinto pubblico televisivo, una lotta tra famiglie, un conflitto tra oppressi e oppressori, secondo il collaudato schema di un altro successo planetario di Marvin J. Chomsky, realizzato soltanto un anno prima di Holocaust, ovvero Roots (Radici, 1977), nel quale agli ebrei e ai nazisti si sostituivano neri e bianchi, antagonisti in un’altra delle più tristi battaglie del mondo moderno. Certamente a Holocaust va ascritto il merito di aver catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della Shoah, portando ad una vera e propria inflazione di saggi dedicati all’argomento, di guide storiche, di speciali televisivi di approfondimento; la programmazione del serial in Germania sollevò numerosi dibattiti e contribuì, forse, a far germogliare nel popolo tedesco un primo barlume di autocritica e di riconsiderazione storica della propria posizione nel secondo conflitto mondiale. Tuttavia, sposando il punto di vista di Lanzmann, non basta che se ne parli, ma diventa fondamentale intervenire sul come se ne parla, attraverso quali forme estetiche ed ermeneutiche, opponendosi a tutti i tentativi di normalizzazione operati dalla cultura di massa. La rappresentazione della Shoah offerta dallo sceneggiato televisivo non faceva altro se non creare nello spettatore margini di identificazione e di riconoscimento culturale; si vedevano gli ebrei entrare nelle camere a gas, tenendosi per le spalle, con atteggiamento stoico: questa immagine si andava a sommare a tutte le raffigurazioni di morti eroiche della storia occidentale, da Socrate ai martiri cristiani, da Gesù Cristo a Giordano Bruno. L’empatia prodotta dal riconoscimento del già noto è qualcosa che, a parere di Lanzmann, deve rimanere esclusa dall’immagine dello sterminio, irriducibile a qualsiasi forma di vissuto. Tuttavia nel 1978, Shoah non era ancora pronto; l’opera di Lanzmann

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non aveva ancora la possibilità di intervenire come modello attivo nella delineazione della memoria audiovisiva dello sterminio ebraico. A Holocaust non vi era nessuna alternativa.

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Ben diversa era la situazione nel 1994, quando l’uscita mondiale di Schindler’s List di Steven Spielberg produsse una eco altrettanto vasta, se non maggiore del suo predecessore televisivo. Il film di Spielberg segna un’altra tappa importante di quella che viene ormai definita “l’americanizzazione” della Shoah e contro la quale Lanzmann combatte da anni con indefessa energia. La fascinazione americana nei confronti dell’Olocausto ha, molto probabilmente profonde ragioni psicologiche e può essere ricondotta ad una sorta di transfert, attraverso il quale il popolo americano nasconde un evento traumatico, che non può essere approcciato direttamente, con un altro evento traumatico, percepito come più lontano, remoto e, di conseguenza, più accessibile, più descrivibile. Come sottolinea Miriam Bratu Hansen, in un interessante intervento dedicato all’argomento: Parlare della Shoah per non parlare d’altro diventa una cifra distintiva di questo processo, che nell’arco degli ultimi anni, ha toccato anche altri temi della storia del vecchio continente, ben più remoti nel tempo come Alexander (Id., Oliver Stone, 2004) o Gladiator (Il gladiatore, Ridley Scott, 2000) o ancora particolarmente scottanti (basti pensare all’ultimo lavoro di Spielberg, Munich, 2006). Gli Stati Uniti, in maniera ancora più accentuata dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, cercano di affermare, sul resto del mondo, una sorta di autorappresentazione superidentitaria, trasformandosi in eredi legittimi di una storia che in realtà non appartiene a loro, come sottolinea Galli della Loggia: Nel momento in cui l’Europa sembra vivere e rappresentare il proprio passato tra i due termini nichilistici della nostalgia o della deprecatio, per gli Stati Uniti si apre uno spiraglio

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attraverso il quale poter affermare un potenziale predominio culturale sul resto del mondo, trasformandosi in unici garanti della memoria storica. Un altro fattore determinante per l’affermarsi di tale “appropriazione” di temi lontani dal contesto statunitense è dettato da una sorta di rivincita ideologica che gli americani avanzerebbero nei confronti della vecchia Europa: il fallimento delle ideologie e dello stato-nazione di modello europeo testimonierebbe, come ovvia contrapposizione, della riuscita della politica, dell’ideologia e dello stile di vita americano: Il fatto che in Europa si siano potute formare le basi per lo svolgersi della più grande tragedia del ventesimo secolo è chiaro segno di una profonda “malattia” della modernità, di una marcescenza dei sistemi politici che l’America cerca di rappresentare come altro da sé, proponendosi come modello alternativo vincente. America ed Europa diventano così emblema di due forme di modernità a confronto, incarnate, nella rappresentazione dell’Olocausto, da due approcci al mezzo cinematografico radicalmente diversi: Spielberg e Lanzmann. Da un lato la memoria edulcorata dalla retorica e dal sentimentalismo, l’affermazione dei valori democratici, l’immagine-feticcio, il manicheismo hollywoodiano, la classicità, dall’altro, la frammentarietà dell’esperienza, il rifiuto della narrazione cronologica, la modernità, l’immagine come testimonianza del presente, il trionfo dell’antiretorica. Secondo Lanzmann, la colpa più grave commessa da Spielberg sarebbe stata quella di pensare possibile una rappresentazione narrativa, e quindi finzionale, dell’irrappresentabile per eccellenza: Spielberg ha osato oltrepassare la soglia delle camere a gas, tentando oscenamente di mostrare ciò che non può essere, e non deve essere, in alcun modo rappresentato. La contrapposizione tra i due modi di leggere la tragedia ebraica non viene messa in gioco soltanto nello scontro dialettico tra opere diversissime, per finalità etiche e per caratteristiche estetiche, come Shoah e Schindler’s List, ma anche per i lavori realizzati all’interno del progetto di conservazione della memoria storica promosso dalla Shoah Foundation,

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creata da Spielberg al fine di conservare su supporto audiovisivo le testimonianze di tutti i sopravvissuti allo sterminio. I filmati della Shoah Foundation, finalizzati alla documentazione e non all’intrattenimento, pur avendo come base la testimonianza, non diversamente dal film di Lanzmann, sono strutturati secondo un rigido schema eticoformale: l’ambiente nel quale viene ripreso il testimone deve essere famigliare; egli è invitato a raccontare la sua vita prima della deportazione, durante e dopo; è gradita la presenza di coniugi, figli e nipoti, per sottolineare implicitamente come la famiglia rappresenti un sostegno per ritrovare la forza e la voglia di vivere (non diversamente dal finale di Schindler’s List); il testimone viene lasciato libero di raccontare, non viene forzato a rivivere situazioni che preferirebbe rimuovere, né sollecitato laddove preferirebbe omettere; i testimoni vengono scelti tra tutti coloro che sono sopravvissuti ai campi, senza creare al loro interno differenze (mentre Lanzmann sceglie di intervistare quasi esclusivamente gli ebrei che avevano preso parte allo sterminio, in quanto membri del Sonderkommando, e che erano stati diretti testimoni della morte dei propri simili). L’americanizzazione della Shoah esce dai confini della messa in scena finzionale per trasfondere nel documento la stessa struttura retorica della finzione; paradossalmente Schindler’s List e i filmati della Shoah Foundation sono retti dalla stessa logica dell’identificazione spettatoriale, dalla stessa volontà di produrre un’empatia sentimentale, un riconoscimento del proprio vissuto nel vissuto dei sopravvissuti e dalla stessa volontà di informare, di far conoscere alle nuove generazioni le aberrazioni del passato. Tuttavia, come sottolinea il regista francese, a proposito del progetto di registrazione memoriale del collega americano, l’informazione produce soltanto uno sterile deposito di dati: È ovvio, a questo punto, che a distanza di venti anni, la battaglia intrapresa da Lanzmann con Shoah continua a essere quanto mai virulenta: pur non avendo mai preteso, come è stato da più parti accusato, di volersi trasformare nell’unico depositario della memoria dello sterminio, Lanzmann continua a combattere in nome dell’assoluta

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irriducibilità della Shoah e dell’assoluta impossibilità di fornire una rappresentazione che sia lontanamente vicina a una realtà indicibile e inguardabile, eppure storicamente vera.

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Shoah non è un documento storico, non pretende di informare il pubblico, né di organizzare un sapere; al pari di ogni opera d’arte, il film di Lanzmann è un lavoro profondamente pensato, faticosamente realizzato e anticipato da un testo programmatico. Nonostante Lanzmann abbia dichiarato più volte di aver vissuto, nell’arco degli undici anni di preparazione del film, numerosi momenti di crisi e di incertezza, prima di tutto metodologica, va detto che sin dall’inizio, era consapevole che il suo film non sarebbe stato un documentario storico, ma una “finzione del reale”, caratterizzata da uno scardinamento radicale delle tradizionali categorie temporali: Lanzmann sapeva, sin dall’inizio, che la “soluzione finale” non sarebbe stata il punto di arrivo del suo film, ma il punto di inizio, il punto dal quale la percezione del tempo non sarebbe più stata un dato oggettivo, ma un dato soggettivo, sfalsato rispetto al resto del mondo. La rottura della cronologia tradizionale si va anche a inserire nella disgregazione della percezione del tempo sviluppata dai sopravvissuti ai campi; i quali, privati di qualsiasi indicatore cronologico, sentivano di vivere in una dimensione parallela, altra, rispetto alla loro vita precedente, come se, da un momento all’altro, fossero stati trasportati non solo in un altro luogo, ma in un altro tempo, che continuava a scorrere in parallelo al tempo della loro vita passata, ma che apparteneva a un’altra sfera dimensionale. Il regista francese, nel momento in cui si avvicinava all’idea di lavorare sulla Shoah, pur tra mille incertezze e dubbi sulla modalità di approccio a un tema così difficile, sapeva che il cinema sarebbe stato l’unico mezzo in grado di trasmettere l’orrore, che il tempo sarebbe stato disgregato dall’inserirsi di una logica che non era più quella razionale e che le immagini sarebbero state solo il rispecchiamento del presente, dal

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momento che il passato viveva soltanto negli occhi dei sopravvissuti, dei carnefici, dei testimoni e non nelle immagini di repertorio, icone ormai svuotate di senso.

2. L’immagine: la scelta iconoclasta Il ricordo è il presente del passato, l’immagine è il presente del presente, l’attesa è il presente del futuro. Sant’Agostino 5

Shoah è un film iconoclasta; probabilmente, il più grande film iconoclasta della storia del cinema. Nessuna delle immagini che hanno popolato l’immaginario occidentale sulla realtà dei campi di concentramento viene mostrata, non si vedono cadaveri, né corpi ammassati l’uno sull’altro, né uomini e donne scheletrici privati di qualsiasi forma d’umanità; non si vedono brandelli di vestiti, né denti estratti con la forza disumana della disperazione, né capelli, né occhiali ammassati gli uni sugli altri. In Shoah non si vede nulla di tutto questo, nulla di tutto quello che ci si potrebbe aspettare da un documentario sullo sterminio. In Shoah si vede solo il presente: un presente apparentemente poco significativo, a colori, fatto di volti pasciuti, di barbe ben curate, di occhi truccati, di vestiti puliti. Un presente fatto di campi ben coltivati, di boschi, di foreste, di paesaggi idillicamente imbiancati dalla neve. Le immagini in Shoah sono svuotate di senso: se si eliminano il sonoro e le didascalie rimane una carrellata di volti e di luoghi, senza alcun indicatore storico e contestuale; l’opera di Lanzmann è priva di immagini-choc, non indulge nel perturbante, non vuole sconvolgere né impressionare attraverso il facile strumento della visione. L’intera forza del film poggia sulla parola, sul verbo incarnato dal corpo di chi ha visto e per tale ragione non vuole farci vedere. La visione diventa il senso esclusivo del testimone, a noi spettatori viene concessa la parola che è citazione di una visione passata. Non è un caso che lo stesso Lanzmann volesse intitolare il suo film Le lieu

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et la parole (Il luogo e la parola), prima di optare per il criptico ed evocativo Shoah. Il rifiuto dell’immagine-feticcio promosso dal regista francese si ricollega molto probabilmente anche all’origine ebraica del suo autore: gli ebrei, a partire dall’interdizione biblica di rappresentare Dio (un Dio che è irrappresentabile non in virtù della sua natura, ma in virtù del rapporto che intende mantenere con il suo popolo), privilegiano, tra i cinque sensi, l’udito («Ascolta, Israele!»); la vista, che si esercita di fronte all’apparizione del dio è sempre un preludio a un messaggio che deve essere ascoltato. I testimoni di Shoah sfilano davanti alla macchina da presa carichi di un messaggio da tramandare oralmente, al pari di tante piccole divinità alle quali è stato affidato il compito di trasmettere il vissuto concentrazionario. Shoah mostra, attraverso la parola, tutto ciò che non può essere visto. La scelta iconoclasta di Lanzmann, nel senso di un iconoclasma autentico che non respinge l’immagine tout court ma soltanto determinate immagini, è stata contestata da più parti. Il regista francese ritiene, in fondo in linea con la frase agostiniana posta in esergo al presente paragrafo, che l’immagine sia l’unica forma nella quale il presente può pienamente esprimersi; il passato ha a che vedere con il ricordo e il ricordo è legato all’espressione verbale, non iconica. L’immagine dei campi di concentramento, nel 1985, non è quella delle riprese effettuate dagli alleati al momento della liberazione, ma è quella mostrata in Shoah. Lanzmann crede, quindi, nell’immagine, ma soltanto nella sua declinazione al presente, la più autentica, la meno mistificatoria. A parer nostro, la posizione del regista francese non è riconducibile soltanto alla problematica della rappresentabilità o meno della Shoah, ma a una netta posizione ideologica assunta consapevolmente nei confronti dell’immagine d’archivio. I documentari “israeliani”, precedentemente analizzati, portano avanti il medesimo rifiuto del filmato di repertorio, anche su temi certamente

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meno traumatici dello sterminio ebraico, come i conflitti arabo-israeliani o le varie migrazioni nel paese mediorientale. Lanzmann preferisce sempre e comunque rimanere ancorato all’immagine del presente, rifiutando un’immagine del passato che non fa altro se non intaccare l’autenticità del racconto testimoniale e la personale visione che da quel racconto può scaturire. Il passato può entrare nel presente solo attraverso il racconto, qualsiasi ingresso del passato, sotto forma di icona, corrompe la “sacralità” della testimonianza. A titolo d’esempio, basta pensare al film che il regista italiano Mimmo Calopresti ha realizzato per conto della Shoah Foundation, Volevo solo vivere (2006): in quest’opera, per altro pregevole nella forma e toccante nei contenuti, una serie di ebrei italiani sopravvissuti allo sterminio racconta la propria esperienza, secondo uno schema impostato dall’esterno, da un intervistatore-ombra che guida e organizza l’ordine delle risposte, senza palesarsi; la struttura dei racconti è la medesima per tutti: la vita prima della deportazione, la vita nel campo, il momento della liberazione e il ritorno a casa. A inframmezzare i racconti, Calopresti inserisce le tristemente note immagini di repertorio, che vengono lette dallo spettatore come una sorta di “illustrazione” alle parole dei testimoni. L’immagine colpisce e la parola afferma: il valore scioccante del documento si frappone tra la testimonianza attiva del sopravvissuto e la testimonianza passiva dello spettatore, venendo a creare una barriera comunicativa, che spezza la catena dell’empatia, del contatto. La testimonianza invece di guadagnare forza, si indebolisce e diventa subalterna all’immagine. Lanzmann combatte contro l’immaginepassata che tenta di scalzare la parola-presente, anche quando questa immagine non ha la forza perturbante dell’icona concentrazionaria e si riferisce a tematiche più “accessibili”, come nel caso dei lavori dedicati alla realtà israeliana. L’immagine ingoia i ricordi e li sostituisce; dopo

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aver visto non si può ricordare altro che la visione. In nome di una tale coerenza ideologica, riteniamo che il regista francese, attraverso il netto rifiuto dell’immagine di repertorio compia un atto autenticamente politico, di aperta opposizione alla proliferazione mistificante delle immagini nella società contemporanea e alla pericolosa manipolazione che le immagini possono operare sui discorsi. Spesso l’iconoclastia di Lanzmann è stata messa polemicamente a confronto con l’iconofilia incondizionata di Jean-Luc Godard. Godard ha dichiarato più volte di attendere con ansia la scoperta di immagini relative alle camere a gas, immagini in grado di riscattare il cinema dall’impossibilità/incapacità di dare visibilità all’orrore. Dal canto suo Lanzmann, ha risposto, provocatoriamente, ma non troppo, che se nell’arco dei numerosi anni di preparazione di Shoah si fosse imbattuto in un filmato girato da un SS all’interno di una camera a gas, l’avrebbe senza esitazione distrutto. Da un lato abbiamo Godard che crede nell’immagine esteriore, dall’altro Lanzmann convinto che l’immagine interiore, prodotta dal racconto dell’orrore, sia incomparabilmente più forte di quella esteriore, fruita morbosamente e feticisticamente. Per non dire che un’immagine immortalata dall’occhio di un carnefice spingerebbe lo spettatore di oggi a sposarne passivamente il punto di vista. Godard, invece, crede in quest’immagine a venire, la attende come una rivincita che il cinema può guadagnare sullo sterminio. Come sottolinea Wajcman, difensore del “credo” iconoclasta: Al di là del tono polemico utilizzato da Wajcman va comunque dato atto al fatto che per Godard l’immagine è il centro della riflessione teorica sul cinema. L’immagine può essere l’unica forma di riscatto per un cinema, arte del ventesimo secolo, che di fronte all’orrore massimo è venuto meno al suo dovere. Di fronte al pessimismo godardiano, in attesa dell’immagine che salverà il mondo, si erge l’ottimismo di Lanzmann, convinto che l’atto di vedere e

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l’atto di credere, dopo la Shoah, non si accompagnino più, ma che sia tuttavia possibile, nonostante tutto, continuare a fare poesia, a raccontare, a filmare dopo Auschwitz, facendo affidamento su di una parola testimoniale in grado di far fronte, con strumenti diversi, all’attacco radicale che il nazismo ha inferto al concetto stesso di rappresentazione. Ecco che le due opere-chiave del pensiero dei due registi francesi, Les Histoire(s) du Cinéma per Godard e Shoah per Lanzmann, diventano l’espressione più chiara di due punti di vista, non privi di punti di accordo, come sottolinea Libby Saxton in un serrato confronto tra due poetiche apparentemente inconciliabili: L’assenza e l’eccesso sono i due termini lungo i quali si muove l’esperienza concentrazionaria: distruzione e parossismo del disumano, nichilismo e superomismo delirante. All’interno di due poetiche opposte, Lanzmann e Godard colgono ed esprimono due aspetti contrastanti del lager, due facce della stessa medaglia. I due registi sono in fondo d’accordo nel cogliere la vocazione testimoniale del cinema, come unico mezzo in grado di mostrare l’invisibile, o attraverso la proliferazione o attraverso la spoliazione delle immagini, consapevoli, entrambi, che la Shoah è un qualcosa al di là della rappresentazione, al di là del “normale” regime di costruzione delle immagini. Se Godard crede in una amnesia del cinema di fronte alla Shoah, Lanzmann è convinto che il cinema sia l’unica forma d’arte in grado di provocare negli uomini un’anamnesi, nel senso platonico del termine: un vero e proprio processo per cui l’anima, la psiche, ritrova in sé le idee, ossia la verità che trascende la volontà di rimozione del passato. L’anamnesi si produce non solo nel testimone, spinto a parlare, sollecitato attraverso la riproposizione spaziale e gestuale del trauma, ma anche nello spettatore, che attraverso un percorso lungo e sofferto, arriva alla fine a considerare l’esperienza del male assoluto come parte della propria esperienza esistenziale. Il cinema, per entrambi, rappresenta per l’uomo l’unica possibilità di ricomporre l’infranto, o attraverso un volontario processo di rimozione o attraverso un involontario processo di rimemorazione.

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La scelta iconoclasta di Lanzmann, probabilmente il punto più radicale dell’estetica del regista francese, ha dato adito a numerose interpretazioni, sapientemente raccolte da Joshua Hirsch10, che elenca le possibili interpretazioni riconducibili alla volontà di non montare nessun filmato d’archivio: 1. Nessuno dei film d’archivio esistenti mostra gli eventi su cui Shoah è focalizzato, ovvero la distruzione fisica degli ebrei d’Europa. In questo modo, il film evita di produrre la sensazione che, vedendo il film, lo spettatore creda di aver visto e dunque assimilato l’evento. 2. I filmati di archivio sono convenzionalmente ed erroneamente considerati come prove oggettive, quando in realtà, sposano il punto di vista, altamente soggettivizzante, di chi li ha girati. 3. I filmati che mostrano atrocità sono nello stesso tempo troppo scioccanti per il pubblico e non abbastanza scioccanti da offrire un’idea di quello che può aver significato lo sterminio di milioni di esseri umani. 4. La Shoah rappresenta il male assoluto e come punta massima del negativo non può essere rappresentato. Tutti e quattro i punti ruotano intorno all’idea che la Shoah non debba e non possa, in alcun modo, essere ricondotta ad un’esperienza “vivibile” da un essere umano che non sia personalmente sopravvissuto ai campi della morte. Lo spazio di invulnerabilità dello spettatore cinematografico non deve entrare in collisione con lo spazio di morte dell’immagine di repertorio (non bisogna trascurare l’elemento sadico della visione che ci porta a vedere, dall’alto della nostra invulnerabilità, un nostro simile soffrire): al fine di creare un’autentica comunicazione, occorre che la condizione del testimone, di colui che ci guarda e che ci parla al di là dello schermo, sia la medesima di noi spettatori, occorre che il testimone non sia in una condizione di disumanità, né di inferiorità, ma che ci trasmetta la sua esperienza da una condizione esistenziale, almeno apparentemente, egalitaria:

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«I testimoni, in una certa maniera, ci parlano, ci guardano, ci costringono ad un serrato faccia a faccia. L’immagine d’archivio non è che un oggetto per una visione al sicuro; mentre la parola del testimone ci considera come soggetti e fa appello alla nostra responsabilità, la più arcaica e la più decisiva, quella dell’intesa su questa chiamata che il testimone ci indirizza»11. L’immagine d’archivio non ci riguarda, mentre la parola del testimone ci mette in gioco in prima persona, ci costringe a tenere alto lo sguardo in quanto soggetti attivi della comunicazione, senza abdicare al nostro ruolo, giustificandoci dietro l’impossibilità di sostenere lo sguardo sull’orrore, puro effetto di repulsione fisica, biologica, che non ha nulla a che fare con l’esercizio critico del pensiero. Scegliere di non mostrare filmati d’archivio significa anche, per Lanzmann, scegliere di filmare l’assenza (che, come vedremo, per Wajcman è l’oggetto del secolo), il prodotto finale dell’attacco al concetto di rappresentazione sferrato dal delirio nazista, l’impossibilità di riempire di figure (figuren?) gli spazi lasciati vuoti da una morte della quale non doveva rimanere traccia. Ecco perché Lanzmann si oppone a qualsiasi forma di ricostruzione finzionale o documentaria che tenti di colmare l’assenza di corpi, il vuoto, con una sostituzione attraverso corpi attoriali o con la produzione di un’immagine-illusione (l’immagine d’archivio produce in fondo nello spettatore l’idea che l’orrore sia visibile, ri-prendibile, e quindi umanamente gestibile). Il regista francese non teme il vuoto, non teme di costruire uno spazio cinematografico non significante, dal momento che l’essenza dello sterminio risiede proprio in questa non-significanza dello spazio umano. L’assenza si accompagna al silenzio, proprio nel momento in cui il ritorno sui luoghi della morte produce nei testimoni quella stessa sensazione di sospensione temporale vissuta quarant’anni prima, come ricorda, con toccante stupore, Simon Srebnik, il piccolo cantore ebreo di Chelmno:

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L’anamnesi prodotta dal ritorno sul “luogo del delitto” è favorita dal ripetersi delle medesime condizioni ambientali: l’industriale processo di annientamento dei corpi e il silenzio innaturale che lo accompagnava, ora come allora.

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Intorno alla questione dell’immagine, se sia più o meno lecito offrire una raffigurazione della Shoah e che valore ermeneutico si debba dare a questa eventuale raffigurazione, si è sviluppato in Francia un acceso dibattito che vede contrapposti su differenti e inconciliabili posizioni i fautori dell’immagine a ogni costo, gli iconofili, con in testa il filosofo Georges Didi-Huberman e gli iconoclasti, convinti della sostanziale irrappresentabilità dell’evento più traumatico del secolo appena trascorso, capeggiati da Gérard Wajcman. La scintilla che ha provocato l’infiammarsi dell’irrisolvibile diatriba è stata indubbiamente l’esposizione fotografica Mémoire des camps, photographies des camps de concentration et d’extermination nazis (1933-1999), organizzata, tra gli altri dallo stesso Huberman e dallo storico della fotografia Clément Cheroux, e tenutasi a Parigi presso l’Hotel de Sully dal 12 gennaio al 25 marzo 2001. La mostra raccoglieva, come si evince facilmente dal titolo, gli scatti, più o meno inediti, che gli alleati avevano scattato nella delicata fase di liberazione dei campi e alcune immagini, nella fattispecie, quattro emblematiche fotografie, del processo di cremazione e di ingresso nelle camere a gas, scattate da due ebrei polacchi appartenenti alla squadra speciale del crematorio V di Auschwitz nell’agosto del 1944. I primi due scatti, intorno ai quali, Didi-Huberman ha costruito un provocatorio saggio, apparso sul catalogo dell’esposizione, immortalano, dall’interno di una camera a gas, il prato antistante, nel quale si sta consumando la cremazione di un alto numero di corpi; mentre, la terza e la quarta fotografia vedono rispettivamente un gruppo di donne ebree nude, pronte per essere condotte all’interno delle “docce” e il fogliame di un albero, ripreso dal basso,

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evidente risultato di uno scatto effettuato in un contesto di fuga e di pericolo imminente. Secondo Huberman queste quattro immagini scattate dai membri del Sonderkommando, morti a loro volta all’interno dei campi, e consegnate come preziosa testimonianza diretta ai membri della resistenza polacca, sarebbero la prova incontrovertibile che la Shoah non solo debba essere raffigurata, mediata dall’intervento iconico, rappresentativo, ma che questa raffigurazione sia il modo più giusto di rendere onore a coloro che hanno rischiato tutto pur di offrire al mondo esterno una rappresentazione dell’orrore. La posizione di Huberman ha scatenato un vespaio di polemiche, venendo letta da molti come un attacco frontale alla scelta iconoclasta di Lanzmann, trascurando la profonda ammirazione che il filosofo francese aveva dimostrato anni addietro per Shoah, considerato da Didi-Huberman, una risposta alla problematica della figurabilità dello sterminio: «una risposta cinematografica che resta ammirabile e, nel suo genere, assolutamente insuperabile»13. A distanza di pochi anni, la posizione e il giudizio di Didi-Huberman nei confronti di Shoah non sono certamente mutati, e mai, pur all’interno di una polemica dai toni infuocati, il filosofo francese ha espresso pareri negativi od offensivi nei confronti del film, tuttavia, il fatto di aver sostenuto con forza una difesa incondizionata, e sotto alcuni aspetti un po’ naïf, della rappresentabilità della Shoah, lo ha portato a diventare il principale nemico del credo iconoclasta, incarnato da Lanzmann e dagli intellettuali che ruotano intorno a «Les Temps Modernes», Gérard Wajcman ed Elisabeth Pagnoux. La necessità di rispondere agli attacchi sollevati a seguito dell’esposizione parigina ha condotto il filosofo francese alla redazione di un volume, intitolato come il saggio di accompagnamento al catalogo della mostra, Images malgré tout, che espone con estrema chiarezza i punti cardine del suo pensiero sull’immagine. Il libro si compone di due parti

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distinte: la ripresa dell’articolo del catalogo e quattro capitoli, raccolti sotto il titolo di Malgré l’image toute che rispondono agli attacchi del gruppo de «Les Temps Modernes». Secondo Huberman, il testimone del trauma concentrazionario è consapevole, nel momento in cui sta vivendo il dramma della deportazione, di non avere nessuna possibilità di sopravvivere e ancor più consapevole che, se mai riuscisse a uscire vivo dal lager, non avrebbe alcuna speranza di essere creduto (concetto che le SS ripetevano ossessivamente ai deportati), per tale ragione, sente il bisogno urgente di fotografare, di testimoniare, lasciando una traccia visiva/visibile dell’orrore. La fotografia diventa l’unica prova possibile di ciò che nessun racconto orale potrà mai esaurire. Il punto nodale della questione è che Auschwitz deve essere pensato e deve essere visto; affermare il contrario significa porsi in un atteggiamento di pigrizia mentale: I quattro scatti dimostrano, nella loro cruda realtà, la raffigurabilità dello sterminio e la necessità di affrontare questa raffigurabilità in quanto espressione di un agire umano per quanto ripugnante esso possa apparire. Secondo il filosofo francese, alla base del concetto di irrappresentabilità della Shoah ci sono due atteggiamenti di diversa matrice: l’approccio storico e quello estetico; il primo rifiuta l’immagine e le sue specificità formali, mentre il secondo rifiuta la storia e le sue specificità concrete. Da un lato, un film come Shoah si trasforma presto in un alibi perfetto per i detrattori della figurabilità, dall’altro, l’opposizione alla storia, attraverso una scelta di rifiuto del documento, si tramuta presto in una assertività dogmatica di carattere quasi metafisico, trascurando che la scelta iconoclasta di Lanzmann si ricollega, secondo i dogmi dell’iconoclasma più autentico, a un divieto relativo alla rappresentazione di determinate immagini soltanto. Da questo punto di vista, la posizione di Didi-Huberman e quella di Lanzmann non sono antitetiche: il regista francese, scegliendo il cinema come mezzo di testimonianza dello

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sterminio, ha offerto a esso una figuratività di carattere storico ed estetico allo stesso tempo; senza piegarsi al diktat adorniano, ha realizzato un’opera dalle altissime qualità poetiche e formali. Tuttavia, lo snodo della polemica risiede in una critica qualitativa indirizzata alla tipologia delle immagini prescelte per offrire tale figurabilità; da entrambe le parti in causa, emerge l’accusa di feticismo dell’immagine. Didi-Huberman viene accusato di investire i quattro scatti dell’agosto del 1944 di un significato totalizzante, all’interno del quale, pretende di esaurire l’immagine e il senso della tragedia ebraica; mentre, secondo il filosofo francese, i suoi detrattori, attraverso l’espressione di un attacco così virulento e aggressivo, dimostrano inconsciamente di essere loro a investire le immagini di una valenza simbolica che esse non hanno, in quanto semplici immagini-documento o, secondo l’espressione baziniana, pure immagini-fatto: Immagini-fatto, dunque, figurazioni della storia in atto di farsi immagine. Il filosofo francese viene inoltre accusato di produrre come prove altamente significanti un gruppo di immagini senza immaginazione, ovvero, immagini che esauriscono nella loro superficiale esteriorità tutto il loro contenuto, senza riuscire a produrre nello spettatore la formazione di un’immagine interiore, alternativa all’immagine offerta dalla storia, e per questo, meno canalizzata e più vicina al baratro di distruzione e morte prodotto dai lager nazisti.

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Didi-Huberman considera l’immagine come uno strumento del conoscere, mentre Lanzmann la interpreta come una limitazione al potere dell’immaginazione: ascoltare e immaginare sono i compiti dello spettatore di fronte ad un’opera riverberante come Shoah; la stessa scelta di tornare sui luoghi si inscrive proprio in un processo di intervento maieutico sulla fantasia dello spettatore, invitato a guardare lo spazio vuoto e a immaginare in quello stesso spazio il dipanarsi dell’orrore; ecco che: La posizione di Lanzmann è, sotto alcuni punti di vista, più ‘moderna’ di quella di Didi-Huberman; in un contesto

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culturale nel quale occorre affermare la necessità di una ecologia iconologica e nel quale, a causa della proliferante produzione mediatica, occorre operare in un regime di pulizia del visuale, l’immagine perde di senso e di autorità. Basti pensare che nei processi penali, la registrazione audiovisiva del crimine ha perso credito sino a diventare una prova secondaria. In una società che opera la contraffazione dell’immagine su scala industriale, come si può credere ancora all’immagine come prova storica? A meno che non si inserisca la storia come disciplina scientifica nel novero delle belle arti e dei circuiti dei discorsi sociali, estremizzando la posizione del gruppo della rivista «Annales», e arrivando a sostenere, come Godard, provocatoriamente che: «Oggi, in televisione, guardo allo stesso modo film e documenti storici. È la stessa cosa, non faccio differenze. Da questo punto di vista, un estratto del processo di Norimberga e un piano di Hitchcock, raccontano entrambi quello che siamo stati, tutti e due sono cinema»17; ricordando che per Godard tutte le immagini, da qualsiasi fonte siano prodotte, non parlano altro se non della Shoah, inespiabile complesso di colpa del cinema. Ma la posizione di Didi-Huberman non è così (post)moderna e la sua fiducia nei quattro scatti dell’agosto 1944 è la prova più esplicita di una perdurante credenza nel potere veridittivo dell’immagine storica. Di fronte a un Lanzmann che continua ad affermare che nessuna immagine è in grado di raccontare la storia della Shoah, il filosofo francese, conclude il suo testo di “autodifesa” teorica con una dichiarazione di ostinata credenza nel potere rivelatorio dell’immagine: «L’immagine, non più della storia, non resuscita nulla. Ma essa “redime”: essa salva un sapere, essa racconta malgrado tutto, malgrado il poco che può, la memoria dei tempi»18. Dare valore all’immagine, malgrado tutto, cercare di capire che cosa si nasconde nelle pieghe del visibile, significa, secondo Huberman, agire con rispetto nei confronti di coloro che per rapire un’immagine all’inferno, ne sono sprofondati dentro; quando per “inferno” non si intende “soltanto” l’universo concentrazionario, ma tutta l’atroce storia del ventesimo secolo.

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Nel 1998, Gérard Wajcman dà alla stampa un testo di grande

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interesse teorico che si propone di identificare l’oggettochiave del secolo. Grazie all’ausilio della storia dell’arte, e in particolare, alle figure centrali di Duchamp e Malevich, Wajcman arriva alla conclusione che l’oggetto del secolo è l’assenza, oggetto simbolico con-figurato in tutte le espressioni più avanzate del pensiero occidentale. L’assenza, rappresentata da La roue de bicyclette di Duchamp e dal Carré noir sur fond blanc di Malevich, opere che procedono per sottrazione e che non lasciano altro se non l’opera stessa, si incarna nella più micidiale fabbrica di distruzione di massa (e di conseguente produzione di assenza): Auschwitz. Arte e storia arrivano a toccarsi pericolosamente. Il film di Lanzmann, entrato a pieno diritto nella sfera delle grandi opere d’arte, raccoglie la sfida dei grandi sperimentatori e si pone come l’unica opera dedicata alla Shoah in grado di dar conto di questa assenza. La Shoah non poteva non configurarsi che sotto forma di opera d’arte, ovvero di un oggetto che pensa all’interno della sfera del visibile: «Shoah non è un monumento. Si avvicina più da vicino e mostra. Film al presente. Nel presente. Del presente. Fa vedere qualche cosa che è là ed è svanito. Che ci riguarda. Shoah non parla di un evento passato, diventa evento per il nostro sguardo, ora, adesso. Shoah non è un film “su”, è un’opera che fa della Shoah un evento visibile nel nostro presente»19. Shoah è un film-evento che si contrappone a tutte le operemonumento che tentano di irrigidire la multiformità camaleontica dello sterminio ebraico, evento, per l’appunto, che continua ad allargare le sue pericolose maglie sulla contemporaneità. Secondo Wajcman, l’arte dopo Auschwitz non può essere più la stessa, deve reinventare i termini della sua rappresentazione: dietro ogni rappresentazione iconografica di un corpo si nasconde, da allora in poi, il delitto commesso dai nazisti contro l’immagine umana. La Shoah si configura come una rottura, destinata a produrre nell’arte la spinta verso la modernità; l’abusata dicotomia

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classico/moderno assume un significato nuovo solo alla luce dell’evento traumatico del secolo; l’arte della modernità sarà allora un’arte dell’atto, del niente da vedere e dello sguardo, in aperta contrapposizione con un’arte classica, basata sulla contemplazione, sul tutto da vedere e sulle immagini. Si evince facilmente come da questa manicheistica e implicitamente assiologica dicotomia, Wajcman tragga la possibilità di inserire nell’una o nell’altra casella le opere e le teorie innovative e quelle reazionarie e come, con altrettanta facilità, il pensiero di Didi-Huberman, centrato sulla valorizzazione dell’immagine, finisca, con Spielberg e Benigni, per essere considerato “spregiatamente” classico. L’opera autenticamente moderna si distacca dal vincolo della rappresentazione: L’opera moderna presentando e non rap-presentando è, dunque, in grado di esprimere l’assenza di qualsiasi rappresentazione, autentico snodo post-concentrazionario, e dar conto dell’assoluta impossibilità della figuratività. Come fa Lanzmann e come fa, nell’ambito delle arti plastiche, lo scultore tedesco Jochen Gerz, il quale costruisce monumenti commemorativi che non si vedono o che danno progressivamente spazio all’assenza, come il Monumento contro il fascismo di Amburgo, inaugurato nel 1986 e “scomparso” nel 1993: un enorme colonna di dodici metri di altezza, ricoperta esteriormente di piombo, che scende progressivamente nel terreno (200 cm per anno) e che alla fine sparisce dalla vista: «Dal momento che niente può levarsi al nostro posto contro l’ingiustizia», come recita l’ultima frase visibile; o come il Monumento contro il razzismo di Sarrebruck, cittadina tedesca vicina al confine francese, inaugurato nel 1993 e che consiste nella pavimentazione di un vicolo che conduce nel luogo dove, durante la guerra, la Gestapo aveva installato il suo quartier generale. Gerz ha estratto 2146 lastre (cifra che corrisponde al numero di cimiteri ebraici esistenti sul suolo tedesco nel 1939), sulle 8000 complessive che formano la pavimentazione del vicolo, e su ciascuna ha inciso il nome di

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un cimitero ebraico, per poi lastricare di nuovo l’intero vicolo, inserendo in ordine sparso, le lastre incise, con l’incisione verso l’interno, in modo tale che il risultato finale del lavoro fosse, in tutto e per tutto, identico al lastricato di partenza. L’inaugurazione è così consistita solo nel disvelamento del nuovo manto stradale e l’unica traccia “visibile” del monumento è la targa, posta sulla piazza dove va a terminare il vicolo, che recita sibillinamente “Piazza del Monumento Invisibile”. I monumenti di commemorazione di Gerz si vanno a contrapporre alle centinaia di monumenti ai caduti, in tutte le piazze del mondo; monumenti che pacificano la coscienza, che vengono dimenticati e che si finisce per non notare più, mentre, come sostiene l’artista tedesco: «La memoria è come il sangue, è meglio quando non si vede». I monumenti invisibili sono in grado di attivare l’immaginazione dell’osservatore, spingendolo a riflettere sul significato della loro assenza. Lanzmann con Shoah dà, a sua volta, forma invisibile a questa rottura della rappresentazione che lo sterminio ha imposto alla modernità, e realizza, a suo modo, un film invisibile, interamente basato sull’assenza, sulla non-visibilità delle tracce concentrazionarie. Shoah, ritratto perfetto dell’oggetto del secolo, esprime con forza l’idea che nel secolo dell’immagine l’evento più traumatico rimane al di fuori di ogni possibile figurazione. Lo sterminio è irrappresentabile non perché ideologicamente collocato in una dimensione mitica ma proprio perché la struttura industriale che ne era alla base prevedeva questa irrappresentabilità: La posizione di Wajcman non si basa, dunque, su nessun credo metafisico, ma sulla consapevolezza che lo sguardo degli assenti può essere mostrato soltanto attraverso uno sguardo assente. Shoah, autentica opera d’arte del dopo Auschwitz, ci trasforma in osservatori dell’assenza, vero oggetto del secolo, prefigurato dalle punte dell’arte iconoclasta, Duchamp e Malevich.

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I presupposti teorici di Wajcman, egregiamente espressi nel testo del 1998, assumono toni più esasperati nell’intervento redatto in occasione dell’esposizione parigina dedicata alle

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immagini dei campi; un intervento virulento che scatenerà la sopraccitata reazione di Didi-Huberman. Secondo Wajcman i quattro scatti dell’agosto 1944 non rappresentano nulla di nuovo, nulla che non si sapesse già, non aggiungono nessuna prova all’orrore. In quanto immagini, esse sono il doppio, lo specchio di una realtà irrappresentabile, inimmaginabile e impossibile da (rac)cogliere in quattro scatti fotografici. Ad Auschwitz, le vittime non sono state private “soltanto” della loro immagine, come sostiene Didi-Huberman, ma soprattutto del loro nome, del loro corpo, della loro vita. Non è possibile e non è eticamente e storicamente corretto ridurre tutto all’immagine. L’immagine non esaurisce la Shoah: Il male ritratto in immagine si addolcisce, diventa meno cattivo, diventa un doppio, uno specchio ben più debole del male originale. Come avevano, del resto, già compreso i Greci che attraverso il mito di Medusa, sottolineavano il potere consolatorio dell’immagine: Perseo non può guardare Medusa direttamente, ma deve ricorrere allo specchio, che offre della terribile Gorgone un’immagine riflessa, mediata; nel momento in cui la realtà non può essere guardata, perché insostenibile, si ricorre alla mediazione dell’immagine, consolatoria e illusoria panacea al male del reale. Il vero orrore dello sterminio non deve e non può giungere filtrato dallo schermo protettivo dell’immagine, ma deve insinuarsi nell’immaginazione dello spettatore attraverso i sottili percorsi della psiche. Il turbamento di fronte al racconto dei testimoni sarà tanto più grande quanto più sarà impossibile, per noi spettatori, trovare immagini di riferimento dentro di noi, immagini-deposito di una memoria che non ci appartiene. Se a un racconto che proviene dall’esterno non riusciamo a collegare nessuna immagine, il nostro disorientamento sarà maggiore e la nostra frustrazione per la non-raffigurabilità del narrato andrà a confluire in un tentativo di figurazione interiore o alla consapevolezza dell’impossibilità di dare alcuna con-figurazione. I quattro scatti, «rubati all’inferno», come ama definirli Didi-

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Huberman, nel loro non mostrare nulla di questo inferno, regalano allo spettatore la beata sensazione di aver visto la Shoah, quando in realtà, hanno solo offerto una visione spostata, delocalizzata dal vero centro della tragedia. La fotografia svela allora, secondo Wajcman, la sua più autentica pulsione ontologica: il feticismo. Al punto che il filosofo francese arriva a mettere in dubbio l’appartenenza della fotografia stessa alla sfera delle arti: L’ontologico feticismo fotografico (prodotto anche dalla possibilità fisica di tenere tra le mani l’immagine, piacere unico precluso al cinema, produzione luminosa di immagini “imprendibili” e intoccabili) viene a costituire il principale impedimento all’inserimento della fotografia nell’esclusivo novero delle arti, ponendosi come una forma di espressione che esaurisce all’interno del proprio oggetto ogni possibilità di riflessione teorica, ogni al di là, ogni fuoriuscita del senso dai quattro lati del perimetro di un foglio di carta stampata. La fotografia riporta tutto a se stessa, trasformandosi in reliquia, la cui adorazione rimane prettamente autoreferenziale.

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«Auschwitz non si museifica!», sottolinea con forza Elisabeth Pagnoux, proseguendo l’attacco incrociato alla contestabile esposizione fotografica parigina. Non è eticamente corretto sfilare di fronte alle immagini dei campi come davanti a una serie di tele pittoriche, ben allineate davanti a noi, con tutto il loro carico di imperscrutabile imbalsamazione. La Shoah perde forza con le immagini e assume potenza con la parola: La fotografia dà forma, dà luogo, a un archivio, ma nello stesso tempo archivia il passato, come un dato già acquisito: ogni immagine entra a far parte di un database mondiale, da riporre via, con la coscienza pulita del buon catalogatore. Elisabeth Pagnoux difende a spada tratta le scelte di Lanzmann, mettendole apertamente in contrasto con la posizione di Didi-Huberman; l’ultima questione sollevata concerne la differente utilizzazione della prima persona. Lanzmann lascia il racconto in prima persona alla voce diretta dei testimoni, riportando la loro narrazione a un

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presente nel quale il passato vive e riverbera con indefessa energia e con rinnovato dolore; Didi-Huberman, nel testo di accompagnamento all’esposizione sui campi, tenta di coinvolgere il lettore nel valore “attuale” dell’immagine fotografica: Intorno al tempo verbale prescelto si gioca l’ultima battaglia di due approcci inconciliabili alla tragedia della Shoah, che continuano, a distanza di anni, a generare accesi dibattiti: da un lato, il racconto del testimone, la parola, la distanza esperienziale che diventa aperta rottura della cronologia tradizionale, la prima persona del sopravvissuto, unico detentore autorizzato di un racconto che non concede nulla all’identificazione e tutto alla comprensione, al raziocinio, alla volontà di capire e di sapere; dall’altro, l’immagine totale e totalizzante, la compresenza del passato e del presente veicolata dall’adesione fideistica alla veridicità di un immagine-feticcio, la prima persona dello storico che si cala nei panni del fotografo che ha strappato “quattro immagini all’inferno” e che induce lo spettatore all’identificazione, alla partecipazione, al turbamento emotivo tanto più intenso quanto più passeggero perché esauribile nel tempo di sosta di fronte a un’immagine (pochi secondi o qualche minuto e poi avanti con la prossima fotografia!). Lo spettatore assegna al vedere il sapere, mentre il testimone è sempre cieco; la testimonianza sostituisce il racconto alla percezione, essa non può mostrare ma soltanto raccontare, come evidenzia Jacques Derrida in un testo interamente dedicato alla problematica del non-vedere: La ricostruzione, mistificante creatrice di falsi archivi, e la testimonianza sono le uniche due vie, dunque, per conoscere. Da un lato, l’interpretazione che dell’immagine viene data da Wajcman e dalla Pagnoux: l’immagine-feticcio, l’immagineapparenza, l’immagine-menzogna e l’immagine-parvenza. Dall’altro, i quattro valori dell’immagine secondo DidiHuberman: l’immagine-fatto, l’immagine-archivio, l’immagine-montaggio, l’immagine-similare. Da un lato l’immaginazione senza immagini, dall’altro immagini senza immaginazione.

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3. Lo spazio: defigurazione e permanenza È veramente infelice, è veramente cattivo, è veramente profondamente perverso colui che medita il male in mezzo ai campi. Diderot 20

Cesare Pavese amava ripetere che tutti noi camminiamo sempre su pozze di sangue, sottolineando come ogni luogo che attraversiamo, nel nostro movimento quotidiano, sia stato nel passato teatro di una morte, di una colpa, di un versamento di sangue più o meno innocente. Lanzmann, indirettamente, fa sua questa suggestione pavesiana, ritornando sui luoghi che hanno visto consumarsi la più grande tragedia del ventesimo secolo; a distanza di poco meno di quarant’anni, quegli stessi luoghi non recano più tracce visibili dello sterminio: la natura aspra e selvaggia della Polonia settentrionale ha ripreso forza e con spietata ciclicità le stagioni si alternano oggi come allora. Nonostante la bellezza del paesaggio, nonostante la neve che ricopre candidamente ogni cosa o la primavera che colora la terra inaridita dall’inverno, i luoghi recano la traccia di tutto il sangue versato. Lanzmann ha deciso di costruire Shoah a partire proprio dalle permanenze dello spazio e dalla straordinaria capacità che lo spazio geografico ricopre nel processo di riattivazione della memoria individuale. Uno degli snodi chiave della psicologia cognitivista, ovvero la stretta relazione esistente tra il cambiamento dello spazio e il mutamento del comportamento, diventa l’assunto di base del lavoro di anamnesi che Lanzmann compie sui testimoni. Il racconto del passato si riattiva in maniera differente se condotto lontano dallo spazio teatro del trauma (basti pensare alle “consolatorie” interviste sul divano di casa condotte dalla Shoah Foundation) o se riattivato sul luogo in cui il trauma si è prodotto per la prima volta. L’esperienza di

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Shoah diventa, dunque, un’esperienza terapeutica, prima di tutto, per i testimoni e, in secondo luogo, anche per lo spettatore che arriva a percepire il momento emozionale in cui il racconto si trasforma sotto la spinta degli eventi. Shoah si pone, per lo spettatore e per il testimone, come un’autentica esperienza emozionale dello spazio. Non a caso, il primo elemento di orientamento offerto da Lanzmann, in apertura del film, non è di carattere cronologico (come ci si potrebbe aspettare da un documentario di impianto storico), ma spaziale: «L’azione comincia ai giorni nostri a Chelmno sulla Ner, Polonia. A ottanta chilometri a nord-ovest di Lodz, nel cuore di una regione un tempo a forte popolazione ebraica, Chelmno fu in Polonia la località del primo sterminio di ebrei con il gas»; la prima indicazione ci conduce direttamente sul luogo dell’azione, al pari di un cartello di un film di finzione che sulla prima inquadratura recitasse: «Chelmno – Polonia, oggi». Il regista francese riporta a Chelmno Simon Srebnik, un uomo di quarantesette anni, ora cittadino israeliano, che all’epoca dei fatti ne aveva tredici, e che per circostanze miracolose era sfuggito alla morte sicura; Simon ritorna a Chelmno e rivive di fronte alla macchina da presa lo shock del riconoscimento: «Difficile da riconoscere, ma era qui. Qui bruciavano la gente. Molta gente è stata bruciata qui. Si, questo è il luogo». Lanzmann “utilizza” i suoi testimoni come guide per un territorio che solo loro sono in grado di riconoscere, al pari di un investigatore che porta sul luogo del delitto l’unico testimone oculare. Solo negli occhi del testimone è impressa l’immagine reale di quanto è accaduto e soprattutto di dove è accaduto. La prima sequenza del film, dopo il cartello iniziale che ci conduce nel cuore dell’azione, vede Simon cantare una canzone su di una imbarcazione che scivola lentamente sul fiume polacco, come faceva decenni prima per allietare i nazisti, come sottolinea Didi-Huberman: I sopravvissuti di Lanzmann sono dei morti viventi che

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ritornano sui luoghi della loro uccisione, sono anime in pena alla ricerca di una pacificazione interiore che deve passare attraverso le dolorose tappe dell’agnizione. I “ritornanti” passano attraverso il canto e la visione per ricongiungersi a coloro dai quali la storia li ha separati. Ecco che Shoah, nella sua radicale iconoclastia, si rivela essere un film sulla visione: Lanzmann ritorna sui luoghi perché vuole vedere e perché vuole far vedere; il racconto orale non basta se non è accompagnato dalla visione, dal ritorno sul luogo. L’iconoclasma si snoda allora in un divieto che riguarda le immagini acefale, ovvero quelle immagini che non corrispondono a nessun occhio testimoniale, le immagini anonime raccolte nel tempo passato da scrupolosi operatori dell’esercito, estranei ai fatti, o addirittura dall’occhio del carnefice, con il quale non ci deve essere nessuna condivisione di sguardo. Lanzmann svaluta le immagini d’archivio, per poter valorizzare al massimo l’immagine prodotta dal ricordo del sopravvissuto, l’immagine della memoria, che si riattiva soltanto nel ritorno sul luogo del trauma.

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I due poli intorno ai quali si costruisce Shoah sono il luogo e il gesto; entrambi sono finalizzati alla riattivazione del racconto rimosso. A Lanzmann non interessa il ricordo, il souvenir del tempo passato, né ogni affabulazione che si ponga coscientemente come distante nel tempo; al regista francese interessa il racconto che infrange la barriera temporale e che porta lo sterminio a non essere più un ricordo, ma un’esperienza che si perpetra nel tempo con la stessa intensità. Lanzmann condivide il detto agostiniano secondo il quale il presente del passato è il ricordo e il presente del presente è l’immagine: non c’è immagine del passato che non sia mediata, filtrata dal ricordo; l’unica immagine possibile della Shoah e l’immagine del presente, un presente nel quale la Shoah continua a vivere, nonostante tutti i tentativi di occultarla o di imbalsamarla in una dimensione museale (attraverso l’istituzione di più o meno sentite giornate della memoria). La più autentica immagine

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del presente può essere fornita soltanto dalla congiunzione del luogo e del testimone, diretto o indiretto che sia. Occorre sapere e vedere, vedere e sapere: Lanzmann ricerca il discorso storico direttamente vicino al terreno, intorno ai sassi, intorno agli alberi che i nazisti hanno fatto piantare per occultare le tracce. Oltre la topografia, più in profondità, il regista francese compie un lavoro di recupero archeologico, in quanto le tracce del passato prossimo non sono più visibili a occhio nudo, ma vanno ricercate scavando negli animi dei sopravvissuti e direttamente nel terreno, che ha inglobato in sé, come un segreto da custodire nei millenni, i frammenti biologici e morali di un intero popolo.

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Shoah è, allora, anche un film sulla Polonia: paese verso il quale Lanzmann ha sempre provato una sorda ostilità e un senso di disagio; un paese nel quale, durante le fasi di preparazione del film, non pensava neppure di andare, convinto che tutto fosse andato distrutto, nei luoghi e nelle persone: Sino a quando, il regista francese, dopo molte resistenze, arriva a Treblinka e il solo fatto di leggere il nome della località sul cartello stradale, provoca in lui uno shock, simile ad una repentina agnizione («Das Ist Das Platz», come dice Simon Srebnik all’inizio del film, «Questo è il luogo»). La Polonia da non-luogo della memoria, diventa non-luogo della morte: il luogo nel quale la morte collettiva ha avuto luogo, lo spazio negativo per eccellenza: «Questi luoghi sono il negativo del genocidio, che la parola dei sopravvissuti e dei testimoni rivela fotograficamente nell’unicità del suo hic et nunc»30. Tutto è andato distrutto, ma nulla è svanito: i testimoni di Lanzmann camminano e parlano nel mezzo di tracce invisibili, che solo i loro occhi di revenants possono interpretare, per tutti gli altri la lettura del reale diventa impossibile. Le tracce topografiche, nel momento in cui non vengono accostate a dei nomi, sono criptiche e i luoghi sono soltanto non-luoghi di morte, eppure, la compresenza del luogo e del racconto producono un corto circuito in grado di

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trasportare la dimensione passata nel presente, riportando letteralmente in vita coloro che sono morti, in maniera molto più intensa di qualsiasi ricostruzione finzionale. La Polonia diventa, allora, la vera protagonista del film, in quanto elemento di attivazione anamnesica. Al di là di ogni tesi negazionista, dopo aver visto Shoah non si può non essere convinti che lo sterminio ha avuto luogo e che questo luogo è la Polonia; luogo nel quale la ferita del passato è sempre aperta e, se calpestata, ricomincia copiosamente a sanguinare. Il paesaggio polacco si rivela, così, doppiamente caratterizzato dalla defigurazione e dalla permanenza. L’operazione di sfigurazione (privare qualcuno della propria figura esteriore, distruggendone sino all’ultima traccia il corpo) che i nazisti compivano sugli ebrei si è riversato sul luogo, teatro della colpa, attraverso un processo di occultamento della figura spaziale, un tentativo di defigurazione dell’ambiente originario, al fine di celare qualsiasi possibile traccia residua (basti pensare alle già citate foreste piantate dalle SS nei luoghi dove venivano bruciati i corpi). Nello stesso tempo, però, il luogo defigurato ingloba in sé i residui delle azioni commesse, oltre a rimanere spazialmente immutato (posso distruggere un corpo, ma per quanto modificabile, non posso distruggere uno spazio); il luogo permane nella defigurazione, rimanendo permanentemente soggetto al riconoscimento.

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La sapiente costruzione di Shoah (nove ore e mezza di montato, organizzate secondo una logica ben precisa di rimandi interni e di corrispondenze) si articola a partire dalla centralità dello spazio all’interno della narrazione filmica. Il film, rifiutando l’organizzazione cronologica del profilmico, sviluppa al massimo l’elemento spaziale. Il percorso del regista e dei suoi testimoni si snoda come su di una cartina geografica: Il regista rivela poco a poco gli indizi che serviranno per “completare” il quadro: tutti i singoli dettagli, scoperti progressivamente, formeranno la mappa finale del genocidio, alla quale si giunge, attraverso un percorso che fisicamente si snoda nei luoghi dello sterminio. All’interno di

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questa logica “geografica”, i dettagli spaziali e numerici che Lanzmann chiede costantemente ai suoi accompagnatori si inscrivono all’interno di una volontà di dare plasticità al racconto («Quanti metri era lungo il tunnel?», «Dove iniziava esattamente il campo?»). Lo spettatore deve entrare mentalmente nello spazio topografico, misurare le distanze, soffermarsi su tutti quei dettagli tecnici che gli altri film dedicati allo sterminio non tengono in considerazione, focalizzandosi soltanto sul fattore emotivo dell’affabulazione e del ricordo soggettivo. Come abbiamo già sottolineato, a Lanzmann non interessa il ricordo individuale, ma la riattivazione nel presente di un’esperienza passata attraverso il ritorno fisico sul luogo del trauma. È interessante notare come la produzione di immagini interiori che la visione del film produce, dando origine a delle vere e proprie figurazioni dello spazio concentrazionario, abbia prodotto in alcuni spettatori, secondo i presupposti dell’approccio cognitivista, la sensazione di aver visto nel film immagini di repertorio, in realtà inesistenti: «Mi è capitato di incontrare persone convinte di aver visto documenti d’archivio nel film: che hanno completamente immaginato. Il film fa lavorare l’immaginazione»32. Tutto ciò accade perché la nostra mente, se opportunamente sollecitata, inventa immagini mai esistite, sotto l’input di un racconto orale o di un’immagine letta in un determinato modo dall’inconscio. L’approccio geografico attiva nella psiche dello spettatore-testimone la costruzione di uno spazio interiore, di una sorta di mappa cognitiva. Nel campo psico-pedagogico, la mappa cognitiva è una cartina mentale di una zona dell’esperienza. Contiene gli oggetti, la conoscenza del loro uso e funzione, la dislocazione assoluta e reciproca, e numerose altre nozioni obiettive. Contiene inoltre conoscenze soggettive, ossia gli elementi di valutazione e giudizio personale sulle nozioni obiettive. Le conoscenze lacunose delle quali lo spettatore era in possesso, in relazione al tema dello sterminio, si compongono, a seguito della visione di Shoah, in una complessa rete di riferimenti e di cognizioni spazio-temporali, all’interno delle quali il soggetto si muove con agio sempre maggiore. Lanzmann aiuta a riannodare i singoli indizi,

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accompagnando alla nozione, la diretta visualizzazione spaziale di quest’ultima, favorendo, in tal modo, nello spettatore, la creazione di una mappa geografica dell’Olocausto. La Shoah diventa un’esperienza e il film del regista francese il film-esperienza per antonomasia. La proiezione di un film è sempre una situazione sperimentale, nella quale lo spettatore è il soggetto dell’esperienza. Di fronte ad un’opera cinematografica la nostra vita quotidiana si sospende, mentre veniamo inglobati in una forma di esistenza «sperimentale», come la definisce Jean-Louis Schefer33. Shoah potenzia, grazie alla durata dilatata, alla forza del soggetto, alla capacità di collegamento con alcuni aspetti del rimosso della psiche collettiva, questa forma di “esistenza sperimentale”, immergendo lo spettatore in una dimensione che non appartiene più né alla normale forma esperienziale della proiezione cinematografica, né alla dimensione propria del vissuto individuale. Il film di Lanzmann apre una terza strada caratterizzata dalla fusione tra la visione spettatoriale passiva e la creazione attiva di una mappa cognitiva, uscendo dalla dimensione del film, per entrare in quella del vissuto, e ponendosi, quindi, come filmesperienza; film che diventa ricordo, film che rimane traccia psichica, film in grado di scivolare dalla fruizione passiva all’elaborazione attiva.

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Le tracce invisibili lasciate dai campi della morte sul territorio polacco, vere e proprie cicatrici nel terreno, diventano leggibili soltanto attraverso gli occhi dei testimoni e il passare del tempo. Le immagini che Lanzmann imprime sulla pellicola assumono con il passare degli anni un grado di leggibilità di volta in volta differente; come evidenzia Benjamin: «L’indice storico delle immagini non rivela semplicemente che esse appartengono a una determinata epoca, ma anche che esse diventano leggibili soltanto in un preciso momento»34. La compresenza del luogo, del testimone, del cineasta in un determinato lasso temporale (i primi anni Ottanta) rendono le tracce spaziali leggibili: la mancanza di una di queste coordinate ricondurrebbe

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probabilmente nell’oblio ogni elemento decodificabile (non va trascurato il fatto che l’età relativamente giovane dei sopravvissuti li porta a ricordare ancora vividamente il passato, elemento che a distanza di anni sarebbe purtroppo andato perduto). La straordinaria impresa di Lanzmann si riconduce alla capacità di far confluire al momento giusto tutti gli elementi per la creazione di un quadro storico esaustivo. Shoah è un film che poteva essere realizzato soltanto negli anni Ottanta, né prima, né dopo: anni nei quali era necessario dare una risposta forte alle nascenti teorie negazioniste, anni nei quali il benessere sociale conduceva rapidamente verso l’oblio le pagine nere della storia mondiale e lo sterminio rischiava di trasformarsi in materia appetibile per la produzione di sceneggiati di grido. In questo delicato momento di passaggio, Lanzmann riesce a inserire un’opera-spartiacque, con la quale ogni altra opera successiva sulla Shoah dovrà necessariamente confrontarsi. Shoah è, dunque, un film che si costruisce nel tempo, con il tempo: realizzato nell’arco di oltre dieci anni, registra sulla sua grana le modificazioni che un decennio apporta sui corpi dei testimoni e sulle idee dell’autore, trasformandosi in un’opera aperta, riverberante, costruita su di un’interpretazione bergsoniana dell’elemento temporale; il tempo si inscrive in una dimensione soggettiva, nella quale, le date e gli anni non hanno più valore; non a caso Lanzmann interroga i suoi testimoni su come le cose sono avvenute e non su quando. Il quando è una dimensione inesauribile dell’esperienza umana, attivata in un determinato momento e mai realmente conclusa: è impossibile indicare una data d’inizio e una data di fine a uno sterminio morale e fisico che continua a esistere con lo stesso indice di presenzialità nei corpi che lo hanno subito. Il tempo bergsoniano, soggettivo, viene ad assumere un ruolo centrale in Shoah; lo spazio riconsegna le tracce del passato, così come il tempo che agli occhi dei testimoni sembra rimasto immutato:

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I villaggi costruiti in prossimità dei campi di sterminio esistono ancora, nella loro immutabile fissità temporale, con le stesse case, le stesse strade e molto spesso gli stessi abitanti di allora; ecco che Simon Srebnik, messo a confronto con coloro che un tempo lo conoscevano, rivive, nel suo ritorno, a distanza di decenni, sul territorio polacco, un doppio processo di agnizione: spaziale e temporale, il riconoscimento di un territorio nello stesso tempo mutato e immutato (non ci sono più i lager, ma la “funzionale” rete ferroviaria è rimasta assolutamente la stessa) e il riconoscimento di una dimensione cronologica che unisce spietatamente passato e presente, portando il povero Simon all’afasia, nel momento in cui, circondato da quelle stesse persone che in fondo non avevano fatto nulla per salvarlo, si trova a vivere in una dimensione di straniamento/sfasamento temporale che lo lascia come inebetito, senza parole; al punto che il povero Simon, per un crudele processo di reversibilità storica viene tradito e “ucciso” una seconda volta a distanza di quarant’anni.

4. Il gesto Sapere che l’anima ha uno sbocco corporeo permette di raggiungere l’anima in senso inverso. Antonin Artaud, Un’atletica affettiva 25

La riproduzione del gesto è la seconda coordinata anamnesica lungo la quale si muove il lavoro di Lanzmann con i testimoni. Nel momento in cui, il ritorno nello spazio originario non è possibile, o non viene favorito dal soggetto o, ancora, non ricrea le giuste condizioni per l’avvio del racconto, allora Lanzmann ricorre all’induzione del gesto. La ripetizione del gesto-chiave dell’evento traumatico, un gesto che per anni non si era più compiuto, riporta in superficie il rimosso, facendo deflagrare il fragile equilibrio interno del soggetto. Il metodo utilizzato da Lanzmann, che a una prima apparenza può sembrare aggressivo nei confronti di individui già sufficientemente provati dalle dure esperienze

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concentrazionarie, si riallaccia a una lunga tradizione di matrice teatrale, per la prima volta applicata al settore del cinema del reale (un cinema nel quale il soggetto dovrebbe essere lasciato libero di esprimere la propria interiorità senza essere forzato dall’intervento psicologicamente invasivo di un agente esterno). Lanzmann applica paradossalmente i principi del metodo Stanislavskij alla testimonianzadocumento dei sopravvissuti alla Shoah, evidenziando come i due campi della finzione e del reale siano strettamente connessi. Se la vita quotidiana è una continua rappresentazione, allora, può risultare quanto mai utile applicare a essa le categorie del teatrale. Per Stanislavskij la passione, il sentimento, è una partitura di azioni; l’espressione del sentimento è prodotta dall’esecuzione della partitura: posso fingere l’amore, sentendolo, soltanto se ripercorro le azioni che lo caratterizzano; posso, dunque, rivivere il sentimento collegato con un trauma del passato, soltanto se ripeto le azioni che lo hanno accompagnato. Ovviamente, il soggetto si deve lasciar trasportare nella ripetizione del gesto in maniera convinta e motivata: La sincerità dell’attore è il presupposto di una corretta esecuzione. Gli attori di Lanzmann sono spesso restii a seguire la partitura, ma sono sempre sinceri nel momento in cui si abbandonano alla forza maieutica del regista francese. Contrariamente agli attori professionisti che si abbandonano al metodo Stanislavskij con convinzione e volontà, i testimoni di Shoah si trovano spesso in una situazione che favorisce la ripetizione del gesto e del sentimento a esso collegato, totalmente a loro insaputa; trasportati in una dimensione emotiva che non riescono a controllare, spesso cercano di sfuggire, come Abraham Bomba, il barbiere di Auschwitz, incaricato di rasare i capelli agli ebrei che entravano nella camera a gas, sollecitato ripetutamente a compiere il gesto del taglio dei capelli sino al crollo emotivo. A Lanzmann non interessa più il racconto, il ricordo dell’azione passata, ma la ripetizione di quell’azione nel presente:

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Il regista francese interviene sul testimone inscenando una sorta di teatro della crudeltà. Il dovere, al quale costantemente lo richiama è il dovere dell’azione («Deve farlo», «Dobbiamo farlo»), riportando il terribile gesto da un passato remoto/rimosso a una soffocante contemporaneità; il racconto orale permette di mantenere le distanze, permette di filtrare l’esperienza con la razionalità; la ripetizione del gesto mette in gioco la corporeità, aprendo un baratro di incertezza sulle proprie reazioni, facendo perdere di vista il filo della logica, per lasciarsi andare a una improvvisazione emotiva quanto mai temibile. Ripercorrere con la voce un racconto precedentemente affrontato è ben diverso dal lasciarsi andare alla ripetizione di un gesto, le cui conseguenze sono al di fuori del nostro sapere e del nostro controllo. Secondo Stanislavskij i gesti sono come dei portalettere che consegnano buste senza conoscerne il contenuto, né il destinatario: gli attori-testimoni di Lanzmann conoscono l’origine del gesto, ma ne ignorano la finalità, lo scopo, le conseguenze.

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Il metodo utilizzato da Lanzmann è quanto mai connesso con le potenzialità offerte dal mezzo cinematografico. Lo stretto rapporto esistente tra gestualità emozionale e montaggio cinematografico era stato già identificato da Ejzenštejn, quando parla di “riviviscenza”: Il subcosciente emerge attraverso il cosciente, il rimosso traumatico riemerge attraverso la ripetizione del gesto. Lanzmann monta nello spazio una serie di oggetti non reali che favoriscono il processo di immedesimazione dei personaggi (basti pensare al salone da coiffeur affittato per la mise en scène di Bomba o al vagone ferroviario richiesto per simulare l’ingresso nel campo di sterminio), e che conseguentemente innescano nello spettatore un processo di coinvolgimento emozionale. Il regista francese non si affida alla “scenografia” offerta dal reale, non filma “passivamente” il profilmico che si trova innanzi, ma mette in scena la situazione ambientale destinata a favorire il processo di riviviscenza. Lanzmann monta lo spazio come una ribalta teatrale, spingendo i suoi attori a calarsi sino in fondo nella

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parte, in un doloroso processo che fa confluire nel cinema del reale le pratiche della psicoanalisi e del training attoriale. Il paradosso di James si rivela quanto mai veritiero: «Noi non piangiamo perché siamo tristi, ma siamo tristi perché piangiamo»; i testimoni di Lanzmann scoppiano spesso in lacrime perché costretti a compiere un determinato gesto e perché quel gesto riporta alla coscienza determinati ricordi ed emozioni; altre volte, la loro apparente bonarietà viene incrinata minacciosamente dal riattivarsi di gesti collegati con il sopruso e con atteggiamenti mai superati di inveterato antisemitismo: basti pensare al pluricitato gesto del pollice passato sulla gola, a indicare lo sgozzamento, che i polacchi facevano agli ebrei in viaggio verso i campi di sterminio. Un gesto ripetuto più volte lungo il film, un vero e proprio gesto collettivo, e che, con la sua agghiacciante semplicità, rivela più di mille discorsi sull’endemico antisemitismo polacco e sulle responsabilità di tale popolo di fronte alla più grande tragedia del secolo scorso. Il gesto in questione, compiuto per la prima volta, nel film, da Henrik Gawkowski, un polacco che nel 1942-43 guidava i treni della morte verso Treblinka, sorge in maniera assolutamente spontanea, nel momento in cui Henrik viene fatto risalire su una locomotiva simile a quella che guidava allora: lo spazio e il contesto riattivano un gesto, altamente significativo, che coglie di sorpresa lo stesso regista, il quale si interrogherà a lungo sul punto in cui montare un momento che gli appare sin da subito altamente pregnante e significativo. Attraverso le attente scelte di montaggio, il regista francese trasforma progressivamente lo spettatore da testimone del gesto (nel momento in cui esso viene fatto per la prima volta) a interprete di quest’ultimo (nel momento in cui viene ripetuto più volte), offrendo un punto di vista interpretativo privilegiato.

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Il gesto è una piccola parte del sentimento da riattivare, che va a confluire in una totalità emotiva in grado di riportare a galla il sentimento complessivo, ritornando ad Ejzenstejn e al paradosso di James: A partire da pochi elementi essenziali, come l’induzione di

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un determinato stato d’animo, lo spazio idoneo e la ripetizione del gesto, si può produrre un effetto di “riviviscenza” complessiva del sentimento corrispondente di qualsiasi natura esso sia, positiva o negativa. Il gesto è, infatti, in grado di riattivare la disperazione del sopravvissuto, il senso di colpa del membro del Sonderkommando, la crudeltà del capo nazista e l’odio antisemita del contadino polacco, tutte espressioni emotive che il racconto orale, controllato da un attento esercizio della ragione, non avrebbe certamente rivelato. Lanzmann accompagna, preparando le condizioni ottimali per la produzione dello stato emotivo, i propri “attori” all’interno di uno stato ipnotico, nel quale vengono sospinti senza che essi se ne rendano perfettamente conto; i personaggi di Shoah non sanno a che tipo di esperienza andranno incontro, vengono coinvolti in un’intervista che, il più delle volte, si rivela differente da quella che avevano immaginato: vengono provocati, sollecitati, “violentati” nell’intimo della loro persona, ingannati (basti pensare alla promessa che il regista francese fa ad un ex nazista di non rivelare il suo nome, mentre una didascalia in sovrimpressione sul suo volto ci rende nota l’identità del pavido soggetto); diventano soggetti privilegiati di una seduta psicoanalitica che ha come posta in gioco un trauma collettivo da superare, ma da non dimenticare. Ovviamente un tale lavoro di analisi sul singolo personaggio richiede un investimento di tempo notevole; non sarebbe possibile pensare di attivare determinate reazioni in un lasso temporale troppo breve, senza che il soggetto in questione abbia il tempo di abituarsi alla nuova situazione psichica, predisponendosi al sorgere del ricordo emotivo. Ben prima del processo di elaborazione linguistica, esiste una materialità fisica, in grado di irrompere nel momento in cui un gesto o un movimento vengono ripetuti. Come sottolinea Hirsch: Lanzmann ricorda spesso come, la prima volta che ha incontrato, a Gerusalemme, Simon Srebnik, quest’ultimo non fosse in grado di organizzare un racconto organico, ma risultasse soltanto capace di assemblare una serie di impressioni soggettive sconnesse di difficile decodifica per

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l’ascoltatore; soltanto di fronte ai luoghi, soltanto di fronte all’atto del canto, ripetuto a distanza di anni, Simon è stato in grado di ri-organizzare il discorso nella sua mente, di ridare un senso comprensibile alla terribile esperienza vissuta e di superare l’afasia che lo aveva colpito. Talvolta Lanzmann sente la necessità di stare “addosso” ai suoi interlocutori, pressandoli con insistenza, senza lasciar loro possibilità di scampo (come nel caso di Abraham Bomba o degli ex nazisti), tal altra si rende conto che il silenzio e la fuga rappresentano già di per sé una risposta quanto mai esemplificativa; basti pensare all’intervista con Jan Karski, ex corriere del governo polacco in esilio: Karski, sollecitato dalle domande dell’intervistatore, decide di ripercorrere i terribili giorni vissuti nel ghetto di Varsavia, sin quando non si accorge che per lui il racconto è troppo pesante e decide di alzarsi dalla poltrona sulla quale è seduto, sottraendosi, così, allo sguardo indagatore della macchina da presa. Lanzmann non stacca su Karski che si allontana, ma rimane fisso sulla poltrona vuota, oggetto reale che si tramuta in simbolo dell’assenza: «Il divano vuoto diventa un simbolo esplicito, per le miriadi di perdite e di assenze del passato, così come una simbolica immagine specchio della stessa poltrona dello spettatore»40. La poltrona vuota segna il momento di un’interruzione nella comunicazione e nell’ascolto, una rottura nel fragile equilibrio di ri-memorazione, uno stacco da registrare, in quanto prova di una irriducibilità comunicativa tra il testimone e lo spettatore, seduti su due poltrone speculari, che possono rimanere vuote in qualsiasi momento. Ogni testimone ha, dunque, bisogno di essere trattato diversamente, con un approccio “terapeutico” differente a seconda dell’intensità del trauma subito. Per tale ragione Shoah ha una durata di nove ore e mezza e una preparazione di oltre dieci anni: non si tratta di un documento filmato, ma di un processo di analisi caratterizzato da tappe precise, dilatate nel tempo e nello spazio.

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Accanto al gesto fisico si situa il gesto sonoro, ovvero il suono collegato a determinati situazioni emotive e su di un livello

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più elaborato, il canto. Il ricordo di una melodia del passato riporta il soggetto alla dimensione psichica che a essa era collegata. Il film inizia con il canto di Simon Srebnik (anche Pourquoi Israel iniziava con un canto): «Una piccola casa bianca/ mi resta nella memoria/ Di questa piccola casa bianca/ sogno ogni notte»; un canto della nostalgia, ma anche un canto collegato con il dolore del ricordo, quando le note di questa canzone erano accompagnate dal timore di essere ucciso e dalla disperazione per aver perso i propri cari. Lanzmann spinge Simon a riattivare il ricordo attraverso tre azioni, nelle quali si racchiude il senso dell’intero film: «[...] risalire il fiume come faceva allora (rifare il cammino), cantare la canzone che cantava allora (inscrivere la voce nel luogo), raccontare (dire che è impossibile raccontare)»41; attraverso tre semplici gesti, in grado di rievocare il trauma subito, prende avvio la storia di Simon Srebnik e il film. Il gesto, il canto e la parola sono i termini entro i quali Shoah si muove e articola un non-racconto ambientato in un nonluogo, recitato non da esseri umani, ma da revenants (ritornanti). Il momento del canto è un momento privilegiato, di carattere più gestuale che sentimentale: la voce si modula nello spazio al pari di un corpo che estende le proprie membra in un territorio conosciuto. La prima canzone di Simon è la canzone della nostalgia, una canzone che riporta il soggetto verso un’edulcorazione del passato, verso un tentativo, che si rivelerà poi fallimentare, di rappacificazione con l’ambiente e con il tempo passato. In seguito, Simon canta un’altra canzone, una sorta di replica tedesca alla precedente, modulata su un’alternanza di strofe in polacco con ritornello in tedesco; la minaccia irrompe e la pacifica serenità del primo motivo viene incrinata dall’intervento della risposta tedesca: «Tu ragazza, non piangere/ non essere così triste/ che la cara estate si avvicina/ e allora tornerò./ Un fiaschetto di rosso, una fetta di arrosto/ è ciò che le ragazze/ offrono ai loro soldati/

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Quando i soldati sfilano/ le ragazze aprono/ le loro porte e finestre/ Darum-Warum, Darum-Warum (Dunque perché? Dunque perché?)». Il tono semplicemente nostalgico della prima aria polacca, lascia il posto al movimento marziale dell’aria prussiana; pur trattandosi di due canzoni dedicate al ritorno o al desiderio di quest’ultimo, la prima è solo la dolce espressione di un sogno, mentre la seconda è la descrizione di una partenza, quindi di una rottura, di una cesura violenta; come sottolinea Shoshana Felman, in quello che può essere considerato il miglior saggio scritto su Shoah: Il sogno di un ritorno entra in collisione con la promessa di un ritorno. La presa di contatto con la realtà di Simon Srebnik si fa sempre più concreta e nel canto nostalgico del passato irrompe il ricordo della violenza che i tedeschi gli facevano subire costringendolo a cantare, sorta di moderna Sherazade, per mantenersi in vita. Il canto apre gli occhi a Simon, costringendolo a collegare la melodia con il frangente nel quale quella stessa melodia prendeva corpo.

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La terza canzone che compare nel film proviene direttamente dalla voce del carnefice, che, nel momento in cui ne ripercorre le strofe, con voce impostata, viene come trascinato nel delirio di onnipotenza di colui che otteneva una rivalsa sulle vittime, imponendogli di cantare le strofe della loro morte: «Sguardo sul mondo, diritto e lontano,/ sempre coraggiosi e allegri/ i reparti marciano al lavoro./ Per noi oggi non c’è più che Treblinka,/ che è il nostro destino/ Abbiano assimilato Treblinka/ in un batter d’occhio [...]». Franz Suchomel, ex SS, canta per Lanzmann, sottolineando con malcelata ironia l’assoluta esclusiva di questa esecuzione («È un originale. Più nessun ebreo lo conosce»), l’inno di Treblinka, che i carnefici costringevano a cantare ai prigionieri dei campi, per loro esclusivo godimento. Suchomel, con abilità istrionica, passa dall’altra parte della barricata e canta la melodia composta per umiliare gli ebrei; la riattivazione del ricordo gli sopraggiunge come citazione

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di un ascolto e non di un atto compiuto in prima persona, come nel caso di Simon Srebnik. La ri-memorazione si produce attraverso la ripetizione di una melodia che Suchomel non ha mai cantato, ma che ha costretto gli altri a cantare: il sentimento che si legge sul suo volto, mentre ripercorre le note di questo canto di morte ha a che vedere con la sopraffazione e con il sadismo, al punto che, in questo caso, risulta evidente che il metodo di scavo psicologico di derivazione teatrale adottato da Lanzmann, è quanto mai efficace, anche nella riattivazione di istinti negativi che continuano a persistere nell’inconscio dei carnefici. In Suchomel, così come negli altri carnefici intervistati, non c’è pentimento né redenzione, ma solo codardia (nel momento in cui dichiarano di aver soltanto obbedito a ordini superiori) e falsità (nel momento in cui minimizzano l’effettiva portata dello sterminio). Tuttavia, il canto, al pari del gesto, rappresenta uno straordinario viatico per riportare in superficie il rimosso; la melodia non è quindi un’esclusiva prerogativa auto-consolatoria della vittima, ma anche uno strumento di tortura nelle mani del carnefice. La punta più alta dell’espressione umana non si piega a principi assiologici, ma serve il padrone di turno. La canzone di Suchomel nel suo porsi come straordinario lascito alla singola memoria del suo autore, si pone come negazione della testimonianza, come un’anti-testimonianza, che la priva di valore agli occhi della storia: L’inno di Treblinka, sbandierato dal suo autore come una eccezionale prova storica, non ha alcun valore testimoniale, né tanto meno storico, ma si trasforma, attraverso la voce di Suchomel, in un’arma a doppio taglio: la ripetizione dell’inno smaschera la crudeltà del suo esecutore, non potendo assurgere a prova storica (una testimonianza che nessuno può comprovare è necessariamente un’anti-testimonianza) diventa solo prova della malvagità dei nazisti nei confronti degli ebrei. Attraverso un sottile gioco psicologico, Lanzmann ha ottenuto quello che voleva.

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Lanzmann monta nello spazio i gesti e nel tempo il canto. Shoah, opera che si dipana nella duplice dimensione spaziotemporale, vive grazie a una costruzione spaziale che sfrutta il gesto come motore dell’azione, come principio di riattivazione del racconto e, nello stesso momento, si snoda nel tempo, un tempo dilatato, con il ritmo, i ritorni, la pause e le accelerazioni di una canzone. La struttura compositiva di un canto è la medesima che sottosta alla costruzione del film, un ensemble di voci apparentemente dissonanti che si uniscono sul finale, per dar corpo a una sinfonia di morte, caratterizzata da ritornelli che si ripetono come echi nel corso degli anni e dei decenni. Secondo il filosofo francese Jean-François Lyotard44 Shoah non rappresenta, ma indica, non offre raffigurazioni dello sterminio, ma indicazioni che alla fine ne ratificano il principio di irrappresentabilità, anche se ogni indicazione non può rimandare a nessuna immagine se non a se stessa in quanto immagine di un’indicazione. Ecco che la dimensione esistenziale del presente si carica di immagini-ricordo che il testimone trasmette attraverso le parole del racconto, il gesto, il canto, il movimento nello spazio e il riconoscimento di questo spazio nella sua dimensione prettamente geografica. Lanzmann non ha bisogno di immagini di repertorio, dal momento che è in grado di produrre negli spettatori e nei suoi interlocutori immagini molto più vivide e significanti di quelle offerte da anonimi operatori più o meno professionisti; Lanzmann ci offre un’immagine potenziata, simile a quella di cui parla Wunenburger a proposito delle potenzialità dell’immagine mnesica: L’impresa di Lanzmann è stata proprio quella di dilatare lo stato affettivo del presente, offrendo esperienze attuali del ricordo, anche nel momento in cui il passato non coincideva con il souvenir infantile proustiano evocato dal dolce sapore di una madeleine, ma dalla violenza e dalla sopraffazione, dalla morte e da un dolore inenarrabile che solo una grande pazienza e una rabbiosa ostinazione potevano avere la forza

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di “presentificare” nuovamente.

5. Il corpo: gli aedi dell’inferno Utilizzo le parole che mi avete insegnato. Se esse non hanno più senso, insegnatemene altre o lasciatemi tacere. Samuel Beckett, Finale di partita 31

Shoah è un film interamente costruito sulla parola dei testimoni, calati nello spazio e nel gesto che gli sono appartenuti nel momento in cui il resto del mondo si voltava a guardare da un’altra parte. Il testimone è la persona che assiste ad un fatto, etimologicamente è «colui che è presente come terzo» (dal latino tres-stare): tra la vittima che soccombe e il carnefice che sopprime c’è un terzo sguardo che assiste alla “scena” ed è pronto a testimoniare sull’accaduto; il testimone è un soggetto scomodo perché escluso dalla relazione duale di oppressore/oppresso, relazione che deve lasciare in vita solo uno dei due termini e che non prevede interventi esterni. Il testimone è quantomai scomodo nella logica nichilista dello sterminio, laddove nessuna traccia doveva essere lasciata e nessun ebreo doveva sopravvivere al processo di distruzione totale. Tuttavia, il testimone per poter descrivere la propria esperienza deve aver mantenuto un barlume di umanità, un seppur debole legame con la società degli uomini, che gli permetta di riportare l’esperienza vissuta a una dimensione narrabile, raccontabile. Molto spesso, però, i reduci dai campi di concentramento venivano a tal punto privati di qualsiasi forma di dignità umana da non riuscire, una volta fuori, a raccontare; molto spesso i sopravvissuti a un orrore che nessun essere umano potrebbe mai credere e incapacitati a sopportare da soli il peso del vissuto hanno deciso di uccidersi, schiacciati dal senso di colpa nei confronti dei loro simili, periti nei campi, e dall’oppressione di un’esperienza al

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di là dell’immaginabile, come se, dopo il contatto con la morte non ci fosse più possibilità di ritornare alla vita. Nel momento in cui il racconto del testimone non riesce a esaurire l’enormità dell’evento subito, allora, si può arrivare a considerare la Shoah come un evento senza testimoni, in quanto chi è morto non è in grado più di raccontare e chi è sopravvissuto è rimasto esterno alla morte altrui e quindi all’evento centrale del processo di distruzione, come sottolinea la Felman: Tutti gli interlocutori di Lanzmann, compreso egli stesso, vivono in questa dimensione sospesa tra l’interno dell’esperienza e l’esterno della testimonianza; la molteplicità degli sguardi e delle testimonianze conduce rapidamente ad una destrutturazione della percezione, obiettivo principale della “soluzione finale”. La percezione dell’evento è frammentata e il film, nella sua scelta di non costruire un discorso unitario, rende conto di questa frammentazione. Tuttavia, la fiducia di Lanzmann nel valore di questa testimonianza sospesa tra l’interno e l’esterno dell’esperienza concentrazionaria rimane inalterata, ponendosi come unica possibilità per trasmettere l’evento, nonostante la consapevolezza della inevitabile soggettività e parzialità del racconto testimoniale.

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La centralità del ruolo del testimone viene, invece, messa in discussione da Giorgio Agamben, il quale sostiene che l’autentico testimone, il testimone integrale, è colui che non può più testimoniare, ovvero, il musulmano: Il musulmano è il morto-vivo, colui che non sopravviverà ad Auschwitz, ma che porta sulla sua pelle la traccia più autentica della Shoah, quella che nessun sopravvissuto, proprio in quanto sopravvissuto, potrà mai raccontare. Agamben sposa la tesi di Primo Levi, secondo il quale, il musulmano, il cadavere vivente, colui che ha smarrito ogni traccia di vita affettiva e di umanità, è il testimone integrale e le due proposizioni contraddittorie che questa tesi implica: il musulmano è il non-uomo, colui che in ogni caso non potrebbe testimoniare e colui che non può testimoniare è il

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vero testimone, il testimone assoluto. Secondo Agamben il testimone è ciò che rimane dell’infinita distruzione dell’uomo: L’uomo, l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto, come recita Blanchot, sopravvive come resto, e in quanto tale, la sua testimonianza parziale, residuale non raggiungerà mai l’integrità vissuta dal testimone più vero, il musulmano. Se il testimone integrale non può testimoniare perché ormai umanamente, biologicamente, distrutto, allora sarà un testimone parziale a trasmettere la parola dello sterminio, un testimone che porta in sé le tracce della disumanizzazione, un resto vivente di ciò che poteva essere il testimone integrale. Ma il resto, non è la totalità. Tuttavia, il punto di vista di Agamben non conduce all’affermazione di una impossibilità di testimoniare la Shoah, a una sua presunta e metafisica “indicibilità”, opinione che condurrebbe fatalmente all’esaudirsi del terribile piano nazista, volto proprio a creare un vuoto testimoniale, ma piuttosto all’attenta calibrazione della testimonianza, che deve essere sottoposta, parola per parola, alla prova di una impossibilità di dire. A parer nostro, nonostante il differente peso conferito alla parola testimoniale, la posizione di Lanzmann e quella di Agamben concordano sostanzialmente nel considerare la Shoah un evento di rottura per il quale le “normali” categorie del racconto vengono inevitabilmente sospese e considerate obsolete.

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Lanzmann con Shoah compie un atto autenticamente politico: un film, apparentemente ascrivibile al documentario di analisi storica si rivela essere, a distanza di anni, un’operazione profondamente rivoluzionaria, di rottura con il passato e con un certo modo di intendere la gestione della cosa pubblica. Al punto che la stessa utilizzazione del linguaggio comune viene polemicamente messa in crisi. Il regista francese percepisce già dal 1985 che i vari totalitarismi del ventesimo secolo hanno profondamente modificato la gestione del potere politico, allargando il loro germe distruttore anche alle presunte “democrazie” e

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lasciando in eredità il pericoloso concetto di “biopolitica” con tutti i rischi a essa collegati. L’essere umano non è un animale puramente biologico (zoologico) e il tentativo di considerarlo tale è una delle operazioni più riuscite del regime nazista. Nell’antica Grecia, per indicare la vita, si utilizzavano due parole: bios (la condotta umana della vita nel suo senso etico) e zoé (la vita intesa in senso naturalistico che accomuna vegetali, animali e uomini). Il pensiero occidentale, da Kant sino a Bergson e Marcuse, ha cercato di tenere insieme, seguendo un preciso progetto estetico, il bios e la zoé, prospettando l’ideale di un essere umano nel quale le due dimensioni fossero inscindibilmente collegate: l’uomo è dunque un’unione di etica e di animalità, di razionalità e di istinto, è un animale politico. Se l’affermarsi della biopolitica (attraverso i processi più deteriori di selezione della razza propugnati dal regime hitleriano) ha teorizzato la possibilità di scindere nell’uomo il bios dalla zoé, la biotecnologia ha reso questo progetto una realtà concreta. Le condizioni che hanno permesso, infatti, che la Shoah avesse luogo sono l’odio e la tecnica; l’odio come motore ideologico e la tecnica come strumento pratico: l’uno ha permesso l’altro, l’uno ha offerto all’altro le condizioni per germogliare e crescere. La tecnologia nei campi di sterminio ha raffinato le proprie tecniche trasformandosi da mezzo di produzione in mezzo di distruzione: come fare ad annientare il maggior numero di ebrei possibile, senza lasciare tracce? (Il film di Lanzmann, nell’arco delle sue nove ore e mezza di durata, ruota costantemente intorno a questo inquietante interrogativo). Nel momento in cui l’odio aveva privato gli individui di qualsiasi dignità umana, interveniva la tecnica a completare il lavoro, eliminando il residuo vitalistico che albergava ancora in corpi interiormente spossati e distrutti. Auschwitz si arroga il doppio primato di aver introdotto nel pensiero occidentale il concetto di biopolitica e quello di biotecnologia o, forse, per meglio dire, di tanato-tecnologia.

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La tecnica che fa leva sulla distruzione o sulla modificazione dei corpi dà inizio all’era dell’eufemismo: l’eufemismo è stato inventato dalla lingua greca per passare la morte sotto silenzio o sotto antifrasi, per tacere la morte. La Shoah è piena di eufemismi, di sensi deviati, di distaccamenti progressivi e irreversibili tra le parole e le cose. Dopo Auschwitz, il mondo ha capito che l’eufemismo era un modo per rendere l’esistenza più artificiale e più sopportabile e non è un caso che la coscienza umanitaria, alibi della contemporaneità per pacificare i sensi di colpa occidentali, sancisca il trionfo dell’eufemismo. La dirompente coscienza umanitaria che pervade la nostra epoca perde di vista e banalizza la differenza dello sterminio ebraico, la sua irriducibilità alla sfruttata categoria del sopruso e dell’ingiustizia, come rileva acutamente il filosofo Robert Redeker: Lanzmann, in Shoah, combatte con forza contro l’eufemismo: il regista francese spinge perché alle cose venga dato il loro vero nome, perché il distaccamento tra le parole e le cose venga ricucito e riassorbito dalla testimonianza, una testimonianza che riconduce l’uomo alla sua interezza, di bios e di zoé e le parole alla loro cruda applicazione, al loro reale ed effettivo referente. Shoah non è soltanto un’opera di ricostruzione storica, di archiviazione della parola testimoniale, ma è soprattutto un progetto teorico, di intervento attivo su alcune derive della società contemporanea, culturalmente e storicamente prodotte dalla cesura tragica e irreparabile delle dittature del ventesimo secolo. Lanzmann combatte contro l’iconofilia, rifiutando la pervasività di immagini sempre più prive di significato, combatte contro una gestione della politica basata sull’ingerenza del potere sul corpo sociale (sui diritti che il potere si arroga di manipolare e spostare intere popolazioni e di intervenire sulla gestione delle risorse destinate al sostentamento biologico), combatte, infine, contro l’eufemismo, evitando di passare la morte sotto silenzio, evitando che un eufemismo qualunque trasformi la morte

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tragica di milioni di individui in una sacrificale eu-tanasia di gruppo (il termine Olocausto, usato per decenni, avalla proprio questa dimensione di auto-immolazione religiosa), commemorata un giorno all’anno e taciuta per tutto il resto del tempo.

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La scelta dei testimoni è funzionale proprio alla volontà di trasmettere un preciso messaggio politico, evitando di rifugiarsi dietro l’alibi di un’oggettività che il regista francese evita con cura di perseguire. La lunga preparazione del film è indice di una ricerca finalizzata al reperimento di quei “testimoni” che potessero veicolare con più forza le personali ossessioni dell’autore. Lanzmann ha cercato per anni, in ogni parte del mondo, testimoni che avessero la statura e lo spessore di personaggi finzionali, individui che, posti di fronte alla macchina da presa, avrebbero sprigionato un vero carisma drammatico, nel senso più originario del termine, e che fossero stati in grado di rivivere il passato. Per tale ragione, alcuni testimoni-chiave dei fatti, sono stati scartati; basti pensare a Wladislaw Bartoszewski, protagonista principale del gruppo di resistenza polacco Zegota, riuscito eroicamente a salvare numerosi ebrei sotto l’occupazione, ed eliminato dal film perché considerato da Lanzmann “noioso” e “impostato”. L’obiettività storica non è certo la priorità del regista francese, interessato, piuttosto, a tessere una “finzione del reale”, al punto tale da attirarsi numerose accuse di distorsione della realtà storica: Particolarmente burrascosa è stata l’accoglienza del film in Polonia, laddove il film è stato inizialmente mostrato in televisione, in maniera parziale e dando rilievo soprattutto alle interviste con i contadini polacchi, e dove ha ricevuto da parte del governo e della chiesa cattolica molte accuse di mistificazione storiografica. La volontà di tessere gli elementi della realtà come una rete di rimandi finzionali ha condotto il regista a piegare, molto spesso, il reale alle esigenze del suo copione interiore, anche laddove i fatti storici tendevano ad affermare verità leggermente diverse.

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I testimoni/personaggi intervistati in Shoah si dividono in tre categorie: gli ebrei sopravvissuti ai lager, perlopiù appartenenti al gruppo del Sonderkommando; i contadini polacchi che hanno vissuto da vicino la deportazione ebraica nelle loro terre; i nazisti, che hanno avuto un ruolo attivo nell’organizzazione logistica dei campi. Lanzmann mette in gioco, calibrando sapientemente le informazioni prodotte dalle testimonianza, le vittime, gli spettatori e i carnefici, adottando modalità di approccio differenti e costruendo con estrema abilità un discorso sulla visione o, per meglio dire, sulla “distruzione” dell’esperienza visiva perpetrata dal regime hitleriano. Gli ebrei hanno visto, ma non hanno compreso il perché di quello che vedevano, scacco da cui proviene la loro reticenza a testimoniare. Molte dichiarazioni dei membri del Sonderkommando si svolgono proprio sotto l’insegna di questa assoluta incredulità percettiva («Tutto mi era incomprensibile. È come un colpo in testa, come essere folgorati», «Ma non mi rendevo conto, non ci credevo ancora», «Probabilmente non ho capito»); la visione diretta dell’avvenimento non comprova più il suo effettivo accadimento: gli ebrei del Sonderkommando, costretti ad avere parte attiva nella distruzione del loro stesso popolo e, spesso, nell’uccisione dei loro stessi cari, per poter sopravvivere a se stessi, mettono in crisi la referenzialità del reale, arrivando a dubitare delle loro stesse capacità percettive. I polacchi, dal canto loro: «[...] vedono, ma semplici spettatori, non guardano veramente, evitano di guardare direttamente, e così chiudono gli occhi nello stesso tempo sulle loro responsabilità e sulla loro complicità in quanto testimoni»51. I polacchi descrivono con freddezza le fasi di deportazione degli ebrei: il passaggio continuo dei treni, le richieste di aiuto, le rappresaglie continue, la sparizione di interi villaggi, le case e i negozi improvvisamente abbandonati, l’odore terrificante e persistente proveniente dai campi, le grida di disperazione.

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La loro descrizione è però simile a un resoconto, priva di partecipazione, priva di effettiva empatia, puro esercizio di visione fenomenologica, non esente da una certa soddisfazione proveniente dall’inveterato antisemitismo polacco. I nazisti, infine, fanno in modo che tutto rimanga invisibile, che chi vede e non capisce soccomba prima di comprendere, e che chi vede senza guardare continui pavidamente a coltivare il proprio orto senza curarsi dei fatti altrui. A distanza di decenni, i nazisti protraggono il loro diabolico disegno di invisibilità, sottraendosi, unici testimoni a farlo, all’occhio indagatore e disvelatore della macchina da presa, al punto che Lanzmann, sarà costretto, in alcuni casi, a utilizzare una macchina da presa nascosta per riuscire a riprenderli a loro insaputa. La necessità tecnica arriverà a produrre un’immagine simbolica del corpo nazista: il primo SS, Franz Suchomel, compare dopo due ore di proiezione, in un’immagine a bassissima definizione, in bianco e nero, disturbata da linee di trasmissione e avvolta in una nebbia fuliginosa che rende questa prima “figurazione” del male quanto mai inquietante. Al nazista non è concesso il colore, il nero, non-colore che annienta la luce, è il suo marchio distintivo. L’intervista con Suchomel è spiazzante: l’ex SS tedesco è freddo e controllato, è stato convinto a rispondere alle domande con il pretesto di fornire dati più completi per una storiografia sui campi di concentramento (Lanzmann si è fatto passare per un simpatizzante desideroso di fare luce sulle menzogne della storiografia ufficiale), ha fatto promettere a Lanzmann che il suo nome non sarebbe stato rivelato (promessa immediatamente infranta), non risponde alle provocazioni, osserva le reazioni; basti pensare a quando afferma di aver pianto il primo giorno in cui ha visto le fosse stracolme di cadaveri ebrei da eliminare e poi fa una pausa per osservare la reazione di Lanzmann, per sincerarsi che il regista abbia creduto a questa evidente menzogna. Altre volte, il nazista viene preso alla sprovvista, braccato come un

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cane in fuga al quale non viene concessa via di scampo, come nel caso di Joseph Oberhauser, carnefice di Belzec, che Lanzmann ritrova impiegato come oste in una birreria di Monaco; la macchina da presa gli sta addosso, mentre lui cerca di sottrarsi, senza conoscere ancora le ragioni di questo improvviso “attacco”, nascondendosi dietro il bancone e i miscelatori della birra. Il regista francese lo incalza ripetutamente chiedendogli quanti ettolitri di birra serve ogni giorno, domanda alla quale Oberhauser si rifiuta di rispondere comprendendo immediatamente la metafora che si cela dietro il dato numerico richiesto (ieri i cadaveri, tanti più morti possibili al giorno, oggi la birra, alla fine è sempre una questione di numeri). Alla fine le domande si fanno più pressanti, spingendo l’ex SS a nascondersi per evitare di rispondere e di fare i conti con un passato che considera ormai rimosso: «Si ricorda di Belzec? Ha dei ricordi di Belzec? No? E le fosse che traboccavano? Non ha nessun ricordo?». Lanzmann riesce a far parlare gli ex-nazisti facendo leva sulla testimonianza storica; i tedeschi interpellati non sono invitati a esprimere le loro emozioni o il ricordo del loro stato d’animo, fattori sui quali il regista francese non avrebbe ottenuto se non risposte vaghe e un irrigidimento nei suoi confronti, ma su questioni tecniche, dettagli organizzativi, che rimettono in moto l’orgoglio mai sopito per l’esemplarità di un lavoro magistralmente “svolto”. Vittime, carnefici e spettatori non ricevono un trattamento diverso. Lanzmann non mostra pietà nei confronti di chi ha dovuto subire l’inenarrabile, per poter realizzare un film profondamente umano deve mantenere un comportamento disumano. Al sopravvissuto Michaël Podchlebnik, che racconta la propria traumatica esperienza nel campo di Chelmno con un imbarazzato sorriso sulle labbra, il regista francese domanda provocatoriamente: «Perché sorride continuamente?», come se il sorriso fosse un segno mistificante a un dolore interno che il testimone vuole

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celare all’occhio della macchina da presa. La risposta, che non ammette repliche, non tarda ad arrivare: «Che cosa volete che faccia? Che pianga? Una volta si sorride, una volta si piange. E quando si vive, tanto vale sorridere...». Il regista non si ferma davanti a nulla, né davanti ai sorrisi, né davanti alle lacrime, va avanti, anche quando il testimone sfugge all’occhio della macchina da presa, cercando di nascondersi, di celare l’emozione e il turbamento, convinto che “occorre continuare”, che il compimento del progetto-Shoah sia un dovere morale e che la pietà non trovi spazio nel momento in cui ricordare è un imperativo categorico. D’altronde Lanzmann non cerca mai di conquistarsi il pubblico con atteggiamenti retorici o con strizzatine d’occhio sentimentali, come rileva Marcel Ophuls, collega, estimatore e detrattore allo stesso tempo di Shoah (poiché tirato metodologicamente in ballo con il suo Le chagrin e la pitié, 1971): Lanzmann trasforma la testimonianza in un esercizio critico della ragione, che non ammette debolezze, né atteggiamenti assolutori, testimoniare è un dovere e non una libera scelta; testimoniare significa rivolgersi al diverso da noi per cambiarlo e mettere in crisi le sue convinzioni, non per proteggerlo e rassicurarlo.

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Shoah accoglie infine due testimoni indiretti: lo storico Raoul Hilberg, autore del testo-chiave dedicato allo sterminio, La distruzione degli ebrei d’Europa e dal quale, il regista francese eredita la metodologia di analisi storica e Lanzmann stesso. Le prime parole di Hilberg, unico studioso presente all’interno del film, suonano come un’indiretta dichiarazione di poetica e come una esplicitazione della linea metodologica perseguita dal regista francese: «Non ho iniziato con le grandi domande, perché temevo delle magre risposte. Ho scelto invece di dedicarmi alle precisazioni e ai particolari in modo da organizzarli in una “forma”, una struttura che permettesse se non di spiegare, almeno di descrivere in maniera più completa ciò che è accaduto».

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Lanzmann “si serve” di una voce dal forte potere veridittivo (il più grande esperto vivente sull’argomento) per fornire il proprio lavoro di una base scientifica inconfutabile; al pari di Hilberg, Lanzmann gira intorno al dettaglio, rifiuta le grandi domande e cerca piccole risposte. Il secondo testimone indiretto è il regista. Il corpo dell’autore si mette in gioco in prima persona, evitando di nascondersi dietro la protezione della macchina da presa, scegliendo di esporsi, di entrare letteralmente, fisicamente in contatto con i suoi “personaggi” al punto da trasformarsi egli stesso in personaggio di questa straordinaria “finzione del reale”. Lanzmann (così come faceva anche in Pourquoi Israel e in Tsahal) tocca i corpi dei testimoni, li abbraccia, li avvolge, cercando, attraverso questa sorta di nuovo cinema del “contatto”, di favorire un processo di osmosi tra il suo corpo estraneo allo sterminio e ciò che resta del corpo concentrazionario. Il registapersonaggio diventa un istrionico camaleonte nel momento in cui riesce, con notevoli doti attoriali, a cambiare atteggiamento a seconda dell’interlocutore: Dietro l’apparente trasformismo, Lanzmann mantiene un preciso punto di vista che filtra energicamente in ogni scelta di campo del film e nell’accurata orchestrazione del montaggio, al punto che si potrebbe sostenere, che arrivi a dirigere se stesso all’interno di una messa in scena che lo coinvolge doppiamente in quanto metteur-en-scéne e in quanto personaggio. Ecco che le accuse di “egocentrismo” mosse dallo studioso americano Dominick La Capra non arrivano a cogliere lo spirito autentico dell’operazione; secondo La Capra, Shoah sarebbe interamente centrato sulla figura del regista francese, al punto che le uniche lingue per le quali viene utilizzata la traduzione fuori campo e non i sottotitoli sono proprio quelle che Lanzmann non capisce, elemento che concorre a trasformare il film in un’operazione autoreferenziale, che ruota più intorno al regista stesso che ai vari testimoni. Lanzmann spingerebbe i testimoni ad agire secondo un piano prestabilito a priori; per sostenere tale ipotesi, La Capra fa riferimento alla sequenza di Abraham

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Bomba, già più volte citata: In realtà, come abbiamo precedentemente sottolineato, l’azione di Lanzmann sui personaggi ha un carattere maieutico; l’autore non pretende e non è interessato all’obiettività di una testimonianza senza spessore drammatico, preferisce piuttosto mettersi in gioco, partecipare alla costruzione di una finzione su base reale e realizzare un’opera che lo coinvolga in quanto parte attiva nel processo di rispecchiamento psicologico tra testimone diretto e testimone indiretto. Il film, del resto, si apre proprio all’insegna di questa soggettività. Le parole scritte che scorrono sullo sfondo ci introducono immediatamente all’interno di un processo di costruzione finzionale: Prima Lanzmann ci offre indicazioni sul luogo dove si svolge l’azione e poi ci introduce il personaggio, introdotto in questa finzione del reale dal regista in prima persona che lo “trova” e lo riporta nel suo paese d’origine. L’utilizzazione della prima persona in apertura di Shoah prepara immediatamente lo spettatore a una visione svincolata dalla tradizionale “normativa” assiologica del cinema documentario, secondo la quale, l’autore deve mantenersi il più distante possibile per non inficiare la naturalezza del profilmico. Lanzmann agisce e interviene, portando all’interno del film le proprie idee, il proprio forte punto di vista e la testimonianza diretta della propria ricerca esistenziale, a sua volta documento di vita; al punto che Shoah non è più “soltanto” uno straordinario film sullo sterminio, ma anche un’opera meta-cinematografica che ruota sull’odissea lunga e disperata di un autore alla ricerca dei propri personaggi.

6. La forma 38

“Il luogo e la parola”, come abbiamo già detto, doveva essere il titolo di quello che diventerà poi Shoah. La parola gioca all’interno del film un ruolo centrale. “Shoah” nell’ebraico biblico significa distruzione (eventualmente provocata da cause naturali); l’ebraico è una lingua che Lanzmann non

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parla e non capisce, ma dal primo momento in cui è entrato in contatto con questa parola evocativa, dal suono internazionalmente onomatopeico, breve, intensa e misteriosa ha capito che questo termine era il più adatto per designare il suo film e per indicare, più in generale, quello che veniva ancora erroneamente definito “Olocausto”, attraverso un doppio processo di fondazione cinematografica e lessicale. La scelta del titolo viene fatta proprio in ragione della sua incomprensibilità, in tutto e per tutto simile all’incomprensibilità che avvolge il processo dello sterminio ebraico, non riconducibile a nessun evento precedente e, quindi, non nominabile secondo categorie lessicali note: Da titolo del film a nome comune il passo è stato breve: in breve, il termine “Shoah” è entrato nel linguaggio comune, per designare l’evento intraducibile per eccellenza, l’evento che, per la sua assoluta unicità, non poteva accettare condivisioni lessicali, l’evento in-condivisible. La stessa problematica dell’intraducibilità si tramuta in scelta formale programmatica, nel momento in cui l’autore decide di creare all’interno del film una serie di filtri linguistici che rendano la decodifica del messaggio testimoniale lenta e difficile. Le domande rivolte ai testimoni che parlano in greco, ebraico, yiddish e polacco vengono rivolte in francese all’interprete di turno, che le traduce nella lingua madre del testimone, per poi, ritradurre nuovamente la risposta in francese, tuttavia la dilatazione temporale provocata da questa serie di passaggi è funzionale alla creazione del senso, come sottolinea la Felman: L’interprete in quanto filtro linguistico traduce e tradisce allo stesso tempo la testimonianza originale, contribuendo ad allontanare e a deviare l’effettiva comprensione dell’evento. Walter Benjamin nel suo importante saggio sulla traduzione metteva proprio in evidenza la proprietà metamorfica del passaggio linguistico: Nel passaggio dalla lingua originale alla lingua della traduzione si vengono a inserire elementi di mutazione, dettati dal differente valore che in diverse lingue viene

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attribuito a determinate parole, eppure, Lanzmann non teme il rischio di una “decodifica aberrante”, anzi, ritiene che proprio su questa impossibilità di trasmissione risieda il vero valore della traduzione. La lingua ufficiale del film è il francese (domande e sottotitoli sono in francese): l’unica lingua che nessun testimone parla, ma che è la lingua madre del testimone-indiretto principale, ovvero il regista. La scelta non è casuale, ma funzionale alla creazione di uno iato profondo e incolmabile tra l’esperienza dei sopravvissuti e la trasmissione verbale di questa stessa esperienza, che deve, per forza di cose, passare attraverso un filtro estraniante, una lingua-vergine, estranea ai fatti. Il francese diventa un codice neutro di decodifica per la traduzione di un’esperienza “impossibile” da narrare all’interno di un medesimo orizzonte linguistico. Lo spettatore, testimone indiretto, deve percepire, attraverso la dilatazione temporale dell’ascolto, l’impossibilità della comprensione immediata e la difficoltà della traduzione esperienziale. La macchina da presa, durante le lunghe pause prodotte dai passaggi di traduzione, si stacca sovente dai corpi direttamente interessati allo scambio linguistico, per riprendere particolari secondari dell’ambiente o per scrutare con più attenzione i volti dei testimoni, nel momento in cui attendono che le loro parole vengano trasferite in un codice a loro ignoto. L’interprete non viene quasi mai ripresa (con l’eccezione delle sequenze nelle quali Lanzmann e i suoi interlocutori sono in movimento): la sua è una voce acusmatica, unicamente delegata alla trasmissione verbale; l’attenzione dello spettatore si deve soffermare sulla sua voce e non sul suo aspetto: l’interprete è una voce a-corporale, che vive solo in quanto elemento mediatore da un linguaggio all’altro. Talvolta esse utilizzano la prima persona, talaltra la terza (“il signor X dice che...”), tradendo, attraverso questa scelta pronominale, la differente inclinazione emotiva che provano per il loro interlocutore; in questo caso l’interprete diventa uno specchio delle reazioni dello spettatore, diventa essa stessa spettatrice interna alla rappresentazione, ma totalmente estranea ai fatti, che infonde la propria emotività nel tessuto linguistico che si trova a manipolare:

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L’interprete è, dell’inquadratura.

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dunque,

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lo

spettatore

all’interno

In Shoah il carrello è il movimento di macchina predominante. Il carrello avvolge lo spazio in tutta la sua estensione territoriale e simula il percorso del treno, il mezzo con il quale gli ebrei venivano trasportati e nel quale trovavano spesso la morte; Shoah è un film di treni, come ripeteva Primo Levi nella poesia Lunedì: «Cosa è più triste di un treno?/ che parte quando deve,/ che non ha che una voce,/ che non ha che una strada». I binari dell’efficiente rete ferroviaria polacca conducono direttamente dentro i campi di concentramento; sono binari dritti al termine dei quali si apre il cancello del lager, come quello di Auschwitz, che Lanzmann ci mostra attraverso un lungo carrello in avanti, una soggettiva direttamente strappata al treno della morte. Il carrello è il movimento provvidenziale che il cinema offre per simulare il movimento del treno, il suo scorrere sui binari, portando lo spettatore direttamente dentro lo spazio concentrazionario, come sottolinea Bernard Cau, il film è una sorta di carrello infinito: «Il carrello, perchè è movimento di corpi, al contrario della panoramica che è un movimento degli occhi»59. Se la panoramica si limita a seguire la traiettoria di uno sguardo, il carrello ci conduce direttamente all’interno dello spazio, ci “fa muovere” nello spazio, tracciando un percorso, solcando letteralmente un terreno. Il carrello è una presa di possesso del territorio, per questa ragione è un movimento “sporco” e “immorale”, che spinge lo spettatore a uscire dal ruolo voyeuristico assicurato da una panoramica in grado di preservare le distanze e i ruoli previsti dal racconto cinematografico. Il carrello, come ben sappiamo, è sempre una questione di morale. Lanzmann non risparmia carrelli: il più delle volte, egli abbina al carrello una soggettiva. Nel momento in cui, i sopravvissuti raccontano il loro arrivo nei campi di concentramento, la macchina da presa simula l’ingresso nel campo, offrendo allo

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spettatore il punto di vista dei deportati. Dal momento che non è possibile condividere l’esperienza, l’unica condivisione possibile risiede in uno sguardo che a distanza di quarant’anni solca il medesimo territorio, un movimento del corpo che simula e imita un impossibile movimento della mente. Tuttavia, Lanzmann non si limita a “soggettivizzare” lo sguardo del deportato, della vittima, ma arriva, talvolta, ad “attualizzare” il punto di vista del carnefice, come nel caso del racconto di Filip Müller, ebreo cecoslovacco, superstite del Sonderkommando di Auschwitz: «Improvvisamente un silenzio pietrificò il gruppo raccolto nel cortile del crematorio. E tutti gli sguardi conversero verso il tetto piatto dell’edificio. E chi stava là? Aumeyer, l’SS, Grabner, il capo della sezione politica, e l’Untersturmfürher Hössler. Allora Aumeyer prese la parola [...]»; la macchina da presa segue in soggettiva tutto il racconto di Müller, prima dal punto di vista di “inferiorità” dei deportati e poi dal punto di vista di “superiorità” di Aumeyer; la macchina da presa, posizionata sul tetto del crematorio, ci offre la “spiacevole” sensazione di condividere lo sguardo del carnefice. Lanzmann attraverso questa inaspettata scelta di campo sembra entrare in contraddizione con le dichiarazioni sovente rilasciate, relative all’errore commesso da chi spingeva lo spettatore a sposare lo sguardo del nazista (una delle ragioni per cui, se avesse trovato una pellicola girata da un SS l’avrebbe senza esitazioni distrutta). Per quale ragione, in questo caso, contravviene a una regola di carattere prima di tutto morale e in secondo luogo estetico? La motivazione va probabilmente rintracciata nel fatto che il punto di vista del nazista non è una scelta compiuta dal mega-narratore, dall’occhio dietro la macchina da presa, ma è il punto di vista traslato avviato dalla narrazione di Müller, il quale ripetendo, a distanza di anni, le parole dell’SS, “si cala” momentaneamente nei suoi panni, offrendo allo spettatore anche il suo punto di vista; un punto di vista che diventa

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racconto di un racconto, visione di secondo grado all’interno di una visione di primo grado che è quella di Müller, autentico testimone e attore dell’azione. All’interno del film si sviluppano tre narrazioni di secondo grado, tre prise en charge, come le definisce la DayanRosenman: Oltre alla testimonianza di Müller, abbiamo il racconto di Jan Karski, corriere del governo polacco in esilio, e le letture di documenti effettuate dallo stesso Lanzmann (il quale legge prima una lettera-testamento scritta dal rabbino di Grabow e poi una nota amministrativa riservata del governo tedesco). Karski racconta la traumatica visita al ghetto di Varsavia e il dialogo avuto con due responsabili del ghetto, uno bundista e uno sionista. Il testimone polacco descrive, calandosi nelle parti dei suoi interlocutori, il dialogo nei minimi dettagli, arrivando a costruire una sorta di narrazione di secondo grado (al pari del racconto di Müller) all’interno della propria toccante testimonianza-ricordo. Karski, un aristocratico polacco, divenuto professore negli Stati Uniti, sembra attingere per la prima volta, a distanza di trentacinque anni, a ricordi, che aveva volontariamente rimosso e che con grande fatica riporta alla mente («Adesso... ritorno trentacinque anni indietro... no, non ritorno... no, no», «Non ritorno ai miei ricordi»). La durezza di questa intervista (che occupa quaranta minuti, senza tagli, all’interno delle nove ore e mezza complessive del film) si esprime proprio nella volontà di Karski di distanziarsi da un passato che percepisce come insostenibile attraverso una sorta di messa in scena dell’esperienza: il professore polacco descrive i fatti oggettivamente e i dialoghi minuziosamente per non cadere nelle maglie della soggettività del ricordo e dell’evocazione delle proprie sensazioni ed emozioni. In questo caso la prise de charge ha un valore auto-estraniante. Ugualmente, i documenti letti da Lanzmann si scorporano dalla voce del regista francese, testimone indiretto, latore di una parola non propria, per evocare una presenza corporale irrevocabile, che soltanto la ripetizione della parola, del verbo utilizzato, è in grado di ri-attualizzare. È interessante

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notare come Lanzmann scelga di montare sulla lettura del documento relativo al “miglioramento” del servizio ferroviario speciale le immagini contemporanee delle efficienti fabbriche della Ruhr, creando una pericolosa liaison tra le industire di oggi e le fabbriche della morte di ieri.

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Il montaggio di Shoah è stato per Lanzmann un lavoro lunghissimo, da oltre trecentocinquanta ore di girato a nove ore e mezza di proiezione, operando tagli molto spesso dolorosi (non a caso parte del girato non montato è confluito poi in Un vivant qui passe del 1997 e in Sobibor del 2001). Il regista francese monta la propria opera con un’estrema attenzione all’orchestrazione generale, tagliando le interviste troppo lunghe, frammentando i discorsi, creando collegamenti interni, senza, però, indulgere all’effettismo sentimentale o parodico e al montaggio “delle attrazioni”, nel senso più deteriore del termine. Le tematiche centrali del film (la deportazione, le varie fasi dello sterminio, il fallimento della resistenza e la rivolta nel ghetto di Varsavia) si rincorrono lungo la durata dilatata dell’opera, lontane da qualsiasi strutturazione di carattere cronologico. La mancanza di una linea interpretativa cronologica va di pari passo con una continua dislocazione spaziale: i paesi coinvolti nella ricerca del regista francese ritornano nell’arco della proiezione, senza mai esaurire le informazioni topografiche e ambientali che sono in grado di offrire. Il montaggio diventa un atto di scoperta geografica: i luoghi si disvelano all’occhio della macchina da presa lentamente, attraverso costanti e ripetuti ritorni sul “luogo del delitto” (basti pensare al carrello “interrotto” e poi ripreso successivamente che ci conduce, lungo la linea del binario ferroviario, di fronte al cancello d’ingresso di Auschwitz). Il ritmo interno è sapientemente costruito: ad interviste frontali si susseguono incontri itineranti, lunghe riprese di paesaggi e creazione di situazioni finzionali. Talvolta,

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Lanzmann monta sequenze, chiaramente messe in scena per l’occasione, apparentemente slegate dal resto della narrazione, basti pensare alla straordinaria sequenza grottesca del ballo di una coppia di anziani e benestanti tedeschi in un dancing dall’arredamento marcatamente kitsch di Berlino, posta tra la toccante testimonianza di Richard Glazar, sopravvissuto di Treblinka, e Inge Deutschkron, ebrea scampata ai campi e vissuta nella clandestinità. Una sequenza decontestualizzata e disorientante che offre, tuttavia, un crudele spaccato antropologico sulla società tedesca opulenta e distratta degli anni Ottanta, al punto che dietro quei volti raggrinziti e posticci dei due vecchi impegnati nel ballo si potrebbero nascondere gli aguzzini di quaranta anni prima. Il dispositivo cinematografico non è celato, ma mostra il suo funzionamento: «Il film mostra le fasi della sua realizzazione in lunghe sequenze che rendono evidente quello che la macchina da presa sta facendo nello stesso momento in cui mostrano quello che la macchina da presa sta riprendendo»61, come, ad esempio, nella sequenza con Abraham Bomba nel “finto” negozio di Tel Aviv, nella quale la macchina riprende la toccante confessione dell’ex barbiere riflettendosi nello specchio nell’atto stesso del filmare e arrivando a costruire una straordinaria mise en abîme giocata sulla metaforica frammentazione dell’io che si riflette in una molteplicità di specchi dall’angolazione di volta in volta differente. Lanzmann monta le immagini che esplicitano le modalità di registrazione delle intervistesegrete agli ex nazisti, indugiando lungamente sull’aspetto tecnico e sulla ricca strumentazione che ha permesso di rubare il simulacro a coloro che pensavano di poter rimanere “invisibili”. Il camioncino bianco e rosso che si ferma di fronte alle dimore dei carnefici, attivando dall’esterno la registrazione dell’interno (un esterno che rispecchia metaforicamente la stessa condizione dell’intervistatore-

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Lanzmann), diventa uno dei leit-motiv del film: rendendo esplicito allo spettatore il processo di registrazione delle immagini, si permette a quest’ultimo di condividere l’inganno ai danni degli ex-nazisti e di prendere coscienza del processo di mistificazione. Il ritmo del montaggio attraversa momenti di velocità estrema, con testimonianze che durano pochissimi istanti, e lentissimi ritorni su immagini già più volte ripetute: Il regista utilizza l’enorme potere conferitogli dal tempo cinematografico per costringere lo spettatore a rimanere “bloccato” all’interno di un vagone, per nove ore e mezza, con destinazione Auschwitz. Il tempo di proiezione diventa un tempo esperienziale. Lanzmann offre allo spettatore uno straordinario viaggio nel tempo e nello spazio, esemplificando le due dimensioni nella prima e nell’ultima inquadratura del film: Shoah si apre su di un fiume, con una barca che scivola sull’acqua, ferma in una dimensione a-temporale; la barca esprime la dimensione del tempo, passato e presente confluiscono in un mezzo senza età e nell’azione di un novello Caronte che collega la morte con la vita. Il film si chiude con un treno che ripercorre, oggi come ieri, lo stesso tragitto, con un carico diverso ma lungo gli stessi binari, a riprova che lo spazio geografico persiste immutato, celando nella sua materialità tutta terrena le tracce della tragedia e della sofferenza di un intero popolo. Ecco che i continui ritorni del montaggio su immagini di treni e di piatti paesaggi polacchi concorrono a fare del film una liturgica melopea contemporanea: La costruzione della dimensione tragica si produce attraverso la ripetizione del medesimo, collegando il presente e il passato attraverso immagini-ritorno che ne svelano la fatalistica reversibilità. La frattura nella tradizionale organizzazione cronologica del documentario di carattere storico ha portato alcuni critici a definire Shoah un documentario postmoderno, nel quale la verità storica si infrange in una miriade di punti di vista frammentati: Il passato non è un dato acquisito, ma un qualcosa che si

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modifica in base alle condizioni del presente. La postmodernità di Shoah risiederebbe proprio in questa distruzione della cronologia e del ricordo connesso con lo sviluppo temporale: i punti di vista entrano in collisione l’uno con l’altro e il tempo non è più un dato oggettivo, ma un qualcosa da ricostruire (basti pensare a Franz Grassler, assistente del commissario nazista del ghetto di Varsavia, che prende appunti mentre Lanzmann gli riferisce le datechiave del proprio incarico).

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Il tempo dilatato dell’immagine spaziale si riallaccia alla dilatazione della testimonianza: Lanzmann non taglia le pause, i momenti di silenzio, le rotture della conversazione, ma le ingloba all’interno di un testo che fa di questi momenti di sospensione la propria interna tessitura. Jan Karski, ad esempio, ha un momento di incertezza, di rifiuto, ancor prima di iniziare il proprio racconto; egli abbandona il proprio posto sul divano, mentre la macchina da presa riprende questa rottura comunicativa e l’autore decide, in sede di montaggio, di mantenerla, aprendo l’intervista al corriere polacco proprio con questo momento di rifiuto. Lanzmann mantiene quello che altri cineasti avrebbero tagliato, per economia, per pietà o per convenienza: Shoah non si costruisce su nessuno di questi tre termini, è il film dell’eccesso (anti-commerciale per eccellenza, con le sue nove ore e mezza di durata a fare da deterrente a qualsiasi distributore ed esercente e non a caso non è mai stato distribuito in Italia), della spietatezza, del masochismo professionale (Lanzmann ha legato il suo nome nella buona e nella cattiva sorte a un’impresa attaccabile sotto vari punti di vista). La stessa crudeltà che l’autore riserva ai suoi testimoni, viene riservata anche a noi spettatori, costretti ad ascoltare per un dovere morale, a non alzarci, a non abbandonare la nostra poltrona, se non vogliamo sancire la nostra sconfitta e ammettere la nostra debolezza.

7. L’accecamento: Un vivant qui passe

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Shoah rivela la sua natura di testo aperto attraverso due “appendici” che seguono a distanza di anni e che attingono dal ricchissimo materiale girato in oltre dieci anni di preparazione e poi non montato. Il primo film che nasce dall’opera-madre del 1985 è Un vivant qui passe del 1997, il secondo è Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures del 2001 e presentato alla Selezione ufficiale del Festival di Cannes fuori competizione. I due film completano il macro-racconto di Shoah immettendo nel filo della narrazione concentrazionaria altri personaggi rimasti fuori dalla “rappresentazione” ufficiale, ma che Lanzmann riteneva particolarmente forti dal punto di vista drammaturgico e sui quali valeva la pena focalizzarsi. L’esperienza-Shoah esce, dunque, dai confini, peraltro, molto ampi delle nove ore e mezza di proiezione per trasformarsi in un’opera riverberante che continua a produrre e a generare appendici a distanza di anni, ponendosi come uno dei rari casi cinematografici di opera aperta, nel senso di un’opera suscettibile di integrazioni e di ampliamenti purché gestiti sempre dal medesimo autore. Lanzmann, proprio in forza dell’esperienza vissuta con Shoah, che esula, per intensità e per estensione cronologica, da qualsiasi altra esperienza similare, lega la sua esistenza a un lavoro totalizzante, che non lascia possibilità di approcciare altre tematiche e che continua a crescere nell’interiorità del suo autore. Il tentativo, peraltro mediato da una similare tematica di fondo, di evadere da Shoah, realizzando Tsahal nel 1994, si è rivelato sostanzialmente fallimentare, al punto da riportare il regista francese a riflettere nuovamente sull’opera madre, consapevole del fatto che la tematica concentrazionaria era tutt’altro che esaurita. Il tempo che intercorre tra l’operamadre e le due appendici successive (per quanto sia il film del 1997 che quello del 2001 possono essere fruiti in maniera del tutto indipendente dal film del 1985) è indice di una decantazione teorica che ha condotto alla realizzazione delle

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opere successive soltanto a seguito di un’accurata riflessione e della presa di coscienza dell’esistenza di nuclei tematici nuovi. Le figure di Maurice Rossel e di Yehuda Lerner, al centro dei due film, non potevano essere inglobati all’interno di una narrazione totalizzante come Shoah, che seguiva percorsi tematici similari, ma, allo stesso tempo, profondamente diversi. Il cinema, come ama ripetere spesso Lanzmann, è un’arte nella quale non ci sono proposizioni concessive. Un’arte nella quale non è possibile dire “sebbene” o “quantunque”, dal momento che ogni immagine divora la precedente, rendendo impossibile la costruzione di reti parallele alla presenzialità dell’immagine del momento. Le vicende di Rossel e di Lerner non rientravano nell’affresco principale; inserite con la forza, avrebbero perso di intensità e di autonomia discorsiva. Un vivant qui passe e Sobibor non nascono sull’onda di un successo momentaneo, su di una spinta esterna o sull’opportunità di utilizzare ancora una parte, per quanto minima, delle trecentocinquanta ore di girato, ma dalla necessità teorica di aggiungere ancora due tasselli centrali alla rappresentazione concentrazionaria: il tema della finzione e il tema della libertà. Come sottolinea Hélène Frappat nella nota di accompagnamento all’edizione digitale dei due film: Come vedremo, la strutturazione interna dei due film rivela la volontà di far emergere i nuclei tematici attraverso precise strategie di messa in scena.

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Un vivant qui passe è una lunga intervista frontale di sessantacinque minuti a Maurice Rossel, franco-svizzero delegato del Comitato internazionale della Croce Rossa in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intervista rilasciata a Lanzmann nel 1979, in occasione della preparazione di Shoah, non è poi confluita nell’opera maggiore, ma il passare del tempo e le nuove questioni emerse intorno al procedimento di occultamento dello sterminio perpetrato dai nazisti hanno portato il regista

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francese a rimettere mano al colloquio per offrirlo come una sorta di appendice, un a-parte, sul tema della finzione e dell’inganno. Lanzmann, nell’intervista che accompagna il DVD del film, ricorda il modo in cui è riuscito a ottenere un incontro, nato più sull’onda dell’inganno che della volontaria collaborazione; Rossel non avrebbe mai rilasciato un’intervista su previo appuntamento, ma trovandosi davanti alla porta di casa, senza preavviso, il regista francese con la sua piccola troupe e un’inusitata gentilezza di modi («Non ci si può opporre ad una forza dolce» sostiene Lanzmann) non riesce a rifiutare. Rossel non è al corrente delle domande, né del fatto che lo sconosciuto che ha davanti è pronto a sfoderare da una cartellina scura una copia del suo rapporto su Theresienstadt e a far crollare miseramente tutto il suo fragile castello di carte; Lanzmann percepisce l’imbarazzo e il disagio, al punto da interpretare l’atto di nervosismo di Rossel contro un familiare che entra nella stanza del colloquio, come un atto mancato nei suoi confronti, una sorta di spostamento simbolico. L’intervista è strutturata in due parti, la prima concerne la visita di Rossel ad Auschwitz il 29 agosto del 1944 (giorno nel quale le autorità del campo si apprestavano a sottoporre a gassazione 2499 ebrei provenienti dal campo ceco di Theresinstadt), in occasione della quale il giovane diplomatico ebbe un colloquio estremamente “garbato” con il comandante del campo Richard Baer, che aveva appena sostituito il famigerato Rudolf Franz Ferdinand Höss, rimasto in carica sino al novembre del 1943, quando assunse la carica di direttore dell’Ispettorato dei campi di concentramento. Rossel, giunto ad Auschwitz senza un’autorizzazione ufficiale, offre al comandante un aiuto umanitario di medicinali e di viveri dietro il quale si nasconde la volontà di osservare con i propri occhi quello che già allora era considerato un campo di detenzione di prigionieri civili estremamente crudele. Tuttavia, la breve visita, che

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ovviamente non aveva previsto soste in luoghi differenti dalle zone di rappresentanza militare, si ridusse a un breve colloquio con un uomo di bell’aspetto e di belle maniere, appassionato di sport invernali e di paesaggi elvetici. Rossel, nell’esiguo arco di tempo trascorso ad Auschwitz, non ha sentito grida né lamenti, non ha visto le camere a gas, i bagliori e le fiamme, non ha percepito odori di morte, di cadaveri (quello stesso odore che secondo i contadini polacchi, che abitavano nei dintorni, pervadeva l’aria in ogni ora del giorno e della notte). Rossel ricorda solo di aver sentito nelle ossa un leggero fremito di inquietudine e di aver incrociato una fila di prigionieri magrissimi dallo sguardo allucinato, forse i cosidetti “musulmani”: «Quella gente mi osservava con una incredibile intensità, al punto di voler dire quasi: “Ebbene, ecco un tipo che arriva qua e come? Un vivo che passa” proprio così, e che non era un SS»66. Un vivo che passa nel campo della morte più feroce della storia e che non vede l’enorme tragedia che si sta consumando intorno a sé. Il titolo che Lanzmann decide di dare al film nasce proprio da questa espressione di Rossel, che tradisce tutta la condizione di accecato privilegio di colui che può permettersi di “passare” in un lager e uscire a proprio piacimento; uscire fisicamente e mentalmente da una condizione esistenziale che percepisce come talmente aliena ed estranea da non riuscire nemmeno a capirne il tragico svolgimento. La seconda parte dell’intervista concerne la visita ufficiale del Comitato internazionale della Croce Rossa, nel giugno del 1944, al ghetto-modello (definito in questo modo da Adolf Eichmann) di Theresienstadt, città-fortezza a sessanta chilometri da Praga; in questo campo vennero accolti dal novembre del 1941 all’aprile del 1945 gli ebrei del Grande Reich (Austria, Boemia, Moravia e Germania), considerati “privilegiati”: appartenenti a importanti famiglie della Germania pre-hitleriana, notabili, funzionari, intellettuali, artisti, ex combattenti e decorati della Prima Guerra

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Mondiale, medici e industriali, perlopiù anziani e fiduciosi che il loro ruolo li avrebbe protetti dal peggio. Tuttavia, per la maggior parte di questi ebrei la sorte non fu diversa da quella degli altri: Theresienstadt era soltanto un luogo di transito di un viaggio che li avrebbe comunque portati alla morte nelle camere a gas di Auschwitz, di Belzec, di Treblinka e di Sobibor. Le condizioni reali nelle quali venivano tenuti i prigionieri “privilegiati” (o “prominenten” come li definisce Rossel nell’intervista) di Theresienstadt erano assolutamente drammatiche: malnutrizione, promiscuità, malattie, violenze fisiche e psicologiche, vessazioni, sovraffollamento. Tuttavia, il cosidetto ghettoPotëmkin (chiamato così dal momento che il principe russo Grigorij Aleksandrovic Potëmkin, in occasione della visita di Caterina II, imperatrice di Russia, in Ucraina e in Crimea, aveva fatto costruire dei villaggi fittizzi lungo la strada, per abbellire il percorso) doveva fungere da campo di rappresentanza per le ispezioni internazionali, trasformandosi da lager in campo di detenzione modello. Maurice Rossel visitò questo campo, allestito ad arte, e scrisse una relazione dalla quale non traspariva assolutamente nulla delle reali condizioni di coloro che vi erano imprigionati. Il delegato franco-svizzero ricorda di aver trascorso alcune ore in un ghetto nel quale i prigionieri ebrei venivano trattati con grande rispetto, nel quale essi potevano passeggiare tranquillamente abbigliati come il loro rango prevedeva, nel quale vi era una sinagoga, un asilo per bambini, giardini, luoghi di ricreazione e nel quale le famiglie, separate durante la notte, potevano trascorrere tutta la giornata insieme. Al punto che Rossel dichiara di aver ricevuto un’impressione sostanzialmente sgradevole di tutti questi ebrei che facevano leva sulla loro condizione di privilegiati, evitando di essere trattati secondo le consuete regole dei campi di internamento per civili: «Del resto, il comportamento della gente era tale, che la cosa era molto

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antipatica in sé. L’atteggiamento degli israeliti in quella città... Io stesso avevo l’impressione che ci fossero degli israeliti, e lo penso tutt’ora, che a colpi di dollari e a forza di versare dollari al Portogallo riuscivano a sistemare la loro situazione e si permettevano così di durare». In realtà, era tutto orchestrato ad arte dai nazisti (si trattava di una Verschönerungsaktion, un azione di abbellimento) in grado di architettare una diabolica messa in scena per ingannare l’opinione pubblica internazionale: gli ebrei seguirono le istruzioni in preda al terrore e con la speranza di ricevere una ricompensa per il loro comportamento “corretto”, i corpi troppo magri vennero tenuti nascosti, lasciando passeggiare per il campo soltanto persone dall’aspetto florido e sano («Non erano affatto magri... quelli che ho visto io non erano proprio per niente magri»), tutta la scenografia venne allestita appositamente per l’occasione e per evitare un’impressione di sovraffollamento, pochi giorni prima della visita, cinquemila ebrei vennero mandati ad Auschwitz per essere gassati. Rossel dichiara di aver ricevuto un’impressione sgradevole, dettata, in parte, dall’atteggiamento “antipatico” dei prominenten e in parte dall’atmosfera di falsità che aleggiava nel ghetto-modello, sensazioni soggettive che, ovviamente, non confluirono nel rapporto finale che redasse per la Croce Rossa Internazionale e nel quale riportò soltanto valutazioni positive. Rossel, a distanza di anni, continua a domandarsi per quale ragione gli ebrei di Theresienstadt non abbiano cercato di far capire la loro situazione, attraverso una comunicazione furtiva, un’ammiccamento, una strizzatina d’occhio. Durante la visita il delegato franco-svizzero ebbe anche un breve colloquio con un ebreo, presentatogli come il capo del ghetto, il dottor Epstein, il quale, a sua volta, cercò di non tradire la minima emozione («Ma proprio lui, in nessun istante... È allucinante che nessuno ti dica: “Ma insomma, questa è tutta una farsa”. E veramente, lo era fino a quel punto!»). Eppure, la “farsa”

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non salvò la vita al dottor Epstein: fu ucciso tre mesi dopo la visita di Rossel. I nazisti agirono diabolicamente, ingannando gli ebrei e i delegati internazionali allo stesso tempo e conducendo una perfetta azione di mascheramento. Parafrasando l’evocativo esordio di Hiroshima, mon amour (Id., Alain Resnais, 1959), Lanzmann osserva che: Rossel ha attraversato il confine tra l’umano e il disumano senza aver visto nulla, lasciando traccia di una presenzaassenza, di una memoria di cieco.

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Un vivant qui passe non è “solo” un’opera sull’universo concentrazionario, una preziosa testimonianza raccolta a distanza di anni, ma è, soprattutto, un film sull’accecamento, sulla rottura ermeneutica tra l’atto del vedere e l’atto del sapere: dopo Auschwitz non è più possibile pensare che la vista sia una garanzia del conoscere. L’errore si pone al di là della percezione, Rossel erra con l’intelletto nel momento in cui la vista cede il passo alla credenza nella mistificazione. I nazisti, tramite l’occultamento dell’evidenza, trasformano i delegati internazionali in complici dello sterminio: Le strategie della messa in scena operate da Lanzmann in Un vivant qui passe concorrono proprio a evidenziare il progressivo e sottile scivolamento di Rossel dalla parte della giustizia a quella della complicità con il crimine. Il film inizia, in campo medio, su Rossel, seduto su di una comoda poltrona in stile Luigi Filippo, con un sigaro in mano, il volto affabile di un borghese agiato e giunto al crepuscolo della vita con serenità; Lanzmann lo interpella con grande rispetto e cortesia, definendolo sin da subito “un personaggio storico”, appellativo che Rossel accoglie con evidente soddisfazione. Il regista francese avanza le proprie curiosità, continuando a ricevere risposte precise, misurate e garbate: nella prima parte dell’intervista, Rossel non si scompone, non tradisce emozioni di sorta, non ritrae affermazioni, non entra in contraddizione con se stesso. A partire dalla seconda parte del colloquio, nel momento in cui l’incontro si sposta sul tema della visita al campo di Theresienstadt, Lanzmann

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comincia a cambiare sottilmente atteggiamento: le domande si fanno più pressanti e veloci, il tono della voce da conciliante diventa leggermente inquisitorio, dimostra di conoscere alcuni dettagli che Rossel ha apparentemente dimenticato e, carte alla mano, espone, per filo e per segno, tutto quello che il delegato della Croce Rossa non ha visto a Theresienstadt: il dottor Epstein sarebbe morto, brutalmente assassinato, tre mesi dopo la visita del comitato internazionale, l’asilo-nido era una contraddizione in termini dal momento che la politica del Reich ostacolava, tramite l’aborto coatto, le nascite, migliaia di ebrei erano stati assassinati per rendere Theresienstadt più “vivibile” e meno sovraffollata, le calorie giornaliere somministrate a ogni prigioniero erano duecento e non duemila e quattrocento come Rossel aveva riferito nel suo rapporto. Il castello di carte del delegato franco-svizzero cade in frantumi, pezzo per pezzo. Il volto di Rossel si fa più tirato, mentre il montaggio rovescia i ruoli e porta in primo piano la corpulenta figura di Lanzmann, che nella prima parte dell’intervista era rimasto quasi sempre in fuori campo. Rossel, cercando di mantenere la freddezza, dichiara di non rinnegare nulla del rapporto redatto e di sottoscrivere, oggi come allora, ogni singola parola scritta. L’ultima carta del regista francese è la lettura parziale di un documento che il dottor Epstein ha lasciato prima di venire ucciso, nel settembre del 1944, due mesi dopo la visita di Rossel, un toccante invito alla resistenza, al mantenimento della speranza nonostante la percezione della catastrofe imminente; il regista legge la prima parte del testo in fuori campo, mentre la macchina da presa scruta le reazioni sul volto di Rossel, che si fa teso e imbarazzato. In chiusura del film, Rossel è fuori campo e la macchina inquadra Lanzmann che legge le ultime parole del documento: «Avviciniamoci al nuovo anno con serietà e fiducia e con la ferma volontà di rimanere ancorati e di fare il nostro dovere», il regista francese, guardando in macchina ed escludendo il suo interlocutore, così come si esclude qualcuno che ha esaurito il suo misero compito e che quindi non serve più, conclude con queste parole: «E i nazisti l’hanno ucciso alcuni giorni dopo, per essere precisi, alla

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piccola fortezza, Kleine Festung, con una pallottola alla nuca. Le sue parole sono strazianti»; Lanzmann ripone la cartellina con il documento, ci guarda e sospira pesantemente.

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L’attenta costruzione cinematografica del racconto è tesa a escludere progressivamente Rossel dal centro dell’attenzione spettatoriale, operando in questo modo un processo di svalutazione del valore testimoniale: il delegato francosvizzero “conta sempre meno” perché le sue parole perdono progressivamente potere veridittivo, sino a diventare parole vuote, di circostanza, prive di interesse ai fini di una ricognizione storica degli avvenimenti. Un vivant qui passe si gioca interamente su questo scontro a due e sull’abilità di Lanzmann di mutare sottilmente, tramite le strategie implicite della retorica ed esplicite dell’estetica cinematografica, le posizioni di potere all’interno dello schermo. La costruzione formale del film si affida, dunque, interamente al potere significante del montaggio, mentre il contenuto del profilmico, nella sua assoluta semplicità (alternanza di campi/controcampi di Lanzmann e di Rossel e alcune brevi immagini della Theresienstadt contemporanea) assume significato teorico solo in relazione al gioco di ribaltamento psicologico operato; nel film non c’è giudizio morale, non c’è condanna esplicita, ma lo spettatore viene condotto, attraverso quella che è a tutti gli effetti una manipolazione volontaria, a condividere il giudizio negativo e il sottile disprezzo che Lanzmann nutre per il proprio interlocutore. Il gioco della finzione da elemento tematico si trasforma in elemento strutturante della messa in scena: Rossel, il vivo che passa senza vedere, viene ingannato per la seconda volta a distanza di trentacinque anni, illudendosi per un attimo di essere veramente un “personaggio storico”, talmente inetto e inutile da non riuscire a salvare neanche una vita umana.

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8. Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures 49

La seconda appendice di Shoah viene presentata al festival di Cannes nel maggio del 2001, anno particolarmente significativo, nel quale la storia sembra aver ripreso a girare pericolosamente. Il lungo titolo, Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures, fa riferimento al luogo, alla data e all’ora dell’unica rivolta riuscita all’interno di un campo di concentramento. Lanzmann registra, nel 1979, un’intervista con uno degli esponenti principali di questa rivolta, che ora vive a Gerusalemme, Yehuda Lerner. Uno degli aspetti più dibattuti della Shoah è stato la presunta passività degli ebrei di fronte alla ferocia nazista. Come mai sei milioni di persone si sono fatte uccidere senza reagire, come una mandria di pecore al macello? Come mai nessuno ha tentato di impugnare le armi, di vendicare l’assassinio di parenti e conoscenti? Lanzmann cerca, con quest’opera e con l’ampio spazio riservato in Shoah alla rivolta nel ghetto di Varsavia, di smentire questa falsa credenza, difendendo l’esistenza di nuclei ebraici di resistenza e di aperta opposizione alle vessazioni naziste. La rivolta riuscita nel lager di Sobibor, rappresenta secondo il regista francese, una tappa importante del processo di riappropriazione del potere e della violenza da parte degli ebrei, al pari della rivolta, finita nel sangue, del ghetto di Varsavia. Le tappe successive del processo di riappropriazione del potere ebraico si giocheranno tutte in Israele. Sotto questo punto di vista, esiste un legame molto stretto tra Tsahal e Sobibor: entrambi tematizzano la libertà di affermare la propria forza e individualità sui numerosi tentativi di annientamento operati dalla storia. La virulenta aggressività dei generali delle forze armate israeliane è figlia dell’orgoglio di coloro che, come Lerner, sono riusciti a rovesciare, anche se solo localmente e illusoriamente, il potere distruttivo della storia. Tsahal e Sobibor sono due opere sul coraggio e sulla conquista, tramite la violenza, di uno spazio di (r)esistenza.

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La rivolta di Sobibor diventa allora un atto simbolico: Lerner, prima di essere un sopravvissuto ai campi di sterminio, è un cittadino israeliano, che ha portato nella Terra Promessa, la coriacea forza della resistenza e dell’esistenza ad ogni costo. Se la risposta alla prima domanda del film («Aveva mai ucciso prima di allora?») è negativa, la risposta alla domanda che logicamente segue la prima («Le è capitato di uccidere ancora dopo di allora?»), sarà positiva, con “ovvio”, riferimento alle numerose guerre combattute da Lerner come soldato di Tsahal, in difesa della propria terra contro il nemico arabo. Lo scivolamento da un contesto all’altro diventa pericoloso, anche se questo passaggio non viene esplicitato dall’autore, ma rimane implicito all’interno dell’opera (del resto la stessa scelta di Lerner di parlare in ebraico e non in polacco, lingua madre dell’uomo, è indice di una rottura con il proprio luogo di origine e di una appartenenza totale a un altro contesto).

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Il racconto di Lerner segue un percorso cronologico, dal momento in cui viene prelevato dal ghetto di Varsavia, il 22 luglio 1943, giorno del suo sedicesimo compleanno, sino al dipanarsi della rivolta nel campo di concentramento di Sobibor, nell’ottobre dello stesso anno. L’uomo racconta con grande partecipazione e una buona dose di abilità istrionica, dettata anche dal fascino tutto particolare di questo cinquantenne fortunato e ammaliatore, le varie tappe del suo percorso di crescita. Il 22 luglio viene catturato da un gruppo di SS e condotto alla Umschlagplatz di Varsavia, il luogo dove venivano radunati tutti gli ebrei prima di essere deportati nei vari campi, lì vede per l’ultima volta la sua famiglia, della quale non avrà più notizia; deportato in un campo in Bielorussia viene impiegato, per la sua giovane età e per la forte costituzione fisica, in vari lavori di fatica. Lerner si rende immediatamente conto delle terribili condizioni nelle quali versavano gli ebrei nei campi e della crudeltà gratuita dei nazisti («Sparavano a caso sugli ebrei, senza nessuna ragione»), arrivando presto alla conclusione

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che ricevere una pallottola per tentata evasione sarebbe stato sicuramente più onorevole che farsi spingere in una camera a gas come un animale indifeso. Organizza, quindi, insieme a un amico, la prima fuga, viene ricatturato dopo poco e trasferito in un altro campo e così per altre sette volte. Il racconto di Lerner ha un che di miracoloso e di incredibile: un prigioniero ebreo che riesce a evadere da otto lager, viene sempre ripreso e non viene mai ucciso, ma soltanto trasferito da un luogo all’altro. Alle esclamazioni stupite di Lanzmann, Lerner risponde sibillinamente di essere stato sempre protetto da una “buona stella”. Dal ghetto di Minsk in Bielorussia, riesce a passare nell’adiacente campo di lavoro, nel quale sono prigionieri i soldati ebrei dell’Armata Rossa e nel quale le condizioni di vita sono decisamente migliori, al punto, che Lerner, pur avendo contratto il tifo, riesce anche a guarire. Ad un certo punto, i tedeschi decidono di trasferire i prigionieri di Minsk nel terribile campo di Sobibor, dal quale, come vengono avvertiti da un gruppo di polacchi lungo la strada, non si fa ritorno. Arrivato a Sobibor nel settembre del 1943 viene selezionato con altri sessanta prigionieri per lavorare all’interno del campo, mentre tutti i suoi compagni di viaggio vengono condotti direttamente nelle camere a gas. Nel giro di pochi giorni, Lerner si trova coinvolto, insieme ad altri venti ebrei, in un piano di insurrezione, capeggiato dall’ufficiale ebreo-sovietico Alexander Peczerski, consistente nell’utilizzare delle asce (ottenute come strumento di lavoro per la falegnameria del campo) per uccidere i nazisti convocati con scuse pretestuose nelle baracche del campo dove i prigionieri svolgevano le loro mansioni di lavoro. Il 14 ottobre, alle quattro in punto, il sergente delle SS Greischutz si reca nella baracca della sartoria per provare la sua nuova uniforme e cade nell’agguato: Lerner si getta su di lui, impugnando l’ascia e nel giro di pochi secondi gli spacca la testa in due con precisione millimetrica, come se avesse compiuto quel gesto

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assassino da tutta una vita, lo stesso con il secondo nazista convocato cinque minuti dopo. Alla fine, gli ebrei riescono a uccidere undici nazisti sui quindici di guardia al campo e, impossessatisi delle armi, riescono presto a piegare la difesa degli ucraini, ben più numerosi, ma poco pericolosi. Il piano ha funzionato, le porte del campo sono aperte, Lerner corre via e si rifugia nella foresta e, come nel più bel lieto fine, si addormenta. La rivolta vittoriosa di Sobibor rappresenta un caso unico nella drammatica storia della Shoah e dal racconto di Lerner filtra costantemente l’orgoglio e la soddisfazione di avervi partecipato attivamente. La strategia di costruzione narrativa messa in atto da Lanzmann è tesa, in questo caso, ad accrescere la tensione nello spettatore, che segue la vicenda di Lerner come si segue un rocambolesco film d’azione. L’ordine cronologico viene mantenuto (contrariamente a quanto accade, come abbiamo visto, in Shoah) proprio per condurre verso il raggiungimento di un climax finale collocabile nella deflagrazione della rivolta, attraverso un meccanismo di accrescimento della suspence tipicamente finzionale: «Per comprendere, bisogna dimenticare Shoah, accettare l’idea che si sta guardando un film mitologico nel quale Davide schiaccia Golia, lo riduce in poltiglia con nostra grande soddisfazione»70. Lerner è un eroe e il regista ce lo presenta come tale, senza sconti. Dalle categorie della tragedia, Lanzmann passa alle categorie del mito, della leggenda di un uomo evaso da otto campi di concentramento e a capo di una sommossa vittoriosa contro i perfidi nazisti; ecco che la trama di questa “finzione del reale”, come Lanzmann ama definire tutti i suoi film, attinge quanto mai al bagaglio delle strutture narrative classiche: una vicenda di buoni contro cattivi, con lieto fine. Tuttavia, il regista francese non cade nelle maglie della retorica spettacolare, e, ben consapevole del fascino emanato dal suo personaggio principale (questa volta Lanzmann non ruba il campo al suo protagonista, ma

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parla sempre e soltanto in off), non chiude il film sul suo volto soddisfatto e sul lieto fine tanto atteso, ma “obbliga” lo spettatore a rimanere ancorato alla sedia e ad ascoltare per sette lunghissimi minuti la lista dei «Trasporti con destinazione il campo di sterminio di Sobibor tra l’aprile 1942 e il settembre 1943», con singole date, numero di ebrei deportati e provenienza. Nell’intervista che accompagna il DVD del film, Lanzmann sottolinea come la lettura di tali dati sia stata una scelta maturata consapevolmente: se avesse fatto semplicemente scorrere la lista, il pubblico a un certo punto si sarebbe alzato dalla propria poltrona, soddisfatto dal pre-finale e annoiato da un elenco che sarebbe andato a sostituire, nell’attenzione spettatoriale, i titoli di coda; invece, la voce di Lanzmann inchioda il pubblico alla sedia, costringendolo ad ascoltare, a uscire dal rapimento “finzionale” e a riportare la vicenda di Lerner nella sfera della testimonianza, facendola uscire da quella del racconto. La forza drammatica della narrazione non deve mai oscurare il potere perturbante della trasmissione: il racconto di Lerner non esaurisce il tema di Sobibor, ma ne rappresenta una piccola parte che si va a inserire nelle migliaia di racconti muti di tutti coloro che sono giunti nel campo della morte senza riuscire a trovarne una via d’uscita. Sobibor è nello stesso tempo un’opera sulla libertà e sull’apprendimento, sull’imparare a come essere liberi anche all’interno di un meccanismo infernale finalizzato alla distruzione dei corpi e di qualsiasi spinta vitalistica. Secondo Lerner la libertà si relaziona alla scelta della propria morte, al preferire un colpo di pistola alla camera a gas, alla volontà di affermare la propria volontà nonostante i tentativi che vengono fatti per annientarla. Lerner non giudica coloro che non hanno trovato in se stessi la spinta della libertà (non va dimenticato che la speranza è un motore altrettanto forte), ma racconta la propria esperienza perfettamente consapevole dell’eccezionalità del proprio destino;

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eccezionalità che sembra configurarsi anche dietro il nome dell’uomo, Lerner, un nome-presagio, che in tedesco significa “colui che impara”: Lerner impara attraverso gli strumenti che i tedeschi gli forniscono: impara a evadere dai campi di lavoro nei quali viene ripetutamente inviato, impara a guarire dal tifo attraverso le cure e il nutrimento che i tedeschi indirettamente gli forniscono, impara a uccidere attraverso le asce che essi gli procurano per lavorare il legno; impara a evadere con le armi che erano in possesso delle SS: ogni passo verso la libertà è, paradossalmente, favorito dal nemico stesso. Lerner impara ad appropriarsi della violenza dell’avversario anche per insegnare agli ebrei che esiste una possibilità per riaffermare la propria individualità e libertà nel mondo, uscendo dalla spirale di sopraffazione nella quale il popolo ebraico versa da secoli. Lanzmann, attraverso un’attenta strategia di messa in scena, cerca proprio di far emergere la straordinarietà del percorso umano di Lerner, spingendolo a descrivere nel dettaglio il suo vissuto, anche laddove il dettaglio sembra irrilevante e superfluo, basti pensare alla questione dell’arma utilizzata per assassinare i tedeschi, l’ascia; il regista francese chiede com’era quest’ascia, invitando Lerner a descriverla, quest’ultimo risponde, un po’ stizzito, che era un’ascia come tutte le altre, che non aveva niente di particolare («E come erano queste asce?» – «Che cosa vuol dire, “come erano queste asce?”, come tutte le asce! [...] Esse erano particolarmente piccole, ma soprattutto erano molto appuntite»). Come sottolinea Raphael Toledano: Il regista francese, fedele all’insegnamento minimalista dello storico Raoul Hilberg, riesce a far emergere dalla descrizione del dettaglio la visione dell’insieme; anche nel momento in cui sembra fare domande poco rilevanti, Lanzmann sta forzando il racconto verso la realtà, sta riconducendo la dimensione dell’affabulazione all’interno dell’esperienza del quotidiano, nel quale siamo immersi materialmente e nel quale troviamo più facilmente un contatto con un’ascia («un’ascia, come tutte le asce») che con un eroe

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sopravvissuto all’unica rivolta riuscita in un campo di sterminio: è attraverso l’ascia che passa il nostro rapporto con la storia. È attraverso il dettaglio materiale, riconducibile alla nostra esperienza quotidiana che possiamo avvicinarci all’indescrivibile tragedia della Shoah.

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In Sobibor convivono tre dimensioni temporali: il 1943, cui fa riferimento esplicito il titolo e nel quale si situano gli avvenimenti narrati; il 1979, l’anno in cui è stata registrata l’intervista a Yehouda Lerner, in occasione della preparazione di Shoah; il 2001, anno di realizzazione del film e delle riprese effettuate in Polonia e in Bielorussia, secondo la struttura racconto del passato-immagine del presente già sperimentata da Lanzmann nel film-matrice del 1985. Le prime tre inquadrature del film mettono simbolicamente in relazione questi tre tempi: una foto d’archivio che ritrae un gruppo di SS che rende onore alle bare dei loro “compagni” deceduti durante la rivolta; il primo piano di Lerner che risponde negativamente alla domanda di Lanzmann («Aveva mai ucciso prima di allora?»); una lenta panoramica su di un paesaggio campestre, a rappresentare che cosa è diventato il campo di Sobibor a distanza di quasi sessanta anni e sulla quale scorrono i titoli di testa. In seguito, per ben tredici minuti, ascoltiamo il racconto di Lerner, senza vedere il suo volto (che ci era stato mostrato solo brevemente nell’inquadratura di apertura): la macchina da presa scivola sui luoghi descritti (il ghetto di Varsavia, la piazza nella quale venivano radunati gli ebrei da internare, la ferrovia lungo la quale correvano via i treni della morte, i campi successivamente “visitati” da Lerner), così come appaiono oggi, una contemporaneità diversa da quella del 1985, quando ancora la memoria istituzionalizzata/istituzionalizzante non aveva iniziato la sua azione di mascheramento dell’oblio; oggi a Sobibor c’è un piccolo museo che vent’anni fa non c’era ancora e che conserva anche i documenti della rivolta del 14 ottobre: se

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Lanzmann realizzasse oggi Shoah si troverebbe di fronte a una serie di tappe turistiche codificate da una memoria in costruzione che ha trasformato lo sterminio ebraico in un percorso da caccia al tesoro, ogni luogo ha la sua targa, il suo indizio, il suo piccolo museo, il suo biglietto d’ingresso. Sobibor è l’espressione più autentica dell’impossibilità di circoscrivere la memoria concentrazionaria all’interno di uno spazio rappresentativo, museale, tuttavia, come rileva Michele Fadda: La nuova storiografia, il nuovo modo di rispettare la memoria storica passa attraverso il rifiuto netto della sterile commemorazione, attraverso la rivalutazione del testimone e del suo essere nel mondo come monito vivente e non come “monumento” di un passato ormai sepolto.

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A una prima parte che si focalizza sullo spazio geografico, lasciando in secondo piano il volto di Lerner, ne segue una seconda che abbandona parzialmente lo spazio per focalizzarsi sul racconto del testimone, facendo leva sulla plasticità espressiva del racconto stesso (basti pensare al momento in cui Lerner mima il colpo inferto con l’ascia sulla testa del tedesco e la macchina da presa segue con un sussulto il gesto della mano). La geografia si trasferisce sul volto dell’eroe, che diventa una mappa espressiva estremamente affascinante. Il tempo e lo spazio agiscono in simbiosi nell’attento lavoro di elaborazione del suono; basti citare, a titolo di esempio, la sequenza delle oche: Lerner racconta che i nazisti per coprire le grida disperate degli ebrei condotti a morire nelle camere a gas, gettassero scompiglio in mezzo a un gruppo di oche, in modo tale che gli starnazzamenti di quest’ultime sovrastassero il volume dei condannati. I contadini polacchi raccontano a Lanzmann lo stesso episodio. Il regista francese decide allora di riprendere, a distanza di anni, pur tra molti dubbi sull’effettiva “utilità” di questa illustrazione, la medesima scena, pensando poi, di eliminarla in fase di montaggio. Vale

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la pena, per comprendere la metodologia di lavoro sull’immagine, trascrivere i dubbi di Lanzmann sull’inserimento di questa sequenza che il regista francese arriva a definire “oscena”: Le grida delle oche non sono più un’illustrazione di un crimine passato, ma la materializzazione di uno scontro che si gioca nel presente, tra la voce di Lerner e le grida degli animali, che non vanno a coprire metaforicamente la sofferenza di chi è morto nel passato, ma di chi è ben vivo nel presente. La lotta non si gioca più tra l’oscena evocazione delle oche di un tempo e i lamenti dei moribondi, ma tra un gruppo di oche nella Polonia del 2001 e un uomo vivo e vegeto che nelle grida degli animali percepisce una minaccia ancora ben presente a distanza di decenni. L’illustrazione, fredda cartolina da un tempo passato, lascia il posto alla rappresentazione, figurazione di un pericolo mai scampato, fusione del senso e dell’immagine. Le oche di Sobibor, ci vuole dire Lanzmann, possono tornare a coprire la voce degli uomini in qualsiasi momento. Nel momento in cui le oche tacciono, nell’inquadratura che segue, il loro silenzio diventa quanto mai irreale, una pausa nello scorrere del tempo, un momento di incredulità e di sospensione, un’occasione di riflessione, al punto che, dopo aver visto Sobibor, le grida delle oche evocheranno per sempre nello spettatore l’esperienza concentrazionaria, nel suo pericoloso perpetrarsi nel tempo. Con le oche, l’immagine topica dello sterminio, ripetuta all’infinito in Shoah, e molto presente anche in Sobibor, è quella della solida struttura del treno che passa energicamente sulle rotaie, con il suo ambiguo carico. Dai vagoni, evocati da Lerner, sorge l’immagine della foresta, con il fogliame che, per la velocità, diventa un indistinto gioco di luci e di ombre; Lanzmann ci offre un lungo carrello laterale su questa foresta, una sorta di soggettiva dislocata nel tempo e la cui forza emotiva è stata sottolineata anche da Raymond Bellour:

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L’immagine indistinta di quello che, forse, i deportati potevano vedere lungo il viaggio della morte, produce nello spettatore una scossa interiore dettata dall’assoluta referenzialità dell’immagine stessa; se il suono non ha quadro e viaggia con più facilità attraverso le dimensioni temporali, l’immagine è sempre all’interno del quadro, sempre presente a se stessa, senza possibilità concessive, come ama ripetere Lanzmann. Lo scorrimento del treno (le défilement) e lo scorrere dell’immagine, fotogramma per fotogramma, si trovano simbolicamente uniti. Il treno così fortemente legato allo sterminio, mezzo privilegiato per portare a termine la distruzione di un intero popolo e il cinema, mezzo di riproduzione dell’immagine, l’immagine che il folle piano nazista voleva distruggere si ritrovano insieme nel cinema di Claude Lanzmann: un cinema di treni e di immagini, svincolati dal passato, pericolosamente ancorati al presente. Perché al pari della pellicola, i treni non hanno mai realmente smesso di scorrere. © Edizioni Kaplan, 2007 Conditions d’utilisation : http://www.openedition.org/6540

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Référence électronique du livre PERNIOLA, Ivelise. L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann. Nouvelle édition [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.171. Compatible avec Zotero

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Conclusioni p. 188-190

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Il cinema di Claude Lanzmann non è un cinema della memoria. I cinque film realizzati dall’intellettuale francese non sono rievocazioni di un passato lontano, né reportage volti all’approfondimento di natura didattica su di un determinato argomento. I film di Lanzmann sono l’espressione più autentica di una memoria che si fa racconto al presente, di una testimonianza che assume forza perché decentrata rispetto a un passato non condivisibile e focalizzata su di un presente tangibile, sperimentabile anche da chi ascolta in quanto spettatore; non c’è distanza, ma convivenza all’interno di un medesimo orizzonte umano. Sia nei film dedicati alla delicata questione israeliana che in

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quelli centrati sulla tragedia dello sterminio ebraico, Lanzmann evita l’approccio falsificante della buona coscienza umanitaria, atteggiamento così frequente ai giorni nostri; non c’è mai ripiegamento sentimentale, autocommiserazione, abuso dell’eufemismo linguistico o dell’immagine-emozione, la realtà viene descritta con i termini crudi della materia e la sua rappresentazione passa attraverso l’opacità del quotidiano (immagini quasi sempre “banali”, rifiuto dell’effettismo estetico). Il cinema di Claude Lanzmann non è un cinema di immagini-feticcio, ma è un cinema che trasforma il pensiero in discorso sulle immagini: sotto questo orizzonte si può comprendere meglio la scelta “iconoclasta” dell’intellettuale francese. Lanzmann rifiuta alcune categorie di immagini, ovvero quelle che impediscono allo spettatore di pensare, sommergendolo con l’oscenità dell’emozione (un’emozione estorta attraverso il ricorso volontario all’immagine-effetto), mentre tutto il suo lavoro è teso alla produzione di un’esperienza spettatoriale filtrata dalla ragione e dalla comprensione degli avvenimenti. Comprensione e immedesimazione sono le parole chiave dell’esperienza che Lanzmann offre al suo pubblico: comprensione, nel senso di presa totale sulla realtà, consapevole che il reale non è un settore del presente, ma l’unione inscindibile di momenti storici dislocati nel tempo e nello spazio; immedesimazione non nella debolezza, nel pianto, nel momento di frammentazione emotiva del testimone, ma nella forza, nella sopravvivenza, nel valore e nella fede della testimonianza come unico viatico per la trasmissione di un sapere, di una conoscenza, di una esperienza di vita. Il cinema di Lanzmann non è “solo” il cinema della Shoah, dell’Olocausto, come ancora alcuni preferiscono denominare la più grande tragedia del ventesimo secolo, ma è una continua riflessione, un work in progress di carattere squisitamente intellettuale, sul potere del cinema, sui valori della libertà, della resistenza, della

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politica, della guerra e della strategia per la sopravvivenza; ognuna di queste tematiche si ripresenta di film in film, evidenziando come tutte e cinque le opere del regista francese siano, in fondo, un’unica grande riflessione sul cinema come urgenza del pensiero. Il cinema come unica forma d’arte in grado di fare presa fisicamente, materialmente sulla realtà; unico mezzo che ripropone all’infinito la stessa immagine senza sconti, senza tagli, senza l’apertura di parentesi. Ogni immagine, nel cinema di Claude Lanzmann, vive per sé, nel tempo e nello spazio. Ogni immagine è un monito, un rimprovero, un invito a ricordare non il racconto ascoltato, ma l’esperienza vissuta in quanto spettatori, l’atto del vedere. Ogni immagine di Lanzmann è un’immagine-affermazione, alla quale non vi è diritto di replica, ma solo l’espressione di un urgenza d’ascolto non mediato, immediato e quindi fortemente politico. In quanto per il regista francese, il ruolo politico dell’uomo contemporaneo si può riassumere nell’urgenza di essere nel mondo e di capirne gli snodi, i cambiamenti, le mutazioni e nel non lasciarsi manipolare da un potere che tende, ormai da decenni, a trasformare gli esseri umani in semplici pedine biologiche da muovere (gli eserciti che combattono in Tsahal), eliminare (il tragico destino del popolo ebraico in Shoah) o spostare (la sorte degli ebrei della diaspora in Pourquoi Israel) a proprio piacimento. L’uomo, in quanto animale politico, deve avere in mano il proprio destino, la possibilità di scegliere e di affermare la propria volontà (come Yehouda Lerner in Sobibor), anche quando questa presa di coscienza deve passare attraverso il cinema, arte che insegna a vivere a partire dall’esperienza di chi ha già vissuto e che non concede l’apertura di nessuna parentesi. © Edizioni Kaplan, 2007 Conditions d’utilisation : http://www.openedition.org/6540

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Référence électronique du livre PERNIOLA, Ivelise. L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann. Nouvelle édition [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.171. Compatible avec Zotero

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Bibliografia analitica p. 191-197

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3. Interventi di Claude Lanzmann (riviste) Claude Lanzmann, Tel qu’en lui-même enfin, «Les Temps Modernes», 83, 1952. Claude Lanzmann, L’homme de gauche, «Les Temps Modernes», 112-113, 1955. Claude Lanzmann, Le curé d’Uruffe et la raison d’église, «Les Temps Modernes», 146, 1958. Claude Lanzmann, La grève de la faim, «Les Temps Modernes», 187, 1961. Claude Lanzmann, Misrahi et la “Condition réflexive de l’homme juif”, «Les Temps Modernes», 225, 1965. Claude Lanzmann, De l’Holocauste à ‘Holocauste’, «Les Temps Modernes», 395, 1979. Claude Lanzmann, Le temps de la deraison, «Les Temps Modernes», 411, 1980. Claude Lanzmann, La Reconnaissance, «Les Temps Modernes», 429, 1982. Claude Lanzmann, Un criminel de guerre vous parle: brève réponse à Elisabeth de Fontenay, «Les Temps Modernes», 436, 1982. Claude Lanzmann, Le lieu et la parole (intervista con Marc Chevrie e Hervé Le Roux), «Cahiers du Cinéma», 374, 1985. Claude Lanzmann, Sartre: le courage et la lucidité dans l’engagement, «Les TempsModernes», 471, 1985. Claude Lanzmann, Pour Salman Rushdie, «Les Temps Modernes», 513, 1989. Claude Lanzmann, Holocauste, la représentation impossible, «Le Monde», 3, 1994. Claude Lanzmann, La mia inchiesta in Polonia, «Qualestoria», 1-2, 1994. Claude Lanzmann, Cinquante ans, «Les Temps Modernes», 587, 1996. Claude Lanzmann, Ne pas comprendre a été ma loi d’arain, «Le Monde», 12 juin 1997. Claude Lanzmann, Notes ante et anti eliminationnistes, «Les

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Temps Modernes», 592, 1997. Claude Lanzmann, intervista di Gregory Catella e Roberto Chiesi a Claude Lanzmann, La verità e l’incarnazione di Shoah, «Carte di Cinema», I, 1, 1999. Claude Lanzmann, Shoah, Bompiani, Milano, 1987, II ed. Tascabili Bompiani, 2000. Claude Lanzmann, Sur le courage, intervista realizzata con Patrice Blouin, Franck Nouchi e Charles Tesson, «Cahiers du Cinéma», 561, 2001. Claude Lanzmann, La haine originaire, «Les Temps Modernes», 618, 2002. © Edizioni Kaplan, 2007 Conditions d’utilisation : http://www.openedition.org/6540

Référence électronique du chapitre PERNIOLA, Ivelise. Bibliografia analitica In : L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.197.

Référence électronique du livre PERNIOLA, Ivelise. L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann. Nouvelle édition [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.171. Compatible avec Zotero

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| Ivelise Perniola

Filmografia p. 198-200

Texte intégral

1972 – Pourquoi Israel Fotografia: William Lubtchansky Suono: Bernard Aubouy Montaggio: Françoise Belloux e Ziva Postec Coproduzione: Vera Belmont con la partecipazione di Parafrance e Stephan Films Durata: 195’ Formato: 35mm.

1985 – Shoah

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Fotografia: Dominique Chapuis, Jimmy Glasberg e William Lubtchansky Suono: Bernard Aubouy e Michel Vionnet Montaggio: Ziva Postec Assistenti alla regia: Corinna Coulmas e Irène SteinfeldtLevi Coproduzione: Les Films Aleph, Historia Films con la partecipazione del Ministère de la Culture Durata: 730’ Formato: 35mm.

1994 – Tsahal Fotografia: Dominique Chapuis, Pierre-Laurent Chenieux, Jean-Michel Humeau Suono: Bernard Aubouy Montaggio: Sabine Mamou Assistente alla regia: Irène Steinfeldt-Levi Coproduzione: Les Productions Dussard in associazione con Les Film Aleph, West Film, France 2 Cinéma e Westdeutscher Rudfunk (WDR) Durata: 316’ Formato: 35mm.

1997 – Un vivant qui passe Fotografia: Dominique Chapuis, William Lubtchansky con la collaborazione di Caroline Champetier Suono: Bernard Aubouy Montaggio: Sabine Mamou con la collaborazione di Michael Rosenfeld Assistente alla regia: Corinna Coulmas Coproduzione: Les Films Aleph-Cinétévé in associazione con La Sept Arte Durata: 65’

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Formato: 35mm.

2001 – Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures Fotografia: Caroline Champetier, Dominique Chapuis Suono: Bernard Aubouy Montaggio: Chantal Hymans, Sabine Mamou Coproduzione: Why Not Productions – Les Films Aleph – France 2 Cinéma con la partecipazione di Canal + e di France Télévision Images Durata: 95’ Formato: 35mm. Sélection officielle – Cannes 2001 © Edizioni Kaplan, 2007 Conditions d’utilisation : http://www.openedition.org/6540

Référence électronique du chapitre PERNIOLA, Ivelise. Filmografia In : L’immagine spezzata : Il cinema di Claude Lanzmann [en ligne]. Torino : Edizioni Kaplan, 2007 (généré le 27 août 2018). Disponible sur Internet : . ISBN : 9788889908891. DOI : 10.4000/books.edizionikaplan.201.

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