L'evento esposto come evento d'eccezione. Materiali per un pensiero neocritico 9788898694068, 9788898694624


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L'evento esposto come evento d'eccezione. Materiali per un pensiero neocritico
 9788898694068, 9788898694624

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Carmelo Meazza

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L’evento esposto come evento d’eccezione II edizione ampliata

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Au dedans, au dehors

Collana diretta da: Giuseppe Cantillo, Danielle Cohen-Levinas, Jean-François Courtine, Elio Matassi †

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Au dedans, au dehors 5

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Carmelo Meazza

L’evento esposto come evento d’eccezione Materiali per un pensiero neocritico II edizione ampliata

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Volume pubblicato con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna, L.R. 7 2007, bando 2012. Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari.

© 2014, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] ISBN – Edizione cartacea: 9788898694068 ISBN – E-book: 9788898694624 Collana Au dedans, au dehors Issn. 2281-5368 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Chora Church in Istanbul, Turkey © EvrenKalinbacak - Fotolia.com

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A Veronica (....allo stupore della sua innocenza)

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Come sfondo e premessa

1. Verso la fine degli anni ‘70 del secolo ormai passato alcuni orientamenti assai influenti della filosofia italiana si inseriscono nel contesto del dibattito europeo con la forza di un comune denominatore: occorrerebbe prendere atto che il tempo delle fondazioni definitive e ultime si sarebbe finalmente concluso lasciando nuovi compiti per la filosofia. L’epoca della metafisica, ormai da generazioni, sarebbe al tramonto e porterebbe via tutte le figure di stabilità e assicurazione di un fondamento definitivo. Il compito, per certi versi inedito, della filosofia sarebbe quello di pensare all’altezza di una condizione senza fondamento. Queste posizioni postmetafisiche hanno rappresentato una koinè la cui influenza si è esercitata ampiamente in quella sfera qualche volta esile e incerta tra il lavoro filosofico anche specialistico e il dibattito pubblico più interessato alla dimensione del politico. Tra le pagine di questo dibattito, frequentemente accolto e promosso nei comodi spazi dei media più influenti, cambia l’agenda dei protagonisti e soprattutto cambia la costellazione delle bibliografie. Alcune tradizioni filosofiche si ritrovano rapidamente ai margini, senza respiro, assediate tra l’altro dalla perentorietà di situazioni storiche il cui fallimento inveiva senza scampo nei confronti delle speranze alimentate dalla tradizione umanistica del

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pensiero critico. Nella distanza di oltre trent’anni manca ancora un bilancio di quella lunga stagione. Manca una precisa ricostruzione, soprattutto del suo momento iniziale nel quale si risente, in Italia più che altrove, della straordinaria influenza della filosofia di Heidegger. 2. Uno dei luoghi incandescenti ad altissimo attrito interpretativo è rappresentato dalla linea di alta tensione che corre tra Nietzsche e Heidegger. Non è in gioco solo l’interpretazione heideggeriana di Nietzsche, ma più in generale la nozione del compimento destinale della metafisica. Nel filo di queste tensioni si profilano alcune grandi aree di convergenza problematica. Per la prima di queste, forse la più influente ed estesa, in larga misura orientata dall’opera giovanile di Cacciari, Nietzsche non sarebbe il filosofo del compimento della metafisica ma la prima radicale svolta del superamento metafisico. La sua ripresa-ripensamento permetterebbe di cogliere, tra varianti e oscillazioni, l’intenzione di fondo della stessa destinalità metafisica di Heidegger. L’oblio dell’essere o il ritiro dell’epocalità dell’ultima metafisica andrebbe compreso come la fine di ogni ontologia fondamentale, di ogni pensiero dell’ulteriorità o dell’originario. L’unico piano dell’essere sarebbe quello della molteplicità degli enti con le diverse logiche e pratiche che ne organizzano sempre reversibilmente il mondo. Tutta l’enfasi è sul tragico come spaziatura stessa della Gaia scienza. Il venir meno di ogni forma o legge universale e di ogni soggettività trascendentale non rimanda verso figure di rammemorazione, ma può finalmente disporre di un eccezionale potere di organizzazione. Nel momento in cui i linguaggi non dicono più nulla, o hanno il nulla come il limite mistico della loro intrascendibilità, nel momento in cui sono sollevati da ogni logica di semplice rappresentazione, mostrerebbero la forza del non essere altro che il tutto in cui si dispongono, dell’ordine in cui accadono. L’attenzione, in un certo senso intelligente e originale, andava

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non solo a quell’enorme fucina rappresentata dal circolo di Vienna, alla necessità che conduce Wittgenstein dal Tractatus alle Osservazioni, ma anche a quella direzione dello sviluppo delle arti del Novecento che procede verso la fine di ogni simbolicità e di romantica espressività. La fine della rappresentazione condurrebbe direttamente al mettersi in opera di un principio formale che a sua volta avrebbe le risorse per sospendere o annullare il rischio costante di una sua chiusura semantica, di una totalizzazione significativa. Tutto il senso accade in una forma tanto più potente quanto meno vincolata a medium o veicoli di semplici significati, tanto più potente quanto più capace di rinunciare a ogni utopia semantica. Soprattutto nell’arte musicale si interrogava la composizione in cui si mostra la forma e il potere del linguaggio. Si insisteva in vario modo sulla composizione pura, si riteneva che l’abbandono dell’utopia semantica, comportasse e fosse al contempo l’esito di un annullarsi della nozione di oggettivo-naturale e di soggettivotrascendentale. Si poneva con estrema insistenza il topos del limite negativo, dell’invalicabile, oscillando tuttavia tra un ordine che prenderebbe senso nel mostrare tutto ciò che non potrebbe mai dire e un senso che si esporrebbe nella misura in cui scompare ogni rinvio a un altro del dire stesso. Un pensiero che proveniva dal fronte diretto di una militanza politica non poteva che interrogare, però, innanzi tutto, il destino del politico. Nel tempo della crisi di ogni forma di sintesi, di ogni possibile conciliazione, proprio il politico perderebbe ogni centralità e si distribuirebbe in una dinamica di differenze conflittuali, scomponendosi in un sistema mobile di autonomie relative dai confini instabili e insicuri. Tramonterebbe definitivamente il Politico come il linguaggio capace di produrre nello Stato la verità del soggetto. La generazione che aveva scommesso sulla centralità dialettica del conflitto di classe, che aveva tentato la riforma della dialettica nel materialismo della condizione

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operaia e nel primato oggettivo della fabbrica, viene invitata ad abbandonare ogni ideale di un ordine nuovo. L’ordine nuovo non potrebbe che riproporre una metafisica della storia e del soggetto, non potrebbe che ripetere il fallimento e la fine del pensiero dialettico. Si tratterrebbe invece di riscrivere la logica del possibile cambiamento e trasformazione nel destino stesso del disincanto radicale. Il disincanto offrirebbe l’occasione per una critica dell’esistente, proprio il mistico nel mostrare il destino finito di ogni ordinamento, impedirebbe l’apologia dell’ordine, garantirebbe la forza per l’impegno in una pratica di trasformazione. Il mistico mostrerebbe dunque la miseria dell’esistente, la sua naturale instabilità, impedirebbe all’ideologia di reificare un ordine rispetto ad un altro, aprirebbe dunque lo spazio per una politica del cambiamento. Rispetto al gioco di Wittgenstein si ritiene di compiere un passo in una direzione del tutto diversa. Il disincanto non si limiterebbe a restituire al gioco la sua autonomia d’ordine, non si limiterebbe a governare una crisi con una rettifica e richiamo all’ambito delle regole d’uso, il disincanto offrirebbe lo slancio per mutare le tipologie dei giochi, per debordare dai loro confini, per trasformare la loro capacità di presa. 3. Il Cacciari successivo compie una reazione verso se stesso. Abbandona il politico alla sua inevitabile riduzione tecnica, alla semplice chiacchiera della continua negoziazione. Se negli anni di Krisis la decadenza dello Stato moderno segnava l’occasione di una nuova politica, più avanti la razionalizzazione non solo non dischiude vie nuove alla trasformazione ma segna semplicemente un ambito di estensione e rafforzamento del dominio tecnico. Questo universo non si dispiega più nella fine della metafisica dello stato o del politico hegeliano ma heideggerianamente esprime il moderno dispiegarsi della metafisica. Se nel suo primo tempo Nietzsche correggeva Heidegger, nel suo secondo tempo Heidegger prende il sopravvento su Nietzsche. Il mistico di Krisis viene in un certo modo abbandonato. Almeno nel momento in

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cui il limite del mostrarsi veniva edificato su una inevitabile dialettica di parole e silenzi, nel silenzio come bordo immanente della parola, nel silenzio come mortalità della parola e del suo senso finito. L’immanenza di questa dialettica viene abbandonata verso uno sprofondamento dello Andenken heideggeriano. Verso un Andenken condotto verso l’origine, verso un salto abissale nell’inizio. Lo Heidegger della differenza ontologica viene sprofondato nel presupposto schellinghiano, orientato nel prima di ogni inizio, o verso un inizio preservato dal suo stesso iniziare. La dialettica viene consegnata alla logica della totalità, viene compresa come ordinamento della stessa totalità e della sua inevitabile chiusura, contrassegno dell’impossibilità di agire su di essa. Se la filosofia può esercitare ancora un compito questo è lasciato a un disincanto che si pretende ancora più radicale rispetto a quello che in Krisis circondava gli ordinamenti in gioco. Un pensiero all’altezza del presupposto potrebbe fare Andenken del possibile, di una libertà del possibile. Se qualcosa di nuovo può accadere, se un momento messianico può interrompere il nichilismo del logos, questo si offrirebbe nella forza di un pensiero all’altezza di un inizio dissociato da ogni principio, un ulteriore liberato dalla stessa qualifica di principio. Più avanti dedicheremo un lungo paragrafo a questa difficile ma decisiva questione speculativa. Cercheremo di mostrare la sua classicità, la ripetizione di un topos variamente praticato dalla tradizione della filosofia e tutt’altro che estraneo all’ambito del metafisico. 4. Per un altro influente orientamento che prende a delinearsi alla fine degli anni ‘70, non si tratterebbe più di elaborare la logica di un’altra fondazione, come i tentativi compiuti negli anni ‘60 dalle varie fenomenologie o dai diversi tipi di strutturalismo. Neppure la ricerca di soggettività reticolari e in divenire, il ricorso a strutture private di centro o di finalità, sarebbero sufficienti ad interpretare appieno il compito di una filosofia postmetafisica. I diversi cantieri aperti nel dopoguerra e nel corso del decennio

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successivo per decostruire le varie ipostasi coscienzialistiche o le diverse forme di oggettivismo scientistico, così come i tentativi di riformare le categorie economico filosofiche del marxismo verso orizzonti neo umanistici vengono considerati improponibili e in ultima istanza riducibili ad una volontà metafisica. 5. Secondo Gianni Vattimo, tra i più attivi esponenti di questo orientamento, l’epoca del compimento in Heidegger richiamerebbe una speciale vocazione per un tempo ulteriore o altro da quello della metafisica. Una vocazione che andrebbe preservata però da una troppo facile declinazione religiosa o mistica e sottratta alle logore ideologie di un progetto di emancipazione. Per questa linea interpretativa Wesen, essenza, in Heidegger, non indicherebbe la rigidità di una struttura insuperabile ma la natura eventuale dell’essere epocale. Questa eventualità si aprirebbe per un invio alla cui rammemorazione dovrebbe consegnarsi un pensiero all’altezza della fine della metafisica. Questo trasalire rammemorante che ripercorre e ripete il nesso tra denken, danken e Gedachtinis, lascerebbe ancora spazio per un pensiero critico dell’esistente, poiché nella cura di questa memoria la destinalità stessa dell’invio sarebbe intaccata nella sua potente perentorietà, il possibile verrebbe in qualche modo liberato nella sua stessa possibilità, il presente sarebbe in tal modo criticato per l’esclusività che comporta. L’anticipo di questa modalità dello Andenken sarebbe già preannunciata in Essere e Tempo nella esperienza della mortalità. L’essere-per-la-morte come possibilità autentica in quanto possibilità dell’impossibilità di tutte le altre possibilità lascerebbe queste ultime in una sorta di non definitività, nella mortalità il possibile verrebbe in qualche modo salvaguardato dalla sua effettualità e definitività. S-fondato in una oscillazione che ne salvaguarderebbe la sua eventualità. La proposta di una ontologia del declino riprende e cerca di radicalizzare la meditazione heideggeriana sull’essenza della tecnica

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e sulla nozione di Ge-Stell come condizione di possibilità del venire degli enti all’essere in questa determinata epoca. Per questo ritiene essenziale scavare nel nesso tra Er-eignis e Ge-stell. Proprio qui infatti si troverebbe l’implicazione essenziale tra fondazione e s-fondamento a cui guarda questa ontologia del declino. Il nesso verrebbe dalla stessa imposizione del Ge-stell, poiché laddove tutto è disposto nella calcolabilità e nella innovazione tecnica l’insieme si troverebbe nello stesso tempo ad oscillare in una continua provocazione che lo sottrae alla stabilità. Come se l’evento tecnico fosse anche sradicante per la stessa forza o potenza con cui fonda qualcosa nella rete del calcolabile. Come se l’innovazione conducesse gli enti fuori dal centro della propria sostanzialità. Si insiste dunque sul nesso fondazione-sfondamento che si aprirebbe in questa continua mobilitazione del calcolabile per cui al pieno dispiegamento tecnico corrisponde anche un ambito di oscillazione in cui tutte le categorie metafisiche della stabilità verrebbero infrante. Lo Ereignis viene piegato ad essere nient’altro che un ambito di oscillazione nel quale il tutto perde la perentorietà dell’effettuale e si disporrebbe verso nuove possibilità. Il salto heideggeriano viene reinterpretato come luogo di un’oscillazione che si rilancia in una trama di rinvii senza fine. Il momento critico del pensiero sarebbe qui, in questa rammemorazione del Wesen della tecnica per cui si risalirebbe al possibile nella sospensione oscillante della perentorietà della sostanza degli enti. 6. La nozione più abusata e insistita è quella heideggeriana di invio destinale. Il senza fondo, in-fondato, sarebbe nella destinalità dell’invio, la cui apertura dispone l’ambito dei rapporti tra le culture e le generazioni. L’invio non è altro che l’eventualità dell’essere, la sua impresentabilità metafisica constrassegnata dalla sua radicale temporalità. In questa apertura, che nessuna apprensione noetica potrebbe cogliere tematicamente nella pienezza di una evidenza, si confrontano e si verificano le procedure

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discorsive date già sempre di volta in volta. In questo confronto e verifica si delineano certamente alcune idee di verità ma la loro assicurazione non è garantita da altro se non da una sorta di orizzonte retorico orientato dalla forza discreta del consenso e della persuasione. Non vi sarebbe nessuna coerenza dimostrativa che potrebbe legittimare l’affermazione di un ordine rispetto a un altro, nessuna meta regola di tipo trascendentale potrebbe essere chiamata in causa, nessuna istanza pragmatica sarebbe ammissibile. 7. Il tentativo è quello di interpretare la formula heideggeriana sullo Abendland in quanto terra del tramonto dell’essere come una ontologia del declino. Le riconosciute ambiguità heideggeriane sul destino della metafisica sono affrontate cercando di evitare due possibili interpretazioni: quella che conduce il tramonto fino a non riconoscere altro che il darsi o il gioco del semplice effettuale, oppure che accentua a tal punto la problematica ontologica da trovarsi orientato da una nostalgia teologica. Per l’ontologia del declino occorre pensare insieme l’essere e il suo tramonto, dove il tramonto è pensato come la convenienza stessa dell’essere. Solo in questo modo si saprebbe interpretare quell’abbandono dell’essere come fondamento che contrassegnerebbe sempre di più la prospettiva heideggeriana successiva ad Essere e Tempo. Naturalmente questo indebolimento dell’essere sarebbe già presente nella grande opera del ‘27, e si esprimerebbe in quella direzione per la quale l’essere e l’ente verrebbero sottratti alla solidità di una base fondamentale, per cui il Dasein sarebbe radicalmente dislocato, spossessato e privato di ogni centro. L’enfasi è sempre sul decentramento del soggetto, sul suo s-fondamento. La proposta è quella di attraversare il nichilismo senza superarlo però, poiché esso sarebbe già nel segno del tramonto dell’essere. Non si tratterrebbe di ritrovare un fondamento perduto, per contrastare la perdita dei valori, poiché Heidegger proprio questo ci lascerebbe in eredità: questa ricerca sarebbe essa

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stessa ciò che nello stesso tempo promuove il nichilismo e impedisce di riconoscerlo. Vattimo, in particolare, tenta una via tra Gadamer e Pareyson. Un Gadamer di cui si apprezza la nozione rinnovata di Erfahrung, come ambito di dislocazione dell’esperienza si incontra con un Pareyson a cui viene sottratto però il criterio esigente inscritto nella prassi della formatività e cioè la riuscita. Lo sfondamento tende sempre più a concidere con una infondantezza segnata dall’inevitabile nozione di transitorietà. La reinterpretazione di Vattimo dell’essere-per-la-morte in ultima istanza conduce verso questa coincidenza di infondato e transitorio, come se la dislocazione, in quanto costante possibile trapasso nel non definitivo possa davvero contestare la tradizione metafisica. Proprio quest’enfasi su una verità come dislocazione e divenir altro con cui si cerca l’assedio della forza del fondamento, oltre la fragile rilettura di Heidegger, dice moltissimo, lo vedremo, sull’ingenuità speculativa della stessa nozione di senza fondo. 8. Nei luoghi che diventano sempre più comuni e trasversali di questa vasta area della filosofia italiana una strana immagine di ovvietà copre la dimensione dell’infondato o del senza fondo. Manca in generale anche solo il sospetto che la nozione della mancanza di fondamento debba essere interrogata con una dedizione ancora più radicale rispetto alle figure che sembrano essere quelle di un fondamento ultimo definitivo. È assente il sospetto che possa esservi un rapporto assai meno lineare tra una fondazione e un senza fondo, che un pensiero senza fondamento potrebbe contestare l’assicurazione di una fondazione metafisica solo dissociando due nozioni speculative assai instabili e delicate, quella del ritiro e quella della mancanza (rapida anticipazione di una questione che ci impegnerà molto più avanti). L’intero periodo, in vario modo, si concentra sulla decostruzione dei fondamenti senza mai indagare con la necessaria radicalità

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l’orizzonte di un fondamento assente. Si abbandona, seguendo un certo incantesimo heideggeriano, quella singolare decostruzione del pensiero metafisico che la tradizione del pensiero critico del Novecento aveva in vario modo ereditato dal marxismo. Si ritiene troppo rapidamente che quella tradizione fosse essa stessa una delle articolazioni del pensiero del fondamento, quindi della tradizione metafisica da cui si sarebbe dovuto prendere congedo. In generale si impone una particolare idea della metafisica che non prevede la possibilità che l’esperienza di un fondamento mancante possa appartenere alla medesima scena di una volontà di fondamento. In generale si afferma una contrapposizione assai poco elaborata sul piano speculativo tra fondamento e senza fondo; si richiama troppo facilmente un pensiero senza fondamento senza sospettare, ce ne occuperemo a lungo, il doppio fuoco di una comune ellisse tra i due momenti. Un pensiero largamente influenzato da Heidegger che tuttavia resta estraneo proprio al momento della sua radicalizzazione fenomenologica. A quel momento cioè in cui il giovanissimo Heidegger accoglie la fenomenalità husserliana come non nascondimento e ritiene che essa costringa la filosofia a un metodo adeguato a una prossimità né propriamente presente né propriamente assente. Si tratta di un passaggio che conduce l’apparire verso la sua massima apparenza, verso una fenomenalità chiamata a convertirsi con una speciale inapparenza. Una inapparenza tradotta dal giovane Heidegger come non nascondimento che imporrà al metodo della riduzione fenomenologia di reinventarsi come analitica esistenziale. L’heideggerismo influente in quegli anni, orientato verso lo Heidegger della maturità, verso le opzioni della cosiddetta svolta, non sospetta che il fallimento di Essere e Tempo, la suo inconclusione, debba essere interrogata coerententemente con la radicalizzazione dell’eredità fenomenologica che il giovane Heidegger si era imposto fin dai tempi di Friburgo. Solo in questa luce sarebbe stato possibile cogliere l’abbandono di Essere e Tempo ma sarebbe stato possibile

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valutare in altro modo la stessa evoluzione successiva della filosofia heideggeriana. È come se si fosse abbandonato il cuore fenomenologico dell’ermeneutica e ci si fosse in qualche modo preclusa quella istanza antimetafisca contenuta in una fenomenologia richiamata nella sua più originaria pretesa. Potrà sembrare assai poco giustificato ma si potrebbe sostenere che questa marginalità dell’istanza fenomenologica, ripetiamo, nella estrema coerenza tentata dal giovane Heidegger, appartiene alle medesime linee di sviluppo che allontanano questa fase della filosofia italiana, almeno in queste sue più influenti espressioni, da ciò che occorrerebbe riconoscere come una speciale singolarità della tradizione della filosofia italiana. Come se non fosse ingiustificato ricercare alcune comuni coerenze tra una certa reattività antimetafisica che dovremmo considerare tipica dei momenti più originali della tradizione italiana e questo cuore fenomenologico dell’ermeneutica. 9. Il senza fondo implica una nozione radicale di un ritiro che resta generalmente non indagato con conseguenze molto importanti, lo vedremo, sulla stessa determinazione della passione metafisica della filosofia. Più in generale non si comprende che la nozione di validità, persino di valore, o riuscita, non è il correlativo di una fondazione. Nessun sospetto che la riuscita non è tale se non sopporta una certa infondatezza, e viceversa non si dà una radicale infondatezza se non nella misura di una certa riuscita. Dovremmo chiederci se questa lunga stagione della filosofia italiana non abbia lavorato troppo incautamente con una nozione che potremmo definire ingenua della tradizione metafisica. Se non abbia prevalso una semplice stilizzazione della critica heideggeriana del metafisico senza interrogare con la necessaria radicalità, non solo le oscillazioni e le complessità che essa assume nel corpo dell’opera di Heidegger, ma soprattutto senza discutere, con un’adeguata energia speculativa, le coerenze o incoerenze, le implicazioni, le insopportabili approssimazioni e insufficien-

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ze. Tutto questo naturalmente investe la periodizzazione storica, coinvolge le iper abusate nozioni di modernità e di soggetto, quindi la stessa questione dell’umanesimo. Un’aura di ovvietà ha ricoperto una delle questioni più ardue e difficile da cui dipendono una serie estremamente delicata di conseguenze, cioè cosa sia il moderno, come designarne il periodo, come indicarne i tratti esecutivi essenziali. Compiere un travisamento su questo non può che compromettere la stessa nozione del soggetto e soprattutto la stessa questione della metafisica o almeno di quella tradizione del metafisico che si decompone nella soglia del XX° secolo. Il soggetto della metafisica o una metafisica del soggetto circoscrivono certamente il ciclo del moderno, ma per questo sarebbe stato necessario una storiografia filosofica meno scontata e meno segnata da molte caricature di ambito heideggeriano. Questa enorme difficoltà a delineare l’epoca del moderno non può che ripetersi nel momento in cui si richiamano i contrassegni della postmodernità. Poteva capitare di leggere nel corso di quegli anni passi come questo: «L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la x. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita»1. E ci si chiedeva: «[…] è ipotizzabile una “logica” del decentramento del soggetto che riesca a descrivere, nel medesimo tempo, che cosa accade all’uomo quando si allontana dal suo centro e quale è il terreno, che innanzi tutto occorre riconoscere, sul quale un nuovo “senso” può prodursi?» Nessun sospetto che il moderno, la lunga epoca di una modernità che prende a declinare alla fine del XIX° secolo abbia in realtà una confidenza speciale proprio con una particolare ellisse che attraversa il soggetto nella tensione di un doppio fuoco: quello del sé e dell’altro da sé. Un soggetto che edifica il suo potere 1. P. A. ROVATTI, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, in Il Pensiero Debole, a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti, Feltrinelli 1983, p. 29.

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non quando fissa la purezza di una stabile identità ma quando sopporta la tensione di un decentramento presso un altro da sé. Quando torna a sé nel radicale decentramento da sé. Il soggetto moderno non è forse quello di Erasmo da Rotterdam, non dobbiamo inaugurare la modernità in un soggetto capace di sostenere l’estraneazione della follia? Quindi di vivere la trascendenza immanente di un estraneo, l’estranearsi come condizione del se stesso?. Quel rotolare via dal centro verso la x andrebbe verificato nel cuore della nuova evidenza di Tommaso Campanella, nella logica e nella dinamica della nuova evidenza che racchiude e condensa la rinnovata ontologia di Telesio. Non sapremo leggere uno dei paradigmi del moderno senza dare il rilievo che merita a quel “tatto intrinseco”dell’evidenza che soppianta dopo una lunga e sedimentata preparazione quel vecchio sillogismo nel quale il bersaglio del vero si toccava da lontano, dove si imponeva la forza di un’Autorità affidata alle “mani di altri”. L’evidenza di Telesio-Campanella riassume l’epoca di una prossimità quasi tattile tra soggetto e oggetto, tra esterno e interno, tra idea e immagine. Quando la posizione di Telesio-Campanella si afferma il mondo dei sensi pubblici è in declino da tempo. Il vedere e l’udire che, per ragioni non sovrapponibili, avevano avuto il predominio sia nel mondo greco che nel mondo medievale sono assediati da tempo dalla progressiva affermazione delle nuove continuità di finito e infinito che impongono una gravità enorme che attira e governa tutto intorno a sé. È nell’arco di queste nuove potenze che si consumano le antiche forme scolastico-aristoteliche e si intensificano le trame delle continuità del soggettivo e dell’oggettivo, è qui che il patire quasi tattile, diventa la via privilegiata per ricostruire la logica dell’adeguatio. La nuova nozione di materia vivente divina sviluppa continuità e intensità tra soggettivo e oggettivo tra sé e l’altro da sé del tutto inconcepibili in epoca medioevale. Si pensi solo a come in Telesio gli enti agiscono sul soggetto dilatando e condensando, secondo il livello della loro mescolanza di caldo e di freddo, lo spirito conoscente. Ciò poteva

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avvenire perché esso stesso è materia sottile diffusa in tutto il sistema nervoso. Se la parte è nel tutto e il tutto nella parte il pathos-passione non può che essere l’origine dell’esperire, la sua guida, la sua fonte. Il soggetto moderno è esattamente nel punto di flessione della intimità di finito e infinito. Laddove si impone una logica che rende sempre più necessaria sopportare il doppio genitivo di formule come queste: finito dell’infinito, infinito del finito, pensiero dell’essere. Nella logica di una luce che già anticipa la necessità del calcolo differenziale si costituisce l’enorme profondità del soggetto moderno quella che si potrebbe chiamare la sua solitaria divinità. Si inaugura l’onda più lunga, insistente, variamente ripresa e rilanciata nel corso dei secoli successivi. Non si comprende il luogo inaugurale del moderno al di fuori di quella lunga frontiera antiaristotelica che da un certo punto diventa sempre più esigente e impone una straordinaria dilatazione della sfera del senzientesentito. Una dilatazione in cui l’esperire viene come straziato dal sentire, esposto radicalmente nella follia di un patire-sentire in una coerenza radicale per la quale l’intendere qualcosa si avverte radicato in un pathos originario. Non capiamo il moderno e il suo lungo ciclo con le sue numerose e a volte insospettabili variazioni, un ciclo che troverà almeno per la sua forza espansiva uno dei momenti di radicale discontinuità con l’intuizione più originaria della fenomenologia, se non affermiamo con decisione che esso si inaugura su una luce differente da quella dell’epoca precedente. La luce moderna infatti si inventa e si immagina nella continuità dei chiaroscuri. Si afferma nel momento in cui la luce satura dell’oro bizantino viene come attenuata nello sfumato pittorico, estenuata nell’impressione graduale. Questa nuova luce non solo organizza il mondo plastico delle arti visive ordinandone l’imperativo della verosimiglianza, ma più in generale esprime il nuovo tempo spazio della passione dell’infinito. Sarebbe giusto sostenere che questa nuova luce che la pittura esprime nella retorica delle nuances, sia la

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luce della metafisica moderna così come l’oro bizantino va considerato l’emblema della luce teologica. Capire meglio per quanto è possibile la natura di questa luce moderna aiuterebbe a capire meglio alcuni dei tratti tipici della filosofia moderna, almeno dei suoi imperativi dominanti e delle sue ricorrenze più influenti. Soprattutto aiuterebbe a delineare meglio il sistema della sua metafisica. Come se si potesse dire in questo modo: c’è una metafisica moderna, riscontriamo i lineamenti di una modernità metafisica, quando in vario modo opera la suggestione di questa luce che le arti visive marcano come l’effetto pittorico di una nuance. E, al contrario, dovremmo dire: se una luce satura prende il sopravvento questa modalità della metafisica o una filosofia che assume la figura di questa metafisica non avrebbe più la scena in cui far presa, sarebbe forse coinvolta in una logica o in una economia che demolisce o decostruisce le sue pretese. L’invenzione del chiaroscuro organizza l’interiorità dell’immagine e guida i punti di fuga della sua nuova profondità. Corrisponde alle nuove latitudini di un soggetto che può sprofondare in una interiorità ignota nell’epoca precedente. Capiremmo molto del dispositivo della nuova metafisica studiando la natura dei nuovi veli o panneggi che ricoprono sempre più i corpi delle nuove immagini pittoriche. Saremmo capaci di verificare la tensione tra un velo che svela in una copertura e un velo denudato di ogni corpo da coprire. Nella relazione tra corpi e veli verificheremmo come sopravvive e si tramanda la luce satura dell’epoca precedente, dove continua a fare esposizione in un certo lavoro decostruttiva della luce-nuance che ordina l’intensità plastica delle nuove figure. Saremmo capaci insomma di non sovrapporre troppo in fretta una rivelazione esposta con l’interiorità di una svelatura. Capiremmo meglio le nuove metafisiche che si preparano dopo la grande svolta di Suarez, dopo che l’univocità di Scoto viene emendata di ogni animazione teologica. Proprio la scena della arti visive può costituire il simbolo perfetto del declino di un’esperienza che mai

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avrebbe potuto affermare l’univocità al di fuori di quella luce che trovava la sua icona nell’oro bizantino. Per tutto questo (seppure segnalato per cenni molto generali) il soggetto della metafisica o la metafisica del soggetto richiederebbe lunghi movimenti e molti passaggi. Almeno nei suoi punti di vertice la modernità non può essere compresa se non si rende testimonianza del fatto che essa è indisgiungibile dall’invenzione dell’intimità e della profondità di una speciale partecipazione. Indisgiungibile da una speciale verticalità con il logos di un dio per la quale la parola tocca direttamente nel segreto e nell’intimità dell’ascolto, parola che sembra rivelarsi nell’ombra dello sguardo del Padre, sotto lo sguardo invisibile del padre, nella testimonianza della sua ombra accogliente. Il soggetto moderno si edifica e si fa elezione in questo dio, non ne comprendiamo la sua prepotenza senza la compagnia silenziosa di questo dio. C’è un principio di elevazione, di elezione, di convocazione e di chiamata in questa nuova intimità con un dio, un dio che è tale anche quando non è nominabile come tale, anche quando qualcosa di non teistico sembra prenderne il posto e sostituirlo. Il soggetto non si eleverebbe nella forza della sua stessa evidenza, non darebbe all’evidenza di se stesso tutta la sua dirompenza se nel suo cuore, nel centro essenziale di se stesso non vi fosse l’avvertimento di un essere visto nel segreto di una chiamata che lo riguarda. La parola di dio può svelarsi direttamente nell’ascolto privato della lettura nello sguardo verticale di un logos che si ritira dalla dimensione pubblica dell’ecclesia. Uno sguardo convoca e svela in una chiamata e una chiamata svelata e riguardata in uno sguardo. Forse quello che Derrida evoca in alcuni momenti come l’animazione del segreto lo troviamo al centro della scena del soggetto della modernità. Lo spirito protestante e lo spirito del capitalismo di Weber conservano in questo senso un’intuizione feconda. C’è qualcosa di comune tra la valorizzazione del capitale e la valorizzazione del soggetto,

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tra valorizzazione del soggetto e un dio che si divinizza come mio dio, tra un dio che si divinizza come mio dio e il declino (e la sua ridislocazione) di quella esperienza che trovava il suo emblema nell’oro bizantino. Come se dovessimo pensare il soggetto moderno in una metafisica che in vario modo immagina una trascendenza immanente e una immanenza trascendente. Come se l’effetto di immanenza che il nuovo paradigma finito-infinito introduce avesse come suo naturale contraccolpo una trascendenza interna, una evidenza soggettiva sostenuta dall’intimità di una segreta invisibilità, partecipata dall’animazione di uno sguardo che vede senza essere visto. Soggetto fondato sulla forza di un’evidenza che sprofonda nell’infinito da cui è riguardato e in qualche modo convocato. Occorre saper cogliere questo legame indissociabile tra uno sguardo che chiama e una chiamata che guarda per cogliere quest’essere in-dio del soggetto della modernità. Poiché è in questo sguardo infinito convocante nel cuore stesso dell’evidenza che possiamo comprendere un certo carattere della nuova potenza espansiva dell’Europa moderna, è qui che si alimenta la hybris del moderno. Solo in apparenza questa immanenza del divino nell’umano o dell’umano nel divino intensifica l’immagine cristologica di Dio. In realtà il suo dispositivo opera un movimento radicalmente differente. Se il messianismo ebraico-cristiano resta remoto ed estraneo al di fuori di un singolare a-teismo, se esso è inspiegabile al di fuori di una radicale deposizione di ogni divinità di un dio, questa nuova immanenza è impensabile senza la divinizzazione di un dio. La trascendenza come contraccolpo dell’immanenza è sempre la scena divina di un dio. È sempre un dio che configura una scena metafisica. Se la deposizione di ogni divinità di un dio rimanda ad un ritiro senza traccia, un ritiro senza traccia non può ammettere alcuna trascendenza interna. La trascendenza interna è già sempre traccia di un ritiro, è già sempre il poi metafisico di un ritiro senza traccia. Il soggetto moderno ha il suo fuoco nel divino e proprio per questo non è capace di ateismo, proprio per questo

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è un soggetto che si innalza in una metafisica, soggetto che si potenzia nell’economia di una fondazione assoluta. Soggetto sprofondato nel fondamento della sua stessa evidenza. Forse è ancora tutta da pensare nella sua radicale incommensurabilità la dimostrazione dell’esistenza di Dio dell’antica tradizione scolastica, in particolare nella sua forma tomista, e la nuova dimostrazione dell’epoca moderna. La prima presuppone qualcosa che la modernità non sopporta e cioè la non evidenza dell’esistenza di un Dio. Occorre sempre ritrovare una qualche coerenza tra questa non evidenza e l’economia della rivelazione. Forse si compie un grave errore, un errore che lede qualcosa di estremamente serio per i grandi equilibri della civiltà medievale, quando si ritiene che la dimostrazione possa mutare l’inevidenza in un’evidenza. Come se l’evidenza della dimostrazione fosse la medesima che si avrebbe in una naturale evidenza dell’esistenza di un dio. La diffidenza verso la prova ontologica o la prudenza estrema con cui veniva praticata finisce nella nuova epoca in cui non si comprende il nuovo statuto dell’evidenza al di fuori dell’implicazione analitica di una particolare animazione ontoteologica. L’evidenza dimostra la sua modalità di partecipazione dell’infinito. Questa dimostrazione è nell’evidenza di un partecipare del mostrarsi del principio. Quindi l’evidenza è fondata nel principio, il soggetto pensa la propria originarietà nella dimostrazione, dell’originario. In questo senso il soggetto moderno deve avvertirsi in vario modo convocato nel principio, nell’economia di una speciale elezione di un dio appropriato nell’intimità di un’evidenza assoluta. L’idea troppo comune che l’istanza della modernità si concentri e si esaurisca nell’affermazione di una originarietà del cogito andrebbe quindi radicalmente riformata e ridislocata. Sarebbe più adeguato esprimersi in una formula come la seguente: nella modernità il cogito si pensa originariamente, la sua originarietà si autoavverte come toccata dall’origine. L’originarietà varrebbe sempre a partire da questa partecipazione dell’originario da questa condivisione dell’originario.

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Per tutto questo la convinzione di Marion che la metafisica (queste metafisiche, sarebbe meglio, ogni volta, precisare) non possa non registrare nel corpo della sua messa in opera l’originarietà di una chiamata o di una chiamata come convocazione a partire da un altro più intimo all’io di se stesso, dovrebbe lasciarsi scuotere dall’ipotesi che l’istanza originaria di una chiamata o la chiamata come originaria, sia l’animazione stessa dell’ellisse di un soggetto la cui autarchia si recupera sempre nella straordinaria sopportazione della compagnia di un’alterità come Altro di sé. Non c’è contraddizione tra la potenza di un soggetto che si vuole costituente e l’autoavvertimento di una passività originaria che risponde in una convocazione assoluta. 10. Non comprendiamo la potenza del soggetto moderno al di fuori di questa metafisica in cui si replica in modo singolare qualcosa di tipico di ogni tradizione metafisica, qualcosa che contrassegna il tratto comune del logos metafisico: un contraccolpo tra fondazione e senza fondo, tra fondazione e s-fondamento. Non riusciremo a delimitare il raggio con cui opera la sua forza se ci limitassimo ad isolare il momento dell’assicurazione del principio. Non riusciremo a cogliere il rapporto tra presenzialità assicurata nel principio e mancanza o venir meno o differire del principio o dell’origine su se stesso. Faremo l’errore di ritenere che il mancare del principio, il suo sprofondare o differire da se stesso sia una modalità di decostruzione dell’istanza metafisica. Faremo l’errore di sovrapporre il venir meno di un certo ritiro esposto in cui si promuove l’istanza di fondazione e il venir meno di questo principio di assicurazione. Il rigore fenomenologico ci imporrà di non sovrapporre le due modalità del venir meno: pre-condizione assoluta per non confondere un ritiro esposto con l’esperienza di un mancare come venir meno. Più avanti ci soffermeremo a lungo su questi aspetti. Per ora limitiamoci a evidenziare il plesso in cui il metafisico allarga il proprio raggio e cioè fondazione e abissalità del senza fondo o differire dall’identità di se medesimo. I

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due momenti si rilanciano a vicenda secondo uno schematismo per il quale tanto più qualcosa viene fissato nella stabilità di un fondamento tanto più oscilla sul proprio asse fino alla vertigine. Tanto più la vertigine sprofonda tanto più si incrementa l’istanza del fondamento. Risulta il più delle volte indecidibile se sia una vertigine ad anticipare la volontà di fondazione o quest’ultima ad anticipare la prima. Ciò che è importante, in ogni caso, è il loro plesso comune, il coimplicarsi che sostiene un unico logos. Capire questa coimplicazione è decisivo per la radicalità di una decostruzione. Per non confondere, ripetiamo, una radicale decostruzione con quel momento autodecostruttivo implicito nell’istanza metafisica. Per non esaurire la decostruzione in un passo tutto interno, in una sorta di mimica fatalmente apologetica del logos metafisico. Capire questo è importante anche per delimitare la cifra sempre aporetica della soluzione metafisica, la sua dialettica trascendentale e i livelli di velatura e copertura che comporta. 11. Come si vede, un’adeguata figura della decostruzione implica una adeguata nozione del dispositivo metafisico. Altrimenti ciò che si presenta, si afferma e agisce come un pensiero antimetafisico in realtà non fa altro che alimentarne in vario modo le istanze e le prospettive. Si potrebbe dire che proprio questo sia accaduto nell’ambito delle proposte della filosofia italiana negli ultimi decenni. Una particolare caricatura del tempo del moderno, del plesso di soggetto-modernità-metafisica, un’accettazione troppo immediata di alcuni momenti della critica heideggeriana della metafisica, hanno contribuito all’impotenza generale di questa influente stagione della filosofia italiana. Ciò che si deve rimproverare ad alcuni dei suoi momenti topici e alle sue proposte esemplari non è la critica alla logica del fondamento o principio, al contrario si tratta piuttosto di non avere pensato con la giusta radicalità il dominio del metafisico, la crisi del fondamento, di non avere pensato fino alla fine la crisi del moderno, di non avere elaborato una appropriata nozione della lunga epoca della

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modernità, con le sue ricorrenze marcanti e idealtipiche, le sue matrici di lunga durata. Del resto solo una precisa ricognizione dell’epoca del moderno con i suoi tratti e matrici costitutive consentirebbe altri passi altrettanto decisivi: riconoscere le linee di resistenza, i momenti di scarto e discontinuità nel corpo stesso della modernità, spesso coniugati o coniugabili con ciò che sopravvive e si trasmette dell’epoca precedente, con la possibilità quindi di gettare un altro sguardo sul prima e sul dopo, sulla civilizzazione medievale e sulla deflagrazione post-moderna. Un’adeguata ricognizione del nesso tra modernità e metafisica aiuterebbe a individuare altre linee di confine tra l’opera della filosofia e la metafisica della civiltà medievale, ad apprendere in altro modo l’implicazione interna di immaginazione teologica e metafisica filosofica, a valorizzare la forza decostruttiva dell’immaginazione teologica rispetto alle istanze del metafisico e infine a ritenere che numerosi momenti di questa immaginazione teologica e soprattutto i luoghi di esperienza che esse in vario modo interpretano possono non solo assumere una diversa visibilità nel declino dell’epoca del moderno ma possono contribuire a fornire una concettualità più pregnante per le nuove latitudini della postmodernità. 12. In quegli anni si compiva un lavoro che sarebbe stato fertile e ricco di conseguenze se non fosse rimasto in gran parte estraneo a interrogazioni e domande che avrebbero potuto trovare la loro motivazione nel corpo stesso dell’ontologia heideggeriana, soprattutto se sollecitata nelle enormi tensioni accumulate nei primi decenni della sua formazione. La koinè neoheideggeriana restava estranea a questo arco di tensioni (e non solo perché la filologia heideggerina era appena ai suoi inizi nel lavoro ricostruttivo); in particolare resta indifferente a quel luogo o momento critico in cui in Essere e Tempo Heidegger giunge a sovrapporre il Dasein con il Mit-sein, momento nel quale si esclude che il Mit-sein possa essere un accidente del

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Dasein. Nessun altro luogo di Essere e Tempo inquieta l’ontologia come quei passi troppo rapidi e sfuggenti in cui il Mit-sein arriva a porsi come l’imminenza stessa del Dasein. Quel momento, al di là della sospensione e della inquietudine o della semplice promessa, in cui permane, avrebbe imposto ben altre cautele e obblighi nel momento in cui, troppo in fretta, si consegnava l’orizzonte stesso della convivenza o del comune alle mire di una fondazione metafisica. (Quel momento speculativo avrebbe potuto costituire l’occasione per riprendere con meno supponenza alcuni lasciti della stessa tradizione della reinvenzione italiana del marxismo). L’interrogazione della spaziatura del Dasein con il Mit-sein, infatti, non può che introdurre qualcosa di completamente estraneo e decostruttivo rispetto alle altre istanze fondative. Il Dasein come Mit-sein poteva comportare una nuova flessione dell’apertura destinale, della differenza ontologica, del ritiro, della stessa nozione di metafisica o onto-metafisica. Per le medesime coerenze e linee di fondo questa koinè circolante tra Nietzsche e Heidegger restava non a caso estranea alla dirompenza speculativa di Levinas, il quale, soprattutto in Italia veniva ripreso e rilanciato in un’enfasi decostruttiva dell’intenzionalità e del soggetto ma restava marginale, in questo contesto, incompresa, la dirompenza che l’esposizione del volto poteva avere sulla spessa nozione di apertura e invio destinale, l’enorme pressione che avrebbe costretto a praticare tra il Dasein e il Mitsein recuperando e reinventando la più importante delle intuizioni smarrite in Essere e Tempo. La sua problematizzazione avrebbe potuto evitare quella unidimensionalità ontologica che prende a prevalere e quell’interpretazione reliquiaria dello Andenken. 13. Ciò che si può rimproverare a questa stagione non breve della filosofia italiana, ripetiamo, non è la una rinuncia al pensiero forte del fondamento, ma, al contrario, di non aver saputo pen-

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sare fino alla fine il ritiro del fondamento, di non aver portato alle estreme conseguenze, innanzi tutto sul piano del lavoro speculativo e poi sul piano delle conseguenze pratico-politiche, le nozioni di senza fondamento, di ritiro, in ultima istanza di non aver interrogato con la necessaria radicalità la stessa esperienza del metafisico. 14. In questa atmosfera culturale l’impegno della filosofia si esaurisce spesso in pratiche di disincanto, frequentemente al limite di un esercizio letterario, con la rinuncia al momento in cui la filosofia diventa eversiva nella forza dell’immaginazione speculativa insieme con una vigilanza attenta sui momenti in cui l’essere sociale si istituisce. Un disincanto sempre più disimpegnato che diffusamente finisce con l’aderire, in varie forme mimetiche, nella retorica di vari narcisismi, all’ordine esistente delle cose. Il disincanto radicale può certo concorrere a depotenziare la forza ideologica di un ordinamento esistente, ma, senza particolari anticorpi, aggredisce anche qualcosa di essenziale per le pratiche di una decostruzione e cioè il nesso topologico tra fondazione e appropriazione. La fondazione metafisica e l’economia che promuove è sempre la eco speculativa di una pratica di appropriazione che ha in qualche modo dis-aperto l’apertura comune, l’ha confinata e assicurata nella stabile instabilità di confini interni ed esterni. Disincantare il mondo, mostrare che ogni ordine non è mai definitivo, impegnarsi per la sua non definitività, far oscillare la sua non perentorietà, è sempre sul punto di produrre una condizione di indifferenza e di cinico distacco rispetto alla costituzione dell’essere sociale. La convinzione che un particolare ordinamento di espropriazione sia finito nella sua storicità, che la sua contingenza sia destinata a finire, che la sua preponderanza sia semplicemente l’effetto di un rapporto di forze, in qualche modo reversibile, non ha di per sé nessun rapporto con la forza di un pensiero critico. Potrebbe conciliarsi del tutto con l’attesa

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inattiva o impotente o potrebbe concorre a diventare una figura ideologica di legittimazione dell’esistente. La logica dell’indifferenza, l’idea che tutti gli ordini si equivalgano nella loro storicità, l’affermazione, variamente elaborata, secondo cui una metafisica sarebbe sempre in agguato nel momento in cui, in vario modo si ammette, che una parte possa sottrarsi alla totalizzazione e proprio per questo assumere il rango dell’universale, tutto questo ha contribuito a dissociare progressivamente disincanto e momento critico. Lo spazio della critica si riduce a demotivare la stabilità o definitività dell’ordinamento, con un’investitura costante su un’innovazione instabile e precaria, sempre sul punto di conciliarsi con le esigenze più interne del nuovo capitalismo della finanza globalizzata. Koinè di un lavoro filosofico che nel pluralismo indifferente degli ordinamenti perdeva la possibilità di radicalizzare la differenza ontologica. Estraneo all’idea che vi sia una correlazione tra il ritiro della logica di un fondamento e la configurazione dell’evento, tra ritrazione, quindi differenza ontologica, e immagine figurale dell’evento. Se l’invio non è mai ciò che precede il darsi dell’essere ma è il darsi stesso dell’essere in quanto tale, l’attenzione fenomenologica avrebbe dovuto, ogni volta, praticare il nesso tra ritiro ed esposizione, tra ritiro e configurazione. Avrebbe dovuto guadare con sospetto ogni approccio indifferente al pluralismo dei giochi e ordini sociali. La necessità di sottrarre la nozione di invio all’istanza di una metafisica avrebbe dovuto portare il massimo interesse verso la fenomenalità degli ordini sociali, verso la loro irriducibile differenza. Il nesso inesorabile tra fondazione e appropriazione costituisce già un primo criterio per la non indifferenza; l’insieme del sociale non è uno spazio-tempo liquido in cui tutto è equivalente rispetto all’apertura di tutti e di ciascuno. Un ordine che fa esclusione appropriante non è equivalente a un’istanza costituente che vi si oppone. Pensare la differenza ontologica come estranea a questa linea di tensione, estranea rispetto a questa dislocazione della differenza sociale, significa differire

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l’apertura da ciò che vi si ordina, significa semplicemente differire la differenza, contravvenendo all’imperativo che impone invece di differire la differenza da ogni differire. Poiché solo in questo passaggio l’istanza metafisica si decostruisce. Se l’ordinamento non è indifferente all’apertura e l’apertura all’ordinamento questo vuol dire che il pensiero filosofico recupera la dimensione della critica nel momento in cui in vario modo interpreta questa convertibilità. L’apertura come ritiro non può che esporsi in una configurazione d’evento. Occorrerebbe chiamare giustizia o avvenire messianico la cifra di questa configurazione. Per pensare il ritiro e l’invio occorre non sfuggire alla fenomenalità di questa figura, a tutto ciò che essa istituisce e apre nel suo darsi. La filosofia nel corso di quegli anni si è resa sempre più estranea ai fenomeni del sociale, non ha ritenuto che fosse centrale nell’esercizio della critica e nell’attività stessa della decostruzione un’attenzione costante alle figure della loro istituzione. È stata incapace, contemporaneamente, per il medesimo arco di coerenze, di promuovere un esercizio critico verso le nuove forme di espropriazione e di dominio che si andavano affermando e di sostenere nuove istanze costituenti dentro nuove immagini dell’apertura comune. La koinè di quegli anni elabora una tradizione che le impedisce di pensare l’estrema coerenza fenomenologica di ritiro e configurazione, quindi di configurazione ed esposizione del ritiro, e senza una convertibilità di ritiro ed esposizione la differenza ontologica resta contrassegnata da una pratica metafisica. Non c’è pensiero critico, non c’è critica radicale della metafisica senza questo lavoro, il quale vive nell’estrema tensione di una decostruzione e di una costruzione, di decostruzione e istanza costituente. La figura è critica nel momento in cui concorre, soccorre e partecipa dell’istanza di una figurazione, in cui è in gioco quasi sempre un certo lavoro di una parte per il tutto. Solo modo per cui il tutto non serri le parti in una totalità escludente ed esclusiva. La filosofia italiana di quegli anni rinuncia in fondo alla tradizione del pensiero critico, rinuncia a pensare la sua possibile riforma

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e rinnovamento senza dimenticare, anzi passando di traverso la grande eredità della tradizione ermeneutico-fenomenologica. 15. C’è sempre metafisica, una pratica metafisica, quando la filosofia non interroga e non attraversa criticamente la sua sovranità e la sua vocazione. Vedremo che la vocazione, convocazione, in cui la filosofia si avverte in una soglia elettiva è da sempre l’anima della tradizione metafisica. Vedremo che tutto questo richiama la lezione della fenomenologia e del metodo della riduzione, richiama quell’estrema radicalità con cui la fenomenologia è in grado di insidiare i luoghi del metafisico. Questa lezione che possiamo comprendere nella sua dirompenza solo dopo la ricezione e la svolta heideggeriana, manca in questi passaggi decisivi del lavoro della filosofia italiana di questi anni. Resta ignorata la nozione di fenomenalità che l’imperativo fondamentale della fenomenologia si autoimpone e propone alla tradizione della domanda metafisica. L’istanza fenomenologica che Heidegger richiamerà sin dai primi esordi del suo impegno filosofico impone di dissociare la fenomenalità come non velatura dal fenomeno svelato. Ci soffermeremo a lungo sull’immensa complicazione di questa dissociazione e quanto contrassegni il rischio permanente del fallimento heideggeriano non solo di Essere e Tempo. Resta il fatto però che proprio in Heidegger questa istanza di una non velatezza che costringe a diffidare di ogni opera di velatura, conduce a sovrapporre non velatura e fenomenalità, quindi fenomenalità e mostrarsi, quindi ancora non potrebbe esserci davvero un mostrarsi come pura fenomenalità se una qualche scena di svelatura configurasse l’orizzonte dell’apparire. Per la filosofia questo segna il più grande dei vincoli che la radicalizzazione coerente dell’imperativo fenomenologico impone. Il più grande dei vincoli anche perché il gesto filosofico è il più prossimo a costituire la scena di una svelatura, quindi a essere velo della fenomenalità in quanto tale.

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Sarebbe una buona domanda, per una ricostruzione storiografica interessata a ripercorrere e ricostruire le genealogie degli ultimi decenni della filosofia italiana, almeno nelle sue più influenti espressioni, chiedersi se questa estraneità alla radicalizzazione fenomenologica (nel senso a cui abbiamo appena accennato) non appartenga al medesimo arco di decisioni e di scelte che allontanano questa diffusa koinè neoheideggeriana da una particolare tradizione della filosofia italiana del Novecento. 16. Forse, diciamolo con un po’ di prudenza, non comprendiamo i momenti decisivi e caratterizzanti della filosofia italiana della prima metà del Novecento se non sappiamo coglierne una speciale reattività antimetafisica ancora più efficace proprio perché si compone nelle formule di un linguaggio neo idealistico seppure mimetizzato e deviato in un lessico provinciale e apparentemente marginale. Forse questo tratto di una filosofia che resta antimetafisica anche quando si propone negli abiti dei più tradizionali problemi metafisici, resta ancora da comprendere appieno come uno dei tratti originali e tipici di una particolare specificità della filosofia italiana rispetto alla filosofia continentale. Vorrebbe dire che nella tradizione della filosofia italiana sarebbe possibile isolare una specificità non metafisica o antimetafisica che non troveremmo con la medesima energia in altre aree della cultura filosofica europea. Vorrebbe dire che la filiera di coerenze che rende estranea la filosofia degli ultimi decenni a questi momenti caratterizzanti della filosofia italiana sia la medesima per la quale essa resta del tutto estranea a quell’insieme di conseguenze che comporta la radicalizzazione fenomenologica dello stesso esercizio della pratica filosofica. Smarrire queste continuità ha portato la filosofia italiana degli ultimi decenni verso quella situazione che abbiamo seppure rapidamente evidenziato: una critica alla metafisica che resta largamente nel territorio della metafisica. Questa deriva metafisica è ancora più evidente nella lunga stagione che precede e prepara il passaggio epocale della fine degli anni

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‘60 (per questo può diventare un supporto importante per la verifica dell’ipotesi che stiamo avanzando seppure rapidamente e con troppe approssimazioni). Nel corso di questo periodo quel complesso fenomeno che Bobbio ha sapientemente riassunto nella formula di uno storicismo umanistico subiva una progressiva perdita di centralità tra le avanguardie intellettuali. Quell’enorme lavoro di investitura nazionale della tradizione marxiana operato da Gramsci mediante la sua originale incorporazione nelle giunture più influenti della tradizione culturale e filosofica italiana appariva segnata da innumerevoli subalternità e provincialismi. Una complessa ostilità prese a circolare nei confronti della dialettica e di tutto ciò che avrebbe potuto richiamare una sua qualche deriva idealistica. Ogni possibile continuità speculativa tra Marx ed Hegel venne stretta d’assedio e la posta divenne quella di liberare il testo marxiano da ogni debito hegeliano. Si trattava di emancipare la novitas del metodo dialettico-materialistico da ogni compromissione con tutte le forme di apriorismo metafisico poiché solo in questo modo si riteneva di poter salvaguardare la forza scientifica del materialismo marxiano. Questo ritorno al testo marxiano, al di là e oltre tutte le stratificazioni, sedimentazioni, manomissioni che avrebbe subito, prendeva di mira più o meno direttamente quel blocco culturale rappresentato dal ripensamento gramsciano del marxismo. 17. Pesava certamente la polemica politica con il ruolo del Partito comunista (come se il gramscismo potesse esaurirsi nell’azione di propaganda del togliattismo), ma ancora di più agiva l’idea che in quella storia si imponesse una genealogia idealistica che risalendo per la filiera italiana di Mondolfo, Gentile, Croce e Labriola debiliterebbe la forza del materialismo marxiano nella continuità con la filosofia della storia di Hegel. Ci si impegnò dunque in un doppio registro: liberare il testo marxiano da ogni compromissione con l’idealismo, e ancora di più sottrarlo alle particolarità storico-culturali della tradizione italiana. Mentre per Gramsci solo questa reinvestitura nella singolarità della sto-

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ria italiana interpreta fino in fondo la forza del materialismo storico emendandone gli aspetti meno convincenti, in queste nuove tendenze, nel corso degli anni ‘60, si ritenne che ogni riferimento alla storia nazionale non solo non avesse consentito di cogliere la portata universale dell’innovazione marxiana ma avrebbe impedito di cogliere la purezza elementare della contraddizione capitale-lavoro. Da Della Volpe a Tronti la critica ad ogni forma di hegelismo si ritrovò a idealizzare la purezza del metodo scientifico come condizione per isolare l’apriori della lotta di classe e riconoscere le leggi fondamentali dello sviluppo capitalistico. L’operaismo di Tronti non negava la portata dell’elemento soggettivo-creativo anzi lo enfatizzava contro le varie esperienze del riformismo gradualista e continuista. Si trattava però di ancorarlo alla qualità originariamente rivoluzionaria della classe operaia. Il centro di questo nuovo impegno che in vario modo coinvolgerà progressivamente diverse aree della nuova intellettualità militante aveva proprio nell’ipostasi operaista il suo schema emblematico. La classe operaia appariva qualitativamente, sociologicamente, il tutto della sovranità popolare, il suo esserci sociale non doveva assumere nessuna istanza costituente dell’essere sociale comune, l’immediatezza della sua condizione, nella fisicità della fabbrica, nella purezza topologica nella sua dinamica conflittuale, nel suo antagonismo, si riteneva possedesse già la potenza del passaggio verso il cambiamento radicale. La pretesa fu quella di generare, per una densa partecipazione alla purezza del conflitto fondamentale, una più efficace combinazione di teoria e prassi, di scienza, conoscenza e forza del cambiamento. 18. Uno dei momenti centrali di questa militanza teorica si fissò nella persuasione che la nozione di popolo o di blocco storico, ereditati dalla tradizione dello storicismo umanistico, neutralizzasse la dirompenza del conflitto e la contraddizione originaria, e fosse quindi la matrice prima di tutti i tradimenti e le vocazioni compromissorie.

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Senza troppa consapevolezza questi tentativi, nell’evitare in ogni modo la storicità del blocco storico gramsciano, nel considerarla un’astrazione dalla materialità del processo della contraddizione elementare del capitalismo, nella rinuncia a una sua ripresa e ripensamento, si ritrovarono a essenzializzare la forma del conflitto. La volontà di liberarsi da ogni storicismo ebbe come conseguenza fatale la destoricizzazione progressiva della scena sociale. In qualche modo si preparò il contesto generale che rese possibile poco più avanti confondere e sovrapporre banalmente una filosofia della storia con una pensiero della storicità. Il capitale, la classe operaia, il conflitto, si trasformarono, in molte delle figure dominanti del periodo, in pure formalizzazioni, nell’apparente paradosso che al limite estremo di un imperativo materialistico ci si ritrovò nelle pieghe di un astratto idealismo. Un’astratta metafisica del conflitto prendeva il sopravvento. Molte cose troverebbero una loro più adeguata collocazione e sarebbero più a fuoco se si comprendesse fino in fondo il rapporto tra questo abbandono radicale di una particolare tradizione e questa singolare essenzializzazione della logica del conflitto. Questa metafisica del conflitto non ha cessato di produrre conseguenze, in vario modo, nell’autorappresentazione delle lotte di massa e nell’identità di partiti e movimenti. L’esaltazione della fabbrica come luogo della contraddizione fondamentale lasciava prosperare l’idea che il compito della politica dovesse ridursi a quella dell’atto aristotelico rispetto alla potenza, che il suo compito fosse insomma di fare da innesco al conflitto e che l’attualità del conflitto avesse in sé la forza del capovolgimento dei rapporti economico-sociali. Esaltando l’antagonismo e la semplice coesione sociologica della classe operaia si smarriva la potenza della visione, quella forza di configurazione, che matura sempre nella linea di tensione tra momento decostruttivo e momento costruttivo della prassi. Questa metafisica della classe e del conflitto smarriva quindi una delle grandi eredità da rein-

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ventare e ritradurre della tradizione del marxismo italiano, la nozione di egemonia e la visione del politico che essa implicava. Essa destoricizzava il conflitto e le figure del capitale, impediva di pensare a fondo i luoghi o i siti di consistenza del suo sviluppo. Spariva dalla visuale la relazione produttiva tra lo sviluppo del capitalismo occidentale e le forme della sua territorializzazione. La centralità topologica della fabbrica anziché politicizzare il conflitto e impiantarlo nella più ampia sfera del sociale-collettivo, divaricava il politico dall’economico. Praticava nello stesso tempo l’autonomia dell’economico e l’autonomia del politico. Incardinare il conflitto nella logica amico-nemico non solo subiva l’ipnosi della mitizzazione irreale del concreto del capitale ma smarriva il nesso tra conflitto e istanza costituente senza il quale il conflitto resta puro antagonismo o pura ribellione o persino una forma rapida di mobilità sociale verso l’elite dirigente. Una filosofia politica che aveva, al proprio esordio, contestato ogni idealismo, si ritrovava tra le ambiguità di una sintassi dialettica. La classe operaia era alla fine chiamata a scindersi da se stessa. Se il suo essere antitesi apparteneva alla dinamica della tesi essa doveva non tanto negare la negazione, ma trasformare la negazione. Doveva negarsi come forza produttiva. Dopo avere assunto la piena consapevolezza della centralità del suo antagonismo doveva scindersi dal proprio status economico. Doveva riconoscere il suo essere parte del tutto della dialettica della valorizzazione e quindi negare questo suo essere parte. Se la dialettica dell’economia del capitale mira alla sintesi, mira al reciproco riconoscimento, la classe operaia doveva invece negare questo riconoscimento, doveva in un certo senso negarsi come classe economica per portare all’estrema tensione la dialettica da cui pure era investita e coinvolta. Tutto questo doveva coincidere con una variazione della natura del conflitto, quindi con la sua assunzione politica, con la politicizzazione del conflitto, a sua volta espressione di una autentica coscienza di classe. Questo passaggio tuttavia non sarebbe potuto accadere se l’antitesi non fosse stata capace

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di riconoscere il capitale come un nemico. Solo la comprensione della tesi come nemico poteva interrompere la dialettica del riconoscimento reciproco e consentire la transustanziazione dell’economico in politico. Secondo il più tradizionale modello schmittiano il politico veniva inaugurato nella individuazione del nemico, con la differenza che in questo caso il nemico andava in qualche modo smascherato e in un qualche misura intensificato e immaginato poiché esso non si presenta mai come tale. Si potrebbe dire che in questo tentativo di riforma della dialettica la figura del nemico fosse l’operatore principale del possibile passaggio dall’antagonismo economico all’antagonismo politico. Se il capitale non appare e si delimita nella relazione amico-nemico, la classe operaia non riuscirebbe ad abbandonare lo status della relazione economica in cui è coinvolta. L’antagonismo incardinato nella figura del nemico interpreta il linguaggio della guerra e della guerriglia e si concentra tutto nella dinamica di fabbrica in ciò che viene considerato il cuore del processo di valorizzazione. 19. Dentro il mito operaio, nel miraggio di collocarsi nel cuore del capitalismo mondiale, nella convinzione di operare con strumenti analitici finalmente adeguati alla nuove frontiere del capitale in realtà, come si ammise qualche decennio più tardi, il tramonto di un’epoca venne confusa con l’alba di un nuovo inizio. I nuovi conflitti che si annunciavano nella crisi inesorabile del novecento fordista diventarono non a caso incomprensibili. Per alcuni di questi protagonisti fu inevitabile passare, nel declino della fabbrica fordista, dalla fine del conflitto, all’autonomia del politico, o alla rinuncia a comprendere le nuove contraddizioni e le nuove soggettività antagoniste che si annunciavano. In realtà gli investimenti sull’autonomia del politico costituirono un’altra variante del dissidio e della distanza rispetto alla tradizione dello storicismo umanistico, in fondo replicavano la metafisica del luo-

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go del conflitto nel luogo del potere, in ogni caso riaffermavano l’enfasi dell’antagonismo e della parte che continuava a respingere l’orizzonte complessivo dell’essere sociale. Il mito dell’occupazione dello stato, che poi divenne su altri fronti ossessione dell’arte del governo, in realtà continuava ad allontanarsi e consumare l’eredità e le virtualità della tradizione del marxismo italiano. Tra l’altro si potrebbe con una qualche tragica ironia osservare e registrare la comune destinazione pratica di questo orientamento duplicato in due momenti successivi: nel momento in cui si fissava la fabbrica come centro fondamentale della contraddizione e della posta del potere reale, essa stava già perdendo la sua centralità nello sviluppo del capitale, così, allo stesso modo, nel momento in cui la posta si trasferiva nella forma dello stato questo stava a sua volta subendo una perdita di centralità e di peso specifico. 20. Dovremmo chiederci se in quegli anni non sia andata smarrita una tradizione che viene forse da molto lontano, forse dai momenti più singolari della storia italiana, almeno da quei momenti nei quali la filosofia si è come polarizzata verso lo spazio pubblico, verso una esteriorità-esposizione che inquieta e rende impossibile la lunga durata di una relazione tra intimità e metafisica. L’esteriorità di uno spazio pubblico che impedisce a quella straordinaria anticipazione dell’intimità del soggetto moderno di costituirsi nella stabilità di una metafisica come accadrà nell’epoca moderna nelle nuove nazioni d’Europa. La filosofia italiana non si impianta in un sistema, pur disseminando tutti i motivi tipici ed epocali del moderno, così come lo spazio pubblico non si intensifica nell’unità di uno stato-nazione. Una popolazione molteplice non richiama la sintesi di uno stato e quest’ultimo non riesce a fondare l’unità di un popolo. Per secoli una comunanza o comunità generale alimentata dalla memoria giuridica dell’impero romano e dalla dirompenza pubblica dell’ecclesia cattolica non avrà un nemico comune, né un confine intorno a

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cui costituire l’interesse collettivo. Una moltitudine di centri di forza in cui la statualità è costantemente instabile e reversibile, coesiste con un universalismo che contesta alla radice il principio moderno della sovranità. Il principio moderno di una sovranità appartenente ad un popolo che ha già trasfigurato e perduto l’esteriorità dello spazio pubblico della moltitudine. Questo scarto tra comunanza e popolo, tra interiorità dello stato ed esteriorità quasi ecclesiale del pubblico, ha orientato la filosofia italiana verso il politico, meglio ancora ha ancorato il comune al politico e il politico all’utopico. Forse l’utopico che tanto frequentemente troviamo disseminato qui e là non è altro che la polarizzazione della filosofia italiana verso questo scarto per il quale il popolo e la sua statualità borghese non sarà mai sufficiente ad esaurirne la tensione. Nessun’altra forma o figura o categoria può dare conto di questo principio di estroflessione, di questa resistenza assoluta a quella trascendenza immanente che pure si inaugura proprio nella cultura italiana della modernità, senza ricorrere alla straordinaria diffusione dell’elemento cattolico come spaziatura di coesione nell’ethos civile. Ma con ancora più precisione per evitare facili equivoci e reazioni inutilmente affrettate, senza ricorrere a quella ellisse differenziale tra fede e religio che garantirà, nonostante mille compromissioni con i poteri temporali, la persistenza dell’utopico in quel momento di coesione. Circoscrivere una singolarità italiana al di fuori di questo elemento e questa interna differenzialità significa smarrire continuità decisive ed importanti, significa smarrire quella cifra a-moderna, in molti cosa antimoderna che impedirà che la figura della nazione o del popolo, o dell’unità statuale di nazione e popolo, possano mai esaurire e definire la cifra di questa singolarità. La polarizzazione della filosofia italiana verso il politico o lo spazio pubblico, la tensione costante verso il rivolgimento sociale, ha soprattutto qui la sua dinamis. Il suo luogo di attrazione diventa l’immaginazione di un ambito né religioso né nazional-statuale, né clericale né popolar-nazionale; nei suoi momenti più radicali e audaci questo

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pensiero politico cerca di salvaguardare il comune dalla logica del territorio, dell’etno-razza, si emancipa da ogni naturalismo del suolo e del sangue, un desiderio di comunità che si difende dal momento clericale e da quello statal-borghese, un desiderio che resta però sempre in bilico, eccedente per la sua incompiutezza, disponibile ad alimentare e reinventarsi nelle forme dell’utopia comunista ma tutt’altro che estraneo a quei momenti dell’idealismo italiano che tentano la riforma del grande idealismo tedesco. Un fiume carsico che viene da lontano dunque da ricercare in quell’antico universalismo greco-latino animato dallo spirito del cristianesimo, impegnato su un’altra via rispetto alle intensità verticali della Riforma protestante. Mentre quest’ultima trascende il politico nella profondità del divino l’eresia italiana si ritroverà, ogni volta, in vario modo e in diverse figure a laicizzare il divino nel politico. L’eresia italiana tenta ogni volta di inventare la spaziatura laica del comune, tentativo sempre insoddisfatto, in qualche modo sempre incompiuto, sempre fragile rispetto al tratto clericale della presenza religiosa e rispetto al simulacro dello stato unitario. Capace di alimentare forme di ribellione, di rivolta, capace di sostenere la dirompenza di riformismi radicali, ma solo raramente, solo in singolari ed episodiche congiunture trova la forza per configurare stabilmente questo desiderio teoanarchico in figure del politico. La singolarità italiana dunque si esprime in un immaginario politico sempre febbrile, insaturabile nei corpi giuridici della religio e in quelli dello stato-nazione. Sempre disponibile all’avventura dell’estrema sperimentazioniedelle forme del politico. 21. È questo fiume carsico ad arrivare, nelle sue ultime espressioni, in quella particolare riforma del marxismo tentato da Antonio Gramsci. Il non compimento dell’unità risorgimentale, il suo essenziale fallimento, la insolvenza delle classi dirigenti dell’Italia, non sono considerate fenomeni di una arrettratezza e di un ritardo da risanare, momenti di uno sviluppo storico da maturare

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e completare secondo le formula di una filosofia della storia, ma l’occasione propizia per la sua particolare specificità, per cogliere indirettamente, come in controluce, il destino tragico di quei grandi organismi nazionali in cui si era veicolata la civilizzazione europea. Non si trattava dunque di colmare una arretratezza e un ritardo storico surrogando la inconsistenza della borghesia italiana, ma utilizzare la situazione italiana come reagente storico-epocale sulla realtà del capitalismo europeo. La crisi italiana non guardava semplicemente al passato, in qualche modo costituiva il presagio del futuro stesso dell’Europa. In Italia un Risorgimento incompiuto rivelava ciò che è presente ovunque nel mondo Occidentale e cioè una coesione sociale e territoriale sempre nel limite di una implosione, ma coperta da un apparato ideologico, si potrebbe dire, da una energia immunitaria che in vario modo esploderà più tardi nei due conflitti mondiali. Il marxismo italiano intuiva che il ciclo di valorizzazione dei blocchi storici nei confini delle identità statual-nazionali, mentre, per un verso, alimentava la volontà di potenza dello sviluppo imperiale del capitale, dall’altro, non solo generava quelle enormi tensioni che condurranno alla catastrofe delle guerre mondiali, ma entrava in collisione con qualcosa che non cesserà di inquietare e agitare la storia europea, qualcosa che viene da molto lontano, che attraversa ma non coincide con la logica delle borghesie nazionali o con le dinamiche del capitalismo, qualcosa che il movimento operaio nel corpo di un nuovo blocco storico avrebbe dovuto saper ereditare e condurre a nuovi passaggi ed esiti per la storia umana. In molte di queste coerenze, in vario modo, si intuiva che il desiderio comunista non si inaugurava nella dirompenza della lotta di classe, ma arrivava nei passaggi di una lunga tradizione che attraversava il dinamismo stesso dell’Occidente. Il giovanissimo Gramsci aveva a suo modo compreso che la singolarità italiana stava per investire tutto nel nazionalismo fasci-

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sta, stava per smarrire quello scarto tra comunanza e popolo che avrebbe invece dovuto immaginarsi un’altra figura della comunità. Il giovane Gramsci aveva compreso che un altro fallimento era alle porte e che solo l’immaginario comunista avrebbe potuto interpretare fino in fondo l’utopia immanente di questa lunga storia di reattività italiana alla formazioni stabili della modernità. Potrà sembrare controintuitivo per molti ma questa adesione alla singolarità della storia italiana non ha isolato in una marginale provincia questo pensiero della politica, al contrario lo ha irrorato di quella specificità antimetafisica che ha sempre impedito la chiusura in una dimensione sistematica le tutte le grandi anticipazioni del moderno che circolano nell’epoca umanistica. 22. Questa reattività ad ogni metafisica rende possibile la specialità della riforma gramsciana del materialismo storico. Riforma che resterebbe incomprensibile, nei suoi tratti filosoficamente più dirompenti, nell’ampia eredità che resta in un certo senso ancora da pensare a fondo, al di fuori di quella riforma della dialettica che si era tentata con l’idealismo italiano. Troppa polvere e sedimenti di vari pregiudizi coprono quel passaggio della filosofia italiana. Se non ci fossero sempre moltissimi rischi nell’esigenza di rapide sintesi caratterizzanti potremmo dire che l’attualismo italiano capitola la tradizione della filosofia italiana così come l’idealismo hegeliano capitola l’intero percorso della modernità filosofica. Ciò che per secoli resta instabile, in una oscillazione tra profondità-intensità del moderno e polarizzazione verso l’esposizione di un fuori assoluto, trova la sua coerenza più interna nell’attualità di interiorità esposta che né la nozione di interiorità né quella di una semplice esteriorità sarebbero in grado di veicolare. L’attualismo italiano prende sul serio la estrema maturità moderna e ne interpreta il punto di catastrofe. La riforma della dialettica hegeliana non è altro che la sua consumazione metafisica, non

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è altro che la radicale decostruzione dell’istanza metafisica che contiene. In questo senso c’è qualcosa di catastrofico nell’attualismo come se esso fosse ciò che in qualche modo resta dopo che la filosofia viene decostruita del suo fatale abito metafisico. Come se la filosofia, deposta della sua velatura-svelatura metafisica, dovesse accadere o dovesse in qualche modo nominare la scena di un non nascosto, purezza di un non nascosto che nulla ha a che fare però con la presenzialità metafisica di cui anzi presuppone il declino e la fine. Quando Gentile stringe la filosofia nell’angolo della doppia possibilità di svolgersi o come un concreto che nasconde la sua inevitabile caduta nell’astratto e come un concreto che esibisce e mostra la sua inevitabile copertura metafisica non fa altro che portare ad estrema coerenza quella reattività antimetafisica che attraversa i momenti di singolarità della tradizione della filosofia italiana. Come se i due momenti in cui entra in tensione la tradizione italiana, la profondità di un principio che si trascende nel divino e quello di una immanenza che si espone in un orizzonte pubblico-ecclesiale avessero trovato la loro felice combinazione. Come se ciò che ha sempre impedito alla filosofia italiana di stabilizzarsi nel metodo di un sistema metafisico pur anticipando tutti i suoi momenti essenziali, avesse trovato la ragione della sua istanza reattiva nel centro di una linea di tensione che giunge da più lontano ancora, richiamando l’area di tensione tra il logos greco e quello ebraico-cristiano. Nel centro mobile di quella tensione l’attualismo italiano comprende l’immanenza del principio moderno come una semplice astratta metafisica, una immanenza che si autotrascende se non scopre la sua apertura teo-logica o teo-anarchica o teo-cristiana. Se non scopre in altri termini l’immanenza o l’utopia dell’immagine cristologica. Questa felice combinazione apparve però come una cometa e nonostante le straordinarie e importanti influenze è restata in fondo sepolta sotto infinite incomprensioni. Troppo teologizzante per i laici e troppo laica per i cattolici. Per entrambi definitivamente

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compromessa con il fascismo, come se l’attualismo non fosse già stato definito e proposto assai prima lo stabilizzarsi del regime. Che il fascismo sia stato un abbaglio dell’attualismo e un colpevole fraintendimento non può annullare il fatto che esso giunga da molto più lontano e lasci un’eredità che è sempre un errore liquidare dentro stereotipi consunti o pregiudizi. Si deve dire piuttosto che questa incomprensione sia essa stessa un cruciale problema filosofico per la tradizione della filosofia italiana. In qualche modo essa costituisce anche il simbolo della laicità mancata dello spazio comune italiano. Ogni volta che si dovrà comprendere quel luogo comune indefinito dallo spazio statualborghese, indefinito dall’idea di nazione e di popolo, polarizzato tra particolarismo e universalismo o cosmopolitismo, sempre sul punto di essere approppriato o consumato e per contraccolpo sempre pronto ad alimentare un desiderio utopico, si dovrebbe tornare a quella incomprensione dell’attualismo, in particolare a quel momento nel quale esso invocava una strana compatibilità con il dogma cattolico. Ma sarà necessario anche tornare in questo plesso della riforma della dialettica se si vorrà comprendere quella filosofia della prassi con cui si tenta la riforma del materialismo storico nell’opera di Gramsci. Forse le complicate coerenze interne che intrecciano questa singolare riforma del marxismo alla reattività antimetafisica della filosofia italiana sono ancora da evidenziare e interpretare nel giusto modo. Ma per fare questo occorre forse riconoscere che questa tradizione di storicismo umanistico sia statà meno influente di quanto in genere si ritenga, in ogni caso largamente fraintesa e deviata nell’opportunismo della contingenza politica. 23. Per comprenderla pienamente e interpretarne anche in modo nuovo la dirompenza sarebbe stato necessario sottrarsi alla facile tentazione di pensare la traduzione togliattiana come una sua naturale interpretazione, poi, non confonderlo con varianti

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nazionalitarie, o semplicemente neorisorgimentali, sarebbe stato necessario un lavoro teorico raffinato di precisazione e discernimento delle tradizioni che confluivano, spesso mutando qualificazione ed energia teorica. Per compiere questo lavoro si sarebbe dovuto percorrere però un’altra strada rispetto a quel ritorno al testo marxiano che prese ad affascinare l’intellettualità militante di frontiera nel corso degli anni ‘60. 24. Oggi è urgente fare un bilancio di questa lunga stagione della filosofia italiana. Naturalmente, è inutile dirlo, la filosofia italiana non si esaurisce certo con i protagonisti che abbiamo nominato o le tendenze che abbiamo evidenziato, essa è assai ricca di studiosi, autori, proposte e momenti tematici che provengono da importanti tradizioni e maestri. Non vi è dubbio però che questi protagonisti abbiano avuto una forte ribalta e una grande influenza nel ceto intellettuale dominante e in molte aree del senso comune. Si potrebbe dire che in qualche modo siano stati espressivi del clima di un’epoca. Nel momento in cui quest’epoca si chiude in una generale impotenza, nel momento in cui soprattutto in Italia si avverte il pericolo di una caduta generale di prospettiva verso l’avvenire è naturale chiedersi se queste filosofie abbiano avuto una qualche corresponsabilità, in qualche coinvolgimento in questa palude del pensiero in cui ci troviamo. Se il dibattito pubblico è così insufficiente e precario, così adagiato verso la cronaca immediata, così incapace di grandi visioni, non può non esserci una corresponsabilità del lavoro della filosofia. E viceversa se la filosofia si trova dentro una risacca di uno specialismo estraneo e lontano, se si trova molte volte tentata dalla semplice ribalta giornalistica o mediatica, se avverte un qualche senso di inutilità del proprio lavoro, e perché i problemi che affronta non assumono l’orizzonte della criticità. Si tratta forse di ritrovare e ripensare la dimensione critica del lavoro della filosofia. Questo saggio cerca di inserirsi in questa prospettiva con la consapevolezza che questa urgenza e necessità richiede un lavoro assai com-

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plicato, la forza e la costanza di tenere insieme molti fili, possedere competenze su vari fronti, richiederebbe di non dissociare mai una giusta storiografia da un’adeguata attività speculativa. In particolare la filosofia politica sorvola troppo frequentemente sulla fatica del lavoro teorico e trascura come il momento critico della filosofia la sua forza eversiva deve sempre qualcosa di decisivo all’invenzione speculative e teoretiche. Per richiamare ancora una volta la tradizione italiana forse potremmo dire che in essa vi sia una speciale passione per l’analisi teoretica, il lavoro puramente teoretico assume nella sua storia una sua nobiltà rispetto ad altre tradizioni continentali, potremmo dire non casualmente perché in fondo è coerente con quella reattività alla metafisica di che abbiamo parlato. Tuttavia proprio quando la teoria si è portata alla sua massima eversione, proprio quando deve farsi decostruttiva dell’istanza metafisica che essa scopre, la necessità della politica avverte la necessità della dimensione critica. Occorrerebbe riattraversare i luoghi più vitali della filosofia critica degli ultimi due secoli e in particolar modo quella del secolo scorso. Occorrerebbe farlo però dopo Heidegger, attraversando la dirompenza della sua filosofia, sapendo che essa non poco ha contribuito al suo declino e alla sua emarginazione.

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Introduzione

1. Un certo fallimento di Essere e Tempo può riguardare molto da vicino il tentativo di pensare radicalmente le figure di un nuovo pensiero critico. Un nuovo pensiero critico infatti potrebbe apprendere molte cose importanti dal metodo della riduzione fenomenologica, soprattutto nel momento in cui, nella lezione e nell’immensa eredità di Jacques Derrida, essa deve diventare una pratica radicale di decostruzione nella quale la filosofia, come si sa, si trova coinvolta sin dentro i suoi dispositivi più originari. Ebbene Essere e Tempo, in fondo, mette in evidenza quanto sia complicata la riduzione fenomenologica, complicata e difficile quando deve aderire con la massima fedeltà possibile al suo imperativo fondamentale; quando deve rispettare l’apparire della fenomenalità, quando deve sostenere l’apparire fino all’estremo, quando deve sopportare un massimo dell’apparire che si converte, fa conversione, con una inapparenza. Non c’è vera riduzione, sarà sempre una riduzione insufficiente, sarà una riduzione che non lascia accadere la cosa stessa nella sua s-velatezza, se una qualche velatura facesse da copertura all’accadere dell’apparire fenomenale. Un qualche velo farà resistenza alla riduzione, farà resistenza alla distruzione implicata nella riduzione, se un certo inapparire non si mo-

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stra il nome più adeguato per quella speciale scopertura dell’essere dell’ente che Heidegger nomina anche come il già sempre compreso, il già sempre sott’occhio della fenomenalità dell’ente. 2. In Essere e Tempo Heidegger lo enuncia in un passo che meriterebbe un’enfasi speciale ed una ermeneutica infinita: «Essere velato è il contrario di “fenomeno”»1. Il fenomeno, nel senso della pura fenomenalità dei fenomeni, è il non nascosto in quanto non velato. Proprio in quanto non nascosto è irriducibile alla soglia di una semplice presentazione. Solo in quanto non nascosto non è né presente né assente; proprio perché non velato è inapparente. La fenomenalità del fenomeno deve mostrarsi dunque come il non velato per eccellenza. Non c’è fenomenalità, non c’è apparire del fenomeno in quanto tale, non c’è il darsi della cosa stessa nella sua effettività, se un qualche velo copre ciò che appare. Tutto ciò che ricopre non tocca l’essenzialità di questo non essere nascosto. Lo s-velamento in questo senso non attraversa la soglia dell’apparire. Nessun apparire si s-vela in quanto tale. Ancora più radicalmente (come un monito e una misura per lo stesso Heidegger, monito e misura per il metodo di una riduzione e, nel caso di Essere e Tempo, monito e misura per il metodo di una analitica esistenziale, che abbandona il progetto di una analitica esistenziale): se un qualche svelamento fosse l’accesso per ciò che si dà come non nascosto, la filosofia non incontrerebbe l’intenzione fondamentale della fenomenologia, farebbe una strana resistenza al suo richiamo. Compito estremo, poiché si tratta di togliere un velo, distruggere un sistema di velatura, senza mai cadere tuttavia nella pratica e neppure nella tentazione di uno svelamento del fenomeno. Togliere un velo senza svelare, poiché l’accesso alla fenomenalità del non essere nascosto sarebbe impedito dal passaggio 1. M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, trad. it. di A. Marini, Oscar Mondadori, Milano 2013, p. 61.

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in una svelatura. Come se il gesto di rimozione della velatura debba al contempo, allo stesso tempo, togliere via lo sguardo, l’attenzione e anche l’ascolto verso ciò che può apparire come il coperto sotto velo. Come se il velo più che coprire o scoprire il fenomeno coprisse se stesso. Coprisse la sua stessa velatura. Fosse cioè il velo della sua stessa copertura più che la copertura di qualcosa sotto velo. 3. È questa fenomenalità non velata, quindi non s-velata o s-velabile, che impone (vedremo, che imporrebbe allo stesso Heidegger) la convertibilità di un ritiro e di una esposizione. Ma tanto più si impone questa necessità e si afferma la sua coerenza fenomenologica, tanto più si deve ammettere che il trovarsi all’altezza di questa speciale convertibilità sia forse il compito più estremo, in qualche modo sempre postumo, per la filosofia. Postumo poiché richiama in causa una singolare esperienza del finire o del morire con cui la filosofia si mette in prova. Forse non comprendiamo a fondo l’autopercezionoe di fallimento che Heidegger maturò nei confronti dell’impianto di Essere e Tempo se trascuriamo l’enorme tensione che si nasconde nel tentativo di accedere, con il metodo riformato di una fenomenologia ad una effettività inapparente o inesperibile in quanto velata o coperta nella o della sua non velatezza. La natura di questa velatura o copertura può trarre in molti inganni se la si dissocia da quel mostrarsi come non nascosto. Molte cose importanti e dirimenti si decidono, speculativamente e non solo, lo vedremo, in questo margine tenue tra un velo che svela e un naturale essere velato di un’apparenza inapparente. 4. Il pensiero critico può sentirsi coinvolto dal fatto che in questo scenario carico di enormi tensioni sono in gioco delle scene di velatura. Sono chiamate in causa velature e svelature, coperture che velano e svelano. Nella tradizione del pensiero critico le velature coprono il campo dell’ideologia e rimandano alle

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insistenze con cui attraversano l’orizzonte dell’essere sociale. Si tratta di capire se queste due scene di velatura possono in qualche modo richiamarsi a vicenda. Poiché la riduzione interviene sulle modalità di velatura, si deve sempre dire che la riduzione non è mai riuscita nel momento in cui la fenomenalità continua a restare nella soglia di una svelabilità. Ora, poiché il gesto più insidioso e più velante è proprio quello della pratica filosofica in quanto tale, si dovrà dire che tale riduzione dovrà avere come sua vocazione essenziale quella di convertire il gesto più naturale della passione filosofica. Sino al punto che riduzione e sottrazione del momento svelante della pratica filosofica dovranno convenire in un unico asse fenomenale. Fino al punto che esperienza di una fenomenalità come non nascondimento, differenza ontologica come ritiroritrazione dell’essere dall’ente e ritiro di una certa pratica della filosofia dovranno convergere. Come se all’esperienza di una fenomenalità come non nascondimento debba corrispondere il ritiro di una pratica filosofica che vive nella messa in scena di una pratica di svelatura. Forse questo è il momento in cui la tradizione del pensiero critico verrebbe rilanciata in quella speciale deposizione della filosofia come filosofia di una prassi. Di una filosofia che diventa critica deponendosi nella figura di una prassi. Nella prassi come figura d’esposizione di un singolare ritiro. Come se solo nel tratto che congiunge e disgiunge la prassi da una figura e una figura ad una prassi la filosofia depone l’abito della metafisica che come vedremo è assai più ampio della semplice volontà di una fondazione. Su quest’ultimo aspetto dovremo insistere molto indagando il rapporto tra la pratica di una svelatura e la passione metafisica della filosofia. Non si dirà mai fino in fondo la passione metafisica, la sua interiorità con la pratica di una svelatura se non si dà valore, il giusto valore, all’esperienza, o forse dovremmo dire alla tonalità emotiva di un venir meno, con il pathos e la vertigine che vi si afferma e vi si sostiene.

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Non capiremo quanto potremmo l’anima dell’istanza metafisica al di fuori di questa implicazione, con la tonalità emotiva di un venir meno. Non comprenderemo neppure l’attitudine alla costituzione di un fondamento, alla fondazione di un’origine, al culto della presenzialità, se escludiamo l’implicazione con l’orizzonte di un venir meno. Vedremo che l’esperienza di un venir meno e l’imperativo di un fondamento appartengono alla medesima istanza. Per questo dissociare un ritiro da un venir meno comporta, per la filosofia, un contromovimento, nella figura o forma di una qualche decostruzione. Se il venir meno si associa sempre all’imperativo di un pensiero d’origine, un ritiro dissociato da un venir meno decostruisce radicalmente ogni pensiero d’origine. Pertanto, nessuna dissociazione di un ritiro dalla logica e dall’evidenza di un venir meno è possibile al di fuori di una pratica di decostruzione. Per questo diremo che qui la filosofia lavora contro di sé, in qualche modo si avverte non come una via privilegiata per l’apertura dell’esperienza, ma come un certo ostacolo ad essa, la figura sintomale di una perdita. Non capiremo il momento decisivo di ciò che da millenni chiamiamo metafisica senza questa intimità di un inizio nella vertigine di un venir meno. Questa vertigine porta un inizio del tutto cieco verso il suo prima. Nessun privilegio verso il suo prima. Forse il momento in cui la filosofia si orienta come una metafisica, si esaurisce come una metafisica, accade quando questo inizio nella verticale di una vertigine assume il carattere di un varco privilegiato o elettivo verso un prima. La hybris verso un fondamento ha qui la sua dynamis. Al contrario, la filosofia si preserva in qualche modo dalla posizione metafisica quando avverte nel venir meno ciò che deve finire perché il suo inizio non sia l’ostacolo al prima o al poi del venir meno. Tutto questo lo verifica nei momenti in cui coglie il suo stesso inizio come un ritardo o un anticipo. Quando si coglie nel suo inizio come in contrattempo, sempre in anticipo o sempre in ritardo,

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quando arriva a pensare che il prima del suo stesso inizio non sia altro che un semplice effetto del poi, l’effetto di un effetto, cieco verso una causa prima. 5. Vedremo come si smarrisca qualcosa di importante della disposizione metafisica del logos filosofico nel momento in cui si ignora o si trascura la vocazione della filosofia verso l’orizzonte di un venir meno. C’è una vocazione o una convocazione tra il venir meno e la passione metafisica che fa come da punto cieco per un pensiero della ritrazione, che fa enorme resistenza alla possibile dissociazione tra un venir meno e una ritrazione come différance. Il venir meno è infatti il pathos costitutivo dell’esperienza filosofica. L’inizio di una filosofia è sempre nella vertigine di questo patire. Si patisce una vertigine che porta la potenza di un inizio. Per questo dovremo insistere con un po’ di ossessione sull’intimità speciale che stringe insieme l’esperienza di un venir meno con una naturale disposizione dell’esperienza filosofica. Non perché l’una possa ridursi all’altra, ma perché la prima può forse consentire di comprendere anche tutto ciò che ad essa non può ridursi. La fenomenologia evoca questa complicata vicenda quando chiama in causa la riduzione per il mostrarsi della fenomenalità. Quando la donalità fenomenale si offre nella pratica di una riduzione che attraversa il cuore metafisico della filosofia. Quando si porta all’enfasi il principio per il quale la fenomenalità si offrirebbe in proporzione alla riduzione: come scrive Marion, tanta riduzione tanta donazione. Senza chiamare in causa la logica di un ritiro, la fine come un certo ritiro, o un ritiro come una certa fine, non comprenderemo l’intima eversività non metafisica o antimetafisica della riduzione. Non comprenderemo quanto sia complicato per ogni riduzione non far velo a sua volta; non confondere il non velato con ciò che si svela, il non nascosto con lo s-coperto. Non

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comprenderemo quanto la riduzione debba essere radicale e in fondo distruttiva di un gesto esemplare della filosofia, della sua passione più elementare. 6. La convertibilità di un ritiro e di un’esposizione o un’esposizione ritratta, rinomina e rilancia senz’altro la différance di Derrida, portando all’estremo possibile però una questione decisiva: non potrebbe darsi ritrazione esposta, la filosofia non potrebbe orientarsi in alcun modo verso questo orizzonte, verso ciò che ereditiamo come differenza dell’essere dall’ente, con tutta l’ambiguità e l’incertezza che dovrà comportare, senza che si attraversi l’intero campo proprio alla filosofia. Senza che una deposizione la coinvolga e la scuota nel punto stesso in cui la sua mano si dirige verso la linea d’orizzonte. Il morire o il finire ha a che fare con questa deposizione o decostruzione. Un ritrarsi esposto può essere evocato solo nel momento in cui questo oriente subisce a sua volta un movimento di ritiro. Solo a questo punto l’esperienza di un velo che copre svelando e un velo che aderisce senza coprire al non nascosto non si sovrappongono l’un l’altro. Per questo, per la fedeltà a queste considerazioni, la prima parte del saggio si concentrerà sul gesto metafisico e sulla sua intimità patica con la svelatura. La convinzione dalla quale si muove è che solo una comprensione adeguata dell’economia dello svelamento può circoscrivere la passione metafisica. La riduzione come decostruzione sarà in vario modo inefficace, in qualche modo una ulteriore copertura, se non assume tutta l’esperienza possibile sull’orizzonte dello svelamento. Saprebbe meno di quanto dovrebbe sulla logica di un fondamento, sulla natura stessa di una fondazione, sull’originario, sulla volontà di presentazione, sull’esercizio di una certa teorein, sul rapporto tra evidenza e inevidenza, quindi sulla stessa evidenza di questa inevidenza, se non si coglie il rimando tra fondazione e svelatura. Questa interrogazione porterà anche a sottolineare un’al-

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tra implicazione: la riduzione deve svilupparsi nella figura di una decostruzione, ma quest’ultima non potrà essere radicale, non potrà compiersi fino in fondo, fino a quella deposizione o quel ritiro cui si è fatto cenno, se il cuore del gesto filosofico sarà animato da un qualche appello elettivo. Se la risonanza di un qualche appello singolare ed esclusivo configura il metodo di una riduzione-decostruzione. Un appello che risuona nella piega di un qualche privilegio elettivo è sempre coerente, lo vedremo, con una scena di s-velatura. Un’elettività esclusiva è infatti insieme sintomo e ostacolo di un evento non esposto nel suo ritiro. Nella piega esclusiva di un richiamo c’è già sempre una pratica di appropriazione. Non è mai possibile distinguere l’ideologia di un soggetto dall’intimità di una appropriazione nel proprio o del proprio, da una proprietà del proprio, quindi in qualche modo dalla rivendicazione di un diritto proprietario. Non ne cogliamo tuttavia l’insistenza, qualche volta la sua irriducibilità, la resistenza infinita alla decostruzione, al di fuori di una connivenza con la piega di una elezione esclusiva. La filosofia ne è direttamente toccata quando si autopensa come la soglia privilegiata dell’accesso al non essere nascosto di un’esposizione ritratta. In quella piega c’è un velo che farà resistenza alla decostruzone, in quella elezione continua ad animarsi una passione metafisica. 7. Ci chiederemo se questa fine, come momento radicale della riduzione, non debba essere reinterrogata e reinscritta nelle figure di un pensiero critico. Se non debba rinnovarsi come pensiero critico per interpretare la sua insidia alla dimostrazione metafisica, a sua volta imponendo alla vasta tradizione della filosofia critica condizioni ed imperativi del tutto nuovi. La riduzione anche quando si reinventa magistralmente come analitica esistenziale o si rinnova e rilancia come Andenken, si rivela sempre impotente, sempre sul punto di prosperare quasi inutilmente, in varie forme eretiche, oscillando tra privilegio

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dell’intenzionalità o privilegio della riduzione, se non assume la figura di una critica. Se non ripensa la nozione di una critica sollecitando nuove coerenze nel confine di continenti filosofici che nel secolo XX si sono ignorati, percepiti come estranei o nemici e persino contrapposti e combattuti. 8. Se da Heidegger abbiamo appreso a pensare un particolare rapporto tra riduzione e distruzione della metafisica resta molto più complicato e problematico ereditare una implicazione radicale tra critica e decostruzione. Anzi dovremmo convincerci che la lunga stagione della filosofia heideggeriana ha contribuito ad inaridire quella che poteva diventare una stagione lunga e creativa del pensiero critico. D’altra parte, la Scuola di Francoforte e la tradizione da cui essa in vario modo proviene ha fondamentalmente ignorato l’apporto dell’ermeneutica fenomenologica e anche per questo le promesse e le intenzioni che ne animavano la proposta teorica si sono rivelate alla fine ingenue ed astratte. Questi due continenti dovrebbero oggi riprendere a intendersi entro quella medesima area di tensione che li ha tenuti separati e lontani. Una filosofia che non assume il carattere di una critica non può che conservare l’istanza di una cattiva metafisica, ma una critica che non sia attraversata dalle esigenze di una pratica decostruttiva cade allo stesso tempo in una forma ideologica e nell’ingenuità. Lo apprendiamo soprattutto da Derrida: non potrà esserci riduzione come distruzione senza l’impegno di una decostruzione. Avremo bisogno dunque dell’eredità della différance per questa convergenza di riduzione e decostruzione. Poiché la riduzione solo nella pratica di una decostruzione è davvero eversiva di tutto ciò che alimenta la scena metafisica. Solo come decostruzione la distruzione di Heidegger può tentare di abbandonare le ultime nostalgie e ricadute nella tradizione metafisica. La ritrazione esposta rinomina dunque la differenza

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come différance. Cerca di rispettare l’assedio che la différance compie verso tutto ciò che continua a rinviare verso un principio, un’origine, un fondo, anche se vuoto o abissale; la sollecita tuttavia in tutti quei momenti in cui rischia l’impotenza e la paralisi. 9. Per pensiero critico intenderemo dunque un particolare modo di coniugare la riduzione con una decostruzione e quest’ultima con una singolare messa in opera costruttiva. Quindi il nesso decostruzione-costruzione nella cui indissociabilità dovremo pensare la potenza stessa della critica. L’evento d’eccezione non è altro che l’orizzonte di questa indissociabilità, la sua messa in opera, in vario modo la sua potenza performativa. L’evento d’eccezione sta dunque su quel piano di immanenza in cui una decostruzione si costruisce e una costruzione si decostruisce. Questo doppio movimento consiste sempre nella prassi eversiva di una configurazione di immagine. Dovremmo capire bene, per quanto è possibile, che solo in una configurazione di immagine riduzione-decostruzione-costruzione, lavorano sul medesimo piano di immanenza in cui si demolisce l’economia di un fondamento o la rammemorazione di un senza fondo. La configurazione di una figura-immagine è l’orizzonte di un evento d’eccezione in cui esposizione e ritiro si rivelano convertibili sul piano assoluto d’immanenza. Vedremo, in vario modo, che, soprattutto la filosofia politica può apprendere questa implicazione di esposizione e configurazione dal mondo delle pratiche performative delle arti. L’esposizione dell’arte è infatti un emblema speciale dell’evento d’eccezione e di quel piano di immanenza in cui è sempre possibile non sovrapporre l’economia di un ritiro con il pathos di un venir meno. Il nesso tra decostruzione e costruzione accade sempre in una configurazione d’immagine o evento d’eccezione in cui si afferma proprio ciò che la tradizione fenomenologica nella sua radicalità antimetafisica richiama come non nascosto.

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L’evento esposto nel suo ritiro, nella sua eccezione, in quel piano di immanenza in cui costruzione e decostruzione si rimandano a vicenda, afferma quel non nascondimento verso cui l’istanza metafisica è sempre complice di una qualche forma di velatura o di una qualche ideologia. Così come, lo vedremo, l’opera dell’arte espone ciò che la tradizione fenomenologica evoca come non nascondimento di un orizzonte di apertura, così la configurazione di un evento d’eccezione espone il ritiro del non nascondimento di una apertura comune. L’evento fa apertura nella configurazione, nella figura-immagine in cui si espone. Questa figura-immagine tuttavia direbbe ancora troppo poco, resterebbe ancora molto astratta, se non sapessimo dare il giusto valore al richiamo che una lunga tradizione stabilisce tra il messianico e una particolare configurazione d’evento o di immagine. Ciò che chiamiamo figura d’immagine o configurazione d’evento non si comprende senza il richiamo alla tradizione del messianico e forse quest’ultima, a sua volta, resta in qualche misura inespressa senza il ricorso alla potenza espositiva dell’immagine. Una certa immagine porta con sé un ritiro esposto e un ritiro esposto configura una certa immagine. Entrambi consentono di non confondere un ritiro con un venir meno. Dovremmo dire che l’utopico o il messianico è come il regno in cui si apre un evento d’eccezione, e per questo la figuraimmagine, la configurazione d’evento, in cui decostruzione e costruzione sono sul piano di immanenza, rinvia sempre qualcosa di decisivo della tradizione messianica dell’immagine. Anzi dovremmo dire così, il rimando alla figura immagine a cui siamo portati nel seguire all’estremo la conversione di ritiro ed esposizione, di non nascondimento, resterebbe segnata dall’ingenuità di una semplice estetica dell’immagine se non sapesse ereditare tutto ciò che la tradizione messianica insegna sulla configurazione dell’immagine. Qualcosa di comune al messianismo ebraico e a quello cristiano rimanda ad un singolare atei-

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smo senza il quale non comprendiamo la fenomenalità di un evento d’eccezione. L’ateismo di un evento infatti è un altro modo di affermare quel piano in cui il ritiro del fondamento non è sovrapponibile con l’esperienza di un mancare o di un venir meno e, per questo, è convertibile con la sua esposizione. Mentre l’istanza metafisica è una macchina di produzione della divinità di un dio, l’esperienza messianica si afferma ogni volta che un dio viene svuotato persino del vuoto di ogni divinità, in questo senso è giusto parlare di ateismo. Per questo, nella cultura critica del Novecento, le più singolari riprese e ripensamenti della tradizione messianica hanno insistito sulla giusta nozione di un esodo radicale dal divino. La figura-immagine messianica dunque insegna qualcosa di decisivo sugli eventi di eccezione, riceve qualcosa di molto importante da quelle opere d’eccezione che sono le figure delle arti, rimanda nella medesima linea di convergenza antimetafisica a cui aspira la tradizione fenomenologica nel momento in cui radicalizza la sua istanza fondamentale. Se dalle opere dell’arte la radicalizzazione fenomenologica apprende la corrispondenza di una immagine e l’esposizione di un ritiro, dall’evento messianico apprende a coniugare l’utopia e la giustizia, la giustizia e la potenza di apertura. Così gli eventi di eccezione sono aperture solo nel momento in cui una costellazione utopica rimanda al rapporto tra giustizia ed esposizione. Come se la questione complicata e difficile evocata dalla giustizia sia il nome più appropriato, l’immagine stessa in cui la tradizione fenomenologica deve evocare l’orizzonte di un’apertura possibile. Come se l’utopia della giustizia fosse il nome proprio dell’apertura. L’ateismo d’immagine di un evento d’eccezione deve dunque evocare tutto ciò che dell’utopico ha sempre fatto convergenza con la questione della giustizia, la quale però resterebbe troppo in debito verso le dimensioni del diritto se non si insiste su un altro aspetto che singolarizza sempre l’immagine messianica e gli eventi d’eccezione e cioè l’esperienza della fede o fidatezza o confidenza

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fidata, come spesso diremo. Il non nascondimento, con cui si afferma quella radicalizzazione fenomenologica del primissimo Heidegger, resterebbe al di sotto di ciò che potrebbe legittimamente evocare se non si potesse declinare con una qualche fidatezza. Se non potessimo in vario modo dire che la fidatezza ne costituisce il contrassegno o la cifra. Come se la familiarità esposta nel suo non nascondimento dovesse richiamare un ritiro esposto solo nel momento in cui evoca una confidenza fidata, la fede di una confidenza fidata. La confidenza fidata è ciò che sopporta l’infondatezza dell’apertura, l’ateismo della convertibilità di esposizione e ritiro. Bisognerebbe dire così, un’istanza metafisica prende sempre il sopravvento quando viene meno la confidenza fidata. C’è sempre un fondamento presente o mancante quando la fidatezza cessa di costituire la cifra della fenomenalità dell’apertura. La fidatezza è per noi dunque il modo di pensare l’apertura dopo che Levinas propone il volto come la soglia dell’essere dell’ente. Quando nel suo passo dobbiamo ammettere l’apertura nell’esposizone del volto, quindi il volto dell’altro come la differenza ontologica in cui si orienta il senso del mondo. La fidatezza raccoglie fino all’estremo l’immemorialità della chiamata. Il non nascosto che Heidegger cercava per le vie dell’ontologia trova la sua figura nel già sempre di una chiamata immemorabile. Una chiamata, come insegna Levinas, che non abbiamo mai fatto a tempo ad ascoltare. Già sempre avvenuta in una prima che nessun passato potrebbe contenere poiché mai davvero avvenuta in nessun presente. 10. Da Levinas ereditiamo qualcosa di molto importante: se la decostruzione non converte in altro modo la domanda con la quale la filosofia giunge a riflettersi in molti modi come pensiero dell’essere, quindi ad accettare l’insidia e l’ambiguità di quel doppio genitivo per il quale si dice pensiero dell’essere, non sarà capace di una fenomenalità la cui chiamata è immemorabile. Non sarà all’altezza dell’immemorabilità di un non nascon-

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dimento. È indispensabile una pratica di decostruzione perché la filosofia non sovrapponga una chiamata immemorabile con l’Andenken di una rammemorazione originaria. Per capire meglio questo momento così importante, questo momento in cui la chiamata dell’ontologia non si deve sovrapporre con la chiamata della fenomenalità esposta del volto, con il messianico del volto, così stiamo anche per dire, ci chiederemo se l’esposizione all’altro possa coesistere con una scena attraversata da uno sguardo che vede senza essere visto. Se possa coesistere con quella scena che Derrida descrive in questo modo in un passo a cui dedicheremo una particolare attenzione: «[…] dal momento che ho in me, grazie alla parola invisibile come tale, un testimone che gli altri non vedono, e che dunque è allo stesso tempo altro da me e più intimo con me di me stesso, dal momento in cui posso mantenere un rapporto segreto con me e non dire tutto, dal momento in cui c’è segreto e testimone segreto in me, e per me, c’è quello che chiamo Dio, (c’è) che chiamo Dio in me, (c’è che) mi chiamo Dio, frase difficile da distinguere da “mi chiama Dio” […]»2. 11. Questa scena descritta da Derrida ha la sua intimità verso un punto invisibile di profondità. Questa intima profondità non avrebbe animazione se il nome di un dio non fosse nell’ellisse di una speciale chiamata elettiva, se il soggetto non potesse riceversi come una chiamata, se quel nodo di segreta intimità non fosse un chiamarsi nella convocazione di un appello che ri-guarda. C’è sempre uno sguardo che chiama senza essere visto o una chiamata che guarda in questa intima profondità. L’Eccomi di Levinas, l’Eccomi con cui, in Altrimenti che essere, si tenta di deporre la posizione stessa del soggetto non è animato della profondità di questa scena, è in totale e 2. J. DERRIDA, Donare la morte, trad. it. di L. Berta, Jaca Book, Milano 2002, p. 137.

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radicale rottura con l’intimità ontoteologica di quella chiamata. Compenderlo aiuterebbe ad ereditare nel modo adeguato la nozione di immemorabile e tutto ciò che esso può a sua volta intensificare della nozione di non nascondimento o di evento esposto nel suo ritiro. Vedremo che anche in Levinas non c’è soggetto senza una qualche convocazione, la convocazione va però pensata assolutamente, e non penseremmo in modo adeguato questa assolutezza al di fuori di un particolare enigma che contrassegna questa voce di chiamata. In questo enigma, che sicuramente Derrida riprende nella complicata nozione di spettralità, la convocazione deve essere compresa a partire da una qualche assoluzione dalla voce. Assoluzione dalla natura di una voce, in qualche modo, sciolta dalla voce che convoca. Solo una convocazione assolta dalla voce renderebbe l’udire segnato dall’enigma. E proprio questo udire enigmatico distingue, per Levinas, questa voce «che viene da orizzonti almeno altrettanto vasti come quelli nei quali si situa l’ontologia»3. L’enigma spettrale di una chiamata assolta dalla voce non fa altro che ripetere in altro modo la nozione dell’immemorabilità, del mai fatto a tempo, o del già sempre accaduto senza essere mai stato presente. Ci sfuggirebbe qualcosa di decisivo dell’apertura fenomenale, della fenomenalità come apertura, se non sapessimo pensarla per quanto è possibile in questa dissociazione da una chiamata elettiva e non sapessimo nello stesso tempo sottrarre la filosofia stessa dal privilegio di questa elettività. Il pensiero critico resterebbe ancorato ad una istanza metafisica, sarebbe quindi incapace di operare in quel piano di immanenza di una decostruzione-costruzione se non fosse capace di dissociare una voce da uno sguardo e uno sguardo da una chiamata. Forse la via che la tradizione biblica chiama esodo ha a che fare 3. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 176.

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con questa dissociazione, forse l’avvenire che un esodo comporta o promuove o sostiene non è altro che la traversata, il messianico, di questa disgiunzione. Non vi sarebbe deposizione, espropriazione, esposizione, senza questa dissociazione di una chiamata che ri-guarda in uno sguardo che vede senza essere visto e uno sguardo invisibile animato nell’economia di una chiamata. In questa dissociazione potremmo forse ereditare in qualche modo la difficile nozione di un’elezione senza eletto o di un eletto senza elezione. Quindi salvaguardare l’elezione dalle trame del salvo, dell’indenne, o dall’esclusiva economia d’alleanza che essa può richiamare. 12. In questa dissociazione troviamo la forza di quella nozione di ateismo che Levinas tanto spesso fa circolare nel suo lavoro. Ed è in questa dissociazione che troviamo una via per pensare, per quanto è possibile, la relazione tra fede o fidatezza e ateismo. Fidatezza non è un termine che utilizza Levinas, è più prossimo semanticamente a quel già sempre compreso della fatticità dello Heidegger di Friburgo. Ma forse possiamo dire che l’esposizione all’altro, quindi l’Eccomi, lo comprendiamo meglio (e lo sottraiamo ad alcune tentazioni elettive che comporta) valorizzando questa nozione di fidatezza, un singolare nesso tra messianico, avvenire e confidenza fidata, tra fidatezza e ateismo. Come se l’accadere messianico risultasse incomprensibile senza un rapporto originario con una apertura fidata. Come se l’avere fede fosse innanzi tutto il modo dell’apertura esposta all’altro. Se ci pensiamo bene vorrebbe dire che la metafisica è incapace di ateismo, per la medesima coerenza per la quale si trova a fondare l’apertura o a fondare il suo soggetto in quel decentramento di sé in un altro da sé in cui si chiude l’esperienza dell’esposizione alla prossimità dell’altro. Il messianico sarebbe qui un altro nome per questo ateismo di una voce dissociata dallo

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sguardo, ateismo non lontano dalla prospettiva di Bloch, da quel pensiero blochiano per il quale l’esodo andrebbe pensato nella sua pienezza solo come un esodo da dio stesso, consumazione dell’idea di dio, esodo per quell’esperienza di Giobbe che riforma la stessa intuizione mosaica, pur essendo Mosè e non Abramo, il momento in cui avvenne il vero salto dell’esperienza religiosa ebraica. L’abbandono definitivo dalla tradizione delle saghe di origine babilonese e dai rituali dei cananei. Tuttavia Levinas, pur dimostrando una grande riverenza nei confronti di Bloch, non mancherà di muovere critiche molto severe. Nel momento in cui siamo interessati ad un ripresa della tradizione critica queste osservazioni di Levinas sono molto importanti. Levinas rimprovera a Bloch di seguire un avvenire “afferrabile”. «La sua speranza – scrive – è immanente e l’utopia provvisoria»4. In altri momenti scrive che manca in Bloch un pensiero dell’altezza e per questo la sua trascendenza cade nel tempo dell’immanenza. Così nella lezione di queste parole di Levinas si dovrebbe cercare certamente un rapporto immanente tra istante vissuto e momento utopico, tra l’ora inaccessibile dell’accadere e la tensione utopica, tra l’impensabile temporale e la tensione dell’avvenire, tuttavia si dovrebbe rinunciare a tutto ciò che sembra condurre Bloch verso un’ontologia del non realizzato o del non ancora compiuto. L’impensabile di Bloch è un altro possibile nome del non nascosto, la sua impensabilità è il contrassegno della sua stessa apertura e tuttavia l’ora vissuta non va considerata ontologicamente mancante di un compimento. Nella lezione di Levinas quest’ora è in fondo sempre compiuta nel suo eccomi all’altro. In questo senso può sostenere l’apertura come avvenire. Se l’attimo vissuto ha un indice di redenzione questo è offerto proprio dalla sopportazione della sua infonda4. E. LEVINAS, Di Dio che viene all’Idea, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, p. 121.

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ta apertura, l’infondato non è il suo mancare in attesa di una realizzazione, ma la potenza stessa con cui si inaugura l’avvenimento dell’umano. Non solo l’impensabile o l’immemorabile non contrassegna una mancanza o una semplice attesa di realizzazione, ma è il momento che impedisce di pensare il vissuto come un semplice attimo patico del tempo soggettivo. L’attimo vissuto nella sua apertura immemoriale e nella sopportazione messianica della sua aporia infatti è sempre in quel tratto in cui un Dasein è impensabile al di fuori del Mit-sein. In questo senso l’ora vissuta nella sua impensabilità è sempre l’ora del comune tra-noi. È la prossimità di questo tra-noi il vero fronte d’attesa e d’avvenire del tempo. In questo senso, nelle coerenze di questa eredità di Levinas, non potremmo dire con Bloch che la storia sarebbe contrassegnata da una lunghissima preistoria segnata solo da attese e premonizioni e semplici anticipazioni di un tempo in cui l’ora temporale sarà finalmente realizzata. Il tempo storico non è la lunga agonia di un futuro che muore sempre nelle sue stesse anticipazioni. Bloch cerca di ancorare il futuro escatologico in una sorta di trascendenza immanente, che lavorerebbe nel cuore stesso della mancanza o del non ancora, ma il suo statuto e la sua enorme ambiguità è quello di una anticipazione o prefigurazione, la cui inconsistenza ontologica non è in grado di giustificare la stessa nozione di attesa o mancanza. 13. Come pensare insieme l’enigma e l’immemorabile? L’immemorabile come enigma, o l’enigma come mai fatto a tempo, in contrattempo, in un tempo che nessun passato o futuro o presente sarebbe in grado di designare? Non è questo il tempo del volto, come il messianico, che Levinas riprende e ripensa da una tradizione enorme? Come ricorda Scholem la voce con cui Dio ha offerto la Torah non si è mai spenta. Non cessa di risuonare, come se il Sinai fosse un evento che non cessa di accadere. Se il fondamento della

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legge è la voce di dio, se questa voce è l’origine della legge, se essa si dà sempre al presente, se il presente è ciò che non cessa di accadere, in fondo questa voce è senza profondità, nel suo accadere è una voce inudibile. Già sempre accaduto nel senso però del suo non cessare di accadere. Il suo non venire mai meno impedisce di confonderla con ciò con cui la filosofia ha sempre una speciale confidenza e cioè il ritornare a sé a partire da un certo limite del venir meno. Il ritiro inudibile di questa voce converge dunque con il suo non smettere di accadere, quindi con il suo essere già sempre porta aperta della parola della legge. Ritirata nel suo essere già sempre aperta e quindi esposta nella sua invalicabilità. L’invalicabilità di una porta già sempre aperta forse è un altro modo per esprimere quella consegna della parola su cui insiste la tradizione che risale alla autorità di Isaia Horowitz quando recita: «Il Santo, Egli sia benedetto, pronuncia la Torah per bocca di tutti i rabbini” (Chagigah, 15b). Tutti i rabbini sarebbero nel ritiro in cui la parola di Dio si consegnerebbe sino al punto che Egli stesso studierebbe la Torah. L’ambiguità moderna del doppio genitivo qui non potrebbe trovare nessuna tolleranza o indulgenza. La parola è come svuotata di dio, aperta nel ritiro vuoto di dio. Proprio per questo la legge diventa decidibile a partire da una certa indecidibilità del suo contenuto. Per questo il doppio genitivo nella formula parola di Dio, nella linee di forza di questa tradizione, non fa circolo. Non circola tra un dio e la sua parola, non è l’intimità nascosta della sua parola. Non è lo sguardo che chiama nell’intimità della sua parola. C’è risonanza comune tra la tradizione ebraica e quella cristiana (almeno quando entrambe sanno preservare la forza dell’esperienza di fede) in questa esposizione della parola come ritiro. Entrambe le tradizioni pensano, seppure in diverso modo, l’alterità come esposizione. Depongono l’alterità nell’esposizione di una parola la cui inesauribilità non attinge alle immense pro-

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fondità di ciò che non si cesserebbe di esaurire, ma alla speciale esperienza di un esodo che essa ogni volta inaugura. Parola aderendo alla quale si fuoriesce dall’intimità di ogni dimora propria, in fondo si abbandona il doppio fuoco dell’ellisse di un soggetto centrato del decentramento dell’altro di sé. Forse l’inudibilità della voce di Dio di cui parla una certa tradizione rabbinica non è altro che l’apertura stessa dell’esodo. Questo errare (lo sappiamo meglio nell’intelligenza di Rosenzweig) non si dirige verso un passato originario. Nessuna restaurazione di un tempo perduto e nessun compimento in una terra promessa. Nessuna terra può segnare l’orizzonte di questa esodazione. Quando nelle pieghe interne di questa enorme tradizione si pensa l’arrivo del messianico, in un tempo senza attesa, quando si implica il messianico in un arrivo nella sorpresa dell’inatteso, forse si esprime in un altro modo il rischio di ogni promessa. Così come, forse, non c’è troppa tensione, come appare a prima vista, tra l’inatteso del tempo messianico e il già venutopresente, in quella presenza inavvertita, raccontata in un’antica favola rabbinica che trasferisce il messia, senza clamore, tra le porte di Roma, già presente, tra i lebbrosi e i medicanti. Presenza inavvertita come presenza che non avverte di sé, che non fa circolo nell’autoavvertimento del sé. E solo per questo non si potrebbe dire che sia accaduto poiché si mancherebbe al suo non cessare di accadere, e neppure che sia ancora da accadere, poiché l’attesa farebbe vincolo e orizzonte. Se il messianico è l’avvenire per cui il tempo ha la sua apertura che non cessa di accadere, non proviene dal futuro. Come apprendiamo dalla lezione di Derrida il futuro non è l’avvenire. La sua possibilità è nella sua apertura, ma quando fa proiezione su di esso qualcosa allontana dal suo accadere. In questo tempo del messianico, né già semplicemente accaduto né semplicemente da accadere, le due tradizioni monoteistiche in vario modo si rimandano e in qualche modo si correggono a vicenda.

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14. Nessun altro momento come questo intensifica la tradizione d’esperienza del messianico. La fede messianica si espone forse in questo tempo immemorabile. Ha a che fare con l’immemorabile di una chiamata, sopporta quindi quello che Derrida ci insegna a chiamare la spettralità del tempo. La confidenza fidata non è altro che la sopportazione di questa spettralità in cui l’altro resta in un’apertura non ancora assicurata in un fondamento presente o assente. In questa soglia immemorabile l’altro non è divenuto ancora il mio altro, il segreto non è ancora animato da un’intimità pronta a convergere nello statuto di un’alleanza esclusiva, l’eccomi non è vissuto nell’enfasi di un’elezione speciale, nel cono di una chiamata elettiva, l’immemorabilità spettrale espone all’aperto come luogo di tutti e di nessuno. Non comprendiamo per quanto è possibile la confidenza fidata al di fuori del plesso che la stringe con l’improprio di questo luogo-non luogo di tutti e di nessuno. Non c’è apertura se una qualche appropriazione delimita questo luogo-non luogo, e c’è sempre confidenza fidata quando si sostiene e sopporta la possibilità che l’altro non sia in procinto di delimitarlo in una appropriazione. C’è sempre confidenza fidata quando non è in corso la fatalità di una guerra preventiva con l’economia di risposte che genera e promuove. Dovremmo comprendere meglio però questa nozione di fidatezza, nella persuasione che l’esperienza di fede delle comunità religiose costituisce il momento in qualche modo esemplare, alla condizione di sapere ogni volta estrarre o separare con discriminazione assolute il punto il cui la fede fa resistenza alla semplice religio, o viceversa il momento in cui una religio ha già annientato l’apertura della fidatezza. Una fidatezza che forse non intendiamo fino in fondo, fin quanto è possibile, se non esercitiamo una qualche pressione sulla nozione fragile e qualche volta incerta di prossimità, di una prossimità all’altro nella fidatezza di una somiglianza, come se l’immagine di questa somiglianza fosse l’istituzione stessa

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di questa fidatezza in cui il tra-noi diviene una prossimità: la potenza stessa di questa prossimità. Vorrebbe dire istituire una nesso indissociabile tra fidatezza e somiglianza e fare di quest’ultima la potenza d’apertura in cui si istituisce l’avvenire stesso. Come se il messianico fosse nell’accadere di questa correlazione di somiglianza e fidatezza. Nella somiglianza, quindi nella sua figura messianica si istituisce la fidatezza e in essa si sopporta tutta la potenza dell’avvenire. Come reinterrogare questa somiglianza che fa rinvio unicamente verso la prossimità, verso un particolare somigliarsi in una prossimità. Una prossimità che in questa somiglianza trova l’apertura di una fidatezza assoluta. Come se la prossimità, il tra noi, quindi il Mit-sein, si istituisse solo nel momento in cui la sostanza e la relazione entrano nella medesima correlazione di cui quella somiglianza è immagine. Come se occorresse trovarsi nell’immagine di questa somiglianza affinché la prossimità si istituisca come l’apertura stessa del tra noi. Per giustizia d’altra parte intenderemo innanzitutto ciò che richiama un rapporto decisivo tra uguaglianza ed apertura. La filosofia sa sempre meno di quanto potrebbe sapere dell’apertura se non sa dire, in vario modo, questo legame tra giustizia e uguaglianza. Se non sa mostrare, per quanto è possibile, come la giustizia sia sempre venuta meno nel momento in cui l’uguaglianza diventa insopportabile. Sopportare l’uguaglianza infatti ha qualcosa di molto prossimo a quella sopportazione dell’aporia per la quale in Derrida si incontra l’avvenire messianico. Come se il messianico altro non fosse che un’apertura che sostiene e sopporta l’irruenza dell’uguale. Niente più dell’uguale, dell’altro come uguale, può deporre quella convergenza per la quale l’altro può sempre divenire il mio altro, cioè l’altro che partecipa ed edifica l’identità del medesimo. Se l’altro non irrompe come uguale il posto del medesimo non cesserà di vedere assegnato la sua posizione da una speciale elezione. Se l’altezza dell’altro non è convertita dalla

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figura o immagine dell’uguaglianza non cesserà di innalzare la stessa soggettività del soggetto. 15. Dovremmo mostrare come vi sia un rapporto originario tra la figura immagine in cui circola la potenza che sopporta l’uguaglianza e la confidenza fidata. Forse non capiamo con la radicalità necessaria la potenza dell’uguaglianza senza questo rapporto con l’esperienza di una confidenza fidata, poiché sopportare una confidenza fidata significa la medesima cosa della sopportazione dell’uguale. La fede è come la formula dell’uguaglianza, essa è il sapere intimo che accompagna la irruzione dell’uguale, il credito senza il quale nessuna comunità può circolare come apertura. Potremmo forse dire in questo modo: il credito di apertura in cui si espone il ritiro non è altro che il richiamo interno tra la fidatezza e l’uguaglianza. Il credito in fondo non è altro che il momento attivo della fede. In entrambi i casi ciò che si sopporta riguarda l’avvenire. Sul piano speculativo questa sopportazione fidata dell’uguale insegna qualcosa sulla differenza ontologica. Nel momento in cui diciamo che la differenza ontologica deve sottrarsi ad ogni semplice differire non facciamo altro che chiamare in causa una confidenza fidata. Solo nel credito di una confidenza fidata in cui la fede è la formula dell’uguaglianza potremmo invocare un’ermeneutica che rinuncia a differire la differenza. Laddove la differenza differisce, essa non può non presentarsi nell’evidenza di un venir meno, il quale dobbiamo pensarlo come contraccolpo di un certo debito che ha incrinato, in qualche modo perduto, quel credito che circola sempre nell’apertura in cui confidenza fidata e uguaglianza possono cambiare di posto. 16. Il credito dunque sopporta l’infondatezza nello stesso modo con cui sopporta e sostiene la potenza dell’uguaglianza. Una confidenza infatti non sarebbe tale se avesse la pretesa di un fondamento e di una assicurazione. Per questo ogni forma

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o figura del debito inaugura quel momento in cui il credito fiduciario non sopporta l’infondatezza della relazione. Non a caso l’ontologia che non distingue la differenza ontologica da una semplice differenza è anche quella che deve proporre una qualche logica di indebitamento. L’indebitamento del Dasein di Heidegger è più che un sintomo di un’ermeneutica nella quale la logica del venir meno si sovrappone all’esperienza di un ritiro. Vedremo più avanti come vi sia una relazione interna, una implicazione necessaria, tra il venir meno, quindi l’esperienza del venire a mancare e la pratica che giustifica un fondamento. In questo senso le pratiche di indebitamento sono sempre coestentive ai momenti in cui un potere diventa dominio. Il regime del debito è sempre il sintomo di una perdita di potenza dell’apertura nella quale l’immagine dell’uguaglianza rende sostenibile una relazione di confidenza. Ma non capiremo bene tutto questo, ripetiamo, se tralasciamo l’implicazione tra l’esperienza del venir meno e la volontà di fondazione. L’uguaglianza esposta in un ritiro cede il campo all’esperienza di un venir meno quando una certa forma di appropriazione prende il sopravvento. Il venir meno non è altro che un ritiro che ha cessato di esporsi come tale per una pratica di appropriazione. Un diritto di proprietà ha già imposta la sua signoria nel momento in cui un ritiro si restituisce come un venir meno. 17. Verificheremo inoltre il rapporto tra fidatezza e indeterminazione. Vedremo come sopportare l’indeterminazione sia una condizione della fidatezza. L’indeterminazione però non richiama, in questo caso, la semantica del vago o dell’indefinito. Converge piuttosto con una logica estranea alla tensione tra fondazione e senza fondo. Solo quando la fidatezza viene meno entra in scena il rilancio interno tra fondazione e senza fondo. La giustizia sul piano della relazione sociale ripete questa fidatezza o quella sopportazione dell’indeterminazione

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in cui circola l’apertura del senso. Un’appropriazione si stabilisce ogni volta come causa ed effetto del venire meno di una apertura fidata nella quale in una certa immagine della giustizia si sopporta la forza o la dirompenza dell’eguaglianza. Per questo, in un certo senso, l’appropriazione è sempre una forma di fondazione. Una fondazione che traccia una delimitazione esterna ed interna. In vario modo nella figura di una proprietà nella quale si tenta di fondare la stabilità di una relazione e preservarla dall’alea dell’eguaglianza. Allo stesso modo nella fondazione metafisica (che ripete questa istanza) il fissaggio di un fondamento provoca nello stesso momento la vertigine del conflitto. L’evento di apertura quindi sopporta la fidatezza in un’immagine di giustizia e il suo punto di insorgenza sta nella configurazione di questa immagine. I miti di fondazione forse conservano la traccia dell’opera di questa immagine e della sua istanza costituente. 18. Per una implicazione su cui dovremo a lungo lavorare, dunque, l’utopia si dimostra ogni volta una variante di una qualche istanza metafisica senza il lavoro pratico di una decostruzione. Non vi sarebbe dunque utopia senza il lavoro pratico di una radicale decostruzione, ma non vi sarebbe decostruzione senza l’energia messianica dell’utopia. La loro dissociazione impedisce di pensare radicalmente l’una e l’altra. L’utopia diventa una variante della nozione troppo metafisica di alterità, di compimento, di promessa, di ulteriorità o trascendenza, mentre la decostruzione rischia di presentarsi come una semplice de-costruzione, come un cammino inverso della costruzione metafisica, tutto interno ad una qualche fatalità inevitabile del metafisico. Non pensiamo però in modo sufficientemente adeguato la dimensione dell’utopia al di fuori della sua figura d’immagine, o di immagine figurale. L’utopia è sempre un’immagine utopica.

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Se riguarda e compromette in vario modo l’uniformità del tempo storico è per la sua apertura d’immagine. In questo senso sarebbe un errore parlare di idee utopiche. Non si coglierebbe la potenza che esse possono esercitare nei passaggi epocali. La stessa potenza dell’azione storica in alcuni momenti decisivi risulterebbe incomprensibile al di fuori dell’apertura di potenza di questa immagine utopica. 19. Secondo una possibile lezione di Derrida dunque vedremo che la decostruzione ha a che fare con la giustizia. Essi devono per così dire trovarsi nella medesima orbita perché la riduzione abbia la forza di una distruzione-decostruzione. Come se dovessimo investire tutto su una serie come la seguente: una figura immagine, una immagine utopica, un certo rapporto tra quest’ultima e il lavoro di somiglianza, una somiglianza senza simiglianza che apprendiamo a pensare e praticare nel mondo delle arti, l’utopia con la sua imminenza messianica nell’evento esposto di questa somiglianza, come se quest’ultima potesse essere la potenza d’apertura in cui giustizia e uguaglianza possono sempre scambiarsi il nome per indicare la medesima cosa. All’estremità della differenza ontologica dunque, laddove il lavoro speculativo si impone di differire l’essere dall’ente, di differire di una differenza che differisca da ogni differire, fino al punto di nominarla come un niente di differenza, laddove quel niente del differire, quel niente che conduce Heidegger in momenti cruciali a un passo, nel passo dialettico di Hegel, si dissocia da ogni logica del venir meno, laddove si impone la potenza decostruttiva-costruttiva di un evento esposto nel suo ritiro, la filosofia reincontra nella fine della sua passione fondamentale l’antica questione della giustizia e scopre la necessità della prassi. La prassi come il lato o il versante, o il momento, costruttivo della distruzione-decostruzione. Momento senza il quale la stessa decostruzione non solo resta alla fine impotente, ma si affermerebbe come il semplice senso inverso del passaggio onto-metafisico.

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20. Dobbiamo seguire Derrida quando ritiene che una decostruzione nel momento stesso in cui allenta la presa di una totalità si dispone, in quello stesso allentamento, in quel fremito che scuote l’ordine costituito, in una soglia messianica, tuttavia quello stesso allentamento, quel momento critico in cui la presa di una totalità si interrompe, non avrebbe forza o la forza non avrebbe quel supplemento di grazia per cui essa possa davvero agire se la decostruzione non fosse il passo stesso di una costruzione, se questa costruzione non fosse l’adesione al cuore utopico di una visione, di una visione che si immagina nel lavoro della sua messa in opera. Grave errore pensare che qui non sia necessario il massimo della potenza, che la potenza possa essere semplicemente il lavoro algido di una idea, dell’idealismo di un enunciato, o di una qualche reiscrizione di un imperativo categorico. La lezione hegeliana contro l’ineffettualità dell’imperativo kantiano resta permanente e ancora ci insegna il dislivello tra l’evidenza di un imperativo categorico e la sua effettualità. Occorre che l’imperativo o il desiderio si configuri, entri nell’opera di una configurazione, nell’immagine di una configurazione per assumere efficacia. Con una particolare tradizione teologica diremo: per assumere la forza di grazia senza la quale l’intendere e il volere non avrebbero la potenza dell’efficacia. Il messianico è sempre nella potenza d’apertura di questa configurazione, la cui immagine, ciò che chiameremo la sua esposizione, avrebbe quasi tutto da apprendere da quell’immenso travaglio teologico che ha dovuto pensare l’immagine somigliante del figlio e del padre. Se sapremo salvaguardare una somiglianza da una simiglianza, se non confonderemo le due immagini, è perché, per quanto è possibile, avremo capito cosa impediva ad una singolare cristologia messianica di non sovrapporre il figlio al padre, quindi di fare del figlio la cosa stessa del padre, il figlio quindi come fenomenalità stessa del padre, immagine fenomenale del padre, somigliante in quanto fenomenalità di un padre ritirato nell’esposizione del figlio. Da

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questa tradizione messianica apprendiamo qualcosa di decisivo sulla differenza ontologica, apprendiamo il nesso decostruttivo tra ritiro ed esposizione, lo speciale ateismo che deve comportare, ateismo radicale di un’immagine senza simiglianza, ateismo di una decostruzione di ogni passione ontometafisica, ma anche di ogni semplice teologia apofantica o negativa. Ci chiederemo che cosa comporti per la passione ontometafisica questa irruzione di un ateismo d’immagine la cui somiglianza costringe la speculazione in quel momento assoluto di decostruzione segnato dall’idea trinitaria. Nonostante tante apparenze si conserva un nucleo intimamente ebraico, la diffidenza ebraica nella semplice rappresentazione, in questa immagine atea, senza simiglianza, che la formula trinitaria salvaguarda da ogni soluzione semplicemente filosofica. Vedremo come questa immagine nell’esposizione di una somiglianza senza simiglianza mostra qualcosa di decisivo per l’economia di una svelatura. Nessuna svelatura del padre qui è in scena nell’immagine del figlio. L’esperienza che fa pressione enorme sull’invenzione teologica costringe a negare ogni rinvio del figlio al padre, ogni semplice differenza e ogni semplice identità, ma anche l’identità dialettica qui viene sconvolta. Forse non comprendiamo l’esposizione di questa somiglianza se non apprendiamo a ripensare la logica stessa della convertibilità degli antichi trascendentali. Poiché solo una speciale animazione teologica potrebbe davvero spiegare la convertibilità degli antichi trascendentali, in particolare quella convertibilità del bonum e del pulchrum per la quale una immaginazione speculativa del tutto inedita irrompe nel cuore dalla nozione di sostanza e di relazione, di essenza ed esistenza, potremmo anche dire di essere e di ente. Animazione teologica che andrebbe perduta nella sua irruzione e dirompenza decostruttiva se banalmente inscritta nel monocromo di una tradizione onto-teologica. Oggi dobbiamo ancora domandarci quale esperienza abbia concorso alla necessità di una somiglianza che salvaguarda l’ateismo nella formula trinitaria.

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21. Vedremo dunque che la decostruzione non sarà tale se non nella messa in opera di una prassi, nell’esposizione di una figura sociale di trasformazione di un ordine esistente segnato dall’ingiustizia. La decostruzione dovrà costruirsi in una messa in opera. Nella figura di una messa in opera. Al di fuori di questo nesso, intensivamente immanente, di decostruzione e costruzione la ritrazione sarà sempre solo una sotto specie di un venir meno. In altri termini, nella messa in opera in cui decostruzione e costruzione si richiamano l’un l’altra la ritrazione sarà convertibile con l’apertura in un’esposizione. Se la ritrazione non sarà nella figura di una esposizione, una semplice differenza marcherà la linea d’orizzonte di essere ed ente. Il grande e difficile tema della riduzione, di una riduzione radicale, la ritroviamo dunque nel plesso indissociabile di decostruzione e costruzione. Diremo dunque: non c’è riduzione se la pratica di una decostruzione non assume la figura-immagine di una costruzione-conversione, non c’è riduzione se una qualche conversione non attraversa il cuore stesso della passione elementare della filosofia, se un certo ritiro non riguarda il suo tratto velante-svelante. La riduzione non accade nella sua radicalità, se la filosofia continua a costituire il luogo elettivo di una qualche svelabilità, non c’è riduzione se questa passione non si depone in un ritiro che prende tutta la forza possibile e il suo orientamento dal momento in cui la decostruzione si compie nella figura-immagine di una costruzione. Comprendere per quanto è possibile la natura di questa forza, quella che chiameremo anche la sua istanza costituente, è importante per la filosofia proprio per il contributo che può dare alla dimensione del politico. Del resto ogni volta che il politico la trascura va incontro alla rovina e alla semplice distruzione. Questa forza non è altro che la declinazione della potenza, la quale lo abbiamo intravisto, non è disgiungibile da ciò che Heidegger ci propone come l’apertura.

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La tradizione teologica conosce meglio della filosofia morale questa forza come supplemento del volere e dell’intendere, conosce meglio della filosofia morale come l’affidarsi al dover essere, alla sua suggestione, alla sua evidenza, all’evidenza di una norma, non possa avere effettualità senza il supplemento di una particolare grazia. La grazia per il politico, quindi la forza dei suoi imperativi, proviene dal luogo utopico della figura immagine in cui si mette in opera il plesso della decostruzione-costruzione. Il medesimo plesso in cui la filosofia può concorrere alla riduzione come una filosofia della prassi. Capire il rimando interno tra il politico, la potenza, la forza, il ritiro esposto di un evento d’eccezione nell’immagine utopico-figurale è oggi essenziale per contrastare le vecchie e nuove forme del dominio. L’immagine utopico-messianica con il supplemento di forza o di grazia che essa comporta non sarebbe però possibile se l’essere dell’ente non fosse attraversato nella tensione del conflitto, quindi nei punti di faglia in cui si esercitano le forme del domino e quindi le varie pratiche dell’esproprio. Non può esserci nessun passo verso una decostruzione se non si avverte la tensione del conflitto in cui si documentano le logiche spietate di ingiuste esclusioni. Diremo in vario modo che l’ingiustizia comporta l’ibridatura di impotenza e dominio e non c’è critica possibile se non si registrano, nella forza stessa della speculazione, le pratiche e le coperture di varia specie e intensità in cui essa si dispiega. Occorre ancorare lo sguardo nel punto di tensione in cui fa resistenza una qualche esclusione ingiusta. La tradizione critica lascia in eredità qualcosa che non si deve cessare di coltivare: i momenti in cui si articola o dispiega l’insieme sociale, l’essere del sociale, non sono mai equivalenti rispetto alla potenza di apertura, rispetto a quell’insieme che non deve mai appartenere a ciò che rende possibile. Coloro che subiscono l’oppressione e l’esproprio non sono disposti nel medesimo modo verso l’orizzonte dell’insieme rispetto a coloro che si affermano in

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una pratica di appropriazione. C’è un dislivello ontologico che marca la natura dell’essere sociale e in cui matura la tensione del conflitto verso cui non può che collocarsi l’istanza di una decostruzione radicale. C’è sempre metafisica, pensiero astratto, semplice Verstand, se l’essere dell’ente non passa, nel lavoro estremo della speculazione, nel varco di questa tensione, non alimenta e non si alimenta di questa contraddizione del conflitto. 22. Una nuova visibilità fenomenologica dell’essere sociale deve dunque presupporre la logica del conflitto e la filosofia perde la propria occasione se non assume o inventa le parole stesse con cui il conflitto afferma la sua dirompenza. Tuttavia in troppi momenti della tradizione critica il conflitto si riduce ad una estenuante guerra di posizione. In troppi luoghi passa l’idea che il conflitto sia il luogo stesso dell’avvenire sociale o il dispiegamento della sua apertura, che esso sia la dynamis di cui ogni insieme sociale sarebbe l’energheia. Secondo queste posizioni l’apertura sarebbe immediatamente l’articolazione di un conflitto, il quale non sarebbe altro che la naturale infiammazione di un evento originario di appropriazione o depropriazione. Vorrebbe dire che il comune dell’insieme sarebbe già sempre articolato in una scissione, e una differenza segnerebbe l’origine dislocandola immediamente come risonanza di un evento di appropriazione. Vorrebbe dire che la comunità è come inscritta e preceduta da una rottura-scissione, e il suo atto di nascita coincide con il momento stesso in cui si delimita in un confine interno e in un confine esterno. La tesi marxiana secondo la quale la storia del genere umano non sarebbe altro che il lungo dispiegamento di una lotta di classe, in un certo senso, afferma questo nucleo hobbesiano della teoria sociale. Una lunga preistoria segnata dal principio di una appropriazione in cui si ordinerebbe di volta in volta il dominio di classe. Un dominio che avrebbe un prima nel mito di una uguaglianza

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perduta e un tempo del poi in cui questa solidarietà del genere umano verrebbe riconquistata o ricostituita. Questo schema ha una lunga storia e molte varianti nel corpus della teoria e dell’eredità marxiane e postmarxiane. Il suo punto di gravità tende a sovrapporre conflitto e apertura in un punto di collasso per il quale si impone una deriva verso un trapassato mitico, con la conseguenza di mitizzare le stesse aspettative del futuro redentivo. Un fragile mito dell’origine si ritrova a sostenere la forza messianica con la quale la tensione del conflitto dovrebbe mutarsi in una nuova configurazione del sociale. Non casualmente questa deriva mitica si accompagna frequentemente con una riduzione dell’energia messianica ad una idea regolativa. Come se del trapassato mitico sopravvivesse la eco di una idea regolativa e come se tensione del conflitto e idea regolativa, in una qualche unione, potessero garantire la forza rivoluzionaria. In realtà questo schema si preclude una più accurata comprensione della stessa economia del conflitto, perdendo, di volta in volta, l’occasione in cui il conflitto può e deve precipitare in un trapasso epocale o semplicemente in una dislocazione dei rapporti di forza. Potrà sembrare controintuitivo ma confondere apertura e conflitto significa precludersi il kairos in cui esso può essere la chance dell’apertura in quanto tale. Occorre invece lavorare nella soglia di un altro schema. L’apertura è il nome che dobbiamo dare non al già sempre perduto ma a ciò che marca l’inappropriabile del comune, un inappropriabile in cui le pratiche di appropriazione possono certo fare velo, ma nessuna proprietà privata può davvero abolire il comunismo del comune dell’apertura. Poiché questa, in ultima istanza, garantisce la stessa possibilità dell’appropriazione proprietaria. Il comune non è altro che il vincolo indissociabile di Da-sein e Mit-sein. La sua perdita definitiva coinciderebbe con la fine di quella speciale potenza che si apre a un certo punto nella storia naturale. C’è dunque un comunismo che nessuna proprietà privata potrebbe davvero saturare, neppure nel momento in

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cui l’espropriazione fosse totale, neppure laddove il domino avesse costretto l’insieme nel senza avvenire di confinamenti interni ed esterni. Comunismo è forse il nome che possiamo offrire a quella sopportazione dell’uguale, o sopportazione dell’aporia, sopportazione del senza fondo, entro cui una confidenza fidata non è mai separabile dalla potenza dell’avvenire. La fede di questa fidatezza è la forza stessa dell’avvenire, la quale forse può assumere il non nascondimento di quella figura messianica che una insistente tradizione rabbinica voleva senza clamore, tra le porte di Roma, già presente, tra i lebbrosi e i medicanti. Presenza inavvertita, nella prossimità comune. Non si potrebbe dire che sia accaduta poiché si verrebbe meno al suo non cessare di accadere, e neppure che sia ancora da accadere, poiché l’attesa farebbe da vincolo e orizzonte di semplice attesa. Se il messianico è l’avvenire, per cui il tempo ha la sua apertura che non cessa di accadere, non proviene dal futuro. Come apprendiamo dalla lezione di Derrida il futuro non è l’avvenire. La sua possibilità è certo nella sua apertura, ma quando fa proiezione su di esso qualcosa allontana dal suo accadere. In questo tempo del messianico, né già semplicemente accaduto né semplicemente da accadere, le due tradizioni monoteistiche in vario modo si rimandano e in qualche modo si correggono a vicenda Se ci si pensa bene, non c’è troppa tensione, come appare a prima vista, tra l’inatteso del tempo messianico e il già venutopresente in quella presenza inavvertita raccontata in un’antica favola rabbinica che trasferisce il messia nella prossimità non nascosta del tra-noi. Il messianico come potenza dell’apertura non nascosta fidata del tra-noi consente di pensare l’immagine utopica come l’eminenza stessa di questa esposizione ritratta, la ora non nascosta del tempo fidato. L’economia di appropriazione o di fondazione non sopporta e perde, è in perdita di questa apertura. Fonda l’apertura, manda a fondo l’apertura in

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una fondazione e assicurazione. L’avvenire non cessa di accadere nella sua ora, l’apertura non cessa di accadere, altrimenti la stessa occupazione appropriante della fondazione non avrebbe la sua possibilità, ma la potenza muta in dominio e il dominio nell’impotenza. 23. Comprendere a fondo tutto questo è essenziale per la dinamica stessa del conflitto. Quando il dominio chiude l’avvenire, il compito del politico e un cruciale lavoro della filosofia è quello di ricercare e nominare l’istanza costituente dei conflitti più estremi cercando di capovolgere il dominio in potenza. In questo senso questa istanza costituente riguarda tutti e ciascuno, anche se il luogo in cui può prendere la necessità è la parte esclusa, ciò che Rancière chiamerebbe forse il non numerato. La posta riguarda sempre quel comune di tutti e di ciascuno in cui una comunità è sempre sul punto di una apertura cosmopolita. L’istanza costituente non si limita a capovolgere i rapporti di forza, non si tratta di una negoziazione nei confini di una distribuzione economica, ma di una metamorfosi delle logiche di dominio in pratiche e dispositivi di potenza. Non è il conflitto in quanto tale che decide dell’istanza costituente, ma al contrario è sempre una istanza costituente che decide della natura e del destino del conflitto. Quando essa manca il conflitto non è altro che una modalità, spesso la più efficace con la quale i rapporti di forza esistenti si tramandano e si rafforzano. L’istanza costituente non nascerebbe dunque senza la tensione del conflitto e tuttavia nessuna posizione o qualificazione sociologica garantisce o sostiene il suo primato o il suo valore. L’avvertimento della condizione di esclusione sociale è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’istanza costituente. Il comune inappropriabile non è sovrapponibile ad una condizione sociologica. L’oppressione, l’esclusione o l’emarginazione non hanno di per sé una qualificazione per la quale un conflitto possa assumere un’istanza costituente. Occorre che

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l’avvertimento o il sentimento di una esclusione ingiusta si nomini e si definisca incorporandosi in una figura-immagine in cui sia centrale l’orizzonte della giustizia. Se questa incorporazione non avviene il conflitto non assume la forza costituente. Il conflitto in quanto tale non ha particolare lucidità rispetto a dispositivi di velatura, in troppi casi esso contribuisce alla loro efficacia o alla loro diffusione. Non si potrà mai decidere in anticipo se la sua estrema difficoltà sia dovuta al fatto che una qualche giustizia continui a garantire nonostante tutto un qualche avvenire oppure se resti ancora parziale e insufficiente la figura immagine o la complicata combinazione tra i due. Una teoria critica può però scommettere sul seguente assioma: una società ingiusta non ha più la sua potenza e il suo avvenire. 24. Nessun compito per il politico avrebbe oggi la giusta attualità se non si intensifica l’idea che tutti i siti che hanno avuto forza costituente della tradizione moderna sono in rovina. Il rapporto tra sovranità e rappresentanza, tra rappresentanza e democrazia, tra democrazia e istituti del potere sovrano, tra potere sovrano e mercati del capitale, tutte queste configurazioni dovrebbero essere reinscritte nella forza di una nuova immaginazione produttiva. Alla diade complementare di dominio e impotenza, occorre sostituire una certa idea di potenza e forza o forza e potenza, per la quale si richiama una istanza costituente che fissa il proprio sguardo proprio laddove le figure immagini hanno il loro centro utopico e cioè nella giuntura di giustizia e avvenire. Se la potenza più grande per una comunità è il suo avvenire, se l’avvenire ha che fare con quel momento in cui la giustizia si dispone come apertura di tutti e di ciascuno, oggi è sempre più urgente, soprattutto nel cuore dell’Occidente, ripensare tutti i principali siti o ordinamenti in cui si è disposta la vita comune in questi ultimi secoli. In questo senso le figure-immagini non si esauriscono nelle semplice nozione di una visione del mondo. La visionarietà non

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può certo essere estranea a questa potenza della figura immagine, ma non coglieremmo la sua materialità, l’istanza costituente che ne segna la forza d’apertura, se non comprendessimo ad esempio che un testo costituzionale rientra pienamente in ciò che dobbiamo intendere per immagine-figurale. Gran parte degli ordinamenti in cui si è situato l’Occidente negli ultimi secoli, in cui si è inscritta la fatticità della sua esistenza, sono figure-immagini: lo sono gli stati-nazione con la divisione dei poteri (poteri legislativi, esecutivi e giudiziari), ordinamenti scolastici, sanitari, poteri locali e partiti politici, ecc. La costellazione di questi siti ormai da tempo non cessa di collassare e di venir meno. Non cessa di girare nel vuoto autoreferenziale. Alcuni di questi sono stati abbandonati dalla circolazione del capitale e dalla universalità della rete. Per una filosofia che voglia ritrovare la sua possibilità critica questi sono il luoghi in cui consumare e ridurre la passione onto-metafisica, in cui pensare nell’esposizione di una immaginazione produttiva le nuove figure dell’insieme comune. 25. La logica di un fondamento dunque realizza sempre l’economia di una metafisica e ripete e fa eco a sua volta al declino di una potenza nel regime di un dominio. Quando l’economia di un fondamento domina l’orizzonte dell’apertura, la logica del senso ha cessato di sopportare la potenza dell’avvenire. Gli eventi di eccezione ristabiliscono ogni volta il comune come un’apertura di tutti e di ciascuno e tutto questo avviene sul piano di immanenza di una decostruzione e una costruzione. Gli eventi di eccezione hanno una funzione analoga alla dirompenza delle metafore nel corpo immenso della lingua. Reinventano i luoghi nei quali un credito fidato torna a sopportare l’apertura inapparente del tra noi. Le opere di metafora nascono forse quando i nomi sono sul punto di precipitare nella volontà di certezza della loro lettera. Quando l’istanza metafisica del-

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la certezza della lettera sta per condannarli alla cattiva prassi di una infinita interpretazione. La metafora inventa il luogo di eccezione il cui sogno non è tuttavia quello di affermare la dirompenza del semplicemente eccezionale, ma piuttosto quello di promuovere la normalità fidata di un senso nuovamente condiviso. Così gli eventi di eccezione mirano alla normalità condivisa, mirano a quel comune fidato in cui l’inapparente si espone nella circolazione stessa del senso, spartita, come forse direbbe Nancy, nella spaziatura del tra-noi. La normalità della notorietà fidata si ordina dunque nella configurazine dell’evento d’eccezione. L’evento non fa eccezione dunque se non nella soglia di una configurazione. La filosofia decostruisce la propria istanza metafisica solo quando vi concorre, solo quando concorre a quell’immaginazione produttiva in cui si può conseguire quel punto di metafora dell’evento. Ogni grande passaggio epocale, ogni passaggio temporale carico di avvenire è sempre nel punto riuscito di una configurazione. Così si può dire che una configurazione sia riuscita quando ha la medesima potenza di apertura delle metafore riuscite nella circolazione del senso. In questa coerenza ripeteremo più volte che la filosofia politica apprende qualcosa di decisivo dall’opera delle arti, dalla configurazione o figura o immagine dell’arte. Da troppo tempo la filosofia politica ha abbandonato un pensiero della configurazione, lo ha abbandonato alle logiche del potere come dominio, lo ha studiato del tutto esclusivamente sul piano inclinato dei dispositivi di comando e di disciplina. Da troppo tempo ha consegnato la decostruzione delle forme del dominio al semplice sabotaggio, alle pratiche di pura resistenza differenziale, alla difesa di luoghi residuali da proteggere nella loro presunta alterità. La filosofia politica ha abbandonato la potenza alla semantica del dominio perdendo di vista che la potenza è sempre in perdita quando circola capillarmente la forma del dominio. Si tratta invece di comprendere la radicalità di un passaggio come il seguente: nel

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punto di configurazione in cui un evento è riuscito, il comune è conseguito come la potenza di apertura, la decostruzione nella sua istanza costituente-costruttiva ha in vario modo ridislocato e sospeso le forme del dominio. Un conflitto è sempre impotente, sempre alla deriva di una semplice ribellione nei margini laterali di un sistema se non trova la forza nella potenza di una configurazione. Se un’immagine utopica non concorre nel punto di metafora dell’evento. Ma come pensare una configurazione? E soprattutto come rispondere all’obiezione in qualche modo inevitabile per la quale essa sembra reintrodurre l’idea, del tutto metafisica, di una forma compiuta, o addirittura di una teleologia dell’evento? Noi spostiamo il carico della domanda verso una soluzione indiretta domandando a nostra volta che cosa si configura nell’opera dell’arte? Comprendiamo per quanto è possibile l’opera dell’arte riabilitando l’idea metafisica di forma e contenuto o, al contrario, quell’autoriduzione con cui si mostra la fenomenalità esposta dell’arte ci impone di rinunciarvi e ci indica una direzione privilegiata per questa nozione di configurazione? Dovremmo valorizzare il fatto che l’esperienza fenomenologica incontra nell’opera dell’arte una resistenza assoluta alla metafisica. La sua configurazione espone l’impossibilità che le domande originarie della metafisica possano fare da soglia di accesso al suo esserci fenomenale. L’evento d’eccezione ripete e per certi versi intensifica questa cifra antimetafisica del configurarsi dell’arte. Ripete almeno un orizzonte d’evento nel quale il declino di una logica e un’economia del fondamento non hanno luogo o perdono il luogo che occupavano. In questo senso, la configurazione nel suo punto di metafora libera dal fondamento e dal suo regime. E poiché il fondamento è sempre coestensivo con una appropriazione, essa disappropria l’apertura come comune di tutti e di ciascuno. La bellezza, l’ultimo dei trascendentali, forse dice innanzitutto questo colpo riuscito della configurazione, laddove la configurazione di un insieme

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espone l’inappropriabile inappartenenza a ciò che rende possibile. Ma qual è il criterio di un colpo riuscito? La riuscita è il criterio di una configurazione nel suo punto di metafora, ma qual è il criterio di una riuscita, quando un evento può dirsi riuscito? Un evento è riuscito quando promuove la possibilità di un inizio nella condizione o nella sopportazione di un’assenza di fondamento. Laddove si stabilisce una logica del fondamento la possibilità dell’inizio è impedita. L’evento dunque ha il suo punto di riuscita nella decostruzione del fondamento e nella possibilità di una radicale discontinuità nella linea di un tempo continuo. Nel colpo riuscito dell’evento l’inizio si converte con una assenza di fondo. L’assenza di fondo non è tuttavia un fondamento mancante o il sentimento del mancare di un fondamento, ma una certa declinazione dell’orizzonte non nascosto dell’apertura di tutti e di ciascuno. Ma quale configurazione dell’evento è adeguata alla riuscita? Anche qui la risposta è analoga a quella che daremo per l’opera dell’arte e cioè: la riuscita è possibile in una configurazione, ma nessuno schema preliminare, nessun metodo può garantire il rapporto tra riuscita e configurazione, nessun metodo potrà garantire la forma della configurazione. È sempre la riuscita il criterio infondabile della configurazione, ma è intorno al suo desiderio che essa si costituisce per prove e tentativi. L’eredità che riceviamo dalla tradizione critica rimanda questo desiderio all’immagine utopica e l’immagine utopica alla figura della giustizia. Questo desiderio dunque anima quel punto di metafora che si istituisce nel tratto che congiunge e disgiunge decostruzione e costruzione. Una ontologia sarebbe sempre insufficiente se non coimplicasse questo desiderio di giustizia, se il desiderio di giustizia non fosse la medesima cosa del sentimento fidato dell’apertura comune. L’utopia è a sua volta il cuore di questo desiderio e riesce a connotarne bene la particolarità del suo oggetto. Non si può dire sia un oggetto mancante, nulla a che fare con la barratura lacaniana del desiderio, né perduto

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definitivamente né un perduto da ritrovare, neppure portato in dote dal tempo futuro. Tantomeno onticamente presente e disponbile. Forse la domanda antichissima sul tempo o l’ora del messianico in vario modo risponde all’animazione di questo desiderio. L’ora messianica dice qualcosa sull’animazione di questo desiderio e sull’apertura del suo oggetto. E dice anche qualcosa sulla configurazione nel suo punto di metafora o almeno sulla natura dell’immagine che in essa si espone. L’immagine di giustizia è il momento utopico della configurazione dell’evento, ma ciò che si consegue non può che avere il tempo che una immensa tradizione in vario modo attribuisce alla figura messianica. Questa immensa tradizione ripete in vario modo la formula del già e del non ancora. Il messianico dice dunque innanzi tutto il già sempre accaduto, l’immemorabile, l’apertura come non nascondimento, il ritiro esposto della fidatezza di un’apertura tra-noi, di tutti e di nessuno, di cui la presenza e l’assenza potrebbero dire la mancanza, ma quest’ultima non fa altro che velare sempre la fenomenalità non nascosta dell’ora. Quest’ora si può cercare di dire come l’attuale non nascosto, non nascosto in quanto attuale e attuale in quanto non nascosto. L’ora attuale non è l’ora pensata come atto, ma l’ora pensata come la soglia già sempre accadente del tempo, l’accadendo è il modo dell’attuale se lo pensiamo però nell’aporia del rispetto radicale del suo ritiro esposto, se evitiamo la formula per eccellenza con cui la filosofia fa velo al non nascosto nella sua ora e cioè quando lo propone nella formula dell’impensabile come tale. Quindi non solo quando lo tematizza nel pensabile, quindi lo traduce nella pensabilità, ma anche quando cerca di rispettarlo in un pensabilità che affermerebbe una impensabilità come tale. Vale fino all’estremo della sua possibile coerenza la formula eccezionale di Agostino: il già sempre come non nascosto è quell’ora con-saputa verso cui la domanda che cosa è arriva in ritardo o in anticipo. Io so, noi sappiamo, che cosa sia il tempo fino a quando qualcuno non ce lo chiede, fino a quando

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io stesso non lo interrogo nell’istanza metafisica. Quel fino a quando dice molto sulla fidatezza dell’apertura, sul messianico del già e del non ancora. Si potrebbe variare in questo modo: io sono già sempre con l’altro fino a quando qualcuno non prende il suo posto, fino a quando non mi chiedo chi sia. Il già sempre con l’altro è come il già sempre con il tempo: ha la medesima fede del con-tempo con altri. È il comune come tempo improprio e inappropriabile, in cui l’altro non è mai nella figura del mio altro, cosi come un dio non circola nella formula di un mio dio. La filosofia rispetta quest’ora e contribuisce al suo orizzonte di esposizione quando combatte contro la sua istanza metafisica, quando decostruisce il metafisico contribuendo alla costruzione della configurazione di un evento d’eccezione che ordina il desiderio di un colpo riuscito in cui il senso ritrova la sua apertura fidata. 26. La filosofia deve rimproverarsi qualcosa di molto serio se l’orizzonte delle società europee è così carico di impotenza. L’idea così diffusa che il disincanto sugli assetti e gli ordinamenti dell’epoca sia la condizione necessaria e sufficiente per garantire una svolta si dimostra sempre più complice con ciò che contesta. Il disincanto può certo contribuire ad abbassare le luci della forza ideologica con cui alcuni istituti impongono la loro presenza, può alimentare anche la forza del conflitto e spingere verso varie forme di ribellione e di secessione etica. Non solo non promuove un cambiamento del regime generale di impotenza, ma può diventare a sua volta una più sottile e subdola maschera ideologica. Il disincanto aggredisce certo la solidità degli istituti dominanti, ma nel momento in cui impone l’idea che tutto sia in fondo nell’equivalenza generale del non definitivo, toglie al conflitto stesso ogni serietà. Il conflitto alimenta la commedia del non definitivo e l’ideologia della pura conservazione prospera nascondendo il buon senso per il quale anche il non definitivo può assumere la forma di una persisten-

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te definitività. La definitività del non definitivo. La stanchezza per questa ideologia del post modernismo è ormai evidente, sono sempre più chiare le complicità con le devastazioni del capitalismo globalizzato, tuttavia resta ancora oggi la più influente e pervasiva forma del sapere.

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Il ritiro e l’inizio

La logica di un evento d’eccezione dovrà situarsi nella speciale convertibilità di un ritiro e di un inizio. Costringerà a pensare l’inizio in un certo ritiro e il ritiro in una speciale esposizione. Vedremo che un ritiro non sarà mai tale se non potrà esporsi nella sua ritrazione. Vedremo che sarà indispensabile liberare il ritiro da ogni evidenza di presenza e d’assenza. L’evidenza di una presenza o di un’assenza segna sempre un particolare contrattempo, un inevitabile anticipo o ritardo sull’evento d’eccezione. Ritiro, inizio ed esposizione si ritroveranno in un orizzonte univoco, convertibili l’uno nell’altro. Nel ritiro esposto come nome per un evento d’eccezione si farà scena inoltre la difficile complicazione di una libertà e di una possibilità. 1. La filosofia ha praticato in vario modo un pensiero dell’inizio. Nei suoi momenti più estremi potremmo isolare un’origine sottratta al suo effetto e un’origine consegnata totalmente alla sua manifestazione. Un inizio trattenuto in un’abissale compossibilità e un inizio non/differente dalla manifestazione. Nel primo caso la manifestazione sarebbe solo possibile, nel secondo caso il possibile sarebbe consegnato alla forma o immagine stessa della manifestazione.

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Nel primo caso un inizio che non fosse nella possibilità di non iniziare sarebbe in perdita della sua stessa inizialità, e non potrebbe garantire una causa senza il destino del suo effetto; una differenza tra l’inizialità e la semplice causa di un effetto viene chiamata a salvaguardare la libertà di un effetto dalla necessità di una causa. Nel secondo caso la possibilità dell’inizio o l’inizio come possibilità del possibile potrebbe accadere solo se esso si conserva senza resto in una manifestazione, se una manifestazione porta in dote la ritrazione di un pensiero dell’inizio. 2. In entrambi i casi, la differenza di un inizio dalla sua manifestazione andrebbe sottratta in ogni modo alla logica del differire. Andrebbe differita dal differire fino a sostenere la forza imperativa di un passaggio che, nella lezione della differenza ontologica, ereditiamo in formule come questa: l’essere differisce dall’ente (così come, per naturale transfert speculativo, il possibile differisce dai possibili, l’inizio differisce dalla manifestazione, il padre differisce dal figlio) come nient’altro che l’ente. Ma come differire un inizio dalla necessità di iniziare? Come impedire che la filosofia, seppure velandolo in vario modo lo decida come un’origine prima, un prima dell’origine che non cessa di essere lavorato e marcato dall’evidenza di una primalità? Come impedire che l’enunciazione stessa con cui si porta l’esigenza di differire un inizio dalla necessità di iniziare non comprometta a sua volta l’indifferenza ad ogni differenza che si vorrebbe garantire? Sottrarre un inizio alla necessità di iniziare vorrebbe dire formulare il pensiero di una strana differenza: vorrebbe dire differire un inizio dal rischio del differire in quanto tale. Per impedire che un inizio non si raddoppi e si consumi in una differenza occorrerebbe tenere ferma la sua non differenza da ciò che si differisce nella sua apertura. Tenere ferma questa

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non differenza è qualcosa di più estremo di una semplice indifferenza tra i differenti, e si cautela, in primo luogo, rispetto all’aporetica che la posizione di una semplice indifferenza si porta dietro. Da sempre è un compito complicatissimo per il pensiero. Per sottrarre l’inizio alla sua manifestazione e la manifestazione alla potenza determinata dell’inizio, per salvare anche un radicale pensiero dell’indifferenza e del possibile, di una disgiunzione tra inizio e origine, per negare schellinghianamente ogni Übergang tra assoluto e finito, tra incondizionato e condizionato, occorre portare la differenza ontologica fino alla fine, con tutte le conseguenze che questo comporta per la figure tipiche della filosofia. Solo nelle coerenze estreme di questa decisione è possibile abbandonare ogni passione per l’ulteriore o per l’origine prima. Solo in questa radicalizzazione estrema si potrebbe forse sopportare la tensione contenuta nell’ossimoro con cui si deve affermare un ambitus di indifferenza alla differenza per cui non si può pensare senza una distinzione (l’indifferenza non è la differenza) ma allo stesso tempo, nell’atto di uno stesso tempo, ogni distinguersi sarebbe un’astratta separazione. 3. L’ultimo grande scenario di questo polemos tra un inizio trattenuto dalla sua manifestazione e un inizio consegnato, senza resto, totalmente ad essa ha coinvolto, come si sa, Hegel e un certo Schelling. Per un certo Schelling si tratta di preservare una inizialità non condizionata dall’inizio, preservarla nella potenza di una indifferenza alla determinazione d’essere, dove le antiche nozioni di potenza assoluta e potenza ordinata si dissociano radicalmente fino a sospendere nel semplicemente possibile la libertà stessa di una creazione. Il possibile è chiamato a sostenere la libertà nell’indifferenza e tutti i possibili devono restare ugualmente possibili perché un fondamento non pregiudichi la libertà dell’inizialità dalla sua manifestazione. Ogni esistente qui è pensato

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autenticamente solo se avvertito nella possibilità del suo inizio, cioè nella contingenza assoluta della possibilità di non essere. Il sono dell’ente è tale solo in quanto è possibile, quindi solo in quanto il suo non essere altro non è mai necessario. 4. Per lo Schelling della Filosofia della rivelazione un fuori di sé sarebbe già sempre un essere impossibilitato, già sempre impedito del possibile. Un essere fuori di sé non sarebbe già più l’immediata potenza: nel fuori di sé essere e impotenza non potrebbero che coincidere. Per Schelling, l’Idea hegeliana avrebbe già perduto il possibile nell’atto della sua rivelazione. La manifestazione non potrebbe che mostrare l’impossibilità stessa del possibile poiché non vi sarebbe venuta d’essere, accadimento d’essere, che possa conservare la cifra della libertà autentica. Se la rivelazione è rivelazione d’essere non può che mostrare la fine della potenza suprema, poiché l’essere, per Schelling, non appena fuoriesce dal possibile in cui il poter non essere è ancora preservato, resta come nell’impossibilità di revocare la sua nascita, di sottrarre l’irreversibile al tempo dell’accadere. Scrive Schelling: «Ma l’autentica libertà non consiste nel poter essere, nel poter manifestarsi in sé, ma nel poter non essere, nel poter in sé non manifestarsi, così come è più facile riconoscere l’uomo prudente da ciò che egli non fa, che da ciò che egli fa»1. Il riferimento all’Idea hegeliana non potrebbe essere più esplicito. Non vi sarebbe libertà se l’Idea non potesse non manifestarsi, se il suo poter essere fosse l’Idea come manifestazione, se la libertà altro non fosse che la necessità di rivelarsi nell’essere. L’essere-ente avrebbe, per Schelling, già perduto la differenza del possibile-ente, la differenza ontologica tra potenza ed essere, tra possibile ed ente; l’apertura, così si potrebbe ritradur1. F. W. J. SCHELLING, Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972. V. 1, p. 294.

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re, perché sia tale, dovrebbe essere pensata come differita dal suo effettuarsi, mai identica al suo effettuarsi, poiché nessun effettuarsi potrebbe risalire dal poi al prima: non c’è effettuarsi che non implichi una qualche irreversibilità del tempo, in cui il poter non essere sarebbe perduto. Per garantire la differenza del possibile dall’ente esistente, per impedire che la fonte del possibile si esaurisca nell’accidentalità del processo, occorre spingere la differenza ontologica sino al limite dell’indifferenza. Perché la potenza non sia segnata dall’atto di un’esistenza occorre che il potere di questa potenza sia, in qualche modo indifferente a tutti i differenti effettuali possibili. Solo così per Schelling si può fare una qualche revoca della fatalità del processo, solo in questo modo sarebbe consentito non convertire la fonte dell’inizio o dell’origine in un ente sommo o in un super ente. L’origine indifferente va dunque preservata dalla manifestazione. Se fosse destinata alla parusia, già sempre impegnata in essa, non uscirebbe dal circolo irreversibile in cui il poter essere altrimenti viene smarrito e perduto. C’è, in questo Schelling, un potere del volere che in qualche modo espone questa essenza d’essere differente da ogni manifestazione. Per afferrarla pienamente dovremmo coglierla nel suo momento di decisione indecisa, in un poter volere nel quale tutto il volere sarebbe preso dal potere stesso di volere. C’è un salto senza ritorno nel momento in cui il volere prevale sul potere: si perderebbe la natura fontale di questo potere se il volere cadesse nella decisione d’essere. L’impegno speculativo di Schelling è quindi di risalire ad un poter d’essere prima di ogni essere, quindi a un poter d’essere senza essere. Prima che un essere dell’ente sia in qualche modo un ente. Prima che un essere dell’ente sia potenza stessa d’esistenza. Si tratta dunque di svuotare la potenza dall’essere, ma in fondo anche dal suo essere semplice potenza relativa d’essere.

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5. Schelling, in questa risalita, deve come sprofondare la relazione trinitaria. La relazione tra padre e figlio si orienta a partire da una non coincidenza radicale di dio e del padre. In nessun altro momento della Filosofia della rivelazione Schelling è così a fuoco come in questo luogo in cui dio e padre non possono coincidere del tutto, non possono essere sinonimi. Se coincidessero del tutto, dio sarebbe già da sempre rivolto alla manifestazione, in quanto padre, sarebbe già sempre in relazione con un figlio come una causa è in relazione con il suo effetto. Per Schelling il nome del padre deve rivelare la decisione creativa nel momento in cui essa «volge all’esterno l’esistente in sé del suo essere […]»2. Questo volgere all’esterno rende il dio un padre generante che dovrebbe salvare, nel medesimo passaggio, la decisione presa di sollevare un essere dal niente e il fatto che questa decisione sia solo possibile. Il padre di Schelling è un dio che vibra drammaticamente di questa tensione. Il puro esistente, ciò che Schelling aveva prima definito la pura potenza senza potenza, fino a coincidere con un puro atto, per uno strano segreto, si muta in un padre e quindi in qualche modo cade in una potenza non più pura. Occorre infatti un minimo di semplice potenza perché vi sia generazione. Il padre, deve ogni volta precisare Schelling, è l’intero dio, ma anche in qualche modo successivo alla indifferenza. Successivo alla non tensione dell’indifferenza originaria. Non può che esserci successione tra l’indifferenza originaria e la tensione creativa. Il padre è l’agire perenne di un dio che si decide nell’indifferenza. È la decisione nel momento in cui la possibilità sta abbandonando il possibile non creare, momento nel quale l’essere sopravviene sul non essere. Schelling deve naturalmente combattere con l’idea di successione e quindi è costretto a precisare che qui si deve pensare una decisione intransitiva, un agire di un padre che non trapassa, una sorta di perenne decidersi. Ma queste ripetute precisazioni 2. Ivi, p. 388.

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non evitano di pensare la successione di un dio in un padre, di un padre che perennemente si coltiva nel lato di un dio che avrebbe sciolto l’indecisione, di un padre come nome di un inizio successivo all’inizio del dio in quanto tale. Una successione perenne non cambia la logica di una successione. Per quanto il movimento si proponga come intransitivo il padre succede in dio e questa inclinazione ha già segnato la sorte del figlio. Anche il figlio è intransitivamente momento del padre, ma anche nel suo caso si deve dire eternamente successivo pur nell’intimità del padre. La stessa nozione di generazione subisce il vincolo di questa successione: per Schelling occorre distinguere l’eternità del figlio nel padre dalla generazione futura del figlio. C’è un figlio ancora nel padre e un figlio fuori del padre, quindi successivo, coincidente con la decisione stessa del creare. Padre e figlio sono dunque il momento di un dio nel quale il possibile si sta eternamente decidendo per il reale creato. Costituiscono il momento di una volontà che transita dal fuori tempo al tempo della creazione. Quindi per Schelling la dinamica trinitaria si spiega come condizione e presupposto del fuori di Dio, è come pensata in vista della generazione del figlio, ma proprio la sua successione e tutta la sua economia lasciano dio stesso in ritiro da questa manifestazione del figlio. Il figlio diventa manifestazione della potenza del padre ben lontano dall’essere immagine di dio. Il padre si trova come tra dio e il figlio già fuori del puro esistente ma non inscritto nel processo del volere creativo a cui la creazione viene consegnata. Tra padre e figlio l’immagine è quella del riflesso o rispecchiamento. Il figlio è lo specchio del padre e fa rinvio alla sua volontà. Schelling, sempre nella Filosofia della rivelazione, compie diversi giri per sostenere che questo non sia un riflesso passivo. Per riflettere la volontà del padre il figlio deve in qualche modo assumerla, deve assumere un volere in grado di volere la volontà del padre. In questo senso esso è una personalità divina esclusa dalla prima potenza

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del padre, generato come esterno nella figura di una seconda potenza, ma proprio in quanto generato in una qualche esteriorità rispetto al padre garantito nella libertà di riflettere il padre. Così come dio potrebbe non essere padre della creazione così il figlio potrebbe, nella libertà del suo volere, non volere la volontà del padre. È come se nel figlio il padre e dio stesso fossero esposti alla tentazione della libertà radicale, quindi esposti alla possibile possibilità di restare fuori di sé in una signoria della natura che si renderebbe extradivina. 6. Il figlio, alla fine, è la figura di un grande mediatore attraverso il quale il padre ottiene che l’esteriorità del creato sia ricondotta volontariamente, nella volontà del figlio, all’unità divina. Alla fine in quanto essenzialmente metaxy tra Sé e l’intera creazione, la sua immagine è destinata a passare sia nella figura della signoria sia nella kenosi del servo. La sua libertà, chiamata ad evitare la commedia di un dio che non può che essere padre e di un padre che non può che manifestarsi nel figlio, diventa solo un passaggio di un movimento trinitario che tutto capitola nell’unità finale. Questo passaggio riconcilia solo al prezzo di restare fuori della divinità di dio, solo nella condizione di non mutare nel figlio l’immagine del padre. Dio non ha già sempre immaginato il figlio ma avrebbe deciso nell’immanente possibilità di non essere padre. Certo il figlio porterà la gloria della libertà della decisione divina, sarà in qualche modo persona immagine di questa libertà ma sempre successiva alla decisione in quanto tale, in qualche modo successiva alla profondità di dio stesso. Se il figlio può figurare come il primogenito dell’essere extra-divino, attraverso cui il padre può affidare la signoria sulla creazione, è perché il padre stesso è una decisione di un dio che resta in-differenza della relazione del padre e del figlio. Dio è infine il nome per ciò che non circola nella visibilità della relazione di padre e del figlio. Tanto più esso è in ritiro dalla relazione tanto più il figlio del padre

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può liberamente corrispondere all’invio a cui è chiamato. Dio è il nome per ciò che si trattiene nel possibile sempre in eccesso come possibilità stessa dei possibili su ciò che si decide, garanzia che la decisione sia sottratta alla fatalità di un inizio che non deve venire in manifestazione. Il figlio è mediato dalla potentia generandi del padre più che essere il medium del padre, per questo non può esserci nessuna koinonìa, nessuna unità essenziale, nessuna perfetta immagine, nessun unità di sostanza e di relazione nel senso proprio di Agostino. 7. Contro lo Schelling della Filosofia della rivelazione così reagisce la filosofia hegeliana: occorre che il contenuto sia totalmente esposto perché un fondamento non resti come presupposto metafisico, occorre che abbia consumato la sua inseità, cioè la sua semplice differenza, e quindi ancora la sua indisposizione ad uscire da sé, perché si renda libera la possibilità di un inizio, perché si consumi ciò che da presupposto renderebbe impossibile un inizio. L’inizio si consegue nella fine. In una fine che togliendo, avendo già sempre tolto l’inizio, si superi anche in quanto fine. Questa è la formula con cui Hegel consegna in eredità l’interiorità assoluta di logica e metafisica, la sua onto-logia. Queste sono le formule con le quali Hegel continuerebbe a reagire al differire del dio e del padre nell’ontoteologia di Schelling. Non dovremmo mai cessare di chiedere quale di queste scene concettuali possa portare più risorse per una logica di un evento d’eccezione. Non si dovrebbe mai sottostimare la forza dirompente contenuta in questo semplice plesso: se l’inizio coinvolge un ritiro del fondamento, la filosofia non potrebbe farne testimonianza e parola se non configurando se stessa e le sue figure proprie, secondo la logica di un ritiro. La filosofia dovrebbe fare opera di un ritiro se volesse farsi soglia o testimonianza di un evento nel quale un inizio è nella fine di un ritiro e un ritiro può prendere il nome di un certo inizio.

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In qualche modo deve autodeporsi perché la sua testimonianza possa corrispondere all’evento di un inizio la cui logica includa un ritiro che fa eccezione a ciò che rende possibile. Se una logica dell’evento ha a che fare con la congiuntura di un ritiro e di un inizio la filosofia deve sempre chiedersi fino a che punto essa sia in grado di sopportare questa speciale autodeposizione. Se non debba misurare il proprio dominio a partire dall’impossibilità di autodeposizione, di esposizione, quindi di messa in opera di un ritiro, unica possibile testimonianza per la logica di un evento d’eccezione. 8. L’esposizione è un nome che vuole evocare innanzi tutto la natura speciale di un mostrarsi, verso cui la filosofia è come chiamata a prendere l’iniziativa di perdere la propria iniziativa. Come scrive Marion: «il paradosso iniziale e finale della fenomenologia consiste precisamente in questo suo prendere l’iniziativa di perdere l’iniziativa»3. Come se la filosofia avvertisse nel suo abito fenomenologico, nel momento in cui può convenire in una fenomenologia, una correlazione tra un venir meno e l’esposizione di un apparire che non trattiene più niente oltre il suo orizzonte di apparizione. La filosofia cioè avvertirebbe, in vario modo, che nessuna apertura d’orizzonte è davvero aperta se non nell’esposizione di un ritiro, poiché l’apparire di ciò che appare non è altro che un diverso nome per evocare questa esposizione ritratta e, al contempo, la filosofia si autoavvertirebbe come di troppo, sempre in eccesso sull’eccesso-eccezione dell’apertura, per cui si autopromuoverebbe a deporsi dalla scena. Nel filo di questo criterio potremmo chiederci chi tra lo Schelling della Filosofia della rivelazione e lo Hegel della Scienza della logica sia più prossimo a dover pensare un certo inizio nella 3. J. L. MARION, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, tr. it. R. Caldarone, Sei, Torino 2001, p. 5.

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fine delle figure proprie della filosofia. Un ritiro di un inizio che comporti per la filosofia la necessità di non fare ombra con la sua pratica e la sua presenza. Chi tra Schelling ed Hegel sia più prossimo a tracciare una diagonale nelle coerenze di questa serie: un senza fondo, un ritiro di un dio da ogni paternità del padre; una filosofia che deve esporre nella sua stessa scena l’abissalità di questo ritiro, che deve esporre questo ritiro innanzitutto facendo opera essa stessa di un suo ritiro dalla scena; un’impossibilità a non lasciar traccia in questo ritiro e quindi documentare la speciale estraneità della filosofia stessa all’evento di un ritiro, lo strano sapere di un’estranea familiarità al ritiro in quanto tale, la necessità per la filosofia di pensare nel limite del suo ritardo e del suo anticipo, nel limite del suo strano contrattempo, nel limite di un’autodeposizione verso esperienze nelle quali il ritiro è sempre il nome di un evento d’esposizione. 9. Indicare o segnalare un inizio come ritiro senza esibire lo stesso ritiro del gesto che lo promuove vuol dire, nella lezione di Hegel, restare sotto o fuori la possibile lezione di una fenomenologia e quindi del tutto estranei a una scienza pura. Se la filosofia non avverte il suo stesso eccesso nell’indicare un orizzonte di ritiro, se non espone questo eccesso nella scena di un ritiro, l’inizio-ritiro che evoca contro la manifestazione avrà una qualche efficacia retorica solo nella velatura di questo eccesso, ma a quel punto compare sempre una macchina ideologica ad imporre la sua regola e il suo registro. Non a caso la scienza dell’esperienza che diventa fenomenologia dello spirito fa movimento e opera, coinvolgendo pienamente, nella passione interna del suo movimento, lo sguardo narrante di sorvolo con cui il filosofo si trova immesso nella scena che descrive. Si resta sempre estranei al nucleo più originario della Scienza dell’esperienza della coscienza se non si è capaci di dare tutto il rilievo necessario al fatto che, per la prima volta, in un’o-

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pera della filosofia, il tema o la posta speculativa in gioco non potranno essere conseguiti se si copre con un qualche velo lo sguardo stesso della messa in opera e la sua strana attualità nell’esposizione della narrazione. Era stato Fichte, prima di altri, a verificare l’importanza dello sguardo filosofico nel corpo della messa in opera, quindi dell’esposizione d’opera della filosofia, ma è con Hegel che una lunga tradizione capitola nell’idea per la quale la parusia dell’assoluto debba comportare un evento la cui esposizione non rinvia ad alcun presupposto, per la medesima ragione per la quale non può ammettere che uno sguardo narrante faccia resto o eccedenza rispetto alla manifestazione. Non è forse vero che le figure fenomenologiche, in vario modo, ruotano inseguendo l’emergenza di un testimone imminente in cui è coinvolto e compreso l’attore stesso della narrazione speculativa? L’interprete di Hegel non deve quanto meno sospettare un’enorme insufficienza nella propria lettura e nel proprio approccio alla Fenomenologia se non sapesse circoscrivere la questione della provenienza di questo sguardo intenzionale nella forma del Noi con cui il gesto della filosofia, noi diremo in vario modo la mano del filosofo, attraversa la relazione di correlazione della scena di presentazione? Non apprendiamo in questo enorme momento della filosofia moderna a pensare, in una speciale correlazione, questa mano o sguardo nella scena dell’esposizione speculativa e la natura di un orizzonte di apparizione? Come se Hegel ci lasciasse un complicato metodo autodecostruttivo per il quale la filosofia sarà sempre una qualche forma della cattiva ideologia o una forma del cattivo Verstand se si limitasse a coprire con un velo l’eccesso di questo sguardo nella scena. Tanto più la sostanza manca a se stessa tanto più la filosofia fa eccesso nel suo stesso orizzonte di apparizione e sorvola dall’alto i propri contenuti. Il movimento diacronico della coscienza procedendo verso le profondità tempo-storiche della propria realtà sostanziale, insegue, come fosse la sua cometa, l’eccedenza di quello sguardo.

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A sua volta però questo vertice resta tutt’altro che estraneo al percorso che si compie. Man mano che la coscienza assume la ricchezza della sua sostanza, la luce di quel vertice di sorvolo diventa o deve diventare sempre meno attivo sulla scena della sua esperienza. Doppio movimento, dunque, attraverso il quale la coscienza si orienta verso l’imminenza di un eccesso segnato dallo sguardo in scena della filosofia e quest’ultimo a sua volta procede verso il proprio epilogo. La logica come pura scienza dovrebbe prendere inizio nell’epilogo di questo movimento. Senza un ritiro di questo sguardo d’eccesso, non c’è inizio per una scienza pura. L’inizio di una scienza pura converge con l’epilogo di uno sguardo che non sorvola come un estraneo i propri contenuti. Epilogo o ritiro senza il quale l’eventuale ritiro da essa, evocato come un inizio trattenuto dalla sua manifestazione, ha già sempre dovuto tenere celato o velato la non esposizione del suo eccesso. L’epoca fenomenologica ha preparato o disposto la possibilità di questo ritiro. L’ha preparato e predisposto nel movimento di realizzazione dell’Idea. Il contenuto logico non sarebbe adeguatamente pensato, non sarebbe nella sua manifestazione se non fosse, nello stesso tempo o nello stesso evento, assolto da un principio presupposto e da uno sguardo di sorvolo. Non potrebbe esserci inizio logico, inizio di una logica della Sache Selbst, senza questa doppia assoluzione. Ad un presupposto non compiutamente consumato corrisponde sempre un fondamento che si pone in differenza, in semplice differenza, in una differenza per la quale in nessun modo potrebbe darsi un essere come nient’altro che ente. L’interprete dovrebbe, con un po’ coraggio, portare all’estremo la distinzione tra l’epoca nella quale la filosofia è consegnata in una fenomenologia e l’epoca nella quale sarebbe invece possibile una logica pura. Dovrebbe cioè far scommessa sulla non sovrapponibilità della logica di una Scienza dell’esperienza della coscienza che diventa Fenomenologia dello spirito e di una

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logica della Scienza della logica. Nell’enfasi di questa distinzione si potrebbe esibire l’ineccepibile dato storico per il quale Hegel non ha mai ripudiato l’opera della sua prima maturità, anche quando essa doveva essere inclusa nel sistema dell’Enciclopedia, nello spirito soggettivo, tra antropologia e psicologia. Questo interprete deve sentirsi autorizzato ad affermare che fenomenologia e logica segnalano un diverso orizzonte dell’Idea. Non un medesimo orizzonte visto da due punti di vista, ma un doppio possibile orizzonte dell’Idea per cui l’assenza dell’uno immette sempre nell’altro. La fine di una fenomenologia dello spirito immette sempre nella possibilità di una logica, ciò che si chiamerebbe in causa non sarebbe la propedeuticità di un manuale di filosofia, bensì un darsi del tempo dell’Idea nell’epoca della sua non manifestazione. Solo nella fine dell’orizzonte di questa non rivelazione dell’Idea una logica diventa possibile. Così una logica pura sarebbe possibile solo nella fine dell’epoca in cui si danno solo fenomenologie. Quando Hegel scrive che la filosofia «[...] è l’idea che pensa se stessa, la verità che sa (§236), la logicità, col significato che esso è l’universalità convalidata nel contenuto concreto come dalla sua realtà»4, sottolinea il nesso infinito tra effettualità, manifestazione, contenuto concreto e fine di un’epoca di svelamento. Deve rivelarsi un contenuto come totalmente sciolto da ogni svelatezza, perché possa costituirsi quell’orizzonte finito in cui la logica si ritrova come un inizio. L’idea logica si presenta sempre nell’inizio di una certa fine. Non è un caso che Hegel nella seconda edizione della Enciclopedia delle scienze filosofiche, nel § 574, in cui si pone la questione del concreto effettivo, aggiunga la nozione dell’effettualità. L’universalità logica non potrebbe essere riconosciuta in quello strano contraccolpo di una fine e di un inizio se il concreto non provenisse dall’immagine di una effettualità. L’universalità logica non sarebbe convalida4. G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Editori Laterza 1980, 2° vol., p. 564

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ta al di fuori di questo movimento di effettualità, quindi al di fuori di tutto ciò che trapassa in una Realphilosophie o in una Filosofia dello Spirito. Il contenuto logico può manifestarsi perché si è già consumato tutto ciò che poteva ancora trattenere in un orizzonte fenomenologico. È stata la effettuazione a consumarne la svelabilità: in un senso speciale la rivelabilità della logica è semplicemente esito e portato di questa in-svelabilità dell’effettuale. Se è sempre necessaria una Realphilosophie o una Filosofia dello spirito prima che una filosofia possa svolgersi come una logica, quindi come un pensiero dell’autorivelazione dell’Idea è perché si è già consumato tutto il rivelabile. 10. Se in Schelling la necessità di preservare l’inizio dalla manifestazione costringe a rendere successivi, seppure intransitivamente il padre e il figlio e lo spirito, in Hegel solo un pensiero radicale della manifestazione del padre nel figlio impedirebbe alla filosofia di orientarsi verso un pensiero dell’origine, velando a se stessa l’ingombro o l’ombra sulla scena del suo stesso gesto speculativo. La kenosi che reagisce sull’energheia aristotelica costringerebbe a pensare il principio come già sempre rivelato nella trinità del padre, del figlio e dello spirito. Solo in quanto manifestazione, come rivelazione di un senza origine, l’inizio si garantisce nella sua apertura. Non si tratta di un movimento che espone e rivela un contenuto segreto e nascosto, togliendolo nel momento in cui lo espone, ma di un movimento che, in quanto capace di esporsi totalmente nella sua alterità da sé, costringe a pensare l’inizio nel movimento di una certa fine. Il contenuto è tolto non in quanto esposto, ma in quanto l’esposizione libera dalla necessità del contenuto. Questo è ciò che l’interprete sarebbe autorizzato a sostenere nel momento in cui dovesse portare all’estremo quel kairos che la kenosi introdurrebbe nell’energheia aristotelica.

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Si tratta sempre di un fraintendimento, irrispettoso di questa eredità, riassumere tutto questo in un circolo per il quale la fine non farebbe che ripetere l’inizio. Già sempre contenuto nell’inizio, come un immane giudizio analitico. Non si capisce granché dell’unità di logica e metafisica, (conseguita nei tempi di Jena, nello stesso arco di tensioni e problemi che condurranno alla necessità di una fenomenologia dello spirito), attraverso l’idea di una fine come l’atto di una potenza o di una fine come semplice manifestazione di un inizio. Non si comprende il dramma della manifestazione dell’Idea se il tempo dell’eterno fosse pensato come sua esecuzione e svolgimento. Come se il suo accadere non arrischiasse nulla nel differire come altro da sé, come se il differire fosse semplicemente una speculazione dell’identico. Il celebre togliersi e preservarsi nell’uscita fuori di sé, non è una commedia edificante che finge l’alienazione e la deposizione di sé. L’altro da sé nella manifestazione è contemporaneamente il ritiro di sé dell’idea. Nella manifestazione l’Idea deve ritirare tutto ciò che è in sé; tanto più si manifesta tanto meno trattiene, fino a ciò che dovremo chiamare nient’altro che la manifestazione. Non si tratta di esprimere se stesso nell’altro ma di togliere nell’altro l’espressione del sé. Solo se il sé si manifesta come Altro da sé ciò che si toglie si conserva. Che Hegel possa dare l’impressione di oscillare in troppe occasioni tra la dynamis di Aristotele e la kenosi cristiana non toglie che l’interpretazione possa seguire fino all’estrema coerenza una logica della manifestazione che cerca di deporre la nozione di dynamis e di espressione. 11. Affermazioni per cui la meta o la fine in Hegel sarebbero perfetta rivelazione di ciò che era all’inizio, come se l’Idea fosse nel movimento per il quale la profondità o il contenuto dell’inizio si rivela pienamente nel risultato, tolgono troppo rapidamente quella tensione. Troppo rapidamente consumano la kenosi nell’energheia aristotelica. Quella tensione va sempre

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invece lasciata aperta nelle sue oscillazioni e ambiguità e all’interprete deve sempre essere consentito di portare all’estremo la possibilità che la kenosi costringa a pensare in altro modo l’interiorità di dynamis ed energheia. In questo caso la nozione di manifestazione assumerebbe una declinazione radicale. Si potrebbe dire: non c’è manifestazione se l’idea si trattiene in sé e non c’è un trattenersi in sé che possa fare manifestazione. Niente può precedere il manifestarsi dell’Idea tantomeno la sua potenza. Se l’Idea non è altro che la manifestazione non può esserci nessun prima, nessuna origine che possa darsi come unità della differenza. Un radicale pensiero della kenosi porterebbe a pensare l’effettuazione per cui la logica si convalida come ciò che ha già consumato ogni primo cominciamento. Perciò nessun inizio può precedere la sua effettuazione. Il suo potersi rivelare non sta mai sul lato del non essere ancora rivelato. Anche se il non essere nella manifestazione diventa una condizione di passaggio o di transizione del processo dell’Idea, ciò che apre l’Idea alla sua manifestazione non si radica nel non essere non ancora rivelato. Nel momento in cui la kenosi prevale sull’intimità aristotelica di dynamis ed energheia, l’Idea rivela semplicemente la sua rilevabilità, quindi non rivela ciò che prima era nascosto come un puramente irrivelato, quindi un momento irrivelato di un’Idea che non può essere altro che il rivelarsi in quanto tale. Come se l’Idea per un momento non fosse consegnata alla sua esposizione, come se per un momento quest’Idea fosse oscura e nascosta a se stessa, in una potenza che tenderebbe a essere un atto. Se l’Idea rivela la rilevabilità in quanto tale è perché in nessun momento è fuori del rivelabile, in nessun momento accade nella forma di una semplice potenza. Per questo non si torna al principio. Si tornerebbe al principio se esso in qualche modo fosse il prima di un poi, se esso fosse come il seme rispetto al fiore o al frutto, ma per Hegel questo circolo dell’idea sarebbe la formula di un pensiero astrat-

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to. L’Idea non rivela un suo contenuto, non rivela svelando un contenuto, non si porta a rivelazione lo svelamento di un contenuto. Se la rivelazione fosse successiva al rivelato l’Idea sarebbe come fuori di sé, in anticipo su di sé e soprattutto non si potrebbero sostenere fino alla fine affermazioni come la seguente: «autorivelazione attiva che non tiene nascosto nulla» oppure «il rivelare che si rivela per questo rivelare»5. In questo caso l’Idea diventa il nome per il già sempre fuori di sé. Per ciò che mai, nemmeno per un momento, è stato fuori della sua manifestazione. Il nome per una manifestazione che ha già tolto, o meglio che è l’atto stesso di toglimento di ogni presupposto, origine o principio. Non una manifestazione del principio, ma una manifestazione che ritira ogni pensiero di un inizio primo; tanto è vero che il suo primo contraccolpo non può che coinvolgere quell’attitudine propria della filosofia a farsi pathos di un venir meno. Non potrebbe che misurare la filosofia nella capacità di corrispondere all’esposizione di un ritiro con un suo ritiro esposto. Così come nulla precede la rivelazione, nessuna potenza quindi che non sia l’attuosità della rivelazione, così nulla precede la libertà dell’Idea, l’Idea si è già da sempre liberata nella sua manifestazione. Solo in questa libertà di sé da se stessa, potremmo dire, svuotata di ogni deità, l’Idea può estranearsi a questo suo rendersi estranea. Solo qui la potenza può prendere il nome del possibile. Solo se la dynamis è già da sempre energheia si è liberi della potenza nel possibile. 12. Un’esegesi così estrema della manifestazione dell’Idea porterebbe con sé un’esigenza radicale che coinvolge alla radice la disposizione stessa della filosofia. Se l’Idea manifesta un orizzonte di apertura solo nel ritiro di ogni presupposto, se questo 5. Riprendiamo in questo caso la traduzione di F. Menegoni contenuta nel volume di A. PEPERZAK, Autoconoscenza dell’assoluto, Lineamenti della filosofia dello spirito hegeliana, Bibliopolis, Napoli 1988, p. 39.

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ritiro deve esporsi in una compiuta manifestazione, la filosofia può corrispondervi solo esponendosi a sua volta come ritiro. Esponendosi in un’opera di ritiro. Quando Hegel chiarisce il criterio di differenza tra una fenomenologia e una logica rimanda sempre a un particolare ruolo dello sguardo della filosofia e del suo possibile eccesso sulla messa in opera. La scienza pura prevede la deposizione di questo sguardo di sorvolo, senza il quale la filosofia non sarà all’altezza di ciò che pure in qualche modo consegue nell’idea che un orizzonte d’apertura, non sarà mai un possibile inizio se continua a far rimando verso un’origine prima. La coerenza estrema della filosofia verso l’esigenza di un’apertura senza profondità e senza origine prima sarebbe di esporre il suo stesso ritiro dalla scena. Per Schelling il problema neppure si pone. La filosofia, infatti, può impegnarsi in una filosofia della rivelazione, mentre in Hegel il problema si apre fino al punto che in nessun altro sistema della modernità un inizio e una fine sono sul punto di abbandonare la filosofia. Come se la filosofia fosse da sempre fuori di sé, deposta da sé, nel momento in cui una manifestazione di un evento fosse l’esposizione di un ritiro. 13. Questo dramma si consuma all’inizio della Scienza della logica. Hegel scrive con un’espressione in cui la fenomenologia husserliana troverebbe un’aria di famiglia: «Affinché ora, partendo da questa determinazione del sapere puro, il cominciamento resti immanente alla scienza di esso, non v’è da far altro che considerare, o, meglio non v’è da far altro, scartando tutte quelle riflessioni od opinioni che si hanno, che accogliere, soltanto, ciò che ci sta dinanzi»6. Ciò che ci sta dinanzi è l’inizio come manifestazione pura, come fenomenalità nella quale non c’è differenza tra il suo essere e il suo apparire, dove l’essere del suo apparire non differisce dalla 6. G. W. F. HEGEL, La Scienza della logica, vol. 1. Laterza, Bari 2008, p. 54.

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sua apparenza. Non vi sarebbe possibilità dell’inizio, l’inizio come possibilità, se la manifestazione del contenuto logico non promuovesse un semplice lasciar accadere, se non si affermasse in quella scena, chiamata da Hegel un po’ enigmaticamente accoglienza di ciò che “ci sta dinanzi”. Dinanzi è ciò che rimane di fronte a una manifestazione nella quale non c’è differire tra apparenza e apparizione, dove la manifestazione espone la fine di ogni pre-supposto, dove il contenuto porta con sé tutto l’orizzonte della sua manifestazione. Ora, si può stare dinanzi a qualcosa solo se questo differisce dal suo orizzonte di manifestazione: infatti la differenza con cui un primo piano differisce da un secondo piano è la medesima differenza con cui qualcuno sta dinanzi al primo piano di apparizione. Così, all’inverso, l’impossibilità di arretrare in un secondo piano per un soggetto è la fine del suo essere innanzi nella possibilità di celare il suo non esposto nella scena d’apparizione. Ma ecco il dramma: qui “in questo cominciamento” lo star dinanzi continua a sostare alla deriva del momento logico. Il suo sorvolo continua a fare eccesso sul movimento della cosa stessa. Continua a marcare come un’ombra il movimento del contenuto logico. Come osservarono con sobrietà aristotelica i primi critici della grande logica, il lasciare accadere di un inizio, convergente nella fine, comporta la sovrabbondanza di un attivismo visivo che da un secondo piano orienta e dirige la deduzione. La filosofia non espone il suo ritiro mentre dichiara la necessità del ritiro di ogni presupposto. Non fa ritiro di sé mentre in qualche modo afferma di comprendere che solo in un contenuto ritirato nella sua manifestazione si darebbe l’apertura di un inizio. Strano dramma della filosofia nel suo momento di maturità, in cui si porta a maturazione e capitolazione un intero ciclo della filosofia post medievale: nel momento in cui niente deve restare fuori dall’abbraccio della filosofia, la filosofia stessa si segnala come il fuori di questo abbraccio. La filosofia si rivela la meno esperta dell’inizio. Dopo avere com-

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preso la radicalità dell’implicazione di una manifestazione in un ritiro, essa si dimostra la meno esperta di un inizio in cui converga l’esperienza di un ritiro. Inesperta di un puro evento o di un evento d’eccezione. La filosofia potrà concorrere all’inizio solo nella sua fine: questo è uno degli esiti epocali di questo dramma del cominciamento della Logica hegeliana. Il dramma hegeliano del cominciamento è ancora più a fuoco alla luce di quella radicalizzazione della kenosi cristiana dell’energheia aristotelica. Qui la filosofia moderna è sul punto di ritrovare una interna dissociazione nell’esperienza ontoteologica. Nel momento in cui la filosofia si scopre inesperta di un evento di ritiro (di cui pure dichiara la radicalità per l’esperienza di un’apertura) una teo-ontologia è sul punto di decostruire una certa onto-teo-logia. La teologia sarebbe più esperta della filosofia per un’esperienza nella quale una figura d’esposizione possa costituire la scena d’evento per il quale non sia più possibile procedere verso il limite di un fondamento primo o verso l’ulteriorità di un’origine prima, medesima topo-economia per la quale il gesto della filosofia si troverebbe esposto nell’impossibilità di arretrare in un secondo piano. Quindi verso la possibilità di far velo al proprio stesso eccesso. Come si sa, dopo Hegel, questa fine non cesserà di propagarsi nel corpo della filosofia disperdendola in mille direzioni. La più feconda e radicale sarà di concepirsi come prassi di trasformazione. Uno dei passaggi di questa fine sarà il trapasso marxiano per il quale la filosofia concorre all’inizio come filosofia della prassi, concorre all’inizio come una speciale scienza della trasformazione sociale.

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Nell’eredità di Emmanuel Levinas

1. Scrive in questo modo Levinas in Altrimenti che essere, nel paragrafo intitolato Ispirazione e testimonianza: «Questa passività della passività e questa dedica all’altro, questa sincerità è il Dire. Non comunicazione di un Detto che subito ricoprirebbe e estinguerebbe o assorbirebbe il Dire, ma Dire che mantiene aperta la sua apertura, senza scuse, senza evasione né alibi, abbandonandosi senza dire niente di detto. Dire dicente il dire stesso, senza tematizzarlo, ma esponendolo ancora»1. Più avanti, Levinas indica, in questo segno fatto ad Altri, l’estrema tensione del linguaggio, il per altro stesso della prossimità. Lo indica come la sincerità stessa dell’eccomi, di un eccomi che rimanda a quella speciale fenomenalità senza fenomeno che Levinas chiama anche gloria. All’evento della gloria corrisponde la sincerità del Dire, il Dire come speciale esposizione di un linguaggio che non si esaurisce o si copre nel Detto. Più avanti sempre nello stesso paragrafo Levinas scrive in questo modo: «La gloria dell’Infinito si glorifica in questa responsabilità, non lasciando al soggetto alcun rifugio nel suo segreto che lo proteggerebbe contro l’ossessione per l’altro e coprirebbe la sua evasione»2. 1. E. LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 179. 2. Ivi, p. 181.

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In un altro punto, poco più avanti, Levinas è ancora più esplicito e consegna questa nozione ad una delle immagini più straordinarie della filosofia del Novecento. Scrive in questo modo: «Io sono stato da sempre esposto alla convocazione della responsabilità, come posto sotto un sole di piombo, senza ombra protettrice, in cui svanisce ogni residuo di mistero, fine attraverso il quale la fuga sarebbe possibile»3. Viene evocata qui l’esposizione. La nozione complicata e difficile di evento esposto. Di un evento esposto, solo nella dismisura di una esposizione all’esposizione. Esposto in quanto senza copertura, esposto in quanto sincerità senza veli, esposto ad una esposizione che non ha niente in cui sottrarsi o velarsi. 2. In questi passi, così apparentemente rapidi e persino vulnerabili, circola una delle lezioni più straordinarie che Levinas ci lascia in eredità. Cercheremo, seppure rapidamente, di portare quasi all’enfasi la forza di alcune coerenze interrogando innanzi tutto il rapporto tra velatura ed esposizione. Poiché, lo abbiamo già intravvisto, la sincerità è una nudità senza veli, così come la gloria non ha un secondo piano in cui potersi sottrarre. Vedremo che cosa questo comporti per il Dire stesso della filosofia. Poiché il Dire della filosofia qui è richiamato come una figura che deve farsi, in qualche modo, esemplare dell’esposizione stessa del dire nel detto, quindi di quella speciale apertura del Detto che Levinas chiama Dire. Che cosa deve implicare per la filosofia un Dire esposto senza velature? Che cosa comporta per la filosofia questo aderire alla fenomenalità di un evento esposto nella sua nudità, esponendosi a sua volta senza veli? Che cosa ha da apprendere la tradizione del pensiero critico da questa difficile questione che in fondo richiama il tema della riduzione fenomenologica? Non è questo anche un momento cruciale per un confronto 3. Ivi, p. 182.

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radicale con il Dire di Heidegger? Il dire e il detto nella filosofia di Heidegger corrisponderebbero oppure no a questo appello alla nudità richiamata in questi passi così difficili di Altrimenti che essere? Potremmo affermare, ad esempio, che il Dire di Heidegger si esponga nell’apertura di una sincerità la cui modalità farebbe testimonianza in una singolare impossibilità di andare in un secondo piano, e quindi non sottrarsi sotto una qualche velatura? 3. Da Levinas apprendiamo a pensare un singolare rapporto tra velatura e svelatura come il tratto eminente o il carattere costitutivo dell’ontologia. Di una ontologia che non farebbe davvero i conti con l’assunto di una radicalizzazione dell’istanza fenomenologica per eccellenza. Come se da questi passi di Levinas apprendessimo ad apprezzare ancora di più la radicalizzazione heideggeriana dell’imperativo fondamentale della fenomenologia, quell’imperativo per il quale la filosofia sarebbe chiamata, nel giusto metodo, ad aderire al mostrarsi della pura fenomenalità, ma al contempo verificassimo, per la forza di quei passi di Levinas, la permanenza di una speciale intimità in Heidegger tra velatura e svelatura. Come se, dopo Levinas, in una particolare interpretazione e ripresa della sua lezione, fossimo autorizzati a riconoscere, in Heidegger, una tensione irrisolta tra velatura e svelatura. Una questione seria che coinvolge la riduzione fenomenologica, quindi la potenza stessa della distruzione, infine una impossibilità ad esporre il Dire stesso della filosofia nella sincerità di un evento impossibilitato ad andare in un secondo piano. 4. Questo confronto tra Levinas e Heidegger sul rapporto, insidioso e difficile, tra velatura e svelatura può diventare ancora più importante e decisivo se riconosciamo che proprio Heidegger impone a se stesso, molto precocemente, di dissociare la fenomenalità dalla velatura. Assai prima di Levinas, Heidegger

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radicalizza la fenomenalità come non nascondimento. Il non nascondimento chiama sempre in causa una particolare esposizione. Appartiene alla medesima famiglia dell’esposizione della nudità di Levinas ed entrambe appartengono a quella svolta della fenomenologia che Jannicaud, come si sa, ha chiamato versante teologico della fenomenologia. Per entrambi un non nascosto esposto radicalizza l’idea che l’apparire fenomenologico, portato all’estremo del suo apparire, si converte con una certa inapparenza. L’esposizione proviene, per entrambi, dunque, da quel momento nel quale ciò che appare nel modo più eminente, l’apparire per eccellenza, si converte con un inapparente. E per entrambi tutto questo non abbandonerebbe il terreno della visibilità fenomenologica, ma la interpreterebbe nella coerenza più radicale. 5. In Essere e Tempo troviamo un passo di straordinaria forza che meriterebbe un’enfasi speciale, un commento tenace e un’ermeneutica instancabile. Un passaggio che ha il grande pregio di portare a fuoco e concentrare una delle intuizioni più precoci e più persistenti del lungo travaglio filosofico e fenomenologico che lo precede. Dice la seguente cosa: «Essere velato è il contrario di “fenomeno” (Verdecktheit ist der Gegenbegriff zu “Phänomen”)»4. In questo passo, in modo particolarmente efficace, si evoca lo statuto della fenomenalità, quindi lo statuto della differenza ontologica. Se l’essere velato è il contrario di fenomeno la fenomenalità è nel non essere velato. Questa formulazione non fa altro che esprimere in altro modo ciò che Heidegger molto precocemente chiamerà il non nascosto. Altro modo ancora di dire il già sempre compreso, prima, di un prima senza tempo, di ogni comprensione. Il fenomeno è dunque il non nascosto in quanto non velato. 4. M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, cit., p. 61.

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Proprio in quanto non nascosto è irriducibile alla soglia di una semplice presentazione. Tutto questo, seguito nel rigore delle coerenza che impone, che impone allo stesso Heidegger, e che forse consente di misurare alcuni momenti cruciali del suo enorme e persino smisurato lavoro speculativo, indica che lo s-velamento non può attraversare la soglia dell’apparire. Pur essendo la modalità di ogni possibile asserzione, di ogni giudizio, pur dovendo e potendo affermare che l’ente si disvela per il Dasein, questo disvelarsi non s-vela il non nascondimento. Se disvela l’ente nell’asserzione e nel giudizio è proprio perché non s-vela la fenomenalità per eccellenza come non nascosto, in quanto non velato. In quel passo dunque si afferma che non si dà fenomenalità, quindi non ci si trova all’altezza della differenza ontologica, si confonde la differenza ontologica con una semplice differenza, se essa si mostra nella soglia di una velatura. 6. Heidegger, come si sa, acquisisce molto presto la persuasione che la non esperibilità della vita effettiva non sia una situazione diffettiva, una manchevolezza della vita reclamante un qualche intervento di sostegno o di rischiaramento. Questa inesperibilità-impensabilità è l’orizzonte stesso dell’effettività. Non c’è vita effettiva, non c’è effettività della vita il cui come possa in qualche modo diventare un’esperienza possibile. Al contrario la possibilità dell’esperienza effettiva è tutta concentrata su questa inesperibilità. Essa è la modalità del vivere effettivo. Il come proprio dell’effettività. Il giovanissimo Heidegger aveva già acquisito l’idea che la domanda della tradizione filosofica che cos’è?, la formula centrale del domandare filosofico, fissato nella determinazione del che cos’è, debba flettersi in un altro modo per raggiungere o corrispondere alla modalità di quel come. Poiché il come non è esperibile tematicamente nessuna filosofia sarebbe all’altezza del compito se non fosse in un qualche modo la ripetizione del

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come di questa inesperibilità. Non si tratta di rendere esperibile l’inesperibile ma di ripetere, intensificare la modalità inesperibile dell’effettività. Si tratta di aderire al mostrarsi di quel come effettivo. Si tratta di aderire al suo apparire inapparente, di ripetere il paradossale mostrarsi della sua inapparenza. Poiché l’imperativo fondamentale della fenomenologia rimanda a ciò che appare nel modo più eminente non può che coinvolgersi nel come dell’effettività inesperibile, in quanto apparire per eccellenza, in quanto apparire fino al punto dell’inapparenza. La ripetizione di questa esperibilità deve compiersi con il metodo della fenomenologia. In questa coerenza stretta ed inflessibile che Heidegger si autoimpone sin dai tempi di Friburgo, come un pegno della sua adesione alla pretesa fenomenologica, non nascondimento e non velatezza affermano la medesima cosa. Se l’essere velato è il contrario di fenomeno, l’essere dell’ente nella sua nudità, in quanto non velato, è il più esposto di tutti. Tanto esposto da essere inapparente, di una inapparenza tuttavia che non si confonde con un semplice non essere manifesto. Una inapparenza esposta come non velata. 7. Tutto questo porta con sé una conseguenza radicale e in un certo senso temibile per la tradizione della filosofia, per la stessa prova di una analitica esistenziale, per la stessa impresa, così dovremmo dire, di un pensiero dell’essere: il non nascostonon velato non può accadere nella modalità di un sotto velo, in questo senso non è s-velabile. La svelabilità in quanto tale non potrebbe rispettare lo statuto della fenomenalità. Non rispetterebbe l’enunciato fondamentale della fenomenalità. Non rispetterebbe l’insidia che l’imperativo fenomenologico intende costituire per ogni metafisica. Se un qualche velo fosse il come del suo mostrarsi, si confonderebbe un mostrarsi o forse un rivelarsi con uno svelarsi e la filosofia perderebbe la sua occasione fenomenologica e sa-

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rebbe risospinta verso la metafisica, la cui passione elementare non sarebbe mai riconoscibile senza un speciale intimità con la svelatura. Quindi se un qualche velo svelasse il fenomeno, esso sarebbe non solo il semplicemente nascosto, ma sarebbe ciò che presenta qualcosa da nascondere. La fenomenalità non ha niente di nascosto, niente da nascondere, niente che possa mostrarsi nello sfondo di un secondo piano. La fedeltà radicale al principio della fenomenologia dunque richiede un’adesione ad un non nascondimento che deve dissociarsi da ogni pratica di velatura. Se il fenomeno è il senza velo, ogni pratica o scena di velatura manca la fenomenalità. Capire questo passaggio è essenziale non solo per conservarsi fedele alla cosa stessa come fenomenalità, ma anche, nello stesso tempo, per tracciare il raggio intorno a cui si delimita la pratica della metafisica. Si può dire infatti, in queste coerenze che vogliamo seguire fino in fondo, che la metafisica coesiste sempre con un orizzonte di svelamento. Essa si rilancia ogni volta che una velatura diventa la soglia svelante del fenomeno. 8. A questo punto possiamo trarre una prima conclusione: Levinas e Heidegger appartengono, ha ragione Jannicaud in questo, al medesimo versante di torsione della tradizione fenomenologica. In entrambi la fenomenalità accade nell’esposizione di una speciale nudità, di una nudità come non nascondimento, o come esposizione. Come sappiamo questo aspetto non è del tutto riconosciuto esplicitamente dalla interpretazione che Levinas compie di Heidegger. Come sappiamo l’interpretazione di Heidegger da parte di Levinas può dare l’impressione di un giudizio impreciso, imprudente, persino ideologico. Non sarebbe difficile per un interprete attento mostrare in vario modo questa parzialità. Tuttavia, vedremo ora, seguendo alcune coerenze della lezione e dell’eredità di Levinas, come potrebbe svilupparsi la sua cri-

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tica. Come questa critica potrebbe coinvolgere il momento nel quale essi sembrano in fondo meno lontani e cioè la questione di una fenomenalità come esposizione non nascosta. La fenomenalità esposta, esposta nel ritiro del volto espone a sua volta in una certa impossibilità di andare in secondo piano. Che cosa comporta tutto questo per il Dire della filosofia? Questa esposizione del Dire è per Levinas l’unica possibilità di fare testimonianza della gloria stessa dell’infinito. Un Dire esposto, disdetto dal detto, è un Dire che non può velarsi in un qualche nascondimento. Che disdice il detto nello stesso momento in cui non ha più veli sotto cui sottrarsi e far segreto. Se il Dire della filosofia non si espone in questa non velatura sarà sempre un Dire del linguaggio dell’ontologia e questo dire svelante non sarà mai all’altezza del non nascondimento della fenomenalità. Un Dire esposto, ciò che Levinas chiama un dire dicente il Dire stesso, non richiama nessuna evidenza di presenza o di assenza. Così come con la nozione di non nascondimento, non si ha a che fare con una presenza o un’assenza. L’esposizione chiama sempre in causa un ritiro sottratto tuttavia all’evidenza di una semplice differenza o un semplice mancare o venir meno. Mentre Heidegger ritiene che solo una svolta verso l’ontologia salverebbe la fenomenalità come non nascondimento, Levinas risponde che l’ontologia non può che coinvolgere ogni volta una certa idea di manifestazione la quale implica l’impossibilità di sottrarsi ad una logica di velatura. L’ontologia non sarà mai in grado di radicalizzare la fenomenalità nel senso di un ritiro esposto. È come se Levinas affermasse contro Heidegger: solo la gloria del volto espone un ritiro come non nascondimento, solo in questo evento di non nascondimento, nudità senza veli, si può ritrovare quel già sempre compreso che Heidegger cercava sin dai tempi della vita effettiva di Friburgo, un già sempre compreso come già sempre accaduto, immemorabile. Solo il volto espone un ritiro verso cui la filosofia stessa si trova esposta nella nudità di un Dire che non si cela

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in una qualche velatura. Se l’essere dell’ente non ha l’imminenza del volto la filosofia sarà come impossibilitata di compiere quella riduzione o distruzione di ciò che potremmo chiamare la sua passione ontologico-metafisica. 9. Per comprendere meglio questo momento di divaricazione tra Heidegger e Levinas sul tema della nudità e della velatura, sul rapporto tra velamento e svelamento, dobbiamo porci una domanda che forse aiuta a concentrare in pochi passaggi le questioni decisive. Dovremmo chiederci: il volto di Levinas accade in una qualche variante della figura del thauma? Si potrebbe dire che un thauma possa esser evocato qui come la soglia di una particolare convocazione, come se l’Eccomi fosse il contraccolpo di un evento thaumatico? Leggiamo con attenzione questo passo. Levinas scrive: «Lo splendore della traccia è enigmatico, cioè equivoco in un senso che lo distingue dall’apparire del fenomeno»5. Che una traccia possa irradiare uno splendore può colpire. Non è frequente che Levinas valorizzi la figura dello splendore, eppure non cogliamo la visibilità invisibile della traccia senza la saturazione di questa luce. La traccia splende come la stessa invisibilità della gloria. Questa claritas della traccia meriterebbe un’enfasi speciale. Non a caso ha avuto nella fenomenologia degli ultimi decenni importantissime riprese. La saturazione di questa luce non rimanda tanto ad un eccesso che farebbe pressione incontenibile sulla presa intenzionale, ma piuttosto ad un’impossibilità di passaggio, qualcosa di aporetico segna lo splendore di questa traccia. Questa visibilità satura traduce una traccia che si cancella nel suo stesso tracciamento. Traccia che non rinvia a ciò che manca. Che non fa segno a ciò che manca, che non presenta un’assenza che manca. Nessuna presenza d’assenza o nessuna 5. E. LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 17.

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assenza che si presenta. Non si tratta solo di una mancanza, di un rinvio ad un’assenza, ma della cifra di un’assenza per ciò che non ha mai avuto presenza. Mai stato presente, scrive Levinas. Ma, ancora di più, nello splendore di questa traccia si respinge tutta una dialettica che pretende di fare del venir meno, quindi di una traccia d’assenza, la soglia svelante della fenomenalità. La nudità di questa luce satura richiama questa impossibilità di svelatura a partire da una qualche esperienza di un venir meno. Il venir meno qui è già sempre venuto meno, già sempre ritirato nel suo essere esposto per poter essere sotto traccia di una indicazione che svela. L’enigma di cui parla Levinas non dice altro che questa impossibilità di svelamento. Possiamo dire anche la seguente cosa molto impegnativa: questa traccia senza rinvio ad una presenza mancante, questa traccia senza contraccolpo di un’evidenza di un venir meno non ha nulla a che fare con lo stupore del thauma. Forse non capiamo a fondo la coerenza estrema che spinge Levinas a marcare di splendore questa traccia se non insistiamo quanto è necessario su quella distinzione dall’esperienza del thauma con cui la filosofia, da sempre, racconta a se stessa il proprio stesso inizio e la sua vocazione. Non capiamo la sua lontananza o estraneità alla tradizione dell’ontologia, lo stesso confronto con Heidegger, se non separiamo risolutamente la chiamata del thauma dalla chiamata della traccia immemorabile. Occorrerebbe proprio dire così: vocazione e inizio, un certo inizio come vocazione o chiamata o richiamo. Nell’inizio del thauma, del thauma come inizio, ne va di una certa chiamata. 10. Nella lezione e nell’eredità di Levinas ci stiamo dunque chiedendo se la fedeltà a quel non essere nascosto, con cui la fenomenologia insidia la dimostrazione metafisica, abbia a che fare con la soglia di questo stupore. Se il thauma di questo stupore sia in qualche modo, ogni volta, per la filosofia la ripeti-

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zione di ciò che la fenomenologia si impone di conseguire. Ci chiediamo insomma se il non essere nascosto si ripeta, magari, intensificandosi, nel thauma e quindi si affermi ogni volta che la filosofia vive e si rilancia nel suo stesso inizio, oppure, al contrario, in totale divaricazione, se il thauma non sia l’inizio stesso della passione metafisica con un punto cieco verso la fenomenalità dell’apparire. Altra economia rispetto alla traccia senza rinvio ad un’assenza mancante del volto. Per questo, nel solco di questa eredità di Levinas, seguendo la sua critica alla tradizione dell’ontologia, potremmo reinterrogare un famoso passo del Teeteto. Laddove Teeteto descrive la meraviglia in questo modo: «In verità, o Socrate, io sono straordinariamente meravigliato di quel che sono queste “apparenze”: e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini». (Teet., 155e). Pochi altri testi come questo ci dicono compiutamente l’esperienza in cui da sempre la filosofia documenta e racconta a se stessa la propria nascita o la propria origine. Dove si racconta, si tramanda e si ripete il suo proprio inizio, il richiamo del suo inizio. Un richiamo o una chiamata che non capiremo mai nella giusta tensione se non cogliamo il rapporto tra uno sguardo che da un certo punto in poi si trova a fissare le apparenze e la vertigine. 11. Il passo riferisce l’attività del fissare qualcosa, del fissarlo secondo un imperativo nuovo che sopraggiunge, e sottolinea poi il momento di una vertigine, uno sguardo preso dal movimento di una vertigine. L’apparenza di Teeteto trema sprofondando nello stesso sguardo che prende a fissare, come se fosse il punto d’origine in cui cade la vertigine. Più intensa è l’istanza di fissazione maggiore è il grado della perdita, più intensa la vertigine, più grande la passione per l’originario. Dal suo inizio e nel suo inizio la filosofia riferisce se stessa non

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tanto allo stupore del meravigliarsi in quanto tale, ma a ciò che meraviglia nel momento di una vertigine. A ciò che sorprende nel venir meno di un’apparenza, in quanto apparenza che sprofonda in un senza fondo. La meraviglia è come il tremito di questa vertigine. E la vertigine è il venir meno di un particolare fondo dell’apparire. La vertigine non vi sarebbe senza la fissità di un punto, senza questo rimando animatissimo tra un fissarsi e un venir meno, un venir meno ed un fissarsi. Con un’enorme complicazione che non si cesserà mai abbastanza di evidenziare: un fondo che viene meno, proprio come un suolo che sprofonda sotto i nostri piedi, non cessa di prodursi e farsi avanti nel suo venir meno. Come se l’origine sopravvenisse nella filosofia nell’avanzare di questo fondo, nella meraviglia stessa di questa vertigine, nel cuore del rapporto tra fondo e vertigine. Come se la passione per il fondamento o per l’origine fosse nella meraviglia di questo venir meno. Fosse il portato del venir meno, il suo stesso contraccolpo, con qualcosa di decisivo in comune con quel fissarsi di cui parla Teeteto. Non possiamo separare in alcuno modo un venir meno da un certo fissarsi e un certo fissarsi da un venir meno. Il fissarsi porta con sé la caduta nella vertigine e la caduta in una vertigine a sua volta chiama la necessità di una fissazione. 12. Nella lezione di Levinas potremmo dire che sia sempre una grave omissione o un grave errore ritenere che l’origine e il fondamento siano alla fine dello sprofondare o dell’attraversamento, come un secondo momento, come il dopo di un prima, in realtà dobbiamo pensarli nella loro indiscernibilità se vogliamo recuperare l’ampiezza del raggio con cui opera la forza della passione ontologico-metafisica. L’idealità di un’essenza, tutto il lavoro di idealizzazione, l’intera economia della domanda che si tende come un arco sulla

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questione del che cos’è?, incrementa l’instabilità del tema nel momento stesso in cui lo assicura. Non c’è mai stata vera opposizione tra l’idealizzazione in cui si cerca l’identità di certezza e verità e l’instabilità da cui proviene la forza della domanda fondamentale con cui da sempre la filosofia pensa il proprio inizio. L’idealizzazione sta alla vertigine come il punto fisso in cui essa sprofonda. Per questo non si coglie mai l’istanza metafisica senza coniugare bene i due lati di questo unico momento per il quale la fondazione di qualcosa appartiene alla medesima scena nella quale un fondo viene meno. La meraviglia del thauma dunque è come l’arco teso tra la fissità e la vertigine. Un arco i cui i momenti sono l’idealizzazione e la vertigine ma la cui tensione attraversa la soglia di un venir meno. C’è sempre un venir meno tra l’idealizzazione che fissa nell’assicurazione e la vertigine aperta nel punto stabile del fondamento. Quando nasce la domanda del fondamento, quando il che cos’è? incomincia a circolare con l’insistenza dell’onda sulla batigia, l’orizzonte dell’apparire ha come perduto qualcosa di essenziale della sua apertura. Così se l’inizio della filosofia è segnato da l’arco di tensione tra fondamento e vertigine esso è già un punto cieco verso ciò che la fenomenologia richiama come l’apparire fenomenale. In particolare quando lo richiama all’estremità della sua inapparenza. 13. Nel thauma la fenomenalità è perduta, già perduta, o meglio più precisamente, avvertita (in qualche caso, qualche volta) come venuta meno. In questo senso il venir meno diventa la soglia di accesso alla fenomenalità in quanto tale. Sembra essere la soglia d’accesso privilegiata alla fenomenalità: il metodo con il quale la filosofia, come ontologia, ritiene di accedere alla fenomenalità. Approfondire il venir meno sembra poter guadagnare l’essere dell’ente. Il venir meno diventa la traccia che svela l’essere dell’ente. Che traccia lo svelarsi dell’ente nel suo essere. Proprio in questo punto diventa impegnativa la lezione

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di Levinas e la sua critica alla tradizione dell’ontologia. Poiché proprio in questo punto, così delicato, il non velato della pura fenomenalità, il non nascosto dell’apparire di un ritiro esposto si manifesta nella logica di uno svelamento. Il thauma si sovrappone e in qualche modo fa da velo svelante al volto perdendo l’imminenza della sua traccia senza rinvio. Levinas direbbe che la traccia del volto non ha niente di un’esperienza di un venir meno. Il ritiro esposto del volto non appartiene alla logica del mancare, non è un apparire che trema del suo possibile assentarsi; nel volto non c’è fondo in cui si possa sprofondare, così come non c’è nessuna possibilità di fissare l’ancoraggio di una presa teoretica. Il volto non è svelabile come è invece svelabile l’esperienza del fenomeno del thauma. Il thauma è esperienza della svelatezza del fenomeno, mentre le visage è proprio ciò che la svelatezza perderebbe nella sua nudita d’evento esposto nel suo ritiro. Nella lezione di Levinas dovremmo dire che cambia la natura e l’economia della chiamata. Il richiamo di un fenomeno svelato nel thauma non è la medesima chiamata della traccia splendente del volto. Enorme tema, come si vede, di un confronto possibile con la chiamata di Heidegger, con il richiamo di coscienza del Dasein. Come se, seguendo e interpretando Levinas e la sua critica alla tradizione dell’ontologia del pensiero dell’essere, fossimo autorizzati verso questa ipotesi estrema: in Heidegger sarebbe al lavoro ancora una qualche variante dell’antico thauma. Una qualche variante di questa esperienza di svelatezza farebbe da metodo nel circolo dell’analitica esistenziale. Una qualche variante dell’esperienza thaumatica impedirebbe ad Heidegger di dissociare fino alla fine l’essere come non nascondimento, quindi la fenomenalità non velata dalla economia di uno svelamento. In questo modo Heidegger non riuscirebbe a portare alle estreme conseguenze quel principio a cui pure egli si rimanda e che per primo pone in modo decisivo e cioè la fenomenalità come non nascondimento.

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14. Nella coerenza di questa ipotesi dovremmo trovare in Heidegger la conferma in un qualche rapporto tra una voce che chiama o richiama e una certa esperienza del venir meno. Un venir meno farebbe da richiamo e offrirebbe il metodo di un accesso alla fenomenalità del proprio. In questo venir meno ritroveremmo il thauma e una speciale elezione che la filosofia si trova a ricevere nel momento in cui formula le sue domande fondamentali. In Essere e Tempo questo richiamo lo ritroviamo come raccordo di ogni passaggio decisivo. Compare ad esempio anche in un passo esemplare come il seguente: «Quando non si trova qualcosa al suo posto, la prossimità ambientale si rende esplicitamente accessibile come tale»6. Una cosa non trovata al suo posto, non trovata laddove da sempre stava, perduta o venuta a mancare nel suo essere presente, nella prossimità di una presenza in familiarità preveggente, ritorna come un fantasma richiamando nella sorpresa. Il suo venir meno la richiama e, in questo richiamo, il soggetto si ritrova a sua volta ri-chiamato. Il punto sul quale tutto si concentra, il momento di flessione interno di questo richiamo, riguarda questa particolare esperienza del venir meno del familiare. Occorre che qualcosa venga meno perché si apra un qualche accesso al non nascosto. Come se nell’economia di un venir meno si risalisse da una copertura verso una s-copertura. Come se dovessimo trapassare nel contraccolpo di un venir meno perché cada la velatura di una copertura. Il non trovare qualcosa al suo posto, quindi avvertirlo come mancante, non più presente, avrebbe l’efficacia di una ripetizione intensificata del suo essere stato presente nella fenomenalità del non nascosto. Occorre essere colpiti o ri-chiamati in questo venir meno perché la visione ambientale preveggente lasci constatare l’utilizzabilità come tale. Se la visione ambientale non fosse sotto il 6. M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, cit., p. 186.

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richiamo del venir meno, quindi nel cono di un qualche sobbalzo, in qualche modo sorprendente, la speciale intimità del Dasein nel rimando degli utilizzabili, resterebbe nascosta o velata, inaccessibile nel come della sua inaccessibilità. Il venir meno porterebbe dunque in dono un inizio che a sua volta convergerebbe con una qualche evidenza (cos’è il constatabile se non l’iperbole per uno speciale grado di evidenza verso cui si sarebbe sotto richiamo?) dell’orizzonte stesso della preveggenza ambientale. Una qualche evidenza che occorre certo difendere da ogni indice di presentabilità, la quale tuttavia offrirebbe una modalità d’accesso, di cui proprio il sorprendersi presenterebbe in qualche modo il metodo e la via. Colti di sorpresa ci troveremmo disposti nel giusto modo verso la visione ambientale preveggente. Sorpresi nel contraccolpo di un venir meno che richiamerebbe verso la preveggenza ambientale come tale. 15. Nel corso I problemi fondamentali della fenomenologia, nella sezione dedicata alla temporalità, Heidegger scrive: «Il sentire la mancanza non è però solo la scoperta di ciò che non è utilizzabile, ma è anche una esplicita presentificazione proprio di ciò che è già utilizzabile, o almeno di ciò che lo è ancora. La modificazione dell’assenza, che riguarda quella presenza che appartiene alla presentificazione propria del commercio con le cose e che è data nel sentire la mancanza, fa risaltare proprio ciò che è utilizzabile»7. Qui troviamo ancora più chiaramente la nozione del venir meno o del mancare come apertura stessa della fenomenalità. Più avanti parlerà di schema della temporalità. Il venir meno avvertito come tale, farebbe risaltare la significatività dell’utilizzabile. In qualche modo ripeterebbe intensificandola l’esperienza del non essere nascosto. L’assen7. M. HEIDEGGER, I problemi fondamentali della fenomenologia, Il melangolo, a cura di A. Fabris, Genova 2010, p. 298.

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tarsi come venir meno, come essere-per-la-morte svela, compie un richiamo di svelamento della fenomenalità. Fa richiamo e avvertenza nel thauma del non essere più presente, thauma del non essere più al suo posto dell’ente, del suo essere fuori posto. Lo svelarsi si ritrova nella piega di assenza e presenza. L’assenza vela la presenza svelandola come tale. Del resto questo modificarsi di una presenza in una assenza è il carattere proprio della temporalità. Per Heidegger non comprendiamo la temporalità al di fuori di questa intimità essenziale di essere e niente, di presenza e assenza. Heidegger introduce non a caso quasi immediatamente la nozione di niente: la negatività come assentarsi della presenza rimanda naturalmente al niente. Rimanda naturalmente all’intimità di essere e niente la quale riceve tutto il suo significato dall’esperienza del venir meno o del sempre possibile assentarsi dell’ente presente. Non casualmente ogni volta che Heidegger pensa la negatività come niente Hegel è chiamato in causa in una prossimità sconcertante. 16. Come rileggere questi passi di Heidegger nella lezione di Levinas? Come confrontare questo richiamo della negatività, dell’essere-niente, con la traccia che non rinvia a nulla di propriamente presente né assente? Se il venir meno di quel passo di Essere e Tempo traccia l’assenza di una presenza e dialettizza presenza e assenza, la traccia del volto non fa segno di un venir meno poiché la gloria dell’evento non ha mai fatto a tempo ad accadere. Ritirato dalla presenza senza la copertura di una possibile assenza. Ritirato senza venir meno, senza pathos o thauma di un venir meno. Il richiamo di Levinas non è il contraccolpo di un venir meno, non accade nel limite dell’essere-per-la-morte. Nella sua lezione dovremmo dire che il thauma con cui la filosofia racconta a se stessa il proprio inizio, la chiamata del proprio inizio, non solo le impedisce di cogliere il nesso tra fondamento fissato in una presenza e l’abissalità di un senza fondo, ma offre alla filosofia

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il privilegio di un accesso privilegiato alla fenomenalità. Il detto della filosofia assume l’elezione e il privilegio della manifestazione. Dovremmo forse dire in questo modo, nello sviluppo di queste coerenze: quando l’esperienza del thauma anima l’orizzonte dell’apparire, il ritiro esposto del volto con la sua apertura si trova sotto l’istanza di una qualche copertura o di una qualche appropriazione. Il thauma copre come un velo la non svelabilità del richiamo del volto. Il velo non è altro che la natura svelante in cui appare il fenomeno nel momento del suo venir meno, nel contraccolpo del suo venir meno. L’ontologia o ciò che Levinas chiama il pensiero dell’essere non è altro che la modalità con cui la filosofia aderisce e ripete questa svelatezza del venir meno. La filosofia stessa si pensa come luogo dello svelamento dell’essere, accesso privilegiato in cui si offre lo svelamento. In questo modo però si stabilisce un rapporto indissolubile tra svelamento e non nascondimento. Si pretende di raggiungere il non nascondimento della fenomenalità mediante il lavoro di una qualche svelatura. Sottostimando tuttavia quanto sia complicato il lavoro della riduzione, quanto sia complicato cioè sottrarre il velo che fa da copertura al non nascondimento. Sempre negli sviluppi della lezione di Levinas noi comprendiamo meglio come il velo che copre la fenomenalità del non nascosto non è qualcosa che la filosofia possa sollevare semplicemente a partire dalla forza dei propri enunciati, a partire cioè dalla natura del detto, per ricordare le parole di Levinas che prima abbiamo citato. Questo velo che copre non è qualcosa di diverso dal privilegio elettivo con cui la filosofia assume il luogo privilegiato della manifestazione. Questo velo che copre non è qualcosa di diverso dalla modalità con cui la filosofia come ontologia interroga lo svelarsi dell’ente nell’esperienza del thauma. Ma se il velo che fa da copertura attraversa l’istanza stessa della filosofia nella modalità della sua originaria istanza ontologica, togliere questo velo non può che

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significare un momento radicale di riduzione verso il gesto più originario della filosofia stessa. Togliere il velo dunque se non vuole riproporre la scena ontologica di un semplice svelamento che non rispetta la non svelabilità del non nascosto, se non vuole riproporre il gesto di chi guarda al di là del velo o nelle profondità del suo segreto, deve coincidere con una ritiro stesso di quel gesto della filosofia che si orienta a partire dalla domanda dell’ontologia. Levinas chiama questo ritiro o riduzione radicale, lo abbiamo visto, deposizione del detto nel Dire. La filosofia ritira la sua istanza di velatura, la sua copertura del non nascondimento, se rinuncia alla svelatura del detto esponendosi nella nudità esposta del Dire. 17. Non si può confondere dunque ritiro e venir meno, allo stesso modo per il quale la differenza ontologica verrebbe consegnata ad una pratica metafisica se essere ed ente fossero in differenza, se una semplice differenza segnasse il differire di essere ed ente. Dopo Heidegger noi sappiamo bene che l’essere dell’ente non è un ente, sappiamo meno bene che questa differenza non riguarda un differire. Lo sappiamo meno bene, se è consentito valorizzare tutta l’enorme ambiguità di questo sapere di non sapere, poiché in nessun altro momento come in questa in-differenza con cui si dovrebbe nominare una differenza che non concede nulla al differire, è in gioco la scena stessa della filosofia, diciamo pure l’arte o la tecnica con cui si mette in opera, l’istanza con cui avverte di corrispondere ad un appello. In nessun altro momento come questo in cui la filosofia si obbliga, auto-obbliga, a evitare in ogni modo che l’essere dell’ente non sia un ente ma neppure in differenza dall’ente, essa può e deve pensare la differenza come un ritiro. Ma un ritiro senza modalità di una differenza, un ritiro senza traccia di differire, non può che coinvolgere la filosofia e la sua pratica, non può che coinvolgere un certo ritiro della filosofia medesima, una speciale capacità di fare epoché

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di quello stesso appello da cui sembra ricevere il privilegio verso l’apertura della differenza di essere ed ente. In questo senso la dissociazione di un ritiro da un venir meno comporterà la pratica attiva di una decostruzione. Il venir meno è sempre il tentativo di pensare una particolare esperienza del mancare. Un’esperienza contrassegnata dall’evidenza di un mancare (in questa coerenza una ritrazione è un mancare senza evidenza del venir meno). Non c’è venir meno che non torni indietro (o avanti) nella testimonianza di un’assentarsi. Che non sia un richiamo nell’evidenza di un assentarsi. In cui l’assenza non faccia richiamo nell’evidenza del suo mancare. C’è sempre una speciale assenza che fa presenza nel suo stesso indice d’assenza. C’è sempre un richiamo nell’evidenza di questa im-presenza. È verso le modalità di questo richiamo che la filosofia rivendica da sempre un particolare privilegio d’ascolto. Privilegio di ascolto nel privilegio di un accesso. 18. Laddove l’evidenza di un venir meno insiste sulla scena, la ritrazione non è mai convertibile con un’apertura. L’apertura è infatti l’altro nome possibile della ritrazione. La ereditiamo da Heidegger con i suoi privilegi e con i rischi che contiene. L’apertura è dunque in un certo modo sinonimo di ritrazione. Non c’è apertura senza una ritrazione e non c’è ritrazione senza apertura. L’apertura è in una ritrazione senza evidenza di un venir meno. Solo una qualche simultaneità di apertura e ritrazione impedisce di orientarsi in una qualche evidenza di un venir meno. È aperto ciò che non viene meno e ciò che non viene meno è l’esposto per eccellenza. Questa necessità di pensare simultaneamente ritrazione e apertura ci porterà ad insistere sulla nozione di esposizione. Ad affermare, con tutte le complicazioni che vedremo, che un evento esposto sarà un evento aperto nella sua ritrazione o ritratto nella sua apertura. Un evento verso cui una particolare disposizione della filosofia non potrà che avvertire un antici-

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po o un ritardo. Sottrarre la ritrazione ad ogni evidenza di un venir meno è come sottrarre l’apertura a quel privilegio che Heidegger continua, nonostante tutto, a preservare all’ascolto della filosofia. Se nell’orizzonte di un mancare, nell’evidenza di un venir meno, troveremo l’economia ontologico-metafisica, nelle figure dell’esposizione cercheremo la sintassi di un’antimetafisica. Una sintassi che ripete, lavora e rilancia, tutto ciò che le visage di Levinas impone alla logica della fenomenalità. L’esposizione riprende, del volto di Levinas, la parusia di un ritiro, propone la logica di un evento il cui ritiro non va in differenza e converge con una manifestazione né presente né assente. Discuteremo però se le visage non debba a sua volta deporsi perché si apra la figura di un’esposizione ritratta, per coniugare un ritiro con un senza fondo e un senza fondo con una figura esposta. Per pensare la fine della logica del fondamento a partire dall’economia di un evento esposto. Il ritiro dunque sarà una qualche forma o figura del venir meno se non sarà convertibile con un’esposizione, se il ritiro non sarà il nome per una esposizione e l’esposizione il nome per un ritiro. Solo un ritiro esposto potrebbe cercare di portare all’estremo l’intenzione fondamentale di Essere e Tempo. E potrebbe farlo proprio perché saprebbe giustificarne l’inevitabile fallimento. Saprebbe in qualche modo comprendere che ciò che fa ostacolo alla circolarità del da con il sein, quindi alla confidenza dell’esserci, alla fidatezza del Dasein, ha a che fare con l’animazione stessa con cui la filosofia assume il privilegio di interrogarne la questione. 19. La riduzione dunque non sarà mai all’altezza dell’imperativo da cui muove se preliminarmente non sa tutto ciò che è decisivo sull’orizzonte della svelatezza. Si potrebbe dire che la stessa forza con cui deve far opera di riduzione dipende da tutto ciò che non trascura sull’affermarsi di uno svelamento. Solo

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questa comprensione radicale inoltre può garantire la potenza di distruzione necessaria per ogni pratica di riduzione. Solo così, in questo passaggio stretto ma dirimente, la riduzione diventa una modalità di decostruzione e può coinvolgere fino in fondo la passione metafisica della filosofia e condurla, o condursi, verso un ritiro. Il non nascosto è nel paradossale poi di questo ritiro. E nessun ritiro o ritrazione, o differenza ontologica, sarà mai davvero tale se non è in scena un particolare ritiro della filosofia, una particolare conversione della sua passione metafisica. Una riduzione deve dunque saper distruggere nella modalità di una decostruzione. E la decostruzione attraversa il cuore della pratica o dell’opera della filosofia. 20. Da Levinas dunque apprendiamo ad interrogare l’ontologia come la scena di una manifestazione in cui il Detto non permette al Dire di esporsi nel suo ritiro e proprio per questo non è mai all’altezza dell’evento di una fenomenalità come non nascondimento. Apprendiamo dunque a interrogare l’esposizione del Dire come una via per la decostruzione del logos ontologico-metafisico. L’eredità che riceviamo consegna la decostruzione come ritiro o deposizione dell’istanza metafisica, ad un Dire portato nella figura di una assoluta esposizione. Non vi sarebbe decostruzione senza questa pratica di un Dire che si disdice ogni volta dal detto in cui può celarsi e fare segreto. Se ci pensiamo bene la sopportazione dell’aporia, l’aporia sopportata nella sua indecisione o indecidibilità che Derrida ci propone, appartiene alla pagina aperta da questa tensione tra il Dire e il Detto di Altrimenti che essere. Sopportare l’aporia significa in fondo ammettere come insopportabile tutto ciò che si vela e si nasconde nella sua possibile soluzione, quindi significa scuotere il detto come luogo di velatura, impedire alla velatura di nascondere la non soluzione dell’aporetica. C’è la medesima famiglia di coerenze quindi tra l’esposizione del dire

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di Levinas, tra un dire che si espone nel suo ritiro dal detto e la sopportazione dell’aporia di Derrida. La filosofia deve portarsi verso una fine, deve sapere finire, impegnarsi in un particolare sacrificio, rivolgersi verso di sé, decostruire il richiamo stesso della sua domanda fondamentale, morire in quell’inizio con cui da sempre si avverte nella convocazione di uno stupore che svelerebbe la natura della fenomenalità.

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La differenza ontologica, il volto, la chóra

1. «All’inizio del pensiero occidentale viene pensato l’essere, ma non lo Es gibt come tale. Questo si ritrae a favore della donazione (Gabe), che grazie allo es si dà [...]»1. Lo scrive Heidegger in un luogo esemplare in cui torna o ritorna ogni volta la seguente questione: la filosofia che inizia a se stessa come tale, che si raccoglie come inizio, come cominciamento si potrebbe anche dire, alludendo al cominciamento della Logica hegeliana, non pensa l’es gibt come tale, non pensa la sua ritrazione, non si pone all’altezza di questo ritrarsi. Ora, enorme tema, come pensare fino in fondo questa ritrazione? E soprattutto, come pensare una ritrazione che non si nasconda dietro la propria traccia, che non faccia nascondimento nel suo stesso ritiro? Come pensare dunque un ritiro ritratto dal suo stesso ritiro? 2. La questione della differenza ontologica risulta più a fuoco e meno dispersa in questioni secondarie solo se si cerca di pensare la ritrazione dell’es gibt muovendo dall’imperativo fondamentale della fenomenologia. Se la fenomenalità del fenomeno 1. M. HEIDEGGER, Tempo ed essere, trad. it. e note di E. Mazzarella, Guida Napoli 1980, p. 106.

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si coglie nel suo mostrarsi come fare testimonianza della convertibilità di un pieno mostrarsi e di un ritiro? Di un ritiro che sia pienamente convertibile con un mostrarsi, e di un mostrarsi che non si confonda con un presentarsi? Quindi un fenomeno in cui fenomenalità e ritiro siano alla fine il medesimo evento? Se l’es gibt assume il nome per la fenomenalità del fenomeno, se esso è convocato per interpretare l’imperativo di un darsi originario di ciò che si mostra in modo eminente, se esso in quanto apparire eminente si deve convertire con l’inapparente, ritirato in quanto apparente come inapparente; se esso è alla fine ciò che in un’altra tradizione si chiama l’impensabile, come la filosofia può farsi scena di questo ritiro? 3. Heidegger, prima di Derrida, in vario modo, ha cercato di sottrarre la differenza ontologica alla presenzialità di un essere presente, ma anche all’assenzialità di una non presenza; il ritrarsi resterebbe ancora più remoto al di fuori di questa sfida alla presenza e all’assenza, nel senso, stiamo attenti, non solo di un venir meno di una presenza, ma anche di un’esperienza in qualche modo segnata o marcata dall’evidenza di un semplice venir meno. È a partire da Derrida tuttavia che comprendiamo meglio la coesistenza di una tensione aperta e irrisolta nel fenomeno heideggeriano dell’es gibt. Un interprete attento potrebbe infatti vederlo variare, di volta in volta, in diverse possibili figure: in alcuni momenti può convocare uno sguardo, lo sguardo della filosofia, a flettersi, più o meno obliquamente, nell’ascolto di un ritrarsi, quindi ad assumere in pieno una speciale vocazione: corrispondere originariamente a un ritiro di cui la filosofia avrebbe un qualche privilegio d’ascolto, come se il ritrarsi portasse con sé la chiamata che la filosofia sarebbe sollecitata ad ascoltare come voce segreta del Dasein; oppure, in altri momenti, sembra evocare una pratica filosofica che elabora la cura di non avere alcun privilegio sulla ritrazione, alcuna vocazione speciale sul ritiro

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stesso. Come se la filosofia fosse rinviata in un certo limite dal non sapere nulla del ritiro stesso. Quindi non verso un pensiero che ascolta il ritiro, che dalla semplice presenza si inclina, obliquamente verso il suo differire, ma un pensiero che in qualche modo sa, in un sapere della cui enorme ambiguità non bisognerebbe cessare di interrogare lo statuto, nulla del ritiro stesso, per cui il nome stesso di ritiro o ritrazione evocherebbe un certo sapere di nulla. Come se almeno per un momento la filosofia si autoavvertisse, nel cuore stesso della sua vocazione, nel cuore stesso di una chiamata che la sollecita in modo esclusivo, di costituire l’ostacolo principale, ciò che fa ostacolo, per una esperienza di un ritiro. Sono quei momenti nei quali la filosofia ricava questo saper nulla da una strana evidenza di un ritardo o di un anticipo del suo farsi scena. 4. Questa enorme e non risolta tensione tra due possibili declinazioni dell’es gibt si ripete anche nel momento conclusivo del passo citato dove si dice: “la ritrazione si ritrae in favore della donazione”. Se Heidegger avesse scritto il dono, il dono e la ritrazione, una ritrazione cioè in riferimento a un dono ricevuto, a un ente ricevuto con la chiara identità di un dono, tutto sarebbe stato già deciso sulla tensione che anima la topologia dell’es gibt. Heidegger scrive invece donazione. Non dunque un ente con la chiara identità di un dono che rimanderebbe naturalmente alla traccia di un mittente che farebbe da causa, insieme efficiente e finale, ma a una donazione che non sembra donare altro che la stessa capacità di donazione. Donare la capacità di dono dunque più che un dono in quanto tale. Solo questa capacità di donazione testimonierebbe della ritrazione, sarebbe anzi essa stessa l’essere dell’es gibt. Ma è proprio questa variazione di una donazione senza dono e mittente a richiedere che il ritiro debba essere pensato senza nessun cedimento a una qualche speciale vocazione della filosofia verso il ritiro in quanto tale.

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È proprio questa variazione nell’evento di una donazione senza dono e mittente che impegna il linguaggio speculativo in passaggi come i seguenti: da un lato occorre evitare la semplice identità dell’essere e dell’ente restando fermi al fatto che l’essere non è un ente, che l’essere differisce dall’ente, che è ritirato o ritratto dall’ente. Dall’altra occorre ammettere che ogni differenza di essere ed ente, se fosse in qualche modo rilevata come tale; se si potesse cioè mostrare una qualche differenza di essere ed ente, si entificherebbe, non si potrebbe che entificare, quindi portare sul bordo di una tematicità che annulla ogni differenza. Dobbiamo dunque sopportare formule come queste: l’essere differisce dall’ente, in un modo per il quale non è altro dall’ente, non è nient’altro che ente, ritirato fino al punto di non essere nient’altro che ente. Solo formule come queste, in tutta la loro ambiguità, possono almeno evocare una differenza condotta fino al limite di differire da ogni semplice differenza. Solo in formule come queste si può cercare di ridurre lo sguardo sott’occhio con cui la filosofia offre a se stessa il compito di flettere verso la corrispondenza di uno speciale ritiro. Se l’essere è il nome per un’apertura, se l’apertura accade fuori anticipazione, se essa deve differire senza differenza, se essa è propriamente ente come niente; se non può esserci niente di differente tra essere e ente allora l’essere è la parola per un evento che ha già sempre abbandonato la filosofia, che lascia la filosofia nell’abbandono di un ritardo e di un anticipo. Con un sospetto che si dovrebbe sapere coltivare: tanto più l’essere differisce da ogni differenza dall’ente tanto più si deve confidare l’essere e l’ente. Confidare di una fidatezza l’essere e l’ente. Come se potessimo dire in questo modo: una confidenza fidata saprebbe sempre molto di più di ogni filosofia della differenza ontologica. Ci dovremo tornare a lungo, più avanti.

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5. Derrida, in un saggio, può rivendicare la continuità della différance con l’es gibt alla condizione però di sottrarvi tutto ciò che in esso «[…] annuncia o richiama ancora troppo la dispensazione di Dio, dell’uomo o anche quella dell’essere»2. Se l’apertura ha a che fare con l’es gibt, se essa coinvolge un evento di ritrazione, se essa deve comportare un ritiro senza dispensazione o convocazione, la différance come apertura deve sapersi allontanare da un certo dio e da un certo essere. La differenza di essere ed ente deve accadere come svuotata da tutto ciò che potrebbe ancora fare segno di un ritiro, quindi sospesa da tutto ciò che in questo ritiro potrebbe convergere con una veduta inclinata, di traverso, obliqua sull’orizzonte di apertura. La différance di Jacques Derrida cerca di annullare del differire tutto ciò che in esso potrebbe ancora condurre verso uno sguardo sott’occhio. C’è sempre infatti uno sguardo sott’occhio che attraversa obliquamente l’orizzonte dell’apertura nel momento in cui la differenza di essere ed ente non è portata a differire da ogni semplice differenza. Nell’eredità di Derrida dunque la filosofia deve portarsi verso uno strano limite. E la chóra è il nome-nozione che qualche volta Derrida fa circolare per evocarlo. Quest’evento limite non sarebbe né sensibile né intelligibile, né presente né assente, né in primo piano né in secondo piano e ancora meno nell’invio sempre dialettico dell’uno all’altro. Derrida scrive in questo modo, non casualmente, della chóra: «Radicalmente a-umana e a-teologica, non si può nemmeno dire che essa dà luogo o che c’è la chóra. Non dà luogo come si darebbe qualcosa, qualcosa che sia, non crea né produce nulla, neppure un evento in quanto ha luogo. Non dà ordine e non fa promesse. È radicalmente an-istorica»3. 2. J. DERRIDA, Come non parlare. Denegazioni, in Psyché, Invenzioni dell’Altro, trad. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, p. 207. 3. Ibidem.

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La différance come la chóra non solo non indica la semplice presenzialità di un ente, ma mette in guardia nei confronti di tutto ciò che fa orizzonte di ritiro o animazione di una qualche chiamata rivolta nell’animazione di un qualche segreto. La chóra diventa il nome per un ritiro dalla presenza e dell’assenza, né presente né assente, la cui testimonianza non sarebbe mai possibile se la filosofia si configurasse nel privilegio elettivo di corrispondere con un ascolto speciale all’evento dell’essere dell’ente. Non vi sarebbe possibile testimonianza della an-istoricità della chóra se essa si configurasse come contraccolpo a un es gibt offerto nell’evento di un dono. Se l’es gibt facesse flessione verso un ritiro come donalità, evidentemente, se alludesse o evocasse un evento in cui si è chiamati in raccolta di una donazione o nel raccolto di una donazione non si ritrascriverebbe nella différance, non apparirebbe all’altezza di quel ritiro di cui la chóra cerca d’essere il nome sempre im-proprio. 6. Quando Derrida, nel passo citato, evoca il tratto a-teologico della chóra, nel tentativo di sottrarla all’economia di un ordine e di una promessa, è anche impegnato in un confronto ravvicinato con le fenomenologie della donazione che riprendono e sviluppano momenti strategici della filosofia di Levinas. Solo dopo Levinas, in fondo, la fenomenologia può pensare di radicalizzare la differenza ontologica nella convertibilità di un ritiro e di un’esposizione. Nel volto esposto e nudo, esposto nel suo ritiro, la fenomenologia può impegnarsi in una fenomenalità nel cui orizzonte, esposizione e ritrazione devono, in qualche modo, convergere. Dove l’esposizione di un ritiro cerca di evitare le insidie e le seduzioni di una dialettica dell’essere e del niente. La fenomenalità di Levinas attraversa l’orizzonte dell’es gibt ma l’istante di apertura accade nell’alterità del volto. La stessa apertura della fenomenalità non sarebbe possibile se l’es gibt non accadesse nella sua esposizione, non coincidesse cioè esattamente con l’unico fenomeno che sembra portare con sé il suo proprio ritiro.

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Molto prima di Marion è stato Levinas a radicalizzare l’es gibt verso l’evento di un ritiro esposto, è a lui che la ricerca fenomenologica deve la nozione di nudità per la quale non si è mai all’altezza della fenomenalità di un evento fino a quando non si è esposti alla sua stessa nuda esposizione. Se con Levinas una certa fenomenologia ha potuto abbandonare l’essere dell’ente come apertura e orizzonte della fenomenalità cercando nel volto il paradigma della ritrazione dell’es gibt, Derrida ritiene invece che proprio qui sia necessaria una vigilanza estrema e una cura decostruttiva senza remore. Il volto di Levinas nella sua nudità espone un ritiro, in qualche modo differisce una differenza da ogni profondità, nella sua nudità differisce da ogni differenza il darsi della fenomenalità; sembra dunque convergere con Derrida in una differenza come différance. E, tuttavia, se la différance e la chóra possono sovrapporsi nella logica di un quasi evento, la medesima cosa non può accadere tra la chóra e il volto o una fenomenalità che abbia nella luminosità inapparente del volto la sua cifra. Per qualche ragione decisiva per Derrida, esso non può radicalizzare la differenza ontologica fino al punto di poter scambiare il suo posto con la chóra. Anche il volto è inassegnabile, anch’esso sfida la luce di una certa fenomenologia e inquieta il metodo di ogni ermeneutica, anch’esso espone a un quasi evento né presente né assente e tuttavia quel differire la differenza, per la quale si possa affermare un nient’altro che l’ente, corre il rischio di incrociare fatalmente la formula di un’elezione (soprattutto, va detto, in una particolare vulgata, in cui le straordinarie precauzioni di Levinas sono trascurate). Il cuore del volto inapparente potrebbe risuonare troppo singolarmente nell’energheia di un eccomi. Per tutto questo Derrida può scrivere: «Con ruoli e significati diversi, i discorsi di Levinas, di Marion e forse anche di Ricoeur condividono questa situazione col discorso di Patočka. Ma in fondo, questa lista non ha limiti e si potrebbe dire, tenendo conto della quantità di differenze che

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un certo Kant e un certo Hegel, senza dubbio Kierkeegaard e oserei dire anche Heidegger appartengono a questa tradizione [...]»4. Non sarebbe difficile verificare come questo giudizio, abbia la sua radice nello stesso Levinas. Provenga cioè dalla logica di una possibile oscillazione interna della sua straordinaria proposta. La chóra di Derrida in fondo ne incorpora uno dei momenti contro l’altro. Come se potessimo leggerla anche come il tentativo di soluzione ad una fragilità e a un pericolo che attraversa la formula dell’Eccomi, almeno se non è condotta all’estremo delle sue possibilità. Delineare bene questo pericolo significa comprendere meglio la différance di Derrida e per noi verificare se essa sia davvero in grado di sormontarli e liberare Levinas dalle prese di lunga tradizione in cui una certa chiamata è sempre fondamentale.

4. J. DERRIDA, Donare la morte, trad. it. di L. Berta, Jaca Book, Milano 2002, p. 86.

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L’eccomi e la chiamata

1. Bisognerebbe lavorare a lungo su un passo di Derrida (lo stiamo per citare) e confrontarlo con un certo Levinas (lo citeremo più avanti). In questo passo viene chiamato in causa un intimo segreto nel cuore del soggetto: «[…] dal momento che ho in me, grazie alla parola invisibile come tale, un testimone che gli altri non vedono, e che dunque è allo stesso tempo altro da me e più intimo con me di me stesso, dal momento in cui posso mantenere un rapporto segreto con me e non dire tutto, dal momento in cui c’è segreto e testimone segreto in me, e per me, c’è quello che chiamo Dio, (c’è) che chiamo Dio in me, (c’è che) mi chiamo Dio, frase difficile da distinguere da “mi chiama Dio” […]»1. Dio, in questo caso, diventa il nome per ciò che risuona come un appello per il quale il chiamarsi e l’essere chiamato possono sempre rinviarsi l’un l’altro. Chiamarsi per nome, chiamarsi Io accade nel rinvio di un dio che chiama. L’intimità segreta in cui un soggetto può ripiegarsi su di sé, non può essere altro che il nodo, l’annodamento, di questa doppia chiamata. Chiamata sempre raddoppiata per contraccolpo. Non saremmo Io se 1. J. DERRIDA, Donare la morte, cit., p. 137.

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non potessimo chiamarci nell’assunzione di un appello, se non fossimo la forma pura di una risposta ad un appello originario. Il soggetto assume il nome per una ellisse a due fuochi che si accendono l’un l’altro, il cui calore è l’intimità di un segreto in una testimonianza invisibile. Scena dunque specialmente animata, dove un testimone, invisibile agli altri, fa accertamento della mia stessa risposta, dell’appello come vocazione. Non potremmo dire soggetto – questo apprendiamo a dire con più sicurezza dal passo di Derrida e dal contesto dei suoi rimandi – senza nominare quest’intimità invisibile, quest’interiorità scavata dal risuono di un altro, allo stesso tempo, per uno stesso tempo, altro da me e più intimo con me di me stesso. Dovremmo dunque sempre sospettare almeno di ingenuità, di qualche forma complessa di occultamento, tutte quelle formule del soggetto che non siano capaci di mostrare la scena di questa animazione di uno sguardo invisibile che vede nel segreto. Dovremmo incominciare a pensare che la scena di un soggetto, proprio di ciò che la tradizione moderna edifica come tale, sia indisgiungibile da quell’inestricabile doppio appello o appello testimoniale per il quale si può sempre fare transito da un io mi chiamo Dio e Dio mi chiama. Come se, ad un certo punto, il soggetto diventasse la scena di ciò che non può pensarsi senza l’alterità di uno sguardo che vede senza essere visto, che sopporta il se stesso come ritorno da un’alterità allo stesso tempo altra e intima. Apprendiamo a pensare il soggetto della modernità in quest’intimità. La quale a sua volta non sarebbe così profonda e tenace se l’alterità di uno sguardo che chiama non fosse, nello stesso tempo, allo stesso tempo, nell’identità di una qualche differenza, medesima e altra, altra ma anche in qualche modo propria. Non comprenderemmo l’intimità di questo soggetto che condivide un segreto, al di fuori di questa ellisse per i due fuochi dell’altro come medesimo e del medesimo come altro. Potremmo dire anzi che il segreto non esprime che questa diastasi per la quale l’altro non è mai tanto altro da non essere un

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mio altro e il mio proprio non è mai tanto proprio da non essere un altro. Uno sguardo che chiama e una chiamata che guarda mostrano nient’altro che l’animazione di questa scena. 2. In questa estrema fenomenologia, secondo Derrida, si impone sempre la costanza di alcuni riferimenti: l’asimmetria di uno sguardo assoluto che vede senza essere visto, un segreto inaccessibile che non cessa di fare animazione anche quando è fuori proporzione di ogni sapere, un tremore e timore dinanzi a una chiamata elettiva, una voce segreta, ritratta, inaccessibile, che può apparire senza ragione, fuori del principio di ragion sufficiente, ad animare la forma di un certo eccomi, il prendere su di sé, nella convocazione di una singolare responsabilità, il peso della chiamata della voce segreta e farsene carico con tutto il suo debito. Nell’ordine di questa serie Derrida può sovrapporre il prendere su di sé heideggeriano della propria morte, cioè di una morte sempre inesorabilmente di un Dasein insostituibile, con il prendersi cura di Abramo (a sua volta, a suo modo, nel rischio di una singolarità insostituibile), della chiamata dell’alterità dell’altro, governata da un’alleanza sempre sul punto di divenire esclusiva. Questa serie di ricorrenze si può ulteriormente infittire: il segreto diventa la traccia dell’alterità dell’altro, il segno del suo ritiro, ma è anche ciò che richiama a sé, da un appello che non si sarebbe mai fatto a tempo ad ascoltare, alla responsabilità di una cura in cui la logica e l’economia di un sacrificio sono sempre imminenti e dove la stessa sospensione del principio di ragion sufficiente mobilita e richiama, come per reazione, la volontà di un’alleanza e di un’appropriazione. L’alterità dell’Altro assoluto prima o poi chiama l’alleanza con un mio Dio, con un Dio appropriato. All’imperativo di una custodia di ciò che non cessa di ritrarsi non può che corrispondere la certezza di non avere mai custodito abbastanza. Non può che corrispondere il timore e tremore di non avere celato abbastanza. Di non aver rispettato la sua ritratta alterità. L’imperativo a celare dunque è sempre

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in compagnia di una vigilanza sulle capacità di riserbo, e tutto questo non depone affatto il proprio di una ego-coscienza, al contrario, non c’è proprietà di coscienza, non c’è seità di coscienza che non si edifichi in questa cura segreta. Fin qui non abbiamo fatto altro che parafrasare le coerenze che guidano Derrida nel momento in cui inscrive anche Levinas in una lunga tradizione. 3. Proviamo ora ad interrogare un passo di Levinas come il seguente: «Nella convocazione assoluta del soggetto si ode enigmaticamente l’Infinito: l’al di qua e l’al di là. Bisognerà precisare la portata e l’accento della voce in cui l’Infinito così si ode»2. Passaggio prudente e cauto in cui una convocazione è correlata ad una voce, della cui portata però, occorrerà precisare il suo carattere enigmatico. Non c’è soggetto senza convocazione, questa convocazione va pensata però assolutamente. Occorre chiedersi se questo accento sull’assoluto di una convocazione sia in riferimento alla voce e se l’enigma di cui Levinas introduce l’esitazione non sia altro che una traduzione di ciò che si deve intendere per questa convocazione assoluta. Dobbiamo chiederci se la convocazione di cui si parla sia tale solo nel momento in cui sia assolta dalla voce, in qualche modo, sciolta dalla voce che convoca, se non sia questo l’enigma e la portata di cui dobbiamo tenere conto. Una convocazione assolta dalla voce renderebbe l’udire segnato dall’enigma. E questo udire enigmatico distingue per Levinas questa voce «che viene da orizzonti almeno altrettanto vasti come quelli nei quali si situa l’ontologia»3. C’è un altro passo, tante volte ripetuto da Levinas, soprattutto in Altrimenti che essere, che andrebbe sollecitato alla luce di questo enigma della convocazione assoluta. Si esprime in que2. E. LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 176. 3. Ibidem.

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sto modo: «[…] nella sua identità di chiamato insostituibile, senza ritorno a sé […]»4. Dilatiamo nella giusta misura quest’assenza di ritorno. Questo mancato ritorno a sé come indice di una convocazione assoluta. Una convocazione assoluta che sarebbe tale solo nella misura in cui non consenta o ammetta un ritorno a sé; un’assenza di ritorno come cifra di una convocazione assoluta e di una voce segnata dall’enigma. Quest’assenza di ritorno a sé va segnalata con impegno perché, se ci pensiamo bene, ha la pretesa di dissociare quel transito che in un certo soggetto consente la reversibilità di un Dio mi chiama in io mi chiamo dio. Cioè quel ritorno a sé come ritorno nell’eco di una chiamata, ritorno a sé nella chiamata di un altro da sé. Quel ritorno a sé è sempre possibile quando l’altro non è niente di più che un mio altro, un dio mio. Come si diceva, il soggetto riflessivo autarchico, potremmo dire il soggetto moderno, non è autoriflessivo se non nella misura e nella potenza di una speciale conversione di auto e eteroaffezione. È autoriflessivo solo nell’ellisse del doppio fuoco di un io e di un altro che guarda chiamando nel segreto. Quando Levinas insiste su una convocazione senza ritorno a sé cerca di dissociare l’enigma dall’intimità di un segreto. Se l’intimità di un segreto non è altro che la cifra della profondità di un soggetto dislocato in un doppio fuoco di sé, l’enigma della voce cerca di dislocare il soggetto da questa dislocazione stessa. Cerca di dissociare un sguardo da una voce e una voce da uno sguardo. 4. C’è poi un altro tratto di questo soggetto deposto dal ritorno a sé che meriterebbe un lungo commento (anche perché troppe volte trascurato dagli interpreti). Il soggetto che non ritorna a sé è anche il soggetto che non può passare in un secondo piano. È il soggetto esposto fino al punto da non poter 4. Ivi, p. 177.

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indietreggiare. Se un soggetto che torna a sé, su di sé, è sempre nella possibilità di celarsi in un retro di sé, la deposizione di questo ritorno comporta invece l’esposizione di un sé spogliato di ogni intimità. Così, un soggetto svuotato di ogni intimità è tanto più esposto tanto meno ritorna a sé, tanto meno può fare ritorno tanto più l’altro a cui si risponde cessa di declinarsi nella formula del mio altro. Scrive Levinas: «Io sono stato da sempre esposto alla convocazione della responsabilità, come posto sotto un sole di piombo, senza ombra protettrice, in cui svanisce ogni residuo di mistero, fine attraverso il quale la fuga sarebbe possibile»5. Forse possiamo commentare in questo modo: un soggetto convocato nell’enigma della voce, in una voce che non transita nella conversione possibile di un dio mi chiama e di un io mi chiamo dio, cessa di avere l’interiorità come l’ombra di un mistero in cui potrebbe sempre ritirarsi. In questo senso spogliato di sé è innanzi tutto un soggetto esposto fuori però da una dialettica di presenza e di assenza. Qui Levinas osa nominare il soggetto responsabile come l’evento di un senza segreto, la responsabilità assoluta solo alla fine o nella fine di ogni interiorità del soggetto. La fine dell’interiorità del soggetto in una chiamata la cui voce proviene dall’enigma dell’infinito. Un enigma per il quale, verrebbe da dire, nell’erranza del quale, la voce cessa di essere voce dell’altro, voce di un altro che chiamerebbe nel segreto con la certezza della voce di un altro in me, diventa piuttosto semplice «suono della mia voce»6. Scrive proprio così Levinas in un passaggio forse troppo rapido anche per un interprete attento. Un suono della mia voce che non ritorna; occorre ripetere la medesima cosa, non ritorna a sé dalla sua stessa eco, senza eco di voce, che rimanda a sé solo nel senso che non può non accogliersi come dal niente, voce che dice eccomi ma senza poter fare testimonianza. L’Infinito 5. Ivi, p. 182. 6. Ivi, p. 187.

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infatti «non è davanti al suo testimone»7. Questo non essere davanti è decisivo e andrebbe pensato fino all’estrema coerenza. Se il soggetto fosse testimone dell’altro, l’altro sarebbe a sua volta testimone del soggetto, il soggetto sarebbe nel risuono di questa doppia testimonianza, nel ritorno di questa doppia testimonianza. La nudità esposta di questo eccomi, nell’avvento di un’impossibilità di ritrarsi, è il quasi correlato di un ritiro. Quando Levinas scrive che l’Infinito non è davanti al suo testimone, quel davanti va preso in tutta la sua enorme serietà. L’Infinito è il nome di un ritiro senza traccia, come ripete tante volte Levinas, passato immemorabile, passato senza essere mai stato presente, in questo senso fuori sincronia di presa, impresentabile, di fronte al cui ritiro senza traccia il soggetto è deposto fino al punto dell’impossibilità di indietreggiare. Al ritiro del senza traccia di un Infinito, la cui voce è l’enigma, corrisponde un’esposizione di un soggetto né presente né assente, chóra, così potremmo dire, di un soggetto richiamato assolutamente come sub-jectum. Richiamato senza chiamata tuttavia, appello dissociato da uno sguardo che chiama nel segreto. Non comprendiamo il tentativo ateo di Levinas senza questa dissociazione della chiamata dallo sguardo e dello sguardo dalla chiamata. Se l’unico suono di chiamata è quello di una voce senza eco, l’Infinito di Levinas è sul punto di dover ammettere che l’elezione di un soggetto è tale solo nella deposizione del la voce che chiama. Un eletto senza elezione. Un eletto che cesserebbe d’essere tale se vi fosse un’elezione. Ma si potrebbe anche invertire la formula: senza la voce di chiamata, senza una voce che chiama nel segreto, senza la certezza di una voce davanti all’intimità della coscienza, si dà un’elezione senza figura d’eletto, un’elezione il cui eletto sarebbe sempre nella sostituibilità, mai esclusivo dell’elezione in quanto tale. Nel divieto dell’appropriazione dell’elezione in quanto tale. 7. Ivi, p. 187.

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5. Come si può valutare, un adeguato commento del passo citato dissocia chiaramente Levinas dalla tradizione in cui Derrida lo immette e rende invece evidente almeno una delle fonti della sua stessa posizione decostruttiva di questa lunga tradizione (da cui invece non è dissociabile, ma qui si aprirebbe un altro complicato fronte di questioni, la chiamata della voce di coscienza dello Heidegger di Essere e Tempo). Se Derrida tuttavia può assumere un certo Levinas contro un altro Levinas è perché il suo eccomi è sempre sul punto, per un attimo, di ripiegare come effetto di una causa; sempre sul punto di non differire fino alla fine l’effetto da una causa, di non differire fino alla fine lo sguardo che chiama o la chiamata che guarda8. La questione enorme è alla fine la seguente: Levinas 8. In un certo senso è proprio la prospettiva aperta da J.-L. Marion a confermare ciò che per Derrida sarebbe il rischio contenuto nell’Eccomi di Levinas. Se Derrida conduce l’enigma della voce fino all’ateismo della chóra, Marion contrassegna la fenomenalità in quanto tale del darsi del volto. Non vi sarebbe fenomenalità che non comporti una convocazione nell’intimità di una speciale chiamata. Il darsi della fenomenalità deporrebbe il soggetto metafisico e la sua mira intenzionale. Il segno di questa controintenzionalità sarebbe la chiamata in cui il soggetto perderebbe la propria iniziativa poiché si riceverebbe interamente a partire da ciò che riceve. Così, una convocazione porterebbe alla rinuncia dell’autarchia del soggetto mutandolo in un Me “a cui”; dal nominativo si passerebbe all’accusativo di un dativo (riforma dell’accusativo di Levinas). La chiamata viene sempre da un altrove, e dal suo decentramento, il soggetto riceverebbe una deposizione del suo io proprio, verrebbe immesso nell’apertura di una relazione senza altro termine che il convocato in quanto tale. Ad una essenza individualizzata precedente una relazione succederebbe una relazione con la possibilità di una identificazione. Mentre Levinas è sul punto di portare l’asimmetria verso l’enigma della chiamata, verso una chiamata e lascia la solitudine di una voce solitaria, Marion scava una grande intimità tra la convocazione e l’adonato. Il fatto che esso si riceva a partire da ciò che gli sfugge poiché non riesce a pensare distintamente, comporta una piega nell’animazione di un’interlocuzione segreta. L’indeterminazione è la cifra stessa di questa animazione. È la cifra della sorpresa, della sorpresa da cui l’adonato è come sopraffatto. La chiamata non sorprenderebbe se non fosse un segreto animato dalla sua stessa indeterminazio-

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non può rinunciare al volto dell’altro, all’altro come il volto. Egli scrive infatti: «Nella prossimità si ode un comandamento venuto da un passato immemorabile: che non fu mai presente, ne; se la sua origine non fosse indeterminata non sorprenderebbe. La sua indisponibilità orienta l’adonato verso un oggetto essenzialmente mancante. Segreto e oggetto essenzialmente mancante si sovrappongono sempre. Si sovrappongono poiché questo è uno dei luoghi topici nei quali possiamo dire che il mancare del temine non è convertibile con la sua radicale ritrazione. Ci troviamo nel caso o nell’occasione in cui il mancare provoca la piega di una convocazione in cui il soggetto non perde la sua intimità ma la consegue. È un mancare che non offre il tema di un oggetto ma non cessa di mancare del suo mancare. Non cessa di presentare il suo mancare e di presentarsi in questo mancare. Se Levinas, nei momenti più estremi, può scongiurare il ritorno a sé dall’altro da sé perché l’asimmetria non ha letteralmente correlato, Marion, per così dire, raccoglie nel fantasma l’altro come mancante. L’adonato è certo aperto su una differenza vuota, la quale tuttavia può ancora rimandare a sé poiché essa è animata dal suo essere essenzialmente mancante. L’io non conosce il suo oggetto ma si riceve tuttavia nell’intimità di una chiamata, nella certezza insopprimibile di una convocazione. Proprio ciò che Levinas sospende nell’enigma della voce dell’Infinito. Interroghiamo ora il seguente passo di Marion: «[…] potrebbe darsi che la metafisica, anche quando si compie come tale fondando (si) (come) un “io penso”, attesti ancora, mascherandola, l’istanza più originaria della chiamata: perché, sola ad essere innegabile ed incondizionata, sorge anche là dove dovrebbe sparire» (Dato che, trad. it. di R. Caldarone, SEI, Torino 2001, p. 332). Il soggetto della metafisica o la metafisica del soggetto richiederebbe lunghi movimenti e molti passaggi. Tanto più se non rinunciamo a pensare il soggetto come un portato della modernità, quindi di una metafisica già allontanata dalla tradizione tipicamente medievale. Questa tradizione, almeno nei suoi punti vertice e di cifra, non può essere compresa se non si rende testimonianza del fatto che essa è indisgiungibile dall’invenzione dell’intimità e della profondità del soggetto. Meglio ancora, poiché profondità e intimità restano ancora troppo generici e incerti nel loro contenuto, diciamo che questa tradizione non è disgiungibile dalla necessità di pensare e accettare la forza del doppio genitivo di un pensiero dell’essere. La necessità e la forza del genitivo oggetto e soggettivo proviene da quella fusione di infinito e finito che da un certo punto in poi si impone come la prospettiva di un’intera epoca. Da un certo punto in poi finito e infinito appartengono alla stessa scena e questa genera una densità ignota nell’epoca

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che non è cominciato in alcuna libertà. Questo modo del prossimo è il volto»9. Questa modalità del volto è sempre sul punto di smarrire ciò che si è appena conseguito nella logica di un passato immemoriale, nella logica di un non “fu mai stato presente”. L’Infinito e il suo enigma di chiamata è tale solo nel suo non essere mai davanti, ma il modo del volto non è tale se non mi tocca nella verticalità di uno sguardo che non assolve dalla sua unicità anche se può presentarsi come lasso già perduto e sfuggente ad ogni ritenzione. Per Levinas il volto avrebbe in sè, nella sua epifania, la proprietà di disfarsi della sua stessa forma. La sua nudità sarebbe in questa non-forma. Scrive proprio così in un punto importante: «Il disvelamento del volto è nudità – non-forma – abbandono di sé […]»10. Forse questo è il momento fragile in cui l’eredità di Levinas può essere portata oltre il rischio che contiene di restare sommersa dalla sua stessa forza. Come pensare questa non-forma di un volto, una non-forma a cui è consegnata l’enigma della voce dell’Infinito? Non-forma a cui è consegnata la possibilità di una differenza che differisca da ogni semplice differire, a cui è consegnato un assentarsi che non sia un semplice venire meno. Se una non-forma non è un semplice disfarsi di una forma, se deve dissociare, davvero, fino alla fine, uno

precedente. Ormai da alcune generazioni potremmo capirla meglio poiché quella prospettiva ha cessato di imporre la necessità di quel rigore. Per questo la convinzione di Marion che la metafisica (queste metafisiche, sarebbe meglio, ogni volta precisare) non possa non registrare nel corpo della sua messa in opera l’originarietà di una chiamata o di una chiamata come convocazione a partire da un altro più intimo all’io di se stesso, dovrebbe lasciarsi scuotere dall’ipotesi che l’istanza originaria di una chiamata, o la chiamata come originaria, sia l’animazione stessa dell’ellisse di un soggetto la cui autarchia si recupera sempre nella straordinaria sopportazione della compagnia del suo fantasma. 9. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 110. 10. Ibidem.

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sguardo che chiama o una chiamata che guarda, poiché in essi una ritenzione dell’immemorabile è sempre possibile, occorre che la non-forma non sia altro che il nome per l’esposizione stessa di un ritiro senza traccia. Non-forma come forma esposta di un ritiro senza traccia di ritrazione. La non-forma non può che essere il nome per una esposizione, ma non c’è esposizione, tantomeno se deve configurare un ritiro, se deve sottrarre il ritiro da ogni ritenzione o protenzione, che non debba coniugare nell’apparire assoluto l’inapparente. Che non debba insistere sul plesso per il quale il più apparente, cioè il più esposto di tutto, è l’inapparente. Solo il più esposto espone a sua volta in quella impossibilità di ritiro che Levinas chiama responsabilità in una vocazione senza chiamata elettiva. Ma tutto questo comporta l’impossibilità di contrapporre una non-forma ad una forma. Comporta di interrogare la forma-immagine o l’immagine-forma come la messa in opera di un ritiro esposto. Così se non si vuole che il volto come semplice modo dell’Infinito faccia viraggio in uno sguardo che reclama in un eccomi insostituibile portante su di sé la non dissociazione di elezione ed eletto, occorre che il volto riguardi includendo ogni volta tutti gli altri. Riguardi in un’esposizione d’opera nella quale tutti gli altri non sono esclusi. L’esposizione è pertanto un’opera per la quale un terzo dev’essere sempre non escluso. Così, può riguardarmi solo se tutti gli altri possono trovarsi inclusi. Per questo è inevitabile la questione del rapporto tra i volti, tra la molteplicità dei volti, tra il volto che indebita nell’asimmetria della sua venuta e gli altri volti anonimi e senza sguardo. È a questo punto che occorre far pressione con domande come queste: il volto, in quanto tale, nel suo sguardo invisibile e fuori presa sostiene, sarebbe capace di sostenere, tutti gli altri esclusi?

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Lo spettro, lo sguardo e il messianico

1. Al rischio contenuto nell’Eccomi di Levinas, Derrida contrappone la chóra e l’esperienza di un messianismo che in un passo definisce in questo modo: «[…] resta sempre a venire e si distingue, al pari della democrazia, da ogni presente vivente in quanto pienezza della presenza a sé, in quanto totalità di una presenza effettivamente identica a se stessa»1. C’è sempre un qualche rapporto tra l’a-venire e la spettralità di un evento (si dovrebbe dire un quasi evento, poiché una spettralità, per così dire, diminuisce l’ontologia di un evento). Lo spettro non è vivente ma neppure non vivente, né presente né assente. Apparentemente si sovrappone alla figura dell’assenza visibile di uno sguardo invisibile. Ma non è così. La spettralità, di cui parla Derrida in varie occasioni, non è l’indice di una speciale sopportazione di un’assenza come presenza o di una presenza come un’assenza, evento insieme e presente e assente (figura che la dialettica conosce bene), ma è piuttosto la cifra di una certa indecidibilità tra una presenza e un’assenza. Indecidibile tra una presenza e un’assenza e solo in questo senso né presente né assente. 1. J. DERRIDA, Spettri di Marx, trad. it. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 127.

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L’indecidibilità qui è come il ritorno di una qualche intempestività per un evento di cui non si potrebbe mai dire che possa fare testimonianza di un presente vivente, ma neppure di un vivente passato o di un vivente futuro. Se Levinas può insistere sul non sapere per un’intenzionalità che resta a mani vuote dinanzi a un evento la cui fenomenalità è come senza fenomeno, Derrida insiste sulla sospensione indecidibile di un non sapere, sempre insicuro, tuttavia, del suo stesso non sapere. L’indecidibilità è il contrassegno per un quasi evento che non farebbe mai a tempo ad occupare un qualche posto, inoccuppante e quindi inoccupabile nella o dalla certezza di un sapere e di un non sapere. Il messianico è nell’apertura di questa indecidibilità. Del messianico si può dire esattamente ciò che Derrida enumera per l’indiscernibilità dello spettrale: «Ma uno spettro non consiste forse, per poco che consista, nell’interdire o nel confondere questa distinzione»2. Nell’interdire e nel confondere ogni identificazione, ogni identità di un presente vivente. Spettrale è già la formula filosofica con la quale Derrida aveva scritto in La voce e il fenomeno: «Il presente vivente sgorga a partire dalla sua non-identità a sé, e dalla possibilità della traccia ritenzionale. È già sempre una traccia»3. Avrebbe potuto scrivere: è già sempre uno spettro. La decostruzione non fa altro che portarsi verso la spettralità del presente. Accerta una spettralità laddove altri hanno già deciso il vivente contro il non vivente o il non vivente contro il vivente. Lo spettro di Derrida è già attivo nel momento in cui il presente è disanimato dal suo essere già da sempre il passato di un presente mai stato. Dal suo essere quindi né propriamente presente né propriamente passato. Il passato di un presente mai stato ha sempre in fondo da av-venire e si confonde, non può 2. Ivi, p. 167. 3. J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1984, p. 126.

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che confondersi (o confondere noi del sua stessa confusione) o meglio occupa lo stesso non luogo dell’avvenire. Il messianico era già in questa spaziatura differita di un presente vivente. Il rimprovero ad Husserl, già allora, già ne La voce e il fenomeno, era di non saper sostenere la spettralità del tempo. Come Carlo Marx Husserl ha cercato di catturarla e prenderla in trappola. Come Marx ha partecipato dell’assioma comune per il quale «Per avere la pelle del fantasma bisogna fargliela. Per fargliela, bisogna vederlo, situarlo, identificarlo»4. Ma situare uno spettro significa, contemporaneamente, perderlo in quanto tale e perdersi nella sua ricerca. Significa smarrire il contrattempo messianico indecidibile per lasciarsi possedere dalla infinita caccia di spettri divenuti fantasmi. Divenire prigionieri di una incatturabilità, conseguenza ed effetto del fissare l’istante di uno sguardo spettrale. Non appena la spettralità di una presenza già sempre passata nel passato di un presente mai fatto a tempo ad accadere si muta o trasmuta nella fissità di uno sguardo che vede senza essere visto (fantasma di uno spettro), l’economia del segreto impone la sua logica cospirativa. Forse si può dire così: da quel momento in poi il senza segreto di una spettralità indecidibile si trasforma nell’animazione di un segreto che chiama in qualche modo. Nell’animazione di questo segreto «Dei congiurati, a volte dei cospiratori, dibattono, architettano piani, affilano le armi o si scambiano segreti»5. Nello spostamento dallo spettro a un fantasma che guarda senza essere visto (quando una visiera copre, così si potrebbe anche dire, il volto dello spettro) tutto un insieme di relazioni prende ad animarsi, nel politico, nell’economico, nel religioso. Si rendono necessarie tecniche o metodi di visione, tecnologie per vedere l’invisibile di cui, in queste coerenze di Derrida, la riduzione fenomenologica husseliana potrà sempre considerar4. J. DERRIDA, Spettri di Marx. cit., p. 167. 5. Ibidem.

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si un esemplare recente. Perdere la spettralità indecidibile e vedere i fantasmi nel senso dell’ “avere delle visioni” costituiscono lo stesso movimento. Derrida ci aiuta a comprendere meglio questo strano plesso spettrale fantasmatico di cui la filosofia e una certa religione ne sanno più di tutti gli altri. Questo mondo è sempre curvato da una dissimmetria, la différance spettrale è già un fantasma animato dal segreto dell’essere riguardati. Il primo contrassegno di questa trasmutazione che non regge l’indecidibile è un fantasma che guarda. O meglio, precisazione fondamentale: uno sguardo che comanda di seguire. Di seguire il suo sguardo che chiama. Uno sguardo evidentemente non dissociato da una chiamata e una chiamata non dissociata da uno sguardo. Scrive Derrida: «Seguiamo questo sguardo. Lo perdiamo presto di vista: scomparso, nella galleria di specchi ove si moltiplica»6. Parafrasando e un po’ deviando queste coerenze (e incoerenze) potremmo dire: appena lo spettro diventa un fantasma che guarda chiamando di seguirlo, esso è avvertito come perduto, segna il posto mancante in cui si dirige l’inseguimento. Manca al posto che si indica per il fatto di averlo semplicemente sotto indicazione. A strettissimo rigore, secondo un rigore che lo stesso Derrida molte volte impone come etica del discorso filosofico, dovremmo disgiungere l’indecidibilità di un quasi evento né presente né assente (quindi quell’evento che Marx avrebbe praticato in vario modo ma poi tradito o soffocato nella hybris del togliere i veli ai fantasmi) da un evento venuto a mancare perché segnato a dito per essere ripreso o sorpreso nella sua apparizione. Se si tracciasse una qualche linea tra la fenomenalità spettrale della stessa fenomenalità e un fantasma inseguito perché mancante alla presa, qualcosa di serio comprometterebbe la non sovrapponibilità di differenza e différance. Se Levinas reagisce contro la possibile flessione dell’altro in 6. Ivi, p. 171.

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uno sguardo che mi guarda chiamando in causa l’ateismo di un ritiro assoluto nella asimmetria senza altro correlato, Derrida ritiene in fondo che nessuna figura dell’altro possa emanciparsi dalla caccia ai fantasmi. La sua spettralità è un altro modo di dire il messianismo il quale a sua volta traduce la convertibilità del quasi evento della chóra con il quasi evento di un presente già passato del suo non essere mai accaduto. Resta però un’enorme questione: la différance non si convertirebbe con il quasi evento della chóra se, anche solo per istante, dovesse cifrarsi nella logica di un mancare. Occorrerebbe che la formula del già sempre mancato, di un presente già sempre differito, fosse riscrivile come un presente ritirato dal presente e dall’assente, al di fuori di ogni economia del mancare o del venire meno. Occorrerebbe un presente in ritiro ed esposto in questo ritiro. Differito perché ritirato nella sua esposizione. Quindi non differito perché già sempre mancato. In questo senso per questo breve tratto Levinas guarda più lontano di un certo Derrida. Almeno di quel Derrida che non utilizza un Levinas contro un altro Levinas. 2. Derrida lo ripete in tanti modi: «[…] si deve evitare di parlare di chóra come di qualcosa che è o non è, che sarebbe presente o assente, intelligibile, sensibile o le due cose insieme, attivo passivo, il bene e il male, Dio, l’uomo, il vivente, il non vivente»7. Si deve evitare di parlare. Congiuntura estremamente fragile e delicata. Nel momento in cui Derrida sottrae l’esperienza della chóra all’evidenza di una presenza e di un’assenza, non siamo obbligati a interrogare con la necessaria radicalità lo statuto di questo strano sapere per il quale si deve escludere tutto senza sapere nulla? Per cui si deve evitare di parlare, senza sapere di che si parla? Come in una teologia negativa portata alla sua iperbole più estrema. 7. J. DERRIDA, Come non parlare. Denegazioni, in Psyché, Invenzioni dell’Altro, cit., p. 207.

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Per un strano sapere che non accede all’impensabile, che anzi si cautela in ogni modo dalla pensabilità della chóra, si promuove un divieto, si afferma con sicurezza che essa andrebbe sottratta alla presenza e all’assenza. Questa paradossale assicurazione non sarebbe possibile se non potessimo ammettere una qualche univocità tra lo strano sapere che non accede all’impensabile e ciò che deve esservi escluso. Come escludere tutto, presenza e assenza, sensibile e intelligibile, senza un qualche sapere del non escludibile? Come affermare né intelligibile né sensibile, né finito né infinito senza un qualche accesso a ciò di cui tutto questo viene negato? Come escludere qualcosa senza un qualche sapere che acceda al non escludibile? La tradizione filosofica, lo vedremo, conosce molto bene questa questione, proprio al confine con la sapienza teologica. Come non pensare, in questo momento così delicato e decisivo, che l’accesso negato come inaccessibile prenda l’inaccessibilità dal suo essere già da sempre aperto nella sua accessibilità? Già sempre aperto nell’accessibilità. Già da sempre esposto in questa aperta accessibilità. Come se la filosofia in questo momento estremo, nel momento stesso in cui avvertisse di non poter avere accesso cogliesse se stessa come l’ostacolo al già sempre trovarsi esposti nell’accessibilità. Come se essa fosse non la via privilegiata, il Dasein elettivo dell’apertura, ma ciò che deve, in qualche modo, finire perché inaccessibilità e accessibilità possano esporsi nella loro convertibilità. Forse c’è qualcosa di esemplare nel gesto socratico del portarsi verso la fine, nell’operare per l’evento di una fine, quando le leggi della città non sono del tutto estranee a ciò che somiglia alla giustizia. La filosofia non potrebbe differire la différance da una semplice differenza, così come non potrebbe sottrarre la chóra all’identità e alla differenza, non potrebbe evocare un luogo non luogo, se una qualche univocità non segnasse lo strano sapere per il quale si esclude ciò che viene escluso. Una qualche univocità tra il quasi evento della chóra e tutto ciò che è possibile esclu-

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dere. L’univocità, dovremmo però considerarla, un sapere possibile, per la filosofia, solo nel limite della sua deposizione e decostruzione. Il pensiero più estremo e difficile per la filosofia, al confine, nel confine, con un evento d’eccezione o l’evento teologico. L’univocità vieta che la differenza di essere ed ente si comprometta con l’analogia, si comprometta nella logica di una differenza tra differenti di una semplice simiglianza. Si comprometta nella logica del cattivo infinito, per la quale, due differenti diventano simili per una simiglianza, la quale richiama sempre un’altra simiglianza per rapportarsi ai simili. L’univocità è il pensiero estremo che forza la simiglianza in una somiglianza o meglio raccoglie l’esito di una somiglianza che non si muta in una simiglianza. Raccoglie, in un pensiero che diffida di ogni rimpatrio analogico, una differenza ontologica condotta al suo estremo. Occorre, lo vedremo, reinvestire la chóra di Derrida dell’univocità, ripensando però a quel momento della tradizione speculativa nella quale essa è ancora lontana dalla manipolazione ontometafisica di Suarez. L’univocità di Suarez ha già perduto quella che dovremmo chiamare l’animazione teologica dell’univocità. Quel limite cioè (lo vedremo più avanti occupandoci di Duns Scoto) che sopravviene alla filosofia solo nella condizione del suo stesso ritiro. 3. La filosofia, dunque, in alcuni momenti, nella grazia di alcuni momenti, incontrerebbe un’eccedenza che non eccede, un’alterità che non scivola verso un altrimenti, una trascendenza che non trascende, un luogo che non è un luogo, una condizione incondizionata, una impensabilità di terzo genere rispetto al pensabile come presente o al pensabile come già sempre impresente. In questi momenti la filosofia sa o almeno è nella facoltà di sapere (in uno strano sapere) che l’impensabile non è segnato dall’evidenza del già sempre perduto; il pensiero si avverte come mancante a se stesso, mancante di se stesso, un mancare tuttavia senza assentarsi, un mancare inassente e impresente.

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Se rispettassimo la serie dei suoi quasi attributi, né presente né assente, né in primo piano né in secondo piano, ecc., dovremmo poter configurare il suo momento speculativo come una scena nella quale la mano o la voce o lo sguardo che fa da indice o testimone espone il suo stesso ritiro o si espone nel suo ritiro. Questa mano, come metonimia di un orizzonte d’evento, non sarebbe in vista-presente, ma neppure assente, coperta in un secondo piano con un velo, e non sarebbe neppure nell’economia di una qualche svelatezza dove s’instaura sempre la complicità di una presenza e di un’assenza. Se la chóra è il nome per un quasi evento né presente né assente deve convergere con una scena in cui non sia più possibile per una mano che indica l’orizzonte andare in un secondo piano. Una velatura è sempre il segno di quell’eccesso di sorvolo di cui Hegel fa prova nel cominciamento della logica, la quale, a sua volta, documenta il mancare della figura concettuale. Segno, così diremo meglio più avanti, di un venir meno dell’orizzonte di apertura, nient’altro che il pathos di questo contraccolpo. La decostruzione non avrebbe filo per la sua pratica in una scena così esposta. La decostruzione è possibile infatti solo laddove una mano che fa indice può sempre trovarsi in un secondo piano dell’evento di messa in scena, e questo può accadere solo quando l’esposizione in cui si configura ritira la sua presenza e la sua possibilità di assenza. 4. In un quasi evento, che avesse i quasi attributi con cui Derrida evoca la chóra, la decostruzione non troverebbe nessun velo a coprire la pratica dell’impossibilità di ritrazione. La decostruzione incontrerebbe un indecostruibile e dovrebbe, in qualche modo, ammettere che ogni pratica di decostruzione è sempre possibile per un sopravvenire indecostruibile. Mentre la decostruzione come autodecostruzione appartiene all’esperienza stessa della filosofia, la chóra non può che evocare tutto ciò che si potrebbe presentare in una strana rammemorazione nell’evidenza di un già sempre mancato. Nella strana eviden-

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za di una perdita di un quasi evento mai incontrato. Occorre stare molto attenti però: non l’evidenza di un venir meno, ma l’evidenza di un ritardo o di un anticipo che rimanda, che fa rimando, a un mancare senza venir meno, che sopraggiunge alla filosofia solo nel limite di un confine con alcune esperienze la cui condizione di possibilità converge con il ritiro del pathos della filosofia. Esperienze la cui esposizione d’apertura implica una qualche sua deposizione. Non un evento che sopravviene in un qualche privilegio di ascolto della filosofia, di cui la filosofia sarebbe il Dasein d’apertura, di cui essa avvertirebbe una qualche speciale elezione; al contrario la strana evidenza della chóra rimanda la filosofia a eventi verso cui essa deve apparire come l’ostacolo principale al loro avvento . Eventi che esporrebbero un ritiro che a sua volta implica una capacità di ritiro dell’opera della filosofia. Portarsi verso questa fine forse è il momento in cui la decostruzione o l’autodecostruzione non è chiusa verso l’avvenire. Portarsi verso questa fine significa consumare fino in fondo quel venir meno di cui la sua domanda fondamentale è sempre il pathos dominante. In questo portarsi verso la fine, nell’autoavvertenza di costituire un contrattempo, la filosofia può pensare la chóra come un sopravvenire nella sua fine. Nell’inizio della sua fine. Forse è questo passaggio a segnare il luogo non luogo in cui la pratica della filosofia si depone verso eventi che portano con sé il loro proprio ritiro. Potremmo chiamarli eventi teologici sfidando l’enorme ambiguità che questo comporta. Nel nome di chóra dunque la filosofia può richiamare un quasi evento che si sottrae senza sottrarsi, che accade senza propriamente accadere, dona senza far dono, un evento di cui la filosofia deve dire solamente, né finito né infinito, né presente né assente. Un’apertura la cui differenza differisce senza differire o che manca e si ritrae senza propriamente venir meno. Ciò che resterebbe fuori abbraccio della filosofia, la cui mancanza nessuna nozione del venir meno riuscirebbe ad indicare.

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Un ritiro che facesse semplicemente mancanza, che segnalasse cioè il suo mancare, anche solo nell’evidenza di un venir meno, non sarebbe capace di imporre il divieto per il quale la filosofia con il nome di chóra può avanzare la pretesa di un senza luogo, di una anistoricità senza chiamata né passiva né attiva.

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La Lettera rubata: sull’eccesso svelato

1. Sui temi della presenza e dell’assenza e su un’indispensabile distinzione tra un ritiro e un venir meno si potrebbe ricavare un buon insegnamento dal celebre racconto di Poe La lettera rubata, commentata da Lacan a sua volta commentato da Derrida1. Quella Lettera in evidenza o in presenza sulla scena del senso è già la cifra di una qualche lesione di una confidenza fidata. Più avanti lo vedremo meglio, ma è sempre possibile trovare un rinvio tra la fissità di una lettera, la minaccia di infinite letture e il consumo di una certa confidenza fidata. Un credito fiduciario ha già smesso di circolare se una lettera incomincia a fare eccesso sul campo in cui si inscrive. Così come una qualche notorietà è venuta meno se la filosofia si autoavverte come un sorvolo in eccesso o in scopertura. La Regina del racconto, a un certo punto, anticipando un qualche pericolo di essere scoperta, di trovarsi quindi in totale scopertura, rivolta una lettera imbarazzante sul suo tavolo. La rivolta in un nascondimento, cercando di sottrarla allo sguardo 1. Il riferimento è al saggio di J. DERRIDA, Il fattore della verità, tr. it. di F. Zambon, Adelphi edizioni, Milano 1978.

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del Ministro. In qualche modo deve coprire il mittente e il destinatario per barrare la sua circolazione. Accanto alla Regina c’è la figura di un Ministro che vede la lettera nel punto in cui essa viene rivoltata e coperta. Non l’avrebbe vista o non avrebbe forse meritato di essere nella sua vista senza quel gesto di copertura. Così il velo che doveva coprire in realtà inaugura una speciale evidenza verso cui la filosofia ha sempre avuto una naturale propensione. Più che un circolo s’inaugura un’ellisse di cui i fuochi sono il Ministro e la Regina in correlazione tra loro. A questa lettera della Regina, sottratta allo sguardo del Ministro, possiamo far corrispondere una mano sottratta allo sguardo dell’opera della filosofia. La mano è un figura metonimica ma è anche una figura letterale. Chiama in causa l’occasione o l’orizzonte con cui o in cui ogni filosofia mette in scena o in figura i propri concetti. Se la filosofia evoca un orizzonte abissale o in ritiro o differito come l’essere dell’ente, ci sarà sempre una mano a fare da indice. Comunque si presenti sarà la figura di una mano che farà da indice-testimone. Se, indicando verso l’orizzonte una differenza dell’essere dall’ente, non saprà a sua volta esporsi in una ritrazione, tutto ciò che raccoglie non sarà altro che l’ingombro del suo eccesso e un orizzonte forse mancante ma non ritratto. Proclamerà una differenza dell’essere dall’ente che proprio la sua indicazione è pronta a smentire nel suo limitarsi a un semplice differire. Esporsi in una ritrazione è qualcosa di diverso, di estremamente e radicalmente diverso, dal ritirarsi in un secondo piano. Un ritiro in un secondo piano identifica in realtà il gesto della Regina. Rivoltare la lettera e coprirla con un velo appartiene alla medesima economia di un ritiro in un secondo piano e in entrambi i casi il nascondersi traccia la visibilità della sua presenza-assente. La filosofia conosce bene questo gesto e pratica con una familiarità assoluta gli spettri di una presenza assente o di un’assenza presente.

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Come Hegel, a suo modo, aveva visto con una lucidità assoluta: c’è sempre un rapporto tra un ingombro o l’eccesso di uno sguardo di sorvolo in un secondo piano e un semplice venir meno dell’orizzonte dell’Idea. La mano in eccesso coperto è sempre la metonimia di un orizzonte non esposto nel suo ritiro o, in altre parole, di un orizzonte che si segnala o interroga o richiama in un qualche appello nell’esperienza di un venir meno. La scienza pura avrebbe dovuto prendere inizio nel suo ritiro. L’adesione alla Sache Selbst avrebbe dovuto garantire l’evento di un puro inizio. Ma è stata proprio la radicalità estrema del progetto a poter mostrare la sua aporia. 2. La mano della filosofia come la lettera della Regina deve trovarsi nella fine di una confidenza fidata perché si trovi in pericoloso eccesso da ricoprire sulla scena. In entrambi i casi troviamo un gesto di velatura. Così come la Regina deve coprire l’eccesso di una lettera in una scena scoperta da una confidenza fidata, così le figure dei concetti devono sapere velare lo scoperto di un particolare eccesso sulla scena. Se l’ingombro di uno sguardo di sorvolo, di una lettera in eccesso o di una mano di troppo è sempre il segno di un ritardo o di un anticipo su una scena in cui ritiro ed esposizione coincidono, la velatura di questo eccesso rappresenta la figura in cui essa tenta di coprire una fatale scopertura. La potenza di una grande filosofia non sarebbe compresa pienamente se si trascurasse questa capacità di dissimulare un eccesso scoperto che transita nell’invenzione stessa della metafora filosofica. In fondo, in qualche modo, lo apprendiamo da Derrida: la decostruzione, l’autodecostruzione, con cui la filosofia può prendersi di mira, prende inizio nel momento in cui il velo con cui essa nasconde (molto spesso ideologicamente a se stessa) il ritiro non ritratto della sua mano nella scena dell’esposizione, s-vela che la promessa di totalità non può essere mantenuta. In questo senso la decostruzione è animata dallo stesso spirito

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con cui il Ministro nella Lettera di Poe da un certo punto in poi inaugura il movimento di un sospetto. La lettera o la mano della Regina diviene visibile proprio nel suo nascondimento; si fa presenza-assente nel movimento di un nascondimento inaugurando tutta un’economia di verità o di svelamento. La filosofia, come la Regina, aprirebbe dunque la sua scena nell’intervallo di tre momenti: una lettera o una mano di troppo, imbarazzante perché segno di un ritiro non ritratto; la necessità di velare quest’eccesso non ritratto; la traccia di una velatura che espone alla decostruzione o all’autodecostruzione. Se questa celebre lettera diventasse l’immagine del significante e della sua istanza di apertura potremmo dire che la sua velatura potrebbe fare da emblema a una speciale arte metaforica con cui la filosofia saprebbe rendere tipici i propri concetti. La velatura ci direbbe qualcosa sulla figura dei concetti se si sapesse valorizzarla nel giusto modo. Ci direbbe qualcosa del particolare modo di s-velare con cui le figure concettuali impongono la retorica mediante cui prendono ad affermarsi. I concetti della filosofia svelano nello stesso modo con cui la mano della Regina rivolta la lettera imbarazzante cercando di sottrarla alla vista. Sottrarre allo sguardo ciò che è in vista rivelandolo nell’eccesso del suo non essere assente. Rivelare o rendere presente, presentare, nel gesto che traccia la velatura, nella traccia della velatura che prova a sottrarre alla vista. Coprire con un velo e quindi svelare ciò che resta non ritratto e quindi presente in un’assenza. Presente in un’assenza o assente in una presenza: questa sarebbe l’arte con cui la filosofia diventa il contraccolpo di un ritiro non esposto come tale. La svelatura sarebbe l’arte di dislocare lo sguardo obliquamente in una presenza assente e in un’assenza presente. Lo vedremo più avanti, l’arte di produrre simiglianze o figure in cui è sempre un’analogia a distendere il suo velo di simiglianza. Pratica d’opera con cui la filosofia diventa esperta di un venir meno e nello stesso tempo per la stessa scena resta estranea a

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una fondamentale esperienza del ritiro. Se, al contrario, fosse esperta di un ritiro non segnato da una traccia di velatura, la sua messa in opera e il suo stesso testo di scrittura avrebbero una straordinaria confidenza con alcune esperienze esemplari di esposizione. Le sue velature, lo vedremo, sarebbero capaci di compiere ciò che si mostra in modo esemplare (esemplari soprattutto per la politica) in certe esperienze dell’arte: velare senza svelare, velare in somiglianze che fanno a meno di simiglianze. 3. In questa celebre novella, come si sa, la lettera s-velata indurrebbe un movimento senza fine se non intervenisse un’attitudine che è sempre al limite della filosofia verso gli eventi esposti senza velo. Ora, occorre stare molto attenti, un evento esposto senza velo non richiama in nessun modo una presenza presente o un ente presente. Un ente presente è sempre nella velatura del suo secondo piano di apparizione. Non c’è presenza senza piano d’apparizione e non c’è piano d’apparizione che non faccia svelamento in una dialettica di presenza e di assenza. L’esposto che qui si evoca invece richiamerebbe lo sguardo di Dupin. Se il significante fa apertura, la sua eccezione sarebbe il più in vista di tutto, tanto in vista che nessuna inclinazione allo svelamento sarebbe in grado di sostenere. Così una mano come metonimia dell’orizzonte d’apparizione che fosse interprete di questo speciale essere in vista né presente né assente, dovrebbe esporre, lo si diceva, il suo proprio ritiro, altro movimento e altra scena rispetto allo svelamento di una presenzialità. 4. Nelle coerenze dell’eredità di Derrida dunque potremmo dire in questo modo: un’apertura farebbe ritiro solo in un’esposizione, in un quasi evento in cui ritrazione ed esposizione convergono in una scena essa stessa esposta. Se l’apertura non differisce, se non possiamo mandarla in differenza, deve alla

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lettera coincidere con un’esposizione che espone uno speciale ritiro. L’apertura non può che essere l’atto stesso d’esposizione, l’attualità di un’esposizione. La mano che indica un orizzonte esposto nella sua ritrazione dovrebbe a sua volta esporsi nella sua ritrazione. Senza questa convertibilità la mano che indica l’orizzonte farebbe da orizzonte non ritratto, sarebbe testimonianza di un fuori piano scoperto, la cui velatura diventerebbe sempre la condizione di completezza con cui la filosofia può presentare la propria scena, ma anche segno del suo venir meno. La filosofia dunque dovrebbe mostrare le proprie mani esponendole in un ritiro. Solo in questa eventualità essa farebbe testimonianza di un’apertura come differenza che non differisce di una differenza. Per far questo essa dovrebbe figurare il proprio gesto speculativo in una maniera tale da sottrarlo alla semplice presenzialità con cui farebbe ingombro ed eccesso sulla messa in scena, ma anche dalla velatura con cui potrebbe trattenerlo fuori scena. Dovrebbe evitare la presenza e la semplice assenza. Ritrarre la propria mano dalla semplice presenza e dalla semplice assenza. Dovrebbe dunque esporre il suo stesso ritiro. Ma esporre un ritiro non può che imporre una scena nella quale non sia possibile indietreggiare e far ritiro. Come se l’esposizione di un ritiro dovessimo configurarla laddove non è più possibile arretrare in un secondo piano. 5. Nella tradizione del vecchio attualismo italiano tutto questo si riassumerebbe nell’estrema semplicità di una formula come la seguente. La filosofia non può che dividersi in due ambiti: nel primo espone fatalmente il concreto come un astratto pensato ma lo spaccia come concreto. Nel secondo ambito manifesta l’inevitabile caduta del concreto nell’astratto e decostruisce ogni modalità di presentazione dell’inevitabile astratto del concreto come concreto. Nel primo caso, dunque, nel momento in cui

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si spaccia l’inevitabile astratto del concreto come il concreto, la filosofia opera nella forma di un inganno o di un autoinganno nel quale lo scoperto di un impensato o anche l’impensato di un impensato si sottrae nella sua impensabilità, e in questa congiuntura nasconde sempre sotto velo l’orizzonte della propria mano. La velatura di questa impensabilità è il sintomo più potente di una scena non all’altezza del concreto attuale. Se il compito di un concreto presentato come concreto è quello di esporre il suo mancare alla semplice presenza e alla semplice assenza, allora la velatura di cui la metafora filosofica fa scena di esposizione in realtà traccia il suo inevitabile fallimento. Vela o traccia proprio ciò che non sarebbe in grado di esporre nella sua mancanza al presente e all’essente. Vela ciò che non ha saputo e potuto sottrarre alla scena esposta. In qualche modo rimuove dalla vista il corpo evidente del suo fallimento. L’attuale come la chóra dovrebbe esporsi come l’imminenza del non luogo, dovrebbe esporre la sua non appartenenza a ciò che rende possibile compresa l’assenza e la presenza. Dovrebbe esporsi come un evento che esibisce la condizione del suo accadere come mancante all’insieme che rende possibile. Mancante della stessa mancanza con cui la chóra di Derrida rende possibile tutte le iscrizioni che ne tracciano il suo non luogo. Esporre questa mancanza come ritiro vorrebbe dire, ripetiamolo ancora, esporre le proprie mani come mancanti. Esporre una scena in cui le proprie mani si ritraggono senza traccia velata di ritrazione. Ma questo non accade mai tra le mani della filosofia. Per questo la decostruzione, dice bene Derrida, è coessenziale a ogni costruzione. Ma torna la questione decisiva: come sa la filosofia e quindi come può la decostruzione essere anche autodecostruzione, se l’impensato della chóra è già sempre non ritratto e già sempre velato o pensato, o comunque mai esposto nella sua mancanza alla presenza e all’assenza? Donde trae la filosofia il giudizio con cui avverte se stessa, si autoavverte cioè, del man-

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care della chóra a ogni assenza e presenza? Donde trae il giudizio che l’impensabilità dell’attuale scade sempre, fatalmente, in un pensato? Come sa che una condizione attuale di un evento non appartiene all’insieme che rende possibile? Come ricava dalla logica infinita di uno slittamento metalinguistico, che l’impensato di un orizzonte attuale non è riducibile a nessuna traduzione nelle figure inevitabili di un pensato? Dobbiamo ammettere che la filosofia nei suoi momenti cruciali può rendere testimonianza a se stessa di un doppio passo che le accade alla fine come un contraccolpo: incontra un niente come già sempre perduto, lo avverte in perdita senza averlo mai, propriamente, direttamente, incontrato e, nello stesso tempo, per lo stesso contrattempo, deve sottrarlo a questo stesso mancare. Il niente che non manca di nulla, che non ha segreto e non fa segreto, senza richiamo alla logica di una promessa, tanto in ritiro da ritirare la sua stessa differenza. La filosofia è come presa dal contraccolpo di un’impossibilità di esporre questo ritiro e, al contempo, di poter essere esposta a un’esposizione che fa testimonianza di un ritiro senza traccia. 6. Dobbiamo impegnarci nell’ipotesi che la filosofia faccia sempre l’esperienza di un venir meno, sia cioè nel passo di un venir meno. Nel venir meno qualcosa si rende presente nel suo venire a mancare e la filosofia raccoglie nella sua figura questo presentarsi di un’assenza; è in questo venire meno il cui contraccolpo è un presentarsi nell’assenza che essa patisce dialetticamente e obliquamente l’orizzonte come limite. È qui, in questo contraccolpo, che il suo sguardo si fa obliquo per corrispondere a una figura che sappia patire il venir meno. Ma se è portata a sottrarre il ritiro dell’apertura a questo venir meno, quindi a contrapporre la chóra a ogni semplice presenzialità o assenzialità, è perché incontra o passa nell’incontro con un mancare che non viene meno, con un mancare il cui venir meno non

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lascia traccia neppure come mancare, quindi, per utilizzare una nozione decisiva, con un ritiro che ritira il suo stesso ritiro. Un ritiro che ritira il suo stesso ritiro sino a mancare della logica stessa del mancare. Senza il divieto nell’esposizione di questo incontro essa non potrebbe avvertire in nessun modo la stretta necessità di non sovrapporre ciò che si esclude nella pratica del né presente né assente dal semplice venire meno di un semplice mancare. C’è dunque almeno un momento in cui la filosofia incontra un fenomeno in perdita senza essere perduto, mancante senza essere mancato; un fenomeno nella cui scena esposizione e ritiro devono convergere se la filosofia può vietarsi di pensare e dire la chóra o la differenza come né presente né assente, né in secondo piano né in primo piano. Un fenomeno esposto né in eccesso né in difetto.

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Sul niente e sull’essere

1. In una certa neometafisica italiana è sempre la posizione dell’ente, la sua entità, l’identità di essenza ed esistenza, a portare in dote l’attualità della manifestazione. L’ente sarebbe a tal punto la posizione del proprio essere da convocare il pensiero come soglia della sua manifestazione. Severino in un saggio giovanile scrive in questo modo: «Il dato è l’ente immediatamente manifesto, ove il manifestare è lo stesso manifestato. Il dato, come determinazione originaria, è la stessa verità originaria. La verità originaria, come unità originaria della presenza dell’ente, è fondata sulla presenza immediata, nel senso in cui si dice che questo ente è vero perché è presente nella sua piena realtà»1. La scena qui è regolata, riceve la propria regola e misura, dall’immediatamente manifesto, da un dato che porterebbe con sé l’atto stesso della sua manifestazione. Ora, l’atto di una manifestazione, la cui manifestatività cade sull’immediatezza di un dato, non può che implicare un ricorso all’evidenza fenomenologica di un darsi. Un dato che si manifesta come un darsi non può che implicare un farsi avanti, ma nessun farsi avanti 1. E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 482.

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sarebbe tale se non si presentasse in quanto tale e nessuna presentazione a sua volta può prescindere dall’occupare la soglia di un presente temporale. Così il dato si manifesterebbe nel suo essere presente. Sarebbe manifesto nella presentalità del suo essere presente. Ma è qui, come si sa, che agisce la forza della differenza ontologica: proprio il metodo fenomenologico accerta che la presentalità del darsi come presente non è presente come tale, che solo per questa impresentabilità il presente si offre come un darsi. Pertanto la manifestatività non è identica con il manifestato, non è portata dalla posizione del manifestato. Differisce dal manifestato come dato. Il neometafisico reagisce e chiede conto (in modo tutt’altro che ingenuo) dell’essere della differenza, chiede conto di una manifestatività che nel far differenza dovrà darsi a sua volta. Chiede conto di questo mostrarsi nel suo ritiro, di questo mostrarsi come un darsi, il darsi di cui appunto si parla nel momento in cui si nomina la posizione del dato. Questa obiezione è importante: non è un caso, del resto, che nel momento in cui si vuole evitare la reificazione della differenza ontologica si deve ogni volta precisare: differente di una differenza che non differisca e sia quindi in qualche modo in uno con l’ente. Quindi nient’altro che l’ente. E tuttavia se questa necessaria precisazione avverte dell’ambiguità della soluzione heideggeriana della differenza non toglie nulla alla sua dirompenza nel momento in cui la manifestatività si polarizza sulla datità. Se la differenza ontologica è sempre sul punto di entificarsi, la semplice datità è sul punto di positivizzarsi e di presentarsi in un presente davanti. A rigore per entrambi (heideggerismo e neometafisica) la manifestatività non è né presente né assente, né in primo piano né in secondo piano, e tuttavia il primo è sul limite di far scivolare la differenza in un secondo piano dell’ente la seconda di risuonare un primo piano assoluto dell’ente. Che questa evoluzione sia sempre imminente e congeniale alle formule con cui se ne figura il tratto speculativo è testimoniato dal fatto che il primo può convergere con la rinuncia o il rifiuto del principio di non contraddizione, la

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seconda invece deve chiamarlo in causa come principio fondamentale. Ora, come far convergere invece la dirompenza della differenza ontologica portata all’estrema coerenza con la non negazione del principio di non contraddizione? Severino scrive così coerentemente: «verità originaria è adaequatio intellectus et rei nel senso che l’adaequatio è originaria e che la dualità dei termini che la costituiscono non rientra nell’originarietà ma è un secondo rispetto a questa. L’adaequatio è il dato come manifestazione dell’ente»2. Ora, se la dualità dei termini è sempre un poi, un astratto di un concreto direbbe Gentile, perché continuare a utilizzare la nozione di adaequatio? Si dirà: perché non c’è un primo termine, poi un secondo termine, con la necessità che si rapportino tra loro. C’è piuttosto, così si tenta di dire, la manifestazione di cui i termini sono sempre successivi. Ora, i termini sono sempre successivi sia nel caso in cui si propongano uno dopo l’altro sia nel caso in cui si propongano da sempre l’uno con l’altro; la successione sta nella semplice differenziazione dei termini nella formula di un pensiero dell’essere. Per impedire questo però bisognerebbe evitare di utilizzare i termini per evocare la manifestatività. Bisognerebbe appunto affermare che la manifestatività in cui i termini si correlano non è identica ai termini (sempre successivi) né differente, né prima né dopo; la sua manifestazione differisce, senza tuttavia essere originaria. In uno con il dato senza poter sostenere tuttavia una formula cara a Severino e cioè: nell’identità tra il manifestare e il manifestato. Così se l’essere diventa il nome per la manifestazione come orizzonte di apertura in quanto tale, l’essere con cui potremmo continuare a evocarlo andrebbe distinto dall’essere di cui ogni pensiero è in correlazione. Se per adeguatezza si intende la manifestazione stessa essa non è propriamente niente che sia semplicemente correlativo. 2. Ivi, p. 403.

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Non a caso in questo crinale stretto in cui la manifestatività lambisce il lessico speculativo dell’attualismo, Severino nel saggio “Ritornare a Parmenide” scrive: «L’elenchos non dice, si badi, che la negazione dell’incontraddittorietà non è ammissibile perché è contraddittoria (giacché, così, si presupporrebbe ciò di cui si deve mostrare il valore: l’incontraddittorietà, appunto), ma dice che tale negazione non riesce a vivere come negazione, perché nell’atto in cui si costituisce come negazione essa è insieme anche affermazione [...]»3. In questo passo, che compare quasi come un lapsus nel corpo del testo, Giovanni Gentile non si sentirebbe estraneo. In fondo, almeno per un momento, la forza interna della coerenza spinge la linea speculativa dai termini o da uno dei termini (pensiero-essere) verso l’attuale, o l’atto stesso dell’attuale nel cui esercizio performativo si mostrerebbe il valore dell’innegabilità come affermazione di qualunque negazione del principio di non contraddizione. Per un momento la formula, con la quale si ripete che l’essere non è non essere, si mostra nel suo valore non a partire dalla contraddittorietà dell’asserto, quindi dalla contraddizione manifesta di un A che respingerebbe il suo essere non A, ma da un’autoevidenza sostenuta da un’implicazione performativa nella quale una negazione dell’incontraddittorio chiama in scena l’impossibilità che qualuque affermazione o negazione possa trascendere la trascendenza di un atto. La negazione deve affermarsi nel suo atto per essere tale e pertanto non può negare l’affermazione con cui nega. L’impossibilità di negare il principio di non contraddizione, quindi, in questo passaggio di Severino, si ritroverebbe a ridosso speculativo dell’attualismo. Chiamerebbe l’essere come non non essere l’attuale, in quanto apertura già sempre aperta di ogni 3. E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, in Essenza del Nichilismo, Adelphi, Milano 1995, p. 45. Il saggio com’è noto venne pubblicato nella “Rivista di filosofia neo-scolastica” nel 1964.

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affermazione e negazione. Questo momento tuttavia si spegne immediatamente dopo. L’atto diventa subito il contraccolpo logico di una posizione ontologica. Diventa ciò che si imporrebbe al pensiero a partire dalla positività dell’essere, la quale porterebbe in consegna quel destino del non non essere di cui il pensiero non potrebbe che prendere atto anche quando non lo sa o non lo vuole. Così l’attuale nel momento decisivo inclina verso una semplice iperontologia. Severino scrive: «La legge dell’essere è il destino del pensiero, che pertanto è sempre testimonianza di questa legge, ossia l’afferma sempre, anche quando la ignora o la nega»4. L’incontrovertibile ritorna quindi dall’innegabilità di un evento che può fare autotestimonianza dell’impossibilità di negarsi ad una positività data che imporrebbe il suo atto d’essere. 2. Nel momento in cui l’innegabilità del principio di non contraddizione non resta fermo alla confutazione elenctica e si porta verso il lato ontologico, si deve asserire dell’essere e del nulla, si deve scrivere che l’ente che è non è non essere, non è niente. Ma come escludere il niente dall’essere, come star sicuri di un essere che non sarebbe niente se esso è il nome per eccellenza chiamato a non dire nient’altro che quello che dice? Chiamato a dire semplicemente ni-ente, o comunque certamente nulla che abbia a che fare con un’opposizione a un positivo esistente. Nulla, come non essere esistente, fa del nulla l’opposto dell’esistente, cioè il non esistente. Il positivo diventa l’essere e il negativo il nulla. Ora, questa relatività all’esistente come non esistente ha già cambiato connotati al niente, lo ha già pensato come non esistente, mentre l’estremo rigore vorrebbe che niente fosse un nome a cui si deve garantire il non portare nessun ente né esistente né inesistente nell’orizzonte che apre. In questo senso non è l’opposto del positivo, non è l’opposto 4. Ivi, p. 45.

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dell’essere, poiché ogni opposto condivide sempre qualcosa con ciò a cui si oppone. Senza una certa condivisione non c’è opposizione. Così, se il niente venisse chiamato in opposizione all’essere, nel qualcosa che dovrebbe avere in comune, si dovrebbe ricorrere all’essere stesso come comune tra l’essere e il niente. Pertanto l’essere è un nome che non può portare con sé il negativo del positivo, il non esistente dell’esistente. Non solo, sottraendosi come opposto, costringe a nominare l’essere senza ricorrere a nessuna correlazione oppositiva. Costringe a svuotare l’essere di ogni correlativo e quindi di ogni riferimento al non essere come non esistente. Se il non esistente non è l’opposto dell’essere, la formula “l’essere non è non essere” non può rinviare alla positività oppositiva della correlazione. Non c’è nessun nulla opposto all’essere da cui si possa trarre la legge per la quale si possa legittimamente enunciare la formula l’essere non è non essere. Ma se il nulla non è il non esistente anche l’essere non è l’esistente. Non è il positivo. Non è l’opposto del suo opposto. L’essere diventa un nome per un orizzonte né esistente né inesistente, né positivo né negativo, diventa un nome il cui posto può essere preso dal niente stesso. Essere e niente diventano nomi che si contendono un’apertura in cui si porta all’estrema coerenza la differenza ontologica. Forse la chóra a cui rinvia la différance di Derrida accade alla filosofia ogni volta che, seppure per un momento, essa scopre che essere e niente hanno in comune la possibilità di un’apertura che nessuna opposizione di essere e niente sarebbe in grado di nominare.

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Il pathos del venir meno

1. Da un lato occorre affermare che una presenza è già sempre una traccia; traccia poiché la presenza è già sempre differita da sé, già sempre mancata o perduta. Dall’altra occorre sottrarre la traccia a ogni nozione di rinvio. Anche quando essa sembra richiamare un evento che non avrebbe mai fatto a tempo ad accadere o che mai sarebbe stato presente. La traccia non può rinviare al passaggio mancato, quindi non deve fare rinvio; deve esporsi come una traccia senza rinvio. Una traccia senza rinvio è come un effetto senza causa. Come un effetto che sottraendosi ad ogni regime di causalità converte o sospende la sua stessa natura di effetto. Quindi o la traccia è il nome di questa sospensione o conversione, oppure essa cade nell’effetto di una causa. Sospendere o convertire il suo essere effetto o il suo semplice essere traccia significa trovarsi nella medesima condizione senza condizione di un dono senza mittente, quindi di un dono che sospende, autosospende, autodecostruisce, la presenzialità del suo essere dono. Come si vede la presenza sovrana del semplice presente o del semplice dono non si decostruisce semplicemente facendo rinvio a una differenza, differendo il presente da sé, fratturandolo in un differire, ma differendo il differire dal suo stesso differire, quindi differen-

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do la traccia dal suo tracciare un rinvio, quindi pensando una traccia sospesa dal suo essere un rinvio, rinviante a nient’altro che al suo essere traccia. 2. Dovremmo dunque sottrarre un ritiro a ogni economia di rinvio compreso quello che sarebbe in scena nel momento in cui fosse contrassegnato dall’evidenza di un mancare o di un venir meno. Così quando si afferma che l’istante sarebbe già sempre mancato, già sempre venuto meno, si tradirebbe la natura di un differire differito da ogni differenza se si ricorresse, in vario modo, nel mimetismo di molte possibili variazioni, all’immagine di un battito di ciglia, quindi al venire meno come l’imprendibilità di una velocità infinita. Come se il mancare fosse l’effetto di un battito che lacererebbe o spazierebbe ogni presenzialità, per la velocità infinita di un accadere che non avremmo mai fatto a tempo a pensare. Come se il pensare stesso fosse il supplemento infinito a questo infinito venire meno nel battito di una velocità infinita. Per quanto senza tempo la velocità infinita di questo mancare continua a supportare l’evidenza di un venir meno, la quale in nessun modo può sottrarsi alla logica del rinvio. Dovremmo invece, ossessionando Derrida, non sovrapporre troppo in fretta un ritiro con un venir meno. In particolare quando il ritiro è chiamato a dare il nome all’impensabilità dell’apertura. Per questo occorre la più estrema delle cautele nel momento in cui si concede il giusto valore alla paradossalità del futuro anteriore. Nel momento in cui, tra Levinas e Derrida, si lavora sulla nozione di un evento già sempre passato senza essere mai stato presente, non si dovrebbe mai dire troppo in fretta: mancato perché già sempre perduto e perduto perché già sempre mancato. Si dovrebbe invece portare all’enfasi più estrema l’autodecostruzione implicata nella formula correttiva di un evento già sempre passato senza aver fatto a tempo ad accadere. Passato immemorabile di un presente mai stato.

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Quel mai fatto a tempo, se vuole restare fedele a ciò che cerca di evocare, non può che aderire fino all’estremo al tempo dell’accadere. Solo il tempo attuale di questo accadere può trovarsi nella condizione del non avere fatto a tempo. Solo l’attuale di questo tempo d’accadere non è propriamente mai accaduto, mai fatto a tempo, mai avuto tempo. Ritiro quindi che non va in una differenza di contrattempo: in questo senso non è una perdita, non è un tempo già sempre perduto. Non è il battito di ciglia di un istante già sempre mancato. 3. Tuttavia per una speciale fatalità di cui la filosofia deve saper sopportare il carico e il destino, un evento ritirato nel suo mancare fa contrassegno, tra le sue mani, come perduto. Nonostante la necessità di una costante correzione nel mai fatto a tempo ad accadere, la figura di una perdita torna ogni volta come l’evidenza di questo mancare. (Quante volte l’interprete può sorprendere Derrida con la formula di questo venir meno? A ossessionare il presente o la data o la firma con la logica di un evento già sempre mancato? Spettro di un corpo mai stato. A questo punto il suo interprete dovrebbe assediare la paradossalità del suo futuro anteriore con la tensione tra la chóra e la diastasi di un istante inconsistente per il suo differire...). In un linguaggio antico, molto di questo verrebbe chiamato in causa nella tensione tra il pensabile e l’impensabile. L’impensabile del pensare non è il suo retro o il suo fondo, il suo prima o la sua origine, ma la sua stessa impresentabile attualità performativa o attualità d’evento o d’avvento. In uno strano sapere, tuttavia, la filosofia sa di avere già sempre perduto l’impensabilità del pensare. Sa di averla perduta nell’atto stesso della sua pensabilità. In uno strano sapere, in una lucidità estrema, la filosofia sa che ciò che avverte come già sempre perduto non si sovrappone con la soglia impensabile in cui il pensiero è aperto. Forse nessuna altra evidenza della filosofia è così impropria: l’impensabile non è pensabile. Non è

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pensabile poiché come la chóra (di Derrida) non è né presente né assente, né finito né infinito, né pensabile né impensabile. Come classificare questo sapere improprio che nella sua massima lucidità si autoavverte escluso dalla pensabilità dell’impensabile? Che si autoimpone di non sovrapporre l’impensabilità non pensabile all’impensabilità già sempre perduta nel pensabile? Strana precauzione per la quale si cerca di non confondere due nomi dell’impensabile: un impensabile già sempre mai perduto in ogni pensabilità e un impensabile già sempre perduto nella sua impensabilità. Nel primo nome l’impensabile non è ciò che si sottrae al pensiero, ma ciò da cui il pensiero non potrebbe sottrarsi, una impensabilità per impossibilità di sottrazione. Nel secondo caso l’impensabile è il nome per l’evidenza di un già sempre perduto, inattingibile, mancato o venuto meno. Nel primo momento l’impensabile non si sovrappone con l’inattingibile ma piuttosto con il non sottraibile, con ciò che dovremmo chiamare un ritiro esposto, un ritiro esposto nella sua non sottrazione. Nel primo caso l’impensabile non differisce dalla pensabilità, la sua non sottrazione non è altro che una ritrazione senza traccia di rinvio, ma una ritrazione senza traccia di rinvio è come un differire che differisce dal suo differire o una traccia che traccia la sua stessa cancellazione e quindi nient’altro che la pensabilità in quanto tale. Per questo in alcuni momenti la tradizione filosofica può dire: l’impensabile del pensare come l’antica nozione dell’essere sarebbe il maxime scibile. Può dirlo anche se deve consegnare tutto questo a una sorta d’intuizione noetica prevalente su ogni dianoetica, quindi sempre a un passo o nel passo della sua fine. Avrà immediatamente trasformato l’impensabile in un inattingibile. Il già sempre non sottraibile si sarà mutato in un già sempre perduto. La filosofia dovrebbe invece compiere un passo estremo: autoavvertirsi di costituire non la via privilegiata per l’impensabile ma il suo ostacolo più tenace. La filosofia deve sapere farla finita con sé, deve sapersi finire, sapersi in una certa fine.

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Forse è questa una delle eredità di Nietzsche che si impongono come la grazia di una speciale lucidità. Praticarsi in una certa fine non significa l’impegno nella triste retorica dell’elaborazione di un lutto. Praticare la fine significa raggiungere l’idea che l’impensato, come l’aperto già sempre ritratto senza venir meno, costituisce il sogno della filosofia. Il suo sogno, non il suo delirio, poiché quest’ultimo ha a che fare con la hybris dell’inattingibile. 4. La filosofia è il pathos di un venir meno in cui l’origine è sempre spettrale, sempre differita, sempre inattingibile, sempre inscritta di figure concettuali che impongono la potenza retorica di uno sguardo sott’occhio o di traverso. Questo sguardo sogna ciò che il suo essere in perdita fa da ostacolo. Sogna un fuori che è tale solo rispetto alla sua possibile testimonianza. Sogna l’esperienza per lei più difficile, la più inattingibile proprio perché le appare come inattingibile: l’aperto come l’impensabile, come la chóra, né presente né assente, semplice fidatezza di cui le figure della notorietà ne sanno sempre quanto basta. Come se la fidatezza con le risorse che potrebbe mobilitare fosse il nome estremo per il limite a partire dal quale la filosofia deve deporsi. Come se la fidatezza confidente di un’apertura fidata fosse il sogno da realizzare nella o alla sua fine. Come se la differenza ontologica tra essere ed ente non potesse che lasciare in campo il rinvio di un differire se non confidasse l’essere e l’ente. Solo in questa confidenza l’essere differirebbe differendo dal suo stesso differire. Per questo la filosofia sarebbe autorizzata nel suo estremo limite a confidare il pensare e l’impensato. A confidare l’uno nell’altro fino al punto da avvertire il suo contraccolpo, il suo stesso venire meno, come la perdita di questa fidatezza. Come se la filosofia fosse da sempre il di troppo, l’eccesso o il difetto rispetto a questa confidenza fidata. Da sempre esperta del venir meno, ma proprio per questo inesperta del ritiro in cui un’apertura

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promuove una confidenza fidata. Come se le risorse richiamate dalla nozione di fidatezza fossero le più adatte per non confondere un ritiro e un venir meno. In questa linea avere fede vorrebbe dire trovarsi nel ritiro di un’apertura senza evidenza di un venir meno, senza rinvio, consentendo, in una sopportazione assoluta, lo spazio e il tempo di una indeterminazione radicale. La confidenza infatti non è altro che la sopportazione del rischio dell’incalcolabile. Non circolerebbe il senso, il senso stesso della circolazione linguistica e dell’apertura sociale, se non fosse più sopportabile quella confidenza fidata per la quale l’intesa o la reciproca attesa restano sospesi nel margine di una fidata indeterminazione. Non vi sarebbe neppure volontà di intesa, consenso di intesa, al di fuori di questa sopportazione. Il suo contrario o la sua perdita coincidono sempre con una pratica di accertamento, di certificazione, di alleanza, di deriva costante verso l’immobilità della lettera, della lingua o della legge. Forse la nozione di spaziatura con cui Nancy cerca di rinnovare come Mit-sein il tratto di apertura del Da-sein potrebbe tradursi molto meglio nell’orientamento di una confidenza fidata. Nell’ordine della circolazione del senso o nel linguaggio smarrire la confidenza fidata, per la quale è sempre possibile un consenso di intesa nel margine mobile di una speciale indeterminazione, conduce sempre alla fatalità o all’immobilità della lettera per cui nessuna figura di parola diventa sopportabile. Una confidenza fidata circola in un possibile consenso quando quei corpi di figura che le grammatiche disciplinano sempre troppo separatamente, come figure retoriche, non si impongono con la forza della loro lettera. Quando questo accade, quando la lettera impone il suo regime, anche la più elementare delle figure scivola nella strana lucidità di una interpretazione infinita. Sopportare il margine di indeterminazione di una confidenza fidata non si sovrappone mai con il regime di una infinita interpretazione. L’infinita interpretazione è sempre coerente con l’imporsi della forza della lettera, accade nella

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medesima piega di lucidità, in cui una figura ruota intorno a una certa letterarietà. Ciò che impone la forza della lettera è la medesima per cui si afferma una infinita interpretazione. Occorre rileggere le parole di Paolo di Tarso per ricomprendere questo reciproco rilancio tra lettera della Legge e la vertigine dell’interpretazione. Tra una lettera che occupa la scena di una figura e il suo sprofondare nell’interpretazione. Strano destino delle lettere: non appena si presentano a occupare la scena esse circolano nel loro venire a mancare. La strana lucidità di un’interpretazione, il suo stesso accanimento, la sua necessità, non può essere altro che il contraccolpo di questo presentarsi che viene meno. Se una qualunque figura del senso è preso dalla sua lettera un sisma scettico prende il sopravvento; ne avremo sempre un momento esemplare nelle figure della fenomenologia hegeliana. In quella interna inquietudine tra l’enunciare e l’opinare in cui si svolgono le figure della certezza sensibile. 5. Quando Hegel scrive: «La certezza sensibile in se stessa mostra l’universale come verità del suo oggetto»1, quel mostrare è ancora più radicale del mistico di Wittgenstein. Evoca un modo di sopportare una non presenza e una non assenza. L’universale che si mostra infatti non è né presente né propriamente assente. Il gesto ostensivo lo mostra nello stesso orizzonte per il quale non deve presentarsi né assentarsi. Si potrebbe dire: la sua verità è la certezza fidata per la quale l’universale non deve essere rappresentato come tale. Mostrarsi è il nome per un’esperienza fidata che non deve esibire in nessun modo la verità dell’universale, che sopporta in ogni modo l’indeterminazione per la quale tutti i questi hanno la possibilità del questo. 1. G. W. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. E. De Negri, La Nuova Italia editrice, Firenze 1979, p. 85.

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Allo stesso modo potremmo rileggere questo altro passo hegeliano: «essi opinano bensì questo pezzo di carta sul quale io scrivo o meglio ho scritto questo, ma ciò che essi opinano non lo pronunziano»2. Opinare senza pronunciare. Opinare una singolarità senza pronunciarla. Mostrare nell’opinare una singolarità senza doverla pronunciare o propriamente indicare. Quindi opinare in una confidenza fidata una singolarità senza dover far coincidere il mostrare con l’esibire. La notorietà fidata è aperta nella stessa figura per la quale l’universale e il singolare non devono presentare il loro mostrarsi. Quando l’esigenza di una qualche presentazione si afferma una particolare lucidità anima la domanda della filosofia: “che cos’è il questo? o che cos’è il qui?”. Questa domanda è sempre, contemporaneamente, effetto e causa di una perdita della figura del noto. La rovina della figura, il suo sprofondare scettico, accompagna e in qualche modo guida la strana lucidità di questa domanda, la quale non farebbe insistenza sul corpo dell’esperienza se non fosse momento di un’attrazione di ciò che abbiamo già accennato come la legge della lettera. Come se si potesse e dovesse dire in questo modo: la figura di una notorietà fidata esclude la tentazione della lettera per la medesima istanza per cui non cade nel cattivo infinito di una infinita interpretazione. Ritroviamo tutto questo nei passi in cui Hegel domanda: «Proprio a lei devesi chiedere: che cosa è il questo? Se noi lo prendiamo nel doppio aspetto del suo essere come l’ora e come il qui, la dialettica che esso ha in lui avrà una forma tanto intelligibile, quanto esso lo è»3. Il questo, elementare gesto ostensivo dell’indicare, come un genere, può dividersi in due specie che toccano lo spazio e il tempo: il qui e l’ora. L’ora e il qui tuttavia interrogano a partire dall’istanza letterale, nella strana lucidità che non sopporta l’indeterminazione. Se si 2. Ivi, p. 77. 3. Ivi. p. 83.

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afferma che “l’ora è la notte”, la sua letterarietà viene addirittura fissata per iscritto. «Noi – scrive Hegel – appuntiamo per iscritto questa verità; una verità non perde niente per essere scritta, e altrettanto poco per essere conservata»4. Questo fissaggio ha il medesimo riflesso che farebbe paralisi, ad esempio, in una figura metonimica o metaforica. Ha la medesima istanza che imporrebbe all’enunciato: bevo un bicchiere di acqua, di fissare la figura alla lettera del bicchiere. La vertigine è la medesima. Quando Hegel scrive che nel conservare l’ora non si farebbe altro che trattarla come ciò “per cui è stata spacciata” esprime la cifra più interna del travaglio fenomenologico. In realtà, per coerenza e rigore, la certezza sensibile nel dichiarare, nel giusto momento, l’ora è la notte, non è la medesima certezza sensibile tentata di fissare la notte in quell’ora. Questa tentazione sarebbe nella medesima linea dei seguenti gesti linguistici: indicare un oggetto a qualcuno che fissa la mano e non l’oggetto, o che fissa il punto esattamente indicato, semplicemente circoscritto al momento indicato, o che fissa l’attimo esatto del punto stesso. Con un’attitudine come questa, con questa specie di iperlucidità, nessuna dimostrazione sarebbe in grado di mostrare ciò che si indica. Dentro questa lucidità, nel corpo di questa iperrazionalità, il senso non potrebbe che precipitare nella vertigine di una infinita interpretazione. La strana follia di questa iperlucidità è la prova non diretta della indimostrabilità di ciò che si mostra in ogni indicazione e ci sollecita a inscrivere la stessa domanda hegeliana nell’ordine di questa serie. Quell’ora è la notte che si vorrebbe fissare per iscritto appartiene alla animazione di questa lucidità dove la legge della lettera va affermando la sua disciplina nella circolazione del senso. La notorietà fidata per la quale l’ora è la notte non cadrebbe mai nella lettera dell’ora. Se la fenomenologia può trattare la figura come “ciò per cui è stato spacciato” è perché la figura è 4. Ibidem.

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già in perdita della confidenza fidata per la quale la notte manca alla sua ora senza essere in perdita. Il fissaggio dell’ora non sarebbe possibile se la figura per la quale essa circola non fosse in perdita dell’apertura contrassegnata dalla sua notorietà. Per questo proprio la seguente questione diventa importante: una fidata notorietà non richiama un livello semplicemente elementare del sapere, qualcosa che la filosofia avrebbe il compito di innalzare, al contrario essa richiama il luogo verso cui ogni filosofia sogna l’accesso, quel luogo verso cui la filosofia in quanto tale potrebbe autoavvertirsi come ostacolo o almeno come il contraccolpo per il quale in una certa confidenza fidata qualcosa viene meno fino al punto che la figura non mostrerebbe più l’evento di ritiro di cui è accesso. La domanda della filosofia è già sempre il fuori di questa confidenza fidata, la cui figura, nel caso dell’ora ad esempio, mostrerebbe l’ora come un ritiro non mancante. L’ora di tutte le ore che la confidenza fidata pratica nel suo sapere immediato quando si formula nella domanda della fenomenologia è già in perdita di ciò che fa, ritrazione nella figura immediata. La filosofia avverte di avere perduto, anzi di costituire il momento stesso della perdita di ciò che nella confidenza fidata è in ritiro senza essere in perdita, che fa eccezione senza dovere eccedere nella lettera. Se per evento d’eccezione intendiamo un’apertura non appartenente a ciò che rende possibile, quindi in ritiro, non numerabile, in relazione a quanto raccoglie come insieme, nel rischio di un’ipotesi estrema, potremmo dire che l’ora di una confidenza fidata, per la quale tutte le ore circolano senza precipitare nella fissazione, è sempre un evento d’eccezione di cui la norma non sarebbe altro che la sua possibilità. La fidatezza sarebbe dunque in confidenza con l’eccezione. Questa confidenza fidata verso cui la filosofia si autoavverte come un ritardo o come un anticipo, rimanda a un’economia dell’essere comune, dove è sempre un errore non immaginare che logica e ontologia si tocchino tra loro.

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In altri termini potrebbe essere un grave errore ritenere l’ambito per cui riconosciamo singoli alberi o singoli cani diverso dall’ambito in cui circoliamo nell’essere in comune. Ciò che è comune ai singoli alberi non può che animarsi di ciò che è comune alla comunità degli uomini. E ciò che è comune alla comunità degli uomini richiama a sua volta l’enorme tema del simile e le sue innumerevoli varianti. Almeno in questo senso problematico: il comune per cui conosciamo o riconosciamo qualcosa di simile non rispetta mai la legge della simiglianza. Se la rispettasse vi sarebbe sempre un particolare buon senso aristotelico a rilevare la fissazione e il regresso all’infinito di una logica del terzo uomo. Quando due cose simili richiamano la simiglianza in un terzo la logica della lettera ha già chiamato in causa la filosofia come un veleno e come un farmaco. Dovremmo dire così: quando un insieme deve riferirsi ad un comune come ad un terzo l’apertura per cui una somiglianza prende a circolare è già in perdita. Solo evocando una speciale logica dell’eccezione si potrebbe cercare di dar valore all’autoavvertirsi della filosofia come in ritardo ed in anticipo. Ma questo implicherebbe una qualche violenza decostruttiva nei confronti delle linee di forza che conducono, quasi naturalmente, la filosofia verso le risorse dell’analogia dove la simiglianza esercita sempre un ruolo decisivo. Vedremo che sarà giusto (giustizia, prima evocazione di una questione la cui trasversalità avrà una sua importanza) lasciarsi piegare nella fatalità delle coerenze a cui costringe, da una differenza ontologica condotta alle estreme conseguenze. Se la differenza sarà segnata, contrassegnata, nel suo differire, da una qualche simiglianza, non ci si potrà mai rapportare in quel limite in cui la filosofia deve affermare: l’essere non è un ente, differisce dall’ente, ma differisce fino al punto da essere nient’altro che l’ente. In quel nient’altro che l’ente, nel veicolo paradossale di quel niente, la filosofia si trova nel limite di un incontro con quella confidenza fidata per la quale un’apertura si

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mostra né in presenza né in assenza. Se ogni confidenza fidata viene meno nell’emergenza di una qualche figura di simiglianza (nell’emergenza di una fissazione che conduce nella deriva del terzo uomo) al contrario laddove il simile non lavora la somiglianza di ente ed essere circola un’apertura di fidatezza. Qui qualcosa può fare insieme per un ritiro che non appartiene a quanto si rende possibile. Se il ritiro potrà distinguersi da un venir meno è per la possibilità di non sovrapporre in una differenza una somiglianza con una simiglianza. Una somiglianza di due cose in un insieme che le raccoglie non va confusa con una simiglianza a partire da qualcosa di comune. La logica di una simiglianza è la medesima che conduce la figura hegeliana della certezza sensibile a oscillare fino alla fissazione quasi psicotica dell’ora e del questo la cui logica fa tutt’uno con il venir meno della notorietà fidata. Smarrire la somiglianza nella simiglianza converge quindi con la perdita di una confidenza fidata. Occorrerebbe dunque (nella vigilanza di un operare contro natura) non sovrapporre una somiglianza con una simiglianza. Occorrerebbe affermare che due o più enti costituiscono un insieme, si raccolgono in un insieme, quando il comune rende impossibile il rinvio nella logica del terzo uomo. In questo senso un insieme non somiglia in qualcosa di simile. Ed è per questo che nella figura di una somiglianza non c’è mai davvero un raccoglimento. Mancherebbe sempre il fondo per questa raccolta senza raccoglimento. O meglio il fondo andrebbe pensato in ritiro nell’esposizione stessa della figura perché possa esservi raccoglimento. Si dovrebbe chiamare in soccorso in questa difficile questione di una somiglianza senza simiglianza o di una somiglianza da non sovrapporre a una simiglianza la sapienza di una lunga e densa tradizione scolastica che aveva tenacemente travagliato il mondo greco-platonico-aristotelico.

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6. Si pensi a come i Porretani avevano cercato di sottrarre la relazione uno-molti alla macchina di Porfirio elaborando la strana nozione di una collezione di individui in una rassomiglianza. In questo caso l’ora non sarebbe un dividendo diviso da una pluralità di divisori, non sarebbe nella divisione di un genere, ma una proprietà essenziale alle singolarità. Occorrerebbe saper leggere qualcosa di più di una semplice ripresa di Siriano e del tentativo di riscossa neoplatonico nei confronti delle obiezioni aristoteliche contro le forme della partecipazione. C’è qualcosa di più estremo di una semplice ripresa di un universale che cerca nella potenza di unificazione dei propri effetti una alternativa alla partecipazione. Era un mondo ancora lontano da effetti proporzionati alle cause o da cause che non possono che essere cause dei propri effetti. In questo mondo, lo si sa, ma solo raramente dirompe con la necessaria forza sulle questioni che oggi ci occupano, lavorava la nozione di creazione senza la quale non capiamo la novità con cui Porretano scommetteva sull’idea di conformità in alternativa a una comunicazione o partecipazione. La somiglianza di natura non si capirebbe al di fuori del mutamento che il rapporto di effetto e causa subiva nel momento in cui ogni ente si trovava come nel prisma di un Dio rivelato. In questo Dio non solo si era lontani da effetti proporzionati alle loro cause, ma si imponeva un ordine in cui la stessa relazione di causalità si trovava sospesa in una speciale discrezione. Questo antico mondo (come lo chiamava il giovane Heidegger) costituiva un laboratorio privilegiato in cui si trovavano sotto assedio gli equilibri dell’immagine greca del mondo e si preannunciavano e predisponevano le linee di forza che condurranno al passaggio epocale di Avicenna. Si aveva a che fare con convenienze o somiglianze senza partecipazione, differenze senza relazioni di differenza, relazioni né accidentali né sostanziali, entità la cui natura non subiva la gravità di un essere sostanziale. Basti pensare a quella speciale spaziatura nella po-

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tenza della copula che si produce nel momento in cui si imponeva la frattura di essenza ed esistenza. Nel momento in cui si cercava di sottrarre l’essere effettivo dal destino aristotelico di predicato essenziale dell’essenza, una spaziatura, in una particolare idea di ritrazione, trasformava radicalmente la nozione di sostanza. In quel ritiro-spaziatura si alleggeriva la nozione di universale fino al punto che potevano immaginarsi universalità come accidenti dell’universale. Universalità di predicati che non vivevano della potenza di un universale. Furono pressioni essenzialmente teologiche a condurre Avicenna a diffidare sia di universali acquisiti per astrazioni induttive da dati sensibili, sia di patrimoni di intelligibili di cui l’anima sarebbe stata dotata sin dai suoi primi momenti. Ne andava dell’apertura stessa del giudizio che un universale fosse già lì nell’occasione di una percezione a presidiarne il movimento nel metodo-reminiscenza di un certo Andenken. L’intentio di qualcosa doveva essere salvaguardato da ogni immagine di raccoglimento concettuale. L’intendere qualcosa doveva essere preservato dal raccogliere in una memoria concettuale, nell’anticipazione di una prefamiliarietà. Non a caso Avicenna ci lascia una radicale distinzione tra conceptus e intentio. Come se una logica del concetto obbligasse l’apertura del giudizio in una stretta minacciosa nella quale poteva andare compromesso quel mirare a entro cui si anima ogni attività intenzionale. La singola ora sarebbe sempre incontrata nel medium di una partecipazione all’universale che farebbe da metodo, distribuendosi in una divisione uno-molti, e il giudizio altro non sarebbe che articolazione-partecipazione della divisione del concetto. Il volere del mirare a sarebbe totalmente irrorato dall’intendere concettuale, nella scena di una fusione inesorabile di causa formale e causa efficiente. In questa antica tradizione, evidentemente, solo un universale con certi tratti non platonici o aristotelici poteva garantire l’universalità attribuita in un giudizio fino a pensare l’estremo di una universalità come un accidente o un quasi accidente dell’universale.

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Solo la leggera discrezione di un universale non distribuito nella propria divisione sembrava consentire quasi accidentalità per le quali atti o decisioni potevano sopraggiungere reagendo liberamente su una semplice percezione. In tutto il corso della tradizione moderna sarebbe difficile trovare una qualche familiarità con la coerenza fra la discrezione di un universale-essenza che non ha l’esistenza come predicato essenziale e l’universale neutro con una universalità come accidente. Quadro complicato e tormentato dove, dentro un’ispirazione apparentemente neoplatonica, si agitavano universali ante multiplicitatem, universali in multiplicitate e universali postquam fuerint in multiplicitate. Enorme tentativo di conciliazione dell’esperienza empirica e della dimensione logica in un apriori non empirico. Complicata scena in cui si doveva garantire al logico di predisporsi per l’apriori passando per l’empirico, andando oltre i limiti di una semplice induzione empirica senza consegnarsi alla forza di una reminiscenza. Tutto questo apriva la via per la nozione di essenza indifferente. Indifferente innanzi tutto all’uno e ai molti, eccedente o eccezione dell’uno e dei molti, discretamente neutrale rispetto al telaio uno-molti, quindi all’andirivieni tra un uno che si moltiplica e un molteplice che si raccoglie. L’eredità, che il filosofo persiano disseminava, correlava una discreta indifferenza con il sopravvenire stesso di una intentio come se quest’ultima potesse intendere, o volere intendere nell’apertura di discrezione di un evento d’eccezione. Sulla natura di questa natura reale, indifferente e neutra, differente da ogni differenza con cui un universale logico si distribuirebbe nel molteplice e un molteplice risalirebbe verso una unità comprensiva occorre dunque risalire almeno al grande Avicenna, ma si sbaglierebbe a non ricorrere alle risorse in qualche modo eversive di una certa teoanarchia. 7. Duns Scoto, come si sa, respingeva sia l’iperrealismo che il nominalismo. Per sostenere il profilo ontologico del giudizio

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occorreva che la conoscenza non perdesse la possibile somiglianza con l’oggetto. Il concetto dell’oggetto doveva dunque trovarsi in relazione di univocità con ciò che si afferma nel fantasma. La specie avanzava certamente con una propria causalità, ma questa formale causalità dell’Eidos non invadeva la causalità propria dell’intendere. Come se si limitasse ad orientarla o situarla in una situazione che lasciava o abbandonava la causalità nell’aderirvi o nel non aderirvi. La specie è come se sollecitasse una veglia e un’intentio. Non a caso Scoto ha sempre parlato di un concorso di cause. La nozione universale si occasionava nella sensazione-percezione, ma non ne derivava come l’effetto da una causa. La specie portava o segnalava una natura comune, discreta e neutra, né singolare né universale, che non abbracciava con la prepotenza divisoria di un genere. Su questa natura comune l’interpretazione dovrebbe farsi estrema, l’essere della sua natura o la natura del suo essere (ovunque la si cerchi, nella mente, nelle cose, in un terzo mondo tra le parole e le cose) doveva avere a che fare non solo con la radicalità di una differenza che da Avicenna in poi incrina l’identità della sostanza, quindi con quel ritiro di un essere dell’ente a partire dal sopraggiungere di ogni essere nell’ente, ma, soprattutto, con tutto ciò che animava teologicamente l’essere dell’ens. Il dinamismo interno di questa unità reale aveva da tempo trasformato la memoria platonico-aristotelica e non riusciremo a raccogliere l’eredità che ancora può coinvolgerci se non lasciamo reagire questa natura reale con l’ens in quanto ens come primo oggetto. Potremmo apprendere più di quanto generalmente siamo disposti a ritenere, sul tema di una differenza ontologica, da una tradizione nella quale una natura reale non potrebbe costituire una modalità di apertura se non fosse nell’accadere di un ens che nella prospettiva di Scoto doveva essere salvaguardato, come si sa, da ogni deriva analogica.

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8. Tutti i trascendentali, però, dovevano concorrere nella natura di un’essenza indifferente. Forse non comprendiamo la natura comune, la discrezione per la quale una nozione universale poteva distribuirsi in una serie, con plasticità, approssimazione e tolleranza (sopportando, quindi, una fidata indeterminazione), senza l’apporto di tutti i trascendentali, in particolare dell’ultimo in cui tutti dovevano raccogliersi. Forse c’è ancora qualche coerenza remota da riprendere e ripensare tra l’esperienza di un ritiro, di un ritiro che marca la sostanza nell’evento di un differire di essenza ed esistenza e l’ultimo dei trascendentali. Tra un essere che non è un ente ma non è neppure in differenza di simiglianza con esso, e il pulchrum. Come se l’ultimo dei trascendentali mostrasse una somiglianza senza simiglianza per la quale l’essere dell’ente potesse differire abbandonando o nell’abbandono di ogni differenza. Per cui l’ente somiglierebbe all’essere senza rinvio in una simiglianza. Il pulchrum dunque esporrebbe il ritiro dell’ens nella somiglianza senza simiglianza, in qualche modo farebbe avvertenza alla filosofia che la formula del nient’altro che ente, con cui si porta al limite la differenza ontologica, si esporrebbe solo in una esperienza che non farebbe nessun rinvio, in cui ogni rinvio sarebbe già sempre il segno di un venire meno, sarebbe già sempre il segno che la filosofia ha perduto, il pathos della perdita del ritiro d’apertura. Occorre dunque pensare la somiglianza senza simiglianza come l’esposizione di un ritiro e per questa via combinare insieme sino a sovrapporli due momenti verso cui la filosofia non può che verificare il suo anticipo e il suo ritardo, e cioè la figura di una fidata notorietà con l’immagine somigliante senza simiglianza. Come se un’interrogazione del rapporto di convertibilità tra i trascendentali e in particolare tra l’ens e il pulchrum ci conducesse a sovrapporre una confidenza fidata di un’apertura che non fa segno di un venir meno con quegli eventi d’eccezione che si configurerebbero esemplarmente nell’opera

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dell’arte. Come se nelle pieghe interne di questa tradizione reimparassimo a combinare notorietà e fidatezza, fidatezza e ritrazione, confidenza fidata e la sopportazione dell’indeterminazione; come se la fidatezza nell’apertura ritratta fosse anche un nome del rischio stesso del possibile. E imparassimo a pensare nell’ultimo dei trascendentali un evento d’eccezione che si orienta verso quella confidenza fidata. Orientato o in confidenza verso un’apertura fidata. Vorrebbe dire che avremmo quasi un paradigma per sovrapporre normalità ed eccezione. La norma di una legge d’apertura con l’esposizione di un evento d’eccezione. La figura dell’apertura fidata e l’evento d’eccezione avrebbero questo in comune: il ritiro di un orizzonte che nessuna modalità di un venir meno o di un mancare potrebbe mostrare. In qualche modo avrebbero in comune il sogno di ogni differenza ontologica portata all’estrema coerenza: se l’essere dell’ente fosse contrassegnato dall’evidenza di una presenza o dall’evidenza di un’assenza, un ritiro senza venir meno sarebbe già in perdita. In comune avrebbero dunque un ritiro senza un venir meno. Di diverso avrebbero invece la seguente cosa: l’evento d’eccezione attraverserebbe sempre un venir meno, ma non sarebbe un semplice pathos o contraccolpo del venir meno come capita al gesto della filosofia. Attraversare un venir meno e portarlo a fondo in una messa in opera. Dovremmo pensare all’operare dell’arte come l’esemplare di uno stato d’eccezione, dovremmo dire, tenendone conto soprattutto, lo vedremo, nell’ambito di una filosofia politica, che non è davvero uno stato d’eccezione se non ripete o imita in qualche modo il gesto della messa in opera dell’arte sulla situazione di un venir meno. L’operare dell’arte instaura sempre uno stato d’eccezione e decide in esso. Se il sovrano è colui che decide in uno stato d’eccezione l’artista ci dice qualcosa sulla figura sovrana e dimostra qualcosa di importante sul momentum della sovranità almeno di quel passo non ancora orientato nella logica di appropriazione e di dominio.

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9. Se pensassimo, radicalmente, nelle coerenze interne di una particolare sapienza teologica ci troveremmo dunque in questa speciale costellazione: l’ultimo dei trascendentali espone un ritiro e richiama (deve richiamarla) la medesima immagine di somiglianza da cui in fondo prende inizio la speculazione trinitaria e cioè la strana somiglianza del padre e del figlio. Se il figlio fosse simile al padre, semplicemente in una relazione di simiglianza, qualcosa di essenziale dell’esperienza del dio rivelato verrebbe meno. L’ultimo dei trascendentali quindi deve esporre una somiglianza senza simiglianza per non restare estraneo all’esperienza di una rivelazione per la quale tutto cade o si sostiene nella possibilità che il figlio non sia semplicemente segno o rinvio verso un padre. Questa somiglianza nella quale si esporrebbe un ritiro senza traccia del padre nel figlio conduce a pensare un evento d’eccezione nella linea di una serie che comprende una somiglianza senza simiglianza e la figura di un’immagine. Come se fossimo richiamati in una esperienza che verrebbe meno se una simiglianza prendesse il sopravvento, o fossimo richiamati a correlare un ritiro senza venir meno con una somiglianza e quest’ultima con l’esposizione di un’immagine. Meglio ancora: apprendessimo a pensare, per quanto è possibile, nella natura stessa dell’immagine, a sottrarre l’immagine a quel carattere vicario o semplicemente mediale in cui la colloca una lunghissima e varia tradizione. Non si deve fare altro che ripetere ciò che scrive Heidegger a proposito dell’immagine: «Il termine “immagine” va preso qui nella sua accezione più originaria, secondo la quale diciamo che un paesaggio offre una bella “immagine” (veduta) o che l’assemblea ha offerto una triste “immagine”»5. In questo senso dunque non c’è davvero immagine che non sia una veduta e non c’è una veduta che non sia un’immagine. Poco

5. M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, a cura di V. Verra, Editori Laterza, Roma-Bari 1985, p. 83.

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più avanti Heidegger scrive che questa nozione sia la più adeguata per comprendere la immaginazione pura la quale, appunto, altro non farebbe che ridurre il “molteplice dell’intuizione a immagine”. Se l’immagine è una veduta ( e viceversa il nome proprio di veduta è immagine) sarebbe sbagliato determinare la riduzione del molteplice come una riduzione all’unità, come se quest’ultima potesse prendere il posto dell’immagine. Come se la veduta dell’immagine fosse una unificazione del molteplice nel senso di una riduzione del molto all’uno. Quando Kant compie questa operazione rinuncia alle risorse dell’immaginazione pura. Teniamo ferma dunque la nozione di immagine come veduta da sottrarre in ogni modo all’uno o al molto e alla loro reciproca dialettica. Sempre con Heidegger dobbiamo pensarla come ciò in cui si determina un libero “volgersi” per cui si deve affermare che non c’è esperienza, non c’è pensiero, se non nella veduta di un’immagine. L’apertura si deve dunque configurare in immagine perché sia tale e solo in questa configurazione un certo ritiro non si sovrappone con un venir meno. La legge di questa configurazione è quella somiglianza che apprendiamo a pensare nell’ambito di una certa tradizione teologica almeno in quel momento in cui filosofia e sapienza teologica si toccano nella fine di un inizio o nell’inizio di una fine. Ciò che Heidegger recupera come immagine, “nella sua accezione più originaria”, andrebbe dunque attraversato da quella speciale nozione di somiglianza a cui la tradizione teologica deve fare ricorso quando è costretta a elaborare un linguaggio speculativo di un’apertura d’evento, quando è costretta a rendere conto del ritiro di un padre nel figlio, quindi, quando è portata a decostruire tutte le logiche del fondamento. Sempre da questa tradizione teologica, la filosofia politica può trarre un orientamento decisivo sulla potenza stessa dell’azione politica. Il tema come si sa è enormemente complicato: coinvolge una teoria dell’azione e della decisione, la nozione stessa di prassi, come

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si direbbe nel linguaggio di Gramsci. Nella sapienza teologica, tra il volere e l’intendere non c’è la potenza dell’immaginazione, così come si afferma in vario modo in tutto il corso del moderno, ma l’evento d’eccezione di una immagine senza simiglianza. L’immaginazione moderna ha avuto per secoli, in vario modo, una straordinaria vocazione mediale. Nell’ambito delle facoltà ad esempio ha assunto una funzione di interfaccia, tra sensibile e intelligibile, operando topologicamente nella continuità dell’intendere e del volere, ha governato per generazioni la non disgiunzione tra il sensibile e l’intelligibile, tra finito e l’infinito. Tra le antiche facoltà più di ogni altra ha cifrato il nuovo animo del soggetto moderno. Non ne capiremmo l’ipertrofia, la sua enorme espansione se trascurassimo il fatto che l’immaginazione ha concentrato e condensato le nuove figure dell’ontologia post medievale. La sua medialità sempre segnata da una contraccolpo patico (l’immaginazione sarà sempre più una passione del soggetto) non poteva che oscurare la correlazione tra immagine-veduta, una somiglianza senza simiglianza e una certa teoria della potenza dell’azione che in molte occasioni prende il nome di grazia. Una filosofia della politica non deve cessare di interrogarsi sul nesso tra un evento di grazia, come speciale potenza dell’azione e una somiglianza senza simiglianza. Tra questa potenza e la correlazione tra l’ultimo dei trascendentali e l’ens. La grazia non è il nome per un sopraggiungere inaspettato, e non si confonde del tutto con il miracolo anche se con esso condivide certamente l’irruzione di un certo avvenire. La grazia è ciò che accade ad un soggetto, al suo intendere e al suo volere, quando l’immagine nella sua somiglianza espone il ritiro. Un supplemento di grazia circola nell’apertura solo nell’ordine di un rapporto tra la figura di un’immagine e la sua esecuzione. Occorre conformarsi all’immagine che si esegue per riportare la forza di un supplemento di grazia in cui fa incremento il potere del volere. E la conformità di un’immagine si con-

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segna alla sua esecuzione quando somiglia fuori del principio di simiglianza. La sua gratuità non è sospesa nel vuoto. Anzi essa è tale solo nel momento in cui si concorre in una messa in opera dell’evento. Quest’ultimo eccede da una serie naturale e l’apertura che fa insorgere resta tale solo nella misura in cui sostiene ed è sostenuta nell’attualità della sua stessa messa in opera. Così la grazia di un momento d’eccezione non è altro che questa reciproca implicazione di apertura e messa in opera per cui non si può mai decidere una volta per tutte se si tratti di attività o di passività. Come si sa la tradizione teologica ha sempre lasciato indecisa la complicata questione se un atto di fede, di speranza o di carità preceda, sia successivo o contemporaneo all’azione della grazia. Questa indecidibilità è insopprimibile ed è il portato inevitabile di questa ontoteologia dell’evento. In ogni caso ricaviamo l’insegnamento a ripensare gli eventi d’eccezione nella potenza di conversione operata da virtù che sopravvengono nel discontinuo di una rottura anche violenta nell’ordine delle cose e per le quali, nel centro di fuoco di una speciale messa in opera, la fede diventa il nome appropriato per indicare quanto si espone in modo eminente nella figura dell’evento.

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Sopportare l’aporia

1. Ripartiamo da un passo di Derrida che merita una particolarissima attenzione e un commento privilegiato: «[...] l’impossibile, l’antinomia o la contraddizione è un non-passaggio, passo, marcia, procedimento, spostamento o sostituzione, chinesi in generale. [...] La stessa impasse sarebbe impossibile. La venuta o l’avvenire dell’evento non avrebbe nessun rapporto con il passaggio di ciò che passa o succede»1. Che cosa indica questo passo? Cosa chiama in causa questo passare che nel suo arresto renderebbe possibile l’evento o il pensare stesso come scrive in un altro luogo del medesimo testo? Come interpretare questo passare o andare che arresta se stesso in un certo limite di un non transito? Quale rapporto tra l’arresto e l’evento che avviene e il pensiero? Siamo chiamati a ricercare un rapporto interno tra il pensare in quanto tale e l’arrestarsi. Tra l’arrestarsi e un impossibile passaggio. Tra un impossibile passaggio e una non soluzione. Per Derrida occorre saper sopportare questa non soluzione. Come se la sopportazione di questa non soluzione fosse la posta ultima e più difficile per la filosofia, l’esito estremo 1. J. DERRIDA, Aporie, Morire - attendersi ai “limiti della verità”, Bompiani, Milano 1999, p. 14.

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e ultimo della stessa pratica e logica di una decostruzione. C’è un rapporto stretto e immanente infatti tra la sopportazione di questa non soluzione dell’aporia, dell’aporia attraversata quindi nella sua apertura indecisa, e la pratica della decostruzione. La decostruzione infatti non fa altro che esibire, nel suo assedio alle figure concettuali, il fatto che ogni soluzione dell’aporia è sempre aporetica. Si tratta dunque di sospendere questa speciale velatura per la quale questa tensione viene taciuta e sospesa. Ogni figura concettuale della passione ontometafisica tende a nascondere la tensione che potrebbe insidiarne la centralità. In questo senso all’ipotesi militante di Deleuze per la quale la filosofia altro non sarebbe che una speciale arte dell’invenzione dei concetti si deve aggiungere la seguente precisazione: la figura concettuale non potrebbe affermarsi, non potrebbe fare circolazione, se nel proprio principio costitutivo non contenesse la capacità di nascondere la tensione aporetica che la agita nella ingiusta esclusione che contiene. In fondo sopportare la tensione aporetica significa per la passione onto-metafisica elaborarsi per la propria fine. Portarsi nella fine di quel sacrificio di cui Socrate sarà sempre l’emblema più adeguato. Portarsi verso la fine e mostrare che ogni soluzione è a sua volta aporetica sono la stessa cosa. Portarsi verso questo limite significa, contemporaneamente, un certo lavoro contro di sé. Come se qui vi fosse il presagio che qualcosa di essenziale possa accadere solo nel suo ritiro; come se un’apertura fosse possibile nella fine di una pratica di ritiro. In questo senso l’apertura non toccherà mai in sorte all’istanza metafisica. Ciò che sopravviene alla filosofia dunque è la sua fine. La filosofia non finisce in quanto accede all’apertura, al contrario, accede all’apertura in quanto patisce la sua fine. Quando Derrida parla della sopportazione dell’aporia dobbiamo intendere esattamente questa pratica dell’arresto per il quale il pensiero è come consegnato ad una strana evidenza sottratta alla soluzione e alle coperture nelle quali tende a circolare.

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Ciò che qui si chiama arresto del pensiero non è altro che l’esposizione di un’evidenza che andrebbe preservata da tutte le possibili soluzioni della tensione aporetica. Dobbiamo capire meglio tuttavia questa relazione tra l’arresto del pensiero e una certa esposizione chiamata in causa. In questo arresto si espone qualcosa che è tale tuttavia solo nella misura in cui non passa nell’evidenza di una presenza o di una assenza. La scena di questa esposizione coincide con la dimostrazione dell’aporeticità di ogni soluzione dell’aporetica. Nel cuore della decostruzione vi sarebbe quindi un’esposizione. Quest’esposizione né evidente né inevidente è come il correlato della decostruzione o, almeno, è il correlato di una decostruzione che sopporta la non soluzione dell’aporia. Qualcosa dunque non può sottrarsi nel momento stesso nel quale la decostruzione opera nel suo momento più intenso. Non capiamo bene ciò che qui dobbiamo intendere come esposizione se non lo coordiniamo con ciò che dobbiamo intendere come non sottrazione. L’esposto qui va inteso dunque come impossibilità di sottrarsi; potremo dire: impossibilità di andare in secondo piano. Tutto questo però non risponde ancora alla domanda centrale e cioè: che cosa si espone in questa scena di non sottrazione? Che cosa si espone in questa scena in cui tutte le possibili figure dell’evidenza vengono decostruite? Come ricorrere all’esposizione senza richiamare una sua evidenza? Forse questo è il momento nel quale si deve dire che esposizione ed evento performativo affermano la medesima scena, che il performativo si espone in quanto dice null’altro che la sua stessa esposizione. Un evento performativo converge, dunque, con l’esposizione in quanto tale. Come se al pensiero fosse impedito di sottrarsi dietro i propri contenuti, in questo senso, nell’impossibilità di velare un certo ritiro. Per questo esposto nel suo ritiro. Convergenza finita tra esposizione e ritiro. Come se il pensiero fosse rinviato nient’altro che al tuo semplice esercizio. Nient’altro che a questo, e questo nient’altro insegnerebbe

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qualcosa di decisivo sulla differenza ontologica. In nessun altro momento la filosofia e come deposta nella sua fine. Tanto più il pensiero mostra l’aporeticità della soluzione, tanto meno può sottrarre la propria stessa esposizione. Ma la modalità di un evento esposto senza possibilità di sottrazione non è altro che un evento in cui è lo stesso ritiro a venire esposto. Esposto nell’impossibilità del venir meno, esposto nell’impossibilità di trascendere il proprio atto ed esposto quindi come ritratto da tutto ciò che rende possibile. Nascondere l’aporia, velare la non soluzione, coprire con un velo la non pensabilità dell’impensabile, fa sempre velo anche al ritiro esposto, cioè ad un pensiero all’altezza dell’impensabile, nella capacità di pensare la ritrazione. Ma un pensiero capace di pensare la ritrazione è un pensiero nella scena di un ritiro del suo proprio, stesso gesto. Ritirare il proprio gesto, per la filosofia, significa deporre l’istanza metafisica dalla sua copertura. Così una certa impossibilità di sottrarsi sottovelo coincide con la possibilità che un ritiro sia esposto, esposto nella sua stessa ritrazione. 2. La decostruzione dunque valorizza la tensione aporetica e ne assume, per così dire, la forza e l’energia. Ma come pensare più esattamente la forza di questa energia e il dovere dell’imperativo che deve contenere se essa diventa un’urgenza in qualche modo inderogabile? Il mostrare che ogni soluzione dell’aporia è a sua volta aporetica implica una particolare forza e un orientamento che sarebbe sbagliato lasciare semplicemente nello sfondo di una vaga indeterminazione. La domanda principale può essere: che cosa guida la pratica di una decostruzione, quale linea di forza e di tensione le offre l’energia della sua messa in pratica? Dobbiamo rispondere: la soluzione dell’aporia nasconde sempre sotto velo la tensione aporetica. Nasconde sotto velo che ogni soluzione è aporetica. Questa velatura copre l’ingiustizia di una figura che si celebra nella sua chiusa totalità.

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Qui però occorre chiarire un punto decisivo che reinterpreta e reinveste in altro modo la posizione di Derrida. Si tratta del rapporto tra aporia, tensione aporetica e soluzione aporetica. Quando l’aporia si afferma, l’istanza onto-metafisica ha già preso a circolare intorno al richiamo del thauma. L’apertura è già marcata dall’evidenza di un venir meno. Il ritiro dell’apertura come non nascondimento è già marcato dall’evidenza di un mancare intorno a cui si inaugura sempre la logica di un fondamento e di un precipizio abissale. Il venir meno è già sintomo originario dell’aporia. L’aporia non è altro che la prima formalizzazione del venir meno, poiché nel venir meno il già sempre aperto o il non nascosto appare come sotto barratura. Barrato e impossibile nel suo accesso. C’è sempre un paradosso primario infatti che contrassegna l’aporia: essa segnala l’inaccessibilità di ciò che l’estrema lucidità della filosofia, di una filosofia spinta verso la sua fine, deve ammettere come già sempre aperto nella sua accessibilità. L’inaccesso inaccessibile per la sua già sempre aperta accessibilità si contrassegna come inaccessibile. Se questo è vero, l’aporia, in fondo, nel suo fondo aporetico, è l’inizio stesso della filosofia. Se essa riporta la tensione tra fondamento e senza fondo del thauma allora una decostruzione radicale non può limitarsi a evocare la tensione aporetica contro la soluzione dell’aporia. Il non passo contro il passaggio ricoperto nella soluzione velata. Come se il rapporto tra evento messianico e aporia fosse inscritto totalmente nell’arresto del passo, totalmente incluso nella semplice sopportazione della non soluzione, nella tensione irrisolta di un accesso inaccessibile. Tutto questo non si sottrae affatto alla logica della svelatura, poiché la sua economia incomincia a esercitare il suo dominio nel momento stesso del thauma, quindi nella stessa tensione aporetica. La tensione aporetica come thauma, come inizio della filosofia è già sempre il poi di un prima. Il thaumaaporia inaugura già l’intera logica del venir meno, quindi niente a che fare, mai niente a che fare, con il già sempre aperto come

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non nascondimento. Niente a che fare con la confidenza fidata. L’istanza onto-metafisica ha già insediato la forza delle proprie evidenze. Tuttavia se tensione aporetica e soluzione aporetica non sono dissociabili, se la sopportazione della tensione aporetica non può davvero essere decostruttiva della logica della velatura, la sottrazione della tensione aporetica alla soluzione dell’aporia, quindi la messa in scena del fatto che ogni soluzione sia essa stessa aporetica, conduce ad una particolare esposizione del gesto filosofico. Conduce il gesto filosofico a riconoscere in vario modo che il suo ritiro converge con una esposizione, che non c’è ritiro senza esposizione. Che non c’è esposizione senza costruzione entro cui lavora la stessa pratica decostruttiva. Si evidenzia dunque un certo rapporto tra esposizione-ritiro e una costruzione senza la quale la stessa decostruzione non avrebbe l’energia e la forza di rompere sulla soluzione velata dell’aporia. La decostruzione non si metterebbe in opera se non fosse in un qualche modo una costruzione, non si potrebbe demolire davvero se non nel corpo di una istanza costituente che fa quindi un’opera sola con una costruzione. Non si tratta dunque di risolvere l’aporia, ma neppure d’arrestarsi nella sua tensione indecisa. Limitarsi al dualismo tra tensione aporetica e soluzione dell’aporia, contrapporre la prima alla seconda, significa circoscrivere ancora uno speciale privilegio e centralità della filosofia. Significa non portare la riduzione fino all’estremo. Si tratta piuttosto di ridurre la tensione aporetica proprio nel momento in cui si decostruisce la soluzione che vela l’inevitabile aporeticità. Ridurre l’aporeticità senza risolverla in una soluzione. Altra via rispetto all’indecisione della tensione aporetica e alla soluzione aporetica dell’aporia. Questa riduzione passa per una ulteriore intensificazione dell’esposizione. Ciò che si espone nella tensione aporetica deve esporsi fino alla fine, perché solo in questo esito potrà accadere quell’avvenire di cui l’aporia stessa è sempre fatalmente il poi. Avvenire che

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consegna quel prima già sempre mancato nel poi di ogni tensione aporetica. In questo senso un avvenire che ripete senza restituire il già sempre avvenuto. Ma come intensificare questa esposizione? Il nesso è quello tra decostruzione e costruzione a partire da una certa istanza costituente di cui l’esposizione stessa è sempre l’evento. Questo rapporto tra decostruzione e costruzione non può esaurirsi semplicemente con un passaggio all’indietro della costruzione dell’istanza metafisica. Come se la decostruzione risalisse il corso del fiume della metafisica sino a sorprendere e fissare il momento in cui gerarchizza la figura. Come se il movimento di risalita fosse appoggiato sulla forza di inerzia della discesa, tutto interno quindi alla sua logica. Questo sarebbe plausibile e accettabile se la decostruzione si limitasse ad un ribaltamento della gerarchia in cui si ordina la figura concettuale, ma essa mira in realtà a sospendere il suo effetto ideologico, a sospendere la figura in quanto tale, a sospendere l’effetto di chiusura che essa comporta. Pertanto la decostruzione non può assumere la forza decostruttiva dall’evidenza esclusa. Dobbiamo pensare ad un altro nesso tra decostruzione e sospensione della figura. Tra decostruzione e sopportazione dell’aporia. Questo nesso richiama certamente un rapporto tra l’evidenza esclusa e la figura. La richiama però non immediamente, ma solo in quanto essa consegna a una nuova possibile istanza costituente l’intero campo della figura. L’istanza costituente proviene sempre dalla tensione aporetica, segna una resistenza infinita a tutto ciò di cui la tensione aporetica fa testimonianza. Segna una resistenza alla logica di appropriazione, alla volontà di fondamento che ha già smarrito la confidenza fidata dell’apertura. Come abbiamo ormai capito confidenza fidata e apertura stanno laddove non si afferma la logica di una fondazione con il carico di appropriazione del comune fidato che essa porta con sé. Appropriazione e fondazione sono i due lati di uno stesso gesto e per questo l’istanza di questa onto-metafisica ripete e insieme

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nasconde un’appropriazione più originaria che ha già sconvolto quell’apertura fidata, nell’esposizione della quale e nella cui circolazione è sempre l’avvenire ad accadere. Il gesto metafisico della fondazione, di una fondazione che trascina con sé la vertigine di un senza fondo, è sempre isomorfa ad una appropriazione sociale, ad una delimitazione proprietaria del campo stesso dell’apertura. Non cogliere questa isomorfia è sempre segno che una istanza metafisica prende il sopravvento. La fondazione è il medesimo gesto di un’appropriazione, e così come una proprietà privata delimita confini sempre instabili e insicuri, così una fondazione non cessa di sprofondare. Non cessa di fare aporia. Occorre saper sovrapporre nei margini di una medesima figura il non nascondimento, una confidenza fidata, un tra-noi-come istanza comune di una nuda comunità esposta. Una fondazione in cui si inaugura un venir meno ripete e, in un certo senso intensifica un’appropriazione: la copertura sotto il proprio della nudità comune esposta. Una onto-metafisica è sempre isomorfa di una proprietà-appropriazione in cui si cessa di sopportare l’apertura di una confidenza fidata. In fondo ciò che le tradizioni del religioso ci restituiscono come esperienza di fede non è altro che la sopportazione infinita di quel non nascondimento che la fenomenologia cerca in vario modo di sottrarre alla logica della svelatura. Un non nascondimento come confidenza fidata ci costringe a pensare l’insorgenza dell’umano, in quell’apertura comune che perde o smarrisce o rinuncia alla marcatura proprietaria. Come se l’umano fosse una nascita nel punto di apertura in cui un’assicurazione cede il passo in un avvenire, che trae da questa improprietà, da questa insorgenza comune, di tutti e di ciascuno, una potenza inedita. La potenza stessa di un tempo come avvenire. Se l’umano ha una potenza questa è il suo avvenire. E il suo avvenire è inscritto in questa circolazione comune nella sua improprietà. Avvenire e confidenza fidata dunque si sovrappongono nella medesima figura. La forza con cui si sopporta la confidenza fidata, la

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forza con cui si resta stabili in essa, è la stessa potenza-forza di un tempo aperto come avvenire. In questo senso la fede è come l’anima dell’avvenire. Forse, per capire bene cosa sopporti una confidenza fidata, e quanto questa sopportazione sia differente, di altra natura, rispetto alla sopportazione della tensione aporetica, si potrebbe delimitare la scena della sua consistenza. Per farlo, o almeno per iniziare a farlo, occorrerebbe cogliere l’esemplarità della posizione agostiniana sul tempo, poiché essa si estende a tutto l’ambito della confidenza fidata. In qualche modo espone l’esposizione stessa all’apertura del senso. Esposti al senso di questa porta, di questo tavolo, di questa sedia, orientati in un certa indicazione o nome o pronome, senza precipitare nella lesione della domanda, che cos’è?, quindi senza la vertigine che oscilla tra il mediato e l’immediato, tra l’universale e il singolare. Come si diceva, quando la domanda prende il sopravvento nella sua volontà d’accesso, l’avvenire in cui il senso circola tra noi in tutto il rischio della sua indeterminazione, nella sua stabile instabilità, si ordina come una semplice cronologia; il futuro sostituisce l’avvenire, il senso entra nella previsione con il passato che fissa una anticipazione. Sopportare questa apertura significa non reagire con l’assicurazione di una appropriazione, lasciare il luogo senza marca di proprietà. C’è sempre un rapporto tra l’esposizione in una confidenza fidata e la sopportazione dell’altro nella sua libera uguaglianza. La potenza più grande convertibile con l’apertura stessa è il confidare nel rischio di questa fidatezza. Non a caso ogni grande inizio dei momenti di passaggio e di rivoluzione ristabilisce sempre la figura del credito sospendendo il tempo stesso di tutti i debiti. Un credito che non si converte in debito confida sempre come avvenire. Potrà sembrare controintuitivo, ma la potenza si compromette sempre nel momento in cui si dispone come potere o dominio. Il potere come dominio forse ha sempre il suo inizio in una guerra preventiva. Forse tutte le grandi

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guerre sono il tentativo di una prevenzione. Il gesto proprietario, il confinamento dei luoghi, hanno forse la loro animazione in questa logica preventiva che ha già perduto o rinunciato al credito senza debito, ha disposto verso l’altro l’assicurazione di un limite fondamentale. Ha sollevato una protezione verso l’altro, su cui non cesserà da allora in poi di operare l’aporia di un limite che si divide in due bordi. Come tutti i limiti non cesserà di venir meno e di alimentare il trapasso da potenza a potere-dominio. Sopportare la non soluzione dell’aporia è altra cosa dunque dal non sopportare l’incerto e l’indeterminato della confidenza fidata, tuttavia essi hanno qualcosa in comune. Con il secondo momento l’aporia sta per prendere inizio, con il primo si inaugura una decostruzione. Sta per prendere inizio perché la domanda dell’istanza ontometafisica fa già testimonianza di un venir meno. L’in-certo e l’indeterminato, vengono meno nella volontà di certezza e di fondazione. Ma occorre capire bene cosa accompagna quasi al contempo questa volontà di fondazione per non fraintendere la nozione di in-certezza e in-determinazione. L’in-certo qui va intenso semplicemente come la pratica di un orientamento senza dimostrazione o meglio un orientamento in cui la pratica di una dimostrazione produrrebbe un dis-orientamento. Dimostare ciò che si dice o si intende promuove o introduce sempre il disorientamento del senso. Se il senso è ciò che si partecipa nell’esposizione di un non nascondimento esso è già perduto nel momento della dimostrazione. La sua fondazione non fa che approfondire la sua perdita. Non è altro che la modalità della sua perdita. Come è stato già detto nella logica del thauma, l’interpretazione infinita prende a correre nel punto stesso della certificazione, nel momento stesso della dimostrazione. Ma questa infinita ermeneutica, o infinito rilancio dell’interpretatio o della domanda ontologica, sprofonda in una diversa incertezza rispetto all’incertezza o indeterminazione che sopporta l’esposizione del non nascondimento. In quest’ultima si

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sopporta l’indeterminazione dell’avvento o avvenire del senso proprio perché in esso la confidenza fidata in cui si è esposti nell’altro, con l’altro, non è in pericolo. È proprio da Levinas che apprendiamo a pensare l’apertura ontologica nella soglia d’esposizione dell’altro. Come se le visage, come ritiro esposto, fosse lo schema entro cui dovremmo cercare, nei limiti del possibile, la formazione dei concetti. Lo schema ontologico che orienta la normalità stessa dei concetti, le relazioni uno-molti, singolare universale, genere-specie. Lo schema-apertura mediante cui, nel concetto, qualcosa si riconosce nel suo come tale e si normalizza in un possibile riconoscimento. Come se la normalità del riconoscimento di questo come qualcosa non fosse possibile senza uno schematismo il cui vertice si traccia nel ritiro esposto di un altro, quindi nella nostra esposizione ad esso. Vorrebbe dire che dobbiamo prima confidare in qualcuno per riconoscere qualcosa. Come se in questo schematismo comprendessimo anche la logica di un insieme che non appartenendo mai a ciò che rende possibile lo apre nel possibile. Logica di un’eccezione in cui si dispone la normalità del senso comune. Dove si costituisce il comune di un genere o di una specie a partire o nel lavoro di un comune fidato o confidato con l’altro esposto. Occorre insomma questa confidenza fidata, il suo rischio e la sua avventura, per normalizzare uno schematismo trascendentale, per riconoscere qualcosa in una presa concettuale. Solo in questa confidenza fidata il gesto ostensivo che indica una tal cosa non precipita nella condizione di poter essere interpretato nella lettera del significato. Poiché, alla lettera, un gesto che indica qualcosa può sempre apparire l’indice di se stesso, oppure l’indicato potrebbe essere nient’altro che il punto esatto, punto sempre introvabile, che viene esattamente indicato. Nel precipizio della lettera i nomi cessano di funzionare come concetti. Ci sarà sempre una domanda supplettiva (che cos’è

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questo?) che potrà chiedere conto di ciò che si indica. Il senso sarà irraggiungibile nel momento in cui ci si imporrà di perseguirlo nell’esattezza psicotica di una deriva letterale. La confidenza fidata nell’eccezione in cui si normalizza una regola impedisce di cadere nel delirio della lettera poiché su questo piano il senso smette di circolare. Non sopportare il margine eccezionale di fidatezza che apre lo schematismo del nome comporta la paranoia dell’esattezza e della certezza, quindi il delirio del fondamento e dell’infinita interpretazione. Dobbiamo ammettere un consenso, la logica incerta di un consentire nella confidenza fidata. Un consentire affidato al fidarsi, che ritaglia il qualcosa, quindi la stessa relazione di particolareuniversale, il bordo del concetto, del comune tra cose, nella comunanza con il consentire dell’altro. Così la fidatezza con cui nominiamo, con cui circola il senso tra nomi e cose, o cose e nomi, è sempre aperta su una confidenza con cui siamo ontologicamente disposti. Come se l’altro fosse la copula del giudizio, l’avvenire in cui viene ogni concetto. Nella fidatezza il mondo ha una stabilità che nessun fondamento saprebbe garantire, una stabilità la cui potenza è la medesima dell’avvenire dell’altro. Sopportare questo avvenire è la stabilità della confidenza fidata. Solo questa stabilità può sostenere la mancanza di definizione e dimostrazione, solo in questa stabilità assume valore la fenomenalità del non nascosto. Poiché l’altro è il non velato esemplare, la notorietà non è altro che la circolazione nuda di un senso in cui i nomi aprono alle cose senza velatura. Quindi senza svelatura. Questa nudità insvelata dei nomi forse la comprendiamo, seppure in una modalità fatalmente perduta e indiretta, nel momento in cui essi prendono a velarsi: pensiamo a certe parole o nomi che, a volte, ripetuti instransitivamente, ripetuti più volte, si avvolgono in una paralisi di estraneità. Momento iniziale in cui sono sul punto di precipitare nella loro lettera. Ripetuti più volte si assentano della loro assenza. Quando si cade nella lettera, nella psicosi della lettera dei nomi, la

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nuda notorietà sta cessando di circolare, l’avvenire non è più l’orizzonte senza fondamento con cui si sopporta il consenso e il dissenso nella mobilità stabile dei confini semantici. Si pensi quanta apertura sia necessaria per sopportare la metonimia: bere un bicchiere d’acqua. Per sopportare che il bicchiere caduto nella sua lettera non sia il precipizio dell’acqua e la fine di ogni senso del bere. Tutto ciò che sopportiamo in quel bere un bicchiere, tutto ciò che impedisce che il bere riguardi proprio quel bicchiere in tutta la sua consistenza di vetro mortale, in qualche modo spiega l’apertura della confidenza fidata e ciò che invece viene meno quando il bicchiere non transiterà più per l’avventura della metonimia. Sopportare la metonimia richiede la stessa potenza d’apertura con la quale si sopporta ogni confidenza fidata. Ciò che viene meno nella sopportazione di una metonimia ha la medesima natura di ciò che viene meno nella normalità di circolazione di ogni nome. Questa sopportazione è diversa da quella a cui la decostruzione è chiamata nel momento in cui deve farsi carico della tensione aporetica e a fare vigilanza sul fatto che ogni soluzione non può che ripetere il più delle volte celandola l’aporia stessa. Quando la metonimia precipita nella lettera, una qualche condivisione di un aperto comune ha subito una qualche appropriazione. Stesso movimento con il quale un’appropriazione dell’apertura di tutti e di ciascuno fonda una comunità tracciando la consistenza di un limite-confine. Un’apertura sovrana viene surrogata in un potere come dominio. E il potere come dominio ha subito cessato di avere la potenza dell’apertura. Potrà guadagnare un qualche futuro, ma l’avvenire non sostiene più l’attualità dell’ora e il suo orizzonte. Sappiamo da tempo che le figure retoriche e le metafore in particolare non sono semplici ornamenti del linguaggio. Potremmo dire, con un’iperbole che riassume troppe cose, che esse stanno alle parole come le velature a certe opere d’arte visiva. Se dovessero improvvisamente venir meno, se improv-

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visamente non fossimo più in grado di sopportarne la potenza d’eccezione, l’intero orizzonte del senso precipiterebbe. Forse la potenza che si esercita nella costante reinvenzione metaforica da cui il linguaggio è preso è la medesima che impedisce di non sopportare l’apertura di un rimando metonimico. La normalità d’uso delle figure concettuali è indistricabile dalle configurazioni retoriche e la loro apertura ha la medesima istanza delle grandi reinvenzioni dell’arte. Le configurazioni dell’arte arrivano forse nel punto di caduta di quella confidenza fidata in cui si sostiene l’avvenire del senso, arrivano quando l’istinto della lettera nella logica fatale di una appropriazione prende il sopravvento. In qualche modo esse ristabiliscono la norma, le restituiscono la potenza normale, quindi ricostituiscono l’orizzonte della confidenza fidata. Se è una consuetudine accettare l’idea secondo la quale le arti ridislocano ogni volta le frontiere del senso, del tutto controintuitiva è l’affermazione per la quale esse sono rivolte a ristabilire la potenza della norma, la potenza del norma nell’apertura di una confidenza fidata. In qualche modo esse restituiscono l’apertura fidata, e poiché non c’è apertura fidata se non nella sopportazione di un comune inappropriabile, le arti cospirano verso una depropriazione di tutti i luoghi del senso. Questa depropriazione è una vera e propria opera di decostruzione. Non potrebbero espropriare o depropriare la consistenza dell’appropriazione se non fossero una pratica di decostruzione, se non sviluppassero la logica estrema di una mirata distruzione. Tra le cose importanti che possiamo apprendere dalle arti c’è proprio questo nesso tra decostruzione e distruzione. Non c’è vera decostruzione senza la forza di una distruzione così come non c’è vera distruzione che non sia una decostruzione. Ma ancora di più, ciò che in vario modo apprendiamo dalla pratiche delle arti è che questo plesso decostruzione-distruzione sarebbe impotente se non fosse una costruzione, se in questa costruzione non fosse in gioco ciò con cui le arti hanno la più assoluta familiarità e cioè l’esposizione

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stessa. Come se la messa in opera di una esposizione, nel plesso indisgiungibile di decostruzione-distruzione-costruzione, riconsegnasse la confidenza fidata del non nascondimento in cui l’aporia non ha ancora scavato nella paralisi della domanda in cui inizia ogni passione della metafisica. Come se le arti ci esponessero nell’anticipo della nostra prossima esposizione. Preparassero la potenza con cui una confidenza fidata sarà in qualche modo garantita sopportando il non nascondimento della fenomenalità. In definitiva riguadagnassero la fenomenalità non esposta dopo la copertura svelante di cui l’aporia è sempre la prima testimonianza. Per questo occorrerebbe sottolineare come le immagni-figure delle arti, delle opere dell’arte, non sono sovrapponibili alle immagini-figure-concetti in cui opera la passione onto-metafisica. Le seconde coprono nella soluzione la tensione aporetica, le prime la sopportano sino all’estinzione.

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La confidenza fidata e lo stile temporale

1. A questo punto possiamo sviluppare un’affermazione come la seguente: l’apertura come l’impensabile del tempo è lo stile. Lo stile è la figura o immagine, il corpo, il corpo-immagine in cui il tempo ha la sua apertura, la norma della confidenza fidata in cui si afferma il non nascondimento. In questo senso è l’impensabile attuale di ogni tempo. Esso manifesta sempre una condizione dell’abitare univoca a quella che nel nostro corpo, in modo esemplare, rende possibile sapere dove si trova la nostra mano destra senza guardarla. Lo stile degli abiti che indossiamo dice qualcosa di importante su ciò che contrassegna il tempo della nostra esposizione in una familiarità fidata. Nello stile con cui portiamo i nostri abiti il corpo si immagina, nel senso però che estende ai propri abiti o nei propri abiti il suo portamento di apertura. I nostri abiti nonostante le apparenze non servono per coprirci, ma per scoprire l’apertura del corpo. Nel suo vestito il corpo espone la sua nudità. Così dobbiamo pensare il corpo in relazione all’immagine come veduta e l’immagine veduta in relazione al corpo. Il corpo come veduta ambientale preveggente si immagina quindi nel portamento dei propri abiti e lo stile è il contrassegno di questa apparizione. Anche le cose o il mondo-ambiente non sono indisgiungibili

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da quella modalità d’apparire che converge con lo stile. Grave errore, errore della passione onto-metafisica, svalutare quella superficie parergonale che non consente mai di ridurre il mondo ambiente ad un insieme di mezzi e strumenti utilizzabili. Il mondo-ambiente, prima ancora di essere l’orizzonte di un rinvio di enti utilizzabili, accade nella modalità di un apparire animato dalla superficie parergonale. Lo stile in cui lo cose accadono si anima sempre di un certo lavoro del parergon sull’ergon. Forse possiamo dire così: l’istanza metafisica prende sempre il sopravvento nel momento in cui questa parergonalità assume il carattere di un puro accessorio o un semplice accidente. Dovremmo saper riconoscere che questa emarginazione della superficie parergonale appartiene alla medesima economia per la quale il non nascondimento prende a coprirsi con una velatura e s-profonda nel centro della domanda fondamentale della metafisica. Questa emarginazione si è impressa nei dizionari nel momento in cui traducono parerga come hors-d’oeuvre, con un rimando all’accessorio, al secondario, al semplice supplemento rimovibile. Semplice accessorialità che distrarrebbe o si sovrapporrebbe all’essenziale. L’etica Nicomachea (1098, a, 30) ma ancora prima il Teeteto (184 a) raccomandano alla filosofia di non lasciarsi distrarre da questo parergon che farebbe velo d’apparenza al cuore dell’ergon. Non comprendiamo qualcosa di decisivo nell’istanza metafisica senza questa lotta contro il parergon. Non comprendiamo come la filosofia possa decostruire l’istanza metafisica al di fuori del sospetto che essa può coltivare sul fatto che il parergon sia un accessorio tutt’altro che rimovibile, poiché richiama l’apparire dell’ergon nella linea stessa della sua superficie. E quella linea è tanto più superficiale quanto più chiama un’esposizione né interna né esterna. Così se il parergon fosse la superficie dell’ergon, la sua superficie più estrema, essa dovrebbe escludere la semplice accessorialità rimovibile, e

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quella semplice interiorità con cui la sostanza viene consegnata al suo eidos. Ma una superficie né esterna né interna è sempre nel passo di poter articolare l’interno e l’esterno, quindi fare apertura dell’uno nell’altro. Il mondo ambiente dunque è configurato nell’apertura di uno stile. Prima ancora di essere utile o utilizzabile, prima ancora della distinzione tra artefatti e fatti naturali, gli enti sono in una certa immagine di stile. C’è sempre un supplemento che eccede il loro valore d’uso e di scambio marcato da una configurazione d’immagine. Non comprendiamo la familiarità confidente del noto, di ciò che la filosofia qualche volta chiama notorietà fidata, se escludiamo la forza espositiva di quella configurazione d’immagine in cui siamo disposti nel mondo ambiente. Pensiero tipicamente onto-metafisico il ritenere che l’essere oggi-nelmondo, l’attualità del nostro in-essere sarebbe il medesimo se queste porte, queste finestre, queste lampade, queste abitazioni ecc., non avessero quella figura immagine entro cui assumono il rango dell’utilità e dello scambio. Resteremmo ancora di più estranei alla nozione di non nascondimento, quindi di familiarità, se disconoscessimo il nesso tra apertura e figura immagine, tra figura-immagine ed esposizione, tra esposizione e familiarità come non nascondimento. Il rapporto tra esposizione ritratta e non nascondimento accade esattamente laddove il mondo ambiente si tonalizza nello stile d’immagine. Che un mondo ambiente sia sempre disposto nella figura di uno stile, che in esso sopporti in vario modo la sua attuale impensabilità, lo comprendiamo, per quanto è possibile, nel momento in cui osserviamo una nostra immagine del passato. Nello strano spaesamento che subiamo nel rivedere l’istante di una attualità la cui familiarità ha costituito lo stile inapparente del nostro esserci di allora. Cosa esprime, di che cosa è sintomo quello spaesamento di fronte all’immagine di stile di quell’abito, di quei cappelli, di quegli occhiali, portati nel tempo di una volta? Che cosa vediamo di nuovo in quel già visto-vissuto?

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Non ci sarebbe quell’imbarazzo se non riconoscessimo un già visto, e tuttavia l’imbarazzo sta proprio nel vedere ciò che non avevamo mai visto allora, ciò che allora era il nostro apparente inapparire. Sembrerebbe un vedere ciò che l’esposizione stessa ritirava dalla semplice visibilità. Come se l’accesso fosse reso possibile dal declino di un certo orizzonte di attualità, dalla fine o declino dell’immagine di stile di un’epoca temporale. Come se il declino di un epoca fosse la condizione della sua visibilità. Ma questa tesi non riesce ad interpretare il paradosso di questo strano contrattempo. Ciò che si rileva nel dopo non è in realtà mai accaduto. Mai sono stato così come ora mi vedo in questi abiti che portavo nella familiarità fidata del tempo di allora. Eppure quel non essere stato così come mi vedo ha un qualche rimando, una qualche memoria, pur non essendo un ricordo e neppure l’insorgenza di un rimosso. Un rimando che rivela qualcosa di nuovo. Qualcosa persiste dell’attualità di allora pur avendo perduto la sua ora. Forse è in questa dissociazione tra l’ora e la sua attualità che dobbiamo cercare l’effetto spaesante che troviamo di fronte ad una nostra vecchia foto. Se non permanesse una qualche attualità non potrei avvertire una continuità con quel passato; non potrebbe esserci quel rimando all’in-essere di quell’allora. Ma quell’attualità non è più l’esposizione della sua ora e per questo è come se non potesse coincidere con il ritiro. Esposizione senza ritiro, altro modo di dire, in questo caso, un’attualità senza la sua ora, una figura-immagine che espone un’attualità dove non convergono più l’esposizione e un ritiro, e dove pertanto non c’è più l’apertura impensata di una confidenza fidata. Resta però una strana rivelazione dell’attualità di quel tempo, come se solo nella dissociazione con la sua ora restituisse qualcosa. Ma ciò che restituisce non è il come di quella confidenza fidata, ma la sua occasione. L’occasione determinata proprio dalla figura immagine del suo essere attuale. Proprio ciò che sopravvive e si trasmette nell’orizzonte di un’altra epoca. Lo stile di un’epoca si evidenzia dunque quando ha perduto la

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sua ora. Quell’evidenza non dice nulla in realtà sull’apertura fidata in cui circolava il senso condiviso, ma fa testimonianza della potenza con cui l’attualità abita nelle figure-di-immagine, fa testimonianza che l’occasione di quell’ora ha avuto la sua esposizione attuale nella veduta di una certa immagine, nel lavoro del suo stile o nello stile della sua figura-immagine. Anche questo momento spaesante di una foto del passato ci conferma l’importanza del nesso tra parergonalità dell’esserenel-mondo e confidenza fidata. Se ci pensiamo bene ciò che Heidegger trascura, in Essere e Tempo, non casualmente, è il fatto che il mondo-ambiente sia orientato nella sua strumentalità di rinvio da quella modalità di stile con cui porta la propria abitabilità. Non c’è strumento che non sia aperto nell’abitare di uno stile. Che non abbia una forma che nessuno modalità d’uso o di scambio sarebbe in grado di contenere e giustificare. C’è sempre un supplemento di stile accanto al valore d’uso e al valore di scambio. Lo stile è come la marca intransitiva degli enti. Figura-forma parergonale che contrassegna il tono stesso della fidatezza. Dovremmo chiamarlo il suo valore di esposizione. Comprendere, per quanto è possibile, il rapporto tra esposizione e familiarità significa pensare l’esposizione come l’opera di un’evidenza né presente né assente, quindi come l’opera di un’esposizione che converge nel suo ritiro. La familiarità fidata non è altro che l’efficacia di questo ritiro esposto. Se l’esposizione si opera nello stile, vuol dire che ci troviamo in un ambito non dissociabile da ciò che il più delle volte, troppo affrettatamente, chiamiamo lavoro estetico. Vuol dire, in altri termini, che l’immagine-figura dell’ente, di quell’immagine figura per cui è in gioco l’esposizione in una fidatezza, è tutt’altro che estranea all’opera dell’arte. Almeno nel senso che qualcosa di decisivo dell’immagine dell’arte può sovrapporsi allo stile della parergonalità di un ente in quella confidenza fidata che Heidegger aveva contrassegnato come non nascosto.

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Questo carattere comune è la speciale convertibiltà di esposizione e ritiro. Un carattere comune che non comprendiamo se non insistiamo sulla nozione di parergon e se non ricordiamo che quando Heidegger insiste sul rinvio degli utilizzabili in realtà si inserisce in una tradizione nella quale il parergon non dice nulla sull’ergon, tutt’al più è l’ergon che sostiene il supplemento possibile di un parergon. Per questo è corretto, come ha fatto Derrida in un suo saggio, dare la giusta enfasi a quel momento della terza Critica in cui Kant si imbatte sulla questione del parergon. 2. Kant scrive così in quel celebre passo: «E anche quelli che si chiamano fregi (parerga), vale a dire quelle cose che non appartengono intrinsecamente alla rappresentazione dell’oggetto, come sua parte integrante, ma come un accessorio esteriore, aumentando il piacere del gusto, non compiono tale ufficio se non per via della loro forma […]»1. Vi sarebbero dunque delle rappresentazioni e dei parerga. Questi ultimi non apparterrebbero intrinsecamente alla rappresentazione. Da un lato rappresentazioni che potrebbero sussistere senza parerga e dall’altra parerga che non avrebbero sussistenza senza rappresentazione. Tuttavia questo passo kantiano non fa che oscillare. Vi sono parerga che si installano nella rappresentazione. Si installano fino al punto che contribuiscono al piacere del gusto. Vi contribuiscono fino al punto che sarebbe molto complicato separarli dalla rappresentazione senza mutarne il suo carattere espositivo. Talmente inscritti nella rappresentazione che occorrerebbe distinguerli dalla possibile declinazione in un semplice ornamento. Poiché l’ornamentale non solo non contribuisce al piacere del gusto, ma lo danneggia e lo compromette. Lo compromette e lo danneggia poiché si anima della semplice attrattiva, la quale “nuoce alla pura bellez1. I. Kant, Critica del giudizio, a cura di A. Gargiulo e V. Verra, Laterza, Bari 1972, p. 54.

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za”. Vi sarebbero dunque fregi che non sono ornamenti, come questi ultimi non apparterrebbero “intrinsecamente” alla rappresentazione e purtuttavia concorrerebbero alla sua forma. Né ornamenti né semplici rappresentazioni. Se la distinzione dall’ornamentale è molto chiara resta tuttavia incertissimo lo statuto della sua accessorialità rispetto alla rappresentazione estetica. Resta nella totale ambiguità questa non appartenenza. Questa non appartenenza infatti non riesce ad abbandonare la rappresentazione. Tanto è vero che la sua sottrazione si rivela tutt’altro che semplice. Se fosse un semplice accessorio si potrebbe tranquillamente sottrarlo, come avviene con la semplice attrattiva, senza compromettere l’ergon dell’opera. In questo caso invece la non appartenenza non si può confondere con l’accessorialità. Così, se l’ornamentale non appartiene all’opera e il suo toglimento non cambia nulla nella sua esposizione, certi parerga non appartengono alla rappresentazione, ma nel contempo le sono per così dire consustanziali. Kant è tanto deciso ad escluderli quanto ad includerli. Non farebbero parte della rappresentazione e tuttavia tutto ciò che ne sappiamo ci porta a non trovare mai il momento in cui inizierebbe davvero la loro accessorialità. Sembra facile sottrarli alla rappresentazione, anzi sembra che la rappresentazione possa raggiungere il suo acme nella loro rimozione, ma appena avviene la rimozione l’effetto è quello di una statua spogliata del suo mantello. Che sarebbe dell’ergon di una statua di Donatello spogliata del suo mantello parergonale? Quest’ultimo esempio mostra la seguente cosa: ciò che distingue i parerga dall’ornamento sta nella medesima formalità che siamo costretti ad adottare se non vogliamo confondere una semplice rappresentazione con la rappresentazione in cui è coinvolto il piacere del gusto. Ma questo avrebbe dovuto portare Kant a sanzionare la non sottraibilità dei parerga dall’effetto di immagine di una rappresentazione dell’arte. Avrebbe dovuto portarlo a diffidare di ogni affermazione circa l’integrità di una rappresentazione.

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Che Kant ci lasci su questo punto una straordinaria oscillazione è testimoniato anche dall’inserimento, tra gli esempi dei parerga delle cornici dei quadri. Questo inserimento è il sintomo della difficoltà a precisare la complicata nozione di un elemento parergonale allo stesso tempo appartenente e non appartenente all’insieme della rappresentazione. Quell’inserimento sposta la parergonalità nel limite di un confine. La cornice in effetti confina con l’interno e con l’esterno. Unisce e separa, congiunge e disgiunge. Stando al limite, costituendo il limite sembra lecito affermare né propriamente interno né propriamente esterno. Ci sarà sempre una cornice a delimitare un quadro ed essa sarà sempre il limite in cui si delimita una rappresentazione. Ma la domanda centrale è la seguente: la cornice opera come il panneggio nel corpo di un’opera di Donatello, per esempio, o quest’ultimo come una cornice? Si può dire che il panneggio delimiti il corpo di una statua come una cornice delimita un quadro? Kant non ci dà una risposta compiuta su questo, ma indica una via da seguire: la cornice non deve diventare ornamento. Non a caso l’esempio di ornamento indicato in questi passi kantiani è quello di una cornice dorata. Come se una cornice fosse sempre sul punto di essere dorata. Sempre sul punto di cadere nell’attrattiva e tradire il giudizio del gusto. La cornice insomma è sempre sul punto di essere decorazione ornamentale e non dire nulla quindi sulla natura del parergon. Dovrebbe perdere l’attrattiva. L’attrattiva è ciò che attrae presso di sé, ciò che le impedisce di svolgere un certo compito di ritrazione. Se un limite deve davvero delimitare dovrebbe promuovere l’inizio di qualcosa. In questo senso a volte la filosofia scrive che qualcosa è sempre solo nel suo inizio. In questo senso non è mai sbagliato affermare che la fenomenologia realizza il suo manifesto quando fa convergere l’apparizione o la fenomenalità stessa con un certo inizio. Qualcosa si manifesta nel suo limite se il limite porta l’inizio e l’inizio porta il limite. Il darsi del fenomeno deve avere già deposto l’uno nell’altro.

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Se ci pensiamo bene, se questo non accade qualcosa si dà nel rinvio costante ad un secondo piano di apparizione. Riduce il suo darsi a questo rinvio al secondo piano. Questo slittamento per principio non ha mai fine, se accade e prende il sopravvento è perché qualcosa di essenziale lede il rapporto tra il limite e l’inizio. Compromette ciò che nel rapporto tra un primo piano e un secondo piano non è mai né l’uno né l’altro. Un tramite che l’istanza metafisica sacrifica, per utilizzare un antico riferimento di Levinas, come l’istante tra due momenti temporali. Il tramite allora svanisce e si propone il rito della custodia di un già sempre perduto. Chissà che i rituali sacrificali tra il cielo e la terra non siano da sempre in vario modo in questa economia. Quando questo rapporto viene compromesso la scena dell’esperienza sarà occupata e saturata o da testi che fanno rinvio infinito ai loro contesti o da testi che irrompono con la durezza di un trauma. In questo senso sottrarre un evento al suo orizzonte o pensare un evento nel semplice rinvio al suo orizzonte sono due momenti del medesimo evento di un limite che non converge con l’esperienza di un inizio. In questo momento la fenomenalità non coincide con la familiarità fidata del suo orizzonte di apparizione. Nessuna esperienza è possibile senza un contesto-ambiente, ma se si vuole scongiurare che essa precipiti da una cornice ad un’altra, la relazione tra un contesto e ciò che si apre, quindi l’apertura tra un contesto ambiente e ciò che in esso si raccoglie non è mai né in primo piano né in secondo piano, tanto meno può pensarsi come l’interfaccia mancante tra l’uno e l’altro, non è propriamente un limite. Quando qualcosa si delimita, l’apertura in cui inizio e limite convergono ha cessato di operare come il possibile stesso dell’esperienza. Per familiarità dunque dovremmo intendere un contesto che non va in secondo piano, che non occhieggia in differenza di un secondo piano; dovremmo intendere un certo modo di abitare il piano per cui sarà sempre possibile interpretare o eseguire in vario modo il contesto in cui ci si trova situati.

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Questa abitabilità che esegue un contesto è il possibile stesso della relazione che può trovarsi lesa e in rovina in una certa relazione tra primo piano e secondo piano. La familiarità di una confidenza fidata dunque è l’abitare un piano di realtà né in primo piano né in secondo piano. Dove il contesto ha già sempre liberato l’esecuzione del suo testo. Non imponendo cioè quella direzione imperativa che la logica di un fondamento porta con sé. Un evento disposto in un fondamento ha già perduto la sua eventualità. Per il paradosso che abbiamo già incontrato non c’è fondamento che non cessi di sprofondare. Non c’è fondamento che non sia sinonimo di instabilità dell’esperienza, da sempre inscritto nella volontà di fondazione. Così, al contrario, non c’è eventualità senza fondo, con un fondo ritratto, che non sia il piano di una speciale stabilità dove le situazioni restano sotto decisione, nel margine costante di una approssimazione di cui si accetta e sopporta l’indeterminazione. Ma tutto questo non potrebbe accadere se la linea del piano non si trovasse in una esposizione per la quale appunto né l’evidenza di un primo piano né l’evidenza di un secondo piano saprebbero dire granché. Ricordiamo però ciò che dobbiamo intendere per esposizione: un evento è esposto quando coincide con il suo ritiro, quando porta con sé il suo ritiro. Un evento esposto che porta con sé il suo ritiro è ciò che la filosofia qualche volta può chiamare l’inapparente. La filosofia può alludervi in qualche modo nella formula per la quale ciò che appare più di ogni cosa, quindi il più esposto di tutti, è l’inapparente. La familiarità fidata non è altro che questa inapparenza. Quindi non ciò che sta dietro l’apparenza ma ciò che non cade nel rinvio tra l’apparenza e la non apparenza, tra primo piano e secondo piano, tra forma e materia, tra sostanza e accidente. Ciò che la domanda che cos’è? può restituire solo nell’evidenza di un già sempre perduto. Per questo il familiare fa resistenza a tutte le coppie che l’istanza metafisica mette in pratica. Esso è invece sovrapponibile con l’estraneità dell’opera dell’arte alla

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domanda metafisica. L’inapparente dell’esposizione dell’evento dell’arte ci orienta verso ciò che opera l’inapparire della familiarità fidata. Così come l’esposizione dell’opera dell’arte è completamente consegnata a quel piano per il quale un parergon è sempre indisgiungibile da un ergon così una familiarità fidata non può che trarre tutta la sua resistenza al semplice apparire da un piano d’esposizione che ha qualcosa di essenziale con l’effetto parergonale. Potrà sembrare una stranezza insostenibile che il fidato familiare, in cui si abita in un’apertura in qualche modo in-sensata, possa orientarsi sull’esposizione dell’arte, che un giudizio del gusto animato dalla distinzione tra piacere e piacevole possa riguardare il senso comune, che il sapere pratico come senso comune, come buon senso, possa trovare prossimità al parergon del piano d’esposizione dell’opera dell’arte. Sembra naturale affermare che l’evento dell’arte generi il piacere del bello mentre l’apparire di una confidenza fidata sia del tutto estraneo ad esso. Ma qui non si afferma che essi siano la medesima cosa. Si afferma intanto come vi sia un piano d’apertura segnato dall’indissociabilità di parergon ed ergon, che l’abitare si orienti innanzi tutto in questa indissociabilità. Si afferma che l’abitare dell’apertura non sarebbe tale se essa non si offrisse nella figura di una certa esecuzione e l’indissociabilità di parergon ed ergon promuove l’offerta di questa eseguibilità e decisione. Si afferma anche che la confidenza fidata comporta un apparire senza apparenza così come l’opera dell’arte. Il piano di invisibilità o di ritiro esposto è il medesimo, con un tempo diverso tuttavia. Forse è giusto dire che l’arte è il futuro anteriore dell’apparire della confidenza fidata. Essa espone la confidenza futura. La sua diversa visibilità sta nel fatto che rispetto alla familiarità fidata nella superficie della sua apertura si rende manifesta la lotta epica con il venir meno. L’opera dell’arte infatti riguarda il familiare a partire dal suo venir meno. E il venir meno non è altro che il dissociarsi del parergon dall’ergon.

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Le figure dell’arte sognano forse la confidenza fidata e lo stile è il luogo sovrapponibile del familiare e dell’arte. L’evento d’eccezione che le figure dell’arte promuovono ha infatti a che fare con la somiglianza, e lo stile in fondo non è che un altro nome per indicare una speciale somiglianza che contrassegna la parergonalità di un certo tempo. Come se dovessimo cercare un correlazione interna tra stile, apertura, somiglianza, una certa parergonalità. Come se le figure-immagini dell’arte concorressero verso la somiglianza mediante cui, nello stile, le figure della confidenza fidata in molti punti possono sovrapporsi. Per questo occorre non smettere di interrogare il rapporto tra le figure immagini dell’arte e la somiglianza. Se comprendiamo qualcosa dell’apertura dello stile è perché, in qualche modo sappiamo orientarci sul rimando di somiglianza che impegna l’indissociabilità del parergon dalla rappresentazione dell’arte. Poiché le figure immagini dell’arte hanno a che fare con l’esposizione, la somiglianza di cui parliamo andrebbe intesa come il suo rimando intransitivo. Nel senso che le arti espongono la somiglianza. Espongono in quanto somigliano. Ritorneremo ancora su questo somigliare più avanti, valorizzando una singolare tradizione teologica che ha dovuto pensare all’estremo il rapporto tra immagine e somiglianza. Ha dovuto pensare l’immagine a partire dalla somiglianza e la somiglianza a partire dall’immagine. In questo contesto invece dobbiamo insistere su un altro aspetto. L’indissociabilità di ergon e parergon verso cui le arti sono orientate, deve convergere con una ulteriore variazione. Il parergon non sarebbe così indissociabile dall’ergon se non attraversasse il suo momento tecnico. Se non ci fosse cioè una speciale prossimità di techne e parergon. L’innovazione proviene sempre con il momento tecnico. In questo senso la nozione di techne deve risuonare non solo di quel momento ancora indistinto in cui arte (nel senso di arti liberali) e tecniche non sono separabili, ma anche di una certa

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corrispondenza con l’artefatto. Un qualche rapporto tra innovazione e artefatto, tra avvenire e innovazione. Quando la filosofia greca pone l’accento sulla nozione del saper fare, sulla techne come capacità, come capacità di esecuzione, quando il tono trasla sul momento epistemico del nesso tra il ben conoscere e il ben fare, e la logica di un eidos impone l’economia interna di un modello, qualcosa di essenziale del momento tecnico diventa marginale. Il nesso tra potenza, innovazione e artefatto si attenua. Si perde qualcosa di originario, ancora presente in Esiodo, del rapporto tra mancanza e techne. Tra venir meno della physis e protesi tecnica. Tra aporia di un tempo presente in una dissociazione ed evento tecnico. Come ha insegnato Derrida la tecnica è già sempre richiamata nel momento in cui il presente si dà fuori coincidenza da sé. Il momento tecnico attraversa e supplisce l’immenso dominio di questa im-presenza. Esso arriva in questa im-presenza, insieme effetto e insieme causa e l’artefatto è la sua figura che non ha mai niente di naturale anche quando imita la physis. C’è una radicale univocità tra l’artefatto in generale, gli enti artefatti, non semplicemente naturali e quel comune tra gli uomini, quella spaziatura direbbe forse Nancy, per la quale si costituisce la polis. La potenza tecnica è la medesima potenza della comunità degli uomini. L’artefatto per eccellenza infatti è la comunità degli uomini attraverso cui si afferma la potenza più grande. Il momento tecnico è il medesimo del momento comune in cui si sopporta la confidenza fidata. Tutto questo viene travisato o resta incompreso quando si afferma una semplice continuità tra oikos e politeia, tra sfera dei bisogni e sfera del pubblico. La comunità politica non è l’insieme delle famiglie così come l’artefatto o la tecnica non è al servizio della physis. Secondo una delle intuizioni più originali di Machiavelli, le sfere del politico non si comprendono in continuità con la fatticità della vita e le sue semplici istanze di riproduzione. La techne politica insomma non istituisce o realizza semplice-

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mente estendendo o integrando la sfera della famiglia e neppure quella della società civile. La techne politica può costituirsi come il parergon dell’essere comune. E così come solo l’intimità di ergon e parergon dispiega la familiarità del non essere nascosto, così solo la parergonalità della techne politica dispiega la risorsa decisiva per ogni essere in comune, la stessa potenza dell’avvenire, e cioè il credito fidato o la confidenza fidata. La politica come artefatto deve dunque far convergere techne e parergon per sopportare quella speciale non soluzione aporetica costituita dalla confidenza fidata. Resta il fatto tuttavia che techne e parergon sono sovrapponibili solo nella misura di una essenziale disgiunzione. Per comprenderlo meglio può essere importante osservare l’attualità del nostro mondo-ambiente. Non c’è ente che non sia artefatto e innovato dal suo momento tecnico. Ormai da generazioni tutto il mondo naturale tende all’artefatto. È sempre più evidente come tutti gli enti siano instabili nella loro artefatticità. Instabili nell’innovazione costante da cui sono ogni volta ri-dislocati. Sappiamo che questa instabilità rimanda al ciclo infinito della valorizzazione del capitale, alla necessità cioè che merci costantemente rinnovate entrino nella circolazione del mercato, e tuttavia il plesso tra techne e innovazione in qualche modo eccede questa compromissione con il capitale. La techne viene da molto più lontano e va molto più lontano. C’è un rapporto sicuro tra techne e innovazione, tra innovazione e quell’artefatto per eccellenza costituito dall’essere in comune. Così come l’essere in comune non prolunga semplicemente la riproduzione biologica della vita, così la tecnica non prolunga semplicemente le articolazioni sensibili degli uomini. La techne dunque appartiene alla stessa apertura di potenza in cui si stabilisce l’artefatto dell’essere in comune. È in questo artefatto che si istituisce la potenza tecnica poiché è in questo artefatto che, come si diceva, si istituisce una specie vivente disponibile a scambiare l’economia di una fondazione con la fidatezza di un avvenire.

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C’è un rapporto interno dunque tra avvenire e innovazione, così come tra comune artefatto e avvenire. Produrre dell’avvenire è la più grande potenza di cui sembra capace solo la nostra specie. La tecno-scienza non è altro che l’intensificazione di questo avvenire, non è altro che il momento in cui l’avvenire si dispone come innovazione, in cui la novitas è come il fronte dell’avvenire stesso. E poiché non c’è avvenire che non sia letteralmente utopico, la tecno-scienza non è disgiunta dalla dimensione dell’utopia. Così come va considerato un grave fraintendimento confondere la potenza del potere con il potere del semplice dominio così faremmo un errore se affermassimo che la tecno-scienza si svolga unicamente come momento di un dispositivo di razionalizzazione o di una semplice appropriazione dell’ente. Che il dispositivo tecnico-scientifico possa dispiegarsi come appropriazione o come massimo dispiegamento di un’attitudine metafisica non esaurisce in alcun modo il tratto più efficace della sua potenza e soprattutto non è in grado di darne una qualche possibile ragione. La volontà di dominio non sarebbe possibile se non fosse possibile. Se la sua possibilità non fosse in qualche modo preceduta dall’essere possibile in quanto tale, da quel possibile che riceveva la sua realtà dal nesso immanente di novitas e avvenire, se non fosse nel possibile di questa estrema potenza. La stessa idea di supplemento, di supplemento per un venir meno o mancare originario, non spiega la sua potenza. Solo se compendiamo l’avvenire nel possibile, o come possibile, l’avvenire in cui il possibile, è un nome appropriato per la novitas, noi siamo in grado di comprendere l’innovazione costante della tecno-scienza. L’innovazione dunque intensifica il possibile ridislocandolo ogni volta. La più potente destabilizzazione del mondo-ambiente proviene da questo complemento di avvenire e innovazione. In questo senso, in un senso che potrebbe chiamare in causa il rapporto immaginato da Kiekeegaard tra vertigine e libertà, la tecno-scienza, è la più potente forza sradicante di ogni fondamentalità. Essa

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intensifica a tal punto l’apertura infondata dell’avvenire da costituirsi come il maggiore pericolo. Tutto questo è particolarmente evidente nel mondo attuale della tecno-scienza dispiegata. Non c’è un ente o configurazioni di enti che non sia costantemente ridislocato e ridefinito. Una instabilità nella quale la dilatazione del possibile renderebbe troppo instabile il transito pratico dell’abitare se qualcosa non sopraggiungesse come un supplemento con la medesima velocità dell’innovazione tecno-scientifica. Questo supplemento è sempre più diffusamente e capillarmente l’elaborazione estetica. Gli enti sono sempre più esposti nell’interfaccia di una tecnoestetica. L’universo del digitale è l’unità immanente di questa tecno-estetica dove l’innovazione tecnica è marcata alla medesima velocità da una innovazione estetica. L’ente è sempre più esposto in questa indissociabilità di innovazione tecnica e innovazione estetica. Come se l’innovazione estetica debba essere valutata come il transito possibile della possibilità tecnica. Il momento in cui il possibile tecnico trova la figura che attraversa il suo punto di vertigine. Senza l’innovazione estetica l’innovazione tecnica costituirebbe l’inversione stessa del possibile come impossibile.

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La somiglianza, il terzo e il volto

1. Chiediamoci ora in che modo un volto, il volto di Levinas, somiglia ad altri volti? Non c’è una somiglianza che scompone e fa lesione di tutto ciò che è sempre pronto a partecipare di un genere comune, nel genere cioè di una semplice simiglianza? Come si sa, è la difficile questione del terzo o della giustizia su cui Levinas ci lascia pagine di una straordinaria forza ma anche inquiete e mobili, e a rischio costante di slittare in difficoltà estreme e insormontabili. Da un lato, la giustizia sarebbe nell’ordine della rappresentazione e del calcolo; nel suo lavoro di comparazione dell’incomparabile si genererebbe la stessa nozione neutra dell’essere, dall’altra la relazione con il terzo sarebbe una «incessante correzione dell’asimmetria della prossimità»1, comunque un’inevitabile traduzione mediante la quale si diviene altro di altri, quindi membri di una società. La giustizia come comparazione dell’incomparabile, per Levinas, non cade fuori della diacronia, si insedia certamente in essa e in essa si produce. Il trino o il terzo non degrada la dualità della relazione asimmetrica e, tuttavia, è questo il punto cardinale, non aggiunge nulla. Tutto per Levinas è già deciso o si 1. E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p. 198.

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decide nell’indebitamento senza limite dell’uno verso l’altro. Non dovremmo invece cessare di chiederci se non sia proprio il terzo a ossessionare una relazione, ogni relazione. Se non sia proprio il terzo a ossessionare la relazione nella possibilità che essa non travolga nella seduzione di una speciale elezione, anche se questa fosse una promozione a farsi carico di tutti e di ciascuno, anche se fosse una elezione a ospitare nella propria deposizione, nella deposizione del sé, tutti gli altri. Non dovremmo cessare di chiederci se il terzo non sia il nome per cui una relazione può dar prova della sua non chiusura. Come se potessimo dire in questo modo: se il terzo non fosse già incluso nella dualità, essa potrebbe anche offrire il dono del possibile, ma non potrebbe fare garanzia che contenga il non incluso, nessuna garanzia che l’esclusione non ritorni come chiusura della stessa possibilità del possibile. Così quando Levinas scrive: «La contemporaneità del multiplo si annoda intorno alla diacronia del due»2, il multiplo non degrada la diacronia ma non è ad essa simultaneo. Mentre solo una simultaneità del terzo, l’imminenza con cui potrebbe ossessionare la dualità, potrebbe fare ostacolo alla declinazione, sempre possibile, che l’asimmetria verso la sovranità dell’Altro e l’indebitamento verso il segreto del suo comandamento non si chiudano nel circolo di un’alleanza esclusiva. Del resto dovremmo ogni volta ammettere una qualche fatalità del male, nel momento in cui una dedizione anche totale all’altro, anche nelle forme estreme di una sostituzione, quindi ad esempio nel bene di un gesto di carità, compiuto per lui, disposto completamente per la sua alterità, nello svuotamento pieno di sé, non contenga, nello stesso tempo, tutti gli altri. Può certo accadere una dedizione totale fino al limite dell’oblio di sé verso un altro. Ma è proprio nel fuoco di questa possibile dedizione, persino nel punto in cui si ritorna a sé come ospite 2. Ivi, p. 199.

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dell’altro, ospiti del nostro ospite, proprio qui, una disgiunzione fatale dovrebbe convertire il pericolo in cui l’esperienza del male è sempre in agguato: o l’altro è accanto nella sua singolarità esclusiva, nella sua irriducibile insostituibilità oppure è accolto nell’ospitalità come esemplare di tutti gli altri. Nel primo caso l’accoglienza riguarda lui, proprio lui, e deve coprire con un velo tutti gli altri non inclusi, nel secondo caso l’altro è accolto come simulacro di un genere, come se tutti gli altri esclusi potessero riconoscersi nella figura di un genere. Almeno per questo l’oblio di sé non basta per promuovere la giustizia. 2. Non basta che il terzo corregga la relazione asimmetrica, occorre che esso sia incluso come apertura stessa della relazione, in qualche modo simultanea alla relazione medesima. Forse la giustizia inizia nella piega di questa simultaneità. Forse è qui, nell’economia di questa simultaneità, laddove essa è pensata fuori dell’alternativa tra singolarità irriducibili e vuote generalità che il volto dell’altro declina in un altro modo la stessa figura dello sguardo invisibile. Solo nella simultaneità del terzo, nella dualità asimmetrica, quest’ultima non cade in verticale come la Signoria di uno sguardo invisibile. Forse occorre una doppia ossessione, ossessione dell’altro e assunzione del terzo nell’altro, perché non prenda vigore quell’effetto d’essere sotto veduta di cui parla Derrida nel momento in cui una simmetria è orientata da uno sguardo non in vista. Perché il prossimo non sia semplicemente il mio prossimo deve provenire da questa doppia ossessione. Deve come traumatizzare il trauma della chiamata perché non si nasconda sotto qualche piega la non inclusione. Questa simultaneità del terzo nel due rimanda, poiché la ripropone pienamente, alla questione del simile e del somigliante. Dello scarto o della différance tra il simile e il somigliante. Il terzo che si evocava innanzi come simultaneo all’asimmetria del due, come più che correttivo del duale, come apertura in cui l’Altro del volto non è escluso, esprime qui, in

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questa tensione tra il simile e il somigliante, la sua forza. Non potremmo neppure parlare di giustizia senza attraversare e in qualche modo pensare in questa tensione e nella tensione di questo scarto. Purché un gesto di bene sia compiuto per qualcuno come l’altro, come l’altro che non esclude tutti gli altri, occorre che prenda figura o immagine una certa somiglianza, occorre cioè che il gesto stesso dell’assoluta ospitalità, anche quando è chiamato a essere deposizione totale del sé verso l’altro, come ospite arrivante, deve, o meglio non può che promuovere una messa in opera, una configurazione d’opera, per la quale, per l’immagine che vi si espone, il terzo, come altro, possa avvertire una qualche somiglianza. Possa avvertire qualcosa che gli somigli. Una somiglianza quindi che lo riguarda con il medesimo ri-guardo con il quale sono insieme coinvolti chi dona e chi riceve ospitalità nel gesto di apertura. Del resto, se qualcun altro è ri-guardato e coinvolto dal riguardo con cui un’opera di bene si compie, non può non significare che la natura del due ha già subito la correzione e conversione del terzo. Se nel bene fatto a lui, proprio a lui e non a un altro, qualcun altro può trovare una somiglianza per la quale si avverte a sua volta ri-guardato, vuol dire che in un’opera, nella somiglianza in cui si espone o nella somiglianza che espone, tutti possono in un certo modo somigliare. Questa somiglianza, ripetiamo, è un modo di dire l’imminenza del terzo nella dualità asimmetrica, verso cui Levinas è sempre sul punto di ancorare e precipitare tutta la forza della relazione. Dovremmo dire: il terzo non è escluso dalla relazione se essa fa opera di somiglianza. Se il bene fatto a qualcuno, proprio a lui, e non ad un altro, si promuove in una figura nella quale tutti gli altri possono attraversare la medesima inappropiabilità del luogo. Configurazione dell’evento per cui il bene fatto a lui diventa convertibile nel bene fatto a tutti e a ciascuno. La somiglianza in cui un evento può farsi immagine va pensata anche come questo luogo non proprio di tutti e di ciascuno. Messa in opera

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in cui ciascuno si trova nella somiglianza con l’altro. Così nella somiglianza in cui un altro è somigliante un terzo è sempre incluso. Mentre sarebbe a rischio o in perdita nel momento in cui la somiglianza venisse governata dalla legge del simile. Il simile avrebbe già leso, già fatto lesione, in qualche modo avrebbe già occupato ciò che la somiglianza è capace di esporre nel ritiro. Siamo nel luogo cardinale in cui convergono gli sviluppi interni di alcune coerenze: una differenza ontologica che differisce da ogni differire, condotta all’estremo di un differire come nient’altro che ente, restituisce il pensiero di una differenza come un ritiro senza l’evidenza di un mancare. L’evidenza di un mancare e di un venire meno è sempre il contrassegno di un fondamento mancante, ma non del ritiro di un fondo, cioè di una apertura nella quale un particolare inizio converge con il possibile in quanto tale. Non è l’evidenza di un mancare che contrassegna l’esperienza di un ritiro ma la sua esposizione. Solo in un ritiro esposto, esposto nel paradigma esemplare del volto di Levinas, si conduce la differenza a potersi in qualche modo nominare come différance. Solo in un evento che porta con sé il suo stesso orizzonte di apparizione l’essere non differisce come un semplice fondamento dell’ente. Ma il volto nudo nella sua esposizione, nonostante le mille cautele di Levinas, non comporta una relazione in cui il terzo sia già sempre incluso. Come si diceva, il terzo non è escluso da una relazione se in essa si fa opera di somiglianza. Solo nell’opera di somiglianza il volto dell’altro o l’alterità dell’altro può non essere appropriato come un mio altro o un mio dio. Ma non avremo fatto nessun passo in avanti nella logica di un evento in cui la differenza sia esposta nel suo ritiro, se confondessimo la somiglianza con la simiglianza. Se non fossimo capaci almeno, per quanto è possibile, di sottrarre il pensiero della somiglianza dalla moltitudine delle figure in cui la legge del simile detta le sue condizioni. Così se la relazione fa opera di somiglianza il terzo non è escluso nel limite-confine della relazione, e, per lo stesso evento, un

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ritiro fa apertura al di fuori di una logica del fondamento, fa eccezione, così dovremmo dire, a ciò che rende possibile. Se un ritiro si sottrae ad una semplice logica del differire mediante un evento d’esposizione la somiglianza dovremmo pensarla come la sua figura. In questa figura di somiglianza l’apertura richiama la questione della giustizia, poiché, come si dirà più avanti, la figura della somiglianza deve costituire il modo di intendere il terzo incluso nella relazione, e un terzo non escluso dalla relazione ha sempre a che fare con la questione della giustizia. 3. L’essere non è l’ente, questo ci ripete l’esperienza della differenza ontologica, potremmo però dire in questo modo: l’essere non è l’ente in quanto differente, ma se nella differenza fosse simile, differente in una simiglianza, la differenza non avrebbe in nessun modo compiuto il passo decisivo: differire come nient’altro che l’ente, differire da tutto ciò che differisce un’assenza da una presenza e una presenza da un’assenza, differire quindi come différance. Per questo, la legge della somiglianza, come figura propria di un ritiro esposto, non mobilita nessuna risorsa analogica. Se la simiglianza restituisce sempre una qualche analogia, la somiglianza non sarebbe tale se non respingesse e fosse in qualche modo decostruttiva dell’ambiguità del rinvio analogico. Non dovremo avere fretta tra queste coerenze e implicazioni. La filosofia potrebbe trovarsi nel limite in cui sa qualcosa di una differenza ontologica solo nel momento in cui si afferma la questione della giustizia, la quale corregge l’asimmetria del volto in una relazione in cui il terzo dev’essere già sempre incluso. Questa inclusione però non è semplicemente un fatto ma un’opera, una messa in opera i cui lineamenti sono quelli di una somiglianza senza simiglianza. Quando la differenza non è portata nel limite di ciò che Derrida chiama différance, c’è sempre l’astuzia di una qualche analogia, quindi di una certa legge del simile che organizza le stesse figure concettuali con cui la filosofia ordina il dominio che più le è

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congeniale. C’è sempre una legge del simile o del rimpatrio analogico nel momento in cui non c’è giustizia e viceversa, dovremmo impegnarci in questa tesi, una qualche forma di giustizia dev’essere implicata nel momento in cui ritiro e apertura convergono nella possibilità di un inizio.

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L’esposizione e la somiglianza senza simiglianza

1. Che cosa si espone, alla fine, in un volto portato verso la estrema somiglianza? Nancy in un saggio attraversa l’arte dell’autoritratto: «L’esposizione non è un’appendice né una parata della qualità o dell’essenza ritrattistica: essa è consustanziale alla pittura, lo è ancora di più, se è possibile, al ritratto. [...] L’ “esposizione” è questa installazione e questo aver luogo né “interiore” né “esteriore”, ma in avvicinamento o in rapporto. Si potrebbe dire che il ritratto dipinge l’esposizione»1. Soprattutto qui dunque apprenderemmo a pensare la somiglianza come la modalità di un’assentarsi: un’assenza che sarebbe coinvolta nella natura stessa dell’esposizione di una somiglianza. «Quest’assenza – scrive – ci significa che il quadro è somigliante solo in quanto espone tale assenza, la quale a sua volta è soltanto la condizione in cui il soggetto si rapporta a se stesso e così si rassomiglia»2. Che questa topica di un’assenza trovi una sua fonte e una misura nell’ottica del volto, si documenterebbe per Nancy anche 1. J. -L. NANCY, Il ritratto e il suo sguardo, a cura di R. Kirchmayr, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p. 26. 2. Ivi, p. 36.

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nella tradizione teologica. Nel medesimo saggio, poco più avanti, egli fa un riferimento alle Confessioni di Agostino con l’intento di presentarle come esempio di una ritrattistica divina secondo un modello del tutto simile all’autoritratto cartesiano. In questo caso esporsi o ritrarsi come immagine o ad immagine e somiglianza del dio biblico vorrebbe dire esporsi nell’impresentabilità del proprio volto come la sua verità ultima. Questo dio è colui che espone, nell’immagine di sé, la sua invisibilità e tutta la tensione che da sempre anima l’iconoclastia sarebbe la testimonianza di questa estrema tensione e difficoltà che si annida in questa esperienza. C’è in Nancy una possibile sovrapposizione tra il volto che si somiglia nel ritratto, quindi più in generale tra la somiglianza nell’opera dell’arte, e l’immagine di somiglianza del Dio della Genesi. La modalità con cui il ritratto offre o restituisce la somiglianza è la medesima mediante la quale il Dio di Israele offrirebbe l’immagine della somiglianza all’uomo dell’Occidente. Il volto del ritratto riguarderebbe chi lo guarda con la medesima somiglianza mediante la quale l’uomo a immagine del Dio di Israele si riguarderebbe in questa somiglianza. In un’altra occasione, Nancy aveva scritto che il volto di ciascuno esprime già di per sé l’impronta rivolta verso l’altro, del dio che a lui si è rivolto. Così come l’immagine del ritratto restituisce una ritrazione, espone una ritrazione, così nella somiglianza di questo Dio d’Israele si esporrebbe innanzitutto un ritiro ritratto. Questa ritrazione sarebbe il gesto di un dono, nell’opera del ritratto come nell’opera della fede. 2. È come se Nancy, in questo luogo, ci invitasse a ritrascrivere il tratto spaziante del Da-sein a partire da questo tratto congiuntivo-disgiuntivo, operato da un orientamento nella somiglianza dell’immagine del padre dell’Epistola di Giacomo o dell’immagine dell’arte reso esemplare del somigliare del ritrat-

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to. Come se dovessimo e potessimo pensare la ritrazione o la differenza dell’esserci a partire dalla natura dello strano rinvio inscritto nel volto rivolto verso la propria immagine assente. Il ritiro-ritratto dovremmo seguirlo in tutto ciò che questo essere a immagine del padre promette, dovremmo pensare una ritrazione nel lavoro di una somiglianza, dovremmo anche attraversare la somiglianza dell’immagine a partire da un ritiro radicale. Per Nancy, solo se il tratto tra il Da e il sein si ritrae dal suo stesso ritiro o dal fondo che un ritiro può generare anche come una semplice eco del suo passaggio, il Dasein heideggeriano può accadere come Mit-sein. L’esposizione, in cui è in gioco un comune, né in comunione né in indifferenza, come spaziatura, non è altro che il nome di questo speciale ritiro. Avremmo a che fare con un’apertura in cui è in gioco una speciale confidenza nella quale ci si troverebbe esposti, quindi davanti a, prima di ogni sguardo identificante, prima che l’alterità mi incontri nel richiamo di un volto. Per questo l’esposizione di Nancy è in un’apertura senza eccesso e senza difetto: nessuna concessione alla pressione di un eccesso di apparizione alla Marion, ma neppure nessuna indulgenza verso un ritrarsi che lascerebbe la coda di uno sguardo che guarda obliquamente il cenno di un ritiro. Potremmo dire anche così, con una ulteriore variazione: se il tocco-limite della spaziatura mortale del Dasein (del Mit-sein) può condurre l’essere per la morte di Nancy fuori dalla chiamata elettiva della cura heideggeriana, se la finitudine del morire potrà divergere da una consegna appropriante di una morte senza condivisione, se la stessa logica della donazione potrà non chiamare in causa il principio di un dono dato e ricevuto, quindi deporre il dono dalla donazione e la donazione dal dono, se potrà difendersi dall’insidia e dal veleno di Derrida per il quale il tocco di una spaziatura finita mai potrebbe liberarsi da una economia tattile, dove c’è sempre, alla fine, comu-

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nione di autoaffezione e eteroaffezione, è perché una speciale spaziatura finita, una esposizione finita e mortale, è sempre in opera quando una somiglianza non è coperta da un certo velo del simile, quando il simile non fa, così forse potremmo dire, da schema analogico, tra l’immagine del ritratto e ciò a cui rinvia, o da schema analogico tra il figlio e il padre nel tratto giudaico cristiano. Nella figura di questa esposizione Nancy sembra osare laddove per Derrida non potrebbe che esserci metafora e con essa semplice rimpatrio analogico. Per entrambi, il principio analogico è inseparabile da un antropocentrismo e da un particolare umanesimo. Anche Nancy sottoscriverebbe l’affermazione di Derrida secondo cui tra i giudizi determinanti e i giudizi riflettenti, opererebbe sempre il meccanismo dell’analogia e questo direbbe qualcosa di essenziale non solo delle critiche kantiane, ma più in generale nella metaforica filosofica. E tuttavia mentre la chóra di Derrida deve sottrarsi a ogni logica dell’evento e diffidare e decostruire ogni logica del somigliare per preservare la sua differenza da ogni differire, per Nancy può darsi un evento di ritiro (quindi, non un quasi evento) la cui esposizione chiama in causa una somiglianza senza simiglianza, quindi una speciale somiglianza senza il lavoro di un’analogia (sia essa di attribuzione o di proporzionalità). Nancy si colloca tra coloro che raccolgono l’eredità di passi come il seguente: «Chóra non è nemmeno ça, lo es del dare prima di ogni soggettività. Non dà ordine e non fa promessa. È radicalmente an-istorica, giacché niente avviene attraverso di essa né le avviene. […] Niente di negativo né niente di positivo. Chóra è impassibile, ma non è né passiva né attiva»3. Egli tuttavia ritraduce la chóra di Derrida: la sua spaziatura finita si ritira dal semplice mancare per la medesima coerenza 3. J. DERRIDA, Come non parlare. Denegazioni, cit., p. 207.

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per la quale il ritratto fa somiglianza o il figlio rimanda al padre nella somiglianza senza rinvio, nella medesima somiglianza con cui un ritratto fa esposizione. Per Nancy non ogni somiglianza nasconde sotto velo la simiglianza in cui si perderebbe ogni volta la différance. Anzi la somiglianza in quanto tale è sempre, in Nancy, esposta esemplarmente nel corpo, nel ritratto come exemplum del corpo dell’arte o in quel tratto giudaico-cristiano di cui il passo della Genesi sarebbe l’emblema o l’esemplare. È come se la spaziatura finita di Nancy fosse un sinonimo della différance, alla condizione di pensarla però come esposizione di una somiglianza senza velo, la cui nudità sarebbe un altro nome per indicare la fonte di quel rinvio in cui ogni volta fa opera una semplice simiglianza. 3. Nancy si ritrova anche nei dintorni di Deleuze in questo proposito di salvare la somiglianza. In qualche modo infatti condivide la sfida di Deleuze al teatro della rappresentazione in cui è proprio una similitudine a coprire, nella misura bilanciata di una proporzione tra un minimo e un massimo, la forza eversiva di una differenza che differisce. Come il lampo di Deleuze, anche la somiglianza esposta di Nancy «si distingue dal cielo, ma deve portarlo con sé, come se si distinguesse da ciò che non si distingue»4. Anche per lui si potrebbe dire che l’immagine si espone solo se il fondo sale verso la superficie. Come scrive Deleuze: solo quando i fondali vanno verso la superficie le forme diventano linee e solo a questo punto anche le opere dell’arte raggiungono o toccano (senza tatto o contatto si dovrebbe però dire ogni volta, nella memoria di una delle lezione più potenti della Critica del giudizio) l’anima di ciascuno (come chiunque si dovrebbe aggiungere). La nudità dell’esposizione di Nancy ritraduce questo sollevarsi 4. J. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna,1968, p. 43

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verso la superficie nel venir meno di ogni fondo. Una velatura invece, una velatura che fosse incapace di esibire il suo coprire niente, che fosse incapace di velare in una forma del tutto estranea a ogni s-velatura, sarebbe una velatura che contribuirebbe a fondare il fondale di esposizione, a mandarlo verso un fondo a partire dal quale le linee diventano invece forme e assumono una natura plastica, come organismi con interiorità dense e segrete. Le linee si vestono e si coprono del verosimile e la somiglianza si rianima in una analogia che fa da schematismo della visione. Nancy è vicino a questo viraggio verso la potenza eversiva dell’univocità di Deleuze ma è insieme lontanissimo dalla sua ontologia. Se per Nancy si tratta di ripensare l’immanenza a partire dall’univocità imposta nel corpo esteso senza velo, per Deleuze, come si sa, è l’univocità che si ripensa a partire dal principio di immanenza. Deleuze avversa il principio di creazione (il suo Duns Scoto disgiunge l’univocità dalla creaturalità), ritiene che esso corrompa dall’interno la conversione di univocità e immanenza e ritiene che tra Spinoza e Leibniz vi sarebbero le giuste figure concettuali per pensare l’esplodere immanente di un finito nell’infinito e di un infinito nel finito. Per Nancy, invece, l’essere a immagine somigliante del dio richiamato da Giacomo direbbe qualcosa sul negativo, sul finito, quindi sulla stessa creaturalità. Come se Nancy fosse sul punto di affermare che questa somiglianza potrebbe indicare la via o il metodo per un pensiero radicale dell’univocità. Secondo Nancy, Deleuze consegna troppo in fretta la negatività allo schema della dialettica e troppo rapidamente, tra il principio di ragion sufficiente e il principio degli indiscernibili, lascia prevalere la nozione di una continuità della variazione per la quale la disgiunzione di una variazione, per quanto imprevedibile, per quanto infinitamente molteplice, per quanto al limite di un effetto senza causa, non può pensare una negatività

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come ritiro e spaziatura. Non a caso il portare all’estremo la differenza ontologica è del tutto inessenziale per Deleuze. Se un’univocità deve essere recuperata per un essere singolare plurale questa non sarebbe per lui coniugabile con la logica di un’esplosione continua di un eterno ritorno della vita in cui la variazione continua (quindi alla fine la continuità infinitesimale) prevale sempre sulla spaziatura mortale di un inizio, dove l’infinita variazione garantisce la sorprendente fioritura delle primavere temporali di Bergson ma mai un venire meno di un fondo, mai davvero un limite a partire da un senza fondo. L’univocità dell’essere plurale di Nancy, la sua somiglianza nuda che evoca, come pochissimi prima di lui, l’esposizione stessa del corpo delle arti, deve selezionare altre compagnie di viaggio rispetto a Deleuze. Ma proprio per questo un interprete fedele a questo programma di Nancy deve chiedersi se egli non debba abbandonare fino in fondo la logica del tattile per poter condurre fino all’estrema coerenza la promessa contenuta nell’economia di esposizione di un’immagine senza simiglianza. Per questo dobbiamo continuare a chiederci che cosa possa o debba comportare una somiglianza sollevata dall’economia di un rinvio? Dovremmo in qualche modo liberare l’opera dell’immagine dall’inganno della homoiosis per trovarci all’altezza di un evento che espone il suo stesso ritiro, che nel ritiro espone nella possibilità di una donazione estranea alla logica del dono. Non è proprio l’arte del Novecento che reclama un’immagine senza simiglianza, senza nessuna verosimiglianza, quindi senza traccia di simile e da questo non dobbiamo ricavare qualcosa di decisivo anche nell’economia di una fede e una direzione per rendere conto di un essere ad immagine di un dio senza simiglianza? E viceversa non dovremmo ricevere da questa somiglianza nell’immagine di un dio qualcosa di cruciale per ogni immagine esposta nella sua ritrazione?

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4. E occorre chiedere anche un’altra cosa che tocca da vicino la stessa prospettiva di Nancy: nel momento in cui si sospetta della cristologia di Paolo o comunque si ritiene che il tratto che congiunge e disgiunge un uomo-dio o un dio-uomo non comporti nulla di nuovo rispetto alla creatura a immagine del Padre dell’Epistola di Giacomo, o addirittura marchi una deriva teologica, si perde forse qualcosa di decisivo per un’esperienza che volesse liberare l’immagine dall’inganno della homoisos. Nella somiglianza che Nancy porta alla giusta enfasi nell’Epistola di Giacomo saremmo nel tratto congiuntivo e disgiuntivo di un’origine senza fondo, del limite chiamato ogni volta a dividersi in due bordi, di un velo, lo stesso velo dell’arte che coprirebbe nulla e a nulla farebbe rinvio. Ma come impedire che il vuoto di un luogo vuoto sia ancora un luogo? Che un niente continui a far ritiro e quindi a non esporsi come ritiro? Che nonostante tutto un’immagine senza somiglianza continui a far simiglianza? Non dobbiamo coltivare l’ipotesi e la scommessa che una somiglianza possa deporsi da ogni simiglianza solo nella scena di un evento nel quale un figlio si depone nel Padre e il padre nel Figlio? Dove un Terzo né padre né figlio accade come l’evento stesso di una somiglianza senza rinvio? 5. Anche Alain Badiou come Nancy è impegnato nel tentativo di reiterrogare laicamente l’evento giudaico-cristiano. Mentre Nancy ricorre all’Epistola meno teologica di Giacomo diffidando dell’opera di Paolo, Badiou ritiene che proprio le Lettere di Paolo aiutino a rettificare l’esperienza religiosa dei Vangeli. Per Badiou la morte del Cristo mostrerebbe «la costruzione di un’immanentizzazione dello spirito»5. Senza questo evento d’immanenza la figura della Legge non sarebbe stata deposta. Mentre la Legge saturerebbe, sempre, con la burocrazia vuota 5. A. BADIOU, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, tr. it. di F. Ferrari e A. Moscati, Cronopio, Napoli 1999, p. 109.

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di una normativa infinita, la distanza o l’abisso tra la trascendenza e l’umanità della storia, nell’immanentizzazione dello spirito saremmo di fronte invece ad un fatto che ritirerebbe definitivamente la figura del Padre dietro la figura del Figlio. In questo ritiro si garantirebbe la forma di un puro inizio al quale non mancherebbe nulla del Padre. Un puro inizio che a sua volta può rendere figli con l’adesione mediante il proprio atto di fede. Per Badiou il Cristo diventa dunque il nome per una venuta che ci accade in una certa interruzione dell’ordine della legge. Una venuta che non farebbe evento, non configurerebbe la potenza di inizio, non sarebbe interruzione della legge, se rinviasse a una figura dell’altro. Se alterasse la venuta nelle formule del miracolo, della profezia o nella prova di rassicurazione del sapere. La venuta porta con sé l’inizio con il quale e per il quale ci si costituisce come figli. Badiou cerca di dire, rileggendo e richiamando gli enunciati di Paolo più che il testo dei Vangeli, l’insorgenza rivoluzionaria che potremmo vedere all’opera, in quest’opera della grazia con cui si diverrebbe figli nell’evento di un inizio che sopraggiunge, ogni volta, alle forme consolidate dei poteri dominanti. Un’insorgenza rivoluzionaria che farebbe tutt’uno con la costituzione pratica di una nuova via soggettiva, per cui nell’azione della grazia si diventerebbe fedeli all’evento di un inizio per il quale tutte le opposizioni tra mondo greco e mondo ebraico e, più in generale, tutte le differenze etniche perderebbero di significato e consistenza. Un’insorgenza per la quale si affermerebbe un’universalità capace di dissolvere la forza delle genealogie, delle origini, dei territori, del particolarismo predicativo dei soggetti culturali. Il tema è il sopravvenire di un’apertura, nella quale l’insorgenza di un inizio si configura in ciò che noi dobbiamo continuare a evocare nella possibile convergenza di esposizione e di ritiro. Nel linguaggio di Badiou ciò che noi chiamiamo l’esposizione potrebbe trovare un nome nel rivolgersi: «L’uno – scrive – è

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ciò che non iscrive nessuna differenza nei soggetti ai quali si rivolge»6. Il per tutti è l’evento del rivolgersi dell’uno, il quale perderebbe la sua apertura d’universalità se operasse nella forma di un’ingiusta esclusione. Anche per Badiou, come per Nancy, questa liberazione del Figlio dal Padre, di cui le lettere di Paolo sarebbero la testimonianza magistrale, sarebbe estranea a ogni lavoro della teologia successiva. Anzi la teologia trinitaria nello stabilire l’identità sostanziale del Padre e del Figlio, comprometterebbe la portata esperemenziale di questo inizio, in nessun modo reiscrivibile nel lessico della filosofia. 6. Tuttavia Badiou avanza forse troppo rapidamente in un momento delicatissimo: il ritiro del Padre dietro l’evidenza universale del Figlio diventa coerente fino in fondo con l’evento di un inizio se il Figlio non rimanda in nessun modo al Padre. Ma un figlio che non rimanda in nessun modo al padre deve deporre gli stessi connotati di figlio, così come un effetto che voglia davvero rinunciare al rinvio a una causa deve trasfigurare la sua forma d’effetto. Deve dunque trasfigurare la natura stessa della somiglianza. Potremmo dire: non c’è davvero un ritiro ritratto se la somiglianza del Figlio continua a fare rinvio al Padre. Per rendere conto, fino in fondo, di ciò che anche a Nancy preme più di ogni altra cosa, e cioè una logica del dono nell’evento di un ritiro che non faccia fondo o resto od ombra o semplice ritrazione, dobbiamo sapere interrogare proprio l’evento di un dio trino e chiederci: che cosa muta nella logica stessa di un somigliare, e quindi, nella forma dell’immagine, nel momento in cui si è portati, nell’ermeneutica di una speciale fenomenalità, a deporre ogni somiglianza tra il padre e il figlio. Come se, in questa esperienza, si fosse avvertito e si potesse ancora avvertire un pericolo enorme per un dio e quindi per la comu6. Ivi, p. 166.

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nità degli uomini se il figlio del padre fosse solo simile, nella simiglianza, un’immagine nella simiglianza del Padre. Ora, la formula trinitaria, per la quale dio è uno e trino, resta per noi ancora più remota se non si avverte in essa l’imposizione per la quale la filosofia è come impedita a evocare un’origine senza una reciproca deposizione del padre e del figlio. Dovremmo sapere riconoscere e trarre alcune conseguenze decisive sul fatto che la parola più vicina che la filosofia conosce per lo spirito del padre del figlio sia l’ultimo dei trascendentali. Tante volte la tradizione teologica ha dovuto riconoscere questa speciale sinonimia tra spirito e il Pulchrum. Ma solo in rarissimi momenti ha saputo tremare dinanzi allo speciale ateismo che questo comporta. Nel corso del Novecento questo forse è avvenuto nel momento in cui il lavoro teologico e filosofico ha dovuto abbandonare a proposito del figlio divino e umano la nozione o la teoria antica, da sempre troppo filosofica delle due nature, cioè di quella communicatio idiomatum conseguente al principio dell’inabitazione che tanta fortuna ha avuto nella tradizione teologica. Se il divino e l’umano, l’eterno e il tempo, l’uno e i molti, si fanno incontro a partire da due nature differenti, nessuna compenetrazione impedirà che di volta in volta si annulli troppo dialetticamente l’umano nel divino o il divino nell’umano o si costituisca uno strano sinolo né divino né umano, impedendo quindi di rendere conto di ciò che, in quel sopravvenire dello spirito del padre e del figlio, si depone dell’uno e dell’altro. Questa sinonimia tra spirito e ultimo dei trascendentali agisce anche tutte le volte che il travaglio teologico è costretto a introdurre la nozione di storia nell’evento della rivelazione. Quando si fa carico del pericolo di esprimere quell’esperienza per la quale si afferma che il Gesù è il Cristo nella potenza dell’istante di una copula. Quando sostiene la necessità di rendere conto per lo stesso evento di un logos che si fa carne della decisione e persino del consenso nella vita del Gesù storico. Quando deve scongiurare il pericolo che il Gesù

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storico si riduca a simulacro e, anche qui, potremmo dire, a una semplice immagine simigliante della sua divinità, un simulacro di cui il tratto umano e storico sarebbe alla fine una semplice commedia. Questa teologia cerca di rendere conto, in un travaglio, in verità mai concluso, che una fenomenologia adeguata dell’evento cristiano, meglio ancora dell’evento giudaico-cristiano, deborda sia dalla potenza identitaria della copula sia dalla debolezza congiuntiva della semplice “e”. Né l’una né l’altra sarebbero capaci di mostrare il tratto di spaziatura, il tratto spaziante o il tramite del Da-sein del figlio dell’uomo. La ricerca filosofica farebbe un errore a non lasciarsi in qualche modo sovvertire dalle ermeneutiche di un’esperienza che costringe a pensare univocamente, in una convertibilità, il Cristo e il Gesù storico. Si dovrebbe investire tutto sull’univocità, dovremmo dire, che il Gesù storico non è immagine analogica, non rinvia all’essere del suo ci, ma è univocamente predicabile. Su queste tracce e dentro queste coerenze, la teologia del Novecento ha potuto rinunciare, in gran parte, all’economia delle due nature e ha cercato di dire, in vario modo, che il Gesù storico è il fenomeno della sua divinità. La fenomenalità del suo Dio è nell’immagine del suo fenomeno. Il tempo-immagine del figlio rivela senza rimando, senza rinvio, il segreto del padre e lo rivela solo nella misura in cui il Gesù storico cessa di essere la maschera o il simulacro della divinità. Sono le medesime coerenze per le quali la teologia del Novecento ha dovuto prendere coscienza che la fede per questa divinità di un uomo storico proviene dalla natura o dalla forma, quindi dall’immagine con la quale essa offre la prova di riconfigurare a sua volta chi la segue.

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L’immagine-figlio del padre e la somiglianza

La tradizione teologica incomincia a diffidare della simiglianza e correlare somiglianza ed evento d’eccezione in un passo come questo: «Se l’immagine infatti riproduce perfettamente la realtà di cui è immagine, è essa che si eguaglia alla realtà e non questa all’immagine»1. Dovremmo leggerlo e rileggerlo senza fretta. Si tratta di un passo di Agostino nel De Trinitate. 1. Tra i vuoti e i pieni di questi enunciati potremmo dire: ciò che un’immagine espone in quanto immagine è sempre in perdita nel momento in cui essa somiglia in una simiglianza. Come se perdesse la sua natura d’immagine nel momento in cui dovesse rimandare a un qualche rinvio, come se ogni rinvio fosse anche il modo di misconoscere la sua offerta d’apertura. Vi sarebbe sempre un padre a far da sfondo a un figlio e un figlio a far da sfondo ad un padre e nessuna reciproca deposizione garantirebbe ciò che preme più di ogni cosa Agostino, e cioè, l’eguagliarsi dell’immagine al reale. Il figlio come immagine del padre non rimanda al padre poiché a sua volta il padre come 1. De Trinitate 10, 11.

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immagine del figlio non rimanda ad esso. È in questo speciale evento, che conduce a deporre il simile del somigliare, che prende corpo ciò che sarebbe lecito nominare come l’a/teismo dell’immagine. Un’immagine è a/tea quando somiglia senza rinviare in una simiglianza. Forse non sbagliamo se ricaviamo da questo momento, nel quale una somiglianza deve deporre una simiglianza, l’avvio, il punto d’insorgenza della speculazione trinitaria. Se il figlio fosse stato ritenuto o creduto (nell’esperienza pratica di una certa fede) simile al padre, simigliante al padre, la formula trinitaria non si sarebbe imposta come inevitabile. La sua inevitabilità non avrebbe preso il sopravvento sulla sua incredibilità eccezionale. La sua inevitabilità non avrebbe sopravanzato l’incredibilità fino al punto d’imporsi come documento speculativo di un evento d’eccezione. L’unità sostanziale che in essa si persegue è orientata nella necessità di una somiglianza senza simiglianza che a sua volta costringe a deporre la figura del padre nella figura del figlio e la figura del figlio nella figura del padre. Il figlio non è figlio del padre se non è anche il padre, e il padre non è il padre se non è anche il figlio. È in questa strana formula che si depongono o si decostruiscono le figure a cui il logos filosofico è naturalmente portato, compresa la formula del ritiro. Il padre non potrà mai davvero ritirarsi dal figlio – come scrive, troppo in fretta, Badiou – dietro l’evidenza del figlio, se non rimanda a un reciproco togliersi del padre e del figlio, di cui lo spirito assume il nome senza traccia dell’esposizione di questo ritiro. 2. La tradizione teologica ha sempre, in vario modo, dovuto parlare di un ritiro del padre nel figlio, quindi di una deposizione dell’originario nel figlio, nominando la figura dello spirito. Il travaglio teologico trinitario ha sempre compreso che non sarebbe stato all’altezza dell’ermeneutica fenomenologica dell’evento giudaico-cristiano senza nominare la personale fi-

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gura dello spirito del padre e del figlio. In questa strana luce d’orizzonte di un terzo né padre né figlio, la filosofia è come impedita a fare andirivieni nell’intimità del padre e del figlio, poiché questa intimità viene svuotata nell’immagine senza rinvio della somiglianza. Non c’è intimità e neppure segreto, neppure chiamata, così dovremmo dire, poiché la somiglianza non fa rinvio, somiglia senza simiglianza. È per questo, per questa speciale esposizione di un’immagine senza somiglianza, esposta nella non simiglianza, che lo spirito diventa il nome per un rinvio che lascia nulla sott’occhio, come invece accade in una differenza ontologica sospesa nel suo differire, dove il differire non cessa di simigliarsi nell’obliquità stessa di un rinvio. Lo spirito-atto del padre e del figlio è fuori dell’intimità del padre e del figlio. Quando la sapienza teologica ha seguito un imperativo proveniente dall’adesione alla speciale fenomenalità di un evento, ha sempre, in vario modo, seppure con esiti diversi, dovuto liberare il figlio dall’ipoteca ellenistica per la quale esso è sempre inscritto come riflessione di un’origine-Padre, dove la parola logos compare come eco dell’origine o come parusia dell’origine. Per questo essa perde il sopravvento sul sapere della filosofia nel momento in cui ha celebrato o celebra il figlio come manifestazione del padre, come Erinnerung del padre, come se nell’adesione alla forma cristiana si potesse ritrovare o richiamare il padre sott’occhio del figlio. Così deve ogni volta ribadire la tradizione teologica che si difende dal declino metafisico di un cristo-logos: se Gesù storico è il Cristo per lo spirito e non per una parusia dell’origine, non può più esserci un rinvio ermeneutico al padre. Non c’è nessun apice o vertice comune tra lui e il padre. 3. L’immagine somigliante senza simiglianza del figlio non può che suggerire qualcosa di importante sulla nozione di univocità se il suo principale sostenitore, Duns Scoto, è stato anche colui

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il quale ha pensato l’avvenimento rivelativo del figlio come un destino eterno di tutta la divinità e non come l’effetto della caduta nel peccato. Dovremmo ritrovare e reinterpretare il legame di coerenza che deve esserci tra l’ens univoco, con cui Scoto reagisce all’ambiguità della somiglianza analogica, e quel passo di Agostino nel quale si evoca un’immagine del figlio senza simiglianza. Come se dovessimo cercare proprio qui un’immagine dell’univocità. Come se dovessimo comprendere la stessa univocità e la sua forza eversiva a partire dall’immagine del figlio. Come se l’accesso d’immagine per cui il figlio mostra il padre dicesse qualcosa di decisivo sull’immagine d’accesso, per cui l’univocità di Scoto immette nell’essere di dio e nell’essere dell’ente, e qui trovassimo una linea da seguire per la quale l’immagine senza simiglianza accederebbe all’aperto o sarebbe accesso all’origine, così come nell’ens si farebbe accesso nell’univocità dell’essere di dio e dell’essere dell’ente. L’ens dunque riceverebbe da questa somiglianza mancata, da questa immagine non simigliante, ciò che prova a nominare nella sua esposizione. Non dimentichiamolo: la sua audacia speculativa sta nel respingere dell’apertura di un Dio, quindi dell’aperto in quanto tale, dell’ens come apertura cha fa ritiro, ogni compromesso con le formule di una teologia negativa e tutto ciò che, in vario modo, si trova in comune tra una teologia negativa e un’iperbole analogica. Così l’aperto, nel suo ritiro, deve differire da ciò che differisce, ma la differenza non differisce i differenti in una differenza simile. Né identità né simiglianza tra l’apertura e ciò che in essa o per essa si raccoglie. Né identità né simiglianza tra l’ens e gli enti. Il figlio direbbe univocamente il padre come gli enti dicono univocamente l’ens. L’evento speculativo portato in dote dall’imperativo trinitario andrebbe dunque interrogato anche per spartire nella giusta misura il dominio dell’univoco dal dominio dell’analogo. L’univoco sarebbe chiamato per decostruire tutto ciò che nell’a-

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nalogia resta estraneo rispetto a un evento che immagina il padre nella somiglianza del figlio. Mentre l’analogia verrebbe a delimitare quanto la filosofia avrebbe già da sempre perduto e di cui il simile costituirebbe sempre la traccia. Tutto questo vorrebbe dire la seguente cosa: quando la teologia assume l’ordinamento analogico si allontana da quel lavoro decostruttivo che impone l’esposizione della formula trinitaria. Si allontana da ciò che l’immagine del figlio esercita sulla nozione di somiglianza e si rende estranea anche a tutto ciò che, in questa formula, si impone sulla nozione di univocità. 4. Così, nel punto estremo in cui la filosofia nomina la chóra come un quasi evento né sensibile né intelligibile, né finito né infinito, nel momento in cui è chiamata a rinunciare alle risorse dell’analogia e a quelle della teologia negativa può trovare una straordinaria affinità elettiva con le varie forme di diffidenza con cui Scoto aveva circondato alcune particolari figure dell’analogia e le stesse teologie negative. L’univocità di Scoto forse ci richiama a una speciale nozione di accesso inaccessibile, da distinguere in ogni modo dalla declinazione di un inaccessibile accesso. Di un accesso che avrebbe nel ritiro del padre nel figlio la sua forma d’evento d’eccezione. Dove l’immagine del figlio non sarebbe il segno di questo ritiro, non segnalerebbe il ritiro del padre e l’univocità di cui farsi carico, di cui la filosofia trovando un limite potrebbe farsi carico, sarebbe nel fatto che il figlio esporrebbe l’inaccessibile nel suo stesso ritiro, esporrebbe un inaccessibile ritiro che non viene meno, nella somiglianza senza simiglianza. In questo orientamento di coerenze saremmo chiamati a portare all’estremo la differenza ontologica a partire dall’accesso inaccessibile del figlio. Come se potessimo dire in questo modo: l’orientamento verso l’inaccessibile non sarebbe tale, perderebbe la direzione stessa di questo orientamento, se la nozione di un essere univoco non facesse da soglia comune, non fosse la soglia di questa esposizione d’accesso.

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La Dottrina del primo principio di Duns Scoto, non a caso, inizia con la rivelazione mosaica del nome proprio di Dio. Un trattato di metafisica avverte sin dall’esordio di non poter ignorare un evento di rivelazione. La domanda metafisica sul primo principio deve incontrare in qualche modo l’autorivelarsi del principio stesso. Se questo incontro non avvenisse evidentemente la stessa ragione naturale perderebbe qualcosa di essenziale. L’ente in quanto ente non è dio, ma accade certamente nel momento essenziale della sua autorivelazione. Le sue proprietà possono essere esaminate indipendentemente dalla loro rivelazione, ma alla fine la considerazione metafisica non può che concludere nel punto in cui prende inizio una considerazione in qualche modo teologica. La particolarità di questo Trattato emerge, con ancora più nettezza, se non si esclude, in anticipo o a priori, dal corpus delle opere di Scoto i theoremata. Cioè, in altri termini, se, al di là di un preciso accertamento filologico, non si esclude che nelle coerenze di Scoto possano coesistere un Trattato sul primo principio puramente filosofico e un trattato in cui, in qualche modo, si riconosce un grave limite dell’argomentazione metafisica senza lo speciale concorso di un’esperienza di rivelazione. Come se avessimo la possibilità di una doppia metafisica o di una doppia opera della filosofia: una segnata dall’evento della rivelazione e l’altra ad essa indifferente. Una metafisica che trovasse il suo limite nell’evento di rivelazione potrebbe condurre se stessa fino ad un radicale pensiero dell’univocità, mentre una qualche forma di analogia sarebbe la figura di una metafisica che elabora un pensiero dell’origine o del principio al di fuori di un evento d’eccezione. 5. Non casualmente il Trattato sul primo principio pone subito il problema se esso sia un trattato di metafisica o un trattato di teologia. Pone subito il problema, cioè, se il suo soggetto,

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il soggetto da cui trae la propria forma dimostrativa sia il dio della rivelazione o l’essere con cui la metafisica ha una speciale confidenza. Le complicazioni nascono in fondo nelle coerenze interne alla nozione di scienza che Duns Scoto eredita da una lunga tradizione. Una scienza non può trovare la propria forma da una soggetto improprio. Perché una scienza sia tale occorre una doppia adeguazione tra essa e il suo soggetto senza la quale non si potrebbe parlare propriamente di scienza e tantomeno di dimostrazione. In questo Trattato, ha ragione Gilson nel riconoscerlo, una speciale rivelazione è coinvolta a differenza invece dei theoremata in cui la prova dell’esistenza di un primo principio è del tutto affidata alla ricerca filosofica. Per Duns Scoto non solo essi non hanno un medesimo soggetto, ma la stessa filosofia trae qualcosa di decisivo per comprendere l’ambito di ciò che le è tipicamente proprio solo a partire dall’apporto della sapienza teologica. Come se ci trovassimo in una situazione come la seguente: non solo l’esperienza filosofica non dice nulla, non sa nulla dell’esperienza teologica, ma essa riceve la più adeguata comprensione di quello che sa propriamente o potrebbe propriamente sapere e non sapere dall’evento teologico. Come se essa potesse sapere meglio ciò a cui ha propriamente accesso a partire dall’esperienza dell’inaccessibile portata in dote dall’esperienza di fede. Per il rispetto di questo difficile equilibrio non si deve passare troppo rapidamente su questa nozione di inaccessibilità a cui rinvia la teologia in sé di Duns Scoto. Se liberassimo questo tema dal lessico complicato e remoto in cui si presenta esso indica in fondo una ritrazione del principio. Afferma cioè che l’orizzonte di apertura ha a che fare con l’inaccessibile. L’inaccessibile, però, di altro genere rispetto a quella specie di inaccessibilità coinvolta nell’esperienza della filosofia e del suo braccio armato, la Metafisica.

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Nel momento in cui Scoto insiste sulla teologia in sé in realtà afferma qualcosa di molto più radicale: egli afferma indirettamente che l’inaccessibilità di questo Dio sopravviene in quanto tale alla filosofia. L’inaccessibile con cui la filosofia ha a che fare non è l’inaccessibile nella teologia in sé. Scoto sembra affermare che essa sopravviene alla filosofia poiché è offerta dall’esperienza di un evento d’eccezione. La filosofia può pensare questa inaccessibilità solo nella misura in cui le sopravviene nello spazio e nel tempo di ciò che si chiama rivelazione, altrimenti l’inaccessibile di cui essa discute e, su cui misura il suo sforzo e il suo impegno, resta estraneo a tutto questo. 6. Nel quadro delle domande che si pongono, dopo Derrida, potremmo ricavare da tutto questo la sollecitazione a pensare l’univocità come la speciale declinazione che la filosofia può assumere nel momento in cui sopravviene l’inaccessibile dell’evento teologico, mentre le varie figure dell’analogia, nelle varie modalità in cui lavora la figura della somiglianza, indicherebbero sempre il regno proprio e autonomo dell’esperienza filosofica, laddove il simile è sempre la traccia obliqua di un accesso inaccessibile venuto meno. Per questo la difficile nozione di univocità rimanda innanzi tutto al campo di tensione tra metafisica, ontologia e teologia. L’essere univoco tra Dio e l’ente sembra abbracciare in un orizzonte comune Dio e le creature. Comprende qualcosa di comune a dio e alle creature pur dovendo ammettere che dio comprende tutto, anzi è il tutto comprendente. Come se fossimo portati ad ammettere nel confine più estremo dell’ens commune, quindi nel pensiero che si orienta verso l’orizzonte non generico di tutti gli enti, l’intrascendibilità di un’esposizione che si espone all’orizzonte nella stessa misura in cui lo espone alla sua apertura. Una scena dunque nella quale l’orizzonte dell’ens commune sarebbe, contemporaneamente, in una qualche univocità con il dio invisibile e sotto il cam-

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po della sua apertura. Non rispettiamo la forza enigmatica di questa univocità dell’ens di Scoto se non teniamo conto, con la condivisione che solo la traduzione del suo linguaggio sarebbe in grado di ripensare nella giusta intonazione, questa strana, doppia, reciproca implicazione, di un dio invisibile contenuto nel soggetto della metafisica e un soggetto della metafisica abbracciato dall’invisibilità di questo dio rivelato. Questo orizzonte può, in qualche modo, restare aperto nella sua univocità solo se, a sua volta, si lascia comprendere da uno dei momenti a cui rimanda. Un orizzonte aperto che non esclude l’apertura in cui è esposto. Nelle parole più proprie a Duns Scoto un essere come comune che non è Dio e che a sua volta deve rimandare ad esso come l’evento che non eccede (ma neppure fa difetto) l’essere in quanto orizzonte, ma in qualche modo lo attraversa, nel doppio esito di impedire all’orizzonte di sprofondare in un fondo anche abissale e a un Dio di costituirsi in una qualche figura di un’alterità eccedente il qui e l’ora dell’evento d’apertura. Forse, con queste parole, che naturalmente non sono di Duns Scoto, si potrebbe circoscrivere quel complicato dispositivo teorico per il quale l’univocità è insieme, nel medesimo evento, né essere metafisico né dio, e, tuttavia, anche in un qualche modo essere di dio e degli enti, un dio esposto per il medesimo evento per il quale l’orizzonte univoco è a sua volta aperto nel dio di cui dice l’univocità. Da generazioni si cerca di comprendere se questo dio abbracciato dalla nozione univoca sia il dio invisibile, se sia il dio che si rivela e di cui possiamo fare esperienza nei limiti di questa rivelazione, oppure se sia il dio di cui la metafisica può farsi un’immagine speculativa. O ancora quarta possibilità: se non sia una esperienza del momento in cui la rivelazione tocca e in qualche modo limita e sospende l’esperienza metafisica. Per tutto questo il primo passo da fare per la filosofia sta nel riconoscere che la fenomenalità di un evento, in cui il nome del figlio ritrae il padre o l’origine nella forma esposta di un’im-

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magine somigliante senza simiglianza, sottrae alla filosofia ciò di cui essa è la più esperta e cioè l’esperienza del venir meno o del mancare intorno a cui essa tesse, ogni volta, le sue figure più proprie e le sue domande costitutive. Ora, proprio nel Trattato troviamo una nozione che agisce nel confine interno in cui l’essere della ricerca filosofica incontra un certo limite, quindi nel transito tra metafisica e teologia, nel transito in cui metafisica e teologia in qualche modo si toccano: si tratta della nozione di onnipotenza. L’essere dell’ente non è cioè semplicemente la potenza d’apertura dell’ente. L’onnipotenza è qualcosa di più (e di meno) della semplice potenza e andrebbe sollecitata a partire da ciò che forse premeva Scoto più di ogni cosa: la relazione di apertura d’essere, l’essere come apertura, non appartiene all’ordine del necessario, o meglio non potrebbe essere adeguatamente compresa nella figura tipicamente filosofica della necessità. La potenza come onnipotenza non incrementa semplicemente la forza della potenza, non è una superpotenza di apertura, ma scuote alla radice la natura della potenza. L’onnipotenza in Scoto ritira la potenza, libera la potenza dal suo semplice essere potenza e in questo modo interviene nella relazione di legame tra l’effetto e la causa. L’onnipotenza lavora la nozione di effetto e il rinvio a cui sembra orientare. Si dovrebbe dire che l’onnipotenza di Scoto lascia l’effetto senza causa, libera l’effetto dall’ordine della causa. 7. Sempre nel Trattato Scoto si sofferma sull’ultima divisione dell’ordine essenziale. Essa distribuisce la causa nelle quattro cause aristoteliche e vi fa corrispondere i quattro effetti. Le quattro cause sono le seguenti: causa finale, efficiente, materiale e formale. Scoto insiste sul fatto che sul piano operativo esse operano insieme tanto “da costituire un’unica cosa”. Come in Aristotele la causa finale costituisce, alla fine, l’unità della causa, la sua energheia. Naturalmente per Scoto il prima e il dopo, cioè l’anteriore e il posteriore è riscontrabile anche nell’ordine dell’unità causale. Infatti la causa materiale e la cau-

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sa formale sono posteriori rispetto alla causa efficiente e finale. Così come l’ordine della causalità si compie e capitola a partire dall’eminenza della causa finale, così anche le diverse modalità di essere effetto, cioè i termini in cui è possibile suddividere la posteriorità, si compiono nell’unità di un ente determinabile come effetto. Solo in quanto l’ordine della cause si compie nella causa finale, l’effetto sarà esperibile propriamente nella sua natura di effetto. Se la causalità non si conduce fino alla sua energheia non solo non si è all’altezza di una causalità appropriata ma non si comprenderebbe del tutto la stessa determinazione di un effetto. Scoto però, in questi difficili passaggi, non si limita a ripetere Aristotele. Anzi nelle trame di questo lessico della tradizione aristotelica Scoto porta ad un’estrema tensione tutto lo sforzo che la tradizione teologica precedente ha compiuto per pensare radicalmente ciò verso cui la metafisica non sembra capace di portare la propria domanda e cioè sulla natura comune di tutte le cause efficienti e i loro effetti. Alla fine, sulla natura comune della causa e dell’effetto a partire da cui si può in qualche modo comprendere la stessa natura dell’effetto e della causa. Come se la metafisica trovasse il limite nel momento in cui diventa in questione, nell’essere in quanto essere, il tema dell’esistente in quanto tale, cioè in un altro linguaggio, dell’essere dell’ente, o dell’ente come non niente o del niente come non ente. Come se fossimo in questa condizione speculativa: la metafisica non investita dall’evento teologico perderebbe una speciale attenzione alla natura dell’effetto. In vario modo non potrebbe che limitarsi a risalire da un poi ad un prima e quindi fissare il prima di un poi come un principio in cui un ordine cronologico di dipendenza si troverebbe a fondare l’ordine ontologico di dipendenza. In realtà se l’effetto si fondasse sulla causa, intesa come principio primo, come un primo nel senso di un prima del poi, la metafisica si avventurerebbe in una dimostrazione propter quid

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del suo soggetto proprio. Direbbe della causa di un effetto il suo essere primo nel senso di un prima del poi. Con questa determinazione però non saprebbe dire la natura propria della causa poiché essa non è la determinazione di un prima, neppure quando assume la figura speculativa di una eterno prima. La convinzione di Scoto è che la scienza metafisica senza un apporto teologico tenda a effettuarsi ogni volta come scienza dei principi primi e questa è, come dire, una tendenza ordinaria (più ancora che naturale) della ragione umana. La causa finale capitola l’ordine delle cause non semplicemente come ciò che sostiene eternamente la dipendenza ontologica degli effetti. Come ciò che eternamente conduce gli enti e compiersi nel loro fine come una finalità che compie il fine proprio di ogni ente. Scoto non lo dice mai del tutto esplicitamente, ma la critica che egli rivolge a Tommaso su questo punto è di pensare la causalità finale nell’ordine di una causa del movimento e non propriamente di una causalità finale dell’ente. L’effetto di Scoto è qualcosa di molto di più del mosso di un movente. La dipendenza ontologica abbraccia la totalità degli effetti che concorrono all’effetto per cui un ente è tale. Così come le cause si compiono sempre nell’eminenza della causa finale così gli effetti si concludono nell’effetto di una posteriorità che verrebbe perduta al di fuori dall’eminenza di questa causalità. Questa posteriorità evidentemente va conciliata con l’eminenza di una simultaneità e compresa pienamente nell’interiorità creaturale, così forse si potrebbe dire, di una causalità finale. In altre parole il movimento dagli effetti alle cause è tipico e specifico della metafisica ma esso può avvenire o in una forma che conclude in una super causa che pretende un accesso al supremo intelligibile, oppure essa ammette che la sua causa va preservata dal suo essere effetto e per questo la nozione di causalità deve sottrarsi alla determinazione temporale del prima e del poi. Il movimento di questa sottrazione non è più nell’ambito della metafisica in quanto tale.

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8. Tutto questo si imprime e si riflette già nella determinazione dell’ordine essenziale dell’ente. Per Duns Scoto si perde qualcosa di decisivo su ciò che è proprio dell’ens, e quindi della nozione di univocità, se la metafisica non coglie nell’ordine essenziale dell’ente l’equipotenza tra l’anteriore e il posteriore. Una dissimmetria tra l’uno e l’altro compromette un adeguato concetto di ordine essenziale e con esso una nozione di principio che si sottragga, diremmo oggi, a una certa idea di origine o di causalità fondamentale. Per sottrarre il principio all’idea di causalità originaria occorre dunque una nozione di ordine essenziale per la quale l’ordine rimane adeguatamente diviso tra l’anteriore e il posteriore. Anteriorità e posteriorità costituiscono una divisione che concorre a un unico insieme che solo in quanto tale è ordinato. Nel Trattato tutto questo è propedeutico per sottrarre l’anteriorità e la causalità del principio alla anteriorità o causalità di una semplice causa rispetto al suo effetto. Come se Scoto fosse interessato proprio qui a sottrarre la questione della causalità del principio alla semplice determinazione ordinaria di un tempo cronologico. Il fatto che l’ordine essenziale rimanga adeguatamente diviso tra l’anteriore e il posteriore compromette e modifica la nozione di successione verso la figura temporale della simultaneità; come se Scoto fosse nella via di indicare il prima e il poi di un ordine di causa e di effetto come momento secondario e in qualche modo derivato di un ordine in cui causa ed effetto sono nell’orizzonte di un accadere la cui immagine temporale più adeguata appunto è quella della simultaneità di una successione. Così se una causa è prima rispetto al suo effetto, la causalità essenziale non sarà prima nel senso di questa semplice primalità. Per questo Scoto insiste sulla distinzione tra cause accidentalmente ordinate e cause essenzialmente ordinate. Nelle prime la seconda causa può dipendere dalla prima per la sua esistenza o per altre cose ma non per la sua causalità propria.Esse infatti

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possono raggiungere il loro effetto nell’ordine di una successione. Scoto alla fine è più interessato a salvare la nozione di simultaneità che la nozione di principio primo in quanto tale, come se solo in questa speciale temporalità, oltre ogni cronologia, ma anche fuori di un’immota eternità, egli ritenesse si potesse fuoriuscire da un’infinita regressione e pensare a fondo l’univocità. 9. Una libera interpretazione di Scoto non dovrebbe sottostimare questo tema del simultaneo e non dovrebbe esitare a seguirne le coerenze proprio laddove l’eterno di un Dio può diventare particolarmente insidioso e cioè nell’ambito delle problematiche sulla predestinazione, dove è in gioco una decisione o la grazia della salvezza. In questo luogo in cui si è accumulata forse la più alta densità di temi e questioni sul rapporto eternità e tempo, l’immaginazione teologica ha dovuto combattere con i paradossi più acuti e le conseguenze più estreme e controintuitive. Qui sono a fuoco le forme della necessità e della contingenza, le relazioni tra l’intendere e il volere nella processione trinitaria e il volere e l’intendere dell’uomo rispetto all’eterno volere ed intendere di Dio. Ci si trova nel momento nel quale la ricerca teologica deve ribadire che la salvezza è possibile per un gesto di grazia e quindi nel concorrere del volere di Dio nel volere dell’uomo. Con un dramma speculativo che assume immediatamente la seguente cadenza: la grazia non può essere data per un merito, poiché è il merito a presupporla in quanto nessun bene può essere fatto senza il suo soccorso. D’altra parte però se essa è voluta e decisa al fuori di ogni merito può sembrare un puro arbitrio. Perché la decisione eterna dovrebbe concederla a questo piuttosto che a quello? Tommaso scioglierà le questioni ricorrendo all’immagine aristotelica dell’Architetto. In questo momento cardinale per ogni teologia tra il rischio dell’arbitrio e quello del determinismo l’Aquinate opterà per quest’ultimo. Non ac-

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cetta né l’arbitrio divino né un’incertezza nell’atto di predestinazione. La decisione eterna, non potendo coesistere con una logica degli opposti, diventa immutabile e il fine ultimo giustifica l’esclusione degli uni e l’inclusione di altri alla salvezza eterna. Il determinismo prevale e non offre molte garanzie alla decisione nel tempo dell’uomo. 10. Il simultaneo di Scoto rimanda invece al rapporto-relazione tra tempo ed eterno, tra uomo e Dio. Non va confuso con l’idea tomista secondo cui l’eterno sarebbe contemporaneo a tutto ciò che è temporale. Questa contemporaneità infatti sarebbe possibile solo con ciò che è realmente esistente, implica dunque una relatio realis di due termini coesistenti, ma non coinvolge ad esempio l’oggetto di una prescienza divina. Il simultaneo di Scoto lavora la relazione di tempo ed eterno fino al punto di poter abbracciare una relazione non semplicemente contemporanea con un futuro contingente. Il simultaneo piega l’uno verso l’altro il tempo e l’eterno mutando contemporaneamente sia la nozione di temporalità che la nozione di eternità. Il simultaneo non è una tangenza di tempo ed eternità e neppure una loro coappartenenza. Mentre una contemporaneità dell’eterno al temporale può ammettere le cause seconde come tramite dell’azione del Principio, il simultaneo di Scoto è anche una conseguenza speculativa della sua diffidenza verso tutto ciò che può fare, in vario modo, ostacolo tra l’opera contingente di dio e la contingenza dell’ente creato. Si potrebbe verificare un ordine di simultaneità nel cuore del conoscere e volere divini verso un futuro contingente. Per Scoto l’intelletto divino apprende dalla propria essenza il futuro contingente come reale, non prima dell’atto divino della volontà ma simultaneamente ad esso. Il Dio di Scoto dunque conosce la relazione contingente in congiunzione con un atto di assenso e diniego della sua volontà. Non si tratta dunque di prevedere in una qualche anticipo eterno ciò che la volontà deciderà nel futuro.

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L’eternità di Dio cessa di declinarsi nella forma immutabile di un eterno passato. Esso è piuttosto concepito come un’ora simultanea alle dimensioni temporali per cui sarebbe sempre un errore considerare una decisione divina la forma di un tempo passato. Pertanto l’affermazione secondo cui una predestinazione sarebbe immutabile poiché stabilita dall’eternità non è accettata da Scoto. Questa idea di una decisione già eternamente presa sarebbe la conseguenza di una concezione greca del tempo per la quale l’eternità avrebbe qualcosa dell’irrevocabilità del passato. All’obiezione secondo cui ogni decisione di dio è necessaria e quindi immutabile, Duns Scoto non risponde garantendo la libertà della decisione nel momento precedente la decisione stessa. Come se vi fosse un momento in cui la decisione è contingente e un momento successivo nel quale la decisione diventa irrevocabile. Per conciliare immutabilità e libertà dell’atto divino Scoto ricorre alla più straordinaria forma di immanenza del tempo eterno di dio che sia stata immaginata nella storia del pensiero speculativo: l’ora eterna declina il tempo presente, il tempo passato e il tempo futuro in una simultaneità per la quale la decisione è sempre sul punto di venire presa, già decisa e tuttavia in un’ora in cui si sta decidendo. L’eterno dalla forma che guarda all’irrevocabilità del passato diventa l’attualità immanente di un gerundio presente. In questo tempo è sempre possibile che la volontà di dio coesista con gli opposti, che una decisione possa essere perpetuamente vera e tuttavia non esprimere un’oggettiva necessità. Così a proposito della difficile questione dei predestinati, dio viene pensato come un permanere in un decidere che può in tal modo restare simultaneo alla possibilità che il predestinato possa essere dannato. 11. Non a caso dobbiamo cercare di comprendere e reinterpretare Scoto a partire dalla strana convergenza tra l’univocità e un tempo mai passato di un Dio. Come se non comprendessimo

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l’univocità al di fuori di ciò che lo spirito espone di volta del figlio del padre, e non comprendessimo lo spirito senza una certa nozione di attualità che si apre nell’evento di un’immagine somigliante senza rinvio. Non casualmente la tradizione teologica pensa lo spirito del padre e del figlio come il punto di congiunzione-disgiunzione di trinità economica e trinità immanente, dove eterno e tempo non escono l’uno dall’altro. Forse, trinità economica e trinità immanente raggiungono il punto più estremo di coerenza nel momento in cui, sempre Duns Scoto, giunge a formulare il momentum della decisione divina nel tempo verbale di un gerundio attuale. Come se solo l’attuale di un tempo verbale tra un futuro anteriore e un gerundio presente fosse in grado di sostenere tutto ciò che conduce a sovrapporre trinità immanente e trinità economica, esposizione e ritiro, ritiro che avrebbe nell’esposizione il contraccolpo in cui la filosofia deve esporsi al muro di un’innegabile impensabilità. Gli interpreti di Scoto dovrebbero chiedersi se la stessa nozione di univocità sia avvicinabile nell’economia paradossale di un ens che si troverebbe contemporaneamente ad abbracciare, come un orizzonte, Dio e le creature e farsi a sua volta abbracciare dall’orizzonte di un dio inaccessibile, al di fuori di quel tempo speciale in cui la trinità immanente non precede la trinità economica. Un ens la cui univocità dovremmo saper ereditare a partire da questa doppia reciproca inclusione. Un ens che fa apertura nello stesso atto di cui è apertura, la cui attualità di apertura sarebbe sempre nel punto di congiunzione-disgiunzione in cui la teologia è portata a far convergere trinità economica e trinità immanente. L’interprete di Scoto dovrebbe dire che tempo ed eterno accadono simultanei in questa immagine senza simiglianza, in questa esperienza che rimanda al padre solo nella misura in cui lo depone nella via tracciata univocamente nel figlio. Nello spirito, si deve concludere ogni volta per evitare

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che il figlio, come nella logica di un effetto, continui a fare rinvio analogico al padre. 12. La formula trinitaria va dunque reinterrogata sottraendola alla cura e all’inutile protezione di una certa teologia, non come una reiscrizione filosofica che farebbe perdere qualcosa di decisivo all’intuizione cristologica di Paolo, ma al contrario come un tentativo troppo rapidamente sospeso o abbandonato di condurre il linguaggio stesso della filosofia verso l’evento di un inizio che sopravviene nello spazio e nel tempo della filosofia. Dovremmo reiterrogarla come l’effetto di limite che l’ermeneutica di una speciale immanenza, proprio ciò che anche Badiou chiama “immanentizzazione dello spirito”, introduce nel linguaggio filosofico. Dovremmo chiamarlo un certo effetto di ateismo che conduce il logos filosofico verso un limite per il quale Derrida troverebbe al lavoro, nella stessa esposizione di messa in opera, l’evento di una chóra come né finito né infinito e la pratica di una decostruzione. Un effetto di ateismo che demolisce ogni possibile forma di teismo e rende assolutamente problematico il nome stesso di “dio”. Lo rende problematico nel momento in cui cerca di essere il calco speculativo di un’esperienza per la quale l’atto di un Dio si rivela nell’unità di sostanza-relazione con un uomo fino al punto di dovere pronunciare la formula del vero dio e vero uomo e per cui non è più possibile riferirsi a un nascondimento o a una ritrazione. Nella logica di quest’esperienza s’impone un’ermeneutica per la quale un radicale ateismo è più prossimo di ogni forma di teismo a questa deposizione di Dio. Nel momento in cui l’ermerneutica di una particolare esperienza conduce a garantire che il figlio è generato della stessa sostanza del padre, generato e non creato, ma né identico né differente, ma neppure, momento con il padre di un differirsi nel padre e nel figlio di un unico principio od origine, o ancor meglio quando si afferma che il figlio è della stessa sostanza del

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padre per lo spirito e si deve affermare che lo spirito è la terza persona per la personalità del padre e del figlio, accade qualcosa che induce verso un punto cieco la figurazione concettuale. Accade qualcosa per cui tutte le possibili figure di un’origine, di un proprio, di un fondo, di un dio, sono escluse, come se l’imperativo a pensare l’unitrinità sfigurasse, innanzi tutto, le possibili figure di un dio evitando al contempo la logica e la pratica di una teologia negativa. 13. La speculazione trinitaria riguarda la filosofia. Non delimita un ambito ad essa estraneo, verso cui essa non potrebbe che riconoscersi come indifferente e separata. Non si riesce a esprimere l’essenziale se la si riconduce alla logica della pura fede, con la presunzione tra l’altro di sapere che cosa sia un’esperienza di fede. La speculazione trinitaria appartiene di diritto e di fatto alle figurazioni del sapere filosofico. Si travisa qualcosa di decisivo della sua portata nel ritenere che sia stato consegnato al linguaggio della filosofia un evento inassimilabile, nel ritenere che in essa la filosofia sarebbe completamento fuori di sé, del tutto estranea alla sua possibilità di esercizio e di opera. Dovremmo invece saper verificare in essa il documento di un evento per il quale, per il sopraggiungere del quale, la filosofia è condotta verso la sua fine. La speculazione trinitaria è in qualche modo interna a un deporsi-autodeporsi o autodecostruirsi delle figure dell’origine e del fondamento. Essa dice, innanzi tutto, che cosa non è il padre e il figlio. Quindi che cosa non è l’apertura di un’origine. Se la filosofia si soffermasse sull’origine come originario, la speculazione trinitaria la rimanderebbe alla visibilità del figlio, se cercasse di cogliere il figlio nella positività di una presenza sovrana sarebbe investita dell’invisibilità dello spirito, se rilanciasse la logica di una relazione spirituale tra i momenti di una relazione le verrebbe risposto che ogni momento è padre e figlio e spirito. Si può dire che la speculazione trinitaria

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sia la formula di una teologia negativa che toglie alla teologia negativa ciò che ancora la configura come un estremo teismo. In questo senso la speculazione trinitaria è una esperienza di ateismo teofilosofico, un’esperienza in cui teologia e filosofia si ritrovano senza dio. Né religione né filosofia. E se, di volta in volta, può declinare nel religioso o in pratiche ontometafisiche, se fallisce in vario modo l’esposizione a cui costringe il filosofico e il religioso è perché la sua stessa esposizione non ricava tutto il possibile dall’ultimo dei trascendentali. Non pensa fino alla fine lo spirito del padre e del figlio nella medesima coerenza in cui una particolare tradizione medievale era portata a capitolare i trascendentali nel pulchrum. Come se nel passaggio di questa conversione si preservasse la fine di ogni semplice teismo e la dirompenza di un es gibt senza traccia di donazione, una donazione senza dono o un dono senza donazione, estraneo all’economia di una salvezza solamente personale. Il primo passo dunque è quello di orientarsi nella figura trinitaria come l’esposizione di un ritiro che sottrae alla filosofia la sua passione verso un’origine, un fondamento, o un’abissale ritrazione. L’esposizione di un ritiro per il quale la filosofia è condotta a decostruire le figure della presenza e dell’assenza, della presenza e della ritrazione. La filosofia si ritroverebbe respinta dall’identità, dalla differenza, dall’identità differente, da ogni forma di Aufhebung e di sintesi, ma anche da ogni figura di altrimenti che essere o di differenze qualitative. La figura trinitaria sottrae anche le profondità di un mistero nel cui limite la filosofia, come si sa, non incontra mai la sua fine ma il punto di gravità del suo slancio e del suo inizio. 14. Il più esposto converge sempre con l’impossibilità per un soggetto di andare in un secondo piano. Una convergenza di ritrazione ed esposizione è un quasi evento che non retrocede mai in un secondo piano sulla linea dell’orizzonte. Ma questo è possibile solo se l’orizzonte è a sua volta esposto senza rinvio

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tra un primo piano e un secondo piano. Un evento impensabile per un’esposizione che a sua volta esponga il pensiero nel suo proprio atto. Un’esposizione che, nel momento in cui converge con una ritrazione senza fondo, richiede, a sua volta, un atto esposto, né presente né assente, né in primo piano né in secondo piano. Un evento che esponga sino all’impossibilità di sottrarsi sarebbe in fondo un’altra forma di confutazione elenctica. Una impossibilità di sottrarsi in secondo piano è sempre in correlazione con una linea di orizzonte che ri-guarda in una somiglianza senza simiglianza. La filosofia può comprendere qualcosa, per quanto è possibile, se si lascia orientare da quel niente di sapere che sopraggiunge quando è portata a confrontarsi con l’opera dell’arte. La cui esposizione di somiglianza rende somiglianza ogni volta all’ultimo del trascendentali. Ora, in questo quasi evento, senza chiamata né promessa, l’intenzionalità è sempre respinta al proprio atto, nell’impossibilità di sottrarsi sotto velo. Per questo, ha ragione Ricoeur, l’emozione dell’arte ha una portata ontologica. Nella memoria dell’eredità hegeliana in cui la kenosi cristiana prevale sulla energheia aristotelica, si potrebbe dire che un evento senza fondo, senza presupposto, che consuma il suo presuppposto, si ritrae sempre fino al punto di lasciare all’esperienza la possibilità dell’inizio, l’atto dell’inizio, quindi l’impossibilità di negare il proprio stesso autoinizio. La trinità respinge l’intenzionalità al proprio atto esponendola all’impossibilità di ritrarsi. Un’impensabilità senza mistero che l’evento dell’arte ripete ogni volta nella sua opera d’esposizione. Un’impensabilità senza mistero che restituisce ogni volta e suggerendo di interrogare la figura trinitaria a partire dall’ultimo dei trascendentali, con il sospetto che, proprio questo, sia il passo compiuto solo in parte, quasi inavvertitamente e comunque senza il carico di tutto il suo esito, dalla tradizione scolastica.

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Assumere la portata delle coerenze per le quali l’ultimo dei trascendentali non solo capitola l’ens, l’unum, il verum, e il bonum ma anche lo spirito del padre e del figlio, significa trovarsi in qualche modo orientati verso la speciale convertibilità di un ritiro e di un’esposizione. Come se il bello fosse il nome adeguato per una ateologia, per un ateismo che interpreta fino alla fine la deposizione di un certo dio. La speculazione trinitaria riguarda dunque la filosofia. In qualche modo è esercizio di una filosofia sotto la pressione di un evento che ritira l’esperienza dell’origine. Esercizio di una filosofia sotto la pressione di un evento la cui immagine espone nella somiglianza il suo ritiro. Questo evento porta via alla filosofia il terreno o il dominio nel quale può dichiarare, autodichiarare, la sua hybris, la sua supremazia, la sua chiusura. Le porta via il domino nel quale può nascondere a se stessa tutto ciò che resta ogni volta escluso dalla chiusura in cui s’impegna e in cui si chiude. 15. La legge sulla quale non dovremmo cessare di insistere è la seguente: al massimo del ritiro corrisponde il massimo dell’esposizione. Ma al massimo dell’esposizione deve corrispondere il massimo del ritiro. Un ritiro massimamente esposto deve possedere due momenti convergenti: un’esposizione già sempre esposta come inesponibile e un’esposizione innegabile nella sua inesponibilità, poiché ogni negazione confermerebbe la sua inesponibile esposizione. Come si vede nell’esposizione di questa apertura, ci si trova sovrapposti con quel principio non mostrabile che la filosofia riceve indirettamente nella strana convergenza di impensabilità e innegabilità, come se l’evento trinitario nell’esposizione di un ritiro conducesse verso la responsabilità di un’impossibile ritiro, nel quale innegabile e impensabile esprimono la medesima apertura. Un avvenimento nel cui ritiro o per il cui ritiro si sarebbe esposti all’impossibilità di non esporsi, quindi all’impossibilità di velarsi in un se-

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condo piano. Come se il trino comportasse anche l’evocazione di un’apertura del pensare per la quale un terzo, né forma né contenuto, né pensiero né pensato, né finito né infinito, né sensibile né intelligibile, sarebbe sempre in un’esposizione senza ritiro, tanto esposto da inapparire in una presenza e in un’assenza, tanto apparente da inapparire, impensabile e tuttavia innegabile in un’attualità performativa.

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Sull’immagine dialettica come evento d’eccezione

1. Una logica dell’evento dovrebbe approssimare il pensiero allo stato o alla figura dell’eccezione. Se l’inizio riguarda un evento è perché la sua insorgenza configura un qualche stato d’eccezione. E poiché dobbiamo ammettere una speciale relazione tra un ritiro e un inizio, un evento d’eccezione porterebbe il nome per una ritrazione radicale. Potrebbe quindi diventare l’indice per un fondo ritratto e, nella stessa figura di eccezione in cui si espone, mostrare una speciale natura di questo venir meno o mancare nella linea d’orizzonte. Non vi sarebbe evento senza un qualche stato di eccezione, non potrebbe venir meno la natura di un fondamento senza la capacità di una speciale configurazione di fare eccezione a ciò che apre. In questo senso ciò che Heidegger introduce nella filosofia del Novecento come l’aperto deve avere a che fare con un evento d’eccezione. Non vi sarebbe dunque apertura senza evento d’eccezione, senza un certo potere di stabilire, di fare, ma anche di sospendere la legge. L’eccezione che qui si evoca riprende seppure obliquamente, di traverso, quell’evento d’eccezione che da Schmitt in poi interroga le categorie del politico; evento in cui si dispiega un ordinamento nella medesima istanza per la quale permanentemente e immanentemente potrebbe sospendersi l’esecuzione. Sarà necessario però radicalizzare la questione:

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in vario modo ci si dovrà chiedere, ancora una volta, se esso sia fuori o dentro il dispositivo o la figura che dispiega, oppure né dentro né fuori, oppure ancora dentro e fuori a partire dal suo non essere né dentro né fuori. Sappiamo dalle scienze giuridiche che questo statuto di possibilità sospensiva è talmente intessuto con il dispositivo del diritto che, in vario modo e in varie forme, non c’è ordinamento che non lo preveda al proprio interno. Come se un ordinamento che non prevedesse, in qualche modo, la possibilità di una certa grazia e si affidasse completamente all’organismo della legge, prima o poi finirebbe con il perdersi nel suo feticismo e la morte prenderebbe il sopravvento sulla vita. In queste coerenze, tante volte praticate nel corso del Novecento, l’eccezione può fare conversione in un evento di grazia e la nozione di grazia, tra la teologia e la politica, afferma qualcosa di decisivo sulla forza dell’apertura, anzi sull’apertura in quanto tale, quindi su ciò che la filosofia può chiamare orizzonte ritratto di apertura degli eventi. 2. La filosofia politica dovrebbe, ogni volta, saper reinterrogare la sapienza della teologia della grazia nel momento in cui s’impegna in una teoria dell’azione. Questa teologia potrebbe insegnare, in vario modo, che l’azione fallisce sempre senza il sopravvento di una qualche nuova potenza; la volontà si divide tra fatalità e arbitrio e si ripiega nell’impotenza di un colpo mancato senza questo sopravvenire. Ma come reinterrogare e in qualche modo reimmaginare questo sopravvento di grazia? Cosa ci insegna ancora oggi la speciale necessità di ancorare l’azione del volere e dell’intendere a un soccorso senza il quale verrebbe a mancare la potenza stessa dell’azione? Non corriamo il rischio di compiere un arretramento rispetto a quel dominio, segnato dal moderno, per il quale la volontà è tale solo nella sua autonomia o nella sua obbedienza alla sola ragione? Per il momento limitiamoci a tenere ferma la seguente linea di

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coerenze: non c’è evento di apertura se non nella convergenza di un inizio e di un ritiro; non c’è apertura se non in uno stato d’eccezione che non appartiene o manca a ciò che rende possibile, non c’è apertura come evento d’eccezione se non nel sopravvenire di un supplemento per il quale la pratica dell’azione può sempre trovare un’altra via tra l’arbitrio e la fatalità del necessario. Questo sopravvenire tuttavia non accade come una verticale sull’apertura in quanto tale e neppure come il lavoro segreto di un ritiro insondabile o abissale. Se c’è qualcosa di decisivo nella nozione di grazia è il suo rapporto immanente, di un’immanenza radicale, con la nozione d’immagine o figura o configurazione. 3. Portando al limite tutto questo dovremmo apprendere a pensare il sopravvento di grazia sull’azione implicato nella costellazione di una speciale figura. Non vi sarebbe quello speciale supplemento dell’azione chiamato grazia dalla tradizione teologica al di fuori di un’esposizione a una figura nella cui immagine farebbe convergenza un inizio e un ritiro. Troppe volte la filosofia del diritto o la filosofia politica trascurano il lavoro della filosofia speculativa in questi passaggi. L’evento d’eccezione, come la legge della legge, come eccesso ritirato rispetto a ciò che rende possibile, non può confondersi con la sospensione d’eccezione in cui si patisce l’arbitrio sovrano. Come se l’intero statuto dell’apertura sovrana si potesse scrivere nella formula di un dispositivo che sospendendosi darebbe luogo all’eccezione. La possibilità della sospensione, come dimostra la persistenza dell’istituto della grazia, ha un rapporto originario con la non appartenenza dell’eccezione a ciò che rende possibile, potremmo dire che si inscrive nella possibilità che si apre in quell’eccezione. Tuttavia, tanto più questa sospensione s’inserisce nell’eccezione d’apertura tanto meno essa potrebbe configurarsi come arbitrio di una sospensione d’eccezione. Dobbiamo trovare un senso per il quale

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l’eccezione è una sospensione dell’arbitrio e viceversa un senso per cui l’arbitrio non potrebbe mai configurare un’apertura d’eccezione. Se l’evento d’eccezione è, nello stesso tempo, fuori e dentro l’ordinamento che rende possibile, si tratta di pensare bene e radicalmente nella diagonale di quel “nello stesso tempo”. Nel tempo dell’eccezione, nel con-tempo dell’eccezione, il fuori e il dentro, l’esterno e l’interno, sono simultanei. L’eccezione è la simultaneità del prima e del poi, del dentro e del fuori. Formula più esatta per dire né dentro né fuori. La vigenza dell’ordinamento è nella configurazione di questo né dentro né fuori, né prima né poi, nel simultaneo dello stesso tempo. L’ordinamento è nella sua vigenza quando la sovranità di una apertura non cade mai né fuori né dentro. Se coincidesse con il dentro, se fosse il dettato della legge, se fosse il corpo letterale della legge, l’ordinamento sarebbe in un fuori di sé, per un eccesso di sé, se la sovranità dell’apertura fosse invece fuori, in un eccesso sovrastante, essa si troverebbe, in questa estremità (e solo in questa estremità) a coincidere con il fuori legge. 4. Solo in questo caso, si potrebbe dire, con Derrida, che il principio di sovranità è fuori legge, come il fuorilegge; e in questo eccesso di fuorilegge, il sovrano e la bestia avrebbero un volto in comune. Momento delicato per ogni filosofia politica: riguarda non semplicemente, come sembrerebbe a un primo approccio, la violenza del potere ma anche la possibile istanza che del potere potrebbe impugnare la violenza. Nel momento in cui la possibilità sospensiva della legge si trovasse sulla stessa piega o bordo del fuorilegge, sarebbe in gioco ciò che in Benjamin prenderebbe il nome dello Jetztzeit: la distinzione tra la giustizia e la violenza del potere. La possibilità di non fondere insieme la possibile violenza della giustizia dal potere come violenza. Ma più in generale sarebbe in gioco la seguente cosa: l’eccesso che fa eccezione a ciò che rende possibile rischia di

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trovarsi sul medesimo piano dell’assenza di legge. Un rapporto tra l’aperto e la differenza, tra l’aperto e la differenza che differenzia dalla semplice differenza, rischia di ignorare l’esclusione ingiusta, quindi, il rapporto tra l’aperto e la giustizia o l’aperto e l’ingiustizia sovrana. In qualche modo seguendo la lezione di Benjamin occorre non deviare dal seguente punto: sono gli ingiustamente esclusi, i differenti in un’ingiusta esclusione a esibire un sovrano interesse a non far fusione troppo in fretta tra un’eccezione né dentro né fuori e la semplice sospensione d’eccezione. Tutto questo forse si esprime nella filosofia quando assume la forma di un certo materialismo (il materialismo storico di Benjamin: ciò che la filosofia diventa quando si lascia investire dall’evento teologico) nel quale una sobria lucidità consente di non confondere la grazia di un eccesso che fa eccezione con la grazia gratuita come arbitrio che sospenderebbe nell’eccezione, che farebbe eccezione nella sua sospensione. 5. Se nella teoria matematica un insieme fa sempre eccezione a ciò che raccoglie, una teoria o filosofia politica sarà sempre una pratica impotente se non farà verifica della seguente variazione: un insieme fa eccezione a ciò che raccoglie solo se gli elementi raccolti non sono indifferenti a una configurazione. Una filosofia politica non saprebbe che farsene dell’indifferenza degli elementi di un insieme e nel corso della sua prassi potrà sempre verificare che solo nel corpo di una figurazione l’insieme sarà in ritiro da ciò che rende possibile. Una teoria politica degna di una prassi non impotente non potrebbe sopportare la finzione di un insieme vuoto. Non potrebbe sopportarlo per le medesime ragioni per le quali riconosce tutti i pericoli di una semplice indifferenza degli elementi, per la medesima ragione per la quale, in un qualche momento, potrà verificare il rapporto tra la configurazione di un insieme e la possibilità che esso risulti non numerabile rispetto a ciò che rende possibile.

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A lungo e in vario modo dovremo tornare sulla natura di questa configurazione. Gli elementi di un insieme sociale sono sempre configurati, poiché la stessa tensione di differenza nella logica di un confine impone una figura, così come impone una configurazione la tensione della divisione interna. Il principale organo di questa topologia della figurazione non può che attraversare la tensione tra gli inclusi e gli esclusi. Questa tensione ordina il campo sociale e non c’è figura possibile che non ne rappresenti in vario modo la condizione. Un’ontologia dell’aperto che sorvoli su questo campo di tensione sarebbe almeno complice del fatto che le figure, con le quali i gruppi dominanti esercitano il privilegio, è sempre correlativo con la capacità di nascondere sotto velo gli ambiti dell’ingiusta esclusione. Come sappiamo l’ideologia è il nome per questa figura la cui potenza retorica non affermerebbe la sua egemonia se non fosse soprattutto capace di ordinare un intero discorso sulla copertura dell’escluso e delle pratiche di esclusione. Se c’è esclusione non c’è ritiro e quindi nessun evento che faccia eccezione a ciò che rende possibile. Nelle figure dell’ingiustizia quindi non sarà mai possibile far convergere un’apertura in cui l’inizio si promuova nella scena di un ritiro. Come se dovessimo in questo punto cruciale dell’ontologia affermare la seguente cosa: se la differenza ontologica implica un pensiero o una figura di una differenza che differisce dalla natura stessa del differire, se questa speciale differenza tenta un pensiero di un’apertura che fa eccezione a ciò che rende possibile, allora non può che attraversare la questione della giustizia. L’evento d’eccezione deve avere a che fare con una figura della giustizia o meglio la questione antica della giustizia aiuterebbe a pensare in quella serie di richiami per i quali l’eccezione fa ritiro in una speciale esposizione che convoca sempre la figura di una certa immagine. In altri termini, dovremmo avvertire l’urgenza di ripensare la Geworfenheit heideggeriana, nel segno o nel limite di un’ontologia dell’ingiustizia. Come se l’angoscia heideggeriana,

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nell’evocare il limite mortale da cui si delimita l’ex-sistenza del Dasein, potesse davvero deppropriarlo del proprio sé solo nel momento in cui assumesse la tonalità dell’ingiustizia. Come se in questa forma di tonalità si potesse avvertire la mortalità del comune e solo qui si fosse nel limite di deppropriare la mortalità del sé medesimo. L’ingiustizia sarebbe allora l’angoscia del comune di tutti e di ciascuno. Essa riguarderebbe a partire da ciò che configura me e l’altro, senza essere propriamente né me né l’altro. Per questo non si è davvero mai prossimi ad avvertire il venir meno dell’aperto come quando si è presi dal tono dell’ingiustizia. 6. Da Benjamin apprendiamo a pensare l’inconsistenza ontologica dell’ingiustizia come una vera e propria disposizione temporale. L’ingiustizia resta e si dispone nel tempo e forse si rapporta all’avvenire come le antiche profezie si rapportavano al miracolo. Se i miracoli sono, come voleva Rosenzweig, la realizzazione della profezia, potremmo capire molte cose di un evento d’eccezione se fosse lecita una proporzione come la seguente: l’inconsistenza ontologica segnata dall’ingiustiza sta all’evento riuscito come le profezie di Rosenzweig attendono e predispongono il miracolo. L’immagine dialettica di Benjamin eredita questa relazione di adempimento e il suo punto di arresto può essere considerato il momento in cui profezia e miracolo si incontrano. Il lampo della sua visibilità non accadrebbe se non nella costellazione di questo incontro, il quale, tuttavia, non avrebbe visibilità se non prendesse consistenza nel corpo di un’immagine. Se la filosofia politica vuole ereditare e anche cercare di reinterpretare l’immagine dialettica di Benjamin deve tenere ferma l’idea che solo nell’arco di tensione tra profezia e miracolo, tra inconsistenza ontologica e giustizia, fa apertura un evento d’eccezione e questo non opera mai al fuori di una costellazione di immagine, cioè nella figurazione della sua Bildlichkeit. Apertura nel corpo di una certa Bildlichkeit. Come

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se potessimo e dovessimo affermare: non c’è apertura, non vi sarebbe aperto che disponga l’apertura di un avvenire, quindi non c’è avvenire se non nella figura di un’immagine. Nella visibilità dell’ora di riconoscibilità l’essere differisce dall’ente come apertura dell’ente. Così potremmo e dovremmo dire. E poiché la filosofia speculativa si impone di pensare l’apertura come eccezione stessa alla differenza che raccoglie, o come differente in quanto nient’altro che ente, allora sempre nell’ingiunzione di questa esperienza, che in qualche modo rinnova teologia e filosofia a partire dal punto su cui si fanno limite a vicenda, la visibilità dell’immagine, la visibilità dell’immagine nel suo punto di orizzonte, il ritiro che fa eccezione, quindi la stessa differenza dell’apertura, deve convergere, fare convergenza, con la visibilità stessa della figura. L’eredità dell’immagine dialettica di Benjamin, per la filosofia politica, impone la necessità di pensare nel corpo di definite costellazioni e per la filosofia speculativa di consegnare il pensiero della differenza ontologica all’immagine dell’ora nella sua riconoscibilità. Ma proprio perché impone tutto questo, proprio perché impone o re-impone la potenza ontologica della visibilità di un’esposizione, dobbiamo chiederci se proprio l’esposizione di questa visibilità non debba essere attraversata ancora più radicalmente. Resta ancora un compito pensare la sincronicità dell’immagine dialettica, cogliere in che modo il pensiero critico potrebbe concorrervi e dove dovrebbe invece lasciare sopravvenire qualcosa che la riguarderebbe solo a partire dalla sua stessa impensabilità. La visibilità della figura, del momento bildliche dell’immagine, comprende la riconoscibilità della mancanza ontologica segnata dalle forme dell’oppressione, quindi riconoscere l’ingiustizia; anzi, per certi versi, l’ingiustizia come tale non troverebbe il modo per rappresentarsi, quindi di esistere come tale, nel giudizio dell’ingiustizia, se non fosse abbracciata da questa visibilità pur non coincidendo mai con essa. Se la visibilità dell’immagine porta al riconoscimento l’ingiustizia è perché essa fa opera di giustizia.

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7. Il tema in vario modo decisivo per la filosofia politica riguarda dunque il rapporto tra il miracolo, la profezia e lo stato d’eccezione. Il primo passo, il più difficile di tutti, deve portare all’estremo la figura dell’eccezione. E forse il modo più sicuro per trarre qualche vantaggio per la filosofia politica è quello di non introdurre troppo in anticipo le figure che le sono proprie. L’evento d’eccezione andrebbe interrogato innanzi tutto nel filo di alcune coerenze speculative. La prima impegnativa questione è la seguente: l’eccesso, come eccezione a ciò che si rende possibile, non può confondersi con una mancanza o con un venir meno. L’inappartenenza a ciò che si rende possibile in un’apertura sovrana non può consistere in una specie del genere del mancare. Se l’apertura come inappartenenza a ciò che si rende possibile fosse assimilabile a un mancare come venir meno, la differenza ontologica non si porterebbe verso il limite del nient’altro che l’ente. Non solo, un’apertura avvertita come mancante orienta la figure del pensiero verso l’originario. Un originario mancante presentato nel suo mancare non cessa di essere meno originario di un fondamento originario. Per questo se l’origine porta il nome dell’apertura, se essa presentasse l’evidenza del mancare, non potrebbe in alcun modo convergere in un’apertura come inappartenenza a ciò che rende possibile. L’inappartenenza come la chóra di Derrida, manca dell’evidenza di una semplice presenza e manca all’evidenza di una semplice assenza o mancanza. 8. La filosofia politica impegnata sull’evento d’eccezione quindi dovrebbe manipolare con estrema prudenza la nozione del venir meno o del mancare, in particolar modo quando fa adozione di alcune formule del reale lacaniano. Quando il Reale di Lacan diventa l’ipotesi di un’apertura originariamente barrata.

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Quando, cioè, si sostiene l’idea che il soggetto individuale o il soggetto sociale sarebbero sempre aperti a partire da una distanza incolmabile con una emergenza traumatica da cui sarebbe per sempre precluso. Quando si afferma che esso sarebbe preso da una forclusione barrata, sostegno allo statuto stesso di una normale apertura. Per questa posizione, che circola sempre più frequentemente nel linguaggio della filosofia politica, il soggetto e l’oggettocausa del suo desiderio, sarebbero in stretta correlazione. Il soggetto esisterebbe però solamente in quanto un resto eccedente farebbe resistenza assoluta alla sua presa; il suo paradosso sarebbe di esistere solo mediante l’impossibile congiunzione con la sua identità ontologica, nell’impossibile incontro con l’oggetto mancante. Il soggetto si costituirebbe solo nell’impossibile pienezza a partire da un suo limite interno, cioè la barratura del suo desiderio. In questo modo l’assenza sarebbe costitutivamente barrata e coinciderebbe con l’apertura stessa della logica del significante. Mentre in alcuni casi questo sfondo lacaniano sostiene un gradualismo negoziale, lontano, per scelta non essenzialista, da ogni ipotesi di rottura sociale o rivoluzionaria, in altri casi il tentativo sofisticato è di utilizzarlo come un propellente teorico per un pensiero critico di rottura dell’ordine esistente. Nei momenti di maggiore coerenza e lucidità questo approccio può trovarsi in sintonia con la riflessione di Jacques Rancière sulla figura del “surnumerario”. Se una parafrasi di Lacan conduce alla necessità di stabilire una differenza minima tra il vuoto mancante e un elemento che agisca come suo sostituto, il “surnumerario”, in quanto elemento in sovrannumero, appartenente ad una serie senza posto distintivo, sarebbe il candidato ideale per nominare o esporre quella minima differenza. L’idea di fondo di questa tesi è che la politica entra in scena e si fa opera quando l’escluso, come senza posto, in soprannumero, non si limita a negoziare una minore ingiustizia ma assume la fi-

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gura dell’universale. L’errare, come senza posto definito, sarebbe già, in quanto tale, una citazione del senza posto-apertura di tutti e di ciascuno. Questa singolarità in quanto non differita nella serie, proprio in quanto inoccupante una proprietà numerabile, avrebbe il privilegio di farsi segno della pura differenza tra il posto vuoto e gli elementi che in esso si raccolgono. 9. Bisognerebbe rileggere attentamente proprio quest’ultimo passaggio, condiviso seppure da prospettive diverse da Rancière e Žižek: “pura differenza tra il posto vuoto e gli elementi che in esso si raccolgono”. La filosofia esercita il suo compito innanzi tutto a partire dall’esitazione paziente su ciò che nomina. Qui ritroviamo il tema del nostro interesse: la differenza minima tra il luogo e ciò che ha luogo non è altro che la differenza ontologica. Ripete il dramma di una differenza che è chiamata a differire da ogni semplice differenza. Perché la differenza minima sia davvero una minima differenza tra il luogo e ciò che ha luogo, il ritiro va sottratto ad ogni segno di barratura, poiché non c’è segno di barratura che non rinumeri ciò che dichiara mancante. L’idea che l’intero ordine simbolico funzioni a partire da una mancanza originaria del desiderio non supera l’obiezione sulla precarietà speculativa del mancare in quanto tale. Introduce e proietta la formula di una perdita sull’orizzonte di una incompletezza costitutiva. Se l’apertura chiama in causa una incompletezza o meglio una inappartenenza a ciò che rende possibile, la proiezione di una perdita non fa che rinumerare il non numerabile. La numera come perduta, come mancante, come inaccessibile e barrata. La filosofia speculativa invece costringe a sottrarre l’inappartenenza alla logica della sottrazione. Il più mancante, il mancante per eccellenza, l’eccezione non è né presente né assente. Tutto si gioca nel limite della barratura, tutto si gioca nel sopportare sul piano speculativo la congiunzione di un ritiro e di

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una non perdita, di un ritiro e di una non mancanza, di un ritiro come possibile che sostiene la stessa possibilità della perdita e del venire meno, alla condizione, naturalmente, che venir meno e possibile non siano fatti convergere come evento di apertura. 10. Occorre dunque presentare una differenza minima senza cadere nella logica di un semplice rinvio tra un primo piano e un secondo piano o al rinvio interno tra l’uno e l’altro (non a caso Žižek citi frequentemente il quadro di Malevič). Nominare la differenza pura vorrebbe dire esporre il suo ritiro da ciò che rende possibile. Poiché solo un ritiro esposto sottrae il luogo mancante alla entificazione del luogo. Come si diceva, se la filosofia non contribuisce a decostruire le forme di questa entificazione è corresponsabile dell’occupazione e appropriazione dell’indifferenza del luogo di apertura. Questo però significa che non è sufficiente ricorrere alla categoria della rappresentanza dell’universale di un elemento sovrannumerario. La tradizione di provenienza marxista sa, da alcune generazioni, che il rilievo sociologico aiuta molto parzialmente a tracciare una corrispondenza tra singolare e universale, così pure il passaggio dall’esclusione all’antagonismo compie un passo in avanti ma continua a restare su un piano troppo generale e ancora pesantemente curvato dalla concettualità tipica delle scienze sociali. Proprio qui invece la filosofia politica potrebbe trarre qualche vantaggio dalla possibile deposizione della filosofia verso gli eventi d’eccezione. Una singolarità capace di esporsi come l’universale non può che configurare un evento d’eccezione. Se l’universale è il nome per l’apertura, se quest’ultima è tale solo per la figura di un insieme inoccupabile (o non numerabile) da ciò che rende possibile, se questa inappartenenza inoccupabile accade come una differenza che differisce da ogni differire e una differenza che differisce da ogni differire costringe a pensare un ritiro nella figura di un’esposizione, allora la singolarità dei senza posto può nominare o

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rappresentare l’universale solo nell’ordine di una speciale configurazione. L’antagonismo deve configurarsi nella confidenza di un’immagine (in un senso che abbiamo già altrove precisato) perché l’apertura sia nuovamente di tutti e di ciascuno, quindi sottratta alla logica di una appropriazione-occupazione. 11. Reinterpretando la lezione di Levinas, il passaggio dalla pulsione al desiderio andrebbe pensata e inscritta nel sopravvenire di una contingenza radicale che farebbe da spaziatura nella modalità pulsionale. La pulsione sarebbe immessa nella discrezione dello sguardo dell’altro e l’apertura del desiderio sarebbe in questo sopravvento. Da subito l’alterità discreta regolerebbe il circolo della pulsione e lo incrocerebbe con una figura a due fuochi: l’uno centrato nel ciclo della ripetizione e l’altro sulla semplice possibilità di una presenza o di un’assenza. La possibilità di una presenza e di un’assenza (fort and go della celebre storia freudiana del rocchetto) è altra cosa da un’assenza originaria, da un’assenza che per quanto mancante non cessa di essere sempre, come spiega bene Derrida, al suo posto vuoto. La discrezione immette nel possibile e disloca la ripetizione del ciclo pulsionale. Se ci si pensa bene un nucleo di fede segna già questa apertura: poiché nulla garantisce il ritorno su di sé o il soddisfacimento della pulsione. La contingenza della discrezione deve configurarsi in una cura fidata perché la pulsione non precipiti sul soggetto o il soggetto sulla forza della pulsione. Così la pulsione diventerebbe desiderio non quando l’altro costituisce figura dell’assenza, ma quando l’altro è sempre possibile che av-venga. Una speciale fidatezza si costituisce nel bordo della cura dell’altro e della sua discrezione e in questa apertura non avremmo a che fare con una perdita originaria, con una barratura, ma con una dislocazione. È sempre una speciale fidatezza a costituire il luogo dell’apertura instabile del desiderio.

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L’eccezione sovrana e l’evento d’eccezione

1. Agamben ha insistito molto su una nozione di eccezione come specie dell’esclusione. La struttura della sovranità si comprenderebbe a partire da una speciale capacità di autosospensione che lascerebbe spazio, in una particolare forma di ritiro e di abbandono, a un’eccezione. L’eccezione qui sarebbe un fuori escluso il quale non consisterebbe semplicemente nel meccanismo o nella procedura di un’interdizione o di un internamento, ma attraverserebbe la stessa potenza di sospensione della forza normativa. Qualcosa verrebbe incluso a partire dalla sua esclusione. Se in Schmitt l’eccezione attraversa la linea stessa della sospensione, Agamben trasferisce l’eccezione a ciò che fa esito dalla sospensione stessa. Lo scrive chiaramente in questo passo: «Non è l’eccezione che si sottrae alla regola, ma la regola che, sospendendosi, dà luogo all’eccezione e soltanto in questo modo si costituisce come regola, mantenendosi in relazione con quella»1. Per Agamben il nomos sovrano sarebbe l’evento inaugurale di un’impossibile distinzione tra diritto e violenza. La sovranità 1. G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 22.

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del nomos non sarebbe altro che la potenza di far convergere la regola e la sua violazione, la norma e la sua eccezione. La norma potrebbe applicarsi e non applicarsi e questa interna disgiunzione congiungerebbe fatalmente il potere con il possibile, fino al punto da indistinguere a sua volta l’arbitrio e il possibile in quanto tale. L’eccezione non sarebbe altro che questa interna disposizione di tutti i dispositivi sovrani a rendere sempre imminente, sempre possibile, la loro sospensione, in modo tale che la loro eccezione sospensiva altro non sarebbe che la forma del loro dispiegamento, il modo di essere della normatività in quanto tale. Non a caso Agamben sottolinea più volte qualcosa che gli sembra indicativo del particolare destino delle «limitazioni reciproche e delle regole dello jus publicum Europaeum»2: lo spazio giuridicamente vuoto dello stato d’eccezione tenderebbe ormai a coincidere con l’ordinamento normale. Questo dispiegamento, che Agamben vede avanzare ovunque nel mondo globalizzato, non sarebbe un trapasso discontinuo rispetto alla tradizione, ma anzi non farebbe che mostrare alla luce del sole ciò che per secoli si sarebbe sottratto agli occhi dei più: l’eccezione come norma o la normatività come pratica dell’eccezione. L’eccezione di Agamben non solo ha ormai poco a che fare con Schmitt, ma proprio nella predicazione di un esito destinale si espone a una fragilità molto seria che si potrebbe rapidamente riassumere nell’arco di una considerazione come questa: un’eccezione viene sempre perduta in un ambito in cui tutto fa eccezione. Se davvero essa coincidesse con un ordinamento normale non potremmo evitare una serie come questa: l’eccezione sarebbe norma poiché potrebbe sempre darsi la normalità di una situazione d’eccezione. Ma a quel punto non potremmo parlare d’eccezione poiché il rigore di un certa coerenza alla quale proprio gli oppressi sono naturalmente interessati, preve2. Ivi, p. 44.

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de che l’eccezione sospenda la normatività e che la normatività sia efficace nel principio della sua sospensione. Se normatività ed eccezione convergessero nell’indistinzione si perderebbe in un solo colpo l’una e l’altra con la conseguenza che resta solo una normalità dell’eccezione senza eccezione. In realtà più che smarrire la nozione di normatività si smarrisce la nozione di evento d’eccezione e tutto ciò che in esso da sempre contesta l’arbitrio sovrano. 2. Nel momento in cui Agamben costituisce l’eccezione come l’esito di una sospensione spinge fuori proprio ciò che invece apre e sostiene la possibile sospensione in quanto tale. Non è una sospensione che dà luogo ad un’eccezione, ma è piuttosto un’eccezione che può dar luogo ad una sospensione. In questo viraggio di Agamben ciò che farebbe eccezione, quindi ciò che la filosofia speculativa può nominare come il né dentro né fuori, andrebbe compreso nella tipologia dell’escluso. Quindi il né dentro né fuori sarebbe in qualche modo l’escluso dal dentro come il suo fuori. Ma l’escluso, come sempre correlativo al dentro di cui è fuori, non dice la stessa cosa del né dentro né fuori. Quando la filosofia speculativa spazia l’eccezione come né interno né esterno, né dentro né fuori, deve diffidare della nozione di esclusione, direbbe che con questa nozione si sta per consegnare troppo in fretta la sovranità d’eccezione al dominio sovrano. Non è un caso che Agamben ricerchi un sostegno speculativo in una ri-lettura di memoria schellinghiana della potenza di Aristotele. L’eccezione come sospensione sovrana sarebbe identica alla speciale possibilità inclusa in una reale potenza di non passare all’atto. La sovranità non sarebbe altro che questa potenza di revoca, sarebbe inscritta nella possibilità che una potenza avrebbe di essere e di non essere. L’atto sarebbe sempre dominato dal possibile. Se in Schelling tuttavia questa possibilità del possibile garantisce la sovranità come libertà di

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un evento, per Agamben questa sarebbe il punto di estrema concentrazione della potenza di un dispositivo di dominio. Basta tuttavia un enunciato come il seguente per inquietare queste considerazioni: «La potenza che esiste è precisamente questa potenza che può non passare all’atto […]»3. La filosofia speculativa non può avere mai fretta e non può che esitare sul primo passo: la potenza che esiste. La potenza è potente nel suo esistere, il possibile ha possibilità nel suo essere possibile. La sua esistenza di possibile precede la possibilità del possibile. Deve esistere come possibile perché sia possibile la sua possibilità. Ma questo è un atto, poiché cosa c’è di più attuale di un’esistenza? Così se la revoca è possibile nella possibilità, è possibile nell’esistenza della possibilità quindi è possibile nel suo atto di esistenza. Non è mai la potenza che precede un atto, ma è sempre un atto che precede la potenza. O meglio l’atto è il nome per impedire alla filosofia la tentazione permanente di pensare la potenza di un’apertura come qualcosa che preceda nell’ordine di un più originario. L’atto è il nome attraverso cui la filosofia deve decostruire la sua permanente tentazione di oscillare tra la potenza e l’atto o di rinviare alla loro reciproca determinazione. 3. Ciò che è importante ai fini di un confronto con Agamben però è la seguente considerazione: la sua eccezione sovrana non è altro che arbitrio sovrano. È quel momento in cui un evento d’eccezione si piega nella sovranità di un arbitrio. E mentre un evento d’eccezione contiene sempre la possibilità dell’arbitrio, viceversa la realtà dell’arbitrio non afferma affatto la possibilità dell’eccezione. In un senso l’arbitrio è impotente. Finisce sempre a partire dalla sua impotenza. Dobbiamo dunque avere la forza di distinguere: se il sovrano, come dice Schmitt, è «nello stesso tempo, fuori e dentro 3. Ivi, p. 54.

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l’ordinamento giuridico»4, la sua decisione non può che promuoversi in un bilico estremo in cui, per la stessa possibilità per cui è possibile, lascia convivere una decisione arbitraria e una decisione che dovremmo chiamare assoluta, la quale non è mai reale senza una figura in cui l’arbitrio radicale dev’essere escluso. Nella filosofia politica, troppo spesso, questo enorme tema attraversa indistintamente i due posti vuoti della possibilità sovrana e questo non aiuta a comprendere come possa accadere che l’immagine della sovranità anche quando si manifesta in un arbitrio radicale possa evocare una memoria in cui gli oppressi e gli esclusi hanno un qualche riflesso di gratitudine. Questa distinzione del resto opera nel momento in cui Schmitt coordina nella stessa serie la situazione in cui una norma giuridica può acquisire efficacia e il caso d’eccezione. Il caso d’eccezione non è indipendente dal determinarsi della situazione in cui la norma giuridica assume la figura dell’efficacia. L’eccezione è tale solo nella misura in cui si rivolge verso l’efficacia della norma, “crea la situazione”, scrive Schmitt, per la quale s’inscrive la forza d’efficacia di una normatività, l’orizzonte di stabilità di una norma giuridica. Non si comprende la natura della decisione al di fuori di questo arco di tensione in cui eccezione e figura normativa si tendono l’una verso l’altra a partire dalla situazione creativa. In questo senso, per questa coerenza, la vera efficacia di una normatività non può che coesistere, deve coesistere, con la possibilità della sua sospensione. Con questa precisazione tuttavia: non c’è efficacia di una norma se non a partire da una decisione in una situazione d’eccezione, poiché la decisione fa eccezione solo in vista di una figura, così anche la sospensione di efficacia sempre imminente nel dispositivo di una norma giuridica non 4. C. SCHMITT, Theologie, Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig 1922, tr. it., in Le categorie del politico, Bologna 1988, p. 34.

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può sospendere la situazione in cui è avvenuta l’iscrizione della sua efficacia. In altri termini, quando Schmitt presenta la struttura dell’eccezione esclude la forma dell’arbitrio. Non può esserci sovranità nella decisione d’arbitrio, poiché essa solo per caso potrebbe produrre la situazione creativa e solo in una situazione creativa si promuove un evento d’eccezione nella stessa misura con cui si rende possibile l’efficacia della norma5. Questo dispositivo esclude anche che la situazione dell’evento d’eccezione si possa esprimere come la potenza in vista di un atto o peggio come un momento di fluidità creativa destinata a fissarsi perdendo la sua energia nel dispositivo di legge. Se restiamo coerenti in questi passaggi vorrebbe dire che non vi sarebbe normativa senza efficacia e non vi sarebbe efficacia senza una possibilità in qualche modo consustanziale della sua sospensione. Per Schmitt l’efficacia della norma non è altro che la forma del suo carattere generale, la quale non potrebbe affermarsi nell’arbitrarietà di una situazione caotica. Si potrebbe dire che il caos e l’arbitrio sono due sfere che possono rilanciarsi a vicenda senza poter mai inaugurare la situazione per la quale una norma giuridica possa assumere efficacia nel suo carattere generale. Quando Schmitt scrive che «nessuna norma è applicabile al caos»6 esclude che la decisione possa essere un momento nel quale arbitrio e caos si rapportano l’un l’altro, esclude che l’eccezione sia semplicemente la potenza di una rottura d’arbitrio. Al contrario non c’è decisione d’eccezione se non nella figura di una situazione la cui creatività deve comportare ciò che dovrà sempre sostenere l’efficacia immanente della normatività e cioè l’omogeneità di una situazione media. Tra il caos e la efficacia c’è proprio ciò che Schmitt chiama «situazione media omogenea»7, una sorta di schematismo della normatività in generale 5. Ivi, p. 39. 6. Ibidem. 7. Ivi, p. 40.

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che, proprio come l’immaginazione trascendentale, rende possibile l’efficacia dell’esperienza giuridica. Nella casualità non vi sarebbe eccezione e quindi decisione. Perché la decisione sia sovrana occorre che essa configuri o si configuri come “situazione media omogenea”, la sua eccezionalità non può essere niente di differente da questa situazione. Per questo l’interprete deve prestare tutta l’attenzione che merita a questa straordinaria implicazione tra eccezione e medietà omogenea, dovrebbe coltivare almeno il sospetto che non si comprenderebbe bene l’intuizione di Schmitt sulla figura sovrana passando troppo in fretta su questo punto. Intanto essa consente di affermare che la situazione non è semplicemente la sospensione della norma (come ritiene Agamben) ma è l’ambito di una strutturazione in cui l’eccezione della decisione non è separabile dalla medietà omogenea attraverso cui il caos e l’arbitrio si dispongono, o possono disporsi verso l’efficacia di una norma generale. Senza questa medietà omogenea non vi sarebbe strutturazione e senza tutto questo la sovranità della decisione non potrebbe fare eccezione, cioè non potrebbe compiere alcune cose quasi contemporaneamente: attraversare uno stato di cose contribuendo al suo stesso eccesso, rendendolo eccessivo in tutta la sua coerenza antinormativa, (quindi verso un eccesso in cui non vi sarebbe davvero possibilità d’eccezione dal momento che questo implica lo statuto non eccessivo della normatività) e poi nella figura di una medietà omogenea affermare una normatività nella possibilità dell’eccezione. Occorre affermare tutto questo, occorre rendere conto di questa complessità di figura o come stiamo per dire di immagine per raccogliere davvero la forza di un passo semplice come il seguente: «Non esiste nessuna norma che sia applicabile al caos»8 e più intensamente: occorre creare una situazione normale perché sia possibile l’applicazione di una norma generale. 8. Ivi, p. 39.

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L’eccezione della decisione non è separabile dalla potenza di questa normalità. Senza questa normalità la normatività sarebbe impotente. La normalità non è che un altro nome per l’omogeneità della situazione che si installa nell’eccezione sovrana. Schmitt lascia proprio questo momento decisivo in una strana sospensione e anche questo può spiegare il fatto che troppi interpreti abbiano prestato un’attenzione quasi esclusiva al momento della decisione. Occorre invece chiedersi se non sia necessario vincolare la medietà omogenea al lavoro di una figura d’immagine. Se una figura d’immagine non sia il modo più appropriato di dar conto di questa normalità che anticipa ogni efficacia normativa. Solo una figura d’immagine consente di pensare il lavoro creativo di quella speciale diagonale sul caos che Schmitt chiama medietà omogenea, e poiché non c’è immagine o figura d’immagine senza l’apertura di una certa somiglianza la medietà omogenea non sarebbe che un altro nome per un insieme che si costituisce nell’ordine di una somiglianza. Alla condizione naturalmente di intendere bene la nozione di somiglianza. In questa coerenza un insieme farebbe eccezione in una medietà omogenea che avrebbe nella figura di somiglianza la sua esposizione. La decisione sovrana esporrebbe o si esporrebbe nella lavoro di questa somiglianza in cui si apre ogni efficacia normativa. Dove, così saremmo autorizzati a dire, normatività e possibilità d’eccezione sarebbero simultanei. Dove una non simultaneità d’eccezione e normatività dividerebbe la legge tra un’obbedienza in cui comanderebbe la sua lettera elementare o l’arbitrio senza norma. In fondo, tutto questo, direbbe anche qualcosa di decisivo sulla vigenza efficace di una norma nel momento concreto della sua stessa generalità e quindi nel momento della sua applicazione, quindi nel giudizio che sempre la esegue nel caso particolare. L’efficacia di un norma infatti esiste nel giudizio della sua esposizione concreta. Proprio in questo giudizio si rende più evidente la natura dell’efficacia normativa e la sua simulta-

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neità con l’eccezione sospensiva. Nel giudizio pratico dell’applicazione infatti l’eccezione concorre alla regola in un senso che ha una qualche continuità con la stessa decisione sovrana o almeno consentirebbe agli interpreti di Schmitt di emendarla dalla figura elementare dell’arbitrio ma anche della semplice obbedienza. Il giudizio pratico del diritto trova la sua efficacia, come si sa, non in una semplice applicazione, ma in una configurazione nella quale generalità e caso particolare devono incontrarsi. In questo incontro il giudizio è efficace nella sua discrezione, nel calcolo, così dovremmo dire, della sua figura, nella phronesis della sua figura. Ma non potrebbe esercitarsi il calcolo nel corpo di una figura che applica il diritto senza un rapporto tra una qualche possibilità d’eccezione e la forma della discrezione. La simultaneità come portato di una somiglianza d’eccezione avrebbe molto a che fare con quello spirito della legge di Paolo e si ritroverebbe a ridosso con la nozione teologica della grazia. Per questo diventa fuorviante ridurre la situazione d’eccezione alla semplice sospensione della norma. Una filosofia politica che si limitasse a questo non solo passerebbe a lato del dispositivo schmittiano della sovranità ma si impedirebbe di sollecitare tutto questo verso la possibilità di una critica radicale del potere.

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Fidatezza e fedeltà nella figura sovrana

1. Quando Derrida arriva a sostenere in un ciclo di lezioni che «[…] il criminale e il sovrano sono al di fuori della legge, lontano o al di sopra della legge; il criminale, la bestia e il sovrano si assomigliano stranamente mentre sembrano collocarsi agli antipodi […]»1, attraversa un luogo cruciale che andrebbe però subito sollecitato con alcune domande: il re sovrano, complice in quanto fuori legge del criminale fuori legge, potrebbe esaurirsi pienamente, totalmente, in questa complicità? O l’essere sempre al limite del fuorilegge della figura sovrana ci costringe a domandare se non si debba, per una necessità vitale, saper articolare nel giusto modo l’apertura d’eccezione e l’eccezione sovrana che ne fa figura. Articolazione molto instabile e molte volte indecidibile e tuttavia importante e cardinale per la stessa possibilità di decostruire la figura della sovranità. Potremmo fare memoria, per quanto è possibile, alla figura dei fondatori: essi, come la decisione d’eccezione, vengono sempre dal di fuori. L’epoca di una comunità è sempre aperta in un arrivo dal di fuori, da un sopravvenire che la tradizione di memoria 1. J. DERRIDA, La Bestia e il sovrano, tr. it., G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, p. 38.

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registra sempre, non a caso, nel coniugare l’occasione straniera con una sparizione inspiegabile. Ora, come negare il fatto che il passaggio da questa grazia d’eccezione all’arbitrio eccezionale sia sempre imminente; che un fondatore sia sempre sul punto di installarsi nella regalità di un arbitrio d’eccezione. Vi sarebbe un’immensa documentazione a mostrarlo e tuttavia occorre sempre chiedersi se questa imminenza sia nella forma stessa della decisione d’eccezione oppure se la convergenza di cui parla Derrida tra l’eccezione e la bestia, abbia la stessa legge per la quale l’usurpazione si ritrova a un passo dall’apertura come le mura di cinta sono a un passo dal solco rituale. A un passo, in un tra-passo che impedirebbe tuttavia di pensarli in un unico momento, nel passo di un unico evento. Potremmo chiederci infatti se le mura non siano da sempre la memoria in rovina di uno scarto-spaziatura nel quale sarebbe possibile ritrovare l’eco di un quasi evento (di chóra, si potrebbe dire) nel quale la grazia di un’opera d’eccezione e la grazia gratuita nell’arbitrio si toccano e si dividono, scartandosi l’una nell’altra. Scartandosi a partire da una possibilità che non permette di congiungerle. Per questa strada più prudente, vorrebbe dire interrogare lo etimo di urbs, riprendere dalla radice Vurbs, da cui deriva, i temi del far crescere, elevare, edificare, cercando però di salvaguardarli dalla logica del confine. In altri termini, dovremmo almeno inquietare quell’assioma largamente imperante e diffuso nella filosofia politica per il quale l’insieme sociale, la comunità, quindi il comune spaziato, tra gli uomini consisterebbe sempre nel suo stesso inizio, nel momento in cui fa inizio, nel movimento di un’esclusione, quindi nel lavoro edificante di un confine, nel tracciato di un confine che farebbe inclusione sempre e solo nell’atto di un’esclusione. In una prospettiva per la quale il comune sarebbe segnato ogni volta da una esclusione, dal tracciato di un confine che includerebbe mentre esclude. E vi sarebbe sempre una violenza o ingiustizia originaria che

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coinciderebbe con il grado zero dell’apertura. Vi sarebbe ogni volta un atto di esclusione esterna a partire da un confine, il quale sarebbe già sempre, a sua volta, nel punto di transitare nell’interno del comune diventando un esclusione interna. Così la comunità sarebbe già sempre segnata da uno spazio orientato in un’appropriazione delimitante. Se invece ci lasciassimo coinvolgere dallo etimo di urbs e dagli echi che tramanda di uno scarto tra l’apertura di fondazione e le mura di difesa, vorrebbe dire che dovremmo almeno esitare prima di sovrapporre un evento d’eccezione con le mura di difesa. Significherebbe ricordare la medesima radice del verbo urvare, “tracciare il solco”, per esitare almeno nell’identificare le mura difensive con un evento d’eccezione, con la figura stessa di un tracciato con cui si fa elevazione di una comunità. Vorrebbe dire che il solco di Romolo nel momento del suo tracciato non sarebbe la conferma-risposta di uno spazio tempo già diviso in interno ed esterno, non sarebbe l’atto di confinamento tra interno ed esterno, ma una linea che spazierebbe nei due bordi né un interno né un esterno. Vorrebbe dire che la filosofia politica o la filosofia del diritto non dovrebbe troppo presto sovrapporre il solco e le mura di cinta, il comune di un’apertura che fa eccezione con il dentro e il fuori che si delimitano sempre a partire dal tracciato di mura di difesa. Non si dovrebbe troppo in fretta sovrapporre la violenza con cui nel solco si s-partisce la terra con la violenza con cui se ne fa partizione con le mura di difesa. Forse nell’immagine di una linea che si divide in due bordi si ripete e si eleva ciò che già circola come indivisa e non ripartita condivisione di uno spazio comune. In un’ipotesi un insieme di uomini o di tribù incomincerebbero a ordinarsi nel limite di un confine, sul bordo di lama in cui un nemico è già all’orizzonte, nella lama che piegherebbe l’orizzonte in un interno ed esterno e farebbe correlazione dialettica con l’amicizia di un comune; nel secondo caso, quando

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la comunità torna a sé riflessivamente, autoriflessivamente, in un limite-confine avrebbe già incominciato a perdere ciò che in fondo era sopraggiunto senza attesa, senza chiamata o risposta a un appello, che avrebbe preso a circolare tra tutti e ciascuno come l’invisibilità dell’aria, una fidatezza a sua volta confidente con una ripartizione senza assegnazione definitiva di un comune di tutti e ciascuno. Nancy avrebbe potuto (qualche volta in certi momenti sembra sul punto di farlo) declinare la sua spaziatura come questa fidatezza senza memoria d’origine. In fondo qui si restituirebbe ciò che gli preme più di ogni altra cosa: un insieme che coesiste a partire dalla non attraversabilità di una spaziatura. Si potrebbe dire: la fidatezza, che circola come l’aria, sopporta e supporta, senza subire l’alterità dell’altro, al di fuori dell’amico e del nemico, dove la spaziatura opera non come l’inappropriabile, ma come l’inappropriato, il non proprio, l’improprio. Non a caso i fondatori entrano nella memoria come provenienti dal di fuori, come stranieri, in qualche modo arrivanti che non cessano di venire. Come ospiti, così potremo dire, del loro stesso luogo, a far testimonianza del fatto che il muro difensivo ricopre o si innesta in una ospitalità precedente per cui, in queste ipotesi, che non possono purtroppo affidarsi a nessun rigore, l’apertura di una comunità, il tracciamento del solco rituale, non sarebbe mai esclusivo, come se ogni comunità che fonda una città nella sua insorgenza, nella confidenza fidata in cui circola l’apertura del tutti e di ciascuno, fosse, in un momento, rivolta a ogni altra, in un cosmopolitismo ospitale per il quale il muro di confine che divide e traccia l’esterno e l’interno arriverebbe come per contraccolpo o comunque in un contrattempo. 2. Questo vorrebbe dire che la città sarebbe già sempre fondata, senza fondazione, quando sorgono le mura. Essa sarebbe già sempre aperta in uno spazio pubblico intoccabile quando esse sorgono e queste ultime, non a caso, hanno nella loro me-

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moria più interna una semplice funzione rituale e non difensiva. Come sostiene Rykwert: «[...] il muro sacro non era quello difensivo, bensì quello rituale, segnato dai cippi di confine. Il muro rituale e il corrispondente fossato si trovavano probabilmente a breve distanza dal muro di difesa vero e proprio, posto che la città ne avesse uno»2. Per questo le mura postume di Atene e le mura iniziatiche di Roma non sono così lontane. 3. Ma come pensare con la giusta radicalità la relazione tra la confidenza fidata in cui circolerebbe l’apertura e la figura della regalità senza la quale non vi sarebbe né il solco tracciato e neppure le mura di difesa? Scrive Serres «Il re regna per il fatto di essere escluso, di dare una sospensione alla propria esclusione. Il concetto di re è proprio questa eccezione; il concetto di re è il concetto della propria eccezione»3. Tra il solco che ritualizza l’apertura, che in fondo espone l’eccezione tra il dentro e il fuori, e l’eccezione regale non può che esserci un rapporto diretto. Come se nella regalità di un re si facesse figura, prendesse figura l’apertura eccezionale in cui la comunità ha preso a circolare. Figura d’eccezione in cui si configura l’eccezionalità di un’apertura di tutti e di ciascuno. Figura quindi in cui si configura l’apertura d’eccezione come signoria di un luogo senza luogo. Ma anche, ecco il contraccolpo instabile, la figura del re supporterebbe anche e soprattutto, il transito dal muro rituale al muro di cinta; figura in cui l’eccezione incomincerebbe a regolarsi secondo il lavoro di quell’usurpazione già sempre inscritta nel passaggio dal solco al confine. Il corpo del re allora sarebbe da sempre il documento di due immagini: l’una rimanderebbe alla figura dell’arrivo straniero, l’altra sarebbe il vessillo di una usurpazione che si 2. J. RYKWERT, L’idea di città. Antropologia della forma urbana nel mondo antico, a cura di G. Scattone, Adelphi, Milano 2002, p. 152. 3. M. SERRES, Roma, i libri delle fondazioni, a cura di R. Berardi, Hopeful Monster, Firenze 1991, pp. 161-162.

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afferma e si tramanda. Nella prima sarà sempre possibile una certa memoria di gratitudine degli oppressi, nella seconda si affermano i privilegi dei gruppi dominanti, anche utilizzando gli effetti di quella memoria. Tra il solco che ritualizza l’apertura, che in fondo espone l’eccezione tra il dentro e il fuori, e l’eccezione regale non può dunque che esserci un rapporto complicato e oscillante. Una delle sue più antiche manifestazioni è senz’altro la tensione tra rex e flamen, nell’antica Roma, secondo un’autentica tradizione indoeuropea arcaica. Sempre nell’antica Roma, il pomezio formava la continuità del solco rituale e non casualmente i feziali specialisti del jus fetiale e legati a Jupiter Feretrius esercitavano la funzione di sacralizzare non solo le dichiarazioni di guerra, ma anche i trattati di pace. Come se in quest’ultima funzione la divinità fosse chiamata a nominare il momento più originario del solco e cioè il rapporto tra fidatezza o confidenza o comunità fidata e ospitalità di uno straniero non ancora ospite e tantomeno estraneo. Non dovremmo sorprenderci troppo poiché, in fondo, tutto questo conferma l’intuizione di Fugier secondo cui il sakros dell’esperienza romana antica riceverebbe il suo senso non tanto da una analisi comparata delle radici comuni con l’etrusco, il latino, il greco o il germanico ma da una ripresa della nozione di sancire nel senso di rendere sak- (omologo del greco hag-) che rimanda all’apertura di validità, all’istituzione di un ambito di realtà effettiva, al conferimento ultimo di esistenza. Il solco sacralizza il luogo nella sua apertura di esistenza. Ora, non c’è dubbio che qui la religio sia sempre sul punto di prendere il sopravvento sulla fidatezza, così come la regalità sta già erigendo delle mura sul quel solco, tuttavia è sempre un errore non verificare questo scarto in cui tra l’altro non solo è in gioco una forma di giustizia, ma anche la possibile comprensione di tutto ciò che nella potenza di un popolo, nella sua stessa espansione, nella forza di questa espansione, è spiegabile

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solo sul fondo di una speciale ospitalità. L’uno non può che immaginarsi nell’altro e in questa immagine guadagnare e perdere qualcosa di decisivo. 4. Ciò che circola soprattutto in Occidente nella relazione di questa immagine è il divino o il sacro. L’effigie del sovrano somiglia a dio. Forse non esageriamo, non facciamo troppa enfasi, se diciamo che dal rapporto tra regalità o sovranità e divinità, tra giustizia e diritto, tra legge della legge e legge potrebbe ricavare molto se si insiste con la necessaria tenacia sulla relazione di questa immagine. Se nel corpo di questa immagine di somiglianza si riprendono le forme di questa effigie del sovrano. Il divino o come dice in questo caso troppo in fretta Derrida, il teologico, sarebbe il contrassegno di questa somiglianza. Come un dio, nell’analogia di questo come, il sovrano può slegarsi e assolversi da ogni impegno, «Egli è al di sopra del diritto che ha il diritto di sospendere […] Ha diritto a una certa irresponsabilità»4. In quest’analogia le due immagini concorrenti all’eccezione sovrana entrano in una tensione speciale e il più delle volte, quasi sempre, questa tensione è risolta nella prevalenza dell’una sull’altra, della prevalenza della sospensione d’arbitrio sull’evento d’eccezione. Il contrassegno della somiglianza con dio, nella forma stessa dell’analogia che deve assumere, nella forma stessa di quel come, ha già operato questa sottomissione, ha già perduto o lasciato come lontano riflesso della memoria un’altra somiglianza in cui il divino circola senza analogia, senza rappresentanza o luogotenenza. Non dovremmo cessare di domandare se l’evento d’eccezione, l’evento esposto in un ritiro a ciò che rende possibile, sia sovrapponibile a questa sovranità d’eccezione, a questo potere sovrano che si trasmette in questa effigie di luogotenenza, 4. J. DERRIDA, La bestia e il sovrano, cit., p. 86.

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in questa simiglianza con un dio. Non dovremmo stancarci di chiedere che cosa accade ogni volta, in forme diverse, nella stessa diversità che Derrida suppone nelle forme della sovranità, nel momento in cui il simile lavora come un’immagine a due facce, come un’immagine di cui la simiglianza traccia un interfaccia al divino e all’umano, a ciò che ogni sovranità deve richiamare di sacro nell’esercizio della sua stessa autonomia dal divino e che cosa il divino deve richiamare dell’umano nel momento in cui si pone come una suprema alleanza. In altre parole, come in quel lavoro di somiglianza divino e umano si raccordano e ricevono qualcosa di nuovo, perdendo e guadagnando qualcosa, esibendo e sottraendo qualcosa. 5. La filosofia politica dovrebbe saperne almeno quanto la filosofia speculativa che la somiglianza (quando declina verso il simile) funziona nel suo principio se è capace di nascondere, in vario modo, la sua strana perfidia. Il simile lavora nell’ambiguità del rinvio, ma soprattutto è ciò che rende sopportabile e sostenibile l’inconsistenza di ciò a cui rinvia. Il comune per cui si dice la somiglianza, la somiglianza tra due cose simili, traccia un confine a partire da un’essenziale instabilità. Per principio, per un particolare principio di inconsistenza, il comune tra simili può crescere o decrescere: c’è l’arbitrio di una sovranità nel delimitare una somiglianza tra simili. Sopportare ciò che si perde ed esibire ciò che sembra un guadagno fa parte da sempre del principio di regalità. Forse dobbiamo sapere leggere un qualche rapporto tra la somiglianza con cui la regalità esibisce la sua origine divina e la delimitazione di somiglianza con cui si assumono obblighi verso i propri simili, e distanze verso i dissimili. Come se da un certo momento in poi la sovranità nella sua somiglianza, nell’effigie con cui si presenta somigliante regolasse la prossimità di una somiglianza verso cui ci si obbliga fondando un diritto, un’etica e una politica. La legge morale per la quale saremmo obbligati verso i nostri

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simili, verso chi è prossimo nella somiglianza allora avrebbe la sua regola e la sua forza nella divinità con cui una potenza regale genera la propria immagine. In questo caso la celebre formula per la quale il sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione diventa: il sovrano o la sovranità è ciò che nello stato d’eccezione divide i simili dai dissimili, eccede i dissimili dai simili. Poiché come si diceva il comune tra i simili è senza misura, senza consistenza misurabile, si declina facilmente con il senza misura di un eccesso e per questo la sovranità può assumere il senza misura dell’altezza, può diventare la figura che supera ogni limite determinabile, può apparire infinitamente grande e infinitamente piccolo. La sovranità è il teatro di una similitudine per la quale si stabilisce un rapporto di giudizio che Deleuze potrebbe assimilare alla potenza concettuale della differenza specifica. La differenza specifica del mondo aristotelico, per Deleuze, infatti è un modo eminente di fissare il giusto medio-mezzo tra un massimo e un minimo. Essa sarà sempre troppo piccola in rapporto al genere e troppo grande rispetto all’unità numerica della sostanza. «La differenza specifica – scrive – non designa se non un massimo molto relativo, un punto di compromesso per l’occhio greco e più che mai per lo sguardo greco del giusto messo, che ha perduto il senso dei trasporti dionisiaci e delle metamorfosi»5. 6. Potremmo dire che il principio di sovranità non sia altro che nell’affermazione-imposizione di questo giusto mezzo. La potenza di questo giudizio e la sua forza consisterebbe non tanto nel subordinare le differenze alla totalità, ma soprattutto nel generare i legami di simiglianza mediante i quali una totalità può non apparire come un’imposizione. Dove si può tenere celato non solo l’impossibile determinazione del simile, ma anche ciò che nel simile è venuto meno. La sovranità dunque sarebbe ciò che impone una somiglian5. J. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 48.

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za sulle differenze e poiché il simile di una somiglianza è per principio negoziabile indefinitamente esso può coprire molto naturalmente le pratiche di un particolare arbitrio. Certo i simili si definiscono nel confine con il dissimile così come la comunità degli affini nel confine dei propri nemici, ma il confine sarà sempre modificabile come la natura del simile, quindi i nemici potranno sempre variare di numero e di specie e gli amici potranno divenire nemici e i nemici amici. Nella logica del simile s’impianta tutta un’economia di alleanze, di fedeltà, di promesse. Alleanze che possono sempre mutare, fedeltà insicure e promesse giurate in segreto testimoniale inaccessibile. 7. La familiarità del simile è tuttavia sempre successiva alla perdita di una fidatezza. Tra l’un momento e l’altro c’è forse l’interfaccia di un’immagine che richiederebbe una doppia logica della decisione sovrana. La partizione nel simile, l’affermazione della sua economia, in qualche modo succede in una reazione, in un contraccolpo al venire meno di una confidenza fidata. Quando la fidatezza incomincia ad apparire come un pericolo, quando diventa insostenibile nella sua spaziatura aperta il simile sembra garantire dal pericolo di una sovranità senza confini. Nella fidatezza si sopporta infatti il rischio della non determinazione, si co-esiste nell’accettazione dell’impossibile determinazione della nettezza e certezza di un confine. Si coesiste con l’accettazione del rischio abissale che proviene da ciò che i filosofi del linguaggio chiamerebbero imponderazione del principio di referenza. Per approssimarsi per quanto è possibile a ciò che qui si deve intendere per fidatezza occorrerebbe lasciarsi travolgere dal suo opposto e cioè dal principio o pulsione verso il massimo dell’esattezza e riferirlo alla circolazione del senso. Si dovrebbe insistere cioè su ciò che accade alla natura stessa delle parole e delle cose nel momento in cui si chiede conto con un rilancio regolato dal principio di esattezza di ciò che si dice. Indicare un tavolo a qualcuno che chiedesse conto, in un rilan-

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cio continuo, di ciò che si dice, preso dalla lettera del gesto, diventerebbe un’opera impossibile: quel tavolo confidato in una normale fidatezza può diventare nell’idea regolativa del principio d’esattezza, il punto esatto indicato dal gesto che indica, la superficie o la qualità cromatica, lo stesso gesto indicante, in un processo senza fine che compromette l’orientamento sul nome e sulla cosa, sulla relazione nome-cosa. Il campo della fidatezza si costituisce nel momento in cui ci si orienta a partire da una sapiente sottrazione di tutto ciò che non trova consenso nella circolazione del senso e nell’accettazione di un ambito senza confini, in cui si apre una spaziatura nella quale il consenso dell’altro è sempre in gioco e rende la decisione sempre reversibile, mai definitivamente decisa. E tuttavia decisione sovrana, seppure nella linea di forza e di apertura di un’intesa condivisa e confidata. La fedeltà reagisce invece al pericolo della fidatezza. Forse essa circoscrive quel Mit-sein nel quale l’impegno di un giuramento o di una fede giurata non ha ancora curvato l’orizzonte verso la presenza assenza di un terzo irriducibile. Una condivisione fidata nella quale non si rende necessario un indirizzarsi verso una prova testimoniale, verso un terzo chiamato in causa e chiamante in causa in un principio di responsabilità. Come se in una certa lezione di Derrida, potessimo dire: la fidatezza come la chóra nominerebbe un’apertura né in eccesso né in difetto non ancora piegata verso la fedeltà, in cui si sopporta e si sostiene in una speciale figura un’apertura di tutti e di ciascuno. 8. Per questo l’evento d’eccezione nella sua apertura non va confuso con la memoria dei fondatori. La memoria dei fondatori è sempre l’elaborazione di un’origine, è sempre il compito di una fondazione. Quando essa circola l’evento d’apertura ha già cessato di fare orizzonte né presente né assente. Quando una città elabora la memoria della morte di un fondatore e il

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suo spettro-fantasma incomincia ad aggirarsi fra le sue mura un fondamento sta già edificando la genealogia di un regno. Un padre fondatore perduto, vissuto nel fantasma di un’assenza spettrale non rimanda affatto al luogo mancante dell’apertura sovrana. Per questo il revenant spettrale non può mai essere capace di inquietare davvero l’usurpazione del potere. Ciò che ritorna è certo lo spettro-fantasma di un’assenza, ma lo spettro-fantasma di un’assenza non può dire nulla dell’origine ritratta. Anzi esso è una delle figure in cui l’esperienza (e la stessa filosofia) elabora il suo ritardo o il suo anticipo rispetto ad un mancare al di fuori di un venir meno o di una spettralepresenza-assenza. Lo spettro-fantasma che arriva non è altro che il sintomo di un’apertura sovrana perduta. Per questo occorre distinguere tra straniero e spettrale per quanto riguarda i fondatori. Affermare che il Signore dei luoghi non è di questi luoghi esclude che esso possa tramandarsi nella spettralità di un fantasma. Lo spettro di un re non è mai l’indice di uno spazio lasciato vuoto, anzi è la prova testimoniale di uno spazio segnato dall’occupazione di una sovranità capace di tramandarsi nella continuità di un regno. Ancora una volta occorre ripetere che uno spazio di nessuno, di tutti e di ciascuno, non è un luogo originario che sarebbe stato usurpato, un’origine prima che un ospite nella sua estraneità straniante ricorderebbe a chi lo riceve, ma si afferma sempre nell’esposizione di una certa figura.

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La configurazione dell’eccezione

1. L’immagine a due facce in cui una simiglianza può reagire in una somiglianza (da sempre incisa in vario modo nella realtà del corpo sovrano) è attraversata dalla medesima linea di confine che Benjamin ha tracciato tra la violenza fondatrice, violenza che fa fondazione, e la violenza conservatrice che assicura la permanenza e l’applicabilità del diritto. Da sempre la filosofia politica deve pensare la natura e la logica di questa distinzione. Deve domandarsi se la legge di un’eterogeneità così radicale non rinunci a pensare un’altra possibile figura di questo scarto tra le due violenze. Un’altra figura tra una pura violenza, senza figura di diritto e una figura di diritto che avrebbe già chiuso ogni apertura. In questo ultimo caso l’istanza del non diritto che troviamo ogni volta come momento di sospensione del diritto, quindi l’istanza di un evento d’eccezione, non sarebbe semplicemente la notte di un arbitrio incalcolabile o la notte di una cieca decisione. Non si potrebbe dire, in altri termini, che l’evento d’eccezione resti sospeso nel vuoto, nel centro di un’abissalità in cui potrebbe non rendere conto a nessuno. Come se l’istanza di fondazione fosse nella sospensione che si inaugurerebbe nella convergenza di una decisione sovrana con un puro atto

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performativo. In una posizione come questa, lo si è già detto in altri momenti, l’istanza di sospensione del diritto abbraccia, nello stesso genere, la violenza di fondazione con la violenza d’arbitrio. Mentre si dovrebbe con pazienza, ogni volta, riconoscere l’inquieta differenza che scarta l’uno dall’altro. Nessun arbitrio potrebbe configurare un evento d’eccezione, se non altro perché non c’è evento d’eccezione al di fuori di una configurazione, nell’immagine (di somiglianza) di una configurazione, mentre l’arbitrio gioca per sua natura laddove l’immagine perde la somiglianza. Per questo nella logica di questo discernimento, un discernimento a cui gli ingiustamente esclusi devono tenere più di ogni altra cosa, non si può dire troppo in fretta che la violenza di fondazione e la posizione del diritto debba implicare la violenza della conservazione del diritto. Almeno se non ci si cura di insistere nelle difficoltà di un’importante precisazione: si potrà e si dovrà dire che una violenza di fondazione implica la posizione di un diritto e pertanto la sua conservazione. Il diritto, la cui posizione è però implicata, il diritto di cui si può sostenere la violenza di conservazione è iscritto e fa corpo nell’esposizione stessa della sovranità della configurazione d’eccezione in cui si rende possibile la stessa istanza di fondazione. Questo diritto inscritto nell’istanza di fondazione tuttavia fa resistenza e non può essere assimilato alla figura che il diritto assume nel momento in cui autorappresenta la forza di una speciale appropriazione, cioè la forza d’imposizione di un’esclusione ingiusta. 2. Il passaggio dalla grazia d’eccezione all’arbitrio eccezionale è sempre imminente, transita come abbiamo visto nella stessa apertura di somiglianza, nella somiglianza che diventa simiglianza. È imminente tuttavia non perché la sovranità farebbe convergere Dio e la bestia, ma perché l’usurpazione si ritrova ad un passo dall’apertura così come le mura di cinta sono a un passo dal solco rituale.

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Così il re da figura dell’eccezione diventa discrezione dell’eccezione, coniugazione di eccezione e arbitrio, tentativo di fare dell’arbitrio la figura dell’eccezione. Un po’ paradossalmente potremmo dire che questa usurpazione dell’eccezione, quasi sempre ricoperta nella forma di una divinizzazione dell’autoinvestitura, va verso la fine e il declino per mancanza di potere. Come se potessimo dire in questo modo: la grazia senza potere di grazia, senza l’eccezione di grazia è sempre nel dominio dell’arbitrio. In questo arbitrio la sovranità si assolutizza in una pratica che non dovremmo confondere con la stessa decisione sovrana. Una cosa è l’autoassoluzione sovrana che impone la pienezza sacra della sua inviolabilità, altra cosa è l’indisponibile apertura la cui eccezione è intoccabile nel suo assoluto ritiro. Questa frontiera è sottile come una lama, ma lederne la consistenza significherebbe sottrarre la giustizia a ogni possibile figura di giustizia. Il potere che, in un qualche momento, diventa arbitrio o cade nel dominio, manca come di un supplemento di grazia. Questo mancare di supplemento non consente la decisione sovrana. Come se il potere già sovrannaturale richiamasse un ulteriore livello di sovrannaturalità per non far prevalere la legge di natura. 3. Dovremmo chiederci se l’alternativa che troviamo in Derrida tra una sovranità indivisibile e una non sovranità indivisibile1, chiuda troppo rapidamente la scena, abbandonandoci a queste conseguenze: non c’è sovranità che non sia indivisibile, non c’è principio di eccezione che non si converta totalmente con un principio di sovranità, pertanto, ecco una prima conclusione densa di nubi molto scure: ciò che eccedendo l’ambito che rende possibile si afferma come indivisibile. Con la conseguenza che ciò che fa apertura avrebbe lo stesso nome di 1. J. DERRIDA, La bestia e il sovrano, cit., p. 375.

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ciò che fa chiusura o usurpazione. Pensare in altro modo la sovranità vorrebbe dire forzare questa serie, soprattutto nella sua chiave di volta: la sovranità indivisibile e l’eccezione sovrana. Vorrebbe dire divaricare l’eccezione sovrana dalla sovranità indivisibile. L’una sarebbe il nome o la figura di ciò che facendo eccezione converge con l’apertura, la seconda sarebbe il nome di una sovranità che si autoassolve dalla stessa eccezione, che si eccezionalizza dall’eccezione, che si autoinveste dell’eccezione e a quel punto appare e agisce come sovranità indivisibile. A questo punto l’alternativa non sarebbe più tra sovranità indivisibile e sovranità non divisibile, ma tra sovranità divisibile nella sua figura d’eccezione, sovranità indivisibile e non sovranità indivisibile. 4. C’è una importante eredità di Benjamin dalla quale ancora oggi (o forse soprattutto oggi) non possiamo prescindere. Essa chiama materialismo storico l’attitudine o l’habitus che la filosofia potrebbe acquisire quando diventa capace di guardare verso una totalità non pacificata, aperta in differenze non equivalenti, in cui il portatore dell’universale si inscrive nella speciale particolarità di una differenza, mentre la teologia offrirebbe a tutto questo il nesso tra profezia e miracolo, porterebbe in dote la sapienza escatologica. Il materialismo storico avrebbe la forza e la passione per rilevare l’inconsistenza ontologica in una totalità incrinata dall’ingiustizia, la teologia offrirebbe invece la potenza del cambiamento o della conversione inscritta nell’evento speciale della giustizia. Per Benjamin il materialismo storico consegna anche la capacità di assumere tutto ciò che nel passato continua a premere verso l’ascolto del presente, mentre la teologia offrirebbe quell’indice segreto attraverso il quale esso può riferirsi alla redenzione. Il materialismo storico dunque occuperebbe e sarebbe in vario modo articolazione o espressione dell’inconsistenza ontologi-

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ca di un orizzonte, saprebbe coglierlo nell’ora presente e negli echi che non cesserebbero di provenire dalla memoria del tempo, il presente si piegherebbe verso il passato e il passato verso il presente. Tutto questo però non precipiterebbe in un taglio sincronico del tempo dello Historismus se non si coniugasse con ciò Benjamin chiama “konstruktive Prinzip”. Se non chiamasse in causa il lavoro di una costruzione inedita a partire dalla soglia d’uguaglianza in cui i momenti si richiamano l’uno con l’altro. La costruzione non opera con il dispotismo di un apriorismo trascendentale, ma neppure con la pura obbedienza al limite di una rammemorazione. Senza la costruzione il materiale del presente non taglierebbe sincronicamente il tempo per costituirsi come Erfahrung, ma a sua volta non potrebbe esserci costruzione se i materiali non offrissero l’occasione del lavoro costruttivo. Come si sa, è in questa complessa correlazione che il materialista storico riconosce e insieme attiva il segno di un arresto messianico dell’accadere e l’apertura di una chance rivoluzionaria. Questo tra-passo che irrompe nell’ordine di una configurazione comporta una doppia implicazione: la giustizia come evento messianico si configura, in questa configurazione, nella figura di questa messa in opera, si promuove una speciale potenza senza la quale il corso ordinario delle cose resta immutato. Come se potessimo dire in questo modo: la giustizia richiede un evento d’eccezione, il quale consegue la giustizia come potenza d’apertura, solo nell’ordine di somiglianza di una speciale figura. Questo sopravvenire eccezionale impedisce di pensare la giustizia come un semplice ideale della ragione. Come se l’idealità di una ragione non potesse che vincolarsi ogni volta alla natura di una ragione per cercare di opporsi alla semplice effettualità, una ragione naturale sarebbe, però, sempre troppo simile alla effettività che si intenderebbe superare perché possa appunto

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garantire l’inversione o la sovversione che la giustizia reclama. Per sollevarsi dal peso dell’effettività, non casualmente, l’idealità cerca di assumere in alcune esperienze neokantiane la forza del futuro. Come se il futuro potesse fare da punto o soglia di Archimede alla ragione per sollevarsi fuori e oltre la propria natura. Se c’è una eredità che dobbiamo continuare a coltivare ancora oggi sulla frontiera mobile del nuovo pensiero di Rosenzweig e dell’arresto messianico di Benjamin, riguarda proprio l’idea d’eccezione o di sovranatura o di miracolo senza cui la stessa decisione morale sarebbe abbandonata all’ideale regolativo astratto di una pura ragione e, in questa ingenuità, consegnato all’impotenza pratica. Proprio il teologico consegnerebbe alla filosofia i nomi per gli eventi d’eccezione in cui la giustizia è possibile. Da questa tradizione ricaviamo l’idea che vi sia un territorio immenso tra la giustizia come piena disponibilità di una ragione naturale e la giustizia come l’indisponibile per eccellenza o come semplice ideale. Per questo è importante indagare, a partire dalle questioni che lo stesso Benjamin lascia solo nella forza di suggestioni troppo rarefatte, quel momento della tradizione teologico filosofico in cui la giustizia si trova (per certi versi in una analogia architettura al poetico di Benjamin) nel confine di risonanza tra virtù cardinali e virtù teologali. 5. Recentemente è stato Badiou a sollecitare sul tema della verità (in un angolo del suo saggio si nomina la giustizia), ma attraverso le lettere di Paolo. Una venuta non farebbe evento, non configurerebbe la potenza di inizio, non sarebbe interruzione della legge, se si limitasse a rinviare a una figura dell’altro. Se alterasse la venuta nelle formule del miracolo, della profezia o nella prova di rassicurazione del sapere. La venuta porta con sé l’inizio con il quale e per il quale ci si costituisce come figli. Badiou cerca di dire,

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rileggendo e richiamando gli enunciati di Paolo più che il testo dei vangeli, un’insorgenza rivoluzionaria che potremmo vedere all’opera, in quest’opera della grazia, con cui si diverrebbe figli nell’evento di un inizio che sopraggiunge ogni volta alle forme consolidate dei poteri dominanti. Un’insorgenza rivoluzionaria che farebbe tutt’uno con la costituzione pratica di una nuova via soggettiva per cui nell’azione della grazia si diventerebbe fedeli all’evento di un inizio per il quale tutte le opposizioni tra mondo greco e mondo ebraico e più in generale tutte le differenze etniche perderebbero di significato e consistenza. Un’insorgenza per la quale si afferma un’universalità capace di dissolvere le forze delle genealogie, delle origini, dei territori, del particolarismo predicativo dei soggetti culturali. Il tema è quello del sopravvenire di un’apertura nella quale l’insorgenza di un inizio si configura in ciò che noi continuiamo a evocare nella possibile convergenza di esposizione e di ritiro. Nelle lettere di Paolo, secondo Badiou, questa figura è quella di un ritiro del padre nel figlio. Di un figlio che non fa più rinvio al padre2. Gli eventi d’eccezione non sono mai tali se non ripetono in qualche modo questo ritiro. Non c’è mai giustizia nel mondo, così potremmo dire, se non ci si configura nell’immagine di questo ritiro, se non ci si incorpora in questa immagine di ritiro. Queste considerazioni ci raggiungono nel momento in cui un certo umanesimo, anche in alcune forme antiumaniste, è esausto e non è capace di dire granché (anche quando parla continuamente nel nome dei diritti dell’uomo) e in un momento in cui la leggerezza post moderna e il suo pigro relativismo appare sempre più una deteriore forma ideologica. Anche da Alain Badiou apprendiamo ciò che potremmo chiamare un pensiero 2. Tutti questi riferimenti sono al volume di A. BADIOU, già citato, San Paolo. Fondazione dell’universalismo.

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del colpo riuscito, dopo che per troppo tempo la filosofia ha preso possesso di un dominio vastissimo con l’alibi del colpo mancato, con il quale, tra l’altro, ha saputo, in vario modo, celare la sua borghese pigrizia accademica. Eventi di colpi riusciti, eventi d’eccezione, li troviamo nelle figure del politico, dell’arte, della scienza, dell’amore. Ogni volta che si producono, il soggetto cambia natura e si ritrova nella possibilità di un inizio o di un nuovo inizio.

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La giustizia tra virtù cardinali e virtù teologali

1. Bisognerebbe sollecitare o farsi sollecitare da quei momenti nei quali, nella tradizione giudaico-cristiana, la giustizia pur essendo collocata nella serie delle virtù cardinali (prudenza, fortezza, temperanza, giustizia) appare contrassegnata da un limite d’eccedenza, quasi come un tra-mite, per il quale le stesse virtù teologali possono, a loro volta, sopraggiungere come una seconda natura o un vero e proprio mutamento di natura. Essa non accadrebbe, non sarebbe davvero in opera, non opererebbe come giustizia senza il sopraggiungere di un abito speciale, senza una nuova potenza dell’azione, nel soccorso o nella grazia d’eccezione delle virtù teologali. Questo ambito di eccedenza, o di tra-mite, che colloca la giustizia all’estremità delle virtù cardinali, non lo capiremmo in nessun modo se non sapessimo valutare il fatto che, come spiega Tommaso nella Summa Theologica, la giustizia esige, essenzialmente, un riferimento ad altri, fa azione a partire da un riferimento agli altri nel loro insieme. Questo riferimento ad altri è tanto significativo che solo in senso improprio o traslato, pericolosamente traslato, essa, la giustizia, potrebbe riferirsi alle cose. O almeno alle cose che non siano in riferimento agli uomini, agli uomini come i nostri altri.

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Non potremmo parlare cioè di ordine giusto delle cose, di cose giuste, a meno che questo riferimento non implichi un coinvolgimento dell’alterità degli altri. Non potremmo dire neppure, nel rigore di Tommaso, di essere giusti con noi stessi. 2. In questa tradizione, questo rapporto con gli altri, tuttavia, non potrebbe configurare una relazione di giustizia se non coinvolgesse una certa uguaglianza. Non vi sarebbe giustizia, non potremmo né comprendere né tantomeno praticare la giustizia al di fuori di un riferimento ad altri, di un’imminenza degli altri nel rapporto con qualcuno, ma non vi sarebbe giusto riferimento ad altri se non mediante una relazione d’uguaglianza. Per essere giusti occorre essere in una relazione d’uguaglianza (per Tommaso, non c’è vera giustizia del padre verso il figlio o del padrone verso lo schiavo). Come se l’asimmetria della relazione potesse compromettere, intaccare, l’abito virtuoso del giusto. Non si è mai giusti se non si è in un certo modo uguali. L’uguaglianza di cui qui si parla non andrebbe registrata però con troppa fretta, soprattutto quando assume questa ulteriore precisazione: nella relazione d’uguaglianza, per la quale la giustizia è possibile, ciascuno deve ricevere il proprio. Ciascuno deve ricevere ciò che gli è dovuto. Faremmo un errore e compiremmo un grave fraintendimento se richiamassimo da subito una relazione di economia, uno scambio di equivalenti, la logica di una rettifica e di un aggiustamento; il proprio o il dovuto che ciascuno deve ricevere, perché la relazione sia giusta nell’uguaglianza, allude a qualcosa di molto più serio e decisivo di una proprietà. 3. Poiché il proprio delle virtù cardinali è la giustizia, dovremmo dire che nella relazione d’uguaglianza in cui si offre a ciascuno quanto gli è dovuto deve trasformarsi in questo modo: si offre a ciascuno la disposizione del giusto, la disposizione ad essere giusti. L’offerta di questa disposizione, la disposizione ad essere giusti mediante l’uguaglianza, per la quale a ciascuno

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si dà il proprio, resterebbe per Tommaso un pensiero astratto, forse potremo dire una velleità, un puro Verstand, se non fosse in una vera e propria correlazione con una certa capacità di calcolo, di ponderazione, di equilibrio, di bilanciamento di parti, di misura. Se l’uguaglianza cioè non fosse attraversata, quasi diagonalmente, dalla formula espositiva di un ordinamento con queste attitudini; se non fosse disposto nella correlazione di una figura che espone, così forse dovremmo dire, la funzione di una configurazione per la quale la disposizione verso gli altri trova la forza di un certo dovere. Come se dovessimo dire in questo modo: il dovere di dare a ciascuno il proprio secondo la relazione d’uguaglianza non troverebbe la responsabilità e la sua chiamata al dovere senza l’adesione a questa configurazione del tutto e delle parti in una certa configurazione. In questo senso, non c’è nessuna disposizione naturale verso la giustizia, nessun dovere che provenga da una qualche idea della ragione o da una qualche asimmetria con l’alterità dell’altro da cui proverrebbe un comandamento o un appello, un appello che non avremmo fatto mai a tempo ad ascoltare, già sempre prima del nostro ascolto. In questa tradizione apprendiamo a pensare la disposizione verso la giustizia nell’implicazione di un abito, il quale, a sua volta, sarebbe incomprensibile, non sarebbe comprensibile, nella sua stessa capacità di disporre o di esporre all’altro, alla sua uguaglianza, al proprio della sua uguaglianza senza la forza di un dovere che proviene dalla correlazione ad configurazione. Da una figura la cui configurazione non sarebbe tale se non fosse la conseguenza di un certo giudizio, da un giudizio che insieme proviene e insieme concorre a questa configurazione del tutto e delle parti in cui la giustizia deve esprimersi nel nostro rapporto con gli altri. 4. Sarebbe però sbagliato ricorrere all’immagine del tutto e delle parti tipica di un organismo per dare conto di questa ponderazione di giudizio mediante cui, in questa tradizione,

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si suddivide il tutto del comune. Il tutto non è certo la somma delle parti, precede le parti che lo costituiscono e tuttavia la relazione tra le parti e il tutto o il tra il tutto e le parti è differente e irriducibile alla relazione di differenza tra il tutto e le parti. Come se dovessimo dire in questo modo: il tutto è in relazione alle parti e le parti sono in relazione al tutto per una relazione di cui il tutto e le parti non sono affatto momenti costitutivi o costituenti. Forse si può rispondere alla questione difficile di cosa sia il tutto delle parti in Tommaso commentando un’affermazione di Aristotele che sembra condivisa dall’Aquinate secondo la quale “non è identica, assolutamente parlando la virtù dell’uomo onesto e dell’onesto cittadino”. C’è un salto e un dislivello tra le virtù private e le virtù pubbliche. Infatti alla domanda se le virtù particolari si identifichino con la giustizia come virtù generale, la risposta di Tommaso è negativa: la virtù della giustizia non è un genere che abbracci tutte le virtù particolari. Le virtù della fortezza e della temperanza restano specifiche e distinte dalla virtù della giustizia anche se quest’ultima può ordinarle tutte a un bene superiore. In altri termini trascendere i beni della singola persona non è facile e non è scontato, non può essere affidato all’esercizio della virtù private. Ecco perché il rapporto tra parti e tutto solo in apparenza è considerabile in analogia all’immagine di un organismo. Le parti rinviano al tutto non in quanto parti del tutto, ma in quanto totalizzate da una certa forza causale del tutto in quanto tale, come se tra le parti e il tutto vi fosse la giustizia stessa come modalità di una totalizzazione. In questo senso, virtuoso non è colui che compie e realizza la natura di ciò che è giusto, obbedendo al richiamo interno del tutto e delle parti, ma è colui il quale compie un atto che si attiva a partire dalla relazione di cui il tutto e le parti non sono affatto momenti costitutivi. Non sono davvero opere di giustizia quelle che non sono accompagnate da un atto virtuoso.

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Come dire: la sequela di un’interna disposizione al giusto, quindi l’obbedienza ad una qualche idea di giustizia, non sarebbe sufficiente a realizzare un’opera di giustizia. Rendere possibile questa relazione non necessaria rende l’atto virtuoso. Il tutto va dunque disposto in un certo ordine comune ma, poiché esso coinvolge l’eguaglianza mediante cui gli uomini sono in relazione, quest’ordinamento diventa giusto solo per un atto di volontà giusta. La stessa giusta volontà d’altra parte non riceverebbe la forza con cui può essere giustamente indirizzata se non subisse la forza di una certa immagine. Dovremmo dire: senza la somiglianza con cui una certa immagine può fare opera o farsi opera. Non è sufficiente l’idea di giustizia per ordinare una volontà giusta, occorre che essa sia nella conformità reale di una particolare immagine o nell’immagine reale di una particolare conformità perché il volere sia giustamente orientato. La giustizia in fondo è una virtù proprio perché non c’è nessuna naturale corrispondenza o diretta proporzione tra la volontà stessa e il bene comune. Per certi versi non è naturale fare del bene a qualcuno, del resto non sarebbe un bene se fosse naturalmente disposto come tale. Il bene come la giustizia è nel sopravvenire in una certa forza di eccezione. 5. Tra le virtù cardinali la giustizia è quella che ha rilevanza ontologica e per questo è a ridosso, eccedente, verso le virtù teologali. Vi si rapporta, badiamo bene, per il suo rilievo ontologico, per quell’attitudine a dare a ciascuno ciò che gli è dovuto piuttosto che per un gesto gratuito di liberalità. Controintuivamente rispetto alle contemporanee discussioni sul principio del dono, la virtù della giustizia si dispone verso le virtù teologali per una speciale capacità di attivarsi in un giusto ordine o calcolo piuttosto che per l’espressione di una gratuita liberalità. Proprio perché la giustizia, tra le virtù cardinali è la più prossima alle virtù teologali, essa ha il vantaggio di esibire il fatto

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che le virtù cardinali non si realizzano mai pienamente senza il sopravvenire di un evento d’eccezione. In questa tradizione l’ultima della virtù teologali, cioè la caritas, va considerata la meno naturale delle virtù; non a caso essa comunica alla stessa opera di giustizia una singolare forma di evento d’eccezione. Come se fossimo richiamati a dire in questo modo: la relazione che apre la convivenza è tale solo nella misura in cui è giusta, cioè sostenuta dalla virtù della giustizia, tanto più essa è aperta come condizione del tutto e di ciascuno tanto più deve sopraggiungere una forza d’eccezione in cui si piegano in un certo modo le tendenze naturali che altrimenti perderebbero qualcosa di essenziale dell’essere in comune. Almeno per tutto questo dovremmo comprendere le virtù teologali come le disposizioni o gli abiti per eventi d’eccezione. E poiché per evento d’eccezione intendiamo tutto ciò che dopo Heidegger ereditiamo nella nozione di Aperto, dovremmo dire che solo una differenza ontologica che si dispone nell’arco di tensione delle virtù teologali sopraggiungerebbe come l’esposizione di un certo ritiro. Non vi sarebbe insorgenza comune, non vi sarebbe apertura-spaziante di comunità al suo inizio ma anche nel persistere nel suo inizio se un’eccezione kairologica non si implicasse in questi abiti o disposizioni che la tradizione teologica dimostra come le virtù divine per eccellenza. Questa insorgenza sorpassa sempre la natura ordinaria, la sua inerzia e la sua fatalità. Le virtù cardinali non sarebbero mai sufficienti a sostenere un passaggio che riguarda l’orizzonte comune. I momenti di catastrofe o di spaziatura radicale in cui si inaugurano i trapassi epocali non potrebbero dispiegarsi senza il sopraggiungere di disposizioni più prossime alle virtù teologali che alle virtù cardinali. 6. La virtù intellettuale della sapienza, ad esempio, l’attitudine del sapere a familiarizzare con l’economia dei principi non potrebbe, in alcun modo, fare azione nel punto centrale di una ca-

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tastrofe o di un trapasso epocale, nella quale, nel suo momento d’insorgenza tutto è nello stesso tempo instabile e immobile come il nucleo di un ciclone. Questi momenti hanno sempre la potenza di un ciclone e la virtù naturale della sapienza non potrebbe trovare nessun punto d’oriente tra una instabilità senza fondo e una stabilità che consuma ogni fondamento, tra ciò che si consuma e ciò che si espone. Il kairos di un evento d’eccezione ha poco a che fare con la filosofia. Se l’antica nozione di abito si distingue secondo la differenza formale del suo oggetto, qui l’orizzonte saturerebbe ogni forma di sapienza naturale. Il punto di insorgenza di un passaggio epocale è sempre invisibile. Come se ogni rivoluzione debba comprendere un punto cieco, la cui visibilità è semplicemente l’effetto del venir meno di un certo ritiro. Per questo l’abito di questa invisibilità apprende qualcosa di decisivo dalla fede. Più prossimo alla fede che al sapere. Nessuna speranza, inoltre, sarebbe possibile senza una fede, e non c’è trapasso epocale se non nell’energia di movimento generata dalla speranza. La fede è come lo sguardo interno o immanente della speranza. La tradizione teologica insegna, però, che solo in un evento di grazia la fede è possibile. Pertanto in questa analogia dovremmo dire che l’orizzonte d’insorgenza deve coincidere con un gesto di grazia. Il venir meno della natura precedente e il nuovo abito di fede non sarebbe possibile senza il lavoro di una speciale gratuità. Per questo occorre sempre evocare uno stato di grazia per comprendere, in qualche modo, lo stesso evento d’eccezione. La difficile nozione di grazia elabora in questa tradizione la potenza necessaria perché l’insieme delle virtù possano realizzarsi pienamente. Data la natura delle cose niente è meno naturale che compiere un’opera di bene. Questa nuova potenza per la quale la giustizia può compiersi come caritas ha, per così dire, ciò che Benjamin chiamerebbe il suo momento messianico in ciò che chiamiamo il principio di somiglianza, nell’immagine

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cioè di una somiglianza per la quale si condivide e si edifica una comune uguaglianza. Se la somiglianza è il nome per quel nient’altro che ente, per un ritiro che ritira la propria stessa ritrazione, per un ritiro che ritira la propria ritrazione nella figura d’immagine di un’esposizione, la filosofia configurerebbe meglio il proprio compito e garantirebbe meglio il lavoro stesso di una permanente decostruzione degli effetti di ideologia in cui si trova coinvolta, se lasciasse sopravvenire nel proprio ambito una certa esperienza teologica, una certa esperienza delle arti e una certa esperienza politica. In ciascuno di essi troviamo la figura di un evento d’eccezione e la configurazione di uno stato grazia. In ciascuno di essi si mette in opera, in vario modo, ma nell’economia di una medesima ripetizione, una somiglianza senza simiglianza. Nella somiglianza senza simiglianza l’esposizione espone un ritiro, espone cioè la linea stessa dell’orizzonte nel suo ritiro. E occorre subito ricordare la questione più importante di tutte almeno per quanto riguarda il metodo e la forma dell’opera della filosofia: un evento esposto nel suo ritiro, un evento che facesse eccezione all’ambito che rende possibile, non potrebbe essere indicato con una mano che indica verso il suo orizzonte. Ebbene una certa esperienza teologica, una certa esperienza delle arti e una certa esperienza politica possono sempre presentare una linea d’orizzonte che impone di esporsi a una speciale esposizione. 7. Non casualmente in ciascuna di esse, a suo modo, il regno in cui la filosofia si trova a casa propria e lontana dalla stessa possibilità di un’autodecostruzione, cioè la velatura delle figure concettuali nel corpo o nel registro di figure analogiche, qui non troverebbe accoglienza e risonanza. In ciascuna di esse, in diverso modo si presenta l’esposizione di una figura, con una somiglianza senza simiglianza, come se vi fosse una stretta coe-

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renza tra apertura, evento d’eccezione e la potenza di una certa grazia senza la quale la volontà non solo sarebbe impotente ma sarebbe divisa in due tra il calcolabile e l’incalcolabile. Volontà indecisa e impotente in ultima istanza fuori della giustizia. Per tutto questo la filosofia ha sempre molto da apprendere dal lavoro che una lunga tradizione teologica ha compiuto sul tema del somigliare.

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La somiglianza dell’opera dell’arte

1. Solo una libera responsabilità, solo una libera decisione può essere giusta. Nello stesso tempo, al contempo, la filosofia morale deve subito aggiungere: perché una libera decisione sia riconosciuta come giusta deve seguire una qualche regola o prescrizione o legge. La giusta decisione sarebbe nel rapporto tra una libera decisione e un’obbedienza, tra autonomia e eteronomia. Il giudizio del giusto deve attraversare il dispositivo di una regola nell’esercizio di una libera reiscrizione o reinvenzione o interpretazione. Così, perché una decisione sia nel giusto, sia virtuosa nella giustizia, sembra indispensabile che essa sia nello stesso tempo nell’obbedienza e nella libertà, regolata e senza regola, capace ogni volta di una forza d’eccezione per la quale il dispositivo di una legge sia, ancora una volta, nello stesso tempo, confermata e reinventata. Reinventata nel momento stesso della conferma, quindi decisione libera che si rende libera mentre aderisce reinventando ciò che conferma. Non vi sarebbe giustizia né in una decisione senza la forma della legge, né in una legge che richiamasse il semplice calcolo di un’esecuzione. La questione difficile è condensata totalmente nella formula “nello stesso tempo”. In altri termini, se sia ammissibile, se non vi sia un ossimoro da decostruire dall’ipnosi

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che genera la formula per la quale, in uno stesso tempo, in un certo presente, al presente, possa darsi una giusta decisione. La tentazione è quella di proiettare sulla questione la schisi che ogni volta segnerebbe la logica dello stesso tempo, la logica di un presente nello stesso tempo. Se il presente nello stesso tempo è sempre fuori tempo, in schisi da sé, differente da sé, una decisione che sia allo stesso tempo libera e obbediente non avrebbe altro che la possibilità dell’impossibile. Gli stessi momenti dell’ossimoro subirebbero la schisi del presente. Così, al presente, nel momento presente, di ogni presente, la decisione sarebbe sempre non libera e l’obbedienza non obbediente e in ogni caso nessuna giustizia come decisione al contempo libera e obbediente sarebbe in quanto tale possibile. Se il presente non può mai presentarsi se non diviso in se stesso, l’atto di giustizia, al presente, si ritroverebbe diviso e nessun evento accadrebbe nella giustizia. 2. Come non rilevare tuttavia in questa logica dell’aporia e dell’indecisione un’idea o nozione di temporalità troppo ancorata e debitrice della tradizione che contesta. Troppo incardinata nella stessa constestazione di un presente vivente, presente a se stesso. Come se la nozione di temporalità scaturisse esclusivamente dalla radicale messa fuori di sé di ogni presente vivente. Come se un tempo fuori di sé, mai in sé e per sé, esaurisse il giusto nome per l’essere dell’ente, per la stessa differenza ontologica. Soprattutto quando diventa il nome per una differenza che fa differenza da ogni differenza, quando la filosofia si autoimpone di pensare l’essere dell’ente come nient’altro che ente. Se la differenza ontologica deve esporsi come nient’altro che ente, per schivare la semplice identità e la semplice differenza, non può che sottrarsi alla logica semplice di un presente differito o differente da sé. Della giustizia come della différance portata fino al limite del nient’altro che niente, si dovrà dire allora, non per analogia ma

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per pura univocità con l’apertura che essa nomina, di cui essa è il nome possibile, che non può ripetere o replicare una semplice differenza. Non potremmo dire che il suo momento come un presente differente divida la decisione libera dalla regola di un’obbedienza. Questa divisione riguarda il tempo fuori di sé, il tempo che la filosofia coglie sempre come mancante. Non riguarda quel momentum in cui la filosofia, al limite di sé, deve evocare o lasciare che si possa evocare l’esposizione di un evento come nient’altro che l’ente. Non può riguardare quel quasi evento che la filosofia è portata a nominare quando è capace di esercitare la autodecostruzione. Della chóra infatti si può, in qualche modo, dire che non sia né evidente né inevidente, né presente né assente, ma non che essa sarebbe in un presente già sempre scisso da sé e differito in se stesso. Il né l’uno né l’altro non può confondersi con la formula di una presenza che evoca un’assenza, un’assenza che evoca una presenza. Se un tempo scisso e mancante a se stesso è sempre spettrale, poiché della spettralità si può dire che essa sia presente, ma anche assente (nell’ambiguità dunque, di una presenza assente), mentre non si potrebbe dire, a rigore, né presente né assente. Così se la chóra è un altro nome per una differenza che differisce da ogni differenza, per un essere dell’ente come nient’altro che ente, allora la giustizia è il suo sinonimo. Se la giustizia è un altro nome della chóra, non potremmo dire che essa occupi ogni volta la divisione di un presente e in questa divisione divida una libera decisione responsabile e una stessa obbedienza ad una regola. Se la differenza portata al limite del nient’altro che l’ente non differisce in una semplice differenza anche l’opposizione di differenza che sembra regolare la relazione di una libera decisione con l’ordine della legge deve differire da questa semplice differenza. Dovranno differire tra loro, ripetiamo, non come una presenza che differisce da sé ma come un orizzonte che farebbe apertura solo in una certa indifferenza alla differenza. Per questo, nell’evento

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d’apertura non si potrebbe dire troppo in fretta che decisioni calcolate in una regola e decisioni incalcolabili e senza regola si contrappongano nell’alternativa indecidibile di un’opposizione. Dobbiamo forse richiamare la radicalità del pensiero del simultaneo di Duns Scoto e con questo obbligarci verso l’exemplum della fenomenalità come orizzonte esposto, e cioè l’opera dell’arte. Qui in fondo nulla accade senza una regola, senza una figura regolata in una configurazione e nello stesso tempo, in un contempo (che evidentemente deve tutto all’ordine figurato di una immagine somigliante senza simiglianza), ogni decisione si trova ad attraversare uno stato d’eccezione dove ogni volta reinventa la stessa regola. La filosofia politica trascura una speciale opportunità nel momento in cui non compie, con la giusta approssimazione, una proiezione dello stato d’eccezione dell’opera dell’arte sullo stato d’eccezione in cui si fonda l’istanza di una nuova figura dell’essere in comune. La decisione dell’opera dell’arte sarebbe ancora più remota al di fuori di una sovranità d’eccezione, quindi al di fuori di un nesso inscindibile, in un contempo, di produzione e invenzione, per cui siamo disposti ad ammettere che non vi sarebbe opera dell’arte nella sua singolarità, se essa fosse la semplice esecuzione di un compito o di una regola, ma anche il puro arbitrio di un gesto irregolato. Né regolato né senza regole. In una regola che libera la propria stessa esecuzione, che apre al consentire di una decisione di eccezione. Non è proprio l’opera dell’arte che impone, in vario modo, alla filosofia un evento d’accadere la cui fenomenalità d’apparizione o di costituzione risulterebbe semplicemente abusata e manipolata al di fuori di un poien che inventa le regole della sua stessa esecuzione, dove la decisione perde di sovranità e di eccezionalità, quindi di capacità d’eccezione; se non vi fosse un nesso tra una decisione che si libera da ogni regola d’esecuzione e una regola che sostiene la sua stessa libertà d’esecuzione? Il nesso di questa reciproca esecuzione, di questa relazione per la quale si deve dire che la messa in ope-

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ra dell’arte è, a un tempo, al contempo, regolato e senza regola, è la fine dell’opera stessa o la riuscita, come direbbe Pareyson. Ma la riuscita andrebbe liberata, a sua volta, da ogni idea di causa finale, da ogni idea di forma compiuta, per sopportare la coerenza che ci impone questa strana simultaneità di regole e senza regole, di reciproca esecuzione di regole e decisioni. La riuscita non può essere assimilata al compimento di una figura finale, a una forma che finalmente si scoprirebbe nel corso dell’esecuzione. L’andare verso la fine significa esporsi nella fine di uno scoprimento. La riuscita della messa in opera converge sempre verso la speciale congiuntura nella quale un orizzonte si dispone in una maniera tale per cui l’esposizione è sempre il correlato di un’esecuzione, la quale, a sua volta, ci segnala una decisione la cui sovranità attraversa il momento di eccezione, scartando l’arbitrio e la semplice obbedienza. La filosofia politica che interroga lo stato d’eccezione e la decisione sovrana compie una pericolosa rimozione nel momento in cui non interroga, con la radicalità che merita, la correlazione, che in qualche modo si impone nell’opera dell’arte, tra esposizione ed esecuzione, tra decisione e calcolo, tra stato d’eccezione, in quanto tale, e sovranità di una decisione che inaugura la figura o la configurazione di un particolare diritto. Nessuna opera dell’arte sarebbe tale se non provocasse e insieme risolvesse uno stato d’eccezione, se non avvertisse la spettralità di un tempo fuori di sé conducendolo al suo limite più estremo, fino a consumarlo senza resto, senza segreto o mancanza, in una figura che fa eseguire in una decisione, che decide in questo modo di uno stato d’eccezione nella fine del quale un’apertura si rende comune di tutti e di ciascuno. Comunemente eseguibile per tutti e ciascuno. Un’immagine di figura, di figurazione d’immagine per cui l’essere in comune sarebbe nella comune possibilità di una libera esecuzione. La quale a sua volta non sarebbe possibile se non per la grazia di una certa figura. La tradizione teologica propone la nozione di grazia come uno

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speciale soccorso del volere e dell’intendere per la quale sarebbe possibile evitare l’alternativa tra l’arbitrio sovrano e la pura obbedienza. Come se la decisione potesse fallire, fosse in fallimento, sia nella tensione del puro volere sia nell’assicurazione della potenza della legge. La grazia interpreta l’esperienza di un soccorso nell’adesione a una speciale configurazione d’evento. Occorre, in qualche modo, configurarsi nell’immagine per ricevere la decisione libera di un’esecuzione. L’esperienza di una immagine nella cui figura si concorre a una somiglianza senza simiglianza, dove si ritrarrebbe la potenza del ritiro che in essa si esporrebbe. La grazia non sarebbe altro, in questa esperienza, che l’efficacia di questa somiglianza. Lo abbiamo già visto in un altro momento: non si potrebbe conseguire la giustizia, non si potrebbe configurare la decisione virtuosa del giusto e il giusto non avrebbe la potenza di essere giusto se facesse affidamento o al semplice volere essere giusto o ad un’idea o ideale di giustizia, se non conseguisse la grazia nell’ordine di questo somigliare che espone un ritiro. La somiglianza dell’opera dell’arte resterebbe ancora più remota se non la si rapportasse alla somiglianza senza simiglianza dell’esperienza teologica, così come quest’ultima resterebbe sempre inadeguata alla convertibilità dei trascendentali, nella loro capitolazione nel pulchrum, senza l’evidenza della sua possibile sovrapposizione con l’opera dell’arte. È proprio la filosofia politica, una filosofia politica che segua l’imperativo della teologia politica di Benjamin, a dover coltivare il desiderio di sovrapporre le due immagini o le due figure d’esposizione, e chiedersi che cosa sopravviene nel momento in cui entrambe le immagini sono tese l’una verso l’altra. Il filo tenace di alcune coerenze ci porterebbe ad indagare la reciproca conversione, nella logica della convertibilità, in cui nella tradizione scolastica si propone il dinamismo reciproco del bonum e del pulchrum. Come se da questa reciproca convertibilità potessimo apprendere qualcosa d’importante sui pericoli che il pulchrum correrebbe se non

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potesse essere anche buono e sui pericoli di quest’ultimo se non potesse anche essere pulchrum. La stessa idea o immagine della giustizia apprende qualcosa di decisivo in questa esigenza di convertibilità. Il pulchrum senza il bonum sarebbe un’apertura per il tutti, disporrebbe il senza luogo per il tutti, porterebbe in dote un evento cosmopolita, ma potrebbe trovarsi nello stesso passo per il quale il tutti diventa nessuno; mentre il bonum senza il pulchrum sarebbe disposto verso la prossimità dell’altro, verso la sua alterità, verso la sua chiamata, ma potrebbe trovarsi, nello stesso passo per il quale l’alterità del terzo non è inclusa e, nel punto in cui non è inclusa, a praticare la logica di un’esclusione. Per questo la giustizia trova la propria figura nella diagonale di questa convertibilità del pulchrum e del bonum. Nella configurazione in cui, il terzo, come il per tutti, riguarda qualcuno e il qualcuno nella stessa elezione offre e riceve il per altri e il per tutti. In questa reciproca convertibilità apprendiamo qualcosa di importante sulla natura dell’elezione, della chiamata e dello sguardo. Qualcosa di importante sullo stesso imperativo alla responsabilità. Se l’opera dell’arte fa da exemplum al pulchrum, la sua fenomenalità non è uno sguardo che chiama. L’opera dell’arte non è un volto e non promuove l’intimità segreta di un essere visti. Se deve quindi offrirci qualcosa d’importante sull’immagine della giustizia e sulla stessa nozione di apertura, dovremmo dire che, se essa è segnata da un qualche imperativo, questo non riceverebbe la propria forza, quindi la virtù in cui può assumere efficacia, dall’evidenza di un certo eccomi, nel cono di uno sguardo invisibile che chiama. Se la giustizia è coinvolta nell’ultimo dei trascendentali essa non fa azione nell’avvertenza di una chiamata esclusiva. Nello stesso tempo, tuttavia, se l’immagine della giustizia riceve qualcosa dal bonum vuol dire che essa deve virare verso ciascuno, verso ciascuno di tutti, quindi verso un altro che non esclude il terzo e un terzo che si configura nel cia-

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scuno per tutti. Per il pulchrum il bene fatto a lui, proprio a lui, o in suo nome, deve potersi convertire, ogni volta, nella formula: il bene fatto a lui deve configurarsi in un’opera, in una messa in opera, per la quale chiunque potrebbe trovarsi al suo posto. Chiunque nell’opera di quel bene deve potersi trovare al suo posto. In questo senso il terzo deve trovarsi incluso nell’alterità dell’altro. Per questo la figura della giustizia riceve il suo metodo da una certa dissonanza ontologica dell’esclusione. L’esclusione ingiusta tocca sempre l’avvenire di tutti e di ciascuno e solo un’ontologia dell’ingiustizia (di un terzo non incluso nel comune), quindi una speciale adesione all’ingiustamente escluso, offre l’istanza d’insorgenza della figura della giustizia. Colui che commette l’ingiustizia non è disposto verso l’apertura di tutti e di ciascuno come colui che la subisce. Colui il quale commette l’ingiustizia deve sempre coprire con un velo, il velo dell’apparato dell’ideologia, l’esclusione in quanto tale e in questa copertura, l’intero avvenire del comune e, in particolare, il rapporto tra il comune e l’apertura, a trovarsi in pericolo. L’ingiustamente escluso attraversa sempre il centro di questo pericolo, quindi è disposto verso l’apertura di tutti e ciascuno in una forma che si anima del desiderio di un’altra esperienza del mondo. Tuttavia come sa molto bene la lunga storia del movimento degli oppressi, questa localizzazione topologica dell’esclusione ingiusta in relazione all’apertura di tutti e ciascuno non comporta di per sé, naturalmente, l’opera della giustizia. Se quest’ultima offre una certa disposizione verso l’apertura non offre però la potenza dell’azione per l’apertura stessa. La disposizione dell’ingiustizia assume la forza dell’apertura solo in un evento d’eccezione. Non c’è evento d’eccezione che non abbia in sé l’accumulo di situazioni di ingiusta esclusione, e tuttavia, occorre sempre la forza d’esposizione di una speciale configurazione perché l’apertura d’eccezione chiami il concorso d’esecuzione di un’opera di giustizia.

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L’accadere performativo

1. Dobbiamo a questo punto raccogliere i fili dei capitoli precedenti in alcuni punti di raccordo. L’evento d’eccezione configura sempre un certo ritiro. Non c’è ritiro se non in una configurazione d’evento. L’esperienza della filosofia non potrebbe avvertire di coprire con il velo delle sue metafore un ritiro non ritratto se non sopravvenisse un evento che espone il suo proprio ritiro. Non potrebbe neppure autoavvertirsi come anticipo o come ritardo senza questa sopravvenienza verso la quale essa deve come autodeporsi. Solo per una certa esposizione, la filosofia può, in vario modo, distinguere un evento mancante per eccesso o difetto da un ritiro senza evidenza di un mancare. Solo in questo modo la filosofia si porta verso la sua fine, una finitudine che deve toccarla in altro modo rispetto alla mortalità nel cuore del Dasein di Heidegger. Così, se dobbiamo ammettere una qualche convertibilità tra un evento d’eccezione e un inizio come possibile, dobbiamo anche affermare, nel modo più radicale consentito, che la filosofia può parlarne solo a partire dalla deposizione che essa stessa subisce. Come se l’evento che si ritrova tra le mani, che incontra tra le sue mani, debba sottrarle la possibilità di celarle sotto velo.

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C’è sempre un rapporto tra l’impossibilità di sottrarsi in un secondo piano e l’esposizione, tra questa esposizione e l’indi-mostrabilità o non mostrabilità di ciò che si espone. Il più esposto è l’indimostrabile, il non mostrabile, non dimo-strabile. Ciò che la tradizione filosofica chiama il principio di non contraddizione, nell’impossibilità di negazione che ne stabilisce il contrassegno, ha a che fare con questa impossibilità di sottrarsi. Sottratto nella sua esposizione ed esposto in quanto impossibilitato al ritiro in un secondo piano, quindi il più in vista di tutti, come in-svelabile per eccellenza. Poiché dobbiamo pensarlo, per quanto è possibile, nel confine estremo dell’alternativa tra il mostrare l’inevitabilità di un ritiro non ritratto e il ritrarre le mani in una messa in opera di questo stesso ritiro, questa esperienza, esposta nella sua indimostrabilità, chiama in causa sempre qualcosa di comune con gli eventi d’esposizione: questo elemento comune è la performatività con cui sono in opera. L’esposto come evento d’eccezione è sempre un accadere performativo, il quale non è che un altro modo di esprimere la congiunzione di una impossibilità di ritiro in un secondo piano e l’attualità di un certo orizzonte. Tanto più un orizzonte è vuoto, svuotato di ogni rinvio, tanto più è nell’attualità di un evento performativo. L’attualità di un evento non va confuso o sovrapposto con l’energheia di una potenza, piuttosto è il nome per la diagonale tra l’innegabile e l’impensabile. L’impensabile non è ciò che il pensiero non raggiunge, non è il suo altro o il suo oltre, esso espone, o si espone nell’estensione della sua stessa apertura, nient’altro che il suo l’esercizio. L’innegabilità è nell’impossibilità di sottrarsi, il quale non è il momento in cui una libertà verrebbe perduta, ma l’avvertenza del suo coincidere con il possibile, l’avvertenza di non avere più nessun fondo su cui poggiare il piede. L’avvertenza di un’apertura come ritiro senza traccia.

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2. L’attualità come diagonale tra l’innegabile e l’impensabile cerca di nominare anche un’altra cosa. Il più aperto di tutto converge sempre con il più esposto, il quale viene nominato più di quanto una lunga tradizione filosofica sia disposta ad accettare, dall’orizzonte di fidatezza del noto. In questo senso la confidenza fidata è sempre in un orizzonte attuale. La sua vigenza è un’apertura che circola per tutti e per ciascuno nella quale l’indeterminazione del possibile non minaccia lo spazio comune. Il senso circola nella confidenza di una approssimazione costitutiva, dove il comune tra gli enti sopporta l’impossibile determinazione della sua somiglianza, dove la somiglianza si sostiene nella confidenza fidata di un comune inappropriabile da alcuna simiglianza, tutto ciò che viene sempre meno quando la logica della lettera impone la sua legge. Mentre una confidenza fidata non trema di fronte al non luogo-chóra in cui circolano le somiglianze, il principio di fedeltà ha già incominciato a tremare del pericolo di indeterminazione, ha incominciato a tremare del possibile in quanto tale e fissa il limite dei simili e dei dissimili. Per questo il dominio che si impianta nel potere impone sempre logiche di indebitamento e di alleanza. Entrambe sono una speciale forma d occupazione del possibile. L’ospitalità di un luogo di tutti e di ciascuno in questo modo si delimita e circoscrive in un interno ed un esterno e le mura difensive, lo abbiamo visto, occupano l’apertura del solco iniziale. 3. C’è un rapporto tra l’avvenire e il possibile, tra una certa possibilità dell’impossibile e l’avvenire in quanto tale. Tra l’avvenire e la confidenza con l’imprevisto o l’in-certo del possibile. Sostenere questa possibilità è già l’avvenire. Guai però a non cogliere per quanto è consentito il rapporto tra il possibile e l’esposizione e il suo evento d’eccezione. Il possibile non sarebbe tale se non fosse il nome per il ritiro di tutto ciò che può fissarlo ad una condizione, fosse pure la condizione di

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possibilità in quanto tale. Senza questo ritiro il possibile sarebbe semplicemente nella logica di un effetto. La filosofia questo lo ha detto, in vario modo, mille volte. Mille volte ha pensato il possibile nel ritiro di un certo fondo, s-fondamento di ogni fondamento, per garantirne la possibilità possibile. Ma rare volte la filosofia ha svolto fino all’estrema coerenza questa questione: un pensiero del ritiro non può passare inosservato sul ritiro di cui parla. Non può sorvolare sotto velo sul ritiro come in-condizione del possibile. Questo sorvolo fa sempre testimonianza di un ritiro non esposto come tale. Fa testimonianza del fatto insuperabile che nell’opera della filosofia non si espone mai il ritiro per il quale il possibile possa diventare il nome per la fine di ogni fondamento. La filosofia in questo senso non è la via privilegiata per l’impensabilità di un evento in cui ritiro ed esposizione sono convertibili. Come si diceva, la filosofia non può ritirare il proprio gesto nella sua esposizione e nascondere sotto velo questo ritiro non ritratto. Allontanerebbe ancora di più dal possibile come evento d’eccezione. In questo senso essa è sempre la testimonianza di una condizione d’ostacolo all’apertura del possibile. 4. Per questo il ritiro di un fondo non va mai sovrapposto con il fenomeno di un mancare come un venire meno. Non dovremmo mai essere troppo impazienti nel domandare se la filosofia non corra proprio qui, proprio in questa relazione interna tra un ritiro mancante e un mancante come venir meno, il rischio maggiore di non concorrere ad una logica di un evento d’eccezione. La filosofia dunque è sicuramente esperta del venir meno di un fondo e sarebbe esperta del ritiro se fossimo in presenza di un medesimo fenomeno, cioè se il ritiro di un fondo si potesse dire nella formula di un fondamento mancante. Se l’evidenza di un mancare fosse cioè il contrassegno del ritiro di un certo fondo. Un fondamento mancante, senza fondo, senza abissalità nel suo essere in ritiro, è un pensiero tutt’altro che semplice per la filosofia.

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Essa ha sempre qualcosa da nascondere (pudore del corpo della filosofia su cui non indaghiamo mai a sufficienza) sia quando si impegna nell’assicurazione di uno stabile fondamento sia quando ne proclama la definitiva consumazione. Troppo spesso le filosofie della crisi hanno trascurato quanto sia complicato farsi testimoni di un senso possibile nella congiuntura di un ritiro del fondamento. Quanto sia complicato per le figure proprie del discorso filosofico portare all’estrema radicalità la fine del fondamento. Se il senso possibile si sviluppa nell’esperienza di questa fine, una copertura ideologica in questo passaggio, una ingenuità in esso, significherebbe una corresponsabilità della filosofia nella crisi del possibile in quanto tale. 5. Un ritiro senza l’evidenza del mancare o del venire meno farebbe insidia e metterebbe in questione anche una delle distinzioni con cui la filosofia si muove tra queste difficoltà: quella cioè tra il dire e il mostrare. Dove si suppone che il mostrarsi del mancare o il silenzio di un’origine avrebbe una speciale forza rispetto alla forma del dire il silenzio o enunciare l’origine. Quel mostrare chiamerebbe in causa un ritiro della parola, una sua flessione verso la accoglienza di un ascolto e sarebbe capace di fare risuonare il limite in quanto tale. Questa difficoltà estrema trova una potente esemplificazione nella nozione che il mistico di Wittgenstein traccia come condizione limite dello stesso formalismo del Tractatus. Non ci sarebbe proposizione di senso se non nella fine di ogni rimando ad un ineffabile e il mistico assume il nome per questa esclusione. L’apertura stessa della formalizzazione convergerebbe con questo limite di un mistico vuoto di ogni ineffabile. Il mistico, nel momento in cui esclude ciò che non si può dire mostra l’ineffabile in quanto tale. Mostra il mistico come ineffabile. A questo punto però il rischio sempre imminente è che il mostrarsi come ineffabile sia un ineffabile mostrarsi. Basta meno di

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niente perché la filosofia si ritrovi tra gli spettri che le sono familiari. Il mostrarsi deve invece esporre l’ineffabile come ineffabile, deve prevalere nell’esporre l’ineffabilità del suo ritiro se non si vuole prevalga in meno di niente l’ineffabile del mostrarsi in quanto tale. Per questo il mistico di Wittengenstien non dovrebbe affidarsi alla figura troppo rischiosa del limite, non dovrebbe abusare, neppure come iperbole, della nozione di limite o limitazione per tracciare il campo, senza altrimenti, della propria apertura. Il limite di un linguaggio non sarà mai in grado di mostrare il mistico di un ineffabile, poiché articolerà fatalmente un dentro e un fuori, trasferirà nell’immagine di un fuori l’ineffabile e non riuscirà in nessun modo a svuotare il mostrarsi di ogni inquietudine di ineffabilità. Il mistico pensato a partire da un limite, come limite, nella limitazione tracciata da un limite, non potrà mai far prevalere il mostrarsi o l’esporsi di un ineffabile. L’ineffabile sarà in ritiro nell’evidenza di un ritiro, come fuori di un dentro, tutt’altro dunque che nient’altro che l’ente. 6. Questo è un punto di estrema delicatezza da cui provengono molte cose tutt’altro che trascurabili. Se vi insistiamo è perché, nella sua coerenza estrema, si deve escludere, ad esempio, che un’opera musicale sia capace di esporre il suo limite estremo, quel limite che dobbiamo pensare in convergenza con l’apertura in quanto tale, nel momento in cui il suo principio formale di messa in opera o di composizione si configurasse a partire dai suoi silenzi e dalle sue fratture. Come se il silenzio fosse il risuono del limite a cui l’intero corpo della composizione rimanderebbe. Come se il rapporto tra composizione e silenzio tragico fosse identico a quel silenzio in cui ogni parola sopravviene nella dialettica di silenzi e parole. Il silenzio che abbraccia ogni parola, per cui ogni parola si delimita da ogni altra, risuona della parola stessa, è ripreso in una dialettica che non può mostrare, in nessun modo, il mistico che fa apertura

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della parola e del suo silenzio. Se l’opera musicale mostra il suo limite questo accade nel centro più esposto della sua stessa messa in opera. Questo centro coincide, senza nessun resto, con la composizione e la figura-immagine che assume. La quale può fare opera d’esposizione tanto più quanto meno essa incoraggia l’evocazione espressiva, quando non inclina verso una qualche simbolicità, quando un contenuto possibile non funge da polo intenzionale della messa in opera. Un’evocazione di questa natura agita, ad esempio, il dramma wagneriano e la critica di Nietzsche alla sua forma rappresentativa, alle sue ineffabili profondità, sta ancora davanti a noi nell’indicare la debolezza di un pensiero incapace di portare all’estremo il disincanto radicale. Nietzsche è tra i primi a cogliere la necessità di un passaggio che impone all’opera dell’arte la rinuncia ad ogni profondità evocativa, che gli impone di non ricoprire di verosimile la sua stessa esposizione, che gli impone quella svolta che porterà Brahms, dopo avere compreso Mahler, a respingere indietro la musica di Strauss. Una svolta, come si sa, che non cesserà di sommuovere l’intero mondo delle arti nel corso del Novecento. 7. Le composizione non sono possibili a partire dal silenzio del limite, non raggiungono la propria efficacia nel rispetto di ciò che non può essere detto, ma nel mostrare la congiunzione di colpo riuscito e differenza senza differire di essere ed ente. Se il silenzio o il mistico non risuona nel limite come limite, ma nel corpo dell’esposizione stessa della messa in opera non è possibile eludere la questione della composizione in quanto tale. Non ci si può limitare a liberare la molteplicità dei linguaggi nel limite o nel mistico di una fine del senso. Nel momento in cui l’arte del Novecento si libera della seduzione del verosimile e della logica della semplice rappresentazione non immette semplicemente verso la moltiplicazione dei possibili, non distrugge la composizione e la figura dell’imma-

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gine. Anzi la figura di immagine si focalizza ancora più nettamente nella fine della semantica di rappresentazione. Il senza rappresentazione non è un senza immagine, il quale non è senza composizione, la quale, a sua volta, non può confondersi con un semplice assemblaggio di materiali o di forme. Il colpo riuscito è ciò che esegue una composizione nella sua messa in opera e solo in questo esito la figura d’immagine sostiene la sua libera esecuzione. Nella fine del verosimile non solo l’esposizione dell’arte non cessa di calcolare un certo ordine, ma cerca la singolarità di una congiunzione nella quale l’unico ordine possibile rende possibile la varietà molteplici delle sue esecuzioni. L’esecuzione non è altro che l’istanza d’apertura della messa in opera in quanto tale, non c’è apertura senza esecuzione e non c’è esecuzione senza l’apertura la quale non è che il nome per il quale si congiunge un ritiro senza traccia con un colpo riuscito nella inizialità dell’esecuzione. L’emanciparsi dell’Arte del Novecento da ogni naturalismo e da ogni stimmung interiore non significa, come troppo spesso si crede, la fine di ogni ordine o figura d’immagine; al contrario si tratta del conseguimento radicale della figura d’immagine come colpo riuscito della fenomenalità di un evento in cui l’esecuzione è chiamata alla messa in opera nella misura di un ritiro che fa apertura d’evento. 8. Così se il mistico non sta nel bordo estremo di un linguaggio, ma è il portato di una certa sua possibile esposizione, la quale a sua volta, così ci impone il mondo delle arti, ha a che fare con la somiglianza di una certa immagine, allora l’attenzione massima va portata verso ciò che combina insieme esposizione e composizione. Esposione-composizione e ritiro di ogni ineffabilità da mostrarsi in quanto tale dove il silenzio o la fine di un’origine non è ciò che resta dopo la decostruzione di una semantica del segno ma un colpo riuscito, un certo kairos nell’evento di una messa in opera. Se c’è qualcosa di decisivo che le arti del

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Novecento impongono è la convertibilità radicale tra un colpo riuscito e un’assenza di fondo, tra un colpo riuscito e un oriente mancante. Rinunciare al pensiero di un colpo riuscito significa, alla fine, restare indietro rispetto alla radicalità di un pensiero tragico o del disincanto. Significa non portare il disincanto sino alla più estrema delle sue risorse. Significa essere ingenui sul mistico e il silenzio o il limite di cui si dovrebbe sapere tacere. 9. Sarebbe sbagliato confondere una teometafisica con una ontoteologia. C’è sempre infatti un’animazione che dovremmo chiamare teologica, con tutti i rischi che questo comporta, nel momento in cui la filosofia è portata a pensare qualcosa di simile a ciò che Derrida ha evocato come chóra né presente né assente. Una certa esperienza teologica molto più radicalmente di ogni filosofia attraversa con le sue figure un evento d’eccezione. Non casualmente è proprio qui che si impone la figura di un evento la cui esposizione richiama l’immagine di una somiglianza senza simiglianza. La speculazione trinitaria va considerata il contraccolpo filosofico di questa immagine. Il più potente lavoro decostruttivo a cui la filosofia possa essere chiamata. Formula di una teologia negativa senza le economie di rimando e di rilancio comune a tutte le teologie negative. Formula che introduce un paradossale ateismo per il quale è proprio la filosofia a trovarsi esposta al suo stesso eccesso, all’ombra del suo eccesso. La trinità non è altro che la formula attraverso la quale la filosofia si espone ad una somiglianza senza simiglianza. L’ultimo dei trascendentali è come la speciale luce atea di questa immagine. Per questo occorre dire, ogni volta, che un’opera dell’arte, nel suo colpo riuscito, ne sa molto più della filosofia di una radicale differenza ontologica. 10. L’unico modo di liberare la nozione di kairos dall’idea di un limite istantaneo o di semplice evento verticale nell’ordine

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di successione è quello di pensarlo come esposizione di una speciale configurazione la quale, a sua volta, solo nell’ordine di una esecuzione si scioglie dall’alternativa tra determinazione e indeterminazione. L’abito di questa invisibilità, in cui si fa apertura un evento d’eccezione, apprende qualcosa di decisivo dalla fede. Più prossimo a una virtù teologale che a una virtù cardinale. Al confine, lo si diceva sopra, tra l’ultima delle virtù cardinali, la giustizia e la prima delle virtù teologali. Lo sguardo di fede è la diagonale che attraversa tutti i momenti che costituiscono la figura d’eccezione. Un’esperienza di fede prende sempre a circolare nei momenti che si raccolgono intorno ad un evento d’eccezione. La modernità ha potuto inscrivere la fede nel pathos di un sentimento perché entro una lunga tradizione aveva già radicato il sapere nel sentire. Qui invece siamo completamente fuori da una logica del sentimento. Almeno per il fatto decisivo che nessuna logica del sentimento presuppone la grazia come supplemento insostituibile. Come si diceva, dobbiamo sapere ricomprendere il carattere di eccezionalità con cui una lunga tradizione investiva le virtù teologali della potenza della grazia. Dobbiamo chiederci se questo supplemento sovrannaturale, non ci consegni una esperienza molto ricca per una adeguata fenomenologia degli eventi d’eccezione. Così, quando Tommaso nomina la fede come la virtù della cose invisibili dobbiamo chiederci se essa non insegni qualcosa di importante sulla differenza ontologica. Come se potessimo dire così, in altri termini: se portassimo la differenza ontologica fino all’estremo, fino al punto di una ritrazione che ritrae il proprio stesso ritiro, saremmo sul punto in cui l’invisibilità di un orizzonte sarebbe disponibile solo in un atto di fede, il quale a sua volta sarebbe inattuale o inattivo al di fuori della figura della grazia. La tradizione teologica ci propone la grazia come un soccorso che sopravviene nell’adesione ad una realtà formale. La sua

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gratuità non è sospesa nel vuoto. Anzi essa è tale solo nel momento in cui si concorre in una messa in opera dell’evento. Quest’ultimo eccede da una serie naturale e l’apertura che fa insorgere resta tale solo nella misura in cui sostiene ed è sostenuta nell’attualità della sua stessa messa in opera. Così la grazia di un momento d’eccezione non è altro che questa reciproca implicazione di apertura e messa in opera per cui non si può mai decidere una volta per tutte se si tratti di attività o di passività. La grazia, come soccorso per il quale le virtù intellettuali e le virtù cardinali convertono la loro portata ontico-ontologica, non sopravviene come un miracolo verticale, ma nell’adesione al rendersi conformabile di una speciale insorgenza, per cui tanto più si aderisce tanto più si riceve la potenza per la messa in opera di ciò che accade. Come si sa, la tradizione teologica ha sempre lasciato indecisa la complicata questione se un atto di fede, di speranza e di carità preceda, sia successivo o contemporaneo all’azione della grazia. Questa indecidibilità è insopprimibile ed è il portato inevitabile di questa teoontologia dell’evento. In ogni caso ricaviamo l’insegnamento a ripensare gli eventi d’eccezione nella potenza di conversione operata da virtù che sopravvengono nel discontinuo di una rottura anche violenta nell’ordine delle cose per le quali, nel centro di fuoco di una speciale messa in opera, la fede diventa il nome appropriato per indicare quanto si espone in modo eminente nella figura dell’evento. La fede è il nome per la visibilità invisibile esposta nella conformità della figura. La fede è una confidenza fidata con un’apertura attuale né presente né assente. Proprio ciò che la filosofia ha già da sempre perduto e di cui deve però conservare una qualche memoria o una qualche attesa senza la quale nessuna pratica decostruttiva sarebbe possibile. Potremmo anche dire: la fede è il nome adatto per un’esperienza che sopporta e supporta una differenza che non segna il proprio differire. Sba-

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gliato asserire che qui si contraddica il sapere. Forse si compie il primo buon passo nella tensione tra questa fede e il sapere se si afferma che la prima riguarda quest’ultimo come il suo sogno più segreto. O meglio lo riguarda come il suo sogno realizzato come se la virtù della fede potesse reincontrare il sapere nell’istante attuale di una memoria d’attesa. Del resto sempre la tradizione teologica ci insegna che la fede, come sguardo interno della speranza, introduce in un ambito nel quale il compimento non contraddice la incompiutezza, dove il futuro è inscritto nella concretezza del presente. Non si tratta dell’attrazione utopica per la quale saremmo attratti verso un altrove senza luogo. La fede-speranza ha già raggiunto ciò in cui spera. In essa è il mondo presente che si allontana nell’al di là e fuori di sé. Nella speranza – scrive Tommaso - si è già trasformati in ciò in cui si spera. Dobbiamo però ancora insistere sul fatto che le virtù della fede e della speranza non avrebbero la potenza di sopraggiungere se l’insorgere dell’evento non prendesse una certa figura. Se esso non operasse come figura la cui forma coimplica l’attualità di una coappartenenza o compartecipazione dei soggetti. Perché esso sia, per usare l’espressione di Badiou, un inizio in cui si diventa figli, o per parafrasare Duns Scoto, un effetto al limite di un senza causa, occorre che la figura o l’immagine operi o faccia opera di un ritiro che dissolva e consumi ogni fondamento presupposto. Non c’è inizio senza questa fine del presupposto ha sempre spiegato la migliore dialettica hegeliana, e qui potremmo ripetere, ancora una volta: non si fa accesso nell’inizio, nella speranza di una fede, se una certa configurazione non espone pienamente un ritiro. 11. Quando la filosofia politica deve occuparsi di una legge d’eccezione, di una legge della legge, legge di un evento che manca a ciò che rende possibile, può comprendere qualcosa, nei suoi limiti, solo se non sbaglia la natura della domanda nei

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confronti dell’opera dell’arte. L’orizzonte esposto dell’opera dell’arte manca sempre a ciò che rende possibile senza evidenza di un venir meno e proprio per questo, ha a che fare con ciò che la tradizione della filosofia interroga come possibile. Un possibile che non sarebbe nel prima della manifestazione, ma sempre nell’evento di un’esposizione per il quale inizio e consumo di una fondamento convergono. La filosofia politica deve guardare all’opera dell’arte soprattutto quando si interroga sulla natura del confine. Soprattutto quando cerca di fuoriuscire dall’alternativa tra ospitalità sconfinata, senza confine, e identità confinata nel limite di propri confini. L’iperbole di questa alternativa ha già rinunciato alla buona politica. Un’ospitalità senza confine è destinata a declamare un dovere assoluto senza nessuna potenza nell’azione. Dovrà, ogni volta, richiamare la purezza di una condizione incondizionata, di una pura accoglienza. E non sarà difficile per una decostruzione agire con la medesima istanza con cui opera nei confronti della purezza di un presente sovrano. La somiglianza dell’opera dell’arte mostra qualcosa sul confine poiché nessuna figura o configurazione d’opera sarebbe tale se non avesse sospeso un confine, anzi se non sopravvenisse nel pericolo che la natura di un confinamento promuove nell’apertura di una confidenza fidata. Non vi sarebbe eccezione se l’opera dell’arte non agisse nel pericolo di questo confine e non vi sarebbe esposizione, in una somiglianza, se questo pericolo non fosse in qualche modo sospeso in una figura che insieme cambia e raccoglie in altro modo la logica di un confine. Per questo apprendiamo qualcosa di importante in ciò che accade nelle figure limite del linguaggio e in particolare nelle figure del metaforico. Se la filosofia politica non vuole rassegnarsi all’impotenza deve augurarsi che, laddove un confine separa e congiunge, lo spazio comune si configuri con la medesima modalità con cui due campi semantici si incontrano nella somiglianza di un’immagine metaforica. Il terzo che un’immagine metaforica espone è una somiglianza

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che ha già ridislocato la logica di una simiglianza. La somiglianza esposta non è più simile ai campi da cui proviene. Questa somiglianza retroagisce sui simili fino a mutarne il campo di confine, ma soprattutto spazia un comune sottratto al limite del confine. Si spazia una comunità d’accoglienza la quale però non fa appello ad una chiamata incondizionata, ma si dispone nella potenza d’apertura di una configurazione. L’eccezione che qui è in opera nella configurazione, in cui una decisione o un’azione ricevono un certo supplemento di potenza, guarda tuttavia verso la vigenza di una confidenza fidata. Anche se può sembrare controintuitivo, niente è più vicino alla confidenza fidata di una normale notorietà dell’evento d’eccezione di un’opera dell’arte. In questo senso l’eccezione promuove la vigenza normativa, guarda verso la notorietà dell’ordinario laddove il pathos della filosofia è sempre in ritardo o in anticipo. L’eccezione metaforica è già confidente con la fidata confidenza della vigenza ordinaria in cui il senso può circolare senza la caduta nell’immobilità della lettera. Essa prepara e predispone quella fidatezza nel momento stesso in cui ammette a reinventare ogni volta l’esecuzione della sua apertura. L’evento d’eccezione dunque apprende questo dalla somiglianza metaforica: il comune di tutti e di ciascuno, al di fuori dell’alternativa tra il confine e l’incondizionata accoglienza, si promuove sempre nella messa in opera di un’esposizione d’immagine. Per la politica questo significa la necessità di pensare e di agire per la forza di precise configurazioni. Non si tratta di evocare la forza mitica dell’immaginario, o la potenza di cattura di Idee della ragione o del desiderio, e neppure di praticare il galateo di un’infinita discussione pubblica, ma della materialità di vere e proprie configurazioni d’eccezione in cui sia la vigenza di una comunità a costituire l’avvenire. Di fronte all’impotenza del politico il pensiero di una nuovo materialismo è sempre più necessario. Tra differenti comunità che tagliano lo spazio comune con le rispettive identità, l’alternativa è quella di affollare

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il confine con ambiti di possibile somiglianza dove la pressione stessa della prossimità favorisca la proliferazione di luoghi che abbiano la medesima consistenza delle scene di metafora in cui si dislocano e mutano gli ambiti di provenienza. Ma il vero campo di prova di tutto questo è il futuro delle democrazie, le nuove forme dell’ingiustizia e il rapporto con le logiche del capitale mondializzato.

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Post scriptum: non rassegnarsi al riformismo

1. Contro uno storicismo estremo Ernesto Laclau ritiene che solo l’ammissione di un limite strutturale sia in grado si sostenere la variazione storica e guidare, in un certo modo, la stessa prassi del cambiamento. Come dire: solo nel pensare nel giusto modo un’apertura che non appartiene a ciò che rende possibile, il possibile non diventa un’idea che gira nel vuoto di se stessa. In disaccordo con Slavoj Žižek tuttavia Laclau ritiene che questo limite sia, contemporaneamente, ciò che nomina l’apertura di un insieme sociale e l’impossibilità di una pienezza sociale. Ciò che apre la variazione è anche il limite di completezza per il quale non potrà mai darsi una società in cui si esprima pienamente una forma di giustizia. I significanti valoriali, per Laclau, non sarebbero altro che il rovescio positivo di esperienze di limite, essi evocherebbero una pienezza impossibile, una pienezza destinata a restare incompleta e inconclusa. Come i petit objets di Lacan essi incorporerebbero una pienezza essenzialmente irrealizzabile e originariamente mancante fino al punto da costituirsi come orizzonti finali del realizzabile, come figure fantasmatiche in un oggetto eccessivo che sublimerebbero l’impossibile accesso alla Cosa mancante. Questi significanti

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fantasmatici opererebbero con modalità analoghe alla funzione dell’egemonia, essi offrirebbero, nei momenti di crisi di sistema, una funzione di equivalenza ad una ricca varietà di domande inevase e insoddisfatte costituendo una vera e propria superficie di iscrizione in cui il particolarismo si tradurrebbe in un’istanza di universalità. Ora, se la barra lacaniana si adotta e si interpreta come segno per una mancanza strutturale, non c’è sistema sociale che non viva nella sofferenza di questa incompletezza. Potranno cambiare le intensità ma non potranno esservi dislivelli qualitativi o ontologici tra i significanti che assumono, di volta in volta, la funzione di produrre equivalenze tra situazioni di esclusione. Una delle conseguenze pertanto è la seguente: la lotta politica consiste nel redistribuire il tasso di insoddisfazione; si aggiudica in genere la posta la formazione discorsiva che offre il maggiore grado di soddisfazione generale alle domande inevase. Il conflitto delle società avanzate sarebbe ormai segnato da una contingente mobilità di interessi e antagonismi senza che il tradizionale primato dell’economia faccia da gerarchia di ordine o di priorità sull’efficacia e sulla estensione universale del conflitto. L’antagonismo cesserebbe di proiettarsi verso una rottura o un capovolgimento del sistema, ma si limiterebbe a negoziare sulla frontiera instabile del soddisfacimento della domande parziali o del riconoscimento dei diritti. Nessuna di queste, né le domande prettamente sociali né l’antagonismo dei diritti, avrebbe un privilegio topologico nell’attivazione di un significante egemonico e nessuno di questi avrebbe un qualche rapporto ontologico privilegiato con l’apertura in quanto tale. Più o meno esplicitamente questa posizione propone una sovrapposizione tra la barra che segnerebbe l’incompletezza costitutiva e il sistema democratico, il quale verrebbe a rappresentare l’invenzione della tecnologia politica più risonante con questa formula dell’incompletezza. In qualche caso essa viene presentata come l’esposizione stessa di questa mancanza origi-

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naria. La democrazia sarebbe la di-mostrazione di ciò che da sempre animerebbe il potere costituito, anche quando esso si presenta con un punto di ancoraggio con un fondamento assoluto. La democrazia sarebbe la dimostrazione che gli uomini non precipitano nel nulla se le istituzioni non sono rassicurate in un punto stabile e sicuro. Anzi avrebbe in sé finalmente la capacità di costruire decostruendo gli assolutismi del dominio e in questa energia vi sarebbe qualcosa di resistente ed estraneo alle logiche del capitale. Nel sistema democratico possono accedere alla riconoscibilità universale, prima o poi, le particolarità o le differenze escluse e gli effetti del libero mercato potranno essere corretti. Le carte costituzionali costituirebbero il significante a partire da una barratura verso eventi il cui eccesso non poteva che generare la forma di un trauma da emancipare in varie forme di rielaborazione. E sarebbero anche monito permanente verso tutte le aspirazione alla pienezza. Proprio esse sarebbero la prova che la democrazia dimostra il potere come negoziazione infinita a partire da un’apertura nella cui mancanza inappropiabile si rende possibile la circolazione di significanti e la forma di equivalenze generali che di volta in volta spostano i limiti delle esclusioni ingiuste. La democrazia sarebbe dunque un orizzonte ultimo della politica; essa sarebbe la formula del potere con cui si potrebbe finalmente sostenere e accettare la fine di ogni idea di compimento; sarebbe la meno ideologica tra le forme del potere che gli uomini hanno conosciuto. Non nasconderebbe sotto velo l’impossibilità di colmare il vuoto a partire dal quale si sviluppa la storicità degli antagonismi. 2. Occorre rispondere a tutto questo tracciando una diagonale tra l’apertura nella modalità del suo ritiro, e i significanti vuoti nella cui serie tende ad organizzarsi una certa universalizzazione di contenuti particolari. Bisognerebbe dire: non può esserci universalizzazione se i significanti vuoti non configurano una

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qualche esperienza dell’apertura stessa. Potrebbe esserci egemonia, un certo ordinamento di significanti potrebbe produrre egemonia, ma un effetto egemonico non è mai di per sé una universalizzazione e il criterio da adottare non può che essere il seguente: non c’è universalizzazione se i significanti non circolano a partire da una certa configurazione dell’apertura. Quello che Laclau chiama esperienza di una limitazione storica andrebbe approfondita come speciale configurazione del limite di apertura, diagonale sull’apertura nel corpo di un’esposizione che si ordina non in un semplice vuoto, ma in ciò che dovremmo chiamare la tonalità fondamentale di un’esclusione o di una inclusione. Per questo è del tutto insufficiente affermare che un significante che circola come nome della giustizia sia semplicemente un rovescio di una limitazione. Quella che Laclau esaurisce come limitazione in realtà va compresa con il rango di una tonalità ontologica. Non vi sarebbe rovescio di una limitazione storica se non vi fosse un orientamento radicato in una tonalità per la quale è subito in scena un rinvio all’orizzonte di apertura. Possono succedersi varie forme o figure prima che in una speciale costellazione si esponga un ritiro. E nessuna implicazione analitica garantisce questo esito. (Se con Derrida chiamiamo avvenire l’esposizione di questo ritiro potremmo dire che le comunità potrebbero avere un futuro senza avere un avvenire, anche se un futuro non può mai guardare troppo lontano senza un avvenire). Non c’è apertura dunque che non sia aperta nella logica di un evento nel cui accadere si sovverte sempre il principio che struttura un intero orizzonte del sociale. I lacaniani potrebbero dire che in questi eventi in qualche modo si tocca un reale impossibile. Con più precisione speculativa si dovrebbe invece dire: in questi eventi si costituisce l’impensabile nello stesso momento in cui l’intero corpo del sociale viene denudato cioè portato a nudo, in un saccheggio di tutte le sue forme ideolo-

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giche. Nella costellazione in cui fanno risonanza un insieme di domande inevase, un certo effetto è capace di sospendere e retroagire sulle sue condizioni di possibilità, come se potesse creare retroattivamente il suo evento. L’incontro reale non può accadere che nell’ordine di una configurazione. Il reale accade solo come colpo riuscito nell’esposizione di una speciale configurazione. C’è sempre un colpo riuscito nel reale di questo accadimento. Questi luoghi non sono frutto né del caso né di un progetto. Anche se l’uno e l’altro sono in vario modo coinvolti. Nulla può garantire la loro riuscita, ma è sempre la loro riuscita che promuove la possibilità di un certo inizio. La necessità di questo nuovo materialismo della configurazione d’evento è ancora più evidente in un tempo in cui si rivelano inconsistenti tutte le grandi figure della tradizione europea legate all’ascesa delle sue borghesie nazionali. I parlamenti sovrani, le regole della rappresentanza, la divisione dei poteri, i poteri e quindi le potenze del legislativo, dell’esecutivo e del giudiziario, le istituzioni della riproduzione del sapere, ecc., ecc; sono figure entro cui è sempre più evidente l’impotenza del politico. C’è sempre meno azione, potenza di azione, in queste configurazioni. 3. La funzione critica della filosofia inizia sempre nel momento della sua deposizione verso gli eventi d’eccezione. Questa deposizione non è altro che la sua funzione critica, il lavoro o l’opera della critica nella quale essa può svolgere al meglio il suo compito. In questo senso e solo per questo aspetto il marxismo di Marx costituisce ancora oggi la via privilegiata per interpretare l’aporia del cominciamento della logica hegeliana. La critica non è altro che il lavoro ininterrotto su quelle giunture nelle quali il dominio si innesta nelle forme del potere. Questi punti di giuntura sono sempre coperti con il velo dell’apparato ideologico. Ma una ingiusta esclusione è sempre una lesione ontologica dell’apertura e accumula quelle rovine che il celebre

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angelo di Benjamin vede guardando il corso degli eventi. Compito della critica è nominare questa ingiustizia decostruende l’apparato ideologico. Per parafrasare alcuni celebri pensieri di Gramsci, la critica deve operare offrendo i concetti alle intuizioni pure che attraversano gli ambiti dell’esclusione ingiusta. Essa non si completa e non è efficace se non diventa lo schema di questa reciproca determinazione. Le intuizioni pure che attraversano gli ambiti della ingiusta esclusione non possono trovarsi nei confronti dell’apertura di tutti e di ciascuno nel medesimo orientamento di chi opera l’ingiustizia. Lo schema della filosofia deve corrispondere a questo orientamento mostrando due cose essenziali: le differenze sociali non sono indifferenti rispetto all’apertura di tutti e di ciascuno. La stessa possibilità di salvaguardare l’indifferenza dell’apertura è correlativa alla capacità di non essere indifferenti alle differenze sociali. Non può esserci funzione critica se non si compie questa decisione. La estrema difficoltà, che in molti casi potrebbe rendere oscillante, difficile, o persino indecidibile il giudizio pratico sul giusto e l’ingiusto, non può costituire l’alibi per ignorare la correlazione tra l’indifferenza dell’apertura e la non indifferenza alle differenze che ordinano l’insieme sociale. 4. Dovremmo dunque allinearci e tenere ferma questo posizione: ciò che apre un orizzonte storico di un insieme di differenze differisce dalla contingenza delle differenze che si determinano ed entrano in tensione nel campo di apertura. Ciò che apre un orizzonte è differente dalle differenze che rende possibili. Questa posizione deve però essere completata in questo modo: le differenze che entrano in tensione nel capo di apertura a loro volta non differiscono nel medesimo modo dalla differenza con cui apre un certo orizzonte. Questo posizione respinge sia l’idea che le differenze si rapportino nel medesimo modo alla condizione di apertura sia che non vi sia un certo dislivello differenziale tra le condizione di apertura e le differenze nel campo di apertura. Occorre trovare

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il giusto equilibrio tra un posizione che rischia un apriorismo trascendentale come quella di Žižek e uno storicismo estremo come quello della Butler. Se da un lato non ci si può limitare ad affermare che l’apertura si esaurisca nell’ordine di una negoziazione differenziale dall’altra occorre ammettere che il rapporto con un’apertura più originaria rispetto all’ambito della contingenza storica non può ricorrere troppo facilmente e ingenuamente alla nozione di origine anche laddove cercasse si svuotarla nell’idea di un evento già sempre perduto o mancato. 5. La filosofia può offrire un contributo decisivo per nominare l’ingiustizia, per configurare schemi di universalizzazione di situazioni particolari. Quest’opera tuttavia sempre meno può limitarsi a negoziare condizioni di minore esclusione e di maggiori diritti, a decostruire le situazioni di copertura ideologica o le varie pratiche di dominio. Ancora meno può confondere l’impotenza delle democrazie o il vuoto di potenza da cui sono coinvolte con il ritiro di apertura di un non numerabile. La critica oggi non è tale se non assume il suo compito nell’ordine di questa materiale constatazione: tutte le grandi configurazioni della democrazia sono inattuali e concorrono ad una generale impotenza. Occorre dunque un pensiero che scommetta sulla forza materiale dell’immaginazione produttiva. Se la pratica politica immaginasse oggi con la medesima energia con cui si sono edificate le basi dei moderni stati nazionali (ci riferiamo innanzi tutto alla situazione dell’Occidente), buona parte dei contesti istituzionali nei quali si svolge la pratica democratica verrebbe considerata insopportabile. La critica deve oggi contribuire a reimmaginare tutti i siti produttivi dello scambio sociale, economico e istituzionale.

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Indice Come sfondo e premessa

p. 11

Introduzione

p. 53

Capitolo primo Il ritiro e l’inizio

p. 95

Capitolo secondo Nell’eredità di Emmanuel Levinas

p. 117

Capitolo terzo La differenza ontologica, il volto, la chóra

p. 141

Capitolo quarto L’eccomi e la chiamata

p. 149

Capitolo quinto Lo spettro, lo sguardo e il messianico

p. 161

Capitolo sesto La Lettera rubata: sull’eccesso svelato

p. 171

Capitolo settimo Sul niente e sull’essere

p. 181

Capitolo ottavo Il pathos del venir meno

p. 187

Capitolo nono Sopportare l’aporia

p. 209

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Capitolo decimo La confidenza fidata e lo stile temporale

p. 225

Capitolo undicesimo La somiglianza, il terzo e il volto

p. 241

Capitolo dodicesimo L’esposizione e la somiglianza senza simiglianza

p. 249

Capitolo tredicesimo L’immagine-figlio del padre e la somiglianza

p. 261

Capitolo quattordicesimo Sull’immagine dialettica come evento d’eccezione

p. 285

Capitolo quindicesimo L’eccezione sovrana e l’evento d’eccezione

p. 299

Capitolo sedicesimo Fidatezza e fedeltà nella figura sovrana

p. 309

Capitolo diciassettesimo La configurazione dell’eccezione

p. 321

Capitolo diciottesimo La giustizia tra virtù cardinali e virtù teologali

p. 329

Capitolo diciannovesimo La somiglianza dell’opera dell’arte

p. 339

Capitolo ventesimo L’accadere performativo

p. 347

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Capitolo ventunesimo Post scriptum: non rassegnarsi al riformismo

p. 363

Bibliografia

p. 371

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Au dedans, au dehors

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La logica di un evento d’eccezione dovrà situarsi nella speciale convertibilità di un ritiro e di un inizio. Costringerà a pensare l’inizio in un certo ritiro e il ritiro in una speciale esposizione. Vedremo che un ritiro non sarà mai tale se non potrà esporsi nella sua ritrazione. Vedremo che sarà indispensabile liberare il ritiro da ogni evidenza di presenza e d’assenza. L’evidenza di una presenza o di un’assenza segna infatti sempre un particolare contrattempo, un inevitabile anticipo o ritardo sull’evento d’eccezione. Ritiro, inizio ed esposizione si ritroveranno in un orizzonte univoco, convertibili l’uno nell’altro. Nel ritiro esposto come nome per un evento d’eccezione si farà scena inoltre la difficile complicazione di una libertà e di una possibilità.

€ 13,00

ISBN E-book 9788898694624

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