L'immagine e il nulla. L'ultimo Godard 8889908742, 9788889908747


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Italian Pages 276 [140] Year 2014

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L'immagine e il nulla. L'ultimo Godard
 8889908742, 9788889908747

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orizzonti

Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Verona – Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica.

Alberto Scandola

L’ i m ma g i ne e i l nu l la : l ’u lt i mo God a rd

© edizioni kaplan 2014 Via Saluzzo, 42 bis – 10125 Torino Tel. e fax 011-7495609 [email protected] www.edizionikaplan.com ISBN 978-88-89908-74-7 In copertina: Adieu au langage di Jean-Luc Godard

k a p l a n

Indice

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Introduzione Capitolo 1 L’ infanzia dell’ immagine (Si salvi chi può… la vita; Passion)

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Rolle anno zero, p. 21; Dietro lo schermo p. 25; Passare per il reale, p. 27; Una folata di irregolarità, p. 32; Quel che resta dell’attore (e del paesaggio), p. 36; Figurativo o figurale?, p. 39; L’immagine dell’origine, p. 41; Il verbo, la carne, il cinema, p., 44; Estasi e pathos, p. 46;. Uomini e fiori, p. 48; Contorni, p. 52; Volti, p. 56 Capitolo 2 Le parole e le cose (Prénom Carmen; Je vous salue, Marie)

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La musica al lavoro, p. 65; Eterotopie, p. 70; Tre colori: giallo, p. 75; Differenze e ripetizioni, p. 82; Filmare la Parola, p. 87; Un fiore del male, p. 93; L’Annunciazione, p. 97; Maria e le altre, p. 103; Prénom Eva, p. 110; Il rossetto, p. 112; Potenza delle cose, p. 115 Capitolo 3 Il tempo del ritorno (Histoire[s] du cinéma; Allemagne 90 neuf zéro; Nouvelle Vague; De l’origine du XXIème siècle) Dalle storie alla Storia, p. 120; Tu non hai visto nulla ad Auschwitz, p. 123; La solitudine plurale, p. 127; Al riparo dal tempo, p. 134; Guardare il buio, p. 139; Solitudine di uno Stato, stato della solitudine, p. 142; Storia dell’occhio, p. 147; Vaga novella p. 152; L’incidente, p. 158; Una stella intertestuale, p. 161; Figure e colori, p. 165; Reditus ad originem, p. 171

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Capitolo 4 Viaggi in utopia (Liberté et Patrie; Éloge de l’amour; Film socialisme, Adieu au langage)

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Vedere e/o immaginare, p. 177; Tra linea e colore, p. 180; Elogio dell’impersonale, p. 186; Due cose che so di lei, p. 191; L’immagine povera, p. 198; Il visibile e l’invisibile, p. 202; L’evento e lo sguardo, p. 207; Dialogo con i volti, p. 211; Mediterraneo, p. 217; Khan Khanne, p. 222; Ah Dieux, oh langage!, p. 225; La natura?, p. 227; «J’ai fait l’ image», p. 231; Fantasmi del reale, p. 235

Int r od u z i on e

Un’ immagine è una pura creazione dell’anima. Non nasce dallo scontro, ma dalla riconciliazione di due realtà che insieme vivono più che divise. Jean-Luc Godard, Re Lear

Bibliografia

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Filmografia

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Indice dei nomi e dei film citati

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Così, senza camuffare la propria voce sotto una maschera da clown e limitandosi semplicemente a inserire una lampadina in una scatola di cartone, Jean-Luc Godard risponde a una domanda che angoscia non solo il personaggio di William Shakespeare Jr. (King Lear [Re Lear, 1987]), ma anche e soprattutto il suo creatore: «Che cos’è un’immagine?». Fin dagli scritti giovanili, l’ex «rifondatore»1 del linguaggio cinematografico non ha mai cessato di porsi e di porci questa e altre domande. Oggi, sessant’anni dopo la rivoluzione, Godard è un marchio (JLG), un’icona da celebrare – si pensi all’accoglienza che il Festival di Cannes ha riservato a Adieu au langage (Adieu au langage-Addio al linguaggio 2014)2 –, studiare e preservare, come ha suggerito Voyage(s) en Utopie. A la recherche d’un théorème perdu. JLG 19452005, la mostra allestita nove anni fa al Centre Pompidou in vece di un progetto ben più ampio – Collage(s) de France. Archéologie du cinéma –, ostacolato, oltre che da problemi «tecnici e finanziari», anche dall’ego dell’autore. Anziché un viaggio nella memoria del cinema, al visitatore vennero infatti offerti i resti di un’esposizione perduta ancor prima di essere stata realizzata: modellini, contenitori in vetro, cornici, tele appoggiate per terra, installazioni non finite. Non la memoria dunque, ma le tracce delle sue tracce. A che punto sono gli studi su Godard? Se in Francia l’attenzione resta come sempre vigile (penso alle recenti ricerche di Céline Scémama, Frédéric Hardouin o Jean-Louis Leutrat)3, interessante risulta l’attrazione della critica 1 Giorgio Tinazzi, La nouvelle vague, in Paolo Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia del cinema, Utet, Torino, 2006, p. 131. 2 Nel momento in cui scriviamo Adieu au langage non è ancora uscito nelle sale italiane. La BIM ne annuncia la distribuzione nelle sale e sulle piattaforme video-on-demand con il doppio titolo Adieu au langage-Addio al linguaggio. 3 Per il dettaglio di questi e di altri volumi su Jean-Luc Godard si veda la Bibliografia.

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Introduzione

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anglosassone per la produzione più recente, testimoniata dagli studi di David Sterrit4 e soprattutto dal contributo di Daniel Morgan, teso a indagare il ruolo di Godard come «vate di un nuovo cinema» dopo la morte del cinema5. Sia Sterrit che Morgan riflettono sull’etichetta più frequente tra quelle adottate dalla critica, ovvero la presunta oscurità di un cinema che, però, forse trasparente non è mai stato. Epiteti come “confuso”, “solipsista” o «irritante»6 altro non attestano che la difficoltà di approccio nei confronti di testi e paratesti resistenti sia all’immedesimazione dello spettatore che allo sforzo ermeneutico dell’analista, smarrito dinanzi a un caleidoscopio di immagini, parole e suoni solo apparentemente sterile e autoreferenziale: La difficoltà è semplicemente una caratteristica essenziale e costitutiva dell’ultimo Godard e il solo modo per decodificarne la poetica è analizzare le difficoltà che le opere presentano, al fine di comprendere come le ambizioni intellettuali e cinematografiche dell’autore emergano e siano allo stesso tempo create dalla loro esposizione densa e intricata7.

E in Italia? Moltissimo si è scritto in merito agli “anni Karina”, stagione annoverata dagli storici come incarnazione del Moderno: opere come À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1959), Le mépris (Il disprezzo, 1963) o Pierrot le fou (Il bandito delle ore undici, 1965), facilmente reperibili sulle principali piattaforme multimediali, restano un punto di riferimento costante per la manualistica didattica, sia sul fronte della teoria che su quello dell’analisi. Un lungo silenzio invece – con l’eccezione dello studio di Roberto Chiesi8 – ha accolto la produzione degli ultimi trentacinque anni, circolata del resto solo in parte e all’interno di circuiti ristretti. Nouvelle Vague (Id., 1990) è l’ultima pellicola doppiata e distribuita nelle nostre sale, mentre Notre musique (2004) o Film socialisme (2010), per citare solo alcune delle opere più recenti, hanno dovuto beneficiare di passaggi televisivi o del mercato home-video. Le ragioni di questa “invisibilità“ sono diverse, non ultima la modalità di produzione di un cineasta che, confinato tra l’atelier di Rolle e le rive del

lago Lemano, continua a sperimentare generi (dall’autobiografia alla cinesceneggiatura), modelli narrativi (dalla pubblicità alla storiografia) e dispositivi (carta stampata, immagine analogica e immagine digitale) all’incessante ricerca delle relazioni che legano la Storia e le storie, il cinema e il reale, il mondo e il linguaggio adottato per raccontarlo. Emblematico in questo senso il titolo dell’ultima opera, Adieu au langage, punto di approdo di una ricerca, e al contempo alba di un nuovo percorso creativo: la tecnologia 3D al servizio della saggistica. Inaugurato, a detta dello stesso Godard, da una sorta di rinascita tanto artistica quanto sentimentale9 e identificato da Jean-Louis Leutrat10 come la sesta tra le stagioni creative dell’autore, il periodo che va dal 1979 (insediamento a Rolle ed elaborazione di Scénario de Sauve qui peut… la vie)11 al 1988 (pubblicazione dei primi due capitoli delle Histoire(s) du cinéma, 1A e 1B) attira in Italia la curiosità di una fascia più ampia della cerchia cinefila. Se il ventre nudo della Vergine fa gridare allo scandalo (Je vous salue, Marie, [Id., 1984]), le mille fratture e digressioni che aprono la struttura narrativa di Passion (Id., 1982) o Soigne ta droite (Cura la tua destra, 1987) fanno di Godard l’ultimo moderno nella stagione del postmoderno. Mentre il cinema d’autore, infatti, rielabora la tradizione alla ricerca di un relazione sinestetica tra spettatore e schermo, (ri)costruendo immagini sempre più luccicanti, vivide e umide (penso ai fratelli Coen ma anche al cinema “visivo” di Beineix, Carax o von Trier), Godard lavora di sottrazione, togliendo all’immagine le scorie della narratività e ritornando, come vedremo, alla sua nuda «infanzia». Come ha sintetizzato Carlo Scarrone, «Godard riduce i suoi film al prefilmico […] una semplice emulsione di figure di contorno, prive di storia. Un impossibile futuro. Il buio prima del sipario. La morte come fenomeno. Il fenomeno di una scomparsa»12.

Cfr. David Sterrit, The Films of Jean-Luc Godard: Seeing the Invisible, Cambridge University Press, New York, 1999. 5 Cfr. Daniel Morgan, Late Godard and the Possibilities of Cinema, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London, 2012. 6 Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard simple comme bonjour, L’Harmattan, Paris, 2004, p. 7. 7 Daniel Morgan, Late Godard and the Possibilities of Cinema, cit., p. 9. 8 Roberto Chiesi, Jean-Luc Godard, Gremese, Roma, 2003.

Tornare a casa, per Godard e compagna, significa anche tornare a fare cinema: «Sentivamo il bisogno di riavvicinarci alle montagne, al nostro paese natale… Il cinema francese non si può rinnovare, si fa soltanto a Parigi. A Rolle ho avuto la sensazione di ricominciare». Jean-Luc Godard in Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano, 2002, p. 158. 10 Jean-Louis Leutrat e Suzanne Liandrat-Guigues segmentano la produzione dell’autore in sette periodi, comprendendo in questo elenco anche l’apprendistato critico ai «Cahiers du cinéma» (1950-1958): si veda Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, JeanLuc Godard. Alla ricerca dell’arte perduta (1994), tr. it. Le Mani, Recco, 2001, pp. 9-17. 11 Il titolo completo del video, realizzato tra Rolle e Losanna nella primavera del 1979 e trasmesso dalla Télevision de la Suisse Romande nel 1981, è Scénario de Sauve qui peut (la vie). Quelques remarques sur la réalisation et la production du film Sauve qui peut (la vie). 12 Carlo Scarrone, Il mistero Godard, «Segnocinema», 33, maggio-giugno 1988, p. 34.

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Introduzione

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Ma se negli anni Ottanta Godard è ancora – ha ragione Philippe Garrel – «un moderno isolato, ovvero l’unico cineasta per il quale il cinema non è un’attività separata ma serve alla vita»13, che cosa si intende per modernità oggi, nell’era della postmedialità? La rivoluzione tecnologica, ancora in corso, ha davvero permesso di indebolire la «tirannia»14 dell’immagine cinematografica e forgiare una nuova immagine, più manipolabile e per questo forse anche più viva? Forse il concetto di modernità non è cambiato, o meglio, ha assunto una nuova sfumatura, più nichilista. Inutile divertirsi a infrangere le leggi del cinema classico, perché, come afferma Jerzy in Passion nel cinema non esistono neppure delle leggi: se la regola appartiene alla cultura, «l’eccezione fa parte dell’arte» (JLG/JLG. Autoportrait de décembre, 1995). E probabilmente quella del digitale non è nemmeno stata una rivoluzione, almeno stando a quanto Godard sostiene da dieci anni a questa parte: Tutti i grandi discorsi sul video digitale sono aria fritta. Non vedo grandi differenze, l’importante è cosa si fa e perché lo si fa. Nessuno parla del suono, ad esempio, che è pessimo. Peraltro al momento non si può girare senza luce. […] Il digitale permette di essere liberi, ma per fare cosa? In che momento? In realtà poco cambia15.

Per comporre il suo “museo immaginario”, ovvero le Histoire(s) du cinéma, l’autore infatti non ha avuto bisogno di numeri, cloud o memorie esterne: sono state sufficienti le centinaia di videocassette conservate nel suo archivio reale. La forza di un’opera audiovisiva, insomma, non risiederebbe nella sua specificità mediale, ma piuttosto nella modalità con cui essa restituisce allo spettatore quei segni di realtà che, come diceva Benjamin, sono già parmi nous, in mezzo a noi: l’arte li deve solo svelare. Postmediale, però, Godard lo è sempre stato, sin da quando utilizzava la penna dei «Cahiers» in luogo della cinepresa Arriflex: «Scrivere significava già fare del cinema. Tra lo scrivere e il girare c’è una differenza quantitativa e non qualitativa»16.

Oltre che sui modi di produzione, Godard si è sempre interrogato sulle forme di ricezione del testo filmico, invitando il cinema ad «andare ovunque»17 e avvertendo come un’esigenza quel fenomeno che Francesco Casetti qualche anno fa, di fronte al tramonto della sala cinematografica come unico luogo dell’esperienza filmica, ha definito «rilocazione»18. Riascoltiamo Godard: Non c’è nessuna ragione per cui i film siano proiettati nelle sale. Allo stato attuale c’è bisogno delle sale, ma dovrebbero esistere come chiese sconsacrate, o come stadi. […] Normalmente dovremmo essere in grado di vedere i film in casa nostra, con un televisore o su un muro19.

Quarant’anni dopo questa dichiarazione il cinema ha cessato di configurarsi come esperienza auratica separata dalla vita e si sta davvero «rilocando» ovunque, su schermi piccoli (telefoni cellulari) o grandi (home-theatre) che danno allo spettatore la sensazione di dominare l’Altro, gestendo a proprio piacimento tempo e spazio di un’esperienza visiva più filmica che cinematografica. Dal suo spettatore, peraltro, Godard ha sempre preteso una partecipazione attiva, uno sguardo che tralasciasse l’identificazione a vantaggio della riflessione. Basta ricordare l’incipit di Le petit soldat (Id., 1961): «il tempo dell’azione è finito, quello della riflessione comincia». Comincia e si intensifica proprio nella stagione a cui è principalmente consacrato questo saggio, quegli anni Ottanta che segnano, dopo l’afasia balbuziente della stagione Dziga Vertov (Vladimir et Rosa, 1970), il recupero di una fiducia nell’immagine intesa come finestra aperta non tanto sul mondo, quanto, come vedremo, sul nulla. Come ha dimostrato Antonio Costa 20, questa rinascita è probabil-

Philippe Garrel, L’art et mai 68, «Cahiers du cinéma», 606, 2005. «L’immagine grazie al video diventa meno tirannica. […] Il video ci permette di pensare in forma di immagini e non di testo». Dichiarazioni rilasciate da Jean-Luc Godard nel 1975 e tradotte ora in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, Il Castoro, Milano, 2010, p. 152. 15 Jean-Luc Godard in Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, cit., p. 15. 16 Ivi, p. 8.

17 «Il cinema deve andare ovunque. Bisogna fare la lista dei luoghi in cui non c’è ancora e farcelo arrivare. Se nelle fabbriche non c’è, deve andare nelle fabbriche. Se nelle università non c’è, bisogna portarcelo» (Jean-Luc Godard, Lutter sur deux fronts. Conversation avec Jean-Luc Godard, «Cahiers du Cinéma», 194, 1967 [tr. it. Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, a cura di Adriano Aprà, Garzanti, Milano, 1970, p. 319]). Interessante è soprattutto la convizione, espressa da Godard, che una mutazione delle condizioni di ricezione avrebbe influenzato fortemente anche l’estetica del cinema. 18 Sul concetto di rilocazione postmediale si veda Francesco Casetti, Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in un’epoca post-mediatica, «Fatamorgana», 8, «Visuale», 2009 (www. francescocasetti.net). 19 Jean-Luc Godard, «Cahiers du cinéma», 194, 1967. Nostra traduzione. 20 Per un’analisi delle sperimentazioni degli anni Settanta rinvio a Antonio Costa, L’ultimo Godard/Godard l’ultimo, «Cineforum», XVI, 10, ottobre 1976, pp. 567-578.

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mente frutto delle sperimentazioni Sonimage prodotte nel laboratorio di Grenoble, stagione godardiana forse ancora più oscura di quella recente. Leitmotiv degli anni Novanta saranno, lo vedremo, la nozione di storia intesa come costruzione/disgregazione di elementi attinti dalla Storia (Auschwitz, Sarajevo, Socialismo, Europa) e soprattutto la riflessione, in forma di ludus, sulla reversibilità di ogni proiezione: mi riferisco all’esagramma mistico disegnato in JLG/JLG Autoportrait de décembre e al gioco di associazioni libere che ne deriva 21. A Godard interessa non tanto proiettare un’immagine, quanto rifletterla e vedere cosa ne esce22. Già Comment ça va? (1978) e Numéro deux (1975) avevano indicato che per cominciare a vedere un’immagine “altra” della realtà, lontana da quella offerta dal potere, sarebbe stato necessario separare con uno schermo nero la «falsa coesione delle cose», attraversare il buio e cominciare a vedere la «realtà altra dell’immagine»23. Si diceva della (poca) attenzione rivolta dalla critica italiana, accademica e non, al cosiddetto «terzo Godard» (1979-2014)24. Oggetto di indagine sono stati soprattutto i lungometraggi della prima metà degli anni Ottanta, da Passion a Détective (Id., 1985). Se Alberto Farassino ha notato «una perfezione di immagini e una volontà di altezza che hanno del sublime» (1996), Giorgio De Vincenti (1993) vi ha rilevato le tracce di una modernità 25 intesa come rottura dei codici, ovvero: indebolimento della struttura narrativa tradizionale, montaggio per associazione di idee, accumulo di materiali, aperture metalinguistiche del testo. Poi, il silenzio. Solo nel 2010, in occasione degli ottant’anni del Maestro, un volume collettivo sulle Histoire(s) du cinéma26 e una serie di retrospettive, giornate di stu-

di e convegni hanno aiutato a far luce sulla ricerca di un autore che, come ha osservato Roberto Turigliatto, ha ormai assunto l’attitudine di un «ricercatore scientifico, dedito alla rilevazione al di fuori di ogni schema narrativo»27. Interessante, in questo senso, è l’ipotesi ermeneutica proposta da Giorgio De Vincenti, attento a cogliere, in particolare nella produzione degli anni Ottanta, la forte sintonia del pensiero godardiano con alcune delle questioni più delicate della scienza contemporanea (l’orgine dell’universo, la relazione tra scienza e religione, l’analogia tra Web e Griglia cosmica)28. Gli aggettivi impiegati per definire l’ultimo Godard sono sempre gli stessi: ostico, difficile, complesso. Difficile, forse, è decodificare processi narrativi che si avvalgono spesso di immagini estatiche, ovvero tali da spingere lo spettatore/lettore fuori da uno schermo in cui sembrano invece liberi di entrare elementi apparentemente esterni alla “storia” (citazioni di brani letterari o filosofici, personaggi secondari, voci over ecc.). Spesso lo schermo non contiene storie, ma – e penso a Scénario du film Passion (1983) – solo colori, suoni, corpi. Dietro la superficie narrativa, impervia a chiunque cerchi sullo schermo una relazione di causalità tra corpi, azioni e situazioni, si nasconde in realtà la leggerezza di uno sguardo che elimina le frontiere tra generi alternando film su commissione (Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma, 1986) e autoritratti (JLG/JLG. Autoportrait de Décembre), clip pubblicitari (Closed, 1988) e videolettere (Lettre a Freddy Buache, 1986), frammenti di storie (Hélas pour moi, 1993) e Storia dei frammenti (Histoire[s] du cinéma, 1988-1994). E così una stella della «moneta dell’assoluto» come Alain Delon è filmata come gli astri che illuminano la notte di Marie (Je vous salue, Marie) ovvero come una luce già trascorsa, percepita in ritardo, bella quanto l’inquadratura di un cavallo29. Tra i due millenni, insomma, Godard sembra essere riuscito a perfezionare

«Poiché – dice Godard in JLG/JLG – io che ascolto e guardo sono in questo punto, poiché sono di fronte e poiché ricevo questa proiezione e poiché la rifletto mi trovo nella situazione descritta da questa figura». Dalla Storia (Israele/Nazismo/Palestina) alla storia del cinema (il suono stereo). 22 Cfr. Rinaldo Censi, JLG/JLG. Elogio delle cause perse, in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, CEC, La Cineteca del Friuli, Cinemazero, Udine, p. 251. 23 Antonio Costa, L’ultimo Godard, cit., p. 578. 24 Del resto lo stesso Godard ha proposto di articolare in tre stagioni il suo corpus: «La prima è quando non facevo film, gli giravo intorno, cercavo. La seconda è cominciata con À bout de souffle ed è durata fino al 1970, poi c’è stato il riflusso, o il flusso… la terza è adesso». Jean-Luc Godard, Travail-amour-cinéma, «Le Nouvel Observateur», 20 Octobre 1980 (tr. it. Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 352 ). 25 Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma, 1993. 26 Cfr. Alessia Cervini, Alessio Scarlato, Luca Venzi, Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoires du cinéma di Jean-Luc Godard, Pellegrini Editore, Cosenza, 2010.

Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, cit., p. 5. Si veda a questo proposito Giorgio De Vincenti, Gli anni Ottanta di Jean Luc Godard, tra scienza, filosofia e religione, verso la cosmologia e il World Wide Web, «Imago. Studi di cinema e media», II, 2, 2010, pp. 101-122. 29 «Le stelle del cinema rappresentano una luce già trascorsa. E dunque dobbiamo servircene in un certo modo, utilizzarle, al peggio, per arrivare a fare un’inquadratura a un cavallo che sia altrettanto bella di un’inquadratura fatta a Delon». Dichiarazione espressa da Jean-Luc Godard alla Conferenza Stampa del Festival di Cannes (1990) e tradotta ora in Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, Minimum Fax, Roma, 2007, p. 219.

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quel «modo di procedere» sperimentato nel 1966 con Deux ou trois choses que je sais d’elle (Due o tre cose che so di lei), al contempo documento di un oggetto (la città) e indagine su un soggetto: Non posso evitare il fatto che tutto esista dall’interno e insieme dall’esterno. È una cosa questa che potrà essere resa sensibile filmando un palazzo dall’esterno e poi dall’interno, come se si entrasse all’interno di un oggetto. Lo stesso vale per le persone, il cui viso è in genere visto dall’esterno30.

Si tratta, in sostanza, di passare all’interno della superficie dei corpi e degli oggetti in modo da tale da riprodurre – e qui ha ragione chi evidenzia l’approccio “scientifico” di questo metodo – il tessuto biologico degli elementi filmati, quello che Godard stesso ha definito «plasma in movimento». Oggetto e Soggetto, Esterno e Interno, Universale e Particolare, Realtà e Finzione: lo sguardo di Godard è quello di un occhio bifronte, che racconta mentre mostra, mostra mentre racconta e chiede agli attori un lavoro che sia al contempo recitazione e citazione. Obiettivo? Mettere da parte le esistenze singolari dei personaggi e filmare semplicemente la vita. Questo quanto meno è l’intento di Sauve qui peut... la vie (Si salvi chi può... la vita, 1980): «Il fatto di aver potuto cogliere determinati fenomeni d’insieme, pur continuando a descrivere avvenimenti e sentimenti particolari, ci porterà in definitiva più vicino alla vita di quanto non lo fossimo al momento di incominciare»31. Difficile definire l’ontologia dell’immagine godardiana. Di certo, e su questo ha ragione Raymond Bellour32, la trasparenza fotografica non sembra più il referente principale di un autore che, se da un lato ama incarnarsi nella testura delle sue opere – penso ai personaggi interpretati in Prénom Carmen (Id., 1983), Re Lear o Cura la tua destra – dall’altro sembra divertirsi nel togliere all’immagine cinematografica la sua carne (la pellicola) sostituendola con pixel ad alta e bassa risoluzione (Adieu au langage). Culmine di questo processo di scarnificazione sono le Histoire(s) du cinéma, collage di materiali eterogenei (voci, immagini, suoni, rumori, fotografie) depositati sul fondo di una memoria frantumata, capace, per esempio, di ricordare un gesto ma non di riprodurlo nel suo tempo e nel suo spazio: le sequenze estratte dai film ci-

tati sono infatti deformate dal ralenti oppure rimontate secondo nuovi criteri di découpage. In questione è la qualità organica di un’immagine che si definisce proprio nel suo essere permeabile ad altri segni (visivi, sonori, grafici) soprattutto quando è inserita in una narrazione che non seguirebbe più le leggi della fisica classica ma quelle della fisica atomica33. Torniamo al punto di partenza: «Che cos’è un’immagine?». Quella che Godard mette (ancora) in crisi, mi sembra, è la nozione di immagine come mimesis, imitazione di un reale che, nel momento in cui viene rappresentato, assorbirebbe e nasconderebbe il dispositivo che lo “rende presente”. Filmare un tramonto o un corpo nudo che scende le scale (Adieu au langage) non significa necessariamente raffigurare qualcosa, quanto piuttosto «configurare»34 elementi del reale in un’inquadratura, ovvero in uno spazio regolato da una struttura altra rispetto al reale. Una struttura che denunci la sua natura fittizia di scrittura, poiesis, composizione. Si tratta di un’ipotesi in fondo facile da formulare in merito all’ultimo Godard. Quello che ci proponiamo qui è di verificarla per mezzo dell’analisi di alcuni tra i testi e i paratesti (video-sceneggiature, video-conversazioni, commissioni) che costellano la sconfinata produzione recente, contaminata anche da un profluvio di dichiarazioni35 e soprattutto dalla “migrazione” di immagini, suoni e parole provenienti dalle opere degli anni Sessanta. Data la complessità e soprattutto la quantità di suddetta produzione, una selezione, per quanto dolorosa, si è resa necessaria. Ho privilegiato dunque le opere sintomatiche di una determinata linea teorica o di un preciso percorso di ricerca. È infatti possibile articolare la produzione degli ultimi trentacinque anni lungo quattro percorsi di riflessione, orientabili anche secondo una linea cronologica. Nell’ordine: l’interrogazione sul mistero della creazione artistica (Si salvi chi può... la vita, Passion), la scomposizione dell’immagine

Jean-Luc Godard in Il cinema è il cinema, cit., p. 285. Ibidem. 32 Cfr Raymond Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, tr. it. Mondadori, Milano, 2007.

Sulle affinità tra il pensiero per immagini godardiano e la teoria della fisica quantica si veda Giorgio De Vincenti, Il cinema cosmologico di Jean-Luc Godard negli anni Ottanta tra scienza, saggio e web, in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard, cit., pp. 198-208. 34 Riprendo qui il termine impiegato da Paolo Bertetto nella sua critica al concetto di immagine come rappresentazione in Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano, 2008. 35 Tra i cineasti della sua generazione Godard è forse quello che più di tutti ha parlato di sé e della sua poetica. E questo utilizzando tutti i media a disposizione, dal saggio (Introduzione a una vera storia del cinema) al videosaggio (Scénario du film Passion, per esempio), dalla tavola rotonda televisiva all’intervista radiofonica.

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Introduzione

nei suoi materiali (Prénom Carmen, Je vous salue, Marie), il ripiegamento verso la Storia e il tempo perduto (Histoire[s] du cinéma, Allemagne 90 neuf zéro, Nouvelle Vague; De l’origine du XXIème siècle) e di nuovo, come in una sorta di ritorno al punto di partenza, una meditazione sulla difficoltà di raccontare una storia nei luoghi della Storia (Liberté et patrie, Éloge de l’amour, Film socialisme, Adieu au langage). All’alba del nuovo millennio – questa è la tesi che cercheremo di dimostrare – Godard fa come l’Angelus di Benjamin, ovvero si volta indietro. Riprende le questioni chiave del suo “secondo” anno zero (la narrazione come incertezza, la discrasia tra mondo e linguaggio, la solitudine dell’esperienza amorosa) e le riformula alla luce di un prospettiva, quella di storico del/col cinema, dal fortissimo impatto sul pensiero contemporaneo. L’addio al linguaggio, infatti, appare non solo la provocazione di un vecchio saggio che segue «altre piste» (Khan Khanne, 2014), ma anche l’ultima fase di un processo di disgregazione del linguaggio narrativo cominciato quarant’anni fa, come ben intuì Deleuze: Godard non è un dialettico. Ciò che conta in lui non è 2 o 3 o non so quanto. Ciò che conta è e, la congiunzione e. L’utilizzo di e in Godard è l’essenziale […]. La e non è più nemmeno una congiunzione o una relazione particolare, ma trascina con sé tutte le relazioni […] e fa scivolare l’Essere, il verbo etc. Questo è esattamente il balbettio creativo, l’uso straniero della lingua, in opposizione al suo utilizzo conforme e dominante fondato sul verbo essere36.

Il montaggio, dunque, è molto di più che un beau souci, come recitava il celebre articolo pubblicato sui «Cahiers»37. Far incontrare e soprattutto scontrare inquadrature e suoni significa permettere alle immagini di pensare e dunque rivelare il loro senso più nascosto, errante, ottuso38. La Storia e le storie (Histoire[s] du cinéma), il cinema e il teatro (Forever Mozart, 1996), Dante e Sarajevo (Notre musique), piattezza e profondità (Adieu au langage): il pensiero si sviluppa proprio nello spazio vuoto occupato da questa congiunzione, la quale, più che unire i segmenti apre lo sguardo dello spettatore e lo porta, come vedremo, fuori dal testo. Gilles Deleuze, Trois questions sur Six fois deux, «Cahiers du cinéma», 271, 1976, p. 11. Nostra traduzione. 37 Jean-Luc Godard, Montage, mon beau souci, «Cahiers du cinéma», 65, 1956, pp. 3032. 38 Cfr. Jacques Aumont, A cosa pensano i film, (1996), tr. it. ETS, Pisa, 2007. 36

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L’approccio diacronico alle dodici opere selezionate – Si salvi chi può… la vita, Passion, Prénom Carmen, Je vous salue, Marie, Nouvelle Vague, Allemagne 90 neuf zéro, Histoire(s) du cinéma, De l’origine du XXIème siècle, Éloge de l’amour, Liberté et patrie, Film socialisme, Adieu au langage – è tanto arbitrario quanto funzionale a individuare una direzione in un corpus che – hanno ragione Suzanne Liandrat-Guigues e Jean-Louis Leutrat – a partire dal 1988 è difficilmente distinguibile in stagioni o periodi39. Ogni opera presenta infatti derive di quella precedente e in qualche modo aiuta a comprendere quella successiva. Spesso è solo questione di assonanze. La parola origine, per esempio, migra attraverso tre opere dai territori dell’arte (Si salvi chi può… la vita: l’origine di un racconto), a quelli della religione (Je vous salue, Marie) sino a quelli della Storia (De l’origine du XXIème siècle). Come è stato in parte già osservato40, un filo rosso accomuna i percorsi del pensiero godardiano. Un filo che è al contempo metafora, codice e materia: la luce. La luce è affascinante in quanto metafora di una creazione intesa come connubio di mistero e ricerca: «Quando non c’era più il sole, Van Gogh cercò il giallo – dirà lo zio Jean in Prénom Carmen –. Bisogna cercare». Cercare di capire dove la luce va, ma soprattutto, come fa il narratore narrato di Lettre à Freddy Buache, affrettarsi a catturarla prima che essa muoia: «Ci eravamo fermati lungo l’autostrada e ci hanno detto che potevamo sostare solo in caso di emergenza. Ma lì c’era urgenza, la luce sarebbe durata solo dieci secondi». Allo stesso modo Film socialisme comincia con un gesto, l’ennesimo, metalinguistico: sulla nave da crociera, un fotografo senza nome agita l’obiettivo della sua camera in attesa di trovare la luce adatta a catturare l’immagine giusta. Senza la luce giusta, nessun tableau vivant può vivere e nessun volto può produrre senso. Qual è il canone che regola la presunta giustezza della luce? L’eccentricità, ovvero quella capacità, rilevata nella Ronda di notte (Passion), di far esplodere dall’interno l’organizzazione dell’immagine e denudarne così la polisemia. Come la tela di Rembrandt, anche il cinema di Godard è pieno di «buchi», di «spazi male occupati» perché vuoti di racconto oppure – è il caso di molte delle opere degli anni Novanta – occupati dal corpo e dalla voce dell’autore. Innestandosi fisicamente all’interno 39 Cfr. Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard simple comme bonjour, cit., pp. 20-21. 40 Cfr. Giorgio De Vincenti, Il cinema cosmologico di Jean-Luc Godard negli anni Ottanta tra scienza, saggio e web, cit., pp. 198-208.

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della propria creazione, l’autore finisce per occupare una posizione eccentrica rispetto a essa: quella dell’artista41. Al pari di pochi altri oggi (penso a David Lynch o Werner Herzog), Godard riflette sull’interstizio sottile che separa, secondo quello che Deleuze chiama «metodo del TRA»42, visibile e invisibile, forgiando un’immagine che apre sul visibile proprio in virtù della sua complementarietà con il non-visibile. Un’immagine – leggiamo nelle Histoire(s) du cinéma e ascoltiamo in Notre musique – «la cui potenza non può esprimersi che facendo appello al nulla». Se i personaggi, perduti tra luce e buio, fanno esperienza del «negativo»43, lo spettatore non è da meno. Cerca tracce della loro storia, ma trova solo frammenti di Storia. Le parole non aiutano, le immagini confondono mentre la luce, anziché illuminare, si offre nella sua opacità granulosa. Anche in Adieu au langage una storia esiste, ma Godard non la racconta. Si limita a mostrarla, lasciandola sospesa in una zona morta della narrazione: tra la natura e la metafora, tra la memoria e l’oblio, tra l’immagine e il nulla.

Ringrazio Caterina Rossi per la ricerca bibliografica; Giorgio Tinazzi, Vincenzo Borghetti, Cristina Jandelli e Wanda Tommasi per i preziosi suggerimenti. Questo libro è dedicato a mio padre.

L’ infanzia dell’ immagine ( Si s a lv i c h i può... l a v it a ; Pa s sion) Qualcosa nel corpo e nella testa si inarca contro la ripetizione e il nulla. Jean-Luc Godard, Si salvi chi può… la vita

«Non c’è nulla che io ami di più delle storie. Mi hanno detto che le distruggevo. Ci ho messo vent’anni per farmi avanti, per riuscire a ricominciare»1. 1979. A quasi 50 anni, più di trenta opere all’attivo tra lungometraggi, cortometraggi e video, Godard dunque ricomincia. E lo fa innanzitutto a partire da un luogo, Rolle, scelto non solo per ragioni autobiografiche. Nella campagna svizzera Godard riesce a fare ciò che non gli riusciva più a Parigi: guardare. Guardare persone, animali, fenomeni naturali e industriali, ovvero un patrimonio del visibile difficile da ritrovare nella metropoli: In una strada di Parigi ci sono molte meno cose rispetto all’epoca della Nouvelle Vague. Non ci sono più animali, ad esempio. Se voglio filmare un cavallo, a Rolle posso farlo. Se voglio filmare una ragazza innamorata, posso fare anche questo. C’è semplicemente una scelta più ampia di soggetti e una possibilità umana di raggiungerli2.

Sull’estetica della frammentazione come sintomo dell’artisticità di Godard si veda Dominique Chateau, Godard, le fragment, in Gilles Delavaud, Jean-Pierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange (sous la direction de), Godard et le métier d’artiste, L’Harmattan, Paris, 2001, p. 11. 42 «Non si tratta più di seguire una catena di immagini, anche sopra a dei vuoti, ma di uscire dalla catena ossia dall’associazione. […] È il metodo del TRA, “tra due immagini”, che scongiura ogni cinema dell’UNO. È il metodo dell’E, “questo e poi quello”, che scongiura tutto il cinema dell’Essere=è». (Gilles Deleuze, L’ immagine-tempo, tr. it. Ubulibri, Milano, 1989, p. 201). 43 Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, cit., p. 177.

Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, cit., p. 155. 2 Ivi, p. 178.

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Filmare, dunque, è ancora «raggiungere» qualcosa che si muove, ovvero 1

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fare ciò che Godard fa da sempre: vedere prima di scrivere, pedinare corpi o auto in modo tale che il loro semplice spostamento nello spazio lasci intravedere ipotesi di altre storie possibili. Esemplare in questo senso è il primo camera-car di Fino all’ultimo respiro, con gli effetti di reale del paesaggio (sole, auto, vento) che indeboliscono la tensione dell’immagineazione. Negli anni Sessanta – penso a Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) – l’attore spesso faceva di tutto per non essere «raggiunto». Offriva per esempio la sua nuca alla cinepresa, obbligando quest’ultima a sospendere la narrazione a vantaggio della mostrazione di un reale frantumato (rumori, scorci di vie urbane, passanti) che significa solo se stesso. Camminando per i boulevard di Parigi, invece, l’eroina di Due o tre cose che so di lei confessava allo spettatore, in voce over, la piacevole sensazione di una fusione panica con il corpo urbano: «Non so come né quando, ma mi ricordo solamente che è successo. È un sentimento che ho cercato per tutto il giorno. C’era l’odore degli alberi… io ero il mondo e il mondo era me». Non solo uomo e mondo si riconciliano alla fine di questo film-saggio, ma anche finzione e documentario: la elle citata dalla voce over all’inizio del film è infatti sia un’attrice (Marina Vlady) che una città (Parigi). Molte cose però da allora sono cambiate: la certezza dell’armonia uomomondo si è affievolita e di conseguenza sono mutate le dinamiche di interrelazione tra il corpo dell’attore e l’ambiente. Vent’anni dopo, come vedremo, il corpo femminile si offre ancora come cassa risonante del mondo, almeno stando a quanto affermano Marie (Je vous salue, Marie: «La terra e il sesso sono dentro di noi: fuori non ci sono che le stelle») e Carmen (Prénom Carmen: «È dentro di me, o dentro di te, che questo produce delle onde terribili»). Ma negli spazi urbani degli anni Ottanta non ci sono più boulevard da attraversare o marciapiedi da calpestare; nessun viaggio in Italia all’orizzonte. Il corpo errante degli anni Sessanta è diventato un corpo statico, legato sempre e comunque a una catena di montaggio, non importa che si tratti di lavoro (l’operaia di Passion) o d’amore (la prostituta di Si salvi chi può… la vita). Del resto, quello che Godard cerca ora non è più il volto di una periferia in costruzione, quanto ciò che precede la traccia stessa dell’uomo sulla terra, ovvero i quattro elementi naturali: «In città non c’è acqua, non c’è aria. Non ho gli elementi che mi servono. Nel luogo sui cui abbiamo ripiegato […] ci sono comunque delle correnti d’aria. Sul lago soffiano una trentina di venti diversi»3. 3

Ibidem.

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Forse aveva ragione Lubitsch, evocato come nume tutelare in Lettre à Freddy Buache: «Se si sanno filmare le montagne, l’acqua e la vegetazione, si sanno filmare anche gli uomini». Ricominciare a costruire immagini significa dunque ritornare all’infanzia stessa del mondo, verificando la forza segnica di elementi difficili da inserire in un sistema narrativo come gli alberi, una collina, un prato, un cielo. Proprio sull’immagine di un cielo si apre Si salvi chi può... la vita, un film, leggiamo nei titoli di testa, «composé par Jean-Luc Godard». Cosa vuol dire «comporre» un film? Rolle anno zero Per rispondere bisogna risalire alla genesi di questo progetto, affidata da Godard a tre lettere dattiloscritte inviate, nella primavera del 1981, alla Commission d’avance sur recettes, l’organismo statale francese che finanzia opere di particolare interesse culturale. Normalmente la commissione delibera sulla base di un trattamento, o quanto meno di una bozza della sceneggiatura definitiva. Godard integra invece le tre lettere in una sorta di press-book multimediale, «composto» di documenti visivi (tra cui una riproduzione di Le déjeuner sur l’ herbe (1863) e alcune foto di scena scattate da Anne-Marie Miéville)4 e letterari, come un estratto da Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera, citato nel film per bocca del personaggio di Paul. A questo collage, che comprende anche un frammento dell’introduzione di James Agee al suo saggio Louons maintenant les grandes hommes5, l’autore allega un video di venti minuti, Scénario de Sauve qui peut (la vie). Quelques remarques sur la réalisation et la production du film (1979), motivando la scelta come un bisogno assoluto di passare alle immagini, in modo tale che queste «non siano la conseguenza delle parole, ma la causa»: Che un’inquadratura non segua un’altra inquadratura […] perché questo è Secondo Michael Witt il lavoro di Anne-Marie Miéville meriterebbe quanto meno una retrospettiva. Alle fotografie a colori, scattate esattamente nel punto in cui era collocata la cinepresa, si alternano alcune immagini in bianco e nero, realizzate con una cura formale del tutto differente e mai inviate alla produzione. Cfr. Michael Witt, Sauve qui peut (la vie). Oeuvre Multimédia in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, Centre Pompidou, Paris, 2006. 5 James Agee, Walker Evans, Louons maintenant les grandes hommes. Alabama, trois familles de métayers en 1936, [1940], tr. fr. Plon, Paris, 1972. 4

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scritto, ma perché l’inquadratura che precede dove trasformarsi in un’altra per continuare il suo movimento, allo stesso modo in cui in un gioco o in una società le persone si mettono d’accordo oppure no per fermare o continuare il loro movimento sociale. […] Continuerò dunque questa sceneggiatura con l’aiuto di un film […] come se Cézanne avesse fatto qualche schizzo di una mela prima di chiedere il compenso al suo committente6.

Godard inaugura così una pratica che diventerà frequente nel decennio a venire, ovvero quella di costellare un lungometraggio di uno o più film-satelliti, atti a precedere (Petites notes à propos du film Je vous salue, Marie, 1983) o a seguire (Scénario du film Passion) il relativo “pianeta”. Passion sarà in questo senso un caso limite, in quanto il testo principale (il film) è anche preceduto dal Terzo stadio della sceneggiatura del film, ovvero Passion, le travail et l’amour. Introduction à un scénario (1981). Vista dall’alto, questa costellazione di opere è parsa a Jean-Louis Leutrat un «territorio complesso»7, intersecato da linee tematiche (la religione, la politica, il commercio) e formali (la sovrimpressione, il ralenti, il suono) che permettono di accostare tra loro film apparentemente lontani come, per fermarci al tema politico, Le dernier mot (1988) e Allemagne 90 neuf zéro. Più che tracciare una cartografia di questo paesaggio, peraltro ancora in divenire, mi sembra interessante indagare le radici dell’horror vacui godardiano. Perché riempire gli intervalli tra i testi con paratesti, pre-testi e post-testi audiovisivi? Forse le opere non sanno più parlare da sole e hanno bisogno della presentazione o del commento dell’autore? E se la politica dell’autore non fosse più rintracciabile nell’opera, ma solo nel relativo commento? Forse più semplicemente, come ci ricorderà tra breve un personaggio di Si salvi chi può… la vita, sono le cose secondarie che illuminano le principali. Aveva ragione Garrel: questo cinema non solo non è separato dalla vita ma sembra «servire alla vita» e in certi momenti, sono parole dell’autore, può addirittura «sostituirla come una fotografia, come un ricordo»:

facilmente che altrove. Il cinema è il laboratorio della vita […]. Il cinema è il paradiso per studiare la vita mentre si vive8.

Nell’atelier di Rolle la dimensione ideale sembra essere dunque il presente, cioè il fatto di avere sempre un film in corso e quindi vivo, ritoccabile all’infinito come un dipinto. La tecnica video garantisce la possibilità di gestire la fase del montaggio in perfetta solitudine, tornando e ritornando sulle proprie decisioni, assemblando materiali eterogenei (ciak scartati, frammenti di casting, sopralluoghi) sino a forgiare una sorta di “para-film”, quello che per primo Henri Langlois salutò come «qualcosa di nuovo»9. Ma torniamo a Si salvi chi può... la vita. Recuperando una passione antica, perfezionata negli anni Cinquanta presso la sede parigina della Twenty Century Fox10, Godard va oltre e costruisce il suo press-book ricalcando la struttura musicale in sei atti che regolerà il lungometraggio: Sauve qui peut (-1), La vie (0), L’imaginaire (1), La peur (2), Le commerce (3) e La musique (4). L’utilizzo del verbo «composer», allora, potrebbe rinviare all’affinità di questo traliccio narrativo con la forma del quartetto, considerando i movimenti “positivi” di questa sinfonia (da 1 a 4). Tre strumenti (Denise, Paul e Isabelle) dispiegano la loro energia in quattro movimenti i quali permettono, a loro volta, di articolare una riflessione teorica su quattro temi: Technique, Peinture, Prostitution, Le merle. Il risultato, secondo Michael Witt, è «la produzione di una matrice poetica che al contempo presenta, spiega e teorizza il film11. Come ha suggerito Giorgio De Vincenti, però, composé par Godard

Jean-Luc Godard, Lettre numéro deux aux membres de la Commission d’avance sur recettes, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 307. 7 Jean-Louis Leutrat, Suzanne Liandrat-Guigues, Alla ricerca dell’arte perduta, cit., p. 123.

Jean-Luc Godard, Travail-amour-cinéma, tr. it. in Il cinema è il cinema, cit., pp. 352-353. «A parte Chaplin, le brutte copie del cinema erano scrittura, letteratura. Erano il contrario. Ora, col videoregistratore, Godard ha la prova. Può preparare il suo film, lavorarlo, vederlo in brutta copia, correggerlo, cambiarlo, modificarlo con la forma stessa dell’immagine latente, voi capite, animata. È quello che io chiamo cinema in libertà. È un cinema che non ha paura di sbagliare qualcosa e di mostrarla comunque» (Henri Langlois, Le cinéma en liberté: Warhol/Godard (1976), in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 259). 10 Nel 1956 Godard succede a Claude Chabrol in qualità di ideatore di press-book per conto della Fox. Quest’esperienza, che durerà sino al 1958, significa non solo tranquillità economica ma anche continuità con la pratica critica: «Era come fare del cinema. Creavo delle brochure per il film e queste brochure le realizzavo come se fossero degli articoli. È stata una bella parentesi della mia vita» (Jean-Luc Godard, Godard dit tout: À bout de souffle c’ était le petit Chaperon rouge, «Télérama», 1489, p. 58). 11 Michael Witt, Sauve qui peut (la vie). Oeuvre Multimédia, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 305.

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Non faccio tale differenza tra i film e la vita, direi anzi che i film mi aiutano a vivere […]. Ecco perché c’è anche la vita nel titolo del film. Si salvi chi può... la vita è anche aver salva la vita, come si può. Ho sempre pensato che il cinema fosse un luogo dove si potevano cambiare le cose più 6

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può leggersi anche come “composto attraverso Godard”: il regista come passaggio, che informa di sé ciò che passa e che esiste prima e fuori di lui12. Metafora ironica di questo corpo mediatico saranno le maschere burlesque che l’autore, prima di contemplarsi in un autoritratto (JLG/JLG. Autoportrait de décembre), indosserà in alcune opere del decennio, dall’ingenuo zio Jean (Prénom Carmen) al bizzarro professor Pluggy (Re Lear). Ma torniamo al nostro paratesto. Per “spiegare”, ammesso che questo fosse davvero uno degli obiettivi dell’autore, Godard infittisce la testura del suo pressbook di una rete di citazioni che, come abbiamo visto, rafforzano la dimensione intertestuale del progetto, da Kundera a Van Gogh, da Manet alla cronaca nera: estratti di dialogo del film sono infatti assemblati con un effetto collage a ritagli di giornale relativi a inchieste sulla prostituzione. Se il lavoro (Technique) impone gli stessi gesti dell’amore e se l’amore si riduce a lavoro (Prostitution), la Pittura sembra invece offrire la risposta a una domanda antica: «Quando si comincia a inquadrare e quando si stacca? L’inquadratura è nel tempo. E nella pittura questo aspetto è molto evidente»13. Evidenziandola con la penna in calce al testo, l’autore sembra far sua una dichiarazione di poetica che Vincent Van Gogh confessa al fratello Theo nella Lettera n. 520. Intenzionato a ritrarre un amico artista, il pittore dice di voler utilizzare il colore non per restituire ciò che ha davanti, ma per esprimersi «in modo forte»:

estratti delle lettere di Van Gogh. Van Gogh versus Manet, parola versus immagine. Anche il pre-film una questione di montaggio. Dietro lo schermo Consideriamo ora l’incipit di Si salvi chi può... la vita. Esterno giorno. Una panoramica esplora il cielo alla ricerca di qualcosa che non è dato sapere: forse una storia, forse un oggetto, forse un suono (fig. 1). La cinepresa esita, balbetta, si ferma su una nuvola per poi deviare la propria traiettoria verso l’alto, quindi scendere verso sinistra e continuare in questa direzione sino a che non interviene il montaggio. Con uno stacco passiamo dall’esterno all’interno, dal cielo a una stanza d’albergo, dall’azzurro al giallo. La soglia è aperta, la storia comincia.

Dietro la testa, invece di dipingere il muro, dipingo l’infinito, faccio uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che io possa confezionare, e grazie a questa combinazione la testa bionda illuminata […] ottiene un effetto misterioso, come una stella nell’azzurro profondo14.

Godard dunque punta in alto, ma cotanto exemplum non ha impedirà alla Commissione ministeriale di esprimere alcune riserve sulla modalità di rappresentazione della sessualità, definita «aggressiva e brutale». La velleità di ricerca dell’infinito, inoltre, non seduce nemmeno la platea di giornalisti che visionano Si salvi chi può... la vita prima della sua uscita ufficiale. È proprio questo “rifiuto” che induce Godard a consolarsi con un altro illustre modello della Storia dell’arte, il Manet di Déjeuner sur l’ herbe, riprodotto esattamente nella pagina di fianco a quella dedicata agli

Fig. 1. Si salvi chi può... la vita

Cfr. Giorgio De Vincenti, Il cinema cosmologico di Jean-Luc Godard negli anni Ottanta, tra scienza, saggio e web, cit., p. 199. 13 Jean-Luc Godard in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean Luc Godard. Documents, cit., p. 313. 14 Vincent Van Gogh in Cynthia Saltzman (a cura di), Lettere, Einaudi, Torino, 2013.

Per un minuto e cinque secondi non abbiamo visto nulla, o forse, per dirla con Van Gogh, abbiamo intravisto l’infinito. Le esitazioni dell’occhio tradiscono l’incertezza di uno sguardo intento non tanto a prendere il reale, ma a farsi sorprendere da esso. Meno profondo di quello di Van Gogh, l’azzurro su cui si apre Si salvi chi può... la vita è al contempo traccia di reale e supporto per la falsificazione del reale stesso. Traccia perché cristallo di un tempo che si dà come durata – «l’inquadratura è nel tempo» ha detto Godard – ma al contempo artificio, in quanto questa durata è in realtà un tempo funzionale alla lettura dei titoli di testa, soglia che permette allo spettatore di entrare nel mondo diegetico della finzione. È possibile, sembra chiedersi Godard, guardare il mondo e allo stesso

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tempo raccontarlo? Alzare gli occhi al cielo come le marionette di Pasolini (Che cosa sono le nuvole?, 1967) e poi abbassarli per filmare personaggi che pensano, amano e muoiono? Anche se utilizzato come supporto, pagina azzurra ideale per far risaltare i caratteri neri dei titoli di testa, il reale “insiste” e resiste al tentativo di essere de-finito. Fa sentire la sua voce, per esempio. Anche se solo per qualche secondo, verso la fine del piano sequenza il rumore del traffico e un suono simile a uno scroscio del mare “bucano” il sipario sonoro costituito dalla musica elettronica di Gabriel Yared. Già fotografato come ou-topos, metafora della “fatal quiete” romantica (penso al finale di Il bandito delle ore undici), lo spazio del cielo è quanto di più difficilmente definibile non solo dall’occhio, ma anche dal linguaggio. Possiamo determinarlo con un articolo (un cielo, quello di Romandia), ma nel momento in cui viene configurato nello spazio bidimensionale di un’inquadratura un cielo è, in fondo, sempre il cielo. Nulla, al termine del movimento di macchina, ci permetterà di connotare tale “luogo” come spazio diegetico del racconto; nessun raccordo sullo sguardo dei personaggi, nessun campo lunghissimo nel quale il corpo si possa offrire come parte di un tutto, come invece accadeva nello spazio del Mito: penso agli Dei di cartapesta che sorridevano nel cielo di Il disprezzo. Non so se, come ha suggerito Alberto Farassino, Godard voglia «volare alto». Di certo filmare il cielo significa confondere le coordinate del punto di vista, in quanto il piano sequenza in questione potrebbe essere un’immagine vista dalla terra, ma nulla ci impedisce di leggerla come il prodotto di uno sguardo aereo, sospeso in un vuoto “fisico” oltre che narrativo (ricordiamo che il racconto deve ancora cominciare). Dunque non solo non sappiamo che cosa stiamo per vedere, ma nemmeno chi e da dove guarda. Perché (ri)cominciare dal cielo? In quanto Atmosfera il cui colore è determinato unicamente dal gioco di rifrazione e diffusione della luce, il cielo è forse scelto in quanto metafora perfetta dell’immagine cinematografica, se intendiamo quest’ultima come simulazione di una simulazione. «Cos’è l’immagine in sé? – si è domandato Godard quarant’anni fa – Un riflesso»15. Se l’immagine cinematografica è riflesso, allora l’immagine del cielo è riflesso di un riflesso, grado zero di uno sguardo che forse è pronto per realizzare un desiderio antico, confessato nel 1967 ai «Cahiers du cinéma»: passare all’interno dell’immagine. «Normalmente al cinema si

resta al di fuori di questo riflesso, al suo esterno. Io volevo vedere il rovescio dell’immagine, volevo vederla da dietro, come se ci si trovasse dietro lo schermo e non davanti»16. Da Si salvi chi può... la vita a Film socialisme Godard non smetterà di decostruire17 la natura bidimensionale dell’immagine cinematografica, manipolandola come qualcosa che si può penetrare, alterare, scomporre, arrestare, riciclare. Più di una volta non esiterà a mostrare se stesso nell’atto di toccare la pellicola: penso agli incipit delle video-sceneggiature e soprattutto alla seconda parte di JLG/JLG, quando il maestro, per spiegare le sue volontà alla montatrice, fa passare tra le dita 153 fotogrammi del negativo di Hélas pour moi. In quanto riflesso, l’immagine non contiene la materia di ciò che in essa si riflette, ma solo la sua apparenza. Allo stesso modo il colore azzurro, ovvero quella qualità che Van Gogh modificava al fine di potenziare il proprio grido, è semplicemente l’effetto ottico di un’illusione. Il cielo di Godard è più grigio di quello impresso sulla tela e le sue nuvole, probabilmente, non suggeriscono nessuna elevazione, nessun infinito. Forse è presto per riflettere sulla genesi della Creazione o contemplare la «straziante, meravigliosa bellezza del creato» (Pasolini). «Il cinema – diceva il reporter di Le petit soldat – è la verità ventiquattro volte al secondo». Per ora l’unica verità che scorre davanti ai nostri occhi è un’illusione. Le immagini che vediamo per un minuto e cinque secondi sono rappresentazioni di qualcosa che appare opaco e invece è trasparente. Qualcosa che è al contempo immagine, cioè configurazione del visibile regolata da una determinata struttura geometrica, e nulla, ovvero materia informe, invisibile, muta. Nel blu delle origini, Godard filma la luce. Passare per il reale Non so se davvero il cinema degli anni Ottanta possa essere considerato una sorta di «film perpetuo»18, con Passion a svolgere il ruolo di opera seminale, feconda di immagini germinali che migrano da un’opera all’altra (l’aereo che decolla alla fine di Scénario du film Passion atterrerebbe poi nella città di Marie e Joseph). Senza nulla togliere a Passion, mi sembra che

Jean-Luc Godard in Jacques Bontemps, Jean Comollli, Michel Delahaye, Jean Narboni, Entretien avec Jean-Luc Godard, «Cahiers du cinéma», 194, 1967, tr. it. in JeanLuc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 132.

Ibidem. Sulla decostruzione come modello di configurazione dell’immagine in Godard si veda Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, Marsilio, Venezia, pp. 45-58, 2014. 18 Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Jean-Luc Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., p. 64.

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Si salvi chi può... la vita sia il testo ideale per indagare il sistema dialettico che regola la rappresentazione del corpo attoriale, segno spesso trascurato dagli esegeti godardiani e invece fil rouge analitico del presente saggio. Per raccontare una storia, infatti, il paesaggio non basta. Ci vuole un corpo, meglio se “educato” all’arte della simulazione: «Io parto dal documentario, per poi dargli la verità della finzione. Per questo ho sempre lavorato con attori professionisti ed eccellenti. Senza di loro, i miei film sarebbero meno buoni». Chiamati a garantire la “verità” di Si salvi chi può... la vita sono Jacques Dutronc, Nathalie Baye e Isabelle Huppert, tre professionisti scelti in quanto permeabili, abili nel coadiuvare la produzione del senso offrendo semplicemente la loro presenza plastica. «Godard – ha detto Nathalie Baye – è come un pittore che può passare dei giorni a guardare la sua tela senza dipingere. E noi siamo i suoi tubi di colore»19. Non molto20 si è scritto sul lavoro di Godard con l’attore, fondato su un metodo che è rimasto sostanzialmente invariato negli anni. Libero di discutere con il regista eventuali variazioni nel testo dei dialoghi, l’attore godardiano deve soprattutto restare «vicino alla vita», ovvero conferire al proprio personaggio gestualità, movenze e atteggiamenti che gli sono familiari nella vita quotidiana. E questo precetto vale ancor di più per le star. Brigitte Bardot, per esempio, ha dichiarato di non essere mai stata “diretta” sul set di Il disprezzo: a Godard era bastato osservarla nel suo quotidiano (versare il tè, aprire la porta, accendere una sigaretta) per fornirle le indicazioni essenziali alla costruzione di un personaggio, Camille, peraltro fecondo di suggestioni pittoriche: «È molto bella, assomiglia all’Eva di un quadro di Piero della Francesca»21. Come vedremo tra poco, il reale fa sentire il suo peso solo in quanto delimitato dall’immaginario. Portare la vita sul set, però, richiede una naturalezza mimico-gestuale che non tutti gli attori possiedono: Non domandate a Michèle Morgan di mettersi il rossetto, togliere un sassolino dalla scarpa o prendere un taxi: non sa farlo. Non chiedete a nessuna delle nostre grandi vedettes di rifare davanti alla cinepresa il più banale dei gesti quotidiani: non sanno farlo. Allora io dico: ma che cosa venite a fare qui?22

«Essere» non basta. Al fine di perfezionare la fase di preparazione, Godard da sempre suggerisce un training fatto di letture e/o esercizi fisici eseguiti però mal volentieri, quando non rifiutati, dalla maggior parte degli interpreti. Alcuni esempi: Maruscka Detmers (Prénom Carmen) avrebbe dovuto ascoltare almeno dieci minuti di Beethoven al giorno, mentre solo a fatica Isabelle Huppert accettò di leggere Rilke (La bellezza e il terrore) durante le riprese di Passion. Meno intellettuali i compiti affidati a Nathalie Baye e Myriem Roussel, ovvero, rispettivamente, andare in bicicletta e giocare a pallacanestro: a quanto pare però entrambe le interpreti rifiutarono di seguire queste indicazioni. Al di là del metodo utilizzato, lavorare con un attore significa, per ogni regista, mettere il proprio immaginario alla prova del reale. È quanto Godard ci racconta in Scénario du film Passion: immaginare un personaggio a partire da un quadro non è sufficiente, bisogna che l’attore partecipi fisicamente e intellettualmente a un processo creativo che consiste nel vedere la storia prima di scriverla. Vedere se l’invisibile può diventare visibile, creare la possibilità di un mondo, rendere il possibile probabile: a questo serve un attore. Curiosamente, due dei capitoli in cui è suddiviso Si salvi chi può… la vita alludono all’ambiguità ontologica dell’attore cinematografico, al contempo vettore dell’immaginario, dunque fantasma senza corpo, e moneta di carne, materia prima per il commercio di sogni. L’ immaginario (capitolo 1) era in un certo senso il luogo d’infanzia della Nouvelle Vague, il ventre materno di una generazione di cineasti cresciuta guardando il mondo attraverso la lente del cinema. «Solo più tardi – ha confidato di recente Godard – abbiamo capito che il vero immaginario esige di passare per il reale: girare nelle strade, filmare la propria compagna o la storia della propria compagna»23. L’alter-ego Paul dice in sostanza la stessa cosa: «Faccio dei film per parlare di me». All’artista che ha superato la stagione delle utopie l’immaginario non basta più e fare cinema, come è scritto negli appunti che Paul legge in classe, è solo un modo per occupare il tempo: «Se avessi la forza di non fare nulla, non farei nulla». Quando lo vediamo per la prima volta, in effetti, Paul non fa nulla; semplicemente si occupa del suo corpo. Da alcuni dettagli, come il letto disfatto e la giacca appoggiata alla maniglia della porta, deduciamo che

Nathalie Baye in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, Rivages, Paris, 1994, p. 38. Tra gli studi più recenti si veda Jean-Louis Leutrat, Jean-Luc Godard, in Paolo Bertetto (a cura di), Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori, Minimum Fax, Roma, 2009, pp. 251-266. 21 Jean-Luc Godard in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit. p. 65. Nostra traduzione. 22 Ivi, p. 80.

23 Jean-Luc Godard in dossier Aux frontières du cinéma, «Cahiers du cinéma», hors série, Avril 2000.

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egli si è alzato da poco e ora si sta vestendo. Ascoltiamo il rumore del rasoio sulla pelle e intravediamo la cameriera che porta via quanto resta della colazione. La cinepresa non assegna all’uomo nessun posto privilegiato nella struttura gerarchica di un quadro al contempo aperto e chiuso (fig. 2). La parete gialla sulla sinistra, infatti, ostacola la visione del personag-

Fig. 2. Si salvi chi può... la vita

gio principale ma al contempo invita lo spettatore a cogliere i frammenti di una delle tante storie secondarie che sfiorano l’architettura narrativa. Penso alla voce fuori campo della cantante, probabilmente una vicina di stanza, che disturba la telefonata di Paul: il reale, ancora una volta, insiste e preme sulla finzione. «Descrivere le cose secondarie – affermerà di lì a poco Piaget, l’amico di Denise – illumina le principali». Oscurato da un controluce che ricorda gli interni degli anni Sessanta, Paul entra ed esce dal campo visivo senza che l’occhio del narratore faccia nulla per non perderlo. Questo significa «passare per il reale»: l’attore non fa, ma è, e il suo esserci si scontra con i limiti di una scenografia anch’essa, come la luce, “reale”. Il microfono registra in presa diretta suoni e silenzi di una stanza d’albergo la quale appartiene – e su questo Godard insiste molto – al medesimo luogo geografico che ospiterà anche le altre scene. Guardare il corpo dell’attore, infatti, significa anche esplorare la sua 30

relazione con un ambiente che offre coordinate geometriche nuove (anziché la verticalità della metropoli, le linee orizzontali dei prati), ma che alla fine forse non riesce a sollevare i personaggi da quella oggettività decantata quindici anni prima dalla voce over di Due o tre cose che so di lei: «Poiché non posso sottrarmi all’oggettività che mi schiaccia né alla soggettività che mi esilia, poiché non mi è permesso né di elevarmi verso l’Essere né di cadere nel nulla, bisogna che io ascolti, che guardi intorno a me più che mai il mondo, mio simile, mio fratello». Evidenti sono gli echi del pensiero di Maurice MerleauPonty e in particolare delle tesi argomentate in Fenomenologia della percezione e in Il visibile e l’invisibile: il corpo è il solo luogo della coscienza e il mondo esiste solo in quanto è percepito come vero e buono. Audiovedere, negli anni Sessanta, sembrava il solo modo per certificare a se stessi il proprio essere nel mondo. Guardandosi intorno, questo “nuovo” Godard vede il corpo come un esser-ci più sofferente e affaticato, sospeso e soprattutto itinerante tra presente e passato, città e campagna, paura e commercio, amore e messa in scena dell’amore. La relazione tra occhio e mondo, però, non è cambiata e rivela ancora una volta l’influenza della fenomenologia merleaupontiana: vedere (voir) – suggerisce Scénario du film Passion – è oggi come allora ricevere (rece-voir), darsi a vedere, lasciarsi illuminare dalla luce bianca dello schermo, pagina (page) ma anche spiaggia (plage). Spiaggia sulla quale i corpi avanzano mossi da un’unica forza: il desiderio. Al fattorino che lo insegue nel parcheggio Paul offre la sua anima, ma l’uomo insiste: «Je vous aime Monsieur… il vostro corpo!». Il diverbio che ne consegue è solo il primo dei numerosi scontri tra corpi che Deleuze avrebbe definito «intensivi», ovvero espressioni di potenza e desiderio. Si pensi per esempio al litigio tra i contendenti della misteriosa ragazza-col-rossetto, sporcata di sangue alla stazione di Nyon mentre Denise attende il suo treno. Autoritratto a tre voci – come il suo creatore, Paul Godard è cineasta sospeso tra la Svizzera e la Francia, tra l’anima (Denise) e il corpo (Isabelle) –, Si salvi chi può... la vita racconta dunque non una storia, ma frammenti di storie dove i corpi si urtano per amarsi perché non sanno fare altrimenti. «Abbiamo voglia di toccarci – confessa Paul a Isabelle – ma ci riusciamo solamente colpendoci a vicenda». L’amore filmato passando per il reale è proprio questo: frasi spezzate, carezze che fanno male, corpi che cadono.

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Una folata di irregolarità Ricominciare da zero significa insomma filmare la vita e riprodurne le pulsazioni in immagini “infantili” in quanto incapaci di parlare seguendo quella logica orizzontale del racconto a cui lo stesso autore allude in apertura di Scénario de Sauve qui peut (la vie): «Lavoravo orizzontalmente al testo che voi avete letto e poi quello che mi ha sorpreso è stato l’irrompere improvviso dell’immagine, come nel film di Resnais Les statues meurent aussi». Godard ci illustra passo dopo passo il travaglio della sua creazione e l’immagine non fa che assecondare la parola: sul foglio inserito nella macchina da scrivere è infatti impressa la foto di una giovane donna, un volto dunque visto prima di essere scritto. Così visto da diventare “testo”, supporto per un linguaggio altro rispetto a quello iconico. Quello della scrittura sull’immagine è un motivo che ritornerà in Scénario du film Passion, ma ciò che ci interessa ora è rilevare la nozione di immagine come verticalità, ovvero perversione della struttura narrativa classica. In luogo della concatenazione cronologica di legami senso-motori, è preferita la logica dell’associazione di idee, suoni, colori. E associare, ha notato giustamente Giorgio De Vincenti, «significa sì stabilire nessi ma anche e soprattutto esibire la ricerca di nessi possibili»24. Lo abbiamo già visto a proposito dell’attore: raccontare una storia significa semplicemente rendere il probabile possibile. Godard accumula e dissemina. Dissemina frasi, suoni, motivi (l’amore, la violenza, l’arte) e soprattutto corpi, come quello della misteriosa “signora con l’ermellino” che attira l’attenzione della cinepresa nel capitolo 1, mentre Piaget sta illustrando a Denise ciò che lo ha appassionato del progetto editoriale della donna. «La passione non è questo» risponde Denise, inaugurando una delle “frasi-motivo” musicalmente disseminate nel testo: la pronuncerà più avanti anche Paul. La passione è qualcosa che Paul e Denise non sanno de-finire: non sanno darle un nome e non definendola la consacrano nella dimensione del possibile. Forse vogliono semplicemente provare a viverla, ma viverla significa costringere l’immaginario a passare per il reale. E ciò naturalmente fa paura. La sequenza in questione dimostra come in Godard il reale si nutra sempre e comunque di un materiale immaginario, completamente eterogeneo: penso all’auto di Formula 1 parcheggiata alla stazione ma anche, come vedremo, al lama legato al guinzaglio nella stazione di servizio di Film socialisme. 24

Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, cit., p. 120.

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Riascoltiamo ora un frammento delle Histoire(s) du cinéma, capitolo 1B: «Il cinema proiettava e gli uomini hanno visto che il mondo era là: un mondo senza storia, un mondo che racconta. Ma per dare, in luogo dell’idea della solitudine, l’idea della sensazione, le due grandi storie sono state il sesso e la morte». Il cinema classico, insomma, non avrebbe mai posseduto quella «logica della sensazione» – penso al Bacon riletto da Deleuze25 – che unisce soggetto e oggetto e che predilige il figurale rispetto al figurativo, ma solo l’idea. La domanda è allora la seguente: nelle immagini “nuove” e terse di questi anni Ottanta c’è ancora l’idea della sensazione? Come lavora il corpo dell’attore per esprimere quest’idea? Come sono filmati l’amore e la morte? Si salvi chi può… la vita, capitolo 2: La peur. Come gli amanti di Questa è la mia vita, anche Paul e Denise si sono lasciati e ora parlano del passato. Questa volta Godard li guarda, li filma frontalmente, lascia che, in luogo degli sguardi, siano le loro voci a incrociarsi. «L’amore – dice Denise – viene dal lavoro, dai gesti che potremmo fare insieme, e non soltanto la notte». Ma la notte non interessa a Godard. Tutto ciò che vediamo, azioni e inazioni, si svolge di giorno, quando l’amore si confonde con il lavoro e le parole del rimpianto si mescolano ai rumori di un pub. Ripartire da zero significa ricollegare la parola al volto? Forse. Stando a quanto afferma Denise però, la parola non sembra più poter aiutare il corpo a ripararsi dal tempo e nemmeno, come già aveva notato Nana, aiutare a vivere la propria vita. Dopo aver abbandonato la città per la campagna e la televisione per la scrittura, la donna afferma di voler rinunciare anche alla parola: «Non posso più chiamare per nome le cose, ma solamente farle un poco». Irrorata dalla luce naturale di una finestra, una sigaretta tra le dita, Denise scrive su un block-notes frammenti di un romanzo che forse non finirà mai: Qualche cosa nel corpo e nella testa si inarca contro la ripetizione e il nulla. La vita… un gesto più rapido… un braccio che cade, in controtempo, un passo più lento. Una folata d’irregolarità, un falso movimento. Grazie a tutto ciò, in questo derisorio quadrato di resistenza contro l’eternità vuota che è il posto di lavoro, ci sono ancora degli eventi... Cfr. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione (1995), tr. it. Quodlibet, Macerata, 2008. Come hanno osservato Suzanne Liandrat-Guigues e Jean-Louis Leutrat, negli anni Ottanta la ricerca di Godard sembra incrociare il pensiero di Deleuze: «La riflessione di Deleuze sulla pittura “prima di dipingere”, su Francis Bacon e sulla nozione di “probabilità” raggiunge quella di Godard sulla sceneggiatura (possibile o probabile?)». (Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat,Godard simple comme bonjour, cit., pp. 167-168). 25

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Torneremo più avanti sul significato di queste parole. Per ora occupiamoci del significante. Ancora una volta Godard “passa” per il reale: nessuna gerarchia nello spazio sonoro di questo quadro. Catturata in presa diretta, la voce dell’attrice non copre il rumore della penna sul foglio, determinato dalla pressione della mano a sua volta bilanciata dalla tensione dei muscoli delle gambe (il block-notes è poggiato sulle ginocchia). Scrivere è dunque un atto che richiede una determinata coordinazione gestuale; come il lavoro, come l’amore. In virtù della loro irregolarità ritmica, però, i gesti della scrittura si oppongono a quella che la voce off di Denise definisce l’«eternità vuota del lavoro», concetto visualizzato da Godard con un’immagine eidetica dal forte sapore eisenteiniano: due mani senza volto che, pur “disturbate” dal ralenti, inseriscono viti in una struttura metallica (fig. 3).

Fig. 3. Si salvi chi può... la vita

Il romanzo – o meglio, per dirla con Denise, «qualcosa che fa parte di un romanzo» – sta nascendo e la cinepresa ne filma l’“infanzia”, il venire alla luce delle parole e il loro depositarsi sulla carta, ma soprattutto il silenzio che le circonda: «il silenzio che c’è intorno a un testo – dirà poco dopo Marguerite Duras – è la parola che lo crea». Silenzio vuol dire intervallo, frattura, cesura. Solo un movimento in contro tempo o una variazione nel ritmo dei gesti – sembra dirci Denise – potrebbe liberare l’uomo a una dimensione dall’asservimento della catena 34

di montaggio, luogo dove il tempo diventa nulla e la creazione si fa ripetizione: Passion non è lontano. Se il lavoro è come l’amore, fermare i gesti dell’amore può essere un modo per sottrarli al destino della ripetizione e proteggerli dall’oblio. L’amore e la morte, protagonisti fatali anche di Prénom Carmen, sono filmati in Si salvi chi può… la vita allo stesso modo, ovvero come atti sospesi, tracce di vita catturata e messa, grazie al ralenti, al riparo dal tempo26. L’attrazione per il ralenti nasce con la scoperta del video a metà degli anni Settanta, quando, uniti nel binomio Sonimage, Godard e compagna sembrano ritrovare nell’occhio analogico del nuovo mezzo quelle facoltà “sovrumane” rilevate da Dziga Vertov nel suo cineocchio: libertà di azione, capacità di precipitare e risalire, in volo, con i corpi che precipitano e risalgono. «Andiamo lentamente, bisogna scomporre», diceva Anne-Marie Miéville in Comment ça va, terzo forse dei video-esperimenti degli anni Settanta. Il ralenti allora è non solo occasione per lo svelamento del dispositivo – atto a dare la stessa sensazione procurata dai jump cut degli esordi, ovvero quella di assistere alle procedure del linguaggio cinematografico per la prima volta – ma soprattutto rottura della continuità, manipolazione tattile, memoria di un gesto manuale. La compressione del tempo determina un’alterazione delle qualità intensive del corpo, “stirato” e allungato nel tentativo di catturarne la concentrazione massima di energia vitale. Il problema è che l’alterazione temporale nasconde suddetta energia (la vie) nel momento in cui finge di mostrarla. La nasconde, lo vedremo, nella pedalata di Denise, nei capelli scompigliati della figlia di Paul, ma anche negli schiaffi inferti da due uomini alla ragazza-col-rossetto, colpevole di non aver scelto tra i due misteriosi contendenti: «Je ne choisie pas». Dilatata dal ralenti, la violenza ha gli stessi gesti dell’amore: le mani che colpiscono la ragazza non fanno più rumore del corpo di Paul che, dopo aver rovesciato il tavolo della cucina, crolla su Denise senza accorgersi di essere osservato da uno spettatore interno (Isabelle). Tutti le scene rallentate, del resto, sono filmate come spettacolo di uno spettacolo: Denise è testimone del pestaggio alla stazione, mentre toccherà a una misteriosa passante garantire la focalizzazione interna in occasione dell’incidente mortale di Paul. Perché inserire un vedente nella visione? Forse perché ciò che vediamo Ancora una volta ci viene in aiuto la voce over delle Histoire(s) du cinéma, 4B: ««Il cinema non temeva nulla dagli altri, né da se stesso. Non era al riparo del tempo, era il riparo del tempo».

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è davvero qualcosa di “nuovo”, qualcosa che Godard non aveva mai filmato prima: «Vorrei rallentare, filmare ciò che non si vede ordinariamente, non proprio rallentare ma decomporre questo passato nell’istante in cui esso compone il presente dei personaggi»27. Ciò che «non si vede ordinariamente» sono le forze invisibili che animano la forma sensibile del corpo, e un cinema che insegue l’Origine non può che interrogarsi su tutto ciò.

in realtà non fa che defigurare la figura umana e scioglierla sullo sfondo. Si veda il fermo-immagine in fig. 4: agitati dal vento, i capelli di Nathalie Baye si confondono con le macchie del sole tra gli alberi, mentre il verde scuro del maglione si dissolve nel tono luminoso dello sfondo. Tra corpo e paesaggio non c’è più alcuna soglia, ma lo stesso non si può dire della relazione che lega attrice e personaggio.

Quel che resta dell’attore (e del paesaggio) «Stato alterato dell’immagine – secondo la definizione di Antonio Costa28 –, il ralenti rimette in questione non solo lo statuto della percezione (oggettività vs soggettività), ma innanzitutto il ruolo della perfomance attoriale. Rallentare in sede di montaggio un gesto o un micromovimento della mimica, infatti, equivale a rafforzare il ruolo del dispositivo rispetto all’agire di un attore che si conferma davvero, come ha dichiarato la stessa Baye, un «tubo di colore». Con questo colore l’istanza narrante può fare di tutto, ma soprattutto può mostrare se stessa, assecondando quella volontà di straniamento a cui abbiamo accennato sopra: si deve “vedere” che è solo un film. Tra la prestazione dell’attore e la resa finale, infatti, nessun punto di contatto. Oltre al sezionamento, determinato dalla messa in quadro, il corpo subisce infatti anche l’alterazione di quel poco che di umano restava nel simulacro: il tempo del gesto. Della forza investita da Dutronc per abbracciare Nathalie Baye, lo abbiamo visto, resta solo una traccia sonora, ovvero il fragore degli oggetti che cadono a contatto con i corpi. Paul non capisce la decisione di Denise: «Credi che ti basti rifugiarti in montagna con la bicicletta per cambiare vita?». A cambiare vita, in realtà, non è solamente il personaggio ma anche l’attrice, pedinata in deambulazioni ben più rapide di quelle a cui Godard aveva abituato i suoi interpreti. Il cambiamento di décor, infatti, impone all’attore di adottare codici espressivi nuovi per abitare lo spazio. Nathalie Baye non cammina, come invece facevano Jean Seberg o Macha Méril in Une femme mariée (Una donna sposata, 1964). Si sposta in bicicletta, ma il suo gesto è irrimediabilmente bloccato da una cinepresa che finge di adottare i codici della fotografia sportiva ma

Fig. 4. Si salvi chi può... la vita

Jean-Luc Godard, Lettre numéro un aux membres de la Commission d’avance sur recettes, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit. p. 307. 28 Sulla nozione di «stato alterato dell’immagine» si veda Antonio Costa, L’ état altéré des images: de Lyotard à Bill Viola, «AAM-TAC», 7, 2010, pp. 9-18.

Torniamo un momento indietro. Abbiamo sentito Juliette (Due o tre cose che so di lei) lamentarsi dell’«oggettività» che la schiaccia, mentre Marina Vlady, la sua interprete, sembra libera di errare a piacere all’interno e all’esterno di quella elle a cui allude il titolo (lei è il personaggio ma, come abbiamo già detto, anche la città). A differenza di quanto potrebbe sembrare, però, pochissimi sono gli esterni deambulanti dell’attrice, la quale è invece «schiacciata» dalla cinepresa contro pareti di appartamenti, interni di caffè e paesaggi urbani ipermoderni (fig. 5). Due o tre cose che so di lei, in questo senso, è un film sulla potenza fascinatoria del montaggio: abbiamo la sensazione di muoverci per le vie di una città che invece percepiamo più come suono che come immagine. Anche Denise rivendica l’urgenza di un rapporto autentico con il mondo («non sono una macchina»). La sua interprete non rivela il dispositivo, al contrario. Nathalie Baye mette in pratica la posizione teorica esposta dal personaggio, ovvero lavora portando sullo schermo il proprio “naturale”,

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altro non sarebbe che un test finalizzato a renderne immagine infinitamente riproducibile e trasportabile. Un test del quale il performer sembrerebbe addirittura consapevole: Mentre si trova davanti all’apparecchio, egli sa che in ultima istanza avrà a che fare con la massa. È questa massa che lo controllerà. E proprio questa non è visibile, non è ancora presente mentre egli realizza la prestazione artistica che essa controllerà30. Fig. 5. Due o tre cose che so di lei

senza obbedire ad alcun cliché mimico o ripetere gesti codificati. Nessuna tensione nei muscoli facciali, nemmeno nei momenti più concitati dei duetti con Dutronc: il pathos resta nelle parole e non affiora su un paesaggio, quello del volto, increspato solamente dal movimento degli occhi, spesso tesi verso il fuori campo, al contempo assorti e distratti. Se davvero, come sentiremo tra poco, nel cinema non esistono leggi, tutto ciò che un attore deve fare davanti alla cinepresa è esserci. Le azioni (sciogliersi i capelli, andare in bicicletta, chiudere la zip dei pantaloni, sorseggiare un caffè) si confondono con il quotidiano e le frasi pronunciate sono spesso banali, ripetitive, incomplete. Proprio come nella «vita» a cui il film allude. Che Godard adotti o no la tecnica dello straniamento, dunque, le cose non cambiano. Oggi come ieri filmare un attore non significa permettere allo spettatore di conoscere il personaggio. Scomponendo la presenza attoriale in un tempo lontanissimo dal naturale, ralenti e fermo-immagine vanificano gli effetti di reale prodotti da questo stile di recitazione e svelano la natura reificata dell’attore cinematografico, la sua natura di “moneta dell’assoluto”, anello debole nell’ingranaggio dello sfruttamento capitalistico. Se Marina Vlady era «schiacciata» contro l’ambiente, Nathalie Baye vi è dissolta dentro. Il risultato è lo stesso: di lei l’istanza narrante conosce solo “due o tre cose”. Dai ritratti ottenuti mediante stop-frame non emerge «l’anima che c’è dietro» (Le petit soldat), ma la testura setosa di una carne ceduta alla cinepresa, direbbe Benjamin, mediante un Test-leistung, ovvero una semplice «prestazione di verifica»29. Secondo Benjamin, com’è noto, la performance dell’attore cinematografico

Le Histoire(s) du cinéma evidenzieranno come moltissimi siano i debiti di Godard nei confronti del pensiero di Benjamin, soprattutto per ciò che concerne la nozione di Storia come eterno presente, oggetto di una costruzione «il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualità»31. Di questa riflessione sull’attore cinematografico, invece, interessante è il termine «controllo». Perché, come suggerisce la celebre sequenza dell’orgia, lavoro e amore possono avere gli stessi gesti: quelli della macchina cinema. Il cinema, infatti, non è solo catena di montaggio finalizzata alla produzione di immagini narrative, ma anche – questo vuol dirci Godard – laboratorio, metafora, anticamera della vita. E la vita, spesso, sfugge ai tentativi di riproduzione. Osserviamo nuovamente il fermo-immagine in fig. 4. I contorni delle cose sfumano, la definizione, come ama ripetere spesso l’autore nelle interviste di questi anni, non è alta ma “bassa”, come nei quadri di Van Gogh32. L’inquadratura non appare più una finestra sul mondo. Figurativo o figurale? Nel momento in cui scompone il movimento e arresta il suo sguardo, Godard sembra oltrepassare la dimensione del figurativo e sfiorare i territori del figurale33. Non è questa la sede per una riflessione sul pensiero di

Walter Benjamin, Opere complete VII, Scritti 1938-1940, tr. it. Einaudi, Torino, 2004, pp. 314-316. Secondo Benjamin quella dell’attore cinematografico, a differenza di quella dell’attore teatrale, non è una prestazione artistica in quanto egli si comporta come se dovesse fare dei test.

Walter Benjamin, Scritti 1934-1937, tr. it. Einaudi, Torino, 2004, p. 289. Walter Benjamin, Angelus Novus (1940), tr. it. in Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1995, p. 78. 32 Cfr. Jean-Luc Godard in Olivier Bombarda, Entretien avec Jean-Luc Godard, «ARTE», 28 Novembre 07. 33 Sulla nozione di figurale nel cinema si vedano almeno Paolo Bertetto, Il figurale e il cinema, cit.; Jean-François Lyotard, L’Acinéma, in Dominique Noguez (sous la direction de), Cinéma: théorie, lectures, «La Revue d’Esthétique», numéro spécial, 1973 (tr. it. «Aut Aut», 338, 2008, L’acinema di Lyotard, a cura di Antonio Costa e Raoul Kirchmayr, p.

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Lyotard, ma è evidente che la nozione lyotardiana di figura presenta numerosi punti in comune con le questioni in campo. Denise vuole salvarsi la vita e vede come unica possibilità la pratica artistica (nel caso specifico la scrittura). A differenza di Paul però, che come molti cineasti narrati ha separato arte e vita, lei intende l’arte come oltrepassamento della discorsività, liberazione dell’espressività e soprattutto vibrazione del mondo dell’affettività. Ovvero i cardini dell’estetica di Lyotard. Più che la vita del personaggio, Godard sembra voler salvare quella dell’immagine, la quale può perdere la propria infanzia e diventare adulta solo se – come ha scritto Jean-François Lyotard cinque anni prima della lavorazione di questo film – essa si oppone al «nichilismo dei movimenti»: L’ordine dell’insieme ha per scopo solo la funzione del cinema: che ci sia ordine nei movimenti, che i movimenti si facciano in ordine, che facciano ordine. Siamo in grado di concepire e praticare la scrittura con il movimento, il cinematografare, solo come un’incessante organizzazione dei movimenti34.

In questione, infatti, è il dissidio tra la forma e la forza dell’immagine cinematografica, forza che emerge proprio nel momento in cui il tempo non è più normalizzato, ma rallentato, s-figurato, esposto. Ciò che Godard mette in crisi, incrociando le traiettorie dei suoi personaggi in una sinfonia di rumori, note e colori (il verde dietro Nathalie Baye, il giallo attorno a Isabelle Huppert), è esattamente la logica del racconto organizzato secondo quella che Lyotard definisce «legge del valore»: ogni elemento o movimento è mostrato in quanto ha valore in relazione al movimento precedente o successivo. In Si salvi chi può… la vita, lo abbiamo visto, non solo di immagine si tratta, quanto di immaginario (capitolo 1). L’immaginario di Denise produce non solo «folate di irregolarità», ma anche «goffaggini, spostamenti superflui, accelerazioni improvvise», ovvero tutta una serie di scarti rispetto al ritmo del racconto classico. Queste deviazioni, che comportano uno scivolamento dal principale al secondario, altro non sono che i «vacillamenti» in cui può incorrere il cineasta secondo Lyotard: 17); Jean-François Lyotard, Discorso, figura, tr. it. Mimesis, Milano, 2008; Luc Vancheri, Les pensées figurales de l’ image, Armand Colin, Paris, 2011; Roberto De Gaetano, La potenza delle immagini. Il cinema, la forma, le forze, ETS, Pisa, 2012. 34 Jean-François Lyotard, L’acinema di Lyotard, cit., p. 17.

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Poniamo, ad esempio, che stiate lavorando ad un piano con una videocamera, magari su una splendida chioma alla Saint-John Perse. Al momento di visionare, notate che c’è stato un vacillamento: di colpo, disordinati profili di isole, paludi e scogliere taglienti invadono i vostri occhi, li colmano, intercalano, nel vostro piano, una scena venuta da chissà dove, che non rappresenta nulla di riconoscibile, che non si ricollega alla logica del vostro piano, che non ha valore neppure come inserto, perché non sarà ripresa, ripetuta, una scena indecidibile che dovrete eliminare35.

Questa «scena venuta da chissà dove» è, per usare la parole di Denise, «la vita che si aggancia, tutto quello che in ogni uomo della catena urla silenziosamente: non sono una macchina». Certo, forse la «folata di irregolarità» allude, come ha suggerito Giorgio De Vincenti, anche a una riflessione sulle leggi che governano l’universo. Ma come sappiamo il cinema per Godard è soprattutto cinema e Si salvi chi può... la vita è (anche) un film sul problema del racconto inteso, per dirla con Lyotard, come «risoluzione di dissonanze»36 o «ripetizione dello stesso». Non a caso è proprio contro la ripetizione che si inarca l’immaginario di Denise… L’ immagine dell’origine Ha ragione Raymond Bellour: dilatando la durata oltre il principio di verosimiglianza, Si salvi chi può... la vita annuncia «la prefigurazione di una nuova immagine, che si svincola dalla sua trasparenza fotografica per dare spazio ad altre materie»37. Tra queste «materie», lo abbiamo visto, c’è la carne di un attore che “eccede” il suo personaggio anziché aderirvi e dunque si dà a vedere come presenza plastica, materiale da comporre, decomporre e, se necessario, violentare. Si pensi a Jacques Dutronc: più che agire, il suo personaggio sembra agito dagli eventi. Le cose (la presentazione di Duras) lo inseguono e le parole non lo aiutano a entrare in comunicazione con gli altri: «Le immagini, come i corpi, per diventare parlanti devono subire violenza, l’accesso al simbolico è doloroso. Il vecchio linguaggio cinematografico, con le sue figure e le sue clausole codificate, si disfa e si degrada. Il corpo corre verso la morte»38. Ivi, p. 18. Ivi, p. 23. 37 Cfr. Raymond Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, cit. 38 Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, cit., p. 146. 35

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Quella di Paul nel finale non è una corsa, ma la danza stilizzata di un corpo intertestuale, alter-ego dell’autore (Mr. Godard) e al contempo emanazione del primo antieroe di questo cinema, il Michel Poiccard di Fino all’ultimo respiro (anche là, in fondo, si trattava di salvarsi la vita). Ma davvero, come ha detto Bellour, la ricerca di Godard prefigura una nuova immagine? Forse è sull’accezione di “nuovo” che bisogna riflettere. Mi sembra infatti che a Godard risulti impossibile filmare la vita senza dimenticare il (proprio) cinema. Perché cinema e vita, lo abbiamo visto, sono la stessa cosa per un artista che rivendica, attraverso la creatività, la propria dignità di essere umano: «Faccio delle immagini invece di fare dei bambini» (Soft and Hard, 1988). Come sostiene Roberto De Gaetano39, la forza dell’immagine godardiana non risiede tanto nel momento “inventivo”, quanto nella sua capacità di redimere il passato, configurandosi come «ripetizione salvifica». L’immagine di Dutronc ha quindi “origine” in quella di Belmondo, la quale è traccia di un passato creativo che non passa, ma insiste sul presente permettendo la riformulazione di nuove (?) immagini. Sul problema dell’origine dell’immagine torneremo; per ora restiamo sul volto di Dutronc. Paul muore sull’asfalto. Solo. L’unico sguardo femminile gettato su di lui, quello della figlia, è immediatamente castrato dall’ex moglie, con un gioco di parole intraducibile in italiano: «Qu’est-ce que tu regarde? Ca ne nous regarde plus»40.

cerca di filmarla, riuscendo però solo a catturare solo qualche immaginetempo (una carezza, un bacio, una caduta) dal movimento alterato rispetto al ritmo convenzionale del cinema mainstream. La moglie invece non guarda questa vita, perché essa non la ri-guarda. Non guardarla equivale a non salvarla: madre e figlia, infatti, abbandonano indifferenti quel corpo ferito. Parlavamo sopra di creatività come rifacimento: l’origine delle immagini di oggi è rinvenibile in quelle di ieri. Come sempre in Godard, infatti, anche questa morte arriva senza preavviso, in uno dei tanti esterni urbani indifferenti alle passioni dei personaggi. Dopo aver salutato l’ex moglie e cercato una vana riconciliazione, Paul esce di campo e la cinepresa resta sulla nuca della donna (fig. 6), una delle tante nuche che in questo cinema mettono in crisi la nozione di volto come luogo dell’identità.

Guardare, dunque – ma lo aveva già dimostrato Merleau-Ponty –, significa anche essere (ri)guardati, toccati, coinvolti. Per questo prima di stampare un’immagine, non importa se fissa o mobile, Godard sente il bisogno di sfogliarla, testarla e discuterla mediante video-appunti o videosceneggiature41. Il gioco di rifrazioni è infinito. Godard guarda la vita di Paul Godard e Mi riferisco alla tesi esposta in L’ immagine senza origine, «Fata Morgana», Origine, VI, 16, gennaio-aprile 2012. Roberto De Gaetano analizza alcuni casi in cui l’immagine cinematografica si sottrae a ogni nozione di origine, offrendosi come prodotto del montaggio. Esemplari in questo senso sono le ricerche di Ejzenštejn (dialettica), Bresson (frammentazione) e Godard (archeologia). 40 «Che cosa guardi? Questo non ci riguarda più». 41 Il tema della riflessività dello sguardo ritorna in Scénario du film Passion nell’ambito di una interrogazione sulla veridicità dei media. Quando guardiamo un telegiornale, ci dice Godard, non siamo noi a guardare le immagini, ma le immagini guardano noi. Da dietro le spalle degli speaker.

Rumore di frenata, tonfo sordo di un corpo che cade, grida di una ragazza: la morte del protagonista è filmata (?) come una «cosa secondaria», un fuori-campo sonoro che “apre” le pareti dell’inquadratura. Non ha torto De Vincenti a scomodare il nome di Ejzenštejn per questo Godard. L’immagine non coincide più con l’inquadratura, ma si offre come il prodotto di un’esperienza dialettica fatta di luce (audio) e buio (visione):

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Fig. 6. Si salvi chi può... la vita

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un’estasi della percezione audiovisiva. L’immagine è suono, o meglio il suono mostra ciò che l’immagine nega. Devono infatti passare alcuni secondi perché la cinepresa ci permetta di dare a questo paesaggio sonoro un volto. Ma quella che vediamo, dilatata dal ralenti, non è un’immagine-fatto, perché il fatto è accaduto prima. Il tempo della storia non coincide con il tempo del racconto. Viene in mente la sequenza dell’incidente sugli Champs-Elysées all’inizio di Fino all’ultimo respiro. Distratta da un rumore fuori campo, la cinepresa abbandona i personaggi e cerca di catturare un apparente frammento di realtà, ovvero lo scontro frontale tra un’auto e un ciclomotore. Anziché raffigurare il reale, Godard ne imita la modalità di percezione: l’illusione di realtà è assicurata. Quando Belmondo arriva sul posto, il fatto è già avvenuto e la cinepresa documenta solo la traccia di ciò che è sfuggito al suo sguardo. Niente ralenti dunque. Sono passati vent’anni, e qui siamo in Svizzera, non a Parigi. La verità non è più un dato fenomenologico, o quanto meno non scorre più 24 volte al secondo perché il cinemaverità è morto, o meglio riservato a supporti più agili come il video. Nonostante tutto, però, il (cinema) passato sembra accompagnare il presente, soprattutto se questo si configura come re-visione di immagini, storie, volti. «Bisogna vivere le storie prima di inventarle», dirà il regista di Passion. Parafrasando questo motto, potremmo affermare che il “terzo” Godard inventa storie già inventate, ma forse (oppure proprio per questo) ancora aperte, non morte, non finite. Per tornare al 35mm e recuperare l’infanzia dell’immagine, in conclusione, la strada è una sola: lavorare sul passato dell’immagine e sulla contiguità di questo passato con il presente. Il verbo, la carne, il cinema La traccia del passaggio di un aereo nel cielo; un uomo al volante; un’operaia al lavoro; una donna che si riveste. Così, sulle note extradiegetiche del Concerto per mano sinistra di Ravel, comincia Passion, forse l’opera più ispirata, densa e polisemica di questa stagione. Fotografato da Raoul Coutard e montato dallo stesso Godard, Passion approfondisce la riflessione sullo stadio “infantile” dell’immagine mettendo sul tavolo due questioni fondamentali: la relazione tra cinema e pittura e il ruolo del segno nella costruzione del senso. Luci naturali e luci artificiali, interni ed esterni: Godard espone subito la materia del racconto, ma non solo. Suggerisce inoltre che gli elementi di 44

questa materia sono tenuti insieme, mediante il montaggio, da una rete di associazioni tanto narrative quanto plastiche, cromatiche e musicali. Come sempre, Godard formula domande di cui non suggerisce la risposta: la pittura è davvero l’infanzia del cinema? E poi, è possibile costruire «immagini parlanti» rinunciando a filmare sia la parola che il movimento? Filmare ciò che non si vede ordinariamente, infatti, non è l’unica ambizione di questo Godard. Fotografare cieli, prati e nuvole è un modo per inserirsi nella tradizione della pittura occidentale e dipingere finalmente dei paesaggi; ma la storia dell’occhio, come ha osservato Jacques Aumont42, comincia da lontano e non a caso Delacroix, uno dei pittori rifatti da Jerzy, prima di dipingere fiori ha ritratto guerrieri, santi, amanti. Solo accennato nel film precedente, il tema della creatività/creazione è qui elemento cardine del plot, articolato in un intreccio di almeno tre storie: la storia di un film intitolato “Passion”, la storia della passione tra un produttore/padrone (Michel Piccoli) e la proprietaria di un hotel (Hanna Schygulla), la storia di un’operaia (Isabelle Huppert) e della sua protesta sociale. Da queste storie ne derivano altre, non meno secondarie: Hanna è sedotta da Jerzy, il regista del film nel film, il quale però è attratto anche da Isabelle, dipendente di Michel, della quale Hanna è gelosa. Le storie sono tante, troppe, o forse troppo poco illuminate. Ogni personaggio, infatti, nasconde dietro di sé un passato opaco, che Godard si guarda bene dall’illustrare (qual è l’origine del malessere di Hanna? Che cosa faceva Jerzy in Polonia?). Se i personaggi non sono de-finiti, neppure la loro storia può finire. Anziché chiudere il cerchio, il finale apre ad almeno due film possibili: un kolossal (la lavorazione del film viene sospesa e trasferita negli USA), oppure un ritratto della condizione operaia (Isabelle convince Hanna a trasferirsi in Polonia per unirsi a Solidarność). Saggio sul cinema, ma anche, per riprendere uno slogan degli anni Sessanta, film poetico e politico, Passion è una «sinfonia» (Farassino) articolata e complessa la cui struttura melodica, però, non ha nulla di eccentrico. Al contrario, immagini e suoni si mescolano secondo «una logica assoluta» (Godard), quella del conflitto: vita-arte, plein air-studio, lavoro-amore, Francia-Svizzera, politicareligione, attore-personaggio, ma soprattutto luce extradigetica-luce naturale. Jerzy deve mettere in scena tele celebri (da Goya a Rembrandt, da El Greco a Velásquez) e per farlo ne ricostruisce la composizione scenica, imitando la posizione dei personaggi, la direzione degli sguardi, la temperatura del colore e la tensione interna delle linee di forza. Ma l’approccio si 42

Cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, tr. it. Marsilio, Venezia, 1988.

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rivela immediatamente sterile. Difficile, infatti, è riprodurre la luce. Non basta “trovarla”: bisogna fermarla e fare in modo che essa si fondi con la testura di un’immagine mobile. Jerzy interrompe le riprese perché la luce non va, «non va e non viene da nessuna parte». Come sempre, Godard gioca con le parole ma questa volta il gioco nasconde una riflessione sulla struttura organica dell’immagine cinematografica. Ciò che Jerzy “patisce”, probabilmente, è la natura artificiale della luce: «il film si farà con la luce vera», dice a Hanna. Questi tableaux non sono vivants perché la luce non è viva, non dà vita, non si muove. Non si muove, almeno, quanto quella del sole svizzero, la quale prima ferisce gli occhi di Isabelle dietro il finestrino e poi accomuna tutto, corpi e cose, in una monocromia che sembra congelare il tempo. Come ha dimostrato Jacques Aumont, Godard ha sempre adoperato la metafora che assimila il regista al pittore, tanto negli scritti critici che nei testi audiovisivi. Ma se in Il bandito delle undici o in Il disprezzo, la pittura appariva come il punto di arrivo di una ricerca estetica («Ce n’est pas du sang, c’est du rouge»), oggi essa è vista come un punto di partenza. Il “nuovo” Godard viene dalla pittura e ora va verso la banalità del mondo, cercando di dipingerne le cose principali ma anche quelle secondarie, con o senza contorni. Per fare ciò, però, anch’egli deve ritrovare la luce. Tutto sommato quella di Jerzy, Isabelle e Hanna è una storia molto simile a quella raccontata da Il disprezzo, ovvero «la storia degli uomini che si sono allontanati dagli Dei e tagliati fuori da loro stessi e dal mondo reale. Ora, racchiusi in un mondo di tenebre, provano maldestramente a ritrovare la luce»43. Estasi e pathos Sono passati dodici minuti dall’inizio. Nelle tenebre di una stanza, accompagnate dal Requiem di Mozart ma non sincronizzate con i volti, vagano le parole degli operai riuniti a casa di Isabelle, corpi statici e inerti esattamente quanto quelli dei modelli chiamati a dar vita ai tableaux. «Bisogna vedere ciò che si scrive», dice Isabelle. E per vedere la giovane sindacalista abbassa lentamente il punto luce, aprendo l’inquadratura a uno spazio altro, quello del set: mediante un raccordo sul movimento la lampada casalinga si è trasformata in un riflettore professionale. Quasi scolastico nella sua fattura, un montaggio analogico permette infatti di associare, mediante un semplice gesto (il posizionamento di un proiettore), operai e 43

Jean-Luc Godard in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 209.

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figuranti, uniti nel medesimo destino di vittime: il quadro “illuminato” da Isabelle è infatti La fucilazione di Goya. Più volte scomodato dagli esegeti44, il nume di Ejzenštejn ritorna dunque a far sentire la sua presenza. In un film sul cinema inteso come connubio mistico di amore e lavoro, del resto, l’immagine non poteva che configurarsi come èk-stasis, prodotto di un montaggio che, sintetizzando due rappresentabili, opera un processo di trasformazione fondato in questo caso sul principio dell’analogia. Come l’Ejzenštejn de Staroe i novoe (Il vecchio e il nuovo, 1928), Godard mette in immagini il concetto di trasformazione, nell’accezione di passaggio da una condizione a un’altra. Tutti vogliono trasformare qualcosa: Isabelle aspira a trasformare le condizioni di vita del mondo operaio, Jerzy deve cinematizzare la pittura, Hanna vorrebbe mutare il lavoro in amore. Passione significa innanzitutto sofferenza. Ciò che questi personaggi patiscono è proprio l’impossibilità di attuare questo “passaggio da una condizione a un’altra”, tema che del resto anticipa, su scala laica, il mistero metafisico del concepimento (Je vous salue, Marie). Per ogni processo di trasformazione il nemico è quello individuato da Denise (Si salvi chi può… la vita), ovvero la ripetizione. Isabelle e Hanna lottano ognuna a suo modo contro la ripetizione e per farlo espongono anche il loro corpo. A Jerzy Isabelle offre la verginità, mentre Hanna esita a soddisfare la richiesta dell’uomo: prestare il corpo alla cinepresa le appare un gesto troppo simile all’amore. Godard, insomma, non riesce a raccontare una storia senza raccontare la Storia del cinema. Ejzenštejn, il cinema militante e il film in costume sono solo alcuni dei capitoli di una Storia che l’autore ha appena cominciato a sfogliare. E quella di un regista chiamato controvoglia a dirigere un kolossal è una storia che abbiamo già visto, appunto, in Il disprezzo. Allora come oggi, si tratta di raccontare una storia e seguire delle leggi. Ma nel cinema, ripete Jerzy, «le leggi non esistono. Per questo la gente lo ama ancora». Una conclusione, questa, che suona come l’ammissione di una sconfitta. Inutile rinchiudersi negli studi. Le passioni della vita alterano l’umore delle comparse e distraggono la mente di un regista attento, più che a raccontare una storia, a evitare buchi, cesure e fratture nell’architettura luministica. Jerzy non lotta contro la ripetizione. Jerzy ripete. O meglio Lo stesso Jacques Aumont propone un confronto tra la cinematizzazione di Godard e il cinematismo di Ejzenštejn, ricordando come il teorico russo analizzasse le tele di El Greco alla luce del concetto di montaggio e della concezione idiosincratica di estasi (cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, cit., p. 151). 44

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vorrebbe ripetere. Rifare Rembrandt però, dove «tutto è correttamente illuminato, da sinistra verso destra», è impossibile. Raccontare una storia fatta solo di immagini, e non di vita, è impossibile. Perché, come afferma M.lle Lukatchewski, difficile è separare «dal reale esteriore» una storia che «non è una menzogna, ma qualcosa di immaginato che non è mai l’esatta verità, ma nemmeno il suo contrario». Nonostante le leggi, dunque, l’inquadratura resta sempre una finestra sul mondo e il cinema, vent’anni dopo la Nouvelle Vague, è ancora «il cinema della disponibilità esistenziale, del mondo inteso come possibilità, orizzonte di aperture che si presentano al soggetto nella loro variegata disponibilità, dell’esserci considerato come sintesi della libertà e del nulla»45. Uomini e fiori Si è detto che Passion è articolato secondo una serie di opposizioni binarie (vita/arte, cinema/pittura, lavoro/amore ecc). Consideriamo la dialettica interno/esterno – ammesso che sia davvero possibile parlare di esterni – e osserviamo la quinta inquadratura del film, ovvero il campo lungo con cui, dopo averci mostrato un frammento della storia di Hanna (la relazione clandestina con Michel), Godard introduce il personaggio di Jerzy (fig. 7). Questi i materiali dell’immagine: un giardino incolto, dove fiori selvatici si alternano alla sterpaglia, la roulotte della produzione parcheggiata sullo sfondo, un’auto che arriva e un’altra che parte. Qualcuno sembra accogliere Jerzy e parlargli, ma non conosciamo né l’identità dei personaggi, né il soggetto della loro conversazione. Come spesso avviene nelle opere di questo decennio, i corpi urlano invece di parlare e soprattutto corrono, si spingono, urtano contro gli oggetti. Anziché avvicinarsi per cogliere i dettagli dell’azione e permetterci di collegare la parole ai rispettivi volti, Godard resta fermo, lasciando che il rumore del vento, ben visibile per effetto del movimento dei fiori sulla destra, renda ancora più impercettibili le voci della storia, o meglio di una delle storie che compongono il film. Denise aveva ragione: «descrivere le cose secondarie illumina le principali». Fiori in primo piano, corpi e parole sullo sfondo. La profondità di campo permette allo spettatore di effettuare il proprio découpage, scegliendo liberamente che cosa guardare e che cosa ascoltare. Più che raccontare, dunque, la cinepresa si limita a guardare, senza fare (apparentemente) 45

Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., p. 174.

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nulla. Sul set di Passion, del resto, Jerzy si comporta allo stesso modo, rivendicando con queste parole la propria impotenza: «Io non sono nulla, nulla di nulla. Osservo, trasformo, trasferisco, elimino gli eccessi, tutto qui». Eppure, qualcosa la cinepresa di Godard ha fatto: ha suddiviso, all’interno del campo visivo, una porzione di spazio che duplica la cornice dell’inquadratura rilanciando all’infinito il gioco metalinguistico. L’albero a sinistra e la roulotte sulla destra, infatti, fungono da quadro nel quadro atto a racchiudere coloro che dovrebbero essere gli attanti dell’azione, ovvero i personaggi, e che invece più che agire si limitano a essere: come abbiamo detto in Passion non c’è azione ma inazione, stasi, constatazione dell’impossibilità di agire. Molto simile è la composizione di un altro spazio liminare, ovvero l’esterno del bar dell’hotel che ospita la troupe (Fig. 8). Da un interno misterioso (l’hotel? un’abitazione?), qualcuno osserva il produttore e Michel salire in auto e partire, mentre Hanna si defila dal resto del gruppo (sta per raggiungere Jerzy in segreto). La posizione della cinepresa duplica l’inquadratura in due quadri adiacenti, ma nessuno di essi mostra eventi “principali”. Scorgiamo solo auto ferme e corpi in campo lungo, troppo lontani per farci sentire la loro voce: guardare, in Passion, non significa vedere. Fare cinema, dunque, è innanzitutto osservare. Ma osservare equivale inevitabilmente – per utilizzare un verbo caro a Ejzenštejn – a trasformare ciò che si osserva in qualcosa d’altro. E ogni trasformazione, lo abbiamo visto, produce senso nella percezione dello spettatore. Un anonimo luogo come questo esterno svizzero diventa, una volta catturato dalla cinepresa, uno spazio, ovvero – direbbe Sandro Bernardi – un territorio che non obbedisce più alla storia ma rivendica da essa una certa autonomia46. Uomo del suo tempo, Godard sa bene che filmare un paesaggio significa non solo trasferire o eliminare elementi, come sostiene Jerzy, ma anche porre interrogativi sull’atto del guardare. Chi guarda l’arrivo dell’auto del regista? Se il soggetto dello sguardo è l’istanza narrante, perché la cinepresa non si avvicina ai corpi? Perché Godard fa come Velásquez, o quanto meno come il Velásquez raccontato da Elie Faure all’inizio di Il bandito delle ore undici ovvero «girovaga attorno agli oggetti con l’aria e il crepuscolo». Riascoltiamo le parole di Belmondo: «Dopo i cinquant’anni Velásquez non dipingeva mai 46 Sulla dicotomia spazio-luogo rimando a Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2009.

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Figg. 7-8. Passion: lo spazio come intervallo.

una cosa definita. Girovagava attorno agli oggetti con l’aria e il crepuscolo. Coglieva nell’ombra e nella trasparenza dei fondi le palpitazioni colorate di cui faceva il centro invisibile della sua silenziosa sinfonia». Non tutti gli esterni sono uguali in questo Godard. Netto, per esempio, è il contrasto tra paesaggi con figure come questo, imitato poi nella sequenza della tentata fuga del padrone (fig. 9), e i frammenti di quello spazio cosmologico che invece ha attratto fin da subito l’attenzione della critica: dai prati verdi di Si salvi chi può... la vita alle nuvole di Passion, dal mare nero di Prénom Carmen alla luna di Je vous salue, Marie. Territori non in grado di ospitare una storia in quanto immensamente aperti, privi di limiti, di bordi, di cornici. Quelli abitati dai corpi, invece, sono esterni chiusi, senza cielo ma soprattutto senza una via di fuga, luoghi di transito nei quali la cinepresa, a differenza di quanto faceva negli anni Sessanta, non si può muovere. Quando lo fa, e mi riferisco al camera car che documenta la rincorsa di Isabelle all’auto di Jerzy all’inzio del film, la ciFig. 9. Passion nepresa non vede nulla, ma sembra al contrario “subire” l’aggressione di un reale accecante, difficile da mettere a fuoco. Mentre Isabelle resta voce senza volto, il sole lampeggia tra gli alberi come una macchia di colore astratto. 50

Ai travelling di Fino all’ultimo respiro o di Une femme est une femme (La donna è donna, 1964) si oppongono, in Passion, inquadrature fisse di muri davanti ai quali si agitano corpi che, come la luce agognata da Jerzy, non vengono da nessuna parte e non vanno da nessuna parte. Quando passano davanti all’occhio della cinepresa ci sono sempre due o tre auto che raddoppiano il motivo del muro inteso come ostacolo alla visione. Si pensi alla sequenza che documenta l’incontro incrociato tra amanti presenti (Michel e Hanna, seduti al volante delle rispettive auto) e futuri (Jerzy e Isabelle). Esterno giorno. L’auto di Jerzy è ferma, quella di Hanna deve ancora arrivare. Prima di avvicinarsi al produttore e confessargli la sua crisi («non vedo più nulla»), l’alter ego dell’autore stringe la mano a Isabelle nello spazio liminare compreso tra due auto in sosta, una delle quali oscura completamente la parte inferiore dei due corpi (fig. 10). Nel paesaggio urbano, insomma, si fatica non solo a prendere ma anche a vedere il corpo. Questa è forse l’unica novità figurativa di un Godard, quello degli anni Ottanta, che sembra voler smentire quanto affermato da Marina Vlady in Due o tre cose che so di lei, ovvero l’equivalenza balazsiana tra volto e paesaggio: «Un paesagFig. 10. Passion gio è come un volto». In realtà non così. Nel suo autoritratto invernale (JLG/JLG), monsieur Godard alternerà immagini di diversi JLG (seduto alla scrivania o alle prese con una pallina da tennis) a silenziosi paesaggi invernali, «paesaggi d’infanzia e d’altri tempi, senza nessuno dentro, e paesaggi recenti, dove si sono svolte le riprese». Perché, come dirà la voce narrante, «il y a pays dans paysage»47 e filmare un paesaggio significa riprodurre, anche rappresentare la patria del soggetto e dunque completare l’(auto)ritratto. Gli esterni di Allemagne 90 neuf zéro, è vero, saranno filmati come volti, 47

«C’è la parola “paese” in paesaggio».

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devastati ed erosi quanto quello di colui che li attraversa (Eddie Constantine)48. Ma se, come ha scritto Deleuze, «voltificare un paesaggio significa filmarlo come una superficie riflettente sulla quale si inscrivono micromovimenti»49, non sono sicuro che il paesaggio di Passion possa essere guardato a tutti gli effetti come un volto. Più che riflettere, infatti, questi esterni si offrono come negazione dello sguardo, concrezione figurativa di quel «Néant» che, come abbiamo visto, «soggiornerebbe accanto all’immagine» al fine di permettere a quest’ultima di esprimere tutta la sua potenza. Come i paesaggi di JLG/JLG, gli esterni di Passion non portano da nessuna parte. Ma a differenza di quei quadri invernali, carichi di passato, questi sono spazi senza storia ma anche contro un’ipotesi di storia, spazi da costruire, materiali da togliere.

Sulle affinità tra volto e paesaggio in Godard si veda Jacques Aumont, Du visage au cinéma, Cahiers du cinéma, Paris, 1996. 49 Gilles Deleuze, L’ immagine-tempo, cit., p. 110. 50 Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, tr. it. Adelphi, Milano, 1977, p. 73.

Non è questa la sede per un’analisi della suggestione esercitata dal pensiero di Bateson sull’immaginario di Godard. Di certo questioni come la teoria del caos deterministico e i criteri del processo di evoluzione e pensiero, cardini dell’epistemologia di Bateson, affascinano da tempo anche il nostro autore, il quale però, come dimostrerà anche Je vous salue, Marie, si diverte a restare sulla superficie della questione. Si pensi per esempio alla teoria della probabilità: campo d’indagine tra i più frequentati da Bateson, questa teoria verrà, come vedremo, scherzosamente derisa durante uno dei duetti tra Hanna a Jerzy. Una delle grandi intuizioni di Bateson, com’è noto, fu l’analogia tra pensiero ed evoluzione, indagati come processi aleatori accomunati non dal tempo (tempo storico e tempo biologico non coicidono), ma dalla duplicità della loro struttura. Sia il sistema individuo che il sistema evoluzione, infatti, prevedono nel loro DNA, oltre a una componente conservativa e tautologica, anche un elemento casuale e creativo che Bateson chiama “immaginazione”. Non c’è evoluzione, sostiene Bateson, senza continuità, in quanto ogni organismo muta mantenendo inalterati i meccanismi interni. Non ci sarebbe vita nel cosmo, insomma, senza la dialettica tra caso (rinnovamento) e legge (continuità). I concetti di rigore e immaginazione rinviano a quel grande orizzonte del pensiero godardiano che è il linguaggio. Da Ferdinand (Il bandito delle ore undici) a Nana (Questa è la mia vita), da Juliette Jeanson (Due o tre cose che so di lei) a Bruno (Le petit soldat), tutti o quasi si interrogano sui limiti che il linguaggio incontra nel momento in cui cerca di definire la realtà. «Più si parla – ripete Nana – meno le cose hanno senso». Affermare che la donna è donna o che il cinema è il cinema, infatti, significa constatare come la realtà sia già essa stessa linguaggio. Il nostro tentativo di decodificare questo linguaggio non fa che porre limiti all’espressività della realtà stessa. Rileggiamo un frammento di Bateson espunto dal film: «I contorni appartengono alle cose o siamo noi che li diamo quando le disegniamo?». Sono passati vent’anni, ma la ricerca di Godard ruota attorno agli stessi temi affrontati negli anni Karina. E mi riferisco alla sequenza della conversazione tra Nana e Brice Parain in Questa è la mia vita. Alla ragazza, delusa dal fatto che le parole tradirebbero le sue intenzioni, il filosofo ribatte affermando che forse siamo noi che tradiamo le parole: «Bisogna arrivare a poter dire esattamente quello che vogliamo. Bisogna pensare, e per pensare è necessario parlare. Per comunicare bisogna parlare. È la vita umana». La «vita umana»: ovvero la vita che Denise vuole salvare, la vita intesa

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Contorni Velásquez, diceva Elie Faure, non dipingeva cose definite. De-finire significa fare ciò che Godard cerca di evitare, ovvero conferire all’oggetto della rappresentazione un contorno, qualcosa che permetta allo spettatore di riconoscere codesto oggetto attraverso la sua forma. Disponendo gli elementi narrativi secondo associazioni libere anziché adottare una concatenazione di azione e reazione, l’autore fa in modo che il racconto avanzi per piccoli slittamenti, brevi digressioni su personaggi e ambienti secondari nell’economia della storia. È il caso della sequenza che documenta un frammento della vita privata di François, l’aiuto regista, alle prese con i compiti scolastici della figlia Barbara. Si tratta di scrivere un dettato, ma il testo pronunciato dal padre si rivela, in realtà, la lettura di un celebre interrogativo di Gregory Bateson: «perché le cose hanno dei contorni?»50. Rileggiamo le pagine di Verso un’ecologia della mente: Figlia: Papà, perché le cose hanno contorni? Padre: Davvero? Non so. Di quali cose parli? Figlia: Sì, quando disegno delle cose, perché hanno i contorni? Padre: Beh, e le cose di altro tipo..., un gregge di pecore? O una conversazione? Queste cose hanno contorni? Figlia: Non dire sciocchezze. Non si può disegnare una conversazione. Dico le cose. 48

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come «quella cosa impalpabile, quel modo di guardare il mondo con i sentimenti, questa nozione che non ha forma determinata, quella cosa che […] si chiama Passione»51. La comunicazione verbale, del resto, è un problema sollevato anche da Hanna durante la visione del suo provino per Passion: «Ciò che è difficile per te è parlare come vuoi tu. Anche se parlo il polacco, non so, non capisco come parli. Non so dove tu vuoi che io metta gli aggettivi e i verbi». La replica di Jerzy, immediata, tradisce tutta la familiarità poetica con il suo creatore: «Approfitta del fatto che la frase non è fatta per cominciare a parlare. Per cominciare a vivere». Da Fino all’ultimo respiro a Il bandito delle ore undici, da Il disprezzo a Éloge de l’amour, Godard ha sempre rappresentato la vita come un flusso pieno di ellissi, di vuoti, di tempi narrativamente deboli e parole perdute nel rumore o nell’oblio. Ha sempre errato attorno alle cose anziché asservirle necessariamente alla produzione del senso. Il cerchio si sta chiudendo: ricapitoliamo. Nell’hotel che ospita la troupe di Passion è in corso una lite tra Michel, il padrone della fabbrica, e un suo creditore. Anziché documentare la scena, la cinepresa resta sul volto di Hanna Schygulla, la quale però è distratta dalle grida del produttore, desideroso di richiamare l’attenzione della segretaria di produzione, Sophie Lucatchevsky. Qualche secondo dopo vediamo Hanna discutere con Jerzy sulla similitudine tra amore e lavoro; la conversazione avviene in una sorta di periferia del set, davanti all’uscita secondaria dell’albergo. Tra queste due scene “principali”, solamente abbozzate dal punto di vista scenografico e narrativo (intuiamo a mala pena il motivo della disputa e l’espressione dei personaggi), Godard inserisce una piccola scena secondaria, ovvero il dettato del padre alla figlia di cui sopra. Se è vero, come diceva Denise, che le cose secondarie illuminano le cose principali, la citazione di Bateson rivela una delle chiavi con cui decodificare il duetto dei due amanti, ognuno complice e coautore della storia dell’altro. La bambina di Bateson è sicura: «Non dire sciocchezze papà: non si può disegnare una conversazione». E quello che Godard fa è proprio filmare una conversazione senza “disegnarla”, ovvero senza assegnarle i seguenti contorni tipici del cinema narrativo: intellegibilità acustica delle parole, affinità linguistica tra i due interlocutori, découpage classico in mezza figura e ruolo attivo della conversazione nell’economia narrativa del racconto. Ebbene: nessuno di questi “contorni” è presente. Pur posizionati al centro del quadro, i due corpi sono coperti da 51

Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 209.

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strutture oggettuali quali la ringhiera di una scala e le foglie di una pianta. Quanto alla comunicazione, essa è ostacolata non solo dal rumore del traffico ma anche dalla differenza linguistica. Quando Jerzy passa dal francese al polacco, Hanna replica con una frase in tedesco che l’uomo ammette di non capire e che Godard, naturalmente, non traduce: «Die Arbeit ist vielleicht eine Art sich ausziehen, Aber ist Verdammt nah an der Liebe gleich». «Il lavoro – dice Hanna – è forse un modo di spogliarsi, ma è maledettamente simile all’amore». Nemmeno la lingua tedesca dissolve l’ambiguità della tipologia di prestazione richiesta dal regista alla sua amante: che cosa deve fare Hanna per Jerzy? Posare o agire? Recitare impone di mettere a nudo semplicemente il corpo o anche l’anima? Lo vedremo tra poco. Oltre a non capire, Jerzy commette, al pari dell’amante, numerosi errori di grammatica con il francese: «Il y a longtemps que je ne fais pas d’allemand»52 (Si dovrebbe dire «Cela fait» al posto di «Il y a»). Anziché mimetizzarsi nei rispettivi personaggi, insomma, gli attori mostrano in presa diretta i limiti del loro “dispositivo”, ostacolando così il processo di identificazione spettatoriale. Quello che Godard cattura è proprio la resistenza passiva che il significante oppone alla costruzione del senso. Ancora una volta, però, si tratta della ripetizione di qualcosa che abbiamo già visto o meglio già ascoltato, vent’anni fa, sugli ChampsElysées. Anche Jean Seberg (Fino all’ultimo respiro), infatti, interrompeva la conversazione per chiedere al partner il significato di alcune espressioni idiomatiche proprie di una lingua straniera sia per l’attrice che per il personaggio. Allora come oggi, soprattutto, il cuore del discorso viene presto abbandonato e i due interlocutori scivolano dal centro alla periferia: Hanna: Il lavoro che mi chiedi è troppo simile all’amore. Jerzy: Possibile. Hanna: Possible o probabile? Jerzy: Che giorno è oggi? Hanna: Il 21. Jerzy: No, il 22.

Forse Nana aveva ragione. Le parole non facilitano la comunione degli individui e soprattutto non aiutano, per dirla con Bateson, a disegnare i contorni del reale. Se la realtà è essa stessa linguaggio, allora, tanto vale seguire il suggerimento della voce over di Due o tre cose che so di lei, ovvero 52

«Da molto tempo non ripasso il tedesco».

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modificare il modo di guardarla. E questo lo si può fare allontanandosi dall’oggetto (penso all’esterno giorno analizzato sopra), oppure avvicinandosi così tanto da deformarne i contorni. Solo in questo modo, infatti, la schiuma creata dalla caduta di una zolletta di zucchero in una tazzina di caffè può apparire una galassia oscura e sconfinata. Prima di parlare o scrivere – affermerà Godard in esergo a Scénario du film Passion – bisogna vedere. Jerzy guarda attorno a sé, nella nebbia svizzera e oltre le luci del set. Le parole non servono né in amore (con Hanna) né sul lavoro: impossibile, infatti, dirigere a parole la nipote di Michel, sordomuta chiamata a “interpretare” la Bagnante di Valpinçon di Ingres. Per poter inventare una storia – è lui stesso ad ammetterlo – Jerzy deve prima viverla. Nel finale, ecco l’illuminazione. Partito con l’auto del padrone alla ricerca di Hanna e Isabelle, l’uomo incontra Sarah, la cameriera dell’hotel che tutti chiamano “principessa”, nota per svolgere i suoi lavori domestici compiendo esercizi di contorsionismo acrobatico. Jerzy la invita a salire in auto ma lei rifiuta, perché non le piacciono le auto. Jerzy però, nel frattempo, ha imparato a guardare. Ha imparato che, al pari delle conversazioni, le cose non hanno sempre dei contorni. E allora tutto dipende dallo sguardo che si getta su di esse: «Su salga! – urla Jerzy alla ragazza – Non è un’auto, è un tappeto volante». Volti Un paesaggio, diceva Marina Vlady, è come un volto. Nel tentativo di «creare la probabilità di un mondo possibile»53, l’occhio di Godard abbandona il vento della campagna (Si salvi chi può… la vita) e ritorna a esplorare lo spazio affettivo del volto. Vengono in mente i monologhi del reporter di Le petit soldat, convinto che il cinema possa davvero restituire la verità ventiquattro volte al secondo. Ma la questione è ancora aperta: quando si filma un volto si cattura davvero l’anima che c’è dietro? E che cosa resta, sul fragile supporto audiovisivo, di tutto ciò che Bruno definisce «l’inquietudine di uno sguardo» o il «segreto di un sorriso»? In altri termini: il cinema cattura solo i contorni o anche l’essenza delle cose? Da quanto possiamo intuire, il découpage del film di Jerzy non prevede primi piani. Tutto lo sforzo del regista è concentrato nell’allestimento della scenografia, nella disposizione dei figuranti e soprattutto nel tentativo di rendere, attraverso la luce, l’immagine fissa “animata”, ovvero – dirà Marie (Je vous salue, Marie) – dotata di anima. 53

Jean-Luc Godard in Scénario du film Passion.

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Il volto, in Passion, non è dunque sul set, ma fuori. Nella fabbrica, nelle stanze di una casa popolare (fig. 11), dietro il finestrino di un’auto o sullo schermo di un monitor di servizio (fig. 13). Cosi come aveva fatto Nathalie Baye, Isabelle Huppert e Hanna Schygulla si offrono come modelle per una variazione sul tema del ritratto da parte di un cineasta che ha abbandonato le suggestioni dell’astrattismo (penso alle citazioni di Braque o Picasso in Il bandito delle ore undici) per confrontarsi con i classici. Quando Hanna, nel finale, si reca da Jerzy per un ultimo addio, Godard filma il volto della Schygulla con una north-light simile a quella con cui Von Sternberg irrorava il volto di Marlene Dietrich (fig. 14). Pochi minuti prima, nel tentativo di convincere Jerzy a trasferirsi a Hollywood, il produttore di questo film nel film aveva citato proprio questa luce: «Laggiù vedrai la luce, quella di Sternberg, e quella di Boris Kaufman!». Si veda la sequenza della riunione delle operaie a casa di Isabelle: ogni primo piano si differenzia dal successivo o dal precedente per l’angolazione della cinepresa e soprattutto per il taglio di luce, ora piena, ora scarsa, ora aggressiva ecc. Difficile rinvenire qui quelle che Deleuze individua, proprio in questi anni54, come i tre fattori principali dell’immagine-affezione: comunicazione, individualizzazione e socializzazione. Privi (?) della rispettiva voce, questi volti infatti non introducono a nessun evento. Anziché riflettere la luce, sono da essa divorati, assorbiti, inghiottiti. A noi, come al protagonista di Le petit soldat55 davanti alla sua modella, non è dato sapere a cosa pensano. Ciò che mette in crisi la nozione deleuziana di «voltità» è il rapporto ambiguo che questi volti hanno con la voce, esterna al contenuto di un’immagine che eppure offre una galleria di bocche aperte, chiuse, semichiuse. Ancora una volta, Godard smaschera le procedure del processo di identificazione spettatoriale e in particolare quell’«atto di fede»56 che consiste nell’attribuire l’immagine della voce all’immagine del corpo. Aveva ragione Jacques Aumont: poiché non esiste alcun criterio assoluto che possa assicurarci la sincronia tra voce e volto, è necessario che lo spettatore creda a ciò che vede, anche se ciò che vede non è una storia, quanto la semplice esposizione degli elementi di una storia. Ci sono dei volti (i quali Mi riferisco a L’ immagine-affezione: volto e primo piano in L’ immagine-movimento, cit., pp. 109-147. 55 Bruno si muove e scatta fotografie in serie. Chiede a Veronika di compiere gesti naturali, come pettinarsi i capelli o fare una doccia. Ma l’obiettivo non riesce a rivelare i pensieri della ragazza. 56 Jacques Aumont, Du visage au cinéma, cit., p. 123. 54

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Fig. 11. Opacità

Fig. 12. Straniamento

Fig. 13. Defigurazione

Fig. 14. Glamour Passion: stati del volto

mi è sembrata una cosa molto violenta. Avevo la sensazione che mi inviasse una metafora: “Non ci riesci ancora, balbetti nella vita”57. La balbuzie altro non è che l’incarnazione sonora di quella «folata d’irregolarità» a cui anelava Denise. È ciò che seduce Jerzy o quanto meno ciò che l’uomo non trova in Hanna: un varco verso il possibile, verso la «frase non finita», verso la vita. Accanto al volto classico, il volto moderno: opaco, ottuso, resistente al senso. Penso al primo piano di spalle durante il lavoro o a quello sguardo in macchina che punteggia la sequenza della riunione bucando il tessuto, già fragile, della finzione (fig. 12). Non ancora trentenne, Isabelle Huppert dimostra grande abilità negli effetti di trascinamento, passando senza soluzioni di continuità dal sentimento (umiliazione, solitudine, impotenza) alla distruzione dello stesso. È sufficiente, infatti, un piccolo movimento delle sopracciglia per ammiccare ironicamente allo spettatore e suggerirgli una partecipazione fredda e distaccata al racconto58. Nel successivo Scénario, Godard spiegherà come il raccordo analogico sul quadro di Goya (vedi sopra) sia da interpretare come un movimento della pittura “verso” la musica, in aiuto di Isabelle (ma quale Isabelle? L’attrice o il personaggio?). Nella penombra della sua stanza, Jerzy accarezza il volto dell’operaia, confidandole che grazie a lei egli ha ritrovato sé stesso. Col volto di Hanna, però, l’uomo fa di più. Lo cattura con la cinepresa e poi lo graffia con il ralenti del monitor. Il referente reale è abbandonato e sostituito con una copia sgranata, una superficie di pixel che il regista adopera come la sua tavolozza personale. Premendo i tasti stop, forward e rewind del suo telecomando, Jerzy sembra riuscire finalmente a sciogliere la materia del significante e trovare ciò che cercava. Davanti al produttore infuriato e desideroso di una storia, l’uomo indica il monitor e risponde: «La ci sono delle storie, là c’è la luce». Dunque quello conservato nel nastro magnetico non è solamente un volto, ma qualcosa di più. Su un paesaggio solcato da un tempo che nessun trucco nasconde (le labbra secche, gli occhi gonfi, la pelle unta), forse qualcosa succede. Hanna parla, dice di «viaggiare in se stessa» ma la sua storia non

rimandano a dei corpi), ci sono delle luci, ci sono delle parole. La storia è dunque possibile. Tocca allo spettatore e alla sua “fede” renderla – direbbe Godard – «probabile». Se raccogliamo tutti i primi piani di Isabelle Huppert presenti in Passion, possiamo comporre una piccola storia del volto cinematografico. Pensiamo alle scene di conversazione tra la ragazza e Jerzy. Castrato da un’acconciatura che rinvia immediatamente a un testo, Questa è la mia vita, a sua volta intertestuale (La passion de Jeanne D’Arc, La passione di Giovanna D’Arco, Carl Th. Dreyer, 1927), quello di Isabelle è in primo luogo un volto parlante e dunque, secondo la classificazione di Jacques Aumont, «ordinario», ovvero capace di veicolare il senso. Il personaggio ha non solo lo stesso nome dell’attrice, ma anche la medesima voce. Una voce riconoscibile (già “vista” nel film precedente), ma al contempo inedita, in quanto emanata con una balbuzie che avrebbe dovuto simboleggiare tanto la “diversità” spirituale del personaggio quanto l’analogia tra quest’ultimo e la sua interprete: «Godard mi ha chiesto di balbettare e

Isabelle Huppert in Serge Kaganski, Frédéric Bonnaud, Le centre et la marge, «Les inrockuptibles», 1 Mars 2000. 58 Quella dello sguardo in macchina è questione assai complessa negli studi di settore. Come ha dimostrato Paolo Bertetto, lo sguardo diretto verso la cinepresa può infatti rafforzare l’illusione narrativa anziché distruggerla (cfr. Paolo Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Lindau, Torino, 1990). In questo caso però, come in tutto Godard, questo sguardo ha due funzioni: interpellazione e messa a distanza dello spettatore.

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coincide con quella di Jerzy. Per questo l’uomo manipola con il telecomando il tempo di questa frase e la distrugge, creando quei buchi di cui sopra. Passion si conferma un film sull’interstizio che c’è tra le cose; tra il cinema e la vita, tra l’amore e il lavoro, tra un uomo e uno schermo. Questo tra corrisponde a quella sensazione di distanza che avverte Nana quando si sente tradita dalle parole, ma anche al vuoto ben visibile nei numerosi “esterni con figure”. Oltre all’inquadratura analizzata nel primo paragrafo (l’arrivo di Jerzy sul set), si veda anche la disposizione dei personaggi nella sequenza della rissa tra i componenti della troupe, immediatamente successiva al dialogo tra il regista e il suo simulacro. Fermare l’immagine non serve, perché il volto di pixel, nella sua tattilità, si rivela immagine al secondo grado, immagine di un’immagine o quanto meno juste une image. E non un’immagine giusta. Vana si è rivelata anche la scelta di accompagnare il casting con la terza parte della Messa in do minore (K 427) di Mozart, quel Credo per voce sola che Hanna finge solamente di intonare: Et incarnatus est de Spiritu sancto ex Maria virgine et homo factus est. Come sempre, anche questa scelta musicale non è casuale. Il Credo è uno dei momenti più delicati della professione di fede cristiana, ma nel cinema inteso come lavoro/amore la fede non basta: se il fedele crede che Verbo e Dio siano una sola cosa, il cineasta fatica a ritrovare nell’immagine l’essenza della carne filmata. Nonostante il lamento dell’amante («Oh, ti dimentico. Non dimenticarmi! Ti dimentico»), il volto amato scivola nell’oblio59. Di fronte alle immagini che scorrono sul monitor l’assistente di Jerzy parla di Rubens, ma quello di Hanna, se consideriamo la sequenza del dialogo con Jerzy sulle scale, mi sembra soprattutto un volto rembrandtiano, ovvero un volto che genera esso stesso la fonte luminosa, una luce che anziché unire isola e esclude60. La luce irradiata dal volto di Hanna, dunque, non sembra in grado di illuminare né la Storia né la Passione del film da fare, ma esclusivamente la fragile passione di due amanti occasionali. 59 La dimensione privata di ogni storia verrà presto affermata visualmente con il lampeggiare del «toi» di His-toi-re in tutti e quattro i capitoli di Histoire(s) du cinéma, manifesto dello scacco di ogni tentativo di raccontare il Tempo. Per raccontare il Tempo è infatti necessario raccontare una storia. 60 La luce plasmata da Raoul Coutard in Passion ricorda molto da vicino certe soluzioni luministiche dell’ultimo Garrel. A questo proposito si veda Rosamaria Salvatore, Traiettorie dello sguardo. Il cinema di Philippe Garrel, Il Poligrafo, Padova, 1999.

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Proviamo a trarre una conclusione, seppur provvisoria. Le due opere prese in esame ci hanno detto che per ricominciare a raccontare delle storie Godard è dovuto risalire, per citare uno dei suoi recenti schizzi (L’enfance de l’art, 1991), all’“infanzia dell’immagine”, riesumando così interrogativi propri non solo del cineasta, ma anche del fotografo o del pittore. Ricominciare a raccontare significa infatti ricominciare a guardare e dunque ripartire dalla figura umana, per poi riflettere sulla relazione tra corpo e paesaggio, sulla distanza tra cinepresa e attore, sull’intervallo tra la voce e il volto e sulla luce necessaria a rendere presente questo volto. Rispetto agli anni Karina, alcune cose sono cambiate. Per i personaggi le passioni sono sempre le stesse: delusioni amorose, insoddisfazioni professionali, velleità artistiche, perdita di identità. Ciò che muta sono piuttosto le dinamiche del racconto, frastagliate da digressioni e frammentazioni, e le modalità di messa in scena. Anziché essere appiattita contro superfici colorate o lasciata deambulare in spazi aperti, la figura umana è filmata sempre in uno spazio liminare, una sorta di non luogo: tra la fabbrica e il set, tra la campagna e la città, tra la stanza d’hotel e il centro urbano, tra il lavoro e l’amore. Le forze del desiderio appaiono invisibili sotto la pelle di un’immagine che, pur manipolando il tempo (e penso ai ralenti analizzati), vuol restare mimetica. Se il corpo talora è filmato come un lastra di nervi nervosa, in preda all’ira (Passion), al rimpianto (Si salvi chi può… la vita), il volto resta sostanzialmente una superficie compatta, dove il tempo scorre lentamente lasciando solchi, ferite, tracce, frammenti di storie. Se per raccontare una storia è prima necessario viverla, recuperare l’infanzia dell’immagine significa fare i conti con la vita la quale, diceva il filosofo di Questa è la mia vita, altro non è che «oscillazione»: «Sei tra il nero e il bianco. Passion. Tra il nero e il bianco. Tra il nulla e l’immagine»61.

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Scénario du film Passion.

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C apit ol o 2 Le parole e le cose (Prénom Carmen; Je vous salue, Marie) Noi parliamo il suo Verbo. Altrimenti, come possiamo essere vicini alla Sua parola, se non la parliamo. Noi parliamo, e parliamo del Verbo. Jean-Luc Godard, Je vous salue, Marie

Nonostante la lavorazione sofferta e tormentata, Passion sembra rafforzare lo slancio creativo di Godard, che nella seconda metà degli anni Ottanta intensifica la produzione raggiungendo quasi i livelli degli anni Sessanta. Accanto ai ritratti, i bozzetti. Nell’arco di sette anni (1983-1989) si contano, infatti, sei lungometraggi e soprattutto nove cortometraggi, distinti tra spot pubblicitari (Closed, On s’est tous défilé, 1988), video conversazioni (Soft and Hard – Conversation beetween Two Friends on Hard Subject, Meeting W. A., 1986), sketch (Armide, episodio del film collettivo Aria, 1987) e film promozionali (Puissance de la parole, 1988, Le rapport Darty, 1989). Data l’impossibilità di esaurire qui l’analisi di queste opere, piccoli tasselli di una ricerca tesa a decostruire nozioni come “narrazione” o “documento”, ho selezionato quelli che a mio avviso restano, a trent’anni di distanza, i risultati più interessanti in relazione a una delle questioni cardine del pensiero godardiano, la dicotomia immagine-parola. A partire da Fino all’ultimo respiro, infatti, parola e immagine si affermano come segni autonomi, partecipanti alla costruzione di un senso più ottuso che ovvio. Il modello è quello del contrappunto musicale e la modernità dell’autore risiede proprio, oltre che nella dédramatisation1, nella predilezione per la melodia a discapito dell’armonia. Per la nozione di modernità si veda Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, cit.

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Prendiamo Passion: al pari della luce sul set di Jerzy, i codici (s)fuggono, non vanno in un’unica direzione e dunque svelano la loro presenza e il loro lavoro di configurazione del reale. Il suono è il suono, il colore è il colore, l’attore è l’attore (e non il personaggio). E potremmo continuare. Non c’è armonia, ma contrappunto tra il rumore del vero (il vento tra le fronde, i passi, le frenate delle auto) e le frasi musicali spezzate sopra la voce degli attori. Non c’è armonia, ma contrappunto tra l’architettura luministica utilizzata per i tableaux vivants e quella che configura i duetti tra Jerzy e Hanna. Eppure la melodia – la passione come sofferenza artistica/erotica/ spirituale – è una sola. Più che sull’armonia, Godard lavora sull’associazione, preoccupandosi di mostrare la ricerca di tutti i nessi possibili tra le parole (Marie/aimer, avoir/ à voir) e tra le cose. In Je vous salue, Marie, per esempio, il motivo della sfera/cosmo sarà declinato dal montaggio analogico attraverso strutture oggettuali quali un pallone da basket, una luna piena, un ventre gravido. Il montaggio verticale, atto di norma a produrre effetti di armonia, non è dunque l’unica forma di scrittura adottata in questi anni Ottanta. Alla ricerca di una polifonia del senso, Godard spesso accosterà immagine e suono in senso orizzontale, al fine di offrire allo spettatore non una selezione del visibile, come fa la televisione, ma un accumulo. In Prénom Carmen, come vedremo, il racconto procede per addizione orizzontale: le parole pronunciate dagli attori in una determinata sequenza vengono espunte e fatte ascoltare allo spettatore all’interno una sequenza successiva, incollate su volti apparentemente muti. Orizzontale, inoltre, sarà anche la composizione di JLG/JLG, autoritratto costruito tramite l’accostamento di inquadrature figurative (interni abitati da un corpo) ad altre invece vuote di corpi ma piene di passato (i paesaggi invernali). Unico segno di interpunzione, gli aforismi scritti in corsivo sulle pagine di un diario. Come le linee melodiche nella musica contrappuntistica, immagine e parola sono in questo Godard non solo indipendenti ma anche conflittuali: punctus contra punctum, parola versus immagine, nome versus cosa. Nell’Introduzione alla vera storia del cinema2, pubblicata non a caso all’alba di questo decennio, l’autore rivendica la presunta supremazia dell’immagine sulla parola in nome di un’ontologica garanzia di verità: Credo che il modo in cui si racconta la storia – il cinema, la TV, le 2

Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, tr. it. Editori Riuniti, Roma, 1982.

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immagini – sia piuttosto importante, perché è una cosa che non mente. […] Certo, la si può fare mentire, ma un’immagine non è niente più di un fatto. […]. Può mentire invece l’uso che se ne fa 3.

Vent’anni prima di Jacques Aumont4, insomma, Godard ci dice che i film non solo pensano e lo fanno senza bisogno di parole, ma possono anche “intervenire” – come ha dimostrato Giorgio De Vincenti – in un dibattito scientifico come quello sull’origine del Cosmo: La scienza sta solo in questo, nel vedere con i propri occhi. […] E i guai cominciano dopo, quando [gli scienziati] vogliono dire quello che hanno visto. Invece di fare del cinema […] ti scrivono un testo grosso così e l’immagine te la danno solo per provare che quelle cose le hanno davvero viste5.

Per vedere, insomma, bisogna guardare le cose e non dirle. Una volta guardate, le cose possono essere messe in quadro e dunque configurate per una rappresentazione audiovisiva. Ma che ruolo ha la parola in tale configurazione? Può aiutare a «disegnare i contorni» (Passion) delle cose che sfuggono alla messa in quadro? William Shakespeare junior (Re Lear) farà sua questa domanda6 , ma il professor Pluggy, maschera idiota con sigaro in bocca e cavi audio sui capelli, replicherà con un cenno negativo del capo: «Non mi interessano i nomi». E ancora: «Ho bisogno di dire rosso per vedere rosso?». «Quando si dà il nome alle cose – chioserà la segretaria – il professore fa la pipì». Prénom Carmen e Je vous salue, Marie, le due opere che analizziamo in questo capitolo, riflettono proprio su quella distanza tra parole e cose che tanto incolmabile è sembrata alla Nana di Questa è la mia vita. Sono due storie d’amore, ma anche due riflessioni sulla (pro)creazione: creazione di un film, creazione del mondo, creazione di un figlio. Da un film all’altro circolano corpi (Myriem Roussel), nomi (anche l’amante di Carmen si chiama Joseph) e motivi figurativi (volti alla finestra, traffico urbano notturno ecc.). Come avrebbe voluto Denise (Si salvi chi può… la vita) sono le storie secondarie, ovvero quelle di Claire e Juliette, vertici dei rispettivi triangoli amorosi, a illuminare le storie delle eroine principali (Carmen e Marie), Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 211. Cfr. Jacques Aumont, A cosa pensano i film, tr. it. ETS, Pisa, 2007. 5 Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., pp. 212-213. 6 «Che cosa stiamo cercando? Dimmi il suo nome! Niente nomi, niente battute, nessuna storia… perché? Mi risponda». 3 4

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le quali sembrano declinare singolarmente i due orizzonti della Passione secondo Passion: prima il profano (Carmen), poi il sacro (Marie). Je vous salue, Marie però, come vedremo, complica lo schema narrativo aggiungendo al triangolo un’altra figura quale la linea retta. La storia di Marie, infatti, non si interseca mai con quella di Eva, la quale si offre come semplice (?) riflesso, deriva, emanazione della prima. Principale e secondario, insomma, sono accostati mediante raccordi analogici o sentieri appena incrociati. Inteso nella duplice accezione di voie e voix, il cammino di Marie non sfiora mai quello di Eva, mentre invece tocca quello di Juliette. Le due ragazze scambiano un pallone in palestra ma per puro caso (il Caso è uno dei temi del film) non si incontrano alla stazione di servizio, quando Juliette tenta di riconciliarsi con Joseph. Sia il destino di Carmen che quello di Marie sono noti in quanto già vulgati, già raccontati, proprio come la tragedia di Re Lear. Alla cinepresa, dunque, Godard affida il compito di “criticare” queste storie, mettendone a nudo i dispositivi narrativi al fine di esplorare tutto ciò che esse contengono di nondefinito e soprattutto di possibile. Lo dirà anche Marie durante una delle sue notti insonni: «Essere caste significa essere aperte a tutte le possibilità». La musica al lavoro «Con Si salvi chi può... la vita c’era un desiderio di sbarcare: è un film di pionieri, si sale sul carro, si prendono a fucilate gli indiani. In Passion c’era ancora una certa utopia. Ma per gli altri due che avvicino a questi, Prénom Carmen e Je vous salue, Marie è stato più difficile…»7.

Lucido analista di se stesso, Godard ci suggerisce in prima persona la scelta di isolare in un capitolo a parte gli ultimi due pioli di quella ideale «scala» alla quale egli stesso aveva paragonato la stagione della sua rinascita: «Possiamo dire che Si salvi chi può... la vita, Passion, Prénom Carmen e Je vous salue, Marie sono come i quattro pioli di un’unica scala, mentre prima del ’68 ogni film era il piolo di una scala di diversa8». Come Passion, anche Prénom Carmen, celebrato con un Leone d’oro per meriti artistici e tecnici, è la storia di un film da fare. Ma anziché quadri, ovvero immagini vive ma ferme, qui si tratta di filmare corpi in 7 8

Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 38. Ivi, p. 39.

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movimento. I piani narrativi sono ancora due: da un lato una storia di lavoro (le prove del Quartetto Prat), dall’altro una storia d’amore. Entrambe le storie prevedono azione, movimento, investimento fisico. Proprio all’inizio del film Claire, la viola del Quartetto, è invitata a suonare «con il corpo». Mentre i musicisti provano alcuni quartetti di Beethoven, due amanti senza domani, una guardia giurata (Joseph) e una rapinatrice (Carmen), corrono verso un destino già visto in questo cinema: amore e morte. La lavorazione incontra fin da subito una serie di difficoltà. Il budget, innanzitutto, è dimezzato rispetto alle previsioni. Costretto a rinunciare a Isabelle Adjani, Godard ripiega sull’esordiente Maruschka Detmers, futura musa di Bellocchio (Diavolo in corpo, 1986), ma all’epoca sconosciuta e assolutamente sprovvista di preparazione tecnica. Proprio questo, forse, attrae il maestro. Per rifare Carmen, mito infinitamente riprodotto e interpretato, l’ideale è un volto senza storia e senza passato. Rispetto ai canoni morfologici del femminile godardiano, Detmers presenta tratti nuovi ma giustificabili secondo la logica del typecasting: Carmen è icona della sensualità latina e i lineamenti di quest’attrice – in particolare la bocca – non sono sottili, ma carnosi, rotondi, morbidi. La matita nera attorno agli occhi, su cui cadono scomposti i ricci castani, non fa che rendere ancora più oscuro il volto, soprattutto se confrontato a quello dell’antagonista, Claire (Myriem Roussel). A Mérimée è preferito Bizet. Dalla riduzione di Henri Meilhac e Ludovic Halévy Godard riprende la struttura mélo del triangolo, con Claire a replicare il ruolo di Michaela in perfetta antitesi fisiognomica alla rivale. Interpretata da Myriem Roussel, futura Vergine, Claire occupa esattamente gli spazi liminari abitati da Isabelle in Passion: tra la vita e l’arte, tra l’amore e il lavoro. Perché forse più che un «film sulla musica», come hanno suggerito gli esegeti, Prénom Carmen è un film sul lavoro: il lavoro dei musicisti9, il lavoro dei rapinatori, il lavoro di Godard sul suono, sulla luce e soprattutto sugli attori. A Maruschka Detmers si chiede di interpretare il ruolo di una rapinatrice che a sua volta indossa la maschera di cineasta. Viene in mente l’esergo di Le petit soldat: «Il tempo dell’azione è finito, quella della riflessione comincia». Prénom Carmen è un film dove azione e riflessione si intrecciano fino a confondersi. L’azione dell’attore, per esempio, anziché esaurire la riflessione (sul cinema, sulla recitazione, sul dissidio realtà-finzione) la rilancia all’infinito. 9 Quello di filmare la musica al lavoro è un progetto confessato dall’autore molti anni prima: «E siccome di colpo senti la musica, ho sempre voglia di fare una panoramica o un carrello, se fosse possibile, per andare a scoprire l’orchestra che sta suonando». (Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 242).

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Dell’eroina del mito è rimasto poco, forse solo il rossetto. Carmen è solo il nome (prénom) di una ragazza che, come Nana o Charlotte (Una donna sposata), vive la sua vita senza dimenticare di riflettere sull’origine della Vita («Che cosa c’era prima?» chiede insistentemente a Joseph). E la cinepresa non fa altro che filmare questa vita: «La storia di Carmen tutti la conoscono. Si sa come comincia e come finisce. Ma come si va dall’inizio alla fine?»10. L’inizio è ancora una volta un pre-inizio. Un prologo di circa quattro minuti ci introduce alla storia, presentandoci i materiali del racconto, ovvero la musica, il rumore, la parola, l’immagine. La musica, innanzitutto. Il primo cartello dei titoli di testa evidenzia fin da subito la natura demistificante di questa trasposizione: «Alain Sarde/ présente/do re mi fa sol/la Coproduction/ Sara Films/JLG Films/Films A2». Anziché rispettare la gravitas del modello, Godard gioca con le note proprio come il suo alter-ego, oncle Jean, fa con la sua macchina da scrivere: la nota la si confonde con l’articolo la anteposto davanti alla parola “Coproduction”. Com’è noto, dell’opera nel film rimane solo il refrain della habanera, fischiettato alla meno peggio da due personaggi di contorno. Per il resto Bizet è sostituito dai 17 Quartetti di Beethoven (16 se consideriamo la Grande fuga come parte finale del Quartetto n. 13), a loro volta frammentati dal montaggio in sedici quadri proposti con una frequenza costante nei primi settantacinque minuti del film. «Beethoven è una musica molto profonda, Beethoven va ascoltato a mezzanotte», diceva Le petit soldat alla sua amata modella, indecisa su quale musica scegliere per accompagnare la seduta fotografica. Quello tra Godard e Beethoven è una sorta di dialogo ininterrotto e Prénom Carmen è solo l’ultimo capitolo di una relazione che apparve scandalosa alla critica degli anni Sessanta, in virtù della leggerezza con cui Godard montava frammenti di quartetti senza nemmeno rispettare la durata della frase musicale: penso al collage di note e rumori in Due o tre cose che so di lei, Alphaville (Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, 1966) e soprattutto in Una donna sposata, dove, per esempio, del Quartetto op. 7 è citata solo la metà del primo brano. Raccontare una storia, lo sappiamo, per Godard significa raccontare anche la Storia del cinema e in particolare del suo. Non è un caso se l’Andante del Quartetto n. 9 (secondo movimento) suonato nel primo dei 10

Jean-Luc Godard citato in Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, cit., p. 168.

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sedici quadri musica anche i titoli di testa di Una donna sposata11. Là i frammenti del cinema-verità; qui le derive del melodramma, ma anche brandelli di musica e carne. Come ha osservato Jacques Aumont, dietro l’apparente dissacrazione si nasconde una confidenza assoluta con la scrittura beethoveniana, della quale l’autore metterebbe in evidenza le strutture nascoste, bloccando lo sviluppo della melodia e tagliando proprio ciò che in genere la musica da film insegue, ovvero il tema. Utilizzo il verbo tagliare non a caso. Se Claire è esortata a suonare «con il corpo», l’autore non è da meno. Non solo mostra il suo corpo al lavoro (zio Jean batte i tasti della sua macchina da scrivere, osserva i colori e alla fine dirige la troupe della nipote), ma dietro le quinte manipola il suono come se si trattasse di creta e come, del resto, faceva Resnais, modello da imitare negli anni Karina. Tagliare infatti significa anche scolpire: «Procedendo io stesso al montaggio e al missaggio, ho ritrovato l’idea che avevo di Rodin: l’idea di uno scultore che scava una superficie con le sue mani. Scava lo spazio […]. Ecco, mi interessava scavare uno spazio sonoro». Ha detto bene Éric Rohmer: «In Godard la musica è filmata come possono esserlo gli alberi, il mare, il cielo»12, ovvero un materiale come gli altri a cui attingere al fine di generare emozione e significato. Questa volta Beethoven non è citato, ma nemmeno registrato in presa diretta, per quella che Jacques Aumont ha definito una «ragione stilistica profonda»: È necessario produrre una lacerazione nella musica o, più precisamente, la musica, divenendo filmica, deve lacerarsi. Perché? Perché Godard non si interessa né alla grande forma né alla frase musicale in se stessa, ma all’idea musicale, e forse soltanto al sorgere dell’idea13.

quello che avvertito dallo spettatore. Vengono in mente le parole di M.lle Lukatchewski a proposito dell’illuminazione de La ronda di notte (Passion): «Non è una menzogna, ma qualcosa di immaginato, che non è l’esatta verità, ma nemmeno il suo contrario». L’interrogazione sui codici del linguaggio e la messa in discussione delle leggi che lo governano – e tra queste la recitazione come mimesis – si rivelano forse le costanti più profonde della modernità di Godard, le cui opere, direbbe Aumont, pensano senza per questo de-finire ciò che pensano. Perfetta è la simmetria tra il numero dei quartetti composti da Beethoven e quello delle inquadrature dedicate ai musicisti, sedici piani a camera fissa differenti tra di loro per angolazione della cinepresa, illuminazione, disposizione degli orchestrali e, come ha osservato Michel Fano14, per ambiente. Non siamo infatti sicuri che i musicisti occupino sempre la medesima stanza. «L’infinito – dice Godard alla fine di Scénario du film Passion, sarà finito quando la metafora raggiungerà il reale». Ebbene: Prénom Carmen conferma come questo cammino sia ancora lungo. Lo spostamento virtuale dei musicisti, il loro invisibile movimento nell’immobilità, può essere letto come una metafora della testura della musica, fluida, impalpabile, ubiqua. Reale e metafora si intrecciano senza toccarsi. La nozione di fluidità non può non evocare, naturalmente, il tema dell’acqua, correlativo oggettivo della musica ma anche luogo di una memoria autobiografica: Da giovane, verso i vent’anni – l’età della giovinezza dei miei personaggi – ho ascoltato Beethoven. Ero in riva al mare. […] Bizet faceva una musica che Nietsche definiva bruna. Era una musica del Mediterraneo. Bizet è un compositore molto legato al mare. Io dunque ho scelto non un’altra musica, ma un altro mare. […] Per cui dovevo scegliere una musica seminale. Una musica che ha segnato l’intera storia della musica. Come i Quartetti di Beethoven15.

La musica, dunque, risuona in uno spazio che non è più over, come nei film degli anni Sessanta, ma nemmeno completamente in, perché, a differenza di quanto il montaggio sembra suggerire, mai immagine (gesto del musicista) e suono coincidono. Quando si tratta di filmare Claire, poi, l’effetto di verità è messo doppiamente in crisi, poiché l’attrice non possiede la tecnica e dunque simula, producendo un suono che non è

Il tempo visivo della musica, però, è uguale a quello del rumore, codice forse mai utilizzato da Godard con questa forza polisemica. Il cartello

Per un’analisi approfondita della questione musicologica, in particolare delle simmetrie tra Una donna sposata e Prénom Carmen, rimando a Suzanne Liandrat-Guigues, JeanLouis Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., pp. 58-64. 12 Éric Rohmer, De Mozart à Beethoven, essai sur la notion de profondeur en musique, Acte sud, Arles, 1996, pp. 233-234. 13 Jacques Aumont, A cosa pensano i film, cit., p. 254.

Compositore e musicologo, collaboratore, tra gli altri, di Alain Robbe-Grillet, Michel Fano è forse il più acuto tra quelli che hanno cercato di decriptare la struttura musicale di Prénom Carmen. Si veda l’analisi pubblicata in http://www.michelfano.fr/Textes/P_ Carmen_Analyse.html. 15 Jean-Luc Godard in Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., pp. 59-60.

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dedicato al titolo, scritto in stampatello bianco su sfondo nero, è incorniciato da due inquadrature figurative ma tendenti all’astrazione: un paesaggio urbano notturno e un mare agitato dalle onde. Nessuna figura umana dunque, ma luci e colori, acqua e aria, ovvero ciò attorno a cui, come abbiamo visto, errava lo sguardo di Velásquez. Che cosa accomuna i due paesaggi? Il movimento. Qualcosa infatti si muove senza alterare le linee di forza dello spazio. Come già in Passion, anche qui immagine e rappresentazione non coincidono. Le onde che scuotono la superficie dell’acqua con un ritmo costante quanto quello del traffico urbano evocano, in astratto, l’idea del movimento, idea che presto Godard sintetizzerà nella metafora, così autobiografica, dell’onda (Nouvelle Vague). E questo perché l’idea non è più dentro l’immagine ma, come ha sintetizzato Paolo Bertetto, «la struttura complessiva delle immagini concatenate nella fluidità audiovisiva la produce attraverso un’estensione concettuale dell’invisibile del cinema»16. Oltre che metafora del Cosmo, la musica in questo Godard è dunque soprattutto pensiero, struttura linguistica, terreno di analisi. In una parola sola, idea. Eterotopie Analizzando le componenti heideggeriane di questo cinema, definito una «scrittura filmica del Dasein», Bertetto sottolinea come Godard strutturi il proprio orizzonte teorico per mezzo di opposizioni dialettiche: vita/non vita, realizzazione/scacco, libertà/nulla. Di qui il senso dell’ossimoro «l’invisibile del cinema». Mescolare l’etnologia con i quartetti di Beethoven (Una donna sposata) o filmare «tutto ciò che non abbiamo visto in Senso» (così Godard presentò il plot di Il bandito delle ore undici) significa infatti fare ciò che zio Jean, prima incarnazione godardiana del buffone, suggerisce alla nipote aspirante cineasta, ovvero chiudere gli occhi: «Bisogna chiudere gli occhi invece di aprirli». Scritto dalla compagna Anne-Marie, Prénom Carmen è un film girato con occhi che, per esempio, appaiono chiusi sul paesaggio urbano. Eroina di tante inchieste e avventure, Parigi infatti c’è, ma non si vede. O meglio ne vediamo solo “due o tre cose”: l’ingresso di un hotel di lusso, lo scorcio di un marciapiede, il traffico serale in campo lungo (fig. 15). Più che per il contenuto – Godard 16

Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., p. 175.

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Fig. 15. Prénom Carmen. Un paesaggio visto di spalle

non ha mai smesso di filmare lo spazio urbano –, quest’ultima inquadratura colpisce per la scelta del punto di vista, in qualche modo “esterno” al contenuto della rappresentazione (vengono in mente alcune vedute di Due o tre cose che so di lei). Non solo. Rifiutando di offrire allo spettatore le coordinate classiche del paesaggio parigino (boulevard, caffè, marciapiedi), Godard sembra realizzare quel desiderio confessato ai tempi di Si salvi chi può... la vita, ovvero filmare un paesaggio “di spalle”17. Il métro aereo, le infrastrutture della periferia, le luci dei fanali rappresentano allora tutto ciò che normalmente non si mostra di Parigi, ovvero l’equivalente urbano delle spalle di Anna Karina in Questa è la mia vita. Parigi vive la sua vita e la cinepresa si accontenta semplicemente di catturarne il respiro (la circolazione del traffico). Carmen dunque non abita il luogo della Memoria cinematografica, ma solo quello della “sua” memoria, ovvero la casa al mare, vuota di oggetti e piena di ricordi. Inevitabile pensare al mare degli anni Karina, sorgente di blu per la palette tricromatica (bianco, rosso, blu) ma al contempo orizzonte del mito (Il disprezzo) o rifugio per amanti criminali (Il bandito delle ore undici). Questo mare però non è azzurro né soleggiato, ma grigio e freddo. Solo i 17

Si veda Jacques Aumont, L’occhio interminabile, cit.

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gabbiani lo popolano, mentre gli amanti si limitano a guardarlo, protetti dal vetro di un’auto pallida come l’acqua. Parafrasando l’esergo di Le petit soldat, potremmo dire che con Prénom Carmen il tempo della fuga è finito e comincia quello del ritorno: ritorno a ciò che precede, all’origine, alla madre (mère/mer). Giocando sull’omofonia della lingua francese (mère/mer), zio Jean/Godard si diverte a intrecciare Mérimée con Euripide: «Hai sempre avuto delle storie con tua madre (mère), in riva al mare (mer), come la piccola Elettra». Che anche il mare, come la casa d’infanzia o l’hotel, sia uno spazio chiuso, lo conferma la voce over durante il prologo: «È in me, o in te, che si producono delle onde terribili…». Le onde dunque, molto più schiumose e violente di quelle dei mari precedenti, sono dentro. Lo sforzo compiuto da François Musy, ingegnere del suono, è proprio questo: dissociare la registrazione di un suono dal suo ambiente naturale e incollarla a un ambiente altro, non importa se interno o esterno. Il registratore a due piste permette, per esempio, di incollare la battuta di Carmen su uno spazio, quello del mare, filmato come una sorta di eterotopia, ovvero come uno spazio connesso a tutti gli altri spazi, anche se si tratta di una connessione sonora e non spaziale. Tutti i suoni, infatti, vi penetrano, vicini e lontani – le parole di Carmen (il prologo), le note di Beethoven, il clacson dell’auto –, e allo stesso tempo il suono del mare penetra luoghi non adiacenti dal punto di vista spaziale. Un esempio su tutti: la sequenza della rapina è introdotta da un campo lungo notturno identico a quello che abbiamo visto nel prologo (paesaggio parigino con traffico sulla Senna), ma in questo caso il suono del mare si mescola con quello della circolazione urbana, il quale, dal punto di vista ritmico, sembra imitare quello delle onde: avvertiamo infatti il rumore del métro solamente quando i due convogli, al pari di due onde, si incrociano. Non a caso Michel Fano ha parlato di suono polifonico, una sorta di unico bagno sonoro che funziona come segno per le auto, per il métro e per il mare. A differenza del métro, paesaggio sonoro, il mare è dunque luogo concreto, abitato dai personaggi. Non solo: è anche la scenografia scelta dalla giovane per le riprese del suo misterioso film, che potremmo definire, parafrasando un cortometraggio del suo autore, une histoire de mer. Ma così come è configurata, montata e ritmata all’interno del racconto, l’immagine del mare rimanda anche a un altrove extra-uterino, a un’«utopia situata», per dirla con Foucault. Questo altrove può avere anche una funzione evocativa, simile a quella di cui il realismo poetico investiva oggetti e ambienti. Pensiamo alle valenze simboliche dell’acqua in Epstein (Coeur fidèle [Id., 1923]) o in Vigo (L’Atalante [Id., 1932]), e analizziamo

la sequenza che documenta l’inizio della vita a due nell’appartamento di zio Jean. Carmen raggiunge Joseph in riva al mare. Anziché mettere ordine, il montaggio confonde. Un campo lungo della ragazza sulla spiaggia segue e anticipa due figure intere filmate all’interno della casa. L’esterno e l’interno, lo abbiamo visto, sono dimensioni relative poiché tutto è reale e tutto è astratto in questo film, compreso il linguaggio. Carmen dice all’amante di voler fare «ciò che una donna fa a un uomo». Ma non nomina la “cosa”. Non le dà un nome ([pré]nom). La parola (amour) è sostituita non tanto da un gesto, quello di afferrare con la mano il sesso dell’uomo, quanto da un’inquadratura, lunga trentotto secondi e raffigurante – se di figurazione possiamo ancora parlare – il mare (fig. 16). Inquadrate dall’alto verso il basso, le onde si muovono da destra verso sinistra, mentre i riflessi del sole, basso all’orizzonte, aggiungono piccole variazioni di luce alle increspature dell’acqua. La cinepresa è immobile, eppure tutto si muove in un paesaggio che sembra dipinto da Velásquez, il pittore delle cose indefinite e delle palpitazioni colorate, ma anche, come dice Pierrot/Ferdinand alla figlia (Il bandito delle ore undici), «il pittore della sera, dell’immensità, del silenzio». Ebbene: questa inquadratura non è fatta

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Fig. 16. Prénom Carmen: il mare (mer) come madre (mère).

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solo di aria, di luce e di acqua, ma anche di musica e di silenzio. Quattro secondi di silenzio che separano la parola degli amanti dalle note del Quartetto n. 15 (terzo movimento). Il tempo di Beethoven, molto adagio, accompagna il respiro di onde che evidentemente non sono più, come diceva Carmen in esergo, «terribili». Il mare, dunque, è eterotopia in quanto non solo tiene uniti due mondi (il lavoro e l’amore, il reale e la finzione), ma, come tutte le eterotopie, rende difficile l’attribuzione di un nome alle cose. Rileggiamo Foucault: Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa “tenere insieme”… le parole e le cose18.

Spezzare, devastare, minare sono azioni familiari alla pratica artististica di Godard, il quale prima disarticola la sintassi cinematografica (anni Karina) e poi sostituisce la cinepresa con la videocamera (anni Settanta). Ma, riscoperto il piacere del testo, si accorge subito che le questioni antiche sono ancora aperte. È possibile raccontare una storia nascondendo il dispositivo? Più ancora di Passion, Prénom Carmen svela la sintassi «meno manifesta» del cinema: quella che tiene insieme i suoni e le immagini, le immagini e la musica, il colore e le cose. Tutta la seconda parte del racconto è ambientata in una hall (Hotel Intercontinental), ovvero, assieme ai giardini, ai centri commerciali e alle stazioni del métro, la più classica delle eterotopie urbane. Come abbiamo visto, Godard ci fa sentire, mediante le punteggiature, la respirazione del film, che è anche la respirazione di chi lavora nel film (penso alle esitazioni, alle interruzioni dei musicisti durante le prove). Questa respirazione, dal punto di vista visivo, si traduce in circolazione: circolazione di auto, circolazione di note, circolazione di parole. Ebbene, nella hall dell’hotel tutto circola: la passione di Joseph, i corpi degli amanti, le idee sul film da fare, la musica del quartetto, le armi, il sangue, le grida e il verso dei gabbiani. Non è un caso se due anni dopo Godard ambienterà proprio in un hotel19 Détective, gruppo di fantasmi “in una camera” e détection sulla testura stessa

dell’immagine, priva di cielo ma piena di corpi e soprattutto di innesti extradiegetici. Oltre a un match di boxe, la TV trasmette infatti anche La belle et la bête (La bella e la bestia, Jean Cocteau, 1946) e Sunset Boulevard (Viale del tramonto, Billy Wilder, 1950), mentre l’infinito collage di citazioni di cui si compongono i dialoghi funge da prova generale per il futuro Nouvelle Vague. Come Carmen e Joseph, i personaggi di Détective sono simulacri di un cinema perduto (Grace Kelly, Jean Gabin) e dunque la loro carne altro non è che materia da plasmare, tagliare, sciogliere: «Consideratevi come tubi di colore e cercate il motivo che state componendo»20. Nelle hall, dunque, tutto circola e, allo stesso tempo, tutto si confonde. E così un semplice accappatoio giallo, come quello indossato da Carmen nella sua stanza, non è più un accappatoio ma semplicemente del giallo: «Se Van Gogh avesse visto questo giallo», commenta con rimpianto zio Jean. Ci siamo: la parola giallo non nomina più la cosa (l’accappatoio), ma la trascende. Il costume di un personaggio rappresenta solo il contorno di una materia, il colore, che deborda. Perché Godard, ora che è diventato pittore, non dipinge più i contorni delle cose, ma cerca di catturarne le «palpitazioni colorate» (Due o tre cose che so di lei). Tre colori: giallo Prima di analizzare il lavoro del colore in questo film, è opportuno un breve excursus su una questione tanto affascinante quanto complessa. Pochi cineasti hanno lavorato sul colore, o meglio con il colore, come Godard21. Fin dagli anni Karina, il colore interessa in quanto codice autonomo da ogni compito mimetico, significante chiamato, talvolta, a non significare altro che se stesso.

Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. Rizzoli, Milano, 1967; 1990, pp. 7-8. 19 In questo caso si tratterà del Grand Hotel Concorde Saint Lazare.

20 Jean-Luc Godard in Alain Bergala, Pascal Bonitzer, Serge Toubiana, La guerre et la paix, «Cahiers du cinéma», 373, 1985. 21 Sul problema del colore in Godard si vedano in particolare Luca Venzi, Godard, gli anni Karina e il colore, «Predella», 31 (http://predella.arte.unipi.it/); Jean-Louis Leutrat, Godard’s tricolor, in David Wills (a cura di), Jean-Luc Godard’s Pierrot le fou, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, pp. 64-80; Alain Bergala, La couleur, la Nouvelle Vague et ses maîtres des années cinquante, in Jacques Aumont (a cura di), La couleur en cinéma, Cinémathèque Française-Mazzotta, Paris-Milano, 1995, pp. 133-134; Federico Pierotti, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema, Le Mani, Recco, 2012, pp. 229231. Interessante, e aperta sulla produzione più recente, la ricerca di Roberto Lai, Il colore nel cinema di Jean-Luc Godard, Tesi di Dottorato in Estetica e Teoria delle arti, XXI Ciclo, relatore Salvatore Tedesco (Università degli Studi di Palermo, a.a. 2009-2010).

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Prima di Godard, forse solo Ejzenštejn aveva rivendicato con una tale originalità espressiva – ma con meno ironia – la libertà del colore, sottoponendolo, in quanto elemento vivente dell’organismo film, ai medesimi salti di qualità inferti ad altri codici quali la musica, il montaggio, la recitazione22. Nella seconda parte di Ivan Groznyj (Ivan il terribile, 1944-1946), per esempio, il colore arriva ad avere ciò che invece in Godard non possederà mai, ovvero «la forza e l’autonomia di un vero personaggio, investito drammaturgicamente del proprio carico emozionale»23. Quando Ejzenštejn, nel corso della sua «ricerca incompiuta», precisa i «toni maggiori e i toni minori» del colore, dimostra di comportarsi con il materiale luministico come farebbe con le note di uno spartito: «Si precisano gli accordi di colore: il celeste con l’oro, il nero con il rosso». Inserito in una gamma di accordi ben precisa, dunque, il colore si estasia in musica, ma per fare questo deve prima trascendere i contorni del relativo oggetto. Dei contorni delle cose, però, abbiamo già detto. Quello che Godard cerca è svincolare l’oggetto dal contorno, ovvero le cose dalle (relative) parole. Nominare una cosa – o un individuo (Carmen) – significa renderla finita. Ma questo cinema, come vedremo, preferisce seguire la lezione di Bresson, ovvero lasciare un margine di indefinito, non rappresentare tutti i lati delle cose. Il colore, in questo processo, si rivela un elemento fondamentale. Anziché costringerlo a raccontare o simboleggiare qualcosa, Godard lo compone e lo filma per ciò che è, ovvero la sostanza compositiva primaria di ogni immagine, «il materiale visuale di base con cui le immagini vengono lavorate e che accompagna, proprio in quanto costitutivo alle immagini, tutte le loro determinazioni formative»24. Dunque il colore è il colore. E in quanto tale valica i contorni delle cose. Per questo zio Jean confonde l’oggetto colorato (l’accappatoio) con la materia (il giallo). Perché il colore non appare più qualità delle cose, ma qualità concettuale autonoma, qualcosa che non può non essere percepito e 22 Cfr. Sergej M. Ejzenštejn, Da una ricerca incompiuta sul colore (1946) in Id., Opere scelte in sei volumi, 1963-1970, vol. III, tr. it. Il colore, a cura di Pietro Montani, Marsilio, Venezia, 1989², in particolare pp. 35-42. 23 Alessia Cervini, Sergej M. Ejzenštejn, L’ immagine estatica, EDS, Roma, 2006, p. 118. Sulla celebre sequenza a colori di Ivan Groznyj II: Bojarskij (La congiura dei boiardi, Sergej M. Ejzenštejn, 1958) e sulle affinità teoriche con la ricerca di Godard si veda anche Luca Venzi, Volto, colore, emozione. A proposito di Pierrot Le fou, in Giorgio De Vincenti, Enrico Carocci (a cura di), Il cinema e le emozioni. Estetica, espressione, esperienza, Edizioni EDS, Roma, 2012, pp. 221-236. 24 Luca Venzi, Godard, gli anni Karina e il colore, cit.

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allo stesso tempo utilizza gli oggetti per affermare la sua presenza sensibile e in tal modo, direbbe Ejzenštejn, «scorrere nel film». Questa ricerca, come detto, viene da lontano. Si pensi all’illuminazione omogenea e verticale degli interni di La donna è donna, all’assenza di ombre sui muri di Made in USA (Id., 1966) e sulle pareti di La chinoise (La cinese, 1968), ai filtri monocromatici di Il disprezzo o alle scritte tricolori che formano i titoli di testa di Due o tre cose che so di lei. Come ha evidenziato anche Luca Venzi, la palette di Godard prevede infatti solo tre colori: blu, rosso e bianco, con quest’ultimo (è il caso anche di Prénom Carmen) sostituito eventualmente dal giallo. Costante, soprattutto, è la duplicità della modalità con cui il dato coloristico viene utilizzato, ovvero al contempo insorgente (ciò che Venzi definisce «potenza visiva trasfigurante»)25 e ricorrente. Si pensi per esempio all’utilizzo “musicale” del colore sui tessuti: la nota tricromatica rosso/bianco/blu circola da Il disprezzo (l’asciugamano utilizzato da Paul) a Il bandito delle ore undici, dove, tra gli altri oggetti, contamina anche la camicia di Pierrot. Degli anni Karina si è detto. E dopo? Che ruolo occupa il colore in questo “terzo” Godard? La palette, innanzitutto, non è cambiata. Leggermente emarginati in Si salvi chi può... la vita, opera costruita sull’opposizione giallo (chiuso/hotel/ Paul)-verde (aperto/natura/Nathalie), rosso, bianco e blu ritornano a circolare negli esterni di Passion, contaminando, con l’insegna della VTF, l’auto di Michel, quella di Jerzy e il camion della troupe. La ricorrenza si muta in insorgenza dopo venti minuti dall’inizio, quando M.lle Lukatchewski, che indossa un vistoso maglione rosso, sorprende l’amato Patrick (il cui pullover è blu) mano nella mano di una comparsa biancovestita. La successiva disputa amorosa, ambientata nei pressi dell’auto dell’uomo e filmata in primissimo piano, è occasione per una variazione sulla tricromia molto indicativa di come la concezione del colore non sia, vent’anni dopo, cambiata (fig. 17). Come faceva sulla spiaggia di Pierrot le fou, «film lavorato come un volto senza sosta attraversato dal movimento dei colori»26, il colore musica la vita dei personaggi, anzi si offre esso stesso come pulsazione, emozione, passione. Non a caso Godard fa muovere questi corpi amorosi, seppur in modo semiserio. Sfumati dall’effetto flou che ne deriva, i tre colori “escono” dalle rispettive sedi e si stemperano sull’intera superficie del quadro, a disegnare una sorta di parodia della bandiera nazionale. Ancora una volta – penso alle 25 26

Ibidem.

Luca Venzi, Volto, colore, emozione. A proposito di Pierrot le fou, cit., p. 233. 77

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palpitazioni di colore gettate sui volti di Pierrot le fou – l’emozione passa attraverso la via dell’astrazione, che in questo caso però non si offre più come defigurazione del volto, ma come ellissi. Quando M.lle Lukatchewski chiude la portiera dell’auto, infatti, tutto è già compiuto. Ma noi non abbiamo visto nulla, se non tre colori. I volti degli attori (e con esso le emozioni dei personaggi) restano infatti fuori campo perché Godard, al pari di Rossellini, non cerca sempre le emozioni negli attori, ma le crea anche attraverso gli attori. In un certo senso fa come Rembrandt: li guarda attentamente sulle labbra e negli occhi e poi ne cattura quelle particelle che emanano non solo la bellezza, ma anche il suo doppio. «La bellezza – dice zio Jean citando Rilke – è l’inizio del terrore che siamo capaci di sopportare». Bellezza sono i capelli di Nathalie Baye agitati dal vento (Si salvi chi può [la vita]), ma anche le increspature che affiorano sul volto riflessivo di Hanna Schygulla (Passion), ferito da una passione che, in quanto tale, è anche angoscia, paura, terrore della perdita. Poco importa, dunque, che l’oggetto della rappresentazione siano tre braccia che si agitano oppure un volto. La cinepresa salva la vita di ciò che filma catturandone le particelle, e filmato in questo modo il colore si dà proprio come aggregato di particelle sensibili, materiche, vive. Anche l’abbraccio “violento” tra Dutronc e Baye, analizzato nel capitolo precedente, obbedisce a questa modalità di configurazione plastica. La posizione degli amanti, con l’uomo che copre il viso della donna nel suo slancio, impedisce di vedere i volti, cosicché tutta l’emozione è affidata all’accostamento dei colori: la maglietta blu di Paul si scontra, in una impossibile fusione, con la canottiera a righe bianche e rosse di Denise (fig. 18). Come accennato, Prénom Carmen rappresenta un interessante ritorno al colore degli anni Karina. La saturazione e la gradazione tonale del rosso, in particolare, hanno indotto Marc Cerisuelo a istituire un parallelismo con Il disprezzo, del quale questo mélo sarebbe una versione aggiornata e degradata: «Il rosso ha virato in granata, il blu si è spento, e il giallo è diventato paglierino, a eccezione degli accappatoi che sembrano ricordare i suoi trascorsi di assistentato allo zio Jean»27. Il sole di Capri, però, è scomparso, sostituito da una bruma che ricorda più Carné che Rossellini. Se il plot non è dissimile (un film da fare), i materiali ricordano però più da vicino Pierrot le fou: Parigi, una spiaggia e due amanti criminali. Dietro la cinepresa l’occhio è sempre lo stesso (Raoul Coutard), ma più sensibile è la testura dell’immagine, grazie anche alla modernissima Aaton 35 nella quale scorre pellicola Eastmancolor Kodak, perfetta, secondo 27

Marc Cerisuelo, Jean-Luc Godard, Lherminier, Paris, 1989, p. 218.

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Fig. 17. Passion

Fig. 18. Si salvi chi può... la vita Figg. 17-18. Eros e tricromia

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l’autore, per cogliere i contrasti di temperatura tipici della pittura olandese28. E oltre che vettore narrativo (passione versus legge), il contrasto è ancora una volta la modalità con cui il colore partecipa delle dinamiche del racconto, assecondando la costruzione dello spazio. La divisione tra interno (lavoro/finzione) ed esterno (amore/vita) è rafforzata dall’utilizzo del giallo, dominante assoluta nell’arredamento dell’hotel, ma anche nella stanza d’ospedale di zio Jean. Che dietro la bellezza si nasconda il terrore, inoltre, è lo stesso colore a ricordarcelo. Con l’eccezione della macchia di sangue sul pavimento, immediatamente ripulita ma sufficiente a far insorgere l’amata tricromia29, la sequenza della rapina è infatti avvolta da una luce fredda che toglie al colore l’ultima forza rimasta. Così la passione ha il rumore dei proiettili e il colore scuro, tendente al nero, degli abiti degli amanti. Fuori dalla banca, però, il colore li aspetta. In prossimità del Pont de Grenelle, un camion bianco con insegne rosse blocca per qualche istante la strada alla loro auto, naturalmente di colore blu. Un blu più chiaro di quello dei calzoni di Joseph, i quali contrastano con il rosso sangue della giacca di Carmen con la stessa violenza con cui suddetto rosso, poche ore prima, risplendeva nella monocromia bianco/ gialla dell’ospedale (fig. 19). Restiamo su questa inquadratura perché mi sembra molto significativo il ripetersi di un cliché relativo alla rappresentazione della figura umana di questo Godard. Ancora una volta, come nella sequenza della disputa a tre di Passion, la passione è filmata per sineddoche: in luogo dell’immagineaffezione classica (il volto), vediamo solo le mani. L’emozione non passa per il volto dell’attore e nemmeno per la sua nuca (Questa è la mia vita). L’emozione è un affare di mani che si stringono appoggiate su gambe a loro volta amputate dal taglio di un’inquadratura che si dà, direbbe Ejzenštejn, come rappresentazione e non come immagine. Della fascinazione per la ricerca di Ejzenštejn si è detto sopra. Evidenti però qui mi sembrano gli echi della lezione bressioniana, soprattutto nella misura in cui Godard non cerca l’espressività nelle parole o nella mimica, quanto nella combinazione, a questo punto potrei dire cromofonica, tra elementi appartenenti alla stessa inquadratura e a inquadrature contigue. Non un metteur en scène insomma, ma un metteur en ordre. E a questo ordine, di natura squisitamente musicale, obbedisce l’inquadratura immediatamente successiva a quella qui analizzata, Per un approfondimento delle questioni tecniche relative all’illuminazione si veda JeanPaul Beauviala, Jean-Luc Godard, Genèse d’une camera, «Cahiers du cinéma», 348, 1983, pp. 94-111, e 350, 1983, pp. 45-61. 29 Ancora una volta il colore è impresso sugli abiti: la donna morta ha calze bianche e un vestito rosso, mentre azzurro è il camice della donna delle pulizie. 28

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Fig. 19. Prénom Carmen

ovvero un campo lungo del traffico urbano osservato da punto di vista frontale. Rispetto alla Parigi di Il bandito delle ore undici mancano i semafori e le rispettive qualità cromatiche (rosso, giallo, verde), ma non importa: il colore è ancora il codice prediletto per restituire non il reale, ma la forma sensibile della percezione del reale. Si tratta forse di uno dei risultati più alti della cinepittura godardiana, un esempio di come davvero per rappresentare la realtà non sia più necessario riprodurne i contorni, perché l’obiettivo è sempre lo stesso e in particolare quello inseguito nei camera-car notturni di Il bandito delle ore undici: «ricostruire una sensazione a partire dagli elementi che la compongono»30. Le linee ci sono, ma agiscono come segni geometrici in un certo senso indipendenti dal referente: penso ai cerchi (i fari accesi delle auto) e alle linee rette (la carreggiata, il lungo-Senna). Gli elementi del paesaggio – la strada, la Senna – sono rappresentati unicamente con il colore: una striscia di giallo paglierino per il manto stradale e un blu notte sul bordo destro del quadro (fig. 20). Le luci del reale (i fari) si comportano come quelle della finzione (i proiettori), ovvero colorano il mondo oltre che illuminarlo. 30 «Quando si corre in macchina per Parigi di notte che cosa si vede? Semafori rossi, verdi, gialli. Ho voluto mostrare questi elementi, ma senza disporli per forza come sono nella realtà. Piuttosto come restano nel ricordo: macchie rosse, verdi, gialle». (Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 91).

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Se il cinema è il cinema e il colore è il colore, il mondo che scorre sullo schermo sembra ancora, vent’anni dopo Il disprezzo, accordarsi ai nostri desideri.

Fig. 20. Prénom Carmen. Il giallo sostituisce il bianco nella tricromia

Differenze e ripetizioni

A questo punto Godard abbandona la banca e i suoi corpi danzanti (il cinema) per concentrarsi sui corpi dei musicisti (la vita), la cui dinamica obbedisce a leggi diverse. L’energia muscolare non è infatti più investita per spostare il corpo nello spazio, ma convogliata tutta nella tensione delle spalle, dell’avambraccio, delle dita. L’imperativo, lo abbiamo visto, è suonare col corpo. Il braccio del violoncellista che, entrando i campo, graffia l’immagine oscurando il volto del secondo violino testimonia la volontà di restituirci dall’interno la fisicità di questo lavoro, continuamente interrotto da commenti, giudizi e suggerimenti. In questo senso, secondo Michel Fano, si spiega l’imperativo di Claire, infastidita dalle continue sospensioni a tal punto da farsi portavoce del desiderio del compositore: «Agisci, invece di chiedere». Tratta dai Quaderni di conversazione31, questa frase fluttua nello spazio dell’inquadratura conservando però un peso sonoro diverso dalle altre voci. La avvertiamo come più vicina a noi, proveniente da una sorta di al di qua dell’immagine. Si tratta, direbbe Michel Chion, della parola-emanazione di quello che resta forse uno dei personaggi più belli ed enigmatici di questi anni Ottanta, forse l’allegoria stessa della Musica32. Nessuno dei musicisti sembra udirla, come se la voce della ragazza facesse fatica a uscire dal corpo. Del resto, se ricordiamo la prima frase del prologo, questo capitava anche a Carmen: «È in me o in te che si producono delle onde terribili?». Non solo Carmen, ma anche il corpo del film sembra scosso da “onde” che agiscono in maniera tale da annullare il tempo della storia, mentre il tempo del discorso va avanti. Il meccanismo è quello dell’iterazione. Alcuni eventi o gesti vengono ripetuti due volte all’interno della stessa sequenza, senza che a riguardo vi sia alcuna giustificazione narrativa, come per esempio un flashback o un flash-forward. Le parole off di Claire/Beethoven sembrano profetiche: «Fai prima dei miracoli, se poi vuoi rivelarli!». In “corrispondenza” di questa frase, infatti, Joseph trasforma la sua andatura in danza e percuote con un calcio una sedia nel corridoio. Il montaggio verticale complica ulteriormente le linee di significazione di un racconto che offre allo spettatore non solo raffinate suggestioni intellettuali, ma anche sensazioni. Le immagini fabbricate con il

Che l’amore avesse gli stessi gesti del lavoro, lo sapevamo. Ma un amore come quello di Carmen, archetipo esemplare del connubio eros-thanatos, non può non rivelare gesti identici a quelli della (messa a) morte. Mi riferisco alla sequenza della rapina in banca. Le note di Beethoven, ovvero il primo movimento del Quartetto n. 10, agiscono come un contrappunto rispetto ai movimenti dei personaggi e in particolare dei gendarmi, sincopati e scomposti: più che innaturali, coreografici. Che stia per succedere qualcosa di “tragico”, è la musica a suggerirlo. O meglio, la voce fuori campo del primo violino, che interrompe l’esecuzione invitando i colleghi a un suono «più teso, più strano», perché in quel momento il tono diventa «più drammatico che d’abitudine». Anche l’immagine obbedisce a queste direttive. I rapinatori fanno irruzione e il panico si impadronisce di tutti i clienti, o quasi: penso all’uomo che, incurante del pericolo, continua a consultare il suo carnet seduto per terra mentre Joseph spara all’impazzata.

31 Com’è noto, molti degli scritti di Beethoven ci sono giunti grazie a trascrizioni di seconda e terza mano, in quanto gran parte delle riflessioni erano annotate su fogli sparsi, piccoli quaderni, calendari domestici o addirittura sul retro degli schizzi musicali. Godard si è affidato soprattutto ai Quaderni di conversazione (Konversationshefte), citando in particolare il testo 103. Per un approfondimento rimando a Luigi Magnani, I quaderni di conversazione di Beethoven, Einaudi, Torino, 1975. 32 Questa almeno è la lettura suggerita da Jacques Aumont, A cosa pensano i film, cit., p. 253.

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corpo33 si rivolgono a tutti i sensi dello spettatore, non solo ai neuroni specchio. Fortissimo, per esempio, è il contrasto tra la fragilità simboleggiata da Claire (voce), occhi bassi e pullover bianco, e la forza di Joseph (immagine), il quale sembra obbedire all’esortazione della ragazza («Fai dei miracoli»!). Il miracolo in questione altro non è che la ripetizione del gesto. Joseph rivive sullo schermo il tempo necessario per ripetere quel gesto di violenza: rivediamo il ragazzo che entra in campo, si avvicina al superstite seduto per terra e scalcia la sedia. Come accade per i musicisti, però, ogni ripetizione di una battuta non è mai identica alla precedente. E infatti nel secondo ciak il paesaggio sonoro è mutato: non più le grida del bambino, ma un silenzio surreale coperto solo dalle note di Beethoven. L’estasi ejzenštejniana è compiuta. L’immagine è uscita da se stessa e si è fusa con la musica, a tal punto da essere utilizzata come una frase musicale. Godard la fa suonare una prima volta e poi la ripete, servendosi del suo interprete come puro materiale, schizzo di colore da gettare sullo schermo per poi cancellarlo e ripetere l’operazione. Accennavamo poco fa alla struttura eidetica di queste immagini. Ha ragione Leutrat: l’idea che muove Prénom Carmen è quella della ripetizione. I musicisti ripetono le battute, Claire ripete le parole di Beethoven, Carmen ripete una domanda («Che cosa c’è prima?»). Tutti ripetono e nessuno, direbbe Denise (Si salvi chi può… la vita), sembra lottare contro «la ripetizione e il nulla». Come ha osservato Aumont, la ripetizione è una figura chiave nell’ultimo Godard, che qualche anno dopo rifletterà sulla dualità immagine/suono dissociando il suono del Bolero di Ravel dall’immagine di JLG intento all’ascolto (Lettre à Freddy Buache): «Gesto regressivo rispetto a quello del montatore, perché in apparenza privo di qualsiasi segno di inventività, la ripetizione dell’identico ha un senso più elementare […]: essa fa penetrare nella profondità della musica, nella profondità dell’ascolto»34. Musicale, in questo senso, è anche la rappresentazione del primo abbraccio tra gli amanti. La rapina sta volgendo al termine. Miracolosamente salvo (la pistola della ragazza fa cilecca), Joseph insegue Carmen lungo le scale e rotola con lei sul pavimento macchiato non di sangue, ma di rosso (per questo la donna delle pulizie lo rimuove). Ora i due sono a terra. Joseph fa per rialzarsi e prendere il fucile ma Carmen con un balzo si porta sopra di lui, in un abbraccio che sa di amore e di lavoro (il lavoro del gangster). Come Ejzenštejn Mai come in questi anni Godard mette in scena se stesso e soprattutto il suo corpo al lavoro: la mano e il volto su uno schermo bianco (Scénario du film Passion), la voce durante la direzione degli attori (Petites notes à propos de Je vous salue, Marie). 34 Jacques Aumont, A cosa pensano i film, cit. p. 256.

in Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potëmkin, 1925: la sequenza del lancio del piatto da parte del marinaio ribelle), Godard non si limita a suddividere suddetto gesto in più inquadrature, ma addirittura lo raddoppia, mostrandocelo secondo due punti di vista; prima dall’alto verso il basso (cinepresa sulle scale: fig. 21) e poi ad altezza uomo (fig. 22). Lo spettatore è dunque costretto a ricostruire dentro di sé non solo lo spazio diegetico, che appare disomogeneo, ma anche il senso dell’azione mostrata. Solo l’iterazione, infatti, trasforma un gesto di lavoro in un gesto d’amore. Il montaggio conferisce dunque intensità affettiva a un’inquadratura che, se isolata, risulta invece priva di affetto. L’immagine-affezione, in questo caso, è però “esterna” all’inquadatura: è il prodotto della collisione analogica delle due inquadrature. Al di là dell’angolazione della cinepresa, ciò che muta nell’articolazione del découpage è soprattutto il paesaggio sonoro, vuoto nell’inquadratura a, pieno nell’inquadratura b. L’attacco del Quartetto op. 10 (secondo movimento) appare perfettamente sincronizzato con il balzo in avanti della ragazza, anche se poi le note cedono gradatamente il passo ai suoni diegetici (i tacchi di Carmen, il rumore del fucile contro il pavimento, il fruscio dei vestiti). Secondo Michel Fano, le esitazioni della musica vorrebbero tradurre il balbettamento emotivo di una relazione amorosa che sta nascendo e che per prendere slancio necessita, ancora una volta, della ripetizione: due volte ascoltiamo Carmen esortare Joseph: «Andiamo via da qui!». Che si tratti di un avambraccio che si flette o di due gambe che spingono, dunque, poco importa. Se i gesti dell’amore assomigliano a quelli del lavoro è perché in questione è sempre e comunque il corpo. Corpo che, nella successiva sequenza della casa al mare, si mostra per quello che è, presenza plastica muta di un’interprete che, prima di agire, è. Carmen ha appena confidato a Joseph di voler fare ciò che una donna fa a un uomo. Ma noi, l’amore, non lo vediamo. Come di consueto Godard evita scene madri e punte drammatiche del racconto. Uno stacco di montaggio ci porta davanti al mare mosso, musicato dal Quartetto op. 15. Quando li ritroviamo, gli amanti sono in piedi, davanti alla finestra. L’illuminazione diegetica in controluce – stilema frequente in molti primi piani femminili di questo Godard – addolcisce i colori e soprattutto i lineamenti dell’eroina, garantendo quel senso di intimità necessario al viaggio à rebours della ragazza. Carmen parla, ma per ascoltare le sue parole dobbiamo aspettare una decina di secondi, ovvero la ripetizione della medesima inquadratura: «Ho abitato qui, presso uno dei miei zii. Dovevo avere 13 o 14 anni. Là c’era il salone e qui la sua camera. La sua camera…». Che cosa è successo, dieci anni prima, in quella camera? Carmen ride,

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Joseph tace. Solo il rumore del mare sembra commentare queste parole e in qualche modo aiutarci a decifrarne il senso: durante una pausa della frase, ascoltiamo il rumore di un’onda che sale. Nel momento in cui quest’onda si infrange contro la superficie dell’acqua, Detmers pronuncia per la seconda volta, ovvero ripete, il luogo degli incontri rimossi con lo zio: «sa chambre». Uno spazio, la camera, che è al contempo teatro dell’amore di oggi e luogo di una memoria perduta, almeno giudicando dalle parole di zio Jean: «Sono pazzi i giovani: dimenticano tutto, e hanno solo la memoria. Sono nel buco nero». Memoria, oblio, oscurità: Godard anticipa in una sola frase temi e motivi del cinema che verrà, in particolare il viaggio nelle Histoire(s) du cinéma e soprattutto la discesa agli inferi di Dans le noir du temps (2001), episodio di Ten Minutes Older che ci conduce, come ha scritto Roberto Chiesi35, nell’«isola dei morti» del passato (Auschwitz) e del presente (Sarajevo). Anziché illustrare, allora, la parola complica il significato dell’immagine e soprattutto non rimargina le ferite dell’oblio. Il tempo perduto di Carmen non è né detto né mostrato, ma anzi continuamente evocato dai continui buchi neri che erodono il racconto (parole coperte dal rumore del mare, vuoto audio, passaggi narrativi non lineari). Vent’anni dopo, nella galleria di detriti audiovisivi sommersi dal nero del tempo – immagini della Shoah, frammenti da La cinese, Forever Mozart e Le petit soldat, cadaveri di Sarajevo – il volto di Maruschka Detmers non ci sarà. Ma, scritte in bianco su fondo nero, scorreranno parole che appartengono anche al mito di Carmen, ovvero giovinezza, coraggio, pensiero, memoria, amore, silenzio, paura, eterno, cinema. Che sia scritta, pronunciata fuori campo o sovraimpressa a immagini “false” in quanto lavorate, striate e saturate, non importa: la parola non nomina la cosa. Le sta semplicemente accanto, ma sempre e comunque in “ritardo” rispetto alla cosa: Si je te parle du temps, c’est qu’ il n’est pas encore / Si je te parle d’un lieu, c’est qu’ il a disparu / Si je te parle du temps, c’est qu’ il n’est déjà plus36.

Filmare la Parola Nel tempo – o meglio in quel tempo che, secondo la lezione di Benjamin, Godard “redime” attraverso l’immagine – comincia anche la storia di Fig. 21-22. Prénom Carmen La sequenza della rapina: il montaggio come iterazione.

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Roberto Chiesi, Godard nell’ isola dei morti, «Cineforum», 433, aprile 2004, pp. 38-49. «Se ti parlo del tempo, è perché esso non è ancora. Se ti parlo di un luogo, è perché è sparito. Se ti parlo del tempo, è perché esso non è più» (voce narrante in Dans le noir du temps). 35

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Marie, scandalosa Vergine contemporanea dai tratti adolescenziali e dagli interrogativi cosmologici: da dove viene la vita? Preceduto da brevi appunti nei quali Godard immagina le immagini nel loro “farsi” (Petites notes à propos du film Je vous salue, Marie), Je vous salue, Marie resta a mio avviso non solo la summa teorica ed estetica di questi anni Ottanta, ma anche uno dei vertici più alti della produzione recente37. Le ossessioni sono quelle di ieri e di domani: la dinamica di coppia, le intermittenze del sentimento, il mistero della vita e della sua origine. Inedita, però, è la levità con cui l’autore tocca tali motivi, declinandoli al tempo presente e soprattutto senza rinunciare a raccontarci una storia, anzi due storie: quella di Marie, una giovane benzinaia eletta da Dio e quella di Eva, studentessa volubile, sedotta e abbandonata. Come ha osservato Jean-Luc Douin, filmare la Parola altro non è che un’occasione per esorcizzare un’ossessione antica e riflettere sul confine tra creazione e procreazione: Da sempre in Godard emerge una frustrazione già presente in Henry Miller (che si diceva incinto) o in Artaud (che si immaginava come sua madre o le sue figlie): l’artista riproduce una certa bellezza di cui non è l’autore. Al contempo l’uomo desidera essere il padre ma la vita viene d’altrove. Procreare non è creare. Allora chi crea? Mistero38.

Filmare la prima donna significa anche filmare la prima storia, ovvero tornare alle origini del racconto39. Novella per antonomasia, il Vangelo è scelto in quanto repertorio di archetipi e miti insiti non solo nella struttura della nostra civiltà, ma anche nelle pieghe del nostro io: «Marie, Carmen, sono personaggi che non esistono […], ma che esistono profondamente nello spirito, o nel corpo, o nel godimento delle persone. Per Carmen Non è un caso se, nella sua recente monografia, David Sterrit sceglie di analizzare Je vous salue, Marie come testo esemplare degli anni Ottanta, soffermandosi in dettaglio su Le livre de Marie e dedicando solo poche righe ai lungometraggi precedenti (David Sterrit, Seeing the Invisible. The Films of Jean-Luc Godard, cit., pp. 161-180). Oltre all’analisi testuale, Sterrit riassume in modo sufficientemente esauriente il clima di avversione che accolse l’uscita del film in Francia e in Italia. 38 Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 219. 39 «Ho sempre fatto storie d’amore e di coppie. E mi sono detto: “Forse devo cambiare, da tanto tempo faccio film su giovani donne, posso andare a vederne una delle prime, una di cui ci si ricorda ancora”». (Jean-Luc Godard, «Révolution», 1 février 1985, tr. it. in Roberto Turigliatto [a cura di], Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, cit., p. 191). 37

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significava filmare l’eterno femminino. E qui, dopo il femminino, l’eterno, o l’eternità40». Dal particolare (eterno femminino) all’universale (eterno): il procedimento è identico a quello teorizzato all’epoca di Il bandito delle ore undici, quando Godard dichiarò di aver voluto filmare non la vita delle persone, ma la vita da sola41. Vent’anni dopo l’orizzonte si allarga e le ambizioni crescono: non più la vita interessa, ma la sua nascita. Com’è noto – ma forse non abbastanza indagato – l’ispirazione per il soggetto non nasce direttamente dalla lettura del Vangelo, ma da quella di una sua modernissima rilettura, L’Evangile au risque de la psychanalyse, conversazione “soft” tra Gérard Sévérin e Françoise Dolto, analista di scuola freudiana e di fede cristiana. Prima che interrogazione filosofica sul mistero dell’Universo, dunque, Je vous salue, Marie è un film-saggio su un saggio, o meglio sulla rivelazione di un’intuizione: Nulla del messaggio di Cristo mi sembra in contraddizione con le scoperte freudiane. […] La vita, l’effetto di verità sempre nuova che la frequentazione dei Vangeli genera nel cuore e nell’intelletto sono un invito a superare i nostri processi logici coscienti42.

Ciò che seduce Françoise Dolto, insomma, è il potere affabulatorio posseduto dalle Sacre Scritture, la loro capacità di penetrare nell’inconscio del lettore e offrirsi come «effetto di verità». Nel Vangelo, infatti, il lettore non solo ritroverebbe il proprio immaginario preverbale, ma anche – sostiene Dolto – un “affetto” molto caro a Godard e alle sue eroine, ovvero la sensazione di «vivere nel proprio corpo». Nel rispondere alla domanda di Sévérin («Cos’è un mito per lei?»), Dolto parla proprio in termini di sensazione: «un mito è la proiezione della sensazione di vivere nel corpo («ressenti du vivre dans le corps»). Vengono in mente i soliloqui di Juliette (Due o tre cose che so di lei), attenta ad ascoltare il riverbero della propria presenza nel mondo, ma, come ha suggerito Paolo Bertetto, possiamo leggere tutti i personaggi godardiani come declinazioni del Dasein: un esserenel-mondo con il corpo, attraverso il corpo, nel corpo43. Ibidem. Jean-Luc Godard, Pierrot amico mio [1965], tr. it. a cura di Adriano Aprà, Il cinema è il cinema, cit., pp. 232-253. 42 Françoise Dolto (interpellée par Gérard Sévérin), L’Évangile au risque de la psychanalyse, Jean-Pierre Delarge, Paris, 1977, p. 13. Nostra traduzione. 43 Cfr. Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., pp. 173-178. 40 41

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Rileggiamo un frammento della celebre intervista concessa ai «Cahiers» nel 1965: «L’importante è sentire di esistere. Nell’arco della giornata, per i tre quarti del tempo, ci dimentichiamo di questa verità che ricorre all’improvviso, guardando le case o una fiammata rossa: a un tratto si ha la sensazione di esistere in quel momento»44. Il Vangelo e le sue riletture, dunque, sono semplicemente dei pretesti per riprendere le fila di un percorso lontano e mai interrotto. Lecito è dunque leggere tutta l’opera di Godard alla luce della teoria di Benjamin, ovvero come insistenza del passato (gli anni Karina) su un presente che cerca, mediante la citazione, una definitiva redenzione. «Mi sarebbe piaciuto – continua Godard nell’intervista di cui sopra – gonfiare la vita per farla ammirare, o ridurre ai suoi elementi fondamentali come un professore di storia naturale»45. Ebbene: il Godard di Je vous salue, Marie non solo gonfia la vita, cristallizzandola in rischiosissime “nature vive” – riflessi del sole sull’acqua, temporali nel bosco, dettagli di luna piena – ma cerca anche, tramite l’alterego del giovane scienziato, di delucidarne il Mistero: «Che cosa sappiamo noi, con le nostre conoscenze scientifiche, dell’amore e del suo mistero? Che sappiamo noi della gioia?»46. Queste parole, pronunciate da Myriem Roussel all’inizio delle Petites notes, provengono però direttamente dal testo di Dolto, la quale è nominata dall’autore in uno sketch che tanto assomiglia a una parodia della terapia freudiana: la discussione sulle relazioni tra sceneggiatura e musica avviene infatti con AnneMarie seduta in poltrona e il marito disteso su una sorta di lettino. Anche il concetto di quotidiano, chiave di lettura del mito evangelico attorno a cui Godard fa ruotare tutti i codici (recitazione in primis), è in realtà un’intuizione della psicanalista, la quale proprio nell’intimità di coppia rileva i presupposti per una carnalità del trascendente. Riportiamo qui sotto la riflessione di Dolto che, nella seconda parte delle Petites notes, l’attrice batte a macchina su dettatura del regista: «Ogni uomo non è forse l’ombra di Dio per la donna che ama? La potenza e l’ombra di Dio che coprono Marie possono essere la carnalità di un uomo che ella riconosce come suo sposo»47. In questo Godard, lo abbiamo visto, i gesti dell’amore assomigliano spesso a quelli del lavoro e allora ecco spiegato il provino eseguito da Myriem Roussel nelle Petites notes. La pelle senza trucco e i capelli sciolti

sulle spalle, Marie deve compiere un gesto apparentemente banale (stirare una tovaglia) ma in realtà perfettamente identico a quello svolto dalla compagna Anne-Marie in Soft and Hard, video conversazione familiare realizzata per Channel Four nell’abitazione di Rolle, dove «non mancano gli oggetti, ma i soggetti». Tout se tient: fare un film è per Godard vivere e vivere significa condividere con la persona amata pensieri e parole sul cinema, sull’arte, sul mistero della vita. Restiamo sulle Petites notes. «La parte principale del film – dice Thierry Rode, interprete di Joseph – è composta dal ciò che accade tra Marie e il ginecologo. Costui si potrebbe chiamare forse Dottor Freud». Come sempre, Godard depista. Il cuore della storia, in realtà, non sarà la constatazione dell’incredulità della scienza quanto l’osservazione delle dinamiche psicologiche che al contempo rafforzano e minano il rapporto di coppia, rapporto fondato non sulla passione ma su quello che Françoise Dolto definisce «un amore della parola»: [Marie e Joseph] sono una coppia di parola. Sono una coppia esemplare perché si sono sottomessi alle Scritture, ovvero alla Parola di Dio. Parola ricevuta, parola data. Parola data che è venuta dalla parola ricevuta, creatrice e fondatrice. Parola data di essere garante di questa donna, Parola data di avere fiducia, di essere madre senza sapere come…48.

Come abbiamo accennato nell’Introduzione, anche le opere di questa “sesta” stagione sono intrecciate le une alle altre per mezzo di motivi visivi e sonori: da un film all’altro migrano corpi, battute, inquadrature, citazioni ecc49. Le riflessioni di Dolto, per esempio, riecheggeranno esattamente nove anni dopo in Hélas pour moi – che Bamchade Pourvali50 considera la terza parte di un’ideale trilogia della coppia composta da Il disprezzo e da Je vous salue, Marie –, variazioni sull’amore inteso come dialettica tra Eros e Agape: sia Paul (Il disprezzo) che Joseph rinunciano al possesso dell’amata sublimando il desiderio nell’arte (Paul) e nella fede (Joseph). Le celebri parole con cui Piccoli “tocca” la carne nuda di Brigitte Bardot rasenta-

Jean-Luc Godard, Pierrot amico mio, cit., p. 233. Ibidem. 46 Ivi, p. 22-23. 47 Françoise Dolto, L’Evangile au risque de la psychanalyse, cit., p. 23. Nostra traduzione.

Ivi, p. 25. Nostra traduzione. Alcune migrazioni hanno origini antiche. In Prénom Carmen, per esempio, viene citato un frammento dell’Elettra di Giraudoux, dramma a cui Godard aveva però già attinto trent’anni prima, in un articolo sui «Cahiers du cinéma» del febbraio 1959. 50 Cfr. Bamchade Pourvali, Godard neuf zéro. Les années 90 de Jean-Luc Godard, cit., pp. 40-43.

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no infatti la devozione: «Je t’aime totalement, tendrement, tragiquement»51. Paul parla come se parlasse a una dea e in effetti Camille è incarnata dalla più lucente tra le divinità di quello star system, un corpo al contempo mortale e imperituro. Per questo Godard ne decostruisce il mito, sottoponendolo a un’anatomia visiva “in continuità”52 per poi svuotarlo del suo contenuto inorganico: non sangue, ma colore: «Ce n’est pas du sang, c’est du rouge». Hélas pour moi racconta – si fa per dire – una storia d’amore dove il quotidiano si mescola con il fantastico. Simon e Rachel vivono sulle rive del lago Lemano. Un giorno Simon annuncia a Rachel che deve partire per un “viaggio in Italia”; sarebbe ritornato l’indomani. Poche ore dopo, invece, un uomo identico a Simon fa visita a Rachel e la possiede: la donna scopre, per la prima volta, che «la carne può essere triste». Di leggenda in leggenda. Se Omero fa da sfondo alla tragedia di Paul e Camille, l’amore fedele di Simon e Rachel (Hélas pour moi) è una copia post-moderna di quello che univa Anfitrione e Alcmena, mito contaminato, tra le infinite suggestioni, con la Storia del genere umano di Leopardi. Nessun cigno abita le rive del lago Lemano; il destino di Rachel è contenuto nel suo stesso nome (Donnadieu: donner à Dieu) ma nessuno, nemmeno l’occhio del narratore, potrà svelare il mistero della sua unione con Dio. Perché Godard scioglie l’immagine, ovvero il volto disfatto di Laurence Masliah (Rachel), nel nulla mediante una dissolvenza in nero. «Nessuna immagine è disponibile, Mademoiselle» dice Abraham Klimt (il personaggio del narratore), così come nessuna immagine potrà restituire in Je vous salue, Marie il mistero dell’immacolata concezione. Klimt si rassegna: «Una storia si costruisce solo nel momento in cui la si racconta». L’immagine ora non c’è, è in via di costruzione o meglio, come sostiene il personaggio dell’albergatrice citando San Paolo (Hélas pour moi), «verrà al tempo della redenzione». Il disprezzo, Je vous salue, Marie e Hélas pour moi raccontano allora (anche) storie di uomini in cerca di immagini. Paul cerca la sua Odissea, Joseph vuole vedere il sesso di Marie, Klimt deve ricostruire quanto accaduto la notte della possessione divina. E anche Rachel lo vorrebbe, poiché non «Ti amo totalmente, teneramente, tragicamente». Singolare è infatti la messa a nudo di questo sex-symbol. Anziché affidarsi al découpage, come faceva il cinema classico, Godard lascia che siano le insorgenze di colore e la voce della diva a sezionare le parti anatomiche («Mes seins, ma poitrine, mes fesses» ecc.). La cinepresa, nel frattempo, compie su questa carne movimenti laterali simili a quelli eseguiti da alcuni personaggi (Francesca e Camille per esempio), movimenti di andata e ritorno e dunque movimenti doppi, vuoti, vani (cfr. Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard simple comme bonjour, cit., pp. 168-169). 51

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ricorda nulla. Ma anche lei per vedere deve prima ascoltare la parola, e non una parola come tante. Si tratta infatti della parola di (Depard)Dieu, un Dio pesante e quotidiano, che ama solo le donne fedeli e filosofeggia avvolto in un accappatoio a righe rosse e blu. Tocca alla vestaglia bianca della donna il compito di completare la consueta tricromia, anche se questo non basterà per risalire il tempo del ricordo. Simon e Rachel, dunque, parlano e, a differenza di quanto di solito accade nelle conversazioni godardiane, nulla interrompe o oscura questa parola: né i rumori d’ambiente (Questa è la mia vita), né la violenza (Si salvi chi può... la vita), né la distanza amorosa (Il disprezzo)53. Rachel è stanca. Vedere l’invisibile come dice l’albergatrice, «è faticoso» e «per amare ci vuole un corpo». La donna accusa il sosia di Simon di essere solo ombra, simulacro, riflesso inorganico di un corpo familiare. Simon, che invece si è fatto corpo, risponde parafrasando la domanda retorica suggerita da Françoise Dolto («Ogni uomo non è forse l’ombra di Dio per la donna che ama?»). Ancora una volta per Godard giocare con le parole significa prendere la metafora alla lettera. Come sentiremo ripetere tra poco da Marie, dell’amore non resta che l’ombra. Anche per Marie essere amati altro non è che fare ombra all’amato, ovvero mettere le braccia attorno al suo collo e intrecciare le dita. Ma questo gesto d’amore, mimato dalla donna sul corpo dell’amante, è uguale al gesto della preghiera. Un fiore del male In principio, dunque, è sempre la parola: nelle Sacre Scritture, nel prologo di Prénom Carmen e anche nel Livre de Marie, cortometraggio di AnneMarie Miéville considerato da Godard come parte integrante del progetto. Si tratta di una sorta di parodia della Sacra famiglia. Anziché la nascita, Miéville racconta la distruzione di un nucleo familiare: la madre dichiara il suo disamore e la coppia, ordinaria come quelle prese a esempio da Dolto, si spezza. L’incipit ricorda molto da vicino il prologo di Prénom Carmen. Due voci si muovono off sulla superficie di paesaggi naturali che, nella loro compostezza calligrafica (nature morte, panorami lacustri, giardini soleggiati), sembrano quasi contraddire il colore emotivo del dialogo. L’uomo è convinto che la moglie fugga per paura di «vedere sparire l’Altro». Ma la realtà, a quanto pare, è diversa: al padre è contestata ciò che invece Cfr. Alain Bergala, Hélas pour moi ou de legères corrections au présent, in Nul mieux que Godard, Éditions Cahiers du cinéma, Paris, 1999, pp. 171-174.

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secondo le Scritture è essenziale alla Santa procreazione, ovvero l’assenza. Cifra stilistica di questo preludio è quella che il personaggio della madre definisce clarté: «Cerco solamente di vederci chiaro (clair) e non vedo perché tutti hanno così paura della chiarezza (clarté)». Tutti ma non la coppia Godard-Miéville, che chiede all’operatore Jean-Bernard Menoud un’immagine «crystal-clear»54, tanto esangue e priva di ombre quanto invece umbratile è la materia del racconto. Prima di scrivere, dice Godard nelle Petites notes, bisogna vedere e al tema dello sguardo rimandano anche due monologhi di Marie, alle prese prima con il sezionamento di una mela e poi, nella sequenza conclusiva, con un sin troppo simbolico uovo bianco, stagliato su fondo blu (la maglia della ragazzina) quanto basta per far insorgere due dei colori della tricromia. Dall’occhio all’ovulo dunque, attraverso la metafora – scopertamente cinefila – del taglio. Le citazioni si moltiplicano sino a stratificare il senso. Anche qui, come in Passion, abbiamo un padre che aiuta la figlia a svolgere i compiti scolastici. Ma questa volta si tratta proprio di effettuare ciò che allora era oggetto di interrogazione, ovvero disegnare i contorni delle cose. Pur peccando di didascalismo, Miéville riesce comunque ad accordare il suo poemetto alla melodia del corpus godardiano, visto che le parole-chiave sono sempre le stesse e tutte unite da associazioni logiche: visione, (pro)creazione, luce (clarté). A proposito di clarté: l’attrice che interpreta Marie adulta, ovvero Myriem Roussel, in Prénom Carmen impersonava proprio Claire. Non solo i corpi circolano in questo cinema, ma anche le parole e soprattutto quelle pronunciate dai personaggi femminili, tutti riconducibili a un tipo. «Per dieci anni abbiamo fatto delle copie, ora ho bisogno di inventare», dice questa femme mariée svizzera. Quella contro la ripetizione, però, è una lotta già vista, inaugurata da Nana (Questa è la mia vita), portata avanti da Charlotte (Una donna sposata) e ripresa da Denise (Si salvi chi può… la vita). Il cerchio allora – figura geometrica evocata dalla metafora dell’uovo ma esclusa dai compiti scolastici – si chiude. Perché l’invenzione come modalità di affermazione della propria identità è un concetto ripreso anche da Françoise Dolto, secondo la quale perché si possa parlare di “famiglia” alla procreazione deve far seguito un processo di creazione: «Dobbiamo ritrovare la nostra origine, ovvero diventare il nostro padre e la nostra madre e dunque il nostro proprio figlio. Dobbiamo inventare noi stessi. Che ognuno diventi l’artista di ciò che ha ricevuto!»55. Marie cerca se stessa nell’arte: nell’ascolto di Mahler o Beethoven, ma 54 55

David Sterrit, Seeing the Invisible, cit., p. 170. Françoise Dolto, L’Evangile au risque de la psychanalyse, cit., p. 45.

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soprattutto nella lettura di Baudelaire. Il “libro di Marie” a cui allude il titolo, infatti, non è un Vangelo apocrifo ma quanto di più lontano dalla Buona Novella, ovvero Les fleurs du mal. Il fiore declamato dalla ragazzina nel suo gioco di ruolo è niente di meno che Femmes damnés, il lamento a due voci di Delphine et Hyppolite, amanti fatali di un amore troppo vicino all’Inferno: «Je sens fondre sur moi de lourdes épouvantes /Et de noirs bataillons de fantômes épars,/ Qui veulent me conduire en des routes mouvantes / Qu’un horizon sanglant ferme de toutes parts»56. Baudelaire parla di un amore conosciuto solo di riflesso: è forse questo l’amore a cui Marie alluderà? Ippolita ha paura ed è sola con i propri fantasmi, proprio come lo sarà Marie quando, gravida, si contorcerà nel letto alla ricerca di risposte. Le livre de Marie, dunque, espone in nuce temi e motivi del lungometraggio: Je vous salue, Marie sarà un film non sulla gioia ma sull’angoscia di una maternità tanto immacolata quanto dolorosa. Marie è triste. Delusa dal fatto che «nulla resta come prima». Allora la madre la consola, ricordandole che «tutto scorre» (ça devient autrement) e invitandola a leggere il suo destino in quello che appare sempre di più il luogo dell’identità dei personaggi godardiani: il nome. «Guarda il tuo nome Marie. Nel tuo nome c’è amare (aimer)». Tra l’infanzia di Marie e la vita adulta, cinque secondi di nero. Il “nero del tempo”, infatti, è scelto da Godard quale supporto ideale per introdurre la storia di un grido («Je vous salue, Marie!») di cui Françoise Dolto ha evidenziato il potere fecondante, potere che renderebbe quanto meno superflui gli interrogativi circa il mistero dell’immacolata concezione. «Che sappiamo noi della parola?» – si chiede Dolto – «essa è feconda o portatrice di morte?». Dell’angelo Gabriele, del resto, non sappiamo nulla se non il contenuto del suo messaggio57. L’angelo esiste unicamente in quanto portatore di Parola e il prologo di questa Annunciazione svizzera lo dimostra: nel taxi di Joseph una misteriosa bambina rimprovera allo zio, oncle Gabriel, di aver recitato il testo sbagliato («Finché resteranno i Borboni in Spagna non saremo tranquilli»). Parlare, però, non significa solo citare o recitare. Perché le parole del film, come ricorda Myriem Roussel nelle Petites notes, sono quelle di tutti Charles Baudelaire, Femmes damnées, in Les Fleurs du mal, LXXXI, Booking International, Paris, 1993, p. 107. 57 La natura sonora di questa epifania è stata colta anche da Pier Paolo Pasolini che, nel suo Vangelo secondo Matteo (1965), lascia la cinepresa sul volto dell’angelo solo il tempo sufficiente a far scivolare sullo schermo le parole dell’evangelista. 56

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i giorni, ovvero «gioia, amore, libertà, lavoro, desiderio». Ma che relazione c’è tra queste parole e il loro significato? È possibile, per esempio, disegnare i contorni della “gioia”? Je vous salue, Marie comincia proprio con una discussione sull’utilità dell’atto del parlare. Seduta al tavolo di un caffè, Juliette (Binoche), fidanzata di Joseph, parla della sua parola: Juliette: «Tutto quello che esce dalla mia bocca diventa merda». Joseph: «E allora taci» Juliette «Con te a volte fatico a sopportare il silenzio».

Anche Nana (Questa è la mia vita) – lo abbiamo visto – si sentiva “lontana” quando non tradita dalle parole, ma faceva di tutto per evitare il silenzio. Juliette vorrebbe parlare. Ma quando lo fa, fatichiamo a comprenderla, perché il “narratore” offusca la sua parola – si tratta dell’espressione di un desiderio – prima con i rumori di fondo e poi con le note, extradiegetiche, della Toccata e fuga in re minore BMW 565. Identico, pochi secondi dopo, è il destino di Marie e della voce che Myriem Roussel presta al suo personaggio. Lo spazio che occupa non è più off, ma over. Pulita, chiara e onnisciente, la voce di Marie funge da sintassi per il montaggio analogico con cui Godard organizza l’apparizione della “Vergine”, annunciando fin da subito la chiave demistificatoria della sua lettura, fondata sul contrappunto tra parole e cose. Se la parola vola alto, assorta in riflessioni esistenziali («Mi chiedevo se qualche evento stesse per irrompere nella mia vita»), l’immagine rimanda a un registro “basso”: una partita di basket femminile con le divise delle squadre a comporre i tre colori della palette58. Il sacro, come ha evidenziato Dolto, è nel quotidiano e il quotidiano di Marie è l’odore del distributore di benzina e un pallone da infilare nel canestro, un pallone che però il montaggio assimila o meglio trasforma – direbbe Ejzenštejn – in una luna piena. Anziché ascoltare l’allenatrice, Marie parla dell’Amore ma soprattutto di ciò che angustiava anche Juliette (Due o tre cose che so di lei), ovvero la relazione tra sé e il mondo: Dell’amore non avevo che l’ombra. O meglio l’ombra di un’ombra. Come quando si vede nel lago il riflesso di un nannufero, un riflesso non tranquillo 58 «Per me il basket era il corpo. Mi sembrava giusto mettere della musica classica. L’archetipo è Bach, conosciuto in tutto il mondo. È il solo musicista che si può eseguire in un senso e nel senso inverso, produce quasi sempre lo stesso suono». (Jean-Luc Godard, «Le monde», 14 Janvier 1985).

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ma agitato dalle onde. È normale che questo riflesso agitato sfugga in parte. Nonostante ciò, tutto il mondo era per me un nannufero.

L’ultima frase, in realtà, la intuiamo appena, perché ancora una volta il volume della voce è abbassato e soverchiato da un’altra immagine-suono, anche questa costruita sull’estetica del contrappunto, ovvero voce maschile/volto femminile: una studentessa (Eva) maneggia il cubo di Rubik mentre la voce-off del professore illustra le dinamiche dell’apparizione della vita nell’universo. Sia le parole di Marie che quelle del professore scivolano sulle immagini come un logos ordinatore: pulite, chiare, distinte. Si tratta di quella che Michel Chion definirebbe parola-testo59, ovvero una parola che fa andare avanti il racconto illustrando sentimenti, stati d’animo o ipotesi e tesi scientifiche. Come ha osservato Johannes Erhat, Esiste chiaramente una hierarchia veritatum in Je vous salue, Marie. I messaggi importanti sono fatti sentire chiaramente, anche a costo di eliminare suoni ambientali o altri elementi della colonna sonora. […] I discorsi di Marie più difficilmente udibili sono quelli in cui ella sta rispondendo a Dio («C’est un grand secret»). Al contrario, tutto ciò che ha a che fare con il suo corpo virginale è chiaro come se fosse un’audizione pubblica60.

Di tutt’altra natura è invece la parola da cui ci aspetteremmo più clarté, ovvero la parola dell’Angelo. L’Annunciazione Disturbata dal rumori di fondo (l’abbaiare del cane, il traffico dell’aeroporto, il motore dell’auto), l’Annunciazione è messa in scena in un contesto luministico assolutamente nuovo rispetto a quanto visto sopra. La clarté cede il passo a visioni sfocate e confuse, come se Godard avesse deciso di non disegnare più i contorni delle cose, lasciando ai raccordi del montaggio il compito di de-finire il contenuto dell’immagine. L’epifania dell’angelo, doppio come quello di Dreyer – la coppia zionipotina riprende il binomio sacro di Ordet (Id., Carl Th. Dreyer, 1955) –, è introdotta da un prologo non verbale, composto dai seguenti elementi: un aereo in fase di atterraggio, un volto allo specchio, fasci di luce tra gli Cfr. Michel Chion, Un’arte sonora, cinema (2003), tr. it Kaplan, Torino, 2007. Johannes Ehrat, Cinema and Semiotic: Peirce and Film Aesthetics, Narration and Representation, University of Toronto Press, Toronto, 2005, p. 269. Nostra traduzione. 59

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alberi. Solo la musica di commento tiene uniti i frammenti di una sequenza che fa dell’ellissi una sorta di “cine-pugno”, veicolando allo spettatore non il racconto del Mistero ma la sensazione di smarrimento che esso provoca. Nel bagno, mentre si pettina, Marie avverte una sensazione indefinita, che Godard dipinge senza contorni. Qualcosa inquieta la Vergine: forse una di quelle «vagues terribles» descritte da Carmen, o forse «un primo soffio di sacro»61 emanato dall’aereo. Prima di assogettarsi alle forme del linguaggio, dunque, la Parola si manifesta come emozione e l’emozione passa anche attraverso insorgenze di colore come il giallo del tramonto, ricorrenze quali la coppia rosso/blu che incornicia il volto di Marie o effetti ottici come i lampi di luce che aggrediscono l’occhio dello spettatore nel camera-car che conduce il taxi alla stazione di servizio. Proprio il taxi costituisce uno degli scarti principali che l’autore mette in atto rispetto ai modelli iconografici rinascimentali. Né Leonardo né ilBeato Angelico, per esempio, contemplavano nella loro scenografia la presenza di Giuseppe, a cui invece Godard assegna non solo l’umile mansione di tassista ma anche l’inedito ruolo di testimone della Parola. Quanto alla scenografia, ha ragione Bergala: la scelta della stazione di servizio conferma come il piacere del divertissement sia più forte dello spirito filologico. L’architettura del luogo, provvisto di tettoia illuminata, replica infatti il motivo iconografico della loggia, ambiente prediletto per le annunciazioni del Quattrocento. La Parola biblica è presa alla lettera, ma soprattutto impone la sua forza significante sul significato. Se il cinema è il cinema, quale scenografia migliore per rappresentare una stazione (della vita di Cristo) che una stazione (di servizio)?62 L’annunciazione è preceduta da due vocazioni: la prima diretta a Dio («Nom de Dieu!»), la seconda a Marie. Godard, insomma, continua a giocare con le parole, con l’obiettivo di evidenziare non solo la distanza tra esse e le cose, ma anche l’intraducibile polisemia di alcune strutture linguistiche. Anche nella lingua francese, infatti, l’espressione Nom de Dieu ha un senso blasfemo se utilizzata come interiezione. Nella versione italiana del film, il doppiatore dell’angelo nomina Dio invano in un modo meno violento di quanto non faccia la voce originale francese63. Poi tocca a Marie. Come quello di Carmen, il nome di Marie è iconogenico: Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 158. Nostra traduzione. «Per Godard l’annunciazione è una scena che si gioca tra le apparenze (Maria immutata agli occhi di Giuseppe) e le essenze (Maria trasfigurata dall’annuncio)» (Ibidem). 63 «Vous avez une fille qui s’appelle Marie? Nom de Dieu!». 61

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l’atto vocativo, ripetuto come in una frase musicale da un altro strumento (la voce della bambina), genera infatti un’immagine costruita secondo topoi performativi, scenografici e cromatici già visti, che proprio grazie alla loro ricorrenza acquistano lo status musicale di “motivi”64. Quattro personaggi discutono animatamente attorno a un’auto il cui colore rosso – raddoppiato dalla minigonna di Marie – completa la ben nota tricromia: gialla è l’insegna del taxi mentre blu è il colore di alcune auto sullo sfondo e del muro sulla sinistra del quadro (fig. 23). Sembra che l’autore non riesca a costruire una scena di conversazione senza allestire lo spazio en

Fig. 23. Je vous salue, Marie

plein air e, soprattutto, senza rinunciare a far muovere i suoi attori attorno a un’automobile ferma. Se la “discussione a più voci” è un refrain narrativo, l’auto si conferma uno dei motivi iconografici più amati. Il cinema di Godard comincia con due personaggi attorno a un’auto (Michel Poiccard e amica al porto di Marsiglia) e continua alternando variazioni su questo motivo, oggetto reale («culturale», direbbe Aumont) trasformato in segno 64

Per la nozione di motivo come figura rimando a Jacques Aumont, A cosa pensano i film, cit.

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figurativo. Penso ai duetti Belmondo-Karina alla stazione di servizio di Il bandito delle ore undici, ma anche – le abbiamo analizzate sopra – alle liti tra i personaggi di Si salvi chi può… la vita (Paul vs fattorino), agli slanci passionali di Carmen in riva al mare o alle discussioni tra gli amanti di Passion: sia l’incipit che il finale prevedono l’auto di Jerzy come paesaggio del discorso amoroso. Gli anni Sessanta sono finiti e con loro anche ogni possibilità di avventura. L’auto non rimanda più all’idea del movimento o della fuga (Fino all’ultimo respiro, Il bandito delle ore undici, Il disprezzo), ma, silenziosa come una macchia di colore, evoca una sensazione di staticità: staticità dei corpi e staticità della narrazione. Anche qui, in questo esterno notte urbano, l’automobile è l’elemento scenografico attorno al quale Godard disegna i movimenti dei corpi. Alla ricerca di spiegazioni, Joseph riceve una spinta prima dall’Angelo e poi dalla stessa Marie, che poi invita con decisione il padre a uscire dal quadro. Come al solito, c’è qualcosa di poco naturale nei gesti dei personaggi, il cui rumore è, ancora una volta, coperto da frammenti di musica extradiegetica. Il brano scelto – l’incalzante primo movimento del Concerto per violoncello in Si minore (op. 104, b. 1919) di Antonin Dvořák – fa esattamente ciò che fa l’immagine, ovvero introduce, annuncia l’avvento di una voce sola. Il violoncello solista, infatti, occuperà nello spazio sonoro il posto riempito nell’inquadratura dalla voce dell’Angelo. Più che imitare la vita, gli interpreti sembrano attenti a rispettare le coreografia di una danza grottesca, che non prevede nessun particolare approfondimento psicologico del personaggio. Se Myriem Roussel lavora in underplay lasciando alla parola il compito di esprimere l’emozione, Philippe Lacoste (l’angelo) e Thierry Rode (Joseph) si limitano a disegnare sul volto una maschera e a effettuare solo piccole variazioni su di essa. «Che cosa c’è?» chiede Marie. Ed è a questo punto che la parola-emanazione cede di nuovo il passo alla parola-testo: la voce dell’angelo ritorna off ma il paesaggio sul quale si staglia non ha nulla di figurativo. Al contrario: il volto di Myriem Roussel è sostituito da uno schermo nero puntellato, nel tempo, dai consueti tre colori: rosso (il semaforo), giallo (ancora il semaforo) e bianco. Per osservare la ricorrenza del blu dobbiamo aspettare l’inquadratura seguente, che ci mostra il profilo di Joseph immobile all’interno di un’auto rossa fuori ma blu dentro. Se la tricromia è familiare, più perturbante è l’insorgenza del nero, grado zero del colore che abbiamo visto aprire e che vedremo chiudere il racconto. Solo quando la bambina ripete la risposta dell’Angelo («Ci sei tu

Maria!») la luce gialla cede il posto a quella rossa, mentre il quadro resta vuoto di corpi ma pieno di suoni (musica extradiegetica), rumori (vento) e soprattutto parole: le indicazioni di radio-taxi stridono con il registro “alto” della musica. Prima l’immagine, dunque, poi il nulla. Hyppolite, l’eroina baudeleriana declamata nell’adolescenza, sentiva il suo cuore sprofondare in un «abisso vuoto»65. Questa Vergine contemporanea dal vuoto è completamente inghiottita. Come se il racconto per avanzare avesse bisogno di un intervallo, un sorta di sospensione del figurativo che ci riporta alla dimensione del figurale analizzata a proposito di Si salvi chi può… la vita. La disposizione di luci, volti e colori all’interno del découpage obbedisce infatti alla «legge del valore» di Lyotard, che individua la forza dell’immagine non nella logica narrativa ma nei vacillamenti, nelle deviazioni, nelle sospensioni del senso. Mentre ascolta le parole dell’Angelo, per esempio, Marie guarda verso l’alto, creando così una frattura nei raccordi che punteggiano la scena (l’angelo infatti è a pochi metri da lei, ad altezza uomo). Poiché ci dice altro rispetto al racconto, l’immagine di Je vous salue, Marie pensa e soprattutto pensa altro rispetto a quanto dicono le parole dei personaggi, e in particolare degli “angeli”: «Sois pure, sois dure, ne cherche que ta voie (voix)»66. Nana aveva ragione. Le parole mentono, ingannano, o quanto meno non riescono a disegnare i contorni delle cose. Marie, infatti, rimane vittima dell’omofonia della lingua francese non capisce a che cosa la bambina si riferisca: «Ma voie? Mon chemin ou le son de ma voix?»67. Abbiamo riportato accanto al termine voie (cammino), il sostantivo voix (voce), perché nella lingua francese le due parole hanno lo stesso suono e dunque lo stesso volto. Naturalmente la variante prescelta dal doppiaggio italiano è via («Cerca la tua via»), ma è evidente che in questo caso la differenza linguistica vanifica la riflessione dell’autore su quella che egli presto definirà la potenza della parola (Puissance de la parole). Non solo il colore dunque. Anche la parola partecipa attivamente al processo di defigurazione di un senso che si frammenta e moltiplica proprio come fanno il volto di Marie allo specchio del bagno o le luci dei fari sull’asfalto viscido. Sono

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«“On ne peut ici-bas contenter qu’un seul maître!” Mais l’enfant, épanchant une immense douleur, Cria soudain: “Je sens s’ élargir dans mon être Un abîme béant; cet abîme est mon coeur!» (Charles Baudelaire, Femmes damnées, in Les Fleurs du mal, cit.). 66 «Sii pura, sii dura, non cercare che il tuo cammino (la tua voce)». 67 «La mia via? Il mio cammino o il suono della mia voce?». 65

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tutte, direbbe Denise, «folate di irregolarità». «Irregolare», in un certo senso, è anche la voce di Marie, la cui domanda di chiarificazione («mon chemin ou le son de ma voix?») risuona sul volto della bambina e non su quello di colei che dovrebbe essere la “proprietaria” di suddetta voce. Marie è confusa quanto lo spettatore. Forse ha perso la sua via, o forse la sua parola: «Non fare l’imbecille! Io ho la tua parola e tu troverai presto la tua». Questa seconda ipotesi è rafforzata dall’immagine che segue, ovvero il profilo68 di Myriem Roussel contratto in un spasmo innaturale (fig. 24): la bocca è aperta, dilatata verso il basso, come se la ragazza cercasse invano

Per trovare la parola, però, la Fede non basta. Marie deve cercare nel corpo. Alla carnalità della parola, del resto, allude anche l’angelo nel suo commiato: «Non dimenticare: ciò che entra esce e ciò che esce entra». Il mistero dell’Incarnazione è pronunciato: lo Spirito si fa carne penetrando il corpo attraverso le sue cavità. La bocca allora non è più soltanto sorgente del Verbo, ma anche, così come confermerà la celebre inquadratura finale, un limen da penetrare, mordere o abbellire con un rossetto. Fecondata dalla Parola, Marie insegue l’auto di Joseph e crolla a terra, appoggiandosi alla pompa di benzina. Ma è solo un attimo, quanto basta per passare dallo status di vergine a quello di Vergine. La ragazza si rialza subito e saltella verso casa con la stessa gaiezza dei frati di Rossellini (Francesco giullare di Dio, 1950) o dei compagni di classe di Eva, sul cui movimento il montaggio raccorda l’attacco della sequenza successiva. Marie e le altre

Fig. 24. Je vous salue, Marie: la parola come voce/via.

non tanto la parola, quanto la materia di cui essa si compone (il suono). Che Godard distingua, per dirla con Lyotard, tra forza (suono) e forma (parola) ce lo suggerisce anche una battuta rivolta da Marie a un Joseph incapace di credere: «Forse non capisci bene le mie parole o la mia voce».

Prima di analizzare la messa in scena di questo corpo, è opportuno fare un passo indietro e allargare il campo di osservazione. Quasi tutti gli esegeti, da Alain Bergala a Jean-Luc Douin, hanno rilevato una volontà di “de-erotizzazione” nella messa in scena del corpo femminile, vettore di un desiderio sospeso tra la negazione (il corpo vestito) e la mostrazione (il corpo nudo), ma soprattutto scisso nella polarità sacro-profano69. Se Marina Vlady (Due o tre cose che so di lei) negava ai suoi clienti la tensione erotica derivante dall’atto di spogliarsi, invitandoli a possedere un corpo già nudo e in quanto tale forse non altrettanto desiderabile, Hanna (Passion) rifiuta le richieste dell’amante: «Spogliarmi mi dà fastidio, è un lavoro troppo vicino all’amore». “Già” nudi, infatti, sono anche i corpi femminili degli anni Ottanta, dalle prostitute di Si salvi chi può… la vita alle figuranti di Passion, dove il nudo non è eros ma bellezza da guardare, illuminare e riprodurre. Quando il nudo è anticamera di eros, come nella figura intera di Isabelle prossima a concedersi a Jerzy, tocca alla luce e alla parola favorire la decostruzione. L’illuminazione in controluce, infatti, trasforma il corpo di Isabelle Huppert, che sta recitando l’Agnus Dei, nel simulacro di un angelo di El Greco.

Come ha osservato Alain Bergala, «Godard fissa la sua interprete in posture tipiche del tableau-vivant, che corrispondono ad alcuni degli stati codificati in cui la pittura rinascimentale ha ritratto l’Annunciazione» (Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 161).

Si veda in particolare Alain Bergala, Le nu chez Godard, in AA.VV., Une encyclopédie du nu au cinéma, Éditions Yellow Now, Studio 43, MFC Terre Neuve, Dunkerque, 1994 e Laura Mulvey, Images of Women, Images of Sexuality: Some Films by J.-L. Godard, in Visual and Other Pleasures, Indiana University Press, Bloomington, 1989.

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«Niente nudi, no no – preciserà William Shakespeare junior in Re Lear – ora lavoro per la divisione culturale della Canon e loro non vogliono nudi». Godard, invece, il nudo lo filma ma non lo rende garanzia della rappresentazione dell’amplesso, tabù che Bazin gli ha insegnato a lasciare ob-scenam. La messa in scena dell’eros è allora come il travelling di Kapò (Gillo Pontecorvo, 1959), una questione di morale da esorcizzare sostituendo al corpo tattile del cinema “osceno” un corpo scopico o più semplicemente ludico: penso alla gag di Détective (dove il seno di Emmanuelle Seigner (alias principessa delle Bahamas) funge da punching ball per gli allenamenti del fidanzato, boxeur dalla libido spenta. A questo proposito gli anni Ottanta non dicono nulla di nuovo. Sul letto di Il disprezzo, infatti, Camille/Bardot si offriva non al tatto ma allo sguardo di un uomo che anziché stringerne la carne si accontentava di contemplarne l’immagine allo specchio. Limitarsi a guardare è esattamente ciò che, volenti o nolenti, fanno anche i personaggi maschili di Si salvi chi può… la vita e Je vous salue, Marie, soggetti di una contemplazione programmata nei minimi dettagli. Se i clienti di Isabelle obbligavano la prostituta a recitare personaggi di fantasie tanto erotiche quanto audiovisive («L’immagine va bene. Adesso facciamo il suono!»), Joseph (Je vous salue, Marie) sfogherà la sua frustrazione invitandoci a guardare assieme a lui la nudità di Marie come se ciò che stiamo per vedere lo vedessimo per la prima volta: «Adesso vado a vedere la padrona!». Ma che cosa si vede, in Godard, quando si guarda un corpo? La risposta forse è contenuta nella domanda che Isabelle pone al primo cliente nel momento in cui gli offre la sua nudità: «Ammirate il paesaggio?». Dunque ci si relaziona con il corpo come se fosse un paesaggio nel quale nessuno, tanto meno lo spettatore, può penetrare. Non esistono infatti raccordi in soggettiva sullo sguardo dei voyeur godardiani; possiamo solo guardare un uomo che guarda senza condividerne completamente la visione. Nel momento in cui diventa paesaggio, il corpo si offre allora come scarto, spazio esterno alla rappresentazione, infilmabile. Quello tra Isabelle e il suo cliente non è solo un incontro ottico, ma anche una sorta di finzione al quadrato. Personaggi di finzione fingono di fingere, ma la loro performance è in qualche modo amputata da un montaggio conflittuale: da un lato i corpi (attori/finzione), dall’altro il paesaggio, ovvero l’esterno giorno di una via di Rolle dove non succede nulla (figuranti/documentario). Finzione (corpi) e documentario (paesaggio) si scontrano senza possibilità di compromesso. Come ha notato Alain Bergala70, all’inizio della sequenza, nella stanza 70

Cfr. Alain Bergala, Nul mieux que Godard, Cahiers du cinéma, Paris, 1999, pp. 132-

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d’hotel, il montaggio sezionava in due parti anche il corpo di Isabelle: prima il sesso, contemplato da Monsieur Personne, e poi il volto, perso in un monologo interiore e anch’esso a sua volta separato dalla voce. Identica è la sorte che spetta al corpo mistico di Marie, incarnazione di una Passione che Myriem Roussel interpreta però secondo un canone performativo antitetico a quello di Isabelle Huppert. Dove Huppert leva, tratteggiando il martirio del personaggio con la maschera dell’indifferenza, Roussel aggiunge, rifiutando l’astrazione a favore della composizione. Ciò che illumina quello che Godard ha definito un «documento sulla parola» è a mio avviso proprio l’intensità di un corpo filmato in tutti gli stati, ovvero disteso, rannicchiato, seduto, in piedi, seminudo ma soprattutto nudo. Una nudità, questa, asessuata grazie all’utilizzo di modelli pittorici “alti”, atti a elevare, in una sorta di sineciosi postmoderna, la grazia proletaria di un volto che le Petites notes connotano come al contempo leonardesco e michelangiolesco. Myriem Roussel ha lo sguardo trasognante delle donne di Leonardo e la giovinezza della Vergine di Michelangelo. L’immagine cinematografica si conferma in questo cinema punto di arrivo èk-statico di un processo di montaggio. Si veda a questo proposito l’immagine del volto leonardesco (Testa di Madonna) sovrimpresso al primo piano dell’attrice qualche secondo prima che l’autore evochi, in qualità di exemplum, la tristezza gaia di Giulietta Masina (La strada, Federico Fellini, 1954 – figg. 25-26). Anche la composizione del personaggio appare dunque una questione di montaggio, una sorta di intervallo tra due stati dell’anima (e del corpo): il Dolore e la malinconia, la Grazia e l’innocenza. Come sempre, in Godard il cinema è il cinema; non solo Fellini, ma anche e soprattutto Rossellini. L’intuizione di Michelangelo, ovvero la fanciullezza della Vergine della Pietà, aveva infatti già ispirato “Roberto” (così Godard lo ricorda nel diario di JLG/JLG. Autoportrait de décembre) nella ricerca iconografica per Il Messia (1977): una vergine eterna bambina e dunque in grado di vincere il “nero del tempo”. Si diceva del montaggio. La figura dell’intervallo regola l’elaborazione dei principali modelli pittorici evocati in quella che, quanto meno nella parte centrale del film, appare davvero una sorta di Passione femminile. Come Isabelle (Passion) o Nana (Questa è la mia vita) Marie soffre, si lamenta, urla la sua solitudine. Da Schiele (le contorsioni nel letto: figg. 27133. Bergala evidenzia la scelta, da parte di Godard, di filmare una scena di sesso da un punto di vista opposto a quello per il quale la scena è stata preparata e concepita: se la disposizione dei corpi rimanda a un fantasia sessuale maschile (il dominio), l’articolazione del montaggio rispecchierebbe invece il punto di vista del personaggio femminile. Questo al fine di ridurre quanto più possibile il coinvolgimento erotico dello spettatore.

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Figg. 25-26. Petites notes à propos du film Je vous salue, Marie

28) a Degas (il bagno nella vasca) sino a Mantegna (la posizione supina che omaggia il Cristo morto), Godard mescola sacro e profano alla ricerca di un’immagine che non sia né cinematografica né pittorica: Se inquadrassi Roussel in primo piano diventerebbe Sophie Marceau o Annabella o Lillian Gish. Ma se la guardassi in piano medio, sarebbe come in tutta la pittura sacra. Dunque allora il cinema non esisterebbe. Bisognava dunque restare tra le due soluzioni di ripresa. E la cosa interessante del soggetto era questa: perché non si può essere vicini alla Vergine?71

E invece numerosissimi sono i primi piani di Myriem Roussel, spesso però raccordati con la parte inferiore del corpo, come a ribadire la predilezione per questa “estetica dell’intervallo”. Si osservi per esempio l’inizio

Je vous salue, Marie

Egon Schiele, Donna seduta con ginocchio sollevato (1917)

Figg. 27-28. Godard pittore 71

Jean-Luc Godard in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 76.

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del pedinamento quotidiano della vergine. Marie sta stirando, gesto già provato due volte nel casting delle Petites notes. Questa volta però la messa in scena configura l’immagine del corpo secondo una dinamica diametralmente opposta. All’intero (il piano americano in long take), sono preferiti i frammenti, con un gioco chiastico A-B-A. Dal ventre, coperto da una maglietta a righe, passiamo al volto (fig. 29) e quindi di nuovo al ventre, accarezzato da una mano che scende timida verso il basso (fig. 30). Per il volto vale quanto abbiamo detto a proposito di Nathalie Baye o Maruscka Detmers: al volto-ordinario, vettore di identificazione spettatoriale e portatore di parola-testo, è preferito il volto opaco, dallo sguardo basso diretto verso un fuori campo impossibile da determinare. L’opacità dell’espressione è rafforzata dall’effetto straniante prodotto dalla voce over, che ci allontana da ciò che il volto dovrebbe mostrare, ovvero l’interiorità del personaggio. In questione è proprio la natura di questa “interiorità”: la voce diegetica è per Godard pura emissione corporea, senza alcun colore emotivo, sentimentale o psicologico. Consideriamo la sequenza della visita ginecologica. Prima di esplorare l’interno del ventre, il medico si avvicina alla ragazza e guarda all’interno della sua bocca, spazio che pure la cinepresa indagherà nell’ultima inquadratura. Così facendo, però, il medico blocca sul nascere l’atto del parlare, perché Marie in quel momento stava per rivolgere all’uomo una domanda. Una domanda che non verrà evasa: Marie: «L’anima ha un corpo?» Ginecologo: «Ma no, cosa dici! È il corpo che ha l’anima». Marie: «Ho sempre creduto il contrario».

La sequenza della visita è interessante in quanto contiene, in abisso, il nucleo del contrappunto immagine/parola. Alle insistenti domande del ginecologo, desideroso di un resoconto dei sintomi, la vergine risponde con un imperativo molto caro a Godard: «Regardez!» (Guardate). Dopo qualche secondo però l’uomo alza il volto e guarda nel vuoto. La visita è finita e lo spettatore non ha visto nulla in più di quanto la parola non abbia detto. Come Joseph o il ginecologo, anche noi dobbiamo credere alle parole e limitarci a guardare quello che l’immagine ci mostra, ovvero un semplice “divenire” del volto. Il ventre infatti resta off. Seduta sul lettino, Marie sposta continuamente i capelli sul viso proprio come faceva Anna Karina in Le petit soldat e, come sulla pelle dell’antica 107

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musa, anche qui nessuna palpitazione, nessun fremito, nessuna emozione. Myriem Roussel è sola e la materia del suo volto – al pari di quella di un’infelice eroina di Garrel – non è più «densa di grani luminosi, ma evoca la pietra porosa di cui sono fatti i sogni»72. Non a caso Jacques Aumont colloca Godard tra quei cineasti che, in antitesi alla scrittura empatica di Cassavetes, «fanno passare il volto filmato dall’esaltazione alla solitudine, senza abbandonare il registro comune, quello dell’angoscia. […] L’atto di filmare diventa una trappola, la cinepresa diventa una macchina infernale»73. Per agire però – Passion ce lo insegna – la «macchina infernale» ha bisogno di luce. E la luce di Godard non “va” sui volti ma “viene” dai volti o meglio dalle finestre davanti alle quali tutti i corpi femminili, da Carmen a Isabelle, da Eva a Marie, si fermano. C’è infatti sempre una finestra nei primi piani di questi anni e non a caso qualcuno ha parlato di Vermeer come modello di composizione scenica. La luce che filtra, però, è opaca e indifferente come l’espressione del volto che dovrebbe illuminare. Sia Nathalie Baye (Si salvi chi può… la vita) che Maruschka Detemers (Prénom Carmen) sono spesso colte nell’atto di guardare fuori, ma la cinepresa non ci mostra alcun paesaggio. E lo stesso accade in molti primi piani di Je vous salue, Marie. Perché il paesaggio che interessa è il volto e l’inquadratura, anziché offrirsi come finestra sul mondo, svela la sua natura metadiscorsiva: filmare un volto alla finestra significa non solo incrociare le traiettorie dello sguardo del personaggio con quelle dello spettatore, ma anche mettere in crisi la nozione di limen. Marie lo ripete spesso: essere caste significa «essere aperte a tutte le possibilità», possibilità che anche Denise inseguiva nella sua lotta «contro la ripetizione e il nulla». Per la sua configurazione scenografica e luministica però, la soglia godardiana ricorda molto i limen di Philippe Garrel, luoghi simbolici di «un impossibile rapporto con l’aperto»74. Da bambina ballava sul balcone, confine tra un interno finito e un esterno infinito (il lago Lemano). Ora invece Marie si avvicina alla finestra per leggere ad alta voce (i Fioretti di San Francesco) o parlare d’amore, proprio come fanno molte eroine di Garrel e in particolare un personaggio dal nome ormai familiare, ovvero Jacques Aumont, Du visage au cinéma, cit., p. 137. Nostra traduzione. Aumont si riferisce all’utilizzo che Garrel fa del volto di Jean Seberg in Les hautes solitudes. 73 Ibidem. 74 Rosamaria Salvatore, Traiettorie dello sguardo. Il cinema di Philippe Garrel, cit., p. 175. Da Voyage dans le jardins des morts (1976) a Le vent de la nuit (1999), le eroine di Garrel sono filmate spesso in controluce, davanti a superfici opache da cui penetra una luce indifferente, priva di forza drammatica. 72

Figg. 29-30. Je vous salue, Marie: dall’intero (pittura) ai frammenti (cinema).

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Hyppolite (Voyage dans le jardin des morts, 1978). Oltre la soglia però, nessuna apertura. Perché Marie in fondo è essa stessa limen, corpo sospeso tra il terreno e il divino, e conteso tra lo sguardo e il tatto. Anziché scolpirne i tratti, la luce si limita ad accarezzare i capelli permettendo al profilo di stagliarsi sullo sfondo e lasciando la sensazione, a chi guarda, di contemplare una superficie refrattaria a qualunque scrittura. Se la finestra non “apre” sul mondo, nemmeno il volto lo fa, offrendosi invece come superficie opaca, scivolosa ed enigmatica. Prénom Eva Enigmatico è anche lo sguardo di Eva. Nel concentrarci sul personaggio di Marie abbiamo trascurato colei che, come Claire in Prénom Carmen, funge da doppio della protagonista, contrappunto dissonante e in quanto tale essenziale alla struttura musicale del racconto. Anche in questo caso, il prénom è importante. Il docente di scienze sbaglia nel nominarla e lei lo corregge: «Il mio nome è Eva, non Eve». Quando la vediamo per la prima volta, Eva è appoggiata alla finestra della sua aula, il profilo destro inondato di luce. Lo diceva Denise: le storie secondarie illuminano quelle principali e anche questo è il caso. Il caschetto biondo e le forme rotonde, Eva è l’antitesi culturale, morale, cromatica e morfologica di Marie. Eppure, in uno spazio adiacente a quello della storia principale, ella compie gesti simili a quelli del suo alter-ego (e di altre eroine degli anni Ottanta): solleva lo sguardo verso il cielo, proteggendosi gli occhi con la mano e poi li abbassa, portando entrambe le mani al volto, come per sottrarsi alla dinamica di situazioni ottiche che la avvolge. Analizziamo la sequenza della lezione di fisica en plein air, che Godard monta in parallelo con i primi turbamenti di Marie. Eva siede sulla riva di un lago con altri studenti. Non sappiamo non solo che cosa pensa ma nemmeno cosa guarda, perché il montaggio inserisce il suo volto tra le cose, o meglio tra differenti “volti” dell’elemento naturale più vicino, per analogia iconica, al volto umano. Sole e volto sono l’ennesima variazione plastica sul tema del cerchio, inaugurata dalla catena di associazioni occhio/uovo/pallone/ventre. “Accanto” al volto di Eva si alternano, nell’ordine, un sole coperto da una nuvola, un sole nascosto dalle fronde e un sole cadente, basso all’orizzonte. Se il sole simboleggia la luce – conditio sine qua non per la creazione tanto artistica quanto biologica –, elementi quali nuvole o fronde rappresentano i limiti insiti non solo in ogni visione, ma anche in qualsivoglia rappresentazione del visibile. Eva guarda fuori campo, ma non dice ciò che vede. Non è possibile stabilire chi guarda cosa. Godard 110

confonde i raccordi di sguardo in modo tale che le sue immagini “pensino” una teoria del visibile non distante da quella elaborata da Merleau-Ponty75, referenza citatissima anche nelle opere degli anni Duemila. Così filmata e configurata all’interno del quadro, infatti, la luce non appare strumento di visione e neppure oggetto, ma soggetto vedente. L’occhio umano non può controllare né organizzare questo visibile poiché, in quanto guarda, esso è già guardato. In questo caso il destino di Eva non è diverso da quello di Jerzy: guardare non significa vedere, ma cercare. Mentre il montaggio alterna strati del visibile, la parola prende una direzione parallela, vicina e al contempo lontana dalla materia visiva. Seduto tra i suoi studenti, il professore illustra la sua teoria cosmologica: Professore: Chissà se [i nostri discendenti] decideranno di trasmettere il segreto dell’origine… Eva: Ma può darsi che ci sia precluso leggere il codice. Professore: Ah sì, ma questa voce che arriva al fondo della tua coscienza, che si fa sentire dai più attenti, avverte che sei nata da qualcosa, altrove, nel cielo. Cerca, e troverai molto più di quanto immagini.

Forse mossa dalla «voce» di cui parla l’uomo, Eva apre la bocca e la tiene spalancata per qualche secondo, iterando la postura mantenuta da Marie durante l’Annunciazione. Allo stesso modo in cui la luce, anziché illuminare, produce alterazioni della visione nel vedente, l’ascolto della parola provoca afasia nello soggetto della percezione. Anche Eva, dunque, deve trovare la sua voie e anche questa volta si tratta di una voix. La ragazza la cerca nell’amore, ma non riesce a leggere il volto dell’amato e quindi gli rivolge una domanda già ascoltata molte volte in questo cinema: «A quoi tu penses?»76 . L’immagine di Godard, lo abbiamo visto, pensa offrendo al nostro sguardo non un «mondo che si accorda ai nostri desideri» (Il disprezzo)77, Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1965, pp. 400-408. 76 Così si rivolge non solo Bruno Forestier alla sua modella in Le petit soldat, ma anche Paul (Jean-Pierre Léaud) a Madeleine (Chantal Goya) all’inizio di Il maschio e la femmina. La ragazza però risponde con un’altra domanda, chiedendo al corteggiatore qual è per lui il centro del mondo. Paul non ha dubbi e dà una risposta simile a quella che fornirebbe anche Eva: il centro del mondo è l’amore. 77 Questa frase, attribuita volontariamente da Godard ad André Bazin, appartiene in realtà a Michel Mourlet (Sur un art ignoré, «Cahiers du cinéma», 98, 1959). Non a caso il nome 75

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ma volti opachi o, come in questo caso, filmati di spalle e protetti dalla penombra. Anziché rispondere, l’uomo pronuncia senza alcun colore emotivo l’ennesima sentenza, funzionale solamente a rinnovare il leitmotiv dell’Annunciazione, ovvero l’ambiguità della parola: Professore: «Il me semble que la politique ne peut être que la voie/voix de l’ horreur» Eva: «La voie/voix? Le chemin ou la parole? Professore: «La parole de l’ horreur»78.

No. Eva non sa ciò a cui l’amato pensa, e forse un giorno, come Marie, anche lei troverà la sua parola. Per ora, però, sul suo corpo nudo e impuro (sigaretta nella bocca e postura disinvolta) scivolano solo le parole di Marie, o meglio le parole lette in voce over da Marie: «Credo che lo spirito agisca sul corpo, lo trasfiguri e lo copra di un velo che lo fa apparire più bello di quanto non sia. Cos’è dunque la carne in se stessa? Possiamo guardarla e non provare che disgusto». Questo fa Godard: guarda la carne di Eva e Marie e ce la restituisce sollevata da ogni codificazione erotica e soprattutto raggelata in interni notturni, alla pallida luce di lampade molto simili a quelle che illuminavano l’infelice Hyppolite di Baudelaire, eroina della piccola Marie: «À la pâle clarté des lampes languissantes / Sur de profonds coussins tout imprégnés d’odeur / Hippolyte rêvait aux caresses puissantes / Qui levaient le rideau de sa jeune candeur»79. Il rossetto Come Isabelle (Passion), vergine sedotta e abbandonata80, Marie non cerca il piacere, ma non vuole nemmeno farsi sopraffare dal dolore («Il dolore non mi avrà in una volta»). A differenza di Isabelle, a cui la balbuzie conferisce una sorta di “grazia”, Marie ha il controllo completo della parola. Con la parola, sorretta da una dizione impostata, illustra in voce off i suoi stati d’animo e i suoi propositi; con la parola allontana Joseph e al di Mourlet compare nei “titoli di coda” del primo tomo delle Histoire(s) du cinéma edite da Gallimard. 78 «Mi sembra che la politica non possa essere che la “voix” dell’orrore? / La “voix”? La parola o il cammino? / La parola dell’orrore». 79 Charles Baudelaire, Femmes damnées, cit., p. 104. 80 È lei stessa a (re)citare il celebre passo del Vangelo: «Mio Dio, Mio Dio! Perché mi hai abbandonata?».

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contempo lo rassicura del suo amore, non potendolo fare attraverso il corpo. Noi sappiamo a cosa pensa perché, più ancora che in Questa è la mia vita, il pensiero qui è non solo “detto”, ma anche analizzato: «Noi parliamo la sua parola. Come potremmo essere cosi vicini alla sua Parola se non la parliamo?». Basterebbe questa battuta per evidenziare come, al di là degli spunti offerti dal testo di Dolto, Je vous salue, Marie non è solo un film sul mistero dell’Origine quanto una riflessione sul confine incerto che separa le parole dalle cose e l’atto del parlare da quello di vedere. Joseph, per esempio, non crede alla Parola e, come l’autore, deve vedere. Tutto quello che Marie può concedergli è allora la visione del suo sesso, ma la visione genera pulsione e deve intervenire l’Angelo per evitare il peggio. L’inquadratura finale invece, ovvero quel dettaglio della bocca di Myriem Roussel a cui abbiamo accennato sopra, non ha generato pulsioni, ma svariate interpretazioni. La presenza di un personaggio di nome Freud (il ginecologo) autorizza l’ermeneuta a leggere nella metafora del rossetto che la ragazza avvicina alla bocca una parodia della dottrina freudiana. Questo rossetto, del resto, è un fallo impotente in quanto non penetra l’orifizio di Marie, ma si limita a disegnarne i contorni. Rivediamo la sequenza. Esterno giorno. Marie e Joseph hanno appena salutato il piccolo Jésus, scappato verso il bosco durante un caldo pomeriggio d’estate dopo aver affermato: «Je suis celui qui est». La dominante verde del paesaggio naturale cede il passo a una bicromia bianco-grigio. Inclinata dall’alto verso il basso, la cinepresa fissa l’asfalto e registra il passaggio di due corpi, di cui solo più tardi conosceremo l’identità: Marie e Gabriel. Di entrambi intravediamo solo le gambe: quelle della Vergine sono nude, mentre l’Angelo indossa calzoni e scarpe blu. I due corpi attraversano la carreggiata da destra verso sinistra, dirigendosi fuori campo verso una destinazione ignota, senza rispettare la direzione delle frecce bianche dipinte sull’asfalto. L’estetica del frammento raggiunge forse uno dei risultati più lirici del decennio. Godard abbandona lo schema compositivo del tableau vivant e si limita a filmare quello che c’è tra i corpi, ovvero le palpitazioni colorate di un mondo che scorre indifferente davanti alla cinepresa. Un mondo privo di parole e composto di corpi, auto, vento, luce, colori. Queste pulsazioni audiovisive, le stesse che davano al giovane Godard la «sensazione di esistere»81 di cui sopra, costituiscono uno spazio tanto ec81

Jean-Luc Godard, Pierrot amico mio, cit., p. 233.

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centrico quanto quello della Ronda di notte rifatta in Passion. Anche qui ci sono “buchi” e spazi riempiti male, o meglio svuotati di tutto ciò che abbiamo visto sinora, ovvero la carne fragile della Vergine. «Io non sono nulla – diceva Jerzy in Passion – osservo, trasformo, trasferisco». Godard qui fa proprio questo: osserva un gesto mille volte filmato negli anni Sessanta, ovvero la camminata urbana, e lo trasforma in qualcosa d’altro, qualcosa che non imiti necessariamente il vero, ma che nemmeno si ponga in contraddizione con esso. Liberati dal compito di veicolare un’emozione, gli attori sono filmati per quello che sono: macchie di colore bianco (Marie) e blu (Gabriel) su uno sfondo bianco e giallo. Forse, come ha suggerito Alain Bergala, queste inquadrature urbane rinviano nostalgicamente allo spazio «senza dolore» di Tati82. Di certo qui la cinepresa è volta verso una direzione opposta a quella da cui, nel 1979, tutto era cominciato. Dalle panoramiche aeree di Si salvi chi può… la vita siamo passati a una plongée, immobile, sull’asfalto. Godard, insomma, abbassa lo sguardo, come se per vedere fosse necessario non guardare: non a caso presto affiderà la propria pellicola a una montatrice cieca ( JLG/JLG Autoportrait de décembre). Anche Marie, dopo essere stata raggiunta dal saluto di Gabriel, abbassa lo sguardo. Sola nella sua auto, una sigaretta tra le dita, reclina la testaall’indietro per assaporare il calore del sole attraverso il finestrino. La cinepresa ne scruta quella che è indubbiamente la parte del volto prediletta in questi anni, ovvero il profilo: pensiamo ai ritratti di Isabelle Huppert al suo posto di lavoro (Passion) o di Maruschka Detmers e Nathalie Baye davanti alla finestra (Prénom Carmen, Si salvi chi può… la vita). La scelta di questa angolazione mette in crisi la nozione stessa di primo piano. Filmare un volto di profilo, infatti, significa ancora filmare l’anima che vi è dietro (Le petit soldat)? O non è forse un modo per evidenziare l’opacità di uno spazio, quello del volto, che Godard pone al confine tra i due poli suggeriti da Deleuze, il riflessivo (Griffith) e l’intensivo (Ejzenštein)83? Marie pensa a qualche cosa, ma non sappiamo cosa. Mediante una serie di raccordi sull’asse la cinepresa si avvicina al fine di cogliere le increspature di un paesaggio che però, pur filmato come «superficie riflettente», non riflette nulla se non – per dirla con Deleuze – la propria «volteità». I contorni voltificanti, infatti, sono lentamente distrutti, inquadratura dopo inquadratura. Il volto di Marie si rivela allora un volto che sente: sente, 82 83

Cfr. Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 119. Cfr. Gilles Deleuze, L’ immagine-movimento, cit., pp. 109-119.

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probabilmente, un misto di paura e trepidazione davanti a quel rossetto che simboleggia il suo ingresso in una femminilità prima proibita. Ma suddetta intensità non è espressa mediante una qualità intensiva della mimica (si pensi ai volti di Ejzenštejn analizzati da Deleuze), bensì per mezzo di una sfigurazione operata prima dal punto di vista e poi dal montaggio. Si considerino le ultime due inquadrature: un piano ravvicinato del profilo con il fuoco decentrato sulla destra (fig. 31) e un dettaglio della bocca aperta, tesa, mossa da un impercettibile spasmo muscolare (fig. 32). Non so se, come ha suggerito Alain Bergala, Godard abbia voluto «affrontare l’oscenità con un gesto filmico di una violenza ancor maggiore»84. Al di là della metafora sessuale – la bocca come simbolo di un sesso aperto e finalmente disponibile –, mi sembra qui evidente l’eco di uno dei più celebri dettagli s-figurativi di questo cinema, ovvero la tazzina di caffè di Due o tre cose che so di lei, vertice di una sequenza già citata nel capitolo 1. Il volto umano, ovvero l’epicentro della configurazione del quadro nel cinema classico, appare qui decostruito in un’immagine che Paolo Bertetto definirebbe «non strutturata, caotica, acentrata e asignificante»85. In realtà l’informale qui non c’entra, e nemmeno il figurale: questa pratica decostruttiva significa qualcosa e questo qualcosa è la disarmonia tra Io e mondo. Come Marina/Juliette, anche Marie sente il bisogno di recuperare un’armonia tra sé e il mondo che la circonda. Per farlo, come abbiamo visto, deve prima trovare il suo cammino (voie) e suddetto cammino passa certo attraverso la parola (voix), ma anche e soprattutto attraverso lo sguardo. Quello stesso sguardo che, vent’anni prima, trasformava una tazzina di caffè in una galassia sterminata e oscura, nera come questa bocca aperta e muta. Marie ascolta e guarda «intorno a sé il mondo», ma fatica a riconoscerlo come «suo simile, suo fratello». Anche se non parla, le sue domande però sono probabilmente sempre le stesse, quelle suggerite vent’anni prima dalla voce-over di Godard: «Dov’è l’inizio? L’inizio di cosa? Dio creò il cielo e la terra, certo. Ma cosa posso dire di più?». Potenza delle cose Forse di più non è possibile dire. Per questo il dr. Freud tace dopo aver ispezionato il ventre di Marie, il cui concepimento è frutto di una Parola 84 85

Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 120. Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, cit., p. 55.

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più potente di quella a cui Godard dedica, tre anni dopo, un breve ma densissimo86 saggio, commissionato da France Telecom. Ispirato alla novella omonima di Poe (The Power of Words, 1845) ma anche a Defence, un racconto fantastico di Alfred Von Vogt (1947), Puissance de la parole conferma la vena nostalgica di questi anni Ottanta e anticipa i divertissement combinatori del decennio successivo. Ancora una volta non la storia interessa – ammesso che di “storia” si possa parlare – ma la forma della sua percezione. Una percezione che in questo caso si manifesta come «video-vibrazione»87. Sommerso da uno choc di suoni e immagini incrociate come impulsi sonori nella rete telefonica, lo spettatore fatica a seguire il filo di una vicenda come al solito divisa in due: da un lato la conversazione telefonica tra due ex fidanzati, dall’altro la ripetizione di un topos di questo cinema, ovvero il dialogo – non più mediato, ma de visu – tra un filosofo e una ragazza. Se i dialoghi della coppia “telefonica” sono attinti a un cinema che, come questo amore, non c’è più (The Postman Rings Always Twice [Il postino suona sempre due volte, Tay Garnett, 1946]), il tema della discussione in riva al lago riprende, con le opportune variazioni, il dialogo filosofico Oinos e Agathos, i due angeli di Poe. Dall’Angelo agli angeli, il cerchio si chiude. Al cuore della discussione, infatti, è ancora il mistero della creazione, risolto da Agathos con una tesi non dissimile da quella esposta, in Je vous salue, Marie, dall’amante di Eva: La divinità non crea. Solamente all’inizio egli creò. Le illusorie creature che ora, in tutto l’universo, balzano improvvisamente in essere possono unicamente considerarsi risultato mediato e indiretto, non già diretto e immediato, del Divino potere creativo88.

In un determinato momento nel tempo («En ce temps là»), un’intelligenza ordinatrice dunque ha agito, come un Big Bang metafisico. Ma la creazione, ora, è un affare tutto umano. Una questione di impulsi, di particelle, di parole:

Figg. 31-32. Je vous salue, Marie: Decostruzione di un volto.

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86 Come ha ricordato Luc Moullet, non basterebbero sessantanove visioni per comprendere la ricchezza di questo film (cfr. Luc Moullet, Le film cosmique, «Bref», 68, SeptembreOctobre 2005, pp. 38-39. 87 Cfr. Philippe Dubois, Video Thinks What Cinema Creates, in Raymond Bellour, Mary Lea Bandy, Jean Luc Godard: Son + Image, MoMa, New York, 1992, pp. 169-185. 88 Edgar Allan Poe, Potenza della parola, in I racconti, Einaudi, Torino, 2009, pp. 594597. Traduzione di Giorgio Manganelli.

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Le parole e le cose

Agathos: Ti ho parlato, Oinos, come a un fanciullo della vaga terra recentemente perita; degli impulsi sulla sua atmosfera. Oinos: È così. Agathos: E mentre in tal modo io parlavo, la tua mente non è stata attraversata da un pensiero sul potere fisico delle parole? Forse che ogni parola non trasmette un impulso all’aria?

Oinos – che nel frattempo Godard ha trasformato in una donna, M.lle Oinos – è stupito, proprio come Eva. Pensava, in quanto beato, di possedere tutta la conoscenza, allo stesso modo in cui Jerzy si illudeva che nella quiete del set avrebbe facilmente trovato la luce atta a trasformare un’immagine ordinaria (giusto un’immagine) nell’immagine giusta. E invece tutti, da Oinos a Marie, da Joseph a Carmen, devono cercare, «trovare l’apertura», come dice Jerzy. Che cosa intende Jerzy per apertura? Come ha suggerito Rinaldo Censi89, il concetto di «apertura» sembra evocare uno dei capisaldi di questa estetica, ovvero la nozione di “TRA”, l’intervallo aperto dal montaggio a cui abbiamo accennato sopra e sul quale ritorneremo. Alle soglie degli anni Novanta, dunque, Godard conferma di non aver modificato l’orizzonte della sua ricerca, che è sempre lo stesso, quello verbalizzato per iscritto sulle pagine dei «Cahiers» (Montage, mon beau souci): riconciliare regia e montaggio. Non basta insomma trovare l’«apertura» sul set, perché l’immagine non sarà mai forte senza il «battito di cuore» del montaggio, battito di cui Puissance de la parole restituisce pulsazioni, vibrazioni e ritmo. Se le parole tradiscono, insomma, l’unico modo per comunicare è utilizzarle come cose, ovvero in virtù della loro qualità intensiva.

ha un’anima?»), Carmen coglie l’attimo ben sapendo che il suo destino è già scritto e che il mondo – come ha scritto Giraudoux – non appartiene agli innocenti. Le parole, infatti, «uniscono attraverso ciò che esprimono e separano per quello che omettono» (Due o tre cose che so di lei) ma, come ha dimostrato Merleau-Ponty, restano per ora l’unico strumento mediante cui noi ci appropriamo del nostro pensiero e conferiamo senso agli oggetti90. Alle due (anti)eroine allora, elevate verso l’essere e al contempo schiacciate contro il nulla, non resta che condividere la speranza confidata, all’inizio di Grandeur et décadence, dal produttore Almereyda a un regista di nome Bazin: «Credete che un giorno potremo cessare di dire le cose e che potremo finalmente vederle, invece di dirle, queste povere vecchie cose?».

«Bisogna cercare», diceva Jerzy. Carmen e Marie hanno cercato la loro parola, nella speranza che essa potesse permettere di stabilire un legame con le cose. Per dare un nome alle cose hanno dovuto prima ascoltare il loro rumore: il vociare dei gabbiani, lo sciabordio delle onde del mare, l’eco del traffico in lontananza. «Dans Marie il y aimer», dice la madre della protagonista in Le livre de Marie. Ma dell’amore, tanto a Marie quanto a Carmen non resta che l’ombra di un’ombra: per questo Carmen ammette di «aver fatto della solitudine la propria compagna». Se Marie riflette senza trovare risposta al dubbio che la tormenta («L’anima ha un corpo o il corpo 89 Cfr. Rinaldo Censi, The Source of Motion Is Thought (Note su Puissance de la parole), in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, cit., pp. 149-156.

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Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., pp. 244-270.

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C apit ol o 3 Il tempo del ritorno (Histoire[s] du cinéma; Allemagne 90 neuf zéro; Nouvelle Vague; De l’origine du XXIème siècle)

Dalle storie alla Storia Tempo e ritorno sono le parole chiave di un decennio, gli anni Novanta, che comincia con una video-lettera politica (Contre l’oubli, 1991) e termina con una riflessione su di un secolo, il ventesimo, il quale non solo ha prodotto l’Orrore ma lo ha anche filmato (De l’origine du XXIème siècle, 2000). Come ha osservato Bamchade Pourvali1, la produzione degli anni neuf zéro non è che il risultato – tutt’altro che finale – di un percorso teorico iniziato nel decennio precedente, decennio che Godard conclude sotto il segno della nostalgia. Nostalgia di un’immagine giusta, per la quale presto verrà il «tempo della resurrezione» (Re Lear, Hélas pour moi), e soprattutto nostalgia di un cinema «grande e decadente», quello di Ulmer, di Cocteau, di Renoir, per citare solo tre dei maestri omaggiati nella seconda metà degli anni Ottanta. La lavorazione di Je vous salue, Marie impone dei costi imprevisti e allora Godard accetta, con Détective, la prima di una lunga serie di commissioni televisive, funzionali come laboratorio per pratiche narrative poi applicate anche ai lungometraggi più personali.

Tra queste pratiche, prediletta è quella della citazione, mai forse così esasperata prima d’ora. Nell’hotel di Détective, intreccio noir sospeso tra il kammerspiel e il fauvismo2, si agitano corpi attoriali che incarnano fantasmi di un cinema perduto. Se Jean-Pierre Léaud, nella persona del detective Isidore, evoca il protagonista di Baisers volées (Baci rubati, Truffaut 1968), la presenza di Claude Brasseur, aereo taxista in crisi coniugale, non può non rimandare alla leggerezza degli anni Karina (l’attore interpretava Arthur in Bande à part). Oltre a rinviare a testi filmici, questi corpi citano testi letterari oppure, come fa Johnny Hollyday (Jim Warner) con Lord Jim, li tengono in tasca senza leggerli. Scivolando da Shakespeare (La tempesta) a Flaubert (Madame Bovary) e da questi a Sciascia, Godard sembra gettare le basi per quel progetto poi realizzato con Nouvelle Vague: girare un film utilizzando unicamente frasi espunte dalla letteratura preesistente. Offrendosi come luogo dove proiettare desideri nascosti o addolcire, mediante l’identificazione con i personaggi, piccoli e grandi mali di vivere, la letteratura sembra insomma occupare nell’immaginario di questi antieroi uno spazio che il cinema pare aver perduto. Si prenda nuovamente come esempio Détective: la TV di una stanza trasmette classici come La passione di Giovanna d’Arco o Viale del tramonto,, ma nessuno li guarda. Forse perché, come ha osservato Roberto Chiesi3, si tratta di immagini di un’immagine, copie originali alterate dalla scarsa definizione dello schermo televisivo: non immagini giuste dunque, ma giusto delle immagini, deformate anche dalla modalità con cui la cinepresa le guarda, incollandosi allo schermo quasi a voler penetrare la grana del pixel. Se volessimo, come Godard, giocare con le parole, potremmo dire che nel piccolo schermo passano immagini di un cinema passato ma, grazie all’infinita riproducibilità delle sue immagini, sempre presente. Un anno dopo – e mi riferisco a Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma, videosaggio su un film da fare ma anche «macchina per viaggiare nel tempo»4 – un regista che si chiama Bazin (ancora Jean-Pierre Léaud) sceglie la sua attrice solo per una vaga somiglianza con Dita Parlo:

«In Histoires du cinéma 1A Godard dichiara: dire tutte le storie dei film che non si sono fatti. I titoli che enumera sono i seguenti: La condizione umana, Don Chisciotte, Umiliati e offesi, L’educazione sentimentale. Dieci anni più tardi Godard ha girato questi film. La condizione umana definisce JLG/JLG, Don Chisciotte appare in Allemagne neuf zéro e Hélas pour moi mette in scena dei liceali che leggono L’educazione sentimentale». (Bamchade Pourvali, Godard neuf zéro. Les films des années 90 de Jean-Luc Godard, Séguier, Biarritz, 2006, p. 8).

«Si può dire che questo film venga dagli inizi di Kandinsky, dagli inizi del fauvismo. In seguito Freddy Buache mi ha detto che proviene dal Kammerspiel tedesco. Non ci avevo pensato, ma dal momento che era girato interamente in camere d’albergo e dal momento che vi si faceva del teatro!». (Jean-Luc Godard, La guerre et la paix. Entretien avec Serge Toubiana, Alain Bergala, Pascal Bonitzer, «Cahiers du cinéma», 373, 1985). 3 Cfr. Roberto Chiesi, Godard nell’isola dei morti, «Cineforum», 433, pp. 38-41. 4 Alain Bergala, Nul mieux que Godard, cit., p. 55.

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la ragazza, però, non ha mai visto La grande illusion (La grande illusione, Jean Renoir, 1937)… Per questo l’autore porta il proprio corpo e la propria voce dentro questa storia, interrogandosi, assieme all’amico Jean-Pierre Mocky, sul perché un cineasta come Roman Polanski necessiti di due milioni di vecchi franchi per fare un film. Imbarbarimento culturale e crisi del sistema? L’unica soluzione – ci dice il maestro – è ricordare la lezione della Nouvelle Vague, ovvero rinnovare modi e forme del linguaggio. Questo vuol dire, per esempio, rinunciare alla telecamera nel momento del casting (Grandeur et décadence), oppure inventare una storia, filmarla e montarla in una sola giornata (Cura la tua destra). Snaturato dal pixel, ridotto a un petit commerce e asfissiato, come vedremo, dalla «moneta dell’assoluto» (Histoire[s] du cinéma), il cinema resta comunque il territorio di indagine prediletto dal pensiero godardiano. Ne sono conferma i lungometraggi in 35mm che chiudono il decennio, ovvero Re Lear e Cura la tua destra, testi sintomatici di quel piacere per la polverizzazione del racconto che caratterizzerà tutte le opere degli anni Novanta. Da un lato un (falso) adattamento scespiriano, dall’altro un omaggio al burlesque di Tati (Soigne ton gauche). Che cos’hanno in comune questi due saggi? L’immagine – firmata in entrambi i casi da Caroline Champetier, ex direttrice della fotografia per la coppia Straub-Huillet – e soprattutto quel motivo, ispiratore anche di Grandeur et décadence, che si conferma davvero il filo rosso degli anni Ottanta: il cinema nel cinema. Secondo quanto dichiarato dall’autore, Cura la tua destra segnerebbe però l’ultima variazione su questo tema:

È questa l’ultima sfida di Godard: spingere il linguaggio cinematografico oltre il territorio della narratività fino a confondere documento e finzione e raggiungere quella “zona morta” dell’espressione audiovisiva al di là della quale, come hanno osservato Alessia Cervini, Alessio Scarlato e Luca Venzi, forse «non c’è più cinema»7. Sul finire degli anni Ottanta – è il 1988 – escono le prime quattro sezioni (1A, 2A, 1B, 2B) delle Histoire(s) du cinéma, monumento multimediale a un secolo, il Novecento, e soprattutto a quell’arte che questo secolo avrebbe dovuto documentare e che invece forse ha solo raccontato: il cinema. Sempre più icona di una libertà sperimentale che non pregiudica prestigiosi ruoli istituzionali8 e decostruisce ogni forma di committenza pubblicitaria9, Godard scende con il montaggio “nel nero del tempo”. Il tempo in questione è il tempo del ricordo, ovvero il tempo che «c’è stato»10, ma anche il tempo inteso come ritmo, spazio nero tra le inquadrature, battito di ciglia tra i tasti della macchina da scrivere. Tu non hai visto nulla ad Auschwitz Consideriamo innanzitutto il metodo utilizzato per questa recherche, incerta tra il racconto, il saggio e l’autobiografia. Godard fa come Elle,

5 Jean-Luc Godard in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema non è il cinema, cit., p. 208. 6 Si pensi al caso Re Lear, definito nel primo dei titoli di testa «uno studio, un avvicinamento, una cancellazione». Del progetto originale, finanziato dalla Cannon Film,

mancano la storia infatti e le stelle (Woody Allen, Norman Mailer, Sting), ma restano le cicatrici della Storia: William Shakespeare Junior deve recuperare le opere perdute dell’antenato distrutte dalla catastrofe nucleare di Chernobyl. 7 Alessia Cervini, Alessio Scarlato, Luca Venzi, Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoires du cinéma di Jean-Luc Godard, cit., p. 8. 8 Mi riferisco alla scelta, da parte di Jack Lang, di Godard quale collaboratore per la creazione di Péripheria, ambizioso progetto di un centro di ricerche di immagine e video destinato, in particolare, a costituire un laboratorio di sperimentazione per i giovani della Fémis. 9 Penso a videosaggi come Puissance de la parole, Closed e Le rapport Darty, variazioni su un tema, la comunicazione nel marketing aziendale, già abbordato negli anni Sessanta con Due o tre cose che so di lei e Masculin féminin (Il maschio e la femmina, 1966). In Le rapport Darty, in particolare, anziché obbedire ai precetti della committenza, Godard riflette sulle conseguenze antropologiche della mercificazione capitalistica e lo fa come sempre per accumulazione (citazioni da Bataille, Rousseau, Marx e molti altri), e conflitto: le immagini di un punto vendita Darty, per esempio, sono sovraimpresse ad alcune scene di Perceval le Gallois (Perceval, Éric Rohmer, 1978). 10 Queste le parole pronunciate dall’autore intento a battere i tasti della sua macchina da scrivere: «Toutes les histoires qu’ il y aurait, qu’ il y aura… qu’ il y aurait ou qu’ il y aura? Qu’ il y a eu» (Tutte le storie che ci sarebbero, che ci saranno… che ci sarebbero o che ci saranno? Che ci sono state).

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Ho terminato con i miei film sul cinema. Ho trattato la sceneggiatura e gli attori in Il disprezzo, […] poi c’è stato Passion, e in Grandeur et décadence ho affrontato l’aspetto economico. Questa volta parlo della proiezione e mi sembra che, a parte Buster Keaton, nessuno ne abbia mai parlato5.

Si tratta di film, quelli scritti da Shakespeare junior (Re Lear) o dall’Idiota (Cura la tua destra), interrotti, frammentati, aperti. Perché, come ci ha insegnato Passion, prima di scrivere bisogna trovare l’immagine e non si può narrare una storia senza al contempo raccontare la Storia6.

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l’eroina di Hiroshima mon amour (Id., 1959), ovvero combina materia (immagini fisse, mobili, mute e sonore) e memoria (la sua). «Le fotografie, le fotografie, le ricostituzioni; in mancanza di altro», diceva la voce acusmatica di Emmanuelle Riva, errante nelle sale del museo di Hiroshima. A differenza di Ulysse e Michel-Ange (Les carabiniers, 1963), Godard non è un testimone diretto della Storia che racconta. Non è mai stato a Hiroshima o ad Auschwitz. Eppure, come Elle, ha «visto tutto». E non si accontenta di vedere. Cerca soprattutto di “far vedere”. Come quello di Hiroshima, questo museo audiovisivo, pur immaginario, testimonia dell’Orrore. Ma l’Orrore che interessa, l’evento a partire dal quale Godard rilegge tutta la storia del secolo, non sono le conseguenze dellaSeconda guerra mondiale (Hiroshima) quanto l’Olocausto, forse il tabù visivo per eccellenza del secolo scorso11. Contrariamente a Claude Lanzmann, che in Shoah (Id., 1985) affida solo alla parola (dei sopravvissuti) la missione testimoniale, Godard ritiene e dimostra che tutte le immagini parlano di questo Orrore, anche se non lo verbalizzano direttamente. L’unica immagine atta a riempire questo vuoto, allora, è quella che Georges Didi-Huberman ha definito «immagine-montaggio», un montaggio che «fa turbinare i documenti, le citazioni, gli estratti di altri film verso un’estensione mai coperta: montaggio centrifugo, elogio della velocità»12. Accanto ai corpi levigati dei divi, questo montaggio accosta quelli, umiliati e offesi, delle vittime dei campi di concentramento. Il visibile, ovvero la luminosità della finzione, è dunque contrapposto all’invisibile, ovvero all’oscurità di un reale rimosso a lungo e filmato, in ritardo, da George Stevens (Nazi Concentration Camps, 1945). «Tu non hai visto nulla» ad Auschwitz – sembra dirci Godard parafrasando Resnais – fino al momento in cui l’occhio della cinepresa non si è aperto sulle carcasse accatastate tra l’erba ghiacciata o sulle migliaia di scarpe e oggetti personali assembrati nei cunicoli del lager. Dove non c’è sepoltura non c’è traccia e dunque neppure memoria13.

Come ha osservato Alessio Scarlato, «Auschwitz è l’evento nel quale il testimone è annullato»14 e per testimoniare non basta rappresentare icone già viste, come quella del bambino a mani alzate nel ghetto di Varsavia. È necessario che il montaggio, regolato dal «metodo del TRA» di cui sopra, sfondi la superficie della fotografia facendola reagire con un fotogramma lontano e al contempo vicino, in modo tale che il loro accostamento produca quella che Pierre Reverdy, già citato in Re Lear e poi in JLG/JLG15, definiva un’immagine «forte»: «L’immagine non può nascere da una comparazione ma da un accostamento tra due realtà più o meno lontane. Più i rapporti delle due realtà accostate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte». L’immagine dei sommersi, insomma, non potrà influenzare in alcun modo il futuro dei salvati se suddetti documenti non saranno decostruiti e invitati a significare altro rispetto al fatto di cui sono testimoni, a quell’hic et nunc catturato da un obiettivo fisso o mobile: il passato ha senso solo se riattivato criticamente nel presente16. Seduto al suo tavolo di montaggio, Godard unisce allora per analogia due sguardi off, entrambi impietriti di paura: quello di un’anonima ragazza del ghetto e quello di una diva, la Dorothy McGuire di The Spiral Suitcase (La scala a chiocciola, 1946), capolavoro di Robert Siodmak, ebreo scampato per miracolo all’Olocausto e dunque volto a esorcizzare la Storia raccontando delle storie. Godard in questo senso va nella stessa direzione perseguita da Miró, Picasso o Fautrier, autori di montaggi funzionali a «strappare l’immagine all’impossibile descrizione di un reale»17: triturare l’irrappresentabile affinché da esso scaturisca una voce, un grido, una testimonianza. «Quando si crede di esprimere l’individuale, invece si dice l’universale», afferma Godard nel suo Autoportrait de Décembre. Fin dagli anni Karina, in effetti, l’autore ha sempre raccontato la Storia, mettendo in bocca ai suoi

Sul tema dell’infilmabilità della Shoah si vedano, tra gli altri: Maurice Blanchot, L’ écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; Barbie Zelizer (ed.), Visual Culture and the Holocaust, Rutgers University Press, New Brunswick, 2001; Vincent Lowy, L’ histoire infilmable. Les camps d’extermination nazis à l’ écran, L’Harmattan, Paris, 2001; Claude Lanzmann, Holocauste, la répresentation impossibile, «Le Monde», 3 Mars 1994, I, p. 8. 12 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, tr. it Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, p. 159. 13 Sulla relazione, al contempo affettiva e intellettuale, di Jean-Luc Godard con la cultura ebraica si veda Maurice Darmon, La question juive de Jean-Luc Godard: filmer après

Auschwitz, Temps Qu’il fait, Cognac, 2011. Analizzando il pensiero per immagini delle Histoire(s), Darmon mette in evidenza come l’orrore dell’Olocausto costituisca il «cuore profondo» non solo dell’arte, ma anche della volontà morale del cineasta. 14 Alessio Scarlato, Un’oscura fedeltà per le cose cadute, in Alessia Cervini, Alessio Scarlato, Luca Venzi, Splendore e miseria del cinema, cit., p. 77. 15 Sei sono in totale le opere “attraversate” da questa citazione: Passion, Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma, Re Lear, On s’est tous défilés e Histoire(s) du cinéma4b, JLG|JLG. 16 Sulla funzione trasfigurante del montaggio delle Histoire(s) si veda Francesco Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità, Mimesis, Milano, 2013, pp. 86-99. 17 Cfr. Georges Didi-Huberman, Immagini, malgrado tutto, cit., p. 158.

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antieroi riflessioni su questioni delicate del loro presente come il Vietnam (La cinese), l’alienazione della società dei consumi (Due o tre cose che so di lei), la prostituzione (Questa è la mia vita), in ossequio alla teoria del film “po”: poetico, poliziesco e politico. Questa volta però il narratore dà alla cosa che racconta il suo nome (Histoire), anche se naturalmente si guarda bene dal disegnarne i contorni. Il modello, naturalmente è Bresson: «Non mostrare tutti i lati delle cose. Un margine di indefinito»18. Con questo ammonimento, pronunciato da una voce over sincronizzata su un fotogramma di Mr. Arkadin (Rapporto confidenziale, Orson Welles, 1955), comincia Toutes les Histoires, il primo capitolo del saggio (1A), dedicato a toutes les histoires di un’arte intesa al contempo come splendore e miseria. Il margine di indefinito è già contenuto nel titolo. Utilizzato sia per la versione video che per quella cartacea dell’opera, il titolo conserva infatti, grazie alla declinazione plurale (s), quella dualità così familiare ai personaggi degli anni Ottanta, tutti alla ricerca – lo abbiamo visto – di aperture e varchi contro la «ripetizione» e il «nulla». E così, per esempio, la morte di Desdemona nell’Othello di Welles (Otello, 1952), precederà solo di pochi secondi – prima di essere dissolta in un dettaglio di La battaglia di San Romano (Paolo Uccello) – la fotografia di un cadavere scarnificato nel Rwanda (3A, La monnaie de l’absolu). Un’immagine, quest’ultima, a sua volta sovrimpressa a una riproduzione della Pietà di Délacroix (1837): da una storia alla Storia, ma anche dal cinema al reale passando attraverso la pittura (Figg. 33-36). Se i film pensano, i documenti parlano e lasciarli parlare – ovvero inserirli nel collage audiovisivo come oggetti trovati della memoria – significa salvare il reale dall’oblio. Per farlo è necessario raccoglierne le impronte (immagini d’archivio, ma anche immagini private)19, e soprattutto i riflessi di queste impronte (immagini di finzione). Godard parafrasa il seguente aforisma di Robert Bresson: «Ne pas montrer tous les côtés des choses. Marge d’indéfini» (in Robert Bresson, Note sul cinematografo, tr. it. Marsilio, Venezia, 1986; 2008, p. 95). Questa “nota” risuonerà qualche anno dopo anche in Hélas pour moi, per bocca dell’albergatrice che aiuta Abraham Klimt, il narratore, a dipanare i fili della storia di Rachel e Simon. Mentre il sosia di Simon possiede Rachel, lo schermo diventa improvvisamente nero. Klimt è inquieto («Non vedo nulla, signorina»), ma la ragazza lo rassicura: «Mantenga un margine di indefinito». Non c’è immagine, e dunque storia, senza confronto con il nulla (il buio). 19 Penso alla fotografia di Godard diciottenne su cui si sofferma per diversi minuti la cinepresa all’inizio di JLG/JLG. 18

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Figg. 33-36. Histoire(s) du cinéma 3a – La monnaie de l’absolu: la morte al lavoro.

Nel mondo dei morti abitano volti familiari (Roberto Rossellini, François Truffaut, Henri Langlois) e volti senza neanche un nome, corpi che il cinema, seppur con tragico ritardo, ci ha reso prima noti e poi, mediante la reiterazione operata dal medium televisivo, familiari. E, come il passato secondo Christa Wolf, questi corpi non sono “passati”, ma pulsano nel caleidoscopio delle Histoire(s) in ordine sparso: Auschwitz e Mostar (la Storia) accanto, quando non sovraimpressi, a Welles o Paolo Uccello (le storie). Si decifra meglio ora il senso dell’esagramma mistico di cui sopra (JLG/JLG): la Storia è fatta di proiezioni incrociate. La solitudine plurale20 Ritorniamo sull’immagine di apertura. Il fotogramma di Rapporto 20 Questo paragrafo e i due successivi riprendono, con opportune integrazioni, la struttura di L’ inconsolable mémoire de Jean-Luc Godard, un articolo da me pubblicato in «AAM·TAC» Technology, Aesthetics, Communication 6·2009, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma, pp. 31-38. Si ringrazia per la gentile concessione Fabrizio Borin.

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Capitolo 3

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Fig. 37 Histoire(s) du cinéma 1a: Toutes les histoires

confidenziale (Fig. 37) rinvia a un’altra inquadratura dello stesso film (un primo piano di Orson Welles mascherato da Arkadin) scelta dall’autore vent’anni prima per introdurre, nell’edizione originale della rivista, il celebre articolo Montage, mon beau souci, tentativo di risolvere una delle dispute teoriche più accese nei «Cahiers» della gestione Bazin, la contrapposizione tra regia e montaggio. Il volto di Mr. Arkadin altro non è che il prodotto di un montaggio interno, atto a modificare la fisionomia dell’attore/regista mediante la giustapposizione della maschera sulla pelle. La prima delle histoires “raccontate” è dunque la storia del loro autore, per il quale scrivere di cinema significava già, probabilmente, scrivere la storia del cinema. «Il montaggio annuncia e prepara la regia nel momento in cui la nega»21, annota il giovane Godard, intenzionato a dimostrare, in ossequio alla dottrina dei Mac-Mahoniens, che il film di Welles è un modello di regia perché è un modello di montaggio. Jean-Luc Godard, Montage mon beau souci, «Cahiers du cinéma», 65, 1956, tr. it. di Adriano Aprà in Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 58.

Si prenda in esame il testo originale dell’articolo e si consideri la modalità di impaginazione. Sopra queste parole, infatti, campeggiano non uno ma due fotogrammi: il volto di Welles di cui sopra e un frammento di Spite Marriage (Io e... l’amore, Edward Segdwig, 1929), ultimo film muto di Buster Keaton, raffigurante proprio il volto truccato del performer. Welles vs Keaton, sonoro vs muto, iperbole vs sottrazione, e potremmo continuare: tra scrivere e dirigere la differenza non esiste perché entrambe sono arti del montaggio. A differenza di Bazin, sostenitore di un’ontologia realistica fondata sul principio della continuità spazio-temporale, Godard rivela fin dai primi scritti uno sguardo più storico che critico: le histoires du cinéma cominciano sulle pagine dei «Cahiers» e non è un caso se nella versione cartacea del suo museo l’autore riprenderà tecniche di impaginazione come quella analizzata. Ma torniamo a Rapporto confidenziale. Il personaggio di Welles è inquadrato nell’atto di guardare qualcosa attraverso una lente: per scrivere la Storia, sembra dirci Godard, bisogna innanzitutto imparare a vedere. La s aggiunta alla parola Histoire conferisce al soggetto in questione una pluralità che, ha osservato Céline Scémama22, non è solamente visiva. Non una, infatti, ma infinite storie si affacciano alla mente di colui che, agitando le dita su una macchina da scrivere, cerca di sistemare il tempo del ricordo: le storie raccontate dal cinema, le storie potenziali nascoste in ogni inquadratura, ma anche le storie dei film incompiuti e quelle dei loro narratori, senza dimenticare che ogni storia si arricchisce dei contenuti che il singolo spettatore (Godard in primis) proietta sulla superficie dello schermo. Le Storie del cinema sono dunque infinite ma anche indefinite, ovvero confuse tra il documento e la finzione, erranti tra la testura della pellicola e la memoria del narratore, ammesso che Histoire(s) du cinéma possa essere considerata un’opera narrativa. Il bressoniano «margine di indefinito», allora, non ha tanto valenza spaziale quanto temporale. Scrivere la Storia significa confrontarsi con il tempo, ovvero fermarlo, guardarlo e, se possibile, raccontarlo. Non è un caso che all’inizio del primo volume (Toutes les histoires) compaia un fotogramma di Rear Window (La finestra sul cortile, Alfred Hitchcock, 1954: fig. 38) carico di suggestioni metalinguistiche. Stagliato su un inedito fondo nero, James Stewart guarda oltre il teleobiettivo della sua macchina fotografica, lo strumento che, secondo quanto si apprende in queste Histoires, ha permesso di concretizzare il sogno della pittura impressionista: catturare il reale nel suo hic et nunc.

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Cfr. Céline Scémama, Histoire(s) du cinéma. La force faible d’un art, cit., pp. 9-13.

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Fig. 38. Histoire(s) du cinéma 1a – Toutes les histoires: una storia dell’occhio.

«È possibile raccontare il tempo, il tempo in sé stesso, come tale?», si chiede Godard nel capitolo 2B (Fatale Béauté). La risposta non tarda ed è la stessa che, qualche anno prima, si era dato anche Jerzy (Passion): il solo modo di raccontare il tempo è raccontare una storia. Magari anche una storia privata perché, come suggerisce uno dei tanti refrain visivi che punteggiano l’opera, nel cuore della parola Histoire si nasconde un intimo toi. E La Storia? È possibile redigerla o quanto meno raccontarla? La posizione di Godard tradisce echi del pensiero esistenzialista: il secolo del cinema è il secolo della barbarie, ovvero un secolo senza Storia intesa come evoluzione e progresso. Di fronte all’orrore dell’Olocausto il cinema sarebbe rimasto impotente: «Il cinema ha annunciato i campi di concentramento: vedi La règle du jeu (La regola del gioco, Jean Renoir, 1939) o The Great Dictator (Il grande dittatore, Charlie Chaplin, 1940). Però non li ha mostrati. È stata la letteratura a farlo. Il cinema è venuto meno al suo compito, ha fallito la sua missione»23. Per missione, naturalmente, Godard non intende semplicemente la documentazione dell’evento

– ciò che hanno fatto, tra gli altri, George Stevens e Alain Resnais –, ma la critica dell’evento documentato. Le cose sono lì, ma per scrivere la Storia non è sufficiente filmarle. È necessario liberare tutte le forze e le voci nascoste nelle immagini, soprattutto se queste voci sembrano evocare altre voci, passate o future: si pensi alla dissolvenza incrociata su un’inquadratura di un film di Paul Leni (The Cat and the Canary, 1927), immagini di aerei da guerra abbattuti e la fotografia dei cadaveri insanguinati di tre africani, uccisi da chissà quale guerra in chissà quale paese (Seul le cinéma, 2A: figg. 39-41). Poiché è sopravvissuto, l’«occhio del Novecento» (Casetti) ora può svolgere la sua funzione di testimone: portare alla luce quei frammenti di Storia rimasti, per citare uno degli ultimi lavori del regista, nel «nero del tempo» (Dans le noir du temps). Non a caso gli unici anni menzionati nell’opera sono quelli che vanno dal 1940 al 1944, anni documentati con frammenti d’archivio spesso troppo brevi per essere identificati. Il tentativo di raccontare la Storia si infrange proprio contro le onde anomale delle storie private di quelli a cui la Storia non ha dato voce (i sommersi) e di quelli che invece della Storia fanno parte proprio perché hanno saputo raccontare delle storie: Flaubert, Mann, Proust, ma anche Hitchcock, Lang, Griffith. Dunque, in base a quanto affermato, cercando di scrivere la Storia ci si trova di fronte anche alla storia del cinema, arte che Godard definisce «la grande storia»24, perché, a differenza delle altre, può proiettarsi anziché ridursi. Secondo Monica Dall’Asta, però, una storia del cinema è irrealizzabile perché il cinema è già, esso stesso, storia. Progettare (projeter) la sua storia, in altri termini, significherebbe immaginare di proiettare (projecter) la storia del cinema: la riproduzione totale delle miriadi di registrazioni incapsulate nella pellicola e in tutti gli altri differenti supporti tecnici di cui il cinema è qui l’emblema 25.

Scrivere la storia del cinema, inoltre, significa confrontarsi anche con il problema del racconto, visto che, come Godard ci ricorda nella sezione 1B (Une histoire seule), molto presto il cinema è diventato conteur: «Il cinema proiettava e gli uomini hanno visto che il mondo era là. Un mondo quasi senza storia, ma un mondo che racconta». Se l’impotenza narrativa è forse il filo rosso che lega tutti gli ultimi lavori del regista, non per questo egli si esclude dalla Storia del cinema, anzi: vi Jean-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, Gallimard, Paris, 1998, vol. II, p. 85. Monica Dall’Asta, La storia impossibile. Ancora sulle Histoire(s) du cinéma, «La Valle dell’Eden», Dossier Cinema e Storia, VI, 12-13, luglio-dicembre 2004, p. 29.

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Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 271.

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affetti passati e presenti. Anne-Marie Miéville, compagna d’arte e di vita dalla fine degli anni Settanta, è uno dei ritratti “musicati”, all’inizio del capitolo 4B (Le contrôle de l’univers), dal Psaume pour une voix di Paul Valéry, omaggio alla voce dolce e flebile (quella femminile) che dice «d’importantes, d’étonnantes, de profondes et justes choses»26. Sulla rappresentazione del femminile in Godard torneremo più avanti. Tre sono dunque i protagonisti di queste Histoire(s): il Tempo, inteso come non-luogo della memoria, il Racconto, ovvero la messa a morte di questo tempo (il film è punteggiato dal rumore dei tasti della macchina da scrivere) e il soggetto del racconto stesso, Jean-Luc Godard. In realtà, come ha scritto Céline Scémama, «Godard non ci racconta la storia del cinema, perché solo il cinema racconta. Il cineasta è onnipresente nell’opera ma non espone mai il suo nome: l’io del cinema si è sostituito all’io del cineasta»27. Nel dipanare i fili della propria memoria spettatoriale questo narratore senza nome – ma non senza volto: lo intravediamo più volte nella penombra del suo studio – affida alla propria voce il compito di riprodurre ciò che, come «la vera immagine del passato» secondo Benjamin28, lampeggia davanti agli occhi una volta sola. Lo spettatore perde facilmente una frase o una parola scritta, ma ha il tempo di riascoltarla o rileggerla. Perché la voce di Godard ripete, l’occhio (ri)guarda, le inquadrature dei film citati ritornano amputate secondo variazioni imprevedibili, tanto plastiche (viraggi, ingrandimenti, decolorazioni, aperture a iris) quanto temporali (ralenti, accelerazioni del montaggio). E così un celebre quadro di Fängelse (Prigione, Ingmar Bergman 1949) lampeggia a più riprese in Une histoire seule, mutando – in relazione all’immagine sulla quale è raccordato – non solo nei valori luministici, ma anche nel suo contenuto29: con le forbici di historien l’autore separa i due volti in due quadri distinti, come se partecipassero a due diverse visioni. Nel puzzle di fotogrammi impressi su altri fotogrammi e inquadrature

entra raccontando anche la sua storia. E così ai volti mummificati nei film amati – da Harriet Andersson (Sommarek med Monika [Monica e il desiderio, Ingmar Bergman, 1952]) a Kim Novak (Vertigo [La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock 1957]) – si intrecciano quelli, altrettanto familiari, degli

«Importanti, sorprendenti, profonde e giuste cose». Scolpiti in un bianco e nero che Godard concepisce come il colore del lutto, scorrono muti i volti di Simone Weil, Hannah Arendt, Camille Claudel, Virginia Woolf, Colette, Sarah Bernhardt e Lou Andreas-Salomé. Sulla loro pelle si alternano in carattere maiuscolo gli otto titoli di queste Histoire(s). Queste donne, che hanno scritto delle storie, sono ora scritte dalla Storia. 27 Céline Scémama, Histoire(s) du cinéma, cit., p. 10. 28 «La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato»: Walter Benjamin, Angelus novus, cit., p. 77. 29 Un uomo e una donna, in mezzo busto frontale, guardano davanti a sé le immagini di un film nel film. La quinta parete dello schermo trasforma il soggetto in oggetto della visione.

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Fig. 39-41. Histoire(s) du cinema 2a – Seul le cinéma: troppo falso, troppo vero.

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“dissolte” in fotografie o dipinti, ciò che resta è la sensazione del riproducibile. Direi di più: Godard sembra suggerire che tutto sfugge proprio perché tutto è riproducibile, quanto meno tutto ciò che è stato catturato dall’obiettivo della cinepresa. Nella sua «solitudine plurale»30 il narratore si comporta allora come un demiurgo che manipola a suo piacimento ciò che ha perduto la propria aura, prolungando, mediante il flusso di immagini non create ma viste31, la forza del ricordo. Ha ragione Frédéric Hardouin: «L’atto del ricordo creato dal cinema stabilisce a priori la distanza del tempo, separando l’emergenza del fatto storico dal semplice ricordo di esso. Dietro questa operazione, però, si disegna a posteriori un’abolizione del tempo32. Se il tempo è abolito, saltano anche le categorie predilette dallo storicismo novecentesco, ovvero il prima e il dopo. Il viaggio delle Histoire(s) si conclude sulla superficie rugosa di due occhi, confusi da una dissolvenza incrociata: l’occhio ingrandito dalla lente di Rapporto confidenziale e quello sezionato dalla lama di Un chien andalou (Id., Luis Buñuel, 1929). Tutto finisce laddove era cominciato. Al riparo dal tempo Tra i numerosi numi tutelari dell’autore – da Faure a Proust, da Foucault a Péguy: l’elenco è lunghissimo – Walter Benjamin è forse il più influente, o quanto meno quello più scomodato dalla critica33. Poiché la Storia, come suggeriscono le “Tesi” di Angelus Novus, non va intesa come un blocco di tempo cronologico bensì come insieme di frammenti in attesa di redenzione nel presente, l’unica soluzione per riuscire a scrivere la Storia è quella di chiudere gli occhi e attingere al proprio museo immaginario, applicando al linguaggio audiovisivo l’approccio comparatistico di André Malraux34

ma anche il metodo antistoricista proposto da Benjamin nelle suddette Tesi. Monica Dall’Asta ha ragione: come il Passagen-Werk, anche le Histoires du cinéma sono un montaggio di citazioni e la «vera immagine del passato» plasmata da Godard altro non è che un effetto di montaggio35. Pittura, letteratura e musica sono solo alcuni dei linguaggi che Godard fa interagire con centinaia di frammenti espunti da altrettante opere della storia del cinema, tra le quali compaiono anche film perduti (Hollywood, James Cruze, 1923) o incompiuti (The Merchant of Venice, Orson Welles). I film citati sono circa quattrocento e a essi sono mescolati poco più di cento brani estratti da opere letterarie (da Dostoevskij a Duras), testi filosofici (tra cui Albert Camus, Wittgenstein, Heidegger) e, naturalmente, saggi cinematografici. Così, oltre a quelle di Bresson, entrano nella Storia le parole confidate da Rossellini a Rivette («Le immagini sono là, perché manipolarle?») e la vis polemica del Truffaut di «Arts» (Il cinema francese muore sotto false leggende)36. Il risultato è un caleidoscopio di oltre quattro ore che sfida l’attenzione dello spettatore, impossibilitato a fermare l’occhio su un apparato visivo composto di parole scritte/riproduzioni di quadri/fotogrammi/fotografie e l’orecchio su un magma sonoro intessuto di voci-over, dialoghi di film “fuoricampo” e brani musicali alquanto eterogenei (un centinaio circa, da Bach a Leonard Cohen). Nulla a che vedere, dunque, con l’esperienza accademica dell’Introduzione alla vera storia del cinema37, tentativo di scrivere la storia del cinema sostituendo all’architettura cronologica un sistema di relazioni puramente estetiche tra film dello stesso Godard e capolavori del passato. La struttura logica che reggeva il testo scritto esplode ora in un monumento audiovisivo privo di qualsiasi ordine tematico, formale o narrativo, obbediente piuttosto – ha notato Céline Scémama – al principio bressoniano dell’«espressione per compressione»38. Se Bresson invitava a mettere in un’immagine ciò che

30 «L’Io di Godard – ha scritto Céline Scémama – si sostituisce a tutte le storie e si sostituisce anche a tutte le solitudini. Perché la solitudine è plurale qui. […] Il cineasta/storico lascia che la forma pensi da sola e si dichiara solo, perduto nei suoi pensieri». Céline Scémama, La force faible d’un art, cit., p. 60. 31 Con l’eccezione dell’intervista a Serge Daney, le sole immagini “create” da Godard sono in realtà inserti sonori. Mi riferisco ai brani espunti da testi letterari e letti in voce off di Alain Cluny, Sabine Azéma, Julie Delpy e Juliette Binoche. 32 Fréderic Hardouin, Le cinématographe selon Godard, cit., p. 33. 33 Per un’analisi approfondita delle affinità del progetto godardiano con la teoria della Storia di Walter Benjamin si veda Monica Dall’Asta, La storia impossibile, cit. 34 André Malraux (Le musée imaginaire, 1965 e La métamorphose des dieux, 1957) è stato

il primo a concepire l’idea di accostare al testo scritto – in questo caso una storia delle arti visive – un paratesto composto da riproduzioni fotografiche dei capolavori pittorici e architettonici, scelti anche in base alla memoria personale dell’autore. 35 Cfr. Monica Dall’Asta, La storia impossibile, cit., p. 111. 36 Con la licenza poetica che spetta a ogni artista, Godard si permette di “riscrivere” la storia della Nouvelle Vague. Gli unici due titoli citati come simbolo di quella che secondo l’autore è l’atto conclusivo della storia del cinema sono Les quatre-cent coups (I quattrocento colpi, François Truffaut, 1959) e Adieu Philipine (Id., Jacques Rozier, 1958). 37 Nell’Introduzione alla vera storia del cinema sono raccolte le lezioni tenute da Godard all’Università di Montréal nel corso dell’anno 1978-1979. 38 Cfr. Céline Scémama, La force faible d’un art, cit., p. 122-123.

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in letteratura sarebbe diluito in dieci pagine,39 Godard inserisce in una sola inquadratura una moltitudine di elementi e registra le infinite modalità della loro reciproca combinazione, a seconda che le forze di attrazione in gioco siano cromatiche, grafiche, narrative o musicali. Manipolare le immagini del passato appare all’autore una delle soluzioni più efficaci per superare quel senso di vuoto tipico, secondo Benjamin, del moderno, tempo in cui l’uomo sembra aver smarrito la capacità di liberarsi dalla tirannia del continuum. Uno smarrimento, questo, che Godard tramuta in rabbia, come attesta la voce over in Les signes parmi nous: Sì, del nostro tempo sono il nemico sfuggente. Sì, il totalitarismo del presente come lo si applica meccanicamente ogni giorno più opprimente a livello planetario, questa tirannia senza volto che cancella tutti per il profitto dell’organizzazione sistematica del tempo unificato dell’istante.

Allo stesso modo, come leggiamo nell’intervista concessa dall’autore a Alain Bergala, il cinema contemporaneo «non cerca di vedere il mondo, ma di dominarlo»40. Essere «nemici del proprio tempo» significa pensare la Storia come successione di discontinuità dove l’istante funge da transitorio recupero del passato. Il «nostro tempo», dice Godard, vuole abolire il Tempo. Ecco che il cinema si offre come «riparo del tempo», memoria collettiva in grado di salvaguardare ciò che Benjamin intende per tradizione, ovvero l’atto di conservare nel ricordo e nell’esperienza ciò che è passato e in quanto tale minacciato di perdita. Come la vita, il cinema subisce le ferite del tempo e non è al riparo da esso: appare piuttosto il riparo del tempo. L’immagine cinematografica è fragile in quanto costantemente minacciata da un nulla che – sono parole di Godard – «soggiorna accanto ad essa» (Les signes parmi nous) e si pone come conditio sine qua non della sua esistenza. Ma che cos’è questo nulla («Néant») se non l’oblio? Non c’è Storia allora, e tanto meno storia del cinema, senza produzione di Memoria. Per ricordarsi di se stesso il cinema si affida a quelli che Jacques Aumont ha definito i «modi della sua memoria»41, il più efficace dei quali è forse il montaggio. In questo senso le Histoire(s) sono l’apoteosi del montaggio godardiano. Finalmente messo a nudo – penso al dettaglio della pellicola che scorre su una

moviola, ripetuto più volte negli otto capitoli –, il montaggio “cinematizza” gli inserti pittorici e permette di rielaborare le sequenze dei film citati, lasciando così al cinema il compito di raccontare il cinema. Si consideri, per esempio, l’incipit del capitolo 1A. Mentre il narratore batte sui tasti il titolo di un film riconosciuto anche dalla storiografia accademica (La regola del gioco), sullo schermo si alternano, in un montaggio parossistico, un’inquadratura di Modern Times (Tempi moderni, Charlie Chaplin 1936), un primo piano di Chaplin tratto da un documentario di Kevin Brownlow (Unkonwn Chaplin, 1983) e un fotogramma estratto da un noir di Fritz Lang (Beyond a Reasonable Doubt [L’alibi era perfetto, 1956]): un accostamento di corpi e spazi quanto meno incongruo, per il quale inutile è cercare una logica narrativa. Più opportuno – e Godard questo fa – è rileggere le Note sul cinematografo di Bresson, laddove si invita ad accostare cose che non sono ancora state accostate e soprattutto a fare in modo che «immagini e suoni si intra-tengano da lontano e da vicino. Niente immagini, niente suoni indipendenti»42. Ognuno di questi frammenti rinvia a una storia che rimane muta, fuori campo, sommersa dall’oblio. «Voglio mostrare – sussurra Godard nel finale dell’ultimo capitolo – un orecchio che ascolta il tempo». La microsequenza presa in esame ci offre letteralmente la possibilità di ascoltare il rumore del tempo che scorre al ritmo delle dita su una tastiera. Vengono in mente i cine-pugni con cui Ejzenštejn riproduceva il ritmo dei colpi di cannone o il climax della violenza nelle scene di massa. Mi sembra, allora, che una delle chiavi interpretative delle Histoire(s) si possa rinvenire nello slancio estatico che agita il ritmo del montaggio. A Godard, infatti, interessa restituire la fisicità dell’atto mediante il quale la memoria rielabora i ricordi e li fissa sulla carta e/o sulla pellicola. Le pulsazioni di questo montaggio danno allo spettatore la sensazione di toccare con i sensi, pur spaesati43, un insieme di eventi sonori che, in virtù dell’alternanza tra continuo e discontinuo, sarebbero «identificabili come persone»44. Del resto l’autore esige che la memoria agisca come cosa viva, qui e ora.

«Espressione per compressione. Mettere in un’immagine ciò che un letterato diluirebbe in dieci pagine». Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 88. 40 Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 245. 41 Cfr. Jacques Aumont, Amnésies. Fictions du cinéma díaprès Jean-Luc Godard, P.O.L., Paris, 1999.

Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 78. Attratto in questo vortice di immagini-palinsesto, lo spettatore delle Histoire(s) subisce una serie di choc percettivi probabilmente non dissimili da quelli che, secondo Benjamin, hanno sconvolto la mente dei primi spettatori cinematografici, non abituati alla percezione del discontinuo. 44 Noël Nel, Histoire(s) du cinéma 1 et 2 de Jean-Luc Godard, in Gilles Delavaud, JeanPierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange (sous la direction de), Godard ou le métier d’artiste, L’Harmattan, Paris, 2001, p. 204.

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Che il tempo non sia una linea continua nello spazio ma, come voleva Bergson, il luogo dove la memoria si confonde con la coscienza, Godard ce lo ricorda subito, all’inizio del capitolo 1A. La voce over che accarezza il montaggio parallelo tra Fury ([Id., Brian De Palma, 1978] il dettaglio di due occhi aperti di una donna) e Faust ([Id., Friedrich Wilhelm Murnau, 1926]: l’apparizione notturna di Mefistofele appartiene a Giorgio Albertazzi, viaggiatore di nome X nel tempo perduto di Marienbad (L’année dernière à Marienbad [L’anno scorso a Marienbad, Alain Resnais, 1961]): Voi almeno non siete cambiata, avete sempre gli stessi occhi assenti, lo stesso sorriso, la stessa risata improvvisa, lo stesso modo di tendere il braccio quando volete qualcosa. Lo stesso modo di condurre lentamente la mano nella cavità della vostra spalla. Avete anche lo stesso profumo. Provate a ricordare, era nel giardino di Frederiksbad.

Secondo X, dunque il tempo si sarebbe fermato, o quanto meno non avrebbe corroso i lineamenti, il profumo e la luce del volto amato. Abbiamo detto che il volto della Memoria è il montaggio. Ebbene, scomponendo il film di Resnais in immagine (off) e suono (in), Godard ci ricorda che ogni atto di memoria necessita di un tu (il toi di His-toi-re) a cui raccontare ciò di cui si è testimoni. X è sicuro, è stanco del muro di silenzio sul quale si infrangono le sue domande ma la donna, A., non ricorda. Impossibilitata, in quanto priva di un tu, a costruire un mondo immaginario, la memoria dell’uomo scivola allora nell’oblio senza fare rumore, proprio come fanno i travelling di Resnais sui marmi lucidi della villa. Sovrimpressi su queste parole, il volto allucinato del personaggio di De Palma e il fuoco notturno di Murnau rafforzano la connotazione di Marienbad come viaggio fantastico nei meandri di una memoria che, per sopravvivere, ha bisogno dell’oblio. Ma questo lo sapeva bene l’eroina di Hiroshima mon amour, superstite a un trauma tanto individuale quanto cosmico: «Come te, ho provato a lottare con tutte le mie forze contro l’oblio. Come te, ho dimenticato. Come te ho desiderato di avere una memoria inconsolabile, una memoria di ombra e di pietra. Ho lottato sola, con tutte le mie forze, contro l’orrore di non capire il perché del ricordo». Nemmeno la memoria del cinema è fatta «d’ombra e di pietra». Anche il cinema dimentica e scriverne le storia garantisce forse l’illusione di comprendere le ragioni del ricordo. Questo però è possibile se si utilizzano non immagini memoriali, cioè immagini adempienti a una funzione celebrativa di ciò che è avvenuto (penso ai documenti d’archivio raccolti da Resnais per 138

l’incipit di Hiroshima mon amour), ma quelle che Noël Nel ha definito «immagini-geroglifico», ovvero «immagini da fare, immagini delle quali una sola delle componenti mostrate sarà utilizzata come nucleo e messa in relazione con altre componenti derivate da altre immagini. L’insieme di queste ibridazioni è pertanto definito da un sistema di fusione e giustapposizione»45. Il tempo del ricordo è un tempo fratturato, lesionato, bucato. Per questo ogni immagine appare come un testo cifrato la cui chiave di lettura risiede nell’immagine precedente o in quella successiva. Un esempio: il tema di Marienbad (una donna rifiuta l’invito di un uomo il quale sostiene l’immobilità del tempo) “attrae” in un montaggio analogico uno dei duetti che punteggiano la sequenza del ballo di Il Gattopardo (Luchino Visconti, 1963), ovvero il dialogo tra la Principessa di Salina e il colonnello Pallavicino: costui invita la donna a danzare, ma lei rifiuta. Perché non si sente in grado di competere con le ragazze più giovani. Perché il tempo, come a Marienbad, è passato. Intanto la bocca di Rita Hayworth si scioglie nel nero (Le contrôle de l’univers) mentre il ralenti deforma gli occhi di James Stewart (Toutes les histoires). Al pari dei corpi degli amanti di Hiroshima, mostrati come frammenti anonimi di argilla e di carne, i videocorpi di questa storia del cinema abitano i territori fragili di una memoria che, forse, solo la Bellezza può consolare. Guardare il buio «A film is a girl and a gun». Sono trascorsi tredici minuti dall’inizio di Toutes les histoires. Al fine di ricostruire la storia dell’ascesa di Hollywood a potenza in grado di «controllare l’universo», Godard ferma un fotogramma di An Unseen Ennemy (David W. Griffith, 1932): due giovani (Lillian e Dorothy Gish) sono minacciate da una pistola introdotta attraverso una finestra. A giudicare dall’espressione disegnata sui due volti, il terrore per il pericolo diegetico sembra confondersi con lo stupore provocato dalla visione (immaginaria) di un’immagine pornografica che Godard “introduce”, con un perverso effetto Kulešov, nella struttura sintattica griffithiana. Il fatto che le immagini riescano a “guardarsi tra loro” ne sottolinea non solo l’energia vitale, ma anche l’indipendenza dal loro creatore e dunque la Noël Nel, Histoire(s) du cinéma 1 et 2 de Jean-Luc Godard, cit., p. 205. «L’immaginegeroglifico – continua Nel – è la condizione d’esistenza dell’immagine-palinsesto, la quale non può realizzarsi completamente se non è alimentata da un mito personale. Questo mito è, in Godard, la fede in un intra-mondo, una realtà superiore che non sarebbe né sopra né sotto, ma tra le immagini, nel punto di fusione di esse». 45

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loro solitudine, refrain ricorrente in uno dei numerosi giochi di parole che punteggiano l’opera: Histoire de la solitude / solitude de l’ histoire. Nel raccontare la sua Storia, dunque, il cinema rivela quelli che secondo Godard sono stati due sistemi simbolici più utili per manipolare il sonno delle masse: il sesso e la morte. Sesso e morte attraversano indenni sia il tempo della Storia che quello del cinema. Tra gli inserti di reale che Godard scioglie nelle sue “immagini-trovate” spiccano fotogrammi di film pornografici e immagini di campi di concentramento, due volti di un Orrore solo che si chiama oppressione, annullamento dell’individualità, assoggettamento del corpo. Martiri di queste storie non sono solo i corpi anonimi, come quelli torturati nei Lager, ma anche e soprattutto i corpi delle dive, colpevoli del potere ammaliante generato dalla loro bellezza. Mentre Rita Hayworth volteggia sul trapezio (1A), in montaggio alternato con il volto di Howard Hughes, il narratore gioca con le parole e scrive un inno all’oscurità: «Obscurité / oh! Ma lumière». Poiché, come abbiamo visto, non c’è immagine senza un nulla che graviti attorno a essa, il buio della sala appare come la conditio sine qua non della lucentezza della star. Prodotto di una fabbrica che vende sogni nell’oscurità, Rita Hayworth si rivela fascio di luce sonora (distinguiamo le parole di «Put the Blame on Mame») pronto a fondersi in dissolvenza incrociata con uno dei corpi più martoriati della storia del cinema: la strega bruciata viva sul rogo di Vredens dag (Dies Irae, Carl Th. Dreyer, 1943). Hayworth è dunque al contempo carne e diavolo, angelo (il volteggio aereo) e strega. Se la voce sopravvive all’oblio, non lo stesso accade per il gesto, stilizzato mediante il solito ralenti, espediente che permette a Godard di lasciare la sua traccia sulle immagini altrui: questi frammenti di Gilda (Id., Charles Vidor, 1946) non appartengono più al film di Vidor, ma all’immaginario audiovisivo del cineasta-storico. La riflessione sul binomio bellezza/oppressione spiega probabilmente la scelta del succitato Salmo di Valéry (Pour une voix) all’inizio del capitolo 4B: la donna fa paura, la Storia le ha tolto la voce e Godard ora cerca di restituirgliela, proseguendo il cammino intrapreso da Édouard Manet: un «cheminement vers la parole» (3A). I ritratti femminili di La prune (1877), Nana (1877) e L’Olympia (1863) hanno la stessa capacità espressiva dei volti del muto. La frase scritta su questi dipinti, Je sais à quoi tu penses, ci riporta al monologo di Le petit soldat. Durante la seduta di fotografie, Bruno Forestier (Michel Subor) chiede alla sua modella (Anna Karina) a cosa stia pensando. La risposta, però, è nascosta nell’immagine stessa, nella copia che l’uomo trae dall’originale: «Quando si

fotografa un volto, si fotografa l’anima che vi è dietro. Aveva le occhiaie, il colore degli occhi era grigio Velásquez». Il cinema allora altro non è che l’ultimo atto della storia dell’occhio. Un occhio che però, ha visto anche la barbarie. Per questo all’inizio del capitolo 4A Rita Hayworth si riaffaccia sulla superficie della memoria non più raggiante sotto le luci di Gilda, ma distesa a terra, pronta a dissolversi nell’ombra mortifera disegnata da Orson Welles (The Lady from Shanghai [La signora di Shanghai, 1947]). Un semplice stacco nero la unisce a un’altra martire della Storia (del cinema), la Giovanna D’Arco scritta da Claudel, diretta da Roberto Rossellini e interpretata da Ingrid Bergman. Tra il corpo bruciato della Bergman e le mani sporche di Henry Fonda (The Wrong Man [Il ladro, Alfred Hitchcock, 1956]), si insinua, irrimediabilmente muto, il cadavere di una deportata trascinata per le braccia e per le gambe nella polvere di un Lager non identificato. Anche la morte ha perso la sua aura. Il montaggio infatti altera anche il tempo di questo reale dilatando la scena per tredici lunghi secondi, quanto basta perché sulle immagini siano sincronizzate queste parole, che riportiamo nella lingua originale: «Si la pensée se refuse à penser, à violenter, elle s’expose à subir sans fruit toutes le brutalités que son absence a libérées»46. Denis De Rougemont invita a “pensare con le mani” (Penser avec le mains, 1936) e questo è esattamente ciò che fa l’Io narrante. Seduto nella sua sala di montaggio, Godard assembla le immagini, pensa a voce alta, ricorda. Sente che anche la sua memoria è inconsolabile, piena di spazi neri tra i lampi del ricordo. Sa che il solo modo di scrivere la Storia è «raccontare tutto ciò che è errante nella storia: la storia di tutte le erranze»47. Tra tutte, l’erranza della bellezza è forse la più documentata: da Manet a Goya, da Proust al cinema hollywoodiano, da Rita Hayworth a Anna Karina. Dal passato, dunque, al presente. Qualcuno48, recentemente, ha messo in dubbio la definizione di Godard come «cineasta della memoria», osservando giustamente come questo cinema, pur se rivolto alla Storia, conservi sempre tracce di presente, segni del momento in cui la storia e la Storia mostrano il rispettivo «farsi»: pensiamo a Allemagne 90 neuf zéro, a Les enfants jouent à la Russie o allo stesso

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«Se il pensiero si rifiuta di pensare e di violentare, si espone a subire tutte le brutalità che la sua assenza ha liberato». 47 Céline Scémama, La force fabile d’un art, cit., p. 249. 48 Mi riferisco a Maxime Scheinfeigel, Leçon de mémoire, in Gilles Delavaud, Jean-Pierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange (sous la direction de), Godard ou le métier d’artiste, cit., p. 214. 46

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Dans le noir du temps. Il nero, appunto. Se contemporaneo, come sostiene Agamben, è «colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo per percepirne non le luci, ma il buio»49, allora Jean-Luc Godard mi sembra l’incarnazione perfetta dell’artista contemporaneo. Guardare (e poi mostrare) la luce della bellezza sciogliersi nell’Orrore del reale significa saper percepire il fascio di tenebra che ogni presente getta sul viso di colui che, in quanto contemporaneo, si sente vicino all’origine, al buio in cui tutto è cominciato50. Solitudine di uno Stato, stato della solitudine Tracce di presente pulsano nelle immagini di Allemagne 90 neuf zéro, capolavoro che inaugura gli anni Novanta sotto il segno dell’omaggio (Germania anno zero, Roberto Rossellini, 1947) e di un’auto compiaciuta nostalgia: il corpo che si muove tra i fantasmi della Germania post-muro è infatti quello di Eddie Constantine, ex agente segreto nello spazio anaffettivo di Alphaville e ora, come recita la prima didascalia, «ultima spia» di una guerra finita51. Raccontata a due voci, entrambe fantasmatiche – un narratore e un giornalista inglese – Allemagne 90 neuf zéro non è solo una storia, come recita la didascalia (“seule une histoire)”, ma un viaggio nella Storia di un cinema e di una nazione dal volto bifronte. La Germania è infatti patria dell’orrore (il nazismo) ma anche di quella cultura che Godard tanto ama e cita: da Mozart a Goethe (di cui la cinepresa “visita” la casa), da Fritz Lang a Hegel. «Non si capisce mai niente finché una sera non si finisce per morirne», diceva la voce over di Lemmy Caution, smarrito di fronte alla bellezza disumana di un automa dal cuore spento (Natasha). Trent’anni dopo Alphaville non esiste più e i circuiti di Alpha 60 sono distrutti, ma la missione di Lemmy Caution continua perché il nemico è sempre lo stesso: la solitudine e le sue variazioni. Invitato da Antenne 2 a riflettere sul sentimento della solitudine52, Godard rispetta solo in parte il soggetto della commissione. Legge infatti la commande

al contrario. Non racconta, come voleva la produzione, lo stato di una solitudine, ma la solitudine di uno Stato. E lo fa interrogandosi però non solo sulla percezione della cosa ma anche sulla declinabilità della parola: la solitudine è una sola oppure, come per le Histoire(s), esistono infinite solitudini? «È qualche anno dopo l’anno 1000 – ha glossato l’autore – che la parola “solitudine” diventa francese e significa: lo stato di un luogo deserto»53. Più che uno stato, in realtà, Godard filma un movimento o meglio una serie di movimenti che, assemblati dal montaggio, costituiscono un motivo: non c’è “motivo” senza movimento (motus), come ha sottolineato anche Hanns Zischler54. Si muove il corpo di Lemmy Caution, da Est verso Ovest, ma si muovono anche– su esterni umidi e deserti come i paesaggi di Brueghel o di Herzog – le parole di un narratore che riflette intorno a un tema carissimo a questo cinema, ovvero la difficoltà del narrare. Tutto comincia con una domanda, la medesima che abbiamo già ascoltato all’inizio di Fatale béauté (Histoires du cinéma 2B): «È possibile raccontare il tempo, il tempo in se stesso, come tale?». La risposta è sempre la stessa. Al pari della Storia, il Tempo può essere narrato solo se declinato al plurale, in relazione – direbbe Heidegger – alle «determinazioni esistenziali» dell’Esser-ci. Per argomentare la tesi di questo scacco, la voce over utilizza una metafora musicale: «Sarebbe come se si avesse l’idea di tenere per un’ora una sola identica nota o un solo accordo, e si volesse far passare tutto questo come musica». Molte sono le “note” di Allemagne 90 neuf zéro perché molte sono le solitudini sfiorate dall’istanza narrante: la solitudine della traduttrice di fronte al testo (Delphine), la solitudine di un ex diplomatico che si reinventa critico e traduttore (Hans, ovvero il Conte Zelten)55 e soprattutto la solitudine di Lemmy Caution, corpo intertestuale alla ricerca di un amore spezzato in due come il

Giorgio Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma, 2009, p. 23. In quanto riflessione sul mistero di un’Origine al contempo vicina e lontana, Je vous Salue, Marie aveva già rivelato, ben prima delle Histoires, la natura «contemporanea» dell’arte di Godard. 51 Due anni dopo le riprese, nel 1993, finirà anche la vita dell’attore, per il quale questo viaggio costituisce dunque una sorta di monumento audiovisivo, una lenta messa a morte per immagini. 52 La fonte di ispirazione per la serie televisiva è il saggio di Michel Hannoun, Nos solitudes, Seuil, Paris, 1990.

53 Jean-Luc Godard, Allemagne 90 neuf zéro. Notes d’ intention, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 339. 54 «Godard mobilita un gigantesco coro di voci, di personaggi muti e parlanti, che da sempre popolano e percorrono questa Germania oppure ne sono stati cacciati. Il film è questa mobilizzazione». Hanns Zischler, Dix ans après (Godard 2001). Remarques au sujet d’Allemagne 90, in Nicole Brenez (sous la direction de), Jean-Luc Godard. Documents, cit., p. 341. 55 Conte Zelten è il nome del protagonista di un romanzo di Jean Giraudoux, Siegfrid et le limousin (1924), riflessione pirandelliana sulla fragilità delle memoria e sull’ambiguità della nozione di identità: ex soldato francese colpito da amnesia e fatto prigioniero durante la Prima guerra mondiale, Siegfrid diventa, nel giro di pochi anni, uno dei personaggi più influenti della Germania post-bellica. Come il futuro Lennox (Delon) di Nouvelle Vague, è un uomo che vive due volte.

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muro di Berlino, o come un’immagine di carta. A nulla, però, serve ricomporre i frammenti della Ragazza in verde (Tamara de Lempicka, 1930), gesto che Caution compie qualche secondo dopo la sua apparizione. Giunto a Berlino Ovest, infatti, l’uomo non troverà alcun referente reale per questa immagine: né la modella di una pubblicità di sigarette (The West), né il manichino di un centro commerciale corrisponderanno a questa “copia originale”. Perché la donna amata non esiste se non nella memoria cinematografica dell’attore. La Ragazza in verde infatti evoca, e non solo per un’associazione cromatica, il volto di Dominique Wilms, femme fatale del poliziesco francese e soprattutto partner di Constantine in La Momie vert-gris (La mummia grigio-verde, 1953), primo capitolo della serie TV Lemmy Caution. Ma torniamo all’inizio del viaggio. Senza proferire parola, l’uomo entra in cucina, sottrae dalle mani di Hans un libro (Max e Moritz di Wilhelm Busch) e utilizza la copertina di questo testo come tavolo di montaggio (Fig. 42). Se l’attore unisce due parti di un intero (la cartolina strappata) al fine di ricomporre una figura, l’autore agisce in senso opposto, ovvero mette in discussione l’integrità semantica di questo intero e fa esplodere il

Fig. 42. Allemagne 90 neuf zéro

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senso in una molteplicità di conflitti, inerenti in particolare alla relazione tra parola e immagine. Mentre Lemmy Caution, infatti, cita Marx («La teoria diventa una forza materiale quando si impadronisce delle masse»), Godard lascia il volto dell’uomo fuori campo e si concentra sul profilo della Ragazza in verde, riprendendo quella pratica dell’effetto-quadro frequente sin dagli esordi: penso agli inserti pittorici che spezzavano, con un forte effetto iconoclastico, i duetti Karina-Belmondo (Il bandito delle ore undici) e Belmondo-Seberg (Fino all’ultimo respiro)56. Lunga non più di cinque secondi, questa inquadratura è dunque configurata attorno al conflitto Marx versus Lempicka, ovvero Rivoluzione versus Restaurazione. Com’è noto Tamara De Lempicka fuggì dalla Russia rivoluzionaria al fine di salvaguardare i propri privilegi e soprattutto quelli del marito. Opporre Marx a Lempicka, però significa anche mettere in conflitto politica e arte, cinema politico e cinema poetico. L’associazione delle idee, pertanto, è perfettamente «lontana e giusta», come voleva Reverdy. Per raccontare la nuova Germania e soprattutto il suo nuovo zero, Godard raccoglie non pezzi di muro ma frammenti di Storia (Marx) e li assembla a frammenti di Storia dell’arte (Lempicka), indirizzando la percezione dello spettatore verso un duplice movimento: centripeto (sintesi) e centrifugo (estasi). Audio-vedere quest’immagine, infatti, impone di èk-stare, ovvero vivere al di qua dello schermo la medesima condizione del narratore («assente e presente, oscillante tra la verità del documento e quella della finzione») e soprattutto quella dell’eroe narrato, viaggiatore sospeso tra due spazi (Est e Ovest), due tempi (Passato e Futuro), due identità (Caution/Witrowski). Le associazioni sono infinite: basta l’immagine di un cane solitario per evocare il funerale di Mozart, così come due anni dopo saranno sufficienti i gabbiani di un lago svizzero per “suggerire” Il gabbiano di Čhecov (Les enfants jouent à la Russie, 1993). Nessuna associazione, comunque, appare più «lontana e giusta» di quella istituita nel finale da Caution, spia spiata – è il conte Zelten a guidarlo verso Ovest – e smarrita tra le luci consumistiche dell’Occidente. All’interno di un autosalone, l’uomo osserva due giovani salire su di un’auto rossa, una BMW esposta accanto a un’altra 56 Si consideri per esempio la sequenza della colazione a letto all’inizio di Il bandito delle undici: i volti di Karina e Belmondo restano fuori da un campo visivo occupato solo da dettagli di quadri celebri, tra i quali la Bagnante di Pierre-Auguste Renoir (1890) e Paul travestito da Pierrot di Pablo Picasso (1925). Renoir e Picasso sono i modelli compositivi scelti per la costruzione dei due personaggi. Per un’analisi del rapporto tra cinema e pittura in Godard, si veda Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Jean-Luc Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, cit., pp. 49-54.

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auto di colore blu (fig. 43). I due commentano le caratteristiche tecniche della vettura. La frase della ragazza, relativa a un presunto difetto nell’abitacolo («La luce resta sempre accesa»), riporta alla mente dell’osservatore il destino di un’altra ragazza, barbaramente trucidata cinquant’anni prima: Sophie Schöll, il cui simbolo, la rosa bianca, occupa in perfetta solitudine l’inquadratura successiva (Fig. 44). «Aveva incollato su tutti i muri di Berlino dei volantini che affermavano tutti la stessa cosa», dice Caution a proposito dell’eroina della Resistenza.

Di questa storia che è diventata Storia, però, non vediamo alcuna immagine: non un filmato d’archivio, non una fotografia. Perché l’immagine è fuori ovvero tra quelle che Elie Faure definirebbe due «cose definite»: l’autosalone (l’auto rossa) e il giardino (la rosa bianca). Diverse storie si incrociano, e sono tutte storie “sole”: la storia di Sophie Schöll, la Storia del Novecento e la storia del cinema (quello di Godard). Non è un caso infatti che i colori delle due auto esposte rinnovino, accostati al bianco della rosa, il motivo della tricromia analizzato nel capitolo precedente. Godard dunque agisce – ancora e sempre – come Velásquez, ovvero dipinge con il montaggio quello che c’è TRA le cose: non l’immagine di un’immagine, ma l’immagine di un ricordo. Storia dell’occhio I ricordi di Constantine (Dominique Wilms) si incrociano con quelli di Godard, come pagine strappate di una storia del cinema tutta privata. Camminando per le rovine di questo Stato solo, a metà strada tra la poesia (Weimar) e l’Orrore (Buchenwald), Caution pronuncia frasi estratte da altri film del suo autore. Davanti alla statua di Puskin, per esempio, l’uomo ripete ciò che Michel Ange aveva detto davanti a un autoritratto di Rembrandt, ovvero «I soldati salutano gli artisti!». Più tardi ascoltiamo dalla voce di Constantine la medesima poesia di Wilhelm Hauff recitata dal piccolo soldato Bruno Forestier alla sua amata (Le petit soldat): Morgenrot, Morgenrot / Leuchtest mir zum frühen Tod?: / Bald wird die Trompete blasen / Dann muß ich mein Leben lassen57. Si tratta di un’ode funebre all’aurora e la parola aurora, nell’immaginario godardiano, significa soprattutto Murnau (Sunrise [Aurora, 1927]). Come per il piccolo soldato, anche per questa “ultima spia” il tempo dell’azione è finito ed è cominciato quello della riflessione. Recuperando l’estetica rosselliniana del pedinamento, Godard filma il corpo del suo eroe come l’incarnazione di un Dasein tragico, esistenza stratificata dalla memoria e gettata verso un futuro inteso come possibilità: «Qu’est-ce que je dois faire?», chiede l’ex spia all’amico una volta resosi conto che la Guerra fredda è finita per sempre. Al pari del suo personaggio, anche Godard pensa e soprattutto ricorda. Ma, a differenza di quella dell’eroe, la memoria dell’autore non ha confini

Figg. 43-44. Allemagne 90 neuf zéro: l’immagine estatica di Sophie Schöll. 146

«O radiosa aurora, radiosa aurora, tu mi annunci troppo presto la morte. Presto suonerà il richiamo della tromba e io dovrò lasciare questa vita bella».

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geografici e così, accanto a Ophüls (Lola Montez [Id., 1955]) e Fassbinder (Lili Marleen [Id., 1981]), appare anche il fantasma di Ejzenštejn. Nella prima parte del viaggio, infatti, un montaggio analogico permette allo spettatore di passare in un «battito di ciglia» dal cinema (il lago ghiacciato attraversato da Eddie Constantine) al cinema (la battaglia sul ghiaccio di Aleksandr Nevskij (Id., Sergej M. Ejzenštejn, 1938). La citazione di Ejzenštejn svela, se mai ce ne fosse stato bisogno, il rapporto di filiazione estetica con il maestro russo, la cui ricerca ha probabilmente ispirato anche affermazioni come questa, risalente agli anni Settanta: «Quello che a me piace sono due immagini insieme, in modo che poi ce ne sia una terza, che non è un’immagine ma piuttosto ciò che si ricava dalle altre due»58. Consideriamo ora due sequenze esemplari di questa tensione verso una dimensione “estatica” dell’immagine. Siamo a metà del racconto (e del viaggio). Delphine visita il ponte dove fu trucidata Rosa Luxembourg e il montaggio alterna la mezza figura dell’attrice, gli occhi bassi verso il fiume, a schegge di un passato non-morto come il celebre vampiro59: un fotogramma di Padeniye Berlina (La caduta di Berlino, Michail Chiaureli, 1949: Hitler ed Eva Braun) e un documento d’archivio (un cadavere trascinato nella polvere da un ufficiale). Poi Delphine riprende il cammino e la cinepresa, anziché seguirla, la precede, al contrario di quanto fa Roberto Rossellini con il suo Edmund (Germania anno zero), la cui camminata, seppur rallentata, emerge per qualche secondo dal nero del tempo (Figg. 45-46). Rossellini vs Godard, bianco/nero vs colore, erranza vs ricerca: due realtà, o meglio due finzioni lontane tra loro, ma giuste. Lo spettatore è indotto a uscire dal film per entrare, anche se solo per un attimo, nello spazio emotivo e diegetico di un altro film così vicino e così lontano. Ancora più “giusto” è l’accostamento prodotto dal montaggio qualche minuto dopo, in una sequenza di cui Daniel Morgan ha offerto un’analisi molto suggestiva60. Durante la visita al museo di Pergamo, Delphine è attratta da un dipinto di Courbet, La mer orageuse (1870). Composto di strati di colore molto densi, stesi sulla tela con un coltello da cucina, questo mare sembra produrre le medesime «onde terribili» di cui parlava Carmen all’inizio di Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 328. «Appena ebbi traversato la frontiera i fantasmi mi vennero incontro». Con le parole di Johnatan Harker, messe in bocca a Eddie Constantine, Godard rende omaggio al capolavoro di Murnau, archetipo del film fantastico. Come il vampiro, i fantasmi del passato sono sempre vivi. 60 Cfr. Daniel Morgan, Late Godard, cit., pp. 3-7. 58 59

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Figg. 45-46. Allemagne 90 neuf zéro. Godard vs Rossellini: l’immagine è relazione tra due sguardi. 149

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Prénom Carmen61. Onde che la visitatrice cerca di catturare nell’obiettivo della sua Polaroid (fig. 47), fermando dunque un tempo, quello della pittura, già fermo. Ma questa inquadratura è solo il primo frammento di un’immagine che nasce solo qualche secondo dopo, quando il montaggio accosta il qui (il quadro di Courbet) a un altrove extradiegetico e soprattutto appartenente a un sistema di segni diverso: non la pittura, né la fotografia, ma il cinema. La voce off di Eddie Constantine («Bonjour Monsieur Courbet») funge infatti da raccordo sonoro con la riproduzione di un non precisato mare in movimento (fig. 48), un mare anonimo in bianco e nero, musicato ancora una volta (Prénom Carmen) dalle note di un quartetto di Beethoven. Il gioco delle associazioni non è finito, perché le frasi degli archi accompagnano anche i passi di un marinaio russo che, dopo aver salutato la compagna (violinista), abbandona il paese; anziché partecipare emotivamente a questa fuga, però, Godard si diverte con una variazione grafica sul tema: L’ART DE LA FUGUE (didascalia). Una musica, quella di Bach, che secondo Hanns Zischler sarebbe esclusa dal confronto della Storia con il cinema: Bach è scala e modello ideale per una cinematografia verticale, capace di avvolgere il flusso continuo delle immagini in una partitura sempre più complessa, nella sovrapposizione di immagini, voci, rumori e musica62.

Lo spirito ludico del narratore vanifica qualunque sforzo ermeneutico. Poco importa stabilire se l’inserto “mobile” del mare tempestoso rimandi a un ricordo della ragazza o invece vada letto come un gesto illustrativo del viaggiatore. Le singole inquadrature sono raccordate mediante «accordi vagabondi», tali – ha osservato Suzanne Liandrat-Guigues – da rendere le immagini stesse fragili, minacciandole dall’interno e mettendole in competizione l’una con l’altra63. Dopo tutto il cinema è ancora semplicemente il cinema e quello che si presenta come un viaggio nella Storia si rivela un’interrogazione sulla storia dell’occhio, storia che Jacques Aumont non a caso ha definito 61 Il mare dove Carmen trova rifugio è lo stesso ritratto da Courbet, ovvero il mare di Normandia. L’atelier del pittore si trovava infatti a Etretat. 62 Hanns Zischler, Dix ans après (Godard 2001). Remarques au sujet d’Allemagne 90, cit., p. 341. 63 La ricezione dello spettatore godardiano si compone di tre giustapposizioni: «guardare un testo su alcune immagini (giustapposizione visiva), ascoltare un testo detto con la musica (giustapposizione auditiva) e naturalmente operare la sovrapposizione del visivo e del sonoro» (Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard simple comme bonjour, cit., p. 166).

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Figg. 47-48. Allemagne 90 neuf zéro: dalla fotografia al cinema attraverso la pittura.

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«interminabile»64. Come ha osservato Daniel Morgan, Godard si diverte però a modificare l’inizio di questa particolare storia, collocando la pittura a metà strada tra la fotografia (il primo piano di Delphine che guarda nell’obiettivo) e il cinema (l’inserto documentaristico del mare). Solo dopo aver appreso la lezione della pittura – suggerisce Morgan – la fotografia sembra poter aspirare a restituire il movimento e diventare cinema. Ma che cos’è, allora il cinema? Finestra sul mondo reale o invenzione di un mondo possibile? Registrazione o creazione? Discorso o racconto? Più che di racconti, forse, è opportuno parlare di novelle, o meglio di vaghe novelle. Vaga novella Torniamo indietro di un anno. Nel 1990, quando i frammenti del muro di Berlino sono già in vendita, esce Nouvelle vague, forse l’opera più misteriosa e proprio per questo più affascinante di questa stagione, filmcerniera tra le inquietudini degli anni Ottanta e le sperimentazioni degli anni Novanta. Se davvero le opere prodotte dal 1988 a oggi costituiscono un «film unico»65, Nouvelle Vague è indubbiamente il segmento più seminale di questo lunghissimo film. Mentre raccoglie il materiale per le sue Histoire(s), Godard incontra i fantasmi di altre storie – cinematografiche e letterarie – e li rianima in immagini di “grande bellezza”, una bellezza che abbiamo già visto nella trilogia degli anni Ottanta e che affonda il proprio canone in una concezione «fisiognomica» della natura, in qualche modo vicina alle posizioni di Béla Balázs (a sua volta influenzato, com’è noto, dal pensiero di Georg Simmel). La natura in cui si rifugiano questi personaggi è infatti «aura visibile dell’uomo, fisionomia che si irradia oltre i confini del corpo»66, ma al contempo anche organismo vivente autonomo da colui che lo abita e quindi «fisionomia, volto che improvvisamente, in un punto di una certa zona, ci rivolge lo sguardo come muovendo dalle linee confuse di un’immagine ambigua»67. Sono gli stessi personaggi, del resto, a confermarci questa relazione dialettica tra corpi e natura: se Juliette Jeanson (Due o tre cose che so di lei), citando Dreyer, constatava come «un paesaggio sia identico a un volto»,

Carmen (Prénom Carmen) sentiva risuonare dentro di sé le «onde terribili» del mare. Al pari del tramonto sul cielo svizzero (Je vous Salue, Marie) o del mare mosso di Normandia (Prénom Carmen), l’erba agitata dal vento, la sagoma di un cavallo all’imbrunire o il riflesso del sole sulla chioma di Domiziana Giordano sono il prodotto di uno sguardo che delimita il visibile trasformando la natura in paesaggio e connotandolo di una Stimmung che, in questo caso, è intrisa di nostalgia. Come ha suggerito qualcuno, Nouvelle Vague può infatti essere letto anche come un viaggio a ritroso nell’infanzia dell’autore, trascorsa in un’atmosfera idilliaca nel podere dei nonni paterni sulla sponda francese del lago di Ginevra: un ambiente molto simile a quello in cui si muovono questi fantasmi, ma ancorato in un tempo lontano, quando, come ripete la voce over del narratore, «c’erano ancora dei ricchi e dei poveri, delle fortezze da conquistare, delle cose desiderabili ben protette, per conservare la loro attrazione». “Disconosciuto” dall’autore, che non iscrive il suo nome nei titoli di testa ma solo nei materiali pubblicitari, Nouvelle Vague comincia l’ammissione di un fallimento già visto: «Ma era un racconto che volevo fare. E lo voglio ancora». Un uomo in voce over – che scopriremo poi essere uno dei personaggi della storia, ovvero il giardiniere68 – dice che avrebbe voluto raccontare qualcosa, ma non c’è riuscito. Ciò significa che quello che i titoli di testa ci annunciano non sarà un racconto; tutt’al più un discorso, un’esposizione di fatti e di idee sospesa tra la narrazione, l’enunciazione, il discorso e l’argomentazione69. Didascalie, parole, corpi, colori, musica: i materiali saranno esposti nella loro nudità di segni e combinati secondo uno soltanto dei numerosi ordini possibili. Proviamo a mettere insieme i frammenti. Una donna ricca e sola (Elena Torlato Favrini) salva un uomo (Richard Lennox) dalla morte, si innamora di lui, ne provoca la morte e poi viene sedotta da un altro (?) uomo, che si dichiara il fratello del morto. Seppur esile, un filo narrativo

Cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, cit. Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat Godard simple comme bonjour, cit., p. 21. 66 Béla Balázs, L’uomo visibile (1924), tr. it. a cura di Leonardo Quaresima, Lindau, Torino, 2011, p. 198. 67 Ivi, p. 203.

La figura del giardiniere-filosofo è un omaggio al teatro di Giraudoux. Sull’ambiguità di questa voce narrante ha indagato Louis-Albert Serrut: «Il discorso è costituito quando l’enunciazione ripetuta o la continuità dei termini su un soggetto dato restituisce un continuum elaborato, progressivo e coerente. Per mezzo di un racconto sul rinnovamento, Nouvelle Vague presenta un discorso dal triplice soggetto: economico, ecologico e inerente al potere» (Louis-Albert Serrut, Jean-Luc Godard: Cinéaste acousticien. Des emplois et usages de la matière sonore dans ses oeuvres cinématographiques, L’Harmattan, Paris, 2012, p. 301).

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dunque esiste ed è rafforzato dal fatto che la situazione finale dei personaggi è diversa rispetto alla situazione iniziale. Alla fine del film la contessa vende la villa, si congeda dalla servitù e parte insieme all’amato Roger: destinazione Italia. Ciò nonostante lo spettatore, continuamente distratto da parole “lontane” dalle cose, ha la sensazione di partecipare non a una narrazione, quanto al farsi di un racconto costituito da segmenti sonori e visivi indipendenti tra loro forse più di quanto avveniva nelle opere degli anni Ottanta. Viene in mente una nota di Bresson, valida per tutta l’opera di Godard e non solo per questa stagione: «Il tuo film non è compiuto. Si va facendo man mano sotto lo sguardo. Immagini e suoni in stato di attesa e di riservatezza»70. Il titolo non inganni. Nessun omaggio a quella stagione che – come afferma Serge Daney nelle Histoire(s) – ha assicurato all’autore la giusta distanza per scrivere la Storia del cinema senza rinunciare a farvi parte71. Non sono sicuro infatti che la scelta di questo titolo indichi necessariamente, da parte dell’ autore, una «rivendicazione del proprio statuto di artista e la conferma della propria posizione al di fuori dell’industria culturale narrativa»72. Non una nuova nouvelle vague, dunque, ma una novella vaga e confusa come il tessuto sonoro, teso a far emergere non tanto il senso quando il rumore delle parole. L’onda a cui si allude (non) è nuova così come (non) sono nuove tutte le onde che abbiamo visto in questo “terzo” Godard, attratto, come Velázquez, dalle palpitazioni dell’aria attorno agli oggetti (Il bandito delle ore undici) e soprattutto da ciò che si muove senza produrre senso: i riflessi dei nannuferi sull’acqua, il bagliore di un aereo nella notte o, per restare a Nouvelle Vague, le fronde di un platano in un giardino. Sull’erba di un prato, brucato da due cavalli mentre la terra «geme dolcemente», lo slancio cubista delle Histoire(s) si placa in favore di un ritorno a immagini depurate come quelle inseguite da Velásquez, così ordinarie da apparire straordinarie. Nel saggio su Velásquez letto da Belmondo, Elie Faure parlava di «scambi misteriosi che fanno penetrare le une negli altri le forme e i tempi». Ecco, questo “racconta” Nouvelle vague: le forme e i tempi di una storia composta di pochi elementi (un uomo, una donna, un’auto, un giardino) che però hanno già abitato altri tempi, altri spazi e soprattutto altre storie, comprese quelle di Godard.

Si consideri per esempio la sequenza dell’incidente, che analizzeremo meglio più avanti. Amputate all’altezza del polso, le mani degli amanti che si intrecciano (fig. 49) rimandano – come una variazione sulla pratica della decostruzione – agli arti frammentati di Una donna sposata (fig. 50), un film in cui «i soggetti sono considerati degli oggetti» e «lo spettacolo della vita si confonde con la sua analisi»73. Venticinque anni dopo l’approccio etnologico è rimasto invariato. Se Una donna sposata era lo studio di una donna «in una società primitiva del 1964», Nouvelle Vague può essere considerato il ritratto di un moderno ideale di femminilità nella società alto-borghese del 1990: niente più matrimonio e ipocrisia, ma libertà di costumi e sentimento. Libertà pari a quella degli amanti di Il bandito delle ore undici, del quale Nouvelle Vague appare una sorta di remake borghese. Troviamo ancora una donna che uccide il suo uomo, un uomo dal doppio nome (Pierrot/Ferdinand, Roger/ Richard), un viaggio in Italia in un’auto rossa. Le migrazioni continuano. Rossa era anche l’auto su cui moriva Camille alla fine di Il disprezzo, film nel film sull’Odissea: novello Ulisse, Roger Lennox parte e poi fa ritorno dalla donna amata, dopo aver vinto, così sembra, anche la morte. Ma non è finita. Nella scena dell’aeroporto viene mostrata una copia di La maya desnuda, ovvero uno dei quadri ricostruiti dal regista di Passion, film che in qualche modo si pone come vaso comunicante tra Il disprezzo e Nouvelle Vague74. L’estetica della frammentazione rinvia al Resnais di Hiroshima mon amour, il volto meduseo di Delon non può non evocare la maschera doppia di Losey (Mr. Klein [Id., 1976]), la domanda surrealista dell’autista («È mai stato punto da un’ape morta?») rimanda a To Have and Have Not (Acque del sud, Howard Hawks, 1944) e la contessa Elena evoca l’archetipo di Mankiewicz (The Barefoot Contessa [La contessa scalza, 1954]). OMNIA VINCIT AMOR, recita una delle ventitré didascalie. Ma di quale amore si tratta? L’amore per un altro corpo o l’amore per il cinema? Passion ci ha insegnato che il cinema è (anche) lavoro e che il lavoro ha «gli stessi gesti dell’amore». E quella tra Roger/Richard ed Elena è soprattutto una comunicazione gestuale: prima le mani intrecciate nel vuoto, poi il baciamano nel salone, quindi, durante una passeggiata nel parco, la mano dell’uomo che sfiora i capelli della donna che lo invita, invece, a parlare:

Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 69. «Questa storia non poteva che venire da uno della tua generazione, la prima generazione che ha cominciato a filmare negli anni Cinquanta, ovvero a metà del ventesimo secondo e anche a metà della storia del cinema». (2a) 72 Louis-Albert Serrut, Jean-Luc Godard: cinéaste acousticien cit., p. 308.

Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 65. Ne sono convinti Suzanne Liandrat-Guigues e Jean-Louis Leutrat, secondo cui «Nouvelle Vague fa entrare in risonanza, prolungandola, la serie dei film degli anni Ottanta, fondata su temi a tonalità religiosa, con quella degli anni Sessanta» (in Godard simple comme bonjour, cit., p. 171).

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Elena: «Ce serait gentil si tu disait une fois quelque chose!». Roger: «Je sais, mais à chaque fois je me demande quoi»75. Elena: «Mais cherche! Lavora! Un pochino».

Fig. 49. Nouvelle Vague

Sembra di riascoltare il duetto tra Jerzy e Hanna sul set di Passion, quando l’uomo invitava la donna a cominciare delle frasi senza conoscere in anticipo la struttura del discorso, senza preoccuparsi delle regole della lingua. I ruoli si sono invertiti ma il motivo non cambia: la parola è vista non solo come strumento di comunicazione, ma come oggetto, suono atto a riempire il vuoto del silenzio, cosa. Res, non verba. Ricapitoliamo. Nouvelle vague “racconta” la storia di una donna che ama un uomo che vive (forse) due volte. Questo amore dunque vince, se non tutte le cose (omnia), quanto meno il nemico numero uno di ogni sentimento e cioè il tempo. Esattamente quanto accadeva nel finale di Il bandito delle ore undici, con le voci off degli amanti che riecheggiano nel cielo eterno di Rimbaud76. Da Histoire(s) du cinéma a Nouvelle Vague, dunque, il passo è breve. Di ricordo (mémoire) parla infatti la voce over all’inizio del film: «Dall’esterno nulla viene a distrarre la mia memoria. Sento solo, in lontananza, la terra gemere piano piano, e un’increspatura graffiare la superficie». Quello di Nouvelle Vague, allora, è il tempo del ricordo, «l’unico paradiso» – dice Roger citando Sartre – «dal quale non si può essere cacciati». Nella mente del narratore narrato scivolano immagini nuove (gli elementi della natura) e parole, come vedremo, vecchie, già lette, ascoltate, citate. Anche il regista di Passion voleva raccontare qualcosa, ma non trovava la luce giusta e soprattutto doveva vivere la (sua) storia prima di raccontarla. Questa volta invece la storia c’è, è stata vissuta. Si tratta di lottare contro l’oblio per ritrovarne, direbbe Elie Faure, le forme e i tempi. Acta est fabula, recita la didascalia che precede la sequenza dell’assassinio di Roger. Lo spettacolo è finito e dunque ora nulla è più possibile, se non riavvolgere il tempo e cristallizzarlo in una sorta di presente mitico, quello della buona novella. È lo stesso Godard a offrire una chiave di lettura “biblica” del plot: In un primo tempo – l’Antico Testamento – un essere umano (un uomo) è salvato dalla caduta da un altro essere umano (una donna). In un secondo tempo – il Nuovo Testamento – un altro essere umano (una donna, la stessa)

Fig. 50. Una donna sposata 156

75 «Sarebbe carino se una volta tanto tu dicessi qualche cosa / Sì, ma ogni volta mi domando cosa dire». 76 «Tu la vedi? / Cosa? / L’eternità, con il sole».

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Jean-Luc Godard, JLG Vague novelle, «Cahiers du cinéma», 431-432, 1990, p. 43. Cfr. Conférence de presse de Jean-Luc Godard (extraits), «Cahiers du cinéma», 433, 1990. 79 Per un’analisi delle citazioni pittoriche di Nouvelle Vague si veda Roberto Chiesi, Nella filigrana di Nouvelle Vague, «Parole rubate», 5 Giugno 2012, pp. 141-159 (http://www. parolerubate.unipr.it).

del personaggio di madame Grusinskaya, la ballerina triste di Grand Hotel (Id., Edmund Goulding, 1932): I want to be alone (J’ai envie d’être seule). La storia del cinema, dunque, continua e questa battuta potrebbe benissimo essere inserita tra i frammenti di Fatale beauté, il secondo capitolo delle Histoire(s). Fatale del resto, ai fini della salvezza del misterioso viandante, è anche il personaggio di questa contessa, «visiting angel» intellettuale esattamente il più celebre Gabriele (Je vous salue, Marie). Prima di compiere la sua missione salvifica, la donna fruga tra gli effetti personali dell’uomo soffermandosi qualche secondo su una copia di Les evadés des ténèbres, raccolta di racconti dell’orrore (da Edgar Allan Poe a Mary Shelley). Res, non verba dicevamo. Introdotta da questo prologo, la sequenza dell’incidente è costruita sull’estetica della sineddoche, la stessa che regola in fondo tutti gli incidenti automobilistici di Godard, da Fino all’ultimo respiro a Week End (Weekend – Un uomo e una donna dal sabato alla domenica, 1967). Qui però non c’è sangue, ma solo una breve insorgenza di rosso. Vediamo cose (un’auto, un camion, un uomo che cammina in campo lungo) e non udiamo parole, ma suoni che ci aiutano solo in parte a comprendere ciò che succede. Si pensi al camion rosso, presenza fantasmatica che sembra venire dal cinema più che dal nulla (Duel [Id., Steven Spielberg, 1978]). La presenza di questo elemento dell’azione – elemento a cui è possibile ricondurre la causa del malessere dell’uomo – è indicata da un rumore, il clacson, che sembra generato non tanto dall’immagine quanto dal tessuto sonoro. Nel momento in cui i due mezzi sfiorano l’incidente, infatti, l’immagine, è nera e ospita solamente la prima didascalia: INCIPIT LAMENTATIO. Nessuna lamentazione, però, ha inizio, perché, se la storia è solo il riflesso di un’onda già vista, non è nemmeno possibile parlare di inizio o di fine, ma semplicemente di ritorno. Tutto ciò che comincia, in Nouvelle Vague, è destinato inesorabilmente a ripetersi e non c’è bisogno di attendere lo sviluppo del racconto per verificarlo. È sufficiente osservare ciò che accade immediatamente dopo l’apparizione della didascalia. Sorpreso dal sopraggiungere del camion, Roger/Delon cerca riparo dietro a un albero. La cinepresa abbandona l’uomo ed erra nello spazio guardando verso l’alto. Ma chi guarda? Il narratore o il personaggio? Impossibile determinarlo. Questo movimento di macchina, facile metafora della vague a cui allude il titolo, termina dove tutto era cominciato: sul corpo di Delon, che ripete il gesto di cui sopra: abbraccia l’albero e riavvia, così facendo, il tempo del racconto. Le suggestioni simboliche fornite da questo elemento naturale sono infinite. Qualcuno ha rilevato nella porosità materica della corteccia la

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è salvata dalla caduta da un altro essere umano (un uomo, un altro). Ma la donna scopre che l’altro uomo è lo stesso di prima […]. È dunque una rivelazione: l’uomo ha detto il mistero, la donna ha rivelato il segreto77.

Così articolata, quella ambientata in una villa in riva al lago sembra non tanto una nouvelle vague quanto una novella vaga, confusa e irregolare come l’estate svizzera. Perché confuse, innanzitutto, sono le decine di citazioni di cui sono infarciti i dialoghi, finalizzati non solo a dilatare a un’ora e mezza una storia di due minuti78 ma anche a evocare fantasmi di un tempo lontano e forse perduto. Da Faulkner a Denis De Rougemont, da Lamartine a Rivarol, da Schnizler a Chandler, da Mary Shelley a Dante Alighieri, molta letteratura occidentale è saccheggiata. E con essa la filosofia – da Aristotele («Il n’y a pas d’amitié») a Foucault («Les mots, non les choses») – e la pittura: la luce chiaroscurale degli interni della villa rinvia in modo spesso didascalico a certi interni di Vermeer o De La Tour79. Tutto questo non deve sorprendere: Nouvelle Vague è ideato e realizzato durante la lavorazione delle Histoire(s) du cinéma, quando l’ispirazione creativa dell’autore è ricca di schegge, frammenti, rovine. Sotto questo dotto cumulo di derive, però, solo una storia emerge, la stessa che l’autore ci racconta da anni, compreso Adieu au langage: la storia di un uomo e di una donna che si incontrano, si amano, si lasciano e si ritrovano. L’ incidente «J’ai envie d’ être seule». Così, giacca rossa e guanti di pelle, si presenta la contessa Torlato Favrini, nobildonna dalle molte auto ma dai pochi amori, indubbiamente uno dei personaggi femminili più interessanti dell’ultimo Godard. Parlare di «presentazione» in realtà non è corretto, perché della donna non intravediamo che una parte del busto, in quanto tutta l’attenzione della cinepresa è volta alla fiammante Mercedes blu, ennesima variazione su un tema – l’auto ferma come metafora di un impasse narrativo – già indagato sopra. Decostruire la retorica dell’apparizione, però, non basta: Godard si diverte anche a citare, traducendola, una delle più celebri battute di Greta Garbo, pronunciata nel corso della seconda apparizione 77 78

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prova di un’attenzione della cinepresa alla plasticità delle cose anziché alla loro superficie. Altri, come Nicole Brenez, hanno persino scomodato Kant, individuando in questa struttura oggettuale una sorta di epifania del Sublime, inteso, appunto, come espressione della potenza della Natura e soglia che impone all’uomo la conoscenza del limite80. Come abbiamo detto in precedenza, qui non ci interessa decriptare la foresta di simboli quanto lasciare che le immagini pensino e per farlo ci accontentiamo di descriverle, ovvero di dire ciò che vediamo. Monolito agreste dalla vaga reminiscenza tarkovskiana (penso a Offret [Sacrificio, 1986), forse quest’albero altro non è che un semplice albero. Le cose sono lì, diceva Rossellini; è sufficiente filmarle. Rifare oggi la nouvelle vague, sembra dirci Godard, significa continuare a fare ciò che si è fatto trent’anni prima, ovvero lasciare gettare lo sguardo al di fuori degli spazi narrativi, sospendere il tempo della storia e catturare la verità, ventiquattro volte al secondo. In una sola inquadratura la cinepresa scivola dalla luce (il sole tra le fronde) al buio (il tronco in controluce), quasi a voler simulare un esercizio di bilanciamento delle dominanti cromatiche. Se gli esterni sono irrorati da una luce diffusa e spesso crepuscolare, gli interni della villa – luogo della parola, del denaro, dei rapporti sociali – sono scolpiti da un’illuminazione chiaroscurale che anticipa quella di Hélas pour moi. Si è detto che, se in Il disprezzo Godard ha filmato dei colori, in Nouvelle Vague sarebbe riuscito a filmare delle cose81. Ma è davvero possibile, con la tecnologia 2D, separare la cosa dalla sua determinazione cromatica? Solo adesso, forse, l’occhio dell’istanza narrante è pronto per catturare l’unico momento “spettacolare” della sequenza: l’auto della donna frena quanto basta per evitare il camion e soccorrere l’uomo. Il tempo dell’azione è cominciato? No, perché quello della riflessione non è ancora finito. Esattamente come l’accappatoio giallo di Prénom Carmen, infatti, anche queste oggetti (res) non hanno una funzione puramente narrativa, ma partecipano alla costruzione del senso offrendosi come semplici segni, macchie di colore sulla (solita) tela. Il rosso del camion, il blu della Mercedes e il bianco del fumo del motore: la tricromia è ricomposta. La nuova onda porta con sé tracce di un passato che non muore, tutt’al più si trasforma. È il caso di un motivo figurativo che, inaugurato nel finale di Fino

all’ultimo respiro, è diventato una delle icone della Nouvelle Vague: la donna ai piedi di un uomo ferito, o meglio agonizzante. Su questo tema Godard si diverte ad apportare una singolare variazione. Come Belmondo, Delon è disteso a terra supino, la mano sul petto. A differenza del modello, però, questo personaggio non parla, non reagisce alle domande della donna, ma si limita ad alzare la mano sinistra intrecciandola con quella della donna sullo sfondo di un paesaggio muto. Solo in questo momento Godard sovraimprime alle cose le parole, parole estratte da un contesto al contempo lontano e vicino alla Nouvelle Vague, il Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos: «Miracle de nos mains vides»82. La voce è quella di Delon e questo potrebbe suggerire una pista ermeneutica che confermerebbe una delle costanti tematiche di questo Godard, ovvero la dialettica tra eros – l’amore come desiderio – e agape – l’amore disinteressato, spirituale, fraterno: salvando il misterioso viandante, la contessa (curiosamente lo stesso statuto nobiliare del personaggio di Bernanos) salva la propria anima. Simile è la dinamica di scambio che regola la direzione di Alain Delon. Godard lo sceglie per il fatto che egli «porta la propria tragedia dentro di sé» e il divo accetta perché il carisma e il talento dell’autore gli restituiscono «voglia, entusiasmo ed eccitazione»83 per il mestiere d’attore. «Non fosse stato Delon, non avrei potuto avere il tempo – cioè i soldi – per filmare un ruscello e voi non avreste notato nemmeno questo ruscello. Per vederlo ci vuole una star, una stella»84. Una stella intertestuale Molto si è scritto in merito a questo casting, costruito sull’incontro/scontro tra due “stelle” dal destino opposto: una cadente (Delon) e un’altra, quella di Domiziana Giordano, appena nata ma destinata a un rapidissimo tramonto85.

Per un’analisi del tessuto simbolico di questo spazio si veda Nicole Brenez, Le film abymé. Jean-Luc Godard et les philosophes byzantins de l’ image, «Etudes Cinématoghraphiques», Numéro Spécial Jean-Luc Godard: Au delà de l’ image, 194-202, 1993, pp. 150-151. 81 Cfr. Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard simple comme bonjour, cit., p. 171.

Il miracolo a cui si riferisce il curato di campagna è la sua stessa capacità di dare pace ai fedeli in quanto umile intermediario di un’autorità superiore. Dopo la morte della contessa, da lui guarita nella sua crisi spirituale, il curato annota sul suo diario queste parole: «Ô merveille qu’on puisse ainsi faire présent de ce qu’on ne possède pas soi même, ô doux miracle de nos mains vides!» («Meraviglioso è poter donare ciò che non si possiede! O dolce miracolo delle nostre mani vuote!»). Georges Bernanos, Journal d’un curé de campagne (1936), Pocket, Paris 1984, p. 200. 83 Alain Delon in Jean-Luc Douin, Jean-Luc Godard, cit., p. 41. 84 Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 219. 85 Allieva dell’Accademia Silvio D’Amico e dello Stella Adler Studio, Domiziana Giordano

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La scelta di Delon non stupisce, al contrario. Il divo è da sempre in questo cinema materiale atto a produrre tensione tra i codici, soprattutto se filmato in contre-emploi. Ha ragione Jacques Rancière: L’attrazione per la star – a volte presente in carne e ossa (Bardot in Il disprezzo), a volte solo citata (Belmondo/Bogart in Fino all’ultimo respiro) – si inscrive nella dialettica tra due attitudini: un’esteriorità radicale rispetto al sistema e una volontà di farvi parte86.

Interessante, in questo caso, è la dinamica che si instaura tra il corpo stratificato del divo e quello della partner, pressoché vuoto di segni. Solo pochi anni prima, infatti, Andrej Tarkovskij aveva affidato alla giovane debuttante il ruolo di Eugenia, la ragazza che assiste il poeta Gortčakov durante il suo doloroso viaggio in Italia (Nostalghia, 1983). Racchiusa in campi lunghissimi e mobili, Domiziana Giordano illuminava con la sua presenza botticelliana – braccia conserte, sguardo sospeso nel vuoto e capelli biondi sciolti sulle spalle – la nebbia di un paesaggio oscuro come la mente del protagonista, il quale contemplava la donna come una icona, senza toccarla: «Fermati, sei così bella con questa luce». Godard parte da qui, ma al campo lungo preferisce la figura intera e all’icona la carne, anche se si tratta di una carne cinematografica. Nel salotto della sua villa, l’ex donna angelo di Bagno Vignoni ora porta una vestaglia bianca, il rossetto sulle labbra e una sigaretta tra le dita: più che Botticelli, Rita Hayworth. Una Hayworth il cui sangue ha lo stesso motto nobiliare di quello della contessa di Mankiewicz (Qué sera sera), anche se le parole del personaggio, come abbiamo visto, rimandano al destino di un’altra contessa, quella del castello di Ambrincourt. Per Tarkovskij, com’è noto, il cinema è non solo scultura del tempo ma anche riflessione sullo spirituale nell’arte. La migrazione di questo corpo attoriale è dunque interessante in quanto conferma la fascinazione di Godard per tutto ciò che rimanda, anche se non direttamente, a un’interrogazione sul confine tra reale, divino e soprannaturale. Dopo l’angelo di Je vous salue, Marie, toccherà a un uomo il cui nomen è omen non manterrà le brillanti promesse degli esordi. Dopo la collaborazione con Tarkovskij, Giuseppe Bertolucci (Strana è la vita, 1987) e Godard, abbandonerà progressivamente la recitazione e il cinema d’autore per dedicarsi a quella che oggi è la sua attività principale: la videoarte (http://www.domizianagiordano.it). 86 Jacques Rancière, Jean-Luc Godard, La religion de l’art, «CinémAction», Où en est le God-Art?, 109, 2003, pp. 106-112.

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(Donnadieu) visitare sotto le spoglie di un Dio la donna amata (Hélas pour moi). Una sequenza in particolare evidenzia l’utilizzo letterale che Godard fa della “starità” di questa star. Nella villa è in corso un ricevimento: i soci sono riuniti per discutere dell’eventuale acquisizione delle quote della Warner. Più che dalle questioni economiche, però, la contessa Elena sembra attratta da un’urgenza “scenografica”: perfezionare al meglio la composizione floreale che addobba il tavolo degli ospiti, da cui Roger è escluso. La donna toglie un fiore dal mazzo, lo sposta, e inverte l’ordine della disposizione. Vengono in mente le parole con cui Jerzy (Passion) descrive il proprio lavoro di cineasta: «osservo, trasformo, trasferisco». Elena osserva, in silenzio, incurante del magma di parole che scorre sulla superficie sonora di un quadro (fig. 51) che ricorda, per struttura compositiva, molti ritratti degli anni Ottanta – in particolare Myriem Roussel in Je vous salue, Marie (fig. 52) e Isabelle Huppert in Si salvi chi può... la vita (fig. 53). Si tratta di un genere di ritratto che potremmo definire “donna con bouquet”. Che si tratti di fiori (Si salvi chi può... la vita) o di semafori (Je vous salue, Marie) non importa: una semplice variazione di fuoco scioglie la materia in colore in modo tale da creare una sorta di iride87 attorno al volto dell’attrice, il quale, isolato rispetto a un ambiente che rimane flou, si offre come puro «affetto» (Deleuze), espressione di un possibile non attualizzato. Intorno a questo volto muto, le parole degli astanti si confondono in un brusio indistinto di frasi interrotte e sospese, oscure come la luce d’ambiente. «Non ti rendi conto di quanto tu sia circondata di persone anche quando tu ti credi sola con il tuo amato» dice una voce maschile proprio mentre l’amato in questione, Mr. Lennox, si aggira tra i tavoli, smarrito e inquieto. In quanto elemento della scenografia di un rito (il pranzo sociale di un’azienda), egli non ha il diritto di toccare i fiori e dunque modificare la mise en scène della contessa, la quale, con un semplice gesto della mano, gli intima di sedersi in un posto defilato. I gesti del lavoro, questa volta, non assomigliano per nulla a quelli dell’amore. Ritorniamo alla sequenza dell’incidente. Mentre le mani dei due amanti si intrecciano, la voce off di Domiziana Giordano traduce in italiano le parole scritte da Bernanos e pronunciate da Delon: «Dolce miracolo!». Ma quello della traduttrice era il ruolo del personaggio di Tarkovskij… Com’è noto, l’immagine divistica di ogni attore si compone di frammenti Nell’utilizzo dei fiori come “cornice” Alain Bergala ha invece rilevato la presenza di quello che appare come il partito preso teorico degli anni Ottanta, ovvero la scelta di filmare gli oggetti secondo un’angolazione contraria a quella che la loro disposizione nello spazio suggerisce (cfr. Alain Bergala, Filmer un plan, in Nul mieux que Godard, cit., p. 106-108.)

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Fig. 51. Nouvelle vague

dei ruoli precedenti e Godard non fa che prendere atto di questa ibridazione, rilanciando all’infinito il gioco delle associazioni. Basta poco per partire: un’immagine, oppure una parola. In questo caso è «morte» la parola seminale, parola che arriva nella bocca di Delon direttamente dai Quaderni di Rilke: «Le désir d’avoir une mort bien à soi devient de plus en plus rare»88. Come il giovane Malte nella Parigi pre-bellica, anche questo viandante riflette sulla vanità terrena dell’essere, esattamente come faceva il curato di Bernanos. Non solo res dunque, ma anche verba. Si tratta però di parole, utilizzate esattamente come il colore o gli attori, ovvero come materiali da tagliare, modellare e incollare a piacimento, meglio se in un contesto iconico eterogeneo al contenuto delle parole stesse. La ricorrenza di questa citazione di Bernanos, frequente nell’ultima stagione quasi quanto i colori della tricromia, ha indotto Jean Cléder a leggere, dietro la superficie del testo, una non velata dichiarazione di intenti: «La forza poetica della creazione non procede più da questo o quel dato (le mani del regista sono vuote), ma da un assemblaggio (le mani del regista lavorano)»89. Figure e colori

Fig. 52. Je vous salue, Marie

Analizzato da questo punto di vista, Nouvelle Vague è forse il film più bressoniano dell’ultimo Godard. Se immagini e suoni producono e ricevono senso soltanto dalla loro interrelazione, evidente è come questo senso sia, come voleva Bresson, «piegato ai ritmi»90. Il contrasto tra colori caldi e colori freddi, l’alternanza di movimenti di macchina e inquadrature fisse, la successione di stasi e deambulazioni dei corpi. Tutto in questo film è ritmo, come del resto suggerisce la dinamica stessa della (nuova) onda. I personaggi – a parte quelli interpretati da Delon – parlano senza sosta, ma le loro parole, dette più che recitate, rinviano a qualcosa che spesso non appartiene né alle immagini né al contesto narrativo della sequenza. Talora, come abbiamo visto, una frase si sovrappone a un’altra, rendendo di fatto impossibile la comprensione del dialogo e offrendosi come «Il desiderio di avere una propria morte si fa sempre più raro». Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), tr. it. Adelphi, Milano, 1992, p. 13. 89 Jean Cléder, Ce que le cinéma fait de la littérature, Fabula LHT 1 décembre 2006. http://www.fabula.org/lht/2/Cleder.html 90 «Onnipotenza dei ritmi. È durevole solo ciò che è catturato in un ritmo. Piegare il fondo alla forma e il senso ai ritmi» (Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit. p. 65). 88

Fig. 53. Si salvi chi può... la vita Figg. 51-53: il volto come immagine-affezione.

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semplice rumore tra altri rumori o, per dirla con Michel Chion, «parolaemanazione». Più che far andare avanti il racconto, le parole infatti escono dal corpo dei personaggi come escrescenze misteriose ma, in qualche modo, a differenza dei corpi già strutturate, finite, composite91. A Godard non interessa “aprire” le terzine di Dante e svelarne, mediante la voce di Domiziana Giordano, nuovi significati. Gli basta «far risuonare la musica dei testi all’interno di una situazione data»92 e magari disturbarne l’ascolto sovrapponendo a queste rime la struttura di una formula algebrica: questo contrappunto di voci annuncia, a metà del racconto, l’entrata in scena del secondo Lennox, al volante di un’auto rossa come il rossetto di Elena. Se, come sosteneva Deleuze, il cinema ha come obiettivo quello di «operare una genesi primordiale dei corpi in funzione dei colori, di un “cominciamento di visibile che non è ancora una figura”»93, Godard sembra divertirsi a negare la purezza di questa genesi. Se l’immagine non è ancora, la parola invece è già (è la parola di Leopardi, di Shakespeare, di Denis de Rougemont) e occupa quel tempo del ricordo al cui interno tutto ha inizio: «Dall’esterno niente viene a distrarre la mia memoria», dice il giardiniere-narratore nell’incipit. Di che cosa si parla in Nouvelle Vague? D’amore innanzitutto. Più che riflettere sulle intermittenze del sentimento, però, Elena si limita a (re)citare aforismi impersonali («L’amore non muore, sono le persone che muoiono. L’amore se ne va»), imitata poi dall’amato («Una donna non può nuocere più di tanto a un uomo. L’uomo porta in sé la sua personale tragedia»). Elena parla, mentre Roger preferisce tacere, e guardare. Quando parla lo fa non solo per ripetere qualcosa che ha impresso dentro di sé (un aforisma o una poesia), ma anche e soprattutto per esprimere se stesso: «Lei parla, parla, parla. Ma non ha capito nulla del mio silenzio. Come può capire che ci sono degli altri, degli altri che esistono, che pensano, che soffrono, che vivono. Lei non pensa che a se stessa». Roger si riferisce a Elena, ma queste parole incarnano – non senza una punta di autoironia – una caratteristica congenita del femminino godardiano, quell’intreccio di cinismo, egoismo e mancanza di empatia che abbiamo osservato in Patricia (Fino all’ultimo respiro), Marianne (Il bandito delle ore undici) e soprattutto in Charlotte (Una donna sposata).

«Dove cominci tu? E dove comincia l’immagine che mi faccio di te?» chiedeva Pierre a Charlotte nella speranza, vana, di cogliere l’anima dietro il corpo e la verità dietro la maschera. Vent’anni dopo, il polo maschile della coppia non pone più domande e nemmeno guarda più il volto della donna amata. Seduto su una panchina, si limita a constatare come «la solitudine sia il solo inferno al quale siamo condannati». Il pensiero ovviamente non appartiene a Godard, ma è una liberissima citazione di un aforisma di Jean Paul 94: «Le souvenir est le seul paradis dont nous ne pouvons être chassés [...] plus généralement, le souvenir est le seul enfer auquel nous sommes condamnés en toute innocence». «Per la prima volta abbiamo l’occasione di dirci delle cose», dice Elena. La parola è annunciata come comunicazione, ma quello che lo spettatore udirà nei due minuti successivi sarà solamente una sovraimpressione di voci, parole e frasi spezzate che scivolano sul tessuto sonoro con la stessa fluidità con cui la cinepresa si libra nell’aria per guardare, da una prospettiva proibita ai corpi, la misteriosa bellezza della natura. Il travelling si conferma come cifra stilistica del racconto, codice finalizzato non tanto a imitare un movimento dei corpi nello spazio quanto a produrre insorgenze di colore (la dominante verde qui sostituisce gli altri elementi della tricromia) o immagini eidetiche. Penso a quel mare extradiegetico, agitato come quello che apriva Prénom Carmen, innestato nel tessuto finzionale del racconto da un movimento di macchina analogo a questo durante il duetto Roger-Elena in camera da letto: l’uomo inginocchiato, la donna in posizione dominante con la sigaretta tra le dita. Scivolare dalle figure umane ai paesaggi è un modo per confondere le carte allo spettatore ma soprattutto un ottima soluzione per evitare di dare alle cose non solo un nome (“volto”, “paesaggio”), ma anche dei contorni. Uno dei codici simbolo della Nouvelle Vague, il travelling, è dunque svuotato delle sue funzioni narrative e anzi impiegato in modo quasi decostruttivo. Anziché aiutarci a pedinare i corpi, ci allontana da essi, come dimostra l’inquadratura finale della sequenza appena analizzata. Mentre Elena e Roger si allontanano verso il fondo del quadro, in direzione del bosco, la cinepresa scarta a sinistra e resta ferma al bivio del sentiero, senza prendere nessuna direzione e dunque senza collaborare alla costruzione di una delle tante storie aperte dal narratore. Esemplare, in questo senso, è la lunghissima carrellata laterale che, la sera del ritorno di Lennox, accarezza dall’esterno le pareti della villa e

Sulla citazione come esperienza «creatrice» si veda Philippe Roger, Nouvelle vague entre Tati et Bresson: musique, littérature, peinture, «CinémAction», 109, 2003, pp. 23-29. 92 Jacques Rancière, Jean-Luc Godard. La religion de l’art, cit., p. 108. 93 Gilles Deleuze, L’ immagine-tempo, cit., p. 223.

94 «Il ricordo è l’unico paradiso dal quale non possiamo essere cacciati. Più in generale, il ricordo è l’unico inferno al quale siamo condannati in tutta innocenza». (Jean Paul, Die unsichtbare Loge, tr. fr. La loge invisibile, 1793).

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mostra il vuoto che si apre non solo attorno alla contessa, ma anche tra la coppia, i cui poli sono collocati ai margini del quadro (fig. 54). Vengono in mente i virtuosismi di Ophüls e non a caso. Pur collocato in un contesto estetico e culturale lontanissimo dai melodrammi ophulsiani, anche l’amore di Elena e Mr. Lennox è filmato come una ronde, un girotondo di frasi spezzate, discorsi interrotti e mani intrecciate sull’acqua.

Proprio nell’ora del tramonto, quando i «navicanti» di Dante si struggono di nostalgia, Elena attua infatti il suo progetto criminale, tendendo la mano all’uomo per invitarlo a un tuffo mortale. Ma anche la morte, come l’amore, altro non è che un’immagine, come conferma la reazione verbale del giardiniere/demiurgo, seduto sulla riva del lago assieme alla figlia: Giardiniere: «Cécile, cosa sono queste immagini, a volte libere, a volte confinate? Questo enorme pensiero… delle figure passano mentre dei colori brillano? Cécile: «È lo spazio».

La Nouvelle Vague è lontana, sia nel tempo che nello spazio. Non ci sono più corpi da inseguire o precedere nei boulevard, anche perché non ci sono più boulevard, ma una selva oscura e umida, dove gli amanti si rifugiano nel disperato tentativo di «dirsi delle cose». Se gli amanti degli anni Sessanta fuggivano verso il mare, questi si devono accontentare delle rive di un lago. Del mare è rimasta solo la voce, ovvero lo sciabordio delle onde che dopo aver risuonato nel corpo di Carmen ora si infrangono in spazi sonori che nulla hanno a che vedere con il contenuto delle immagini. I mari assolati di Il bandito delle undici o di Il disprezzo sono sostituiti dalle acque fredde di un lago il cui orizzonte, a differenza di quanto dicono le terzine di Dante lette da Domiziana Giordano95, non intenerisce nessun cuore.

Mentre la ragazza recita una poesia di Lamartine (Le lac), la mente dello spettatore rievoca immagini non libere ma appunto «confinate» (enfermées) nella storia del cinema, immagini di cui queste non sono che un’ombra, anzi: l’ombra di un’ombra. Penso agli omicidi per annegamento che fungono da punte drammatiche di due celebri mélo: Leave Her to Heaven (Femmina folle, 1945, John M. Sthal) e soprattutto A Place in the Sun (Un posto al sole, George Stevens, 1951). Una «storia sola» evoca dunque altre storie, perché in fondo una storia, al cinema, non è nulla di più di quanto ha sintetizzato il giardiniere: «alcune figure che passano mentre i colori brillano». E così anche l’apparizione del secondo Lennox, chiosata dalla didascalia Je est un autre, altro non è che la raffigurazione di una ricorrenza di rosso (l’auto rossa occupa tutta la metà inferiore del quadro) la quale, per mezzo di un lento travelling, si dissolve in un’insorgenza di verde (fig. 55). Nella selva svizzera, più lussureggiante che oscura, la figura umana si dissolve, quasi a suggerire la conquista di quell’armonia uomo-mondo agognata non solo dalle eroine degli anni Ottanta ma anche dell’enigmatico giardiniere. «Questa terra, è dentro di me?» – si chiede l’uomo fissando l’erba sotto i suoi piedi – «È essa ancora erba quando è senza di me?». «Il cinema di Godard è evento visivo»96, ha scritto Marie-Françoise Grange; e Nouvelle Vague ne è la conferma. Se la presentazione del sosia di Lennox alla casta Torlato-Favrini è occasione per l’ennesima variazione sulla tricromia (un travelling laterale scopre una fila di auto disposte in modo tale da alternare i tre colori), la passione tormentata di Elena

95 «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio / e che lo novo peregrin d’amore / punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more». (Dante Alighieri, La divina commedia: il Purgatorio, canto VIII).

Marie-Françoise Grange, Images d’artiste, in Gilles Delavaud, Jean-Pierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange, (sous la direction de), Godard et le métier d’artiste, cit., p. 97.

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Fig. 54. Nouvelle Vague

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Fig. 55. Nouvelle Vague

– obbligata ad amare il revenant in quanto doppio del corpo già amato («Se non fosse per il vostro volto, non sarei obbligata ad amarvi») – è dipinta come una lotta tra le forze della memoria e quelle dell’oblio. Elena non vuole guardare il volto meduseo del non-morto, il quale porta con sé tracce intertestuali di altre storie (penso al ruolo del sosia interpretato da Delon nel William Wilson [episodio di Tre passi nel delirio, 1967] di Louis Malle)97, e si rifugia in quella stessa oscurità che nella prima parte del film invece evitava di abitare. L’autore lascia che la penombra inghiotta i capelli di Domiziana Giordano in uno spazio composto non più di alberi o prati, ma di vetri, finestre, mura. Se gli alberi, come voleva il Rossellini intervistato da Godard, ci parlano della «loro bellezza di alberi»98, queste soglie raffigurano la difficoltà di comunicazione del personaggio ma anche l’impossibilità, da parte della cinepresa, di in-quadrarne il dolore, di dargli una forma, un colore, dei contorni.

L’ultimo frammento del discorso amoroso, quello che documenta la sofferenza del personaggio femminile, è forse una delle pagine più intense di tutto il cinema di Godard. Nel tentativo di fare ciò che si era promesso fin dal 1965, ovvero filmare «la vita da sola» e ridurla ai suoi elementi fondamentali99, l’autore non espone nient’altro che la materia di cui si compone ogni immagine, non importa se fissa o mobile: il buio e la luce. Il secondo Lennox agisce come una sorta di novello Orfeo. Ritorna non dagli Inferi ma agli Inferi per riprendere la sua sposa – la quale non a caso non vuole guardarlo in faccia – e portarla dove tutti gli amanti godardiani sognano di fuggire: verso il sole, verso la luce. La sequenza della governante che spegne una a una le lampade al calar della sera, sciogliendosi nel buio assieme a ciò che resta di visibile, dimostra l’influenza determinante della pittura fiamminga nella costruzione dell’immagine, pittura che ritornerà qualche anno dopo a modellare gli interni di JLG|JLG Autoportrait de décembre, altra variazione, questa volta in chiave autobiografica, sul tempo del ritorno. La pittura fiamminga è scelta in quanto exemplum di immagine intesa come «rapporto»100, in questo caso rapporto tra chiaro e scuro, linee luminose che si muovono all’interno di masse scure. Dodici anni dopo Dans le noir du temps rinnoverà il motivo del conflitto luce-buio come metafora della caducità del tempo: alla domanda della bambina, che chiede perché la notte faccia buio, Mr. Vicky replicherà con queste parole: «Quando il cielo aveva la tua età, l’universo splendeva di luce. Poi il mondo è invecchiato, si allontana. E quando guardo il cielo tra le stelle, non posso vedere che ciò che è scomparso». Al pari di JLG, che in un appartamento buio come un ventre cerca di ritrovare e catturare la luce dei ricordi, Elena è scissa tra la memoria e l’oblio, tra l’amore come Immagine, riflesso narcisistico del Sé, e l’amore come nulla, annientamento di ogni volontà, desiderio, identità. Reditus ad originem Come abbiamo visto, nessuna creazione è possibile – né quella della Vita

Il primo Lennox però, con quell’aria stralunata e quell’aspetto dimesso, ricorda da vicino Robert Avranche, un personaggio interpretato dall’attore per Bertrand Blier in un film, Notre histoire (1984), citato da Godard anche nelle Histoire(s) du cinéma. 98 «Bisogna arrivare al punto in cui le cose parlano da sé. […] Quando qualcuno mostra un albero, bisogna che vi parli della sua bellezza d’albero». (Jean-Luc Godard, Intervista con Roberto Rossellini. «Un cineasta è anche un missionario», in Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 153).

«La vita da sola, che mi sarebbe piaciuto tenere prigioniera grazie a panoramiche sulla natura, inquadrature fisse sulla morte, immagini brevi e lunghe, suoni forti e deboli […]». (Jean-Luc Godard, Pierrot amore mio, in Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 233). 100 «L’immagine è un rapporto… Un’immagine sono due cose lontane che avviciniamo, oppure due cose vicine che allontaniamo… Sottile come un capello, grande come l’aurora»: ecco un’immagine. Un capello non è un’immagine, e nemmeno l’aurora lo è. E il rapporto tra le due entità che produce l’immagine». (Jean-Luc Godard citato in Jean-Louis Comolli, Jouer à la Russie. Les corps projetés de Godard, «Trafic», 18, 1996, p. 44).

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(Je vous salue Marie), né quella di un film (Passion) e nemmeno quella di un archivio (Histoire[s] du cinéma) – senza un’interrogazione sull’origine. All’alba del nuovo millennio Godard si congeda dal Novecento con De l’origine du XXIème siècle, un video-omaggio di diciassette minuti al secolo che ha visto l’Orrore e che ora sta per accogliere un’altra catastrofe (l’11 Settembre). In principio non è un’immagine, ma una parola: OR-IGINE. Più che riflettere sul significato, l’autore si diverte a esporre la polisemia del significante decostruendo la struttura della parola. La parola origine contiene infatti il lemma or: parlare dell’origine significa parlare di un età dell’oro? Oppure il tema dell’oro – che ritroveremo simboleggiato dall’orologio d’oro di Film socialisme101 – rinvia alla critica del capitalismo espressa in La Monnaie de l’absolu? Come sempre, anche in questo piccolo lavoro il senso erra di suono in suono e di immagine in immagine. «Dell’immagine si ha paura – ha dichiarato Godard nel 1980 – perché l’immagine permette di vedere»102. Più che incutere paura, le immagini che si susseguono in questo collage “contengono” paura: la paura della morte impressa negli occhi aperti di un cadavere o la paura del dolore disegnata sul volto della vittima di una tortura. La fonte è spesso oscura. Archivi bellici, snuff movie, film di propaganda sono però alternati a fotogrammi tratti da film di finzione, come The Best Years of Our Lives (I migliori anni della nostra vita, William Wyler 1946) o Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975), storie di orrori all’ombra della Storia. Lo spettatore è invitato a guardare non solo gli elementi del collage ma anche e soprattutto quello che c’è tra di essi. Si consideri l’incipit. Che cosa “unisce” il cadavere impiccato di un dittatore (documento: fig. 56) al volto agonizzante di Marcello Pagliero in Roma città aperta ([1945, Roberto Rossellini] finzione: fig. 57), se non uno spazio nero e le note minimaliste di Hans Otte? La scelta di Otte è perfetta: sul libro di un pianoforte “deep listening” (Das Buch der Klänge) scorrono le pagine di una Storia che è al contempo quella dell’uomo e quella del cinema, e la Storia, come la musica, è composta da intervalli, assonanze e soprattutto da dissonanze. Partiamo dalle assonanze. Godard procede selezionando motivi figurativi tali da confondere la frontiera tra realtà e finzione e uno di questi motivi sono le gambe, ovvero ciò che resta di una frammentazione della Non a caso Nicole Brenez legge questo film di montaggio come una sorta di bozza per il futuro Film socialisme. (Cfr. Nicole Brenez, Liberté, fraternité, prodigalité, «Cahiers du cinéma», 657, 2010, pp. 26-27). 102 Jean-Luc Godard, Propos rompus, «Cahiers du cinéma», 316, 1980. 101

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Figg. 56-57. De l’origine du XXIème siècle: dal vero al falso, dal presente al passato. 173

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figura umana già effettuata, tra gli altri, in Una donna sposata (incipit) e in Je vous salue, Marie (la camminata sulle strisce pedonali nel finale). Le gambe rinviano all’idea di movimento e dunque al topos, caro al cinema moderno, del corpo errante dell’attore, libero di significare solo se stesso. I movimenti compiuti dai corpi decostruiti in questi fotogrammi, però, non simboleggiano alcuna forma di libertà. Dal dettaglio dei piedi degli sposi di Salò (fig. 58) passiamo, attraverso dissolvenze in nero e una danza rituale di piedi femminili (fig. 59), ai piedi di anonimi deportati in chissà quale lager. Come detto, il montaggio funziona anche per dissonanze: dissonanze plastiche, grafiche, cromatiche, sonore. Senza soluzione di continuità, per esempio, il nostro sguardo scivola da un dettaglio di Masaccio (La cacciata dell’Eden) al volto di una contadina del Vietnam, per poi fermarsi sull’icona dell’origine di questo cinema, il primo piano di Jean Seberg nel finale di Fino all’ultimo respiro. Dato l’alto numero di immagini fisse che compongono questo video, commissionato dal Festival di Cannes per inaugurare la prima edizione del nuovo millennio, può essere interessante analizzarlo alla luce delle due modalità di ricezione coniate da Barthes per le immagini fotografiche, ovvero lo studium e il punctum103. Più che informare (studium), le immagini “trovate” che scorrono in questi diciassette minuti formano lo sguardo di uno spettatore sospeso tra la scena (i frammenti di almeno dieci lungometraggi) e ciò che invece di norma resta ob-scenam, nascosto negli archivi militari o distribuito in circuiti indipendenti. Dal punto di vista del punctum, allora, il rigor mortis del cadavere di un prigioniero acquista maggior carica emotiva se raccordato con la mobilità fluida e senza tempo del triciclo di Danny (The Shining [Shining, Stanley Kubrick, 1980]), a sua volta accompagnato da un crescendo di note fondato non a caso sul principio della ripetizione. Godard constata – e ci ricorda – che il passato, anziché “passare”, si ripete: nessun sorriso di bambino o di madre può, come pur l’autore avrebbe voluto, «coprire il ricordo di esplosioni o crimini». Il ricordo prende vita e si cristallizza, anche grazie alla riproducibilità tecnica dell’immagine, come eterno presente e spesso è proprio il cinema a rianimare la traccia di un evento. Si vedano le anonime immagini di guerra (paracadutisti che scendono da un elicottero) raccordate sullo sguardo, incollato sul finestrino, del bambino di Persona (Id., Ingmar Bergman, 1966). Godard non si 103

Cfr. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. Einaudi, Torino, 1980.

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Figg. 58-59. De l’origine du XXIème siècle. Frammentazione e decostruzione: l’erranza negata.

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è mai stancato di ripeterlo: non c’è montaggio senza «avvicinamento di qualcosa di lontano con qualcosa di vicino, e soprattutto nel tempo»104. Per cercare l’origine di un secolo «perduto», come recita una delle didascalie, Godard parte dal 1990 e procede a ritroso, punteggiando con citazioni “colte” schegge di un passato al contempo pubblico (Marilyn ritratta da Bert Stern) e privato (Jean Seberg ritratta da Godard). Come le immagini, anche le parole illustrano conflitti: conflitti tra anima e corpo, tra la Memoria e la sua rappresentazione, tra l’individuo e lo Stato. Eloquenti in questo senso le parole di Bataille scandite nella prima parte da una voce over femminile: «Vous dîtes l’amour, mais rien n’est plus contraire à l’ image de l’ être aimé que celle de l’État, dont la raison s’oppose à la valeur souveraine de l’amour»105. Ma se lo Stato (la Storia) è mostrato, quanto meno nelle sue icone più rappresentative (Kennedy, Hitler, Stalin), dell’amore per gli «esseri mortali» (la storia), invece, non c’è traccia se non quella ricostruita dal cinema. Mi riferisco al breve inserto di Viaggio in Italia (Roberto Rossellini, 1954), con i corpi degli amanti uniti in una abbraccio mortale dalla lava, o alla danza mortale di La Ronde (La Ronde – Il piacere e l’amore, Max Ophüls, 1950), che conclude il viaggio – e il secolo – sotto il segno non della trasgressione, come suggerisce la citazione di Bataille, ma della malinconia. Il nuovo millennio ricomincerà proprio da qui, da una riflessione in forma di film sulla fragilità e sulla bellezza dell’amore mortale.

C apit ol o 4 Via g g i in ut opia (Liberté et patrie; Éloge de l’amour; Film socialisme; Adieu au langage) Vedere e/o immaginare In occasione della celebrazione del centenario del cinema, Godard saluta il ventesimo secolo con un rimpianto, che è anche un impietoso j’accuse: «Il cinema ha guardato il mondo meno di quanto non abbia guardato il mondo che lo guardava»1. Il cinema insomma, che l’autore considera a tutti gli effetti uno strumento di pensiero al pari della filosofia 2, avrebbe rinunciato alla sua vocazione di finestra sul mondo, e dunque sulla Storia, per ripiegarsi a raccontare solamente delle storie, e poco importa se a queste storie si accordassero – come suggeriva la citazione di Michel Mourlet all’inizio di Il disprezzo – anche i nostri desideri. All’alba del nuovo millennio Godard vuole invece continuare a guardare il mondo – ovvero un presente fatto di guerra (Forever Mozart) e di memoria della guerra (Éloge de l’amour) – e allo stesso tempo non smette di guardare se stesso, filmando il proprio cinema (penso alle numerose autocitazioni in Dans le noir du temps) ma anche il proprio corpo: si veda il ruolo di “conferenziere” interpretato dal regista nel Purgatorio di Notre musique.

Jean-Luc Godard, Discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Adorno a Francoforte 1995, tr. it. in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, cit., p. 136. 105 «Lei dice l’amore, ma niente è più lontano dall’immagine dell’essere amato che quella dello Stato, la cui ragione si oppone al valore sovrano dell’amore». (Georges Bataille, L’amour d’un être mortel, Ludd, Paris, 1951; 1990, p. 8).

Jean-Luc Godard, Discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Adorno a Francoforte il 17 settembre 1995, in Roberto Turigliatto, Passion Godard, cit., p. 138. 2 «Il cinema è fatto di immagini che si susseguono una dopo l’altra, e questo “tra il prima e il dopo” è quasi uno dei fondamenti della filosofia. Solo che il cinema ci restituisce questo in modo spettacolare» (Jean-Luc Godard in Godard est là. Entretien à Rolle, 2002 https:// www.youtube.com/watch?v=snmiLJhLUa4).

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voci over – Elle e Lui – di Liberté et Patrie, biografia di un pittore immaginario (Aimé Pache) commissionata dall’Exposition Nationale Suisse:

Il nuovo secolo dunque comincia così come era iniziata la terza stagione, quella degli anni Ottanta, ovvero con l’alternanza tra la forma-racconto in 35mm – dove in(de)finite storie secondarie gravitano attorno a una storia principale – e la forma breve del videosaggio, concepito ancora una volta come schermo di rifrazione per le onde narrative, vecchie o nuove, del lungometraggio che esso anticipa o segue. Tra Éloge de l’amour e Notre musique, per esempio, gravitano Dans le noir du temps e Liberté et Patrie, due collage di frammenti atti a introdurre una delle questioni più attuali nel pensiero godardiano, ovvero la dialettica tra l’atto del vedere (voir) e quello di immaginare (se représenter). Andiamo con ordine. Primo lungometraggio del nuovo millennio, Éloge de l’amour racconta il tormento di un regista che non cerca juste des visages, ma i volti giusti per rappresentare i quattro momenti di ogni discorso amoroso, dalla passione iniziale alla crisi e quindi alla ricomposizione della coppia. Questo regista ha inquietudini molto simili a quelle del reporter di Le petit soldat. Come Bruno Forestier, infatti, non riesce a trovare una relazione tra ciò che vede o ascolta e ciò che immagina. I casting, come vedremo, lo lasciano deluso perché il reale – per esempio il timbro di voce di un aspirante attore – contrasta con l’immaginario, vale a dire con l’idea del personaggio che egli vede dentro di sé. Ma il crinale tra visione e immaginazione è una zona abitata anche e soprattutto dall’autore. A quasi vent’anni di distanza dalla sua pubblicazione, infatti, il lavoro di decostruzione e rimodellamento dei frammenti nell’archivio delle Histoire(s), altro non appare che la messa in pratica di quell’imperativo di Claude Monet citato, oggi, sia nel press book che nel tessuto sonoro di Adieu au langage: «Non dipingere ciò che vedi, poiché non si vede nulla; dipingere ciò che non si vede». Riprodurre il visibile, insomma, non significa necessariamente riuscire a fermarlo e dunque a guardarlo, al contrario. Solo il montaggio, «dolce affanno», può “salvare la vita” di queste immagini, elaborando il lutto della cecità e permettendo il passaggio dall’invisibile al visibile, dal nulla all’immagine. A partire dagli anni Sessanta, in fondo, Godard non cerca che questo: filmare una nuca (Questa è la mia vita), un’auto (Il bandito delle ore undici), una mano (Una donna sposata), una parola (La donna è donna) o il fotogramma di un film (Histoire[s] du cinéma) in modo tale che suddetto oggetto sveli, per mezzo della messa in quadro e della sua posizione nel découpage, un volto in qualche modo inedito, nuovo, inatteso allo spettatore, il quale è invitato a chiudere gli occhi per superare, mediante l’immaginazione, i limiti della visione. Sull’ambiguità del visibile riflettono le due

Cinquant’anni dopo la sua «difesa e illustrazione» sui «Cahiers», dunque, Godard mette in evidenza i limiti del découpage classico, ovvero la sintassi di un cinema che, per mezzo dell’economia mimica dell’attore, coinvolgeva lo spettatore in una catena narrativa di azione e reazione dove era possibile guardare ma non (sempre) immaginare, perché il senso era ovvio e non (sempre) ottuso. Quella che traspare da questo dialogo è invece una sorta di “difesa e illustrazione” dell’effetto Kulešov. Il contenuto dell’immagine – in particolar modo se codesta immagine contiene un volto – non è dentro il quadro, ma fuori di esso, tra le giunture del montaggio. «Rappresentazione, e non immagine» dice la voce over maschile nel primo capitolo di Liberté et patrie (1. En ce temps là): «Guarda questa figura e poi cerca di rappresentarti questa figura». Ma per “rappresentarsi” qualcosa è necessario fare come la montatrice che abbiamo visto agire in JLG/JLG, ovvero tenere gli occhi chiusi. Viene in mente un passaggio di Toutes les histoires e più esattamente le parole con cui, parafrasando un celebre passo del Diario di un curato di campagna (cfr. Capitolo 3), l’autore commenta la dissolvenza incrociata che fonde, in un fulmineo abbraccio, un cadavere in un lager nazista, un dettaglio della Maria Maddalena di Giotto e il corpo bagnato di Liz Taylor (Un posto al sole): «Che meraviglia poter guardare ciò che non si vede. O dolce miracolo dei nostri occhi ciechi». Per questo, negli esterni del suo autoritratto (JLG/JLG), Godard ci aveva portato in paesaggi invernali vuoti di suoni e di corpi, «strade che non portano da nessuna parte» e soprattutto bianche come quella pagina che – recita una delle didascalie – è «il vero specchio dell’uomo». Come il Monet di Adieu au langage, il pittore di questo autoritratto chiudeva gli occhi e lasciava che la vista errasse tra il buio degli interni e la luce evanescente dell’inverno svizzero, in modo tale da offrirci non il proprio ritratto, ma quello che cercava anche il Bruno di Le petit soldat, ovvero il paesaggio

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Elle: «Domanda a una persona di gettare uno sguardo di dubbio o di piacere e poi nascondi il suo volto lasciando liberi solo gli occhi». Lui: «Vedo delle emozioni ma… noia, tristezza, gioia segreta, non si può capire». Elle: «Non è il cambiamento di aspetto che si verifica, ma il cambiamento di interpretazione».

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interiore del modello (che in questo caso coincide con il pittore). Allo stesso modo, il successivo Forever Mozart si offriva come un film su Sarajevo senza che noi potessimo vedere alcuna immagine della guerra, già riprodotta all’infinito dalla televisione e resa dunque ormai invisibile. Per vederla è necessario immaginarla e coglierne quello che Godard ha definito il «senso». A tal fine sono sufficienti alcuni suoni fuori campo (rumore di mitragliatrice, esplosioni) e qualche immagini eidetica, come quell’inquadratura di due carri armati tedeschi incongrua dal punto di vista storiconarrativo ma finalizzata «a far sentire la pesantezza dell’acciaio»3. Tra linea e colore Torniamo a ragionare su Liberté et Patrie. Raccontare la storia di Aimé Pache, personaggio nato dalla fantasia del romanziere svizzero CharlesFerdinand Ramuz, è occasione per evocare una Storia più grande, quella del cinema. E così le vicende di Aimé bambino sono illustrate con i volti di personaggi finzionali quanto lui, come il bambino di Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) o il ragazzino di Persona, che contempla i quadri nel corridoio con lo stesso stupore con cui Aimé ammirava il corpo femminile: «Non credo che fosse già la donna – dice la voce over femminile –, ma la pittura». Guardare il corpo attraverso la sua riproduzione pittorica significa già passare dalla visione (un corpo femminile) all’immaginazione (il corpo femminile). Il padre di Pache – si dice nel commento – non credeva nel potere delle immagini, ma solo in quello delle parole. Il figlio invece – al pari di Godard (autore di alcuni dei quadri mostrati nel video) – preferisce guardare le cose senza dare loro un nome e soprattutto dipingerle senza dare loro dei contorni. E così il succo d’arancia che scorre sul tavolo (Fig. 60) – un’inquadratura che ritornerà uguale e identica in Adieu au langage – è al contempo il succo di un’arancia e il «sangue della patria». Parlare di Pache insomma, pittore in fuga dalla figurazione e teso a cercare nel colore la verità della pittura, significa per l’autore parlare di se stesso, come del resto aveva già fatto in una delle storie secondarie di Passion, mettendo in bocca a uno dei membri della troupe una riflessione di Gregory Bateson sulla questione dei contorni delle cose (cfr. Capitolo 2). Prima di dire addio al linguaggio, insomma, Godard cerca di dire addio ai contorni, in modo tale da facilitare allo spettatore la transizione dalla 3

Jean-Luc Godard in Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, cit., p. 233.

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Fig. 60. Da Liberté et patrie a Adieu au langage

visione all’immaginazione. Per questo tra le decine di dipinti che, frammentati a tal punto da essere quasi irriconoscibili, si susseguono in Liberté et patrie, ricorrono due opere di Nicolas De Staël, icona della pittura “esistenzialista” del dopoguerra evocato successivamente anche in Adieu au langage: Mr. Davidson, l’uomo seduto nei pressi di L’usine à Gaz4, sfoglierà, citandone a voce alta alcuni passi, La Mesure de Nicolas de Staël5, viaggio analitico e poetico nell’universo di un artista che, al pari di Godard, ha coniugato la sperimentazione con lo sguardo verso il passato6. «Per la madre di Pache – dice la voce over femminile – l’immagine era mistero». Ebbene tutta la ricerca di De Staël, partito da griglie di colori scuri (Ressentiment, 1948) e approdato, attraverso un sofferto itinerario interiore, all’esplosione di colori chiari e saturi (Le grand concert, 1955), è volta ad affermare, mediante un gesto pittorico al contempo fisico e metafisico, l’indecifrabilità del reale. Si è parlato ampiamente, nei capitoli precedenti, del fascino di Godard per 4 L’Usine à Gaz è il centro culturale di Nyon che Godard ha utilizzato sia come scenografia che come camerino per gli attori di Adieu au langage (http://www.usineagaz.ch). 5 Jean-Pierre Jouffroy, La mesure de Nicholas De Staël, Éditions Ides et Calendes, Neuchatel, 1981. 6 Penetrare il mondo di De Staël – questa è la tesi di Jouffroy – significa interrogare non solo il tempo in cui l’artista ha lavorato e vissuto, ma anche e soprattutto il passato, con il quale egli non ha mai smesso di confrontarsi: da Braque a Velásquez, da Chardin a Cézanne, la pittura di De Staël è ricca di fantasmi.

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la dimensione del tra, ovvero di quella zona di intervallo che abita l’occhio indeciso tra la finzione e il documentario, tra costruzione e decostruzione, tra immagine e nulla. L’orizzonte teorico della pittura di De Staël è molto simile a questo. Rifiutandosi di contraddire completamente le leggi del figurativo e lasciando invece all’osservatore il compito di disegnare nella sua mente i contorni di ciò che il colore ha dissolto, De Staël non ha fatto altro che inseguire l’utopia di una conciliazione tra astratto e figurativo e dunque tra linea e colore, definito e indefinito. Come dimostrano le due opere citate in Liberté et Patrie, la realtà non è imitata, ma nemmeno rifiutata; è piuttosto reinventata. La prima citazione riguarda Nu allongé au bras gauche (1955: fig. 61), una

Fig. 62. Adieu au langage

Fig. 61. Liberté et patrie

delle opere più emblematiche del ricerca dell’artista sulla figura umana e in particolare sul nudo femminile, non a caso oggetto di riflessione e rappresentazione in Adieu au langage. Se Godard, filmando il corpo nudo di Zoé Bruneau nell’atto di scendere una scala (fig. 62), si divertirà a parodiare il modello astratto di Duchamp (Nudo che scende le scale n. 2, 1912), qui il nudo di De Staël esprime null’altro che uno stato di tensione. Staccata dall’ambiente per mezzo di contorni così voluminosi da apparire essi stessi frammenti di spazio, questa figura appare al contempo inumana – un blocco di colore blu 182

accostato a una superficie rossa – e umana, come attestano le macchie nere in corrispondenza del viso (i capelli scompigliati) e la gradazione di azzurro che illumina, conferendo dinamismo, le gambe. Perché Godard sceglie questo e non altri nudi di De Staël? Forse perché la palette tricolore impiegata – bianco (lenzuolo), blu (corpo), rosso (muro) – è la stessa che egli adotta da sempre? Il fatto è che nemmeno la riproduzione sfugge alla pratica della decostruzione, attuata nelle Histoire(s) du cinéma per tutte le riproduzioni pittoriche citate. Innanzitutto, il taglio di inquadratura sacrifica i bordi del dipinto, esaltando il peso occupato dalla figura umana in uno spazio che appare meno vuoto di quello creato da De Staël. In secondo luogo, è evidente come l’intento di Godard non sia quello di offrirci una copia originale di De Staël, ma filmare la verità della sua pittura. Se l’immagine cinematografica deve essere un «incontro»7, l’unico modo per restituire la tensione di cui sopra, allora, è accostare l’immagine di questo poster al particolare di un’opera lontanissima da questa per contenuto e linguaggio, Il bagno a Asnières di Georges Seurat (1884). Da «L’immagine non è rassicurante, non è ne pro né contro. È un momento di incontro, è una stazione dove due treni passano. Non è nulla più di questo». (Jean-Luc Godard, Propos rompus, «Cahiers du cinéma», 316, 1980). Sul concetto di immagine in Godard si veda Michael Witt, L’ image selon Godard: théorie et pratique de l’ image dans l’oeuvre de Godard des années 70 à 90, in Gilles Delavaud, Pierre Esquenazi, Marie-Françoise Grange (sous la direction de), Godard et le métier d’artiste, cit., pp. 19-32.

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questo paesaggio – una spiaggia brulicante di corpi bagnati da una luce al contempo materica e astratta – Godard ritaglia il profilo del volto di un ragazzo, il cui corpo, immerso nell’acqua, resta fuori campo. Quasi evocato dal gesto del bagnante, che porta le mani alla bocca come per rafforzare la direzione del suo grido, il nudo di De Staël prende vita, lampeggiando ripetutamente sullo schermo sino a sovrapporsi, per qualche istante, con la pelle puntinista di Seurat (fig. 63).

racconta la dipartita della moglie di Pache, Godard accosta agli esterni naturali della Romandia uno dei tanti paesaggi marini del pittore espressionista, che nelle sue lettere ha sempre confessato amore per l’infinito del mare aperto. Il narratore sta raccontando la triste fine della moglie di Aimé, partita per mare per un viaggio senza ritorno dopo la morte della figlioletta, quando sullo schermo appare, incorniciata da due semplici stacchi, una riproduzione di Bateaux (1954: fig. 64). Questa volta nulla

Fig. 64. Liberté et patrie

La libertà a cui allude il titolo, allora, non è solo l’icona evocata da Delacroix (si veda la citazione di La libertà che guida il popolo, 1830) o la parola stampata sullo stemma di Vaud, il cantone svizzero dove è vissuto Pache e dove vive Godard, ma anche la possibilità, che questo montaggio ci offre, di rappresentarci un’immagine nuova e dinamica a partire dalla messa in relazione di due immagini fisse. Basta fare ciò che suggerisce la voce over, ovvero non limitarsi a guardare «fino a lì», ma chiudere gli occhi. La pittura, secondo De Staël, è al contempo muro (astrazione) e rappresentazione di uno spazio (figurazione), allo stesso modo in cui il cinema, per Godard, è contemporaneamente svelamento del dispositivo ed effetto di reale. Verso la fine di questa biografia immaginaria, quando il narratore

contamina l’immagine trovata: nessuna dissolvenza incrociata, nessuna riscrittura grafica o cromatica. La sola variazione rispetto al modello è la consueta amputazione dei bordi del quadro, scelta che non impedisce di cogliere quella che è forse la caratteristica più affascinante delle vedute di De Staël, ovvero la “messa in scena” di una continuità tra gli elementi disposti in primo piano e l’orizzonte. In particolare nelle opere degli anni Cinquanta, il blu del cielo si confonde con il mare, allo stesso modo in cui in questo cinema le storie principali sfumano in quelle secondarie e le parole si mescolano con i rumori d’ambiente. Non (solo) un soggetto dunque Godard ci mostra – un soggetto, il mare, del resto ricorrente in questa terza stagione – ma un’idea di messa in scena che la pittura suggerisce al cinema. Ed è stato lo stesso cineasta, nel corso di un’intervista concessa di recente alla CPN (Canon Europe), a ricordare come la tensione verso gli

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Fig. 63. Adieu au langage

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spazi vuoti – evidente anche in Adieu au langage – sia in realtà qualcosa che la pittura aveva già fatto. E per pittura in questo caso Godard intende Velásquez, o meglio il Velásquez che dipinge quello che c’è tra le cose (Il bandito delle ore undici: Cfr. Capitolo 1). «È mai possibile produrre un concetto di Africa?», domanda due volte una voce off femminile in Adieu au langage. Dieci anni prima, Liberté et patrie suggerisce un percorso contrario: dal concetto alla parola e quindi alla cosa. Limitati alla loro espressione verbale o grafica – questo forse vuol dirci Godard – Liberté e patrie restano segni vuoti, utili solo per contrassegnare lo stemma di un cantone. Le immagini – lo abbiamo visto – pensano, ma un concetto è filmabile quando diventa cosa o ancor meglio colore. Ciò accade solo nel Grand tableau finale, quello che Aimé Pache avrebbe dipinto alla fine della sua vita, quello che in realtà Godard dipinge e mostra nell’ultima inquadratura del video. Si tratta di un paesaggio di campagna. Nascosti nell’erba alta, due bambini, forse due fratelli, guardano un cielo multicolore all’orizzonte. Commentando il dipinto, il narratore non ci dice ciò che vede, ma solo ciò che si rappresenta: «I due bambini hanno i piedi nella Patria e gli occhi nella Libertà». Elogio dell’ impersonale Tra i paesaggi abitati da questo pittore immaginario compare anche Parigi8, una Parigi notturna che lo spettatore però ha già visto tre anni prima in Éloge de l’amour, ennesima variazione sul tema del cinema nel cinema. Fase finale di un progetto antico, nato con il titolo Voulez vous faire du cinéma?, Éloge de l’amour presenta almeno una storia principale – la medesima di Passion, ovvero un regista in cerca di storie – e un numero indefinito di storie secondarie, tra cui spiccano quella di una coppia di partigiani (Storia/Memoria) e quella di una donna suicida (storia/solitudine). La struttura duale della dialettica regola non solo lo sviluppo narrativo del racconto, ambientato per metà a Parigi e per metà in campagna, ma anche la testura stessa del dispositivo. Se la prima parte, quella che documenta la recherche di Edgar, è girata in pellicola b/n, la seconda, collocata in un tempo diegetico precedente alla prima, è filmata in video digitale e a colori. Quello che Edgar ha in mente è una cantata per Simone Weil, incarnazione mistica di quel frammento di Storia, la resistenza partigiana, che Hollywood vorrebbe comprare e che invece Edgar

cerca di proteggere. E per proteggere la Storia è indispensabile far sì che essa non diventi leggenda. L’omaggio a Simone Weil conferma l’ipotesi, esposta in sede di Introduzione, di Éloge de l’amour come prima tappa di un ritorno ai grandi temi degli anni Ottanta, ovvero la riflessione sull’origine della creazione artistica e l’interrogazione sull’Origine del mondo. Ogni creazione, in quanto tale, è movimento, passaggio da uno stato all’altro, valico di quella soglia – molto familiare che separa l’invisibile dal visibile9. E allora ragionare sul mistero di Dio equivale a indagare il mistero dell’immagine filmica, perché in fondo «il cinema è ciò che non si vede. E questa ipotesi è ancorata in un cristianesimo onesto e laico»10. Laico, in certo senso, era anche il cristianesimo vissuto da Simone Weil, punto di confluenza tra il pensiero ebraico e quello cristiano e dunque incarnazione perfetta della dimensione prediletta da Godard, quella del tra. Si pensi solamente alla nozione di «amore velato», quell’«amore di Dio prima che Dio si manifesti», uno stato di sofferenza che si pone tra attesa e redenzione, tra amore e potenza11. Non è un caso che, per aiutarla a immedesimarsi nella parte della vergine operaia, Godard avesse consigliato a Isabelle Huppert di leggere La pesanteur et la grâce; l’aspetto ascetico (i capelli corti alla Renée Falconetti) e l’attitudine sacrificale (penso alla recita dell’Agnus Dei durante l’amplesso con Jerzy) facevano di Isabelle una sorta di Simone Weil postmoderna, più vicina al modello di quanto non lo fosse l’eroina di Europa ’51 (Roberto Rossellini, 1952). Tra l’omaggio alla pensatrice/mistica e l’elogio dell’amor cortese, nessuna soluzione di continuità. Perché Edgar/Godard riflette sulla creazione parlando dell’amore e la Creazione è, per Simone Weil, la più alta forma d’amore che Dio – un Dio non onnipotente – offre agli uomini. «Dio, perché mi hai abbandonato?» sussurrava Isabelle nella stanza di Jerzy. L’assenza di Dio è secondo Simone Weil conditio sine qua non dell’esistenza dell’uomo sulla terra, luogo da cui il creatore si è ritirato lasciando campo libero al Male e alla Necessità. Uno degli aforismi più commentati di

Il narratore dice che Pache abitò in rue du Cherche Midi, ovvero uno degli indirizzi parigini di De Staël. La Parigi immaginaria di Aimé Pache corrisponde a quella reale di Nicolas De Staël.

Sulla questione dell’invisibile e sulla teologia dell’immagine godardiana si vedano Vincent Berne, Identité et invisibilité du cinéma. Le vide constitutif de l’ image dans Hélas pour moi de Jean-Luc Godard, Chromatika, Marsennay-la-Côte, 2010 e Anouk Schoellkopf, Jean-Luc Godard, philosophe du langage; le cinéma comme passage entre éclosion de l’ invisible et expression de l’ indicible (Thèse de Doctorat, Université de Strasbourg, 2001). 10 Jean-Luc Godard in Godard par Godard, Éditions Cahiers du cinéma, Paris, 2006, Tome 2, p. 429 11 Cfr. Simone Weil, L’amore di Dio, tr. it. Borla, Torino, 1968; Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013.

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Adieu au langage, inserito anche nel trailer promozionale, rimanda esattamente alla disillusione di colui che vede nel silenzio di Dio la prova della sua esistenza: «Dio non ha potuto, non ha saputo, non ha voluto fare di noi degli umili. Ha fatto di noi degli umiliati». Com’è noto, la portata rivoluzionaria del pensiero weiliano consiste in particolare nella critica del concetto di persona come entità giuridica sacra. Sacro, per Simone Weil, è tutto ciò che ogni individuo ha di impersonale, ovvero di potenziale, possibile, probabile12. Ebbene: al pari di Jerzy, che nella grazia muta delle figuranti inseguiva la potenzialità del sacro e nella passione delle amanti la luce della Passione, Edgar vuole raccontare non l’amore individuale di tre coppie, ma la possibilità che l’amore ha di incarnarsi in una determinata coppia, nascere, evolvere e morire. Non elogio di un amore dunque, ma elogio dell’Amore, allo stesso modo in cui non tanto la storia interessa, ma la Storia. Una volta scelto il volto per interpretare Eglantine, partner femminile della coppia giovane, Edgar si assicura che la ragazza abbia ben chiaro ciò che egli si attende da questa perfomance: «Ha capito che non è la storia di Eglantine, ma un momento della Storia, della grande Storia che passa attraverso Eglantine. Il momento della giovinezza». L’idea che passa attraverso i corpi: si tratta di un orizzonte di pensiero non distante dalle tesi di Simone Weil, secondo cui solo l’impersonale, ovvero ciò che «passa attraverso» persone di estrazione sociale differente, permette di riscattare l’individuo dall’oppressione del potere. Il concetto weiliano di impersonale si avvicina a ciò che Godard, in una delle didascalie iniziali, definisce con il pronome «qualcosa» (Éloge de quelque chose). Ciò che è impersonale, infatti, non ha contorni e soprattutto, come voleva Bresson, non è definito, ma trascende corpi e destini individuali. Non a caso qualcuno13 ha azzardato un suggestivo parallelismo tra il concetto weiliano di «dé-création» e l’estetica bressoniana della spoliazione. Se per Bresson l’automatismo del non-attore consente, sia al cineasta che allo spettatore, l’incontro mistico con qualcosa di inatteso e di non duplicabile, per Simone Weil la Verità e il Bene e la Bellezza possono penetrare l’individuo solo se egli si spoglia della sua persona ed effettua il passaggio nell’impersonale: «La verità e la bellezza abitano questo ambito delle cose impersonali e anonime»14.

Ma questo passaggio «non è possibile se non nella solitudine. Non solo nella solitudine di fatto, ma anche solitudine morale. Non si compie mai in colui che pensa se stesso come membro di una collettività»15. Quella di Berthe, la ragazza senza volto che migra dalla prima alla seconda parte del film, non è altro che la storia di una solitudine, oltre che exemplum della solitudine della Storia. Edgar vuole filmare dei momenti dell’amore. Berthe incarna alla perfezione quel momento in cui, per dirla con Simone Weil, «l’essere umano si eleva al di sopra del personale» e cerca di «radicarsi nel bene impersonale». La donna è costretta a fare le pulizie sui treni per sopravvivere e mantenere il figlio di tre anni. Nella desolazione dei binari vuoti, non-luogo mai penetrato prima dall’occhio di Godard, l’anima di questo personaggio è, direbbe Simone Weil, «al freddo, nell’afflizione, nell’abbandono». Di lei Edgar non conosce nemmeno il nome. Quando gli annunciano la morte, forse per tubercolosi, egli ricorda a mala pena il tono di voce. Non leggiamo nessuna emozione sul volto anche perché la conversazione con lo zio della donna è interrotta da continue ellissi di schermo nero, metafora del buio che divora il tempo del ricordo. Assieme a una copia di Le voyage d’Edgar, classico per l’infanzia di Édouard Peisson, l’eco della voce sarà tutto ciò che di questo breve incontro resterà nella memoria dell’uomo, il quale, nell’ultima inquadratura, si congeda dal film leggendo un frammento delle Memorie dell’oltretomba di Chateaubriand: «Ecco come tutto svanisce nella mia storia, come non mi restano che delle immagini di ciò che è passato cosi velocemente. Scenderò ai Campi Elisi con tante ombre come nessun uomo ha mai portato con sé». Alcuni fili dunque uniscono, in una sorta di montaggio verticale, il pensiero di Simone Weil a quello di Godard e lo fanno, se così si può dire, attraverso la “mediazione” di Maurice Merleau-Ponty, la cui fenomenologia ha percorso sentieri in realtà già battuti dieci anni prima dalla filosofa anglo-francese16. Secondo Simone Weil tutto, in primis la sventura, passa nella carne dell’uomo, non pensabile come soggetto separato dalle cose. Una visione così materialistica e in un certo senso disperata dell’Essere, trasformato fisicamente (e non solo spiritualmente) dal pathos, non poteva che trovare terreno fertile nel pensiero per immagini di Godard, il quale, come abbiamo visto (cfr. Capitolo 1), non ha esitato a far proprie alcune tesi della fenomenologia di Merleau-Ponty, e in particolare la concezione

Cfr. Simone Weil, La persona e il sacro (1957), tr. it. Adelphi, Milano, 2012, p. 12. Cfr. Lisbeth During, What Does It Matter? All Is Grace. Robert Bresson and Simone Weil, «Angelaki. Journal of Theoretical Humanities», XVII, 4, pp. 157-177. 14 Simone Weil, La persona e il sacro, cit., p. 13.

Ivi, p. 14. Per un’analisi delle componenti fenomenologiche nel pensiero di Simone Weil e delle su relazioni con le tesi di Merleau-Ponty si veda Lissa McCullough, Simone Weil’s Phenomenology of the Body, «Comparative and Continental Philosophy», II, 4, 2012, pp. 195-218.

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dell’individuo come corpo calato nel mondo e in rapporto con altro da sé. Al pari dell’Essere, esposto ontologicamente a sventura (Weil) o violenza (Merleau-Ponty), l’immagine cinematografica non è un’entità astratta, ma il prodotto di una lacerazione, di una ferita, di una tortura. Non un’immagine giusta dunque, ma giusto un’immagine, violentata – e in questo modo resa visibile – dal montaggio. Fermiamoci un momento. Abbiamo detto che il cinema di Godard pensa. Più che di pensiero, in realtà, sarebbe opportuno parlare di produzione di idee a partire da estratti di idee altrui o ancora meglio, come ha suggerito Alain Bergala, di «meditazione»: Quando guardiamo Éloge de l’amour ascoltiamo delle meditazioni, ma non siamo portati a chiederci se siamo d’accordo o meno. Non è questo il problema. Il fatto è che qualcuno medita sullo schermo e anche lo spettatore è invitato a meditare a partire da ciò che Godard cita17.

Questo cinema dunque non ci interroga, ma – sotto traccia, direi quasi silenziosamente – suggerisce alla nostra coscienza echi, rifrazioni, accostamenti di immagini e/o idee apparentemente lontane tra loro. Tra Godard e Simone Weil, per esempio, si intravede l’ombra di Bresson. Non è questa la sede per indagare le affinità tra il concetto di Grazia teorizzato dalla filosofa anglo-francese e quello espresso da Bernanos nel Diario di un curato di campagna, testo adattato da Bresson e amato da Simone Weil. Di certo è curioso che proprio al personaggio di Berthe Godard assegni il compito di leggere alcune delle Note sul cinematografo, e in particolare due inviti a praticare una scrittura della sottrazione: «Sii certo di aver esaurito tutto ciò che si comunica attraverso l’immobilità e il silenzio»18 e «Devono essere i sentimenti a introdurre gli eventi. Non l’inverso»19. Éloge de l’amour, per dirla con Bresson, è un «film di cinematografo». Il montaggio ellittico accosta storie e Storia senza spiegare nulla, ma limitandosi a ricomporre i frammenti in modo tale che essi ricevano potere dalla loro interrelazione. Nessun sentimento è introdotto. È invece il sentimento di Edgar, quel desiderio di salvare la Memoria inserendola in una cornice audiovisiva dai contorni non definiti, a muovere l’azione, o meglio l’inazione che ritma questo film. Alain Bergala, La figure de l’ange. Entretien avec Alain Bergala, in AA.VV., Où en est le God-Art?, sous la direction de René Prédal, «Cinémaction», 109, 2003, p. 87. 18 Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 32. 19 Ivi, p. 38. 17

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Ma è soprattutto la nozione di impersonale, vertice di un pensiero fatto sempre seguire dall’azione (l’impegno nella Resistenza per esempio), che conferisce alla filosofia di Simone Weil quel carattere decostruttivo che, come ha dimostrato Paolo Bertetto20, possiedono anche le immagini pensanti di Godard, volto a distruggere non solo la struttura classica del racconto, ma anche la figura umana intesa come intero. Schierandosi, in perfetta solitudine, contro la dottrina del personalismo di Emmanuel Mounier – la quale era invece perfettamente in linea con il sentimento anti-totalitario dell’immediato dopoguerra – Simone Weil non ha fatto altro che seguire la strada intrapresa dall’arte contemporanea, ovvero decostruire la nozione di soggetto, separando il concetto di persona da quello di individuo. Molti anni prima di Godard, anche la filosofaattivista ha detto in un certo senso addio al linguaggio, denudando in particolar modo i limiti che il linguaggio dimostra nella ricerca della verità: Il linguaggio enuncia relazioni. Tuttavia ne enuncia poche, perché si svolge nel tempo. […]. Se si rivolge a uno spirito capace, una volta concepito un pensiero, di tenerlo presente mentre ne concepisce un altro, di tenere poi entrambi presenti mentre ne concepisce un terzo e cosi via; in tal caso il linguaggio può essere relativamente ricco di relazioni.[…]. Anche nella migliore delle ipotesi, uno spirito rinchiuso nel linguaggio è in prigione21.

Due cose che so di lei «Quando penso a qualcosa, non posso che pensare a un’altra cosa»: la mente di Edgar, che ripete due volte quest’affermazione nel corso del film, non sembra imprigionata nel linguaggio, ma libera, come abbiamo visto, di errare tra la Storia e le storie, tra presente e passato, tra il linguaggio della cantata e quello del romanzo. Mentre progetta un film di finzione, Edgar pensa a un documentario, perché non sa esattamente cosa fare. Non sa e proprio per questo i suoi occhi sono al contempo aperti, pronto a studiare le increspature dei volti durante il casting, e chiusi, ovvero rivolti dentro, verso un desiderio che si fa con il passare del tempo sempre più fragile. L’amore decantato dal titolo, quel momento della storia che il regista insegue perlustrando i territori 20 21

Cfr. Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, cit., pp. 45-58. Simone Weil, La persona e il sacro, cit., pp. 37-38.

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della Storia (le memoria della Resistenza cattolica), forse è nascosto tra gli interstizi che separano le due sezioni dell’opera, lì dove, come sostiene Bresson, la poesia penetra da sola. «Cercare di vedere – diceva il narratore di Liberté et patrie – significa guardare fino a lì». Come il suo creatore, Edgar non parte dalla parola, ovvero da una sceneggiatura, ma dallo sguardo. Per questo le pagine dello script sfogliate all’inizio del film sono bianche: il suo film avrà una genesi identica a quella che l’autore ha descritto in merito a Adieu au langage: Le idee vengono poco a poco. Non c’è sceneggiatura. All’inizio pensavo di dover scrivere una sceneggiatura. Poi ho capito che la sceneggiatura viene non solo dopo le riprese, ma addirittura dopo il montaggio. Ovvero a uno stadio del lavoro in cui è possibile riassumere a parole ciò che vuol dire l’immagine22.

Anche per Edgar, insomma, l’arte è ricerca di qualcosa che non esiste prima, è ricerca di verità. Ma la verità, insegna Weil, può nascere solo da uno spirito libero e per questo capace di «tenere presenti più pensieri», pensieri «inesprimibili a causa della moltitudine di rapporti che vi si combinano»23. Godard dice che l’immagine ha bisogno del nulla per esistere, che per vedere è necessario chiudere gli occhi; per Simone Weil «non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento». Quando penso a qualcosa, ripete Edgar, penso a qualcos’altro. Per argomentare questa tesi l’uomo prende per esempio un paesaggio: «Vedo un paesaggio nuovo per me, ma è nuovo per me perché lo paragono, col pensiero, a un altro paesaggio, che invece è antico, e che io conosco». Edgar non pensa (a) Parigi, ma si limita ad abitarla, a guardarla, ad ascoltarla, come faceva venticinque anni prima Marina Vlady (Due o tre cose che so di lei). Si lamenta del fatto che tutti abbiano il coraggio di vivere la loro vita, ma non di immaginarla: «Come posso farlo io al posto loro?». Osservare come un flâneur la folla urbana sugli Champs-Elysées, forse, può aiutare l’immaginazione, ma l’obiettivo è irraggiungibile: «Vorrei qualcuno come Simone Weil o Hannah Arendt». Berthe sembra la persona giusta, ma all’inizio rifiuta perché non ama la notorietà e l’ambiente del cinema. Noi ascoltiamo qualcosa (la conversazione tra Edgar e Berthe) e al contempo guardiamo qualcos’altro: Parigi. Il paesaggio che ci è dato da vedere in questo film è dunque anche per

noi al contempo nuovo e antico. Antico perché abitato dagli antieroi degli anni Sessanta e nuovo perché filmato con modalità completamente diverse. Assente è la deambulazione dei corpi. La cinepresa filma i personaggi quando sono fermi, sulla balaustra di un ponte per esempio, e abitano già lo spazio. Fermi come l’uomo senza fissa dimora che dorme sulla panchina di Place de la Madeleine, catturato in uno dei flash urbani che scorrono sullo schermo durante il casting della coppia anziana. Come avrebbe voluto Bresson, il cinematografo di Godard non illustra il contesto della scena, ma si limita a cogliere attimi e frammenti: le mani dei volontari che distribuiscono viveri ai sans papiers, i corpi di due vagabondi stretti dentro le loro coperte sul pavimento di un locale vuoto. Su un’anonima panchina, del resto, troviamo seduto anche Godard, che ascolta la conversazione di due giovani fingendo di leggere un libro (fig. 65). Non ci sono più onde da cavalcare né mete da raggiungere, ma

Fig. 65. Éloge de l’amour

22 Jean-Luc Godard, Entretien avec Jean-Luc Godard, http://cpn.canon-europe.com/content/Jean-Luc_Godard.do 23 Simone Weil, La persona e il sacro, cit., p. 37.

solo una memoria da preservare e opere d’arte da recuperare. La stasi, che nelle opere degli anni Ottanta caratterizzava soprattutto le cose (le auto in particolare), coinvolge ora direttamente i corpi. L’inquadratura più eloquente di questo stato delle cose è il campo medio che documenta una lunga conversazione tra Edgar e Berthe in una zona periferica della città (fig. 66). Immobili e inquadrati di spalle, in una sorta di rivisitazione postomoderna dell’incipit di Questa è la mia vita, i due parlano senza guardarsi, perché il loro sguardo è diretto verso il fondo del quadro. Ma

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tutta la potenza dell’immagine, estratta dall’abisso nel quale si fonda, non può esprimersi che facendogli appello24.

Fig. 66. Éloge de l’amour

in questo quadro non c’è nulla da vedere, se non un edificio abbandonato e muri imbrattati da graffiti. L’orizzonte è escluso. Se vedere è «cercare di guardare fino a lì», Edgar e Berthe non vedono nulla, ma forse fanno di più. Si rappresentano qualche cosa, qualcosa di indistinto e indefinito come l’età adulta, che del resto entrambi incarnano. E soprattutto parlano, parlano come non hanno mai fatto prima, dando la sensazione che la parola possa davvero permettere di entrare in comunicazione con l’altro. La conversazione si sposta dalla vita, che solo nella solitudine «comincia a prendere senso», all’arte, che al pari della vita si compone di cose che cominciano e di cose che terminano. Su una cosa i due sono d’accordo. Al pari della vita, che non prende senso se non nel momento della morte (topos ricorrente negli scritti di Simone Weil), «l’immagine non dice mai niente; è il nulla che parla accanto ad essa». Naturalmente qui non è Edgar a parlare e nemmeno Godard, ma il Blanchot de L’amicizia (1971), uno dei testi che, assieme al Museo immaginario di Malraux, a mio avviso più hanno influito sull’ideazione e sulla composizione delle Histoire(s) du cinéma: L’immagine, lo sentiamo, è felicità, perché è un limite vicino all’indefinito, possibilità di fermarsi nel seno del movimento. Attraverso l’immagine ci crediamo padroni dell’assenza divenuta forma, e anche la notte densa sembra dischiudersi allo splendore di una chiarezza assoluta. Sì, l’immagine è felicità, ma al suo fianco dimora il nulla, appare al suo limitare e 194

Queste sono le parole di Blanchot. Ma, come vedremo anche più avanti, nel passaggio dal testo al film le parole mutano e spesso perdono frammenti. E così in Notre musique JLG, invitato a tenere una conferenza sul rapporto tra immagine e parola al Salone del libro di Sarajevo, sfoggia una citazione non integrale di questo frammento di Blanchot: «Oui, l’image est bonheur, mais près d’elle le néant séjourne. Et la toute puissance de l’image ne peut s’exprimer qu’en lui faisant appel». Come un amanuense medievale, Godard trascrive il testo originale commettendo appositamente un’evidente svista ovvero amputandolo di una parte non secondaria: la definizione del nulla come fondamento ontologico dell’immagine («estratta dall’abisso nel quale si fonda»). Se il linguaggio, come vedremo, altro non è che alleanza tra parola e immagine, è opportuno non trascurare l’influenza che sull’ascolto di queste parole ha l’immagine mostrata da Godard al pubblico della sua conferenza: una fotografia in bianco e nero ritraente un teschio con tanto di occhiali da sole e maschera sorridente. L’immagine (la maschera di cartapesta) si offre come un fragile involucro del nulla (il teschio). Attraverso l’immagine, sostiene Blanchot, l’uomo si sente padrone dell’«assenza divenuta forma», ma la presenza stessa della traccia è segno che il referente, ovvero ciò di cui l’immagine è immagine, è perduto, inghiottito da un nulla inteso come non-visibile, buio, oblio. Questa citazione, con cui si chiude quella che resta l’inquadratura più lunga di tutto il film, è disturbata proprio a metà dal rumore del traffico fuori campo. Rumore di qualcosa che non si vede, ma che, adiacente al visibile esattamente come il nulla è adiacente all’immagine, ha il potere di frammentare il tessuto sonoro e cancellarne alcuni elementi. Se riascoltiamo il dialogo originale, ci accorgiamo che l’eco del traffico nella galleria impedisce di capire l’aggettivo relativo all’immagine: «Une image ne dit jamais rien, elle devraît être (parola incomprensibile), mais c’est le néant qui parle à coté d’elle». Che sia visiva (lo schermo nero) o sonora, dunque, la cesura resta una componente ontologica dell’immagine godardiana, che, come ha giustamente osservato Jean-Claude Rousseau, «esiste proprio perché non è ridotta a segno di scrittura»25. Insistendo accanto all’immagine, 24 Maurice Blanchot, L’amicizia (1971), tr. it. a cura di Riccardo Panattoni e Gianluca Solla, Marietti, Milano, 2010, p. 64. 25 Jean-Claude Rousseau, L’uomo vergine. Conversazione di Roberto Turigliatto con JeanClaude Rousseau, in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard, cit., p. 129.

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il nulla la preserva esattamente come l’immagine – quella slegata dai legami narrativi del cinema hollywoodiano – preserva la Memoria. In questo caso il nulla che «parla» accanto all’immagine altro non è che il suono inteso come materia: «Per quanto poco il suono venga diminuito dal dire, se non lo si sente più a causa dell’intelligenza di ciò che viene detto, allora bisogna rompere il dire»26. A volte, però, più che «rotto» il dire è semplicemente annullato, svuotato di ogni peso sonoro all’interno del quadro. Penso a quel momento in cui, davanti alla Senna, Berthe si avvicina a Edgar e gli parla per alcuni secondi senza che noi possiamo udire una sola sillaba. Al movimento delle labbra della donna si sovrappone, in una sorta di montaggio interno, Le chant des mariniers, ovvero un frammento del tessuto sonoro di L’Atalante27, frammento di quella storia del cinema che Godard non ha mai finito di archiviare. Quando guardiamo qualcosa, insomma, ascoltiamo qualcos’altro. Ritorniamo a Parigi. Edgar e Berthe si fermano a guardare la Senna. L’immagine della periferia, in questo cinema, non è nuova. Abbastanza inedita è invece l’attenzione per i monumenti del ventre urbano, segno quasi didascalico di questa estetica dell’immobilità. La prima inquadratura, che introduce i titoli di testa, ci offre un dettaglio della fontana di Place de la Concorde, mentre nei tableaux parisiens che accompagnano il dialogo del regista con il suo produttore si intravede la facciata della Madeleine. Come sempre in Godard l’immagine non è rappresentazione ma relazione tra rappresentazioni. Ecco che allora accanto a questi luoghi dell’immaginario, corrispondenti all’immagine che Hollywood ha esportato della città, convivono luoghi della memoria (la fabbrica abbandonata della Renault) e non-luoghi del presente, come la stazione della SCNF dove lavora Berthe. Elogio di qualcosa, dunque. E Parigi è esattamente “qualcosa”, ovvero un ibrido tra un volto e un paesaggio, una zona morta della memoria dove il passato convive con il futuro28 e si incrociano le traiettorie di due corpi che poi non Ivi, pp. 126-127. Ha ragione Bergala quando individua nella citazione di L’Atalante un conferma di quell’attenzione alla composizione del quadro che invece l’autore spesso nega. Al pari di Vigo, Godard focalizza la sua attenzione non sul montaggio e neppure sulla storia, ma sull’organizzazione plastica dell’inquadratura. (Alain Bergala, La figure de l’ange. Entretien avec Alain Bergala, cit., p. 87. 28 Sul fondo di un’inquadratura si intravede il manifesto di Pickpocket (Id., Robert Bresson, 1959) accanto a quello di The Matrix (Matrix, Andy Wachowski, Larry Wachowski 1999).

si incontreranno più. Edgar guarda il Bois de Boulogne e non può non pensare a qualcos’altro, ovvero alla sterminata foresta del I secolo a.C. di cui il parco è solo una traccia. Così come traccia, ma di un orrore ben più disumano, è il cartello ferroviario con la scritta “Drancy Avenir” che intravediamo nel momento in cui Edgar si accinge a salire su un treno. Il comune di Drancy, infatti, è tristemente noto per aver ospitato il più grande campo di concentramento francese durante la Seconda guerra mondiale. Da qui i prigionieri venivano prelevati per essere deportati ad Auschwitz. Per una sorta di scherzo del destino, su cui ironizza lo stesso Edgar, Drancy, ovvero la Memoria, è accostato a Avenir, ovvero il futuro. Non ci poteva essere ossimoro più caro a Godard. Parigi, però, è anche il luogo dell’Origine. Qui è nata la Nouvelle Vague ma soprattutto il cinema, come conferma quell’omaggio a Lumière con cui termina la sequenza del colloquio con Berthe alla stazione. Mentre Edgar insiste per organizzare un casting, convinto che la donna sia l’interprete ideale per la coppia adulta, la cinepresa ignora i volti dei personaggi e documenta l’ingresso di un treno nell’hangar della stazione (Fig. 67). Solo il taglio di inquadratura è identico a quello delle vedute Lumière. Per il resto tutto è mutato. In vece del riflesso del sole sulle pareti delle carrozze, lo sfarfallio delle luci al neon nel silenzio del binario vuoto. Nessun passeggero, perché il viaggio è già finito. Questo è un treno vuoto in una stazione vuota. La Parigi di Éloge de l’amour è una Parigi del dopo-storia.

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Fig. 67. Éloge de l’amour. L’immagine dell’origine (del cinema).

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L’ immagine povera Tra i topoi che dalla stagione degli anni Ottanta migrano in Éloge de l’amour c’è anche la pittura. Collezionare quadri, come fa Mr. Rosenthal, il produttore del progetto di Edgar, significa illudersi di possedere il tempo del ricordo. Un tempo che – mi riferisco alla prima parte del film – rimane congelato nelle tele sequestrate durante l’occupazione nazista e ora restituite al legittimo proprietario. Ma nessuno, nemmeno Edgar, guarda questi quadri, i quali sono detti e non mostrati, se non frettolosamente. Il produttore parla di «due Corot, un Lichtenstein e un Bruegel», mentre si intravede a mala pena un’opera di Matisse, confusa dallo stesso Rosenthal con un Delacroix. Come il suo personaggio, che cerca di raccontare qualcosa dell’amore in età adulta, Godard insegue quello che c’è tra l’infanzia e la vecchiaia dell’immagine. Lo insegue e dunque non può mostrarcelo, in quanto come tutti i suoi lavori anche Éloge de l’amour è un film del dopo, o meglio: il film è il risultato stesso di questa recherche. Un risultato che restituisce, nella testura dell’immagine, la medesima dualità vecchiaia-infanzia attorno a cui ruota il progetto di Edgar. Se il bianco e nero lucido della prima parte evoca un’immagine “vecchia”, o quanto meno già vista (i chiaroscuri notturni e l’illuminazione dei volti ricordano l’ultimo Garrel), la seconda parte – quella ambientata in campagna – è invece filmata con un’immagine “infantile” o, per utilizzare un aggettivo impiegato dall’autore a proposito di Adieu au langage, un’immagine «giovane»29. Non giusto un’immagine, ma l’immagine giusta per raccontare il «margine di indefinito» (Bresson) che minaccia e al contempo feconda ogni progetto creativo. Il supporto scelto è quello del Digital Video, che, alterato in sede di rendering, restituisce però un’immagine in bassa definizione. I colori sono sgranati e saturi, i contorni non definiti, l’esposizione insufficiente e spesso controluce. Ma ancora più indefinito è il soggetto di queste immagini, ovvero il mare agitato della costa bretone dove vive la coppia di partigiani intenzionata a vendere le proprie memorie a Hollywood. Prima del cartello che introduce la seconda parte (Deux ans auparavant), l’inquadratura è riempita da un tramonto marino che provoca un’insorgenza di arancione, rafforzata dal contrasto con lo schermo nero che la precede e la segue (Fig. 68). Il modello, ancora una volta, non è tanto il fauvismo30 quanto

Fig. 68. Éloge de l’amour

«Guardate i premi di Cannes: hanno riunito un vecchio regista che ha fatto un film giovane e un giovane regista che ha fatto un film vecchio». Jean-Luc Godard, Entretien avec Philippe Dagen et Franck Nouchi, «Le Monde», 11 Juin 2014. 30 La purezza e la solarità di questo colore rinviano indubbiamente alla tecnica di Henri Matisse, di cui Godard sembra imitare però soprattutto la ricerca del cosiddetto à plat.

l’espressionismo astratto di De Staël e soprattutto la fisicità del suo tocco. Se il pittore “esistenzialista”, di cui Mr. Rosenthal conserva alcuni disegni (si tratta del medesimo Nudo mostrato in Liberté et Patrie), stendeva il colore sulla tela con il coltello, al fine di far percepire la tattilità materica del segno, Godard, mediante la bassa definizione dei suoi pixel, mette a nudo la materia di un dispositivo che, anziché imitare la realtà, la reinventa secondo una nuova gamma luministica e cromatica. Il regista di Passion si chiedeva dove andasse e soprattutto da dove venisse la luce. Come nei paesaggi di De Staël, la luce qui proviene dall’“interno” dell’inquadratura, i cui elementi – mare, scogli, prato, cielo – sembrano sul punto di perdere, da un momento all’altro, la propria definizione. I contorni sono divorati da un colore che, senza chiaroscuri, invade ogni porzione dello spazio e si afferma come forza autonoma, in grado non tanto di assorbire quanto di produrre la luce. Parafrasando il celebre aforisma relativo a Il disprezzo (cfr. Capitolo 1), potremmo affermare che quello ritratto in questo esterno non è un sole e neppure un cielo, ma semplicemente dell’arancione. Accarezzando i suoi quadri, Mr. Rosenthal ironizzava sul fatto che un’opera d’arte avesse bisogno di un nome per essere catalogata, esattamente come un individuo in una società capitalistica. Quello che Godard dipinge con la camera DV sono invece paesaggi senza titolo. Senza titolo perché l’occhio del (cine) pittore non traduce i segni della natura in un altro codice, ma li trascrive liberamente, facendo emergere in primis la materia del significante. Tra aria e acqua nessun contrasto, se non una linea rossa come la decorazione

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di una delle due barche che, in omaggio a un altro grande “genere” frequentato da De Staël, ondeggiano vicino allo scoglio in un’inquadratura successiva. A bordo di quella barca, striata dei colori della tricromia, il partigiano Jean Bayard ritornò in Francia dopo la liberazione. La natura, insomma, non è più imitazione di un Bello scolpito dalla memoria (Nouvelle Vague) o da un’intelligenza superiore (Je vous salue, Marie), ma si offre, direbbe Bresson, come reale ritoccato dal reale31. Accanto al reale filmato, infatti, emerge il reale di un dispositivo, il Digital Video, che non reagisce alla luce allo stesso modo in cui lo fa la pellicola32. Dietro la superficie dei pixel agiscono impulsi elettrici che, come ha osservato Vincent Heristchi33, il cinema d’autore ha spesso impiegato come metafora di evasione dal reale e ingresso in un universo sconosciuto, non-familiare e dunque perturbante (penso agli universi paralleli esplorati da David Lynch o David Cronenberg). Il partito preso da Godard è diametralmente opposto. La bassa definizione (Low-Definition) della sua immagine non significa allontanamento dal vero, ma messa in discussione della riproducibilità tecnica di questo vero. Come ha osservato Christin Uva, «l’uso estetico della LD, fondato sull’esplicitazione della pixelatura dell’icona, sembra in effetti volgersi verso l’esibizione della stessa materia del digitale»34. Il reale, insomma, irrompe e brucia i contorni delle cose con la stessa forza con cui, nella sequenza della conversazione con Berthe analizzata sopra, il rumore del traffico cancellava le parole di Edgar. «Cerco la povertà nel linguaggio» dirà il Godard di Adieu au langage. Ma suddetta ricerca è cominciata molti anni prima e ha coinvolto non solo la povertà ma anche la piattezza dell’immagine. I paesaggi en plein air di questa Bretagna sono narrativamente poveri. Non illustrano né documentano nulla, se non loro stessi: alcuni cavalli al pascolo, le luci di una barca al tramonto, la schiuma delle onde sulle rocce. Non sono abitati dai corpi, ma dai fantasmi evocati dagli stessi corpi. Penso al volto di Simone Weil, che, evocato dalle parole di Edgar, prende lentamente forma sullo schermo offrendosi come giuntura in bianco e nero tra un paesaggio di colore verde (un esterno giorno di campagna, fig. 69) e un altro a dominante blu (il mare agitato da “onde terribili”). Che cosa vuol dire filmare un ritratto «Ritoccare il reale con il reale». (Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 51). Sulla “fragilità” dell’immagine digitale si veda Denis Brotto, Trame digitali. Cinema e nuove tecnologie, Marsilio, Venezia, 2012. 33 Cfr. Vincent Heristchi, La vidéo contre le cinéma. Neige électronique, Tome 1, L’Harmattan, Paris, 2012. 34 Christian Uva, L’ immagine tra calco e calcolo, «Fata Morgana», Reale, VII, 21, settembre-dicembre 2013, p. 45. 31

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Fig. 69. Éloge de l’amour

fotografico, ovvero conferire una durata a quella che resta pur sempre la riproduzione di un istante? Come interagisce il tempo bloccato dell’immagine fissa – un’immagine pulita e accademica – con il tempo instabile di queste immagini “giovani” e grammaticalmente scorrette? Non è la prima volta che Godard utilizza il ritratto di un personaggio illustre del secolo morente. Lo aveva già fatto con Hannah Arendt, utilizzando una gigantografia del suo volto come scenografia per una performance attoriale in Nous sommes encore tous ici (Anne-Marie Miéville, 1997): ci torneremo tra poco. Questa volta però il fantasma non è fondale, ma al contrario è ciò che invade, con il suo funereo hic et nunc, la labilità di un paesaggio dove invece tutto si muove, dalle foglie agitate dal vento alla barca sferzata dalle onde, mentre il rumore del motore si dissolve in quello del mare. Ancora una volta, dunque, l’immagine in Godard si rivela prodotto di un processo dialettico. L’immagine fissa di Simone Weil non è solo l’interstizio tra due immagini mobili, ma è essa stessa una metafora del tra. Ogni ritratto infatti, sosteneva Roland Barthes, è soggetto colto nel momento di diventare oggetto, sostanza individuale che, per essere, non può non rimandare all’oggetto che raffigura35. Quando guardo una fotografia, direbbe Edgar, non posso non pensare all’occhio che prima di me ha guardato il soggetto riprodotto, ma soprattutto a ciò che stanno guardando gli occhi di questo soggetto. 35 «Si direbbe che la fotografia porti sempre il suo referente con sé, tutti e due contrassegnati dalla medesima immobilità amorosa e funebre, in seno al movimento; essi sono appiccicati l’uno all’altra». (Roland Barthes, La camera chiara, cit., p. 7).

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quanto le immagini che a essa il montaggio sovraimprime. Godard sceglie infatti di mostrarci, come controcampo del volto parlante di Edgar, alcune fotografie di partigiani e il paesaggio marino della Bretagna. Perché il campo-controcampo, nel cinema hollywoodiano, spesso non è stato che un modo per contrapporre due volte la stessa immagine, mentre la verità – come sentiremo ripetere in Notre musique – ha due volti. E i due volti della verità inseguita da Edgar sono in fondo gli stessi due volti del cinema. Da un lato la traccia lasciata dai testimoni, in questo caso i partigiani della Resistenza (documentario); dall’altro la rappresentazione che, di questa testimonianza orale e visiva, il regista elabora dentro di sé (finzione). La dialettica è sempre la stessa: vedere versus immaginare, occhi aperti versus occhi chiusi. Ma ciò che queste immagini, così accostate le une alle altre, pensano, ci riconduce alle riflessioni fenomenologiche di stampo merleaupontiano da cui siamo partiti analizzando l‘infanzia dell’immagine (Capitolo 1). Per i personaggi di Due o tre cose che so di lei e Si salvi chi può… la vita, l’unico modo per sentire di esistere e dunque «salvarsi la vita» era ritrovare, lottando contro la ripetizione imposta dalla società dei consumi, una relazione di armonia autentica con il mondo. Questa armonia è possibile solo in virtù di quella reversibilità del sensibile teorizzata da Merleau-Ponty e citata in un passaggio di JLG/JLG Autoportrait de décembre. Mi riferisco all’incontro, a cui abbiamo in parte accennato anche sopra (Capitolo 3), tra Godard e la sua montatrice. Mentre la ragazza, cieca, sfiorava con le dita la pellicola di Hélas pour moi, la voce off riprendeva un celebre passo di Il visibile e l’invisibile, dove in questione è proprio la relazione tra soggetto vedente e oggetto visto, concepiti come poli intercambiabili:

Ritorneremo più avanti sulle questioni che riguardano le dinamiche di scambio tra cinema e fotografia. Per ora possiamo rilevare come Godard sembri voler contraddire il principio barthesiano secondo cui «una foto è sempre invisibile» in quanto medium finalizzato unicamente a sostituire l’assenza del referente. Le Histoire(s) du cinéma ne sono state una prova: più che rendere presente l’assente, la fotografia filmata rende presente se stessa e soprattutto i limiti del proprio orizzonte mimetico. Nel momento in cui si dissolve, per lasciare spazio al paesaggio marino, la fotografia di Simone Weil sembra in qualche modo contagiare l’immagine mobile che la “ospita”, se è vero che per alcuni secondi il movimento delle onde si arresta. Viene in mente il montaggio analogico che, nel museo berlinese di Allemagne 90 neuf zéro, permetteva all’occhio di Delphine di errare senza soluzione di continuità dalla pittura (Courbet) al cinema, passando per un’istantanea della propria macchina fotografica (vedi Capitolo 3). Il cinema, insomma, recupera la temporalità di un’immagine che non è né fotografia né pittura, ma qualcosa tra questi due linguaggi, qualcosa che ha il tempo della fotografia e lo spazio, granuloso e materico, della pittura. Tra cinema e fotografia circola soprattutto un suono: la parola. E non si tratta di una parola-testo, ma di qualcosa di più complesso. Si consideri la scena di conversazione tra Edgar e Jean Lacouture. Del primo vediamo il volto davanti a una finestra, del secondo ascoltiamo solo la voce. Una voce che interrompe il giovane nel momento in cui egli cerca di chiarire i motivi del suo interesse per Simone Weil: «Simone Weil diceva che i testi della Bibbia non sono una teoria di Dio, ma una teoria dell’uomo». A partire da questo momento la discussione procede per blocchi contrapposti, non tanto accostati quanto sovraimpressi l’uno sull’altro, in modo tale da dare la sensazione di una sorta di 3D sonoro. «Il cristianesimo fa parte dello spirito della Resistenza» prosegue Lacouture, che con le sue parole oscura la replica del regista: «Parlavo del Cattolicesimo, non del cristianesimo». Sovraimpressa ad altre parole o alterata da sbalzi di volume e rumori di fondo, la parola si offre ancora una volta come pura presenza plastica, materia bruta “gettata” sulla superficie del quadro senza essere levigata, esattamente come il colore sulle tele di De Staël. Aveva ragione Nana (Questa è la mia vita). Anziché avvicinare, la parola allontana e soprattutto, come ricorderà JLG nel Purgatorio di Notre musique, «ritaglia gli oggetti dalla realtà» e dunque li de-realizza, attribuendo loro un nome e soprattutto dei contorni. In questo caso la parola non fa nemmeno quello, ma si offre come oggetto, tanto sfuggente e indefinito

Sull’influenza del pensiero di Merleau-Ponty sul cinema di Godard, si veda Stefan Kristensen, L’oeil et l’esprit de Jean-Luc Godard, «Chiasmi International», 12, 2010, pp. 129-143. Analizzando alcune sequenze di Passion, Ici et ailleurs e Due o tre cose che so di lei, Kristensen dimostra che l’opera di Godard si offre al contempo come cinema e filosofia del cinema, una filosofia non troppo lontana da quella elaborata da Merleau-Ponty in L’occhio e lo spirito, tr. it. Gallimard, Milano, 1964; SE, Milano, 1989.

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Se la mia mano sinistra può toccare la mia mano destra mentre tocca le cose, perché io toccando la mano di un altro non potrei toccare in lei lo stesso potere di sposare le cose che ho toccato nella mia mano? Ora, l’orizzonte è illimitato […] se c’è un rapporto del visibile con se stesso che mi attraversa e mi costituisce come vedente questo cerchio che io non faccio ma che mi fa, questo arrotolamento del visibile sul visibile può attraversare e animare altri corpi come il mio36. 36

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Edgar cerca di vedere, o meglio di portare alla luce qualcosa. Questo qualcosa è prima un passato privato che sta per diventare leggenda, poi uno dei momenti dell’Amore. Non sa bene come riprodurre quello che vedrà, ma ha fiducia nei suoi occhi e dunque nell’immagine che essi potranno restituire. È Berthe che, nel momento in cui egli sta per abbandonare la Bretagna, mette alla prova questa sua fiducia, ricordandogli, come diceva Blanchot, che «l’immagine, la sola capace di negare il nulla, è anche lo sguardo del nulla su di noi». Come spesso accade nell’ultimo Godard, una frase – in questo caso il frammento di Blanchot – ritorna a più riprese di film in film o all’interno dello stesso film, ma mai perfettamente identica. Piccole variazioni lessicali o sintattiche ci restituiscono la citazione come qualcosa di vivo, di mobile, di instabile, come se Godard fosse sempre alla ricerca di una Verità nascosta dietro il segno della parola scritta. Quando dice che «il nulla ci guarda», Berthe si riferisce forse a quella visibilità anonima che, secondo Merleau-Ponty, abita sia i corpi che gli oggetti, i quali «sono ciò che permette di passare da un soggetto all’altro» e quindi di vivere insieme nel mondo (Due o tre cose che so di lei). Edgar non è convinto di questa tesi e riparte salutando freddamente la donna, una donna di cui il controluce ci impedisce di vedere il volto: «Spero che non sia così». Eppure, in una sequenza che una didascalia colloca “due anni prima”, sarà lo stesso Edgar ad ammettere che le cose prendono senso solo nel momento della fine. Esterno notte. Siamo dentro l’auto di Edgar, diretta verso una destinazione a noi ignota. Mentre i tergicristalli spazzano via la pioggia, Berthe, in voce off, invita l’uomo a rompere il silenzio. E allora Edgar parla, e quello che racconta non è l’inizio ma la fine di un amore, un amore durato pochi anni, quanto l’amore che la donna ha appena vissuto con il padre di suo figlio. Perché le cose prendono senso solo quando finiscono?37 Perché – dice Berthe – «è in quel momento che la Storia comincia, la storia con la S maiuscola». In questo momento, invece, sta per finire la storia che Godard ci sta raccontando. Non sapremo mai dove arriverà l’auto di Edgar, non sapremo se alla fine di questo tragitto i due vivranno un momento dell’amore che l’uomo vuole raccontare. Ed è proprio questo non-finito, questo nulla presente ai bordi dell’immagine, che conferisce senso alla narrazione. Lo ha detto Jean 37 Si avvertono in questa battuta, ancora una volta, echi del pensiero di Walter Benjamin, che in Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov (Opere complete, vol. 6, scritti 1934-1937, Einaudi, Torino, 2004) riflette sulla connotazione malinconica di cui investiamo un oggetto a noi caro nel momento in cui ce ne liberiamo.

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Lacouture alla fine della sequenza precedente: «Sia il suono che l’immagine sono necessari alla storia. Ma c’è soprattutto un elemento fondamentale se si vuole raccontare una storia: non sapere come la storia finisce». Non solo non sappiamo come finirà questa storia. In questo momento, grazie alla focalizzazione interna del camera-car, non vediamo nulla (fig. 70). La bassa definizione del dispositivo fotodigitale potenzia l’effetto flou di un’immagine in cui le cose, proprio come in certe tele di De Staël, non hanno più contorni. Non distinguiamo né la strada né le auto che vi

Fig. 70. Éloge de l’amour

sfrecciano. Le luci dei fanali riflesse sul parabrezza, unitamente al riverbero della pioggia, creano un magma plastico e cromatico indistinto, un paesaggio astratto in qualche modo simile a quello forgiato dal colore nel camera-car iniziale di Il bandito delle ore undici, che abbiamo già visto essere un film seminale nell’opus godardiano. Se confrontiamo le due sequenze, ci accorgiamo infatti che la messa in scena è speculare. Qui l’occhio della cinepresa guarda il paesaggio dall’interno dell’auto, mentre in Il bandito delle ore undici era diretto sui volti degli occupanti, feriti dalle palpitazioni colorate delle luci notturne e intenti a riempire il silenzio – una sorta di nulla “sonoro” – con riflessioni sulla caducità della vita (la guerra nel Vietnam) e sulla contiguità ontologica tra visibile e invisibile. Riascoltiamo le parole di Marianne (Anna Karina):

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Mi ha sempre affascinato la fotografia. Vediamo la foto di un tipo con una didascalia. Forse era un poco di buono o un vigliacco, ma nel momento in cui la fotografia è stata fatta nessuno può dire quello che era, quello a cui pensava. Pensava a sua moglie? Alla sua amante? Al passato? Al futuro?

Che sia fissa o mobile, dunque, l’immagine dice meno di quanto nasconde e ciò che non è immediatamente visibile è esattamente ciò che ci riguarda, nel doppio senso del termine (un’ambiguità semantica conservata dalla lingua francese). Inteso come trama interna del visibile (MerleauPonty), l’invisibile ci guarda e allo stesso tempo ci riguarda. Se il cineasta non riesce a leggere completamente il volto che cattura, lo spettatore è attratto proprio dalla ferita (dallo strappo, direbbe Didi-Huberman) che lacera l’immagine dall’interno. In questione dunque, tanto in Il bandito delle ore undici che in Éloge de l’amour, è l’immagine come soglia tra il visibile e l’invisibile. Siamo infatti posti di fronte a un visibile (i volti da un lato, il paesaggio notturno dall’altro) che, in quanto tale, rimanda a un invisibile, ovvero al visibile nascosto fuori campo. Prima la direzione degli sguardi (Il bandito delle ore undici), poi la presenza acusmatica delle voci (Éloge de l’amour) configurano le rispettive inquadrature come finestre aperte su qualcos’altro: quando guardo qualcosa – direbbe Edgar – non posso non guardare qualcos’altro. Solo la negazione visiva del fuori campo, come dimostrerà Godard in Notre musique, permette infatti all’inquadratura di darsi come un insieme nonfinito e dunque come luogo della possibilità di una storia. Queste due sequenze, però, contengono anche parole, parole che, messe in bocca ai due personaggi femminili, curiosamente delineano un orizzonte comune. Se Marianne denota l’impotenza della fotografia di fronte al mistero del visibile, Berthe cerca di convincere il regista che l’immagine offre solo l’illusione di vincere il tempo. In realtà essa, «sotto le sembianze di un bagliore abbacinante, ci offre il negativo dell’inesauribile profondità negativa»38. Non vediamo i volti dei personaggi di Éloge de l’amour, ma l’invisibilità di questi volti non conferisce all’inquadratura un senso più ottuso di quanto non lo faccia, in Il bandito delle ore undici, la visibilità dei volti di Karina e Belmondo, vuoti ed enigmatici come il paesaggio notturno descritto sopra. Come suggeriva Bresson, Godard configura le sue inquadrature mantenendo un evidente margine di indefinito, quel margine tra 38

Maurice Blanchot, L’amicizia, cit., p. 64.

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visibile e invisibile che, in fondo, forse cercava anche il Velázquez riletto da Elie Faure proprio in Il bandito delle ore undici (vedi Capitolo 1). Impossibile mostrare tutti i lati delle cose e soprattutto i contorni dell’amore, visto che l’età adulta, concluderà Edgar, non esiste. L’occhio del cineasta, che al pari del pittore «si dà con il suo corpo»39, non può allora fare altro che questo: errare attorno agli oggetti e catturare «gli scambi misteriosi che fanno penetrare le une negli altri le forme e i tempi». L’evento e lo sguardo Attorno alle cose errano anche i viaggiatori di Film socialisme, saggio in forma di road movie sulla fine delle ideologie ed ennesima interrogazione sull’ambiguità della nozione di Europa. La struttura è quella dell’apologo: in modo tanto silenzioso quanto ineluttabile, il Capitalismo avrebbe realizzato il sogno del Socialismo, ovvero ottenere l’uguaglianza degli uomini di fronte al denaro. E non è un caso che l’oro sia uno dei leitmotiv visivi più ricorrenti di un film che, come l’acqua del Mediterraneo, scorre senza fermarsi né preoccuparsi di lasciarci gli strumenti per una decifrazione del narrato. Quando guardiamo le immagini Film socialisme, guardiamo (anche) qualcos’altro. La schiuma bianca del mare rimanda alla nostra Storia (la civilà del Mediterraneo) ma anche, come ci ricorda la prima delle numerose voci off, a una storia con la s minuscola, quella del cinema: «Algeri, la bianca, dove Mireille Balin lasciò cadere Pépé le Moko!». Non è immediatamente chiaro chi pronunci queste parole, perché molti sono i passeggeri di questa nave: una giovane donna (Constance) con compagno e figlio (Ludo) al seguito, tre intellettuali non ben identificati (un filosofo, un economista e uno scrittore), Bob Maloubier, ex agente secreto della SOE e soprattutto Richard Christmann, ex agente dell’Abwehr che, sotto il nome di Otto Goldberg, avrebbe partecipato, nel 1936, alla sottrazione di parte dell’oro spagnolo destinato all’URSS. Il condizionale è d’obbligo perché quella che Godard ci racconta non è la Storia ma, come dice il titolo, semplicemente un Film, ovvero una variazione finzionale (e in questo caso anche demistificatrice) del fatto storico. Il fatto a cui si allude corrisponde a una delle pagine più controverse della Storia recente, ovvero l’operazione di trasferimento di 500 tonnellate d’oro dalla Spagna all’Unione Sovietica 39 «Il pittore “si dà con il suo corpo”, dice Valéry. E in effetti non si vede come uno Spirito potrebbe dipingere. È prestando il suo corpo al mondo che il pittore trasforma il mondo in pittura». (Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit. p. 17).

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alla vigilia della Guerra civile spagnola. Le riserve d’oro – una parte della quale fu dirottato a Parigi – erano depositate al Banco de España in forma di monete, per lo più americane, e proprio una collana di monete d’oro occupa il centro dell’ultima inquadratura di quello che, come ha giustamente osservato Martial Pisani40, appare una sorta di divertita riscrittura della Storia. La sosta a Odessa, che coglie di sorpresa molti dei turisti, permette di allargare la rotta oltre il bacino del Mediterraneo e inventare un reale mai accaduto, ovvero il ritorno dell’oro in Spagna. La destinazione di questo viaggio, partito da Algeri, è infatti Barcellona, porto non distante da Cartagena, sede autentica della partenza del cosiddetto “oro di Mosca”. Come spesso in questo cinema, anche qui Nomen est omen. Su Otto Goldberg, letteralmente montagna d’oro, ricadono i sospetti di quel furto che, nella leggenda plasmata da Godard, il carico d’oro subì alle porte di Odessa. Le associazioni tra parole, numeri e cose sono come sempre infinite e permettono non solo di legare ma anche di confondere la verità con la leggenda. Un esempio soltanto: tre furono le navi che entrarono nel porto di Odessa (realtà), tre sono le parti in cui il bottino venne spartito (finzione) e tre sono, come vedremo, le sezioni che articolano questo viaggio. La poetica del frammento coinvolge sia la storia (se mai di “storia” si può parlare) che la costruzione dell’immagine, affidata a una moltitudine di dispositivi elencati in sede di paratesto come Teknos: Archos 404 cam., Samsung Nv24HD, Canon 5d mk2, Sony Ex1, Sony TG1E, Panasonic snap shot, JVC Everio. Molte, e non una, sono anche le lingue parlate e vanamente tradotte dai sottotitoli inglesi: dal latino al russo, dal tedesco all’italiano, dall’arabo allo spagnolo. Tra oralità e scrittura la relazione è come sempre dialettica e come sempre la parola si rivela colore (fig. 71) e soprattutto cosa, materiale da scomporre e ricomporre. È sufficiente inserire una cesura perché HELLAS diventi HELL AS e il senso, inevitabilmente, oscilli. Ha ragione Jean Douchet41: più che decriptare gli enigmi (Chi parla? Che cosa vedo? Che cosa succede?), sarebbe opportuno guardare quest’opera interrogandosi sulla modalità stessa della nostra ricezione. Che cosa mi provoca la visione di Film socialisme? Quali sono le associazioni mentali che il montaggio verticale ha evocato nella mia mente di spettatore impossibilitato ad arrestare il magma narrativo?

Fig. 71. Film socialisme. La parola come colore.

La prima associazione – forse la più suggestiva – è quella che collega il film al suo tempo. Impossibile, quanto meno per uno spettatore italiano, non rivedere questa Costa Concordia senza ripensare alla tragedia dell’Isola del Giglio (2012), catastrofe che Godard – non senza un pizzico di autoironia – si vanta di aver in qualche modo predetto, allo stesso modo in cui Il grande dittatore avrebbe annunciato la barbarie nazista (cfr. Capitolo 3). Ciò che interessa è il concetto di metafora (Europa = nave), parola che non a caso darà il titolo a uno dei segmenti di Adieu au langage (Nature, Métaphore). Da un’immagine a un’immagine, dunque, senza nemmeno passare per il referente. Nel deserto del reale su cui si fonda la comunicazione transmediale, l’inquadratura di Godard evoca infatti non (solo) l’evento, ma anche – direbbe Marco Dinoi42 – lo sguardo che su questo evento è stato gettato dai media e di conseguenza anche dalle centinaia di turisti che si sono recati sul luogo solamente per immortalare l’immagine del relitto. Non è escluso che su questo set così “reale” (la Costa Crociera è una vera Costa Crociera, gli attori sono mescolati a veri turisti), l’autore – alla ricerca della «povertà nel linguaggio» (Adieu au langage), abbia utilizzato per alcune inquadrature anche lo smartphone di qualche passeggero.

Martial Pisani, Arthur Mas, Elementi per una critica di Film socialisme, in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard, cit., pp. 209-220. 41 Cfr. Jean Douchet, Fernando Ganzo, Jean-Luc movimiento Godard, Conversación en torno a Film socialisme, «Lumière», 2014.

Cfr. Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze, 2008.

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Non c’è morte sulla nave di Film socialisme, ma qualcosa che in qualche modo può rievocarne la temporalità, ovvero una macchina fotografica utilizzata come videocamera e un orologio fermo, privo di lancette, indossato da un personaggio (Constance), ma proveniente dalla tomba di un faraone egiziano e indicante – come suggerisce la giornalista di France 3 – «la notte dei tempi». Abbiamo visto (Capitolo 2) quanto Godard rifletta sul rapporto tra le cose e le parole utilizzate per nominarle. Ebbene: un orologio che non segna l’ora è ancora lo stesso oggetto? Possiamo ancora nominarlo “orologio”? La perdita della funzione originaria, mi sembra, apre una sospensione del tempo e riduce questa cosa a pura immagine di qualcosa che era e non è più. Non serve più ora, ma è servito nel passato. Dunque esso è immagine di tempo, ovvero un oggetto «che si abbandona all’emergere della sua sola immagine»43. Dall’Africa all’Europa, sfiorando le coste dell’Egitto e della Palestina, Godard va alla ricerca delle radici dell’identità europea e lo fa sorretto dal consueto repertorio di frammenti – sonori, letterari e audiovisivi – che irrompono nel presente dall’archivio della Storia. Ecco, in ordine sparso, solo alcuni dei filosofi citati, in stampatello bianco su sfondo nero, nella sezione Textos: Walter Benjamin, Jacques Derrida, Hannah Arendt, Jean-Paul Sartre, Jean Tardieu, Alain Badiou, Henri Bergson. Ma il Film, scritto in collaborazione – tra gli altri – con Anne-Marie Miéville e Jean-Paul Battaggia, si avvale anche di numerosissimi inserti audiovisivi, dove il cinema d’autore si mescola con il documentario o il film di genere. Senza soluzione di continuità passiamo da Espoir – Sierre de Teruel (Espoir André Malraux, 1945) a Viaggio in Italia, da Alexander the Great (Alessandro il grande, Robert Rossen, 1956) a Lo sguardo di Michelangelo (Michelangelo Antonioni, 2004), da Devil’s Tomb (A caccia del diavolo, Jason Connery, 2009) a Méditerranée (1963), capolavoro dimenticato di Jean-Daniel Pollet su cui torneremo. Più esiguo il corpus delle fonti musicali, come sempre eterogenee; accanto a Beethoven, Giya Kancheli, Chet Baker e Paco Ibáñez. Come hanno sottolineato anche Martial Pisani e Arthur Mas44, difficile non è solo interpretare ma anche semplicemente descrivere Film socialisme, Cfr. Riccardo Panattoni, Blackout dell’ immagine, cit., p. 12. Martial Pisani, Arthur Mas, Elementi per una critica di Film socialisme, in Roberto Turigliatto (a cura di), Passion Godard, cit. Per un’analisi approfondita dell’opera si veda però Francisco Algarín Navarro, Fernando Ganzo (a cura di), Internacional Godard, «Lumière», 2014. Il dossier contiene, tra gli altri, saggi di Nicole Brenez, Gonzalo de Lucas e Jean Douchet. 43

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che all’ennesima visione lascia sempre l’impressione di un’opera aperta, indefinita o quanto meno non-finita. Più che di un racconto, si tratta – lo ha suggerito l’autore stesso – di una «sinfonia in tre movimenti». Tre movimenti da intendere però non come successivi, ma piuttosto concentrici: una crociera sul Mediterrano con partenza da Algeri e destinazione Barcellona (Des choses comme ça), un dialogo tra genitori e figli sui valori della bandiera francese (Quo vadis Europa) e infine, articolato da un montaggio tanto anarchico quanto ermetico, un libero flusso di immagini e parole che ricorda molto il primo canto di Notre musique (L’enfer) e non pone “fine” al Film, ma al contrario lo apre a una molteplicità quasi infinita di significati (Nos humanités). Dialogo con i volti Curiosamente, i nomi di queste tre sezioni non sono riportati in sede di sceneggiatura, pubblicata come sempre dai tipi di P.O.L45 nel rispetto dell’estetica crossmediale dell’autore. All’interno di (quasi) ogni pagina le parole, scritte in diverse lingue e contro le regole grammaticali e sintattiche, si incontrano e si scontrano con una quantità corposa di immagini in b/n, prive di didascalia e distinte sostanzialmente in due tipologie: volti e parole (le stesse visualizzate nei cartelli che punteggiano il film). Le parole “parlate” si alternano alle parole “mostrate”, senza che quest’ultime abbiano necessariamente qualcosa in comune con la consequenzialità narrativa dello script. Più dei cartelli, ci interessano però i volti o meglio le riproduzioni di fotografie, per lo più note, di narratori (Hemingway, Faulkner, Genet), filosofi (Benjamin, Arendt, Husserl), cantanti (Barbara, Mina, Patti Smith) o uomini politici (Clemenceau), uniti sulla superficie della filigrana come in una sorta di cimitero della memoria. Dialogue avec visages auteurs è infatti il sottotitolo di un’opera, il Film socialisme di carta, che si situa tra la sceneggiatura e gli appunti di lavorazione, resistendo a qualunque tentativo di classificazione. Impossibile, sfogliando le 99 pagine del testo, distinguere tra i dialoghi attribuiti ai personaggi e gli infiniti frammenti di frasi di cui è intessuto lo spazio sonoro (brani di conversazione dei turisti, parole di canzoni alla radio, massime pronunciate da indeterminate voci off). Se il narratore cerca di «dialogare con i volti» è perché la parola – come suggerirà anche Adieu au langage – pare aver perso ogni collegamento non solo con la cosa, ma anche con la sua fonte 45

Jean-Luc Godard, Film socialisme, P.O.L., Paris, 2010.

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di emissione: «Ciò che esce dalla bocca potrebbe avere rapporti con il linguaggio, ma spesso non è così. Il linguaggio è una questione di rapporti tra cervello, bocca e parola»46. Su questa postmoderna Crociera della Memoria, che non a caso evoca due dei colori della tricromia (il giallo e il blu), vagano senza peso fantasmi di creature scespiriane («I do not have my heart in my mouth»)47, echi di citazioni già citate («Le rêve de l’État c’est d’être seul, le rêve de l’individu c’est d’être deux»: Notre musique)48 e soprattutto riflessioni sui rapporti tra le parole e le cose: «Pauvres choses elles n’ont à elles que le nom qu’on leur impose». Ma dare un nome alle cose significa ricorrere al linguaggio e dunque superare quello iato tra pensiero, bocca e parola che angosciava non solo Nana (Questa è la mia vita), ma anche Marie, incapace, la notte dell’Annunciazione, di trovare la sua via/voie e soprattutto la sua voce/voix (Je vous salue, Marie). Non esiste personaggio, in questo cinema, che non si senta in qualche modo guardato dalle immagini e “parlato” dalla parole, proprio come accade al protagonista di L’innominabile (Samuel Beckett): «Toute parole me quitte et en même temps elle est dans l’attente de moi même que j’ai quitté en parlant»49. Non è questa la sede per un approfondimento dell’influenza di Beckett sul pensiero di Godard, ma la constatazione della disconnessione tra pensiero e parola – tema cardine anche di Adieu au langage – non può non evocare le atmosfere narrativamente rarefatte del Becket della Trilogia. Sessant’anni prima di Godard, Beckett aveva in un certo senso detto “addio al linguaggio” narrativo prolungando, per esempio in L’ image, una frase per dieci pagine consacrate tutte alla descrizione dell’impotenza descrittiva della parola. Non è un caso, allora, che a pagina 58 di Film socialisme campeggi non solo un ritratto del drammaturgo, ma anche un estratto di L’ image: «Ma langue ressort et va dans la boue je reste comme ça plus soif la

langue Rentre dans La bouche se referme elle doit faire une ligne droite maintenant à présent c’est fait j’ai fait l’ image»50. Come quella “forgiata” dall’alter ego di Beckett, l’immagine audiovisiva di Godard è liquida, informe e instabile. E questo perché il narratore, ovvero colui che «compone»51 le immagini, non ha più alcun potere su di esse. Ne è al contrario posseduto. Si riveda l’incipit di Scénario du film Passion, con l’autore che agita le braccia proiettando il suo riflesso sulla tela bianca dello schermo: «Tu veux pas écrire, tu veux voir, tu veux re-ce-voir. Tu es en face d’une page blanche, d’un plage blanche»52 (cfr. Capitolo 1). Che esista una dinamica di scambio tra creatore e creatura ce lo conferma anche Lo sguardo di Michelangelo (2004), il piccolo capolavoro di Michelangelo Antonioni citato nell’ultima parte del film. Mano a mano che il regista esplora con lo sguardo la tattilità del Mosé, il vedente si fa veduto e lo sguardo diventa tatto. E questo non è solo un «dolce miracolo degli occhi ciechi», ma la conferma di quanto nella microfilosofia di Jean-Luc Godard sia radicata la rivoluzione fenomenologica di Merleau-Ponty: «Circolarità parlare-ascoltare, vedere-essere visto, percepire-essere percepito (grazie a essa ci sembra che la percezione si faccia nelle cose stesse)»53. La variazione più surreale su questo tema resta indubbiamente quella offerta, sul finire di Quo vadis Europa, dalla gag del bambino che (ri)dipinge un Renoir affermando: «J’accueille un paysage d’autrefois»54 (fig. 72). Creare significa ricevere e dunque – poiché in recevoir è contenuto voir – vedere una creazione altrui. Come dimostrò lo stesso Beckett in Film (1965), esse est percipi e allora l’unico modo per sfuggire alla reificazione dello sguardo è quello suggerito dal brano di Giya Kancheli che “accompagna” alcuni frammenti di Des choses comme ça55: ABII NE VIDEREM, ovvero «mi sono allontanato

Jean-Luc Godard in Patrick Cohen, Le 7/9. Entretien avec Jean-Luc Godard, «France-Inter» 21 maggio 2014: http://www.franceinter.fr/emission-le-79-jean-luc-godard-invite-du-79 47 Jean-Luc Godard, Film socialisme, cit., p. 56. La frase rievoca il dialogo tra Lear e Cordelia nella scena 1 dell’atto I: «Unhappy that I am, I cannot heave / My heart into my mouth. I love your majesty / According to my bond, no more nor less». 48 «Il sogno dello stato è di essere solo, il sogno dell’individuo è di essere due». Questa frase, già citata da Eddie Constantine nel finale di Allemagne 90 neuf-zéro, è attribuita da Godard a Sophie Schöll, nonostante non compaia in questa precisa formulazione in nessuno dei sei volantini stampati dalla Rosa bianca. 49 «Ogni parola mi abbandona e allo stesso tempo essa è nell’attesa di me stesso che io ho lasciato parlando» (Samuel Beckett, L’ innomable, Les Éditions de Minuit, Paris, 1953, p. 97).

50 «La mia lingua esce va nel fango io resto così più sete la lingua Rientra nella bocca si richiude deve fare una linea dritta ora adesso ci siamo ho fatto l’immagine» (Samuel Beckett, L’ image, Les Éditions de Minuit, Paris, 1988, p. 18). 51 Ricordiamo la modalità con cui l’autore firma Si salvi chi può… la vita nei titoli di testa: «Un film composé par Jean-Luc Godard«. 52 «Tu non vuoi scrivere, tu vuoi vedere, tu vuoi ricevere. Sei davanti a una pagina bianca, a una spiaggia bianca». 53 Maurice Merleau-Ponty, La filosofia del sensibile come letteratura, ora in Il visibile e l’ invisibile, cit., pp. 275-276. 54 Da questa battuta l’artista fiamminga Joke van den Heuvel ha preso spunto per un’installazione composta di carta, fotografie e uno schermo televisivo esposta ad Anversa nel 2013 e intitolata proprio J’accueille un paysage d’autrefois. 55 Gli accordi dissonanti di Giya Kancheli, fatti di intervalli lunghi tra una nota e quella successiva, musicano in particolare i tempi morti del viaggio sulla Costa Crociera, i momenti in cui i passeggeri guardano, silenziosi, il mare all’orizzonte.

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Fig. 72. Film Socialisme

per non vedere». Se il reale dunque è invisibile agli occhi aperti e in quanto tale non può essere “inserito” nella creazione artistica («Nous n’avons que des livres à mettre dans les Livres»)56, l’immaginario non è da meno. Raccontare una storia è al contempo raccontare la Storia, la quale però contiene al suo interno anche la storia di colui che la racconta. Evidente, ancora una volta, è la lezione fenomenologica di Merleau-Ponty: non ci può essere né visione né narrazione se il soggetto rifiuta la sua «fondamentale unità» con l’oggetto. Tornando all’analisi della sceneggiatura, possiamo notare come Godard si diverta a creare, mediante l’impaginazione, effetti retorici e stilistici poi assenti nella trasposizione filmica. Si prenda per esempio l’intervallo tra pagina 26 e pagina 27. Preceduto da un ritratto del suo autore, il motto to be or not to be chiude pagina 26 senza suggerire alcun enjembement con le parole che aprono la pagina accanto (Une juive / oui on me l’a dit), parole invece pronunciate da uno dei personaggi – Rebecca, passeggera della nave – senza alcun “rispetto” della cesura. Se la pista sonora costituisce un film parlato “altro” rispetto a quello prodotto dal flusso di immagini, «Non abbiamo che libri da mettere nei / Libri ma quando bisogna in un libro mettere della/ realtà e in secondo grado quando bisogna / Nella realtà mettere della realtà» (JeanLuc Godard, Film socialisme, cit., p. 28). La citazione, presente anche nelle Histoire(s) du cinéma, è tratta da Clio (1917) di Charles Péguy, la cui sperimentazione sintattica e narrativa ha anticipato di cinquant’anni la rivoluzione del Nouveau Roman. 56

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la sceneggiatura non fa che rafforzare la polisemia, invitando il lettore a sfruttare la forza iconogenica della parola scritta e guardare il film dentro di sé, con gli stessi occhi ciechi della montatrice di JLG/JLG. Gli spazi bianchi e la mancanza di segni di interpunzione suggeriscono dunque la dissoluzione della forma-sceneggiatura. Come se non bastasse, la disposizione delle immagini nel corpo del testo obbedisce più a suggestioni musicali che logiche. Si pensi per esempio al volto di Gabriella Ferri (fig. 73), montato accanto a quello di Mina in una pagina dedicata alla tappa italiana di questa crociera, ovvero lo scalo a Napoli. L’operazione è ricchissima di sfumature intertestuali. La foto al centro della pagina in questione rinvia alla carriera attoriale dell’artista romana e più esattamente al ruolo della Lupa interpretato in Remo e Romolo – Storia di due figli di una lupa (Castellano e Pipolo, 1976). Le due parole stampate a fianco (Niente tutto), invece, oltre che reiterare in senso ossimorico il tema del nulla («Une fois en 1942 j’ai rencontré le néant»)57 evocano forse l’hit più noto dell’artista, ovvero Sempre, contenuto nell’album da cui Godard trae l’immagine di copertina per la seconda apparizione “visiva” della cantante, quelFig. 73. Film socialisme: la collocata a pagina 91: «Ognuno la sceneggiatura. è un cantastoria/tante facce nella memoria/tanto di tutto/tanto di niente». Il volto di Mina, la cui voce nel film risuona su fondo nero, altro non è allora che una delle tante facce nella memoria della Storia (NapoliItalia-Mediterraneo) sui cui si affaccia Nadège Beausson-Diagne, l’attrice che interpreta Constance. Nessuna traccia però, sulla pagina della sceneg57 Jean-Luc Godard, Film Socialisme, cit., p. 26. Questa frase è pronunciata da Bob Maloubier, ex agente segreto francese che, al pari dell’attore Mathias Domahidy, nel film interpreta se stesso.

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giatura, del lavoro di decostruzione che Godard chiede alla sua performer, la quale prima pronuncia senza timbro una lamentatio sull’Europa58 e poi rompe il velo della finzione guardando negli occhi l’obiettivo della videocamera (fig. 74). Ma non è finita. Perché qualche secondo dopo l’attrice, sul modello della semantica dell’indice59 vista in tanta pittura occidentale, solleva la mano destra e indica qualcosa fuori campo, invitando lo spettatore (o un passeggero della nave?) a immaginare: «Immagina un deserto».

un frammento di Mediterraneo, ma il correlativo oggettivo di un cuore abbandonato («Immagina un deserto/immagina un concerto/non è stato scritto/immagina la luce/sono io senza te»). Godard, naturalmente, finge di fuggire il senso letterale di queste parole per poi invece aderirvi eideticamente, mediante un montaggio che restituisce la fisicità di questo cuore lacerato. Mentre Mina paragona il deserto al suo cuore, davanti ai nostri occhi scorrono, nell’ordine, un particolare di La calunnia (Sandro Botticelli: il Rimorso che guarda la Verità), un fotogramma in cui sono visibili due navi militari, il dettaglio del ritrovamento di un cadavere e di nuovo l’immagine di una battaglia navale. Inutile se non sterile decifrare la provenienza di questi frammenti, che Godard ci invita a percepire non come racconti (parole) ma come cose. Delle cose così, con la loro pesantezza, il loro colore e il loro ritmo, dettato dagli intervalli neri che sembrano visualizzare la respirazione e le palpitazioni del cuore. Mediterraneo

Fig. 74. Film socialisme

La polverizzazione del senso raggiunge qui un punto di non ritorno. Il gesto espressivo dell’indice, che Leonardo Da Vinci impiegava per conferire «inconfutabile verità» ai suoi personaggi, è svuotato da Godard di ogni carica drammatica ma soprattutto – penso alla mano dell’Angelo in La vergine delle Rocce – di ogni tensione teofanica: nessuna Vergine fuori campo, solo un mare agitato dalle onde. Qual è, inoltre, il nesso tra una riflessione sull’agonia dell’Europa e una canzone di Mina, innestata over nel già ricchissimo tessuto sonoro del film? Con «deserto», naturalmente, il paroliere non intendeva certo «Cette pauvre Europe, non pas purifiée mais corrompue par la souffrance, non pas exaltée mais humiliée par la liberté reconquise» (Questa povera Europa, non purificata ma corrotta dalla sofferenza, non esaltata ma umiliata dalla libertà riconquistata). 59 Sulla semantica dell’indice si veda in particolare André Chastel, Il gesto nell’arte, tr. it. Laterza, Bari, 2008. 58

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Più che emozioni, interrotte sul nascere da un montaggio che rifiuta il bello per attingere il Bello60, a Godard interessa restituire sensazioni, come quella del vento che scuote il microfono sulla prua della nave impedendoci di ascoltare la conversazione tra Melissa, la giovane nipote di Goldberg, e Ludovic, il ragazzino che scambia la superficie della Costa per un campo da basket. Il vento, lo sciabordio delle onde, l’eco del karaoke in coperta e tutti gli altri suoni che costellano questo viaggio lungo le coste del Mediterraneo non rinviano a null’altro che alla loro dimensione di cose sonore, frammenti non narrativi di un reale che invece sembra non interessare ai turisti, intenti a fotografare unicamente se stessi. Se il cinema è il cinema, il rumore è rumore e nulla più. Eppure, all’orecchio anestetizzato dello spettatore del terzo millennio, questi effetti sonori di reale possono apparire perturbanti tanto quanto lo furono, per gli spettatori del 1895, i riflessi cangianti delle ombre nelle vedute Lumière, definite non a caso da Godard «straordinario nell’ordinario». Non credo, come sostiene qualcuno, che con il sempre più frequente utilizzo di dispositivi LD Godard voglia denunciare la degradazione dell’immagine; al contrario. Uno dei fili che uniscono le opere qui analizzate è 60 Condivido in pieno la tesi di Alain Bergala, secondo cui Godard «aggredisce [lo spettatore] perché coltiva il Bello ma detesta il carino, l’amabile, e naturalmente ciò che è seducente». Alain Bergala, La figure de l’ange. Entretien avec Alain Bergala, in AA.VV., Où en est le God-Art?, cit. p. 98.

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proprio la riflessione sull’immagine quale simulacro di quell’unità tra io e mondo a cui aspirano tutti i personaggi di questo cinema, da Juliette Jeanson (Due o tre cose che so di lei) a Lemmy Caution (Allemagne 90 neuf zéro) sino alla mère di Film socialisme. La tecnologia digitale, in questo senso, non fa che rafforzare suddetta illusione. Da un lato offre a tutti la possibilità di verificare tecnicamente il proprio esser-ci («(mi) filmo dunque sono»), dall’altro, per mezzo della sua testura numerica, ci ricorda che essa potrebbe anche esistere senza di noi, senza la nostra presenza fisica davanti all’obiettivo61. Presenza di cui ha invece ancora bisogno la televisione, come conferma la surreale indagine di France 3 Région a cui è dedicato il secondo movimento di questa sinfonia, Quo vadis Europa. Al pari delle cose, anche i corpi sono al contempo se stessi e qualcos’altro, in quanto sintesi di libertà e di nulla62. Composta da père, mère, Florence e Lucien, la famiglia Martin è una famiglia tipo scelta per un’inchiesta giornalistica, ma il suo nome evoca la “Famille Martin”, una cellula della Resistenza francese incaricata di far passare la frontiera svizzera ai prigionieri di guerra63. Davanti alla telecamera, père e mère dovrebbero discutere di égalité e liberté, visto che di fraternité dibatteranno i due figli. Ma, ancora una volta, parlare della Storia (della Francia, dell’Europa, dei suoi valori) è impossibile senza raccontare la propria storia, senza dire “Io”. Se il padre chiede ripetutamente al figlio perché egli non li ami, la madre esprime un disagio tutto privato, riconducibile a quel sentimento di essere-per-la-morte di cui sopra: «Oui, pour les garder intacts, l’espace et le temps, j’ai menti. Je néglige de les vivre... C’est un peu injuste… […] J’estime toujours que je suis ailleurs»64. Altrove – un altrove tanto spaziale che temporale – è l’orizzonte toccato nell’ultimo segmento dell’opera, dal titolo tanto enigmatico quanto affascinante (Nos humanités). Tra i programmi per il futuro elencati da Florine alla madre, oltre quello di «avere ragione», c’è anche il seguente: «Imparare Sull’ambiguità dell’immagine digitale si veda ancora Christian Uva, L’ immagine tra calco e calcolo, cit., p. 46. 62 Per una lettura delle suggestioni heideggeriane presenti nel primo Godard si veda Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., pp. 173-179. 63 Come ha osservato Martial Pisani, Godard con il nome “Martin” fonde due reti di Resistenza senza legame l’una con l’altra: la Famiglia Martin e “Libérer et Fédérer”, creata nel 1942 da Silvio Trentin, un intellettuale socialista sostenitore degli Stati uniti d’Europa. 64 «Sì, per conservare intatti lo spazio e il tempo ho mentito. Mi rifiuto di viverli. Penso sempre di essere altrove». 61

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a vedere, prima di imparare a scrivere». Ebbene: gli ultimi quindici minuti di Film socialisme rappresentano una sorta di viaggio ai confini del visibile, confini che ora non sono più solo spaziali – la Costa Crociera fa scalo a Odessa – ma temporali. La risposta sulla futura destinazione dell’Europa può venire, infatti, solo dalle tracce di chi nel passato ha guardato e filmato queste terre, come Thédore Monod, prozio dell’autore e autore di numerosi documentari sui deserti africani, e naturalmente lo stesso Ejzenštejn, che Godard omaggia facendo collidere alcune inquadradure di La corazzata Potëmkin con le immagini di una lezione di storia impartita ad alcuni bambini proprio sulla celebre scalinata. Dove veleggiavano le barche cariche di viveri per gli ammutinati, ora sosta la Costa Crociera. Ma lo sguardo più caro all’autore è senza dubbio quello di Jean-Daniel Pollet, il cui Méditerranée resta il modello di riferimento principale di questo progetto: Che sappiamo noi della Grecia oggi… Che sappiamo dei piedi agili di Atlante, dei discorsi di Pericle […], che sappiamo noi di noi stessi, oltre al fatto che siamo nati là migliaia di anni fa… Che sappiamo dunque di quell’istante superbo in cui alcuni uomini […] invece di ricondurre il mondo a loro come un qualunque Dario o Gengis Kahn, si sono sentiti solidali ad esso, solidali alla luce non inviata dagli Dei ma da loro stessa riflessa?65

Con questo interrogativo, riproposto oggi in forma di film, Godard esprimeva, nel 1967, la sua ammirazione per l’opera di Pollet, esempio di cine-poema a metà strada tra Dziga Vertov e Chris Marker, influenzato sia dalle sperimentazioni del Nouveau Roman che dal montaggio del primo Resnais. L’etichetta di «materialismo poetico», imposta dalla critica, è riduttiva ma rende conto della matrice dialettica su cui si fonda la scrittura di Pollet, che applica il partito preso delle cose senza escludere, tuttavia, la possibilità di un’utopistica unione di soggetto e oggetto e soprattutto di mondo e linguaggio. Se davvero, come sostiene Derrida, il linguaggio non rinvia ad altro che a se stesso poiché nulla lo fonda, forse il cinema, in quanto configurazione simulacrale del mondo66, può lenire la coscienza del Dasein e dare l’illusione di poter trasformare lo spazio in tempo perduto. «Sta a noi – scrive il Godard spettatore di Pollet – trovare questo Jean-Luc Godard, Impressioni antiche, in Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 170. 66 Cfr. Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit. 65

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spazio», che Philippe Sollers, autore del contrappunto verbale alle immagini di Méditerranée, ha non a caso definito «cubico»67. La frequentazione con il gruppo di «Tel Quel» è fondamentale nell’evoluzione del percorso di Pollet, che risente, inevitabilmente, anche della lezione di Francis Ponge. Se il linguaggio, prigioniero di idealismo e soggettivismo, non può più “dire” le cose, l’unico modo per ritornare a esse con la parola è indagare aspetti inediti del loro peso, della loro superficie, della loro testura: «Oh pauvres choses, elles n’ont à elles que le nom qu’on leur impose»68, lamenta una voce off femminile nella prima parte di Des choses comme ça. Partire dalle cose, del resto, era anche l’imperativo di Edgar in Éloge de l’amour: «Parlons de quoi, c’est fait / parlons des choses / mais / ne parlons pas sur les choses parlons /à partir des choses»69. Pollet seleziona alcune cose del paesaggio mediterraneo (una statuetta del dio Horus, le rovine di Palmira, il tempio di Apollo a Bassae, l’erba incolta che invade le pietre, il mare visto dall’alto) e fa interagire il loro silenzio con immagini provienienti da un altrove indefinito, come il lettino di una sala operatoria, un quadro di Jacopo Bellini, il volto di una ragazza dormiente e la carcassa agonizzante di un toro. Da un lato l’asprezza reale della cosa, dall’altro la fluidità virtuale del simbolo. Di tutte queste cose – alcune piatte, altre profonde – due attraggono l’attenzione di Godard: il simulacro di Horus, il dio Egizio ipostatizzato in falco, e quel fotogramma che è forse l’immagine eidetica di tutta l’operazione, ovvero il mare visto attraverso un filo spinato (fig. 75). Né mare, né terraferma dunque, ma una soglia che introduce la visione e al contempo, come suggerisce un cartello in Des choses comme ça, nega l’accesso (ACCES DENIED). Facile è leggere questa inquadratura come una metafora spaziale di quella dimensione del tra a cui tende l’immagine godardiana, ovvero «l’immagine fatta di due»70, sospesa tra la luce di un’inquadratura e il buio di quella successiva. La parola Mediterraneo, del resto, non indica una terra, ma un intervallo tra due o più terre. Vengono in mente, ancora una volta, le riflessioni di Merleau-Ponty 67 Cfr. Philippe Sollers, Une autre logique, «Cahiers du cinéma», 195, 1967 (dossier La mer intérieure). 68 «O povere cose, non posseggono che il nome che viene loro imposto!». 69 «Parliamo di cosa va bene / parliamo delle cose / ma / non parliamo sulle cose parliamo / a partire dalle cose» (Jean-Luc Godard, Éloge de l’amour, cit., p. 15). 70 «Due immagini anziché una, è questo che io chiamo immagine, l’immagine fatta di due». (Jean-Luc Godard, Youssef Ishaghpour, Archéologie du cinéma et mémoire du siécle, Farago, Tours, 2000, pp. 26-27.

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Fig. 75. Film socialisme: un frammento di Méditerranée

sulla inscindibilità tra carne e sguardo nell’esperienza della visione, teorizzata mediante il celebre esempio della piscina: «Quando vedo attraverso lo spessore dell’acqua le piastrelle sul fondo della piscina, non le vedo malgrado l’acqua e i riflessi, le vedo proprio attraverso essi, mediante essi»71. Allo stesso modo, il filo spinato accarezzato dal travelling di Pollet – e innestato da Godard accanto a un’immagine documentaria (un prigioniero di guerra scortato da soldati) – è quel limen che consente al vedente di vedere e al contempo di vedersi come essere errante tra immagine e nulla. Il gioco di parole enunciato in Scénario du film Passion («Voir… recevoir») si arricchisce, da un punto di vista fonetico, di un’ulteriore sfumatura di senso. Il frammento -cevoir è infatti omofono al modo riflessivo del verbo vedere (se voir). Vedere, pertanto, è anche vedersi. «Tutto si fa orizzonte, tutto si avvicina, tutto diventa stregato», recita in Méditerranée il testo di Sollers, che Godard però espunge dalle immagini preferendogli frammenti di una canzone pacifista (Where Have All the Flowers Gone, tradotta in tedesco), riflessioni sulla differenza tra verbo essere e verbo avere72 e soprattutto un ammonimento di Jean Genet, pronunciato da una delle voci off che “recitano” in questa sezione: «Mettere al Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 50. «Voyez-vous avec le verbe être le manque de réalité / Devient flagrant» (Vedete con il verbo essere la mancanza di realtà / Diventa flagrante). Non a caso, davanti ai giornalisti di France 3, la giovane Florine rifiuta di usare il verbo essere, invitando anche loro a fare altrettanto. 71

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riparo tutte le immagini dal linguaggio e servirsi di esse perché esse sono nel deserto dove bisogna andare a cercarle». Addio, dunque, al linguaggio? Khan Khanne «Non faccio più parte della distribuzione, e dunque non sono più laddove voi pensate che io sia. In realtà seguo altre piste… ed ecco alcuni luoghi dove io risiedo, qualche volta per molti anni, qualche volta per alcuni secondi». Con queste parole, pronuciate in voce over su frammenti di film tratti dal proprio archivio vhs, Jean-Luc Godard ringrazia il direttivo del Festival di Cannes per aver accolto Adieu au langage nella competizione ufficiale. E lo fa con una videolettera, Khan Khanne (2014), che appare come l’ennesima occasione per giocare con i generi e soprattutto con le parole. Se sotto il logo della Palma d’oro appare la scritta «Sélection Naturelle», la ripetizione del suono Cannes rinvia all’omofona danza (il Can can), fondata su un principio, quello della ripetizione, che abbiamo visto essere fondatore dell’estetica di questo cinema: penso alla struttura del Bolero in Prénom Carmen o alla pratica, molto frequente negli ultimi dieci anni, di far migrare di film in film una determinata citazione o inquadratura modificandola in modo quasi impercettibile. Nell’incipit di quello che l’autore ha definito «non un film, un semplice valzer», l’immagine “ripete” la parola, connotandola di una sfumatura che tende ironicamente verso il dispregiativo. Mentre l’autore afferma di non appartenere più al gregge che sale gli angusti ventiquattro scalini del Palais, sullo schermo si muove una mandria di buoi, o meglio la riproduzione in bassa definizione di un vecchio western in bianco e nero. Godard ci dice di essere altrove, dove è «sempre stato e sarà ancora per molti anni», ovvero nello spazio della memoria in cui è confinato anche Lemmy Caution, il primo dei fantasmi che, preceduti da un cartello su fondo nero, ci vengono incontro durante la visione. Non contento di citare la propria opera – e mi riferisco ai brevi estratti da Allemagne 90 neuf-zéro, Re Lear e Adieu au langage – l’autore cita anche se stesso, riproponendo un frammento di Nous sommes tous encore ici (1997), il cortometraggio diretto dalla moglie a cui abbiamo accenato all’inizio di questo Capitolo. «Non è il contenuto delle ideologie, ma la logica con cui i dirigenti degli stati totalitari le utilizzano, che produce questo suolo familiare»: davanti alle poltrone vuote di un teatro, truccato come nella vita (giacca, occhiali e barba incolta), Godard recita un brano da La natura del totalitarismo, un 222

testo per nulla adatto a una rappresentazione scenica ma proprio per questo funzionale all’operazione. Godard, dunque, mostra se stesso nell’atto di “dire” un testo. Abbiamo parlato poco fa di ripetizione. Quella a cui assistiamo non è una recita, ma la riproduzione di una répétition (prova) che a sua volta ripete una delle parole chiave dell’ultima stagione creativa del regista: solitudine. «Il rischio nella solitudine è di perdere se stessi», dice Hannah Arendt, riprodotta in una fotografia che funge da scenografia, attraverso la voce di questo attore senza nome. Solitudes, un état et ses variations era il sottotitolo di Allemagne 90 neuf-zéro, mentre infinite nelle Histoire(s) du cinéma erano le variazioni sulla parola “solitudine”, da solitude de l’ histoire a une histoire seule sino a seul le cinéma. Lo ha osservato forse per primo Jacques Aumont: ciò che torna, in questo cinema, non torna sempre alla stessa maniera73. Il volto stesso di Hannah Arendt è una metafora di questa pratica di “differenza nella ripetizione” che l’autore poi applica anche a Shakespeare, riproponendoci, dal Re Lear, proprio quella battuta di Cordelia rivisitata («I don’t have my heart in my mouth») appena parafrasata in Film Socialisme 74. Nel Film socialisme cartaceo un ritratto giovanile della Arendt occupava la metà inferiore di pagina 10, preceduto da una breve citazione da una celebre lettera della stessa filosofa a Gershom Scholem sui concetti di indipendenza politica e isonomia75. Qual è il nesso tra le tesi sulla banalità del Male e una video-missiva in calce a un film in 3D? La risposta, forse, arriva dalle parole stesse, che Godard prende alla lettera prima di coinvolgerle nel consueto gioco di associazioni. Quando illustra l’ontologia del Male, Arendt adotta, come unità di misura, l’opposizione profondità-superficialità. Il male sarebbe infatti «banale» in quanto non profondo, non radicato in un determinato popolo, ma così “superficiale” da poter invadere qualunque mente, qualunque nazione, qualunque epoca. È proprio la sua “bidimensionalità”, insomma, Cfr. Jacques Aumont, Amnésies. Fictions du cinéma d’après Jean-Luc Godard, P.O.L., Paris, 1999. 74 L’ossessione per la ripetizione fa pensare a Charles Péguy e in particolare alla sua concezione intensiva della Storia intesa come ripetizione ininterrotta di un evento originale. Cfr. Buno Latour, Les raisons profondes du style répétitif de Péguy, in AA.VV., Péguy écrivain, Colloque du centenaire, Éditions Klincksieck, Paris, 1973, pp. 78-102. 75 «Avete ragione non amo nessun Popolo / Né quello francese né quello americano né quello tedesco / Né il popolo ebreo né il popolo africano / Amo solo i miei amici». Si veda anche Hannah Arendt e Gershom Scholem, Due lettere sulla banalità del male, tr. it. Nottetempo, Roma, 2007. 73

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che assicura la sua forza. Non è forse un caso allora che la dialettica tra il superficiale e il profondo sia uno degli orizzonti di riflessione aperti in Adieu au langage, seconda esperienza di Godard con il 3D dopo The Three Disasters, episodio del film collettivo 3x3D (Greenaway, Godard, Pêra, 2013). «Il 3D è un desiderio antico – ha dichiarato di recente l’autore – lo aveva anche Welles. Fare il 3D è facile, difficile è fare entrare il profondo nel piatto»76. Che cosa vuol dire «fare entrare il profondo nel piatto»? Godard dà la paternità di questo aforisma a Céline, ovvero a un artista che lavora con le parole e non con le immagini. Al di là dei continui rimandi a linguaggi apparentemente estranei al cinema, come la letteratura o la filosofia, è evidente che una riflessione sullo statuto linguistico del cinema non può prescindere da un’indagine sulla testura stessa dell’immagine, la quale, per diventare linguaggio, sembra avere comunque bisogno della parola: Oggi i talk show e la comunicazione quotidiana non sono linguaggio, sono lingua. Il linguaggio viene da più lontano, è una specie di alleanza della parola e dell’immagine, di cui il neonato conosce un breve momento, perché al contempo è meravigliato e grida. Solo in seguito arriva la comunicazione. Ma la comunicazione per me e per alcuni filosofi non ha alcun rapporto con il linguaggio77.

«Perché nemmeno io ho più il cuore nella bocca», ripete due volte il simulacro di JLG riprodotto in Khan Khanne. Questo, forse, voleva dire Nana quando esprimeva davanti a Brice Parain (Questa è la mia vita) la sua difficoltà a comunicare con le parole, troppo “lontane” dalla bocca e non in grado di restituire con esattezza il pensiero. E mentre JLG annuncia di andarsene, «portato via dal vento cattivo assieme alle foglie morte», sullo schermo scorrono alcune fotografie in bianco e nero, tra cui un ritratto di François Truffaut. Perché il cinema è forse il riparo del tempo, ma nessun’immagine può “riparare” dal vuoto della perdita. Cannes, 2014: Godard monta delle immagini e dei suoni per supplire all’assenza del suo corpo e parlare di sé, della sua vita di rifugiato sull’isola dei morti. Ma finisce col dire qualcos’altro.

Ah Dieux, oh langage! Il titolo, innanzitutto. Più che il titolo di un film, Adieu au langage appare l’intestazione ideale per un saggio sulla poetica di un autore da sempre proccupato più di rompere che di costruire. «La possibilità di spiegare è la sola scusa all’esistenza della parola», dice Godard in Khan Khanne. Eppure il sintagma Adieu au langage non spiega, ma confonde. Come ha confessato lo stesso Godard, Adieu, nel gergo del Cantone del Vaud – residenza scelta come set anche per quest’ultimo film – significa esattamente il contrario rispetto al senso comune, ovvero “buongiorno”. Nessun abbandono, dunque, ma piuttosto un’interrogazione sull’accezione stessa della parola “linguaggio”, che oggi avrebbe perso la sua connotazione originale di «alleanza tra parola e immagine». Ma che cosa si intende per “parola”? In un’intervista concessa a «Le Monde», Godard è ritornato sulla questione specifica che per “parola” non intende «la parola, la voce o la parola di Dio, bensì qualcosa che non può vivere senza l’immagine»78. La contrapposizione tra lingua e linguaggio evoca, invece, la celebre diatriba tra cineasti e storici della lingua nell’era del cinema di poesia, ma non è forse lì che Godard vuole tornare. Quando dice che il linguaggio è «alleanza di parola e immagine», l’autore non parla necessariamente del linguaggio cinematografico, visto che anche le sue ultime sceneggiature, come abbiamo visto, prevedono esattamente questo: una combinazione di immagini in b/n e parole sulla medesima superficie cartacea, senza che le regole della lingua scelta (il francese) debbano in qualche modo condizionare la ricezione del lettore. Costui, infatti, deve porsi davanti al testo – non importa se scritto o audiovisivo – in maniera attiva, concentrandosi soprattutto su quel margine di indefinito che, sul modello di Bresson, Godard mantiene sempre in ogni sua creazione. «Je voulais aller à côté», ha dichiarato a proposito di Adieu au langage. Ovvero, «volevo andare accanto»: accanto al 3D del cinema spettacolare, accanto al film-saggio, accanto alla storia di un amore che nasce, muore e forse rinasce. Di che cosa “parla” Adieu au langage? Il plot, secondo Godard, è semplice:

76 Jean-Luc Godard in Patrick Cohen, Le 7/9. Entretien avec Jean-Luc Godard, «France-Inter», 21 Mai 2014: http://www.franceinter.fr/emission-le-79-jean-luc-godard-invite-du-79 77 Ibidem.

«Al cinema mi piace non l’immagine contro il testo, ma questo qualcosa che precede il testo e che è la parola. Nell’immagine cinematografica c’è un’altra cosa, una specie di riproduzione della realtà, una prima emozione. La macchina da presa è uno strumento che funziona come il telescopio o il microscopio per uno scienziato». (Le cinéma c’est un oubli de la réalité. Entretien avec Jean-Luc Godard, «Le Monde», 10 Juin 2014).

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Una donna sposata e un uomo libero si incontrano. Si amano, litigano, si picchiano. Un cane erra tra città e campagna. Le stagioni passano. L’uomo e la donna si ritrovano. Il cane si trova tra i due. L’altro è nell’uno, l’uno è nell’altro. E sono le tre persone. L’ex marito fa esplodere tutto. Un secondo film comincia. Lo stesso del primo. Eppure no. Dalla specie umana si passa alla metafora. Tutto finisce con l’abbaiare di un cane. E con il pianto di un neonato79.

Leggendo questa breve sinossi, un nucleo tematico emerge, quello del passaggio, dello scivolamento silenzioso delle cose, delle stagioni, dell’amore verso il nulla. In apparenza, la dispositio ricalca la struttura aristotelica in tre atti: una situazione iniziale (l’incontro), un conflitto interno alla coppia, una soluzione finale che prevede il ricongiungimento amoroso. In realtà, però, la storia così come qui è scritta nel film non si vede. Anziché raccontarla, Godard si limita a mostrarne gli elementi e i materiali, senza nemmeno suggerire le modalità della loro interazione. In ordine sparso percepiamo voci maschili e femminili, estratti di una canzone di protesta80, suoni indistinti, brani di cinegiornali, volti di donne senza trucco, un cane, due corpi nudi, un torrente, un lago, un ferry-boat, un televisore acceso e così via. Anziché illustrare le immagini, le voci fuori campo sembrano provenire da un altro film81 o comunque alludere a una storia altra rispetto a quella mostrata. Si prenda per esempio il primo protagonista elencato, ovvero “una donna sposata”, ennesima divertita autocitazione. Ebbene, non è semplice comprendere immediatamente chi, tra le due attrici che si susseguono (e si mescolano) sullo schermo, effettivamente incarni questa “donna sposata”. Si tratta di Zoé Bruneau (Ivitch) o di Héloise Godet (Josette)? E ancora: Ivitch è Josette o le assomiglia soltanto? Al pari del linguaggio – sembra suggerirci Godard – anche l’identità è soggetta alla lenta erosione del tempo, macro-tema familiare all’autore (si pensi solamente a Dans le noir du temps) e qui evocato mediante il motivo del passaggio. I numerosi esterni del film e in particolare il bosco

attraversato dal cane Roxy – al cui pedinamento sono dedicati i dieci minuti conclusivi – confermano l’attenzione – già vista in Nouvelle Vague – per il mutamento delle stagioni. Oltre alle stagioni, però, sotto lo sguardo della videocamera “passano” anche i volti, le parole, i nomi. All’interno di questo caleidoscopio è tuttavia possibile individuare una divisione in quattro parti, incorniciate da un prologo e da un epilogo. Le sezioni si alternano secondo un ritmo binario che prevede due serie: 1-2 e 1-2. I capitoli “1” hanno come titolo La nature, i capitoli “2” invece sono racchiusi sotto il segno di La métaphore. Nella prima serie, dove si muovono Héloise Godet (Josette) e Kamel Abdelli (Gédéon), abbondano le citazioni letterarie, mentre nella seconda, interpretata da Richard Chevallier (Marcus) e Zoé Bruneau (Ivitch), prevale il riferimento a discipline come la pittura e la matematica. Tale suddivisione è ovviamente più che aleatoria poiché tutto, in Adieu au langage è al contempo natura e metafora. Potremmo anzi affermare che il soggetto del film – se mai è possibile parlare di soggetto – è esattamente ciò che si situa tra la natura e la metafora o, come ci ha suggerito lo stesso autore, «accanto» a esse. Come ogni racconto, dunque, anche questo ha un prologo, costituito da tre tipologie di immagini assolutamente eterogenee tra loro: un frammento di storia del cinema (il finale di Only Angels Have Wings [Avventurieri dell’aria, Howard Hawks, 1939]), un dettaglio del muso di Roxy e un indistinto magma nero, forse il particolare di una tela di un quadro in lavorazione. La storia, dunque, comincia con la fine di un’altra storia – quella narrata da Hawks – che non ha nulla in comune con la nostra se non, appunto, la riconciliazione finale. L’estratto ci mostra la gioia di Bonnie (Jean Arthur) nel momento in cui scopre la prova d’amore del pilota amato Geoffrey (Cary Grant). Quanto all’ordine sintattico del montaggio – cinema, cane, pittura –, la metafora è evidente: il cane è filmato come chi, invece di comunicare, «mette in comune»82 il cinema e la pittura, la parola e il linguaggio, l’uomo e la donna. La natura? Di natura propriamente detta, in questo prima sezione, nemmeno l’ombra. Gli occhi del cane Roxy fungono infatti solo da introduzione a una scena di conversazione urbana che sembra rievocare l’estetica degli anni

Dal press book di Adieu au langage. Si tratta di alcune strofe di La violenza (La caccia alle streghe), canto di protesta scritto da Alfredo Bandelli nel 1968. Godard si diverte a interrompere la canzone a metà di una frase o addirittura di una parola. Esempio: «Viva la rivoluzione» diventa «Viva la rivo», «Ho visto le autoblindo» diventa «Ho visto le»). 81 È il caso di una frase pronunciata fuori campo da Zoé Bruneau: «L’ombra di Dio non lo è forse la donna per l’uomo che la ama?». Si tratta, naturalmente, di una citazione da Je vous salue, Marie.

82 «Il cane è un personaggio fondamentale del film. Non comunica, mette in comune. Non gli si può parlare, ma si può entrare in comunione con lui». (Jean-Luc Godard in Pardonnez moi: l’ interview de Jean-Luc Godard, RTS, Radio Télévision Suisse, maggio 2014).

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Karina: esterno giorno, rumore di traffico e studenti che allestiscono un banchetto di libri (fig. 76). Nessuna frontalità però nello sguardo “nar-

linee dei loro movimenti sono infatti sufficienti a offrire l’illusione di uno spazio prospettico. Ma c’è di più. Nel momento in cui Mr. Davidson (Christian Grégory) si rivolge a Isabelle84, costei è quasi invisibile in quanto nascosta dalla massa del corpo dell’uomo in primo piano (fig. 77). Un paradosso, quello della terza dimensione, già evidenziato però cinquant’anni fa da Merleau-Ponty: La profondità ha qualcosa di paradossale: vedo degli oggetti che si nascondono a vicenda e quindi non vedo, dato che sono uno dietro l’altro. Vedo la terza dimensione, ed essa non è visibile perché va verso le cose a partire dal mio corpo, al quale sono incollato… Ma si tratta di un falso mistero, io non la vedo realmente, oppure, se la vedo, è un’altra larghezza85.

Fig. 76. Adieu au langage

rante”, che, al contrario, si mantiene inclinato in modo tale da far emergere ancor di più l’insistenza del fuori campo. Le lettere “NEAGAZ” ci consentono a mala pena di intuire la location (il centro culturale L’Usine à Gaz di Nyon), mentre dei primi personaggi (gli studenti, il filosofo Mr. Davidson e Isabelle) non vediamo che frammenti, come mani che sfogliano pagine di libri o dita sullo schermo di un iPhone. «Se non avessi scelto il 3D non avrei fatto questo film», ha detto Godard, e l’organizzazione dello spazio lo conferma. La prima conversazione, incentrata su Arcipelago Gulag di Alexandr Solženicyn (controcanto perfetto a Film Socialisme), avviene infatti lungo la linea longitudinale dello spazio, che la compresenza stereoscopica di due sguardi restituisce come cubico. Da questa scena si evince immediatamente la volontà di decostruire la funzione del 3D, artificio che invece di aumentare gli effetti di reale potenzia quelli del falso83. La disposizione degli attori nello spazio, la direzione dei loro sguardi e le

«Un falso mistero»: questo è esattamente ciò che l’immagine audiovisiva di Godard “pensa” dell’illusione 3D. Più che da un dispositivo ottico, la profondità è infatti assicurata dal suono e in particolare dagli inserti vocali di Zoé Bruneau, attrice di formazione teatrale esordiente in questo cinema. Molto spesso, la parola interviene in sostituzione dell’immagine, accecata da uno schermo nero che sembra in qualche modo voler favorire l’attenzione uditiva

Sul realismo dell’immagine 3D si veda Andrea Mariani, Sinergie e sinestesie. La stereoscopia tra convergenza e nuovo realismo (2005-2012), «Cinergie», 2, 2012, pp. 23-31.

84 Non è chiaro quale sia l’identità di questo personaggio, né il tipo di relazione che instaura con Mr. Davidson. 85 Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 34.

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Fig. 77. Adieu au langage

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dello spettatore. È il caso, per esempio, della citazione di un articolo di Jacques Ellul, Victoire d’Hitler?, letto in voce off da Héloise Godet all’inizio del capitolo 186. Qual è il nesso tra la Storia e una storia, o meglio tra l’evocazione dell’ascesa al potere di Hitler e una riflessione sul linguaggio? Una data, il 1933. L’anno in cui Hitler sale al potere è anche l’anno in cui, dice una voce maschile, «un russo, Zvorkin, inventa la televisione». Qualche minuto dopo la parola, l’immagine dice la stessa cosa. Frammenti di un documentario su Hitler si “scontrano” infatti con la riproduzione televisiva di una tappa del Tour de France. Ma torniamo al suono. Nel diario di lavorazione pubblicato di recente, Zoé Bruneau racconta dell’attenzione maniacale che l’autore ha rivolto alla registrazione dei cosiddetti «son-seuls», ovvero i suoni raccolti senza la “loro” immagine. Dall’“alleanza” di questi suoni e di altre immagini sarebbe nato il racconto. La parola che ascoltiamo, dunque, è frutto di una serie di letture, effettuate a partire da testi che l’attrice stessa ha definito «incomprensibili»: Mercoledì 12 giugno 2013 Godard attende che noi registriamo dei suoni-soli, un testo intero senza punteggiatura, legando tra di loro le parole affinché lo spettatore si perda nelle voci. Ha lavorato a questo testo molte volte. La prima versione era comprensibile, scritta in modo normale. Per la seconda, ha invece unito tra loro tutte le parole e tolto i punti e le virgole. Nella terza versione infine ha eliminato le linee che univano le parole affinché le parole siano mescolate. Questo testo lo conosciamo a memoria da molti mesi, ma lui non sa in quale modo vuole registrarlo87.

differenze morfologiche tra Héloise Godet, di corporatura gracile e minuta, e Zoé Bruneau, a cui Godard chiede di truccare solo una parte del corpo, ovvero il sesso. Il personaggio di Ivitch avrebbe infatti dovuto esibire un pelo pubico folto, come si conviene al Femminino godardiano (si pensi ai nudi di Marushka Detmers, Isabelle Huppert o Myriem Roussel). Le scene di nudo frontale, girate tutte nella penombra dell’abitazione dell’autore a Rolle, sono infatti funzionali a instaurare l’alleanza tra natura e metafora rispetto all’ennesima variazione sul tema dell’origine del mondo: «Gli indiani della tribù dei Chikaws chiamavano il mondo la foresta», dice Gédéon nella seconda delle due sezioni, che andiamo ora ad analizzare. «J’ai fait l’image» L’esordio del capitolo 2 è speculare all’incipit del film: prima un’immagine giusta, poi giusto un’immagine. L’immagine giusta, questa volta, non quella di Hawks ma quella, levigata e traslucida, di un altro autore prediletto, il Melville di Les enfants terribles (I ragazzi terribili, 1950), adattamento dal romanzo di Jean Cocteau. Quanto al fotogramma seguente, altro non è che una delle tante immagini di Roxy che punteggiano, quali refrain Low-Fi, la il tessuto visivo del plot. Impossibile stabilire chi guarda che cosa e poco ci aiuta anche il frammento del film citato, ovvero il monologo in primo piano in cui Elisabeth (Nicole Stéphane, fig. 78),

L’intento è chiaro: fare in modo che l’attore assuma l’automatismo anaffettivo del modello bressoniano affinché possa (re)citare le battute senza favorire in alcun modo la comprensione o tanto meno l’identificazione emotiva dello spettatore, il quale deve, lo abbiamo visto, semplicemente «perdersi». A questo smarrimento percettivo è funzionale anche la somiglianza fisica degli interpreti, due coppie che sembrano l’una il riflesso deformato dell’altra. Costumi e focali attenuano infatti solo in parte le «Tutto ciò che Hitler ha detto, lo ha fatto. Possiamo noi allora prendere alla leggera questi ordini del giorno dove, mentre sapeva benissimo che i suoi eserciti sarebbero stati sconfitti, ancora affermava la sua vittoria?». (Jacques Ellul, Victoire d’Hitler, «Réforme», 23 juin 1945). 87 Zoé Bruneau, En attendant Godard. Chapitre I, Chapitre II, Éditions Maurice Nadeau, Paris, 2014, p. 114. 86

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Fig. 78. Adieu au langage

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sorella mossa da pulsioni incestuose, guarda verso la cinepresa promettendo di «resistere fino alla fine»: «la fine ritarda e io devo viverla. E non è facile». Perché Cocteau? L’incesto, evidentemente, è un falsa pista, come falsa è la profondità assicurata dal 3D. L’apparizione di Nicole Stéphane non ha alcun valore narrativo ma rientra piuttosto nell’ordine del simbolico, che del resto è il codice adottato per rafforzare l’alleanza, quella tra parola e immagine. Ebrea arruolata nell’esercito durante la Seconda guerra mondiale, Nicole Stéphane non è solo femme d’un seul film, quello di Melville, ma anche produttrice di film sperimentali come Détruire dit-elle (Marguerite Duras 1969) e soprattutto autrice di En attendant Godot à Sarajevo (1993), un piccolo capolavoro che non può non aver influenzato il Godard di Forever Mozart. Se Stéphane documenta la messa in scena del testo di Godot firmata da Susan Sontag, Godard racconta il tentativo di allestire una pièce di De Musset (On ne badine pas avec l’amour) proprio a Sarajevo. Attraverso il volto di Elisabeth/Nicole, dunque, passiamo da Cocteau a Beckett, di cui riascoltiamo il frammento di L’ image citato nella sceneggiatura di Film socialisme (vedi sopra). Secondo l’ormai nota pratica della variatio, il testo non è riportato nella sua integralità, ma è espunto di una parte, quella in cui il narratore indica la fuoriuscita della lingua dalla bocca. Inoltre, a differenza del protagonista di L’ image («plus soif»), la voce acusmatica di Héloise Godet afferma di aver sete: «J’ai soif. La langue rentre dans la bouche se referme elle doit faire une ligne droite maintenant C’est fait j’ai fait l’ image». Come è possibile notare durante la visione della sequenza, l’attrice conferisce ritmo e senso a questo periodo, non rispettando così l’assenza di punteggiatura prevista da Beckett. Ciò che muove Godard è dunque sempre uno spirito di contraddizione. Dove la norma esiste, essa viene negata ma dove, come in questo caso, non esiste, l’autore si diverte a trasformare il caos in narrazione. La voce off enuncia infatti due sintagmi dotati di soggetto («la bocca», «io»), verbo («si chiude», «ho fatto») e complemento oggetto («l’immagine»), legando tra di loro parole che invece, da un punto di vista ortografico, legate non sono. Con quali immagini si alleano queste parole off? Con due cartelli su fondo nero, rispettivamente «OH» e «LANGAGE». Dunque la parola detta («J’ai fait l’image») si relaziona con una parola mostrata (LANGAGE). Ciò che cambia è solamente l’organo di senso che lo spettatore deve attivare, anche se questa operazione non sarà sufficiente per evitare di perdersi. Qualche secondo dopo, infatti, sulle rive del lago Lemano, ritroviamo il personaggio del filosofo e anche la donna sposata di cui sopra, intenta 232

a respingere l’aggressione del marito geloso. Tutto sembra ricominciare, eppure tutto è cambiato. Se la donna ha un altro corpo (quello di Zoé Bruneau) e un altro nome (Ivitch), Mr. Davidson non legge più Solženicyn ma – come abbiamo anticipato all’inizio di questo capitolo – un saggio su Nicolas De Staël88, che si conferma il modello figurativo di riferimento per quest’ultimo Godard. Le tesi di Jean-Pierre Jouffroy, volte soprattutto a evidenziare nell’opera dell’artista un’instabile armonia tra concreto e astratto, non sono però lette a voce alta da Christian Grégory, che invece preferisce citare a memoria Alain Badiou (l’incipit di Il risveglio della storia) o Platone («La bellezza è lo splendore della verità»). Al pari del protagonista di Éloge de l’amour, dunque, quando guardiamo questa sequenza ascoltiamo qualcos’altro. E forse è proprio questo “qualcos’altro” che sancisce l’annunciata costruzione dell’immagine («J’ai fait l’ image») In quanto «momento d’incontro»89, l’immagine si dà infatti come rapporto tra elementi eterogenei e spesso contrastanti. In questo caso la funzione iconogenica è un compito esclusivo dell’attore, che guarda (e forse legge) delle parole (lo studio su Nicolas De Staël), ma ne pronuncia altre. Eppure è proprio nelle osservazioni di Jean Pierre Jouffroy che si nascondono alcune chiavi interpretative utili per decodificare questo pensiero per immagini, che, per dirla con le parole di De Staël, «come la pittura vera tende a tutti gli aspetti, ovvero all’impossibile addizione dell’istante presente, del passato e del futuro»90: In Nicolas de Staël più la materia è lavorata, […] più il quadro si costituisce come oggetto solido e più esso è proposizione mentale, come se l’insistenza materiale non potesse essere che metafora dello spirituale91.

Non è un caso, allora, che il secondo capitolo di questo Addio si intitoli proprio La métaphore, figura retorica che si fonda sulla distanza semantica tra due termini scelti come poli del trasferimento di un determinato significato. A differenza di altre figure retoriche, inoltre, la metafora associa tra loro non due concetti, ma due cose, come il pelo pubico femminile e una foresta (L’origine du monde). Ma il concetto di distanza non può non Jean Pierre Jouffroy, La mesure de Nicolas De Staël, cit. «L’immagine è un momento di incontro, è una stazione dove due treni passano». (JeanLuc Godard in Godard par Godard, cit., p. 463). 90 Nicolas De Staël, Lettre à Douglas Cooper, Janvier 1955, in Jean Pierre Jouffroy, La mesure de Nicolas de Staël, cit., p. 13. 91 Jean Pierre Jouffroy, La mesure de Nicolas de Staël, cit., p. 16. Il corsivo è nostro. 88 89

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evocare quella “lontananza” in cui l’autore, come abbiamo visto, individua il fondamento ontologico dell’immagine cinematografica, se è vero che «l’immagine sono due cose lontane che avviciniamo»92. Fare cinema significa allora, come dice Mr. Davidson, «métaphorer», ovvero, seguendo l’etimo greco, trasportare un’idea o un concetto da un luogo a un altro, da un suono all’altro, da un’inquadratura a quella successiva93. Non c’è dunque produzione di immagine senza distanza tra soggetto e oggetto, quella giusta distanza che separava l’occhio di Bruno dalla sua modella (Le petit soldat), Maria dal Verbo (Je vous salue, Marie) o la contessa Torlato Favrini dal suo amato (Nouvelle Vague). I frammenti astratti di materia nera che ritmano Adieu au langage, impossibili da ricondurre a un universo diegetico definito94, mi sembrano allora voler evidenziare la fisicità di un gesto, quello del pittore, che mentre riproduce un soggetto non fa che affermare anche la propria presenza nello spazio abitato dal soggetto. Ciò che di De Staël Godard coglie – e imita – è esattamente la fisicità del gesto, il segno tattile che la mano del pittore, servendosi di un coltello in luogo del pennello, lascia sulla tela. Vengono in mente le mani della montatrice cieca di JLG/JLG o quelle di Isabelle alla catena di montaggio (Passion). Il lavoro è innanzitutto gesto e i gesti del lavoro sono uguali non solo a quelli dell’amore, ma anche a quelli dell’arte. Quando, come racconta Zoé Bruneau, Godard carica gli attori sulla sua auto e li costringe a registrare le battute nel rumore del traffico o nel silenzio di un ruscello, l’intento è quello di incidere la presenza del loro (e del suo) corpo senziente nello spazio tridimensionale del quadro; un quadro dove l’ottuso ha la meglio sull’ovvio, dove la bassa risoluzione dell’immagine impedisce di distinguere le forme (fig. 79), dove il succo di arancia nel lavabo si confonde con il sangue in una fontana. Come la pittura di De Staël, allora, Adieu au langage è un film al contempo mentale e materiale, carico di idee (da Sartre a Platone, da Otto Rank a Alain Badiou), di numeri (1, 2, 0, infinito) e soprattutto di cose, resistenti non solo alla configurazione visiva dell’immagine, ma anche alle rete di significati intessuta, 92 Jean-Luc Godard in Jean-Louis Comolli, Jouer à la Russie. Le corps projeté de Godard, «Trafic», 18, printemps 1996, p. 44.

Al motivo del trasporto rinvia anche l’immagine del ferry-boat che conduce i turisti da una riva all’altra del lago Lemano, un vero e proprio innesto di realtà nella finzione. Nessuno dei personaggi, infatti, si serve di questo mezzo o vi fa alcun cenno. 93

Solo nel finale scorgiamo Jean-Luc Godard e la moglie Anne-Marie intenti nella pratica della pittura ad acquarello.

Fig. 79. Adieu au langage. “Iporealismo” dell’immagine Low-Definition.

sul piano sonoro, dalle voci off. Gli slip gettati in lavatrice da Josette, le zampe di Roxy nel fango o il vaso di fiori in rilievo sul tavolo della cucina non esprimono altro, per dirla con Merleau-Ponty, che «l’incomprensibile solidarietà» di colui che le filma con esse. «Ho fatto l’immagine», diceva Beckett. Per fare l’immagine è dunque necessario passare da un interno (la bocca) a un esterno (il fango), dalla natura alla metafora, dalla profondità alla superficie. Perché la profondità «non è niente, oppure è la partecipazione a un Essere senza limiti, e innanzitutto all’Essere dello spazio, al di là di ogni punto di vista»95. Fantasmi del reale «L’uno è nell’altro, l’altro è nell’uno». Così l’autore descrive il sentimento di unità patito dalla coppia protagonista, coppia che anziché fondersi, però, si sdoppia in due coppie vicine e lontane: Marcus-Ivitch e GédéonJosette. Tutto o quasi accade ma soprattutto viene detto due volte in questo film. Due volte l’amante dice alla donna sposata «sono ai vostri ordini», due volte costei dice di non amarlo più, due volte ci si chiede se è possibile produrre un concetto di Africa ecc. Non è un caso, allora, se il televisore a cui Josette e Gédéon danno le spalle trasmetta Dr. Jekyll and Mr.

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Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 34.

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Hyde (Dottor Jekyll e Mr. Hyde, Rouben Mamoulian, 1931: fig. 80) o se, mentre sullo schermo scorrono le immagini del lago Lemano, la voce off

Fig. 80. Adieu au langage

evochi Otto Rank e in particolare il suo studio delle analogie tra i sogni di nascita nell’acqua e i miti relativi alla nascita degli Dei. Tutto ritorna anche nella casa dell’amante, ma mai alla stessa maniera. Con due inquadrature dal basso verso l’alto, pressoché identiche nell’organizzazione dello spazio, Godard ci mostra prima la coppia A (Gédéon/Josette) davanti alle immagini di Mamoulian e poi la coppia B (Marcus/Ivitch) davanti a una sequenza di У самого синего моря (Vicino al mare più azzurro, Boris Barnet, 1936)96. Il tema del doppio, che da Der Student von Prag (Lo studente di Praga, Stellan Rye, 1913) a oggi ha nutrito a più riprese l’immaginario cinematografico, è però qui slegato dalla problematica del sosia. Al contrario, la dualità è detta e mostrata come differenza nella ripetizione. Quando l’amante ripete per la seconda volta: «Sono ai vostri ordini», la donna sposata – che nel frattempo ha acquisito il volto di Zoé Bruneau – non è più seduta su una panchina, ma inginocchiata davanti alla videocamera, la

mano appoggiata alla griglia di una ringhiera e un cappello nero sul capo (fig. 81). Il numero due, insomma, non è inteso (solo) come sdoppiamento dell’uno nell’altro quanto come conflitto di due opposti, Fig. 81. Adieu au langage come ben evidenzia una conversazione in campo-controcampo tra Gédéon e Josette. Siamo a metà del racconto. Contro il volere dell’uomo, la donna ha deciso di tenere con sé il cane trovato nei pressi di una stazione di servizio. I due sono davanti allo specchio: la donna Fig. 82. Adieu au langage di fronte alla videocamera, l’uomo di spalle (fig. 82). Mentre la donna rievoca l’orrore dell’Olocausto97, l’uomo cita la definizione di una curva algebrica e afferma che le due grandi invenzioni sono state infinito e zero. Parafrasando la nozione di osceno nella teoria ontologica di André Bazin98, Josette ribatte che le due più grandi invenzioni sono state il sesso e la morte. Il conflitto di caratteri e temi (Storia vs Scienza) si amplia a livello visivo grazie all’alternanza del fuoco, che oppone netto e flou senza soluzioni di continuità. Ma la più ardita metafora del doppio è indubbiamente – come hanno notato anche i primi recensori del film99 – quella garantita dalla sovrappo-

96 Per un’analisi dettagliata delle associazioni iconiche di cui il film è intessuto si veda David Bordwell: http://www.davidbordwell.net/blog/2014/09/07/adieu-au-langage-2-2x-3d/

97 «Un bambino che stava per entrare nella camera a gas ha chiesto: “Perché?”. Una sentinella SS ha risposto: “Nessun perché!”». 98 André Bazin, Che cosa è il cinema (1958), tr. it. Garzanti, Milano, 1973; 1986, p. 32. 99 Nel momento in cui scriviamo il film non è ancora disponibile in Blue-Ray o DVD. Tra i critici che si sono avventurati nell’analisi, solo David Bordwell ha individuato con precisione alcune di queste sperimentali dissolvenze (http://www.davidbordwell.net/ blog/2014/09/07/adieu-au-langage-2-2-x-3d/).

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sizione di due inquadrature 3D che mostrano eventi diegeticamente contigui, come per esempio, nella sezione La métaphore, l’arrivo del secondo marito della donna durante la lettura del saggio su De Staël da parte di Mr. Davidson. Le due videocamere, qui, non sono puntate sul medesimo campo visivo ma filmano cose diverse. Se vediamo il film in 2D, la percezione è quella di una dissolvenza incrociata. Il corpo in mezza figura frontale di Mr. Davidson si “fonde” con quelli dei due coniugi, inquadrati in piano americano (l’uomo punta una pistola contro la donna). La visione stereoscopica, invece, rende impossibile la visione, a meno che lo spettatore non effettui da solo il proprio montaggio, chiudendo a turno gli occhi in modo da vedere distintamente prima l’una (occhio sinistro) e poi l’altra inquadratura (occhio destro). Facile rinvenire in questo divertimento ottico un’allusione a quella critica del découpage classico espressa da JLG nel corso della lezione al Salone del libro di Sarajevo (Notre musique), quando il regista, nelle vesti di conferenziere, contrappone due fotogrammi di His Girl Friday (La signora del venerdì, Howard Hawks 1940) – Cary Grant e Rosalind Russel in campo-controcampo – affermando che si tratta, in realtà, della medesima inquadratura. Addio, dunque, al linguaggio del cinema classico? Se Hawks sostituiva un’inquadratura (Cary Grant) con un’altra identica per organizzazione dello spazio e angolazione (Rosalind Russell), Godard mostra giusto un’inquadratura e non un’inquadratura giusta, costringendo lo spettatore a effettuare da solo, coprendo per esempio un occhio con la mano, il passaggio dal campo al controcampo. Solo un essere sfugge alla dimensione del duale: il cane. Quella di filmare l’animale è una pratica antica quanto il cinema anche se raramente l’animale è stato rappresentato come natura100 e molto più spesso, invece, come metafora. Dalle bestie hollywoodiane (King-Kong, Godzilla, i Piraña)101 all’asino di Bresson (Au hasard Balthazar, 1966), l’animale è infatti sempre stato oggetto di uno sguardo antropocentrico, finalizzato a eleggere la feritas a metafora di innocenza (Pasolini, De Sica, Griffith) o di martirio (Bresson). Al pari di Ferreri o Buñuel, invece, Godard cerca di filmare l’animale rispettandone non solo la solitudine, ma anche la «datità»102 ontologica, vale a dire la sua estraneità ai codici del nostro comportamento e del nostro linguaggio. Su Sul concetto di animalità nel cinema e sulla messa in scena dell’animale si veda «Fata Morgana», Animalità, V, 14, maggio-agosto 2011. 101 Tra i frammenti di cinema citati in Adieu au langage compare anche un fotogramma di Piranha 3D (Aja, 2010), che mostra i capelli di una donna avvolti nell’elica di uno scafo. 102 Cfr. Massimo Donà, Cinema e animalità, «Fata Morgana», Animalità, cit., p. 33. 100

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una coppia di pappagalli si apriva Film socialisme, opera in cui però l’animale – penso al lama che staziona accanto al distributore di benzina – è mostrato ma non detto né commentato. Qui invece, forse mosso anche da ragioni affettive103, Godard non esita ad accompagnare le corse del suo Roxy non solo con le note di Beethoven (Sinfonia n. 7 op. 92), ma anche con citazioni da Darwin («Il cane è il solo animale che vi ama più di quanto non ami se stesso») e Rilke: «Gli uomini non vedono mai il mondo come esso è, poiché la ragione glielo impedisce. Solo il cane vede il mondo come è». Come recita la sinossi, Roxy erra tra città e campagna, ma soprattutto guarda (fig. 83). Reinventando a distanza di settant’anni i codici del pedinamento neorealista, Godard segue l’animale nei suoi spostamenti fa-

Fig. 83. Adieu au langage. Lo sguardo dell’animale.

cendo attenzione a coglierne esitazioni e reazioni, per poi spiarlo davanti al binario di una stazione, dietro un cespuglio del bosco o ai margini di uno specchio d’acqua. Abbandonata o quasi la fiducia nella parola, l’autore sembra rendersi conto che nemmeno il linguaggio dei numeri, evocato più volte soprattutto dai personaggi maschili (l’allusione alla funzione Zeta di Riemann, per esempio), permettere di risolvere le opposizioni che Nel suo diario Zoé Bruneau sottolinea in più occasioni l’ansia del regista durante i giorni che precedevano le riprese con Roxy: il timore era quello di turbare, con le dinamiche del set, la quiete e l’intimità dell’animale.

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ostacolano la comunicazione, come quella tra realtà e immaginazione, tra uomo e donna, tra Io e Altro. Esterno tanto all’universo delle scienze umane quanto ai codici delle scienze matematiche, il linguaggio animale può rappresentare forse l’ultima utopia per l’uomo, quello del terzo millennio, che non riesce a guardare il Mondo – e dunque se stesso – senza interrogarsi sull’Origine («Commençons par le commençement», ripete Marcus). L’intento non è riprodurre lo sguardo dell’animale, perché ciò è impossibile, come impossibile, per il Rossellini neorealista, era restituire la verginità dello sguardo del bambino. Quello che l’autore ci mostra, quando filma il cane nell’atto di guardare, è invece proprio l’inquadratura come scarto, come «immagine-strappo»104, oscillazione incolmabile tra visione (l’animale) e rappresentazione (l’uomo), tra non-pensiero e pensiero, tra nulla e immagine. Anziché darci a vedere il reale, le immagini del cane errante nella natura ripropongono continuamente il non tutto a vedere del reale. In virtù della bassa definizione (LD) di alcune inquadrature, volutamente oscure o sovraesposte, il reale riprodotto in Adieu au langage chiede allo spettatore una partecipazione in un certo senso tattile, come se gli occhi non fossero più sufficienti a garantire l’esperienza di un reale che appare, per dirla con Baudrillard, meno reale del reale105. Se non si può comunicare con l’animale, è perché l’animale non potrà mai entrare con noi in un rapporto “faccia a faccia” come quello parodiato nella scena di conversazione tra Gédéon e Josette analizzata sopra (fig. 83). E non è un caso che, mentre l’occhio cerca di seguirne le tracce delle zampe nella neve, la voce di Godard ricordi come «è difficile restare soli». Quando si è soli, tuttavia, e si esce dall’opposizione binaria reale-immaginario, la realtà perde la sua accezione di documento e assume una connotazione in qualche modo fantastica, la stessa che probabilmente ha rivestito il paesaggio del lago Lemano agli occhi di Mary Shelley nella primavera del 1816. Provenienti da Les trois desastres, i corpi di Mary Shelley e Lord Byron si materializzano nel finale su quella stessa erba calpestata dal cane e sorprendono con il loro effetto di reale, confermando come Adieu au langage, e in generale tutto l’ultimo Godard, possa essere decriptato alla luce di una nuova idea di realtà, dove reale non è ciò che imita il vero (e penso al 3D), ma ciò che «punge» (Barthes) l’occhio del vedente. Si tratta

di un’idea di realtà intesa come monstrum, qualcosa di “mai visto” che, in quanto tale, si oppone agli schemi della percezione comune106 e – al pari di Frankenstein al cospetto del suo creatore – si ribella a una società che sembra ormai negare la possibilità di un’«esperienza interiore»107. In questo senso si comprende la scelta della canzone di Baldelli, La violenza, come cornice del racconto. Quello dell’autore appare infatti un atto di resistenza, tanto divertito quanto rivoluzionario, contro i “padroni” del totalitarismo mediatico. «Tutti quelli che mancano di immaginazione si rifugiano nella realtà», dice il cartello che precede i titoli di testa. Alla ricerca della povertà del linguaggio, Godard si rifugia nella realtà e lascia che i fantasmi gli vengano incontro. Mary Shelley e Lord Byron, in questo senso, non sono che tracce audiovisive del tempo perduto, immagini limitate dal nulla. In ossequio al succitato comandamento di Monet – «non dipingere quello che si vede perché non si vede nulla, ma dipingi quello che non vedi» – Godard filma quello che non vede. Perché l’invisibile non è la negazione del visibile, ma solo il suo riflesso segreto108.

Cfr. Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 106. Sul concetto di “iporeale” e sulla fascinazione estetica dell’immagine Low-Definition si veda Eleonora De Conciliis, Jean Baudrillard, o la dissimulazione del reale, Mimesis, Milano, 2009.

Sul concetto di realtà come atto di resistenza contro le ideologie del postmoderno si veda Alessia Cervini, Daniele Dottorini (a cura di), L’ inganno della realtà. Conversazione con Walter Siti, «Fata Morgana», Reale, VII, 21, settembre-dicembre 2013, pp. 7-18. 107 Quando Ivitch chiede a Mr. Davidson quale sia la differenza tra un’idea e una metafora, l’uomo divaga: «L’esperienza interiore è ormai proibita dalla società e in particolare dallo spettacolo. Ciò che chiamano immagini diventa l’assassinio del presente». 108 «L’essenza propria del visibile – ha scritto Merleau-Ponty – è di avere un doppio di invisibile in senso stretto, che il visibile manifesta sotto forma di una certa assenza». (Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., pp. 58-59).

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B ibli og r af ia La produzione critica su Jean-Luc Godard è sterminata. La selezione bibliografica qui proposta riguarda gli scritti di Jean-Luc Godard, i volumi sui singoli film e i principali studi, apparsi in volume o in rivista, sull’insieme dell’opera dell’autore.

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Fil m og raf ia L’elenco che segue rende conto di tutte le opere prodotte dal 1954 a oggi e comprende, oltre ai lungometraggi di finzione, le diverse forme brevi sperimentate da Jean-Luc Godard: episodi di film collettivi, spot pubblicitari, serie TV, video musicali, video-sceneggiature, lettere filmate ecc. È attestata l’esistenza di altre opere che però l’autore non ha mai diffuso. Opération béton (1954, distribuito nel 1958) Une femme coquette (1955, distribuito nel 1956) Tous les garçons s’appellent Patrick / Charlotte et Véronique (1957; distribuito nel 1959) Charlotte et son Jules (1958) Une histoire d’eau (co-regia con François Truffaut, 1958; distribuito nel 1961) À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1959; distribuito nel 1960) Le petit soldat (1960; distribuito nel 1963) Une femme est une femme (La donna è donna, 1961) La paresse (episodio di Les sept pechés capitaux, I sette peccati capitali, 1962) Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) Le nouveau monde (Il nuovo mondo, episodio di Ro.Go.Pa.G., 1963) Les Carabiniers (1963) Le grand escroc (Il profeta falsario, episodio di Les plus belles escroqueries du monde, Le più belle truffe del mondo, 1964) Le mépris (Il disprezzo, 1963) Bande à part (1964) Une femme mariée. Fragments d’un film tourné en 1964 (Una donna sposata, 1964) Montparnasse et Levallois – Un action film (episodio di Paris vu par.. ., Parigi di notte, 1965) Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (Agente Lemmy Caution, missione Alphaville, 1965) Pierrot le fou (Il bandito delle ore undici, 1965) Masculin féminin (Il maschio e la femmina, 1966) Made in U.S.A. (Una storia americana, 1966) Deux ou trois choses que je sais d’elle (Due o tre cose che so di lei, 1967) Anticipation, ou l’amour en l’an 2000 (L’amore nel 2000, episodio di Le plus vieux métier du monde, L’amore attraverso i secoli, 1967) La chinoise (La cinese 1967) 255

Filmografia

Filmografia

Caméra-œil (episodio di Loin du Vietnam, Lontano dal Vietnam, 1967) L’aller et retour andata e ritorno des enfants prodigues dei figli prodighi (L’amore, episodio di Amore e rabbia o Vangelo 70, 1967) Week-end (Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica, 1967) Le gai savoir (La gaia scienza, 1968) Cinétracts (1968. Sono attribuiti a Godard i “numeri” 7, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 15, 16, 23, 40) Un film comme les autres (1968) One Plus One (1968; poi distribuito con il titolo Sympathy for The Devil in una versione non riconosciuta da Godard) One American Movie (One A. M., 1968) British Sounds (1969) Pravda (1969) Vent d’est (Vento dell’est, 1969) Luttes en Italie (Lotte in Italia, 1970) Jusqu’à la victoire [Méthode de pensée et de travail de la révolution palestienienne] (1970. Film incompiuto) Vladimir et Rosa (1971) [Schick] (1971. Spot pubblicitario per il dopobarba «Schick») Tout va bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972) Letter to Jane – An Investigation About a Still (1972) Ici et ailleurs (1974; distribuito nel 1976) Numéro deux (1975) Comment ça va? (1976; distribuito nel 1978) Six fois deux / Sur et sous la communication (1976. Serie TV in 12 episodi) Quand la gauche sera au pouvoir (Esercizio a partire dalla canzone Faut pas rêver di Patrick Juvet, 1977 ) France tour détour deux enfants (1978; prima trasmissione televisiva: 1980) Scénario de Sauve qui peut (la vie) / Quelques remarques sur la réalisation et la production du film “Sauve qui peut (la vie)” (1979) Sauve qui peut [la vie] (Si salvi chi può… la vita, 1980) Lettre à Freddy Buache – À propos d’un court-métrage sur la ville de Lausanne (1981) Passion, le travail et l’amour. Introduction à un scénario (1982) Passion (1982) Scénario du film Passion (1982) Changer d’image ou la lettre à la bien aimée (1982) Prénom Carmen (1983) Petites notes à propos du film Je vous salue, Marie (1983) Je vous salue, Marie (1985)

Détective (1985) Soft and Hard – Conversation between Two Friends on Hard Subject (1985) Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma (1986) Meetin’ WA (1986) Armide. Enfin, il est en ma puissance (episodio di Aria, 1987) Soigne ta droite. Une place sur la terre (Cura la tua destra, 1987) King Lear (Re Lear, 1987) [Closed] (1987-1988. Spot pubblicitari per «Closed») On s’est tous défilé (1988) Puissance de la parole (1988) Le dernier mot (episodio della serie TV Les français vus par, 1988) Histoire(s) du cinéma / 1A. Toutes les histoires; 1B. Une histoire seule (1988; prima trasmissione televisiva: 1989) Le Rapport Darty (1989) Nouvelle vague (1990) [Metamorphojean] (1990. Spot pubblicitari per «Closed») [Pue Lulla] (1990. Spot pubblicitari per «Nike») L’enfance de l’art (1990) Allemagne 90 neuf zéro / Solitudes, un état et ses variations (1991) Pour Thomas Wainggari (episodio n. 15 delle serie TV Contre l’oubli, 1991) [Parisienne People]s (1992. Spot per la marca di sigarette «Parisienne People») Hélas pour moi! (Peggio per me, 1993. Film acquistato da «Academy» ma mai uscito nelle sale italiane) Les Enfants jouent à la Russie (1993) Je vous salue Sarajevo (1993) Histoire(s) du cinéma / 2A. Seul le cinéma; 2B. Fatale béauté (1994) JLG/JLG – Autoportrait de décembre (1995) Deux fois cinquante ans de cinéma français (1995) Histoire(s) du cinéma / 3A. La monnaie de l’absolu; 3B. Une vague nouvelle (1995) [Espoir / Microcosmos] [Le monde comme il ne va pas] (Esercizi di montaggio trasmessi su France 2 nel corso del programma Le cercle de minuit, 1996) Plus Oh! (1996. Video musicale per la canzone omonima di France Gall) For Ever Mozart (1996) Adieu au TNS (1996) Histoire(s) du cinéma / 4A. Le controle de l’univers; 4B. Les signes parmi nous (1997) The Old Place: Small Notes Regarding the Arts at the Fall of 20th century (1998) De l’origine du XXIème siècle (2000) Éloge de l’amour (2001) Dans le noir du temps (episodio di Ten Minutes Older: the Cello, 2001)

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Filmografia

Filmografia

Moments choisis des Histoire(s) du cinéma (2001) Liberté et Patrie (2002) Notre musique (2004) Prière pour Refuzniks 1 / Prière pour Refuzniks 2 (2004. Lettere filmate a due giovani israeliani in carcere) Vrai faux passeport. Fiction documentaire sur des occasions de porter un jugement à propos de la façon de faire des films (2006) Reportage amateur / Maquette Expo (2006) Ecce homo (2006) Une bonne à tout faire (2006) Une catastrophe (2008. Trailer per il Vienna International Film Festival) «C’était quand? Non. Il y avait quoi? Oui» (2010. Tributo a Éric Rohmer) Film socialisme (2010) Les trois desastres (episodio di 3x3D, 2013) Khan Khanne (2014. Lettera filmata a Gilles Jacob e Thierry Frémaux) Adieu au langage (Adieu au langage-Addio al linguaggio, 2014) Le pont des soupirs (episodio di Les Ponts de Sarajevo, 2014)

Si riportano qui sotto i dati filmografici delle dodici opere sulle quali si è maggiormente concentrata la nostra attenzione. Per una filmografia dettagliata di tutti le opere e completa anche dei trailer autenticati da Godard si rimanda ai volumi curati da Nicole Brenez ( Jean-Luc Godard. Documents, Editions du Centre Pompidou, Paris 2006) e Roberto Turigliatto (Passion Godard. Il cinema [non] è il cinema, Il Castoro, Milano 2011). Sauve qui peut (la vie) [Si salvi chi può... la vita] Regia: Jean-Luc Godard; soggetto e sceneggiatura: Jean-Luc Godard, Anne Marie Miéville e Jean-Claude Carrière; fotografia (col., 35mm): William Lubtschansky, Renato Berta, Jean–Bernard Menoud; consulente per il colore: Daniel Bernard; consulente per il video: Pierre Binngeli; montaggio: Anne-Marie Miéville, Jean-Luc Godard; scenografia: Romain Goupil; suono: Oscar Stellavox, Jacques Maumont, Luc Yersin; musica: Gabriel Yared; interpreti: Isabelle Huppert (Isabelle Rivière), Jacques Dutronc ( Paul Godard), Natalie Baye (Denise Rimbaud), Roland Amstutz (cliente), Anna Baldaccini (sorella di Isabelle), Fred Personne (primo cliente), Cécile Tanner (Cécile, figlia di Paul), Michel Cassagne (Piaget), Paule Muret (ex moglie di Paul), Serge Maillard (allenatore), Nicole Jacquet, Dore De Rosa, Monique Barscha, Roger Jendly, Catherine Freiburghaus, Marguerite Duras (voce registrata), Nicole Jacquet, Michel Cassagne, Edmond Vuillod; produzione: Alain Sarde, Svizzera; durata: 87’; riprese: Rolle e dintorni, Ginevra, ottobre258

novembre 1979; prima proiezione: Festival di Cannes, 21 maggio 1980; uscita in Francia: 15 ottobre 1980. Passion Regia, sceneggiatura, dialoghi e montaggio: Jean- Luc Godard; collaborazione alla sceneggiatura: Romain Goupil, Jean-Claude Carrière, Anne-Marie Miéville; fotografia: (Eastmann color 35mm e video): Roul Coutard, Jean-Bernard Menoud; scenografia: Serge Marzolff, Jean Bauer; costumi: Christian Gasc, Rosalie Varda; suono: François Musy; musica: Maurice Ravel, Wolfgang Amadeus Mozart, Antonin Dvorák, Gabriel Fauré, Ludwig van Beethoven; canzone: Leo Ferré; fotografo di scena e consigliere: AnneMarie Miéville; interpreti: Isabelle Huppert (Isabelle), Hanna Schygulla (Hanna), Jerzy Radziwilowicz (Jerzy), Michel Piccoli (Michel Boulard), Laszlo Szabo (il produttore), Jean François Stévenin (aiuto regista), Sophie Lucatschewsky (segretaria di produzione), Ezio Ambrosetti (finanziatore italiano), Magali Champos (comparsa), Myriem Roussel (comparsa), Barbara Tissier (Barbara), Serge Desarnaudos, Sara Beauchesne, Bertrand Theubet; produzione: Alain sarde per Sara Films, Sonimage, MK2, Antenne 2 (Parigi), Film et Vidéo Productions (Losanna), SSR (Zurigo); direttore di produzione: Martine Marignac; origine: Francia-Svizzera; durata: 87’; riprese: Studi di Boulogne-Billancourt e dintorni di Nyon, ottobre-novembre 1981; prima proiezione: Festival di Cannes, 25 maggio 1982; uscita a Parigi: 26 maggio 1982. Prénom Carmen Regia: Jean-Luc Godard; sceneggiatura e adattamento: Anne–Marie Miéville; fotografia: (Eastmancolor, 35mm): Roul Coutard; operatore: Jean Garcénot; montaggio: Jean-Luc Godard e Suzanne Lang-Villar; costumi: Renée Renard; suono: François Musy; musica: Ludwig van Beethoven (Quartetti 9, 10, 14, 15, 16 eseguiti dal Quatuor Prat) e Tom Waits (Ruby’s Arm); interpreti: Maruschka Detmers (Carmen), Jacques Bonaffé (Joseph), Myriem Roussel (Claire), Christophe Odent (Jacques, il capo), Jean-Luc Godard (zio Jean), Pierre-Alain Chapuis (ispettore), Bertrand Liebert (guardia del corpo), AlainBastien Thiry (cameriere), Hippolyte Girardot (Fred), Valérie Dréville (infermiera), Jean-Pierre Mocky (se stesso), Jacques Villeret (uomo goloso), Odile Roire, Christine Pignet, Jean-Michel Denis, Jacques Prat, Roland Dangkaret, Bruno Pasquier, Michel Strauss; produzione: Alain Sarde per Sara Films, JLG Films, Antenne 2; origine: Francia; durata: 85’; riprese: Parigi, Trouville, gennaio-aprile 1983; prima proiezione: Mostra del Cinema di Venezia, 7 settembre 1983; uscita a Parigi: 14 gennaio 1984. Je vous salue, Marie Regia, sceneggiatura e montaggio: Jean-Luc Godard; fotografia: (Eastmancolor, 35mm): Bertrand Menoud, Jacques Firmann; suono: François Musy; musica: Johann Sebastian 259

Filmografia

Filmografia

Bach, Antonin Dvorák, John Coltraine; interpreti: Myriem Roussel (Maria), Thierry Rode (Giuseppe), Philippe Lacoste (l’angelo), Juliette Binoche (Juliette), Joan Meyssen (il professore), Anne Gauthier (Eva), Manon Andersen (la bambina), Malachi Jara Kohan (Gesù), Dick (il cane Arthur); produzione: Sara Films, Pégase Film, Radio-Televisione della Svizzera Romanda, JLG Films, Gaumont, Channel 4; origine: Francia-SvizzeraGran Bretagna; durata: 78’; riprese: Svizzera, Rolle e Nyon, gennaio-giugno 1984; prima proiezione: cineclub di Versailles, 22 gennaio 1985; uscita in Francia: 23 gennaio 1985; prima proiezione internazionale: Festival di Berlino, febbraio 1985. Nouvelle Vague Regia, sceneggiatura dialoghi e montaggio: Jean-Luc Godard; fotografia: (col., 35mm): William Lubtschansky, Christophe Pollock; scenografia: Anne-Mare Miéville; suono: François Musy, Henry Morelle, Pierre-Alain Besse; musica: collaborazione di Manfred Eicher (ECM), con estratti di Paolo Conte, David Darling, G.Ferii, P. Giger, Paul Hindemith, Arvo Pärt, Heinz Holliger, Merediyth Monk, W. Pirchner, Dino Saluzzi, Arnold Scömberg, Patti Smith, J. Schwartz; assistente alla regia: Emmanuel Finkiel; interpreti: Alain Delon ( Roger Lennox), Domiziana Giordano (Elena Torlato-Favrini), Roland Amstutz (Jules duborgel, il giardiniere), Violaine Barret ( Yvonne, sua moglie), Laurence Cote (Cécile, sua figlia), Jacque Daqcmine (il presidente), Christophe Odent (Raoul Dorfman), Laurence Guerre (Della), Joseph Lisbona (il dottor Joe), Laure Villing (Dorothy Parker, sua moglie), Véronique Muller (Miss Miller, prima amica di Raoul), Maria Pitarresi (seconda amica), Jacques Villette (Schpountz, il direttore), Raphael Delpard (il ministro), Tatem Belkacem (maggiordomo), Joe Sheridan (Bob aldrich), Pascale Sablier (iraniano); produzione: Alain Sarde, Ruth Waldburger per Sara Films, Canal +, Périphéria, CNC, Sofica, Vega Film, Televisione della Svizzera Romanda; origine: Francia-Svizzera; durata: 90’; riprese: Lago di Ginevra, Vevey, Ginevra, settembrenovembre 1989; prima proiezione: cineclub di Versailles, 22 gennaio 1985; uscita in Francia: 23 gennaio 1985; prima proiezione: Festival di Cannes, 18 maggio 1990; uscita in Francia: 23 maggio 1990. Allemagne 90 neufzéro / Solitudes, un état et ses variations Regia, sceneggiatura e montaggio: Jean-Luc Godard; fotografia: (col., 35mm): Christophe Pollock, Andreas Erben, Stephen Benda; scenografia: Romain Goupil, Hanns Zischler; costumi: Alexandra Pitz, Julia Griep; suono: Pier-Alain Besse, François Musy; musica: G. Bryars, Giacinto Scelsi, Ludwig van Beethoven, Franz Liszt, Wolfgang Amadeus Mozart, Paul Hindemith, Johann Sebastian Bach, Igor Stravinskij, Dmitrij Šostakovič; interpreti: Eddie Constantine (Lemmy Caution), Hans Zischler (conte Zeltren), Claudia Michelsen (Charlotte/Dora), André S. Labarthe ( narratore), Nathalie Kadem (Delphine de Staël), Robert Wittmers (Don Chisciotte), Anton Mossine ( il russo), 260

Kim Kashkashian (concertista); produzione: Nicole Ruelle per Antenne 2 e Brainstorm Production, Périphéria, Gaumont; direttori di produzione: Romain Goupil, Hanz Zischler; origine: Francia; durata: 62’; riprese: Berlino e dintorni, gennaio-febbraio 1991; prima proiezione: Mostra del cinema di Venezia, 11 settembre 1991; prima trasmissione: Antenne 2, 8 novembre 1991. Histoire(s) du cinéma Regia, sceneggiatura, montaggio, voce e interprete: Jean-Luc Godard; collaborazione tecnica (col., video): François Musy, Oscar Stellavox, Pier-Alain Besse; altri interpreti: Serge Daney (2A, 3B), Julie Delpy (2A), Sabine Azéma (2B), Alain Cuny (3A, 4A), Juliette Binoche (3A); produzione: Jean-Luc Godard per Canal +, La Sept, France 3, Gaumont, Televisione della Svizzera Romanda, JLG Films; origine: Francia-Svizzera. 1A. Toutes les histoires –1B. Une histoire seule Durata: 52’+42’; lavorazione: 1985-88; prima proiezione: Festival di Cannes, 19 maggio 1988 (in una prima versione poi modificata); prima trasmissione: Canal +, 7 e 14 maggio 1989 2A. Seul le cinéma – 2B. Fatale béauté Durata: 26’+27’; lavorazione: 1993-1994; prima proiezione: Museum of Modern Art, New York, 9 maggio 1994 3A. La monnaie de l’absolu– 3B. Une vague nouvelle Durata: 26’+26’; lavorazione; 1994-1995; prima proiezione: Festival di Locarno, 5 agosto 1995. 4A. Le contrôle de l’univers – 4B. Les signes parmi nous Durata: 27’+37’; lavorazione: 1996-1997; prima proiezione: Festival di Cannes, maggio 1997. Prima trasmissione televisiva di tutta la serie: Canal +, estate 1999. De l’origine du XXIème siècle Regia, sceneggiatura e montaggio: Jean-Luc Godard; fotografia: (col., video): Christoph Pollock, Julien Hirsch; suono: François Musy, Gabriel Hafner; musica: Hans Otte; testi: Kurt van Vogt, Henry Vacquin, Henry Bergson, George Bataille, Jacques-Bénigne Bossuet, Pierre Guyotat; voci: Pierre Guyotat, Ronald Ariel Chammah; produzione: Vega Films per Festival di Cannes, 10 maggio 2000. Éloge de l’amour Regia, sceneggiatura e montaggio: Jean-Luc Godard; fotografia: (35mm e video, b/n e col.): Christophe Pollock, Julien Hirsch; montaggio: Jean-Luc Godard, Raphaëlle Urtin; suono: François Musy; Christian Monheim, Gabriel Hafner; musica: Ketil Bjornstad, David Darling, Georges Van Parys, Maurice Jobert, 261

Filmografia

Filmografia

Karl Amadeus Hartmann, Arvo Pärt; assistenti alla regia: Gilbert Guichardière, Anne-Marie Faux, Fleur Albert, Christoph Rabinovici; interpreti: Bruno Putzulu (Edgar), Cécile Camp (Berthe), Jean Davy (Jean Bayard, il nonno), Françoise Verny (Mme Bayard, la nonna), Claude Baignères (signor Rosenthal), Rémo Forlani (signor Forlani), Philippe Lyorette (servitore), Audrey Klebaner (Eglantine), Marth Hunter (giornalista Usa), Jeremy Lippman (Perceval), Bruno Mesrine (mago), Serge Spira (senza fissa dimora), Djelloul Beghoura (algerino), Lemmy Costantine (assistente Usa), Jean Lacotoure (storico), Jean-Henri Roger (vice-sindaco), William Doherty (funzionario Usa), Jean-Luc Godard; produzione: Alain Sarde e Ruth Waldburger per Avventura Films, Périphéria, Canal +, Arte France Cinéma, Vega Film, Televisione della Svizzera Romanda,; origine: Francia-Svizzera; durata: 97’; riprese: Parigi e Bretagna, gennaio-dicembre 1999; prima proiezione: Festival di Cannes, 15 maggio 2001; uscita in Francia; 16 maggio 2001. Liberté et patrie Regia, sceneggiatura e montaggio: Jean-Luc Godard, Anne-Marie Méville; fotografia: (col, video): Julien Hirsch; suono: François Musy, Gabriel Haffner; musica: Ludvig van Beethoven; canzoni: Serge Gainsbourg, Philippe Val; voci: Jean-Pierre Gos, Geneviève Pasquier; produzione: Ruth Waldburger per Exposition Nationale Suisse 2002, Périphéria, Vega Film; origine; Francia-Svizzera; durata: 22’; prima proiezione: Sarajevo, giugno 1982, Expo 2002, Arteplage Mobile du Jura, 17 agosto 2002.

Fonds Regio Films, ECM Records; direttore di produzione: Jean-Paul Battaggia; origine; Francia-Svizzera; durata: 101’; prima proiezione: Festival di Cannes, 17 maggio 2010; uscita in Francia: 19 maggio 2010. Adieu au langage (Adieu au langage-Addio al linguaggio) Regia, sceneggiatura e montaggio: Jean-Luc Godard; fotografia: (Digital Video, col.) Fabrice Aragno; assistente alla regia: Jean-Paul Battaggia; direttore sezione musica: Phil Zagajewski; costumi: Maira Moscalu; interpreti: Héloise Godet (Josette), Kamel Abdeli (Gédéon), Richard Chevallier (Marcus), Zoé Bruneau (Ivitch), Christian Gregori (Davidson), Jessica Erickson (Mary Shelley), Marie Ruchat, Jeremy Zampatti, Daniel Ludwig, Gino Siconolfi, Isabelle Carbonneau, Alain Brat, Stéphane Colin, Bruno Allaigre, Alexandre Païta, Jean-Philippe Mayerat, Florence Colombani, Nicolas Graf, Roxy Miéville, Dimitri Basil, Jean-Luc Godard; produzione: Alain Sarde, Brahim Chioua, Vincent Maraval, Wild Bunch, CNC, Canal+; origine: Francia, 2014; riprese: Rolle, Nyon; durata: 70’; prima proiezione: Festival di Cannes, 21 maggio 2014; uscita in Francia: 22 maggio 2014.

Film socialisme Regia, sceneggiatura e montaggio: Jean-Luc Godard; collaborazione: Anne-Marie Méville; fotografia: (35mm e video col.): Fabrice Arago, Paul Grivas; suono: François Musy, Gabriel Haffner; musica: B.Olivero, Arvo Pärt, Anouar Brahem, Tomasz Stanko,A. Schnittke, Paco Ibañez, B. Zimmermann, Giya Kancheli, N. Pirchner, E. Busch, T. Machuel, Ludvig van Beethoven, Chet Baker; canzoni: Barbara, Gabriella Ferri, Joan Baez, Alain Bashiung, C.Mons, Mina; interpreti: Catherine Tancvier (la madre), Christian Sinniger (il padre), Nadège Beausson-Diagne (Constance), Quentin Grosset (Lucien), Elizabeth Vitali (giornalista FR3 Regio), Eye Haidara (cameraman FR3 Regio), Jean-Marc Stehlé (Otto Goldberg), Olga Riazanova (agente russo), Agatha Couture, Mathias Domahidy, Maurice Sarfati, Patti Smith, Lenny Kaye, Bernard Maris, Marie-Christine Bergier, Robert Maloubier, Dominique Devals, Alain Badiou, Bernard Maris, Elias Sanbar, Marine Battaggia, Gulliver Hecq, Louma Sanbar, Lenny Kaye, E.Arzoni, B.Bellavoir, J.M.Fete, S. Henon, O. Schmitt; produzione: Ruth Waldburger per Vega Film, Wild Bunch, Televisione della Svizzera Romanda, Canal+, Suisse Image, Office Fédéral de la Culture, Alain Sarde, George Foundation, Fondation Vaudoise, La Ville de Genève, 262

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In d ice d e i n omi e d e i f il m citat i 3x3D 224 A caccia del diavolo 210 Acque del sud 155 Adieu au langage 7, 9, 14-18, 158, 177-182, 186, 188, 192, 198, 200, 209, 211, 212, 222, 224227, 234, 238, 240 Adieu Philipine 135 Adjani, Isabelle 66 Agamben, Giorgio 142 Agee, James 21 Agente Lemmy Caution: missione Alphaville 67 Albertazzi, Giorgio 138 Aleksandr Nevskij 148 Alessandro il grande 210 Alibi era perfetto, L’ 137 Alighieri, Dante 16, 158, 166, 168, 169 Allemagne 90 neuf zéro 16, 22, 51, 120, 141-144, 146, 149, 151, 202, 218 Allen, Woody 123 Andersson, Harriet 132 Andreas-Salomé, Lou 133 Annabella (Suzanne Georgette Charpentier) 106 Anno scorso a Marienbad, L’ 138 Antonioni, Michelangelo 210, 213, 250, 251 Aprà, Adriano 11, 89, 128 Arendt, Hannah 133, 192, 201, 210, 211, 223 Artaud, Antonin 88 Arthur, Jean 121, 208, 210, 227

Atalante, L’ 72, 196 Au hasard Balthazar 238 Aumont, Jacques 16, 45, 46, 47, 52, 57, 58, 64, 68, 69, 71, 75, 83, 84, 99, 109, 136, 150, 152, 223 Aurora 147 Avventurieri dell’aria 227 Azéma, Sabine 134 Bach, Johann Sebastian 96, 135, 150 Bacon, Francis 33 Badiou, Alain 210, 233, 234 Baker, Chesney Henry “Chet” 210 Balázs, Béla 152 Baldelli, Pio 241 Bandelli, Alfredo 226 Bandito delle ore undici, Il 8, 26, 49, 53, 54, 57, 70, 71, 73, 77, 81, 89, 100, 145, 154, 155, 157, 166, 178, 186, 205, 206, 207 Barbara (Monique Andrée Serf) 211 Bardot, Brigitte 28, 91, 104, 162 Barnet, Boris 236 Barthes, Roland 174, 201, 240 Bataille, Georges 123, 176 Bateson, Gregory 52, 53, 54, 55, 180 Baudelaire, Charles 95, 101, 112 Baye, Nathalie 28, 29, 36, 37, 38, 40, 57, 78, 107, 109, 114 Bazin, André 104, 111, 119, 121, 128, 129, 237 Beausson-Diagne, Nadège 215 Beauviala, Jean-Paul 80 Beckett, Samuel 212, 213, 232, 235 Beethoven, Ludwig van 29, 66, 67, 265

Indice dei nomi e dei film citati

Indice dei nomi e dei film citati

68, 69, 70, 72, 74, 82, 83, 84, 94, 150, 210, 239 Beineix, Jean-Jacques 9 Bellocchio, Marco 66 Bellour, Raymond 14, 41, 42, 117 Belmondo, Jean-Paul 42, 44, 49, 100, 145, 154, 161, 162, 206 Benjamin, Walter 10, 16, 38, 39, 87, 90, 133, 134, 135, 136, 137, 204, 210, 211 Bergala, Alain 75, 93, 98, 102, 103, 104, 105, 114, 115, 121, 136, 163, 190, 196, 217 Bergman, Ingmar 132, 133, 141, 174, 250 Bergson, Henri 138, 210 Bernanos, Georges 161, 163, 165, 190 Berne, Vincent 187 Bernhardt, Sarah 133 Bertetto, Paolo 7, 15, 18, 27, 28, 39, 48, 59, 70, 89, 115, 191, 218, 219 Bertolucci, Giuseppe 162 Binoche, Juliette 96, 134 Bizet, Georges 66, 67, 69 Blanchot, Maurice 124, 194, 195, 204, 206 Blier, Bertrand 170 Bogart, Humphrey 162 Bombarda, Olivier 39 Bonnaud, Frédéric 59 Bontemps, Jacques 26 Bordwell, David 236, 237 Borin, Fabrizio 127 Botticelli, Sandro 162, 217 Braque, Georges 57, 181 Brenez, Nicole 160, 172, 210 Bresson, Robert 42, 76, 126, 135, 136, 137, 154, 165, 166, 188,

190, 192, 193, 196, 198, 200, 206, 225, 238 Brotto, Denis 200 Brownlow, Kevin 137 Bruegel, Pieter 198 Bruneau, Zoé 182, 226, 227, 229, 230, 231, 233, 234, 236, 239 Busch, Wilhelm 144 Byron, George Lord 240, 241 Camus, Albert 135 Carabiniers, Les 124 Carax, Leos 9 Carné, Marcel 78 Carocci, Enrico 76 Casetti, Francesco 11, 131 Cassavetes, John 109 Castellano, Franco 215 Cat and the Canary, The 131 Céline, Louis-Ferdinand 7, 129, 133, 134, 135, 141, 224 Censi, Rinaldo 12, 118 Cerisuelo, Marc 78, 248 Cervini, Alessia 12, 76, 123, 125, 241 Cézanne, Paul 22, 181 Chabrol, Claude 23 Chandler, Raymond 158 Chaplin, Charlie 23, 130, 137 Chastel, André 216 Chateaubriand, François-René de 189 Chateau, Dominique 18 Chiaureli, Michail 148 Chien andalou, Un 134 Chiesi, Roberto 8, 87, 121, 158 Chion, Michel 83, 97, 166 Cinese, La 77, 87, 126 Claudel, Camille 133, 141 Clemenceau, Georges 211 Closed 13, 62, 123

266

Cluny, Alain 134 Cocteau, Jean 75, 120, 231, 232 Coen, Ethan 9 Coen, Joel 9 Coeur fidèle 72 Cohen, Leonard 135 Cohen, Patrick 212, 224 Colette (Sidonie-Gabrielle Colette) 133 Comment ça va? 12 Comollli, Jean 26 Congiura dei boiardi, La 76 Connery, Jason 210 Constantine, Eddie 52, 142, 144, 147, 148, 150, 212 Contessa scalza, La 155 Contre l’oubli 120 Corazzata Potëmkin, La 85, 219 Corot, Jean-Baptiste Camille 198 Costa, Antonio 11, 12, 36, 39, 209, 213, 217, 219 Courbet, Gustave 148, 150, 202 Coutard, Raoul 44, 60, 78 Cronenberg, David 200 Cruze, James 135 Cura la tua destra 9, 14, 122 Dall’Asta, Monica 131, 134, 135 Daney, Serge 134, 154, 248 Darmon, Maurice 124, 125 Darwin, Charles 239 De Conciliis, Eleonora 240 De Gaetano, Roberto 40, 42 Degas, Edgar 106 Delacroix, Eugène 45, 184, 198 Delahaye, Michel 26 De La Tour, Georges du Mesnil 158 Delavaud, Gilles 18, 137, 141, 169, 183

Deleuze, Gilles 16, 18, 31, 33, 52, 57, 114, 115, 163, 166 Delon, Alain 13, 143, 155, 159, 161, 162, 163, 165, 170 De l’origine du XXIème siècle 16, 17, 120, 172, 173, 175 Delpy, Julie 134 De Lucas, Gonzalo 210 De Musset, Alfred 232 De Palma, Brian 138 Dernier mot, Le 22 Derrida, Jacques 210, 219 De Sica, Vittorio 180, 238 De Staël, Nicolas 181, 182, 183, 184, 185, 186, 199, 200, 202, 205, 233, 234, 238 Détective 12, 74, 75, 104, 120, 121 Detmers, Maruscka 29, 66, 87, 107, 114, 231 Détruire dit-elle 232 De Vincenti, Giorgio 12, 13, 15, 17, 23, 24, 32, 41, 43, 62, 64, 76 Diavolo in corpo 66 Didi-Huberman, Georges 124, 125, 206, 240 Dies Irae 140 Dietrich, Marlene 57 Dinoi, Marco 209 Disprezzo, Il 8, 26, 28, 46, 47, 54, 71, 77, 78, 82, 91, 92, 93, 100, 104, 111, 122, 155, 160, 162, 168, 177, 199 Dolto, Françoise 89, 90, 91, 93, 94, 95, 96, 113 Domahidy, Mathias 215 Donna che visse due volte, La 132 Donna è donna, La 51, 77, 178 Donna sposata, Una 36, 67, 68, 70, 94, 155, 156, 166, 174, 178, 226 267

Indice dei nomi e dei film citati

Indice dei nomi e dei film citati

Dostoevskij, Fëdor 135 Dottorini, Daniele 241 Douchet, Jean 208, 210, 249 Douin, Jean-Luc 28, 46, 54, 88, 103, 106, 161 Dreyer, Carl Th. 58, 97, 140, 152, Duchamp, Marcel 182 Duel 159 Due o tre cose che so di lei 14, 20, 31, 37, 38, 51, 53, 55, 67, 71, 77, 89, 96, 103, 115, 119, 123, 126, 152, 192, 203, 204, 218 Duras, Marguerite 34, 41, 135, 232 During, Lisbeth 188 Dutronc, Jacques 28, 36, 38, 41, 42, 78 Dvořák, Antonin 100 Ejzenštejn, Sergej Michajlovič 42, 43, 47, 49, 76, 77, 80, 84, 96, 115, 137, 148, 219 El Greco ( Dominikos Theotokopoulos) 45, 47, 103 Ellul, Jacques 230 Éloge de l’amour 16, 17, 54, 177, 178, 186, 187, 190, 197, 198, 206, 220, 233 En attendant Godot à Sarajevo 232 Enfants jouent à la Russie, Les 141, 145 Epstein, Jean 72 Erhat, Johannes 97 Espoir 210 Esquenazi, Jean-Pierre 18, 137, 141, 169, 183 Euripide 72 Europa ’51 187 Evans, Walker 21 Falconetti, Renée 187

Fano, Michel 69, 72, 83, 85 Farassino, Alberto 9, 10, 12, 26, 41, 45, 67, 180 Fassbinder, Rainer Werner 148 Faulkner, William 158, 211 Faure, Elie 49, 52, 134, 147, 154, 157, 207 Faust 138 Fautrier, Jean 125 Fellini, Federico 105, 253 Femmina folle 169 Ferreri, Marco 238 Ferri, Gabriella 215 Film socialisme 8, 16, 17, 27, 32, 172, 207, 208, 211, 212, 214, 215, 223, 228 Finestra sul cortile, La 129 Fino all’ultimo respiro 8, 20, 42, 44, 51, 54, 55, 62, 100, 145, 159, 160, 162, 166, 174, Flaubert, Gustave 121, 131 Fonda, Henry 141 Foucault, Michel 72, 74, 134, 158 Francesco giullare di Dio 103 Fury 138 Ganzo, Fernando 208, 210 Garrel, Philippe 10, 22, 60, 109, 198 Gattopardo, Il 139 Genet, Jean 211, 221 Gilda 140, 141 Giordano, Domiziana 153, 161-163, 166, 168, 170 Giotto 179 Giraudoux, Jean 91, 119, 143, 153 Gish, Lillian 106, 139 Godet, Héloise 226, 227, 230, 231, 232 Goethe, Johann Wolfgang von 142

268

Goulding, Edmund 159 Goya, Chantal 111 Goya, Francisco 45, 47, 59, 141 Grande dittatore, Il 130, 209 Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma 13, 121, 125 Grand Hotel 74, 159 Grange, Marie-Françoise 18, 137, 141, 169, 183, 249 Grant, Cary 227, 238 Greenaway, Peter 224 Grégory, Christian 229, 233 Griffith, David W. 114, 131, 139, 238 Halévy, Ludovic 66 Hannoun, Michel 142 Hardouin, Frédéric 7, 134 Harker, Johnatan 148 Hauff, Wilhelm 147 Hawks, Howard 155, 227, 231, 238 Hayworth, Rita 139, 140, 141, 162 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 142 Heidegger, Martin 135, 143 Hélas pour moi 13, 27, 91, 92, 93, 120, 126, 160, 163, 187, 203 Hemingway, Ernest 211 Heristchi, Vincent 200 Herzog, Werner 18, 143 Hiroshima mon amour 124, 138, 139, 155 Hitchcock, Alfred 129, 131, 132 Hitler, Adolf 148, 176, 230 Hollywood 57, 135, 139, 186, 196, 198 Huppert, Isabelle 28, 29, 40, 45, 57, 58, 59, 103, 105, 114, 163, 187, 231 Husserl, Edmund 211

Ibáñez, Paco 210 Ingres, Jean-Auguste 56 Io e... l’amore 129 Ishaghpour, Youssef 220 Ivan il terribile 76 Je vous salue, Marie 9, 13, 16, 17, 20, 22, 47, 50, 53, 56, 62-65, 84, 88, 89-92, 95, 96, 99, 101, 102, 104, 106, 108, 109, 113, 116, 117, 120, 159, 162, 163, 164, 174, 200, 212, 226, 234 JLG/JLG Autoportrait de décembre 10, 12, 13, 24, 27, 51, 52, 63, 105, 114, 120, 125, 126, 127, 179, 203, 215, 234 Jouffroy, Jean-Pierre 181, 233 Kaganski, Serge 59 Kancheli, Giya 210, 213 Kant, Immanuel 160 Kapò 104 Karina, Anna 71, 107, 140, 141, 205 Kaufman, Boris 57 Keaton, Buster 122, 129 Kennedy, John F. 176 Khan Khanne 16, 222, 224, 225 Kirchmayr, Raoul 39 Klimt, Gustav 92, 126 Kristensen, Stefan 203, 251 Kubrick, Stanley 174 Kulešov, Lev Vladimirovič 139, 179 Kundera, Milan 21, 24 Ladri di biciclette 180 Ladro, Il 141 Lamartine, Alphonse de 158, 169 Lang, Fritz 59, 123, 131, 137, 142 Langlois, Henri 23, 127

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Indice dei nomi e dei film citati

Indice dei nomi e dei film citati

Lanzmann, Claude 124 La Ronde – Il piacere e l’amore 176 Latour, Buno 223 Léaud, Jean-Pierre 111, 121 Lempicka, Tamara de 144, 145 Leni, Paul 131 Lettre a Freddy Buache 13 Leutrat, Jean-Louis 7, 8, 9, 17, 22, 27, 28, 33, 68, 69, 75, 84, 92, 145, 150, 152, 155, 160 Liandrat-Guigues, Suzanne 8, 9, 17, 22, 27, 33, 68, 69, 92, 145, 150, 152, 155, 160 Liberté et patrie 16, 17, 177, 179, 181, 186, 192 Lichtenstein, Roy 198, 254 Lili Marleen 148 Lola Montez 148 Losey, Joseph 155 Lowy, Vincent 124 Lubitsch, Ernst 21 Lynch, David 18, 200 Lyotard, Jean-François 36, 39, 40, 41, 101, 102 Made in USA 77, 247 Magnani, Luigi 83 Mahler, Gustav 94 Mailer, Norman 123 Malle, Louis 170 Maloubier, Bob 207, 215 Malraux, André 134, 194, 210 Mamoulian, Rouben 236 Manet, Édouard 24, 25, 140, 141 Mankiewicz, Joseph L. 155, 162 Mann, Thomas 131 Manoscritto del principe, Il 5 Mantegna, Andrea 106 Marceau, Sophie 106

Mariani, Andrea 228 Marx, Karl 123, 145 Masaccio 174 Mas, Arthur 208, 210 Maschio e la femmina, Il 111, 123 Masliah, Laurence 92 Matisse, Henri 198 Matrix 196 McCullough, Lissa 189 McGuire, Dorothy 125 Meeting W. A. 62 Meilhac, Henri 66 Melville, Jean-Pierre 231, 232 Menoud, Jean-Bernard 94 Merchant of Venice, The 135 Méril, Macha 36, 244 Mérimée, Prosper 66, 72 Merleau-Ponty, Maurice 31, 42, 111, 119, 189, 190, 203, 204, 206, 207, 213, 214, 220, 221, 229, 235 Messia, Il 105 Miéville, Anne-Marie 21, 35, 70, 90, 91, 93, 94, 133, 201, 210 Migliori anni della nostra vita, I 172 Miller, Henry 88 Mina (Anna Maria Mazzini) 211, 215, 216, 217 Miró, Joan 125 Mocky, Jean-Pierre 122 Monet, Claude 178, 179, 241 Monica e il desiderio 132 Monroe, Marilyn 176 Morgan, Daniel 8, 148, 152 Morgan, Michèle 28 Mounier, Emmanuel 191 Mourlet, Michel 111, 112, 177 Mozart, Wolfgang Amadeus 16, 46, 60, 68, 87, 142, 145, 177, 180, 232

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Mr. Klein 155 Mulvey, Laura 103 Murnau, Friedrich Wilhelm 138, 147, 148 Musy, François 72 Narboni, Jean 26, 243 Nazi Concentration Camps 124 Nel, Noël 137, 139 Nostalghia 162 Notre histoire 170 Notre musique 8, 16, 18, 177, 178, 195, 202, 203, 206, 211, 212, 238 Nouvelle Vague 8, 19, 29, 48, 70, 75, 120, 121, 122, 135, 143, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 165, 166, 167, 168, 169, 197, 200, 227, 234 Novak, Kim 132 Numéro deux 12 Ophüls, Max 148, 168, 176 Ordet 97 Otello 126 Otte, Hans Günther 172 Pagliero, Marcello 172 Panattoni, Riccardo 195, 210 Paolo Uccello (Paolo di Dono) 126, 127 Parain, Brice 53, 224 Pasolini, Pier Paolo 26, 27, 95, 172, 238 Passion 9, 10, 12, 13, 15, 17, 19, 20, 22, 27, 29, 31, 32, 35, 42, 44, 45, 48- 52, 54, 56, 57, 58, 6070, 74, 77, 78, 79, 80, 84, 88, 94, 100, 103, 105, 109, 112,

114, 118, 122, 125, 130, 155, 157, 163, 172, 176, 177, 180, 186, 195, 199, 203, 208, 210, 213, 221, 234 Paul, Jean (Johann Paul Richter) 167 Péguy, Charles 134, 214, 223 Peisson, Édouard 189 Pêra, Edgar 224 Perceval 123 Persona 174, 180 Petit soldat, Le 11, 27, 38, 53, 56, 57, 66, 67, 72, 87, 107, 111, 114, 140, 147, 178, 179, 234 Picasso, Pablo 57, 125, 145 Piccoli, Michel 45, 91 Pipolo (Giuseppe Moccia) 215 Pisani, Martial 208, 210, 218 Poe, Edgar Allan 117, 159 Polanski, Roman 122 Pollet, Jean-Daniel 210, 219, 220, 221 Pontecorvo, Gillo 104 Posto al sole, Un 169, 179 Pourvali, Bamchade 91, 120, 252 Prénom Carmen 14, 16, 17, 20, 24, 29, 35, 50, 62-74, 77, 78, 81, 82, 84, 86, 91, 93, 94, 109, 110, 114, 150, 153, 160, 167, 222 Prigione 133 Proust, Marcel 131, 134, 141, 250 Puissance de la parole 62, 101, 117, 118, 123 Quattrocento colpi, I 135 Questa è la mia vita 20, 33, 53, 58, 61, 64, 71, 80, 93, 94, 96, 105, 113, 126, 178, 193, 202, 212, 224 Ragazzi terribili, I 231 271

Indice dei nomi e dei film citati

Indice dei nomi e dei film citati

Ramuz, Charles-Ferdinand 180 Rancière, Jacques 162, 166, 253 Rank, Otto 234, 236 Rapport Darty, Le 62, 123 Rapporto confidenziale 126, 127, 129, 134 Ravel, Maurice 44, 84 Regola del gioco, La 130, 137 Re Lear 7, 14, 24, 64, 65, 104, 120, 122, 125, 222, 223 Rembrandt, van Rijn 17, 45, 48, 78, 147 Remo e Romolo – Storia di due figli di una lupa 215 Renoir, Auguste 145 Renoir, Jean 120, 122, 130, 213 Resnais, Alain 32, 68, 124, 131, 138, 155, 219 Riemann, Bernhard 239 Rilke, Rainer Maria 29, 78, 165, 239 Rimbaud, Arthur 157 Riva, Emmanuelle 124 Rivarol (Antoine Rivaroli detto il conte di Rivarol) 158 Rivette, Jacques 135 Rode, Thierry 91, 100 Roger, Philippe 166 Rohmer, Éric 68, 123 Roma città aperta 172 Rossellini, Roberto 78, 103, 105, 127, 135, 141, 148, 149, 160, 170, 176, 187, 240 Rossen, Robert 210 Rougemont, Denis de 141, 158, 166 Rousseau, Jean-Claude 195 Rousseau, Jean-Jacques 123 Roussel, Myriem 29, 64, 66, 90, 94, 95, 96, 100, 102, 105, 106, 109, 113, 163, 231

Rozier, Jacques 135 Rubens, Pieter Paul 60 Russel, Rosalind 238 Rye, Stellan 236 Sacrificio 160 Salò o le 120 giornate di Sodoma 172, 174 Saltzman, Cynthia 24 Salvatore, Rosamaria 60, 109 Sartre, Jean-Paul 157, 210, 234 Scala a chiocciola, La 125 Scarlato, Alessio 12, 123, 125 Scarrone, Carlo 9 Scémama, Céline 7, 129, 133, 134, 135, 141 Scénario de Sauve qui peut (la vie). Quelques remarques sur la réalisation et la production du film 9, 21 Scheinfeigel, Maxime 141 Schiele, Egon 105, 106 Schnizler, Arthur 158 Schoellkopf, Anouk 187 Scholem, Gershom 223 Schöll, Sophie 146, 147, 212 Schygulla, Hanna 45, 54, 57, 78 Seberg, Jean 36, 55, 109, 145, 174, 176 Segdwig, Edward 129 Seigner, Emmanuelle 104 Serrut, Louis-Albert 153, 154 Seurat, Georges 183, 184 Sévérin, Gérard 89 Sguardo di Michelangelo, Lo 210, 213 Shelley, Mary 158, 159, 240, 241 Shining 174 Shoah 87, 124 Signes parmi nous, Les 136

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Signora del venerdì, La 238 Simmel, Georg 152 Siodmak, Robert 125 Si salvi chi può... la vita 14, 15, 17, 19, 20-25, 27-31, 33, 34, 35, 37, 40, 41, 43, 47, 50, 56, 61, 64, 65, 71, 77, 79, 93, 94, 100, 101, 103, 104, 109, 114, 163, 164, 203, 213 Smith, Patti 211 Soft and Hard – Conversation beetween Two Friends on Hard Subject 42, 62, 91, 253 Solla, Gianluca 195 Sollers, Philippe 220, 221 Solženicyn, Alexandr 228, 233 Sontag, Susan 232 Sotto falso nome 6 Spielberg, Steven 159 Stalin, Joseph 176 Statues meurent aussi, Les 32 Stéphane, Nicole 231, 232 Stern, Bert 176, 254 Sterrit, David 8, 88, 94 Stevens, George 124, 131, 169 Stewart, James 129, 139 Sthal, John M. 169 Sting (Gordon Matthew Thomas Sumner) 123 Strada, La 105 Strana è la vita 162 Studente di Praga, Lo 236 Subor, Michel 140 Tardieu, Jean 210 Tarkovskij, Andrej 162, 163 Tati, Jacques 114, 122, 166 Taylor, Liz 179 Tedesco, Salvatore 75

Tempi moderni 137 Three Disasters, The 224 Tinazzi, Giorgio 7 Trentin, Silvio 218 Tre passi nel delirio 170 Truffaut, François 121, 127, 135, 224 Turigliatto, Roberto 10, 12, 13, 15, 88, 118, 122, 176, 177, 195, 208, 210 Ulmer, Edgar G. 120 Unkonwn Chaplin 137 Unseen Ennemy, An 139 Uva, Christian 200, 218 Valéry, Paul 133, 140, 207 Vancheri, Luc 40 Van den Heuvel, Joke 213 Van Gogh, Theo 24 Van Gogh, Vincent 17, 24, 25, 27, 39, 75 Vecchio e il nuovo, Il 47 Velásquez, Diego 45, 49, 52, 70, 73, 141, 147, 154, 181, 186 Venzi, Luca 12, 75, 76, 77, 123, 125 Vermeer, Jan 109, 158 Vertov, Dziga 11, 35, 219 Viaggio in Italia 176, 210 Vicino al mare più azzurro 236 Vidor, Charles 140 Vigo, Jean 72, 196 Visconti, Luchino 139 Vladimir et Rosa 11 Vlady, Marina 20, 37, 38, 51, 56, 103, 192 Von Sternberg, Josef 57 Von Trier, Lars 9 Voyage dans le jardin des morts 110 Wachowski, Andy 196

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Wachowski, Larry 196 Weekend – Un uomo e una donna dal sabato alla domenica 159 Weil, Simone 133, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 194, 200, 201, 202 Welles, Orson 126, 127, 128, 129, 135, 141, 224 Wilms, Dominique 144, 147 Wittgenstein, Ludwig 135 Witt, Michael 21, 23, 183

Woolf, Virginia 133 Wyler, William 172

orizzonti

Yared, Gabriel 26 Zelizer, Barbie 124 Zischler, Hanns 143, 150 Zucconi, Francesco 125 Zvorkin, Vladimir Kosma 230

Giaime Alonge, Uno stormo di Stinger. Autori e generi del cinema americano Alessandro Amaducci, Videoarte. Storia, autori, linguaggi Giulia Carluccio, Scritture della visione. Percorsi nel cinema muto Giulia Carluccio (a cura di), America oggi. Cinema, media, narrazioni del nuovo secolo Alessandro Faccioli, Leggeri come in una gabbia. L’idea comica nel cinema italiano Luca Malavasi, Realismo e tecnologia. Caratteri del cinema contemporaneo Anton Giulio Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano Anton Giulio Mancino, Schermi d’inchiesta. Gli autori del film politico-indiziario italiano Andrea Martini (a cura di), L’antirossellinismo Ilario Meandri, Andrea Valle (a cura di), Suono/immagine/genere Paolo Noto, Dal bozzetto ai generi. Il cinema italiano dei primi anni Cinquanta Valentina Re, Leonardo Quaresima (a cura di), Play the Movie. Il DVD e le nuove forme dell’esperienza audiovisiva

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