Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele. Con un'intervista dell'autore a Umberto Eco [Second ed.]


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Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele. Con un'intervista dell'autore a Umberto Eco [Second ed.]

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© 2011 & 2014 MARCO TRAINITO PRIMA EDIZIONE: IL PRATO - COLLANA “I CENTOTALLERI” PADOVA 2011 EDIZIONE IN FORMATO EBOOK: 2014

MARCO TRAINITO

Umberto Eco: Odissea nella Biblioteca di Babele Con un’intervista dell’autore a Umberto Eco

INDICE Avvertenza Premessa Introduzione TRA NARRATIVA E FILOSOFIA DEL SEGNO Capitolo 1 BENVENUTI A BLITIRIA Capitolo 2 SFIDA AL LABIRINTO Capitolo 3 L’INIZIAZIONE DEL LETTORE Conclusione CHECK-UP PER UN COMPLEANNO Appendice 1 DIALOGO CON UMBERTO ECO Appendice 2 SOMMARIO ANALITICO DEL PENDOLO DI FOUCAULT Riferimenti bibliografici

Come mai la filosofia è una costruzione così complicata? Certo che se fosse quella cosa ultima, indipendente da ogni esperienza, per la quale vuoi farla passare, dovrebbe essere assolutamente semplice. – La filosofia scioglie i nodi del nostro pensiero, perciò il suo risultato deve essere semplice, ma la sua attività deve essere tanto complicata quanto i nodi che scioglie. (Ludwig Wittgenstein, Big Typescript, XII, 90.1, tr. it. Einaudi 2002, p. 421) Tra poco sarai (…) un nome o neppure un nome. E il nome non è che rumore o un’eco. (Marco Aurelio, I ricordi, tr. it. Einaudi 1968, V, 33)

AVVERTENZA

Per comodità, soprattutto nei riferimenti bibliografici si è ritenuto opportuno indicare i romanzi di Eco con una sigla semplice e intuitiva, secondo la seguente corrispondenza: R : Il nome della rosa (Bompiani, Milano 1980) P : Il pendolo di Foucault (Bompiani, Milano 1988) I : L’isola del giorno prima (Bompiani, Milano 1994) B : Baudolino (Bompiani, Milano 2000) L : La misteriosa fiamma della regina Loana (Bompiani, Milano 2004) C: Il cimitero di Praga (Bompiani, Milano 2010) Il numero che segue la sigla indica quello della pagina secondo l’impaginazione della prima edizione (non sempre mantenuta nelle edizioni tascabili). I numeri separati dal trattino indicano che il passo relativo sta a cavallo tra le due pagine corrispondenti, mentre i numeri separati dalla virgola o dalla congiunzione “e” indicano passi diversi nelle diverse pagine corrispondenti, di solito accomunati da qualcosa. Per gli altri testi citati si è adottato di solito il sistema “Cognome data: pagina”, il cui scioglimento si trova nei “Riferimenti bibliografici” in fondo al volume. Per le opere straniere, la data che segue il cognome dell’autore indica quasi sempre quella della prima edizione originale (qualche eccezione riguarda i classici della letteratura e della filosofia), mentre il numero di pagina si riferisce alla traduzione italiana indicata in bibliografia.

PREMESSA

Ogni atto di lettura è una transazione difficile fra la competenza del lettore (la conoscenza del mondo condivisa dal lettore) e il tipo di competenza che un dato testo postula per essere letto in maniera economica. (Eco 1990: 110)

In un articolo apparso su «L’Espresso» del 22 maggio 1983, intitolato “La moltiplicazione dei media”, Umberto Eco esordiva descrivendo la delusione provata da lui e dai suoi amici dopo aver rivisto in televisione 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Eppure, riconosceva Eco, dall’epoca della sua uscita (1968) il film aveva lasciato nel ricordo «ammirazione, affetto e rispetto», perché aveva provocato stupore «per le straordinarie novità tecniche e figurative» e per «il suo respiro metafisico» (in Eco 1983: 212). Certo, l’inizio con le scimmie e il dramma di HAL 9000 sono ancora grande cinema, diceva Eco, ma le astronavi non-aerodinamiche sono ormai roba per giocattoli e risultano superate in verosimiglianza e complessità per esempio da quelle di Guerre stellari, di cui pure costituiscono il modello. Riflettendo sulle ragioni di questo effetto di delusione, Eco osservava che esso dipende dalla natura dei mass-media, i

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quali, essendo legati più alla realizzazione tecnica che all’invenzione, sono destinati ad essere migliorati dagli imitatori, contrariamente a quanto avviene nella grande arte, dove i pittori caravaggeschi non possono mai competere con Caravaggio e Carolina Invernizio non potrà mai essere confusa con Balzac. Chissà se Eco rimarrebbe deluso anche oggi che abbiamo la possibilità di rivedere il film di Kubrick con un grado di risoluzione delle immagini e di nitidezza dei colori tale che il suo impatto visivo risulta incommensurabile con quello prodotto dagli schermi televisivi del 1983, benché naturalmente l’impressione di ‘antico’ della tecnologia, dei costumi e degli arredamenti sia ancora e più che mai ineliminabile. Ma non è questo che qui ci interessa. Qui ci basta sapere che Eco ha subìto il fascino di questo film, al punto che in altra occasione, per dire che a volte «il modo simbolico esibisce una sua logica ferrea, se pur paranoide, e il simbolo è duro, geometrico e pesante», non trova di meglio che evocare il monolito nero in forma di levigatissimo parallelepipedo che appare in 2001: Odissea nello spazio (cfr. Eco 2002: 167). Il presente saggio sull’opera narrativa di Eco, condotto ponendo Il nome della rosa al centro del gruppo dei sei romanzi sia per ragioni di organizzazione formale sia perché a parere di chi scrive esso resta la summa di tutta la produzione echiana, intende usare il film di Kubrick come faro per illuminare un aspetto preciso dell’esperienza dei personaggi principali e dei lettori di Eco. Chiamando Odissea nella Biblioteca di Babele questa ipotesi di lettura, si intende proprio alludere a un approc-

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cio che, a partire dal viaggio conoscitivo di Ulisse, vede nella biblioteca dell’abbazia del Nome della rosa un modello possibile della nozione di Enciclopedia tanto cara a Eco, nei cui romanzi, che ne sono di volta in volta una simulazione in scala, personaggi e lettori si perdono, si specchiano e si conoscono come accade nei corridoi eternamente ricorsivi della biblioteca borgesiana e nello spazio kubrickiano. In tal modo, ciascuno dei romanzi di Eco può essere visto come un’odissea a sé, ma in qualche modo legata alle altre: Il nome della rosa come un’odissea nel labirinto della biblioteca dell’abbazia; Il pendolo di Foucault come un’odissea oltre i limiti dell’interpretazione; Baudolino come un’odissea nello spazio del Medioevo fantastico; L’isola del giorno prima come un’odissea nello spaziotempo barocco; La misteriosa fiamma della regina Loana come un’odissea nella memoria individuale e collettiva e infine Il cimitero di Praga come un’odissea nelle imposture della storia europea moderna. La rete di somiglianze di famiglia che tiene insieme i romanzi investe tutti i livelli, dal semplice dettaglio alla struttura. Per fare subito qualche esempio rapido, R e B condividono una buona porzione della biblioteca medievale; B e I condividono il problema cognitivo del riconoscimento percettivo e della definizione dell’ignoto; I e C condividono il tema del doppio; L e C quello della perdita e del recupero della memoria; P e C hanno in comune molta letteratura ermetica e complottista; P, I, B, L e C, con il loro movimento a spirale sull’asse del tempo, condividono la forma serpentina (ma sempre variata) dell’intreccio; R, P, I, B ed L giocano sul motivo del sogno e della ricerca dell’amore perduto; R, P,

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I e C sono variazioni sulla tecnica del manoscritto ritrovato, ecc. Inoltre, Belbo mostra di aver letto R, perché in P 27 e 328 ne cita l’incipit e l’explicit, mentre in L 23 e 215 Yambo mostra di aver letto P, perché di nuovo ne cita l’incipit e l’explicit. E il pollice che doleva al vecchio Adso nel freddo dello scriptorium (cfr. R 503), duole anche a Belbo (cfr. P 328), a Baudolino (cfr. B 16) e a Simonini (cfr. C 47). Tutti, poi, anche se con gradazioni diverse, sono delle rappresentazioni narrative del problema logico-filosofico, molto caro a Eco (cfr. Eco 2002: 292-323), della forza del falso, nonché dei suoi risvolti socio-politici. Come sanno i logici, il falso ha maggiore forza del vero, perché dal falso segue anche il vero, mentre dal vero segue solo il vero (ex falso sequitur quodlibet e ex vero nihil sequitur nisi verum dicevano già i medievali per sintetizzare quelli che oggi sono ben noti teoremi del calcolo proposizionale relativi all’implicazione). Ciò comporta che da premesse false possono essere dedotte validamente delle conseguenze vere: per esempio, se io credo che oggi sia domenica, anche se di fatto è martedì, posso validamente concludere che oggi non è giovedì, ed è vero. Il grave errore logico consiste nel credere poi che la conseguenza (vera) costituisca una conferma della credenza (falsa) di partenza, mentre, dal punto di vista della pura forma logica, si tratta solo di un token del type costituito da una riga dalla tavola di verità dell’operatore logico dell’implicazione, per cui si confonde la validità dello schema di inferenza con il valore di verità degli enunciati in gioco (in questo quello dell’antecedente). In un tale bias cognitivo sono caduti anche alcuni grandi filosofi e

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vi cade persino un raffinato logico e detective come Guglielmo da Baskerville. Figuriamoci, quindi, cosa accada alla gente comune (la cui credulità per esempio in materia di religione e astrologia è sfruttata in genere facendo leva proprio su questo bias) e ai ciarlatani dell’occultismo e dei complotti, come quelli turlupinati dai protagonisti del Pendolo di Foucault, i quali a loro volta rimarranno vittime del loro stesso scherzo; per non parlare dei potenti, per natura potenzialmente dannosissimi, manipolati da abili falsari come Baudolino e Simone Simonini. Lo stesso Eco usa spesso la metafora spaziale nelle sue tante esposizioni della nozione di Enciclopedia. Non solo la biblioteca dell’abbazia è un labirinto, come vedremo, ma “L’enciclopedia come Labirinto” è il titolo dell’ultima sezione de L’antiporfirio, e in Dall’albero al labirinto Eco ricorre a una suggestiva immagine planetaria: «potremmo raffigurarci gli stati (e strati) di quella che Putnam ha chiamato divisione sociale del lavoro linguistico ipotizzando una sorta di sistema solare (Enciclopedia Massimale) dove moltissime Enciclopedie Specialistiche compiono orbite di grandezza diversa intorno a un nucleo centrale (Enciclopedia Media), ma nel centro di quel nucleo dovremmo anche immaginare un brulicare di Enciclopedie Individuali che rappresentano in modo vario e imprevedibile le conoscenze enciclopediche di ciascun individuo» (Eco 2007b: 77). L’Enciclopedia Massimale, inoltre, «è dominata dal principio peirciano della interpretazione e quindi della semiosi illimitata» (Eco 1985: 356); in tal senso essa «è potenzialmente

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infinita» (Eco 2007b: 55). E a questo punto è inevitabile ricordare l’incipit de La Biblioteca di Babele: «L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali…» (in Borges 1984: 680). È interessante osservare, peraltro, che se qui si usa Kubrick per decifrare Eco, sarebbe possibile usare Eco per decifrare Kubrick. Anzi, per ricorrere al linguaggio della logica modale, si potrebbe dire che questa possibilità è necessaria, semplicemente perché si è già realizzata almeno una volta. In un saggio di Omar Calabrese su Kubrick, intitolato I “mondi possibili” in Kubrick. Ovvero: la poetica delle porte e stampato in Brunetta (a cura di) 1999: 33-44, viene fatto uso degli strumenti di analisi testuale proposti da Eco in Lector in fabula. In particolare, esaminando alcuni momenti di film come 2001, Arancia meccanica, Barry Lyndon e Shining, il semiologo amico di Eco mette in luce quelle strategie “testuali” (nel caso specifico relative alla narrazione filmica) che innescano la generazione di “mondi possibili”, che a loro volta sono «operazioni di gioco previsionale costituite insieme con il testo. Il mondo possibile, insomma, è una specie di tappa della cooperazione narrativa fra autore e lettore, e succede che mentre il testo dispiega nel tempo la narrazione, vi siano dunque, contemporaneamente, una serie di ipotesi su come andranno a finire le azioni raccontate. Queste ipotesi possono essere ipotesi dell’autore, ipotesi, naturalmente, del lettore, e ipotesi anche dei personaggi. Il testo stesso, poi, oltre a prevedere ciò che può essere previsto e ciò che non lo può essere, (...) si incaricherà anche di rispondere alla domanda se quelle

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previsioni erano azzeccate oppure no» (p. 35). E questa è esattamente una delle più classiche teorie di Eco del processo di interpretazione di un testo e di interazione tra lettore e opera. Ecco perché le odissee illustrate nel presente saggio riguardano sia i personaggi di Eco che i suoi lettori. E si tratterà di naufragi non necessariamente o non sempre tragici. Anzi, per dirla con i nostri poeti, è bensì vero che nel suo itinerario verso Dio la mente umana è destinata a naufraga di fronte all’inesprimibile geometria della Trinità (o alla sua irrimediabile insensatezza, come diremmo oggi), ma tale naufragio può anche rivelarsi dolce, e persino allegro, se si è dei lupi di mare irresistibilmente spinti dalla sete di conoscenza e pronti dopo ogni caduta o dopo ogni approdo a riprendere il viaggio.

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INTRODUZIONE

TRA NARRATIVA E FILOSOFIA DEL SEGNO

I Una perplessità non di rado petulante e stucchevole sul citazionismo sfrenato dell’Eco romanziere è stata più volte e da più parti sollevata con un certo fastidio per dire che in fondo Eco non fa altro che sfruttare ed esibire le proprie sterminate conoscenze enciclopediche per gettare fumo negli occhi del lettore e nascondere così la propria incapacità creativa e poetica di fare letteratura pura basata sull’invenzione di storie nuove. Tutto questo può anche essere vero, ma il fatto è che Eco, nei suoi romanzi, non è mai (del tutto) gratuito nel sommergere il lettore con citazioni attinte da buona parte dello scibile umano. A ben guardare, i suoi romanzi sono costruiti e concepiti in modo tale da giustificare in qualche modo la complessa trama di riferimenti letterari e filosofici di cui sono intessuti, e questo è un aspetto da cui non è possibile prescindere per una loro adeguata valutazione, altrimenti si rischia di rigettarli guidati inconsciamente

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dal ben noto meccanismo psicologico della volpe di fronte all’uva che non può raggiungere perché troppo alta. Per capire come funziona la narrativa a più livelli di fruizione di Eco, occorre innanzi tutto tenere presente che egli fondamentalmente non è un romanziere puro, ma uno studioso di semiotica, con tutte le sue ramificazioni nella semantica cognitiva, nella storia della cultura ‘simbolica’, nella filosofia del linguaggio, nei mass-media, nelle tecniche letterarie, nelle teorie dell’interpretazione, ecc. In tal senso, in quanto teorico egli è così addentro alle strategie stilistiche, retoriche, narrative e ‘di genere’ che stanno alla base della costruzione di un testo letterario che nei romanzi si diletta a metterle in atto con un atteggiamento ironico e ludico esplicitamente dichiarato. Non a caso, se si va a guardare la produzione teorica coeva ai romanzi, si scopre che questi ultimi spesso non sono che il cantuccio ricreativo e ‘applicativo’ della prima. Ad esempio, all’epoca del Nome della rosa Eco era molto interessato alla logica abduttiva (nel senso di Peirce) che sta alla base delle detective stories (e del metodo di Sherlock Holmes in particolare), come dimostra il saggio Corna, zoccoli, scarpe: tre tipi di abduzione1, dove sono svelati molti dei trucchi e delle citazioni del romanzo (ad esempio si apprende che tutto l’episodio iniziale del cavallo Brunello è ripreso da Zadig di Voltaire ed è ri-narrato alla Conan Doyle). Le stesse innumerevoli citazioni che fa Adso da Melk nel corso del1

Nato dalla fusione di due saggi più brevi, uno del 1980 e uno del 1981, esso uscì originariamente in Eco e Sebeok (a cura di) 1983 e venne poi ristampato come § 4.3 di Eco 1990.

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la sua narrazione hanno una loro ragione, ad esempio, nel fatto che egli è un anziano monaco imbevuto di cultura medievale che rievoca fatti avvenuti molti anni prima, e per un uomo di fede e di dottrina del XIV secolo la realtà passata e il vissuto personale sono il risultato di ciò che gli occhiali dell’enciclopedia culturale del suo tempo gli permettono di vedere e capire (anche se, nella finzione, Adso spiega alla fine che le sue memorie sono costruite con i “brandelli di pergamena” salvatisi dal rogo della biblioteca, che lui aveva recuperato molti anni prima allorché era tornato, anni dopo i fatti narrati, tra le rovine dell’abbazia: cfr. R 501-502). Lo stesso Eco, riferendosi nella circostanza al Pendolo di Foucault (ma il discorso vale per tutti gli altri romanzi), ha dichiarato che, laddove mette in bocca ai personaggi molte citazioni letterarie, «la funzione di queste citazioni è di mostrare l’incapacità di questi personaggi di guardare al mondo se non per interposta citazione» (Eco 2003: 151). E così, se deve raccontare l’episodio del cavallo, poiché l’auctoritas medievale sulle fattezze di un cavallo ‘nobile’ è Isidoro di Siviglia, ecco che Adso usa le parole di quest’ultimo (Etimologie, XII, I, 46) direttamente in latino; se invece deve raccontare l’estasi erotica raggiunta nel tumultuoso accoppiamento con la ragazza, la sua cultura di monaco non può che fargli utilizzare il frasario dei mistici, certa poesia erotica del XII secolo (“O sidus clarum puellarum”), i Carmina Burana (“Oh langueo…”) e soprattutto i passi del Cantico dei Cantici (in particolare 6-7) sulla fanciulla bella e terribile come un esercito schierato in battaglia (secondo la ben nota analogia, sul piano psico-fisico, tra la visione mistica

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e l’orgasmo). Non a caso, poi, anche al seicentesco padre Caspar che istruisce Roberto de la Grive tornerà in mente quel passo del Cantico allorché vorrà connotare l’“uccello color arancio” dell’Isola di Salomone, terribilis ut castrorum acies ordinata (I 258). Naturalmente non c’è solo questo. Che dire, ad esempio, delle molte citazioni anacronistiche (cioè tratte da autori vissuti dopo il XIV secolo)? Qui non si tratta solo di autocompiacimento narcisistico da erudito consumato: si tratta piuttosto di ammiccamenti intertestuali al lettore colto per suggerire di volta in volta parallelismi tra le diverse epoche storiche basati sulla permanenza di certi atteggiamenti, idee o teorie. Sono famosi alcuni passi sui dolciniani che riecheggiano i proclami delle Brigate Rosse (vi torneremo nella Conclusione). Oppure si pensi a quando Adso, nel descrivere il bibliotecario Malachia dopo la sua morte, usa una formula come “vaso di coccio tra vasi di ferro” (R 428), che è una strizzatina d’occhio dell’autore per indurre il lettore a non dimenticare che sta leggendo un’opera che deve molto alla lezione manzoniana, dalla tecnica narrativa del romanzo storico basato sul manoscritto ritrovato al tema della caccia agli “untori” di ogni epoca (streghe, eretici, ecc.). O ancora, si pensi all’ultima pagina dell’Ultimo Folio (R 503), laddove Adso cita in tedesco una definizione di Dio come sonoro Nulla, che è di Angelo Silesio, un mistico del XVII secolo. Ma prendiamo il caso a mio parere più affascinante, che è quello cui lo stesso Eco ha alluso nelle Postille quando ha scritto: «tutto quello che personaggi fittizi come Guglielmo di-

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cevano avrebbe dovuto esser stato detto a quell’epoca. Non so quanto sono stato fedele a questo proposito. Non credo di averlo disatteso quando mascheravo citazioni di autori posteriori (come Wittgenstein) facendole passare per citazioni dell’epoca. In quei casi sapevo benissimo che non erano i miei medievali a esser moderni, caso mai erano i moderni a pensar medievale» (R 532). Verso la fine (Settimo giorno – Notte), troviamo il seguente dialogo tra Guglielmo e Adso: “Non ho mai dubitato della verità dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo. Ciò che non ho capito è stata la relazione tra i segni. (…) Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell’universo”. “Ma immaginando degli ordini errati avete pur trovato qualcosa” “Hai detto una cosa molto bella, Adso, ti ringrazio. L’ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva di senso. Er muoz gelîchesame die Leiter abewerfen, sô Er an ir ufgestigen ist... Si dice così?”. “Suona così nella mia lingua. Chi l’ha detto?”. “Un mistico delle tue terre. Lo ha scritto da qualche parte, non ricordo dove. E non è necessario che qualcuno un giorno ritrovi quel manoscritto. Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare.” (R 495)

Un lettore comune può godersi il passo (peraltro molto bello) pur essendo indotto a pensare – erroneamente – che si stia parlando di un non altrimenti specificato “mistico” medievale austriaco che ha scritto quella cosa sulla scala che dev’essere buttata dopo che è stata usata per salire da qualche parte. Il lettore colto, però, riconosce nel passo in tedesco medievale nientemeno che un riadattamento della penultima proposizione (6.54) del Tractatus logico-philosophicus del viennese Ludwig Witt-

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genstein, un’opera uscita quasi sei secoli dopo il 1327 (nel 1921-1922)! Come mai Eco ha inserito questa citazione anacronistica? La spiegazione è molto semplice: il Tractatus è non solo la summa del cosiddetto atomismo logico e del neo-empirismo (che Wittgenstein aveva appreso dal suo maestro Bertrand Russell), ma è un’opera pervasa, nelle ultime proposizioni, da uno spirito mistico non lontano da certa teologia negativa medievale2, echeggiata anche dal passo di Silesio ricordato sopra («L’ineffabile c’è, esso mostra sé. È il Mistico. (…) Di ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»3 ). Di conseguenza, è perfettamente plausibile che Guglielmo da Baskerville, amico del teologo e logico empirista inglese Guglielmo di Occam, citi il Tractatus: in tal modo Eco vuole ironicamente alludere alle radici occamiste dell’atomismo logico (una delle più influenti filosofie del Novecento, grazie al prestigio di Russell) e del misticismo del giovane Wittgenstein, peraltro ben note anche a livello ‘manualistico’. Ma c’è di più. Sebbene nel Tractatus ricorrano pochissimi riferimenti ad altre filosofie e soprattutto ad altri filosofi, escludendo i maestri Russell e Frege, coi quali Wittgenstein dialoga di continuo, il cosiddetto “rasoio di Occam” (Entia non 2

E affine per alcuni versi persino allo Zen. Di tale questione si discuteva ampiamente in Eco 1962: 224-229, dove tra gli altri è citato e discusso anche il passo del Tractatus sulla scala (cfr. in particolare le pp. 226-228). Tale dialogo sotterraneo e continuo tra produzione saggistica e produzione letteraria nell’opera di Eco, che qualcuno (come Lorusso 2008) tende a sottovalutare, è esattamente ciò che si intende mostrare in questo libro. 3 Wittgenstein 1922, propp. 6.522, 7.

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sunt multiplicanda praeter necessitatem) è citato per ben due volte4 ed esso dà a Wittgenstein l’occasione per spiegare che con tale regola, tutt’altro che arbitraria o giustificata solo dal successo pratico, si intende che se un segno logico-linguistico è inutile o non necessario, esso è privo di significato e quindi va eliminato. In tal senso, il Tractatus è l’opera della filosofia moderna in cui il rasoio di Occam è all’opera più che in qualsiasi altra, perché non si limita a raccomandare di non moltiplicare gli enti o i segni se non quando è strettamente necessario, ma sfocia nell’imposizione del silenzio a chiunque non abbia da pronunciare “proposizioni della scienza naturale”5. Ebbene, il rasoio di Occam, che prescrive la semplicità e l’economia nelle spiegazioni, è esattamente la prima cosa cui ricorre Guglielmo quando formula la sua prima ipotesi sulla dinamica della morte del primo monaco, Adelmo da Otranto, che per lui può essere solo quella tipica di un suicidio: «Caro Adso, non occorre moltiplicare le spiegazioni e le cause senza che se ne abbia una stretta necessità» (R 99). Le citazioni, si sa, sono come le ciliegie, una tira l’altra, e quella somiglianza di famiglia che sussiste tra la coppia Wittgenstein/Russell da un lato e la coppia Guglielmo da Baskerville/Guglielmo di Occam dall’altro consente per pura associazione di idee di rileggere sotto una nuova luce uno scambio di battute

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Cfr. Wittgenstein 1922: propp. 3.328 e 5.47321. Wittgenstein 1922: prop. 6.53.

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tra Guglielmo e Ubertino da Casale nel loro primo dialogo, laddove stanno parlando di un certo Bonagrazia da Bergamo: “Ho sentito che ora è vicino a un mio amico che è alla curia, Guglielmo di Occam.” “L’ho conosciuto poco. Non mi piace. Un uomo senza fervore, tutta testa, niente cuore.” “Ma è una bella testa.” “Può darsi, e lo porterà all’inferno.” “Allora lo rivedrò laggiù, e discuteremo di logica.” (R 63)

Ebbene, Russell ha riferito vari aneddoti, divenuti celeberrimi, relativi alle prime discussioni sulla logica avute con il giovane Wittgenstein a Cambridge tra la fine del 1911 e il 1912, ma ce n’è uno particolarmente gustoso rievocato dallo stesso Wittgenstein in una annotazione del 1937: «Nel corso dei nostri colloqui, Russell usciva spesso nell’esclamazione: “Logic’s hell!”. – E ciò esprime interamente quello che sentivamo nel riflettere sui problemi logici; cioè la loro enorme difficoltà, la loro durezza e levigatezza»6 . È difficile sottrarsi all’impressione che Eco alluda anche a questo aneddoto nella citata battuta di Guglielmo, che in ogni caso rievoca certamente almeno due luoghi famosi della letteratura in cui si mettono in stretta relazione il diavolo e la logica: il verso dell’Inferno (XXVII, 123) in cui uno dei “neri cherubini”, cioè un diavolo, dopo essersi aggiudicato l’anima di Guido da Montefeltro al termine di un duello dialettico con Francesco d’Assisi, dice: «tu non pensavi ch’io 6

In Wittgenstein 1977: 65.

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loico fossi», e il passo del Faust di Goethe (I, 1898-1911) in cui Mefistofele, travestito da Faust, a uno studente che chiede consiglio al professore per diventare sapientissimo e abbracciare tutto lo scibile della terra e del cielo, dice: «Vi consiglio per questo, caro amico, di cominciare dal Collegium Logicum»7 .

II Discorso analogo potrebbe essere fatto per tutti gli altri romanzi di Eco. Il Pendolo di Foucault costituisce una parodia di tutte le interpretazioni selvagge della Storia che stanno alla base della ricerca del Graal e della credenza nei complotti delle sette segrete, come i Templari, i Rosacroce, i Massoni, ecc. Il numero spaventoso di citazioni contenuto in questo romanzo si spiega in gran parte con l’esigenza di ripercorrere e smontare tutta una ben nota letteratura-spazzatura di carattere ermetico, esoterico e misterico, compresa (sia detto per inciso) quella che sta alla base del Codice da Vinci o del più recente Il simbolo perduto, tant’è vero che lo stesso Eco in un’intervista a Deborah Solomon ap7

In Goethe 2005: 463. Cfr. anche quanto dice Belbo in un file sul quale avremo modo di tornare: «Ho studiato a fondo, e con ardente zelo, filosofia, giurisprudenza e medicina, e purtroppo anche teologia. Ed eccomi qui, povero pazzo, e ne so quanto prima» (P 328), che riprende alla lettera il famoso inizio del primo monologo di Faust (I, 354-359, in Goethe 2005: 409). Per altre citazioni del Faust nel Pendolo, cfr. P 213, 429, 433, e 479.

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parsa su «Repubblica» del 25 novembre 2007, ha dichiarato: «Dan Brown è uno dei personaggi del mio romanzo Il pendolo di Foucault, in cui si parla di gente che incomincia a credere nel ciarpame occultista». E se si vuole una prova, si vedano i capitolo 65 e 66 del Pendolo, che da soli dimostrano come questo romanzo sia una sorta di Critica della ragion pura per romanzi come Il codice da Vinci, solo che in genere i numerosi lettori di questi ultimi, che ne determinano il successo, non sanno di essere del tipo di quelli ipotizzati da Garamond, Belbo, Diotallevi e Casaubon per la collana “Iside svelata” della Manuzio. Si può immaginare quale attesa circondasse l’uscita del Pendolo di Foucault, nell’ottobre del 1988, ben otto anni dopo quella del Nome della rosa. Dopo il successo clamoroso del primo romanzo, rilanciato a livello internazionale nel 1986 dal film omonimo di Jean Jacques Annaud, con un memorabile Sean Connery nei panni di Guglielmo da Baskerville, il Professore era atteso al varco della seconda prova narrativa, che in genere per uno scrittore è quella del nove, perché esordire con un romanzo che è insieme un capolavoro e un best seller potrebbe essere soltanto una fortunata coincidenza. Nel frattempo, Eco aveva pubblicato tre volumi riconducibili ai suoi normali campi di interesse, oltre naturalmente a vari saggi e articoli sparsi su riviste e giornali. Eco 1983 raccoglieva interventi di semiologia del costume giornalistico, politico e culturale apparsi in gran parte su «Repubblica» e «L’Espresso» tra il 1977 e il 1983; Eco 1984 era una riorganizzazione sistematica di cinque voci di semiotica, scritte tra il 1976 e il 1980 per l’Enciclopedia Einaudi, relative

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alle nozioni teoriche di segno, dizionario ed enciclopedia, metafora, simbolo e codice; Eco 1985, invece, era una raccolta di scritti occasionali (prefazioni, convegni, saggi già pubblicati in volumi collettanei, ecc.) composti tra il 1972 e il 1985 e incentrati in gran parte sui temi del segno, della rappresentazione, dell’immagine, dell’illusione e della strutturazione del sapere. Degna di nota è anche la raccolta di saggi di autori vari che costituisce Eco e Sebeok (a cura di) 1983, perché l’analisi della logica dell’investigazione di Sherlock Holmes e di altri eroi del genere poliziesco proposta da Eco e dagli altri studiosi consente di capire molte cose del contesto teorico in cui aveva preso vita l’impianto “giallo” del Nome della rosa. Negli stessi anni, però, in polemica con l’ermeneutica pantestualista (incentrata su, e talvolta ridotta polemicamente a, uno slogan del tipo “nulla esiste fuori dal testo”, riconducibile a Derrida, o “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, ripreso da Nietzsche) del cosiddetto pensiero debole italiano (Vattimo), del pragmatismo postmodernista americano (Rorty) e del decostruzionismo francese (Derrida) – tutte correnti filosofiche in qualche modo derivate dall’idea nietzscheana della “morte di Dio”, dalle nozioni heideggeriane di “circolo ermeneutico” e “oblio dell’Essere”, nonché dal principio gadameriano secondo cui “l’essere che può essere compreso è linguaggio” – Eco era molto interessato ai problemi dell’interpretazione di un testo e al ruolo del lettore, e in particolare allo sviluppo e alla rielaborazione di idee già in vario modo espresse in saggi teorici come Eco 1962 ed Eco 1979. Gli scritti relativi a questo campo di in-

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dagine, che confluiranno poi in Eco 1990, delineano l’orizzonte filosofico principale in cui matura Il pendolo di Foucault, che, attraverso la messa alla berlina dell’ermetismo, dell’occultismo e della cabala tradizionali, è soprattutto un regolamento di conti ferocemente ironico con le suddette scuole di pensiero (poi messo in forma definitiva nel saggio più recente Il pensiero debole vs i limiti dell’interpretazione, che costituisce l’ultimo capitolo di Eco 2007b e che è rivolto soprattutto contro Vattimo e Rorty). È importante tenere conto di questo aspetto del Pendolo come di romanzo a chiave polemico con certe mode filosofiche contemporanee, perché esso spiega anche, più o meno direttamente, alcune reazioni negative che ne salutarono l’uscita. L’isola del giorno prima, uscito nel settembre del 1994, testimonia l’interesse di Eco in quegli anni per il XVII secolo (il primo dei cd-rom enciclopedici sui vari secoli – da lui ideati per Encyclomedia – era proprio dedicato al Seicento) e per la semantica cognitiva (basti pensare a Eco 1997). Qual è infatti il problema di Roberto de la Grive, il giovane del XVII secolo naufragato su una nave deserta di fronte a un’irraggiungibile isola dei mari del sud? Nominare e conoscere, con gli strumenti concettuali e culturali di un uomo del barocco, la realtà mai vista che ha davanti (come la “Colomba color Arancio”8, descrittagli di padre Caspar, che però Roberto non vedrà mai: cfr. I 257-258 e 465), al fine anche di manipolarla per i suoi scopi (il raggiun8

Si tratta dell’Orange Dove, o Ptilinopus Victor, che vive nell’arcipelago delle Figi, e in particolare a Taveuni, l’isola attraversata dal 180° meridiano che Eco immagina di identificare con l’Isola del romanzo (cfr. I 468).

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gimento dell’isola). Ecco perché quel romanzo, in cui Eco mima con mirabile padronanza la lingua della “gente senz’anima” (I 473) del tempo, diventa una summa della cultura barocca, dal Cannocchiale Aristotelico del Tesauro alla Conversazione sulla pluralità dei mondi di Fontenelle, dalle Passioni dell’anima di Cartesio al Dialogo sui massimi sistemi di Galilei, per non dire dei vari riferimenti alle questioni geografiche sulla localizzazione dell’Inferno e del Punto Fisso, alle tecniche di navigazione e di guerra, al linguaggio manierista e marinista delle poesie d’amore (come nelle lettere che Roberto scrive alla sua amata Lilia), ecc. Quest’opera, se escludiamo le funamboliche riflessioni e sperimentazioni di Belbo, è quella più ricca di riflessioni metanarrative su quella che Milan Kundera chiamava “l’arte del romanzo”, peraltro condotte dal narratore in una sorta di dialogo teorico con il protagonista, imbevuto di cultura barocca e a sua volta narratore improvvisato e improvvido. Il gioco della narrazione, qui, è piuttosto complesso, sebbene, come vedremo, siamo al di qua delle mostruose complicazioni del Nome della rosa e del Pendolo. Il narratore, venuto in possesso di certe carte autobiografiche e narrative di un naufrago del XVII secolo, ha il problema di trarre un romanzo da una storia sì romanzesca ma priva di un finale, ovvero di un vero inizio (cfr. I 466). E a questa difficoltà formale si aggiunge il fatto che l’autore delle carte è a sua volta uno che non solo ha voluto raccontare una storia d’amore e di gelosia tipicamente romanzesca, disquisendo sul problema “dell’Origine dei Romanzi” (come suona il titolo del

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capitolo 28: cfr. I 339-343) ma alla fine ha perso il senso della distinzione tra realtà e finzione e va incontro alla morte per salvare l’amata protagonista del suo romanzo, «entrando egli stesso nel suo racconto» (I 459). Ecco perché il narratore gioca a carte scoperte (o se non altro finge maliziosamente di farlo) e alla fine fa una dichiarazione di metodo e di poetica che sta alla base di tutti gli altri romanzi di Eco: «se da questa storia volessi farne uscire un romanzo, dimostrerei ancora una volta che non si può scrivere se non facendo palinsesto di un manoscritto ritrovato – senza mai riuscire a sottrarsi all’Angoscia dell’Influenza. Né sfuggirei alla puerile curiosità del lettore, il quale vorrebbe poi sapere se davvero Roberto ha scritto le pagine su cui mi sono intrattenuto sin troppo. Onestamente, dovrei rispondergli che non è impossibile che le abbia scritte qualcun altro, che voleva solo far finta di raccontare la verità. E così perderei tutto l’effetto romanzesco: dove, sì, si fa finta di raccontare cose vere, ma non si deve dire sul serio che si fa finta» (I 473). Baudolino, uscito nel novembre del 2000, tra le altre cose, attraverso le avventure picaresche del bugiardissimo protagonista, diventa un’enciclopedia della cultura medievale: dalle cronache sulle crociate al bestiario immaginario, dalle dispute sulla forma della Terra alle credenze sui favolosi regni d’Oriente, come quello del Prete Gianni, ecc. L’interesse per il Medioevo è una delle costanti di tutta la parabola intellettuale di Eco e in quegli anni egli era particolarmente interessato, tra l’altro, a questioni concernenti la funzione della menzogna nella letteratura e la forza euristica del falso nella storia delle idee,

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come testimonia la raccolta di saggi che costituisce Eco 2002. Qui, infatti, in una delle pagine del saggio conclusivo Come scrivo dedicate a Baudolino, e in particolare nella nota 3 (p. 342), Eco confessa che il penultimo saggio della raccolta, La forza del falso, versione ampliata della prolusione letta per l’inaugurazione dell’anno accademico 1994-1995 dell’Università di Bologna, «costituisce il primo nucleo di Baudolino». E Baudolino, il quale da stilita e santone imparerà che in tutta la sua vita è stato lapidato l’unica volta in cui ha detto la verità e solo la verità (cfr. B 522), si diverte a giocare con l’ambiguità logica scimmiottando persino il proverbiale Epimenide il cretese, laddove racconta a Niceta Coniate come vera la propria storia avventurosa di falsi e contraffazioni, aggiungendo però di essere un mentitore (cfr. B 525, nonché Eco 2002: 344). Che fare, dunque? Essendo uno storico, Niceta non potrà raccontare una storia riferita da un bugiardo, sicché essa dovrà essere consegnata all’oblio, a meno che il compito non se lo assuma un autore di romanzi, bugiardo per mestiere. È stato giustamente notato, per esempio in Cotroneo 2001: 20, come Baudolino rappresenti per Eco una sorta di “ritorno a casa”, con la fondazione e l’assedio di Alessandria e le osservazioni sul carattere della sua gente. Tuttavia si ha l’impressione che Eco abbia voluto fare molto di più, come dimostra il mirabolante “esercizio di scrittura” (B 17) di Baudolino che costituisce il primo capitolo del romanzo. Baudolino, credo, non è solo ciò che Eco avrebbe voluto essere, ma ciò che noi, in quanto italiani, siamo stati nel giro dei decenni che hanno

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visto nascere la nostra lingua e la nostra civiltà letteraria, ovvero la nostra identità culturale e nazionale, con le nostre virtù (ironia, inventiva, tensione ideale, ma anche pragmatismo, buon senso, ecc.) e i nostri vizi (creduloneria, cortigianeria, settarismo, ecc.). In un passaggio importante, infatti, Niceta Coniate chiama Baudolino “nomoteta” (B 44), e più avanti usa espressioni come “Principe della Menzogna” e “Domeneddio”, sempre riferendosi a Baudolino (B 89), il quale, spesso suo malgrado, qualunque cosa dica, essa è vera semplicemente perché egli l’ha detta (cfr. B 41). Ora, nel Cratilo di Platone, “Nomoteta” è il dio che crea la lingua originaria (nel senso indagato in Eco 19939) e nel romanzo indica chiaramente quello spirito insieme comico9

Si veda in particolare Eco 1993: 17-18, dove, discutendo proprio il Cratilo, Eco sottolinea che la posizione di Socrate, al di là del naturalismo di Cratilo e del convenzionalismo di Ermogene, si basa sull’idea che «la conoscenza non dipende dal nostro rapporto coi nomi ma dal nostro rapporto con le cose, o meglio con le idee». E questa concezione di una semiosi naturale che rispecchia meglio la verità delle cose e che si contrappone alla propensione alla menzogna propria della lingua, Eco la scorge anche nella teoria semiotica che Manzoni sembra presupporre nei Promessi sposi e che è così riassunta nel saggio Il linguaggio mendace in Manzoni: «(i) C’è una semiosi naturale, esercitata quasi istintivamente dagli umili dotati di esperienza, per cui i vari aspetti della realtà, se interpretati con prudenza e conoscenza dei casi della vita, si presentano come sintomi, indici, signa o semeia nel senso classico del termine. (ii) E c’è la semiosi artificiale del linguaggio verbale il quale, o si rivela insufficiente a render conto della realtà, o viene usato esplicitamente e con malizia per mascherarla, quasi sempre a fini di potere. Ma questo è possibile perché il linguaggio è ingannevole per sua propria natura, mentre la semiosi naturale induce a errore e abbaglio solo quando è inquinata dal linguaggio che la ridice e interpreta, o l’interpretazione è ottenebrata dalle passioni» (in Eco 1998: 26-27, nonché in Eco 2007b: 446).

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realistico e mistico-stilnovistico che in quel periodo ha dato vita alla nostra lingua letteraria. Non a caso, altrove Niceta riflette stupito sulla straordinaria capacità che ha Baudolino (un uomo forse senz’anima, cioè senza patria) di piegare il proprio racconto a qualsiasi registro stilistico, ovvero di passare dantescamente dal culo a trombetta di un diavolo (come nelle pagine sul Baudolino clericus vagans nelle taverne parigine) all’inno alla Vergine Madre (come nelle bellissime pagine sulla storia d’amore tra Baudolino e Ipazia10 ), proprio come fu subito in grado di fare la nostra lingua letteraria delle origini. Né si può tacere il chiarissimo omaggio reso da Eco in questo romanzo al filosofo americano Quine, laddove attribuisce al simpatico sciapode incontrato da Baudolino il nome “Gavagai” (cfr. B 370-371). Si tratta di un termine divenuto celeberrimo nella filosofia del linguaggio del XX secolo allorché venne associato da Quine al “coniglio” nel suo esperimento immaginario concepito in relazione al problema della traduzione della lin10

Creatura silvana metà donna e metà capra che vive con le altre ipazie, discendenti delle discepole di quell’Ipazia di Alessandria d’Egitto, filosofa neoplatonica e matematica di gran vaglia, che nel 415 venne trucidata dai cristiani. L’incontro di Baudolino con una di queste ipazie senza nome, che si distinguono solo per il nome dell’unicorno con cui si accompagnano (quello di questa ipazia si chiama Acacio), costituisce un vertice di romanticismo e filosofia del romanzo, perché l’apatica ipazia (che perderà la sua apatia ascetica con l’amore carnale, al punto che sarebbe stata persino disposta ad abbandonare le sue compagne pur di non perdere Baudolino) lo inizia subito alla metafisica e alla spiritualità del neoplatonismo, di gran lunga più raffinate di quelle del cristianesimo (che le ipazie ovviamente detestano). Cfr. B 422-450

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gua di una civiltà rimasta senza contatti con la nostra11 . E tutto ciò rimanda alle questioni filosofiche trattate in Eco 1997, il cui § 4.6.4. è una analisi filosofica del concetto di verità condotta creativamente attraverso l’invenzione di Vanville, una città dalla toponomastica totalmente quineana (mostrata con tanto di mappa: cfr. Eco 1997: 227) che peraltro sorge a nord di un fantomatico “Gavagai River”. La misteriosa fiamma della Regina Loana, uscito nel giugno del 2004, presenta la novità consistente nel fatto che esso è riccamente illustrato con immagini di ogni tipo (fumetti, manifesti, locandine, francobolli, copertine di libri, calendari illustrati, dischi, pacchi di sigarette, ecc.), risalenti in buona parte al periodo fascista e usate dal protagonista per ritrovare la memoria perduta attraverso le ‘icone’ della cultura di massa che hanno popolato la sua fantasia durante l’infanzia (la stessa Regina Loana del titolo viene da un episodio delle avventure di Cino e Franco, un fumetto degli anni Trenta). L’interesse per le “immagini” esibito da questo romanzo ha il suo pendant in un saggio illustrato come Storia della bellezza, curato dallo stesso Eco, uscito sempre nel 2004, qualche mese dopo Loana (e seguito verso la fine del 2007 da una analoga Storia della bruttezza). Per fare qualche esempio, una tavola del 1974 su Flash Gordon di Alex Raymond la troviamo sia in Eco 2004: 426 che in L 424, anche se qui è rielaborata da Eco per scopi espressivi, mentre in

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Cfr. il secondo capitolo di Quine 1960.

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Eco 2007a: 196, 197 e 267 ritroveremo le stesse immagini di L 188 e L 419. Come tutti i precedenti romanzi di Eco, anche questo è intessuto di citazioni più o meno esplicite. Nella prima pagina, per esempio, in cui il lettore è subito immerso in un’atmosfera di nebbiosa e sognante amnesia (quella del protagonista), si può trovare subito un riferimento a Bruges la morta (1892) di Georges Rodenbach, e poi, a fondo pagina, al Gordon Pym di Poe (ma già il titolo del primo capitolo, “Il più crudele dei mesi”, riprende la celebre definizione del mese di aprile contenuta nel primo verso de La terra desolata di Eliot. E anche i titoli degli altri 17 capitoli sono citazioni o riferimenti vari). Nella seconda entrano in scena, tra gli altri, D’Annunzio, Pavese, Simenon, Conan Doyle, Agatha Christie, ancora Poe, poi Kafka, Dumas, ecc. Lo stratagemma usato questa volta da Eco per riempire il libro di citazioni più o meno colte (si va, per intenderci, dal Paradiso di Dante alla canzonetta Pippo non lo sa, attraversando così tutto lo spettro enciclopedico della cultura) è ben preciso. Il protagonista, il libraio antiquario Giambattista Bodoni (nato alla fine del 1931, quindi coetaneo dell’autore, nonché omonimo del celebre tipografo – vissuto tra il 1740 e il 1813 – che modernizzò, semplificandoli, i caratteri di stampa), detto Yambo, dallo pseudonimo dello scrittore di libri illustrati per l’infanzia Enrico Novelli (1876-1945), a causa di un ictus che lo ha colpito nell’aprile del 1991, ha perso una parte della sua memoria a lungo termine, e in particolare la cosiddetta memoria “episodica” (che

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comprende i ricordi della propria vita e quelli delle cose e delle persone conosciute), mentre la sua cosiddetta memoria “semantica”, quella cioè relativa alla conoscenza linguistica ed enciclopedica del mondo, è rimasta intatta. In questo modo egli non sa più nulla di sé, del proprio passato e dei propri familiari, ma ricorda perfettamente tutto ciò che ha letto o solo sentito dire (e il lettore scoprirà quanto vaste e varie siano le sue letture). Ecco perché gli affiorano continuamente alla mente brandelli di un sapere scolastico e popolare, per cui, ad esempio, se il medico gli chiede di sua madre, Yambo risponde col luogo comune «Di mamma ce n’è una sola, la mamma è sempre la mamma», e se gli chiede se gli piace il tè, risponde dannunzianamente (ma già D’Annunzio citava il motto che è ripetuto nel soffitto del Palazzo Ducale di Mantova) «Forse che sì forse che no» (L 17). Ed ecco perché in apertura, quando il protagonista si risveglia in stato di parziale “amnesia retrograda” (L 11) e si sente sospeso in un sognante “grigio lattiginoso” (L 7) che assomiglia alla nebbia, abbiamo quella delirante carrellata di citazioni letterarie sulla nebbia: non è altro che la memoria culturale di Yambo che vortica confusamente senza alcuna possibilità di agganciarsi ordinatamente all’autocoscienza storica e presente dell’Io in cui tutto questo accade. Come si vede, è la stessa situazione del protagonista a giustificare i numerosissimi riferimenti. Eco sa bene che molto, se non tutto, è stato già detto e scritto, per cui lo scrittore deve giocare a carte scoperte, se non vuole fare la figura di chi crede di dire cose nuove e non si accorge di ripetere (possibilmente

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male) cose già dette in passato (possibilmente meglio)12. E allora, se abbiamo un personaggio smemorato che vive tra Milano e il Monferrato, è obbligatorio come minimo fare un riferimento al caso famoso dello “Smemorato di Collegno”, che tra l’altro ha ispirato un dramma di Pirandello (Come tu mi vuoi), un omonimo film con Totò e un libro di Sciascia (Il teatro della memoria). E se il personaggio riacquista la memoria ma precipita in un coma cosciente, è normale che la sua memoria culturale di bibliofilo e di uomo colto ripeschi almeno il cogito ergo sum di Cartesio, l’esse est percipi di Berkeley e i “cervelli nella vasca” di Putnam. Il cimitero di Praga, il sesto romanzo di Eco (forse l’ultimo, se si deve credere a qualche battuta dello stesso autore fatta nel corso di interviste e presentazioni promozionali), uscito il 29 ottobre del 2010, è addirittura una sorta di eco ironica e non del tutto volontaria dello Zeitgeist. Questa storia ottocentesca volutamente ad effetto, che addirittura simula i romanzi d’appendice ed è un trionfo soprattutto di stereotipi anticlericali e antisemiti e paranoie complottiste, è apparsa infatti nell’epoca in cui, in Italia e nel mondo, sulla stampa si discuteva a non finire della costruzione ad hoc di dossier diffamanti nei confronti di politici e di giornalisti da parte di altri giornalisti e di uomini dei 12

Quest’idea, portata alle estreme conseguenze, informa di sé la personalità stessa di Belbo, come è più volte ribadito nel Pendolo: «dal momento che aveva scoperto di non poter essere un protagonista aveva deciso di essere uno spettatore intelligente – inutile scrivere se non c’è una seria motivazione, meglio riscrivere i libri degli altri» (P 27. Cfr. anche P 33, 52 e 397).

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servizi segreti deviati e magari al soldo di altri politici, di preti cattolici pedofili, di fantomatiche armi di distruzione di massa possedute o in procinto di essere possedute da stati cosiddetti “canaglia” (e quasi sempre islamici) in odore di attacco preventivo da parte delle potenze occidentali, nonché dei documenti riservati e imbarazzanti resi pubblici dal sito internet WikiLeaks del giornalista e programmatore australiano Julian Assange. Anche Il cimitero di Praga, sebbene, come vedremo, riesumi temi cari a Eco da decenni, è legato alla produzione saggistica coeva, come Eco 2007a e Eco 2008. Quest’ultimo è un saggio presentato da Eco il 15 maggio 2008 nell’ambito del ciclo di conferenze “Elogio della politica” curato da Ivano Dionigi presso l’Università di Bologna ed è dedicato alle procedure discorsive e semiotiche della “costruzione del nemico” dall’antichità ad oggi (diciamo dal Catilina tratteggiato da Cicerone all’immagine dell’ebreo costruita dai totalitarismi novecenteschi). Esso, peraltro, attinge per le sue fonti testuali da Eco 2007a, e in particolare dai capitoli VI.1 (per la misoginia), VII.2 (per la demonizzazione del nemico), VIII.1 (per le streghe) e IX.2 (per la fisiognomica dell’altro da demonizzare, e soprattutto dell’ebreo). E il romanzo, da parte sua, attinge da entrambi, sicché un’occhiata a questi ultimi consente di scoprire molte delle fonti bibliografiche precise che in esso sono usate in maniera libera e creativa. Per fare degli esempi, dalle parti citate di Eco 2007a e soprattutto da Eco 2008 derivano molti dei passi che tratteggiano lo stereotipo razzista dell’ebreo, l’esilarante capoverso di C 12 sulla peculiare sovrapproduzione di feci da parte

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dei tedeschi, nonché la tirata del capo dell’Okhrana Rachkovskij davanti a Simonini sulla necessità di avere un nemico per cementare l’identità di un popolo (cfr. C 399-400). In Eco 2008, inoltre, troviamo un riferimento esplicito a quel Santo Simonino di Trento che per volere del nonno Giovan Battista Simonini è all’origine del nome del protagonista Simone Simonini (cfr. C 73). Ma c’è un esempio particolarmente significativo che ricollega Il cimitero di Praga a Il nome della rosa attraverso Eco 2008, a conferma – diciamo così – epifanica della tesi della centralità del primo romanzo che qui verrà presupposta. In C 91-92, turbato dalle illustrazioni erotiche dei cochons prestatigli da un amico, il giovane Simonini ripensa a un passo cattivissimo sulle donne13 (una sorta di anticipazione concettuale di Memento di Iginio Ugo Tarchetti) che padre Pertuso gli aveva fatto imparare a memoria, ma egli non ricorda “quale scrittore di cose sacre” ne sia l’autore. Ebbene, il passo (con qualche piccolo taglio) si trova riportato in Eco 2008 e qui se ne indica l’autore: Oddone di Cluny, vissuto nel X secolo. Ma lo stesso passo, in una versione italiana leggermente diversa e naturalmente senza indicazione della fonte, era già stato messo in bocca a Ubertino da Casale, il quale cercava così di dimostrare ad Adso che la ragazza da lui 13

«La bellezza del corpo è tutta nella pelle. In effetti se gli uomini vedessero ciò che sta sotto la pelle, la sola vista delle donne gli riuscirebbe nauseabonda: questa grazia femminile non è che suburra, sangue, umore, fiele. Considerate quello che si nasconde nelle narici, nella gola, nel ventre… E noi che non osiamo toccare anche solo con la punta delle dita il vomito o il letame, come possiamo dunque desiderare di stringere nelle nostre braccia un sacco di escrementi?».

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amata, appena arrestata per stregoneria da Bernardo Gui insieme a Salvatore, è bella e desiderabile proprio perché è una strega (cfr. R 334). Dal punto di vista dei temi e della costruzione narrativa, Il cimitero di Praga presenta inoltre delle importanti analogie soprattutto con Il pendolo di Foucault, e per certi versi anche con L’isola del giorno prima, con Baudolino e con La misteriosa fiamma della regina Loana. Quest’ultimo romanzo, in particolare, è richiamato con tutta evidenza sia per l’utilizzo delle illustrazioni (entrambi sono, ciascuno a suo modo, romanzi illustrati, in cui immagini pescate altrove vengono citate e magistralmente ricontestualizzate, al punto da apparire come create ad hoc per la nuova collocazione) sia per la riproposizione del motivo della perdita della memoria da parte del protagonista, il cui cammino di recupero dei ricordi attraverso lo scavo nel proprio passato diventa poi il romanzo stesso. Salvo che, mentre Yambo perdeva solo la memoria autobiografica, ma non quella semantica, per cui i suoi ricordi si riducevano a quelli dell’enciclopedia collettiva, Simonini subisce anche uno sdoppiamento di personalità e lui e il suo doppio perdono la memoria in modo diverso, perché il primo ignora sia i propri ricordi che quelli dell’altro, mentre il secondo ignora i propri ricordi ma ricorda ciò che l’altro ha dimenticato (cfr. C102). La chiusa metanarrativa del capitolo 18 («Certo che il documento che il vostro Narratore sta sbirciando è pieno di sorprese, e varrebbe forse la pena di trarne un giorno un romanzo»,

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C 318; ma cfr. anche C 10) mi pare rimandi direttamente alle ultime righe sia dell’Isola (cfr. I 473) che di Baudolino (cfr. B 526). Sono tre riflessioni teoriche sul rapporto tra il disordine sostanziale della realtà e l’ordine formale della narrazione, nonché sul gioco verità/menzogna intrinseco alla costruzione del romanzo, accomunate da una certa somiglianza di famiglia. Ancora una volta, da questo punto di vista i romanzi di Eco riflettono le tappe della ricerca filosofica dell’Eco semiologo del romanzesco. Naturalmente anche nel Nome della rosa, nel Pendolo e in Loana è possibile rintracciare precise e ulteriori concezioni della costruzione narrativa, che tuttavia, almeno prima facie e a prescindere dall’espediente del manoscritto ritrovato, mi sembrano apparentate meno direttamente con quella un po’ più omogenea che emerge dai passi citati prima. Come Simonini, mutatis mutandis, anche Roberto de la Grive scrive la propria storia e introduce il doppio, mentre sopra entrambi sta un Narratore che raccoglie e ordina il tutto; e come Simonini, anche Baudolino è un bugiardone e falsario che scrive la lettera di Prete Gianni a Federico Barbarossa, finge di trovare il “Gradale” e gioca al gioco menzognero della narrazione con Niceta Coniate, finché interviene il Narratore, “più bugiardo di Baudolino”, e racconta la storia. Ma è col Pendolo che il Cimitero ha un rapporto davvero stretto, e a più livelli. Si potrebbe dire che l’ultimo romanzo di Eco sia nato da una costola, o da diverse costole, di quello del 1988, per una serie di motivi.

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a) La fallace teoria sociale della cospirazione. Come si vede dall’epigrafe del capitolo 118 del Pendolo (e come si vedrà meglio nell’Appendice 1 di questo volume), Eco ha desunto lo strumento teorico per criticare in maniera devastante tutte le teorie del complotto da un passo del quarto capitolo di Congetture e confutazioni di Karl Popper, che egli citerà in seguito in modo più esteso molte altre volte in altri saggi e articoli.14 Ora, in quel capitolo, Casaubon svolge alcune considerazioni teoriche sulle ragioni che spingono le persone a credere nei Piani e nei Complotti (la credulità innata, la frustrazione, la mania di protagonismo, ecc.) che sono alla base anche del Cimitero. b) Elogio del feuilleton. Si potrebbe dire che da un certo punto di vista il Cimitero sia il romanzo d’appendice che Belbo 14

Cfr. Popper 1963: 212-213, dove si osserva che “la teoria sociale della cospirazione” deriva da Omero e dal teismo antico (per esempio quello dell’Antico Testamento), laddove questi spiegano gli accadimenti del mondo con i complotti o i voleri di una o più divinità. Morti gli dèi cospiratori, gli uomini, la cui propensione ad attribuire intenzioni ad agenti esterni è innata, li hanno successivamente rimpiazzati con altri uomini, come i gruppi di potere o di pressione, per continuare a spiegare in termini cospirativi soprattutto i fatti sociali. La cosa interessante, osserva Popper, è che «soltanto quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere, essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali (…). Per esempio, quando Hitler conquistò il potere, credendo nel mito della cospirazione dei Vecchi Saggi di Sion, egli cercò di non essere da meno con la propria contro-cospirazione. Ma il fatto interessante è che una tale cospirazione, mai – o “quasi mai” – si realizza nella maniera prestabilita». Si noti come proprio in questo contesto ricorra l’esempio dei Protocolli tanto caro a Eco, il quale tra il Pendolo e il Cimitero vi è tornato più volte anche nella produzione saggistica: cfr. Eco 1994: 164-172, Eco 2002: 310-314, Eco 2005: V-VI.

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sognava di scrivere e che avrebbe scritto se non fosse morto appeso al Pendolo (molti suoi file sono abbozzi postmoderni e combinatori di romanzi d’appendice). Ma siccome Belbo è un doppio di Eco (condividono buona parte dell’infanzia15), questi, da grande appassionato del romanzo ottocentesco, ha deciso di fare questo regalo al suo Belbo, scrivendo al posto suo un romanzo in forma di summa metalinguistica del feuilleton. E infatti, il dispositivo narratologico che sta alla base del Cimitero Praga, per cui l’Autore immagina un visitatore invisibile che entra nella stanza di un individuo anziano e sbircia sopra le sue spalle mentre questi sta scrivendo la storia che stiamo per leggere e che il Narratore, ormai tutt’uno col visitatore, metterà via via in forma di romanzo a beneficio del Lettore, anch’egli visitatore curioso e intrusivo (cfr. C 10), è prefigurato in uno dei file più deliranti di Belbo, “Lo strano gabinetto del Dottor Dee”. Qui Belbo, tra le infinite altre cose, immagina di essere il medium e alchimista del XVI secolo Edward Kelley, di scrivere insieme a Bacone le opere di Shakespeare, di finire in carcere nella Torre di Londra (dove è noto ai carcerieri come Jim della Canapa) per le trame del Verulamio e di avere come compagno di cella l’ex templare portoghese Soapes (maschera anagrammatica di Pessoa, altro maestro di maschere onomastiche). Alla fine del lungo file, Kelley-Jim sbircia sopra le spalle di Soapes e vede che questi sta scrivendo una cosa per lui incomprensibile (ma si tratta nientemeno che dell’incipit del Finnegans Wake di Joyce). Soa15

Come giustamente si sottolinea in Cotroneo 2001: 52-54.

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pes, “maschera di una maschera” (e maschera anche di Eco, oltre che di Pessoa), nasconde il foglio, guarda l’intruso pallido come uno spettro, legge nei suoi occhi la morte e gli dice: «Riposa. Non temere. Scriverò io per te» (P. 330). Per fare questa operazione, però, ci vuole una precisa estetica filosofica sul rapporto tra arte e realtà, e tale teoria è abbozzata dallo stesso Belbo all’inizio del capitolo 97 del Pendolo: Avevo rivisto Belbo il mattino dopo. “Ieri abbiamo scritto una bella pagina di feuilleton,” gli avevo detto. “Ma forse, se vogliamo fare un Piano attendibile, dovremmo rimanere più aderenti alla realtà.” “Quale realtà?” mi aveva chiesto. “Forse è solo il feuilleton che ci dà la vera misura della realtà. Ci hanno ingannato.” “Chi?” “Ci hanno fatto credere che da una parte c’è la grande arte, quella che rappresenta personaggi tipici in circostanze tipiche, e dall’altra il romanzo d’appendice, che racconta di personaggi atipici in circostanze atipiche. Pensavo che un vero dandy non avrebbe mai fatto all’amore con Scarlett O’Hara e neppure con Costanza Bonacieux, o con la Perla di Labuan. Io col feuilleton giocavo, per passeggiare un poco fuori della vita. Mi rassicurava, perché proponeva l’irraggiungibile. Invece no.” “No?” “No. Aveva ragione Proust: la vita è rappresentata meglio dalla cattiva musica che non da una Missa Solemnis. L’arte ci prende in giro e ci rassicura, ci fa vedere il mondo come gli artisti vorrebbero che fosse. Il feuilleton finge di scherzare, ma poi il mondo ce lo fa vedere così com’è, o almeno così come sarà. Le donne sono più simili a Milady che a Lucia Mondella, Fu Manchu è più vero di Nathan il Saggio, e la Storia è più simile a quella raccontata da Sue che a quella progettata da Hegel. Shakespeare, Melville, Balzac e Dostoevskij hanno fatto del feuilleton. Quello che è successo davvero è quello che avevano raccontato in anticipo i romanzi d’appendice.” (P 389)

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Questo luogo del Pendolo è non a caso citato da Eco all’inizio della sua sesta passeggiata nei boschi narrativi (cfr. Eco 1994: 146) per dire che l’amara osservazione di Belbo, fatta appunto da un “personaggio deluso” e destinato a una fine tragica, sembra una critica a quanto sostenuto in passato da lui stesso, il quale in Opera aperta scriveva (in nota): «È naturale che la vita, di fatto, sia più simile allo Ulysses che a I tre moschettieri»; ma subito dopo aggiungeva: «tuttavia chiunque tra noi è più disposto a pensare la vita in termini de I tre moschettieri che di Ulysses: o meglio, può rimemorare la vita e giudicarla solo se la ripensa come romanzo ben fatto» (Eco 1962: 204). Belbo, quindi, radicalizza una tesi già implicita nel giovane Eco teorico della letteratura, il quale oscillava tra l’idea che le opere aperte della grande arte simulassero con la loro complessità e ambiguità il caos di contraddizioni della vita reale e l’idea complementare che le opere popolari, essendo intrinsecamente consolatorie, semplici e prive di ambiguità, assecondassero invece la propensione umana a leggere il mondo della vita proprio e altrui come se fosse un romanzo d’appendice. E infatti la sesta e ultima lezione-passeggiata (incentrata, è bene sottolinearlo, sulla vicenda della costruzione dei Protocolli) si conclude proprio con un ulteriore approfondimento del passo citato di Eco 1962 nella direzione della posizione estremista di Belbo: «non rinunceremo a leggere opere di finzione, perché nei casi migliori è in esse che cerchiamo una formula che dia senso alla nostra vita. In fondo noi cerchiamo, nel corso della nostra esistenza, una storia originaria, che ci dica perché siamo nati e abbiamo vissuto» (Eco

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1994: 173). Significativamente, poi, una delle epigrafi del citato capitolo del Pendolo è tratta dal Giuseppe Balsamo di Dumas, cui è dedicato un grande spazio nel Cimitero (cfr. in particolare C 92-96). Da questo punto di vista, il Cimitero segna il culmine riepilogativo di tutto il mondo narrativo di Eco e della sua concezione generale della funzione della letteratura16 . c) La storia dei Protocolli dei Savi anziani di Sion. Tutto il Cimitero converge verso la vicenda della redazione dei Protocolli, cui già nel Pendolo era dedicato un ampio spazio (capp. 92-96), anche se lì essa era inserita nel più ampio piano millenario dei Templari. In ogni caso, il modo stesso in cui i Protocolli entrano nel Pendolo dimostra che questo romanzo è lo sfondo del Cimitero, che maliziosamente si presenta nelle false vesti di una riedizione del primo per lettori meno esigenti e più superficiali, del tipo di quelli che si lasciano affascinare e trascinare dai facili polpettoni alla Dan Brown (ma si tratta di un inganno, perché il Cimitero è un abile gioco di sprezzatura che nasconde l’abisso dell’Enciclopedia totale su cui si regge). Ed è ancora una volta l’astuto, scettico e disperato Belbo, il personaggio autobiografico per eccellenza di Eco, l’Autore occulto dei due romanzi, perché il Cimitero, nello stile dei frammenti romanzeschi di Belbo (e in ultima analisi come i Protocolli medesimi, assemblati attraverso il riutilizzo e l’adattamento di materiale precedente), è un collage costruito con pezzi pescati dalla letteratura, 16

Mirabilmente sintetizzata in Eco 2002: 7-22, che si conclude così: «Credo che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma non mi vengono in mente».

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dalla memorialistica e da documenti vari dell’Ottocento, da Dumas a Sue, da Abba a Garibaldi, da Joly a Goedsche, da Taxil a Huysmans, fino agli stessi Protocolli (per citare solo alcune delle innumerevoli fonti di Eco). Con il peculiare avvitamento temporale del suo intreccio, poi, il Cimitero è costruito quasi come il Pendolo (e in parte come l’Isola, Baudolino e Loana), salvo che in quest’ultimo l’evento narrativo cruciale segue di poche ore il momento da cui parte la narrazione, perché Casaubon inizia dalle quattro del pomeriggio del 23 giugno 1984 per arrivare alla notte del 26 (momento della rievocazione generale), mentre l’evento clou, il tragicomico raduno iniziatico del sedicente Tres attorno a un Pendolo nel Conservatoire di Parigi, accade intorno alla mezzanotte del 23 e per il resto il romanzo narra gli avvenimenti accaduti negli anni precedenti che costituiscono l’antefatto generale. Nel Cimitero, invece, Simonini inizia a rievocare il passato il 24 marzo 1897 e interrompe il diario degli eventi di cui è stato artefice il 20 dicembre dell’anno dopo, mentre l’evento clou, la messa nera cui assiste come abate Dalla Piccola, era accaduto il 21 marzo 1897, anche se il suo recupero da parte della coscienza del protagonista smemorato e dalla personalità scissa avviene la notte tra il 17 e il 18 aprile 1897 (e quindi, anche narrativamente per il lettore, e non solo psicologicamente per il protagonista, è come se accadesse allora, per cui ricadiamo nello schema del Pendolo). Inoltre, sarebbe possibile istituire un parallelismo tra le coppie Casaubon-Belbo da un lato e Simonini-Dalla Piccola dall’altro, perché entrambe le coppie costituiscono un tandem

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narrativo in qualche modo dialettico e dialogico, e ciascuna storia prende corpo dall’incrocio e dalla sovrapposizione dei loro testi. A proposito dei piani temporali del romanzo, c’è un punto che non mi torna e in cui, se non ci sono delle cose che mi sfuggono e che quindi mi impediscono di sbrogliare il nodo, forse Eco è stato impreciso. Nel secondo capitolo, a pagina 35, Simonini, già smemorato, riporta la seguente lista di impegni stilata prima della perdita della memoria (avvenuta il 22 marzo per Simonini-Dalla Piccola e il 23 marzo per Simonini-Simonini): 21 marzo, messa 22 marzo, Taxil 23 marzo, Guillot per testamento Bonnefoy 24 marzo, da Drumont?

In questa fase, il lettore (perché ignaro dei fatti), al pari di Simonini (perché smemorato), non può capire di cosa si tratti, fatta eccezione per il terzo punto, perché dell’incontro con Guillot si era parlato a pagina 23. Nel corso del romanzo, poi, si capirà cosa vogliano dire il primo e il quarto punto. Ma è il secondo che pone dei problemi, perché il Simonini ancora sano di mente non poteva fissare un appuntamento con Taxil per il 22 marzo, dato che, come si dice chiaramente nel capitolo 24 (cfr. C 450), egli, nei panni di Dalla Piccola, il 19 o 20 marzo aveva detto a Taxil di non farsi più vedere fino al 19 aprile. Non solo, ma in quanto Simonini egli in quel periodo non aveva alcun rapporto con Taxil e quest’ultimo non sapeva nemmeno chi fos-

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se, perché ha sempre avuto a che fare con Dalla Piccola (cfr. C 472). Dunque, se non mi è sfuggito qualcosa che potrebbe fare chiarezza lasciando le cose come stanno, il secondo punto della lista degli appuntamenti di Simonini è incongruente e, se si tratta di un errore di Eco, credo di poter fare un’ipotesi per spiegarne la genesi. In effetti, nel romanzo il nesso tra la messa e l’incontro con Taxil subito dopo c’è, ma non riguarda l’accadere di quest’ultimo il giorno dopo la messa. La messa avviene effettivamente la sera del 21 marzo, ma Simonini, nelle vesti di Dalla Piccola, che il giorno dopo la messa aveva perso la memoria, la ricorda all’alba del 18 aprile (cfr. C 465). Ed è la mattina del 18 aprile che Simonini, ormai guarito e sicuro di essere lui stesso Dalla Piccola, veste di nuovo i panni dell’abate e va a trovare Taxil per giustificare con delle menzogne l’assenza di circa un mese e per mettersi d’accordo con lui per la sceneggiata del giorno dopo sul caso Diana Vaughan (cfr. C 471, dove tra l’altro si ribadisce che Taxil aveva cercato invano per quasi un mese Dalla Piccola nella casa di Auteuil, dove soleva recarsi comunque per amoreggiare con Diana). Dunque, il nesso messa-Taxil avviene nel romanzo nello spazio di poche pagine tra la fine del capitolo 23 e l’inizio del capitolo 24, ma tra la messa e l’incontro con Taxil passa quasi un mese, dal 21 marzo al 18 aprile, e Simonini non può aver fissato un appuntamento con Taxil per il 22 marzo, visto che, come detto, lo aveva congedato il 19 o il 20 marzo dandogli appuntamento per il 19 aprile.

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III Una fetta consistente delle riflessioni di Eco sulle strategie testuali della narrazione è dedicata alla distinzione tra Lettore Empirico e Lettore modello (cui fa da pendant quella tra Autore Empirico e Autore Modello). Al lettore dei romanzi Eco ha infatti dedicato uno dei suoi saggi teorici più noti e influenti: Lector in fabula, uscito nel 1979, guarda caso un anno prima del Nome della rosa. E proprio nelle importantissime Postille a “Il nome della rosa” del 1983 Eco riprende le idee di Eco 1979 sul Lettore Modello in un paragrafo che si intitola proprio “Costruire il lettore”. In sostanza, egli sostiene che ogni testo letterario vuole, persegue, postula, incoraggia un Lettore Modello, la cui attiva cooperazione interpretativa è essenziale per cogliere ed esplicitare le intenzioni implicite del testo. In tal senso il Lettore Modello (Joyce, ad esempio, diceva di scrivere per un lettore affetto da un’ideale insonnia) è una sorta di ideale regolativo cui i vari lettori empirici tendono per successive approssimazioni. Naturalmente, la distanza tra Lettore Empirico e Lettore Modello è proporzionale al grado di complessità e di valore estetico di un testo, per cui, se i lettori empirici dei romanzi Harmony hanno da faticare poco per raggiungere il modello di lettura ad essi richiesto, tutt’altra faccenda è per il Finnegan’s Wake, l’Horcynus Orca e Il Pendolo di Foucault. L’Autore Empirico lavora al testo creando contemporaneamente un modello di scrittura (Autore Modello) e un modello di lettura (Lettore Modello): una volta che il testo è lì, pubblicato ed esposto alla fruizione, la let-

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tura diventa un gioco a tre (almeno) fra il Lettore Empirico, l’intentio operis e il Lettore Modello, in cui il Lettore Empirico tanto più si avvicina al Lettore Modello quanto più adeguatamente compie le mosse interpretative richieste dal testo. Ecco alcune parole di Eco, tratte dalle Postille: «Si scrive pensando a un lettore (…). C’è un autore che scriva per pochi lettori? Sì, se con questo si intende che il Lettore Modello che egli si configura, nelle sue previsioni, ha poche possibilità di essere impersonato dai più. Ma anche in questo caso lo scrittore scrive con la speranza, neppure troppo segreta, che proprio il suo libro crei, e in gran numero, molti nuovi rappresentanti di questo lettore voluto e perseguito con tanta acribia artigiana, postulato, incoraggiato dal suo testo (…). Che lettore modello volevo, mentre scrivevo? Un complice, certo, che stesse al mio gioco (…). Ma al tempo stesso volevo, con tutte le mie forze, che si disegnasse una figura di lettore il quale, superata l’iniziazione, diventasse mia preda, ovvero preda del testo e pensasse di non voler altro che ciò che il testo gli offriva. Un testo vuole essere una esperienza di trasformazione per il proprio lettore» (in R 521, 522 e 523). Cosa si può ricavare da ciò? Almeno questo, credo: leggere non è obbligatorio, non c’è alcun autore che debba essere letto per forza (nel famoso Decalogo di Pennac contenuto in Come un romanzo, quello di non leggere è il primo dei “diritti imprescrittibili del lettore”); ma se si decide di leggere, bisogna sapere che ci si sta imbarcando in una avventura non necessariamente agevole, né necessariamente piacevole (in un certo

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senso), perché il piacere della lettura si accompagna sempre al rischio di un incontro/scontro che può cambiare la vita, di una prova, cioè, che esige penitenze varie prima di schiudere gli orizzonti di senso che un libro può celare in sé. Dice ancora Eco (che si riferisce alle prime cento pagine del Nome della rosa): «Cosa vuol dire pensare a un lettore capace di superare lo scoglio penitenziale delle prime cento pagine? Significa esattamente scrivere cento pagine allo scopo di costruire un lettore adatto per quelle che seguiranno» (R 522). Certo, un Lettore Empirico non troppo smaliziato avrà molte difficoltà a godere la pura fabula (mai banale, anzi sempre calcolatamente avvincente) dei romanzi di Eco, ma se l’attraversamento della selva oscura dei riferimenti più o meno colti gli si rivela troppo faticosa, egli ha tutto il diritto di chiudere il libro e andare a fare altro: nessun medico prescriverà mai la lettura di Eco per curare il male di vivere. Ma attenzione: molte delle citazioni di Eco non sono certo per Superuomini, ma per lettori dotati di una decente cultura “media”. Esigere da tutti gli scrittori di essere alla portata di una parrucchiera o di un carrozziere (con tutto il rispetto per queste preziose professioni) significa essere vittima di una grottesca concezione demagogica della cultura. Prendiamo per esempio l’inizio del primo file letto da Casaubon nel terzo capitolo del Pendolo: O che bella mattina di fine novembre, in principio era il verbo, cantami o diva del pelide Achille le donne i cavalier l’arme gli amori. Punto e va a capo da solo. Prova prova prova parakalò parakalò, con il programma giusto fai anche gli anagrammi (…). Oh gioia, oh vertigine della differanza, oh mio

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lettore/scrittore ideale affetto da un’ideale insomnia, oh veglia di finnegan, oh animale grazioso e benigno. Non aiuta te a pensare, ma aiuta te a pensare per lui. Una macchina totalmente spirituale… (P 27 e 28)

Come è evidente, qui Belbo, un personaggio colto preso da “entusiasmo quasi infantile” (P 27) per i primi programmi di videoscrittura al computer, si lancia in una serie folle di citazioni tratte da Eco stesso (che a sua volta, nei due incipit del Nome della rosa, citava il vangelo di Giovanni e scimmiottava Snoopy e l’attacco del quarto capitolo del Frankenstein di Mary Shelley), da Omero, da Ariosto, da Derrida, da Joyce e da Dante. Naturalmente, non è necessario che tutti i lettori individuino tutte le citazioni per capire il senso del passo, e molte di esse sono alla portata di un liceale passabilmente sveglio. Oppure prendiamo il seguente passo tratto da Loana: “Scriva quello che le viene in mente”, ha detto Gratarolo. Mente? Ho scritto: amor che nella mente mi ragiona, l’amor che muove il sole e l’altre stelle, meglio sole che male accompagnate, spesso il male di vivere ho incontrato, ahi vita ahi vita mia ahi core di questo core, al cuore non si comanda, De Amicis, dagli amici mi guardi Iddio, o Dio del ciel se fossi una rondinella, s’i fossi foco arderei ’l mondo, vivere ardendo e non sentire il male, male non fare paura non avere, la paura fa novanta ottanta settanta milleottocentosessanta, la spedizione dei Mille, mille e non più mille, le meraviglie del Duemila, è del poeta il fin la meraviglia. (L 25)

In questo passo si possono individuare le seguenti citazioni: Dante, primo verso di Convivio III, 1; Dante, ultimo verso del Paradiso; Montale, primo verso della poesia omonima; il ritornello della canzone Il soldato innamorato; l’attacco di una can-

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zone degli alpinisti (Gran Dio del cielo); Cecco Angiolieri; il verso delle Rime di Gaspara Stampa reso famoso da D’Annunzio ne Il fuoco, dove è esaltato dal protagonista Stelio Effrena; la frase fatta che allude alle visioni apocalittiche relative all’anno Mille e che è diventata titolo di alcuni libri, ad esempio di Gianni Brera e Gennaro Francione; il titolo di un romanzo di Emilio Salgari; il celebre verso-manifesto di G. B. Marino. Come si vede, anche qui molte delle citazioni fanno parte del normale bagaglio di un lettore mediamente colto ed Eco le inserisce attraverso libere associazioni innescate da termini che si incatenano (mente, amor, sole, male, vita, cuore, De Amicis, amici, Dio, ecc.) per illustrare lo stato impersonale della mente dello smemorato Yambo. Ciò dimostra che Eco non è uno snob che solletica una esclusiva e ristretta cerchia di affiliati del Sommo Sapere. Insomma, si può vivere benissimo senza leggere Eco; ma se si decide di leggerlo, allora occorre sapere che si sta per giocare una partita difficile, in cui spesso quello che si vince è la saggia contemplazione, dopo la traversata odissiaca dei marosi dell’Enciclopedia, delle tragedie cui può condurre la credula stupidità umana.

IV Data la natura non strettamente accademica del presente saggio, si è evitato di appesantire il testo con eccessivi riferimenti alla letteratura critica su Eco, peraltro ormai così vasta da

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richiedere da sola anni di studi per poter essere percorsa e sintetizzata. Quello che segue vuole essere un attraversamento quanto più possibile leggero e stimolante soprattutto del Nome della rosa, inteso come esemplificazione e summa dello smarrimento nei labirinti dell’Enciclopedia totale, insieme ricettacolo ideale, ideale regolativo e simbolo della conoscenza prodotta dall’uomo. Il viaggio, privo di approdi consolatori, offrirà anche una particolare prospettiva sub specie rosae sul resto dell’opera narrativa di Eco e di volta in volta metterà in luce le diverse modalità attraverso cui l’uomo corre il rischio di rimanere vittima delle sue stesse creazioni simboliche e culturali nel tentativo di decifrare il disordine del mondo, riuscendo talvolta a pervenire a forme sensate di conoscenza spinto dalla stessa forza della falsità e dell’errore, cui è strutturalmente votato. In tal modo, Guglielmo da Baskerville diventerà una sorta di modello per decifrare anche Belbo e Casaubon, Roberto de la Grive, Baudolino, Yambo Bodoni e Simone Simonini, i quali, sotto l’ipotesi interpretativa di una articolata continuità poetico-filosofica, risulteranno legati da una rete di somiglianze di famiglia ed appariranno come emblemi della ricerca conoscitiva e dell’autoinganno. Tuttavia, alcune monografie su Eco sono state tenute presenti, e si tratta di lavori esemplificativi, ciascuno a suo modo, degli approcci possibili all’opera vastissima e al pensiero multiforme e complesso di Eco. L’agile Cotroneo 2001 è una ricognizione dei quattro romanzi usciti fino a quella data effettuata sulla base dell’assunto che essi costituiscano una maschera attraverso la quale il dif-

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fidente ed ironico autore ha celato le proprie ossessioni autobiografiche, legate all’infanzia, al paesaggio di Alessandria e all’esperienza della Resistenza vista con gli occhi di un dodici-tredicenne; in tal senso, il testo occasionale e autobiografico Il miracolo di san Baudolino, risalente al 1981 e poi ristampato in coda a Eco 1992, diventa la chiave interpretativa per accedere alla dimensione intimamente autobiografica dei romanzi di Eco. L’ampio Forchetti 2005 ha il pregio di addentrarsi, con ricchezza di riferimenti alla letteratura critica e con notevole competenza nel campo dei simbolismi più o meno esoterici, nei meandri della complessa trama di simboli che percorre i primi cinque romanzi di Eco, individuando «tre territori d’indagine, tre mappe concettuali con le quali sfidare i labirinti narrativi di Eco: i luoghi, le assenze e le memorie» (p. 11); il rischio, però, è quello di cadere in uno schema interpretativo troppo rigido e preconcetto, perché l’autore ha elaborato la propria chiave interpretativa filosofico-teologico-simbolica nella tesi di laurea (che risale al 1999), incentrata sulla poetica del simbolo e dell’intertestualità nei primi tre romanzi di Eco (cfr. p. 8). Lorusso 2008 è invece un illuminante “profilo biografico-intellettuale” (p. 9) di Eco che tocca i diversi campi teorici di interesse dell’autore, dal problema del testo estetico a quello dell’interpretazione e della semiosi, dalla delimitazione delle unità culturali al rapporto tra semiosi e percezione, fino alla sua elaborazione di una vera e propria teoria della cultura; da questo studio, come si legge nella quarta di copertina, «esce un profilo intellettuale complesso e sfaccettato, l’evoluzione e l’interna

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coesione di un pensiero che non si è mai stancato di guardare al mondo come rete di segni, “opera aperta” in continuo cantiere, labirinto in cui i significati si traducono, condizionano e aggiustano tra loro, in un lavoro incessante di produzione di Senso, che è per l’uomo sfida e tesoro». La Lorusso è una studiosa di Eco competente e affidabilissima, cresciuta intellettualmente sotto l’ala del Maestro, visto che sotto la sua supervisione ha fatto sia la tesi di laurea che la tesi di dottorato, e recentemente ha tradotto dal francese Eco e Carrière 2009; tuttavia trovo difficilmente condivisibile la seguente dichiarazione di metodo: «abbiamo scelto di non soffermarci sull’esperienza letteraria di Umberto Eco: non parleremo, insomma, dei suoi romanzi. Non che non li riteniamo importanti; crediamo, però, che essi costituiscano un’esperienza a sé, che come tale andrebbe trattata, guardando a problemi squisitamente narrativi, estetici, critici ecc. Peraltro, riteniamo di rispettare, così facendo, un’indicazione che Eco stesso ha sempre dato e cui si è per lo più attenuto: quello di tenere separato il suo percorso semiotico da quello letterario» (p. 10). Nel presentarsi come esattamente complementare rispetto a quello della Lorusso, il presente lavoro si basa invece sulla convinzione che il percorso letterario di Eco sia inseparabile da quello semiotico. Questa tesi non verrà difesa con argomentazioni esplicite, ma verrà in gran parte mostrata quasi ad ogni pagina. Montalto (a cura di) 2009, infine, è una raccolta di ventuno contributi (per un totale di ventitre autori diversi, tra cui Gianni Vattimo, Paolo Fabbri, Giulio Andreotti e Maurizio Co-

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stanzo) di varia natura e di vario peso scientifico, tutti però mirati a rendere omaggio all’intellettuale Eco e al suo genio versatile, la cui conoscenza, nota Montalto, è troppo spesso «divorata, presso il grande pubblico ma anche – e vada a loro disdoro – presso gran parte della classe intellettuale, dalla conoscenza (ma di vera conoscenza si tratta?) del romanziere Eco, magari con la sola aggiunta di una parziale conoscenza dell’opinionista Eco» (p. 11). Il ricco volume è suddiviso in quattro parti, i cui titoli danno un’idea della varietà dei contributi e degli approcci, che vanno dal saggio specialistico al puro divertissement erudito (tanto caro allo stesso Eco): “Saggi su Umberto Eco”, “Saggi in omaggio a Umberto Eco”, “Testimonianze”, “Amenità”. In risposta alla preoccupazione di Montalto, il quale teme il rischio di riduttivismo che una eccessiva attenzione all’Eco romanziere comporta, il presente lavoro intende anche mostrare che nei romanzi è annidato e messo in azione e alla prova il nucleo più profondo ed originale di tutto il pensiero dell’intellettuale Umberto Eco.

CAPITOLO 1

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BENVENUTI A BLITIRIA

I Quando uscì Il nome della rosa, nel 1980, il professore di semiotica all’Università di Bologna Umberto Eco era al suo primo romanzo, aveva compiuto quarantotto anni ed era già un intellettuale e uno studioso molto conosciuto sia presso la cerchia ristretta dei filosofi, dei critici letterari e dei semiologi, con opere teoriche e specialistiche come – per citare le maggiori – Eco 1962, 1968, 1971, 1975 e 1979, sia presso il pubblico più vasto dei lettori, con opere di carattere più divulgativo costituite da brevi scritti di invenzione, saggi tra il serio e il faceto su personaggi popolari e articoli sull’attualità, sul costume, sui massmedia e su fatti culturali vari apparsi su quotidiani e riviste, come – per citare le più note – Eco 1963, 1964, 1973, 1976 e 1977a. Inoltre, vero e proprio manualetto di culto presso l’esercito dei laureandi era (e per molti versi è ancora, malgrado si sia passati nel frattempo dalla macchina da scrivere alla videoscrittura, all’ipertesto, a internet e all’e-book) quell’Eco 1977b

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che, con brio irresistibile, guida il giovane aspirante al titolo accademico nella selva dei trucchi e delle tecniche indispensabili per condurre con rigore la ricerca bibliografica, citare correttamente le fonti e curare la stesura e l’impaginazione della tesi di laurea. Ma il romanzo arrecò all’autore una fama planetaria e il suo nome raggiunse strati del pubblico generalmente impermeabili non solo alle speculazioni filosofiche e semiologiche, ma anche alla saggistica più divulgativa. Io stesso ho il ricordo indelebile di uno scambio di battute con un amico avvenuto nel 1984 in una strada polverosa e assolata della periferia abusiva di una città posta alla periferia della periferia dell’Impero. Siamo due quindicenni appena alfabetizzati che stanno bighellonando e a un certo punto, non so perché, il mio amico mi comunica che sua sorella, che ha qualche anno più di noi, ha iniziato a leggere un romanzo che tanti, si dice, hanno in quel momento tra le mani. «Come si intitola?», chiedo. «Il nome della rosa», risponde. «E di che parla?», insisto. «Dice che parla di un cavallo che si è perso», ribatte. E da questo si capisce a cosa si possa ridurre un best seller di somma complessità e cultura tra le mani di gente meccaniche, e di piccol affare; ma si capisce anche che un testo prima facie elitario può avere una forza comunicativa tale da riuscire a penetrare anche nei livelli socio-culturali più improbabili e dare pure lì i suoi frutti – diciamo così – “pedagogici” scatenando

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una curiosità intellettuale irresistibile, un po’ come fa il monolito di Kubrick con gli ominidi in una famosa sequenza iniziale di 2001: Odissea nello spazio. Una delle cose che affascinavano di più i lettori attenti e attivi era quel titolo apparentemente semplicissimo che però sfuggiva a qualsiasi tentativo di dargli un senso chiaro e che addirittura diventava ancora più misterioso alla luce delle ultime, famosissime parole in latino del romanzo: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Ancora la rosa, ancora il suo nome, peraltro nudo come tutti gli altri. Che significa? Il mistero venne in parte svelato dallo stesso Eco nelle Postille a “Il nome della rosa”, uscite sul numero 49 di «Alfabeta» del giugno 1983 e da allora ristampate in coda al romanzo, che ha avuto una infinità di edizioni. Le postille iniziano proprio con la questione del titolo e dell’esametro latino finale. A proposito di quest’ultimo, spiega Eco, esso compare nel De contemptu mundi di Bernardo Morliacense, «un benedettino del XII secolo, il quale varia sul tema dell’ubi sunt (da cui poi il mais où sont les neiges d’antan di Villon), salvo che Bernardo aggiunge al topos corrente (i grandi di un tempo, le città famose, le belle principesse, tutto svanisce nel nulla) l’idea che di tutte queste cose scomparse ci rimangono puri nomi. Ricordo che Abelardo usava l’esempio dell’enunciato nulla rosa est per mostrare come il linguaggio potesse parlare sia delle cose scomparse che di quelle inesistenti. Dopodiché lascio che il lettore tragga le sue conseguenze» (R 507).

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E qui vale la pena aprire una parentesi, per mostrare come certe questioni siano ancora dibattute a trent’anni dalla prima uscita del romanzo. A proposito dell’esametro finale, la medievalista Chiara Frugoni è intervenuta su «Repubblica» del 23 novembre 2009 con un articolo in cui si presentano come novità, ovvero come fatti poco noti, se non addirittura ingiustamente taciuti, sostanzialmente due cose: 1) Eco ha trovato l’esametro di Bernardo nel celebre L’autunno del Medioevo (1919) di Johan Huizinga, e si è fidato troppo; 2) in realtà la forma usata da Eco, mutuata da Huizinga, che a sua volta si basava su una vecchia e inattendibile edizione del 1872 del testo di Bernardo, è un’erronea trascrizione dell’originale, che sarebbe stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus. Questa lezione effettivamente pare più coerente con il contesto dell’ubi sunt, perché, come nota anche la Frugoni, i versi precedenti chiedono dove siano finiti, tra gli altri, Cesare, Mario, Fabrizio incurante dell’oro, Paolo con la sua morte onorevole e i suoi gesti memorabili, Cicerone con la sua oratoria, Catone con la sua pace per i cittadini e la sua ira per i ribelli, Attilio Regolo, Romolo e infine Remo. È abbastanza naturale, quindi, supporre che la chiusura spettasse a “Roma”, e non a un’imprecisata “rosa”, che in quella lista sarebbe un po’ un’intrusa. Tuttavia la Frugoni riconosce che la sua scoperta è già stata anticipata molti anni fa in Pepin 1986 da quello stesso studioso che nel 1991 ha pubblicato una nuova edizione critica del testo di Bernardo recante come più pertinente la fino ad allora ignorata o sottovalutata variante “Roma” in alcuni manoscritti. E dunque? Ecco la conclusione

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della Frugoni: «Poiché sono stati scritti tanti articoli sul significato di Il nome della rosa, romanzo meritatamente celebre, mi pare sia giusto sottolineare che quel titolo, così attraente ed enigmatico, nasca da una cattiva edizione di un poema medievale, dalla poca perspicacia del primo editore del De Contemptu mundi (…). L’articolo di Ronald Pepin ha avuto una sorte ingrata, peggiore dei “nomina nuda tenemus”, giacché è stato totalmente ignorato: per questo mi è parso giusto ricordarlo con il rilievo che gli è dovuto»17. Ora, a tal proposito è doveroso fare delle precisazioni, perché qui la Frugoni sembra piuttosto fuori strada. Intanto, è vero che Eco con ogni probabilità ha citato l’esametro di seconda mano, usando appunto l’undicesimo capitolo di Huizinga 1919, dedicato all’immagine della morte nel Medioevo. Il fatto però è noto da tempo nella letteratura sul romanzo, e ormai viene dato per scontato18, al punto che lo si trova citato persino in qualche forum di lettori on line. Se si vuole, una prova ulteriore è costituita dal fatto che all’inizio delle Postille, quando rivela la fonte dell’esametro, Eco cita di nuovo (questa volta in originale) anche il famoso verso sulle nevi “d’antan” di Villon, esattamente come fa Huizinga subito dopo la citazione delle due strofe di Bernardo. Ma è risaputo che sin da giovane Eco frequentava quell’opera di Huizinga, e non solo in quanto medievalista: sua, infatti, è l’introduzione all’edizione italiana Einaudi del 1973 di 17 18

Frugoni 2009: 38. Si veda, ad esempio, Forchetti 2005: 181.

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Homo ludens, altra opera famosa di Huizinga, e in tale introduzione L’autunno del Medioevo è ovviamente citato (il saggio è ora in Eco 1985 e si intitola Huizinga e il gioco), così come è citato per ben tre volte nel capitolo 8 di Eco 2007b, in parte risalente addirittura a un saggio del 1961. Inoltre, non è vero che il saggio del 1986 di Pepin su rosa/Roma sia stato “totalmente ignorato”, perché, pur senza citarlo esplicitamente, ne ha parlato addirittura lo stesso Eco pochi anni dopo la sua uscita: si vedano infatti Eco 1990: 118 e Eco 1995: 94 (i passi sono quasi identici), dove Eco ironizza sul fatto che se avesse conosciuto la variante quando scriveva il romanzo avrebbe potuto intitolarlo Il nome di Roma, dando così la stura a tutta una serie di interpretazioni fasciste! Per non dire del fatto che, come si può verificare con una rapida ricerca su Google, il saggio di Pepin è citato non solo in diversi studi a stampa sul Nome della rosa, ma persino nella voce in inglese di Wikipedia sul romanzo, in relazione

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proprio alla questione rosa/Roma19 (ed è curioso osservare che, almeno fino alla data del 31 dicembre 2010, tale riferimento manca nelle analoghe voci di Wikipedia in italiano, francese, tedesco e spagnolo). Non c’è niente di particolarmente sorprendente nel fatto che Eco sia rimasto colpito dal verso di Bernardo leggendo Huizinga 1919, e se avesse letto il passo direttamente nell’edizione del 1872 del De contemptu mundi o in quella del 1929 (che menziona la variante “Roma”), non sarebbe cambiato granché, perché, come egli stesso ha ammesso, quello che lo attirava era non solo il sapore nominalistico del verso, ma anche il misteriosissimo riferimento alla rosa primigenia (che nessuno, nemmeno Platone, sa cos’è, mentre tutti sanno grosso modo cosa si intende con l’espressione “antica Roma”). Ma c’è di più. Se si prende l’ultima pagina del romanzo, in particolare laddove si legge: «Est ubi gloria nunc Babylonia? Dove sono le nevi di un tempo? La terra danza la danza di Macabré», si vede che qui, 19

«Perhaps this is a deliberate mis-translation. This quote has also been translated as “Yesterday's Rome stands only in name, we hold only empty names”.This line is a verse by twelfth century monk Bernard of Cluny (also known as Bernard of Morlaix). Medieval manuscripts of this line are not in agreement; Eco quotes one Medieval variant verbatim, but Eco was not aware at the time of the text more commonly printed in modern editions, in which the reference is to Rome (Roma), not to a rose (rosa). The alternative text, with its context, runs: Nunc ubi Regulus aut ubi Romulus aut ubi Remus? / Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus. This translates as “Now where is Regulus, or Romulus, or Remus? / Yesterday's Rome stands only in name, we hold empty names”». E in una nota relativa a questo brano si legge: «See further Pepin, Ronald E. “Adso's closing line in The Name of the Rose”, American notes and queries (May-June 1986): 151–152».

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in tre frasi, ci sono ben tre citazioni diverse: la prima è sempre tratta da Bernardo (I, 933), ed è il primo verso della prima delle due strofe del De contemptu mundi citate da Huizinga (l’ultimo verso della seconda strofa, I, 952, è proprio quello sulla “rosa”); la seconda è ovviamente tratta da Villon e la terza è tratta dal verso “Je fis de Macabré la dance” del poeta francese del XIV secolo Jean Le Fèvre. Ebbene, anche la terza citazione si trova nell’undicesimo capitolo del libro di Huizinga (poco oltre la citazione dei passi di Bernardo e Villon20 ), che quindi Eco saccheggiava molto più di quanto la Frugoni non sospetti21. Per quanto riguarda invece il titolo, nelle Postille Eco ricorda che esso non è quello previsto inizialmente. Il “titolo di lavoro” era Abbazia del delitto (o, come dirà altrove22, Delitti all’abbazia), che però venne in seguito scartato perché troppo centrato sulla trama poliziesca, il che avrebbe potuto trarre in inganno qualche lettore “in caccia di storie tutte azione”. Il titolo sognato dall’autore era invece Adso da Melk, che tuttavia venne scartato perché gli autori e gli editori italiani, contrariamente ai colleghi stranieri, non amano i titoli costituiti da nomi propri (e qui Eco ricorda ironicamente che «persino Fermo e Lucia è stato riciclato in altra forma»). Altrove, come vedremo, Eco dirà che 20

Cfr. Huizinga 1919: 163, 164 e 168-169. Basti pensare che anche il paolino videmus nunc per speculum et in aenigmate (1Cor. 13.12) dell’inizio del “Prologo” (R 19) si trova in Huizinga 1919 (e in particolare nel quindicesimo capitolo, p. 233), in un passo che l’Eco esperto di simbolismo medievale ha ben presente (cfr. ad es. Eco 2002: 157). 22 Cfr. Eco 2002: 140. 21

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Il nome della rosa era entrato nella lista dei titoli possibili proprio grazie all’esametro latino di Bernardo Morliacense che chiude il romanzo, ma nelle postille questo dettaglio è taciuto perché gli preme dire qualcos’altro: «L’idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima. Il lettore ne risultava giustamente depistato, non poteva scegliere una interpretazione; e anche se avesse colto le possibili letture nominaliste del verso finale ci arrivava appunto alla fine, quando già aveva fatto chissà quali altre scelte. Un titolo deve confondere le idee, non irreggimentarle» (R 508).

II Fin qui le Postille su titolo ed esametro finale. Esse, però, se pure spiegano molto, non spiegano tutto ed Eco è abile nel seminare maliziosamente disordine laddove sembra intento a mettere ordine. Vediamo innanzi tutto di trarre alcune conclusioni dalle prime spiegazioni di Eco. L’esametro latino che chiude il romanzo è una meditazione malinconica sul fatto che delle cose lontane nel tempo o in qualche modo perdute ci rimangono al più solo i nudi nomi; lo stesso, sulla scia di Abelardo, vale per le cose inesistenti, e quindi anche – possiamo aggiungere –

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per le invenzioni narrative. Alcune scuole filosofiche, poi, sin dall’antichità, hanno riflettuto sul fatto che, escluso un legame magico con la natura delle cose (che pure qualcuno ha sognato, a cominciare da Eraclito, Cratilo e Platone), i nomi hanno una relazione puramente convenzionale con le cose individuali e i termini generali non hanno alcun riferimento nella realtà (è questo, semplificando un po’, il cosiddetto nominalismo in filosofia); le cose del mondo, in tal modo, sfuggono a qualsiasi tipo di rappresentazione realistica o di conoscenza linguistica profonda, condannandoci a vagare di nome in nome, senza mai raggiungere la cosa, o di nome della rosa in nome della rosa, senza mai cogliere la rosa stessa dentro il linguaggio. L’alternativa a questa concezione del rapporto tra nome e cosa, cioè il realismo, ha delle conseguenze paradossali, soprattutto nella sua versione forte, messe in luce ad esempio da Borges, uno dei grandi numi del Nome della rosa, nella mirabile strofa iniziale della poesia El Golem, dove, guarda caso, spunta il nome della rosa: Si (como el griego afirma en el Cratilo) El nombre es arquetipo de la cosa, En las letras de rosa está la rosa Y todo el Nilo en la palabra Nilo.23

che si potrebbe rendere in italiano con: «Se (come afferma Platone nel Cratilo) / il nome è l’archetipo della cosa, / Nel nome 23 In

Borges 1985: 64.

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della rosa è contenuta la rosa / E il Nilo nella parola Nilo». Siamo esattamente agli antipodi, come si vede, dell’esametro di Bernardo morliacense. Se si aggiunge che quello che vale per i nomi vale anche per le proposizioni (ma non tutti fanno un tale passo), questo tipo di nominalismo sfocia in un pessimismo conoscitivo assoluto, e il linguaggio è destinato a rimanere entro se stesso, ovvero a costruire attorno a noi una rete invalicabile che lascia la realtà nel suo complesso, ovvero nella sua natura essenziale, sempre fuori. Come dirà con mirabile sintesi Wittgenstein nel 1931 in uno dei Pensieri diversi: «Il limite del linguaggio si mostra nell’impossibilità di descrivere il fatto che corrisponde a una proposizione (che è la sua traduzione) senza appunto ripetere la proposizione»24 (e qui è adombrato quel processo della semiosi illimitata, cioè lo slittamento continuo dal “segno” da interpretare al suo segno “interpretante”, saltando l’oggetto designato, che Eco, sulla base di Peirce, ha discusso a lungo, soprattutto nelle sue versioni patologiche ermetiche e decostruzioniste). La rosa primordiale, la rosa d’antan, la rosa di uno stemma, la rosa inventata dai poeti e dai teologi (come quella mistica o quella di Gertrude Stein) e addirittura questa stessa rosa sono dunque solo “rosa”, il loro nome nudo: il nome della rosa, appunto, che è un flatus vocis, un nulla. A questo allude Eco quando dice che la “rosa” è così carica di significati da non averne nessuno e che dunque il lettore avrebbe dovuto smarrirsi in questa selva di ri24

Wittgenstein 1977: 32-33.

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mandi simbolici così aggrovigliata e fitta da coincidere con il vuoto, scorgendo l’assenza di senso come se fosse l’altra faccia della troppa e confusa ricchezza di senso. Ecco che allora, per sommo paradosso, “rosa”, cioè il nome della rosa, ha così tanti significati che coincide con “blitiri”, che non ne ha nessuno25. Ed è di questa parola insensata, e della sua strana storia, che ora dovremo occuparci, perché essa, che ricorre pure nel romanzo, è come un passaggio segreto che ci consente di accedere al cuore dell’abbazia e a una buona parte del significato profondo del Nome della rosa, al punto che diventa lecito variarla ulteriormente e coniare la parola “Blitiria” per indicare la stessa abbazia del romanzo, cioè quella terra del nonsenso che è l’unico specchio possibile di un mondo impossibile da raffigurare perché senza forma e senza senso.

III Nel capitolo di Sulla letteratura intitolato “Borges e la mia angoscia dell’influenza”, che è una versione abbreviata del suo intervento a un convegno sui rapporti letterari tra lui e Bor25

Non a caso l’idea opposta è difesa nel Pendolo di Foucault dal fanatico Agliè, sostenitore della tradizione ermetica: «il simbolo tanto è più pieno, rivelante, possente, quanto più è ambiguo, fugace, altrimenti dove finisce lo spirito di Hermes, il dio dai mille volti?» (P 342). Questa caratterizzazione di Hermes la si ritrova in Eco 1990: 42-43 ed è alla base di quello che Casaubon chiama “filosofema ermetico” quando sente dire al commissario De Angelis: «a questo mondo tutto c’entra con tutto» (P 250).

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ges tenutosi nel maggio 1997 all’Università di Castilla-La Mancha, Eco torna per l’ennesima volta sul titolo del romanzo26, ma questa volta ci sono alcuni particolari in più rispetto alle Postille, uno dei quali risulta oltremodo interessante: «Come ho più volte raccontato, il titolo Il nome della rosa è stato scelto da alcuni amici guardando la lista di dieci titoli che avevo buttato giù all’ultimo momento. In effetti il primo titolo era Delitti all’abbazia (ovvia citazione del “Murder in the Vicarage”, tema ricorrente nel romanzo poliziesco inglese) e il sottotitolo era Storia italiana del XIV secolo (citazione manzoniana). Poi il titolo mi era parso un po’ pesante, ho fatto una lista di titoli tra cui quello che preferivo era Blitiri (“blitiri” insieme a “babazuf” è un termine che i tardi scolastici usavano per indicare una parola priva di senso), e poi, siccome l’ultima riga del romanzo citava un verso di Bernardus Morliacensis che avevo scelto per il suo sapore nominalistico (…), avevo messo anche Il nome della rosa. Come ho detto altrove mi pareva un buon titolo perché era generico, perché la rosa aveva assunto nel corso della storia della mistica e della letteratura tanti significati diversi, spesso contraddittori, e quindi speravo che non si sarebbe prestato a decifrazioni univoche. Inutile: tutti hanno cercato un significato preciso…» (Eco 2002: 140-141). Eco, dunque, sperava che anche il titolo, come l’opera, fosse “aperto” alle interpretazioni più svariate e contrastanti, e che esse si annullassero a vicenda e collas26

Si veda ad esempio Eco 1990: 118 e ss., ripreso a sua volta in Eco 1995: 94 e ss.

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sassero nel vuoto di senso più assoluto per eccesso di senso. Ecco perché è estremamente significativo il fatto che egli abbia pensato di intitolare Blitiri il romanzo e che addirittura questo fosse il titolo da lui preferito tra quelli ipotizzati nella lista. Ma da dove viene questa parola? Nel passo citato Eco dà una spiegazione sommaria in parentesi, ma essa contiene due inesattezze, come si vedrà da quanto segue. La parola insensata “blitiri” (altri scrivono “blituri” o “blityri), viene dal greco blίturi e ricorre in alcune fonti dei primi secoli dopo Cristo relative alle dottrine logico-linguistiche degli stoici antichi. È molto probabile, quindi, che essa sia stata coniata da questi ultimi, e in particolare da qualcuno tra i discepoli e successori di Crisippo di Soli (vissuto nel III secolo a. C.). I primi a tramandarla, tra le fonti pervenuteci, sono il medico Galeno, il dossografo Diogene Laerzio e il filosofo scettico Sesto Empirico, vissuti tutti e tre grosso modo a cavallo tra il II e il III secolo d. C. (più esattamente, si ritiene in genere che Galeno sia vissuto tra il 129 e il 200, Sesto tra il 180 e il 220 e Diogene verso la metà del III secolo). Come vedremo, per quel che interessa qui la ricorrenza più importante è quella che si trova nel paragrafo 57 del libro VII delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, dove si legge: «Vi è differenza tra voce ed espressione, in quanto la voce è un semplice suono, l’espressione è soltanto e sempre articolata. L’espressione a sua volta è diversa dal discorso, perché il discorso è sempre semantico o significante, l’espressione può anche essere senza significato, cioè inintelligibile,

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come p. es. “blitiri”, il discorso è sempre significante»27. Il curatore, nella nota relativa a “blitiri”, rimanda a Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VIII, 133 (perché anteriore a Diogene Laerzio, che ne cita il nome in IX, 87) e a uno studio del 1964 di Maria Luisa Altieri Biagi sulla fortuna del termine nel Settecento.28 Nel passo di Sesto, in cui si sta criticando dal punto di vista scettico la nozione stoica di “verità”, si legge: «pur ammettendo che il vero risieda in un suono [in precedenza Sesto ha confutato l’idea che il vero e il falso possano risiedere in un “detto incorporeo”], esso dovrà risiedere o in un suono “significante” o in uno “non-significante”. Ma non può risiedere nel suono che non abbia un qualche significato, ad esempio nel suono “blitiri” o “skindapsòs”: come, infatti, si può recepire come vera una cosa priva di significato?»29 (laddove “skindapsòs” assomiglia a “kindapsos”, che è il nome di uno strumento musicale di scarso valore). Il brano citato di Diogene Laerzio, inoltre, si trova nel capitolo dedicato al fondatore dello stoicismo, Zenone di Cizio, ma in quel preciso contesto Diogene Laerzio sta riferendo il contenuto di un trattato sulla voce attribuito a Diogene di Babilonia. Chi era costui? Si tratta di un discepolo di Crisippo vissuto tra il III e il II secolo avanti Cristo che, insieme all’accademico Carneade, un suo allievo in materia di dialettica30, e al peri27

Diogene Laerzio 2008: 263. Cfr. Diogene Laerzio 2008: 536. 29 Sesto Empirico 1975: 175. 30 Stando a Cicerone, Academica priora, 30.98. 28

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patetico Critolao, partecipò nel 156-155 alla famosa ambasceria a Roma dei tre filosofi incaricati dall’assemblea di Atene di ottenere la remissione di un debito. Per tale motivo il passo citato è entrato a far parte della raccolta dei frammenti degli stoici antichi (Stoicorum Veterum Fragmenta), uscita in tre volumi tra il 1903 e il 1905 a cura di Hans von Arnim, e in particolare costituisce il frammento 20 relativo a Diogene di Babilonia. Ebbene, nella sua (peraltro dichiaratamente infedele) versione italiana della raccolta di von Arnim, Margherita Isnardi Parente, chiosando la parola “blityri” che ricorre nel fr. 20 di Diogene di Babilonia, scrive: «Voce convenzionale per indicare il linguaggio degli uccelli»31 , senza però specificare da dove provenga questa informazione. D’altra parte, il frammento 149 relativo alla logica di Crisippo (non tradotto dalla Isnardi Parente) è costituito da un passo di Galeno, che recita così: «Ma anche espressioni come “blituri” e “skindapsos” non hanno alcun significato… Che cosa vai cianciando, uomo, con tanta disinvoltura? Anche “blituri” indica un certo movimento e “skindapsos” non è solo un modo di chiamare un servo, ma anche il nome di uno strumento»32 . Come si vede da questa rapida rassegna, l’espressione “blitiri” è stata inventata in ambiente stoico da qualcuno che, forse imitando un suono naturale o artificiale, ha voluto così esemplificare una parola priva di senso nell’ambito della trattazione di questioni che oggi diremmo di semantica e filosofia del 31 32

Isnardi Parente (a cura di) 1989: 605, nota 13. Radice (a cura di) 2002: 367.

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linguaggio. In tal modo essa è passata al Medioevo ed è stata ripresa varie volte. Anche se nel passo di Sulla letteratura sopra riportato Eco tace sull’origine stoica della parola insensata, tuttavia altrove, in contesti più specialistici, egli è molto più preciso. Il quarto capitolo di Dall’albero al labirinto, intitolato “Sul latrato del cane”, rielabora nella seconda parte un saggio omonimo pubblicato in inglese nel 1989 a firma sua e di Roberto Lambertini, Costantino Marmo e Andrea Tabarroni, insieme ai quali lo aveva presentato già nell’aprile 1983 alle Settimane di studio del Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo. Qui Eco, partendo dalle classificazioni delle voci e dei segni di Aristotele (come quella che troviamo nelle prime pagine del De interpretatione) e degli stoici (come quella che troviamo nel passo di Diogene Laerzio su Diogene di Babilonia riportato sopra), va alla ricerca degli ulteriori sviluppi nel Medioevo di tali classificazioni antiche, illustrando gli “alberi” diversi delle suddivisioni in Agostino, Boezio, Abelardo, Tommaso D’Aquino e Ruggero Bacone. Per i nostri scopi è opportuno vedere da vicino la classificazione ad albero di Tommaso, desunta dalla quarta “lezione” del primo libro del suo commento al De interpretatione di Aristotele, perché tra le sue foglie troveremo una nostra vecchia conoscenza. In particolare, il passo che ci interessa è il seguente, dove Tommaso sta commentando la pagina 16a (che è anche la prima) del trattatello aristotelico: «Anzitutto viene posta (…) la “voce” a mo’ di genere, in modo da distinguere il nome da tutti i suoni che non sono voci. (…) Poi viene aggiunta una prima differenza: “dotata di significato”, per differenziarla da qualsiasi

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voce non significante, sia riproducibile per iscritto [“allitterata”] e pronunciata distintamente [“articolata”] come biltris, sia non allitterata e non articolata, come un fischio fatto per nulla. E poiché della significazione delle voci si è già parlato sopra, dalle premesse si conclude che il nome è una voce dotata di significato»33. Per Tommaso, dunque, il suono si distingue in vocale e non vocale. Rimanendo al ramo sinistro dell’albero, il suono vocale si divide in voce dotata di significato (per natura, come il latrato del cane o il gemito degli infermi, o per convenzione, come i nomi e i verbi) e voce non dotata di significato; quest’ultima, a sua volta, si divide in voce insignificante non riproducibile per iscritto (non litterata) né articolata, come un sibilo casuale, e voce insignificante riproducibile per iscritto (litterata) e articolata, come biltris34. A proposito di biltris o blitris, che costituisce una foglia precisa e solitaria nell’albero di Tommaso, Eco spiega in parentesi: «tipico esempio stoico e poi medievale, insieme a buba e bu-baf, di emissioni vocali che, pur essendo trascrivibili, non significano nulla» (Eco 2007b: 190). Confrontando questo passo con quello precedente tratto da Eco 2002, si notano due importanti differenze: 1) il dovuto riferimento agli stoici e 2) una più esatta riproduzione degli altri esempi di espressioni vocali insignificanti. Il “babazuf” di quel passo, infatti, è chiaramente una 33 34

Tommaso D’Aquino 1997: 90. Così Tommaso nell’originale latino consultato e nella traduzione citata, mentre Eco scrive blitris in tutte e quattro le citazioni del termine usato da Tommaso: cfr. Eco 2007b: 190, 193 e 194.

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distorsione operata involontariamente dalla memoria di quel “bu-ba-baff” che compare due volte insieme alla seconda ricorrenza di “blitiri” nel Nome della rosa, come vedremo, e che sembra derivato più direttamente dai “buba” e “bu-baf” citati in “Sul latrato del cane”. Per fare solo un esempio significativo di un testo della scolastica in cui compare una forma insensata come “buba”, basti prendere le Summule logicales, il manuale di logica in dodici trattati di quel Pietro Ispano che fu per otto mesi papa col nome di Giovanni XXI dal 15 settembre 1276 al 20 maggio 1277, che Dante ritrae in un solo verso del Paradiso associandolo per l’eternità proprio a questa sua opera di logica («lo qual giù luce in dodici libelli», XII, 135) e a cui lo stesso Eco rende un grande omaggio nel romanzo, facendo mormorare a Guglielmo – nella fase della “fraterna discussione sulla povertà di Gesù” tra i legati pontifici e i legati francescani in cui i maldestri interventi di frate Girolamo, l’“imbecille” (R 62) e “sciocco” (R 69) vescovo di Caffa, basati su argomentazioni confuse e sillogismi difettosi, stanno per fare scoppiare una rissa furibonda con insulti irriferibili (descritta in pagine che sono tra i vertici comici del romanzo) – le seguenti parole di invocazione: «Anima santa di Pietro Ispano (…) proteggici tu» (R 347). Ebbene, il terzo paragrafo del primo trattato è l’ennesima e canonica classificazione delle voces, e così suona nella traduzione di Augusto Ponzio: «Le voci si distinguono in significative e non-significative. Voce significativa è quella che all’udito rappresenta qualcosa, come ‘uomo’, o il gemito degli infermi. Voce non-significativa è quella che all’udito non rappresenta nulla,

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come ‘buba’. Le voci significative si distinguono in voci significative ad placitum e voci significative per natura. Voce significativa per natura è quella che per tutti rappresenta la stessa cosa, come il gemito degli infermi e il latrato dei cani. Voce significativa ad placitum è quella che, a discrezione di chi la istituisce, rappresenta qualcosa, come ‘uomo’»35. Inoltre, come si ricorda in Marmo 1990 nella nota ad locum (cioè al passo di R 114 citato sotto) dell’edizione commentata per le scuole superiori del Nome della rosa, un’espressione come “buf-baff” compare nel Compendium totius logicae di Giovanni Buridano. Il famoso “asino” di quest’ultimo, peraltro, è ricordato nel corso della rissa sopracitata, allorché Guglielmo confessa ad Adso di non sapere cosa fare, perché se riferisce all’assemblea l’opinione dei teologi imperiali (cioè soprattutto dei suoi amici Marsilio da Padova e Guglielmo di Occam, che negavano alla Chiesa «il diritto di legiferare sulle cose terrene», R 349) la sua missione va in porto, essendo anche questo quello che egli era venuto a fare lì; ma se lo riferisce, la sua missione fallisce, perché Giovanni XXII non avrebbe mai accettato di ricevere ad Avignone una delegazione imperiale incaricata di sostenere una simile opinione, e facilitare un tale secondo incontro ad Avignone era il compito principale di Guglielmo su mandato dell’imperatore Ludovico il Bavaro: «E allora sono preso tra due forze contrastanti, come un asino che non sappia da quale di due sacchi di fieno mangiare» (R 350). Ma si veda anche R 353, dove Guglielmo è di nuovo «di35

Pietro Ispano 2004: 5.

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viso tra altri due sacchi di fieno», perché da un lato è chiamato da Severino all’ospedale, dove l’erborista ha ritrovato lo “strano libro” portatovi da Berengario, e dall’altro è incitato da Michele da Cesena a rientrare nella sala capitolare dopo la rissa, perché dovrà prendere la parola ed esporre le idee sulla separazione dei poteri elaborate dai teologi imperiali. Ed è in questo frangente che Guglielmo commette uno dei suoi errori più gravi, perché, lasciandolo andare solo nel suo laboratorio, senza volerlo praticamente condanna a morte il povero Severino, che verrà subito ucciso dal bibliotecario Malachia a colpi di sfera armillare. Si comprende, allora, perché il termine “blitiri” sia diventato nei secoli successivi sinonimo di “cosa da nulla” e sia attestato sia in scritti di logica che in contesti più colloquiali e ordinari. Per esempio, ritroveremo il termine in un breve frammento logico di Lebniz in latino (di datazione incerta) dal titolo lunghissimo e stranissimo («Pare che nel Seicento i titoli fossero tutti così. Li scriveva Lina Wertmüller», dirà Casaubon alla fidanzata Amparo in P 153), Introduzione all’enciclopedia arcana ossia principi ed esempi della scienza generale sull’instaurazione e gli sviluppi delle scienze e sul perfezionamento della mente e la scoperta delle cose per la felicità generale, dove “blitiri” è ancora «il nome senza la nozione, ossia ciò che è nominabile e non pensabile, (…) secondo l’esempio degli scolastici»36. Ma è commovente lo stato di confusione in cui il termine gettò il pur sagace e dottissimo Leopardi, il quale dedicò a “blitiri” il se36

In Leibniz 1992: 124.

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guente appunto di disperazione linguistica nella pagina 43 dello Zibaldone: «Non si trova in verun Dizionario italiano ch’io abbia potuto consultare ma è comune fra noi la parola blitri o blittri o blitteri che significa, un niente, cosa da nulla ec. Questa casa è un blitri; questa città è un blitri a misurarla con Roma ec. ec. Ora questa parola è totalmente e interamente greca: βλίτρι, che anche si diceva βλίτυρι e βλήτυρι e βλίτηρι (come anche noi) e forse anche βρίτυρι, e non significava nulla. Vedi LAERZIO, l. 7, segm. 57 e quivi le note del Casaubon e del Gilles Ménage e il DU FRESNE, Glossar. Graec. in βλίτηρι e nell’appendice 1 in βλίτηρι parimente. Tutti gli altri libri immaginabili che poteano fare al caso sono stati da me consultati scrupolosamente, senza trovarci ombra di questa voce, e nominatamente i dizionari greci tutti quanti n’ho, dove manca affatto, in tutte le sue maniere». Anni dopo, nel 1828, Leopardi troverà la parola in un sonetto del Magalotti e prenderà nota nella pagina 4301 dello Zibaldone: «V’è di quelli ostinati, Che per un blittri (della qual voce, derivata dal greco, dico altrove: vuol dire per un nulla) categorematico Lascerian star la broda e ’l companatico. MAGALOTTI, Sonetto colla coda; che incomincia: Acciò conosca ognun quanto diverso. vers. 27-29. Parla de’ fanatici scolastici e peripatetici del suo tempo». E si noti come in ogni caso tornino i riferimenti essenziali, cioè Diogene Laerzio e gli scolastici, anche se l’autodidatta Leopardi, fuorviato dall’uso comune, sembra aver perso la cognizione del significato tecnico del termine, che invece era ancora presente a chi aveva frequentato le scuole gesuitiche, poi svecchiate dall’Illuminismo. Come nota la Altieri

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Biagi, il significato specialistico del termine era ancora ben presente ad esempio a Parini, Alfieri e Goldoni, che avevano frequentato le aride e ardue lezioni di logica scolastica, al punto che Goldoni, rievocando gli anni trascorsi a Rimini e l’epoca in cui lo assalirono le pustole del vaiolo, confessa che la malattia gli sembrava una delizia in confronto alle nozioni di logica a base di “blittri” ed “ente di ragione”.37

IV Alla luce di tutto ciò, siamo in grado ora di dare uno sguardo più penetrante ai due luoghi del Nome della rosa in cui compare l’espressione “blitiri”, usata prima dall’Adso da Melk vecchio narratore e poi da Guglielmo da Baskerville in un dialogo con il giovane Adso come esempio di voce insensata. Mentre Adso e Guglielmo, la mattina del loro arrivo, sono perduti nella contemplazione delle terribili visioni istoriate nel portale della chiesa dell’abbazia, sentono alle loro spalle la presenza del mostruoso Salvatore, le cui prime, stranissime parole danno al narratore lo spunto per una importante riflessione sul linguaggio: Penitenziagite! Vide quando draco venturus est a rodegarla l’anima tua! La mortz est super nos! Prega che vene lo papa santo a liberar nos a malo de todas le peccata! Ah ah, ve piase ista negromanzia de Domini Nostri Iesu Christi! Et anco jois m’es dols e plazer m’es dolors… Cave el diabolo! Sem37

Cfr. Altieri Biagi 1964: 39.

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per m’aguaita in qualche canto per adentarme la carcagna. Ma Salvatore non est insipiens! Bonum monasterium, et aqui se magna et se priega dominum nostrum. Et el resto valet un figo seco. Et amen. No?» (R 54).

Adso nota che Salvatore, per l’aspetto e il modo di parlare, non è molto diverso dagli infernali “incroci pelosi e ungulati” appena visti sotto il portale, e si chiede che genere di lingua parli. Salvatore sembra parlare tutte le lingue e nessuna, avendone assorbito casualmente una tutta sua che proviene dai brandelli delle lingue locali con cui era venuto a contatto in passato nel corso del suo peregrinare tra Francia e Italia aggregandosi per disperazione a ogni sorta di banda di vaganti, il cui elenco ipertrofico e pirotecnico (cfr. R 192-193) costituisce un pezzo di bravura nello stile dell’“eccesso coerente” che lo stesso Eco antologizzerà nel 2009 nel suo catalogo illustrato sulla Vertigine della lista, insieme alle pagina del capitolo 28 di Baudolino (B 363-367) in cui vengono enumerati tutti i tipi di pietre da cui è costituito il leggendario fiume Sambatyon38. Inoltre, Salvatore non è in grado di scegliere la lingua da usare, ovvero non mescola le lingue in maniera inventiva e consapevole; piuttosto, Salvatore può usare per una stessa cosa ora il nome latino ora quello provenzale, a seconda del luogo e della circostanza in cui ha imparato il costrutto frasale in cui esso ricorre. Per esempio, se Salvatore deve nominare un cibo, usa la frase in cui il nome di quel cibo ricorre udita nella lingua della gente con cui ha mangiato quel cibo (e a tal proposito si veda la spassosa ricetta del “casio in 38

Cfr. Eco 2009: 316-319.

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pastelletto” che recita ad Adso in R 223), e se deve esprimere gioia, lo fa con frasi gioiose udite da gente con cui ha condiviso la gioia. In tal modo – nota Adso riecheggiando la questione della “lingua perfetta”, alla cui millenaria ricerca è dedicato Eco 1993 – la “lingua” di Salvatore non può essere quella adamitica, cioè quella del periodo che va dalla creazione alla Torre di Babele, quando l’umanità viveva felice e unita, e non può essere nemmeno una di quelle sorte dopo la funesta divisione delle lingue: piuttosto essa è «proprio la lingua babelica del primo giorno dopo il castigo divino, la lingua della confusione primeva» (R 54). Questo significa che Salvatore incarna il problema addirittura metafisico relativo alla questione, sempre aperta, se l’uomo sia in grado o meno di nominare l’Essere, ovvero di costruire una lingua in grado di riprodurre e significare, con il suo ordine logico-grammaticale, l’ordine delle cose. Di primo acchito, Salvatore sembra fuori gioco, perché, se la lingua deve incorporare l’ordine del mondo, la sua contiene un principio di disordine inammissibile, quale è appunto la variabilità imprevedibile della denominazione: «Né d’altra parte potrei chiamare lingua la favella di Salvatore, perché in ogni lingua umana vi sono delle regole e ogni termine significa ad placitum una cosa, secondo una legge che non muta, perché l’uomo non può chiamare il cane una volta cane e una volta gatto, né pronunciare suoni a cui il consenso delle genti non abbia assegnato un senso definito, come accadrebbe a chi dicesse la parola “blitiri”» (R 54-55). Questo però sarebbe vero se il mondo avesse un ordine oggettivo e immutabile, lo stesso delle regole di una lin-

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gua nell’asse della sincronia. E lo è certamente per Adso, un benedettino per il quale i limiti del mondo coincidono con i limiti della venerabile Regola del suo ordine monastico. Ma cosa accadrebbe se il mondo non avesse un ordine, se il mondo assomigliasse al caos? «Perché vi sia specchio del mondo occorre che il mondo abbia una forma», dice a un certo punto Guglielmo riferendosi all’abbazia come microcosmo39 , finché, avendo scoperto che l’ordine da lui immaginato per decifrare la logica dei delitti era solo uno strumento da buttare, perché era errato e solo per caso lo aveva condotto alla verità, dovrà ammettere di essersi comportato da ostinato, «inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non v’è un ordine nell’universo» (R 495). E un ordine nell’universo non può esservi non perché Dio non esista o sia morto (l’ateismo filosofico e Nietzsche sono ancora di là da venire), ma perché l’idea di un ordine vincolante per lo stesso Dio ne offenderebbe la volontà libera e l’onnipotenza. In queste pagine finali in cui Guglielmo, come visto nell’Introduzione, riecheggia un passo finale del Tractatus di Wittgenstein relativo alla scala che va buttata dopo averla usata per salire da qualche parte, c’è anche una critica implicita a un vecchio argomento razionalista, contenuto nello stesso Tractatus, a 39

R 127; ma cfr. anche R 199, dove Guglielmo dice testualmente: «Questa abbazia è proprio un microcosmo», nonché R 404, dove Jorge da Burgos, nel corso del suo sermone sulla venuta dell’Anticristo, a compieta del quinto giorno, parla dell’abbazia come “immagine ridotta” del “grande anfiteatro del mondo”.

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favore dei vincoli logici cui anche Dio sarebbe sottoposto40, perché si tratta di una concezione che ripugna al volontarismo occamista del francescano Guglielmo, per il quale i limiti vanno posti non a Dio ma alla superbia metafisica umana. Critica implicita, questa, che Guglielmo aveva già anticipato verso la fine dell’importante dialogo con Adso sul “grande fiume ereticale” e “sulla conoscibilità delle leggi generali” che si svolge a nona del terzo giorno nell’officina del vetraio Nicola da Morimondo: «La scienza di cui parlava Bacone verte indubbiamente intorno a queste proposizioni [le “leggi universali”]. Bada, parlo di proposizioni sulle cose, non di cose. La scienza ha a che fare con le proposizioni e i suoi termini, e i termini indicano cose singolari. Capisci, Adso, io devo credere che la mia proposizione funzioni, perché l’ho appresa in base all’esperienza, ma per crederlo dovrei supporre che vi siano leggi universali, eppure non posso parlarne, perché lo stesso concetto che esistano leggi universali, e un ordine dato delle cose, implicherebbe che Dio ne fosse prigioniero, mentre Dio è cosa così assolutamente libera che, se volesse, e di un solo atto della sua volontà, il mondo sarebbe altrimenti. (…) perciò non c’è da meravigliarsi se non si può dimostrare che una cosa sia la causa di un’altra cosa» (R 210-211). Idea, questa, tipica del giovane Wittgenstein, che l’ha esposta quasi con le stesse parole: «In nessun modo può concludersi dal sussistere d’una qualsiasi situazione al sussistere d’una 40

«Si diceva una volta: Dio può creare tutto, ma nulla che sia contro le leggi logiche. – Infatti, d’un mondo “illogico” noi non potremmo dire quale aspetto esso avrebbe » (Wittgenstein 1922: prop. 3.031).

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situazione affatto differente da essa. Un nesso causale, che giustifichi una tale conclusione, non v’è. (…) La credenza nel nesso causale è la superstizione. (…) Tutto ciò che vediamo potrebbe anche essere altrimenti. Tutto ciò che possiamo descrivere potrebbe anche essere altrimenti. Non v’è un ordine a priori delle cose»41. Con la non trascurabile differenza, però, che, mentre Wittgenstein, come visto, poneva il limite della logica alle stesse infinite possibilità creative di Dio, il volontarista radicale Guglielmo considera inammissibile il pensiero di una tale limitazione della potenza divina. Ma se così stanno le cose, Salvatore rientra in gioco e la sua lingua impossibile diventa un’ipotesi sull’unico modo possibile di parlare di un mondo senza ordine. Le sue cacofonie linguistiche sono sintetizzate dal suono “blitiri”, che non ha alcuna pretesa di possedere misteriose proprietà espressive quali il contatto magico con le cose significate. Se il mondo è un disordine indecifrabile e Dio è indistinguibile dal “caos primigenio” (R 496), allora Salvatore ne è il profeta, seppure ancora impreciso, con la sua pseudo-lingua caotica e tuttavia ancora decifrabile (come ammette lo stesso Adso), mentre il suono stridulo di “blitiri” che non significa nulla e che serpeggia nelle pagine riempiendole di urlo e furore ne è l’unico racconto possibile, come quello dell’idiota di cui parla Macbeth (V, 5), se non addirittura il titolo stesso o il nome.

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Wittgenstein 1922: propp. 5.135, 5.136, 5.1361, 5.634.

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La seconda ricorrenza di “blitiri” si ha allorché Guglielmo comincia a riflettere sui segni che costellano il luogo del ritrovamento del cadavere di Venanzio e sul segno stesso rappresentato da questo delitto. Che ci faceva il corpo del traduttore dal greco a testa in giù dentro l’orcio pieno del sangue dei maiali, con i piedi che fuoriuscivano come due pali piantati a croce per farne uno spaventapasseri? Evidentemente chi glielo aveva messo in maniera così plateale voleva tutt’altro che occultare il cadavere. E che significano le tracce sulla neve lasciate da chi ha trascinato il cadavere dal refettorio alla giara? «Siamo di fronte all’opera di una mente contorta», dice Guglielmo all’erborista Severino (R 113), e ad Adso che chiede di cos’altro possa mai essere segno un simile teatro, Guglielmo risponde: «Questo è ciò che non so. Ma non dimentichiamo che ci sono anche segni che sembrano tali e invece sono privi di senso, come “blitiri” o “bu-ba-baff”» (R 114). Il commento di Adso è sconsolato: «“Sarebbe atroce”, dissi, “uccidere un uomo per dire bu-babaff”» (R 115), ma Guglielmo gli ricorda che sarebbe atroce uccidere un uomo anche per dire Credo in unum Deum… Ecco dunque che si delineano meglio il mondo del romanzo e il romanzo del mondo. Nella labirintica Blitiria l’ordine è un caso particolare di disordine, un accidente casuale che si scorge a volte attraverso segni ingannevoli combinati con ostinazione quasi blasfema da chi non sa accettare la mancanza di vincoli logici nel tutto e va alla ricerca di parvenze di forme, di simulacri di ordine. I segni privi di senso di Blitiria non sono un

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incidente di percorso nella trama ordinata del linguaggio-mondo, ma la trama stessa.

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CAPITOLO 2

SFIDA AL LABIRINTO

I Si è molto discusso intorno al grado di influenza esercitato da Borges sull’invenzione della biblioteca-labirinto del Nome della rosa, e lo stesso Eco, come vedremo, ha dovuto precisare alcune cose. Certo, un cieco di nome Jorge da Burgos che controlla da tempo immemorabile una misteriosa biblioteca labirintica in rapporto di rispecchiamento geografico col mondo, costituita da 56 stanze, di cui 4 eptagonali e 52 più o meno quadrate (cfr. R 220), distribuite su una pianta ottagonale, con al centro un pozzo pure ottagonale, che in 4 degli 8 lati, uno sì e uno no, genera altrettanti eptagoni minori che all’esterno manifestano 5 lati (cfr. R 29), per cui i 4 eptagoni hanno ciascuno 5 stanze di 4 lati e una, al centro, di 7, è un’evidentissima allusione a Jorge Luis Borges, il cieco direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires dal 1955 al 1974, nonché autore del celebre racconto La Biblioteca di Babele. Qui si parla di una biblio-

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teca illimitata, periodica ed eterna, addirittura coincidente con l’universo e costituita da un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con 25 scaffali ciascuna, 5 per ogni lato meno uno, lasciato libero per dare accesso, attraverso uno stretto corridoio, a un’altra galleria esagonale, identica alla prima e a tutte le altre. Ma non è soltanto di questo che si tratta. Come si vedrà, Eco ha riconosciuto e suggerito influenze molto più profonde e significative, osservando che i labirinti di Borges hanno al massimo contribuito a coagulare in un’unica, potente immagine narrativa, gli innumerevoli richiami al labirinto incontrati altrove. È importante, infatti, tenere presente che Eco ha avuto a che fare con l’immagine del labirinto sin da giovane, cioè almeno sin dalla prima metà degli anni Cinquanta, quando lavorava alla tesi di laurea sull’estetica di Tommaso D’Aquino e studiava tutto ciò che aveva a che fare con il Medioevo, compreso James Joyce, gran maestro di labirinti narrativi e linguistici intriso di cultura medievale. Il suo incontro con Borges avviene un po’ dopo, quando è tra i pochi a leggere Finzioni, tradotto da Franco Lucentini e pubblicato con poca fortuna da Einaudi nel 1955. Ecco come Eco rievoca l’episodio nel saggio Borges e la mia angoscia dell’influenza: «Io credo che sia nel ’56 o ’57 che Solmi, passeggiando in Piazza del Duomo, una sera mi ha detto: “Io ho consigliato Einaudi di pubblicare questo libro, non siamo riusciti a vendere neanche cinquecento copie, lo legga perché è molto bello.” E lì è stato il mio primo innamoramento con Borges e ricordo che, unico proprietario di una copia del libro, an-

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davo a casa di amici e leggevo brani del “Menard”» (in Eco 2002: 132-133). Il tema del “disordine labirintico del mondo” Eco lo trova altrove e indipendentemente dalla lettura di Borges: «io per esempio lo avevo trovato in Joyce, e addirittura in qualche testo medievale. Il labirinto del mondo viene scritto da Comenio nel 1623, e il concetto di labirinto faceva parte dell’ideologia del manierismo e del barocco. (…) Che ogni classificazione dell’universo porti a costituire un labirinto o un giardino dei sentieri che si biforcano era idea presente sia in Leibniz che – in modo chiarissimo ed esplicito – nel discorso introduttivo all’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Queste sono probabilmente anche le fonti di Borges. Ecco dunque un caso in cui non è chiaro, neppure a me, se io (B) passando attraverso A ho trovato X, oppure se io B ho prima scoperto alcuni aspetti di X e poi mi sono accorto di come X avesse influenzato anche A. Eppure i labirinti borgesiani hanno probabilmente fatto coagulare, per me, i molti richiami al labirinto che avevo trovato altrove, tanto che mi sono chiesto se avrei potuto scrivere Il nome della rosa senza Borges» (ivi: 139). Non è un caso, in effetti, che Eco abbia così tante volte fatto riferimento in modo dettagliato, nelle opere teoriche, al discorso introduttivo all’Encyclopédie, laddove si paragona l’enciclopedia, cioè il sistema generale delle scienze e

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delle arti, a un labirinto anziché a un albero, contrariamente a come si era soliti fare in precedenza42 . Per essere più precisi43, si può dire che ad agire dietro le quinte del Nome della rosa siano almeno cinque racconti di Borges, quattro dei quali esplicitamente menzionati da Eco nel saggio sull’influenza di Borges che stiamo seguendo. Di questi cinque racconti tre appartengono a Finzioni, uscito nel 1944 (La biblioteca di Babele; Pierre Menard, autore del «Chisciotte»; La morte e la bussola), e due a L’Aleph, l’altra famosa raccolta, uscita nel 1949 (La ricerca di Averroè; La casa di Asterione)44. De La biblioteca di Babele si è già detto, basti solo aggiungere qualche parola di Eco: «Quando (…) io scrivo Il nome della rosa è più che evidente che nel costruire la libreria penso a Borges. Se andate a leggere la mia voce “Codice” sull’Enciclopedia Einaudi vedete che in uno dei paragrafi faccio un esperimento sulla Biblioteca di Babele. Ora, quella voce era stata scritta nel 1976, due anni prima di iniziare Il nome della rosa, segno che dalla biblioteca borgesiana ero ossessionato da tempo» (in Eco 2002: 134-135).

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Si vedano, ad esempio, l’ultimo paragrafo, intitolato “L’enciclopedia come Labirinto”, dell’Antiporfirio (in Eco 1985: 355-360), il § 5.2 di Eco 1984 e il § 1.3.7 di Eco 2007b, intitolato proprio “L’Encyclopédie” (con gli ultimi due luoghi che si presentano come ulteriori e successive rielaborazioni del primo). 43 Ulteriori dettagli si possono trovare in Forchetti 2005: 29-50. 44 I cinque racconti sono ora in Borges 1984, rispettivamente 680-689, 649-658, 726-738, 838-846, 819-821.

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In Pierre Menard, autore del «Chisciotte», Borges descrive in dettaglio l’opera di un autore (naturalmente immaginario) attivo nei primi decenni del XX secolo che, come risulta dalla bibliografia delle sue opere note, accuratamente ricostruita dal narratore, si era occupato dell’arte combinatoria di Raimondo Lullo, della ricerca della lingua perfetta da parte di Leibniz, della logica simbolica di Boole (tutti temi ampiamente trattati in Eco 1993) e del paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga nella reinterpretazione in chiave matematica di Bertrand Russell. Ma il progetto più ambizioso di Pierre Menard, segreto, eroico e apparentemente folle e insensato, era una forma estrema e ai limiti dell’impossibile di applicazione del calcolo combinatorio: Menard voleva riscrivere, identico, il Don Chisciotte. Naturalmente non doveva trattarsi di una trascrizione, perché Menard voleva ri-concepire nel XX secolo il Chisciotte con le medesime parole rimanendo se stesso e non calandosi nella mente e nell’epoca di Cervantes. L’opera che ne sarebbe risultata, benché identica sul piano dei significanti, sarebbe stata profondamente diversa su quello dei significati, perché un medesimo passo avrebbe avuto un senso se concepito e interpretato nel XVII secolo e un senso completamente diverso se concepito e interpretato nel XX secolo, per via dei differenti contesti e delle differenti enciclopedie di riferimento. Per esempio, dire « la verità, di cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso

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dell’avvenire» (Don Chisciotte, I, IX45) nel XVII secolo, significa fare un semplice elogio retorico della storia, ma dirlo nel XX secolo, quando si è contemporanei del pragmatista americano William James, significa esprimere l’idea meravigliosa, nota Borges, che la storia non sia tanto l’indagine su ciò che avvenne, ma l’invenzione di ciò che giudichiamo che avvenne, ovvero la creazione stessa della verità storica da parte del pensiero storico per scopi pratici, diversi da epoca ad epoca. Scrive Eco: «In questi giorni sono stato portato a riflettere piuttosto su quanto mi abbia influenzato il “modello Menard”. È una storia che non ho mai smesso di citare da quando l’ho letta la prima volta. In che senso ha determinato il mio modo di scrivere? Ecco, direi che la vera influenza borgesiana nel Nome della rosa non sta tanto nell’avere immaginato una biblioteca labirintica, perché di labirinti è pieno l’universo dai tempi di Cnosso, e i teorici del postmoderno considerano il labirinto come una immagine ricorrente in quasi tutta la letteratura contemporanea. È piuttosto che io sapevo di stare scrivendo una storia medievale e che questa mia riscrittura, per quanto fedele, agli occhi di un contemporaneo avrebbe avuto significati diversi. Sapevo che se riscrivevo quello che era davvero successo nel XIV secolo con i fraticelli e fra Dolcino, il lettore (anche se io non avessi voluto) avrebbe visto 45

Borges non lo dice, ma si può osservare che il luogo del Chisciotte da lui preso in esame riprende quasi alla lettera un celebre passo ciceroniano sulla storia che si trova nel De Oratore («Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», II, IX, 36), sicché il gioco di specchi si complica ulteriormente.

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riferimenti quasi letterali alle Brigate Rosse – e mi sono molto divertito a scoprire che la moglie di fra Dolcino si chiamava Margherita come la moglie di Renato Curcio. Il modello Menard funzionava, e consciamente, perché sapevo che io stavo scrivendo il nome della moglie di Dolcino e il lettore avrebbe pensato che pensavo alla moglie di Curcio» (in Eco 2002: 137). A proposito del Pendolo di Foucault, addirittura, Eco dice nello stesso contesto che con questo romanzo egli voleva essere il Pierre Menard del Flaubert di Bouvard et Pécuchet (ivi: 136), perché anch’esso è una summa dello stupidario culturale umano. La morte e la bussola è una detective story intrisa di motivi cabalistici che contiene uno schema di rapporto dialettico tra detective e assassino straordinariamente ingegnoso e inquietante, praticamente lo stesso che si instaura tra Guglielmo e Jorge. A questo gioiello borgesiano, dunque, si deve lo schema di fondo che muove il meccanismo poliziesco del Nome della rosa. C’è una serie apparente di 3 delitti (per l’esattezza, due omicidi e un rapimento) – avvenuti il 3 dicembre, il 3 gennaio e il 3 febbraio di un anno imprecisato in una città imprecisata in 3 luoghi diversi che sulla pianta della città formano un triangolo equilatero – inaugurata dall’assassinio in un albergo del rabbino esperto di Talmud Marcello Yarmolinsky. La polizia segue una sua linea di indagine, finché una lettera firmata “Baruch Spinoza”, corredata da una pianta della città con in rosso il tracciato del triangolo “magico”, arriva il primo marzo all’indirizzo del commissario Franz Treviranus per avvertirlo che il 3 di quel mese non ci sarebbe stato un quarto delitto. Il commissario manda questa

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“scemenza” all’investigatore Erik Lönnrot, che, a causa dei libri di Yarmolinski e di indizi basati sulla simbologia del quattro (il tetragramma, cioè il Nome di Dio JHVH, nonché dei rombi che compaiono sulle scene del secondo e terzo delitto, tra cui le losanghe del vestito di arlecchino), sta seguendo una pista cabalistica per decifrare la morfologia della serie dei delitti. La lettera non solo convince Lönnrot che ci sarà il quarto delitto ma gli suggerisce pure il luogo esatto, perché basta raddoppiare il triangolo equilatero trasformandolo in un rombo, il cui vertice inferiore cade sulla villa abbandonata di Triste-le-Roy, costruita come un labirinto di simmetrie e situata nella periferia sud della città controllata dal boss barcellonese Red Scharlach. Giunto alla villa, però, Lönnrot vi trova Scharlach che lo sta aspettando per ucciderlo. Tre anni prima, infatti, Lönnrot aveva arrestato il fratello di Scharlach, il quale era rimasto ferito nel corso della sparatoria e durante i nove giorni di agonia aveva giurato vendetta. Per il nostro discorso, a questo punto ci sono altri due elementi importanti (oltre all’assassino che aspetta l’investigatore sulla scena dell’ultimo delitto per ucciderlo). Scharlach dice esplicitamente a) di aver giurato di tessere un labirinto intorno all’uomo che aveva arrestato suo fratello e b) di aver ricevuto la materia per la sua tessitura dal caso, perché dopo la morte casuale di Yarmolinski era venuto a sapere che Lönnrot stava cercando nei suoi scritti la chiave della morte del rabbino. Ora, siccome aveva compreso che secondo Lönnrot il rabbino era stato ucciso dai membri della setta degli Hasidim, cioè da coloro che

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dal XVII secolo andavano alla ricerca del centesimo nome di Dio, quello segreto e assoluto, decise di assecondare questa falsa congettura di Lönnrot per attirarlo nel labirinto mortale della villa, dove l’investigatore pensava di sventare il quarto delitto e acciuffare l’assassino, non sospettando di essere proprio lui la quarta vittima. Come si vede, il gioco è identico a quello del Nome della rosa. Quando Jorge capisce che Guglielmo, su suggerimento del vecchio Alinardo, sta seguendo il falso schema dell’Apocalisse, lo asseconda per affrettare la sua soluzione del mistero e aspettarlo nel Finis Africae, cioè nel cuore segreto del labirinto, il punto in cui il Minotauro aspetta la sua vittima prediletta, l’investigatore stesso: «“A causa di una frase di Alinardo mi ero convinto che la serie dei delitti seguisse il ritmo delle sette trombe dell’Apocalisse. La grandine per Adelmo, ed era un suicidio. Il sangue per Venanzio, ed era stata un’idea bizzarra di Berengario; l’acqua per Berengario stesso, ed era stato un fatto casuale; la terza parte del cielo per Severino, e Malachia aveva colpito con la sfera armillare perché era l’unica cosa che si era trovato sottomano. Infine gli scorpioni per Malachia… Perché gli hai detto che il libro aveva la forza di mille scorpioni?” “A causa tua. Alinardo mi aveva comunicato la sua idea, poi avevo udito da qualcuno che anche tu l’avevi trovata persuasiva… Allora mi sono convinto che un piano divino regolava queste scomparse di cui io non ero responsabile. E annunciai a Malachia che se fosse stato curioso sarebbe perito secondo lo stesso piano divino, come infatti è avvenuto.” “È così allora… Ho fab-

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bricato uno schema falso per interpretare le mosse del colpevole e il colpevole vi si è adeguato. Ed è proprio questo schema falso che mi ha messo sulle tue tracce» (R 473). Come si vede, tra le due situazioni c’è una sovrapponibilità logica quasi perfetta, unica differenza essendo il fatto che nel Nome della rosa il Minotauro, consapevole della superiore astuzia dell’investigatore, si uccide trascinando nella rovina anche il suo stesso labirinto. L’oscura allusione a Spinoza contenuta nel racconto di Borges è esplicitata da Eco all’inizio del quarto paragrafo del saggio L’abduzione in Uqbar, nato come introduzione all’edizione tedesca 1983 dei Sei problemi per don Isidro Parodi di Borges e Casares e ristampato due anni dopo in Eco 1985: «Per essere sicuri che la mente del detective abbia ricostruito la sequenza dei fatti e delle leggi così come dovevano essere, bisogna nutrire una profonda persuasione spinoziana che “ordo et connexio rerum idem est ac ordo et connexio idearum”. I movimenti della nostra mente che indaga seguono le stesse leggi del reale. Se pensiamo “bene”, siamo obbligati a pensare secondo le stesse regole che connettono le cose tra di loro. Se un detective si immedesima nella mente dell’assassino non potrà che arrivare al punto a cui l’assassino arriva. In questo universo spinoziano il detective non è solo colui che capisce ciò che l’assassino ha fatto (perché non poteva non fare così, se c’è una logica della mente e delle cose). In questo universo spinoziano il detective saprà anche cosa l’assassino farà domani. E andrà ad attenderlo sul luogo del suo prossimo delitto. Ma se così ragiona il detective, così potrà anche ragionare l’assassino: il quale potrà operare in

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modo che il detective vada ad attenderlo sul luogo del suo prossimo delitto, salvo che la vittima del prossimo delitto dell’assassino sarà il detective stesso. E questo è quanto avviene ne “La morte e la bussola”». Non sorprende allora che Eco, a proposito di questo racconto borgesiano, abbia potuto confessare: «non escludo che nel momento in cui è sorto il fantasma di Borges io sia stato influenzato dallo schema di “La morte e la bussola”, che mi aveva certamente molto impressionato» (in Eco 2002: 135). E non c’è dubbio che Eco sia stato impressionato da questo racconto, tant’è vero che la sua eco, questa volta relativa non allo schema del giallo ma alla tematica della cabala, dell’occultismo e delle fantomatiche sette provenienti dal passato per realizzare nel presente un presunto piano misterico e sapienziale, risuonerà anche nel Pendolo. La ricerca di Averroè coglie il grande medico e filosofo arabo del XII secolo in un momento di impotenza culturale. È nella sua casa dell’amata Cordova e sta stendendo l’undicesimo capitolo della Distruzione della distruzione, opera in cui la filosofia viene difesa dalle accuse contenute nella Distruzione dei filosofi dell’asceta persiano al-Ghazali, scritta verso la fine dell’XI secolo. Averroè vi sostiene anche che la divinità conosce dell’universo solo le leggi generali e le specie, non gli individui. Ma un pensiero lo assilla, relativo all’opera che lo avrebbe reso immortale, il “gran commento” ad Aristotele. Il giorno prima ha incontrato nella Poetica due parole, tragedia e commedia, di cui ignora il significato, sia perché non conosce il greco (lavora su traduzioni arabe da traduzioni siriache dell’originale greco) sia

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perché da arabo gli è estranea la nozione di “teatro”. L’ignoranza culturale è tale che guardando dal balcone non capisce di avere proprio sotto gli occhi quello che sta cercando: dei bambini, giù nel patio, stanno giocando mettendo in scena la preghiera musulmana, con uno che fa da minareto, un secondo che in piedi sulle sue spalle fa il muezzin salmodiando “Non c’è altro dio che Allah”, e un terzo che, inginocchiato nella polvere, fa la parte dei fedeli. Alla fine, dopo una serata passata a casa dell’amico Farach, sulla base di suggestioni dovute alla discussione con gli amici, pensa di aver risulto l’enigma, stabilendo erroneamente che Aristotele chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi. Il narratore, nella considerazione conclusiva, percepisce la condizione di Averroè, che voleva immaginare cos’è il dramma senza aver mai visto un teatro, come simbolo della propria, perché egli ha preteso di immaginare Averroè basandosi su notizie di seconda e terza mano tratte da autori moderni. Eco ha ammesso di essere stato sempre affascinato da questa storia borgesiana e ha così raccontato il modo in cui essa ha agito sulla sua narrativa: «Direi che nei miei romanzi io rovescio il “modello Averroè”: il personaggio (culturalmente stupido) spesso descrive con occhi attoniti una cosa che vede e di cui non capisce molto, mentre il lettore è indotto a capire. Cioè lavoro per produrre un Averroè intelligente. Può darsi che, come qualcuno ha detto, questo sia uno dei motivi della popolarità della mia narrativa: io (…) familiarizzo il lettore con ciò che non conosceva ancora. Introduco un lettore del Texas, che non ha mai visto l’Europa, in una abbazia medievale (…) e lo faccio

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sentire a proprio agio. Faccio vedere un personaggio medievale che tira fuori con naturalezza gli occhiali e metto in scena i suoi contemporanei che si stupiscono, ma alla fine capisce che gli occhiali sono stati inventati nel Medioevo. Questa non è una tecnica borgesiana, il mio è un “modello anti-Averroè”, ma senza il modello borgesiano non sarei riuscito a concepirlo» (in Eco 2002: 138). Per inciso, il nome di Averroè ricorre tre volte nel Nome della rosa (cfr. R 219, 289 e 477), rispettivamente in merito a una sua caratterizzazione delle scienze matematiche, al suo rapporto con Tommaso d’Aquino (e in questi casi è citato da Guglielmo) e infine al fatto, lamentato da Jorge, che, sulla base delle opere fisiche di Aristotele, Averroè ha inoculato nell’Occidente medievale l’idea – per la fede cristiana pericolosissima – di un mondo puramente materiale, autonomo ed eterno. Ma vale la pena ricordare che nel Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia (un testo che però l’Occidente medievale non conobbe) Averroè aveva detto una cosa sulla censura dei libri che ha molto a che vedere con la situazione del Nome della rosa e che sembra una critica, elaborata circa un secolo e mezzo prima e condivisa implicitamente da Guglielmo e da alcuni giovani monaci dell’abbazia (come Adelmo, Venanzio e Bencio: cfr. in particolare R 87-90, 119-120, 142-144), al costume paternalistico e censorio dell’abbazia: «noi diciamo che, colui il quale proibisce a chi ne ha la facoltà di studiare i libri dei filosofi con la scusa che ci sarà poi gente che lo accuserà di deviare dalla retta via, è simile a colui che impedisce ad un assetato di bere dell’acqua fresca, fino a farlo morire, con la scusa

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che avrebbe potuto rimanere soffocato. Infatti, morire per un’acqua malamente ingurgitata è accidentale, mentre morire di sete è secondo sostanza e necessità»46 . E veniamo a La casa di Asterione, un brevissimo racconto che Eco non cita come sua fonte nel saggio Borges e la mia angoscia dell’influenza. Come indica la stessa fonte classica citata da Borges in epigrafe (Apollodoro, Biblioteca, III, 1, 4), Asterione non è altro che il Minotauro, figlio di Pasifae e del toro mandato da Poseidone, e quasi tutto il racconto, ad eccezione del brevissimo finale, segnalato dallo spazio bianco, è costituito da un monologo del mostro. La parola “labirinto” non vi ricorre mai, anche se la casa è descritta come il più angoscioso dei labirinti. Asterione comincia difendendosi da alcune dicerie false sul suo conto: non è vero che egli sia superbo, misantropo o pazzo; non è vero neanche che egli sia un prigioniero, perché le infinite porte della sua casa priva di mobili sono sempre aperte, e se non esce mai di casa è perché teme i volti della gente terrorizzata dal suo aspetto. In realtà egli è unico, mira solo a ciò che è grande, e disprezza le minuzie, comprese le lettere dell’alfabeto, ragion per cui ha rinunciato a imparare a leggere, convinto che la scrittura non sia in grado di comunicare alcunché. Ama passare il tempo girando per i corridoi e il suo gioco preferito è immaginare il suo doppio che viene a fargli visita e al quale mostra le meraviglie della casa, che è grande come l’universo, perché ogni sua parte si ripete infinite volte ricorsivamente, 46 Averroè

1994: 57 e 59.

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come la biblioteca di Babele (e qui l’idea del labirinto infinito si coniuga con quella dell’eterno ritorno, perché Asterione è una sorta di triste, solitario y final superuomo nietzscheano, se non addirittura lo stesso Dio). Solo due cose sono uniche: il sole e Asterione, che forse ne è il creatore. Ogni nove anni nove uomini si offrono al sacrificio, ma uno di essi profetizzò che un giorno sarebbe arrivato il “redentore” di Asterione, il quale da allora aspetta e sente meno il peso della solitudine. Che aspetto avrà? Sarà un sosia o un toro dal volto umano? A questo punto il racconto finisce e vengono registrate le parole di Teseo ad Arianna: «Lo crederesti, Arianna? (…) Il Minotauro non s’è quasi difeso»47. Come si vede, nella reinterpretazione borgesiana del mito Teseo non compie alcun atto eroico, perché il Minotauro si arrende al destino e si suicida usando la mano armata di spada del giovane ateniese. E una situazione analoga si viene a creare tra Jorge e Guglielmo. Il vecchio cieco, cui è sfuggito di mano il gioco, anch’egli ormai triste, solitario y final, spera di uccidere il pericoloso Guglielmo aspettandolo nella stanza segreta e consentendogli di leggere alcune pagine del secondo libro della Poetica di Aristotele, anche se non può fare a meno di ammirarne l’arguzia e l’intelligenza («Sin dal primo giorno ho capito che tu avresti capito. Dalla tua voce, dal modo in cui mi hai condotto a dibattere su ciò di cui non volevo si parlasse. Eri meglio degli altri (…). Quale magnifico bibliotecario saresti stato, Gugliel47

In Borges 1984: 821.

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mo», R 469 e 470). Ma Guglielmo si rivela più furbo di quanto Jorge immagini, perché gli comunica che per leggere sta usando dei guanti (cfr. R 472). A quel punto Jorge si arrende, comincia a delirare considerandosi uno strumento di Dio destinato alla salvezza (cfr. R 474-475) e alla fine decide di suicidarsi mangiando il libro avvelenato (cfr. R 483) e provocando l’incendio della biblioteca (cfr. R 486) che porterà alla rovina l’intera abbazia. Guglielmo, quindi, diventa in qualche modo un “redentore” per Jorge, come Teseo lo era stato per Asterione nel racconto borgesiano.

II Fin qui, l’eco di Borges, cioè il Borges di Eco. Ma per capire il significato estetico, cioè relativo a una vera e propria poetica letteraria, del labirinto-cosmo del Nome della rosa, occorre tornare a un saggio del 1962, apparso originariamente nel numero 5 del «Menabò» (diretto da Italo Calvino ed Elio Vittorini) e poi ristampato come ultimo capitolo di Opera aperta a partire dalla seconda edizione di quest’opera-manifesto (1967). Dopo aver discusso, tra l’altro, il romanzo Nel labirinto di Robbe-Grillet (1959), il trentenne Eco concludeva questo saggio, intitolato Del modo di formare come impegno sulla realtà, delineando un modello desiderabile di letteratura e di arte in generale: «Su questa via la letteratura – come la nuova musica, la pittura, il cinema – può esprimere il disagio di una certa situazione

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umana; ma non sempre possiamo chiederle questo, non sempre dovrà essere letteratura sulla società. Potrà essere talora una letteratura che realizza, attraverso le sue strutture, una immagine del cosmo quale è suggerito dalla scienza, l’ultima barriera di una ansia metafisica che, non riuscendo più a conferire una forma unitaria al mondo nell’ambito dei concetti, tenta di elaborarne un Ersatz [“surrogato”] nella forma estetica» (Eco 1962: 288). Parole profetiche, come si può vedere, che si prestano a varie applicazioni e soluzioni artistiche e che non solo anticipano di molti anni la poetica che sta alla base del Nome della rosa («Scrivere un romanzo è una faccenda cosmologica, come quella raccontata dal Genesi», dirà Eco nelle Postille, R 513), ma costituiscono una sorta di premessa all’esperimento calviniano delle Cosmicomiche, la cui idea prese corpo nel novembre del 1963. E non è certamente un caso che Calvino, alla fine del suo contributo allo stesso numero del «Menabò», costituito dal celebre saggio Sfida al labirinto (poi ristampato nel 1980 in Una pietra sopra), abbia fatto riferimento, approvandolo, proprio al passo di Eco citato sopra. Vale la pena leggere questa bella pagina di Calvino, anch’essa preceduta da una discussione di Nel labirinto di Robbe-Grillet, perché essa ci fornisce un ulteriore strumento interpretativo e di orientamento per entrare nel labirinto del romanzo di Eco: «Questa letteratura del labirinto gnoseologico-culturale (…) ha in sé una doppia possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fan-

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no che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. (…) Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto. (…) Oggi cominciamo a richiedere alla letteratura qualcosa di più d’una conoscenza dell’epoca o d’una mimesi degli aspetti esterni degli oggetti o di quelli interni dell’animo umano. Vogliamo dalla letteratura un’immagine cosmica (questo termine è il punto di convergenza del mio discorso con quello di Eco), cioè al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco»48. È sulla base di questi veri e propri programmi di ricerca poetico-letteraria, elaborati in anticipo e scrupolosamente messi in pratica, seppur in modi molto differenti, anche se non troppo (le Cosmicomiche e Il nome della rosa sono specie diverse di un genere che si può definire letteratura cosmologico-deduttiva), che non si possono non condividere le parole di Cotroneo allorché definisce i romanzi di Eco «labirinti da cui si esce solo se si percorrono con un’ossessione in testa: quella di volersi perdere, quella 48

Ora in Calvino 1995: 122 e 123.

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di percorrerli all’infinito, quella di non voler uscire mai più» (Cotroneo 2001: 101). Ma cosa sono i labirinti? O meglio: come si definiscono? Almeno sin dal 1983, anno sia delle Postille che del saggio L’antiporfirio49, Eco, richiamandosi esplicitamente a Rosenstiehl 1979: 3-30, ha parlato di tre tipi di labirinto, e quello del Nome della rosa è un esempio abbastanza preciso di uno di essi. Addirittura, nel § 1.5 di Dall’albero al labirinto, che come detto costituisce una rielaborazione dell’ultimo paragrafo dell’Antiporfirio, i tre tipi di labirinto sono per la prima volta illustrati con figure che accompagnano il testo (cfr. Eco 2007b: 58 e 59). Il primo tipo di labirinto è quello classico di Cnosso, cioè quello del mito di Teseo e del Minotauro: si tratta del labirinto unicursale che porta inesorabilmente al centro e che non permette di perdersi; srotolandolo, si ottiene un filo, il filo di Arianna, che nel suo ingarbugliamento coincide con il percorso globale del labirinto stesso. Come nota Eco, per risultare interessante questo labirinto deve avere al centro un Minotauro che aspetta la 49

Questo è un saggio teorico di notevole importanza, cui non a caso Eco è molto affezionato, visto che, uscito per la prima volta nel ben noto Vattimo e Rovatti 1983, l’anno dopo è stato ripreso e distribuito in gran parte tra i §§ 4 e 5 del secondo capitolo di Eco 1984, è stato poi ristampato alla fine di Eco 1985 e infine è stato rifuso e rielaborato nei §§ 2 e 5 del primo capitolo di Eco 2007b. La rigida gerarchizzazione porfiriana dei predicabili aristotelici è riletta da Eco come caso esemplare di modello semantico-ontologico forte (cioè da ‘dizionario’, in contrapposizione al carattere debole e aperto dell’‘enciclopedia’) in cui il mondo e il linguaggio che lo esprime sono governati dalle stesse rigide regole di dipendenza strutturale

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sua vittima (o il suo “redentore”, nel senso di Borges), altrimenti il suo percorso sarebbe una passeggiata innocua. Il secondo tipo di labirinto è quello manieristico, ovvero quello tipico dei giochi enigmistici: ha molti percorsi possibili e tutti, solitamente meno uno, conducono a un vicolo cieco; srotolato dà vita a una struttura ad albero, con molti punti morti. Per uscire da questo tipo di labirinto si ha davvero bisogno di un filo di Arianna (come quello che escogita Adso dentro la biblioteca nel film di Jean Jacques Annaud, scucendosi il saio, ma che è assente nella fabula romanzo, anche se è evocato come possibilità da Guglielmo: «forse per girare in un labirinto bisogna avere una buona Arianna che ti attende alla porta tenendo il capo di un filo», R 218), perché ci si può perdere, e confrontarsi con esso vuol dire risolvere un problema per tentativi ed errori, ovvero fare delle congetture e metterle alla prova (nel senso di Popper, ben presente ad Eco, come si vedrà in particolare nell’Appendice 1). Il terzo tipo di labirinto è quello di cui è modello (non metafora, precisa Eco) la rete, ovvero ciò che i sempre citati Gilles Deleuze e François Guattari, in un saggio omonimo del 1976, hanno chiamato rizoma: il rizoma è una rete senza centro e senza periferia, non ha uscite, è potenzialmente infinito, ogni punto di intersezione tra le sue linee può connettersi con qualsiasi altro imboccando qualsiasi linea, si può spezzare e ricomporre in ogni punto, non ha gerarchie (contrariamente all’albero) e in esso ci si muove alla cieca, cioè facendo congetture locali sulla struttura globale. Lo spazio a rizoma è il modello migliore

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per raffigurare lo spazio geografico (per andare da Roma a Milano si può passare teoricamente da dove si vuole, anche da Napoli), quello dell’Enciclopedia (si pensi all’Encyclopédie e soprattutto alla rete internet, che permette teoricamente di raggiungere qualsiasi informazione a partire da qualsiasi altra, giocando di clic e di link) e soprattutto quello delle congetture: «Lo spazio delle congetture è uno spazio a rizoma. Il labirinto della mia biblioteca è ancora un labirinto manieristico, ma il mondo in cui Guglielmo si accorge di vivere è già strutturato a rizoma: ovvero, è strutturabile, ma mai definitivamente strutturato» (Postille, in R 525). Ed è, questo, un altro modo di parlare del disordine caotico di Blitiria, che abbiamo delineato nel capitolo precedente, ovvero del “labirinto del mondo”, come recita il quinto capitolo de L’isola del giorno prima, dove tra l’altro si legge che Roberto de la Grive, pensando all’assedio di Casale (momento marginale della Guerra dei Trent’anni), «stava rendendosi conto che lo stesso assedio null’altro era che un capitolo di una storia senza senso» (I 51). In tal modo Roberto si avvicina alla consapevolezza di Stephen Dedalus (che già nel nome rimanda al mitico costruttore del labirinto di Cnosso), il quale, nel secondo capitolo dell’Ulisse di Joyce, dopo aver cercato invano di interrogare i ragazzi della scuola di Dalkey sulla vittoria di Pirro venuto in aiuto dei Tarantini, al cattolico preside Mr Deasy, provvidenzialisticamente convinto che «la storia si muove verso un’unica grande meta, la manifestazione di Dio», con-

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fessa di considerare invece la storia «un incubo da cui cerco di destarmi» e Dio nient’altro che «un urlo per la strada»50.

III Nella prima edizione il romanzo si presentava come «una storia di labirinti, e non di labirinti spaziali» (Postille, R 525), cioè una storia di labirinti anche testuali e semantici, dietro a quello fisico rappresentato dalla biblioteca (come vedremo), sin dalla copertina, che recava una riproduzione del perduto labirinto della cattedrale di Reims, di cui la pianta della biblioteca è una riproduzione quasi identica, mentre una nota in quarta (poi sparita nelle edizioni successive) informava: «In copertina lo schema del labirinto che appariva sul pavimento della cattedrale di Reims. A pianta ottagonale, recava ai quattro ottagoni laterali l’immagine dei maestri muratori, coi loro simboli, e al centro si dice - la figura dell’arcivescovo Aubri de Humbert che pose la prima pietra della costruzione. Il labirinto fu distrutto nel XVIII secolo dal canonico Jacquemart perché gli dava fastidio l’uso giocoso che ne facevano i bambini i quali, durante le funzioni sacre, cercavano di seguirne gli intrichi, per fini evidentemente perversi». Si noti la simmetria tra il canonico Jacquemart e Jor50

Joyce 2000: 35.

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ge, che provoca prima la catena di morti per avvelenamento e poi la distruzione della biblioteca-labirinto perché gli dà fastidio che i monaci siano presi, un po’ come i bambini, dalla gioia perversa del gioco della conoscenza, ovvero dalla curiosità intellettuale per la teoria del riso indotto dalla commedia elaborata da Aristotele nel secondo libro della Poetica. D’altra parte, in un passo molto importante per la definizione delle proprietà della biblioteca, il vegliardo Alinardo usa le parole seguenti per spiegare a Guglielmo la sua paura nei confronti della biblioteca, in cui non ha mai messo piede, malgrado un tempo avesse avuto l’ambizione, frustrata dal più abile rivale Jorge (cfr. R 306), di diventare bibliotecario: «“Hunc mundum tipice laberinthus denotat ille”, recitò assorto il vegliardo. “Intranti largus, redeunti sed nimis artus. La biblioteca è un gran labirinto, segno del labirinto del mondo. Entri e non sai se uscirai. Non bisogna violare le colonne d’Ercole…”» (R 163). Si tratta di un passo di per sé significativo, perché stabilisce che il labirinto della biblioteca denota, significa l’intero mondo, di cui è segno isomorfo addirittura anche per quanto riguarda la distribuzione delle terre. Le 56 stanze, infatti, sono indicate da una lettera dell’alfabeto, che coincide con quella iniziale del versetto dell’Apocalisse inciso sul cartiglio che sovrasta ogni entrata. I versetti utilizzati sono tanti quante sono le lettere dell’alfabeto, per cui molti versetti si ripetono (cfr. R 221), mentre la distribuzione delle lettere iniziali trasforma le 56 stanze in una sorta di grande cruciverba in cui si intersecano i nomi delle regioni principali del mappamondo così come poteva essere immaginato nel

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Medioevo. Dal torrione nord a quello ovest, andando in senso orario, abbiamo: Anglia, Germani, Acaia (cioè Grecia), Iudaea, Fons Adae (cioè il paradiso terrestre, nel torrione est), Aegyptus, Leones (cioè Africa, nel torrione sud), Roma, Yspania, Hibernia (Irlanda, nel torrione ovest), Gallia (cfr. R 316-324). Perché nel passo citato sopra si dice che il vecchio Alinardo “recitò assorto” il passo in latino? La risposta sta nel fatto che Alinardo in realtà sta citando a memoria parte dell’iscrizione che accompagnava un perduto mosaico del XII secolo, collocato sul pavimento della chiesa di San Savino a Piacenza. Tale mosaico riproduceva un labirinto e l’iscrizione era un ammonimento a non farsi sviare dai vizi e dalle tentazioni del mondo, per non smarrire la vera dottrina della vita. Come si vede, ancora una volta il labirinto è associato simbolicamente e moralmente al mondo e ai suoi meandri che conducono allo smarrimento della retta via e alla caduta nel peccato. Quando Guglielmo e Adso entrano per la prima volta nel labirinto della biblioteca e vi si perdono, ritrovano solo per caso (“inopinatamente”, R 181) la via d’uscita, e una volta fuori nella bellissima notte stellata hanno uno scambio di battute sul rapporto labirinto/mondo che rispecchia ancora una volta la diversità di vedute dei due (un francescano empirista attento alla selva irregolare del particolare e un benedettino idealista che legge il mondo con gli occhiali della Regola del suo ordine): «“Com’è bello il mondo e come sono brutti i labirinti!” dissi sollevato. “Come sarebbe bello il mondo se ci fosse una regola per girare nei labirinti”, rispose il mio maestro» (R 182).

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Ma con quali strumenti raziocinativi intenzionali Guglielmo lancia la sua sfida al labirinto? A Guglielmo la biblioteca si annuncia come un labirinto minaccioso fin da subito, attraverso le parole dell’abate Abbone. Questi, nel tentativo di mettergli paura, non fa altro che eccitare la sua curiosità investigativa da Sherlock Holmes (cui il personaggio allude a partire dal nome della città inglese di provenienza, visto che “Baskerville” rimanda a Il mastino dei Baskerville, il terzo dei quattro romanzi di Conan Doyle dedicati al suo famosissimo investigatore) e risvegliare il suo “istinto della caccia” di ex inquisitore, per usare una ben nota espressione legata a Dashiell Hammett, al cui personaggio Sam Spade Eco tributerà un grande omaggio nel Pendolo per bocca del narratore Casaubon, il quale verso la fine dice addirittura: «sono ancora una volta Sam Spade, che cerca l’ultima traccia»51 . Nel loro primo colloquio, alla richiesta di Guglielmo di visitare la famosa e ricca biblioteca dell’abbazia, Abbone così spiega la sua inaccessibilità: «La biblioteca è nata secondo un disegno che è rimasto oscuro a tutti nei secoli e che nessuno dei monaci è chiamato a conoscere. Solo il bibliotecario ne ha ricevuto il segreto dal bibliotecario che lo precedette, e lo comunica, ancora in vita, all’aiuto bibliotecario, in modo che la morte non lo sorprenda privando la comunità di quel sapere. E le labbra di entrambi sono suggellate dal segreto. Solo il bibliotecario, oltre a sapere, ha il diritto di muoversi nel labirinto dei libri» (R 45). È questa la prima delle ben quarantasette ricorren51

P 495; ma cfr. anche P 17, 30, 31, 182, 308, 317.

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ze della parola “labirinto” (al singolare e al plurale) nel corpo del testo del romanzo, cui vanno aggiunte una ricorrenza nella premessa, cinque ricorrenze nei sottotitoli dei capitoli e la già vista ricorrenza della forma latina a pagina 163. Poco più avanti Abbone aggiunge: «La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodisce. Labirinto spirituale, è anche labirinto terreno. Potreste entrare e potreste non uscire» (R 46). Guglielmo non si lascia impressionare, soprattutto da quando comincia ad intuire che la ferrea maglia posta a protezione della biblioteca sta cominciando a cedere a causa di torbide storie di favori omosessuali in cambio di libri proibiti (le dicerie sul suicida Adelmo e sull’aiuto bibliotecario Berengario arrivano presto alle orecchie di Guglielmo e, come dice Alinardo, «da noi qualcuno ha violato l’interdetto, ha rotto i sigilli del labirinto», R 164); ma al suo primo tentativo di esplorazione del labirinto si renderà conto di avere a che fare con un avversario temibile, perché vi si perde e trova l’uscita solo per un colpo di fortuna. Si tratta allora di ragionare, e dopo aver scartato alcune ipotesi, come quella di mettere segni particolari col carbone in ogni stanza attraversata (cfr. R 180 e 218), o quella di costruire una bussola rudimentale con un vaso d’acqua, del sughero, un ago di ferro e un pezzo di magnete (cfr. R 217-218), o ancora quella di ricorrere a un filo di Arianna (cfr. R 218), Guglielmo decide che bisogna usare la matematica, «perché senza la matematica non fai labirinti» (R 219). In tal modo, basandosi sulle osservazioni raccolte in occasione della prima visita e conside-

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rando la costruzione dall’esterno, Guglielmo comprende la struttura del labirinto perché entra nella mente e nella logica del costruttore, adottando contemporaneamente ciò che il filosofo americano Daniel Dennett chiama “atteggiamento progettuale” e “atteggiamento intenzionale”, che sono congetture sulle intenzioni del progettista le quali consentono di realizzare quella che sempre Dennett chiama “ermeneutica degli artefatti o ingegneria inversa”52: «“Ma come accade”, dissi ammirato, “che siete riuscito a risolvere il mistero della biblioteca guardandola da fuori e non l’avete risolto quando eravate dentro?” “Così Dio conosce il mondo, perché lo ha concepito nella sua mente, come dall’esterno, prima che fosse creato, mentre noi non ne conosciamo la regola, perché vi viviamo dentro trovandolo già fatto.” “Così si possono conoscere le cose guardandole dal di fuori!” “Le cose dell’arte, perché ripercorriamo nella nostra mente le operazioni dell’artefice. Non le cose della natura, perché non sono opera della nostra mente”» (R 222).

IV Con ciò entriamo nel cuore della logica della scoperta investigativa di Guglielmo, che Eco costruisce sulla falsariga 52

Cfr. in particolare il primo capitolo di Dennett 1978 (il cui decimo capitolo, sulla distinzione tra “iconofili” e “iconofobi” nell’ambito delle scienze cognitive, sarà più volte citato in Eco 1997: cfr. 97, 397 e 416), nonché il § 8.6 di Dennett 1995.

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della logica della scoperta scientifica del filosofo americano Charles Sanders Peirce, del cui pensiero logico e semiotico egli è uno dei massimi esperti e cultori53. Per mostrare in che modo Eco presti a Guglielmo la logica peirceana dell’indagine, ci basterà qui fare riferimento a due saggi: Corna, zoccoli, scarpe: tre tipi di abduzione e L’abduzione in Uqbar. In questi due saggi, che gettano molta luce sulla filosofia del racconto poliziesco che sta alla base del Nome della rosa, Eco cerca di dimostrare che Conan Doyle e Borges, pur senza saperlo (il primo intitolò “La scienza della deduzione” il secondo capitolo di Uno studio in rosso, mentre il secondo non lesse mai Peirce), nelle loro storie di detection applicavano in realtà quasi alla lettera la forma di inferenza che Peirce chiamava “ab-

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Praticamente tutte le grandi opere teoriche di Eco, da Eco 1968 a Eco 1975, da Eco 1990 a Eco 1997, da Eco 2003 a Eco 2007b, contengono sezioni più o meno ampie dedicate a Peirce, che costituisce forse il punto di riferimento più duraturo e importante di tutto il suo percorso filosofico.

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duzione”54. Una illustrazione sintetica e chiarissima di questa nozione è fornita da Peirce in una conferenza del 1903 dal titolo Pragmatismo inteso come logica dell’abduzione: «Il fatto sorprendente C viene osservato. Ma se A fosse vero, C ne sarebbe una conseguenza. Quindi, c’è ragione di sospettare che A sia vero»55. L’esempio che preferisce Eco nei due saggi citati, per distinguere l’abduzione dalla deduzione e dall’induzione, è quello dei fagioli, escogitato dallo stesso Peirce (e “Peirce e i fagioli” è il titolo del § 1.2 di Corna, zoccoli, scarpe). La sintesi che segue, inevitabilmente semplificata, è basata sul § 3 di L’abduzione in Uqbar.56

54

Questa tesi epistemologica classica di Eco è stata recentemente messa in discussione da un allievo di Eco, Renato Giovannoli, il quale è tornato a rimettere al centro la nozione di “deduzione”. Cfr. Giovannoli 2007, peraltro corredato da una prefazione dello stesso Eco, che nella nota 3 scrive: «Il lettore dovrà poi decidere se Holmes faceva veramente delle deduzioni o non piuttosto delle abduzioni, e su questo pare si disegni qualche discrepanza tra alcuni miei vecchi studi e gli approfondimenti di Giovannoli, ma non per questo gli potevo rifiutare una prefazione, anche perché i suoi approfondimenti mi hanno provocato alcuni dubbi, che coltiverò nei pochi decenni che gli inveramenti della fantascienza mi consentiranno ancora di vivere» (in Giovannoli 2007: 13). In R 265, addirittura, Giovannoli trova un esempio in cui Guglielmo, ragionando abduttivamente, spinge Adso a una falsa conclusione, ma per correggerlo reimposta il ragionamento in forma perfettamente sillogistica, cioè deduttiva (cfr. Giovannoli 2007: 76). 55 In Peirce 2005: 572. 56 Per maggiori dettagli, per esempio per la distinzione tra abduzione ipercodificata, ipocodificata e creativa, si vedano i §§ 2.14.2, 2.14.3 e 2.14.4 di Eco 1975 e i §§ 2.2, 2.3 e 3.1 di Corna, zoccoli, scarpe. Una sintesi più completa è fornita in Lorusso 2008: 47-49.

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Supponiamo che su un tavolo ci sia un sacchetto di fagioli e che io sappia che “tutti i fagioli del sacchetto sono bianchi” (legge); allora, se io prendo senza guardare un pugno di fagioli dal sacchetto (caso) posso predire senza dubbio che i fagioli che ho nel pugno saranno bianchi (risultato). Questo è un esempio di ragionamento deduttivo: da una legge, attraverso un caso, posso predire con certezza un risultato particolare. Ma è ovvio che nella vita o nella scienza o in un’indagine poliziesca raramente possiamo fare ricorso a un esempio di deduzione pura come questa, perché in genere non abbiamo leggi a disposizione da cui partire. Se invece non so cosa ci sia nel sacchetto, posso infilare la mano e constatare che, come risultato, ho tirato fuori dei fagioli bianchi. Ripeto l’operazione un certo numero di volte e ottengo sempre lo stesso risultato. Allora posso inferire, con un certo grado di sicurezza (ma mai con assoluta certezza), che questi risultati siano casi di una legge, la legge secondo cui tutti i fagioli del sacchetto sono bianchi. Questo è un esempio di ragionamento induttivo, perché da una serie di risultati particolari interpretati come casi di una stessa legge arrivo a formulare l’ipotesi che tale legge generale sia vera (anche se da un momento all’altro può spuntare il fagiolo non bianco che la falsifica irrimediabilmente). Immaginiamo ora una situazione ben diversa. Ho davanti a me un sacchetto e, accanto ad esso, un mucchietto di fagioli bianchi. Non so cosa ci sia nel sacchetto, né so chi abbia messo lì i fagioli. La loro presenza è un fatto, cioè un risultato, curioso

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e sorprendente. Posso però fare una congettura, cioè ipotizzare una legge di cui il risultato dato è un caso. Se la legge fosse vera, e se il mio risultato ne fosse un caso, allora esso sarebbe non più sorprendente ma spiegabilissimo come conseguenza della legge attraverso il caso. Infatti, se la legge è che tutti i fagioli del sacchetto sono bianchi e il caso è che il mucchietto di fagioli proviene dal sacchetto, allora è ovvio che come risultato avrò un mucchietto di fagioli bianchi accanto al sacchetto. Quindi c’è ragione di sospettare che la legge sia vera. È questa l’abduzione, che secondo Peirce è la procedura normalmente seguita dagli scienziati e secondo Eco è la procedura normalmente seguita dagli investigatori delle detective stories e dagli stessi lettori alle prese con l’interpretazione di un testo. Ma si noti che l’abduzione non garantisce scoperte impressionanti, perché è aperta alla falsificazione, anche se resta l’unico strumento di scoperta a disposizione della nostra fallibilità. Le leggi da cui ricavare uno stesso risultato, infatti, sono potenzialmente infinite, e tutto Il nome della rosa, in fondo, è un esempio di fallimento di una procedura abduttiva, perché Guglielmo spiega dei risultati (i monaci morti) come casi di una legge (lo schema delle sette trombe dell’Apocalisse) falsa, anche se la stessa lo condurrà al cospetto del responsabile principale della catena di delitti. È, questo, un indice di quella “forza del falso” di cui si è detto nella Premessa. Alla luce di quanto precede e dei saggi citati, risulterà chiarissimo il passo del romanzo, altrimenti difficilmente decifrabile, in cui Guglielmo spiega ad Adso il suo metodo investi-

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gativo: «“Adso”, disse Guglielmo, “risolvere un mistero non è la stessa cosa che dedurre da principi primi. E non equivale neppure a raccogliere tanti dati particolari per poi inferire una legge generale. Significa piuttosto trovarsi di fronte a uno, o due, o tre dati particolari che apparentemente non hanno nulla in comune, e cercare di immaginare se possono essere tanti casi di una legge generale che non conosci ancora, e che forse non è mai stata enunciata» (R 307). E prosegue facendo l’esempio, di origine aristotelica, del problema della definizione degli animali con le corna, lo stesso che è discusso dettagliatamente nel primo paragrafo di Corna, zoccoli, scarpe. Poi aggiunge: «Di fronte ad alcuni fatti inspiegabili tu devi provare a immaginare molte leggi generali, di cui non vedi ancora la connessione con i fatti di cui ti occupi: e di colpo, nella connessione improvvisa di un risultato, un caso e una legge, ti si profila un ragionamento che ti pare più convincente degli altri. Provi ad applicarlo a tutti i casi simili, a usarlo per trarne previsioni, e scopri che avevi indovinato. (…) E così faccio ora io. Allineo tanti elementi sconnessi e fingo delle ipotesi. Ma ne devo fingere molte, e numerose sono quelle così assurde che mi vergognerei a dirtele» (R 307-308). E qui Guglielmo ritorna all’episodio iniziale di Brunello, spiegando che egli aveva elaborato molte ipotesi a partire dalle tracce osservate nella neve, tra i cespugli e sugli alberi, e che fu solo alla vista del cellario Remigio e dei servi che lo cercavano che scelse come migliore delle altre l’ipotesi delle tracce lasciate dagli zoccoli, dalla coda e dalle orecchie del cavallo dell’abate, il più prezioso dell’abbazia; mentre il lettore scopre che tutto

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l’episodio era un riadattamento quasi letterale di una pagina del terzo capitolo di Zadig di Voltaire, come rivela il secondo paragrafo di Corna, zoccoli, scarpe. È interessante osservare come questo elogio della congettura turbi il benedettino Adso, che aderisce a una nozione realista della verità e a una visione del mondo in cui c’è perfetta corrispondenza, garantita da Dio, tra ordine delle idee e ordine delle cose, e arriva persino a rimpiangere per un momento le certezze incrollabili dell’inquisitore Bernardo Gui: «Ebbi l’impressione che Guglielmo non fosse affatto interessato alla verità, che altro non è che l’adeguazione tra la cosa e l’intelletto. Egli invece si divertiva a immaginare quanti più possibili fosse possibile. In quel momento, lo confesso, disperai del mio maestro e mi sorpresi a pensare: “Meno male che è arrivato l’inquisitore.” Parteggiai per la sete di verità che animava Bernardo Gui» (R 309). Più avanti (cfr. R 396) Adso ribadirà che con l’avanzare dell’età ha imparato ad apprezzare sempre meno l’intelligenza curiosa e la volontà pratica e sempre più l’abbandono passivo alla volontà di Dio e la fede paziente che non interroga ed è garanzia unica di salvezza, dimostrando di non capire Guglielmo (si ricordi il “modello Averroè”) quando questi dice che come filosofo dubita che il mondo abbia un ordine (cfr. R 397) e fa l’elogio del libero esame come lecito esercizio di una ragione che, per quanto fragile, è pur sempre un dono di Dio (cfr. R 139); elogio che invece solo il giovane e ambiguo Bencio da Upsala mostra di apprezzare (cfr. R 142).

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È questa, dunque, la logica fragile, congetturale, fallibile, votata alla deriva della rete rizomatica, con la quale Guglielmo vince e perde la sua sfida al labirinto, decifrandone la struttura e smascherandone e inducendo al suicidio liberatorio il custodeMinotauro.

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CAPITOLO 3

L’INIZIAZIONE DEL LETTORE

I Ma Il nome della rosa non è solo un romanzo in cui è messa in scena la sfida al labirinto ad opera di un personaggio e del suo giovane accompagnatore. Il nome della rosa è esso stesso un labirinto testuale che il lettore è chiamato a sfidare, sottoponendosi nel contempo a un vero e proprio rito di iniziazione. Naturalmente questo vale per ogni testo estetico, e nessuno come Eco ha saputo spiegare il piacere dello smarrimento nei boschi narrativi. Ma proprio perché egli aveva così a lungo riflettuto sul coinvolgimento del lector nella fabula, analizzando il modo in cui un testo esige dal lettore tutta una serie di atti di cooperazione interpretativa, nel Nome della rosa ha portato alle conseguenze estreme il gioco delle strategie di interazione tra lettore e testo, costruendo una vera e propria macchina labirinti-

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ca fatta per inghiottire il lettore e risputarlo in altra forma, cioè per iniziarlo a dei veri e propri misteri narrativi e concettuali. Di “iniziazione” nel romanzo si parla in due occasioni. Nella prima si dice che Ubertino da Casale era stato iniziato da Angela da Foligno, una donna con cui aveva “rapporti intensissimi”, «ai tesori della vita mistica e all’adorazione della croce» (R 61); nella seconda si dice che Bencio avrebbe dovuto essere iniziato dal bibliotecario Malachia, com’era consuetudine (cfr. R 45), ai segreti della biblioteca per prendere il posto del defunto Berengario, anche se poi l’abate gli nega questo privilegio (cfr. R 418). Ma di iniziazione del lettore, come visto nell’Introduzione, Eco parla esplicitamente nelle Postille, laddove dice che le prime cento pagine del romanzo devono costituire una sorta di penitenza per il lettore, il quale, superato lo scoglio dell’iniziazione, comincerà a prendere la forma del Lettore Modello richiesto dal testo: «Dopo aver letto il manoscritto, gli amici della casa editrice mi suggerirono di accorciare le prime cento pagine, che trovavano molto impegnative e faticose. Non ebbi dubbi, rifiutai, perché, sostenevo, se qualcuno voleva entrare nell’abbazia e viverci sette giorni, doveva accettarne il ritmo. Se non ci riusciva, non sarebbe mai riuscito a leggere tutto il libro. Quindi, funzione penitenziale, iniziatoria, delle prime cento pagine, e a chi non piace peggio per lui, rimane alle falde della collina. (…) [S]crivere è costruire, attraverso il testo, il proprio modello di lettore. (…) Che lettore modello volevo, mentre scrivevo? Un complice, certo, che stesse al mio gioco. Io volevo diventare completamente medievale e vivere nel Medio Evo

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come se fosse il mio tempo (e viceversa). Ma al tempo stesso volevo, con tutte le mie forze, che si disegnasse una figura di lettore il quale, superata l’iniziazione, diventasse mia preda, ovvero preda del testo e pensasse di non volere altro che ciò che il testo gli offriva. Un testo vuole essere una esperienza di trasformazione per il proprio lettore» (in R 520, 522, 523). È di strane metamorfosi, dunque, che dovremo parlare in questo capitolo, perché esse sono la premessa e la condizione del rito di iniziazione. In una sorta di inquietante e ingannevole gioco di specchi, infatti, in cui il falso dell’immagine è via d’accesso privilegiata alla comprensione di una verità più profonda, il lettore trova il riflesso straniato di se stesso in alcune situazioni del romanzo, così come negli specchi della biblioteca-labirinto (cfr. R 175-176) o in certi testi della stessa biblioteca (cfr. R 244 e 325) Adso scorge con terrore e inquietudine l’immagine deformata di se stesso, ovvero del suo smarrimento nel labirinto della biblioteca, e dei propri patimenti d’amore per la ragazza sconosciuta amata nelle cucine. Nei ricordati R 244 e 325 egli si trova nella biblioteca ed ha quell’esperienza tipica della proiezione della propria situazione in un testo che gli evoca le proverbiali parole di Orazio (Satire, I, 1, 69-70) che la esprimono così efficacemente – de te fabula narratur – e che in seguito torneranno in mente anche a Yambo Bodoni, mentre è alle prese con la febbrile ricerca del proprio passato nella “memoria di carta”, di fronte alle numerose immagini di Sherlock Holmes (nelle classiche illustrazioni di Sidney Paget) seduto e intento a leggere lettere,

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decifrare messaggi criptati o interpretare segni apparentemente sconnessi (cfr. L 153). Nel primo caso, avventuratosi da solo nel labirinto, Adso sfoglia un imprecisato volume riccamente miniato che per lo stile gli sembra provenire dall’ultima Thule. A colpirlo, inizialmente, in una pagina in cui cominciava il vangelo di Marco, è l’immagine dettagliata e inquietante di un leone, che per la sua ambiguità simbolica gli evoca sia il diavolo che Cristo (cfr. R 243). Sfogliando ancora il volume, Adso scorge, all’inizio del vangelo di Matteo, l’immagine di un uomo, che però lo inquieta più del leone perché l’uomo è catafratto in una sorta di pianeta rigida che lo copre sino ai piedi ed è incrostata di pietre preziose. Qui l’inquietudine di Adso nasce dal fatto che l’uomo gli evoca l’assassino cui lui e Guglielmo stanno dando la caccia: «e capii perché collegavo così strettamente la belva e il catafratto al labirinto: perché entrambi, come tutte le figure di quel libro, emergevano da un tessuto figurato di labirinti interallacciati, dove linee d’onice e smeraldo, fili di crisopazio, nastri di berillo sembravano tutti alludere al gomitolo di sale e corridoi in cui mi trovavo (…) e il veder rappresentato su quelle pergamene il mio errare mi riempì di inquietudine e mi convinse che ciascuno di quei libri raccontava per misteriosi cachinni la mia storia in quel momento. “De te fabula narratur”, mi dissi, e mi domandai se

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quelle pagine non contenessero già la storia degli istanti futuri che mi attendevano»57. Nel secondo caso, quando Adso e Guglielmo ricostruiscono finalmente la mappa del labirinto, pur senza riuscire ancora a risolvere l’enigma per entrare nel Finis Africae, mentre si trovano nelle sale del torrione meridionale che costituiscono il fatidico “Leones”, il novizio approfitta di un momento in cui il suo maestro si fa attrarre da alcuni trattati arabi di ottica per spostarsi nella sala accanto, in cui si trovano libri, in genere arabi, dedicati alle malattie del corpo e dello spirito. Qui Adso si sofferma sullo Speculum amoris di fra Massimo da Bologna, un libro costituito da citazioni di altri autori incentrate tutte sulla “malattia d’amore”, e naturalmente ha una ricaduta, perché come la lettura dei libri di medicina ci convince di avere tutti i disturbi di cui essi trattano, la lettura di un libro sulle pene dell’amore ci convince che si sta parlando di noi: «bastò la vista di quel libro a farmi dire “de te fabula narratur” e a scoprirmi più malato d’amore di quanto non credessi».

II

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Nel volume sfogliato da Adso si possono scorgere chiari riferimenti a due famosi codici delle isole britanniche, i Vangeli di Echternach dell’VIII secolo, per il leone che simboleggia l’evangelista Marco, e il Libro di Durrow del VII secolo, per l’uomo catafratto che rappresenta l’evangelista Matteo.

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L’Adso lettore, in questi casi, è figura del lettore del Nome della rosa, perché la rischiosa avventura conoscitiva e investigativa del novizio e del maestro, con i suoi vari incidenti di percorso (come il franare di Adso nell’abisso dell’ossessione amorosa per la ragazza con cui si è casualmente e convulsamente accoppiato nelle cucine), allude all’avventura interpretativa e conoscitiva del lettore del romanzo, che sin dalla premessa capisce di essere finito in qualcosa che sta tra un labirinto di specchi e la biblioteca di Babele. Sin dall’apertura, infatti, il romanzo adesca il lettore con false promesse consolatorie di agevole accessibilità, a cominciare dal topos del manoscritto ritrovato. Cosa c’è di più familiare di un romanzo in cui la voce narrante dà a credere di aver trovato un manoscritto? Non si tratta della stessa strategia testuale dei Promessi Sposi, il romanzo capostipite della narrativa italiana contemporanea che qualunque cittadino italiano che abbia frequentato la scuola dell’obbligo conosce almeno sommariamente? Eppure già solo quel “Naturalmente, un manoscritto” che dà il titolo alla premessa è un capolavoro di ironia perché nasconde un gioco di incassamenti e biforcazioni tra il reale e l’immaginario che sconcertano e disorientano il lettore. La tecnica, consistente nel non far capire bene chi sta parlando esattamente, è simile a quella del Gordon Pym di Poe, il cui gioco di successivi incassamenti narrativi sarà analizzato magistralmente dallo stesso Eco nella prima delle sue sei passeggiate nei boschi narrativi.

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Cosa fa Poe? Intanto premette al romanzo una “Nota introduttiva” firmata da “A. G. Pym”, cioè lo stesso protagonista che esordirà nel racconto in prima persona dicendo «Mi chiamo Arthur Gordon Pym». Fin qui, niente di strano. Ma si dà il caso che nella nota Pym faccia riferimento a un certo “mister Poe”, il quale l’anno prima, cioè nel 1837, aveva pubblicato sul «Southern Literary Messenger» a proprio nome due puntate delle stesse avventure, narrate da Pym in prima persona. E allora? È Pym che inventa Poe o Poe che inventa Pym? Naturalmente a questo livello è l’autore empirico Poe che inventa il personaggio-narratore Pym che parla dell’autore empirico Poe come se fosse una propria invenzione. Ma le cose sono ancora più complicate, perché in appendice al romanzo il lettore trova una “Nota” in cui un terzo personaggio-editore, chiamiamolo Mister X perché anonimo, parla sia della morte di Pym e della perdita degli ultimi due o tre capitoli della storia da lui stesso raccontata sia di “mister Poe”, il primo curatore della storia, cui peraltro, a detta di Mister X, sarebbe sfuggita la chiave per decifrare le strane figure che compaiono verso la fine del racconto superstite di Pym. Conclude Eco: «Dovremmo allora giustificare il lettore che iniziasse a sospettare che l’autore empirico fosse il signor Poe, che aveva inventato un personaggio romanzescamente dato come reale, il signor X, che parla di una persona falsamente reale, il signor Pym, che a propria volta agisce come il narratore di una storia romanzesca. L’unico elemento imbarazzante sarebbe che questo personaggio romanzesco parla del signor Poe (quello reale) come se fosse un abitante del proprio universo fittizio.

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Chi è in tutto questo intrico testuale l’autore modello? Chiunque sia, è la voce, o la strategia, che confonde i vari supposti autori empirici affinché il lettore modello sia coinvolto in questo teatro catottrico» (Eco 1994: 26-27). Il labirinto di voci narranti escogitato da Eco nel Nome della rosa non è meno ingegnoso. Nella premessa c’è un narratore fittizio che dice “Io”, il quale racconta che il 16 agosto 1968, trovandosi a Praga (come l’autore empirico Umberto Eco, del resto, che il primo settembre avrebbe raccontato la sua esperienza della fine della Primavera di Praga, fuga a Vienna compresa, dalle colonne de «L’Espresso» con un articolo famoso dal titolo “Li ho visti danzare attorno ai carri armati”58) in attesa di una persona cara, venne in possesso di un libro stampato a Parigi nel 1842 in cui un tale abate Vallet (personaggio storico) forniva una versione in francese neogotico di un manoscritto in latino del XIV secolo di un certo Adso (o Adson) da Melk, così come era stato edito nel XVII secolo dall’erudito benedettino J. Mabillon (altro personaggio storico). Ma la notte tra il 20 e 21 agosto le truppe sovietiche invasero la città e così il narratore dovette spostarsi a Vienna, dove raggiunse la persona attesa, con la quale cominciò a risalire il Danubio per poi raggiungere Sali58

E vale la pena sottolineare il fatto che, tra biografia e invenzione, Il nome della rosa prendeva il suo avvio da Praga, la città “magica” di Rodolfo II e Khunrath trasformatasi tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo in vero e proprio laboratorio alchemico e ampiamente omaggiata in seguito da Eco nel Pendolo di Foucault (cfr. in particolare P 157, 317-318 e 322-327) e naturalmente ne Il cimitero di Praga (sulla scorta di quanto era stato anticipato nel Pendolo nelle già citate sezioni in cui si racconta la storia dei Protocolli).

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sburgo. Nel frattempo il narratore legge e traduce febbrilmente in italiano la versione francese del manoscritto latino, di cui non trova traccia nel monastero di Melk visitato durante il viaggio. Prima di arrivare a Salisburgo, però, il sodalizio con la persona cara si rompe e questa scompare portando involontariamente con sé il libro dell’abate Vallet. Rimasto con la sua versione italiana approntata frettolosamente, mesi dopo il narratore approfondisce le proprie ricerche a Parigi, ma non trova altre tracce né del libro di Vallet né di quello di Mabillon, per cui comincia a pensare di essere rimasto con la traduzione di un falso avuto accidentalmente tra le mani per qualche giorno. Riassumendo: l’autore empirico Umberto Eco inventa il narratore di una premessa che vive in un mondo possibile in cui gode di alcune proprietà che sono identiche a quelle del suo creatore reale, come l’essere stato testimone a Praga dell’invasione dei russi, anche se ne possiede altre totalmente fittizie, come quella di aver avuto in mano il libro dell’abate Vallet; questo narratore, dunque, appronta la versione italiana di una traduzione francese, ad opera del Vallet, dell’edizione secentesca, dovuta al benedettino Mabillon, di un manoscritto latino della fine del XIV secolo, steso da un anziano monaco benedettino, in cui vengono raccontate vicende oscure e luttuose accadute nell’ultima settimana del mese di novembre del 1327 in una abbazia situata in una imprecisata località del nord-ovest dell’Italia. A questo punto della premessa c’è uno stacco temporale, riempito da un oscuro riferimento del narratore a Gérard de Nerval, autore di quell’onirico e nebbioso racconto intitolato

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Sylvie che costituisce da sempre una delle ossessioni esegetiche di Umberto Eco59 , nonché di un altro racconto, intitolato Angélique, in cui, nel solito gioco di specchi, è contenuta una storia simile a quella che fa da preambolo al Nome della rosa: il narratore trova in una bancarella un libro sull’abate di Bucquoy e decide di non comprarlo, ma poi pensa di realizzare uno studio sullo stesso personaggio e va alla disperata ricerca del libro che aveva deciso di non comprare pur avendolo avuto tra le mani. Dice il narratore di Eco: «Vi sono momenti magici, di grande stanchezza fisica e intensa eccitazione motoria, in cui si danno visioni di persone conosciute in passato (“en me retraçant ces details, j’en suis à me demander s’ils sont réels, ou bien si je les ai rêvés”). Come appresi più tardi dal bel libretto dell’Abbé de Bucquoy, si danno altresì visioni di libri non ancora scritti» (R 13). Questo passo, in cui è citato in francese un luogo di Sylvie e in cui si allude ad Angélique, introduce la situazione chiarissimamente borgesiana (altro gioco di specchi) narrata subito dopo. Nel 1970, trovandosi a curiosare tra i banchi di un libraio antiquario di Buenos Aires (e dove se non nella patria di Borges?), il narratore dice che gli capitò tra le mani la traduzione castigliana dell’originale ormai introvabile in lingua georgiana (uscito a Tiblisi nel 1934) di un libretto di Milo Temesvar, Dell’uso degli specchi nel gioco degli scacchi, di cui addirittura 59

Culminata con la pubblicazione, nel 1999, di un’edizione italiana Einaudi del racconto a cura dello stesso Eco.

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dice di aver già parlato per sentito dire in un suo libro intitolato Apocalittici e integrati, nel contesto di una recensione di un’altra e più recente opera di Temesvar, I venditori di Apocalisse. Come si vede, dunque, il narratore nel suo mondo fittizio condivide un’altra proprietà con l’autore empirico Umberto Eco, che è quella di avere scritto un’opera con lo stesso titolo e sicuramente identica almeno laddove si parla di Temesvar, e se si va a controllare il passo di Apocalittici e integrati cui si fa riferimento, si scopre che Temesvar pubblicò anonimo il libretto sugli specchi e gli scacchi per confutare una sua precedente opera dal titolo (guarda caso) Le fonti bibliografiche di J. L. Borges e confondere così le idee ai propri lettori (cfr. Eco 1964: 365). Ora, però, si dà il caso che il linguista, sociologo e cultore di intelligenza artificiale (applicata al programma di riduzione della poesia a circuiti logici riproducibili da un cervello elettronico) Milo Temesvar, nato in Albania, che lasciò il suo paese per l’accusa di deviazionismo di sinistra, che si rifugiò in Unione Sovietica, che in seguito emigrò negli Stati Uniti per insegnare lingue slave presso la Rutgers University, da cui si allontanò per pressioni dell’F.B.I., per poi comparire per breve tempo in Argentina, è stato borgesianamente inventato di sana pianta e in questi termini da Umberto Eco proprio in Apocalittici e integrati! Ma cosa trova il narratore della prefazione del Nome della rosa nell’immaginaria opera sugli specchi e gli scacchi dell’immaginario Milo Temesvar? Vi trova nientemeno che ampie citazioni dal manoscritto di Adso, compresa la descrizione del labirinto, «salvo che la fonte non era né il Vallet né il Mabillon, ben-

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sì il padre Athanasius Kircher (ma quale opera?)» (R 13), un gesuita dagli interessi bizzarri ed enciclopedici del XVII secolo, di cui il bibliofilo Eco possiede oggi tutte le numerose opere originali meno una (cfr. Eco e Carrière 2009: 117). Il disegno del labirinto di specchi in cui il lettore viene catapultato non appena apre il romanzo è ora completo, anche se tutto questo riguarda solo il problema di capire chi stia parlando. Ebbene, appena il lettore comincia a leggere il “Prologo”, si imbatte nella caratteristica principale del romanzo, che consiste nel fatto che esso risulta scritto quasi interamente con pezzi di altri libri e testi vari, appartenenti non solo a una ideale biblioteca medievale, ma anche alla biblioteca universale, che comprende cioè testi scritti prima del Medioevo e addirittura dopo. Nelle prime parole del romanzo, infatti, Adso usa frasi tratte dall’incipit del Vangelo di Giovanni (che già costituivano l’incipit del Morgante di Pulci) e da Paolo (a sua volta già citato da Huizinga, come visto), e questo è solo un anticipo di riscaldamento dell’incubo intertestuale che aspetta il lettore, il quale capisce subito di essere sotto penitenza e di aver bisogno di una qualche iniziazione.

III Per capire di che tipo di penitenza e di iniziazione si tratti occorre soffermarsi su un passo insieme curioso e interessante, uno di quei passi che contengono per speculum et in aenigmate

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come una sorta di figura della situazione del lettore, tanto che con Adso egli può dire a se stesso: de te fabula narratur. Nelle prime edizioni del romanzo, a pagina 135 (siamo poco oltre la metà di Secondo giorno – terza), laddove Guglielmo ispeziona nello scriptorium il tavolo del povero Venanzio, nella notte trovato morto dentro l’orcio pieno del sangue dei maiali, si legge: «Un altro libro greco era aperto sul leggìo, l’opera su cui Venanzio stava compiendo nei giorni scorsi il suo lavoro di traduttore. Io allora non conoscevo ancora il greco, ma il mio maestro lesse il titolo e disse che erano le Metamorfosi di Apuleio, una favola pagana di cui avevo sentito parlare come di opera sconsigliata ai novizi». Ora, il passo è innanzi tutto curioso perché contiene un lapsus calami abbastanza divertente (che neanche il più scarso dei liceali potrebbe mai commettere, visto che se prende un brutto voto su Apuleio sa benissimo in quale materia lo ha preso), dato che Venanzio non poteva tradurre dal greco al latino un’opera già scritta in latino! Ebbene, nelle edizioni successive compare la dovuta correzione, ed è interessante vedere come ha proceduto Eco. Il passo, ora, suona così: «Un altro libro greco era aperto sul leggìo, l’opera su cui Venanzio stava compiendo nei giorni scorsi il suo lavoro di traduttore. Io allora non conoscevo ancora il greco, ma il mio maestro disse che era di un tale Luciano e narrava di un uomo trasformato in asino. Ricordai allora una favola analoga di Apuleio, che ai novizi era di solito severamente sconsigliata». Di conseguenza è stato anche aggiustato un rigo di pagina 137, dove si riprende l’argomento e Guglielmo dice a Jorge: «Certo, Apuleio e Luciano erano colpevoli

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di molti errori. (…) Ma questa favola contiene sotto il velame delle proprie finzioni anche una buona morale, perché insegna quanto si paghino i propri errori e inoltre credo che la storia dell’uomo trasformato in asino alluda alla metamorfosi dell’anima che cade nel peccato» (mentre prima si aveva: «Indubbiamente Apuleio di Madaura ebbe fama di mago. (…) Ma questa favola contiene…»). Come si vede, Eco risolve il problema sostituendo le Metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio con Lucio ovvero l’asino attribuito a Luciano di Samosata (ma è attribuzione controversa), che è un’opera in greco più o meno coeva ed è molto simile alla prima nella trama, anche se è molto più breve e rapida. Ancora oggi non è chiaro ai filologi chi abbia copiato chi o se entrambi abbiano attinto da una fonte comune andata perduta, quelle misteriose Metamorfosi di Lucio di Patre di cui si ha notizia grazie a Fozio, patriarca di Costantinopoli vissuto nel IX secolo, che nella sua Biblioteca dice di averle lette e di conoscere pure il testo di Luciano, che gli sembra una riduzione dell’opera di Lucio. C’è da chiedersi perché Eco abbia lasciato questo riferimento alla vicenda di Lucio, considerato anche il fatto che del testo su cui stava lavorando Venanzio prima di morire avvelenato dall’opera di Aristotele non si farà più alcun cenno nel romanzo. Evidentemente Eco tiene molto a questa citazione, perché essa non contiene solo il senso morale e allegorico tanto caro a Guglielmo, ma rispecchia – deformandola sarcasticamente, forse anche attraverso la contaminazione ironica con Pinoc-

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chio (senz’altro la più celebre riformulazione moderna della favola di Lucio) – la situazione del lettore del Nome della rosa. Si ripensi alla situazione di Lucio: pasticciando con dei filtri magici si ritrova trasformato in asino, anziché in uccello, come desiderava (cfr. Apuleio, III, 24-25 e Luciano, 13), e dopo mille peripezie potrà finalmente mangiare le rose che lo faranno ritornare uomo. È noto che in Apuleio il rito iniziatico che permetterà a Lucio di riacquistare la forma umana è molto complesso e prevede più fasi o livelli, anche perché dovrà diventare sacerdote della dea Iside, mentre in Luciano l’asino si imbatte casualmente nelle rose allorché si trova in un teatro dove è costretto ad esibire le sue prodigiose doti sessuali (cfr. Luciano, 52-54). In ogni caso, anche in Apuleio l’elemento-chiave è una corona di rose (cfr. XI, 13), e questo fatto spinge irresistibilmente a istituire un parallelismo, magari un po’ arbitrario e forzato, ma in ogni caso rivelatore, con la situazione del lettore, chiamato a uscire dal labirinto mangiando con gli occhi e con la mente un romanzo intitolato Il nome della rosa e raggiungendo l’illuminazione del Senso attraverso la decifrazione, cioè la digestione, di un esametro latino finale che parla della rosa primigenia e del suo nome. Sarebbe troppo facile sostenere questo parallelismo tra il mangiar rose e il comprendere il romanzo e l’esametro sulla rosa ricordando che il verbo latino sapere significa sia “sentire il sapore” che “venire a sapere” e che sul legame etimologico tra “sapore” e “sapienza” giocava già Tommaso Campanella, ma qui basta richiamare un passo del quinto capitolo del Pendolo di Foucault, romanzo ironicamente sapienziale e iniziatorio come

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pochi altri, laddove Eco fa dire all’esperto di cabala Diotallevi, rivolto a Belbo: «La parola va mangiata lentissimamente, puoi dissolverla e ricombinarla solo se la lasci sciogliere sulla lingua, e attento a non sbavarla sul caffetano, perché se una lettera evapora si spezza il filo che sta per unirti alle sefirot superiori» (P 34). E, per rimanere al Pendolo, è interessante notare per contrasto come l’asino e la rosa (così come le perle e i porci) vengano associati, ma questa volta per tenerli ben lontani, nei testi ermetici ed iniziatici dei ciarlatani che promettono un segreto sempre differito, perché “vuoto”, e sembrano morire dalla voglia di rivelare «una cosa così importante, ma così importante che deve rimanere segreta» (P 154)60. Il frontespizio del famigerato Le nozze chimiche di Christian Rosencreutz (1616) di Johann Valentin Andreae, uno dei testi fondativi della balla rosacrociana, da cui Eco ricava ben cinque epigrafi per altrettanti capitoli del Pendolo (9, 56, 57, 104 e 119), recava tra l’altro anche il seguente motto latino (che costituisce la seconda epigrafe del cap. 104 del Pendolo): Arcana publicata vilescunt: et gratiam prophanata amittunt. Ergo: ne Margaritas obijce porcis, seu Asino substerne rosas. Ovvero: le cose segrete, se rese pubbliche, vengono svilite e, diffuse tra i profani, perdono la grazia; dunque, non dare margherite (o perle) ai porci e non fare all’asino un letto di rose. Viceversa, chi ha qualcosa da rivelare, per quanto dif60

Cfr. anche P 491-492, nonché Eco 1990: 45, 50 e 85. Si tratta di una tecnica di cui si ricorderà anche il falsario e spia Simonini, il quale farà sua una regola come questa: «Meglio non possedere nessun segreto e far credere di possederne» (C 335).

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ficile sia da comprendere e purché non sia un segreto vuoto, non teme di offrirlo in pasto anche agli asini.

IV Rimanendo in tema di costruzione narrativa volutamente complessa che ha lo scopo di iniziare il lettore ai misteri del testo (cioè del linguaggio e del suo rapporto con il mondo), vale la pena dare uno sguardo più attento al Pendolo, perché qui Eco raggiunge vette così alte che nei quattro romanzi successivi eviterà di andare oltre e si accontenterà di strategie testuali relativamente più lineari. Quello che egli mette in atto in questo romanzo è un dispositivo narrativo labirintico che coinvolge e scompiglia non più solo il chi e il come narra (come era accaduto nel Nome della rosa) ma anche il quando e persino il da dove narra (altro che il «Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole» di Adso: R 503). In termini generalissimi, il romanzo è narrato in prima persona dal milanese di origini valdostane Casaubon, laureato in filosofia con una tesi sui Templari, uno dei tre personaggi principali insieme a Jacobo Belbo, un intellettuale piemontese inquieto e apparentemente scettico, e Diotallevi, pure lui piemontese e così appassionato di cabala da autoconvincersi di essere ebreo. Sulla base delle indicazioni interne, per la verità non sempre esplicite, si può arguire che nel 1984 Casaubon abbia 33 anni (cfr. P 27 e 47), Belbo ne abbia 52 (cfr. P 54 e soprattutto

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93: è quindi un coetaneo e un po’ un alter ego di Eco, tant’è vero che ha gli stessi ricordi d’infanzia decisivi) e Diotallevi un paio di meno (cfr. P 66 e 445). Il romanzo è costituito da 120 capitoli raggruppati in 10 parti, ciascuna delle quali corrispondente a una delle 10 sefirot, che secondo il sistema cabalistico codificato nell’antico Sefer Jetzirah (“Libro della formazione”), di attribuzione e datazione incerte, e soprattutto nello Zohar (“Libro dello splendore”), composto verso la fine del XIII secolo, costituiscono insieme le emanazioni nella scala del creato e le proprietà, gli attributi verbali proferibili, ovvero le articolazioni creatrici, di Dio, che è l’En-Sof, cioè l’In-finito, l’Uno, di per sé Inesprimibile nel suo nome segreto: 1. Keter: la Corona, l’Origine; lo stesso En-Sof? (1-2); 2. Hokmah: la Sapienza (3-6); 3. Binah: l’Intelligenza (7-22); 4. Hesed: l’Amore (23-33); 5. Geburah: la Giustizia, il Terrore (34-63); 6. Tiferet: la Pietà, l’Armonia (64-106); 7. Nezah: l’Eternità, la Vittoria (107-111); 8. Hod: la Maestà, la Gloria, lo Splendore (112-117); 9. Jesod: il Fondamento (118-119); 10. Malkut: il Regno (120). Tuttavia le cose non sono così semplici, perché Casaubon non costruisce il romanzo da solo, né narra in un tempo uniforme e dallo stesso punto di vista spaziale, emotivo e cognitivo.

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Innanzi tutto egli narra dall’orlo spazio-temporale della vicenda, dalla casa di campagna di Belbo tra Langhe e Monferrato nella notte tra il 25 e il 26 giugno 1984, mentre attende di essere raggiunto dai sicari (che non sappiamo se arriveranno mai) dei nuovi Templari che si sono identificati nel Piano da lui inventato insieme a Belbo e a Diotallevi. Ma in gran parte ciò che Casaubon ora ricorda con animo pacificato e con piena comprensione della dinamica degli eventi è ciò che per passare il tempo ricordava la sera del 24 con animo inquieto e ignaro dell’epilogo della vicenda del Piano, mentre si trovava dentro la garitta del Periscopio del Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, cioè nel museo in cui è custodito il Pendolo di Foucault, in attesa che a mezzanotte accadesse ciò che pensava sarebbe accaduto, senza però averne la certezza (perché, in fondo, la storia che aveva letto fino alla mattina di quel giorno nei file di Belbo poteva essere frutto della paranoia dell’amico). Questi due stati emotivi e cognitivi in tempi e luoghi diversi determinano una certa fluttuazione nel tono e nel ritmo della narrazione: «Come era più avventurosa, incerta, demente, la ricostruzione che tentavo, per ingannare il tempo, e per tenermi vivo, l’altra sera, dalle cinque alle dieci, ritto nel periscopio, mentre per far circolare il sangue muovevo lentamente e mollemente le gambe, come se seguissi un ritmo afro-brasiliano. (…) L’altra sera nel periscopio non avevo alcuna prova che ciò che mi aveva rivelato la stampante fosse vero. Potevo ancora difendermi col dubbio. Entro mezzanotte mi sarei forse accorto che ero venuto a Parigi, che mi ero nascosto come un ladro in un innocuo museo della tecnica, solo

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perché mi ero introdotto stolidamente in una macumba organizzata per turisti e mi ero lasciato prendere dall’ipnosi dei perfumadores, e dal ritmo dei pontos... E la mia memoria tentava volta per volta il disincanto, la pietà e il sospetto, nel ricomporre il mosaico, e quel clima mentale, quella stessa oscillazione tra illusione fabulatoria e presentimento di una trappola, vorrei conservare ora, mentre a mente ben più lucida sto riflettendo su quello che allora pensavo, ricomponendo i documenti letti freneticamente il giorno prima, e la mattina stessa all’aeroporto e durante il viaggio verso Parigi. (…) Sono qui, ora, dopo aver raggiunto – spero – la serenità e l’Amor Fati, a riprodurre la storia che ricostruivo, pieno di inquietudine – e di speranza che fosse falsa – nel periscopio, due sere fa, per averla letta due giorni prima nell’appartamento di Belbo e per averla vissuta, in parte senza averne coscienza, negli ultimi dodici anni, tra il whisky di Pilade e la polvere della Garamond Editori» (P 42-43). Inoltre, questo doppio gioco oscillatorio tra due dimensioni del tempo della memoria e tra passato e presente dà a Casaubon l’occasione per proiettare il proprio sdoppiamento sul piano metafisico, sulla base dell’insegnamento cabalistico di Diotallevi, il quale, come vedremo, dà il suo contributo all’architettura del romanzo: «Ricordo (e ricordavo), per dare un senso al disordine della nostra creazione sbagliata. Ora, come l’altra sera nel periscopio, mi contraggo in un punto remoto della mente per emanarne una storia. Come il Pendolo. Diotallevi me lo aveva detto, la prima sefirah è Keter, la Corona, l’origine, il vuoto primordiale. Egli creò dapprima un punto, che divenne il

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Pensiero, ove disegnò tutte le figure... Era e non era, chiuso nel nome e sfuggito al nome, non aveva ancora altro nome che “Chi?”, puro desiderio di essere chiamato con un nome... In principio egli tracciò dei segni nell’aura, una vampa scura scaturì dal suo fondo più segreto, come una nebbia senza colore che dia forma all’informe, e non appena essa cominciò a distendersi, al suo centro si formò una scaturigine di fiamme che si riversarono a illuminare le sefirot inferiori, giù sino al Regno» (P 21). Come si vede, qui comincia a insinuarsi maliziosamente anche Eco attraverso dei doppi sensi: la frase «mi contraggo in un punto remoto della mente per emanarne una storia. Come il Pendolo», infatti, se mettiamo in corsivo la parola “Pendolo”, possiamo attribuirla all’autore del romanzo, che ne è pur sempre il vero Demiurgo. Dunque, il narratore Casaubon si contrae in un punto, come il Pendolo, per rievocare oscillando nel tempo la storia che lo ha condotto fin lì (prima nel Periscopio e poi nella pavesiana casa in collina) e che coincide con il romanzo; l’autore Eco, analogamente, si contrae in un punto per “emanare” il romanzo, cioè una storia come il Pendolo. Entrambi, poi, scimmiottano il processo creativo di Keter, che si serve di “figure” e di “segni” (le sefirot) come uno scrittore. Oppure, meglio: è Keter che, come Dio creatore, è stato inventato dagli uomini e dipinto come la scimmia di uno scrittore, l’unico essere capace di creare con la parola. Ora, poiché Casaubon riceve da Diotallevi la sapienza cabalistica e alle sue istruzioni fa costante riferimento ogni volta che trascrive la sua storia sul palinsesto delle emanazioni sefiro-

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tiche, è a Diotallevi che va attribuita la strutturazione in chiave sapienziale del racconto, con la suddetta divisione in parti che ripercorrono il movimento delle sefirot. Non solo, ma con i suoi file custoditi nella sua casa di Milano e i suoi manoscritti custoditi nell’armadio della casa in collina, è Belbo a fornire la materia per gran parte del racconto e la chiave per interpretarlo come un percorso personale di autopunizione e di espiazione, di senso di colpa per un destino di viltà e di ricerca di un riscatto attraverso un gesto unico e salvifico. In tal senso, Belbo è il vero protagonista e creatore del romanzo, sia perché è la sua vicenda umana ed esistenziale a ricevere maggiore approfondimento storico e psicologico sia perché molti dei suoi file sono abbozzi creativi e aborti del romanzo stesso, che può venire alla luce solo con la sua morte e con l’intervento ordinatore di chi arriva dopo il compimento del suo destino e la definizione del senso della sua vita. Si aggiunga che tra i suoi file Casaubon ne trova uno molto strano: «trovai un intero file che raccoglieva solo citazioni. Tratte dalle letture più recenti di Belbo, le riconoscevo a prima vista, quanti testi analoghi avevamo letto in quei mesi... Erano numerate: centoventi. Il numero non era casuale, oppure la coincidenza era inquietante. Ma perché quelle e non altre?» (P 42). Ebbene, nel corso del romanzo non si farà mai più cenno a questo file di citazioni, ma il lettore non può non inferire che esse siano proprio quelle che compaiono in testa a ciascuno dei 120 capitoli e i cui lacerti, tratti in genere dalla prima frase (ma non sempre, perché non di rado compare la seconda e talvolta persino l’ultima), vanno a costituire gli enigmatici e quasi in-

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comprensibili titoli dei rispettivi capitoli nell’indice in fondo al volume. Se ora si pensa che queste citazioni introduttive – tratte da tutto lo scibile umano, dai ciarlatani dell’occultismo ai classici del pensiero sapienziale (come il Corpus Hermeticum), dalle lettere private ai grandi filosofi (Bacone, Popper, Cioran), dai manifesti rosacrociani alla grande letteratura (Dante, Shakespeare, Goethe, Borges), fino a Woody Allen – stanno in un rapporto come di prefigurazione straniata e in nuce con il rispettivo capitolo, si trova ulteriore conferma del fatto che Belbo ha un ruolo decisivo nella creazione del romanzo. Come si vede, dunque, il narratore interno del romanzo è triforme, perché si incarna in varie modalità nei tre personaggi coinvolti, ciascuno dei quali contribuisce a diversi livelli: Diotallevi traccia il superiore piano cabalistico su cui spalmare la materia, Belbo fornisce gran parte della materia e le indicazioni di maggior dettaglio per la sua distribuzione, mentre Casaubon si incarica di dispiegare la storia come emanazione del suo logos. Ma tutti e tre, poi, sono solo manifestazioni dell’Autore, il vero creatore di tutto, che così diventa un Demiurgo uno e trino, un geroglifico concreto della Trinità, “triuno e trinosofico” come il fantomatico ordine mistico e segretissimo del Tres (cfr. P 462). Si diceva che Eco in seguito eviterà di proseguire su questa strada, perché in effetti non pochi sono rimasti infastiditi dalla sua complessità a tratti proibitiva. C’è da sospettare, però, che in alcuni casi questa sia stata una giustificazione di facciata per stroncature che invece avevano ragioni legate al contenuto, per-

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ché in questo romanzo Eco non solo dà un colpo mortale ad alcune influentissime mode filosofiche dell’epoca (oggi un po’ appannate, considerato anche che nel frattempo Gadamer, Derrida e Rorty sono morti) ma smaschera le procedure mentali ed interpretative deliranti che sono alla base sia della teoria della cospirazione che dello stesso atteggiamento religioso, come era già chiaro nel passo di Popper 1963 citato nell’Introduzione. Dando un’occhiata al dibattito sulla stampa apertosi subito dopo l’uscita del romanzo61 , si nota come la critica si divise tra chi, come Maria Corti, apprezzava la borgesiana arguzia affabulatoria di Eco e chi o denunciava, come Pietro Citati, un cialtronesco vuoto di idee e di valore letterario dietro l’iper-letterarietà istrionica dello stile citazionista, oppure, come «L’Osservatore Romano», lanciava anatemi contro il presunto laicismo nichilista di un autore che riduceva in modo offensivo la Storia a un caos di stupidità e complotti incrociati, senz’alcuna speranza di recupero di una visione saldamente cristiana e provvidenzialista (visione che tra l’altro appare, alla luce del Pendo-

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Un bilancio si trova in Erbani 1990. Erbani partiva dal dato che «per Il Pendolo di Foucault di Umberto Eco il bilancio è comunque in rosso: di 36 recensioni comparse su quotidiani e periodici italiani 17 sono quelle negative, 12 quelle positive, 7 quelle problematiche» e, dopo una esauriente carrellata di opinioni pro e contro il romanzo (tra cui quelle citate qui), concludeva: «L’ipotesi che la severità verso Eco nasconda tanta invidia è fra le più verosimili».

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lo, come una variante edulcorata e semplicistica della teoria sempre più sofisticata del complotto: cfr. ad es. P 491)62 . L’attesa per il secondo romanzo di Eco, montata anche da un’abile campagna pubblicitaria sui media, portò a un’esplosione delle vendite e le cronache giornalistiche del tempo parlano di 600.000 copie vendute in pochi giorni, che poi si sarebbero dirette verso il milione a seguito dell’assegnazione del Premio Bancarella del 1989 (ad oggi siamo intorno ai due milioni di copie, contro gli oltre cinque del Nome della rosa, rivelatosi anche un grande long seller). Tuttavia si cominciò a diffondere ben presto una boutade maliziosa secondo la quale il Pendolo di Foucault era il romanzo più venduto e meno letto dell’anno. Ho ancora nella memoria un’apparizione televisiva di Giulio Andreotti di quel periodo nella quale, alla domanda su quale libro stesse leggendo, il colto statista rispose che stava leggendo il Pendolo di Foucault ma che sin dalla prima pagina non stava «capendo un tubo» (parole sue) per via delle formule matematiche iniziali. Questa difficoltà Andreotti è tornato ad esprimerla nel suo breve contributo (datato 12 marzo 2004) in Montalto (a cura di) 2009: 215: «Ho il privilegio di essere – su uno strapuntino – nell’Associazione Bibliofili ed in tale veste ho incontrato Eco (…). Gli dissi una volta che facevo fatica, anzi non riuscivo, a sviluppare la complessa radice quadrata in una pagina del suo

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Gli intellettuali clericali, del resto, non perdono mai occasione per attaccare il laico e loico Eco. Si vedano ad esempio Introvigne 1987 e Introvigne 2010, rispettivamente sul Nome della rosa e sul Cimitero di Praga.

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Pendolo di Foucault. Prontamente mi invitò a saltare la pagina e ad andare oltre». Non importa che Andreotti qui ricordi male, perché nel romanzo non c’è alcuna complessa radice quadrata da sviluppare, ma solo la formula del periodo del pendolo semplice (dato dal doppio di π moltiplicato per la radice quadrata del rapporto tra la lunghezza del filo e l’accelerazione di gravità g, e siccome π e g sono costanti, del valore rispettivamente di circa 3,14 e 9,8, un semplice calcolo mostra che in definitiva il periodo equivale a poco più del doppio della radice quadrata della lunghezza del filo), descritta nella prima pagina del romanzo (P 9) e data nella consueta espressione matematica nell’epigrafe al capitolo 114 (cfr. P 474). Quello che importa è che egli esprime un disagio che ha spinto e continua a spingere molti ad abbandonare quasi subito la lettura del romanzo. In effetti, per il lettore medio (absit iniuria verbis, sia chiaro: visto che in Italia i lettori abituali costituiscono una stretta minoranza della popolazione, quasi dei giapponesi nel fortino, per “lettore medio” intendo qui la maggioranza di una minoranza eroica) aprire il Pendolo di Foucault è come entrare in una specie di incubo cognitivo. Per limitarci solo alla soglia del romanzo, il Lettore Modello previsto o da costruire è una specie di mostro culturale piuttosto improbabile nell’Italia di oggi, il cui sistema scolastico-educativo riflette ancora la rigida separazione crociano-gentiliana di ispirazione idealistica tra sapere umanistico e sapere scientifico, per cui in genere (ma per fortuna non sempre) chi si sente portato per il primo trascura il secondo, e viceversa. L’aletta della so-

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vraccoperta annuncia un’opera complessa di cui è difficile stabilire le classiche unità di tempo, luogo e azione, perché i piani delle tre unità sono molteplici e intrecciati e non si capisce se il romanzo duri sette o diciotto secoli, dodici anni tra il 1972 e il 1984 o due anni tra il 1943 e il 1945, o addirittura una sola sera, né se tale sera sia quella parigina del 23 giugno 1984 o quella langhigiana tra il 26 e il 27 giugno dello stesso anno (e qui il lettore che taglierà il traguardo della pagina 509 dovrà rendersi conto che c’è un refuso, perché la notte finale è in realtà quella tra il 25 e il 26 giugno), essendo vere in un certo senso tutte queste cose insieme. In ogni caso il lettore capisce che avrà a che fare con il museo parigino dove è esposto il Pendolo di Foucault, con il Brasile, con il sapere ermetico e gnostico, con i Templari e i Rosa-Croce, e con tre sconsiderati redattori di una casa editrice che la combinano grossa inventando un Piano per la conquista del mondo che qualcuno prenderà terribilmente sul serio… Già a pagina 2, cioè prima ancora del frontespizio, il lettore si trova di fronte a una riproduzione cinquecentesca a stampa dell’albero delle sefirot, una struttura esagonale di cerchi con strane parole dentro collegati da linee, che per essere anche solo compresa passabilmente richiede un corso accelerato di cabala ebraica di alcune ore. A pagina 5 si incontrano due citazioni abbastanza scoraggianti a mo’ di epigrafi generali: una tratta dal De occulta philosophia del medico, astrologo, alchimista, mago e cabalista rinascimentale tedesco Agrippa di Nettesheim, in cui si dice che “quest’opera” (quindi anche il Pendolo) è scritta solo per i “figli della dottrina e della sapienza” che sapranno deci-

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frarne i segni, e l’altra tratta da 5000 B. C. del grande logico, filosofo e prestigiatore contemporaneo americano Raymond Smullyan, in cui si dice, con il tipico gusto dell’autore per il paradosso e l’enigma, che «la superstizione porta sfortuna». Voltando ancora pagina, il lettore scorge a pagina 7, sospesa nel vuoto, l’indicazione: “1. Keter”. Se è abbastanza sveglio, dovrebbe ricordare che quella parola, sebbene nella forma “Cheter”, l’ha già vista scritta nel cerchio in cima all’albero delle sefirot; a questo punto potrebbe andare all’Indice in fondo al volume e scoprire che il romanzo è suddiviso in dieci parti per un totale di 120 capitoli, che i titoli delle dieci parti coincidono con i nomi inscritti negli altrettanti cerchi dell’albero delle sefirot e che da una rapida lettura dei titoli dei capitoli non si cava un ragno dal buco in termini di comprensione, perché si tratta quasi sempre di spezzoni di frasi. Allora è meglio tornare indietro e aprire finalmente pagina 9, la prima del romanzo, che però sferra subito un micidiale pugno a entrambi gli occhi, perché porta in epigrafe un bel passo di nove righe in ebraico, peraltro senza alcuna indicazione della fonte (che il lettore paziente troverà come seconda voce dell’indice delle illustrazioni, dopo l’Indice generale). «Fu allora che vidi il Pendolo», l’incipit, è forse la prima frase amica, confortevole e davvero comprensibile che il lettore abbia incontrato fino a questo momento, ma il suo sollievo è subito frustrato dalla descrizione prima matematica e poi via via sempre più misterica delle proprietà fisico-pitagoricometafisiche del Pendolo di Foucault, che al centro della seconda pagina culmina nel richiamo di quell’“illusione fabulatoria” che

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spinge ad attribuire al piano di oscillazione una velocità angolare di rotazione proporzionale al seno della latitudine del punto del pianeta in cui si trova sospeso il Pendolo. Ed è precisamente qui che il campo si riempie di cadaveri di lettori che non hanno retto oltre. Ricordo che a vent’anni, nel 1989, riuscii a sopravvivere a queste pagine per una pura combinazione di circostanze fortuite. Avevo letto due anni prima il Nome della rosa e quindi anch’io ero curioso di leggere il Pendolo, che mi procurai attraverso il prestito bibliotecario. Ero un ex liceale appassionato di filosofia che aveva appena abbandonato gli studi di ingegneria al Politecnico di Torino, e pertanto ero fresco di studi di matematica e fisica. Ebbene, la frustrazione sopra descritta fino all’incipit venne improvvisamente e inaspettatamente compensata dalla sensazione di trionfo provata alla scoperta di quelle che mi sembrarono subito due gravi imprecisioni nella prima descrizione della formula del periodo del pendolo semplice: «Io sapevo (…) che il periodo era regolato dal rapporto tra la radice quadrata della lunghezza del filo e quel numero π…», comincia a dire Casaubon (P 9). Alt! Non solo nessun manuale di fisica chiamerebbe “rapporto” un prodotto (visto che per “rapporto” si intende comunemente la divisione), ma qui, per bocca di Casaubon, Eco dimentica la costante di gravità g, che compare naturalmente nell’espressione matematica della formula così come si trova nell’epigrafe del capitolo 114, costituita dall’estratto di una lettera del matematico e professore di ingegneria civile e architettura alla Columbia University Mario Salvadori indirizzata al-

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l’amico Eco (ovvero, nella finzione narrativa, a Belbo: cfr. P 474 e 475). Questa dimenticanza mi sembrò persino volontaria, perché la scomparsa di g (e del suo 9, pur importante nelle antiche numerologie, ma qui di difficile utilizzazione) permette subito dopo a Casaubon di fare le sue prime speculazioni aritmosofiche sui primi quattro numeri (fondamentali per i pitagorici, perché sommati danno il dieci, raffigurato nella sacra tetractýs, un triangolo equilatero formato da dieci punti) e sul cerchio (figura perfetta per eccellenza per la sapienza greca): «il tempo di quel vagare di una sfera dall’uno all’altro polo era effetto di una arcana cospirazione tra le più intemporali delle misure, l’unità del punto di sospensione, la dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di π, il tetragono segreto della radice, la perfezione del cerchio». Fu grazie al fatto di essermi trovato casualmente in grado di svolgere simili considerazioni che proseguii, ingenuo e baldanzoso, la lettura, facendo finta di non accorgermi di non avere la più pallida idea di che diavolo fossero, per esempio, il Centro del Mondo di Agarttha e Avalon l’iperborea, che appaiono già all’inizio della seconda pagina. Oggi è tutto cambiato e i lettori più esigenti possono togliersi quasi senza alcuno sforzo e gratuitamente lo sfizio di non lasciar passare nulla e di controllare in tempo reale la nuova e sempre identica biblioteca di Babele in cui, non appena varcano la soglia, come un Demiurgo ghignante Eco li getta (e usando questo verbo vorrei che se ne sentissero anche gli echi esistenzialistici). Leggendo il romanzo davanti a un computer connesso

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a internet, infatti, è possibile accedere direttamente da casa a quasi tutta l’enciclopedia ermetica cui attinge Eco per intessere il suo discorso iniziatico ancora una volta alla rovescia, perché il segreto che lui svelerà al termine dell’iniziazione del lettore a tutto il ciarpame della letteratura iniziatica e dei suoi dispositivi di discorso è che non c’è alcun segreto, e quelli che dicono di custodire un segreto custodiscono in realtà solo un segreto vuoto (con buona pace di Dan Brown e del finale del suo Il simbolo perduto). Come indica il passo del misterioso filosofo e alchimista arabo Artefio, posto in epigrafe al capitolo 60, si tratta di nuovo di percorrere labirinti, sia narrativi che dottrinari: «Povero stolto! Sarai così ingenuo da credere che ti insegniamo apertamente il più grande e il più importante dei segreti? Ti assicuro che chi vorrà spiegare secondo il senso ordinario e letterale delle parole ciò che scrivono i Filosofi Ermetici, si troverà preso nei meandri di un labirinto dal quale non potrà fuggire, e non avrà filo di Arianna che lo guidi per uscirne»63 . E così il lettore che per caso o necessità apre la voce di Wikipedia sui Rosa-Croce si trova davanti l’immagine della stessa stampa allegorica secente63

P 277. Per altre menzioni del labirinto nel corpo del testo, cfr. P 267, 287, 304, 320, 358, 368, 391, 415, 463, mentre in P 352 Casaubon, in pieno furore creativo per la costruzione del labirinto del Piano, dice di sé non casualmente che entrò nella clinica dove Lia aveva appena partorito barcollando come se avesse la “labirintite”. E a proposito dell’Isola del giorno prima, Eco dirà: «nell’Isola volevo che il lettore si confondesse, e non riuscisse più a orientarsi nel piccolo labirinto di quella nave che riservava sempre nuove sorprese» (Eco 2002: 339. Cfr. anche 333-334).

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sca che Belbo tiene appesa al muro della sua stanza-studio, di fronte alla consolle con il computer Abulafia, e che Casaubon descrive dettagliatamente nel capitolo 4. Il lettore che invece vuole farsi un’idea di come fossero stampati i volumi ermetici e sapienziali del Seicento, può provare a cercare uno dei più importanti di tutti, quell’Amphitheatrum sapientia aeternae di Heinrich Khunrath, più volte citato nel romanzo. Allora si accorgerà che è possibile scaricare liberamente in un comodo file in pdf la scannerizzazione completa di un’edizione secentesca, nonché prendere visione di alcune delle preziose tavole che illustravano la prima, rarissima edizione del volume in riproduzioni digitali ad alta risoluzione, e che nel suo file “Lo strano gabinetto del Dottor Dee” Belbo descrive, tra l’altro, abbastanza dettagliatamente e con qualche contaminazione, quella che riproduce lo studio dell’alchimista (cfr. P 326). Lo stesso Eco, del resto, ironizzava nel romanzo sulla reperibilità dei testi che andava citando, e così, nel corso del sabba tragicomico, circense e cialtronesco del capitolo 113, quando il fantasma evocato del conte di San Germano si mette a recitare in francese passi della sua (presunta) Très Sainte Trinosophie, Agliè, che crede di essere una delle reincarnazioni del Conte, urla: «l’ho ben scritta io, chiunque può leggerla per sessanta franchi!» (P 468). Ebbene, oggi il lettore non solo può ordinare in rete comodamente da casa per poco più di 14 euro la versione italiana delle Edizioni Mediterranee (1978 e successive edizioni), ma può addirittura scaricarsi la riproduzione digitale del manoscritto originale, con le sue ricche e coloratissime illustrazioni. E ovviamente può sca-

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ricare pure il Pendolo di Foucault in un comodo e utilissimo file in pdf. Lo stesso vale per il Nome della rosa.

V A proposito dei labirinti, della semiosi ermetica alla Khunrath e più in generale dell’interpretazione sospettosa e dell’eccesso di meraviglia, tutti temi comuni a Eco 1990 e al Pendolo di Foucault (ma che costituiscono una costante un po’ in tutta l’opera di Eco e si ritrovano anche, in qualche modo e variamente declinati, nel Nome della rosa), c’è un fatto curioso che vale la pena mettere in luce. A un certo punto del sabba del capitolo 113 del Pendolo, il fantasma di Khunrath, evocato dai medium in forma di civetta (la stessa che appare in una tavola khunrathiana, dove si vede una specie di gufo o civetta con occhiali e naso umano, con due candele nei rispettivi candelabri ai lati e con due fiaccole incrociate davanti: cfr. anche le ultime righe di P 467), pronuncia in sequenza le quattro seguenti stringhe verbali (P 468-469): Hallelu…Iàah… Hallelu…Iàah… Was helfen Fackeln Licht… oder Briln… so die Leut… nicht sehen… wollen… Symbolon kósmou… tâ ántra… kaì tân enkosmiôn… dunámeôn eríthento… oi theológoi

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Phy, Phy Diabolo

Ora, non è difficile scoprire che si tratta di formule tratte dall’Amphitheatrum (della cui prima edizione del 1595 Agliè possiede una copia: cfr. P 226-227). La prima e la quarta ricorrono insieme più di una volta, per esempio nel paratesto introduttivo e nella parte bassa della ciambella di testo che circonda la famosa tavola della stanza dell’alchimista; mentre la seconda, in tedesco (A cosa servono le fiaccole, la luce o gli occhiali, quando la gente non vuol vedere?), compare in un cartiglio ai piedi della civetta o gufo della tavola summenzionata. Ma è la terza che rivela delle sorprese molto interessanti. In un’opera alchemica in cui trionfano, tra l’altro, le “caverne cabalistiche” (come si dice in P 158), e in cui una tavola importante è dedicata proprio alla caverna, il cui accesso con scalinata è circondato da formule latine, ebraiche e greche, non è sorprendente trovare un passo in greco in cui si dice che i teologi consideravano gli antri simboli del cosmo e delle potenze cosmiche. E il lettore di primo livello del Pendolo potrebbe fermarsi qui. Tuttavia, è tutt’altro che futile chiedersi come mai Eco abbia scelto proprio quel passo, visto che si tratta di una citazione tratta da uno scritto minore di Porfirio, il discepolo di Plotino attivo tra la seconda metà del III e i primi anni del IV secolo cui si devono, tra l’altro, la pubblicazione delle Enneadi del maestro e la prima formulazione, nella sua breve introduzione alle Categorie di Aristotele nota come Isagoge, di quel problema filosofico che ha scatenato nel Me-

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dioevo la celebre “disputa sugli universali”, peraltro ancora aperta nel dibattito filosofico64. Il passo declamato dal fantasma di Khunrath è tratto dal breve scritto di Porfirio noto col titolo latino De antro Nympharum, la cui prima edizione a stampa è del 1518. Le cose interessanti, a questo punto, sono due: a) il contenuto di tale scritto e b) il fatto che Eco non lo citi mai esplicitamente da nessun’altra parte (se non mi sbaglio). Cominciamo da questo secondo punto. Come abbiamo visto, Eco ha frequentato a lungo Porfirio, e in particolare l’Isagoge, citato molte altre volte al di fuori dell’Antiporfirio. Inoltre, in Eco 1993: 165 e in Eco 2007b: 162, 164, 167-9 e 172 troviamo riferimenti a un’altra opera di Porfirio, il De abstinentia, 64

Non sarebbe esagerato considerare Eco 1997 come un’opera appartenente al filone della disputa sugli universali, per non parlare del Nome della rosa, in cui tutte le discussioni linguistico-semiotiche di Guglielmo basate su un approccio nominalistico riassumono un semplice capitolo di tale disputa, quello aperto dal flatus vocis di Roscellino e culminato, attraverso approfondimenti, precisazioni e correzioni, nell’occamismo. In Kant e l’ornitorinco, infatti, Aristotele, i medievali, Kant, Peirce, i linguisti, i filosofi analitici, ecc., sono ampiamente discussi alla luce della semiotica, della teoria dei “tipi cognitivi” e delle nozioni semantiche di dizionario ed enciclopedia. Porfirio aveva scritto il passo che avrebbe tormentato tutta la filosofia successiva nella dedica iniziale dell’Isagoge, rivolta a un certo Crisaorio, un patrizio e senatore romano, peraltro per dire che avrebbe evitato il problema: «Ti avverto subito che non affronterò il problema dei generi e delle specie: cioè se siano di per sé sussistenti o se siano semplici concetti mentali; e, nel caso che siano sussistenti, se siano corporei o incorporei; e, infine, se siano separati o se si trovino nelle cose sensibili, ad esse inerenti; questo è infatti un tema molto complesso, che ha bisogno di un altro tipo di indagine, molto più approfondita» (Porfirio 1995: 57). La sfida, anche se involontariamente, era lanciata.

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dove tra l’altro si difendono tesi vegetariane sulla base di argomenti a sostegno dell’intelligenza e della sensibilità animale. D’altra parte, in Eco 1985: 218 e in Eco 2007b: 124 (nota 9), Eco menziona tra gli altri anche Porfirio allorché, basandosi su studiosi come Auerbach e Pépin (a sua volta autore di un saggio del 1966 proprio su Porfirio esegeta di Omero), osserva che, così come i medievali, anche gli autori classici consideravano “simbolo” e “allegoria” come sinonimi. E sembra che qui si possa scorgere un’allusione a L’antro delle Ninfe, ancorché molto indiretta, perché in questo testo (cfr. ad es. §§ 3, 4 e 7) si dice indifferentemente che nei versi presi in esame Omero cela un’allegoria e che l’antro è un simbolo del cosmo. Ma è significativo il fatto che in tali contesti Eco citi di Pépin non il saggio sull’Antro delle Ninfe (Porphyre Exégète d’Homère) ma quelli sull’allegorismo (Mythe et allégorie, 1958 e Dante et la tradition de l’allégorie, 1970). Ora la domanda è: all’epoca in cui ha scritto il Pendolo, Eco aveva presente il contenuto dell’opera di Porfirio da cui è tratto il passo messo in bocca al fantasma di Khunrath e prelevato dall’Amphitheatrum? Il problema non è di poco conto, perché, come vedremo, L’antro delle Ninfe riserva molte sorprese in relazione alle tematiche che stanno a cuore ad Eco. Già sulla base di quanto illustrato sopra, si potrebbe congetturare ragionevolmente una risposta negativa alla domanda. Ma il 25 gennaio 2010 ho avuto una conferma dallo stesso Eco, al quale ho potuto sottoporre la questione di persona a Venezia, al termine della sua presentazione di Vertigine della lista a Palazzo Grassi. Con la

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sua consueta disponibilità, Eco ha chiarito il mio dubbio dicendomi che all’epoca citava direttamente da Khunrath, senza avere presente L’antro delle Ninfe. Per ironia della storia, poi, la prima traduzione italiana di questo testo di Porfirio è uscita presso Adelphi nel 1986, cioè proprio mentre Eco lavorava al romanzo.65 Ma di cosa parla L’antro delle Ninfe? Il breve scritto del filosofo neoplatonico si inserisce in una tradizione esegetica che leggeva Omero in chiave ermetica (in senso lato, cioè non strettamente limitato ai contenuti del Corpus Hermeticum), considerandolo portatore di una sapienza antica e perenne che lo accomuna per esempio a Platone, agli Orfici, ai Pitagorici, a Eraclito, agli Egizi, ai Caldei e persino a Mosè, per cui nei suoi versi si nasconderebbe una Dottrina unitaria che questo accostamento sincretistico permette di mettere in luce. La fortuna di Porfirio è che tutte le sue fonti (cioè i lavori analoghi di filosofi precedenti di area soprattutto mediopitagorica e medioplatonica che lui cita come punti di riferimento) sono andate perdute, sicché per noi il De antro Nympharum diventa un documento eccezionale anche per la ricostruzione della storia della tradizione ermetica e dell’ermeneutica neoplatonica. L’antro delle Ninfe prende le mosse dai versi 102-112 del tredicesimo libro dell’Odissea, che si trovano nel contesto in cui 65

L’edizione ha il testo greco a fronte ed è fornita, tra l’altro, anche di un ampio commento (per un testo di una ventina di pagine è venuto fuori un volume di 285 pagine) ad opera di Laura Simonini, che purtroppo è scomparsa prematuramente prima che il suo pregevolissimo lavoro venisse alla luce.

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si racconta che Ulisse, raggiunta finalmente la sua Itaca, nasconde in un antro i ricchi doni che gli avevano fatto i Feaci al momento della sua partenza dalla loro isola. Porfirio dichiara subito che l’antro, per come è descritto in tali versi, è un enigma: In capo al porto vi è un olivo dalle ampie foglie: vicino è un antro amabile, oscuro, sacro alle Ninfe chiamate Naiadi; in esso sono crateri e anfore di pietra; lì le api ripongono il miele. E vi sono alti telai di pietra, dove le Ninfe tessono manti purpurei, meraviglia a vedersi; qui scorrono acque perenni; due porte vi sono, una, volta a Borea, è la discesa per gli uomini, l’altra, invece, che si volge a Noto, è per gli dèi e non la varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali66.

Cosa c’è di particolarmente misterioso in questi versi? Ebbene, Porfirio intanto nota che, come riferiscono i geografi, a Itaca non c’è niente del genere (altrimenti si dovrebbe cercare di spiegare l’intenzione segreta dei costruttori). Dunque, trattandosi di un’invenzione poetica, bisogna stare attenti a non considerarla una fantasia libera e accidentale, perché è evidente a sapienti e profani (cfr. § 3) che il poeta ha qui voluto esprimere per enigmi e allegorie delle profondissime e antichissime cognizioni cosmologiche, metafisiche ed escatologiche. Bisogna dunque esercitare il sospetto e la meraviglia e tenere presente che per gli an66

Si cita la traduzione proposta in Porfirio 1986: 37.

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tichi teologi gli antri rappresentavano il cosmo che si forma dalla materia (cfr. § 5), che la loro oscurità era simbolo delle potenze invisibili allo sguardo dei sensi (cfr. § 7) e che quindi negli antri veniva posto «il simbolo del cosmo e delle potenze cosmiche» (§ 9).67 Sulla base di tali assunti, Porfirio si lancia nei 36 brevi paragrafi dello scritto in una lettura funambolica che mette insieme tutto e il contrario di tutto (il miele è simbolo di purificazione, di conservazione e di piacere sessuale, quindi di vita, ma anche di morte: cfr. §§ 15-18). Per cui può capitare che in uno stesso giro di frasi del § 1068 , un po’ come accade anche nel confusissimo Mancuso 2007 (che su questo ha senza saperlo un lontano precursore in Porfirio), per esprimere l’idea di un nesso tra l’anima e l’acqua, vengano messi insieme per “somiglianza” (come direbbe Eco) il passo biblico sullo spirito divino che aleggiava sulle acque (Genesi, 1, 2), la dottrina egizia secondo cui tutte le divinità stanno su una barca e il frammento 77 di Eraclito (tramandatoci proprio grazie a questo luogo di Porfirio), in cui è espressa l’idea che per le anime diventare umide vuol dire provare un piacere grossolano, se non addirittura morire.

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Porfirio 1986: p. 49 (è questo il luogo esatto citato da Eco nel Pendolo). Cfr. anche il § 21: «Ne consegue pertanto che si deve cercare l’intenzione di coloro che consacrarono l’antro, se è vero che il poeta riferisce un dato reale, o, se la narrazione è una sua finzione poetica, quale ne sia il misterioso significato» (Porfirio 1986: 65). 68 Cfr. Porfirio 1986: 51.

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In particolare, il passo omerico, che per Porfirio nasconde il dramma della caduta dell’anima nel mondo e del suo ritorno nella dimensione del divino, è decodificato nel modo seguente (ma si tenga presente che si tratta di una decodifica mobile, non rigida): l’antro è simbolo del cosmo; le ninfe e le api sono le anime; i mantelli tessuti dalle Ninfe rappresentano il rivestimento corporeo, mentre le due porte si riferiscono ai due percorsi cosmici dell’anima, quello della discesa nel mondo materiale e quello della risalita in quello spirituale. Rappresentante emblematico di questo dramma metafisico dell’anima è poi Ulisse, di cui il poema nella sua interezza illustra le tappe della discesa nella generazione e della risalita verso il mondo di chi ignora il mare, il cui moto fluttuante era già per il Platone del Timeo segno di materialità (cfr. § 34). A questo punto, in relazione alla figura di Ulisse e al suo viaggio, Laura Simonini fa un riferimento per noi interessante al significato ermetico e iniziatico del labirinto: «Il lungo viaggio di Odisseo evoca, e in qualche modo qui sostituisce, il percorso del labirinto, spesso associato al simbolo della caverna, che ha una duplice finalità: permettere l’accesso al “centro” grazie a un viaggio iniziatico, e proibire o difendere l’entrata ai non iniziati. Esso implica una serie di prove, preliminari al raggiungimento del centro, nasconde sempre qualcosa di celato e sacro, consacra chi lo ha superato. In una prospettiva ascetico-mistica, percorrere il labirinto significa concentrarsi su se stessi, attraverso le mille vie delle sensazioni, delle passioni, delle idee, superando ogni ostacolo alla pura intuizione per ritornare alla luce. Il percorso labirintico è anche

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quello all’interno di sé, verso una sorta di santuario interiore, in cui risiede la parte più misteriosa dell’individualità»69 . Da tutto ciò risulta chiaro perché il testo di Porfirio si illumini di un particolare significato alla luce soprattutto del Pendolo e del secondo capitolo di Eco 1990 (“Aspetti della semiosi ermetica”), dove Eco, dopo un accenno all’origine della tradizione ermetica e gnostica, passa direttamente alla riscoperta del Corpus Hermeticum in età rinascimentale e agli sviluppi del sapere gnostico, ermetico ed alchemico in piena rivoluzione scientifica e fino all’età contemporanea. È difficile credere che Eco avrebbe perso l’occasione di fare un riferimento esplicito a questo testo nella seconda metà degli anni 80, quando lavorava al romanzo sul delirio dell’interpretazione e ai problemi filosofici della semiosi ermetica. Porfirio, infatti, sembra rispettare abbastanza fedelmente le caratteristiche della “mistica dell’interpretazione illimitata”, elencate in nove punti (cfr. Eco 1990: 5253) che «disegnano il quadro di una sindrome patologica dell’allusione e del sospetto, e implicano una metafisica, tanto influente quanto sotterranea, della somiglianza»: l’interprete può piegare il testo a infinite connessioni, mostrare la coincidenza degli opposti, celebrare l’inadeguatezza del pensiero davanti al mistero, sviscerare la polivocità dei significati del testo, distinguendosi così dai lettori dozzinali, i quali comunque possono diventare eletti se capiscono che possono far dire al testo quello che vogliono, sospettando enigmi dietro la lettera, la quale è un vuoto 69

In Porfirio 1986: 245-246.

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di senso da riempire, a dispetto di chi, come lo studioso di semiotica, crede che il linguaggio serva per comunicare un pensiero univoco. Ed ecco allora che, leggendo il passo omerico come se fosse la pergamena di Provins, Porfirio potrebbe benissimo figurare tra i personaggi del Pendolo. Un curioso aneddoto biografico riferito da lui stesso nel § 15 della sua Vita di Plotino ci fornisce l’assist perfetto: «Io avevo letto, nella festa di Platone, un poema, Il matrimonio sacro, e siccome avevo detto molte cose da ispirato nel loro senso mistico e segreto, qualcuno osservò: “Porfirio è matto”»70. Ebbene, questo fa pensare al «Monsieur, vous êtes fou» (P 485) che lo psicanalista lacaniano Wagner dice a Casaubon quando questi, verso la fine del romanzo, va a raccontargli la folle storia del Piano da lui inventato per scherzo insieme a Belbo e Diotallevi, fino al naufragio delle loro menti nella loro stessa menzogna: «Quando ci scambiavamo le risultanze del nostro fantasticare ci sembrava, e giustamente, di procedere per associazioni indebite, cortocircuiti straordinari, a cui ci saremmo vergognati di prestar fede – se ce lo avessero imputato. È che ci confortava l’intesa – ormai tacita, come impone l’etichetta dell’ironia – che stavamo parodiando la logica degli altri. Ma nelle lunghe pause in cui ciascuno accumulava prove per le riunioni collettive, e con la tranquilla coscienza di accumulare pezzi per una parodia di mosaico, il nostro cervello si abituava a collegare, collegare, collegare ogni cosa a qualsiasi 70

In Plotino 1992: 25.

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altra cosa, e per farlo automaticamente doveva assumere delle abitudini. Credo non ci sia più differenza, a un certo punto, tra abituarsi a fingere di credere e abituarsi a credere» (P 367). Ed è particolarmente significativo che Lia, nel decostruire dal punto di vista della sua saggezza tutta pratica, corporale e femminile queste suppurazioni culturali paranoiche, così tipiche della fantasia maschile, torni proprio agli antri e ad Omero, come se ce l’avesse anche con Porfirio: «Pim, non ci sono gli archetipi, c’è il corpo. Dentro la pancia è bello, perché ci cresce il bambino, si infila il tuo uccellino tutto allegro e scende il cibo buono saporito, e per questo sono belli e importanti la caverna, l’anfratto, il cunicolo, il sotterraneo, e persino il labirinto che è fatto come le nostre buone e sante trippe, e quando qualcuno deve inventare qualcosa di importante lo fa venire di lì, perché sei venuto di lì anche tu il giorno che sei nato, e la fertilità è sempre in un buco, dove qualcosa prima marcisce e poi ecco là, un cinesino, un dattero, un baobab» (P 287). Finché, quando smaschera il Piano dando un’altra interpretazione della pergamena di Provins, sentenzia: «In Omero non c’è nessun segreto» (P 425).

VI Si diceva del filtraggio tramite Pinocchio, dove la metamorfosi in asino del protagonista è legata al suo rifiuto della scuola e dell’istruzione. Ebbene, la prima sensazione di smarri-

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mento che prova il lettore che entra nel labirinto del Nome della rosa (ma il discorso vale anche per gli altri cinque romanzi) è legata proprio al suo disagio culturale, perché è come se gli crollasse addosso l’intera Enciclopedia. L’autore, cioè, si diverte a umiliare il lettore facendolo sentire un asino che si aggira per i corridoi della biblioteca di Babele e, come visto, gli richiede uno sforzo notevole, una sorta di addestramento che lo avvicini al modello di lettore cui il testo alla fine donerà l’accesso ai segreti di un’intuizione filosofica sul nonsenso del mondo e sui limiti autoreferenziali del linguaggio, cui si è fatto cenno nel primo capitolo. Ritorniamo ancora una volta all’importante passo di R 495 e confrontiamolo con il contesto, nel Tractatus logico-philosophicus, della citazione criptica di Wittgenstein che vi ricorre. Di chi sta parlando Wittgenstein quando dice che “egli” (Er) deve gettare via la scala dopo essere salito su di essa e oltre essa? Wittgenstein sta parlando nientemeno che del Lettore Modello (come lo chiamerebbe Eco71 ), ovvero di quel lettore che lo comprende, che comprende cioè lui in quanto Autore Modello del Tractatus, e quindi del lettore che comprende davvero il Tractatus. Ma qual è il vero senso dell’opera che il lettore è chiamato ad afferrare? Il vero senso dell’opera è che essa è co71

E si noti che lo stesso Eco ha discusso un altro celebre passo di Wittgenstein (il § 66 della prima parte delle Ricerche filosofiche, quello sui vari giochi e sulle loro somiglianze di famiglia) alla luce delle sue nozioni teoriche di Lettore e Autore Modello intesi come mere strategie testuali: cfr. Eco 1979: 61 e Eco 1994: 30-31.

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stituita da proposizioni insensate72 , e questo Wittgenstein lo rivela nella penultima delle 526 proposizioni di cui l’opera è composta e che sono numerate secondo un ordine gerarchico attorno alle sette principali. Eccola per intero: «Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo esser asceso su essa.) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo»73 . Come si vede, anche il Tractatus prevede un percorso iniziatico per il lettore, il quale alla fine, cioè dopo l’ardua impresa dell’attraversamento di 526 labirintiche proposizioni spesso oscure, oracolari e dense di sapienza logicomatematica, avrà il privilegio di conquistare una retta visione del mondo. La retta visione del mondo che si illumina davanti agli occhi del lettore è costituita prevalentemente da questi principi fondamentali: 1) il mondo è costituito da fatti isolati che hanno una forma logica, la quale si rispecchia in quella delle proposizioni del linguaggio che descrivono tali fatti; 2) solo tali proposizioni hanno senso, e se il fatto possibile che descrivono sussiste, esse sono vere, altrimenti sono false; 3) la totalità delle possibili proposizioni vere coincide con la totalità delle scienze 72

Cioè unsinnig, ovvero senza un senso (Sinn) perché a certi segni di esse non è stato dato alcun significato (Bedeutung). Questa è la situazione tipica, per Wittgenstein, degli enunciati metafisici, che non va confusa con quella delle tautologie e delle contraddizioni, che invece sono sinnlos, cioè senza senso empirico. Cfr. ad es. le propp. 4.461, 4.4611, 5.473, 5.4733 e 6.53. 73 Wittgenstein 1922: prop. 6.54.

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naturali; 4) la meccanica, per esempio, è un tentativo (arbitrario) di costruire tutte le proposizioni vere che descrivono il mondo a partire dai suoi assiomi propri, e tale costruzione è una sorta di rete che serve per catturare l’ordine del mondo (ma ci potrebbero essere altre reti, cui corrispondono altri sistemi differenti di descrizione del mondo; 5) possono essere rettamente pronunciate solo proposizioni scientifiche, e ogni volta che qualcuno dice altro (per esempio cose riguardanti la religione, l’etica e la metafisica) basta mostrargli che i segni che egli usa non hanno alcun significato (questo è anche l’unico metodo corretto della filosofia). Di conseguenza, anche le proposizioni del Tractatus sono insensate, perché non appartengono alla scienza naturale, e Wittgenstein può concludere la sua strana opera con la famosissima proposizione 7: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». Se ora rileggiamo con attenzione le parole di Guglielmo, ci accorgiamo che in esse ritorna non solo l’immagine wittgensteiniana della scala, ma anche quella della rete: «L’ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva di senso». Guglielmo (Eco?) non dubita della verità dei segni, perché essi «sono l’unica cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo», ma è consapevole che essi servono solo per costruire reti o scale, cioè teorie sempre provvisorie, ipotesi, congetture, che fungano da mappe di orientamento in un mondo che, aggiunge Guglielmo rispetto a Wittgenstein, non ha un ordine, né

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potrebbe mai averlo se ammettiamo che Dio può fare quello che vuole, anche a discapito della logica, come abbiamo visto nel primo capitolo. È un’idea, questa, che si affaccerà anche alla mente di Roberto de la Grive, mettendogli dei brividi astronomico-metafisici addosso mentre contempla l’ignoto “cielo antipode” (I 470) ed è costretto ad istituire nuove costellazioni (cfr. I 471): «Se il creatore accettava di mutar d’avviso, esisteva ancora un ordine che Egli avesse imposto all’universo? Forse ne aveva imposti molti, sin da principio, forse era disposto a cambiarli giorno per giorno, forse esisteva un ordine segreto che presiedeva a quel mutare di ordini e di prospettive, ma noi eravamo destinati a non scoprirlo mai, e a seguire piuttosto il gioco mutevole di quelle apparenze d’ordine che si riordinavano a ogni nuova esperienza» (I 472). Ecco la retta visione del mondo che Eco promette alla fine del labirintico percorso iniziatico di lettura, ed è un’immagine del mondo che, radicalizzando la posizione di Wittgenstein, torna un po’ indietro nel tempo e recupera il fallibilismo di Peirce e dei suoi principi semiotici: il linguaggio è un tessuto di segni che cresce su se stesso, in cui ogni segno da un lato sta per un Oggetto in sé destinato a rimanere inafferrabile nelle sue infinite sfaccettature e dall’altro può essere spiegato, nel suo significato che coglie solo un aspetto dell’Oggetto, da altri segni, ciascuno dei quali, interpretante del segno di partenza (detto representamen), può diventare a sua volta segno di partenza (representamen) per altre catene di interpretazioni, all’infinito (è questa, semplificando, la nozione di “semiosi illimitata”, su cui Eco

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insiste così tanto nelle opere di semiotica). Ecco perché Guglielmo, in occasione dell’episodio di Brunello, dice ad Adso: «le idee, che io usavo prima per figurarmi un cavallo che non avevo ancora visto, erano puri segni, come erano segni dell’idea di cavallo le impronte sulla neve: e si usano segni e segni di segni solo quando ci fanno difetto le cose» (R 36). Le cose, è vero, come queste rose o le pesche di Casaubon non ci fanno difetto nella semplice vita ordinaria. Con ciò Eco non varca mai i limiti di un sano realismo da senso comune (e in tal senso il primo capitolo di Eco 1997 e l’ultimo capitolo di Eco 2007b sono dei veri e propri manifesti filosofici in difesa di un’idea di “Essere” che sta lì, fuori di noi, e oppone resistenza ai nostri tentativi di piegarlo ai nostri desideri smodati, siano essi biologici o metafisici74), perché sa bene che basta solo un passo per cadere nel labirinto della simpatia e della somiglianza universale del pensiero ermetico rinascimentale, la cui influenza si fa sentire ancora «in molte concezioni post-moderne della critica» (Eco 1990: 47): «Il pensiero ermetico trasforma l’intero teatro del mondo in fenomeno linguistico, e contemporaneamente sottrae al linguaggio ogni potere comunicativo» (Eco 1990: 45). 74

Anche qui Eco non è immune da influenze popperiane: «Le teorie sono nostre invenzioni, idee nostre; esse non ci vengono imposte, sono strumenti di pensiero da noi stessi costruiti: ciò è stato visto chiaramente dagli idealisti. Ma alcune di queste teorie possono risultare in conflitto con la realtà, e quando ciò accade constatiamo che vi è una realtà, che esiste qualcosa a ricordarci che le nostre idee possono essere sbagliate. Ecco perché il realista ha ragione» (Popper 1963: 202).

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Ma siccome le cose, come le rose in sé, ci fanno difetto sempre quando siamo impegnati nella ricerca scientifica o filosofica di regolarità generali, ecco che la conoscenza umana è destinata ad imbrigliarsi in reti di modelli di spiegazioni arbitrarie e irrimediabilmente false, in segni e segni di segni che intrecciano le loro intenzioni significanti e non afferrano mai la rosa primigenia, lasciandoci con nomi nudi che tutti insieme suonano come un vano “blitiri”, come il sussurro secolare che Adso sente levarsi minaccioso e insensato dal labirinto della biblioteca: «Sino ad allora avevo pensato che ogni libro parlasse delle cose, umane o divine, che stanno fuori dai libri. Ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come se parlassero fra loro. Alla luce di questa riflessione, la biblioteca mi parve ancora più inquietante. Era dunque il luogo di un lungo e secolare sussurro, di un dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non dominabili da una mente umana…» (R 289). È questa la sapienza, nominalista e scettica, che attende di rivelarsi al lettore alla fine del romanzo, la cui ragion d’essere Eco stesso (forse) illustrava nel risvolto di copertina delle prime edizioni parafrasando ironicamente non a caso la già citata ultima proposizione del Tractatus di Wittgenstein: «di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare». E si tratta di una sapienza minimalista, di buon senso, che Eco non smetterà mai di raccomandare, soprattutto se ci si imbarca in un viaggio odissiaco intorno alle follie culturali dell’uomo, una creatura venuta su come macchinetta per secernere illusioni metafisiche di mega-

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lomania autoconsolatoria per sfuggire all’angoscia della morte. Dopo aver percorso in lungo e in largo le follie umane, dopo lo smarrimento nella biblioteca di Babele, l’unico modo per uscirne, e per prepararsi saggiamente alla morte, dirà Eco in una Bustina di Minerva del 1997, «è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni» (in Eco 2000: 343). Certo, messa così sembra una boutade, ma Eco la considera serissima, al punto da riproporla tale e quale in Eco 2006: 345. Ed è nel Pendolo che tale saggezza è espressa con più compiutezza, in particolare nelle tracce che lascia in Casaubon la sua conversazione con Lia nel memorabile capitolo 63. Verso la fine, nel primo pomeriggio del 25 giugno, Casaubon ripensa agli avvenimenti tragicomici della notte di sabba al Conservatoire e si rende conto che il Piano inventato esiste perché altri lo hanno realizzato, essendo vissuti nella speranza ridicola e patetica di appartenervi; riflette sulla teoria del complotto e sul suo reggersi su un segreto vuoto che dà potere a chi dichiara di possederlo, come era accaduto a Belbo prima della fine, quando anche Agliè lo implorava di rivelarglielo all’orecchio. Ma Belbo ha rifiutato la salvezza che avrebbe potuto ottenere mentendo, perché sembrava aver raggiunto la saggezza, ovvero la coscienza che non v’è alcun segreto e che semplicemente qualcosa ha più senso di qualcos’altro. Ma cosa? La risposta di Lia è il figlio Giulio, la vita nella sua semplice espressione naturale (cfr. P. 490-493). A tarda notte Casaubon finalmente capisce che la saggezza arriva all’ultimo momento e dice che non c’è niente da capire. Non c’è Piano, non c’è arguzia interpretativa di fronte alla saggezza del Regno di Malkut (la Ter-

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ra) e di Lia che dà la vita, se non dopo, allorché qualcuno cerca di spiegare vanamente l’inspiegabile innocenza dei dinosauri che un tempo pascolavano nel luogo in cui Casaubon si trova e delle pesche vellutate che vi crescono adesso. Ma quelli che cercano Casaubon per eliminarlo sono ciechi a questa rivelazione e non gli crederebbero, sospettando altri segreti. E allora tanto vale attenderli contemplando dalla finestra la bellezza della collina (cfr. P 507-509).

VII Sono storie diverse di naufragi quelle che racconta Eco. Naufragio della ricerca, come quello di Guglielmo da Baskerville; o della tracotanza ludico-esegetica, come quello di Casaubon, Diotallevi e Belbo; o letterale, come quello di Roberto de la Grive; o dell’autoinganno geografico, come quello di Baudolino; o della psiche, come quello di Yambo Bodoni; o dell’esistenza paranoica, come quello di Simone Simonini. Ma tutti sono accomunati dall’ansia della conoscenza e in vario modo questi personaggi, e con loro i lettori, percorrono fino in fondo il loro cammino nel labirinto della biblioteca di Babele, ovvero nel labirinto del mondo. Sfuggito all’ecpirosi della biblioteca, Guglielmo smetterà di parlare della storia in cui ha visto trionfare e naufragare la sua logica e verrà inghiottito anni dopo dalla peste della metà del XIV secolo (cfr. R 500-501). La sorte dei tre giocherelloni del

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Pendolo viene preconizzata da uno di loro, l’esperto di cabala. Quando Belbo, solo e disperato (Casaubon è irreperibile), va in ospedale a chiedere aiuto al morente Diotallevi, questi interpreta tutto in chiave cabalistica e dice a Belbo che loro sono puniti per aver peccato contro la Parola che crea e regge il mondo, varcando con la fantasia creativa ogni limite dell’interpretazione del senso e pensando che ad ogni testo si possa far dire tutto quel che si vuole. C’è corrispondenza tra le lettere del Libro, le parti del corpo e quelle del mondo: sconvolgendo le prime hanno sconvolto le seconde (e quindi le cellule del corpo di Diotallevi sono impazzite nel tumore) e le terze (e quindi il mondo si ritorce contro Belbo dandogli la caccia) (cfr. P 445-447). E così Diotallevi muore di tumore e Casaubon rievocherà la folle invenzione del Piano aspettando i sicari dopo che Belbo era finito impiccato al filo del Pendolo, finalmente senza paura e avendo riacquistato la percezione del ridicolo di tutta la vicenda. Fotografata da un fucile di Muybridge, pensava Casaubon osservando la scena, la macabra struttura ternaria oscillante costituita dalla testa di Belbo, dal suo tronco e dalla sfera del Pendolo avrebbe simulato l’albero delle sefirot, e quando il corpo di Belbo si ferma e il Pendolo comincia a oscillargli sotto, egli si trasforma nel Punto Fermo, nel Perno Fisso, riconciliandosi così con l’Assoluto (cfr. P 472-473). E al Punto Fisso, o meglio a quella che, sulla base delle sue cognizioni geografico-astronomiche, crede essere la linea fuori dal tempo del meridiano che separa l’oggi dal giorno prima, si abbandona Roberto, lasciando la sua Daphne e abbandonandosi al mare per raggiungere l’Isola

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nel giorno prima e salvare così l’amata morente del suo romanzo; oppure, pensa più realisticamente, per sospendere se stesso e quindi Lilia (è lui il Demiurgo della storia e tutto dipende dalla sua volontà) fuori dal tempo, ritardando all’infinito la morte di entrambi, finché, resi leggeri e volatili dal calore del sole, non si fossero congiunti fondendosi nel vuoto cosmico sotto forma di atomi (cfr. I 459-463): «allora entrambi avrebbero continuato il loro viaggio nel presente, dritti verso l’astro che li attendeva, pulviscolo d’atomi tra gli altri corpuscoli del cosmo, vortice tra i vortici, ormai eterni come il mondo perché ricamati di vuoto» (I 464). Baudolino e Simonini naufragano nel loro stesso castello di menzogne. Il primo, ormai vecchio e deluso dall’esperienza di saggio stilita, mosso dalla convinzione che “viaggiare ringiovanisce” (B 524), parte cocciutamente alla volta del favoloso regno del Prete Gianni (proprio lui, che con gli amici aveva redatto la falsa lettera del Prete Gianni a Federico Barbarossa: cfr. B 139-151), per dare un senso alla propria vita mantenendo la promessa fatta al “buon padre” Federico e per ritrovare la donna-capra Ipazia e la creatura avuta da lei (cfr. B 523). Il secondo, frustrato per il fatto che il grande gioco dei Protocolli, la sua creatura migliore di falsario dopo una vita da Demiurgo della Storia, fosse passato nelle mani dei russi, pensa che il modo migliore di riempire il vuoto della sua vita al tramonto («Guardo la vita degli altri per passare il tempo», C 505) sia quello di accettare la proposta di Rachkovskij di far esplodere una bomba negli scavi per la metropolitana di Parigi, un’azione dimostrativa che suoni «come una minaccia e una conferma» (C 507) delle falsità

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contenute nei Protocolli (in cui tra l’altro si legge che una parte del piano di dominio degli ebrei prevede di far saltare le grandi città minando le metropolitane). Tutto lascia pensare che Simonini non tornerà da quella missione: il diario si interrompe con un «E che diamine, non sono ancora un rammollito» (C 512) che, scritto da un bugiardo di professione, per giunta imbottito di cocaina e cognac, suona come involontariamente falso. E inoltre c’è il sospetto che Gaviali, avendo validissimi motivi per servirgli una bella vendetta su un piatto freddo, con le sue meticolose istruzioni su come preparare una bomba a orologeria sicura per l’attentatore (cfr. C 511-512) gli abbia in realtà fornito la ricetta per la bomba del perfetto attentatore suicida.75 Ma è sul peculiare naufragio di Yambo che vorrei attirare maggiormente l’attenzione, perché esso riassume meglio quello che abbiamo cercato di mostrare sin qui sulla base di una suggestione fornitaci da Adso, in quanto, essendo un libraio antiquario condannato a sforzarsi di leggere nella propria memoria (popolata di libri, compresi quelli seducenti della “cattiva letteratura”, L 443) per riconquistarne le parti perdute a causa di un

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Si noti che l’autore di Opera aperta è sempre ambiguo con precisione nel finale dei suoi romanzi. In una ipotetica caduta nella serialità, infatti, non sarebbe impossibile ritrovare un Guglielmo scampato dalla peste, un Casaubon non trovato (o mai cercato) dai sicari, un Roberto recuperato da una provvida nave di passaggio, un Baudolino che, resosi conto della inutilità del suo ultimo viaggio, se ne torni a Costantinopoli e infine ad Alessandria, uno Yambo che si risvegli improvvisamente dal coma e un Simonini che torni vivo dal suo attentato nel sottosuolo di Parigi.

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ictus, ingloba in sé l’odissea del lettore che accetta la sfida di entrare nel bosco labirintico dei romanzi di Eco. Per76 una comprensione adeguata del naufragio mentale di Yambo, è di importanza decisiva tenere presente che egli si è laureato in lettere (cfr. L 41) con una tesi sulla Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (ma l’attribuzione è controversa), pubblicata da Manuzio nel 1499 e corredata da 172 xilografie anonime. Un’opera illustrata, dunque, come il romanzo di Eco, il quale da bibliofilo tiene a precisare con orgoglio di essere tra i pochi a possedere l’incunabolo della prima edizione (cfr. Carrière e Eco 2009: 117). Ma le corrispondenze tra le due opere, come vedremo, non finiscono certamente qui. Questa chicca per bibliofili77 è una raffinata allegoria in prosa che, tra incursioni in ogni branca del sapere (botanica, mineralogia, architettura, archeologia, filologia, filosofia, scienze occulte, ecc., per non dire dell’autentica perla rappresentata, nel capitolo X, dalla prima descrizione di una partita di scacchi con ‘pezzi’ viventi, da cui deriveranno i capp. 23 e 24 del quinto libro del Gargantua e Pantagruele), allegorie, epitaffi, geroglifici e icone, il tutto rifuso in un caleidoscopio combinatorio (anche sul piano linguistico, perché la lingua è un volgare toscano imbevuto di latinismi e grecismi), racconta la storia della ricerca 76 77

Quanto segue è ripreso da Trainito 2004. Riedita da Adelphi nel 1998 in 2 tomi, di cui il primo riproduce l’edizione aldina del 1499 e il secondo contiene, oltre a vari apparati introduttivi e a due indici dei nomi, una traduzione italiana e un amplissimo e dottissimo commento ad opera di Marco Ariani e Mino Gabriele.

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onirica di un amore perduto (Polia) da parte del protagonista (Polifilo), come dice anche il titolo, che può esplicitarsi così: “Battaglia d’amore in sogno di Polifilo” (la ricerca è dantescamente coronata dal successo, perché Polifilo, contrariamente a Yambo, raggiungerà l’unione mistica con la sua “Beatrice”). E in un’atmosfera di sogno comatoso ma ormai memore (quasi

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come un “cervello in una vasca” alla Putnam: cfr. L 41478 ) si trova Yambo quando osserva, verso la fine:

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Per il celebre esperimento mentale dei cervelli nella vasca (riecheggiato per esempio nel film Matrix dei fratelli Andy e Larry Wachowski, 1999), cfr. Putnam 1981: 7-27. A beneficio del lettore curioso e volenteroso, se ne dà qui una breve sintesi. L’argomento di Putnam porta alla conclusione che noi non siamo cervelli in una vasca, ovvero che l’ipotesi che afferma il contrario è falsa. La struttura logica dell’argomento è quella nota come Consequentia mirabilis, per cui, se da una ipotesi I segue che I è falsa, allora I è falsa. Come procede Putnam? Supponiamo che l’ipotesi I = “Noi siamo cervelli in una vasca” sia vera. Questo vorrebbe dire: 1) che un mondo fuori di noi esiste, e in esso ci sono almeno lo Stimolatore, le vasche con la soluzione, il Computer, i fili e i cervelli che egli stimola; 2) per i cervelli, invece, c’è solo il mondo così come lo vediamo noi adesso (cielo, mele, gatti, automobili ecc.), e questo mondo esiste solo come immagine nei cervelli stessi. Sicché, quando un cervello immagina di dire, ad esempio, “Vedo un albero”, in realtà intende dire “Vedo un albero nell’immagine”, perché solo le sue immagini costituiscono il bersaglio ultimo del riferimento dei suoi termini osservativi. Viceversa, quando noi diciamo “Vedo un albero” intendiamo non l’immagine dell’albero che è nella nostra corteccia visiva, ma un albero vero e proprio che sta fuori di noi e che anche altri possono vedere. Questo significa che gli ipotetici cervelli in una vasca hanno una semantica totalmente diversa dalla nostra. Ma allora, nel momento in cui un cervello in una vasca dicesse “Io sono un cervello in una vasca”, le parole “io”, “cervello” e “vasca” pescherebbero il loro riferimento solo sul piano delle sue immagini mentali, nelle quali il cervello non è in una vasca. Ma attenzione! Il cervello, dal punto di vista esterno (per esempio quello dello Stimolatore), e in base all’ipotesi, è realmente in una vasca, ma questo livello di realtà è irraggiungibile dal suo linguaggio. E dunque: se “Noi siamo cervelli in una vasca” fosse un’ipotesi vera, allora l’asserzione “Noi siamo cervelli in una vasca”, pronunciata da un cervello in una vasca, sarebbe falsa (diciamo nella sua ontologia fenomenologica e nella sua semantica mentalistica). Quindi l’ipotesi è falsa per Consequentia mirabilis.

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Lila bruscamente scomparsa, ho vissuto sino alle soglie dell’università in un limbo incerto e poi – una volta che i simboli stessi di quell’infanzia, nonno e genitori, erano scomparsi definitivamente – ho rinunciato a ogni tentativo di rilettura benevola. Ho rimosso, e ho ricominciato da zero. Da un lato la fuga in un sapere confortevole e promettente (mi sono pure laureato sulla Hypnerotomachia Poliphili, non sulla storia della Resistenza), dall’altro l’incontro con Paola. (…) Avevo rimosso tutto, salvo il volto di Lila, e lo cercavo ancora tra la folla (…) in una ricerca che ora so vana (L 411-412).

È fin troppo facile, allora, dare una lettura psicoanalitica del fatto che il giovane Yambo abbia studiato la Hypnerotomachia: lavorare sul sogno di Polifilo (rivivendolo come un palinsesto, cioè come un lettore che sperimenti l’oraziano de te fabula narratur) era per lui una sorta di compensazione, perché attraverso la felice e mistica storia d’amore di Polifilo egli realizzava il suo desiderio di rivedere Lila, seppure indirettamente. Ma la vita, contrariamente a quanto sosteneva Calderón de la Barca (anch’egli citato di nascosto nel romanzo: cfr. L 414), non è un sogno, ed Eco lo sa: ecco perché Yambo non rivedrà Lila né nella realtà né nell’estrema visione onirica voluta dalla sua coscienza e dal suo amore. Ma precisiamo meglio alcuni dettagli di questo parallelismo tra le due opere, a cominciare dalla loro veste esterna di opere insieme ‘dotte’ e ‘illustrate’ che mettono a durissima prova il lettore. In apertura della Hypnerotomachia Poliphili (da ora in avanti HP), ad esempio, si trova una lettera dedicatoria in cui un certo Leonardo Crasso Veronese, il quale dice di essersi accollato le spese per la pubblicazione di questo libro parente orbatus, cioè apparentemente anonimo (ma gli studiosi hanno or-

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mai appurato che anche il Colonna partecipò alle spese editoriali), si rivolge a Guidobaldo da Montefeltro, Duca di Urbino, pregandolo di farsi eleggere “protettore” del libro, in modo che esso possa circolare in suo nome, e fungere così presso i lettori da vero e proprio marchio di garanzia. Ma è interessante (e rivelatore) il modo in cui Leonardo Crasso delinea la natura del libro, ovvero la “strategia testuale” messa in atto dall’autore, perché le stesse parole potrebbero essere applicate al romanzo di Eco: Quest’uomo sapientissimo (...) si regolò in modo che non solo chi fosse dottissimo potesse penetrare nel sacrario della sua sapienza, ma anche l’ignorante, pur non potendovi entrare, comunque non cadesse in disperazione. Ne consegue che se anche alcune cose, per loro natura, fossero difficili, sono comunque esposte e svelate in una prosa piacevole e con una certa grazia e, come un giardino disseminato di ogni genere di fiori, sono dischiuse e messe dinanzi agli occhi con immagini e simboli (HP 1998: 6).

Anche il romanzo di Eco, infatti, è un’opera chiaramente aperta a molteplici livelli di lettura, da quello popolare del normale fruitore di fumetti e di letteratura di massa a quello erudito e sapienziale del lettore attento agli infiniti rimandi alla cultura letteraria e filosofica alta disseminati nel testo. Lo stesso nome “Sibilla”, così presente nel romanzo (è sia il vero nome di Lila, l’irrimediabilmente perduto amore giovanile di Yambo, sia il nome della segretaria polacca, la sacerdotessa del suo sacrario di libri rari), rimanda in maniera criptica ad HP attraverso la Sibilla di Virgilio. Vediamo come.

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Innanzi tutto, il collegamento con la Sibilla Cumana è suggerito dallo stesso Eco, allorché in limine visionis fa recitare a Yambo i versi 64-66 dell’ultimo canto del Paradiso: «Così la neve al sol si dissigilla,/ e così al vento ne le foglie levi/ riaffiora la sentenza di Sibilla» (L 417). Ma già qui occorre stare attenti, perché Yambo commette un classico lapsus freudiano: dominato dal suo desiderio di veder apparire tra i fantasmi culturali del passato il volto della sua Lila-Sibilla, dice “riaffiora la sentenza di Sibilla”, e non “si perdea la sentenza di Sibilla”, come invece aveva detto Dante, seguendo Virgilio (cfr. Eneide, III, 441-451). In questo lapsus è racchiuso, con ironia tragica, tutto il dramma di Yambo, perché dallo sciame turbinoso di foglie-icone-volti del passato che vorticano nella sua mente visionaria affiora non il volto di Lila (ormai perduto per sempre, com’è sibillinamente annunciato nel verso di Dante storpiato, in quanto non accettato, dal suo inconscio), ma quello della Morte, sotto l’aspetto di un sole nero. Per arrivare da qui ad HP occorre imboccare un passo del De divinatione di Cicerone sui Libri sibillini (II, 111-112) certamente presente al Colonna79 . Rifacendosi alla tecnica dell’acrostico dei Libri sibillini, e ispirandosi all’acrostico contenuto in Boccaccio, Amorosa visione, 13, 61-16, 37 («Cara Fiamma, per cui ’l core ò caldo, / que’ che vi manda questa Visione / Giovanni è di Boccaccio da Certaldo»), il Colonna fa iniziare i 38 79

Cfr. la nota 4 alla pag. 11 di HP del Commento di Ariani e Gabriele nel secondo tomo di HP 1998: 503.

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capitoli di HP con lettere che, messe in sequenza, formano una frase che conterrebbe il nome dell’autore del misterioso libro: Poliam frater Franciscus Columna peramavit. E non basta. Mentre questo acrostico fu decrittato già nei primi anni del Cinquecento, e quindi costituisce un punto fermo nell’esegesi di HP, soprattutto in relazione al problema dell’attribuzione della paternità dell’opera, ci sono voluti cinquecento anni perché venisse scoperto un incredibile anagramma celato nell’ultimo ‘paratesto’ che precede l’incipit di HP. Questa scoperta è dovuta proprio ad Ariani e Gabriele, i quali la annunciano con comprensibile orgoglio nella nota 3 del loro Commento alla pagina 8 di HP80. Nell’epigramma di un certo Andrea Marone Bresciano, in cui il poeta si rivolge alla Musa per sapere il nome dell’autore di HP, a un certo punto si legge (vv. 4-5): «Sed rogo quis vero est nomine Poliphilus?», e la Musa risponde: «Nolumus agnosci». Ora, questa risposta è un capolavoro di spirito sibillino, perché essa rivela oscuramente il nome dell’autore nel momento stesso in cui afferma di non volerlo rivelare: un anagramma di «Nolumus agnosci», infatti, è proprio “Columna Gnosius”, ovvero “Colonna di Cnosso”! Ma cosa c’entra Cnosso? Ecco la risposta di Ariani (la nota in questione è firmata da lui): «l’unica possibile spiegazione è quella di una chiave ermeneutica della religio Veneris che (…) è il cardine stesso del funzionamento allegorico del romanzo (…). La connessione tra Venere e Cnosso è rarissima nei testi classici e tanto più acquista, appunto per la sua ec80

Cfr. HP 1998: tomo II, 495-496.

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cezionalità, valore di emblema allusivo: sono infatti solo Diodoro 5, 77 ed Esichio (…) a tramandare che il più antico luogo di culto di Afrodite era nella città cretese». E come se non bastasse, in una lettera di un certo Matteo Visconti, prima stampata e poi espunta dal paratesto “ufficiale” di HP (ma sopravvissuta in un solo esemplare, quello ora conservato nella Staatsbibliothek di Berlino), si affermava che il Colonna era stato «in sinu Veneris educatum». Tutto questo modo sibillino di introdurre il lettore all’iniziazione di Polifilo e Polia al culto di Venere, che poi è la fabula misteriosofica di HP, è indubbiamente evocato, seppure in maniera ironica e quasi parodistica, nel romanzo di Eco, che fondamentalmente è la storia quasi-onirica della ricerca (fallita), tra indizi evocativi e sibillini, di un amore perduto: Sibilla, appunto. Nel tentativo di scoprire una relazione triangolare più sotterranea tra Polia (la donna amata da Polifilo), Paola e Lila (rispettivamente la moglie e la “Beatrice” di Yambo: cfr. L 285), evocando il demone combinatorio che possiede senza dubbio sia il Colonna che Eco, ho anagrammato “Lila + Paola” e ho trovato che una delle permutazioni è “Alla Polia”, che sembra proprio un omaggio occulto alla “Beatrice” di HP. Ed è forse meno superfluo sottolineare che, così come la Loana del fumetto è in grado di risuscitare i morti con la sua “misteriosa fiamma”, ragion per cui alla fine del romanzo Yambo la invoca per ottenere di poter almeno trarre dall’oblio ed evocare nel ricordo il volto di Lila, allo stesso modo Polia, nel capitolo XXIX, è in grado di

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ridare la vita al morto Polifilo coprendolo di lacrime e abbracciandolo: «piangendo, et illachrymando, et amplexabunda, ello suscita» (p. 417 dell’edizione aldina del 1499). Ma è chiaro che qui bisogna andar cauti, altrimenti si cade in quell’ossessione “ermetica” di cui si parla nel § 3.1.3 di Eco 1990, allorché, confondendo l’uso allegro di un testo con la sua interpretazione seria, si va alla ricerca di improbabili messaggi nascosti, come aveva fatto quel suo studente che si era messo ad esaminare tutte le poesie di Leopardi cercandovi acrostici disseminati della parola “malinconia”81 . Seguendo ancora il commento di Ariani e Gabriele ad HP (in particolare la nota 13 alla p. 12, la nota 14 alla p. 19 e la nota 9 alla p. 396), è possibile ravvisare inoltre una notevole simmetria strutturale tra le due opere. HP ha una partizione esterna in due libri: il primo copre i capp. I-XXIV (pp. 11-379) e il secondo i capp. XXV-XXXVIII (pp. 381-465). Ma sul piano interno, ovvero strettamente simbolico-narrativo, la vera suddivisione è in tre parti, nelle quali il Colonna segue fedelmente l’onirologia classica, e in particolare i Commentarii in Somnium Scipionis di Macrobio e varie altre suggestioni mistico-oniromantiche di matrice neoplatonica (ma in una scansione onirica ascensiva senza precedenti, in cui un lungo sogno è incastonato in un altro sogno): 81

Ed è curioso osservare che in questo contesto Eco inserì una parentesi sull’acrostico formato dai capitoli di HP, parentesi che è assente dalla Tanner Lecture del 1990 di cui il paragrafo citato è una rielaborazione: cfr. Eco 1990: 113 ed Eco 1995: 86-87.

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1) Parte prima, pp. 11-19: Polifilo racconta in prima persona che, giacendo “sopra el lectulo” della sua “conscia camera familiare” (p. 12), dopo una notte insonne a causa di tormenti amorosi, alle prime luci del giorno si addormenta di un sonno leggero e agitato e sogna di trovarsi prima in un’ampia pianura («Ad me parve de essere in una spatiosa planitie», pp. 12-13) e poi in una dantesca e paurosa ‘selva oscura’ («Et cusì dirrimpecto da una folta silva ridrizai el mio ignorato viagio», p. 13). 2) Parte seconda, pp. 20-379: uscito dalla “spaventevole silva” (p. 20), Polifilo trova riparo e ristoro «sotto de una ruvida & veterrima quercia» (p. 19), e, giacendo sul fianco sinistro, si addormenta profondamente e nel sogno sogna di trovarsi in una valle amena, nella quale, attraverso visioni mirabolanti (una piramide sovrastata da un obelisco, un cavallo, un colosso disteso, un elefante, una magnifica porta, un drago, il regno di Euterillide, ninfe, fontane, danze che animano partite a scacchi, templi, ecc.), dà il via al suo vero e proprio itinerarium mentis, fino all’unio mystica con Polia. 3) Parte terza, da pag. 381 alla fine (= secondo libro): Polia e Polifilo, alternandosi, narrano, in maniera genealogicovisionaria, la storia del loro innamoramento tra morti e resurrezioni. Come nota Gabriele, «il secondo libro (…) se da un punto di vista compositivo è letteralmente ancora compreso nel somnium, contiene di fatto l’acme psico-

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mistico da cui emerge il terzo livello onirico-visionario del romanzo, il più alto e misterico, cioè la catalessi o visio in stato di morte apparente, di formulazione neoplatonica» (HP 1998: tomo II, 519). Parallelamente, ma a rovescio, il romanzo di Eco ha una scansione esterna costituita da tre parti (capp. 1-4: “L’incidente”; capp. 5-14: “Una memoria di carta”; capp. 15-18: “Oi nóstoi”), e una scansione interna costituita da due: la parte in cui Yambo è smemorato ma in salute fisica (che copre le prime due parti ‘esterne’) e quella in cui è memore ma in coma (che coincide con la terza parte). Da notare, inoltre, che alla sequenza sogno-sogno nel sogno di HP corrisponde nel romanzo la sequenza primo colpo (che provoca l’amnesia, con il conseguente tentativo di uscirne) – secondo colpo (che provoca il coma, il recupero della memoria e la visio finale). Inutile dire che tanto per Polifilo quanto per Yambo lo schema triadico dell’itinerarium mentis è giocato chiaramente sulla falsariga dantesca, e questo fatto ci permette di approfondire le analogie. 1) L’iniziale risveglio di Yambo dal primo colpo, con tutti quei richiami alla nebbia, non fa che alludere anche alla “selva oscura” dantesca, oltre che alla “folta silva” sognata da Polifilo: e se nel Colonna l’allusione dantesca è onirica, in Eco è ironica (ed è qui il caso di ricordare che “onirica” e “ironica” sono uno anagramma dell’altro…). Senza contare che Yambo crea ironicamente l’aggancio

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con la dimensione onirica di HP sin dall’inizio: «Mi ero come risvegliato da un lungo sonno, e però ero ancora sospeso in un grigio lattiginoso. Oppure, non ero sveglio, ma stavo sognando» (L 7). 2) Alle meravigliose visioni che si presentano a Polifilo non appena entra nel sogno del sogno corrisponde nel romanzo lo sciame iconico ed ecoico delle scoperte di Yambo nella ‘magica’ soffitta e negli altri ambienti della casa di Solara: così come per Polifilo la piramide, l’elefante, la porta, le iscrizioni lapidarie, le fontane, i templi ecc. sono una summa della sapienza classica, per Yambo i libri, le illustrazioni, i dischi ecc. della casa di Solara sono una summa della cultura di massa di un’epoca (la prima metà del Novecento). 3) La carnascialesca visio finale di Yambo sulla scala di Wanda Osiris e dell’Aleph di Borges, in cui, rovesciando Dante, è «legato con amore in un volume» non «ciò che per l’universo si squaderna» (cfr. Paradiso, XXXIII, 8687), ma ciò che popola la sua memoria culturale e ha nutrito la sua educazione sentimentale, corrisponde, benché con esito opposto (la mente in delirio di Yambo non riesce a trovare l’immagine del volto di Lila), alla visio oniromantica dell’amorosa unio mystica di Polifilo con Polia. E, ulteriore ripresa rovesciata, al finale passaggio di Polifilo dal sogno al risveglio, corrisponde il finale passaggio di Yambo dal coma sognante alla morte (emblematica la contrapposizione tra il sole invidioso di Polifilo

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che coi suoi “illuminosi splendori” [p. 465] viene a scacciare la notte e il bel sogno, e l’avido sole nero che appare a Yambo al termine della visio). Va ricordato, da ultimo, che quando riacquista la memoria e cerca di capire lo stato in cui si trova (coma? sogno? cervello in una vasca? ecc.), Yambo riprende il tema del sogno nel sogno (proprio di HP, appunto), ma solo per usarlo filosoficamente come argomento contro la possibilità di essere in un sogno, in un passo che ironicamente, dall’interno di un’opera letteraria, rivendica uno statuto di realtà in opposizione alle controfattuali fantasie letterarie: «Forse sono, sì, in coma, ma nel coma non ricordo, sogno. So di certi sogni in cui si ha l’impressione di ricordare, e si crede che quel che si ricorda sia vero, poi ci si sveglia e si deve concludere, a malincuore, che quei ricordi non erano nostri. Sogniamo falsi ricordi. (…) Però mi è mai accaduto, in un sogno, di sognare un altro sogno, come starei facendo ora? Ecco la prova che non sogno. E poi, nei sogni i ricordi sono sfocati, imprecisi, mentre io ricordo ora pagina per pagina, immagine per immagine, tutto quello che ho sfogliato a Solara negli ultimi due mesi. Ricordo cose realmente accadute» (L 413). Finché, giunto ormai in limine visionis, Yambo si chiede se sia possibile sognare di dormire, riagganciandosi così ancora una volta, seppure in maniera scettica, alla situazione di Polifilo (cfr. HP, pp. 19-20): «ho certamente veduto, ma la prima parte della mia visione è stata così accecante che è come se dopo fossi ripiombato in un sonno nebbioso. Non so se in un sogno si possa

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sognare di dormire, ma è certo che, se sogno, sogno anche di essermi ora risvegliato e di ricordare quello che ho veduto» (L 417). Il naufragio visionario che porterà l’immobile Yambo Bodoni davanti al sole nero della morte è iniziato, e con esso è iniziata anche l’odissea nella biblioteca di Babele per il lettore della mirabolante visio finale del libraio antiquario, la stessa che attende ogni lettore delle visioni narrative del bibliofilo Umberto Eco.

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CONCLUSIONE

CHECK-UP PER UN COMPLEANNO

Mosso da un’idea seminale, quella di avvelenare un monaco mentre legge un libro in una biblioteca, come egli stesso ha raccontato già nelle Postille82, Eco cominciò a scrivere il Nome della rosa nel marzo del 1978. La premessa al romanzo porta in calce la data del 5 gennaio 1980, che è il giorno del suo quarantottesimo compleanno. Vista la fortuna planetaria che arrise alla sua prima opera narrativa, Eco sviluppò una sorta di rito superstizioso che lo portava a imporsi di terminare la stesura definitiva di quasi tutti i suoi romanzi successivi il giorno del suo compleanno (si veda Eco 2002: 353). Il nome della rosa, dunque, nel 2010 ha compiuto trent’anni e vale la pena fargli un piccolo check-up per appurare il suo stato di salute dal punto di vista di quello che ha ancora da dirci sugli anni che stiamo vivendo. Per fare ciò, si può partire dalla definizione di “effetto poetico” che Eco stesso fornisce nelle Postille: esso è «la capa82

Cfr. R 510-511, ma si veda anche Eco 2002: 330-331.

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cità, che un testo esibisce, di generare letture sempre diverse, senza consumarsi mai del tutto» (in R 510). Ebbene, se ci basiamo su questo criterio, non c’è dubbio che l’effetto poetico del romanzo sia fortissimo, ovvero che il suo stato di salute sia ancora ottimo. Riletto oggi, esso impressiona non solo per la sua freschezza, ma anche per la sua capacità di aprirsi a interpretazioni nuove e impensabili sia per i lettori dei primi anni Ottanta sia per lo stesso autore. Dal punto di vista della costruzione, il Nome della rosa non ha perso il suo smalto e continua a far impallidire per ingegnosità, compattezza, disegno e bellezza qualsiasi altro best seller successivo e ad esso in qualche modo assimilabile per genere. Ma è il suo valore simbolico di architettura segnica che sta per qualcos’altro, qualcosa di esterno al testo e aderente alla realtà dell’azione umana storica83, che lascia sbigottiti: il romanzo riesce a parlare in modo penetrante del mondo di oggi malgrado questo sia abissalmente distante dal mondo come si presentava all’autore alla fine degli anni Settanta. Nel penultimo capoverso della premessa, Eco ironizzava sul fatto che, tramontata la prescrizione per gli scrittori dell’impegno a tutti i costi, tipica della fine degli anni Sessanta, egli poteva finalmente raccontare una storia «gloriosamente priva di 83

Questo pur rimanendo vero che, in prima istanza, per il semiologo Eco i testi letterari sono «un’organizzazione di significanti che, anziché servire a designare un oggetto, designano istruzioni per la produzione di un significato» (Eco 1990: 21). E poiché il mondo e l’Enciclopedia mutano, ecco che nel corso del tempo l’interpretazione di un testo si arricchisce di effetti di senso sempre nuovi e diversi, purché non cada in un suo uso sconsiderato e aberrante (cfr. Eco 1990: 32-33).

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rapporto coi tempi nostri», ora che il risveglio della ragione aveva scacciato i mostri generati dal suo sonno. In realtà era esattamente il contrario, perché il lettore soprattutto italiano che aveva vissuto gli anni di piombo era autorizzato a leggere in molte parti del romanzo, e in special modo in quelle in cui si parla del “gran fiume ereticale”, precisissimi riferimenti all’esperienza dolorosa del terrorismo e delle sue babeliche guise e sigle. Come abbiamo già avuto modo di vedere, il lettore informato che leggeva allora delle imprese a suon di stragi e saccheggi di fra Dolcino e dei suoi “apostoli”, nel momento in cui veniva a sapere che la donna dell’eretico assassino si chiamava Margherita, era autorizzatissimo a riflettere sull’omonimia con Margherita Cagol, la moglie di Renato Curcio morta il 5 giugno del 1975 in uno scontro a fuoco con i carabinieri nella provincia di Alessandria, che è anche la terra d’origine di Eco. E questo malgrado l’aletta di copertina della prima edizione (con ogni probabilità scritta dallo stesso Eco) avvertisse che «l’autore si rifiuta di autorizzare» connessioni «con la nostra attualità», che era un modo ironico e ammiccante di autorizzare, soprattutto alla luce del sopracitato penultimo capoverso della premessa. Ma cosa accade al lettore di oggi, che o non è più in grado di cogliere simili riferimenti all’attualità di allora o non può più viverli con lo stesso coinvolgimento emotivo e grado di interesse? Ecco, a tale lettore accade che può benissimo effettuare una lettura più sprovincializzata del romanzo e cogliervi per speculum et in aenigmate segni che rimandano al ben più complesso contesto storico di oggi. In un’opera in cui un’abbazia

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ruota attorno a una Biblioteca che è un labirinto e che denota questo mondo rispecchiandone addirittura la geografia, non c’è dubbio che la globalizzazione, l’Imperialismo americano, il terrorismo internazionale, lo scontro di civiltà con il mondo islamico, le guerre di aggressione per l’occupazione delle fonti energetiche spacciate per crociate a favore della democrazia e non ultima la sempre crescente ingerenza temporalista della Chiesa in tutti i paesi cattolici, per non parlare della madre di tutti i labirinti, cioè la rete web, costituiscono “modelli” per l’ordine segnico del testo, ovvero domini per interpretazioni come minimo plausibili, ancorché sempre provvisorie. Si pensi alle pagine in cui Adso si smarrisce nella selva dei movimenti ereticali e chiede delucidazioni che gli permettano di distinguere le varie eresie tra loro (catari, valdesi, bogomili, fraticelli, apostoli, dolciniani, ecc.) e tutte le eresie dai movimenti e dalle posizioni che eresie non sono (o non sono ancora, fino a decisione contraria da parte del simoniaco ed epicureo papa avignonese Giovanni XXII); e si confronti tutto ciò con le interminabili discussioni degli anni scorsi sulle varie componenti del terrorismo internazionale, nonché sulla definizione di “Stato canaglia” o di “mercenario” o di “terrorista islamico” o di “combattente” o di “resistente” o di “ribelle” o di “patriota” (come si definisce un kamikaze iracheno o afghano che si fa esplodere a Baghdad o a Kabul davanti a un convoglio di militari stranieri?). E abbiamo visto quanto peso abbia tutto ciò nell’ultimo romanzo di Eco e nelle sue riflessioni dell’ultimo decennio sul problema insieme semiotico, retorico, ideologico e politico della “costruzione” del nemico.

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Negli interventi raccolti in A passo di gambero relativi al dibattito sulle guerre annunciate e scoppiate dopo l’11 settembre 2001, infatti, Eco ha molto insistito su questi problemi di definizione, che non sono oziose questioni nominalistiche, perché da esse dipendono guerre e crociate, e quindi vite umane, soprattutto civili (nel Medioevo come oggi). Si vedano, ad esempio, gli articoli della III sezione, “Ritorno al grande Gioco” (Eco 2006: 185-212), e della IV sezione, “Il ritorno alle crociate” (ivi: 213-242), dove si constata quanto di già visto e di ottocentesco ci sia nel nuovo “grande gioco” che si sta svolgendo tra Iraq e Afghanistan, si sottolinea che “le parole sono pietre” e che bisogna stare attenti a definire e saper distinguere termini come “fondamentalismo”, “integrismo”, “razzismo”, “guerra civile”, “resistenza”, “terrorismo”, “kamikaze” e “assassini”, e si invita a riflettere sulla nozione di “guerra santa” alla luce dei contributi dell’antropologia culturale. E si confrontino queste illuminanti chiarificazioni concettuali e prese di posizione dell’intellettuale Eco con R 157-159, dove Guglielmo e Abbone discutono di eretici da opposti punti di vista. A Guglielmo che cerca di fare le opportune distinzioni, riconosce la complessità della questione e ricorda che in fondo a rimetterci sono sempre i “semplici” non illuminati dalla sapienza, che spesso abbracciano un’eresia solo per disperazione e finiscono per fare la parte della “carne da macello” nei giochi di potere, l’abate obietta: «Quindi (…) fra Dolcino e i suoi forsennati, e Gherardo Segalelli e quei turpi assassini furono catari malvagi o fraticelli virtuosi, bogomili sodomiti o patarini riformatori? Mi volete allora dire, Guglielmo, voi che

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sapete tutto degli eretici, tanto da sembrare uno di loro, dove sta la verità?». E quando Guglielmo riconosce tristemente che talora la verità non sta “da nessuna parte”, Abbone spiega la sua regola semplicistica, tipica di chi sta sempre dalla parte del più forte e ignora le sfumature della realtà. Chiunque turbi l’ordine su cui si regge il popolo di Dio è un eretico e chiunque garantisca quest’ordine (sia esso il papa o l’imperatore) va difeso e sostenuto; e siccome tutta l’erba ereticale costituisce un fascio, va falciata alla cieca, perché tanto, poi, “Dio riconoscerà i suoi”, come disse Arnaldo Amalrico, abate di Citeaux, prima della strage, ad opera dei crociati da lui guidati, dei cittadini di Béziers, sospettati di essere tutti dei catari (luglio 1209): «Guglielmo abbassò gli occhi e stette alquanto in silenzio. Poi disse: “La città di Béziers fu presa e i nostri non guardarono né a dignità né a sesso né a età e quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così la strage, la città fu saccheggiata e arsa.” “Anche una guerra santa è una guerra.” “Anche una guerra santa è una guerra. Per questo forse non dovrebbero esserci guerre sante. Ma cosa dico, sono qui a sostenere i diritti di Ludovico, che pure sta mettendo a fuoco l’Italia. Mi trovo anch’io preso in un gioco di strane alleanze. Strana l’alleanza degli spirituali con l’impero, strana quella dell’impero con Marsilio, che chiede la sovranità per il popolo. E strana quella tra noi due, così diversi per propositi e tradizione». E non è un caso che la frase di Arnaldo Amalrico torni in mente a Simonini quando questi capisce che, grazie ai suoi falsi Protocolli, i russi, cui li aveva consegnati, sarebbero stati finalmente in grado di pervenire alla “soluzio-

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ne finale” del problema ebraico, al contrario dei «francesi che continuano a sbrodolarsi di egalité e fraternité» o di «quegli zotici dei tedeschi, incapaci di grandi gesti» (C 500). Di fronte allo spettacolo desolante dei capi di tutti i tipi (dai capi di Stato fanaticamente convinti di avere un dio dalla loro parte ai capi spirituali che addestrano terroristi e kamikaze), vale ancora e sempre il meraviglioso monito di Guglielmo rivolto alla fine del romanzo ad Adso: «Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro» (R 494). In quel contesto ci si riferiva letteralmente al vecchio cieco Jorge da Burgos, che non aveva esitato ad avvelenare l’unica copia superstite del secondo libro della Poetica di Aristotele pur di impedire ai curiosi di leggerla ed evitare che si diffondesse l’idea devastante che è possibile ridere del creato, e quindi anche di Dio; ma il lettore del tempo era autorizzato a pensare anche a certi teorici della rivoluzione dai cui puri principi malati di fretta gli sconsiderati ricavavano inesorabilmente il sillogismo della pratica della lotta armata. Oggi, invece, il labirinto del mondo diventato villaggio globale immediatamente accessibile in tutti i suoi punti grazie alla rivoluzione informatica e alle nuove tecnologie della comunicazione, ci consente di rileggere quelle parole pensando allo scenario internazionale, che dopo l’11 settembre si è trasformato in uno sconfinato campo di forze costellato di guerre locali – ora sante, ora preventive, ora imperialiste – alla periferia dell’impero.

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Venendo all’Italia in particolare, certe pagine del romanzo risultano più attuali oggi che quando furono scritte. Alla fine degli anni Settanta l’Italia usciva da una stagione di grandi conquiste laiche in materia di diritti civili (si pensi all’aborto e al divorzio) e quindi certi passi anticlericali del romanzo potevano benissimo essere letti come esclusivamente circoscritti allo stesso dibattito medievale. Si consideri, per esempio, il seguente passo, in cui Guglielmo, un francescano inglese amico di Marsilio da Padova e Guglielmo di Occam, cioè due acerrimi nemici delle pretese temporaliste della Chiesa, critica quella che Gramsci chiamava la religiosità “lazzaronesca” del cattolicesimo all’italiana84: «Io non vorrei essere ingiusto con la gente di questo paese in cui vivo da alcuni anni, ma mi sembra che sia tipico della poca virtù delle popolazioni italiane non peccare per paura di qualche idolo, per quanto lo chiamino col nome di un santo. Hanno più paura di san Sebastiano o sant’Antonio che di Cristo. Se uno vuol conservare pulito un posto, qui, perché non ci si pisci, come fanno gli italiani alla maniera dei cani, ci dipingi sopra un’immagine di sant’Antonio con la punta di legno, e questa scaccerà quelli che stan per pisciare. Così gli italiani, e per opera dei loro predicatori, rischiano di tornare alle antiche superstizioni e non credono più alla resurrezione della carne, hanno solo una gran paura delle ferite corporali e delle disgrazie, e perciò han più paura di sant’Antonio che di Cristo» (R 127). Ebbene, oggi un passo del genere produce tutto un altro effetto di senso 84

Cfr. Gramsci 1975: II, 1086.

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in un Paese regredito a forme di culto idolatriche e miracolistiche e tenuto sotto libertà vigilata da una classe politica che prende ordini dal Capo di una teocrazia estera e dalla Cei e di conseguenza si guarda bene dal varare leggi sgradite alle fobie paranoiche degli anziani custodi del Vaticano, che scimmiottano quelli immaginati dal Platone delle Leggi. Si pensi al successo di Padre Pio o alle storie di madonne piangenti, per non parlare della suscettibilità politicamente trasversale nei confronti della statuetta del crocifisso, anche quando la sua ingiustificata onnipresenza nei luoghi pubblici è censurata persino dalla Corte europea di Strasburgo per i diritti dell’uomo, come si è visto ai primi di novembre del 2009 (e su questa polemica è intervenuto il 13 novembre lo stesso Eco su «L’Espresso» con una Bustina di Minerva dal titolo “Il crocefisso: un simbolo quasi laico”, sostenendo ironicamente una tesi un po’ salomonica e proponendo, pro bono pacis, l’esposizione nelle scuole di una croce nuda e cruda, cioè senza il crocifisso). Pensiamo infine alla rete, che all’epoca dell’uscita del romanzo era immaginabile con lo stesso grado di plausibilità con cui lo era l’impero galattico sognato da Asimov. Ebbene, la biblioteca è inizialmente definita dall’abate Abbone con queste parole: «La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodisce. Labirinto spirituale, è anche labirinto terreno» (R 46); più avanti Jorge aggiunge: «La biblioteca è testimonianza della verità e dell’errore» (R 136), finché Guglielmo, di fronte alla sua ecpirosi, lamenta: «Era la più grande biblioteca della cristianità»

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(R 494). La biblioteca-labirinto, dunque, è il mondo, ovvero la lista infinita e ricorsiva di tutte sue trame, il modello di tutto il suo sapere, il ricettacolo di tutte le informazioni che lo descrivono, vere o false che siano. E di cosa è oggi segno, simbolo, metafora perfetta, con la sua insostenibile fragilità e vulnerabilità? Leggiamo come Eco ha recentemente descritto la rete alla fine del diciottesimo capitolo del suo Vertigine della lista: «ecco finalmente la Gran Madre di tutte le Liste, infinita per definizione perché in continuo sviluppo, il World Wide Web, che è appunto ragnatela e labirinto, non albero ordinato, e che di tutte le vertigini ci promette la più mistica, quella totalmente virtuale, e davvero ci offre un catalogo d’informazioni che ci fa sentire facoltosi e onnipotenti, a prezzo di non sapere quale dei suoi elementi si riferisca a dati del mondo reale e quale no, senza più distinzioni tra verità ed errore» (Eco 2009: 360). E non sarà superfluo ricordare che Adso definisce il suo manoscritto “elenco di fatti” (R 26), “centone”, “carme a figura”, “immenso acrostico” (R 503), e a un certo punto osserva: «nulla vi è di più meraviglioso dell’elenco, strumento di mirabili ipotiposi» (R 81), a riprova che lo stesso Eco più recente è impegnato a sviluppare intuizioni semiotico-cosmologiche presenti in nuce nel suo insuperato capolavoro di trent’anni fa85.

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Non sarà superfluo sottolineare che molte delle reliquie storiche elencate in Eco 2009: 173-177 sono esattamente quelle già collocate nella finzione dentro la cripta del tesoro dell’abbazia (cfr. R 425-427).

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Tant’è vero che Eco 2009 si conclude con una rivisitadella vertiginosa lista creata dall’autore della Biblioteca di Babele nel saggio “L’idioma analitico di John Wilkins” di Altre inquisizioni87. Borges immagina un’enciclopedia cinese intitolata Emporio celeste di conoscimenti benevoli in cui gli animali vengono classificati nel modo seguente: «(a) appartenenti all’imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche»88 . Eco commenta (cfr. pp. 395-396) che se qui il lettore ingenuo perde la testa a causa di una classificazione palesemente assurda, il lettore esperto di logica nota l’analogia con l’antinomia, scoperta da Russell, dell’insieme degli insiemi normali (cioè che non contengono sé stessi tra i propri elementi): se infatti ci si chiede se tale insieme di insiemi normali sia normale o non normale, si cade in un paradosso senza uscita, e lascio al lettore il compito di rendersene conto da solo, tenendo presente che per insieme non normale si intende un insieme che contiene se stesso tra i propri elementi, come l’insizione86

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Se ne era parlato già a p. 327, nonché, ad esempio, in Eco 1993: 222-223 ed Eco 2007b: 396-397. 87 Si tratta dello stesso Wilkins cui è dedicato tanto spazio in Eco 1993 e in Eco 2007b e che aveva dato l’avvio e la stessa immagine di copertina a Eco 1990. 88 In Borges 1984: 1004-1005.

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eme dei concetti, che è anch’esso un concetto (in alternativa, il lettore provi a stabilire se un barbiere che fa la barba a tutti quelli che non se la fanno da soli se la fa da sé oppure no). Ecco dunque che anche la cavalcata da Omero a Borges attraverso le mirabili ipotiposi offerte dalle liste, e già presagite da Adso, finisce in un naufragio per la mente del lettore, lo stesso, si potrebbe aggiungere, che sperimenta il suo occhio davanti alla scala di Penrose, al nastro di Moebius e ad altre architetture impossibili nelle rappresentazioni di Escher89, o davanti alle visioni psichedeliche finali del viaggio di David Bowman verso Giove e oltre l’infinito90 .

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Ci sono molti altri esempi di cosiddetti “oggetti impossibili” noti ai matematici e agli psicologi. Lo stesso Eco ne discuteva uno molto conosciuto, nella sua lezione-passeggiata dedicata ai mondi possibili della narrativa, in Eco 1994: 100-101. 90 E pazienza se nel 1983 ad Eco sembrassero Kitsch e tali che ciascuno, per via della loro vaghezza pseudo-filosofica, può vedervi le allegorie che vuole (cfr. Eco 1983: 212).

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APPENDICE 1

DIALOGO CON UMBERTO ECO91 Milano, 19 gennaio 2007

Nel tardo pomeriggio del 19 gennaio 2007 a Milano sembrava di essere in primavera in una città di mare. Mentre in Piazza Duomo e in via Dante la gente affollava i tavolini all’aperto dei locali godendosi il miracolo dei 20 gradi centigradi, la Biblioteca Trivulziana, al Castello Sforzesco, ospitava la presentazione dell’ultimo Almanacco del Bibliofilo, curato da Mario Scognamiglio e dedicato alle utopie. L’Almanacco è prodotto dall’Aldus Club, un’associazione internazionale di bibliofili di cui è presidente Umberto Eco. Mattatore della serata, cui ha preso parte anche Vittorio Sgarbi in qualità di Assessore alla Cultura del Comune di Milano, era proprio Eco, che ha letto il suo esilarante racconto (incluso nel volume ma già anticipato su «La 91

Una prima versione di questo testo è apparsa sul «Corriere di Gela» del 26 gennaio 2007; una versione più ampia, quasi identica alla presente, era stata postata su Sitosophia, il sito degli studenti di filosofia dell’Università di Catania (http://www.sitosophia.org/forum/viewtopic.php?p=588)

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Repubblica» del 20 dicembre 2006) su un infelicissimo regno d’Utopia regolato dalla cosiddetta saggezza popolare contenuta nei proverbi, la cui notizia, nella finzione narrativa, si troverebbe in un borgesiano libello anonimo e privo di data. Naturalmente, com’è tipico di Eco, il testo contiene innumerevoli allusioni all’attualità politica italiana – caratterizzata dal conformismo e da una forma di populismo mediatico imposto da Berlusconi e seguito per amore o per necessità anche dai suoi avversari – soprattutto nei suoi aspetti più grotteschi e ignobili. Si veda, ad esempio, la situazione della giustizia in questa molto familiare isola di Utopia: «I giudici erano screditatissimi in base al cosiddetto Primo Principio della Bandana, chi ha torto fa clamore contro l’accusatore (il Secondo Principio asseriva che chi ruba poco va in galera, chi ruba tanto fa carriera)». Avendo avuto la possibilità di assistere all’evento, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di scambiare alla fine due chiacchiere con Eco nel corso dell’intervista rilasciata a una mia amica giornalista di Radio Capodistria, Marialaura Bidorini. Lo spunto della discussione, che si è svolta in una suggestiva saletta di lettura stracolma di vecchi e preziosi volumi, l’ho tratto dai doni votivi che ho umilmente portato al Maestro: il mio volumetto su Karl Popper e la televisione92 , che contiene anche una decina di pagine sull’Eco massmediologo dei primi anni Sessan-

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Trainito 2002.

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ta, e il mio saggio su La misteriosa fiamma della regina Loana93 . Innanzi tutto ho chiesto ad Eco di chiarirmi il suo rapporto teoretico con Popper, perché – gli ho detto – ho notato che, sebbene egli nelle sue opere citi relativamente poco il grande filosofo, in almeno un caso fa un riferimento preciso e decisivo al suo falsificazionismo. In particolare ho richiamato quel passo della prima delle tre Tanner Lectures del 1990 contenute in Interpretazione e sovrainterpretazione, intitolata “Interpretazione e storia”, in cui egli fa un esplicito riferimento all’epistemologia popperiana e osserva che, sebbene sia lecito dubitare della possibilità di stabilire una volta per tutte la vera interpretazione di un testo, è tuttavia possibile stabilire se una certa interpretazione è falsa (il che smentisce la teoria dell’interpretazione radicalmente reader-oriented, che privilegia l’assoluta libertà interpretativa del lettore a discapito dei vincoli del testo. Cfr. Eco 1995: 35). Ma questo, osservavo, non è altro che un modo di applicare alla lettera la logica della scoperta scientifica di Popper alla logica dell’interpretazione dei testi, e per giunta in un punto nevralgico della teoria di Eco sui “limiti dell’interpretazione”. A tal proposito è interessante che il passo coevo e in gran parte parallelo di Eco 1990 (cfr. p. 54) non contiene il riferimento esplicito a Popper, perché Eco aveva espresso lo stesso principio e citato Popper in precedenza in un paragrafo intitolato “La falsificazione delle misinterpretazioni”, che comincia così: «A que93

Trainito 2004.

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sto punto vorrei stabilire una sorta di principio popperiano non per legittimare le buone interpretazioni ma per delegittimare le cattive» (Eco 1990: 35)94. Né è da trascurare il fatto che più avanti, nella stessa opera, rispondendo alle critiche di Luciano Nanni al Trattato di semiotica generale, Eco non solo mostri una certa dimestichezza con Popper 1934 e Popper 1972, ma dichiari addirittura: «le mie proposte non hanno lo statuto di una teoria scientifica: al massimo hanno lo statuto di una teoria epistemologica come quella di Popper» (Eco 1990: 133; ma cfr. anche 136 e 138), fino ad arrivare ad assimilare la propria nozione di Enciclopedia a quella popperiana di Mondo 3 (ivi: 138). Eco ha convenuto che questo riferimento esibisce una chiara influenza popperiana sulla sua teoria della intentio operis come terza via tra la spesso inaccessibile (nonché poco pertinente ai fini dell’interpretazione di un testo) intentio auctoris da un lato e l’intentio lectoris dall’altro, che, facendo dire a un testo quel che si vuole, rischia di deragliare verso il soggettivismo e l’ermeneutica selvaggia.

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Cfr. anche Eco 2007b: 522-523, in cui si ribadisce la fonte popperiana dell’idea centrale di Eco 1990.

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Nella sua lunga risposta, Eco ha fatto altre due interessanti considerazioni su Popper, pur ammettendo francamente di non essere un frequentatore assiduo delle sue opere95. 1) A suo parere, Popper ha dimenticato di riconoscere il debito con Peirce per la sua concezione del carattere ipoteticodeduttivo delle teorie scientifiche, visto che essa non è altro che una versione della teoria peirceana dell’abduzione, cioè della congettura, contrapposta alla semplice induzione e alla semplice deduzione (com’è noto, per Eco anche il metodo investigativo di Sherlock Holmes e di altri suoi emuli, nonché le pseudo storie di detection di Borges, sono inconsapevoli esemplificazioni dell’abduzione di Peirce). Inoltre, secondo Eco, Popper si è limitato a menzionare Peirce solo in relazione al suo “fallibilismo”. E in effetti, Popper stesso riconobbe di aver preso da Perirce il termine “fallibilismo”, ma aggiunse anche che l’idea è molto più antica, non essendo altro che una riedizione del socratico “So di non sapere”.96 Analogamente, per quanto riguarda l’abduzione, Popper avrebbe senza dubbio obiettato che se Peirce ha il merito di aver introdotto il nome, la cosa è molto più antica ed è riconducibile alle speculazioni ipotetico-deduttive dei Presocratici 95

Altri due riferimenti non banali a Popper, uno all’ultimo capitolo di Popper 1945 e uno al § 29 di Popper 1944-1945, entrambi relativi a punti ben precisi della teoria popperiana della logica delle scienze sociali, si trovano nel saggio Segni, pesci e bottoni. Appunti su semiotica, filosofia e scienze umane, incluso in Eco 1985, ma si ha la fondata impressione che in questo caso si tratti di citazioni di seconda mano tratte da un testo di Marco Santambrogio (cfr Eco 1985: 319, 322, 323 e 333). 96 Cfr. Popper 1979: XXI.

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(Parmenide, Democrito e Senofane in particolare), al cui spirito speculativo e critico egli raccomandò di tornare in un suo celeberrimo saggio del 1958 (Ritorno ai Presocratici, ora cap. 5 di Popper 1963). Per parte mia ho osservato che Popper, soprattutto nel sesto capitolo di Popper 1972 (ma anche altrove), un’opera che Eco ha presente in più di un luogo de I limiti dell’interpretazione97, rende un grande omaggio a Peirce soprattutto in relazione all’indeterminismo fisico. A dire il vero, contrariamente a quanto sostenuto da Eco, i riferimenti di Popper a Peirce sono numerosi e testimoniano un confronto continuo col suo pensiero. Non a caso, oltre ai numerosi omaggi al grande filosofo americano, si trova una consistente critica – contenuta soprattutto nell’Appendice *IX di Popper 1934 e nel primo volume di Popper 1983 (parte II, § 10) – alla sua teoria soggettivista del calcolo delle probabilità, cui Popper ha contrapposto un approccio oggettivista basato sulla realtà delle propensioni. E in un passo dell’importante capitolo 10 di Congetture e confutazioni, Popper usa addirittura le parole di Peirce per esprimere la sua famosa nozione del controllo empirico di una teoria, che consiste non nella sua verificazione ma nel tentativo di trovare una confutazione delle sue previsioni più audaci, ovvero delle sue «conseguenze… più improbabili»98. 2) Eco ha anche confessato di apprezzare molto la critica di Popper a quella che Popper stesso ha chiamato “teoria sociale 97 98

Cfr. in particolare Eco 1990: 136 e 138. Popper 1963: 411, in cui si rimanda a Peirce, Collected Papers, 1931-1958, 7.182 e 7.206.

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della cospirazione”, cioè l’idea secondo cui dietro certi fenomeni sociali c’è un regista occulto, unico e intenzionale. Già Omero spiegava quello che accadeva a Troia per mezzo di complotti orditi nell’Olimpo dagli dèi, e un esempio classico nel XX secolo sono i cosiddetti Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un falso documento che illustrava un complotto sionista per la conquista dell’Occidente e che godette di ampio credito presso gli ambienti antisemiti europei, e soprattutto presso Hitler e Mussolini99 . Per inciso, la critica di Popper alla “teoria sociale della cospirazione”, contenuta già ne La società aperta e i suoi nemici (in particolare nel capitolo XIV), è al centro della sua metodologia delle scienze sociali, basata sull’analisi delle conseguenze sociali non intenzionali delle azioni umane intenzionali, e della sua filosofia della politica, basata sulla difesa della democrazia dalle tentazioni autoritarie dei nemici della società aperta, non a caso ossessionati dalle cospirazioni altrui e quindi pronti a complottare contro la libertà. Come ha mostrato Eco nello scritto citato di A passo di gambero e in altri contenuti nella stessa raccolta, in Italia Mussolini è stato un tipico seguace della teoria della cospirazione, e in altre forme essa è oggi all’opera nell’ossessione berlusconiana del complotto delle “toghe rosse” o più in genera99

In effetti, uno stesso ampio passo su questo tema, tratto dal quarto capitolo di Popper 1963, è citato da Eco con leggere differenze in Eco 1990: 50, verso la fine del saggio La forza del falso (in Eco 2002: 320) e nella conferenza del 2004 intitolata Il lupo e l’agnello. Retorica della prevaricazione, ora in Eco 2006 (cfr. p. 49); e alcune righe del medesimo passo di Popper sono riportate in testa al cap. 118 del Pendolo.

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le dei “comunisti” contro la sua persona e il suo partito, per non parlare del complotto degli infedeli occidentali contro l’Islam sbandierato dai fondamentalisti e, ad esso speculare, di quello dell’Eurabia contro i valori cristiani dell’Occidente denunciato da Oriana Fallaci e dai suoi simpatizzanti. Incoraggiato da tanta disponibilità al dialogo, ho poi chiesto a Eco un chiarimento su un’ipotesi interpretativa da me avanzata nel mio saggio su Loana. Questa parte della conversazione è stata registrata in audio ed è per me motivo di grande emozione intellettuale, perché mi sono reso conto di aver contribuito inavvertitamente a riprodurre la situazione, paradossale e misteriosa, di un colloquio tra libri all’insaputa dei loro autori, che lo stesso Eco ha descritto molti anni fa in merito al rapporto tra Borges e Peirce. Volendo applicare alle storie di detection di Borges la logica peirceana, all’inizio del terzo paragrafo del saggio L’abduzione in Uqbar (che nel titolo evidentemente allude a Peirce e al famoso racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, che apre le Finzioni di Borges) Eco scriveva: «Borges sembra aver letto tutto (e anche di più, visto che ha recensito libri inesistenti). Tuttavia suppongo che non abbia mai letto i Collected Papers di Charles Sanders Peirce, uno dei padri della semiotica moderna. Potrei sbagliarmi, ma mi fido di Rodriguez Monegal, e non trovo il nome di Peirce nell’indice dei nomi della sua biografia borgesiana. Se sbaglio, sono in buona compagnia. In ogni caso, se Borges abbia letto o meno Peirce, non mi importa. Mi pare un buon procedimento borgesiano assumere che i libri si parlino tra loro e non è necessario che gli autori (che i

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libri usano per parlare – una gallina è l’artificio che un uovo usa per produrre un altro uovo) si conoscano l’un l’altro. Il fatto è che molti dei racconti di Borges sembrano esemplificazioni perfette di quell’arte dell’inferenza che Peirce chiamava abduzione o ipotesi, e che altro non è che la congettura» (in Eco 1985:165166). Ora, quando lavoravo al mio saggio su Loana e mi interrogavo sul mistero di Lila, la ragazza amata dal protagonista Yambo, mi sono imbattuto in un problema analogo. C’è infatti un romanzo di Robert Pirsig, uscito nel 1991 (cioè nello stesso anno in cui si svolge il romanzo di Eco), che si intitola proprio Lila e che per giunta contiene sorprendenti analogie con il romanzo di Eco. Allora mi sono chiesto se Eco conoscesse quest’opera dell’autore del celebre Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, e sono giunto a una conclusione ipotetica, cioè basata su un’abduzione peirceana: «Il minimo che si possa dire è che saremmo di fronte a una coincidenza singolare se Eco avesse costruito la sua Lila ignorando Lila di Pirsig. Nelle opere di Eco successive al 1991 non si trova (mi pare) alcun accenno a questo romanzo. Ma in un articolo apparso su «L’Espresso» del 22 maggio 1983, “La moltiplicazione dei media”, poi incluso in Sette anni di desiderio, si trova un cenno esplicito a Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta: non è molto, certo (il primo romanzo di Pirsig è stato un cult negli anni Settanta e oltre, e non poteva sfuggire all’attenzione di uno studioso della cultura di massa come lui), ma basta per dire che Eco conosce abbastanza bene almeno il primo Pirsig. Io sono

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portato a congetturare che egli conosca bene anche Lila e in qualche modo abbia voluto dare una risposta – pessimistica, scettica, amara, ironica e quasi solipsistica – da ‘pensiero debole’ occidentale alla presuntuosa, ottimistica e totalizzante Metafisica della Qualità di Pirsig, basata sulla sapienza degli Indiani d’America e degli indiani dell’India e ancorata, occorre ricordarlo, alla dolorosa e illuminante esperienza personale della follia e del manicomio». Si può comprendere, allora, quanto fossi ansioso di interrogare Eco proprio su questo punto. Ecco la trascrizione del dialogo (con leggere modifiche): - Professore, mi tolga una curiosità. Nel mio saggio su Loana, un romanzo che secondo me è vergognosamente sottovalutato, io ho svolto alcune considerazioni sul nome “Lila”, che lei declina altre volte: “Lia” nel Pendolo, “Lilia” nell’Isola del giorno prima… Però c’è un romanzo di Pirsig che si intitola Lila e ho trovato delle analogie incredibili… - La fanciulla di cui si parla in Loana, Lila Saba, aveva un nome abbastanza simile [a Lia e Lilia], evidentemente senza rendermene conto. La Lilia dell’Isola del giorno prima l’ho trovata in Giambattista Marino, e ogni volta che dovevo metter in scena una creatura femminile mi veniva questo nome. (…) - L’analogia strana è che il romanzo di Pirsig è stato pubblicato nel ’91, proprio l’anno in cui è ambientato Loana! - Ho presente La motocicletta, ma non mi viene in mente quel romanzo, non l’ho letto. Ma non è un nome incredibile. Si chiama Lila Saba perché il primo nome è simile e il cognome è quello di un poeta. Poteva essere Ungaretti. Ho pensato solo dopo che con quel cognome si poteva pensare a una ragazza ebrea, invece no, non era voluto, ho preso un poeta al posto di un altro.

Come si vede, per sua stessa ammissione Eco non aveva letto Lila di Pirsig all’epoca di Loana, e quindi la mia abduzione

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era falsa. Ma questo fatto rende le coincidenze ancora più sorprendenti, perché è come se si fosse realizzato davvero quello che nel passo di Eco su Borges e Peirce, citato sopra, era presentato sotto forma di ironico paradosso: così come le galline possono essere considerate artifici creati dalle uova per produrre altre uova, allo stesso modo gli scrittori (e anche i lettori) possono essere considerati come degli artifici che i libri creano per parlare tra di loro100 .

100

Su questo si vedano anche Eco 1990: 114-122 e Eco 1995: 87-100, dove vengono discussi casi analoghi di citazioni involontarie ravvisate dai lettori del Nome della rosa e del Pendolo di Foucault.

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APPENDICE 2

SOMMARIO ANALITICO DEL PENDOLO DI FOUCAULT

Poiché Il pendolo di Foucault resta il romanzo più ampio, articolato e impervio di Umberto Eco, e poiché neppure l’indice consente di farsi un’idea dei contenuti, si è ritenuto opportuno approntare il seguente sommario analitico, che può tornare utile come strumento di consultazione (viceversa, R contiene un indice dei sottotitoli che riassumono il contenuto dei singoli capitoli, C contiene un’appendice con una tabella dei rapporti, capitolo per capitolo, tra livello dell’intreccio e livello della fabula, mentre gli indici di I, L e soprattutto B danno, almeno per sommi capi, indicazioni sui contenuti). I numeri a sinistra indicano le parti (10) e i capitoli (120). 1. Keter [1-2]

Notte tra il 25 e il 26 giugno 1984. Da una casa in collina Casaubon racconta che alle quattro del pomeriggio del 23 giugno si trovava di fronte al Pendolo di Foucault, al Conservatoire

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des Arts et Métiers di Parigi. Casaubon vede il Pendolo come un oggetto pitagorico-sapienziale, oltre che scientifico. Poiché a mezzanotte sarebbero venuti i misteriosi Signori del Mondo, individua nella garitta del Periscopio il nascondiglio dove passare il tempo dall’ora di chiusura a quella dell’imprecisato appuntamento. Prima di rifugiarsi nel Periscopio, visita il museo e interpreta sospettosamente in chiave ermetica e simbolica gli oggetti della storia della tecnica ivi esposti. Alle cinque entra nella garitta e comincia a rievocare con inquietudine la catena di eventi degli ultimi tre giorni, degli ultimi due anni, degli ultimi dodici anni e di quarant’anni prima che lo hanno condotto fin lì. Adesso riproduce con animo più sereno e consapevole la storia ricostruita nella garitta due giorni prima. 2. Hokmah [3]

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21-23 giugno 1984. Tornato il giorno prima da una vacanza di circa un mese, Casaubon riceve la mattina del 21 una concitata telefonata da Parigi dell’amico Jacopo Belbo, interrotta presumibilmente da un rapimento. L’amico fa in tempo a dirgli di recarsi a casa sua e di leggere il suo resoconto degli eventi che lo hanno incastrato e condotto a Parigi, affidato a dei file salvati in dischetti. A casa di Belbo, Casaubon trova lo stampato di un file che testimonia l’entusiasmo da neofita dell’amico di fronte alla videoscrittura. FILENAME: “Abu”. Esperimenti di videoscrittura combinatoria di Belbo, che mescola lacerti di pezzi celebri della letteratura per creare nuovi testi. La memoria digitale, riflette Belbo, permette non solo di archiviare ma anche di dimenticare, cancellando definitivamente. Abulafia è maestra nell’ars oblivionalis, irraggiungibile per la memoria umana, che al massimo può apprendere mnemotecniche. Non solo, ma Abulafia prevede processi reversibili: puoi recuperare ciò che avevi deciso di cancellare. Un suicida che si lanci dalla finestra, invece, non può tornare indietro. Dopo vari tentativi cervellotici e cabalistici (dai quali impara ancora una volta che spesso le ipotesi eleganti e ingegnose sono false, come il Piano, che faceva scambiare i propri deside-

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3. Binah [7]

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ri con la realtà), rispondendo esasperato “No” alla domanda del computer “Hai la parola d’ordine?”, riesce finalmente a trovare la password per accedere ad Abulafia, che Belbo ha portato lì dal suo ufficio della casa editrice Garamond, e trova numerosi file che raccontano in modo creativo e a tratti delirante alcune fasi della storia del Piano che lo stesso Casaubon ha contribuito a mettere in piedi. Casaubon passa la notte a casa di Belbo leggendo e decifrando i documenti e aspettando una telefonata da Belbo che non arriverà. Dalla collina, Casaubon ricorda con serenità la rievocazione inquieta nel Periscopio, che a sua volta era una ricostruzione ordinata della storia letta nei file di Belbo dalla sera del 21 fino alla mattina del 23. 1970. Casaubon comincia l’università del dopo ’68. 1961 (?): All’età di 10 anni Casaubon diventa incredulo e guarisce dalla credulità, una “passione della mente”, perché il padre gli spiega che anche le riviste con scopi educativi mirano al guadagno. Fine 1972. Casaubon entra in contatto con Belbo al bar Pilade di Milano mentre lavora alla sua tesi di laurea sui Templari. Il bar Pilade ai tempi dell’incontro e il ritratto di Belbo al bar. Lo pseudodiario di Belbo trovato da Casaubon, una specie di raccolta di centoni narrativi autobiografici, sembra tradire la sua decisione di voler essere solo uno spettatore intelligente, non potendo essere un protagonista. FILENAME: “Tre donne intorno al cor”. Belbo rievoca le donne della sua infanzia, tutte irraggiungibili senza rimedio: la Madonna che sta in paradiso, Marilena che cammina sul bordo della spalliera di una panchina e rimane in purgatorio a invidiare il pene, e una bimba troppo presto chiamata all’inferno perché morta. Ma c’era Cecilia, raggiungibile, la quale però già amoreggiava con un tale Papi che per giunta suonava il sassofono, mentre lui non aveva ancora nemmeno la tromba. Circa 1938. Belbo ha cinque o sei anni e sogna di avere una tromba. Al risveglio desidera di averla ma gli zii finiscono col comprargli un clarino (anche perché è più economico).

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Fine 1972. Ritorno al primo incontro con Belbo, il quale espone a Casaubon la sua personale teoria della differenza tra cretini, imbecilli, stupidi e matti. Questi ultimi, in particolare, sono degli stupidi ignari dei paralogismi (in cui gli stupidi puri eccellono), procedono per cortocircuiti mentali, per loro tutto dimostra la loro idea fissa e prima o poi tirano fuori i Templari. Questo riferimento spinge Belbo a chiedere a Casaubon se vuole dare un’occhiata a un dattiloscritto sui Templari lasciato due giorni prima da un tizio alla casa editrice Garamond, per la quale egli lavora come redattore. Casaubon capisce che Belbo soffre la sua condizione lavorativa di redattore e scrittore per interposta persona e si cimenta in prove narrative nelle quali punisce il suo desiderio della creazione letteraria, perché pensa di non averne diritto. FILENAME: “Jim della Canapa”. Belbo si vede come un redattore editoriale demiurgo che dirige il lavoro altrui come un autore incognito e dà suggerimenti persino a Shakespeare sull’ambientazione e la struttura dell’Amleto. Poi immagina di essere un autore tradito da una donna che per il dolore si imbarca sul Titanic e fa naufragio nei mari del sud, finché mette radici su un’isola abitata da papuasi, coltiva la canapa e diventa Jim della Canapa per i nativi, mentre per i commercianti occidentali è Kurtz. Tornato dopo 18 anni, scopre di essere il Grande Poeta Scomparso letto da tutti, rivede la sua donna ma non le parla e osserva come un Dio le sue creature, per esempio Shakespeare, diventate famose. Il giorno dopo. Casaubon va alla Garamond rispondendo all’invito di Belbo, vi incontra anche Diotallevi e viene agganciato dai due per le sue conoscenze sui Templari e per il suo acume logico. Dopo cena, da Pilade, Casaubon racconta a Belbo e Diotallevi l’origine dei Templari e le varie fasi della loro storia, fino al processo (1118-1314). Inizio del 1973. Tempo dopo Casaubon incontra Belbo e una donna, Sandra, a un corteo antifascista a Milano e insieme fuggono davanti alla carica della polizia. Belbo rievoca altre fughe: nel ’43 la sua famiglia viene sfollata e si trasferiscono a

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4. Hesed [22-25]

*** (è Nizza Monferrato, sempre indicata con asterischi nel romanzo) e l’undicenne Belbo assiste a scontri a fuoco tra nazifascisti e partigiani. FILENAME: “Canaletto”. Il racconto di un’altra specie di diserzione da parte di Belbo, tra il ’43 e il ’44, questa volta prima di uno scontro poi non avvenuto tra bande di ragazzini, quella del Canaletto (cui Belbo si era aggregato) e quella del Viottolo. Un mese dopo, nel corso di una sassaiola, il dodicenne Belbo si espone e prende una zolla in bocca, che gli spacca il labbro. Inizio del 1974 (?). Per circa un anno, dopo il corteo, Casaubon non vede Belbo e nel frattempo inizia la relazione con la brasiliana Amparo, marxista e di sangue misto. Un giorno lo incontra per caso lungo i Navigli e viene da lui invitato a bere qualcosa nel suo ufficio alla Garamond, dove si imbattono nel colonnello Ardenti. Costui ha con sé un faldone che documenterebbe un “Piano” dei Templari, ovviamente segreto, e il misterioso ritrovamento di una pergamena a Provins (dove i Templari erano di casa) nel 1894 da parte di un certo Ingolf. L’indomani, Ardenti scompare. Interrogati dal commissario De Angelis, Belbo e Casaubon mentono sulla pergamena. Da quel giorno, Casaubon perde i contatti con Belbo, mentre in Italia, nei mesi seguenti, gli studenti sostituiscono le manifestazioni con le armi da fuoco. Con l’aiuto di Amparo, Casaubon ottiene un lavoro all’Università di Rio de Janeiro con un contratto biennale rinnovabile. Fine 1974-1976. Di fronte al peculiare sincretismo della cultura popolare brasiliana, Casaubon comincia a cedere alla seduzione delle “somiglianze”, per cui tutto può avere misteriose analogie con tutto. Due anni dopo il loro ultimo incontro, verso la fine del ’75, riceve una lettera inquietante di Belbo in cui si parla di un rito della setta Picatrix in cui veniva evocato lo spirito di Cagliostro, dell’incontro con De Angelis, presente alla cerimonia e di strani sviluppi nel caso Ardenti, che pare fosse stato visto prima della scomparsa nella sede di Picatrix con la medium, la quale durante il rito aveva nominato in trance i 6

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4. Geburah

sigilli, i 120 anni di attesa e i 36 Invisibili, cioè le stesse cose che facevano parte della teoria del complotto di Ardenti. Una lettera di Belbo di due giorni dopo rassicura Casaubon, perché pare che De Angelis abbia chiarito tutto: la sensitiva, leggendo l’omonima rivista di Picatrix, si cibava della stessa letteratura occultistica di cui si cibava Ardenti, che poi vomitava quando era in trance. Ma dal Periscopio Casaubon pensa che alla luce del Piano la spiegazione sia un’altra. Nel corso del ’76 Casaubon apprende che in Italia è scoppiata la lotta armata. 1977. Viaggio di Casaubon e Amparo a Salvador da Bahia, dove conoscono il signor Agliè, il quale fa credere di essere il conte di San Germano, li istruisce sui segreti del sincretismo e li fa assistere a un candomblé, un rito afro-brasiliano autoctono. 1977-1978. Ultimi giorni a Bahia. Casaubon legge e commenta con Amparo un libro sui Rosa-Croce e la loro leggenda. A Rio Casaubon e Amparo assistono a una riunione dell’Ordine della Rosa-Croce Antico e Accettato e ascoltano il professor Bramanti. Agliè illustra a Casaubon la logica della Tradizione, che contrasta con la logica del tempo storico e della successione causale, prevedendo così che l’effetto possa produrre la causa. Per esempio: visto che il Corpus Hermeticum contiene idee simili a quelle di Gesù, a quelle di Platone, a quelle di Mosè e a quelle degli Egizi, è errato credere, come fanno i filologi moderni, che esso venga dopo e ne sia l’effetto; è invece corretto pensare, con Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, che esso venga prima e ne sia la causa, riflettendo una sapienza antichissima. Agliè accompagna Casaubon e Amparo a una gira di umbanda, un rito che innesta culti indigeni con la cultura esoterica europea. Amparo va in trance posseduta dagli spiriti dei morti e Casaubon apprende da Agliè la differenza tra la conoscenza dell’iniziato (attiva) e la possessione del mistico (passiva). Amparo scompare dalla vita di Casaubon, umiliata dalla vittoria della sua cultura profonda sulla sua formazione razionalistica. Casaubon passa da solo il suo ultimo anno in Brasile.

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1979-1981. Casaubon ritorna nell’Italia confusa del dopo delitto-Moro, quando si mitizza il Desiderio, la sinistra si ispira a Nietzsche e Céline e la destra celebra le rivoluzioni del Terzo Mondo. Al bar Pilade Belbo contempla Lorenza Pellegrini mentre gioca al vecchio flipper e se ne innamora, sentendo la macchina come metafora del corpo cosmico e avvertendo oscuramente nella ragazza come una promessa del Pendolo. FILENAME: “Flipper”. L’arte di giocare a flipper richiede un pube femminile per esprimersi al meglio perché si tratta di una sorta di interazione erotica tra l’essere umano e la macchina. Casaubon si inventa un lavoro aprendo un’agenzia di informazioni culturali, come una sorta di investigatore privato del sapere enciclopedico. 16 luglio 1981. Casaubon incontra in biblioteca Lia, che lavora rivedendo voci di enciclopedia. Dopo una cena che dura oltre la mezzanotte, lei lo chiama “Pim” dal suo gesto e verso di spararle simulando la pistola col pollice e l’indice. Fine 1981. Casaubon, che è andato a vivere da Lia, incontra di nuovo Belbo, il quale un giorno gli offre un lavoro: la raccolta in giro per archivi e biblioteche del materiale illustrativo per un libro sulla storia dei metalli che un’azienda siderurgica ha commissionato alla Garamond. Lo strano rapporto di Belbo con Lorenza Pellegrini, una donna disinvolta. Entra in scena il dottor Wagner, psicoanalista lacaniano, decostruzionista, non cartesiano, sostanzialmente epicureo: la Garamond ha tradotto una sua raccolta di saggi minori e con l’occasione Belbo entra in contatto con lui. FILENAME: “Doktor Wagner”. Un giorno Wagner psicoanalizza Belbo gratis e senza volerlo, facendo emergere il suo difficile rapporto con Lorenza, condivisa con un altro. Casaubon accetta il lavoro propostogli dalla Garamond; Belbo gli parla del Conservatoire e del Pendolo e lo presenta al “padrone”, che possiede anche la Manuzio, casa editrice APS (Autori a Proprie Spese), che spenna polli vanitosi come il doganiere in pensione commendator De Gubernatis, poeta dilettante affamato di gloria.

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FILENAME: “Vendetta tremenda vendetta”. Deluso da Lorenza e dalla vita, Belbo collabora con i raggiri della Manuzio per vendicarsi di coloro i quali non hanno saputo accettare il ruolo di spettatori, come invece ha fatto lui. Garamond vuole da Casaubon cabala e computer per le illustrazioni del libro sui metalli, ma quando il professor Bramanti viene a proporre una delirante collana di scienze occulte, lancia la proposta del Progetto Hermes per entrare nel ramo dell’occultismo, dato che ormai è una moda: la Manuzio pubblicherà il ciarpame occultistico nella collana Iside Svelata, mentre la Garamond pubblicherà testi di valore scientifico nella collana Hermetica. Due mesi dopo, 1982. Parte il Progetto Hermes con l’invio di dépliant alle società segrete e con Lorenza che fa da propagandista civetta nelle librerie di occultismo. In pochi mesi la Garamond-Manuzio è invasa da “diabolici” APS dell’occulto, a cominciare dal professor Camestres, adoratore della Bestia e seguace eretico di Aleister Crowley. 1982. Lo sciame dei libri deliranti. Casaubon contatta Agliè per fare da consulente, e, a casa sua, lui, Belbo e Diotallevi assistono a una discussione accesa tra Bramanti e il francese Pierre, due esaltati occultisti. Il “teatro della memoria” nello studio di Agliè e la sua biblioteca di testi rari. Agliè dà prova di competenza e offre quasi gratuitamente la propria collaborazione in quanto cultore, a suo dire, non di un genere ma della Sapienza, mentre si scopre che Lorenza è di casa a casa sua. Da Pilade, Belbo spiega il riferimento di Agliè alla “cavalleria spirituale” rievocando la vicenda dello zio Carlo, di Adelino Canepa e del capo locale dei partigiani, svoltasi a *** durante il periodo della Resistenza. Arriva Lorenza e li porta alla galleria dei quadri di Riccardo, l’uomo con la cicatrice con cui Belbo la divide. Qui la donna racconta a Belbo che con Agliè giocano a fare Simon Mago e la sua Sophia-Elena, la prostituta e la santa di cui parla un frammento dei testi di Nag Hammadi. Belbo la porta via ubriaca.

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In una miniera del museo della tecnica di Monaco, Casaubon incontra il suo vicino d’ufficio, Salon l’impagliatore, il quale si mostra molto informato sulla sua vita e gli parla dei sotterranei e dei Signori del Mondo che vi abitano, secondo le teorie di Saint-Yves d’Alveydre. Al suo ritorno a Milano Casaubon, con Belbo e Diotallevi, apprende da Agliè quello che lui “ricorda”, come se lo avesse incontrato di persona, su d’Alveydre e la sua Mission de l’Inde en Europe (1886), sulla sua teoria della Sinarchia, su Agarttha e sulla sua idea di una “direzione” occulta della Storia da parte di una Intenzione Stabile, di un disegno, di una Mente. Casaubon va in biblioteca per cercare il libro di d’Alveydre e vi trova il commissario De Angelis, che lo ha appena consegnato, con cui si intrattiene sulla Sinarchia e sulla teoria del complotto cosmico. Alla fine del dialogo De Angelis gli chiede se sa cos’è il Tres, una sorta di associazione, di cui ha sentito parlare. Casaubon non sa cosa sia. Lia a casa interpreta la teoria del complotto come surrogato minore della ricerca di Dio. Autunno 1982. I tre e Lorenza vanno nella casa in collina di Belbo sia per trascorrere un fine settimana e fare il punto della situazione sul libro dedicato ai metalli sia perché Agliè li ha invitati al castello di un rosacrociano nel torinese per assistere a un rito druidico. Belbo rievoca lo scontro a fuoco nel ’45 tra fascisti e partigiani davanti alla casa; sono gli unici ricordi veri che ha, pur essendo stato anche allora solo uno spettatore. Rievoca don Tico, il genis, la tromba, l’oratorio e l’amore non corrisposto per Cecilia. Casaubon teme le incursioni erotiche notturne di Lorenza e decide di fare un figlio con Lia. L’indomani, i tre «guidano attraverso le colline langhigiane, visitano un curioso castello dove appaiono vari simboli alchemici [e] ivi incontrano alcuni occultisti che già conoscevano» [sunto del cap. 57 proposto in Eco 2003: 156]. Il giardino-libro scritto in ideogrammi di cui non si conosce più il senso. Strane visioni nella stanza bianca del castello riguardanti la rappresentazione della produzione di homunculi con metodi ermetici (nella serra ne sono custoditi degli esemplari in 6 ampolle). Casaubon sente la presenza di Lorenza e si vede come

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6. Tiferet [64]

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Amparo a Rio. In una stanza sotto il livello del suolo Casaubon trova una sorta di orecchio di Dionisio a muro, da cui gli giungono frammenti di conversazioni sulla Pietra filosofale, su Cagliostro e sui sotterranei di Parigi; Agliè conduce i tre e Garamond al piano superiore, da dove assistono non visti a un caricaturale rito di iniziazione templare-rosacrociano-massonico officiato dal solito Bramanti. Verso la mezzanotte Agliè li conduce presso la radura di un bosco a tre quarti d’ora d’auto, dove scorgono non visti le prime fasi di un rito druidico tutto al femminile, fino all’apparizione di una torma di maiali. Quella sera il Piano prende forma nella mente dei tre amici. Una settimana dopo. Preda del demone delle somiglianze, Casaubon non ci crede ma ci casca come Amparo, e rilegge la Storia in chiave ermetica, malgrado la saggezza di Lia, che gli spiega come tutti gli archetipi e i misteri numerologici siano riconducibili alla struttura del corpo umano e rispondano a principi di economia; alla fine della conversazione Lia gli comunica di essere incinta. 1983. Mandata alle stampe la storia dei metalli, Garamond propone una storia illustrata delle scienze magiche ed ermetiche in 400 pagine. A seguito delle ricerche per quest’opera, contagiato ormai dal delirio interpretativo, Casaubon concepisce il Piano, assecondato da Belbo e Diotallevi. Per Diotallevi il gioco del Piano è una preghiera, mentre per Belbo è un modo di esplorare il regno del falso dopo aver rinunciato a quello del vero per aver perduto l’Occasione, il Momento decisivo. FILENAME: “Sogno”. Quadri onirici della ricerca di una donna, o di molte donne, a Parigi, rimorsi per gli appuntamenti mancati, lui ignora l’indirizzo, trova un Teatro equivoco, poi c’è una casa di campagna, l’agognato “buen retiro” di Belbo (secondo Cardano nel passo che funge da epigrafe al capitolo, sognare una città sconosciuta significa morire entro breve tempo). Sviluppando un’idea di Casaubon, Belbo dà ad Abulafia l’istruzione di disporre in maniera randomizzata alcune frasi tratte dai manoscritti dei diabolici APS e ne viene fuori un capitolo

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quasi inedito della storia ermetica. Casaubon suggerisce di inserire anche molti dati esterni ed estranei per aumentare le connessioni e Belbo si produce nella lettura mistico-ermetica dell’automobile, a partire dalla somiglianza tra l’albero motore e quello delle sefirot. Visitato il castello di Tomar in Portogallo, noto rifugio dei Templari, Casaubon intuisce un nuovo modo di interpretare la pergamena di Provins trovata anni prima e illustrata loro da Ardenti. Con Belbo comincia a ricostruire da capo il segreto dei Templari e il loro Piano, la cui mappa degli appuntamenti ogni 120 anni non comprende più nell’ordine l’isola di Avalon, Gerusalemme, Agarttha, Chartres, il rifugio cataro tra Italia settentrionale e Francia meridionale, e Stonehenge, come pensava Ardenti [cfr. cap. 20], ma Portogallo (1344), Inghilterra (1464), Francia (1584), Germania (1704), Bulgaria (1824) e Gerusalemme (1944). Nel 1824 c’è stata un’interruzione nel passaggio di consegne tra Germania e Bulgaria perché i Templari di Provins non potevano prevedere che la Bulgaria sarebbe caduta per secoli nelle mani dei turchi. Belbo comincia a dimenticare che stanno costruendo un falso. FILENAME: “Ennoia”. Belbo rievoca una serata di ballo con Mahler e di sballo con erba insieme a Lorenza. Rileggendo con “diffidenza” occultistica i manifesti rosacrociani tedeschi, Casaubon vi scorge allusioni “evidenti” al Piano templare di Provins. Si scopre così che l’appuntamento mancato è quello tra francesi e inglesi del 1584, per un errore del mago e cabalista John Dee, astrologo della Regina, in quanto gli inglesi adottano in ritardo la riforma gregoriana del calendario, e che Bacone è il tramite tra inglesi e tedeschi per la ripresa del Piano attraverso il “segnale” costituito dai manifesti; ma forse la verità è che con John Dee e Bacone gli inglesi, presi da sindrome di impazienza tutta borghese, vogliono impadronirsi del Piano ricorrendo alla scienza nuova e abbandonando i tedeschi al culto idealistico e romantico della Tradizione. FILENAME: “Lo strano gabinetto del Dottor Dee”. Mescolando lacerti di romanzi d’appendice, citazioni varie (Eliot, Borges, Il nome della rosa, ecc.), leggende ermetiche e dicerie sul vero

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autore delle opere di Shakespeare, Belbo abbozza un centone in cui, nei panni di Kelley, incontra Dee, Bacone e Shakespeare, scrive le opere di quest’ultimo insieme a Bacone e va con Dee a trovare a Praga Khunrath nel suo famoso laboratorio dell’alchimista, finché si ritrova in carcere nella Torre di Londra per le trame di Bacone e come compagno di cella ha il misterioso e onnisciente Soapes, “maschera di una maschera”, un ex templare portoghese che alla fine prende il posto del morente Kelley come scrittore e in cella comincia a scrivere il Finnegans Wake. Grazie alle fantasie combinatorie di Belbo, messe per iscritto nel file sul dottor Dee, i tre trovano le connessioni tra i Templari, il priore di Sant’Albano, nonché abate di Saint-Martin-desChamps (futura sede del Conservatoire), Bacone, visconte di sant’Albano, Postel, ritiratosi a Saint-Martin-des-Champs, che quindi è il Rifugio, la Casa di Salomone vagheggiata da Bacone, i rivoluzionari francesi che fondano il Conservatoire e la massoneria. La ricostruzione cronologica degli avvenimenti relativi al Piano fatta da Casaubon in una settimana, dal 1645, anno della fondazione a Londra del rosacrociano Invisible College, da cui nascerà la Royal Society e da questa la massoneria, al 1936, anno in cui nasce in Francia il Grand Prieuré des Gaules. La cronologia viene sottoposta ad Agliè, che fornisce ulteriori dettagli. Agliè si accorge della presenza di un nome che ignora, il Tres, aggiunto per scherzo da Casaubon (che si ricorda all’improvviso della strana sigla menzionata tempo prima da De Angelis) per metterlo alla prova e per l’occasione battezzato Templi Resurgentes Equites Synarchici, e lascia in fretta il gruppo. Avvicinandosi il momento del parto di Lia, Casaubon capisce che non c’è alcun mistero, che la Pietra filosofale e il Graal sono nel ventre della donna, ma per caso visita il laboratorio del vicino Salon e ripiomba nel delirio del Piano e dei sotterranei del mondo, compresa la metropolitana di Milano. Salon allude oscuramente ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion e gli

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confida che suo padre era russo e lavorava per l’Ochrana, la polizia segreta zarista, agli ordini del Capo Račkovskij. Nasce Giulio, cioè la Cosa, il vero Rebis, la vera Pietra Bianca degli alchimisti, mentre Casaubon indugia nell’antro di Salon, pieno di mostri impagliati e di tanfo di sotterranei. Estate 1983. Casaubon allatta Giulio, perché Lia è caduta in depressione dopo il parto, e nel frattempo studia le fonti sulle correnti telluriche, di cui gli aveva parlato Salon. È finalmente in grado di abbozzare il Piano completo dei Templari, basato sul segreto che custodiscono e che risale alla conoscenza antichissima della mappa delle correnti, trasmessa di popolo in popolo, dagli antenati dell’epoca della Pangea agli Atlantidi, ai Celti, agli Egizi, a Mosè, agli Esseni, a Cristo, a Giuseppe di Arimatea, ai rabbini, ai mistici musulmani e infine ai Templari. Questi ultimi scoprono l’Ombelico del mondo, l’Origine, il Centro delle correnti telluriche, ed è questa conoscenza che aggiungono a quella della mappa delle stesse, perché la vera Pietra è la Madre Terra e chi ne controlla il centro da cui si dipartono le correnti interne ne controlla il respiro magnetico e geologico, acquisendo un potere immenso, lo stesso cui ambiva Filippo il Bello muovendo guerra ai Templari. Il Piano richiede un’attesa di circa 600 anni, perché occorre che si conquisti il sapere tecnologico necessario allo sfruttamento della conoscenza del Centro del magnete terrestre. Il Pendolo di Foucault al Conservatoire serve a indicare l’Ombelico sulla mappa suggerita dal messaggio di Provins, che sarà decifrato solo al compimento del Piano, cioè al sesto incontro a Gerusalemme. Il messaggio stesso è un’istruzione su dove cercare la mappa giusta, sulla quale il Pendolo, all’alba del 24, indica l’Ombelico nell’istante in cui è colpito dal primo raggio di sole entrante da una vetrata ben precisa. Ecco che così acquistano un senso ben preciso le varie ricerche sul pendolo dall’età di Galileo a Foucault, nonché l’ossessione ottocentesca per i sotterranei, come dimostrano la letteratura (Verne in particolare) e gli stessi paesi industrializzati che, ispirandosi al Bacone della Nuova Atlantide, scavano le reti delle metropolitane nel sottosuolo, il tutto essendo disseminato di simbologia rosacrociana.

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La ricostruzione del Piano procede per giorni, durante i quali Casaubon trascura Lia e Giulio ed è ossessionato da connessioni di tutto con tutto e dall’acrostico rosacrociano RC, che compare ovunque, da Renato Cartesio a Rick di Casablanca. Ma c’è dell’altro e Belbo lo capisce guardando l’antenna Rai di Milano: ai cunicoli del sottosuolo fa da specchio la rete di comunicazione aerea e celeste, che ha la sua antenna centrale nella Tour Eiffel, la quale unifica gli scopi di Stonehenge con quelli dei satelliti artificiali e dà un senso preciso a tutti i monumenti aerei edificati dall’uomo. L’abitudine del gruppo a fingere di credere, parodiando la logica dei diabolici, che collega tutto con tutto, comincia a confondersi con l’abitudine a credere, e i tre finiscono per smarrire il lume della ragione e la capacità di distinguere il simbolo dalla cosa. Verso la fine dell’estate Diotallevi comincia a dimagrire in modo strano e intanto nel Piano entrano Marx, Fermi, Freud ed Einstein, come elementi che battono vie errate e di disturbo, nonché i gesuiti, i quali, venuti a sapere del piano da Postel tramite Ignazio di Loyola, ne diventano i veri registi occulti, come dimostra anche l’opera di Kircher. Costui costruisce orologi planetari e vuole suggerire che i veri Rosa-Croce sono i gesuiti, finché si mette a progettare macchine di calcolo fattoriale, anticipando con spirito cabalistico i computer come Abulafia. A un certo punto, però, nella seconda metà del XVIII secolo, dopo essersi infiltrati tra i neotemplari, i gesuiti li abbandonano lasciandoli ai rivoluzionari francesi e a Federico di Prussia, e si mettono in contatto con i pauliciani di Russia attraverso de Maistre, mentre lo stesso Napoleone si fa sedurre da Piano di dominio del mondo e tratta con il Gran Sinedrio degli ebrei; mossa, quest’ultima, che fa concludere ai gesuiti e ai pauliciani russi che il complotto è non solo massonico ma anche giudaico. Sono le premesse di inizio XIX secolo per la redazione in Russia, a fine secolo, dei falsi Protocolli, poi pubblicati all’inizio del Novecento. Storia dei Protocolli a partire dalla letteratura e dalla pubblicistica anticlericale francese dell’Ottocento: Sue, Dumas, ecc.

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Belbo vede nei Protocolli lo stesso schema del messaggio di Provins, che diventa così il testo ideale del Piano realizzato nella storia degli ultimi 6 secoli da 6 gruppi diversi (Rosa-Croce, gesuiti, neotemplari, massoni, baconiani ed ebrei), per cui il Piano dei Protocolli coincide con quello dei Templari e uno dei suoi artefici, il Capo dell’Ochrana Račkovskij, è la nuova reincarnazione del conte di san Germano, come dimostra uno dei suoi tanti nomi, a sua volta quasi identico a quello del possibile assassino di Ardenti. Siccome Casaubon definisce “feuilleton” il loro Piano ricostruito, Belbo fa l’elogio di questo genere considerato minore, in quanto più vicino della grande arte alla realtà. FILENAME: “Il ritorno di san Germano”. Immaginandosi come san Germano che prende il posto di Cagliostro, Belbo costruisce un abbozzo di feuilleton in forma di pastiche, tra delitti nei sotterranei di Parigi, tradimenti e colpi di scena, ma la colpa di aver mescolato le carte del romanzo del mondo gli costa la sconfitta ad opera del vero Cagliostro (Giuseppe Balsamo), il quale, dopo averlo fatto sfigurare e marchiare a fuoco sulla spalla con l’immagine del Bafometto dai Templari di Provins travestiti da monaci, lo fa rinchiudere al suo posto nella segreta di san Leo, più o meno come accade ne Il visconte di Bragelonne di Dumas con la faccenda della Maschera di Ferro. Fine novembre 1983-Epifania 1984. Presi dal Piano, i tre trascurano Agliè, che intanto si installa alla Manuzio esercitando una forte influenza su Garamond. Diotallevi continua a dimagrire e ha male allo stomaco, mentre Belbo recupera il mito della terra cava e l’esoterismo nazista, legato al neotemplarismo teutonico, collocando anche Hitler nel Piano: per trascinare la folla come faceva lui si doveva per forza essere in contatto con le correnti sotterranee e non a caso Hitler aderiva alla teoria della terra cava e abitata all’interno, di cui si considerava il Re. La ricostruzione di Belbo della storia del nazismo è interrotta dal primo malore di Diotallevi, che va in cura. Non si parla del Piano per oltre un mese e Casaubon torna ai suoi studi sulla magia.

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Fine gennaio-maggio 1984. Casaubon incontra per caso Salon che esce dalla Manuzio. Da Pilade l’impagliatore gli parla del nesso tra Hitler e le SS da un lato e il Veglio della Montagna e gli Assassini dall’altro e Casaubon ha un’intuizione che in seguito comunica a Belbo (Diotallevi ha il cancro ed è ricoverato in ospedale): gli ebrei non c’entrano, loro sono stati tratti in inganno dal cabalismo di Diotallevi e il sesto appuntamento dev’essere non a Gerusalemme ma nella fortezza di Alamut in Iran (del legame dei Templari con il Veglio, Casaubon si era occupato nella tesi di laurea), dove lo sciita ismailita Hasan Sabbāh aveva collocato il suo regno difeso dagli Assassini e i cui successori erano noti come Veglio della Montagna. È dagli Assassini (così chiamati perché venivano storditi con l’hashish) che i Templari apprendono i loro riti occulti e il segreto per il Piano, e il credito di cui godono i cabalisti ebrei è dovuto a una confusione risalente al Rinascimento tra Ismael e Israel, che avrà effetti fino all’Olocausto, perché Hitler penserà in un primo tempo che il segreto sia in mano agli ebrei. Questo ruolo degli Assassini spiega anche le ragioni occulte della recente instabilità del Medioriente dovuta all’irredentismo islamico. A questo punto il Piano è delineato compiutamente e la Storia riscritta per intero fino ad oggi. FILENAME: “E se fosse?”. Per Belbo il Piano è necessario perché giustifica ed elimina i fallimenti umani assumendosi tutte le colpe. La vera Pietra filosofale è vivere come se il Piano ci fosse. La Storia va stravolta in una sarabanda di anagrammi: è questa l’“ars magna” (anagramma di “anagrams”). Casaubon commenta il file osservando che per Belbo il gioco del Piano era una rivincita sulla vita e sul senso di disagio per gli appuntamenti mancati: la menzogna creativa come via d’accesso a una realtà finalmente piena e vissuta eroicamente. 25 maggio ca.-20 giugno. Lia propone a Casaubon un mese di vacanza in montagna e, quando lui le parla del Piano, la donna avverte una minaccia che grava sul loro gioco irresponsabile perché nel mondo ci sono «migliaia di insicuri disposti a riconoscervisi». Lia trova una spiegazione semplice e di buon senso della pergamena di Ingolf: l’“ordine” è in realtà la classica

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7. Nezah [107-110]

lista della lavandaia, cioè l’elenco delle ordinazioni e delle consegne di un mercante di Provins, il quale deve rifornire qualcuno di fieno, stoffe e rose, mentre il messaggio cifrato è una burla di Ingolf, che cita i Rosa-Croce e il messaggio decrittato da Arsène Lupin nella famosa avventura della guglia cava e infine esclama che ne ha abbastanza di crittografie. Ma Casaubon non può rinunciare al gioco e la mattina del 20 giugno prende il treno e torna da solo a Milano, lasciando Lia a letto. 22 giugno. Dai file più recenti di Belbo, Casaubon ricostruisce gli ultimi giorni dell’amico prima della partenza per Parigi. Primi di giugno. Diotallevi è in fase terminale e Belbo decide di mettere il Piano per iscritto, come per esorcizzare il male. Domenica 10 giugno. Con Lorenza e a causa sua Belbo ha esperienze frustranti nel corso di un viaggio in macchina in Riviera (un tavolo del ristorante dove vanno a pranzare è stranamente prenotato da Agliè), nell’Appennino Ligure (investono un cane e perdono tempo con la gente del paesino) e a Piacenza (Lorenza lo abbandona nell’albergo prendendo un treno per Milano), e così decide di buttarsi nuovamente nel Piano per delusione, mettendoci pure Agliè in un impeto di hybris faustiana tipica degli sconfitti (Bin ich ein Gott?). Lunedì 11. Belbo incontra Agliè in ufficio e mette in atto la burla immaginata raccontandogli del Piano e di aver appreso, dalle carte di Ingolf portate circa dieci anni prima alla Garamond da Ardenti, il segreto della mappa e dei 36 Invisibili, che custodisce in testa perché per paura ha distrutto i documenti. Martedì 12. Agliè telefona a Belbo per chiedergli un favore. Visto che l’indomani Belbo si sarebbe dovuto recare a Bologna, avrebbe dovuto gentilmente scortare sul treno una valigetta di libri che poi un amico di Agliè avrebbe prelevato a Firenze. Mercoledì 13. È il giorno dei funerali di Berlinguer. Belbo incontra nel suo scompartimento uno strano individuo con

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la barba molto loquace e petulante, il quale dopo Bologna denuncia la valigetta sospetta; si scopre così che la valigetta contiene una bomba e la sera, quando ascolta la notizia al telegiornale, Belbo capisce di essere stato incastrato da Agliè. Giovedì 14. Belbo riceve la telefonata minatoria: se non vuole essere denunciato come l’uomo della valigetta dovrà rivelare la mappa dei Templari, recandosi il 20 a Parigi, dove a mezzogiorno avrebbe incontrato l’uomo con la barba nella libreria Sloane. Va a casa di Agliè e scopre che ha traslocato il giorno prima e che l’affitto era pagato per via bancaria da una ditta francese rappresentata da un certo Ragotgky. Da un dattiloscritto trovato in ufficio apprende che “Agliè” è uno dei nomi veri del conte di san Germano, per cui il Piano sembra vero e Agliè vi recita la sua parte da prima che loro lo inventassero. Telefona a Lorenza e anche lei, forse da sempre creatura di Agliè, è irreperibile. Telefona a De Angelis ma questi è stato minacciato e sta partendo per la Sardegna perché ha dovuto chiedere trasferimento, sicché non vuol saperne nulla. Va da Garamond, il quale minimizza, gli consiglia una vacanza e lo invita a recarsi a Parigi per chiarire la faccenda con Agliè e dargli la mappa, ma intercettandone una telefonata scopre che anche Garamond fa parte del Piano. La sera va ad ubriacarsi da Pilade. Venerdì 15. Belbo, solo e disperato (Casaubon è irreperibile) va a chiedere aiuto al morente Diotallevi. Questi interpreta tutto in chiave cabalistica e dice a Belbo che loro sono puniti in maniera diversa per aver peccato contro la Parola che crea e regge il mondo, varcando con la fantasia creativa ogni limite dell’interpretazione del giusto senso e pensando che ad ogni testo si possa far dire tutto quel che si vuole. C’è corrispondenza tra le lettere del Libro, le parti del corpo e quelle del mondo: sconvolgendo le prime hanno sconvolto le seconde (e quindi le cellule del corpo di Diotallevi sono impazzite nel tumore) e le terze (e quindi il mondo si ritorce contro Belbo dandogli la caccia).

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8. Hod [112]

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Fino al 18 giugno Belbo si chiude in casa e mette ordine nei file di Abulafia, stendendo anche il resoconto degli eventi. Martedì 19. Belbo va a Parigi, forse con l’intento di confessare vigliaccamente che non c’è alcun segreto e che era tutto un gioco, ma non viene creduto e scappa. Giovedì 21. Belbo viene catturato dal Tres mentre parla al telefono con Casaubon. Sabato 23 giugno. La mattina Casaubon termina la lettura dei file e decide di andare a Parigi per curiosità, dovere e amicizia. Nella libreria Sloane commette l’errore di chiedere di Agliè, insospettendo il libraio; va in albergo con la sensazione di essere seguito da un arabo. Dopo le tre del pomeriggio va al Conservatoire e, alla chiusura, si nasconde nel Periscopio aspettando la mezzanotte. Terminato l’esame di coscienza con la rievocazione dell’errore del Piano, Casaubon abbandona il Periscopio tra le 22 e le 22,30 per raggiungere la navata e un miglior punto di osservazione, ma incontrando gli oggetti della tecnica nel buio delle sale comincia a pensare come Belbo e li legge come geroglifici di qualcosa d’altro, cioè dell’Altro, il Piano: strumenti per captare e controllare le correnti telluriche ed eseguire esperimenti alchemici. Verso le 23 raggiunge la garitta della statua della Libertà, dopo aver visto uscire un uomo con una lanterna in mano dal basamento della statua di Gramme. Verso la mezzanotte e oltre. Risvegliatosi da un leggero sonno, Casaubon assiste al ridicolo raduno iniziatico del sedicente Tres attorno a un Pendolo, messo al centro del coro e in versione ingrandita rispetto a quello di Foucault. È una sorta di notte delle streghe da circo, con un HCE joyceano in cui tornano tutti i personaggi del romanzo ora adepti dell’Ordine Unico: Bramanti, il pittore Riccardo, De Gubernatis, il libraio di Sloane, il professor Camestres, Garamond, Salon, Pierre, Agliè, Lorenza (drogata) e persino Ardenti. Belbo viene condotto legato al cospetto di quell’accolta di ierofanti per essere costretto a svelare il segreto ad Agliè seduto a un tavolo ed ha alle spalle

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il Pendolo che oscilla. Ma è Madame Olcott, una delle druidesse della radura piemontese, ora a capo di un circo, a prendere in mano la situazione facendo eseguire un’evocazione di spiriti (quello di Kelley, quello di Khunrath e quello del conte di san Germano) ai suoi tre medium, i fratelli Fox. A quel punto Casaubon esce dal suo nascondiglio e si mescola tra la folla. I fratelli Fox finiscono soffocati dai loro stessi demoni rigurgitati come bava dalla bocca e la Olcott esce dal gioco, che passa nelle mani del sanguinario Pierre, il quale esige il sacrificio umano. I suoi uomini mettono Belbo sul tavolo e gli avvolgono al collo il filo del Pendolo, mentre Agliè fa un ultimo tentativo di estorcergli il segreto con un discorso solenne e melodrammatico, interrotto dal “Ma gavte la nata!” (“Ma togliti il tappo dal culo!”) sferzante e offensivo di Belbo. Succede il parapiglia: Agliè batte la testa spinto dalla Olcott, Lorenza si risveglia ma mentre si lancia su Belbo per liberarlo è pugnalata a morte da Pierre, qualcuno spinge Ardenti contro il tavolo e Belbo finisce impiccato al filo del Pendolo, finalmente senza paura e avendo riacquistato la percezione del ridicolo di tutta la situazione. Ripresa da una macchina fotografica di Maybridge la macabra struttura oscillante ternaria costituita dalla testa di Belbo, dal tronco di Belbo e dalla sfera del Pendolo simulerebbe l’albero delle sefirot, e quando il corpo di Belbo si ferma e il Pendolo comincia a oscillargli sotto, egli si trasforma nel Punto Fermo, nel Perno Fisso, riconciliandosi così con l’Assoluto (nella sua casa di campagna, dirà Casaubon nel capitolo successivo, c’era la lettera di qualcuno, cui Belbo aveva chiesto chiarimenti, in cui era spiegata la dinamica del Pendolo doppio). Passando per il basamento della statua di Gramme, Casaubon fugge attraverso le fogne di Parigi e riemerge negli scantinati coi cessi di un bar malfamato orientale. Erra per le strade nella notte parigina e si imbatte nei simboli da cui sta scappando: una libreria rosacrociana, il Beaubourg, un’altra libreria occultistica, una di cose arcane, una alchemica, la Tour Saint-Jacques degli esperimenti di Pascal sul peso dell’aria, il Bafometto sul portale di Saint-Merri. Casaubon cerca confusamente qual-

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9. Jesod [118]

cosa, vede la città come una catacomba di percorsi preferenziali per iniziati, scorge un cane che gli ricorda Faust e Wagner (in base al passo del Faust posto in epigrafe al capitolo 107), e quindi capisce che sta cercando lo studio del dottor Wagner; prende un taxi e dà un indirizzo che sembra rivelarsi sbagliato (avenue Elisée Reclus), si incammina verso l’albergo e si ritrova quasi sotto la Tour Eiffel, lo strumento immondo del potere dei Signori, che con la sua gelida minaccia e realtà gli ricorda la morte di Belbo e la verità del Piano. Casaubon fugge su un taxi e va a dormire in albergo. Due del pomeriggio del 24. Casaubon si risveglia in una domenica di disordini a Parigi causati dalle manifestazioni degli studenti. Attraversando i cortei, torna al Conservatoire e trova tutto in ordine, come se la notte prima non fosse successo nulla. La sera va a mangiare pesce in un ristorante e guardando l’acquario si ritrova circondato da segnature alchemiche e geroglifici ittici che rinviano ai Templari. Capisce di aver bisogno della “terapia della parola” perché pensa che tutto possa essere stato solo un incubo. L’indomani mattina alle 9,30 riesce a fissare l’appuntamento con il dottor Wagner, il quale, dopo averlo ascoltato in silenzio, lo congeda dandogli del pazzo, e uscendo si accorge che lo studio è proprio in avenue Elisée Reclus. Alle undici si reca in aeroporto, nell’attesa telefona alla Garamond e da Gudrun apprende che Diotallevi è morto alla mezzanotte di sabato e che nessuno dei suoi amici, tranne un misterioso ebreo, era al suo funerale svoltosi quella mattina. Primo pomeriggio del 25. Sull’aereo Casaubon ripensa agli avvenimenti della notte al Conservatoire e si rende conto che il Piano inventato esiste perché altri lo hanno realizzato, essendo vissuti nella speranza di appartenervi; riflette sulla teoria del complotto e sul suo reggersi su un segreto vuoto che dà potere a chi dichiara di possederlo, come era accaduto a Belbo prima della fine, quando anche Agliè lo implorava di rivelarglielo all’orecchio. Col loro gioco hanno scatenato la fame di piani dei frustrati. Belbo ha rifiutato la salvezza che avrebbe potuto

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10. Malkut [120]

ottenere mentendo perché sembrava aver raggiunto la saggezza, ovvero la coscienza che non v’è alcun segreto e che semplicemente qualcosa ha più senso di qualcos’altro. Ma cosa? La risposta di Lia è Giulio, la vita nella sua semplice espressione naturale. All’arrivo a Milano Casaubon si ritrova in tasca le chiavi della casa in collina di Belbo e si ricorda (cfr. cap. 55) dell’armadio segreto contenente gli scritti giovanili dell’amico. Vi giunge verso le sei del pomeriggio e comincia subito a spulciare i vecchi testi di Belbo, finché non trova quello chiave, più volte rimaneggiato negli anni. Cena alle dieci di sera con salame e acqua e alle tre di notte del 26 medita ancora sull’ultimo segreto di Belbo, come Sam Spade alla ricerca dell’ultima traccia. Fine aprile del 1945, accade l’evento decisivo della vita di Belbo. Ha tredici anni, si trova a San Davide, a pochi chilometri da *** , perché con la banda musicale comunale ha accompagnato il corteo funebre dei due partigiani caduti nell’ultimo scontro con i fascisti. Poiché il trombettista titolare si rifiuta, Belbo si offre volontario ed ha così l’occasione di accompagnare da solo con la tromba l’attenti e il riposo nel cimitero per la sepoltura. Ma nel sole meridiano cui tiene puntata la tromba, il piccolo Belbo prolunga all’infinito il do dell’attenti ed è come se col filo del suono tenesse il sole fermo come un palloncino, legando così la terra al Polo Mistico, all’unico Punto Fermo dell’universo, quello creato da lui in quell’istante infinito col suo soffio. Di questo brevissimo momento di verità e trionfo, la successiva ricerca del Pendolo sarebbe stata per Belbo solo l’immagine ossessiva, il simulacro di un momento reale, rimosso e sempre cercato inconsciamente. Notte alta del 26 giugno 1984. Casaubon è combattuto tra la pace e l’inquietudine di aver capito. La saggezza arriva all’ultimo momento e dice che non c’è niente da capire. Non c’è Piano, non c’è arguzia interpretativa di fronte alla saggezza del Regno di Malkut (la Terra) e di Lia che dà la vita, se non dopo, per spiegare l’innocenza dei dinosauri che un tempo pascolavano in quel luogo e le pesche che vi crescono adesso. Ma chi

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cerca Casaubon per eliminarlo è cieco a questa rivelazione e non gli crederebbe, sospettando altri segreti. E allora tanto vale attenderli contemplando dalla finestra la bellezza della collina.

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