Il cinema rovente di Umberto Lenzi 8876068570, 9788876068577

Umberto Lenzi ha affrontato tutti i generi nella sua prolifica carriera negli anni d’oro del cinema italiano: dal cappa

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Il cinema rovente di Umberto Lenzi
 8876068570, 9788876068577

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EDIZIONI IL FOGLIO CINEMA

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Edizioni Il Foglio Direttore: Gordiano Lupi Collana “La cineteca di Caino” www.edizioniilfoglio.com Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI) © Edizioni Il Foglio - 2021 1a Edizione - Luglio 2021 ISBN Elaborazione grafica e impaginazione | Jessica Maccario

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DAVIDE MAGNISI GORDIANO LUPI MATTEO MANCINI

Il cinema rovente di UMBERTO LENZI

Edizioni Il Foglio

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I PARTE

LA FILMOGRAFIA COMMENTATA a cura di

GORDIANO LUPI

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Capitolo Primo Vita e opere di Umberto Lenzi Sintesi ragionata di una vita per il cinema

Umberto Lenzi (Massa Marittima, 6 agosto 1931- Roma, 19 ottobre 2017), nasce da una famiglia della piccola borghesia massetana, di piccoli commercianti, il nonno era un ricco commerciante di vino e olio, il padre (nativo di Follonica, come la madre) è proprietario di un macello. La sua casa è un luogo dove si respira cultura, si legge molto, il padre e la madre vogliono che i figli studino e ottengano la laurea. Umberto cresce tra letture avventurose, ama Salgari – che porterà sul grande schermo – e da ragazzino frequenta il cinema di seconda visione della sua cittadina. Umberto vede Forza bruta di Jules Dassin al Cinema Roma di Massa, nel 1947, ed è subito amore per la settima arte; studia al liceo classico, il viareggino Angelo Gianni è l’insegnante che contribuisce alla sua formazione cinefila, perché non si limita a insegnare italiano. Angelo Gianni proviene dal Centro Sperimentale, trasmette al giovane studente la sua passione, porta in provincia registi come Renè Clair ed Ejzenstejn. Gianni fa proiettare a Massa Marittima The Lodger (Il pensionante), un noir su Jack lo squartatore diretto da John Brahm, spiegando il montaggio come l’anima del film. Il giovane Umberto Lenzi è tra i fondatori del circolo del cinema a Massa, collabora con Carlo Cassola e Luciano Bianciardi, conosce Vasco Pratolini, presentano film insieme nella città mineraria. Lenzi studia giurisprudenza a Pisa, poi si trasferisce a Roma per frequentare il Centro Sperimentale, sostiene un esame con Mario Verdone, va a scuola di sceneggiatura da Giorgio Prosperi e di regia da Alessandro Blasetti, per diplomarsi regista nel 1956 con un corto intitolato I ragazzi di Trastevere, una storia molto pasoliniana sui giovani della borgata. Il breve film è ispirato alla lettura di Ragazzi di vita ed è il reperto di una Roma popolare che non esiste più, frutto anche di un incontro con Pier Paolo Pasolini che Lenzi rivedrà in Marocco nel 1969. Scrive di cinema su Bianco e Nero, subito dopo confeziona un cortometraggio di ambientazione maremmana: Dalle tenebre al mare (1955), fotografato da Angelo Sciarra, aiutato per la regia da Cesar Merolo junior, un brasiliano, collega al Centro Sperimentale. Il corto fa intuire potenzialità 7 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sociali per un regista che invece si dedicherà al cinema di pura azione, sia per la grande attenzione verso il paesaggio delle colline metallifere che per la documentazione fotografica della più lunga teleferica mineraria d’Italia, capace di portare il prezioso elemento dal sottosuolo al mare. Notevole la colonna sonora – sigla di testa e di coda – che riproduce i versi popolari di Maremma amara, parole e musica tradizionali, tristi e suadenti. Ricordiamo il Duomo di Massa Marittima, le donne ai lavatoi, il lavoro nei campi con buoi e aratri, quindi l’ingrata giornata dei minatori massetani e il trasporto del minerale alle navi con la teleferica. Una buona prima prova, che segue il saggio di diploma sui borgatari di Trastevere, anticipando di poco il vero debutto alla regia in un lungometraggio di produzione greca: Vacanze ad Atene (1958), non distribuito in Italia. Poco prima presenta a Massa Marittima Il ferroviere, insieme a Pietro Germi e al musicista Rustichelli e recita una particina in Amore e chiacchiere (1957) di Blasetti. Lavora in Raw Windin Eden di Richard Wilson interpretato da Jeff Chandler, girato tra Castiglion della Pescaia e Punta Ala, interpretato da Esther Williams e Rossana Podestà, un’esperienza importante anche se il film non va bene. Lenzi viene invitato ad Atene da un produttore greco di origini toscane, dove gira quello che ha sempre definito un reperto archeologico della mia filmografia: Mia Italida Stin Ellada (1958), di cui abbiamo parlato poco prima e che viene tradotto come Vacanze ad Atene, una futile commediola turistica allora di moda. Protagonista Wandisa Guida, molto nota come attrice di peplum e di melodrammi insieme a Claudio Villa, un buon successo in Grecia, nessuno l’ha vista in Italia. Lenzi fa l’aiuto regista e lo sceneggiatore ma anche l’assistente per piccoli film commerciali come La moglie squillo, Apocalisse sul fiume giallo, Costantino il grande di Lionello De Felice, alcuni musicarelli di Piero Vivarelli. Il terrore dei mari di Domenico Paolella lo vede aiuto regista in un film di pirati, addirittura sostituisce il regista sul set quando deve affrontare problemi di salute. Fortunato Misiano della Romana Film vede Lenzi in azione e gli piace molto il suo stile deciso, al punto che lo scrittura per dirigere Le avventure di Mary Read (1961), un puro cappa e spada che tanto piace ai ragazzini, pagandolo due milioni e cinquecentomila lire. Lenzi abbandona il sogno di fare cinema d’autore e si trova sul lago di Garda a girare un film di pirati con Lisa Gastoni e un giovanissimo Fabio Testi. Poco dopo Lenzi gira Duello sulla Sila, un tentativo di realizzare un western all’italiana, ambientato nell’800, nel Regno delle Due Sicilie, girato nella Tuscia viterbese, a Ronciglione. I corsivi sono parole del regista che a proposito del successivo Caterina di Russia 8 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ricorda: Ebbi a disposizione centinaia di comparse, bellissimi costumi d’epoca e grandiose scenografie. Negli anni Sessanta, in tutta la prima parte della sua carriera, si apprezza un puro cinema avventuroso, soprattutto una rilettura di Emilio Salgari prima di Sergio Sollima. Giorgio Venturini nel 1963 gli propone un dittico salgariano, titoli che abbiamo visto molti anni fa nei cinema di seconda visione: Sandokan, la tigre di Mompracem – interpretato da Steve Reeves, controfigurato da Giovanni Cianfriglia in tutte le scene d’azione – e I pirati della Malesia. Ricorda Lenzi: Reeves aveva un fisico perfetto, una muscolatura da dio greco e una faccia molto bella con gli occhi azzurri. Era un culturista da peplum. Come attore un bamboccione, legnoso, inespressivo, si muoveva come un robot. Il primo film viene girato in una poco ospitale Ceylon, il secondo a Singapore; Lenzi porta solo Cianfriglia nei luoghi pericolosi, quindi fa i primi piani di Reeves a Roma. L’attore ha una moglie polacca che lo controlla in ogni movimento ed è gelosissima della protagonista, la bella e affascinante Genevieve Grad. Nel secondo film la sua controparte femminile è la bellissima Jacqueline Sassard che Lenzi ricorda per gli occhi da cerbiatto e i lunghi capelli neri, così come ricorda che il suo miglior film di questo periodo è La montagna di luce, girato a Singapore in piena guerra civile. Sono interessanti i lavori a imitazione del fenomeno James Bond, film di spionaggio come A 008 operazione sterminio, Superseven chiama Cairo e Le spie amano i fiori, che scrive e sceneggia. Non amo questi film, di pura imitazione, fatti per un pubblico di bocca buona. Salvo solo le scene d’azione e le musiche del maestro Angelo Francesco Lavagnino, ricorda Lenzi. Kriminal (1966) è un giallo stile spy-story, in parte thriller, ma anche cinema - fumetto, a nostro parere la sua prima opera di un certo interesse. I film bellici, invece, sono per Lenzi la cosa che più apprezza tra i lavori del periodo, perché riflettono la mia grande passione per la storia contemporanea, che risale alla mia gioventù, sono specchio delle mie letture e dei miei approfondimenti, perché avrei voluto fare il docente di storia, se non avessi fatto il regista. I film di guerra diretti da Lenzi sono concepiti con una forte connotazione avventurosa e sono privi di ruoli stereotipati. La legione dei dannati si avvale della collaborazione di un giovane Dario Argento (al tempo critico di cinema di Paese Sera) e di un soggetto ispirato a I cannoni di Navarone di Stefano Rolla (aiuto regista), morto a Nassiriya nel 2003, durante un attentato contro la base militare italiana. Un intenso Jack Palance è il protagonista di un buon film, che in Spagna esce come La brigada de los condenados e nei paesi anglofoni come Desert Commandos. Ricordiamo anche Attentato ai tre grandi e Il grande attacco, che vede interpreti Henry Fonda, Helmut Ber9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ger, John Huston, Stacy Keach e persino Edwige Fenech (Mi fu imposta dal produttore, ricorda Lenzi). Stefano Rolla, di cui abbiamo già parlato, è aiuto regista anche ne Il grande attacco. Hank Milestone, regista di Contro quattro bandiere, coproduzione italo - franco - spagnola è Lenzi sotto falso nome. La storia è la passione di Lenzi, la sua ragione di vita, al punto che nel tempo libero si occupa di guerra civile spagnola, colleziona tutto quello che trova sul mercato riferito a tale argomento. Lenzi vede i luoghi della guerra, legge molti libri, soprattutto Hugh Thomas (Storia della guerra civile spagnola) e vorrebbe girare un film su quella che considera la sola vera rivoluzione sociale del Novecento, ma non trova adeguati finanziamenti. Il suo pensiero libertario e anarchico è figlio della guerra civile spagnola, di Enrico Malatesta e di Luciano Bianciardi. Una svolta nella carriera di Lenzi si registra sul finire degli anni Sessanta, quando avviene il suo incontro con il giallo duro, l’hard boiled americano, ma anche con il giallo psicologico alla Simenon. Il nostro regista ama il noir americano (Dashiell Hammett, Raymond Chandler) e vorrebbe realizzare al cinema atmosfere simili, cosa che viene naturale dopo aver incontrato Carrol Baker. Il vero nome della diva di Hollywood è Karolina Piekarski (nata il 28 maggio del 1931), donna affascinante, ex ballerina, ha appena interpretato Babydoll di Elia Kazan e L’uomo che non sapeva amare di Edward Dmytryk. L’attrice si trova a lavorare in Italia in seguito a contrasti economici con la Paramount, stanca di interpretare donne belle e fatali, incontra Marco Ferreri e gira con lui L’harem, primo film italiano. Carrol Baker diventa il volto iconico del giallo psicologico di Lenzi, un sex-symbol che posa senza veli, quando il caso lo richiede, cosa insolita per una diva di Hollywood. Ricorda Lenzi: Quando me la presentarono legammo subito. Era molto professionale. Accettava di girare scene più spinte per il mercato estero, infatti dei suoi film circolano due versioni, quelle italiane sono più caste, mentre nelle altre si partiva con il motto giù le mutande! I suoi gialli riscuotono un grande successo, insoliti e provocanti sin dai titoli, soffusi di erotismo e sensualità. Orgasmo è il mio miglior film, di sicuro il mio miglior giallo, dice Lenzi. Ugo Moretti collabora per la scrittura. Il giallo è un genere che lo vede molto attivo – soprattutto nel thriller erotico – con i fondamentali Orgasmo, Così dolce… così perversa e Paranoia, seguiti da thriller più o meno argentiani come Un posto ideale per uccidere, Sette orchidee macchiate di rosso, Il coltello di ghiaccio, Spasmo e Gatti rossi in un labirinto di vetro. Il regista ricorda l’ultimo lavoro perché Martine Brochard riesce a recitare per tutto il film con un occhio fisso, che simulava un oc10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

chio di vetro. Nel periodo in cui Lenzi si dedica al giallo psicologico ottiene il divorzio da una regista greca con la quale si era sposato da giovane e può sposare quella che sarà la compagna di una vita, la madre di sua figlia, la croata Olga Pehar (Zagabria, 1938 - Roma, 2015), che rappresenta una lunga storia d’amore. Ricordiamo la Pehar come sceneggiatrice (Karate rock, Sulle tracce del condor, Paura nel buio, Il ragazzo dal kimono d’oro, Navigatori nello spazio…) – non solo per i film del marito – ma anche attrice in Gatti rossi in un labirinto di vetro e come segretaria di edizione in Paura nel buio (1989), Il ragazzo dalle mani di acciaio (1990) e Caccia allo scorpione d’oro (1991). Non esiste genere che Lenzi non abbia frequentato, dal poliziesco al giallo, passando per horror e fantastico, avventuroso puro e bellico. Comincia l’era del poliziottesco. Napoli violenta (1976), interpretato da Maurizio Merli, girato nel cuore di Napoli con inseguimenti alla Lenzi, vera cifra stilistica del regista, frenetiche scorribande nel cuore di Napoli, per le vie cittadine e persino sulla funicolare di Montesanto, in una sequenza spettacolare girata di giorno e dal vero, con la struttura temporaneamente chiusa. Io e Merli rischiammo la vita abbarbicati sul vagone e con i fili dell’alta tensione a un metro dalla testa, ricorda Lenzi. A Napoli riscuote un successo strepitoso: 55 milioni di lire in due cinema nel primo week-end di agosto, in un periodo storico in cui il biglietto costava 1.800 lire. Da Corleone a Brooklyn (1979), interpretato da Maurizio Merli e Mario Merola, è il poliziesco a cui Lenzi è più affezionato. Merola è un boss mafioso che sfugge oltre oceano alla polizia italiana, per questo in parte viene girato a New York. Ricorda Lenzi: Merola conosceva l’amante di un noto boss, François Tieri, un suo grande ammiratore, che aiutava i cantanti e gli attori italiani, era una vera potenza nel suo quartiere. Ordinò feste in onore di Merola e della troupe alle quali era impossibile sottrarsi, inoltre grazie al boss fu possibile girare alcune scene in luoghi proibiti e in costosi ristoranti. Nel periodo 1977 - 1980, Lenzi gira due kolossal di guerra grazie ai produttori Luciano Martino e Mino Loy; il primo è Il grande attacco, scritto con Cesare Frugoni, il secondo Contro 4 bandiere, prodotto da Edmondo Amati. Sono film dotati di cast notevoli che Lenzi apprezza e ricorda con affetto: Furono buoni successi all’estero ma non in Italia dove il cinema di guerra non ha mai avuto presa sul grande pubblico. Il poliziottesco lo rende famoso (Roma a mano armata, Milano odia: la polizia non può sparare), ma si occupa anche di horror (La casa 3, Le porte dell’inferno), inventa il genere cannibalico (Il paese del sesso selvaggio) e si dedica su commissione a produzioni formato esportazio11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne. Tomas Milian è il protagonista simbolo di un sottogenere basato sul personaggio de Er Monnezza (Il trucido e lo sbirro, La banda del gobbo) che inaugura un sodalizio abbastanza duraturo con il regista maremmano, nonostante siano due uomini dai caratteri difficili che si lasceranno per il tradimento di Milian che interpreterà un film diretto da Stelvio Massi (La banda del trucido). Maurizio Merli è un altro attore importante per Umberto Lenzi, guidato in lavori basilari del poliziottesco come Napoli violenta e Il cinico, l’infame, il violento. Lenzi predilige Merli per i suoi film non perché è un ottimo attore, ma perché ne ammira la bravura e il coraggio nel fare tutte le scene di azione senza la controfigura, a rischio del pericolo, a volte facendosi male sul serio, il tutto con estrema professionalità. Milian, invece, spesso rappresenta un problema, non riesce neppure a stare in sella a una moto, come ricorda Lenzi parlando de Il giustiziere sfida la città che ha una lavorazione molto problematica. Lenzi non ama l’horror ma negli anni Ottanta frequenta il genere girando prodotti dignitosi, tra i quali spicca Incubo sulla città contaminata, un cult per Tarantino, ispirato a Zombi di Romero ma dotato di una ben precisa originalità. Un genere insolito come il cannibalico – che Lenzi definisce alimentare – lo vede in primo piano con Mangiati vivi! (1980) e Cannibal ferox (1981), censurati e disprezzati da tutti, persino dal regista. I cannibalici sono i film da lui meno amati: I cannibalici li ho fatti per motivi alimentari. All’estero sono piaciuti molto, facevano la fila per vederli; devo dire che ci ho campato di rendita per dieci anni, ma erano una cazzata. Finisce sempre così: le cose che amiamo di più non sono quelle che amano gli altri. Mi vergogno di aver girato quei film. Cannibal ferox e Mangiati vivi! scatenarono polemiche con gli animalisti e tra Lenzi e la scrittrice Anna Maria Ortese, seguace del movimento, una radical chic che probabilmente girava in pelliccia e mangiava porcellini arrosto ma aborriva le scene realistiche girate nella giungla. Negli anni Ottanta Lenzi dirige pellicole atipiche per il suo stile come un apocrifo Pierino la peste alla riscossa e il comico Cicciabomba. Cinema di chiara imitazione è La guerra del ferro - Ironmaster, un polpettone indigesto basato sulla scoperta del ferro da parte di una tribù primitiva. Protagonista Sam Pasco, un culturista americano. Un film fantasy con scene memorabili girate in South Dakota, nel Custer State Park, in mezzo a natura incontaminata per 287 Kmq, vicino al Monte Rushmore con le teste dei quattro presidenti americani scolpite nella roccia. Alcune scene le riprendemmo in mezzo a un’enorme mandria di bisonti con l’aiuto dei ranger locali, ricorda il regista. Alla fine degli anni Ottanta comincia la crisi produttiva del cinema po12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

polare. Lenzi è tra i primi a subirne le conseguenze, sotto l’avanzare delle TV commerciali e i prodotti Home Video che decretano la chiusura delle sale di periferia. Prendono campo le fiction televisive, i multisala, gli spacci di coca-cola e pop-corn… si chiedono prodotti innocui per la televisione, emendati di sangue e sesso, privi di violenza. Per me il digitale è aberrante, il monitor esautora il regista, inoltre non esistono più i produttori, si può fare cinema solo con l’aiuto di Rai e Tv private che finanziano, dice Lenzi. Ricordiamo ancora alcuni bellici: I cinque del Condor, Un ponte per l’inferno e Tempi di guerra. Tra i suoi ultimi lavori citiamo Nightmare Beach, La casa 3 - Gohostouse, Paura nel buio e Le porte dell’inferno. Horror televisivo per Rete Italia in un ciclo presentato da Lucio Fulci sulle case maledette: La casa del sortilegio e La casa delle anime erranti. Cinema di esportazione girato senza interesse tra fine anni Ottanta e inizio Novanta: Obiettivo poliziotto, Caccia allo scorpione d’oro e Demoni 3, il migliore, pure se è un Demoni apocrifo. Il suo ultimo film è Hornsby e Rodriguez - Sfida criminale (1992), mentre Sarajevo inferno di fuoco (1996) – afferma Lenzi in un’intervista a Cineblog – è un’invenzione dei produttori, uscita in Home Video, costruita con inserti e scarti presi dai precedenti Obiettivo poliziotto e da Un ponte per l’inferno, per cavalcare l’evento mediatico della guerra nei Balcani. Una volta fuori dal mondo del cinema Lenzi si dedica alla scrittura di romanzi gialli (Delitti a Cinecittà, Spiaggia a mano armata, Cuore criminale…) e collabora con Nocturno, curando una rubrica di cinema. Un libro a carattere biografico esce nel 2016, poco prima della sua morte: Una vita per il cinema. L’avventurosa storia di Umberto Lenzi regista, curato da Silvia Trovato e Tiziano Arrigoni. Abbiamo estrapolato da quel testo (interessante e documentato) molti dei corsivi qui riprodotti con le affermazioni autentiche del regista. La nostra operazione vuole essere del tutto diversa dal testo citato, visto che il taglio – come sempre nei lavori che curiamo – è puramente cinematografico. Umberto Lenzi muore a 86 anni, dopo un breve ricovero all’ospedale di Ostia, a Roma, il 19 ottobre 2017. Umberto Lenzi era un ottimo regista, un intellettuale anarchico appassionato di storia, capace di lottare per le sue idee e di non tirarsi indietro di fronte ad alcuna difficoltà. Non era uomo dal carattere facile. Sono un estimatore del suo cinema ma non posso dire di essere stato suo amico, ché la sola volta che ci siamo visti – a un Joe D’Amato Horror Festival che si teneva a Livorno – abbiamo finito per litigare. Lenzi non aveva peli sulla lin13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gua, diceva quel che pensava, la diplomazia non era il suo forte. Devo dire che in parte siamo molto simili. Questo lavoro sul suo cinema avevo iniziato a farlo insieme a un gruppo di colleghi, circa dieci anni fa, ma sono stato costretto a interromperlo perché Lenzi non gradiva il nostro interesse per horror puro e cinema cannibalico, che considerava il peggio del suo lavoro. Il Maestro amava in modo particolare il cinema bellico, che resta il meno studiato della sua opera, proprio per questo motivo abbiamo affidato a Matteo Mancini la cura di un’appendice tematica, definitiva ed esaustiva. Raoul Walsh, Don Siegel e Samuel Fuller erano i suoi miti, gli esempi da seguire, così come amava il noir di Otto Preminger; il suo cinema migliore va cercato nelle pellicole di pura azione, poliziottesco e thriller, giallo e horror. Gli pseudonimi anglofoni certi sono Hank Milestone e Humphrey Humbert.

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Capitolo Secondo Umberto Lenzi si racconta Spigolando tra le interviste

Il mio cinema migliore ha sempre avuto attinenza con la realtà, sia avventuroso come bellico, thriller come poliziesco. Non amo il fantastico, preferisco spaziare nei generi che mi permettono di raccontare il mondo contemporaneo. Ho escluso subito la commedia, perché non la ritenevo congeniale, non era nelle mie corde. Sono cresciuto con il cinema americano, sin da ragazzino, amavo Raul Walsh, Don Siegel, Samuel Fuller e tutto il cinema realistico americano. La scala a chiocciola (1946) di Robert Siodmak è una pellicola che ho amato così tanto da girare quasi un remake con Il coltello di ghiaccio. Per me il vero cinema è quello di azione. Mi sono sempre ispirato al cinema americano noir, coltivato durante il periodo della scuola, autori come Otto Preminger fanno parte del mio bagaglio culturale. Forza bruta (1947) di Jules Dassin con Yvonne De Carlo e Burt Lancaster è il mio film di culto. Quando ho iniziato a fare cinema andavano di gran moda peplum e pirati, mi sono messo a fare quel tipo di cinema, impostando tutto sull’azione. Poi sono venuti i gialli dei quartieri alti che hanno avuto problemi con la censura, ma anche i miei film migliori, come Orgasmo che è stato proiettato in tutti i cinema americani. Milano rovente è un noir vero e proprio, il poliziesco è venuto dopo, non mi piace molto che venga definito poliziottesco perché la critica dava a quel termine una connotazione negativa. Resto il regista italiano di polizieschi e noir più apprezzato, insieme a Fernando di Leo. Solo in poche occasioni ho fatto film su soggetti altrui e anche in quei casi ho preteso di partecipare alla sceneggiatura. Tarantino non cita il mio cinema tra le pellicole che l’hanno influenzato. Parla di Corbucci, Morricone, Leone, Bacalov… Mi stima, ne ho avuto la conferma quando l’ho incontrato a Venezia, mi cita spesso, ma non credo che si ispiri al mio modo di girare. La critica è stata molto ingiusta con i miei film polizieschi, dando dei significati reazionari a lavori che non ne avevano. I miei film erano il termometro che misurava la febbre delle città italiane, quel clima di violenza che andava crescendo e che sarebbe sfociato negli anni di piombo. I miei film furono accusati di fascismo e stroncati politicamente. Non si è mai vista una cosa simile, una vera mancanza di rispetto. Ora il 15 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

contesto della critica è cambiato. I giovani guardano e apprezzano certi film che un tempo venivano bistrattati. Per me girare un poliziesco era una cosa abbastanza rapida. Non avevo bisogno di molto tempo. Era tutto basato sulle scene di azione. Mi bastava poter contare su buoni collaboratori che facevano diminuire il tempo delle riprese. Avevo quasi sempre un budget limitato e dovevo farlo quadrare. Erano molto importanti gli effetti speciali e una solida sceneggiatura. Riducevo al massimo i tempi di ripresa con sistemi innovativi. Per esempio negli inseguimenti tra auto, la macchina da presa era piccola, veniva fissata sull’automobile e poi lanciata in mezzo alla città. In Napoli violenta, nella scena con inseguimenti di moto è legata al petto del motociclista. Noi giravamo tutto dal vero, con macchine da presa leggere. Il poliziesco italiano aveva molte attinenze con lo schema del western. Nel nostro cinema esisteva una certa interdipendenza dei generi. Citiamo quasi sempre film precedenti. Ma con il tempo ho notato che anche film successivi americani, di grande successo, riecheggiano nostri film. Per esempio Indiana Jones ricorda il mio La montagna di luce. Le TV private hanno ucciso il cinema di genere, le emittenti provinciali e regionali sul finire degli anni Ottanta hanno cominciato a trasmettere film in quantità industriale, spesso violando regole e copyright, senza alcun rispetto per gli autori. Il pubblico si è trovato sommerso da un’offerta incredibile di cinema a ogni ora del giorno e ha perso interesse ad andare al cinema. Molti registi si sono riciclati in televisione ma i produttori del piccolo schermo (Rai e Fininvest) chiedevano solo storie innocue, senza sesso e sangue, di fatto bandendo i nostri generi preferiti, come il thriller e l’horror, ma anche il poliziesco violento che eravamo abituati a fare.

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Capitolo Terzo La produzione di Umberto Lenzi

FILMOGRAFIA DA REGISTA Dalle tenebre al mare (1955) (c.m.) Vacanze ad Atene (Mia italida stin ellada) (1958) - in Grecia Le avventure di Mary Read (1961) Duello nella Sila (1962) Il trionfo di Robin Hood (1962) Caterina di Russia (1962) - anche soggetto e sceneggiatura L’invincibile cavaliere mascherato (1963) - anche sceneggiatura Zorro contro Maciste (1963) - anche soggetto e sceneggiatura Sandokan la tigre di Mompracem (1963) - anche sceneggiatura Sandok il maciste della giungla (1964) - anche sceneggiatura L’ultimo gladiatore (1964) I pirati della Malesia (1964) La montagna di luce (1964) I tre sergenti del Bengala (1964) - soggetto tratto dal suo romanzo - firma regia come Humphrey Humbert A 008 operazione sterminio (1965) - anche soggetto e sceneggiatura - firma regia come Humphrey Humbert Superseven chiama Cairo (1965) - anche soggetto e sceneggiatura (da un suo racconto) Le spie amano i fiori (1966) - anche soggetto e sceneggiatura Un milione di dollari per sette assassini (1966) Kriminal (1966) - anche soggetto e sceneggiatura Attentato ai tre grandi (1967) - anche soggetto e sceneggiatura Tutto per tutto (1968) Una pistola per cento bare (1968) Orgasmo (1969) - anche soggetto e sceneggiatura La legione dei dannati (1969) Così dolce… così perversa (1969) Paranoia (1970) 17 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Un posto ideale per uccidere (1971) - anche soggetto e sceneggiatura Sette orchidee macchiate di rosso (1972) - anche soggetto e sceneggiatura Il paese del sesso selvaggio (1972) Il coltello di ghiaccio (1972) - anche soggetto e sceneggiatura Milano rovente (1973) - anche sceneggiatura Spasmo (1974) - anche sceneggiatura Milano odia: la polizia non può sparare (1974) Gatti rossi in un labirinto di vetro (1974) - anche soggetto e sceneggiatura L’uomo della strada fa giustizia (1975) - anche soggetto e sceneggiatura Il giustiziere sfida la città (1975) Roma a mano armata (1976) - anche soggetto Napoli violenta (1976) Il trucido e lo sbirro (1976) - anche sceneggiatura Il cinico, l’infame, il violento (1977) - anche sceneggiatura La banda del gobbo (1977) - anche soggetto e sceneggiatura Il grande attacco (1978) - anche soggetto e sceneggiatura Contro 4 bandiere (1979) - anche soggetto e sceneggiatura Da Corleone a Brooklyn (1979) - anche soggetto e sceneggiatura Scusi, lei è normale? (1979) - anche soggetto e sceneggiatura Mangiati vivi! (1980) - anche soggetto e sceneggiatura Incubo sulla città contaminata (1980) Cannibal Ferox (1981) - anche soggetto e sceneggiatura Pierino la peste alla riscossa (1982) Incontro nell’ultimo paradiso (1982) Cicciabomba (1982) La guerra del ferro (Ironmaster) (1983) - firma regia come Humphrey Milestone I cinque del Condor (1985) - anche sceneggiatura Tempi di guerra (1986) - anche soggetto e sceneggiatura Un ponte per l’inferno (1987) - anche soggetto e sceneggiatura La casa 3 (1988) - anche soggetto La casa delle anime erranti (1988) - anche soggetto e sceneggiatura Le porte dell’inferno (1988) - anche soggetto e sceneggiatura La casa del sortilegio (1989) - anche soggetto Paura nel buio (1989) - anche soggetto - firma Humphrey Humbert Cop Target (1989) Nightmare Beach – La spiaggia del terrore (1989) – firma Harry Kirpatrick Demoni 3 (1991) 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Caccia allo scorpione d’oro (1991) Hornsby e Rodriguez sfida criminale - MeanTricks (1992) AIUTO REGISTA, SOGGETTISTA, ALTRO… Amore e chiacchiere (1957) di Antonio Blasetti (solo interprete) Vento di passioni (Raw Wind in Eden) (1958) di R. Wilson (assistente regia) Sanremo, la grande sfida (1960) di Piero Vivarelli (segretario di edizione) Apocalisse sul fiume giallo (1960) di R. Merusi Costantino il grande (1960) di L. De Felice Il terrore dei mari (1960) di Domenico Paolella Io bacio… tu baci (1961) di Piero Vivarelli Le verdi bandiere di Allah (1962) di Guido Zurli (soggetto e sceneggiatura) Il figlio di Aquila Nera di Guido Malatesta (soggetto) Zan re della giungla (1968) di M. Caño Striker (1983) - soggetto e sceneggiatura Striker 2 (1987) - soggetto e sceneggiatura SCRITTORE Delitti a Cinecittà (Coniglio, 2008) Terrore ad Harlem (Coniglio, 2009) Morte al Cinevillaggio (Coniglio, 2010) Scalera di sangue (Coniglio, 2011) Roma assassina (Rizzoli, 2012 e-book) Carte in regola (Rizzoli, 2012 e-book) La guerra non è finita (Rizzoli, 2012 e-book) Spiaggia a mano armata (Rizzoli, 2012 e-book) Il clan dei miserabili (Cordero, 2014) Cuore criminale (Golem, 2015)

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Capitolo Quarto La prima parte della carriera Il cinema avventuroso Salgari, banditi, pirati, Robin Hood, Zorro, Maciste e una manciata di fantastiche spie

Abbiamo già parlato nella parte introduttiva del debutto alla regia con Dalle tenebre al mare (1955), cortometraggio proiettato in tempi recenti a Massa Marittima in occasione di un premio tributato al regista dalla sua città natale. Vacanze ad Atene (Mia italida stin ellada) (1958) è il vero esordio nel lungometraggio, un film che è stato visto solo in Grecia e non ha avuto alcuna distribuzione italiana. L’attività registica viene preceduta da alcuni lavori come assistente e segretario, ma pure come soggettista e sceneggiatore, che abbiamo elencato nella filmografia. In questa sede ricordiamo en passant la partecipazione come attore in Amore e chiacchiere (1957) di Antonio Blasetti, Vento di passioni (Raw Wind in Eden) (1958) di R. Wilson (assistente regia), Sanremo, la grande sfida (1960) di Piero Vivarelli (segretario di edizione), Il terrore dei mari (1960) di Domenico Paolella, Io bacio… tu baci (1961) di Piero Vivarelli, Le verdi bandiere di Allah (1962) di Guido Zurli (soggetto e sceneggiatura) e Il figlio di Aquila Nera di Guido Malatesta (soggetto). Rimandiamo alla filmografia per l’elenco completo. Le avventure di Mary Read (1961) è la prima regia italiana su sceneggiatura di Ernesto Gastaldi, Ugo Guerra e Luciano Martino; un film prodotto dalla Romana Film di Fortunato Misiano, che vede interprete principale l’affascinante Lisa Gastoni nei panni della ladra Mary Read che diventa comandante di una nave di pirati. Storia di pura azione, cappa e spada dai risvolti sentimentali basato sulla caccia spietata che un giovin signore (Jerome Courtland) imbastisce nei confronti della bella ladra, conosciuta in prigione dove indossava abiti maschili. Film ben distribuito ma non altrettanto fortunato, nonostante Lisa Gastoni, che si può rivedere soltanto per motivi storici e culturali, legato al gusto del tempo, di fatto invecchiato piuttosto male. Tra gli interpreti Agostino Salvietti, Walter Barnes, Loris Gizzi, Gisella Arden e Mimmo Poli. Produzione italo francese, un vero e proprio kolossal per i tempi, 87 minuti di pura azione sulle gesta di una donna pirata che 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per amore rinuncia all’avventura. Fotografia di Augusto Tiezzi, musiche di Gino Filippini, montaggio di Jolanda Benvenuti. Abbiamo avvicinato Ernesto Gastaldi, uno dei tre sceneggiatori, per avere la sua interpretazione autentica: Mi parli di film di epoche sfortunatamente lontanissime. Mi ero appena messo con mia moglie che recitò da generica nei film di pirati prodotti da Misiano, tra cui Le avventure di Mary Read. Il film segue I Pirati della Costa, Misiano, ex cavallaro diventato produttore, si era fatto costruire due navi dell’epoca e le ha sfruttate in più film. Una Mary Read è davvero esistita e mi sono vagamente ispirato alla sua storia usando le biblioteche, come si doveva fare nell’epoca pre internet, e dandole un finale positivo come esigeva Misiano per quasi tutti i suoi lavori. Il film non me lo ricordo, ma l’ho certamente visto per vedere Mara (Maryl, attrice e moglie di Gastaldi, nda), ma proprio non ne ho memoria. Lenzi era alle sue prime regie, nevrastenico già allora. Rifiutò di dare una particina a Mara ed eravamo tutti usciti da poco dal CSC. Da quel giorno mi fu antipatico. È uno dei primi film che firmai con Guerra e Martino.

Duello nella Sila (1962) è tutto girato nel paesino di Vignanello (non nella Sila), soggetto e sceneggiatura ancora una volta di Ugo Guerra, Ernesto Gastaldi e Luciano Martino. Un film avventuroso, una storia di briganti ambientata nella Lucania del 1855 che ci porta nel mondo che il regista più ama, nelle ambientazioni storiche che preferisce, senza rinunciare alla spettacolarità. Tutto si basa su una storia di violenza e morte che vede protagonista il brigante Rocco Gravina (Armand Mestral), reo di aver ucciso una ragazza dopo averla stuprata. Antonio Franco (Fernando Lamas), il fratello della vittima, aiutato da una bella giornalista inglese (Lisa Gastoni) si infiltra nella banda dei briganti per cercare vendetta. Tra gli interpreti ricordiamo Liana Orfei, Enzo Cerusico, Nino Vingelli, Vincenzo Musolino, Gino Buzzanca e Daniela Igliozzi. Un vero e proprio western lucano tra assalti alla diligenza e sparatorie, un film di briganti avventuroso e romantico che ricorda i romanzi d’appendice molto di moda negli anni Sessanta. Lenzi dimostra tutto il suo mestiere che sta maturando, dirige cavalcate e duelli con autorità, esprimendosi al meglio nelle scene di pura azione che anticipano molte trovate dello spaghetti western. Ernesto Gastaldi, accreditato come sceneggiatore da alcune fonti, ci ha confidato: Duello nella Sila non è roba mia anche se ho scritto qualche scena come negro di Ugo Guerra. In quegli anni era tornata a galla la storia del bandito Giuliano morto dieci anni prima e l’intervista fattagli da una giornalista, da 22 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lì l’idea di Misiano di far scrivere un film. A quei tempi il nostro cinema artigianale funzionava in quel modo: spesso un produttore aveva un’idea e la faceva scrivere. Non sempre diventava un film. Credo di aver scritto almeno trenta sceneggiature in quegli anni rimaste nei cassetti. Mi pare di ricordare che il film finisce male, muore il protagonista. Non so come Ugo abbia potuto convincere Misiano! Spesso si girava quello che doveva essere il vero finale, ma poi il protagonista risorgeva, magari ferito grave, ma certamente in via di guarigione. Però credo di non aver mai visto il film.

Caterina di Russia (1962) è un film storico, genere che Lenzi predilige, soggetto del regista che collabora con Guido Malatesta per la sceneggiatura. Il film racconta la vicenda romanzate di Caterina II, moglie di Pietro III di Russia, che non sopporta il marito, pazzo e crudele, lo tradisce a più non posso, quindi marcia contro di lui con la complicità di un generale e prende il potere al suo posto. Cento minuti di pura avventura per una produzione italo francese diretta dal solito Fortunato Misiano (Romana Film) ambientati in una Russia di fantasia, una Siberia un po’ troppo solare ricostruita nella zona di Zagabria, tra cosacchi e balli popolari. Interpreti validi: Hildegarde Neff, Sergio Fantoni, Raoul Grassilli, Giacomo Rossi Stuart, Angela Calvo, Ennio Balbo, Enzo Fiermonte e Tina Lattanzi. Cinema storico in costume dove Lenzi dimostra buon mestiere, attitudine a narrare storie romantiche e avventurose, gestendo al tempo stesso sequenze di pura azione, ricostruendo con fedeltà costumi, ambienti, feste popolari e battaglie. Il trionfo di Robin Hood (1962) è tratto dal romanzo Robin Hood di Alexandre Dumas, sceneggiato con molte libertà e licenze cinematografiche da Giancarlo Romitelli e Moraldo Rossi, prodotto da Tiziano Longo per Buona Vista. Tra gli interpreti ricordiamo Don Burnett (un modesto Robin Hood), Gia Scala, Samson Burke (un divertente e corpulento Lettle John), Philippe Noël, Vincenzo Musolino, Gaia Germani, Germano Longo, Arturo Dominici e Nello Pazzafini. La storia – che i vecchi frequentatori delle sale di seconda visione conoscono – vede Guglielmo il Rosso unirsi alla banda di Robin Hood nella foresta di Sherwood per rendere dura la vita allo sceriffo di Nottingham prima del ritorno di Riccardo Cuor di Leone. Un film girato ancora una volta nella ex Jugoslavia, ricco di scene di azione, cavalcate, battaglie e sequenze di massa non facili da gestire, che mettono a dura prova il regista, ancora una volta ispirato e all’altezza della situazione. Zorro contro Maciste (1962) è uno storico-avventuroso con alcune concessioni al mitologico-fantastico, scritto e sceneggiato da Lenzi con la collaborazione di Guido Malatesta, prodotto ancora una volta da Fortunato Mi23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

siano per la Romana Film. Interpreti: Pierre Brice, Alan Steel (Sergio Ciani), Moira Orfei, Massimo Serato. Grazia Maria Spina. Si parte da un anacronismo storico evidente con Isabella e Malva, due eredi di Filippo II che ambiscono al trono di Spagna, per salire al potere assoldano rispettivamente Zorro (Brice) e Maciste (Steel) incaricandoli di recuperare il prezioso testamento. Isabella è avveduta e saggia, lei è la prescelta, ma la perfida Malva fa di tutto per impedirne l’ascesa al trono. Zorro sposerà la regina diventando re, mentre Maciste ripartirà verso nuove sfide. Avventura e peplum si danno la mano in un titolo icona del trash che dimostra fantasia e voglia di stupire in un periodo storico in cui simili prodotti venivano realizzati per platee di ragazzini di bocca buona, estasiati dalle avventure di due beniamini cinematografici e televisivi. A nessuno interessava niente del realismo storico anche perché una volta superato il primo impatto il film scorre bene tra scene d’azione, combattimenti all’ultimo pugno e lotte tra i due protagonisti, duelli e sequenze di pura azione. Era il cinema italiano di genere, bellezza. L’invincibile cavaliere mascherato (1963) parte da un soggetto di Gino De Santis, sceneggiato da Umberto Lenzi, Guido Malatesta e Luciano Martino, prodotto ancora da Fortunato Misiano per la Romana Film, con la collaborazione di una non accreditata casa francese. Ritroviamo Pierre Birce nei panni del cavaliere mascherato accanto all’affascinante Hélène Chanel, contornati da un buon numero di caratteristi come Daniele Vargas, Massimo Serato, Aldo Bufi Landi, Nerio Bernardi, Tullio Altamura e l’immancabile Nello Pazzafini. L’azione si svolge nella Spagna del 1670 durante un’epidemia di peste, mentre l’alcade (Vargas), dopo aver assassinato un nobile, sta progettando il matrimonio tra la figlia del defunto (Chanel) e il figliastro (Brice) per appropriarsi di tutte le sue ricchezze. Il cavaliere mascherato – un emulo di Zorro che incide una X sulle vesti dei rivali invece della Z – manderà a monte il suo piano. Lenzi e De Santis dimostrano grande cultura piazzando qua e là citazioni letterarie che il giovane pubblico di riferimento non può aver colto. Un cappa e spada quasi d’autore, tra Manzoni (gli untori) ed Edgard Allan Poe (La maschera della morte rossa), per Lenzi abbastanza agevole da dirigere vista l’esperienza nel filone. Ottimi i costumi, le scenografie, la ricostruzione storica di ambienti e situazioni, così come la colonna sonora di Angelo Francesco Lavagnino non è mai fuori luogo. Sandokan la tigre di Mompracem (1963) è il primo film salgariano girato da Umberto Lenzi, che sceneggia in maniera molto libera Le tigri di Mom24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pracem con la collaborazione di Fulvio Gicca Palli per una coproduzione italo franco spagnola diretta da Solly Victor Bianco. Steve Reeves è Sandokan, Geneviève Grad impersona Marianna, ma ci sono anche Andrea Bosic, Rik Battaglia, Mario Valdemarin, Leo Anchóriz ed Enzo Fiermonte. Colonna sonora esotica di Giovanni Fusco. La storia è ambientata in Malesia al periodo della dominazione inglese, con Sandokan – spina nel fianco del colonnello Brooke e innamorato della bella Marianna – che deve liberare il padre prigioniero dell’esercito colonialista. Sandok il maciste della giungla (1964), nonostante il nome non ha niente a che vedere con Sandokan, soltanto ispirato a tale tipologia di eroe, è un avventuroso esotico scritto e diretto da Lenzi con la collaborazione di Gicca Palli per la sceneggiatura. Tra gli interpreti Sean Flynn, Alessandra Panaro, Marie Versini, Mimmo Palmara, Arturo Dominici, Giacomo Rossi-Stuart, Fortunato Arena e Salvatore Borgese. Ambientato in India dove la setta religiosa dei fanatici Sikkim cattura un tenente inglese e la figlia del viceré. Il tenente Ramsey (Flynn) riuscirà a liberarli con l’aiuto di Sandok, un eroe locale che vive nella jungla, personaggio liberamente ispirato a Sandokan. La montagna di luce (1964) vede Lenzi ancora una volta alle prese con temi salgariani, questa volta liberamente sceneggiati dal fido Gicca Palli partendo dal romanzo omonimo del narratore veronese. Interpreti principale Richard Harrison e Wilfred Bradley, contornati da validi caratteristi come Daniele Vargas, Luciana Galli, Andrea Scotti, Nerio Bernardi e Nick Anderson (Nazareno Zamperla). La montagna di luce è un diamante incastonato sulla fronte di una statua indiana che un avventuriero (Harrison) aiutato da un fachiro (Bradley) riesce a rubare, ma per portare a compimento la sua missione dovrà sconfiggere il rajah Sirdar (Vargas). Molto bravo Harrison, credibile in un ruolo salgariano che Lenzi e Gicca Palli utilizzano in versione ancor più avventurosa. Il regista gira il film in Malesia per gli esterni, ambientazione e luoghi sono perfetti, così come le sequenze di pura azione non mostrano il fianco a critiche. Sceneggiatura abbastanza prevedibile ma tutto sommato ben strutturata e godibile se si pensa che la pellicola si rivolge a un pubblico popolare e senza molte pretese. I pirati della Malesia (1964) si ricorda come una delle ultime interpretazioni di Reeves che incontra sul set la fascinosa Jacqueline Sassard, Mimmo Palmara, Nando Gazzolo e Andrea Bosic. Soggetto estrapolato dal romanzo omonimo di Salgari, in pratica riscritto da Ugo Liberatore che lo sceneggia insieme a Nino Stresa e Gerard Cohen per la produzione di Solly Bianco. Musiche esotiche di Giovanni Fusco. L’impresa di Sandokan (Reeves) che 25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sta alla base della trama consiste nel riportare sul trono di Sarawak la principessa Hada (Sassard), deposta dagli inglesi. Ultimo salgariano per Lenzi che non lascia il miglior ricordo in simili pellicole di ambientazione malese pur dedicandosi al servizio del pubblico con passione e professionalità. L’ultimo gladiatore (1964) è un film storico ambientato nell’antica Roma, interpretato da Richard Harrison, Lisa Gastoni, Marilù Tolo, Philippe Hersent, Livio Lorenzon, Jean Claudio, Lydia Alfonsi, Charles Borromel (Carlo Borromeo), John Mac Douglas (Giuseppe Addobbati) e Jimmy il Fenomeno (nei panni di un gladiatore!). Harrison è il gladiatore Glauco che nel 41 dopo Cristo se la deve vedere con Messalina (Gastoni), usurpatrice del potere dopo aver ucciso Caligola. Soggetto e sceneggiatura di Gian Poalo Callegari e Alberto Valentin, non proprio il massimo dell’originale, rivitalizzata dal mestiere di Lenzi; fotografia luminosa di Pier Ludovico Pavoni, scenografie sontuose di Pier Vittorio Marchi e musiche altisonanti ma opportune di Carlo Franci. Un buon lavoro – che è improprio definire peplum – con ottima caratterizzazione dei personaggi, soprattutto della perfida Messalina che Lisa Gastoni rende con maliziosa fierezza, vincendo il duello a distanza con una Tolo resa bionda da un’improbabile parrucca. Sequenze di battaglia, cavalcate, giochi del circo, scene di massa rese al meglio da un Lenzi in gran forma impegnato a confezionare uno dei migliori film storico - avventurosi girati nel primo periodo della sua carriera. I tre sergenti del Bengala (1964) è un film avventuroso tratto da Forte Madras, romanzo di Umberto Lenzi, che per l’occasione firma la regia con lo pseudonimo di Humphrey Humbert. Sceneggiatura dell’esperto Fulvio Gicca Palli. Interprete principale Richard Harrison, primo ruolo femminile Wandisa Guida, con un cast eccellente completato da Hugo Arden (Ugo Sasso), Nick Anderson (Nazareno Zamperla), Aldo Sambrell e Andrea Bosic. Ambientazione indiana per una pellicola che ricorda Salgari con due sergenti appena usciti di galera (Harrison e Arden), impegnati in una pericolosa missione, che devono vedersela con il ribelle Sikidama (Sambrell). Film di montaggio che Lenzi costruisce con abilità in due settimane recuperando materiale da Sandokan la tigre di Mompracem e I pirati della Malesia. Basso budget al punto che i figuranti malesi sono europei truccati (colorati!) da indiani e molti inserti di repertorio contribuiscono a creare il colore esotico. A 008 operazione sterminio (1965) è un fanta-spy movie scritto e sceneggiato da Umberto Lenzi, per la regia ancora una volta firmato con lo pseudonimo di Humphrey Humbert. I titoli parlano di un collaboratore alla 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sceneggiatura che parrebbe di fantasia, un non ben identificato Wallace Mckentzy. Produce l’onnipresente Romana Film di Fortunato Misiano. Interprete principale un ottimo Alberto Lupo – più adatto a ruoli teatrali e televisivi che di pura azione – contornato da validi comprimari come Ivano Staccioli (si fa chiamare John Heston), l’affascinante Ingrid Schoeller, Sal Borgese (nei titoli Mark Trevor), Dina De Santis, George Wang, Edoardo Toniolo, Lucky (Fortunato) Arena e Nando Angelini. Alberto Lupo è l’agente 606 in missione al Cairo insieme alla fascinosa e biondissima agente 008 (Schoeller) per recuperare un marchingegno antiradar che le grandi potenze mondiali vorrebbero possedere. Un film cartolina del Cairo come se ne giravano molti, sponsorizzato dal Ministero del Turismo egiziano, girato in coproduzione con la locale Coprofilm, impreziosito dalla sapiente mano di Lenzi che se la cava bene con materiale di pura azione. Uno spy movie ironico e divertente, puro genere irrimediabilmente sorpassato dai tempi ma con qualche battuta originale che si ricorda con piacere. Angelo Francesco Lavagnino ci regala musica esotica piacevole e suadente. Censura che elimina due scene, la prima che vede Alberto Lupo allungare le mani sulle cosce di Ingrid Schoeller, la seconda perché giudicata troppo sanguinosa dopo la caduta di un uomo in piscina. Superseven chiama Cairo (1965) si pone su identica lunghezza d’onda del precedente ed è ancora una volta uno spy movie fantastico ambientato in Egitto, scritto da Lenzi (un suo racconto) e sceneggiato con la collaborazione di Piero Pierotti. Produce sempre Fortunato Misiano per la Romana Film ma questa volta la coproduzione è italo francese. Trama molto simile che vede l’agente segreto britannico Superseven e la fascinosa commessa Denise sulle tracce di un preparato metallico radioattivo nascosto in una cinepresa. Roger Browne è Superseven, Fabienne Dalì è Denise. Nel cast Massimo Serato (il perfido Alex), Andrea Aureli, Dina De Santis, Antonio Gradoli, Stella Monclar, Franco Castellani e persino Rosalba Neri. Musiche esotiche ancora una volta di Lavagnino. Fumettistico e prevedibile ma gradevole per i gusti del tempo e ben accetto da un pubblico che amava James Bond. Le spie amano i fiori (1966) è ancora spy movie fantastico, scritto e sceneggiato da Lenzi, questa volta di ambientazione spagnola, coproduzione italo iberica, che comincia proprio con le immagini di una corrida. Interprete principale ancora Roger Browne, affiancato da Emma Danieli, Daniele Vargas, Yoko Tani, Marino Masé, Mark Trevor, Fernando Cebrian e Tullio Altamura. L’agente segreto della situazione è l’inglese Martin Stevens 27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(Browne) che si vede assegnare l’improbabile missione di eliminare il ladro di una misteriosa invenzione, l’elettroscometro gamma. La trama si sviluppa toccando alcune città europee, come un vero e proprio film di viaggio tra Parigi, Ginevra e Atene. Tecnica di regia a base di zoom, sceneggiatura scritta abbastanza frettolosamente con dialoghi convenzionali e molte sequenze che servono da promozione turistica. Pregevoli le musiche di Armando Trovajoli. Abbiamo avvicinato Roberto Poppi, storico del cinema, per soddisfare alcune curiosità. La prima riguarda I tre sergenti del Bengala (1964), che sarebbe tratto da Forte Madras, romanzo di Umberto Lenzi che alcuni critici ritengono inesistente. Poppi ci ha risposto: “Se esiste o meno il romanzo non te lo so dire, ma così recitano i titoli di testa. In quegli anni molti futuri cineasti scrivevano adottando mille pseudonimi, romanzetti per collane d’avventura, gialli, horror destinati alle edicole (anche Superseven chiama Cairo è tratto da un suo racconto firmato H. Humbert)”. Altra curiosità concerne il misterioso Wallace Mckentzy, collaboratore alla sceneggiatura di A 008 Operazione sterminio: “Mckentizy è sicuramente uno pseudonimo, ma di chi non si è mai saputo”. Alessandra Lenzi, figlia del regista, non chiarisce i dubbi: “A queste domande non posso rispondere con certezza. Posso supporre che mio padre, il quale ha sempre scritto molti soggetti, racconti brevi e romanzi a fine carriera, abbia realmente scritto i due racconti, ma non penso che questo sia un elemento fondamentale nella sua biografia. Mckentzy non so chi fosse, bisognerebbe vedere alla Siae”.

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Capitolo Quinto Kriminal (1966) Il primo film su un fumetto italiano

Kriminal (1966) rappresenta il primo tassello della trilogia fumettistica italiana al cinema che prosegue con Diabolik di Mario Bava (1967) e Satanik di Piero Vivarelli (1968). Umberto Lenzi si fa venire per primo l’idea di portare un fumetto noir sul grande schermo, pure se avrebbe voluto fare Satanik, ma in quel periodo l’Editoriale Corno era disposta a cedere soltanto i diritti di Kriminal. I fumetti neri italiani dei primi anni Sessanta raccontavano le gesta di criminali sadici e assassini, spesso soffuse di torbido erotismo. Se scorriamo i nomi di quei personaggi troviamo una serie interminabile di eroi negativi. Diabolik delle sorelle Giussani fu il primo a conquistare il mercato, subito dopo arrivarono: Kriminal, Satanik, Sadik, Demoniak, Mister X, Fantax, Killing e molti altri. Tutti geni del male dispensatori di morte, mascherati di nero, vestiti da scheletro, veri e propri simboli di una diffusa voglia di trasgressione. Erano fumetti in bianco e nero, graficamente poveri, stampati su carta pessima e in un formato che permetteva appena due vignette per pagina. Le storie derivavano dal feuilleton francese e dai gialli di Edgar Wallace come Il teschio di Londra (Kriminal è figlio di quel romanzo). Si trattava di fumetti che facevano infuriare i moralisti, che scatenarono una crociata di benpensanti e di censori contro certe pubblicazioni. I ragazzi degli anni Sessanta amavano Diabolik, Kriminal e Satanik, almeno quanto i loro genitori li detestavano, perché la lettera kappa era sinonimo di vietato, di fumetto altamente diseducativo. Il fumetto di Kriminal nasce sulla scia del successo di Diabolik, ma ha una sua originalità perché opera a Londra e non è inserito in un universo fantastico. Kriminal è un criminale realistico e spietato, vera e propria personificazione di orrore e male assoluto sin dal costume a forma di scheletro. Il personaggio si propone come ben più duro e violento di Diabolik, anche perché è un eroe tormentato. Anthony Logan diventa criminale per vendicare il padre, morto disperato e in miseria dopo essere stato truffato dai soci che Kriminal eliminerà uno dopo l’altro. Le avventure di Kriminal si svolgono sullo sfondo di un mondo dominato dal cinismo e dalla corruzio29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne. “Ci sono molti modi di morire. Il peggiore è morire dentro e restare vivi fuori”, dirà Kriminal in una delle prime avventure, parlando di se stesso. Uno dei primi albi di Kriminal fu addirittura sequestrato dalla magistratura per colpa dei disegni che mostrano i particolari delle mutandine di alcune ragazze. Il fumetto nero era vittima di repressioni e censure ma diventava sempre più popolare, anche se doveva subire la scritta in copertina: fumetto per adulti. Il cinema non poteva perdere l’occasione di portare questi personaggi sul grande schermo, anche se non era facile rappresentare le stesse atmosfere di violenza e di sadismo. Nel 1965 uscì una parodia di Sadik, un supercriminale in calzamaglia nera, realizzata da Walter Chiari nel divertente Thrilling (episodio Sadik, diretto da Gianluigi Polidoro). Niente di serio, però, c’era solo un marito costretto a travestirsi da Sadik per attirare l’attenzione di una moglie appassionata di fumetti neri. Per la prima volta si vedono le nuvolette disegnate e si realizza un connubio tra fumetto e cinema, che tornerà nella parte finale del Kriminal di Lenzi. Kriminal è importante perché Umberto Lenzi inaugura un genere che in Italia non avrà molti continuatori. Il film ricavato da un fumetto popolare è una moda statunitense, soprattutto contemporanea, che riguarda il mondo dei supereroi ed è realizzata con grande sfoggio di effetti speciali. In Italia non eravamo (e non siamo) attrezzati per progetti di questo tipo, anche se l’inventiva di alcuni artigiani del cinema di genere ha prodotto dignitosi lavori legati ai fumetti più conosciuti. Adesso Il ragazzo invisibile di Salvatores (uscito in due fiilm) e Lo chiamavano Jeeg Robot sembrano poter invertire questa tendenza, ma il nostro cinema spettacolare è ancora lontano da diventare industria. Kriminal è una produzione italo spagnola (Filmes di Roma, Estela e Copercines di Madrid) debitrice per il soggetto da un’idea originale di Max Bunker (Luciano Secchi), autore del personaggio pubblicato dall’Editoriale Corno. Umberto Lenzi nella trasposizione cinematografica fa tutto da solo e inventa una storia dal taglio ironico, che non viene condivisa dalla casa editrice. Max Bunker ha detto in un’intervista rilasciata a Ferdinando Carcavallo per la webzine Kinemazone 2.0: “I produttori di Kriminal vedevano i personaggi solo ed esclusivamente nell’ottica drammatica. L’ironia non era affatto gradita. Inoltre io ero molto giovane e non avevo grandi possibilità di trattativa”. Non mi pare che il Kriminal di Lenzi manchi di ironia, se è vero che il fumetto viene in parte tradito, questo accade per stemperare il lato drammatico, sadico ed erotico del personaggio. Umberto Lenzi mi ha confidato: “Luciano Secchi non ha partecipato alla stesura del soggetto e 30 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

della sceneggiatura, che sono miei originali, e non ripresi dai suoi fumetti. Il film a me piace. Mi sono anche ritagliato una piccola partecipazione: sono il tizio con occhiali scuri e giornale che in un angolo di Londra spia Kriminal e poi lo insegue con altri poliziotti in borghese dentro un capannone. Scrissi anche la storia per il sequel, ma poi abbandonai il progetto per girare Attentato ai tre grandi con la Pea, che considero uno dei miei migliori film, tra l’altro ispirato a un fatto storico imprescindibile, la conferenza interalleata di Casablanca del 20-24 Gennaio 1943, che stabilì per l’Italia la resa senza condizioni”. Tornando a Kriminal c’è da dire che dirige la fotografia Angelo Lotti, il montaggio è di Jolanda Benvenuti e Antonio Jimeno, mentre le musiche sono di Raymond Full e Roberto Pregadio. Scenografie di Jaime Perez Cubero e José Luis Galicia. Interpreti: Glenn Saxson (Kriminal), Helga Liné (Inge e Trude), Andrea Bosic (ispettore Milton), Ivano Staccioli (Alex Lafont), Esmeralda Ruspoli (Lady Gold), Dante Posani (Frank), Franco Fantasia (Mourad), Susan Baker (Margie Sawn), Armando Calvo (Kendar), Mary Arden (Gloria Farr), Mirella Pamphili e Umberto Raho. I titoli di testa alternano scene del film, parti di un cineromanzo su Kriminal e i fumetti disegnati da Magnus (Roberto Raviola), anticipando una soluzione simile adottata da George A. Romero in Creepshow (1983). Il film si sviluppa con la trama di un giallo velato da poche spruzzatine sexy, pure se il fumetto era più nero e concedeva maggiore spazio alle bellezze femminili. Kriminal sta per essere impiccato per aver rubato la corona d’Inghilterra, ma la corda si spezza, il criminale scappa travestito da poliziotto e si fa beffe dell’ispettore Milton che aveva favorito la fuga per recuperare la refurtiva. Non solo, Kriminal restituisce la corona perché non saprebbe come venderla e nessun ricettatore la vorrebbe. La storia procede con il piano di Lady Gold per riscuotere il premio assicurativo dopo un finto furto di gioielli. Entrano in scena le belle gemelle Inge e Rude (la stessa attrice Helga Liné con un trucco scenico) che simulano una rapina compiuta da Kriminal. Ne consegue che Kriminal ricatta Lady Gold, finge di innamorarsi di lei, infine la uccide nella sauna prima di essere lui a fare una brutta fine. Kriminal prosegue la caccia ai diamanti in Spagna, dove segue le tracce di Trude (che viene uccisa per errore), e poi a Istanbul sulle orme di Inge che manda avanti una casa da gioco. Kriminal fa innamorare Inge e rende geloso il compagno Alex Lafont, un ottimo Ivano Staccioli nella consueta rappresentazione del cattivo. Si scopre che i gioielli sono nelle mani di Alex che li conserva in una cassetta di sicurezza: Kriminal e Inge decidono di ru31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

barli e di sostituirli con zirconi. Kriminal viene braccato dall’ispettore Milton, ma lui riesce a far credere alla polizia locale che Milton è solo un pazzo che pensa di essere un poliziotto e scappa ancora. Finisce dentro il povero ispettore. Kriminal sostituisce la schiuma da barba del povero Alex con un tubetto di vetriolo e il rivale finisce sfigurato all’ospedale. Alex viene fasciato con delle bende e non si vede mai il suo volto, ma dati i tempi non era pensabile mostrarlo. Inge fa il doppio gioco con un amico, intanto Kriminal si libera di Alex con un trucco molto abile, lo uccide e prende la sua identità. Kriminal si fa passare per Alex con la testa fasciata (per via delle ferite al vetriolo) e ruba i diamanti dalla cassetta di sicurezza. L’ispettore è convinto che Kriminal sia morto e cerca soltanto Alex, ma alla fine scopre il trucco per mezzo di foto scattate da una macchina nascosta. Kriminal fugge in auto, poi fora una gomma e si accontenta del treno, infine perde i diamanti che finiscono nel fiume. Il finale è ancora più sorprendente: Kriminal incontra una bella bionda con le gambe messe in evidenza da una minigonna che gli offre un passaggio. Purtroppo per lui si tratta di Gloria Farr (un’affascinante Mary Arden), la fidanzata dell’ispettore Milton, che si finge innamorata e mentre lo bacia estrae la pistola per arrestarlo. Un finale atipico per Kriminal, eroe negativo per eccellenza che nei fumetti si fa sempre beffe della polizia. Il finale positivo viene pensato per addolcire il contenuto del film e per evitare l’intervento della censura che spesso si accaniva sul fumetto di Magnus e Bunker. Kriminal è un giallo ben fatto, dotato di molta suspense e parecchi colpi di scena, che si sviluppa secondo i canoni di una storia alla James Bond. Il film gode di un buon budget, una delle cose migliori sono le location dove si svolge l’azione, ben ricostruite e riprese dal regista nei momenti salienti della vita cittadina. Si comincia con una Londra immortalata con realismo e la fotografia sul Tamigi, Buckingam Palace, gli autobus rossi a due piani, le tipiche abitazioni inglesi e la Torre con l’orologio. Si prosegue con la Spagna e una bella sequenza di corrida girata nella plaza de toros, per finire con una festa dove gli invitati parlano spagnolo e alcuni esterni per le strade di Madrid. La parte più bella da un punto di vista cinematografico è girata a Istanbul con una fotografia eccellente, sottolineata da una suadente musica turca. Istanbul è ritratta nelle scene di vita quotidiana: il mercato, le case cadenti, l’intonaco screpolato da salmastro e incuria, il popolo, i negozi, le moschee, il porto sul Bosforo con le navi che si incrociano. Per non parlare delle vedute aeree di una delle città più affascinanti del Mediterraneo, la vera porta di Oriente. Ricordiamo con piacere Kriminal a bordo di una de32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cappottabile che vaga per le strade di Istanbul, città di confine descritta con dovizia di particolari. Un altro aspetto positivo sono le scene d’azione e le sequenze di taglio poliziesco che per Lenzi rappresentano un vero marchio d’autore. Tutte le parti dove ci sono attori in movimento e scene di pura azione sono da ricordare, come l’ottima uccisione nella sauna di Lady Gold tra getti di vapore per simulare una crisi cardiaca. Da citare anche lo scoppio di una bomba a orologeria nello studio dell’ispettore Milton (un impostato Andrea Bosic), realizzato con cura e precisione di particolari. Non mancano sequenze a base di scazzottate tra protagonisti, tutte ben fatte, credibili e realistiche. Indimenticabile la sequenza nel mare di Istanbul con il gelosissimo Alex che tenta di uccidere Kriminal mentre si dedica allo sci acquatico. Una parte acrobatica molto buona mostra due barche che si incrociano mentre le controfigure degli attori cadono in mare. Ottime le sequenze con Kriminal che scala un palazzo, si butta dal terrazzo e fugge nella notte, mentre nel finale una lunga parte sul treno ricorda i migliori film di 007. Kriminal salta da un ponte e finisce su un treno, a bordo del quale apprezziamo una volta di più la perizia di Lenzi nel descrivere con realismo la location turca. Il treno è composto di scompartimenti scalcinati, la gente che lo affolla è povera e malmessa, le stazioni sono cadenti, la ferrovia pure. Ottime le scene d’azione con Kriminal che corre sul tetto della littorina e poi si getta nella scarpata. Bava era il regista ideale per Diabolik, per gli effetti speciali realizzati con modellini, auto truccate e grotte artificiali. Lenzi è il regista adatto per Kriminal, proprio perché si tratta di girare un poliziesco, un giallo venato di erotismo, un thriller ad alta tensione che deve alternare frequenti colpi di scena. Glenn Saxson è un ottimo Kriminal, biondo e atletico, impermeabile bianco, sguardo glaciale, ben impostato, credibile come ladro spietato e amante insaziabile. Il costume da scheletro che sfoggia quando entra in azione è abbastanza simile a quello dei fumetti. Le parti erotiche che lo vedono insieme alla ex moglie Susan Baker (Margie Sawn), con Esmeralda Ruspoli (Lady Gold) e soprattutto con Helga Liné (Inge e Trude) sono molto castigate, ma per i tempi sufficientemente spinte. Al massimo vediamo un paio di gambe della Liné che sbucano fuori dalle lenzuola dopo un rapporto sessuale appena intuito. Certo, il fumetto prometteva di più sotto l’aspetto erotico e come scene di violenza, ma l’impostazione voluta dal regista si muove secondo canoni di originalità. 33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il fumetto di Kriminal e pure il film produssero un fotoromanzo di pura imitazione intitolato Killing scritto da Luigi Naviglio, una sorta di plagio diretto da Rosario Borelli e interpretato da Gabriella Giorgelli, Erna Shurer, Paul Muller e Rick Battaglia. Su questo fumetto si gettarono a pesce i registi turchi che realizzarono una decina di film apocrifi e non autorizzati. Tra tutti citiamo Kilink Istambul’da di Ylmaz Atadeniz, ma confesso di non averlo mai visto e di aver recuperato la notizia nel prezioso dossier di Nocturno dedicato ai film tratti dai fumetti (articoli a firma di Manlio Gomarasca, Davide Pulici e Roberto Curti). Un fenomeno simile accadde con Zagor e con il Comandante Mark che generarono diversi film diretti da Nisan Hanceryan e Tunc Basaran. Antonio Tentori e Antonio Bruschini hanno scritto: “Kriminal è un giallo avventuroso con un pizzico di erotismo caratterizzato da una fitta trama di doppi giochi, omicidi e colpi di scena. Lenzi lo dirige con piglio sicuro, conferisce al film il ritmo giusto, equilibrando suspense e umorismo”. Paolo Mereghetti concede al film solo una stella e mezza: “Il fumetto nero creato nel 1964 da Magnus e Bunker viene portato sullo schermo in un filmetto godibile, che però ne smussa le asperità grottesche: Lenzi – anche sceneggiatore – non coglie la velenosa cattiveria del criminale in calzamaglia da scheletro (qui ridotta a un brutto costumino giallo-nero), trasformandolo in un aitante clone di Arsenio Lupin a spasso per il Mediterraneo. Goffo il finale a fumetti”. Marco Giusti (Stracult): “Primo Kriminal, diretto da Umberto Lenzi con poca inventiva, ma con consumato mestiere. Inoltre il cast non è il massimo e Lenzi si muove con molta fedeltà al fumetto, almeno per quel che riguarda il suo protagonista”. Non condividiamo. La sceneggiatura è del tutto originale e conserva poco del Kriminal di Luciano Secchi. Mereghetti è condivisibile quando parla di un Kriminal godibile e modificato in una sorta di Arsenio Lupin, meno sadico e duro del personaggio al quale i lettori erano abituati. Il film ha ritmo ed è divertente, ma si tratta di un giallo avventuroso che non rischia mai sul fronte censura. Lenzi evita con cura di calcare la mano sulle scene di violenza che invece erano una caratteristica peculiare del fumetto. Il finale a fumetti è molto originale, riporta alle origini del personaggio, per far capire da dove viene la storia di Kriminal. Kriminal riscuote un tale successo di pubblico che viene chiesto a Lenzi di girarne il sequel e di dirigere un film su Satanik. Il regista maremmano rifiuta entrambe le proposte perché è impegnato in altri progetti, per questo Il marchio di Kriminal esce nel 1967 per la regia di Fernando Cerchio. Il 34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

soggetto e la sceneggiatura sono comunque di Umberto Lenzi, pure se i titoli di testa parlano di Max Bunker ed Eduardo M. Brochero. Il sequel è interpretato da un cast molto simile ed è più vicino allo spirito dei fumetti, ma riscuote meno successo del primo film. Cerchio non ha la stessa classe di Lenzi, soprattutto non si trova molto a suo agio con il genere poliziesco. Nel 1966 esce Mister X di Piero Vivarelli (si firma Donald Murray), altro film che porta sullo schermo un fumetto nero. Mister X non è un criminale violento ed è più facile adattarlo alle esigenze del cinema senza pericoli di censura. Si tratta di un ladro gentiluomo stile Arsenio Lupin che presenta la caratteristica di colpire mascherato con una calzamaglia nera simile a quella di Diabolik. Satanik giunge sul grande schermo nel 1968 per opera di Piero Vivarelli, ma pure in questo caso il regista omette molti elementi orrorifici ed erotici che erano il sale del personaggio. Satanik è interpreta dall’affascinante attrice polacca Magda Konopka che ben impersona un’eroina sexy nata dalle ceneri della vecchia Marnie Bannister. Il film di Vivarelli riscosse un successo sbalorditivo di pubblico che fruttò un incasso di centocinquantasei milioni di lire. Mario Bava portò al cinema Diabolik nel 1968, ma anche qui il lato sadico e violento del personaggio fu omesso per realizzare un film pop e psichedelico ricco di effetti speciali. John Phillip Law come Diabolik non era il massimo mentre Marisa Mell era una conturbante Eva Kant. Il film di Bava ebbe una sorta di parodia con Arriva Dorellik, scritto da Castellano e Pipolo e diretto da Steno. Per completare il quadro dei film italiani tratti dai fumetti possiamo citare il raffinato Baba Yaga di Corrado Farina (1973), che portò sul grande schermo la Valentina di Crepax. Valentina tornò in video con la serie televisiva prodotta da Mediaset che ebbe un buon successo. Per citare altri film italiani ispirati ai fumetti possiamo pensare a Sturmtruppen di Salvatore Samperi (1976), Kakkientruppen di Marino Girolami (1977), Tex e il signore degli abissi di Duccio Tessari (1985), Non chiamarmi Omar di Sergio Staino (1992), Dellamorte Dellamore di Michele Soavi (1994) e Zora la vampira dei Manetti Bros (2000).

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Capitolo Sesto Kriminal e Il marchio di Kriminal a cura di Davide Longoni

Kriminal, diretto da Umberto Lenzi è un film tratto dall’omonimo fumetto nero di Max Bunker (che ebbe notevoli problemi di censura): la pellicola ebbe fra l’altro anche un seguito, intitolato Il marchio di Kriminal, due anni dopo, diretto questa volta da Fernando Cerchio. La principale differenza col fumetto originale di Magnus e Bunker risiede nella caratterizzazione del protagonista: mentre nella versione cartacea Kriminal è un personaggio cinico e spietato, che uccide a sangue freddo ed è soggetto ad attacchi d’odio e sadismo, nel film viene invece presentato come un ladro gentiluomo. Altre differenze sono sia nello stile che nei contenuti. Se è vero che il fumetto dovette subire svariati casi di censura in quanto conteneva linguaggio scurrile e scene erotiche fin troppo esplicite per l’epoca, nel film non è presente pressoché alcun richiamo di tale genere. Anche il caratteristico costume del personaggio si differenzia vistosamente dalla sua controparte a fumetti. Questa dissomiglianza, tuttavia, può forse essere dovuta a motivazioni pratiche di realizzazione. Il film venne realizzato sulla falsariga dei film di James Bond, che in quegli anni godevano di grande popolarità. Diverse scene propongono evidenti citazioni alle avventure di 007, come ad esempio la sequenza in cui il protagonista veste un elegante smoking bianco al tavolo da gioco; la stessa recitazione di Glenn Saxson (che ha interpretato anche il sequel) fa palesemente il verso a quella di Sean Connery, allora attore titolare della serie 007. Nel cast figurano anche: Andrea Bosic (Diabolik, Manhattan Baby, 7 Hyden Pak - La casa maledetta), Helga Liné (Amanti d’oltretomba, Le guerriere dal seno nudo, L’ultimo vampiro), Franco Fantasia (Sette orchidee macchiate di rosso, La montagna del dio cannibale, Zombi 2, Mangiati vivi!), Ivano Staccioli (Flashman, La morte accarezza a mezzanotte, I legionari dello spazio), Mary Arden (Sei donne per l’assassino) e Consalvo Dell’Arti (I pianeti contro di noi, La vergine di Norimberga, Agente S03 operazione Atlantide, Gungala la pantera nuda, 3 Supermen a Tokio.

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Il marchio di Kriminal SCHEDA TECNICA Titolo originale: Il marchio di Kriminal Anno: 1967 Regia: Fernando Cerchio Soggetto: Eduardo Manzanos Brochero dal fumetto omonimo Sceneggiatura: Eduardo Manzanos Brochero Direttore della fotografia: Emilio Foriscott e Angelo Lotti Montaggio: Gianmaria Messeri Musica: Manuel Parada Effetti speciali: Raoul Ranieri e Ricardo Vázquez Produzione: Filmes Cinematografica e Copercines Origine: Italia Durata: 1h e 28’ CAST: Glenn Saxson, Helga Liné, Tomás Picó, Andrea Bosic, Frank Olivier, Evi Rigano, Anna Zinnemann, Franca Dominici, Ugo Arden, Maria Francee, Gino Marturano, Mirella Pamphili, Gustavo Simeone, Felix Dafauce, Alberto Fernandez, Giancarlo Prete, Saturno Cerra TRAMA Il bandito Kriminal scopre per caso in un’antica statuetta di porcellana un frammento di mappa relativo al luogo nel quale un famoso fuorilegge, prima di essere giustiziato, era riuscito a nascondere due preziose tele d’autore. Kriminal inizia subito le ricerche per recuperare altre tre statuette, simili a quella in suo possesso, contenenti i frammenti necessari a completare la mappa. Le sue indagini hanno esito positivo. Solo una statuetta manca ormai a Kriminal per individuare il luogo dove sono nascosti i quadri. La statuetta è però nelle mani di due avventurieri, Mara e Robson, i quali, a loro volta, cercano di strappare a Kriminal i frammenti di mappa da lui recuperati. Un accordo è infine raggiunto dai tre: uniranno le loro forze per riportare alla luce i quadri nascosti e divideranno in parti uguali il ricavato. Kriminal, Mara e Robson partono quindi alla volta di Beirut e, in una zona archeologica della città, rinvengono le preziose tele. Kriminal elimina i due soci, che avevano tentato di impadronirsi dell’intero bottino, e si accinge a far ritorno alla sua base. Tuttavia, l’imprevisto arrivo dell’ispettore Milton, da tempo sulle sue tracce, manda a monte i suoi piani. Nel tentativo di sottrarsi alla cattura, Kriminal precipita con la sua auto in 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un burrone. NOTE Dopo il primo capitolo diretto da Umberto Lenzi, questa volta la regia delle avventure del bandito Kriminal tratto dai fumetti di Max Bunker e Magnus è affidata a Fernando Cerchio, che si era occupato in passato di film storici e di alcune pellicole di Totò. Tra gli interpreti, oltre alla conferma del vecchio cast principale, troviamo anche: Tomás Picó (La coda dello scorpione), Evi Rigano (La decima vittima, I fantastici 3 Supermen), Anna Zinnemann (Una farfalla con le ali insanguinate), Franca Dominici (Operazione paura), Ugo Harden (Il gigante di Metropolis, Anthar l’invincibile), Gino Marturano (…4 ..3 ..2 ..1…morte), Mirella Pamphili (Operazione paura, L’inafferrabile invincibile Mr. Invisibile,…4 ..3 ..2 ..1…morte, Satanik, Flashman, 2+5: Missione Hydra), Giancarlo Prete (Ladyhawke, Fuga dal Bronx, I nuovi barbari, L’ultimo squalo, Satanik e i serial televisivi Spazio 1999 e La gabbia) e Saturno Cerra (Il mostro dell’obitorio, Quando Marta urlò dalla tomba, A due passi da… l’inferno).

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Capitolo Settimo Bellici, spy movie e western fine anni Sessanta

Un milione di dollari per sette assassini (1966) è uno spy movie internazionale ambientato in Egitto, scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Gianfranco Clerici. Interprete principale il diligente Roger Brown nei panni del famoso ladro Michael King, ingaggiato da un ricco uomo d’affari per ritrovare il figlio sequestrato. Purtroppo il ragazzo è morto ed è così che il riccone offre a King un milione di dollari per uccidere gli assassini. Tra gli interpreti ricordiamo Carlo Hintermann, José Greci, Erika Blanc, Monica Pardo, Mark Trevor, Valentino Macchi, Tor Altmayer (Tullio Altamura), Anthony Gradwel (Antonio Gradoli). Non è certo un film memorabile, convenzionale e turistico come pochi, niente di diverso dagli spionistici contemporanei, formato cartolina turistica egiziana. Lenzi è bravo a gestire risse, scazzottate e scene d’azione, ma tutto risulta molto datato. Produce il solito Fortunato Misiano per la Romana Film. Musica di Lavagnino. Attentato ai tre grandi (1967) è un film di guerra, uno dei bellici tanto cari a Umberto Lenzi, che scrive anche soggetto e sceneggiatura. Il film è ambientato nel 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale, in occasione della Conferenza di Casablanca tra Roosevelt, Churchill e De Gaulle. Il Reich invia in Africa un commando di cinque uomini capitanati dal maggiore Schoeller (Clark) per uccidere i tre capi di stato. Ma gli alleati, che sono a conoscenza della missione, preparano le contromisure del caso. Come ci disse tempo fa lo stesso Lenzi, il regista rinunciò a girare il seguito di Kriminal e il film su Satanik per scrivere e mettere in scena un bellico a cui teneva molto e che ritiene il miglior film del primo periodo della sua carriera. Ha vinto la medaglia d’oro della critica toscana, affermava. Lenzi ha una grande preparazione storica e la mette al servizio del racconto, imbastendo una produzione nettamente superiore alla media italiana del periodo. I mezzi sono quel che sono ma l’inventiva è tanta come non è da meno il mestiere nel girare scene d’azione e sequenze di massa. Tutti gli stereotipi del cinema di guerra sono presenti, per un non appassionato del genere è difficile da seguire e da digerire, ma in un mare di convenzioni qualcosa di origina41 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le emerge e le sorprese sono dosate bene. Musica del solito Angelo Francesco Lavagnino. Produzione a tre: Italia, Francia e Germania. Interpreti: Ken Clark, Horst Frank, Jeanne Valérie, Carlo Hintermann, Howard Ross (Renato Rossini), Franco Fantasia, Hardy Reichelt, Fabienne Dali, Tom Felleghi e Gianni Rizzo. Produce Alberto Grimaldi per la parte italiana. Fotografia di Carlo Carlini, montaggio di Eugenio Alabiso per 96 minuti di effetti bellici. Bertrand Tavernier figura come aiuto regista e cura l’edizione francese. Lenzi nega: “Feci tutto io. Il film è soltanto mio. E lo girai a Casablanca, nello stesso albero dove i tre grandi si erano incontrati”, ci confidò alcuni anni fa. Titolo formato esportazione: Desert Commandos, anche perché lunghe sequenze sono girate nel deserto marocchino. Tutto per tutto (1968) è il primo western di Lenzi, coproduzione italo spagnola, scritto da Eduardo Manzanos (Maria) Boschero, che lo sceneggia insieme a Nino Stresa (il produttore). Produce Fida, musiche di Bacalov e Giombini, montaggio di Alabiso e fotografia di Ulloa. Non molto lungo, 84 minuti di convenzioni western con Mark Damon, John Ireland, Fernando Sancho, Monica Randall, Eduardo Fajardo, Raf Baldassarre, Claudio Scarchili, Ivan G. Scratuglia. Si narrano le vicissitudini di un baro (Damon) socio di un fuorilegge (Ireland) e di alcuni banditi messicani per recuperare un bottino. Sorpresa finale mentre i vari protagonisti cercano di fregarsi a vicenda. Lenzi se la cava bene girando un western cinico e divertente, variazioni sul tema del duello alla Sergio Leone, altre cose originali, ma in definitiva niente di epocale. Non è il genere western che consacra il miglior Lenzi. Una pistola per cento bare (1968) è il secondo e ultimo western, da un soggetto di Eduardo Manzanos (Maria) Boschero, sceneggiato dal regista con la collaborazione di Marco Leto, interpretato da Peter Lee Lawrence, John Ireland, Piero Lulli, Andrea Scotti, Franco Pesce ed Eduardo Fajardo. Produzione italo spagnola, musiche di Lavagnino, fotografia di Alejandro Ulloa, montaggio di Eugenio Alabiso. Lawrence è Jim, il protagonista, un testimone di Geova che detesta la violenza e viene condannato ai lavori forzati. Alla fine della guerra di Secessione diventa sceriffo di Tucson e vendica i genitori con l’aiuto di un predicatore - pistolero (Ireland). Non mi piace il western. Non ho mai amato i cavalli, ci confidò Lenzi. Ma pure questa volta non se la cava male, forse perché le scene d’azione sono abbastanza simili. I due western girati da Lenzi per motivi alimentari (come ci disse alcuni anni fa) sono stati realizzati su contratto chiuso con Grimaldi della Pea, che produsse Tutto per tutto. Dalla casa madre si staccò Salvatore 42 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Alabiso che produsse in proprio (con la Tritone) Una pistola per cento bare, che Grimaldi si limitò a distribuire. La legione dei dannati (1969) è un ritorno al bellico con un soggetto di Romano Moschini e Stefano Rolla sceneggiato da Dario Argento, Rolf Grieminger, Eduardo Manzanos (Maria) Boschero. Produzione Italia, Spagna, Germania. Musiche Marcello Giombini. Protagonista Jack Palance nei panni del colonnello Henderson, che poco prima dello sbarco in Normandia assolda sei avanzi di galera per sabotare un supercantiere dietro le linee tedesche. Molto fumetto di guerra, stile una sporca mezza dozzina, con i tedeschi non così canaglie, a parte le SS. Tra gli interpreti ricordiamo Tom Hunter, Robert Hundar (Carlo Undari), Helmut Schneider, Wolfang Preiss, Curd Jurgens, Diana Lorys, Franco Fantasia, Lee Burton (Guido Lollobrigida) e Mirko Ellis.

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Capitolo Ottavo I gialli, i thriller e… altro di Davide Longoni

Fra i vari generi affrontati da Umberto Lenzi, una menzione particolare va sicuramente fatta per i gialli/thriller, che il regista ha affrontato in due momenti diversi con due modalità diverse: per cominciare il giallo all’italiana, per il quale Lenzi ha inventato un sotto-genere specifico, quello del giallo erotico italiano, che in seguito egli stesso definirà thriller dei quartieri alti, firmando la trilogia composta da Orgasmo (1969), uno dei film più venduti negli Stati Uniti in quel periodo, Così dolce… così perversa (1969) e Paranoia (1970), tutti interpretati dall’ex stella hollywoodiana Carroll Baker. In tutti questi film combina erotismo, psicologia e intrighi del mondo della nobiltà. Nei primi anni Settanta, dopo la rilettura del thriller argentiano da parte di vari cineasti, anche Lenzi decide di inserirsi nel filone con ben cinque film: Un posto ideale per uccidere (1971), Sette orchidee macchiate di rosso (1972), Il coltello di ghiaccio (1972), Spasmo (1974) e Gatti rossi in un labirinto di vetro (1974). Tutte queste pellicole seguono più o meno fedelmente il modulo argentiano, a differenza di Spasmo, il quale predilige invece calcare terreni più introspettivi e psicologici. Diamo uno sguardo alle trame, cominciando con Orgasmo (1969), che narra la vicenda di una ricca vedova americana che si ritrova nella sua villa un giovane, accompagnato dalla sorella. I due la spingono fino al suicidio, facendola impazzire. Dietro c’è un piano ben preciso, orchestrato dall’avvocato della donna, per toglierle tutto il suo patrimonio. Una volta riusciti nell’intento, però, i tre scoprono una scomoda verità. Orgasmo è il primo incontro tra il regista Umberto Lenzi e l’attrice statunitense Carroll Baker (Baba Yaga), reduce da Il dolce corpo di Deborah di Romolo Guerrieri. In seguito Lenzi e l’attrice gireranno altri gialli considerati dei classici. In origine il film si doveva intitolare Paranoia (questo è il titolo della versione americana, più spinta di quella italiana, nella quale la Baker si mostra completamente nuda in alcune scene). La protagonista del film doveva essere Eleanor Powell, ma alla fine Lenzi scelse la Baker. Ber45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

trand Tavernier figura nei crediti come aiuto regista, ma in realtà non ha mai lavorato al film. In una scena del film è presente il gruppo musicale Free Love, che esegue un brano rhythm’n’ blues. Fra gli altri attori del cast segnaliamo per le loro partecipazioni a film di genere: Lou Castel (Quién sabe?, Requiescant), Tino Carraro (Il gatto a nove code, La lupa mannara, A come Andromeda) e Jacques Stany (Il castello dei morti vivi, 4 mosche di velluto grigio, Anno Zero: Guerra nello spazio, 2019: dopo la caduta di New York). Così dolce… così perversa (1969) vede le musiche composte da un grande Riz Ortolani e racconta la storia di una donna che si insinua nel rapporto di una coppia aperta a nuove esperienze sessuali. Alla fine si scopre che c’era un complotto a tre per mettere le mani sull’eredità di un uomo. La trama di Paranoia (1970) ci mostra la bella Helene invitata a Palma di Maiorca dal suo ex marito, Maurice, nel frattempo risposatosi con la più anziana Costance. Giunta sul luogo apprende, con sorpresa, che in realtà a invitarla è stata proprio Costance: la donna intende servirsi dell’aiuto di Helene per uccidere Maurice. In cambio di un lauto compenso Helene accetta, ma durante la gita in barca che dovrebbe servire per eliminare Maurice, l’uomo si accorge dell’accordo fra le due donne e uccide Costance. Helene deve tacere, essendo invischiata in prima persona nei fatti. Solo successivamente Helene comprende che Maurice tradiva l’anziana moglie con Susan, figlia diciottenne di Costance. Al fine di non essere ricattati Maurice e Susan eliminano Helene simulando un incidente. La polizia, però, forse ha intuito tutto. Un posto ideale per uccidere (1971) vede fra gli interpreti Irene Papas, Ornella Muti, Ray Lovelock, Sal Borgese e Ugo Adinolfi, mentre le musiche sono opera di un impensabile, in questo ruolo, Bruno Lauzi. La storia è quella di una coppia di studenti danesi che si fa ospitare da una ricca signora americana che ha appena ucciso il marito. La donna decide di incastrare i due giovani, mettendo il cadavere del marito nelle loro auto. Sette orchidee macchiate di rosso (1972) si ricorda anche per le musiche che sono ancora di Riz Ortolan. Un assassino compie due omicidi con vittime donne e si firma lasciando sul luogo del delitto una mezzaluna d’argento. Una donna di nome Giulia viene aggredita con la stessa metodica durante il viaggio di nozze ma riesce a salvarsi. La polizia capeggiata dal commissario Vismara inizia ad indagare su questi casi di violenza, ma è il marito di Giulia, Mario, a scoprire che le tre vittime del maniaco hanno un 46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

legame: tutte hanno trascorso del tempo in un centro turistico di una località balneare. Mario mette immediatamente al corrente il Commissario di ciò che ha scoperto, e questi provvede rintracciando e proteggendo tutte le altre donne, tuttavia l’assassino riesce a uccidere alcune di loro nonostante la protezione fornita dalla polizia. Alla fine Mario riesce ad impedire all’assassino di uccidere Giulia, e si scopre anche il movente: il maniaco è un pastore evangelico fratello di un uomo che era morto per omissione di soccorso in quella località balneare, all’epoca dei fatti venne ipotizzato che il colpevole fosse una giovane donna e il pastore reso folle dalla rabbia decise di uccidere tutte le possibili colpevoli. Il coltello di ghiaccio (1972), ancora con Carroll Baker, protagonista della trilogia dei thriller dei quartieri alti, vede la famosa cantante Jenny Ascot in visita dalla cugina Martha Caldwell, da tempo muta a seguito di uno shock subito dopo un incidente ferroviario nel quale morirono entrambi i genitori. Martha appare entusiasta nel rivedere la cugina ma, durante il viaggio verso casa, entrambe scorgono lo sguardo di un uomo dallo specchietto della macchina. Casa Caldwell è immersa nelle nebbie dei Pirenei, e il clima triste lascia Jenny alquanto scossa. Durante la notte Jenny viene attratta da un grosso rumore proveniente dal garage della villa. Scesa nel deposito auto, viene assassinata da una figura ignota. La polizia è convinta si tratti di opera di un maniaco e si mette sulle tracce dell’uomo che, qualche sera prima, spiò Jenny e Martha. Dopo pochi giorni, anche la governante di casa Caldwell, la signora Pretòn, viene rinvenuta uccisa da un maniaco. Braccato dalla polizia, l’uomo che spiava Jenny e Martha viene arrestato. Pochi giorni prima anche la fidanzata di quest’ultimo era stata rinvenuta morta, lungo un fiume. Il caso sembra chiuso ma, qualche settimana dopo, la piccola Christine, amica di casa Caldwell, viene ritrovata strangolata. La polizia, dunque, riapre le indagini e scopre che la fidanzata del vagabondo era morta per overdose e non per mano del ragazzo arrestato. Solo alla fine si scopre che l’assassina è proprio Martha: aveva ucciso la cugina perché invidiosa della sua bella voce poi, per avvalorare la tesi del maniaco, aveva assassinato la signora Pretòn. La piccola Christine era stata uccisa perché, sebbene in modo assai ingenuo, aveva scoperto elementi che potevano incriminare Martha. Vistasi scoperta, colta da forte emozione, Martha ritrova la voce, gridando e parlando ad alta voce ma, nonostante questo aspetto positivo, ora è più sola che mai e viene tratta in arresto dalla polizia spagnola. Spasmo (1974), che vede fra gli interpreti Ivan Rassimov e alle musiche 47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

il maestro Ennio Morricone, ci racconta di Christian, azionista di maggioranza nella fabbrica del fratello Fritz, che un giorno, mentre cerca di appartarsi in riva al mare assieme ad una ragazza, rinviene un manichino di donna seviziato, e poco dopo trova sulla spiaggia Barbara, una giovane svenuta cui presta soccorso. Ne è subito attratto, ma la ragazza fugge in automobile. L’uomo riesce a rintracciarla sullo yacht del suo spasimante Alex. Sedotto dalla donna, Christian si lascia condurre in un motel. Nel bagno della stanza, tuttavia, viene aggredito da uno sconosciuto armato di pistola e, dopo essersi impadronito dell’arma, fa partire un colpo che lo abbatte. Credendo di averlo ucciso fugge con Barbara verso una rocca sperduta sulla scogliera. Alla rocca incontra Malcolm e Clorinda, un signore anziano e una ragazza che sostengono di avere affittato l’abitazione. Christian è certo di aver già visto i due in passato. Il fatto di non aver trovato il cadavere del suo aggressore quando era tornato al motel, poi, cui ora si unisce il costante rinvenimento di forbici insanguinate, sembrano voler farlo impazzire, anche perché i misteriosi affittuari non credono alla sua storia. Convinto di essere vittima di un complotto, il mattino dopo prende l’automobile per andare a cercare Barbara. Mentre mette in moto la macchina, Barbara appare in lontananza alle sue spalle. Poco dopo, sentendo dei rumori strani, scende dal veicolo. L’aggressore della sera prima, Torres, si materializza, prendendolo in ostaggio e conducendolo verso un dirupo. Christian si salva anche questa volta, uccidendo Torres e lanciando poi l’auto nel vuoto. Entrato quindi di nascosto in fabbrica, ascolta un colloquio tra i vari complici del complotto. A Fritz viene comunicato che il piano d’emergenza è riuscito, per la disperazione di Barbara, la quale in buona fede pensava di dover convincere Christian a farsi curare in un ospedale psichiatrico, a causa di turbe mentali che già in passato lo avevano costretto al ricovero. Le cose dovevano in effetti andare così, ma l’imprevisto innamoramento di Barbara e la pietà di Malcolm avevano cambiato il programma. Per questo Malcolm era stato ucciso. Christian va dal fratello, che lo accusa di essere stato da piccolo la causa della morte del padre, ufficialmente suicida. Il filmato che Fritz sta guardando mostra i suoi funerali: il sopravvissuto riconosce Malcolm, e improvvisamente recupera nella memoria anche l’identità di Clorinda, infermiera dell’ospedale psichiatrico. In seguito raggiunge Barbara, ormai rassegnatasi a vivere con Alex, e l’abbraccia, ma mentre i due già sognano un futuro insieme l’uomo la uccide. Alex rientra trovando l’amata morta: l’assassino, distrutto, lo implora di sparargli. Un colpo di telefono, nello studio di Fritz, comunica all’imprenditore la morte del fratello. 48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Prima di arrivare sul posto, entra in una stanza piena di manichini seviziati: la malattia di cui soffriva Christian era ereditaria. Gatti rossi in un labirinto di vetro (1974), musicato da Bruno Nicolai, narra di un gruppo di americani in gita a Barcellona che si trova improvvisamente coinvolto in una serie di efferati delitti in cui un ignoto assassino uccide a coltellate giovani donne cui strappa poi l’occhio sinistro. La polizia sospetta, dopo avere a lungo brancolato nel buio, che l’omicida sia il pubblicitario Mark Burton, amante della signorina Paulette Stone. L’uomo, dal canto suo, ritiene che responsabile degli omicidi sia però sua moglie Alma, da tempo malata di nervi. A scoprire la verità, con l’aiuto di una foto scattata da una delle vittime, è una giovane lesbica, Naiba. L’assassina, poiché è di una donna che si tratta, è Paulette: priva di un occhio perso in un incidente, uccide per “vendicare” la sua inferiorità. Trovandosi faccia a faccia con lei, Naiba sta per subire la sorte delle altre donne, ma la polizia interviene in extremis, uccidendo Paulette.

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Capitolo Nono Anni '70: Dai gialli al poliziesco, tra cannibalici e war movie

Orgasmo (1969) Orgasmo è il primo thriller torbido ambientato nell’alta società che Umberto Lenzi scrive e sceneggia potendo contare come attrice principale sulla statunitense Carroll Baker. Seguiranno: Così dolce… così perversa, Paranoia (gialli classici) e Il coltello di ghiaccio (thriller argentiano). Un cast da favola, se si pensa che la controparte maschile sadica e perversa è Lou Castel (I pugni in tasca, Grazie zia) insieme alla sedicente sorella Colette Descombes (diabolica e lesbicheggiante). Non male Tino Carraro nei panni del legale di famiglia che studia un piano talmente perfetto da fallire a cose compiute e la governante Lilla Brignone, allucinata e torbida. Jacques Stany è l’ispettore inglese che scopre la macchinazione nei panni di un finto vicino di casa. A parere di Lenzi, Orgasmo è tra i suoi film migliori (condividiamo!), rovinato da un produttore disgraziato che modificò il titolo originale Paranoia (rimasto per le versioni estere), utilizzato per una pellicola successiva. Lenzi ci confidò alcuni anni fa che come seconda scelta del titolo aveva pensato a I perversi, ma la produzione preferì Orgasmo, nella convinzione che fosse sinonimo di tensione, senza pensare ai risvolti negativi in un paese cattolico e bacchettone come l’Italia degli anni Sessanta. Orgasmo uscì il 2 febbraio, prima nazionale al cinema Fiamma di Roma; fu ritirato di circolazione a marzo, poco prima di Pasqua, per questo motivo – nonostante gli applausi a scena aperta del debutto – incassò appena 500 milioni. Altre cose che ci disse Lenzi, circa dieci anni fa, quando avevamo deciso di scrivere un libro sul suo cinema: “Bertrand Tavernier non l’ho mai visto, non so neppure chi sia, viene citato come assistente alla regia, ma sul set non c’è mai stato, forse è stato inserito nei titoli per motivi di coproduzione”. E sulla scelta della protagonista: “Per il ruolo della protagonista avevo pensato a Eleanor Powell, ma incontrai la Baker che si trovava a Roma e aveva appena lavorato con Ferreri (L’harem). Mi parve più adatta. Era di una bellezza solare e al tempo stesso inquietante, perfetta per la situazio51 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne”. Orgasmo è un film onirico e psichedelico, a tratti sadico e masochista, molto spinto per i tempi, ricco di situazioni erotiche conturbanti, di rapporti sessuali a tre, amplessi nel prato e sotto la doccia. Pure se la versione inglese è più spinta della nostra e la Baker appare spesso completamente nuda, anche nella copia per il mercato italiano gli eccessi bastano a garantire un divieto ai minori. Lenzi confeziona un giallo classico, hitchcockiano, fuori da ogni stereotipo, per niente convenzionale, lo condisce di eccessi erotici, saffici e perversi, dispensando a piene mani alcol, droga e rock and roll. Thriller psicologico senza effettacci, anzi con alcuni finti effetti speciali nella sequenza del non morto, del cadavere scomparso che finisce per cadere da un armadio. Colonna sonora piacevole e ritmata di Piero Umiliani arricchita da canzonette pop di Lydia McDonald (Fate or Planned It So e Just Tell Me) che accompagna in un giusto crescendo la tensione del thriller, a tratti persino orrorifico. Tecnica di regia sopraffina: Lenzi fa largo uso di zoom – assecondando una moda del tempo – e primissimi piani (taglio degli occhi alla Sergio Leone) con diverse soggettive che rendono inquietante il climax della storia. Il soggetto è sceneggiato con una scrittura a incastro che rende la trama priva di personaggi positivi, perché persino la vittima ha uno scheletro nell’armadio e nessuno è completamente incolpevole. Giusta punizione per tutti, ciascuno colpito secondo il male che ha fatto. Fotografia a quattro colori dove prevale una tonalità marrone - ocra, molte dissolvenze e immagini sfumate sul più bello per evitare le ire dei censori. Umberto Lenzi gira un giallo classico che si avvicina al thriller all’italiana ma non è ancora giallo argentiano, restando confinato nei limiti del giallo da quartieri alti, perverso e saffico, misogino e masochista. Un film che è invecchiato bene, ancora valido dopo cinquant’anni, rapido, intenso, angosciante e claustrofobico. J&B sponsor unico per i liquori, vista la presenza quasi ossessiva della famosa marca di whiskey.

Così dolce… così perversa (1969) Così dolce… così perversa è il secondo giallo sexy diretto dal regista e interpretato ancora da Carroll Baker (Paranoia, Baba Yaga, Skeletons), dopo Orgasmo. Il film ebbe meno successo di pubblico e di critica del precedente. Da segnalare che per le copie destinate all’estero furono inserite scene più spinte, riguardanti proprio la Baker. Fra gli sceneggiatori del film troviamo Ernesto Gastaldi, che durante la sua carriera si è spesso occupato 52 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di pellicole di genere, come: L’amante del vampiro, Lycanthropus, L’orribile segreto del dr. Hichcock, La frusta e il corpo, La cripta e l’incubo, Libido, La decima vittima, Flashman, Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, La coda dello scorpione, La morte cammina con i tacchi alti, Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer?, I corpi presentano tracce di violenza carnale, Assassinio al cimitero etrusco, 2019 - Dopo la caduta di New York e molti altri. Fra gli attori si segnalano anche: Helga Liné (Amanti d’oltretomba, Kriminal, Il marchio di Kriminal, Le guerriere dal seno nudo), Horst Frank (Il gatto a nove code, L’occhio nel labirinto, L’etrusco uccide ancora), Jean-Louis Trintignant (Antinea, l’amante della città sepolta, Immortal - ad vitam), Erika Blanc (Agente S03 operazione Atlantide, Operazione paura, La notte che Evelyn uscì dalla tomba, La terrificante notte del demonio, Body puzzle), Ermelinda De Felice (Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, I corpi presentano tracce di violenza carnale), Giovanni Di Benedetto (L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, Extra), Renato Pinciroli (Il mio nome è Nessuno), Lucio Rama (Esp), Beryl Cunningham (Le salamandre, Il dio serpente, L’isola degli uomini pesce) e Dario Michaelis (I vampiri, La morte viene dallo spazio). Così dolce… così perversa è il secondo thriller erotico, un giallo classico ambientato nei quartieri alti, interpretato da una Carroll Baker perversa e seducente, forse più perfida che in Orgasmo, molto nuda nelle versioni riservate al mercato estero, che sfida in malizia Erika Blanc e vede come controparte maschile un ottimo Jean-Louis Trintignant. Tutto ruota attorno a un delitto perfetto organizzato da tre persone (Baker, Blanc, Frank) per ereditare la fortuna economica di Trintignant, annoiato industriale parigino che cornifica la moglie (Blanc) senza tanti problemi. Carroll Baker (Danielle) diventa oggetto delle attenzioni di Trintignant mentre la moglie pare ingelosirsi ma è tutta una messa in scena che fa parte del complotto, perché la tresca vede le due donne nei panni di diaboliche amanti mentre un complice maschile compie il delitto. Molti colpi di scena nella seconda parte, momenti onirici inquietanti, segmenti orrorifici angoscianti, omicidi a sangue freddo in un crescendo di follia. Tra le cose migliori la colonna sonora suadente di Riz Ortolani con la canzone Why (Ortolani - Newell) cantata da Vincent Ewell. Soggetto di Luciano Martino e Massimo D’Avack (che Gastaldi afferma di non conoscere), in realtà due pagine con una bozza di trama, rielaborate e sceneggiate da Ernesto Gastaldi, abile costruttore di intrecci e di atmosfere giallo erotiche. La storia approfondisce un tema già af53 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

frontato in Orgasmo, dedicandosi ad analizzare la corruzione del bel mondo, i vizi privati inconfessabili dei componenti dell’alta società. Sceneggiatura piuttosto articolata che nel finale diventa un meccanismo a orologeria per confondere il pubblico. Doppio finale, forse anche triplo quando in aereo intravediamo il volto del commissario di polizia alla caccia della coppia diabolica, convinto che sia colpevole dell’omicidio sia di Trintignant che della Blanc. Location principale il centro storico di Parigi, tra Campi Elisi, Torre Eiffel e Lungo Senna; breve parte marina in Toscana, a Punta Ala, dove intravediamo le Isole Formiche e parte del Golfo di Follonica. Tecnica di regia matura, grande uso dello zoom, primissimi piani, taglio degli occhi, soggettive da horror, inquietanti flashback e parti oniriche con la suggestiva fotografia di Mancori che cambia colore dal rosso al blu. Molto erotismo, generosi nudi di Baker e Blanc, con un’interminabile sequenza di bacio che vede protagonisti Baker e Trintignant, oltre a un sexy spogliarello dell’esotica Beryl Cunningham. Ricordiamo una grande sequenza onirica a bordo di un’auto lanciata lungo una discesa di una strada stretta durante la quale Lenzi mostra ancora una volta tutta la sua perizia di regista d’azione. Così dolce… così perversa è un giallo classico alla Hitchcock con varianti erotiche e momenti ad alta tensione tipici del cinema italiano. Pubblicità indiretta dedicata alle Marlboro, spesso in primo piano. Un film non molto amato dalla critica. Titoli per il mercato estero: Si douce, si perverses (Francia), Die süsse Sunderin (Germania), So Sweet… So Perverse (Gran Bretagna, Usa). Ernesto Gastaldi ci racconta qualche curiosità sul film: “Lenzi trovò la sceneggiatura pronta, ci salutammo e poi lui la girò. Ci eravamo già salutati così per I pirati della costa e Le avventure di Mary Read, dopo che lui, mio compagno di scuola, compagno anche di Mara, aveva rifiutato di darle una particina. Si arrivò alla produzione di quel film e poi a tutti gli altri gialli italiani, partendo dalla scommessa fatta da Loy e Martino per Libido. Credo che tu conosca già la storia”. Non la ricordo molto, rispondo. Gastaldi non si fa pregare, da affabulatore di professione, mi spiega tutto per filo e per segno: “Martino e Loy hanno una divergenza di opinioni su una questione squisitamente teorica: Mino sostiene che un bravo tecnico può facilmente fare il regista e Luciano che i migliori registi vengono dalla sceneggiatura. Poiché sono di passaggio in ufficio vengo interpellato come arbitro e propongo una prova: dirigano un film per uno, Mino è un tecnico e Luciano un ex-sceneggiatore. Luciano dice che potrei provare io. Accetto subito. Non perché sia ansioso di fare il regista ma perché ho a casa un'attrice che ha ri54 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fiutato un contratto in bianco con Vadim (Mara Maryl) e lo va ripetendo con allarmante frequenza. Mino cerca di tirarsi indietro: non vuol rischiare milioni per una prova. Ma io faccio un po’ di conti: per fare un piccolo film giallo, in bianco e nero, con attori nuovi si può stare dentro una spesa di circa venticinque milioni che loro potrebbero farsi dare come minimo garantito da una ditta di noleggio. I due produttori si guardano, affacciati sulle scrivanie paritetiche e scuotono la testa:- Le spie uccidono a Beirut, diretto da noi in economia strettissima, è costato sessantadue milioni. Nessuno può fare un film con venticinque.- In effetti costò 26”. Andiamo avanti a parlare di giallo italiano. Gastaldi prosegue il racconto: “Quello che di certo non sai è che Libido ebbe in Italia un esito mediocre (160 milioni di incassi mi pare) ma venne venduto negli USA doppiato in inglese. Doppiaggio contestato dagli americani perché Martino aveva mescolato le parlate per cui uno era del Texas e l’altro di Boston, senza senso. Rifecero il doppiaggio e il film partì alla grande. Nel 1967 eravamo a 400 milioni di incassi esteri e il film era costato solo 26 milioni, si parla sempre di lire, ovviamente. Oggi è diventato un film cult. Tim Lucas l’ha ancora messo in copertina 40 anni dopo. I venditori esteri chiesero altri gialli, così Martino e Loy mi fecero scrivere Il dolce corpo di Deborah a cui seguì subito Così dolce… così perversa. Luciano aveva buttato giù 2 paginette scritte a mano e io scrissi direttamente la sceneggiatura per far presto. Non so chi è D’Avack. L’idea del finalissimo sull'aero è mia, risvoltino alla I diabolici. Ho usato spesso questo giochino nei miei gialli, tanto per lasciare qualcosa in sospeso per il pubblico, sperando che ne parlasse all’uscita dai cinema...” Ultimo film di Umberto Lenzi con l’attrice Carroll Baker (Baba Yaga, Skeletons), dopo Orgasmo e Così dolce… così perversa, il regista chiude con questa trilogia un cerchio cinematografico più votato al giallo e svolta verso il thrilling con titoli come Sette orchidee macchiate di rosso, Spasmo e Gatti rossi in un labirinto di vetro, intervallando i titoli con i Milian movies e i cannibalici. La colonna sonora di Paranoia è opera del compositore spagnolo Gregorio García Segura, ma soprattutto vede la presenza di Nino Rota, che durante la sua carriera ha lavorato con registi del calibro di Francis Ford Coppola, Federico Fellini e Luchino Visconti (per citarne alcuni) e ha scritto le musiche per film come Fantasmi a Roma, Tre passi nel delirio e l’indimenticabile tema principale de Il Padrino. Fra gli attori segnaliamo, oltre alla Baker, anche: Jean Sorel (Una lucertola con la pelle di donna, La corta notte delle bambole di vetro), Jacques 55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Stany (Il castello dei morti vivi, Orgasmo, 4 mosche di velluto grigio, Anno Zero: guerra nello spazio, Assassinio al cimitero etrusco, 2019 - Dopo la caduta di New York) e Calisto Calisti (Omicron, I diafanoidi vengono da Marte, Orgasmo, 4 mosche di velluto grigio).

Paranoia (1970) Terzo thriller girato da Umberto Lenzi con protagonista Carrol Baker, da vedere nelle copie formato esportazione, sottotitolate in inglese per il mercato estero, perché diverse sequenze di nudo della bella statunitense sono state sforbiciate dalla censura italiana. Film tutto girato a Palma di Maiorca con un nuovo triangolo stile Orgasmo, questa volta composto da un ex marito conteso tra la nuova moglie e la prima consorte. Tutto è finalizzato al compimento di un omicidio che subisce risvolti impensati con la mandante che diviene vittima, fino a una conclusione inattesa quando entra in gioco la giovane figlia della consorte uccisa e l’intrigo si complica. Jean Sorel è il playboy sciupafemmine che tutti vorrebbero far fuori, interessato soprattutto ai soldi, Anna Proclemer la seconda moglie vendicativa, Marina Coffa la ragazzina perversa che partecipa al torbido intrigo. La più giovane del quartetto è l’attrice più modesta, meno calata nel personaggio, mentre gli altri tre interpreti risultano perfetti e ben diretti da Lenzi. Un nuovo giallo dei quartieri alti, morboso e perverso, con venature thriller, ricco di suspense e tensione, girato con mano ferma, macchina da presa inquieta e nervosa che spazia da un primo piano all’altro, zumando quando necessario e soffermandosi su particolari interessanti. Lenzi è un maestro del brivido, conosce a menadito i tempi cinematografici e inserisce elementi di pura azione imprescindibili nell’economia della pellicola. Le sequenze a bordo di auto di alta cilindrata sono straordinarie, sia la prima ambientata in una pista automobilistica che le altre girate alle Canarie, su una strada in discesa ricca di tornanti, a strapiombo sul mare. Queste scene valgono da sole il prezzo del biglietto (nel nostro caso del dvd), girate con una tale maestria da anticipare ciò che Lenzi saprà fare nel poliziottesco, alle prese con inseguimenti cittadini. Montaggio nervoso, spezzettato, a base di rimandi temporali, parti oniriche e inquietanti flashback; fotografia in quattro colori tendente al giallo ocra con molte sequenze marine e scogliere che degradano verso calette misteriose; sceneggiatura a orologeria, senza punti morti, angosciante, ad alta tensione. Tecnica di regia che usa molto la sog56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gettiva e i primi piani, insiste su volti e sguardi sospettosi, fa largo uso di effetti speciali, fino alla sequenza del volo di un’auto da un dirupo che finisce in fiamme. Erotismo torbido meno intenso rispetto a Orgasmo; alcune scene vedono la Baker completamente nuda ma il massimo della perversione va ricercato nelle cose appena intuite, come il rapporto tra il playboy e la figlia della moglie quando aveva appena quindici anni. Molte dissolvenze servono a creare tensione e inseriscono elementi di sospetto, tanti colpi di scena si susseguono uno dopo l’altro, inseriti ad arte, ma il migliore resta quello sul quale si scrive la parola fine. Indagine macchinosa, condotta da un giudice abbastanza risibile, soprattutto quando ricerca il corpo della moglie senza trovarlo e quando i sospetti si appuntano sulla Baker che finisce per morire in un incidente organizzato dagli amanti diabolici. Il giudice si sente in colpa per aver sospettato della donna e crede di averla spinta a un improbabile suicidio. Rimorso che dura un solo istante perché subito dopo alcuni pescatori ritrovano il corpo della prima vittima legato e accoltellato: i perfidi amanti vedono svanire il sorriso dai loro volti e trasformarsi in palpabile preoccupazione. J&B pure in questa pellicola sponsor unico del reparto liquori. Titoli esteri: Una droga llamada Helen (Spagna), Os Ambiciosos Insaciàveis (Brasile), A Quiet Placet o Kill (USA e GB).

Un posto ideale per uccidere (1971) Umberto Lenzi scrive il soggetto e lo sceneggia con la collaborazione di Lucia Drudi Demby e Antonio Altoviti. Musiche niente meno che del cantautore genovese Bruno Lauzi, per lui prova insolita come autore di colonna sonora. Irene Papas nelle poche sequenze di nudo (un seno) vede come controfigura Antonia Santilli, che prende il posto anche di Ornella Muti nelle parti più hot. Quando la giovane attrice non è ripresa a figura intera ma si vedono solo le parti intime si tratta della collega meno famosa. Un thriller on the road di hippy in polemica con la società borghese, che vede la location principale tra Pisa e Tirrenia, dopo una rapida partenza in Danimarca, mentre gli interni sono girati a Cinecittà. Molte parti musicali, senza parole, dissolvenze con risvolti sexy, foto con autoscatto durante momenti erotici e suadenti note di Lauzi che accompagnano gli eventi. La pellicola presenta tutte le fascinazioni sessantottine del mondo dei figli dei fiori, la discoteca anni Settanta, le corse sulla spiaggia e i bagni nelle acque del mare. 57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La critica non è tenera. Per Mereghetti è un estenuante thriller che non parte mai, che cerca di contrapporre i giovani contestatari (quanto mai improbabili) ai ricchi corrotti. Per Marco Giusti è un thriller con hippy e la dark lady nella casa del mistero. Interpretazione autentica di Umberto Lenzi, fornita ad Amarcord: “Un film sbagliato che ripudio. Avrei voluto fare una cosa alla Easy Rider, un on the road giovanilistico, ma la produzione voleva un giallo, pretendeva ancora una volta la Baker, poi si parlò di Anna Moffo, alla fine uscì fuori dal cilindro Irene Papas, molto brava ma non certo seducente, e Ornella Muti come intrigante ragazzina. L’idea era buona ma i produttori rovinarono tutto: sostituirono la droga con le foto porno, perché Ponti non voleva che in un suo film ci fossero scene che mostravano tossicodipendenti. Ponti non era certo un uomo di larghe vedute, lui non era stato neppure scalfito dal clima del Sessantotto. Il film fu un disastro e io mi giocai il futuro con la sua casa di produzione”. Noi non lo abbiamo visto così disastroso, nonostante alcuni elementi che risentono del tempo passato resta una pellicola con momenti interessanti e trasgressivi. Il rapporto ambiguo che per buona parte del film lega i tre protagonisti è piuttosto inquietante e dà vita a momenti erotici e sadomasochisti abbastanza sopra le righe. Ricordiamo una doccia di Ornella Muti, un bacio saffico, una danza del ventre e alcuni seni nudi, in alcuni casi della controfigura Santilli. Lenzi gira alcune scene di pura azione che restano impresse nell’immaginario, parti quasi da poliziottesco, soprattutto uno straordinario inseguimento finale con l’auto che cade da un dirupo. Da ricordare la sequenza nella voliera con Irene Papas che brandisce un coltello e tenta di uccidere Ray Lovelock. Non dimentichiamo il vestito strappato della Papas mentre Lovelock la minaccia con una sigaretta accesa e per un istante pare che voglia bruciarle un capezzolo. Thriller claustrofobico e angosciante con perversioni incluse, tecnica di ripresa a base di zoom, abbondanza di primi piani, soggettive, particolari dei volti e parti oniriche che raccontano gli eventi del passato. Antonio Mellino interpreta se stesso, terrore napoletano del tempo, nei panni del suo alter ego Agostino o’ pazzo, nomignolo con cui era noto negli ambienti della malavita. In questo film è uno stuntman ladruncolo, fortemente voluto da Lenzi proprio per l’eco suscitata dalle sue mirabolanti imprese. Rita Savagnone doppia la Papas, Micaela Esdra fornisce la voce a una giovanissima Ornella Muti. Massimo Turci è Ray Lovelock, Pino Locchi è Michel Bardinet.

58 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Sette orchidee macchiate di rosso (1972) Un buon thriller, nonostante la critica negativa, anche perché le scene delle uccisioni valgono il prezzo del biglietto, girate in maniera credibile, con particolari efferati e grande realismo. Tutti gli stilemi del thriller argentiano – direi meglio baviano – vengono seguiti da Lenzi e Gianviti in fase di scrittura (il titolo è tutto un programma), ma sono resi originali da uno stile concreto e rapido, tipico del regista maremmano. Pur girato bene il film non si caratterizza per particolare suspense ma dà il meglio di sé nelle sequenze a base di effettacci truculenti. Tecnica di regia notevole con molte soggettive del killer e della vittima, la mano guantata sempre in agguato, i momenti di tensione sempre azzeccati. Uccisioni fantasiose: bastonate, coltellate, affogamento, strozzamento in confessionale, soffocamento. Location tra Roma, Orbetello, Punta Ala e Spoleto. Ricordiamo diverse sequenze ad alta tensione con il killer che insegue la vittima, che diventano concitate soprattutto nel finale, quasi interminabile. Lenzi inserisce qualche volante della polizia che corre per le strade di Roma e nella periferia di Spoleto, immancabile traccia d’autore votato al cinema d’azione. Sette orchidee lascia perplesso lo stesso regista: “I produttori sciuparono tutto, volevano che scrivessi il film come piaceva a loro. Non solo, pretesero di avere l’ultima parola su ogni singola scena. In ogni caso il film è tecnicamente ben fatto, ci sono alcune scene stupende, penso a Rossella Falk con gli occhi sbarrati che per interpretarla è stata un minuto sott’acqua. Ottime le sequenze delle uccisioni, soprattutto quella della Malfatti, così come è notevole la scena che si svolge nella casa disabitata. Il film è buono, ma se i produttori avessero fatto soltanto il loro mestiere sarebbe venuto meglio”. Leonardo Autera, fan della Falk e critico di teatro, scrive: “Spiace riconoscere, nella parte di una demente, la brava teatrante Rossella Falk, ancora una volta umiliata dal cinema”. Non ci è parsa così umiliata, perché in una breve partecipazione speciale ci regala tutta la sua impostazione teatrale interpretando a dovere una donna paranoica in preda al delirio di persecuzione. Da citare come parte della suggestiva scenografia i quadri di D’Orazio nella Galleria romana La Nuova Pesa. Gabriella Giorgelli ha rivelato a Pulici e Gomarasca (99 Donne): “Nanni Moretti è un cultore della scena della mia morte, che ha rivisto decine di volte”. Cast curioso e ricco di nomi importanti, alcuni persino sprecati per poche rapide apparizioni: Falk, Malfatti, Mell, Gora, Capponi e Sabàto. Marisa Mell è bellissima e inquietante con il suo sguardo da Eva Kant, impegnata in un doppio ruolo, visto che interpreta due sorelle 59 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gemelle, una delle quali uccisa per sbaglio. La colonna sonora di Riz Ortolani ricorda quella di Così dolce… così perversa, forse è proprio quella leggermente modificata, ma è abbastanza efficace. Tra i doppiatori ricordiamo Pino Colizzi per Sabàto, Rita Savagnone per Glass, Nando Gazzolo per Capponi, Cesare Barbetti per il prete killer e Gianfranco Bellini per Corazzari.

Il paese del sesso selvaggio (1972) Il paese del sesso selvaggio è il primo film ascrivibile al sottogenere cannibalico e può essere considerato come una via di mezzo tra l’horror e l’avventuroso. Lenzi farà nuove incursioni nel cannibal movie con Mangiati vivi! (1980) e Cannibal Ferox (1981). Lo stesso film, dopo il successo di pubblico riportato da Cannibal Holocaust di Deodato, venne editato di nuovo con l’ammiccante titolo di Cannibal. Come ha detto lo stesso Umberto Lenzi a Luca Lombardini della rivista on line Positifcinema.com, il copione de Il paese del sesso selvaggio gli venne proposto niente meno che da Emanuelle Arsan, ideatrice dell’omonimo personaggio letterario e filmico, e lui accettò di dirigerlo. “Fu un successo epocale, per la prima volta si vedeva una tribù di cannibali in azione”, commenta il regista maremmano. L’idea originale del film è di Emanuelle Arsan, mentre Francesco Barilli e Massimo D’Avack si limitano a sceneggiarlo. Marco Giusti, su Stracult, afferma che la scrittrice era stata sposata con un diplomatico di stanza in Thailandia, quindi aveva una certa dimestichezza con riti e tradizioni di popolazioni tribali. Il critico romano forse ignora che Emanuelle Arsan era lo pseudonimo della scrittrice thailandese Marayat Virajjakam, che non aveva certo bisogno di un diplomatico francese per conoscere le usanze della sua terra. Marco Giusti (e molti altri critici) sostengono che i riti documentati dalla pellicola sarebbero stati inventati da Barilli, D’Avack e dalla prolifica autrice erotica. Umberto Lenzi alcuni anni fa ci fornì una spiegazione autentica: “I riti sono tutti veri, derivati da esperienze condotte da Emanuelle Arsan e suo marito Luis Jacques Arsan (autori non accreditati del soggetto) presso tribù selvagge al confine tra Birmania e Thailandia”. Lo stesso Lenzi sostiene che la Arsan consegnò nelle sue mani soltanto un canovaccio, una traccia da seguire molto scarna e che la gran parte del lavoro è stata opera sua e degli sceneggiatori. Il cast tecnico de Il paese del sesso selvaggio vede all’opera per la foto60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

grafia il diligente Riccardo Pallottini e per il montaggio l’esperto Eugenio Alabiso. Le musiche, suggestive e di atmosfera, sono di Daniele Patucchi. Produce Roas Medusa. Interpreti principali: Ivan Rassimov, Me Me Lai, Prapas Chindang, Chit Choi, Pipop Pupinyo e Prasitsak Singhara. Molti attori sono thailandesi, per noi sconosciuti, a parte Me Me Lai che ebbe un momento di grande popolarità grazie a diversi film cannibalici e avventurosi. La storia si rifà a Un uomo chiamato cavallo (1970) di Elliot Silverstein con le dovute variazioni di epoca e di ambientazione. Si comincia in perfetto stile mondo movie con un’avvertenza sulla crudeltà di certe situazioni e sui riti dei popoli della giungla thailandese. Il clima da mondo movie si continua a respirare con un’ottima fotografia di Bangkok tra case di legno e piroghe, strade affollate e corsi d’acqua in mezzo alla città. Il regista si sofferma sulla violenta boxe locale, una sorta di wrestling ante litteram, dove quasi tutto è consentito, persino calci e colpi bassi. Ivan Rassimov è Bradley, un fotoreporter inglese che uccide per legittima difesa un uomo che lo aggredisce con un coltello alla fine di un incontro di pugilato. Bradley, dopo aver commesso l’omicidio, è ricercato dalla polizia locale, quindi pensa bene di far perdere le sue tracce rifugiandosi nella foresta thailandese. Lenzi ne approfitta, con l’aiuto del bravo fotografo Pallottini, per mostrare interessanti scorci di vita locale: treni affollati e malandati, elefanti che passano vicino alla ferrovia, autobus scoppiettanti, pieni di gente che grida e si agita. Il regista gira una bella scena di inseguimento in stile poliziottesco, solo che i protagonisti sono un camion di passeggeri e un bici-taxi guidato da un ragazzino. L’autobus esce di strada dopo una serie di movimenti rapidi condotti dal ragazzo che fa perdere il controllo del mezzo all’autista. La fotografia di questa parte è stupenda, con ottime sequenze al tramonto sul fiume, una location esotica ben rappresentata tra scimmie che saltano da un albero all’altro, uccelli marini, frutta tropicale e dialoghi tra Rassimov e un indigeno. È da questo momento in poi che il clima da mondo movie si modifica in puro cinema d’avventura, perché arrivano i selvaggi che sgozzano l’indigeno e catturano Bradley mentre nuota con la muta subacquea. Il fotoreporter viene portato al villaggio, percosso con bastoni e tenuto per giorni esposto dentro la rete, dalla quale assiste al crudele rito con cui gli indigeni tagliano la lingua ai nemici. Tutti credono che Bradley sia una sorta di uomo-pesce, perché lo hanno preso quando indossava la tuta, e quindi continuano a gettarlo in acqua per farlo mangiare e lo trattano come una bestia. Nel film avventuroso non può mancare una storia d’amore, per questo mo61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tivo entra in gioco la bella Me Me Lai. L’attrice thailandese è Maraya, figlia del saggio capo dai capelli bianchi che con l’aiuto della sua governante fa capire al padre che Bradley è un essere umano. Per questo il fotoreporter viene tolto dalla scomoda prigione aerea e messo a lavorare come uno schiavo. L’uomo continua a vivere dentro una gabbia puzzolente, non sa comunicare con i carcerieri, mangia putride schifezze e solo l’aiuto di Maraya e della governante lo fa sopravvivere. La ragazza si innamora dell’uomo bianco: toccante la sequenza in cui lei assaggia una sua lacrima e fugge via nella notte. Da citare altre ottime sequenze in pieno stile mondo movie con i guerrieri che intingono le frecce nel veleno di un cobra, dopo aver svuotato il sacco del terribile liquido. Gli indigeni afferrano il serpente per la bocca e gli fanno mordere una corteccia affinché esca il veleno. L’amore tra Bradley e Maraya cresce, ma la figlia del capo è promessa a un guerriero del villaggio che prende in odio il bianco di cui teme la concorrenza. Le parti sui riti degli indigeni si fondono bene alla storia principale e a questo punto si innesta il rito funebre di un uomo morto prima di sposarsi. Viene acceso un falò in riva al fiume tra foglie di palma e un baldacchino di legno, nel corso d’acqua si notano diversi crani umani infilissi nel fondo con un palo e si comprende che è il loro cimitero. Il rito più incredibile è quello della vedova, con i fratelli del morto che devono avere un rapporto sessuale con la donna per rompere il rapporto di parentela. Rassimov tenta la fuga, ma viene acciuffato dai selvaggi e deve affrontare in combattimento il promesso sposo di Maraya. Al termine di un’intensa scena di lotta, uccide il guerriero e sviene per le conseguenze di una freccia avvelenata. Bradley diventa a pieno titolo un guerriero del villaggio perché ha dimostrato di avere fegato e di saper combattere, per questo deve sottostare agli altri rituali che Lenzi descrive con perizia. Il corpo dell’uomo bianco viene dipinto con strani disegni, viene legato a un palo mentre di notte altri guerrieri lo bersagliano con piccole frecce. Bradley durante il giorno viene esposto al sole cocente e deve superare prove ai limiti dell’umana sopportabilità per essere ammesso tra i guerrieri. Al solito le scene di vita quotidiana si mescolano con sapienza tecnica allo sviluppo della storia, così scopriamo uno dei divertimenti del villaggio: la lotta tra un cobra e una mangusta scatena il tifo degli uomini che assistono all’incontro cruento e incitano le due bestie, fino alla morte del serpente che viene addentato più volte dal roditore. Tra le usanze sportive del villaggio vediamo anche un combattimento di galli, meno sanguinoso ma abbastanza selvaggio. Un’altra sequenza che disturba e che sta a metà strada tra vecchi mondo movie e nuovi film canniba62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lici è lo scoperchiamento della testa di una scimmietta con un colpo di machete. Un altro rito che fatichiamo a riconoscere come autentico (secondo Lenzi sono tutti veri) è quello per la scelta del nuovo sposo di Maraya. La donna viene fatta sedere all’interno della capanna nuziale e gli scapoli del villaggio le palpano il corpo da una feritoia esterna. La donna sceglie il compagno dal modo in cui la tocca e gli consegna una ghirlanda di fiori come simbolo di unione. Rassimov è l’unico che usa delicatezza, che invece di palparle il seno e le gambe le stringe la mano in segno di affetto. L’amore tra i due giunge a coronamento e il matrimonio, celebrato dal capo del villaggio, apre una parte degna del miglior cinema esotico-erotico. Vediamo un romantico rapporto sessuale sul prato in mezzo a fiori e farfalle, un bagno sensuale nel fiume e infine il rito con il sangue di serpente per la fertilità. Bradley insegna la propria lingua a Marana e la chiama piccola selvaggia. Insomma il londinese si innamora davvero della bella indigena. Per stemperare un clima troppo sdolcinato, Lenzi inserisce una sequenza piuttosto dura con gli indigeni armati di coltelli che squartano un povero coccodrillo e subito dopo gli tagliano la testa. Maraya è incinta e Bradley capisce che la sua nuova vita è ormai in quel villaggio sperduto nel cuore della foresta thailandese. Un piccolo selvaggio ribelle sta nascendo dal ventre della sua donna, lui rompe un vaso in segno di buon augurio e si concede un nuovo rapporto sessuale in mezzo alla farina. La terza parte del film inserisce l’elemento cannibalico, mostrando un gruppo di selvaggi brutti e sporchi mentre stuprano in riva al fiume una donna del villaggio per mangiarla più tardi. Bradley e alcuni guerrieri uccidono i cannibali dopo un feroce combattimento che termina con il rito del taglio della lingua di un nemico, questa volta praticato dall’uomo bianco. La parte cannibalica è tutta qui, ma è molto cruda e disturbante, soprattutto credibile e realizzata tecnicamente in modo ineccepibile. La contaminazione dei generi non si ferma, perché abbiamo la parte finale della pellicola che ricorda il lacrima movie. Maraya si ammala in modo grave e Bradley sa che solo portandola a Bangkok potrebbe salvarla, ma il villaggio si ribella e non glielo permette. La fuga di Rassimov e Me Me Lai viene fermata lungo il fiume e costa la vita alla governante che li aveva aiutati. C’è appena il tempo per un nuovo assalto al villaggio da parte dei cannibali che mette ancora una volta in mostra un cinema d’avventura che Lenzi sa girare con maestria. La malattia progredisce, la ragazza sa che dovrà morire, ma chiede solo che nasca il loro bambino ed è commovente la parte in cui partorisce e muore. Il padre di Maraya salda tra lei e Bradley un legame di sangue che va oltre la vita, quindi viene 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sgozzato un capretto in segno di buon augurio. “Devi aver cura di nostro figlio. Lo spirito della morte mi sta portando via…”, dice Maraya mentre vede farfalle nere volare in cielo. Molto intenso. Bradley alza al cielo il suo bambino, promette aiuto per il suo popolo, piange la donna amata, sfoga la sua rabbia e infine si mette a ricostruire il villaggio distrutto dai cannibali. Lui è ormai uno di loro e un elicottero che sorvola il cielo non scuote neppure la sua attenzione perché ormai la sua vita è tra quella gente. Il tema della pellicola di sicuro è più avventuroso che cannibalico: ci sono le prove rituali, c’è la love story tra il bianco e l’indigena, il finale con l’uomo che decide di restare con il suo nuovo popolo... però non mancano scene efferate e cruente. Gli interpreti de Il paese del sesso selvaggio, Ivan Rassimov e Me Me Lai, torneranno spesso come figure simbolo del cinema cannibalico. Importante è anche la contaminazione dei generi realizzata da Lenzi: una cifra stilistica dei nostri migliori artigiani. Si parte con sequenze tipiche dell’esotico-erotico con un occidentale come Ivan Rassimov che sbarca a Bangkok, tra scene di colore locale e momenti di vita thailandese. L’avventura comincia in mezzo alla giungla con le peripezie del personaggio principale, che si ciba di serpenti fatti a pezzi, uccide per legittima difesa e fugge dai selvaggi che lo perseguitano. In questa situazione tipica del cinema d’avventura vengono inserite scene a base di animali uccisi (davvero o per finta) come coccodrilli, capre, serpenti e scimmie fatte a pezzi. Va segnalata anche la lotta (reale) tra una mangusta e un cobra che finisce in modo macabro. Quando il protagonista viene catturato dai selvaggi subisce ogni genere di violenza: è questa la parte film che ricorda di più Un uomo chiamato cavallo. L’esotico-erotico torna a fare capolino quando sboccia l’amore tra Me Me Lai e Rassimov, che giunge a coronamento con l’ingresso nella tribù dell’uomo bianco. Il cannibalico è in primo piano durante una sequenza che ci mostra una tribù di orribili cannibali che prima stuprano una donna, la massacrano e infine la divorano. Aggiungiamo che c’è pure un pizzico di lacrima movie nel toccante finale tra Me Me Lai e Rassimov. Per quanto riguarda le scene relative a uccisioni di animali, Lenzi ci ha confidato: “Sono quasi tutte docu-fiction, ossia ricostruzioni incruente, salvo la lotta tra il cobra e la mangusta e poche altre. Anche la spremitura del veleno mortale dalle ghiandole di un cobra è stata girata dal vero, con un certo pericolo, dovendo il cameraman stare vicinissimo al serpente”. Il cinema cannibalico italiano comincia proprio da questa pellicola e va ricordato che molte di queste scene verranno riutilizzate da Lenzi per il successivo 64 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(e inferiore) Mangiati vivi! Prima ancora di questa pellicola c’era stata l’esperienza dei tanto esecrati mondo movie, lavori a metà tra la finzione filmica e il documentario. Sono opere datate anni Sessanta-Settanta che filmano con occhio gelido la violenza sui corpi e rendono la devastazione della carne e della mente umana con crudo realismo. Si tratta di finti reportage, spesso bollati come snuff e quindi accusati di filmare la morte dal vero per il realismo delle scene. I mondo movie esercitarono (e lo esercitano ancora) un enorme fascino sul pubblico e riduttiva è una bocciatura di stampo perbenistico. Tra l’altro ci sono stati film insospettabili che si sono presi l’accusa di snuff. Citiamo come esempio Soldato blu (1970) di Ralph Nelson. Nelle sequenze finali i soldati americani attaccano un villaggio cheyenne e vengono filmati particolari crudi e realistici: assistiamo a scene con donne seviziate e mutilate, bambini decapitati e mattanze di giovani guerrieri. Si tratta di uno spietato ritratto della realtà, una ricostruzione precisa e documentata di un eccidio indiano tristemente accaduto. Snuff (1974) di Michael Roberta Findlay (coproduzione Usa-Argentina) racconta le gesta della famiglia Manson e nel finale una ragazza è condotta con l’inganno in un set cinematografico. Qui viene torturata, mutilata, infine squartata. La scena venne spacciata per vera, non è stato mai chiarito se fu solo mera azione di marketing; nell’incertezza la diffusione di Snuff venne bloccata e il film è diventato un cult ricercato dagli appassionati del genere. A parte la digressione sugli snuff (sull’argomento leggere un pezzo di Marco Castellini su www.horrorcult.it) vediamo alcuni mondo movie importanti come anticipazione del cinema cannibalico. Mondo cane (1962) di Gualtiero Jacopetti è un documentario a tinte forti dove il regista propone immagini di vario tipo: una strana riunione di sosia di Rodolfo Valentino, gli effetti orripilanti delle radiazioni nucleari su uomini e animali, la cucina orientale che serve in tavola piatti a base di cani e serpenti. Sono solo alcuni esempi. La pellicola ebbe un notevole successo, tanto che nel 1963 uscì Mondo cane 2 prodotto con gli scarti del primo film. Jacopetti non ha mai riconosciuto la paternità della pellicola che pure gli viene attribuita. Il regista si ripete con Africa addio (1966), un documentario che contiene mattanze di animali a non finire. Vediamo elefanti trucidati per privarli delle zanne d’avorio, gambizzazioni di bestiame come ritorsione verso gli allevatori, rapimenti di piccoli animali per venderli agli zoo, eccidi di tranquilli ippopotami per portare la carne al mercato. Non solo: ci sono anche scene realistiche di fucilazioni di prigionieri e particolari efferati della guerra civile in Kenia. La telecamera si sofferma spietata sui corpi mutilati e scaraventati ai bordi del65 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le strade. Jacopetti dipinge un quadro disarmante di un’Africa che passa dal colonialismo all’anarchia selvaggia. Si può accusare di qualunquismo e di sensazionalismo, e parecchie scene sembrano false, ma è un film sconvolgente che nel suo genere resta un capolavoro. Nel 1975 esce Ultime grida dalla savana di Antonio Climati e Mario Morra con il commento esterno scritto da Alberto Moravia. Ricordiamo due sequenze indimenticabili. La prima con la caccia agli indiani da parte dei bianchi e le conseguenti violenze dopo la cattura (castrazioni, decapitazioni e scotennamenti si sprecano). La seconda è la tragica fine di Pit Doenitz, un turista che durante la gita al parco naturale di Wallase ha la brillante idea di uscire per la savana e fotografare i leoni. L’uomo viene sbranato e la telecamera filma i particolari dell’esecuzione e dell’orribile pasto. Pare certo che la scena degli indios venne realizzata grazie a sofisticati effetti speciali. Non siamo altrettanto sicuri per quanto concerne la morte dell’uomo sbranato dai leoni. Il regista la presentò come una ripresa eseguita da un turista a bordo della jeep. “Ho solo aggiunto qualche effetto splatter”, disse Climati. In questi casi è difficile distinguere la realtà dalla pubblicità fatta per creare interesse intorno alla pellicola. Il film documentario è un catalogo di scene raccapriccianti che creano un effetto disturbante nello spettatore. Contemporanei ai cannibal movie troviamo anche il filone di pellicole sugli zombi. Si tratta di un sottogenere horror che non ha dato prodotti italiani di alto livello. I film sugli zombi sono un po’ tutti uguali, molto prevedibili, l’unica cosa che tiene desta l’attenzione è l’effetto splatter che, portato a estreme conseguenze, stanca. Salviamo Zombi 2 (1979) di Lucio Fulci e poche altre cose che fanno più o meno il verso ai capolavori di Romero del 1968 e del 1978 (La notte dei morti viventi e Zombi). Ai nostri fini è interessante citare Zombi Holocaust (1980) di Marino Girolami, che risente dei lavori di Deodato (soprattutto di Cannibal Holocaust) e che inserisce nella stessa pellicola zombi e cannibali.

Il coltello di ghiaccio (1972) Un thriller insolito, a tratti quasi horror, claustrofobico e angosciante, girato in gran parte secondo la soggettiva del killer e della vittima, ricco di flashback onirici e di inquietanti primissimi piani, tagli degli occhi, sguardi truci. Si parte con una citazione da Edgard Allan Poe, forse del tutto inventata da Lenzi (la paura è un coltello di ghiaccio che lacera i sensi fino al fondo del66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la coscienza), si prosegue in un crescendo di tensione, tra cimiteri nebbiosi, silenzi spettrali, case isolate, chiese sconsacrate regno di satanisti, boschi inquietanti. I delitti non sono efferati ed esibiti nei minimi particolari come nei contemporanei thriller argentiani e in precedenti pellicole di Mario Bava, ma risultano sfumati, presentati con stile classico, quasi hitchcockiano. Quel che interessa a Lenzi è creare un’atmosfera sullo stile de La scala a chiocciola (1946) di Robert Siodmak, ma anche sulla falsariga di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, per poi sconvolgere lo spettatore con il colpo di scena finale. Il killer è la ragazza più indifesa, il segmento più debole della storia, la nipote diventata muta da bambina dopo la morte dei genitori, proprio lei che vede inquietanti sguardi nella nebbia e pare la vittima principale. Ultimo incontro di Carroll Baker con Umberto Lenzi, forse nel ruolo più truce e inquietante della sua carriera, in un’interpretazione adatta alla sua personalità di attrice, al centro di una storia basata sull’orrore psicologico. La follia di Martha esplode in tutta la sua potenza quando nel finale, ormai scoperta e arrestata, si mette a recitare Alice nel paese delle meraviglie, per la precisione la filastrocca dove si parla di una condanna a morte, proprio come quando era piccola e andava a scuola. Immagini di repertorio di una corrida fanno da preambolo e sono inserite ad arte nella parte centrale del film per evocare immagini di sangue e terrore vissute dalle due cugine come spettatrici. Molto ben fatta la sequenza iniziale con Martha che attende l’arrivo della cugina alla stazione ed è terrorizzata dal passaggio dei treni. Tutti i meccanismi del thriller sono oliati a dovere, mentre vengono inseriti particolari argentiani e fulciani di giocattoli meccanici e animali sgozzati. Fotografia luminosa dello spagnolo Aguayo, molto colore iberico anni Settanta, montaggio rapido ed essenziale di Alabiso, sceneggiatura di Lenzi e Troiso che non perde un colpo, pure se molti critici hanno definito scorretto il finale e non hanno capito il giallo psicologico. Il regista usa a dovere lo zoom e il primo piano, dispensa a piene mani tutte le convenzioni del thriller orrorifico, tra notti nebbiose e piovose, finti killer con mani guantate, impermeabile e cappellaccio nero. Il finale è tutto un crescendo di tensione. Attori ben calati nella parte, soprattutto Baker e Galli, con l’immancabile Franco Fantasia nei panni dell’ispettore (aveva il fisico del ruolo!), oltre che dell’assistente alla regia. Fajardo ha un aspetto così truce che non può essere il colpevole, sarebbe troppo semplice. Scott lascia qualche dubbio, ma si capisce che non può essere neppure lui. In Spagna uscito come Detrás del silencio. Nei paesi anglofoni come Knife of Ice. Brevi note critiche. Marco Giusti (Stracult): “Al centro una serie di omi67 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cidi di donne. Tutti avvenuti nella casa dove vive una ragazza, Martha, Interpretata da Carroll Baker, diventata muta dopo un incidente ferroviario. Ovviamente l’assassina è proprio lei”. Paolo Mereghetti (una stella): “Modesto giallo che non tiene fede alla citazione iniziale di Poe: la paura è un coltello di ghiaccio che lacera i sensi fino al fondo della coscienza, e serve un disonestissimo colpo di scena”.

Milano rovente (1973) Milano rovente esce sulla scia del successo di Milano calibro 9 di Fernando di Leo, non è un certo poliziottesco come afferma parte della critica, ma puro cinema noir e originale gangster-movie. Salvatore Cangemi (Sabàto) è un boss mafioso che fa lucrosi affari gestendo il racket della prostituzione, fino a quando si scontra con un gangster francese - Roger Daverty (Leroy) intenzionato a inserirlo in quota minoritaria nel mercato della droga. Un giorno Cangemi trova nella piscina di un suo locale il cadavere di una delle prostitute, brutalmente strangolata per convincerlo a partecipare allo smercio della droga. Tra i due boss comincia una lotta senza esclusione di colpi e le ritorsioni del francese sono così violente e feroci da convincere Cangemi a chiedere aiuto a un mafioso italo americano (Casagrande) altrettanto spietato. Grazie al nuovo arrivato e ai suoi metodi cruenti il francese accetta un accordo paritario di spartizione del mercato, inserendo le prostitute nello smercio della droga. Cangemi finisce sul lastrico per colpa di una donna (Mell) della quale si è innamorato, in realtà complice del francese, quindi viene braccato e incastrato dalla polizia. Nelle sequenze finali assistiamo al trionfo dell’italo americano che fa uccidere prima il francese, poi Cangemi, aggiudicandosi il potere criminale a Milano. Il boss siculo uccide il suo braccio destro con cui era venuto a Milano a cercare fortuna e le sue ultime parole sono un disperato interrogativo sui motivi del tradimento. La piccola Chicago ha un nuovo boss. Milano rovente è un noir di ambientazione milanese, un thriller movie avvincente e ricco di azione, scritto da Ombretta Lanza e sceneggiato da Lenzi assieme al valido giallista Franco Enna. Antonio Sabàto è molto credibile nei panni dell’immigrato divenuto boss mafioso, anche se il suo ruolo da pappone non cattura l’attenzione del pubblico. Lenzi si sforza di descriverlo come uomo d’onore, dai sani principi, nonostante l’attività criminale, un malvivente pulito che non vorrebbe scendere a patti con la novità 68 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

della droga. Secondo il regista il protagonista è molto più vicino all’umanità dolente di un Rocco e i suoi fratelli che a Il padrino. Lenzi inserisce note di vita quotidiana, parla di affetti familiari, di amicizia con i compari, narra la visita all’anziana madre che vive in ospizio e sogna di tornare al paese natio, descrive la sua morte annunciata di fronte a un figlio che non rinuncia a salutarla anche se rischia di venir catturato dalla polizia. Notevoli le presenze femminili, dalla inquietante bellezza di Marisa Mell alla più tranquillizzante Carla Romanelli, la prima donna traditrice, la seconda ingenua prostituta da istruire. Philippe Leroy è un ottimo criminale francese che per essere più credibile non avrebbe dovuto essere doppiato, mentre Franco Fantasia è un commissario ininfluente perché si limita a osservare i fatti e a registrare gli eventi. Lenzi ambienta il film in una suggestiva Milano notturna, inserisce sequenze dure, feroci, persino eccessive, vero marchio di fabbrica del noir alla Fernando di Leo ma anche del futuro poliziottesco. Le scene della guerra tra gang rivali sono caratterizzate da una violenza sadica e insensata immersa in un’atmosfera nera e spettrale da città in preda alle cosche mafiose. Ricordiamo un traditore avvelenato e strangolato nel bagno di un ristorante, un malvivente torturato con scariche elettriche ai genitali, un siciliano sgozzato mentre gli assassini cantano e un uomo del francese muore per embolia dopo che gli hanno sfilato la flebo e soffiato aria in vena. Ricordiamo auto che esplodono, prostitute affogate, seni tagliuzzati, travestiti torturati, clienti in overdose aiutati a morire, scazzottate, inseguimenti a bordo di alfette della polizia, scene acrobatiche che sono la specialità di Lenzi. Musiche suggestive e suadenti composte da Rustichelli, alcune ricche di sonorità sicule, soprattutto durante il viaggio sull’isola per reclutare il boss italo americano ma anche durante una cena tra mafiosi. La riuscita del film deve molto alla fotografia notturna e nebbiosa di Lombardo Caimi, che nelle brevi sequenze sicule diventa bruciata dal sole, come in un film western girato in Almeria. Produzione milanese della neonata Lombard Film. In Francia esce come La guerre des gangs, mentre nei paesi anglofoni è noto come Gang war in Milan. Battuta cult, come dice Mereghetti, pronunciata da Sabàto quando scopre Leroy a letto con un travestito: “Minchia, pure finocchio è il francese!”. Altri tempi, a base di non politicamente corretto, quando per sottolineare l’amoralità di un personaggio che faceva affari con la droga si faceva leva pure sugli insoliti gusti sessuali. Il liquore Punt & Mes è lo sponsor occulto – neppure troppo – che fa da sponsor alla pellicola. Note critiche sparse. Pietro Bianchi afferma: “La Milano notturna e se69 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

greta che fa da sfondo al film non manca di un certo fascino”. Paolo Mereghetti: “Lenzi descrive una Milano costellata di malavitosi che la considerano una piccola Chicago mentre la polizia fa da comparsa. Il racconto procede con una neutralità lievemente nauseata e quasi brechtiana… Assai feroce, in anticipo sui tempi; non particolarmente raffinato, cero, malgrado qualche ambizione (Cangemi dovrebbe essere una specie di Rocco viscontiano adattato ai tempi nuovi), ma Lenzi mostra un taglio e un piglio personali”.

Spasmo (1974) Spasmo è il capolavoro thriller di Lenzi che – come spesso gli capita nei lavori migliori – si ispira alla cronaca, raccontando la storia di una famiglia con tutti i suoi contrasti interni, le lotte per il potere che sfociano in misteriosi delitti. Spasmo è opera originale rispetto ai vecchi psicogialli e ai thriller argentiani, dotato di un’atmosfera morbosa, ispirato a Psycho di Hitchcock, crea la paura, la tensione, l’angoscia da una follia nascosta e impensabile. La prima sequenza del film è sconvolgente: una coppia si apparta per amoreggiare e scopre una bambola a grandezza naturale impiccata a un albero. Una pellicola che si caratterizza per clima angoscioso, tensione crescente e inserti horror come bambole con gli occhi sbarrati, seviziate da una mano misteriosa. Lenzi ambienta il suo nuovo thriller ancora una volta nell’alta società e punta tutto sull’elemento follia, in questo caso ereditaria e contagiosa, pronta a esplodere in presenza di un elemento catalizzatore. Il regista – anche sceneggiatore con Franciosa, Montagnana e Bolier – cavalca l’idea lombrosiana della tara ereditaria, della paranoia omicida inarrestabile. La sequenza finale è esemplare perché immortala il fratello Fritz – che pareva immune dal contagio criminale – in una stanza segreta piena di bambole intento a sfogare la follia omicida. “La malattia di suo fratello Christian è ereditaria…”, dice una voce ossessiva in sottofondo. Spasmo è un film senza personaggi positivi, opera al nero, cupa, perversa e senza redenzione, capace di spaventare senza far leva su spargimenti di sangue. L’orrore nasce dalla palpabile follia dei personaggi, davvero senza scampo, disseminata ovunque, in un clima da vero e proprio orrore mentale, psicologico. Tecnica di regia sperimentale, a base di zoom e di soggettive inquietanti, sia del killer che della vittima, primi piani di volti e di particolari che possono sembrare insignificanti ma che sono fondamentali nell’economia dell’atmosfera filmica. Le bambole seviziate, impiccate, disseminate nei bo70 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

schi e gli uccelli rapaci che stridono nelle voliere sono due elementi basilari per creare la suggestione thriller, per conferire un impianto inquietante e morboso. Horror psicologico perverso. Umberto Lenzi, negli extra allegati a una recente edizione della edizione DVD di Spasmo, rilascia dichiarazioni interessanti: “Volevo fare un altro polar intitolato Spezzate le reni al commissario, avevo già la sceneggiatura pronta, ma mi chiamò Ugo Tucci per una storia che avrebbe dovuto girare Lucio Fulci e all’ultimo momento si era defilato. Il primo abbozzo di quel che sarebbe diventato Spasmo aveva del buono, a mio parere, ma la sceneggiatura andava revisionata, cosa che feci in due settimane, tirando fuori dal cilindro l’idea delle bambole. Serviva un valore aggiunto, un elemento visivo che giustificasse la follia dei protagonisti, queste bambole a grandezza naturale, impiccate agli alberi e pugnalate. Poi inventai la stanza segreta con le bambole dove anche il fratello ritenuto sano di mente finiva per andare a sfogare la sua malattia psichiatrica, il colpo di scena impensabile. Le bambole erano state costruite da Carlo Rambaldi su calchi di attrici dell’epoca, vestite di seta, in abiti e indumenti intimi sexy, con parrucche vistose, e volevano significare un complesso edipico sofferto dai protagonisti nella fanciullezza. Girammo il film in due mesi e mezzo, quasi tutto in Toscana, per la precisione in provincia di Grosseto, tra Ansedonia, Porto Ercole e Santo Stefano, in una villa sul mare di una contessa. Poche scene sono state girate a Roma e sul lungomare di Ostia, altre nei teatri di posa della De Paolis. Potevo contare su una troupe molto affiatata, dalla bravissima attrice inglese Suzy Kendall – famosa per gli horror e per diversi thriller –, a Guido Alberti, Robert Hoffmann e Ivan Rassimov (con cui avevo già lavorato). Io venivo da una trilogia importante (Orgasmo, Così dolce… e Paranoia) che vedeva protagonista la Baker, che era servita per mettere alla berlina vizi, difetti e morbosità delle famiglie del bel mondo. Ecco, questi elementi psicologici in Spasmo esplodono, addirittura deflagrano in una conclamata follia ereditaria dei protagonisti. Questo film è ricco di personaggi negativi, non si salva nessuno, e porta alle estreme conseguenze il discorso iniziato con la trilogia dei quartieri alti realizzata in precedenza. Spasmo non basa la sua forza su ammazzamenti ed effettacci ma vive di suggestioni e di rovesciamenti di ruolo, perché gli omicidi arrivano tutti nell’ultimo quarto d’ora, mentre la prima parte è finzione, mistero e bambole. Volevo eliminare ogni distinzione tra vittima e carnefice, tra buono e cattivo, per dimostrare che in un essere umano sono presenti entrambe le personalità e che non sempre quel che appare è la realtà. Un film psicologi71 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

camente intrigante che presenta il protagonista come una vittima in preda ad amnesie e in balia di eventi che non comprende, mentre alla fine si scopre che è lui il folle carnefice. Il tutto più suggerito che visto, con il supporto di una colonna sonora suadente e melodica, quasi da sogno struggente, composta da Ennio Morricone, che da tempo la teneva nel cassetto. Il contrasto tra musica dolce ed eventi fa parte della cifra stilistica di un film girato in ambienti marini, in una torre a picco sulla scogliera. Spasmo è una pellicola di atmosfera girata con una tecnica particolare fatta di molte soggettive e di frequenti sequenze realizzate con la macchina a mano. Ho riempito il film di accorgimenti spericolati, inquadrature dal basso e movimenti di macchina atipici. Altro elemento che ha conferito un tono inquietante al film è stata la trovata scenografica degli uccelli rapaci e delle voliere che compongono l’arredamento della villa sul mare. Gli stridii degli uccellacci e la musica suadente di Morricone hanno composto un mix di contrasti che ha reso il film ancora più suggestivo. Spasmo è uno dei miei film preferiti e anche la critica internazionale lo giudica tra i miei lavori più riusciti”. Breve rassegna critica. Marco Giusti (Stracult): “Straculto per i ragazzacci adoranti del Lenzi – pensiero, ma infarcito di terribili e inutili zoom sui faccioni degli attori. Allora i critici lo accolsero malamente”. Umberto Lenzi ha cambiato opinione nel corso degli anni, perché ad Amarcord confidava: “Io non riesco a giudicarlo… non è che lo ami molto. Poi aveva quel manifesto così assurdo che sembrava la pubblicità contro il mal di testa”. Marco Giusti dà credito alla leggenda metropolitana di George Romero che, per l’edizione americana distribuita dalla Laurel (casa cinematografia di sua proprietà e di Richard Rubinstein), avrebbe inserito dieci minuti in più di omicidi per rendere il tutto meno soft. Smentisce lo stesso Lenzi che si andò a comprare il DVD statunitense per verificare se un collega avesse davvero compiuto una simile scorrettezza. Come era prevedibile la versione nordamericana di Spasmo è identica alla nostra. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Tra cadaveri che scompaiono e manichini accoltellati, qualcuno cerca di fare impazzire l’industriale Christian. Non riveliamo il colpo di scena, che riesce a imprimere un minimo di interesse a una sceneggiatura boccheggiante, messa in scena senza un briciolo di suspense e con dovizia di zoom che inquadrano dettagli di nessun interesse. Mai visti tanti plagi di Bava in un film solo: sarà per questo che il film ha la fama di cult? Buone musiche di Ennio Morricone”. Troppo duro.

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Gatti rossi in un labirinto di vetro (1974) Gatti rossi in un labirinto di vetro è thriller argentiano, pure baviano ma più macabro e ricco di suspense, prodotto di imitazione che riveste una sua precisa originalità, nonostante attinga all’immaginario argentiano e si basi pure sull’idea dell’errato particolare rivelatore. Molte sequenze ad alta tensione restano nell’immaginario caratterizzandosi per impatto angoscioso e inquietante. Il killer maniaco colpisce in maniera efferata, con guanti e impermeabile rosso, le immagini che lo ritraggono all’opera sono ricche di tensione, dotate di orrore esplicito, alla luce del sole, invece che nei soliti notturni tipici del cinema thriller. A parte una vittima uccisa nella camera oscura mentre sviluppa la foto che involontariamente ha immortalato l’assassino (come ne Il gatto a nove code di Argento), le altre vittime sono ammazzate in pieno giorno, di solito sotto una luce intensa. Il film è ben ambientato in una Spagna fotografata in maniera suggestiva, dimostrando che si può fare thriller orrorifico anche in un paese mediterraneo, dove la luce intensa è la nota dominante del paesaggio. Molte sequenze sono volute dalla produzione iberica, come cartolina turistica della Spagna, ritraendo le bellezze più suggestive di Barcellona, le ramblas dove scorre la vita catalana e persino una serata di flamenco. Un film insolito caratterizzato da molti particolari macabri, così come è spiazzante la rappresentazione di un killer folle che strappa gli occhi alle vittime. Il finale vede la figura della donna omicida, immortalata come una belva assassina, trasfigurata dalla pazzia, con un occhio privo di pupilla, mentre tenta di infilarsi nell’incavo l’occhio strappato alla vittima. Gatti rossi in un labirinto di vetro ricorda A Venezia… un dicembre rosso shocking (1973) di Nicolas Roeg, sia per l’impermeabile rosso del killer maniaco che per il particolare del flashback che rievoca un trauma infantile. Al tempo stesso Tenebre (1982) di Dario Argento prende ispirazione da entrambi i film, così come nella genesi di Gatti rossi… è ben presente la visione de Il gatto a nove code (1971) e di molti thriller di Argento e di Bava. Diciamo che in alcuni casi è Lenzi a ispirarsi ad Argento, mentre in altri è il maestro del brivido a farsi suggestionare da identiche emozioni visive (omicidi alla luce del sole), ricordi di traumi subiti e particolari rivelatori. Altri film che in un modo o nell’altro ricordano in alcune parti il lavoro di Lenzi: L’uccello dalle piume di cristallo (1970) (il particolare rivelatore), La morte cammina con i tacchi alti (1971) di Luciano Ercoli (il protagonista che si allontana in aereo, nel finale), I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) di Sergio Martino (la vitti73 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ma si crede in salvo ma finisce tra le braccia dell’assassino) e Ragazza tutta nuda assassinata nel parco (1972) di Alfonso Brescia (omicidio della ragazza nel tunnel degli orrori). Titolo alla moda, molto argentiano, giustificato dagli impermeabili rossi dei gitanti, dal labirinto di terrore – una trappola senza via di scampo –, da un occhio di vetro causa della follia. Andrés Mejuto e José Maria Blanco sono due attori spagnoli interessanti, ben calati nei ruoli dei poliziotti che conducono l’indagine, il primo a tre settimane dalla pensione, il secondo come successore designato che sta imparando il mestiere. Martine Brochard e John Richardson sono una buona coppia di protagonisti. La prima è credibile nei panni della killer psicopatica e si sforza per tutta la pellicola di mettere in risalto il presunto occhio di vetro. Il secondo è un po’ troppo impostato e legnoso ma tutto sommato diligente nella parte che deve interpretare. Tra le donne Ines Pellegrini mette in evidenza la sua bellezza selvaggia, amoreggia in una sequenza tagliata dai censori con la compagna Mirta Miller, buona attrice argentina. Daniele Vargas è bravo nei panni del marito guardone in crisi con la moglie, George Rigaud è un sacerdote inquietante, spesso sospettato di essere il killer. Ottima la fotografia iberica bruciata dal sole di Morán, buono il montaggio di Moriani, suadente e classica la colonna sonora di Nicolai. Lenzi gira con il suo stile nervoso ed efficace, a base di macchina a mano, frequenti zoom (senza abusare), dettagli dei volti, flashback onirici, primissimi piani, taglio degli occhi, soggettive del killer, frequenti riprese con la macchina a mano. La sceneggiatura è priva di pecche, il meccanismo ricorda Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, perché sin dalle prime sequenze si comprende come l’assassino non possa trovarsi al di fuori del gruppo dei turisti. Lenzi inserisce un pizzico di erotismo, a tratti perverso, con sequenze lesbiche e rapide docce, qualche seno nudo abbastanza gratuito, assecondando il gusto dei tempi. Le versioni preparate per il mercato estero sono più spinte, come dimostra la traccia inglese che abbiamo visionato con l’audio italiano che scompare nelle sequenze tagliate e non doppiate. Sangue ce n’è abbastanza ma non si esagera, la parte più macabra arriva giusto nel finale, mentre in precedenza si assiste persino a un’autopsia praticata sul cadavere. Gatti rossi in un labirinto di vetro è un giallo classico, che si sviluppa secondo i canoni dell’indagine poliziesca, corretto al thriller macabro con alcune rapide parentesi horror. Sponsor indiretti del film: Astor, Fernet Branca, J&B. Rassegna critica. Paolo Mereghetti (una stella): “Buon candidato alla palma del peggior giallo dell’epoca, con tette gratuite a iosa e momenti cult 74 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

come il posacenere del Fernet Branca in bella mostra di fianco alle macchie di sangue. Ovviamente di gatti e labirinti non c’è l’ombra”. Non ci ha capito molto, ma contento lui ... Morando Morandini concede una stella senza motivare; Pino Farinotti arriva a due con una sintesi estrema della trama. Marco Giusti (Stracult): “Tardo thriller lenziano. Conoscendo il cinema italiano i poliziotti spagnoli avrebbero potuto subito scoprire l’assassino. Così e così”. Interpretazione autentica del regista che su Amarcord lo difende: “Il film è buono anche se è un po’ povero, girato a Barcellona con una produzione che aveva pochissimi mezzi e molte difficoltà: non avevo quello che mi serviva”. Titoli per il mercato estero: Eyeball (USA), The Secret Killer (GB), Labyrinth des Schreckens (Germania).

Milano odia: la polizia non può sparare (1974) Umberto Lenzi, è l’inventore di una via italiana al poliziesco, a imitazione del modello statunitense ma ben ambientata nella realtà delle nostre città, che proprio negli anni Settanta cominciano a diventare sempre più violente. Visto che fatti di cronaca sanguinosi e crudi accadono anche da noi è inutile andare ad ambientare film polizieschi oltre oceano. Umberto Lenzi è tra i primi a indagare il disagio di città come Milano, Roma e Napoli che abbandonano la dimensione a misura d’uomo tipica degli anni Cinquanta. L’Italia deve fare i conti con il boom economico e con gli effetti perversi della dilagante criminalità, quindi Lenzi gira pellicole come Milano rovente e Roma a mano armata, di grande attualità. Lo seguono in questa operazione registi come Sergio Martino (Milano trema: la polizia vuole giustizia, 1973), Fernando Di Leo (Milano calibro 9, 1971, tratto da Scerbanenco), Gianni Martucci (Milano… difendersi o morire, 1977) e molti altri. Nel poliziottesco i volti più noti che vestono i panni da commissari o da giustizieri sono Maurizio Merli, Giuliano Gemma, Franco Gasparri (il commissario Mark Patti), Vittorio Mezzogiorno, Marc Porel, Al Cliver, Philippe Leroy, Gastone Moschin, Luc Merenda. Tomas Milian – convinto da Lenzi ad abbracciare il genere – si caratterizzerà, dopo le prime prove, per una serialità originale. Tomas Milian nei suoi primi polizieschi interpreta spesso il ruolo del cattivo, del perfido individuo braccato dal commissario di turno per motivi abietti. Il suo aspetto fisico lo rinchiude in questo cliché delinquenziale che lo aveva caratterizzato anche nella stagione degli spaghetti-western. Tutto questo fino al giorno in cui a qualcuno (Sacchetti e Lenzi) non viene 75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

l’idea di mettere insieme le due componenti, realizzando un mix originale che confluisce prima nel trucido Monnezza, quindi – modificato – nell’ispettore alternativo Nico Giraldi. Ma andiamo con ordine e partiamo dal primo poliziesco. Milano odia: la polizia non può sparare è il primo Tomas Milian movie diretto da Umberto Lenzi, su soggetto e sceneggiatura di Ernesto Gastaldi, fotografia di Federico Zanni, musiche del grande Ennio Morricone, montaggio di Daniele Alabiso e scenografie di Giorgio Bertolini. Interpreti: Tomas Milian, Henry Silva, Laura Belli, Gino Santercole, Mario Piave, Anita Strindberg, Guido Alberti, Ray Lovelock, Tom Felleghi, Pippo Starnazza, Luciano Catenacci e Nello Pazzafini. Molti nomi sono transfughi dai vari generi di moda nel periodo, semplici caratteristi come Pazzafini ma volti indimenticabili di un’epoca cinematografica irripetibile. Tomas Milian è Giulio Sacchi, un delinquente da quattro soldi che viene subito presentato come un losco individuo, amorale e perdente. Milian ha ancora il look con i capelli lisci e la barba fatta, non ha niente del Monnezza - Giraldi che verrà successivamente, soprattutto interpreta un personaggio per niente simpatico. Nelle prime scene Giulio Sacchi uccide a sangue freddo un vigile urbano mentre fa il palo in una rapina, subito dopo scassina un distributore automatico di sigarette e manda all’altro mondo un metronotte per seicento lire. Lenzi ci mostra anche un bell’inseguimento per le vie di Milano tra le Alfette della polizia e i malfattori, quindi passa a illustrare il carattere da vigliacco di Giulio Sacchi che dopo aver ucciso il vigile implora i suoi complici di non malmenarlo. Giulio ha pure una fidanzata (Anita Strindberg) che maltratta senza sosta, di lavorare non ne vuol sapere, preferisce spillare quattrini alla sua donna che fa l’impiegata nella ditta di un noto industriale. La sua morale è che nella vita contano solo i soldi, per questo motivo un giorno ha l’idea di rapire Marilù (Laura Belli), la figlia del datore di lavoro della fidanzata. Per mettere in pratica il piano convince altri due malviventi (Ray Lovelock e Gino Santercole) che lo assecondano. Prima ruba l’auto alla sua ragazza, subito dopo uccide un mercante d’armi e sua moglie, derubandolo di tre mitragliatori. Giulio é uno spietato assassino privo di morale e si trasforma in una belva sadica che non si ferma di fronte a niente. Una notte i tre banditi seguono Marilù e la sorprendono mentre fa l’amore in auto con il fidanzato. Giulio sfonda il vetro dell’auto e Ray Lovelock uccide il ragazzo, Marilù però riesce a scappare e si rifugia in una villa di periferia dove i malviventi la raggiungono. All’interno della casa, Lenzi gira la scena più disturbante della pellicola con Giulio che stermina l’intera 76 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

famiglia borghese che ha dato asilo a Marilù. L’eccidio tra le mura domestiche è terribile: viene ucciso un bambino, le altre quattro persone sono seviziate, appese a un lampadario, infine massacrate a colpi di mitra. Terminato lo sterminio i tre malfattori rapiscono Marilù, la portano in un barcone sui navigli e chiedono cinquecento milioni di riscatto al padre (Guido Alberti). Nel rifugio dei malviventi c’è Ray Lovelock che dà segni di cedimento psicologico e pare pentito. Giulio ha già deciso che la ragazza deve morire ma lui non è d’accordo, pare provare qualche sentimento verso Marilù. Tomas Milian interpreta un ruolo da spietato criminale davvero notevole, il suo personaggio raggiunge l’apice della violenza quando getta nel lago la fidanzata a bordo dell’auto. “Sapeva troppo”, è il suo commento quando torna dai complici. Una scena cruda è pure quella che vede la ragazza rapita obbligata a scrivere la lettera al padre, mentre Tomas Milian incita Gino Santercole a violentarla per convincerla. Il commissario Walter Grandi (Henry Silva) indaga sui fatti ma non viene a capo di niente. Giulio va addirittura alla polizia per denunciare la scomparsa della fidanzata e recita la commedia dell’innamorato che piange la perdita della donna. Il commissario tenta di impedire al genitore di pagare la somma richiesta ma non ci riesce e persino il questore lo convince a non occuparsi del caso. Henry Silva fa di testa sua e segue il padre all’appuntamento coi banditi, però non riesce a impedire che Tomas Milian uccida la ragazza. Lo spietato bandito si libera pure dei due complici e alla fine resta solo con cinquecento milioni in tasca. Giulio spara un colpo di mitra e ferisce il commissario a una gamba, poi riesce a scappare e si crea un alibi grazie agli amici malfattori della sala biliardo. Alla fine Tomas Milian viene arrestato da Henry Silva ma torna presto a piede libero perché contro di lui non ci sono abbastanza indizi. Lo stesso Milian recita sprezzante una battuta terribile: “Per condannare qualcuno all’ergastolo ci vogliono prove alte come il grattacielo Pirelli”. A questo punto il commissario Henry Silva (sulla falsariga di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, Don Siegel, 1971) decide di farsi giustizia da solo e uccide il delinquente con tre colpi di pistola. Giulio Sacchi muore in mezzo ai sacchi dell’immondizia mentre Henry Silva mormora: “Dite al questore che l’ex commissario Grandi ha ucciso Giulio Sacchi”. Umberto Lenzi dice che il film è di una violenza incredibile, tanto che nonostante sia stato tagliato non è passato in televisione neanche di notte. I tempi cambiano, perché nei primi anni Duemila è stato trasmesso diverse volte, tanto che lo registrammo martedì 13 aprile 2004, a notte fonda su Rai Uno. In ogni caso è vero che la pellicola ha una solida struttura narrativa basata sulla sceneg77 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

giatura di Gastaldi, che si arroga pure il compito di spiegare i motivi della violenza. Il film è così crudo e spietato al punto da suscitare reazioni negative tra i critici borghesi e perbenisti. La pellicola viene accusata di compiacimento verso la violenza, soprattutto di giustificare la vendetta di chi si fa giustizia da solo quando la legge è impotente. Pure oggi il nichilismo di cui è intrisa colpisce e disturba, lo spettatore sprofonda nel clima angoscioso che Lenzi sa creare e alla fine sta dalla parte di Silva che libera il mondo da un pericoloso delinquente. Tomas Milian è il vero protagonista della storia che ruba la scena a un commissario come Silva privo delle connotazioni fisiche per competere. Perfetta la sua interpretazione di un antieroe repellente e amorale che vive ai margini della società e che non è integrato neppure nella malavita. Si tratta di un buon film di genere che descrive la realtà di un’epoca utilizzando anche la colonna sonora di Ennio Morricone che da sola vale la visione della pellicola. Mereghetti, solitamente restio a parlar bene del cinema di genere, concede la bellezza di due stelle e mezzo a un’opera fondamentale del poliziesco italiano. Va da sé che sul tema di Milano violenta in questo stesso periodo viene prodotto un tale numero di pellicole che la sola elencazione richiederebbe un intero capitolo. Ernesto Gastaldi, da noi avvicinato, ci ha rilasciato una dichiarazione interessante sulla scrittura del film: “C’è un intero libro su quel film (Paolo Spagnuolo, Milano odia, la polizia non può sparare, nda), in ogni modo, dopo il successo del film Milano trema, che fu rifiutato all’ultimo momento da Goffredo Lombardo perché troppo politico, nonostante i copiosi tagli, mi fu chiesto di scrivere un altro poliziesco ambientato a Milano e scrissi Milano odia: la Polizia non può sparare. È la storia di una mezza calzetta criminale che vuole dimostrare di essere un asso e rapisce la figlia di un industriale incassandone il riscatto ma ammazza la ragazza e tutti i complici. In tal modo non lascia prove nè testimoni. Il commissario incaricato del caso sa che è lui l’assassino ma i giudici non possono procedere. Allora si dimette dalla Polizia e lo ammazza lui. Il film ha avuto la fortuna di trovare un Tomas Milian in gran forma. Umbero Lenzi lo diresse con professionalità. All’estero ebbe un successo incredibile col titolo azzeccatissimo di Almost Human. Tomas mi fu sempre grato per quella storia e venne molte a casa mia con storie sue affinchè le sceneggiassi, ma erano storie allucinate. Nessuno le produsse”. Abbiamo reperito una dichiarazione di Umberto Lenzi nel Dossier 36 edito da Nocturno, dal titolo Monnezza e i suoi fratelli - Guida al cinema poliziesco di Tomas Milian, che ci pare interessante: “Milano odia non è propria78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mente un film poliziottesco, tutt’altro, è un noir puro e semplice sulla falsariga dei noir francesi che poi hanno avuto in Italia come autore Fernando di Leo. Il noir è quel tipo di poliziesco dove il protagonista non è il poliziotto ma il cattivo, il criminale. Milano odia non era una storia mia ma di Ernesto Gastaldi, e cercai di accentuarne la connotazione sociale che non c’era: cioè, il personaggio di Milian è un personaggio sgradevole, violento, un assassino senza scrupoli, però è anche un emarginato sociale, un carattere che è frutto di una società sbagliata, in cui il capitale e il successo sono dei fattori determinanti; tant’è vero che il finale è emblematico, quando lui viene ucciso in mezzo all’immondizia, in mezzo a tutti quelli che sono i rifiuti sociali. Tomas, quando giravamo, beveva circa una bottiglia di vodka al giorni e prendeva una decina di Optalidon – diceva lui – ma forse anche qualche altra cosa, per cui era sempre a livelli di forzatura psicologica e anche fisica tali da poter interpretare bene il personaggio. Quando arrivava al punto di interpretare la scena si trasformava e – lui stesso lo ammetteva – non era più Tomas Milian, ma Giulio Sacchi, personaggio che l’ha perseguitato per tutta la vita. Anche ora, quando parla dei suoi personaggi – ne avrà interpretati penso 150 nella sua carriera – da Tepepa a Giraldi, dice sempre che la sua più grande interpretazione è stata quella di Giulio Sacchi. Il cast del film è particolarmente indovinato, con la riserva di Henry Silva che aveva sempre interpretato ruoli da killer e questa volta faceva invece il poliziotto. Fu naturalmente un caso singolare, perché il film stava per essere iniziato e il produttore, Luciano Martino, aveva un’opzione per un altro film, che aveva diretto il fratello Sergio, con l’attore americano Richard Conte. La mattina in cui stavamo per partire per Milano, il mio assistente di produzione doveva telefonare dall’ufficio e parlare con l’agente di Conte per spedirgli il biglietto aereo diretto, da Los Angeles a Milano; rispose la moglie e disse che Conte era morto da poche ore. Fu così sostituito dal primo disponibile, che era Henry Silva. Io cercai di renderlo il più aderente possibile al personaggio e anche il personaggio della sceneggiatura di modellarlo molto sulla faccia dell’attore. Però, visto che lo scontro del commissario con Tomas era lo scontro con un personaggio amorale, violento e pure omicida, l’espressione sempre ferma di Henry, una non-espressione, fu contrabbandata come severità di un poliziotto integerrimo”.

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L’uomo della strada fa giustizia (1975) L’uomo della strada fa giustizia è considerato da una parte della critica un film minore nella produzione di Lenzi, un prodotto di pura imitazione, ma questa considerazione è vera fino a un certo punto. Il modello base è Il giustiziere della notte (1974) di Michael Winner, interpretato da Charles Bronson, basato sul romanzo omonimo di Brian Garfield (1972), dove un comune cittadino decide di farsi giustizia da solo dopo aver subito l’omicidio della moglie e lo stupro della figlia. Ambientato in una New York notturna e spettrale così come la Milano di Lenzi è livida e torbida, piena di delinquenza e di ambienti equivoci, invivibile, abitata da pavidi cittadini che esitano ad aiutare il prossimo in difficoltà. Il film di Lenzi, comunque, ha una sua specifica originalità. Prima di tutto rappresenta una vera e propria commistione di generi che va dal lacrima movie, al sentimentale, passando senza soluzione di continuità per il noir crudo e il poliziottesco violento. Molte scene efferate obbligano la commissione censura a inserire un divieto ai minori degli anni 14, pure per la presenza di parti erotiche torbide e malsane. L’omicidio della bambina nel corso delle prime scene del film e il suo riconoscimento in obitorio sono due momenti piuttosto duri da digerire. Le uccisioni di alcuni malfattori e dell’investigatore privato sono efferate e ben riprodotte, così come le sequenze di pura azione sono girate al meglio delle possibilità del regista. Ottimi gli inseguimenti nel centro città e in periferia, vero marchio di fabbrica del regista; grande sequenza di aggressione con auto sfasciata da una banda di giovani delinquenti; molte scazzottate cruente e scontri a fuoco da cinema poliziesco. Il finale sembra un classico western, con Silva che decide di farsi giustizia da solo dopo aver visto negli occhi di una bambina che piange lo sguardo della figlia perduta. Il film alterna parti di pura azione ad altre suadenti e romantiche, al tempo stesso la colonna sonora di Bruno Nicolai (molto morriconiana) asseconda gli eventi ed è una delle cose migliori dell’intero lavoro. Tecnica di regia rodata, molto americana, primissimi piani, zoomate nervose sui volti e sugli oggetti, macchina a mano, carrelli, gusto per la ripresa spericolata portato agli eccessi. Un limite del film sono i dialoghi artefatti, un po’ americani (qualche fottuto di troppo), inoltre la fissità di sguardo in attori come Silva non aiuta. Brava la Paluzzi come moglie disperata, pure se a tratti non è convincente. Il migliore tra gli attori è il teatrale Tranquilli, nel ruolo del giornalista, mentre anche Pellegrin e Gora sono troppo impostati. Lenzi risolve tutto facendo parlare poco gli attori e inserendo grandi scene di pura 80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

azione, che sono la sua specialità e che salvano il film. La suspense non manca e le parti concitate sono il sale della storia che si basa tutta sulla preparazione della grande scena di sterminio finale. Tra le note curiose ricordiamo lo sceneggiatore Dardano Sacchetti apparire in una breve sequenza nei panni di un giornalista che fa una domanda al commissario durante una conferenza stampa. Marco Giusti (Stracult). “Una specie di Giustiziere della notte alla Lenzi, con toni, però, non eccessivi, addirittura civili (ma questo non sarà un limite?) malgrado la presenza di Henry Silva come angelo vendicatore, sposato con la fantastica Luciana Paluzzi. Grande cast secondario, da Luciano Catenacci (buono) a Nello Pazzafini (cattivo)”. Paolo Mereghetti (due stelle e mezzo): “Violentissimo (all’uscita fu vietato ai minori) poliziesco metropolitano sulla falsariga de Il giustiziere della notte. Silva, in un ruolo pensato per Claudio Cassinelli, è legnoso; ma il copione (del regista con Dardano Sacchetti) evita le trappole del qualunquismo, culminando in un finale amaro e paradossale. Lenzi filma la violenza con qualche compiacimento, senza però arretrare di fronte alle soluzioni più scomode e con un’abilità tecnica che ha poco da invidiare ai colleghi statunitensi dell’epoca. Solido cinema popolare come oggi non se ne fa più. Poco visto, ma all’altezza delle prove migliori del regista. Belle musiche di Bruno Nicolai”. Pino Farinotti concede due stelle e racconta una sintesi di trama. Dardano Sacchetti, sceneggiatore della pellicola, ci ha rilasciato questa dichiarazione in merito al suo rapporto con Lenzi: “Ho conosciuto Umberto negli uffici della Variety, allora diretta da Ugo Tucci, ex producer di Sergio Leone, che avrebbe poi prodotto Il trucido e lo sbirro, quindi Zombi 2, tra l’altro inventore del titolo. Lenzi aveva appena finito il film Spasmo e ne stavano preparando il lancio. La prima immagine che ho di Umberto è lui che stende sul pavimento i quattro fogli di Spasmo. Io stavo lì per la Flora Film. Variety e Flora erano associati, avevo fatto delle cose per la Flora nella persona di Gianfranco Couyoumdjian, ci presentarono. Qualche giorno dopo Umberto mi cercò. Lui aveva una possibilità con il produttore Enzo Peri dell’Aquila Cinematografica che aveva debuttato come regista (Due pistole per Cesare, prodotto da Dino De Laurentiis, che in cambio ebbe un grosso favore in quanto Peri era intimo amico del ministro Colombo). In quei tempi Umberto, nonostante fosse sfegatatamente di sinistra, da buon toscano, senza rendersene conto, inseguiva la cronaca nera, di fatto tematiche di destra, se non parafasciste, ma guai a farglielo notare! Lui era per Il giustiziere della notte, quindi mi coinvolse (fino ad allora avevo fatto solo quattro 81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gialli e Squadra volante con Milian). Lui aveva in mente la storia di un uomo della strada che si fa giustizia da solo… non ho messo becco nel soggetto ma ho collaborato alla sceneggiatura e ci trovammo bene a lavorare insieme. Quello era il primo film ma fu l’inizio di un sodalizio. Ne facemmo tanti, alcuni di buon successo e di buona fattura. Nacque un’amicizia, perché – al di là del carattere burbero sul set – nella vita privata Umberto era un amicone e la sua casa era sempre aperta. Fu lui a coinvolgere me e mia moglie nelle prime cene, nelle feste con ambiente di cinematografari. Conobbi Claudio Mancini, diversi attori, Romolo Guerrieri, Luciano Martino… con Luciano cominciai a lavorare davvero, insomma fu un incontro molto importante per me, molto più di quello con Dario che accese un riflettore su di me ma subito si ingelosì, mentre Umberto allora divideva volentieri gli eventuali onori e in qualche modo mi proteggeva, tutto il contrario di quel birbante di Fulci”. Dardano è un fiume in piena, racconta un sacco di cose ma sul film confessa di non ricordare molto: “Non ho dettagli perché stiamo parlando di tanti anni fa, ma durante quel lavoro nacque mia figlia e sotto casa di Umberto, a nove mesi, pronunciò la sua prima parola: alpeto, indicando un albero. Le riunioni erano facili. Umberto è sempre stato uno che andava di fretta. Si lavorava al massimo un paio d’ore ed era uno dei pochi registi che scriveva veramente, non un fintone come tutti gli altri”.

Il giustiziere sfida la città (1975) Il giustiziere sfida la città è il secondo Tomas Milian movie girato da Umberto Lenzi, che deve rattoppare con mestiere una sceneggiatura abbastanza confusa di Vincenzo Mannino. La fotografia è di Federico Zanni, il montaggio di Daniele Alabiso, le scenografie di Giacomo Calò Carducci e le musiche di Franco Micalizzi (stile Morricone). Tomas Milian è Rambo, il giustiziere. Il cast è composto da ottimi attori del cinema poliziottesco come Joseph Cotten, Silvano Tranquilli, Ida Galli (si fa chiamare Evelyn Stewart), Adolfo Lastretti, Mario Piave, Femi Benussi, Maria Fiore e Guido Alberti. L’azione si svolge (tanto per cambiare) a Milano ed è la storia della vendetta di Rambo che si è visto ammazzare il fratello Pino (Piave) da una banda di delinquenti. Pino era una guardia giurata che indagava sul sequestro di un bambino ed era sulle tracce della banda di Conti (Catenacci) quando è stato eliminato. Rambo si trova a lottare contro due bande di delinquenti che mette l’una contro l’altra. Tomas Milian è un Rambo efficace, incarna la 82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

figura di un motociclista dall’oscuro passato, un ex delinquente prestato alla polizia, una specie di vendicatore solitario che lotta contro il crimine. La sua caratterizzazione è sulla falsariga di vecchi personaggi e anticipa quelli a venire. Rambo ha la barba lunga e i metodi spicci, dice parolacce, è volgare e ogni tanto si lascia andare a qualche rutto improvviso. Nico Giraldi e Monnezza sono molto vicini a questa tipologia di eroe che a un certo punto se ne viene fuori con la battuta molto romanesca: “Nasciamo da un buco, mangiamo da un buco…” e via di questo passo. Tra l’altro in questa pellicola troviamo Ferruccio Amendola che doppia per la prima volta Tomas Milian. L’Enciclopedia Garzanti del Cinema alla voce Ferruccio Amendola (Torino, 1930 - Roma, 2001) riferisce che era un attore - doppiatore interprete di numerosi film musicali come Sette canzoni per sette sorelle (1957) con Claudio Villa e Cuore matto… matto da legare (1967) con Little Tony e di commedie all’italiana come La grande guerra (1959). Nel 1980 ha recitato a fianco di Bud Spencer in Chissà perché… capitano tutte a me e in seguito è stato protagonista di telefilm di successo come Pronto Soccorso 1 e 2 (1990 - 1992). Ferruccio Amendola è maestro indiscusso del doppiaggio, la sua fama resta legata all’inconfondibile voce che ha animato attori del calibro di Robert De Niro, Al Pacino, Dustin Hoffman e Mickey Rourke, attribuendo loro un timbro e una recitazione difficilmente sostituibile per il pubblico italiano. Niente si dice in merito a Tomas Milian, forse l’estensore della voce enciclopedica la ritiene una cosa minore e superflua, invece Ferruccio Amendola è importante pure per aver prestato la sua voce ai personaggi del Monnezza e di Nico Giraldi. Possiamo affermare senza timore di smentita che senza Ferruccio Amendola non ci sarebbe stato Tomas Milian. Dopo Il giustiziere sfida la città i due saranno sempre più indissolubili e daranno vita a personaggi indimenticabili. Umberto Lenzi in un’intervista rilasciata alla fanzine Dinamo spiega la scelta del nome Rambo per il suo giustiziere e dice che fu suggerito da Tomas Milian che aveva letto negli Stati Uniti il romanzo First Blood, dal quale anni dopo venne tratto il film di Stallone. Il film di Lenzi si doveva chiamare Rambo sfida la città, però la Medusa lo trovava un titolo poco adatto e lo cambiò. Stranezze della cinematografia, se si pensa al successo che ha avuto il Rambo americano. Abbiamo reperito una dichiarazione di Umberto Lenzi nel Dossier 36 edito da Nocturno, dal titolo Monnezza e i suoi fratelli - Guida al cinema poliziesco di Tomas Milian, che ci pare interessante: “Il giustiziere sfida la città era un film di passaggio, una specie di interludio, perché io mi rilassavo dall’esperienza allucinante di Milano odia e Tomas Milian intanto comin83 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ciava a inserire degli elementi presi dal personaggio di Cuchillo, che avrebbero poi fatto la fortuna del Monnezza. Questa esperienza riuscì e il film ebbe un gran successo. Il soggetto, di Vincenzo Mannino, era copiato paro paro da Per un pugno di dollari. Arriva uno straniero che invece dell’asino c’ha una motocicletta, è vestito in modo eccentrico, fuma il sigaro e mette due bande l’una contro l’altra, facendole ammazzare a vicenda. Lo girammo in un clima di assoluta serenità. Tra l’altro, partiva da un libro che Tomas aveva letto in America, quello da cui poi trassero Rambo. È per questo che il personaggio interpretato da Milian si chiama anche lui Rambo. Lo stesso titolo di lavorazione, cambiato in sede di censura, era Rambo sfida la città. Quelli della Medusa dicevano: Un film che s’intitola Rambo? Ma non scherziamo, chi se lo va a vedere?. Dopo quattro anni, quelle persone hanno comprato Rambo di Ted Kotcheff e hanno incassato più di tredici miliardi”.

Roma a mano armata (1976) Roma a mano armata è un altro buon film di Umberto Lenzi (autore anche del soggetto) che si inserisce nel filone romano del poliziottesco. Dardano Sacchetti, vero esperto del cinema di avventura italiano, sceneggia una storia che nasce dalla fantasia del regista. Umberto Lenzi, nelle note al film Roma a mano armata, curate da Manlio Gomarasca e Davide Pulici di Nocturno, afferma: “Il produttore mi aveva offerto una sceneggiatura che si intitolava Roma ha un segreto, una storia di spionaggio ambientata a Trastevere, che non stava in piedi e che io cestinai. Proposi al produttore di fare un film sulla violenza della Roma dell’epoca e lui accettò. In una settimana scrivemmo la sceneggiatura”. Il film è costruito come un collage di episodi che definiscono una serie di personaggi e di situazioni emblematiche che vanno dai pariolini stupratori ai sottoproletari dalla battuta pronta. La fotografia è di Federico Zanni, il montaggio di Daniele Alabiso, le musiche sono di Franco Micalizzi e le scenografie di Giorgio Bertolini. Per Tomas Milian è un film importante perché segna la nascita del personaggio del Gobbo che lo accompagnerà per altri film della serie poliziottesca con Umberto Lenzi. Altri interpreti: Maurizio Merli, Giampiero Albertini, Arthur Kennedy, Maria Rosario Omaggio, Ivan Rassimov, Claudio Nicastro, Tom Felleghi, Stefano Patrizi, Biagio Pelligra, Luciano Pigozzi e Luciano Catenacci. La storia vede all’opera il commissario Leonardo Tanzi (Merli), uomo dalle maniere forti, che si scontra con il questore Ruini (Kennedy) 84 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che però alla fine è costretto a dire che ha ragione lui e che le maniere forti sono l’unica soluzione per sconfiggere i criminali. Si comincia subito con una bella carrellata panoramica su Roma e con qualche inseguimento all’americana, vera specialità di Lenzi e parte immancabile nel poliziottesco. Il commissario Tanzi, dopo aver ricevuto una soffiata, si reca in una bisca clandestina frequentata da ricconi dei Parioli e aperta dai marsigliesi di Ferender. Fatta irruzione con i suoi agenti, Tanzi si rende conto che il posto non ha nulla d’illegale. Fuori dal locale, però, il commissario riconosce Savelli, scagnozzo di Ferender, e lo arresta. La permanenza di Savelli in commissariato è breve, giusto il tempo per essere pestato da Tanzi e l’avvocato lo fa rilasciare con un cavillo. Lenzi ci presenta subito il suo solito personaggio del commissario tutto d’un pezzo e dai modi spicci nella lotta contro il crimine. Maurizio Merli è ben calato nella parte e d’altra parte quello è il suo ruolo prediletto. Il commissario vorrebbe mettere su una squadra speciale per dare la caccia ai banditi e avere mano libera. Il questore non è dalla sua parte, crede fino in fondo nel rispetto della legalità, così come lo contrasta Anna, la fidanzata psicologa. Maria Rosaria Omaggio non è il massimo in questo ruolo, recita poche battute composte di frasi fatte, si nasconde dietro un paio di occhialoni da psicologa e prova pietà per i giovani delinquenti. Alla fine se ne va a Milano per riflettere e lascia il commissario alla sua vita da poliziotto ribelle. Caso vuole che il giorno dopo, durante una rapina, Savelli e i suoi uccidano un poliziotto. Tanzi si mette alla caccia dell’omicida e si reca al mattatoio da Vincenzo Moretto detto il Gobbo, cognato di Savelli, che non ha intenzione di parlare. Tanzi, allora, lo incastra e lo trascina dentro, per poi dargli una buona dose di botte. Ma il Gobbo in bagno finge il suicidio, viene liberato e mette in cattiva luce il commissario, svelando i suoi metodi. Il vice questore, infatti, lo declassa all’ufficio Licenze Pubblici Servizi. Il Gobbo, intanto, organizza il sequestro di Anna, la compagna di Tanzi che è psicologa al Tribunale dei Minori. Anna viene rinchiusa in una macchina ed è quasi stritolata da una pressa da sfasciacarrozze: finisce all’ospedale in stato di choc. Subito dopo un gruppo di ragazzi della Roma bene interrompe una coppia appartata in auto, l’uomo è malmenato e riesce a fuggire, la ragazza viene violentata. La scena, molto truce, è una sorta di accusa verso i giovani borghesi annoiati che per passare il tempo commettono ogni sorta di nefandezze. Il fidanzato s’imbatte in Tanzi e insieme corrono sul luogo del delitto, dove la ragazza in stato di delirio dice: “Uno aveva un maglioncino bianco e la faccia da bambino viziato”. La battuta è abbastanza ridicola, si 85 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

poteva evitare, è incredibile che una donna violentata abbia modo di vedere il colore del maglione e una faccia da bambino viziato. In ogni caso un Tanzi super violento si fa giustizia da sé e al bar frequentato dai ricconi mena cazzotti a tutto spiano. Il ragazzo colpevole della violenza fugge in auto e Tanzi, durante un rocambolesco inseguimento, ne provoca la morte. Il giorno successivo, il vice commissario Caputo (Giampiero Albertini) scagiona Tanzi da qualsiasi colpa. Il film è molto frammentario, si tratta quasi di una raccolta di episodi criminali legati insieme da un esile filo conduttore. Poco dopo, una donna chiede a Tanzi aiuto per sua figlia Marta, eroinomane soggiogata dallo spacciatore Tony Parenzo. Il commissario si mette sulle tracce della ragazza, ma al suo arrivo in casa, lo spacciatore ha già iniettato una dose letale a Marta e si è dato alla fuga. Da citare le belle sequenze di caccia al bandito sui tetti di Roma e alcune spericolate scene girate con la controfigura. Quando Tanzi lo riacciuffa, lo minaccia di morte se non gli darà informazioni su Ferender. Ma, proprio sul punto di parlare, Parenzo viene ucciso da un colpo esploso dall’interno di un’auto. Nel frattempo è in corso un’altra rapina con ostaggi e pericolo di vita per inermi cittadini: Tanzi interviene e risolve la situazione. Il Gobbo viene identificato da un benzinaio: è la seconda volta che sfugge a Tanzi, ma non succederà più. C’è pure un bell’inseguimento con un’ambulanza e il Gobbo che intima: “Oronzo tu non fa’ lo stronzo che se ce beccano qua so’ proprio cazzi da caga’…” e ci porta in pieno clima Monnezza. Il Gobbo è uno spietato criminale che ricorda il Giulio Sacchi di Milano odia, solo che parla in romanesco e ha un aspetto fisico repellente. All’improvviso, il commissario si trova tra le mani un dossier su Ferdinando Gerace, personaggio intravisto sia durante la retata nella bisca sia nei dintorni di casa di Tony Parenzo: Gerace è l’intestatario del capannone dove il Gobbo si riunisce con i suoi complici. Tanzi va sul posto, fuori trova parcheggiata la macchina usata nell’omicidio di Parenzo, entra, ma viene sopraffatto dal Gobbo che lo immobilizza e gli confessa d’aver ucciso Ferender. Caputo, che sta appostato fuori dal capanno, sopraggiunge e intima al Gobbo di arrendersi. Il Gobbo uccide Caputo, ma Tanzi riesce a sua volta a eliminarlo. Il finale è un po’ debole, lo spettatore si aspetterebbe ben altro che uno scontato faccia a faccia con duplice omicidio. Nel complesso siamo di fronte a un film dignitoso che fu un incredibile successo commerciale e incassò un miliardo e seicento milioni, una cifra record da film americano. Mereghetti concede due stelle: “Un lavoro elementare ma che sa mettere il dito sulla piaga, molto meno manicheo di quello che si credeva al tempo”. Pino Farinotti lo liquida con 86 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sufficienza: “Il solito film sul commissario violento che, incurante delle ammonizioni del questore e dei consigli della fidanzata psicologa, usa le maniere forti e stermina la solita banda di spacciatori di droga”. Un giudizio superficiale. Nel film l’invenzione più geniale è quella del personaggio di Vincenzo Moretto, detto il Gobbo, interpretato da Tomas Milian e doppiato da Ferruccio Amendola. Il Gobbo è un sottoproletario rancoroso e dalla battuta facile che si esprime con modi volgari e parla con spiccato accento romanesco da borgata. Il personaggio è nato dalla penna di Dardano Sacchetti (sceneggiatore), modificato dalla fantasia e dai ricordi d’infanzia di Umberto Lenzi. Tomas Milian e Ferruccio Amendola gli hanno conferito una mimica e una voce che sono rimaste nell’immaginario dei giovani del tempo. Questo personaggio era “una sorta di miscuglio tra il Gobbo di Notre Dame e di quello romanesco del Quarticciolo”, dice Marco Giusti. La definizione è troppo calzante per non essere riportata. Umberto Lenzi ha descritto in un’intervista la nascita del Gobbo: “Il personaggio del Gobbo è realmente esistito nel mio paese a Massa Marittima. Parlo dei primi anni Quaranta. Mio padre aveva delle macellerie e mi portava spesso al mattatoio dove c’era un inserviente piccolo che si chiamava Orlando e che tutti chiamavano il Gobbo. Quando ho pensato a un personaggio per il film mi è venuto in mente lui… un tipo dalla battuta sempre pronta. Apparteneva alla malavita ma non era un malvivente, scuoiava gli animali ma leggeva i romanzi. Si trattava di un diverso, gobbo e omosessuale, che mi aveva impressionato perché era aggressivo, sardonico, intelligente, anticonformista. Era incredibile!”. Il Gobbo dell’infanzia di Lenzi, diceva battute in toscano, perché Massa Marittima è a cinquanta chilometri da casa mia, nota per una delle chiese romaniche più belle del mondo. Tra l’altro ho conferma da parte di amici massetani su quanto riferito da Lenzi e posso assicurare che Orlando esisteva davvero al mattatoio di Massa. Dardano Sacchetti ha conferito al personaggio l’anima romanesca di borgata con tutta la sua fantasia da grande creativo del cinema di genere italiano. Il Gobbo è il personaggio che rimane da una storia costruita tutta su Merli e su questo nuovo commissario Tanzi che prende il posto di Betti ma che nella sostanza cambia poco. Lenzi convinse la produzione a inserire nel cast pure Tomas Milian perché aveva avuto un buon successo con Milano odia: la polizia non può sparare (1974) e Il giustiziere sfida la città (1975) e costruì per lui questo ruolo. Il Gobbo piacque così tanto al pubblico che venne riproposto nel successivo La banda del Gobbo (1977), vero e proprio sequel di Roma a mano armata. Lenzi ricorda così i due attori principali: “Merli aveva un carattere grintoso, 87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Milian era molto bravo ma isterico e scapestrato. Merli era più professionista, più quadrato. Secondo me il miglior attore italiano nel genere d’azione…”. Tomas Milian era cubano, aggiungiamo noi che i cubani li conosciamo bene. E i cubani sono così, pazzi e geniali, folli e scapestrati. Prendere o lasciare. Abbiamo reperito una dichiarazione di Umberto Lenzi nel Dossier 36 edito da Nocturno, dal titolo Monnezza e i suoi fratelli - Guida al cinema poliziesco di Tomas Milian, che ci pare interessante: “In Roma a mano armata successe una cosa memorabile nella scena con Il Moretto, cioè Tomas Milian, doveva fare la dissezione di un bue. Alle cinque del mattino ci eravamo recati in un mattatoio, dove il proprietario coi aveva messo a disposizione un quarto di bue, avvertendoci che quella bestia valeva diversi milioni e che quindi bisognava aprirla in un certo modo per non rovinare il filetto. Si trattava di eseguire una sorta di autopsia dell’animale, per non rovinarlo, anche perché la produzione non poteva permettersi di ripagarlo per intero. Naturalmente Tomas (che qualche giorno prima io avevo portato dal macellaio a prendere ripetizioni) pensava a tutto fuorché a questi problemi. Quando ci fu la famosa scena in cui entra Merli e Milian gli fa: Aho, ma io sto a operà!, io sudavo freddo, perché vedevo che stavano uscendo tutte le interiora dell’animale che lui stava sfasciando tutto mentre s’inventava estemporaneamente nuove battute che mettevano in difficoltà il povero Maurizio. Il macellaio e il direttore di produzione avevano gli occhi fuori dalle orbite, perché vedevano che Milian si stava avvicinando pericolosamente al filetto. Per fortuna andò tutto bene, anche se ho sudato sette camicie, e devo dire che Tomas si è rivelato, alla fine, un macellaio perfetto. Dire che sul set di Roma a mano armata tra Tomas e Maurizio Merli ci fosse rivalità – nonostante fosse stato proprio Tomas a volerlo come partner – è ancora un eufemismo. Nella scena finale del film, quando Il Gobbo, dopo aver ucciso Giampiero Albertini, l’altro poliziotto, disarma Merli e lo prende a calci mentre è a terra, successe che Tomas, preso dalla scena, tempestò davvero di calci Maurizio, tant’è che quest’ultimo divenne furibondo e fui costretto a interrompere la lavorazione. Giravamo in un deposito di stracci, fuori Roma, di notte, con un freddo incredibile. Riprendemmo solamente il giorno successivo, dopo che gli animi si furono raffreddati. Questa fu la ragione per cui nel film successivo – Il cinico, l’infame e il violento – feci in modo che sul set Milian e Merli si incontrassero il meno possibile”.

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Napoli violenta (1976) Napoli violenta è il sequel di Roma violenta (1975) di Marino Girolami e anticipa la fine della trilogia del commissario Betti, con Italia a mano armata (1976), sempre di Girolami, che (come nel primo film) si firma Franco Martinelli. La trama è abbastanza semplice da raccontare perché quel che conta sono le scene acrobatiche e le parti di pura azione. Il commissario Betti (Merli) viene trasferito a Napoli, dove aveva già lavorato, si trova a lottare con la sua squadra speciale contro O’ Generale (Sullivan), un potente boss che domina il racket del pizzo e si avvale dei servigi del viscido Capuano (Saxon). In una Napoli popolata da malavita organizzata e ricca di cani sciolti, il commissario deve fare i conti con rapinatori di banca armati di mitra che uccidono poliziotti, ma anche con ricettatori e scippatori che stuprano donne. Non solo, incontra mariti che tengono più all’onore che a veder condannare i criminali, attentatori che bruciano autorimesse e ladruncoli da quattro soldi. Un panorama di varia umanità si aggira nei bassifondi di Napoli, ricostruiti in maniera perfetta, dai mercati rionali alla musica popolare, fino alle grida dei venditori per convincere gli acquirenti, passando per spacciatori di sigarette di contrabbando. Betti deve vedersela anche con il bandito Casagrande (Zamuto), un sorvegliato speciale che tenta di imbrogliare le carte perché assolve all’obbligo di firma ma nonostante tutto compie sanguinose rapine con il morto, spesso un poliziotto. Alla fine il ricco Capuano viene messo in condizione di non nuocere mentre il boss O’ Generale viene ucciso. Betti trova il modo di far passare la sparatoria come un regolamento di conti. La vittoria costa la morte di tre uomini, per questo decide di dimettersi, ma in una stupenda scena finale lo vediamo cambiare idea perché vede un bambino rimasto vittima di un attentato zoppicare con una protesi. Deve continuare a lottare… Maurizio Merli torna a indossare gli abiti del commissario tutto d’un pezzo che fa la guerra al crimine con metodi spicci e violenti, senza seguire regole burocratiche ma preoccupandosi di assicurare alla giustizia spietati malviventi. La forza del film sta tutta nelle stupende scene d’azione, negli inseguimenti di città e nelle corse sfrenate di moto che si fanno largo nel convulso traffico partenopeo. Diverse scene sono spettacolari, altre forse troppo violente, con sequenze di omicidi splatter come la donna con il cranio fracassato sul convoglio della teleferica e il poliziotto ucciso con una palla da bowling. Molti gli inseguimenti a piedi, sui tetti di periferia e del centro cittadino, addirittura sulla funicolare di Montesanto, chiusa al pub89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

blico per girare una pericolosa parte acrobatica che vede Merli inseguire un bandito restando sdraiato sul tetto del convoglio, senza controfigura. Tra gli attori ricordiamo i diligenti Silvano Tranquilli, pavido marito che ha paura di denunciare, e Maria Grazia Spina, violentata e percossa dai rapinatori. Bene i perfidi cattivi Saxon (in guanti bianchi) e Sullivan (potente boss), esperti in simili ruoli, così come Zamuto è un feroce bandito. Un pregio del film è la descrizione realistica dei luoghi napoletani, del traffico, dei vicoli urbani, ricostruendo il colore del centro storico e il modo di vivere del periodo. Toccante la figura dello scugnizzo furbo e irriverente che viene punito dalla vita. La musica di Micalizzi è un valore aggiunto, intensa e suadente, sottolinea le scene di azione accompagnando le gesta dei protagonisti. Buona la fotografia color pastello di Zuccoli e Celeste che immortala una Napoli solare e notturna, splendente e livida. Location secondaria Genova, solo poche sequenze che immortalano la fuga di Capuano, resta il tempo per vedere gli svincoli e una rapida panoramica della città. Incassi strepitosi, nonostante l’uscita durante il primo fine settimana di agosto. Solo a Napoli, nei primi quattro giorni di programmazioni guadagna 59 milioni di lire. I Bulldog eseguono A Man before Your Time di Lenzi - Valli Micalizzi. Uscito in Francia come S.O.S. Jaguar opération casseurs. Nel 2003, una versione rimasterizzata è stata presentata in Finlandia, durante il Night Visions Festival. Rapida rassegna critica. Marco Giusti (Stracult): “Torna Maurizio Merli come commissario Betti dopo Roma violenta. La sua tesi sulla polizia italiana è meravigliosa. La polizia lavora 24 ore su 24 e forse in Italia è l’unica a farlo. (Giusti non ha seguito bene il dialogo perché Merli parla della malavita!, nda). Stavolta Betti è mandato a Napoli. Il dialogo su questo trasferimento non è male. Come mai è stato trasferito a Napoli? Come mai ha accettato? Poteva anche rifiutare. E lui: Cosa vuoi, per me fare il poliziotto è una ragione di vita, e loro lo sanno. Lì si scontra con il durissimo capo della mala Barry Sullivan (mica male…) chiamato O’ Generale. Lo farà fuori con metodi non troppo ortodossi”. Paolo Mereghetti (due stelle): “Trasferito a Napoli il commissario Betti (Merli) di Roma violenta prosegue la sua personale lotta contro la malavita. Lo aspettano: una banda di ladri d’appartamento stupratori, un criminale agli arresti domiciliari (Zamuto) che rapina banche, il boss O’ Generale (Sullivan) che gestisce il racket del pizzo e un industriale (Saxon) dai loschi traffici. Lenzi esaspera la violenza metropolitana ma possiede sicuramente il senso dell’azione: da antologia la sequenza della funicolare, con Merli appeso al tetto. Scritto da Vincenzo Mannino, con musiche for90 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

midabili di Franco Micalizzi. A Napoli, all’uscita nelle sale, la polizia dovette intervenire per contenere il pubblico”. Alessandra Lenzi ci ha detto: “Sono molto interessanti gli episodi legati a Merli, un attore spericolato e coraggioso che girava scene molto rischiose senza chiedere la controfigura (vedi sequenze della moto, della funicolare, sui tetti). Merli era un corridore eccelso, in Napoli violenta c’è un inseguimento in macchina realizzato senza permessi, in mezzo al traffico, durante il quale l’attore si scontrò con una macchina che passava, fortunatamente senza conseguenze, ma ogni volta che lavoravano insieme se la rischiavano. Napoli violenta fu un vero action movie. Quando mi sono sposata andai con mio marito a Napoli. Eravamo nel 1990, ma quando si seppe che ero la figlia di Lenzi, mi fecero le feste, perché ancora mio padre era considerato un mito per quel film”.

Il trucido e lo sbirro (1976) Il commissario Sarti (un ingessato Claudio Cassinelli) aiuta a evadere dal carcere di Rebibbia il ladro buono, ma volgare ai limiti del turpiloquio, che si fa chiamare Monnezza. Il commissario vuole essere aiutato a liberare una bambina rapita bisognosa di un trapianto di rene e vuole pure mettere fine alle imprese criminali del boss Brescianelli (Henry Silva). Per far questo si serve di Monnezza e di una banda di feroci criminali convertiti al servizio della legge. Il film è un vero poliziottesco, la mano di Sacchetti scrittore di genere si sente, però è una pellicola che si ricorda soprattutto perché segna la nascita del personaggio di Monnezza, maschera importante del nostro cinema popolare. Tomas Milian è ancora ingabbiato nei dialoghi di Lenzi e Sacchetti e non ha campo libero come invece gli capiterà nei successivi La banda del Gobbo (1977) e La banda del Trucido (1977). In questo film non si parla del Gobbo, ma vedremo nel successivo lavoro che Sergio Marazzi, detto Monnezza, è il suo fratello gemello buono. Monnezza, figlio di una battona e di un ladro, si esprime in un linguaggio scurrile e spontaneo da borgataro che la voce di Ferruccio Amendola rende a dovere. D’altro canto il carattere rissoso e violento del Monnezza è esaltato dalla mimica tutta cubana di un Tomas Milian in stato di grazia che si scaccola, tira su col naso e bestemmia senza sosta. Monnezza veste panni borgatari un po’ cenciosi, composti da una tuta blu sudicia e sdrucita con una papalina in testa che diventerà un simbolo irrinunciabile. Per dare a Cesare quel 91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che è di Cesare dobbiamo dire che l’invenzione di Monnezza è merito dello sceneggiatore Dardano Sacchetti. Umberto Lenzi e Tomas Milian hanno perfezionato il personaggio studiandone il trucco e il modo di parlare in rima romanesca che ne fece una bomba comica originale. Abbiamo avvicinato Dardano Sacchetti, che rivendica la paternità del personaggio con queste parole: “Il modo di parlare è totalmente mio. La rima è mia e guai a chi me la tocca! Posso dimostralo. E per quanto riguarda il trucco, è merito di Claudio Mancini. Umberto non capì le potenzialità del personaggio, a lui interessava il poliziesco duro, non la commedia; per questo Milian – che aveva capito – tutto finì da Bruno Corbucci. Umberto era un toscanaccio verace, Milian un cubano doppiato perché parlava spagnolo, io ero il romano cresciuto a Belli e Trilussa, col mito del Sorpasso, film che adoro (hai presente il personaggio di Bruno?). In più c’era la Canzonissima del 1963 con Panelli e Manfredi (due romani) e Manfredi terminava il programma dicendo: E come diceva Napoleone dall’alto della roccia, anche stavolta l’amo preso in saccoccia… Pensa che è da quel ricordo che ho preso la rima del Monnezza, come il nome Monnezza viene da Trash, un personaggio del fumetto Il Monello. Poi, se vuoi, ho la sceneggiatura originale scritta solo da me e mai toccata da nessuno!”. Tomas Milian ha detto in un’intervista: “Dato che non c’era sostanza nel personaggio, perché era tutto basato sull’effetto, io ho cercato di dargli una coscienza sociale, quella che ho assimilato frequentando tutti i sottoproletari in America. Più andavo avanti e più calcavo la mano nelle parolacce, ma sempre… musicalmente. Veniva giù il cinema e all’uscita mi dicevano: A Tomasse, anvedi che forza!”. L’inizio del film è spiazzante e pare quasi che Lenzi voglia porre l’accento sul fatto che il poliziottesco deriva dallo spaghetti-western. Infatti la scena su cui scorrono i titoli di testa è puro cinema nel cinema dove passano le sequenze di un bel western all’italiana. Si capisce solo dopo che ci troviamo in galera e che i carcerati stanno guardando un film. La camera inquadra Monnezza che si presenta al pubblico con la prima battuta di una volgarità unica: “Reggeme er posto che vado a caga’…”. Nelle sequenze successive c’è un’altra parte che ricorda lo spaghetti-western e rende omaggio al genere, infatti vediamo un gruppo di banditi che assalta un treno e pare proprio un’aggressione alla diligenza o a un convoglio ferroviario del Far West. Il trucido e lo sbirro per stile e materia raccontata è ancora un poliziesco puro, la virata comica ci sarà nei successivi lavori quando Milian avrà campo libero. La struttura della pellicola è molto tradizionale, prevede un 92 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

commissario dai metodi spicci e contro il regolamento (Cassinelli non è il massimo) che viene a patti con spietati banditi pur di raggiungere il suo scopo. La trama poliziesca viene condita da un po’ di volgarità che è la connotazione originale della pellicola. Le battute di Milian sono divertenti e inconsuete. Ne citiamo alcune per dare un’idea del tenore di un poliziesco sui generis come questo. “Tu sei uno sbirro e io un trucido. Siamo una coppia der cazzo”, “C’è chi nasce co’ piedi storti e chi nasce co’ piedi piatti, che ce vo’ fa’?”, “Pe’ colpa de’ li preti e de’ Santippe vivemo solo de’ cambiali e pippe”, “Ma che so’… Fregoli?”, “Tu te impulsivisci” (invece che sei troppo impulsivo), per non parlare del finale con Monnezza che scappa sopra un tram e dice: “O tornavo in galera o me attaccavo ar tram. Me so’ attaccato ar tram!”. Le scene violente comunque ci sono e fanno parte integrante del film. Per esempio si vede una banda di terroristi che ammazza un politico mentre i protagonisti pedinano la donna del boss Brescianelli. La scena non c’entra niente con la trama, ma forse Sacchetti l’ha voluta inserire per creare uno spaccato d’epoca e testimoniare una situazione reale. La sequenza del latte con Monnezza che uccide un bandito, pure se ha vinto la scommessa e ha scelto il bicchiere giusto, è un’altra parte piuttosto dura e gratuita. Le scene finali sono ancora molto crude e la figura del bandito chiamato il Cinico viene caratterizzata da un crescendo di violenza che lo porta a uccidere persone senza motivo, violentare donne e alla fine pure ad accoltellare il boss Brescianelli. Il Cinico viene ucciso da Monnezza in un sanguinoso epilogo e poi si finge ferito pure lui per scappare alla sorveglianza del commissario Sarti. Nel film ricordiamo alcuni spettacolari inseguimenti tra auto tipici del poliziottesco, girati piuttosto bene da un esperto in materia come Lenzi. Da citare la bella colonna sonora di Bruno Canfora, apprezzato direttore d’orchestra di trasmissioni televisive popolari come Canzonissima e altri show del sabato sera. Merita una menzione la stupenda Ma come hai fatto di Ornella Vanoni che si ascolta in una delle prime scene del film, non male anche la sigla finale La ballata del trucido e lo sbirro di Giorgio Cascio. Umberto Lenzi alcuni anni fa mi confidò: “Il trucido e lo sbirro venne girato col titolo della sceneggiatura di Sacchetti, Carta bianca per un poliziotto, che a mio parere era moscio. Durante la postproduzione ebbi un’illuminazione e proposi al produttore Ugo Tucci il titolo che ha contribuito al successo del film”. Dardano Sacchetti, avvicinato durante la stesura di questo libro, ci tiene a precisare: “Il titolo della sceneggiatura non era mio (non ho mai dato un titolo a una mia opera), ma di Claudio Mancini. 93 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Fu Umberto a cambiarlo, aveva un certo fiutaccio per i titoli… lui del cinema popolare conosceva ricette e segreti, veniva dagli anni Sessanta che, per me, sono i migliori…”. Umberto Lenzi non ha mai digerito il film successivo girato da Stelvio Massi, vissuto come una sorta di tradimento: “Il produttore Ugo Tucci della Variety Film, un grande amico mio, doveva realizzare un poliziesco e si trovava in difficoltà, così si rivolse a me: Dammi una mano! Visto che tu non puoi farmi il film, perché sei sotto contratto con Luciano Martino, fammi almeno fare una partecipazione straordinaria di Tomas Milian, in questo poliziottesco che sto preparando. Così, presente Tucci, andai a casa di Tomas e lo convinsi a fare il film. Però, attenzione: non si parlava affatto di girare un altro Monnezza. Ovviamente, per Tucci, che aveva già prodotto il mio Il trucido e lo sbirro, che si era rivelato una bomba, era un’occasione ghiotta. La banda del trucido fu un’operazione che chiaramente mi danneggiò e che fu fatta alle mie spalle”. (fonte Nocturno Cinema, Dossier 36, opera citata). Il cinico, l’infame, il violento (1977) Il cinico, l’infame e il violento riprova a mettere insieme il duo Maurizio Merli - Tomas Milian, il primo nei panni del commissario violento e il secondo del furfante che parla in romanesco. Gli altri interpreti: John Saxon, Renzo Palmer, Gabriella Giorgelli, Brigitte Petronio, Gabriella Lepori, Bruno Corazzari, Guido Alberti e Gianni Musy. Il soggetto è di Sauro Scavolini, la sceneggiatura di Dardano Sacchetti, Ernesto Gastaldi e dello stesso Lenzi, la fotografia di Federico Zanni, il montaggio di Eugenio Alabiso, le scenografie sono di Elio Micheli e le musiche di Franco Micalizzi. In merito al titolo Umberto Lenzi ci ha detto: “Questo film si doveva intitolare Insieme per una grande rapina. Niente di più anonimo. Orecchiando Sergio Leone, riuscii a farlo cambiare all’ultimo momento, quando il film stava per uscire in prima visione. Basta vedere il documentario Italia a mano armata, trasmesso da Sky nel 2005, in cui è inserito il trailer con il titolo originale”. Ernesto Gastaldi nega ogni rapporto con Lenzi, regista con il quale non legava molto da un punto di vista caratteriale: “Feci soltanto una supervisione della sceneggiatura, sempre senza collaborare con Umberto Lenzi, per i motivi che ti ho spiegato”. Il film comincia con una bella panoramica di Milano, la macchina da presa ci porta verso Piazza del Duomo e riprende un inseguimento della 94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

polizia a bordo della classica Alfetta. Maurizio Merli è ancora il commissario Leonardo Tanzi che dopo aver arrestato Luigi Maietto, detto il Cinese, (Tomas Milian) per protesta si dimette dalla polizia. Adesso fa il correttore di bozze di romanzi gialli e da Roma si è trasferito a Milano, ma non pare molto soddisfatto della scelta visto che dice: “In questa città di bauscia l’aria sa solo di polenta”. Quando il Cinese evade da Porto Azzurro, il commissario Guido Astalli (il televisivo Renzo Palmer) chiama Tanzi per metterlo in guardia. Il commissario ha ragione perché alcuni giorni dopo un uomo del bandito entra in casa sua e gli spara. Tanzi è solo ferito a un braccio, però d’accordo con la polizia fa diffondere la falsa notizia della sua morte e si rifugia in Svizzera. Il Cinese è molto soddisfatto della fine di Tanzi e si allea con il boss Frank Di Maggio (Saxon) per spartirsi il controllo di Roma. Tomas Milian è senza barba, ha i capelli lunghi, il look è ancora diverso dallo stile Monnezza, però la parlata è quella romanesca di Ferruccio Amendola. Tanzi non ce la fa a restare a lungo in Svizzera e torna a Roma in incognito per dare la caccia al Cinese. Prima va dallo zio antiquario che ha appena subito una rapina da due milioni e poi affitta una stanza in una locanda dove l’ambiente è piuttosto volgare. Punto debole del film è il fatto che nessuno riconosce Tanzi, nonostante la sua foto fosse uscita su tutti i giornali quando lo davano per morto. Tanzi conosce Nadia, una donna di un delinquente che difende in discoteca, ha una breve relazione con lei ma poi sarà proprio la donna a tradirlo. Intanto l’alleanza tra Di Maggio e il Cinese prosegue con quest’ultimo che fa da esattore per conto del boss italo americano. Di Maggio è un uomo crudele e ce ne rendiamo conto quando punisce un traditore a colpi di palline da golf lanciate in volto e infine lo dà in pasto ai cani. Il Cinese si occupa del giro delle protezioni e fa pagare il pizzo a chi si rifiuta, con le buone o con le cattive. La scena con il commerciante Natali (Riccardo Garrone) è emblematica e vede uno spietato Tomas Milian che fa rompere una gamba di Natali a colpi di crick. Molto bravo Milian nella parte di questo criminale romanesco che colpisce quando meno te lo aspetti, indossa occhiali da sole, parla in modo tranquillo, bonario e poi compie gesti efferati. Tanzi intanto si dà da fare e usa i soliti metodi poco ortodossi, come quando scopre un giro di droga e di squillo nel quale è coinvolta anche Nadia. Però la sequenza più dura è l’aggressione al bandito Nicola (l’uomo di Nadia) di ritorno da Lugano. Tanzi quasi lo ammazza di botte per rubargli una ricevuta e impossessarsi del denaro che è nel conto di Di Maggio. Il gioco di Tanzi è quello di mettere i due criminali uno contro l’altro e infatti una donna complice del poliziotto accusa il Cinese 95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dell’aggressione. Di Maggio sospetta ma non ha le prove. Il Cinese si difende, mentre mangia al solito tavolo con davanti mezzo litro di vino bianco e sfoggia un look con capelli lunghi, occhiali da sole e camicia colorata dal colletto ampio. Merli continua a dispensare cazzotti a destra e a manca, pare un super eroe invece di un uomo come tanti, questa volta è il turno dei malfattori che avevano rubato due milioni allo zio. Un’altra sequenza che vede uno strabiliante Tomas Milian è quella dell’ospedale, con il Cinese che compra una messa da una suora per “cento sacchi”, però vuole che venga suonata “la ballata dello stronzo”. La messa è per Nicola, che subito dopo ammazza con un colpo di pistola alla tempia dopo aver chiacchierato con lui per non dare nell’occhio. Prima di ucciderlo il Cinese capisce che chi ha massacrato di botte Nicola è il suo acerrimo nemico Tanzi. Una mania del Cinese è quella di lasciare bigliettini ironici accanto ai corpi dei morti che semina sul suo passaggio. “Nicola Proietti, figlio di mignotta e spia”, sta scritto accanto al letto del bandito. A questo punto il Cinese dà la caccia a Tanzi ma non riesce a farlo fuori, né in metropolitana, né in un grande magazzino, in compenso il film guadagna alcune buone scene di azione. L’inseguimento tra i tetti con un delinquente che muore per una caduta nel vuoto è la parte migliore. Il Cinese si manifesta in tutta la sua mimica di personaggio ben riuscito, soprattutto per il modo di parlare: “Io non ce l’ho con te, ce l’ho con quella vacca che t’ha partorito dal bucio del culo”, dice a Dario (Claudio Undari, nella consueta parte da cattivo). Si scopre anche che si fa chiamare il Cinese perché ha pazienza, attende il cadavere del nemico sull’altra sponda e gusta la vendetta con tranquillità, come un prelibato piatto freddo. Una parte lunga e noiosa è invece quella che precede la resa di conti finale e che serve a creare il modo per incastrare Di Maggio. Gli uomini del Cinese derubano Di Maggio, qualcuno di loro viene arrestato, però pure il boss avversario finisce dentro e per poco non viene fatto fuori dagli uomini dell’altra banda. Merli chiede al suo amico giudice di far uscire Di Maggio in libertà provvisoria, in modo da poterlo prendere sul fatto durante il regolamento di conti con il Cinese. C’è pure una ridicola cazzottata tra Merli e Palmer che si vede in tutta la sua finzione, soprattutto perché Palmer è un pessimo attore. Pure Merli è sempre uguale a se stesso, troppo perfettino nella sua parte da giustiziere della notte. Il film lo salva solo un grande Tomas Milian che recita con pause studiate, verve, grande mimica e ottime battute da burino di borgata. La parte finale vede un uomo del Cinese che lo tradisce sul più bello, ma l’intervento di Merli stravolge la situazione. Il Cinese uccide Di Maggio ma poi nello scontro a fuoco finale 96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

viene ucciso da Tanzi. Ottima la sequenza che vede Milian morire al volante della sua auto mentre tenta la fuga, freddato da un colpo di pistola alla nuca. “Per una volta sono contento di essere arrivato tardi”, conclude il commissario Renzo Palmer. Il solito scontro tra buoni e cattivi interpretato da due attori molto amati dal pubblico e soprattutto valorizzato dalla presenza di un Tomas Milian al massimo della forma, frutta un incasso record di un miliardo e ottocento milioni. Maurizio Merli indossa la maschera impassibile del difensore della legge a qualunque costo e soprattutto dai metodi spicci e sbrigativi. Racconta Lenzi in un’intervista reperibile in rete: “Il film fu girato alla Heat, perché Milian e Merli ormai non si potevano vedere, per ovvi motivi di rivalità professionale (come Pacino e De Niro), così dovetti girare tutto il film separando le scene dei due attori, tranne il finale”. Gabriella Giorgelli racconta a Pulici e Gomarasca in 99 Donne che “Merli era così preso dal suo personaggio che girava sul set con una pistola carica”. Milian è eccezionale come delinquente spietato ma simpatico per via delle parolacce e dello sproloquio in un buffo romanesco. Molto del merito va al doppiaggio di Ferruccio Amendola. Il film è buono ma ricicla molte cose già viste e già dette e per questo non può essere annoverato tra i migliori esempi del poliziottesco. Soprattutto è un po’ lento e macchinoso, soprattutto nella seconda parte, la trama è prevedibile, il finale troppo rapido e dotato di poca suspense. Interpretazione autentica di Umberto Lenzi: “Il cinico, l’infame, il violento secondo il produttore avrebbe dovuto intitolarsi Insieme per una grande rapina. Un titolo assurdo, improponibile, floscio. Il mio è un chiaro omaggio a Sergio Leone. Il cinico è Milian, l’infame è Merli, il violento è Saxon. Il film ebbe un grande successo ma fu un parto laborioso. Tra Tomas Milian e Maurizio Merli c’era molto attrito, quindi per evitare che venissero alle mani e che il film si trasformasse in una lite continua, li feci incontrare solo per la scena finale. Non era facile mettere insieme Milian e Merli, dopo Roma a mano armata e il suo grande successo. Pensate che c’erano tremila persone a vedere un film come questo in una grande sala di cinema cittadino, cose impensabili adesso. Il film era incentrato sulla spiegazione di come può fiorire la malavita: un boss (Saxon), un borgataro (Milian) e un ex poliziotto corrotto (Merli). Una variante originale del poliziesco. Nella scena della rapina Merli ha rischiato la vita attraversando una strada a un’altezza di 15 metri, appeso a un tubo, da un palazzo a un altro. Tomas invece impersona il cinese, un personaggio ironico e violento. La scena in ospedale 97 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con Gianni Musi ha un finale cinico, si conclude con una battuta mordace, poco prima dell’eliminazione fisica. Altra scena memorabile vede Garrone con Milian in macchina, dove è palpabile la tensione, la paura, ma anche l’ironia, prima che il bandito gli spacchi la gamba con il crick. Altra scena molto violenta e cruda vede Saxon che con la mazza da golf colpisce gli avversari con palline al volto. Milian, a mio parere, ha accettato un’involuzione nel personaggio comico - pecoreccio di Nico Giraldi, che molti critici continuano a chiamare Monnezza, anche se il vero Monnezza è quello dei miei film. Milian proveniva dalla borghesia cubana, non era certo un romano di borgata, quindi imparava da tutti, era molto recettivo, apprendeva dai personaggi secondari, dagli acrobati, dagli stunt-man, dal doppiatore (Ferruccio Amendola, nda), persino dalla sua controfigura (Quinto Gambi, nda) che gli insegnava come parlare romanesco, come atteggiarsi lasciando la bocca aperta dopo aver pronunciato l’ultima parola. Merli proveniva dal teatro, era perfetto nelle scene d’azione senza controfigura, era molto bravo a sparare con la rivoltella e guidava a 130 all’ora in mezzo al traffico senza problemi. Dopo tutto quello che ha rischiato sul set, sembra incredibile che sia morto a 49 anni giocando a tennis…”.

La banda del gobbo (1977) La banda del Gobbo vede Umberto Lenzi autore di soggetto e sceneggiatura, mentre alla stesura dei dialoghi collabora lo stesso Tomas Milian. La fotografia è di Federico Zanni, il montaggio di Eugenio Alabiso, le scenografie sono di Giuseppe Bassan e le musiche di Franco Micalizzi. Tomas Milian viene ripresentato come Vincenzo Marazzi, detto il Gobbo, per la seconda e ultima volta, dato che finisce morto in fondo al Tevere. Ma il film è importante soprattutto perché Milian recita una doppia parte e torna con il personaggio del Monnezza. Altri interpreti sono Pino Colizzi (commissario Sarti), Isa Danieli, Guido Leontini, Luciano Catenacci, Solvi Stubing, Sal Borgese, Francesco D’Adda, Fulvio Mingozzi, Nello Pazzafini, Mario Piave e una piccola schiera di caratteristi e figuranti. Siamo a Roma e Vincenzo Marazzi, detto il Gobbo, di ritorno dalla Corsica, va a trovare suo fratello Sergio, detto Monnezza. Il regista fa sforzi enormi per non inquadrare mai insieme i due personaggi e a volte ricorre pure a controfigure. Monnezza fa il carrozziere, veste una tuta da metalmeccanico, ha il tipico aspetto da trucido con barba e capelli lunghi; il Gobbo, invece, porta capelli lunghi e lisci 98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ed è del tutto rasato. Vediamo che tra i due c’è un legame profondo, pure se Monnezza è il più espansivo e vorrebbe stare sempre insieme al fratello. Il Gobbo evita le smancerie, lui è uomo rude e tutto d’un pezzo, poi teme che Monnezza lo faccia per pietà, perché lui è nato deforme. Il Gobbo si fa una fidanzata di nome Maria, rimorchiata nel giro delle battone che spacciano per lui orologi falsi. Tutto sommato il loro rapporto è sincero, pare che in questa pellicola Il Gobbo abbia anche dei sentimenti umani. Il primo obiettivo del delinquente è di organizzare una rapina e lo fa insieme a tre figuri – Sogliola, Albanese e Perrone – che però tramano alle sue spalle. Per mezzo di bombe a gas narcotico derubano un furgone portavalori della Banca di Roma, però il Gobbo è ferito dai suoi compari e si rifugia in una fogna. Le sequenze nella fogna sono molto realistiche e mostrano in primo piano il bandito che si trascina fino al Tevere, tra fango, sporcizia ed enormi ratti neri. La musica di Antonello Venditti (Sora Rosa e Roma capoccia) fa da colonna sonora del film e accompagna la sua uscita alla luce del sole. Vincenzo va dalla sua donna e decide di vendicarsi dei traditori, mentre il commissario indaga sulla rapina e interroga Monnezza. Il primo a morire è il Sogliola che il Gobbo chiude nella cella frigorifera dell’azienda dove lavora. Subito dopo il criminale telefona a Perrone e gli dice che fa molto caldo, lui capisce solo quando la polizia lo avvisa che il suo autosalone sta andando a fuoco. L’Albanese cade in un’imboscata tesa da un’impiegata dell’ambasciata albanese che viene ricattata e deve fare da esca. Qui c’è una parte con alcune battute interessanti, quasi da avanspettacolo, che descrivono bene la genuinità di Monnezza, furfantello da quattro soldi che nel tempo libero legge Topolino. Al fratello che gli chiede di portargli un albanese, lui fa conoscere una tale Albanese Osvaldo. “Ho detto un albanese dell’Albania, no de Frascati!” fa il Gobbo. E quando rapiscono Benito Giua per ricattare la moglie albanese: “Abbiamo rapito Benito Giua e mo’ so’ cazzi tua!”. Il commissario Sarti (Pino Colizzi, che fa rimpiangere non poco Maurizio Merli) pensa che il Gobbo stia uccidendo i compari per tenersi tutto il bottino della rapina. Ordina una retata negli ambienti della malavita e cerca di arrivare alla soluzione del mistero, poi trova l’auto dell’Albanese e scopre il legame fra lui e Perrone che però nega ogni addebito. Viene arrestato anche Monnezza che si mangia due Nazionali Esportazione, come gli aveva consigliato il fratello, e si becca una febbre da cavallo che gli provoca allucinazioni divine. Cita un film su Gesù Cristo con Claudia Cardinale e scambia un poliziotto per il figlio di Dio. Monnezza viene internato in ma99 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nicomio perché creduto pazzo e qui c’è un’altra parte comica a base di battutacce in romanesco. Il medico gli fa un esame per capire se è matto oppure no e lui a ogni domanda risponde: “Fregna” e poi aggiunge: “Che ce devo fa’ se da quando me sveglio c’ho la fregna qua?”. E poi l’interrogatorio degenera in turpiloquio con altre associazioni di idee: “Corna” “Dottore” “Vaffanculo” “Stronzo”. Monnezza viene internato con la diagnosi di paranoia e schizofrenia acuta. In manicomio non può mancare Jimmy il Fenomeno, il postino matto che quando scopre da Monnezza che è sciopero ride felice e torna a dormire. Altre battute in romanesco si sprecano, cose come: “Se è a Vetralla vaffanculo a ripijalla, se è a Cinazzo te t’attacchi a ’sto cazzo!”. Intanto il Gobbo completa la vendetta e fa morire d’infarto Perrone sul lettino del dentista. Il Gobbo si sostituisce al medico e si presenta con un trapano da elettricista che minaccia di usare nella bocca di Perrone e il regista ci lascia solo immaginarte una terribile scena che prontamente sfuma. Il commissario Sarti fa infiltrare un poliziotto in manicomio e fa evadere Sergio per catturare il fratello. Monnezza però capisce di avere a che fare con uno sbirro e conduce l’infiltrato tra le braccia del Gobbo. Il giorno dopo il commissario trova il poliziotto legato tra i maiali in un porcile. Vincenzo decide di portare Maria a ballare nel night club “Lo scarabocchio” e qui comincia una parte che vuole essere pure di critica antiborghese. Il Gobbo comincia con una serie di rime volgari (“L’avvocato Agnolazzi, quello che c’ha il culo pieno di cazzi…”) e poi raggiunge il culmine dopo aver ballato ed essere stato deriso per la sua deformità. Le battute sono feroci e senza cuore: “Taglia 54 extra gobbo”, “Chiedigli se me la fa toccare” “Chi? La donna o la gobba?”. Lui per un po’ balla in silenzio, poi si ferma e sale sul palco a raccontare una barzelletta sui gobbi e un’altra che parla di una contessa che assume un servo volgare. Alla fine prende il controllo della situazione con il mitra in pugno e fa legare e derubare tutti i presenti dalla sua banda. Lo spettatore qui è portato a parteggiare per il Gobbo, perché i ricchi borghesi con la loro spocchia se la sono proprio cercata. Il Gobbo cita “Sora Rosa” di Venditti: “C’è una cosa sola vera per chi spera, che forse un giorno chi mangia troppo adesso possa sputa’ le ossa in mezzo ai santi”. Lui precorre i tempi e manda Maria a comprare il sale inglese per dare la purga a tutti: “Ve voglio fa’ caca’ le ossa!” grida sparando una raffica di mitra. Per fortuna la scena si immagina soltanto e la leggiamo sul giornale del mattino che è tra le mani del commissario di polizia. Questa parte è un po’ troppo lunga e pesante, si va pure fuori tema, ma la denuncia sociale è l’unica cosa che la giustifica. Dopo una breve filippica contro la pena di 100 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

morte che recita un poco convincente Pino Colizzi, la polizia torna a fare retate nei sobborghi. Durante una tentata rapina viene arrestato il giovane Calogero Ciacci, nipote di Carmine Ciacci, quello che porta le provviste alla banda del Gobbo. La polizia lo segue e raggiunge il covo della banda, dove ingaggia una spettacolare sparatoria con i malviventi. Alla fine il Gobbo buca le gomme delle auto, mette fuori uso le radio e riesce a fuggire con una volante della polizia. Mentre scappa verso l’autostrada utilizza la radio di servizio e ordina di aprire i posti di blocco perché il Gobbo è morto e il pericolo è scongiurato. Bella la sequenza che scorre sulle note di “Quanto sei bella Roma quando è sera…” che il Gobbo canticchia tra sé prima di andare incontro a una fine inaspettata. Sulla strada, all’uscita da un tunnel, Vincenzo azzarda un sorpasso ma un gatto nero gli taglia la strada e l’auto sbanda, cadendo nel Tevere. Nello stesso tempo Monnezza a casa sua ascolta la solita canzone di Venditti e la canticchia, ma spenge la radio proprio quando sta per annunciare la morte del fratello. I due sono in simbiosi anche quando arriva l’ultima notizia per mano di Maria, che ha un pacco e una lettera lasciata dal Gobbo per il fratello. Il pacco contiene i soldi della rapina e il Gobbo scrive di utilizzarli bene durante la sua assenza, magari aprendo un piccolo locale. Lui è partito, deve stare un po’ lontano da Roma, però dice di voler bene al fratello. Il finale lascia spazio a tante possibilità, però lo spettatore si commuove davanti alla tristezza di Monnezza che adesso si sente solo. Dopo il grande successo popolare di Roma a mano armata (1976), Umberto Lenzi torna a dirigere uno dei migliori Tomas Milian del periodo romano, quello del doppio ruolo di Vincenzo e Sergio Marazzi, il Gobbo e Monnezza, dei quali ha anche scritto tutte le battute. Tecnicamente meno valido del precedente, ben musicato da Franco Micalizzi, questo film ha ancora il vantaggio di non essere incentrato sulla figura del commissario, ma su quella dei malviventi. La polizia, infatti, è poco presente: entra in scena dopo un quarto d’ora, un poliziotto finisce legato fra i maiali, e soprattutto nel finale, non riesce a prendere il Gobbo, che muore invece per colpa del destino (un gatto nero che gli taglia la strada). Sebbene il finale sembri comico La banda del Gobbo è una delle pellicole più tristi del genere. Nel finale, sulle note di Quanto sei bella Roma di Antonello Venditti, la morte di Vincenzo segna il passaggio delle consegne a Sergio che da ora in poi diventerà personaggio unico nel genere. Il fratello spegne la radio nel momento in cui in cui stanno parlando della morte del fratello e quindi lo crede ancora vivo. Un finale che lasciava aperta ogni possibile continuazione 101 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(“C’ha sette vite come i gatti…”), ma che poi è stata fatta in direzione di Monnezza. Punti vitali della pellicola: la preparazione del primo colpo e tutta la sequenza nel night club. Monnezza è un ladruncolo che lavora pulito e non vuole avere niente a che fare con le armi, la sua morale è l’opposto di quella del Gobbo. Il Gobbo è un personaggio interessante, ma ancor più geniale appare la figura del Monnezza, che avevamo già incontrato ne Il trucido e lo sbirro ma che in questo film sviluppa tutte le sue potenzialità. Tomas Milian ha campo libero e perfeziona l’idea di Sacchetti e Lenzi scrivendosi tutte le battute. Monnezza diventerà un’icona del cinema di genere e soprattutto del poliziottesco, questo borgataro coatto sboccato e volgare, che dice una parolaccia ogni frase, che si arrabbia e grida di continuo, che fa le rime trucide in romanesco, colpisce la fantasia del pubblico e decreta il successo del film. Tomas Milian ha una parte importante pure a livello di conduzione della regia e direzione di certe scene che il regista non avrebbe voluto inserire. Basti pensare a quella della discoteca, dove il Gobbo ubriaco fa prendere una purga a base di sale inglese ai ricconi che defecano per terra (ma la scena si immagina soltanto), dopo aver raccontato una barzelletta sconcia. Per Lenzi questa parte rallentava il ritmo dell’azione (lui era un regista serio di polizieschi, mica un regista comico) ed era fuori luogo. Non aveva tutti i torti, però Milian la impose come parte irrinunciabile della pellicola. Due sono le componenti base del film: la violenza nelle scene in cui il Gobbo pratica le sue vendette e la comicità grassa e volgare delle battute di Monnezza. Si tratta di un film chiave del genere poliziottesco, soprattutto innovativo per il modo in cui affronta la materia. Fa un po’ rabbia leggere Pino Farinotti quando dice che secondo lui è soltanto una pellicola imperniata sulle gesta di un banditello di borgata detto il Gobbo. La pellicola segna la fine della collaborazione tra Umberto Lenzi e Tomas Milian. Forse il cubano aveva voluto strafare e si era avvalso troppo della sua popolarità per controllare regia e montaggio, pare che per un accordo con la produzione fosse lui ad avere l’ultima parola su tutto. Lenzi era un regista affermato e non poteva tollerare simili ingerenze, soprattutto perché non approvava le brusche sterzate verso il trucido che la pellicola aveva subito durante la lavorazione. Lenzi avrebbe voluto tagliare in fase di montaggio le scene dove Tomas Milian si era lasciato andare a una recitazione ai limiti del turpiloquio, ma la produzione glielo vietò. In ogni caso il film fu un successo incredibile e incassò oltre un miliardo e mezzo, secondo noi proprio per merito della recitazione sopra le righe che Lenzi voleva eliminare. Tomas Milian ebbe il coraggio di costruirsi su misura un personaggio da 102 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

trucido, si scrisse le battute, impose certe sequenze, e alla fine i fatti gli dettero ragione. Milian spinse il suo personaggio verso una volgarità estrema e inventò pure certe battute in romanesco con la rima che ripeterà spesso nei film successivi e che incontrarono il gusto del pubblico. Fu una scommessa vinta perché il regista non credeva che certe situazioni potessero funzionare, le vedeva cose gratuite e fuori luogo. Peccato solo che Milian si troverà ingabbiato nel cliché del coattone trucido e si vedrà proporre soltanto parti da recitare ai limiti del turpiloquio. L’evoluzione del Monnezza infatti porterà alla variante poliziottesca del maresciallo Nico Giraldi che impegnerà Milian per ben undici film non tutti di buon livello. Per capire la genesi di Monnezza, del Gobbo e di Nico Giraldi è interessante riportare una dichiarazione di Tomas Milian che abbiamo letto su Er cubbano de Roma di Navarro e Zanello: “Io non frequentavo attori stranieri in Italia. Gli americani per me andavano bene in America. Qui, non so perché, mi sembravano fuori posto. Oltretutto dovendo fare l’attore in Italia volevo frequentare gli italiani. Quelli veri, del popolo. E quando diventavo loro amico, io ero un ragazzo come loro e viceversa, senza distinzioni di classe. Così cominciai a imparare il romanesco, e mi piacque molto anche la mentalità romana. Assorbivo le parolacce, che però per me non volevano dire niente, erano un suono che sapevo avrebbe fatto ridere il mio interlocutore e me appresso a lui. Tutto questo mi è poi servito molto nella mia terza fase cinematografica”. A proposito della paternità dei personaggi del Gobbo e del Monnezza abbiamo avvicinato Umberto Lenzi per fare chiarezza sulla questione. Riportiamo le sue parole: “Ho sempre riconosciuto, in tutte le interviste, che il personaggio di Monnezza lo ha inventato Sacchetti. E che il mio apporto è stato quello che svolge ogni regista traducendo in immagini un personaggio esistente solo sulla carta. Per quanto riguarda il Gobbo, basta leggere bene i titoli di testa del film che dicono testualmente: soggetto di Umberto Lenzi, sceneggiatura di Dardano Sacchetti. Il personaggio del Gobbo era nel soggetto da me scritto, ispirato a un personaggio reale, conosciuto nella mia adolescenza a Massa Marittima. Significherà qualcosa, penso, che nel sequel La banda del Gobbo, l’autore del soggetto e della sceneggiatura sia il solo Umberto Lenzi. Basta vedere i titoli di testa del film e magari pure il programma di Sky “Italia 70 - Il cinema a mano armata” che sulla figura del Gobbo ribadisce quanto sopra”. Per il personaggio del Monnezza c’è da dire che Milian, per alcuni atteggiamenti gestuali e verbali (poi ripresi anche nella serie dell’ispettore Giraldi), si è ispirato alla sua controfigura Quinto 103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Gambi. Sacchetti ha inventato la maschera del Monnezza, tradotta in immagini da un regista valido come Umberto Lenzi e perfezionata dalla grande abilità recitativa di Tomas Milian. Per quel che riguarda Il Gobbo, invece, viene prima il soggetto di Lenzi che modella il personaggio sulla figura di un macellaio di Massa Marittima e dopo c’è il lavoro di sceneggiatura in collaborazione con Dardano Sacchetti. Umberto Lenzi ha confidato in una vecchia intervista: “Avevo scritto anche un seguito, Il ritorno del Gobbo, molto divertente, con Il Gobbo che non era morto nell’incidente in macchina, ma era stato salvato e rinchiuso in galera. Se non che, insieme a un complice milanese, evadeva dalla prigione e si rifugiava in un convento dove faceva il finto frate. La cosa molto divertente era che la sera, quando i frati facevano le loro litanie in rima, tipo: Lodiamo nostro Signore, lui rispondeva a bassa voce: Me so’ rotto li cojoni da tre ore!. Era tutta una serie di litanie in rime, spassosissime. Poi facevano un colpo e mettevano a soqquadro tutto il convento. Non lo portammo a termine per il difetto fondamentale di Tomas di non voler lavorare in un film dove la spalla aveva la sua stessa importanza. Voleva solo generici, se no non lavorava. Poi, quando la sua stella ha cominciato a offuscarsi, ci ha ripensato girando quel film con Renato Pozzetto (Uno contro l’altro… praticamente amici di Bruno Corbucci, nda) e rubandomi quindi anche l’idea. Comunque, tornando a Il ritorno del Gobbo, non ci fu verso di fargli accettare un co-protagonista, che io avevo identificato in Giorgio Porcaro. Avevamo già il contratto pronto con Luciano Martino, ma tutte queste pretese di Tomas mi crearono una sorta di repulsione nei suoi confronti…”. (da Nocturno Cinema, Dossier 36, opera citata)

Il grande attacco (1978) Il grande attacco è un film bellico scritto e sceneggiato dallo stesso Lenzi con la collaborazione di Cesare Frugoni; la fotografia è di Federico Zanni, il montaggio di Eugenio Alabisio, le scenografie sono di Giuseppe Bassan e le musiche di Franco Micalizzi. Il cast è ricco di nomi importanti, non solo del cinema di genere: Helmut Berger, Giuliano Gemma, Henry Fonda, John Huston, Ray Lovelock e molti altri. La protagonista femminile è Samantha Eggar. Piccola parte per Edwige Fenech, del tutto fuori contesto – ricorda Lenzi – ma imposta dalla produzione. Un buon film girato con mestiere da 104 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Umberto Lenzi che riesce a raccontare diverse storie parallele legate al periodo bellico e alla vita quotidiana di alcuni personaggi. Si parte da una riunione di militari alle Olimpiadi di Berlino del 1936, dove i nazisti parlano di pace e preparano la guerra fomentando l’odio anti ebraico. Tra tutti gli attori di grande spessore citiamo l’ottimo Henry Fonda, nei panni di un generale padre di due figli molto diversi, che simpatizza per il figlio militare che ha seguito le sue orme. La guerra gli farà cambiare idea perché l’altro figlio morirà in battaglia per essere degno del padre. Le parti belliche si svolgono su vari fronti: Creta, Africa, Normandia, pure se spesso le sequenze sono girate in interni o si tratta di spezzoni tratti da filmati d’epoca. La guerra è analizzata da molti punti di vista, non c’è una condanna unilaterale e neppure una divisione manichea tra buoni e cattivi. Il film di Lenzi, girato in estrema economia, non è un cattivo prodotto, pure se gran parte della critica lo definì un pessimo film kolossal dalla sceneggiatura legnosa e convenzionale che a tratti rasenta il ridicolo (su tutti Morando Morandini). A Mereghetti tutto sommato il film piace perché i vari personaggi sono raccontati con passione e imparzialità, pure se si fa un grande spreco di vecchie glorie in pensione. Tra le presenze importanti spicca il corrispondente di guerra interpretato da John Huston, che durante la seconda guerra mondiale ricoprì davvero quel ruolo. La storia racconta il destino di un gruppo di amici di diverse nazionalità che si deve confrontare con la guerra mondiale. I protagonisti si erano conosciuti durante le Olimpiadi di Berlino del 1936, la guerra li dividerà, qualcuno darà la vita per la patria, altri perderanno i figli, altri ancora torneranno a casa. Alcuni critici parlano di ricchezza dei mezzi (mi parte eccessivo, pure se Lenzi disponeva di veri carri armati) e di grandiosi effetti speciali, di certo la pellicola deve molto al grande mestiere del regista e alla professionalità di un buon gruppo di attori. La sceneggiatura non è esente da difetti, così come la narrazione gronda retorica e moralismo. Il film sarà oggetto di specifica analisi nel corso di un’approfondita appendice curata da Matteo Mancini sul cinema bellico di Umberto Lenzi. Da Corleone a Brooklyn (1979) Da Corleone a Brooklyn è un poliziottesco atipico – che profuma di mafia movie e di gangster movie – ambientato tra Palermo e New York, con protagonisti un ordinario (per il ruolo da commissario) Maurizio Merli e uno straordinario Mario Merola (fuori dagli angusti limiti della sceneggiata). Si 105 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

comincia subito con un errore nei titoli di testa perché la pellicola pare intitolata Corleone a Brooklyn, il titolista si è dimenticato di anteporre un Da. Parrebbe un indice di globale sciatteria, in realtà è il solo aspetto che palesa poca cura individuabile nell’intera pellicola. La trama segue gli sviluppi di un intenso road movie che fa viaggiare dalla Sicilia agli Stati Uniti con protagonista il commissario Berni (Merli) e il pentito Scalia (Pelligra). I due uomini devono raggiungere New York per testimoniare contro il potente boss Michele Barresi (Merola), reo di aver ordinato l’esecuzione del boss rivale Salvatore Santoro, quindi della sorella di Scalia (Viviani), pericolosa testimone. Barresi è in galera dove attende il giudizio, è sicuro di farla franca grazie ai suoi avvocati che hanno ordito una trama perfetta, ma il commissario e il teste saranno fondamentali per la condanna. Tutto il cuore del film sta nel mezzo a questi eventi, un poliziesco esaltante e ben girato, soprattutto nelle sequenze legate a inseguimenti, dalla Vucciria di Palermo, ai vicoli cittadini, sino alle rocambolesche fughe extra urbane e alle lunghe direttrici di New York. Attentati, imboscate, scontri all’arma bianca e a fuoco, rocamboleschi agguati, finti posti di blocco, scazzottate nel Bronx (realistiche al punto che si tramandano come vere) ai danni di Merli, infine una condanna che giunge dopo inseguimenti e fughe, persino un delitto e una confessione ritrovata. L’ultima sequenza rappresenta una sfida di Barresi al commissario e lascia il finale aperto: sarà in grado Berni di riportare il mafioso in Italia per farlo condannare? Umberto Lenzi ritiene questo film il suo lavoro più moderno e maturo, in parte è vero, anche se atipico rispetto alla sua produzione, perché più riflessivo e introspettivo, con minore spazio al cinema di pura azione, in ogni caso ben realizzato. Tutto ruota attorno a due antagonisti atipici come Merli e Merola (che a volte si lascia sfuggire un immancabile napoletano, pure se il personaggio è siculo) ma ne viene fuori bene Pelligra e il suo rapporto di amicizia-odio con il poliziotto, tratteggiato a dovere da Lenzi e Mannino. Mario Merola non era molto convinto di prendere parte a questo film perché la sua immagine era legata ai ruoli tipici della sceneggiata napoletana; si tramanda che fu Lucio Fulci – che lo stava dirigendo nell’adattamento televisivo di Lacrime napulitane – a convincerlo a collaborare con Lenzi. Giuseppe Rinaldi è il doppiatore storico di Merola, pure lui napoletano, perché pronuncia alcune espressioni che non sono certo sicule. Intervistato in televisione, Merola ha sempre decantato questo film perché recitava accanto a Van Johnson, tra l’altro impegnato in un convenzionale ruolo da tenente di polizia. La figura di Laura Belli è interessante, ex moglie ancora innamorata di un commissario che ha lascia106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to perché non poteva saperlo ogni giorno in mezzo ai pericoli, madre sofferente di una figlia che sta crescendo da sola. Il suo apporto alla storia compone una buona parte romantica, ben gestita da regista e sceneggiatore nel quadro di un classico poliziesco on the road. Tra le curiosità ricordiamo un irriconoscibile Luca Barbareschi poliziotto newyorchese, ma anche gli interni girati negli uffici di polizia con veri agenti nei ruoli da comparse. Fotografia di Mancori intensa e luminosa a Palermo, più livida e notturna a New York; montaggio rapido del diligente Alabiso; colonna sonora straordinaria di Micalizzi, che alterna sonorità sicule (scacciapensieri), canzoni di emigranti (Amara terra mia) e sequenze romantiche, per passare – senza soluzione di continuità – a ritmi concitati nelle parti di pura azione. Ottime le scene di vita quotidiana, la Vucciria, il mercato del pesce, i vicoli palermitani con i panni tesi, ma anche le frenetiche soggettive di inseguimenti in perfetto stile americano. Scarso il doppiaggio, persino Merli recita con una voce irriconoscibile, mentre attori come Venantino Venantini e Sonia Viviani sono relegati a ruoli marginali, il primo come commissario palermitano, la seconda come vittima designata. Merli è molto bravo nelle scene di pura azione, così come il regista dà il meglio di sé nelle sequenze che riprendono un’auto che rischia di finire fuori strada dopo una rocambolesca fuga da un posto di blocco. Un film solido, ben sceneggiato e ben fotografato, arricchito da una colonna sonora suadente, recitato senza sbavature da attori in gran forma. Davvero una delle migliori prove di Umberto Lenzi alle prese con il poliziottesco. Vediamo la critica. Paolo Mereghetti (due stelle e mezzo): “Palermo: il commissario Berni (Merli) deve scortare a New York il supertestimone Scalia (Pelligra) per ottenere l’estradizione del boss Barresi (Merola), ma le insidie, sia in Italia sia in America, non finiscono mai. Un’originale e movimentata struttura di road movie (ancorché non sempre verosimile) porta aria fresca nel poliziesco italiano. La sceneggiatura di Lenzi e Mannino si sforza di costruire personaggi a tutto tondo, siano mafiosi o poliziotti. Cinema di genere da apprezzare senza sensi di colpa o alibi trashisti, e che rinuncia anche alla violenza: peccato solo che a New York tutti parlino italiano. Luca Barbareschi è uno sbirro capellone a New York”. Marco Giusti (Stracult): “Merli, nei panni del commissario Berni, cerca di incastrare il boss Merola grazie all’aiuto di un pentito, Biagio Pelligra. Ovvio che Merola cercherà di fargli la festa. E ci riuscirà. Ma Merli troverà lo stesso il modo di incastrare il perfido Merola. Fu un mezzo insuccesso. Merli viene menato sul serio da un gruppo di balordi assoldati nel Bronx 107 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

da Franco Fantasia”. Amarcord: “Un felice mix tra il road movie e il film di mafia nel quale si anticipa un tema di attualità come il fenomeno del pentitismo mafioso: protagonista è un credibile e tormentato boss mafioso, tratteggiato da un Mario Merola probabilmente nella sua migliore interpretazione”. Giovanni Buttafava lo definisce un’occasione sprecata: “Peccato che Lenzi non abbia saputo trasformarlo in un autentico confronto di prototipi di genere, limitandosi a sviluppare separatamente due linee narrative. Ma il picciotto Biagio Pelligra, vero protagonista, serve da collegamento perfetto, fra le due linee del racconto”. Umberto Lenzi: “È il più moderno e il migliore dei miei film”.

Contro 4 bandiere (1979) Per completezza limitiamoci a passare in rassegna la critica perché è un lavoro che non abbiamo analizzato, visto che non rientra nel novero del nostro specifico interessa. Il film sarà oggetto di specifica analisi nel corso di un’approfondita appendice curata da Matteo Mancini sul cinema bellico di Umberto Lenzi. Marco Giusti (Stracult): “La maledetta guerra secondo Umberto Lenzi. Con un po’ di mezzi anche se tutto è girato solo a qualche chilometro da Roma. (forse non ha visto il film, girato in Francia e in Spagna, appena due scene a Roma, nda) La storia segue un gruppo di amici provenienti da vari paesi che si riuniscono come sempre in un caffè parigino. Solo che la guerra sta per scoppiare e quando si incontreranno di nuovo, nel 1945, non saranno rimasti che in tre. Buon cast, ma un po’ addormentato dalla solita regia mattone di Lenzi che in queste produzioni più ricche del solito è meno personale e interessante. Uscito in Francia come De l’enfer à la victoire e in versione anglofona come From Hell to Victory”. Paolo Mereghetti (una stella): Il 24 agosto 1939, quattro amici - un americano (Peppardd), un francese (Hamilton), un inglese (Cassel) e un tedesco (Buchholz – brindano sulle rive della senna con una francese (Duperey), promettendo di incontrarsi ogni anno. I loro destini si dividono e sei anni dopo saranno solo in tre. La Seconda guerra mondiale in pillole (e con budget non faraonico), con tutti i luoghi comuni su nazisti, partigiani e liberatori. Modesta sceneggiatura di Gianfranco Clerici e del regista, che nel genere bellico ha fatto di meglio”. Morandini e Farinotti concedono due stelle senza motivare. 108 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Scusi, lei è normale? (1979) Abbiamo già avuto modo di dire che se c’è un regista italiano che ha fatto proprio di tutto nel mondo del cinema di genere questi è Umberto Lenzi. Persino due western, anche se lui stesso ha dichiarato di non amare i cavalli, pellicole comiche e sentimentali che hanno un’importanza relativa nel quadro di una produzione caratterizzata da poliziottesco, horror, storico, film di guerra e d’azione. Un settore della sua attività può dirsi atipico e proprio per questo interessante, composto da quattro film: Scusi lei è normale? (1979), Pierino la peste alla riscossa (1982), Cicciabomba (1982) e Incontro nell’ultimo paradiso (1982). Sono commedie difficilmente inquadrabili in un genere ben determinato perché vanno dalla commedia sullo schema de Il vizietto (1978), al musicarello-coreografico, al Pierino apocrifo, per finire con un prodotto girato sulla scia del successo di Laguna Blu (1980). Umberto Lenzi alcuni anni fa mi confidò che sono tutti film girati per motivi alimentari, anche se a mio parere sono lavori che presentano qualcosa da salvare, un tratto autorale che li caratterizza rispetto a simili prodotti di quel periodo. Scusi lei è normale? è un film girato sulla scia del successo de Il vizietto di Edouard Molinaro (1978) con Ugo Tognazzi e Michel Serrault. Inutile dire che il film di Lenzi è inferiore a un’opera che ha derivazioni letterarie (vedi la commedia Le Cage aux folles di Jean Poiret), ma resta pur sempre un prodotto commerciale dignitoso e divertente. Scusi lei è normale? ironizza sull’omosessualità senza abbandonarsi a curiosità morbosa e tratta in modo leggero un argomento difficile da affrontare. Il successo internazionale de Il vizietto produsse sequel meno riusciti come Il vizietto II (1980) e Matrimonio con vizietto (1985), ma anche la divertente parodia Dove vai se il vizietto non ce l’hai? di Marino Girolami. Si tratta sempre di film dove il rapporto omosessuale è rappresentato senza scendere nei particolari erotici, ma ricorrendo a un apparato scenico di mosse e gridolini che fanno sorridere il pubblico. Scusi lei è normale? è scritto, sceneggiato e diretto da Umberto Lenzi che per la parte creativa si fa aiutare da Dardano Sacchetti. Sia il regista che lo sceneggiatore hanno dato il meglio in generi diversi dalla commedia sexy, ma se la cavano con disinvoltura. La fotografia di Guglielmo Mancori serve soprattutto a mettere in risalto le forme abbondanti di Anna Maria Rizzoli, le musiche da discoteca piuttosto datate sono di Franco Micalizzi, il montaggio è dell’esperto Eugenio Alabiso, mentre le 109 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scenografie sono di Carlo Gentili e i costumi di Antonio Randaccio. Produce Maria Pia Gardini per la Pal Cinematografica. Interpreti principali: Ray Lovelock, Enzo Cerusico, Annamaria Rizzoli, Sammy Barbot, Renzo Montagnani, Aldo Maccione, Marcello Martana, Dante Cleri, Luca Sportelli, Vinicio Diamanti, Susanna Schemmari, Enzo Andronico e Salvatore Jacono. La storia è costruita attorno alla bellezza di Annamaria Rizzoli, ballerina provetta, attrice di fotoromanzi porno e figlia di un importante uomo politico. Renzo Montagnani è un integerrimo pretore che tutela la moralità degli spettatori, ma si eccita mentre visiona le pellicole porno sequestrate. Enzo Cerusico interpreta in modo credibile il travestito Nicole, innamorato di Ray Lovelock, che finisce per irretire il pretore di ferro e per costruire una relazione con lui. Lo schema da commedia degli equivoci prevede Ray Lovelock come nipote del pretore e Anna Maria Rizzoli, castigata figlia di un uomo politico, ma in segreto spregiudicata Mimì Pon Pon. Inutile dire che le grazie della protagonista femminile sono mostrate in abbondanza e che finiscono per convincere Lovelock che forse non è del tutto gay. Il film non è molto uniforme, alterna parti divertenti e rapide ad altre strutturali che si faticano a seguire, ma il ritmo complessivo della commedia raggiunge livelli di sufficienza. Renzo Montagnani è bravissimo come sempre nel ruolo di un pretore integerrimo, figura simbolica che serve a ironizzare sulla censura eccessiva e bacchettona di quel periodo storico. Il pretore lo vediamo all’opera sin dalle prime sequenze quando fa tappare i seni della Rizzoli su un manifesto pubblicitario. Il massimo della comicità e della satira si raggiungono durante la visione dei film sequestrati, quando Montagnani a parole esprime disgusto e riprovazione ma di fatto è parecchio eccitato. “Il senso del dovere mi impedisce di sospendere la proiezione”, dice a un sottoposto mentre guarda: Bidella di notte, La pornosuocera, Perversioni intime di un’ostetrica e li definisce “film di chiappa e spada”. Il pretore cerca con ogni mezzo di incastrare la Rizzoli che recita nei fotoromanzi porno come Mimì Pon Pon, ma non ci riesce. Non sa che la stessa attrice è figlia dell’onorevole Grisaglia perché lei si è sempre presentata come una ragazza casta e timorata di Dio. Annamaria Rizzoli è la bellezza attorno alla quale viene costruito il film, una sorta di anti Fenech bionda dal seno perfetto e dalle curve mozzafiato, una delle attrici italiane più belle e desiderabili degli anni Ottanta, anche se il cinema non ha saputo utilizzare al meglio le sue doti. Nasce negli anni Cinquanta (non c’è certezza sulla data) e resta famosa come il seno più bello d’Italia, ma anche come sexy testimonial vestita da Babbo Natale del liquore 110 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Stock. La Rizzoli è una bella ragazza bionda, alta e formosa, dallo sguardo finto ingenuo e ammaliante, che fa parlare di sé soprattutto grazie agli spogliarelli televisivi durante la trasmissione Playboy di mezzanotte condotta da Enzo Tortora e Lucio Flauto. Sa gestire bene la sua immagine e si spoglia anche sulle pagine della rivista patinata per adulti Playboy, fino a quando nel 1979 riesce addirittura a condurre il Festival di Sanremo accanto a Mike Bongiorno. Annamaria Rizzoli concede le sue grazie all’occhio della macchina da presa e interpreta Scusi lei è normale? subito dopo essere uscita su Playboy e Playmen in servizi fotografici d’autore che la ritraggono in tutta la sua sfolgorante bellezza. I giornali la definiscono la bomba sexy dell’anno e la sua popolarità aumenta in un periodo in cui le protagoniste storiche della commedia scollacciata cominciano a rivestirsi. “Era un film simpatico che però non andò molto bene, quando uscì nelle sale. L’abbiamo girato in piena estate a Roma, in una mansarda di via Margutta dove faceva un caldo da impazzire con tutti quei fari accesi”, ha detto Annamaria all’intervistatore di Nocturno. La pellicola è anche un omaggio alla bellezza della Rizzoli, che vediamo subito impegnata in una gara di ballo, vestita in modo sensuale con stivaloni rossi a tacco alto e una gonna corta che le scopre il sedere. La sua presenza conturbante mette in crisi il rapporto tra i due gay Cerusico e Lovelock, al punto che il primo si ingelosisce e minaccia di uccidersi. Lenzi realizza anche un’interessante satira al genere con il personaggio di Enzo Andronico – regista di fotoromanzi porno – che fa recitare la Rizzoli vestita da suora mentre cita vecchi film anni Settanta come Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno. Molto divertente la sequenza con la bella attrice che esce dal set vestita da suora per entrare in farmacia e chiedere un test di gravidanza, ma anche quella dove mostra le cosce nude in auto a un poliziotto arrapato e infine quando scende in mezzo al traffico seminuda e provoca incidenti a ripetizione. Jimmy Il Fenomeno (immancabile presenza trash) grida a ripetizione: “Ho visto la Madonna!”. In questa parte del film, Lenzi si sbizzarrisce in alcune scene acrobatiche che lo hanno reso famoso nel poliziottesco e infatti gli incidenti automobilistici sono molto ben realizzati. Annamaria Rizzoli e Ray Lovelock cominciano la loro relazione nella sala di ballo e si incontrano ancora a casa del pretore quando lei si presenta come la timorata figlia dell’onorevole Grisaglia. Lovelock ha il suo bel daffare a nascondere il fotoromanzo porno con la Rizzoli vestita da sexy suora che poco prima aveva messo tra le carte dello zio. Un’altra sequenza tipica del miglior Lenzi poliziottesco vede una sgommata acrobatica di Lovelock distratto dalle cosce nude della Rizzoli a bordo della sua auto. Non po111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

teva mancare una classica situazione da commedia sexy con la Rizzoli sotto la doccia e la macchina da presa che scruta, come fosse l’occhio indiscreto dello spettatore, glutei e seni esibiti tra acqua e sapone. “Sono ambidestro!”, confessa Lovelock eccitato. Aldo Maccione è un divertente commissario di polizia che non sopporta i gay e nelle prime scene della pellicola indaga sul presunto suicidio di Nicole. A un certo punto il commissario crede che Lovelock sia colpevole di un omicidio, ma prende un granchio dietro l’altro e non ne azzecca una. Quando interviene per sedare la lite tra Cerusico e Lovelock non si accorge che il primo ha sparato con una scacciacani e pensa che la Rizzoli sia un travestito. La bella attrice deve mostrare un seno perfetto per far ricredere il commissario che continua a sospettare Lovelock di omicidio solo perché è gay. Alla fine Maccione resta ancora più sorpreso perché il vero assassino lo scoprono i carabinieri e viene fuori che è un appuntato di pubblica sicurezza in pensione. Enzo Andronico – storica spalla di Franco e Ciccio – è davvero bravo come regista di fotoromanzi porno, molto espressivo con uno sguardo torvo e gli occhi storti, erotomane quanto basta e tutto preso dal suo lavoro di fotografo di parti anatomiche. Il pretore Montagnani fa chiudere il suo set mentre sta girando il fumetto de L’Inquisitore, basato su una serie di primi piani sui sederi femminili. La pellicola sa essere polemica nei confronti di certi pretori integerrimi che predicavano bene ma razzolavano male. Montagnani è perfetto in questa macchietta da avanspettacolo e il culmine della commedia degli equivoci si raggiunge nel rocambolesco finale. Il pretore si presenta a casa del nipote e continua a dare la caccia a un’introvabile Mimì Pon Pon che è proprio accanto a lui. Il pretore si invaghisce del travestito Nicole, pure se pensa che sia una donna, mentre il nipote cambia idea sui gusti sessuali e si dedica alle bellezze muliebri della Rizzoli. Un sensuale tango tra Montagnani e Cerusico prelude a un lento che fa appartare Lovelock e la Rizzoli per fare l’amore. Montagnani e Cerusico ballano ancora mentre il primo afferma: “Non è l’abito che fa il monaco”. Immancabile la risposta: “A chi lo dici!”. Da citare il leitmotiv sonoro del film “You are what you are” cantata da Vivian Huston e scritta da Umberto Lenzi, M. Douglas e Franco Micalizzi.

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Capitolo Decimo Anni ’80: l'approdo all'horror e al comico

Incubo sulla città contaminata (1980) Il primo horror puro di Lenzi è Incubo sulla città contaminata. Il regista dice che questo film gli fu proposto come una classica pellicola di zombi, ma lui la trasformò in un horror ecologico, imperniato su una contaminazione nucleare che trasforma le persone in creature mostruose bisognose di sangue per sopravvivere. “La sceneggiatura di Incubo era una vera schifezza e io la dovetti rielaborare per intero”, afferma Lenzi. Incubo sulla città contaminata nasce da un soggetto molto essenziale di Antonio Corti, sceneggiato da Piero Regnoli e José Luis Delgado, fotografato in modo cupo e angosciante da Hans Barman, montato con professionalità da Eugenio Alabiso, che si giova delle scenografie desertiche di Mario Molli. Stelvio Cipriani merita una menzione a parte perché la musica ossessiva e tenebrosa introduce lo spettatore in un crescendo di terrore. Ottimo anche il trucco di scena per gli uomini contaminati, opera di Giuseppe Ferranti e Franco Di Girolami. La produzione italo spagnola è diretta da Diego Alchimede per Dialchi Film di Roma e Lotus International di Madrid. Gli interpreti sono senza infamia e senza lode, ma d’altra parte in un film sulla falsariga delle storie di zombi non è facile mostrare grandi capacità recitative. Il ruolo principale è di un inespressivo Hugo Stiglitz, il giornalista televisivo Dean Miller incaricato di realizzare un servizio all’aeroporto del terrore dove sbarcano i contaminati. Laura Trotter è la moglie Ann Miller (non Sheyla, come equivoca Giusti su Stracult), primario ospedaliero che cerca di debellare la contaminazione. Maria Rosaria Omaggio è la bella scultrice Sheyla che viene orribilmente uccisa dopo essersi trasformata in una contaminata. Sonia Viviani è un’amica di Sheyla che si vede per lo spazio di un paio di scene, ma appena in tempo per assistere a una macabra estrazione del suo bulbo oculare praticata da un essere mostruoso che impugna un coltellaccio. Mel Ferrer è il generale Murchinson che coordina le operazioni e cerca di arginare il pericolo di invasione da parte degli uomini mostruosi. Francisco Rabal è il maggiore Warren che ricordiamo per un rapporto ero113 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tico con una sexy Maria Rosaria Omaggio in apertura di film. Altre presenze minori: Eduardo Fajardo, Stefania D’Amario, Ugo Bologna, Manolo Zarzo, Sara Fianchetti e Tom Felleghy. Quentin Tarantino ha detto che secondo lui in questo film gli zombi si muovono troppo in fretta rispetto a quelli di Romero, per questo ha fatto bene Lenzi a precisare che i suoi personaggi non sono zombi ma uomini contaminati da radiazioni nucleari. In realtà sarebbero una sorta di vampiri: devono bere sangue umano per sopravvivere. Il loro compito è quello di uccidere dopo aver aggredito con roncole, bastoni, coltelli e quindi dissetarsi dalle ferite aperte delle vittime. La produzione volle una caratterizzazione fisica simile a quella degli zombi (forse per cavalcare una moda) ma in realtà la variazione sul tema prodotta da Lenzi è originale. Questi esseri orribili hanno il volto carbonizzato, sembrano uomini bruciati dal fuoco, si muovono rapidamente e aggrediscono spinti da una fame atavica. Lenzi ha diretto Incubo sulla città contaminata in primavera, prima di Cannibal Ferox che è stato girato in novembre-dicembre. Secondo Marco Giusti pare che il regista designato per girare Incubo fosse Enzo G. Castellari, ma Umberto Lenzi smentisce con decisione: “A me non risulta. Credo che sia un’ennesima leggenda metropolitana”. Il clima da pellicola fantahorror è evidente. Tutto comincia con una fuga di gas radioattivo dalla centrale nucleare di Stato e con l’arrivo del professor Andersen all’aeroporto. La troupe televisiva attende l’Hercules militare che fa sbarcare su una pista il proprio orribile contenuto di uomini mostruosi che massacrano e si cibano di sangue umano. La città è invasa da mostri contaminati che proliferano con il contatto del sangue mentre altri aerei portano nuovi pericoli. Il governo cerca di mantenere il segreto e affida all’esercito il compito di debellare la minaccia, ma l’impresa è quasi impossibile. Vediamo l’incursione dei mostri assassini in uno studio televisivo dove fanno strage di ballerine a colpi di mazze e coltelli. Le sequenze sono efferate, una musica intensa contribuisce al clima angoscioso tra cadaveri squartati e teste sfracellate. Il tema zombesco è seguito abbastanza fedelmente: le persone ferite dai contaminati subiscono la stessa mutazione genetica. I medici scoprono che non si tratta di alieni ma di esseri umani radioattivi dalle cellule indistruttibili, che contaminano le vittime con il contatto sanguigno. Si fermano solo sparandogli nel cervello o bruciandoli vivi e pure in questo è evidente la similitudine con gli zombi. Lenzi dà vita a un horror originale (in tema di zombi non è facile) perché riesce a fare un discorso ecologista e antinucleare su un tema sfruttato. Il problema delle cen114 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

trali nucleari era sentito negli anni Ottanta: in molte città italiane si tennero referendum sulla opportunità o meno di passare a quella pericolosa forma di energia. Il regista sa creare ottime situazioni di suspense che sono il sale del cinema dell’orrore. Tanto per citare alcuni esempi ricordiamo Maria Rosaria Omaggio che resta sola in casa mentre la falciatrice comincia a muoversi nel giardino, subito dopo una sua statua è accoltellata e dal suo volto cola sangue. Uno zombi spia una coppia in piscina, taglia i fili del telefono e quindi colpisce, in un trionfo di musica sintetica che enfatizza i momenti cruciali. Lo schema su cui si sviluppa il film è quello del canovaccio zombesco che prevede un crescendo di vittime, uccise nel modo più atroce e spettacolare, schizzi di sangue con splatter e gore senza limiti. La differenza di questi esseri contaminati rispetto agli zombi è che colpiscono con armi bianche (stile serial killer) e si cibano di sangue mordendo la preda al collo. La parte che Lenzi gira all’interno dell’ospedale è un vero capolavoro di effetti speciali e di situazioni da antologia per film del genere. Le uccisioni si fanno più efferate, i pasti vampirici si moltiplicano, il giornalista e la moglie se ne stanno nascosti per evitare problemi. La sequenza dell’ascensore è ancora più orribile e disturbante, quando viene mostrato senza nessun pudore il massacro scioccante delle persone che erano rinchiuse. Ben fatta anche la sequenza che mostra la mutazione sul volto di Maria Rosaria Omaggio, anticipata dall’accoltellamento di una scultura. L’amante deve ucciderla con un colpo di pistola in testa che produce schizzi credibili di materia cerebrale. Prima ancora vediamo la scena cult di Sonia Viviani accecata da un contaminato che – in un trionfo di gore – scava senza pietà con un coltello nel suo bulbo oculare. In mezzo a questo eccesso di omicidi descritti senza ironia ma con freddezza e gusto per il particolare, il regista lancia precisi messaggi contro il consumismo e la società contemporanea. Un’altra scena da ricordare si svolge in chiesa dove anche il prete è stato contaminato e tenta di uccidere i coniugi Miller con un crocifisso. La parte finale si svolge in un infernale Luna Park disseminato di cadaveri, corpi di uomini, donne e bambini orrendamente sgozzati. I contaminati assediano i Miller sulle Montagne Russe e vengono uccisi uno dopo l’altro con fucilate al cranio. Un elicottero della polizia salva il giornalista, ma la moglie precipita e muore sfracellata al termine di una sequenza raccapricciante. A questo punto Miller si risveglia nel suo letto e comprendiamo che quanto abbiamo visto è stato solo un terribile incubo. Immancabile il doppio finale che si svolge all’aeroporto. Il giornalista attende l’arrivo dell’aereo per intervistare il responsabile della centrale dove è avvenuto 115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

l’incidente e a quel punto l’incubo diventa realtà. Il film è notevole anche perché rappresenta una contaminazione di generi senza precedenti, visto che al suo interno troviamo tracce di cinema fantascientifico, postatomico, splatter, gore, horror puro, sottogenere zombi e film di vampiri. Le scenografie scarne di Mario Molli introducono un elemento postatomico nella pellicola: quando il giornalista e sua moglie scappano pare di assistere alla fuga di due superstiti braccati dalla nuova stirpe dei contaminati. Inutile aggiungere che la cosa migliore del film sono gli effetti speciali e che le parti splatter e gore sono realizzate con maestria. Non condivido il giudizio di uno sprezzante Mereghetti che nel suo Dizionario definisce il film come un gore apocalittico diretto con una tremenda approssimazione. Il critico milanese aggiunge che la pellicola è impresentabile, i trucchi sono da quattro soldi e – per finire – la musica di Stelvio Cipriani è brutta. Tutto il contrario di quello che abbiamo cercato di dimostrare. Pino Farinotti parla di una pellicola con un diffuso senso di già visto e anche qui non siamo d’accordo perché il film di Lenzi gode di una precisa originalità. Incubo sulla città contaminata ha influenzato il bel remake L’alba dei morti viventi girato da Zack Snyder nel 2004, perché in questa pellicola gli zombi sono uomini contaminati da radiazioni e si muovono velocemente per colpire.

Mangiati vivi! (1980) e Cannibal Ferox (1981) Umberto Lenzi aveva inventato il genere cannibalico con Il paese del sesso selvaggio, poi lo aveva lasciato prima nelle mani di Sergio Martino (La montagna del dio cannibale) e infine in quelle di Ruggero Deodato. Nel suo primo film, Lenzi non era stato in grado di oltrepassare i confini del proibito, cosa che invece ha fatto bene Ruggero Deodato con Cannibal Holocaust. Il regista maremmano torna al sottogenere nel 1980 con Mangiati vivi!, un film truculento come pochi, soprattutto a basso budget. Va da sé che la pellicola non è molto originale e Lenzi deve fare di necessità virtù prelevando numerose sequenze dai cannibal movie precedenti. Il regista si inventa lo pseudonimo di Humphrey Humbert e con quel nome anglofono firma anche soggetto e sceneggiatura. La fotografia è di Federico Zanni, il montaggio di Eugenio Alabiso, la scenografia di Antonello Geleng, la musica di Budy Maglione e gli effetti speciali sono di Paolo Ricci. Producono Luciano Martino e Mino Loy per Dania National Cinematografica. Il cast è composto da: Robert Kerman (l’italianissimo Roberto Bolla, lo 116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stesso di Cannibal Holocaust), Janet Agren, Ivan Rassimov, Paola Senatore, Mel Ferrer, Me Me Lai e Franco Fantasia. Il film non è tra i migliori di Lenzi, soprattutto perché è costruito con ritagli di altre pellicole e girato in economia. Lenzi riutilizza se stesso inserendo nel film sequenze de Il paese del sesso selvaggio, come una scena di cannibalismo spiata da Kerman e la Agren (si nota la diversa luminosità della pellicola), la preparazione di frecce avvelenate, l’uccisione di un alligatore, la morte di un serpente, infine la lotta tra la mangusta e un cobra. La scena del rapporto sessuale tra Me Me Lai e i fratelli del marito morto (il finto rito della vedova) è stata girata ex novo ma è soltanto una citazione ampliata del primo film. Alcune parti del banchetto cannibale che ha per protagonista Me Me Lai sono tratte da Ultimo mondo cannibale, ma sono poche immagini. La montagna del dio cannibale di Sergio Martino invece concede un’evirazione di un indigeno e una scena di attacco di un coccodrillo. “C’erano pochi soldi”, confessa Ivan Rassimov in un’intervista. Lo spettatore è la prima cosa che nota. I motivi di interesse per riscoprire Mangiati vivi! però ci sono tutti e non condividiamo il giudizio drastico di pasticcione cannibalistico che dà Marco Giusti su Stracult. Una buona fotografia esotica, alcune scene efferate, i nudi integrali e provocanti della Agren e della Senatore salvano una pellicola che è diventata un cult per gli appassionati del trash. Janet Agren è la presenza indimenticabile del film e il regista insiste molto su primissimi piani dei suoi stupendi occhi verdi. La trama non sarebbe neppure il caso di raccontarla, tanto lo sapete già che c’è la solita spedizione che parte per una foresta qualsiasi dove ci sono i cannibali (in questo caso siamo in Nuova Guinea) alla ricerca di qualcuno che è scomparso. Qui abbiamo Robert Kerman, nei panni di un reduce dal Vietnam, che accompagna Janet Agren alla ricerca della sorella (Paola Senatore). Quest’ultima ha abbandonato agi e ricchezze del mondo materiale (possedeva una ricca piantagione) per unirsi alla setta del reverendo Jonas (Ivan Rassimov), una specie di santone della giungla che si è ritirato lontano dalle tentazioni del mondo. Kerman viene assoldato dalla bella Agren come guida tra i pericoli della giungla. Per raggiungere l’accampamento di Jonas i nostri eroi devono attraversare mille pericoli, torture e sevizie che lasciano sul campo gran parte dei personaggi (Paola Senatore e Me Me Lai incluse). Arrivati a destinazione, scoprono che Jonas è solo un imbroglione che tiene i suoi adepti prigionieri come schiavi dopo averli depredati di tutti i loro averi. Alla fine l’intervento delle autorità fa precipitare la situazione e la setta viene costretta a un suicidio di massa, mentre i due protagonisti 117 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vengono salvati all’ultimo momento dall’assalto di un branco di cannibali. Al ritorno a New York ci rendiamo conto che il santone Jonas non si è suicidato, ma è scomparso insieme a un conto in banca aperto in Svizzera. Su quel conto ci sono anche i soldi della eredità di Paola Senatore che aveva intestato tutti i suoi beni al santone. Il film termina con Janet Agren che non sa come pagare i servigi di Robert Kerman perché è rimasta senza una lira. Lenzi vorrebbe agganciare la sua idea di film cannibalico-avventuroso al ricordo storico del massacro della Guayana con il suicidio collettivo di novecento persone per volontà di un folle santone. In parte ci riesce perché Ivan Rassimov è credibile nei panni di Jonas, guida spirituale affascinante che circuisce occidentali creduloni. Il piatto forte però sono le sequenze estreme. Frequenti in tutta la pellicola: violenze, massacri, stermini di massa, scene di stupro, banchetti antropofagi e animali uccisi nei modi peggiori. Nella parte introduttiva c’è una sequenza molto realistica stile mondo movie che vede alcune persone appese a dei ganci per praticare la purificazione delle anime attraverso la cura del dolore. I ganci vengono attaccati alla pelle della schiena e gli adepti della setta sono appesi al soffitto e lasciati spenzolare. Ottima anche la scena del cobra nascosto in una cesta che viene aperta da Janet Agren che rischia di fare una brutta fine. Il film però manca di mordente e non coinvolge più di tanto, anche perché le scene più efferate sono quasi tutte prese da altre pellicole e l’appassionato del genere le ha già viste. Tra le scene più crude dobbiamo citare un pitone che si mangia una scimmia, un cucciolo di coccodrillo squartato in diretta, un coccodrillo che aggredisce la piroga, un cobra ucciso con le mani, una lotta cobramangusta, un’evirazione, un’iguana sventrato e mangiato dai selvaggi… In definitiva salverei soltanto poche scene truculente, gli effetti speciali (notevoli), l’ambientazione curata e pittoresca. La parte cult del film resta quella con i cannibali che catturano Me Me Lai e Paola Senatore e se le mangiano vive facendole a fettine nei punti più prelibati (mammelle, orecchie, gambe…). Si vede abbastanza chiaramente che le gambe tagliate delle due vittime sono nascoste sotto la terra, ma il pasto cannibale è cruento e disturbante. Alla fine i selvaggi aprono la cassa toracica delle due donne e le mettono a cuocere sulla fiamma. Sono scene realistiche e valgono il prezzo del dvd. Se poi vogliamo parlare da appassionati del cinema di genere, anche la bellezza sensuale della bionda Janet Agren e la mise di Paola Senatore in tenuta da selvaggia non sono da disprezzare. Paola Senatore e Me Me Lai sono protagoniste anche di due ottime sequenze erotiche che le mostrano senza veli e in pose molto disinibite. Soprattutto il rapporto esplicito di 118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Paola Senatore, posseduta dal suo carceriere prima di essere mangiata viva, è di quelli memorabili. Ricordiamo anche la sequenza che vede la penetrazione della Agren da parte del santone per mezzo di un grosso fallo di pietra intinto nel sangue di un serpente e anche la scena dove l’attrice svedese mette in mostra la sua bellezza completamente dipinta d’oro (forse un omaggio alla Ursula Andress de La montagna del dio cannibale). I dialoghi tra Kerman e la Agren sono artefatti e irreali, le avances dell’uomo poco credibili e certe situazioni quasi imbarazzanti. Molte parti del film mancano di pathos e di tensione narrativa, come quando le due sorelle si ritrovano. La recitazione della Senatore e della Agren tocca livelli di insufficienza e lo spettatore resta indifferente ascoltando dialoghi lunghi e stucchevoli. Singolare la rappresentazione della rottura dei vincoli familiari in occasione di un funerale, che vede la vedova Me Me Lai costretta a far l’amore con i fratelli del defunto marito. La scena non ha niente di erotico e sembra una ricostruzione inventata, ma il regista insiste sulla tripla penetrazione che avviene sopra le ceneri del defunto. Tra i momenti peggiori del film: i pistolotti morali mal recitati da Robert Kerman (“È la legge del più forte”, dice mentre osserva gli animali che si sbranano tra loro) e Janet Agren che in un penoso finale conclude: “L’era spaziale è solo per pochi, ci sono ancora i cannibali”. Rimpiangiamo che non se la siano mangiata. Nel 1981 Lenzi ci riprova con Cannibal Ferox, altro film ispirato a Cannibal Holocaust che prova persino a superare per quanto concerne la violenza verso gli animali. Tra l’altro pare che le scene siano tutte vere e ce lo conferma un’intervista all’attore Giovanni Lombardo Radice che abbiamo reperito sulla rete. Assistiamo all’esecuzione di un maialino, scena motivata dalla volontà di seguire Cannibal Holocaust sino in fondo, che Lombardo Radice si rifiutò di girare. Lenzi cercò di convincerlo dicendogli che De Niro lo avrebbe fatto. Radice rispose: “Noi stiamo facendo Cannibal Ferox, per cui non venirmi a parlare di De Niro. Non ammazzerò nessun maialino e ringrazia il cielo che siamo in mezzo alla giungla, se no ti denunciavo subito alla protezione animali”. Fu il tecnico degli effetti speciali a interpretare la scena. Altre scene disturbanti sono quelle che vedono una testuggine squartata con cura e poi mangiata, un formichiere dato in pasto a un anaconda, una farfalla divorata da un indigeno e una pantera che fa fuori una scimmia. La distribuzione del film fu vietata in trentadue paesi proprio a causa dell’eccesso di esibizione della violenza, e questa cosa ne ha fatto un cult underground. In Italia c’è solo un divieto ai minori di anni quattordici per un 119 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

film girato con poche lire (350 milioni) e facendo grandi economie su tutto. Il cast comprende: Giovanni Lombardo Radice (si fa chiamare John Morghen), Walter Lucchini (con lo pseudonimo di Walter Llloyd), Lorraine De Selle, Zora Ulla Keslerowa (detta Kerowa), Danilo Mattei (con lo pseudonimo di Bryan Redford), Venantino Venantini e l’immancabile Robert Kerman, ormai un simbolo dei cannibal movie. Lenzi scrive il film e ancora una volta è il regista oltre che lo sceneggiatore. La fotografia è di Giovanni Bergamini, il montaggio di Enzo Meniconi, le musiche intense e ossessive sono di Budy Maglione e Roberto Donati. Produce Giovanni Masini per Dania Film. La storia non è il massimo dell’originalità. C’è la solita spedizione in Amazzonia e questa volta la capeggia una laureanda in antropologia (Lorraine De Selle nei panni di Gloria) che vuole studiare i popoli indigeni per dimostrare che il cannibalismo non esiste. Da notare l’ennesimo errore di Marco Giusti su Stracult quando afferma che la protagonista della pellicola è Zora Kerowa, nella parte di un’antropologa. Non è vero. La Kerowa impersona Patty, l’amica disinibita di Rudy (Danilo Mattei), il fratello di Gloria, che completa il terzetto di esploratori. Vengono alternate le parti che si svolgono a New York e che mostrano le indagini del tenente di polizia (un poco utilizzato Robert Kerman) con quelle girate nella foresta amazzonica, per la precisione in Colombia, nei pressi di Paraguayá. La fotografia è una delle cose migliori del film, soprattutto quando mostra il contrasto tra le due diverse civiltà con lo stacco netto dalla Baia di Hudson alla foce del fiume amazzonico. La location tropicale è indovinata e quando la spedizione si avventura nella foresta si entra nel vivo della pellicola con le immagini più forti. La jeep si impantana nel fango e i tre ragazzi incontrano un selvaggio che si ciba di vermi in modo ributtante. Un anaconda divora un formichiere al termine di una sequenza selvaggia che vede il gigantesco serpente soffocare la vittima indifesa. Durante il viaggio la spedizione incontra due individui: Mike (Lombardo Radice) e Joe (Walter Lucchini), che sembrano in fuga dai cannibali, mentre sono cercatori di smeraldi e spacciatori di droga. I due raccontano una storia inventata dove sembrano le vittime ma in realtà sono i carnefici. Questa parte del film ci mostra anche alcune scene di vita della giungla che sembrano tratte da un mondo movie, come quando una pantera sbrana una scimmia. Il terzetto giunge al villaggio indigeno che pare distrutto e popolato solo da vecchi spaventati, al palo della tortura si nota un cadavere in decomposizione. Gloria cade in una trappola insieme a un maialino selvatico e quando Mike la libera assistiamo 120 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

alla scena cruenta dello squartamento del porcellino che serve a far capire il sadismo dell’uomo. Un’altra sequenza di vita della foresta amazzonica ci mostra un’iguana che ammazza un serpente e se lo divora. Mike e Patty si piacciono, ricordiamo una breve sequenza erotica soltanto intuita tra Lombardo Radice e Zora Kerowa. Il piatto forte del rapporto sarebbe una ragazzina india che Mike ha deciso di violentare e per quel motivo si reca al fiume. Patty impugna un coltello ma non riesce a far del male alla ragazza, così Mike la fredda con due colpi di pistola. Patty fa scappare un indio che assiste impotente al delitto mentre Rudy ferma in tempo Mike. La malattia di Joe obbliga i cinque uomini a fermarsi al villaggio e il regista può mostrare una testuggine squartata e cucinata alla fiamma dagli indigeni. A un certo punto, in fin di vita per le ferite riportate, Joe racconta la terribile verità: gli indigeni, primitivi e ingenui ma non certo cannibali, sono stati massacrati da Mike che non è soltanto un criminale ma anche un folle tossicomane. Un indio chiamato Soares (detto il portoghese) è stato legato al palo, torturato, privato di un occhio con un coltello (scena gore ad alto effetto), infine evirato con un colpo di machete. Mike per sapere dove nascondeva gli smeraldi ha ucciso e squartato alcuni indios davanti ai suoi occhi. I giovani sono fuggiti dal villaggio e Mike ha ucciso l’indio al temine di una notte di agonia, per scappare con un ostaggio. In quel momento è avvenuto l’incontro con il terzetto di esploratori. Il regista è molto bravo a staccare tra Amazzonia selvaggia e New York per farci seguire le gesta di Robert Kerman che scopre dove si nasconde il pregiudicato Mike. In Amazzonia non ci sono cannibali, ma è il male subito che provoca la feroce reazione degli indigeni quando tornano al campo. Una papaya in decomposizione piantata davanti alla capanna dove dormono i bianchi è il segno della vendetta dei giovani del villaggio. Prima di tutto squartano il morto e si cibano delle sue interiora, poi catturano gli altri, legano al palo Mike e lo torturano con ferocia. Rudy, Patty e Gloria vengono chiusi in una gabbia di bambù e assistono alla scena cruda e ben girata della evirazione di Mike. Il taglio netto del pene si vede in modo distinto e il successivo pasto dei testicoli conclude l’orrore, accompagnato da una colonna sonora intensa e ossessiva come un lamento funebre. Mike non muore perché gli indigeni cicatrizzano subito al ferita per farlo soffrire ancora. La fuga di Rudy porta solo alla sua morte perché prima viene addentato dai pirañas e quindi ucciso da una freccia indigena lanciata da una cerbottana. Mike viene messo in una fossa, le due donne familiarizzano in un’altra prigione e per sentirsi vive si mettono a cantare. 121 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

“Noi siamo i responsabili della nuova ferocia. La violenza porta sempre violenza”, afferma Lorraine De Selle. Altre scene portano in primo piano alcune prelibatezze come il cuore di Rudy dato in pasto a Patty e Gloria (ma non lo mangiano) e un coccodrillo squartato con gli indigeni che si cibano delle sue interiora. Mark scappa e lascia le due donne nella fossa ma viene ripreso dai selvaggi che, in un crescendo di effetti gore, per prima cosa gli amputano la mano destra. A questo punto assistiamo alla scena clou del film, quella per cui è giustamente famoso. Zora Kerowa viene appesa per i seni dopo che i selvaggi le hanno infilzato le mammelle con due ganci. Il sangue scorre in abbondanza e la scena è credibile grazie agli effetti speciali. La De Selle prega che l’amica muoia prima possibile mentre gli indigeni fanno fuori Mike. La testa dell’uomo viene inserita in un foro tra due tavole e con un colpo di machete gli spazzano via la calotta cranica per poi cibarsi del suo cervello. Episodio terribile e realizzato ad arte. Un indio aiuta Gloria a fuggire per ringraziarla di quando Patty gli salvò la vita dal folle Mike. L’antropologa rimane sola nella giungla perché l’indigeno è ucciso da una trappola e alla fine viene trovata da due cacciatori di frodo che sentono i suoi lamenti. Si salva soltanto lei, ma rimane scioccata dalla traumatica esperienza e non racconta a nessuno la triste verità, ma dice che i suoi compagni sono morti quando la canoa si è rovesciata. Mesi dopo, a New York, Gloria si laurea a pieni voti con una tesi che dimostra che i cannibali non esistono. Il mito del cannibal ferox è solo un’invenzione dei conquistadores bianchi. Lenzi ha detto che a Zora Kerowa è servito molto coraggio per interpretare la scena nella quale finisce infilzata sui ganci. La Kerowa è credibile e si propone come vittima sacrificale esemplare per il cinema di genere italiano che la utilizzerà spesso in situazioni simili. Ricordiamo soltanto La vera storia della monaca di Monza, dove viene flagellata e murata viva e Lo squartatore di New York, dove muore con una bottiglia infilzata nella pancia. Il film è superiore per qualità tecnica di scenari e fotografia al precedente Mangiati vivi!, soprattutto fa a meno degli spezzoni prelevati da altre pellicole. Restiamo sempre nel campo dell’imitazione e dello sfruttamento di un genere che aveva raggiunto l’apice con Cannibal Holocaust. Gli effetti speciali di Giannetto De Rossi e Giuseppe Ferranti sono da ricordare: un corpo squartato e i cannibali che mangiano le interiora, una donna appesa per i seni con ganci acuminati, un cranio spaccato con un colpo di machete, piatti a base di cervello umano fresco, evirazioni con successivi pasti a base di testicoli, torture efferate, cuori sventrati e serviti per cena, pirañas che si 122 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mangiano uomini... Il film purtroppo risente dei limiti recitativi di alcuni attori e di una trama costruita a imitazione del precedente lavoro di Deodato. Umberto Lenzi dà il meglio di sé nel cinema avventuroso, nell’horror puro e nel poliziottesco, piuttosto che in questo genere di pellicole. Il film ha qualche pretesa intellettuale e di denuncia sociale. La storia parte dalla tesi che il cannibalismo sarebbe solo una scusa inventata dai conquistadores bianchi per giustificare atti di violenza gratuiti. Un assunto interessante, ma il problema è che a dirlo troviamo una Lorraine De Selle così poco credibile che pare recitare una lezioncina mandata a memoria. Poi c’è la denuncia di stampo ecologico. La contrapposizione tra civiltà occidentale e mondo inesplorato è un discorso che troviamo in tutto il cinema cannibalico. Nel film di Lenzi, il cannibale reagisce con violenza solo per replicare alle atrocità degli invasori: sembra che sia la natura stessa a ribellarsi ai malvagi che vengono dal mondo civilizzato. Infatti la spedizione incontra sul suo cammino ogni sorta di pericolo che sbarra la strada all’invasione di un territorio incontaminato. Troviamo di tutto: ragni velenosi, serpenti, coccodrilli, sanguisughe, cannibali... Cannibal Ferox è un film girato a imitazione di Cannibal Holocaust, conserva una sua originalità e una certa importanza per merito di alcune scene splatter, delizia degli amanti del genere. Molte sequenze sembrano uscite da un film di Herschell Gordon Lewis e Lenzi pare aver appreso a dovere la lezione di un maestro del gore. Poi ci sono anche aspetti di sexploitation nella sequenza che vede un tentativo di rapporto sessuale tra i due amanti diabolici (Mark e Pat) con una ragazzina india. Lei si ribella, tenta di fuggire e Mark la fredda con un colpo di pistola. Resta solo da dire che per Cammarota (Storia del cinema dell’orrore, pag. 287) Cannibal Ferox sarebbe una riedizione di Mangiati vivi! con un nuovo titolo più affine a quello di Deodato per sfruttarne sino in fondo il successo commerciale (sic!). L’affermazione si commenta da sola. Certi critici prima di parlare dei film che non amano per principio dovrebbero almeno documentarsi. Nei cannibal movie troviamo due tipi di pellicole: i film a soggetto che utilizzano riprese documentaristiche vere per dare alla storia maggior credibilità, e i film documentaristici puri che inseriscono riprese finte per dare più orrore alle scene. Il risultato è in entrambi i casi lo stesso: dare un’immagine raccapricciante della società contemporanea dipinta con tinte sadiche e scellerate in quella che molti critici hanno chiamato un’apologia del selvaggio.

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Pierino la peste alla riscossa (1982) Pierino la peste alla riscossa è atipico per Lenzi come lo è per Dardano Sacchetti, autore di un soggetto comico realizzato raschiando il barile delle barzellette più triviali. Sacchetti è autore conosciuto soprattutto per poliziottesco, horror, thriller e cinema d’azione di vario tipo. Pure per lui questa incursione nel sottogenere pierinesco è dovuta a motivi squisitamente alimentari. La sceneggiatura è sempre di Sacchetti che viene coadiuvato dal diligente Giorgio Mariuzzo, mentre le scenografie sono di Massimo Lentini. Questo collage di barzellette è montato in maniera rapida e decorosa da Gianfranco Amicucci mentre la fotografia porta la firma di Guglielmo Mancori. La musica divertente e ai limiti del trash è di Walter Rizzati che s’inventa una mitica sigla di testa cantata da Giorgio Ariani e da Lella Fabrizi. La pellicola è prodotta da Fabrizio De Angelis per la Fulvia Film e la Flora Film e vede Lillo Vannini come direttore di produzione. Interpreti: Giorgio Ariani, Jenny Tamburi, Didi Perego, Lucia Cassini, Lella Fabrizi, Ugo Fangareggi, Giacomo Rizzo, Enzo Robutti, Renzo Montagnani, Mario Brega, Adriana Facchetti, Tiberio Murgia, Luigi Leoni, Enzo Andronio e Serena Grandi. La pellicola è inquadrabile come un Pierino apocrifo per la mancanza di Alvaro Vitali, attore simbolo della serie ufficiale inaugurata nel 1981 da Pierino contro tutti di Marino Girolami. I veri film di Pierino vedono Alvaro Vitali dare corpo a una serie di barzellette scurrili e risapute, che inaugurano il filone del barzelletta movie che farà furore per un paio d’anni nel cinema italiano. Michela Miti impersona la supplente sexy che fa andare Pierino (e il pubblico) in visibilio quando mostra le gambe dietro la cattedra e si abbandona a brevi scene di nudo. La serie ufficiale di Pierino prosegue con Pierino medico della S.A.U.B. di Giuliano Carnimeo (1981), che in realtà è una sorta di parodia de Il medico della mutua e ha poco a che vedere con Pierino. Pierino colpisce ancora di Marino Girolami (1982) è il vero sequel, l’ultimo Pierino girato da Girolami che farà anche una miniserie televisiva che si è vista solo in alcuni canali privati del Lazio. Pierino torna a scuola di Mariano Laurenti (1990) è il canto del cigno del sottogenere, un remake tardivo che vede l’ex miss Italia Nadia Bengala al posto di Michela Miti, la sora Lella invece del nonno Riccardo Billi e Giulio Massimini per Enzo Liberti. Citiamo anche un orribile Pierino Stecchino, girato nel 1992 da Claudio Fragasso, che ha avuto una fredda accoglienza da parte del pubblico. Alvaro Vitali prende in giro Roberto Benigni e ironizza sul suo Johnny Stecchino, ma non è Totò e neppure Franco e Ciccio. Il successo del124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la serie ufficiale produsse un proliferarsi di falsi pierini come il terribile Pierino il fichissimo di Alessandro Metz (1981), sceneggiato da Sacchetti e interpretato da Maurizio Esposito. Pierino aiutante messo comunale… praticamente spione di Mario Bianchi (1981) è un altro imbarazzante prodotto che si salva solo per la conturbante presenza di Laura Gemser. Il tremendo (in tutti i sensi) Pierino di turno si chiama Tony Raggetti e i suoi siparietti comici sono irritanti. Il film è composto da una serie di avventure scollegate tra loro e l’unico interesse per lo spettatore è rappresentato dalla bella dottoressa Gemser, medico condotto a Bolsena. Forse ce ne saranno stati anche altri, non è facile tenere il conto di una serie di prodotti di serie C che facevano il verso al modello originale. Tra tutti i Pierini apocrifi non c’è dubbio che Pierino la peste alla riscossa sia il migliore, quello girato con maggiore professionalità e con attori degni di questo nome. La trovata più esilarante del film è la canzone che accompagna la sigla di testa che vede una sorta di fumetto con protagonista Ariani - Pierino. Walter Rizzati è davvero bravo a comporre una marcetta trash con Giorgio Ariani che canta: “Pierino la peste che genio che testa/ le studio le invento le fo/ se vedo un reattore che va fuori di pista/ Pierino, io forse lo so./ Son proprio un tesoro/ è pieno di pepe quel vino che beve papà/ ho messo il carburo nell’acqua del water/ la nonna così scoppierà…” E la nonna (la sora Lella) risponde: “Ahi, ahi, ahi!/ Pierino tutto questo non si fa/ prendi pe’ fondelli questa nostra società/ Ahi, ahi, ahi!/ Pierino non lo devi dire più/ che chi fa casino al mondo non sei solo tu…”. Il motivetto di Pierino la peste ci accompagna per tutto il film e fa da colonna sonora nei momenti di maggiore comicità. La pellicola si sviluppa con una serie di barzellette collegate tra loro dal filo conduttore delle avventure scolastiche di Pierino. Ci sono alcuni momenti comici di buon livello, come i siparietti nella farmacia gestita dal babbo di Pierino e le divertenti incursioni di Renzo Montagnani nei panni di un pazzo scatenato. La cosa incomprensibile è la toscanità di un Pierino come Giorgio Ariani, che vive a Roma, ha due genitori romani (Mario Brega e Didi Perego) e una nonna romanissima come l’ottima Lella Fabrizi. Il film è così assurdo e ai limiti del trash che certe cose non sono importanti, anche perché lo spettatore attende solo il momento comico e la battutaccia per ridere a quattro ganasce. Cito qualche perla raccolta nel florilegio di barzellette saccheggiate da Dardano Sacchetti. Il babbo di Pierino scorreggia e il figlio propone un silenziatore per il culo. Pierino alla nonna: “Ma se non scopi, non fumi, non bevi, che festeggi a fa?”. Pierino con una candela da chiesa in mano che consegna a un ragazzo in moto: “Accenditelo al culo così diventi super jet”. 125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Pierino: “Io vo a gas” (e scorreggia). Un vigile lo ferma e dice: “Bollo!”. Pierino: “Beato lei. Io sto’ a morì dal freddo”. Barista (la spalla per antonomasia Enzo Andronico): “Voglio vedere lo scontrino!”. Pierino prende due modellini di auto e li picchia insieme. Pierino sugli omosessuali: “Un ricchione è un dirottatore di uccelli” e poi rivolto al bidello che si chiama Orazio: “I Curiazi sono quelli che cacano e non sono mai sazi”. E ancora: “Ti ho fatto venire un cappuccino”. Alle sue parole segue l’ingresso a scuola di un frate. A parte le barzellette, sono divertenti i momenti scolastici dove Giacomo Rizzo è il professore soprannominato cammello che i ragazzi prendono di mira con scherzi atroci. Pierino recita “San Martino” del Carducci grazie a un registratore, incolla la sedia del professore, cambia la cassetta per far recitare a un amico una serie di offese e via di questo passo. La bruttissima direttrice è interpretata dalla spiritosa Adriana Facchetti che ogni tanto irrompe nell’aula dove Pierino imperversa. Pierino: “Professore, secondo me lei ha 36 anni”. Rizzo: “Bravo Pierino. Come fai a saperlo?”. Pierino: “Ho un cugino che ha 18 anni ed è mezzo stronzo”. Un’affascinante Jenny Tamburi è la professoressa Bonazzi che i ragazzini spiano al bagno grazie a un periscopio artigianale. Lenzi inserisce una breve parentesi di commedia sexy con la Tamburi che si fa ammirare seminuda con mutande di pizzo e giarrettiere. Jenny Tamburi (alias Luciana Tamburini) non sfigura per niente nel confronto con la Michela Miti della serie originale, anche perché lei era un’attrice vera che sapeva rivestire tutti i ruoli. Jenny Tamburi è morta nel 2006, a soli 53 anni, dopo una lunga malattia e va ricordata per interpretazioni come Liquirizia di Samperi, Peccati di famiglia, La seduzione e molti altri film dell’erotico - soft. Jenny Tamburi non ha mai rinnegato il suo passato di attrice sexy, anzi ne andava (giustamente) orgogliosa. Negli ultimi anni della sua vita aveva aperto una scuola di recitazione e lavorava come direttrice di casting per Rai e Mediaset. Il film prosegue tra battute e battutacce spesso inserite nella trama per allungare il brodo, come quando Pierino incontra tre cinesi e assistiamo a una serie di dialoghi idioti a base di Cionfurgoncin, Urinasumuri e Cacapocochifapocomoto. In farmacia ricordiamo i numeri di Enzo Robutti, un cliente cavallo che nitrisce e ha le scarpe ferrate, al punto che Mario Brega lo autorizza a cacare per strada. Pierino filosofeggia sui rutti come “scorregge che prendono l’ascensore” e cura una signora malata di aerofagia mettendo ogni cosa al suo posto. Lucia Cassini è la cameriera di casa fidanzata con un carabiniere stupido che dà il via a una serie di barzellette sull’Arma. Serena Grandi riveste un ruolo modesto come cameriera nel bar di Enzo Andronico, ma non 126 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fa vedere niente. Giorgio Ariani è abbastanza divertente come tipo di comicità gretta e genuina, pure se rende di più nel cabaret che in una pellicola dove soffre la lunga distanza. Le trovate comiche sono spesso ridicole e risapute. Il test della lumaca per scoprire se uno ha le corna, la vernice fresca e la maglia di lana, le barzellette sugli animali allo zoo e via dicendo. Da citare una serie di doppi sensi piuttosto triviali legati all’equivoco tra uccello e tema. Tamburi: “Ho visto quello di tutti ma non il tuo”. “Quello di Carletti era un po’ moscio…”. Quando la Tamburi afferma che vuole vederlo assolutamente, Pierino ha già i pantaloni calati, ma in quel momento comprende che si tratta solo del compito di italiano. Allo zoo si ricalca la battuta di Nando Cicero e il doppio senso tra fica e foca quando una signora cade ed esclama: “Che cozzo!”. Ma siccome cade a gambe larghe e fa vedere le mutande, Pierino risponde: “Che foca!”. Arriva il fidanzato e lui subito indica la foca dello zoo per salvarsi dalla reazione dell’uomo. Allo zoo assistiamo agli amoreggiamenti tra Rizzo e la Tamburi che non trovano mai il modo di stare da soli e Pierino li interrompe a colpi di cacca in faccia al professore. A questo punto entra in scena Renzo Montagnani, che alza il tasso comico del film con una parte da ispettore scolastico che si complimenta con Pierino pure se dice una serie di idiozie. Quando arrivano gli infermieri in classe si scopre che è solo un pazzo che ogni tanto scappa dal manicomio. La pellicola presenta anche una parte sexy comica con la Tamburi e Rizzo che amoreggiano nel bagno dei professori. Non si vede molto, ma la Tamburi è brava e sensuale quando sgambetta tra le braccia dell’amante e mostra le gambe velate da calze trasparenti e slip bianchi. Pierino toglie la luce, trova il modo di far finire la brutta direttrice tra le braccia di Rizzo e poi fa entrare di nuovo la Tamburi. La scena sexy diventa farsa con il povero Rizzo preso a ceffoni dalle due donne. Un altro cammeo di Montagnani lo vediamo al ristorante dove interpreta il presidente dell’ordine dei farmacisti e promette al padre di Pierino altre farmacie. Montagnani balla con la cameriera, recita la poesia meglio puzzar di merda che di povero, prende in giro tutti e alla fine arrivano gli infermieri e lo portano via insieme al babbo di Pierino che viene preso per pazzo. L’ultimo cammeo di Montagnani è nei panni del Ministro della Pubblica Istruzione che tra lo stupore generale premia Pierino come bambino dell’anno. Pierino riconosce il pazzo e dice: “Vorrei che tu fossi il mio babbo”. Invitato a fare un discorso, emette una pernacchia e conclude la storia come una perfetta pochade. Mereghetti è molto caustico sul film: “Serie di barzellette su Pierino, interpretato da un imbarazzante Ariani. Squallido tentativo di agganciarsi al 127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

successo dei già mediocri film di Girolami con Vitali”. Farinotti afferma: “Non c’è storia, soltanto una raffica di gags: il film è un sottoprodotto del filone pierinesco lanciato da Vitali, qui assente, mai rimpianta star della risata a sfondo gastrointestinalsessuale”. Non condivido il rigore critico con cui si affrontano film come questi, che pure hanno caratterizzato un periodo storico non solo del cinema ma anche del costume italiano. Se cerchiamo la storia in un barzelletta movie vuol dire che non abbiamo compreso la funzione catartica e liberatoria di certe pellicole. I film della serie pierinesca, originali o apocrifi che fossero, vivevano soprattutto per la loro volgarità, anarchia e inosservanza degli schemi cinematografici. Erano pellicole politicamente scorrette, irriverenti e assurde, ma rappresentavano bene un sano e sboccato divertimento che il pubblico in quel preciso momento storico chiedeva al cinema. Pierino la peste alla riscossa è il migliore tra i pierini apocrifi, soprattutto perché gode di un cast di attori eccellente e anche il protagonista Ariani ha una sua buffa originalità. Mario Brega, Didi Perego, Lella Fabrizi, Jenny Tamburi, Giacomo Rizzo ed Enzo Robutti contribuiscono a elevare la qualità del film. Nessuno si aspetti di vedere un capolavoro, ma all’interno del barzelletta movie questo film di Lenzi (girato per motivi alimentari) ha una sua dignità. Dardano Sacchetti, da noi avvicinato, ci ha confidato: “Umberto era uno che non stava mai fermo e poi gli piaceva spaziare a 360 gradi su tutti i generi cinematografici. Ci teneva a fare la commedia, anche se fra tutti i registi che ho conosciuto era quello meno ironico, meno dotato, sia sul piano della battuta fulminante che della gag. Fu lui a coinvolgermi. Era un momento in cui lavoravamo insieme e ci trovavamo bene a farlo. L’idea era sua. Scrivemmo un soggetto di poche pagine (molto arronzato), poi – ottenuto una sorta di via libera – cominciammo a scrivere la sceneggiatura. Per me fu molto faticoso. Non avevo (neanche adesso ce l’ho) una verve comica e il risultato fu un film che non faceva ridere e neanche fustigava i costumi, come in realtà voleva fare Umberto, che era molto radicale, molto toscano, molto mangiapreti e molto trasgressivo, almeno a parole. Nei fatti lo era molto meno. La mia firma serviva per motivi ministeriali ma il film se lo inventò quasi tutto Umberto con la complicità dell’attore, che era toscano, cercarono di trasformare un personaggio romano in una specie di personaggio del Decameron…”

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Cicciabomba (1982) Cicciabomba (1982) è un film più che atipico nella produzione di Umberto Lenzi, che non si era mai trovato a dirigere una cantante ballerina del tutto inesperta di recitazione come la Rettore. Il film è scritto da Mauro Mariani, sceneggiato da Giorgio Mariuzzo, montato da Enzo Meniconi e fotografato da Carlo Carlini. Sono importanti le musiche di Claudio Rego, arrangiate da Pinuccio Perazzoli, le coreografie di Riziero Eridi e le scenografie di Claudio Cimini. Produce la Emme R.T. Cinema sotto la guida di Alberto Tarallo che funge da organizzatore generale. Interpreti: Donatella Rettore (Miris), Dario Caporaso (Mirko), Howard Napper, Paola Borboni (nonna di Miris), Didi Perego (mamma di Miris), Ugo Bologna (sindaco), Piero Vida, Sergio Ciulli, Dario Ghirardi, Paola Rinaldi, Gena Gas (Deborah), Adriana Russo (Pinocchia) e Anita Ekberg (Judith von Kema). Il film è una fiaba a lieto fine sullo schema della vecchia storia del bruco che diventa farfalla, ma anche del brutto anatroccolo che si trasformata in cigno e si vendica di chi l’ha sempre derisa. Donatella Rettore è la grassa e goffa Miris Bigulin, una ragazzina che vive ad Allegra, un paesino del cattolico veneto, che passa il suo tempo tra la scuola e una radio locale dove conduce un programma in diretta. La sorella Deborah (interpretata dalla graziosa debuttante Gena Gas, poi scomparsa) è la bella di casa e la madre si prende cura solo di lei. La storia mette subito in primo piano il confronto tra le forme femminili di Deborah e le rotondità artificiali di Miris. La Rettore è una bella ragazza e per questo deve subire un trucco che la imbruttisce parecchio per potersi calare nel personaggio. La mamma di Miris è una diligente Didi Perego, nome ricorrente nella commedia all’italiana classica, ma in questo film è poco utilizzata. La presenza più interessante è invece quella di Paola Borboni, nei panni della nonna burbera di Miris che si aggira per la casa con due stampelle e borbotta in continuazione. Le fissazioni della nonna sono Paul Newman e un canarino giallo che prima chiama Mao Tsè Tung e poi ribattezza Cassius Clay, perché le cade nell’inchiostro. Paola Borboni è una vecchia gloria del cinema italiano che qui vediamo in una delle sue ultime apparizioni. Miris è una sorta di Pierino al femminile che boicotta la radio dei preti sostituendo la musica classica con il rock (sentiamo diverse canzoni della Rettore), va in motorino, veste con tute larghe e maglioni colorati da maschiaccio. Tutti la chiamano Cicciabomba perché è grassa e preferisce i dolci ai ragazzi. Ha un’amica soprannominata Pinocchia per via del naso lungo, interpretata da un’Adriana Russo pure lei 129 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

molto imbruttita. Miris protegge un amico omosessuale che si traveste da Marilyn Monroe, lo difende da chi lo vuol malmenare e anche dai preti che lo scacciano dalla radio. Questa parte è molto moderna per i tempi in cui viene girato il film, soprattutto sono interessanti le parole in difesa dei gay e contro la chiesa che dovrebbe occuparsi di tutti. Un giorno Miris si prende gioco del bel Mirko (Dario Caporaso) che a scuola fa innamorare tutte le ragazzine e gli passa una versione di latino infarcita di offese contro il preside e il professore. Mirko si fidanza con la sorella Deborah (che intanto è stata eletta Miss Veneto) e si vendica con cattiveria, fingendosi uno spasimante di Miris che la chiama al telefono della radio. Miris si innamora e quando va all’appuntamento con il misterioso ragazzo trova Mirko e i suoi amici, che la canzonano e le fanno fare un bagno di acqua gelata. Alla fine Miris diventa lo zimbello della classe perché tutti vengono a sapere come Mirko si è preso gioco di lei. Viene addirittura licenziata dalla radio cattolica per via dello scandalo e medita il suicidio, ma la fortuna le fa vincere un viaggio premio a New York. La parte girata negli USA è la più bella da un punto di vista cinematografico ed è qui che possiamo apprezzare tutta la bravura di Lenzi. Miris incontra la baronessa Judith von Kema, un’ottima Anita Ekberg ormai troppo vecchia per le parti erotiche, che la vuole come testimonial per un prodotto dimagrante. Miris dimagrisce a vista d’occhio mangiando solo estratto di pinne di pescecane, diventa una ragazza bellissima e si innamora pure dell’avvocato della baronessa. La nuova Miris Bigulin si esibisce in pubblico con un seducente vestito rosso e un paio di stivaloni neri che mettono in risalto le lunghe gambe magre e affusolate. Da segnalare una coreografia televisiva e una canzone che sono davvero il massimo del trash. Va citata almeno una strofa perché la canzone può andare fiera di essere un’icona della cultura trash: “M’è scoppiata la testa/ io rivoglio la pasta/ sono sveglia o son desta/ con le gambe come un grissino/ vorrei un panino!”. A questo punto Miris torna in Italia e decide di vendicarsi di Mirko, che intanto ha mollato la sorella Deborah per fidanzarsi con la ricca figlia del sindaco. Miris arriva appena in tempo per salvare la sorella dal suicidio e qui registriamo una bella scena acrobatica con le due donne che volano dal cornicione di un palazzo fino al telone dei pompieri. Ci sono le controfigure, ma Lenzi dimostra la sua bravura nella realizzazione di queste sequenze che ricordano le tematiche poliziottesche. Miris ritrova Pinocchia (che si è operata al naso) e le vecchie amiche del club delle racchie che sono diventate tutte belle ragazze. Miris, Deborah e le compagne rapiscono la figlia del sindaco e la ingozzano a forza di cibo fino a farla di130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ventare una grassona. Miris intanto si spaccia per miliardaria americana e si fa ricevere dal sindaco per rassicurarlo sul fatto che la figlia sta bene ed è partita per un viaggio. Il sindaco è un convincente Ugo Bologna, molto bravo nella parte del commenda ricco e bigotto, che però non perde occasione per sbirciare le gambe alla bella ragazza. L’interpretazione della Rettore come finta americana è molto trash, ma di sicuro la sua mimica è caricata per rendere più ironica la parte. Miris fa innamorare Mirko e dopo averlo cacciato di casa, lo ridicolizza davanti a tutto il paese facendolo vestire da gay e mettendolo tra le braccia del suo amico omosessuale. La beffa finale è un finto matrimonio con Mirko al quale Miris si presenta con mezz’ora di ritardo e vestita in minigonna gialla. La scena è il massimo del trash con la Rettore che balla il rock e l’organista che suona musica da discoteca. La vendetta è completa quando Miris dice no all’altare e fa entrare la sorella Deborah che si sposa davvero con Mirko. Miris se ne va perché i matrimoni la fanno piangere e poi lei sostiene che non è adatta al matrimonio, perché è matta. Non è poi così vero, perché Miris ritrova il suo avvocato inglese che l’aveva fatta innamorare a New York e insieme se ne vanno a Broadway. La scena finale vede i due innamorati su una decappottabile bianca che cantano la romantica This Time di Elton John nella notte illuminata di New York. Il film è la classica pellicola per teenager, adatta a un pubblico di ragazzine anni Ottanta in piena tempesta ormonale, nel periodo in cui si fantastica sul ragazzo più bello della classe o sul divo dei fotoromanzi e del cinema. La cantante Donatella Rettore si improvvisa attrice (e tutto sommato non se la cava male) per interpretare una commedia vecchio stile che non ha grandi pretese, ma che non presenta nemmeno vistose cadute di stile. Le parti trash della pellicola sono ancora oggi un divertente specchio del tempo passato e fa sorridere risentire un vocabolario giovanilistico anni Ottanta a base di fico, flipparsi il cervello, gasato, super, un tipo giusto e via di questo passo. L’abbigliamento della Rettore è una delle cose più divertenti del film. Nella prima parte sfoggia vestiti larghi, tute, maglioni con i cuoricini e pettinature a base di trecce da ragazzina. Nella seconda parte si trasforma in bomba sexy e mette in mostra le lunghe gambe per mezzo di alti stivaloni neri e di vestiti cortissimi dai colori sgargianti. Mereghetti concede una stella al film e non lo demolisce, anzi ne parla in termini piuttosto lusinghieri come di “una commedia vecchia maniera”. Marco Giusti lo definisce “un misto di canzonettistico e di Pierino al femminile”, ma secondo me è vero solo in parte, perché il film è soprattutto una commedia per ragazzine. Il giudizio più entusiasta su questa pellicola viene da Piero Farinotti che concede due 131 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stelle con questa motivazione: “Una divertente e brava Donatela Rettore improvvisata attrice”. Umberto Lenzi alcuni anni fa mi rilasciò una dichiarazione sul film: “Mi fu presentato un copione puerile e scipito, che in parte riscrissi con Giorgio Mariuzzo. Secondo me la Rettore era molto dotata come attrice, ma non era facile lavorare con lei perché era una persona molto piena di sé. Le scene del film girate a New York solo le sole che mi abbiano veramente soddisfatto. Il problema di quel film erano i due protagonisti maschili, e la squinzia che interpretava la sorella: tutti imposti dai finanziatori, gente digiuna di cinema. Un disastro. Per fortuna avevo la Perego e la Borboni a bilanciare un cast decisamente zoppo. Ma se ricorda i musicarelli di quel periodo, questa Cicciabomba non sfigurava affatto”.

Incontro nell’ultimo paradiso (1982) Incontro nell’ultimo paradiso (1982) è un altro film alimentare di Lenzi che però conserva alcuni motivi di interesse, non fosse altro per il fatto che la VHS a suo tempo era diventata una sorta di rarità per collezionisti. Per vederla me la dovetti aggiudicare nel corso di un’asta bandita su E-bay. Il soggetto del film è un’idea originale di Giovanni Lombardo Radice e Marina Garroni che lo sceneggiano e realizzano pure i pessimi dialoghi. Le ottime scenografie e i costumi sono di Angelo Santucci, il rapido montaggio è dell’esperto Vincenzo Tomassi, mentre la suggestiva fotografia tropicale è di Giovanni Bergamini. Il commento musicale – romantico e sdolcinato stile Laguna Blu – è di Budy-Maglione, con il complesso Victoria che canta As the night di Sundance. Interpreti: Sabrina Siani (il film è un inno alle sue grazie), Rodolfo Bigotti, Mario Pedone, Renato Miracco, Sal Borgese e Wai Laung. Diciamo subito che la trama ricalca molti vecchi film esoticoavventurosi, ma la sua originalità sta nelle varianti umoristiche che spesso rasentano il trash. Il film è girato ai tropici, per la precisione a Santo Domingo, ma a un certo punto c’è la finzione di trovarsi all’interno della foresta amazzonica. A questo proposito alcuni anni fa Lenzi mi confidò: “Il film è girato a Santo Domingo, ma figura essere un posto immaginario: l’isola di Manioca, dove ovviamente ci sono serpenti, elefanti, tutte cose che ai Caraibi non si trovano. Il titolo originale del film doveva essere La figlia della giungla, che venne stupidamente cambiato dai distributori. Le scene con gli animali furono gi132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rate altrove, quelle con elefanti in Italia”. La location esotica è molto ben fotografata, tra spiagge tropicali bianchissime, iguana, serpenti, scimmie e pappagalli multicolori. Ringo (Bigotti) e Butch (Miracco) sono due improbabili turisti americani alla scoperta di isole tropicali popolate da finti indigeni che si esibiscono per gli stranieri. I due ragazzi si stancano presto di visitare città e attrazioni artificiali, perciò decidono di risalire il fiume alla scoperta di luoghi inesplorati. Nella foresta incontrano una tribù di selvaggi che dovrebbero essere cannibali, ma non mangiano nessuno e in compenso sono sedotti dal potere di un accendino. Il maggior pericolo al villaggio indigeno è solo una brutta megera che vuole andare a letto con Ringo. I ragazzi fuggono dai selvaggi quando arrivano i banditi capitanati dal francese Duprè (Sal Borgese) che sono a caccia di diamanti. Ringo e Butch incontrano una seducente Tarzan interpretata da Sabrina Siani – starlet del fantasy all’italiana – che indossa un costume ridottissimo. I ragazzi scoprono che la ragazza si chiama Susan, è l’unica superstite di un incidente aereo e vive nella foresta dall’età di tre anni. Entrambi si innamorano di Susan, che però preferisce Butch e il loro amore giunge a compimento dopo un paio di scene stile Laguna blu. Nel comico finale Butch si getta persino dall’elicottero per restare insieme alla ragazza. Il punto centrale del film si svolge nella foresta dove assistiamo a una lotta tra i due americani e la gang dei comici cattivi capitanata da Duprè. In ballo c’è una fortuna in smeraldi che la ragazza e gli indigeni del villaggio devono difendere. I ragazzi hanno la meglio, si prendono i diamanti e riescono a scappare con un elicottero fermo da vent’anni, alimentandolo con petrolio trovato nel fiume. Il cattivo Duprè è catturato e Ringo lo porta in galera intrappolandolo in una rete che spenzola dall’elicottero. Tutto molto fumettistico. Nelle ultime sequenze vediamo Ringo, Butch e Susan di nuovo insieme a New York: la ragazza è tornata nel mondo civile e adesso indossa jeans alla moda. La location esotica è il piatto forte del film e il regista utilizza le foreste tropicali dominicane per far credere che ci troviamo nella foresta amazzonica. Sono interessanti anche le scene che illustrano la vita locale di una città dominicana e immortalano il venditore di granizado, il colore di un bar tropicale e le auto stile anni Cinquanta. Spettacoli organizzati per i turisti ci mostrano anche le danze tribali dominicane che accompagnano le evocazioni dei morti nei riti vudu. La parte girata sul fiume presenta le baracche dove vive la povera gente e per contrasto una lussureggiante vegetazione ripresa con una stupenda fotografia aerea. Questo film contamina mondo movie, cannibalico, avventuroso puro, esotico e a tratti pure il comico alla 133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Bud Spencer e Terence Hill. Purtroppo ci sono alcune situazioni che indicano la penuria di mezzi economici, perché quando la barca dei ragazzi si capovolge a causa delle cascate, il trucco è modesto e lo spettatore si rende conto che non si tratta di vere rapide… L’incontro con i selvaggi fa pensare ai vecchi cannibal movie di Lenzi anche perché gli indigeni si presentano sporchi di fango e minacciosi. Lo spettatore si attenderebbe qualche parte truculenta o avventurosa e invece si cade subito nel comico più trash. I selvaggi sono spaventati da un accendino e l’unico sacrificio che chiedono a Ringo è quello di andare a letto con una brutta megera. Il comico prende il sopravvento anche quando i ragazzi vengono messi al palo e si salvano solo perché arriva il cattivo Duprè a caccia di smeraldi. La banda dei criminali è davvero degna del miglior fumetto di Alan Ford: il capo ha un occhio solo, un altro è balbuziente e l’ultimo è un ciccione poco intelligente. La fuga nella giungla dà il via a un’altra parte stile mondo movie con elefanti (a Santo Domingo non ci sono, ma qui la location è fantastica), scimmie e pappagalli. Quando i ragazzi incontrano Susan, la ragazza - Tarzan che indossa un succinto bikini, viene naturale andare con la memoria ai vecchi prodotti della Romana Film di Fortunato Misiano. Mi riferisco a quelle bizzarre pellicole oscillanti tra esotismo ed erotismo come Gungala la vergine della giungla (1967), Samoa regina della giungla (1967), Tarzana sesso selvaggio (1969). Tutte pellicole molto simili nella trama e costruite intorno alle nudità, discrete per la verità, delle avvenenti protagoniste. Gungala la vergine della giungla (1967) di Romano Ferrara è il primo di questi film sexy africani ed è interpretato da Kitty Swan che lavorerà anche in Gungala la pantera nuda, girato da Ruggero Deodato (1968). Troveremo nei panni delle ragazze selvagge anche due attrici che faranno la futura commedia scollacciata italiana: Edwige Fenech (in Samoa regina della giungla) e Femi Benussi (Tarzana sesso selvaggio). Tutti film che a livello di scene erotiche promettono molto di più di quanto mantengono. Samoa regina della giungla venne girato nel 1968 da Guido Malatesta, su soggetto e sceneggiatura di Gianfranco Clerici, con un budget così irrisorio che lo dovettero infarcire di documentari naturalistici sul Borneo per garantire una durata di novanta minuti. Il film, nonostante si avvalga della presenza di Edwige Fenech e Femi Benussi, non accontenta neppure la vista dello spettatore. La coppia Malatesta-Clerici si ripete nel 1969 con Tarzana sesso selvaggio, che fa il verso al film di Deodato copiando lo spunto della ricca ereditiera perduta nella giungla (Tarzana-Benussi) e imbastendo il solito scontro tra buoni e cattivi in mezzo alla foresta. Meno rilevanti sono altre due pellicole di imitazione 134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che cavalcavano l’onda del successo della serie Gungala. La prima è Luana la figlia della foresta vergine (1968), diretta e prodotta da Roberto Infascelli con protagonista la vietnamita Mei Chen. La seconda è Eva la venere selvaggia (1968) diretta da Roberto Mauri con la bella brasiliana Esmeralda Barrios, molto attiva nel cinema italiano anni Settanta. Umberto Lenzi pare voler fare una sorta di citazione cinefila a queste opere del passato e di sicuro Incontro nell’ultimo paradiso ha molte più cose in comune con i vecchi film sexy africani di quante ne abbia con Laguna blu. Il paragone tra la Sabrina Siani nei panni di Susan e Kitty Swan che interpreta Gungala o Femi Benussi che veste il costume di Tarzana viene spontaneo. Il film di Lenzi è molto castigato e la trama da fumetto di avventura abbastanza scontata lascia spazio solo a casti amoreggiamenti. Sabrina Siani sfoggia un ridotto bikini con un audace perizoma che mette in risalto un abbondante fondoschiena. L’attrice non deve parlare molto perché da buona selvaggia non conosce la nostra lingua e allora si limita a saltare da una liana all’altra, nuota, accarezza la sua scimmia (che si chiama Sita!) e vive sopra un albero. Vediamo diverse sequenze dove mostra una bella mise con il seno nudo e intorno a lei ci sono ippopotami e fenicotteri rosa. La musica suadente ricorda Laguna blu e i ragazzi la osservano come una dea delle acque che esce bagnata e seminuda dal fiume. L’interpretazione di Sabrina Siani è sufficiente, anche se le sue pose da selvaggia, il grido da Tarzan e i movimenti a scatti nella giungla fanno un po’ sorridere. Gli attori maschi sono pessimi, soprattutto Rodolfo Bigotti, che ricordiamo anche ne La Liceale con Gloria Guida. Vorrebbe risultare simpatico ma le battute che deve recitare lo rendono odioso e insopportabile. Meglio Renato Miracco, pure se anche lui non è il massimo dello spontaneo e lascia a desiderare quando dovrebbe far vedere il suo trasporto amoroso verso la bella Siani. Sal Borgese è un divertente bandito trash che sembra uscito da una caricatura di Magnus e Bunker, però risulta gradevole. Le parti deboli del film sono la sceneggiatura, il soggetto e i dialoghi, mentre una regia accurata e una fotografia ben fatta lo salvano dal disastro più totale. Dialoghi trash come: “Tarzan non scopa Jane?”, “Non ha l’aria molto sveglia però c’ha un culo…”, “Tu Jane… io Tarzan”, “Che lo hai letto nel Libro della giungla?”, “E tu Sita ce l’hai il fidanzato?”, ce li potevano pure risparmiare. Le sequenze erotiche diventano trash e ci divertiamo quando Butch insegna a Susan come si bacia, ma lei non apprende molto bene. In compenso comincia a parlare la nostra lingua e la prima cosa che dice è “culo”! Diciamocelo pure che la cosa più bella del film è Sabrina Siani e che 135 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la sua visione in bikini ridotto può valere ancora il prezzo del film, soprattutto quando cavalca un elefante con grande naturalezza. Il filone cannibal torna alla ribalta con le scene di animali mostruosi quando un finto ragno gigante minaccia l’incolumità di Ringo e la Siani provvede. La tensione avventurosa non esiste perché irrompono sempre nuove situazioni comiche a stemperare l’azione. Molto trash è l’addestramento dei selvaggi alla guerra come se fossero una truppa dell’esercito, ma pure il tetto della casa della Siani che cade sui banditi non è da meno. Citiamo anche la scimmia che colpisce i criminali con la chiave inglese e una catapulta che viene esperimentata da Butch a suo danno. A un certo punto della pellicola c’è un esplicito riferimento a Laguna blu di Randal Kleiser (1980), quando Susan invita Butch nel fiume e lui grida: “Laguna blu, arrivo!”. Sabrina Siani presenta una vaga somiglianza con Brooke Shields, soprattutto perché entrambe sono molto belle ma non sono certo il massimo dell’erotismo. Renato Miracco non ha niente di Cristopher Atkins, ma ci prova lo stesso a rifare la scena d’amore acquatico con la sua ragazza. Si tratta di una parte romantica piuttosto noiosa che mostra la Siani a seno nudo, qualche bacio in un sottofondo di musica romantica, qualche scherzo acquatico e poco altro. Il finale scade ancora di più nel comico-trash con i banditi che catturano la Siani e Borgese se la vorrebbe fare, ma non ci riesce. Finisce a scazzottate e pare d’essere nella sceneggiatura di un film di Bud Spencer e Terence Hill con dialoghi da fumetto tipo: “Presto o tardi ci rincontreremo!”. L’ultima scena mette la firma del trash con un “W la mela!” di Bigotti che palpa il sedere alla Siani in una strada di New York… Paolo Mereghetti concede una stella al film e conclude: “Stanco Lenzi alimentare che ibrida il cannibal movie con il comico-esotico e qualche innocente topless. Un film per capitalizzare sulle grazie di una starlet che esordì con Jess Franco e poi scomparve nel nulla”. Marco Giusti lo definisce “un disastroso sottotarzan che dovrebbe portare al cinema gli spettatori giovani di Laguna blu… più comicarolo che erotico o avventuroso”. In parte condivido le stroncature dei due critici ma ci tengo a porre l’accento sull’originalità di una pellicola che non ha niente a che vedere con Laguna blu, se non una minima atmosfera musicale e qualche sequenza d’amoreggiamento acquatico. Incontro nell’ultimo paradiso è importante perché produce una contaminazione di generi che va dal cannibal movie all’esotico-erotico, passando per avventuroso, comico, mondo movie e soprattutto la serie dei Tarzan in gonnella di fine anni Sessanta.

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La guerra del ferro (Ironmaster) (1983) Ironmaster - la guerra del ferro (Lenzi si firma Humphrey Milestone) è un film cavernicolo nato sull’onda del successo de La guerra del fuoco (1981) di Jean-Jacqes Annaud. Si racconta la storia di due cavernicoli rivali (Pasco ed Eastman) che lottano per ereditare il titolo di capotribù, ma la scoperta del ferro da parte del secondo sovverte gli equilibri e permette la costruzione di armi mortali. Gli autori inseriscono elementi di pacifismo in un contesto preistorico, ma è evidente l’ispirazione al precedente film francese. Pamela Prati è un bel vedere come cavernicola in abiti discinti, anche se viene doppiata per supplire a evidenti limiti recitativi. Tra l’altro fa una brutta fine e Umberto Lenzi giura di aver girato undici volte la scena truce che la riguarda. Elvire Audray è molto carina, Luigi Montefiori è ai limiti del trash con il trucco che gli fanno indossare, Sam Pasco è un ignoto culturista - cavernicolo. I dialoghi sono pessimi, la ricostruzione realizzata con poche lire, ricorrendo a parrucche ridicole e costumi improponibili. Una via di mezzo tra Conan il barbaro e La guerra del fuoco, un ibrido irrisolto e incasinato tra due modelli. Le musiche sono di Guido e Maurizio DeAngelis. Circola su dvd con il titolo di Vindicator. Umberto Lenzi si difende: “Un film che non parte da me. Vengo chiamato per girarlo e faccio presente che la sceneggiatura non mi piace: o si fa La guerra del fuoco o si fa Conan il barbaro, non un ibrido tra i due modelli”. Tutto vero. Uscito in Francia come La guerre du fer, in Germania Er - Starker als feuer und eisen, in Spagna La guerra del mierro, per il mercato anglofono Ironmaster. Dardano Sacchetti, uno degli sceneggiatori riportati dai titoli, da me avvicinato ricorda: “So poco di questo film. Era uno script di Cavallone (che non ho mai incontrato) e che fu passato da Martino a Lenzi. Mi chiamarono per fare una revisione, era chiaramente un clone del film francese, puntava su cose un po’ più realistiche, forse sesso… fu fatto un brutto pasticcio perché Lenzi lo prese per un film d’avventura… tutti parlavano perfettamente in lingua invece di fare go-go-glu”. La critica. Marco Giusti (Stracult): “Bollato dai più come clava movie ridicolo nato in poche settimane sulla scia del successo de La guerra del fuoco di Jean-Jacques Annaud, vanta un eroe, Sam Pasco (ma chi è?) poco credibile con muscoli gonfiati. Elvire Audray, allora ancora molto carina, fresca di Assassinio al cimitero etrusco (sempre per la Medusa), un cattivissimo Eastman - Montefiori nei panni del capo fascistoide Vood che vuole conquistare la terra, l’eroina del trash italiano Pamela Prati che ha un gran 137 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

numero di morte (Lenzi giura di aver girato undici volte quella scena). C’è anche una carica di bisonti girata nello stesso parco nazionale americano dove è stato ambientato Balla coi lupi. A dieci gradi sotto zero e con un vento che fischiava a centocinquanta chilometri all’ora. Il film è un caos. Le tribù rivali, quella mezzo lebbrosa, quella degli uomini scimmia, i pacifisti guidati da William Berger e il terribile Eastman col faccione incorniciato dalla testa d’orso fanno un certo effetto. Per non parlare dei nostri clava boys come Nello Pazzafini e Giovanni Cianfriglia. Purtroppo le battute sono terribili, si va da L’impazienza è figlia dell’entusiasmo a Un giorno diventeremo padroni del mondo. Megalomani”. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Cavernicoli rivali, il giovane Ela (Pasco) e l’esiliato Vut (Eastman) si contendono l’eredità di capo tribù: e quando Vut scopre il ferro con cui forgiare armi mortali, pianifica la sua controffensiva. Un ricalco nostrano dagli improbabili sottotesti pacifisti in scia al successo de La guerra del fuoco. Incredibili uomini scimmia, comparse imparruccate, filtri per occultare i set campagnoli e musiche da Sandokan. Ridicolo per la povertà di mezzi e la demenza dei dialoghi, ma con momenti a loro modo memorabili. La Prati discinta e doppiata è da culto almeno quanto Montefiori con un leone di peluche in testa a mo’ di elmo”. Morandini concede una stella e mezzo, Farinotti soltanto una, ma entrambi non sprecano motivazioni. In definitiva una stroncatura unanime per un film di pura imitazione che neppure Lenzi avrebbe voluto fare e che disprezzava con tutto se stesso. Da salvare il mestiere del regista e le scene di pura azione, da sempre suo marchio d’autore.

Tre Bellici minori anni Ottanta Citiamo in rapida sequenza – per dovere di completezza – tre bellici minori che Lenzi gira nel biennio 1985- 86, opere dimenticabili nel novero della sua produzione. Parte della citica, per alcuni anni la critica ha attribuito a Lenzi altri due film di guerra: Striker (1983) e Striker 2 (1987), in realtà girati da Enzo G. Castellari sotto lo pseudonimo di Stephen M. Andrews, che il regista maremmano ha soltanto scritto e sceneggiato con la collaborazione di Tito Carpi. I cinque del condor - Squadra selvaggia (1985) - In breve la trama. Un giovane capo sudamericano in esilio, è contattato da un'importante multinazionale che gli offre la possibilità di ritornare nel suo paese e rovesciare il 138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nuovo governo, basato su una dittatura sanguinosa e crudele. La multinazionale non è mossa da motivi umanitari ma vuole soltanto avere l’opportunità di sfruttare in esclusiva alcune ricchissime miniere. Sembra un buon affare per entrambi, ma il capo si rifiuta di prendere parte all’operazione perché suo figlio è tenuto come ostaggio. Decide di reclutare un gruppo di mercenari, per poter liberare il ragazzo, ma non tutto andrà per il verso giusto. Troviamo in rete solo il commento del Davinotti, tra i pochi ad aver avuto il coraggio di vederlo: “Tardo e poveristico avventuroso italiano, più esotico che bellico. Meno atrocità del solito per un film che aspira evidentemente a una dignità superiore alla comune exploitation dell’epoca (tra cannibalismo e post-atomico), ma resta innocuo (in ogni senso). Sembrerebbe girato dieci anni prima, se solo i volti degli attori (Sabato, Rassimov, Borghese) non fossero così impietosamente invecchiati da ricordarci l’epoca in cui siamo. Lenzi dirige correttamente, con stile quasi da western”. Tempi di guerra (1986) - In rete è reperibile una scarna sintesi, corredata da giudizio sferzante: “Nel 1945, agenti americani e partigiani jugoslavi collaborano per rapire uno scienziato svedese al servizio dei tedeschi. Grossolano e ripetitivo”. Un ponte per l’inferno (1987) - Sintesi della trama. Seconda guerra mondiale. Un americano, un italiano e un austriaco disertore, fuggono da un campo tedesco nella Jugoslavia sconvolta dalla lotta tra i partigiani e gli occupanti nazisti. I tre pensano soprattutto a salvare la pelle, ma beffati dall’affascinante slava che fa loro da guida falliscono il tentativo di spogliare un monastero che custodisce un tesoro e rimangono sui monti della Bosnia a combattere nei ranghi della resistenza. Atmosfera e personaggi da western - spaghetti trasferiti in uno scenario più vendibile nel 1986, ma il film resta modesto. Umberto Lenzi amava il suo cinema di guerra ma non sono certo questi tre prodotti minori le pellicole che difendeva a spada tratta. Quando Lenzi parlava del suo cinema bellico da vedere si riferiva a Attentato ai tre grandi (1967), La legione dei dannati (1969), Il grande attacco (1978), e Contro 4 bandiere (1979), piccoli capolavori della cinematografia europea che tentano di comporre un grande affresco della Seconda guerra mondiale. Il rammarico di Lenzi – esplicitato in diverse interviste reperibili anche in rete – è sempre stato quello di venir ricordato per i film cannibalici invece che per alcune opere che riteneva fondamentali.

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La casa 3 (1988) La casa 3 - Ghosthouse è l’horror cinematografico più riuscito di Umberto Lenzi, pure se il titolo trae in inganno perché la pellicola non ha niente a che vedere con La casa 1 (1983) e 2 (1987) di Sam Raimi. Il vero sequel de La casa 2 è L’armata delle tenebre (1992), diretto sempre dal regista statunitense, mentre il ciclo apocrifo de La casa è un’idea di Aristide Massaccesi che con la Filmirage produce tre film diretti da Lenzi, Laurenti (1989) e Fragasso (1990) che sfruttano il successo di Raimi. La casa 3 è un film scritto e sceneggiato da Umberto Lenzi che per la stesura dei dialoghi e la narrazione delle scene si avvale della collaborazione di Cynthia McGavin. Franco Delli Colli è il direttore di una fotografia cupa e inquietante, la musica ossessiva è di Piero Montanari (Marco Giusti e Antonio Tentori sostengono che sia di Carlo Maria Cordio ma non è vero). Effetti speciali da manuale a opera di Dan Makiansky, Robert Gould e Roland Park, ma pure il montaggio serrato di Rossana Landi e le scenografie angoscianti di Massimo Lentini valorizzano il film. Interpreti principali sono Lara Wendel e Greg Scott, ma rivestono significativi ruoli di contorno anche Mary Sellers, Kate Silver, Ron Houk e soprattutto il feticcio damatiano Donal O’ Brien. La storia parte da un terribile antefatto che vede la piccola Henryette chiusa in cantina in compagnia del suo pupazzo a forma di clown. Il padre la punisce perché ha ucciso un gatto con le forbici e i genitori discutono sulla sua educazione, ma in quel momento vengono uccisi da oscure presenze che fanno esplodere lampade e specchi. Una mano fa cadere un’ascia sulla testa dell’uomo e un coltello trafigge il collo della donna, mentre tutto intorno esplode e i vetri vanno in frantumi. La partenza è subito splatter con sequenze suggestive che richiamano nenie infantili, pagliacci che sorridono inquietanti, spiriti e presenze oscure. L’atmosfera demoniaca è la sola cosa che il film di Lenzi ha in comune con La casa di Sam Raimi. Dopo l’antefatto, il regista fa un salto temporale di vent’anni e ci presenta Paul e Martha (Lara Wendel e Greg Scott), una coppia di radioamatori che intercetta una voce terrorizzata. Si entra nel vivo del film quando Paul e Martha individuano la casa maledetta e sono perseguitati dal fantasma della bambina e da un pupazzo, insieme agli altri ragazzi conosciuti sul posto. La casa diventa il luogo di atroci omicidi che si fermano solo quando Paul riesce a bruciare il corpo della bambina insieme all’infernale giocattolo. Il doppio finale riporta il mistero in primo piano, perché la maledizione pare non fi140 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nire quando in una vetrina appare un pupazzo simile a quello della bambina. Il film è caratterizzato da un ottimo uso della suspense, dalla recitazione di attori statunitensi bravi e preparati (su tutti la Wendel e Scott) e da un uso della musica infantile a fini orrorifici che ricorda certi film di Dario Argento. Donal O’ Brien (attore feticcio di Massaccesi) è ottimo nel ruolo del vecchio storpio che potrebbe essere il colpevole dei delitti, se non ci fosse una presenza soprannaturale. La casa dei delitti è cadente e abbandonata, all’interno i mobili sono coperti da lenzuola, ci sono coltelli e calendari rimasti fermi alla data dei tragici fatti. Vediamo ottime sequenze sottolineate dalla nenia infantile che annuncia i delitti, ma subito dopo esplodono bottiglie, partono scintille di fuoco, fiamme, lavatrici che si accendono da sole e all’interno mostrano un volto umano. Le apparizioni della ragazzina con il suo pupazzo-clown sono terrificanti: una volta la sua immagine viene trasmessa in televisione, un’altra si presenta con occhi sanguinanti, un’altra ancora genera fenomeni da poltergeist con gli oggetti che volano e una roulotte che si muove. Tremende le scene che mettono in primo piano omicidi soprannaturali commessi dal fantasma della bambina e dal suo pupazzo. Una pala di un ventilatore si stacca e si conficca nel collo di un ragazzo, un martello giustizia il becchino, O’ Brien finisce impiccato, un altro ragazzo sprofonda nel pavimento, si trova in mezzo alla calce viva e viene ucciso da una coltellata. Parecchie scene sono caratterizzate da grande suspense, introdotte dalle apparizioni della bambina che accarezza il pagliaccio, immersa in un fascio di luce. La bambina è morta di fame nello scantinato di quella casa dopo che i genitori sono stati uccisi, e adesso si vendica insieme al pupazzo come un fantasma che non trova pace. Una sequenza memorabile vede protagonista un’ottima Lara Wendel terrorizzata dalla comparsa di Henryette e soprattutto dal pupazzo che assume un’espressione terrificante. La stanza della bambina si trasforma in un luogo dove le presenze demoniache si danno appuntamento, i giochi infantili volano in mezzo alle piume dei cuscini e in sottofondo sentiamo una nenia infernale. Alla fine il pupazzo aggredisce e tenta di soffocare la Wendel, ma non ci riesce per il tempestivo arrivo del compagno. Il maggior difetto della pellicola sta nei dialoghi macchinosi, ma il ritmo è notevole e lo spettatore in un crescendo di tensione assiste a omicidi sempre più efferati. Lo stile della pellicola è simile a prodotti come Venerdì 13, con la sola differenza che i delitti sono commessi da presenze soprannaturali e non da un folle serial killer. L’ambientazione statunitense è appropriata, ma anche gli omicidi che si 141 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

susseguono all’interno di una stessa unità di tempo e di luogo sono credibili e ricchi di effetti splatter. Il pupazzo-clown è demoniaco quanto basta e quel suo cambiare di espressione tra le braccia della bambina anticipa gli omicidi efferati e produce angoscia. Lenzi scrive e realizza un horror claustrofobico che ha come leitmotiv una nenia infantile ossessiva e cantilenante, ma nel corso della pellicola non mancano rubinetti che perdono sangue, oggetti che esplodono e soprattutto una bambina fantasma che è la causa degli orrori. La storia si ispira a una vecchia leggenda sui fantasmi che non abbandonerebbero le case dove hanno perso la vita in modo violento e crudele. Un film che si caratterizza per un ottimo finale a colpi di suspense quando Paul brucia il corpo di Henryette appena in tempo per evitare una nuova vittima. Citiamo alcune ottime sequenze horror con una mano infangata, un ragno gigantesco che passeggia sul corpo di una ragazza, una mano che esce dal muro e cerca di colpire, un dobermann che terrorizza e infine una gigantesca morte armata di coltello con il teschio ricoperto da vermi. Il fuoco liberatore fa sparire tutto e il terrore sembra finito, ma come in ogni film italiano di quel periodo non è così. Il pupazzo ha ancora i suoi poteri e lo dimostrerà. Non concordiamo con la misera stella concessa da Mereghetti che definisce il film prevedibile e derivativo, ma riteniamo la pellicola degna di considerazione anche perché il regista ha saputo contaminare molti sottogeneri dell’horror. La casa 3 è un film di spiriti e maledizioni che mette in primo piano terribili omicidi soprannaturali commessi da un killer imprendibile, ma pure situazioni da Poltergeist e da bambine malefiche.

La casa delle anime erranti (1988) - La casa del sortilegio (1989) Torniamo all’horror puro e parliamo di un ciclo televisivo che ha come tema le case infestate. I registi scelti per un breve ciclo di quattro film sono Lucio Fulci (La casa nel tempo e La dolce casa degli orrori) e Umberto Lenzi (La casa delle anime erranti e La casa del sortilegio). Il ciclo si doveva intitolare Le case maledette e noi lo abbiamo apprezzato grazie alla passione dei redattori di Nocturno che hanno distribuito i quattro film nel circuito Home Video. La casa delle anime erranti (1988) è il meno felice dei due lavori televisivi. La pellicola nasce da un soggetto di Umberto Lenzi che si occupa pure della sceneggiatura, la fotografia cupa e notturna è di Giancarlo Ferrando, 142 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la musica intensa e sepolcrale di Claudio Simonetti (che si firma Claude King) e il montaggio serrato dell’esperto Alberto Moriani. Segnalo gli ottimi effetti speciali curati da Giuseppe Ferranti che da soli valgono la visione del film. Produce Reteitalia con la collaborazione di Dania Film e Feature Film. Interpreti principali sono Joseph Alan Johnson, Stefania Orsola Garello, Matteo Gazzolo (che fa rimpiangere non poco il padre Nando), Laurentina Guidotti, Gianluigi Fogacci, Yamanouchi Haruhiko, Licia Colò (prima di diventare presentatrice di viaggi televisivi) e Costantino Meloni. La storia è ambientato in Valtellina, dalle parti di Bormio, in un vecchio albergo abbandonato e infestato dagli spiriti delle persone massacrate che si accaniscono su un gruppo di ragazzi. La pellicola inizia con alcune sequenze oniriche molto interessanti che mostrano le facoltà medianiche di Carla. I suoi sogni sono popolati di incubi, visioni orribili di un giapponese che colpisce una statua di Buddha, uno scheletro in carrozzella, un ragno gigantesco, un bambino che cammina come un sonnambulo. I protagonisti della vicenda sono cinque studenti di geologia e un bambino che li accompagna. L’ambientazione è curata, il viaggio notturno del gruppo di amici durante una tempesta di vento è sottolineato da una musica intensa che suscita una tensione progressiva. I ragazzi alloggiano all’Hotel dell’Eremita, un sinistro albergo dove i calendari sono fermi al 1969 e il padrone è uno strano personaggio con lo sguardo fisso nel vuoto. Per questo Carla (la medium) è agitata, sente voci e lamenti nel corridoio, esplora le stanze in un’atmosfera lugubre. In cantina ci sono ragnatele gigantesche e un vecchio televisore trasmette le immagini di un delitto avvenuto nell’albergo: un folle uccide una donna e un bambino a colpi di mannaia. Subito dopo la televisione esplode e la ragazza grida terrorizzata. Un’altra sequenza interessante vede Mary finire rinchiusa in un freezer dove pendono dai ganci due cadaveri, ma per fortuna i compagni riescono a salvarla. In camera di Gianluca (il bambino) cade sangue dal soffitto, e alcuni ragni giganteschi (una costante dei film horror italiani di quel periodo) lo aggrediscono mentre lui grida terrorizzato. Sono tutti episodi misteriosi che sconvolgono il gruppo di amici, ma il momento più debole del film comincia quando Guido fa il saccente e dà il via a una serie di pessimi dialoghi sull’autosuggestione. L’albergo è terrificante: i telefoni sono staccati, le camere si presentano nel più completo abbandono, pendono ragnatele da ogni angolo e solo le stanze dei ragazzi sono abitate. Nel parco dell’albergo si trova ancora sangue e pure un medaglione datato 1969 che contribuisce a infittire il mistero. Quando Kevin e Massimo vanno in paese e si separano dagli altri, si verifi143 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cano i primi tragici eventi. Carla rivede la scena del folle che ha ucciso una donna e il suo bambino, e grazie a facoltà medianiche capta messaggi che vengono dal passato. Il primo a morire è Gianluca che viene ingannato dal fantasma del bambino morto, sale in soffitta dove vede un pupazzo meccanico e il bambino che piange. Orribile la fine di Gianluca che finisce con la testa mozzata nella lavatrice in un profluvio di effetti speciali: la testa del bambino viene staccata di netto e questa sequenza splatter è una delle perle della pellicola. Kevin (il pessimo attore Matteo Gazzolo) intanto apprende la verità su quello che tutti chiamano l’hotel degli orrori. Licia Colò, nei panni di una giornalista televisiva (quello che diventerà nella realtà), racconta che il padrone, il figlio e la nuora uccidevano gli ospiti, fino a quando non vennero arrestati. Il padre si suicidò prima del processo, il figlio e la nuora sono morti e l’albergo è stato chiuso nel 1969. La storia è avvincente e si basa sull’antica credenza che i morti per cause violente sopravvivano sotto forma di spiriti nelle case dove non hanno trovato la pace. Il problema maggiore del film sta nella recitazione degli attori, che soffrono pure la presenza di dialoghi pesanti e artificiosi (espressioni ridondanti come: “Non ti angustiare” ne sono un esempio). Guido è il fumetto dello scettico a oltranza e non è per niente credibile come personaggio, così come Kevin è la caratterizzazione surreale dell’eroe che non si ferma di fronte a niente. Il personaggio meglio riuscito è quello della medium, che continua a vedere delitti orribili come quando appare il padrone che con la scure uccide un monaco buddista. Il film assomiglia a uno Shining italiano, sia per l’albergo in montagna che per il tema portante degli spiriti che colpiscono. Le aggressioni continuano, si coglie l’occasione per citare Psycho con una scena di coltellata nella doccia alla quale segue una testa mozzata da un colpo di scure. La seconda vittima è Mary. Kevin scopre che le teste delle vittime dei folli assassini non sono mai state ritrovate ed è quello il motivo del crescendo di terrore. I morti sono senza pace tra le mura dell’albergo. La suspense è il fiore all’occhiello di un film che prosegue tra teste mozzate che cadono, auto che non partono, bambini fantasma che ossessionano. La casa è infestata, ormai anche i più scettici se ne sono accorti perché i morti compaiono a ripetizione e inseguono i vivi. Guido viene bloccato da una tagliola, Carla scappa da chi la tormenta, una mano saponificata tenta di catturarla, la testa di Mary cade in auto e la terrorizza, la radio si accende da sola e parla in tedesco. Gli effetti speciali gore la fanno da padrone con Guido che si trova la testa segata in due da una lama elettrica. Quando arrivano, Kevin e Massimo trovano Carla disperata e a quel punto la casa si ribella ai tre 144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

superstiti. La luce scompare, esplodono le lampadine, porte e finestre si chiudono ermeticamente. Gli effetti speciali sono di alto livello: la casa esplode in più parti, la nebbia avvolge i superstiti, la doccia butta sangue invece di acqua e il fuoco si sprigiona in più punti. Kevin cerca le teste dei morti con un metal detector e alla fine le trova murate in cantina in una cassa di metallo. C’è appena il tempo per vedere la testa di Massimo ghigliottinata da una finestra e l’arrivo di tutti i fantasmi che si gettano su Carla. Kevin brucia le teste e ferma l’orrore della casa infestata dando la pace ai defunti. Il doppio finale è un marchio di fabbrica dell’horror italiano e infatti due mesi dopo vediamo Kevin e Carla che parlano della brutta avventura. “Ne siamo fuori”, dicono. Non è così perché il bambino fantasma li guarda dall’alto di un palazzo. Da notare che in molti dialoghi il regista ci tiene a fare un discorso ecologista all’interno di una pellicola horror, come già aveva fatto in Incubo nella città contaminata. La casa del sortilegio (1989) (spesso citato come La casa dei sortilegi) è un horror d’atmosfera, di fattura pregiata, ed è un vero peccato che abbia avuto scarsa diffusione. Il soggetto è di Umberto Lenzi che si avvale di Gianfranco Clerici e Daniele Stroppa per la sceneggiatura. La fotografia cupa e notturna è opera del diligente Giancarlo Ferrando, mentre la musica è dell’argentiano Claudio Simonetti (che si firma Claude King). Interpreti: Andy J. Forest, Maria Giulia Cavalli, Sonia Petrovna, Maria Stella Musy, Paul Muller e Alberto Frasca. L’attrice anziana che interpreta la vecchia strega è niente meno che Maria Cumani Quasimodo, la vedova del poeta Salvatore Quasimodo, Premio Nobel per la Letteratura. La storia vede protagonista un uomo vittima di un incubo ricorrente che purtroppo per lui si trasforma in un’orribile realtà. Pure questa pellicola si caratterizza per atmosfere claustrofobiche da horror ossessivo e inquietante, e vive i momenti migliori nelle numerose sequenze splatter. Lenzi dirige attori ben calati nella parte, soprattutto il protagonista Andy J. Forest che tratteggia a dovere la figura di un uomo perseguitato da una strega. La pellicola è ambientata in una villa di campagna nei pressi di Firenze e comincia con il sogno ricorrente di Luca, perseguitato da un’orribile strega che getta in un paiolo la sua testa mozzata. La strega è Maria Giulia Cavalli che Lenzi trucca a dovere per farla sembrare una megera senza denti dall’aspetto inquietante. Luca è un giornalista e la cognata Elsa è il medico che gli consiglia un periodo di riposo, pure la moglie Marta decide di andare in campagna per recuperare un matrimonio che va male. Il viaggio in auto verso la casa dove passeranno le vacanze fa registrare una bella sequenza splatter con uno spettacolare 145 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

incidente d’auto e due uomini che muoiono nel fuoristrada. La casa dove Luca e Marta decidono di vivere per un certo periodo è la stessa che da sei mesi appare in sogno al marito. Il padrone è un pianista inglese cieco che vive là insieme alla nipote Sharon e ci immergiamo nel mistero quando lui parla di un sortilegio legato a quel posto. Poco dopo chiarirà che vent’anni prima all’interno delle pareti trovarono lo scheletro di una giovane donna del 1600: le ossa di una strega. Il film è un horror soprannaturale, una storia di streghe che tornano dal passato e Lenzi è bravo a creare un’atmosfera credibile. Luca vede dalla finestra della camera che la strega del suo incubo colpisce un prete con una spranga di ferro, una musica sepolcrale sottolinea l’azione, ma quando scende in giardino c’è solo un gatto nero con una zampa insanguinata. Il giorno dopo assisterà ai funerali del prete e tutti diranno che l’uomo è morto in un incidente stradale. Luca incontra Sharon, ma vede la moglie vagare come una sonnambula in giardino con una mano insanguinata e per questo sospetta subito di lei. Tutto il film vive di questa caccia alla strega che a un certo punto sembra essere Marta, ma sarebbe troppo facile. Gli effetti speciali sono validi, comprendono piume che volano, specchi che si rompono, vasi distrutti e la casa sconvolta da un vento surreale. Lenzi cita pure La visione del sabba di Marco Bellocchio (1998), film di grandi pretese ma senza dubbio peggiore di questo, perché troppo intellettuale. Alla villa arrivano anche la cognata Elsa e la figlia che si fa raggiungere di nascosto dal fidanzatino che sarà la seconda vittima. La notte è scossa da una fragorosa risata da strega, il ragazzo corre spaventato, incontra una civetta, sente ridere ancora e alla fine la strega lo colpisce più volte con un paio di cesoie. Il ragazzo finisce nel pozzo, mentre la strega si fa ammirare in tutta la sua bruttezza fatta di capelli bianchi e crespi, un volto raggrinzito e la bocca sdentata. Lo zio subisce un collasso, le piante della serra muoiono, resta solo puzzo di zolfo, la moglie di Luca sviene e si sospetta ancora di lei. Muore anche la figlia della cognata cercando il fidanzato che le appare più volte, ma è opera della strega che scatena inoltre assurdi fenomeni atmosferici. Un teschio oscilla come un pendolo, si odono grida, uno scheletro cattura la ragazza e la uccide con un coltellaccio. La testa della ragazza viene ritrovata mozzata nel pentolone ed è la mamma che la scopre, mentre Marta vaga per la casa con una carta insanguinata tra le mani. Altri fenomeni surreali ben descritti dal regista sono un’assurda nevicata in cantina e la ragazza che appare ancora una volta alla mamma. La prossima vittima è proprio Elsa che viene picconata al petto durante una passeggiata nel parco. Quando la moglie di Luca si trasforma in un gatto 146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nero, i sospetti diventano certezze e il marito è così sicuro della sua colpevolezza che la fa sbranare da un cane. Il pianista cieco si suicida con un colpo di pistola alla tempia e lascia una lettera per i carabinieri dove confessa di averli uccisi tutti lui per vecchi rancori. “La confessione è falsa” – dice il carabiniere – “perché nessuno crede più alle streghe”. Luca e Sharon vanno via insieme e finiscono per fare l’amore in un albergo, ma al risveglio la ragazza è sparita e l’uomo si mette alla ricerca. A questo punto Luca rivive il sogno che lo porta di nuovo alla casa dove in cucina trova la vera strega vicino al paiolo: non era la moglie, ma Sharon. L’incubo si avvera fino in fondo: uno scheletro con il teschio coperto da vermi decapita Luca e la sua testa finisce nel pentolone. La moglie era solo una sonnambula, mentre Sharon era la vera strega, partorita da una megera che la mise al mondo insieme a una serpe. Lo zio si era ucciso perché aveva intuito la verità e sapeva che anche la nonna di Sharon era una strega, bruciata viva nel fienile e murata dentro la casa.

Le porte dell’inferno (1988) Le porte dell’inferno (1988) fa parte di un altro ciclo di film televisivi intitolato Lucio Fulci presenta, usciti nel circuito Home Video. La pellicola è scritta e sceneggiata dallo stesso Lenzi che si avvale della collaborazione di Olga Pehar. La fotografia scura che ricrea un ambiente sotterraneo è di Sandro Mancori, la musica – cupa e angosciante – è del bravo Piero Montanari, il montaggio (un po’ fiacco) è di Vanio Amici, gli effetti speciali sono di Corridori. Tra gli interpreti brilla la vecchia gloria Giacomo Rossi Stuart e diligente è Barbara Cupisti. Paul Muller, Pietro Genuardi, Gaetano Russo, Andrea Damiano e Lorenzo Majnoni sono invece da dimenticare. La storia racconta di un gruppo di speleologi che svolge ricerche sotterranee in una zona di campagna dove ci sono i ruderi di una vecchia chiesa sconsacrata. Giacomo Rossi Stuart è il dottor Jones che capitana la spedizione e deve guidare il gruppo nel sottosuolo alla ricerca di Maurizio, che si trova in difficoltà. Vediamo anche noi gli incubi di Maurizio: un quadro di un frate che piange, un serpente, immagini orribili che si sovrappongono alle sue grida di aiuto. Alla spedizione si aggiungono due studenti che devono fare ricerche sul sottosuolo e conoscono bene la zona. “Stanno arrivando! Vogliono uccidermi!”, sono le ultime parole di Maurizio che stava leggendo Il nome della rosa di Umberto Eco: le pagine del libro mostrano ancora tracce di san147 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gue. Il film si svolge nel sottosuolo ed è girato (a budget molto ridotto) quasi tutto in interni cupi e oscuri che provocano nello spettatore un senso di claustrofobia. Si sprecano immagini di scheletri, ragnatele, topi, ragni giganti, lampade che saltano, corti circuiti, vermi sui teschi (marchio di fabbrica fulciano) e voci orrende di morti. Gli effetti speciali sono fatti in economia ma risultano efficaci e ingegnosi. Nella cripta dell’abbazia c’è la soluzione del mistero: sette monaci benedettini eretici per ordine di Berengario sono stati sepolti vivi nel 1289, ma le loro anime dannate risorgeranno dopo sette secoli per uccidere sette membri della progenie eretica. Siamo nel 1989, gli esploratori del sottosuolo sono proprio sette e nessuno di loro è cattolico, ma sono tutti eretici secondo la mentalità del 1300. La prima vittima è la studentessa che viene uccisa con un colpo di mannaia conficcato nel cranio, che resta diviso in due parti con un convincente effetto splatter. La mannaia si abbatte sulla donna per altre sei volte sino a maciullare il corpo senza pietà. Il suo amico resta prigioniero di una cella e subito dopo sette lame cadono dall’alto e si conficcano sul corpo. Eccezionale l’effetto splatter della lama che penetra nel bulbo oculare tra le grida di terrore di Barbara Cupisti. Ha inizio la vendetta dei sette monaci neri eretici che sono stati accusati di aver fornicato con il demonio e adesso risorgono per vendicarsi. I difetti più evidenti del film sono i dialoghi pessimi, la recitazione impostata e certe situazioni di sceneggiatura risolte in modo scolastico. Il ritmo della pellicola è piuttosto fiacco e spesso sembra che il regista voglia allungare il brodo infarcendo la storia di dialoghi retorici abbastanza inutili. Gli effetti speciali e la suspense creata incantano, e anche la storia è originale e avvincente. Nella trama si sente tutta la passione storica del regista. Maurizio è reso prigioniero da un gigantesco masso e quando i sette monaci si trasformano in ragni giganti lo uccidono al temine di una sequenza memorabile. Questa parte ricorda lo stile di Lucio Fulci che ha realizzato sequenze simili nell’ottimo Paura nella città dei morti viventi (1981). Un altro degli speleologi finisce ucciso in una cassa da morto con sette fioretti infilati nel corpo a forma di croce. I sette monaci neri si trasformano in ragni schifosi e possono assumere anche altre sembianze, ma non sappiamo quali. L’effetto speciale dei ragni è tra i migliori della pellicola, ma citerei anche la croce di fuoco che appare e scompare e una lunga scena tra le grotte in mezzo al fuoco. I monaci hanno attraversato le porte dell’inferno e adesso cercano vendetta. Quando arrivano i sospirati aiuti per i tre superstiti c’è il colpo di scena finale, perché si tratta dei monaci che hanno assunto sembianze umane. Bello il colpo di teatro e ottime pure le scene 148 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dell’eccidio che i terribili monaci dal volto annerito compiono per mezzo di pugnali. Il doppio finale è dovuto, come in ogni buon horror italiano, e infatti vediamo Barbara Cupisti che si risveglia da un incubo. Non è accaduto niente, era solo un sogno della protagonista, ma quando la donna va al campo si accorge che la storia si sta verificando. Maurizio ha bisogno di aiuto e grida le stesse parole del sogno, proprio mentre Barbara Cupisti vede una ferita sul volto di Rossi Stuart, e infine arrivano i ragni. Il terrore si dipinge sul volto della ragazza per una sorprendente sequenza sulla quale scorrono i titoli di coda. Lenzi inventa un doppio finale simile a quello già usato per Incubo nella città contaminata, ma in ogni caso si tratta di un efficace colpo di scena.

The Hitcher 2 - Paura nel buio (1989) Aristide Massaccesi produce con la Filmirage anche Hitcher 2 - Paura nel buio (1989), un altro sequel apocrifo, questa volta di The Hitcher (1986), che Lenzi dirige con diligenza. Hitcher 2 è però uno psycothriller più che un horror e racconta le gesta di un giovane assassino che uccide le sue vittime vagando in camper. Film di pura imitazione, derivativo da The Hitcher La lunga strada della paura (1986) di Robert Harmon, interpretato da Thomas Howell, Rutger Hauer, Jennifer Jason Leigh, Billy Green Bush, Jeffrey DeMunn, John M. Jackson. La storia è molto simile al film di Lenzi, pure se parte da un assunto diverso. Il giovane Jim Halsey (Howell) sta attraversando il deserto californiano e commette l’errore di dare un passaggio all’autostoppista John Ryder (Hauer): un sadico assassino che gli sconvolge la vita, uccidendo tutti quelli che incontra. Ma la polizia pensa che il killer sia il ragazzo. Scene molto dure e omicidi efferati. Un ottimo thriller. Umberto Lenzi si firma Humphrey Humbert. La pellicola racconta la storia di Mark (Balogh), un ventiduenne mentalmente disturbato che nutre fantasie sessuali nei confronti della madre morta. Lenzi narra le vacanze del ragazzo, a bordo di un camper di gran lusso, – dono del padre, un ricco industriale –, che vaga alla ricerca di donne sulle quali sfogare il suo complesso di Edipo. Mark – complessato e devastato dal ricordo della madre morta giovane – non riesce a stringere normali rapporti con gli altri, tanto meno con le donne, che massacra in modo orribile, dopo un rapporto sessuale, in preda a un incontenibile raptus di violenza. Va da sé che le ragazze scompaiono nel nulla dopo essere state uccise e occultate dal folle serial 149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

killer. Un giorno incontra Daniela (Bissett), che gli ricorda molto sua madre e purtroppo la ragazza commette l’errore di accettare un passaggio. La spirale di orrore ha inizio, perché Daniela viene sequestrata dal folle mentre il fidanzato si mette alla ricerca del sequestratore in camper e della ragazza scomparsa. Finale al massacro con un happy end improbabile. Il film è noto anche come Return of the Hitcher, per sfruttare il successo della pellicola originale. Tra le note positive di un film girato con pochi mezzi ma una discreta inventiva citerei i grandi spazi nordamericani, le lunghe direttrici e le sequenze nei boschi con la visione di coccodrilli che divorano corpi di donne uccise. Il personaggio del serial killer è ben inquadrato dal regista - sceneggiatore nel suo disordine psichico ed è reso con bravura dal giovane Joe Balogh, mentre la vittima femminile è troppo pudica per un ruolo che la quasi esordiente Josie Bissett avrebbe potuto interpretare in maniera più convincente. La colonna sonora di Carlo Maria Cordio è intensa e angosciante, adatta per sottolineare i numerosi momenti di tensione di un thriller claustrofobico e inquietante. Pellicola girata quasi tutta in interni (camper) con molte sequenze on the road, tra strade trafficate, spiagge bianche e foreste; sceneggiatura senza sbavature, molti dialoghi, momenti di fuga e suspense, inseguimenti, particolari violenti ed efferati, senza mai passare il segno. Fotografia luminosa e viva con diversi notturni cupi e terrificanti; montaggio serrato con uso di soggettiva e zoom adeguato alla suspense da creare. Un film senza infamia e senza lode, di sicuro non tra i capolavori del regista maremmano, ma ancora oggi vedibile con interesse. Titolo internazionale: Hitcher in the Dark. Visibile in rete ma solo in lingua inglese”. Marco Giusti (Stracult): “Sequel illegale di Hitcher con Rutger Hauer. Responsabili di questa americanata sono Joe D’Amato produttore e Umberto Lenzi regista e sceneggiatore (insieme alla moglie, nda). La storia segue abbastanza fedelmente lo schema della vittima e della preda. Una bella autostoppista, un giovane disturbato che la fa salire a bordo. Qualcuno morirà”. Umberto Lenzi: “Per me sarebbe dovuto essere il film del delitto perfetto. La storia di un ragazzo figlio di un grande industriale che va in vacanza con il suo camper, fa salire ragazze, ci fa l’amore, quindi le uccide. Cerco anche in questo film di dare una giustificazione psicologica al mio serial killer, come avevo fatto in altri lavori, vado a ricercare una frustrazione infantile, una ferita aperta, altrimenti si tratta di riprendere delitti efferati e non altro, come hanno fatto molti miei colleghi (Argento, nda). Ho inserito 150 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

anche una citazione al caso Sharon Thate, come già avevo fatto in Un posto ideale per uccidere (Ornella Muti scrive su un vetro della casa borghese la parola pigs), forse gratuita ed evitabile: il ragazzo incide la parola pig (maiale) sul corpo del fidanzato della ragazza prima di ucciderlo. Incontrai due attori molto bravi dopo aver fatto i provini a Los Angeles. Joe Balogh, il protagonista, aveva la faccia giusta per il personaggio, molto più incisivo che in Demoni 3, dove pareva aver perduto tutta la sua carica da attore, tutta la sua freschezza. Josie Bissett è bravissima, ma aveva il limite che non se la sentiva di recitare nuda, non faceva volentieri le scene di sesso, quindi alcune sequenze di amore e fuga non vennero perfette come le avrei volute. Sono un regista che non riesce a imporre quello che l’attore non vuol fare, quindi mi limitai a riprendere le scene erotiche con la ragazza che indossava il cash-sex e aveva le parti intime coperte. Tutto sommato un film che amo, un thriller girato in pieno sole, come molti miei vecchi lavori, che avrebbe potuto essere un capolavoro, se il produttore non l’avesse rovinato. Il mio finale era pensato aperto, doveva essere la storia di un delitto perfetto, visto dalla parte del serial killer. Il film doveva finire dopo l’eccidio della ragazza e del fidanzato con il giovane che torna a casa e parla con il padre, quest’ultimo gli chiede dove passerà le prossime vacanze, lui si affaccia alla finestra e vede una ragazza che fa il gesto di chiedere un passaggio. Risposta pronta al padre: credo che tornerò a fare un giro con il camper. Si capisce che il serial killer colpirà di nuovo. Aristide Massaccesi mi obbligò a girare un finale demenziale, uno sciocco lieto fine che rende tutto il film assurdo. Il ragazzo dà un passaggio a una ragazza che a un certo punto si toglie la maschera, si mostra come l’ultima vittima che – non si sa come – è scampata alla morte, estrae la pistola e lo uccide. Ho dovuto girare quella scena, altrimenti ci avrebbe pensato il produttore, un regista come me – D’Amato/ Massaccesi –, che forse l’avrebbe girata peggio. Ho sperato che non mettessero quel finale, invece l’hanno fatto, rovinando il film”.

Cop Target - Obiettivo poliziotto (1989) Umberto Lenzi firma la regia come Humphrey Humbert, ma anche il resto del cast tecnico si nasconde dietro pseudonimi anglofoni, forse per citare gli anni Settanta, i film western, poliziotteschi e horror con attori italiani camuffati da nordamericani. Girato con uno stile da telefilm americano con ambientazione caraibica, del tutto dimentico del vecchio stile all’italiana, 151 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

quindi da non definire poliziottesco per non rischiare di confondere un modesto lavoro con i grandi capolavori del passato. Un film di serie B, girato con garbo da un professionista, più action movie che poliziesco, con qualche colpo di genio a livello di trovate brillanti. L’idea più divertente è quella di un fantascientifico dispensatore di cibo per gatti che il poliziotto in trasferta ai tropici mette in funzione prima di partire. Il ritmo è notevole e le scene d’azione sono interessanti, almeno quanto soggetto e sceneggiatura sono fiacchi e scontati. Cop Target, nonostante sia un film di pura imitazione (Arma letale e affini) conserva una sua modesta originalità che lo rende guardabile. Molti inseguimenti alla Lenzi per le strade di Santo Domingo (nella finzione San Cristobal), con auto che si capovolgono e banchetti di frutta e verdura distrutti. Diversi scontri a fuoco e rapine, un agguato sulla spiaggia con sparatoria spettacolare e un’imboscata nel garage con inseguimento finale che non ti aspetti. In definitiva passabile, pur se dobbiamo sopportare molti dialoghi scadenti, parti di raccordo interminabili e discutibili rapporti tra personaggi, tra tutti i due protagonisti che pur odiandosi a un certo punto finiscono a letto insieme. Non è il Lenzi di Milano rovente, ma non è neppure aiutato da una valida sceneggiatura. Storia sin troppo semplice di un poliziotto dai metodi singolari che deve accompagnare una vedova e sua figlia a San Cristobal per ritirare un’onoreficenza assegnata al marito, ucciso dai narcotrafficanti. Il poliziotto indaga sul rapimento della figlia, comprende che il marito della donna non era un eroe senza macchia, scopre che la polizia locale e un addetto della sua ambasciata sono in combutta con i narcotrafficanti, ma vorrebbero scaricarli per appropriarsi del denaro imboscato dal presunto eroe defunto. Finirà male un po’ per tutti, ma la donna e la figlioletta tornano sani e salvi a Miami per merito del poliziotto testardo. Raimondo Del Balzo, lo sceneggiatore che collabora con la moglie del regista, non è certo uno specialista di action e forse gli viene meglio il lacrima movie. Abbiamo avvicinato la figlia del regista, Alessandra Lenzi, che prese parte al film: “Feci l’assistente alla regia e la delegata alla produzione per conto del produttore Fabrizio De Angelis solo per la parte americana, girata a Miami. Fu un incubo perché l’attore, Robert Ginty, faceva capricci su tutto, credendosi chissà chi, e io ero nella posizione difficilissima di dover mediare tra lui e mio padre che non è mai stato tenero con gli attori, ritenendosi, anche giustamente, il comandante del set. Spesso ero costretta a telefonare a De Angelis a Roma perché convincesse Ginty a fare qualcosa, magari semplicemente a indossare le scarpe obbligate per la scena! Anni 152 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dopo papà mi raccontò che Ginty si scusò per lettera di quegli atteggiamenti. Charles Napier era tutto un altro tipo. A Santo Domingo, invece, venne Franco Fantasia come supporto, sia perché serviva un coordinamento agli stuntman nelle scene d’azione, sia perché parlava spagnolo”. Alessandra ci racconta di essere stata presente anche in altri set del padre: “I due film di Rete Italia: La casa dei sortilegi e La casa delle anime erranti, che non uscirono, facevano parte di un ciclo insieme ad altri, credo due film di Fulci. Poi ricordo Le porte dell’inferno, dove appaio anche, purtroppo su un video trailer su YouTube, vestita da monaca in una messa nera. Infine ho lavorato a Hitcher in the dark, girato negli Usa, prodotto da Massaccesi per l’Home Video estero, bel film, con Josie Bisset, attrice di Melroce Place”. Vediamo la critica, non molto tenera con Cop Target. Paolo Mereghetti (una stella): “Lo sbirro dal grilletto facile Farley Wood (Ginty) è incaricato di scortare Deborah Kent (Bingham), vedova di un poliziotto antidroga inviata in un paese centroamericano con la figlioletta. Ma la bimba viene rapita dai narcotrafficanti, e Wood scopre che il defunto collega non era uno stinco di santo. Il copione di Raimondo Del Balzo fa malamente il verso ai prodotti Usa: e a parte un paio di passabili sequenze di azione, Lenzi (che appare in un cameo al tavolo della roulette) sonnecchia. Direttamente in Home Video”. Il Davinotti on line registra alcuni commenti di diverso tenore. Alcuni non sono del tutto negativi: “Il regista lascia in patria la schietta italianità del b-movie per dedicarsi a un effimero poliziesco paratelevisivo”. “Un sufficiente prodotto di mero intrattenimento: breve durata, sceneggiatura semplice, qualche scena d’azione (soprattutto sparatorie), un tocco umoristico (il prologo con un travestito, il dispensatore automatico di cibo per gatti) e una blanda love story per accontentare gli amanti del rosa”. “Seppur ormai nella fase finale della sua carriera, il maestro del poliziottesco Umberto Lenzi è ancora in grado di dimostrare una certa padronanza della macchina da presa, anche se i tempi migliori sono ormai alle spalle. La trasferta a stelle e strisce non si dimostra proficua e l’ambientazione a Miami fa assomigliare tutto a una puntata di Miami Vice. Comunque i fan del regista non disprezzeranno del tutto”. Altri critici sono più drastici: “Un film d’azione senza azione con attori e scene brutte, da gettare nel dimenticatoio”. “Noioso e quasi inguardabile. Un pessimo c-movie, pirotecnico e con sparatorie, di stampo televisivo. Difficile trovare qualcosa da salvare. Lo si guarda per mera curiosità (perché è di Lenzi) e lo si cestina senza remore. La sola scena divertente è quella della macchina che si occupa di nutrire il gatto del protagonista”. “Film scadente, basato su una sceneggiatura sem153 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

plice ma piena di falle e fin troppo qualunquista. Sembra di assistere a un episodio annacquato e uscito non benissimo di Miami Vice: Miami, poliziotto che non rispetta le regola, una bionda, polizia corrotta, qualche paese straniero e i cartelli della droga. Il risultato finale però è scialbo e una visione basta e avanza”. La verità sta nel mezzo ma che una visione sia più che sufficiente è un dato di fatto.

Nightmare Beach - La spiaggia del terrore (1989) Nightmare beach (1988), noto anche come La spiaggia del terrore, è un thriller poco visto, di ambientazione statunitense, che Lenzi contamina con atmosfere horror. Tra l’altro il regista maremmano non risulta citato nei titoli, dato che Henry Kirkpatrick non è un suo pseudonimo anglofono (come molti critici sostengono), ma il nome dello sceneggiatore. Nightmare beach è una pellicola che Lenzi ha ripudiato. A questo proposito è utile leggere le dichiarazioni che ci rilasciò in esclusiva alcuni anni fa. “Henry Kirkpatrick è lo pseudonimo di uno scrittore americano, autore della sceneggiatura del film (orrenda), e che lo firmò quando il sottoscritto – a riprese pressoché ultimate – lasciò il film (di produzione americana) per dissapori con il produttore. Il film fu massacrato al montaggio, con tagli e aggiunte stupide in fase di post produzione. Secondo gli accordi, io avrei dovuto dirigere un altro film (su mia sceneggiatura originale), ma una volta arrivato a Miami, il produttore, pressato da un importante personaggio molto interessato ai suoi progetti, mi pregò di girare questo thriller senza capo né coda. Il soggetto era di Vittorio Rambaldi e il film avrebbe dovuto girarlo lui come opera prima. Anche gli attori (tre cani spaventosi) erano stati scelti da loro, prima che io arrivassi. Finì che Rambaldi realizzò un film tratto dalla mia storia sulla contaminazione genetica, che venne completamente stravolta da lui e dal Kirkpatrick in sede di riscrittura della sceneggiatura. Ne risultò ovviamente un film brutto e banale. Io chiesi e ottenni di togliere il mio nome da Nightmare beach. Solo che oggi il film viene distribuito ovunque con il mio nome sulla copertina dei DVD e delle VHS. I mercanti di film sono imbattibili!”. Nightmare beach, secondo i titoli di testa, è scritto da Vittorio Rambaldi e sceneggiato da Henry Kirkpatrick, mentre Lenzi cura solo la regia (ma non è accreditato e i titoli parlano di Kirkpatrick) e si avvale della fotografia di Antonio Climati e della bella musica di Claudio Simonetti. Interessanti 154 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gli effetti speciali che strizzano l’occhio al gore e allo splatter e sono frutto di Alex Rambaldi. Il film è costruito sullo schema delle pellicole televisive come Baywatch e Miami Beach, tra esibizioni di belle ragazze in vesti discinte, giornate in spiaggia, uomini che fanno i galletti in discoteca, musica anni Novanta, con spruzzatine di sesso ed esibizioni a base di tette scoperte per deliziare il pubblico statunitense. Lenzi svela anche molti trucchi del cinema horror ricorrendo a un personaggio che si diverte a inscenare scherzi idioti e a fingersi morto nei modi più orrendi. Vediamo un finto cadavere nel sangue della piscina, un trucco da falso squalo, un coltello piantato su una mano di plastica e la finzione di un corpo bruciato. Il protagonista dei macabri scherzi alla fine muore davvero, vittima del killer che lo elettrizza con i fili della corrente. Si parte da un antefatto con il presunto assassino Diablo (un motociclista della banda dei Demoni) giustiziato sulla sedia elettrica. La storia è ambientata nella località turistica di Springbreak e racconta di un serial killer motociclista che uccide studenti, villeggianti e personale di un albergo durante le vacanze. Non si vede mai il suo volto perché è sempre coperto da un casco di colore nero e si pensa che si tratti di Diablo, condannato ingiustamente, che torna dall’inferno per vendicarsi. In realtà non c’è niente di soprannaturale, ma il colpevole è il reverendo Bates che combatte una folle guerra per moralizzare i costumi. I personaggi sono macchiette fumettistiche che mancano di spessore psicologico, soprattutto i tre ragazzi protagonisti. Nicholas De Toth (Skip), Rawley Valverde (Ronnie) e Sarah Buxton (Gail) sono attori di bella presenza, ma dotati di scarse qualità recitative. Sceneggiatura e dialoghi davvero scadenti fanno il resto, perché il soggetto sarebbe anche di un certo interesse, se fosse concretizzato con maggiore cura e inserendo più tensione nelle scene fondamentali. Resta solo una trama giovanilistica con un pizzico di giallo e diverse morti per folgorazione che il killer motorizzato esegue con cadenza quasi monotona. Pochi i momenti degni di nota, come la sequenza di un occhio estirpato per mezzo di cavi elettrici e una scena ad alta tensione all’interno dell’albergo, quando una squillo di lusso viene uccisa dentro l’ascensore. Lenzi è bravo a disseminare elementi orrorifici in una pellicola che in definitiva è soltanto un giallo realizzato con molti effetti speciali. Tra gli attori salverei l’esperto John Saxon nei panni dello squallido poliziotto Strycher, che conserva in casa le foto dei morti e non esita a mandare sulla sedia elettrica un innocente pur di consegnare alla giustizia un colpevole. Va da sé che pure il suo personaggio è molto fumettistico e anche il suo odio immotivato verso la 155 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

banda di giovani non ha ragione di esistere. La trama zoppica anche quando il poliziotto e il medico decidono di non rendere note le uccisioni di giovani e seppelliscono il cadavere della prima vittima in un luogo isolato. Nel finale viene a mente Non si sevizia un Paperino di Lucio Fulci (1972): anche in quel film scopriamo che il prete è il colpevole dei barbari assassini. Le motivazioni però sono diverse. Nel film di Fulci il parroco (Marc Porel) vuole evitare ai ragazzini di crescere e di corrompersi, nel lavoro di Lenzi il reverendo Bates (Lance Le Gault) elimina per vendetta chi vive un’esistenza scellerata e si comporta fuori dalla grazia di Dio. Il reverendo, per una sorta di pena del contrappasso di dantesca memoria, finisce elettrizzato dai fili della corrente e muore folgorato a bordo della moto. Nicholas De Toth (Skip) e Sarah Buxton (Gail) possono coronare il loro amore mentre l’estate volge al termine e la spiaggia pare “uno stadio al termine di una partita”. Una pellicola senza infamia e senza lode, che si può ancora guardare per merito di alcune parti orrorifiche che ricordano il miglior cinema di Lucio Fulci.

Demoni 3 (1991) L’ultima incursione nell’horror di Umberto Lenzi è con Dèmoni 3, un film mai uscito nelle sale e che non ha niente in comune con la serie Dèmoni di Lamberto Bava. Dèmoni (1985) e Dèmoni 2… l’incubo ritorna (1986) sono due horror all’americana scritti da Bava, Argento, Sacchetti e Ferrini, girati con discreti mezzi economici. Nel primo film assistiamo a un trionfo di splatter in una sala cinematografica, nel secondo i dèmoni escono da un apparecchio televisivo. Teo Mora ha definito Dèmoni come uno dei più bei film fantastici dell’ultimo decennio. Non siamo così entusiasti, pure se i trucchi di scena e le parti splatter risultano interessanti, così come sono d’effetto i mostri che escono dalle pance dei protagonisti. Dèmoni 3 è un falso sequel perché è ambientato in Brasile e racconta un’interessante storia di macumba e di candomblé. Produce la Filmaker di Giuseppe Gargiulo che realizza una pellicola basata su un buon soggetto di Umberto Lenzi, sceneggiato da Olga Pehar, responsabile anche dei dialoghi non sempre all’altezza. Scenografie e costumi sono di Giuliana Bertuzzi, il trucco è di Franco Castagni, dirige la fotografia Maurizio Dell’Orco. Il montaggio è di Vanio Amici, mentre le musiche (suggestive e di atmosfera brasiliana) sono di Franco Micalizzi. Interpreti: Joe Balogh, Keith Van Hoven, Sonia Curtis, Philip Murray, Julia156 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

na Texeira e Maria Alves. La cosa più apprezzabile del film è una riuscita ambientazione brasiliana, tra Rio De Janeiro e le campagne nei pressi di Belo Horizonte, ma soprattutto una perfetta ricostruzione dei riti sincretici praticati dalla parte nera di quella popolazione. Sono davvero ben riprodotti i balli del candomblé, le musiche che evocano gli spiriti dei morti, le macumbe, i rituali simili al vudù haitiano con pupazzi e spilloni, l’uccisione dei galli e le conchiglie per divinare il futuro… Lenzi si documenta a dovere sulle credenze afrolatine, cita senza errori i nomi delle divinità (Ochún, Yemayá, Orula, Changó, Obatalá…), descrive i balli dedicati ai santi (orishas) con dovizia di particolari e mostra credibili evocazioni. Se siete interessati alla cultura religiosa di queste popolazioni, Dèmoni 3 merita di essere riscoperto. Lenzi scrive un soggetto ispirato a un’antica leggenda brasiliana che narra di sei schiavi neri barbaramente impiccati dai padroni di una fazenda, dopo averli accecati. Peccato che la sceneggiatura, i dialoghi e la recitazione indeboliscano il gran lavoro di ricerca e di elaborazione della trama compiuto dal regista. Il film è incentrato su Dick, Kevin e Jessica che si trovano in Brasile per realizzare un servizio sul samba, ma Dick (che soffre di problemi psichici) è affascinato dai riti del candomblé e finisce per essere posseduto da un dèmone. Il rito al quale partecipa è ricreato con accortezza, tra balli sensuali e tamburi batá, uomini dagli occhi spenti e favelas fantasma che si risvegliano al clamore dell’evocazione. Dick è l’elemento esterno di cui i dèmoni si servono per tornare in vita e sarà proprio lui a praticare l’evocazione nel cimitero della fazenda. La location brasiliana è ottima, tra palme e foresta tropicale, ma pure la ricostruzione della fazenda non lascia adito a critiche. Nella grande casa cadente si svolge la parte misteriosa e fantastica del film che vede entrare in scena anche due giovani brasiliani (José e Sonia) e una serva di colore (Maria). Sono godibili le parti in cui la negra cerca di fare una contromacumba, perché si è resa conto che Dick è posseduto e ha appeso al collo un ciondolo che raffigura un simbolo magico. José caccia via la serva perché la crede responsabile di ciò che sta accadendo e soprattutto della morte di Sonia, che viene barbaramente uccisa dagli schiavi scatenati da Dick. La scena al cimitero mostra Dick che accende il registratore contenente la cassetta con il rito, le tombe prendono fuoco e i sei schiavi sepolti escono dalle bare. Si tratta di una parte formidabile e soprattutto sono credibili i sei dèmoni con gli occhi bianchi, come se fossero ciechi, e il loro corpo coperto di pustole. Non sono zombi nel senso letterale del termine perché non vagano senza una meta in cerca di carne umana, ma si appostano e 157 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

attendono il momento propizio per colpire. Hanno una missione da compiere: uccidere sei uomini bianchi e vendicare il loro antico eccidio. I dèmoni che escono dalle tombe conservano le catene ai piedi come simbolo della loro schiavitù e uccidono per mezzo di un machete. La fazenda diventa il luogo dove colpiscono, mentre scompare la corrente elettrica e Jessica viene aggredita ma nessuno le crede. La fotografia notturna del film è scura e spesso rende faticosa la visione, pure se gli effetti speciali sono buoni. Un altro difetto è l’eccessiva lentezza e la macchinosità di certe parti di raccordo, come i lunghi dialoghi recitati dai pessimi protagonisti. I dèmoni che tornano dal passato uccidono prima Sonia e subito dopo Maria che tentava di fermarli con una contromacumba. L’uccisione della negra è un trionfo di gore che vede i suoi occhi estirpati a colpi di machete, come i padroni bianchi avevano fatto agli schiavi prima di impiccarli. Quando Dick uccide José con un colpo di coltello, i suoi amici comprendono che è proprio di lui che devono liberarsi. Kevin ha l’idea di fabbricare bottiglie molotov per uccidere gli zombi con il fuoco e la mossa pare vincente, anche se Dick è adesso completamente invasato e parla per bocca degli orishas. Nel convulso finale segnaliamo numerose scene riprese da Shining di Stanley Kubrick (1980). Lenzi omaggia il grande registra statunitense mostrando Dick che insegue Jessica, sfonda la porta a colpi di scure e alla fine inserisce il braccio nella fessura. Kevin si libera degli zombi con le bottiglie incendiarie, ma l’ultimo dèmone uccide Dick con un colpo di machete e libera la fazenda dal terrore. Kevin e Jessica abbandonano il luogo dell’eccidio per tornare a casa dove coroneranno il loro amore. Un ulteriore difetto è che nel film il rapporto tra i due protagonisti è descritto in modo superficiale e senza il minimo spessore. C’è il tempo per il solito doppio finale, vero marchio di fabbrica di ogni horror italiano. Lo spettatore resta nel dubbio che tutto sia davvero finito, perché lungo la via del ritorno vediamo un gruppo di brasiliani dare il via a una sinistra macumba. È un vero peccato che un soggetto di qualità come questo sia uscito in maniera così scadente, soprattutto per colpa di una sceneggiatura non all’altezza e di una recitazione approssimativa. Mereghetti stronca Dèmoni 3: “Sequel solo nominale dei film di Bava jr.: mal scritto, statico e tirato al risparmio, con lo splatter al minimo sindacale e zero suspense. Tra gli ultimi titoli alimentari del regista, forse il più indifendibile”. Alex Visani sul suo sito internet commenta: “Lenzi sforna un film che alterna momenti splatter molto truculenti a momenti di pausa alquanto statici e noiosi. La storia è striminzita e la recitazione davvero piatta e poco credibile. Ci si diverte ab158 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

bastanza a vedere gli zomboni neri massacrare con ganci, catene e machete ma per il resto si sonnecchia e si sbadiglia sensibilmente”. A nostro parere Dèmoni 3 è ancora oggi un lavoro interessante per la perfetta ambientazione brasiliana e per una documentata analisi del folklore locale. Umberto Lenzi a proposito della propria pellicola fornisce un parere che riportiamo integralmente: “Io non amo gli effetti splatter, di quella storia mi interessava la magia nera, ossia il potere misterioso di un rito capace di evocare i morti. E anche il tema degli schiavi che si vendicano delle angherie dei padroni bianchi. Ma non c’era un budget adeguato. L’unica scena che mi soddisfece pienamente fu quella della macumba, girata dal vero. Comunque sul film aleggiò una sorta di maledizione: l’attrice che avevo scritturato a Los Angeles si ruppe un braccio tre giorni prima dell’inizio del film, e fui costretto a sostituirla con una che non valeva nulla. Costei durante le riprese si avvelenò bevendo del latte non pastorizzato alla finca dove giravamo, e finì all’ospedale. Il protagonista (che in Italia con Bava aveva ben lavorato) qui cadde in una sorta di catalessi e il giovane attore americano Joe Balogh (con cui avevo fatto Hitcher in the dark, due anni prima) recitava in modo svogliato e abulico. Anche quando si impegnava. Inoltre, il set della finca fu travolto da un’inondazione e tre comparse brasiliane, scritturate per fare gli schiavi zombi, scomparvero (probabilmente si erano scocciati e avevano fatto ritorno a Rio). Giravamo in un posto sperduto e lontanissimo. Temo che tutto questo sia dovuto proprio alla macumba, poiché l’altro film girato in contemporanea riuscì benissimo e filò liscio. Era un film d’azione, Caccia allo scorpione d’oro, con dei protagonisti discreti (Andy J. Forest, una attrice americana, e David Brandon). A mio parere Hitcher in the dark (Paura nel buio), girato a Virginia Beach e a Norfolk nel 1988, è un thriller-quasi horror molto più riuscito”.

Caccia allo scorpione d’oro (1991) Caccia allo scorpione d’oro non è uno dei migliori lavori di Lenzi, ma inquadrato nell’ottica di una globale debolezza e decadenza del cinema popolare italiano, resta un buon prodotto, di pura imitazione, del modello nordamericano di Indiana Jones. Il regista – autore di soggetto e sceneggiatura con la collaborazione della moglie – rende protagonista una ragazza di una serie di mirabolanti avventure che si svolgono nell’inferno verde dell’Amazzonia, tra caccia grossa, vittime inconsapevoli e tesori nascosti. 159 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Non un capolavoro ma cinema godibile, di puro intrattenimento. La critica non ne parla molto. Il Davinotti on line scrive. “Uno dei Lenzi meno visti e conosciuti. Le avventure esotiche amazzoniche alla ricerca di un prezioso oggetto inanellano misteri e ammazzamenti, in balia di note musicali rassicuranti (di Micalizzi) e attori simpatici. La Leigh ha un fisico notevole e il duo maschile Forrest - Brandon se la cava egregiamente a sganassoni e battute. Genere puro tipicamente d’antan (ma neanche troppo) e platea di riferimento avvisata già dalle prime immagini”. Alessandra Lenzi ricorda: “Caccia allo scorpione d’oro è stato proiettato al cinema Trevi a novembre 2018, nell’ambito di una rassegna organizzata dal CSC sul cinema d’avventura nostrano. Sia Caccia allo scorpione che Hornsby li fece mio marito (Piero Parisi, nda) come fonico. In Brasile furono girati due filmetti a basso costo prodotti da Peppino Gargiulo che aveva un accordo con mio padre per fare dei documentari sulla seconda Guerra Mondiale in VHS, tratti da filmati originali che mio padre, essendo anche uno storico, doveva scegliere e montare, non mi ricordo da commercializzare in che modo. Purtroppo la cosa non andò a buon fine”.

Hornsby e Rodriguez sfida criminale - MeanTricks (1992) Ultimo film di Umberto Lenzi che non rende onore alla carriera di un grande regista di genere, uno che ha inventato il cinema popolare, capace di esprimere uno stile personale nel cinema d’azione. Questo action movie girato tra Santo Domingo (Santa Cruz, nella finzione) e Miami è scritto e sceneggiato meglio di Cop Target ma lascia un po’ a desiderare sotto il profilo delle scene d’azione, proprio quelle che hanno reso celebre il regista. La trama, piuttosto articolata, narra le gesta di Hornsby (Napier), un poliziotto dell’FBI in pensione, che si reca ai Caraibi per sconfiggere un narcotrafficante, vendicando la morte della moglie e di un amico. Troverà il suo uomo, dopo molte peripezie e improbabili incontri, con l’aiuto di Rodriguez (Sabelli), un imbranato poliziotto locale, e della sua amante - segretaria (Peynado). Sorpresa finale sulla vera identità del criminale chiamato Il Cobra che si scopre solo nell’ultima scena. Appena in tempo per morire. Buona la prima sequenza vissuta in flashback onirico, che ritorna nel corso del film e fa parte del mistero, bene diverse sparatorie, ma le scene d’azione non sono al meglio, soprattutto non ricordiamo inseguimenti degni di nota. Ricordiamo un’imboscata dei narcotrafficanti in pieno centro di Santo Do160 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mingo e un incidente provocato ad arte con successivo scontro a fuoco e relative auto incendiate. Il rapporto tra i due poliziotti (americano e caraibico) – prima conflittuale poi di collaborazione – non è molto naturale, anche perché Napier è più bravo di Sabelli e la sua recitazione risulta superiore. Una coppia di protagonisti piuttosto strampalata: un poliziotto americano in pensione mezzo alcolizzato (si capirà il motivo) e un giovanotto caraibico alle prime armi che combina un sacco di pasticci e vorrebbe far sorridere con battute insipide. La sua imprecazione di culto è Maria madrilena! che nel finale viene ripresa dal collega in partenza per Miami quando viene a sapere che l’amico si sposerà con la segretaria. Tra gli attori spicca una bellissima e conturbante Iris Peynado (Attila flagello di Dio, Non ci resta che piangere…), dominicana naturalizzata italiana, in una delle sue ultime interpretazioni cinematografiche, anche se dopo la vedremo in televisione. Protagonista di alcune sequenze erotiche (molto caste), un accenno di doccia seminuda e di una lunga sequenza travestita da escort per scoprire il narcotrafficante. Fotografia anonima, montaggio compassato, musiche sempre uguali e poco convincenti di Micalizzi. Un film non rilevante nella cinematografia di Umberto Lenzi, da vedere solo per esigenza di completezza, per interesse storico, per capire la fine del nostro miglior cinema di genere in anni caratterizzati da Home Video e televisioni private. Dopo andrà pure peggio, comunque… La critica, come prevedibile, non fa salti di gioia. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): Santo Domingo. Dopo che gli hanno ammazzato sotto gli occhi l’ex partner Mendoza (Warbeck), lo sbirro in pensione Brian Hornsby (Napier) si mette a caccia degli assassini per conto proprio, con l’appoggio del collega Rodriguez (Sabelli). E risale a una sua vecchia nemesi, il Cobra (Brandon). Il copione di Vittorio M. Testa, Steven Luotto e Antonio Miglietta è un’imitazione esotica dei buddy cop movie all’americana, ma Lenzi è più in palla che nel coevo Cop Target. E Napier è un eroe hard boiled coi fiocchi, anche quando recita con la mascella, peccato che Warbeck esca di scena troppo presto e al suo posto imperversi l’inguardabile Sabelli. Scultoreo nudo della Peynado, musiche di Franco Micalizzi. Inedito in sala, si è visto solo in tv”. Condividiamo poco quanto scrive l’illustre critico, a nostro parere Lenzi fa vedere il suo stile molto di più in Cop Target, ma siamo d’accordo sulla scarsità di Sabelli e sulla bellezza della Peynado. Marco Giusti (Stracult): “Avventuroso di Lenzi, molto tardo, pensato probabilmente per il mercato estero. Nei Caraibi, un agente dell’FBI e un poliziotto locale indagano su un traffico di droga e sulla misteriosa scomparsa di un 161 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

americano, collega un tempo dell’agente, che non è affatto morto, ma che anzi è a capo dell’organizzazione criminale”. Un film alimentare, avrebbe detto Lenzi. Peccato che sia stato l’ultimo e non abbia lasciato il miglior ricordo.

Sarajevo inferno di fuoco (1996) Non si tratta di un film di Lenzi, ma un lavoro di montaggio, pure se molti testi lo attribuiscono al nostro regista. IMBD lo attribuisce a un certo Bob Colins che profuma di nome falso lontano un miglio. Basta leggere un’intervista rilasciata da Lenzi, nel 2009, a Carlo Prevosti di Cineblog.it: “Ho fatto solo sessanta film, non settanta come dicono molti. Alcuni sono apocrifi. Mi attribuiscono una serie di pseudonimi che io non ho mai usato. Per esempio, l’ultima pellicola che mi attribuiscono è Sarajevo inferno di fuoco, realizzata da un montatore e da un produttore che hanno preso parti di un mio film, hanno rigirato alcune scene e l’hanno rimontato. Non è firmato da me, ma chi lo vede riconosce scene del mio film e pensa che sia mio. Questo è un furto. C’è un film cinese che si chiama Bruce Lee riemerge dalla tomba, regia di Bert Lenzi, ma io mica l’ho fatto! Non so neanche chi era Bruce Lee. Ma non posso farci niente. Come potrei fare causa a una società di Hong Kong?”. Alessandra Lenzi cerca di fare chiarezza sui nomi anglofoni di suo padre: “Pseudonimi certi sono Humphrey Humbert, il più usato e il preferito, poi usò Hank Milestrone per firmare Contro 4 bandiere. Altri non ne ricordo”. Aggiunge Alessandra su Sarajevo inferno di fuoco: “Non so da quali scene sia stato montato, ma, andando a intuito, mio padre ha girato solo due film, di genere bellico, a Sarajevo: Tempi di guerra (Wartime) e Un ponte per l’inferno (Battleground).”. Secondo le interviste rilasciate da Lenzi il film di montaggio è stato realizzato pescando sequenze di guerra da Un ponte per l’inferno e alcune scene d’azione scartate da Cop Target (Obiettivo poliziotto).

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II PARTE

APPROFONDIMENTI CRITICI a cura di MATTEO MANCINI

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Capitolo Primo Il Lenzi degli esordi tra avventura, cappa e spada e spionistici

Prima di approcciarsi alla produzione cinematografica di Umberto Lenzi, è opportuno fare luce sulla genesi e sugli spunti che hanno portato il futuro regista a interessarsi di cinema. Nato a Massa Marittima, provincia di Grosseto, nel 1931, cresce in una famiglia non troppo facoltosa, avvicinandosi alla settima arte grazie a un professore del liceo che, invece di attenersi ai programmi ministeriali, pensa bene di intrattenere i propri studenti mostrando capolavori noir quali Il Pensionante (1944) di John Brahm e Vertigine (1944) di Otto Preminger. Lezioni che si incentrano tutte sull'importanza del montaggio con continui rimandi ai grandi maestri Sergej Ejzenstejn e René Clair. Alimentato dai suggerimenti scolastici, Lenzi impreziosisce la propria cultura passando le estati a Follonica, paese di origine dei genitori, non come i coetanei che se ne andavano al mare, bensì rintanato nei cinema a fare abbuffate di pellicole. Scopre in tal maniera quelli che diventeranno i cult che ne influenzeranno la carriera. Si interessa soprattutto al genere noir americano a cui si sentirà, per cifra stilistica, sempre vicino. Ne è una testimonianza l'amore incondizionato per pellicole quali Forza Bruta (1947) e La Città Nuda (1949) di Jules Dassin, ma anche per tutti i film di Charlie Chaplin e per quelli dei grandi registi del muto Friedrich Murnau e Carl Dreyer. “Da quei film ho studiato le mie prime nozioni di regia” racconterà anni dopo. Dall'impegno passivo a quello attivo il passo è breve. Dapprima si iscrive alla Federazione Italiana dei Circoli del Cinema, poi vince una borsa di studio per l'accesso al Centro Sperimentale e qui si diploma nel 1956 (saggio d'esame il cortometraggio Ragazzi di Trastevere), scontrandosi con una realtà molto più grande della sua. Senza appoggi e senza poter contare su una famiglia legata al settore (il padre era un macellaio), il giovane Lenzi riesce a centrare il proprio sogno. Fa conoscenze importanti, nonostante il carattere burrascoso da vero toscanaccio. Stringe durevoli rapporti di amicizia con Marco Leto e Franco Rossetti, ma soprattutto segue con attenzione le lezioni di Alessandro Blasetti (“Da lui imparai tutto: la tecnica della regia, come dirigere gli attori, come preparare il testo e trasporto in immagini”) e Franco Prosperi. Mostra fin da subito un grande talento che lo 165 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

porta a mettersi in luce ed emergere per gradi. Fa tutto l'apprendistato, pur debuttando a ventisette anni, piuttosto originariamente, in un film di produzione greca intitolato Vacanze ad Atene (1958). Un'opera che non verrà distribuita in Italia a causa del fallimento della società che ne aveva acquistato i diritti. Per tre anni passa da un set all'altro quale aiuto regista, autore di copioni e persino segretario di edizione. Fa una delle sue primissime esperienze nel ruolo di secondo assistente alla regia di Richard Wilson, reduce da Quarto Potere con Orson Welles. Viene chiamato perché Wilson deve girare in spiaggia alcune scene del film Vento di Passioni (1958) e uno degli ex professori del Centro Sperimentale si ricorda della provenienza di Lenzi. “Lei è maremmano, perché non aiuta Wilson con le location?” è la proposta che Lenzi si sente pervenire. E così tutto ha inizio. Collabora quale aiuto dei vari Piero Vivarelli, Renzo Merusi, Lionello De Felice, e Domenico Paolella. Proprio a quest'ultimo si deve, indirettamente, il vero debutto alla regia. Il produttore Fortunato Misiano, della Romana Film, con circa cento pellicole all'attivo a fine carriera, ne intuisce il talento sul set de Il Terrore dei Mari (1960) dove Lenzi è aiuto di Paolella. Il produttore resta colpito dalla grinta del giovane aiuto, dal suo temperamento e dal suo atteggiarsi da vero e proprio condottiero. Lenzi sembra indemoniato, urla a destra e a sinistra e da dimostrazione di saperci fare. Sembra lui il vero regista del film. Il fiuto di Misiano, che all'epoca produceva una mezza dozzina di film l'anno, è tale da fargli mettere sotto contratto il giovane ragazzo. “A questo gli diamo meno di Paolella, giusto due lire, ed è bravo uguale...” Complice l'indisponibilità del regista, per così dire, titolare, causa malattia, Misiano lancia Lenzi alla regia nel piratesco Le Avventure di Mary Reed (1961) e vince di gran lunga la sua scommessa. Tra i due si instaura un lungo sodalizio a cui è legata l'intera prima parte di carriera di Lenzi, prima dell'esplosione definitiva con Kriminal. Misiano gli produce, in cinque anni, una decina di film. Lenzi accetta tutto, spesso mette mano alla sceneggiatura, in alcuni casi propone anche i soggetti. Pur essendo legato al noir e al thriller, si trova a dover accantonare il proprio genere prediletto per confrontarsi con l'avventuroso e il cappa e spada, ma ha anche la soddisfazione di portare in scena alcune trasposizioni da quello che, da ragazzo, era stato uno dei suoi scrittori preferiti: Emilio Salgari. È Solly Victor Bianco che produce questo secondo blocco di film, quasi tutti girati in Malesia. In un caso, durante le riprese de I Pirati della Malesia (1964), Lenzi si trova a dover sospendere le riprese. La troupe rimane infatti coinvolta nelle rivoluzioni razziali che portarono, nell'arco di pochi mesi, il governo malese a espellere Singapore dal166 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la Malesia, sancendo così l'indipendenza dello stato. A seguito dei tumulti, Lenzi si trova costretto a ultimare il film attorniato da militari incaricati di proteggere il set. Esperienze ai limiti che saranno utili al regista quando, a inizio anni settanta, si troverà, tra mille difficoltà, a organizzare set in mezzo alla giungla. Ciò che appare fin da subito evidente è la matrice popolare del regista che, tuttavia, a differenza di quasi tutti i suoi colleghi non si interessa a commedia o comici. Fin da subito viene indirizzato al cinema d'azione. Si concede un'unica parentesi, lo storico Caterina di Russia (1962), per il resto è tutto avventura e scontri, perché è questo che gli viene chiesto e perché, essendo ancor giovane e di provenienza modesta, teme di poter esser tagliato fuori dal sistema in caso di rimostranze o atteggiamenti da regista arrivato. A Stefano Iachetti, ne La Paura Cammina con i Tacchi Alti, spiega di non aver avuto ambizioni, ma solo il desiderio di fare cinema. “In quei tempi si faceva esclusivamente cinema di genere. Non ho obbedito a esigenze artistiche o ad aspirazioni. Ho fatto solo il mestiere che mi piaceva fare. L'ho fatto bene, perché sapevo tutto sui grandi registi americani degli anni quaranta e cinquanta e avevo da loro colto nelle immagini la tecnica che era il massimo delle espressioni visive.” In realtà c'è da dire che la prima produzione di Lenzi, pur essendo onesta e di qualità migliore con il passare degli anni, tocca molto di rado i livelli che raggiungerà con le produzioni del dopo Kriminal. Il regista è quasi costretto a sottostare alle richieste della produzione, deve ancora farsi le ossa, sperimenta generi e si confronta con le scene di massa, soprattutto con combattimenti all'arma bianca e inseguimenti dei cavalli. Sequenze queste ultime che, alle prime esperienze, non sono sempre portate in scena con ottima resa visiva. Un coacervo di situazioni che, a parte l'ultimo periodo dedicato alle spy story (ne gira quattro), non sono troppo vicine ai gusti di Lenzi e, causa anche la non ancora intervenuta maturazione artistica, ne minano, seppure in parte, il risultato. Al di là della parentesi greca e della produzione dei cortometraggi, la produzione del “pre-Kriminal” è formata da sedici film, di cui quattro di spionaggio e oltre una dozzina d'avventura, per il resto cappa e spada e film in costume. Vediamo qui di seguito, nel dettaglio, un gruppo di questi film.

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Il Trionfo di Robin Hood (1962) Dopo aver diretto due film molto diversi tra loro ovvero il piratesco Le Avventure di Mary Reed (1961) e il proto western Duello sulla Sila (1962), un sottogenere quest'ultimo stilisticamente vicino al western americano, ma con ambientazione storica italiana, Umberto Lenzi si dedica al film in costume di ispirazione letteraria. Dirige infatti Il Trionfo di Robin Hood, adattamento con una certa libertà creativa ispirato dalla penna di Alexandre Dumas. Lo produce Tiziano Longo, al suo terzo film, che qualche anno dopo si lascerà ricordare per aver lanciato alla regia Fernando Di Leo, producendogli i suoi primi cinque film, tra i quali I Ragazzi del Massacro (1969) e La Bestia Uccide a Sangue Freddo (1971). Si tratta di un produttore alle prime armi, ma con una certa gavetta da direttore di produzione al servizio, tra gli altri, di Ferdinando Baldi e Renato Polselli. Realizzerà circa una ventina di pellicole, nell'arco temporale di quindici anni, chiudendo la carriera intraprendendo in prima persona il ruolo di regista (girerà alcuni erotici e porterà sullo schermo la sceneggiata napoletana con Mala, Amore e Morte nel 1976). Lancerà infine alla regia Nello Rossati in un trittico di erotici. La collaborazione con Umberto Lenzi, che si avvale della sceneggiatura alquanto minimalista di Moraldo Rossi (storico aiuto regista di Federico Fellini) e Giancarlo Rominelli (aiuto regista di Lenzi), si sostanzia in una pellicola poco propositiva che cerca di intrattenere lo spettatore unicamente con l'azione. Lenzi è alle prime armi, non cerca niente di innovativo e si limita a un taglio accademico. È innegabile la predilezione per l'azione che si manifesta per tutto il corso del film, con duelli a colpi di spada o con combattimenti a distanza armati di arco e frecce, per non parlare delle lunghe cavalcate e dei vari rapimenti che si innescano per salvare donzelle da matrimoni combinati. La messa in scena tuttavia, pur se esaltata da un gradevole contesto silvano (film girato in Jugoslavia) e da scenografie all'altezza della situazione, è piuttosto raffazzonata e penalizzata dal decorso degli anni. Si respira troppo un'atmosfera artigianale, in alcuni frangenti amatoriale. Si intuisce tuttavia il discreto senso del ritmo, ma il tutto non è al servizio di una trama accattivante. Manca la cura dei personaggi, non ci sono dialoghi graffianti e le interpretazioni sembrano più teatrali che cinematografiche. Non sembra neppure un film italiano per quanto le inquadrature sono schematiche e convenzionali. Robin Hood, interpretato dal belloccio americano Don Burnett (pescato dai serial televisivi e non capace di fare ul168 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

teriore carriera), da battaglia con la sua banda e con Guglielmo il Rosso (il fascio di nervi Vincenzo Musolino, che poi intraprenderà la carriera di regista) al barone Elwinn (l'ingessato Arturo Dominici), prima del ritorno dei soldati di Riccardo Cuor di Leone. Si assiste così a una serie di blitz e alla liberazione di ostaggi quando ormai il destino degli stessi sembrava definitivamente compromesso con soluzioni caratterizzate da un alto tasso di ingenuità. Robin Hood, alla stregua di un saltimbanco, dispone a piacimento dei nemici, filtra tra le maglie dell'esercito di Elwinn e agisce del tutto indisturbato e inattaccabile. Atteggiamento guascone e piuttosto tamarro, in linea col personaggio di Dumas, ma situazioni alquanto facilone e sproporzionate che vedono il protagonista prendersi beffe dei soldati del barone e giocarli in modo ripetitivo così come è concesso fare al cospetto di soggetti minorati. A poco servono gli scatti di ira del barone, che inveisce in continuazione contro i propri uomini accusandoli di inettitudine. Tra questi, in un ruolo comprimario, c'è un giovanissimo Nello Pazzafini che avrebbe poi avuto una lunga carriera da indimenticabile caratterista. Nel ruolo di fidanzata di Robin Hood compare invece l'italo-irlandese Giovanna Scoglio, in arte Gia Scala, moglie fino al 1970 del protagonista Don Burnett. Attrice talentuosa, con discreto passato e formazione presso l'Actors Studio. Aveva lavorato per la Universal e la Columbia Pictures a Hollywood, oltre che al fianco di Glenn Ford in Alla Larga dal Mare (1957), di Robert Mitchum ne Le Colline dell'Odio (1959) e di Gregory Peck nel kolossal bellico I Cannoni di Navarone (1961) dove, nel ruolo di partigiana greca, aveva fornito quella che viene ricordata quale la sua migliore interpretazione. Ragazza fragile, assai emotiva, minata a livello mentale da un dolore oscuro che l'aveva portata a ricorrere alla mendace cura dell'alcool e nel 1958 a tentare la via del suicidio, ripetendosi, questa volta in modo definitivo, con un mix di sostanze stupefacenti e alcool nel 1972, alla relativa giovane età di trentotto anni, divorziata da poco più di un anno da Burnett. Un finale d'esistenza triste che cerchiamo di esorcizzare con l'epilogo del film di Lenzi, in cui la vediamo correre verso la macchina da presa per affondare tra le braccia del suo uomo, Robin Hood/Don Burnett, appena promosso da ladruncolo (aspetto che nel film non viene trattato a dovere) a soldato del Re Riccardo, con grado di ufficiale, per aver contribuito a soffocare il tentativo di ribellione dei baroni di Nottingham. Il bacio finale tra i due amanti è l'ultima immagine del film, un'immagine che funge da sognante congedo, tra gli evviva e i calici alzati al cielo in segno di un brindisi che mal si concilia con quanto avverrà – nella realtà – dieci anni dopo. A 169 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

noi, tuttavia, piace ricordare i nostri attori così, felici e innamorati. In sostanza si tratta di una pellicola impersonale, priva di inventiva, che si dimentica facilmente. Poche le sequenze degne di esser ricordate. Tra queste si segnala lo scontro finale con due interi schieramenti in costume contrapposti e con cadute di cavalli che anticipano, di qualche anno, quelle che si vedranno nello spaghetti western. Non gode di grande fama tra gli appassionati.

Caterina di Russia (1962) Di ben altro tenore è Caterina di Russia (1962), primo vero film importante diretto da Umberto Lenzi. Lo produce Fortunato Misiano che conferma il sodalizio col regista, stringendo un accordo con un coproduttore francese. Il film, ambientato nella seconda metà del settecento, viene girato a Zagabria e ripropone le vicende che videro Caterina II di Russia detronizzare il marito Pietro III dall'incarico di Zar. Lenzi scrive soggetto e sceneggiatura con Guido Malatesta, già regista di svariati peplum, plasmando una Caterina vittima delle follie di un marito pazzo e crudele, così da trovarsi costretta, per il bene della Russia stessa, a porsi a capo dei cosacchi per assumere il controllo dello stato. Lenzi caratterizza bene i personaggi principali, tra i quali è indimenticabile Raoul Grassilli nei panni di Pietro III. Il suo è un personaggio malato, arrogante, che precipita in una spirale di follia che lo porta a inveire persino contro fantasmi e a dare ordini fuori da ogni logica, pretendendo di saperne più di generali e consulenti vari, del tutto incapace di recepire consigli e critiche. Grassilli giganteggia su tutti, con una performance allucinata che si ricorda tra le migliori della sua carriera. Indimenticabile all'epilogo quando, ormai prigioniero dei ribelli, chiede a più riprese di portare con se il violino, che suona per tutto il corso del film, tenendolo tra le braccia alla stregua di una madre che culla il suo bambino. Lo strumento è ormai l'unica cosa che gli è rimasta, dopo sei mesi da despota bizzoso e irresponsabile (ordina continuamente stermini a danno della popolazione e di chi manifesta opinioni divergenti), del tutto incapace di gestire, per effetto dei suoi atteggiamenti da fanciullo viziato, un ruolo tanto importante. “Perché è così difficile prendere una decisione?” chiederà in un momento topico del film, cambiando idea di continuo tra soluzioni assai diverse tra loro. Molto più razionale e intelligente Caterina, cui dà corpo, causa l'indi170 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sponibilità di Anita Ekberg, una non troppo giovane e non troppo attraente Hildegard Knef, vera e propria eroina del cinema tedesco (la prima tedesca a lavorare a Hollywood, sotto contratto della 20th Century Fox, nel secondo dopoguerra, famosa anche come cantante al punto da esser reputata la rivale di Marlene Dietrich), reduce dal film scandalo La Peccatrice (1951) di Willi Forts, in cui aveva suscitato grandi polemiche per una scena in cui era apparsa integralmente nuda. La si ricorda inoltre protagonista in un altro horror scandaloso, tratto dalla penna di Hanns Ewers, nel ruolo della protagonista de La Mandragora (1952), per non parlare dei film americani al fianco di Tyrone Power e Gregory Peck. Caterina è una donna dotata di lungimiranza e visione politica, addirittura di vedute superiori al marito e in grado di parlare a pari grado con gli ufficiali dell'esercito. Nonostante questo è pur sempre una donna, una persona che ha bisogno dell'amore di un uomo con cui costruirsi una vita che tenda alla felicità. Cerca altrove quell'amore che il marito è incapace di darle, ma cade vittima di spasimanti che la corteggiano per motivi politici o strategici. Tra questi figura un giovanissimo e ultra romantico Giacomo Rossi Stuart, papà di Kim e volto storico del cinema di genere, che interpreta un conte polacco incaricato dalla Francia di strappare la fiducia della donna per chiudere vantaggiose relazioni con la Russia. Caterina scoprirà il fine dell'uomo e lo caccerà, cadendo vittima di un profondo senso di tristezza per esser stata usata. “Perché la vita è così ingiusta... perché non posso vivere come le altre donne?” si chiede l'aristocratica “Ho un marito che mi detesta. Sono circondata da intrighi, da tutti questi uomini falsi. Ho sempre sperato di avere vicino qualcuno che mi amasse, che mi aiutasse con sincerità. Purtroppo non l'ho mai avuto, io che posso avere tutto.” È il triste destino di chi detiene il potere. Per sua fortuna troverà il vero amore, proprio quando il marito darà ordine di arrestarla. Al suo fianco arriverà un generale cosacco (il belloccio dalla mascella pronunciata Sergio Fantoni), fuggito dai lavori forzati a cui era stato ingiustamente destinato da Pietro III, che ne conquisterà il cuore, permettendole di esser nominata Zarina di Russia dopo aver debellato l'esercito dello Zar in uno spettacolare finale. In quest'ultima parte spiccano in modo evidente le qualità di Lenzi che ripropone, con capitali ben maggiori e una resa visiva assai potenziata, l'epilogo del precedente Il Trionfo di Robin. Di nuovo abbiamo due schieramenti contrapposti, con cavalleria lanciata al galoppo. Si aggiunge la variante dei cannoni che sparano, provocando cadute di cavalli e morti a profusione. Lenzi gira in modo accademico, ancora un po' impersonale, ma questa 171 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

volta viene eliminato quel senso di artigianalità che caratterizzava le precedenti pellicole. Appare palese lo sforzo produttivo, con una messa in scena a dir poco sfarzosa che vede coinvolto un copioso numero di comparse. La fotografia di Augusto Tiezzi è eccezionale, così come lo sono i costumi e le scenografie, sia interne che esterne. Passo in avanti anche sul versante della colonna sonora che si avvale delle composizioni del maestro Lavagnino. Ne deriva un film un po' lento, per il suo narrare la vita di corte dell'alta aristocrazia russa, con azione concentrata nella parte finale, ma caratterizzato da una cura generale di primario livello. Cinema storico in costume (parrucconi e largo campionario di vesti regali) dove Lenzi dimostra buon mestiere e attitudine a narrare storie romantiche e avventurose, gestendo al tempo stesso sequenze di pura azione, ricostruendo con fedeltà costumi, ambienti, feste popolari e battaglie. Gode dell'apprezzamento di svariati appassionati.

L'Invincibile Cavaliere Mascherato (1963) Umberto Lenzi prosegue il sodalizio con Fortunato Misiano e dirige, avvalendosi pressoché del medesimo cast tecnico di Caterina di Russia, il meno impegnativo L'Invincibile Cavaliere Mascherato (1963). Il regista scrive il film ancora una volta con Guido Malatesta (e Luciano Martino) sviluppando un soggetto, tutt'altro che originale, di Gino De Santis. Si tratta di un sotto Zorro, un cappa e spada che segue tutti gli stilemi forgiati da Johnston McCulley, lo scrittore canadese che con La Maledizione di Capistrano (1920) introdusse per la prima volta il famoso eroe mascherato in lotta contro i potenti. Il legame con l'opera di McCulley è palese, al punto da sfiorare il plagio. Lo stesso protagonista, interpretato dal francese Pierre Brice, che diventerà in seguito famoso per le interpretazioni dell'indiano Winnetou nella famosa serie western tedesca dedicata a questo personaggio nato dalla penna di Karl May, ricalca le caratteristiche di Don Diego de la Vega; non a caso si chiama anche lui Don Diego, è belloccio, ma appare effeminato, codardo e imbranato. Un atteggiamento debole, tutt'altro che attraente per il gentil sesso, che protegge però la vera personalità smargiassa e temeraria. Sono caratteristiche che faranno scuola nel sottogenere supereroi, si pensi anche ai vari Spiderman e Superman, con la bella di turno, la procace e super sexy Hélène Chanel (che ricordo strepitosa in Due Rrringos nel Texas, 1967, di Marino Girolami), che si innamora del super eroe maschera172 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to (qua con mantello, cappello, vesti e una calzamaglia nera che gli occulta l'intero volto) mentre guarda con una certa perplessità l'uomo che le sta intorno e che poi, a sua insaputa, è proprio l'eroe per cui brama, ma che si comporta da inetto. La Chanel è brava quando la vediamo emozionarsi, subito dopo all'incontro con il cavaliere mascherato, con un atteggiamento sognante e romantico che la fa bramare una vita futura insieme al misterioso valoroso che, di soppianto e con rapidità, viene a trovarla nella casa del nemico. Ma chi è questo eroe? Semplice, sebbene tutti lo cerchino in paese, il cavaliere mascherato dorme e vive nel castello dell'alcade semplicemente perché quest'ultimo pensa di esserne il padre. In realtà Don Diego è un usurpatore, uno spadaccino che ha approfittato della morte del figlio del prepotente alcade per sostituirsi allo stesso, sfruttando il fatto che l'uomo non vede il figlio da quando questo aveva dieci anni. Nei panni di questo personaggio c'è il volto noto di Daniele Vargas, al secolo Daniele Pitani, un prepotente che ha pensato bene di uccidere un nobile per progettare il matrimonio tra la figlia di quest'ultimo e suo figlio, così da incamerarne l'intera ricchezza. La sete di denaro non è l'unico disvalore che guida il personaggio, avvezzo anche a passioni orgiastiche (fa rapire le poveri cortigiane intrappolandole nel proprio castello) e a un egoismo che si sostanzia in un atteggiamento di confinamento a danno di chi ha contratto la peste, così da condannare a morte i malati per la protezione propria e dei suoi uomini. Lenzi si dimostra a proprio agio col genere e affina sempre più le proprie qualità. Nell'occasione siamo in Spagna, nel 1670, durante un'epidemia di peste. Il copione, che non brilla per originalità, regala tuttavia una serie di citazioni che vanno da Zorro ad altre letterarie, tra Manzoni (gli untori) ed Edgar Allan Poe (La maschera della morte rossa). Si segnalano, oltre agli sfarzosi balli in maschera, un bellissimo duello spadaccino tra il cavaliere mascherato e il colored Carlo Latimer, sotto un cielo notturno illuminato dai fulmini, con il cavaliere mascherato che si muove e si atteggia alla stregua di un'entità ectoplasmatica. “Il peggio di questa storia è che comincia a diventare leggenda” dirà un uomo di fiducia dell'antagonista che, nel frattempo, pur di acquisire informazioni, si abbandonerà anche a torture (fuori campo) con ferri incandescenti impressi sulla carne viva dei malcapitati. Alla fine il supereroe si rivelerà e la bella Carmencita (Helénè Chanel), finita sotto l'ala protettiva dell'alcade, scoprirà la realtà sulla morte di proprio padre e vedrà sbocciare l'amore, con l'uomo dei sogni che l'accoglierà tra le proprie braccia e, vendicato il padre di lei, si abbandonerà in un inebriante bacio liberatore delle emozioni fin lì represse. Quanto è strano l'a173 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

more... L'uomo dei sogni era sempre stato sotto gli occhi della bella, solo che questa non lo aveva mai visto per ciò che era realmente, anche se aveva intuito qualcosa, proprio come avverrà con le amanti dei vari Clark Kent e Peter Parker. Un epilogo degno dell'applauso del romantico pubblico femminile del tempo che fu. Ottimi i costumi, le scenografie, la ricostruzione storica di ambienti e situazioni, così come la colonna sonora di Angelo Francesco Lavagnino. Prodotto non straordinario, eppur confezionato in modo dignitoso con apprezzabile senso del ritmo. Zorro contro Maciste (1962) Un vecchio adagio insegna che non si deve cambiare una squadra vincente e così Lenzi insiste con Misiano alla produzione, Malatesta in veste di collaboratore alla sceneggiatura, Augusto Tiezzi alla fotografia e Lavagnino alla colonna sonora. Si persiste altresì sul film leggero, senza impegno, diretto unicamente a intrattenere gli spettatori. Si fa tutto questo prendendo due personaggi all'epoca sulla cresta dell'onda, assai diversi tra loro, per proporli in un contesto nuovo. Da una parte abbiamo Maciste, eroe indiscusso del peplum e del fantastico, dall'altra Zorro, eroe assoluto del cappa e spada. I due personaggi vengono decontestualizzati dal loro habitat naturale e calati nel regno di Nogara (che poi sarebbe la Navarra), dopo che Re Filippo II di Spagna è deceduto a causa della peste. In ballo c'è il futuro del regno, con le due nipoti del re in trepida attesa di conoscere le volontà dello zio defunto, per scoprire chi delle due dovrà salire al trono. Prende così l'abbrivio Zorro Contro Maciste (1963), titolo trash che viene per fortuna sconfessato dalla gradevole e spassosa visione, assai ricca di azione e di colpi di scena. Le due giovani donne, la mora e artificiosa Moira Orfei (eroina del circo e del peplum) e la bionda Grazia Maria Spina (già ammirata in due zorro movie di Luigi Capuano), ingaggiano ciascuna un eroe del posto per mettere per prime le mani sul testamento, protetto da un cofanetto, condotto da un generale dal lontano luogo di morte del re al castello di Nogara. La principessa Malva di Nogara (interpretata dalla Orfei) assume, tramite il suo spasimante interpretato dal bravo Massimo Serato (già presente ne L'Invincibile Cavaliere Mascherato), Maciste ovvero “l'uomo più forte del mondo, sempre pronto ad accorrere quando c'è da riparare a un'ingiustizia”; la cugina ricorre invece ai servigi di Zorro, l'invincibile spadaccino ter174 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rore dei potenti. L'obiettivo delle due nobili è assai diverso. Malva, presuntuosa e ambiziosa, peraltro per nulla dispiaciuta della morte dello zio (si preoccupa piuttosto dell'eredità), vuole verificare prima che lo vedano gli altri chi sia il nome della prescelta, così da modificarlo col proprio nel caso in cui dovesse essere quello della diretta rivale. Malva è una donna crudele, dalla vocazione autoritaria, che non sa stare ai patti e che trama nell'ombra, punendo in modo duro chi le si ribella e costringendo al silenzio chi potrebbe rivelare segreti scomodi. La cugina Isabella è invece donna di tutt'altra tempra, amante della poesia, dal cuore sognante e dall'animo gentile. È innamorata di un giovane poeta, ritroviamo il francese Pierre Brice in un ruolo similare a quello avuto ne L'Invincibile Cavaliere Mascherato, che le dona i libri e le manifesta un amore che teme di non poter vedere corrisposto. L'uomo suggerisce, ma non si manifesta mai, è troppo debole per farlo. Lei lo vorrebbe come compagno, eppure sembra tentennare, forse perché non ne apprezza il carattere. Ne loda tuttavia le abilità artistiche che sembrano soffocate da un atteggiamento arrendevole e gli dice che la sua musa ispiratrice deve essere una donna fortunata se è riuscita a stimolarne un tale estro. “Purtroppo non c'è speranza per il mio amore” sussurra un lacrimoso Brice “Un povero poeta non può mirare troppo in alto, può soltanto amare e sognare.” Isabella intuisce che è lei la musa ispiratrice e si tradisce. “Quante ore felici abbiamo perso per colpa della vostra timidezza” dice allo spasimante che, tuttavia, non fa il passo che lei forse si sarebbe attesa, non approfitta dell'esplicito incoraggiamento, ma se ne va. Si intuisce che una donna tale potrebbe anche rinunciare al trono: è semplice, vicina allo spettatore medio, verrebbe da definire di famiglia. Eppure teme che la cugina possa trasformare il regno di Nogara in un regno del male, una dittatura che possa nuocere all'amato popolo di Nogara. Per questo vuole assicurarsi che siano rispettate le volontà dello zio, a cui era molto legata. Si reca così in Asturia e assolda il misterioso Zorro, uomo mascherato, imprevedibile e sfuggevole, bardato di nero con un lungo mantello che ne avvolge le forme. È stato il suo spasimante poeta a suggerirne il nome. “È un uomo capace di qualunque impresa. È intelligente, forte, dotato di un fascino strano” rivela la donna al poeta, dopo averlo conosciuto. Quest'ultimo fa il muso cupo, finge di esser geloso e lei se ne compiace, tentando comunque di tranquillizzarlo. Si conferma dunque lo sdoppiamento di personalità del supereroe, impacciato nella vita di tutti i giorni, che ruba il cuore alla donna che ama ricorrendo a una personalità fantomatica e celando la propria vera identità salvo rivelarsi alla fine. 175 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Intanto tutto il film ruota attorno al cofanetto che passa di mano in mano, anche perché un gruppo di banditi, agli ordini dell'ottimo Andrea Aureli, assalta, in una sequenza che omaggia Ombre Rosse (1939) di John Ford, i soldati reali. Assistiamo a una scena di massa che vede i manigoldi lanciare, da un crostone, massi, scagliare frecce e poi ingaggiare duelli a colpi di spada fino a sottrarre il cofanetto. Il capo dei banditi capisce subito la portata dell'oggetto, ma se lo vede soffiare sotto il naso da Maciste che da solo demolisce l'intera banda del malvivente, penetrando nel covo di questi ultimi e facendo uso della sola forza muscolare. Il potente Maciste non riesce tuttavia a evitare l'arguzia di Zorro. Lo spadaccino, celato sotto una maschera di Satana, gli sottrae il cofanetto e lo sostituisce con uno farlocco che poi viene recuperato dal bandito interpretato da Aureli che, convinto di aver recuperato il maltolto, pensa bene di scendere a trattative con l'entourage della principessa Malva. Intanto, Maciste e Zorro, dapprima schierati l'uno contro l'altro, finiscono per unire le forze, perché entrambi sono condotti da valorosi principi e comprendono il vero fine della principessa Malva. Maciste, interpretato dal corpulento Sergio Ciani (in arte Alan Steel), ex controfigura di Steve Reeves, che se ne va in giro per tutto il film a torso nudo per mostrare la gonfiatissima muscolatura, capisce di esser stato giocato dalla Principessa Malva. Questa lo aveva convinto a operare per una nobile causa non corrispondente alla realtà. Assoldato dopo esser stato ammirato in uno spettacolo in cui metteva in mostra la propria forza per raggranellare denari da donare a bambini malati, Maciste scopre di esser stato usato con la convinzione di rispondere al prototipo di uomo tutto muscoli e niente cervello. Il “nostro” dimostrerà invece di esser intelligente e darà filo da torcere al più simpatico e inafferrabile Zorro. I due, attraverso una serie di peripezie, si strapperanno di mano in continuazione il cofanetto che giungerà sotto gli occhi delle due pretendenti al trono, proprio quando la principessa Malva sarà giunta al punto di farsi eleggere regina del regno, contro ogni principio e regola. Sarà la buona e ragionevole Isabella però l'incaricata a scalare le gerarchie. Alla fine giustizia è fatta e il bene vince sul male e non finisce qua... vince anche l'amore. Sia Maciste che Zorro, dopo aver riparato all'ingiustizia che stava per compiersi, spariscono dagli occhi della nuova regina, rifiutando premi e onori. “Ho uno strano destino” rivela Maciste alla regina di Nogara “Quello di dover correre in cerca di avventure, di pericoli, di ingiustizie da riparare e sempre da solo.” In realtà, a sua sorpresa, una damigella di corte lo attende e lo fa perché gli rivela il proprio amore, dicendogli che sarà pure forte ma che le donne non le conosce 176 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di certo. Poco dopo appare anche Zorro, sempre al cospetto della regina, rispondendo allo stesso modo alla domanda della donna che non capisce perché anche lui abbia rifiutato ogni riconoscimento, Vedendosi rispondere come già fatto da Maciste, lei afferma che sono davvero pochi gli uomini come Zorro e Maciste. “Questo è il guaio del mondo, maestà!” esclama Zorro, che poi, per metterla alla prova, le rivela il proprio amore. La regina incassa con piacere, però dice di amare un altro. Si, ama il triste e timido poeta che non ha neppure il coraggio di baciarla. Beh, se Maciste è imbranato con le donne, la regina Isabella è imbranata con gli uomini. Zorro si toglie la maschera e chi c'è sotto? Il timido e arrendevole poeta. Niente di meglio per trasformare la fiamma di quell'amore in un incendio. Lenzi chiude ancora col primo piano sui due protagonisti che si abbandonano in un bacio preludio di una vita da sogno. Il romanticismo del regista trapela ancora una volta dalla scorza del burbero. Pellicola gradevole, senza ambizioni, ma che raggiunge il risultato di intrattenere e divertire per effetto di un grande senso dell'azione e del ritmo, nonché di sufficienti interpretazioni. Lenzi comincia a sperimentare qualcosa in regia e regala una bellissima sequenza. Gioca con i cambi di messa a fuoco, per sottolineare lo stordimento di Maciste avvelenato con degli allucinogeni disciolti nel vino, durante un ballo in maschera (volti coperti da maschere giganti di demoni e animali) dal retrogusto caraibico e un po' horror. Da segnalare anche un combattimento tra Maciste e un coccodrillo palesemente meccanico, poi ucciso con un masso scagliato sulla testa. Una sequenza, questa, girata in modo un po' amatoriale, tenendo la bestia fuori campo e facendo muovere una coda al cospetto dell'attore. Nonostante l'imbarazzante titolo, è uno dei film più divertenti del primo Lenzi. Gordiano Lupi scrive: “Avventura e peplum si danno la mano in un titolo icona del trash che dimostra fantasia e voglia di stupire in un periodo storico in cui simili prodotti venivano realizzati per platee di ragazzini di bocca buona, estasiati dalle avventure di due beniamini cinematografici e televisivi. A nessuno interessava niente del realismo storico anche perché una volta superato il primo impatto il film scorre bene tra scene d’azione, combattimenti all’ultimo pugno e lotte tra i due protagonisti, duelli e sequenze di pura azione. Era il cinema italiano di genere, bellezza.”

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L'Ultimo Gladiatore (1964) Di rientro dalla Malesia dove aveva diretto i suoi primi tre film prodotti da Solly Victor Blanco ovvero Sandokan e la Tigre di Mompracem (1963), Sandok il Maciste della Giungla (1964) e I Pirati della Malesia (1964), Umberto Lenzi gira L'Ultimo Gladiatore (1964). Nell'occasione passa alla corte di Alfonso Sansone (unito a dei coproduttori francesi) che, qualche anno dopo, associato al polacco Henryk Chroscicki, realizzerà importanti spaghetti western quali Da Uomo a Uomo (1967) di Petroni, I Giorni dell'Ira (1967) di Valerii e Il Grande Duello (1972) di Santi. Film storico, ambientato nella Roma del 41 dopo cristo nelle fasi terminali dell'impero di Caligola. Il duo Gian Paolo Callegari e Albert Visentin, specialisti nel peplum, stendono un copione con diverse verosimiglianze storiche, tutto fatto di congiure e intrighi per assumere il controllo di Roma. Si parte da un Caligola bizzoso e dissoluto, interpretato da un eccellente Charles Borromei, che se la ride in modo sguaiato ed effeminato, nominando il suo cavallo Incitatus senatore ed istituendo la possibilità di procedere a seconde nozze; si prosegue con l'assassinio di Caligola ordito dalla perfida Messalina, giovane donna di eccezionale bellezza pupilla dell'imperatore. Quest'ultima, cui dà corpo una notevole Lisa Gastoni, si accorda segretamente col politico Cassio Cherea, che lotta in favore della Repubblica contro le dittature dei despoti, salvo poi volargli le spalle e farlo uccidere, così da far salire al trono il marito Claudio, un vecchio intellettuale che si dimostrerà tuttavia più valoroso di quanto si sarebbe pensato. La donna, infatti, trama con l'amante (Gaio Silio, ovvero l'attore Jean Claudio) per gestire in prima persona il potere su Roma. Invisa ad alcuni senatori, cadrà vittima dei suoi stessi perfidi piani. Alla vicenda storica di Messalina e dell'imperatore Claudio, subentrato a Caligola, gli sceneggiatori uniscano le fantasiose peripezie di un gladiatore, interpretato da un agile e aitante Richard Harrison (bravo nelle scene d'azione, legnoso in quelle recitative), fatto deportare a Roma da Caligola, dopo una campagna in Britannia in cui il combattente si era misurato contro le legioni romane con raro ardimento. L'uomo non è un soldato qualunque, bensì l'erede al trono della Britannia. Molto prima di Ridley Scott e del suo Il Gladiatore (2000), Lenzi porta in scena i combattimenti in arena con tutto il pubblico che inneggia in favore del valoroso gladiatore, chiamandolo britanno (anziché ispanico) e chiedendone la liberazione. Combattente imbattibile ma anche irriverente. L'imperatore lo invita a terminare gli avversari ormai resi inermi ma lui, 178 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

invece di assecondarlo, gli scaglia dall'arena una scure facendola piantare a pochi centimetri dall'esterrefatto imperatore che, dopo essersi ripreso dallo svenimento, provvederà a farlo imprigionare. Il copione è fracassone, non sa bene dove andare a parare, tanto che alla fine sono Lisa Gastoni e la sua Messalina ad assurgere al ruolo di protagonisti. L'attrice italo-irlandese è tanto bella quanto brava. Affascinante, provocante, al tempo stesso decisa e aggressiva. È lei che muove i fili di tutta la vicenda, con uomini passivi che domina dall'alto della propria eleganza. Purtroppo il film paga il fatto di essere uscito in un periodo ancora troppo legato alla morale cattolica e non viene aiutato da un erotismo che, probabilmente, avrebbe permesso di fargli guadagnare punti. Si ricorda infatti che il personaggio storico di Messalina ben si sarebbe prestato a una tale evoluzione narrativa. Sono risaputi i suoi modi libertini, la sua predilezione per una vita trasgressiva e sregolata. Si dice che avesse convinto il marito, di trent'anni più anziano, di ordinare a tutti i sudditi più attraenti di cedere alle sue avance e che si rendesse protagonista di scappatelle nei bordelli dove sembra abbia sfidato una prostituta sostenendo venticinque rapporti sessuali in ventiquattro ore. Caratterizzazione interessante che gli sceneggiatori si limitano a suggerire. La Gastoni è molto brava ad ammiccare, a stimolare una certa carica sessuale che arriva allo spettatore dei nostri tempi, figurarsi a quello degli anni sessanta. Al riguardo è centrale la scena in cui fa salire in camera da letto il gladiatore britanno e cerca, in modo molto elegante, di sedurlo, accarezzandogli una spalla e dicendogli che forse ha fatto male a convincerlo con la forza a diventare sua guardia del corpo. Lo ha infatti indotto alla resa, facendo torturare la fidanzata intrappolata in una sorta di antesignana vergine di Norimberga. Il gladiatore però è un vero signore, non cede alle tentazioni, né si fa corrompere dagli agi e dai lussi che la donna gli propone. Risponde a un'etica che lo porta a non cedere agli inviti della sua padrona che lo vorrebbe trasformare in un sicario. “Non uccido un vecchio inerme!” griderà al cospetto di un senatore, nemico giurato di Messalina, ormai piegato alla sua volontà e incapace di difendersi. Alla fine, l'uomo si libererà dall'influenza della donna e collaborerà con i detrattori della stessa, tra i quali il marito (l'Imperatore Claudio), reduce da una campagna bellica, ormai convinto dell'infedeltà della moglie. Pellicola onesta, che fa sfoggio di un'ottima confezione, ma che non riesce a coinvolgere più del dovuto lo spettatore per effetto di una sceneggiatura che non fornisce adeguati colpi di coda. La storia è piatta e anche i dialoghi non sono graffianti. Lenzi, dal canto suo, dirige in modo sicuro, sem179 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pre a maggior agio nelle sequenze di massa e senza lesinare nelle lotte a corpo a corpo e negli inseguimenti con cavalli lanciati al galoppo (anche qua cadute spettacolari). Questa volta usa inquadrature strette durante le battaglie, chiudendo sui combattenti così da eliminare quell'effetto amatoriale che inficiava i suoi primi lavori. Le scene degli scontri con scudi, spade e lance resistono alla prova del tempo, così come impressionano positivamente i costumi, le spettacolari scenografie di Pier Vittorio Marchi e la luminosa fotografia di Pier Ludovico Pavoni. Bene anche le interpretazioni. Nel cast artistico si notano, tra gli altri, una quasi irriconoscibile Marilù Tolo con parruccone biondo, nei panni della fidanzata del gladiatore interpretato dal “leccatissimo” Richard Harrison; e Jimmy Il Fenomeno, pure lui con un lungo parruccone biondo, chiamato a una piccola comparsata. Per Gordiano Lupi è “un buon lavoro – che è improprio definire peplum – con ottima caratterizzazione dei personaggi, soprattutto della perfida Messalina che Lisa Gastoni rende con maliziosa fierezza, vincendo il duello a distanza con la Tolo. Sequenze di battaglia, cavalcate, giochi del circo, scene di massa rese al meglio da un Lenzi in gran forma impegnato a confezionare uno dei migliori film storico avventurosi girati nel primo periodo della sua carriera.”

La Montagna di Luce (1964) Ancora adventure movie con lo spassoso La Montagna di Luce (1964), prodotto dai soliti Tommaso Sagone e Solly V. Bianco, girato ancora una volta in Malesia. Soggetto liberamente ispirato dall'omonimo romanzo scritto nel 1902 da Emilio Salgari, adattato per il cinema da Fulvio Gicca Palli. Ne viene fuori un prodotto molto divertente, denso di avventura e di azione. Il ladruncolo gentiluomo americano Allan Foster, interpretato dal filiforme Richard Harrison (che si mostra anche a petto nudo, mostrando una scolpita ma non gonfiata muscolatura), causa debiti di gioco col rajah del Punjab, si trova costretto a fuggire per l'India. Incuriosito dall'esistenza di un diamante a 200 carati, incastonato sulla fronte di una statua del Dio locale Dharma Raja protetta all'interno di un tempio religioso (il Tempio delle mille luci), decide di tentare il colpo. L'uomo infatti ha già svaligiato un'importante banca di New York e l'incommensurabile valore del gioiello, chiamato La Montagna di Luce per via dei suoi riflessi, lo alletta in modo ossessivo. Stringe così un accordo con un fachiro del posto, assai abile nell'arte dell'illusionismo (riesce persino ad animare e irrigidire corde con la forza 180 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

del pensiero), chiamato Sitama (lo interpreta il colored statunitense Wilbert Bradley), e insieme a lui prova a rubare il gioiello, organizzando un elaborato stratagemma a base di polveri soporifere, esplosivo e cordame con cui darsi alla fuga dall'alto della cupola sovrastante il tempio. Il ladro sfida le autorità religiose del posto e, durante un rito di riconoscenza verso il Dio rappresentato dall'enorme statua, dopo aver spaventato i fedeli per effetto di una serie di esplosioni, guada il fossato infestato da un coccodrillo e scala la statua fino a impadronirsi del diamante. Obiettivo centrato, ma ancora molto da fare per darsi alla fuga. I due soci superano l'insidia di un'orda di topi e si preparano a festeggiare, se non fosse per il contrattempo che vede Sitama precipitare in una trappola e finire in balia di una tigre, per sua fortuna, poco affamata. Invece di aiutarlo, Allan pensa bene di sfruttare l'occasione per tenere tutto per sé il gioiello e si allontana di gran carriera. Non ha tuttavia fatto i conti né con la caparbietà del fachiro né con il rajah del Punjab che, a sua insaputa, gestisce da lontano le operazioni infatuato dalla voglia di possedere il gioiello per ragioni collezionistiche. Quest'ultimo, catturato l'americano, propone ad Allan la consegna in cambio dell'azzeramento dei suoi debiti. L'americano si trova costretto ad accettare, ma non sa che l'altro è intenzionato comunque a ucciderlo per cancellare un pericoloso testimone. Beffardo, il rajah chiede ad Allan di scegliere, tra acqua e fuoco, quale modalità di morte preferire. Alla fine, Allan, grazie all'aiuto di una danzatrice (la bella Luciana Gilli) e alle sue mille astuzie, riuscirà a salvarsi dagli agguati orditi dagli altri pretendenti al diamante e, pur subendone la sottrazione, riconquisterà “la montagna di luce.” Tutto a posto, manco per idea. L'avventura, ricca di pericoli e con l'esistenza continuamente in bilico tra vita e morte, ha portato l'uomo a scoprire l'amore per la giovane danzatrice che gli rivela di contraccambiarne il sentimento. “Lilamani, ti ho trascinato in un'avventura senza speranza” piange Allan, ormai sottoposto alla tortura mortale ordita dal rajah. Lui e la sua donna sono bloccati in uno spazio angusto in cui discende una cascata d'acqua che finirà per farli annegare, a meno che... giustappunto un miracolo occorrerebbe. “Ma perché sei tornato? Io non avrei mai rivelato il nascondiglio del diamante. E se mi avessero ucciso avresti potuto ritrovarlo sul mio corpo” gli chiede la giovane, dicendo che avrebbe potuto recuperare il diamante lasciando lei nelle mani dei nemici. “Ci ho pensato, lo confesso” afferma Allan “Stavo per darmela a gambe, poi ho capito che mi eri più cara della montagna di luce. Ti amo, Lilamani!” La ragazza incassa e rivela che anche lei ama il giovane. Quello che Allan non sa e che Lilamani si è già liberata dal cordame e sta utilizzando la 181 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

situazione per estorcere promesse e far aprire il cuore del suo uomo. Eh, le donne... quando si dice che ne sanno sempre una più del diavolo un motivo ci sarà. È stata proprio lei, da quando Allan ha tradito la fiducia del fachiro, ad aiutare l'uomo, sfidando le superstizioni della propria religione, ma solo perché contava di convincerlo a restituire il gioiello. Così lo porta a giurare, in caso di salvezza, di recuperare la montagna di luce per riconsegnarla ai legittimi proprietari. “Avremo una vita piena di disgrazie se non restituirai il gioiello” lo implora di continuo. Allan cede all'invito, ma la sua è una di quelle promesse che si fanno in circostanze tanto drastiche da non pensare di superarle. Pensiero legittimo, se non fosse che la donna è già libera e solo ricevuta la promessa mostra all'uomo la realtà della situazione. La bellezza del feuilleton tracima delle pagine di carta e approda sulla pellicola. Bello davvero, ma attenzione a giocare tiri mancini a vecchi volponi come Allan Foster. I due escono dalla trappola. Sono fuori pericolo e Allan ritratta subito la posizione. Deve però fare i conti con la testardaggine della ragazza che rifiuta di seguirlo. L'amore da una parte, la ricchezza dall'altra... Quale strada intraprendere? Allan cerca di far ragionare l'amante, le promette una vita di agi. “Un uomo che dimentica tanto precocemente le sue promesse non può farne altre” lo punzecchia lo donna. Presto fatto, Allan organizza la riconsegna del gioiello alle autorità religiose, facendo indispettire il rajah, presente al fatto e beffato nel suo progetto di accaparrarsi l'oggetto. “Ma perché lo avete restituito?” gli chiederà. Allan, sorridendo, risponderà, volgendosi alla futura compagna di vita che gli corre incontro tutta contenta, felice che il suo uomo le abbia obbedito: “Le donne, altezza!” In realtà, la natura da filibustiere del “nostro” manigoldo non trova alcuna cura. La giovane danzatrice, che crede che il suo amante sia un uomo buono, non è affatto riuscita a redimerlo, ma è stata giocata come tutti gli altri. Allan ha sostituito il diamante con una copia, prendendo in castagna tutti, e ha promesso in vendita l'originale al vice re delle Indie. Film molto carino, forse il più riuscito del primo Lenzi. Il regista dimostra la propria maturazione e gioca nel ricercare l'inquadratura d'effetto. Bella una scena in cui vediamo sul lato sinistro dello schermo la ventenne Luciana Gilli (breve carriera la sua, al servizio soprattutto di peplum) e sulla destra Richard Harrison, riflesso su uno specchio racchiuso in una sfarzosa cornice. Molto simpatico anche l'epilogo in cui, da perfetto primo Lenzi, vediamo i due protagonisti baciarsi in primo piano, con Luciana Gilli che chiede al suo uomo se sia felice, pur avendo restituito il gioiello. “Ora Dharma Raja sarà benevolo con noi” gli rivela, esplodendo in un radioso sorri182 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

so. Harrison annuisce e i due si dirigono verso la macchina da presa, per uscire dal campo visivo, passando a sinistra della stessa. Un momento però... Harrison torna indietro, rientra in campo e, in primissimo piano, guarda in macchina e si rivolge direttamente allo spettatore, proprio come farà Arno Frisch in Funny Games (1997) di Michael Haneke (tra l'altro anche in questo film, i manigoldi chiederanno alle vittime come preferiscono morire). “Ah, un momento... spero che il Dio non mi serberà rancore se sulla sua fonte brillerà un'imitazione” ridacchia un burlonesco quanto smargiasso Harrison che poi alza la mano e mostra in primo piano l'originale “montagna di luce.” Soluzione semplice ma, per l'epoca, antesignana di un certo modo di fare cinema. Una sorta di momento metacinematografico che non può non colpire lo spettatore. Piccole trovate che, unite alle interpretazioni più che buone, tra tutti quella dell'americano Wilbert Bradley pressoché sempre presente nei film girati in Malesia da Lenzi, e a una cura generale assai alta, fanno de La Montagna di Luce un ottimo prodotto, che anticipa gli adventure movie che saranno girati negli anni '80 da Antonio Margheriti sulla scia del successo di Indiana Jones (1981) di Steven Spielberg. Bene l'azione, assai presente, e soprattutto la fotografia di Angelo Lotti che usa delle splendide luci azzurrognole per illuminare il tempio. Il direttore della fotografia si rivela inoltre assai bravo nelle buie location, facendo ricorso a luci soffuse che aprono spicchi sottratti dal nero pece, così da permettere di vedere la scena, evitando il fastidioso effetto buio totale. Suggestive le orientali scenografie. Film da rivalutare. Gordiano Lupi scrive: “Molto bravo Harrison, credibile in un ruolo salgariano che Lenzi e Gicca Palli utilizzano in versione ancor più avventurosa. Ambientazione e luoghi sono perfetti, così come le sequenze di pura azione non mostrano il fianco a critiche. Sceneggiatura abbastanza prevedibile ma tutto sommato ben strutturata e godibile se si pensa che la pellicola si rivolge a un pubblico popolare e di bocca buona. ”

Le Spie Amano i Fiori (1966) Terzo delle quattro spy story dirette da Lenzi, dopo A 008 Operazione Sterminio (1965) e Superseven Chiama Cairo (1965), probabilmente il più riuscito. Le spie Amano i Fiori è un contorto intrigo di colpi di scena su scala internazionale, scritto e diretto da Umberto Lenzi. Il regista, sempre al servi183 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

zio di Fortunato Misiano (produttore anche delle due precedenti spy story), propone un copione, con venature fantascientifiche, più vicino al noir che allo spionistico. Un film dove si invertono continuamente i ruoli, così che il dante causa diventa il capo dei nemici, questi ultimi passano da avversari a collaboratori, mentre il protagonista, armato di pistola, cerca prima di adempiere l'incarico che gli è stato affidato, poi di scoprire chi muova i fili dietro le quinte e infine di salvarsi la pelle. L'azione prende le mosse in Spagna, si sposta in Francia e da qui a Ginevra per concentrarsi, per buona parte del film, nella fascinosa cornice di Atene, tra modernità e antichità. Lenzi dimostra di apprezzare il contesto ambientale, dato che si sofferma in molte inquadrature logistiche con un continuo gioco fatto di zoom in e zoom out su monumenti, tempi greci e palazzi meta di turisti. All'interno di questo ambiente vediamo il protagonista, il “mascellone” Roger Browne (perfetto per il ruolo), accompagnato da una misteriosa donna dai capelli biondi (Emma Danieli, ex signorina buonasera della Rai e copratagonista nel cult L'Ultimo Uomo sulla Terra di Ubaldo Ragona), muoversi per eliminare tre distinti personaggi a conoscenza di un segreto che il governo inglese vuol che resti tale. I tre infatti sono informati del furto di uno strano congegno, chiamato elettroscometro, capace di togliere l'intera energia elettrica di una città. Più in particolare, uno di questi uomini (non si sa chi), sembra che abbia compreso il funzionamento del macchinario e sappia dare informazioni utili a crearlo. L'agente segreto elimina facilmente i due uomini, ma capisce di essere una pedina di un gioco più grande di lui in cui da carnefice diviene vittima. Finito in Grecia, per uccidere l'ultimo dei tre soggetti che gli sono stati indicati, scopre di esser stato giocato dal suo stesso mandante che vuole far sparire l'oggetto per vederlo sul mercato nero. Girandola di colpi di scena con continui cambi e ribaltamenti di posizione, astuzie, messe in scena, finti omicidi, negozi oggi di un tipo domani di un altro e bluff utili a minare le posizioni di certezza della controparte. Alla fine il nostro riesce a recuperare l'elletroscometro e a consegnarlo alle autorità, ma soprattutto, da grande tombeur de femme, scopre l'amore per la sua collaboratrice che si è trovato, per caso, sul proprio cammino. Lenzi chiude col solito bacio in primo piano dei due protagonisti con la luce di una camera da letto che si spegne e la Danieli che chiede se abbiano messo in funzione l'elettroscometro. L'agente segreto la tranquillizza e da abile seduttore, l'abbraccia e le concede il primo vero bacio del film. “No, cara. Sono io che ho spento la luce. Do inizio al nostro programma.” 184 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Scrittura brillante, eppur stereotipata e non priva di ingenuità. Tra queste l'atteggiamento di un sicario che spara su un manichino convinto di aver ucciso un uomo, con tutta la sua organizzatissima equipe che non si assicura, magari tramite la semplice lettura di un giornale, che vi sia stato un omicidio. Il film è comunque molto utile a Lenzi per allenarsi in quello che diventerà il suo genere prediletto. Gioca con lo zoom, mette in scena inseguimenti automobilistici, ma soprattutto sparatorie anche col ricorso ai mitra, scazzottate e un'atmosfera non lontana da quella che ricostruirà col poliziesco. Il talento si percepisce, specie nello scandire il ritmo e nell'evitare cadute nel ridicolo, ma non è ancora affinato a dovere. Bizzarrissimo momento psichedelico, sul finire, con l'azionamento di una luce allucinogena che sfoca di rosso intenso l'immagine per stordire i prigionieri di una stanza sorvegliata da una futuristica base operativa. Curioso ruolo femminile offerto alla giapponese Yoko Tani (attrice impegnata soprattutto nel cinema francese), che interpreta una pericolosa contro-spia cinese, abile nella comunicazione cifrata corporea e nell'uso delle arti marziali (quanto meno dovrebbe nelle intenzioni del regista). Presenti due confronti fisici, un po' macchinosi, tra lei e la Danieli. Dura, austera e priva di emozioni, finisce con l'innamorarsi del protagonista, morendo tra le sue braccia, non prima di avergli salvato la vita. “Al mio paese non ci insegnano a essere come voi” gli sussurra, per poi spirare, al fine di giustificare la sua incapacità di baciare con passione un uomo. Bel ruolo anche per il cascatore Sal Borgese, giovanissimo e non ancora trentenne. Lo vediamo nei panni di un sicario alquanto dinamico. Ruolo da cattivone per il solito Daniele Vargas, doppiogiochista che sacrifica amicizie e parola data sull'altare del denaro, vero e proprio attore feticcio del primo Lenzi. Cadrà vittima di uno scherzetto ordito dalla sua ex dipendente cinese, per nulla contenta di esser stata usata e poi scaricata. “Spero che ora sappia cos'è uno scherzo cinese!” la rivendicazione, lasciata registrata su un nastro, a firma dell'omicidio. Belle le musiche di Armando Trovajoli che spianano la strada allo stile che poi sarà ripreso nel poliziesco all'italiana. Di pregevole fattura fotografia e montaggio. Film onesto e con momenti di spettacolarità.

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Capitolo Secondo Due western come contropartita per il debutto nel Macaroni Combat

Scrivere un articolo da inserire in un volume destinato a finire nella biblioteca di molti appassionati di genere è sempre un onore e, al tempo stesso, una responsabilità di cui si sente spesso il peso. Farlo poi parlando di un qualcosa che l'autore, in questo caso uno dei più grandi registi di genere, odiava diventa ancor più problematico, un vero e proprio campo minato su cui bisogna star attenti a dove si mettono i piedi. Se Umberto Lenzi oggi fosse ancora vivo, con tutta probabilità, salterebbe un'unica parte nella lettura di questo volume a lui interamente dedicato. E questa parte sarebbe proprio quella che Gordiano Lupi mi ha assegnato, non certo per ragioni legate al giudizio di Lenzi, piuttosto per i volumi western che ho pubblicato con le Edizioni Il Foglio. Quando anni fa, grazie a facebook, riuscii a contattare Umberto Lenzi per concordare un'intervista, essendo io impegnato nella stesura di Spaghetti Western, gli chiesi, tanto per parlare, se avesse avuto qualche aneddoto legato alla sua produzione western. La risposta che mi dette fu tutt'altro che entusiasta. “Lei che è uno studente” mi scrisse “dovrebbe sapere che quei film li feci per ragioni alimentari, per cui non mi va affatto di parlarne.” Così troncò sul nascere ogni ulteriore sviluppo sull'argomento. Non è un mistero che Lenzi considerasse, peraltro un po' a torto, i suoi western tra i peggiori film da lui diretti. La ragione di questo ostracismo autoindotto è riconducibile alla genesi di questi film. Da sempre amante dei film di guerra e, in misura più marcata, della Guerra di Spagna, di cui era un vero e proprio specialista, si trovò costretto a scendere a compromessi per ottenere i fondi necessari alla realizzazione del suo primo film di guerra (ispirato dalle letture delle memorie di Winston Churchill), tra l'altro uno dei più innovativi nel periodo insieme a Dalle Ardenne all'Inferno (1967) di De Martino, con cui condivide il primato di primo vero e proprio macaroni combat. Così nel 1967, dopo aver avuto dei problemi con Fulvio Lucisano, concluse un importante contratto con Alberto Grimaldi, titolare della casa produttrice Pea. Grimaldi era un nome centrale, tra i più importanti del periodo, essendo tra l'altro il produttore di Sergio Leone, ol187 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tre che degli altri due assi del genere western Sergio Sollima e Sergio Corbucci. Era stato proprio Grimaldi a permettere al grande maestro romano il salto qualitativo con Per Qualche Dollaro in Più (1965) e soprattutto con Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo (1966), dopo la tribolata esperienza, terminata con due cause giudiziarie, alla corte della Jolly Film per la quale aveva diretto Per un Pugno di Dollari (1964). Lenzi riuscì a chiudere questo contratto forte soprattutto del grande successo ottenuto, l'anno prima, con l'avventuroso Kriminal (1966), preceduto da una serie di spionisitici, avventurosi e un pugno di adattamenti dai romanzi di Emilio Salgari. La condizione per firmare il contratto con la Pea, funzionale alla direzione di un film di guerra, vide costretto Lenzi ad accettare la clausola di girare due western come contropartita. Il regista non era interessato a cowboy e indiani, ma la possibilità di dirigere un war movie con una casa produttrice come la Pea era un'occasione troppo ghiotta per essere declinata. Accettò la proposta e debuttò sia in quello che gli americani definiranno il macaroni combat, divenendone uno dei registi centrali, sia, allo stesso tempo, nel western, pur con un entusiasmo ben diverso. Da sempre appassionato e convinto difensore dei suoi film di guerra – ne girerà quattro – avrà un atteggiamento diametralmente opposto quando parlerà dei suoi western, forse anche indispettito dall'atteggiamento della critica e del pubblico. Il war movie italiano, salvo rare eccezioni (tra queste Quentin Tarantino), non godrà mai di grande considerazione, a differenza dello spaghetti-western, da sempre amato dal pubblico italiano ed estero. La scelta della produzione di condizionare la realizzazione di quello che poi sarà intitolato Attentato ai Tre Grandi (1967) trovava giustificazione in un senso di sfiducia sulla riuscita commerciale dell'operazione. Grimaldi voleva premunirsi cercando, nella brutta ipotesi di un fiasco al botteghino, di recuperare i capitali investiti con la resa, pressoché certa, dei due successivi western. Ecco allora l'ideazione di due prodotti che vennero così ad assumere consistenza di una vera e propria assicurazione sul risultato del primo film. Poco importava a Grimaldi se il western fosse ormai in grossa difficoltà a proporre novità. Erano gli anni in cui Sergio Leone stava girando C'era una Volta il West (1968), film con cui si proponeva di porre la pietra tombale sul genere, ormai inflazionato da prodotti di imitazione l'uno uguale all'altro. Nessuno avrebbe immaginato quanto sarebbe successo, di lì a poco, con la nuova vitalità e la declinazione verso la commedia o la commistione con i prodotti di Hong Kong; una deriva, quest'ultima, dovuta ai successi marcati, da una parte, dalla coppia Bud Spencer e Terence Hill e, dall'altra, da Bruce Lee. 188 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Nonostante tutto infatti, nel 1968, la gente andava ancora vedere i western e per un produttore come Grimaldi questo era sufficiente, perché utilizzava il cinema bis non come un punto di arrivo, bensì quale trampolino di lancio per finanziare film autoriali quali Queimada (1969) di Gillo Pontecorvo e il Satyricon (1969) di Federico Fellini con cui cercare di strappare premi internazionali o comunque aggradare la critica con la c.d. “c” maiuscola. All'epoca si pensava che solo questa seconda tipologia di film sarebbe passata alla storia, mentre il cinema popolare sarebbe scomparso al trascorrere dei lustri come un ghiacciolo sotto l'azione costante del calore di un sole estivo. Lenzi dunque si trovò costretto a perdere un anno di carriera, il 1968, per scrivere e dirigere due pellicole che non gli interessavano e che, soprattutto, sentiva aliene ai propri interessi. È probabilmente per questo che non le accetterà mai, peggio del cannibal movie, un genere peraltro da lui stesso introdotto con l'antesignano Il Paese del Sesso Selvaggio (1972), aneddoto che teneva sempre a sottolineare qualificandosi quale inventore del genere, rispondendo aspramente a chi gli diceva che era stato Ruggero Deodato a codificarlo. Se infatti per il western Lenzi non userà mai parole di rivalutazione, per i cannibalici, da lui odiati, arriverà a dire di aver rivisto la propria posizione, poiché se tante persone elogiavano certi prodotti evidentemente qualcosa di buono lo doveva aver fatto. Dunque un approccio quasi schifato dei propri western che mal si concilia al vero livello dei film. Pur peccando di originalità, sono western di sufficiente fattura, gradevoli da vedere e ben messi in scena. Niente di cui vergognarsi, insomma, anzi... Lenzi li gira entrambi in Spagna, finanziato in via principale da Alberto Grimaldi, che poi si ritira al ruolo di distributore del terzo film lasciando la produzione principale al suo fido Salvatore Alabiso, e da piccole case di produzione spagnole. Si tratta di western piuttosto diversi tra loro, ma comunque molto legati al filone in voga nel periodo. Dunque western convenzionali, giustificati dai motivi che abbiamo sopra accennato, che rifiutano di cercare nuove vie, anche se Lenzi qualcosa di suo dentro lo butta. Entrambi vantano discreti cast artistici e ripropongono, quasi del tutto, il medesimo cast tecnico.

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Tutto per Tutto (1968) Il primo western diretto da Umberto Lenzi è Tutto per Tutto (1968), originariamente in lavorazione col titolo Il Prezzo del Coraggio. Lenzi lo scrive insieme a Nino Stresa, che firma da solo il soggetto. Stresa, pseudonimo di Sigfrido Tomba, non gode di grande fama di sceneggiatore, pur avendo all'attivo una trentina di copioni, uno dei quali da lui stesso diretto (I Vagabondi delle Stelle del 1956), con un giovanissimo Mario Girotti che poi sarebbe passato alla storia quale Terence Hill. Di formazione giornalistica, a partire dal 1950, Stresa era entrato nel mondo del cinema con La Grande Rinuncia diretto da Aldo Vergano. Forte il sodalizio stretto con Mario Costa, di cui può considerarsi sceneggiatore di fiducia in virtù di sei collaborazioni avviate da Addio per Sempre (1958). Orientato al cinema drammatico e sentimentale, aveva firmato copioni di opere tutt'altro che artistiche ma di un certo successo al botteghino, tenendo a battesimo Sergio Corbucci grazie ai copioni di due dei suoi primi film: La Peccatrice dell'Isola (1952) e Acque Amare (1954). Importante la svolta, a inizio anni sessanta, in direzione del peplum e dell'avventuroso, primi generi del cinema bis della nostra produzione cinematografica. In questo ambito aveva firmato i copioni dei vari Il Terrore dei Barbari (1959) di Carlo Campogalliani, La Venere dei Pirati (1960), Il Conquistatore di Corinto (1961) di Mario Costa, Totò Contro il Pirata Nero (1964) di Fernando Cerchio oltre a un primo incontro con Umberto Lenzi in occasione de I Pirati della Malesia (1964). L'affermarsi dello spaghetti western non lo aveva lasciato indifferente, pur non riuscendo a scrivere copioni che sarebbero poi riusciti a conquistare l'alone di culto. È tra i pionieri a tentare l'avventura nel nuovo filone esaltato da Sergio Leone. Lo lancia Mario Costa con il problematico Buffalo Bill, L'Eroe del Far West (1964), il famoso western in cui Mario Brega ruppe il setto nasale e frantumò le mucose a Gordon Scott, e vi dà seguito con Colorado Charlie (1965) di Roberto Mauri. Si tratta di prodotti che finiscono presto nel dimenticatoio. Stresa prova allora la via dello spionistico per ritornare al western altre sei volte per un totale di otto film. Lavora per tre volte con Tulio Demicheli, quindi con Edoardo Mulargia e lo spagnolo Rafael Romero Marchent. Alla fine non si lascia ricordare. In Tutto per Tutto confeziona un soggetto stantio che, tuttavia, a tratti funziona. Stresa prende le battute e alcune situazioni dai vari Per Qualche Dollaro in Più (1965) e Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo (1966) e le fonde con gli stilemi del primo spaghetti western alla Castellari. Ecco allora emergere 190 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un western brillante, giocato sul ritmo e su una simpatia di fondo che tuttavia resta velata e non troppo marcata. La storia ruota sulla continua caccia a un tesoro nascosto che poi finisce di mano in mano. Si parla di 200.000 dollari in lingotti d'oro. Sulla scia dei western di Castellari, tra tutti Vado, l'Ammazzo e Torno (1967), abbiamo un folto numero di personaggi che si accordano per mettere le mani sul bottino, salvo poi tentare di farsi le scarpe l'un l'altro per accrescere le quote di distribuzione. Tutto parte con due personaggi: Johnny Sweet (interpretato da Mark Damon) e il Gufo (interpretato da John Ireland). Un po' come per Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo, li vediamo fregarsi vicendevolmente. Mark Damon ruba, in pieno deserto, il cavallo a Ireland che commette l'ingenuità di fornirgli un passaggio, facendolo salire in groppa dietro alla schiena. Damon salta in sella, sfila la pistola all'uomo e gli ruba il cavallo (scena che sarà riproposta, molti anni dopo, ne Il Bianco, Il Giallo, Il Nero con Giuliano Gemma ed Eli Wallach). Farà poca strada perché, poco dopo, Ireland, tutto vestito di nero (da qui il soprannome Gufo), lo ritroverà in paese dove Damon tenta di fregare a poker i malcapitati giocatori finendo buttato fuori dal locale per la presenza di cinque assi sul tavolo. Lenzi porta avanti la storia con una serie di trovate che vedono i due unirsi per poi dividersi e di nuovo unirsi, fino all'epilogo, tirando in causa una società che, di volta in volta, cambia il proprio target, ma resta sempre formalmente al 50%. Momento centrale è l'incontro tra Damon e due messicani interpretati dai volti notissimi di Eduardo Fajardo (il maggiore Jackson in Django, antagonista di Franco Nero) e Armando Calvo. Sono questi due a fornire l'informazione del tesoro nascosto. Avendo visto il gringo destreggiarsi con abilità con la pistola, pensano bene di assoldarlo per una società a tre. C'è un uomo che è a conoscenza del luogo di sepoltura e questo uomo è chiamato Faccia di Rame. I tre lo andranno a scovare in un diroccato luogo dedicato alla contemplazione religiosa, grazie alla partecipazione di una gran bella donzella, tutta mora e prodiga nel mostrare le cosce, sfilandosi le calze davanti agli uomini. La donna, interpretata da Aurora Julia (accreditata Monica Randall), incarna il classico personaggio femminile che va per la maggiore in questo tipo di trame. Il suo è un doppio gioco a oltranza, cambiando sempre i soci con cui operare, da vera e propria civettuola che la sa fin troppo lunga e sa conquistare le fantasie erotiche degli uomini, scegliendo sempre quelli più forti. È lei a mettere i tre sulle tracce di Faccia di Rame, cui dà corpo un altro grande caratterista del western ispanico ovvero José Torres (attore venezuelano dalla faccia da indio). Fa questo solo perché vuol a sua volta fare in modo che l'uo191 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mo riveli la posizione del tesoro, salvo poi liberarlo nella notte e darsi alla fuga con lui, proponendo una società al 50%. I due fuggiaschi però finiscono nelle grinfie di Ireland che osserva il tutto da lontano ed entra così in gioco quale sesto socio, permettendo ai tre fregati di tornare in ballo e acciuffare i due fuggitivi. “200.000 dollari son tanti, perché non dividere in parti uguali, c'è oro per tutti” si dicono i sei soggetti che decidono così di fare una grande società. Le cose procedono bene finché non mettono le mani sul malloppo. Recuperati i lingotti, pur spartendoli in parti uguali, iniziano a cercare nuove società. Damon e Ireland si accordano per fare le scarpe agli altri soci, così da aumentare la propria quota. Questo continuo associarsi e dissociarsi viene inoltre rotto dalla banda di un peone interpretato dall'immancabile Fernando Sancho, vera e propria leggenda del western ispanico. Quest'ultimo infatti è il responsabile della rapina che ha portato alla sottrazione dell'ingente capitale, sepolto per far raffreddare le acque e trafugato prima da Faccia di Rame e poi dall'improbabile sestetto, in un continuo “ruba te che rubo io”. È ovvio che, informato della depredazione, Carrancho (questo il nome del personaggio di Sancho) voglia recuperare a ogni costo quanto messo da parte. È stata, ancora una volta, l'ammiccante e provocante Aurora Julia a informarlo di quanto accaduto. Fajardo (tutto inebriato dal tesoro, addirittura bacia e lucida col fiato i lingotti), Calvo e Torres finiscono uccisi dagli uomini di Sancho, mentre Damon perde la sua quota dopo esser stato gettato in un pozzo. Alla fine quest'ultimo, aiutato dal ben più attento Ireland, riuscirà ad avere ragione sulla banda di Sancho, ma persisterà nel cercare il colpo grosso provando a fregare tutto il carico al socio. Il Gufo, che in realtà agisce per un fine nobile ovvero riabilitare il fratello, ha pensato bene di sostituire le casse con ferri di cavallo, così che il socio si ritrovi con un pugno di mosche in mano, peraltro rischiando di finire sulla forca perché bloccato da uno sceriffo che è alla ricerca di alcuni rapinatori e pensa che lui abbia il denaro nelle casse. “Ho solo ferri da cavallo, là dentro” prova a dissuaderlo dalla verifica Damon, riscontrando, a gran sorpresa, di avere davvero ferraglia al seguito. Il finale vedrà allora i due fronteggiarsi per il premio di 20.000 dollari riconosciuti a Ireland per aver riconsegnato a chi di dovere il tesoro. Dopo una preparazione da classico duello leoniano, con montaggio serrato di Eugenio Alabiso fatto di primissimi piani sugli occhi e dettagli su pistole nonché mani che scendono sulla fondina, Lenzi sorprende gli spettatori con una trovata tipica dei western di Castellari. Vediamo i due, al momento di sfilare le pistole, sganciarsi i cinturoni e scagliarsi l'uno contro l'altro per una lunga quanto imprevedibile 192 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scazzottata. Ireland alla fine si arrende e lascia il premio al socio, dicendogli che se lo è meritato (ha infatti contribuito a far fuori l'intera banda di Sancho) anche perché lui ha recuperato il carillon che Sancho mostrava per tutto il corso del film. Cosa vi ricorda quest'ultimo particolare? Esatto, il carillon de Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo, anche perché pure qua c'è “aria di famiglia”, solo che questa soffia tra fratello e fratello (anziché tra fratello e sorella). Dunque un western che non introduce niente di nuovo, persino le battute suonano di deja vù (“Il mondo si divide in due categorie...”), ma che è girato con grande mestiere e sfoggia un sollecito ritmo, specie nella prima parte. Lenzi beneficia di un cast artistico di primario livello. Mark Damon è ancora in auge nel genere, arriva dagli ottimi Johnny Oro (1966), Johnny Yuma (1966), Requiescant (1967) e Un Treno per Durango (1968), tutti spaghetti western dotati di un certo culto. Viene ingaggiato per destreggiarsi in un ruolo da simpatica canaglia che anticipa il personaggio alla Terence Hill del dopo Colizzi. Ha il vezzo di toccarsi dietro la nuca per far calare il cappello sugli occhi e si prodiga in un'infinita serie di ammiccamenti. Simpatico e dalla battuta sempre pronta, non si perita a far fuori chi gli si ponga contro, comprese le donne. Ireland, d'altro canto, è chiamato a dar corpo a un personaggio che ricorda il colonnello Douglas Mortimer de Per Qualche Dollaro in Più. Molto meno impulsivo, irradia un certo fascino da uomo maturo e riflessivo. L'attore arriva dal cinema americano di prima fascia, aveva lavorato da spalla a John Wayne, Kirk Douglas e Burt Lancaster, al servizio dei più grandi registi del western americano come John Ford, Howard Hawks, John Sturges e Samuel Fuller con titoli del calibro di Sfida Infernale (1946), Il Fiume Rosso (1948), Sfida all'O.K Corral (1957). Specializzato nei ruoli da cattivo, era riuscito persino a strappare una nomination all'oscar quale migliore attore non protagonista nel 1950 per la performance in Tutti Gli Uomini del Re (1949) di Robert Rossen, oltre che avere un ruolo da gladiatore nel celebre Spartacus (1960) di Stanley Kubrick. Finito nel circuito televisivo americano, sull'esempio di molti illustri colleghi, aveva tentato la carta del cinema italiano giungendo a Roma nel 1967. Interpreterà dieci spaghetti western tra cui l'eccellente Corri, Uomo, Corri (1968) di Sergio Sollima. Gli altri attori sono tutti grandi specialisti del genere a partire dagli indimenticabili Fernando Sancho ed Eduardo Fajardo. Il primo interpreta il suo canonico ruolo di tamarro capobanda messicano, già avuto nei vari Una Pistola per Ringo (1965) di Duccio Tessari e Arizona Colt (1966) di 193 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Michele Lupo, che ride sguaiato, parla in modo irruento, con in collo una bella donna e nel pugno una bottiglia di tequila. Più elaborato e sopra le righe il personaggio di Fajardo, qua con barba di qualche giorno e una taglia da ricercato sul capo, eppure inebriato dalla vista dei lingotti alla stregua di un cocainomane al cospetto di una pista di polvere bianca. Lo vediamo baciarli, ridere con fare ubriaco e poi soccombere per mano degli uomini di Sancho che lo sorprendono sul più bello. Completano il cast grandi caratteristi del calibro di José Torres (una vera e propria sfinge), Raf Baldassarre (uomo di Sancho), Armando Calvo e la bella Aurora Julia. Quest'ultima è assai convincente, specie nelle espressioni sadiche (una punta di erotismo distorto e deviato) che mostra nel vedere pestare gli uomini. Vera e propria tentatrice, si diverte a far scoppiare liti tra il gelosissimo personaggio di Torres e gli altri componenti della banda, davanti ai quali mostra generosi spacchi di gonna (si ripeterà, pur in un ruolo assai contenuto, in Sole Rosso di Terence Young). Originaria di Barcellona, si tratta di un'attrice di lungo corso, dal bellissimo taglio di occhi. Già premiata in Spagna, quale migliore attrice non protagonista per il musical Cristina Guzman (1968), nonché apparsa in oltre trenta film, tra i quali 002 Operazione Luna (1965), I Due Parà (1965) di Lucio Fulci di spalla a Franchi & Ingrassia e svariati serial televisivi spagnoli, vincerà nel proseguo carriera molteplici premi in patria, continuando anche ad apparire in cult del cinema bis nostrano quali Il Corsaro Nero (1971) di Gicca Palli e il thriller Mio Caro Assassino (1972) di Tonino Valerii. Dunque un bel mix tecnico e artistico cui si aggiungono delle eccellenti scenografie e un'ottima fotografia del quotato Alejandro Ulloa. Al di là dell'ottimo panorama naturale spagnolo, spiccano un bellissimo villaggio fantasma (bella la scena con una cassaforte da cui spuntano alcuni dollari e che, una volta aperta, mostra al proprio interno la tana di un topo) e un fatiscente luogo di culto assai diroccato eppure affascinante. Lenzi mostra grande talento e attenzione nell'offrire queste inquadrature. Regala anche un'uccisione, su due stacchi, di un serpente che sibila a terra e su ci si abbatte il machete di Torres. Lenzi indugia, in questa scena, sulla testa mozzata del rettile, offrendo un anticipo di quanto farà vedere qualche anno dopo con i cannibalici. “Non è esaltante nella storia” per spaghettiwestern.altervista.org, ma comunque ben interpretato e diretto. 800Spaghettiwesterns.blogspot.it lo giudica “vivace e gradevole, pieno di combattimenti e sparatorie che rendono il ritmo sempre sollecito.” Per quel che ci riguarda lo possiamo definire un film 194 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

divertente che si lascia vedere, ma che mostra la scarsa verve creativa in fase di scrittura di Lenzi e di Stresa che si limitano a guardarsi attorno per assemblare stilemi delle tipologie di western più in voga nel periodo. Umberto Lenzi lo definisce un “film comico senza consapevolezza.” Bruttina la colonna sonora di Marcello Giombini. Bizzarri i coloratissimi titoli di testa.

Una Pistola per Cento Bare (1968) Di gran lunga più innovativo e con dei momenti alquanto bizzarri per il genere è il secondo contributo del regista, confezionato non appena ultimato Tutto per Tutto. Lenzi scrive e dirige Una Pistola per Cento Bare (1968), prendendo in mano il progetto fin dalla sua ideazione e gli conferisce un'atmosfera a tratti estraniante. Concepisce il soggetto e lo sviluppa insieme a Marco Leto, suo vecchio compagno al Centro Sperimentale Cinematografico. Leto era soprattutto un aiuto regista che, qualche anno dopo, proverà la via della regia sia al cinema che in televisione senza conseguire risultati di particolare tenore. Aiuto regia soprattutto di Franco Rossi, con cui aveva debuttato in tale veste nel 1954 nel film Il Seduttore proseguendo per cinque ulteriori volte, e di Giuseppe Orlandini (due collaborazioni), aveva altresì assistito Mario Monicelli ne Un Eroe dei Nostri Tempi (1955) e Florestano Vancini ne La Lunga Notte del '43 (1960). Davvero rari i suoi coinvolgimenti nelle sceneggiature, se non per i progetti da lui stesso diretti. Quando Lenzi si trova a collaborare con lui, è al suo terzo copione, steso insieme a quello del western I Morti non si Contano (1968) di Rafael Romero Marchent. Dalla lettura dei credit compaiono in aggiunta altri nomi, quali Eduardo Manzanos Brochero (al soggetto) e Vittorio Salerno (alla sceneggiatura) inseriti, secondo quanto riferito da Umberto Lenzi, per mere finalità finanziarie ovvero per strappare i famosi contributi statali. Se per Manzanos Brochero la cosa appare piuttosto scontata, essendo uno dei coproduttori spagnoli associatosi con Salvatore Alabiso, la cosa sembra meno ovvia per Salerno. Fratello del ben più famoso Enrico Maria, aveva già lavorato in coppia con Leto per il sopracitato western diretto da Rafael Romero Marchent, aspetto che fa sorgere qualche dubbio su un suo coinvolgimento anche in questo, magari come supporto di Leto. Curiosamente il suo nome appare solo sulla copia spagnola, particolarità che ci induce a protendere per una 195 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sua effettiva estraneità. Misteri delle produzioni, difficili da sciogliere con certezza matematica. Tra l'altro Salvatore Alabiso firma qua il suo primo film da produttore indipendente (Tritone Filmindustria), produrrà per Lenzi anche il thriller Paranoia, dopo la lunga gavetta maturata alla corte della PEA di Grimaldi, la quale conserva comunque il ruolo di distributore del film. Si tratta di uno spaghetti-western assai cupo rispetto a Tutto per Tutto, di cui rimane l'intelaiatura gialla e un certo “doppiogiochismo” finale che coinvolge più di un personaggio. Altro aspetto comune sono gli omaggi alla trilogia del dollaro di Leone, pur se meno marcati. Si parte con la presenza di un simpatico vecchietto (il caratterista Franco Pesce) che simpatizza per il giovane straniero giunto in paese (Peter Lee Lawrence) e si diletta nel ruolo di becchino. Una situazione già trovata in Per un Pugno di Dollari (1964). Si prosegue con la sottrazione di un bottino da una cassa rapinata dai banditi, preventivamente prelevato dal protagonista e occultato in un luogo non conosciuto dagli altri, un po' come in Per Qualche Dollaro in Più (1965), così da impedire la loro fuga. Per non parlare dell'intervento del protagonista, munito di fucile, nel salvataggio, mediante taglio a distanza della corda, di un bandito col cappio stretto al collo e pronto per essere impiccato. Una soluzione riciclata da Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966), pur se legata a un movente diverso. Se Clint Eastwood “tagliava” per continuare a intascare le taglie pendenti sul capo di Tuco (il simpatico Eli Wallach), Lee Lawrence lo fa perché vuol uccidere con le proprie mani il condannato. Tra l'altro lo stesso Peter Lee Lawrence, sfortunatissimo attore tedesco che morirà, sei anni dopo, a soli trent'anni per un tumore al cervello, si era messo in luce la prima volta proprio in Per Qualche Dollaro in Più, nei panni del giovane compagno della sorella del Colonnello Douglas Mortimer trucidato, nel flashback, da Gian Maria Volontè. Quando Lenzi se lo vede arrivare sul set, pur se ventiquattrenne, vanta già una lunga sequela di western recitati da protagonista tra i quali il bizzarro Dove si Spara di Più (1967) di Gianni Puccini ed ...E Divenne il Più Spietato Bandito del Sud (1967) di Julio Buchs. Se questi sono i tributi al genere offerti da Umberto Lenzi, il resto è dotato di una maggiore autonomia. Dal tema della caccia del tesoro nascosto, con conseguenziale lotta intestina per accaparrarsene il possesso, si passa al revenge movie innescato da una strage familiare perpetrata da una banda di delinquenti. L'unico superstite di quella strage, peraltro inizialmente inetto alle armi per una questione religiosa, parte alla ricerca degli assassini, dopo 196 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

aver trascorso una serie di mesi ai lavori forzati per essersi rifiutato, da soldato sudista, di utilizzare le armi. Lenzi non costruisce però una storia stile Da Uomo a Uomo (1967) di Giulio Petroni o Sentenza di Morte (1968) di Mario Lanfranchi, western incentrati proprio sulla ricerca degli uomini responsabili di un dato misfatto, un po' come farà Quentin Tarantino in Kill Bill. Niente di tutto questo. Lenzi è precipitoso nell'evoluzione del suo protagonista. Jim Slade, ragazzo che non spara né beve alcolici per ragioni fideistiche, diviene abile pistolero senza dover fare quella gavetta mostrata, a esempio, da Tonino Valerii ne I Giorni nell'Ira (1967). Lo vediamo entrare in una rivendita di armi e chiedere una pistola. Poco gli importa di modelli, caratteristiche tecniche e maneggevolezza, semplicemente perché ignora tutto. Vuole un'arma, basta che funzioni e che si tramuti in strumento di morte. Il commerciante se la ride divertito, dicendogli che chiedere una pistola è come chiedere un quadrupede: “può essere un cane, un gatto, un cavallo... Si dice Colt, Smith & Wesson, Derringer!” Da totale incapace si trasforma in velocissimo pistolero e nell'arco di dieci minuti di film fa fuori tre dei quattro componenti della banda responsabile di aver ucciso la sua famiglia. La sceneggiatura dunque si trova costretta a cambiare orientamento di sviluppo ed ecco che, per trovare il quarto assassino, evolve in un sottogenere all'americana, per così dire, cioè nel classico western in cui il protagonista si trova a difendere un piccolo paese dalle scorribande di un gruppo di rapinatori. Il sindaco del posto infatti, notando la velocità di estrazione del giovane straniero, pensa bene di ingaggiarlo per sostituire lo sceriffo (ucciso dai banditi), proponendogli 5.000 dollari per difendere la banca dove stanno per giungere i 200.000 dollari che fanno gola ai manigoldi. Il giovane però ha altro a cui pensare e rifiuta, salvo ripensarci quando scopre che il capo dei delinquenti è il quarto uomo che sta cercando: Texas Corbett. A dar corpo a quest'ultimo c'è l'eccelso Piero Lulli, con le sue risate grasse e i suoi occhi deliranti, a capo di un plotoncino in cui riconosciamo il solito Raf Baldassarre nel ruolo di spalla. Specializzato in ruoli del genere e presenza fissa nel western, Lulli salterà alla mente del lettore per il ruolo del bookmakers ne Il Mio Nome è Nessuno (1973), nella famosa sequenza dei bicchierini diretta da Sergio Leone, dove Terence Hill finge al saloon di esser sempre più ubriaco per poi far centro a ogni colpo, riducendo, di volta in volta, la dimensione dei bersagli. Al di là di questo ruolo, si tratta di un attore capace di dare sostanza alle pellicole in cui era coinvolto, quasi sempre, da villain. Basti ricordare lo strepitoso Se Sei Vivo Spara (1967) di Giulio Questi o Il Mio Nome è Shangai Joe (1973) di Mario Caiano. 197 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

A dar manforte a Jim Slade ci penserà un bizzarro predicatore che, pur recitando passi biblici, non si perita a uccidere chi tenga condotte poco raccomandabili anche se, a fine film, la storia si complicherà con una serie di doppi giochi e ribaltamenti. Ritroviamo per la seconda volta John Ireland, qua forse un po' più di supporto rispetto a Tutto per Tutto, dove invece godeva di un ruolo centrale. La particolarità del film però non risiede in questo, ma nella scelta, alquanto folle e per questo gustosa, di inserire nel villaggio una sorta di carcere/manicomio da cui evade un'orda di pazzi che annovera schizofrenici, piromani e stupratori. Da principio li sentiamo ridere e urlare con versi animaleschi che si irradiano nella notte fino a giungere all'interno del saloon, tra gli sguardi sbigottiti degli ospiti. Ci vengono poi presentati oltre le sbarre e riconosciamo subito uno scatenato Eduardo Fajardo (perfetto per un ruolo del genere) e il pelato Victor Israel, che digrigna i denti e sbarra gli occhi proprio come farebbe un idrofobo, peraltro assetato di sesso. A oltre metà film questo inconsueto gruppo di soggetti riesce a fuggire e a scorrazzare in paese, rendendosi protagonista di morte e distruzione. Fajardo se ne va in giro armato di scure con cui colpisce svariate persone, sfoderando un sorriso demente sul volto. Lenzi dimostra un certo gusto per l'horror, ma non azzarda sul versante gore o forse, più semplicemente, viene frenato dalla produzione. Le scene di morte, purtroppo, sono tutte fuori campo. Anche quelle legate ai duelli non sono molto spettacolari. Lee Lawrence è sempre nettamente superiore ai rivali che non riescono neppure a estrarre. Ciò nonostante viene a crearsi un'atmosfera molto particolare che fa guadagnare punti alla pellicola, così da darle una sua distintività. L'introduzione dei pazzi, pur se non ben amalgamata al resto, diviene la ragione per la quale il film finisce per farsi ricordare, sebbene una volta soppressa la rivolta tutto torni a ruotare attorno al duplice binario vendetta e protezione del villaggio. Un aspetto questo che si presta a critiche di opportunità circa l'introduzione di questo gruppo di soggetti. In altri termini si ha l'impressione che si tratti di una soluzione dilatoria, pur se coraggiosa, peraltro poco coordinata con il resto della storia, salvo poi riproporsi all'epilogo, in un cimitero tra cento croci, in cui si assisterà a una sorta di resurrezione del leader dei pazzi (il bravo Eduardo Fajardo) che si avvinghierà al collo di uno dei due antagonisti. Una scena che da Halloween di John Carpenter diverrà un classico dello slasher movie, e che qua è già introdotta, seppure in forma confusa. A parte questo e una girandola di colpi di scena che porteranno il regista a definire il film un “thriller mascherato da western”, c'è poco altro da segna198 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lare se non le bizzarre caratterizzazioni del duo protagonista. Lee Lawrence è un testimone di Geova (!?) che lotta contro i suoi ideali per vendicare la famiglia, fino a stravolgere la sua personalità. Da calmo e serafico diviene austero, freddo, per niente ironico, disinteressato a tutto tranne alla vendetta. Spara a soggetti disarmati rei di essersi macchiati di un precedente omicidio, sballottola le donne (la spagnola Gloria Osuna, nei panni di un cantante costretta a non abbandonare il villaggio per non far insospettire i banditi) per perseguire il proprio fine. Sarà assai amara la sua battuta finale, quando dirà: “Ormai non posso più bere acqua” dopo che per tutto il film ha sempre ordinato acqua al bancone del saloon, perché così imponeva la sua religione. Il peccato si è insinuato nel suo animo e poco ha senso osservare formali precetti, quando si è superato il più grande tabù imposto nella storia dell'uomo: l'uccisione di un proprio simile. L'innocenza della gioventù è un antico ricordo, bruciata da un'esigenza, quella della vendetta, che ha consumato il lato umano del personaggio. In linea alla tradizione dei pistoleri solitari, compiuta la missione, Lee Lawrence salirà a cavallo e abbandonerà il paese, sebbene gli abitanti lo guardino incantati alla stregua di un eroe. John Ireland, l'antagonista, è invece un falso predicatore che va in giro a leggere passi della bibbia, per poi uccidere senza tanti tentennamenti. Un vero e proprio esteta del travestimento, un lupo mascherato da agnello che mostrerà la propria vera faccia solo all'epilogo. Da un punto di vista tecnico, Lenzi gira con mano sicura pur non evitando una certa frammentazione nella prima parte (troppe scene di raccordo) e qualche inverosimiglianza verso l'epilogo, anche a causa dei difetti di sceneggiatura. A esempio, è inverosimile il modo in cui il protagonista finge di passare dalla parte dei banditi, così come non si spiega perché Lulli non lo elimini sebbene vi abbia più di una volta la possibilità, tanto da farglielo anche notare (“Non ci sarà una quarta volta...”). Il ritmo è serrato nella prima parte per poi appesantirsi a metà film. Inquadrature spesso strette in primi piani, con gustosi zoom in e zoom out o cambi di messa a fuoco per un taglio visivo che è superiore a quello precedente di Tutto per Tutto, nonostante sia la fotografia (ancora Alejandro Ulloa) che, soprattutto, le scenografie siano di qualità inferiore. Colonna sonora (Angelo F. Lavagnino) non tra le migliori. Davvero brutti i titoli di apertura, per nulla elaborati. Ci si limita a sovrapporre alle immagini del film delle anonime scritte bianche. Nel complesso è un western poco originale, che si lascia ricordare per le sequenze con i pazzi a dar 199 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

il là a idee embrionali che saranno sviluppate in altri contesti (horror e thriller). Per quest'ultimo motivo è da rivalutare. La pellicola non viene apprezzata dai critici. Il Morandini addirittura la ignora. Gli dà due stelle filmtv.it, reputandolo uno dei film meno convincenti di Lenzi, opinione che non condivido affatto. Insufficiente anche per gli utenti di imdb.com (cinque e mezzo in pagella). Lo stronca 800spaghettiwesterns.blogspot.it che addirittura rifila un due come voto alla storia, salvando solo le interpretazioni e la musica di Lavagnino. È in linea col sottoscritto il solo spaghettiwestern.altervista.org per il quale è western molto apprezzabile, seppur narrativamente poco coerente.

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Capitolo Terzo Il war movie Lenziano: romanticismo e amicizie anteposte all’azione

“Se non avessi fatto il regista avrei fatto il professore universitario di storia contemporanea” questo ripeteva a ogni convegno e incontro Umberto Lenzi. Una passione quella per la storia che andava oltre a un mero hobby, assumendo i tratti di un vero e proprio impegno di studio. Specializzato sulla storia della guerra civile spagnola, al punto da allestire il più corposo archivio italiano sull'argomento, poi donato alla Biblioteca della Ghisa di Follonica, tentò anche di portare al cinema il risultato del suo decennale lavoro di ricerca. Il suo sogno era infatti quello di dirigere un film incentrato sulle sorti di quello che lui definiva “il fatto storico più importante del ventesimo secolo, dopo la rivoluzione russa.” Da sempre filo-anarchico, Lenzi vedeva nella presa del potere da parte degli anarchici a Barcellona un apice della lotta dei poveri contro lo strapotere militare. Una vittoria di Pirro, comunque emblematica per coraggio e spirito combattivo, presto soffocata dall'intervento dell'esercito nazista e italiano che si preparavano per scatenare un conflitto mondiale che si sarebbe dimostrato tra i più crudeli mai registrati. “Avevo già predisposto un copione che parlava della storia dei lavoratori, a Barcellona, del 21 e 22 luglio 1936, con la sconfitta dei generali golpisti e l'instaurazione di una società anarchica dove tutte le industrie furono espropriate e assegnate ai lavoratori stessi Non esisteva più lo stato: da una parte l'esercito dei generali, sostenuto da Hitler e Mussolini, dall'altra il sindacato. Avevo già chiuso per la realizzazione del film con un produttore spagnolo e uno italiano, senonché la produzione spagnola si ritirò perché era subentrata l'idea di realizzare un film su Garcia Lorca. Presero Nino Manfredi e realizzarono questo film, era una cretinata tant'è che l'ha visto solo la vedova di Manfredi” Così il regista racconta a Stefano Iachetti in La Paura Cammina con i Tacchi Alti. Se Lenzi non ha mai potuto confezionare il film che più di tutti avrebbe voluto fare, le cose cambiano in relazione alla sua altra passione ovvero quella relativa alla seconda guerra mondiale. L'apporto del regista al war movie italiano, il suo genere preferito nonostante lo scarso interesse del 201 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pubblico italiano, è a dir poco fondamentale. Storici i suoi scatti di ira nei confronti dei fan interessati al genere cannibalico e all'horror, ma per nulla intenzionati a vedere i film bellici. Lenzi soffriva alla stregua di un genio incompreso, urlava dicendo che certi film li aveva fatti solo per ragioni alimentari, mentre i film di guerra erano quelli che aveva voluto fare e di cui avrebbe voluto parlare. Sfoghi non sufficienti a smuovere gli appassionati, così da spronarli ad articolare un'analisi completa del genere. Non a caso la recente uscita Guida al Cinema Bellico (2017) dell'Odoya Edizioni ignora quasi del tutto il “sottogenere”, dedicandogli rapidi cenni, pur trattandosi di un volume di 620 pagine e per giunta italiano (!?). Lenzi firma un totale di sei war movie, due dei quali tardivi (Un Ponte per L'Inferno e Tempi di Guerra), girati in Jugoslavia e usciti a metà anni '80 per una piccola casa produttrice facente capo ad Alessandra ed Ettore Spagnuolo. Film scarsamente visti, ma con un interessante quartetto iniziale, completato con uno scarto temporale di circa dieci anni, in grado di elevarsi dagli altri prodotti, al punto da entusiasmare Quentin Tarantino che indicherà questi film tra i migliori del genere. È forse opportuno fare un cenno per introdurre il lettore al filone di guerra italiano. Il macaroni combat, come è stato poi definito all'estero, ovvero il war movie italiano, è un insieme di film ambientati nella seconda guerra mondiale e che prende le mosse sulla scia dei prodotti hollywoodiani. Nasce come prodotto di imitazione, destinato all'esportazione nei paesi del terzo mondo, prendendo presto una strada propria. Edulcorati da componenti erotiche, assai meno violenti sia del western che del poliziesco e del thriller, risentivano altresì di budget non all'altezza di quelli d'oltreoceano. I registi erano spesso costretti a vere e proprie soluzioni artigianali e, in alcuni casi, all'impiego di modellini al posto di carri armati e aerei veri. Di solito, sulla scia dello spaghetti western, erano film interpretati da star hollywoodiane decadute, affiancate ad attori europei e a emergenti italiani. Furono girati pochi film di questo genere, una cinquantina, in un arco temporale di venti anni con registi come Giorgio Ferroni, Umberto Lenzi e Alfonso Brescia tra i più ispirati. Proprio Lenzi, uscendo con Attentato ai Tre Grandi (1967), si segnala tra i precursori, insieme ad Alberto De Martino col suo Dalle Ardenne all'Inferno (1967), scommettendo su un genere che non risulterà idoneo ad accalappiare pubblico. Per una volta avranno ragione i produttori che vedranno sempre di cattivo occhio la produzione di questo tipo di film, in quanto poco remunerativi, subordinando i registi ad accordi collettivi che 202 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

comprendessero, in una sorta di pacchetto generale, film più appetibili agli occhi del mercato. Si tratta di war movie giocati sulla componente action, si pensi a Quel Maledetto Treno Blindato (1978) di Enzo G. Castellari o a Commandos (1968) di Armando Crispino, e sulla netta distinzione tra buoni e cattivi. I tedeschi muoiono sempre, mentre gli alleati trionfano rendendosi portatori dei giusti valori. I film di Lenzi tuttavia, e per fortuna, si caratterizzano per un minimo comune denominatore alieno alla concorrenza. Prima di tutto evitano di cadere negli stereotipi. I ruoli non sono netti e il bene e il male serpeggiano in ambo gli schieramenti. Molti i casi di tedeschi buoni, tracciati quali uomini giusti che, loro malgrado, si trovano a dover combattere dalla parte sbagliata per effetto del senso di appartenenza a una data nazione. Lenzi riesce a esternare conflitti interiori che scavano nell'animo di chi sa di combattere per un qualcosa di sbagliato. Fa di più, mette contro personaggi che si ritrovano nemici pur stimandosi a vicenda e, talvolta, essendo amici. Ne viene fuori un complesso bellico intriso di un romanticismo e di una poetica non sospettabile per chi è abituato alle altre tipologie di film del regista. Il war movie lenziano è una cornice in cui incastonare storie di uomini comuni proiettati in situazioni infernali. Uomini che si trovano alle prese con attacchi di panico, sogni di amori lontani, speranze di riabbracciare la propria amata o di esorcizzare la paura con piccoli distillati di calore umano necessari per ricordare che la vita è altro e che ci si trova in un momento in cui il sole è avvolto da nubi cariche di una pioggia destinata a consumare il proprio carico di lacrime. Si tratta dunque di un filone antieroico, un ambito in cui non vi sono né vincitori né vinti, poiché tutti hanno perso. Traspare in modo palese l'orientamento politico del regista, che non si abbandona mai a una spiccia esaltazione dell'impresa bellica, ma allunga l'indice sugli effetti della stessa. Aleggia sempre una tristezza e un'oppressione che non si libera neppure quando il nemico viene falciato da scariche di mitraglia. Lenzi colpisce duro lo spettatore sensibile, caratterizzando i personaggi, sia civili che militari, intrecciando i loro rapporti e facendo poi morire i vari soggetti in una visione che strozza il cuore e, al contempo, evidenzia la fallacia della natura umana, riportando in superficie la poesia di Ungaretti intitolata Soldati (1918). “La storia del mio cinema di guerra” diceva il regista “è un insieme che deve raccontare quell'epoca e allora ci sono dei problemi di storie tra i vari personaggi.” Dunque un lotto di film che meritano di esser riscoperti e apprezzati. Qui di seguito analizziamo i primi quattro (di sei) war movie di Lenzi che ne fanno l'ideale portabandiera del genere, sperando che il buon Umberto, 203 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

da lassù dell'alto dei cieli, apprezzi l'impegno di questo modesto ma appassionato commentatore.

Attentato ai Tre Grandi (1967) Debutto nel war movie di Umberto Lenzi che arriva a coronamento di una lunga trattativa con la Pea di Alberto Grimaldi innescata dal precedente fallimento dei dialoghi con Fulvio Lucisano. Lenzi insiste per la realizzazione di un film di guerra ambientato nella seconda guerra mondiale, ma in pochi lo stanno a sentire. La sua è un'esigenza legata ai propri gusti personali piuttosto che a una vera e propria ragione di mercato. Grimaldi alla fine cede, ma a una condizione: si farà il film, purché Lenzi giri a stretto giro di posta due western. Il regista, pur dovendosi impegnare per la realizzazione di un'accoppiata di pellicole appartenenti a un genere che non sente proprio, accetta con entusiasmo e si immerge nella scrittura, perché è convinto di avere per le mani un soggetto che potrebbe fargli fare un salto qualitativo nella propria carriera. “Attentato ai Tre Grandi è l'unico film di cui io mi possa definire autore” dirà qualche anno dopo, per sottolineare come nessuno, oltre lui, abbia messo mano a soggetto e sceneggiatura. Lenzi parte da un dato evento storico per modificarlo, in virtù di esigenze cinematografiche, costruendo una storia di fantasia che prende tuttavia le mosse da una reale, un po' come farà il suo “allievo” Quentin Tarantino con Bastardi senza Gloria (2009). Il soggetto trae dunque ispirazione da un duplice fatto estrapolato dalle memorie di Winston Churchill, primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945. In altre parole, vengono presi due episodi e sintetizzati in un unico evento. Si parte dalla Conferenza di Casablanca, tenutasi dal 14 al 24 gennaio del 1943, presso l'hotel Anfa, dove, nella massima segretezza, gli alleati Winston Churchill, Franklin Delano Roosevelt (Presidente Stati Uniti) e Charles De Gaulle (Francia) si incontrarono per pianificare la strategia di guerra in Europa e lo sbarco in Sicilia. In occasione di tale evento, Lenzi immagina un tentativo messo in atto dal servizio segreto tedesco di attentare ai tre grandi politici, attraverso un commando di infiltrati paracadutati in Marocco a seguito di alcune informazioni acquisite dal servizio segreto tedesco. Ci risuonano alle orecchie, pur invertendo i soggetti agenti, i monologhi di Quentin Tarantino, in riferimento al sopracitato film, quelle relative alla premier di gala organizzata dai gerarchi nazisti: “A questo evento presenzierà la maggior parte dell'alto comando... Avremo 204 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tutte le uova marce in un solo cesto. L'obiettivo: far saltare il cesto”. Una prospettiva che non corrisponde affatto a quanto avvenne nella realtà, ma che viene suggerita da un altro fatto storico. Si passa infatti dal gennaio del 1943 al primo giugno del medesimo anno, quando, durante un volo di linea da Lisbona a Londra, il 777 della BOAC fu abbattuto dalla Luftwaffe. Secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato il servizio segreto tedesco a dare l'ordine, pensando che a bordo vi fosse Winston Churchill. La leggenda narra che questo ordine sarebbe stato suggerito perché il servizio segreto inglese avrebbe fatto salire a bordo un sosia, così da indurre in errore il nemico. La tragedia passerà alla storia per la morte del famoso attore Leslie Howard (protagonista in Via col Vento), schiantatosi col velivolo al suolo. Da questi due fatti, Lenzi realizza un copione che ha addirittura il merito di anticipare al pubblico italiano, di alcuni mesi, il capolavoro Quella Sporca Dozzina (1967) di Robert Aldrich, uscito il 30 novembre del 1967 sebbene già apparso, dal 15 giugno, negli Stati Uniti. Attentato ai Tre Grandi, distribuito all'estero col titolo Desert Commandos, esce invece il primo settembre del 1967. Lenzi mette in scena una missione suicida che vede un ristretto numero di soldati tedeschi assolvere a un eroico compito, che potrebbe determinare la fine della guerra e la vittoria della Germania, anche se a prezzo delle loro vite. Sebbene Lenzi anticipi Aldrich, il film non se lo fila nessuno. Desta curiosità il fatto che Quella Sporca Dozzina invece darà il là a una serie di epigoni, persino nello spaghetti western, con titoli quali Ammazzali Tutti e Torna Solo (1968) di Enzo G. Castellari, Oggi a Me... Domani a Te (1968) di Tonino Cervi e Un Esercito di 5 Uomini (1969) di Italo Zingarelli che ne riprendono in modo evidente la struttura. La sceneggiatura propone una prima parte molto lenta, in cui vediamo la presentazione dei cinque componenti del commando e la loro odissea appiedata nel deserto, dopo essersi lanciati da un aereo indossando delle divise inglesi. Lenzi esalta il contesto scenografico, sfruttando molte inquadrature in campo lunghissimo in cui vediamo il plotoncino sfidare la calura e lo sterminato deserto marocchino in direzione di un oasi in cui dovrebbe attenderli una guida. Lenzi gira davvero in Marocco e le sequenze sono a dir poco claustrofobiche. L'espressione potrebbe risultare contraddittoria nella sterminatezza del deserto, eppure ci pare tale da costituire un calzante ossimoro. La dimensione e la monotonia ambientale, unita al clima torrido e alle allucinazioni che vengono presto a manifestarsi, è tale da qualificarsi alla stregua di un cunicolo che si stringe sempre più sui poveri soldati ri205 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

masti persino senza acqua e alla disperata ricerca di un oasi che non da traccia di se (come cantava Ivano Fossati, parlando di un viaggio in oceano, a proposito di un porto nella canzone Panama). Molti i primi piani sui soldati che si detergono il sudore che cola sulle loro fronti, altri che addirittura urlano, quasi in preda alla pazzia, oppure scoprono di aver ultimato l'ultima razione per abbeverarsi. Scene che ricordano molto da vicino la sequenza in cui Eli Wallach costringe Clint Eastwood a camminare nel deserto, lasciandolo senza acqua ne Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo (1966). Lenzi, non ancora ai livelli dei successivi La Legione dei Dannati e Il Grande Attacco, cerca di lavorare sulle caratterizzazioni dei personaggi, così da distinguerli tra loro. In realtà, riesce a distinguere in modo netto due personaggi. Da una parte abbiamo il Capitano Schoeller e dell'altra il tenente Wolf, due soldati che hanno visioni e un approccio ben diverso alla guerra. Lenzi definisce Schoeller “un nazista fanatico”, mentre Wolf un uomo “pieno di dubbi che si rende conto di esser dalla parte del torto ma non lo vuole ammettere”. Questi due personaggi sono, per utilizzare un'espressione kantiana, sintetizzati dal sergente Huber che incarna quello che Lenzi definiva “il buon soldato tedesco che obbedisce sempre, perché va come i cavalli con i paraocchi e non vede altro che il dovere.” Chiamato a ricoprire il ruolo del capitano, l'unico che inizialmente è a conoscenza dell'obiettivo della missione, c'è Ken Clark. Clark è un attore americano all'epoca quarantenne, volto da belloccio, bel fisico e struttura imponente dall'innegabile qualità atletica. Non particolarmente espressivo, assolve bene al compito. Pur essendo statunitense si tratta di un attore che ha costruito la propria carriera nel cinema di genere italiano, lavorando soprattutto in spionistici (suo genere di elezione) e peplum. Fallisce il tentativo di riciclarsi nello spaghetti-western, peraltro partecipando ai primi due western di Mario Bava. È tuttavia ricordato per aver interpretato l'apocrifo Agente 077 nella trilogia di Sergio Grieco costituita da Agente 077 Missione Bloody Mary (1965), Agente 077 dall'Oriente con Furore (1965) e Missione Speciale Lady Chaplin (1966). Il suo è un personaggio che verrebbe da definire marziale, freddo e insensibile alle sorti dei compagni. È stato scelto perché ha vissuto per molti anni negli Stati Uniti e conosce bene sia il francese che l'inglese. Ripete più volte che l'importante è che almeno uno dei cinque componenti del commando giunga a destinazione e centri l'obiettivo che gli è stato illustrato dai superiori. Per fare questo cerca di evitare ogni potenziale intralcio, quale a esempio la necessità di curare i compagni d'avventura rimasti feriti. Questi 206 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ultimi vengono da lui percepiti quali palle al piede che non è possibile portarsi dietro. Fa di peggio quando spara a una tribù di tuareg per rubare dei cammelli, laddove avrebbe invece potuto limitarsi al furto. Lenzi vede in questo un modus operandi da nazista, ma noi non lo percepiamo come tale. Schoeller è un freddo, ma quello che fa lo fa con una certa base razionale e pragmatica. Sono forse i modi a lasciare stupiti, come quando non interviene, se non sgambettando un soccorritore, vedendo uno scorpione che si dirige verso uno dei suoi uomini feriti così da farlo pungere e determinarne la morte tra atroci sofferenze. Il tenente Wolf, in questa scena, mette a nudo il proprio carattere solidale. Lo aveva già fatto prima, durante il superamento di un campo minato per prendere un'arancia portafortuna caduta a un compagno d'avventura. Qui si lancia sul compagno, cerca di succhiare via il veleno iniettato dallo scorpione, ma tutto è vano. Si alza allora, impugna il mitra e vorrebbe scagliarsi contro il Capitano, ma viene trattenuto dal sergente Huber. “Assassino! Hai ucciso Mainz, gli arabi e ora Ludwig! C'è solo una cosa che non sopporto, solo una, ed è il disprezzo per la vita umana! Lo sa che cos'è, Schoeller? Un lurido nazista!”Schoeller, che pure mostra un'espressione di velata comprensione, ricompone il diverbio e lo fa tirando in ballo il pragmatismo e la razionalità connesse alla missione, che parte già come suicida, pure per lui. “Basta, Wolf. Uno di noi deve arrivare a Casablanca. Non importa chi, né come ci arriva!” Wolf risponde, con ironia, che è un modo di fare degno dell'encomio in persona di Hitler. Si tratta di un commento pungente che, da una parte, mette in risalto l'umanità e la bontà d'animo di Wolf (il miglior personaggio del film, diremo dopo perché) ma, dall'altro, contrasta con l'obiettivo. Bella tuttavia l'inquadratura in primissimo piano sulla guida, a questo punto, un'araba interpretata dalla francese Jeanne Valerie. La Valerie è un'attrice in particolare voga nel cinema francese, la ricordiamo con ruoli di primo piano ne L'Indomabile (1962) di Jean-Paul Le Chanois e nel film di Mangini No Diamonds for Ursula (1967), dove recita, subito dopo la lavorazione del film di Lenzi, da assoluta protagonista. La giovane sposta lo sguardo dall'uomo che è spirato e lo volge in direzione del capitano, quasi sul punto di piangere. “Cosa darà alle loro mogli? Medaglie postume? Gli basteranno?” grida Wolf. Il capitano però, da persona intelligente, riesce a distogliere l'attenzione dal momento rivelando qual è la strategia e la finalità della missione. “Non siamo qui per fare esplodere depositi o per far foto, ma per molto di più...” La rivelazione del target finale è tale da ghiacciare le ire del tenente Wolf. Lenzi stringe sul primissimo piano di Horst Frank che si morde le labbra, esprime bene l'idea di colui che sta pen207 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sando e fa due calcoli. Il sacrifico forse vale la candela e il litigio è subito placato sul nascere. Poco dopo Wolf dirà al capitano che può contare su di lui. Il personaggio di Wolf, lo abbiamo accennato, è il più interessante del film. Gli dà corpo il bravissimo Horst Frank, attore tedesco in voga nello spaghetti-western in ruoli da canaglia come in Preparati la Bara! (1968), che lo vede contrapposto a Terence Hill, oppure in Odia il Prossimo Tuo (1968), entrambi di Ferdinando Baldi, o ne Il Grande Duello (1972) di Giancarlo Santi. Vive un vero e proprio conflitto personale che si rispecchia persino nella sua genealogia. È di madre americana, nato negli Stati Uniti, eppure combatte per la Germania. Psicologia disturbata tra quello che il cuore gli comanda e ciò che gli viene ordinato dai superiori. Niente di più doloroso per l'angoscia che divora da dentro l'uomo che trovarsi tra un incudine e un martello. Da una parte l'attaccamento alla patria, dall'altro quello che l'etica e le emozioni innate e aliene ai valori giuridici suggeriscono. A differenza del capitano, non è una personalità fredda, ma passionale ed emotiva. Ha una natura umana, tipica dell'uomo che si trova catapultato in guerra ma che preferirebbe esser anni luce altrove. Nulla gli importa di Hitler e della gloria, da l'impressione di cercare altro, ma di non avere la forza per ammutinare né per dare sfogo alle proprie pulsioni. Emblematica la scena in cui lo vediamo, in pieno deserto, rimasto solo sotto la palla infuocata del sole, mentre gli altri viaggiano alla ricerca dell'oasi disorientati da una tempesta di sabbia, serrare la bocca in un silente urlo di disperazione. Lenzi è sempre bravo a offrire questi momenti, in cui la follia della guerra serpeggia negli animi combattuti di chi si trova, suo malgrado, a combattere senza averne l'indole né la rabbia richiesta. La presenza di una guida, la francese Jeanne Valerie su cui Lenzi si sofferma in un'inquadratura dal retrogusto erotico (primo piano, con macchina da presa posizionata di lato, a terra, sulle gambe nude che, sinuose, penetrano dentro degli stivaletti, mentre la donna se ne sta, tranquilla, seduta sulla sabbia) offre una carezza emotiva che dona all'uomo un pizzico di tranquillità. Un po' di calore che forse gli ricorda la vita normale, un qualcosa che in zona di guerra sembra talmente dolce e accomodante da essere fantasia. La vorrebbe proteggere, perché i compagni si accorgono del momento appetitoso e iniziano a fare facce allupate. Se ne accorge anche il capitano, che non vuole intralci e fa allora allontanare la ragazza, facendola dormire accanto a un cammello, giusto per evitare rischi di molestie o quant'altro. Wolf, a poco a poco, si innamora di questa ragazza e lo si capisce quan208 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

do il plotone si renderà conto che la stessa sta recitando un ruolo impartitole da altri, se ne accorgeranno tardi. La ragazza sta curando Wolf, rimasto ferito, quando gli altri due comprendono che è una spia. Wolf urla di dolore mentre lei gli versa il liquore sulla carne viva per disinfettarla. Si alza e l'abbraccia, quasi come se questo gli abbia dato il coraggio per fare quello che avrebbe voluto fare fin da quando l'ha vista. ”Si rimetta giù” gli dice con freddezza lei, poi lo accarezza alla fronte, forse pentita per esser stata brusca. È un momento di dolcezza che viene sgretolato dall'arrivo del capitano che accusa, a ragione, la donna di essere una spia. “No, non è vero... Digli che non è vero!” si allarma Wolf. Ma lei ammette, dice di aver fatto il suo dovere. In guerra è tutto concesso ed è una cosa sporca, ma talvolta necessaria per perseguire un risultato. Huber (cui da corpo il milanese Carlo Hinterman, un caratterista apparso in molteplici film benché piuttosto anonimo) suggerisce al capitano di non ucciderla, di tenerla quale ostaggio. Quest'ultimo sottovaluta la personalità di Wolf, gli passa la pistola e cerca di motivarlo dicendogli di ricordarsi che è un ufficiale tedesco. Ciò detto gli offre l'incarico di sorvegliare la ragazza. La cosa, a poco a poco, manda in paranoia l'uomo. “Cerchi di capire. La mia gente combatte una guerra secondaria. Una guerra sporca, ma la posta è alta: l'indipendenza della nostra nazione” gli dice la giovane che, a inizio film, aveva dichiarato di sostituire, nel ruolo di guida, il padre morto in un incidente stradale. Qui la sceneggiatura non è chiarissima, perché la donna è una doppiogiochista assoldata dagli alleati per condurre il plotone tedesco tra le loro fauci. Sembra quasi che questi ultimi abbiano un certo interesse a far penetrare il plotone laddove si svolge la conferenza, forse per far eliminare Stalin, l'uomo di Gori, che tuttavia non si presenta all'appuntamento. Si noti bene, nel film, a differenza della realtà, non si parla di De Gaulle. In realtà la donna è una pedina messa in scena dagli americani, che hanno calato il loro jolly per giostrare i tedeschi in una sorta di spionaggio e controspionaggio. Qua si amplifica il contrasto che si è venuto a creare tra ciò che in cuor loro i due vorrebbero esternare e la situazione in cui si trovano calati. Quando Lenzi diceva di amare i film di guerra, rispetto ai cannibalici, secondo me voleva riferirsi a questi aspetti. “In ogni uomo, in ognuno di noi” diceva Lenzi “c'è una parte scura e una chiara. C'è la vittima e c'è il carnefice. C'è il sesso maschile e il sesso femminile. Sono le circostanze della vita, gli impulsi che abbiamo nella società che a volte danno risvolto criminale a un uomo o a una donna che non sono criminali per nascita oppure un risvolto buono a un cattivo.” Viene infatti a delinearsi una profondi209 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tà psicologica aliena agli horror o ai cannibalici. Aveva ragione Lenzi quando diceva che i suoi film di guerra erano superiori. Il regista, evidentemente un romantico sotto la corazza del burbero e dell'irascibile, era molto bravo a far emergere queste vere e proprie guerre dell'animo, dando il là a un valore aggiunto alla visione. Un valore spronato dalla follia della situazione. Wolf si siede sul divano, scuote il capo, beve whisky alla bottiglia. I suoi compagni stanno penetrando dentro l'hotel in cui Winston Churchill sta recitando il suo monologo, almeno così loro sentono e credono. Sta assolvendo al compito impartitogli dal capitano, pistola in mano, da bravo ufficiale. Sente suonare la sirena e corre alla finestra. La guida araba potrebbe provare a fuggire, cogliendolo di sorpresa, ma non lo fa. Sta con lui, gli va dietro, sebbene questo non la minacci. “La senti? Li abbiamo fatti fuori” commenta Wolf, riferendosi a Churchill, Roosevelt e Stalin. Ha tuttavia torto, è un tatticismo degli americani, che stanno controllando i giochi fin dall'inizio, ma i tedeschi questo non lo sanno. Wolf inizia a espellere i proiettili dal caricatore, guardando la ragazza. Lascia due colpi. “Una per te e una per me” dice la giovane, immaginando un suicidio. “Siamo alla resa dei conti. Il tenente Wolf diventerà un eroe!” proferisce. Wolf non sembra contento, anzi... inizia a piangere (grande Frank, il migliore del lotto), mentre lei lo rimprovera, addossandogli colpe che non sono dell'uomo che è tutt'altro che un sanguinario. “Maiale! Perché non mi uccidi?” gli grida. Sono parole che hanno l'efficacia di rasoiate nel cuore del tedesco. Wolf urla di piantarla, infine piange e la stringe tra le sue braccia. Bella sequenza davvero, in puro stile Lenzi. I due si sfiorano le labbra, poi Wolf svela il proprio animo: “Oh Faddja. Io non volevo questa guerra. Mi ci hanno costretto, non avevo scelta: obbedire e combattere. Ho eseguito degli ordini, non ho avuto scelta. E ora è troppo tardi! Ormai mi sono impegnato. Anche se sto dalla parte sbagliata devo obbedire.” Wolf è disperato, urla come un agnellino in un mattatoio, pieno di contrasti e di paura. Sviene e si fa sottrarre la pistola dalla ragazza a cui ormai ha rapito il cuore. La giovane potrebbe infatti andarsene, lasciarlo lì, in balia degli eventi. Non lo fa. La situazione è ribaltata. Ora è lui a chiederle di sparargli, ma lei lo vuole salvare, sebbene sia un nemico. Tira fuori un giubbino tedesco sparito chissà dove e gli dice di indossarlo. “Ti sto dando una chance, lo capisci? Se hai un'uniforme tedesca non ti fucileranno come spia.” Il finale è denso di tensione, preceduto dalla trappola ordina dagli americani agli altri due del plotone. Questi infatti riescono a penetrare nella sala dove Churchill sta parlando, ma si trovano al cospetto di un plotone di esecuzione che li falcia 210 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

da veri e propri eroi di guerra. Di Churchill neppure l'ombra, solo un disco che corre sotto un grammofono che ne riproduce la voce. Perfetta trappola, abile cavallo di Troia. Wolf ha invece l'occasione per salvarsi. La Militar Police piomba nella stanza in cui è asserragliato con la guida araba. Lenzi indugia sull'intenso scambio di sguardi tra il biondo tedesco e la mora corvina. Si decide della vita di una persona. “D'accordo” dice alla fine Wolf. “Non sparate: mi arrendo!” Bellissimo, poco da dire. Il film non ha budget eccelso, lo si capisce dal fatto che le scene di azione non sono ultra spettacolari. I mezzi sono limitati (c'è un carro armato e un aereo), ciò nonostante, con taglio quasi western, Lenzi piazza un bellissimo inseguimento di cammelli. Nelle interviste arriva a dire di aver usufruito di quattrocentocinquanta cammelli. La sequenza è molto originale. Sembra di assistere a un inseguimento tra cavalli lanciati al galoppo, solo che Lenzi usa i corridori del deserto. I cinque militari tedeschi a fuggire, braccati da un folto gruppo di tuareg con un aereo che si materializza in cielo compiendo piroette per disperdere il gruppo di inseguitori. I militari si chiedono chi piloti quell'aereo, non lo scopriranno mai. Sembra che qualcuno, al di là dei tedeschi, voglia che arrivino a destinazione. Ci sono poi alcune sequenze ad alta tensione. La parte finale, a esempio, è ben orchestrata, ma lo è anche il superamento di un campo minato in pieno deserto. Vediamo il sergente Huber scivolare a terra, munito di sigarette. Muovere pian piano la sabbia per individuare le mine antiuomo così da segnalarle con le sigarette e permettere ai colleghi di seguirne le orme in modo da aggirare il pericolo. Il superamento del deserto porta via molte decine di minuti di film, in cui vediamo solo cinque attori in scena salvo poi imbattersi in tribù locali. La musica (Lavagnino) e la fotografia sono sufficienti, eppure funzionali. Alla fine è una pellicola che non ha visto nessuno ma che ha molto di buono e si segnala, pur non avendo uno sviluppo come Il Grande Attacco e Contro 4 Bandiere, tra le migliori pellicole del genere. Lenzi qua tira fuori il meglio e riesce a emozionare più sul lato emotivo che offrire un intrattenimento puro sul versante dell'azione (lo farà nel poliziesco). Un film comunque da vedere di cui non è stata neppure editata un edizione in DVD italiano né, a quanto diceva Lenzi, garantiti i passaggi in televisione. Davvero un peccato e un trattamento ingiustificabile.

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La Legione dei Dannati (1969) Nonostante lo scarso successo di Attentato ai Tre Grandi, Lenzi insiste nello sforzo bellico e, da quel che si vede, ottiene un maggior budget. Questa volta a scommettere su di lui è Bruno Bolognesi, reduce da ruoli organizzativi nel western Garringo (1969) di Rafael Romero Marchent. È però lecito ritenere che dietro al progetto vi sia ancora Alabiso perché figura, quale società produttrice (in società con altre spagnole, tedesche e svizzere), la Tritone Cinematografica. La proposta di ingaggio è sempre la stessa: un macaroni combat per un film di maggior richiamo. Questa volta Lenzi è più fortunato perché gli viene richiesto un giallo, che girerà subito dopo quello di guerra e che sarà distribuito in Italia col titolo Paranoia (1969). Curiosa la girandola di titoli che vede coinvolto il regista, tale da generare una grande confusione in chi non è attento a ricercare i titoli giusti e non è del mestiere. Il titolo Paranoia infatti lo aveva già fatto uscire prima de La Legione dei Dannati. Non è una supercazzola di monnicelliana memoria né una tattica da Oronzo Canà, relativa al famoso “mentre i cinque della difesa vanno avanti, i cinque dell'attacco retrocedono” né un errore di scrittura. Niente di tutto questo. Lenzi si era visto modificare il titolo dalla Titanus (il distributore italiano) da Paranoia (secondo i produttori dava l'idea della noia) a Orgasmo (1969), primo vero giallo lenziano confezionato dopo la parentesi con la Pea di Grimaldi. Tuttavia il titolo originale di Paranoia non fu sostituito nella versione statunitense che ebbe un clamoroso successo. “Fu comprato dalla Paramount” ricordava Lenzi “uno dei più grossi successi della stagione.” In virtù di tale successo, i produttori, che difficilmente ne azzeccavano una giusta in fatto di titoli (Enzo G. Castellari insegna, basti pensare al suo famoso treno poi ripreso da Quentin Tarantino col titolo originale scritto con due refusi per parola, perché quelli senza errori formavano il titolo americano del film di Castellari: Inglourious Basterds ovvero Bastardi senza Gloria), avevano deciso di commissionare un nuovo giallo da far uscire in Italia col titolo Paranoia, proprio quando Lenzi era ormai già in assetto da guerra alle prese col suo genere preferito. Ironia della sorte, questo secondo giallo, uscì negli Stati Uniti col titolo A Quiet Place To Kill che non ha però nulla a che fare col film che Lenzi girerà subito dopo, peraltro in parte a Tirrenia (la cittadina dove abita il sottoscritto e a cui, anni dopo, il regista avrebbe dedicato un tributo di inestimabile valore mettendola al centro delle vicende del romanzo Spiaggia a Mano Armata), intitolato Un Posto Ideale per Uccidere (1971) ovvero la traduzione in italiano del precedente titolo. Veniamo ora 212 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

però al film in questione. Lenzi passa dalla campagna d'Africa al periodo immediatamente antecedente allo sbarco delle forze alleate in Normandia. Siamo dunque nella primavera del 1944, in terra francese. Un colonnello inglese, alquanto focoso e interpretato dal premio oscar Jack Palance, il colonnello Henderson, riceve incarico da un generale di guidare un'azione sulle coste francesi di sabotaggio, utile a spianare la strada allo sbarco degli americani. Il colonnello tuona in direzione del superiore che lo ha mandato al massacro per arginare l'avanzata di una serie di carri tedeschi. Missione riuscita, ma a costo delle vite di tutti i soldati. “Un altro di questi luridi scherzi e io ti ammazzo!” tuona Henderson senza tanti problemi reverenziali. “Tu sapevi che il deposito era guardato da duecento tedeschi e due carri armati... E mi hai detto che c'erano poche sentinelle. Quando ci hanno scoperto hanno cominciato a giocare al tiro al piccione ed è stato un massacro!” Henderson non sente ragioni, non ne vuol proprio sapere. “Non spetta a lei valutare conseguenze e risultati delle varie missioni” risponde il superiore. In questa frase, lo capiremo meglio nel corso del film, trapela lo spirito anarchico del regista, che tornerà più volte sullo status del soldato per evidenziare il rango di pedina giostrata dalle scelte operate da un ufficiale seduto dietro una scrivania. Una sorta di gioco in cui muoiono persone, spesso sacrificate in missioni in cui la morte è pressoché certa. Henderson sembrerebbe diverso, ma così non sarà. Cambia idea solo quando il generale gli rivela chi sia il diretto avversario contro cui dovrà combattere ed è qualcuno con cui l'inglese ha un precedente lontano in terra d'Africa: il colonnello tedesco Ackermann (Wolfgang Preiss). Si configura così una guerra personale tra i due, fatta di strategie e sottigliezze, che si inserisce in un ambito più vasto: l'assalto all'Europa che vede entrare in scena lo stato che portò un ammiraglio giapponese, Isoroku Yamamoto, a esternare la famosa frase: “Abbiamo svegliato un Gigante che dormiva e riempito di una terribile determinazione.” Invitato a formare un commando di sei uomini, Henderson sceglie di arruolare un gruppo di reietti puniti per rissa, insubordinazione, violenza, ci sono persino un ladro e un anarchico. Si tratta di volti di attori caratteristi del cinema bis. Vediamo lo spagnolo “leoniano” Lorenzo Robledo (è l'uomo che sputa in terra davanti a Clint Eastwood quando questo va a parlare del suo mulo in Per un Pugno di Dollari ovvero colui che viene ucciso in duello da Volontè appena uscito di carcere in Per Qualche Dollaro in Più, dopo avergli sterminato la famiglia), c'è il mitico Claudio Undari (l'attore italiano lanciato nei primi spaghetti western prodotti dalla Pea e diretti da Joaquìn Romero Marchent, che molti ricorde213 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ranno a comando del gruppo di extraterrestri, in Uno Sceriffo Extraterrestre... Poco Extra e Molto Terrestre, letteralmente disintegrato da Bud Spencer) e i vari Guido Lollobrigida e il rosso Bruno Corazzari (vero e proprio specialista, in ruoli di supporto, nel poliziesco all'italiana). Lenzi questa volta prende a piene mani da Quella Sporca Dozzina, anche se sviluppa in chiave personale, curiosamente non caratterizzando troppo questi personaggi che restano poco sviluppati. A questi uomini si aggiunge un ufficiale inviato dall'esercito americano, si tratta del capitano Burke (Thomas Hunter), specializzato in esplosivi. Lenzi traccia subito una netta distinzione tra l'americano e gli inglesi. Il primo si presenta accompagnato da una ragazza, la bacia e se ne sta sbracato sulla jeep, rivelando subito dove è diretto. Henderson lo rimprovera, chiamandolo a tenere un comportamento consono a un ufficiale. Alquanto incuriosito dalla scelta dei compagni di avventura, che nel frattempo hanno cercato di disertare venendo pestati e ricondotti nei ranghi dal colonnello Henderson e da un suo fedelissimo di origine indiana, l'americano manifesta una certa disapprovazione. “Tutti i vostri uomini più famosi sono stati in galera per un periodo più o meno lungo” ruggisce subito Henderson, che fa anche un paio di nomi all'americano “e lei si meraviglia di questi?”. Lenzi qua lancia alcuni strali relativi alla formazione della società americana o almeno questo potrebbe sembrare. La missione entra in gioco con la presa di un bunker tedesco lungo la costa francese, con approccio alla terraferma mediante azione subacquea. Spicca in modo divino la fotografia del maestro spagnolo Alejandro Ulloa, sempre bravo e vero e proprio mattatore nel cinema bis. Vediamo il mare nero petrolio attraversato dal corridoio di luce, tracciato da un faretto azzurro, contrastato da una luce rossa che rende violette le nubi che coprono porzioni di orizzonte. Lenzi dà sfogo a un lungo campionario di cannonate, mitragliate e chi più ne ha più ne metta. Non sempre la spettacolarità viene garantita (a esempio vediamo cannonate che smuovono il mare portate in scena in modo un po' pedestre), pur essendo comunque presente, complice svariate semisogettive, primi piani di mitra che sparano, zoom in e zoom out. Anche il ritmo è molto sollecito, a differenza degli altri film di guerra del regista. Dal punto di vista dell'azione è il war movie più ricco di scene di combattimento. Non a caso il film sarà saccheggiato con scene che saranno riproposte ne Il Grande Attacco. Lenzi si concede anche un'autocitazione, riproponendo la scena del campo minato de Attentato ai Tre Grandi, con l'esperto di esplosivi (Hunter) che porta alla luce, dalla sabbia, una mina, 214 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

per togliergli l'esplosivo e utilizzarlo come arma. Il commando infatti, dopo aver conquistato la postazione tedesca, sta pianificando altre azioni di disturbo sperando di operare in gran segreto. Purtroppo però, nel comunicare col nemico, Henderson non ha fornito la parola d'ordine di apertura comunicato. Il colonnello Ackermann si accorge così che gli alleati sono sbarcati in Francia. “Non sono dei macellai, ma dei commandos e anche molto bravi” rivela ai compagni che sottovalutano la cosa. Tenta in tutti i modi di convincere i superiori di quanto successo, ma questi lo reputano un visionario. Ackermann, studiando le mosse dell'avversario e alcuni messaggi cifrati (“La guerra di Troia non si farà, gli uccelli cominciano la migrazione, feriscono il mio cuore con monotono languore”), intuisce che si tratta di manovre di sabotaggio funzionali a preparare uno sbarco in massa in Normandia. Ogni tentativo di far ragionare il generale si rivela vano. I nazisti si aspettano un attacco alleato, ma non imminente e soprattutto nella zona di Calais, ovvero nel Nord della Francia sul versante dell'Inghilterra. Niente di più sbagliato. “Stiamo perdendo la guerra e quei pazzi non se ne rendono conto” si sfoga Ackermann. Qui Lenzi va a caratterizzare questo personaggio in modo positivo, meritorio di massimo rispetto. Vorrebbe una pace onorevole per la Germania, non una resistenza strenua che porterebbe, come poi succederà, ad altre morti e distruzioni. Il regista, che curiosamente non sottoscrive né il soggetto (Stefano Rolla e Romano Moschini) né la sceneggiatura (Dario Argento, Rolf Grieminger ed Eduardo Manzanos Brochero), sebbene sia evidente la sua mano, delinea la personalità di un individuo che ha una sua morale e una sua etica, assai distinta dalla pazzia nazista. In altre parole evita, ancora una volta, la fastidiosa netta distinzione tra buoni e cattivi. In guerra ci sono uomini e come tali ci sono i valorosi in ambo gli schieramenti, così come i deprecabili. “Sono stato a Berlino il mese scorso. Se la vedesse: è ridotta in frantumi dai bombardamenti aerei. Sa cosa ho letto su un muro sgretolato? I nostri muri sono a pezzi, non la nostra fede nel Fuhrer.” Ackermann lo dice con sdegno, vedendo nella massima carica del suo stato un folle esaltato. Ma ecco che si ripropone quanto riferito dal generale inglese al colonnello Henderson. “A noi non chiedono di pensare, ma solo di combattere e non dobbiamo fare altro” risponde un collega del colonnello. Cambia fronte, ma non la condizione del militare: pedina sacrificabile nello scacchiere di una partita più grande; vita defraudata del vero valore che incarna, ridotta a mera massa da macello. Henderson, che sembrava diverso dagli altri, imita i superiori, perché conquistata la posizione che gli era stata richiesta, invece di attendere lo 215 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sbarco degli americani, dà vita a una nuova azione che lo porta a scontrarsi con i propri uomini e con l'ufficiale statunitense. “I suoi non sono ordini, sono biglietti di invito per un suicidio” protestano, ma con poco costrutto. Cadranno in diversi, si ricorrerà alla morfina per lenire il dolore e si chiuderanno gli occhi per l'ultima volta. È la guerra, non una serata di gala. Henderson, interpretato da un energico Jack Palance (in voga in quegli anni nello spaghetti western, si pensi a Il Mercenario e a Vamos a Matar, Companeros di Sergio Corbucci, con alle spalle due nomination all'Oscar quale migliore attore non protagonista in So che mi Ucciderai e Il Cavaliere della Valle Solitaria, nel 1953 e 1954, nonché futuro premio Oscar per la medesima ragione nel 1992 con Scappo dalla Città – La Vita, l'Amore e le Vacche), riesce a imporsi, pianificando una serie di azioni slegate, che porteranno anche alla cattura in ostaggio di una ragazza francese mantenuta da un ricco locale in combutta con i nazisti. Ackermann segue tutto passo a passo, giungendo sui luoghi delle azioni. A dar corpo al personaggio c'è il tedesco Wolfgang Preiss. La sua è un'interpretazione aristocratica per compostezza e calma nei movimenti e nelle esposizioni. Non sembra affatto un nemico della società, anzi. Si tratta di un attore noto per aver interpretato cinque volte il personaggio del Dottor Mabuse, tra cui nell'ultimo film in carriera di Fritz Lang (Il Diabolico Dottor Mabuse, 1960), ma soprattutto per aver ricoperto in molte circostanze ruoli di ufficiale tedesco in pellicole di stampo internazionale quali Operazione Walkiria (1955) di Falk Harnack, Stalingrado (1959) di Frank Wisbar, Parigi Brucia (1966) di René Clement, Lo Sbarco di Anzio (1968) di Duilio Coletti, Attacco a Rommel (1971) di Henry Hathaway e Quell'Ultimo Ponte (1977) di Richard Attenborough. Il suo personaggio fiuta subito chi vi sia dietro a queste azioni. Prende così piede un duello a distanza tra i due, un confronto preceduto da una frase del collaboratore indiano di Henderson: “Quando da ragazzo, in India, si arrivava nella zona delle tigri, una morsa ci stringeva lo stomaco, ma andavamo avanti. La tigre era il nemico e noi sapevamo che nella vita non si è veri uomini se prima o poi non si incontra il proprio nemico faccia a faccia.” La missione di Henderson diviene una questione personale, mosso da un determinazione interiore che sfiora la follia e che sfida continuamente la morte. Vuole a tutti i costi eliminare Ackermann che, dal canto suo, non si sottrae al confronto. Non vi è dubbio che sono due grandi colonnelli e due abili tattici. “È un maledetto testardo, ma non un pazzo, è un tipo che non si arrende mai. Mi ha lanciato una sfida e io debbo raccoglierla” sussurra il tedesco, che dimostra la sua stima verso l'avversario. 216 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Intanto vediamo penetrare nel narrato anche il romanticismo di Lenzi che, fin qui, era assente. Non poteva che esserci un ruolo femminile a sciogliere la parte animalesca che emerge nel conflitto. Il ruolo è offerto a Diana Lorys, al secolo Ana Maria Cazoria Vega, che arriva dagli spaghettiwestern e da altri piccoli film di genere. È una ragazza triste che, a poco a poco, si sente attratta dall'ufficiale americano interpretato da Thomas Hunter, attore (non eccelso) lanciato da Blake Edwards in Papà, ma che cosa hai fatto in guerra? (1966) e che era già apparso nel macaroni combat Lo Sbarco di Anzio (1968) di Duilio Coletti. Non si capisce bene perché provi questo sentimento per l'americano, da cui si sente protetta, sembra quasi voglia ricercare quelle emozioni che non ha mai assaporato, vittima di un amore conosciuto nel modo sbagliato tanto da rubarle il sogno che un po' tutte le ragazze hanno in gioventù: l'incontro col principe azzurro. “Per me il primo amore non è stato come nei libri. Niente cavalieri romantici o belle parole. Era un vecchio sporco. Ho stretto i denti perché sapevo che mi avrebbe dato una decina di scatolette. E poi... mangiare diventa un abitudine.” Sono frasi che fanno male, rasoiate nel cuore dello spettatore portatore di valori e facilmente emozionabile. Ancor più male fa la tenerezza e la semplicità di questa giovane che diviene, a sua volta, pedina di uno studio tra i due colonnelli. Questi infatti utilizzano la giovane in un gioco e contro gioco finalizzato a sviare l'avversario. Henderson, dopo averla tenuta col gruppo come guida, la libera e le dice di non rivelare ai tedeschi alcune informazioni, immaginando che in caso di cattura la ragazza, sotto pressione, rivelerà tutto. Si tratta ovviamente di informazioni errate che hanno la ragione di disorientare il nemico. Ackermann però non è un superficiale ed è sulla stessa lunghezza d'onda del collega, perché sa di non avere a che fare con uno stupido. Sospetta che Henderson stia per orchestrare un tiro mancino e abbia fatto un gioco che maschera il vero obiettivo. Dallo studio dell'intera azione, Ackermann individua il vero obiettivo dell'inglese. Henderson sta pianificando di far saltare un treno cannone tedesco. Per evitare che l'avversario porti a termine la missione, il colonnello tedesco fa liberare la ragazza, che i nazisti vogliono uccidere, e le fornisce notizie false per lo stesso motivo orchestrato da Henderson. Vediamo dunque come le schermaglie tra i due colonnelli siano tali da elevare, in chiave strategica, i due in modo da farne i personaggi centrali del film. Lenzi inserisce bombardamenti aerei, blindati, carri armati (veri) e lo fa con apprezzabile numero. È innegabile che dal punto di vista della messa in scena sia il film più costoso della produzione war movie del regista, che risparmia invece sul cast artistico così da contenere il budget. 217 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La Lorys, picchiata e col labbro sanguinante, ritorna nel gruppo di Henderson e salta in braccio all'ufficiale americano, l'uomo che immagina come suo ideale senza neppure averlo conosciuto nel profondo. Lo abbraccia forte forte, quasi a volerlo trattenere a sé e impedirgli di andare in azione. “Lei aveva previsto tutto” tuona il capitano Burke (Hunter) in direzione del colonnello Henderson, per nulla compiaciuto del modo di trattare le persone, specie il sesso debole. “Che l'avrebbero interrogata e che avrebbe raccontato tutte le sue stupide balle. Con quel tedesco vi siete palleggiati la ragazza come fosse un gioco, una sporca gara tra voi!” È una difesa che libera ideali farfalle nel cuore della giovane che, per la prima volta nella vita, si sente difesa da un uomo e ciò le fa maturare una decisione, forse frettolosa ma in un ambito come la guerra il decorso del tempo è impazzito, modificato, piegato a logiche che tali non sono. “È difficile questa missione? Potresti anche... ” sussurra al capitano che la interrompe, annuendo: “anche.” Lenzi piazza qua la scena a maggior presa emotiva del film, anche se non la sola. La Lorys, in un momento di intimità con Hunter, inizia lentamente, con una faccia tra lo stralunato e il sognante e un piccolo rigo di sangue coagulato sul labbro, a spogliarsi. Lenzi non è volgare, conferisce un tocco poetico al tutto, seppur triste, e taglia le effusioni al momento topico così da evitare erotismi che sarebbero stati fuori luogo. Un amore in guerra come questo è più un unione di anime che una liberazione degli istinti sessuali animali. “Abbiamo solo pochi minuti e forse è anche l'ultima occasione” dice con un flebile filo di voce la ragazza. “Per favore, non dirmi niente...” Apice romantico del film, specie poco dopo, quando il Capitano Burke deve partire per l'ultima azione proposta dal film, quella che porterà alla distruzione del treno cannone tedesco. La Lorys si affaccia dalla porta, lo guarda, mentre lui sta seduto su una poltroncina di un mezzo ricambiando lo sguardo. È uno scambio che dice tutto. La paura di non rivedersi più, il tentativo di registrare quel momento e conservarlo nel cuore per sempre. Le lacrime vorrebbero scendere, liberarsi in una cascata che possa dare sfogo alla tristezza, ma di lacrime non ce n'è più, sono state tutte consumate dalla guerra, dai lutti, dalla morte di una parte di sé stessi. Lo stesso colonnello Henderson lo farà capire a chiare lettere: “La verità è che quattro anni di guerra mi hanno svuotato. Se ti fermi a pensare e guardi indietro, avevo una moglie, degli amici. Sono morti. Avevo persino degli ideali e adesso non ricordo più quali erano.” Il messaggio che ne esce è eloquente, trasforma il film in un piccolo gioiello, purtroppo misconosciuto e non apprezzato quanto meriterebbe. Neppure il regolamento di conti finale tra i due colonnelli libererà Henderson dall'angoscia che lo divora 218 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dall'interno, quell'angoscia che rischia di trasformarsi in male di vivere. “Ora che hai vinto la tua guerra, non hai più motivo di odiarmi” gli sussurra il Colonnello Ackermann in punto di morte, quasi a volersi liberare da colpe che tali non sono, poiché in guerra si è costretti a uccidere. Solo a questo punto Henderson capisce la follia della situazione: “Tutti abbiamo perso” risponde al parigrado, prima che questo spiri. Bellissima la scena finale in cui il militare inglese ricompone l'avversario, un po' come farà Bruce Lee con Chuck Norris ne L'Urlo di Chen Terrorizza anche l'Occidente (1972), in segno di profondo rispetto. Anche in guerra, talvolta, il nemico, che è tale per volontà superiore, può meritare il rispetto conquistato sul campo di battaglia. Finale a dir poco spettacoloso, per quello che è forse il miglior macaroni combat di Lenzi. Un war movie denso di azione, più americano rispetto agli altri, in cui però trovano spazio il romanticismo, il valore e il rispetto verso l'avversario e la critica alla guerra. Regia più dinamica del solito, caratterizzazione dei personaggi limitata solo a quattro ruoli ovvero ai due colonnelli (inglese e tedesco) e al rapporto tra il capitano americano e una giovane francese. La musica di Micalizzi è sufficiente, mentre è molto buona la fotografia di Ulloa. In definitiva si tratta di un film che intrattiene pur lasciando, al suo volgere, un gran senso di tristezza. Nella guerra non ci sono vincitori, ma solo perdenti. Possiamo quindi concludere che a vincere è colui che ha perso di meno, quantomeno a livello umano.

Il Grande Attacco (1978) Terzo war movie firmato Lenzi che arriva dopo una lunga sequela di polizieschi di notevole successo, sufficienti a garantire al regista, a distanza di quasi dieci anni dal precedente La Legione dei Dannati (1969), la produzione di un film del suo genere preferito dal discreto budget. Luciano Martino, per il quale aveva diretto i vari Milano Odia: La Polizia Vuole Giustizia (1974), Il Giustiziere Sfida la Città (1975), Roma a Mano Armata (1976), Il Cinico, l'Infame, il Violento (1977) e La Banda del Gobbo (1977), unito al socio Mino Loy, concede i finanziamenti richiesti e permette a Lenzi di portare in scena un suo soggetto incentrato sulla parte finale del conflitto nel Nord Africa, tra la fine del 1942 e l'inizio del 1943. Ad aiutarlo nella stesura della sceneggiatura c'è Cesare Frugoni, che arriva da pellicole di ben altro tenore. Autore con ambizioni di regia, era stato assistente alla re219 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gia in cinque film (due dei quali diretti da Tonino Cervi), arriva al war movie senza aver mai sceneggiato film d'azione. Luciano Martino lo mette a disposizione di Lenzi, perché lo aveva avuto come sceneggiatore nel precedente La Vergine, il Toro e il Capricorno (1977) di Sergio Martino e perché fa parte della sua scuderia di scrittori (lo riutilizzerà in seguito). Lavorerà in svariati generi, dal cannibalico all'horror, stringendo un duraturo sodalizio con Cervi e Sergio Martino, concentrandosi però maggiormente sul comico. Lenzi concepisce un progetto ambizioso, lo fa in via autonoma, ricorrendo a Frugoni per i dialoghi e giusto qualche idea. La passione per la storia, soprattutto quella moderna ma non solo (ci sono citazioni anche a grandi guerre del passato, da quelle dei cartaginesi e dei romani fino a Waterloo), si respira a pieni polmoni. Anziché concentrarsi su un soggetto lineare, Lenzi opta per un film corale, sviluppato da molteplici punti di vista e costruito da lontano. La pellicola prende le mosse nel 1936, al termine delle sfarzose Olimpiadi di Berlino, quelle che videro Jesse Owens mettere in ridicolo le idee della supposta superiorità della razza ariana. Vediamo un maggiore nazista, interpretato dall'americano Stacy Keach, parlare del fatto che Hitler abbia rifiutato di stringere la mano a un “negro”. Gli fanno compagnia un professore con un passato da corrispondente di guerra sul fronte (il leggendario John Huston), un generale americano, interpretato da un Henry Fonda al crepuscolo della propria carriera, e un'attrice ebrea (Samantha Eggar) da questo presentata al tedesco che se ne innamora e deciderà di sposare di lì a poco. Bello il tocco che Lenzi da subito facendo riferimento alle proverbiali sliding doors. L'attrice, nientemeno che “la più famosa attrice drammatica della Germania”, fa subito capire quanto il destino possa modificare le carte sul tavolo da gioco che è la vita, ma anche quanto tutto ciò che può sembrare buono e giusto possa presto cambiare di forma. “Chi l'avrebbe mai pensato” dice la donna “Un po' di pioggia, un taxi che non arriva mai e capita anche di incontrare una celebrità, proprio come nei romanzi” quello che lei non sa è che la particolarità non sta nell'aver incontrato la celebrità, ovvero il generale Foster (Fonda), bensì l'amore della vita. Il gruppo si lascia tra abbracci e brindisi, scambi di doni con medaglie che inneggiano a Dio (“Gott mit Uns” e “In God We Trust”) in nome della pace e con l'augurio di rincontrarsi quattro anni dopo alle nuove olimpiadi. Si tratta di un tema caro al regista, quello dell'amicizia tra gli uomini messa a dura prova dalle relazioni tra i paesi a cui essi appartengono per nascita. Lenzi svilupperà la tematica l'anno dopo in Contro 4 Bandiere. L'antefatto ha mera funzione di presentazione dei personaggi poiché, a 220 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

differenza di quanto si legge in giro, Il Grande Attacco è un film dove l'azione, le battaglie e gli scontri, pur presenti, acquisiscono valenza marginale. Al regista interessa lavorare sui personaggi, caratterizzarli in modo da farli fraternizzare col pubblico, così da aumentare lo shock una volta in cui soccomberanno. In un contesto bestiale quale quello della guerra, Lenzi vuol mostrare il lato umano dei dispensatori di morte. Anche i soldati hanno un'anima sembra suggerire il film, costruito su un copione che, contrariamente a quanto il regista era solito dire a proposito delle proprie opere letterarie, appare quale un romanzo prestato al cinema E così vediamo scorrere le immagini (Creta, Londra, Grecia, Le Havre, Plymouth, Normandia, Stati Uniti e infine Nord Africa), da uno stato all'altro, con le scritture dei luoghi e delle date in sovrimpressione, in sequenze rapide, costruite con un montaggio netto che rende, in verità, un po' frammentata la sceneggiatura e rischia di spiazzare lo spettatore. Moltissimi i personaggi principali, giocati su quattro fronti: il tedesco, l'inglese, l'americano e il partigiano. Li vediamo all'opera, chi già militare e chi ancora no, in altre missioni finché, tutti quanti, finiscono a vario titolo in Nord Africa dove il Generale Montgomery (per l'Inghilterra) e il Generale Patton (per gli Stati Uniti) stanno stringendo nella morsa le truppe tedesche. Non sono però i grandi strateghi ad assurgere a protagonisti del film, si sentono menzionare spesso ma sono del tutto assenti. Lenzi lavora su personaggi secondari, utili a raccontare le loro vicende che diventano preminenti rispetto alle battaglie. Queste ultime risentono un po' degli anni ma appaiono comunque ben messe in scena, pur se con una non troppo cura per la spettacolarità. Tra i primi a esser presentato è il maggiore Roland, interpretato da Stacy Keach, attore americano in particolare voga nel periodo (e anche dopo con ruoli in cult quali Fuga da Los Angeles e American History X), al punto da esser stato individuato da Friedkin come l'attore che avrebbe dovuto interpretare padre Karras ne L'Esorcista. Bel volto, esaltato dal labbro leporino che gli conferisce un'espressione che anziché penalizzarlo lo rende caratteristico, incarna il ruolo di un maggiore tedesco dotato di un'etica militare aliena ai suoi superiori. Lo si capisce quando cerca di salvare un partigiano greco, spacciandolo per inglese. L'alto valore dell'uomo che ha difronte però non gli permetterà di esaudire l'intento: “No, niente d'affare: io sono greco!” Keach ordina l'esecuzione, non può fare altrimenti, quindi si accuccia sull'uomo perché vede due foto uscirgli dalla giacca. Scopre solo ora di aver fatto giustiziare un idolo della propria moglie, “il più grande attore tragico della Grecia.” Lenzi piazza un flashback dove vediamo Keach e la sua consor221 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

te assistere, alcuni anni prima in teatro in quel di Berlino, a uno spettacolo dell'attore. Scena malinconica così come lo è il personaggio dell'attore, critico della guerra (non ha mai preso la tessera nazista) eppure eroico e fedele alla sua nazione. Innamoratissimo della moglie, la sofisticata Samantha Eggar. Quest'ultima è un'attrice inglese premiata nel 1966 col Golden Globe, quale migliore attrice di un film drammatico grazie alla performance resa ne Il Collezionista, prova che le valse anche la nomination all'Oscar. Ma è soprattutto, per gli appassionati di cinema di genere, la protagonista del tremendo The Brood – La Covata Malefica (1979) di David Cronenberg. I due attori sono protagonisti di due delle sequenze più belle del film. Vediamo Keach, ricoverato in un ospedale da campo dopo esser rimasto ferito nel corso di un bombardamento in Africa, ascoltare una lettera che gli viene letta da Helmut Berger (l'uomo che lo ha soccorso nel deserto). Si tratta di uno scritto della moglie che gli scrive da Berlino. Sebbene lei stessa stia vivendo gli ultimi giorni di vita, dal momento che è emersa la sua origine ebraica, gli parla della primavera alle porte e degli alberi fioriti presenti lungo una data strada. Non è ovviamente vero, ed è chiaro quando Berger sospende la lettura per chiedere quali alberi vi siano in quel luogo, salvo modificare l'espressione una volta vista quella del collega. Keach, poco prima in preda agli incubi delle bombe e dei proiettili, si è rilassato, condotto dalle dolci onde della passione in una dimensione mentale in cui è fuggito dalla morte per affondare nell'abbraccio infinito della compagna. Berger, che è anch'egli un romantico pur essendo nazista convinto (“La mia ambizione è servire la Germania e il Fuhrer”), sospende la lettura e legge bene il momento, probabilmente sognando a suo modo l'ideale di donna che pensa di aver scoperto prima di giungere in Africa. È solo un'illusione, per entrambi, un castello di sabbia che il vento dell'orrore travolgerà di lì a poco. Keach morirà da eroe, in battaglia, senza abbandonare la postazione sebbene sia il primo a capire che sarà un massacro per i tedeschi. Sua moglie invece, punita per non aver ceduto alle avance di un colonnello della Gestapo che le aveva chiesto favori sessuali in cambio di protezione, finirà preda dei tremendi interrogatori dei nazisti. Messa al bando non tanto per le origini ebraiche, ma per essere un'artista. “La gente come lei è immorale, abietta. Portate dentro di voi il germe della disfatta.” I nazisti fanno capire di non apprezzare lo spirito libero e ribelle degli artisti, che sospettano di spionaggio con l'intelligenza nemica. La pressano e la tediano di domande, finché non si lancia nel vuoto, finendo la sua avventura sui freddi lastroni di un marciapiede. Solo allora può di nuovo assaporare quella libertà che le era stata tol222 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta, la libertà propria di un'artista che non conosce limiti indotti da un credo politico o religioso. Non se la passa meglio il personaggio di Helmut Berger, grandissimo attore dai tratti diabolici e freddi, una nomination al Golden Globe per La Caduta degli Dei (1969) di Luchino Visconti, oltre che vincitore di un David di Donatello con Ludwig (1973) sempre di Visconti. È il tenente Zimmer, convinto sostenitore della guerra e del Fuhrer. Personaggio dunque più estremo di quello di Keach, non parla di etica di guerra, non chiede trattamenti di favore per i soldati prigionieri, ma li uccide quando loro implorano la liberazione dal dolore. A lui non succederà, perché l'americano che avrà di fronte (Ray Lovelock), un po' come Clint Eastwood al soldato ne Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo (1966), lo farà bere dalla borraccia, giusto un sorso, prima della discesa della grande falciatrice operaia di nostro signore. Eppure anche lui, oltre che nella sequenza di cui sopra, dimostra di avere un cuore. In una bettola, in Francia, dopo essersi scagliato contro un collega ubriaco (che festeggia il Santo Natale augurandosi che la guerra sia prossima a finire) dicendo che la guerra è necessaria per fare grande la Germania e che non importa quanto duri, se questa è indispensabile alla causa, ha un momento di debolezza umana. È un duro, d'accordo, ma anche lui ha bisogno di affetto. La sua durezza e la sua corazza bellicosa vengono incrinate da una donna. Scorge infatti nella bettola una giovane francese, nientemeno che la procace Edwige Fenech (all'epoca compagna del produttore Luciano Martino che sembra l'abbia imposta a Lenzi), che pensa essere una prostituta di mestiere. L'avvicina e le chiede di fargli compagnia per la sera. È gentile, la invita anche a cena, ma lei rifiuta, non vuole farsi vedere con un uomo. Le dice che potrebbe essere l'ultima volta che lo vedrà, perché l'indomani deve partire per il fronte. La Fenech accetta, poi tergiversa perché è il primo cliente di una carriera che si sta inventando. È rimasta vedova e deve pagare l'affitto. Pensa allora di fare la prostituta. Quando lo rivela a Berger, il tedesco fa per andarsene, ma lei lo frena e gli dice che sarà brava come le altre e che non lo deluderà a causa della scarsa esperienza. Lenzi non rovina il momento con volgari nudi o momenti erotici. Niente di tutto questo. Lo stile è pulito, freddo, denso di tristezza. Berger invece di considerarla un oggetto, quale potrebbe essere una prostituta, le lascia i soldi su un comodino e decide di andarsene, senza consumare, mentre lei si prepara per riceverlo. Non vuole approfittare dell'altrui stato di necessità, non vuole mercificare chi si propone in un dato modo non certo per scelta; ma soprattutto, anche se ancora non lo sa, si è innamorato di 223 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

quella donna. Sarà la lontananza e l'orrore quotidiano a farglielo capire. Quella donna, o forse l'immagine (un'idealizzazione) che lui si crea di quella donna, gli resterà nel cuore. Pure per un tipo freddo come lui, dal grilletto facile, sarà l'ideale dell'amore impossibile cui confidare una volta di ritorno, una volta cessate le ostilità, in vista di una vita normale. Il suo gesto servirà a poco, perché la Fenech troverà nell'alcool la via per liberarsi dai pregiudizi e proseguirà, in Francia, a deliziare i volgari tedeschi. Berger le scriverà dal fronte, le manderà persino dei soldi per aiutarla, fantasticando una vita che mai potranno avere assieme. Moriranno entrambi, la Fenech addirittura infangata ingiustamente nella memoria (accusata dai partigiani di scorrettezze e tradimenti che non le erano propri); il suo spasimante cadrà con onore sul campo di battaglia, avendo salvo, quantomeno, il ricordo nei propri superiori. Dunque l'amore lontano e l'amore sognato a dare forza nei momenti di depressione, ma anche gli affetti di famiglia a giostrare la vita di uomini chiamati, per una ragione o l'altra, a tenere in alto il vessillo del proprio paese. La morte individuale per la libertà altrui. Molto interessante il personaggio affidato a Ray Lovelock. Faccia pulita, da bravo ragazzo, ma lunga sequela di film polizieschi a farne uno dei volti caratteristici del genere (aveva già lavorato con Lenzi in Milano Odia e nel thriller Un Posto Ideale per Uccidere). È il figlio del generale Foster, un uomo che fa distinzione di trattamento tra i suoi due figli. Uno adorato, di cui dice di esser fiero, l'altro la pecora nera della famiglia. “Considero il tuo comportamento un insulto a me e alle tradizioni della mia famiglia!” rivela al figlio, che non ha superato alcuni esami universitari. Poi arriva una chiamata telefonica e in linea c'è l'altro figlio, quello che ottiene risultati. Fonda cambia subito espressione, ma lo fa anche Lovelock che si sente colpito nell'onore e decide di andarsene e prendere una decisione estrema. Tutto, pur di esser accettato dal padre che però sembra non appoggiare nessuna delle sue decisioni. Il giovane decide di arruolarsi nell'esercito americano e di imbarcarsi per l'Europa. Il generale, che pure ha lodato l'altro figlio per la medesima scelta, non la prende bene. Vede il ragazzo alla stregua di un viziato smidollato figlio di papà, tuttavia cerca di correggere il tiro, perché un padre è pur sempre un padre e i figli restano tali anche se scapestrati. Cerca così di rimediare ricordando al biondino il motto di famiglia: “Mai volgersi indietro.” Vediamo dunque come Umberto Lenzi curi i propri personaggi. È un interesse, come abbiamo detto, preminente. Non mette in scena fantocci, ma lavora con spirito da romanziere più che da sceneggiatore. Il personag224 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gio di Ray Lovelock, non sentendosi amato, ha una reazione costruttiva, non accetta il rifiuto paterno ma non prende la via del comportamento deviante. Elabora piuttosto il rifiuto e cerca una nuova via che possa offrirgli una giusta motivazione per fare breccia nel cuore del padre. Per farlo sceglie un percorso potenzialmente mortale, una discesa che lo conduce tra le braccia della morte, con la speranza di riuscire a eludere la fredda presa della dama che non concede viaggi di ritorno. Contro ogni pronostico diventerà un eroe sul campo, otterrà la promozione a ufficiale per meriti militari. Lo scopriremo a fine film, un epilogo che sembra (non lo sappiamo, ma ci piace pensarlo) aver ispirato l'epilogo di Salvate il Soldato Ryan (1998), capolavoro di Spielberg incentrato sul D-Day. Fonda è solo, nello sterminato verde da cui si ergono delle croci in un'interminabile e monotona sequela bianca. Centinaia di croci ricordo di giovani vite spezzate che non potranno vedere esaudite le proprie ambizioni e che vivranno solo nel ricordo di chi ha conosciuto i nomi riportati dalle scritte che campeggiano su ogni tomba. È il classico cimitero militare americano. Il vecchio è davanti a una croce, silente, muto. La sta guardando con un pizzico di composta commozione. Forse si chiede se sia stato un buon padre, forse si chiede se oltre le nubi, lassù in alto, ci sia qualcuno che lo sta osservando. Davanti ha la croce del figlio adorato, quello che gli dava tutte le soddisfazioni e che è caduto sul campo di battaglia. Ecco però che il silenzio viene rotto da uno stridore. Arriva un auto, procede a tentoni, dando quasi l'impressione che la conduca un autista poco avvezzo alla guida. Esce fuori un militare, ha in mano un telegramma. Porta notizie del figlio scapestrato. Il monellaccio che dava tanti problemi ce l'ha fatta, è un eroe di guerra. Fonda si rivolge al cielo, ringrazia quel Dio in cui la medaglia donata a inizio film al maggiore Roland diceva di dover credere; un Dio che attribuisce strani parti nel film che è la vita, un Dio che gioca con l'uomo come una biglia impazzita che vortica nella roulette di un casinò al cospetto di milioni di occhi che sperano, bramano, per poi accendersi in una cascata di acqua salata oppure incendiarsi di una luce folle che è sinonimo d'estasi. “Eviti lo scacco al re con l'alfiere sul quattro” aveva detto a inizio film Fonda, parlando al telefono col figlio che poi morirà in guerra. La vita, così come la guerra, altro non è che un'infinita partita a scacchi dove solo uno ha l'intero controllo del gioco. E questo uno non è né un Presidente, né un Generale, né qualcuno a misura di uomo. Ruolo meno caratterizzato e, se vogliamo, invertito per Giuliano Gemma, nei panni del Capitano Scott. Appartenente all'esercito inglese, spedito in Africa dopo una fallita incursione a Creta. Si tratta di un altro personag225 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gio problematico. Separato da una moglie che ama ancora, cui dà corpo Evelyn Stewart ovvero Ida Galli con cui Gemma aveva già lavorato in svariati spaghetti western (si pensi a Adios, Gringo di Giorgio Stegani e a Un Dollaro Bucato di Giorgio Ferroni). Lascia a Plymouth i due piccoli figli che, in licenza, va a trovare, dovendo però interrompere la concordata vacanza garantitegli dall'esercito. Va al fronte, lasciando in trepidazione i figli, che poco realizzano il pericolo che sta affrontando, ma soprattutto l'ex moglie che riscopre l'amore per l'uomo che aveva scelto per la vita. “Ragazzi, eroismo non vuol dire incoscienza” afferma ai suoi uomini, protetto da un terrapieno oltre il quale si intravedano, minacciose, decine di mitraglie naziste, salvo poi doversi ricredere, pur di salvare i carri inglesi che stanno per penetrare nel campo minato nemico. Tutti fuori e che dio ci benedica, pur di raggiungere i carri. Ancora una volta in mano al destino in una grandinata di proiettili che uccidono alcuni e salvano gli altri. Il capitano ce la fa, raggiunge un carro, ordina il cambio di marcia. Il campo minato è evitato e i tedeschi demoliti. Altro eroe di guerra. Eroismo è allora un atto di incoscienza, perché solo il caso ha voluto che fosse proprio il capitano a salvarsi. Un rischio però che mette a repentaglio un numero ristretto di vite a favore di uno più ampio. Altro personaggio in gioco è quello di John Huston, celebre regista americano premiato con l'oscar quale migliore regista con Il Tesoro della Sierra Madre (1948), oltre tredici ulteriori nomination (quale miglior regista, miglior sceneggiatura e miglior attore non protagonista) connesse ad altri dieci film, due Golden Globe come migliore regista per il sopracitato film e per L'Onore dei Prizzi (1985) più un terzo quale migliore attore non protagonista in Il Cardinale (1963) e altre cinque nomination. Personalità di spicco, riempie l'onore e la soddisfazione di Umberto Lenzi che si trova a dirigere un vero e proprio mito. Regista di capolavori assoluti quali Moby Dick (1956), La Bibbia (1966), James Bond 007 – Casinò Royale (1967), L'Uomo che Volle Farsi Re (1975) e Fuga per la Vittoria (1981). Incarna un testardo corrispondente di guerra che si definisce “il più importante del mondo.” È in età avanzata, eppure non lo accetta. Ha un atteggiamento di ostracismo nei confronti dei giovani, di sfiducia, forse perché non accetta l'avanzare degli anni. Fa di tutto per farsi spedire in Nord Africa, nonostante lo scetticismo generale. Tratta da pezze da piedi il giovane che lo accompagna, lo accusa di essere un pauroso spingendolo laddove è sconsigliato andare. Una sorta di Achab del deserto che caccia la grande guerra, che vuol immortalare i momenti più pericolosi, forse volendo chiudere da eroe della carta stampa226 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta. Troverà la fine che inconsciamente cerca, tirandosi dietro l'accompagnatore proprio come il celebre capitano del romanzo di Melville, che lo stesso Huston aveva portato in scena a metà anni cinquanta, aveva fatto con i propri uomini. Un'interpretazione colorita, smargiassa e anche un po' indisponente. Piace, eppure Lenzi non ne parlava bene. Così raccontava, a Stefano Iachetti, in La Paura Cammina con i Tacchi Alti: “John Huston era un grande regista, ma un pessimo attore.” Lenzi spiega poi la sequenza in riva al mare, dove il corrispondente cerca di rincuorare Lovelock, che ha appena appreso della morte del fratello, recitando John Donne. “Mia moglie doveva suggerire le battute a Huston. La scena fu riprovata per quattro ore, poi il sole cominciò a tramontare e l'operatore mi disse che avevamo solo un quarto d'ora per girare la scena dopo di che la luce non sarebbe più stata buona. Huston si incagliava dopo due battute e la pellicola scorreva, scorreva” alla fine Lenzi riesce a chiudere la scena con alcuni primi piani, campi lunghi, dovendo poi completare il tutto con un primo piano a Ray Lovelock, girato nel giardino zoologico di Roma, con una faccia rivolta contro una palma in modo da farlo sembrare su una spiaggia nord africana. Al di là delle interpretazioni che, a nostro modo di vedere, ci sembrano buone, a corredo appaiono tutta una serie di volti di caratteristi del cinema bis quali Venantino Venantini, Andrea Bosic, Rick Battaglia, Attilio Dottesio, Luciano Catenacci, Giovanni Cianfriglia. Il film è caratterizzato da buone scene d'azione. Lenzi usa carri armati veri, li mette in scena anche diversi insieme con una battaglia in pieno deserto tra due distinti schieramenti. Ci sono svariate jeep e alcuni aerei che sorvolano il deserto. Niente a che vedere con la spettacolarità scenica di un Fury (2014), le sequenze sono un po' tirate via, spicce e di facile soluzione. Un colpo e il carro è fuori uso, per intenderci. Non brilla neppure il sonoro, né la regia riesce a calare lo spettatore nel vivo della battaglia (niente soggettive o semi soggettive, il tutto viene ripreso a debita distanza). A ogni modo Lenzi gira sul set, anche se introduce sequenze riprese da altri film (in particolare da La Legione dei Dannati) e alcune di repertorio. Usa anche qualche modellino (si veda il deragliamento di un treno), ma il più lo fa con mezzi veri. Lenzi parla di venticinque carri armati e dieci aeroplani. Del resto Il Grande Attacco è uno dei film più costosi del regista che va persino a girarlo negli Stati Uniti, a Santa Monica e a Hollywood (California), perché Fonda e Huston non vogliono spostarsi, completando poi il tutto in Almeria (Spagna) per le scene desertiche. Si tratta in definitiva di un film senza veri protagonisti, corale, che usa i 227 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fatti legati alle battaglie del Nord Africa per parlare degli uomini e dei loro amori in un contesto in cui tutto vacilla, ma non il sogno di rivedere affiorare un sole dietro la coltre fumosa della distruzione. Dunque le vicende dei commando diventano secondarie a quelli degli uomini. Lenzi parla più degli effetti della guerra, ma soprattutto dei cuori di chi si trova a viverla, sia da diretto protagonista che da cittadino. Un buon film, che piacerà di più a chi apprezza lo studio dei personaggi piuttosto a chi sia alla ricerca del mero intrattenimento e del divertimento. Musiche convenzionali di Franco Micalizzi che propone una marcetta che si lascia poco ricordare. Fotografia cupa, fin troppo nelle scene in notturna, firmata da Federico Zanni. Al montaggio l'esperto Eugenio Alabiso. Lenzi amava il film, lo reputava uno dei suoi migliori prodotti, dolendosi poi del fatto che, a suo dire, non lo volesse vedere nessuno, perché i film che piacciono sono quelli dei cannibali. Comprendiamo bene, dato lo sforzo creativo, il malumore dell'artista e dello storico.

Contro 4 bandiere (1979) Pellicola gemella, per costruzione e concezione (tante storie che si intrecciano e prendono le mosse da una partenza comune), de Il Grande Attacco. Lenzi la gira a ruota del precedente war movie. Lo produce un importante produttore, nell'ambito del cinema di genere italiano, quale Edmondo Amati, reduce dall'horror di imitazione Holocaust 2000 (1977) di Alberto De Martino e con in passato titoli quali il western Per Pochi Dollari Ancora (1966) di Giorgio Ferroni, il war movie Dalle Ardenne all'Inferno (1967) di De Martino, Una sull'Altra (1969) di Lucio Fulci, L'Anticristo (1974) di De Martino, La Polizia Incrimina, La Legge Assolve (1973) di Enzo G. Castellari e I Quattro dell'Apocalisse (1975) di Lucio Fulci, tanto per citare alcuni titoli. Uno sforzo economico che viene reso meno pesante dall'apporto di due ulteriori società, una francese e l'altra spagnola. Lenzi scrive il soggetto per poi svilupparlo assieme a Gianfranco Clerici, curiosamente reduce (vedremo dopo perché) da un film che si intitola La Vita è Bella (1979) di Grigori Chukhraj, e a José Luis Martinez Mollà, che probabilmente firma per ragioni utili a strappare i contributi statali. Clerici è un importante sceneggiatore che ha messo la firma in molti capolavori della produzione bis italiana. Aveva già collaborato con Umberto Lenzi in occasione di Un Milione di Dollari per 7 Assassini (1966), ma aveva soprattutto collaborato con 228 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Guido Malatesta e con maestri del calibro di Lucio Fulci (Non si Sevizia un Paperino, 1972), Duccio Tessari (Una Farfalla con le Ali Insanguinate, 1971), Enzo G. Castellari (La Polizia Incrimina, La Legge Assolve, 1973), Ruggero Deodato (Ultimo Mondo Cannibale, Cannibal Holocaust e La Casa Sperduta nel Parco) e ancora Mario Caiano e Alberto De Martino. Scriverà in seguito i copioni di alcuni grossi cult quali Lo Squartatore di New York (1983) di Lucio Fulci e i Pierino ufficiali di Alvaro Vitali. Dunque uno scrittore molto versatile. Lenzi parte alla stessa maniera de Il Grande Attacco. Sei amici si incontrano il 24 agosto 1939, per divertirsi e sfidarsi. È una data qualunque, ma che diventerà storica per la Francia. Sono a Parigi, scherzano e si sfidano in rappresentanza di quattro nazioni (che poi sono quelle che danno il titolo al film), altrove la Germania sta per invadere la Polonia. Loro però sembrano non preoccuparsi, addirittura organizzano una competizione di navigazione sul fiume Senna con tanto di tifo dalle tribune. Abbiamo due americani, il capitano dei servizi segreti Rossen (interpretato da George Peppard, l'indimenticabile Hannibal della serie A-Team) e il corrispondente di guerra nonché scrittore Ray MacDonald (cui dà corpo Sam Wanamaker), due francesi, la bella Fabienne (cioè l'attrice francese Anny Duperey) e il futuro legionario Maurice Bernard (ovvero lo statunitense George Hamilton), quindi il tedesco Jurgen Dietrich che si ritroverà di lì a poco colonnello (anche qua altro volto noto ovvero quello di Horst Buchholz, il dottore nazista specializzato negli indovinelli che farà gara con Roberto Benigni ne La Vita è Bella) e l'aviatore inglese, col grado di Comandante, della R.A.F. Dick Sanders, interpretato dal padre di Vincent Cassel ovvero Jean-Pierre Cassel. Sono il quadretto della felicità, l'emblema di un'amicizia che viene immortalata da una foto di gruppo che comparirà più volte nel corso del film e che sembra destinata a rinnovarsi nei decenni. “Ogni anno, il 24 agosto, ci ritroveremo qua!” si promettono. La vita però è come un sogno intrappolato in una pellicola che non è possibile riavvolgere né rivedere per crogiolarsi nel ricordo dei momenti più belli. È un romanzo vergato con un inchiostro simpatico che sfugge, che non è possibile trattenere e che vanifica la felicità passata e costringe solo a guardare avanti. Chi si ferma è perduto, così recita un certo detto ed è così che funziona. I sei vorrebbero bloccare il tempo per salvare il momento, far sì che non evapori alla maniera di tutte le cose belle della vita. È solo un'illusione, non potrebbe esser altrimenti. In particolare sarà il colonnello tedesco, alcuni anni dopo, in piena occupazione francese a ritornare sul punto, dopo aver ritrovato Fabienne, la ragazza di cui era 229 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

segretamente innamorato. Lei ora è una partigiana che organizza atti terroristici a danno dei tedeschi. Lui lo sa, se lo immagina, eppure quando la scorge la salva da una perquisizione che l'avrebbe portata alla forca. I due hanno un rapporto sessuale falso, freddo, svuotato di ogni poesia e di ogni sentimento. È un atto liberatorio, un diversivo per sentire del calore scorrere nelle vene. È più un tributo che la giovane paga all'uomo che l'ha salvata e che spera di averne conquistato il cuore. “Non si può fermare il tempo. È tutto diverso, lo capisci?” gli sussurra lei, mentre lui ricorda i tempi cari, quando i cannoni non cantavano e la vita scorreva in quella normalità che chi non ha vissuto una guerra non può certo apprezzare per quel che è. “Quello che eravamo, quello che è stato, non conta più!” gli dice la francese. Il colonnello però non lo vuol sentir dire, prende un calendario e riporta la data al 24 agosto, immaginando di festeggiare il giorno da cui tutto ha avuto inizio. “Al diavolo la guerra!” grida, ma quando si volta la sua amata se n'è andata, proprio alla stregua di un fantasma figlio del tempo perduto. Non si dimenticherà però l'aiuto ricevuto e chiamerà il colonnello alla centrale operativa in cui si trova, invitandolo a uscire. “È una questione di vita o di morte.” Il tedesco uscirà speranzoso, ma una terribile detonazione lo scuoterà. La giovane non lo ha chiamato per abbracciarlo, ma solo per salvato da un attentato. Lui lo capirà e, sebbene tutti i suoi compagni siano riversi al suolo privi di vita, non la odierà. Graziato in nome di quell'amicizia che non si può cancellare, neppure quando si è schierati contro. Contro 4 Bandiere è questo, un film tanto malinconico quanto crudele, che mette contro amici di distinte nazioni e lo fa perché la guerra calpesta tutto, rende bestiali e soprattutto cancella l'individualità in nome di valori di massa che si chiamano interessi di Stato. Lenzi procede orchestrando una sceneggiatura un po' troppo sfilacciata, molto più di quella de Il Grande Attacco. La guerra funge da cornice, tra atti di sabotaggio e guerriglie civili. Ci sono delle belle sequenze come la battaglia sulla spiaggia di Dunkerque, recentemente riportata in auge da Christopher Nolan in Dunkirk (2017), o lo scontro per arginare l'avanzata dei tedeschi verso Caen, battaglia andata in scena dal giugno-agosto del 1944, con i carri armati tedeschi della Panzergruppe bombardati dall'artiglieria alleata. Lenzi gira da grande artigiano, addirittura mette in scena battaglie aeree giocando in un'alternanza tra i primi piani dei piloti e le sagome degli aerei in volo, dando la truffaldina sensazione di una battaglia in cielo. Ricrea, con un modellino, anche la caduta di uno Stuka in oceano. Non mancano le esplosioni, i bombardamenti, con un trio di aerei tedeschi 230 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che martellano la spiaggia in cui sono ammassati gli inglesi. Lenzi mette in campo, per la scena, una scenografia mozzafiato con centinaia di comparse, camionette, mezzi vari disseminati in riva al mare, con le esplosioni che si innescano in sequenza. Si tratta tuttavia di momenti isolati, in un copione che parte dall'inizio della seconda guerra mondiale e giunge alla liberazione di Parigi dall'occupazione nazi-fascista il 24 agosto del 1944. Ancora una volta Lenzi sembra più interessato a focalizzare l'attenzione sui rapporti sia di amicizia, sia familiari, piuttosto che sulle strategie militari. Abbiamo, in particolare, il personaggio affidato a Ray Lovelock che ricalca quello già avuto ne Il Grande Attacco. È il solito giovane che è in contrasto col padre, il capitano Rossen, e che vuole a tutti i costi combattere in prima linea, sebbene il genitore cerchi di dissuaderlo. “Quando io avevo bisogno di te, tu dov'eri? Il grado è mio, il cognome mi è stato imposto!” Il capitano Rossen dovrà cedere, lo ritroverà nella battaglia di Caen, anni dopo, quando il figlio resterà ferito a morte da una bomba. Gli morirà tra le braccia, riappacificandosi. Qualche giorno prima l'amante del padre, una nobildonna francese che non aveva mai conosciuto, vedendolo astioso alla semplice menzione del padre, gli aveva detto: ”Forse un giorno ti accorgerai che nella vita spesso è più difficile amare che odiare e se avrai fortuna, forse, imparerai ad amare senza provare vergogna di ammetterlo.” Il romanticismo di Lenzi salta ancora una volta fuori, presenza costante nei suoi war movie. Il ragazzo non avrà fortuna, ma capirà il concetto. Peppard lo accarezza mentre Lovelock, in modo molto credibile, si abbandona agli ultimi spasmi, prima di chiudere il proprio ruolo. L'attore americano curiosamente, in questo gioco di rimandi, protagonista nel film L'Uomo che non Sapeva Amare (1964) di Edward Dmytryk e conosciuto per i ruoli da protagonista in film quali il war movie La Caduta delle Aquile (1966) di John Guillermin e al fianco di Audrey Hepburn nel capolavoro Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edwards, apre la glaciale espressione a un dolore marziale mitigato dal grande senso del controllo del personaggio che si trova a incarnare. Proprio lui che era riuscito a conquistare il cuore della nobildonna presentatagli dal corrispondente di guerra suo connazionale. Torna un altro rimando a Il Grande Attacco (lì Fonda aveva messo insieme un'attrice di origine ebraica con un ufficiale tedesco). I due parlano a inizio film e Peppard nota subito il grande potere economico della donna, che vive tutta sola in un castello, perché è rimasta vedova. I due parlano di sogni, intesi quelli che si fanno a occhi aperti. “Rappresento il sogno americano svanito” dice Peppard. La donna gli risponde che anche ai francesi piace sognare. ”Oggi giorno, basta avere un po' 231 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di soldi e si compra tutto quello che si vuole” commenta l'americano “No, non proprio tutto” specifica la donna. “Ma perché vivete da sola?” azzarda Peppard. La risposta che riceve dice tutto e il contrario di tutto. “A volte è molto difficile dire la verità” è l'inizio di una conoscenza che ricondurrà la disillusa nobildonna all'amore bramato. “Voglio te” dirà al telefono al suo uomo, proprio quando la guerra farà calare il proprio respiro nauseabondo sull'Europa. Troppo tardi, purtroppo, per dare vita al sogno. A darle corpo c'è Germaine Lefebvre, in arte Capucine, ex indossatrice di alta moda con una lunga serie di film hollywoodiani alle spalle, tra i quali La Pantera Rosa (1963) di Blake Edwards, nei panni della moglie dell'Ispettore Clouseau (Peter Sellers). La nobildonna è famosa, “di lei parla tutta Parigi”, ed ha un grande temperamento. Sola, non difesa dal proprio amato, tiene testa con coraggio ai gerarchi nazisti, un po' come la compagna dell'ufficiale ne Il Grande Attacco. Finirà col pagare con la vita questo suo atteggiamento. “Certe sue idee ci danno fastidio” le ringhia Howard Vernon (attore idolo dei fan di Jesus Franco, ma che aveva lavorato per Fritz Lang, Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Melville e Roger Vadim) nei panni di un ufficiale della Gestapo. “Peccato che le idee non si possono arrestare” gli risponde di rimando la donna, facendo imbestialire l'ufficiale. Sarà uccisa, a sangue freddo, poco dopo per aver coperto due sabotatori, impossibilitata a lasciare la Francia e ad assecondare agli inviti del suo amato. Vediamo dunque come a Lenzi piaccia approfondire il lato umano in un film di guerra, piuttosto che quello action. Ne viene fuori una pellicola lenta, agrodolce, ma interessante. Meno caratterizzati sono Maurice, cui da corpo George Hamilton, e Dick che ha scritto il nome “Fabienne” sulla carlinga del proprio Spitfire e che morirà in combattimento. Diverso il discorso per il colonnello tedesco interpretato da Buchholz. Lenzi non ama distinguere tra buoni e cattivi, lo si era capito, e qua non fa distinzioni. “Il giusto sotto la bandiera sbagliata”, così viene ricordato dai compagni di un tempo che, ironia della sorte e senza accorgersene, lo uccidono in battaglia. Il colonnello muore eroicamente mentre comanda un carro su cui si infrangono i colpi sparati dal capitano Rossen, che poi ne elogerà la memoria il 24 agosto 1944 dopo la liberazione di Parigi, senza sapere di avere ucciso un amico. Completa il cast Sam Wanamaker che interpreta l'impavido corrispondente di guerra che non abbandona la propria abitazione neppure sotto un bombardamento, se deve finire il suo articolo. Personaggio non ben riuscito, malato di cancro e non disposto a curarsi fino all'ultimo, prima che le lagnanze della figlia lo convincano a ritornare in patria. “Quando la guerra 232 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sarà finita, ricordati del 24 agosto e vai tu al mio posto” la promessa che richiede alla figlia per onorare l'antica amicizia. La giovane annuirà, ma non provvederà. Alla fine, dei sei di partenza, si ritroveranno solo in tre, Maurice, Rossen e la bella Fabienne, con una bottiglia in mano da cui tracannare un sorso ciascuno, in onore degli amici morti. “Chateau de la Guerre, anno 1944... Una brutta annata.” War movie discreto, pur se molto disomogeneo nello sviluppo e nel senso del ritmo. Buona la melanconica colonna sonora di Riz Ortolani, di mestiere la regia, curata la fotografia del futuro penta vincitore del Goya, massima riconoscenza cinematografica spagnola, José Luis Alcaine. Le interpretazioni sono funzionali senza, troppo strafare. Tra i migliori Anny Duperey, tra l'altro un'attrice giustamente apprezzata da Umberto Lenzi che la reputava “bravissima.”

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Capitolo Quarto “CARO MANCINI...” Il ricordo personale di Umberto Lenzi

Umberto Lenzi, così come diversi altri registi italiani di genere, ha impreziosito e reso gradevoli molti dei miei pomeriggi e delle mie serate. Liete ore spese davanti a una televisione o armato di doppio videoregistratore per ripulire dalle pubblicità film registrati a orari improponibili. Piccole e gustose abitudini ormai cadute in desuetudine. Il suo nome, così come quello di Lucio Fulci, Enzo G. Castellari, Sergio Martino, Fernando Di Leo e altri, resterà per sempre legato a uno dei periodi più spensierati della mia giovinezza. Pensare a questi nomi è una vera e propria rievocazione degli speranzosi tempi dell'Università, gli anni che non torneranno più, in cui si sogna sul proprio futuro, tra un libro e una ragazza carina che, per timidezza e per gli eccessi di battiti nel petto, ci si perita di corteggiare, quando tutto è ancora in gioco e l'essere una semplice matricola può comunque comportare un futuro florido e denso di soddisfazioni come pure lasciarti lì, da dove sei partito, più insignificante che mai. La mia non era un'università qualunque, ma la stessa frequentata da Umberto Lenzi molti decenni prima, s'intende (Giurisprudenza di Pisa). A quei tempi, anni del primo avvento internet (si viaggiava in 56K e dopo le 18,30 per risparmiare sulle tariffe), avevo un compagno di corso (il giorno della tesi, tra l'altro, mi regalò il Dvd de La Banda del Gobbo) ben più attrezzato del sottoscritto e della media degli studenti, addirittura teneva in camera un Harley Davidson come arredamento e possedeva una Ferrari, salvo girare a bordo di una Fiat Uno bianca, mezza scassata, con tutte le orme nere dei cani dipinte sulla carrozzeria a farne una livrea similar dalmata. Un tipo che passava inosservato, penserete voi con ironia e a giusto titolo. E invece era proprio uno che passava inosservato. Tutto si sarebbe potuto dire di lui tranne che fosse un egocentrico. Io, di converso, andavo agli esami in divisa mimetica (con tanto di bandiere cucite sulle maniche, scarpe mimetiche e occhiali da sole avvolti sugli occhi), così per sfida con un professore che si era permesso di dirmi che all'esame si sarebbe riso (mi aveva sorpreso a ridacchiare con un amico durante una lezione). E di risate ne fecero davvero, solo dall'altra 235 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

parte, quella degli studenti, perché c'è stato un tempo in cui, quando mi presentavo davanti a un professore, vendevo cara la pelle e lo dichiaravo pure prima. Non posso dunque essere io a sollevare una qualche forma di critica al riguardo del mio amico che, se andava in giro con quella Uno, lo faceva per un motivo ben preciso (pubblicizzava un suo negozio di animali). Ebbene, in cambio di appunti e della sintesi dei manuali (aspetto in cui eccellevo), gli chiedevo di recuperarmi alcune delle pellicole più rare dirette da una serie di registi italiani, venendo tacciato (complice soprattutto la produzione horror di Joe D'Amato, ma anche Incubo sulla Città Contaminata) di gusti cinematografici alquanto discutibili. Si capisce, lui era uno spettatore di un cinema più classico o quantomeno così definito dalla critica. Il fatto che poi Quentin Tarantino avrebbe esaltato il mio caro cinema di genere, concedendo i giusti tributi agli autori criticati, era ancora un prematuro colpo di scena che qualche anno dopo avrebbe permesso di riabilitare anche la mia posizione agli occhi degli amici, così da offrirmi la soddisfazione di poter bacchettare, con tanto di interessi maturati, questi sedicenti (e presunti) sapientoni della settima arte che, evidentemente, avevano torto a storcere il naso alle mie richieste. Questa premessa per dire che mai avrei immaginato, un giorno, di poter dialogare, seppur per messaggio privato o su una bacheca virtuale, con un personaggio come Umberto Lenzi. Io, uno dei tanti signor nessuno che popolano le vie del mondo, messo in condizione di scambiare parole con uno dei registi a cui sono stato più attaccato in veste di spettatore. Magie del progresso che, se da un lato offre l'illusione di avvicinare persone per poi allontanarle senza che queste se ne rendano conto, dall'altro permette piccoli miracoli inimmaginabili fino alla fine degli anni novanta. Così, una decina di anni fa, la mia faccia tosta mi portò a chiedere l'amicizia a quelli che io consideravo dei veri e propri miti, alcuni dei quali della mia infanzia. Tra questi figurava Umberto Lenzi, il mitico regista dei più bei polizieschi all'italiana, ma anche il pioniere di una certa forma di giallo, quello torbido di ambientazione borghese altolocata. A quell'epoca già scrivevo racconti ed ero prossimo a passare alla realizzazione di libri legati alla storia del cinema popolare italiano. Nell'ambito di quest'ultima attività, nei primi mesi del 2011, mentre stavo lavorando alla realizzazione del primo volume di Spaghetti Western, decisi di contattare Umberto Lenzi per conto di una rivista online del sito Bravi Autori presso la quale collaboravo. “Occhio, perché Lenzi è un tipo alquanto focoso” mi avvertì qualcuno. Non ci feci grande caso. Avevo già intervistato per la rivista, nei mesi precedenti, Sergio Martino e Pier Paolo Dainelli (grande appassionato 236 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e presentatore della rassegna i B-Movie di Tvr Teleitalia) senza avere alcun inconveniente. Lenzi mi rispose subito e si disse disposto a concedermi l'intervista, dimostrando un'innegabile disponibilità a parlare anche con i fan senza nulla pretendere in cambio, purché non gli facessi domande di gossip sugli attori. Pur rassicurandolo, commisi un terribile errore. Gli chiesi, prima ancora di stendere le domande, dei suoi due western, trovando riscontro diretto del suo temperamento. “Lei che è uno studioso” mi scrisse “doveva sapere che quei film li diressi per ragioni alimentari... Non mi va assolutamente di parlarne.” Ricordo inoltre che mi confidò di ritenere Da Corleone a Brooklyn il suo poliziesco preferito, contrariamente alla mia opinione di reputare Milano Odia il suo capolavoro. Purtroppo, e la cosa continua a dispiacermi tuttora, essendo stato per me un onore e un vanto aver potuto dire – non dico ai nipotini perché ancora non ho figli – di aver intervistato Lenzi, il progetto naufragò d'improvviso. Non appena venne a sapere che la rivista per la quale stavo confezionando le domande era sponsorizzata da un editore, di cui non faccio il nome, con il quale lui aveva avuto uno scontro, per una recensione di un suo film (evidentemente non condivisa), lo vidi eruttare con veemenza nei miei confronti. “Me lo doveva dire subito che lavorava per quell'editore” mi vedo scrivere, io che sono guidato da unica passione e che non percepisco nessun compenso, ma che soprattutto ero del tutto ignaro di questo precedente. “Non gli rilascio più alcuna intervista!” Non vi nego che ci restai malissimo, quasi come quando ti avvicini a una ragazza per la quali nutri più di una simpatia e ti vedi sbattere la porta in faccia senza tanti complimenti nonostante tu non abbia fatto niente di cui vergognarti (citazione non casuale). Show Must Go On cantava Freddie Mercury, la vita va avanti comunque, o così almeno ne offre la percezione senza poi dare risposte sul come vada avanti. Ci misi una pietra sopra, pur continuando ad apprezzare i film del regista e ad ascoltarne le sue innumerevoli interviste. Non è certo un'incomprensione ad allontanare un vero appassionato, ma ancora una volta non avrei immaginato che i miei contatti con Lenzi erano solo all'inizio. Nel 2012 pubblicai Spaghetti Western Vol.1 per le Edizioni Il Foglio, un discreto successo editoriale per i target del piccolo editore di Piombino, e venni invitato, il 29 ottobre del 2012, al Cinema Lanteri di Pisa per presentarlo. Mi fu anche offerto di lanciare, con un mio intervento personale, la proiezione di Django di Sergio Corbucci che venne proposto in pellicola restaurata a un esiguo gruppo di aficionados. In quell'occasione mi fu riferito, dal gestore del cinema, che avevano raggiunto un accordo con Umberto 237 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Lenzi per farlo venire a Pisa al Lanteri per la proposizione in pellicola del film Contro 4 Bandiere (forse il miglior war movie di Lenzi, davvero bello). Mi fu assicurato che sarei stato invitato all'incontro per dicembre, sebbene avessi loro raccontato della mia precedente esperienza col regista. Passarono i giorni ma non sentii più niente, anche perché, sebbene non vi sappia dire il motivo, Lenzi non andò al Lanteri. Il cinema Arsenale riuscì a strapparlo alla concorrenza e io lo seppi solo in grave ritardo, quantomeno per partecipare da spettatore. Un giorno, conservo ancora il messaggio, ovvero il 24 gennaio del 2013, mi vidi apparire sulla casella dei messaggi privati di facebook il quadratino rosso con il numero 1 in bianco al centro. Una cosa che capita tutti i giorni, direte voi. Certo, solo che quando spostai il cursore sopra il quadratino vidi apparire il nome “UMBERTO LENZI”. Vi garantisco che temetti per alcuni secondi di aprire il messaggio. “Cosa avrò combinato?” cominciai a chiedermi. “Ora mi cazzia per qualcosa che ho scritto o detto su di lui o peggio ancora... magari minaccia azioni legali!!!” Pensai questo perché, proprio il giorno prima, avevo pubblicato sulla mia bacheca una sua intervista video e quando si parlava di lui lo si doveva sempre fare con una certa cautela. Dopo un po' di titubanza aprii il messaggio, del resto il monitor e la comunicazione a distanza mi avrebbero protetto da qualsiasi invettiva. Avevo davvero poco da rischiare standomene in camera davanti al Pc. Con mia sorpresa però vidi aprire la comunicazione con uno stile molto diverso dal nostro primo colloquio. “Caro Mancini, sai che il mio ultimo romanzo, SPIAGGIA A MANO ARMATA, uscito nelle librerie due mesi fa con la RIZZOLI, e che ho presentato lo scorso dicembre all'Arsenale di Pisa, è ambientato tutto a Tirrenia nel 1946?” Ebbi la sensazione di un regalo, una riparazione a un precedente che forse neppure lui ricordava, non so. Per chi crede nel karma, potrei quasi definirlo un ristoro per il modo in cui mi aveva lasciato. Di certo rimasi sorpreso nel vedere che avesse notato che ero proprio di Tirrenia. Quello che lui non sapeva, non poteva saperlo salvo che avesse letto il mio volume sul western, era che il palazzo in cui abito era uno dei pochi esistenti in quel 1946, essendo una pertinenza esterna degli studios cinematografici Pisorno (luogo da cui parte l'indagine del detective privato protagonista del romanzo) con l'appartamento sotto il mio che era, nientemeno che, l'ufficio arruolamento comparse. Come se non bastasse Lenzi proseguì il messaggio chiedendomi dove avessimo fatto quell'intervista che avevo pubblicato sulla mia bacheca. Buffa una domanda del genere, proprio lui che l'intervista me l'aveva rifiutata e per una ragione assurda che mi vedeva ignaro ambasciatore. Come se non bastasse mi fornì il suo indirizzo di 238 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

casa e mi chiese se gliela potessi spedire per posta. Gli specificai che l'intervista non l'avevo fatta io e che esistevano dei programmi che gli avrebbero consentito di convertire i video che sono pubblicati su youtube così da poterli scaricare. Gli rivelai anche che non sapevo dell'uscita del suo ultimo romanzo e che mi sarei precipitato a comprarlo anche perché, da tirreniese di seconda generazione, non avrei che potuto reputarlo un indiretto omaggio imprescindibile nella mia biblioteca. “Che ghiottoneria” pensai. Umberto Lenzi, uno dei miei registi preferiti, che ambientava una storia a Tirrenia, la località balneare che, secondo i programmi del regime fascista, si sarebbe dovuta trasformare nella Hollywood italiana ma che, col passare degli anni, era naufragata in un oblio che rigettava persino le sue stesse radici (quelle cinematografiche) quasi come se questo fosse un'onta da cancellare. Una pazzia, questo voler nascondere le origini, che è percettibile da chi abita in paese. Recuperai il libro, purtroppo senza autografo, e subito mi vidi brillare gli occhi. “Lenzi è uno dei miei maestri. Sono uno suo grande ammiratore” campeggiava sulla copertina. Non era la frase di un giornalista o di un critico benpensante, né quella di un politico. Era la frase di un collega di Lenzi e che collega. Era il pensiero di Quentin Tarantino, il regista con la “R” maiuscola che furoreggiava a Hollywood. Un giallo scritto da Umberto Lenzi ambientato a Tirrenia e che si apriva con un elogio di Quentin Tarantino. “Vuoi vedere che l'ha letto anche quel matto di Knoxville...?” mi dissi e lo dissi per la soddisfazione di veder il nome di Tirrenia varcare di nuovo i confini dell'oceano, grazie alla notorietà di Lenzi, che la descriveva nel testo in modo minuzioso (oltre a Pisa e a Livorno), e alla fascinazione che Tarantino aveva per lui. La storia degli studios Pisorno al servizio di un intreccio giallo di pregevole fattura, tra Pisa e Livorno. Divorai il romanzo, divertito e incuriosito quasi come se fosse stata un'opera in cui veniva trasposta una parte di me che, qualche anno dopo rispetto ai fatti narrati, su quelle vie sarei cresciuto (ho già raccontato altrove che nei luoghi in cui sorgevano i set ho passato l'infanzia a giocare con gli amichetti). Ne restai entusiasta, lo recensii e feci pervenire l'articolo a Lenzi. Lenzi mi rispose a stretto giro di posta e si disse compiaciuto del mio entusiasmo. Gli riferii che se fossi stato uno di quelli della proloco o dell'amministrazione comunale lo avrei invitato per una presentazione ufficiale. Lui mi rispose in un modo che all'epoca trovai provocatorio. Mi scrisse: “Guardi, se lei riesce a farmi invitare per una presentazione ufficiale con le autorità del posto, a Pisa, vengo a piedi!” Risposta alquanto curiosa di cui intuii la portata qualche tempo dopo. Provai infatti 239 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

a insinuare il proposito di invitare Lenzi nella mente di chi, a quel tempo, organizzava presentazioni di libri in veste ufficiale. Cercai anche di sponsorizzare la lettura del volume su Pisa e Tirrenia. Ma niente, nulla di nulla. Rimasi piuttosto deluso e capii cosa l'”anarchico” Lenzi volesse dire, quando mi rispose con quella bizzarra promessa. Del resto, da buon toscano, non era uno che le mandava a dire. In un'intervista, di qualche anno prima, si era sfogato affermando che “in Italia, ormai, peggio di questo cinema (quello italiano, n.d.r) c'era solo la politica!” Una posizione che fa tornare in mente il passaggio di un celebre compositore che “non se batte”, come diceva Tomas Milian ne La Banda del Gobbo: Antonello Venditti. C'è un passaggio in cui il cantautore romano canticchia: “è una questione politica... 'na grande presa der culo... In questa nuova Repubblica non mi somiglia nessuno.” Un'impostazione e un sincero modo d'essere, accentuato da un carattere burrascoso, che, probabilmente, era sufficiente a delineare nei suoi confronti l'atteggiamento snobista di certi ambienti. Un atteggiamento che Lenzi non nutriva nei confronti di chi gli ponesse domande o cercasse di coinvolgerlo in discussioni di cinema, a prescindere che si trattasse di un professionista o di uno studioso o di un semplice appassionato, pur dovendo sempre agire con i guanti di velluto data l'irascibilità del personaggio. Ebbi comunque la magra soddisfazione, nella primavera del 2016, di vedere il romanzo di Lenzi esposto nella nostalgica e malinconica mostra (non sarei più voluto uscire di lì dentro), organizzata dal DAMS di Torino, su “Tirrenia Città del Cinema”, tenutasi all'interno del Palazzo Blu di Pisa. Lo notai in prima linea all'interno di una vetrina, proprio come si è soliti fare con un reperto da collezione, al fianco del volume Tombolo di Aldo Santini (giornalista del Tirreno inserito, quale personaggio, anche nel romanzo Spiaggia A Mano Armata), saggio storico citatissimo nel romanzo di Lenzi. Fui davvero contento nel notare questo riconoscimento, tra (quasi) tutte le locandine dei film girati negli studios di Tirrenia (tra gli altri mancava il giallo di Lenzi Un Posto Ideale per Uccidere che fu girato a Tirrenia, ma non negli studios), i costumi di scena, le macchine da presa, le foto, i plastici degli studi e del mitico trenino che congiungeva Livorno a Pisa passando per il litorale così da permettere lo spostamento delle maestranze originarie delle due città “rivali”. In una frase, la storia di quello spaccato di cinema italiano che aveva visto il mio piccolo paese ergersi su scala internazionale con l'obiettivo di insidiare Hollywood. Contattai di nuovo Lenzi per riferirgli che il suo volume era entrato a far parte della mostra e quindi della storia di Tirrenia. Da cittadino tirreniese in primis e da appassionato di genere poi, lo ringra240 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ziai di cuore per questo suo interesse per gli studios Pisorno e per aver dedicato del tempo per raccontare la storia di Tirrenia e della zona off limits di Tombolo (macchia infarcita di contrabbandieri e disertori di colore dell'esercito americano), usando come pretesto il set del film Paradiso Nero di Giorgio Ferroni. Lui non mi rispose, ma spero che apprezzò il fatto, sebbene nessuna delle autorità istituzionali gli abbia mai concesso il dovuto merito per questa innegabile promozione territoriale e storica. Quello fu il mio ultimo contatto col regista che, un anno dopo, avrebbe abbandonato questo mondo per ricongiungersi con la sua amata sposa in quell'altrove su cui tutti noi, in cuor nostro, confidiamo. È per questa piccola e marginale esperienza personale che quando sento qualcuno parlare di Umberto Lenzi a me torna sempre in mente quel messaggio che iniziava con il dolce e conciliante “Caro Mancini...” Un privilegio di cui conservo gelosa memoria e di cui vado onorato. Grazie Umberto, per avermi scritto... Ps: nel 2017 sono riuscito a comprare anche Tombolo di Aldo Santini, in un bazar di libri ammucchiati l'uno sull'altro in un mercatino dell'usato di Capannoli (campagna di Pisa), strappandolo dalle mani di un collezionista di storie dell'immediato dopoguerra. Il fatto fu esilarante perché il tipo mi tampinò per tutto il tempo pur di convincermi a posare quel volume finché non gli dissi: “Nemmeno per sogno. In primis sono di Tirrenia e questo libro parla della cittadina in cui sono cresciuto e mi sono formato; in seconda battuta è un libro che mi ha consigliato di leggere Umberto Lenzi e anche per questo non può mancare nella mia biblioteca...”

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III PARTE

SAGGI CRITICI, INTERVISTE, FILMOGRAFIA COMPLETA E GALLERIA FOTOGRAFICA a cura di

DAVIDE MAGNISI

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Milano, Italia, a mano armata di Davide Magnisi

I film polizieschi di Lenzi sono sicuramente il genere cinematografico a cui più è associata la figura del regista, vuoi perché numericamente consistenti, vuoi per la loro forza espressiva, ma anche perché il genere più discusso e oggetto di polemiche, anche feroci, per i contraddittori messaggi che sembrava veicolare. Di sicuro erano i film del periodo che più direttamente affrontavano l’esplosiva realtà dell’Italia di quegli anni, la violenza criminale e politica che attraversava il Paese, con aspre tensioni che minavano, in tutti gli strati sociali, la fiducia nei confronti delle istituzioni. Se gli autori che avevano fatto grande il cinema italiano in quegli anni si rifugiarono in film estetizzanti o rievocarono storicamente la realtà del periodo con metafore intellettualizzanti, la commedia, ma, soprattutto, il cinema poliziesco, si confrontarono direttamente con gli umori del Paese, in maniera non criptica. Il boom economico e la sua ventata di ottimismo avevano lasciato il posto a un decennio di crisi. L’ondata di mobilitazione del ’68 aveva generato una profonda impressione di possibili mutamenti (e, in alcuni casi, rivoluzioni) sociali e, soprattutto, evocato il senso di un radicale cambiamento all’interno dell’Italia (e non solo). Tutto questo creò un’oscura reazione da parte delle frange più conservatrici e di destra del Paese, con sospetti di trame eversive di stampo neofascista, servizi segreti deviati, stragi di Stato che iniettano nel Paese una strategia della tensione da cui non era immune la Democrazia Cristiana, da decenni al potere, che sembrava coprire con un velo di omertà, di origine mafiosa, le sue possibili collusioni con una serie di tragici eventi che squassano l’Italia. L’orrore ha nomi, volti, luoghi, tanto precisi nei fatti quanto nebulosi nei mandanti: Piazza Fontana (12 dicembre 1969), assassinio Pinelli (15 dicembre 1969), golpe Borghese (1970), strage di Gioia Tauro (22 luglio 1970), strage di Peteano a Gorizia (31 maggio 1972), strage della Questura di Milano (17 maggio 1973), Rosa dei Venti (1973), Piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), Italicus (4 agosto 1974). Serpeggia nell’opinione pubblica la paura e il desiderio di una svolta autoritaria per riportare l’ordine (né questo fenomeno fu solo italiano, basti ricordare due casi di eclatanti colpi di stato di estrema destra: la Grecia dei 245 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

colonnelli nel 1967, il Cile di Pinochet nel 1973). Gli stessi alti vertici dello Stato italiano avevano dato segni di pericolosi sbandamenti a destra negli anni precedenti. Il governo Tambroni (1960), il «Piano Solo» del generale De Lorenzo durante la presidenza Segni del 1964, sommati ai tanti nefasti accadimenti del decennio, sembravano dimostrare un’inquietante ragnatela di complicità autoritarie e antidemocratiche annidate tra politica, mafia, polizia, servizi segreti. Il lavacro finale fu, probabilmente, il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro (1978, senza dimenticare la strage di Bologna del 2 agosto 1980, uno degli ultimi e il più terribile degli attentati di quegli anni di piombo), dopo il quale iniziò una specie di fase di riflusso e rimozione che investì anche il cinema, segnando praticamente la scomparsa del poliziesco come lo si era conosciuto. A questa strategia della tensione, si aggiunga la dilagante criminalità armata del periodo: Il nostro era un cinema che radiografava l’incontenibile violenza metropolitana a cui erano sottoposte le città italiane, specie Roma, Milano e Napoli. […] Le forze dell’ordine erano completamente impreparate, non disponendo di mezzi adeguati a contenere quest’ondata criminale. All’epoca si poteva uscire dalla macchina, mettere un bavaglio sul viso, entrare in una banca con il mitra e sparare. Per questo si verificò una situazione paradossale, perché la malavita sembrava prevalere. E il cinema registrò quest’atmosfera. […] Un film come Roma a mano armata fotografava la periferia operaia, lo squallore delle borgate, il comportamento quotidiano di malviventi e poliziotti, le banche senza sorveglianza, i lavoranti e i facchini sottopagati del Mattatoio, gli sfasciacarrozze, i biscazzieri, gli spacciatori di quartiere o i ricoverati nei manicomi, come in una celebre sequenza della Banda del gobbo. I miei film polizieschi degli anni ’70, da Milano odia al Trucido e lo sbirro a Napoli violenta, erano lo specchio della società italiana di quel decennio drammatico1.

Se questo era l’evidente quadro storico/politico, all’interno del popolare genere del poliziesco, lavoravano, più o meno sottotraccia, altri profondi cambiamenti all’interno della società italiana. Gli anni ’70 videro una decisa seconda ondata femminista (dopo la prima da metà ‘800 a inizio ‘900 che aveva portato, tra gli altri risultati, il suffragio universale). La «rivolta femminile» (come fu chiamato il periodico fondato da Carla Lonzi, organo

U. Lenzi in Christian Uva, Michele Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano, Edizioni Interculturali, Roma 2006 pp. 224, 228. 1

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propulsore e manifesto del fenomeno in Italia) portò radicali cambiamenti nel diritto italiano, sancendo fondamentali passi avanti nella condizione di uguaglianza tra donne e uomini. Il poliziottesco è sicuramente permeato anche da una reazione di centralità maschile e virile a questi cambiamenti sociali: «Era comunque un genere che era dedicato agli uomini, nasceva dagli uomini, l’eroe era l’uomo, l’eroe era il poliziotto, quindi il genere partiva dal presupposto di maschio cazzuto e vincente. Le donne erano relegate a ruolo o di vittima o di fidanzatina o di moglie»2. Il grande quadro politico/sociale italiano è solo riflesso nei film di Lenzi, che si concentrano sulla delinquenza criminale delle città e, in questo senso, il regista, sulla scorta del battistrada Fernando di Leo di Milano calibro 9 (1972, ma prima c’era stato il Carlo Lizzani quasi documentario e cronachistico, a ridosso degli eventi descritti, di Svegliati e uccidi, 1966, e Banditi a Milano, 1968), fa della «capitale morale» d’Italia la protagonista di tutti i suoi primi polizieschi, mettendola riconoscibilmente nel titolo dei suoi primi due film del genere (e tra le sue prove migliori): Milano rovente, 1973, Milano odia: la polizia non può sparare, 1974 (ma lì sono ambientati anche i successivi L’uomo della strada si fa giustizia, 1975 e Il giustiziere sfida la città, 1975). Dopo arriveranno le trasferte a Napoli e, soprattutto, Roma, che diventerà città d’elezione per le invenzioni linguistiche di Milian/Amendola nelle parti del Gobbo e Monnezza. La città, nei film, è un insieme di luoghi, persone e fatti che vi accadono. È soprattutto Milano rovente che ne mostra i luoghi simbolo a partire dai titoli di testa: il Duomo, le periferie industriali, i palazzoni di una modernità già passata, i locali alla moda, i Navigli e le prostitute in strada. Poi le vie, le luci, le insegne a neon della grande città, la metropolitana, la Questura, la Torre Velasca, il mercato ortofrutticolo, l’aeroporto di Malpensa e tutto ciò che fa la riconoscibilità anche quotidiana di Milano. Poi c’è tutto un discorso sui luoghi, i linguaggi e i simboli della malavita, anche storicamente parlando, con la delinquenza del Sud e gli insistiti accenti («ce l’avevamo scritto in faccia ‘terroni’ noi siciliani») che si trasferiscono al Nord. Chi comincia da emigrato morto di fame come Salvatore Cangemi, chi vi si trasferisce dalla Sicilia già boss come Billy Barone, che va a prendersi «una boccata di smog» e controllare mercati fiorenti, vedendo Milano «come una piccola Chicago», dopo aver imparato i «metodi americani». Poi ci sono anche le Laura Belli in Miranda Bevilacqua, Max Croci, Steve Della Casa, Italia ’70: Il cinema a mano armata. Documentario. 2004. 2

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collusioni con i colletti bianchi e la bella compagnia femminile che scorta la corruzione di politici e imprenditori, dopo cene eleganti per mettere le mani sulla città. In Milano rovente c’è tutto un folklore meridionale e la Milano dei nuovi ricchi (si veda la casa in stile contemporaneo, opere d’arte comprese, di Cangemi, e quella dall’arredamento neoclassico del capoclan francese), diversamente dalle periferie proletarie protagoniste di Milano odia, dove il simbolo più riconoscibile della città è quello del Pirellone, da cui la celebre spacconata dell’ormai ricco ed elegante Giulio Sacchi con gli amici del bar: «Ve lo dico io: ci vogliono prove alte come il grattacielo della Pirelli per mandare qualcuno all’ergastolo», dopo averla fatta franca di fronte alla legge, ma senza fare i conti con un commissario giustiziere, ferito nel corpo e nell’orgoglio. La quasi totalità delle recensioni dell’epoca bollò come pressoché inverosimili trame e situazioni, frutto di fantasie della peggior cronaca nera, mentre, invece, Lenzi faceva evidenti riferimenti alla storia criminale della città, lunga e sanguinosa non certo meno che in città del Sud, dove mafia e camorra operavano più apertamente. Lenzi è un regista che conosce e racconta senza ipocrisia il suo tempo, riprendendo, certo in forme spettacolari, «popolari», la componente realista del nostro cinema. Milano, al di là dell’immagine ricca e rampante, costruita soprattutto nella poderosa ascesa economica che la condurrà ai suoi gloriosi anni ’80 (che ne fisseranno in qualche modo la rappresentazione), è stata martoriata da episodi di cronaca nera. Lenzi racconta proprio questi lati più oscuri, che molte commedie del decennio successivo (vedi soprattutto alla voce Vanzina) hanno in qualche modo cancellato. La sua storia criminale è lunga e, non a caso, il regista da qui ha cominciato. Da dove, dopo la guerra e i suoi orrori, cominciò la spettacolarizzazione del male quotidiano che affligge oggi la comunicazione, soprattutto televisiva. Si pensi al caso di Rina Fort (novembre 1946), assassina della moglie dell’amante e i suoi tre bambini: una cronaca nera di sesso e sangue (più soldi) che forgia un nuovo voyeurismo, in seguito dilagante. Sono gli anni in cui la politica avverte che le aree giudicate più a rischio sono l’attuale scintillante quadrilatero della moda, Corso Como e la Darsena, luoghi descritti come «coacervi di rovine bombardate, bottiglierie frequentate da malfattori e case d’appuntamenti d’infimo livello ove è bene non recarsi dopo il tramonto»3. Quando, sempre 3

Dispaccio di polizia del 1946 cit. in Gianluca Ferraris, Così la criminalità, organizzata e non, è 248 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

allora, venne arrestato Ezio Barbieri, il bandito dell’Isola, il più famoso della città, quello che derubava fascisti, americani e borsaneristi, nessuno gioisce lì nei quartieri Isola, Garibaldi o Lambrate. Le cronache dicono che qualcuno addirittura piange osservando l’arresto, ma non di gioia, visto che era considerato una specie di Robin Hood, perché ogni settimana distribuiva generi alimentari alle donne del quartiere. La città si sforzava di sopravvivere alla guerra appena finita e, probabilmente, nessuno si sentiva davvero innocente. «Sono diventato bandito perché vedevo tutte le mattine mia madre alzarsi alle quattro e fare la coda per avere mezzo chilo di pane. C’era una metà della città che viveva sull’altra metà, una prendeva all’altra e l’altra subiva»4. È la criminalità della cosiddetta Ligera, senza spargimenti di sangue, ma con grandi sogni di riscatto, quelli per i quali è facile identificarsi e tifare, in stretto dialetto meneghino. C’è persino un’evidente continuità tra questa mala e la Resistenza: da lì, del resto, spesso vengono le armi, le tecniche, anche una certa ideologia. Sono ancora banditi isolati che fanno piccoli crimini, a volte solo per sopravvivere e frequentano la Milano più popolare di Via Pepe, Via Borsieri, Corso Como, la casba di Porta Genova; la Questura di Milano forniva un nutrito elenco di bettole, bar, bottiglierie malfamate in zone ora costosissime. Il punto di svolta fu probabilmente il «colpo del secolo», la rapina di Via Osoppo del 1958, in cui sette uomini assaltarono un portavalori, portandosi via l’astronomica cifra, per quei tempi, di 614 milioni. Senza sparare neanche un colpo, ma imitando il suono dei mitra con la bocca, secondo i testimoni. Da allora in poi, improvvisamente, tutto cambiò, le armi e la violenza si diffusero, i gruppi delinquenziali si organizzarono. La criminalità Ligera, cioè leggera, diventa una poetica, cantata romanticamente negli anni ’60 da Enzo Iannacci, Ornella Vanoni (celeberrima la sua Ma Mi), Giorgio Gaber e la sua famosa Ballata del Cerutti o raccontata dalle penne di Paolo Valera, Giovanni Testori, Umberto Simonetta. La Milano della nebbia umida della Pianura Padana e dello smog delle fabbriche cittadine ha, però, mentre cantava la (nostalgia della) Ligera, già completamente cambiato pelle. Il boom economico travolge le precedenti forme di criminalità locale integrata nei quartieri cittadini e invade la nuova metropoli, come i tanti meridionali emigrati dal sud Italia che, in cerca mutata di pari passo con la città che la accoglie, in «Il Foglio», 10 Novembre 2017. 4 E. Barbieri in Adriano Todaro, La storia criminale della città, dalla rapina di via Osoppo a Vallanzasca, in www.girodivite.it, 23 gennaio 2018. 249 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di un futuro migliore, si accalcano in nuove periferie. La geografia della città muta con la creazione di un nuovo proletariato emarginato e cambia anche la delinquenza cittadina, più efferata e proveniente da fuori. Il clan dei Marsigliesi fonderà un nuovo traffico di droga (vi ricorda niente Le Capitaine di Milano rovente?), Luciano Lutring farà suonare il suo mitra e poi la Banda Cavallero li spianerà come nella terribile rapina in Largo Zandonai nel 1967 quando, per proteggersi la fuga, uccidono in modo quasi gratuito, lasciandosi dietro una scia di sangue e un’esterrefatta opinione pubblica. Siamo così passati da Rocco e i suoi fratelli ad, appunto, Milano odia, mentre, mondi paralleli, la città conosce una galoppante ascesa economica, con nuove dipendenze da eroina e cocaina, giovani che cominciano a bucarsi nei parchi e sniffate viziose. In un boom economico senza precedenti, la metropoli affastellava nuova ricchezza e nuovo degrado, dalla produttività mattutina di fabbriche e banche a quella notturna di bische, night club, spaccio e prostitute, dove era la mala a dominare. Sesso, sangue, droga e polvere da sparo sono esattamente il mondo realistico descritto da Lenzi. La nuova mala ha perso ogni innocenza, come nei noir e polizieschi usciti dalla penna di Giorgio Scerbanenco, disincantato narratore di quegli anni. Dove, pure, non mancano figure reali di carismatici commissari come Nardone o il maresciallo Oscuri o Achille Serra, modelli ispiratori dei baluardi della legge del poliziesco. Negli anni ’70 la violenza dilaga a Milano come gli arsenali dei banditi e il desiderio di prendere parte a tutta quella nuova ricchezza. «O i soldi tu ce li hai e sei qualcuno o sei una pezza da piedi», sentenzia Giulio Sacchi in Milano odia. Qualche giornale evoca la Chicago degli anni ’30, come fa lo stesso Lenzi in Milano rovente. E, in effetti, i gangster con il gessato, il sigaro in bocca e il mitra sono davvero comparsi e non è solo folklore o letteratura criminale. Sono Francis Turatello «Faccia d’angelo» e le sue pellicce, il «tebano» (di Catania) Angelo Epaminonda con la sua banda (soprannominata gli Apaches), Nunziatino Cono, «Draga» lo slavo, il bel Renè Vallanzasca (l’ultimo dei milanesi) e la banda della Comasina. Loro era il «modo di sotto», non si nascondevano, anzi ostentavano il successo, girando in vistose auto di lusso, accompagnandosi a donne trofei da esposizione, godendosi la vita notturna tra ristoranti alla moda, famosi night club come il Pussycat, il Bounty, il Le Roi, il Bang Bang, frequentando l’ippodromo di San Siro e le bische, come quella del Brera Bridge, dove ci fu una leggendaria rapina nella notte tra il 27 e il 28 dicembre 1976. In mezzo a tutto questo, regolamenti di conti a suon di pallottole, traffi250 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

co di droga, sfruttamento della prostituzione, sequestri. «Milano negli anni ’70 venne oscurata da un fenomeno paralizzante già esistente in tutta Europa: il sequestro di persona a scopo di estorsione. Dal 1973 al 1984 furono sequestrate ben 100 persone. […] Risale al 1972 il primo caso in Lombardia, quello di Pietro Torielli, a Vigevano. A Milano, invece, nel 1973. In pochi anni la Lombardia diventa la regione più colpita da questo reato»5. Dell’anno dopo è Milano odia… Boss di Milano era diventato Francis Turatello che, però, non controllava tutto il traffico di droga, passato dal clan dei Marsigliesi alla mafia. Non a caso a Milano, sin dagli inizi degli anni ’70, si era trasferito un padrino come Luciano Liggio (arrestato in Via Ripamonti nel 1974). Lì dal Nord sovrintendeva i lucrosi affari di Cosa nostra e può ricordare un personaggio come Billy Barone in Milano rovente che, però, si può anche riferire a un qualche mafioso di ritorno dall’America come Frank Coppola (secondo alcune fonti addirittura il padre naturale di Francis Turatello). Nel frattempo, a Milano, scorre la storia: la morte di Giuseppe Pinelli, quella di Giangiacomo Feltrinelli, del commissario Calabresi, l’austerity, gli scioperi di massa, le stragi nere. Fra il 1968 e il 1977 criminali e contestatori si annusano da lontano, e pur senza mai piacersi troppo finiscono per condividere covi e osterie: il residence di via Ripamonti dove svernava il latitante Luciano Liggio ospitava, due piani più su, una comune hippy; la trattoria di piazza Vetra dove nacque il collettivo della Statale nascondeva, nel retro, i bottini che le bande di quartiere lasciavano raffreddare prima di piazzarli ai ricettatori; alla stessa bottiglieria sul Naviglio Grande si dissetavano punk della prima ora e brigatisti della seconda6.

Rispetto alla paura per il terrorismo, la delinquenza malavitosa sembrava un fattore quasi fisiologico e, via via, si spensero i riflettori su di essa, soprattutto sulle crescenti infiltrazioni mafiose. Anche perché queste sono sempre più sotterranee e mimetizzate. Non si spara quasi più alla cieca nelle strade, si cerca di attirare sempre meno l’attenzione di stampa e polizia. Non a caso, l’ultimo dei polizieschi di Lenzi è Da Corleone a Brooklyn (1979), il meno violento e il più disilluso, con una criminalità che ha perso i connotati delle città solo italiane e si è fatta internazionale, quasi inafferrabile. Serena Cauzzi, «Milano e la mala», non solo una mostra, in www.magzine.it, 28 marzo 2018. G. Ferraris, Così la criminalità, organizzata e non, è mutata di pari passo con la città che la accoglie cit. 5 6

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Milano è la città da bere, simbolo di un edonismo e di un rampantismo che il cinema d’azione o noir di questi vecchi maestri di genere non riescono più, o non possono più, decifrare. L’inflazione a doppia cifra e il clima di euforia produce soprattutto un tipo di commedia sempre più compiacente con i nuovi costumi nazionali, che vogliono lasciarsi alle spalle anni di piombo. Milano diventa un’importante piazza d’affari internazionale e la malavita passa dai mitra delle rapine ai colletti bianchi della corruzione, della speculazione cementifera e finanziaria. Anni di fango (come li chiamò Indro Montanelli) e finanza criminale. Tanti morti, ma fatti con i guanti bianchi (di rovine ambientali, economiche, sanitarie). Sono anni in cui Milano è ancora protagonista delle cronache, ma sotto la traccia di oscure trame politico-finanziarie: Roberto Calvi, Michele Sindona, Monsignor Marcinkus, il Banco Ambrosiano, lo Ior, Licio Gelli e le coltri di un’Italia piena di misteri. Quel che Lenzi racconta non sono solo (spettacolari) vicende di mala, ma anche le nostre città e un intero Paese in un passaggio storico molto particolare, tanto che soprattutto da questi film di genere si stanno, negli ultimi anni, recuperando le dinamiche di una certa memoria attraverso le immagini. La violenza del decennio dei ’70 è stata una forma politica e quei polizieschi la mettevano in scena. La rendevano visibile a tutti e ne rimane una specie di lascito che si presenta, oggi, a chi vuole comprendere quegli anni. Ai grandi mezzi di comunicazione dell’epoca forse sfuggì il senso di quello che stava accadendo, a volte rifugiandosi in spiegazioni irrazionali (la bestialità degli uomini) o in tremendi travestimenti e travisamenti politici: le stragi di destra erano tutte di anarchici o di sinistra, i registi dei poliziotteschi (pressoché tutti di sinistra o anarchici) dei fascisti che sobillavano soluzioni di destra. Lenzi prova un’antropologia dell’Italia dell’epoca, lo fa sondando criminali da bassofondo cresciuti con il mito del denaro e del successo, ne rappresenta la cattiveria sottoproletaria, il Gobbo su tutti, ma anche il tremendo spirito di rivalsa, la scalata sociale dei meridionali alla Salvatore Cangemi. Ma la violenza non è solo qui. C’è un’altra violenza di classe, come quella dei bravi ragazzi contro «i proletari di merda» o le donne che manifestano (vedi Roma a mano armata). Poi c’è un’altra violenza ancora, quella di commissari e poliziotti, talvolta diretta contro il muro di gomma delle istituzioni che rendono vani gli sforzi dei singoli, altri poteri occulti sottratti a ogni forma di controllo. Un tema, quest’ultimo, meno presente in Lenzi rispetto ad altri registi, ma che pure scatena la rabbia di farsi giustizia da 252 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

soli (vedi due titoli quasi identici del 1975: L’uomo della strada si fa giustizia, Il giustiziere sfida la città). Lenzi e gli altri erano registi che facevano film popolari, uno spettacolo di consumo che, al di là della buona fattura e del divertimento, si rivela un prezioso sguardo rappresentativo su quegli anni, frutto di un realismo che oggi ce ne restituisce pieno e integro il valore documentale. Gli anni ’70 si erano aperti cinematograficamente con l’ultraviolenza di Arancia meccanica, un’esemplare parabola su delinquenza/polizia/politica che sembrava raccontarci l’impossibilità di sfuggire al male della violenza, nelle cui immagini, nelle cui storie, siamo sempre più finiti, da allora, sommersi. Oggi la grande vitalità di quel cinema, continuamente recuperata, valorizzata, diventato modello, ci dice che quel nodo che si è allacciato tra violenza e anni ’70 non si è sciolto né risolto.

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Umberto Lenzi, quando la critica era rovente di Davide Magnisi

Lenzi è un maniaco di cinema, sa tutto del cinema, […] proprio tutto. Insomma, io credo che se il sistema cinematografico e la società che lo produce fossero meno malati, questi registi potrebbero fare cose molto decenti, sempre sul piano di un buon artigianato, perché sono artigiani ottimi, innamorati del loro mestiere, cinici loro malgrado. Giovanni Lombardo Radice Sul set ero solo un animale da fiuto e mi dicevo: vai, falli ridere e piangere. U. Lenzi

Ricostruire la fortuna critica di un regista come Umberto Lenzi significa calarsi in una straordinaria stagione del cinema italiano. Anni ricchissimi per la produzione cinematografica nazionale, con originali autori che rifuggivano (quasi sempre) da ogni schema, che reinventavano il cinema e registi che si specializzavano nei generi di più grande successo. I primi solitamente osannati dalla critica, i secondi ridotti al rango di mestieranti che riempivano (eccome se le riempivano) le sale. Nell’immaginario comune, per molti anni, gli Autori erano i registi colti, chi dirigeva film di genere figli di un qualche dio cinematografico minore, alla catena di montaggio dell’allora industriosissima produzione italiana. Per lungo tempo, una specie di dispositivo di rimozione della critica ha lasciato personalità come Umberto Lenzi nell’ombra, confinando un’enorme parte della produzione cinematografica italiana tra anni ’50 e ’80 in un’indistinta serie B (o anche qualche categoria più indietro) fatta da mestieranti. Uno di questi è, appunto, Umberto Lenzi che il mestiere lo conosceva eccome, ma, come quasi tutti i registi di genere, aveva alle spalle una cultura inimmaginabile per il grande pubblico. Un bibliotecario di Grosseto, lo scrittore Luciano Bianciardi, nel 1950 chiede al giovanissimo e già cinefilo Lenzi, una mano per gestire il locale circolo del cinema. Nella natia Massa Marittima, il futuro regista organizza conferenze e presenta255 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

zioni di film dove ospita, oltre allo stesso Bianciardi, intellettuali e artisti legati al cinema come Guido Aristarco, Carlo Cassola, Pietro Germi, Giuliano Montaldo, Vasco Pratolini, Carlo Rustichelli, Carlo Salinari, solo per citare i più famosi. E, per il saggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia, nel 1954, sceglie di realizzare un cortometraggio da un romanzo di uno scrittore allora quasi sconosciuto, contattato attraverso la casa editrice Garzanti: lo scrittore era Pier Paolo Pasolini, il romanzo Ragazzi di vita, il cortometraggio Ragazzi di Trastevere. Poi Lenzi è sempre stato innamorato di un certo tipo di cinema (e di letteratura: Emilio Salgari) che gli ha dato una specie di imprinting: quei film che, da ragazzino, lo avevano fatto innamorare del grande schermo: John Ford, Raoul Walsh, Samuel Fuller. E che cinema facevano questi se non, per dirla all’italiana, di genere? «Non ho avuto ambizioni, ho avuto il desiderio di scrivere storie per lo schermo, cioè di fare del cinema e, in quei tempi, si faceva esclusivamente cinema di genere, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Si giravano i polizieschi, i gialli, i musical»7. Lenzi non ha mai fondato un genere né lo ha rivoluzionato, anzi spesso il compito produttivo che gli si affidava era quello di usare fino allo spasmo la popolarità di una formula. Il regista negli anni diventò una sorta di specialista del rendimento residuo di un genere, con quasi sempre bassi budget, in una corsa a ostacoli da superare con l’inventiva e la tecnica. Lenzi era una persona colta che faceva film per un pubblico di massa, senza snobismi di alcun tipo, cercando di trasferire nel cinema di genere umori che, magari, i consacrati autori non potevano trasmettere. «La gente va al cinema pe’ ride o pe’ piagne o pe’ ave paura. E quello gli ho dato... E con i film di genere ho raccontato l’Italia. I gialli dei quartieri alti raccontavano il boom, i poliziotteschi gli anni ‘70... Oh si sparava per strada. Invece Cannibal Ferox e Mangiati vivi! li ho fatti perché dovevo pagare le tasse […]. All’estero è stata la mia cosa che è piaciuta di più. Ci ho campato per dieci anni. Direi che era una cagata»8. Lo stesso discorso si può fare per gli attori usati nei suoi film, con un’incredibile passerella di (ex) divi hollywoodiani, spesso imposti dai produttori per esigenze di coproduzione e poter vendere quelle pellicole

U. Lenzi in Stefano Iacchetti, La paura cammina con i tacchi alti, Edizioni Il Foglio, Piombino 2017, p. 223. 8 U. Lenzi in Matteo Sacchi, Spaziava da Pasolini a Tomas Milian. La critica lo snobbò. Quentin Tarantino lo ha riscoperto, in «il Giornale», 20 ottobre 2017. 7

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(che avevano una circuitazione oggi impensabile per la media del cinema italiano) sui mercati internazionali. «A quel tempo i nostri film avevano due versioni: una per l’Italia, molto castigata per via dell’occhiuta presenza andreottiana; una disinibita e osé per l’estero. Accompagnavo quest’ultima con un grido liberatorio: ‘Giù le mutande!’. Era un modo di dire»9. L’esempio più eclatante è sicuramente quello di Carroll Baker, ex «Baby Doll» (solo per citare il suo titolo americano più celebre), protagonista di quattro film di Lenzi in tre anni, valorizzata nella sua bellezza, nel suo glamour e nella sua disponibilità a mostrare il corpo nudo da star hollywoodiana. Diventerà la perfetta protagonista di gialli dall’intrigante e morbosa connotazione erotica, permettendo al regista quei raffinati giochi di luce che aveva ammirato nei noir americani. Ma la galleria delle star internazionali del suo cinema è lunghissima: Lou Castel, Jean Louis Trintignant, Irene Papas, Joseph Cotten, Van Johnson, Henry Fonda, Jack Palance, George Peppard, John Huston, che di lui disse: «Io sono un bravo regista, Umberto è un genio»10. Star che accoppiò a grandi attori del teatro e del cinema, non solo italiano, anche in piccole parti, ben oltre l’idea di serie B cinematografica: Jean Sorel, Anna Proclemer, Tino Carraro, Lilla Brignone, Tomas Milian, Rossella Falk, Nando Gazzolo. Ma torniamo al tasto dolente per Lenzi: la critica italiana. Io, di Leo, Fulci, giravamo all’americana e i nostri film avevano un grosso impatto sul pubblico. Contemporaneamente, la critica li distruggeva, li riteneva film reazionari, fascisti, perché, spesso, i commissari di questi film polizieschi italiani facevano giustizia da soli […]. Era una critica manichea e ignorante. Perché in Scarface di Howard Hawks del 1932 e tutti i film della Warner Bros, con James Cagney, Humphrey Bogart, sulla delinquenza nel periodo del proibizionismo, l’uccisione dei cattivi da parte dei poliziotti era all’ordine del giorno. E nel film di Arthur Penn, Bonnie e Clyde sono uccisi dalla polizia con centottantamila pallottole, gli distruggono persino l’automobile. La critica italiana in quel periodo era dominata da un eccesso di contenutismo e non obbediva ai ruoli della narrazione e dello spettacolo, dell’intrattenimento, erano ruoli della politica, dovevano piacere ai giornalisti del «Manifesto» e de «l’Unità». E ci trattavano da fascisti, ci trattavano da reazionari, mentre avrebbero dovuto trattarci da grandi registi.

U. Lenzi in Antonio Gnoli, Umberto Lenzi: «Sul set ero solo un animale da fiuto e mi dicevo: vai, falli ridere e piangere», in «la Repubblica», 31 gennaio 2016. 10 J. Huston cit. da U. Lenzi in Arianna Finos, L'ultima intervista al regista che negli ultimi anni aveva intrapreso con successo la carriera di giallista, in «la Repubblica», 19 ottobre 2017. 9

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Nessuno di noi aveva l’ambizione di mandare un messaggio, anche nei limiti del messaggio di estrema destra, che non esisteva nel cinema. Allora, direi che questa critica non riusciva a cogliere quelli che erano i meriti dei nostri film, scoperti poi dagli americani. […] Vennero a trovarci, tutti avevano visto in cassetta i nostri film e si erano ispirati ai nostri lavori quando per la critica italiana eravamo ancora dei registi di serie B» 11.

Come è stato per il Neorealismo e, soprattutto, la cosiddetta commedia all’italiana, la cui grandezza ci è stata mostrata dalla critica francese, oggi il cinema di genere italiano degli anni ’70 fa scuola nel mondo, dall’America alla Corea. Indubbiamente, anche i film meno riusciti di quegli anni, messi insieme con budget che apparirebbero ridicoli per una qualunque produzione americana, avevano aspetti, elementi, magari singole scene, pure all’interno di un film mediocre, geniali, deliranti, che rimanevano impresse nella memoria e nella fantasia cinefile. Probabilmente, poi, tale riscoperta è anche una reazione d’entusiasmo alla scarsa originalità della gran parte delle produzioni contemporanee. Se il merito indiscusso di questa rivalutazione va agli Usa, e a Quentin Tarantino in particolare, non va però taciuta l’opera continua di riabilitazione del cosiddetto cinema bis da parte soprattutto della rivista «Nocturno», anche se per un pubblico di nicchia italiano. Grazie a queste operazioni, Lenzi ha avuto la possibilità di vedere il proprio lavoro rivalutato mentre era ancora in vita, seppur non più attivo come regista (ma ormai solo come scrittore). Altri autori di quel cinema così prolifico e poligrafo non hanno avuto la stessa fortuna. Anzi, addirittura, «la rinnovata attenzione verso il poliziottesco e verso i cannibal-movie gli ha regalato lo status di maestro»12. In generale, oggi l’atteggiamento della critica, non solo da parte dei più giovani, è molto cambiato rispetto al passato e vengono rivalutati, e proiettati in cinefilissime rassegne, molti film che erano stati impietosamente stroncati o del tutto snobbati, in primis, proprio la triade di registi che Lenzi citava. Oggi credo nessuno si sognerebbe di scrivere quello che Lucio Fulci confidava a Franca Faldini e Goffredo Fofi in quello che è stato uno dei primi libri seri nel dar voce a un cinema allora negletto: «C’è stata una donna, una critica italiana, di sinistra, che ha detto ‘Bisognerebbe prendere dei vigilantes per impedire a Fulci di fare dei film’. Come fa a lavorare ‘sta U. Lenzi in S. Iacchetti, La paura cammina con i tacchi alti cit., pp. 224-225. Emanuele Di Porto, Umberto Lenzi, l’uomo che riempì l’Adriano, in www.sentieriselvaggi.it, 29 Ottobre 2017. 11

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gente? […] C’è una battuta di Elio Petri che dice: ‘In vent’anni, in Italia, sono cambiati i metodi di ripresa, le illuminazioni, il doppiaggio, i trucchi, tutto, l’unica cosa che non è cambiata è la critica’. E lo ha detto uno che dai critici ha avuto tutto»13.

LA PAROLA ALLA CRITICA Ma cosa diceva veramente la critica dell’epoca dei film di Lenzi? E che cosa, come, quando è cambiata nel corso nel tempo? Proviamo a esaminare la fortuna critica del cinema di Lenzi genere per genere, come probabilmente avrebbe amato lui, anche perché, non accidentalmente, un’analisi di questo tipo diventa anche quasi cronologica, eccezion fatta per i film di guerra che, non a caso, erano i suoi preferiti e che punteggiano tutta la sua filmografia.

IL CINEMA STORICO/AVVENTUROSO Dopo l’introvabile e praticamente mai visto Mia Italida stin Ellada (1958), film girato in Grecia che non trova distribuzione, Lenzi gira in pochi anni numerosi film storico/avventurosi, residui della moda del peplum, ibridati con nuovi eroi esotici come Sandokan. Il primo di questi, dopo essere stato notato da un produttore («je damo du’ lire...»14) a seguito della solita gavetta dell’epoca come aiuto regista, fu Le avventure di Mary Read (1961), che doveva segnare l’esordio in Italia dell’attrice e modella, con già tante esperienze inglesi, Lisa Gastoni. Una vicenda di seduzioni, piratesse, travestimenti, «ma la storia va a finire come tutte le storie di questo genere»15. L’accoppiata con la Gastoni continua nel successivo Duello nella Sila (1962), dove c’è anche la star circense Liana Orfei (il cinema come attrazione fra le altre): Siamo giusti: non un duello, ma un’ecatombe, e senza neppure il lieto fine. […] Questo nostrano western è ambientato al tempo di Franceschiello: il

L. Fulci in F. Faldini, G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi. 1970-1984, Arnoldo Mondadori, Milano 1984, pp. 477-478. 14 U. Lenzi in M. Sacchi, Spaziava da Pasolini a Tomas Milian cit. 15 Vice, Avventure di Mary Read in «Corriere d’Informazione», 22 dicembre 1962. 13

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paesaggio è suggestivo e la fotografia quasi sempre ben curata. Non così, purtroppo, il soggetto; e la sceneggiatura. Nel pasticcio fumettistico non manca neppure la giornalista inglese infatuata dell’immagine del bandito d’onore. I responsabili di Duello nella Sila, evidentemente, leggevano i giornali nell’era di Salvatore Giuliano. […] Belli e bravi i cavalli. Al film si potrebbe abbinare un totoerrori: strade asfaltate, pistole a ripetizione, manifesti in rotocalco. Così potrebbe risultare persino divertente16.

Nella galleria di personaggi c’è anche Robin Hood: «Il trionfo di Robin Hood è un’ennesima e piuttosto squallida rievocazione del contrastato ritorno in patria di Riccardo Cuor di Leone. […] Il film è decisamente puerile»17. Riguardo Caterina di Russia (1963), «Lenzi ha buon mestiere, ma gli manca la forza espressiva di un Freda»18, che è un po’ il modello dell’epoca per questo tipo di cinema in costume. Nello stesso anno escono altri tre (!) suoi film. Riguardo L’invincibile cavaliere mascherato, «il regista del pasticcio avventuroso-sentimentale è Umberto Lenzi, un nome non famoso ma che non è peggiore di tanti altri. Gli interpreti sono impegnatissimi almeno così sembra»19. Zorro contro Maciste, sin dall’iperbolica improbabilità dall’accoppiamento enunciato dal titolo, segna il tramonto effettivo di un genere, con inverosimili incroci di personaggi che avrebbero dovuto stuzzicare la fantasia dello spettatore. Questo di Lenzi, «è uno degli abbinamenti più assurdi per Maciste»20. Dopo un Sandokan ufficiale (Sandokan, la tigre di Mompracem, 1963), il titolo successivo ancora occhieggia in maniera ibridata il precedente eroe forzuto: Sandok, il Maciste della giungla (1964). Del 1964, oltre questo, altri tre film. Un ritorno al peplum classico è L’ultimo gladiatore, dove Lenzi ritrova una diabolica Gastoni in veste di Messalina e intrighi di lotte per il potere: «Il finale è scontato come del resto lo è tutta la pellicola che di originale ha ben poco»21. Il film successivo è ancora un’avventura di Sandokan, I pirati della Malesia: «Steve Reeves da uomo tutto muscoli a Sandokan. Ma invece di Sandokan fa ancora Ercole. […] Il film non ha le travolgenti ingenuità di Salgari, affastella inverosimili scontri, così che spesso si ride senza voler-

a. s., Duello nella Sila, in «Corriere della sera», 9 novembre 1962. Il trionfo di Robin Hood, in «Corriere della sera», 14 aprile 1963. 18 Paolo Mereghetti, Dizionario dei film 2004, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003, p. 429. 19 Vice, L’invincibile cavaliere mascherato, in «Corriere della sera», 3 luglio 1963. 20 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 2650. 21 L’ultimo gladiatore, in «Corriere della sera», 25 settembre 1964. 16 17

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lo»22. GLI EPIGONI DI 007 Nel 1962 esce Agente 007, licenza di uccidere, il primo dei Bond cinematografici. Con il secondo, A 007, dalla Russia con amore (1963, sempre con la regia di Terence Young), dilagò una vera e propria Bond mania, complice gli enormi incassi e un successo che in quegli anni si replicava film dopo film con protagonista Sean Connery. Il bulimico cinema italiano incorporò anche questo personaggio in una miniera di imitazioni a basso costo, intrecciate con l’altro genere che andava straripando, lo spaghetti-western. Se il secondo era pieno di personaggi polverosi, cavalli, scenografie rustiche e ambientazioni simil grandi spazi americani, gli 007 nostrani si mettevano abiti leganti, nomi inglesi, sigle fantasiose (002, 008, 009 ecc.), ma rimanevano pieni di sparatorie e, soprattutto, secondo il modello fleminghiano originale, abbondavano di luoghi turistici e belle donne, più generose nel mostrarsi rispetto ai film inglesi. Il tutto a fare da contorno a esili trame spionistiche. «I legami tra i cialtroneschi e coloratissimi spy-movie all’amatriciana e il poliziesco di lì a venire sono assai vaghi; se è vero che cineasti come Sergio Sollima e Umberto Lenzi si fanno le ossa qui, il tono scanzonato ed escapista è ancora figlio della frenesia del dopo boom, carico com’è di un contagioso ottimismo […]. E se i Bond nostrani sfruttano a fondo la licenza di uccidere, la violenza è sempre fumettistica, iperbolica, innocua»23. A Lenzi viene ovviamente affidato di sfruttare anche questo filone. Il primo esercizio del genere è A 008, operazione sterminio (1965), «una imitazione del genere James Bond nata sotto il segno della fretta, caratterizzata da un’incredibile faciloneria e infantilità di racconto, scarsa di fantasia e di suspense. E adesso che stanno venendo di moda le ‘agenti segrete’ in femminili abiti succinti, occorre dire subito che non basta sfoggiare a colori, il più possibile, le recondite grazie di un’investigatrice per fare di lei un asso nel mestiere, una irresistibile rivale di James Bond»24. In effetti, la novità portata da Lenzi è proprio rendere protagonista del film una donna, come solo nel cinema americano degli ultimi anni sembrava si fosse cominciato a

Vice, Sandokan superman, in «Corriere della sera», 24 novembre 1964. Roberto Curti, Italia odia, Lindau, Torino 2006, p. 47. 24 a. v., A 008 Operazione Sterminio, in «Stampa Sera», 12 marzo 1965. 22 23

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fare (vedi i film su misura di bellissime – e bravissime – dive come Charlize Theron o Jennifer Lawrence). Altre recensioni rilevano questa originalità nel mare magnum del filone: Dagli agenti targati, la cui proliferazione continua, massiccia e senza soste, 008 si distingue in quanto, se non nella tradizionale decantata gentilezza, appartiene per il resto al bel sesso. Non a quello debole, s’intende, perché Ingrid Schoeller, avvenente bionda e fatale, sa usare pugni e pistole con non minore destrezza dei suoi colleghi maschili, per non parlare delle altre sue non trascurabili armi. […] 008 canta in un night, cala la rivoltella nel reggicalze, indossa con uguale perizia abiti da sera e vertiginosi costumi da sciatrice […]. Alla bella 008 fa compagnia il nostro Alberto Lupo, che finge di essere un suo collega anglosassone anche se il suo aspetto lo smentisce. E infatti… Ma zitti su ciò, altrimenti la sorpresa finale dove va a finire? 25

Nello stesso anno esce Superseven chiama Cairo, dove già nel titolo c’è sia il super 007 sia l’ambientazione esotica che aveva caratterizzato anche A 008, un altro modo per far viaggiare gli spettatori del cinema popolare: «Come tutti gli investigatori, anche Superseven trae ausilio decisivo, nelle sue imprese, da vezzose creature di sesso femminile, a volta complici e innamorate, a volta amanti crudeli e nemiche implacabili26. […] La vicenda ricca di colpi di scena, […] procede di sorpresa in sorpresa sino allo scioglimento finale, naturalmente ricco di suspense»27. Certo il giudizio cambia anche a seconda delle aspettative del recensore, di fronte a questo spettacolo di puro intrattenimento: «L’azione si sposta dal Medio Oriente a Locarno e poi a Roma, senza che per questo i termini della contesa assumano aspetti inediti […]. Avventure fasulle, durante le quali al protagonista, Roger Browne, rendono l’esistenza difficile o gradevole Fabienne Dall, Dina De Santis e Rosalba Neri»28. La serie continua l’anno successivo con altri due film assimilabili al filone, più una trasposizione direttamente fumettistica. Un milione di dollari per sette assassini «non differisce molto dagli spionistici dell’epoca, e si trascina per la durata canonica tra scorci turistici, zoomate fastidiose, danze esotiche interminabili, risse da oratorio, con i soliti cattivi e le solite donnine»29. Le

25

26

V., 008 operazione sterminio, in «Corriere della sera», 4 aprile 1966. Due belle attrici per Superseven, in «Stampa Sera», 22 settembre 1965.

27

Superseven chiama Cairo, in «Stampa Sera», 29 gennaio 1966. V., Superseven chiama Cairo, in «Corriere della sera», 1 aprile 1966. 29 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., pp. 2472-2473. 28

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spie amano i fiori «è uno scampolo estivo della tendenza, ormai al tramonto, a rifare il verso senza molti scrupoli ai film inglesi di spionaggio30. […] Regia inesistente»31. Più curioso il successivo Kriminal (terzo film di Lenzi del 1966) dell’altro filone, che fu presente in quegli anni, senza, però, dare troppi frutti, delle trasposizioni italiane di fumetti (l’episodio più famoso del genere è probabilmente Diabolik, 1968, di Mario Bava). Un fenomeno ovviamente visto con scetticismo dalla tradizionale stampa dell’epoca, ma che poi diventerà una delle icone della cultura pop: «Dai fumetti sullo schermo. Era inevitabile. Kriminal è quel tale con un tuta che sembra uno scheletro. A parte la macabra divisa, questo Kriminal compie i suoi misfatti con monotona ferocia32. […] Kriminal nell’aspetto è soltanto uno scheletro allucinante, ma nonostante ciò riesce a sedurre le donne più belle»33.

UN ANNO DI WESTERN Tra i generi dell’epoca, non poteva mancare il western, cui, in verità, Lenzi dedicherà solo due titoli nel 1968 («non era il mio genere preferito»34), ma sembrava, però, una tappa un po’ obbligatoria nel curriculum dei registi di genere italiani, dopo lo strepitoso e inatteso successo di Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone, che inaugurò un profluvio di produzioni di quello che, all’estero (dove era largamente esportato e che poi sarà vistosamente copiato in un rimando d’influenze cinematografiche), sarà definito spaghetti western o makaroni western. Quale fosse l’atteggiamento della critica dell’epoca sul fenomeno ce lo può testimoniare un assaggio da un libro di Lino Miccichè del 1975: Si cimentarono con vario successo non solo quasi tutti i mestieranti del cinema italiano, ma perfino nomi «rispettabili» come Carlo Lizzani, Florestano Vancini, Tinto Brass, Damiano Damiani, i quali fecero anch’essi il loro bravo «makaroni western» mentre altri, come Bernardo Bertolucci, si limitarono a scrivere sceneggiature e altri ancora, come Pier Paolo Pasolini, parteciparono alla sparatoria generale come attori. Anche se in quasi tutti i Le spie amano i fiori, in «Corriere della sera», 6 agosto 1968. P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 2220. 32 Kriminal, in «Corriere della sera», 14 gennaio 1967. 33 Al cinema anche i fumetti neri, in «Corriere della sera», 12 agosto 1966. 34 U. Lenzi in A. Gnoli, Umberto Lenzi cit. 30 31

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«western» italici, un po’ per vezzo, un po’ per pudore, un po’ per truccare meglio il prodotto, i nomi di produttori, registi, tecnici e attori vennero americanizzati o con divertenti «traduzioni» dei cognomi o con fantasiose invenzioni35.

Ironia e cinismo si mescolano nei due western di Lenzi come in tutta quella produzione, dominata dalle idee visive e sonore del duo Leone/Morricone. A colpire la critica dell’epoca fu la quasi completa amoralità e la parossistica violenza di questa italica reinvenzione di un genere dell’epica americana, prima narrativa, poi cinematografica. Non eroi che costruiscono uno stile di vita su cui debba fondarsi una nazione, come nel modello originale, ma un riflesso di un’altra realtà di violenza, quella del mondo contemporaneo, completamente diseroicizzata. I protagonisti non sparano, non combattono e non muoiono in nome di valori, ma solo per opposti interessi, quasi sempre di denaro, illuminando quegli spazi aperti lontani con la sinistra luce del presente. Non a caso, lo stesso Miccichè sottolinea un parallelo tra generi e personaggi che Lenzi, come molti registi italiani dell’epoca, ha intrecciato: Si può insomma dire che il «western» italiano è contemporaneamente figlio di James Fenimore Cooper e di Ian Fleming, ovvero di Natty Bumpoo e di 007, e che, se da un lato veste i panni del cowboy e vive da uomo della Frontiera, dall’altro ha la psicologia di un «agente segreto» e la morale cinica e fascisteggiante di James Bond. D’altronde le date non sono mai casuali, neppure nel cinema, e quelle della proposta (prima) e del trionfo (poi) dell’Agente 007 anche sugli schermi italiani precedono la proposta e il trionfo del «makaroni western»36.

Quanto al diretto contributo di Lenzi al genere fu, in effetti, poca cosa e, dei due western del 1968, ad avere un po’ più di attenzione fu Tutto per tutto: «Il film è un altro risultato degli sforzi compiuti dal cinema italiano e spagnolo. Diciamo che potrebbe essere peggio. […] Il regista ci ha messo una goccia di humour, e molta gente manesca37. […] Girato nel momento culminante del western all’italiana (e alla spagnola), offre il consueto, e stinto, repertorio di avventure»38.

L. Miccichè, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia 1995, p. 138. Ivi, p. 141. 37 Tutto per tutto, in «Corriere della sera», 14 agosto 1968. 38 Tutto per tutto, in «Corriere della sera», 12 luglio 1984. 35 36

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I GIALLI Del resto, in quegli stessi anni, il regista stava trovando la sua vena più originale e felice in una particolare declinazione di giallo con un’evidente componente erotica; quest’ultima cominciava ad affacciarsi prepotente nelle maglie dei più diversi generi cinematografici, che sempre più facevano posto ai nudi femminili, seguendo una nuova evoluzione del costume e della morale. «Caratteristica comune a tutti questi film sono i momenti iperrealistici, che sottolineano personaggi e situazioni spinti all’eccesso, e l’abbondanza di scene visivamente forti, calate quasi di sorpresa e in grado d’inquietare lo spettatore»39. Il genere permette ai registi più dotati, come Lenzi, di realizzare tutta una serie d’idee visive, d’infilarci riferimenti alla società dell’epoca e, soprattutto, torbide passioni, se non perversioni, che, nei film di Lenzi, trovano una perfetta protagonista in Carroll Baker. Era abituata a produzioni faraoniche, aveva lavorato con William Wyler. E invece io arrivavo sul set e: «Pronti? Giù le mutande… ciak». Carroll era sempre nuda, anche se si metteva un cerottone sul pube per evitare che la macchina da presa insistesse troppo sul lato A. Girata la versione internazionale, destinata a Paesi come Francia e Germania, ci si rimettevano le mutande per quella italiana, in cui era permesso solo il seno nudo. Li chiamavano thriller erotici, rispetto all’oggi erano roba da educande40.

Carroll Baker aveva già recitato, e si era già spogliata, a beneficio degli spettatori italiani avidi della bellezza di star internazionali, in L’harem (1967, Marco Ferreri) e Il dolce corpo di Debora (1968, Romolo Guerrieri), quest’ultimo un po’ forse il capostipite di questo genere. Ma è soprattutto il sodalizio con Lenzi a darle una seconda giovinezza nel cinema italiano, creando anche curiosità nella stampa, proprio intorno ai suoi ruoli senza veli. Tema principale sembrava diventare quello dei nudi nei film, dopo Orgasmo (1969) con Lenzi e alla vigilia del successivo Così dolce… così perversa, titoli che andavano evidentemente a stuzzicare certe fantasie: Colei che con Baby Doll di Kazan diventò, si potrebbe dire, un’antesignana

Stefano Della Casa, Cinema popolare italiano del dopoguerra, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. VII, Parte I, Einaudi/Il Sole 24 Ore, Torino/Milano 2009, p. 814. 40 U. Lenzi in A. Finos, L'ultima intervista al regista che negli ultimi anni aveva intrapreso con successo la carriera di giallista cit. 39

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del Nude look. […] Il suo pensiero sulla polemica che divampa in merito ai film sexy: «Non credo nella censura, non credo cioè nella indicazione di un’autorità che sappia e possa dire ciò che si deve e ciò che non si deve fare. […] Nel merito, penso che il nudo sullo schermo possa trovare una giustificazione quando è in funzione della vicenda e trattato con delicatezza. Ma penso anche, d’altronde, che ora si vada troppo oltre, sconfinando nei film pornografici in cui l’argomento del sesso è trattato senza alcuna giustificazione». Parole chiare e precise. In diversi film, si sa, la ex Baby Doll ha mostrato abbastanza generosamente il suo elegante corpicino. […] In diversi film che ho interpretato – sostiene Carroll – l’argomento sesso c’era, ma tenuto in sordina e sempre in chiave funzionale alla vicenda41.

Poi è lo stesso Lenzi a introdurre il tema di Così dolce… così perversa: «Si tratta di un thrilling cattivo, che vuole essere più vicino come atmosfere a I diabolici di Clouzot che ai gialli di Hitchcock, nel senso che la suspense deriva più dall’ambiguità psicologica dei personaggi che dalla drammaticità delle situazioni»42. Si passa poi al coprotagonista Jean-Louis Trintignant. «Sul problema del giorno, cioè l’esasperazione del sesso sullo schermo, Trintignant dice: ‘È un peccato che si facciano molti film pornografici, ma è parimenti un peccato che la censura infierisca contro pellicole che cadrebbero da sole. Ho fiducia, ad ogni modo, che si torni presto a film impegnati, di poesia’»43. Che la fiducia di Trintignant fosse generalmente malriposta è abbastanza evidente, pure è significativo quanto il tema fosse sentito all’epoca e proprio, anche, in rifermento a questi audaci gialli di Lenzi. La critica dell’epoca sembra soprattutto concentrarsi su questo aspetto pruriginoso, quasi spaventata dall’amoralità del film, accompagnata da un’ineccepibile confezione formale e con una diva protagonista così attraente. In Orgasmo, al quale la pubblicità ha dato la giusta etichetta di «thrilling erotico». Assistiamo alle piccole manovre di un erotismo di consumo, in un’atmosfera di castello delle streghe (sarebbe troppo dire di film di Hitchcock). […] Non vigila, ma marca visita, la buona censura italiana. Ma chi nel caso specifico si sentirebbe di darle torto? Con tutto il suo carico di aberrazioni oggettive, Orgasmo è diretto e risolto alla bonacciona, temendo il fuoco, con uno stile per così dire famigliare (da che l’assenteismo di Lou Castel, mentre Carroll Baker si prodiga soprattutto in toilettes e acconciature); anche nelle scene più Baby Doll puritana, in «Corriere della sera», 5 luglio 1969. Ibidem. 43 Ibidem. 41 42

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intenzionalmente «proibite», quelle con la «sorella» (Colette Descombes), tutto è smussato e sterilizzato dalla convenzionalità 44.

Altre recensioni sono ancora più connotate dal punto di vista moralistico, stigmatizzando il film come un oggetto da distanziare: Deplorevole film, questo Orgasmo, per le cose che dice, ma in linea col gusto che imparenta il cinema alle riviste in busta chiusa. […] Pensato come un «giallo erotico», Orgasmo applica banalmente alla moda delle deviazioni sessuali le antichissime ricette sulla circonvenzione dei viziosi, e vi aggiunge debiti pizzichi di orrore sulla falsariga di Baby Jane (là un topo per cena, qui un rospo). Il tutto masticato da un regista, Umberto Lenzi, autore anche del soggetto, che conosce il modo di risparmiare la fantasia. Una Carroll Baker che si sforza, passando dal gaudioso al compassionevole, di risalire il viale del tramonto; un Lou Castel manesco dal sorrisino perfido; una Colette Descombes in abiti ambigui (Tino Carraro e Lilla Brignone si compromettono il meno possibile), conducono la triste sarabanda a gloria di un pubblico in massima parte maschile45.

Il successivo Così dolce… così perversa finisce per avere un’attenzione persino maggiore del precedente Orgasmo. Tra riferimenti cinematografici ed erotici, forza e bellezza dei protagonisti e qualità di fattura del film, Lenzi non è certamente più un nome sconosciuto e gli spazi sui giornali si moltiplicano: Chi si era appassionato, una dozzina di anni fa, alle intricate vicende dei Diabolici di Clouzot, ha l’occasione di rinfrescarsi la memoria con un giallo di coproduzione italo-franco-tedesca, diretto su grande schermo a colori da Umberto Lenzi: Così dolce… così perversa. Parecchie sono le analogie, soprattutto nel triangolo amoroso. […] Lunga la serie di sorprese che gli sceneggiatori sfornano di getto e talora con mano pesante: persino nell’ultima sequenza, che vede il trionfo del male, un velo di ambiguità confonde lo spettatore. Come prodotto commerciale, il film regge bene anche se il regista Lenzi non è Clouzot e Carroll Baker non è la superba Signoret dei Diabolici. L’attrice americana tuttavia è sempre credibile nei momenti erotici, mentre Jean-Louis Trintignant, Erika Blanc e Horst Frank sono in tono minore46. […] Un crescendo di trovate che più s’infittiscono meno interessano. Umberto Lenzi (ricordate Orgasmo?) ha ormai l’abitudine

44

vice, Orgasmo, in «La Stampa», 8 marzo 1969. G. Gr., Orgasmo, in «Corriere della sera», 29 marzo 1969. 46 vice, Humour nero all'italiana, in «La Stampa», 12 dicembre 1969. 45

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di trascinare Caroll Baker nel tango delle vicende più improbabili e qui non la lascia in pace nemmeno all’ultima inquadratura […]. L’attrice di Baby Doll, che qui si atteggia a Simone Signoret, è come sempre docile nelle mani del regista. Docile non vuol dire espressiva perché la stessa Erika Blanc, con le sue lacrime alla glicerina, non le rimane indietro quanto a partecipazione. Dubbi negli interpreti e scompensi nella storia vengono risolti dal regista in maniera sbrigativa47. […] La trama ricorda I diabolici di Clouzot […]. Ma Luciano Martino, autore del soggetto, non è Boileau e Narcejac, né il regista Umberto Lenzi un Clouzot, per cui la suspense risulta parecchio annacquata e i colpi di scena arrivano sfasati oltre che presentati senza inventiva. Si aggiungano alcune ambiguità del tutto irrisolte e il livello a dir poco grottesco dei dialoghi. La distratta regia riesce ad avvilire persino due ottimi attori come Jean-Louis Trintignant e Caroll Baker. In quanto ad Erika Blanc, il giudizio sarebbe imbarazzante48.

Insomma, in confronto con un capolavoro del cinema francese, un’analoga operazione italiana, aggiornata ai tempi, viene quasi completamente bocciata. L’idea del giallo con queste intriganti venature morbose continua con il successivo Paranoia (1970), sempre con la Baker bellissima protagonista. La formula sembra cominciare a convincere persino l’ostile critica dell’epoca, anche se, al centro dell’attenzione, sembra rimanere il grado di nudità della diva Baker: Paranoia, presentato in anteprima a Saint Vincent, completa la trilogia del regista Umberto Lenzi su un certo tipo di «jet society». […] Carroll Baker, alla quale la macchina da presa e la fotografia non rendono giustizia, vi si esibisce in abbondanti scene di nudo49. […] Architettato con abilità, diretto con equilibrio e chiarezza nonostante l’affastellarsi degli accadimenti, il film è un saggio dignitoso e suggestivo di quel cinema commerciale di cui il Lenzi si è dichiarato sostenitore deciso. Con la Baker, convincente Hélène, si distinguono Jean Sorel (Maurice) e un’ottima e penetrante Anna Proclemer50.

Lenzi continua con il genere e idee simili in Un posto ideale per uccidere (1971), ma l’assenza di una figura magnetica come la Baker si fa sentire: Vorrebbe essere un film «nero» e al tempo stesso il ritratto di due 47

Baby Doll in giallo, in «Stampa Sera», 15 dicembre 1969. l. a. Così dolce… così perversa, in «Corriere della sera», 6 gennaio 1970. 49 Caroll Baker molto nuda, in «Corriere della sera», 17 febbraio 1970. 50 Achille Valdata, La Baker sfida la bufera, in «Stampa Sera», 16 febbraio 1970. 48

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spregiudicati esemplari d’una certa gioventù (i due ragazzi – impersonati con scarsa convinzione da Ornella Muti e R. Lovelock – tirano a campare smerciando foto audaci per le quali lei fa da modella); in effetti le eventuali ambizioni sono annullate dalla modestia della realizzazione, basata su una sceneggiatura di scarsa inventiva. Irene Papas, l’assassina, merita ruoli migliori, non occorre dirlo51.

Il nuovo giallo argentiano, con venature più sanguinolente, comincia a mietere sempre più successo e anche Lenzi vi si accoda produttivamente con Sette orchidee macchiate di rosso (1972). La sorte critica segue la stessa del maltrattato Argento: Una trovata banale collega i numerosi assassinii di Sette orchidee macchiate di rosso. […] Umberto Lenzi, regista di film d’avventura e dell’orrore, ha avuto la mano abbastanza leggera nel tratteggiare la storia e nell’inventare un colpevole difficile da indovinare. Però non tutte le regole del «giallo» sono rispettate […]. Modesta ma non fastidiosa la coppia protagonista 52. […] La soluzione dell’enigma è appiccicata. Senza il rigore geometrico dei gialli, il film procede stancamente, rivisitando i più battuti luoghi comuni, dagli hippy di Piazza di Spagna alle porte che cigolano. Gli attori fanno finta di spaventarsi53.

La coppia Baker/Lenzi si riunisce per Il coltello di ghiaccio (1972), caratterizzato, secondo la critica dell’epoca, da «una cura delle immagini e dei colori cui corrisponde una gran fiacca nel ritmo e poca dimestichezza diretta con la suspense. Carroll Baker supplisce col suo mestiere alla caduta delle maglie da parte della regia, sforzandosi di esprimere con la faccia, che non è sempre d’angelo, quello che non può con la voce. Fu già la famosa ‘babydoll’, oggi è una bionda ben quartata, che si adatta con signorilità a quello che passa il cinema di coproduzione»54. La Baker finisce sempre per focalizzare il centro dell’attenzione in queste operazioni: «La signora Carroll Baker, un tempo ‘baby doll’, ha trovato la fortuna a Cinecittà e dintorni, così la incontriamo spesso in questi ‘spaghetti gialli’ dove alla grossolanità dei colpi di scena non corrisponde certo una finezza psicologica55. […] Lenzi

51

a. v., Sesso e suspense, in «La Stampa», 17 dicembre 1971. p. p., Assassino in villeggiatura, in «La Stampa», 26 maggio 1972. 53 Sette orchidee macchiate di rosso, in «Corriere della sera», 20 maggio 1972. 54 l. p., Tanti omicidi e magia nera, in «La Stampa», 25 luglio 1973. 55 a. f., Giallo spaghetti, in «Corriere della sera», 26 agosto 1972. 52

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gira con competenza, ma il risultato è piatto»56. Mentre già aveva iniziato a esplorare il film poliziesco, Milano rovente è del 1973, Milano odia: la polizia non può sparare del 1974, Lenzi continua il suo personale percorso nel genere che gli aveva finora dato maggiore notorietà con Spasmo (1974) e Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975), il cui titolo, evidentemente, ha gli echi del dilagante successo argentiano. Il riscontro critico è, ancora una vola, stroncatorio: Gli effetti e gli ingredienti della paura ci sono tutti, ma gli «spasmi» sono davvero pochi. Ancora una volta il cinema ha tentato la suspense con tecniche narrative e spettacolari fornite dal «giallo» di produzione televisiva. Peregrinazioni turistiche della macchina da presa, scarsa coesione logica degli avvenimenti, assoluta mancanza di una chiave per penetrare nel mistero della vicenda, spiegazione finale, a freddo, di quanto è accaduto sullo schermo. Se la formula riesce talvolta a funzionare sul video, dove la storia si frantuma in puntate che vanno da una settimana all’altra, fallisce invece completamente nello spazio breve del film. Lo spettatore in sala viene escluso dal racconto. Il «giallo» rinuncia alla sua principale sostanza narrativa, proponendosi di stupire o spaventare irrazionalmente piuttosto che coinvolgere il pubblico nelle geometrie avvincenti della trama. Così Umberto Lenzi, eclettico regista del piccolo cabotaggio cinematografico nostrano, racconta le disavventure di Christian […]. Gli interpreti dispensano fremiti e visi sconvolti dall’ansia con adeguata ostentazione 57. […] Spiacenti per il film, grossolano negli effetti, di fattura frettolosa e inconcludente. Molto proclamato, ma in sostanza modesto il contorno sexy del rabbrividente fumetto58.

Mereghetti ha continuato di recente il disdegno per l’opera: «Una sceneggiatura boccheggiante, messa in scena senza un briciolo di suspense e con dovizia di zoom che inquadrano dettagli di nessun interesse. Mai visti tanti plagi di Bava in un film solo: sarà per questo che il film ha fama di cult?»59. Minore attenzione critica e recensioni persino più feroci riceve Gatti rossi in un labirinto di vetro: «I delitti avvengono fra un gruppo di turisti che pur di non rinunciare alla gita si fanno accoppare60. […] Una mezza dozzina di P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 2121. s. c., Spasmo, in «La Stampa» 19 febbraio 1974. 58 R. B., Spasmo, in «Corriere della sera», 15 marzo 1974. 59 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 2211. 60 Delitti con sevizie fra turisti troppo allegri, in «La Stampa», 24 febbraio 1994. 56 57

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crimini efferati è quanto offre di brividi epidermici il thriller casereccio Gatti rossi in un labirinto di vetro. […] La bambocciata, confezionata da Umberto Lenzi col ricorso ai consueti effettacci cruenti, si risolve con la più improbabile motivazione di tanto crudeli assassinii. Martine Brochard è quasi una perla in un cast senza spessore»61. Anche qui, di recente, Mereghetti rincara la dose: «Buon candidato alla palma del peggiore giallo dell’epoca, con tette gratuite a iosa»62. Nella rivalutazione dell’opera di Lenzi, insieme ai polizieschi, i gialli avranno un posto speciale, anche nel deus ex machina di questo ribaltamento dei canoni interpretativi: Quentin Tarantino. «Orgasmo è il suo film preferito. In una scena di A prova di morte si vede il poster del mio Paranoia»63.

IL POLIZIOTTESCO Si sbaglierebbe a pensare che il poliziottesco sia solo un’immediata filiazione del clima politico/sociale dell’epoca perché c’è, fortissimo, un altro filtro che è, evidentemente, tutto cinematografico. Nasce, infatti, da più genitori. I più evidenti, per la storia della critica, sono due e proprio quelli che ne spiegano l’ambivalenza del messaggio politico. Da un lato c’è il cinema di denuncia civile italiano, eminentemente di sinistra, progressista; dall’altro il successo di film americani come Il braccio violento della legge (1970, William Friedkin), Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo (1971, Don Siegel, con il redivivo divo del western Clint Eastwood che ci fornirà un indizio significativo), fino a solitari giustizieri tra cittadini poliziotti: Il giustiziere della notte (1974, Michael Winner), Serpico (1973, Sidney Lumet), pellicole dall’«imbarazzante ideologia»64. In questo caso, «si può vedere come una cinematografia nazionale prende in prestito e fa sue convenzioni del dominante cinema hollywoodiano e, magari, apporta miglioramenti»65: di sicuro una maestria e un’inventiva tecnica che poi farà scuola presso sucL. A., Turismo e delitti organizzati, in «Corriere della sera», 20 giugno 1975. P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 972. 63 U. Lenzi in A. Finos, L'ultima intervista al regista che negli ultimi anni aveva intrapreso con successo la carriera di giallista cit. 64 Giovanni Buttafava, Gli occhi del sogno, Biblioteca di Bianco e Nero, Roma 2000, p. 110. 65 Matthew Monagle, Alan O’Leary talks Terror, Trash, and the Poliziesco, in http://paracinema.net, 21 June 2014. 61 62

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cessive generazioni di registi americani. Una sintesi tra film d’azione e d’impegno sociale era già stata formulata da registi come Carlo Lizzani (Svegliati e uccidi, 1965; Banditi a Milano, 1968) e Damiano Damiani (Il giorno della civetta, 1967; Confessioni di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica, 1971; L’istruttoria è chiusa: dimentichi, 1971), ma è con La polizia ringrazia (1972, Stefano Vanzina) che il genere trova un clamoroso successo popolare, iniziando una via tutta italiana al filone, innescando quelle polemiche e accuse di reazionarietà che accompagneranno tutte le pellicole di quello che verrà, spregiativamente, definito poliziottesco. Le influenze sulla nascita del genere, però, non finiscono qui e ci riportano, ancora una volta, alla cinematografia americana rivisitata all’italiana. L’altro padre del poliziottesco è, infatti, lo spaghetti western, la cui enorme fortuna produttiva stava declinando e fu sostituita, appunto, da questo nuovo filone. I paesaggi ampi e aridi del western furono sostituiti dalla giungla d’asfalto delle città italiane (come il noir americano ci aveva insegnato), il commissario è il nuovo solitario cowboy, con auto sgommanti invece dei cavalli negli inseguimenti a colpi di pistolettate. Questa la testimonianza di Tomas Milian, che sta al rito di passaggio dallo spaghetti western al poliziesco in Italia come Clint Eastwood negli Usa: Questi film si girano in cinque settimane, in economia, e fanno cassetta quanto la facevano un tempo i western, che oggi non si potrebbero più fare vuoi perché non piacciono più, vuoi perché duravano dieci-dodici settimane di lavorazione con comparse, cavalli, ricostruzioni… Il gran trucco dei «Monnezza» e dei «Nico» è stato quello di soppiantare quel genere trasportando il mondo western qui. La motocicletta ha sostituito il cavallo, tutto quello che succedeva al tempo dei pistoleros succede oggi qua, purtroppo. Ci sono gli assalti alle banche e ai treni, le rapine, sparatorie, c’è tutto… Questi miei film sono andati così bene anche perché sono di pura evasione. Un tempo la creatività artistica veniva, nel cinema, dalla repressione. Oggi non c’è repressione ma una specie di strana anarchia che si espande, una sorta di libertinaggio che ti impedisce di identificarti in qualche cosa, di poter dire qualche cosa, perché tanto di che parli, contro cosa protesti? Questi film di pura evasione funzionano anche perché la parolaccia fa parte della merda in cui siamo impantanati tutti66.

Proprio la testimonianza di Milian è particolarmente significativa perché 66

T. Milian in F. Faldini, G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi cit., p. 461. 272 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

era stato lui stesso uno dei protagonisti dello spaghetti western e anche di quello più carico d’implicazioni sociali. È lo stesso Lenzi, in maniera cinematograficamente ammiccante, ironica, geniale, a sancire visivamente questo passaggio nella sequenza iniziale di Il trucido e lo sbirro (1976), con i titoli di testa di un tipico film western, paesaggi aperti, cavalli, cowboy, musica alla Morricone, poi, finiti i titoli, ci mostra che si trattava solo di una pellicola proiettata in una sala di un carcere. Tra gli spettatori, c’è anche Milian/Monnezza che segna, a suo modo, il distacco da quel passato cinematografico, dicendo a un compagno, di fronte al film: «Reggeme er posto che vado a cagà». Il poliziottesco, dunque, già a partire dai titoli accattivanti che davano immediato protagonismo alle più importanti città italiane, partiva dall’attualità, dai fatti di cronaca, ma aveva, come il western di cui sembra più direttamente figlio, un intento eminentemente spettacolare. Il presunto messaggio politico è centrifugato dall’obiettivo di sfruttare fino all’esaurimento, come era stato fatto per il peplum, gli 007, i western, i gialli, i favori del pubblico, mischiando il più possibile gli stessi ingredienti, magari da qualche angolazione diversa, sotto la pressione delle macchine produttive caoticamente opportuniste di quel periodo della cinematografia italiana. Così icasticamente sintetizza G. Buttafava in uno dei primi studi che analizzava, senza pregiudizi, quel cinema di genere: «I generi (o i filoni, chiamateli come volete) nel cinema italiano nascono da furiose mischie di mignatte attorno alla carne fresca e sanguigna di un grosso successo imprevisto, di un corpo gagliardo improvvisamente svelato agl’innumeri occhi dello spettatore di massa e alle fauci vampiresche del cinema industriale»67. L’ambiguità ideologica del poliziottesco è allora nel fatto che volevano essere film d’intrattenimento e non miravano a commentare i fatti dell’epoca o a indirizzare l’opinione pubblica. Erano registi che sapevano quali piaceri dispensare, cosa il pubblico e i produttori si aspettavano da loro e non erano certo avari nell’appagarli dal punto di vista spettacolare. Pellicole nelle quali l’azione era il centro di tutto, in cui ogni singolo film doveva formularmente dispensare quei piaceri ritualmente visti negli altri film del filone (inseguimenti, sparatorie, scontri, violenze) e, contemporaneamente, provvedere a inventarsi qualcosa di nuovo per distinguersi dagli altri prodotti. Da qui una specie di serialità, un cerimoniale per gli spettato67

G. Buttafava, Gli occhi del sogno cit., p. 109. 273 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ri, che rivivevano l’esperienza della violenza urbana, dell’insicurezza che si respirava nelle città, risolvendo in tali rappresentazioni cinematografiche possibili elementi perturbanti della quotidianità in cui erano immersi come collettività. Nel film, insomma, tutto ciò che era pericoloso e disturbante nel discorso pubblico diventava un piacere spettacolare. Prima d’inoltrarci nella ricognizione critica dei singoli film di Lenzi, è utile dare un’idea del quadro critico generale in cui tali giudizi s’inserivano e la portata del dibattito ideologico che tali opere hanno originato al loro apparire. Tanto per cominciare, quello che era allora il critico cinematografico probabilmente più influente, Lino Miccichè. «È un fatto che nel corso della stagione ’70-’71, e ancor più in quella ’71-’72, una folta schiera di giudici parziali, di commissari fascistoidi, di poliziotti violenti, di procuratori sospettabili, di carcerieri sadici, di avvocati imbroglioni e di cittadini vessati è apparsa sugli schermi nostrani, rappresentata con una durezza e una crudezza impensabili fino a qualche anno fa»68. In un momento in cui è dominante l’influenza di sinistra su tutta la vita intellettuale italiana, film che trattavano argomenti così nella carne viva della cronaca del Paese, replicavano senza un’analisi critica umori di pancia della gente, apparivano inaccettabili, un tradimento della stagione dell’impegno, tanto più in un periodo storico in cui è parecchio vivo il dibattito sulla funzione dell’arte e degli intellettuali per guidare, capire, orientare il Paese all’indomani del ’68. Recensori quasi sempre anonimi o i Vice che si firmavano solo così, avevano il compito seriale di stroncare queste uscite minori che i critici ufficiali dei giornali tralasciavano, così come era sempre stato per il cinema di genere. Furono quasi sempre loro i giustizieri di queste pellicole. Solo alla fine di quel decennio, proprio grazie al saggio di Buttafava di cui si parlava prima, si cominciò, almeno, a ricondurre questo cinema «al suo contesto produttivo e al suo pubblico privilegiato, quello proletario o sottoproletario, che riempie le sale e alimenta il mercato di profondità, che al cinema va ancora per stupirsi e per esaltarsi, e che accetta il nuovo filone come una naturale continuazione del film di denuncia»69. Dopo aver analizzato la struttura e il discorso sotteso al poliziottesco, Buttafava mette in guardia dal diluvio di accuse ideologiche al genere, associandolo decisamente al suo contesto produttivo: 68 69

L. Miccichè, Cinema italiano degli anni ’70, Marsilio, Venezia 1989, p. 130. R. Curti, Italia odia cit., p. 47. 274 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

I poliziottari si tengono lontani da formulazioni ideologiche precise, applicano quello che vedono essere possibile fonte di successo commerciale e di spunto spettacolare, meglio se coniugabile con i moduli che vengono dall’America. […] I film poliziotteschi non pretendono di essere indipendenti: prodotti popolari sì, quindi con un occhio alle esigenze del pubblico. E in questo caso, in questo momento il pubblico vuole cronaca, vuole denuncia, confusamente, indiscriminatamente, spietatamente 70.

A colpire è anche la struttura spesso spezzata di questi film, gli episodi di violenza che si susseguono, a volte anche di natura collaterale alla trama, per insistere sull’intollerabile clima di brutalità che si riferisce direttamente alle cronache del tempo. Lo stesso Buttafava fa una precisa citazione proprio da un film di Lenzi: Uno degli esempi più macroscopici e spiazzanti è ne Il trucido e lo sbirro: i protagonisti stanno seguendo una pista importante, pedinano la donna di un bandito, stanno per beccarla, quando… dal nulla dello spazio off urbano irrompe nel campo un commando di terroristi che attacca e ammazza un uomo che sta avviandosi tranquillamente, come una comparsa qualsiasi, con la sua macchina, fuori campo. Mentre la donna del bandito se la fila, i due eroi e il pubblico vengono a sapere che si tratta dell’assassinio efferato di un uomo politico. «Dove andremo a finire?». E via di nuovo sulle tracce della ragazza. L’attentato scompare dai loro pensieri e dalla struttura del film, dopo aver corroborato la volontà di tranquillità e giustizia, ed eccitato spettacolarmente il pubblico sensibile al civile. Pornografia cronachistica. Ma Nanni Loy non è tanto diverso71.

Buttafava chiude la sua geniale (e incredibilmente anticonformista per quel periodo) analisi con un altro semplice avvertimento a tutti quei censori che con immediatezza, magari anche un po’ moralistica (ma era lo spirito didattico/intellettuale, anche in buona fede, di quei tempi), aveva bollato di fascismo quei film: Quando Philippe Leroy [in La mano spietata della legge, 1973, Mario Gariazzo] confessa alla moglie che quando vede i delinquenti, pur odiando la violenza, «si sente addosso la rabbia di tutti» e quindi «picchia», si può scorgere in questo penoso tentativo di predicare un consolidamento della repressione poliziesca, cioè un tratto fascista, eccetera eccetera (e tutto il genere è liquidato su queste basi), ma non è detto che tutte le massaie che dicono «li

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G. Buttafava, Gli occhi del sogno cit., pp. 124-125. Ivi, p. 126. 275 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

metterei al muro» siano «fasciste». Incarnazione di umori viscerali, di proiezioni incontrollate e contraddittorie, di aspirazioni parallele all’ordine e al disordine, il poliziottesco nella grottesca confusione delle sue strutture, negli impasti di secondo e terzo grado d’una realtà e di un cinema sempre più intorbidati e imbastarditi, è uno specchio incrinato e sghembo ormai indelebilmente incastrato nel corpo rigonfio e malandato, ma sempre vivo, del cinema italiano dei nostri anni 72.

Il saggio di Buttafava (Procedure sveltite, apparso per la prima volta sul «Patalogo» nel 1980) sarà una specie di apripista, per l’acutezza senza pregiudizi delle sue riflessioni e la scomposizione del genere nelle sue contraddizioni tematiche e ideologiche, tanto da essere ripreso praticamente in tutti gli studi successivi. La progressione-tipo delle argomentazioni è la seguente: la malavita attacca, è libera armata pericolosa, infuria violenta per la città, è una vera guerra non più una «lotta»/ma la polizia ha le mani legate dalle «nuove disposizioni» e dalla «lentezza della giustizia», perciò è inefficiente/il commissario senza paura e scomodo usa metodi non ortodossi per ottenere risultati tangibili, infatti è l’unico che ci riesce/l’Opinione Pubblica (la Stampa) lo attacca e attacca la polizia in genere perché è violenta, ma anche perché è inefficiente/i pavidi «superiori» sgridano il commissario/qualche agente speciale ci lascia la vita, i criminali impazzano/i superiori cedono e consentono al commissario di sveltire la procedura (il momento della concessione della carta bianca è equiparabile solo a un orgasmo perfetto). E allora: «So che sono un commissario scomodo, ma quando dovete fare bella figura, avete bisogno di me!», e via con la «caccia spietata ai rapitori», agli spacciatori, agli assassini, a costo di sentirsi accusare ingiustamente di mancanza di sensibilità (mentre è solo coraggio di «metter ordine» a ogni costo). Quando ha carta bianca il commissario ingiuriato può ribattere per le rime, anche ideologicamente, sempre dalla parte del paese, sempre in difesa della costituzione, sempre democratico. Altro che fascista! […] Il commissario è costretto a fare il duro, a essere scomodo, sprint, senza paura. Il poliziottesco scimmiotta il discorso civile del cinema d’impegno con la costante puntualizzazione del contesto assassino, della corruzione delle strutture, del Sistema che uccide. […] Il poliziotto italiano è fedele al «paese», al di là delle persone che lo governano. A furia di allargare il discorso questi film così di serie, così affrettati, ma così sicuri nell’individuare l’ingrediente estraneo mercantilmente utile, arrivano a proporre il più devastante, apocalittico, agghiacciante ritratto della corruzione, qui dichiaratamente fascista, delle 72

Ibidem. 276 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

strutture dello Stato […]. Il genere poliziottesco tollera e qualche volta pretende la morte finale dell’eroe: anche Salerno, anche Merli ci sono passati. La carica spettacolare della morte di un commissario come-ce-ne-vorrebbero vince il cliché tradizionale dell’immortalità del protagonista-eroe. La morte o l’immortalità dell’eroe, nel poliziottesco, commercialmente si equivalgono. Torna di nuovo lo spettro Calabresi. Sono fatti di cronaca bruciante, no?73

Il solco tracciato da Buttafava, fu poi seguito da un altro critico di estrazione colta e, dichiaratamente, di sinistra, Goffredo Fofi, il quale, in collaborazione con Franca Faldini, pubblicò il curioso Il cinema italiano d’oggi (1984), in cui, senza alcun intervento critico, fa parlare i protagonisti di questo cinema rimosso o massacrato dalla critica tradizionale. La testimonianza portata da Maurizio Merli è una delle più sapide: Si legge tra le righe dei film impegnati. Perché non si legge tra le righe di questi film? Ci sono le stesse cose. Non è vero che bisogna per forza parlare difficile. Molte volte si accusano i film di polizia italiani di eccitare la violenza. Dipende dai film, naturalmente, ma in genere non è vero: si tratta di trasportare fatti nei film, fatti reali. La violenza è nei fatti. […] La gente ha accettato il mio personaggio. Mi fermava per strada, mi riconosceva. Mi diceva generalmente: «Eh, ce ne vorrebbero come lei!». È il bisogno di tranquillità generale, che è in tutti, che li spinge a fermarmi e dirmi: «Vogliamo vivere tranquilli». […] Ho creato un personaggio che piace a tutti: li vanno a vedere anche i delinquentoni, quelli veri, quelli «simpatici». Mi dicono: «A ‘nfamone! Però mi stai simpatico». Non parlo dei matti criminali, che esistono […]. Cerco sempre di essere attinente alla realtà, nel mio personaggio, così ho parlato con molti commissari, con molti poliziotti. Ormai mi accettano come uno di loro, sono come uno di loro. Scherzo con loro. Le «pantere» si fermano, mi salutano. Una sera, in macchina, un poliziotto mi ha fermato, io ho acceso la luce, e quello mi ha fatto: «Oh, scusi commissario…»74.

Ma quale fosse il clima ideologico dell’epoca lo può ben esemplificare un saggio apparso all’inizio degli anni ’80 che, sin dal titolo, evocava quali umori avessero fermentato nel decennio precedente: Itinerari della violenza. Roberto Alemanno fa partire la sua analisi da quel cinema di denuncia che era sempre stato portato in palmo di mano dalla critica dell’epoca e aveva stimolato il dibattito pubblico intellettuale sulle anomalie della recente sto-

73 74

Ivi, pp. 122-124. M. Merli in F. Faldini, G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi cit., pp. 455, 457, 458. 277 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ria nazionale: Il cinema politico italiano di qualità si reggeva sulle spalle più o meno forti di «personaggi», in nome di quella poetica dello scandalo che offriva sempre una critica moralistica della corruzione delle istituzioni e del sistema borghesi. […] Tra i critici e i commentatori, tuttavia, era stato Pierre Billard a rompere il ghiaccio e a denunciare all’opinione pubblica la cecità del cinema italiano, di un cinema italiano che per Billard sarebbe stato troppo duro e critico verso le istituzioni75.

Alemanno prende le mosse da un articolo apparso su «Le Point» l’1 maggio 1978, a firma di Pierre Billard, molto critico nei confronti di questo cinema che contribuiva «a minare la pallida fiducia del popolo italiano nelle sue autorità e nelle sue istituzioni»76, addirittura questi registi finivano con l’essere «complici innocenti delle Brigate Rosse»77, trasformando, agli occhi della conservazione, questi film «in un’attività terroristica consumata ai danni dello Stato italiano e contro la Democrazia cristiana»78. Lo scatto successivo, in difesa del cinema d’impegno e denuncia civile, è questo: «Billard cancellava dai suoi pensieri il segno ideologico della parte più vistosa del cinema italiano, di quei film che continuano a consumare liberamente l’ideologia della violenza individuale, di quel ‘giustiziere della notte’ che, in quei tempi scuri, sostituiva persino la vecchia immagine del poliziotto di Stato. Se il cinema italiano era terrorista, lo era in questo senso, come cinema nero, ed era il più politico»79. L’analisi del genere, e della sua filiazione, è eminentemente ideologica: «Il fenomeno produttivo del ‘cinema poliziesco’ (un genere esemplare dell’ideologia fascista e della restaurazione in Europa e negli Stati Uniti, edificante per il riarmo ‘morale’ della polizia) esprimeva la logica conclusione dialettica delle sue tesi, all’interno di un universo repressivo non tanto avveniristico da richiamare l’immaginazione oscura e ‘razionale’ dell’‘ordine nazista’»80. Riporta poi il caso dell’americano Il giustiziere della notte (1974) prodotto, però, dall’italiano Dino De Laurentis, che aveva dato seguito a un vero e

R. Alemanno, Itinerari della violenza, Dedalo, Bari 1982, p. 93. P. Billard in ibidem. 77 P. Billard in ibidem. 78 Ivi, p. 94. 79 Ivi, p. 95. 80 Ivi, p. 190. 75 76

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proprio sottogenere (cui anche Lenzi si accodò con L’uomo della strada fa giustizia, 1975) indicandone la pericolosità emulativa e per la tolleranza e la complicità della polizia, l’assassinio sarà così legalizzato in nome di una «civile» inciviltà che prevedeva il borghese trasformarsi con letizia e sollievo in agente dell’«ordine». La realtà quotidiana coincideva con l’universo poliziesco […]. E non è certo casuale che allora l’industria culturale, asse portante della massiccia involuzione a destra del cinema italiano, producesse (seguendo il buon esempio della produzione americana) su larga scala film che trattavano un tema comune e specifico come quello del rapporto tra politica, potere politico e società81.

Evocando la strategia della tensione che aveva insanguinato e annebbiato in una cappa di terrore il Paese, Alemanno individuava in quei film una precisa strategia, che replicava quella in atto nella società italiana e le sue coscienze: L’industria culturale confondeva e mistificava non solo il senso ideologico della violenza ma le sue stesse forme, in modo che all’interno del dominio economico capitalistico la violenza rivoluzionaria per la trasformazione del mondo potesse apparire simile alla violenza gratuita e repressiva della reazione. Larga parte della produzione cinematografica degli anni Settanta pretendeva giustificare la sua violenza «morale» come reazione a un’altra azione violenta e primaria che avrebbe avuto le sue radici nel corpo sociale del paese. […] Anche l’istituto della censura colpiva in modo generico, nel senso che, al di là dell’osceno presente nei generi cinematografici, confondeva e scambiava i valori delle opere e dei messaggi, e identificava la critica della violenza con la sua apologia, umiliando così nell’indistinto l’intelligenza degli autori e la dialettica delle opere. […] Quasi che fosse nell’aria un vago presentimento che un «nuovo ordine» potesse instaurarsi nel paese, i film polizieschi, pur con delle variazioni, tendevano a offrire un’immagine realistica e accettabile, «positiva», dell’uomo d’ordine, del poliziotto82.

Anche Alemanno fa una sua genealogia del genere: Il fenomeno del cinefascismo nasceva non solo dalle ceneri dei Bond e dei Ringo, degli eroi cinesi di Hong Kong, dei «gialli» e dei western «all’italiana», del cinema spionistico o mafioso, di quello commissionato per la degradazione e mistificazione dei temi legati alla contestazione studentesca; 81 82

Ivi, p. 191. Ivi, pp. 198, 199, 202. 279 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

non nasceva soltanto dalla tradizione del cinema «basso», ma affondava le sue radici, profondamente, in quelle oscurità e ambiguità che era possibile cogliere in gran parte del cinema «di qualità» […]. Negli anni Settanta era possibile individuare, attraverso connotazioni strutturali sempre ricorrenti (che trovavamo sia nei film americani sia nei film italiani, francesi o inglesi, quasi subissero nel tempo una rigorosa pianificazione), le linee di una esasperata manipolazione ideologica di chiare istanze sociopolitiche: apologia dell’arbitrio dei singoli agenti, […] mentre l’istituzione della polizia era criticata soltanto per i suoi «limiti legali», per la sua «incapacità» e «tolleranza» liberale nel condurre a fondo la repressione sanguinosa 83.

Alemanno attacca aspramente anche quella che definisce la cecità della censura cinematografica italiana, incapace di distinguere, nell’«osceno presente dei generi cinematografici»84, film apologetici della violenza, da quelli che, invece, la mettevano in scena criticamente, per mostrarne l’orrore e l’abbruttimento, bollando indistintamente tutti con lo stesso divieto e trovando in questo passaggio uno dei temi cruciali del moralismo di molte società, critica cinematografica compresa (si ricordi che il decennio dei ’70 si era aperto con lo scandalo e le polemiche suscitate da Arancia meccanica, 1971, di Stanley Kubrick). Per la censura, i fenomeni culturali finivano per apparire sempre e soltanto come la causa e non l’effetto della corruzione e della crisi del sistema sociale, considerato sempre «sano» nella struttura e nella sostanza. Era in corso una vera e propria rimozione […]. La morte non «assurda» di Pasolini ne era forse l’immagine più allucinante. Si avvertiva quasi il terrore di supporre, per esempio, che la violenza immaginaria del cinema potesse essere l’immagine speculare di un’altra violenza, anche occulta, mai gratuita e fin troppo reale e quotidiana da produrre perfino assuefazione. Si cercavano nel cinema e nei mass media (che pure, non erano neutrali) le radici del male e della criminalità, mentre si isolava la violenza cinematografica in uno spazio e in un tempo immaginari, separati dalla realtà storica del sistema capitalistico85.

Cosa che, di certo, il poliziottesco non faceva. Un cortocircuito veramente difficile da decifrare con gli strumenti critici tradizionali dell’epoca. Ben più argomentata la difesa di quei film di genere poliziesco da parte dello stesso Lenzi: Ivi, pp. 202-203. Ivi, p. 199. 85 Ivi, pp. 199-200. 83 84

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La critica di quegli anni era eccessivamente manichea, scostante, politicizzata. E prese un abbaglio colossale bollandomi come fascista – io, che ero tutto l’opposto – soltanto perché alla fine di Roma a mano armata Maurizio Merli, che interpretava il commissario, sparava al Gobbo e lo uccideva. Ma tutto questo, se si esamina la storia del cinema, è sempre avvenuto. Ed io, prima che regista, sono stato un cinefilo. Guardiamo film come Bonnie and Clyde di Arthur Penn, Scarface di Howard Hawks o tutte le pellicole anni ’30 e ’40 della Warner dirette da registi del calibro di Raoul Walsh o Mervin Le Roy, e interpretate da attori come Bogart e Cagney. L’acme drammatico delle vicende narrate era sempre un conflitto a fuoco tra gangster e poliziotti, perché una regola fondamentale della drammaturgia cinematografica è la spettacolarizzazione dello scontro fra buono e cattivo. Questo tema attraversa tutti i generi cinematografici, dal western al noir al poliziesco. La critica di sinistra che era allora prevalente, come lo è del resto oggi, mi classificò come regista di estrema destra perché recepivo le inquietudini e le insicurezze crescenti della società italiana in quel contesto storico, ma che non implicavano una presa di posizione che non fosse quella coerente alle tematiche affrontate. Tutto questo comportò una ghettizzazione di certo cinema di genere, che dei registi salvò solo Damiani, per i suoi film tratti da Sciascia o Elio Petri. Mentre tutto il resto fu etichettato come «politicamente scorretto». Fu un grosso errore, come dimostra l’ampia rivalutazione che ne è stata fatta in tempi più recenti […]. C’era tanto bellissimo cinema, fatto con pochi mezzi ma con grande professionalità e indimenticabili colonne sonore. A distanza di trent’anni i nostri film vivono ancora una nuova giovinezza, costringendo molti storici a correggere certi giudizi troppo frettolosi, esageratamente legati a schemi politici vecchio stile86.

In effetti i giudizi critici, lentamente, nel tempo, sono cambiati. Dapprima timidamente, come dimostra un passaggio dalla Storia del cinema mondiale dell’Einaudi uscita nel 2000: La caratterizzazione ambientale e politica e lo schema ricorrente si riducono di norma a semplici espedienti narrativi per realizzazioni veloci, piene di stereotipi, iperboli e ironie; soprattutto, film si basano sulle scene di azione, ripetute ossessivamente e ritmate dalle suggestive colonne sonore di compositori […] già attivi negli ultimi spaghetti-western. […] I polizieschi degli anni settanta rappresentano dunque una testimonianza significativa del momento storico non tanto per quanto riguarda il quadro sociale e culturale ma per quanto rappresentano, come il cinema erotico del periodo, 86

U. Lenzi in C. Uva, M. Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano cit., pp. 224-225. 281 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un evidente segno del cedimento ormai prossimo del contesto produttivo cinematografico nazionale; dove al progressivo restringersi degli spazi di contatto con il pubblico, e al ritorno dello strapotere hollywoodiano sul mercato, corrisponde una rincorsa affannosa agli incassi facili che possono giungere dall’applicazione, ripetuta fino allo sfinimento, di ogni schema produttivo a costi contenuti che si dimostri redditizio87.

Poi c’è stato l’importante studio critico Destra e sinistra nel cinema italiano (2006) che ha lumeggiato aspetti ignorati o disprezzati di quel cinema di genere, il suo valore documentario, «testimoniale, che ha contribuito oggi a far rivalutare da certa critica di sinistra film allora snobbati proprio da quella ‘parte’ perché considerati tendenzialmente reazionari»88. Film la cui trama era costruita, appunto, dall’azione e che, anche per questo, apparivano superficiali: «Una grammatica filmica che, privilegiando un uso nervoso della macchina da presa (prodiga di zoom e panoramiche ‘a schiaffo’) e del montaggio (spesso molto serrato), è prevalentemente improntata a enfatizzare, anche grazie al ralenti, il dinamismo dell’azione a scapito di un approccio in profondità nel quale rientri una delineazione a tutto tondo dei personaggi»89. Il saggio cerca in particolare si smontare lo stigma fascista, di destra, che ha a lungo aleggiato come una maledizione critica contro questo cinema, proprio partendo dall’esempio di un film di Lenzi. Non va dimenticato che sul fronte criminale compaiono spesso e volentieri esemplari del mondo borghese, sovente giovani della «Roma bene», nei confronti dei quali l’azione di condanna e di punizione da parte del «commissario Merli» risulta non meno netta e risoluta. Il disprezzo che trapela, ad esempio, dall’atteggiamento del commissario Tanzi in Roma a amano armata (Umberto Lenzi, 1976) nei confronti del «pariolini» che, spinti da un odio classista, hanno violentato una ragazza appartatasi col suo fidanzato, condendo la loro azione con frasi tipo «proletario di merda!», è particolarmente rabbioso e diventa lo spunto per una più ampia critica verso i tanti annoiati giovani provenienti da famiglie agiate che in quegli anni, se non passano direttamente alla lotta armata (l’esempio di Valerio Fioravanti è emblematico), non si fanno certo troppi scrupoli a rapire, violentare e magari uccidere barbaramente ragazze rimorchiate in qualche periferia sottoproletaria con l’odiosa ostentazione di un’impunità che deriverebbe S. Della Casa, Cinema popolare italiano del dopoguerra cit., pp. 817-818. C. Uva, M. Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano cit., p. 64. 89 Ivi, p. 65. 87 88

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dalla classe sociale d’appartenenza (si veda la tragica vicenda del Circeo). In questo caso è proprio la presenza di una componente di rivalsa sociale a condire ideologicamente l’avversione del commissario Tanzi nei confronti di quei «pariolini» violenti e impuniti la cui presenza nell’immaginario dell’epoca è talmente codificata da andare a costituire, anche al cinema, una vera e propria tipologia di personaggi ricorrenti […]. Insomma, ancora una volta la commistione di ingredienti di destra e di sinistra rende il quadro più complesso di quanto possa apparire sulla carta, almeno quella dei giornali sui quali tanti critici dell’epoca bollarono le figure impersonate da Maurizio Merli, senza possibilità di appello, come fasciste. La stessa etichetta che, d’altronde, è stata affibbiata, più in generale, alla produzione di Umberto Lenzi, uno dei principali «registi-poliziotti» che, proprio con Maurizio Merli, ha lavorato in quattro film90.

Lo stesso regista, continuamente, sembrava costretto a smarcarsi, nelle sue interviste, da questo marchio d’infamia ideologico, scavando anche nella sua formazione letteraria per contestualizzare il lavoro d’ispirazione sui suoi personaggi e i giudizi della critica che li vedeva sotto la lente deformante del politically correct. E non si accorgeva che i miei protagonisti erano emarginati sociali, sottoproletari senza lavoro e senza possibilità di riscatto sociale: personaggi che non si differenziavano poi tanto da quelli descritti da Emile Zola e Pier Paolo Pasolini. Come il mio Gobbo, che sparava e inveiva contro i borghesi che deridevano la sua diversità. Registravo fedelmente la realtà, ma ero considerato fascista: io che sono uomo di sinistra, anarchico da sempre. Ridicolo. È come dire che se uno ha la febbre la colpa è del termometro. Ecco, noi eravamo il termometro che misurava la temperatura delle metropoli sconvolte da violenze, assassinii, attentati91.

L’orizzonte della violenza sembra accomunare tutti i personaggi di quei film, a prescindere dal ruolo o dalla classe sociale, in una specie d’iperbole spettacolare di quanto accadeva nella società italiana dell’epoca. Il saggio ne rileva anche l’eminente radice economica: È tuttavia fondamentale sottolineare come la «vita violenta» dei tanti nullatenenti che popolano le sue pellicole sia quella di «cani arrabbiati» che vedono nel dio denaro (non a caso la «divinità» alla quale Sergio Leone ha dedicato la sua famosa trilogia western iniziale) l’unica possibilità per

90 91

Ivi, pp. 79-80. Ivi, pp. 80-81. 283 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

attuare un miracoloso salto di qualità nella scala sociale. La molla che li spinge alla violenza è ben diversa, quindi, da quella che muove i figli di papà di Roma a mano armata, per i quali è più giusto parlare di natural born killers, ovvero individui che praticano la violenza senza una vera ragione, se non quella che muove da una noia esistenziale cui fa da sfondo la continua necessità di riaffermare la propria superiorità sociale. Quando in Milano odia: la polizia non può sparare il cattivissimo Giulio Sacchi (l’onnipresente Tomas Milian) rapisce la figlia di un ricco imprenditore e decide di giustiziarla, le sue parole rivolte a un compagno di crimine dilaniato dai sensi di colpa non costituiscono altro che la logica conseguenza della sua personale visione politica della società, dalla quale trasuda chiaramente l’atavica rabbia e il senso di rivalsa che il proletario crede di ottenere sulle classi ricche ricorrendo alla violenza cieca e irrazionale: secondo Sacchi, infatti, la vera vigliaccata non è far pagare il riscatto e quindi uccidere la donna, ma essere nati in una giungla «senza soldi e senza la possibilità di farli». Questa è l’esistenza maledetta del criminale di borgata cui porrà termine il commissario-giustiziere Grandi (Henry Silva), in un’azione più di «pulizia» che di polizia nell’epilogo di Milano odia: nella scena accusata da alcuni critici di seguire logiche revanchiste e di essere portatrice di valori fascisti, il poliziotto esegue la sua personale condanna a morte nei confronti dell’impunito delinquente che, non credendo in niente ma forse ancora confidando ingenuamente nell’istituzione rappresentata da Grandi, grida «commissario che fa? Si fermi, la polizia non può sparare», per poi cadere ucciso, guarda caso, proprio in un cumulo di immondizia o, alla romana, di «monnezza». È un finale ideologicamente ambiguo quello appena descritto perché il senso di liberazione che lo spettatore prova dopo aver seguito le avventure dello spregevole Sacchi è direttamente bilanciato dalla pietà sollevata dalle ultime, ingenue parole di un individuo che, nella migliore tradizione del gangster movie (da Scarface di Hawks a Carlito’s way di De Palma), non è altro che uno dei tanti predestinati candidati a morte violenta e precoce92.

A differenza di tanti prototipi americani del passato, però, non c’è mai una vena romantica in questi fuorilegge, saranno magari anche dei poveracci, ma cinicamente crudeli, spesso gratuitamente, fino all’eccesso. I riferimenti citati, da Lenzi e i suoi personaggi in scena, di pasoliniano hanno molto, ma non la pietà che poteva suscitare un Accattone, quanto il senso tristemente inquietante che emerge dalle denunce dell’ultimo Pasolini, profeticamente maledetto e condannato, di un proletariato, una piccola bor92

Ivi, pp. 81-83. 284 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ghesia e un sottoproletariato, orrendamente omologati dal consumismo e che si fanno violenti per riscattare la loro emarginazione. Una specie di cerchio che si chiude, tra Lenzi e Pasolini, da I ragazzi di Trastevere a Scritti corsari. Gli anni successivi, criticamente, sono poi stati caratterizzati da una continua e frenetica rivalutazione e riscoperta di quella serrata e frastagliata stagione del cinema popolare italiano: «È stata stupenda, ricca, piena di sorprese che possono essere oggi meglio apprezzate»93. Ma vediamo cosa diceva la critica al tempo di Lenzi, cominciando dal primo dei suoi polizieschi: Milano rovente (1973). Si passa per la consueta trafila di sparatorie, tradimenti, vendette, attentati, torture sullo sfondo di una Milano che stenta a prendere rilievo e consistenza ambientale. […] Un film tutto d’azione che concede poco spazio alla descrizione dei personaggi e all’indagine degli ambienti economici e sociali dove si colloca la vicenda. Prodigo di violenza quanto la moda impone, il racconto raggiunge soltanto a tratti una epidermica efficacia spettacolare94.

Meno stentato il giudizio del quotidiano per eccellenza della città citata nel titolo: Come capitale italiana del crimine e della malavita, Milano non avrebbe nulla da invidiare alla Chicago degli «anni ruggenti». Questa l’impressione che si trae dal film di Umberto Lenzi Milano rovente, interamente ambientato nel capoluogo lombardo nonché realizzato da una produzione milanese. […] Considerato come racconto di pura azione, e a patto che non si cerchino implicazioni di ordine sociale né approfondimenti psicologici, il film, serrato e incalzante nel ritmo, è un prodotto di consumo abbastanza decoroso. Il mestiere di Lenzi applica soltanto in superficie i suggerimenti del filone gangsteristico, ma almeno l’intreccio delle situazioni, benché complesso, risulta congegnato senza eccessive forzature. Anche gli scorci della metropoli milanese, selezionati con cura, conferiscono una certa dimensione alla storia di violenza. A moduli di maniera si attiene la recitazione 95.

Così, più di recente, Mereghetti: «Assai feroce e in anticipo sui tempi: non particolarmente raffinato, certo, malgrado qualche ambizione (Cangemi dovrebbe essere una specie di Rocco viscontiano adattato ai tempi nuoGli agenti Milian e Merli, in «TorinoSette», 24 settembre 2004, p. 31. s. c., Milano rovente, in «La Stampa», 24 giugno 1973. 95 l. a., Milano rovente, in «Corriere della sera», 10 giugno 1973. 93

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vi), ma Lenzi mostra un taglio e un piglio personali»96. Milano è di nuovo protagonista del titolo del film successivo ascrivibile al genere: Milano odia: la polizia non può sparare (1974), dove Lenzi porta un contributo di novità a un filone già codificato nel giro di un paio d’anni. Seguendo la lezione da lui ben assimilata del cinema di gangster classico americano (e fondendola con la nuova voga italiana, il cinismo alla Siegel e lo spaghetti western), Lenzi affianca alla canonica, ormai, figura del commissario di ferro oltre le regole, un magnetico e indimenticabile antagonista. Uno psicopatico del crimine, che assomma tradizione cinematografica e percezione dell’assurda brutalità della delinquenza dell’epoca, aprendo anche per il suo interprete Tomas Milian le porte del poliziesco, di cui sarà il più abile protagonista per le sue qualità d’attore. Certo il film all’epoca fu preso piuttosto male: Violenza a buon mercato e ideali di giustizia da «maggioranza silenziosa» sono ancora una volta gli elementi di questo ennesimo Ispettore Callaghan all’italiana, maturato all’ombra delle periferie milanesi. […] Farcito di dichiarazioni di principio sul classismo come causa prima della delinquenza, il film non nasconde moderate ambizioni sociologiche, e punta soprattutto a delineare una galleria di personaggi che paiono ritagliati dalle pagine più squallide della cronaca nera. Ma non sempre il verosimile corrisponde al vero: e le buone intenzioni finiscono col perdersi in un’orgia di sadismo gratuito e fastidioso, che ha il solo scopo di motivare il drastico finale 97. […] Poiché certe carenze legislative non consentono di fronteggiare come occorrerebbe certa delinquenza particolarmente feroce e resa folle dagli stupefacenti, è necessario che alla violenza belluina dei criminali si opponga un’altra violenza all’insegna del fine che giustifica i mezzi. […] Il film ha un’innegabile presa spettacolare, benché i ripetuti e compiaciuti eccessi crudeli gli tolgano credibilità: anche la truculenza insistita diventa occasione di risate, specie se affidata a un attore che «fa» il cattivissimo e il pazzoide recitando sempre sopra le righe 98.

Celeberrima una stroncatura di Morando Morandini al film e al suo protagonista: Continua la serie dei polizieschi all’italiana in linea con l’ideologia della destra reazionaria e con i gusti della maggioranza silenziosa. […] A parte la

P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 1447. R. P., Milano odia: la polizia non può sparare, in «Corriere della sera», 6 settembre 1974. 98 a. vald., Scelleratissimo, in «Stampa Sera», 30 agosto 1974. 96 97

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sistematica falsificazione dei dati di fatto e lo spaccio dei più laidi pregiudizi che ha in comune con altri film dello stesso filone, il discorso è condotto con i modi più viscerali della rappresentazione della violenza e con un impudente disinteresse per la logica e la verosimiglianza. Il tutto al servizio di Tomas Milian il cui gigionismo ormai non conosce confini. Esistono due categorie di cattivi attori: i colposi e i dolosi. Milian appartiene alla seconda99.

In anni più recenti, anche l’istituzionale Mereghetti sottolinea il cambio di passo della critica: «Ai tempi suscitarono esecrazione sia la violenza efferata sia la presunta filosofia revanchista, ma anche se – dato il regista – non è esclusa una punta di compiacimento, molta acqua è passata sotto i ponti […]. Un film di genere efficace, disturbante ma capace di parlare di un’epoca: è ora di deporre i pregiudizi»100. Del 1975 sono due titoli apparentemente simili e inquietanti nel loro enunciato. Il primo è L’uomo della strada fa giustizia, «una specie di edizione nostrana del Giustiziere della notte. Dice il suo protagonista Henry Silva: ‘È una storia bellissima, la più bella che abbia interpretato’. Poi confessa che, per lui, l’ultimo film è sempre il migliore»101. In realtà è proprio il protagonista l’anello più debole di una regia incalzante. «Lenzi filma la violenza con qualche compiacimento, senza però arretrare di fronte alle soluzioni più scomode e con un’abilità tecnica che ha poco da invidiare ai colleghi statunitensi dell’epoca»102. Il giustiziere sfida la città ha un paio di felici intuizioni. Prima di tutto il nome del protagonista, Rambo, anni prima del fortunato primo film con Sylvester Stallone, ispirandosi al romanzo del 1972 (1973 in Italia), poi un protagonista, Milian, che per maschera e modi anticipa il commissario Giraldi che verrà. A metà strada tra un poliziesco, un western e seguendo il filone della vendetta personale, il film fu, ovviamente, stroncato: Si chiama Rambo e non è un aperitivo. È un nuovo giustiziere […]. Di lui non si sa nulla, è una specie di cavaliere del West: arriva quando c’è bisogno di riparar dei torti […]. Ci vuole abilità anche a confezionare una serie infinita di luoghi comuni e di cose già viste e già dette mille volte: Umberto Lenzi con Il giustiziere sfida la città c’è riuscito. La più totale mancanza di M. Morandini, Milano odia: la polizia non può sparare, in «Il giorno», 7 settembre 1974. P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 1447. 101 Adele Ferrari, Il duro Henry Silva vuol farci morire ma dalle risate, in «Corriere della sera», 25 febbraio 1975. 102 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 2493. 99

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fantasia regna in questo prodotto, uguale a tanti altri di cui il mercato è inflazionato. A questo bivacco di banalità siedono i registi reduci dall’ondata di spaghetti-thrilling: infastidisce la assoluta mancanza di idee. Fra una pubblicità e l’altra Tomas Milian si dibatte nell’anticonformismo visivo: barba lunga e un rutto, per chi gradisce 103.

Nel 1976 altri tre polizieschi, diversamente importanti per tutto il filone. Nei primi due enuncia sin dal titolo l’ambientazione del film, che fece correre a frotte nei cinema a vederli chi in quelle città italiane ci abitava. La critica dell’epoca, ancora una volta, comunque non apprezza: «Un commissario dai modi sbrigativi ma buono. Buono come può essere l’eroe (positivo) di un western vecchia maniera. […] Questo ‘feuilleton’ poliziesco è un cocktail dai molti ingredienti: il turismo (Roma), l’amore (Maria Rosaria Omaggio e il commissario), i pugni, le sparatorie, i morti che non si contano. Mancando le idee, si gioca su un folle carosello di violenza, sui più frusti episodi di cronaca nera, per far finta di voler ‘dire’ cose serie»104. Nella recensione, curiosamente, iniziano a comparire anche i voti. Al regista 5-6, alla storia 4, alla musica 7 e ai singoli attori (Merli e Omaggio 6; Kennedy e Milian 7), giudizio complessivo: 5. In tempi più recenti, il film viene diversamente contestualizzato e valutato: Nel febbraio 1976, a soli sei mesi di distanza da Roma violenta, esce nelle sale Roma a mano armata. Che non riprende solo lo schema narrativo a mosaico del film di Girolami, ma anche il protagonista Maurizio Merli, il quale dà vita a un personaggio identico in tutto e per tutto a Betti. Il risultato è nettamente superiore al prototipo. Merito soprattutto di Umberto Lenzi, solido professionista attivo nel cinema popolare dei primi anni ’60 […] e che nel poliziesco sembra trovare terreno ideale per la propria cifra stilistica. […] Il copione di Dardano Sacchetti non inventa nulla, limitandosi a riproporre situazioni già viste che Lenzi mette in scena con robusto mestiere e non senza finezze registiche105. […] Un miliardo e seicento milioni di incasso all’epoca: un cinema elementare ma efficace, che sapeva mettere il dito sulla piaga e molto meno manicheista di quanto si credeva allora106.

Tassello importante fu anche la costruzione della figura del delinquente sottoproletario il Gobbo, spavaldamente e inventivamente interpretato da M. Po., Giustiziere stile «western», in «Corriere della sera», 5 settembre 1975. Omaggio alla P. S., in «Corriere della sera», 27 febbraio 1976. 105 R. Curti, Italia odia cit., pp. 125-127. 106 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 2006. 103 104

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Milian, con quella laida e pur simpatica vena triviale popolare che sarà il segno distintivo di Monnezza prima e di Nico Giraldi dopo. Nello stesso anno il commissario Tanzi di Roma a mano armata è trasferito a Napoli, dando origine a Napoli violenta. Il successo del film nella città partenopea fu tale che dovette realmente intervenire la polizia per disciplinare il pubblico che, in massa, voleva entrare nelle sale dove era proiettato. Così, però, la critica: Visto uno, visti tutti107. […] Dopo Milano e Roma, anche Napoli può fregiarsi del titolo di città violenta. Lo dobbiamo ai cinematografari da dozzina che, senza minimamente scomodarsi a mutare il logoro cliché dei «polizieschi all’italiana», si sono limitati a cambiare lo sfondo, a chiamare guappi e camorristi i malviventi di rito, a concludere sulla funicolare uno dei tanti inseguimenti di prammatica. Quanto al resto, siamo alle solite: c’è il commissario di polizia poco ortodosso che, nonostante gli ammonimenti del questore, combatte la mala a suon di calci in faccia e a colpi di pistola, e c’è il consueto guazzabuglio di azioni banditesche, di agguati e tranelli, di corse spericolate in auto e in motocicletta per vie affollate, di sparatorie e sadiche vendette con volti maciullati e sanguinolenti in primo piano. Se un giudizio si può dare soltanto confrontando questo prodotto con quelli che lo hanno preceduto sullo stesso schema, si deve rilevare che Napoli violenta, forse per consunzione della routine del regista Umberto Lenzi, risulta più che mai ingenuo, sbrigativo e spesso ridicolo nella ricerca dell’effetto a ogni costo. Dove, ciò che viene a mancare in tanto movimento sconsiderato, è proprio la tensione e la drammaticità, vale a dire un minimo d’interesse per i casi e i personaggi rappresentati. Si aggiunga il grigio e convenzionale livellamento di tutti gli interpreti, siano essi nazionali o d’importazione 108.

Appena lo sguardo critico si allontana, da quegli anni d’intasamento poliziottesco a diversi standard di giudizio, a rimanere nella mente è l’abilità tecnica del regista nelle scene d’azione: «Lenzi esaspera la violenza metropolitana ma possiede sicuramente il senso dell’azione: da antologia la sequenza della funicolare, con Merli appeso al tetto. […] Musiche formidabili di Franco Micalizzi»109. Per lo stesso Lenzi, Napoli violenta rimarrà una delle sue pietre di paragone a livello registico: «Quel film non ha nulla di inferiore ai grandi film americani dell’epoca. Però, c’è una differenza, loro giravano in tre mesi delle scene che io giravo in quattro giorni, perché erano tutti Vice, Napoli violenta, in «Il Lunedì», 25 agosto 1976. L. A., La violenza viaggia in funicolare, in «Corriere della sera», 25 agosto 1976. 109 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 1537. 107 108

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film con dei budget limitati. Eppure le ho girate dal vero quelle scene»110. Poi spiega con una semplicità disarmante come ha ripreso l’incredibile scena, per impatto, dell’inseguimento in moto: «Ho messo la macchina da presa legata al petto del ragazzo che guidava la moto, un campione italiano di motocross, e gli ho detto: ‘Parti, fatti tutti i vicoli, sfiora gli autobus, fai casino e poi ritorna’. Abbiamo dato motore, lui è partito e noi l’abbiamo visto di ritorno dopo un quarto d’ora. […] Poi abbiamo girato le scene dell’impatto con le macchine, i caratteri drammatici della fuga, dell’inseguimento»111. Ciliegina sulla torta di quell’anno, Il trucido e lo sbirro («film cardine del poliziesco italiano»112), in cui compare per la prima volta la figura di Monnezza, già modellato da Milian in altri film/personaggi di Lenzi e che porterà la violenza realistica del poliziesco verso un genere contaminato dalla commedia. Sul personaggio si sprecano oggi illustri paragoni: «Se Alberto Sordi è stato l’italiano medio, il piccolo borghese travolto e abbacinato dal boom, il cubano trapiantato a Roma Milian è una versione irridente e commerciabile del sottoproletario celebrato da Pasolini: un Accattone felicemente ottuso»113. La critica dell’epoca ne recepì l’originalità all’interno della galleria dei personaggi che ricorrevano nel genere, senza, però, apprezzare: L’unica novità di questo poliziesco all’italiana — cioè violento e precipitoso — consiste nell’impiegare tra le file dei cosiddetti tutori dell’ordine un tipo che viene dallo schieramento opposto pur senz’essere un traditore. Questo tipo è Monnezza, dall’individualità definita e pittoresca […]. Il regista Umberto Lenzi dà l’impressione di essersi spossato per il superlavoro. Anche in Napoli violenta, che si proietta in contemporanea, ha già mostrato di non avere il polso per dirigere un buon film d’azione. Qui non lo aiuta davvero il protagonista Tomas Milian, che sembra unicamente divertirsi a portare un parruccone a riccioli neri e a infilare una serie di colorite imprecazioni114. […] Tutto il vessatorio panorama del poliziesco all’italiana, più un’oncia di folklorismo targato Tomas Milian, è aggrovigliato malamente, senza neppure il sospetto di una verosimiglianza narrativa […]. Monezzza è un po’ il filosofo del gruppo: sporco e con l’unghia nera, a significare che è un deviante estraneo alla civiltà dei consumi, egli è il re

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U. Lenzi in S. Iachetti, La paura cammina con i tacchi alti cit., p. 230. Ivi, pp. 230-231. 112 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 2418. 113 R. Curti, Italia odia cit., p. 182. 114 p. p., Il trucido e lo sbirro, in «La Stampa», 5 settembre 1976. 111

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della parolaccia, dà qualche lezioncina di morale, e strofeggia anche nei momenti meno opportuni. Interpretandolo, Tomas Milian a briglia sciolta e con un parruccone nero a riccioli, sembra faccia la caricatura di Anna Magnani. È l’unico ripensamento che il film propone. Per il resto si assiste alle solite fughe in macchina, alle scazzottate nei gabinetti pubblici, agli assassinii sadici, fino all’inevitabile morte del reo (Henry Silva, monumento all’inespressività). E pensare che un’idea, un’ideuzza c’era115.

Il successo del personaggio del delinquente parolacciaro e sottoproletario di Milian impone seguiti e, nel 1977, torna la formula con due film, Il cinico, l’infame e il violento e La banda del gobbo. Nel primo ancora in coabitazione con il commissario di ferro Merli, nel secondo protagonista assoluto sdoppiato: Gobbo e Monnezza. Nel Cinico, l’infame e il violento, la polizia, tra i due litiganti, guarda e conta i morti. Si tratterebbe di una normale lotta tra giovane e vecchia malavita se un ex commissario (Maurizio Merli), con vocazione alla violenza e scarsa inclinazione ai mezzi legali, non decidesse di strumentalizzare questo antagonismo ai fini della giustizia, aizzando i due contendenti. La conclusione è una ottimistica sparatoria «purificatrice» che lascia in piedi i buoni e distende i cattivi. Magari nella realtà fosse facile come al cinema combattere la criminalità sfruttando la formula del «giustiziere solitario» (che nel recente cinema nostrano tanta fortuna sta riscuotendo tra un pubblico angosciato da un banditismo quotidiano feroce e dilagante). Il regista Umberto Lenzi ha confezionato un medio prodotto con happy end gratificante. I modelli narrativi e figurativi derivano dal cinema statunitense: grattacieli, metropolitana, supermercati e architetture di avanguardia tentano di cancellare l’immagine tradizionale di Roma, creando uno sfondo americanizzante agli inseguimenti. Ma il meccanismo della vicenda è vecchiotto e prevedibile: manca la suspense e lo spettacolo non ha né il sale né il pepe adeguati. Se per film d’azione si intende una storia dove tutti si agitano, sparano, fanno a pugni e corrono in auto, allora anche questo è un film d’azione 116. […] Malgrado la banalità della sceneggiatura, il film di Umberto Lenzi è diretto con una certa abilità. La pellicola, mescolando generi diversi, assume tonalità ora nere ora rosa e strizza con astuzia l’occhio alla platea propinandole tutti gli stereotipi della più facile letteratura tascabile poliziesco-gangsteristica. Il film, infatti, si vede proprio come si legge un brutto, ma avvincente romanzaccio giallo. Il «merito» di Lenzi consiste nell’aver immerso questa avventura qualunquista in un bagno di insanguinata ironia. Tra le cattive battute e le gratuite 115 116

M. Po., Mala romana, in «Corriere della sera», 29 agosto 1976. s. c., Il cinico, l’infame e il violento in «La Stampa», 13 aprile 1977. 291 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

volgarità, infatti, scoppietta qualche scintilla di «humour» 117.

Un passaggio ancora più netto si ha con La banda del gobbo: «Dopo Roma a mano armata ritorna uno dei personaggi più laidi e interessanti del poliziesco all’italiana: il Gobbo […]. Milian, con estro trasformistico, ripropone un’altra icona dell’‘orgoglio coatto’, il Monnezza di Il trucido e lo sbirro e La banda del trucido. Molta violenza e turpiloquio: non un capolavoro, ma uno dei film-chiave del genere»118. È lo stesso Lenzi a spiegare la genesi del personaggio protagonista, che entrerà indelebilmente nell’immaginario popolare: Il Gobbo potrebbe essere un personaggio di Pasolini, perché è un emarginato, un diverso, un sottoproletario di borgata. E se in Roma a mano armata appare sostanzialmente un duro, un criminale cinico, nella Banda del gobbo evidenzierà che il DNA della sua violenza è la diversità. Il personaggio oltretutto ha delle ascendenze reali, perché io ho conosciuto un macellaio gobbo, quando ero ragazzo a Massa Marittima, che ha lasciato una traccia indelebile nel mio immaginario. Era un uomo sarcastico, trasgressivo, dotato di una forte carica dissacratoria con cui si difendeva dalla società oppressiva dell’epoca, riuscendo a superare l’emarginazione dovuta alla sua duplice diversità, poiché era anche omosessuale. Sa che fine ha fatto questo gobbo? Da Massa Marittima si trasferì a Roma e nessuno seppe più niente di lui. Fino a che, nel 1950, non lo rividi sullo schermo: faceva la comparsa nel film Cagliostro di Gregory Ratoff, al fianco di Orson Welles 119.

A decretare il successo di queste due maschere di delinquenza sottoproletaria è, ovviamente, la folgorante interpretazione di Milian, che così ricorda la costruzione del personaggio (meriti da dividere tra lui, il regista, Sacchetti e, non ultimo, il pirotecnico e fondamentale doppiaggio di Ferruccio Amendola): Fui proprio io a voler caricare «Monnezza» di volgarità, a volerlo rendere turpiloquiante. La mia operazione cominciò con La banda del gobbo di Lenzi. In sceneggiatura questo gobbo proletario parlava come può parlare un fiorentino che racconta un personaggio romano. E mi suonava stonato. Così cominciai a riscrivere i miei dialoghi, e dato che in realtà non c’era sostanza nel personaggio perché era tutto basato sull’effetto ho cercato di dargli una coscienza sociale, quella che ho assimilato frequentando tanti sottoproletari e G. Gs., Pistole, sangue ma anche ironia, in «Corriere della sera», 13 febbraio 1977. P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 254. 119 U. Lenzi in C. Uva, M. Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano cit., pp. 226-227. 117 118

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attraverso gli stenti vissuti in America quando tentavo di fare l’attore. Però per fare bene la vittima, il disgraziato, dovevo parlare come parlavano davvero queste persone, e allora, cambiando i dialoghi, giustificando sempre le cattiverie del mio personaggio (come faccio invariabilmente, perché nessuno nasce cattivo: è la società a renderlo tale), vivendolo in prima persona […]. Un giorno mi azzardai a scrivere una battuta con una parolaccia in modo che facesse rima. Era la scena in cui il gobbo andava a fare benzina. […] Girammo in quel modo e quando il benzinaio gli chiedeva il saldo invece di darglielo il gobbo domandava: «Come ti chiami tu?». Quello rispondeva: «La Pira Galeazzo», e lui: «’A La Pira Galeazzo, non c’ho ‘na lira e t’attacchi ar…». Lenzi sosteneva che ero pazzo, che si trattava di una volgarità terrificante. Lo pregai di lasciarla come era e quando andai alla prima a quella scena nella sala ci fu un urlo, un boato di ilarità. All’uscita, tutti di questa platea popolare che mi facevano: «A Tomasse, anvedi che forza, li moorti…!120

Oggi non mancano attente analisi su questa figura: «Al di là degli eccessi del personaggio, la scorrettezza politica del Gobbo è sintomo di un male di vivere che corrode il sottoproletariato, e che Lenzi e Milian riescono a cogliere»121. Attenzioni e apprezzamenti evidentemente non riservati all’epoca dell’uscita del film: Umberto Lenzi, regista da catena di montaggio e Tomas Milian, cubano senza l’impegno, sono innamorati del personaggio di Monnezza, che ha animato e salvato un «serial» poliziesco. Poiché però questo delinquente solitario e castigamatti — che magari si trova alleato con la polizia e parla senza peli sulla lingua — sembra esaurito, ecco la grande idea. Lasciare in vita Monnezza, ridurlo al rango di operaio velleitario e dargli un fratello gemello e deforme che consente all’attore l’exploit delle due parti e non scontenta il pubblico abituale. Di Lenzi il soggetto melodrammatico, di Milian i dialoghi rusticani. Non c’è fantasia ne La banda del gobbo. Forse però chi caccia 2 mila lire per vederlo non chiede nemmeno tanto 122. […] Questo gobbo, alla cui banda s’intitola il film scritto e diretto con rozzo ma non insufficiente mestiere, è in realtà il protagonista e Milian ne ha fatto, come aspetto fisico, una specie di mostro per il quale una prostituta di cuor sensibile che forse ha letto Notre Dame de Paris, prova la tenerezza di Esmeralda per Quasimodo. «Monnezza» invece è relegato stavolta ai margini, quasi una complementare macchietta, inserita nel film per mostrare T. Milian in F. Faldini, G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi cit., p. 461. R. Curti, Italia odia cit., p. 126. 122 p. per., La banda del gobbo, in «Stampa Sera», 7 settembre 1977. 120 121

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la capacità dell’attore principale a interpretare due ruoli123.

Insomma, il film e l’idea vengono visti come una bieca operazione cinematografico/commerciale senza valore: Se è tanto simpatico e popolare questo Tomas Milian nelle sue macchiette di banditello romanesco, sempre pronto a beffarsi della polizia e ad esprimersi con squallido linguaggio da trivio, perché non servirlo doppio all’inclito pubblico di periferia? Ed ecco la «brillante idea» del regista Umberto Lenzi, responsabile anche del soggetto e della sceneggiatura, di propinarci con un solo film e col medesimo attore due versioni analoghe del nostro bulletto di quartiere. […] Inutile aggiungere che tutto si svolge in assoluto difetto d’immaginazione, fra sbirri che si agitano a vuoto, sfoggi di violenza, inseguimenti d’auto, e l’immancabile prostituta dal cuore d’oro 124.

Sul finire del decennio, proprio nel 1979, è l’ultimo dei film di Lenzi ascrivibile a quel filone poliziesco italiano che tanta fortuna aveva avuto, ma che sembrava già bruciato nel giro di pochi anni in un numero impressionante di pellicole. In Da Corleone a Brooklyn, l’atmosfera ha un che di crepuscolare e, ancora una volta, Lenzi cerca una qualche contaminazione di genere, scegliendo come coprotagonista, oltre al solito commissario di ferro Merli, il re della sceneggiata napoletana: Mario Merola. All’epoca il film non fu certamente apprezzato: L’idea di accostare l’eroe di un genere strappacuore con lo stereotipo del poliziesco all’italiana non era male, la commistione poteva essere divertente e un po’ bizzarra. Umberto Lenzi (che fa parte dei registi «prolifici» come si diceva una volta, giacché sforna un film a settimana) ha fatto però, a nostro avviso, un errore di logica e di distribuzione distanziando nella vicenda i due protagonisti e facendoli incontrare soltanto nel finale. […] Il film tutto azione si snoda attraverso una regia e una sceneggiatura molto banali e spesso maldestra, soprattutto quando nella storia s’infila l’eroica ex moglie del poliziotto o quando il regista vorrebbe tracciare la sociologia spicciola del teppismo americano. […] Così com’è il film cuoce lento nei luoghi comuni, mentre i personaggi, che non fanno che inseguirsi, hanno scarse motivazioni psicologiche. […] Il fatto più curioso risulta essere, alla fine, il fatto che la pellicola è stata prodotta da una donna, Sandra Infascelli 125.

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a. v., La banda del gobbo, in «La Stampa» 4 settembre 1977. L. A., Banditi gobbi e gemelli, in «Corriere della sera», 10 settembre 1977. 125 M. Po., Sguardo mafioso… dal ponte, in «Corriere della sera», 15 aprile 1979. 124

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Oggi il film è uno dei più apprezzati polizieschi italiani: «Un’originale e movimentata struttura di road movie (ancorché non sempre verosimile) porta aria fresca nel poliziesco italiano; e la sceneggiatura di Lenzi e Vincenzo Mannino si sforza di costruire personaggi a tutto tondo, siano mafiosi o poliziotti. Cinema di genere da apprezzare senza sensi di colpa o alibi trashisti, e che rinuncia anche alla violenza»126. Acuta anche l’analisi a posteriori di Curti sul divenire, Da Corleone a Brooklyn, uno dei film di passaggio di consegne all’interno del genere: Celebrando inconsapevolmente la dipartita del poliziesco all’italiana, da Corleone a Brooklyn ne prefigura l’ulteriore cambiamento di pelle: negli anni ’80 si andrà a girare in America, un’America da telefilm di serie C popolata da poliziotti lampadati e dalla mascella a parallelepipedo, con nomi da pornodivi e ceffi da stuntmen di terza categoria. Mentre la New York dei film di Lenzi è ancora un’appendice delle città violente peninsulari: gli sbirri americani e italiani parlano la stessa lingua, tutti capiscono tutti e le bande di delinquenti da strada hanno le stesse ghigne dei mariuoli trasteverini, che a loro volta facevano il verso ai teppistelli delle mean streets nuovayorchesi. Inoltre, le stanze d’hotel nei sobborghi della Grande Mela non sono tanto diverse da quelle dei motel sull’Autostrada del Sole127.

Alla fine del decennio, si cominciano a fare i conti con il genere, conti nel senso di incassi: Il poliziesco «all’italiana» è il genere cinematografico che ha dato maggiori soddisfazioni economiche ai produttori di film «medi», cioè di film di costo limitato indirizzati soprattutto a certe fasce di pubblico molto semplice nei gusti e nelle tendenze. Un pubblico che ha mostrato di gradire, quasi in eguale misura, anche la «commedia», meglio se erotica. […] Il regista campione di incassi di questo genere è Umberto Lenzi […]. Suo è anche il record dei film miliardari: sette, tutti polizieschi «all’italiana» laddove questa aggettivazione sta a significare che l’intrigo cede largamente il passo alla violenza128.

Il «Giornale dello spettacolo» aveva calcolato che, in soli quattro anni, dal 1974 al 1977, periodo apice del poliziottesco, questo cinema «medio» aveva incassato, solo in Italia, quasi 132 miliardi.

P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 605. R. Curti, Italia odia cit., pp. 335-336. 128 Ecco quanto incassa il cinema quando spara, in «Corriere della sera», 19 agosto 1979. 126 127

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IL CINEMA DI GUERRA Che il cinema di guerra fosse il genere preferito da Lenzi lo si può evincere da due elementi. Il primo, il più diretto e verificabile, è costituito dalle sue dichiarazioni e dal fatto che, da questi film, si aspettasse un riscontro (e, diciamolo, una gloria, un riconoscimento) che non ha, poi, mai ricevuto. Sono, anche, i suoi film con più alto budget e una platea di attori, soprattutto americani, di grido (ma star hollywoodiane già in declino). Il secondo elemento è dato dalla costante del genere all’interno della sua filmografia: i film di guerra, infatti, non si concentrano, come tutti gli altri generi che ha affrontato, con molti film di seguito in pochi anni, ma punteggiano tutta la sua filmografia. Il primo in ordine di tempo è Attentato ai tre grandi del 1967. Consuete sono state le riserve destinate a un regista così poligrafo, nonostante la maggior nobiltà del genere del film di guerra, i temi trattati, il cast di attori (pur sul viale del tramonto). Per questi stessi motivi, sono stati poi anche i meno rivalutati, rispetto ai gialli e ai poliziotteschi, in anni più recenti. Attentato ai tre grandi è non solo diretto, ma anche scritto da Lenzi: «La vicenda non ha pretese né storiche, né ‘fantapolitiche’: si limita a predisporre e concatenare dei fatti messi insieme con un certo senso del romanzesco, inserendo fra le pieghe elementi obbligati, dallo spionaggio all’amore […]. L’interpretazione è corretta, il cinemascope a colori di effetto129. […] Volenterosi interpreti alle prese con una sceneggiatura sbilenca e avara di situazioni genuinamente drammatiche»130. Del 1969 è La legione dei dannati: «È una delle diverse imitazioni, su scala ridotta, della idea centrale sulla quale si era basato il film americano Quella sporca dozzina. […] Avventure grossolane, dialoghi sbrigativi»131. Altre recensioni legano i vari generi in voga in Italia in quel momento: «In via di esaurimento il filone western, le produzioni italo-spagnole si vanno orientando verso quel genere bellico inaugurato dall’americano Quella sporca dozzina. […] La pellicola, considerata come mera vicenda di evasione, non è priva di un certo ritmo»132. Di certo, a nessuno sfuggiva la derivazione da quel film americano, che dette origine a un vero e proprio sottofilone del

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Vice, Attentato ai tre grandi, in «La Stampa», 8 settembre 1967. Attentato ai tre grandi, in «Corriere della sera», 18 novembre 1967. 131 V., La legione dei dannati, in «Corriere della sera», 12 settembre 1969. 132 V., La legione dei dannati, in «Corriere d’Informazione», 13 settembre 1969. 130

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cinema bellico. La legione dei dannati può essere un ulteriore esempio della filiazione dei modelli, come per il western o il poliziesco: per tutti questi, l’ispirazione era evidentemente americana, ma fu talmente abilmente e inventivamente reinterpretata dai registi italiani di quegli anni, da divenire successivamente il modello per il più originale e, a sua volta, per altri punto di riferimento, regista americano, Quentin Tarantino. La legione dei dannati fu, infatti, il prototipo italiano di Quel maledetto treno blindato (1978) di Enzo Castellari, omaggiato, sin dal titolo (quello americano era Inglorious Bastards), da Tarantino in Bastardi senza gloria (2009). Che Il grande attacco (1978) fosse il film più ambizioso di Lenzi, quello su cui più contava per la sua fama di regista, è lui stesso a dirlo, nelle ultime interviste, così come nelle dichiarazioni che rilasciò all’epoca: «Il grande attacco è la cosa più importante che abbia fatto finora. Quella a cui tengo di più»133. La pellicola, vuoi per il grande cast, vuoi per il tema, aveva creato una serie di aspettative alla vigilia dell’uscita, condite da un certo scetticismo proprio intorno al nome del regista: Pare sia costato due miliardi, viene illustrato dagli autori come «Il kolossal bellico italiano». […] Il film, che approfitta dell’attuale momento favorevole alle pellicole guerresche, ha richiesto oltre sette mesi di preparazione. «Dalle divise al taglio dei capelli di protagonisti e comparse – spiega il regista Lenzi – ogni dettaglio è stato curato con grande scrupolo. Oltre a un generale e un colonnello dell’esercito americano, i particolari tecnici sono stati controllati da Huston, che fu corrispondente di guerra durante l’ultimo conflitto mondiale». […] 45 anni dichiarati, 40 film sulle spalle, Lenzi afferma di aver voluto mostrare attraverso questo film le atrocità della guerra 134.

Le recensioni furono, però, abbastanza impietose: Film di guerra per schermo gigante a colori, costato (dice il suo distributore) un miliardo e mezzo e fornito di un cast internazionale ricco di altisonanti nomi hollywoodiani, così da farlo scambiare, agli spettatori che danno un’occhiata distratta alle locandine, per un prodotto fabbricato oltre Oceano. […] Da come è condotto, dal modo usato nel prospettare le battaglie, è evidente che nel film non si sono voluti sfruttare i riferimenti storici e si è badato soprattutto a fare il grosso spettacolo, con grande sfoggio di spari, di bombardamenti, di postazioni che saltano con immane fragore tra il divampare di incendi e il sacrificio di giovani eroi. Nella prima metà la

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U. Lenzi in John Huston interpreta se stesso, in «Corriere della sera», 18 gennaio 1978. Ibidem. 297 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vicenda è più sbriciolata, si salta da un fronte all’altro con piglio cronistico da cinegiornale di guerra; […] poi, per variare un po’ le scene belliche con altre meno sanguinose, ecco venir fuori Edwige Fenech prostituta del tempo di guerra. La tradizione e l’onore militare sono affidati a Henry Fonda […]. Tutto però è di maniera, basato su collaudati stereotipi, con personaggi tutti psicologicamente poco consistenti o artificiosi; e non è certo confortante, per chi da tanti anni lo ammira, vedere un John Huston nei panni d’un War corrispondent ridotto a una macchietta135. […] Tutto è assurdo e confuso in questo polpettone che intreccia su fatti e battaglie reali i destini di personaggi che sembrano usciti da un grottesco fumetto. […] Il film sembra quasi essere stato diretto da più mani e solo in seguito essere stato montato ad incastri […]. L’unico a firmare la regia è, comunque, Umberto Lenzi, approdato dalle «città violente» e dai trucidi e sbirri al fronte tunisino. Con un John Huston corrispondente di guerra spalleggiato dai più noti caratteristi di Cinecittà e una Edwige Fenech che seduce Helmut Berger, vengono travolti nella catastrofe attori come Henry Fonda e Stacey Keach 136.

Gli anni non hanno del tutto corretto il tiro critico: «Megaproduzione internazionale con grande spreco di glorie in pensione […]: la sceneggiatura è piuttosto artificiosa, ma i vari personaggi sono raccontati con passione e imparzialità»137. L’ultimo film di guerra «classico» girato dal regista è Contro quattro bandiere (1979), ancora con un gran bel cast internazionale. La ricezione critica è, però, ancora una volta, negativa: Difficile tenere il conto dei film che propongono appuntamenti mancati o rinviati a causa della guerra. Comunque, bisogna aggiungere alla lista anche Contro quattro bandiere, coproduzione italo-franco-spagnola che ricalca il logoro spunto narrativo in forma grossolana e sbrigativa. […] Il regista Umberto Lenzi, autore anche del soggetto, ha preteso concentrare, sulla base delle vicende intersecate dei sei personaggi, cinque anni di guerra sul fronte occidentale, dalla disfatta di Dunkerque alla rivalsa di Caen. Dove tutto si riduce a sommarie e confuse azioni belliche, resistenziali e di sabotaggio, ricalcate sui più ritriti luoghi comuni del genere. Un pugno di attori di buon nome partecipa all’impresa senza convinzione. Soprattutto George Hamilton e George Peppard gonfiano enfaticamente i rispettivi personaggi quasi

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a. v., Guerra all'italiana con Fonda e Huston, in «La Stampa», 8 febbraio 1978. G. Gs., La guerra a fumetti, in «Corriere della sera», 12 febbraio 1978. 137 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 1050. 136

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volessero farne una parodia138.

CANNIBALI E ZOMBI Agli inizi degli anni ’80, l’onda lunga produttiva e di pubblico, che nelle sale aveva sostenuto un numero incredibile (se paragonato ai giorni nostri) di pellicole di generi vari, stava improvvisamente estinguendosi. Estremizzando certe idee tematiche e visive, si diffuse un’altra breve stagione di film che mescolavano tutti i precedenti ingredienti in un crogiolo che fece letteralmente inorridire la critica dell’epoca e che si specializzò in corpi squartati, sangue, nudi e violenze che apparvero deliranti, ma che trovarono cultori in giro per il mondo, tanto da far rivalutare quei registi come geni del visivo, partendo, ancora una volta, da Quentin Tarantino e tutta la sua corte di epigoni. Se, probabilmente, fu l’americano George Romero a dare il via a un nuovo tipo di horror, poi esaltato in Italia da Lucio Fulci, del tutto nostrana fu la nascita del film cannibalico, che vede proprio in Lenzi il suo progenitore con Il paese del sesso selvaggio (1972). Una specie di archeologia del genere, che troverà alla fine del decennio un impensabile sviluppo e successo, costringendo lo stesso Lenzi, controvoglia, a rimisurarsi con quelle tematiche. Questa prima prova lenziana è ovviamente guardata con sospetto, ma gli si riconoscono comunque alcune buone intenzioni. Vizi, schiavi e sgozzamenti. […] È difficile negare che il soggetto sia ispirato a Un uomo chiamato cavallo e che il Richard Harris di quell’ottima produzione americana sia di troppo superiore all’aitante Ivan Rassimov di oggi. Il regista Lenzi ha visto con interesse il profondo Siam e ne ha documentate alcune usanze. […] Il paese del sesso selvaggio non è dunque un pasticcio sexy ma un modesto tentativo di fondere l’etnologia con l’avventura 139. […] Il paese del titolo è una fitta boscaglia tra la Thailandia e la Birmania dove tutto è selvaggio, non solo il sesso. […] Il regista Lenzi, che indubbiamente è stato colpito dal contatto con queste popolazioni in un paesaggio impressionante, copia due ottimi film del genere: gli americani Un uomo chiamato cavallo di Silverstein e Uomo bianco, va’ con il tuo Dio di Sarafian. […] Ha una sua presa formale; l’apologo si conclude anche abbastanza severamente con la

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L. A., La guerra guastafeste, in «Corriere della sera», 10 aprile 1979. Il paese del sesso selvaggio, in «Stampa Sera», 19 agosto 1972. 299 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

condanna del nostro tipo di civiltà quando il protagonista si nasconde agli occhi dei militari che vengono a «salvarlo» nella giungla. Ma il regista ha ceduto alle più facili tentazioni del folclore e dell’erotismo 140. […] Il paese del sesso selvaggio mescola avventure dai motivi rifritti con un po’ di etnologia di raccatto (molti sgozzamenti di animali e qualche amplesso all’identica maniera occidentale. […] Fra gli interpreti del rozzo pasticcio, la thailandese Me Me Lay è quasi bravina»141.

In anni più recenti, così Mereghetti: «Debole apologo ecologista, fonde gli spunti di Un uomo chiamato cavallo con il documentarismo un po’ bieco dei mondo-movie (animali macellati, strani riti erotici, orrori gastronomici). Ed è di fatto all’origine del genere cannibalico italiano, anche se in confronto agli epigoni sembra un film per ragazzi. La regia di Lenzi è sbrigativa e funzionale»142. Se quasi stupiscono l’attenzione e le recensioni, tutto sommato non così tremende per il film, è proprio per lo spirito curioso e un po’ terzomondista di questo primo esempio del genere. Il credito finirà e le recensioni saranno orripilate quando, all’inizio degli anni ’80, Lenzi dirigerà altri due film con minore ispirazione, ma abbondanza di crudeltà visive che disgusteranno i critici dell’epoca ed esalteranno orde di spettatori, soprattutto all’estero e nei decenni successivi. Del 1980 è Mangiati vivi!: «Non occorre molta fantasia per imbastire un pasticcio truculento come Mangiati vivi!, scritto e diretto dal tuttofare Umberto Lenzi. Basta trarre spunto dallo sconvolgente fatto di cronaca relativo alla fanatica setta pseudo religiosa, che nella Guyana si autodistrusse con un suicidio collettivo e innestarvi in qualche modo quelle scene di bassa macelleria sul corpo umano, con relativa antropofagia avviate a diventare complemento della pornografia nel cinema italiano di infima serie. […] Tutto è rappresentato con desolante, e spesso ridicolo, pressappochismo. Con una regia tanto arrangiata e interpreti tanto spaesati cade nel vuoto anche la pretesa del sensazionalismo ad ogni costo»143. Mereghetti ne sottolinea i «grandi momenti trash: ma tra gli efferati esempi annoverati dal genere, il film è di quelli che più suscitano risate dissacratorie»144.

p. p., Il paese del sesso selvaggio, in «La Stampa», 20 agosto 1972. l. a., Il paese del sesso selvaggio, in «Corriere della sera», 18 agosto 1972. 142 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 1681. 143 L. A., Bassa macelleria con suicidio di gruppo, in «Corriere della sera», 28 luglio 1980. 144 P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 1369. 140 141

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Cannibal Ferox (1981) è, invece, decisamente più estremo: Chi ha soldi da buttare e stomaco per sopportare assisterà a squartamenti, sevizie, atrocità. Se si preferisce un cambiamento nella struttura fisica ordinaria, il film esaudisce ogni curiosità: mutilazioni e agonie si susseguono senza posa. Sarebbe scorretto invocare contro Cannibal Ferox una qualsiasi forma di censura. Siamo certi che la censura del buon gusto terrà lontani da questa roba gli spettatori di sana costituzione 145. […] Sashimi di cervello umano fresco, donne appese per i seni, castrazioni: la riduzione del corpo umano a cosa è ancora più estrema che in Cannibal Holocaust. La cornice, comunque, è di una banalità sconfortante. Cult internazionale underground146.

Cult che ha sorpreso lo stesso Lenzi: «È venuto fuori un banalissimo film sui cannibali che, però, ha avuto un successo così eclatante in tutto il mondo che, ancora oggi, mi domando com’è possibile che a New York in un cinema sulla 42esima strada in piena Broadway per vederlo c’era una fila di spettatori di più di duecento metri»147. Per anni, pare il regista non abbia voluto parlare di questo film, «perché a un autore come me che ha fatto Il grande attacco e Milano odia, spiace essere ricordato per un film che al di là di tutto è secondario nella mia filmografia. […] Io mi aspettavo che Attentato ai tre grandi mi portasse chissà quale successo e invece è un film che non ha visto nessuno, mentre continuano ad arrivarmi lettere di complimenti per Cannibal Ferox. Questo un po’ mi rode»148. Come andassero le cose all’epoca, ce lo spiega l’attore protagonista della pellicola (e di molte altre di genere) Lombardo Radice: «Produttori che si scrivono la sceneggiatura da sé, e che sono spesso piccoli sadici frustrati sessuali, che s’inventano cose indescrivibili. […] C’è ancora un po’ di senso del limite, nei registi. Sono mestieranti, ma con una loro idea del mestiere. Oggi fanno i cannibali perché gli chiedono questo, come ieri facevano gli antichi romani o i western»149. Dell’anno prima era stato un altro classico B-movie apocalittico ultimamente elevato al rango di cult: Incubo sulla città contaminata. Coproduzione italo-spagnola diretta dal «tuttofare» Umberto Lenzi, un 145

p. per., Da non vedere, in «Stampa Sera», 24 giugno 1981. P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 386. 147 U. Lenzi in Manlio Gomarasca, Intervista a Umberto Lenzi, in www.nocturno.it, 28 luglio 2015. 148 Ibidem. 149 G. Lombardo Radice in F. Faldini, G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi cit., p. 474. 146

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regista già esperto in carneficine da spaghetti western e poi sempre più propenso a gettarsi sul filone del momento dall’incasso facile, soprattutto il poliziesco e l’antropofago con ambizioni sociologiche. Incubo sulla città contaminata scopiazza pedestremente film di grande successo come La notte dei morti viventi di Romero e Sindrome cinese di James Bridges. Gli spunti originali, tramutati in una catena di luoghi comuni e sequenze già viste, costituiscono l’ossatura di uno sbrindellato copione, che strizza l’occhio all’horror condito da effettacci […]. Dopo smembramenti, massacri conditi da sadismo e banchetti assatanati, il finale propone un’ambigua soluzione […]. Tra gli attori si distinguono, in faticose caratterizzazioni, […] tre professionisti prestati a un cinema privo di gusto e fantasia150.

Il film ha poi scatenato gli entusiasmi del solito Tarantino, che ha dichiarato di preferirlo all’originale di Romero.

GLI ULTIMI FILM Come si intuisce anche dalla filmografia di Lenzi, gli anni ’80 sono stati difficilissimi per tutti i registi di genere, scalzati, nel primato dell’intrattenimento popolare, dalla televisione. Il salvagente per molti fu la commedia, genere in cui finì per cimentarsi, brevemente, anche il regista, probabilmente senza troppa convinzione. Dei tre titoli ascrivibili al genere, probabilmente l’unico ad avere un po’ di attenzione è il primo, Scusi, lei è normale? (1979): Di sicuro Umberto Lenzi (transfuga dal thriller all’italiana), si è ricordato di A qualcuno piace caldo e del Vizietto […]. Scusi, lei è normale? non si avvicina né al capolavoro di Billy Wilder né alla tempista comicità del film con Tognazzi e Serrault, è solo un malconcio tentativo di far satira con le armi della farsa. Dove non è risaputo il film è stupido, dove non è stupido è risaputo. Soprattutto non c’è un briciolo di invenzione «scritta»: la storia, dopo l’avvio, va completamente a ruota libera. Ray Lovelock è in assoluto il più incredibile «gay» mai apparso sullo schermo; Montagnani, che è un eccellente attore, è più sciupato del solito; Annamaria Rizzoli fa sfoggio della beltà che redime. E, fra Roma e Spoleto, un’Italia che non esiste (fortunatamente), a galla in un mare di qualunquismo, reazionario e di

150

G. Gs., Pure gli «zombies» devono sopravvivere, in «Corriere della sera», 14 luglio 1981. 302 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cattivo gusto151.

Seguono un Pierino apocrifo, Pierino la peste alla riscossa (1982), «interpretato dall’imbarazzante Ariani. Squallido tentativo di agganciarsi al successo dei già mediocri film di Girolami con Vitali»152 e il simpatico Cicciabomba (1982), con una delle dive musicali del momento, Donatella Rettore. Altro film del 1982 è Incontro nell’ultimo paradiso, sceneggiato dal protagonista di Cannibal Ferox Lombardo Radice, uno «stanco Lenzi ‘alimentare’ che ibrida il cannibal movie (ma qui i selvaggi non mangiano nessuno e si esibiscono da antropofagi solo per i turisti) con il comico-esotico e qualche innocente topless»153. Per gli ultimi film, e ce ne sono ancora diversi per un altro decennio, Lenzi si esercita sui generi che gli sono più congeniali, ma si tratta, perlopiù, di film a budget ancora più ridotto del solito e destinati al cinema d’esportazione per mercati minori. Solo alcuni di essi, infatti, uscirono in sala in Italia. L’ultimo film con una certa distribuzione fu La guerra del ferro – Ironmaster (1983). Siamo ai tempi del successo di Conan il barbaro (1981) e dei suoi epigoni, tra fantastico e primitivo, storia e distopia, ma, soprattutto, neo-attori culturisti in perizoma che rivisitano in chiave postmoderna quel cinema con cui pure Lenzi aveva cominciato: Dopo essersi sbizzarrito nella regia di tutte le possibili variazioni di zombies, trucidi, cannibali, Macisti e super eroi alla 007, Umberto Lenzi, infaticabile artigiano cinquantunenne del cinema popolare, è approdato al filone dei cosiddetti «nuovi barbari». […] Pur essendo un prodotto rozzo e povero, Ironmaster ha un ritmo agile e l’ambientazione naif tra scenari naturali del South Dakota e fondali di cartapesta risulta abbastanza suggestiva. Umberto Lenzi è un regista non originale, ma sa fare il proprio mestiere, malgrado le cadute di gusto e il carnevale degli effettacci154.

I film che seguono sono stati visti pochissimo in Italia, coproduzioni internazionali dalla ridotta distribuzione per mercati dell’Est o americani (spesso lì anche girati): Squadra selvaggia (1985), Un ponte per l’inferno (1986) e Tempi di guerra (1987), questi ultimi due ambientati in quella seconda guerra mondiale al centro dei maggiori interessi cinematografici del regista. Un po’ più di visibilità ha avuto La casa 3 – Ghosthouse (1988), uno dei seguiM. Po., A qualcuno piace gay, in «Corriere della sera», 17 febbraio 1980. P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 1772. 153 Ivi, p. 1149. 154 G. Gs., «Fanta-preistoria» con guerra e pace, in «Corriere della sera», 13 marzo 1983. 151 152

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ti apocrifi della Casa (1982) di Sam Raimi, uscito anche nei cinema italiani: Autore del soggetto di questo film italiano zeppo di falsi nomi americani è Umberto Lenzi e si può pensare che la regia sia dello stesso sceneggiatore [che si era firmato con lo pseudonimo Humphrey Humbert, così come tutte le riprese erano state negli Usa], esperto in cinema horror e in pellicole commerciali italiane di generi disparati. […] Il film non ha alcunché a che fare con La casa 1 e La casa 2 […]. Pensando di speculare sulla popolarità di quei film horror, il produttore e il regista hanno impropriamente intitolato La casa 3 questo filmetto dalle molte velleità. Tra l’altro il prodotto mescola trucchi ed effetti speciali molto visti in altri film […]. Non mancano nel prodotto di genere alcune trovate […]. Ma per il resto, il film scorre via con grande confusione e senza rigore. Restano l’ottima fotografia di Franco Delli Colli, la buona colonna sonora di Piero Montanari 155.

Lapidario il giudizio di Mereghetti: «Prevedibile e derivativo»156. Il piccolo successo del film, comunque, porta Lenzi a dirigere molte produzioni, tutte sempre più low cost, negli anni immediatamente successivi. Addirittura cinque nel 1989, tutti horror. Tre per il cinema, seppur con scarsissima distribuzione, Paura nel buio, La porta dell’inferno, Nightmare Beach – La spiaggia del terrore e due per la televisione, La casa del sortilegio e La casa delle anime erranti. L’unico con minima visibilità in sala è il terzo: Nightmare Beach comincia benino (ovviamente nei limiti di un giallo-horror da bassa stagione). Vediamo i giovani rovesciarsi sulla cittadina con la gioia e l’irruenza dei vecchi film balneari degli anni sessanta (ma sappiamo che tutti più o meno sono vittime designate). Purtroppo gli sviluppi sono da filmetto di problematica carriera in sala pubblica (only for hom-vid market: buono solo per il mercato delle cassette, è la definizione che in America vien data di film del genere). Le battute di dialogo sono spesso inascoltabili (anche se a pronunciarle sono onesti attori come John Saxon e Michael Parks). Gli effetti speciali dei Rambaldi junior non sono tali da suscitare il plauso del celebre padre (d’accordo anche papà ha cominciato dai filmetti, ma che ha lavorato a fare se i figli debbono sottostare alla gavetta?)157.

Completamente americano è Obiettivo poliziotto (1990), certo senza più la forza di un tempo. Del 1991 sono altri tre film. Il primo dei quali riprende una saga tutta italiana: Demoni 3. «Sequel solo nominale dei film di Bava jr: G. Gs., Horror italiano, in «Corriere della sera», 20 agosto 1988. P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 413. 157 Guglielmo Biraghi, Nightmare Beach, in «Il Messaggero», 3 Agosto 1989. 155 156

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mal scritto, statico e tirato al risparmio, con lo splatter al minimo sindacale e zero suspense. Tra gli ultimi titoli ‘alimentari’ del regista, forse il più indifendibile. Mai uscito in sala in Italia, ma passato in tv a orari – quelli sì – da incubo»158. Più, nello stesso anno, un altro paio di film americani, Detective Malone e Caccia allo scorpione d’oro, che rimasticano suoi temi e idee visive. Pieno di stilemi americani da telefilm, che oramai invadono le televisioni, è il suo ultimo lavoro per il cinema, lo scanzonato Hornsby e Rodriguez – Sfida criminale (1992). La carriera registica di Lenzi si chiude così, nell’anonimato che paludò a lungo il nome di tutta una schiera di artisti che avevano riempito le sale per almeno un paio di decenni, confinando i loro film nelle tv private, spesso locali, sempre più confusi con il trash che dilagava sui piccoli schermi. Lenzi si ritagliò, tuttavia, una sua nicchia intellettuale come scrittore di romanzi gialli di buon successo anche critico, comunque ambientati nel mondo del cinema o permeati di quelle reminiscenze tanto care, da sempre, al regista. Ma la storia del rapporto tra Lenzi e la critica finisce mestamente qui? Decisamente no…

ITALIAN KINGS OF B Se gli anni ’90 segnano l’evidente declino di Lenzi e la progressiva scomparsa di tutti quegli autori definiti poi di genere, ne prepara, contemporaneamente, la rivalutazione, in un ribaltamento dei paradigmi della critica che ha lasciato molti sconcertati. Succedeva che in quegli anni debuttava un regista americano, Quentin Tarantino, che si era nutrito a pane e film lavorando in una videoteca, dove aveva avuto la possibilità di vedere molti di questi B movies. Il successo di pubblico e critica dei suoi film, che mescolano abilmente quelle trame e situazioni con strutture narrative complesse (e attori in stato di grazia), porta dalla polvere alle stelle tutta una serie di registi italiani che Tarantino definisce suoi ispiratori e maestri, Lenzi, ovviamente, tra questi. Grazie anche alla rivista «Nocturno», e ai dvd Rarovideo che li distribuisce in edizioni accurate, la serie B italiana diventa di culto. Fino a una commemorazione critica che appare a molti scandalosa: una rassegna nel tempio della cultura cinematografica ufficiale italiana, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, con un progetto su 158

P. Mereghetti, Dizionario dei film 2004 cit., p. 640. 305 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

più anni e di circolazione internazionale, con tanto di restauri di film e simposi. Il dado è tratto. Siamo nel 2004 e il direttore Marco Müller chiama proprio Tarantino e il suo amico Joe Dante come curatori e «padrini». La rassegna rappresenta un’opportunità unica per il pubblico di scoprire una parte dimenticata, incompresa e nascosta del cinema italiano, che in realtà ha avuto grande influenza sul cinema internazionale di oggi. […] Questi film, che hanno suscitato particolare interesse nella critica recente nazionale e internazionale, si sono imposti per il loro essere puro racconto […]. Produzioni spettacolari che sono entrate a far parte del mercato senza perdere la propria carica innovativa in termini di passione e arte cinematografica. […] Sembra proprio che, nel cinema, esistano due storie: quella ufficiale, vale a dire quella che ci viene insegnata, e accanto a essa, una storia più segreta, sotterranea, lontana dalle grandi figure e dalle grandi correnti, la storia dove si può più facilmente identificare le cause vere degli avvenimenti, dei mutamenti strutturali e culturali – e dove stanno anche le radici dei nuovi movimenti e delle pratiche più eccentriche159.

L’entusiasmo, complice la presenza e l’istrionismo del regista americano, è alle stelle. Per la rassegna viene scelto anche un film di Lenzi, Orgasmo, lui stesso presenzia e riceve gli omaggi di Tarantino, di folle plaudenti e l’attenzione di tutta la critica, soprattutto internazionale, a proiezioni ed eventi. Per i registi ancora vivi di quella generazione, Lenzi compreso, è una consacrazione. Così i più importanti quotidiani e riviste del mondo descrivevano l’atmosfera di entusiasmanti riscoperte per il pubblico festivaliero: «Dimenticate Fellini – quest’anno il 61° Festival del Cinema di Venezia punta i riflettori su quei registi che hanno perso visibilità sugli schermi italiani. Sebbene i loro film siano stati dimenticati da molti, i registi di genere messi in evidenza nel Festival […] hanno influenzato autori come Martin Scorsese o Quentin Tarantino o Joe Dante»160. Così il prestigioso quotidiano britannico «Guardian» nelle sue cronache culturali: «Steven Spielberg, John Travolta e Tom Cruise sono stati le attrazioni principali dei titoli di giornali all’apertura del 61° Festival di Venezia, ma negli schermi vicini una serie di oscuri film italiani hanno attirato quasi la stessa attenzione. I posti per una rassegna di pellicole italiane di serie B sono i biglietti più ambiti al Festival,

Italian Kings of the B’s: Storia Segreta del Cinema Italiano 1949-81 alla Tate Modern, Comunicato stampa, 6 dicembre 2005. 160 Strawberry Saroyan, Local treasures buffed for fest debuts, in «Variety», 30 Aug-5 Sep 2004, pp. 20, 22. 159

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specialmente tra i giovani appassionati di film»161. L’eco è straordinaria: Vecchi trascurati maestri di film italiani di serie B – quel caratteristico genere di pellicole cruente, sgargianti ma piene di un proprio stile che aveva furoreggiato ai botteghini per decenni, prima di cadere in letargo all’inizio degli anni ’90, sono stati risvegliati da Quentin Tarantino. Nel 2004, la retrospettiva Italian Kings of the B al Festival del Cinema di Venezia ha riportato alla luce questi titoli162. […] Girati con quattro soldi, sensazionalistici, ultra-violenti, sgargianti, pura exploitation, i film di serie B italiani che hanno ispirato Pulp Fiction e Kill Bill adesso spiccano il volo uscendo dall’oscurità critica. […] Dice il direttore del Festival di Venezia Marco Müller: «Sono stato accusato da molti critici italiani di aver perso completamente il senso delle istituzioni aprendo le porte del festival al cinema spazzatura». Müller mette in evidenza come, fino a poco tempo fa, i lavori di questi registi fossero considerati con disprezzo in Italia. E i loro film più facilmente reperibili nel Regno Unito o negli Usa che in Italia. «Il pubblico italiano pensa che questi siano film brutti, dozzinali», riconosce Germano Celant, direttore artistico della Fondazione Prada (che ha finanziato il restauro delle pellicole). […] Ogni cinematografia nazionale ha le sue gemme nascoste che solo chi viene dal di fuori sembra riuscire a valorizzare. […] Come ha fatto notare Martin Scorsese, uno dei paradossi dei film di serie B è che «sono più liberi e inclini a sperimentare e innovare rispetto alla serie A». Müller argomenta sul fatto che questi film polizieschi offrano un ritratto dell’Italia molto più preciso dei documentari e delle pellicole a grosso budget del periodo. […] «E avevo bisogno di Quentin. Sapevo che sarebbe stato un autorevole e appassionato portavoce della serie B italiana». Al festival, lo zelo da crociato di Tarantino e la forza pura della sua personalità hanno aiutato a persuadere i critici più vecchi dell’idea che i film a basso costo fatti nel cortile dietro casa negli anni ’70 meritassero di riprendersi la scena. Nel frattempo, il pubblico più giovane si è accodato in massa, curioso di vedere film che hanno avuto una simile diretta influenza su Kill Bill e Pulp Fiction. Per gli organizzatori della stessa retrospettiva alla Tate, che rivendicano i film come elementi Pop Art, questo è semplicemente un caso di storici e critici dell’arte che tardivamente aprono gli occhi su lavori troppo a lungo trascurati»163.

Sophie Arie, Italian B-movie maestros get Tarantino treatment, in «The Guardian», 5 September 2004. 162 Nick Vivarelli, Buzz is back on Italian B-pix, in www.independent.co.uk. 161

163

Geoffrey Macnab, Italian B-movies: Tarantino's inspiration, in «The Indipendent», 2 February 2006. 307 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La critica italiana ha variamente, diversamente (e lungamente) accolto gli onori delle cronache riservati a questa rassegna. Di sicuro è stato un sasso gettato nello stagno, ma, valutandole sulla bilancia, le critiche negative sono state più delle positive. Questo perché nelle prime si sommano, all’aperta ostilità, gli snobismi, il pezzetto di cronaca o colore sul festival più che una vera resa dei conti critica e, all’interno anche della schiera di chi il cinema di genere aveva da tempo cominciato ad apprezzarlo e rivalutarlo, attacchi anche feroci sulle scelte dei film e l’apparato dell’evento, divenuto, appunto, un evento e non un confronto intellettuale, sulla storia e le forme di coscienza critiche che hanno portato alle stelle questi film e quei registi: I soldini di Miuccia Prada sono stati capaci di spegnere la verve dei due registi americani, di relegarli all’imbarazzante ruolo di conferenzieri e di attoniti spettatori. Sembravano quasi due clown, mandati davanti al tendone veneziano col megafono in mano per gridare, con le loro facce conosciute, «Venghino, Venghino signore e signori» per mostrare a quante più persone questa retrospettiva che pareva essere il baraccone dei freaks. L’eclettico Tarantino si è praticamente eclissato dopo le prime interviste, aggirandosi tra le sale come uno spettatore al suo primo spettacolo da Grand Guignol, alle prese con una Barbara Bouchet rifatta e vogliosa (di fare un film). Avrebbero dovuto dare un premio speciale «alla pazienza» a Joe Dante per essersi sforzato di restare lucido anche sul palco/patibolo dell’ultima serata quando, senza Tarantino che lo sorreggesse, ha cercato parole di conforto per tutti. Avrebbero potuto dargli una borsa, un paio di scarpe, una cinta o magari un modellino in scala di Luna Rossa. Perché l’intera retrospettiva è stata praticamente organizzata come fosse una puntata di Stracult? Cavolo siamo a Venezia! Non c’era nessun comune denominatore, tranne la nazionalità, a tenere insieme il fritto misto proposto durante le proiezioni 164.

Se in Italia sono volati gli stracci, il passaggio non è passato inosservato nei primi libri di critica internazionale che hanno cercato di riposizionare questo trascurato tassello della storia del cinema italiano: Il poliziesco italiano è passato da uno status cult a un’esposizione internazionale solo di recente, con Tarantino come suo campione e una serie di retrospettive di film italiani di serie B al Festival del Cinema di Venezia […]. Dopo anni di focus sugli autori italiani ed europei o le stelle di

164

As Chianese, Perché io non credo in «Italian Kings of B», in www.carmillaonline.com, 28 Settembre 2004. 308 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Hollywood, il più antico festival del cinema del mondo finalmente ha rivolto la sua attenzione al film di genere con una rassegna […] che vanta come curatore lo stesso Tarantino, i cui lavori contengono numerose citazioni dei film di serie B, non solo lo spaghetti western, ma anche il poliziesco 165.

Tra le molte analisi riguardo questi film, figlie di quella rassegna che ha fatto girare poi, negli anni, molti illustri rappresentanti di tutto il cinema di genere italiano, una delle più interessanti, sia per l’acutezza dell’analisi sia per la centralità che dà a Lenzi (più che a Fernando di Leo, il più grande protagonista, che era però già scomparso, di quella prima retrospettiva veneziana), è apparsa sulla prestigiosa rivista cinematografica newyorkese «Film Comment». Lo sguardo è lungo e storico e parte da una rassegna fatta dal coltissimo Anthology Film Archives di New York, dal titolo The Italian Connection: Poliziotteschi and Other Italo-Crime Films of the 1960s and 70s. Una rassegna che sembrava, in un certo senso, inevitabile, visto che New York ha ospitato in anni recenti retrospettive dedicate allo spaghetti western e al giallo, con spruzzatine di fantasie orrorifiche italiane nel mezzo (all’interno di altre rassegne). Era solo una questione di tempo, quindi, prima che l’altro grande gruppo di film di genere dei più prolifici anni del cinema popolare italiano, i poliziotteschi [scritto identico, come giallo, in inglese], avessero il loro momento di luce della ribalta. […] Le linee di demarcazione che separano lo spaghetti western, il giallo e i poliziotteschi, sono confini ben lungi dall’essere rigidi. L’apogeo dello spaghetti western cronologicamente veniva prima, ed era singolare per il fatto che trasponeva una saga nazionale (italiana) in un’altra (americana), con attori dall’aspetto bruno, da italiani del sud, che frequentemente interpretavano proletari messicani, e attori di fattezze del nord che recitavano le parti dei loro sfruttatori gringo. Un esempio schietto del primo fenomeno è il lavoro di Gian Maria Volontè nei primi due film della Trilogia del dollaro di Sergio Leone – e Volontè è in tre dei più potenti film della rassegna The Italian Connection: A ciascuno il suo (1967), Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), entrambi di Elio Petri, Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani. […] I gialli e i poliziotteschi, però, riportavano i registi di genere italiani a set specificamente italiani – per la maggior parte, almeno. […] I caratteri specifici per definire i poliziotteschi si possono condensare in due parole: disorientamento e rabbia. Questi risultavano essere i sentimenti prevalenti, perlomeno all’interno di un certo segmento della popolazione, negli anni in cui i poliziotteschi raggiunsero il pieno del successo. Questi

165

Peter Bondanella, A History of Italian Cinema, Bloomsbury, New York 2013, pp. 459-460. 309 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

erano, forse non per coincidenza, anche gli anni in cui il prolungato regno dopoguerra della Democrazia Cristiana era al massimo della sua venalità e flagrante corruzione, e quando l’attività delle Brigate Rosse, altri terroristi di sinistra e organizzazioni aduse alle armi erano in massimo grado spietate e senza paura166.

Segue un elenco degli episodi più cruenti degli anni di piombo, una strategia della tensione in cui nessun apparato politico, di destra e di sinistra, di governo o sovversivo, sembra del tutto innocente, arrivando fino al sequestro di Aldo Moro. «I totalmente amorali banditi dei poliziotteschi, nati e cresciuti in condizioni subumane, sono motivati politicamente solo fino al punto che la fame è una questione politica. Sono più bestie che uomini – un fatto che si riflette in due titoli del 1974, Cani arrabbiati e Milano odia: la polizia non può sparare»167. C’è anche da dire che, così come incisivo e significativo era il titolo del film di Lenzi in italiano, così lo era in America: Almost Human (Quasi umano). Milano odia è il film dell’irregolarmente brillante Umberto Lenzi, uno splendidamente controverso e litigioso regista che qui spinge Tomas Milian verso una delle migliori interpretazioni della sua carriera, recitando un insignificante delinquente dei bassifondi con ambizioni da Padrino di nome Giulio Sacchi (un successivo poliziottesco di Lenzi del 1976, Napoli violenta, merita una menzione certamente non fosse altro per essere il miglior film a mettere in scena qualcuno la cui faccia viene ridotta a brandelli da una funicolare)168.

Segue una descrizione e un’analisi di Milano odia, «non solo un riflesso o una reazione al pervasivo senso di disperazione politica, ma pure legato a correnti contemporanee del cinema popolare»169 (anche statunitense). Il titolo americano del film di Lenzi diventa quello stesso di un intero paragrafo del saggio per spiegare il clima in cui era calato il cinema italiano dell’epoca, come riflesso della situazione sociale di estrema tensione, non solo politica, ma anche economica, in cui versava il Paese. Nei poliziotteschi il nemico è un’endemica, sistematica corruzione che si è diffusa ai più alti livelli delle forme di governo, includendo grande 166

Nick Pinkerton, Bombast: Poliziotteschi and Screening History, in www.filmcomment.com, 4 July 2014. 167 Ibidem. 168 Ibidem. 169 Ibidem. 310 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

capitalismo, Chiesa e i loro alleati all’interno della mafia. La totalità di questa cospirazione è più eloquentemente tracciata in A ciascuno il suo – e se qualcuno pensa che sia mera paranoia, si farebbe un favore andando a documentarsi sulla vicenda Mani pulite [in italiano nel testo]. In queste circostanze, l’unica giustizia che può esser fatta deve necessariamente venire da fuori il sistema170,

spiegando, così, l’esasperazione e il successo popolare dei vari commissari di ferro, che pagano in prima persona il loro feroce fervore di giustizia. Il lungo saggio, con continui riferimenti alla storia del cinema (può esserci, per esempio, un suggestivo parallelo con i film americani degli anni ‘30/’40, in cui si passò dal protagonismo dei gangster a quello degli uomini di legge, come voleva J. Edgar Hoover: si veda, in questo senso, la parabola di James Cagney, da Nemico pubblico ad agente Fbi in La pattuglia dei senza paura nel giro di pochi anni), ha soprattutto il merito di dimostrare, sin dal suo assunto iniziale, come questi film non siano semplice spettacolo, non mettano in scena qualche evento del loro presente o, in bocca a qualche personaggio, qualche battuta che semplicemente contestualizzi l’epoca, i conflitti sociali, di un periodo (l’autore fa riferimento, in questo senso, a molti film inglesi degli anni ’80, con qualche uscita sul tatcherismo o scioperi di minatori), ma siano proprio lo specchio più diretto e sincero degli umori politici sentiti al tempo, senza grandi mediazioni o metafore culturali. Gli anni che seguono la rassegna veneziana sono, comunque, per Lenzi, quelli del pieno riconoscimento e della valorizzazione del suo lavoro. La stragrande maggioranza della critica non può che prendere atto del cambio di rotta, magari saltando acrobaticamente gli ostacoli del proprio passato (gran parte degli stroncatori di un tempo era ancora in vita), inventandosi formule come onesti artigiani del nostro cinema o cinema bis o cinema di profondità ecc. ecc., come per mettere questi film e registi in un diverso campionato; altri critici, solitamente più giovani, sulla scia di Tarantino, apostrofando Lenzi direttamente come maestro. Da allora, gli omaggi si susseguono, con tante rassegne internazionali, alcune espressamente a lui dedicate come quella a Sitges che lo ha ospitato varie volte e che, nel 2018, ha proiettato non solo molti dei suoi film più rappresentativi all’interno di una sezione interamente a lui dedicata, ma anche il documentario di Calum Waddell All Eyes on Lenzi: the Life and Times of the Italian Exploitation Titan (2018). Ci sono stati omaggi anche a Manchester e in moltissime città italia170

Ibidem. 311 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ne, che hanno iniziato a ospitare rassegne e festival dedicati soprattutto al poliziesco. Ci sono stati anche due documentari ideati da Steve Della Casa, I tarantiniani del 2013 e, soprattutto, Italia 70: Il cinema a mano armata (2004) che vedeva Lenzi assoluto protagonista. Poi speciali su riviste, intere sezioni di libri dedicati al poliziottesco o al giallo italiano, una breve voce informativa su di lui nell’Enciclopedia del cinema Treccani e sulla Garzantina cinema. Senza dimenticare i due documentati e appassionati libri di Paolo Spagnuolo dedicati a singoli film: Napoli violenta (2014) e Milano odia (2018), oltre al recente Premio Umberto Lenzi, che ha avuto la sua prima edizione nel 2019, organizzato dal Centro Sperimentale di Cinematografia.

LA CRITICA NEL PAESE DEI COCCODRILLI Se gli ultimi anni della vita del regista sono stati quelli della rivalutazione, come si è potuto capire anche dalle ultime iniziative, la morte ne ha sancito una specie di consacrazione nel ricordo della sua opera. A suo tempo, le riviste di cinema italiano più colte lo avevano sostanzialmente snobbato più che stroncato, lascando quel lavoro alla critica dei quotidiani, in un certo senso costretta a misurarsi con le nuove uscite. «Cineforum», per mano di uno dei suoi padri, dedica al regista un piccolo e sentito omaggio in occasione del suo ottantaquattresimo compleanno: Lui è proprio l’anarchico e poliedrico regista che ha percorso quasi ogni genere del nostro cinema, seguendo e interpretando a modo suo l’onda del momento […]. Accanto a pellicole passate quasi inosservate, stanno titoli di grande successo di pubblico (la critica, salvo quella delle fanzines, non gli dedica molta attenzione) e non privi di motivi di interesse anche per i più scettici, quali Milano odia: la polizia non può sparare (1974), Roma a mano armata (1976), Napoli violenta (1976), per restare nel poliziottesco. Ma si fa anche ricordare, ad esempio, per la trilogia del «giallo erotico italiano», composta da Orgasmo (1969), Così dolce... così perversa (1969) e Paranoia (1970), interpretata dall’ex stella hollywoodiana Carroll Baker, o per il curiosissimo Il grande attacco (1976), girato in mezzo mondo, ove dirige nientemeno che Henry Fonda e John Huston, o per aver creato il personaggio di er Monnezza, prima che Tomas Milian lo tradisse, o quello dell’onesto commissario interpretato da Maurizio Merli, o infine per l’horror Incubo sulla città contaminata (1980), film in particolar modo venerato da Quentin Tarantino […]. Mentiremmo se sostenessimo di averlo, a suo tempo,

312 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

apprezzato171.

Dell’occasione della sua morte se ne occupa invece un alfiere della «nuova critica». Lo spazio concesso è poco, ma c’è: Umberto Lenzi era senza targhe e senza galateo, indisciplinato per natura, e come tanti prima e dopo di lui ha creduto al cinema […]. Proviamo una volta tanto a mettere da parte le categorie. Gli esemplari. Le classi. Il cinema è una forma che si parla a distanza, che dialoga con il suo tempo ma anche con se stessa, fuori tempo, nel tempo; e lo fa a prescindere dagli ordini, dalle suddivisioni, dai generi. Esiste un cinema che crede alla propria identità a tal punto da eccedere il «bello» e il «brutto», l’errore e l’approssimazione, la sciatteria e il volgare? Certo che esiste, perché del cinema si deve discutere anche nei termini di qualcosa di vivo e che si trasforma, mai morto, mai sconfitto, e invece guizzante e sfuggente. Ecco, sì, il cinema che sfugge: alle etichette di comodo, alle gabbie critiche, all’integralismo dei fan; quello che sfugge persino al mercato, quando sembra che sia proprio quest’ultimo a motivarlo e a giustificarlo. […] Un corpo che cammina e che attraversa gli anni e le epoche, i climi e i pensieri. Attraversa pure le mode, e le sconfigge sul loro medesimo terreno d’elezione: perché i film restano anche quando sono passate, le mode; rimangono in piedi, chi più ammaccato, chi più in forze, però restano172,

riassumendo un po’ quello che è accaduto e, presumibilmente, ciclicamente accadrà, al cinema tutto, non solo di Lenzi. Estremamente interessante è, poi, una scorsa ai coccodrilli apparsi sulle pagine dei quotidiani (e, ora, anche dei più colti siti internet), dove solitamente i film di Lenzi venivano massacrati. Un po’ tutti i giornali hanno riportato la notizia, chi semplicemente in un occhiello, chi in un breve pezzo informativo, ma alcuni gli hanno dedicato un vero e proprio articolo di approfondimento. I pezzi brevi hanno battuto su essenziali elementi: Tra i più grandi esponenti del poliziottesco all’italiana 173 […]. Il regista amato da Tarantino che inventò Er monnezza […]. Abilissimo nell’arte del «sapersi arrangiare», non esiste genere cinematografico con il quale non si sia confrontato. Energico, si è contraddistinto per un bagaglio culturale che

Lorenzo Pellizzari, Lenzi uno e due, in www.cineforum.it, 6 agosto 2015. Pier Maria Bocchi, Umberto Lenzi, il cinema e il tempo, in www.cineforum.it, 20 ottobre 2017. 173 F. Q., Umberto Lenzi, morto il regista «papà» di Er Monnezza, in «Il Fatto Quotidiano», 19 Ottobre 2017. 171 172

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traspare dalla sua filmografia, sulla base della quale firma opere per il puro e semplice svago dello spettatore174. […] Al re dei b-movie, al genio del poliziottesco, a Umberto Lenzi […], adesso che è stato consacrato come autore di culto, magari lo chiamerete anche maestro175.

Riviste molto popolari, pur nel breve spazio a disposizione, lo inquadrano per un pubblico televisivo che, magari, ha visto i suoi film senza ricordare il nome del regista e da dove veniva: I suoi film di maggiore successo sono popolati da personaggi violenti, truci, dai modi spicci, dal linguaggio rude e enfatico che sparano senza farsi troppi problemi. Sono i protagonisti di un genere, il poliziottesco, conosciuto anche come poliziesco all’italiana del quale Umberto Lenzi è stato uno dei principali esponenti. […] È nei film ispirati ai fatti di cronaca nera che Lenzi esprime la sua vena registica più felice: tra i titoli ricordiamo Milano odia: la polizia non può sparare (1974), con Tomas Milian, Roma a mano armata (1976), con la coppia Milian e Maurizio Merli e Napoli violenta (1976). Film violenti che però piacciono al pubblico e che incassano tanto 176.

Altre riviste, che da sempre lo avevano sostenuto, ne rimarcano la forza tecnica e antropologica: Aveva una cultura cinefila vasta e di prima mano, ma, girando, ho sempre avuto l’impressione che si affidasse potentemente all’istinto: non stava mai troppo a mediare con i riferimenti e le citazioni colte. Era diretto come sono diretti, di conseguenza, i suoi film, che zoomano metaforicamente oltre che fisicamente, in modo violentissimo, dentro l’azione e dentro i particolari più forti ed emotivamente pregnanti di un racconto. Non gli si leva proprio nulla a dire che è stato un regista più incline all’uso della mazza che del fioretto, perché nei generi in cui più si è distinto, con in cima il poliziesco-noir, quello era il linguaggio e quelli erano gli stilemi che permettevano ai film di arrivare a bersaglio177.

Altri articoli, pur avendo più o meno lo stesso spazio, riescono a lumeggiare un vero e proprio piccolo squarcio della storia del cinema italiano:

È morto Umberto Lenzi, in www.huffingtonpost.it, 19 ottobre 2017. Alberto Prunetti, Maremma a mano armata, in www.lavoroculturale.org, 12 settembre 2013. 176 Angelo De Marinis, Morto Umberto Lenzi, il regista di «Er Monnezza», in «Tv Sorrisi e Canzoni», 19 Ottobre 2017. 177 Davide Pulici, Umberto Lenzi: Rest in Peace, in www.nocturno.it, 19 Ottobre 2017. 174 175

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È stato uno degli ultimi grandi artigiani del cinema italiano. […] Resterà nella memoria soprattutto come «Re dei poliziotteschi». […] Era un cineasta poliedrico, capace di passare dalla cinepresa alla sceneggiatura, spingendosi in vecchiaia sino alla scrittura di gialli che hanno avuto un discreto successo. Certo, sino a che Quentin Tarantino non ha detto chiaro e tondo che Lenzi e alcuni dei suoi film – come Milano odia: la polizia non può sparare (1974), Roma a mano armata (1976) e soprattutto Incubo sulla città contaminata (1980) – erano dei punti di riferimento assoluti, la critica italiana ha semplicemente etichettato Lenzi come un bulimico regista di serie B. […] Intanto alcuni critici, adusi a guardare lo schermo dell’ideologia e non quello della sala, accusarono lui, anarchico, di essere l’alfiere di una destra poliziesca e reazionaria. […] Lenzi da artigiano di lusso cercava sempre di portare a casa il prodotto anche quando gli affidavano film per la tv: «Volevano roba che facesse vendere i pannolini o i detersivi, io gli ho dato La casa del sortilegio. Non hanno mai avuto il coraggio di mandarla in onda... Altro che detersivi, io nelle lavatrici ho sempre messo i pezzi di cadavere...». Chissà cosa avrà pensato quando nel 2004, di fronte a un inutile film con una inutile scena di nudo, al festival di Venezia qualcuno ha urlato in sala: «Dateci Orgasmooo» che veniva proiettato dopo. La rivincita di Lenzi, quasi un titolo da poliziottesco178. […] Amante dei generi più popolari, […] i romanzi erano diventati la sua passione e il suo orgoglio dopo il ritiro dal cinema all’inizio degli anni ’90. Ma il demone della celluloide invadeva i suoi ricordi e infatti tutti i suoi migliori gialli hanno per sfondo il cinema al tempo del fascismo […]. In tutto dieci avventure con cui aveva ritrovato entusiasmo e onori, mentre in parallelo scriveva di cinema sulla rivista «Nocturno». […] Segue la moda e l’istinto, […] vara il genere «thriller dei quartieri alti» (la definizione è sua) con un gruppo di lavori che sfruttano un’icona di Hollywood come Carrol Baker, il meglio del talento teatrale italiano (per lui lavorano signore della scena come Tina Lattanzi, Rossella Falk, Anna Proclemer) e ottengono il riconoscimento del pubblico internazionale: da Così dolce così perversa a Orgasmo e Paranoia, fino al successivo Spasmo (forse il suo capolavoro). Il suo nuovo territorio confina con l’astro nascente di Dario Argento, il mestiere di Lucio Fulci, la lezione di Mario Bava. Talento irrequieto, ha sempre detto di sentirsi anarchico nell’anima e nelle scelte. Frequenta il genere cannibalistico in coppia con Ruggero Deodato, l’avventura bellica, il poliziottesco che ne farà uno degli idoli di Quentin Tarantino e il pigmalione di due star del genere: Maurizio Merli, di cui farà la fortuna, e Tomas Milian, una sua scoperta con cui lavorerà sette volte fino a un traumatico scontro. […] Ha diretto alcuni dei più grandi attori della sua generazione, da Henry Fonda a

178

M. Sacchi, Spaziava da Pasolini a Tomas Milian cit. 315 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Carrol Baker, da John Huston a George Peppard, ha vissuto da gran signore e ha saputo incarnare un cinema italiano in cui l’arte dell’arrangiarsi permetteva di affrontare ogni sfida, uscendone ogni volta da vincitore. Con lui esce di scena un grande, molto amato e capace di restare moderno nella sua semplicità di narratore e prestigiatore dell’invenzione ottica 179.

Tra i coccodrilli, anche quello del «Corriere della sera», di un critico che lo aveva variamente e numerosamente stroncato: Autore di oltre 40 film che scavano nella violenza sadica dei generi codificati presso il pubblico popolare amante di emozioni forti, Umberto Lenzi, regista cult di paura, con Fulci e Freda, è morto […]. Lenzi ama inoltrarsi presso ogni filone action: cinema bellico, storico, western, horror, gialli erotici, spesso incrociandoli secondo logiche interne allo spettacolo, secondo i comandamenti di quel grande artigianato «cinematografaro» che produsse poi il genio di Leone […], insistendo sul legame tra polizieschi e western all’italiana ottenendo alcuni clamorosi successi di pubblico. Alcuni suoi poliziotteschi anni 70 ebbero la stima sinceramente snob d’una generazione di cinefili cui si è ispirato Tarantino, post tutto, senza ideologie se non sensazionalismo di giornata. Si passa da Roma a mano armata a Napoli violenta, identikit socio geografico degli anni di piombo secondo stile nostrano, ricalcando Dario Argento, ma amando il pathos del cinema americano […]. Se Milian è il suo non-eroe, la sua bionda star di riferimento è Carroll Baker […]. Non discuteva di come salvarci l’anima, il cinema di Lenzi è popolato di personaggi malvagi, corrotti, maniaci ben piantati in una società marcia, anticipando romanzi criminali […]: a volte ricordava a spanne Siegel, fra i suoi maestri apocrifi, ma soprattutto tacitava ogni volontà di dibattito 180.

La fama internazionale di Lenzi è data anche dai molti ricordi che i giornali stranieri gli dedicano, particolarmente interessante pure per capire cosa di quel cinema è passato di più. Tra i vari articoli, se ne scelgono solo alcuni per ampiezza e prestigio della testata: Un regista italiano di culto che si è fatto un nome come innovatore del genere cannibalico. Un certo numero di suoi film sono stati banditi dal Regno Unito in quanto «osceni» ed egli ha espresso costernazione per il fatto che i suoi lavori più intellettuali siano stati trascurati. […] Era un regista prolifico e adattabile del cinema commerciale italiano. Dal punto di vista

179

È morto Umberto Lenzi, maestro dei polizieschi all'italiana, in www.lettera43.it, 19 ottobre 2017.

180

Maurizio Porro, Morto Umberto Lenzi, il re dei poliziotteschi italiani che inventò il Monnezza, in «Corriere della sera», 19 ottobre 2017. 316 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tecnico, usava costantemente inquadrature a zoom, un vivido Technicolor e primi piani estremi sui volti degli attori. La sua produzione includeva thriller gialli, fanfaronate in costume, plagi di James Bond e film di guerra conosciuti come genere macaroni combat. Ma egli era famoso soprattutto per aver sviluppato il film horror cannibalico, senza lesinare su raccapriccianti dettagli […]. È stato non sorprendentemente ammirato da Quentin Tarantino181.

Altri giudizi e ricordi sono magari apparentemente più severi, oltre che impregnati di un certo sciovinismo tipicamente francese, ma testimoniano l’importanza del regista, come in un lungo articolo su «Le Monde» (quanti, a suo tempo, avrebbero scommesso che il più diffuso quotidiano transalpino gli avrebbe dedicato tanto spazio? I giornali italiani non lo hanno fatto…): Il cineasta è stato uno dei più prolifici artigiani del cinema di svago italiano […]. Qualcosa di un cinema italiano popolare, di cordiale trivialità e che non s’importava di nulla, si è forse simbolicamente eclissato con la scomparsa di Umberto Lenzi. Egli fu l’esempio tipico, caricaturale, dell’artigiano senza emozioni né genio particolare, che ha lavorato nel cuore del cinema di disimpegno transalpino, girando continuamente e alimentando le mode commerciali del momento. […] Lenzi si sacrifica sistematicamente con perseveranza e forse, anche, una notevole pigrizia, alle convezioni del suo tempo, realizzando numerose imitazioni a basso costo di film di successo, sfruttando i filoni alla moda sino allo sfinimento. […] Si butta nel genere horror gore, particolarmente con i suoi film di cannibali (tra cui il famigerato Cannibal Feox del 1981) o di creature «zombificate» (Incubo sulla città contaminata). Lenzi arriverà sino alla fase di agonia di questo cinema seriale, realizzando film sempre più squattrinati, in condizioni di produzione sempre più irrisorie, prima di essere assorbito, come la maggior parte dei suoi colleghi, dalla televisione. […] Eppure, come spesso accade quando si esaminano con attenzione le filmografie di questi riempitori di sale di quartiere, non è raro trovare, nel cuore di una carriera apparentemente senza rilievi, qualche pepita d’oro. Tra i lavori di Lenzi, ci saranno dei thriller macchinosi che precedono la moda del giallo e declinano all’infinito delle narrazioni a incastro le cui radici attingono fino ai Diabolici di Clouzot. Paranoia, Così dolce… così perversa e Orgasmo, girati alla fine degli anni ’60, descrivono universi, nello stesso tempo, affascinanti e corrotti. La raffigurazione dei personaggi muove dalla loro avidità e da perversioni Gavin Gaughan, Umberto Lenzi: Italian cult director who made his mark as an innovator of the cannibal genre, in «The Independent», 5 November 2017. 181

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sessuali di diversa natura, in una stagione in cui le maglie della censura si stavano allentando. Lo sguardo moralizzatore non nascondeva una certa attrazione per le deviazioni descritte. Questo accade anche nei violenti polizieschi in cui mostrerà un certo talento, specialmente nei film in cui metterà in rilievo il geniale attore Tomas Milian. In Milano odia: la polizia non può sparare del 1974, lui stesso costruisce uno dei più folli e violenti cattivi della storia del cinema, un bruto amorale ed esibizionista che segue solo le sue pulsioni più feroci. Quanto a La banda del gobbo, del 1978, in cui Milian interpreta due ruoli e incarna, nello stesso tempo, un delinquentello romano, Monnezza, e il suo gemello, un gangster gobbo, due singolari e mirabili figure carnevalesche e proletarie, è, a suo modo, un piccolo capolavoro 182.

Più breve e lapidario, ma significativamente riassuntivo di un’epoca e un immaginario, il ricordo della rivista francese «Première»: «Uno dei grandi nomi del cinema di genere italiano è morto […]. Ci vorrebbe un libro per rievocare la vita e l’opera di Lenzi, ma, in fin dei conti, i suoi film raccontano molto bene la sua storia al suo posto: quella di tutto il cinema popolare italiano del dopoguerra»183. Oggi, quel cinema fa scuola nel mondo, un tempo sembrava la nostra vergogna.

182

Jean-François Rauger, Mort du réalisateur italien Umberto Lenzi, in «Le Monde», 20 octobre 2017. 183 Sylvestre Picard, Mort d'Umberto Lenzi, réalisateur de La Rançon de la peur et de Cannibal Ferox, in www.premiere.fr, 19 octobre 2017. 318 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ricordi fraterni. Intervista a Piero Angelo Lenzi di Davide Magnisi

Piero Angelo Lenzi (1943), docente di Lingua e letteratura inglese e traduttore.

Siamo abituati a pensare a Umberto Lenzi regista, ma mi incuriosisce quale possa essere il suo sguardo fraterno, da persona di famiglia, su tutta la sua avventura cinematografica. Le mie sono le memorie di un fratello minore. Quando Umberto si è laureato in Legge e poi è andato a fare il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, io non ero che un ragazzino di tredici-quattordici anni, avevamo dodici anni di differenza. Sono però stato testimone di tutti i suoi primi anni d’interesse nei confronti del cinema e ho condiviso con lui anche molte di queste passioni, perché leggevo le sue stesse riviste, come «Cinema Nuovo», oppure quei libri che allora si facevano con tutte le immagini dei film e il loro racconto, una specie di fotoromanzi cinematografici. Di questi ricordo in particolare Pépé le Moko, Alba Tragica, Il Quartiere dei Lillà, Il porto delle Nebbie, ma ce ne erano parecchi altri. Si ricorda quando si accorse che l’interesse per il cinema di suo fratello stava diventando una cosa seria? Una cosa seria è diventata quando faceva l’università, quando si decise di fare il concorso al Centro Sperimentale di Cinematografia e lo vinse per poi frequentarlo, su questo non ci pensò due volte. Poi, di certo, il suo primo interesse era nato alle scuole superiori, perché Umberto aveva questo professore di Lettere, Angelo Gianni, che aveva fatto a sua volta il Centro Sperimentale, anche se non intraprese mai la carriera cinematografica. Fu sicuramente lui il primo ad accendergli questa passione, un interesse che ha sempre coltivato anche negli anni universitari a Giurisprudenza, per poi sterzare direttamente sul cinema. Ovviamente, fu una volta dentro il Centro Sperimentale che cominciò praticamente la sua attività cinematografica. 319 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Come fu presa in famiglia la decisione di Umberto di lanciarsi professionalmente nel mondo del cinema? Molto bene, non ci furono problemi di alcun tipo. Anche perché questa sua passione per il cinema era nota a tutti da tempo e condivisa anche da me, ma non solo, all’interno del nucleo familiare. Quindi davvero nessun ostacolo di nessun genere. Poi Umberto era una persona molto decisa, quel tipo di personalità che non si lascerebbe influenzare anche se avesse avuto un qualche contrasto in famiglia; comunque avrebbe fatto quello che aveva deciso di fare. Detto questo, fu assecondato in tutto. Noi eravamo molto orgogliosi di lui, sia per quello che aveva fatto prima d’intraprendere professionalmente la carriera cinematografica sia dopo. Quali erano gli interessi, i modelli culturali, del giovane Umberto, prima di diventare il regista che conosciamo? Tanto per cominciare aveva una cultura di tipo classico, perché aveva fatto il liceo classico a Massa Marittima. Era un appassionato lettore sia degli scrittori della classicità greco-romana sia di quelli più moderni, era un grande amante della letteratura europea. In particolare, intorno ai suoi vent’anni, divenne amico di Carlo Cassola e Luciano Bianciardi. Quindi aveva anche questo spiccato interesse nei confronti del romanzo italiano contemporaneo. Conosceva, tra gli altri, Vasco Pratolini, che portò al cineclub di Massa Marittima. Per quanto riguarda il cinema, invece, lui era innamorato di tutto il cinema americano, soprattutto quello degli anni ’30 e ’40. In particolare, i suoi miti erano Raoul Walsh e John Ford. In più ha avuto il piacere di dirigere un regista che ammirava come John Huston. Suo fratello ha lavorato con attrici stupende. Che cosa le raccontava di loro? Ricordo che parlava soprattutto di Caroll Baker, con cui ha girato tre o quattro film. Con lei ha avuto un rapporto professionale, ma anche di amicizia, molto intimo, è stata pure testimone del matrimonio di mio fratello. Umberto parlava benissimo di lei. Ne esaltava la bellezza, ma anche la gentilezza e la professionalità. Umberto, giovanissimo, ha lavorato anche con Esther Williams in Vento di passioni, in cui faceva l’assistente alla regia. Ricordo ci raccontò che lei e il protagonista Jeff Chandler ebbero una storia 320 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

d’amore sul set di cui lui era tra i pochi a conoscenza e si creò un’amicizia abbastanza stretta fra loro tre. Poi parlava benissimo anche di Lisa Gastoni. Fecero insieme il loro primo film in Italia, Le avventure di Mary Read. Umberto ne avevo girato un altro in Grecia, il suo debutto, mentre la Gastoni aveva alle spalle già una lunga carriera all’estero. Quello era un film che doveva dirigere Domenico Paolella, ma si ammalò e, allora, il produttore chiamò Umberto per sostituirlo. Di Lisa Gastoni, Umberto descriveva la bravura, l’intensità sul set, era veramente un’attrice di grandi qualità. Questo Le avventure di Mary Read fu probabilmente un film che entrambi fecero per sbarcare il lunario, però, credo che già si intuiscano le potenzialità di entrambi: di Umberto come regista e di Lisa Gastoni come attrice. Che cosa cercava in particolare suo fratello dal cinema? Che cos’è che gli piaceva del cinema? Secondo me il cinema, in particolare fare la regia, era qualcosa di strettamente legato alla sua natura. Umberto era una persona a cui piaceva molto avere un ruolo importante nella vita degli altri. Poi era anche piuttosto autoritario, quindi credo che la regia gli abbia dato la possibilità di coniugare queste caratteristiche caratteriali con una forma di creatività molto più forte di quella delle parole, di quella che avrebbe potuto esprimere scrivendo libri. Dal punto di vista artistico, le immagini lo avevano sempre affascinato di più della parola scritta. Le parlava mai dei suoi rapporti con la critica italiana dell’epoca? Non ne era molto soddisfatto, perché i suoi film erano considerati di serie B. Poi, per esempio, Dario Argento aveva molto più seguito nella critica di quanto non ne avesse lui e questo un po’ lo faceva soffrire. La critica cinematografica non è mai stata benevola nei suoi confronti, la riscoperta del valore di certi suoi film è avvenuta molti anni dopo, è una cosa relativamente recente, soprattutto dopo gli apprezzamenti di Quentin Tarantino e tutta una rivalutazione di quel cinema di genere, dal poliziottesco al giallo. Diceva che, però, i produttori avevano simpatia per lui, perché faceva dei buoni prodotti che, anche se non erano da festival, facevano guadagnare. Film dignitosi, ben fatti, anche se non specificamente film d’arte. Per questo Umberto è riuscito a lavorare tantissimo. Poi lui girava molto rapidamente, quindi faceva risparmiare, dettaglio non irrilevante. Motivi per cui Umber321 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to ha sempre incontrato il favore dei produttori. A un certo punto cominciò anche a pensare: ma chi se ne importa della critica visto che continuo a lavorare? Poi tieni presente che lui, tendenzialmente, era uno che se ne fregava di tutto e di tutti. Quando ha cominciato a essere rivalutato che ne diceva? Era molto soddisfatto di essere finalmente riconosciuto come qualcuno che aveva fatto non soltanto B-movies, ma opere di un certo valore, perché lui aveva sempre cercato di metterci qualcosa della sua cultura, d’inserire anche dei connotati politici, sociali, anche se quelle storie apparentemente non si prestavano molto. Ha comunque sempre espresso quelle che erano le sue idee nei suoi film. Quindi, negli ultimi anni, era molto contento di quello che stava accadendo, di questa sua piccola rivincita nei confronti della critica e del nuovo revival delle sue opere, perché venivano finalmente riconosciute le sue capacità, la sua intelligenza cinematografica. Quali sono state le volte in cui lo ha più sentito frustrato del suo lavoro? In generale quando non venivano apprezzate le cose che faceva, soprattutto alcuni film, come Orgasmo, i suoi gialli in particolare, che lui riteneva fossero film di spessore e che, invece, la critica non riconosceva e considerava di serie B. Quali sono state, invece, le volte in cui l’ha sentito più felice del lavoro che faceva? Era sempre soddisfatto e felice del lavoro che faceva. Era sempre entusiasta: ci raccontava ogni cosa, tutte le scene che girava, tutti i lazzi, come li chiamava lui, tutte le cose che succedevano sul set e fuori. Io l’ho seguito molto intorno ai miei vent’anni. Ricordo soprattutto la lavorazione e poi la prima di Così dolce… così perversa, Orgasmo, tutto il periodo di quei gialli che, per me, sono i suoi film più riusciti. Quando girava un film era come un esaltato, parlava in continuazione di quello che faceva, del film, di questo e di quest’altro, delle inquadrature. Lui è sempre stato, fin da quando era giovanissimo, un grande raccontastorie, sempre pieno d’entusiasmo mentre parlava, bravissimo nel narrare, nel coinvolgerti. Poi anche pungente, anche se, a volte, riusciva a essere poco simpatico ad alcune persone. Era 322 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

capace sempre di andare al cuore delle cose quando raccontava. Nella mia memoria ho impresso soprattutto questo: la genialità nel racconto, una qualità che ho conosciuto in pochissime persone a tale livello. Pochi attori si sono veramente lamentati del carattere di Umberto, ma tutti i critici di cui ho letto parlano di una quasi leggendaria litigiosità di suo fratello. È più un mito o realtà? Beh, diciamo che lui era abbastanza impulsivo, ma fondamentalmente buono. Se però sentiva che c’era una cosa, la doveva dire e, magari, dicendola, poteva anche riuscire a ferire le persone. Essendo una persona intelligente, dopo capiva e cercava di rimediare in qualche modo. Purtroppo non tutti riuscivano, poi, a perdonarlo. Sicuramente non era una persona facile, anche noi come fratelli abbiamo avuto degli alti e bassi, un rapporto molto turbolento proprio a causa del suo carattere. Un rapporto anche tempestoso che, però, presupponeva sempre una grande vicinanza tra noi. Lui mi era molto attaccato perché ero più piccolo: da bambino mi ricordo che mi portava sempre a letto con sé, mi portava regali da tutti i Paesi in cui andava a fare film e cose così. Poi capitava che delle volte io non studiassi, allora lui veniva e si arrabbiava con me. Certo era abbastanza aggressivo come carattere. C’era qualche progetto cinematografico, che lei sappia, che suo fratello rimpiangeva di non aver fatto? No. Forse, in fondo in fondo, io credo che lui avrebbe voluto fare qualche cosa di veramente suo, che non gli fosse stato, non dico imposto, ma fortemente richiesto dai produttori, che volevano dei prodotti commerciali. Credo avrebbe voluto, perché ne sarebbe stato perfettamente in grado, di fare anche delle cose da festival, perché non gli mancava certamente la capacità o l’intelligenza come regista, la cultura personale o l’abilità di scrivere un soggetto o una sceneggiatura. Io credo questo, ma non l’ha mai detto apertamente. Lo deduco perché tutti i suoi interessi, sin da ragazzino, erano rivolti a un cinema di grande qualità e tali erano le sue letture. Anche i film che lui aveva scelto per il cineclub che guidava a Massa Marittima erano tutti di grande qualità autoriale. C’è però un concetto che vorrei approfondire: lei hai detto che i suoi preferiti 323 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

erano registi americani come John Ford o Raoul Wash, però anche loro facevano film che potremmo definire di genere. Voglio dire: in America non era peccato fare film di genere e qui in Italia sì? Esatto. È vero quello che dici, però qui in Italia avevamo un’altra tradizione cinematografica, specialmente in quegli anni lì che andavano dal Neorealismo all’ultimo periodo di Visconti, Fellini, questi registi che rappresentavano davvero un’élite cinematografica e che avevano fatto film di grandissimo livello, anche con una grossa reputazione internazionale. Certo è dura lavorare quando hai come concorrenti registi come quelli. Il livello del cinema italiano di quel periodo era veramente altissimo. Però io credo che Umberto sia stato anche in qualche modo vittima della sua genialità, della sua bravura, della sua velocità nel produrre cose tutto sommato buone, perché poi il pubblico andava a vederli i suoi film, incassavano. Quindi questa abilità, in un certo senso, lo ha schiacciato in un genere, in un tipo d’industria cinematografica. Ma lui di cose ne poteva fare… Per dirti, recentemente mi sono riguardato Milano odia e l’ho trovato effettivamente un film sempre attuale, sia per quanto riguarda la recitazione sia sul piano narrativo, formale. Paradossalmente, mi è piaciuto più ora che quando lo vidi all’epoca. Spesso il difetto di questo tipo di cinema sta, secondo me, negli attori. Quando, come è successo a Lenzi in Milano odia ne avevano di buon livello, il film volava. Stessa cosa, ad esempio, con i gialli con protagonista Carroll Baker o altri interpreti come Jean-Louis Trintignant o Lou Castel. Il regista può avere tutta l’abilità che vuole, ma senza grandi interpreti il film non c’è, il livello si abbassa tantissimo. Quel che dici è molto vero, non sempre questi film avevano attori di tale livello e questo, spesso, ne pregiudicava la riuscita. È un tipo di aspetto che giustamente rilevi. Si ricorda a quali dei suoi film Umberto era più legato? Io credo che lui sia stato legato più che altro ai gialli e ai film di guerra, dove ha diretto attori importanti, come Henry Fonda o John Huston. Quelli gli sembravano i film che gli avrebbero dato più prestigio, pure a livello in324 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ternazionale, anche grazie ai cast di cui abbiamo parlato. Per quanto riguarda, invece, film come quello sugli zombie, Incubo sulla città contaminata, si divertiva a farli, ma mi sembrava chiaro che non li considerasse tanto o, almeno, non sullo stesso piano di quelli che ho citato prima. Eppure ho letto che Incubo sulla città contaminata è uno dei film preferiti di Quentin Tarantino. So che a Tarantino piaceva. Lui se li è visti un po’ tutti questi film nel video shop dove lavorava, un po’ tutto quel genere di cinema italiano, non solo mio fratello, ma anche Fernando di Leo, per esempio. Perché a lui piaceva proprio quel genere, compreso questo film di zombie: mi sembra un giudizio molto dettato da un suo gusto personale. Invece a quale di film di suo fratello è personalmente più legato? Così dolce… così perversa, Orgasmo, questi film degli anni in cui l’ho seguito, quando siamo stati insieme a Londra, anche con il cast, con Caroll Baker in particolare. Sono più legato a questi che ho vissuto da vicino e che, comunque, mi sembrano, alla fine, anche essere i suoi film migliori, a prescindere dal mio dato personale. Ho letto su uno dei tanti coccodrilli, quando è morto suo fratello, sul «Corriere della Sera», questa notizia e vorrei sapere se è vera, secondo cui suo fratello, cito, avrebbe lavorato «anche sotto falso nome nel mercato inglese dei B-movies». Le risulta? Nel mercato inglese no, lo escluderei. Invece in Italia sì, ha lavorato sotto falso nome, con quegli pseudonimi americani che si usavano all’epoca, tipo Humphrey Humbert. Una curiosità: ma questo pseudonimo da dove viene? Humbert viene da Umberto, sarebbe una americanizzazione di Umberto, Humphrey da Humphrey Bogart, verso cui lui aveva una grande ammirazione. Mio fratello sin da ragazzo si divertiva molto a ribattezzare questi grandi attori, per esempio Tyrone Power lui lo aveva rinominato Tirone Povero, Spencer Tracy lo chiamava Spegni Stracci: era un intrattenitore na325 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to. Io non l’ho conosciuto, ma deve essere stato una persona che, se dovessi riassumere in un aggettivo, direi vulcanica. Vulcanico, è così, è la parola giusta, infatti bruciava come la lava. Abbiamo fatto delle liti memorabili, anche su delle sciocchezze. Per me lui è stato una persona fondamentale, inevitabilmente mi ha un po’ plasmato e trasmesso alcuni dei suoi interessi, compreso quello per il cinema, in maniera molto forte, fin dalla mia infanzia. Quando avevo otto-nove anni andavo al suo cineclub dopo cena e guardavo tutti quei film. Mi ricordo che, una volta, c’era M di Fritz Lang: io volevo andarci anche se lui me lo proibì. Ci andai e, quando uscii, mi ricordo che lui mi aspettò fuori dal cinema e mi prese a schiaffi, mi menò proprio. Poi, nello stesso periodo, aveva messo su una specie di biblioteca dove prestava libri, in particolare, ai lavoratori della miniera della Niccioleta. Ma, quando lui andava a Pisa a dare gli esami, rimanevo io nella biblioteca. Stavo lì, facevo le sue funzioni, davo i libri ai minatori, ma li leggevo anche, me li portavo a casa. Quindi io sin da allora ho letto Shakespeare, D. H Lawrence (L’amante di Lady Chatterly), Thomas Mann, Il rapporto Kinsey… A dieci anni avevo già la cultura letteraria di un ragazzo di venticinque. Magari un ragazzo di venticinque anni oggi avesse una cultura così. Sì, i tempi sono cambiati.

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Agli esordi del cinema di Lenzi. Intervista a Wandisa Guida di Davide Magnisi

Wandisa Guida (1935) esordisce a metà degli anni ’50 interpretando in pochi anni moltissimi film, sentimentali e peplum in particolare, ma anche I vampiri (1956) di Riccardo Freda e Totò e Marcellino (1958, Antonio Musu), tra gli altri. Sposata con il produttore Luciano Martino, si ritira dalle scene a metà degli anni ’60. Condivide con Umberto Lenzi gli anni di studio al Centro Sperimentale di Cinematografia e il primo film del regista, Mia italida stin Ellada (1958) e, in seguito, I tre sergenti del Bengala (1964).

Lei ha conosciuto Umberto Lenzi all’inizio delle vostre rispettive carriere professionali ai tempi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Che ricordo ha di quegli anni e del giovane Lenzi? Quando nel 1954, dopo la mia elezione a Miss Cinema, mi iscrissi al C.S.C. nel settore Recitazione, conobbi Umberto Lenzi, iscritto nel settore Regia, e ci si incontrava talvolta all’ora di pranzo quando si confluiva tutti nel locale ristorante. Una volta che Umberto venne a sedersi vicino a me, essendo lui più grande di circa quattro anni, e ritenendolo io colto e preparato, gli chiesi se poteva consigliarmi dei monologhi adatti a me. Me ne consigliò subito un paio e poi, durante un suo soggiorno a Massa Marittima, mi scrisse una lettera con altre indicazioni al riguardo, dopo avere fatto delle ricerche. Quali erano i vostri progetti, i vostri sogni, i vostri punti di riferimento? Al di fuori del C.S.C. non c’erano altri punti di riferimento tra Umberto e me, perché ciascuno aveva iniziato il proprio percorso lavorativo e personale, durante il quale lui si era fidanzato con Terpsicore Kolosoff, una ragazza greca conosciuta proprio al C.S.C. nel settore Produzione, e io mi ero fidanzata con Luciano Martino, presentatomi da due miei cugini: Ernesto Guida, sceneggiatore, e Gino Guida, pittore, figli di un fratello di mio pa327 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dre. Lei in un paio d’anni, tra il 1956 e il 1957, aveva già fatto molti film, tra cui anche I vampiri con Riccardo Freda, e, nel 1958, è protagonista della prima pellicola di Lenzi, Mia italida stin Ellada. Che ricordo ha di quel film, di quel set, di quell’esperienza con un quasi coetaneo e compagno di studi alla regia? Nel 1956 feci il mio primo film importante, I Vampiri, primo horror italiano, con la regia di Riccardo Freda, e nel 1958 Umberto Lenzi, riunendo i tre primi classificati nei settori Regia, Recitazione e Produzione del C.S.C. (Umberto Lenzi, Wandisa Guida, Terpsicore Kolosoff), organizzò il suo primo film in Grecia, Mia Italida stin Ellada. La segretaria di edizione e assistente alla regia era sua moglie Terpsicore Kolosoff che, essendo greca, mi fece anche la traduzione di alcune battute del copione che dovevo pronunciare in greco e, comunque, era indispensabile come interprete, sia per Umberto che per me, per comunicare con il produttore e con gli altri attori e componenti della troupe, anch’essi greci. Il rapporto tra il regista Umberto e l’attrice Wandisa era di collaborazione giornaliera, serrata e impegnata. In alcune giornate in cui non ero impegnata sul set andavo in giro con mia madre, che condivideva con me la stanza in albergo, per visitare Atene, fare compere nei negozi, mangiare nei ristoranti. Accumulavo quindi ricordi piacevoli e interessanti. Lei in pochi anni diventa una specie di regina del cosiddetto genere peplum e ritrova Lenzi in un altro film avventuroso nel 1964, I tre sergenti del Bengala. Che ricordo ha di quest’altra esperienza? Nel 1959 Umberto mi fece una telefonata nella quale mi diceva che gli avrebbe fatto piacere conoscere il mio fidanzato, per poterci rivedere tutti insieme. Presi appuntamento con entrambi in un ristorante di Roma, in una traversa di via Veneto, e durante il pranzo i due si scambiarono discorsi sul cinema, proposte di lavoro e un primo appuntamento per sviluppi professionali. Divennero amici e cominciarono a lavorare insieme. Durante gli anni seguenti, Umberto sposò la sua seconda moglie e io sposai Luciano Martino, affermatosi come produttore cinematografico, che nel 1963 mi rese madre della mia prima figlia Lea, e poi nel 1967 della mia seconda figlia, Dania. Tra il 1959 e il 1964 io avevo lavorato molto in televisione e partecipato a 328 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

diversi film «in costume» che mi avevano procurato la fama di «Regina del peplum». Nel 1964 Umberto mi contattò per fare il suo film I tre sergenti del Bengala. Mi fece molto piacere lavorare di nuovo con lui. Tra questi due film avete continuato a sentirvi o a pensare progetti comuni? Tra i due film io non avevo avuto contatti con Umberto, occupata com’ero tra televisione, altri film, maternità, famiglia, e lui era sempre in viaggio per film all’estero. Che ricordo ha di quella stagione del cinema italiano e dei ruoli che le offrivano? Anche perché un paio di anni dopo ha, in effetti, interrotto la sua carriera di attrice. Quando il cinema è entrato in una delle sue fasi di crisi, io mi stavo già allontanando spontaneamente, perché le proposte che sopraggiungevano riguardavano soggetti più adatti ad attrici che erano disponibili a spogliarsi e sapevano farlo con apprezzabile esperienza. Suo marito Luciano Martino ha poi prodotto tutti i più importanti film di Lenzi. Che tipo di scambi artistici, intellettuali, personali, c’erano tra voi in quegli anni? Luciano Martino e Umberto Lenzi condividevano alcune idee, ad esempio erano d’accordo nella scelta di storie di forte impatto, con scene di violenza e di nudo, ed effettivamente hanno realizzato insieme anche film che hanno avuto ottimi risultati. Erano molto impegnati nel loro lavoro e io nel mio. Ricorda aneddoti, racconti che suo marito le faceva sulla lavorazione di quei film o episodi a cui lei stessa ha assistito? In quel periodo mio marito era molto concentrato sul lavoro e accennava raramente a racconti di episodi specifici, nel breve tempo che rimaneva quando veniva in famiglia. Che idea si è fatta del cinema di Lenzi in quegli anni ’70, penso soprattutto ai film gialli e polizieschi che gli hanno dato maggiore notorietà?

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Umberto è stato un grande regista di genere. Il suo cinema era il riflesso di quel periodo cupo che l’Italia politicamente ha attraversato negli anni Settanta: la minaccia delle Brigate Rosse, il rapimento di Moro, l’austerity... Al suo cinema, poi, si contrapponevano le commedie sexy e un po’ scollacciate dello stesso periodo, che costituivano una sorta di valvola di sfogo e un modo per esorcizzare le preoccupazioni. Erano film molto chiacchierati, i gialli per le scene di nudo (sempre femminile) e i polizieschi per quelle di violenza. Sì, per i costumi dell’epoca erano film molto chiacchierati, creavano scalpore e motivo di confronto. Alcune scene di violenza, come in Milano Odia, sarebbero d’impatto ancora oggi e da un certo punto di vista sono ancora incredibilmente moderne. Gli anni ’80 sono stati di declino per tutto il cinema italiano. Luciano Martino ha prodotto in quegli anni, di Lenzi, due film cannibalici, Mangiati vivi! (1980) e Cannibal Ferox (1981). Parlavate di quello che stava succedendo al cinema italiano? Se ne parlava, finendo inevitabilmente a discutere anche degli incassi del primo o dell’ultimo weekend di programmazione nelle sale, della risposta del pubblico. Si mettevano a confronto i vari film. In particolare, per i film cannibalici, si discuteva della Censura che allora era molto severa e costituiva un problema. Nonostante si percepisse il cambiamento verso il quale il cinema italiano stava andando, questi film hanno comunque avuto un discreto successo anche all’estero. Del 1983 è La guerra del ferro – Ironmaster, regia di Lenzi, Luciano Martino produttore, sua figlia Lea tra gli sceneggiatori insieme allo stesso Lenzi (e Dardano Sacchetti e Alberto Cavallone). Praticamente un film che riunisce vecchi amici e parenti. Che ricordo ne ha? Il cinema è una grande famiglia e spesso ci si trova a collaborare. I figli d’arte accumulano esperienze di lavoro e di vita insieme ad amici, conoscenti, parenti. Si parla alla fine la stessa lingua, si viene affascinati dalla stessa magia, è naturale che si possa anche finire a lavorare insieme.

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Ha poi seguito gli ultimi anni della carriera cinematografica di Lenzi? Siete personalmente rimasti in contatto? Per alcuni anni non ho seguito la carriera di Umberto Lenzi, che era sempre in giro per altri lidi, e anche perché in seguito, un po’ per volta, mi sono ritirata a vita privata. Parlavate mai, con Lenzi, con suo marito, dell’atteggiamento della critica nei confronti di questo cinema poi definito di genere? Ne parlavamo con mio marito Luciano Martino, che di fronte alle critiche e alle sottovalutazioni ha sempre mantenuto un atteggiamento ironico e vincente anche perché, alla fine, gli incassi al botteghino gli davano molto spesso ragione. Le critiche lo stimolavano, invece. Diventavano un motivo di sfida in più. In una seconda fase è arrivato anche un cinema più autoriale, quindi ad esempio i film di Pupi Avati, Francesca Archibugi, o Il Mercante di Venezia e Monster, con il premio Oscar a Charlize Theron. Prova che Luciano, da vero produttore, poteva strategicamente passare da un genere all’altro. Negli ultimi anni si assiste a una grande rivalutazione di questi film e di quei registi. Lei che idea si è fatta di questo cambio di registro della critica? Credo che nei momenti di povertà di stili e di idee avvengano inevitabilmente i grandi ritorni, i ripescaggi e le rivalutazioni. Vale anche per la critica. Sull’onda dell’entusiasmo di Quentin Tarantino, negli ultimi anni Umberto Lenzi era considerato e definito un maestro. A lei che ha vissuto direttamente (e indirettamente) tutta la parabola del cinema di quegli anni che effetto fa? Quentin Tarantino si è ispirato anche al cinema di Lenzi, rielaborandone alcune scene e stili registici con estro particolare e a volte geniale. È un riconoscimento meritato, anche se molti, in particolare tra il pubblico più giovane, oggi non ne hanno conoscenza.

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Infine, c’è un pensiero che vuole rivolgere a Umberto, un modo per ricordarlo? Negli ultimi mesi della sua vita mi telefonava spesso, ricordando il passato e inviandomi parole affettuose, malgrado le difficoltà dovute alle sue condizioni di salute. E quando andai a trovarlo insieme alle mie figlie, mentre si trovava in una casa di cura, mi consegnò in regalo alcuni dvd dei miei film che aveva preparato per me, estrapolandoli dalla sua fornita cineteca. Sono felice per Umberto rivalutato nella sua giusta luce e considerato un maestro. È stato un regista e un uomo che ha messo tutta la sua grande energia, e la passione che possedeva, nel suo lavoro, utilizzandole fino all’ultimo dei suoi giorni per creare, anche come scrittore di libri gialli, sempre nuove storie.

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La macchina cinema. Intervista a Lisa Gastoni di Davide Magnisi

Lisa Gastoni (1935) comincia la sua carriera come modella in Gran Bretagna. Nel 1954 esordisce in piccoli ruoli nel cinema inglese prendendo parte a numerosi film d’avventura, una ventina, con registi come Lewis Milestone, Val Guest, Ken Annakin, Roy Boulting, Lance Comfort, Frank Launder, Gerald Thomas, Jack Cardiff. Nel 1961 rientra in Italia da protagonista proprio con Le avventure di Mary Read di Lenzi, primo di una lunga serie di film d’avventura e di fantascienza, con vari registi di genere. Lavora anche in diverse commedie, dalla giovanilistica Diciottenni al sole (1962, Camillo Mastrocinque) al Monaco di Monza (1963, Sergio Corbucci), fino a I maniaci (1964, L. Fulci). Non mancano incursioni nel cinema d’autore, dall’internazionale Eva (1962, Joseph Losey) a un episodio di Ro.Go.Pa.G. (1963, quello di Ugo Gregoretti). Nel 1966 trova una grande interpretazione in Svegliati e uccidi di C. Lizzani e un clamoroso successo commerciale nel morboso Grazie zia (1968, Salvatore Samperi) che le stamperà addosso l’aura di donna conturbante e seduttiva nella sua maturità. Questa fama è consolidata dai successivi L’amica (1969, Alberto Lattuada), Maddalena (1972, Jerzy Kawalerowicz), La seduzione (1973, F. di Leo), Amore amaro (1974, Florestano Vancini), Labbra di lurido blu (1975, Giulio Petroni), Scandalo (S. Samperi), L’immoralità (1978, Massimo Pirri). Dopo aver debuttato in teatro nel 1979, si è a lungo ritirata dalle scene, per ritornare al cinema e alla televisione a metà anni 2000, segnalandosi, in particolare, per la sua interpretazione in Cuore sacro (2005, Ferzan Özpeteck).

Dopo una lunga carriera come fotomodella e attrice all’estero, esordisce in Italia proprio con Umberto Lenzi alla regia, anche lui al suo primo film italiano, in Le avventure di Mary Read, nel 1961. Che ricordo ne ha? Ricordo che in quel film facevo una piratessa e mi sbracciavo come una matta, con in mano spesso una spada o una sciabola e zompavo da una parte all’altra di questa barca in equilibrio molto precario sul lago di Garda o di Como, non ricordo con precisione. Poi improvvisamente diventavo, come sovente capitava in questi film, una milady, anche di nobile schiatta. Le cose folli di quell’epoca… L’anno dopo, sempre con Lenzi, gira Duello nella Sila, ancora un film di av333 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

venture. Ricordo che era un film con Liana Orfei. Allora si girava tantissimo, si facevamo moltissimi film nello stesso anno, uno appresso all’altro. Rammento anche lì inseguimenti, corse, banditi. È stato un periodo in cui, in effetti, sia io che Umberto giravamo un film dopo l’altro e anche in questo ci siamo ancora ritrovati piacevolmente insieme. Anche se, sinceramente, conservo un ricordo più vivido e più bello di Le avventure di Mary Read, forse anche perché era stato il primo film che avevo girato in Italia. Anche in Duello nella Sila è stato tutto molto divertente, ma qui eravamo già un po’ più nella routine. In quegli anni di debutto in Italia faceva anche quattro o cinque film all’anno. Nel 1964 addirittura se ne contano otto! Tra questi c’è anche L’ultimo gladiatore con Lenzi. Qualche ricordo in particolare? Dell’Ultimo gladiatore proprio di recente mi hanno mandato il dvd. So che era un film abbastanza introvabile, anche se, davvero, non mi sembra un film da collezione. All’epoca si facevano tantissimi di questi film in costume, soprattutto quelli. Veramente si passava da un set all’altro con una fretta pazzesca. Erano così tanti che, delle volte, i ricordi si accavallano da un set all’altro. Tu pensa otto film in un anno e parliamo di cinquantacinque anni fa! Moltiplica tutto anno per anno e capirai come nella mia memoria, talvolta, mi sembra che personaggi, costumi e storie si sovrappongano le une sulle altre. Dell’Ultimo gladiatore ricordo con piacere il fatto che facessi il ruolo di Messalina. Che ne pensava di questo cinema avventuroso pseudostorico di cui è stata protagonista agli inizi della carriera italiana? Confesso che quasi non facevo caso ai ruoli, passavo da un film all’altro, mi pagavano ed ero contenta così. Recitavo per professione, mi piaceva, ma non erano cose che mi appassionassero particolarmente. Qualche set era più divertente di altri e qualcuno peggio, certo. Che tipi di figure femminili si recitavano? Io facevo quasi sempre la regina, cattiva o buona, e andavo da un film 334 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

all’altro con una velocità impensabile ora. Cioè tu sai oggi di qualche attrice italiana che fa otto film in un anno? Credo non esista. Poi bisogna pure vedere se si fanno otto film buoni in Italia in un anno, adesso. Il cinema che facevamo noi è del tutto scomparso, ma è tutto il cinema italiano che è incredibilmente decaduto. C’è qualche tentativo di fare qualche bel film artistico, ma sono rarissimi. Il cinema americano e inglese oramai ci ha definitivamente sopravanzato. Per esempio, è quasi impossibile trovare oggi dei film in costume italiani, mentre noi allora ne facevamo tantissimi. Contemporaneamente, pensa al livello e alla qualità di quelli inglesi. L’unica cosa che ancora si continua a fare in Italia è la commedia, anzi, i film comici. Come sai, io per anni non ho lavorato più al cinema, anche perché ho lasciato l’Italia per quasi vent’anni. Quando sono tornata a recitare in qualche ruolo, ho trovato veramente un altro mondo, tanto che è stato facilissimo allontanarmi di nuovo, senza alcun impianto. In generale, poi, il cinema italiano ha sempre dato pochi ruoli belli alle donne, io stessa credo di averne interpretati pochi e questa situazione mi ha fatto un po’ spegnere il sacro fuoco dell’arte, diciamo così. Quanto è stato importante per lei questo apprendistato nel cinema italiano prima di passare a ruoli più completi? Non ha avuto nessun valore per me: mi pagavano e finiva lì. Mi davano i copioni, io li imparavo ed ero molto professionale e puntuale sul set. Del resto, se mi hanno fatto fare così tanti film, deve essere stato così. Io davo sempre il meglio, ma il cinema, la recitazione, non era la mia vita. Quando finiva la giornata di lavorazione, quando finiva il film, io tornavo a casa e il mondo del cinema si chiudeva lì, dietro le mie spalle. Da questi film avventurosi, che giravo uno dietro l’altro, non posso dire di aver avuto un vero appagamento né un grande piacere, anche nel rivedermi. Direi proprio di no, era solo un lavoro. I film che davvero mi hanno dato soddisfazione sono stati pochissimi, nonostante ne abbia girati tantissimi, e concentrati nel periodo da metà anni ’60 a metà anni ’70. I miei ricordi più belli sono legati ai film fatti con Carlo Lizzani. C’è comunque qualche ricordo particolare che ha di Lenzi? Le cose che più ricordiamo, alla fine, sono quelle che hanno maggiore sostanza, quelle rimangono. Ho un bellissimo ricordo di Umberto come 335 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

persona. Nei suoi set ci siamo sempre trovati bene insieme e io mi sono sempre comportata come la professionista che ero, così come lui, del resto. Anche se ogni tanto Lenzi, quando girava, era un po’ troppo esaltato, per me rimaneva una bravissima persona. Ho lavorato molto bene con lui, ma non ho specifici ricordi, in particolare, di quei set, perché erano fra i tanti che si susseguivano in quegli anni. Poi, ripeto, era anche un po’ un mio difetto questo di considerare quel mondo solo come lavoro e lasciarmi scivolare via i ricordi. In conclusione, vorrei leggerle quello che ha detto Umberto Lenzi, in un’intervista del 2016, una delle sue ultime prima di morire, ricapitolando un po’ tutta la sua carriera. Parlando dei suoi film in costume, disse, testualmente: «Il primo fu con Lisa Gastoni nella parte di Messalina. Uno spettacolo, nuda nel latte finto, mentre faceva il bagno!»184 Che carino a ricordarsi così di me dopo tanti anni! Umberto Lenzi si è sempre comportato da gentiluomo. Francamente mi stupisce questo ricordo, ma non nascondo che mi faccia anche piacere che, dopo più di cinquant’anni, si ricordasse in questo modo di me, anche considerando tutti i film che ha fatto dopo e tutte le bellissime attrici che avrà incontrato. Non mi sono mai accorta di un particolare interesse di Umberto nei miei confronti, ma ero così sfuggente all’epoca. Probabilmente, anche il ruolo che interpretavo in quel film deve averlo in qualche modo suggestionato, ma sono, davvero, lontani ricordi di gioventù.

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U. Lenzi in A. Gnoli, Umberto Lenzi cit. 336 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Brividi di guerra. Intervista a Dario Argento di Davide Magnisi

Dario Argento (1940) si affaccia al mondo del cinema come critico su «Paese Sera», facendo per alcuni anni anche lo sceneggiatore: tra i suoi film, Cera una volta il west (1968, S. Leone), Metti una sera a cena (1969, Giuseppe Patroni Griffi) e La legione dei dannati (1969, U. Lenzi). Esordisce alla regia nel 1970 con L’uccello dalle piume di cristallo, il cui enorme successo, anche internazionale, lo porta ai successivi Il gatto a nove code (1971) e Quattro mosche di velluto grigio (1971), la cosiddetta «trilogia degli animali», che rinnova originalmente il thriller italiano. Dopo il risorgimentale e poco compreso Le cinque giornate (1973) e alcuni lavori per la televisione, inizia una fortunata stagione di film horror a partire da Profondo rosso (1975) e proseguendo con Suspiria (1977), Inferno (1980), Tenebre (1983), Phenomena (1985), tutti di forte impatto e successo presso il grande pubblico. Non così i successivi, da Opera (1987) a La sindrome di Stendhal (1996), da Il fantasma dell’opera (1998) fino ai più recenti Nonhosonno (2001), Il cartaio (2004), La terza madre (2007), Dracula 3D (2012). È stato anche un importante produttore di film horror come Zombi (1978) di G. Romero e gli italiani Demoni (1985) di Lamberto Bava, La chiesa (1989) e La setta (1991) di Michele Soavi, solo per citarne alcuni.

Conosceva già i film di Lenzi prima di lavorarci insieme per La legione dei dannati? Sì, lo conoscevo, non personalmente, ma avevo visto i suoi film. Allora facevo lo sceneggiatore ed ero molto giovane. Mi ricordo che andavo a casa sua per lavorarci insieme, abitava sulla Cassia. Era una persona molto simpatica e amichevole. Ho avuto molta stima e simpatia nei suoi confronti. Che ricordo ha della collaborazione per quel film? Ricordo che ci si incontrava anche con gli altri sceneggiatori, ma io lavoravo strettamente soprattutto con Umberto. È proprio così che nacque la nostra amicizia, lavorando insieme. Devo dire anche che, secondo me, La legione dei dannati è uno dei migliori film che abbia fatto, con protagonista l’attore americano Jack Palance e un cast di tutto rilievo.

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Le critiche al film non furono molto tenere. Le capitava mai di parlare con lui del vostro rapporto con la critica? No, tanto sapevamo che la critica non aveva simpatia nei nostri confronti. Io poi allora ero un nome quasi del tutto sconosciuto. In ogni caso, le critiche furono, come sempre verso questo cinema, spietate. Comunque, credo che a Umberto, della critica, interessasse davvero poco: a lui interessava fare dei film che avessero successo, continuando con la sua idea produttiva e stilistica di cinema. La legione dei dannati non smentì l’assunto: ebbe successo, ma fu snobbato dalla critica. Era una specie di paradigma. Proprio negli anni di quella collaborazione, Lenzi aveva girato alcuni gialli pregevoli con Carroll Baker. Che ricordo ha di quei film? Di film molto apprezzati, anche questi con un ottimo riscontro produttivo. Lenzi all’epoca era abbastanza quotato come regista e non solo per questi gialli. Aveva attraversato tanti generi cinematografici, sempre con grandissima abilità. Umberto ha fatto veramente di tutto, tutti i generi possibili del cinema, è stato un regista molto eclettico. Negli stessi anni, lei debuttava alla regia rivoluzionando il concetto stesso di giallo. Ci fu un qualche scambio di idee? No, nessuno scambio. Dopo la nostra esperienza insieme, non ci siamo più sentiti e visti per tanto tempo. L’incontro successivo tra noi avvenne molti anni dopo, al Festival di Courmayeur, al Noir in Festival. Lì abbiamo ripreso il nostro rapporto. Siamo stati molto vicini in quei giorni e ci siamo raccontati un po’ quel che ci era successo negli anni precedenti. Lui nel frattempo aveva già lasciato il cinema ed era diventato uno scrittore di gialli, iniziando questa carriera successiva a quella di regista. Lo conosceva come romanziere? Sì, certo, avevo letto diversi suoi libri. L’ho seguito con piacere in questa nuova piega della sua carriera. Ho un bel ricordo di lui, sia come persona sia come regista sia come scrittore. Quando ha intrapreso quest’ultima fase della sua attività, lo ha fatto con innegabile forza. Erano romanzi ben fatti e interessanti. Lo considero uno dei migliori scrittori di gialli italiani. Gli ul338 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

timi anni della sua vita sono stati interamente caratterizzati da questa esperienza di scrittore, con un bel successo, riprendendo in parte anche i film che lui aveva fatto e quelli che avrebbe voluto fare. Si respira l’atmosfera del cinema anche nei suoi libri. A seguito dello strepitoso successo dei suoi film giallo/horror, molti registi finirono con l’inseguirla, Lenzi compreso, penso soprattutto a pellicole come Sette orchidee macchiate di rosso (1972) e Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975), che richiamano i suoi film sin dal titolo. Come ricorda questo fenomeno di epigoni del giallo argentiano? Vedevo questo fenomeno come una follia. In quel periodo si fecero moltissimi film di questo genere. Anche registi piuttosto noti come Tessari e lo stesso Lenzi si sono impegnati a fare questi gialli un po’ sulla scia dei miei film, alcuni imitandone il titolo con gli animali, altri i numeri. Un po’ mi disturbava questo tipo di imitazione. Però, d’altra parte, pensavo che volesse dire che i miei film avessero avuto un grande successo, imitandomi come se fossi diventato un genere, il giallo argentiano sembrava essere diventato veramente un genere in Italia a quel tempo. Un genere che è andato avanti per molti anni. Ricordo di aver visto anche questi due film di Lenzi, sicuramente apprezzabili, ma un po’ schiacciati su un certo filone produttivo. Alcuni hanno detto che la paura che si respirava in quel genere di film fosse un altro modo di vivere, al cinema, la tensione che si respirava in Italia in quel decennio difficile. Lei che ne pensa? Forse hanno ragione, perché, in effetti, era il decennio dei cosiddetti anni di piombo, anni molto violenti. Forse quei film erano davvero lo specchio di un’epoca, di uccisioni continue per le strade che riempivano le cronache di queste immagini. Una cosa diversa, ma un’aria simile, respiravano i polizieschi, anche quelli alla Lenzi, questi si rifacevano più direttamente alla violenza metropolitana. Certo il nostro Paese stava attraversando tempi molto difficili e si trasmettevano in questi film. Non posso dire che quei gialli, la tensione che vi si respirava, la paura che perveniva da quei film, fosse direttamente ispirata alla situazione del momento, ma, sicuramente, la tensione emotiva, gli stati d’animo di paura, potevano essere in osmosi con la realtà dell’epoca. Quei tempi difficili si potevano cogliere più direttamente nei polizieschi, compresi quelli di Lenzi, immediatamente figli del339 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la violenza dell’epoca, la violenza di strada, la violenza criminale, mentre per il giallo/horror la derivazione è sicuramente più complessa, più sottile, ma c’è. Lei, anche da critico, è sempre stato molto attento a quello che poi si è chiamato cinema di genere. Come inquadrava un regista come Umberto Lenzi? L’esplosione di Lenzi è avvenuta un po’ prima che io iniziassi a fare il regista. Come critico mi è anche capitato di parlare dei suoi primi film. Quindi, quando poi ho avuto la possibilità di lavorare con lui, all’epoca già conoscevo il suo cinema e il suo modo di fare cinema, sapevo bene cosa cercava. Quando mi capitava di parlare di lui da critico, ne parlavo sempre abbastanza bene. Ciò mi procurava rimproveri da parte del responsabile della pagina di spettacoli per la quale scrivevo, perché, a «Paese Sera», non erano abituati a leggere critiche in cui si elogiassero questi film. Parlavo della bellezza di quelle atmosfere, dell’azione incalzante, invece, generalmente, la cultura dell’epoca era solita considerare tutti quei film come mediocri, commerciali, facili, ma non era vero. Quello che mi era capitato di scrivere per registi come Roger Corman accadeva per Umberto Lenzi, ma anche per Sergio Leone: non ci dimentichiamo che il primo western di Leone, Per un pugno di dollari, fu massacrato dalla critica e, addirittura, alcuni giornali neanche lo recensirono, snobbandolo completamente. Quindi, pensa un po’ come funzionava all’epoca… Beh, un po’ la stessa cosa è successa anche a lei. Anche i miei erano considerati film mediocri. Giusto con Suspiria la critica cominciò a capire che c’era qualcosa di nuovo. Ma era successo anche perché, nel frattempo, era uscito in Francia Profondo Rosso e aveva avuto un grande successo. Questo tipo di parabola rivalutativa stava allora lentamente iniziando per tutto il cinema cosiddetto di genere, contemporaneamente, però, produttivamente, le cose diventavano sempre più complicate e, registi come Lenzi, finirono nel dimenticatoio o in produzioni minori, il tutto mentre se ne avviava una lentissima opera di riscoperta. I miei film iniziarono ad avere molto successo all’estero, cosa che poi capitò anche ai registi poi detti di genere, come Lenzi, di Leo e altri. La Francia fu la prima in Europa a rivalutarci, in seguito, però, il grande successo è sicuramente arrivato dall’America. Per quanto mi riguarda, Profondo Rosso prima e Su340 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

spiria dopo, sono stati i film chiave di volta e, finalmente, alcuni critici, anche in Italia, cominciarono ad accorgersi di questo cinema. Io in quegli anni ho avuto certamente più fortuna di Umberto, anche perché ero più giovane e avevo trovato un mio genere. Ma è stata dura all’epoca. Pensa solo che adesso, in Francia, stanno uscendo otto miei film ridistribuiti come se fossero film nuovi. Tutto questo cinema, che in Italia è stato a lungo denigrato, ora sta avendo una nuova circolazione dappertutto. È un momento di grande revival per questo tipo di cinema. Faccio un paragone che potrebbe sembrare un po’ banalizzante, ma può essere efficace anche per esprimere le mode del momento, pure questo aspetto esiste: come in questi ultimi anni c’è un grande revival del vinile rispetto al cd, così c’è una grande rivalutazione di questi film, anche in una nuova visione al cinema. Quando queste mie vecchie pellicole, così come altre del cinema di genere del passato, vengono proiettate nei festival o nelle rassegne, le sale sono sempre incredibilmente piene, e sono quasi tutti giovani gli spettatori, entusiasti. È una cosa impressionante quando capita di assistervi. Allora, invece, la critica era di sinistra e il film di genere di destra? Era questo il paradigma? Sì, e non venivano apprezzati. Il paradigma è stato quasi sempre questo. Oggi, invece, c’è quasi una frenetica rivalutazione di questo cinema che era stato considerato di serie B. Lei come legge questo fenomeno? È un fenomeno che è cominciato da una decina d’anni. Pensa che a me è capitato, qualche anno fa, di andare a casa del regista Eli Roth a Los Angeles, per il suo compleanno, ed era tappezzata di manifesti di film italiani degli anni ’70. È veramente una sua passione, che poi è la stessa di Quentin Tarantino, di cui è amico e collaboratore. Mi ricordo, in particolare, che in camera da letto aveva persino il manifesto di L’insegnante, con la Fenech. E poi le locandine di tantissimi film gialli anche sconosciuti, molto di nicchia, che pochissimi potevano conoscere e ricordare. Quasi ogni stanza di quella casa era un po’ a tema di genere con i poster, con stragrande maggioranza di film italiani. Fu una cosa che mi colpì molto e dà il segno della passione che c’è in giro all’estero per questo cinema. Ma questo fenomeno di rivalutazione è tutto positivo o ci sono anche aspetti ne341 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gativi? Io lo considero del tutto positivo. In questo momento il cinema è molto fragile, non ha più grandi idee, mancano le innovazioni di quell’epoca, sia a livello di trame sia a livello visivo o tecnico, per cui si finisce col fare tante copie di film già girati. Ed è il motivo per cui quel tipo di cinema del passato è così tanto rivalutato. Non a caso si sta ripensando ai film di quegli anni considerandoli bellissimi, importanti, di grande valore. Anche a livello produttivo, persino in Italia, c’è fermento nel riprendere questo tipo di cinema di genere degli anni ’70 e ’80 in una veste, ovviamente, contemporanea. Molti film di oggi stanno venendo da lì, non solo negli Stati Uniti, ma anche qui da noi in Italia. La cosa curiosa è, però, che queste rivalutazioni ci vengono sempre dall’estero. Sì. È troppo facile dire Nemo propheta in patria, però è vero. Antonioni in Italia veniva considerato noioso, una specie di oggetto misterioso; in Francia, in America, in Inghilterra, è stato subito riconosciuto come un maestro e ha avuto grande successo, piaceva al pubblico e la critica lo osannava. Non parliamo poi di Sergio Leone che nella sua vita, pensa un po’, non ha mai vinto un premio e la critica lo ha, praticamente, quasi sempre snobbato. Solo per il suo ultimo lavoro, C’era una volta in America, improvvisamente, con quelle inspiegabili giravolte della cultura italiana, c’è stata un’esaltazione di un suo film che poi, secondo me, non è neanche il suo più bello. Una soddisfazione avuta solo all’ultima pellicola, poi, però, è morto, poveraccio. Non ha avuto neanche il tempo di godere di questo cambio di passo della critica italiana nei suoi confronti. Anche a Lenzi è successa la stessa cosa. Sì, è vero. E anche nei suoi confronti Quentin Tarantino ha avuto pubblicamente molte parole di elogio durante la rassegna che hanno fatto al Festival del Cinema di Venezia nel 2004. Tra i suoi film preferiti ci sono pellicole di Lenzi come Orgasmo e Incubo sulla città contaminata. All’estero sono, secondo me, molto più aperti e disponibili alla comprensione, a intuire che cosa sta succedendo, alle novità nel mondo e persino nella piccola cinematografia italiana. Devo dire, però, che questo primato va riconosciuto, ancor più che all’America, dove certamente adesso il nome di Tarantino ha un po’ 342 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

monopolizzato il nuovo consenso critico, alla Francia. La rivalutazione critica è partita proprio da lì. Per me, dal punto di vista cinematografico, i francesi rimangono i migliori del mondo, dai tempi della Nouvelle vague fino a oggi. Sono i più attenti, i più profondi, sia come critica che come pubblico. Sono stati proprio loro, del resto, a rilanciare per primi la cosiddetta serie B italiana (e sono anche quelli che hanno apprezzato di più i miei film). Bisogna levarsi il cappello di fronte alla critica francese, riconoscere che è la migliore. Va aggiunto, poi, che in Francia ci sono tante riviste di cinema, anche divulgative, invece in Italia ne sono rimaste pochissime. E non parliamo del fatto che in Italia, quella del critico cinematografico, è una categoria che, nel bene o nel male, sta sparendo: nei quotidiani, la critica dei film non c’è quasi più o la trattano in poche righe, se non l’hanno del tutto abolita, per dare, incomprensibilmente, sempre più spazio a quella, se così si può dire, televisiva. Io credo che abbiamo molte colpe noi italiani per non aver compreso i nostri film, il valore della nostra cinematografia. E di non aver spesso capito neanche molto cinema americano, penso, per esempio, a quello di John Ford. Opere poco apprezzate, ridotte al rango di film d’avventura. Vogliamo dire, invece, di quale reazione ci fu quando John Ford andò in Francia, incontrò Truffaut… ci fu veramente un’ovazione di pubblico e critica che, giustamente, riconosceva la grandezza di quel regista. Tutta la Nouvelle vague era in prima fila per osannarlo. Da noi, invece, i suoi film erano, in un certo senso, serie B americana. Sono stati proprio i critici della Nouvelle vague a infrangere il tabù del valore del cinema avventuroso americano, del cinema d’azione, a considerarlo grande, a riconoscere la sua giusta qualità e non confinarlo in un genere minore, come abbiamo fatto noi in Italia. Non a caso i registi preferiti da Umberto Lenzi erano John Ford, Raoul Walsh, Samuel Fuller. Infatti, sì, erano i suoi preferiti, anche se non ricordo di averne mai parlato con lui. Non ho alcun dubbio, comunque, su quello che dici, perché era proprio quello stile che lui adorava e che trasmetteva nei suoi film. Insomma, alla fine, i francesi ci rivalutano e gli americani ci copiano. Sì, in un certo senso è vero quello che dici, anche se aggiungo che gli americani ci copiano e ci rivalutano, cioè riconoscono il nostro valore. 343 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

L’anno scorso sono stato alla cineteca di Los Angeles dove hanno fatto una rassegna dei miei film, né era la prima volta. Anche lì un enorme afflusso di pubblico, soprattutto giovani, entusiasti, gasatissimi. La stessa cosa era successa alla cineteca di New York, a quella di Albany e al Museo d’arte contemporanea di Chicago. Insomma facevano queste rassegne all’interno di grandi istituzioni culturali, non in cinemini di periferia. Questo per dire che non è vero che, semplicemente, gli americani, i loro registi, hanno rubacchiato dal nostro cinema, ma hanno posto in atto una completa rivalutazione di quel cinema, riguardandolo e diffondendolo. Partecipare a occasioni del genere è stato per me entusiasmante. Ricordo anche che i manifesti di questi vecchi film italiani andavano a ruba in occasione di queste rassegne, a Los Angeles non se ne trovavano più. E qui apro un’altra piccola parentesi che può far capire la differenza tra noi e loro: Los Angeles è piena di negozietti di locandine di cinema, a Roma ce n’è solo uno, e non parlo di una piccola città italiana. In effetti, questa produzione italiana degli anni ’70 ha poi girato moltissimo in America: prima i gialli, poi i polizieschi, soprattutto dopo la retrospettiva a Venezia del 2004, Italian Kings of the B. Sì, è così, e il pubblico le segue e le riviste ne parlano. Gli americani certamente parlano più di questo nostro cinema degli anni ’70 che di quello contemporaneo. Oggi è più facile vedere in America una rassegna su queste pellicole che un film italiano che esce da noi. Una bella soddisfazione essere rivalutati così: da serie B ai musei d’arte contemporanea. Sì, però è tutto accaduto troppo tardi. Molti registi di genere di cui parliamo sono morti nella totale oscurità, senza che venisse riconosciuto il giusto merito che hanno avuto all’interno della storia del cinema italiano. Nel nostro Paese, c’è stata un’incredibile resistenza nei confronti di questo tipo di cinema, di cui anche Lenzi è stato un fiero protagonista. Le cose sono cambiate, ma non completamente. Certo, c’è stato un cambio di passo grazie anche a tutta una nuova generazione di critici che si sono avvicendati, a partire, lo ripeto ancora una volta, dai giornali e le riviste francesi. Gli italiani si sono un po’ accodati sulla scia dei colleghi francesi, ma la maggioranza della critica italiana, ancora oggi, non si vuole rendere conto di quello 344 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che è successo nel cinema italiano di quegli anni e del valore che queste pellicole hanno avuto per tanti motivi. È stato un decennio di grande libertà, di grande inventiva. Sì, esatto. È stato un decennio di grande libertà, di grande felicità creativa, abbiamo raccontato al cinema una libertà espressiva che era completamente nuova fino ad allora. Abbiamo anche raccontato l’Italia in modo spesso non riconosciuto. Ricordo una volta di aver incontrato Marco Lodoli, che lavora alla «Repubblica», ma è anche un professore a scuola. Mi ha detto che, in una lezione, si mise a parlare di cinema e cominciò a fare i nomi di registi italiani anche famosissimi, come Fellini o Visconti, e i suoi studenti facevano facce stranite, dicendo che non avevano mai sentito parlare di questi registi né avevano visto i loro film. Quando poi ha nominato Dario Argento, tutti a dirgli «sì, quello certo che lo conosciamo! Grande! Da paura!». Certamente conoscevano anche i titoli di molti film polizieschi, pur senza magari sapere che il regista fosse Lenzi. Questo per dire come questo tipo di cinema è entrato nel cuore e nella memoria delle persone in maniera molto forte.

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Così dolce… così perversa. Intervista a Erika Blanc di Davide Magnisi

Erika Blanc (Enrica Bianchi, 1942) esordisce nel cinema a metà degli anni ’60, collezionando decine di titoli nel cinema di genere italiano, dal western allo spionaggio, dalla commedia al giallo. Dirada la sua presenza negli anni ’80, ricominciando a lavorare all’inizio degli anni 2000 con registi come Franco Giraldi (Voci), Ferzan Özpetek (Le fate ignoranti, Cuore sacro), Pupi Avati (Una sconfinata giovinezza, Il cuore grande delle ragazze). Negli stessi anni ha intensificato i ruoli nella fiction televisiva (da La fuga di Teresa di Margarethe von Trotta a Il bambino cattivo di P. Avati, da Rocco Schiavone a I bastardi di Pizzofalcone). Altra parte fondamentale della sua carriera artistica è stata il teatro, recitando per Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, ma, soprattutto, a lungo e con tantissimi titoli, a fianco di Alberto Lionello, che è stato anche suo compagno di vita.

Il suo primo incontro con Umberto Lenzi è per Un milione di dollari per sette assassini. Che ricordo ne ha? Ricordo un set piacevole, tante belle donne, com’era tipico all’epoca. Un’atmosfera molto tranquilla. Ricordo anche che Lenzi era molto carino sul set, molto gentile con me, non che mi facesse la corte, ma tutto appariva rilassato. Forse perché quello era un tipo di film più semplice e senza molte pretese, di puro divertimento. Invece, nella seconda esperienza che ho avuto con lui, in Così dolce… così perversa era più teso. Probabilmente perché preso in mezzo alla grandezza di quegli attori, si girava con Trintignant, Carroll Baker, una produzione molto più impegnativa, un film anche decisamente più ambizioso, con tutte le complicazioni del caso. Se devo comparare le mie due esperienze con lui, si vedeva che in questo secondo film la sua creatività era veramente al massimo. Lavorare con un gruppo di attori di quel livello lo aveva pervaso di una specie di frenesia artistica, traspirava un grande desiderio di fare del suo meglio, quindi era decisamente più nervoso, però, insomma, visti i risultati, ne valeva la pena, ci poteva anche stare. Questo, comunque, non si tramutò in una mancanza di cortesia nei miei confronti o di cattiveria verso qualcun altro, neanche un po’. Però si 347 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vedeva che aveva tante cose a cui pensare e che ci teneva a farle bene, come poi sono venute, in effetti. C’era la frenesia dell’artista che posso comprendere, che esalta anche. Lenzi ha trasformato tutta questa energia, elettricità, se vuoi, per il meglio. Mi è capitato di rivedere Così dolce… così perversa qualche tempo fa e, devo dire, l’ho trovato ancora molto bello. Come è stato recitare accanto a due pezzi di storia del cinema come Carroll Baker e Jean-Louis Trintignant? Dovevo recitare in inglese e così ho fatto, ma io l’inglese non lo sapevo… allora, quando c’erano primi piani miei e, magari, Carroll Baker era di spalle, le dicevo: «Sorry Carroll» e le attaccavo i bigliettini sulla schiena e da lì leggevo. Quindi sfruttavo la Baker! Oppure mettevo bigliettini ovunque possibile per poter prendere la battuta. Ti racconto un’altra storia bellissima con Trintignant: io non sapevo guidare la macchina. Stavamo su una strada di campagna dove io, per il personaggio, dovevo guidare l’auto. Era la prima volta che mi vedevo con lui. Trintignant era una persona sempre molto seria. Seduta vicino a lui dovevo partire con la prima e io mi ricordo che gli dissi, in francese: «Signor Trintignant non sa come sono emozionata, lei non sa che piacere mi dà lavorare con lei!...». Intanto aspettavo il via per partire in prima. Continuavo a dirgli «come sono emozionata, come sono emozionata». E poi aggiunsi: «E non so neanche guidare la macchina… Pensi che non ho neppure la patente!». Immagina la faccia che ha fatto lui: era davvero terrorizzato! Mi guardò come se fossi una pazza. Poi ti dico un’altra cosa di Trintignant: lui recitava in francese, eravamo a Parigi, in una scena dove guidava lui l’auto. A un certo punto, mi chiese se io sapessi l’inglese e gli ho risposto di no. Dal giorno dopo, anche lui ha cominciato a recitare in inglese, a sforzarsi come facevo io per metterci tutti alla pari. Era davvero un gran signore. Mi ricordo anche una persona che aveva sempre un velo di tristezza negli occhi. Dalla vita ha avuto grandi doni come artista, ma il destino non è stato particolarmente clemente con lui. Insomma recitavo con due grandi attori, due stelle, ma i rapporti furono sempre molto cordiali e, il film che ne è uscito, eccellente.

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Il confronto attoriale di bellezza con Carroll Baker è una delle leve del film. Che tipo di indicazioni vi dava Lenzi? A proposito di questo mi ricordo un’altra cosa: il mio ruolo doveva farlo Carroll Baker. È stata lei a scegliere di cambiarlo, di non essere la moglie di Trintignant. Quindi mi è capitato in questo modo un bellissimo personaggio, davvero molto ben definito, che, però, non era destinato a me. Ho comunque potuto modellarlo su di me e, devo dire, era un tipo di ruolo che dava la possibilità a un attore di esprimere tutta una serie di potenzialità, una gamma espressiva. Per me è stato un ruolo importante, uno di quelli che ti fanno in qualche modo progredire in una carriera. Non si trattava solo di essere bella in quel film, ma c’era un personaggio molto ben scritto, all’interno di un film molto ben strutturato e girato. Tanto spesso capitava in quegli anni di ricoprire ruoli in cui bastava essere belle e, magari, spogliarsi un po’, c’era davvero poco da aggiungere, non c’era una grande valorizzazione come interpreti. Non era il caso di Così dolce… così perversa. Anche qui ci spogliava, però stiamo parlando di un film dalla bella scrittura, di personaggi veri da portare in scena, un film, insomma, girato con tutti i crismi. Lenzi mi aveva dato un personaggio che non si risolveva solo nell’estetica e un po’ di pelle da mostrare. La componente erotica è molto rilevata nel film ed è il tocco di originalità all’italiana nel filone giallo. A voi, all’epoca, sembrava di girare qualcosa di originale o pensavate solo a un prodotto commerciale? All’epoca sembrava un po’ fosse un film tra gli altri. Certo, avevo la possibilità di girare con due grandi attori del calibro di Carroll Baker e Trintignant e questo già lo elevava, però rimaneva nell’alveo del prodotto commerciale. Cioè, per dirti, questi film non avevano le prime, spesso si usciva addirittura nei cinema di seconda visione, pur con un cast del genere e un prodotto come Così dolce… così perversa che, comunque, secondo me, era di prima qualità. Ma posso dirti che la stessa cosa accadeva con Mario Bava, io che ho lavorato con lui posso dirlo. Oggi Mario Bava è considerato un grande autore, soprattutto in America. Tutte le nuove generazioni di cinefili e di registi lì lo osannano come un maestro. Con lui ho girato Operazione paura: quando è uscito in America se ne sono occupati le grandi riviste. «Variety» ci dedicò una recensione bellissima, me la ricordo ancora. In Italia, invece, anche questo film partì direttamente in seconda visione. Nel no349 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stro Paese, tutti i film di genere erano considerati solo un prodotto commerciale, mentre in America sin da allora li si valorizzava. Questo per dirti che differenza c’era tra i due Paesi. Questa differenza nel tempo si è acuita: Bava era considerato un grande regista allora, un maestro senza se e senza ma oggi. In Italia è cominciata molto tardi una rivalutazione di questi film e i loro autori, ma, fortunatamente, almeno è cominciata. Queste pellicole hanno avuto una nuova vita grazie a tutta una generazione di nuovi critici. Non che quel cinema fosse fatto male, anzi, era un cinema realizzato davvero da grandi professionisti, a cominciare dalle maestranze, passando per scenografi, costumisti e registi come lo stesso Lenzi. Poi erano film che si esportavano benissimo, avevano un grande mercato all’estero, anche se poi in Italia erano considerati serie B, ma non certo improvvisati, come accade a molto cinema di adesso. Si ricorda cosa ha pensato del film Così dolce… così perversa quando lo ha visto la prima volta? A dire il vero, il film l’ho visto per la prima volta qualche anno dopo la sua uscita. Io all’epoca lavoravo tantissimo, avrò fatto un centinaio di film, quindi l’ho visto solo alcuni anni dopo e, chiaramente, mi è piaciuto molto. Mi capitava spesso, allora, di non andare alla prima del film (quando ci fosse) e vederlo anni dopo. Ero, però, sicuramente fiduciosa sul risultato di Così dolce… così perversa, perché ricordo una bella atmosfera sul set, un lavoro fatto molto bene in cui tutti cercavano di dare il massimo, con attori la cui professionalità era indiscutibile. Per non parlare delle maestranze, del regista, quindi non posso dire che fu una sorpresa il risultato. Certo ricordo anche che il film si rivelò al di là delle mie stesse aspettative. Si vedeva che Lenzi cercava di dare il massimo e fu ben assecondato da tutti. Alcuni critici oggi sostengono che questi gialli fossero uno specchio anche della confusione seguita, nella società italiana, ai tanti cambiamenti nella morale sessuale, ai ruoli dell’uomo e della donna nella coppia, nel matrimonio, nella vita quotidiana. Lei, che quegli anni li ha vissuti, che ne pensa di questo punto di vista? Quelli erano anni di piena evoluzione. La donna cominciava a far valere le sue ragioni. Erano gli anni in cui ci si era liberati da tutti quelli che potevano essere i tabù che ci venivano inculcati dai genitori e dalla società fino a pochi anni prima, quindi, certo, questo poteva creare un po’ uno scossone 350 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nella società. Io, proprio in virtù di quello che ti ho detto, non ho mai avuto problemi anche a spogliarmi in questi film. Tieni presente pure che venivo da una famiglia molto libera. Per cui farmi vedere un po’ nuda non era una cosa che mi facesse vergognare. Dopo Così dolce… così perversa non ha più lavorato con Lenzi. Ha poi mantenuto in qualche modo i rapporti con lui? Mi capitava quasi sempre che, finito il lavoro, non ci si sentisse più, ho girato tantissimi film in quegli anni… detto questo, certamente mi sarebbe piaciuto ripetere l’esperienza con lui. Comunque, per me era così allora: se ci si incontrava in un altro film, mi faceva piacere, ma, allora come oggi, non sono mai stata molto mondana. Finito il lavoro tornavo a casa e staccavo completamente. Non mi sentivo molto dentro quel mondo tanto da frequentarlo anche fuori dal set. Però, visto il risultato di Così dolce… così perversa, certamente avrei lavorato di nuovo con piacere con Lenzi. Tra fine anni ’60 e metà anni ’70 faceva una media di sei film all’anno. Che ricordo ha di quel periodo del cinema italiano? Erano anni in cui si lavorava tantissimo anche se noi con questi film ci sentivamo di serie B. Mi capitava anche di fare sette o otto film all’anno… Per me, per noi, era solo routine, non la consideravamo una grande arte quella che facevamo. Qualche volta capitava che al mattino girassi un film di spionaggio, nel pomeriggio un altro film, magari ancora di spionaggio, e poi, magari, la mattina dopo, alle 8, si stava sul set di un film western dove come prima scena dovevo ballare in un saloon con intorno tante ballerine… magari la notte prima non avevo dormito per niente perché avevo lavorato fino a tardi. Capitava di fare anche tre film contemporaneamente, a pensarci adesso, è veramente roba da ridere. Poi qualche esperienza poteva anche essere piuttosto dura. Per esempio, mi ricordo un western con Anthony Steffen in cui dovevamo girare alle 5 di mattina a cavallo. Per me era la prima volta che salivo su un cavallo e, con i banditi che ci inseguivano, hanno sferzato il cavallo e quello partì al galoppo… mi ricordo ancora che in questo film, in quella sequenza, c’era un mio primo piano in cui venivo ripresa con un’espressione come se avessi paura dei banditi: no, io terrorizzata dalla situazione e contemporaneamente mi chiedevo: «Ma come faccio ad arriva351 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

re in fondo a questo film in queste condizioni?...». Per fortuna ho sempre fatto molto sport e avevo abbastanza equilibrio. Finite queste scene in esterni, nel pomeriggio giravamo negli studi, andando andati avanti fino a sera. Ora tu immagina un primo piano all’una di notte dopo una giornata così… per fortuna che all’epoca era ancora giovane e carina, fosse adesso sai che ne usciva! Quindi pensa tu che lavoro facevamo all’epoca. Noi eravamo veramente macchine da lavoro attoriale. Quanto ti potevi concentrare sul personaggio in queste condizioni? All’epoca eravamo e non potevamo che essere serie B, considerati molto poco. Oggi, invece, c’è tutta una grande rivalutazione in atto. Penso di avere forse persino più fan oggi di allora, quando ero giovane e bella. Soprattutto la generazione dei quarantenni è quella che oggi guarda di più questi film, che li riscopre, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. È bellissimo per me, è come vivere una specie di seconda giovinezza. Oggi mi invitano in festival in tutto il mondo e sono soprattutto i giovani ad apprezzare di più queste opere e la media di questo pubblico si abbassa sempre di più. Questo mi fa veramente piacere. Poi, certo, non tutti i film sono dello stesso livello tra quelli che ho girato. Abbiamo citato Mario Bava non a caso e stiamo parlando, ancora non a caso, di Umberto Lenzi. Nonostante indubbie qualità attoriali ed estetiche, in quegli anni nel cinema è sempre rimasta confinata nel cosiddetto cinema di genere. Si è mai spiegata perché? C’era una sorta di barriera per le attrici italiane o con il cinema commerciale o con quello d’autore? Per me era lavoro e, finito il lavoro, tornavo a casa. Non ho mai frequentato gli ambienti del cinema al di fuori del set. Allora era molto comune, per le attrici, frequentare i produttori, qualcuno che le potesse introdurre in certi ambienti, quelli che ci volevano per andare al di là di questi film che facevo. Io ne facevo molti ed ero anche contenta. Poi, certo, qualcuno di quei film del cosiddetto cinema d’autore l’ho anche fatto, per esempio Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? di Ettore Scola, ma non avevo le conoscenze adatte per entrare in quel giro. Ci volevano i produttori giusti. Poi, a un certo punto, mi sono detta: ma io ho trentatré anni e mi vogliono sempre bella per fare quel tipo di ruoli e ho pensato gli anni passano… Così un po’ un punto di svolta è stato l’incontro con Adriana Asti a una festa. Lei mi disse: secondo me tu devi fare teatro. La cosa mi incuriosì. Il ci352 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nema aveva cominciato a stancarmi, i ruoli diventavano tutti uguali e, così, grazie al suo interessamento, ho cominciato a lavorare con Garinei e Giovannini. Sono andata a Milano e ho recitato in una commedia insieme a Ornella Vanoni e Gianrico Tedeschi. Erano uscite buonissime critiche, sia sulla commedia sia su di me. Io, come al solito distratta come sono, non avevo letto niente di tutto questo. Quando poi, dopo la prima, torno in teatro, proprio Gianrico Tedeschi mi dice: «Ma hai letto le critiche? Ti ha chiamato Strehler a teatro e ti vuole vedere». Io pensavo fosse uno scherzo, tanto che gli risposi: «Sì? Ma non mi piace, poi si tinge anche i capelli di quel colore improbabile». Dalla loro insistenza, invece, ho capito che era vero, mi aveva veramente chiamato a teatro. Ho fatto un provino con lui e mi ha preso, per cui ho lavorato pure con lui. Recitavo in alcune commedie con altri registi e con Strehler. A me sembrava una cosa fantastica, per cui sono partita subito col piede giusto a teatro e ho continuato a farlo per anni, come attrice è poi diventata la mia occupazione principale. Infatti a un certo punto ha fatto soprattutto teatro e con i grandi nomi. Beh, sì, ho lavorato, oltre che con Strehler, con Squarzina, con Mastroianni e tantissimi altri grandi nomi del teatro italiano. Proprio da queste tre persone citate, più Alberto Lionello, ho imparato maggiormente. Avevo deciso di smettere con il cinema e di fare del teatro la mia nuova passione, il mio nuovo lavoro. Ormai facevo solo teatro quando, a un certo punto, Ferzan Özpetek mi ha invitato nel suo ufficio per un provino. C’erano anche altre attrici in ballo per il mio ruolo, ma ricordo di avergli detto questa cosa quando ho finito: «Ricordati che l’unica che può fare questo ruolo sono io». Il film era Le Fate ignoranti. Da lì in poi, in un certo senso, è partita un’altra carriera nel cinema. Ho fatto due film con Özpetek, poi ho cominciato a lavorare anche con Pupi Avati e Castellitto. Di questo sono particolarmente contenta perché, non avendo fatto nessun cambiamento chirurgico al mio volto e al mio corpo, sono autenticamente una donna della mia età, dimostro tutti gli anni che ho e sto cominciando una specie di nuova carriera in ruoli femminili avanti negli anni. Per cui ho ripreso a lavorare anche nel cinema adesso, con non poche soddisfazioni. La mia carriera è diventata davvero lunghissima, con tante vite: prima il cinema, poi il teatro, ora di nuovo il cinema, ma con ruoli completamente diversi rispetto a quelli di quando ero giovane. Evidentemente non ero così scarsa come attrice, visto che continuo a lavorare così. Questo getta anche una certa luce su quel 353 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cinema di genere che ho fatto con registi come Lenzi. Come ricorda le critiche dell’epoca ai film che interpretava? Non le leggevo e, comunque, per molti dei film che giravo, neanche uscivano le recensioni. Li distribuivano direttamente in seconda visione fino ad arrivare spesso, in tempi anche molto brevi, nei cinema parrocchiali, almeno quei film che lì potevano passare. Quindi sinceramente non avevamo neanche l’onore di avere una critica, magari certo un film come Così dolce… così perversa un po’ di attenzione l’ha avuta, ma erano cose che m’interessavano relativamente. Che cosa è successo poi a questo cinema di genere italiano? Dall’inizio degli anni ’80 è sparito o si è trasformato in qualcosa d’altro? È successo che la fantasia, l’avventura, di questi gialli, di questi western o film di spionaggio, aveva fatto il suo pieno, quindi si è cominciato a fare film diversi, a parlare di altri aspetti, magari più realistici, della vita italiana. In particolare mi sembra si sia cominciato a romanzare l’esistenza dei giovani, credo sia stato questo l’elemento più importante. Gli anni ’80 hanno dato una nuova ribalta ai giovani italiani come centro narrativo dei film. Poi è nata anche una nuova generazione di giovani attori molto bravi che servivano a questo tipo di storie. Oggi c’è una grande rivalutazione di tutto quello che un tempo era considerato cinema di serie B e un film come Così dolce… così perversa è diventato un cult. Che ne pensa di questo fenomeno? Sono felicissima che sia accaduto, che sia diventata cult! È successo perché poi sono mancati questi film e quindi i giovani li scoprono solo adesso. Dopo gli anni ’70 c’è stato una specie di stop quasi totale su quei film di genere, come horror o polizieschi o i gialli che faceva Lenzi. La generazione successiva ha riscoperto tutto questo e ha dato una nuova vita a questi film, soprattutto a quelli più belli girati all’epoca, come Così dolce… così perversa. Io, comunque, se oggi ricominciassero a fare questi film, certamente non potrei più interpretare quei ruoli, bisognava essere belle e giovani per quel tipo di cinema, che non era tutto dello stesso livello: c’era anche molta robaccia. 354 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

C’è qualcosa che Umberto Lenzi le ha insegnato sul cinema? Imparavi sempre dai registi con cui lavoravi. Se devo essere sincera, l’indicazione del grande regista l’ho avuta soprattutto da Scola sul set di Riusciranno i nostri eroi. Lì si vedeva davvero la mano di un maestro, come costruiva e modellava un personaggio… così come tantissimo ho imparato dai grandi registi teatrali. Lenzi, secondo me, è un ottimo regista, ma non un maestro, certo uno che ci sapeva veramente fare con la macchina cinema. Poi c’è anche un’altra cosa: questi film si giravano in brevissimo tempo, quindi non si aveva tanto la possibilità di provare. Non dico che fosse sempre buona la prima, ma molto spesso era così veramente. Non c’era una grande ricerca formale perché si doveva fare in fretta. I soldi non erano mai molti, di conseguenza il tempo. Quindi la differenza era, probabilmente, più che nel regista, nella potenzialità di una produzione che poteva prendersi certi tempi, finché la sequenza non fosse stata girata veramente al top. Aggiungici anche che la pellicola costava molto più del digitale che si usa oggi. Tornando a Lenzi e a Così dolce… così perversa, lì mi sembra che sia avvenuto una specie di miracoloso equilibrio fra il cinema di qualità e quel cinema di genere, di consumo, che si faceva all’epoca per sfruttare i generi cinematografici più in voga al momento. Quel genere di cinema, quegli anni nel cinema, sono stati una grande avventura che, però, fino a un certo punto ho preso seriamente, perché continuavo a vivere la mia vita, a cercare di vivere la mia vita al di là del mondo del cinema. Così facevo allora e così faccio adesso. Non ho mai avuto una grande ambizione di arrivare. Devo dire che all’epoca (me ne sono accorta dopo) ero talmente bellina che non avevo problemi a lavorare. Detto questo, a me non è capitato nessuno di quegli scandali, di quelle dicerie, quelle voci che erano tipiche all’epoca, delle attrici che se la facevano con i produttori. A me non è mai successo, era qualcosa che non m’interessava. Mi sembrava la parte meno attraente di questo lavoro. La mancanza di questo tipo di intrallazzi può anche essere stato uno dei motivi per cui la mia carriera non è mai veramente esplosa nel cinema, pur avendo lavorato tantissimo. Non m’importava diventare una star, quindi non ho mai pregato nessuno né concesso nemmeno un’unghia di me stessa pur di fare carriera. Ti dico che allora era una cosa davvero molto comune che ci fossero rapporti, più o meno ufficiali, tra attrici e produttori, vedi i casi celebri, dalla Loren alla Fenech. Oggi a tutti questi scandali di molestie dei produttori nei confronti delle attrici credo fino a un certo punto: è chiaro che se tu ar355 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rivi lì tutta allettante e ammiccante si capisce che ci stai e lui ci prova. L’ho visto talmente tante volte nella mia vita… Eppure ha lavorato tantissimo lo stesso. Ma io lavoravo nella serie B, non andavo nella serie A. Il motivo per cui lavoravo nella serie B era anche perché io avevo un tipo di volto che in Italia non c’era ancora. Avevo un’aria straniera, quindi questo mi rendeva piuttosto appetibile, era proprio il mio aspetto fisico particolare ad aiutarmi. E io mi accontentavo di girare nella serie B, magari scegliendo i film migliori o, almeno, quelli meno peggio. Per me, ripeto, era solo un lavoro come un altro. Un lavoro certamente avventuroso, ma io, in un certo senso, ho preferito scegliere la tranquillità, mi sono adagiata in questo genere di cinema. Fare quel salto ulteriore mi sembrava comportasse una serie di costi, chiamiamoli così, dal punto di vista personale, che non ero disposta a fare. Questo cinema di serie B aveva talmente bisogno di me, per com’ero fisicamente, che non avevo bisogno d’altro io stessa, guadagnavo quello che mi stava bene. Comunque, Così dolce… così perversa è serie A e ha lavorato con due grandissimi attori come Carroll Baker e Jean-Louis Trintignant. Non è certo serie B, anche se allora lo si poteva pensare. Sì, sono d’accordo con te, ma allora era considerata serie B. Magari era tra la A e la B, diciamo che era in zona promozione. La A erano Baker e Trintignant, la B ero io. Nel film avete la stessa forza in scena e siete fisicamente bellissimi, non solo per merito di un’eccellente fotografia. Di questo devo ringraziare sia l’autore della sceneggiatura sia, soprattutto, Lenzi, che mi ha scelto e mi ha diretto in quel modo. Probabilmente aveva capito che potevo fare un ruolo del genere e giocarmela con attori di quel livello lì e, guardando il risultato, devo dire che è notevole. Visto adesso, è veramente un film di serie A, come dici tu. Sulla bellezza, beh, eravamo tre attori ancora nel fiore degli anni, sembra quasi una gara di fascino a rivederlo oggi.

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Donne e film di genere. Intervista a Laura Belli di Davide Magnisi

Laura Belli (1947) esordisce al cinema con Eriprando Visconti in La monaca di Monza, lavorando a ben quattro film in quello stesso 1969. Poi sarà protagonista di alcuni poliziotteschi come La polizia ringrazia (1972, S. Vanzina), La polizia sta a guardare (1973, Roberto Infascelli), Milano odia e poche altre pellicole sino a Da Corleone a Brooklyn, ancora con Lenzi. La sua popolarità verrà dalla televisione, sia per alcuni programmi sia, soprattutto, per celebri sceneggiati con i migliori registi del tempo: Daniele D’Anza, Alberto Negrin, Salvatore Nocita, Anton Giulio Majano. Ritiratasi dalle scene all’inizio degli anni ’80, firma come regista Film nel 1998.

Com’era Umberto Lenzi sul set? Lenzi era una persona molto piacevole sul set; pur dotato di una graziosa sensibilità verso tutti gli interpreti che lo circondavano, si percepiva che aveva un feeling particolare con gli attori protagonisti. Mi colpì la vibrante sintonia che c’era sia con Merli che con Milian (gli attori con cui ho girato due film di Lenzi), quasi fossero il suo alter ego. Sicuramente la forza dei personaggi e le scene incalzanti del genere poliziesco accendeva in loro quella scintilla di intesa. Lei era stata tra i protagonisti di La polizia ringrazia, considerato il capostipite del genere poliziottesco italiano. Due anni dopo è in Milano odia di Lenzi. Quali erano le differenze più vistose fra i due film? Per quanto riguarda il mio ruolo, le differenze sono pochissime, perché in entrambi i film sono la «vittima». In questo genere di pellicole il ruolo femminile si riduceva spesso a uno stereotipo: quello della vittima o dell’inutile fidanzata del protagonista, poco altro. Quindi diciamo che, non avendo nessuno dei due ruoli un particolare spessore, non ne ricavai alcuna gratificazione recitativa. Non posso negare, però, che in entrambi i film il mio personaggio di «vittima» ha colpito l’immaginario dello spettatore; è successo sia in Milano odia per la violenza del sequestratore sia in La polizia ringrazia per la scena della morte a dir poco shoccante. La differenza tra i 357 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

due film stava forse nel fatto che sul set di La polizia ringrazia si percepiva che si stesse facendo qualcosa di nuovo, di diverso. Il fatto poi che Steno dopo decenni di cinema si firmasse per la prima volta con il suo vero nome, Stefano Vanzina, confermava questa sensazione. Sono varie le correlazioni tra i due film e tutti gli altri dello stesso genere a cui io ho partecipato; oltre all’eccitante euforia che si crea sul set dei film d’azione, giacché necessitano di un supplementare grado di adrenalina, quello che maggiormente ricordo è il godimento degli interpreti maschili che in questi ruoli potevano esibire la più estrema espressione di machismo. Dal mio personale punto di vista, non posso non contestualizzare l’avvento di questo genere: nei primi anni Settanta, l’eco della rivoluzione femminista era ancora vivo e calcolando che, allora come adesso, la mia profonda convinzione femminista non è mai venuta meno, ne risultava che questo cinema che offriva alle donne solo ruoli orpello o funzionali a quelli maschili, finivano col darmi la deprimente certezza che il processo evolutivo degli spazi al femminile era ancora molto arretrato. Visto che ha introdotto il tema, pensavo al fatto di aver letto, in diverse ricostruzioni riguardo questo genere così maschile, perché evidentemente un genere maschile è, se non direttamente maschilista o machista, come lo ha definito lei, una possibile reazione al clima della seconda ondata di femminismo. Non so, è la prima volta che lo sento dire. Di certo il femminismo ha imposto un tale scombussolamento nella società patriarcale e maschile, che da sempre ci governa, da aver provocato il tentativo di ripristino dello status quo, attraverso un processo di demonizzazione sin dai primi cedimenti della rivoluzione sessantottina. Sicuramente l’operazione di smantellamento è passata anche per il cinema di cassetta, il B-movie che ha una sua forza divulgativa. Ma non credo che si sia trattato di voluto antifemminismo, di certo c’è una continuità della cultura machista, che va dallo spaghetti western pre-sessantotto al poliziesco post-sessantotto, senza che il femminismo l’abbia scalfita nella sua soluzione di continuità. Il poliziottesco è semplicemente un cinema di destra, che si rivolge a un pubblico maschile in termini cazzuti e ignora le donne. Per fortuna il cinema autoriale ha permesso nel tempo di allargare gli spazi della narrazione femminile, compensando questo abominio. Quindi lei dice che si tratta più di una continuità cinematografica che di una 358 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

reazione a una temperie sociale? Se così non fosse vorrebbe dire che ho preso delle grandi cantonate nella scelta dei lavori a cui ho partecipato. In Milano odia ci sono alcune scene molto violente. Quanto è stato difficile girarle? Per fortuna il cinema è finzione. Quando si gira, si recita e la recita è la tecnica della finzione. In recitazione prediligo il metodo brechtiano a quello di Stanislavskij, non ho quindi mai condiviso l’esercizio di ossessiva immedesimazione a cui tanti attori si sottopongono. Oddio Tomas Milian si immedesimava molto, nelle scene violente è capitato che involontariamente mi facesse male, preso com’era dall’irruenza del suo personaggio; aveva bisogno di darci dentro, cosa che se esagerata può risultare quasi maniacale. Ho letto da qualche parte che Marcello Mastroianni, rivolgendosi a un attore molto agitato e concentrato a calarsi nella parte gli disse: «Ma qual è il problema? Recita!». Play! Che dall’inglese si traduce: «gioca». Quindi non ebbi tanti problemi a girare quelle scene. Mi fa più impressione vederle, semmai. Come nella sequenza in cui Rosita Toros viene trucidata e appesa al lampadario. Trova che ci fosse un certo voyeurismo all’interno del film? Di certo non quando lo giravamo, nessun compiacimento di nessun tipo. Lenzi lavorava con grande serietà in questo senso. Lui voleva descrivere un certo mondo e lo faceva nel modo più realistico e crudo possibile. Se poi l’intenzione era quella di stimolare un voyeurismo malsano… chi può saperlo! Oltretutto, il garbo della sua persona non trovava corrispondenze con la perversione di certe scene che, pure, girava. Immagino che lesse le recensioni dell’epoca. Quella del «Corriere della Sera» parla, a proposito del film, di «un’orgia di sadismo gratuito e fastidioso». Non me le ricordo. Generalmente non vedo film truculenti, ne provo un profondo fastidio. Il film era molto forte; chi scriveva recensioni all’epoca non poteva immaginare quanto il cinema si sarebbe spinto in avanti su questo campo. Un film come Milano odia poteva apparire sadico, oggi tutto 359 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

è cambiato, la violenza ci è stata raccontata in tutte le forme dai contorni più efferati, negli aspetti più ossessivi, maniacali, seriali. Molti oggi vedono il cinema degli anni ’70 come un decennio di libertà per temi, immagini, storie. Lei da attrice di quegli anni conferma? C’era l’eccitante ambizione di creare un cinema di rottura. Sinceramente, però, tolti i capolavori dei grandi cineasti, la gran massa di produzioni degli anni ’70 generalmente mi annoia, ha un che di vecchio, di datato, molto più di quanto non lo siano film degli anni ’40 o ’50. Sono i rischi dello sperimentalismo e l’ossessione del giovanilismo che li ha fatti invecchiare subito. Nel 1979 torna a lavorare con Lenzi in Da Corleone a Brooklyn. Se Milano odia era stato l’alfa, qui siamo all’omega del genere poliziesco per Lenzi. Infatti fu il suo ultimo. Che ricordo ha di quel set? A me quel film non è proprio piaciuto, né recitarci né vederlo. Ho un solo ricordo che mi è caro: dovevo girare una scena con una bambina piccola che doveva dormire nel suo lettino; mia figlia Lenni era lì con me, aveva circa tre anni e le chiedemmo se lo voleva fare lei. Fu bravissima a non sbattere le palpebre per qualche secondo e allo stop ci chiese se era stata brava. Oggi è un’attrice. Quello è stato l’ultimo film di quel genere per Lenzi e l’ultimo anche per me. Le recensioni dell’epoca riportavano come curioso il fatto che il film fosse stato prodotto da una donna, Sandra Infascelli. Lei non l’ho mai conosciuta, invece ricordo bene Roberto Infascelli, che era stato anche il produttore di La polizia ringrazia e, in qualche modo, il coregista, perché affiancava molto Stefano Vanzina. Poi fu talmente rapito dal piacere di dirigere che, in La polizia sta a guardare, secondo film del genere prodotto dagli Infascelli, fece anche la regia. È strano che in una recensione si sottolinei una cosa del genere, come se il sesso del produttore abbia una qualche importanza. D’altronde, Marina Cicogna aveva già prodotto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Le sue ultime interpretazioni, sia al cinema che in televisione, si fermano in ef360 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fetti all’anno dopo. Che era successo? Crisi del cinema italiano, stanchezza dei ruoli proposti o altre motivazioni personali? Sicuramente una grande stanchezza dei ruoli che mi proponevano. Avevo avuto maggiori soddisfazioni dai film girati per la tv e dagli sceneggiati televisivi in cui mi erano stati affidati ruoli di primo piano, più o meno interessanti. Nel cinema non è andata così bene, ho lavorato in diciotto film, polizieschi, opere prime, film sperimentali… nulla di veramente importante per me. In generale, non ero più così entusiasta del mio mestiere, per cui mi sono fermata per un periodo; pensavo sarebbe durato poco tempo, invece, poi, non ho avuto più voglia di ricominciare. Anni dopo c’è stato un ritorno di fiamma per il cinema, ma in un ruolo diverso, come regista. Ho scritto e diretto una commedia al femminile: avevo attori come Laura Morante, Monica Scattini e Gigio Alberti, ma la pellicola, dal titolo Film, è morta nella culla, visto che la distribuzione aveva stampato solo sei copie, così, tanto per far finta di distribuirlo! In compenso, è stato trasmesso un gran numero di volte sul canale cult di Sky. All’epoca i film di Lenzi, come altri che ha interpretato, erano considerati serie B, ideologicamente reazionari, se non fascisti. Oggi si assiste, invece, a una frenetica rivalutazione di queste pellicole. Che è successo? Una moda può ribaltare il valore delle cose, ma non è detto che lo faccia a ragione. Penso che oggi ci sia una sopravvalutazione di quel cinema che era di serie B e lo rimane tuttora. La particolarità di distinzione di quei film sta nell’aver fatto scuola e, a dispetto dei pochi mezzi, di aver prodotto risultati apprezzabili, battendo record di incassi. Però, resta comunque un cinema di serie B. In quell’epoca c’erano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini, Bellocchio, Scola, Monicelli, i Taviani e tanti altri le cui opere soverchiavano di una spanna tutto il resto. Eppure questi registi di serie B oggi sono considerati quelli che hanno raccontato il Paese e, anche, seminato un genere di cinema che poi è diventato importante in tutto il mondo, seguendo l’onda di Tarantino. Sicuramente seguendo l’onda di Tarantino, ma, anche, purtroppo, un’altra onda: quella di un appiattimento culturale verso il basso, basta sfogliare su internet i commenti che scrivono i fan di questo genere. È per 361 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

evitare un grande malinteso che non bisogna far assurgere i registi dei Bmovie italiani anni ’70 a maestri del cinema tout court, ma delimitarne i meriti nell’ambito del genere. Non è scritto da nessuna parte che un film per essere cult debba essere di serie A e gli esempi in questo campo sono numerosi. Ci sono opere di registi che non vengono sorpassate dal tempo, come i film di Mario Bava nel genere horror. Il solo fatto che questo cinema abbia ispirato un capolavoro come Pulp fiction, è sufficiente a promuoverlo come capostipite di un genere. Io ho un rispetto gigantesco per Lenzi e credo che lui sia stato un caposcuola, un regista che ha avuto il suo valore, anche se il contesto in cui tutta questa cinematografia viene rivalutata non mi appassiona. Tarantino ha preso la serie B e l’ha fatta diventare A. La grandezza della sua operazione postmoderna è prendere il popolare e farlo diventare grande cinema. Credo che lui un po’ si vanti di aver preso questo cinema per costruire film più grandi, avendo la fortuna di avere attori strepitosi e mezzi economici che, sicuramente, il cinema italiano degli anni ’70, i registi di cui parliamo, non avevano. Esatto. Anche se io a tutto questo fanatismo di Tarantino verso il nostro cinema non credo fino in fondo. Credo che lui sia stato folgorato da una serie di spunti: il ritmo, l’arroganza della violenza, l’erotismo del male… ma lui è un tale geniaccio! Che abbia preso l’ispirazione da noi è credibile, solo che lui fa film che resteranno nella storia del cinema, mentre quelli che l’hanno ispirato si devono accontentare di riempire i palinsesti notturni per spettatori insonni. È vero che Tarantino ha avuto tutt’altri mezzi, ma non basta: è quello che fa lui a livello di trama, sceneggiatura, movimenti di macchina, montaggio ecc. che fa di lui un grande. Oggi i buoni film, quelli che partecipano ai festival, che sono ancora in grado di lasciare un segno per lo stile, la tematica, il messaggio, riempiono le sale di spettatori d’età matura, se non anziana. I giovani non li vedono anche se firmati da giovani registi e questo è tragico. Almeno Tarantino porta al cinema anche loro. Dopo l’ultima esperienza con Da Corleone a Brooklyn le è più capitato di sentire o incontrare Lenzi? Ci siamo ritrovati insieme per fare delle interviste in un documentario che parlava del suo cinema. Ho fatto un’intervista da sola e poi una insieme a lui che non vedevo da tantissimi anni. È stato, devo dire, un grande pia362 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cere ritrovarlo. Condivideva le idee che Lenzi aveva sul cinema? Non sempre, ma sono anche cose che riguardano tutto il modo di fare cinema di quell’epoca. Ti confesso una cosa che non ho mai detto a nessuno perché al momento mi offese a morte. Girando una scena, lui mi disse: «Non me la recitare televisiva!». Io me la presi perché non voleva dire niente, era solo un gran preconcetto che all’epoca avevano i cineasti verso gli attori di teatro e televisione (pregiudizio che si registrava unicamente nel nostro Paese)… tanto poi quei disgraziati di registi ovviavano a questo tabù con la sadica abitudine di doppiarci! La maggior parte degli attori negli anni ‘50/’60 venivano doppiati. È successo a tutti, dalla Loren alla Cardinale, da Volontè alla Vitti (almeno nei loro primi film). Io ero capacissima di recitare con la mia voce e il mio agente doveva lottare per imporre contrattualmente il mio diritto di doppiarmi da sola, ma era difficile spuntarla. Voce/volto è stata per anni una battaglia sindacale della nostra categoria che, però, essendo composta da irriducibili individualisti, non è mai riuscita a fare muro contro l’imposizione di registi e produttori. Col tempo le cose sono cambiate e ora si doppiano tutti da soli. Per cui, quando quella volta Lenzi mi disse di non recitare televisivamente m’inalberai: «Che problema c’è! L’aggiusterai al doppiaggio con una bella voce impostata che sospira nel microfono!». Fu il mio moto di ribellione, ma ebbe il suo effetto, perché alla fine della lavorazione fui chiamata a doppiarmi. Gliene fui grata. Riguardo il doppiaggio di quei film, molti erano coproduzioni internazionali, pieni di attori di varie nazionalità, anche per motivi produttivi. Il problema di cui parlo io riguardava tutto il cinema; certo nel caso di coproduzioni i film vanno doppiati: ma perché gli attori italiani non dovevano usare la propria voce? Perché Bud Spencer e Terence Hill non potevano usare la loro voce, perché Volontè, uno dei nostri più grandi attori, in Per un pugno di dollari ha la voce di Nando Gazzolo? Ripeto, produttori e registi dell’epoca, anche di serie A, erano schiavi di una convenzione: dare al loro film quella stessa patinatura a cui il doppiaggio ci aveva abituato, in modo particolarmente accentuato nei film hollywoodiani. Ma questo finiva per generare un’enorme discrasia tra le immagini del nostro cinema, spesso realista, e quelle voci belle, profonde, ovattate dall’insonorizzazione delle 363 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sale di registrazione. Una discrasia tra i suoni della realtà (che nel cinema di tutto il mondo sono invece la regola) e i suoni riprodotti in sala. E, comunque, era insopportabile che le voci dei Robert De Niro o delle Jane Fonda venissero appioppate ad attori italiani, in un prodotto italiano. L’essere doppiati per l’attore corrisponde a un’amputazione, una scissione tra l’aspetto fisico, l’espressione del viso e la parte più importante del suo essere attore: il timbro della sua voce, l’interpretazione vocale. Eppure il pubblico è abituato così! E quel doppiaggio di Ferruccio Amendola finiva per costruire un altro personaggio su quello di Tomas Milian, in quel caso veramente lo faceva diventare un altro. Si dice che il doppiaggio sia nato perché il tasso di analfabetismo era talmente alto che la gente avrebbe avuto difficoltà a leggere i sottotitoli in fretta, per cui si sono inventati questo escamotage, lasciando che gli italiani restassero il più possibile ignoranti, non allenando il proprio orecchio alle lingue straniere. Un danno gigantesco.

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Dalla Francia in un labirinto di vetro cinematografico. Intervista a Martine Brochard di Davide Magnisi

Martine Brochard (1944) comincia la sua carriera nel cinema francese con film come Baci rubati (1968, François Truffaut) e Le Socrate (1968, Robert Lapoujade, Premio speciale della giuria al Festival del cinema di Venezia). Dopo altre esperienze in patria, si trasferisce a lavorare nel cinema italiano, che subito l’accoglie nella sua produzione di genere in ruoli che ne esaltano la sensuale ed elegante bellezza. Comincia con il dittico erotico/conventuale di Domenico Paolella Storia di una monaca di clausura e Le monache di Sant’Arcangelo (entrambi del 1973), girando tantissimi film in pochi anni sino alla fine degli anni ’70, tra cui Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973, S. Martino), La governante (1974, Giovanni Grimaldi), Una donna alla finestra (1976, Pierre Granier-Deferre) e Il solco di pesca (1976, Maurizio Liverani). Dirada la sua attività cinematografica dedicandosi in particolare al teatro insieme al marito regista Franco Molè, con tantissimi titoli di successo, spaziando da testi classici a contemporanei. Molto vasta anche la sua attività nella fiction televisiva, da I giovedì della signora Giulia (Paolo Nuzzi, Massimo Scaglione) e Quadri rubati (Renato Castellani) entrambi del 1970, a Disonora il padre (1977) e Bel Ami (1978) di Sandro Bolchi, La sconosciuta (1981, Daniele D’Anza), fino a I ragazzi della 3° C (1987) e I promessi sposi (1989, Salvatore Nocita), Il gorilla (1991, Duccio Tessari), per arrivare agli ultimi Incantesimo 2 (1999), Una donna per amica (2000), La squadra (2001-6). Le ultime apparizioni al cinema sono ancora all’insegna dell’erotismo in Paprika (1991) e L’uomo che guarda (1994) di Tinto Brass, con piccole parti in altri film come Una sconfinata giovinezza (2010, P. Avati).

Dopo un inizio con film importanti in Francia, ha deciso di trasferirsi a lavorare nel cinema italiano. Come mai questa scelta? Non è che ho scelto, questo è il nostro lavoro. Io ho cominciato giovanissima in Francia, facevo un po’ di televisione, di teatro, di cinema, poi è arrivato Pietro Germi che doveva fare una coproduzione con la Francia per I giovedì della signora Giulia, che era la prima fiction a puntate per la televisione a colori e mi ha presa. Dunque io sono arrivata in Italia con l’intenzione di ritornare in Francia. La mia agente in Francia era molto arrabbiata con 365 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

me, dicendomi «Ma che fai? Dove te ne vai? Rimani qui». Per un periodo sono andata e tornata dalla Francia. Insomma, poi, alla fine, la vita mi ha portato qui in Italia. Ci sono rimasta e non mi sono più fermata per lavorare. Dopo è diventata una scelta di vita, anche se sono stata, a lungo, un po’ sempre con la valigia in mano. Alla fine mi sono fermata in Italia e ne ho anche imparato la lingua. L’ho imparata soprattutto recitando a teatro, quella è stata veramente una lezione. Anche su questo devo rimarcare una differenza con la Francia. In Italia, quando fai uno spettacolo, se va bene dura al massimo tre mesi, poi passi a un altro; in Francia, invece, la tenuta di uno spettacolo teatrale può arrivare anche a due anni. Comunque, se dovessi fare un consuntivo, non ho alcun rimpianto sul fatto di essere rimasta qui. Che tipo di cinema ha trovato in Italia? Ho trovato un fermento vero. C’erano tante cose da fare. Ho lavorato in Milano trema: la polizia vuole giustizia, ho lavorato con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia… ho fatto di tutto. È stato un continuo. Ma è stata La governante che mi ha proprio fatto fare il salto, diciamo, poi non mi sono più fermata se non quando ho cominciato a fare tanto teatro, allora ho un po’ tralasciato il cinema. Che visione della donna e dei ruoli femminili usciva dal cinema italiano di quegli anni? Come sempre è trattata la donna: per la sua bellezza prima di tutto, questo è sicuro. Poi, se era brava, lavorava molto. Voglio dire, c’erano ragazze che erano semplicemente belle, altre, invece, che avevano anche delle qualità attoriali. Le prime, inevitabilmente, a un certo punto si fermavano. Certo, potevano anche riuscire a fare molti film se erano fortunate e con gli agganci giusti. In quegli anni il mestiere dell’attrice è sempre stato un po’ così. Indubbiamente molto dipendeva dalla bellezza, ma, in questo senso, non è che sia cambiato tantissimo: anche oggi, la prima cosa che si vede in un’attrice, come donna, è la bellezza. Poi è anche importante quello che devi rappresentare per il pubblico: se sei brutta puoi fare certi ruoli, se sei brava e sei bella sfrutteranno quello che hai, le qualità che hai. Di certo le brutte lavoravano meno al cinema, era raro che scegliessero una che fosse brutta. 366 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Conosceva già il cinema di Umberto Lenzi prima di lavorarci insieme? Un po’ sì, conoscevo il suo cinema. Non benissimo, devo dire, anche perché ero diventata una tale macchina da lavoro che uno finiva un film e ne cominciava un altro. Vedevo certamente qualche film al cinema, ma stavo tantissimo sul set, si facevano anche quattro o cinque film all’anno. Era una cosa bellissima, perché finivo con il fare personaggi molto diversi tra loro nelle interpretazioni. Era un periodo proprio interessante per gli attori. Per questo andavo poco al cinema, certo non quanto avrei voluto. Non c’erano ancora i dvd, sì giravano già le videocassette, ma davvero non c’era tempo quando tornavi a casa più o meno distrutta dal set. Comunque sapevo chi era Umberto Lenzi, sapevo quello che aveva fatto, anche se non avevo visto molti suoi film. L’ho conosciuto meglio dopo averci lavorato insieme, anche a livello di produzione cinematografica, ho recuperato molti dei film che aveva fatto. Negli anni ’70 ha girato moltissimi film in Italia, tra cui Gatti rossi in un labirinto di vetro. Quale le è sembrata la specificità di Lenzi? Era uno che faceva film d’orrore, ma non proprio un orrore puro. Io ho lavorato anche con Freda e Bava, posso dirlo. Comunque, lui ha fatto questo film in cui io uccidevo tutti con una faccia bella carina. E poi mi ricordo quest’ultima scena, perché non avevo l’occhio destro, non si vedeva durante il film perché avevo gli occhiali. Mi avevano messo questa cosa sull’occhio proprio per far vedere che non avevo l’occhio, questo si scopriva alla fine. È stato terribile perché tutta la giornata sono rimasta con un occhio solo e, alla fine, quando mi hanno tolto questo impiastro che avevo, devo dire che non avevo più l’equilibrio. Me la ricordo ancora questa scena. Che ricordo ha di quel set? Di Umberto si è sempre detto che aveva un pessimo carattere. Io non ho mai avuto problemi con lui. Ci sono sempre andata d’accordo. Quando abbiamo girato, abbiamo sempre lavorato in piena concordia. Non era assolutamente un regista che urlava, cosa che spesso leggo di lui. È davvero stato un bel rapporto con Umberto, ora non so se sono stata semplicemente fortunata. Sapeva esattamente quello che voleva. Eravamo a Barcellona, ab367 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

biamo lavorato praticamente lì tutto il tempo. Con noi c’era sempre anche sua moglie e ricordo che aveva un bellissimo rapporto con lei. Ogni tanto la metteva anche a fare delle piccole cose lì sul set. Che tipo di indicazioni di recitazione le dava Lenzi? Beh, devo dire che lasciava abbastanza liberi gli attori. Abbiamo parlato prima del personaggio. Io gli ho spiegato quello che volevo fare, quello che pensavo di fare e lui era sempre accogliente, apprezzava le idee che venivano dagli attori. Lui sul set, soprattutto, mi dava indicazioni su come muovermi, perché io non avevo un occhio. Ogni tanto mi dava questo genere di indicazioni, io poi le integravo. Avevamo questo tipo di rapporto, molto costruttivo. Non era di quei registi che arrivano sul set e dicono, magari urlando, tu devi fare così e così, persone che io non amo molto. Il titolo del film un po’ richiama un tipo di horror alla Argento. Era quello il riferimento di Lenzi? Ne parlavate mai? No, questo non me lo ha mai detto. Dario Argento era comunque più giovane di Lenzi. Se devo dire, il mondo di Umberto, da questo punto di vista, per questo genere di riferimenti cinematografici, mi sembrava più quello di Riccardo Freda e di Mario Bava che quello di Argento. Lenzi è stato l’inventore di un filone all’interno del genere giallo, una specie di giallo erotico all’italiana, all’interno del quale ha fatto film memorabili con Carroll Baker. Gatti rossi in un labirinto di vetro è un po’ una contaminazione tra questo genere e il nuovo horror argentiano? Diciamo che in Gatti rossi in un labirinto di vetro di erotico c’era poco, a parte la solita doccia che ci facevano fare tutti i registi. Poi la doccia poteva anche starci, poteva anche essere giustificata, visto che si stava nella camera d’albergo, faceva parte della storia, c’era un nudo di passaggio, diciamo. Ci si spogliava sempre per farsi la doccia, era un po’ parte del nostro essere attrici all’epoca, una specie di tributo di piccolo erotismo che si doveva pagare. Quindi c’era, ma non mi sembra particolarmente rilevante. C’è una doccia di sicuro, poi qualche nudo, ma non tanto da connotare eroticamente il film. Per quanto riguarda il giallo di matrice argentiana, forse il riferimento era più nel titolo che nella sostanza. 368 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Gatti rossi in un labirinto di vetro è stato l’unico film che lei ha girato con Lenzi. Avete continuato a sentirvi, c’era stato qualche altro progetto che volevate fare insieme? Sì, comunque ci eravamo rivisti anche nelle feste che faceva a casa sua, non mancava mai di invitarmi. Poi ci siamo un po’ persi. Però mi ha fatto molto piacere che mi abbia chiamato circa tre mesi prima di morire: Umberto scriveva libri e mi telefonò per dirmi che usciva questo suo romanzo e che gli avrebbe fatto piacere vedermi. Mi chiese di andare insieme a una presentazione per leggere alcune parti del romanzo. Lo comprai e lo lessi volentieri. Quindi poi ci siamo rivisti in questa libreria dove abbiamo avuto un piacevolissimo incontro. Lui mi disse che gli sarebbe piaciuto che in successive presentazioni leggessi io passi dai suoi romanzi. Mi sarebbe piaciuto, però poi le cose sono andate come sono andate, purtroppo. Di certo, posso dire che aveva tanta voglia di continuare a scrivere. Poi, negli ultimi tempi, sua moglie non c’era più e lui, da quella scomparsa, si è po’ lasciato andare, da quanto ho capito. Una cosa triste. Io penso che le persone che hanno la fortuna di invecchiare insieme, quando c’è un rapporto così vero, così stretto e sincero, come quello che aveva lui con sua moglie, quando uno dei due muore, all’altro sembra che manchi tutto. È come se andasse via una parte della vita. A Umberto è successo esattamente così. Voglio aggiungere un’altra cosa, cioè che mi dispiace tantissimo che lui non si sia riuscito a fare una serie televisiva dai suoi libri, come si progettava. Chissà, magari avrebbe potuto dirigerla persino lui stesso o, almeno, supervisionarla. Mi piacerebbe davvero tanto che qualcuno riprenda in mano questo progetto, perché sia i libri lo meriterebbero, per il loro valore, sia sarebbe una cosa giusta da fare in memoria di Umberto, che ha dato tanto a questo genere in Italia. Negli anni ’80, ha lavorato soprattutto in televisione e in teatro. Pochissime pellicole cinematografiche. Una scelta precisa o mancavano ruoli interessanti nel cinema italiano? Da un lato sicuramente nel cinema, già dalla prima metà degli anni ’80, si lavorava molto meno, inoltre mio marito scriveva opere teatrali, lavorava molto a teatro e ho cominciato ad affiancarlo sempre di più. Anche nella televisione degli anni ’80 non mi piaceva come si lavorava. A un certo punto, la scelta teatrale è stata dovuta sia dal connubio con mio marito, dal piacere 369 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di lavorarci insieme, sia dal fatto che il cinema offriva sempre meno. Poi ho fatto questo film, Stringimi forte papà, ricordo quel set come molto difficile perché facevo cinema durante la giornata a Roma, poi prendevo l’aereo e andavo la sera a recitare a teatro a Milano. Questo è stato un momento in cui mi sono detta devo scegliere perché, altrimenti, crollo. Era folle. Questo è il periodo in cui ho scelto il teatro. Ho lavorato al Sistina, al Bagaglino, ho lavorato quasi sempre a teatro dopo, anche con grandi soddisfazioni. Trovava una specie di ossessione nei confronti del nudo femminile in quel cinema? Le sembra una cosa tipicamente italiana o no? In quel momento ero bella e gli uomini mi facevano sempre la corte. Dunque, dopo che finivano di farmela sul set, continuavano nella vita reale. Era un’ossessione. Hai ragione. Poi non saprei dire se sia una cosa tipicamente italiana, probabilmente no. La differenza è che, diciamo, l’italiano non ha pudore; ci prova anche il francese, pensa le stesse cose, però magari le dice con un po’ di cose intorno… Da che cosa era dettata secondo lei questa specie di ossessione? Dai gusti del pubblico, dal volere dei produttori, da una specificità del cinema e della società italiana di quegli anni? Sì, tutto questo, ma si era anche più liberi. Se ci pensi, si usciva dal ’68. Oggi è tutto più complicato, molto spesso le attrici non si vogliono far vedere, anche a teatro il nudo sembra qualcosa di ancora scandaloso. Noi in quell’epoca eravamo senza inibizioni, andavamo nude sotto i vestiti, cioè questa cosa del nudo, soprattutto femminile, era allora una vera e propria continuazione. Anche a teatro io ho fatto un nudo famoso e lì era anche più difficile, con tutto il pubblico di fronte . Me lo chiese mio marito che faceva la regia di Madame Bovary. Inizialmente gli dissi: «Anche tu vuoi mostrami?». Poi lo feci, l’importante era che non ci fosse volgarità e ci si sentisse a proprio agio, belle nel far vedere, in un certo modo, il proprio corpo. Anche a teatro, hai capito? Ci si spogliava anche per esprimersi: eravamo più liberi, per noi non era un problema, era un tipo di espressione di noi stessi. Avevamo meno retropensieri su questo. E, per me, non era un tabù il nudo. Era una cosa che faceva parte della vita. Le cose sono cambiate, me ne accorgo anche con mio figlio che adesso fa il regista: se tu devi chiedere, per esempio, una scena del genere oggi a un attore o un’attrice è molto più 370 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

complicato. Al momento, lì, era tutto più semplice per me. Sì, è vero, c’era questa vera e propria ossessione di cui ti ho parlato prima, ma, per me, spogliarmi non un tabù e non solo per me. Non mi dicevo non posso farlo, non mi creavo tutti questi problemi, è stata una cosa specifica del cinema e della società di quegli anni. Per noi era facciamo l’amore, non la guerra. Ci credevamo. Ora è tutto cambiato. Adesso, forse, è tutto un po’ più ammiccante, ma meno libero. Sì, tutto un po’ meno libero, adesso: la gente ha più paura, cosa che noi non avevamo. Dopo il ’68 noi credevamo che tutto potesse andare meglio, che tutti fossimo più liberi di esprimerci come desideravamo. Erano illusioni, ovviamente, però ce le avevamo. Avevamo vinto tante cose, piccole e grandi battaglie, e ci sembrava che tutto dovesse continuare in questa maniera, in un progresso infinito, anche nella libertà di esprimersi, compreso il libero linguaggio del proprio corpo. Le cose non sono andate così e tutto è ricominciato e si deve ripartire, sembra, quasi da capo. Negli anni ’90, la sua attività principale è stata a teatro e nella narrativa. Le poche esperienze cinematografiche che ha fatto in quegli anni sono, comunque, film dall’evidente connotazione erotica, penso soprattutto ai due con Tinto Brass. È un tipo di storie che personalmente la attiravano oppure, semplicemente, questi ruoli da donna sensuale le sono rimasti incollati addosso dai suoi esordi negli anni ’70? A me piaceva Tinto, era una persona molto ironica, sia lui che sua moglie, erano due persone divertentissime. Riguardo soprattutto il film Paprika, quando mi ha raccontato un po’ il personaggio, io gli ho chiesto: «Ma tu mi fai ballare, cantare, mi fai fare delle cose, un po’ quello che voglio?». E lui mi ha risposto sì. Ho voluto tentare e mi sono veramente divertita. Questo, fondamentalmente, è stato il motivo per cui ho scelto di farlo. A differenza di molte attrici diventate famose negli anni ‘70 solo per meriti estetici, lei ha una forte preparazione attoriale maturata sin da giovane in Francia. Che ne pensa dei ruoli e della carriera che ha avuto nel cinema italiano? Beh, sinceramente, tutti pensiamo che possiamo fare di più. Anch’io ho sempre avuto questa percezione, però, in fin dei conti, sono contenta di quello che ho avuto, delle mie scelte, perché, comunque, ho toccato tutto: il 371 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cinema, il teatro, la televisione, il doppiaggio, la radio. Ho toccato tutto questo e trovo che sia stato importante per raggiungere la dimensione che cercavo. All’epoca in cui sono usciti, questi film hanno quasi sempre avuto un’accoglienza negativa da parte della critica. Oggi sono molto rivalutati, studiati al pari di quelli del cosiddetto cinema d’autore. Che ne pensa di questo fenomeno? Ma questa è la vita. La stessa cosa accade in altri ambiti artistici, per gli scrittori, per i musicisti. Oggi, per esempio, è in atto una grande rivalutazione degli anni ‘70. Sono venuti anche da Parigi per farmi interviste riguardo i film di Lenzi. È stata una rivalutazione sicuramente partita da lì, dalla Francia, dalla Germania, in parte dagli Stati Uniti, dove si potevano trovare questi film anche in edizioni fatte davvero con grande cura, film che in Italia erano praticamente introvabili. E parlavano di questi film, venivano proiettati nei cinema giusti, nelle rassegne, ne parlavano i critici, insomma hanno trovato una loro dimensione, la loro giusta dimensione. Ovviamente, quando è arrivata questa rivalutazione, io ne sono stata contenta. Nel senso che hanno dato valore al mio lavoro, mi sono detta, «Beh, allora, ho fatto bene a fare queste cose, perché sono importanti». Poi ancora più forte è il fenomeno dei giovani registi americani che hanno gridato l’osanna a questo cinema italiano, film a cui loro si sono ispirati. Ma sono fenomeni naturali, sono fenomeni della vita: si cade, ci si rialza, si capisce a posteriori che cosa è di valore e che cosa, invece, non lo è. Paradossalmente, però, questa rivalutazione dei film italiani è venuta dall’estero... Ah, ma come sempre. Voi amate molto le cose che vengono dall’estero, io stessa ne sono un esempio. Io lo dicevo anche a mio marito: «Andiamo a Parigi, perché vedrai che lì i tuoi testi fanno un boom». È curioso: avete tante cose meravigliose in Italia, però quello che viene dall’estero, o che viene detto dall’estero, assume sempre più importanza ai vostri occhi. Non so perché accada così in Italia. Per i francesi è esattamente il contrario: solo le cose francesi sono perfette. Un po’ ci autodenigriamo, forse.

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Un pochino sì, assolutamente, quello è evidente. Ripeto esattamente il contrario dei francesi: la Marsigliese, la Francia… tutto quello che fanno i francesi è sempre ritenuto perfetto da loro. Voi, invece, non avete abbastanza rispetto di quello che avete e anche di quello che fate a livello artistico, davvero, molto spesso.

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Esordi a mano armata. Intervista a Maria Rosaria Omaggio di Davide Magnisi

Maria Rosaria Omaggio (1957) diventa un volto conosciuto al grande pubblico partecipando, molto giovane, a Canzonissima 1973/74. Debutta al cinema nel 1976 con due film d’azione, Roma a mano armata (U. Lenzi) e Squadra antiscippo (B. Corbucci), iniziando una lunga carriera divisa tra cinema, televisione e, soprattutto, teatro. Negli ultimi anni si è segnalata per la straordinaria mimesi interpretativa del personaggio di Oriana Fallaci nel film Walesa, l’uomo della speranza (2013, Andrzej Wajda).

Il suo debutto al cinema è proprio con Umberto Lenzi in Roma a mano armata. Devo essere sincera: avevo accettato, praticamente in contemporanea, Squadra antiscippo e Roma a mano armata, tra l’altro caratterizzati, entrambi, dalla presenza di Tomas Milian. Io ero rappresentata dalla William Morris e anche Tomas. Effettivamente, il mio primissimo giorno di lavorazione nel mondo del cinema è stato in Squadra antiscippo, però, siccome la prima proposta, la prima idea, è stata di Umberto, lui ci teneva moltissimo a ribadire «sono stato io il primo a scoprirti, a farti lavorare, sono io che ti ho notata per primo, avevo capito subito che attrice saresti diventata, che attrice sei». Diciamo che, solitamente, lui non era affatto tenero, ma, anzi, abbastanza severo; anche perché teneva moltissimo agli attori. Negli anni, soprattutto nell’ultimo periodo, ho capito che grandissimo piacere avesse a lavorare con gli attori, a scoprirli. Ricordo anche che, da buon toscano, amava giocare, o meglio, per dirla alla sua maniera, burlare e berteggiare; in particolare, nell’ultima settimana del film, si divertiva ad assegnare il leccalecca d’argento, un premio a chi aveva cercato di arruffianarsi di più il regista sul set (di solito lo assegnava a truccatori o parrucchieri) e la museruola d’oro all’attore o all’attrice più «cane». Dopo tanti anni, quando mi chiamò per un suo libro, mi disse: «Tu non hai mai gareggiato, tu non sei in nessuna di queste categorie e quindi sei nel mio cuore». 375 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Che ricordo ha di quel film, di quel primo incontro con lui e quasi, praticamente, col cinema? Ho un ricordo come dell’inizio di una nuova vita, avevo solo diciassette anni e mezzo. Ero veramente una ragazzina! Proprio di recente ho rivisto le foto di scena e l’intero film per prepararmi all’intervista per gli extra, girati per la versione americana restaurata del film, uscito in sala e in dvd. Ho sorriso della scena nel tribunale dei minori: si vede che sono più minore dei minori che interrogo! E nonostante il costumista mi avesse fatto indossare un tailleur serioso e degli occhiali improbabili! Purtroppo è un’abitudine soprattutto italiana di scritturare attrici molto giovani, alle volte quasi ragazzine, vicine ad attori invece già maturi, pensando che questo faccia una sorta di sconto alla loro età e soprattutto ritenere che i ruoli femminili siano un «abbellimento» di contorno. Sicuramente avviene un po’ meno all’estero, in particolare in Francia. Che altri ricordi ha di questo film e di Umberto Lenzi su quel set? Io ero curiosissima. Per me era un mondo nuovo che desideravo; per cui, anche quando non giravo, stavo sempre lì sul set a gironzolare, a spiare, a osservare per imparare. Umberto mi piaceva moltissimo e mi lasciava fare. E questo piacere si è poi rinnovato nel film che qualche anno dopo ho fatto con lui, Incubo nella città contaminata, un altro must di genere, che conta insospettabilmente milioni di fan. Tornando a Roma a mano armata, mentre in Italia è stato definito un poliziottesco, negli Stati Uniti viene considerato come un pattern, un modello, il primo film che ha ispirato tutte le fiction e i serial di polizia diffusi nel mondo. Umberto Lenzi è citato come un «maestro del genere», ma so che, anche quando raccontava di questo con enorme piacere, aggiungeva sempre una battuta amara della serie «nemo propheta in patria». Sono felice di sapere che, mai come ora, sia un celebrato maestro oltreoceano. Tornando alla vita sul set, Umberto sapeva bene quello che voleva e sapeva realizzarlo molto bene. C’è un’altra cosa da considerare: oggi sembra un lusso poter girare per nove o dieci settimane un film, ma con i mezzi di allora erano poche. Umberto era velocissimo e bravissimo. Non c’erano ancora monitor video ad esempio e, per controllare il girato, si vedevano la sera i giornalieri. Era un vero talento a portare a casa, seppure in economia, 376 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

esattamente quanto desiderava e con risultati strepitosi. Ho di quel set anche due ricordi di grande spavento: quando mi rapiscono davanti al tribunale e a bordo dell’auto allo sfascio. Nel primo caso, visto che la macchina da presa era molto lontana, i poliziotti videro solo una donna strattonata e buttata dentro un’auto, quindi cominciarono a inseguirci con una vera volante! Ci fermarono bruscamente e scesi pallida a chiarire l’equivoco. Nel film, infatti, sono due le auto della polizia e Umberto se ne vantò col produttore: «tu mi dai uno, io te ne porto due»! Per quanto riguarda la seconda è facile intuire: ero davvero io sopra l’autodemolitore dallo sfasciacarrozze e, più che interpretazione, nel mio sguardo si può leggere terrore autentico. Questo è il grande realismo dei film di allora. Esatto. In quegli anni, si girava nei luoghi veri e questo offriva grandi vantaggi in termini di realismo. Certo, poi potevano capitare anche incidenti come quelli che ho descritto, in cui la capacità di realismo del regista si incastrava con la realtà. Ricordo anche che Umberto, a differenza di Corbucci in Squadra antiscippo, usava grandi movimenti di macchina soprattutto per le sequenze private, diciamo così, più intime. Ora mi è chiaro che fosse una scelta per mantenere il ritmo nel montaggio con quelle d’azione. Per esempio, la sequenza in camera da letto con Maurizio Merli è un lungo piano sequenza, senza soluzione di continuità. A proposito di grande realismo alla Lenzi, è indimenticabile il finale del film Incubo sulla città contaminata, dove potei provare l’esperienza di morire. Chiesi esplicitamente a Umberto di farmi fare quel ruolo, perché più drammatico e interessante da interpretare, al fianco di Paco Rabal. Io già lavoravo tantissimo in Spagna, dopo il successo de La lozana andaluza, e Lenzi mi accontentò. Era una grande coproduzione, un gran bel cast internazionale con lo spagnolo Francisco Rabal, lo statunitense Mel Ferrer e il messicano Hugo Stiglitz. Beh, in quel film, visto che ero stata contaminata, Rabal doveva abbattermi sparando. Certo, si trattava di una munizione di gomma piena di cera e anilina, ma con un tiro pericolosissimo in mezzo agli occhi, al centro della fronte, così che il pallino potesse aprirsi a contatto con la pelle e dare l’effetto del foro, in contemporanea col mio spalancare gli occhi. Dovevo essere immobile: lo sparo era davvero molto ravvicinato, quindi, anche se si trattava di un gommino in un fucile gestito da un tiratore scelto, avrebbe potuto colpirmi un occhio. Umberto mi ha amato molto, però pure io gli ho dato tanto e, ripensandoci, anche con grande incoscien377 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

za. Vi siete frequentati in seguito? Sì, compatibilmente con gli impegni. Quando Umberto, parliamo degli ultimi anni, dei suoi romanzi, mi ha chiesto di interpretare pagine del libro nelle sue presentazioni, mi ha fatto un enorme piacere e, anche in quelle occasioni, pur di accontentarlo, feci i salti mortali. Ci teneva tantissimo che fossi io a leggere e Dario Argento a introdurlo. Era un atto solidale di amicizia, di stima, di affetto. Continuare ad avere a che fare con lui mi rendeva felice. Così come, con la sua grande burbera gentilezza, mi mandava le bozze dei suoi libri, chiedendomi un parere prima di dare il «si stampi». Questa considerazione da parte di un uomo che mi ha seguita, che mi ha vista crescere, è per me qualcosa di inestimabile. Umberto è una persona che ho sempre nel cuore. Così come pochi altri registi con cui ho lavorato: Pasquale Festa Campanile, Luigi Magni, Giuseppe Ferrara, persone che mi hanno dato tantissimo, mi hanno fatta maturare nella professione e ai quali ho voluto, anzi voglio, molto bene. Non c’era solo un rapporto professionale, ma anche un sentimento profondo. Mi piacerebbe davvero tanto, oggi, incontrare un giovane regista italiano con cui ricreare sul set la stessa intesa e armonia che si era creata con loro. Sono stati i miei papà cinematografici, mi hanno insegnato tantissimo. Diverse filmografie la danno anche nel cast di Il giustiziere sfida la città. Ha idea perché? Probabilmente Lenzi mi aveva offerto il film, ma io non ho potuto farlo o ero troppo giovane. Era prima di Roma a mano armata, però magari fu annunciato il cast, come si fa quando si prepara un film e il mio nome è rimasto. Forse è successo questo. Tornando indietro nel tempo, si ricorda se conosceva già il cinema di Lenzi prima di lavorarci insieme? Non lo ricordo con precisione. Ho contemporaneamente fatto la maturità classica e i primi provini e… non avevo neanche diciassette anni… Che tipo di figure femminili escono, secondo lei, da quel cinema degli anni 378 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

‘70/’80, allora definito di serie B? Di due tipi fondamentalmente: le attrici per i film d’azione e le attrici sexy. Due bellezze femminili differenti, di solito a seconda del genere cinematografico. Cominciamo anche col dire che, all’epoca, quasi tutte le attrici erano doppiate, per nascondere alcuni problemi di interpretazione ed esaltare soprattutto la fisicità. Le regine del box office erano già Edwige Fenech e Barbara Bouchet. Poi c’era un altro tipo di film che cominciava a farsi strada, il cosiddetto film di genere che, appunto, era il poliziesco e l’horror. Certo, le categorizzazioni non erano rigide: ci sono state delle attrici che, contemporaneamente, hanno girato action movies e commedie, allora quasi sempre classificate di serie B, e, contemporaneamente, erano impegnate in teatro o negli sceneggiati televisivi, ora detti fiction. Altre che, invece, come Lilli Carati o Nadia Cassini, sono state unicamente legate a un genere. Insomma, c’era l’attrice drammatica, che poteva avere ruoli in diverse tipologie di film, e l’attrice super attraente scelta solo per le commediole sexy. Oggi quei poliziotteschi sono molto rivalutati. Lei che idea se ne è fatta nel tempo? Io avrei dovuto debuttare nel ruolo della Madonna nel film di Roberto Rossellini, Il messia, che si girava quasi contemporaneamente al Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli. Carol Levi della William Morris, che era una straordinaria agente, mi disse: «Forse hai ragione ad avere dubbi, perché, chi interpreta un ruolo sacro, poi finisce per non fare nient’altro nella vita se non quello». Mi spiegò che avrei potuto rimanere relegata a un’immagine e difficilmente, poi, avrebbero potuto offrirmi il personaggio di una prostituta o di un medico o un qualunque altro ruolo femminile della quotidianità. Ricordo anche che poco dopo mi fu proposto il debutto in Oh, Serafina! di Alberto Lattuada, ma io scelsi i film d’azione, considerandoli nuovi, più moderni, qualcosa che avrebbe segnato in un certo modo l’epoca. Non credo di essermi sbagliata, infatti di tante pellicole si è perso il ricordo, mentre un film come Roma a mano armata va in onda su qualche rete almeno una volta al mese, magari di notte, ma ormai è un cult e non solo in Italia. Secondo lei, quei film veramente hanno raccontato l’Italia, come alcuni critici sostengono, meglio del cosiddetto celebrato cinema d’autore o è solo una rivaluta379 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

zione tecnico/cinematografica che viene da oltreoceano, sulla scorta delle parole di Tarantino? Tarantino ne celebra lo stile di riprese, ma sono d’accordo sul fatto che quei film raccontino realmente l’Italia di quegli anni. Sicuramente erano scevri da una valutazione politica, erano un sincero spaccato della cronaca della società dell’epoca. Quando c’è dietro una visione politica, un’ideologia dietro un’opera, questa stessa può datarla e farla risultare passata, anacronistica negli anni successivi. C’era comunque una buona preparazione: per esempio gli stuntman (erano tantissimi allora in quei film) ricreavano esattamente, con l’aiuto e la consulenza di autentici poliziotti, quelle che erano le tecniche dello scippo, le azioni della malavita di allora, gli inseguimenti in auto o in motocicletta. Questi film, anche se in modo spettacolare, narrano esattamente quanto accadeva nella Roma che si preparava agli anni di piombo. Inoltre, riferiscono fedelmente, e anche per la prima volta, il ruolo del poliziotto o del commissario: non più un eroe o un agente segreto, uno che fa delle cose miracolose, ma una persona normale che lavora duro con grande volontà e capacità. Come dice Tarantino, è il format di tutte le serie televisive. Invece un film meno realistico è sicuramente Incubo sulla città contaminata. Che ricordi ne ha? Incubo sulla città contaminata è diventato un vero cult. Un film che io ho sottovalutato fino a pochi anni fa quando, a Valencia come madrina di un festival di cinema, ho incontrato un gruppo di cinefili. Sono arrivati per avere l’autografo su manifesti, dvd, vecchie videocassette, tutti quanti con questo film. Rimasi sbalordita, sapevano tutto della pellicola, più di quanto io stessa ricordassi. Proprio io, che in Spagna sono popolare come La lozana andaluza e la Visanteta di Valencia, venivo celebrata da questi ragazzi per il film di Lenzi. Dire che sono rimasta stupita è davvero poco. C’è da notare che era da poco stato distribuito nei mercati di lingua spagnola, un nuovo dvd de La invasión de los zombies atómicos, titolo spagnolo di Incubo sulla città contaminata, e per questa circostanza Umberto mi aveva chiamato a partecipare all’intervista per gli extra. Abbiamo parlato di rivalutazioni, ma come prendevate le critiche che, all’epoca, erano molto negative nei confronti di questi film? Lei ha detto che non c’era una 380 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

visione politica nei poliziotteschi, come li chiamavano, però furono accusati di essere fascisti, di destra, eversivi. Non mi sono volutamente mai occupata di questo. In teatro mi è capitato di fare un meraviglioso spettacolo sul Futurismo nel 1997 che ebbe critiche eccellenti, però fui tacciata di essere una fascista per poi diventare una comunista quando misi in scena Calvino. Questo è un po’ il clima in Italia. Non è che se io recito D’Annunzio sono di destra e se leggo Pasolini di sinistra. Io sono un’italiana che ama e interpreta la cultura italiana. Quando ho iniziato a dar voce e volto a Oriana Fallaci, tutti dicevano che ero una pazza, perché lei era considerata una reazionaria, mentre è una delle più grandi penne del Novecento, punto e basta. Lei ha poi fatto scelte artistiche diverse, lavorando, in particolare dagli anni ’90, soprattutto in teatro e in tv dopo il successo della lunga fiction Edera. Che cosa le ha lasciato quell’esperienza dei primi film degli anni ‘70/’80? Quel cinema per me è stato una magnifica palestra, ho imparato tantissimo perché ho avuto la fortuna di lavorare non solo con ottimi registi, che conoscevano benissimo il loro mestiere, ma anche con eccellenti maestranze, tecnici della macchina cinema, che finivano con l’influenzare anche il modo in cui gli attori lavoravano. È stata veramente una grande scuola, nel senso letterale del termine. Mi è stato utile anche in altri tipi di situazioni cinematografiche. Ho girato in film successivi scene sempre senza controfigura, perfino l’incidente con l’automobile di Pozzetto in Culo e camicia, che mai mi sarei azzardata a fare, se non avessi vissuto l’esperienza di quegli action movies. È come se mi avessero donato una certa audacia attoriale, che è rara. La generazione a cui Umberto apparteneva, vantava persone di grandissima preparazione dal punto di vista tecnico e tutti carichi di grande umanità e conoscenza del cinema. Quello che mi fa piacere dire di Lenzi, in particolare, è che, oltre ad avere una capacità tecnica straordinaria, per cui girava già avendo nella mente il montato, cosa indispensabile quando si gira velocemente un film d’azione, era in più un ottimo lettore, una grande penna e un eccellente narratore. Io sono tra quelli che continuano a credere, come hanno già detto tanti nomi illustri prima di me, che ciò che più conta in un film è la storia. Quando c’è una buona sceneggiatura, è difficile sbagliare. Ci sono spesso operazioni preparate a tavolino, dove viene deciso che «questo piace alla gente e questo è il comico del momento e questa è 381 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Miss Italia o quest’altra bisogna farla lavorare per un altro motivo, eccetera», e magari sembra anche funzionare, ma sicuramente si tratterà di un successo effimero, che durerà una stagione e non diventerà mai un cult, come è accaduto a tante pellicole di Lenzi. La caratteristica più importante di Umberto è che aveva una grande preparazione e una vasta cultura, non solo cinematografica. Poi, da buon toscano, anche una spiccata proprietà di linguaggio. Umberto è stato un vero artista, un vero intellettuale del cinema. Mi dispiace solo che non abbia realizzato in vita il sogno di vedere personificato in una serie tv Bruno Astolfi, il detective dei suoi libri gialli. In Italia abbiamo avuto una stagione veramente strepitosa dal punto di vista cinematografico in quegli anni. Sì, qualche volta mi sono detta che sarei dovuta nascere un decennio dopo o prima, nel pieno di quella stagione di cui parli, perché dalla fine degli anni ’70 in poi tutto è diventato più complicato nel mondo del cinema. Io ero stata scoperta da questi cinematografari, come venivano chiamati allora, ma quella era un’industria. Quella per cui lavorava Lenzi era una vera e propria industria, fatta di grandi professionisti, che lavoravano perché incassavano, perché portavano gente nelle sale, quindi denaro al cinema, senza clan e diritto d’antenna garantito. Erano esperti, capaci di confezionare un prodotto di buona qualità con tempi e costi accettabili. Quanto è stata grave, per chi l’ha vissuta dall’interno, la crisi che ha investito il cinema italiano nel decennio successivo ai ’70? È dal 1976, anno del mio debutto, che sento sempre parlare di crisi del cinema. Certo i soldi investiti sono molti meno, l’industria che c’era prima non c’è più, ma va anche detto che negli anni ’90 si è sviluppata di più la fiction televisiva, dopo il successo delle ventidue puntate di Edera, prodotta dalla Titanus. Sì, proprio da Goffredo Lombardo, il mitico produttore del Gattopardo, che lo intuì prima di altri. Erano finiti i tempi dello sceneggiato televisivo classico e la fiction è riuscita a rinnovarsi sia produttivamente sia qualitativamente, in un modo che il cinema non è riuscito a fare. Ora, e con gioia, assistiamo a una bella ripresa nel cinema italiano, con l’avvento di giovani talenti preparatissimi. Contemporaneamente, sono contenta che ci si occupi di raccontare un regista come Umberto Lenzi. Magari anche per stimolare nel cinema di oggi l’inventiva, le idee, la cultura e la professiona382 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

lità che allora abbondavano. Peccato lo si faccia quando queste persone muoiono. Troppo tardi si valorizzano gli artisti che abbiamo nel nostro Paese. Qualche volta ci accorgiamo troppo tardi di quello che abbiamo in Italia. Ci è voluto Quentin Tarantino perché questo cinema venisse riscoperto e rivalutato. Del resto, la stessa cosa è accaduta con la commedia all’italiana, sono stati i francesi a indicarcene in qualche modo la grandezza. È come se avessimo bisogno di qualcuno che ci dica: guardate, avete fatto grandi film all’interno di un cinema che rimaneva comunque popolare. Quello che dici è molto vero. Ti faccio un altro esempio: io non ho amato particolarmente il film Roma di Alfonso Cuarón che, pure, ha vinto l’Oscar 2019 come miglior film straniero; non che non mi sia piaciuto, ma mi è sembrato una copia non particolarmente ben riuscita o, almeno, non a livello dei film di Vittorio De Sica. Posso vedere in quel film del miracoloso o gridare al capolavoro dopo essermi nutrita di maestri italiani come De Sica? Un film di De Sica che si chiama Il tetto è molto simile a Roma di Cuarón e dura anche molto meno! In quello di Cuarón c’è, secondo me, troppo compiacimento. De Sica riusciva a raccontare con semplicità la stessa bellezza d’immagini e mettere forza nella storia, senza però strafare tecnicamente, senza mai far prevalere lo stile sul racconto. Noi italiani non ci valorizziamo mai abbastanza e trascuriamo la memoria. Abbiamo parlato di Lenzi, ma avremmo potuto parlare anche della commedia all’italiana. Non vanno trascurati anche i problemi della distribuzione e della lingua. Oggi è rarissimo che un film italiano venga distribuito all’estero. In passato, e i film di Lenzi sono lì a dimostrarlo, si realizzavano tantissime coproduzioni. Se un’attrice aveva un certo successo all’estero, veniva utilizzata proprio per aprire al film quel mercato lì. Oggi niente di tutto questo. Giriamo opere che non escono mai dall’Italia e, talvolta, si fa fatica persino a vederle qui. Un film ingegnoso, e appunto di grande sceneggiatura come Perfetti sconosciuti, non esce all’estero nella versione italiana, ma viene rifatto da altre nazioni. Accade perché nessuno degli attori di Perfetti sconosciuti ha un peso internazionale? O per la lingua italiana, che però è compresa e amata nella lirica ad esempio? Oppure l’erba del vicino è più verde e non siamo capaci di valorizzare i nostri talenti? Oggi gli interpreti di fama internazionale sono pochissimi, e sono quelli che poi alla fine vincono anche l’Oscar, come Benigni o Toni Servillo al servizio di Sorrentino, il quale poi va in tournée 383 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

teatrale anche all’estero. Incubo sulla città contaminata era una coproduzione fra Italia, Spagna e Messico. Poi un film così usciva anche in quei mercati ed è probabilmente uno dei motivi per cui Lenzi è molto conosciuto all’estero. Questo finiva per rendere questi registi anche più famosi dei celebrati autori italiani che, invece, faticavano a varcare la linea di confine e che a volte sono rimasti solo glorie nazionali. I film di cui abbiamo parlato, non solo giravano, ma girano tutt’ora, ancora oggi sono distribuiti all’estero, producono nuove edizioni in dvd, passano copie restaurate in rassegne internazionali. Roma a mano armata è uscito di nuovo nelle sale degli Stati Uniti a natale 2018. Un film come Nightmare City (Incubo sulla città contaminata), non dico che l’avessi tolto dal curriculum, ma, di certo, non l’ho mai considerato tra i miei migliori. Invece ho scoperto che è famosissimo nel mondo intero e Tom Savini sta persino lavorando a un remake. Il tempo, alla fine, regala sempre le giuste prospettive e seleziona inevitabilmente ciò che davvero vale.

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Fotografia di Lenzi. Intervista a Nino Celeste di Davide Magnisi

Nino (Sebastiano) Celeste (1940) inizia giovanissimo il mestiere di assistente operatore e poi operatore di macchina, prima di diventare direttore della fotografia, anche per due film di Lenzi del 1976: Napoli violenta e Il trucido e lo sbirro; prima aveva lavorato in film come Il sospetto (1975, Citto Maselli), L’emigrante (1975, P. Festa Campanile), Squadra antiscippo (1976, B.o Corbucci) e alcuni lavori di Giuliano Carnimeo, il regista con cui più collaborerà nella sua carriera. Seguiranno numerosissimi lavori con vari autori, D. Damiani su tutti. Fittissima è stata la sua attività per la televisione, con Damiani ancora (La piovra, 1984; Il treno di Lenin, 1988), Bava padre e figlio (I giochi del diavolo, 1979), S. Bolchi (Bel Ami, 1979), F. Vancini (La piovra 2, 1985), L. Fulci (La casa nel tempo, 1989; La dolce casa degli orrori, 1989), C. Lizzani (Il caso Dozier, 1993; La donna del treno, 1998), solo per citarne alcuni. Centinaia, anche, le puntate di fiction televisive come Sottocasa, Agrodolce, La squadra, Un posto al sole.

Che ricordo ha del primo incontro con Umberto Lenzi? Il primo incontro con lui l’ho avuto da operatore di macchina moltissimi anni fa e mi sembrava molto burbero. Quella volta ci lavorai soltanto una settimana e poi andai via. Si era creata una situazione particolare perché c’era già una troupe che stava lavorando a un film, non ricordo più quale, da molto tempo e io subentrai a un’altra persona. Fu il produttore che mi propose per quel film, ma, poco dopo, andai via per non creare problemi che, però, non erano nati con Umberto Lenzi, ma proprio con gli altri operatori della troupe. Già quella volta, comunque, mi resi conto quanto Lenzi fosse un grandissimo professionista, che sapeva esattamente quello che voleva e dirigeva il set con grande polso. Poi ho rincontrato Umberto un po’ di anni dopo per Il trucido e lo sbirro, quando oramai avevo cominciato a fare il direttore della fotografia. Lui aveva visto il mio Squadra antiscippo e gli era piaciuto molto, anche Tomas Milian mi aveva in qualche modo caldeggiato, per cui mi chiamò e abbiamo fatto questo film insieme. E, devo dire, quella prima fugace impressione che avevo avuto, quando facevo l’operatore di macchina, si è pienamente confermata quando ho ricoperto il ruolo più ampio di direttore della fotografia, nel senso che Umberto Lenzi 385 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ti metteva sempre nella condizione di lavorare bene. Questo era Lenzi, una persona che, come regista, sapeva bene quello che voleva, un grande tecnico. E poi aveva già il montaggio nella testa, come capitava ai registi di una volta, diversamente da quelli di oggi. Sapeva esattamente quello che doveva girare, scene in più non ne faceva, pensando, chissà, magari al montaggio questa che ho fatto non mi funziona. Nella sua testa il montaggio era già fatto, il film era già ordinato. Aveva già visto i film di Lenzi prima di lavorarci insieme? Confesso di no, non ne avevo il tempo, perché da operatore di macchina terminavo un film e il giorno dopo stavo già sul set di un altro. Io, comunque, pensavo che avesse girato prima Napoli violenta e dopo Il trucido e lo Sbirro, perché Napoli violenta è uscito al cinema prima del Trucido e lo sbirro, anche se di poche settimane. No, in effetti il primo film che ho girato con Lenzi è stato Il trucido e lo sbirro, poi Napoli violenta. Partendo da Il trucido e lo sbirro, quello è stato un film cardine per il genere, perché per la prima volta compare il personaggio di Monnezza. Come fu quel set? Io conoscevo Tomas Milian da un po’ di tempo perché avevo fatto, da operatore di macchina, un film con lui, diretto da Liliana Cavani, che si intitolava I cannibali, già da quel set avevamo stretto amicizia. Con Tomas ci si divertiva sempre, è uno che, come attore, cercava sempre di migliorare. A volte metteva bocca anche sulla scena da fare e, devo dire, Lenzi lo ascoltava molto, poi, ovviamente, era lui a decidere questa idea va bene e quest’altra no. Su quel set c’era un ottimo rapporto fra regia e attore protagonista e tra attore, regia e troupe, quindi ricordo che fu un divertimento continuo, anche se, poi, questi film erano molto faticosi, perché non avevamo orari. Questo, però, rendeva la troupe quasi come una famiglia, stavamo molto bene insieme. Ad aprire il film c’era quella sequenza western che indicava un po’ una filiazione di generi, dallo spaghetti western (di cui pure Milian era stato protagonista) al poliziesco. Chi la girò? La prendeste da qualche parte? 386 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

I produttori di quel film erano Ugo Tucci e Claudio Mancini e quelli erano materiali da un film di Sergio Leone, anche perché Claudio Mancini era l’organizzatore e il produttore esecutivo dei film di Leone. Era una sequenza, in effetti, girata benissimo. Si vedeva che c’era una bella mano dietro. Insieme un omaggio e una presa di distanza da un genere. Beh, direi proprio di sì, sicuramente era una scena molto ben girata. Nel film c’è anche una rapina a un treno. A Lenzi piaceva giocare con i generi cinematografici? Lenzi era prima di tutto una persona molto acculturata. Lui si vedeva tutti i film, andava sempre al cinema; criticava, perché era anche un gran criticone, però, nello stesso tempo, osannava un film o un regista, se ci vedeva qualcosa di buono. Era una persona molto onesta culturalmente, oltre che di vaste conoscenze. Secondo me, per quella rapina al treno si sarà ricordato di una qualche scena memorabile che aveva visto, magari in un classico del western, e l’ha riproposta, forse persino migliorandola. Passando invece a Napoli violenta, quali problemi presentò girare in una città come quella? Innanzitutto i permessi, non davano i permessi. Tutto quello che abbiamo fatto, gli inseguimenti e tutto il resto, ogni cosa, era rapita, rubata, era fatto tutto senza permessi. Ad esempio, per l’inseguimento sulla moto, io montavo la macchina a mano sulla motocicletta e si girava. Era proprio da folli, eravamo veramente dei matti. Se penso a quello che poteva succedere, eravamo davvero da manicomio, perché c’erano dei sorpassi pazzeschi. Io, per alcune sequenze d’inseguimenti, mettevo la macchina da presa quasi a terra, sulla strada. Avevo anche costruito dei camera car in cui mi legavano con una corda e si correva con le auto per le strade di Napoli. E poi c’è quella scena clou, secondo me, in quel film, della funicolare: un attacco di pura follia a ricordarla oggi.

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Come fu girata? Non avevate paura di spingervi troppo più in là? Certo che avevamo paura! Però stavamo anche molto attenti, perché giravamo a cinque, massimo dieci centimetri della corrente elettrica, ma non c’era altra soluzione. Infatti ricordo che quelli delle ferrovie ci dissero: «Noi non ci assumiamo nessuna responsabilità…». Rammento che Umberto sottoscrisse una specie di assicurazione particolare per noi, perché sopra la funicolare c’eravamo io, Umberto, l’assistente operatore e Maurizio Merli: stavamo noi quattro sopra la funicolare ed eravamo quelli che rischiavano di più. Abbiamo girato e ci ha detto bene, cosa devo dire, siamo qui a raccontarlo. La fortuna aiuta gli audaci. Una sequenza veramente incredibile. Per quella, almeno, avevate il permesso? Sì, e per darcelo ci hanno messo un mese. Riunioni su riunioni, il sindaco, l’assessore, alla fine, mi ricordo, Umberto girò forzando la procedura. Mi fece l’occhiolino e disse: «Va bene, allora, mentre aspettiamo i permessi, nel frattempo cominciamo ad andar su e vediamo un po’ come girare». Quelli delle ferrovie ci lasciarono fare, ma ricordo che il permesso arrivò alla fine della giornata di riprese. Ci prendevamo dei rischi tremendi. Sa che è una delle sequenze più citate di quel cinema. Sì, anche Umberto mi ricordo che, in un’intervista, citò quella sequenza dicendo «grazie a Nino Celeste sono riuscito a fare una scena del genere», perché ero matto, ero matto come lui, perché lui era un pazzo, non aveva paura di nulla, diceva sempre «andiamo, andiamo, andiamo». Ricordo, per un’altra sequenza, la scena della rapina alla banca, io gli feci: «Umberto, guarda, cerchiamo di avvisare la polizia, perché qui a Napoli di rapine ne fanno tante e, magari, ci sparano addosso». Lui mi disse: «Non ti preoccupare, non ci pensare». Allora gli attori con il passamontagna fanno per entrare nella banca e, nel frattempo, arriva la polizia che comincia a sparare in aria… Morale: ci hanno portati tutti in Questura e noi lì siamo riusciti a far capire che era davvero solo un film. Loro ci hanno detto: «Sì, va bene, ma, la prossima volta, i permessi chiedeteli o, almeno, avvisateci!». Con Umberto abbiamo davvero rischiato parecchie volte. Mentre parlava, ho recuperato un lungo saggio apparso sulla prestigiosa rivista 388 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di cinema newyorkese «Film Comment» che dice: «Napoli violenta certamente merita una menzione come miglior film in cui una faccia viene ridotta a brandelli da una funicolare». Beh, è un bel complimento fatto a noi quattro che eravamo lì su quella funicolare. I poliziotteschi, come furono chiamati, generarono molte polemiche anche ideologiche per le scene di violenza e i «commissari di ferro», come si diceva all’epoca. Lei che idea si è fatto del polverone che si alzò? Mah, secondo me era un polverone alzato solo da molta gente invidiosa che non riusciva nel cinema. Un tipo di critica messa su da altri registi e altri sceneggiatori che non erano riusciti a fare quel tipo di cinema o proprio girare film. In poche parole, la politica non c’entrava niente in quel modo di fare cinema. Mi sembra che spesso i giornali ci dessero addosso perché era un modo di girare completamente nuovo, che Lenzi ha contribuito tantissimo a inventare. Era unico nel modo di girare un certo tipo di sequenze, fare riprese che sembravano impossibili. Faccio un esempio: quando ho fatto la Piovra, la prima, con Damiano Damiani alla regia, si diceva che non si potevano fare film sulla mafia e cose del genere. Ricordo anche che Silvio Berlusconi ci attaccò e cercò di fermare la produzione del film, ma è stato proprio il successo di quella serie a generare, poi, tutti gli altri film e le fiction televisive sullo stesso tema. Direi che con Umberto Lenzi è accaduto qualcosa di simile a livello cinematografico: è stato proprio il grande successo dei suoi polizieschi, anche di quel nuovo filone inaugurato con Il trucido e lo sbirro, il personaggio di Tomas Milian, a dare poi la possibilità di fare tanti film di quel genere. Le sue pellicole sono diventate dei cult. Al di là delle critiche, al di là delle polemiche, il loro valore dal punto di vista tecnico, inventivo, della direzione degli attori, è innegabile, e non c’è recensione negativa che possa tenere, in questo senso. Lei ha lavorato quasi sempre in questo cinema cosiddetto di genere. Leggeva mai le critiche negative che, puntualmente, piovevano addosso a quei film? Sì, le leggevo e davvero erano sempre negative. Io, però, partivo da un altro presupposto: cioè che più erano negative e più il film incassava. Ho fatto anche film autoriali, per usare questo tipo di linguaggio, poi, però, se 389 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

il film non incassa, cioè nessuno lo va a vedere, è come se tu non avessi fatto nulla. Invece, quando si parlava di questi film, di serie C, serie Z, questi incassavano soldi, la gente li andava a vedere e io ero felicissimo. Tanto che, quando doveva uscire un film, io pensavo: «Speriamo che ne parlino male...». A proposito di Napoli violenta, ho letto che intervenne la polizia a Napoli per regolare l’afflusso nelle sale in cui uscì. Si, è stato un grossissimo successo. Credo che lì abbia incassato, in neanche una settimana, in quel periodo, sugli otto milioni, qualcosa del genere, una cosa pazzesca. Maurizio Merli, dovunque andasse, tutti lo fermavano. Intorno al film si creò un vero fenomeno, a Napoli era un delirio in tutte le sale dove si proiettava. In un’intervista a Maurizio Merli, ho letto che, una volta, fu fermato da una volante della polizia e, quando lo videro, gli dissero: «Oh, scusi, commissario». Andò esattamente così perché c’ero anch’io con lui. Quella volta, era di notte, stavamo andando a fare dei sopralluoghi per un altro film, che poi non si è più fatto. Maurizio Merli guidava benissimo, però correva parecchio. Mi ricordo che passammo col rosso e fummo fermati da una pattuglia, ma, quando l’hanno visto, dissero proprio «commissario, ci scusi». È un episodio che accadde a Napoli, solo lì poteva succedere una cosa del genere. Dopo quei due film nel 1976 non ha più collaborato con Lenzi. Eravate comunque rimasti in contatto? Sì, certo che siamo rimasti in contatto. Ci sentivamo anche perché lui mi ha chiamato altre due volte per altri suoi film, ma, purtroppo, ero già impegnato con altri lavori, la prima volta con Damiano Damiani per Il treno di Lenin, nel secondo caso, invece, per un film con Giuliano Carnimeo, con cui ho molto spesso collaborato. Non ho potuto dire di sì a Umberto Lenzi con mio sommo dispiacere, perché con lui mi divertivo molto, era una persona di grandissima intelligenza e vastissima cultura. Per esempio, lui amava molto la rivoluzione spagnola. Ricordo perfettamente questa cosa: che tutti i giorni, durante le pause, lui si avvicinava e parlava, parlava, entrò in fissa 390 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con questa rivoluzione spagnola e noi cercavamo qualunque scusa pur di scappare, perché ci raccontava sempre della stessa cosa! Era una sincera gioia lavorare con Lenzi, un divertimento continuo, non ci si annoiava, era di una cultura, un’ironia, una passione per il cinema, sterminate. Poteva sembrare una persona molto burbera, ma lo era con chi era un incapace, con chi manifestava un’aria di superiorità in un qualche aspetto del cinema o d’altro, però, poi, all’atto pratico, non era all’altezza. Lui si arrabbiava molto per questo genere di cose. Ricordo anche che la sua vittima prediletta era quasi sempre il suo segretario di edizione, di cui adesso mi sfugge il nome. Era la sua vittima perché, talvolta, capitava che sbagliasse a dare un numero o un ciak o qualche altra cosa del genere e lui gliene diceva di tutti i colori! Ma, in realtà, lo adorava, infatti se lo portava sempre dietro, forse era il suo muro di gomma, c’era un rapporto bellissimo tra di loro, anche se sembrava che si arrabbiasse continuamente con lui. In che cosa vede una specificità di Lenzi come regista, se c’è? Anche considerando quanto vasta sia stata la sua collaborazione nel mondo del cinema con altri registi. La prima cosa che mi viene in mente, la risposta più immediata e semplice, è che lui era un grandissimo professionista. Aveva già il film montato nella testa e, per i produttori, era un grosso vantaggio, perché girava soltanto quello che serviva. Era pellicola risparmiata nelle riprese e anche nello sviluppo, anche perché costava non poco. Poi i suoi lavori avevano, sempre, un livello superiore rispetto agli altri, rispetto alla media dei film di genere. Inoltre, lui cercava sempre di esplorare tutti i generi possibili, dall’horror alla commedia, dal poliziesco al giallo. Ha fatto davvero un po’ di tutto. Era un grande mestierante e lo dico nel senso più alto del termine. Quando, a un certo punto, è finita la stagione del poliziottesco, quanto di quel genere è poi confluito in certa fiction televisiva in cui lei ha lavorato a piene mani, dalla Piovra al Ricatto alla Squadra? Beh, devo dire che erano cose piuttosto diverse… magari quello che più si avvicinava a film fatti con Lenzi era La piovra, perché dietro c’erano registi di quel periodo, degli stessi anni di Umberto, intendo. Che posso dire delle altre serie che hai nominato… La squadra era fatta da registi molto più giovani, che cercavano di fare un loro linguaggio, ma che, però, purtroppo, 391 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

molte volte non funzionava. La differenza è questa: da Lenzi, dallo stesso Damiani o altri registi, grandi e veri professionisti, sono passato a questi giovani. Alcuni di essi, nel tempo, sono anche diventati molto bravi come, per esempio, Stefano Sollima, oggi un regista di livello assoluto. Certo, non a caso, forse, figlio di Sergio Sollima. Stefano ha sempre vissuto nell’ambiente, ha assorbito come una spugna i pregi e i difetti di quel cinema, di un certo cinema, fatto con grandissima professionalità, anche se, spesso, con poche risorse. Lui è riuscito a imitarli e prenderne il meglio, anche grazie a budget decisamente più alti. Altri registi di fiction, invece, beh, insomma, siamo abbastanza lontani dalla qualità a cui ero abituato in precedenza. Com’è cambiato il cinema italiano dagli anni ’70 in cui collaborava con Lenzi a oggi? Questa è una domanda che avrei voluto evitare, perché il panorama è abbastanza desolante. Ci sono anche registi in gamba, bisogna essere onesti, ma è cambiato proprio tutto il modo di fare cinema, a cominciare dai produttori. Io, un tempo, potevo dire mi serve questa luce, questa lampada o questo o quest’altro e tutti si adoperavano per mettermi nelle condizioni di lavorare al meglio sul set. Oggi, invece, quasi tutti ti dicono «ma no, dai, tanto poi questo lo aggiungiamo o lo facciamo in post produzione». Se giri un film in digitale ci vuole più accortezza, più professionalità di quando si faceva un film in pellicola: la ripresa in pellicola ti dava la dimensione, il colore, il senso della profondità, il digitale, invece, ti dà un vero piattume. Poi i nostri direttori della fotografia di oggi adoperano soltanto una luce diffusa che rende tutto uguale. La curiosità è che, quando vedo un film che mi sembra fotografato bene, e vado a vedere chi è il direttore della fotografia, mi accorgo sempre che è uno che aveva lavorato già con la pellicola. Un’altra cosa: i giovani di oggi sono molto presuntuosi, se qualcuno della vecchia guardia prova a dire loro qualcosa, insomma un po’ di esperienza ce l’abbiamo, loro rispondono sempre: «Ma no, questo è il vecchio cinema…». Poi si ritrovano con enormi problemi al montaggio, nella postproduzione, devono rigirare delle scene o credono di risolvere tutto con il computer: ma se nelle riprese non c’è qualità, non c’è il materiale giusto, non c’è niente da fare.

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In definitiva, secondo lei, che cosa ha dato Umberto Lenzi al cinema italiano? Beh, innanzi tutto ha dato modo di fare cinema, ha portato tanti soldi ai produttori e ha rinverdito un po’ la situazione, nel senso che, quando uscì Napoli violenta, per esempio, sì, si facevano film polizieschi, ma non così tanti. Dopo il successo di Napoli violenta, ogni produttore mise in cantiere un suo film poliziesco, anche a Mario Merola cominciarono a far fare film polizieschi. Lenzi con i suoi polizieschi ha dato nuova linfa cinematografica a tutto un genere cinematografico. In effetti, in una ricerca ho rilevato che il regista italiano che ha incassato di più, negli anni dal 1974 al 1979, è stato Umberto Lenzi. In questi cinque anni i suoi film hanno incassato poco più di dieci miliardi. Se solo penso che Napoli violenta sarà costato 300 milioni, figuriamoci quanti soldi avrà fatto fare al produttore! Come ultima domanda, c’è un modo in cui lo vuole ricordare? Io vorrei ricordarlo riportandolo in vita e facendo un altro film con lui. Era una persona stupenda, che mi adorava, che mi faceva metter parola nelle scelte cinematografiche. Alcune volte è capitato che lui desse delle indicazioni e io, invece, sostenessi che bisognasse fare diversamente. Mi ricordo che lui, se si rendeva conto che avevo ragione io, si arrabbiava con l’aiuto regista e gli altri assistenti, dicendo: «Non deve essere il direttore della fotografia a farmi notare queste cose!». C’era un ottimo rapporto fra noi, di grande stima e simpatia. Mi disse, anzi, che io avrei dovuto fare anche il suo ultimo film, una sceneggiatura che scrisse a partire da uno dei suoi romanzi. Si sarebbe dovuta fare una specie di serie televisiva dai suoi romanzi. Mi chiamò per farla, sarà stato il 2003 o il 2004, poi non si è più realizzata e lui ci ha lasciato. È una persona che mi manca molto. Volentieri, spesso, mi sentivo con lui. Mi chiedeva sempre che cosa stessi facendo, quale film stessi girando. Ricordo che mi diceva sempre: «Oh, non fa’ stronzate eh! Che non posso controllarti!». Facevamo conversazioni che mi riempivano di gioia. In Napoli violenta avevo un operatore di macchina, ma per lui dovevo esserci sempre io a tenere la camera in mano, era contento solo di me, voleva sempre gli stessi accanto nelle riprese. E ogni tanto, nella mente, ancora me lo rivedo Umberto, me lo rivedo mentre gira, mentre di393 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scute, mentre tiene il set. Anche quest’intervista è stata per me l’occasione di un bellissimo ricordo, come se si fosse riaperta un’intera parte della mia memoria dedicata a lui.

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Cicciabomba splendida splendente. Intervista a Donatella Rettore di Davide Magnisi

Donatella Rettore (1953) comincia sin da giovanissima la carriera di cantante e trova un clamoroso successo all’inizio degli anni ’80 con brani come Splendido splendente e Kobra. Nel 1982 è protagonista di Cicciabomba di Lenzi e poi piccole parti in Kinski Paganini (1989, Klaus Kinski) e Strepitosamente… flop (1991, Pierfrancesco Campanella), continuando la sua carriera di cantante e partecipando a numerose trasmissioni televisive.

Conosceva già il cinema o la fama di Umberto Lenzi prima di lavorarci insieme per Cicciabomba? Sinceramente no, anche perché solitamente i film che lui faceva non erano del genere che andavo a vedere. Io amavo più un certo cinema americano, con una fattura e delle storie diverse rispetto a quello che faceva Lenzi. Poi, in generale, guardavo poco il cinema italiano. Una cosa che però mi faceva piacere era sapere che gli americani apprezzavano il cinema di Umberto Lenzi. Io poi in quel periodo ero molto giovane e sulla cresta dell’onda e, devo dire, forse con un filo di presunzione che mi ha fatto male. Per esempio, prima di girare Cicciabomba ho rifiutato un film con Francesco Nuti, Io, Chiara e lo Scuro, il cui personaggio femminile era stato scritto proprio su di me. Io allora non conoscevo Nuti e volli lasciar perdere. La parte andò a Giuliana De Sio e le ho fatto un grande favore perché, alla fine, è stato il suo più grande successo cinematografico. Si ricorda che tipo d’indicazioni di recitazione le dava Lenzi? Lenzi mi lasciava molto fare, era un regista che lasciava liberi gli attori di esprimersi. Io poi vengo da una famiglia di attori, quindi la recitazione è sempre stata una cosa che ho respirato in casa, sono un po’ nata tra la polvere del palcoscenico. Fin da giovanissima ho iniziato a esibirmi come cantante, già a quattordici anni ero sul palco con De Simone e Bennato, ricordo 395 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che facevo un repertorio di canzoni del Seicento napoletano, anche se le cantavo in italiano. Questo per dire quanto fossi abituata alla recitazione: anche se era il mio primo film, non ero a digiuno di esperienze recitative. Poi, in fondo, lui aveva davanti a sé una Rettore, una Anita Ekberg e una Paola Borboni, comunque dei professionisti che seguivano un copione. Certo, avevamo anche un maestro di recitazione che, però, più che altro, ci seguiva per mandare a memoria le battute. Che ricordo ha di quel set? Recitava, appunto, accanto ad attrici come Anita Ekberg e Paola Borboni. È stato bellissimo lavorare con loro. Anita mi faceva morire, anche perché era un po’ un suo ritorno sul set dopo tanti anni. Era ancora una signora bellissima, alta, sembrava molto più giovane dei suoi anni e ne aveva settanta all’epoca. Ho avuto anche molto piacere a lavorare con la moglie di Lenzi, che era la sua segretaria di edizione. Una donna molto carina, molto gentile, che dava molti consigli in generale, non tanto e non solo sul cinema. Era davvero piacevole chiacchierare con lei, imparavi un sacco di cose, parlo proprio di segreti di bellezza, era una vera esperta in questo campo. Una bellissima donna di origini straniere, sempre insieme al marito. Poi anche Lenzi era una persona molto divertente, che parlava continuamente in toscano. Me lo ricorderò sempre per quel suo modo di esprimersi, invece il mio produttore m’impose tutte quelle lezioni di dizione per perdere completamente ogni minimo accento veneto. È solo un caso che nei titoli di testa animati il regista è rappresentato come un domatore? È stata una scelta molto divertente di chi ha fatto i titoli di testa. Lenzi aveva sempre sotto controllo la situazione sul set, ma, certo, non usava la frusta. Com’era recitare con tutta quella roba addosso per farla sembrare grossa? Quella cosa lì addosso era praticamente una corazza di lattice che mi è stata fatta su misura. Mi ricordo che mi fecero questo calco sul gesso perché mi calzasse perfettamente. Rammento ancora il particolare che faceva un freddo cane quando mi dovetti spogliare per farla. Avere tutta quella roba 396 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

addosso mi aiutò molto nella recitazione, a essere impacciata come avrebbe dovuto essere il personaggio sovrappeso, non dovevo essere agile nel muovermi. Io ero magra, ma certo non come alcune donne anoressiche che ci sono oggi. Che tipo di messaggio dava il film? Sembra francamente attualissimo. Sì, è vero, come messaggio è rimasto attuale. Era un film che, prima di tutto, parlava del cambiamento, del voler essere magra, splendida splendente, di quando si fanno i cerchi con la mente di diventare belle. I sogni di tutte le adolescenti di ogni epoca, almeno dall’epoca contemporanea. Il canone di bellezza del Novecento è sempre stato quello della donna magra, non certo grassa. Io stessa ho fatto negli ultimi anni una canzone che parla degli stessi temi, per dire come il tutto sia ancora molto attuale. Oggi le ragazze si vedono sempre troppo grasse. L’adolescenza in particolare, poi, è un momento sempre molto difficile, è un po’ un parallelo della menopausa, un momento di cambiamenti ormonali radicali del corpo. L’adolescenza può anche essere un film dell’orrore. Ricorda come andò il film? Il film non ebbe una grande distribuzione. Per dire, andò benissimo, per esempio, in Toscana, perché era la stessa distribuzione che mi aveva proposto il film con Nuti e, in quella regione, era particolarmente forte. Andò benissimo anche in Sicilia, ricordo, quindi un po’ gli estremi del Paese. Rammento anche che a Firenze c’erano le mamme con i bambini, ma proprio la fila fuori dal botteghino, era bellissimo. Io mi sono un po’ camuffata una volta e sono entrata nel cinema. Mi sono seduta vicino a un padre con un figlio e scoprii che il bambino sapeva a memoria le battute! Una cosa divertentissima, una specie di film nel film. Quindi, in alcune parti d’Italia il film veniva visto e rivisto, in altre, invece, la distribuzione lo rese invisibile. Cicciabomba è stata una delle sue pochissime esperienze cinematografiche e l’unica da protagonista. Vero è che ha esordito in un momento particolarmente difficile per il cinema italiano. Si, può essere che fosse un momento particolarmente difficile per il cinema italiano. Poi cominciarono a venir fuori tutti questi filmetti su Rimini, 397 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

questo genere Jerry Calà vacanziero. Cicciabomba, invece, era un film happy ending molto inglese, non un filmetto da spiaggia. Che ricordi ha, invece, delle scelte per la colonna sonora? La colonna sonora l’abbiamo fatta noi, a parte una canzone di Elton John nei titoli di coda. Le musiche furono scelte da mio marito in collaborazione con me. C’erano anche diverse canzoni mie, come nella scena in cui Anita mi presenta cambiata, dimagrita, ristrutturata. Umberto Lenzi ha avuto, come tutti i registi di film di genere, un rapporto difficile con la critica cinematografica, che gli rimproverava di fare solo film commerciali. In quel periodo anche i cantanti avevano un rapporto difficile con la critica musicale. Io credo che chi faccia il critico cinematografico sia una persona con una certa intelligenza, diciamo una certa cultura almeno, ma uno che fa il critico delle canzonette, sinceramente… Sono contenta che non ci siano più, non so da dove li andavano a prendere. Facevano e fanno più danni che altro. Poi è anche vero che il pubblico italiano non legge e non si documenta, ma io preferisco sempre che venga data al pubblico la possibilità di esprimere la propria opinione e non di guidarlo malamente in quella maniera. Certo poi il pubblico al quale noi ci rivolgiamo non è, appunto, un pubblico colto, come quello francese e inglese, solo quello americano è stupido come il nostro. E i gusti del pubblico, secondo me, peggiorano sempre di più. Sono anche peggiorati da quegli anni ’80: le persone non leggono più, stanno sempre davanti alla televisione a vedere stupidi spettacoli e passano tanto tempo sui social, a scrivere e leggere sciocchezze. Oggi è il trionfo del demenziale, ma non quello intelligente di una volta. Nella stragrande maggioranza, la gente è proprio scema, adesso. Guarda un po’ come va la politica e chi riusciamo a eleggere… Adesso è in atto una forte rivalutazione di questi registi, come Umberto Lenzi, un tempo bistrattati dalla critica. Sì, oramai saranno una decina d’anni che vengono rivalutati.

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Si è fatta un’idea del perché? Sinceramente non lo capisco. Poi, però, cominciamo col dire che Lenzi non faceva film scollacciati, ma pellicole come Milano odia che erano anche film di denuncia, dei sequestri, della malavita dell’epoca. Già questo lo metteva una spanna sopra gli altri. Infatti sono stati soprattutto i polizieschi a essere rivalutati, anche se tutto è partito dall’America, da Tarantino. Da Tarantino che, però, un po’ italiano è. Infatti è stato proprio sulla spinta dello stesso Tarantino che è stato ripubblicato Cicciobomba in America, nel 2009. La distribuzione è della Mya, il titolo Fatty Girl Goes to New York. Ha anche avuto grande successo tra i teenager americani, poi mi sembra giusto per quel mercato, visto quanto sono ciccioni gli adolescenti lì. È stato molto acquistato. In Italia, invece, per esempio, il dvd non è mai stato editato. In conclusione, che cosa le ha insegnato Lenzi sul mondo del cinema? Lenzi era molto impegnato a fare il regista su quel set, cioè a insegnare agli attori a fare gli attori, lasciandoci liberi.

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Il montaggio lenziano. Intervista a Eugenio Alabiso di Davide Magnisi

Eugenio Alabiso (1937) ha montato, dagli inizi della sua carriera negli anni ’60, circa 150 film e può essere considerato uno dei più importanti montatori del cinema di genere italiano. Collabora sin dagli esordi con Sergio Leone per Qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo, 1966), poi per quasi tutti i film di Sergio Martino (da La coda dello scorpione del 1971 a L’allenatore nel pallone 2 del 2008) e gran parte di quelli di Lenzi (venti da Attentato ai tre grandi del 1967 a Nightmare Beach del 1989). Poi lunghe collaborazioni anche con Giovanni Fago, S. Corbucci, Enzo Barboni, G. Carnimeo, D. Tessari, Michele Lupo, Michele M. Tarantini.

Lei è stato il montatore che più ha collaborato con Umberto Lenzi. Si ricorda il vostro primo incontro? È stato per Attentato ai tre grandi del 1967, credo. Sì, quella è stata l’occasione buona per lavorare insieme, però io già lo conoscevo. Lenzi ha lavorato anche con mio fratello Enzo Alabiso, lui montò forse il film più bello che Umberto abbia girato, era il suo primo giallo, quello con Carroll Baker, Orgasmo. Inoltre, mio fratello Salvatore glielo aveva anche prodotto, quindi diventò una conoscenza per tutta la famiglia. Di Umberto Lenzi mi ricordo questa cosa in particolare: lui mi soprannominava il domatore, perché in quel periodo io portavo delle giacche stravaganti con colori accesi, soprattutto rosse. Allora lui, quando mi vedeva, mi chiamava sempre il domatore. Da lì in poi quel nomignolo mi ha accompagnato nei nostri lavori insieme. Poi anch’io un po’ lo sfottevo: «Ma sono domatore perché sembro tale o in quanto so domare al montaggio le scene che tu giri?». Scherzavamo molto insieme. Come lavorate insieme? Benissimo. Parecchie volte lui mi dava talmente fiducia che mi lasciava fare, anche perché montare i film di Lenzi non era una cosa difficile: girava talmente l’essenziale che si montavano senza grandi complicazioni. Non era uno dei quei registi sprecapellicole, che giravano moltissimo e poi era un rompicapo metterle insieme e decidere le scene giuste. Umberto Lenzi, 401 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

quando raggiungeva lo scopo che voleva ottenere nel girare, continuava con le altre scene. Non girava tanto per girare. Non diceva mai «giriamone un’altra perché forse viene meglio». Lui diceva sempre: «Questa è buona, andiamo avanti». Umberto il più delle volte era presente al montaggio, ma, molto spesso, capitava che andassi avanti da solo nel lavoro e poi glielo presentassi. Poi lui giudicava se andava bene o no. Quale deve essere l’abilità del montatore? Come mi diceva Sergio Leone, «io so quello che ho girato, adesso voglio vedere quello che sai dare tu in più». Il compito del montatore è cercare di migliorare il ritmo del girato. Poi con Umberto ci si confrontava sempre con la massima serenità. Mi diceva «questo va bene» oppure «qui che ne pensi di fare così?». Io in questi casi rispondevo sempre: «Io ci provo a fare dei cambiamenti e poi ti faccio vedere come viene. Poi a tuo giudizio valuterai se è meglio come ho fatto io o come hai proposto tu». Siamo andati quasi sempre di massimo accordo, devo dire. È una persona di cui ho un bellissimo ricordo professionalmente, perché si montava in concordia e amicizia. Generalmente, il montaggio di tutti i film di dialogo è più facile, è nei film d’azione o di suspense che il montatore deve dare veramente qualcosa. E Lenzi con l’azione nei suoi film ci andava a nozze, ce ne metteva tanta, specialmente nei polizieschi. Invece, nei gialli, bisognava creare con i tempi giusti la suspense. Erano questi i due casi in cui il montatore era più necessario al regista. Nei film pieni di dialoghi uno non è che avesse così molto da fare; si poteva aggiungere qualche scena con i fuori campo al montaggio, che ne so mettere una battuta fuori campo e poi, quella che è più importante, in campo, inquadrando l’attore. Questo, in generale, vale per tutti i film in cui ho lavorato con Umberto Lenzi. Che cosa le chiedeva Lenzi, in particolare, nel montaggio di un film? Lui non faceva mai una richiesta personale particolare. Mi metteva a disposizione il materiale che aveva girato e, dopo, controllava quello che io proponevo al montaggio. Solitamente un regista, quando gira, non pensa precisamente a quello che sarà il risultato finale complessivo. La bravura di un montatore consiste nell’aggiungere qualcosa a quello che il regista si era prefisso, il suo non è un compito di poco conto. Poi, nella categoria, ci sono montatori che sono dei semplici esecutori, cioè il regista si mette lì vicino e dice fai questo e fai quell’altro, appiccica questo qui e quello lì. Io questi li chiamavo gli attaccapellicola. Poi, invece, ci sono i montatori che vogliono 402 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

più campo libero, però sempre, giustamente, rimettendosi al giudizio finale del regista, perché poi bisognava vedere se, quello che si era montato, lo soddisfacesse o no. Io appartenevo alla seconda categoria, mi piaceva avere spazio libero nel montaggio, una mia visione del girato, per esprimermi. Così il montatore finisce per avere una parte fondamentale nel film finito. E certo, non è un mestiere facile. Oggi, per esempio, mi capita molto spesso di vedere film, soprattutto in televisione, fatti veramente male. Oggi giudicano film che abbiano un ritmo, quei film montati in maniera serrata, senza una pausa, cioè l’equazione è senza pausa uguale ritmo, ma non è così, perché, per dare il ritmo, le pause sono fondamentali. Noi questo lo facevamo sempre, anche nei film d’azione, in tutti i miei film montati per Lenzi. L’alternanza di scene più veloci, montate serratamente, ad altre, invece, più statiche: è questo il giusto contrappunto per creare dinamicità nel film. Lenzi mi lasciava campo libero in questo senso, per questo è stato un regista con cui ho amato lavorare. Non ne parlo così perché è morto, per semplice riguardo, è stato veramente un incontro professionale eccezionale per me, è stato uno di quei registi che più mi ha permesso di esprimermi e questo ha giovato a entrambi. Musica e doppiaggio in che momento del montaggio arrivavano? Funzionava così: innanzitutto parecchie volte il regista già consegnava il copione al compositore della colonna sonora, in modo che si facesse un’idea del tipo di musica che richiedeva il film, poi, una volta montato, il film veniva doppiato. Adesso si ricorre molto alla presa diretta, prima, invece, quasi sempre i film venivano completamente doppiati, la presa diretta era rara. Quando si girava, non stavamo molto attenti al silenzio, avrebbe reso tutte le cose molto più complicate. Quindi, una volta montato il film, si andava al doppiaggio. Qualche volta, quando si ripassava il film col doppiaggio, si potevano ancora apportare piccole correzioni: se nel doppiaggio risultava che tra una battuta e l’altra c’era troppo spazio, si potevano fare dei piccoli tagli interni alla scena o, se era troppo affrettato, bisognava inserire qualche altro fotogramma di raccordo. La cosa miracolosa era che queste cose accadevano raramente, che ci fosse bisogno di tagli o inserimenti. A pensarci era incredibile come quasi sempre quel che usciva dal doppiato era poi il montaggio definitivo, ma lì stava la bravura di chi curava dop403 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

piaggio e montaggio. Aggiungici che tutto questo andava fatto con grande velocità e capirai quanto il tutto fosse complesso e, pure, riuscivamo. Credo che ognuno nasca per fare una cosa, io per fare il montaggio; era un’arte, un’abilità, un mestiere che sentivo dentro istintivamente: vedevo una scena girata e mi veniva naturale immaginare come andava montata, sembrava qualcosa di innato in me. Anche se poi, qualche volta, qualche regista mi diceva: «Ma che cazzo hai fatto?...». E io allora rispondevo: «Eh vabbè rivediamola insieme»… Comunque, una volta doppiato il film, andavano fatti i rumori: c’era la colonna sonora di base dei rumori, i passi, gli oggetti che cadono ecc. Questi erano chiamati i rumori sala. Poi c’era anche il montaggio degli effetti sonori: le rincorse delle macchine, le frenate, le accelerazioni. Questo era il compito dei rumoristi. Dopo il doppiaggio degli effetti sonori, c’era l’applicazione della musica. Questo era un compito quasi esclusivo del regista, consigliato dall’autore delle musiche. Allora il regista decideva: qui è bello solo il silenzio, qui solo rumori di scena, qui le musiche. Al primo montaggio stava il musicista che si scriveva a mano gli appunti di tutti i commenti musicali che bisognava fare, dove andavano e che tipo di commento il registra voleva. Questa era la prassi della lavorazione di un film. Una volta finito tutto il montaggio di pezzetti, inserimenti, musiche, avveniva il missaggio, in cui tutte le colonne sonore che uno aveva a disposizione venivano mixate, cioè agglomerate in un’unica colonna sonora. Si chiamava missaggio perché bisognava livellarle: in un certo momento il dialogo doveva essere con un volume più alto della musica o i rumori di fondo non dovevano interferire con il dialogo. Una volta finito il missaggio, questa colonna, che era impressa sul magnetico, la si registrava sul negativo. La colonna sonora negativa veniva sviluppata e succedeva, poi, che la colonna negativa veniva abbinata alla scena negativa con uno spostamento di 28 fotogrammi, tanto che, quando veniva proiettato il film, tra la testina sonora e l’immagine visiva c’erano dei fotogrammi. Finite di montare le scene, si andava al taglio del negativo. Quando si girava, veniva stampato nei giornalieri l’insieme di tutte le scene della giornata. Il positivo, che non era altro che la copia del negativo che veniva dato per essere montato, ogni 16 fotogrammi aveva dei numeretti di perforazione. Sotto la base del bordo nero apparivano questi numeretti di perforazione che erano proprio del negativo. Quando uno aveva montato il film, cioè si era sbizzarrito col positivo come voleva, lo mandava nello stabilimento per il taglio del negativo. Lo stabilimento che faceva? Si rifaceva ai numeretti che stavano impressi sul 404 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

positivo, che di conseguenza tu riscontravi nel negativo, e tagliava il negativo come il positivo. Allora si formava il film negativo da cui venivano stampate le copie. Così funzionava nel periodo in cui c’era la pellicola. Adesso con il digitale è cambiato tutto. Questa è archeologia, storia del passato. C’è qualche aneddoto che ci può raccontare che, secondo lei, meglio racchiude la personalità di Lenzi? A me quello che faceva ridere è che, in modo scherzoso, quando vedeva qualche scena finita, montata, che gli piaceva particolarmente, si paragonava sempre a dei grossi registi: «Sono Ford!», diceva, urlando, esaltato. A volte, io dentro di me dicevo: «Ma ci dovesse credere veramente…». I rapporti con Lenzi sono stati sempre felici. Solo una volta abbiamo avuto un piccolo litigio: c’era un film, Nightmare Beach, era uno degli ultimi di Lenzi, che mio fratello Salvatore girava come produttore negli Stati Uniti. Allora negli Stati Uniti c’era la Miramar che faceva questi film a basso costo. Le grandi società americane facevano anche questo tipo di produzioni, pensate per mercati minori o piccole nicchie di spettatori. A mio fratello dissero, visto che il materiale non era proprio piaciuto: «Sai che fai? Bruciamo tutto e chi se ne importa». Non era solo il film di Lenzi, ma una coppia di film, l’altro era stato girato da Vittorio Rambaldi, il figlio di Carlo. Mio fratello allora propose alla casa di produzione: «Facciamo così, spediamo tutto il materiale a Roma, lo faccio rimontare e vediamo con un bravo montatore se ne viene fuori qualcosa di diverso». Mi raccontò tutta questa storia e mi disse: «Prenditi questi due film, rimontali e cerchiamo di vedere che cosa ne possiamo tirar fuori». Io li rimontai e quella fu l’unica volta che ebbi un po’ di screzi con Lenzi. Mio fratello mi disse anche: «Visto che il materiale in America non è piaciuto, i film li rimonti tu, però non voglio nessuno insieme a te al montaggio, nessun regista né un’altra persona che interferisca». Io risposi a mio fratello: «Va bene, ma con Umberto sono talmente amico che non posso fargli una cosa del genere». E lui: «E vabbè, fai come cazzo ti pare!». In effetti portai Lenzi con me in cabina di montaggio, per un film che tutti ritenevano, ormai, perso. Io rimontai tutto quanto, ma c’erano delle piccole cose che mancavano e mio fratello mi disse: «Vattene a Miami con il direttore della fotografia e giratele». Così facemmo. Per la musica prendemmo un musicista bravo, Claudio Simonetti, che aveva fatto molti film di Dario Argento. Anche per gli effetti speciali chiamammo 405 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

i migliori che avevamo sulla piazza. Alla fine, con il rimontaggio, le musiche rifatte, la collaborazione di Umberto che stava sempre con me, perché lui curava molto i suoi film (e questa era una cosa stupenda, voleva giustamente sempre portare a termine nei migliori dei modi i lavori che cominciava), questi due film li rispedimmo alla Miramar. Poco tempo dopo ci giunse una lettera che diceva: non ci capacitiamo come, da un materiale che bisognava gettare, avete ottenuto due film proiettabili, vi ringraziamo. Ecco, questo per dirti come si lavorava allora e come si lavorava con Umberto. Certo, questo è stato l’unico film per il quale abbiamo avuto dei dissidi, ma lo stesso lo abbiamo portato a termine e la nostra amicizia è stata ancora più forte di prima. Però quante ce ne siamo dette quella volta, per quanto il materiale era brutto. C’è qualche film tra quelli di Lenzi a cui, per un motivo o per un altro, è più legato? È una scelta difficile, perché io ho amato tutti i film che ho fatto, non ho mai lavorato controvoglia o male perché, magari, un film mi sembrava meno riuscito: è un po’ come una coppia che mette al mondo un figlio, non lo giudicherà mai bello o brutto o, almeno, non lo amerà mai meno. Con Lenzi ho fatto anche un film western, un genere che amavo molto, Tutto per tutto. Poi, tra i lavori che più ricordo, c’era un film di guerra, Il grande attacco, talmente complicato che fu molto combattuto anche nel montaggio: fu davvero difficile metterlo insieme e poi non ebbe il successo che ci aspettavamo. Forse è il film che meglio ricordo, il ricordo più affettuoso, diciamo così, perché, alla fine, finisce che quello a cui ti dedichi di più è quello che più ami. Ci portò via tantissimo tempo, anche se, in un certo modo, stonava un po’ tra i generi che andavano di moda all’epoca. Io, però, lo trovai molto bello, con un grandissimo cast. Certo, anche i gialli fatti con Lenzi erano davvero notevoli. In quell’epoca mi trovavo a fare i film gialli di Lenzi, quelli di Martino e di quasi tutti i registi di genere del tempo, per cui cercavo di sagomare il film a seconda del regista. Un altro ricordo molto particolare ce l’ho per Un posto ideale per uccidere. Quel film a Umberto proprio non piacque, perché Ponti gli deviò la sceneggiatura, in quanto non voleva sentir parlare di droga. Allora Lenzi un po’ disconobbe il film. L’ho rivisto di recente e mi sembra un giallo abbastanza ingenuo, non è come gli altri, che hanno una carica emotiva e un tono generale nettamente più alto. Un posto ideale per uccidere lo reputo un film infe406 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

riore tra quelli di Lenzi, uno di quelli che mi è piaciuto meno e a cui sono meno legato, anche se lì lavorava una giovanissima e bellissima Ornella Muti. Nei gialli, Lenzi mi dava più spazio che negli altri film, perché diceva che ero particolarmente bravo a creare la suspense, a trovare i tempi giusti. Quelli sono i montaggi più difficili, cioè non anticipare mai l’evento che avverrà né posticiparlo troppo, se no il pubblico si spazientisce, se la tiri troppo per le lunghe e, poi, quando il momento dell’esposizione arriva, il pubblico ha già capito cosa accadrà. Lei è stato probabilmente il montatore per eccellenza del cosiddetto cinema di genere italiano e il primo a vederli uscire dalle mani dei registi. Che ne pensava? Che idea si è fatto di quella stagione? Fu un periodo d’oro per un motivo: quel genere di film era nato dal pubblico. Allora venivano prodotti quasi 400 film all’anno. Al cinema si lavorava molto perché quel genere di film, leggero, era venuto dagli spettattori. Poi quello che io dico è: non è che fu proprio questo genere di pellicole ad aver permesso di fare quelle grandi? Cioè, i fondi per i film per cui si spendevano più soldi, venivano racimolati proprio dagli incassi buoni dei piccoli film. Tutti questi film di genere, che venivano prodotti con poco, poi incassavano tantissimo. Perciò come fai a capire quel periodo del cinema italiano sfrondandolo da questi film di genere? È impossibile. Allora alla gente piaceva di più andare al cinema, è stato un periodo d’oro perché al pubblico piaceva quel genere. Se tu pensi che andavano al cinema a vedere anche i film di Alvaro Vitali… incassavano miliardi… Certo, ci sono stati anche tra i film di genere, commedie e non solo, polizieschi, gialli, alcuni che erano veramente dei gran bei film. Questi di Lenzi di cui stiamo parlando, in particolare i gialli, erano davvero dei buonissimi prodotti, che non avevano successo solo in Italia, ma giravano in tutto il mondo. Parlavate mai delle molte critiche negative che piovevano addosso a quei film mentre lavoravate insieme? A me e a Umberto quello che lasciava veramente perplessi delle critiche era il perché si accanissero così tanto contro questo genere di film. E perché, poi, c’era un riscontro di pubblico come se quelle critiche fossero state positive: significava che il pubblico non se le filava proprio. Però, perché i critici dovevano scagliarsi sempre contro la piccola produzione e, spesso e volen407 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tieri, osannavano i film di grandi registi il cui riscontro al botteghino era minimo in confronto a quello di questo genere? Certo la critica non può che essere una cosa soggettiva, ma io ti dico, parlando dei critici, cosa Rondi scrisse a proposito di Il buono, il brutto, il cattivo, una cosa che a me adesso viene da ridere a pensarci. Scrisse che, per essere un western, era un film senza ritmo. Cioè, non aveva capito che l’evento cinematografico nuovo di Leone era proprio quello! E ti parlo di Rondi che allora era forse considerato il più grande di tutti. Questi erano i critici. Io li ho sempre ritenuti persone che avrebbero amato fare il cinema, ma, non riuscendoci, spesso si accanivano contro chi quel lavoro lo stava facendo. Il nostro cinema era sempre snobbato. Era troppo facile parlar male di certi film, ma, prima, bisognerebbe vedere in che condizioni il film è stato girato. La critica in quel momento era un po’ cieca. Però, chissà, magari ci ha anche portato bene: forse il pubblico, quando leggeva quelle critiche negative, diceva: «Ah, allora questo deve essere bello, andiamolo a vedere». Dopo essere stati a lungo bistrattati dalla critica, oggi quei film sono stati largamente rivalutati. Sì, molto rivalutati, pensa quanto i registi americani hanno rubacchiato da questo genere di film. Per esempio, Quentin Tarantino osanna sempre i film di Lenzi, questo significa che qualcosa di buono c’era. I critici del tempo, invece, erano così assatanati nel parlarne male… Soprattutto se la prendevano con i poliziotteschi, definiti fascisti, di destra. Ecco io questo non l’ho mai capito! Io ti dico sinceramente che Lenzi, e tutti gli altri che giravano i film, della politica non gliene fregava niente, niente! Ma perché i critici dovevano trovare sempre lo scopo politico dentro questi film? Non c’era proprio! Cercavano questi appigli ideologici per accanirsi contro. Dicevano sempre: si sente qui un regista fascista, si vede l’anima fascista di questo film… però poi non mi ricordo di aver letto mai recensioni in cui si diceva si vede il regista compagno, l’anima compagna del film, quella non la dichiaravano mai. Che tempi che erano.

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Alla fine, qual è la specificità del cinema di Lenzi? Lei che ha montato i film di molti registi di genere del tempo che idea se ne è fatto? La specificità era nel fatto che Lenzi amava tutti i generi. In base alla proposta che gli facevano, lui accettava il film, però che lui avesse un genere preferito non credo, perché lui era un regista che amava il cinema e, di conseguenza, qualunque genere era un prodotto che lui avrebbe girato volentieri. Di sicuro posso dire che amava i grandi attori. Per esempio, lui aveva legato molto con Tomas Milian. I film che hanno girato insieme sono grandissime storie. Quando Milian ha lavorato con Corbucci alla serie di pellicole con protagonista Monnezza, l’idea nasceva proprio dai film di Lenzi. Quelli con Milian sono i film che più ho amato tra i polizieschi girati da Lenzi, avevano una loro originalità, oltre che una gran tecnica. Umberto navigava un po’ in tutto il cinema: i film di guerra, i gialli, i western, era uno che amava il cinema in sé. E poi c’era un’altra dote che io amavo molto, il fatto che non fosse mai critico nei confronti del lavoro degli altri: lui pensava al suo cinema. I suoi punti di riferimento erano sempre i grandi registi americani, in quelli si specchiava, quelli ammirava. Ecco perché, ogni tanto, si lasciava andare nominandoli se gli piaceva particolarmente una scena che aveva girato…

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Musica per Lenzi. Intervista a Franco Micalizzi di Davide Magnisi

Franco Micalizzi (1939) trova il suo primo grande successo come compositore di colonne sonore cinematografiche sin dagli esordi con Lo chiamavano Trinità… (1970, Enzo Barboni), creando melodie che vivranno anche al di là dell’applicazione cinematografica, come nel caso di L’ultima neve di primavera (1973, Raimondo Del Balzo). Dopo numerosi lavori a metà anni ’70, inizia un lungo sodalizio con U. Lenzi, musicando ben dieci suoi film, da Il giustiziere della notte del 1975 a Hornsby e Rodriguez – Sfida criminale del 1992. Sempre molto attivo in quegli anni con registi di genere come B. Corbucci ed E. Barboni, ha lavorato anche per la televisione, musicando spettacoli e fiction Rai. Artista poliedrico e appassionato, ha scritto sigle per cartoni animati (indimenticabile quella di Lupin III) e firmato collaborazioni con musicisti della scena hip-hop italiana e internazionale, oltre a girare l’Italia con concerti che propongono le sue più famose colonne sonore.

Quando ha cominciato a scrivere colonne sonore, gli autori di musica applicata, come si diceva allora, erano visti come mestieranti. Come mai fece questa scelta? L’amore per il cinema me lo porto dentro sin da quando ero bambino. Io abitavo non lontano da una sala cinematografica e iniziai ad andarci sin da piccolo. Mi sento quasi di dire che i miei genitori un po’ mi lasciavano lì, perché sapevano che era un posto sicuro. Ricordo che andavo dal primo pomeriggio e vedevo lo stesso film anche più volte dopo che finiva. A me sembrava fosse normale così e mi affascinava, mi è sempre piaciuto moltissimo. Da subito mi attrasse anche il rapporto con la musica, poter sentire musiche bellissime, anche da un punto di vista tecnico, in maniera più coinvolgente rispetto a quanto accadeva con la radio. Anche se ricordo si guardavano al cinema spesso pure documentari, quelli dell’Istituto Luce, dove si vedevano anche orribili immagini di guerre e distruzione. Mi sono rimasti impressi anche quei documentari, anche se, certo, amavo di più vedere i film. Nello sguardo di un bambino, poi di un ragazzino, tutto questo rimase dentro e il cinema diventò il mio spettacolo prediletto. Proprio per l’insieme di musica e immagini, era uno spettacolo completo ai miei occhi e alle mie orecchie. Il cinema era allora qualcosa di molto contemporaneo, 411 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un’abitudine, come poi è diventata un mezzo d’intrattenimento quotidiano la televisione. Era la mia fonte di divertimento, il mio passatempo preferito. Ricordo con emozione tutti i film dell’epoca, in particolare i film americani, musical compresi. Il connubio tra immagine e musica era una cosa che mi attraeva moltissimo. C’è stato proprio questo imprinting che mi ha segnato da bambino. Lei fa parte di una straordinaria stagione di grandi musicisti prestati al cinema, penso a Morricone, Bacalov, Rustichelli, Ortolani, Donaggio. Vi scambiate mai idee, opinioni sul vostro lavoro? Io a un certo punto sono entrato alla Rca italiana: avevo diciannove anni ed era per me il paese delle meraviglie. Era veramente un posto fantastico, era dove si creava la musica di quegli anni. Io ho visto nascere tutti i cantanti di quell’epoca e, soprattutto, conosciuto gli autori di musica da film come Morricone o Rustichelli. Io ammiravo soprattutto Morricone perché ti faceva scoprire un modo nuovo di commentare musicalmente i film. Mi piaceva tanto anche Bacalov, con la sua linea melodica molto romantica. Da tutti questi musicisti che hai nominato veniva una lezione e io, in qualche modo, la rubavo. Avevo un grande desiderio d’imparare, di confrontarmi, capivo che la loro esperienza era straordinaria, che erano arrivati a conclusioni da cui avevo tanto da scoprire. L’esperienza alla Rca è stata una specie di università della musica. Io facevo l’assistente musicale, seguivo le colonne sonore, quindi sentivo musica da film dalla mattina alla sera. Organizzavo i turni, seguivo la corretta esecuzione delle musiche dalla regia e questi nomi li ho conosciuti veramente tutti. Ho imparato tanto. Con molti di loro, nel tempo, si è creato un rapporto di amicizia e di stima. Si apprendeva anche semplicemente parlando con loro, prendendoci un caffè. Come si passa dalla musica alla colonna sonora? Ci fa qualche esempio? Io sono passato da qualcosa di più umile a qualcosa di più grande. Prima di passare alla Rca suonavo con un gruppo, era anche un modo per fare un po’ di soldi, per staccarsi dalla famiglia. Facevamo pure delle tournée all’estero, suonavamo in night e locali dove si ballava. È stata un’esperienza molto bella, anche perché mi ha permesso, sin da giovanissimo, di viaggiare. Io, però, poi, mi sono sposato giovanissimo, a diciotto anni, tanto che ho avuto bisogno di un’autorizzazione speciale, perché allora si diventava 412 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

maggiorenni a ventuno. Quando è nato il primo figlio mi sono dovuto fermare: non potevo più continuare a fare questa vita vagabonda. Ebbi la fortuna, appunto, di entrare alla Rca, che era veramente il mio sogno: contemporaneamente uno stipendio, il posto fisso, che, però, mi permetteva di continuare a vivere l’esperienza musicale. Alla Rca ho trovato esattamente quello che speravo di trovare: è stato una specie d’incontro fatale, di amore a prima vista. Da lì sono partito, fino a che sono riuscito a passare da tecnico del suono a compositore di colonne sonore. Iniziai con un film che nessuno voleva fare, si comincia sempre così. Un filmetto di cui non importava niente a nessuno, quei film che i produttori e i registi facevano con la mano sinistra perché doveva costare poco: Lo chiamavano Trinità… Il film era stato in preproduzione per anni, perché nessuno credeva in un western leggero, in cui si ridesse; l’idea era di passare dal western alla Leone, con tempi lentissimi e pieni di violenza, a un film veloce e ricco di umorismo. Era un modo completamente diverso d’interpretare il genere creando, alla fine, un western ancora più tipicamente italiano rispetto a quello di Leone: la commedia nel western fu un’altra invenzione tutta nostra. Accettai il lavoro e scrissi questo tema… dalla produzione erano molto incerti anche su quello, perché il produttore all’inizio voleva una cosa un po’ diversa, ma, alla fine, capirono che funzionava. Il successo del film fu travolgente, le sale scoppiavano. Addirittura i primi giorni arrivò la polizia, mi ricordo a Napoli e a Torino, perché la gente voleva entrare nonostante i posti fossero finiti, le persone volevano sfondare le porte. Il film esplose in maniera incredibile e, per me, fu un’enorme fortuna partire con quel grandissimo successo, mi aiutò ad andare avanti e a fare un altro film, come L’ultima neve di primavera, completamente diverso, molto romantico, con un tema musicale molto classico che diventò un clamoroso successo in sé, entrando addirittura nelle hit parade del tempo (cosa che non era facile per un tema che veniva da una colonna sonora, in quegli anni l’unico che ci era riuscito era Morricone). Poi la strada si è aperta e sono arrivati i polizieschi all’italiana e sono diventato un po’ il re di questo genere, tanto che, spesso, mi si ricorda soprattutto per questa parentesi, in particolare con Umberto Lenzi. Alla Rca, comunque, ho fatto un po’ di tutto, per esempio le sigle di cartoni animati. Quelle per me erano solo lavoro, ma, certo, mi divertivo a farle, a scrivere musica per qualunque cosa servisse, per cui mi ci impegnavo sempre, non le facevo con la mano sinistra. La più famosa è rimasta quella di Lupin. Ricordo, quando me la proposero, non sapevo chi fosse, mi dissero che era un ladro francese. A me piaceva molto la musica francese e l’associai a una fi413 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sarmonica. Quella sigla venne fuori in 10-15 minuti, ho avuto la fortuna di partire subito con l’idea giusta. Poi devo dire che, nel tempo, quella sigla ha avuto uno sviluppo sorprendente anche per me: mi è capitato di essere intervistato da alcuni giornalisti e, quando usciva fuori che avevo composto quel pezzo, anche persone che si erano presentate con un certo sussiego, finivano per dirmi che in quella sigla si concentrava la loro vita, la loro infanzia o adolescenza, tirando fuori anche cose abbastanza sorprendenti, tanto che per molti finisce per essere la cosa più importante che abbia scritto e, forse, chissà, hanno ragione. Quali erano i suoi modelli musicali? Lei ha sempre fatto colonne sonore di film cosiddetti popolari, ma dietro si sente una grande abilità nell’orchestrazione e nell’arrangiamento. Il bello era quello: saltare da un genere all’altro, una sfida. Passare da un western o un poliziesco a un film romantico. Un’altra delle cose che più mi piaceva nel comporre colonne sonore era quella di entrare ogni volta in un genere nuovo e anche nella testa di un regista. Ho sempre pensato che un buon musicista deve avere la capacità di affrontare un po’ tutti i generi, certo mantenendo una sua cifra stilistica, quella che porta sempre con sé, che poi quella cifra stilistica è anche la qualità di quello che si fa. Che impressione le fece Umberto Lenzi la prima volta che lo incontrò? Quella di una persona molto seria. Umberto Lenzi aveva un carattere piuttosto chiuso, non dico duro, perché sarebbe eccessivo, ma comunque stava sempre un po’ sulle sue, pur essendo sempre educato e gentile. Tra di noi c’era un rapporto molto professionale che poi, man mano, nel tempo, è diventato una vera amicizia, nata da una grande stima reciproca. Bontà sua, mi è sempre rimasto amico, ci siamo sentiti spesso, anche negli ultimi tempi, quando lui aveva ormai finito di fare il regista. Ci è capitato di continuare a vederci, chiacchierando sempre con grande piacere, tanto che la sua morte mi è giunta come una notizia improvvisa e mi ha addolorato tantissimo. Umberto era un vero amico che mi ha dato piena possibilità, e occasioni, di esprimermi artisticamente. Io sono diventato cult con questo tipo di musica e questo lo devo a lui, alle possibilità che mi ha dato con le colonne sonore che ho scritto per i suoi film. Queste vivono ancora, vengono campionate, riprese da musicisti contemporanei, rapper, per non parlare di 414 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

altri compositori di colonne sonore che vi si ispirano e lo stesso Tarantino, che le ha riprese in alcuni suoi film. Per esempio, la colonna sonora di Roma a mano armata l’ha inserita nel finale di Grindhouse e poi ha ripreso il tema di Lo chiamavano Trinità… per Django, perché ci ha ritrovato la giusta ironia all’interno del suo tipo di western sanguinario. Questo fa anche capire l’amore che Tarantino ha per il cinema italiano di genere, che poi, quando si dice di genere, s’intende sempre di serie B. A quei tempi, in effetti, i registi che erano definiti serie A non mi hanno mai chiamato: questo è stato un altro motivo per il quale le mie musiche non hanno mai ricevuto nessun premio, neanche la cocozza di piombo, perché per ricevere premi bisognava fare necessariamente colonne sonore per film di un certo livello. All’epoca, i registi del cinema colto, e anche lo spettatore di un certo cinema colto, ci guardavano dall’alto in basso. Ti racconto un episodio: quando uscì per la prima volta la videocassetta di Lo chiamavano Trinità…, decisi di comprarla, mi piaceva l’idea di averla perché per me era stato un film importante. Quando entrai nel negozio, non la trovai da nessuna parte. Allora chiesi alla commessa e lei mi disse, guardando in fondo al locale: «Vede laggiù dove c’è scritto Trash Movies? La trova lì». Allora ho capito tutto, anche se, poi, quella sezione del negozio era la più affollata. Ecco che cos’era Lo chiamavano Trinità… così come il cinema che avevo fatto con Lenzi: Trash Movies. Questo per dire qual era la considerazione di cui godevamo. Certo, quei film se la sono cavata piuttosto bene, in fondo, ma definire quel tipo di cinema trash, a me è sempre sembrato un po’ eccessivo. Come incontrò Umberto Lenzi la prima volta? Lenzi aveva bisogno di un musicista e gli proposero me. Con Umberto c’è stato un affiatamento immediato perché, intanto, era un regista che conosceva molto bene il suo mestiere, cosa non sempre così ovvia. Poi lui non ha quasi mai interferito con il fatto musicale: sentiva e diceva «va bene, ok». Credo di averlo accontentato quasi sempre, se non sempre. Si creò una grande affinità fra noi, c’intendevamo subito su quello che funzionava. Poi i suoi film sono sempre andati benissimo e alcuni sono pure diventati dei cult nel tempo. Anche questa è stata una grande fortuna, per entrambi.

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Cosa le chiese, in particolare, Lenzi per la colonna sonora del vostro primo film insieme, Il giustiziere sfida la città? Mi parlò in generale del film, non mi disse moltissimo. Io lessi la sceneggiatura e mi sembrava forte, c’era velocità, dinamismo, quindi pensavo a un tipo di musicalità incalzante. Riuscii a tirar fuori una colonna sonora che gli piacque moltissimo. Quel tipo di musica inevitabilmente s’ispirava ad alcuni generi americani: la cosa curiosa è stata che musicisti americani di generazioni successive sono venuti a campionare la mia musica… ce ne avevano talmente tanta lì in America che mi è sembrato bizzarro venissero a recuperare la mia. Forse la risposta è che questo funky made in Italy che ero riuscito a creare, finiva per risultare per loro un marchio di fabbrica originale e la cosa mi ha fatto molto piacere. Le mie musiche per film finiscono per essere molto campionate dal mondo dell’hip hop e non sempre mi spiego il perché. Il giustiziere sfida la città è tra le prime colonne sonore fra i suoi polizieschi, precedentemente aveva musicato soprattutto western o film avventurosi. A livello cinematografico vedeva delle affinità tra questi generi? Beh, tra le affinità c’erano soprattutto i cascatori, perché venivano utilizzati sia nel film avventuroso che nel western e nel poliziesco ed erano sempre quelli, anche se nei polizieschi andavano sui mezzi meccanici. Poi altre affinità ce ne sono: sono tre generi con una dinamica e meccanismi molto simili, anche se si realizzano in modo diverso, perché il western non ha la velocità delle auto che corrono per la strada, ma si va a cavallo. Poi è pur vero che nel cinema italiano c’erano poche cavalcate, il western all’italiana somigliava molto al poliziesco, lo abbiamo rinnovato perché la storia si basava soprattutto sulle situazioni, un po’ strane e anomale. Leone, che ne è stato il maestro, alternava una grande lentezza con una grande violenza. Poi c’è stata la parentesi del western umoristico iniziata con Lo chiamavano Trinità…, con quelle scazzottate che non facevano una goccia di sangue, roba da acrobati, una specie di ritorno alle comiche, prive di reale violenza, ma piene di divertimento. L’ossatura di quel cinema popolare italiano era abbastanza simile fra questi generi. La caratteristica del cinema italiano, pensa alla commedia all’italiana che mischia dramma e divertimento, è proprio la contaminazione dei generi: in questo credo che noi italiani siamo stati veramente dei maestri, sono cose che poi ci hanno copiato nel resto del 416 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mondo. Riusciamo a mettere insieme cose diverse facendo dei salti incredibili. La musica mi pare fondamentale per elevare il livello anche visivo, direi compositivo, delle scene, soprattutto d’azione, di questi film. Vi concentravate in particolare su queste? La musica doveva creare la giusta atmosfera, sia nelle scene d’azione che in quelle più struggenti. La musica, non essendo immagine, materia, ha una forza incalcolabile. Mentre noi siamo concentrati a vedere una scena, la musica, in maniera non razionale, in qualche modo ci frega, rapisce lo spettatore, gli ruba l’emozione, lo predispone a una certa cosa, aiuta moltissimo in questo senso il cinema. Sintetizza quanto raccontato in immagini, ha una funzione poeticamente alta. Poi, certo, deve essere ben fatta. E questa forza della musica per me comincia già dai titoli di testa: se il musicista è bravo, in quei pochi minuti sintetizza il senso della storia che il regista vuole raccontare. La musica viaggia rasoterra, è come un infido serpente e collabora con l’immagine, ma in modo molto più subdolo. È più facile difendersi dalle immagini che dalla musica. Come funzionava il vostro rapporto di lavoro? Vedevate insieme i film? Che tipo di indicazioni le dava? L’ideale era sempre questo: leggere la sceneggiatura e vedere insieme al regista il primo montaggio del film, cosa che, però, avveniva molto di rado, devo dire. Perché, in genere, le decisioni per quanto riguardava la musica venivano prese all’ultimo momento, quindi, spesso, neanche la sceneggiatura ti arrivava. Il più delle volte capitava di essere chiamati a vedere direttamente il primo montaggio, già con l’indicazione dei tempi che la musica avrebbe avuto in alcune sequenze. In qualche modo si prendevano le misure degli spazi che si avevano e poi si andava direttamente in moviola, con il film montato, per inserire le musiche, una specie di vestito musicale che si faceva al film, con i ritagli musicali messi nei posti giusti. Questo è come lavoravamo noi e, devo dire, ci si trovava bene. Oggi le cose sono notevolmente peggiorate, almeno generalmente, e si fanno soprattutto campionature, si inseriscono un po’ a casaccio le musiche. Noi, invece, facevamo questo vestito su misura perfetto. Ogni volta, poi, la mia domanda era: ma per le musiche quando dobbiamo essere pronti? La risposta, di Lenzi e dei 417 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

registi di quella generazione, era, quasi sempre, ieri. Avevamo pochissimo tempo per scrivere la colonna sonora. Si correva a casa e si iniziava subito a lavorare perché si sapeva che in sette-dieci giorni si sarebbe andati in sala a registrare. Si lavorava fitto fitto per essere pronti a fare del nostro meglio. Però era bello anche così, era un po’ una caratteristica di questo cinema italiano. Di uno stesso anno, il 1976, è il dittico Roma a mano armata e Napoli violenta. Lavorò a queste colonne sonore pensando anche alla tradizione musicale delle due città? Di Roma non tantissimo, non pensai alla colonna sonora facendo accenni alla tradizione musicale della città. Riguardo Napoli, invece, il discorso è diverso: Napoli è troppo forte, non si può non pensare al colore, alla tradizione di Napoli, lavorando alla colonna sonora di un film ambientato lì. Infatti, il tema principale di Napoli violenta è una tarantella rivisitata. Napoli ha una tradizione che non si può evitare, soprattutto girando un film tra i vicoli di quella città. Il poliziesco che girava Lenzi aveva recepito la lezione del neorealismo, era un cinema che si girava molto per strada, all’aperto. Questo senso del neorealismo era molto forte nei film di Lenzi e, secondo me, in particolare, in Napoli violenta. Ad esempio, per me è rimasta indimenticabile una sequenza che venne girata in una piazza. Lenzi girava dal vero, gli attori si aggiravano tra la gente del posto, comparse spesso inconsapevoli. Ora, accadde che quella piazza, al momento delle riprese, fosse attraversata da un funerale e gli attori girarono la scena prevista cominciando a correre e infilarsi all’interno del corteo di questo funerale. Ne venne fuori una sequenza bellissima, piena d’atmosfera. Io pensavo che il funerale fosse un’invenzione registica, invece, poi, quando mi complimentai con Lenzi per la suggestione della scena, lui mi disse: «Guarda Franco, è tutto rubato. È tutto capitato per caso e io mi sono infilato dentro questa realtà». Umberto mi spiegò che seppe del funerale all’ultimo momento. Decise di mettere la telecamera in alto, da una finestra, in modo da non attraversarlo direttamente e di chiedere agli attori di recitare la scena così come prevista. Quindi c’era il mercato da una parte, con la piazza piena, il funerale dall’altro e i protagonisti che corrono in mezzo a tutto questo: una cosa più vera del vero! Anche se uno avesse voluto farla pagando tutte le comparse, non avrebbe sicuramente avuto quel senso di realtà, oltre al fatto che sarebbe costata una cifra spaventosa. Altre scene del cinema di Umberto Lenzi 418 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sono rubate alla stessa maniera, per questo parlavo con cognizione di causa di neorealismo, perché sono veramente prese dalla realtà. Quel cinema emanava un profumo di verità straordinario, che fa poi il fascino di quelle pellicole. Una cosa costruita, per bella che sia, è sempre finzione. Qui, invece, era realtà. Lenzi con gusto e prontezza ha approfittato di queste situazioni reali, dando al film quel valore in più che veniva captato dal pubblico, anche se poi non sapeva che tutto era reale. Questo gusto della realtà dava a quelle pellicole un valore di documento del tempo. Alla fine, devo dire, il film di Lenzi che più mi è rimasto impresso, che più mi è piaciuto, proprio per questo genere di situazioni, è appunto Napoli violenta. Del 1977 sono Il cinico, l’infame e il violento e La banda del gobbo, cuciti addosso a Tomas Milian, associando violenza e tocchi comici. In che modo questo influenzò, se lo fece, la colonna sonora? Non la influenzò direttamente, perché, a un certo punto, la mia collaborazione con Lenzi era diventata una specie di positiva routine, nel senso che, oramai, il genere musicale che Umberto si aspettava da me era in un certo qual modo codificato. Io sapevo che cosa voleva, per cui si trattava di variare con idee nuove. Non c’erano raccomandazioni particolari che Umberto mi faceva. Le situazioni erano più o meno le stesse, inseguimenti e scene più statiche. Io avevo capito che cosa andava bene per lui e Umberto si fidava moltissimo di me. Quei film erano diventati una specie di fiction che durava nel tempo. Era come lo stesso film con variazioni, sia per la regia sia per la colonna sonora. Si era creato tra noi un perfetto amalgama tra le storie raccontate e il commento musicale. Dico che era diventata una specie di fiction, però non voglio minimamente fare paragoni con quello che si vede oggi in televisione che è, invece, davvero penoso, privo di qualsiasi originalità e poco dinamico. Anche perché oggi non ci sono le facce: un attore come Tomas Milian era uno che aveva fatto l’Actor’s Studio, che aveva lavorato con registi di fama mondiale. In quelle parti nei film di Lenzi era fantastico, con l’aggiunta pure di un doppiaggio meraviglioso. Uno come Milian, cioè, sapeva benissimo come interpretare un personaggio e caratterizzarlo. Quel delinquentello parolacciaro un po’ violento se l’era costruito addosso. Di recente ho visto Jeeg robot, un film ottimo, che mi sembra un po’ la summa del cinema di genere con l’aggiunta della lezione di Tarantino. Beh, il colore romano, che fa anche la forza di quel film, secondo me, viene direttamente dai film di Lenzi. Il personaggio del cattivo è un Tomas 419 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Milian moderno, esasperato. Milian era certamente più pittoresco, più ruspante del Marinelli di Jeeg robot, quest’ultimo ne è una sua versione contemporanea. Gli arnesi del mestiere mi appaiono, però, identici. Questo per dire dell’eredità che hanno lasciato quei polizieschi. Noi, allora, eravamo un po’ come dei teatranti di strada che andavano da una città all’altra e mettevano in scena le loro storie. Eravamo rimasti in quella tradizione. Conoscevamo i gusti del pubblico e cercavamo di divertirlo, di raccontare delle storie avvincenti e ben fatte e, secondo me, ci riuscivamo. Di città in città facevamo dei piccoli cambiamenti, che erano il colore locale, anche certe piccole esagerazioni pittoresche dovute al posto. Quel cinema piaceva anche per questo e noi davvero ci sentivamo delle compagnie di giro, dei saltimbanchi che conoscevano il loro mestiere, questo lo rivendico sempre. Il cinema italiano di quegli anni era fatto così, è quello che ci ha distinto nella storia. Il grande attacco ha un’altra magnifica colonna sonora, un film storico con un cast di stelle del cinema americano. Per queste musiche pensò ad alcuni grandi classici del passato? Sì, sicuramente. Tutto ciò che si è visto e sentito in qualche modo torna fuori. Il cinema di guerra è un genere molto preciso ed è certamente necessario studiare quello che è venuto prima. I punti di riferimento sono stati soprattutto il cinema americano. In un certo qual modo, bisogna immaginare la propria musica su una specie di fondale costituito dalla tradizione. Quindi, quello che ho sentito e visto al cinema in tanti anni ha sicuramente aiutato in questo tipo di colonna sonora, che era molto diversa rispetto a quelle che avevo fatto per il poliziesco. Il tema del film poi ha continuato ad avere un certo successo e lo ripropongo anche nei miei concerti. È uno dei più apprezzati e ne sono molto felice. Da Corleone a Brooklyn è uno dei migliori film di Lenzi e la sua colonna sonora fondamentale. Che ricordo ne ha? Sì, un bellissimo film che mi è piaciuto molto fare. Anch’io credo che sia tra i migliori di Umberto Lenzi. La musica che pensai mi sembrava aderisse bene a quel tipo di storia e ambientazioni, conferendo ulteriore spessore al film, aumentandone in alcuni momenti la qualità generale. Anche in quel caso, proposi il tema musicale a Umberto e lui ne fu subito contento. Ora420 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mai erano diversi anni che lavoravamo insieme e il meccanismo era ben consolidato. Musicalmente, in quel film c’era la tecnica del Leitmotiv, uno per ogni personaggio principale; era una cosa che usavo spesso e che, in generale, nel cinema di quel periodo si usava frequentemente. Oggi, invece, è quasi completamente caduta in disuso. Per noi erano i temi musicali che caratterizzavano i personaggi, l’attore, la storia. Oggi, i temi non si fanno più, perché sembrano una cosa vecchia, forse considerata facile, mentre, invece, scrivere temi leitmotiv non è per niente semplice, impiega un maggiore sforzo compositivo perché, se per avere solo un tema musicale bisogna avere un’idea, quando costruisci temi diversi per i personaggi bisogna averne ancora di più. Però, secondo me, quando il tema è riuscito, segna il film, ne sintetizza, come dicevo prima, l’atmosfera, la storia che si racconta o anche il singolo personaggio. In quel caso, il film vola. La musica, in un film anche girato benissimo, dà quel tocco finale che gli conferisce la possibilità rimanere nella mente dello spettatore, sedimentare. E quando poi gli ricapita di sentire quel tema, o di ripensare a quel tema, con quello identifica il film, ne rivive le emozioni. Oggi, invece, si tendono più che altro a creare atmosfere, non temi musicali, al di là del fatto che si costruisce quasi tutto con il sintetizzatore. Per me, la bellezza della colonna sonora, sta in quello che un tempo si definiva il «motivo», il motivo musicale, una specie di canto che rimane nella testa. Per fare il «motivo» ci vuole grande mestiere. Oggi, invece, sono tutti un po’ degli arrangiatori musicali, più che dei compositori di musica per colonne sonore. Dopo Da Corleone a Brooklyn, il cinema di Lenzi credo inizi una parabola discendente, anche per la mancanza di finanziamenti, ma questo ha investito tutto il cinema italiano. Che cosa era cambiato? In quegli anni finì un po’ tutto il cinema italiano. Arrivarono la televisione e le videocassette… non è che c’è stata una decadenza dell’arte del cinema, perché poi la gente continuava, e continua, a vedere cinema, solo che lo fa con altri mezzi: la televisione, il videoregistratore, i dvd. Non parliamo poi degli altri supporti attuali. Non è, insomma, che il cinema non piaccia più, è che si fa e si fruisce con altri mezzi. Questo, però, ha influito sull’industria cinematografica, impoverendola e concentrandola in poche mani. La sala costituiva un sostegno economico immediato e il suo declino ha avuto un effetto molto negativo sul cinema italiano, soprattutto su quello di genere. Poi, per me, il cinema, quello vero, autentico, nasce per la sala. 421 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Per me si deve vedere in compagnia di tanti altri spettatori: allora si vivono emozioni insieme, si ride insieme, diventa un rito qual è, come la messa. Il film visto sbracati sul divano a casa non ha la stessa forza che al cinema. Prima di tutto perché il grande schermo ti sovrasta, ed è un’esperienza visiva e uditiva che non ha pari con la fruizione a casa. Guardare un film su uno schermo piccolo, come quello di un computer, non sarà mai come al cinema, ne è una diminutio. La fruizione dell’arte cinematografica è al cinema. Poi le porcherie che fanno in televisione, le fiction, sono un’altra cosa, orribile. Noi la riprendiamo dagli americani: cioè, mentre prima eravamo noi a insegnare il cinema agli americani, non nel senso tecnico, ma in quello umano, narrativo, con la lezione fortissima che è venuta dall’Italia, con il nostro cinema dal dopoguerra fino agli anni ’70, ora siamo noi che stiamo importando la loro cultura. In tutto questo c’è qualcosa di falso, che non funziona. A parte qualche eccezione, la media è bassissima. Lei è tornato a lavorare con Lenzi per due dei suoi ultimi film e siamo, ormai, agli anni ’90, Demoni 3 e Hornsby e Rodriguez – Sfida criminale. Bassi budget e un cinema molto derivativo. Che ricordo ha di queste ultime pellicole? Eravamo ormai nella decadenza, era una fase tutta in discesa della sua carriera. Si trattava di film avventurosi, ma un tipo di cinema che non era più quel poliziesco, quel tipo di cinema ruspante, ma molto efficace, che faceva lui. Certo, erano comunque film fatti bene, come sapeva fare lui, ma sono molto meno legato a queste ultime cose, come, del resto, lo era lui. Non era sicuramente entusiasta di questi lavori fatti così, erano gli ultimi respiri, insomma, di un cinema cinema. Quando arrivi ai settant’anni ti considerano morto e seppellito. Io, invece, oggi mi considero più bravo di prima, nel senso che l’esperienza accumulata mi ha insegnato tanto, arriva una maturità umana, di sensibilità che, prima, non si aveva. Negli ultimi anni, per esempio, ho scritto temi musicali bellissimi per il cinema, solo che nessuno mi fa più lavorare. Sembra che non ci siano più film che io possa fare. Mi ricordo che, ultimamente, c’è stata una riunione dell’associazione dei doppiatori a cui sono stato invitato e ho colto l’occasione per dire, anche a una serie di produttori che erano lì presenti, che Franco Micalizzi non era morto. Insomma, amerei sfatare questo tabù che vede la vecchiaia come decadenza, io, invece, la vedo quasi come una nuova nascita. C’è qualche aneddoto che ci vuol raccontare che le sembra possa riassumere un 422 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

po’ la personalità di Umberto Lenzi? Un aneddoto in particolare non c’è, anche perché lui era una persona piuttosto seriosa. C’è sempre stato un rapporto molto cordiale, ma non è che abbiamo scherzato molto nella nostra lunga collaborazione e amicizia. Il tipo di relazione che si è venuta a creare con altri registi è stata, diciamo così, più frivola; con lui, invece, si è instaurato un rapporto molto professionale. Non ricordo accadimenti che siano rimasti particolarmente impressi nella mia memoria che ci abbiano fatto improvvisamente scoppiare a ridere, come succede, o che abbiano in qualche modo segnato il nostro rapporto. Rammento un’intera parte della nostra vita insieme, non singoli momenti indimenticabili che la possano racchiudere. Quindi, se devo trovare un carattere distintivo, direi certo la sua professionalità, questa straordinaria professionalità e abilità tecnica per sopperire agli innumerevoli problemi e mancanze delle produzioni italiane dell’epoca. I soldi erano sempre incredibilmente pochi: se ci servivano 100 lire per fare una cosa, ce ne davano 50. Ci mettevano sempre in condizione di lavorare ai limiti. Ci voleva una grande abilità per far fronte alla penuria di mezzi che ci circondava. In questo senso, Umberto Lenzi era una miniera inesauribile, portava il film sempre fino in fondo e non ci si accorgeva di quello che mancava, guardandolo. Non era solo capacità di arrangiarsi all’italiana, ma la dimostrazione di un’enorme professionalità. Era grandioso quello che riusciva a ottenere con quel poco di mezzi che aveva. Se c’è un aneddoto è proprio questo: l’incredibile abilità nel costruire film con le produzioni povere che aveva in mano. Che cosa ne pensava del suo cinema? Cosa ammirava di più e cosa, invece, la convinceva meno? Ammiravo la sua capacità complessiva come regista, poi, nello specifico, i suoi montaggi molto serrati, il suo modo di raccontare, la dinamica che metteva nella narrazione. Poi anche la sua capacità di saper scegliere le facce sempre giuste per i film. Viceversa, non c’era una cosa che apprezzassi di meno, certo, non era un sentimentale, c’era poco spazio per le emozioni, perché anche nel film poliziesco poteva esserci più spazio per questo aspetto. Poi lui era il contrario nella vita reale, perché era un uomo sentimentale, innamoratissimo della moglie (una bella e simpaticissima donna). Aveva un carattere chiuso, ma sentimento ne aveva tantissimo e lo si capiva dalle 423 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

poche volte in cui esprimeva questo aspetto. Ho parlato della mancanza di approfondimento sentimentale nei suoi film, ma proprio se vogliamo trovare una pecca, perché il suo cinema mi piaceva così com’era. Parlavate mai delle critiche quasi sempre negative che, all’epoca, piovevano sui film di Lenzi, anche quelli da lei musicati? Come si dice a Napoli, non ce ne poteva fottere di meno. La critica non l’abbiamo mai veramente presa in considerazione, perché sapevamo di essere un cinema minore, qualcosa di cui era più facile parlar male che parlar bene. Ai critici, parlo soprattutto di quelli del passato, ma anche a molti di oggi, è sempre sfuggito qualcosa che, invece, ad esempio, non è mai sfuggito a Tarantino o al pubblico degli ultimi anni, come a quello di allora. Perché i critici hanno dei parametri ideali che seguono. Quando un critico si mette a scrivere, è come se si vergognasse di ammettere che, in fondo, si è divertito a vedere film come li facevamo noi. Se non c’è approfondimento psicologico o intellettuale, il critico sembra non possa dare dignità al semplice divertimento che produce un film. Ricordo, in questo caso, un preciso aneddoto: quando ci fu la prima proiezione di L’ultima neve di primavera, i produttori ebbero l’ardire d’invitare anche alcuni dei maggiori critici dell’epoca, c’erano Biraghi e altri nomi che adesso non ricordo, ma, insomma, i maggiori di quel tempo. Forse ingenuamente pensavano che si ravvedessero dei loro giudizi su questo cinema minore. Entrarono gioviali e cordiali a vedere il film. Quando uscirono erano tutti incazzati perché avevano gli occhi gonfi, era scappata loro qualche lacrima, perché non si può restare indifferenti a un film come quello, è un meccanismo umano, anche grazie a quell’azione subdola della musica di cui parlavo prima. Uscirono dicendo: ma non si fanno queste cose, questi film così ricattatori nei confronti dello spettatore, nascondendo la loro commozione, difficile da contenere perché quella lascia segni evidenti. In generale, comunque, non abbiamo mai guardato le critiche di questi film: erano film di genere, un parente imbarazzante per la critica dell’epoca. Anche se poi, all’estero, hanno tutti riconosciuto i nostri meriti e questo tipo di cinema è quello che ha acchiappato di più l’attenzione in questi ultimi anni, a parte i vecchi fasti della commedia all’italiana. Magari questi film fatti con Lenzi sono stati, in qualche modo, il seguito della commedia all’italiana, del racconto dell’Italia. Adesso, però, sono io che azzardo un’ipotesi. 424 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ricorreva spesso l’accusa di fascismo e giustizialismo nei confronti di quei violenti polizieschi. Sì, dicevano queste stronzate che non avevano nessun valore. Quello di questi film era soltanto il desiderio di descrivere la gente e le città in quel momento. Mai sentito dire una parola fascista da Umberto, che era una persona ultra democratica, né ho mai trovato qualcosa che fosse paragonabile al fascismo in quei registi e nei film che facevano e che io stesso ho musicato. Il fascismo è una cosa che detesto profondamente, mai mi sarei prestato a lavorare in opere che ne fossero in qualche maniera specchio o apologia. A me sembra che ci sia molto più fascismo adesso, nel linguaggio politico e nell’attuale orizzonte sociale. Al confronto, quei film polizieschi sono roba da educande. Erano accuse che non stavano proprio in piedi. Che cosa ne pensa, invece, dell’attuale rivalutazione che tutto un cinema un tempo considerato di serie B sta oggi vivendo? Passato il tempo, le cose buone alla fine si rivalutano sempre. Poi c’è anche una questione generazionale: le persone che sono cresciute guardando questi film sono l’attuale generazione di adulti. E questi ricordano il divertimento di quegli anni, quindi li rivalutano, giustamente, perché rappresentano non solo parte della loro giovinezza, ma anche un sincero divertimento, privo di ogni intellettualismo. E poi questi film hanno dimostrato una straordinaria vitalità, tanto che ancora oggi, quando li passano in televisione, hanno sempre il loro pubblico. Viceversa, molto del cinema contemporaneo nasce già morto, sono film che puzzano di cadavere già alla prima. Non parlo di tutti i film, ovviamente, ma di buona parte della produzione di oggi. Alla quale mancano i protagonisti, i grandi attori del passato. Oggi quelli che vorrebbero essere i protagonisti del nostro cinema sarebbero stati i caratteristi del passato. Anche nel film di genere c’erano i protagonisti giusti. Oggi non ci sono più, non so perché. Quelli che mancano oggi sono gli attori di serie A, è uno dei motivi per cui il cinema di oggi ha un respiro molto corto. La maggior parte di questi film, fra dieci anni, sono quasi sicuro che non verranno ricordati. Invece, quel cinema aveva una grandissima vitalità ed è ancora vivo il piacere del pubblico, di ieri come di oggi, nel vederli e rivederli. Questo è il motivo del loro successo contemporaneo e dell’essere modelli per altri regi425 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sti di oggi. Quei film e io stesso siamo diventati cult: mi fa un po’ ridere pensando a come ci consideravano nel passato, però va bene così. Siamo passati dal disprezzo al cult. Lei ha lavorato con molti registi del cinema popolare italiano, da fine anni ’60 ai giorni nostri. Qual è, in definitiva, se c’è, la specificità dell’esperienza di e con Umberto Lenzi? Umberto era sicuramente tra i più professionali all’interno di questi registi cosiddetti di genere. Secondo me, era quello che conosceva meglio il mezzo cinematografico, sapeva risolvere i problemi con maestria e senso dello spettacolo. Altri registi, con cui pure ho lavorato, invece, erano sicuramente più deboli rispetto a lui. La preparazione di Umberto risultava evidente, spiccava sempre, gli faceva realizzare film sempre in maniera efficace. È da lì che si vede che uno si è allenato bene prima di passare a fare il regista, aveva fatto le esperienze e gli studi giusti per essere lì a fare cinema. Quindi, se devo individuare una sua specificità, è proprio nella sua estrema professionalità. C’è qualcosa in particolare che Lenzi le ha insegnato sul cinema? A essere positivi e portare fino in fondo il lavoro nel migliore dei modi, quindi la professionalità di cui parlavo prima vuol dire proprio questo: risolvere i problemi quando arrivano, facendo sempre il meglio, le cose più belle, con i mezzi che si hanno. Era esattamente quello che faceva lui. C’è qualche altro ricordo personale di Lenzi che ci vuole regalare, infine? È la nostalgia che ho di Umberto. Da principio e apparentemente chiuso come carattere, poi, nei rapporti amichevoli che si sono creati fra noi, una persona davvero molto dolce, disponibile, aperta. Negli ultimi anni, da quando la moglie non c’era più, lui ha sofferto tantissimo, perché era una persona che lo aveva amato molto e lo aveva sempre sostenuto. C’è stato questo risvolto umano bellissimo che ho scoperto in lui e che me lo ha fatto ulteriormente rivalutare dal punto di vista sentimentale. Io spero che ci guardi da lassù, con il suo sorriso, con quella sua capacità di comprendere il mondo, non solo del cinema, ma tutto quello che gli stava intorno e le persone che lo circondavano. Mi auguro con tutto il cuore di 426 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rincontrarlo da qualche parte, sarebbe un onore per me poter continuare i discorsi che facevamo in passato. Spero che sia così, che ci divertiremo ancora un po’ insieme. Inoltre, me lo immagino che stia girando qualcosa anche in questo momento, riprendendo chissà quale realtà, come sapeva fare lui.

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Tutti i colori di Lenzi. Intervista a Sergio Martino di Davide Magnisi

Sergio Martino (1938), fratello del produttore Luciano, è stato uno dei registi protagonisti del cosiddetto cinema di genere italiano. Dopo un inizio negli anni ’60 come sceneggiatore e aiuto regista, dirige alcuni documentari per trovare immediatamente successo con alcuni thriller venati di erotismo, con protagonista E. Fenech: Lo strano vizio della signora Wardh (1971), Tutti i colori del buio (1972), Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972). Da allora inizia una prolifica carriera che lo porterà a toccare tutti i generi cinematografici in voga del momento, dal poliziottesco (Milano trema: la polizia vuole giustizia, 1973) alla commedia sexy (Giovannona coscialunga disonorata con onore, 1973), al cannibalico, al western, al fantaavventuroso e via dicendo, riscuotendo grande successo di pubblico. Che continua anche negli anni ’80, quando il cinema di genere sembra ormai declinare, con commedie diventate cult (Spaghetti a mezzanotte, 1981; Cornetti alla crema, 1981; Ricchi, ricchissimi… praticamente in mutande, 1982; Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio, 1983; L’allenatore nel pallone, 1984). Continua la sua carriera sino a metà anni ’90 e torna sul grande schermo nel 2008 con L’allenatore nel pallone 2. Da metà anni ’80 e per vent’anni è molto attivo anche nella regia di film per la televisione.

A quando risale la sua personale conoscenza di Umberto Lenzi? Beh, in tempi molto lontani, parliamo degli anni ’60. L’occasione fu che lui ha fatto film con la società di mio fratello, con cui collaboravo. Il primo lavoro che ho condiviso con Umberto risale a metà anni Sessanta. Allora già ero nel mondo del cinema, ma non facevo ancora regie. Come tanti in quegli anni, mi sono fatto le ossa come assistente alla regia. In collaborazione con mio fratello, che ne era produttore, lavorai con Umberto Lenzi sul set del film Così dolce… così perversa, un giallo in un certo qual modo consequenziale a un altro prodotto un anno prima da mio fratello: Il dolce corpo di Deborah, girato da Romolo Guerrieri. Per Così dolce… così perversa mi occupavo più strettamente dell’organizzazione del film, ma quella fu sicuramente l’occasione per approfondire la conoscenza con Umberto. Ricordo con precisione che facemmo insieme i vari sopralluoghi per il film in Francia. Rammento cordiali e 429 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

proficui anche gli scambi di vedute per contemperare le motivazioni produttive con quelle più strettamente artistiche e narrative. Lenzi fu sempre molto collaborativo in fase realizzativa nelle dinamiche e nelle logistiche di strutturazione del film. Per esempio, quando sceglieva gli ambienti in cui girare, lo faceva in modo che i set non fossero mai troppo lontani tra di loro, quando si giravano scene nella stessa giornata. I registi di quella generazione erano anche un po’ dei direttori di produzione: loro stessi valutavano quelli che dovevano essere i tempi di lavorazione, gli spostamenti, l’utilizzo degli attori senza dispendio di mezzi economici. In questo senso, Lenzi è sempre stato molto attento, estremamente professionale. Dopo quell’esperienza insieme, con Umberto ci siamo incontrati, poi, altre volte, ma sempre in occasioni di tipo produttivo, prima degli ultimi anni, quando c’è stata l’apoteosi tarantiniana che ci ha fatto diventare i simboli di un certo tipo di cinema a suo tempo molto disprezzato dalla critica (ma non dal pubblico, per i suoi incassi). Che impressione ebbe di lui come regista quella prima volta sul set? Ricordo, in particolare, di Umberto, quanto fosse un professionista serio. Il rapporto con lui sul set andò benissimo. Passava per essere un regista molto autoritario, ma, in realtà, aveva anche un grandissimo senso dell’ironia. Certo, mi ricordo che si arrabbiava qualche volta con la troupe, come spesso avviene (anch’io molte volte non sono stato tenero), ma, se lo faceva, c’erano sempre delle motivazioni più che giustificate: era una persona di grande educazione. A testimoniare la sua profonda ironia, il fatto che, quando capitava che s’arrabbiasse violentemente per qualcosa, diceva: «Io sono il miglior regista di Grosseto!». Aveva anche questa grande capacità di ironizzare sul suo status di regista padrone del set. Anche quando feci con lui come organizzatore Così dolce… così perversa, alla fine delle riprese lui aveva l’abitudine di dare la museruola d’oro all’attore che riteneva più impreparato, ma non c’era nessuna volontà di dileggio, era solo una cosa simbolica, senza nessun tentativo offensivo o diminutivo del valore di quell’attore. So che questa è stata una costante in tutta la sua carriera professionale.

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Suo fratello Luciano diventò il produttore sia suo che di Umberto. Che tipo di scambi artistici, intellettuali, di idee, c’erano tra voi tre? Sì, anche se forse più produttore mio che di Umberto. Però certamente Lenzi era tra i registi della scuderia di mio fratello. Insieme hanno fatto diversi film e anche di grande successo. I produttori di quella stagione del cinema di genere prediligevano registi che fossero molto concreti, che non si addormentassero davanti all’inquadratura, che rispettassero i budget, che facessero un prodotto professionalmente valido e spendibile per il pubblico. E io credo che tutti questi parametri siano stati rispettati, perché i nostri film non risultavano poveri da un punto di vista tecnico e abbiamo sempre cercato di fare un cinema che risultasse più importante dei mezzi che avevamo a disposizione. Infatti, spesso, riuscivamo a mascherare con delle trovate la povertà di budget, tanto che i nostri film sembravano più ricchi di quanto in realtà fossero, da un punto di vista produttivo e di mezzi impiegati. Quanto agli scambi tra me e Umberto, a livello di valutazioni non ce n’erano, né, tantomeno, assolutamente, interferenze. Umberto ha fatto soprattutto film d’azione; io, invece, ho spaziato un po’ di più tra i generi. Di sicuro mio fratello Luciano apprezzava la nostra professionalità e io mai mi sarei permesso di entrare in questioni che riguardavano i film di Lenzi, neanche se mio fratello me lo avesse chiesto, perché conoscevo il valore di Umberto come regista. L’unica occasione in cui mi sono forse un po’ intromesso nelle sue cose è stato quando ho fatto il direttore di produzione dei suoi film, ma si trattava solo di collaborazione nella scelta degli ambienti, nella programmazione del budget, mai riguardo le scelte artistiche o cinematografiche in senso stretto. Quello che posso dire per certo è che mio fratello ha sempre avuto una grandissima stima nei confronti di Umberto, anche una simpatia che non si è limitata a frequentazioni professionali e la stessa cosa vale per me. Durante gli anni ’70 avete fatto pellicole di generi affini. Eravate rivali o amici quando vedevate i vostri film? È capitato che nel percorso delle nostre vite siamo diventati anche colleghi, entrambi registi e non solo collaboratori nella casa di produzione di mio fratello Luciano. Tutte le nostre frequentazioni successive sono dipese dall’intersecazione nell’ufficio di Luciano, dove magari lui preparava un 431 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

film e io un altro. Sì, ci è capitato anche di fare film dello stesso genere. Poco dopo che io avevo girato Milano trema: la polizia vuole giustizia, lui fece Milano odia: la polizia non può sparare. Nella logica del risparmio che c’era in quegli anni, lui utilizzò anche alcune delle sequenze che io stesso avevo già girato, alcuni inseguimenti nella città di Milano con il grande stuntman Julienne Rémy, poi adattati per la sua pellicola. Con Umberto capitava d’incontrarci nei corridoi della Dania film, ma ci limitavamo a scambiare qualche simpatica battuta o a trovarci a qualche piacevole cena con altri registi o produttori. Poi devo anche dire, con tutta onestà, che molti dei film, che pure mio fratello ha prodotto, anche in generi simili a quelli che io frequentavo, neanche li ho visti. Non era tanto una questione che non volessi influenze, ma, la maggior parte delle volte, accadeva perché ero talmente impegnato che non avevo il tempo di vederli. Per cui, ho sicuramente seguito Umberto nei gialli: li ho visti e apprezzati, mentre conosco meno la sua produzione nel poliziesco, che pure è stata prodotta da mio fratello. Tanto è vero che non ho mai visto per intero quello che è considerato il film migliore di Umberto in questo genere, Milano odia, che pure è stato un film importantissimo per la trasformazione del personaggio di Tomas Milian, che poi diventerà il Gobbo e Monnezza. Aggiungo anche che tra noi non c’è mai stata né invidia né alcuna rivalità: nessuno dei due si sentiva migliore o superiore all’altro. Questo posso dirlo per me con certezza, ma credo valga anche per Umberto. Parlavate mai di come la critica vi considerava? Sì, qualche volta. Riguardo questo, ci accorgevamo che spesso i critici neanche li avevano visti i film. Per partito preso, c’era la volontà di stroncarli, perché appartenevano a un tipo di cinema considerato minore, basso. Cosa che, per certi aspetti, poteva anche essere vera, almeno a livello di budget. Ma, pure, costituivano l’ossatura del cinema italiano, quando si producevano anche più di quattrocento film all’anno: erano questi film che mantenevano vivo il mercato. Io non credo di aver mai fatto perdere soldi a nessun produttore con i miei film. Era grazie a questo genere di opere che il cinema italiano andava avanti ed era molto forte a livello produttivo. Dico questo riguardo me, ma il caso di Umberto Lenzi è identico. Alcune volte ne parlavamo ed era un po’ come guardarsi allo specchio.

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I vostri gialli suscitavano polemiche per le scene scabrose o i nudi femminili. A cosa non era preparata la critica rispetto ai gusti del pubblico? In Italia c’è stata un po’ una svolta epocale intorno al ’68, momento in cui la censura diventò meno bacchettona, meno condizionata da certi riguardi nei confronti del Vaticano e, di conseguenza, per la prima volta cominciarono a vedersi sempre più nudi femminili. Abbiamo avuto, a partire da quegli anni, la possibilità di fare delle scene un po’ più esplicite dal punto di vista erotico, spesso anche al di là delle nostre intenzioni di registi. C’è anche un’altra cosa da considerare: un divieto ai minori, anche di 18 anni, in quell’epoca, era una specie di ulteriore appeal per il film, un ulteriore richiamo per il pubblico ad andare in sala a vederlo. C’era una specie di meccanismo per cui, da un lato, si cercava di avere il divieto, dall’altro, però, si voleva evitare che venissero tagliate sequenze al film. Allora si giravano appositamente delle scene un pochettino più esplicite e sicuramente meno eleganti, sapendo già che quelle scene sarebbero state poi tagliate dal censore, che doveva dare il vietato ai 18 anni prima di far passare in sala il film, per non essere bloccato. Quindi, si girava con l’idea che una parte di quel montato sarebbe stato eliminato, erano volutamente tagli non fondamentali, in modo che il film non venisse danneggiato né da un punto di vista narrativo né da un punto di vista tecnico nel rimontaggio. Anche perché spesso i tempi erano brevissimi: si andava al visto di censura pochi giorni prima che il film fosse programmato in uscita nelle sale. Quindi per noi tutto questo era già un po’ nella testa. So che il caso di Umberto Lenzi è molto simile, avendoci parlato e avendo avuto come comune produttore mio fratello. Tutti questi erano escamotage con cui riuscivamo a non far percepire al pubblico il taglio che noi già ci aspettavamo. Facevamo un po’ questa pantomima davanti alla censura. Dicevamo: noi abbiamo bisogno di uscire, allora, magari, ci dia il visto con il divieto ai 18 anni e poi concordavamo il taglio di alcune scene, che noi eravamo già pronti a sacrificare. Purtroppo, oggi, invece, capita che alcune di quelle immagini, che noi avevamo consapevolmente tagliato, vengano rimesse nelle edizioni in dvd perché erano rimaste nel negativo originale, quello che noi avevamo presentato in censura e che spesso è stato recuperato dai distributori. La conseguenza è che il pubblico di oggi vede in quel film delle scene di nudo o anche delle morbosità che nelle nostre intenzioni non c’erano, quindi capita di vedere immagini sciatte, non necessarie, ma che, in quel momento storico, erano necessari atti di furbizia all’italiana. 433 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

I vostri polizieschi erano popolarissimi tanto quanto il luogo comune critico che eravate dei reazionari, se non dei fascisti, che solleticavano i bassi istinti giustizialisti del Paese. Che corto circuito si era creato? Il fatto è che in quegli anni molti giornali, soprattutto di destra, sostenevano che la polizia avesse le mani legate contro la criminalità, che la giustizia italiana fosse condizionata da certe valutazioni un po’ troppo garantiste. A di là di questo messaggio, di quest’aria che tirava, in realtà, poi, alla base di tutto, l’ispirazione di questo pensiero veniva direttamente dal cinema, da un film specifico: L’ispettore Callaghan con Clint Eastwood oppure dai film con Charles Bronson che faceva Il giustiziere della notte. Poi erano anni molto pesanti in Italia: c’erano le Brigate Rosse, omicidi da tutte le parti, uccisioni di magistrati… quindi si voleva raccontare anche l’impossibilità della polizia di reagire adeguatamente. Questi film finivano per stare, in un certo senso, dalla parte di un’opinione pubblica che la pensava esattamente così. Il che non vuol dire che noi, io come Umberto Lenzi, la pensassimo in questa maniera. Paradossalmente, poi, a me sembra che la polizia si senta le mani libere molto di più in questi ultimi anni, si pensi ai gravi episodi di Genova o al caso Cucchi. Ma, allora, la percezione dell’opinione pubblica era esattamente l’opposto. C’era una grandissima insicurezza nelle strade e la possibilità di essere involontariamente coinvolti in un attentato era molto alta, quindi la gente, si percepiva, voleva la mano più ferma da parte della polizia. Noi abbiamo registrato esattamente questa sensazione in questi film che, però, ripeto, nascevano da un prototipo, un messaggio, che veniva dall’America e che poi è stato fatto anche nostro, molto nostro. Certo non potevamo essere accusati noi di aver creato questo clima nel Paese. Inoltre, questo tipo di cinema, spesso, è stato visto con l’esplicita, diretta, preconcetta intenzione di volerne parlare male. La stessa cosa è poi successa con le mie commedie definite sexy: magari qualche compiacimento c’è stato, ma non meritavano le stroncature che hanno avuto. Ci sono state anche da parte della produzione Dania degli eccessi, parlo delle infermiere, le studentesse, le supplenti e via dicendo, però poi è stato messo tutto nello stesso calderone, per cui la commedia di quell’epoca è diventata ipso facto sexy e scollacciata, anche quelle che non erano tali o, almeno, non potevano essere considerate a quel livello. È una cosa di cui abbiamo sofferto sia io sia Lenzi, etichettati a prescindere dalla qualità o non qualità dei nostri prodotti. 434 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Mentre nella prima metà degli anni Ottanta lei, appunto, continuava a cogliere grandi successi con queste commedie, rimaste nell’immaginario collettivo a partire dal titolo, la carriera di Lenzi cominciava a declinare. Che stava succedendo al cinema italiano che aveva riempito le sale? Stava succedendo che gli effetti speciali che si facevano in Italia erano ancora di stampo molto artigianale, quasi primordiale, e il cinema americano ha finito con il surclassarci. Io ho avuto la fortuna di cimentarmi con diversi generi e, quindi, sono riuscito a mantenermi a galla come regista, a continuare a lavorare anche molto, cambiando un po’ pelle. La crisi del nostro cinema è nata quando dagli Stati Uniti sono arrivati tanti film con mezzi tecnici all’avanguardia, con effetti speciali e modi di ripresa che hanno finito per relegarci in un angolino. Aggiungo anche che noi ci prendevamo molti più rischi quando giravamo: penso alle scene di inseguimenti con gli stuntman. Prendevamo dei rischi incredibili a pensarci oggi. Si girava in maniera anche pericolosa, ma, di conseguenza, avevamo un’adrenalina pazzesca. Quel fascino, anche nel rischio, quel realismo, oggi è stato rivalutato, visto all’interno del film stesso come un valore aggiunto. Noi gli effetti speciali li facevamo sul campo, oggi è tutta un’altra storia, è una vera e propria rivoluzione, un po’ come è stato ai tempi del passaggio dal muto al sonoro (e io ne so qualche cosa, visto che mio nonno ha girato il primo film sonoro italiano). Poi ci sono state anche altre questioni strettamente nazionali: noi, in quegli anni di grande corruzione politica, invece di fare rinnovamenti in tutti i settori industriali, abbiamo giocato sulla corruzione, sui finanziamenti ai partiti, su un sistema drogato che ci ha portato al declino. Comunque, quando quel nostro cinema è passato di moda, e gli americani avevano preso il sopravvento, io, come ha detto lei, sono riuscito a riciclarmi attraverso le commedie: si trattava non di film erotici, ma di pochade anche molto gradevoli, penso a Spaghetti a mezzanotte, Cornetti alla crema, film come quelli, con bravissimi sceneggiatori, attori in grande forma, sia nelle parti maschili, come Lino Banfi o Renzo Montagnani, sia in quelle femminili. E qui ci tengo a dire che Edwige Fenech mi sembrava bravissima come attrice comica, molto più, secondo me, che come attrice drammatica nei gialli d’inizio carriera, perché, per la sua fisicità, forse non era particolarmente indicata a fare personaggi sofferti o tormentati.

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Lei, a partire dagli anni ’90, ha lavorato più in televisione che al cinema, Lenzi si è ritirato a scrivere apprezzati romanzi gialli. Avete continuato a sentirvi e a parlare di cinema? Sì. Tutto è ricominciato dopo che c’è stata questa rivalutazione del nostro cinema per merito di autori stranieri, guarda caso. Questo ci ha fatto vivere anche delle nuove esperienze comuni. Quentin Tarantino ci volle, insieme a tutti i suoi registi di riferimento del cinema italiano, alla rassegna che si fece al Festival del Cinema di Venezia nel 2004. Nell’occasione presenziammo alle proiezioni un po’ a gruppi e io ebbi l’opportunità di stare insieme a Umberto in quei giorni. Il rapporto con Quentin e Lenzi fu molto divertente. Tarantino ha una grande stima nei nostri confronti, stima condita anche con molta ironia: si inginocchiava davanti a noi chiamandoci maestri, ovviamente creando un po’ di imbarazzo. La stessa cosa accadde quando fece la proiezione di Inglourious Basterds a Roma: c’invitò e ci mise in una fila riservata. Prima della proiezione disse che l’ispirazione del suo cinema proveniva da questi registi che erano in sala e ci citò uno a uno per una standing ovation. Quella fu un’altra occasione in cui, noi reietti della critica italiana degli anni ’70-’80 avemmo un’ovazione anche da quelli che, forse, non avrebbero voluto applaudire, perché non c’era solo un pubblico pagante, ma anche personalità del cinema, compresi critici. Costretti dal gesto di Tarantino, probabilmente ci avranno omaggiato a denti stretti, anche se magari qualcuno l’avrà pure fatto con simpatia. Tornando a Lenzi, le esperienze che ho avuto con lui negli ultimi anni della sua vita sono state in un certo senso comuni a entrambi: da diverso tempo non facevamo più film e non ci siamo intestarditi più di tanto. Dopo che l’età è avanzata e le possibilità diminuite, ci venne però in mente un’idea e avemmo anche alcune occasioni per incontrarci, proprio dopo quest’apoteosi tarantiniana. A me e Umberto venne l’idea di mettere insieme alcuni registi dei cosiddetti tarantiniani in un film giallo in cinque episodi, tratti da altrettanti racconti. Avemmo un certo riscontro da parte di produttori e distributori, in quel momento un po’ caldo creato dalla pubblicità che ci aveva fatto Tarantino. Così, scegliemmo delle storie che potevano essere raccontate in quindici minuti l’una. C’eravamo io, Umberto, Castellari, Deodato, Guerrieri e De Martino. Alcuni di noi crearono delle storie che erano troppo lunghe, generando difficoltà per poterle realizzare, perché già portare ogni singolo film a venti minuti diventava complicato. Ricordo che solo il mio, quello di Lenzi e di un altro regista rispettavano la durata. 436 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Si crearono degli squilibri e, alla fine, non se n’è fatto niente, tanto più che la concretezza finanziaria di produttori e distributori, che venivano dall’estero, ci sembrava anche piuttosto vaga. Ricordo che Lenzi ci rimase molto male: aveva forte la volontà di lasciare quest’ultima testimonianza cinematografica, anche perché lui era un po’ più avanti di me negli anni. Sentiva che poteva essere l’ultima occasione, fu molto addolorato del fatto di non riuscire a fare più quest’esperienza insieme a noi. Io, invece, che forse sono sempre stato un po’ più realista, sin dall’inizio pensavo che mettere insieme tante teste, tante idee diverse, sarebbe stato complicatissimo, tanto che non ci investii troppe energie né tempo. Sono sempre stato dell’idea che il tempo sia la cosa più preziosa nella vita: nessuno te lo ridà, i soldi puoi anche recuperarli, ma il tempo non tornerà mai più indietro. Dopo essere stati considerati di serie B, disprezzati o ignorati dalla critica, a un certo punto dall’estero hanno cominciato a chiamarvi maestri e oggi c’è una gara a rivalutarvi. Che cosa è successo? Ci tengo anch’io a ribadire che tutto questo è partito dall’estero. Anche con Umberto Lenzi ogni tanto discutevamo di questa gloria successiva di cui siamo stati in qualche modo ricoperti. Più interessante sarebbe stato parlarne con i diretti interessati: con quei critici che a loro tempo ci hanno stroncati, ma, purtroppo, molti di questi già non c’erano più. All’epoca ce ne hanno dette veramente di tutti i colori. Ricordo un grande critico italiano che scrisse così: Sergio Martino non gira film, ma li commette. Un modo elegante di stroncarci, perché in quel momento storico ne abbiamo lette veramente di crude e di cotte contro di noi, critiche che erano veramente offensive. Io cercavo di prenderla con ironia, non sempre ci riuscivo; ricordo, però, che Umberto se la prendeva un po’ di più. C’erano anche uscite davvero di cattivo gusto. Rammento quella di un critico, allora piuttosto famoso, che quando, per un incidente, Claudio Cassinelli morì sul set di un mio film, scrisse questo: questa è la pellicola per la quale è morto Claudio Cassinelli, non ne valeva la pena. Al che io scrissi una lettera al giornale dicendo: mi spiega per quale film, anche il più grande capolavoro della storia del cinema, valga la pena la morte di un uomo? Lui non mi rispose, ovviamente. Era stata un’uscita volgare e stupida per commentare un film. All’epoca, però, era questo il tenore delle recensioni contro di noi. Era un vero e proprio sparare a zero. C’era una volontà molto precisa di denigrare quel tipo di cinema, anche in maniera miope, considerando che questo cinema, con 437 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gli incassi che faceva, ha dato la possibilità di emergere a molti talenti e anche di finanziare tanto altro cinema, buono o brutto che fosse, in quel periodo, facendo sì che in quegli anni il cinema italiano fosse una vera e propria industria. Cosa che oggi non esiste più. Oggi ci sono pochi film e nessun produttore o quasi. I film sono tutti finanziati da banche, regioni, Film Commission. Manca completamente anche lo spirito di rischiare che c’era allora da parte del produttore che, se conosceva il cinema, nel 90% dei casi azzeccava il prodotto. Mentre mi racconta queste cose, penso al fatto che voi non avete solo fatto cinema, una professione, ma anche raccontato l’Italia. In quegli anni lì c’era molto da raccontare dell’Italia, c’erano tante contraddizioni nel nostro Paese, come continuano a esserci. Ti faccio un esempio molto spicciolo: la gente va alle manifestazioni a favore dell’ambiente e, durante quelle, buttano le carte per terra. Perché noi siamo sempre stati il Paese delle tante parole, delle tante chiacchiere, però poi pensiamo sempre che i fatti debbano partire dagli altri. Ce la prendiamo con le amministrazioni, la politica, ma noi non siamo migliori. In che modo le piacerebbe oggi ricordare Umberto Lenzi come regista e come persona? Lo ricordo con la simpatia che sentivamo reciprocamente, con la stima professionale che avevamo l’uno per l’altro. Ci riconoscevamo nella stessa generazione come intenti dal punto di vista cinematografico, produttivo, culturale. Ho sempre ammirato la sua capacità di essere un direttore di set. Un regista che faceva sintesi di cultura e produzione cinematografica, che riusciva a girare un prodotto dignitoso dal punto di vista culturale e visivo, senza sforare nel budget e senza avere pretese autoriali fini a se stesse. Allora i limiti di disponibilità economica ci vincolavano molto con i tempi di lavorazione. Devo dire che, forse, in questo lui era persino più bravo di me. Io giravo più di lui, essendo di carattere più ansioso. Umberto sapeva perfettamente quello che serviva per il montaggio e l’economia del film e non cercava di fare un’immagine in più del necessario. Lui ha avuto questo merito importante e posso dirlo, essendo stato regista, produttore e organizzatore di set. Lui ha esordito nel cinema sostituendo un regista che non stava bene e 438 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

non poteva più continuare a girare: Lenzi veniva da quella fucina, quella gavetta di grandi aiuto registi che, in effetti, era di tutti noi che ci siamo formati in quella generazione. In questa maniera conoscevamo un po’ tutto del set. Poi non mancavano in quegli anni anche i momenti di crisi, soprattutto all’inizio della carriera. Ricordo che Umberto mi raccontò di quando lui era da poco sposato, con la moglie incinta o con la figlia nata da pochissimo e aveva difficoltà economiche, non aveva contratti, non stava lavorando: in una notte scrisse la sceneggiatura di un film, il giorno dopo andò nell’ufficio di un produttore e riuscì a firmare il contratto. Questo per raccontare come, nel giro di poche ore, fu capace di inventarsi un film e convincere un produttore a farglielo girare. Il tutto anche per necessità economiche che, non dobbiamo dimenticare, attanagliavano pure noi, soprattutto agli inizi della carriera o in momenti particolari. Questo per raccontare come il nostro non è solo mestiere di gloria, non sono solo rose e fiori, ma, spesso, si passano momenti difficili. Umberto lo conoscevo bene e sapevo come lavorava. Abbiamo sempre cercato di fare questo mestiere con umiltà, non ci siamo mai sentiti padreterni o Dio in terra o grandissimi artisti staccati dalla realtà e dal popolo. Era un lavoro che facevamo con passione, sentendoci fortunati, ma non diversi dagli altri. E poi abbiamo avuto la fortuna di fare bene anche grazie ai collaboratori che abbiamo avuto: scenografi, direttori della fotografia, montatori. Fare un film non è l’atto solitario di un demiurgo, ma un vero e proprio processo collettivo. A differenza di quello che vedo oggi, quando facevamo questo cinema, c’era grande entusiasmo: pochi soldi, ma tante idee, molta voglia. Non avevamo la spocchia, la presunzione di oggi, di molti registi contemporanei del panorama italiano. Non dicevamo mai «Oddio guadagno troppo poco, non voglio fare questo film» oppure «il produttore non mi lascia completamente libero e allora preferisco rimanere a casa a fare altro». Quando si accettava di fare un film, valeva per me, valeva per Umberto, lo facevamo come se fossimo stati i registi più pagati del mondo. Quando ho girato negli ultimi anni qualcosa, mi sembrava che l’atteggiamento fosse «ma che ti frega per quello che ci pagano»...

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Fenomenologia del poliziesco anni ’70. Intervista a Giancarlo De Cataldo di Davide Magnisi

Giancarlo De Cataldo (1956), magistrato e giudice, ha descritto come giornalista, scrittore, sceneggiatore e drammaturgo, il panorama della criminalità (e della giustizia) italiana. Tra i suoi libri più famosi, Terroni (1995), Romanzo criminale (2002), I traditori (2010), Suburra (2013), Il combattente. Come si diventa Pertini (2014), La notte di Roma (2015), L’agente del caos (2018). Ha lavorato come sceneggiatore sia per il cinema che per la televisione, spesso adattando i suoi stessi romanzi. Tra i suoi lavori: Nero come il cuore (1991, Maurizio Ponzi, tv), La squadra (2003, tv), Paolo Borsellino (2004, Gianluca Tavarelli, tv), Il giudice Mastrangelo (2005, tv), Romanzo criminale (Michele Placido, 2005), Noi credevamo (2010, Mario Martone), Suburra (2015, Stefano Sollima).

Che ricordo ha, da spettatore, del cinema di Lenzi? Il ricordo di un ragazzo di quindi-sedici anni, a Taranto, una città dove c’erano dodici cinema, allora, quando il cinema era un grande rito collettivo. Io ero uno di quelli che andava a vedere praticamente tutti i film, da quelli d’autore fino a quelli di grosso successo commerciale, compresi questi del poliziottese. Io ero uno di quelli inizialmente un po’ scettici sul messaggio che avevano questi film. Ero anch’io condizionato da questa sensazione che si aveva di un cinema ideologicamente dalla parte degli sbirri, per dirla in gergo, qualcuno avrebbe detto di un cinema fascista. La consapevolezza è venuta dopo, quando, verso i diciassette anni, sono diventato un vero appassionato di cinema e ho cominciato a studiare i film americani in particolare. Così ci si rendeva conto che c’erano delle analogie molto forti tra queste due cinematografie. Qualcuno ha detto che i film di Lenzi o di Leo sono figli di titoli come Il braccio violento della legge: in realtà sono dei fenomeni assolutamente contemporanei, erano quello stesso tipo di film, ma in una salsa italiana. Quando poi mi sono trasferito a Roma, nel 1974/1975, erano le ultime grandi stagioni del poliziottese che, come fenomeno cinematografico, è durato relativamente poco ed è tramontato alla fine degli anni ’70, quando 441 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

forse si producevano i film migliori, come Da Corleone a Brooklyn di Lenzi. A metà del decennio, questo cinema era veramente un fenomeno di massa impressionante, si faceva la coda per entrare a vederli, in queste sale dove, fino ancora al 1975, si poteva fumare. Io ne ho un ricordo, di quegli anni e di questi film, romantico, quasi fiabesco. Parliamo comunque di un tipo di cinema che non era in partenza il mio, essendomi formato sul grande cinema d’autore, ma, piano piano, avvicinandomi al cinema d’avventura. Oggi, c’è per me l’occhio della nostalgia: per cui, in qualche modo, rivedi te stesso mentre guardavi quei film. C’è qualche film, tra quelli di Lenzi, che le ha parlato di più, che ricorda con più favore? Sicuramente Roma a mano armata e poi Da Corleone a Brooklyn, perché è un film crepuscolare: non voglio spararla grossa, ma se uno rinvenisse in questo film un’eco di C’era una volta in America non sarebbe lontano dal vero. Comunque, se dovessi indicare i miei due film in assoluto preferiti in questo genere, direi Roma a mano armata di Lenzi e Milano calibro 9 di di Leo: sono quelli che, secondo me, meglio caratterizzano quella stagione. In particolare, in Roma a mano armata c’è questo personaggio che fa Tomas Milian, il Gobbo: una figura veramente impressionante, un tipo di crudeltà della strada che il regista ha costruito con mimesi strepitosa. Si potrebbe dire che, nel tempo, tra gli sbirri con le corna dure alla Maurizio Merli e i cattivi, quelli che più si sono impressi, che sono entrati nella storia del cinema, sono stati proprio questi cattivi, così ferocemente ben raccontati da Lenzi e impersonati da Milian. Poi, tra i film del genere che più ho amato, c’è certamente anche Da Corleone a Brooklyn. Al di là dell’occhio storico o personale, in questi film ci sono delle soluzioni narrative impressionanti. Sono arrivato a capire Quentin Tarantino e l’entusiasmo che ha provato per questo cinema, perché è magistrale proprio nell’arte d’improvvisare. C’è qualcosa di profondo e alto nella loro capacità di mettere insieme questi film in breve tempo, con pochi soldi, e con quelle soluzioni spettacolari. In che modo quel cinema ha influenzato i suoi romanzi? L’ha mai tenuto presente? Inconsciamente, nel senso che me ne sono accorto ex post. Soprattutto Romanzo Criminale è passato attraverso il filtro di quegli anni. Mentre lo 442 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

scrivevo, era tornata prepotentemente la mia sempiterna passione per Sergio Leone e, contemporaneamente, avevo scoperto Takeshi Kitano, queste storie di criminali yakuza, teneri e feroci nello stesso tempo. Quel cinema degli anni ’70, invece, Lenzi soprattutto, aveva evidentemente lavorato nell’inconscio, più che a livello consapevole. Che Italia esce da quel cinema, penso soprattutto, appunto, al cosiddetto poliziesco che tanto Lenzi ha frequentato? Quelli erano gli anni ’70 e c’erano enormi problemi di ordine pubblico. Tutto il grosso dell’attenzione era attirata dal terrorismo, che era il problema più grande. Allora l’Italia era entrata nella prima grande crisi economica, la crisi petrolifera del ’73 per intenderci, e questo portò con sé anche molta criminalità: c’erano rapine, malavita di strada, stava nascendo a Roma la banda della Magliana. Questi registi forse non ne erano perfettamente consapevoli, però, nel raccontare quella malavita di strada, quella dei sequestri di persona, delle sparatorie, avevano catturato quell’elettricità delinquenziale che era nell’aria. Erano anche gli anni di un’Italia dalla borghesia impaurita, come adesso. I giovani stavano cambiando ed erano guardati con estremo sospetto. Ci si chiedeva: ma cosa vogliono? Perché si fanno crescere i capelli lunghi e vanno in piazza? Cosa vogliono fare questi capelloni, questi maoisti? Perché improvvisamente si accorciano le gonne delle ragazze? C’è questo, per esempio, in Steno, in La polizia ringrazia e in altri film del poliziottesco, ci sono questi dialoghi. A questa paura dei borghesi, si somma la consapevolezza di una corruzione nei livelli più alti e anche questo si comprende bene in quel film. Cioè, in strada si confrontano dei bravi poliziotti e dei delinquenti carogne: i giochi sono molto chiari, ma, quando sali di livello, quando entri nelle sfere del potere, che sia l’alta magistratura o la politica, allora i contorni sfumano, si comincia a pensare che la corruzione esista. Non è tanto il messaggio rozzo del noi li prendiamo e poi li liberano, ma è: sulla strada ci siamo noi e loro, ma, quando poi si entra nel palazzo, tutto diventa nebbia e confusione. Ci sarà anche stata una vena di destra in questi film, ogni tanto sembrava anche giustificato per alcuni parlare di cinema fascista, ma, e cito ancora una volta La polizia ringrazia (che è stato in qualche modo l’iniziatore del filone), lì si adombra una società segreta che agisce al di fuori dalle regole, per creare dei giustizieri della notte, stabilire un riflesso d’ordine e far sci443 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

volare il Paese verso una deriva autoritaria. Una specie di strategia della tensione, per usare un’espressione molto in voga all’epoca. Quindi, questi film non erano tanto lontani dalla realtà, erano forse persino inconsapevoli di catturare così bene gli umori del tempo. Di certo, erano più intelligenti di come ce li siamo raccontati, lo sono più di quanto noi pensassimo all’epoca. Infatti alcuni oggi dicono che hanno raccontato l’Italia molto più dei film dei celebrati maestri. Quella è la stagione in cui i maestri della commedia all’italiana declinano e i grandi autori, come Fellini, Antonioni, Visconti, erano già piuttosto anziani. All’epoca i maestri vanno da un’altra parte, non hanno più un grande rapporto con la realtà. Prendi il caso di Visconti, oramai già molto avanti negli anni, fa una trilogia del tutto estetizzante (La Caduta degli dei, Morte a Venezia, Ludwig), poi un film come Gruppo di famiglia in un interno, che è un grande film, ma sostanzialmente un melodramma, prima di tornare addirittura a D’Annunzio con L’innocente. Questo per dire che, chi aveva iniziato con l’indagare la realtà come lui, finisce appartato in un mondo culturalmente elitario, in una specie di torre d’avorio. In quegli anni, la realtà era stata tradizionalmente raccontata dal genere della commedia all’italiana: proprio in quel periodo la grande commedia all’italiana conosce alcuni acuti storici, come C’eravamo tanto amati, ma il grande racconto popolare lo fa il poliziottese o sporadici altri film molto particolari, come, ad esempio, Romanzo popolare. E anche Un borghese piccolo piccolo. Un Borghese piccolo piccolo, certo, non a caso dietro quel film c’è l’origine letteraria del romanzo di Vincenzo Cerami. La citazione è per me molto pertinente perché un libro che Cerami scrive nel 1989, Fattacci, è l’anello di congiunzione fra il poliziottese di cui stiamo parlando e Romanzo Criminale. Cioè lì torna il racconto di questa ferocia della strada che avevamo dimenticato per anni. Quindi direi che, decisamente, il poliziottese è il cinema che racconta la realtà di quegli anni e noi ce ne siamo accorti più adesso che quando uscirono.

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Poi forse c’è stato una specie di dispositivo di rimozione, dalla commedia sexy ai film alla Vanzina. Come se ci avessero voluto far pensare ad altro. Non so se il punto è questo. Anche i Vanzina hanno fatto delle cose interessanti, in un certo senso sono stati i continuatori della tradizione di un certo artigianato cinematografico, in cui c’è più complessità di quanto appaia a prima vista. Io, più che prendermela con la commedia sexy, sono sempre rimasto molto perplesso nei confronti dell’intellighenzia. Pensiamo a quello che è successo durante la stagione del terrorismo: è quello il grande rimosso della nostra storia recente, la lotta armata che c’è stata in Italia. Mi viene in mente Carlo Lizzani che fa San Babila ore 20, La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci, Colpire al cuore di Gianni Amelio e Alonso e i visionari, il romanzo di Anna Maria Ortese, poi basta. Se qualcuno dovesse chiedermi se l’alta cultura italiana, nella letteratura o al cinema, abbia affrontato seriamente quegli anni, direi sicuramente no. Sono loro che hanno mancato il racconto di quegli anni. Questo mi sembra anche uno dei motivi per cui quella che sembrava serie B oggi viene molto rivalutata. Sì, ma aggiungo anche che è sbagliato tracciare una linea di demarcazione fra i grandi autori e il cinema popolare, realizzato dai cosiddetti artigiani. Il 90% del cinema italiano è stato fatto con quell’approssimazione dell’artigianato. In quell’arrangiarsi, in quel portare il film a casa, ci sono dei lampi di autentica genialità e di grande arte. Per tornare a Lenzi, vogliamo parlare del modo in cui riprendeva gli inseguimenti, di quanta maestria tecnica, quanta inventiva ci fosse dentro quel cinema di genere italiano? Bisogna fare un salto di quarant’anni anni e arrivare a Stefano Sollima per ritrovare uno che fa quelle cose così in Italia. Cito Sollima non solo per Romanzo Criminale e Suburra, ma perché non è un caso che sia una specie di figlio naturale del cinema di genere di cui stiamo parlando, essendo suo padre Sergio Sollima, di cui, per esempio, Città violenta (1970) è un noir pazzesco. Capita spesso oggi di sentire polemiche sul fatto che la crime fiction sia violenta, che Romanzo criminale possa aver pervertito la gioventù oppure che Gomorra dia pessimi insegnamenti. Ma ci ricordiamo quando gli spalloni di Milano calibro 9 vengono fatti saltare in aria legati con una corda in una cava? Vogliamo parlare della violenza che veniva descritta in quegli anni al cinema in tutti i suoi filoni di genere? Questo tipo di poliziesco è 445 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dentro la nostra tradizione e va valorizzata, proprio per la sua specificità. Certo in tutto il cinema degli anni ’70 c’è stata una vera e propria spettacolarizzazione della violenza. Penso anche ad altri registi come Ruggero Deodato, Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti. Lì però c’è una differenza di fondo: si arriva al compiacimento. Nei film di Jacopetti c’è un compiacimento della violenza che è assente nei film di Lenzi, di Leo, Martino. Se prendi un film di quest’ultimo come I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973), stiamo parlando di un serial killer che uccide all’interno dell’Università per stranieri di Perugia. Ma chi la conosceva allora? Chi ne parlava? Il regista finisce per porre questa domanda inquietante: cosa fanno, cosa vedono i nostri figli quando li mandiamo a studiare fuori? Quarant’anni dopo, guarda caso, c’è il delitto di Perugia… Per certi aspetti sembra che quegli anni siano una specie di anticipazione esplorativa dei nostri. Un’altra cosa: in quegli anni c’era un famoso sceneggiato, Qui squadra mobile, basato su racconti di Massimo Felisatti e Fabio Pittorru (che poi erano anche gli sceneggiatori dei film di di Leo). Quegli sceneggiati sono gli antesignani di tutto quello che è venuto dopo nella televisione italiana, Distretto di polizia, La squadra, I bastardi di Pizzofalcone, di tutte quelle narrazioni corali di poliziotti che così spesso oggi si vedono in televisione. Ti dico solo una delle storie che si mettono in scena: una ragazzina adolescente, figlia di un primario, sparisce. Poi viene trovata violentata e strangolata. Alla fine si scopre che era incinta dell’assistente del primario, squallido figuro che voleva fare carriera, un pedofilo e un omicida. Questa storia qua andava in onda sulla Rai di Bernabei nel 1974 e non a notte fonda, ma in prima serata e con una forza visiva ed emotiva che farebbe impallidire le fiction di oggi che ho citato prima. Queste cose e il poliziottese di cui stiamo parlando, mi fanno anche pensare che in quegli anni eravamo molto più liberi e più piacevolmente scorretti (oltre che realistici). Questo è sicuramente vero. Aggiungo un’altra cosa riguardo il delitto di Perugia: l’unico film che è stato tratto da quella storia lo ha fatto Ruggero Deodato (Ballad in Blood), non certo a caso uno dei protagonisti di quella stagione. Lo ha girato nel 2016, ma non è mai stato distribuito in Italia. Tutto torna. È come se ci volesse uno che venisse da quegli anni per raccontare quella storia. Sì, è vero. Per tornare all’oggi, Gomorra e Suburra sono due fiction che 446 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

raccontano storie forti, violente, ma, negli anni ’70, sarebbero stati considerati non dico edulcorati, ma all’interno di un filone, non ci sarebbero state tutte queste polemiche. Quelle che riguardavano i film polizieschi degli anni ’70 non era che avessero immagini scioccanti o ci fossero troppo cattivi, ma che i poliziotti erano troppo duri e violenti e, quindi, l’accusa a quei registi di essere dei fascisti. Questa cosa faceva infuriare in particolare proprio Lenzi, perché lui era anarchico o, almeno, si sentiva tale. Tornando proprio al poliziottesco, lei è magistrato prima che scrittore. Quanto erano realistici quei film? Erano abbastanza realistici nella descrizione della criminalità di strada. Per dire, sicuramente in quegli anni c’erano rapine, sparatorie, sequestri che accadevano come sono stati descritti in quei film. In questo c’è sicuramente realismo. Più realismo in quei film che in Gomorra o in Suburra, dove vedi una malavita che spadroneggia e non c’è lo Stato. Lo Stato c’era, c’è sempre stato. Poi a volte è stato più efficiente altre meno, però, da questo punto di vista, la struttura western di lotta fra buoni e cattivi del poliziottese era più realistica di questa metafisica del male che viene raccontata oggi. Le cose si facevano più nebulose quando si arrivava nelle alte gerarchie, lì dove c’era l’esponente delle forze dell’ordine che non procedeva, quello preso da paura o quello che bloccava l’integerrimo commissario perché compromesso con la politica. Ecco, la descrizione di quelle cose lì, che pure appartengono a un sentimento italiano diffuso, il nostro tipico complottismo, quelle cose lì sono raccontate in un modo più fumoso, da chi, evidentemente, non è veramente addentrato in queste vicende. Devo dire che la strada è raccontata meglio del palazzo. Quel cinema di cui Lenzi è stato protagonista è sempre stato considerato di serie B. Da alcuni anni si assiste, invece, a una frenetica opera di rivalutazione. Che idea si è fatto di questo fenomeno? Quello che dici è molto vero. Quando uscì Romanzo Criminale, parlo di me perché è accaduto qualcosa di molto simile, mi telefonò Angelo Guglielmi e mi disse: «Non male questo romanzo. Ma quanto è alto?». Gli dissi 1.80. La sua domanda voleva essere: ma è letteratura vera o è un oggetto di consumo, serie B? Questa è la grande domanda, il grande limite della cultura italiana in tutte le sue manifestazioni, cioè lo steccato culturale tra l’alto e 447 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

il basso. Non è tanto importante quello che hai fatto, ma chi sei tu per farlo. Una cosa che hanno pagato alcuni grandi scrittori, come Elsa Morante: la sua Storia è un grande romanzo popolare, ma venne criticato ferocemente perché era troppo narrativo, offendeva in qualche modo il gusto letterario del suo tempo, non era abbastanza di sinistra perché non abbastanza aulico. Succede a Romanzo criminale che «Le Monde» gli fa un paginone, quel successo viene importato dalla Francia e, improvvisamente, tutti si accorgono che ho scritto un bel libro. Il mio maestro Giuseppe Petronio, il critico letterario, mi diceva: «De Cataldo, tu ti devi mettere in testa che in Italia non si può scrivere un bel romanzo poliziesco. Ci sarà sempre un critico a dire che uno dei due aggettivi è di troppo: o è bello o è poliziesco». Per il cinema è accaduta esattamente la stessa identica cosa. Il fenomeno di rivalutazione del poliziottesco è passato attraverso gli americani, da Quentin Tarantino e le sue famose inginocchiate davanti a quei registi. Del resto, cosa sarebbe accaduto se i «Cahier du cinéma» non avessero appoggiato JeanLuc Godard?... Lui fa dei noir, À bout de souffle o Pierrot le fou, noir sgangherati tra l’altro, destrutturati come trama: senza un critico che te li sostenga cosa ne sarebbe rimasto? Ora io immagino già che, chi ci leggerà, penserà: ma dai, non si può mettere sullo stesso piano Godard e Lenzi! Io dico va bene, non è che sono la stessa cosa, ma appartengono alla stessa famiglia del cinema e ci sono diversi modi di fare cinema: alcuni film sono fatti meglio di altri, ma l’eccellenza del cinema di genere non può sfigurare di fronte all’eccellenza del cinema d’autore, perché sono entrambe tali. Poi c’è, ovviamente, anche un discorso di gusto personale: io non mi sono mai fatto nessun problema a passare due ore a rivedermi un film di Lenzi o L’avventura di Antonioni. Perché bisogna creare degli steccati? Questo non l’ho mai capito. Perché bisogna schierarsi a prescindere? Queste cose sono sempre accadute nella cultura italiana, pensiamo alla contrapposizione poesia/romanzo. Era Antonio Gramsci che parlava della tradizione letteraria della piccola borghesia letterata… per me aveva ragione lui quando diceva che bisogna studiare la cultura popolare per comprendere di che cosa stiamo parlando. Che ne pensa, invece, dell’ultima fase della carriera artistica di Lenzi, quella dello scrittore? Io ne sono stato in qualche modo corresponsabile. Non conoscevo personalmente Umberto Lenzi e lo incontrai al Courmayeur Noir Festival. Mi 448 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fermò, si presentò, dicendo: «Forse ha sentito parlare di me, sono Umberto Lenzi». Io ho fatto un po’ una scena alla Tarantino, incensandolo e omaggiandolo. Lui si è messo a ridere e mi ha detto: «Non cominciamo con queste pagliacciate. Io non sono il maestro Lenzi, sono solo Umberto». Da allora diventammo non dico amici, forse è una parola grossa, ma tra noi c’era un forte rapporto di stima e affetto. Lui mi fece leggere due romanzi che aveva pubblicato con un piccolo editore, Coniglio. Di un altro gli scrissi io una Prefazione e poi un altro ancora gli fu pubblicato da Rizzoli in edizione e-book, lo presentai io stesso all’editore. Mi piaceva quella collezione di romanzi con protagonista Astolfi, ci avevo addirittura vagheggiato, insieme a Lenzi, di farne una serie televisiva, ne avevamo parlato, sarebbe stata veramente una bella cosa girare queste storie ambientate nel passato del mondo del cinema. Trovavo assolutamente deliziosi i suoi romanzi. Com’era Umberto Lenzi a livello personale? Era un uomo maledettamente simpatico, un toscanaccio. Una volta presentai con lui un libro di Fulvio Abbate su un ministro della Repubblica spagnola, un ministro della giustizia che era un anarchico. Tu immagina Fulvio Abbate, che già è uno scrittore sopra le righe, più Lenzi che era un anarchico… ne venne fuori una serata scoppiettante, indimenticabile per me. Mi dispiace che non sia riuscito a chiudere la sua carriera con un ultimo grande poliziottese. In effetti gli ultimi film della sua carriera sono nettamente inferiori a quello che aveva fatto, anche per ragioni economiche. Quando s’invecchia si va incontro a un lento accantonamento. Il gusto stava cambiando e anche le condizioni di produzione. Però, come diceva un produttore, ogni dieci anni bisogna rifare lo stesso film. Adesso stanno producendo una serie ispirata a Django e Toni D’Angelo gira il sequel di Milano calibro 9. Il tipo di reazione di fronte a operazioni di questo tipo sono solitamente due: o c’era bisogno di fare un remake di un film così?, indicando che non varrebbe la pena, visto che già quella era serie B, oppure gli appassionati del genere dicono non si può riprendere in mano un film di di Leo…

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Io farei una serie pazzesca sul poliziottese, proprio sugli anni ’70. Un po’ ha cominciato con Romanzo Criminale. Sì, ma mi dovrebbero dare proprio pieni poteri. Quanto a Romanzo Criminale, ha avuto anche molta fortuna, perché è uscito al momento giusto. Se fosse uscito qualche anno dopo sarebbe sembrato manieristico e qualche anno prima non me lo avrebbero proprio fatto fare. Ci vuole veramente fortuna anche in queste cose. E bravura, però. Sì, ma pensa a come si sentivano Lenzi e i registi di cui stiamo parlando. Dicevano loro: va bene, tu riempi le sale, fai un sacco di soldi d’incasso, però il cinema è un’altra cosa. Poi gli arriva questo ragazzotto americano che gli fa «maestro! maestro!» e tutto cambia. Deve essere stato un bel momento, quello.

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Uno sguardo dall’America. Intervista a Bob Murawski di Davide Magnisi

Bob Murawski (1964), premio Oscar 2010 al miglior montaggio per The Hurt Locker (2008, Kathryn Bigelow), è fondatore, insieme a Sage Stallone, della casa di distribuzione Grindhouse, che pubblica sceltissimi film di genere, soprattutto horror e, in particolare, italiani degli anni ‘70/’80. È stato il montatore di quasi tutti i film di Sam Raimi, da L’armata delle tenebre (1992) a Il grande e potente Oz (2013). Ha collaborato anche, tra gli altri, con John Woo (Senza tregua, 1993) ed è stato di recente al montaggio nella titanica impresa di recuperare il materiale dell’ultimo e incompiuto film di Orson Welles, The Other Side of the Wind (2018).

Si ricorda a quando risale la sua conoscenza dei film di Umberto Lenzi? Il primo film di Lenzi che ho visto, in un drive-in nel Michigan, è stato Incubo sulla città contaminata, che in America è conosciuto con i titoli di City of the Walking Dead e Nightmare City. Credo fosse più o meno il 1983. Ho pensato che fosse una versione diversa e unica dei film sugli zombie, perché queste creature si muovevano velocemente, correvano e facevano cose folli, come sparare con le mitragliatrici e pugnalare le loro vittime. Fu molto tempo dopo che Umberto mi spiegò che non erano affatto zombie. Erano «persone contaminate». Mi disse questa cosa quando lo incontrai e gli chiesi di autografare la locandina di Incubo sulla città contaminata per regalarla a Quentin Tarantino, che sapevo essere un grande ammiratore del film. Gli chiesi anche una dedica e lui si sentì in dovere di scrivere, come per chiarire: «Non sono zombie, sono persone contaminate» sul poster, cosa che Quentin trovò molto divertente. Certo, prima ancora conoscevo Cannibal Ferox per la sua famigerata fama quando uscì a New York con il titolo Make Them Die Slowly. Ne lessi qualcosa a proposito la prima volta in una rivista chiamata «The Gore Gazette» ed ero determinato a vederlo.

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Che cosa l’ha colpita, in particolare, dei film di Lenzi? Ho adorato il fatto che fossero così energici ed esagerati in termini di personaggi, dialoghi e violenza. E anche classicamente diretti e scritti, più di molti altri film italiani, che spesso sembravano una serie di pezzi di bravura messi insieme senza molta struttura. I film di Lenzi hanno sempre avuto un arco drammatico molto chiaro, raccontavano una storia. Quali sono i suoi film che ammira di più? Amo i suoi gialli, Orgasmo (in America conosciuto come Paranoia) e Sette orchidee macchiate di rosso (in America Seven Bloodstained Orchids) su tutti, perché hanno una trama orchestrata molto ingegnosamente e sono abilmente diretti. Poi Roma a mano amata (in America The Tough Ones) perché è un film poliziesco sfrenato, elettrizzante, brutale, divertente. In particolare anche perché contiene una grandissima interpretazione di Tomas Milian. E, di certo, Cannibal Ferox, che combina una classica trama di avventura nella giungla con la violenza e il gore più estremi che si possano immaginare. Adoro il fatto che Umberto non sia mai stato trattenuto dalla consegna. Dà sempre il 100% e va oltre ciò che ti aspetti o speravi. Lei ha anche conosciuto Umberto Lenzi. Che ricordo ne ha? Umberto era una persona molto calorosa e gentile. Pieno di entusiasmo per i suoi film e traboccante d’amore per il cinema. Era orgoglioso dei suoi successi nel mondo del cinema, specialmente quando parlava dei grandi attori del cinema classico con cui aveva avuto l’occasione di lavorare: Henry Fonda, Jack Palance, Carroll Baker, John Huston, Henry Silva, George Kennedy, Stacy Keach. E adorava parlare dei registi che amava e da cui era stato influenzato. Era una persona innamorata dei film e del fare cinema. Era poi particolarmente eccitato dalle «nuove idee». Diceva che ha sempre cercato di trovare nuove idee per tutti i suoi film. Mostrò a Sage Stallone e a me, quando andammo a trovarlo insieme, il suo film Obiettivo poliziotto (Cop Target), con Robert Ginty, ed era molto orgoglioso di una scena in cui il gatto di Ginty veniva nutrito da un distributore meccanico di alimenti per gatti. «Nuove idee!».

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Lei è uno dei più grandi montatori al mondo, in che modo quel cinema ha influenzato il suo lavoro? I film di Lenzi mi hanno insegnato che non esiste un concetto come «è troppo esagerato fare una cosa del genere». I suoi film non hanno mai avuto paura di spingere le cose lontano. Se vale la pena fare qualcosa, vale la pena farla al 110%. Questo modo di pensare permea le mie decisioni in fatto di montaggio. Non voglio mai tirarmi indietro nel dare a ogni scena il suo massimo impatto e lotto per mantenerlo così. Anche Umberto era un lottatore. Aveva la reputazione di essere un tiranno e una testa calda, ma voleva solo che le cose fossero fatte bene e non voleva accontentarsi di niente di meno. Sono allo stesso modo quando lavoro. In che maniera colonna sonora e montaggio si influenzano a vicenda in questi film? Una connessione piuttosto forte nella percezione di chi guarda. La musica nei film di Umberto è sempre una componente molto forte e in primo piano. Dalla sua collaborazione con Ennio Morricone, in film come Spasmo e Milano odia, fino all’amicizia fraterna instaurata con Franco Micalizzi nella loro collaborazione per i film polizieschi, Umberto ha sempre dato alle sue colonne sonore lo stesso peso ultra-dinamico dei suoi potenti effetti visivi. Ecco perché abbiamo ritenuto importante includere i cd delle colonne sonore nelle nostre uscite dei suoi film editate con la Grindhouse. La musica è così forte che può stare da sola. Oggi molti grandi registi americani, Quentin Tarantino su tutti, ma non solo, dicono di essere stati influenzati dai cosiddetti B movie italiani. Che cosa hanno insegnato a questi registi, secondo lei? Penso che questi registi siano stati catturati dalla pura energia e dall’eccesso dei film di Umberto, un regista che non aveva timore di esagerare, di andare al di là del consueto. Credo che registi come Quentin Tarantino ed Eli Roth condividano con lui questa sensibilità. Inoltre Umberto era anche un grande cinefilo, con una profonda conoscenza del cinema classico e dei suoi registi. Studiava le loro tecniche e le applicava nei suoi film. Registi come Quentin ed Eli fanno la stessa cosa. Poi Umberto teneva in grande considerazione attori classici dell’età dell’oro del cinema, riempiendo i suoi film di interpreti come Henry Fonda, Arthur Kennedy, Jack Palance, 453 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Joseph Cotton, Carroll Baker e perfino il regista John Huston. Anche Quentin fa la stessa cosa. Con la sua casa di distribuzione Grindhouse, lei concretamente contribuisce alla conoscenza di questo cinema italiano negli Usa. Che tipo di riscontro di pubblico riceve? Il pubblico ama i film di Umberto. Sono estremamente divertenti e un prodotto su cui si può fare affidamento. Come la maggior parte dei film italiani, sono pieni di passione e di vita. A Umberto importava del pubblico e provava a rendere i suoi film il più possibile divertenti, a prescindere dal genere a cui stava lavorando. La risposta del pubblico è stata straordinariamente positiva. I fan del cinema cult negli Stati Uniti adorano i film italiani. Per loro, sono l’epitome di uno stile fiammeggiante e di un contenuto estremo. In Italia, per lunghi anni, in parte ancora adesso, questi film erano considerati troppo violenti, grossolani, diseducativi. Come spiega la rivalutazione di questi film negli ultimi anni, soprattutto fuori dall’Italia? I film sono molto più estremi adesso di quanto lo fossero negli anni ’70 e ’80. Contenuti violenti che avrebbero automaticamente ricevuto il bollino X (cioè solo per un pubblico adulto) o NC-17, il divieto ai minori di 17 anni nel passato, adesso possono essere normalmente visti in film classificati R, cioè vietati ai minori di 17 anni non accompagnati da un adulto, perfino in televisione. Ma i film di Umberto sono ancora forti e scioccanti, anche per gli standard di oggi. Un film come Cannibal Ferox riesce ancora a stupire spettatori smaliziati che pensano di aver visto tutto. I fan dell’horror e dell’exploitation amano essere scioccati e il nome di Umberto Lenzi su un film è diventato un sigillo di qualità. Lenzi è una garanzia nell’ambito del cinema exploitation. Umberto Lenzi diceva che i suoi modelli cinematografici erano americani: John Ford, Raoul Walsh e Samuel Fuller su tutti. Forse questo lo ha reso così apprezzato negli Usa? Forse. I loro film hanno insegnato a Umberto uno stile classico di cinema a cui il pubblico americano può relazionarsi, con personaggi forti e vivaci e 454 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

storie drammatiche e avvincenti. Umberto era sempre orgoglioso delle sue trame serrate, qualcosa che aveva sicuramente imparato da quei cineasti classici che ammirava così tanto. Con la Grindhouse lei ha pubblicato pregevoli edizioni dei due più celebri cannibal movie di tutti i tempi: Cannibal Ferox e Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato. Quali le affinità e le differenze tra questi due film e due registi? Come sempre, Lenzi si preoccupava di dare al pubblico una trama classicamente costruita, con un forte conflitto tra protagonisti e antagonisti. Cannibal Ferox è quasi un western americano classico nello stile di John Ford o Henry Hathaway, trapiantato nella giungla amazzonica. Il personaggio interpretato da Giovanni Lombardo Radice, Mike Logan, è un cattivo che sembra direttamente venuto fuori da un thriller poliziesco di Raoul Walsh. Il film di Deodato è più nella tradizione italiana del Neorealismo e nell’ambito dei documentari Mondo. È un film per nulla interessato a seguire la tradizionale struttura narrativa di un film di Hollywood. Perché questi film estremi sono così popolari? In particolare tra i giovani? Il pubblico giovane è interessato alla ribellione e a esplorare cose che sono proibite e scioccanti. Lo è sempre stato. I film di Lenzi sono pieni di idee ribelli e argomenti di grande effetto. Nei film di Lenzi la bravura tecnica, lo specifico filmico, sembra persino sopravanzare, essere primaria, rispetto alla storia raccontata. Lei, da maestro di tecnica di montaggio, che ne pensa? Su questo non sono d’accordo. Credo che la comprensione del valore della storia da parte di Umberto, e una struttura della trama tradizionale, sono aspetti che distinguono i suoi film da quelli di molti altri registi italiani. Da poco è uscita negli Usa una straordinaria edizione di Roma a mano armata. Come è avvenuta la scelta di questo film e che tipo di lavoro è stato fatto? Roma a mano armata era uno dei film preferiti del compianto Sage Stallone. Amava il film e ne comprò i diritti nel 1996. C’è voluto molto tempo per 455 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

farlo uscire, ma è finalmente pronto. Abbiamo eseguito un restauro completo in 4k per ottenere la migliore versione possibile. In aggiunta, è incluso un cd recentemente rimasterizzato dell’incredibile colonna sonora di Franco Micalizzzi, e molte ore di interviste ed extra. Per fortuna, la risposta del pubblico è stata straordinaria. La prima edizione, che includeva il bonus speciale di una penna di metallo modellata come una pallottola, è andata esaurita in poche settimane. E le recensioni l’hanno segnalata come una delle migliori uscite dell’anno. Mi rattrista solo che Umberto non possa essere qui per vedere come questo film abbia avuto l’attenzione che ha sempre meritato. E mi rende triste che neanche Sage sia qui. Amava il film così tanto, era sempre preoccupato del fatto che non sarebbe stato un successo quando lo avremmo fatto uscire.

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Cannibal Hostel. Intervista a Eli Roth di Davide Magnisi

Eli Roth si è rivelato al mondo del cinema con l’horror Cabin Fever (2002), ottenendo poi grande notorietà con il controverso Hostel (2005), cui ha fatto seguito Hostel: Part II (2007), durante le cui riprese ha girato il falso trailer Thanksgiving, inserito in Grindhouse (2007) di Q. Tarantino e Robert Rodriguez. La collaborazione con Tarantino prosegue per Bastardi senza gloria (2009), per il quale dirige il cortometraggio Stolz der Nation, ispirato ai film di propaganda nazista e inserito nella pellicola per la quale lavora anche come attore. Del 2013 è Green Inferno, che riprende il filone dei film cannibalici italiani. Seguono le regie di Knock Knock (2015), Il giustiziere della notte – Death Wish (2018) e Il mistero della casa del tempo (2018).

Quando e come ha conosciuto il cinema di Umberto Lenzi? Ho scoperto per la prima volta il lavoro di Lenzi negli anni ’80 in home video, ma non avevo capito che fossero suoi film. Moltissimi film di genere italiani che arrivavano negli Usa erano camuffati da film americani, cambiando il nome dei registi e del cast per sembrare più «americani». Per esempio, non sapevamo che Demoni di Lambert Bava fosse un film italiano, era semplicemente intitolato Demons, con i nomi europei del cast mutati e tutti che parlavano un inglese che era stato aggiunto in seguito nel doppiaggio da un gruppo di attori americani, lo stesso per quasi tutti quei film. Da giovane appassionato, non sapevo e non potevo capire nulla di queste cose, questi film avevano in sé una bizzarra qualità fuori dal mondo. Internet ancora non esisteva, per cui non c’era alcun modo di connettersi con altri appassionati del genere o cercare questi film al di là di riviste come «Fangoria» e, se queste riviste non segnalavano i film, erano avvolti in un totale mistero. Il primo film di Lenzi che ho visto è stato comunque Cannibal Ferox, che uscì negli Usa con il titolo Make Them Die Slowly. Questo titolo fece una certa impressione su di me tredicenne e il film elargiva ogni goccia di macabro e raccapricciante che il titolo prometteva. Mi ci sono voluti anni per comprendere il sottogenere del cannibalico italiano, da cui rimasi affascinato. Con lo sguardo di un ragazzino, in America, per me questi film avevano la 457 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

migliore qualità di tutti, perché sembravano assolutamente reali e credevo fossero stati fatti da dei serial killer. Pochi film americani raggiungevano questo status, solo pellicole come Non aprite quella porta e L’ultima casa a sinistra, ma, quando vidi i film cannibalici italiani, ero stoltamente convinto che ammazzassero davvero le persone che li facevano. Sembravano così reali! Poi ho guardato Mangiati vivi!, ed ero del tutto confuso dal fatto che alcuni degli attori che erano in Cannibal Holocaust fossero anche lì, ma anche per il fatto che tutte le loro voci erano identiche a quelle degli altri attori di Cannibal Ferox. Mi ci sono voluti anni per capire che Robert Kerman era americano e Giovanni Lombardo Radice italiano e avesse cambiato il suo nome per il film per sembrare più americano. Oggi, come regista, è inimmaginabile che tu nasconda la tua identità per adattarti a un genere di film in un altro Paese, ma è quello che questi registi furono obbligati a fare per vedere i loro film distribuiti. Sacrificare la loro identità era la chiave per avere più lavoro e vendite in tutto il mondo, ma lo facevano pagando il prezzo che la gente non sapesse chi fossero veramente e che impatto avessero avuto nel cinema. Altri registi come Sergio Martino e Ruggero Deodato hanno subito la stessa sorte. Persino Sergio Leone ha dovuto cambiare nome per Il buono, il brutto, il cattivo, per quanto folle adesso possa sembrare. Oggi riesci a immaginare questi maestri nascondere la loro identità per paura che il pubblico non voglia vedere il film? Sembra impensabile adesso, ma, in un certo senso, questo è stato il reale motivo che mi ha impedito di identificare i film di Lenzi e di entrare prima nel suo cinema. Non c’era un modo chiaro per riconoscere quali film fossero diretti da Lenzi fino a che non cominciarono a essere rieditati in dvd con il nome corretto del regista. Persino film come La casa 3 ancora oggi nei credit riporta che è stato diretto da Humbert Humphries: è solo perché chi ha curato la riedizione per la Scream Factory te lo scrive sulla copertina del packaging che vieni a sapere che è, effettivamente, un film di Umberto Lenzi. Che cosa la colpisce di più del cinema di Umberto Lenzi? Quello che amo del cinema di Lenzi è che non è mai noioso e che l’azione inizia sin dall’immagine di apertura. Alcuni registi amano prendersi il loro tempo per entrare nell’azione, altri ci si lanciano proprio in picchiata. Quando inizi un film di Lenzi, che sia un poliziottesco, un film di avventure o un horror o qualunque altro genere, sai che ti stai per divertire, che si muoverà veloce, che porterà il risultato a casa. 458 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Io amo i film di Lenzi perché sono assolutamente senza paure, senza il timore di brutalizzare i suoi personaggi e far fare loro cose spiacevoli, quando necessario. Alcuni registi sono molto spaventati di essere giudicati dal punto di vista personale se i personaggi si comportano come effettivamente il regista vorrebbe. Non Lenzi. Se il personaggio è un mostro, nei suoi film si comporta in quel modo. Ricordo che mentre giravamo Bastardi senza gloria, io e Quentin guardavamo Milano rovente, amandolo senza riserve. Poco tempo dopo, andammo a cena con un regista italiano che proclamava quanto Fellini fosse la sua fonte di ispirazione e liquidò i film di Lenzi come spazzatura. Dopo questa affermazione, io e Quentin passammo il resto della cena a farlo a pezzi, facendogli notare quanto i film di Lenzi fossero ancora trasmessi in tv e sempre molto amati dagli appassionati. E che, se la critica italiana avesse apprezzato il cinema di genere nello stesso modo in cui hanno fatto i suoi ammiratori, ora in Italia ci sarebbe ancora un’industria cinematografica come ce l’avevate negli anni ’70. Lenzi, inoltre, ha creato il sottogenere cannibalico. Ci sono voluti anni, per me, per riuscire a capirlo, ma Il paese del sesso selvaggio ha cominciato tutto. Un film spettacolare con incredibili interpretazioni di Me Me Lai e Ivan Rassimov. Lenzi ha cercato qualcosa di assolutamente diverso, indipendentemente dal genere che stava facendo. Si può dire che fosse infastidito dal fatto che Deodato gli avesse rubato la scena in questo sottogenere con Cannibal Holocaust, anch’esso un capolavoro, e voleva mostrare cosa poteva fare con Mangiati vivi! e Cannibal Ferox. Ma la differenza è che io credo Lenzi, in fondo, sia un detective e questi film cannibalici possono anche essere visti come film detective/polizieschi: qualcuno sta conducendo un’investigazione sulla scomparsa di qualcun altro e, sebbene tanti film cannibalici utilizzino un espediente simile, si può dire che Lenzi sia più concentrato sull’aspetto poliziesco della storia che sull’esibizione di violenza e i riti selvaggi. È come se avesse attraversato tutti gli anni Settanta e poi fosse tornato quasi dieci anni dopo per mostrare a tutti come fosse fatto anche nel genere cannibalico. I film di Lenzi quando lavorano al meglio sono queste detective stories, gialli, e quando, finalmente, sono riuscito a incontrarlo a Roma nel 2009, stava scrivendo proprio romanzi gialli! È un sorprendente scrittore/regista/ideatore, qualcuno la cui potenza creativa è davvero senza pari. Ho letto persino un copione che ha scritto per uno spettacolo chiamato East of Sicily, in cui la mafia cinese subentra a quella italiana nel controllo sulla Sicilia. Lenzi aveva progettato interamente lo spettacolo, era sorprendente. Mi auguro ci sia la possibilità di realizzarlo. 459 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Quali sono i film di Lenzi che più ama? Ho davvero un debole per film come Il giustiziere sfida la città e Milano rovente, ma devo dire che quello che amo di più è sempre Cannibal Ferox. È uno di quei film che guardo ancora e ancora, fino al punto che ho voluto i diritti della musica di Roberto Donati e, mentre viaggiavo in barca attraverso la giungla per fare Green Inferno (ci volevano quattro ore di viaggio tutti i giorni per arrivare al villaggio amazzonico per girare e lo stesso tempo al ritorno), ascoltavo ripetutamente la fantastica colonna sonora di Donati. Più guardo il film, più penso sia straordinario ciò che ha realizzato, nella sua trilogia cannibalica di Il paese del sesso selvaggio, Cannibal Ferox e Mangiati vivi! Ho visto Cannibal Ferox quando ero così giovane d’età e fece su di me una tale impressione che, semplicemente, lo amo. Il cinema di Lenzi ha in qualche modo influenzato i suoi film? Assolutamente sì. Il finale di Cannibal Ferox mi ha scioccato da ragazzino, quando lei passa attraverso questa orribile sofferenza e poi dice che tutto quello è un mito e che nulla è accaduto. Ho pensato per anni al perché dicesse quello, perché non volesse raccontare ciò che era accaduto, chi stava proteggendo. E allora mi ha colpito il fatto che questo fosse l’unico modo per chiudere Green Inferno. Questa giovane donna parte per salvare un villaggio di cui non sa niente, i suoi amici sono catturati e mangiati e, per il legame con un bambino del villaggio, decide, alla fine, di salvarli. Sa che se racconterà alla gente quello che è accaduto, le multinazionali lo useranno come giustificazione per andare e spazzarli via, com’è abitudine in queste zone del mondo. Stavo parlando di Cannibal Ferox e dell’intero sottogenere cannibalico con alcuni amici e pensavo che non avrei potuto fare oggi questi film perché i vecchi villaggi erano stati distrutti. Ed è allora che mi colpì quest’idea: il film doveva riguardare la loro protezione e, ovviamente, tutto falliva. Le maggiori influenze sono state Cannibal Ferox e Cannibal Holocaust e ho finito per usare una cover della musica di Donati per Cannibal Ferox sui titoli di coda del mio film. Al di là delle pellicole cannibaliche, quando faccio un film mi piace iniziare subito l’azione, qualche volta mi piace stuzzicare il pubblico. È ancora la lezione di Lenzi. C’è un divertimento nei suoi film che continua a ravvivarti ancora oggi, nessuno di loro sembra noioso o stantio nella percezione 460 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dello spettatore odierno, sono sempre accattivanti sin dalla prima inquadratura e l’azione inizia immediatamente, ti cattura subito. Anche in Il mistero della casa del tempo ho fatto una scena in cui gli automi prendono vita e, per quella, ho fatto ascoltare ai miei tecnici del suono il tema da brividi della Casa 3 come ispirazione. Quindi Lenzi mi ha influenzato persino nei miei film per ragazzini. Perché un tipo di cinema che era considerato di serie B in Italia ha poi trovato in registi di culto come lei o Quentin Tarantino dei sostenitori così appassionati? In America, i registi che sono davvero appassionati di film, specialmente quelli che sono cresciuti nei negozi di video, non hanno nel loro cuore i film classici italiani come punti di riferimento culturali. Per noi, sono film stranieri che hanno vinto un sacco di premi e che si suppone debbano essere venerati come capolavori. Alcuni di loro lo sono e altri, per noi, proprio non hanno alcun significato. Sono solo noiose pellicole in un’altra lingua. Non ne percepiamo il significato culturale, il sottotesto, personalmente non sappiamo niente degli attori – non ne siamo attaccati nel modo in cui lo sono gli italiani. Inoltre, dopo la seconda guerra mondiale, per l’Italia, iniziare improvvisamente a guidare il mondo del cinema, come avevano fatto l’America e la Francia, fu una cosa grossa, per cui ha senso il fatto che i critici tenessero questi autori in così grande considerazione. Comunque, i film che ci arrivavano, erano quelli di genere, anche se non erano venduti come film italiani. Erano pellicole d’azione. Si muovevano con un ritmo diverso. Erano molto più violenti. C’erano molto più sesso e nudità. Il gore era senza rivali. Quindi, per me, guardare un film dell’orrore italiano era come un film americano con gli steroidi. Ci sono voluti anni per capire che quelli erano film italiani, ma sapevamo che qualcosa di questi film era diverso. Abbinalo al fatto che i critici italiani li consideravano spazzatura, a un regista anticonformista e ribelle come Quentin, o a me stesso (visto che mi piace spingere sul pedale), ci ha fatto uscire allo scoperto, in maniera ancora più forte per difenderli. È stato dalla retrospettiva veneziana del 2004 sui B movie che l’Italia ha proclamato Leone come uno dei suoi maestri. Non sono passati neanche vent’anni. Io e Quentin abbiamo ripetutamente sottolineato ai critici che questi sono i film che contano ancora, quindi, quando li avete malamente liquidati, è stato un gesto snobistico e, forse, se li aveste sostenuti, avreste avuto lo stesso fiorente cinema di genere che facevate trent’anni fa. 461 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Oggi i ragazzini trovano Halloween di John Carpenter noioso e non molto pauroso, per quanto folle possa suonare. Un film che ha determinato la mia infanzia, semplicemente, non colpisce i ragazzini nel 2019. Ciononostante, se tu li metti di fronte a una pellicola cannibalica di Lenzi o a un film come Demoni, i ragazzini impazziscono. Sono ancora folli e scioccanti oggi come lo erano trentacinque anni fa. La critica ai tempi di Lenzi disprezzava i suoi film e quelli di tanti altri registi confinandoli in una serie B. Che cosa non aveva capito? I critici frequentemente usano i film per mostrare al mondo quanto buoni e virtuosi essi stessi siano. Spesso sentono che, se si divertono con un film di un certo tipo, la gente penserà che sta avallando la violenza che contiene e che loro stessi siano persone violente. La natura di molti di questi film è scioccare, provocare, e le persone non si sentono a proprio agio dichiarando pubblicamente che a loro sono piaciuti. Queste pellicole non sono per i critici, ma per gli appassionati. Combatto spesso con i critici in Italia e sostengo Bombolo, che io credo abbia avuto lo stesso impatto culturale di Mastroianni, se non di più. Se tu accendi la tv e vengono trasmessi Il Gattopardo o W la foca, quale dei due guarderanno le persone? Quasi ogni notte puoi accendere la tv e trovare un film con Bombolo o Alvaro Vitali o Lino Banfi. Vacanze di natale è un classico, ogni italiano oggi ancora conosce quel film, ma quanti adolescenti hanno visto Roma città aperta? Non sto dicendo che classici come questi non siano grandi opere, voglio solo dire che i critici non mettono valore nell’amore che le persone hanno per un film. Groucho Marx non è mai stato nominato per un Oscar ed è ancora, probabilmente, il personaggio più divertente che sia mai apparso sugli schermi. Porky’s non ha avuto candidature dall’Academy, ma ha cambiato il cinema e ancora oggi è citato. Per essere grandi bisogna essere incompresi. L’unico critico che conti è il tempo. Parte della cultura italiana vede oggi la rivalutazione di questo cinema come un trionfo del cattivo gusto e un segno della decadenza culturale del nostro tempo. Come considera critiche come queste da regista, cinefilo e dalla distanza dell’essere americano? Credo ci sia qualcosa di riflesso nei film che la gente ha difficoltà ad ammettere sia vero. Quando vedi Bombolo molestare una giovane infer462 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

miera, è divertente, ma mette anche a disagio, perché c’è qualcosa che gli italiani vedono nel personaggio che è un riflesso di loro stessi o di qualcuno che conoscono. I film sono ridicoli, ma c’è qualcosa di stranamente onesto in loro e questi sono aspetti che non si è orgogliosi di ammettere. Proprio adesso in America si può assistere al dibattito su Joker: è un successo senza precedenti e mette tutti a disagio perché è un film più vero di quanto chiunque voglia riconoscere e percepiamo quanto l’anarchia sia sotto la superficie della società. I critici si sentono la coscienza a posto sostenendo che è un bel film, ma non hanno mai lo stesso sentimento nei confronti di un horror puro. Non dipende da come funziona. Guarda a Lucio Fulci, solo alla fine della sua vita ha avuto credito e solo dagli appassionati del genere. Era troppo polemico nei confronti della chiesa cattolica per avere i critici dalla sua parte. Questo è un altro elemento che non possiamo trascurare: la religione. Questi film erano trasgressivi, violavano tutto ciò che è sacro e i critici dei giornali conservatori non potevano permettersi di approvare una simile condotta. Ci sono tutti questi fattori dentro le recensioni. Quanto deve Green Inferno al genere cannibalico italiano in generale e a Lenzi in particolare? Strutturalmente, per fare un film cannibalico mi sono dato dei punti fermi, delle regole, volevo aderire strettamente ad alcune convenzioni: doveva iniziare e finire a New York, doveva essere girato in un vero villaggio nella giungla e bisognava usare non attori, ma persone locali per gli abitanti del villaggio. Da Lenzi ho preso il punto della trama di una ragazza che sopravvive all’esperienza e mente su quanto accaduto per proteggere gli abitanti del villaggio, così come lo stile della musica, usando il tema di Cannibal Ferox nei titoli di coda. Sono sicuro ci siano altre cose, ma dovrei esaminare scena per scena i film di Lenzi per mostrarle, questi, invece, sono gli elementi che ricordo molto chiaramente di aver utilizzato. Il film aveva l’intenzione di scioccare il pubblico americano, ma anche fare un omaggio e rappresentare il mio enorme rispetto nei confronti di quello che gli italiani avevano fatto, portando nuovi spettatori a tornare indietro nel tempo, per scoprirli o rivederli, con rinnovato riguardo verso le loro straordinarie imprese cinematografiche. Sono soprattutto i giovani ad amare e riscoprire il cinema italiano degli anni ’70. Quanto conta lo spettacolo della violenza in questa fascinazione generaziona463 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le? Essa è molto presente anche nel suo cinema. Per quanto mi riguarda, non è importante essere violenti, quanto mantenere quello che prometti. Non tutti i film che faccio devono essere così violenti, ma mi piace il mio lato orrorifico. Ciò che trovo folle nel mondo di oggi è che è diventato più conservatore e politicamente corretto, mentre si vive in una quotidianità di sparatorie di massa ogni fine settimana. L’aspetto malato degli americani del 2019 è che, con tutti gli omicidi di massa che avvengono, siamo riusciti a vietare le cannucce di plastica. Viviamo in un tale mondo alla rovescia di pagliacci in cui uccidere persone nella vita reale è ok, ma pretendere di farlo in un film con il makeup è scioccante. Credo che in questi film italiani ci sia un tale vero grado di realtà da chiedersi come cazzo hanno fatto a fare certe cose, specialmente considerando che non c’erano gli effetti speciali del computer e sai che gli attori hanno davvero fatto un sacco di quelle cose che vedi. Anche se finzione, quella lì è una persona appesa, con quel caldo e quegli insetti nel trucco. Questi film sono ancora sentiti come fatti da dei pazzi. Guarda opere di Joe D’Amato come Emanuelle in America o Emanuelle e gli ultimi cannibali o Wild Beasts di Prosperi o Addio zio Tom di Jacopetti e Prosperi. Semplicemente non riesci a credere che esistano questi film. Per quanto scioccanti siano, le trovo straordinarie opere cinematografiche che oggi non si potrebbero mai fare. Da americano, che idea dell’Italia di quegli anni si è fatto guardando i film di Lenzi? Quale memoria lasciano? Me la fa sentire come se fosse il selvaggio west del cinema, nel miglior modo possibile. Le motociclette, i vestiti, le attrici sbalorditive, gli attori strepitosi. Avrei adorato viverlo in prima persona. Ho sempre sentito una strana profonda connessione con l’Italia e il cinema italiano. La mia attuale fidanzata è italiana e, quando vado lì, mi sento veramente a casa. Per tutti questi motivi, non mi sono mai sentito un americano in termini di sensibili artistica. C’è qualche film di Lenzi che le piacerebbe rifare? No, credo che siano quello che debbano essere e li lascerei così, senza toccarli. 464 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

So che ha avuto occasione d’incontrare Umberto Lenzi. Cosa gli direbbe oggi? Sono stato abbastanza fortunato da riuscire a incontrarlo e a dirgli chiaramente che genio pensavo fosse e quanto siano stati importanti i suoi film per me e per molti atri, ringraziandolo di averli fatti. Era una persona calorosa e gentile. Ero anche quasi riuscito ad avere Lenzi per la prima di Green Inferno, dove c’era anche Deodato a presenziare. Volevo ci fossero entrambi sul tappeto rosso, insieme a Sergio Martino. Desideravo tantissimo una foto con Lenzi e Deodato insieme, così avremmo potuto ridere della loro «rivalità», cosa su cui entrambi scherzavano quando sollevavo l’argomento. Spesso stuzzicavo Deodato, chiamandolo «Umberto» per sbaglio o «Maestro Lenzi», e lui stava al gioco. L’ho raccontato a Lenzi e lui ha amato questa cosa. Sfortunatamente Lenzi non stava bene la sera della prima, ma sono andato a trovarlo il giorno dopo a una tavola rotonda sul cinema di genere italiano al Roma Film Festival. Mi ha reso felice vedere critici e appassionati rivalutare le opere di questi maestri per quei film eccezionali che sono. Ciò che hanno raggiunto non è mai stato ripetuto.

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Filmografia completa a cura di Davide Magnisi185

Mia italida stin Ellada Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Tersicore Kolosoff, Umberto Lenzi. Fotografia: Giovanni Varriano. Montaggio: Tersicore Kolosoff, Umberto Lenzi. Musica: Kostas Kapnisis. Scenografia: Tasos Zografos. Costumi: Takis Mentzelopoulos. Interpreti: Wandisa Guida (Wandisa Vanzi) Andreas Barkoulis (Nikos Makrygiannis) Stavros Xenidis (Giorgos) Joli Garbi (Mrs. Mikrygianni) Tersicore Koloso (Anna) Mimis Fotopoulos (Konstadinos Makrygiannis). Produttore: Takis Mentzelopoulos. Produzione: Faros-Film. Grecia, 1958. Durata: 119’. Altri titoli: An Italian in Greece. TRAMA: Un ragazzo affascinante e benestante (grazie ai soldi del padre), sicuro di sé, frivolo seduttore di tutte le donne che desidera, s’innamora di una bellissima studentessa italiana che gli darà moltissimo filo da torcere.

Le avventure di Mary Read Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Ugo Guerra, Luciano Martino. Fotografia: Augusto Tiezzi. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Musica: Gino Filippini. Costumi: Walter Patriarca. Scenografia: Alfredo Montori. Interpreti: Lisa Gastoni (Mary Read), Jerome Courtland (Peter Goodwin), Germano Longo (Ivan), Walter Barnes (cap. Poof), Agostino Salvietti (“Mangiatrippa”), Edoardo Toniolo (lord Goodwin), Loris Gizzi (direttore carceri), Gianni Solaro (governatore della Florida), Eleonora Morana (miss Elizabeth), Gisella Arden (ballerina francese), Dina De Santis (damigella corteggiata da Peter), Tullio Altamura (don Pedro Alvarez), Anna Arena (signora ingioiellata Fonti: www.archiviodelcinemaitaliano.it, www.cinematografo.it, www.imdb.com, http://it.wikipedia.org, www.filmtv.it. 185

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sulla diligenza), Piero Pastore (maestro di cerimonia), Franco Jamonte [Franco Iamonte] (istruttore di cavalleria), Ignazio Balsamo (capitano della guardia), Gualtiero Isnenghi (capitano nave inglese), Giulio Battiferri (carceriere). Produttore: Fortunato Misiano. Produzione: Romana Film, S.N.C. – Société Nouvelle de Cinématographie. Distribuzione: Romana Film. Italia, 1961. Durata: 87’. Visto censura: 36127 del 21-11-1961. Altri titoli: Hell Below Deep, Mary La Rousse femme pirate, Piratenkapitän, Mary Hell Below Deck, Queen of the Seas, Sangue de Corsário. TRAMA: Nella Londra del ‘600 una donna, Mary Read, viene incarcerata per aver commesso un furto. Nella prigione dove viene portata, viene scambiata per un uomo e diventa compagna di cella di un certo Peter che è, in realtà, il figlio di Lord Goodwin. Mary se ne innamora, non sapendo che il giovane rampollo si trova in galera perché si è fatto arrestare per scommessa. La donna riesce a fuggire e, scoperta la vera identità di Peter, rimane addolorata per essere stata presa in giro da lui. Mary incontra il capitano Poof, un corsaro, e s’imbarca sulla sua nave come mozzo. Grazie alle imprese compiute in centinaia di arrembaggi, Mary s’impone rapidamente alla ciurma, tanto che, alla morte del capitano Poof, prende lei il comando della nave. Gli arrembaggi e le battaglie si succedono, finché l’Inghilterra decide di porre fine alla leggenda del Capitano Poof, di cui Mary ha preso anche il nome per conservarne il mito. Al comando dell’incrociatore britannico, che ha il compito di fermare per sempre le sue imprese piratesche, c’è Peter Goodwin, capitano fresco di nomina. Venuto a sapere chi si cela sul ponte della nave inglese, Mary organizza un’imboscata, in cui il capitano Goodwin cade come un novellino. I due s’incontrano, da soli, sulla nave della giovane, ancorata nelle acque davanti all’isola di San Salvador e Mary svela a Peter la verità. Alcuni marinai di Mary irrompono improvvisamente nella cabina e catturano Peter; la donna ordina allora di consegnare una spada al prigioniero e i due si battono a duello. Il violento scontro vede primeggiare l’uomo: Peter però risparmia Mary, della quale è ormai innamorato, e lei rinuncia alla vita piratesca per l’uomo che ama. Un anno dopo la vediamo, infatti, intrattenere gli ospiti nel palazzo del marito.

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Duello nella Sila Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Ugo Guerra, Luciano Martino. Fotografia: Augusto Tiezzi. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Musica: Gino Filippini. Costumi: Walter Patriarca. Scenografia: Peppino Piccolo. Interpreti: Fernando Lamas (Antonio Franco), Liana Orfei (Maruzza), Armand Mestral (Rocco Gravina), Lisa Gastoni (miss Parker), Vincenzo Musolino (Nilo), Gino Buzzanca (barone Carteri), Enzo Cerusico (gendarme), Daniela Igliozzi (Dina Franco), Franco Jamonte (sergente). Produttore: Fortunato Misiano. Produzione: Romana Film. Distribuzione: Romana Film. Italia, 1962. Durata: 85’. Visto censura: 37357 del 14-04-1962. Altri titoli: Einer gegen Sieben, Seul contre sept, Duelo a fuego, Duel of Fire. TRAMA: Lucania 1850. Rocco Gravina, individuo brutale e spietato, comanda una banda di briganti che opera in prossimità del paese di Lagonegro. Un giorno Rocco attacca una diligenza e, dopo aver derubato i passeggeri, uccide una giovane donna, Dina Franco. Il fratello di lui, Antonio, appreso quanto avvenuto, parte per Lagonegro, deciso a scoprire gli assassini e ucciderli. Incontra in un casolare una ragazza, Maruzza, e tramite lei riesce a raggiungere la banda. Antonio, celando la sua vera identità e i suoi scopi, ottiene facilmente di affiliarsi al gruppo di banditi. Avvalendosi dell’aiuto di una giornalista inglese, Miss Parker, venuta a intervistare per conto di un giornale il famoso brigante Gravina, tenta di scoprire i nomi degli assassini. Miss Parker viene uccisa da Rocco mentre sta per rivelare i nomi ad Antonio, il quale viene così scoperto nelle sue reali intenzioni. Nel corso di un drammatico processo, Antonio ottiene di potersi battere in duello d’onore con il capobanda. I due si chiudono in una baracca semibuia con una pistola ciascuno. Rocco spara per primo e riesce a ferire Antonio, ma questi ha la meglio e fredda il capobanda. Con vari stratagemmi, Antonio riesce a far fuori altri cinque briganti, ma viene a sua volta ucciso proditoriamente da Nilo, il quale si è fatto scudo del corpo di Maruzzo. Nilo a sua volta è ucciso dai gendarmi.

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Il trionfo di Robin Hood Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: dal romanzo Robin Hood di Alexandre Dumas. Sceneggiatura: Giancarlo Romitelli, Moraldo Rossi. Fotografia: Angelo Filippini. Musica: Aldo Piga. Montaggio: Nella Nannuzzi. Costumi: Giorgio Desideri. Scenografia: Giuseppe Ranieri. Interpreti: Don Burnett (Robin Hood), Gia Scala (Anna), Vincenzo Musolino (William Gamwell), Germano Longo (Alan Clare), Enrico Luzi (Scully), Arturo Dominici (Barone Elwin), Gaia Germani (Isabella), Daniela Igliozzi (Maddalena), Vinicio Sofia (Sir Tristan), Gianni Solaro (Sir Goodman), Giovanni Pazzafini (Pietro il Nero), Janez Vrhovec (John Lackland), Samson Burke (Little John) Gerard Philippe Noel (Re Riccardo). Produttore: Tiziano Longo. Produzione: Buona Vista Produzione Italiana Film. Distribuzione: Indipendenti Regionali. Visto censura: 38303 del 12-09-1962. Italia, 1962. Durata: 86’. Altri titoli: Le triomphe de Robin des Bois, Robin Hood, Der Löwe von Sherman, The Triumph of Robin Hood, El triunfo de Robin Hood.

TRAMA: Da anni Robin Hood, principe e fuorilegge, domina incontrastato signore di Sherwood. Alla morte di re Enrico, invano nasce la speranza di un’amnistia. Il malcontento serpeggia ovunque e di giorno in giorno le file della banda di Robin Hood contano nuovi arruolamenti. Fra i nuovi c’è Guglielmo il Rosso, ultimogenito di Sir Guido Gamwel, e Alan Clare, nobile decaduto e valente soldato. Dopo una serie di fortunati colpi di mano ai danni di Elwine di Notthigham, che ha vecchi conti da regolare anche con Alan e Guglielmo, oltre che con Robin Hood, quest’ultimo ormai in serie difficoltà per l’avvenuta alleanza di Elwine di Nottingham con il Conte Goodman e Sir Tristano di Galboroung (che aspira alla mano di Isabella, figlia di Elwine), vede rovesciarsi inaspettatamente la situazione in proprio favore. Riccardo Cuor di Leone, tornato dalla Terra Santa, assume il potere e marcia contro Elwine e Goodman, ribellatisi. Robin Hood corre in aiuto del suo re e ottiene, in compenso, l’amnistia generale per tutti, e per sé, il consenso alle nozze con Anna, la bella sorella di Alan Clare, il quale, a sua volta, sposerà la splendida contessina Isabella di Nottingham.

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Caterina di Russia Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi, Guido Malatesta. Fotografia: Augusto Tiezzi. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Costumi: Walter Patriarca. Scenografia: Peppino Piccolo. Interpreti: Hildegarde Kneff (granduchessa Caterina), Sergio Fantoni (Grigori Orloff), Giacomo Rossi Stuart (conte Poniatovski), Angela Cavo (Anna, cameriera), Ennio Balbo (conte Panin), Enzo Fiermonte (gen. Munich), Tina Lattanzi (zarina madre), Tullio Altamura (Ratuscev), Raoul Grassilli (granduca Pietro III), Leonardo Botta (Serghej Saltikov), Vera Besusso (contessa Lisa Vorozoff), Gianni Solaro (cap. Shwerig), Bernard Faber, Franco Jamonte (generale dei cosacchi), Romano Ghini (Alan Orloff), Luigi D’Acri, Janez Varocovec. Produttore: Fortunato e Nino Misiano. Produzione: Romana Film, S.N.C. – Société Nouvelle de Cinématographie, Paris, Dubrava Film, Zagreb. Distribuzione: Romana Film. Italia, 1963. Durata: 100’. Visto censura: 39239 del 29-12-1962. Altri titoli: Catherine de Russie, Katharina von Russland, Catalina de Rusia, Catherine of Russia. TRAMA: In una piazza di Pietroburgo la folla costringe la carrozza del granduchi Caterina e Pietro a fermarsi. Il capitano dei cosacchi Orlov, a cui Pietro ha ordinato di aprire il fuoco sulla folla, si oppone al pericoloso ordine e viene deportato in Siberia. Intanto a corte continua la vita frivola di sempre, caratterizzata dalle follie di Pietro, da poco eletto zar. Caterina, ossessionata dal contegno rozzo del marito, cerca rifugio in amori che si rivelano però insinceri, come nel caso del conte Poniatowsky, un nobile polacco, spia dei francesi. Orlov riesce a fuggire dalla Siberia e raggiunge Pietroburgo proprio mentre un ordine di Pietro costringe i reggimenti cosacchi a indossare divise tedesche. Orlov solleva le truppe. Scoppia un feroce scontro al termine del quale Orlov è nuovamente arrestato. A Caterina giunge notizia che Pietro ha ordinato di arrestarla e di sopprimerla. Caterina passa subito all’azione. Con uno stratagemma fa liberare Orlov e con lui, dopo avventurose peripezie, raggiunge i reggimenti cosacchi attestati nelle vicinanze della capitale. I cosacchi dichiarano deposto Pietro e proclamano zarina di tutte le Russie Caterina che, alla testa delle truppe, marcia contro l’esercito di Pietro. Pietro viene arrestato e Caterina, insieme al fido Orlov, 471 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rientra trionfalmente a Pietroburgo fra il tripudio della folla.

L’invincibile cavaliere mascherato Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Gino De Santis, Umberto Lenzi, Luciano Martino, Guido Malatesta. Fotografia: Augusto Tiezzi. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Scenografia: Peppino Piccolo. Costumi: Walter Patriarca. Interpreti: Pierre Brice (don Diego/capitano Naderos), Hélène Chanel (Carmencita), Daniele Vargas (don Luis), Aldo Bufi Landi (Francisco), Carlo Latimer (Tabuca), Gisella Arden (Maria), Massimo Serato (Rodrigo), Nerio Bernardi (don Gomez), Amedeo Trilli (mercante), Romano Ghini (Maurilio), Clara Bindi (moglie dell’appestato), Tullio Altamura (dott. Bernarius), Ignazio Balsamo (primo cittadino appestato), Giovanni Pazzafini [Nello Pazzafini] (Alonzo), Sina Relli (fanciulla rapita), Gino Marturano (Ortega), Gino Soldi (Miguel), Piero Pastore (fratello dell’appestato), Eleonora Morana (Rosaria), Salvatore Campochiaro (Alvarez), Attilio Torelli (oste), Guido Celano (dott. Aguilera). Produttore: Fortunato Misiano. Produzione: Romana Film. Distribuzione: Romana Film. Italia, 1963. Durata: 96’. Visto censura: 39859 del 21-03-1963. Altri titoli: L’invincible cavalier noir, The Invincible Masked Rider, Robin Hood in der Stadt des Todes. TRAMA: 1670. Una spaventosa epidemia di peste, scoppiata nel vicino Portogallo, raggiunge la contrada spagnola di Higuera, dominata dall’equivoca figura dell’Alcade Don Luis che, dopo aver ucciso il legittimo rappresentante del governo, per sfuggire al contagio, si chiude nel proprio castello. Fa la sua apparizione nel paese un misterioso cavaliere mascherato, che prende a proteggere i deboli dalle angherie dell’Alcade. Nello stesso tempo, giunge al castello, dopo anni di assenza, il figliastro di Don Luis, Diego, un giovane all’apparenza fatuo e codardo, al quale è stata destinata in sposa Carmencita, la figlia del legittimo rappresentante del governo, assassinato. Don Luis spera, mediante questo matrimonio, di appropriarsi delle ricchezze della giovane donna. Ma il cavaliere mascherato scompagina i piani di Don Luis e lo ucciderà in duello rivelandosi alla fine per un valoroso ufficiale spagnolo. 472 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Zorro contro Maciste Regia: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Guido Malatesta. Fotografia: Augusto Tiezzi. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Costumi: Walter Patriarca. Scene: Salvatore Giancotti. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Interpreti: Pierre Brice (Ramon/Zorro), Sergio Ciani [Alan Steel] (Maciste), Moira Orfei (Malva), Massimo Serato (Garcia de Higuera), Grazia Maria Spina (Isabella di Norvegia), Andrea Aureli (Rabek), Aldo Bufi Landi (Deikor), Andrea Scotti (Pedro), Loris Gizzi (don Alvarez), Rosy Di Leo (Carmencita), Attilio Dottesio (generale Savedra), Nazzareno Zamperla (Sadoch), Amedeo Trilli (oste), Ignazio Balsamo (Joaquim), Renato Malavasi (Alonzo), Antonio Corevi (don Manuel), Gianni Baghino (Paco, capitano delle guardie), Franco De Simone, Sira Relli, Gaetano Scala, Attilio Torelli. Produttore: Fortunato Misiano. Produzione: Romana Film. Distribuzione: Romana Film. Italia, 1963. Durata: 90’. Censura: 41021 del 20-08-1963. Altri titoli: Samson and the Slave Queen, Zorro Against Maciste, Maciste contre Zorro, Zorro gegen Maciste. TRAMA: Alla morte di Filippo II, re di Navarra, le principesse Malva e Isabella, sue nipoti, attendono di sapere quale di loro dovrà succedergli. Malva, crudele e ambiziosa, intuendo che la prescelta sarà Isabella, cerca di impossessarsi del testamento per sostituirlo con un altro a lei favorevole, e a questo scopo assolda Maciste, affidandogli l’incarico di impadronirsi del cofanetto che lo contiene. Dal canto suo, Isabella, intuendo la manovra della perfida cugina, assolda per lo stesso scopo Zorro. Dopo alterne vicende, il cofanetto passa nelle mani di Maciste, il quale, però, comprendendo che sta battendosi per una causa ingiusta, evita di consegnarlo a Malva. Isabella sale sul trono e, mentre Maciste parte per nuove avventure, Zorro sposa la nuova regina, poiché non è altri che il suo giovane innamorato.

Sandokan, la tigre di Mompracem Regia: Humbert Humphrey (Umberto Lenzi). Soggetto: dal romanzo Le tigri di Mompracem di Emilio Salgari. Sceneggiatura: Fulvio Gicca Palli, Um473 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

berto Lenzi. Fotografia: Giovanni Scarpellini, Angelo Lotti. Musica: Giovanni Fusco. Scenografia: Arrigo Equini. Costumi: Giancarlo Bartolini Salimbeni. Interpreti: Nazzareno Zamperla (Hirangu’), Gino Marturano (Kanandurian), Maurice Poli (Girobatol), Wilbert Bradley (Pataan), Enzo Fiermonte (Sergente Mitchell), Antonio Molino Rojo (Tenente Toymby), Ananda Kumar (Twang Long), Leo Anchóriz (Lord Guillonk), Mario Valdemarin (Tenente Ross), Piero Capanna, Giovanni Cianfriglia Steve Reeves (Sandokan), Geneviève Grad (Mary Ann), Andrea Bosic (Yanez), Rick Battaglia (Sambigliong). Produttore: Solly Bianco, Thomas Sagone. Produzione: Filmes (Roma), C.C.F. Production (Parigi). Ocean Film (Madrid). Distribuzione: Euro International Film. Italia, 1963. Durata: 95’. Altri titoli: Sandokan, le tigre de Bornéo, Sandokan, o Tigre da Malásia, Sandokán, elmagnífico, Sandokan the Great. TRAMA: Sandokan, con alcuni «tigrotti» e il fido Yanez, non riesce a liberare il padre prigioniero degli inglesi. Prende in ostaggio la nipote del governatore e tenta la pericolosa traversata della giungla. Un traditore aiuta gli inglesi, che riacciuffano i fuggitivi. Ma Sandokan e i suoi uomini ribaltano la situazione. Intanto anche la fanciulla si è innamorata di lui.

Sandok, il Maciste della giungla Regia: Humbert Humphrey (Umberto Lenzi). Soggetto e sceneggiatura: Fulvio Gicca Palli, Umberto Lenzi. Fotografia: Angelo Lotti. Musica: Georges Garvarentz. Costumi: Giancarlo Bartolini Salimbeni. Scenografia: Arrigo Equini. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Interpreti: Sean Flynn (ten. Richard Ramsey), Alessandra Panaro (Cynthia), Mimmo Palmara (Sandok), Arturo Dominici (Bramu, il gran sacerdote), Marie Versini (Dhara), Giacomo Rossi Stuart (capitano Willonghby). Produttore: Solly V. Bianco. Produzione: Filmes (1962), Capitole Films, Paris. Distribuzione: Indipendenti Regionali. Italia, 1964. Durata: 85’. Visto censura: 42577 del 26-03-1964. Altri titoli: Il tempio dell’elefante bianco, Le temple de l’éléphantblanc, Temple of the White Elephant, Im Tempel des weissen Elefanten. 474 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

TRAMA: In India, nel protettorato inglese del Sikkim, alcuni ribelli appartenenti alla setta dell’elefante bianco rapiscono Cinzia, figlia del Viceré, insieme al tenente Reginald Millimer. Il Governatore escogita un piano per salvare i due giovani e si serve del tenente dei lancieri Dick Ramsey. Costui, dopo essere stato degradato e rinchiuso in una fortezza allo scopo di ingannare i ribelli, viene fatto fuggire. L’inganno funziona e Dick, con l’aiuto della principessa Dahara, anch’ella alla ricerca del fratello e del suo fido Sandok, riesce a prendere contatto con i ribelli, smascherare il loro capo e liberare Cinzia e Reginald. Le truppe inglesi, sopraggiunte in tempo, distruggono il covo della setta e catturano i ribelli, mettendo fine alle loro violenze.

I tre sergenti del Bengala Regia: Umberto Lenzi [Humphrey Humbert]. Soggetto: dal romanzo Forte Madras di H. Humbert. Sceneggiatura: Fulvio Gicca, A. Catena. Fotografia: Federico Gutierrez Larraya, Angelo Lotti. Musica: Giovanni Fusco [John Wellman]. Scenografia: Arrigo Equini. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Interpreti: Richard Harrison (Frankie Ross), Wandisa Guida (Mary Stark), Ugo Sasso [Hugo Arden] (Burt Wallace), Nazzareno Zamperla [Nick Anderson] (John Foster), Andrea Bosic (col. Lee MacDonald), Luz Marquez (Helen), José Uria, Marco Tulli, Aldo Sambrell (Sikidama). Produttore: Jaime ComasGil, Thomas Sagone. Produzione: Filmes (1962), Fono Roma, Olympic P.C., Madrid. Distribuzione: Euro International Films. Italia, 1964. Durata: 90’. Visto censura: 44439 del 23-12-1964. Altri titoli: Tres sargentos bengalíes, Adventures of the Bengal Lancers, Die Drei Sergeanten von Bengali. TRAMA: Tre sergenti dell’esercito inglese di stanza in India, John Foster, Burt Wallace e Frankie Ross, trovandosi agli arresti per mancanze disciplinari, accettano di partecipare a una missione rischiosa in cambio della libertà. Si tratta di indagare sulla presenza di alcuni ribelli capeggiati da Sikidama e di scoprire l’entità dell’epidemia di tifo che ha isolato la guarnigione di Fort Madras dal resto del mondo. Durante il viaggio i tre vengono a scoprire che Sikidama è la stessa guida che li accompagna. Caduti nelle sue 475 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mani, sono aiutati da una giovane prigioniera del capo ribelle, Mary, e riescono a fuggire per poi cadere nuovamente prigionieri. In cambio della vita fingono di accettare la collaborazione con Sikidama nell’attacco di Fort Madras, che invece liberano sconfiggendo i ribelli e uccidendone il capo, dopo vari stratagemmi e movimentati scontri.

I pirati della Malesia Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Romanzo omonimo di Emilio Salgari. Sceneggiatura: Ugo Liberatore, Nino Stresa, Gérard Cohen. Fotografia: Angelo Lotti. Musica: Giovanni Fusco. Costumi Design: Giancarlo Bartolini Salimbeni. Scenografia: Arrigo Equini. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Interpreti: Steve Reeves (Sandokan), Jacqueline Sassard (principessa Hada), Mimmo Palmara (Tremal Naik), Andrea Bosic (Yanez), Nando Gazzolo (ten. Clinton), Pierre Cressoy (capitano nave Young India), Leo Anchóriz (lord Brook), Giuseppe Addobbati (Muda Hassin), Dakar [Alejandro Barrera] (Kammamuri), Rick Battaglia (Sambigliong), Franco Balducci, Nando Angelini, Nazzareno Zamperla. Produttore: Solly V. Bianco. Produzione: Euro International Films, Filmes (1962), Ocean Films, Madrid, Films Sirius, Paris. Distribuzione: Euro International Films. Italia, 1964. Durata: 110’. Visto censura: 43994 del 14-10-1964. Altri titoli: Los piratas de Malasia, Sandokan the Great, Sandokan, the Tiger of Mompracem, Lespirates de Malaisie. TRAMA: A Sarawak, occupata dagli inglesi, domina Lord Brooke che, spodestato e imprigionato il rajah Mura Hassin, gli si è sostituito come sovrano del paese. Però Ada, la figlia di Hassin, è sfuggita alla cattura, imbarcandosi su un mercantile olandese che, al largo, viene abbordato dalla nave pirata di Sandokan. Dopo un breve assalto, i pirati hanno la meglio e Sandokan conosce dalla diretta testimonianza di Ada le dolorose vicende di Sarawak e di Mura Hassin. La decisione non si fa attendere: i pirati della Malesia si batteranno par cacciare l’usurpatore. Penetrati audacemente nella stessa fortezza inglese sono però tutti catturati e soltanto l’intervento di Ada, che promette di persuadere il padre ad abdicare li salva dalla morte. Imbarcati su una nave di galeotti e avviati ai lavori forzati, Sandokan e i suoi compa476 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gni durante il viaggio riescono ad organizzare una rivolta. Sopraffatto l’equipaggio, si dirigono a Sarawak, dove apprendono che Ada e il padre sono stati trasferiti in un monastero considerato praticamente inaccessibile. Ma Sandokan riesce a penetrare nel monastero e dà via libera ai suoi. Nella battaglia con gli inglesi, i pirati hanno la meglio. Lord Brooke, in duello con Sandokan, precipita dall’alto della rupe su cui è poggiato il monastero. Mura Hassin e Ada riprendono la sovranità su Sarawak.

L’ultimo gladiatore Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Giampaolo Callegari, Albert Valentin. Fotografia: Pier Ludovico Pavoni. Musica: Carlo Franci. Costumi: Mario Giorsi. Scenografia: Pier Vittorio Marchi. Montaggio: Nella Nannuzzi. Interpreti: Richard Harrison (Naor), Lisa Gastoni (Massalina), Marilù Tolo, Jean Claudio, Livio Lorenzon, Philippe Hersent. Produttore: Alfonso Sansone. Produzione: Prometeo Film, Films Jacques Leitienne, Paris, Unicité, Paris. Distribuzione: Indipendenti Regionali. Italia, 1964. Durata: 90’. Visto censura: 42874 del 02-05-1964. Altri titoli: Hercule contre les mercenaires, Messalina vs the Son of Hercules, Der Letzte der Gladiatoren. TRAMA: Stanchi dei soprusi di Caligola, Messalina e il tribuno Cassio Cherea complottano segretamente. L’imperatore ha intanto notato uno schiavo fortissimo, Naor, e lo fa diventare gladiatore. Naor è invincibile, ma si rifiuta di uccidere i gladiatori ormai disarmati. Ciò irrita Caligola che decide di far uccidere Naor, il quale, però, riesce a fuggire con un gruppo di schiavi. Caligola insegue i fuggitivi, ma viene pugnalato da Cherea. Messalina può quindi far nominare imperatore il marito Claudio, suscitando lo sdegno di Cherea che minaccia di presentarsi in senato per far valere le sue ragioni. Il tribuno viene però fatto morire da Messalina, che costringe Naor a divenire la sua guardia del corpo, dandogli subito l’incarico di assassinare un suo nemico. Naor si rifiuta e Messalina decide di vendicarsi facendo colpire il gladiatore durante una festa. Ma nel mezzo dell’intrattenimento arriva Claudio con l’ordine di arrestare Messalina, la quale si avvelena. Naor è quindi libero di tornare in patria con la sua donna. 477 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

La montagna di luce Regia: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Fulvio Gicca Palli. Fotografia: Angelo Lotti. Musica: Francesco De Masi. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Costumi: Nadia Vitali. Scenografia: Arrigo Equini. Interpreti: Richard Harrison (Allan), Wilbert Bradley (Sitama, il fachiro), Luciana Gilli (Lilamani), Daniele Vargas (Sirdar, il rajah), Nerio Bernardi (Grande Bramino della Pagoda), Andrea Scotti (servitore del rajah), Nazzareno Zamperla (complice di Sitama), Dakar (altro complice di Sitama). Produttore: Solly V. Bianco. Produzione: Filmes (1962). Distribuzione: Indipendenti Regionali. Italia, 1965. Durata: 90’. Visto censura: 44418 del 23-12-1964. Altri titoli: L’homme du Bengale, Jungle Adventurer, Temple of a Thousand Lights, El diamante más grande del mundo. TRAMA: Il rajah di Punjab, deciso a entrare in possesso del favoloso diamante «la montagna di luce», che brilla sulla fronte d’una venerata statua, induce un avventuriero, Allan Foster, a compiere il furto. Allan, insieme con un imbroglione indiano, Sitama, riesce con un ingegnoso piano a impadronirsi del grosso diamante. Non intende però dividere con altri il bottino e fugge verso il protettorato inglese, grazie anche all’aiuto di una baiadera innamorata di lui. Sitama e il rajah lo inseguono e lo catturano sul confine. Ancora una volta Allan ha la meglio e, fingendo di restituire il diamante al tempio, storna i sospetti di Sitama e del rajah. In verità, egli ha restituito soltanto una copia della «montagna di luce». L’originale finirà poi sulla corona della regina.

A 008: operazione Sterminio Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Umberto Lenzi [Humphrey Humbert], Wallace Mackentzy. Fotografia: Augusto Tiezzi. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Montaggio: Jolanda Benvenuti.Costumi: Walter Patriarca. Scenografia: Peppino Piccolo. Interpreti: Ingrid Schoeller (MacDonald, agente A 008), Alberto Lupo (Frank, agente 606/agente Ivanov), Dina De Santis (direttrice istituto di bellezza Char478 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mant), Ivano Staccioli [John Heston] (Kemp), Salvatore Borgese [Mark Trevor] (monco), Omar El Hariri (Yussuf, capitano di polizia), George Wang (Tanaka), Edoardo Toniolo (mister X), Nando Angelini (tenente americano al bowling), Domenico Ravenna [Johnny Ravenna] (Heinz), Fortunato Arena [Lucky Arena] (sfregiato), Ahmed Luxor, Omar Targoman. Produttore: Fortunato Misiano. Produzione: Romana Film, Copro Film, Il Cairo. Distribuzione: Romana Film. Italia, 1965. Durata: 95’. Visto censura: 45554 del 21-08-1965. Altri titoli: Suspense au Caire pour 008, Heisse Grüsse vom C.I.A., Operación Exterminio, 008: Operation Exteminate. TRAMA: Il Servizio Segreto Britannico invia al Cairo l’agente 606, che dovrà collaborare con un collega americano alla ricerca di una misteriosa invenzione: l’antiradar. Giunto sul posto, l’agente prende contatto con il collega A 008, un’avvenente ragazza, e insieme sventano i numerosi tentativi della banda di un certo Kemp tendenti a eliminarli. Dopo aver individuato e distrutto l’antiradar, i due agenti si trasferiscono in Svizzera, alla ricerca dello scienziato inventore e dei disegni tuttora in sua mano. Ma anche a Zermatt vengono preceduti da Kemp che, questa volta, riescono a sopprimere. A questo punto, in possesso dei piani dello strumento, 606 svela la sua identità: è un agente russo che ha eliminato e sostituito l’incaricato inglese. Ma la bionda A 008, che aveva intuito l’inganno, immobilizza il finto collega e lo costringe a partire per la Siberia.

Superseven chiama Cairo Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: H. Humbert, dal racconto S7 Calling Cairo. Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Piero Pierotti. Fotografia: Augusto Tiezzi. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Costumi: Walter Patriarca. Scenografia: Pier Vittorio Marchi. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Interpreti: Roger Browne (Superseven), Fabienne Dali (Denise), Massimo Serato (Alex), Antonio Gradoli [Anthony Gradwell] (Jussef), Andrea Aureli [Andrew Ray] (Levantino), Dina De Santis (Tania), Rosalba Neri (Faddja), Stella Monclar (Nietta), Mino Doro (professore), Franco Castellani (I’ispettore Stugel), Nando Angelini (tecnico della radioattività), Emilio Messina (Nickols), Paolo Bonacelli (capitano Hume), Francesco De Leone (prof. Gabin), Claudio 479 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Biava (Hans), Wilbert Bradley, Enzo Maggio, Sandro Pellegrini, Gaetano Quartararo, Piera Clerici, Dominico Calderone. Italia, 1965. Durata: 95’. Produttore: Fortunato Misiano. Produzione: Romana Film, Prodex, Paris. Distribuzione: Indipendenti Regionali. Visto censura: 46216 del 24-12-1965. Altri titoli: Super 7 appelle le Sphinx, Höllenhunde des Secret Service, Supersiete llama al Cairo, SuperSeven Calling Cairo. TRAMA: In un laboratorio di Liverpool viene trafugato il primo campione di un nuovo preparato metallico radioattivo, il baltonio che, inserito nell’obiettivo di una cinepresa, viene spedito al Cairo con altro materiale fotografico. L’agente britannico Superseven, recatosi al Cairo, si vede costretto a inseguire un ignoto turista al quale erroneamente è stata venduta la cinepresa; e per rendere più facile l’individuazione, si fa accompagnare da Denise, la graziosa commessa del negozio ove è stato fatto l’acquisto. Ma la preziosa cinepresa è ricercata anche da Alex, capo di una banda internazionale, che vuole vendere il baltonio a una potenza straniera. L’inseguimento conduce tutti gli interessati in Svizzera prima, a Roma poi, dove Superseven s’impadronisce del conteso obiettivo e scopre che Denise è, in realtà, un’agente di Alex. Catturato insieme a Faddja, una sua giovane amica che ha tentato di salvarlo dalla insidie di Denise, Superseven riesce a segnalare la sua posizione alla centrale londinese, che può così liberarli proprio nel momento più critico.

Kriminal Regia, soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi. Fotografia: Angelo Lotti, Jorge Herrero. Musica: Raymond Full. Montaggio: Jolanda Benvenuti, Antonio Gimeno. Scenografia: Giuseppe Bassan. Interpreti: Glenn Saxon (Kriminal), Helga Liné (Inge/Trude), Andrea Bosic (ispettore Milton), Ivano Staccioli (Alex Lafont), Esmeralda Ruspoli (Lady Gold), Dante Posani (Frank), Franco Fantasia (Mourad, commissario turco), Rossella Bergamonti (miss Dickinson), Mary Arden (Gloria Farr), Susan Baker (Margie Swan), Armando Calvo (Kandur), John Stacy (sir Winston), Consalvo Dell’Arti (commissario Maigresse), Fulvio Mingozzi (funzionario all’esecuzione), Mirella Pompili [Mirella Pamphili]. 480 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Italia, 1966. Durata: 98’. Produttore: Giancarlo Marchetti, Claudio Teramo. Produzione: Filmes Cinematografica, Coop. Copercines, Madrid, Estela Films, Madrid. Distribuzione: Titanus. Visto censura: 48324 del 22-12-1966. Altri titoli: La máscara de Kriminal. TRAMA: Il bandito Kriminal evade dalla prigione di Londra pochi istanti prima di essere impiccato e si rifugia nella casa della sua ex moglie Margie. Costei, che attualmente è la segretaria di lady Gold, proprietaria di una compagnia di importazione ed esportazione di pietre preziose, gli confida che l’indomani sarà effettuata la spedizione in Turchia di una grossa quantità di diamanti. Deciso a effettuare il colpo, Kriminal si reca all’aeroporto, ma scopre con disappunto che lady Gold si è servita per il trasporto dei preziosi di due gemelle. Kriminal riesce a strappare a una delle due sorelle la borsetta, che risulta però vuota, mentre l’altra ragazza parte indisturbata alla volta di Istanbul. Il giorno dopo, Kriminal apprende dai giornali che gli assicuratori hanno pagato a lady Gold un milione di sterline per il furto dei diamanti e sospetta che la donna, approfittando del colpo che egli ha fallito, abbia pensato di truffare gli assicuratori. Avvicinata lady Gold, Kriminal riesce a scoprire che, in realtà, i gioielli sono in possesso di Inge, la gemella alla quale i diamanti erano stati affidati e che si era eclissata subito dopo il tentato furto ai danni della sorella. Rintracciata Inge, Kriminal riesce a impadronirsi dei gioielli, sbarazzandosi dei complici della donna. Inseguito dalla polizia, riesce a far perdere le sue tracce, smarrendo, però, durante la fuga, il frutto del suo colpo.

Un milione di dollari per sette assassini Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Gianfranco Clerici. Sceneggiatura: Gianfranco Clerici, Umberto Lenzi. Fotografia: Augusto Tiezzi. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Costumi: Walter Patriarca. Scene: Pier Vittorio Marchi. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Interpreti: Roger Browne (Michael King), José Greci (Helen Gordon), Antonio Gradoli [Anthony Gradwell] (Paulus), Monica Pardo (Lilli), Tullio Altamura [Tor Altmayer] (antiquario Figuerez), Dina De Santis (Betty), Salvatore Borgese [Mark Trevor], Valentino Macchi (sergente polizia), Giovanni Pazzafini 481 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

[Red Carter] (Bruto), Dakar (Also), Wilbert Bradley (Doney), Renato Montalbano, Francesco De Leone, Ivan Basta, Carlo Hintermann (mr. Manfred Simpson), Erika Blanc (Anna Simpson), Salvatore Borgese (Tatò), Arturo Dominici (commissario), Mimmo Poli (uomo grasso nella sauna). Italia, 1966. Durata: 93’. Produttore: Fortunato Misiano. Produzione: Romana Film. Distribuzione: Romana Film. Visto censura: 48045 del 27-10-1966. Altri titoli: King hetzt 7 Killer, 1.000.000 de dollars pour 7 assassinats, Un millón de dólares por siete asesinos, Last Man to Kill. TRAMA: Il ricchissimo banchiere Simpson, non volendo rivolgersi alla polizia per evitare ripercussioni nel mondo economico, rintraccia un tale Michael King e lo incarica di trovare il figlio Martin, notissimo fisico nucleare, scomparso misteriosamente con la formula segreta da lui stesso scoperta. King, appena iniziate le indagini fra la malavita egiziana, scopre il cadavere di Martin in un cimitero. Mister Simpson, con l’offerta di un compenso di centomila dollari, lo invita a vendicare il figlio, eliminando tutti i componenti della banda che lo ha assassinato. King accetta, mettendosi prontamente all’opera e scopre che le mosse dei criminali sono guidate da un misterioso mister Genio e sospetta che tale ambiguo personaggio sia lo stesso mandante della sua vendetta. Ma mister Genio è, invece, una insospettabile signora; eliminata questa e Simpson, che era un suo complice, King ritorna alla centrale di polizia dalla quale era stato incaricato di ritrovare la formula segreta.

Le spie amano i fiori Regia, soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi. Fotografia: Augusto Tiezzi. Musica: Angelo Francesco Lavagnino, Armando Trovajoli. Costumi: Walter Patriarca. Scenografia: Pier Vittorio Marchi. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Interpreti: Roger Browne (Martin Stevens), Emma Danieli (Geneviève), Daniele Vargas (Harriman), Yoko Tani (Mei Lang), Marino Masè (Dick), Salvatore Borgese [Mark Trevor] (sordo), Fernando Cebrian (Ahmed), Tullio Altamura, Giovanna Lenzi, Pilar Clemens, Bruno Ukmar, Burt Jackson, Claudio Biava, Attilio Dottesio, Gaetano Quartararo, Franco Castellani, il com482 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

plesso The Ninis. Italia, 1966. Durata: 93’ Produttore: Nino Misiano. Produzione: Romana Film, Leda Films, Madrid. Distribuzione: Romana Film. Visto censura: 47471 del 05-08-1966. Altri titoli: Des fleurs pour un espion, El gran Dragon, espía invisible, Die Höllenkatze des Kong-Fu, The Spy Who Loved Flowers. TRAMA: L’agente segreto britannico Martin Stevens ha espletato un difficile incarico, recuperando in quarantotto ore un congegno elettronico di nuova invenzione – l’elettroscometro gamma – trafugato nei laboratori di Londra. Il suo diretto superiore alla sezione del controspionaggio, mister Harriman, lo incarica di completare la missione eliminando tre individui facenti parte dell’organizzazione internazionale che ha operato il furto del congegno. Martin, accettato l’incarico di malavoglia, giunge a Parigi e uccide il primo avversario, ma con stupore si accorge che costui è stato preavvisato e per poco non l’ha prevenuto. Anche il secondo bandito, un nero rifugiato a Ginevra, chiaramente a conoscenza della missione di Martin, viene eliminato e Martin si rende conto che qualcuno ha invertito il suo ruolo nella missione: da esecutore a vittima. Successivamente, in un negozio di fiori, ad Atene, Martin, con la collaborazione di una fotografa francese, Genevieve, mette in opera un trucco ingegnoso nei confronti del terzo bandito da eliminare e riesce a scoprire che il proprio capo, mister Harriman, è un traditore. Costui, avendo organizzato il furto dell’elettroscometro gamma per conto di una potenza straniera, ha in effetti inviato Martin alla morte, assoldando tre killer con la speranza di disfarsi del subordinato e di poter tranquillamente disporre dell’invenzione. Nonostante tutto, Martin sventa i piani del capo e, avvalendosi della simpatia che ha suscitato in una cinese, Mei-Lang, stermina gli avversari e recupera definitivamente l’elettroscometro.

Attentato ai tre grandi Regia, soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi. Fotografia: Carlo Carlini. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Costumi: Itala Scandariato. Scenografia: Nicola Tamburro. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Ken Clark (Schoeller), Horst Frank (Wolff), Jeanne Valérie (Faddja), 483 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Carlo Hintermann (Huber), Renato Rossini [Howard Ross] (Meiiz), Franco Fantasia (Dalio), Hardy Reichelt (Ludwig), Fabienne Dali (Simone), Tom Felleghi (col. Ross), John Stacy, Giovanni Scratuglia [Ivan G. Scratuglia], Gianni Rizzo (Perrier). Italia, Fancia, Germania Ovest, 1967. Durata: 96’. Produttore: Alberto Grimaldi. Produzione: P.E.A. – Produzioni Europee Associate di Grimaldi Maria Rosa, Constantin Film, München, Films E.G.E., Paris. Distribuzione: P.E.A. Visto censura: 49741 del 30-08-1967. Altri titoli: Les chiens verts du désert, Fünf gegen Casablanca, Desert Commandos. TRAMA: Gennaio 1943. A Berlino, un generale concepisce un piano pazzesco: uccidere i «Grandi» durante il Convegno di Casablanca, per gettare lo scompiglio tra gli alleati e capovolgere le sorti della guerra. Vengono scelti all’uopo cinque uomini ardimentosi della Wermacht, ma il drappello, paracadutato nel deserto, si assottiglia durante l’infida marcia. I tre superstiti saranno traditi da una giovane araba e il piano andrà a monte. Uno solo sopravviverà, cedendo alla ragione.

Una pistola per cento bare Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Eduardo Manzanos. Sceneggiatura: Marco Leto, Umberto Lenzi. Fotografia: Alejandro Ulloa. Musica: Angelo Francesco Lavagnino. Costumi: Walter Patriarca. Scenografia: Saverio D’Eugenio. Montaggio: Daniele Alabiso Interpreti: Peter Lee Lawrence (Jimmy Slade), John Ireland (Douglas, il predicatore), Piero Lulli (Corbett), Andrea Scotti (fabbro), Franco Pesce (Ben, il vecchio becchino), Gloria Osuña (Marjorie), Calisto Calisti (Cassidy), Raffaele Baldassarre [Raf Baldassarre] (bandito messicano), Francesco Narducci (sindaco di Galveston), Giovanni Scratuglia [Ivan G. Scratuglia], Paola Natale (segretaria dell’hotel), Giovanni Petti, Francisco Braña (direttore della banca di Galveston), Luis De Tejada (Barret), Eduardo Fajardo (Chavel, il pazzo con la scure), José Jaspe (pazzo in galera), Consalvo Dell’Arti (giudice Jefferson). Italia, Spagna, 1968. Durata: 83’. Produttore: Averroè Stefani. Produzione: Tritone Filmindustria Roma, Coop. Copercines, Madrid. Distribuzione: P.E.A. 484 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Visto censura: 52185 del 24-08-1968. Altri titoli: El sabor del odio, La malle de San Antonio, Pistol for a Hundred Coffins, Ein Colt für 100 Särge. TRAMA: Il soldato Jim Slade si rifiuta, come testimone di Geova, di usare le armi ed è perciò condannato a due anni di lavori forzati. Graziato, ma radiato dal Reggimento, decide di tornare dalla sua famiglia a Tucson. Al suo arrivo, Jim scopre che i suoi genitori sono stati assassinati e l’amico Kassidy gli rivela che i colpevoli sono Jeff Logan, i fratelli Tony, Freddy Butcher e Corbett il texano. Appreso rapidamente e con successo l’uso della pistola, Jim comincia una spietata caccia agli assassini.

Tutto per tutto Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Nino Stresa, Eduardo Maria Brochero. Sceneggiatura: Eduardo Maria Brochero. Fotografia: Alejandro Ulloa. Musica: Marcello Giombini. Costumi: Maria Luisa Panaro. Scenografia: Jaime Perez Cubero, José Luis Galicia. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Mark Damon (Johnny), John Ireland («Gufo»), Fernando Sancho (Carrancha), Eduardo Fajardo, Monica Randall, José Torres, Raffaele Baldassarre [Raf Baldassarre], Calisto Calisti, Liz Halvorsen, Franco Gulà, Claudio Scarchilli, Giovanni Scratuglia [Ivan G. Scratuglia], Giovanni Petti, Armando Calvo Italia, 1968. Durata: 84’. Produttore: Eduordo Manzanos. Produzione: P.E.A. – Produzioni Europee Associate di Grimaldi Maria Rosa, Estela Films, Madrid. Distribuzione: P.E.A. Visto censura: 51117 del 22-03-1968. Altri titoli: La hora del coraje, Gringo joue et gagne, Copper Face, One for All, Go for Broke, All Out. TRAMA: Ai confini tra il Texas e il Messico ai tempi dei cavalli e delle diligenze, le cassette piene di lingotti d’oro erano piuttosto ricercate e passavano con facilità da una mano all’altra. È quello che capita a 200 mila dollari della banca locale rapinati e nascosti. Da quando un indios, «faccia di rame», ne rivela il nascondiglio, quei lingotti fanno gola a molti: a Carranza e alla sua banda di messicani, a Johnny, un giovane in cerca di avventura, a 485 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

qualche altro, ma soprattutto al «Gufo», un vecchio cow-boy (ha cinquant’anni e lo dice) che li vuole tutti, senza spartire con nessuno. Le sue buone ragioni le ha: infatti vuole quei lingotti per motivazioni ideali, per scagionare, cioè, suo fratello dall’ingiusta accusa di furto. Il film sembra iniziare ogni volta che una di quelle cassette entra in possesso di qualcuno, perché, lo sappiamo, ci resterà poco. Alla fine i legittimi forzieri della banca si apriranno su quel ben di Dio.

Orgasmo Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Marie Claire Solleville, Ugo Moretti, Umberto Lenzi. Fotografia: Guglielmo Mancori. Musica: Piero Umiliani. Costumi: Gianna Pancani. Scenografaa: Giorgio Bertolini. Montaggio: Enzo Alabiso. Interpret: Carroll Baker (Catherine West), Lou Castel (Peter), Colette Descombes (Eva), Lilla Brignone (Teresa, la domestica), Tino Carraro (Brian Sanders), Franco Pesce (Martino), Tina Lattanzi (zia di Cathenne), Jacques Stany (ispettore polizia), Sara Simoni, Gaetano Imbrò, Calisto Calisti, Alberto Cocchi, Maria Rosiello. Itlaia, Francia, 1969. Durata: 91’. Produttore: Salvatore Alabiso. Produzione: Tritone Filmindustria Roma, S.N.C. – Société Nouvelle de Cinématographie, Paris. Distribuzione: Titanus. Visto censura: 53178 del 29-01-1969. VM 18. Altri titoli: Une folle envie d’aimer, Paranoia, Orgasm. TRAMA: Una giovane vedova del bel mondo newyorkese se ne viene a Roma per riposarsi dallo stress della morte accidentale dell’anziano marito. È d’obbligo la bella villa sull’Appia Antica e la governante burbera. Chi pensa a tutto è il solerte avvocato O’Brien che, tra un volo e l’altro tra Roma e New York, fa firmare a Catherine un mucchio di scartoffie relative alla complicata eredità del marito. Nel frattempo, si installano in villa due cinici ragazzi, Peter e Eva, che si dicono fratelli, sono invece fratellastri e giacciono more uxorio, coinvolgendo presto la povera Catherine in un ménage a trois dove whisky e pillole varie la fanno da padroni, insieme a un morboso erotismo. Ben presto la bella vedova è succuba dei due che fanno di lei quello che vogliono, spingendola, alla fine, al suicidio. Ecco allora il colpo di sce486 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

na, e il terzetto O’Brien-Peter-Eva se ne va a Londra a riscuotere l’eredità, ma il delitto non paga.

La legione dei dannati Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Stefano Rolla, Romano Moschini. Sceneggiatura: Dario Argento, Rolf Grieminger, Eduardo Maria Brochero. Fotografia: Alejandro Ulloa. Musica: Marcello Giombini. Costumi: Luciano Sagoni. Scenografia: Jaime Perez Cubero. Montaggio: Giese Rohm. Interpreti: Jaek Palance (col. Anderson), Thomas Hunter (Burke), Claudio Undari [Robert Hundar] (Raymond Stone), Wolfgang Preiss (col. Ackermann), Diana Lorys (Jeanine), Franco Fantasia (Schiwers), Gerhard Herter (col. Hapke), Helmut Sehneider (Scheerer), Guido Lollobrigida [Lee Burton] (Carlyle), Aldo Sanbrell (Rabindra), Mirko Ellis (maggiore Adler), Bruno Corazzari (Frank Madigan), Molino Rojo, Lorenzo Robledo (Louis), Curd Jürgens (gen. von Rylov), Miguel S. Del Castillo (Pierre). Italia, Spagna, Germania Ovest, 1969. Durata: 93’. Produttore: Bruno Bolognesi. Produzione: Tritone Filmindustria Roma, Eguiluz Films, Madrid, Hape Film, München. Distribuzione: Titanus. Visto censura: 54301 del 08-08-1969. Altri titoli: La brigada de los condenados, La légion des damnés, Die zum Teufel gehen, Battle of the Commandos. TRAMA: Nel mese di giugno 1944, gli angloamericani hanno messo a punto i piani dello sbarco in Normandia. Tra le varie azioni di «commando», un particolare rilievo assume la missione del colonnello britannico Henderson: costui dovrà guidare un gruppo di sommozzatori lungo la Normandia, con il compito di sminare un tratto di mare lungo la costa e assicurare lo sbarco di sabotatori alleati che, a loro volta, dovranno eseguire la missione di far saltare un cannone a lunga gittata piazzato sulla costa di Angò. L’impresa di Henderson ha successo, ma i «commando» che si apprestano a emergere sulla terraferma vengono eliminati da un guardiacoste tedesco. Al colonnello Henderson non resta che assumersi il compito di far saltare egli stesso il cannone. Nonostante il suo gruppo non sia attrezzato per imprese del genere, tuttavia egli agisce con audacia e decisione e riesce a evitare la caccia dell’ufficiale tedesco della zona, il comandante Ackerman, e a 487 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

far rifornimento di detonatori ed esplosivi. Poi, avvalendosi delle informazioni di una giovane francese, Jeanine, raggiunge la base di Angò. Nel frattempo i tedeschi, avvertendo il pericolo, si apprestano a spostare il cannone in una zona più sicura, ma Henderson e il suo gruppo fanno in tempo a far saltare il cannone. Sarà l’intervento di alcuni gruppi di partigiani che permetteranno a Henderson e ai suoi uomini di mettersi in salvo, proprio mentre inizia l’invasione alleata del continente.

Così dolce... così perversa Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Luciano Martino. Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi. Fotografia: Guglielmo Mancori [Memmo Mancori]. Musica: Riz Ortolani. Costumi: Franco Moitana Scenografia: Franco Bottari. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Carroll Baker (Nicole Perrier), Jean-Louis Trintignant (Jean Reynaud), Erika Blanc (Danielle), Horst Frank (Klaus), Helga Liné (Hélène Valmont), Ermelinda De Felice (proprietaria albergo), Gianni Di Benedetto (mister Valmont), Irio Fantini (invitato al party), Marcello Bonini Olas (invitato al party), Gianni Pulone (invitato al party), Lucio Rama (invitato al party), Luca Sportelli (invitato al party), Dario Michaelis (commissario polizia), Renato Pinciroli (portinaio), Beryl Cunningham (indossatrice di colore), Paola Scalzi (amica di Hélène), François Flangé. Italia, Francia, 1969. Durata: 92’. Produttore: Mino Loy, Luciano Martino. Produzione: Flora Film, Tritone Filmindustria Roma, Zenith Cinematografica, CEDIC, Paris, Rapid Film, München. Distribuzione: Variety Film. Visto censura: 54831 del 22-12-1969. VM 14. Altri titoli: Si douces, si perverses, Así de dulce, así de maravillosa, So Sweet… So perverse. TRAMA: Jean, giovane industriale chimico, sposato con Danielle, conosce Nicole, una bella ragazza che è venuta ad abitare sopra di lui, e la corteggia. Essa è perseguitata da un uomo selvaggio, Klaus, dal quale non riesce a liberarsi: solo l’affetto che Jean le offre sembra renderla più serena mentre destabilizza stranamente Danielle, che ormai è abituata alla vita del marito. Gli incontri fra Jean e Nicole, però, vengono turbati dai misteriosi interventi di Klaus. Un giorno Danielle accorre nell’appartamento di sopra, chiamata 488 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

da alcune grida: trova Jean e Klaus in una lotta, alla fine della quale Jean soccombe sotto i colpi di coltello di Klaus, che carica il corpo del giovane sull’automobile e lo fa precipitare in una scarpata dove un incendio distrugge ogni cosa. I tre avevano progettato il delitto dietro suggerimento di Danielle che, però, viene presa dalla disperazione, sia per i rimorsi sia perché Klaus e Nicole, impossessatisi della maggior parte delle azioni dell’industria di Jean, fanno credere alla donna che il marito sia forse ancora vivo. Raggiunta Danielle nel suo appartamento, Klaus uccide la donna, quindi parte con Nicole in aereo per Rio.

Paranoia Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Marcello Coscia, Rafael Romero Marchent. Sceneggiatura: Marcello Coscia, Bruno Di Geronimo, R. Romero Marchent, Marie Claire Claireville. Fotografia: Guglielmo Mancori. Musica: Gregorio Garcia Segura. Costumi: Giovanni Naitano. Scenografia: Wolfgang Burman. Montaggio: Enzo Alabiso, Antonio Ramirez. Interpreti: Carroll Baker (Hélène), Jean Sorel (Maurice), Anna Proclemer (Constance), Marina Coffa (Susan), Luis Davila (Albert Duchamps), Albert Dalbès (dr. Webb), Jacques Stany (James), Manuel Diaz Velasco (Miguel), Hugo Blanco, Liz Halvorsen, Rossana Rovere, Calisto Calisti. Italia, Francia, Spagna, 1970. Durata: 94’. Produttore: Bruno Bolognesi. Produzione: Medusa Distribuzione, Tritone Filmindustria Roma, Producciónes Cinematográficas D.I.A., Madrid, S.N.C. – Société Nouvelle de Cinématographie, Paris. Distribuzione: Medusa. Visto censura: 55537 del 13-02-1970. VM 18. Altri titoli: Una droga llamada Helen, A Quiet Place to Kill. TRAMA: Convalescente per un grave incidente automobilistico, Hélène accetta l’invito del suo ex-marito, Maurice, a trascorrere qualche giorno di vacanza a Palma di Maiorca. Una volta lì, apprende che l’uomo si è risposato con una donna americana molto ricca, Costance, e scopre che a invitarla è stata proprio lei, desiderosa del suo aiuto per eliminare il consorte. Durante una gita in barca, favorevole allo scopo, Hélène non ha il coraggio di colpire Maurice: tenta di farlo Costance, ma l’uomo, più svelto, la uccide; quindi, aiutato da Hélène, ne getta il cadavere in mare, simulando un incidente. Mentre la polizia sembra convinta che si sia trattata di una disgrazia, la di489 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ciottenne figlia di Costance, Susan, mostra apertamente di sospettare la verità. Casualmente, Hélène scopre che Maurice ha una relazione con Susan e comprende la ragione per cui Costance aveva deciso di ucciderlo, ma i due ex amanti, attuando un piano diabolico, riescono a sbarazzarsi di lei. Tuttavia, il loro non sarà un delitto perfetto, poiché verranno smascherati dall’improvviso ritrovamento del corpo di Costance.

Un posto ideale per uccidere Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Lucia Drudy Demby, Antonio Altoviti, Umberto Lenzi. Fotografia: Alfio Contini. Musica: Bruno Lauzi. Costumi: Giovanni Naitana. Scenografia: Vanni Castellani. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Irene Papas (Barbara Slesar), Raymond Lovelock (Dick Bulter), Ornella Muti (Ingrid Sjoman), Umberto Raho (giudice istruttore), Antonio Mellino (se stesso, detto «Agostino ‘o pazzo»), Michel Bardinet (avv. Baratti), Jacques Stany (ufficiale), Umberto D’Orsi (compratore foto porno), Calisto Calisti (commissario di polizia), Ugo Adinolfi (benzinaio), Salvatore Borgese (amico di Agostino), Giuseppe Terranova (testimone oculare), Carla Mancini, Tom Felleghi (col. Steve Slesar), Franco Ressel (compratore foto porno). Italia, 1971. Durata: 90’. Produttore: Carlo Ponti. Produzione: Compagnia Cinematografica Champion, Films Concordia, Paris. Distribuzione: Variety Film. Visto censura: 58667 del 31-07-1971. VM 14. Altri titoli: Un endroit idéal pour tuer, Un lugar ideal para matar Deadly Trap, Dirty Pictures, Oasis of Fear. TRAMA: Due studenti danesi, Ingrid Sjoman e Dick Butler, arrivano in Italia per trascorrervi un periodo di vacanze. Esaurito ben presto il denaro, essi cercano di procurarsi soldi mettendo in atto espedienti non sempre leciti. Diffidati dalla polizia dal trattenersi all’interno del territorio italiano, trovano insperata ospitalità nella villa di proprietà di una signora americana, di mezza età, ma ancora piacente, Barbara Slesar. L’ambiguo atteggiamento della padrona di casa finisce, però, con l’insospettirli e a ragione, poiché scoprono nel bagagliaio dell’auto della donna il cadavere di un uomo. Rendendosi conto che Barbara, autrice dell’assassinio del marito, intende denunciarli alla polizia come responsabili del delitto, Ingrid e Dick cercano di 490 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

darsi alla fuga. Scoperti sul litorale, i due ragazzi fuggono nuovamente a bordo di un’automobile, ma trovano la morte in seguito a uno sbandamento in curva. Sette orchidee macchiate di rosso Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Roberto Gianviti. Fotografia: Angelo Lotti. Musica: Riz Ortolani. Costumi: Giulia Mafai. Scenografia: Giacomo Calò Carducci. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Antonio Sabàto (Mario), Uschi Glass (Giulia), Pier Paolo Capponi (Vismara), Rossella Falk, Renato Romano, Marina Malfatti, Claudio Gora, Marisa Mell, Gabriella Giorgelli, Franco Fantasia, Aldo Barberito, Bruno Corazzari, Petra Schürmann, Ivano Davoli, Linda Sini, Nello Pazzafini, Carla Mancini, Enzo Andronico, Fulvio Mingozzi, Nestore Cavaricci. Italia, 1972. Durata: 91’. Produttore: Lamberto Palmieri. Produzione: Flora Film, National Cinematografica, Rialto Film Preben Philipsen, Berlin. Distribuzione: Variety Film. Visto censura: 59742 del 09-02-1972. VM 14. Altri titoli: Das Rätsel des silbernen Halbmonds, La tueur à l’orchidée, Siete orquídeas manchadas de rojo, Seven Blood – Stained Orchids. TRAMA: Due giovani donne vengono uccise brutalmente da un assassino seriale, che lascia come firma una mezzaluna d’argento. Una terza donna, Giulia, in viaggio di nozze con il marito Mario, sfugge miracolosamente a un’aggressione che si presume messa in atto dallo stesso individuo. Mentre il commissario Vismara comincia le indagini, Mario, investigando per proprio conto, scopre un curioso legame: tanto Giulia quanto le due vittime avevano soggiornato, qualche tempo prima, nello stesso albergo di una località balneare. Messo al corrente della scoperta, il commissario Vismara ordina di sorvegliare strettamente altre donne che risultano essere state ospiti dell’albergo insieme con le vittime. L’ignoto assassino riesce tuttavia a colpire ancora, finché Mario non riesce a individuarlo e a scoprirne l’assurdo movente: si tratta di un pastore evangelico, fratello di un certo Saunders, morto due anni prima per omissione di soccorso; poiché la responsabilità morale del decesso era stata attribuita a una non identificata giovane ospite dell’albergo in cui Saunders soggiornava, il pastore, dominato da un folle istinto di vendetta, aveva deciso di uccidere tutte le possi491 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

bili colpevoli. È ancora Mario a sventare un nuovo attentato contro la moglie Giulia e a mettere l’assassino nell’impossibilità di compiere altri delitti.

Il paese del sesso selvaggio Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Francesco Barilli, Massimo D’Avack. Fotografia: Riccardo Pallottini. Musica: Daniele Patucchi. Costumi: Osanna Guardini, Ettora Mariotti. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Ivan Rassimov (Bradley, il fotoreporter), Me Me Lay (Maraya), Prastsak Singhara (Karen), Sullalewan Suxantat, Ong Ard, Prapas Chindang, Pipop Pupinyo, Tuian G. Tevan, Chit Choi, Song Suanhud, Pairah Thaipradit. Italia, 1972. Durata: 93’. Produttore: Ovidio G. Assonitis. Produzione: Medusa Distribuzione, Roas Produzioni. Distribuzione: Medusa. Visto censura: 60749 del 28-07-1972. VM 18. Altri titoli: Au pays de l’exorcisme, Mondo Cannibale, El País del sexo salvaje, Sacrifice!, The Man from Deep River. TRAMA: Ricercato dalla polizia per aver ucciso casualmente un uomo nel corso di una rissa notturna, il fotoreporter inglese Bradley si inoltra nelle foreste selvagge tra la Thailandia e la Birmania. Catturato da indigeni che vivono allo stato brado, assiste a feroci torture e viene sottoposto a lavori forzati sino a che, per intervento della figlia del capo, Maraja, non ottiene una discreta libertà: ne approfitta per prepararsi alla fuga. Ma la ragazza, fidanzata ufficiale dell’aitante e bellicoso Karen, non gli nasconde il suo affetto. Bradley, nonostante una certa assuefazione allo stravagante clima del villaggio, tenta la fuga, ma viene inseguito da Karen, che si trova costretto ad affrontare e uccidere. Ricondotto al villaggio, viene deciso che sia il fidanzato ufficiale di Maraja; poi è sottoposto a un duro noviziato, che lo tempra all’amore e alla guerra. Celebrate le nozze, l’inglese si affeziona alla moglie indigena e alla sua tribù. La gestazione riesce fatale a Maraja: diviene cieca e muore dopo aver partorito. Obbedendo alla volontà della defunta, Bradley diviene il capo della tribù, e si preoccupa della ricostruzione del villaggio distrutto da cannibali.

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Il coltello di ghiaccio Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Antonio Troisio, Umberto Lenzi. Fotografia: José F. Aguayo Jr. Musica: Marcello Giombino, Marcello Giombini. Costumi: Silvio Laurenzi. Scenografia: Wolfgang Burman. Montaggio: Enzo Alabiso. Interpreti: Carroll Baker, Alan Scott, Ida Galli [Evelyn Stewart], Eduardo Fajardo, Silvia Monelli, Georges Rigaud, Franco Fantasia, Dada Gallotti, Lorenzo Robledo, Mario Pardo, Olga Gherardi, Consalvo Dell’Arti, Carla Mancini, Luca Sportelli, José Marco, Maria Rosa Rodriguez. Italia, Spagna, 1972. Durata: 91’. Produttore: Lamberto Andreani, Thomas Sagone. Produzione: Tritone Cinematografica, Mundial Film, Madrid, San Bernardo, Madrid. Distribuzione: C.I.D.I.F. Visto censura: 60852 del 24-08-1972. Altri titoli: Detrás del silencio, Silent Horror, Knife of Ice. TRAMA: Jenny Ascot, giovane e fortunata cantante di musica leggera, reduce da una tournèe, viene accolta alla stazione di Montseigny, in Spagna, dalla cugina Martha Caldwel, che da quindici anni è muta a causa del trauma subito in un incidente ferroviario. Mentre si recano alla villa del comune zio, sir Ralph, vedono apparire gli occhi allucinanti di uno sconosciuto, che le terrorizzano. Giunte in automobile nel garage della villa, Martha scopre il cadavere di Jenny, cui ben presto si aggiungono quello della governante, signora Brèton, e quello della piccola Cristina. Il commissario Duran comincia le sue indagini con l’ambigua collaborazione del dr. Lawrence, amico di Martha, la quale si sente minacciata dall’ignoto assassino. Nel frattempo, viene arrestato Mason, un giovane inglese, drogato e dedito a riti esoterici. Riesumata la salma di una studentessa abbandonata dall’arrestato, viene dimostrato che la morte della stessa è dovuta a collasso. Intanto, il commissario e il dottore, coadiuvati da sir Ralph e dal domestico Marcos, riescono a ingannare Martha e a farla cadere in un tranello, dimostrando così la sua colpevolezza. La donna aveva agito per invidia verso la cugina, moltiplicando le vittime per dirottare i sospetti su altri.

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Milano rovente Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Ombretta Lanza. Sceneggiatura: Franco Enna, Umberto Lenzi. Fotografia: Lamberto Caimi. Musica: Carlo Rustichelli. Scenografia: Sergio Palmieri. Montaggio: Jolanda Benvenuti. Costumi: Silvio Laurenzi. Interpreti: Antonio Sabàto (Salvatore Cangemi), Philippe Leroy (Roger Daverty), Antonio Casagrande (Lino Carruzi), Carla Romanelli (Virginia), Alessandro Sperlì, Franco Fantasia, Gaetano Cimarosa [Tano Cimarosa], Marisa Mell (Jasmina Sanders). Italia, 1973. Durata: 96’. Produttore: Giuseppe Tortorella. Produzione: Lombard Films. Distribuzione: Variety Film. Visto censura: 61898 del 17-02-1973. VM 18. Altri titoli: La guerre des gangs, Burning City, Los clubs de la dolce vita, Gang War in Milan. TRAMA: Il racket della prostituzione a Milano è dominato dal boss siciliano Salvatore Cangemi, il quale, un giorno, recatosi alla piscina dello Skorpion Club, vi scopre il cadavere di una sua «donnina». Ben presto, colui che ha commissionato quest’assassinio (Roger Daverti, organizzatore di una forte rete per lo spaccio della droga) si fa vivo e, minacciando altri analoghi delitti, chiede a Cangemi di mettergli a disposizione le sue prostitute per spacciare droga. Quest’ultimo non accetta e, per non soccombere nella prevedibile battaglia contro Daverti, chiede, d’accordo con l’amico Lino Caruso, protezione a Billy Barone, mafioso italo-americano. Ma Barone, considerata l’inutilità della lotta e le prospettive di guadagno offerte dallo spaccio di droga, ottiene un accomodamento tra Cangemi e Daverti. Salvatore, però, irretito dall’affascinante ed equivoca Jasmine, sottrae parte dei proventi comuni e si compromette con la polizia. Quando, tradito dall’amica, tenta di reagire, trova Daverti ucciso, scopre che Billy ha cinicamente sfruttato la sua rivalità con Roger e muore nel conflitto a fuoco causato da questo inganno.

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Spasmo Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Pino Boller. Sceneggiatura: Massimo Franciosa, Luisa Montagnana, Pino Boller, Umberto Lenzi. Fotografia: Guglielmo Mancori. Musica: Ennio Morricone. Costumi: Silvio Laurenzi. Scenografia: Giacomo Calò Carducci. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Suzy Kendall (Barbara), Robert Hoffmann (Christian), Ivan Rassimov (Fritz), Guido Alberti (Malcolm), Monica Monet (Clorinda), Franco Silva (Luca), Mario Erpichini (Alex), Adolfo Lastretti (Torres), Maria Pia Conte (Xenia), Rosita Torosh, Luigi Antonio Guerra. Italia, 1974. Durata: 95’. Produttore: Ugo Tucci. Produzione: UTI Produzioni Associate. Distribuzione: P.A.C. Visto censura: 64006 del 14-02-1974. VM 14. TRAMA: Christian Bauman, principale azionista della società presieduta dal fratello Fritz dopo il suicidio del padre, abbandonata l’amica pittrice Xenia, segue la misteriosa Barbara. Aggredito da un sicario, Torres, mentre si trova in un motel insieme alla nuova amica, reagisce e lo uccide, senza tuttavia trovarne il corpo quando lo cerca per farlo sparire. Recatosi insieme a Barbara in una villa solitaria sul mare, fa la conoscenza di Malcom e di Clorinda che vengono anch’essi assassinati. Quindi incontra il redivivo Torres e lo uccide. Convinto che il mandante delle aggressioni sia il fratello, lo raggiunge proprio mentre questi sta rivedendo un film sui trascorsi della famiglia. Capisce finalmente di essere lui stesso l’erede della pazzia omicida di cui sono stati preda il nonno e il padre. Prima di venire raggiunto da Alex, l’uomo cui ha strappato Barbara, e prima di venire ucciso, riuscirà a uccidere Barbara, Xenia e una ignara automobilista.

Milano odia: la polizia non può sparare Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Ernesto Gastaldi. Fotografia: Federico Zanni. Musica: Ennio Morricone. Costumi: Renato Ventura. Scenografia: Giorgio Bertolini. Montaggio: Eugenio Alabiso Interpreti: Tomas Milian (Giulio Sacchi), Laura Belli (Marilù Porrino), Henry Silva (commissario Walter Grandi), Gino Santercole (Vittorio), Mario Piave (agente di polizia), Luciano Catenacci (Ugo Maione), Pippo Starnazza (Papa), 495 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Lorenzo Piani (Gianni), Muzio Joris (Ma’), Anita Strindberg (Jone Tucci), Guido Alberti (commendator Porrino), Tom Felleghi (procuratore della Repubblica), Francesco D’Adda (Romano), Nello Pazzafini (cliente bar Maione), Annie Karol Edel, Rosita Torosh, Franco Ferrari, Elsa Boni, Vittorio Pinelli, Vittorio Sancisi, Giuseppe Castellano, Tony Raccosta. Italia, 1974. Durata: 100’. Produttore: Luciano Martino. Produzione: Dania Film. Distribuzione: Interfilm. Visto censura: 64875 del 10-07-1974. Altri titoli: Almost Human, La rançon de la peur, Der Berserker. TRAMA: Giulio Sacchi, un novizio della mala, espulso dal giro per aver mandato a monte un colpo, progetta, insieme a due giovinastri, Vittorio e Carmine, un colpo grosso: il rapimento di Marilù, figlia di un industriale. Nell’attuazione del rapimento Giulio uccide il fidanzato di Marilù e, il giorno seguente, uccide la propria fidanzata. Il commissario Grandi indaga e i suoi sospetti su Giulio diventano quasi certezza. Giulio ha nascosto Marilù in un capannone e ha deciso di ucciderla appena avrà riscosso il riscatto di 500 milioni. Carmine si oppone e Giulio lo uccide. Il padre di Marilù chiede alla polizia di non intervenire, ma Grandi, al momento della consegna del riscatto, si sostituisce a lui. Si nasconde nei cespugli circostanti il luogo fissato, ma non riesce a evitare che Giulio uccida Marilù e Vittorio fugga. Nella notte nessuno ha riconosciuto l’assassino. Grandi lo fa arrestare, ma poco dopo devono rilasciarlo per mancanza di prove. Quando Grandi capisce che Giulio sta per sfuggire per sempre alla giustizia, lo raggiunge in un bar e gli spara.

Gatti rossi in un labirinto di vetro Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Felix Tusell, Umberto Lenzi. Fotografia: Antono Millan. Musica: Bruno Nicolai. Costumi: Adriana Spadaro. Scenografia: José Massague. Montaggio: Amedeo Moriani. Interpreti: John Richardson (Mark Burton), Martine Brochard (Paulette Stone), Ines Pellegrini (Naiba Levine), Andrés Mejuto (commissario Tudela), Mirta Miller (Lisa Sanders), Daniele Vargas (Robby Alvarado), Georges Rigaud [Jorge Rigaud] (padre Bronson), Sylvia Solar (Katia Alvarado), Marta May (Jenny Hamilton), Raffaele Baldassarre [Raf Baldassarre] (autista pullman), Tom Fel496 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

leghi (funzionario polizia scientifica). Italia, 1974. Durata: 90’. Produttore: Joseph Brenner. Produzione: National Cinematografica, Pioneer, Estela Films, Madrid. Distribuzione: Indipendenti Regionali. Visto censura: 65675 del 13-12-1974. VM 14. Altri titoli: Eyeball, Labyrinth des Schreckens, El ojo en la oscuridad. TRAMA: Un gruppo di americani in gita a Barcellona si trova improvvisamente coinvolto in una serie di efferati delitti. Un ignoto assassino uccide a coltellate giovani donne cui strappa poi l’occhio destro. La polizia sospetta, dopo avere a lungo brancolato nel buio, che l’omicida sia il pubblicitario Marc Burton, amante della signorina Paulette Stone. L’uomo, dal canto suo, ritiene che responsabile degli omicidi sia sua moglie Alma, malata di nervi. A scoprire la verità, con l’aiuto di una foto scattata da una delle vittime, è una giovane nera, Naiba. L’assassina è Paulette: priva di un occhio, uccide per vendicare la sua inferiorità. Trovandosi faccia a faccia con lei, Naiba sta per subire la sorte delle altre donne, ma la polizia la salva in extremis, uccidendo Paulette.

L’uomo della strada fa giustizia Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Umberto Lenzi. Fotografia: Guglielmo Mancori. Musica: Bruno Nicolai. Costumi: Silvio Laurenzi. Scenografia: Giorgio Bertolini. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Henry Silva (Davide Vannucchi), Luciana Paluzzi (Vera Vannucchi), Silvano Tranquilli (Paolo Giordani, capo redattore), Raymond Pellegrin (commissario Bertone), Claudio Gora (avv. Ludovico Mieri), Luciano Catenacci (ten. Pascucci), Alberto Tarallo (travestito), Susanna Melandri (Clara Vannucchi, bambina), Franco Balducci (Alberto Pirazzin), Claudio Nicastro (Salvatore Mannino), Nello Pazzafini (picchiatore della mala), Gianni Di Benedetto (giornalista di destra), Rosario Borelli, Claudio Sforzini, Corrado Solmi, Nando Poggi, Gilberto Galimberti, Domenico Raccorto, Bruno Di Luia. Italia, 1975. Durata: 100’. Produttore: Claudio Cuomo. Produzione: Aquila Cinematografica (1971). Distribuzione: Titanus. Visto censura: 66483 del 02-05-1975. VM 14. 497 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Altri titoli: Un flic hors la loi, El hombre de la calle hace justicia, The Manhunt, Manhunt in the City. TRAMA: Nel corso di una sanguinosa rapina in una gioielleria di Milano muore una bambina, di cui un finto cieco si è servito per penetrare nell’interno del negozio. Per i genitori, Davide e Vera Vannucchi, è un’autentica mazzata; sono separati da alcuni anni, ma la morte di Clara li riavvicina. Davide vuole giustizia e incalza il commissario della squadra mobile, Bertone, perché faccia di tutto per assicurare i rapinatori alla giustizia. Deve, però, rendersi conto che l’operato della polizia lascia a desiderare, soprattutto quando riceve la visita di due strani personaggi, Mieli e Pascucci, promotori di un’organizzazione di autodifesa civile. Quando finalmente Davide ha i nominativi di quelli che crede i responsabili della morte della figlia, va da loro armato di un fucile da caccia grossa, facendo giustizia da sé.

Il giustiziere sfida la città Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Mannino [Vincent Mann]. Fotografia: Federico Zanni. Musica: Franco Micalizzi. Costumi: Walter Patriarca. Scenografia: Giacomo Calò Carducci. Montaggio: Daniele Alabiso. Interpreti: Tomas Milian (Rambo), Joseph Cotten (Paternò, il padrino), Silvano Tranquilli (Marco Marsili), Ida Galli [Evelyn Stewart] (moglie di Marco), Tom Felleghi (Ferrari, comandante Mondialpol), Alessandro Cocco (Giampiero Marsili), Guido Alberti (nonno, proprietario sala biliardi), Maria Fiore (Maria Scalia), Femi Benussi (Flora), Mario Piave (Pino Scalia), Adolfo Lastretti (Ciccio Paternò), Luciano Catenacci (Conti), Shirley Corrigan (amante di Conti), Antonio Casale (Duval), Duilio Cruciani (Luigino Scalia), Mario Novelli (Franco), Luciano Pigozzi (uomo della banda di Conti), Rosario Borelli (uomo della banda di Paternò), Gianni Di Benedetto (commissario di polizia), Bruno Di Luia, Giuseppe Castellano, Riccardo Petrazzi. Italia, 1975. Durata: 95’. Produttore: Luciano Martino. Produzione: Dania Film, Medusa Distribuzione. Distribuzione: Medusa Distribuzione. Visto censura: 66964 del 04-08-1975. Altri titoli: Flash Solo, One Just Man, Bracelets de sang, Desafío a la ciudad, Syn498 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dacate Sadist. TRAMA: La banda Conti rapisce il figlio di un ricco ingegnere lombardo e uccide un poliziotto privato che l’aveva smascherata. Per vendicare il fratello e liberare il ragazzo sequestrato, interviene un ex gangster, Rambo, divenuto servitore del tutto personale della giustizia. Rambo, usando come esca il cospicuo riscatto (due miliardi), mette la banda dei vecchio Paternò contro quella del Conti, sicché i due gruppi quasi si sterminano. Solo contro i superstiti, spietati ed esasperati, conclude lo sterminio liberando il ragazzo. Il vecchio Paternò, ormai isolato e umiliato, si suicida e Rambo riparte a cavallo della sua moto.

Roma a mano armata Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Dardano Sacchetti. Fotografia: Federico Zanni. Musica: Franco Micalizzi. Costumi: Franco Carretti Scenografia: Giorgio Bertolini. Montaggio: Daniele Alabiso. Interpreti: Maurizio Merli (Leonardo Tanzi), Tomas Milian (Vincenzo Moretto, il gobbo), Maria Rosaria Omaggio (Anna, la psicologa), Giampiero Albertini (commissario Francesco Caputo), Arthur Kennedy (vice-questore Ruini), Ivan Rassimov (Antonio Parenzo, detto Tony), Stefano Patrizi (Stefano), Aldo Barberito (Poliana, poliziotto), Dante Cleri (agente anziano in ufficio), Luciano Pigozzi (complice di Moretto), Luciano Catenacci (Ferdinando Geraci), Carlo Alighiero (avvocato), Carlo Gaddi (autista), Biagio Pelligra (Savelli), Claudio Nicastro (ricettatore), Valentino Macchi (Franco), Sandra Cardini (Sandra Savelli), Gabriella Lepori (Marta Assante), Maria Rosaria Riuzzi (Paola), Corrado Solari, Mara Mariani (vedova Assante), Silvio Mingozzi, Ruggero Diella, Tom Felleghi (giudice Bennato), Riccardo Petrazzi, Gaetano Russo (teppista amico di Stefano), Ottaviano Dell’Acqua, Leris Colombaioni, Filippo De Gara (confidente polizia), Renzo Ozzano. Italia, 1976. Durata: 95’. Produttore: Mino Loy, Luciano Martino. Produzione: Dania Film, Medusa Distribuzione, National Cinematografica. Distribuzione: Medusa Distribuzione. Visto censura: 67999 del 20-02-1976. Altri titoli: Brutal Justice, Brigade Spéciale, The Tough Ones, Roma a mano armada, Die Viper. 499 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

TRAMA: Capo della romana squadra omicidi, il commissario Tanzi è convinto che, per combattere la criminalità, la polizia non possa lasciarsi imbrigliare dai codici, né approva la comprensione di cui la fidanzata dà prova nei confronti dei giovani delinquenti. Rigoroso assertore del rispetto della legge è invece il questore, cui perciò non garbano gli spicciativi metodi del commissario: dopo il brutale pestaggio di un indiziato, il gobbo Vincenzo Moretto, Tanzi viene trasferito dalla squadra omicidi a un incarico amministrativo. Ma il commissario non è tipo da starsene dietro a una sedia, per cui, noncurante degli ordini, affronta e cattura uno spacciatore di droga, sgomina una banda di rapinatori, smaschera il capo di una anonima sequestri e ha finalmente ragione, in un conflitto a fuoco, del temibile Gobbo.

Napoli violenta Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Mannino. Fotografia: Fausto Zuccoli, Sebastiano Celeste. Musica: Franco Micalizzi. Costumi: Silvana Scandariato, Mario Russo. Scenografia: Giorgio Bertolini. Montaggio: Vincenzo Tomassi. Interpreti: John Saxon (Francesco Capuana), Barry Sullivan (O’ generale), Maurizio Merli (commissario, Betti), Guido Alberti (questore), Elio Zamuto (sorvegliato speciale), Grazia Maria Spina (moglie), Silvano Tranquilli (Gervasi), Attilio Duse, Pino Ferrara (proprietario del garage), Tommaso Paladino, Enrico Maisto, Carlo Gaddi, Massimo Deda (figlio), Paolo Bonetti, Domenico Di Costanzo, Giovanni Cianfriglia, Fulvio Mingozzi, Pierangelo Civera, Ivano Silveri, Marzio Honorato, Gennaro Cuomo, Domenico Messina, Carlos De Carvalho, Vittorio Sancisi, Nino Vingelli, Luciano Rossi, Riccardo Petrazzi, Ivana Novack, Franco Odoardi, Gabriella Lepori, Carlos De Carvalho. Italia, 1976. Durata: 95’. Produttore: Fabrizio De Angelis. Produzione: Paneuropean Production Pictures. Distribuzione: Fida Cinematografica. Visto censura: 68834 del 29-07-1976. VM 14. Altri titoli: S.O.S. Jaguar opération casseurs, Nápoles violenta, Death Dealers, Violent Naples, Camorra.

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TRAMA: Destinato a Napoli dopo una lunga assenza dal servizio, il commissario Betti si trova ben presto alle prese con alcune efferate imprese della malavita locale. Una serie di delitti – una donna trovata seviziata in un ristorante abbandonato, un’anziana signora rapinata, un garagista carbonizzato nel rogo della sua autorimessa – appaiono ordinati o eseguiti da una banda facente capo a ‘O Generale, uno dei capintesta della malavita, e a Capuano, un altro camorrista al quale si è affiliato un ex poliziotto. Dopo avventurose vicende, durante le quali avvengono altre uccisioni, Betti mette le mani su Capuano, il quale, pur avendo capito che ‘O Generale lo vuole morto, si rifiuta di parlare. Rimesso in libertà, egli ha un conflitto a fuoco durante il quale ‘O Generale e un suo uomo vengono uccisi. Non è stato Capuano a sparare, ma Betti, l’unico a saperlo, tace, per non perdere l’occasione di eliminare contemporaneamente i due maggiori boss della malavita napoletana.

Il trucido e lo sbirro Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Dardano Sacchetti. Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Umberto Lenzi. Fotografia: Luigi Kuveiller, Sebastiano Celeste [Nino Celeste]. Musica: Bruno Canfora. Costumi: Silvio Laurenzi. Scenografia: Carlo Leva. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Tomas Milian (Sergio Marazzi detto Monnezza), Claudio Cassinelli (commissario Antonio Sarti), Nicoletta Machiavelli (Mara), Claudio Undari [Robert Hundar] (Er Cinico), Biagio Pelligra (Calabrese), Giuseppe Castellano (Tunisino), Henry Silva (Brescianelli), Bruno Corazzari (Vallelunga), Valentino Macchi (agente di polizia), Rosario Borelli (membro della banda di Brescianelli), Rita Forzano (ragazza drogata), Umberto Raho (avv. Franco), Mario Erpichini (Paolo Finzi), Dana Ghia (signora Finzi), Susanna Melandri (Camilla Finzi, la bambina), Tom Felleghi (gioielliere), Sara Franchetti (domestica di casa Moretti), Giovanni Cianfriglia (Carlini), Salvatore Billa (rapinatore in gioielleria), Massimo Bonetti (giovane scippatore), Antonio Casale (Er Greve), Arturo Dominici (avv. De Rita), Rosita Torosh, Ernesto Colli, Corrado Solari, Luciano Rossi (Biondino), Gaetano Cimarosa [Tano Cimarosa] (Cravatta, il ricettatore), Rosario Borelli, Renato Mori. Italia, 1976. Durata: 95’. Produttore: Claudio Mancini, Ugo Tucci. Produzione: S.G.M. Film, Variety Film. Distribuzione: Variety Film. 501 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Visto censura: 69002 del 27-08-1976. VM 14. Altri titoli: Le truand sort de sa planque, Con la ley y con el hampa, Das Schlitzohr und der Bulle. TRAMA: Una bambina malata è destinata a morire se non la si sottopone prontamente a determinate cure e viene sequestrata a scopo di ricatto da una banda. Il commissario di polizia Sarti si allea con tre lestofanti, tra cui il famigerato Monnezza, che aiuta a evadere di prigione, per risolvere il caso.

Il cinico, l’infame, il violento Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Sauro Scavolini. Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Ernesto Gastaldi, Dardano Sacchetti. Fotografia: Federico Zanni. Musica: Franco Micalizzi. Costumi: Silvio Laurenzi. Scenografia: Elio Micheli. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Maurizio Merli (ex commissario Leonardi Tanzi), John Saxon (Frank Di Maggio), Renzo Palmer (commissario Guido Astalli), Tomas Milian (Luigi Maietto, detto Cinese), Gabriella Lepori (Nadia), Claudio Undari [Robert Hundar] (Dario), Bruno Corazzari (Ettore), Marco Guglielmi (avv. Marchetti), Gabriella Giorgelli (Maria), Guido Alberti (Tanzi, antiquario), Aldo Massasso, Brigida Petronio [Brigitte Petronio] (Lina Esposito), Gianni Musy Glori [Gianni Glori] (Nicola Proietti), Gian Filippo Carcano (professore), Dante Cleri (ragioniere), Riccardo Garrone (Natali), Claudio Nicastro (Fazi), Massimo Bonetti (Cappuccino), Piero Tiberi, Franco Odoardi, Salvatore Billa (Salvatore), Rosario Borelli (picciotto), Tommaso Palladino, Benito Pacifico, Franco Marino, Fulvio Mingozzi, Ermelinda De Felice (padrone pensione Gabriella), Fortunato Arena (detenuto), Ennio Antonelli. Italia, 1977. Durata: 100’. Produttore: Luciano Martino. Produzione: Dania Film, Medusa Distribuzione. Distribuzione: Medusa Distribuzione. Visto censura: 69791 del 03-02-1977. VM 14. Altri titoli: Le cynique,l’infâme et le violent, El cínico, infame y violento, Die Gewalt bin ich, The Cynic, the Rat and the Fist. TRAMA: Un pericoloso bandito romano, il Cinese, evade dal carcere e tenta di uccidere l’uomo che determinò la sua condanna all’ergastolo: l’ex commissario Tanzi. Tanzi viene ferito gravemente, ma riesce a salvarsi e a tra502 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sferirsi a Roma. Il Cinese lo crede morto e riprende la sua attività nella malavita organizzata, associandosi al boss italo-americano Di Maggio. Tanzi fa in modo di mettere i due l’uno contro l’altro. Organizza uno spettacolare colpo a una società finanziaria di proprietà del boss italo-americano, addossandone la responsabilità al bandito romano. Il Cinese uccide brutalmente il rivale ed è a sua volta eliminato dall’ex commissario.

La banda del gobbo Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi. Fotografia: Federico Zanni. Musica: Franco Micalizzi. Costumi: Silvio Laurenzi. Scenografia: Giuseppe Bassan. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Tomas Milian (Vincenzo Marazzi detto Gobbo/Monnezza), Pino Colizzi (commissario Sarti), Isa Danieli (Maria), Guido Leontini (Mario Di Gennaro), Luciano Catenacci (Mario Perrone), Mario Piave, Solvy Stubing (impiegata dell’ambasciata), Salvatore Borgese [Sal Borgese] (Albanese), Francesco D’Adda (medico), Fulvio Mingozzi (commissario), Carlo Gaddi, Sandra Cardini, Livio Galassi, Pierangelo Civera, Nello Pazzafini, Franco Odoardi, Valentino Macchi, Roberto Caporale, Rosario Borelli, Fortunato Arena, Tony Morgan, Cesare Di Vito, Mario Savini. Italia, 1977. Durata: 98’. Produttore: Luciano Martino. Produzione: Dania Film, Medusa Distribuzione. Distribuzione: Medusa. Visto censura: 70728 del 10-08-1977. VM 14. Altri titoli: Échec au gang, La mafia de los asesinos, Die Kröte, Brothers Till We Die. TRAMA: Tornato a Roma dopo alcuni mesi di latitanza in Corsica, Vincenzo Marazzi, dello il Gobbo, assalta, con i complici Perrone, l’Albanese e il Sogliola, il furgone portavalori di una banca. Compiuto il colpo i soci gli sparano addosso. Il Gobbo si salva e si rifugia in casa di una prostituta sua amica, preparandosi alla vendetta. Uccide il Sogliola chiudendolo in una cella frigorifera, si sbarazza dell’Albanese con un colpo di rivoltella, fa morire di paura il Perrone minacciandolo con un trapano. Per poter scovare il nascondiglio del criminale e della banda che egli intanto ha messo insieme, la polizia si serve di Monnezza, suo fratello gemello, ma sia questi che il Gobbo si prendono facilmente gioco degli agenti. Finalmente, il commissa503 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rio Sarti e i suoi uomini riescono a sorprenderlo, ma mentre la sua banda è costretta ad arrendersi, il Gobbo si sottrae alla cattura fuggendo in auto. Sull’autostrada la macchina sbanda e precipita nel Tevere, scomparendo sott’acqua. Ma, chissà, forse il Gobbo è riuscito ancora una volta a cavarsela.

Il grande attacco Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Cesare Frugoni. Fotografia: Federico Zanni. Musica: Franco Micalizzi. Costumi: Luciano Sagoni. Scenografia: Giuseppe Bassan. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Helmut Berger (ten. Kurt Zimmer), Samantha Eggar (Annelise Hackermann), Giuliano Gemma (cap. Malcolm Scott), John Huston (prof. O’Hara, corrispondente di guerra), Edwige Fenech (Danielle), Henry Fonda (generale Foster), Stacy Keach (ten. Manfred Roland), Ray Lovelock (John Foster), Aldo Massasso (Jean, il giovane reporter), Venantino Venantini (Michael, l’attendente), Aldo Barberito, Rick Battaglia, Andrea Bosic (Mimis Parnat), Massimo Bonetti, Rosario Borelli (marconista), Ermelinda De Felice (moglie del proprietario bistro), Emilio Delle Piane, Attilio Dottesio (proprietario bistro), Giuseppe Castellano (paracadutista), Luciano Catenacci [Luciano Lorcas] (ufficiale inglese), Giovanni Cianfriglia (guastatore), Pierangelo Civera, Claudio Colombi, Geoffrey Copleston, Mirko Ellis (cap. Hans), Andrea Fantasia (comandante del sommergibile), Tom Felleghi (col. Con il gen. Patton), Manfred Freyberger, Marco Guglielmi (ufficiale inglese), Fulvio Mingozzi, Franco Odoardi, Lorenzo Piani, Giacomo Rossi Stuart (paracadutista), Lanfranco Spinola, Marcello Turilli [Max Turilli] (ufficiale delle SS), Bill Vanders (gen. Von Arnim), Ida Galli [Evelyn Stewart] (signora Scott). Italia, 1978. Durata: 100’. Produttore: Mino Loy, Luciano Martino. Produzione: Dania Film, National Cinematografica. Distribuzione: Titanus. Visto censura: 71421 del 19-01-1978. Altri titoli: The Biggest Battle, La grande bataille, Die Grosse Offensive, Los jóvenes leones. TRAMA: Nel 1936, in occasione delle Olimpiadi di Berlino, si trovano in casa del tenente Manfred Roland alcuni esponenti delle delegazioni inglese, 504 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

americana, irlandese, tedesca. Dopo avere brindato all’amicizia e alla pace, i convitati si scambiano ricordi e si lasciano. Roland nella stessa occasione conosce l’attrice Annelise Ackermann; la sposa, ma, essendo lei ebrea da parte di padre, la lascerà nelle mani della Gestapo quando lui andrà a combattere e a morire nella guerra d’Africa. Il generale Foster, richiamato a West Point, perderà il figlio prediletto Ted, ma verrà almeno consolato dalle notizie riguardanti il secondogenito John. Il professor O’Hara, nonostante l’anzianità, accorrerà sui campi di battaglia come corrispondente e morirà accanto a un giovane reporter da lui trascinato verso il rischio. Il tenente Kurt Zimmer, che a Le Havre aveva cercato di aiutare la giovane vedova Danielle, darà la vita per il III° Reich e anche la sua protetta finirà colpita dai partigiani. Il capitano Martin Scott, chiamato sui vari fronti per audaci colpi di mano, incontrerà quasi tutti questi personaggi: li vedrà morire o coprirsi di gloria, ma ciò che veramente lo compenserà, sarà il ritorno dalla moglie e le due figliolette.

Contro 4 bandiere Regia: Umberto Lenzi [Hank Milestone]. Soggetto e sceneggiatura: Gianfranco Clerici, Umberto Lenzi, José Luis Martinez-Molla, Anthony Fritz. Fotografia: José Luis Alcaine, Alejandro Ulloa. Musica: Riz Ortolani. Scenografia: Giuseppe Bassan. Montaggio: Vincenzo Tomassi [Vincent R. Thomas]. Costumi: Luciano Sagoni. Interpreti: George Peppard (Brett Rossen), George Hamilton (Maurice Bernard), Horst Buchholz (Jürgen Dietrich), Ray Lovelock (Jim Rossen), Georges Claisse (Karl Wessel), Jean-Pierre Cassel (Richard «Dick» Sanders), Sam Wanamaker (Ray Mc Donald), Howard Vernon (maggiore della Gestapo), Anny Duperey, Capucine (Nicole Levine), Ritza Brown (Mary Mc Donald/Hemmings), André Lawrence (Jean), Michel Voletti (Pierre), Franco Fantasia [Frank Farrel] (sommozzatore), Fortunato Arena (soldato anziano), May Hatherby, Scott Miller, Herbert Fiels, Lambert Wilson, Stelio Candelli, Vincent Gentile, Sergio Testori, Augusto Girardi, Angel Aranda, David Thompson Italia, Francia, Spagna, 1979. Durata: 103’. Produttore: Edmondo Amati. Produzione: New Film Production, José Frade P.C., Madrid, Productions Jacques Roitfeld, Paris, Films Princesse, Paris. Distribuzione: Fida International Film. 505 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Visto censura: 73110 del 19-02-1979. Altri titoli: Contro 4 bandiere, Da Dunkerque alla vittoria, Da qui alla vittoria, De l’enfer à la victoire, De Dunkerke a la victoria, From Hell to Victory, Nur drei kamen durch. TRAMA: Parigi 24 agosto 1939. Un gruppo di amici, i francesi Fabienne e Maurice, l’inglese Dick, gli americani Brett e Ray e il tedesco Jurgen suggellano la promessa di ritrovarsi il 24 agosto dell’anno successivo. Gli eventi bellici porteranno i nostri amici, ognuno con una sua propria storia, a servire il Paese d’origine nell’ultima guerra mondiale. Il 24 agosto 1944 si ritroveranno all’appuntamento sulla Senna, Maurice, Brett, la giovane figlia di Ray e Fabienne. Sono i soli superstiti. I quattro sostano in silenzio sulle rive del fiume mentre Parigi esulta e impazza con grida, canti ed evviva alla sua liberazione. La vita ricomincia, ma quel lontano giorno del 1939 ha segnato per sempre la loro esistenza.

Da Corleone a Brooklyn Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Vincenzo Mannino. Fotografia: Gianfranco Mancori. Musica: Franco Micalizzi. Costumi: Carlo Gentili. Scenografia: Giuseppe Bassan. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Maurizio Merli (commissario Giorgio Berni), Mario Merola (Barresi Michele), Biagio Pelligra (Salvatore Scalia), Van Johnson (tenente Sturgis), Laura Belli (Paola, ex moglie di Berni), Venantino Venantini (commissario Danova), Sonia Viviani (Liana Scalia), Nino Marineo, Salvatore Billa (malvivente), Tom Felleghi (poliziotto all’aereoporto), Giovanni Cianfriglia (falso infermiere in autostrada). Italia, 1979. Durata: 90’. Produttore: Sandro Infascelli. Produzione: Primex. Distribuzione: Variety Film. Visto censura: 73398 del 13-04-1979. Altri titoli: Von Corleone nach Brooklyn, Corléone à Brooklyn, Corleone in Brooklyn, From Corleone to Brooklyn. TRAMA: Il dirigente dell’antimafia Giorgio Berni, a seguito d’indagini sulla morte di alcune persone, è convinto che il mandante di questi omicidi sia 506 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un certo Barresi, un grosso esponente della cosca mafiosa di Corleone. Saputo che il mafioso è stato arrestato dalla polizia di New York, decide di partire per l’America portandosi dietro Scalia, un testimone che si dichiara disposto a identificare il suo ex capo. Il viaggio non è dei più facili. Per puro miracolo eviteranno le trappole mortali tese loro dalla mafia. Quando si presenteranno in tribunale, il colpo di scena: Scalia rifiuta di incriminare il suo capo e Barresi ottiene la libertà. La rivincita di Berni incomincia da qui.

Scusi, lei è normale? Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi, Dardano Sacchetti. Fotografia: Guglielmo Mancori. Musica: Franco Micalizzi. Costumi: Antonio Randaccio. Scenografia: Carlo Gentili. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Renzo Montagnani (Gustavo Sparvieri), Enzo Cerusico (Nicola Proietti, detto Nicole), Ray Lovelock (Franco Astuti), Anna Maria Rizzoli (Anna Grisaglia), Marco Tulli, Paolo Baroni, Sammy Barbot, Aldo Maccione (commissario Pecorella), Luca Sportelli, Marcello Martana, Dante Cleri, Salvatore Jacono. Italia, 1979. Durata: 92’. Produttore: Maria Pia Gardini. Produzione: PAL Cinematografica. Distribuzione: Impegno Cinematografico. Visto censura: 74265 del 25-10-1979. VM 14. Altri titoli: Pardon, vous êtes normal?, Entschuldigen Sie, sind Sie normal?, Perdone, señorita, ¿es usted normal?. TRAMA: Il giovane Franco, nipote del pretore Saveri, noto inquisitore di provincia, vive a Roma con un travestito, Nicole. In seguito a una lite che avviene in una discoteca, Nicole pianta Franco e simula il suicidio, mettendo l’amico nei guai. Perseguitato dalla polizia, Franco ricorre allo zio, aiutato da Anna, una ragazza che ha appena conosciuto. È durante una cena a quattro che, inaspettatamente, l’austero magistrato mostra una certa predilezione verso il travestito. Anna, Franco e Nicole cercano inutilmente di liberarsi del pretore, ma questi li raggiunge in un locale affollato da una fauna variopinta e spregiudicata. Dopo una serie di qui pro quo, Salveri getta la maschera e rivela la sua natura: quella di un satiro. Ballando con Nicole 507 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

un frenetico rock, afferma che «non è l’abito che fa il monaco».

Mangiati vivi! Regia, soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi. Fotografia: Federico Zanni. Musica: Budy Maglione. Costumi: Massimo Antonello Geleng. Scenografia: Massimo Antonello Geleng. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Robert Kerman (Mark Butler), Janet Agren (Sheila Morris), Ivan Rassimov (Jonas Melvyn), Mel Ferrer (prof. Cartier), Paola Senatore (Diana Morris), Me Me Lai, Mag Fleming, Franco Fantasia, Gianfranco Coduti, Alfred Joseph Berry, Michele Schmieselm, Mel Ferrer (prof. Carter). Italia, 1980. Durata: 94’. Produttore: Mino Loy, Luciano Martino. Produzione: Dania Film, Medusa Distribuzione, National Cinematografica. Distribuzione: Medusa Distribuzione. Visto censura: 74827 del 20-03-1980. VM 18. Altri titoli: Eaten Alive, Lebeding gefressen La secte des cannibales, Comidos vivos, Doomed to Die. TRAMA: Sheila, una giovane americana, con l’aiuto di Mark, raggiunge un villaggio nella giungla, dove un certo Jonas, capo di un gruppo ecologico, tiene la sorella Diana prigioniera. Diana le confessa di aver seguito volontariamente Jonas, ma di essersi poi resa conto che questi è un impostore. I tre fuggono, ma vengono catturati dai cannibali che fanno scempio di Diana. Salvati da un elicottero della polizia, Mark e Sheila tornano a New York, dove apprendono che Jonas e i suoi hanno posto in atto un suicidio collettivo.

Incubo sulla città contaminata Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e sceneggiatura: Antonio Corti, Piero Regnoli, José Luis Delgrado. Fotografia: Hans Burman Sanchez. Musica: Stelvio Cipriani. Costumi: Silvana Scandariato. Scenografia: Mario Molli. Montaggio: Daniele Alabiso. Interpreti: Hugo Stiglitz (Dean Middler), Laura Trotter (Sheyla), Maria Rosaria Omaggio (Ann), Francisco Rabal (Hagenbeck), Mel Ferrer (Murchinson), 508 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Sonia Viviani, Ugo Bologna (Desmond, direttore stazione radio), Eduardo Fajardo (dr. Kramer), Stefania D’Amario, Sara Franchetti, Manolo Zarzo [Manuel Zarzo] (col. Donald), Tom Felleghi, Pierangelo Civera (operatore radio), Achille Belletti, Alejandro De Enciso (capitano), Frank Clement (aiutante di Kramer), Carmen Martinez Sierra (donna in ascensore), José Yepez (controllore). Italia, 1980. Durata: 92’. Produttore: Diego Alchimede, Luis Méndez. Produzione: Dialchi Film, Lotus Films Internacional, Madrid. Distribuzione: New Fida. Visto censura: 75631 del 03-10-1980. VM 18. Altri titoli: City of the Walking Dead, Nightmare City, La invasión de los zombies atómicos, L’avion de l’Apocalypse, Grossangriff der Zombies. TRAMA: Un fungo atomico ha contaminato un gruppo di individui. Essi accusano una nevrosi progressiva e la mancanza di riproduttività. I contaminati, nella loro folle ricerca di plasma necessario alla sopravvivenza, attaccano una città seminando morte e contagio. Una squadra di elicotteri al comando di Holmes inutilmente tenta di isolare il nemico. Tutti i collegamenti militari sono interrotti. Holmes atterra nei pressi di casa sua nel tentativo di salvare la moglie, ma anche lei è stata contaminata e a lui non resta che ucciderla. Tutto quanto avvenuto è solo frutto di un terribile sogno. Ma a Miller, un cronista televisivo inviato per un servizio all’aeroporto, come nel sogno, appare realmente, all’improvviso, un misterioso apparecchio.

Cannibal Ferox Regia, soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi. Fotografia: Giovanni Bergamini. Music: Budy Maglione, Roberto Donati. Costumi: Giuseppe Bassan. Scenografia: Giuseppe Bassan. Montaggio: Enzo Meniconi. Interpreti: Giovanni Lombardo Radice [John Morghen] (Rudy), Lorraine De Selle (Gloria Davis), Zora Kerowa (Pat), Mag Fleming, Brian Redford, Walter Lloyd, Robert Kerman, Janos Bartha (Mike), Venantino Venantini (Joe). Italia, 1981. Durata: 93’. Produttore: Mino Loy, Luciano Martino. Produzione: Dania Film, Medusa Distribuzione, National Cinematografica. Distribuzione: Medusa Distribuzione. 509 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Visto censura: 76311 del 10-03-1981. VM 14. Altri titoli: Die Rache der Kannibalen, Caníbal feroz, Make Them Die Slowly. TRAMA: Gloria Davis, studentessa americana, con il fratello Rudy e l’amica Pat, si reca in Amazzonia per documentarsi su alcuni casi di preteso cannibalismo. Oltrepassando insidie, cadaveri e terrori, incontrano due giovani americani, Mike e Joe, feriti e in preda al panico, che dicono di essere sfuggiti ai cannibali. In un villaggio abbandonato trovano un cadavere che, anziché di un portoghese torturato e ucciso dagli indios, risulta essere un indio che Mike ha così ridotto per derubarlo di alcuni smeraldi. Joe muore per setticemia e gli altri vengono torturati e uccisi meno Gloria che, allo stremo, verrà salvata. A New York, dopo qualche mese, Laura riceverà solennemente la laurea in scienze antropologiche per la tesi dal titolo Cannibalismo, fine di un mito.

Pierino la peste alla riscossa Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Dardano Sacchetti. Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Giorgio Mariuzzo. Fotografia: Guglielmo Mancori. Music: Walter Rizzati. Costumi: Massimo Lentini. Scenografia: Massimo Lentini. Montaggio: Gianfranco Amicucci. Interpreti: Giorgio Ariani (Pierino), Jenny Tamburi (signora Bonazzi, maestra), Didi Perego (madre di Pierino), Mario Brega (padre di Pierino), Elena Fabrizi [Lella Fabrizi] (nonna), Lucia Cassini (Pappa, la cameriera), Renzo Montagnani (Nello), Giacomo Rizzo (maestro), Enzo Robutti (cliente), Fulvio Mingozzi (passante), Ugo Fangareggi, Adriana Facchetti (direttrice della scuola), Angelo Botti, Tiziana Fibbi, Enzo Andronico, Tiberio Murgia, Ennio Antonelli, Serena Grandi, Valerio Isidori, Giuseppe Terranova, Luigi Leoni, Alfredo Adami, Franca Scagnetti. Italia, 1982. Durata: 84’. Produttore: Fabrizio De Angelis. Produzione: Flora Film, Fulvia Film. Distribuzione: Flora Film. Visto censura: 77443 del 09-01-1982. Altri titoli: Pierino the Pest Does it Again, Jaimito va a la escuela. TRAMA: Pierino, grande e grosso com’è, è il solito ripetente. A scuola sfoga la sua irrequietezza con battute fulminanti, scherzi buffi, impertinenze e 510 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stramberie alle spalle del maestro, che lo ha preso di mira e che, naturalmente, è diventato la vittima designata. Anche i suoi compagni sono continuamente provocati e fatti oggetto di scherzi a volte un po’ troppo mordaci. È insomma il classico discolo che ne combina di cotte e di crude. Vive con il padre, ex portantino che con un mezzo imbroglio è riuscito a essere titolare di una farmacia, con la madre, troppo materna, e una nonna che, in quanto a salacità, è degna del nipote.

Incontro nell’ultimo paradiso Regia: Umberto Lenzi. Soggetto e Sceneggiatura: Marina Garroni, Giovanni Lombardo Radice. Fotografia: Giovanni Bergamini. Musica: Sundance. Costumi e scenografia: Angelo Santucci. Montaggio: Vincenzo Tomassi. Interpreti/Actors: Sabrina Siani (Susan/Luana), Renato Miracco (Butch), Salvatore Borgese [Sal Borgese] (Kurt), Rodolfo Bigotti (Ringo), Mario Pedone, Wai Laung. Italia, 1982. Durata: 90’. Produttore: Mario Mariani, Angelo Scacco, Gianni Stellitano. Produzione: National Cinematografica, Nuova Dania Cinematografica. Distribuzione: Flora Film. Visto censura: 78043 del 10-08-1982. Altri titoli: Daughter of the Jungle. TRAMA: Butch e Ringo, due studenti americani rimasti in panne con la loro barca mentre stanno in vacanza nella Repubblica Dominicana, vengono catturati da una tribù di selvaggi. Nella giungla sopraggiungono dei loschi tipi, cercatori di smeraldi che, capitanati da un certo Kurt, attaccano la tribù. I due giovani riescono a fuggire, ma sono a loro volta fatti prigionieri da una splendida ragazza bianca e selvaggia. Ritrovano un vecchio elicottero appartenuto ai genitori della giovane e lo rimettono in sesto. Tutti e tre aiutano poi gli indigeni a cacciare Kurt e i suoi uomini dal villaggio. Butch si innamorerà di Susan decidendo di rimanerle sempre al fianco, mentre Ringo ripartirà con l’elicottero e gli smeraldi di Kurt.

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Cicciabomba Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Mario Mariani. Sceneggiatura: Giorgio Mariuzzo. Fotografia: Carlo Carlini. Musica: Claudio Rego. Scenografia: Claudio Cinini. Montaggio: Enzo Meniconi. Interpreti: Donatella Rettore (Miris), Anita Ekberg (baronessa Judith von Kema), Paola Borboni (nonna), Gena Gas (Deborah), Dario Caporaso (Mirko), Adriana Russo (amica di Miris), Didi Perego, Ugo Bologna, Howard Nappers (segretario della von Kemp), Paola Rinaldi (altra amica di Miris), Piero Vida (parroco). Italia, 1982. Durata: 92’. Produzione: Emme R.T. Cinematografica. Distribuzione: Kent World Distributor. Visto censura: 78202 del 13-10-1982. Altri titoli: Fatty Girl Goes to New Tork. TRAMA: Mirko, il bello del paese, ha deciso di compiere un brutto scherzo a Miris, una grassa ragazza che tiene una rubrica telefonica per persone scontente. Si spaccia per Angelo, un balbuziente pieno di complessi e drogato e, intanto, telefona alla giovane e le manda dei fiori. Miris si sente impegnata a redimerlo e, da romantica qual è, ben presto si innamora. Quando scopre la beffa, per lei è la fine. Decide di suicidarsi, ma, inaspettatamente, arriva la fortuna sotto le sembianze di un biglietto premio che la condurrà a New York, dove viene scelta quale persona adatta al lancio di una nuova cura dimagrante. Miris non solo perde 30 kg, ma si trasforma in una showgirl piena di charme. Tuttavia non è soddisfatta. Ha da restituire ad Angelo/Mirko e a tutti i suoi compaesani lo scherzo subito.

La guerra del ferro: Ironmaster Regia: Umberto Lenzi [Humphrey Milestone]. Soggetto: Luciano Martino, Alberto Cavallone. Sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Alberto Cavallone, Gabriele Rossini, Lea Martino. Fotografia: Giancarlo Ferrando. Musica: Guido De Angelis, Maurizio De Angelis. Costumi: Rossana Romanini. Scenografia: Antonello Geleng. Montaggio: Eugenio Alabiso. Interpreti: Sam Pasco (Ela), Luigi Montefiori [George Eastman] (Vud), Elvire Audray (Iza), Pamela Prati [Pamela Field] (Ute), Brian Redford, William 512 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Berger (Mogo), Jacques Herlin, Jacques Stany, Giovanni Pazzafini [Nello Pazzafini], Benito Stefanelli, Giovanni Cianfriglia, Areno D’Adderio, Walter Lucchini, Nicola La Macchia. Italia, Francia, 1983. Durata: 90’. Produttore: Luciano Martino. Produzione: Medusa Distribuzione, Nuova Dania Cinematografica, Films Jacques Leitienne, Paris, Imp.Ex.Ci., Nice. Distribuzione: Medusa Distribuzione. Visto censura: 78520 del 25-01-1983. Altri titoli: Vindicator – La guerra del ferro, La guerre du fer, Er – stärker als Feuer und Eisen, The Iron Master, La guerra del hierro, Ironmaster. TRAMA: Il film si impernia sull’evoluzione della specie umana nell’età preistorica, quando la superficie terrestre, dopo gigantesche eruzioni vulcaniche e maremoti, si era assestata. In quel periodo, durato millenni, l’uomo ha compiuto un graduale e faticoso cammino che lo ha portato dall’età della pietra all’età del fuoco, dalle barbarie animalesche al preludio della civiltà. La lotta quotidiana per la sopravvivenza in spazi enormi, alle prese con animali feroci e di proporzioni gigantesche, ha favorito le comunità di gruppo e, nello stesso tempo, ha sollecitato questi gruppi a ricercare nuove tecniche di difesa. Il film narra appunto la vicenda di alcune tribù rivali vissute tra il tardo periodo della preistoria fino alla scoperta del primo metallo: il ferro. Vud, dopo aver ucciso il capo e il saggio della tribù, fugge per la foresta scacciato dai suoi. Ben presto ritorna, pronto alla riscossa, avendo scoperto, in seguito a spaccature del terreno, le rocce che contengono il minerale ferroso che egli riesce a fondere per forgiarsi la spada. L’arma invincibile gli consente di sottomettere un gran numero di tribù, compresa la sua di origine. Iniziano scontri ed eccidi finché Ela, sfuggito alla sua vendetta, passa alla controffensiva e arma i suoi di archi micidiali che, in breve tempo, annientano gli uomini di Vud, che muore nello scontro finale con Ela. Ritorna la pace tanto più che Ela distruggerà tutte le spade e gli strumenti di guerra.

Squadra selvaggia Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Roberto Leoni. Sceneggiatura: Roberto Leoni, Umberto Lenzi. Fotografia: Giancarlo Ferrando. Musica: Stelvio Cipriani. Montaggio: Eugenio Alabiso. Costumi: Massimo Corevi. 513 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Interpreti: Antonio Sabato (Martin Cuomo), Werner Pochat (Theo), Salvatore Borgese [Sal Borgese] (Paco), Julia Fursich (Sybil Slater), Gabriella Giorgelli (Medium), Ivan Rassimov (Marius). Italia, 1985. Durata: 90’. Produttore: Enzo Rispoli. Produzione: Euroamerica International Film. Distribuzione: Euroamerica. Visto censura: 81085 del 06-12-1985. Altri titoli: Hungrige Skorpione, Thunder Squad, Wild Team, Cinq salopards en Amazonie. TRAMA: Un giovane prestigioso leader sudamericano in esilio viene contattato da alcuni esponenti di un’importante multinazionale. Gli viene offerta la possibilità di tornare in patria e di sovvertire il nuovo governo che si è instaurato al suo posto: in cambio la multinazionale chiede l’esclusiva dei giacimenti minerari, unica ricchezza del Paese. Al rifiuto del giovane, la multinazionale scopre che il governo del Paese tiene in ostaggio l’unico figlio del leader di dieci anni. I dirigenti della multinazionale ingaggiano un gruppo di mercenari che riesce a liberare il bambino. Il leader ritorna nel Paese da trionfatore, ma viene ucciso dai governativi. I superstiti del commando, dopo mille peripezie, riusciranno a riconquistare il Paese e troveranno nel bambino una nuova bandiera, un ideale per cui combattere.

Un ponte per l’inferno Regia, soggetto e sceneggiatura: Umberto Lenzi. Fotografia: Luigi Ciccarese. Musica: Fabio Frizzi. Scenografia: Kemo Hrustanovic. Montaggio: Alessandro Lucidi. Interpreti: Andy J. Forest (Bill Rogers), Carlo Mucari (Sergente Mario Esposito), Paki Valente (Blitz), Francesca Ferre (Vanya), Zdenko Jelcic (Milan), Vuk Mannic (Capitano SS), Zlatko Martinevic (Sergente SS), Drago Pavlic (Herzog). Italia, Jugoslavia, 1986. Durata: 88’. Produttore: Alessandra Spagnuolo, Ettore Spagnuolo. Produzione: A.M. Trading International, Banjack, B., Sarajevo. Distribuzione: Cannon Video. Visto censura: 82514 del 10-04-1987. Altri titoli: Bridge to Hell, Commando Panther, Sendero al infierno, A Bridge to Hell. 514 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

TRAMA: Tre detenuti di un campo di prigionia nazista (un americano, un italiano e un disertore tedesco), cercano una via di fuga attraverso il territorio occupato dai nazisti per conquistare l’agognata libertà. Lungo la strada, incontrano un gruppo di partigani impegnati in azioni contro gli occupanti tedeschi e vengono anche a conoscenza della presenza di un tesoro nascosto da quelle parti, nella cui rierca sono impegnati pure i nazisti. I tre rimangono indecisi su quale via seguire: quella che porta dritta alla libertà, quella di unirsi ai partigiani per combattere i nazisti o quella del desiderio di arricchirsi. Beffati da un’affascinante slava che fa loro da guida, falliscono il tentativo di spogliare un monastero che custodisce l’antico tesoro e rimangono sui monti della Bosnia a combattere nei ranghi della Resistenza.

Tempi di guerra Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Umberto Lenzi, Ambrogio Molteni. Fotografia: Luigi Ciccarese. Montaggio: Alessandro Lucidi. Musiche: Fabio Frizzi. Scenografia: Arrigo Breschi. Costumi: Adriana Spadaro. Interpreti: Peter Hooten (Capitano Rosen), Werner Pochath (Maggiore Dietrich), Giacomo Rossi Stuart (Professor Amundsen), Maurizio Schmidt (Sergente Grant), Boris Dvornik (Branko), Ljiljana Blagojevic (Mira), Igor Galo (Pavle), Rade Colovic, Mladen Nelevic (Veljko), Demeter Bitenc (Colonnello Mueller). Italia, Jugoslavia, 1987. Durata: 85’. Produttore: Boro Banjac, Alessandra Spagnuolo. Produzione: A.M. Trading International, Banjack, B., Sarajevo. Distribuzione: Filman International. Visto censura: 82513 del 14-04-1987. Altri titoli: Wartime, Kommando Schwarzer Panther. TRAMA: Nel 1945, durante la seconda guerra mondiale, i nazisti hanno catturato uno scienziato svedese per costringerlo a creare armi di distruzione di massa per infliggere morte e danni ai nemici. Agenti americani e partigiani jugoslavi collaborano per rapire lo scienziato svedese al servizio dei tedeschi.

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La casa 3 Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Cinthia McGavin. Fotografia: Franco Delli Colli. Musica: Piero Montanari. Costumi: Massimo Lentini. Scenografia: Massimo Lentini. Montaggio: Rosanna Landi. Interpreti: Lara Wendel (Martha), Greg Scott (Paul), Mary Sellers (Susan), Kate Silver (Tina), Ron Houck (Mark), Martin Jay (Jim), Kristen Fougerousse (Henriett), Willy H. Moon (Pepo), Donald O’Brian (Volkos Jim), Susan Muller (madre di Henriett), Alain Smith (padre di Henriett), William J. Devany (tenente di polizia), Ralph Morse (coroner), Robert Champagne (necroforo), Hernest McKimmoro (guardiano del cimitero). Italia, Usa, 1988. Durata: 95’. Produttore: Joe D’Amato. Produzione: Filmirage. Distribuzione: Artisti Associati International. Visto censura: 83280 del 23-01-1988. VM 14. Altri titoli: Ghosthouse, La maison du cauchemar, Ghost House. TRAMA: In una villa non lontana da Boston, vengono uccisi in modo atroce e misterioso il capofamiglia Sam e la moglie; la loro figlioletta, Henriette, trova anche lei la morte in cantina, dove il severo padre l’aveva rinchiusa per castigo, in quanto la fanciulla aveva inspiegabilmente ammazzato il gatto di casa. Vent’anni dopo il lugubre fatto, si ritrovano nella casa maledetta, disabitata da quel tragico giorno, sei giovani: i due fidanzati Paul e Martha, accorsi sul posto poiché il ragazzo, radioamatore, ha scoperto che proprio da quel luogo provengono strane grida di terrore da lui udite alla radio. Ci sono poi Mark, Jim, Tina e Susan, arrivati nei pressi della villa con camper e moto per trascorrere qualche giorno nella pace della campagna. A dare a tutti un funereo benvenuto giunge un folle vecchio guardiano zoppo, Valkos, che induce i ragazzi ad andar via da là. Ma i giovani sono intenzionati a chiarire il mistero di quelle grida angosciose registrate da Paul: iniziano così le diaboliche avventure dei sei. Tina è ossessionata da una bella e angelica fanciulla bionda (che poi si rivelerà essere quella Henriette morta tanti anni prima), abbracciata a un grosso pupazzo dallo sguardo minaccioso; Jim vede la stessa bambina nella cantina della casa e, in quel medesimo istante, viene ucciso da un ventilatore impazzito. Viene chiamata la polizia: Mark, per salvare Tina da un’aggressione del guardiano folle, viene ferito dal bruto. Sopraggiunge la polizia e il tenente Ferguson attribuisce al vecchio Valkos la morte di Jim. Ma la cosa non convince nessuno: 516 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la causa di tutto è in quella casa. Intanto Mark, ferito, viene condotto da Susan e Paul all’ospedale. Martha ha anche lei delle spaventose visioni di Henriette e del suo ambiguo amato giocattolo sia in cantina che nella stanza della bambina: anzi proprio qui la ragazza è aggredita dallo strano pupazzo dall’espressione malvagia. Paul prosegue le sue ricerche: scopre che Sam, padre di Henriette, lavorava in un’impresa di pompe funebri e aveva la mania di trafugare dalle bare oggetti di qualche valore, causando varie discussioni col suo socio Gaffey che, alla sua morte, subentrò nell’impresa. Ma anche quest’ultimo, dopo aver parlato a Paul, viene ucciso barbaramente da Valkos che fugge per non farsi prendere dalla polizia. Paul sa anche altre cose su Sam dal guardiano del cimitero: i morti, sostiene il vecchio, non trovano pace se hanno ricevuto dei torti e, quindi, tutta la serie di atrocità avvenute nella casa di Sam hanno la loro spiegazione nel furto che quest’ultimo ha compiuto quando ha sottratto quel pupazzo da una bara per donarlo a sua figlia. I defunti si vendicano, aggiunge l’anziano custode, e scatenano forze malvagie su quanti osano tormentarli ulteriormente. Per Paul è una folgorazione: frattanto alla villa anche Tina è stata uccisa. Mark trova la morte per mano di Susan che, in preda a una travolgente paura, lo pugnala non riconoscendolo. Inoltre, è scoperto il corpo di un giovane autostoppista che aveva trovato rifugio nella casa maledetta. Susan è salva per miracolo. Martha, che per difendersi dal pazzo Valkos, si era rinchiusa proprio nella tomba di Henriette, viene liberata in extremis da Paul. Alla fine, anche Valkos si impicca. Paul decide di dare fuoco alla tomba della bambina: dopo questo fatto tutto sembra tornare a posto. Si abbatte su quella villa infestata da forze maligne un benefico temporale che ogni cosa sembra purificare. Paul e Martha tornano a Boston e riprendono la vita di sempre. Ma una mattina la ragazza vede in una vetrina di giocattoli lo stesso pupazzo di Henriette: rimane paralizzata per lo spavento, in quello stesso istante Paul, che stava per raggiungerla, viene investito e ucciso da un pullman.

Nightmare Beach – La spiaggia del terrore Regia: Harry Kirkpatrick (Umberto Lenzi). Soggetto: Vittorio Rambaldi, Harry Kirkpatrick (Umberto Lenzi). Sceneggiatura: Harry Kirkpatrick (Umberto Lenzi). Musiche: Claudio Simonetti. Fotografia: Antonio Climati. Montaggio: John Rawson. Scenografia: Federico Padovan. 517 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Interpreti: Nicolas de Toth (Skip), Sarah Buxton (Gail), Rawley Valverde (Ronnie), Lance Le Gault (Reverendo Bates), Michael Parks (Dottor Willet), John Saxon (Strycher), Ben Stotes (Al), Kristy Lachance (Lori), Yamilet Hidalgo (Trina), Luis Valderama (Dawg), Fred Buck (Sindaco Loomis), Debra Gallagher (Rachael). Usa, 1989. Durata: 90’. Produttore: William J. Immerman, Josi W. Konski. Produzione: Elpico Cinematografica, Laguna Films, Overseas FilmGroup. VM 18. Altri titoli: Pesadilla en la playa, Nightmare Beach. TRAMA: Nella cittadina balneare di Spring Break, centinaia di giovani, provenienti da tutta l’America, si ritrovano per divertirsi nei modi più diversi. Tra loro ci sono due amici, Skip e Ronnie, il primo riflessivo e timido, il secondo sicuro di sé e intenzionato a fare follie. Nella zona imperversano, in sella alle loro potenti moto, i componenti di una banda, i Demoni, con a capo Dawg. Dawg e i suoi hanno un culto morboso per il loro ex capo, Diablo, giustiziato sulla sedia elettrica, che, proclamandosi innocente fino alla fine, aveva promesso ai suoi carcerieri di tornare a vendicarsi. Quando si viene a sapere che il suo corpo è stato trafugato dal cimitero, si propaga un’ondata di terrore. Nella cittadina, fra pazzie di ogni genere compiute dai giovani sfrenati vacanzieri, cominciano ad avvenire strani omicidi: si trovano uno dopo l’altro i corpi carbonizzati o strangolati di una ragazza che faceva l’autostop, del portiere guardone di un albergo, di una ragazza che fingendosi una studentessa povera si concedeva ai suoi benefattori, di un’altra ragazza in un camper, dello stesso Ronnie, della fidanzata di Dawg, e infine di un giovanotto che si divertiva a organizzare scherzi macabri. Il sergente Strycher della polizia locale, il sindaco e il dottor Willet dell’ospedale cittadino non hanno la minima idea di chi potrebbe essere l’assassino e, per bloccare la psicosi collettiva, fanno arrestare Dawg e lo incolpano di tutti gli orrendi delitti. Ma la sua banda riesce a liberarlo: Skip, intanto, dopo la morte dell’amico Ronnie, vuole scoprire la verità sul vero omicida e viene aiutato da Gail, sorella di una delle ragazze uccise. I due ragazzi affrontano Strycher che non ha la coscienza pulita e fanno in modo che tanti scandali vengano alla luce. Il dottor Willet per questo si uccide. Il tempo stringe: il vero assassino, un misterioso motociclista con un casco nero sta per essere smascherato.

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Le porte dell’inferno Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Olga Pehar. Fotografia: Sandro Mancori. Montaggio: Vanio Amici. Musiche: Piero Montanari. Scenografia: Dario Micheli. Costumi: Giovanna Deodato. Interpreti: Barbara Cupisti (Erna), Pietro Genuardi (Paul Brandini), Lorenzo Majnoni (Manfred), Giacomo Rossi Stuart (dott. Jones), Gaetano Russo (Maurizio Fesner), Andrea Damiano (archeologa Laura Benson), Mario Luzzi (Teo), Paul Müller (Simone di Reims). Produttore: Luigi Nannerini, Antonino Lucidi. Produzione: Distribuzione Alpha Cinematografica. Distribuzione: Avo Film Edizioni, Cinefear. Italia, 1989. Durata: 90’. Altri titoli: Gates of Hell, Las puertas del infierno, The Hell’s Gate. TRAMA: Un gruppo di speleologi si fa calare in una grotta per soccorrere un loro collega, recatosi nel luogo per battere un record di permanenza solitaria, avvertendoli dell’imminente pericolo che lo minacciava. Il gruppo scopre, così, un altare costruito nel Medioevo da un gruppo di monaci considerati eretici. I monaci tornano come fantasmi e iniziano a perseguitare gli esploratori.

Paura nel buio Regia e soggetto: Humphrey Humbert (Umberto Lenzi). Sceneggiatura: Olga Pehar. Musiche: Carlo Maria Cordio. Montaggio: Kathleen Stratton (Rosanna Landi). Fotografia: Jerry Phillips. Interpreti: Joe Balogh (Mark Glazer), Josie Bissett (Daniela Foster), Jason Saucier (Kevin), Robin Fox (Mr. Glazer, padre di Mark), Fay W. Edwards (Miss Baker, la segretaria), Sandra Parker, Michael J. Lewis, Julia Howards. Italia, Usa, 1989. Durata: 95’. Produttore: Joe D’Amato. Produzione: Filmirage. VM 14. Altri titoli: Asesino de la carretera 2, Hitcher in the Dark, Hitcher 2. TRAMA: Mark è un ventiduenne mentalmente disturbato che nutre fantasie sessuali nei confronti della madre morta. Spesso vaga in automobile per la sua città alla ricerca di donne con cui mettere in pratica il suo deviato 519 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

complesso d’Edipo. Un giorno s’imbatte in Daniela, che assomiglia terribilmente a sua madre, e la ragazza commette l’errore di accettare un passaggio da lui.

La casa del sortilegio (Film Tv) Regia e sceneggiatura: Umberto Lenzi. Soggetto: Gianfranco Clerici, Daniele Stroppa. Musiche: Claudio Simonetti. Fotografia: Giancarlo Ferrando. Montaggio: Alberto Moriani. Costumi: Valentina Di Palma. Interpreti: Andy J. Forest (Luca Balmas), Sonia Petrovna (Marta Balmas), Susanna Martinková (Elsa Balmas), Marina Giulia Cavalli (Sharon Mason), Maria Stella Musy (Debora Balmas), Paul Müller (Andrew Mason), Alberto Frasca (Steven), Maria Clementina Cumani Quasimodo (strega), Tom Felleghy (ispettore di polizia). Italia, 1989. Durata: 86’. Produttore: Renato Fiè. Produzione: Reteitalia, Dania Film. Altri titoli: Ghosthouse 4: Haus der Hexen, House of Witchcraft, Totentanz der Hexen II, The House of Witchcraft. TRAMA: Un ragazzo, Luca, è perseguitato da un incubo terribile e inspiegabile: sogna di fuggire finendo in una casa nella campagna, dove una strega orribile mette a bollire la sua testa in un calderone d’acqua bollente. Sua moglie, con cui però non va troppo d’accordo, decide di trascorrere un periodo fuori città con lui per riposare un po’. La casa, però, si rivela la stessa dell’incubo ricorrente; con loro vivono anche un pianista cieco e sua nipote, proprietari della casa. Ben presto incominceranno una serie di uccisioni misteriose e Luca vedrà la strega del suo incubo compiere ognuno degli omicidi, di cui resterà vittima anche sua moglie. La nipote del pianista si rivelerà in realtà la terribile strega che ossessiona Luca e il ragazzo finirà decapitato, con la testa in un calderone, proprio come nel suo incubo.

La casa delle anime erranti (Film Tv) Regia, soggetto, sceneggiatura: Umberto Lenzi. Musiche: Claudio Simonetti. Fotografia: Giancarlo Ferrando. Montaggio: Alberto Moriani. Costumi: Valentina Di Palma. 520 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Interpreti: Joseph Alan Johnson (Kevin), Stefania Orsola Garello (Carla), Matteo Gazzolo (Massimo), Laurentina Guidotti (Mary), Gianluigi Fogacci (Guido), Yamanouchi Haruhiko (Asha Krisna, il monaco), Licia Colò (Daria), Costantino Meloni (Gianluca), Charles Borromel, Dino Jaksic, Marina Reiner, Beni Cardoso, Fortunato Arena, Massimo Sarchielli (custode del cimitero), Fabio Branchini, Giulio Massimini (bibliotecario),Vincenzo Menniti. Produttore: Renato Camarda, Renato Fiè. Produzione: Reteitalia, Dania Film. Italia, 1989. Durata: 89’. Altri titoli: House of Lost Souls. TRAMA: A causa della chiusura di una strada dovuta a uno smottamento, un gruppo di ragazzi in vacanza-studio è costretto a rifugiarsi in un vecchio albergo isolato, denominato Hotel dell’eremita. I ragazzi non possono sapere che, vent’anni prima, l’albergo era stato luogo di una terribile strage. I fantasmi senza pace delle vittime si aggirano ancora tra le mura dell’albergo e, disturbati dalla presenza degli ignari ragazzi, incominciano a mietere vittime.

Cop Target (obiettivo poliziotto) Regia: Umberto Lenzi [Humphrey Humbert]. Sceneggiatura: Raimondo Del Balzo. Fotografia: Giancarlo Ferrando. Musiche: Lanfranco Perini. Montaggio: Adriano Tagliavia. Scenografia: William Baker. Interpreti/Actors: Robert Ginty (Farley Wood), Charles Napier (John Granger), Barbara Bingham (Deborah Kent), Nina Sue Borrel (Priscilla Kent), Jeff Moldovan (José Peynado), Bradford Devine, Tommy Bull, Bruce Bartlett, Harry Schreiber, Terri Baer, Alain Marino. Italia, Usa, 1990. Durata: 90’. Produttore: Fabrizio De Angelis. Produzione: Europa Films. Visto censura: 85967 del 13-09-1990. Altri titoli: Cop Target, Dinero sucio. TRAMA: Un abilissimo poliziotto americano, Farley Woods, è incaricato del difficile compito di scortare in un paese dell’America Centrale Deborah Kent, vedova di un diplomatico ucciso perché aveva debellato una gang di narcotrafficanti, e la figlia Priscilla di otto anni. L’affascinante Deborah si 521 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

reca in quel paese dei Caraibi per ricevere un riconoscimento alla memoria del marito, ma, giunti a destinazione, la piccola Priscilla viene rapita e Farley rimane ferito nello scontro con i rapitori. Questi pretendono un riscatto enorme, sostenendo che il marito di Deborah era il loro tesoriere, che si era impadronito di tutto il denaro e per questo era stato ucciso. Adesso rivogliono quel denaro come prezzo della restituzione della bimba. All’appuntamento con i rapitori ci sono tutti, compreso, inaspettatamente, un rappresentante dell’ambasciata americana. Priscilla viene liberata, ma nello scontro che ne segue avvengono i più incredibili cambiamenti di fronte tra le parti in causa.

Demoni 3 Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Olga Pehar. Fotografia: Maurizio Dell’Orco. Musica: Franco Micalizzi. Scenografia: Giuliana Bertozzi. Montaggio: Vanio Amici. Costumi: Giuliana Bertozzi. Interpreti: Keith Van Hoven (Keith), Joe Balogh (Jessica), Sonia Curtis (Dick), Philip Murray (Josè) , Juliana Texeira (Sonia), Maria Alves (Maria). Italia, 1991. Durata: 88’. Produttore: Giuseppe Gargiulo. Produzione: Filmakers S.r.l. Distribuzione: Center Video. Visto censura: 86925 del 19-09-1991. Altri titoli: Demonios negros, Black Demons, Black Zombies. TRAMA: A Rio per studiare le cultura locale, tre ragazzi assistono a una cerimonia di magia nera. Poi uno dei tre ha l’infelice idea di provarci in proprio, evocando gli spiriti vendicativi di sei schiavi uccisi dai loro padroni. Il gruppo di schiavi ritorna in vita sotto forma di zombi dopo un rito voodoo: i morti viventi a loro tempo erano stati sadicamente maltrattati dal loro bianco schiavista. Così la loro vendetta dall’oltretomba si consumerà ai danni di questi ragazzi.

Detective Malone Regia: Bob Collins (Umberto Lenzi). Sceneggiatura: Gaetano Russo. Fotografia: John Wyler. Montaggio: Vanio Amici. Musiche: Detto Mariano. 522 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Interpreti: Fred Williamson (investigatore Robert Malone), Karl Landgren (Bruno Bilotta) (Caleb Sakur), Bobby Rhodes (investigatore Jackson), Ronald Russo (Gaetano Russo) (Barry Wilson), Elena Wiedermann (Evelin Wilson), Maurice Poli (Max Walker), Richard Brown (Hamid), Elisabeth Lewis, Walter Powel, Angelo Ragusa, Roy Vauchan, Michelle Goldsmith. Italia, 1991. Durata: 88’. Produzione: New Way Distribution. Distribuzione: Immagine S.r.l. Altri titoli: Code-Name Insallah, Black Cobra 4. TRAMA: Robert Malone, poliziotto violento di Chicago, viene inserito in un programma di scambio di agenti con l’Interpol (in realtà solo per fargli cambiarre aria) e inviato a Manila. Nemmeno arriva all’aeroporto e già si trova in difficoltà. L’agente che lo affianca avrà non pochi problemi con il compagno che, invece di imparare da lui tecniche di investigazione più pacate e scientifiche, gli insegnerà che spesso la violenza è l’unica arma.

Caccia allo scorpione d’oro Regia e soggetto: Umberto Lenzi. Sceneggiatura: Olga Pehar. Fotografia: Maurizio Dell’Orco. Musica: Franco Micalizzi. Scenografia: Giuliana Bertozzi. Montaggio: Alberto Moriani. Interpreti: Andy J. Forest (Jim Foster), Christine Leigh (Mary Maitland), David Brandon (Tom Maitland), Dennis Bourke (McDonald), Philip Wagner, Cecil Thiré. Italia, 1991. Durata: 100’. Produttore: Giuseppe Gargiulo. Produzione: Filmakers S.r.l. Visto censura: 86905 del 06-08-1991. Altri titoli: Die Jagd nach dem goldenen Skorpion, Hunt for the Golden Scorpion. TRAMA: Mary Maitland riceve un messaggio che le comunica che il fratello è morto in Amazzonia. Per accertarsi della notizia si reca all’ambasciata, ma nessuno sembra sapere nulla dell’uomo che le ha consegnato il messaggio. Quando rientra a casa, Mary nota che qualcuno è entrato nella sua abitazione alla ricerca di qualcosa. Dopo aver ricevuto una lettera dal fratello, presumibilmente morto, Mary decide di partire per l’Amazzonia, ritrovandosi alle prese con un tesoro nascosto per cui in molti sarebbero disposti a uccidere. 523 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Hornsby e Rodriguez – Sfida criminale Regia: Umberto Lenzi. Soggetto: Vittorio M. Testa. Sceneggiatura: Vittorio M. Testa, Steven Luotto, Antonio Miglietta. Fotografia: Marco Onorato. Costum: Silvio Laurenzi. Scenografia: Giacomo Calò Carducci. Montaggio: Alberto Moriani. Interpreti: Charles Napier (Brian Hornsby), Stefano Sabelli (Rodriguez), Iris Peynado (Candelaria), David Brandon (Jimmy Gandelman), Bettina Giovannini (Manuela), Stelio Candelli (John Mackenzie), Salvatore Lago (Victor Cabeza), David Warbeck (Frank Mendoza), Italo Clemente, Marco Felicioli, Enzo Frattari, Marco Onorato, Riccardo Petrazzi, Roberto Ricci, Marcello Tallone, Emy Valentino, Doris Susanna Vonthury, Elena Wiederrmann. Italia, 1992. Durata: 116’. Produttore: Ezio Palaggi. Produzione: Trinidad Film, Reteitalia. Distribuzione: Deantir. Visto censura: 87763 del 17-06-1992. Altri titoli: Hornsby and Rodriguez, Mean Tricks. TRAMA: Brian Hornsby, un agente dell’FBI a fine carriera, si dimette e si trasferisce a Santa Cruz, Caraibi, per affrontare il collega Mendoza, sul quale corrono voci di corruzione. Mentre tra i due è in corso un chiarimento, Mendoza viene assassinato, ma, prima di morire, fa a Hornsby il nome di Laughton. Hornsby, sconvolto, inizia un’indagine alla quale si unisce l’ispettore della polizia locale Rodriguez. Quest’ultimo scopre che Laughton è morto tre anni prima nell’esplosione di un motoscafo provocata appunto da Mendoza e Hornsby riesce a convincere il giovane poliziotto che Laughton deve essere riuscito a salvarsi e dirige una grossa organizzazione di narcotraffico. I due continuano l’inchiesta alla quale si unisce Candelaria, un’attraente segretaria del comando di polizia. Con il gruppo inizia a collaborare un fotoreporter, Jimmy Gandelman, molto introdotto negli ambienti equivoci della città, che li tradirà spingendoli su una falsa pista. I due poliziotti riescono a sbarazzarsi di Jimmy e a identificare Laughton, un vip insospettabile. Hornsby lo uccide, vendicando cosi l’amico e chiudendo la partita con il pericoloso criminale.

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GALLERIA FOTOGRAFICA

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Umberto Lenzi con Vasco Pratolini

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Umberto Lenzi sul set di Dalle tenebre al mare (1955)

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Umberto Lenzi sul set di I ragazzi di Trastevere (1956)

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I ragazzi di Trastevere (1956)

Umberto Lenzi sul set di I ragazzi di Trastevere (1956) con Germano Longo e Maria Pia Giordani

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Umberto Lenzi sul set di Mia Italida stin Ellada (Vacanze ad Atene) (1958)

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Sul set di Le avventure di Mary Read (1961)

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Le avventure di Mary Read (1961)

Umberto Lenzi con De Sica e Misiano (1962)

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Sul set di Duello nella Sila (1962)

Sul set di Duello nella Sila (1962)

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Sul set di Il trionfo di Robin Hood (1962) con Gia Scala

Con Hildegarde Knef per Caterina di Russia

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Caterina di Russia

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Sul set di L’invincibile cavaliere mascherato con Helen Chanel

Sul set di Zorro contro Maciste (1963) con Moira Orfei

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Sul set di L’ultimo gladiatore con Lisa Gastoni

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Sul set di La montagna di luce

A 008, operazione sterminio, Alberto Lupo

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Sul set di Le spie amano i fiori

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Locandina di Kriminal (1966)

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Kriminal (1966)

Umberto Lenzi con Romano Mussolini, autore della colonna sonora di Kriminal

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Umberto Lenzi con Sal Borgese

Sul set di Attentato ai tre grandi (1967)

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Sul set di Attentato ai tre grandi

Sul set di Una pistola per cento bare

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Umberto Lenzi sul set di La legione dei dannati (1969)

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Umberto Lenzi con Jack Palance sul set di La legione dei dannati (1969)

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La legione dei dannati (1969)

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La legione dei dannati (1969)

Umberto Lenzi, Carroll Baker e Jean-Louis Trintignant sul set di Così dolce… così perversa

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Umberto Lenzi, Carroll Baker e Jean-Louis Trintignant sul set di Così dolce… così perversa (1969)

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Umberto Lenzi con Carroll Baker

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Umberto Lenzi con Jean Sorel sul set di Paranoia (1970)

Umberto Lenzi con Anna Proclemer sul set di Paranoia (1970)

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Umberto Lenzi con Ray Lovelock e Irene Papas sul set di Un posto ideale per uccidere (1971)

Umberto Lenzi con Ornella Muti e Irene Papas sul set di Un posto ideale per uccidere (1971)

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Umberto Lenzi con Ornella Muti e Irene Papas sul set di Un posto ideale per uccidere (1971)

Umberto Lenzi con Antonio Sabato e Marisa Mell sul set di Sette orchidee macchiate di rosso (1972) 555 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Umberto Lenzi sul set di Il paese del sesso selvaggio (1972)

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Umberto Lenzi sul set di Il paese del sesso selvaggio (1972)

Umberto Lenzi con Me Me Lay sul set di Il paese del sesso selvaggio (1972)

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Umberto Lenzi con Carroll Baker

Umberto Lenzi sul set di Il coltello di ghiaccio (1972)

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Umberto Lenzi con Evelyn Stewart e Carroll Baker sul set di Il coltello di ghiaccio (1972)

Umberto Lenzi sul set di Milano rovente (1973)

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Umberto Lenzi sul set di Milano rovente con Marisa Mell e Antonio Sabato (1973)

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Umberto Lenzi con Robert Hoffman sul set di Spasmo

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Umberto Lenzi con Tomas Milian sul set di Milano odia: la polizia non può sparare

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Milano odia: la polizia non può sparare (1974)

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Milano odia: la polizia non può sparare (1974)

Sul set di Gatti rossi in un labirinto di vetri (1975)

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Umberto Lenzi con John Richardson sul set di Gatti rossi in un labirinto di vetri (1975)

Umberto Lenzi con Martine Brochard sul set di Gatti rossi in un labirinto di vetri (1975) 566 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Umberto Lenzi con Tomas Milian sul set di Il giustiziere sfida la città (1975)

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Umberto Lenzi con Tomas Milian e Mario Piave sul set di Il giustiziere sfida la città (1975)

Umberto Lenzi con Joseph Cotten sul set di Il giustiziere sfida la città (1975) 568 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Festa di fine film per Il giustiziere sfida la città (1975)

Adolfo Lastretti prende la museruola d'oro alla fine di Il giustiziere sfida la città (1975)

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Cinema Adriano, Roma, 1976

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Umberto Lenzi, dedica a Maria Rosaria Omaggio

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Umberto Lenzi al 18°compleanno di Maria Rosaria Omaggio

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Umberto Lenzi con John Saxon

Umberto Lenzi con Maurizio Merli sul set di Napoli violenta (1976)

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Umberto Lenzi sul set di Napoli violenta (1976)

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Umberto Lenzi sul set di Napoli violenta (1976)

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Umberto Lenzi sul set di Napoli violenta (1976)

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Umberto Lenzi sul set di Napoli violenta (1976)

Umberto Lenzi con Tomas Milian e John Saxon sul set di Il cinico, l'infame, il violento (1977)

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Umberto Lenzi sul set di La banda del gobbo (1977)

Umberto Lenzi con Isa Danieli sul set di La banda del gobbo (1977)

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Umberto Lenzi alla Magliana sul set di La banda del gobbo (1977)

Umberto Lenzi sul set di Il grande attacco

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Umberto Lenzi sul set di Il grande attacco

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Umberto Lenzi sul set di Il grande attacco

Umberto Lenzi con Ray Lovelock sul set di Il grande attacco

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Umberto Lenzi con Giuliano Gemma sul set di Il grande attacco

Umberto Lenzi con Henry Fonda sul set di Il grande attacco

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Umberto Lenzi con John Huston sul set di Il grande attacco

Umberto Lenzi con Henry Fonda sul set di Il grande attacco 583 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il grande attacco

Il grande attacco

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Umberto Lenzi sul set di Contro 4 bandiere (1979)

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Umberto Lenzi con George Peppard sul set di Contro 4 bandiere (1979)

Umberto Lenzi con Josè Luis Alcaine sul set di Contro 4 bandiere (1979)

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Umberto Lenzi con Annamaria Rizzoli sul set di Scusi, lei è normale? (1979)

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Umberto Lenzi con Ivan Rassimov

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Umberto Lenzi con Me Me Lay sul set di Mangiati vivi! (1980)

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Umberto Lenzi con Me Me Lay sul set di Mangiati vivi! (1980)

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Umberto Lenzi con Paola Senatore sul set di Mangiati vivi! (1980)

Umberto Lenzi con Janet Agren e Ivan Rassimov sul set di Mangiati vivi! (1980)

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Umberto Lenzi con Lorraine De Selle sul set di Cannibal Ferox (1981)

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Umberto Lenzi con Lorraine De Selle sul set di Cannibal Ferox (1981)

La Prima di Cannibal Ferox a New York

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Umberto Lenzi con Sabrina Siani sul set di Incontro nell'ultimo paradiso (1982)

Umberto Lenzi sul set di La guerra del ferro – Ironmaster (1983)

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Umberto Lenzi sul set di Un ponte per l'inferno (1986)

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Umberto Lenzi con Joe D’Amato sul set di La Casa 3 (1988)

Sul set di Le porte dell'inferno (1989)

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Sul set di Demoni 3 (1991)

Con Joe Balogh sul set di Demoni 3 (1991)

599 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Umberto Lenzi con Sage Stallone nel 1996

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Umberto Lenzi con Sage Stallone nel 1996

Umberto Lenzi con Bob Murawski nel 1996

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Umberto Lenzi con Sergio Martino, Joe Dante, Quentin Tarantino, Marco Giusti e Marco Müller. Italian Kings of the B al Festival del cinema di Venezia, 2004

Umberto Lenzi con Enzo G. Castellari e i Manetti Bros.

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Umberto Lenzi con Eli Roth al forum sul cinema di genere italiano durante la Festa del cinema di Roma, 2013

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Ringraziamenti Si ringrazia chi, in un modo o nell’altro, ci ha aiutato a far nascere questo volume: Lisa Bernardini, Isabella Gullo, Stefano Iacchetti, Dania Martino, Bob Murawski, Maria Rosaria Omaggio, Luca Pallanch, Maria Cristina Pascucci, Paola Ponzetti, Lorenzo Procacci Leone, Eli Roth, Paolo Spagnuolo e, soprattutto, Alessandra Lenzi, i cui suggerimenti, materiali e consigli sono sempre stati particolarmente preziosi per la costruzione del libro.

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INDICE

I PARTE - LA FILMOGRAFIA COMMENTATA a cura di GORDIANO LUPI

Vita e opere di Umberto Lenzi................................................................ p.

7

Umberto Lenzi si racconta....................................................................... p. 15 La produzione di Umberto Lenzi ........................................................... p. 17 La prima parte della carriera – Il cinema avventuroso ....................... p. 21 Kriminal (1966) ......................................................................................... p. 29 Kriminal e Il marchio di Kriminal ......................................................... p. 37 Bellici, spy movie e western fine anni Sessanta ................................... p. 41 I gialli, i thriller e… altro ......................................................................... p. 45 Anni '70: dai gialli al poliziesco, tra cannibalici e war movie ............ p. 51 Anni '80: l'approdo all'horror e al comico ............................................. p. 113

II PARTE – APPRONDIMENTI CRITICI a cura di MATTEO MANCINI Il Lenzi degli esordi tra avventura, cappa e spada e spionistici ........ p. 165 Due western come contropartita per il debutto nel macaroni combat ........................................................................................................ p. 187 607 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il war movie lenziano: Romanticismo e amicizie anteposte all'azione .................................................................................................... p. 201 “Caro Mancini...” Il ricordo personale di Umberto Lenzi .................. p. 235

III PARTE - SAGGI CRITICI, INTERVISTE, FILMOGRAFIA COMPLETA, GALLERIA FOTOGRAFICA a cura di DAVIDE MAGNISI Milano, Italia, a mano armata ................................................................. p. 245 Umberto Lenzi, quando la critica era rovente ...................................... p. 255 Ricordi fraterni. Intervista a Piero Angelo Lenzi ................................. p. 319 Agli esordi del cinema di Lenzi. Intervista a Wandisa Guida............ p. 327 La macchina cinema. Intervista a Lisa Gastoni .................................... p. 333 Brividi di guerra. Intervista a Dario Argento ....................................... p. 337 Così dolce… così perversa. Intervista a Erika Blanc ............................ p. 347 Donne e film di genere. Intervista a Laura Belli................................... p. 357 Dalla Francia in un labirinto di vetro cinematografico. Intervista a Martine Brochard ................................................................. p. 365 Esordi a mano armata. Intervista a Maria Rosaria Omaggio ............. p. 375 Fotografia di Lenzi. Intervista a Nino Celeste ...................................... p. 385 Cicciabomba splendida splendente. Intervista a Donatella Rettore ................................................................. p. 395

608 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Il montaggio lenziano. Intervista a Eugenio Alabiso .......................... p. 401 Musica per Lenzi. Intervista a Franco Micalizzi .................................. p. 411 Tutti i colori di Lenzi. Intervista a Sergio Martino ............................... p. 429 Fenomenologia del poliziesco anni ‘70. Intervista a Giancarlo De Cataldo .......................................................... p. 441 Uno sguardo dall’America. Intervista a Bob Murawski ..................... p. 451 Cannibal Hostel. Intervista a Eli Roth ................................................... p. 457 Filmografia completa ............................................................................... p. 467 Galleria fotografica ................................................................................... p. 525 Ringraziamenti.......................................................................................... p. 605

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Edizioni Il Foglio www.edizioniilfoglio.com

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