Un pensiero finito 8871683536, 9788871683539


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Un pensiero finito
 8871683536, 9788871683539

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JEAN-LUC NANCY Un pensiero finito

MARCOS Y MARCOS

INDICE

Un pensiero finito

7

L'offerta sublime

63

Il cuore delle cose

125

L'amore in schegge

159

L'ìnsacrificabile

213

Post/azione Un pensiero sublime

265

Capitolo 1

UN PENSIERO FINITO

Ha dunque l'esistenza in generale un senso? - quel quesito che soltanto per essere compreso e sentito in tutta la sua profondità avrà bisogno d'un paio di secoli. F. Nietzsche, La gaia sdenza, af. 357. Essendo la filosofia rivolta alla totalità dell'uomo e a ciò che vi è di più alto nell'uomo, nella filosofia la finitezza deve mostrarsi in modo del tutto radicale. • M. Heidegger, « Dibattito di Davos tra Ernest Cassirer e Martin Heidegger », in Kant e il problema della metafisica, p. 235.

Il senso è ormai la cosa meno condivisa del mondo. Ma la questione del senso è ormai il nostro destino, senza riserve né scappatoie possibili. La questione, o_forse più è meno di una questione: una preoccupazione, un compito, una chance 1• 1

Sia consentito riponare qui alcune righe comparse nella primavera del 1990 nella uttre internationale, n. 24, come eco degli avvenimenti europei di quell'anno. Esse s'intitolavano « Continua » - e qui ne vjene dato il seguito.

Nesruno s'inganni. Non si trai/a più soltanto di una crt"sl e nemmeno di una /i• ne delle ~ideologie». Si traila di una sron/illa generale del senso. Il «senso» va qui inteso in tulli i senti: senso della ston'a, stnso della comunità, .renso dei

7

« Il senso » qui vuol dire, beninteso,

il senso, as-

solutamente considerato: il senso della vita, dell'uomo, del mondo, della storia, il senso dell'esistenza. In altri termini: l'esistenza che è o che fa senso, in popoli o delle nazioni, senso dell'esistenu, senso di qualsivoglia immanenza o trascendenu. E c'è di più: 4 /fQVarsi invalidali non sono soltanto conlenuti di

senso, sigmJicazioni - ogni nostra significazione-. È nel luogo stesso della /or• mazione, della nascita o della donazione di senso che si spalanca uno strano bua:, nero. Accade come se nel dissolversi di questa capaaìà ori'gin.aria di fare o di

ricevere senso, le cui molteplici figure co111{Jongono fino a oggi la storia del Sog, geuo moderno: soggeuo della filosofia, della politica, della storia, della prassi, della fede, della comunicazione, dell'arte. Accade come se sorgesse un mondo, o dei mond,; o dei /rammenti di mondo, senza che vi sia nessuno per accoglierlo, coglierlo o raccoglierlo in quanto «mondo». L'« Ovest» non è capace di acrogliere l'« Est~ che va in frantumi. « Ogni coscienZJl è coscienza di qualco1a », essendo innan1.itu110 « coscienza di sé>: era questo il compendio del nostro pensiero, ma eca:, che vi sono cose che proli/erano senza essere cose di coscienza alcuna, ed ecco dei «sé» e"anti, svincolati dalla relazione di coscienza con se stessi. « Ogni azione è finalizzata alla casa comune di un regno della libertà»: raie era il compendio delle nostre massime. Ma uco che su ognuno di queste parole grava il passivo di un disastro

i"eparabHe. Nessuno s'inganni: nei falli, i migliori testimoni sono coloro che appro/illa· no pesanttmente dell'occasione per ripropo"e delle merci intelleuuali che di /at, to non sono nient'altro che merci, e la cui data di scadenza è inoltre largamtnte suptrala; «Liberalismo», «umanesimo», « ditllogo », « formazione degli u> deve adottarne la forma o la condizione, facendosi esso stesso pensiero finito: un pensiero che, senza rinunziare alla verità, all'universalità, in breve al senso, può pensare soltanto toccando in maniera identica il suo proprio limite e la sua singolarità. Come pensare tutto - tutto il senso, non se ne può fare a meno, poiché è indivisibile - in un pensiero, nel limite di un solo infimo tracciato? E come pensare che questo limite è quello di tutto il senso? Non c'è tentativo di una risposta diretta, se non per l'affermazione liminare di una necessità: « La messa in luce dell'essenza della finitezza [ ... ] dev'essere essa medesima sempre radicalmente finita» 3• e

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> M. Hcidegger, Kant t il problema della metafisica, tr. it. di M. E. Rcina V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 20.3. U contesto immediato di questa

frase non le rende giustizia: Heidegger sembra rimanere prigioniero di una

Simmetricamente esso ha fabbricato la formula della « 6nc delle ideologie •, che ~ per lui la buona fine, la fine dell'eccesso-di-senso. Ma intanto, non affronta la mancanza di senso.

concezione in fondo relativista del « pensiero finito •• che rimarrebbe sempre soltanto « una possibilità » tra altre, non potendo pretendere di conoscere la « verità in sé • della finitezza. Occorre almeno un chiarimento. Non si cono-

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* ** Che cos'è il senso? Ossia, qual è il« senso» di questa parola, « senso », e quale è la realtà di questa cosa, « il senso»? Qual è il concetto, qual è il referente? Viene subito in mente che il concetto e il referente in questo caso devono confondersi, dal momento che è in quanto concetto (o come si vuol dire, idea, pensiero ...) che questa « cosa » esiste. Il senso è il concetto del concetto. Si può analizzare questo concetto come significazione, comprensione, voler-dire, eccetera 4• Ma quel che è implicato, articolato e sfruttato in tutte queste analisi, è che il concetto in questione, in tutta la sua estensione e in tutta la sua comprensione, non può semplicemente essere il concetto (o il senso) di qualcosa che rimarrebbe posto, situato in una realtà esterna, senza rapporto in sé con il suo concetto (nel modo in cui, almeno, si concepirà correntemente il rapporto di una pietra, o di una forza, e del suo o dei suoi concetti). Infatti il concetto di senso implica che il senso si colga esso stesso in quanto senso. Questa modalità, questo gesto di cogliersi-da-sé in quanto senso fa il senso, il senso di ogni senso: in modo indissociabile, il suo concetto e il suo referente. Come un concetto che avesse il pietroso della pietra, o la scc la finit=• « in sé»: ma non per effetto di un prospWivismo, bensl perché non c'è finitezza « in sé». È cli questo che si deve traruirc, non cli una retorica della modestia del pensiero, nella quale Heidcgger resta, in questo ca• so, intrappolato. ' Presupposti, come ci si aspetta da tutto ciò, sono Nietzsche, Husserl, la lettura che cli quest'ultimo fa Derrida, poi Marion, e Heidegger, e Oclcuze. Va da sé, ma è meglio dirlo.

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forza della forza. (E tale appunto è l'assoluto del senso nel punto estremo di ogni metafisica del Sapere e del Verbo, della Filosofia e della Poesia). Il senso non è ciò che è in sé se non in quanto è « per sé»~. Lo stesso accade per l'altro senso della parola « senso », per il suo senso « sensibile»: sentire, è necessariamente sentire che c'è sensazione. Il sentire non sente niente, se non si sente sentire, proprio come il comprendere niente comprende se non si comprende comprendere. L' « altro » senso della parola è altro solo in· base a questa medesimezza 6 • Il che richiama il chiasmo: quel che sente nel sentire, è che comprende di sentire, e ciò che fa .senso nel senso, è il sentire stesso di fare senso. Si potrà obiettare che in questo modo non si fa che arretrare ad inftnitum la questione del senso del senso, oppure che si perde anche ogni possibilità di porla, in questo gioco ossimorico dove niente ci fa sapere cosa potrebbe essere « sentire il senso », né « comprendere il sentire». Non è senza dubbio un caso se questa duplice aporia rimanda alla distinzione più potente di tutta la filosofia: quella del sensibile e dell'intelligibile (di ciò che ha senso). Del resto, si potrebbe mostrare senza difficoltà che non c'è una ' Naocy impiega qui l'espressione « à soi • e per tuno il saggio _cercherà di sfruttare l'ambiguità - indecidibile in italiano - tra un ~nso intenzionale cd ùno puramente con-vocativo. È qucst'ul~o eh,~ Nancy ~tend~ _privilegiare, come dirà in nota più avanti, a proposito del! unposs1bili1à ~! in1en?•~ •~ zum Tode sein heideggeriano come un telos (cfr. nota 12). Nel! unposs1b11à d1 poter rendere in italiano questo gioco, abbiamo volta per volta scelto la soluzione migliore [N.d.T.J. • Già Hegel ammirava il doppio senso di Si11n (nella sua Es1e1ica, ovviamente).

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filosofia, né una poesia, che non abbia preteso, in un modo o nell'altro, di superare, dissolvere o dialettizzare questa duplice aporia. È questa sempre la punta dell'estremo metafisico più sopra evocato. Il compito che tocca alla filosofia, il nostro compito, è lo stesso, soltanto alterato, ma alterato senza limiti, dalla fine del senso 7• *

** Tutto il lavoro di un'epoca - quella della filosofia che scava in profondità la propria fine, decostruendo il suo proprio senso - ormai ci ha insegnato questo altro modo di dispiegarsi della medesima aporia

(non la sua « soluzione », ma piuttosto il pensiero della sua assenza di soluzione in quanto luogo stesso del senso), che si può cercare di dire in questo modo: Il senso attiene dunque a un rapporto a [à) sé in quanto a [à] un altro, o a [à] dell'altro. Aver senso, o fare senso, o essere sensato, è essere per [à) sé in quanto dell'altro affetta questa ipseità, e questa affezione non si lascia ridurre né trattenere nell'ipse stesso. Al contrario se l'affezione del senso è riassorbita, anche il senso sparisce. Cosl è per la pietra (almeno secondo quanto noi ci rappresentiamo), cosl è per i grandi monoliti, monumenti e monogrammi della filosofia, Dio o Essere, Natura o Storia Concetto o Intuizione. « Fine della filosofia »

'

7

Cfr. Jean-Luc Nancy, Une pensée /inie, GaJi!~. Paris 1991, il capitolo

« S, e che si situerebbe ancora al vertice di una scala di paragone: in questo caso, certe parti del resto della scala non sarebbero «piccole», ma soltanto meno grandi. Il sublime è incomparabile, è nella grandezza in rapporto alla quale tutte le altre sono « piccole», cioè non appartengono più al medesimo ordine, e quindi non sono propriamente comparabili. Il fatto è che la magnitudo sublime risiede - piuttosto sopravviene e sorprende - al limite, e nel togliersi del limite. Grandezza sublime è che ci sia della grandezza misurabile, presentabile, dunque limite, forma e figura. Un limite si leva [s'enlève], o è levato [enlevée], un contorno si traccia, e così una molteplicità, un diverso disperso viene a essere presentato come un'unità. L'unità gli proviene dal suo limite - diciamo dal suo bordo interno; ma che ci sia questa unità, in senso assoluto, o ancora che questo, questo tracciato, faccia un tutto, questo proviene, per dirlo nel medesimo modo, dal bordo esterno, dal levarsi [enlèvement] illimitato del limite. Il sublime concerne la totalità (il cui concetto generale è quello dell'unità di una molteplicità). La totalità di una forma, di una presentazione, non è la completezza né l'esaustiva sommatoria delle parti.

Al contrario è quanto accade laddove la forma non ha parti (e di conseguenza, a rigore, non (rap)presenta niente), ma si presenta. II sublime ha luogo, dice Kant, in una rappresentazione dell'illimitato non disgiunta, tuttavia, dal pensiero della sua totalità (e questo è il motivo per cui, precisa, il sublime può essere trovato in un oggetto informe altrettanto che in una forma). Una presentazione non ha luogo che nel caso in cui tutto il resto, tutto l'illimitato sullo sfondo del quale si stacca, si leva [s'enlève] sul suo bordo - e d'un tratto, a modo suo, si presenta oppure si leva [s'enlève] per tutta la presentazione. La totalità sublime non è per niente la totalità dell'infinito concepito come qualcosa d'altro rispetto alle forme finite e belle (e che, perciò, darebbe luogo a un'estetica seconda e speciale che sarebbe quella del sublime), e nemmeno è la totalità di un infinito che sarebbe la sommatoria di tutte le forme (e che farebbe dell'estetica del sublime un'estetica « superiore » o « totale >> 18). È la totalità dell' illimitato in quanto l'illimitato è aldilà (o al di qua) di ogni forma e sommatoria, essendo, in generale, oltre il limite, cioè aldilà del massimo. La totalità sublime è aldilà del massimo: come

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•• Anche lo stesso Kant indica una dire%ione estetica che combina i due motivi: un genere sublime distinto, in qualche modo, e questo genere come una specie di opera d'arte totale. Egli di fatto richiama la possibilità di una • presentazione del sublime» nelle arti belle per via dell'• unione delle a.rii belle in un unico prodotto•• e indica allora tre forme: la tragtdia in rima, il poema didascalico, l'oratorio. Naturalmente ci sarebbe molto da dire; qui mi accontento di notare che non ~ esattamente il Gesamtkuns/wtrk di Wagner. Le tre forme di Kant sembrano polarizzate piuttosto sulla poesia come modo di presentazione, in ordine di successione, del destino. del pensiero, della preghjcra, e non sembra trattarsi in primo luogo di una presentazione « totale».

dire che è aldilà dt" tutto. Tutto è piccolo di fronte al sublime, ogni forma, ogni figura è piccola - ma altrettanto: ogni forma, ogni figura è o può essere il massimo. Il masst"mo (o la magnitudo, che ne è la bordatura esterna) è laddove l'immaginazione si è (rap)presentata la cosa, grande o piccola. L'immaginazione non può di più: essa è definita dalla Bildung del Bild. L'immaginazione, tuttavia, può di più - o perlomeno riceve di più - laddove non può di più. È 11 che si decide il sublime: l'immaginazione può ancora sentire il proprio limite, la propria impotenza, la propria incommensurabilità in rapporto alla totalità dell'illimitato. Questa totalità non è un oggetto, non è nulla di (rap)presentato, né positivamente né negativamente: ma corrisponde al darsi della rappresentazione. Non è la presentazione in sé - non è l'esibizione di un presentato, e non è la presenza di un presentante - , ma è zl fatto che la presentazione ha luogo. Questo, la forma (dell')informe, è il levarsi [enlèvement] del bordo esterno del limite, o la mozione dell'illimitato. A dire il vero, questa totalità non è esattamente l'unità di un diverso: l'illi.mitato non offre propriamente né un diverso, né il numero dell'unità. Ma quel che Kant chiama « l'Idea di un tutto», è l'unt"one grazie alla quale l'unità di un tutto è in generale possibile. L'unione è la faccenda del sublime, come l'unità quella del bello. Ora l'unione è l'operazione dell'immaginazione (come l'unità è il suo prodotto): essa unisce il concetto e l'intuizione, la sen-

sibilità e l'intelletto, il diverso e l'identico. Nel sublime, l'immaginazione non ha a che fare con i suoi prodotti, ma con la sua operazione - e dunque con il suo limite. Vi sono infatti due modi di considerare l'unione. C'è il modo hegeliano e dialettico, che considera l'unione nel suo processo di riunione, nella sua finalità di unificazione, e nel suo risultato, che deve es-· sere un'unità. Così è per l'unione dei sessi, la cui verità per Hegel è nell'unità del bambino. La considerazione kantiana dell'unione è differente. L'unione dei sessi (nell'Antropologia) rimane un abisso per la ragione, proprio come l'unione schematizzante rimane un'« arte» per sempre nascosta. Il che significa che Kant assume l'unione come tale, ossia precisamente ciò in cui essa differisce dall'unità, ciò in cui essa non è e non fa di per sé un'unità (né un oggetto, né un soggetto). L'unione è più della somma e meno dell'unità: essa pure, come la « magnitudo » si sottrae al calcolo. L'unione, in quanto « Idea del tutto », non è né l'uno né il molteplice: è aldilà di tutto, è la « totalità » aldilà o al di qua dell'unità formata del tutto, è altrove, non è localizzabile, ma ha luogo - più esattamente, è l'aver luogo di tutto o del tutto in generale: dunque, il contrario di una totalizzazione, di un compimento: un evento piuttosto, uno sbocciare; il contrario di un infinito attuale: la finitezza sempre ripresa dell'iniziale. Che ciò avvenga, che si presenti, prenda forma e figura, ecco l'unione, ecco la totalità aldilà di tutto - e in rapporto a cui ogni presentazione è piccola, e ogni ,

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grandezza rimane un piccolo maximum in cui l'immaginazione tocca il suo limite. Nel toccarlo, lo eccede. Si deborda, toccando nello sconfinare dell'illimitato, in cui l'unità si leva [s'enlève] nell'unione. L'immaginazione sconfina, ecco il sublime. Non è che essa immagini aldilà del suo maximum (meno ancora che essa s'immagini da sé: qui si è esattamente al rovescio della sua autopresentazione). Essa non immagina più, e non c'è più niente da immaginare, non c'è Bz1d aldilà dell'Einbz1dung - e nemmeno Bild negativo, o Bild dell'assenza di Bz1d. Essa, la facoltà di presentazione, non presenta niente fuori del limite, dal momento che la presentazione è la delimitazione stessa. Tuttavia, essa accede a qualcosa, tocca qualcosa (o è toccata da qualcosa): l'unione appunto, l'« Idea» dell'unione dell'illimitato, che borda e deborda il limite. Cosa opera l'unione? È lei, l'immaginazione. Al limite, essa accede a se stessa: come nella sua autopresentazione speculativa. Ma qui è al contrario: quel che tocca di sé, è il proprio limite, o si tocca in quanto limite. « L'immaginazione, scrive Kant, raggiunge il suo massimo, e per la spinta di estendersi ancora, ritorna su se stessa, e in tal modo si produce una piacevole emozione» [§ 26]. (Si noti subito: c'è soddisfazione, c'è godimento, perché non potrebbe essere la ripetizione dell'auto-presentazione? Qui niente è puro, niente è costituito in opposizioni semplici, tutto avviene sul rovescio dello stesso, e il levarsi [enlèvement] sublime è l'esatto rovescio del superamento [relève] dialettico).

Al limite, non c'è più figura né figurazione, non c'è più forma. Non c'è nemmeno più lo sfondo come qualcosa a cui si potrebbe passare, o nel quale ci si potrebbe oltrepassare, come un infinito hegeliano, cioè come un infigurabile che, nel suo modo infinito, non smetterebbe di fare figura (tale, in generale, mi pare, è il concetto indotto nel momento in cui si denomina qualcosa « l'infigurabile » o «l'impresentabile»: se ne (rap)presenta l'impresentabilità, assimilandolo dunque, in via negativa, all'ordine delle cose presentabili). Al limite, non si passa. Ma è lì che tutto accade, è lì che si gioca la totalità dell'illimitato, come quel che leva [s'enlève]

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l'uno contro l'altro i due bordi, esterno e interno di ogni figura, congiungendoli e separandoli, delimt~ tando e t1limitando così il limite con uno stesso gesto. Si tratta di un'operazione infinitamente sottile, infinitamente complessa, e al tempo stesso si tratta del movimento più semplice, l'esiguo battito della linea contro se stessa nella mozione del suo tracciato: due bordi in uno, ma due, l'unione « stessa », necessaria a qualsiasi figura. Ogni pittore, ogni scrittore, ogni danzatore ne ha conoscenza. È la presentazione stessa, ma non si tratta più della presentazione come operazione di un (rap)presentante che produce o esibisce un (rap)presentato. È la presentazione stessa nel punto in cui non può più essere« essa stessa», nel punto in cui non può più essere detta la presentazione, e in cui, di conseguenza, non si tratta più di dire né che essa si presenta, né che è impresentabile. La presentazione « stessa » è

l'istantanea divisione del limite, ad opera del limite, tra figura e illimitazione, l'una contro l'altra, l'una sull'altra, l'una per l'altra, congiunte e scollate nello stesso movimento, nella stessa incisione, nello stesso battito. Quello che accade qui, al limite - e che non passa mai il limite-, è l'unione, è l'immaginazione, è la presentazione. Non si tratta della produzione dell'omogeneo (che normalmente è il compito consueto dello schema), non si tratta del semplice e libero accordo che si riconosce esso stesso, in cui consiste la bellezza: è al di qua di questo accordo. Ma non è nemmeno l'unione degli eterogenei, pensiero già troppo romantico, e troppo dialettico per il limite esiguo di cui qui si tratta. L'unione in cui ci s'imbatte nel sublime non consiste nell'appaiare la grandezza assoluta con il limite finito: giacché non c'è niente fuori del limite, niente di presentabile o di impresentabile. È proprio questa affermazione, « non c'è niente fuori del limite>>, a distinguere in modo specifico e assoluto un pensiero del sublime (e dell'arte) da un pensiero dialettico (e del compimento dell'arte). L'unione non avviene tra un fuori e un dentro, al fine di produrre l'unità di un limite in cui potrebbe presentarsi l'unità (secondo questa logica, il limite deve diventare esso stesso infinito, e l'unica arte possibile diventa quella di tracciare il « circolo dei circoli» hegeliano). Ma non si dà che il limite, unito all'illimitato in quanto quest'ultimo si leva [s'enlève] incessantemente sul suo bordo, e di conseguenza in quanto il limite, l'unità, si divide infinitamente nella sua propria presentazione.

Per il pensiero dialettico, il contorno di un disegno, il quadro di un dipinto, il tracciato di una scrittura rinviano fuori di sé all'assolutezza di una presentazione totale - positiva o negativa - in cui, in base al loro fine infinito, devono situarsi. Per il pensiero del sublime, il contorno, il quadro e il tracciato non rinviano che a se stessi - ed è ancora dire troppo: essi non rinviano, bensl (si) presentano, e la loro presentazione presenta la sua propria interruzione finita, il contorno, il quadro o il tracciato. L'unione da cui procede l'unità presentata (figurata) si presenta come quell'interruzione, come quella sospensione dell'immaginazione (della figurazione) in cui il limite si traccia e si leva [s'enlève]. Il tutto, qui - la totalità cui ogni presentazione, ogni opera, non può pretendere -, non è fuori di questa sospensione. In verità, il tutto, sul limite, si divide nella misura stessa in cui si unisce, e il tutto non è che questo: la totalità sublime non corrisponde, quali che siano le apparenze che talora possono suggerire il contrario, allo schema superiore di una « presentazione totale», fosse pure negativa, fosse pure presentazione dell'impossibilità di presentare (giacché questo presuppone sempre un complemento, un oggetto della presentazione, e tutta la logica dèlla tap-presentazione: ma qui non c'è niente da presentare; c'è che si dà presentazione). La totalità sublime non corrisponde a uno schema del Tutto, ma piuttosto, se cosl si può dire, al tutto dello schematismo: cioè al battito incessante del tracciato dello skema, il levarsi [enlèvement] della figura con-

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tro cui non cessa di battere il levarsi [enlèvement] dell'illimitato, questa infima, infinita pulsazione finita, questa infima, infinita deiscenza ritmica che continuamente si produce nel tracciato del minimo contorno, e grazie alla quale il limite stesso si presenta, e sul limite, la magnitudo, l'assoluto della grandezza in cui è tracciata ogni grandezza, in cui ogni immaginazione immagina e viene meno, sul limite stesso, nello stesso battito, da immaginare. Quel che indefinitamente trema al bordo dello schizzo, il sospeso candore del foglio o della tela: l'esperienza del sublime non chiede niente di più. Dal bello al sublime, si compie insomma un passo in più nell' « arte nascosta » dello schematismo: nella bellezza, lo schema è l'unità della presentazione, nel sublime, lo schema è il battito dell'unità. Il che equivale a dire al tempo stesso il suo valore assoluto (magnitudo) e la sua assoluta dilatazione, l'unione che ha luogo nella sospensione, come sospensione. Nella bellezza, si tratta dell'accordo, nel sublime, si tratta di una sincope che ritma il tracciato dell'accordo, lo spasmodico svanire del limite, lungo se stesso, nell'illimitato, cioè in niente. Lo schematismo sublime della totalità è fatto di una sincope nel cuore dello schematismo stesso: riunione e dilatazione simultanee del limite della presentazione - o più esattamente e più drasticamente: riunione e dilatazione, posizione e svanimento della simultaneità (e dunque della presentazione) stessa. Fuga e presenza dell'istante nell'istante, insieme e taglio di un presente (non mi soffermerò più qui, ma è in-

dubbiamente in termini di tempo che va interpretata in definitiva l'estetica del sublime: questo presuppone forse il pensiero di un tempo del limite, di un tempo dello svanimento della figura, che sarebbe il tempo proprio dell'arte e che sarebbe il tempo di uno spaziarsi del tempo). Che l'immaginazione - cioè, in senso attivo, la presentazione - tocchi il limite, che svanisca, « sprofondata in se stessa », e in tal modo venga a presentare se stessa, nel capovolgimento di una sincope o piuttosto in quanto sincope « stessa », questo la espone alla sua destinazione. La « destinazione propria del soggetto» è in definitiva la « grandezza assoluta » del sublime. È la propria grandezza che l'immaginazione, venendo meno, riconosce inimmaginabile. L'immaginazione è dunque destinata all'aldilà dell'immagine, che non è una presenza (o un'assenza) primordiale (o ultima) che le immagini rappresenterebbero, o di cui le immagini presenterebbero la sua non (rap)presentabilità. Ma l'aldilà dell'immagine, che non è« aldilà», che è sul limite, è nella Bildung del Bild stesso, e dunque direttamente il Bild, direttamente il tracciato della fi. gura, il battito dello schema: la sincope, che in verità è l'altro nome dello schema, il suo nome sublime, se nomi sublimi si danno. L'immaginazione (è il soggetto) vi è destinata, vi è determinata e votata e indirizzata. ·come dire che la presentazione è votata, indirizzata alla presentazione della presentazione stessa: è la destinazione generale dell'estetica, della ragione nell'estetica, l'ho

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L'immaginazione sincopata, tuttavia, è sempre l'immaginazione. Essa è sempre la facoltà della presentazione, e il sublime, insieme al bello, è legato « alla semplice presentazione» (in questo senso, non è aldilà del bello: ne è solo il debordare, sul bordo stesso, non più lontano del bordo - e questo è anche il motivo per cui, ci tornerò ancora, tutta la questione del sublime si gioca direttamente nelle opere delle « arti belle », sui loro bordi, i loro quadri o i loro contorni: al bordo dell'arte, non oltre l'arte). Come l'immaginazione (rap)presenta dunque il limite, oppure - dal momento che potrebbe essere la stessa questione - come si presenta al limite? Il modo di presentazione di un limite in generale non può essere l'immagine propriamente detta. L'immagine propriamente detta presuppone il limite, che la presenta o nel quale essa si presenta. Ma il modo singolare della presentazione di un limite è

che questo limite viene a essere toccato: occorre cambiare senso, passare dalla vista al tatto. T aie, di fatto, è il senso della parola sublimitas: quel che si tiene appena sotto il limite, quel che lo tocca (dove il limite è pensato secondo l'altezza, come altezza assoluta). L'immaginazione sublime tocca il limite, e questo toccare gli fa sentire « la propria impotenza>>. Se la presentazione è prima di tutto quanto ha luogo nell'ordine sensibile - presentare è rendere sensibile -, l'immaginazione sublime è sempre nell'ordine della presentazione, in quanto sensibile. Ma tale sensibilità non è più quella della percezione di una figura, essa è quella del toccare del limite, e più precisamente essa si trova nel sentimento di sé che l'immaginazione prova toccando il proprio limite. Essa si sente passare al limite. Essa si sente, ed essa ha il sentimento del sublime nel suo sforzo (Bestrebung), nel suo slancio, nella sua tensione, che propriamente si fa sentire nel momento in cui il limite è toccato, nella sospensione dello slancio, nella tensione spezzata, nella sincope. Il sublime è un sentimento, e più che un sentimento in senso banale, è l'emozione del soggetto al limite. Il soggetto del sublime, ammesso che ve ne sia uno, è un soggetto commosso. Nel pensiero del sublime è questione dell'emozione del soggetto, di quell'emozione che né la filosofia del soggetto e del bello, né l'estetica della finzione e del desiderio possono pensare: giacché esse pensano necessariamente e soltanto nell'orizzonte del godimento del soggetto (e del soggetto come godimento). E il godi-

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detto fin dall'inizio. Ma nel sublime risulta che questa destinazione implica un debordare del bello, giacché la presentazione della presentazione stessa, ben lungi da poter essere la figurazione e l'autofigurazione del soggetto, ha luogo nella sincope, come sincope, quindi non ha luogo, non dispone dello spazio unificato di una figura, ma è data nello spaziarsi, nel battito schematico del tracciato delle figure, e cosl non accade se non nel tempo sincopato del passaggio del limite al limite.

* **

mento, in quanto soddisfazione per una presentazione appropriata, taglia corto con l'emozione. . Si tratta dunque di quell'emozione senza la quale, certo, non vi sarebbe bellezza, opera d'arte, e nemmeno pensiero - ma che i concetti della bellezza, dell'opera e della filosofia, in sé e in linea di principio, non possono toccare. Non la possono toccare, non perché sarebbero « freddi » (possono essere pieni di vita e di calore...), ma perché sono costruiti (e perché il loro sistema - bellezza/opera/ filosofia - è costruito) in base alla logica che precedentemente ho indicato come quella del godimento della Ragione, o dell'auto-presentazione dell'immaginazione. È la logica estetica della filosofia, e la logica filosofica dell'estetica. Nella sua emozione, il sentimento del sublime fa vacillare questa logica, poiché vi sostituisce ciò che ne forma, una volta ancora, come l'esatto rovescio, oppure (il che equivale) una sorta di esasperazione logica, un passaggio al limite: toccare la presentazione sul limite, oppure essere toccato, colto da essa. Questa emozione non consiste nel pathos soave o gaudente di quanto si chiama « l'emozione estetica»: da questo punto di vista, sarebbe meglio dire che il sentimento del sublime è malapena un'emozione, ma che è piuttosto la sola mozione della presentazione - al limite e sincopata. Questa (e)mozione è senza compiacimento e senza soddisfazione: è un piacere ma al contempo una pena, secondo la caratteristica affettiva del sublime kantiano. Ma la sua ambivalenza non la rende meno sensibile, non la rende meno effettivamente 104

né meno precisamente sensibile: essa è la sensibilità

dello svanire del sensibile. Kant indica questa sensibilità sul registro dello sforzo o dello slancio. Lo sforzo, lo slancio o la tensione si fanno sentire (e appunto lì può essere la loro logica o la loro « patetica » generale) in quanto sono sospesi, al limite (non si danno sforzo o tensione che al limite), nell'istante e nel battito della loro sospensione 19• Si tratta, scrive Kant, del « sentimento di un impedimento delle forze vitali » (Hemmung: è un'inibizione, un ostacolo, un blocco). La vita sospesa, il respiro mozzo - il cuore che batte. È qui che propriamente ha luogo la rappresentazione sublime. Ha luogo nello sforzo e nel sentimento: « La ragione, come facoltà dell'indipendenza della totalità assoluta, produce uno sforzo (sebbene inutile) dell'animo, allo scopo di rendere la rappresentazione sensibile adeguata alle idee. Questo sforzo, e il sentimento dell'impotenza dell'immaginazione a raggiungere l'idea, costituiscono essi stessi un'esibizione della finalità soggettiva del nostro animo nell'uso dell'immaginazione circa la sua destinazione soprasensibile... » 20 • Lo sforzo, il Bestreben, non va inteso nel suo valore di progetto, di mira che si valuta sia rispetto alla sua intenzione sia rispetto al suo risultato. Non è 19 Rimarrebbero da analizzare i rapporti della Bestrebu11g kantiana e della Vorlust freudiana, ossia quel • piacere preliminare• il cui paradosso è quello di consistere nella tensione - e che svolge Wl ruolo capitale nella teoria freudiana del bello e dell'arte. "' « Osservazione generale » del 5 29.

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né una logica del desiderio e della pòtenzialità, né del passaggio all'atto e all'opera che qui ci deve guidare. Non più di una logica della volontà e dell'energia (ancorché tutto ciò sia anche presente, senza dubbio, e non sia trascurabile quando si tratti, cosa che non è nelle mie intenzioni, di render conto del pensiero di Kant). Ma lo sforzo va preso per se stesso, in quanto non obbedisce che a un'unica logica (e a una «patetica», e a un'etica... ) del limite. Lo sforzo o lo slancio, per definizione, è questione del limite. Consiste in un rapporto con il limite: uno sforzo continuo è lo spostamento continuo di un limite. Lo sforzo cessa laddove il limite cede (ma esso non cede se non laddove si chiude in bella presentazione infinita). Lo sforzo o lo slancio trasportano il limite al loro interno, ne sono strutturati. Nello sforzo come tale - e non nella sua riuscita o nel suo fallimento -, si tratta meno di una tensioneverso..., della direzione o del progetto del soggetto che si sforza, che della tensione del limite stesso. Quel che si tende, e che qui si tende all'estremo, è il limite. Lo schema dell'immagine, di ogni immagine - o lo schema della totalità, lo schematismo dell'unione totale - è teso all'estremo: è il limite teso fino al suo limite, il tracciarsi non più quantificabile, dunque non più tracciabile, della magnitudo. Teso fino al limite, il limite (il contorno della figura) tende a rompersi, come si usa dire, e in effetti si rompe, suddividendosi all'istante in due bordi, la bordatura della figura e il suo illimitato sconfinare. La presentazione sublime è il sentimento di questo

sforzo nell'istante della rottura, è l'immaginazione per un istante ancora sensibile a sé che non è più se stessa, nella tensione estrema e nella distensione (« l'effusione », « l'abisso »). (Oppure ancora: lo sforzo è per toccare il limite. Il limite è lo sforzo stesso, ed esso è il toccare. Il toccare è da sé il limite: il limite delle immagini e delle parole, il contatto - e con esso, paradossalmente, l'impossibilità di toccare inscritta nel toccare, dal momento che è il limite. Cosl il toccare è lo sforzo, dal momento che non è uno stato, ma un limite. Non è uno stato sensoriale come gli altri, e non è né attivo né passivo come gli altri. Se tutti i sensi si sentono sentire, come vuole Aristotele (il quale, d'altra parte, stabiliva già che non vi può essere, né nell'acqua, né nell'aria, un vero contatto...), più degli altri il toccare ha luogo solo nel toccarsi. Ma anche più degli altri, in questo modo tocca il proprio limite, se stesso in quanto limite: non si coglie, poiché non si tocca mai, in generale, che il limite. Il toccare non si tocca, in ogni caso non come la vista si vede). Dal momento che si dà a sentire, è una presentazione. Ma questo sentimento è singolare. Sentimento del limite, è sentimento di una insensibilità, sentimento insensibile (apatheia, phlegma in signi/icatu bono, dice Kant per indicare il limite del sentimento sublime), sincope del sentimento. Ma è pure il sentimento assoluto, non determinato secondo piacere o pena, ma che tocca l'uno per mezzo dell'altra, toccato dall'uno nell'altra. Che il piacere sia congiunto

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alla pena, non lo si deve comprendere in termini di agio e di disagio, di gradimento e di fastidio combinati in uno stesso soggetto da una perversa contraddizione. Infatti questa singolare ambivalenza ha innanzitutto a che fare con lo svanire, in essa, del soggetto. Cosl non raggiungerebbe un piacere attraverso una pena (come Kant tende piuttosto ad affermare); non si libera dall'una per avere l'altro: ma la pena qui è il piacere, cioè, ancora una volta, il limite toccato, la vita sospesa, il cuore che batte. Un cuore può battere senza pena? $e il sentimento propriamente detto è sempre soggettivo, se è il nucleo stesso della soggettività in un . Il senza-nome è nominato, l'inesprimibile comunicato: tutto è presentato - al limite. Ma in definitiva, e appunto su questo stesso limite, in cui tutto si compie e tutto comincia, occorrerà togliere alla presentazione il suo nome. Bisognerà dire che la totalità- o l'unione dell'illimitato, e l'illimitato dell'unione, o ancora la presentazione stessa, la sua facoltà, il suo atto, il suo soggetto - è offerta al sentimento del sublime, o è offerta, nel sublime, al sentimento. Del :CSCn.ia?,. O- Derrida, Glas, Galiltt, Paris 1974, p, 188),

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scoperta, del ritorno, del ricongiungimento, dell'anticipazione, tutto questo tempo dipende essenzialmente da questo spazio aperto nel cuore delle cose, da questa spaziatura che è il cuore delle cose. È la ragione per cui esso non batte - non « ancora ». Ma c'è « innanzitutto >> l'apertura, la pietra esposta. Il tempo reitererà questa apertura, di ciottolo in ciottolo, con lo stesso passo [pas] di tempo che fa progredire un'immobilità. Ad ogni passo [pas], il tempo è schiuso affinché qualcosa succeda [se passe]. II tempo espone l'impassibile passibilità del « c'è ». Soltanto se disposta secondo la spaziatura del ci, una cosa è passibile di qualcosa che può « succederle », che può «accadere» o « aver luogo » per essa. E prima di tutto, è il suo proprio « c'è » che le accade. « C'è qualcosa » capita a ogni cosa - e a nessuna, poiché le « precede » tutte, ma senza erecedere. Il mondo delle cose è senza prece-

denti. E il mondo. Ma dal momento in cui c'è cosa, la cosa (e la sua) venuta sono passibili di senso. « Succede qualcosa»: ossia, qualche cosa è offerto alla possibilità di fare senso, o di essere preso dal senso. O piuttosto, qualche cosa è già senso, è già nell'elemento del senso, poiché accade. In questo senso, il « senso » precede, eccede ed espone tutte le « significazioni ». Le rende tutte possibili e tutte le consuma. Prima/dopo tutte le significazioni possibili (che c'è un mondo per questo o per quello, per un fine o per nessun fine ...), «c'è» conferisce il senso di ciò di cui non c'è senso da dare. Il mondo ne è passibi-

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le in ciascuna cosa e in tutte le cose. Taie è il senso delle cose, il senso dell'esistenza al cuore delle cose. Il constatare che « c'è qualcosa e non niente» non si riduce a invocare un pathos della meraviglia di fronte all'Essere. Piuttosto rinvia, in modo più sobrio, alla necessità proprio di questa constatazione. Che ci sia qualche cosa è sorprendente, e in questa constatazione (e a maggior ragione ancora quando la si configura nella domanda: « perché c'è qualche cosa, e non niente?»), la possibilità che ci sia qualche cosa o niente non avrebbe alcun senso se, prima di tutto, non esistesse qualche cosa. Kant assumeva che non potesse esservi, senza contraddizione, possibile senza niente di reale. Ne concludeva che esiste necessariamente qualche cosa. Che ci sia qualche cosa è necessario. Qualche cosa è necessariamente. Questo essere necessario pone con sé (come sua es·senza, come l'essenza che l'esistere è per se stesso) la passibilità del senso: succede che qualche cosa, esistendo, è immediatamente passibile della propria esistenza, in quanto « senso». Impassibilmente, nella necessità. Ma la necessità di questa necessità (la necessità dell'essere necessario), è quanto è passibile di senso. Infatti tale necessità non può essere ricondotta a una determinazione dedotta, prima di ogni reale, di qualche possibile (è intorno a questo punto che si sono aggrovigliati tutti i problemi delle filosofie della creazione divina). Questa necessità - questa passibilità è quella della realtà sempre-già data del reale: la cosa, sempre antecedente, ma senza precedente. Nemmeno « data » - ma qui.

Perciò, questa necessità potrebbe dover essere identificata in modo diverso che in base alla necessità di una deduzione, o di una produzione. E per esempio, in quanto « libertà »: è indubbiamente cosl che la sostanza spinoziana esiste necessariamente, ed è necessariamente libera (e l'unica a esserlo). È in modo necessariamente libero che c'è qualche cosa. Questa necessità è la passibilità della libertà, che noi non siamo liberi di accettare o di rifiutare. Essa non è nostra: è quella dell'esistenza. (Il pensiero di una simile libertà è senza dubbio il pensiero più difficile: infatti il pensiero deve cogliersi in essa, essa deve toccare se stessa in quanto cosa di questa libertà... Anche in questo caso, secondo una modalità spinoziana: il pensiero come attributo dell'unica sostanza, che esprime insieme con l'altro attributo, l'estensione... Spinoza è probabilmente il solo a offrire esplicitamente un pensiero-cosa. O a offrirsi ad esso.

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* ** Della cosa in quanto qualsiasi: nel « c'è qualche cosa », « qualche » è appunto ridondante, tanto in rapporto al « c'è », che in rapporto a « cosa ». È la ridondanza dell'indeterminazione. « La cosa » dice « non importa che cosa ». « Una cosa », è non importa che. È necessario che ci sia qualcosa, ma non che ci sia quella cosa. Tuttavia, l'essere-indeterminato della cosa non è una privazione, né una povertà. Il « qualsiasi » della cosa costituisce la sua affer-

mazione più propria, con la compattezza, la concrezione in cui la cosa propriamente si « cosifica ». Si può dare questa definizione: la cosa è una concrezione d'essere qualsiasi. Questo non toglie nulla alle differenze fra le cose. Il « qualsiasi » non è il « banale » - ed è sullo sfondo del « qualsiasi » che le differenze possono risaltare. Del resto, il« qualsiasi » implica che ci siano più cose necessariamente: altrimenti si sopprimerebbe da sé. Si dovrebbe sempre dire: « ci sono alcune cose, e non, niente». Non c'è dunque uno « sfondo » del « qualsiasi »: il qualsiasi è la differenza. Ma in quanto posto, esposto, in quanto cosa stessa, ogni cosa è qualsiasi. Il qualsiasi del« c'è», o l'anonimato dell'essere, è l'essere stesso in quel ritrarsi grazie al quale è l'essere della cosa, o piuttosto l'essere-una-cosa, il suo « accadere», la sua venuta alla presenza, la sua libera esposizione senza fondo né fine. O anche: è l'esistenza della cosa come assolutamente fondata (e cosl finita o finale in tutti i sensi di queste parole) nell'essere-qualsiasi della cosa, nell'essere-il-qualsiasi che è l'essere. La libera necessità è che esista qualche cosa (o alcune cose). È necessario che non ci sia necessità per l'esistenza qualsiasi. «Qualsiasi» è l'indeterminatezza d'essere di ciò che, ogni volta, è posto ed esposto nella rigorosa concrezione determinata di una cosa singolare, e della sua singolare esistenza.

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Pensare questo: uscire da tutti i nostri pensieri determinanti, identificanti e destinanti. Cioè, uscire da ciò che, il più delle volte, vuol dire «pensare». Ma pensare innanzitutto che c'è qualche cosa da pensare, e pensare il qualche di questa cosa al cuore del pensiero. Sarebbe tutto il contrario di un pensiero «qualsiasi». Sarebbe il pensiero - esso stesso indeterminato, poiché incluso in ogni pensiero - di quanto ci determina a pensare: né il concetto né il progetto, ma l'esistenza scontrata con il cuore delle cose. La nostra storia del pensiero oggi è concentrata, e sospesa, al punto in cui si raccoglie questa esigenza.

* ** « Qualche » è anonimo, e dice l'anonimato: in questo caso non si tratta di nomi. Non si tratta quindi neppure della negatività o della negazione dei nomi divini all'interno di una teologia negativa. È piuttosto questione di pro-nominazione. (Ci è un« pronome avverbiale»). È una questione di prima dei nomi - o ancora, di supplemento e di supplenza ai nomi. Certo, ci sono nomi propri, e ci sono deittici. Certo ciascuna cosa la si può mostrare nella concrezione della sua singolarità: « questa pietra >>, o: « la Kaaba » 3• Ma, per terminare, quel che è mostrato, dalla parte della nominazione, è che la cosa si può mostrare (e quindi che non è mai ineffabile, né im' Cfr. tutta l'analisi del .n,pporto del segno con • l'ente ultimo singolare » in Ockham, condotta da Picrrc Alferi in Gu,1/aume d'Ockham le singulier, Minuit, Paris I 989.

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' Cfr. J.-L. Nancy, Une pensée/inie, Galilée, Paris 1990, • L'excrit » (Non tradotto nella presente edizione, N.d.T.J. Questo motivo dell'impossibilità di nominare incrocia alcuni dei motivi ~ t i da J. Dénida a proposito della chora in« Oénégations », Ps,•ché, Galilée, Paris 1987.

Non c'è cosa senza nome, ma non c'è nome che, nominando e per il fatto di nominare, non si escriva « nella » cosa, o « in quanto » cosa, pur rimanendo quell'altro dalla cosa che la mostra soltanto da lontano. Occorrerà arrivare a riesaminare questo modo cosi frequente di distinguere, nell'uso del linguaggio, un uso banale, informativo, sottoposto al solo significato (l~ « moneta spicciola » di Mallarmé), e un uso maggiore, ritenuto poetico, in cui il linguaggio sarebbe fine a se stesso. In verità, il linguaggio finisce sempre fuori di sé. In ogni uso e da ogni uso di lingua si stacca l'assente di ogni lingua, mostro che solo il linguaggio mostra, ma escrivendovisi. Nessun pensiero della « scrittura » ha avuto altra posta in gioco se non questa: la posta della cosa. La cosa che è nominata, che è pensata, non è la cosa nominata e pensata. Ma esse non intrattengono fra loro i rapporti di semplice esteriorità e di rimando di un segno e di un referente. L'una si escrive nell'altra come la stessa cosa, poiché quello di cui si tratta qui è la medesimezza [memete1 della cosa. La cosa stessa ha luogo nell'unità infinitamente differente di un « c'é » che è ciò che enuncia, ma che lo è solo.in quanto enunciato ed escritto [excrit] . (Potrebbe trattarsi ancora di una generale performatività del linguaggio: ogni enunciato sarebbe performativo, ma per converso, ogni cosa sarebbe escrizione d'enunciato. L'escrizione sarebbe la performazione del performativo... ). Ed è lo stesso per quella cosa che è il pensiero. Il

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presentabile) - mentre quel che è mostrato, dalla parte della cosa, ciò che essa è, la materia della referenza,. non si mostra che come l'estremo limite della deissi. « Questa pietra » è la pietra designata dal mio enunciato, e davanti alla quale esso scompare. Oppure, invece di inscrivere questa pietra in un lessico, il mio enunciato va piuttosto a escriversi in essa. Nel cuore delle cose, non c'è linguaggio. (Il pensiero della cosa deve situarsi a monte di ogni considerazione sulla« cosa e il nome». In questo nome di « cosa », già, ogni attività, e pertanto ogni questione, di nominazione si mostra in via di dissoluzione. Cosa è la parola che mostra un niente [rien] (res) di senso, come senso di ogni cosa). Da un altro punto di vista, conducendo aldilà di sé una teologia negativa, si potrebbe dire che occorre comprendere in questo modo il venir meno dei nomi divini: essa non espone altro che il generale venir meno dei nomi davanti alle cose (ivi compreso davanti a quelle cose che i nomi anche sono). Questo non riporta all'ineffabile. Questo conduce piuttosto ali' escrizione del senso in quanto essenza del linguaggio e di ogni inscrizione. L' >. La sua realtà precede ogni possibili' A. Garcia,Diinmann, I.A parole do1111ée, Galli~. Paris 1989.

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tà. Essa è l'esperienza impossibile e reale, impossibilmente reale, di qualche cosa. La filosofia non concede mai abbastanza ascolto al qualche della cosa, e in questo modo non concede mai abbastanza ascolto alla cosa stessa (ma sicuramente non è possibile concedere ascolto, in questo caso, e la filosofia, malgrado tutto, arriva fino al limite...). Non è affatto perché la filosofia si atterrebbe all'astrazione e al concetto: infatti l'astrazione e il concetto sono anche delle cose, come a sua volta la filosofia è una di esse. Sono delle cose nella mescolanza, lo scambio, l'attrito, la scintilla e l'usura di tutte le cose fra loro. Ma la filosofia fa della cosa la sua cosa, mentre il qualche di qualche cosa non si lascia appropriare. (Quella che, con Heidegger, si chiama la « fine della filosofia » altro non è che il momento della depropriazione [dépropriation], nel cuore della filosofia. O anche: il momento, tematizzato e pensato per se stesso, dell'escrizione della filosofia nella cosa del pensiero). Appropriante potrebbe essere piuttosto il qualche della cosa. C'è, accade, qualche cosa: ecco da cosa noi saremo sempre-già stati appropriati. L'esistenza è innanzitutto appropriata a e dall'abbandono al« c'è/accade». Dal momento in cui la filosofia vuole appropriarsi questa appropriazione, rovescia questo movimento, e alla fine pretende farsi la cosa della cosa. È qui che si ritrova il Dinge/Denken di Hegel, nella sua portata propriamente speculativa, ossia nella riappropriazione dell'escrizione al cui bordo si tiene. 141

Ora, un altro e simile impiego [traitement] di parole, un'altra e simile nominazione, apre per Heidegger il pensiero della cosa: « Quando pensiamo la cosa come cosa, prendiamo cura dell'essenza della cosa facendola entrare nella regione in cui essa si dispiega. Coseggiare (Dingen) è awicinare il mondo » 6• E la possibilità di un tale pensiero « risiede in una corrispondenza che, nell'ambito dell'essenza del mondo, corrisponde alla parola che questa essenza gli rivolge». Come non riconoscere un'altra figura della stessa appropriazione, e di conseguenza, come non riconoscere che il pensiero della fine della filosofia non è ancora sufficientemente pensiero di questa fine? Da Hegel a Heidegger non smette di precisarsi, di aggravarsi un peso del pensiero su se stesso, e che si offre per lasciare la cosa stessa pesare con tutto il suo peso di cosa. Questo non solo è importante: è la cosa più importante della tradizione come ci è stata trasmessa, e tutti noi abbiamo a che fare con questo. Tuttavia, quando lo stesso Heidegger designa la cosa, si tratta sempre di una corrispondenza, tramite il suono o tramite il senso, tramite il suono in quanto senso, tramite il senso in quanto cosa sonora, si tratta sempre di risposta accordata, appropriata. Ma se il cuore delle cose non batte nemmeno, se il cuore qualsiasi delle cose non • 6 M. Heidegger, • La cosa», in Saui e discor,i, tr. it. di G. Vattimo, Murs1a, Milano 1976, p. 121 (Nancy traduce Dingen (coseggiare) con rasumbler raccogliere, N.d.T.]. '

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rivolge nemmeno un appello, né una domanda? Se il cuore escrive soltanto tutte le nostre questioni, tutte le nostre domande? Vi sarebbe, per contro, uno strano idioma delle cose. Idioma in quanto lingua riservata della cosa in generale, ma dal momento che essa non esiste, idioma assolutamente singolare di ogni cosa. « C'è» si dice in tanti idiomi quante sono le cose. Lingue del tutto private, idiote, non significanti, come ogni autentico idioma dev'essere. Che non dice niente, ma questo ogni volta in un codice e in uno stile unici, inimitabili, cosl come indefinitamente sostituibili tra loro, in quanto qualsiasi... Che non dice niente, che dice il «niente» (il « rien » di res), ma che lo dice « in ogni modo in una certa maniera». « Tutto si sospende nel punto in cui sorge un dissimile, e da ll qualcosa, ma qualcosa di nero » 7• (Questo, questa frase, è « poesia ». « Poesia» significa per lo meno: toccare la cosa delle parole). Di conseguenza, occorre ancora disappropriare ogni appropriazione, fino alla più « aperta » e « accogliente». Il qualche della cosa, di ogni cosa, deve essere ciò che il pensiero non avvicina, né può lasciar awicinare, ma che in primo luogo sottomette il pensiero a questo: che esso stesso non è che qualche pensiero, un pensiero qualsiasi. Una cosa qualsiasi fra tante cose qualsiasi. Malcom Lowry citato da Clément RosSèt in Le réel - Traité de /'idioti,, Minuit, Paris 1977, p. I}. EJacques Roubaud, Que/que chose noir, Gallimard, Paris 1986, p. 76 - Anche altrove: • idion della cosa dicente [dictanl] secondo il mutismo, ossia singolarmente una descrizione di se stessa "• J. Derrida, Signéponge, Seuil, Paris 1988, p. 41. 7

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(Qui: il qualcosa [ça] della cosa, il qualcosa [ça] che essa è.