Letteratura Latina
 8841869410, 9788841869413

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SETTORE DIZIONARI E OPERE DI BASE Responsabile editoriale: Valeria Camaschella Coordinamento redazionale: Davide Bernardini Coordinamento grafico: Marco Santini Testi: Pier Zelasco, Banca dati Opere IGDA Revisione: Guido Turtur Copertina: Marco Santini

ISBN 978-88-418-6941-3 © Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara 2007 www.deagostini.it Redazione: corso della Vittoria 91, 28100 Novara prima edizione elettronica, marzo 2011 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le copie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

L

a civiltà occidentale è sempre stata caratterizzata da una lingua egemone, veicolo di scambio culturale – quello che fu il greco nell’Ellenismo, la famosa koiné, è oggi rappresentato dalla lingua anglo-americana – e questo monopolio linguistico, di fatto, è sempre coinciso con il predominio politico-militare. Dall’anno 100 a.C. fino all’alto Medioevo il latino ha svolto la funzione di lingua comune della classe dominante in campo culturale, politico e anche religioso. Una mole di scritti, contenuti, forme e generi letterari, imprese leggendarie, eroi e figure mitiche tramandatici dalla letteratura latina, che sono entrati a far parte del nostro immaginario e hanno fondato le basi della nostra cultura e della nostra letteratura. Un bagaglio culturale, quindi, che non può essere ignorato da chiunque voglia interpretare il passato e capire il tragitto dell’espressione letteraria e artistica e del pensiero occidentali. Tutto Storia della letteratura latina suddivide la materia in quattro sezioni che corrispondono ai grandi periodi che hanno scandito la storia della letteratura latina (dall’età arcaica all’età di Cesare e all’età di Augusto, dall’età imperiale da Tiberio a Traiano all’età di Adriano e degli scrittori latino cristiani fino alle soglie del Medioevo), ai loro straordinari protagonisti e alle nuove tendenze e forme letterarie cui questi diedero vita e in cui trovarono la loro massima espressione). All’interno di questi capitoli, gli argomenti sono esposti ed approfonditi in paragrafi che rispondono a esigenze di sintesi, chiarezza espositiva e completezza. Il libro presenta una visione integrale dell’insieme e dei particolari e non tralascia nessun aspetto: la ricchezza della materia con l’accorta distribuzione delle sue parti, l’ampia documentazione dei testi, l’impostazione di quadri storici che preparano la presentazione dei singoli scrittori sullo sfondo politico e culturale del tempo in cui vissero, la presenza di riassunti di importanti opere, la precisa e costante indicazione delle fonti.

Sommario L’ETÀ ARCAICA

L’ETÀ L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

1 2 3 4 5 6 7

L’ETÀ DEI FLAVI 1 2 3 4

Marziale Poeti epici Quintiliano Plinio il Vecchio

200 203 207 210

216 222 225

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DALL’ETÀ DI ADRIANO ALLE SOGLIE DEL MEDIOEVO

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109

1 Tacito 2 La satira: Giovenale 3 Plinio il Giovane

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1 La poesia 231 2 La prosa: Svetonio, Floro, Frontone, Gellio 234 3 Apuleio 240 4 La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti 246 5 Tertulliano e l'apologetica cristiana 262 6 La poesia cristiana 275 7 I Padri della Chiesa latina 281 8 Agostino e i tardi prosatori latini 287

d

6

175 184 189 195

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63 67 71 78 84 95 103

L’ETÀ DI AUGUSTO 1 Società e cultura sotto il principato di Augusto 2 Virgilio 3 Orazio 4 L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio 5 Ovidio 6 Livio

Seneca Lucano e la poesia minore Petronio e la prosa minore La satira: Persio

L’ETÀ DI NERVA E TRAIANO

L’ETÀ DI CESARE 1 Il periodo classico della letteratura latina 2 I poëtae novi, o neóteroi 3 Catullo 4 Lucrezio 5 Cicerone 6 Cesare 7 Sallustio 8 Varrone e gli scrittori minori

1 2 3 4

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ll periodo delle origini 9 Il teatro 18 Livio Andronico e Gneo Nevio 22 Plauto 26 Ennio e i suoi continuatori 34 La prosa e Catone il Censore 41 Evoluzione della commedia: Stazio e Terenzio 47 8 Il tramonto della commedia e il ritorno dell’atellana 52 9 Lucilio e le nuove tendenze della poesia 55

117 126 139 150 159 167

Glossario di retorica e metrica Indice analitico

295 302

L’ETÀ ARCAICA

1 Il periodo delle origini 2 Il teatro 3 Livio Andronico e Gneo Nevio 4 Plauto 5 Ennio e i suoi continuatori 6 La prosa e Catone il Censore 7 Evoluzione della commedia: Stazio e Terenzio 8 Il tramonto della commedia e il ritorno dell’atellana 9 Lucilio e le nuove tendenze della poesia

Nei primi cinque secoli della sua storia Roma non produce nulla di specificatamente letterario, ma solo embrionali forme artistiche anonime e orali, di cui restano scarsi documenti di difficile interpretazione. Alla metà del III secolo a.C., per influenza della cultura ellenistica dell’Italia meridionale, ha inizio la letteratura vera e propria con la rappresentazione teatrale di un dramma di Livio Andronico. Il contemporaneo Nevio introduce il poema epico con l’argomento storico della prima guerra punica e il commediografo Plauto, nella sua produzione comica di matrice greca, diffonde gusto e atmosfere tipicamente romane. Ennio, il primo e più insigne poeta del periodo arcaico, nei suoi Annales estende agli avvenimenti a lui contemporanei la materia epica già trattata da Nevio, sostituisce il metro esametro al saturnio e scrive Saturae, un genere che avrà larga fortuna nei secoli successivi. A opera del cosiddetto circolo degli Scipioni si ampliano i rapporti con la cultura e la filosofia greca e si definisce il concetto di humanitas, intesa come dignità dell’uomo, amore per la cultura, necessità di rapporti rispettosi della personalità altrui. Al circolo sono legate personalità quali Il commediografo Terenzio e il poeta Lucilio. A questa ellenizzazione della cultura romana si oppongono vigorosamente tradizionalisti, come Catone il Censore, in nome del mos maiorum, delle usanze degli antenati fatte di disciplina intransigente, parsimonia e dedizione al lavoro. Gli ultimi esponenti della rappresentazione tragica in età arcaica sono Pacuvio e Accio.

Titolo conce

1 Il periodo delle origini La letteratura latina nasce alla metà del III secolo a.C.; la data d’inizio fu fissata dai romani stessi nel 240 a.C., anno della prima rappresentazione di un’opera teatrale, forse una tragedia, di Livio Andronico. Fin dalle sue prime manifestazioni essa subisce l’influenza della letteratura greca, con la quale si pone in costante rapporto dialettico. In cinque secoli Roma conquista l’Italia centrale e meridionale, delinea il proprio volto, forgia il proprio ordinamento giudiziario, le proprie istituzioni politiche e religiose, ma non crea nessuna opera letteraria, nonostante il continuo contatto con la cultura ellenistica della Magna Grecia. Ci fu una produzione anonima e tramandata oralmente, che ha però scopi pratici e occasionali e che può essere definita come preletteraria. Si tratta di forme poetiche abbozzate, prive di intenti letterari e scritte in un latino rozzo e primitivo, di cui restano solo scarsi documenti che interessano la storia della cultura e della lingua più che la letteratura. Il loro unico interesse risiede nel fatto che tali documenti hanno esercitato una certa influenza sulla letteratura posteriore, soprattutto per quanto concerne il teatro, l’oratoria e la storiografia.

Le iscrizioni I rari documenti epigrafici pervenuti sono spesso poco chiari e di ardua interpretazione per le difficoltà linguistiche, ma testimoniano che nella Roma arcaica del 600 a.C. era già diffusa la scrittura per uso privato e pubblico, per lo meno nei ceti dominanti e nella classe sacerdotale; si tratta di una scrittura alfabetica di derivazione greca, proveniente dalle città della Magna Grecia. Decisamente oscura, anche per il testo lacunoso, è l’iscrizione del cosiddetto Lapis Niger (pietra nera), risalente ai secc. VII-VI a.C., incisa su un cippo a forma di parallelepipedo trovato, alla fine del 1800, nel Foro romano sotto un lastricato di marmo nero, che la tradizione indicava come la tomba di Romolo. Esso reca le norme religiose per interdire l’accesso a un recinto sacro; compare anche un rex, una figura sacerdotale. Il testo è in caratteri greci e in scrittura bustrofedica (“come i buoi che arano”), per cui le righe si alternano da destra a sinistra e da sinistra a destra, con le lettere opportunamente orientate. Dello stesso periodo e parimenti di difficile interpretazione è la lunga iscrizione sul cosiddetto Vaso di Dueno, un vasetto di terracotta usato forse per qualche rito sacrificale o

La scrittura monopolio della casta dirigente politico-sacerdotale

Il Lapis Niger

Il Vaso di Dueno 9

1 - Il periodo delle origini

La Cista Ficoroni

La Fibula Praenestina

come contenitore di cosmetici, trovato nell’avvallamento tra il Quirinale e il Viminale. La scrittura va da destra a sinistra e le parole non sono separate l’una dall’altra. Forse si allude alla destinazione votiva del vaso stesso, oppure a una fanciulla che invia all’innamorato un dono; si ricava solo un dato, e forse erroneo: che fu opera di un certo Dueno. Facilmente decifrabile, anche perché di un periodo molto più recente, è la cosiddetta Cista Ficoroni (dal nome dello scopritore), un’iscrizione incisa su un cofanetto di bronzo di forma cilindrica trovato a Preneste (oggi Palestrina): Dindia Malconia mi diede alla figlia; Novio Plauzio mi fece a Roma. È invece sicuramente un falso di fine Ottocento la Fibula Praenestina, primo documento pervenutoci in lingua latina, anch’essa rinvenuta in una tomba di Preneste: su una fibbia d’oro del 600 a.C. è inciso il nome dell’orafo o del donatore e quello del destinatario: Manio mi fece per Numerio. La scritta è in caratteri greci, da destra a sinistra senza intervallo tra le parole.

■ Le tombe degli Scipioni Di grande interesse documentario sono le iscrizioni sepolcrali incise sui sarcofaghi della potente famiglia degli Scipioni, fuori Porta Capena, sulla via Appia. Rappresentano la Prima testimonianza prima testimonianza diretta del verso saturnio e rivelano diretta del verso una buona conoscenza delle epigrafi funerarie greche. L’esaturnio pitaffio in onore di Lucio Cornelio Scipione Barbato, console nel 298 a.C., è un rifacimento dell’originale posteriore al 200, come dimostra la lingua, mentre senz’altro più remoto è quello per il figlio omonimo: Moltissimi Romani sono concordi che questo unico / fu il migliore tra gli uomini onesti / Lucio Scipione. Figlio di Barbato. / Costui fu console, censore, edile presso di voi. / Egli conquistò la Corsica e la città di Aleria, / consacrò come dovuto un tempio alle Tempeste.

La prosa: diritto, cronaca e oratoria La prosa dei secoli delle origini, pur non facendo parte della comunicazione letteraria, contribuì all’evoluzione linguistica e, pertanto, a creare l’ambiente adatto alla nascita della letteratura.

I trattati diplomatici

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■ Il diritto Non si possiede nulla purtroppo di molti documenti storicamente importanti: è questo il caso dei trattati (foedera) di alleanza, di pace, di commercio con i vari popoli con cui i romani di volta in volta venivano in contatto, come quello com-

1 - Il periodo delle origini

merciale con Cartagine del 509 a.C. e il patto con la Lega Italica del 493 a.C. Gli storici romani riportano un arido elenco di trattati, che non riferisce nulla sulla sostanza dei patti conclusi, né sui principi del primitivo diritto internazionale. Anche delle leges regiae (leggi regie), che si facevano risalire a Romolo e ai suoi successori, non sono rimasti che pochi frammenti riportati da giuristi posteriori. Sicuramente non erano scritte ma tramandate oralmente all’interno della classe dominante; si basavano probabilmente su norme consuetudinarie riguardanti il rituale sacrale e il diritto privato. Secondo la tradizione sarebbero state raccolte da un pontefice, Sesto Papirio, all’epoca di Tarquinio il Superbo in un libro, lo Ius civile Papirianum. Enorme importanza storica e giuridica hanno le Leggi delle XII Tavole, la prima legislazione scritta del diritto romano, che Livio, secoli più tardi, definì “la fonte di ogni diritto pubblico e privato”. All’epoca di Cicerone costituivano ancora un importante testo scolastico. Dietro le richieste sempre più impellenti della plebe, che esigeva una maggiore certezza del diritto, vennero redatte da una commissione di dieci magistrati, i Decemviri legibus scribundis, nel 451-450 a.C. e scritte su dodici tavole di bronzo esposte nel Foro. Hanno anche grande rilevanza dal punto di vista letterario: pur non essendo l’originale ma versioni posteriori in cui è stato modificato qualche vocabolo, sono il primo documento di prosa organizzata del periodo delle origini. Lo stile è conciso: Se un ladro ruba di notte, e il derubato lo uccide, venga ritenuto ucciso legalmente. Oppure: Nei riguardi di uno straniero vale il diritto di rivendicazione. O ancora: Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia libero dalla patria potestà. Pur non escludendo un’influenza greca, le leggi sono chiaramente il frutto delle consuetudini dei romani e del loro senso pratico. Le XII Tavole non costituiscono un complesso sistematico di tutto il diritto privato e pubblico, sono un importante passo in avanti verso la parificazione dei diritti dei cittadini romani. La sostituzione del diritto consuetudinario con uno scritto rappresentava una grande conquista della plebe; era stato, infatti, interesse dei ceti dominanti, che detenevano il monopolio del potere giudiziario, mantenere una legislazione affidata alla memoria dei giudici.

Le leges regiae

Leggi delle XII Tavole

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n lic o ess c n o lo c o t i T

Primo documento di prosa organizzata

■ La cronaca Grande importanza avevano per i romani i “fasti”, un vero e I fasti proprio calendario civile, redatto dai pontefici. Riportava i giorni dell’anno in cui era lecito dedicarsi alle attività pub-

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1 - Il periodo delle origini

Tabula Dealbata

Gli Annales Maximi

I commentarii

bliche (fasti), e quelli in cui non era lecito per motivi religiosi (nefasti). Vi erano inoltre annotati le cerimonie, i mercati, le calamità naturali, gli spettacoli, gli avvenimenti astronomici, i prodigi. In seguito la parola fasti (fasti consulares; fasti pontificales; fasti triumphales) indicò anche gli elenchi dei magistrati in carica annuale, gli atti ufficiali, le vittorie militari. Più tardi, il collegio dei pontefici pubblicò ogni anno sulla Tabula Dealbata (tavola bianca), esposta presso la Regia (sede del pontefice massimo e del rex sacrorum), non solo i nomi dei magistrati, ma anche gli avvenimenti di pubblica importanza, civile, religiosa, commerciale e militare. Questi documenti, scritti e consultabili con il nome complessivo di annales, registravano il ricordo di avvenimenti fondamentali e perciò fornivano una storia del popolo romano. Nel sec. II a.C., riuniti in 80 volumi per ordine del pontefice Publio Muzio Scevola, presero il titolo di Annales Maximi. Sfortunatamente un incendio aveva in gran parte distrutto le annate anteriori al 390 a.C.: per questo sono poche le notizie attendibili dei primi secoli della storia di Roma. Tutti i più importanti magistrati, come i consoli, i questori e i censori, redigevano diari, i commentarii, in cui registravano accuratamente i fatti salienti della loro magistratura e i provvedimenti presi. Era una memorialistica del tutto privata, che però poteva diventare pubblica quando i commentarii venivano depositati presso il collegio dei pontefici. Anche i vari collegi sacerdotali annotavano i loro atti nei Libri pontificum, nei Libri augurum, nei Libri saliorum.

■ L’oratoria e Appio Claudio Cieco Fin dalla nascita della repubblica, l’oratoria ebbe importanza rilevante, in quanto l’arte del parlare e del convincere dava fama, successo, potere ed era base necessaria della carriera politica. Adatta all’indole pragmatica dei romani, essa costituiva l’unica attività intellettuale degna di un cittadino di ceto elevato. Non si conosce nulla degli oratori preAppio Claudio Cieco cedenti Appio Claudio Cieco, il primo di cui si hanno notizie storiche sicure. Patrizio di origine (sec. IV-III a.C.), molto aperto ai problemi sociali della sua epoca, nel 312, da censore, introdusse uomini nuovi in Senato, persino figli di liberti. Fece costruire il primo acquedotto (Aqua Appia) e dette inizio ai lavori della via Appia (regina viarum), la prima grande strada militare che conduceva a Capua. Fu console nel 307 e nel 296; partecipò alle guerre sannitiche e, orIl discorso contro mai vecchio e cieco, persuase il Senato a respingere la paPirro ce offerta da Pirro, re dell’Epiro, pronunciando (280) un

Importanza dell’oratoria

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1 - Il periodo delle origini

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famoso discorso cui Cicerone alludeva come al primo discorso ufficiale mai pubblicato a Roma. Scrisse un Carmen Carmen de moribus de moribus, raccolta di massime moraleggianti in versi saturni fra cui, delle tre rimaste, la celebre: “Ognuno è artefice del proprio destino” è la più famosa. Non si sa se nei suoi scritti subì il fascino della cultura greca. Si interessò anche di diritto, facendo raccogliere e pubblicare dal suo segretario, Gneo Flavio, il cosiddetto Ius Flavianum, la prima ope- Lo Ius Flavianum ra latina di procedura giudiziaria. La tradizione gli attribuisce anche una riforma ortografica, con l’introduzione della consonante r intervocalica, al posto della s, e l’abolizione della z.

La poesia: i carmina

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Nel periodo preletterario delle origini la poesia si limitava alla sfera del pratico e dell’occasionale, cantando i sentimenti più sentiti della vita spirituale, religiosa e civile in componimenti detti carmina (da cano: canto), che usavano il verso saturnio (vedi a pag. 15). In ambito letterario il termine viene utilizzato per designare componimenti poetici di notevole estensione, mentre in questa fase antica, carmen non indica solo quello che è cantato, e cioè i componimenti in poesia, ma più genericamente tutto ciò che è di particolare solennità, che sta fuori dal parlato quotidiano, e quindi anche la prosa. Si trova così applicato alle più disparate forme di comunicazione, dalle preghiere alle filastrocche infantili e alle formule magiche, dalle leggi alle profezie e agli incantesimi, dalle nenie funebri ai giuramenti. I carmina hanno un contenuto piuttosto ingenuo e mostrano una certa rozzezza stilistica, nonostante il tentativo di elevare il tono espressivo. Mezzi tecnici poveri (rima, allitterazione, assonanza, figura etimologica e simmetria) e la cadenza di cantilena monotona aiutavano l’apprendimento a memoria.

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Comunicazioni fuori dal parlato quotidiano

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Contenuto ingenuo e rozzezza stilistica

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■ I carmina religiosi Tra i più antichi canti della poesia religiosa, risalenti al sec. VI a.C., vi è il Carmen Saliare, legato ai riti magico-religio- Il Carmen Saliare si dei Salii, è uno dei primi testi romani pervenuti, di cui sono rimasti pochi e spesso incomprensibili frammenti, conservati dagli eruditi latini. Ogni anno, in marzo e in ottobre, per celebrare l’apertura e la chiusura della stagione della guerra, i Salii (da salio: salto), i dodici sacerdoti di Marte, percorrevano in processione, vestiti da antichi guerrieri, i luoghi più importanti di Roma, intonando preghiere di invocazione agli dei, danzando e battendo con il piede il suo-

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1 - Il periodo delle origini

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Il Carmen Arvale

lo con colpi forti e regolari in ritmo ternario, percuotendo con bastoni gli ancilia, i dodici scudi sacri di bronzo. Secondo la tradizione il collegio dei sacerdoti Salii era stato fondato dallo stesso Numa Pompilio per custodire l’ancile caduto miracolosamente dal cielo, pegno divino per la salvezza di Roma, e gli altri undici perfettamente uguali al primo, costruiti dal fabbro Mamurio Veturio. È invece pervenuta una versione completa e attendibile del Carmen Arvale, risalente al sec. VI, perché il testo veniva trasmesso di generazione in generazione. È un canto propiziatorio affinché gli dei invocati diano fertilità ai campi. Il carmen si trova nei numerosi frammenti di un’epigrafe del 218 d.C. degli Acta fratrum Arvalium, in cui il collegio sacerdotale registrava la propria attività. Il canto, in versi saturni (vedi a pag. 15), ognuno ripetuto tre volte tranne l’ultimo ripetuto cinque volte, costituiva il momento culminante della processione della festa Ambarvalia nel mese di maggio. Nel carmen, di difficile interpretazione, si invocano i Lari, Marte e i Semòni, divinità campestri, perché proteggano i campi (arva) dalle pestilenze. Veniva eseguito durante il rito della purificazione dei campi e in altre cerimonie dai fratres Arvales, il collegio di dodici sacerdoti, tutti patrizi, dediti al culto della divinità agricola Dia, la terra nutrice, istituito secondo la tradizione da Romolo.

■ I carmina profani Legati alla sfera privata e profana sono i carmina convivalia, canti che, come riporta Cicerone, “era regola nei banchetti degli antenati che gli invitati cantassero uno dopo l’altro, accompagnati dal flauto, le gesta e le virtù degli uomini illustri”. In questi banchetti (convivia) i ceti più elevati si incontravano quasi quotidianamente, ricambiando a turno cene di carattere politico, e la poesia, la musica e la danza assumevano un ruolo importante. I carmina celebravano, probabilmente in saturni, le imprese gloriose di antenati illustri. Non si conosce nulla degli eroi celebrati, perché non è pervenuto neppure un frammento. I carmina triumphalia Brevi canti in saturni sono i carmina triumphalia, che i soldati improvvisavano durante le sfilate delle cerimonie di trionfo dei generali vittoriosi; espressioni rozze e plebee che avevano poco del trionfale, in cui i soldati alternavano alle lodi al vincitore, moteggi, battute triviali e licenziose. Le neniae Del tutto diverse dai canti trionfali sono le neniae, le lamentazioni funebri in versi che venivano intonate durante le esequie in lode del defunto, prima da un parente e in epoca più tarda dalle praeficae, donne appositamente as-

n

I carmina convivalia

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1 - Il periodo delle origini IL VERSO SATURNIO Il saturnio, l’unico verso usato nella poesia latina arcaica, prende il nome dal dio Saturno che, secondo il mito, si era rifugiato nel Lazio dopo la cacciata dal cielo; è detto anche faunio, in onore di Fauno, il dio indigeno che lo avrebbe inventato. Il poeta Ennio scrive che gli antichi canti erano in saturni e che a questo verso ricorrevano i vati e i fauni, intendendo forse così indicare il suo uso nei canti della tradizione religiosa e agreste. È un verso imprevedibile, dalla struttura estremamente fluida sulla cui natura gli studiosi non sono unanimi: ha un ritmo quantitativo, costruito cioè secondo una precisa successione di sillabe lunghe e brevi, oppure accentuativo, basato cioè su una determinata alternanza di sillabe toniche e sillabe atone, oppure, ancora, quantitativo e accentuativo insieme. Il fatto è che nei pochi versi pervenuti, circa duecento

tra epigrafici e letterari, non si riscontrano due saturni uguali. È probabile comunque che nei primi secoli il verso avesse un ritmo accentuativo di origine indoeuropea, e successivamente, in fase soprattutto letteraria, diventasse quantitativo, perché più adatto alla natura della lingua latina. Già nel I sec. d.C. il grammatico Cesio Basso sosteneva fosse quantitativo: composto da due membri o cola che formano un dimetro giambico catalettico e da un itifallico o tripodia trocaica; aggiungeva però che aveva trovato un solo verso formato così. Usato a lungo nei secoli delle origini, il saturnio fu adottato in letteratura da Livio Andronico (vedi a pag. 22) e da Nevio (vedi a pag. 23) e poi scomparve per sempre, sostituito dall’esametro (vedi a p. 35) di origine greca, forse perché troppo irregolare per il gusto sempre più raffinato degli autori.

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soldate. Probabilmente erano in parte improvvisate secondo uno schema fisso. Del resto il funerale dei personaggi in vista di Roma diventava una cerimonia pubblica, con un grandioso corteo cui partecipavano tutti i parenti e gli amici e, simbolicamente, anche gli antenati, rappresentati da persone con maschere di cera. Giunti al Foro, il figlio del defunto, oppure un altro parente stretto o un amico, pronunciava un discorso commemorativo, la laudatio funebris, La laudatio funebris che celebrava le virtù e le imprese del defunto.

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Il teatro Fescennino, satura e atellana rappresentano le forme preletterarie teatrali di Roma: sono in versi e tutte di carattere popolare.

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■ Il fescennino Il fescennino, manifestazione tipica del mondo agreste, era Scambio di battute un vivace scambio di battute licenziose, in rozzi e improv- licenziose visati versi, che i gruppi di contadini si scambiavano nel corso delle cerimonie dopo il raccolto o delle feste dei Liberalia, in onore del dio della fecondità. Il termine sembra derivare dalla cittadina falisca di Fescennium, nell’Etruria me-

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1 - Il periodo delle origini

ridionale. Il fescennino è un embrione di rappresentazione drammatica, sia per la sua forma di dialogo, sia perché i contadini indossavano maschere grottesche, le personae, fatte di corteccia d’albero. Penetrati in città, durante le feste nuziali, i versi fescennini furono oggetto di una legge delle XII Tavole, perché spesso diffamatori.

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La satura rappresentazione

■ La satura Provenivano dall’Etruria anche gli attori (histriones) che, secondo Livio, diedero inizio ai primi ludi scaenici nel 364 a.C. Nel corso delle cerimonie per placare gli dei e allontanare una grave epidemia, fu messo in scena uno spettacolo in cui alcuni artisti danzavano al suono del flauto. I romani alla danza e alla musica aggiunsero in seguito il canto e la recitazione con versi di tipo fescennino. Nacque così la satura, rappresentazione drammatica più complessa, di cui non è rimasto nulla. Il suo nome deriva da satura lanx, piatto colmo di molti cibi diversi, assimilabili ai vari elementi che concorrevano a comporla. La satura terminava spesso con un exodium, vale a dire un fine spettacolo, in cui un attore (exodiarius) eseguiva un canto buffonesco, mimandolo, per allietare gli spettatori.

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Il ruolo degli attori

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■ L’atellana Decisamente più importante per la storia del teatro romano è la nascita verso la fine del sec. IV a.C. dell’atellana (fabula atellana), farsa di origine osca che trae nome da Atella, una piccola città della Campania. Gli attori indossavano maschere che li trasformavano in personaggi facilmente riconoscibili dal pubblico per il modo di pensare, di agire, di parlare, di vestire, e improvvisavano su un rudimentale canovaccio prestabilito di argomento burlesco e grossolano, con un linguaggio plebeo, volgare e osceno. Quattro erano i ruoLe maschere e i ruoli li fissi più comuni dell’atellana: Pappus, il vecchio rimbambito, lussurioso e avaro, gabbato sempre dall’amante e dal figlio; Maccus, lo scemo e millantatore dalle orecchie d’asino, vittima predestinata dei furbi; Bucco, il servo spaccone, chiacchierone e ghiottone; Dossennus, vecchio gobbo e astuto, saggio e perfido, parassita e amante dei banchetti. Sembra che il metro fosse il versus quadrato, due unità metriche ognuna di due piedi. L’atellana ebbe grande diffusione e continuò a vivere come exodium, anche quando con Livio Andronico (vedi a pag. 22), iniziò il teatro su modello greco. Nel sec. I a.C. assunse forma letteraria con Pomponio e Novio (vedi a pagg. 53-54), che al canovaccio e all’improvvisazione sostituirono un testo totalmente scritto.

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1 - Il periodo delle origini

SCHEMA RIASSUNTIVO PRIMI SECOLI (SECC. VIII-VII A.C.)

Nei primi secoli della sua storia, Roma ha una produzione anonima e tramandata oralmente, ma nulla di specificatamente letterario.

LE ISCRIZIONI

I primi documenti pervenuti della lingua latina sono epigrafi di difficile interpretazione come il Lapis Niger (secc. VII-VI), il Vaso di Dueno (secc. VII-VI), la Cista Ficoroni e le iscrizioni sulle tombe della famiglia degli Scipioni (sec. III), interessanti perché prima testimonianza diretta del verso saturnio.

LA PROSA Il diritto

Le Leggi delle XII Tavole costituiscono non solo una grande conquista della plebe, che otteneva la certezza del diritto, ma hanno anche importanza preletteraria come primo documento di prosa organizzata. La redazione annuale degli Annales e la loro riunificazione in 80 libri con il titolo di Annales Maximi fornisce la storia del popolo romano. È l’unica attività intellettuale degna di un patrizio, perché necessaria per fare carriera. Appio Claudio Cieco (sec. IV a.C.), il primo oratore di cui ci è giunta notizia, convinse il Senato a respingere la pace con Pirro con una famosa orazione (280) che era ancora letta ai tempi di Cicerone.

La cronaca L’oratoria

LA POESIA

Il più antico verso romano è il saturnio e il primo componimento di cui si ha memoria è il carmen. Di questo genere sono i più antichi inni religiosi: il Carmen Saliare e il Carmen Arvale; il primo cantato dai sacerdoti Salii in primavera e in autunno per l’apertura e la chiusura della guerra; il secondo dai sacerdoti Arvali per propiziare la fertilità dei campi. Profani sono i carmina convivalia e triumphalia e le neniae.

LE ORIGINI DEL TEATRO

Forma primitiva di poesia teatrale sono i versi fescennini, battute licenziose che i contadini si scambiavano durante le feste, e la satura, rappresentazione più complessa, di origine etrusca, con canto, recitazione, danza e gesticolazioni mimiche. Decisamente più importante per il teatro è l’atellana, farsa di origine osca recitata su un canovaccio da maschere fisse, quali Pappus, Maccus, Bucco e Dossennus.

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2 Il teatro Il contatto sempre più intenso con la civiltà ellenistica dell’Italia meridionale apre ai romani le porte della letteratura e del pensiero greco. Quando Livio Andronico nel 240 a.C. mette in scena una tragedia ispirandosi ai modelli greci, non solo scrive un’opera d’arte nella lingua di Roma, ma dà inizio a un teatro diverso, con novità che il pubblico, sia plebeo sia aristocratico, è pronto a recepire e a seguire in massa.

I rapporti col mondo greco I Libri Sibillini

Influenza del teatro greco

I rapporti col mondo greco erano già stabiliti nei primi secoli della storia di Roma come confermano i Libri Sibillini, che la tradizione romana faceva risalire all’epoca di Tarquinio il Superbo (sec. VI a.C.). Autrice della raccolta di oracoli era considerata la Sibilla, profetessa del santuario della colonia greca di Cuma. Fattore decisivo per la nascita della letteratura latina fu l’intensificarsi dei contatti, nel III sec. a.C., con la fiorente civiltà ellenistica dell’Italia meridionale. Gli stessi romani riconobbero l’essenzialità dei modelli greci per lo sviluppo della loro cultura: il poeta Orazio dice che “la Grecia conquistata conquistò a sua volta il vincitore ancora rozzo e introdusse le arti nel Lazio contadino”. Non fu certo un caso che Livio Andronico (vedi a pag. 22) venisse da Taranto anch’essa colonia greca.

La fabula Teatro e politica

Nel periodo arcaico il termine latino fabula designava qualsiasi rappresentazione teatrale tragica o comica. Il genere ebbe un grande sviluppo: il teatro rappresentava un momento di intrattenimento collettivo a carattere popolare e, in quanto tale, a Roma era organizzato, a spese dello Stato, dagli edili e dal pretore urbano durante le cerimonie religiose. La popolarità che esso arrecava poteva infatti tradursi facilmente in un vantaggio per la carriera politica, così che talvolta erano gli stessi magistrati ad assumersi l’onere delle spese dei ludi scaenici, che si tenevano durante le feste religiose (feriae), nelle quali, oltre alle cerimonie sacrali, si disputavano gare sportive (ludi circenses) e si tenevano spettacoli di vario genere.

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■ I ludi pubblici La rappresentazione di tragedie e di commedie avveniva du-

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2 - Il teatro

rante le feste religiose principali, che a Roma erano quattro: in aprile, in onore della dea Cibele, la Magna Mater, si tenevano i ludi Megalenses, istituiti nel 191 a.C.; in luglio i ludi Apollinares, fondati nel 212 in onore di Apollo; in settembre i ludi Romani in onore di Giove Ottimo Massimo, che erano i più antichi perché risalivano al 364; infine, in novembre, i ludi Plebeii, iniziati nel 220 in onore di Giove. A queste feste si devono aggiungere anche i ludi Floreales, iniziati nella seconda metà del sec. III, ma celebrati con regolarità dal 173 a. C., e altre feste di carattere straordinario, come quelle per il trionfo di un generale.

Il palcoscenico

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■ Lo spazio scenico, attori e autori Prima del 55 a.C., anno in cui fu costruito il primo teatro permanente in pietra, quello di Pompeo, le rappresentazioni erano tenute su un palcoscenico in legno (pulpitum) provvisorio, montato in una via o in una piazza, soprattutto al Circo Massimo e al Circo Flaminio. La scena era rappresentata da pannelli mobili dipinti, provvisti di porta per consentire l’ingresso degli attori. Una serie di sedili mobili permetteva ai patrizi e, forse, anche ad altri spettatori di assistere alla rappresentazione seduti, mentre il resto del pubblico stava in piedi. Le parti femminili erano recitate da attori maschi, riu niti in compagnie (greges) dirette da un capocomico (dominus gregis). Gli attori bravi diventavano famosi e guadagnavano bene, ma erano quasi tutti schiavi o liberti. Gli autori stessi non erano di elevata condizione sociale e nessuno di loro era nato a Roma. Quando nel 207 a.C. venne fondato il collegium scribarum histrionumque, cioè una specie di corporazione degli autori e degli attori, con sede sull’Aventino nel tempio di Minerva, nessun libero cittadino romano ne entrò a far parte. Tuttavia l’istituzione di questo collegium stava a indicare non solo l’importanza che il teatro aveva assunto nella città, ma anche l’esistenza di altri scrittori di cui non è rimasto il nome, oltre a Livio Andronico e a Gneo Nevio; uno di questi compose il Carmen Priami, un altro il Carmen Nelei. Sulla s modo che gli spettatori potessero riconoscere immediatamente il tipo di personaggio: il vecchio, il giovane innamorato, il parassita, l’avaro, il soldato fanfarone, la matrona, lo schiavo, il padrone e altri ancora. Non si sa se le maschere fossero già in uso all’epoca di Andronico, ma lo era senz’altro nel sec. II a.C.

Gli attori e gli autori

Il collegium scribarum histriomumque

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2 - Il teatro I GENERI TEATRALI Palliata (fabula palliata). Era la commedia di ambientazione greca (pallium è infatti il termine latino che designa il mantello greco indossato dagli attori), che si ispirava dichiaratamente ai testi degli autori della commedia nuova, quali Filemone, Difilo e, soprattutto, Menandro, dei quali assume intrecci, ambienti e personaggi, con libertà creativa e spesso col procedimento della contaminatio. Introdotta da Livio Andronico (vedi a pag. 22) e da Gneo Nevio (vedi a pag. 23), ebbe i maggiori interpreti in Cecilio Stazio (vedi a pag. 47), in Plauto (vedi a pag. 30) e in Terenzio (vedi a pag. 48). A un prologo, in cui erano esposti l’antefatto, la trama e la richiesta agli spettatori di essere indulgenti, seguivano una protasi, uno svolgimento e un finale. Le parti recitate erano i diverbia, le parti cantate i cantica; un flautista intercalava brani musicali. Si estinse a causa dell’eccessiva uniformità degli intrecci. Togata (fabula togata). Era la commedia di ambientazione romana, così chiamata dalla toga, la veste romana che indossavano gli attori. Ebbe inizio dopo la scomparsa della palliata. Aveva un carattere

La tragedia

La commedia

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chiaramente più popolare della commedia greca; metteva in scena il mondo degli umili, dei contadini, degli artigiani, con grande varietà di tematiche, con intrecci meno complicati e con un minor numero di personaggi. La togata venne anche chiamata tabernaria, quando metteva in scena il mondo delle osterie e delle botteghe. Restano solo scarsi frammenti di autori quali Titinio, Lucio Afranio, il più famoso, e Tito Quinzio Atta. Coturnata (fabula cothurnata). È la tragedia di ambientazione greca, che prende come modelli Eschilo, Sofocle, ma, soprattutto, Euripide. Il nome deriva dal coturno, l’alto calzare a forma di stivaletto con spessa suola, tipico degli attori greci. Pretesta (fabula praetexta). È la tragedia di ambientazione romana, di carattere patriottico e nazionale, che esalta avvenimenti importanti o eminenti figure politiche. Il termine deriva dal nome dell’abito (toga praetexta) indossato dai magistrati romani e orlato da una striscia di porpora. La prima rappresentazione di cui si ha notizia risale all’ultimo decennio del terzo secolo.

 Tragedia e commedia Le tragedie erano scritte in un linguaggio solenne, lontano da quello quotidiano, almeno da quanto si desume dai pochi frammenti pervenuti, nonostante il genere fosse molto rappresentato in tutta l’età repubblicana. Le commedie usavano, invece, una lingua più familiare e prevedevano parti recitate e cantate con grande varietà di metri e un ricco accompagnamento musicale, eseguito da un flautista. I temi trattati erano quelli della famiglia, del denaro, della gelosia, dell’amore contrastato, dello scambio di personaggi dovuto alla somiglianza. Qualsiasi riferimento alla vita politica e sociale contemporanea era escluso, anche perché le autorità esercitavano sulla fabula una censura preventiva, controllando ciò che si metteva in scena. Non vigeva certo la libertà di espressione di cui godevano gli autori greci.

2 - Il teatro

Il mimo Era uno spettacolo, di origine greca, in cui venivano parodiate situazioni, figure, aspetti della realtà quotidiana. Era una forma di intrattenimento popolare che si alternava all’atellana e che godeva di un pubblico assiduo e attento, in quanto la rappresentazione non richiedeva allo spettatore nessuno sforzo mentale. Aveva come scopo quello di suscitare la risata e questo era affidato all abilità e alla vena comica degli attori, che improvvisavano su un canovaccio una satira pesante e spesso oscena, entrando in scena senza maschera e a piedi nudi (planipedes). Il fatto più notevole era che nel mimo recitavano anche le donne, in genere cortigiane e schiave, guidate da un’archimima. La prima rappresentazione, di cui si abbia notizia, risale all’ultimo decennio del sec. III; in seguito si diffuse anche l’uso di recitare mimi come intermezzo o farsa terminale (exodium) nelle rappresentazioni sceniche più impegnative. Il genere assunse dignità letteraria all’epoca di Cesare, con Decimo Laberio e con Publilio Siro. Le donne recitavano e danzavano anche nel pantomimo, una danza, in genere licenziosa, in cui esperti ballerini mimavano l’azione senza parlare. Durante il balletto, un coro raccontava la trama. Non si conosce invece quasi nulla della tragicommedia o Fabula Rhintonica, così detta dal poeta greco Rintone di Taranto (secc. IV-III a.C.), che cercava di divertire gli spettatori, parodiando tragedie e commedie famose, in cui erano protagonisti eroi e anche divinità.

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Nel mimo recitavano anche le donne

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SCHEMA RIASSUNTIVO IL TEATRO

Grande fortuna ha in Roma la fabula, termine generico che può essere riferito a qualsiasi tipo di testo teatrale; la rappresentazione avviene nelle pubbliche feste religiose, durante i ludi scaenici. Il teatro è costituito da un palcoscenico provvisorio in legno, collocato in una piazza o in una via.

ATTORI E AUTORI

Gli attori indossano la maschera e guadagnano bene, ma sono quasi tutti schiavi o liberti. Anche gli autori non godono di alta posizione sociale: alla loro corporazione non aderisce nessun cittadino romano.

I GENERI

Palliata e cothurnata sono rispettivamente le commedie e le tragedie di ambientazione greca; togata e preaesta le commedie e le tragedie di argomento romano. Molta fortuna hanno anche il mimo e il pantomimo, di carattere decisamente più popolare.

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3 Livio Andronico e Gneo Nevio

Livio Andronico è il primo scrittore di rilievo della letteratura latina. Ha il merito di aver dato inizio al teatro introducendo la palliata e la cothurnata, di ambientazione greca. La sua traduzione in latino dell’Odissea di Omero aprì la strada a Gneo Nevio, che compose il Bellum Poenicum, il primo poema epico originale di argomento storico romano. Quest’ultimo è anche il creatore della praetexta, la tragedia di ambiente romano.

Livio Andronico Anche traducendo e imitando testi greci, l’originalità di Livio Andronico fu quella di aver voluto fare opera d’arte in latino e di aver introdotto i versi senario giambico e settenario trocaico; egli senz’altro contribuì anche al raffinamento della lingua.

Livio Andronico un grammaticus

■ La vita Nato nella colonia greca di Taranto, Andronico fu condotto a Roma come prigioniero di guerra in seguito alla conquista della città da parte dei romani nel 272 a.C., durante la guerra contro Pirro, re dell’Epiro. Fu schiavo di un certo Livio Salinatore, di cui educò i figli come precettore e di cui assunse il prenome quando venne affrancato. Trascorse la vita insegnando lettere latine e greche ai giovani delle famiglie altolocate, presso le quali era in voga sostituire per i figli l’educazione paterna con quella di pedagoghi greci. La fama procuratagli dall’attività letteraria crebbe tanto che il Senato nel 207 affidò a lui, già vecchio, durante la seconda guerra punica, un partenio, un carme propiziatorio in onore di Giunone, cantato da ventisette fanciulle. È forse proprio per onorare il poeta che fu istituito il collegium scribarum histrionumque e gliene fu affidata la direzione. Morì probabilmente verso la fine del sec. III. ■ La traduzione dell’Odissea Per le sue necessità di insegnante e forse anche per far conoscere e stimare ai giovani i capolavori della letteratura greca, nonché per iniziarli al gusto artistico, il poeta tradusse in versi saturni l’Odissea di Omero, opera che, per il suo contenuto avventuroso e fantastico, riteneva più adatta all’ambiente

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3 - Livio Andronico e Gneo Nevio

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romano dell’Iliade. Non è possibile sapere quanto questa traduzione (Odusia), primo esempio di epica in latino, fos- La traduzione latina se fedele all’originale, in quanto sono pervenuti solo una dell’Odissea trentina di frammenti per altrettanti versi; l’opera ebbe però una grande importanza storica, perché insegnò ai romani ad apprezzare non solo l’epica, ma anche la tragedia e la commedia, tanto che essa rimase a lungo come libro di testo nelle scuole. Non fu comunque apprezzata dagli autorevoli scrittori del I sec. a.C.: Cicerone, per esempio, pur riconoscendone la grande forza e vitalità, la reputava grossolana e primitiva, come una statua di Dedalo, cioè la rigida scultura greca arcaica. Il primo verso tramandato da Gallio (Virum mihi Camena insece versutum, narrami, oh Camena dell’astuto eroe) dà chiaramente l’idea della volontà del tarantino di trasportare l’esametro greco nell’insufficiente verso saturnio.

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■ La produzione teatrale La tradizione romana fa risalire a Livio Andronico l’inizio della letteratura latina. Nel 240 a.C., sotto il consolato di Gaio Claudio e di Marco Tudebano, gli venne affidato l’incarico di scrivere e allestire per i ludi romani, la rappresentazione di un dramma, tradotto dal greco e adattato al Il teatro di Livio gusto del pubblico romano, nell’ambito delle solenni ceri- Andronico monie per celebrare la vittoria nella prima guerra punica. A questo, seguirono altri drammi di cui sono pervenuti solo una cinquantina di frammenti. Si conoscono tuttavia i ti- Le tragedie toli di 8 tragedie, ispirate in parte al ciclo troiano che molto interessava il pubblico per le vicende di Enea, l’eroe legato alle origini di Roma Achilles, Aegisthus, Aiax mastigòphorus (Aiace con la frusta) Equos Troianus, Dànae, Andròmeda, Tèreus, Hermiona, e di 3 palliate di incerto argomento Gladiolus, Ludius, Virgus. Oltre che autore fu anche attore. Con molta probabilità Andronico rimaneggiò liberamente opere greche, ricorrendo anche alla contaminatio.

Gneo Nevio Gneo Nevio (ca 275-201 a.C.) fu con Livio Andronico il più La vita antico poeta latino. Di origini plebee e cittadino romano, nacque in Campania, forse a Capua. Combattè come soldato nella prima guerra punica e assistette anche alla seconda guerra punica. Spirito libero e indipendente, avversò fie- Spirito libero ramente l’aristocrazia che attaccò con un linguaggio ag- e indipendente gressivo; i suoi strali pungenti contro la potente famiglia dei Metelli, probabilmente in una commedia, gli costarono la prigione. Morì, forse esule a Utica, in Africa. 23

3 - Livio Andronico e Gneo Nevio

Le commedie

Un poema epico sulla prima guerra punica

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Palliate e tragedie

■ Il drammaturgo Si affermò come autore drammatico a partire dal 235 a.C., cinque anni dopo la messa in scena del primo dramma di Livio Andronico (vedi a pag. 23). Della sua attività teatrale rimangono una trentina di titoli di commedie palliate, genere congeniale allo spirito caustico del poeta, e di sei tragedie di argomento greco; due delle quali, Danae e Equos Troianus, hanno lo stesso titolo delle opere di Livio Andronico. Fra gli scarsi frammenti, il più significativo appartiene alla commedia Tarentilla (La ragazza di Taranto), vivace ritratto di una cortigiana intenta a civettare con i suoi amanti. Nevio, secondo la testimonianza di Terenzio, fu il primo scrittore di palliate a ntrodurre la contaminatio (la presenza di più generi letterari in un testo), ma fu anche il primo a far rappresentare delle praetextae, cioè le tragedie di argomento storico romano: Romulus, sulle origini leggendarie di Roma, e Clastidium in cui celebrava la vittoria di Casteggio (222 a.C.) del console Marco Claudio Marcello sui Galli Insubri. ■ Il Bellum Poenicum La sua opera maggiore, scritta, secondo Cicerone, in tarda età, fu il Bellum Poenicum (La guerra punica), di grande importanza storica perché fu il primo poema epico della letteratura latina. Trattava della prima guerra punica, usando probabilmente il procedimento degli annalisti, ma introduceva con grande originalità gli inizi mitici di Roma, come la leggenda di Enea, capostipite dei romani. Dei circa 4000 versi saturni originali rimangono solo una sessantina; fu diviso successivamente in sette libri dal grammatico Ottavio Lampadione. I giudizi e le ampie citazioni, lasciati dagli scrittori latini venuti dopo di lui, indicano che il suo poema rimase a lungo famoso presso i romani, benché fosse considerato rozzo per la lingua arcaica. Essenziale fu comunque l’introduzione delle gesta storiche e la trasformazione della storia stessa in mito, uso che divenne poi caratteristico della letteratura latina, da Ennio a Virgilio.

3 - Livio Andronico e Gneo Nevio

SCHEMA RIASSUNTIVO LIVIO ANDRONICO

Livio Andronico (sec. III a.C.), padre della letteratura latina, era di origine greca. Condotto a Roma da Taranto come schiavo, fu affrancato da un certo Livio Salinatore. Rimangono frammenti della sua traduzione in latino, in versi saturni, dell’Odissea di Omero; molto apprezzata dai romani, fu a lungo libro di testo nelle scuole. Delle sue palliate e cothurnatae sono pervenuti alcuni titoli e pochi versi.

GNEO NEVIO

Di origine campana, Nevio (ca 275-201 a.C.) fu il primo a usare la contaminatio. Rimangono pochi frammenti delle sue opere drammatiche, ma pare che abbia introdotto per primo la tragedia praetexta, di ambiente romano. Cantò, nel poema epico Bellum Poenicum, la prima guerra punica contro Cartagine, alla quale aveva partecipato.

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4 Plauto Plauto è con Terenzio il più importante commediografo della letteratura latina, la cui influenza è arrivata fino al teatro più recente (Machiavelli, Shakespeare, Ben Johnson, Molière, Giraudoux, fra gli altri). Plauto si ispira ai modelli greci, ma rivela autonomia, operando una sintesi geniale e originale con elementi presi dalla vita quotidiana romana e dalla tradizionale farsa italica. È il primo scrittore dell’età arcaica di cui sono pervenute opere complete.

La vita

Le origini del nome

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Le notizie sulla vita di Plauto sono scarse: era di origine umbra, nato nel territorio dell’attuale Romagna prima del 250 a.C., ma la data di nascita è puramente congetturale e si ricava da Cicerone che lo definisce senex (vecchio; quindi per i romani era almeno sessantenne) quando scrisse lo Pseudolus, la cui prima rappresentazione avvenne nel 191. Anche il nome è stato a lungo oggetto di discussione: nelle edizioni fino all’Ottocento appare come Marcus Accius (o Attius) Plautus, in seguito venne corretto in Titus Maccius Plautus. Maccius è una chiara derivazione da Maccus, la maschera dell’atellana, mentre Plautus, forma romanizzata dell’umbro Plotus, significa secondo i filologi “dai piedi piatti” o “dalle orecchie lunghe e pendenti”. Plauto era cittadino romano sicuramente libero. È leggenda dei biografi antichi la notizia che, dopo aver perduto i guadagni realizzati con la sua prima attività di attore, fosse ridotto a condizione servile e costretto a girare la macina di un mulino Dubbia è la cronologia delle opere: oltre alla data dello Pseudolus (191 a.C.) si conosce solo quella dello Stichus (200 a.C.); un’allusione contenuta nel testo permette di collocare la rappresentazione della Casina dopo il 186 a.C. Sicura invece è la data della morte, desunta sempre da Cicerone, avvenuta a Roma nel 184.

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La cronologia delle opere

Le commedie varroniane Plauto fu un autore di grande successo ed è probabile che impresari con pochi scrupoli facessero passare come sue opere teatrali scritte da altri. Quando nel sec. I a.C. M. Terenzio Varrone affrontò con rigore il problema dell’autenticità, a Plauto erano attribuite ben 130 palliate. Il grammati26

4 - Plauto

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Le commedie autentiche

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co ne distinse un gruppo di 20 sicuramente autentiche, un altro di 19 incerte, altre 90 decisamente spurie. Le commedie autentiche, dette appunto Fabulae Varronianae, sono conservate, tranne la Vidularia (La commedia del baule) di cui sono rimasti solo frammenti; altre presentano qualche lacuna. Amphitruo (Anfitrione). È definita nel prologo tragicom media. Giove, innamorato di Alcmena moglie del re di Tebe, assume le sembianze del marito Anfitrione, che si trova lontano, e passa con lei, ignara, un notte d’amore. Lo aiuta Mercurio travestito da Sosia, il servo del sovrano. Il ritorno improvviso dei veri Anfitrione e Sosia innesca una serie di spassosi equivoci, che terminano quando il re degli dei annuncia ad Anfitrione che Alcmena ha partorito miracolosamente due gemelli, uno figlio del re, l’altro, Ercole, figlio di Giove. Asinaria (La commedia degli asini). Argirippo è innamorato della cortigiana Filenio. Il padre Demeneto gli procura il denaro per riscattare la sua bella, sottraendo alla moglie, con l’assistenza di un astuto servo, il ricavato della vendita di alcuni asini. In compenso il vecchio libertino vorrebbe possedere a sua volta Filenio, ma viene scoperto e picchiato dalla moglie. Aulularia (La commedia della pentola). Il vecchio avaro Euclione, ossessionato dalla paura di essere derubato di una pentola piena d’oro trovata in casa, vive con la figlia Fedra nella più grande miseria. La pentola finisce per sparire; sarà utilizzata dal giovane amoroso, con l’aiuto dello schiavo, per ottenere le nozze con l’amata Fedra, che è la figlia di Euclione. Bàcchides (Le Bacchidi). Protagoniste della commedia, che ha un intreccio vivace e pieno di spassosi equivoci, sono due cortigiane gemelle e omonime, le Bacchidi. Mnesiloco e Pistoclero ne diventano gli amanti. I brillanti inganni del furbo schiavo Crisalo, ai danni del padre di Mnesiloco, procurano la somma necessaria per riscattare una delle sorelle dal soldato Clomaco. Captivi (I prigionieri). È una commedia priva di personaggi femminili e dall’intreccio poco vivace. Filepolemo è catturato in guerra dagli Elei e il padre Egione vuole scambiarlo con due schiavi, un padrone e un servo, che ha appositamente acquistato. Trattenendo come ostaggio il padrone, invia in patria il servo Tindaro, per effettuare il riscatto. Ma i due si sono scambiati le parti. La commedia si conclude non solo con il ritorno di Filepolemo, ma anche con la scoperta che Tindaro è suo fratello, rapito da bambino.

Captivi

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4 - Plauto

Càsina

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Càsina (La sorteggiata). Padre e figlio ricorrono al sorteggio per possedere una trovatella, Càsina, cresciuta in casa. Prevale il padre che, per non farsi scoprire dalla moglie Cleostrata, fa sposare al suo intendente la fanciulla, per abusarne in seguito. Cleostrata scopre tutto e fa indossare gli abiti nuziali a uno scudiero che sostituisce Càsina. Il vecchio si trova così nel letto un maschio al posto della giovane. La vicenda si conclude con le nozze del figlio di Cleostrata con Càsina, riconosciuta come figlia di un vicino. Cistellaria (La commedia della cesta). Prende il titolo da una cesta, in cui sono conservati alcuni giocattoli che permetteranno alla giovane Selenio, una trovatella allevata dalla cortigiana Melenide, di essere riconosciuta dai genitori e di poter così sposare il suo innamorato Alcesimarco, cui il padre aveva destinato un’altra ragazza. Curculio (Il «gorgoglione», che è un verme del grano). Lo scaltro parassita Gorgoglione escogita tutta una serie di raggiri per procurare al proprio padroncino Fedromo i denari necessari per il riscatto della bella Planesio, posseduta da un lenone e già promessa a Terapontigono Platagidoro, un soldato sbruffone. Nell’inevitabile lieto fine i due innamorati si sposano perché si scopre che la giovane è nata libera. Epìdicus (Epidico). L’astuto servo Epìdico mette in atto tutta una serie di inganni ai danni del padrone Perifane, per procurare al figlio di lui il denaro per acquistare due schiave di cui si è successivamente innamorato. Gli inganni sono scoperti, ma il riconoscimento di una delle schiave come figlia di Perifane salva Epìdico dall’inevitabile punizione e gli fa ottenere la libertà. Menaechmi (I Menecmi). È la commedia degli equivoci provocati dalla somiglianza perfetta e dall’omonimia di due gemelli. A Epidamno giunge Menecmo II alla ricerca del fratello scomparso da bambino. Il continuo scambio di persona genera una serie di esilaranti equivoci che coinvolgono il cuoco, l’amante, il parassita, la moglie e il suocero di Menecmo I. Tutto si chiarisce quando i due gemelli, considerati ormai pazzi da tutti, si trovano finalmente insieme. Mercator (Il mercante). La commedia è incentrata sulla rivalità in amore tra il padre Demifone e il figlio Carino per una bella schiava acquistata dal giovane in terre lontane con i suoi guadagni di mercante. Il vecchio ordisce un intrigo per possederla, mascherando le sue intenzioni sotto l’aspetto dell’amore paterno e coniugale, ma alla fine viene svergognato dalla moglie e la giovane schiava sarà restituita al figlio. Miles gloriosus (Il soldato fanfarone). Pleusicle ama l’etera

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Filocomasio che Pirgopolinice, un soldato smargiasso, ha rapito portandola a Efeso. Nella città sbarca Pleusicle, che alloggia da Periplectomeno, un simpatico vecchietto, la cui casa confina con quella di Pirgopolinice. Un’apertura nella parete divisoria e la fertile fantasia dello schiavo Palestrione permettono a Filocomasio prima di vedere spesso Pleusicle e poi di ricongiungersi definitivamente con lui, mentre il soldato, ripetutamente ingannato, viene bastonato dai servi di Periplectomeno, nella cui casa si era introdotto per una avventura galante. Mostellaria (La commedia del fantasma). Approfittando dell’assenza del padre, Filolachete ha riscattato l’etera Filematio con denaro preso a usura. Il genitore torna, mentre il figlio sta banchettando con la cortigiana e gli amici. Ma lo schiavo Tranione gli impedisce di entrare col pretesto che la casa è disabitata per la presenza di uno spettro, raccontandogli che Filolachete ne ha perciò acquistata un altra, indebitandosi con un usuraio. L’inganno viene scoperto, ma tutti sono perdonati. Persa (Il persiano). Lo schiavo Tossillo ha riscattato Lemniselene dal lenone Dordalo con il denaro prestatogli dallo schiavo Segaristione. Per rientrare in possesso della somma, Tossillo escogita un piano ai danni del lenone: Segaristione, travestito da persiano, finge di volergli vendere una bella schiava araba, che in effetti è la figlia del parassita Saturio ne. Il raggiro riesce: Dordalo sborsa il denaro per l’acquisto, ma Saturione si riprende la figlia e lo cita in tribunale per aver comperato una nata libera. Poenulus (Il cartaginese). Agorastocle ordisce con il servo Milfione una trappola giudiziaria per ottenere l’amata Adelfasio, schiava del lenone Lica insieme con la sorella. L’arrivo del cartaginese Annone, che riconosce nelle sorelle le figlie rapite da bambine e in Agorastocle un nipote, permette ai due innamorati di sposarsi. Psèudolus (Il mentitore). Protagonista di questa commedia, considerata uno dei capolavori di Plauto, è il furbissimo e spavaldo schiavo Pseudolo. Il lenone Ballione vende a un soldato, dietro versamento di una caparra, la cortigiana Fenicio, gettando nella disperazione Calidoro. I due innamorati potranno ricongiungersi e sposarsi per merito di Pseudolo, che ordisce una serie incredibile di inganni ai danni di Ballione, del messo del soldato venuto a saldare il debito e a prendere la fanciulla, e dello stesso padre del suo padroncino. Rudens (La gomena). Due fanciulle, Palestra, di cui è innamorato Pleusippo, e Ampalisca, naufragate su una spiaggia presso Cirene, si rifugiano prima nel tempio di Venere, poi

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in casa dell’ateniese Demone per sfuggire al lenone Labrace. Demone riconosce in Palestra la figlia rapita da bambina, grazie ai ninnoli contenuti in un baule legato a una gomena. Un doppio matrimonio conclude la commedia. Stichus (Stico). Due sorelle, Panegiri e Panfila, attendono fiduciose il ritorno dei loro mariti, partiti ormai da tre anni per commerciare, senza piegarsi alle insistenze del padre che cerca di indurle al divorzio. I mariti ritornano salvi e ricchi. La vicenda si conclude con lo schiavo Stico che banchetta con l’amico Sagarino. Trinummus (Le tre monete). Callicle compera la casa dell’amico Carmide, messa in vendita in sua assenza dal figlio Lesbonico, perché l’amico gli ha rivelato che in essa è nascosto un tesoro. Lisitele chiede in moglie la sorella di Lesbonico e Callicle la fornisce di dote, fingendo però che essa provenga da Carmide, affinché Lesbonico non intuisca il segreto del tesoro. La vicenda si chiude con l’arrivo di Carmide e con il perdono del figlio. Truculentus (Lo zoticone). La commedia prende il titolo dallo zotico schiavo Truculento, ma protagonista è l’astuta Fronesio, che sfrutta contemporaneamente tre amanti, Diniarco, Strabace e Stratofane.

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Il rapporto con i modelli greci Palliate e contaminatio

Le fonti greche

Vortere barbare

Le commedie di Plauto sono palliate, ambientate quindi in Grecia e recitate in costume greco. Gli intrecci sono quelli caratteristici della commedia nuova attica, che si caratterizzava per il passaggio dalle tematiche sociali alle problematiche dell’individuo. A questi modelli Plauto attinge, servendosi anche della tecnica della contaminatio; tale fusione di parti di testi analoghi in una sola è però molto libera, perché serve per vivacizzare l’azione e ottenere l’applauso del pubblico. Sicuramente si è ispirato a Menandro (342291 a.C.), a Difilo (360-280 a.C.), a Filemone (360 ca-263 a.C.), ma anche ad autori minori. Plauto non mostra preferenze letterarie: la conoscenza diretta di ciò che piace al pubblico gli fa scegliere di volta in volta i modelli. Si leggono, in alcuni prologhi, le parole vortere barbare (tradurre dal greco in latino) e l’indicazione della fonte; ma quanto Plauto sia fedele ai modelli è un problema irresolvibile per l’impossibilità di mettere a confronto i testi latini con quelli greci, praticamente del tutto perduti. ■ L’autonomia dalle fonti È comunque ormai universalmente riconosciuta la grande

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4 - Plauto

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autonomia del poeta dalle fonti e, in generale, dalla com- Allusioni al mondo media greca. La coerenza di stile delle varie opere plautine romano male si concilia con modelli di testi e di autori diversi. Inserite nell’ambiente greco si trovano continue allusioni al mondo romano, ai suoi costumi e alla sua vita, al pubblico in teatro; e poi metafore, una lingua vivace e popolaresca, La lingua del tutto personale, toni decisamente più buffoneschi di quelli riscontrabili nel teatro greco, così pieno di sottile umorismo. Lo stesso si può dire per l’incongruenza e l’esagerazione di certi intrecci; anche i nomi greci dei protagonisti sono inventati da Plauto e raramente si ripetono nelle varie commedie.

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■ La struttura delle commedie Le commedie non sono divise in atti (la scansione attuale Originalità di Plauto è dovuta al periodo umanistico) e, a eccezione di quello dei marinai nel Rudens, sono prive di coro, presente nella commedia nuova attica, anche se ridotto a semplice intermezzo musicale tra due scene. Decisamente innovativo è l’ampio spazio riservato alla musica e al canto, monodico corale: Musica e canto dà vitalità alla scena e probabilmente era apprezzato dal pubblico. Le parti recitate (diverbia) e le parti cantate (cantica) si alternano con grande libertà compositiva, senza obbedire a uno schema fisso. La ricchezza e la varietà dei me- La metrica tri sono uno degli aspetti peculiari e più interessanti del teatro plautino: settenari trocaici e senari giambici per il recitato; per il canto, bacchici, dimetri cretici, anapesti e altri ancora. I prologhi espongono l’antefatto e alludono allo sviluppo della trama e al finale.

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Il mondo poetico

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L’anticipazione nel prologo delle linee essenziali della vicenda, lo squilibrio di certe parti rispetto ad altre, la mancanza di coerenza e organicità nell’azione indicano che l’in- L’interesse non è teresse di Plauto non è rivolto all’intreccio. Il più delle rivolto all’intreccio volte esso ricalca schemi stereotipati: la rivalità amorosa tra due personaggi, un vecchio e un giovane, il riscatto di una cortigiana in possesso di un lenone da parte di un innamorato, scambi di persona, equivoci improvvisa soluzione di situazioni apparentemente inestricabili e altrettante repentine rivelazioni d’identità (agnizione): come per miracolo lo schiavo è riconosciuto uomo libero; la trovatella figlia legittima; la cortigiana donna virtuosa; si ritrovano gemelli che ignoravano la reciproca esistenza e il lieto fine è scontato. 31

4 - Plauto ■ I personaggi I personaggi sono quelli tipici della commedia greca: il vecchio libertino, la dama raffinata, il giovane sempre innamorato, scavezzacollo e squattrinato, la cortigiana interessata ma in fondo buona, il lenone avido, il soldato sbruffone, che narra gloriose azioni militari compiute solo con la fantasia, il parassita pigro, pieno tuttavia di spirito e di iniziativa per procurarsi un pranzo; e poi cuochi, mercanti, artigiani e anche donne e uomini onesti, pieni di buon senso. Su tutti emerge Risalto dello schiavo lo schiavo, il deus ex machina della commedia plautina, il servus briccone e furbo, cinico e smaliziato, spavaldo ed egoista, ma fedele al suo padroncino. Spesso è lui il vero protagonista, quello che ordisce intrighi uno dopo l’altro, risolve i problemi con spregiudicata fantasia, coraggio, inesauribili trovate, ed è una fonte continua di risate. L’esempio più brillante è rappresentato dallo Pseudolo dell’omonima commedia

I tipi

Un mondo di farsa popolaresca

Assenza di valutazione etica

Il puro divertimento

Il teatro nel teatro

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■ Una comicità farsesca Le palliate di Plauto non contengono satira di costume o ammiccamenti alla vita contemporanea romana e, tanto meno, l’atteggiamento pensoso e malinconico dell’ateniese Menandro, che impronta gran parte del teatro di Terenzio (vedi a pag. 48). Il suo è un mondo di farsa popolaresca, incalzante e aggressiva, corposa e grottesca, di cinismo spregiudicato e di assoluta amoralità, in cui si fanno largo solo gli astuti e gli imbroglioni: quello che conta è raggiungere lo scopo prefissato. L’autore non si cura minimamente di dare valutazioni etiche o messaggi esistenziali. Alcuni dei personaggi più riusciti sono moralmente condannabili: si pensi alla spassosa e cinica malvagità del lenone Ballione nello Pseudolus o alla vanteria senza limiti del soldato nel Miles gloriosus, che ha avuto tanta eco nella produzione comica di ogni epoca. Non vi sono presupposti culturali o filosofici né problemi psicologici: lo scrittore vuole solo divertire il pubblico, cosa del resto non facile in un teatro che è composto da un palcoscenico posto in una piazza, con il pubblico in piedi e perciò più facilmente soggetto alla distrazione. L’invito scherzoso, che l’autore spesso rivolge agli spettatori, di seguire la rappresentazione in silenzio, mantenendo l’ordine e l’attenzione, aiuta a comprendere quale doveva essere l’atmosfera delle rappresentazioni teatrali nell’antichità. Gli attori, lo schiavo in particolare, dialogano spesso con il pubblico, gli chiedono di aiutarli nel loro compito, raccontano ciò che sta accadendo dietro le quinte: è il cosiddetto metateatro, il teatro nel teatro.

4 - Plauto ■ La versatilità linguistica La grandezza di Plauto è dovuta alla vivacità dei dialoghi, dei monologhi, alle caricature grottesche, all’irresistibile comicità delle trovate sempre nuove, al ritmo scoppiettante degli espedienti e agli improvvisi cambiamenti di situazione, per cui la risata sgorga spontanea e l’attenzione si fa più intensa. Si può parlare di un clima romanzesco, di spiritosa e divertente parodia della vita reale, in cui sembrano credibili le avventure più illogiche e strambe. In un mondo simile, il linguaggio riveste un ruolo fondamentale. La lingua di Plauto è un capolavoro, una delle più versatili e ricche della letteratura latina; i periodi prevalentemente paratattici (cioè fortemente coordinati) e la presenza di molti anacoluti (errori voluti) contribuiscono a dare l’immediatezza del parlato, che si adatta perfettamente ai personaggi rappresentati. Lingua popolaresca, con frizzi, con arguzie salaci, doppi sensi, in cui risuonano squillanti risate e urla roboanti di dolore; il tutto contrasta con espressioni tratte dal linguaggio tragico o epico, con chiari intenti di parodia. La deformazione grottesca è data da iperboli, onomatopee e ridondanze.

Vivacità dei dialoghi

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Spiritosa parodia della vita quotidiana

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

Plauto (Sarsina, prima del 250-Roma 184 a.C.). Scarsi sono i dati sulla vita del più famoso commediografo dell’età arcaica, che era di origine umbra (Sarsina) e sicuramente nato libero.

LE OPERE

Sono giunte praticamente complete 20 commedie palliate (Fabulae Varronianae) e frammenti di una ventunesima: Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Bàcchides, Captivi, Càsina, Cistellaria, Curculio, Epìdicus, Menaechmi, Mercator, Miles gloriosus, Mostellaria, Persa, Poenulus, Psèudolus, Rudens, Stichus, Trinummus, Truculentus e Vidularia.

FONTI E STRUTTURA DELLE COMMEDIE

Le trame e i personaggi si ispirano a quelli della “commedia nuova” ellenistica, ma il poeta crea un’opera originale e autonoma dalle fonti, sia nella lingua, sia nel nome dei personaggi, sia nella struttura, sia per le allusioni al mondo romano. La commedia, infatti, non è divisa in atti, non ha cori, dà ampio spazio al canto e alla musica, manca di coerenza e organicità.

IL MONDO POETICO

L’interesse di Plauto non è rivolto all’intreccio (spesso anticipato nei prologhi), né vuole lanciare messaggi morali o caratterizzare psicologicamente i personaggi: il suo scopo è solo divertire il pubblico. Il suo è un mondo di farsa popolaresca e di irresistibile comicità, di cinismo e di amoralità, in cui sembrano credibili le vicende più grottesche. Il tutto è espresso in una lingua versatile e ricca, con l’andamento del parlato.

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5 Ennio e i suoi continuatori Considerato dagli stessi antichi il “padre” della poesia, Ennio è il maggiore poeta dell’età arcaica. Con lui si impone definitivamente nella letteratura latina il modello greco e con lui si fa sempre più stretto il legame fra artisti e potere politico-economico. Per primo usa l’esametro negli Annales, il poema nazionale di Roma repubblicana e un modello di stile per i poemi successivi di Lucrezio e di Virgilio. Suoi continuatori nella tragedia sono Pacuvio e Accio, quest’ultimo il più famoso tragediografo latino, che però concedono al romanesco e al patetico.

Ennio - La vita

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Lo scrittore agiografo

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L’insegnamento e il teatro

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Le tre anime: osca, greca e latina

Ennio (239-169 a.C.) nacque subito dopo la prima guerra punica, a Rudiae, nella regione che gli antichi chiamavano Calabria e che corrisponde all’attuale Puglia meridionale. Qui si incrociavano la cultura osca, la greca e la latina: Ennio comprese perfettamente l’importanza di conoscere tre lingue e per questo si vantò di avere tre “anime”. È probabile che si sia formato nell’ambiente culturale di Taranto, ma in effetti non si sa nulla di lui fino al 204, anno in cui Catone il Censore lo condusse con sé a Roma dalla Sardegna, luogo in cui prestava servizio militare a fianco dei romani, forse come centurione. Stabilitosi definitivamente nella capitale, si dedicò all’insegnamento, affermandosi quindi come autore di teatro. Allontanato per la sua posizione culturale da Catone, si legò in amicizia con persone importanti, soprattutto con i potenti Scipioni, come lui favorevoli all’espansione della cultura greca. Nonostante la familiarità con gli Scipioni, continuò a vivere modestamente sull’Aventino, come tramanda San Gerolamo, in una stanza del collegium scribarum histrionumque, di cui assunse la direzione. Nel 189 accompagnò in Etolia il generale Marco Fulvio Nobiliore con l’incarico di scrittore e ne celebrò le imprese belliche, culminate nella conquista di Ambracia. Catone condannò duramente, come contraria alla tradizione romana, l’usanza tutta ellenizzante di farsi accompagnare nelle campagne militari da un poeta. All’avvenimento, infatti, Ennio dedicò un’opera agiografica, probabilmente una praetexta, non pervenuta. Il legame tra letterati e potere politico-economico diventa con Ennio decisamente stretto. Nel 184, seguì nel Piceno Quinto Fulvio Nobiliore, figlio di Marco, là recatosi per fondare alcune colonie militari; ottenne un pic-

5 - Ennio e i suoi continuatori

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La cittadinanza romana

Imponente produzione poetica

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colo podere e la cittadinanza romana, un riconoscimento pubblico dei suoi meriti di poeta. Ennio ne era così fiero che scrisse: “Io sono cittadino romano, io che prima fui cittadino di Rudiae”. Quinto Ennio morì di gotta a Roma, nel 169; secondo la tradizione, gli Scipioni gli avrebbero innalzato una statua nel sepolcro di famiglia, fuori Porta Capena, accanto a quella di Scipione l’Africano. L’intensa attività poetica di almeno un trentennio sfociò in una produzione imponente e variegata indice della vastità dei suoi interessi. Quanto la sua fama durasse a lungo presso i romani lo testimoniano i numerosissimi frammenti pervenuti per via indiretta, come citazioni di scrittori dei secoli successivi.

Gli Annales

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La notorietà di Ennio è dovuta agli Annales (Annali), il poe- Poema epico-storico ma epico cui dedicò gli ultimi anni della sua vita. Lo stesso autore pubblicò i 18 libri dell’opera man mano che venivano composti. Di circa 30 000 versi ne rimangono appena 600 sparsi e frammentati. Da quanto è possibile ricostruire nelle linee generali, gli Annales celebravano la storia di Roma Cronologia in ordine cronologico, dalle origini leggendarie con l’arri- celebrativa di Roma vo di Enea, agli avvenimenti contemporanei alla vita del poeta. ■ Fonti e metrica Fonti di Ennio furono con tutta probabilità gli annalisti, tra cui Fabio Pittore, i documenti ufficiali dello stato, quali gli Annales Maximi e i Commmentarii, il Bellum Poenicum di Annalisti e Nevio Nevio. Ennio non stimava molto quest’ultimo, ma entrambi avevano composto il loro poema, animati dall’ammirazione per quel popolo romano che li aveva accolti e di cui si sentivano parte. Ennio si distinse da Nevio per l’ampiezza della trattazione storica e per l’uso dell’esametro dattilico, il verso dell’epica greca. Proprio l’uso di questo metro pose a Ennio una serie di pro- L’esametro blemi linguistici. Il saturnio dell’Odissea di Livio Andronico (vedi a pag. 22) e del Bellum Poenicum di Nevio, il senario giambico, il settenario trocaico o altri metri usati in teatro, erano versi piuttosto liberi. Così non è l’esametro. Ennio dovette perciò predisporre norme ben precise e costanti, che lo costrinsero a studi grammaticali e ad audaci sperimentalismi. Da ciò la presenza di neologismi e parole di gusto arcaico, onomatopee, parole troncate e costrutti alla greca.

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5 - Ennio e i suoi continuatori

Eroica esaltazione del popolo romano

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Lo stile

L’autocelebrazione

■ La in poetica Ennio volle esaltare il popolo romano, la cui grandezza era oper lui frutto dell’intervento divino. Tutto il poema è immer-

so in un’atmosfera eroica; per dare forma epica ad avvenimenti storici, si servì del modello omerico, dal concilio degli dei all’avventura di Enea, dell’agiografia ellenistica, ma anche dell’annalistica tipicamente romana per il progredire della narrazione. I condottieri si comportano come eroi dei tempi omerici e anche gli avvenimenti contemporanei sono avvolti in un alone mitico. I versi rimasti mostrano una poesia vigorosa e appassionata, ma anche capace di assumere aspetti meditativi e di trattare con lievità temi delicati. Lo stile è solenne e magniloquente, intriso di grecismi e similitudini, con esametri interamente composti da dattili o da spondei, con frequenti allitterazioni, come la famosa o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti (O Tito Tazio, tu, tiranno, hai portato a te tanto grandi sventure). Grande fu l’influenza che gli Annales hanno esercitato sull’opera di Lucrezio e di Virgilio. Ennio ebbe un alto concetto di sé: afferma di essere la reincarnazione di Omero e narra di essere stato trasportato in sogno sul Parnaso, dove gli appare l’ombra del grande Omero. Questo illumina sulla consapevolezza che il poeta ebbe della propria grandezza e della funzione della sua opera. E non è l’unico autocompiacimento: è sufficiente, per esempio, pensare agli epigrammi autocelebrativi da lui composti.

Le opere teatrali Le tragedie

Le cothurnatae

Effetti drammatici e patetici 36

Oltre al capolavoro degli Annales, Ennio fu celebrato come autore di tragedie che egli scrisse nel corso di tutta la vita, l’ultima l’anno della sua morte. Queste furono ammirate e rappresentate per tutto il secolo seguente e anche oltre: Cicerone lo apprezzava per la sua produzione drammatica. Sono pervenuti i titoli di 22 cothurnatae e circa 200 frammenti per poco più di 400 versi, la maggior parte dei quali citati proprio da Cicerone. Gli argomenti preferiti sono quelli del ciclo troiano: Alexander (Alessandro, altro nome di Paride), Andromacha aechmalotis (Andromaca prigioniera), Iphigenìa (Ifigenia), Telamo (Telamone), Hècuba (Ecuba), Achilles (Achille), Aiax (Aiace). Ispirandosi soprattutto a Euripide, Ennio però prende come modelli anche Sofocle, Eschilo e altri autori tragici greci minori. A giudicare dai frammenti, egli va alla ricerca di effetti drammatici e patetici per toccare la sensibilità degli spettatori, in uno stile alto, con un linguaggio elaborato, colmo di artifici retorici e linguistici.

5 - Ennio e i suoi continuatori

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Rimangono anche i titoli di due praetextae, tragedie di ar- Le praetextae gomento romano: Sabinae (Le Sabine), in cui metteva in scena il famoso ratto, e Ambracia, che trattava della conquista di questa città dell’Epiro da parte di Marco Fulvio Nobiliore. Scrisse anche commedie, genere in cui sembra essere stato meno versato: il teatro comico inoltre era dominato prima da Plauto e poi da Cecilio Stazio (vedi pag. 47). Sono rimasti i titoli e 5 versi di due palliate: Caupuncula (L’ostessa) e Le palliate Pancratiastes (Il vincitore del pancrazio).

Le opere minori I pochi frammenti rimasti dei 4 libri di Saturae (Le satire) chiariscono soltanto la varietà dei temi e dei metri che le caratterizzavano. Ennio è l’iniziatore della satira letteraria ed è per- La satira letteraria tanto grave la perdita dell’opera, visto lo sviluppo che il genere ebbe nei secoli successivi. Lo stesso si può dire per gli epigrammi, un altro genere che ebbe molta fortuna. Di altre opere sono rimasti solo i titoli: Scipio (Scipione), un poemetto en- Opere di cui sono comiastico per il vincitore di Zama; Sota, dal nome del poeta rimasti solo i titoli Sotade di Maronea che scrisse versi licenziosi; Hedyphagètica (Il mangiare bene), trattatello di culinaria, forse da un poemetto del greco Archestrato di Gela; Protrèpticus (Protrettica), che riguardava la morale e argomenti filosofici; Epicharmus (Epicarmo) e Euhèmerus (Evemero), il primo intitolato all’omonimo commediografo siracusano (secc. VI-V a.C.), il secondo probabile traduzione o riduzione della Storia sacra dell’erudito greco Evemero da Messina (secc. IV-III a.C.), spiegazione razionalistica dell’origine umana degli dei. STRUTTURA DEGLI ANNALES Si è cercato di ricostruire la materia trattata negli Annales, che è stata alla fine distribuita nei vari libri secondo il seguente schema: libri I-III: proemio, arrivo nel Lazio di Enea, ospite del re Latino, Romolo e Remo, fondazione della città di Roma, ratto della Sabine, i sette re e la cacciata di Tarquinio il Superbo; libri IV-V: nascita della repubblica, guerre contro gli italici; libro VI: Appio Claudio Cieco, guerra a oltranza e vittoria su Pirro, intervenuto in difesa di Taranto; libri VII-X: guerre puniche, la prima trattata per sommi capi in quanto

già esposta da Nevio, esposta più diffusamente invece la seconda, che deciderà il destino del Mediterraneo, condotta dall’eroe prediletto di Ennio, Scipione l’Africano; libri XI-XII: guerra macedonica, con la vittoria (364) di Flaminino a Cinocefale su Filippo; libri XIII-XIV: guerra di Siria contro Antioco e vittoria di Magnesia; libro XV: sconfitta della Lega etolica e trionfo di Marco Fulvio Nobiliore; libri XVI-XVIII: avvenimenti successivi, come la guerra istrica e le lotte contro i liguri, i sardi e i corsi, probabilmente fino alla morte del poeta.

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5 - Ennio e i suoi continuatori

La tragedia dopo Ennio Anche Pacuvio e Accio, i poeti tragici continuatori di Ennio, si ispirano ai grandi modelli greci, rielaborandoli con grande originalità. Cicerone li apprezzava come drammaturghi, ma ne deplorava la lingua, troppo magniloquente, piena di costrutti artificiosi e di audaci grecismi. Entrambi ricercano effetti patetici e introducono trame romanzesche e, soprattutto Accio, risvolti orridi e truci. Lucio Accio è l’ultimo dei grandi tragici: dopo di lui la tragedia decade. Del resto il grande pubblico preferiva altri generi di intrattenimento, come l’atellana, il mimo o i combattimenti di gladiatori. La vita

Le tragedie cothurnatae

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■ Pacuvio Marco Pacuvio nacque a Brindisi nel 220 a.C. Libero di nascita, figlio di una sorella di Ennio, fu introdotto dallo zio nell’ambiente ellenizzante degli Scipioni. Oltre che poeta fu anche pittore: secondo Plinio il Vecchio dipinse le pareti del tempio di Ercole nel Foro Boario. Morì novantenne (130) a Taranto, città in cui trascorse gli ultimi anni della sua vita. Non è rimasto nulla delle sue Saturae (Le satire) che, probabilmente, avevano temi e metri vari, come quelle di Ennio. Divenne famoso come autore di cothurnatae, tragedie di argomento greco, in cui pare prevalesse l’influsso di Euripide. Della sua produzione rimangono 12 titoli, che indicano una predilezione per il ciclo troiano: Antiopa (Antiope), Armorum iudicium (Il giudizio delle armi), Chryses (Crise), Dulorestes (Oreste schiavo), Hermione (Ermione), Iliona (nome di una figlia di Priamo), Niptra (Il bagno), Teucer (Teucro), Atalanta, Periboea (Peribea), Pentheus (Penteo), Medus (Il persiano) e frammenti per circa 450 versi. Di soggetto romano era invece la praetexta Paulus (Paolo), che celebrava Lucio Emilio Paolo vincitore a Pidna (168) dell’ultimo re di Macedonia Perseo Le sue tragedie furono rappresentate per tutto il periodo repubblicano, ma Cicerone e Marziale lo giudicarono severamente accusandolo di scarsa padronanza della lingua.

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■ Accio Lucio Accio (170-85 ca a.C.) è il più famoso autore latino di tragedie, nacque a Pesaro nel 170 a.C. da genitori liberti e visse a Roma dove si legò a Decimo Giunio Bruto Gallego e all’aristocrazia tradizionalista, estraneo quindi al “circolo scipionico”. Nel 140, fece un viaggio in Asia Minore, forse a sco-

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5 - Ennio e i suoi continuatori

Le tragedie cothurnatae

Le due praetextae

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Invenzione linguistica solenne e retorica L’epica

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po di studio. Di carattere fiero e ambizioso, entrò in competizione con Marco Pacuvio (vedi pag. 38) e Gaio Lucilio (vedi pag. 55). Dominò la scena teatrale fino alla morte, avvenuta a Roma (84 a.C.) un anno dopo aver conosciuto il giovane Cicerone. Acquistò fama soprattutto come autore di cothurnatae, di cui rimangono 45 titoli. Attinse al ciclo troiano (Achilles, Achille; Armorum iudicium, Il giudizio delle armi; Hecuba, Ecuba; Astyanax, Astianatte; il figlio di Ettore, ecc.), a quello spartano (Aegisthus, Egisto; Atreus, Atreo; Clytaemnestra, Clitennestra; Chrysippus, Cresippo ecc.) e a quello tebano (Antigones, Antigone; Phoenissae, le Fenice; Alphesiboea, Alfesibea, ecc.). Accio manifestò una chiara preferenza per le vicende romanzesche, sanguigne e sinistre, pennellate a tinte fosche, con personaggi grandiosi, straripanti di energia. Il ripetersi degli stessi titoli nelle tragedie dei vari autori induce a ritenere che gli stessi gareggiassero tra loro nel trattare il medesimo argomento con maggiore originalità. Sono noti i titoli di due sole praetextae: Brutus, rappresentato nel 136 e Decius. Di tutta la sua vasta produzione sono pervenuti frammenti per circa 750 versi, che presentano quadri dal forte impatto emotivo, come i tori svegliati al mattino presto per i lavori sui campi o la grandiosa descrizione di una nave fatta da un contadino. Accio possedette una notevole capacità di invenzione linguistica, con termini altisonanti, dotti e arcaici, un tono spesso sentenzioso, uno stile originale, solenne e vigoroso, arricchito da preziose figure retoriche, come parallelismi e allitterazioni. Uomo con molteplici interessi si cimentò anche nell’epica, componendo gli Annales (Annali) in esametri, nella critica letteraria con i Didascalica e i Pragmaticon libri. Per i suoi studi grammaticali e ortografici Varrone gli dedicò l’opera De antiquitate litterarum.

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5 - Ennio e i suoi continuatori

SCHEMA RIASSUNTIVO ENNIO LA VITA

Nato a Rudiae nel 239 a.C., Ennio arriva a Roma nel 204 al seguito di Catone il Censore e si stabilisce in città fino alla sua morte nel 169 a.C. Entra a far parte dell’ambiente degli Scipioni e nel 189 segue M. Fulvio Nobiliore nella campagna militare in Etolia. Nel 184 ottiene la cittadinanza romana.

GLI ANNALES

È l’opera più famosa, poema epico di 18 libri in esametri, in cui celebra la storia di Roma dalle origini ai tempi suoi. I 600 versi rimasti testimoniano una poesia vigorosa e appassionata e uno stile solenne e magniloquente.

LE TRAGEDIE

Delle tragedie cothurnatae di argomento greco, spesso riprese dal teatro di Euripide, sono rimasti 22 titoli e pochi frammenti che mostrano la ricerca di effetti drammatici e patetici. Scrisse anche due praetextae e alcune palliate.

LE OPERE MINORI

Delle opere minori, si conoscono solo i titoli. Saturae, epigrammi, Scipio, Sota, Hedyphagetica, Protrepticus, Epicharmus, Euhemerus, che testimoniano i numerosi interessi del poeta e la vastità dei suoi studi.

PACUVIO

(Brindisi, 220-Taranto 130 a.C.). Nipote di Ennio, Pacuvio è autore di tragedie cothurnatae. Della sua produzione restano frammenti per circa 450 versi. Le sue tragedie furono rappresentate per tutto il periodo repubblicano.

ACCIO

(Pesaro, 170-Roma, ca 85 a.C.). Lucio Accio è il più famoso autore di tragedie. Della sua produzione rimangono 45 titoli di tragedie cothurnatae, 2 di praetextae e frammenti per circa 750 versi. Predilige vicende fosche con personaggi sanguigni, di forte impatto emotivo, facendo sfoggio di invenzione linguistica. Benché non sia pervenuto altro della produzione letteraria, gli Annales, i Didascalica e i Pragmatica testimoniano la vastità dei suoi interessi.

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6 La prosa e Catone il Censore Nell’età arcaica predomina la poesia; solo nel corso del sec. II a.C. si fa strada una prosa letteraria, come strumento espressivo della classe colta. L’influsso della raffinata prosa greca e della poesia drammatica ed epica sono determinanti su questi primi tentativi nel campo dell’eloquenza e della storiografia, i cui scrittori appartengono tutti al ceto dirigente. Sopra tutti si innalza la grande figura di Catone il Censore.

L’oratoria L’eloquenza ebbe in Roma una lunga tradizione, che risaliva almeno ad Appio Claudio Cieco (secc. IV-III a.C.). Con la storiografia del resto essa era l’unica attività intellettuale degna di un aristocratico, necessaria per fare carriera nella vita politica. Non è giunto nulla delle orazioni di Cornelio Cetego (il pri- I primi oratori mo di cui si ha testimonianza), censore nel 209 e console nel 204, di Scipione l’Africano Maggiore (236-183 a.C.), del console L. Emilio Paolo, il vincitore di Perseo a Pidna (168 a.C.), ma è probabile che l’oratoria si attenesse strettamente ai fatti, poco curandosi della forma espositiva. Dalla seconda metà del sec. II a.C. si moltiplicarono le occasioni di pronunciare di- Un fondamentale scorsi: le frequenti campagne militari, l’accesa lotta politica, la strumento politico questione agraria e i frequenti processi costrinsero gli uomini politici, per ottenere consenso, a meglio curare l’esposizione che diventò sempre più elegante e raffinata. Non è rimasto però nulla di Cornelio Scipione l’Emiliano, il distruttore di Cartagine (146 a.C.), del suo amico Gaio Lelio (ca 235160 a.C.), dei due tribuni della plebe Tiberio (162-133 a C.) e Gaio Gracco (154-121 a.C.), di Emilio Scauro, console nel 115, a eccezione di qualche sintetico giudizio di Cicerone, il quale sostiene che l’eloquenza aveva raggiunto la maturità con Marco Antonio (143-87 a.C.) e L. Licinio Crasso (115 ca-53 a.C.). Quest’ultimo, di tendenze conservatrici, come censore aveva fatto chiudere nel 92 a.C. la scuola di retorica di Prozio Gallo, perché troppo democratica. Probabilmente alla scuola era legata la Retorica ad Herennium, di autore ignoto, il cui testo è giunto completo in ogni sua parte.

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6 - La prosa e Catone il Censore

sti in ordine cronologico) e nacque per fini politici; fu soprattutto agiografica e del tutto priva di analisi critica.

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Carattere agiografico

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Cincio Alimento

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Fabio Pittore

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■ Gli annalisti in lingua greca I primi annalisti romani scrissero in greco, forse perché influenzati dalla raffinata prosa letteraria ellenica, forse perché volevano rivolgersi ai lettori non latini delle rive del Mediterraneo. I pochi frammenti rimasti degli autori più importanti sono insufficienti per esprimere un giudizio di merito. Quinto Fabio Pittore (ca 260-ca 190 a.C.), della gens Fabia, fu senatore e combattè contro i Galli e contro Cartagine. Dopo la sconfitta di Canne del 216 fu inviato a consultare l’oracolo di Delfi sulla sorte della città. I suoi Annales, dall’arrivo di Enea alla battaglia di Zama, godettero di buona fama e furono una fonte di notizie per gli storici successivi. Lucio Cincio Alimento. Di lui si sa solo che fu pretore nel 210 a.C. e che fu preso prigioniero nella seconda guerra punica. La storia trattata nei suoi Annales doveva avere un contenuto analogo a quella di Fabio Pittore, ma non ne ebbe ugual fama, anche se Polibio gli riconosceva una certa obiettività.

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Valerio Anziate

■ Gli annalisti in lingua latina Pochi frammenti rimangono delle opere degli annalisti in lingua latina, successori di Catone. Valerio Anziate era già noto presso gli antichi per la superficialità e le esagerazioni storiche, che compilò ben 75 volumi di Annali fino a Silla. Inoltre citiamo L. Cassio Emina e L. Calpurnio Pisone, le cui opere arrivavano alla distruzione di Cartagine, Cornelio Sisenna (morto nel 67 a.C.), oratore e sostenitore di Silla, la cui opera, Historiae, in 23 libri, fu apprezzata da Sallustio e Cicerone.

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■ La monografia storica All’epoca dei Gracchi (sec. II a.C.) incominciarono ad affermarsi l’interesse per gli avvenimenti contemporanei, o comunque non troppo lontani nel tempo, e la necessità di un metodo serio di analisi. Nacque così la monografia storica, che vide come maggiori rappresentanti Celio Antipatro, Sempronio Asellione, Cornelio Sisenna. Celio Antipatro Lucio Celio Antipatro (sec. II a.C.), di origine plebea, fu il primo ad abbandonare lo schema annalistico della storia generale e cercò di dare alla narrazione una veste artistica. Rimangono una sessantina di frammenti della sua monografia in 7 libri sulla seconda guerra punica. Sempronio Asellione Sempronio Asellione, tribuno militare nella guerra numantica agli ordini di Scipione l’Emiliano, narrò “le vicende cui

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6 - La prosa e Catone il Censore

era stato presente”. Fu il primo a usare un vero metodo sto- L’influenza di Polibio rico, ispirandosi al razionalismo dello storico greco Polibio (202-120 ca a.C.); ricercò così le cause degli avvenimenti, curando di esporli in forma elegante. ■ La Retorica a Erennio La Retorica ad Herennium è un manuale pratico di reto- Manuale pratico rica in 4 libri. L’ignoto autore, si propone di insegnare l’ar- di retorica te dell’eloquenza agli aspiranti oratori: il I e il II libro trattano dell’inventio, cioè come trovare gli argomenti più convincenti per la causa, il III della dispositio, della memoria e dell’actio, cioè come elaborare il discorso, memorizzarlo, impostare la voce e i gesti; il IV dell’elocutio, cioè la scelta dello stile adatto al discorso. Quest’ultimo libro è il più importante dal punto di vista letterario, perché l’autore si dilunga a illustrare le figure retoriche, ben 64, e insiste in particolare sulla metafora. Nell’opera viene per la prima volta formulata la dottrina dei tre stili (figura): alto (gravis), medio (mediocris), dimesso (estenuata).

Catone il Censore La lunga vita di Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), il primo grande storico e oratore dell’età arcaica, abbraccia l’arco di tempo in cui Roma conquista il bacino del Mediterraneo e si trova alle prese con un’inarrestabile evoluzione sociale, politica e culturale. In opposizione alla corrente modernizzante e filoellenica, rappresentata in particolare dal circolo degli Scipioni (vedi a pag. 45), Catone rappresenta in senato l’elemento di punta dell’ala agraria e conservatrice che si oppone ai cambiamenti in nome del mos maiorum, degli onesti e morigerati costumi nazionali.

Il primo grande oratore

Il difensore del mos maiorum

■ La vita Marco Porcio Catone nacque a Tusculum (oggi Frascati) da una famiglia plebea di agricoltori benestanti, in un’epoca in cui la plebe poteva ormai raggiungere le massime magistrature dello stato. Partecipò giovanissimo alla seconda guerra punica, combattendo in Campania, in Sicilia e nella battaglia del Metauro (207). Homo novus percorse tutta la carriera politica (il cursus honorum), parteggiando per il gruppo La carriera politica conservatore. Fu tribuno militare; come questore nel 204, al seguito di Publio Cornelio Scipione in Africa, provocò un’inchiesta in senato contro il condottiero; nello stesso anno condusse a Roma Ennio. Fu edile nel 199; nel 198 pretore in Sardegna, quindi console nel 195 e censore nel 184 insieme

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6 - La prosa e Catone il Censore

La censura

La terza guerra punica

La politica culturale tradizionalista e antiellenica

a Lucio Valerio Flacco, il patrizio che lo appoggiò nella carriera politica. Come console governò la Spagna, come censore esercitò la carica con un rigore e una severità che gli valsero il soprannome di Censore. La sua attività politica fu sempre ispirata a un’intransigenza inflessibile contro quelle che considerava degenerazioni del costume romano. Si oppose così all’affermazione di ogni tendenza individualistica nella vita pubblica e alla cultura ellenizzante (più precisamente fu contrario a quelle idee pericolose per i principi della morale tradizionale); contrastò quei patrizi che si arricchivano illecitamente all’ombra dello stato, e ne fece espellere alcuni dal senato per improbità. Sostenne che si doveva pensare all’agricoltura e ai rapporti con il resto dell’Italia, prima della conquista di paesi lontani. Si oppose tenacemente all’abrogazione della lex Oppia, che imponeva limiti austeri alle spese private, specie quelle sullo sfarzo dell’abbigliamento femminile. Nel 155 ottenne l’espulsione dei tre filosofi greci Carneade, Diogene, Critolao, inviati da Atene a Roma come ambasciatori, perché considerava insidioso il loro influsso sui giovani, specialmente quello di Carneade. Promosse la terza guerra punica, sostenendo in senato la necessità della distruzione di Cartagine (Carthago delenda est): la spedizione iniziò l’anno della sua morte, (149) e così non potè assistere alla caduta della città. Sia pure pensando di agire in buona fede nell’interesse dello Stato, Catone attaccò con troppa leggerezza, forse per gelosia, patrizi dotati di benemerenze quali gli Scipioni, i Corneli, i Claudi, i Semproni; Scipione l’Africano fu da lui costretto all’esilio. Ma questo ebbe conseguenza, data la sua origine plebea, di aumentare il prestigio di quella osteggiata classe oligarchica, soprattutto degli Scipioni, perché l’impresa contro Cartagine fu proprio affidata con successo a Scipione l’Emiliano.

■ Le Origines Rimangono pochi e brevi frammenti dei sette libri delle Origines (Le origini), la prima opera di storiografia scritta in laStoria di Roma e dei tino, alla quale Catone si dedicò dal 168 fino alla morte. L’arpopoli dell’Italia gomento è la storia di Roma, dalla fondazione alla spedizione di Sulpicio Galba in Spagna (151). La novità delle Origines consiste nel fatto che la storia di Roma non è sentita solo come quella della città, ma di tutti i popoli della penisola; oltre al primo libro, dedicato alla fondazione di Roma, il secondo e il terzo narrano le origini delle città italiche: da qui il titolo dell’opera. La narrazione è concisa e scarna, per sommi capi, come scrive Cornelio Nepote, e guarda alla

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6 - La prosa e Catone il Censore

realtà dei fatti e non alla forma letteraria; lo stile è sempli- Stile disadorno ce e disadorno. L’opera si stacca nettamente da quelle degli annalisti precedenti che scrivono in greco ed esaltano il nome dei condottieri secondo la moda ellenistica. Catone non indica mai per nome i suoi personaggi, scrive in lingua latina e per questo l’opera contribuì molto alla formazione di una coscienza nazionale. ■ L’oratore Catone fu oratore abile ed efficace, più preoccupato della sostanza delle cose che dell’eleganza della formulazione. Una famosa massima sintetizza le idee di Catone in fatto di retorica: rem tene, verba sequentur (abbi ben chiaro il contenuto, e le parole verranno da sé). Scrisse orazioni per tutta la vita a causa del suo impegno politico: l’ultima arringa fu pronunciata in senato contro Servio Sulpicio Galba nel 149, l’anno della morte. Cicerone sosteneva di conoscerne 150; sono pervenuti però solo un’ottantina di titoli. I circa 250 frammenti testimoniano un linguaggio vivace e appassionato, spesso mordace e ironico, termini volutamente arcaici, espressioni rozze, tipiche della parlata contadina. Del tutto perduti sono i Praecepta ad filium (Insegnamenti al figlio), un’enciclopedia di medicina, oratoria, arte militare, agricoltura, commercio, morale ecc., con la quale Catone si proponeva di educare il figlio personalmente, per evitare gli influssi grecizzanti che si andavano affermando al-

Oratore abile ed efficace

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Linguaggio vivace ed appassionato L’enciclopedia per il figlio

IL CIRCOLO DEGLI SCIPIONI La conquista del bacino del Mediterraneo diffonde ulteriormente la conoscenza della cultura greca nella classe altolocata e colta della società romana. L’arrivo in città dello storico greco Polibio (ca 202-120 a.C.) come ostaggio e, in seguito, del filosofo Panezio (185-110 a.C.) di Rodi è un fatto determinante, perché vivono entrambi in stretta familiarità nella casa degli Scipioni. Scipione l’Emiliano, Lelio, Lucilio, Rutilio Rufo e altri formano un gruppo culturale filoellenico, il cosiddetto circolo degli Scipioni, al quale si oppone fermamente Catone, contrario a ogni innovazione in difesa della severa tradizione degli antenati. Si realizza la necessità di ampliare il mondo spirituale romano con

la cultura greca, aprendolo ai valori di altre civiltà. Dall’incontro dello spirito romano con la filosofia ellenica, appunto attraverso Panezio, nasce l’humanitas, cioè la concezione dell’uomo considerato in ogni suo aspetto e la conseguente idea di una missione morale e politica assegnata al dominio universale di Roma. Si esalta la virtus romana che ha saputo trasformare un popolo in un insieme di uomini coraggiosi, austeri, capaci di sacrificio. Nel circolo degli Scipioni si afferma la convinzione che vivere, sentire e pensare rettamente comporta anche la capacità di recte loqui, di parlare in modo elegante, e perciò il circolo stesso diventa un centro attivissimo di cultura letteraria.

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6 - La prosa e Catone il Censore

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lora nell’istruzione. Non è rimasto nulla anche delle Epistulae (Lettere) al figlio né del Carmen de moribus.

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Manuale agricolo

■ De agri cultura Il trattato De agri cultura del 160 a.C. è il testo di prosa latina più antico che ci sia giunto intero, anche se poco significativo dal punto di vista letterario. È un manuale pratico del perfetto proprietario terriero. Sotto forma spesso precettistica e sentenziosa, in una prosa semplice e arida, il trattato dà indicazioni sulle varie attività agricole, dal come tenere la casa alle ricette di cucina, dai lavori agricoli stagionali ai sacrifici agli dei, alla produzione dell’olio e del vino, alle malattie degli animali e delle piante.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA PROSA

I primi tentativi di prosa letteraria si hanno nel sec. II a.C. e sono legati all’oratoria e alla storiografia, i cui scrittori provengono dal ceto dirigente.

L’ORATORIA

Non è rimasto quasi nulla dei maggiori oratori dell’età arcaica: Scipione l’Africano ed Emiliano Gaio, Gaio Lelio e i fratelli Tiberio e Caio Gracco. È probabile che si attenessero strettamente ai fatti e curassero meno la forma dell’esposizione.

LA STORIOGRAFIA

La prima storiografia è di tipo annalistico. Quinto Fabio Pittore e Cincio Alimento scrivono in lingua greca; Valerio Anziate, Cassio Emina, Calpurnio Pisone e Cornelio Sisenna in lingua latina.

LA MONOGRAFIA

All’epoca dei Gracchi incomincia ad affermarsi la monografia con Celio Antipatro e Sempronio Asellione. Quest’ultimo fu il primo a usare un vero metodo storico.

CATONE IL CENSORE

Catone il Censore (Tusculum, 234-Roma, 149). Homo novus di origine contadina percorse tutto il cursus honorum: tribuno militare, questore, edile, pretore, console e censore. Fu il massimo rappresentante della tendenza conservatrice e antiellenica, intransigente contro quelle che considerava le degenerazioni dei costumi e della tradizione romani. Il soprannome di Censore è dovuto alla severità con cui esercitò quella carica. Pochi frammenti rimangono dei 7 libri delle Origines, la prima opera storiografica in latino, che trattava la storia non solo di Roma, ma di tutte le città italiche. In uno stile conciso e scarno, gli avvenimenti sono narrati per sommi capi, senza citare i nomi dei condottieri. Della sua attività politica ci rimangono solo un’ottantina di titoli di orazioni e 250 frammenti, che testimoniano la sua abilità ed efficacia nei discorsi. Nulla è pervenuto dei Praecepta ad filium, né delle Epistulae, nè del Carmen de moribus. L’unica opera giunta è De agri cultura (L’agricoltura), una specie di manuale per l’agricoltura di scarso valore letterario.

Le opere

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to della commedia: 7 Evoluzione c o Stazio e Terenzio

La fabula palliata si trasforma con Cecilio Stazio e raggiunge la massima espressione con Terenzio: le sue commedie diventano sempre più raffinate, adatte a un pubblico colto, capace e desideroso di cogliere le finezze letterarie.

Cecilio Stazio

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Cecilio Stazio (230 ca-168 a.C.) era un gallo insubre origina- La vita rio dell’Italia settentrionale, nato forse a Mediolanum, l’odierna Milano. Condotto a Roma come schiavo di guerra dopo la battaglia di Casteggio (222) da un tale Cecilio, ne prese il nome dopo essere stato affrancato. Amico di Ennio, fece probabilmente parte del Collegium scribarum histrionumque. Per un quindicennio, tra la morte di Plauto (184) e la prima opera di Terenzio, fu il commediografo preferito dal pubblico raffinato. Morì, secondo la tradizione, nel 168, un anno dopo Ennio. Cecilio fu autore di palliate; rimangono 44 titoli, alcuni dei Le commedie quali sono Andria (La donna di Andro), Epistathmos (L’inquilino), Gamos (Il matrimonio), Androgynos (L’ermafrodita), Dardanus (Il troiano), Epicleros (L’erede), Epistola (La lettera), Obolostates Faenerator (Lo strozzino). La maggior parte di queste palliate indica chiaramente che egli si ispirò alle opere del greco Menandro. Alcune commedie hanno infatti titolo greco, altre latino, altre ancora sia greco che latino. La più nota è Plocium (La collana), di cui Aulo Gellio ha riportato un brano, mettendolo a confronto con il corrispondente testo di Menandro.

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■ Il significato del suo teatro I frammenti per circa 300 versi giunti sono insufficienti per dare una seria valutazione del poeta. Stazio piaceva sicuramente a Orazio e a Varrone, meno a Cicerone, che aveva qualche riserva sulla purezza del suo uso latino. Il poeta Volcacio Sedigito nel suo canone, cioè nella classifica di merito dei poeti latini compilata nel 100 a.C., lo pone al primo posto. Dal confronto dell’erudito di Aulo Gellio si ricava l’autonomia di Cecilio, che rielaborò con grande libertà inventiva i modelli greci. Fu senz’altro un autore di alto livello, la cui produzione si collocava in una posizione intermedia tra quelle di Plauto e di Terenzio. Restano la vena farsesca e le trovate piro-

Un autore molto apprezzato

Libertà dei modelli greci

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7 - Evoluzione della commedia: Stazio e Terenzio

tecniche del predecessore, ma attenuate ed esposte garbatamente e, soprattutto, una maggiore attenzione alla coerenza degli intrecci, alla raffinatezza dei particolari. Nell’imporre il suo teatro a un pubblico colto ottenne l’aiuto del capocomico e impresario Lucio Ambivio Turpione, fautore di un teatro intellettuale.

Terenzio Come Plauto, anche Terenzio ha subito l’influsso della commedia nuova greca, anche se il suo rispetto a quello plautino è un teatro più raffinato negli intrecci, nella caratterizzazione dei personaggi e nella lingua.

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Le amicizie colte e influenti

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L’humanitas

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Le maldicenze sulla paternità delle sue opere

■ La vita Le scarse notizie sulla vita di Publio Terenzio Afro (190-160 ca a.C.) si ricavano da una biografia scritta da Svetonio, riportata dal grammatico Elio Donato insieme a un prezioso commento alle sue commedie. Originario di Cartagine in Africa, fu condotto a Roma in giovane età come schiavo, con il nome di Afer (Africano), dal senatore Terenzio Lucano, che prima gli dette una buona educazione e poi lo affrancò. Come era consuetudine, assunse il nome dell’ex padrone. Per ingegno e per cultura fu accolto tra il patriziato romano, diventando amico soprattutto di Gaio Lelio e di Scipione l’Emiliano, nel cui circolo si coltivavano gli aspetti più innovativi della cultura filoellenica del tempo, con l’affermazione di quel valore di humanitas che fu poi centrale anche nel mondo poetico del commediografo. Fu da loro incoraggiato a diventare autore di commedie: la prima, l’Andria, fu rappresentata nel 166. La sua relazione con quei giovani aristocratici dette adito a maldicenze, tese a screditarne la figura morale. Fu persino messa in dubbio la paternità delle sue commedie, a cui Scipione e Lelio avrebbero largamente collaborato; ma le smentite di Terenzio non furono particolarmente decise, forse perché tali voci risultavano gradite ai potenti protettori. Forse per conoscere meglio gli usi e i costumi della Grecia, vi si recò in viaggio dopo il 160 a. C. e non ne fece più ritorno. I dettagli sulle circostanze della sua morte (annegamento) sono poco credibili: si pensa a un voluto accostamento alla morte per annegamento di Menandro, suo ispiratore. ■ Le commedie e le loro fonti Le sei commedie composte da Terenzio sono pervenute integre. Esse sono: Andria (166), che secondo una dubbia tradizione, Terenzio lesse al grande commediografo Cecilio Stazio;

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7 - Evoluzione della commedia: Stazio e Terenzio LE TRAME DELLE COMMEDIE DI TERENZIO

Andria (La ragazza di Andro). La ragazza venuta da Andro è Glicerio, abbandonata da bambina e allevata da una cortigiana. Di lei si innamora Panfilo, ma il loro sembra un amore impossibile perché il padre, Simone, lo ha fidanzato alla figlia di Cremete, Filomena, a sua volta amata da Carino, amico di Panfilo. La vicenda si complica per i maldestri tentativi dello schiavo Davo, ma il lieto fine giunge con il riconoscimento di Glicerio come figlia di Cremete. Hècyra (La suocera). È un dramma sentimentale privo di comicità, incentrato su una suocera ideale, Sostrata, il cui figlio Panfilo ha sposato Filumena. Al ritorno da un viaggio, Panfilo non trova la moglie che si sarebbe rifugiata a casa dei genitori a causa dei maltrattamenti della suocera, almeno così pensano tutti. In realtà Filumena sta per partorire un bimbo, frutto di un atto di violenza subito prima del matrimonio da uno sconosciuto, che poi si scopre essere proprio Panfilo. Sostrata e la cortigiana Bacchide contribuiscono alla riconciliazione della coppia. Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso). Protagonista della commedia è il vecchio Menedemo, che si autopunisce con una dura vita da contadino per aver spinto il figlio Clinia ad arruolarsi come mercenario, non approvando il suo amore per la bella ma povera Antifila. Il figlio ritorna e potrà sposare l’innamorata che è riconosciuta come figlia da Cremete, un amico di Menedemo. Intrecciata con questa storia vi è quella d’amore del figlio di Cremete per la cortigiana Bacchide.

Eunuchus (L’eunuco). L’etera Taide ha due amanti, Fedria e Trasone, un soldato fanfarone. Da quest’ultimo riceve in dono come schiava, Panfila, una fanciulla con cui Taide era cresciuta. Cherea, fratello di Fedria, innamorato di Panfila, penetra nella casa di Taide travestito da eunuco e seduce la giovane schiava. La vicenda si conclude col matrimonio dei due, perché Panfila è riconosciuta libera cittadina, mentre Fedria tiene per sé Taide. Phormio (Formione). L’astuto parassita Formione, aiutato dal proprio schiavo Geta, riesce con un cavillo giuridico a far sposare il suo giovane protettore Antifone con la povera Fanio, che poi viene riconosciuta appartenere a una buona famiglia. Formione in seguito procura a Feria, cugino di Antifone, la somma necessaria per riscattare una suonatrice di cui è innamorato. Adèlphoe (I fratelli). I due fratelli Ctesifone ed Eschino, sono educati con metodi diversi: il primo severamente in campagna dal padre Demea, il secondo liberamente in città dallo zio paterno Micione. Eschino, considerato dal padre uno scapestrato, rapisce la cortigiana Bacchide, confermando il giudizio paterno negativo. In realtà il giovane, innamorato di Panfila, ha compiuto il rapimento per il fratello Ctesifone. Dopo varie vicende la commedia si conclude con il matrimonio dei due giovani, con il ripensamento sui metodi educativi da parte di Demea, che concede a Ctesifone di tenere in casa Bacchide.

Hècyra (La suocera), la cui prima rappresentazione del 165 fu un totale fallimento, perché sembra che gli spettatori avessero abbandonato il teatro, preferendo uno spettacolo di saltimbanchi, e solo la terza messa in scena (160) ebbe successo; Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso), al cui successo nel 163 contribuì il capocomico Ambivio Turpione; Eunuchus (L’eunuco) e Phormio (Formione), entrambe rappresentate con successo nel 161 e, infine, Adèlphoe (I fratelli) nel 160 a.C. 49

7 - Evoluzione della commedia: Stazio e Terenzio

Le fonti

Commedia nuova greca e contaminatio

Le differenze con il teatro di Plauto

Un teatro d’élite Eleganza formale

Verosimiglianza psicologica 50

Secondo la tradizione della palliata, Terenzio trasse i suoi soggetti dalla nuova commedia greca trasferendone personaggi, situazioni e intere scene. Si ispirò a Menandro per quattro delle sue commedie e ad Apollodoro di Caristo per Phormio e Hecyra (inizio sec. III); in una è evidente l’influenza di Difilo (ca 360-280 a.C.). Anche per Terenzio, come del resto per Plauto, il problema dell’autonomia nei confronti dei testi greci non è di facile soluzione, perché non sono pervenute le opere da cui trasse spunto. Solo a Terenzio, tuttavia, e non a Plauto o ad altri poeti comici, venne rimproverata dai contemporanei autori drammatici la contaminatio, l’uso cioè di intrecciare liberamente in uno stesso testo situazioni, brani di autori diversi o anche di diverse opere dello stesso scrittore. ■ Il mondo poetico Gli intrecci delle commedie terenziane non si discostano da quelli di Plauto e della palliata in generale: intrighi amorosi, conflitti tra giovani e vecchi, specialmente tra padri e figli, astuzie di schiavi e capricci di cortigiane, equivoci che si risolvono felicemente per capovolgimenti della sorte o per improvvisi riconoscimenti. Ma Terenzio non è Plauto, non ha i suoi ritmi incalzanti, la sua prorompente comicità, il gusto per il fantasioso e per le accentuazioni grottesche e paradossali. È senz’altro meno brillante e vivace, però è dotato di buon gusto e di cultura raffinata. Le trovate pirotecniche di Plauto si smorzano in Terenzio in una misura di più disteso equilibrio. A un’azione teatrale movimentata, scrisse Elio Donato, ne subentra una statica. La commedia che si era già trasformata con Cecilio Stazio giunge con Terenzio al culmine della sua evoluzione. Il teatro da semplice intrattenimento popolare diventa un teatro d’élite. Terenzio rinuncia ai doppi sensi, alle espressioni scurrili, ai lazzi volgari; il suo è un linguaggio fine e accurato, ispirato ai canoni della regolarità. Del resto la purezza del linguaggio e l’eleganza formale erano le doti che già gli riconoscevano gli scrittori antichi, da Cicerone a Cesare a Elio Donato: non è un caso che le sue commedie fossero lette nelle scuole. La lezione implicita nella sua opera fu, da allora, una presenza costante nella cultura teatrale europea. ■ L’umanità dei personaggi I personaggi sono presentati secondo le regole della verosimiglianza psicologica e spesso analizzati nel loro carattere con una umana partecipazione: ciò conferisce loro de-

7 - Evoluzione della commedia: Stazio e Terenzio

licatezza, sensibilità morale e i tratti di una grande lealtà. La tolleranza, la comprensione reciproca, l’approfondimento dei rapporti umani, che i personaggi di Terenzio rivelano, non solo aderiscono al modello menandreo, ma obbediscono soprattutto a quella misura di humanitas elaborata Humanitas da quell’ambiente patrizio ed ellenizzante, in cui era avvenuta la sua formazione. Questa humanitas si sintetizza nel celebre verso dell’Heantontimorumenos: “Homo sum; humani nihil a me alienum puto”. “Io sono uomo; e nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo”, che doveva colpire profondamente sant’Agostino e che sarebbe stato assunto come emblema dell’atteggiamento interiore del poeta.

SCHEMA RIASSUNTIVO CECILIO STAZIO Le commedie

La poetica

TERENZIO . Le commedie La poetica

Cecilio Stazio (230 ca-168 a.C.). Nato forse a Milano, fu condotto a Roma come schiavo e poi liberato. Fu amico di Ennio. Della sua produzione rimangono circa 300 versi e il titolo di 44 palliate, di cui la più nota è Plocium (La collana). Si ispirò alle opere del greco Menandro. Le sue commedie dominarono la scena tra la morte di Plauto e la prima palliata di Terenzio. Rielaborò liberamente i modelli greci. Fu stimato da Orazio e da Varrone, ma criticato da Cicerone. Le sue opere erano rivolte a un pubblico colto, e questo lo colloca in una posizione intermedia tra Plauto e Terenzio. Scarse le notizie biografiche di Terenzio (190 ca-160 ca a.C.). Nato a Cartagine, viene condotto a Roma come schiavo e poi liberato. Fa parte del circolo filoellenico degli Scipioni. La sua produzione è pervenuta completa; sono 6 commedie: Adelphoe, Andria, Eunuchus, Hecyra, Heautontimorumenos, Phormio, i cui soggetti sono tratti dai greci Menandro e Apollodoro di Caristo. Il teatro di Terenzio è meno vivace di quello di Plauto, ma di buon gusto e di cultura raffinata. L’azione teatrale è statica, i personaggi sono analizzati con verosimiglianza nella loro umanità. Al centro del suo mondo poetico sta il valore di humanitas, elaborato nel circolo degli Scipioni. Il linguaggio è fine e accurato: con Terenzio la commedia diventa una rappresentazione d’élite.

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8 Il tramonto della commedia e il ritorno dell’atellana

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Raggiunto l apice dell’evoluzione con Terenzio la palliata inizia la parabola discendente. La mancanza di nuove idee e quindi la ripetitività delle trame ne determinano la scomparsa, nonostante che le opere dei grandi autori vengano rappresentate per tutto il I secolo a.C. Al declino della palliata corrisponde il fiorire, nel corso del II secolo a.C., della togata che trova compiuta espressione con Lucio Afranio e Tito Quinzio Atta.

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Gli autori minori di palliate

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Rimangono solo alcuni titoli e pochi frammenti di autori minori, quali Trabea, Atilio, Licinio Embrice, Aquilio, Giovenzio, Lucio Lanuvino. L’ultimo scrittore di palliate noto è Sesto Turpilio, morto, secondo san Gerolamo, nel 103 a.C. a Sinuessa in Campania. Dai frammenti e dai 13 titoli greci delle sue commedie pervenute (fra gli altri Canephoros, La portatrice del cesto sacro, Leucadia, La ragazza di Leucade, in cui era ripreso in forma comica la leggenda dell’amore di Saffo per Faone, Paedium, Il fanciullo) è evidente la sua adesione al modello menandreo.

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Sesto Turpilio

La togata: Titinio, Afranio, Quinzio Atta

La vita quotidiana del popolo

Titinio

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Con il declino della palliata fiorisce nel corso del sec. II la togata, la commedia di ambiente romano. C’è aria di nuovo e di originalità nel mettere in scena con vivacità aspetti della vita quotidiana del popolino, il mondo del lavoro e le usanze delle cittadine di provincia. La figura dello schiavo, così importante nella palliata, quasi scompare e i personaggi femminili diventano spesso protagonisti. Inventata probabilmente da Nevio, la togata ha i suoi scrittori maggiori in Titinio, Afranio e Atta. Non si conosce nulla della vita di Titinio, il primo autore di togate, probabilmente contemporaneo di Terenzio. Restano di lui 15 titoli di commedie (tra cui Privigna, La figliastra, Tibicina, La suonatrice di flauto, Gemina, La gemella, Veliterna, La donna di Velletri) e pochi frammenti per circa 180 versi, che rivelano vena comica di tipo realistico, popolaresco e vivacità di stile alla maniera di Plauto. Divenne famoso per l’analisi dei caratteri dei personaggi, soprattutto femminili.

8 - Il tramonto della commedia e il ritorno dell’atellana

Lucio Afranio

Tematiche legate alla vita familiare

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La togata raggiunge la sua massima espressione con Lucio Afranio, che visse nella seconda metà del II secolo a.C. Ammiratore di Terenzio e del greco Menandro, si rivolge nel suo teatro a un pubblico raffinato. I 43 titoli di togate rimasti (tra cui Compitalia, Le feste dei Lari; Augur, L’indovino; Privignus, Il figliastro; Divortium, Il divorzio; Crimen, L’accusa; Depositum, Il deposito) indicano tematiche varie, ma soprattutto legate ai rapporti di parentela e ai problemi della vita familiare. La sua commedia Incendium era rappresentata ancora all’epoca di Nerone. I frammenti rimasti, circa 400 versi, documentano uno stile garbato e raffinato. Le sue opere godettero a lungo del favore del pubblico. Anche di Tito Quinzio Atta, l’ultimo autore di togate, morto a Roma nel 77 a.C. non si conosce quasi nulla. Restano 12 titoli e frammenti insufficienti per valutare in modo attendibile la sua produzione. Le sue togate, come per esempio Aquae calidae (Acque termali), si rappresentavano ancora all’epoca di Augusto ed erano lodate da Varrone e Frontone. Ricorre spesso anche in lui il tema familiare, almeno a giudicare dai titoli delle sue opere, che non dovevano essere molto originali, ricalcate su quelle di Afranio Sembra che gran parte del suo successo di pubblico fosse dovuto al famoso attore Roscio.

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Tito Quinzio Atta

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■ Il ritorno dell’atellana Nell’età di Silla (100-80 a.C.) rinasce l’atellana (vedi a pag. 16), ma decisamente rinnovata rispetto alla farsa popolare osca del periodo delle origini, ridotta a fare da intermezzo alle rappresentazioni teatrali di maggiore impegno. I due poeti Pomponio e Novio rilanciano il genere, conferendogli dignità letteraria. Nulla è più lasciato all’improvvisazione degli attori, le parti sono completamente scritte e l’azione è ordinata. I numerosi titoli rimasti testimoniano, da una parte, il legame mantenuto con le antiche maschere (Macco soldato, I due Dossenni, Buccone gladiatore, Macco vergine, Buccone adottato ecc ), dall’altra, l’introduzione di una grande varietà di argomenti tratti dalla vita cittadina e contadina e anche dalla mitologia (Il medico, La ragazza incinta, I pescatori, L’asina, Il processo, Andromaca ecc.). Dai frammenti si ricava un contenuto sempre farsesco e osceno e una comicità popolaresca e grossolana. L’atellana attirò in teatro molti spettatori, colti e non, durante tutta l’epoca repubblicana e anche in quella imperiale, pur con minor successo per la presenza dominante del mimo.

Pomponio e Novio

Contenuto e maschere tradizionali

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8 - Il tramonto della commedia e il ritorno dell’atellana

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Novio

Il bolognese Lucio Pomponio (fine sec. II a.C.) coltivò anche la togata e la parodia mitologica. Si conoscono 70 titoli di atellane e frammenti per circa 200 versi, che rappresentano scene di vita quotidiana con linguaggio popolare e pittoresco, di immediata comicità, doppi sensi e oscenità. Della produzione di Novio (sec. I a.C.) rimangono 43 titoli e frammenti per un centinaio di versi, spesso spassosi per le invenzioni linguistiche, le allitterazioni, i giochi di parole e le bizzarre metafore.

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Lucio Pomponio

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SCHEMA RIASSUNTIVO

La ripetitività delle trame determina il declino della palliata che inizia la parabola discendente. I più importanti tra gli autori minori sono Lucio Lanuvino, famoso per una polemica con Terenzio sulla contaminatio e Turpilio, che si ispira al teatro di Menandro.

LA TOGATA

La commedia di ambientazione romana fiorisce nella seconda metà del sec. II, in coincidenza con il tramonto della palliata Diventano importanti i personaggi femminili. Gli autori più noti di togate sono Titinio, che alla vivacità linguistica e popolaresca unisce l’approfondimento dei caratteri femminili; Lucio Afranio, l’autore di togate di maggior successo presso il pubblico, dallo stile elegante che si ispira a Menandro; Tito Quinzio Atta, le cui commedie dovevano probabilmente ricalcare quelle di Afranio.

L’ATELLANA

Nell’età di Silla (100-80 a.C.) rinasce l’atellana, cui danno una veste letteraria Pomponio e Novio. Sparisce l’improvvisazione e gli attori seguono parti scritte. Il contenuto rimane farsesco e osceno, la comicità popolaresca e grossolana. Di Pomponio rimangono 70 titoli di atellane e circa 200 versi, di Novio 44 titoli e circa 100 versi.

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LA PALLIATA

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9 Lucilio e le nuove tendenze della poesia

Lucilio è il primo a usare la satira per esprimere l’opinione personale nei confronti della realtà contemporanea. Strumento, ora ironico, ora sarcastico, di critica morale, politica e culturale, il genere conserverà nel tempo attraverso Orazio, Persio e Giovenale il tono pressoché immutato.

Gaio Lucilio Gaio Lucilio è il primo scrittore latino che si impegna in un solo genere, quello della satira. È vivace e anticonformista; l’indipendenza economica, l’appartenenza al ceto equestre e la protezione di amici potenti gli consentono una critica libera, quasi sempre sarcastica, polemica e aggressiva. Usa un linguaggio vario, come dice lui stesso, che non vuole essere letto né dagli uomini incolti, né dagli uomini troppo dotti, con termini tecnici e specialistici propri dei vari mestieri e con grecismi. Sia per il tono mordace sia per l’andamento discorsivo e narrativo dell’esposizione, Lucilio fu il modello di tutti i poeti satirici posteriori. Orazio tuttavia gli rimprovera la prolissità e la scarsa cura della forma e lo chiama “fangoso” (lutulentum), come un torrente che scende rovinoso dai monti.

Vivace e anticonformista

Un modello per i poeti satirici posteriori

■ La vita Gaio Lucilio nacque a Sessa Aurunca nella Campania settentrionale nel 180 a.C., come sostengono con argomenti attendibili gli studiosi moderni, e non nel 148 come voleva san Girolamo. Di famiglia benestante e appartenente al ceto equestre, Lucilio fece parte del circolo degli Scipioni e divenne Il circolo degli amico di Lelio e di Scipione l’Emiliano, senza però perdere, Scipioni nonostante il suo spiccato filoellenismo, i tradizionali valori romani, come del resto tutti gli appartenenti al circolo. Combatté in Spagna agli ordini di Scipione l’Emiliano (133 a.C.). Ritornato a Roma si dedicò per un trentennio alla poesia, anche se le sue condizioni di nascita e di censo (proveniva da una famiglia ricca), gli suggerivano di intraprendere la carriera politica. Nel 106 si trasferì a Napoli, dove morì. I suoi funerali a spese dello Stato (funus publicum) attestano la considerazione di cui il poeta godeva presso i contemporanei.

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9 - Lucilio e le nuove tendenze della poesia

La Satira, genere “romano”

I metri

Critica della Roma del suo tempo

■ Lucilio e la satira Lucilio è, secondo Orazio, l’iniziatore della satira, genere che gli scrittori romani sentivano come originale della letteratura latina, e quindi autonomo rispetto ai modelli greci. Le parole di Quintiliano “la satira appartiene a noi soltanto” lo confermano. Lucilio compose 30 libri di Satire, che probabilmente chiamò sermones, cioè “chiacchiere”, quasi a sottolineare il loro carattere colloquiale. I grammatici del sec. I a.C. raccolsero e ordinarono la sua produzione non secondo l’ordine cronologico, bensì secondo il metro usato. Lucilio scrisse i primi libri, dal XXVI al XXX, in senari giambici e in settenari trocaici; passò poi definitivamente all’esametro dattilico (libri I-XXI), che si trova già nel XXX libro. Usò infine il distico elegiaco nel libri dal XXII al XXV, che furono pubblicati dopo la sua morte e che forse formavano una raccolta a sé, con composizioni anche di carattere non satirico. Dell’opera rimangono frammenti per circa 1350 versi, tramandati per via indiretta. L’esametro diventerà il verso proprio del genere satirico da Orazio in poi. ■ La varietà dei temi La satira di Lucilio prende di mira tutti gli aspetti della Roma sua contemporanea; cadono sotto i suoi strali la disonestà e la corruzione, la superstizione e la miseria del popolino, il lusso sfrenato delle donne e lo sfarzo nei banchetti. L’ironia e il sarcasmo colpiscono ogni strato sociale: ce n’è per tutti, dice Orazio, grandi e piccini, poveri e ricchi. Esalta però commosso la virtù e i valori morali, lodando soprattutto l’opera politica e il comportamento umano di Scipione l’Emiliano. Nel I libro Lucilio descrive uno spassoso concilio degli dei, che si svolge come una seduta del senato romano, convocato da Giove per conoscere le cause della corruzione in Roma. Appurato che la colpa è di Cornelio Lentulo Lupo, gli dei decidono di farlo morire di indigestione per aver mangiato troppi “lupi”, pesci pregiati del Tevere. Il II libro contiene la satira di un processo intentato da Tito Albucio contro Muzio Scevola, in cui le arringhe della difesa e dell’accusa riempiono di ridicolo il querelante. Nel III libro si ha un’esilarante narrazione in forma epistolare di un viaggio del poeta da Roma in Sicilia, che Orazio prenderà a modello per il racconto del suo viaggio a Brindisi. Altri frammenti descrivono peccati di gioventù, episodi di guerra, grammatica e retorica o ostentazione del lusso nel banchetto di un tale Granio. Compare anche il tema erotico nel XVI libro, dedicato a una donna, Collyra.

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9 - Lucilio e le nuove tendenze della poesia

Le nuove tendenze della poesia Tra la fine del sec. II e l’inizio del sec. I a.C. si manifesta in Una poetica Roma una nuova tendenza poetica anticonformista, lega- anticonformista ta alla penetrazione sempre più intensa della poesia alessandrina. Essa rifiuta una letteratura impegnata e sperimenta forme poetiche più brevi e leggere, come, per esempio, l’epillio, un quadretto epico, o l’epigramma, breve scrit- Epillio ed epigramma to di carattere erotico, celebrativo o satirico.

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■ Il circolo di Lutazio Catulo La personalità di maggiore rilievo fu quella di Quinto Lutazio Catulo (150 ca-87 a.C.), che fu console nel 102 e sconfisse nel 101 i cimbri ai Campi Raudii a fianco di Mario, del quale in seguito divenne oppositore. Morì suicida. Fu oratore, storico (scrisse i Commentari autobiografici) e poeta: della sua produzione rimangono solo due epigrammi erotici. Protettore di letterati, ospitò i poeti greci Antipatro di Sidone e Archia di Antiochia. Del suo circolo fecero parte i poeti Valerio Edituo, Porcio Licinio, Volcacio Sedigito, Levio e Mazio, che anticiparono i neòteroi, i poeti nuovi dell’età cesariana, così chiamati per il loro anticonformismo letterario e per i primi tentativi di lirica soggettiva, che desse perciò voce ai sentimenti dell’autore. Dei primi due rimangono complessivamente 3 epigrammi d’amore; di Volcacio Sedigito un frammento di 13 versi di una storia della letteratura contenente una classificazione dei dieci più grandi poeti comici latini. Di Levio non si sa nulla: forse è identificabile con il Levio Melisso citato da Svetonio; compose gli Erotopaegnia (Scherzi d’amore), una raccolta di versi di tema erotico-mitologico (L’Adone, L’Alcesti, I centauri, La Fenice ecc.), i cui frammenti indicano una poesia dotta e raffinata. Neanche di Mazio si hanno notizie, ma restano una decina di frammenti di Mimiambi, brevi quadretti burleschi di vita quotidiana. Si sono salvati anche 7 versi della versione in esametri dell’Iliade di Omero, tradotta probabilmente per necessità didattiche.

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Gli aderenti al circolo

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9 - Lucilio e le nuove tendenze della poesia

SCHEMA RIASSUNTIVO

LA NUOVA POESIA

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Le Satire

(Sessa Aurunca, 180 - Napoli, 102 a.C.). Appartiene al ceto equestre ed entra a far parte del circolo degli Scipioni. Combatte in Spagna nella guerra di Numanzia. È autore di 30 libri di Satire, delle quali rimangono frammenti per circa 1350 versi. Lucilio, anticonformista, critica tutti gli aspetti della vita romana sia pubblica sia privata con un linguaggio ora dotto ora popolano, ricco di termini tecnici e grecismi.

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LUCILIO La vita

Fra i secc. II e I a.C. si manifestano nuovi modi di comporre poesia, connessi al diffondersi della cultura ellenistica. I poeti compongono liriche brevi, come l’epillio o l’epigramma. La personalità di spicco è quella di Lutazio Catulo, del cui circolo fanno parte Valerio Edituo, Porcio Licino, Volcacio Sedigito, Levio e Mazio.

L’ETÀ DI CESARE

1 Il periodo classico della letteratura latina 2 I poëtae novi, o neóteroi 3 Catullo 4 Lucrezio 5 Cicerone 6 Cesare 7 Sallustio 8 Varrone e gli scrittori minori

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Nel corso del I secolo a.C. la res publica visse un profondo disorientamento degli spiriti, determinato dal logorio stesso delle istituzioni repubblicane e dalle consistenti trasformazioni sociali in atto. Portate a termine vittoriosamente le guerre di conquista, l’intero bacino del Mediterraneo si era venuto a trovare sotto la diretta amministrazione di Roma. Un territorio immenso, che, per la convivenza di popolazioni diversissime per lingua e tradizioni, poneva problemi organizzativi e gestionali che non potevano essere certo affrontati con gli strumenti di un tempo, adatti a governare un’area molto più limitata e quindi facilmente controllabile. La res publica era ormai divenuta di fatto una potenza mondiale. Segno tangibile di una tale trasformazione fu l’afflusso di ingenti ricchezze, destinate però alle tasche di pochi, e di nuove masse di schiavi, che misero in ginocchio l’economia tradizionale, fondata sulla piccola proprietà terriera, con una serie di ripercussioni a catena su tutta la struttura sociale. Le mutate condizioni economiche, che segnarono una linea di demarcazione sempre più netta tra la classe dominante, detentrice delle ricchezze, e i piccoli agricoltori e lavoratori nullatenenti, si combinarono in modo lesivo con altri fattori, di varia natura, che avviarono una profonda crisi etica e istituzionale. Deleteria fu la politica faziosa dei gruppi politici, ovvero la lotta per il potere tra i cosiddetti optimates e i populares, che distrusse nell’animo dei Romani ogni residua fiducia nelle istituzioni. Ambedue questi gruppi non formavano un partito nel senso moderno della parola, perché non avevano un programma politico ben definito. Erano due schieramenti politici dai contorni alquanto indeterminati, che non costituivano dei blocchi unitari, rispecchiavano anzi a volte interessi diversificati: l’uno e l’altro gruppo politico, a suo modo, affermava di essere il vero protettore delle istituzioni repubblicane. A questo stato di cose si aggiungeva la miope e predatoria amministrazione delle province, considerate latifondi del popolo romano, e talora anche un semplice bottino di guerra: si assisteva indifferenti al sistematico e selvaggio sfruttamento di intere regioni (un metodo che a lungo andare doveva risultare controproducente per la stessa classe dirigente). L’emergere, infine, di grandi personalità, che assunsero tale autorità e prestigio da arrogarsi il diritto di non dover rendere conto del loro operato innanzi alle leggi, rese palese a tutti l’insufficienza di un apparato statale ormai logoro e disgregato. Prima c’erano stati Mario e Silla, ora, in un primo momento, Cesare e Pompeo, e poi Ottaviano ed Antonio si trovarono al centro di vicende drammatiche. Con quelli che ormai erano divenuti i loro eserciti personali, si diedero ad in-

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seguire un miraggio di gloria e potere, protagonisti e responsabili di cruente e fratricide guerre civili. Dopo la morte di Silla la crisi della repubblica si aggravò ulteriormente. Nel 73 a.C., mentre le legioni comandate da Pompeo Magno stavano per avere la meglio sull’insurrezione iberica, guidata da Quinto Sartorio, in Italia esplose una tremenda quanto imprevedibile rivolta servile (73–71 a.C.). t , uno schiavo della Tracia, aveva raccolto attorno a sé parecchie migliaia di schiavi ribelli e di malcontenti: fu annientato da Licinio Crasso solo dopo una lunga e difficile lotta. Pompeo e Crasso, ristabilito l’ordine in Spagna e in Italia, potendo contare sull’appoggio dei loro eserciti si fecero eleggere al consolato e nel 70 abrogarono parte della costituzione sillana, della quale erano stati dieci anni prima fautori convinti. Questo improvviso mutamento di opinione era un evidente segno che nella vita politica romana prevalevano ormai l’opportunismo e le ambizioni personali dei generali. Nel 67, su proposta del tribuno della plebe Aulo Gabinio, furono concessi a Pompeo amplissimi poteri per consentirgli di liberare il Mediterraneo dalle pericolose incursioni dei pirati e di concludere in modo definitivo la guerra contro Mitridate. Ambedue queste missioni, furono da Pompeo portate a termine con successo, mentre a Roma Cicerone scopriva e annientava un tremendo complotto contro lo Stato, la congiura di Catilina (63 a.C.). La popolarità di Pompeo giunse a tal culmine che tutti ebbero timore che volesse imporsi come dittatore. Pompeo invece, per accattivarsi le simpatie del senato, con atto di deferenza, sciolse le legioni. Nell’estate del 60 però, non esitò a stringere con Cesare e con Crasso un’intesa personale, (primo triumvirato), che doveva decidere delle sorti della repubblica senza alcun riguardo per le leggi e per le istituzioni. Degli accordi presi si giovò soprattutto Cesare che, fattosi assegnare il proconsolato della Gallia Cisalpina e della Provenza, ne approfittò per conquistare la Gallia indipendente e procurarsi prestigio, ricchezze e forze militari: tutto quanto era necessario per imporre il suo potere personale. Di lì a poco, nel 49, Cesare varcò il Rubicone. L’inevitabile guerra civile non terminò nemmeno con la sua morte (44 a.C.), ma trasse nuovo vigore dagli accordi del secondo triunvirato (43 a.C.) ed ebbe il suo cruento prosieguo fino alla battaglia di Azio (31 a.C.), quando ttaviano, sconfitto nto, restò unico arbitro dello Stato e diede avvio al principato.

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Tormentata nelle sue vicende politiche, l’età che fu detta di Cesare vede tuttavia l’affermazione di alcuni grandi della letteratura: Catullo, Lucrezio, Cicerone e lo stesso Cesare. Catullo e Lucrezio contribuiscono a creare la nuova figura dell’intellettuale che rifiuta l’impegno politico e si isola, dedicandosi interamente alla letteratura. L’otium di Catullo, inteso cioè come il solo impegno letterario, è tuttavia confortato dalla passione dell’amore e dal legame con i neòteroi, con i quali rinnova la poesia, orientandola verso il decadente ma raffinato gusto dei lirici alessandrini. L’isolamento di Lucrezio è invece la condizione necessaria per una ricerca della verità sulle orme di Epicuro, di cui egli rielabora la filosofia con riflessione personale nei versi del De rerum natura, nonostante la difficoltà della materia e l’inadeguatezza lessicale della lingua latina. Giulio Cesare affida la memoria delle sue imprese di guerra al genere storiografico dei Commentarii, resoconti di grande rigore formale, in cui la volontà di esaltare le proprie conquiste in Gallia e l’esigenza di rigettare sugli avversari la responsabilità delle guerre civili non ne incrinano l’obiettività. Cicerone fornisce una sintesi completa della vita culturale e politica del suo tempo: le sue Orazioni, testimonianza altissima dell’eloquenza latina, riflettono l’immagine del dibattito politico del tempo; le sue opere filosofiche svolgono una funzione essenziale per la diffusione del pensiero greco; i suoi trattati retorici danno una sistemazione organica dei problemi teorici e delle soluzioni tecniche dell’oratoria. Altri autori dell’età cesariana sono lo storico Sallustio, che racconta la congiura di Catilina e la guerra giugurtina; l’autore di biografie Cornelio Nepote; Terenzio Varrone, il maggiore erudito di Roma, autore di un numero incredibile di opere. Il mimo, infine, rinnovato profondamente con veste letteraria da Laberio e da Siro, riempie il teatro di spettatori.

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1 Il periodo classico

della letteratura latina

L’epoca delle lotte civili tra il partito democratico e quello aristocratico con la crisi delle istituzioni repubblicane, la successiva dittatura di Cesare e il principato di Augusto rappresentano il periodo aureo o classico della letteratura latina. La diffusione dell’ellenismo porta all’unione completa degli elementi di origine latina con quelli di origine greca: la poesia batte vie nuove, la prosa raggiunge il culmine della perfezione e dell’armonia.

La lingua letteraria La lingua letteraria latina fu una creazione degli scrittori che elaborarono la lingua parlata a Roma dalle classi colte. Determinante fu l’influsso dei grammatici greci, che portò nel corso dei secoli a modificare la fonetica, la morfologia e la sintassi. La raffinatezza e la coerenza linguistica raggiunsero la massima perfezione nel sec. I a. C. con le opere di Cicerone e di Cesare: nacque così quella prosa letteraria classica, legata a norme fisse, che diventò un modello da imitare per i secoli successivi. Il purismo linguistico si affermò sempre di più, perché tutti i personaggi importanti sentivano ormai come obbligo il mostrare la propria cultura, che non era più relegata in circoli esclusivi come quello degli Scipioni: politici quali Cicerone e Cesare furono uomini di vasta cultura. Ora l’immenso impero romano, almeno per quanto riguarda le classi colte, possedeva una lingua uniforme e comune, insegnata in scuole private che sorgevano sempre più numerose e alle quali accedevano, pagando un compenso al maestro, tutti coloro che non potevano permettersi un insegnante in casa. Roma diventò del resto una città sempre più cosmopolita, con l’arrivo massiccio di “provinciali”: per costoro una cultura ampia e una sicura conoscenza della lingua erano necessarie per raggiungere il successo nella capitale, perché erano una via per entrare in contatto con i potenti. Meno legata a regole fisse era la lingua poetica, che aveva caratteristiche ed esigenze diverse rispetto alla prosa. La poesia era molto più libera nella morfologia e nella sintassi, conservava arcaismi e creava neologismi; la tradizione poetica stessa, fissata da Ennio nelle sue linee generali, era, per lo meno in parte, differente.

Influsso dei grammatici greci

Purismo linguistico

Una lingua imperiale uniforme Roma sempre più cosmopolita

La lingua poetica

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1 - Il periodo classico della letteratura latina IL LATINO PARLATO diffusa dai soldati, dai magistrati, dai mercanti e insegnata nelle scuole. Tuttavia il latino delle zone periferiche dell’impero risentiva delle lingue su cui si era innestato e pertanto esistevano varietà locali, diverse le une dalle altre e dalla lingua di Roma. Quando le invasioni barbariche fecero venir meno il potere centrale e il sistema scolastico, che davano una certa uniformità al latino, nacquero le lingue romanze.

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Il sermo plebeius o cotidianus era a Roma il latino comune e di tutti i giorni, che aveva comunque la stessa struttura di quello letterario. Leggermente differente era invece il sermo rusticus, la lingua del contado, che presentava alcune diverse caratteristiche fonetiche e lessicali. Con l’estendersi, infine, del dominio romano dalla Gallia alla Spagna e all’Africa mediterranea, le popolazioni sottomesse adottarono la lingua romana,

Importanza dell’eloquenza

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L’eloquenza: asianesimo e atticismo

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Le accese lotte civili del sec. I a.C. contribuirono, ancor più che nell’età arcaica, a dare un peso rilevante all’eloquenza, politica e giudiziaria, nella vita pubblica romana: ogni personaggio politico era tenuto a pronunciare discorsi in pubblico. Cicerone nel Brutus ha tramandato i nomi e le caratteristiche di numerosi oratori, ma non è pervenuto praticamente nulla delle loro orazioni, perché La scuola di retorica la perfezione di quelle ciceroniane le ha cancellate dalla asiana e la attica tradizione letteraria. Due scuole di ispirazione ellenistica, l’asiana e l’attica, si disputavano l’egemonia nel campo della retorica.

Quinto Ortensio Ortalo

Lo stile “rodio” 64

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Stile esuberante, patetico e artificioso

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■ L’asianesimo Lo stile asiano, elaborato dai retori greci Egesia di Magnesia ed Eschilo di Cnido nel sec. III a.C., si impose a Roma dalla fine del sec. II a.C., in opposizione allo stile sobrio seguito dagli atticisti. La scuola asiana dava ampio spazio agli elementi patetici e sentimentali per meglio carpire l’attenzione e l’approvazione del pubblico, per suscitarne l’emozione e la commozione. Lo stile era ampolloso ed esuberante, cercava la musicalità delle frasi con assonanze e parallelismi; l’abbondanza di artifici e di regole retoriche distraevano in parte gli ascoltatori dal contenuto. Grande esponente dell’asianesimo fu Quinto Ortensio Ortalo, vissuto tra il 114 e il 50 a.C., tanto creativo e brillante da affascinare il giovane Cicerone che ne seguì l’indirizzo nelle sue prime orazioni, come egli stesso racconta nel Brutus. Soltanto in un secondo tempo Cicerone si allontanò dall’asianesimo per indirizzarsi, sotto l’influenza di Apollonio Molone di Rodi, verso lo stile mediano, detto appunto “rodio”.

1 - Il periodo classico della letteratura latina ■ L’atticismo Alla corrente asiana si contrapponeva quella dell’atticismo, così chiamato perché erano assunti come modelli di perfezione stilistica da imitare gli oratori ateniesi dei secoli V e IV a.C., Lisia, in special modo, che aveva svolto la sua attività in Attica. I seguaci dell’atticismo usavano uno stile scarno e severo, attento soprattutto a chiarire i concetti piuttosto che la forma, il che non escludeva però la cura dell’eleganza espositiva: essi si limitavano piuttosto alla scelta dei termini più appropriati perché il discorso fluisse naturale e i fatti fossero esposti in modo chiaro e semplice. La corrente atticista ebbe come rappresentanti, tra gli altri, Licinio Calvo, Marco Giunio Bruto e Giulio Cesare, e alla lunga essa si impose per il costante mutamento del gusto del pubblico.

Gli oratori ateniesi: un modello da imitare Stile scarno e severo Chiarezza e semplicità espositiva

Il mimo Nuovi gusti del pubblico

I generi drammatici tradizionali della commedia e della tragedia, ancora rappresentati in età cesariana, finirono per decadere completamente perché non riscuotevano più il favore del pubblico che era venuto a cambiare i propri gusti. A riempire i teatri furono l’atellana e, soprattutto, il mimo, la rappresentazione drammatica che durò più a lungo a Roma. L’antico intrattenimento popolare di origine greca, per lungo tempo usato come intermezzo o come farsa terminale nelle azioni sceniche più ampie, ebbe un ritorno di successo e fu rappresentato da solo negli ultimi decenni del periodo repubblicano, quando Decimo Laberio e Publilio Siro gli diedero dignità letteraria. Anche se in forma artistica il mimo mantenne la sua caratteristica originale: far ridere il pubblico senza richiedergli alcun sforzo mentale, con un contenuto generalmente piccante e licenzioso, legato alla vita quotidiana dei vari ceti sociali, con satira mordace e linguaggio spesso osceno. Gli attori non indossavano la maschera, erano a piedi nudi, o comunque senza calzari speciali, e recitavano anche le donne. Probabilmente vi erano parti parlate e parti mimate, con accompagnamento di canti e musica.

Il successo di atellana e mimo

Far ridere il pubbico con contenuti piccanti e linguaggio osceno

■ Decimo Laberio Decimo Laberio (106 - 43 a.C.), di ceto equestre, fu il primo a dare dignità artistica al mimo e osò, anche per dissapori politici, mettere in caricatura con maliziose allusioni lo Caricatura di Cesare stesso Cesare. Questi allora lo costrinse nel 46 a.C., durante i ludi trionfali, ad accettare la sfida lanciata da Publilio Si-

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1 - Il periodo classico della letteratura latina

Opere

Schiavo a Roma Attore di grande successo Contenuti e linguaggio più serio

ro ai mimografi e a esibirsi sulla scena come attore, con grande vergogna del sessantenne scrittore, a cui era stato comunque assicurato che non vi sarebbero state conseguenze per il suo grado di cavaliere. Decimo Laberio si lamentò del fatto nel nobile prologo della rappresentazione che è stato conservato (“… Avrei potuto oppormi, io povero uomo, / a colui al quale non negarono nulla persino gli dei?”). Di lui si conservano 43 titoli, fra cui La commedia della pentola, I gemelli, I pescatori, e un centinaio di frammenti per circa 170 versi. ■ Publilio Siro Di lui si ignorano la data di nascita e di morte, fu condotto come schiavo a Roma intorno all’80 a.C. da Antiochia in Siria (da qui il nome di Siro). Si dedicò alla composizione di mimi di cui fu anche attore ottenendo un successo tale che gli valse il recupero della condizione di libertà, assumendo il nome del suo ex padrone. Cesare lo mise a confronto sulla scena con il vecchio Laberio, che ne uscì sconfitto. Publilio Siro dovette imprimere al genere del mimo maggiore serietà di contenuti e di linguaggio, ma di lui si possiedono solo due titoli, nemmeno tanto sicuri, e quattro brevi frammenti. Sono stati però tramandati in una raccolta di età imperiale, con il titolo di Sententiae, oltre 700 versi singoli, solo in parte autentici, di carattere sentenzioso e morale, in senari giambici e ottonari trocaici.

SCHEMA RIASSUNTIVO La lingua letteraria L’eloquenza

Il mimo

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La prosa raggiunge l’apice della raffinatezza nel sec. I a.C.; regole fisse la rendono uniforme e comune per tutto l’impero, modello per i secoli successivi. La poesia rimane più libera nella morfologia e nella sintassi. Nel sec. I un peso determinante assume l’oratoria che a Roma segue due indirizzi, quello asiano e quello attico: il primo, gonfio, musicale, ricco di formule retoriche, ricerca l’effetto sugli ascoltatori; suo massimo esponente è Quinto Ortensio Ortalo (114-50 a.C.). Il secondo, scarno e severo, attento a esporre in modo chiaro i concetti, limita l’eleganza espositiva allo stretto necessario; massimi esponenti: Licinio Calvo, Marco Giunio Bruto, Giulio Cesare. Il mimo domina le scene, per merito di Decimo Laberio (106-43 a.C.) e Publilio Siro (sec. I a.C.), che gli danno dignità letteraria. Rimangono le caratteristiche di intrattenimento piccante e licenzioso, con un linguaggio spesso osceno. Decadono commedia e tragedia.

2 I poëtae novi, o neóteroi Negli ultimi decenni del periodo repubblicano si afferma in alcuni ambienti letterari romani un nuovo gusto estetico di origine greca, quello dei poeti neóteroi, destinato a rinnovare profondamente la poesia latina.

L’influsso alessandrino Dopo le tre guerre mitridatiche (88-63 a.C.) di Silla, Lucullo e Pompeo, aumentò decisamente la penetrazione della cultura ellenistica nel mondo latino. Fu soprattutto il poeta elegiaco greco Partenio di Nicea, condotto a Roma come schiavo, a diffondere le nuove teorie estetiche e le composizioni di alcuni altri poeti greci: Callimaco di Cirene, Apollonio Rodio, Teocrito, Euforione di Calcide, tutti vissuti nel sec. III a.C. alla corte dei Tolomei ad Alessandria d’Egitto, centro principale della cultura greca postclassica. Gli alessandrini, in particolare Callimaco, erano i sostenitori di una lirica breve, fortemente individuale ed erudita, dalla elaborazione formale raffinata, che aveva già trovato in Roma, almeno in parte, dei seguaci in Lutazio Catulo e negli scrittori del suo “circolo”.

Le teorie estetiche alessandrine

Lirica breve e raffinata

La nuova sensibilità Agli alessandrini si ispirò un gruppo di autori, i poëtae novi (poeti nuovi), che Cicerone chiamò con polemico disprezzo neóteroi, termine greco che significa letteralmente “più giovani”, e anche cantores Euphorionis, cioè ripetitori di Euforione, poeta greco di Calcide, amante di dotti neologismi e notoriamente oscuro. Legati da un’amicizia rafforzata dall’origine comune (provenivano quasi tutti dalla Gallia Cisalpina) e da una uniformità di intenti e di vita, essi costituirono un cenacolo esclusivo, una èlite fortemente culturalizzata volutamente isolata dal pubblico più vasto. Questa “scuola” di giovani poeti, ansiosa di evadere dall’urto delle passioni politiche per dedicarsi al culto di una rinnovata poesia, rifiutò l’impegno civile e sociale e i relativi fini e interessi collettivi propri della tradizione letteraria, rappresentata dalla tragedia e dal poema epico. Si allontanò anche dalla poesia a vasto respiro per dedicarsi a liriche brevi, decisamente personali, di argomento in genere erotico, autobiografico o mitologico ed eziologico, elaborate in forma raffinata e impreziosite da notazioni dotte. Del resto vasta

I poëtae novi, detti anche neóteroi

Cenacolo esclusivo

Rifiuto dell’impegno civile e sociale Liriche autobiografiche, mitologiche, erotiche 67

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2 - I poëtae novi, o neóteroi

Nuove forme poetiche e sperimentazione linguistica

cultura, liriche brevi e disimpegnate, cura speciale della forma erano proprio le caratteristiche esposte da Catullo in un suo carme. Gli epilli, gli epigrammi, le elegie e i giambi, che sono i generi della loro produzione, mostrano una forte sperimentazione linguistica e sono scritti con un tono delicato, leggero, ironico, satirico.

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I poeti neóteroi Ad eccezione di Catullo, di gran lunga il più importante (vedi pag. 71), poco si conosce degli altri esponenti del gruppo: Valerio Catone, Furio Bibaculo, Elvio Cinna, Licinio Calvo, Varrone Atacino, Tìcida e Quinto Cornificio, perché di essi rimangono solo pochi frammenti.

Maestro di grammatica e poesia

I poemetti Gli epigrammi contro Ottaviano

■ Publio Valerio Catone (nato ca 100 a.C.). Originario della Gallia Cisalpina, in seguito alle confische compiute da Silla si stabilì a Roma, dove si dedicò allo studio e all’insegnamento della grammatica, diventando un famoso maestro di poesia; trascorse gli ultimi anni della sua lunga vita in povertà, secondo quanto è detto in alcuni epigrammi di Furio Bibaculo. Divenne il caposcuola dei neóteroi e compose, oltre a libri di grammatica, due opere poetiche di cui rimangono solo scarsi frammenti: Lydia, probabile raccolta di elegie d’amore per una donna omonima, e Diana o Dictynia, un epillio di carattere mitologico. Gli autori antichi lo apprezzavano, ma l’esiguità dei frammenti pervenuti non consente un giudizio critico obiettivo. ■ Marco Furio Bibaculo (nato a Cremona ca 103 a.C.). Fu amico di Catullo e di Valerio Catone, come attestano alcuni epigrammi a lui rivolti, di tono ironico e affettuoso. Compose un perduto poemetto epico mitologico Aethiopis (Etiopide), sulle avventure dell’eroe troiano Mèmnone figlio dell’Aurora, un poema epicostorico sulla guerra gallica (Annales sive Pragmatia belli gallici), di cui restano pochi versi. Questi lavori, probabilmente giovanili, furono criticati da Orazio per il tono magniloquente. I contemporanei ricordano i suoi sarcastici epigrammi contro Ottaviano; resta anche solo il titolo di una sua opera in prosa forse di carattere erudito Lucubrationes (Veglie). Morì molto vecchio. ■ Gaio Licinio Calvo (Roma 87-47 a.C.). Figlio dell’annalista Licinio Macro fu amico di Catullo, che gli dedicò versi affettuosi nel suo Liber.

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2 - I poëtae novi, o neóteroi

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Scrisse epilli, epigrammi, elegie, epitalami (canti di noz- Le opere poetiche ze), ma della sua produzione rimangono solo pochi frammenti. Quasi nulla è rimasto anche dell’epillio Io, che narrava il mito della giovane Io amata da Giove e trasformata in giovenca da Giunone. Compose degli epigrammi di invettiva politica, ma se ne è salvato solo uno satirico contro Pompeo, accusato di omosessualità. Quasi nulla resta delle elegie in memoria della moglie morta, Quintilia, commossi e dolenti canti d’amore tanto ammirati da Properzio. Praticò anche con grande successo l’eloquenza: le sue orazioni, se- Oratore di successo condo la testimonianza di Quintiliano erano di grande efficacia e di perfetta eleganza formale, tanto da essere lette per tutto il sec. I d.C.

■ Gaio Elvio Cinna (nato forse a Brixia, oggi Brescia, sec. I a.C). Originario della Gallia Cisalpina, fu uno dei maggiori poeti del gruppo dei neóteroi, almeno secondo gli antichi che lo stimavano molto. Con l’amico Catullo, seguì il propretore Gaio Memmio in Bitinia (57 a.C.). Per nove anni attese alla composizione del suo capolavoro, Zmyrna (Mirra), un epillio sul mi- L’epillio Zmyrna to dell’amore incestuoso di Mirra per il bellissimo padre Cinica; di questo poemetto mitologico, oscuro, raffinatissimo nella forma e di grande erudizione, che fu l’opera più importante dei neóteroi, rimangono solo tre versi. Elvio Cinna scrisse anche alcuni epigrammi e un Propempticon (“poemetto di accompagnamento”) per l’uomo politico e scrittore Asinio Pollione (76 a.C.-4 ca d.C.), che si recava in Grecia. ■ Publio Terenzio Varrone Atacino (82-35 a.C.). Nacque nella Gallia Narbonese (l’odierna Francia meridionale) sulle rive del fiume Atax, da cui derivò il soprannome. Della sua produzione poetica rimangono frammenti per poco più di 40 versi. Compose inizialmente un poema epico-storico di tipo tradizionale, alla maniera di En- Il poema epico nio, il Bellum Sequanicum, sulla campagna militare del 58 a.C. di Cesare contro i sequani e Ariovisto, e delle Saturae a imitazione di quelle di Lucilio (vedi a pag. 55). Entrato nel cenacolo dei neóteroi, si diede allo studio del greco e della cultura alessandrina; scrisse una raccolta di elegie d’amore Le elegie d’amore per una certa Leucadia, uno pseudonimo che, secondo le per Leucadia norme poetiche, doveva essere metricamente uguale al nome vero della donna. Suoi sono anche il poemetto didascalico geografico Chorographia (“descrizione della terra”), in cui trattava dell’Asia, dell’Europa e dell’Africa, le libere traduzioni delle Argonautiche del poeta e grammatico greco

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2 - I poëtae novi, o neóteroi

Apollonio Rodio e delle Ephemeris (Effemeridi) del poeta greco Arato (320 ca-240 a.C.). Poeti minori

■ Tìcida e Quinto Cornificio Di questi due poeti, minori nel gruppo dei neóteroi, non rimane quasi nulla: il primo cantò poesie d’amore per una non meglio identificata Metella con lo pseudonimo di Perilla; del secondo, uomo politico e oratore, si sa che scrisse liriche d’amore e un epillio, Glaucus (Glauco), sugli amori del re del mare Nettuno, per Scilla.

SCHEMA RIASSUNTIVO I NEÓTEROI

Gli esponenti

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Per influsso delle teorie estetiche dei poeti alessandrini, di Callimaco in particolare, i neóteroi (o poëtae novi, poeti nuovi) rinnovano nel profondo la poesia latina. Rifiutano l’epica tradizionale, i drammi teatrali, la concezione di una poesia impegnata civilmente. Propugnano una lirica breve nella composizione, raffinata nello stile e decisamente erudita, di argomento generalmente erotico, personale o mitologico. I generi preferiti sono l’epillio, l’elegia, il giambo e l’epigramma. Oltre a Catullo, il più grande, i più famosi sono: Valerio Catone, autore di Lydia, una raccolta di elegie d’amore, e di un epillio, Diana; Furio Bibaculo, autore dell’epillio Aethiopis, di un poema epico sulla guerra gallica e di epigrammi contro Ottaviano; Licinio Calvo, scrittore dell’epillio Io e di elegie in memoria della moglie Quintilia; Elvio Cinna, cui si deve il raffinato poemetto mitologico Zmyrna; Varrone Atacino, autore del poema Bellum Sequanicum, dell’epillio geografico Chorographia e delle elegie d’amore per una certa Leucadia; Tìcida e Cornificio, dei quali non resta nulla.

3 Catullo Catullo è il più grande e geniale dei neóteroi e in assoluto uno dei maggiori poeti latini. Egli pone al centro della sua poesia se stesso e i propri sentimenti, pronto a cantare con versi eterni le gioie e le delusioni d’amore, ma anche a lanciare pesanti invettive contro gli avversari. Le sue liriche sono lo specchio fedele degli ideali di vita e delle nuove tendenze artistiche della generazione letteraria dei “poeti nuovi”.

Una vita breve

Il problema della data di nascita

La famiglia aristocratica

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Gaio Valerio Catullo (Verona 87/84-Sirmione 57-54 a.C.) ebbe una vita breve ma molto intensa, perché trascorsa negli ambienti raffinati e decadenti dell’alta e colta società romana. Le notizie biografiche su di lui sono scarse e per lo più ricostruibili dai cenni contenuti nelle sue liriche. Nacque nella Gallia Cisalpina e sulla data esistono incertezze: san Girolamo, infatti, che si servì di Svetonio come fonte, riferisce che nacque nell’87 e che morì a trent’anni, nel 57 a.C.; questa data però non può essere accettata perché alcuni versi del poeta contengono allusioni indiscutibili a vicende degli anni 55-54; la sua morte avvenne quindi intorno al 54 a.C. e la nascita va pertanto posticipata all’anno 84, se si vuole mantenere la notizia della morte a trent’anni, oppure la sua esistenza va ritenuta più lunga di tre anni, se si fa fede alla data di nascita tramandata da san Girolamo. Era di famiglia aristocratica e facoltosa, che possedeva una villa a Sirmione, una dimora a Roma, beni in Sabina e una villa a Tivoli, e che si poteva permettere di ospitare personaggi di primo piano della vita politica contemporanea, come Quinto Cecilio Metello Celere, governatore della Gallia Cisalpina o come lo stesso Cesare quando, proconsole nelle Gallie, sostava nella città dell’Adige. Ricevette un’ottima educazione letteraria, che approfondì in seguito nella capitale, e incominciò da giovanissimo a comporre poesie d’amore. Poco più che ventenne si trasferì a Roma, con ambizioni solo mondane e intellettuali, non politiche. Per la sua origine fu accettato facilmente dalle famiglie aristocratiche e trascorse una vita di agi, brillante e dissoluta. Si legò in amicizia con alcuni giovani poeti, definiti con disprezzo da Cicerone neóteroi (poeti nuovi), come Elvio Cinna e Licinio Calvo, condividendo con loro una vita d’amore e di spensieratezza. Si tenne lontano dagli impegni politici e dall’oratoria forense, che

Ottima educazione letteraria Il trasferimento a Roma

La vita mondana e gli studi 71

3 - Catullo

pure erano sempre l’attività privilegiata dei ricchi intellettuali romani. Predilesse quindi la tranquillità degli studi e degli affetti, in sintonia con il clima di crisi dell’ultima età repubblicana, in cui si andavano sgretolando gli ideali austeri dei costumi degli antenati.

Una donna affascinante e spregiudicata

Il primo poeta d’amore della letteratura latina

Il viaggio in Bitinia

■ L’amore per Lesbia Conobbe lo storico Cornelio Nepote, l’oratore Ortensio Ortalo, il politico Gaio Memmio. E, soprattutto, si innamorò perdutamente di Clodia, moglie di Q. Cecilio Metello e sorella del tribuno della plebe P. Clodio Pulcro, una dama del gran mondo, affascinante, elegante e coltissima, ma di vita e costumi spregiudicati, che passava da un amante all’altro, e che Cicerone bollò con espressioni di sarcasmo nella sua orazione Pro Caelio. Per lei bruciò la sua breve esistenza e divenne il primo poeta d’amore della letteratura latina, e anche il primo poeta romantico. Nelle sue liriche chiamò Lesbia la donna amata, in ricordo della poetessa Saffo, nata appunto nell’isola di Lesbo. Oltre alle vicende legate a questa lacerante passione tra odio e amore, che coinvolse interamente l’esistenza e la poesia di Catullo, poco altro si sa di lui. Si allontanò poco da Roma per andare nelle ville di Tivoli e di Sirmione; tra il 58 e il 57 compì un viaggio in Bitinia, al seguito del propretore G. Memmio (a cui Lucrezio dedicò il suo poema), nel tentativo di risanare la propria situazione economica e per visitare, nella Troade, la tomba del fratello. Al ritorno si rifugiò, cercando pace e riposo, nell’amata Sirmione, dove morì.

Il Liber catulliano La scoperta del Codice Veronese nel Trecento

Criterio metrico e stilistico del Codice Veronese

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Della produzione poetica di Catullo sarebbero probabilmente rimasti solo pochi frammenti, come è avvenuto per gli altri “poeti nuovi”, se nel Trecento non fosse stato ritrovato un manoscritto con le sue poesie. Il manoscritto, il cosiddetto “Codice Veronese”, ignorato per secoli, fu copiato e poi perduto. Le liriche del manoscritto non furono quasi sicuramente pubblicate dall’autore, ma raccolte dopo la sua morte in un Catulli Veronensis Liber (Libro di Catullo di Verona) che comprende 116 carmi per un complesso di circa 2 300 versi. I compilatori della raccolta non seguirono un criterio cronologico o di affinità tematica, bensì uno metrico e stilistico: all’inizio e alla fine le poesie più brevi, al centro le più lunghe ed erudite. Si ritiene comunque che sia in parte diverso da quel lepidum novum libellum (garbato nuovo libretto) che Catullo aveva dedicato all’amico

3 - Catullo

Cornelio Nepote, come si legge nel primo canto, e che doveva essere composto solo da poesie brevi. ■ Le tre sezioni del Liber Il Liber catulliano viene comunemente ripartito in tre sezioni. Alla prima (carmi 1 - 60) appartengono le cosiddette nugae (bagattelle, cose da nulla), composizioni in genere Le nugae brevi e in metri vari, come il trimetro giambico, lo scazonte, il saffico, il coliambo e, prevalentemente, l’endecasillabo falecio; nella raccolta vi sono ben 14 metri diversi, alcuni dei quali usati per la prima volta nella letteratura latina. La seconda sezione (carmi 61 - 68) contiene quelli che gli I carmina docta studiosi hanno chiamato carmina docta (“poesie dotte”), sempre in metri diversi, ma di ampiezza e di impegno formale maggiori rispetto alle nugae. Nel terzo gruppo (carmi 69 – 116), infine, si trovano i co- Gli epigrammi siddetti epigrammi, brevi liriche in distici elegiaci di argomento prevalentemente erotico. ■ I carmina docta Gli scrittori antichi consideravano Catullo un doctus, come tutti i poeti nuovi, cioè un poeta che non solo aveva una perfetta conoscenza dei miti, ma anche grande finezza ed eleganza formale, e lo ritenevano grande soprattutto per i carmina docta. I carmi 61 e 62 sono epitalami, cioè inni nuziali con cui si festeggiavano gli sposi la sera del matrimonio. Nel primo epitalamio un corteo di giovani e fanciulle, al bagliore delle fiaccole e con canti propiziatori al dio Imeneo, accompagna al tramonto Vinia Aurunculeia alla casa del marito, Manlio Torquato. Nel secondo epitalamio, sulla stella Espero, la prima a sorgere dopo il tramonto, si basa un allegro contrasto tra un gioioso coro di giovani, in favore dello sposo, e un coro di lamento di vergini, che paragonano la sposa a una rosa che sfiorisce se viene colta, mentre i giovani la paragonano alla vite che prospera se si appoggia al robusto olmo. Seguono poi due epilli. Il primo (il carme 63), in galliambi, versi difficilissimi, è dedicato al mito del giovane Attis che, per odio verso Venere, si reca in Frigia e si evira nell’esaltazione orgiastica del culto di Cibele, divenendone sacerdote. Il secondo (carme 64) canta della nave Argo che solca il mare verso la Colchide per la conquista del Vello d’Oro. Le Nereidi emergono a quella vista e uno degli Argonauti, il re tessalico Peleo, si innamora della ninfa del mare Teti; durante il banchetto delle loro festose nozze le Parche inneggiano all’eroe Achille (figlio di Teti e Peleo) e piangono la sua prematura morte.

Un poeta “dotto” Gli epitalami

Gli epilli Il mito di Attis

Il mito degli Argonauti

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3 - Catullo

La Chioma di Berenice

Gli altri carmina

La dimensione intima

Diario di una passione amorosa

Felicità e sconforto

L’abbandono 74

Dei rimanenti, il carme 66 è la traduzione della Chioma di Berenice del poeta Callimaco, che narra come la regina Berenice offra in voto agli dèi una ciocca dei suoi capelli per salvare il marito Tolomeo, partito per la guerra e tornato sano e salvo; il ricciolo viene quindi trasformato dagli dèi in una costellazione celeste. Il 65 è la dedica della traduzione all’amico oratore Q. Ortensio Ortalo. Il carme 67 è un colloquio, piuttosto oscuro, tra un viandante e una porta di casa che racconta le vicende piccanti e scandalose della famiglia che abita in quella casa; il 68, di cui è contestata l’unità, associa elementi autobiografici, come l’amore per Lesbia, la gratitudine per un amico e il dolore straziante per la morte del fratello, al mito di Protesilào e Laodamìa, il cui amore finisce tristemente. ■ Le liriche brevi delle nugae e degli epigrammi I componimenti della prima e terza sezione sono carmi brevi, schiette espressioni dei sentimenti di Catullo, che mette a nudo il propro animo. Le tematiche sono la sua passione per Lesbia, il suo piccolo universo privato e la vita mondana di tutti i giorni, con le amicizie, i pettegolezzi, le invettive, gli scherzi e le polemiche letterarie, insomma un ritratto di grande vivacità di tutta l’alta società romana che il poeta frequentava. ■ Le liriche per Lesbia Le liriche per Lesbia sono in tutto 25, e costituiscono un breve, sincero diario dell’impetuosa passione che travolge il poeta fin dal loro primo incontro. È un amore sensuale, delirante per una donna la cui bellezza vive nei versi di Catullo, anche se non vi è nessun accenno ai suoi tratti fisici. È gioia di stare insieme, è desiderio di intimità; tutti devono sapere di questa loro relazione, in modo che gli invidiosi si consumino per la rabbia e i benpensanti moralisti si turbino. Ma i momenti di felicità si alternano a quelli di sconforto: Lesbia è una donna volubile, che non si sottrae ad altri uomini; così la relazione più volte si rompe e nascono la gelosia, l’odio e le invettive contro i rivali in amore; più lei si allontana, più il poeta si sente attratto. Poi più volte avviene la riconciliazione, il ritorno ai momenti appassionati. Le liriche rispecchiano l’esaltante e dolorosa varietà di stati d’animo, in cui si alternano tristezza e gioia, riso e pianto, speranza e delusione, esplosioni di giubilo e tristi pensieri sull’infedeltà della donna. Infine il distacco definitivo, la nostalgia e lo straziante rimpianto.

3 - Catullo ■ I carmi vari Gli altri carmi catulliani, che sono i più numerosi, sono poesie d’occasione e presentano le stesse caratteristiche formali dei modelli alessandrini adottati da tutti i “poeti nuovi”. Compare sempre lo spirito arguto, malizioso, ma anche pensieroso e malinconico di Catullo, uomo passionale e impetuoso, che mette nelle proprie liriche tutto il complesso mondo dei suoi sentimenti, dall’amore all’odio, dalla delicatezza alla denigrazione. L’amicizia è uno dei temi principali del canzoniere catulliano, quella soprattutto per i neóteroi, un’amicizia alla quale si abbandona con fresca ingenuità e profondità: ne sono esempio le parole d’affetto per Elvio Cinna, Cornelio Nepote, Licinio Calvo; l’autoironico invito a una magnifica cena all’amico Fabullo, a cui il poeta chiede di portare tutte le vivande, perché “la borsa del tuo Catullo è piena solo di ragnatele”; la sua felicità per il ritorno di Veranio da un viaggio in terre lontane. Ma i suoi strali pungenti colpiscono Marrucino, il fratello di Asinio Pollione che gli ha rubato un tovagliolo, prendono di mira Mamurra, arricchito da Cesare, Cesare stesso e Pompeo; scherniscono spregevolmente poeti come Suffeno e Volusio, i cui manoscritti potrebbero servire solo ad avvolgere pesci o qualcosa di peggio; beffano il vanesio Egnazio, che ride perché vuole mettere in mostra i suoi bei denti. Anche Cicerone è oggetto di una garbata ed elegante canzonatura: “O eloquentissimo fra i nipoti di Romolo, quanti ce ne sono, quanti ce ne sono stati e quanti ce ne saranno in futuro, o Marco Tullio, ti ringrazia Catullo, il peggiore tra i poeti, tanto peggiore tra i poeti, quanto tu sei ottimo avvocato”. Ci sono poi i pettegolezzi femminili, l’atmosfera delle taverne e delle orge, la villetta in Sabina ipotecata, che non è esposta ai soffi dei venti, “ma a quelli di 15 000 sesterzi, un vento orribile e pestilenziale”, ma anche le delicate e commosse parole della lirica scritta in memoria del fratello morto (“Ho viaggiato per molti popoli e vasti mari, ora eccomi a te, fratello mio”) e altre vicende della sua vita, come l’avventura in Bitinia o i soggiorni a Sirmione.

Le poesie d’occasione Il complesso mondo dei suoi sentimenti

Tema dell’amicizia

Gli strali pungenti

I pettegolezzi, le taverne e le orge La lirica per il fratello morto

La poetica e il mondo spirituale

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I temi delle liriche catulliane e la loro estensione sono mol- Varietà di temi to diversi, né si può assimilare la brevità incisiva e irridente di certe nugae alla complessità compositiva dei carmina docta o alla lancinante intensità emotiva delle liriche amo-

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3 - Catullo

Voce al sentimento individuale

Amore come valenza etica nuova Foedus, pietas e fides

Spontaneità ed eleganza

Una lingua originale

Successo immediato delle sue liriche

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rose: tuttavia l’opera catulliana corrisponde a una visione nuova della poesia. Tralasciata la concezione della letteratura come celebrazione dei valori collettivi della romanità, la lirica di Catullo dà voce al sentimento individuale: è una poesia lirica e soggettiva, in cui le passioni si esprimono con vigore e immediatezza, con ingenua sincerità o con freddo realismo. La spontaneità delle sue poesie d’amore non trova eguali nella letteratura latina. E, soprattutto, l’amore è sentito con una valenza etica personalissima, che il poeta traduce in termini nuovi rispetto alla tradizione. L’amore è foedus (“patto”), fondato sulla pietas (“sentimento religioso”) e sulla fides (“lealtà, fedeltà alla parola data). L’innamorato è legato alla donna amata dallo stesso vincolo di affetti che lega un padre ai suoi figli; il tradimento di questo vincolo porta il poeta ad amare più eroticamente, ma a voler meno bene in senso affettivo. ■ Lo stile e la fortuna Questa tematica è espressa in uno stile anch’esso profondamente nuovo: l’apparente semplicità e spontaneità di molti carmi catulliani non escludono mai quel gusto per l’eleganza che ne è anzi la cifra più caratteristica. Come gli altri neóteroi, Catullo si richiama agli alessandrini, della cui poetica condivide la raffinatezza e il senso elitario. Ma la sua lingua è del tutto originale nella commistione di elementi parlati (i diminutivi e i vezzeggiativi del sermo familiaris, il parlato familiare, e la crudezza di certi volgarismi) con la ricercatezza di termini volutamente raffinati. Le liriche di Catullo ebbero subito un grande successo, nonostante l’opinione di Cicerone, e non influenzarono solo i poeti elegiaci dell’età augustea, come Tibullo, Properzio e Ovidio, ma ne risentirono anche Orazio e Virgilio. L’opera catulliana fu amata nella cultura italiana da Petrarca, dagli umanisti, dal Foscolo, che tradusse la Chioma di Berenice e si ispirò al carme 101 per il sonetto In morte del fratello Giovanni.

3 - Catullo

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

(Verona, 87 o 84 - Sirmione, 54 a.C. ca). Sulla sua breve vita si hanno scarse notizie: di famiglia aristocratica, si trasferisce a Roma, dove trascorre una vita brillante in compagnia degli amici poeti. Si innamora di Clodia che canta con lo pseudonimo di Lesbia.

LE OPERE

Il Liber catulliano contiene 116 carmi per un complesso di circa 2300 versi in metri vari. È comunemente diviso in tre sezioni: la prima (1 - 60) e la terza (69 - 116), nugae ed epigrammi, comprendono poesie brevi: le 25 per Lesbia e le altre di occasione, con temi vari. Nella seconda sezione (61 - 68) si trovano i carmi ad ampio respiro (carmina docta) tra cui 2 epitalami, due epilli e la traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco.

LA POETICA

Abbandonata la celebrazione dei valori collettivi, Catullo inizia una poesia nuova, lirica e soggettiva, in cui prevalgono la passione, le amicizie, le invettive, i pettegolezzi, le polemiche letterarie, gli odi. Ne esce un ritratto vivace e completo di un uomo e della società romana in cui vive. Al centro della sua opera stanno la dolcezza dell’amicizia e l’esperienza bruciante di un amore sensuale, sentito ed espresso in modo personalissimo.

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4 Lucrezio Lucrezio è uno dei più grandi poeti della letteratura classica: egli rielabora con profonda riflessione personale e originale partecipazione le dottrine del filosofo greco Epicuro (fine sec. IV-sec. II a.C.) e le traspone con grandiose immagini poetiche, in cui la natura diventa la protagonista di un maestoso dramma.

La vita Una vita solitaria e isolata

La vita di Tito Lucrezio Caro (98 ca-55 ca a.C.) è avvolta nel mistero perché il poeta, preso dagli studi, trascorse l’esistenza in solitudine e in isolamento. Indifferente per natura alla vita pubblica e mondana, non fece nulla per farsi conoscere e non pubblicò nemmeno il suo poema. Non si sa se avesse amici, anche se l’importanza data dai suoi versi all’amicizia fa pensare comunque che ne avesse: uno doveva essere quel Memmio propretore in Bitinia e in seguito condannato all’esilio per brogli elettorali, al quale dedicò il De rerum natura; probabilmente lo era Cicerone, che doL’incertezza po la morte di Lucrezio ne pubblicò il suo poema. Carenti, dei dati biografici molto posteriori e avvolte in un alone di leggenda sono le sue notizie biografiche: la fonte principale è rappresentata da un breve testo della Cronaca di san Girolamo (sec. IV d.C.) che, accogliendo notizie del De poetis di Svetonio (sec. II d.C.), afferma che Lucrezio fu colto da follia per aver assunto un filtro d’amore e, dopo aver composto negli interIl suicidio a valli di lucidità la sua opera, si suicidò a quarantaquattro quarantaquattro anni anni. La lucida e dura analisi della passione erotica e la condanna dell’amore presente nei suoi versi sembrano indicare che nella vita di Lucrezio ci sarebbe stato un amore sventurato. Le congetture L’anno di nascita del poeta è posto da san Girolamo nel 96 sulla data di nascita o 94 a.C: la morte oscillerebbe, quindi, fra il 53 o il 51 a.C.; e di morte tuttavia in contrasto con quanto si ricava dalla testimonianza fornita dalla Vita di Virgilio del grammatico Elio Donato (sec. IV d.C.), che colloca la morte di Lucrezio nel 55 a.C.: in questo caso l’anno di nascita verrebbe anticipato. Pertanto si può collocare con una certa attendibilità la vita di Lucrezio tra il 98 e il 55 a.C., poiché è sicuro l’ultimo dato forLe date attendibili nito da san Girolamo, cioè che Cicerone revisionò il poema di Lucrezio, rivedendone il manoscritto e curandone l’edizione. Di Cicerone, che pure non citò mai Lucrezio negli scritti filosofici in cui illustra le dottrine epicuree, resta an-

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4 - Lucrezio

che un giudizio sul poeta contenuto in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54; in tale data il De rerum natura era già stato letto (si trattava, di certo, di una lettura e non di una revisione) in vista della pubblicazione postuma, dunque Lucrezio doveva essere già defunto. Cicerone, riferen- Giudizio di Cicerone dosi al poema lucreziano, ne riconosce sia il genio poetico su Lucrezio sia l’arte con cui è scritto. Del tutto sconosciuto è il luogo di nascita di Lucrezio, da alcuni collocato in Campania da altri a Roma, e oscure sono la sua estrazione sociale e la formazione culturale; nessun contemporaneo parla di lui, a parte Cicerone. Viene ora anche comunemente accettata la notizia, relativa alla follia di Lucrezio, contestata da alcuni studiosi come astiosa invenzione creata ad arte o enfatizzata dalla propaganda cristiana, ostile al pensiero del poeta.

Il De rerum natura Il capolavoro di Lucrezio è il poema epico-didascalico, di 7 415 esametri, intitolato De rerum natura (La natura), in cui viene esposta la filosofia epicurea, che proponeva il piacere quale sommo bene fisico e spirituale. L’epicureismo aveva appena iniziato a penetrare nel mondo romano e il poeta intendeva estenderne la diffusione. Il titolo segue da una parte la tradizione greca della poesia filosofica di Empedocle (sec. IV a.C.) e Parmenide (sec. V a.C.) e dall’altra riprende quello della massima opera di Epicuro, Sulla natura delle cose, perduta, alla quale il poeta si ispirò, o leggendo l’originale o le sintesi posteriori curate dai discepoli del filosofo. L’opera è dedicata a un certo Gneo Memmio, da identificarsi con ogni probabilità con il propretore, dilettante di poesia, che Catullo tacciò di tirchieria. Il De rerum natura è diviso in 6 libri, che iniziano ciascuno con una raffinata introduzione e che si articolano, con armonioso disegno architettonico, in tre gruppi di due libri ciascuno, rispettivamente dedicati alla fisica, all’antropologia e alla cosmologia. Lucrezio non intende dare una spiegazione fredda e razionale dei fenomeni dell’universo, ma una interpretazione poetica di essi, dell’armonioso aggregarsi e disgregarsi degli atomi, per cui tutte le cose nascono e muoiono, compreso l’uomo che fa parte del tutto, senza dispersione, perché nulla nasce dal nulla e nulla muore riducendosi al nulla. Lucrezio stesso chiarisce nel I libro la ragione per cui ha trattato una materia filosofica in forma poetica: vi è stato costretto perché altrimenti sarebbe stata troppo complicata per lo spirito poco speculativo dei romani.

Poema epico-didascalico Esposizione della filosofia epicurea

La dedica L’articolazione del testo Un’interpretazione poetica di fisica, antropologia e cosmologia

Una poesia filosofica pensata per i romani

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4 - Lucrezio

Il metro: l’esametro

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L’uso dell’esametro era collegato alla tradizione greca della poesia didascalica. Per Lucrezio, Epicuro non fu soltanto il fondatore di una dottrina, ma un maestro di vita: numerosi passi del De rerum natura contengono un commosso omaggio al filosofo, presentato come un liberaL’omaggio a Epicuro tore, un eroico combattente contro l’oscurantismo relicontro gioso. La prima apparizione della religione nel poema è siml’oscurantismo della boleggiata infatti da un mostro che rivolge la sua terribile religione testa dal cielo verso la terra. Sulle tracce del suo pensiero, mediante l’analisi lucida e razionale della realtà, che porta Il materialismo a una visione di coerente materialismo l’uomo può liberarsi dalle superstizioni, dai pregiudizi e dagli errori, e quindi dalle inutili angosce che ne derivano: prime fra tutte il timore degli dei, che porta alla superstizione quando La morte e l’aldilà non al delitto, e la paura della morte. La morte è semplicemente il momento estremo che chiude un ciclo vitale; essa non presuppone affatto un aldilà di punizioni eterne e di sofferenze, che sono favole di poeti o, al massimo, proie zioni di angosce terrestri, come le ambizioni, le frustrazioni, le passioni, i rimorsi. La vita va abbandonata con la stessa disposizione serena con cui un convitato sazio si leva da un banchetto, grato per le gioie che ha eventualmente goduto o, in caso opposto, rasserenato per la liberazione dalle delusioni o dalle sofferenze che ha patito.

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IL CONTENUTO DEL DE RERUM NATURA Il primo libro: la teoria atomica. Si apre con un ampio proemio costituito da un solenne inno a Venere, forza generatrice della natura, dea dell’amore, del piacere e della fecondità, protettrice e simbolo di pace e di gioia infinita, perché infonde l’ispirazione al poeta. L’invocazione alla divinità è un modo convenzionale di introdurre un poema, non contrasta con le convinzioni del poeta: gli dei, pur se esistono, non si curano delle vicende degli uomini. Dopo la dedica a Memmio segue un commosso elogio a Epicuro, che per primo si elevò contro la reli-

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gione e rivelò la verità agli uomini, entrando nei segreti della natura. Il sacrificio di Ifigenia, immolata dal padre Agamennone in Aulide, dimostra che la religione fa compiere agli uomini i gesti più infami e malvagi. Per porre riparo ai timori e alle ossessioni delle pene eterne dell’oltretomba, agli interrogativi di quale natura sia l’anima, se essa finisca nelle cupe tenebre o trasmigri in altri esseri, che sono tutte creazioni di poeti per distruggere la felicità degli uomini, Lucrezio enuncia quindi il principio fondamentale delle teorie atomiche: “mai nes-

4 - Lucrezio suna cosa nasce dal nulla per virtù divina” e nulla si riduce al nulla, solo si trasforma. La vita è composta da un insieme di corpi primi, gli atomi, corporei, indivisibili e indistruttibili; quando si muore essi si disgregano e si muovono nel vuoto di un universo infinito. Materia e vuoto costituiscono dunque la natura. False sono le teorie dei presocratici, di Eraclito, di Empedocle e di Anassagora. Il secondo libro: il clinamen. Una stupenda introduzione esalta la serenità imperturbabile del filosofo immune dall’ambizione e dal desiderio di ricchezza per i quali è infelice la maggior parte degli uomini. Lucrezio tratta quindi delle qualità degli atomi, che sono in continuo, velocissimo movimento in un vuoto senza ostacoli. Gli atomi si muovono dall’alto al basso e, grazie al clinamen, cioè all’inclinazione rispetto alla verticale, rimbalzano, si incontrano e si aggregano: la diversità delle loro forme e la molteplicità delle combinazioni generano la varietà delle cose. Questi corpi primi si muovono infiniti in uno universo infinito creando infiniti mondi; il libro si chiude con l’immagine di grande vigore poetico, che tutti i mondi sono soggetti al ciclo di nascita e di morte. Il terzo libro: l’anima umana. Dopo un solenne elogio di Epicuro, il poeta espone la dottrina dell’anima umana. Lucrezio con incalzanti ragionamenti dimostra la sua mortalità. Essa si distingue in anima, che è il principio vitale sparso in tutto il corpo, e animus, cioè la mente razionale che ha sede nel petto; essi sono materiali, perché composti da atomi, sia pure sottilissimi e velocissimi. L’anima e il corpo sono uniti e non possono esistere separatamente: insieme nascono, crescono e muoiono. Quando muore il corpo muore anche l’anima: è quindi assurdo aver paura della morte e l’oltretomba è una grande fantasia. Il quarto libro: i simulacra. Descrive il meccanismo delle varie funzioni del corpo, dei sensi, dei desideri, delle idee. Le sensazioni sono provocate da gruppi di atomi sottilissimi (simulacra) che si staccano dai diversi oggetti ed entrano nel corpo, dando origine alla vista, al tatto, all’udito, all’o-

dorato, al gusto. Le diversità che si riscontrano nei sensi sono dovute alle varie forme dei simulacra e alla differenza dei corpi riceventi. Simulacra sottilissimi, vaganti per l’aria, sono all’origine non solo delle idee stesse, ma anche dei sogni, delle illusioni e delle cose inesistenti. Dopo aver spiegato che anche il bisogno di mangiare e di bere e la passione amorosa dipendono dagli atomi, il libro termina con la condanna dell’amore fisico. Il quinto libro: la cosmologia e la vita sulla terra. Il poeta estende la sua visione a tutto l’universo: questo non fu creato dagli dei; il mondo non è eterno, è mortale e in esso non vi è posto per gli dei. Dal caos iniziale è avvenuta la creazione dei corpi celesti e della terra. Gli atomi si sono combinati secondo il peso e la forma: al centro la terra, l’aria nella zona superiore e, ancora più in alto, l’etere. Sono assurde le teorie di coloro che sostengono che gli astri, che sono divinità, e il mondo, che è sede degli dei, siano eterni: come hanno avuto un inizio così essi avranno una fine. Egli espone poi il sorgere e l’evoluzione della vita sulla terra, dai fiori e dagli alberi, agli animali e agli uomini; di grande potenza e solennità poetica è il quadro delle origini e del graduale incivilimento dell’umanità, le prime unioni, il sorgere del linguaggio e poi della società organizzata: dallo sgomento dell’ignoto e dall’ignoranza del vero nascono la fede negli dei e la credenza religiosa. Il sesto libro: geofisica e meteorologia. Dopo l’elogio ad Atene che ha accolto Epicuro, il poeta descrive la formazione materialistica dei fenomeni metereologici, come le nuvole, le piogge, gli arcobaleni e, in particolare i tuoni, il fulmine e i lampi che sono attribuiti dall’umanità ignorante e superstiziosa alle divinità. Lucrezio tratta infine dei fenomeni terrestri, come l’origine dei terremoti o delle inondazioni stagionali del Nilo. Il poema termina con la descrizione della peste di Atene durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.): un tetro quadro di morte e di umana miseria che contrasta con la visione epicurea della vita serena e con quello della primavera e della nascita nell’iniziale invocazione a Venere.

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4 - Lucrezio

Il pessimismo lucreziano Contraddizione tra messaggio positivo e immagini pessimistiche

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Il messaggio positivo della poesia di Lucrezio è sembrato ad alcuni critici decisamente contraddetto dal pessimismo angoscioso evidente in parecchie parti dell’opera: dalla serie allucinata di immagini che accompagnano la visione della morte (benché intesa come pacificazione), alla raffiguraNatura ostile zione desolata di una natura ostile e maligna, fino al quadro e maligna finale della peste che flagellò Atene all’epoca di Pericle (sec. V a.C.), dove l’analisi dello storico greco Tucidide (modello Un tradimento del del passo lucreziano) è mirabilmente ripresa e trasposta in materialismo? versi, ma con effetti di surrealistico orrore. Si è voluto dedurne un “tradimento” del razionalismo e del materialismo e soprattutto un anelito, non confessato e forse neppure consapevole, a una dimensione spirituale dell’essere. Ma la commozione del poeta sul dolore della vita e l’angosciosa consapevolezza delle continue sconfitte cui va incontro l’uoFiducia nella filosofia mo coesistono sempre con la fiducia ottimistica nella filoe nella ragione sofia e nella ragione, salvezza per l’umanità.

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Lo stile e la fortuna La grandezza del De rerum natura non sta nella sostanza filosofica, ma nella poesia, nell’entusiasmo con cui Lucrezio accoglie il pensiero di Epicuro, che avrebbe condotto lo spirito umano alla vittoria della verità.

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Una grande opera di poesia

■ Lo stile e la lingua filosofica Il problema di Lucrezio fu quello di rendere in esametri latini la scarna e astratta prosa greca di Epicuro; lo stesso poeta sottolineò del resto ripetutamente sia la difficoltà della materia, sia il proprio sforzo di riprodurre in poesia la terminologia filosofica di cui la lingua latina era carente. Per questo egli fu costretto a usare parole come primordia (primi elementi) per indicare gli “atomi” che compongono la struttura dei corpi, e concilium (assemblea di persone) per “aggregazione di atomi”. Ricorse sovente anche a perifrasi, e, quando necessario, inventò termini nuovi coniati dal Un’opera non rivista greco. Certe durezze di versificazione, come certe ripetizioni e incongruenze nella disposizione degli argomenti, alcune incoerenze di ritmo, aspre elisioni e insolite prosodie sono probabilmente da imputare alla mancata revisione dell’opera per la morte dell’autore. Per lo stile e per il genere Gli strumenti stilistici letterario fu debitore ai poeti precedenti, a Ennio (vedi a e retorici pag. 34) in particolare. Usò liberamente allitterazioni, assonanze solenni, onomatopee e omoteleuti, forme arcaiche e

Problema della resa stilistica e metrica del linguaggio filosofico

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4 - Lucrezio

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vecchie costruzioni, arditi aggettivi composti. Mostra di co- Lucrezio e la noscere bene i grandi scrittori greci che spesso riecheggiò, letteratura greca come Omero, Eschilo, Euripide, Tucidide e Ippocrate, ma anche il grande interprete dell’alessandrinismo Callimaco. I suoi esametri si collocano tra quelli di Ennio e quelli di Virgilio. La sua grandezza resta affidata alla lucida tensione dei processi di argomentazione e soprattutto alla concreta e drammatica potenza delle immagini.

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■ La fortuna Forte fu l’influenza di Lucrezio su Orazio e su Virgilio (spe- Gli autori latini e cialmente nelle Georgiche), che chiaramente allude a lui Lucrezio quando in quell’opera afferma essere felice l’uomo che può capire la causa delle cose. Ovidio scrisse di lui: “Solo il giorno in cui avrà fine la terra, avranno fine i canti incomparabili di Lucrezio”. Tacito, nel Dialogus, attesta che alcuni lo preferivano a Virgilio, rispetto al quale in effetti Lucrezio è poeta di maggiore spessore drammatico. Anche Seneca e Quintiliano lo ammirarono. Con le dottrine materialistiche accolte da Lucrezio naturalmente polemizzarono gli autori cristiani, da Tertulliano a Lattanzio a Girolamo, che pure ne subirono il fascino di poeta.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

Sono scarse le notizie su Lucrezio (98 ca - 55 ca a.C.). Trascorse l’esistenza nell’isolamento degli studi.

DE RERUM NATURA

È il suo capolavoro: un poema epico-didascalico in 7415 esametri, in cui espone la filosofia di Epicuro per diffonderla nel mondo romano. È diviso in 6 libri, articolati in 3 gruppi di 2, dedicati alla fisica, all’antropologia e alla cosmologia.

IL PENSIERO

Lucrezio vuole liberare l’uomo dalla paura della morte, dalle superstizioni, dai pregiudizi e dagli errori, perché possa vivere serenamente col sostegno della ragione e della filosofia.

LA POETICA

Lucrezio è grande per la potenza delle immagini poetiche, in cui la natura diventa protagonista di un grandioso dramma. Dà nuovi significati a parole della lingua latina, ricorre spesso a neologismi, usa liberamente allitterazioni, assonanze, forme arcaiche e vecchie costruzioni. Mostra di conoscere bene Omero, Eschilo, Euripide e Callimaco.

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5 Cicerone Cicerone è il più grande esponente dell’oratoria romana e, con Virgilio e Lucrezio, la figura più rappresentativa della letteratura latina. La partecipazione alla vita pubblica e politica è integrata in lui dall’otium, cioè l’attività culturale e intellettuale, conciliando così la tradizione con l’innovazione. La lingua latina raggiunge con lui il più alto e ampio grado di espressione ed evoluzione, come testimonia il corpus della sua multiforme opera, che spazia dalle orazioni ai trattati filosofici, retorici e politici, alle oltre 800 lettere. Le sue opere hanno trasmesso non solo una conoscenza analitica dell’epoca in cui egli visse, come interprete tra i più significativi delle vicende politiche e culturali, ma anche della sua vita pubblica e privata. In questo senso è lo scrittore latino più completo.

La vita Homo novus

Gli studi di grammatica, retorica, diritto

L’esordio forense

■ Gli anni di formazione Nacque ad Arpino, una cittadina del Lazio vicino alla Campania, da genitori di agiata condizione, appartenenti all’ordine equestre. Studiò a Roma, con il fratello Quinto, nelle migliori scuole di grammatica e di retorica; approfondì l’eloquenza, con maestri quali Licinio Crasso e Marco Antonio, i più grandi oratori del momento, e il diritto. A 16 anni indossò la toga virile; a 17, durante la guerra sociale, militò contro i marsi e i sanniti, agli ordini di Pompeo Strabone, insieme al di lui figlio, il futuro triumviro. Proseguì poi gli studi con il retore Apollonio Molone di Rodi, con il filosofo accademico Filone di Larissa e con lo stoico Diodoto, che visse in casa sua fino alla morte. Esordì a 25 anni sulla scena forense, in un dibattito di diritto privato, con l’orazione Pro Quinctio (81 a.C.); nell’80, con l’orazione Pro Roscio Amerino, difese Sesto Roscio di Ameria dall’accusa di parricidio contro un potente liberto di Silla: una causa decisamente più importante e rischiosa, che egli vinse. Nel 79 a.C. si allontanò da Roma per un viaggio ad Atene, Rodi e in Asia Minore, per motivi di studio e di salute, ma forse anche per sfuggire ai risentimenti del dittatore Silla. Completò la sua formazione con Antioco di Ascalona, Demetrio di Siria e gli epicurei Zenone e Fedro.

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Il viaggio ad Atene, Rodi e in Asia Minore

Marco Tullio Cicerone (Arpino 106-Formia 43 a.C.) fu un homo novus, cioè proveniente da una famiglia in cui nessun membro aveva mai ricoperto cariche pubbliche.

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5 - Cicerone ■ Il cursus honorum Tornato a Roma nel 77, sposò Terenzia, da cui ebbe due figli, e iniziò il cursus honorum come questore a Lilibeo in Sicilia (75): cinque anni dopo difese i siciliani contro Verre, che, per garantirsi un personale arricchimento, aveva governato l’isola tra furti e violenze d’ogni tipo. Difensore di Verre era il riconosciuto principe del foro Quinto Ortensio Ortalo, ma Cicerone raccolse una tale quantità di prove contro l’iniquo amministratore e fu così incisivamente persuasivo che, dopo la prima arringa (Actio prima), Verre se ne andò in volontario esilio. L’Actio secunda, divisa in cinque libri, fu pubblicata successivamente, senza mai essere stata pronunziata. Le Verrine segnano la raggiunta maturità di Cicerone oratore e l’inizio di una popolarità sempre crescente, che lo portò alla carica di edile nel 69, di pretore nel 66, anno in cui pronunziò il suo primo importante discorso politico per il conferimento a Pompeo del comando nella terza campagna militare contro Mitridate, e infine di console nel 63 a.C. ■ Il consolato La sua candidatura era stata appoggiata dai cavalieri come dai patrizi, i cui interessi Cicerone si proponeva di conciliare con un programma politico moderato e rispettoso della legalità, sintetizzato nella formula della concordia ordinum (accordo tra i ceti sociali abbienti). Da console si oppose alla politica dei “democratici”, facendo naufragare le proposte di distribuzione di terre agli indigenti con le 3 orazioni De lege agraria contra P. Servilium Rullum. Difese poi il senatore Rabirio, accusato di omicidio (Pro Rabirio). Ma soprattutto sventò la congiura di Catilina, un nobile decaduto che, con l’aiuto di ambienti aristocratici corrotti e di proletari indebitati e probabilmente con la protezione di Cesare, era accusato di tentare un rovesciamento dello Stato (in realtà doveva essere solo una manovra antioligarchica). Cicerone pronunciò, in breve tempo, quattro orazioni contro Catilina: denunciò la congiura (I Catilinaria), informò il popolo dell’accaduto (II), fornì le prove delle sue accuse (III), invocò la necessità della pena capitale contro i congiurati (IV). Fu il suo momento di maggior successo politico: “padre della patria” lo chiamò Catulo. Negli anni successivi si trovò a dover fronteggiare, in posizione debole insieme al Senato, gli accordi di Cesare, Pompeo e Crasso che avevano formato il primo triumvirato. A causa di una legge fatta votare dal tribuno Publio Clodio,

La questura

La causa contro Verre

Le Verrine Edile, pretore e console

Il programma di concordia ordinum

Contro i democratici

La congiura di Catilina

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Le quattro Catilinarie

Il “padre della patria”

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5 - Cicerone

L’esilio

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creatura di Cesare, dovette subire l’esilio nel 58 a.C., prima a Tessalonica e poi a Durazzo, per aver fatto eseguire la condanna a morte di cittadini romani senza un regolare processo. La sua casa sul Palatino e le ville a Tuscolo e a Formia furono distrutte. Il ritorno a Roma Per interessamento di Pompeo ritornò a Roma nel 57 e rivendicò i suoi beni con le orazioni Pro domo sua e De haruspicum responso. Si avvicinò quindi ai triumviri (Pompeo, Cesare e Grasso) che reggevano le sorti dello Stato, difendendo personaggi a loro legati, e appoggiò la proroga del comando di Cesare in Gallia (De provinciis consuProgetto di laribus). Allargò il suo progetto di pacificazione sociale e pacificazione sociale lo sintetizzò (Pro Sextio, 56) nella nuova formula di concordia omnium bonorum, patto fra tutti i cittadini onesti, in favore del mantenimento dell’ordine contro ogni illegalità e sovversione. Ma i contrasti tra nobili e popolari sfociarono in violenti disordini culminati con la morte del tribuno Clodio: Cicerone difese senza successo il suo uccisore Milone (Pro Milone, 52), che fu condannato all’esiProconsole in Cilicia lio. Nel 51 a.C. fu nominato proconsole in Cilicia, dove diede prova di integrità ed efficienza. Partigiano di Pompeo contro Cesare Riconciliazione con Cesare

Difficoltà familiari e lutti

Sostenitore di Ottaviano Le quattordici Filippiche 86

■ La guerra civile Scoppiata la guerra civile tra Cesare e Pompeo, Cicerone si allineò, pur con qualche esitazione, al partito di Pompeo, seguendolo in Epiro. Dopo la sconfitta dei pompeiani a Farsalo nel 49 a.C. (battaglia a cui Cicerone non partecipò perché era ammalato a Durazzo) e la morte di Pompeo in Egitto, si riconciliò con Cesare. Nelle cosiddette orazioni cesariane (Pro Marcello, Pro Ligario, Pro rege Deiotaro) chiese e ottenne clemenza per gli sconfitti. Il suo progetto politico era stato ormai superato dagli eventi: Cesare andava accentrando nelle sue mani tutti i poteri, giungendo a proclamarsi dittatore a vita. Colpito da difficoltà familiari (il divorzio da Terenzia; il matrimonio con Publilia, subito seguito da un nuovo divorzio) e da lutti dolorosi (la morte della amata figlia Tullia nel 45), trovò conforto nello studio e nella composizione dei trattati di retorica e di filosofia. ■ Gli ultimi anni Morto Cesare (15 marzo 44), Cicerone si illuse di poter riprendere un ruolo politico importante; appoggiò Ottaviano, erede del dittatore, contro Antonio, che di Cesare era stato il più valido collaboratore e aspirava a sostituirlo. Compose contro quest’ultimo 14 orazioni, dette Filippiche, er-

5 - Cicerone

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gendosi a strenuo difensore della legalità repubblicana e della dignità del Senato. Ma il secondo triumvirato (43 a.C.) fissò l’alleanza tra Antonio, Ottaviano e Lepido. Incluso nelle liste di proscrizione, Cicerone fu abbandonato da Ottaviano Ucciso dai seguaci e decapitato dai partigiani di Antonio, a Formia: affrontò di Antonio la morte con dignità e coraggio.

L’eloquenza ciceroniana

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Cicerone scrisse 106 orazioni: 58 sono giunte complete (vedi tabella); delle 48 perdute sono rimasti frammenti di 17 e titoli di una trentina. Dopo le prime prove giovanili, l’eloquenza ciceroniana si pose subito al di fuori delle scuole tradizionali di retorica, rifiutando sia la magniloquenza paludata dell’asianesimo (vedi a pag. 62) sia l’asciuttezza stringata dell’atticismo (vedi a pag. 63). Cicerone segue gli insegnamenti del suo maestro Apollonio Molone di Rodi, stile intermedio o rodiese, ma sente molto l’influenza di Demostene, soprattutto per la varietà dei registri usati. Ne risulta uno stile del tutto personale e innovatore; il suo è vario e multiforme, ora solenne ora ampolloso, oppure secco ed essenziale, insomma uno stile duttile che si adatta alla psicologia degli ascoltatori per carpirne il consenso. Il periodo strutturato sulla concinnitas, cioè caratterizzato da simmetria ed equilibrio, è complesso, con andamento ipotattico, con molte figure retoriche (anafore, climax, antitesi, enumerazioni, omoteleuti ecc.). Cicerone usa la parola piegandola a tutti

Aldilà dell’asianesimo e dell’atticismo

Uno stile personale e innovatore

La concinnitas

LE ORAZIONI COMPLETE DI CICERONE

Pro Quinctio (81 a.C.), la prima orazione, di diritto privato, riguarda una causa relativa a una proprietà tra Publio Quinzio e un certo Sesto Nevio. Pro Sexsto Roscio Amerino (80 a.C.), di diritto penale, in difesa di un giovane di Ameria, accusato falsamente di parricidio da un prestanome di Crisogono, potente liberto di Silla. Pro Roscio Comoedo (76 ca a.C.), causa civile in difesa dell’attore Roscio, di cui Cicerone era ammiratore (solo parzialmente conservata). In Verrem, sette orazioni in cui, su mandato dei siciliani, Cicerone accusa Gaio

Verre di malversazione quando era pretore dell’isola. Solo le prime due furono pronunciate in tribunale (70 a.C.); le restanti 5 furono scritte e pubblicate per dimostrare la colpevolezza di Verre, utilizzando le numerose prove raccolte. Pro Tullio, Pro Fonteio, Pro Caecina (69 a.C.), orazioni difensive in cause civili, per risarcimento danni, concussione ed eredità. Pro lege Manilia de imperio Gnei Pompei (66 a.C.), la prima orazione politica, per concedere a Pompeo poteri straordinari nella guerra contro Mitridate, re del Ponto.

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5 - Cicerone

Pro Cluentio Habito (66 a.C.), in difesa di un ricco cavaliere accusato di veneficio; la causa finì con l’assoluzione dell’imputato. De lege agraria (63 a.C.), 3 orazioni pronunciate contro la riforma agraria proposta dal tribuno della plebe Servilio Rullo, di parte cesariana. Pro Rabirio perduellionis reo (63 a.C.), tenuta davanti al popolo, in difesa di Rabirio, condannato a morte per l’uccisione del tribuno Saturnino nel 100 a.C., considerato delitto contro lo Stato (perduellio). Pro Murena (63 a.C.), orazione giudiziaria in difesa di Murena accusato di brogli elettorali; l’orazione pervenuta non è quella effettivamente pronunciata. In Catilinam, le 4 orazioni più famose di Cicerone, pronunciate nel novembre e nel dicembre del 63 contro Catilina e i suoi seguaci rimasti a Roma. Pro Cornelio Sulla, orazione politica in difesa di Sulla, che fu assolto dall’accusa di aver fatto parte della congiura di Catilina. Pro Archia poëta (62 a.C.), in difesa del poeta greco Archia accusato di aver usurpato il diritto di cittadinanza romana; contiene una celebre esaltazione della poesia e della letteratura. Pro Flacco (59 a.C), in difesa del propretore Flacco accusato di concussione durante il suo mandato in Asia. Post reditum ad Quirites e Post reditum in senatu, discorsi di ringraziamento pronunciati davanti al popolo e in senato dopo il trionfale ritorno dall’esilio nel 57 a.C. Pro domo sua ad pontifices (57 a.C.), pronunciata dinanzi ai pontefici per ottenere la ricostruzione della casa che era stata fatta abbattere da Clodio. De haruspicum responsis (56 a.C.), orazione pronunciata in senato per difendersi dall’accusa di sacrilegio lanciatagli da Clodio. Pro Sestio (56 a.C.), in difesa del tribuno della plebe Sestio, accusato da Clodio di aver turbato la pace pubblica con azioni violente.

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In Vatinium testem (56 a.C.), contro un certo Vatinio, partigiano di Clodio odiato dagli ottimati, che aveva testimoniato contro Sestio. Pro Caelio (56 a.C.), in difesa di Marco Celio Rufo, accusato di furto e di un tentativo di avvelenamento dall’ex amante Clodia, sorella di Clodio. De provincis consularibus (56 a.C.), orazione politica per prorogare il comando di Cesare nelle Gallie, in cui ha dato prova di grande abilità. Pro Balbo (56 a.C.), in difesa di Balbo, spagnolo di Cadice, amico di Cesare, accusato di usurpazione della cittadinanza romana. In Pisonem (55 a. C.), violenta invettiva politica contro Pisone. Pro Plancio, Pro Scauro e Pro Rabirio Postumo (54 a.C.), orazioni in difesa la prima di un amico accusato di brogli elettorali, la seconda di un governatore della Sardegna accusato di estorsione, la terza di un cavaliere coinvolto in un processo contro l’ex console Gabinio. Pro Milone, in difesa di Milone accusato dell’uccisione di Clodio; l’orazione pervenuta non è l’originale pronunciata da Cicerone durante il processo del 54, ma una successiva trascrizione del 52 a.C., è una delle sue più belle orazioni. Pro Marcello (46 a.C.), discorso di ringraziamento a Cesare, pronunciato in senato, per aver concesso il perdono a Marcello, pompeiano in esilio. Pro Ligario (46 a.C.), in difesa di Ligario, seguace di Pompeo in esilio, accusato di delitto contro lo stato. Pro rege Deiotaro (46 a.C.), in difesa del re della Galazia ed ex pompeiano, accusato di aver attentato alla vita di Cesare In Marcum Antonium (44 - 43 a.C.), 14 orazioni contro Marco Antonio per farlo dichiarare nemico pubblico. Sono note col nome di Philippicae perché lo stesso Cicerone, in una lettera a Bruto, le accostò a quelle pronunciate da Demostene contro Filippo re Macedonia.

5 - Cicerone

gli effetti desiderati. Nell’Orator egli illustra le tre qualità essenziali dell’oratore: docere o probare, delectare, movere o flectere. Il primo compito è quello di informare sul fatto ed esporre la propria tesi dimostrandone la validità; il secondo è quello di esporre i fatti piacevolmente, con un discorso vivace, serio, faceto, ironico, satirico, esemplificando sempre; l’ultimo infine è quello di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore, suscitando via via ira, entusiasmo, commozione, pietà. Commuovere gli animi degli ascoltatori è compito soprattutto dell’arringa finale (peroratio), culmine dell’orazione. Cicerone afferma di non aver mai tralasciato di ricorrere ad alcun espediente pur di rendere convincente la sua arringa.

Le qualità essenziali dell’oratore

Commuovere gli animi

Le opere retoriche

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Cicerone fu anche teorico e scrisse parecchie opere fondamentali sull’oratoria, a cominciare dal trattato giovanile in due libri De inventione, un manuale scolastico in- De inventione compiuto (sull’inventio, cioè il modo di reperire gli argomenti). Per delineare le doti dell’oratore egli si ispirò al trattato Rhetorica ad Herennium (86-82 a.C.) attribuito a Cornificio: l’oratore deve contemperare le proprie capacità tecniche con la ricchezza della propria cultura filosofica. Sviluppò meglio il suo pensiero nelle opere successive.

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■ De oratore Scritto nel 55 in tre libri, è considerato il suo capolavoro nel campo della retorica, tanto che l’opera fu studiata e per secoli considerata un modello dello stile ciceroniano. È un dialogo, ambientato nel 91 a.C., in cui i principali interlocutori sono Marco Antonio, sostenitore dell’importanza delle doti naturali e dell’esperienza (ingenium), e Licinio Crasso, il più diretto portavoce di Cicerone, sostenitore della preminenza della conoscenza di tutti gli argomenti: “Nessuno potrà essere riconosciuto oratore perfetto se non avrà acquisito la conoscenza approfondita di tutti gli argomenti più importanti e di tutte le discipline”. Entrambi gli aspetti, secondo Cicerone, vanno comunque fondati sull’onestà (libro I) Il II libro illustra le parti della retorica: l’inventio (la ricerca degli argomenti), la dispositio (l’ordine logico in cui si dispongono gli argomenti), la memoria (le tecniche di memorizzazione). Nel III libro, Crasso parla dell’elocutio (lo stile) e dell’actio (la dizione, il tono della voce e i gesti).

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Il suo capolavoro in campo retorico

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Le parti della retorica

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5 - Cicerone ■ Il Brutus e le opere minori Storia dell’eloquenza Il Brutus, scritto nel 46 e dedicato a Marco Bruto, è un diaromana logo tra Cicerone stesso, Pomponio Attico e Marco Bruto. È una storia dell’eloquenza romana dalle origini fino a Ortensio Ortalo e Cicerone, esaltati come i maggiori rappresentanti; vengono decisamente criticati gli atticisti. I trattati minori Orator (46) è dedicato a Marco Bruto ed è una ripresa dei temi del De oratore, a cui si aggiunge la trattazione, più tecnica, della prosa ritmica. Di minore importanza sono le Partitiones oratoriae, di data incerta, trattatello di retorica greca per il figlio Marco; il De optimo genere oratorum, introduzione alla traduzione latina delle due celebri orazioni di Demostene ed Eschine, tenute al processo per la corona, del 330 a.C.; i Topica, composti per un amico nel 44, illustrano i luoghi comuni (tópoi, in greco) cui può ricorrere l’oratore nel reperire gli argomenti.

Le opere filosofiche La formazione filosofica

Cicerone coltivò gli studi filosofici fin da giovane ad Atene e a Rodi, dove conobbe Fedro, Filone di Larissa, lo stoico Diodoto, l’accademico Antioco di Ascalona e fu discepolo di Posidonio; a Roma frequentò Filodemo e Sirone. Riprese a occuparsi di filosofia in tarda età e compose le sue opere negli ultimi tre anni della sua vita. Egli non espose un proprio pensiero originale; i suoi scritti L’intento divulgativo avevano un intento divulgativo, quello di far conoscere a Roma il patrimonio della speculazione filosofica greca, per fornire una larga base culturale alla classe dirigente romana. Forse anche per questo motivo non aderì ad alcun sistema, ma mise a confronto le diverse dottrine del pensiero greco, riadattandole alla mentalità latina: così facendo creò nella

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LE OPERE FILOSOFICHE DI CICERONE

Paradoxa stoicorum ad M. Brutum (I paradossi degli stoici per M. Bruto), del 46, illustra sei tesi degli stoici in contrasto con il buon senso comune, cercando di renderle credibili. Academica, è un’opera dialogica del 45 con interlocutori Lutazio Catulo e Licinio Lucullo; tratta il problema della conoscenza secondo le dottrine del probabi-

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lismo della nuova Accademia rappresentata da Filone di Larissa e Antioco d’Ascalona. Fu composta in due redazioni di due e quattro libri: rimangono il 2° della prima (Academica priora o Lucullus) e il 1° incompleto della seconda (Academica posteriora). De finibus bonorum et malorum (I confini del bene e del male oppure Il som-

5 - Cicerone

mo bene e il sommo male), del 45, è un trattato in tre dialoghi in 5 libri dedicato a Marco Giunio Bruto. Si incentra sul problema fondamentale dell’etica: come l’uomo possa raggiungere la felicità. Nei primi due libri, ambientati nella villa di Cicerone a Cuma, gli interlocutori del dialogo sono Cicerone stesso e due amici, Torquato e Triario. Viene esposta la teoria epicurea secondo la quale il sommo bene è costituito dal piacere e il sommo male dal dolore, e la sua confutazione. Nel III e nel IV il dialogo ha come sfondo la villa di Cicerone a Tuscolo. Catone, il futuro Uticense, sostiene la dottrina stoica secondo la quale la massima felicità consiste nel vivere secondo natura e secondo ragione, cui segue la confutazione di Cicerone. Nel V libro il dialogo si sposta ad Atene nella sede dell’Accademia; gli interlocutori sono Pupio Pisone, Attico, Cicerone, il fratello Quinto e il cugino Lucio. Sono esposte le dottrine accademiche e peripatetiche, in base alle quali il sommo bene sta nella perfezione dell’anima e nella salute del corpo. A queste ultime va la preferenza dell’autore. Tusculanae disputationes (Discussioni tusculane), del 45-44, sono 5 libri dedicati ancora a Bruto, in cui l’autore immagina un dialogo fittizio, tenuto in una delle sue ville a Tuscolo con un anonimo interlocutore, sulla felicità umana e sugli ostacoli che si frappongono al suo conseguimento. Nel I libro contesta il convincimento che la morte sia un male; il II verte sulla sopportazione del dolore, che è sempre attenuabile con la ragione; il I I I indica come si possa mitigare la tristezza; il IV dimostra come si possano lenire gli altri turbamenti dell’anima e, infine, il V espone la tesi che la virtù “basta da sola a dare la felicità”. De natura deorum (La natura degli dei) del 45-44, è un dialogo in 3 libri, sempre dedicati a Bruto. Vengono esposte

e confutate le teorie filosofiche epicurea e stoica sull’esistenza degli dei e sulle loro prerogative. Alla fine del terzo libro, lacunoso, Cicerone sembra propendere per la teoria stoica, ritenuta più verosimile. De divinatione (La divinazione), del 44, è un dialogo in 2 libri fra Cicerone e il fratello Quinto. Lo scrittore critica la divinazione nelle sue varie forme come superstizione; tuttavia sostiene alla fine che “è doveroso difendere le istituzioni dei nostri antenati, mantenendo in vigore i riti e le cerimonie” perché ciò è utile allo Stato. De fato, è un trattatello scritto dopo la morte di Cesare (44), giunto lacunoso, illustra il contrasto tra destino e libero arbitrio. Cato maior de senectute (Catone Maggiore ovvero la vecchiaia), è un breve dialogo, dedicato ad Attico, ambientato nel 150 a.C. tra Catone il Censore, ormai ottantaquattrenne, Scipione Emiliano e Gaio Lelio. È un elogio della vecchiaia che permette all’uomo, al di là della decadenza fisica, il conseguimento della maggiore autorevolezza. Laelius de amicitia (Lelio ovvero l’amicizia), è un breve dialogo, ambientato subito dopo la morte di Scipione l’Emiliano (124 a.C.), tra Lelio, suo amico inseparabile, Fannio e Muzio Scevola. Definisce l’amicizia come comunione di uomini onesti, fondata non già sull’interesse, ma sulla virtù. De officiis (i doveri), è un trattato in tre libri dedicato al figlio Marco, opera importante per gli ideali morali e pedagogici di Cicerone. Il I libro tratta dei doveri, il II dell’utile, il III delle loro reciproche interazioni conflittuali, escludendo, in conclusione, che possa sussistere un contrasto tra loro. Pochi frammenti rimangono della Consolatio, per la morte della figlia, dell’Hortensius, esortazione alla filosofia; del tutto perduti sono il De gloria, il De virtutibus e il De auguris.

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5 - Cicerone

Creazione del linguaggio filosofico

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lingua latina un linguaggio filosofico che è poi passato a tutta la cultura occidentale. Fu ostile all’epicureismo, considerandone pericolosi per la vita pubblica l’ideale dell’otium e la negazione di ogni provvidenzialità nella storia; ma fu sospettoso anche nei confronti del rigorismo stoico e inclinò Incline all’eclettismo all’eclettismo, a cui lo spingeva la finalità educativa della sua opera oltre che la sua propensione naturale.

I dialoghi politici

La forma di dialogo

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Una ricerca non Rifacendosi a Platone, anche Cicerone cerca in due opere, il puramente teoretica De repubblica e il De legibus, di trattare da un punto di vista filosofico i problemi dello Stato e del diritto. A differenza di Platone però, Cicerone non cerca di teorizzare uno Stato ideale, privo di qualsiasi riferimento al concreto, non si stacca mai dalla storia e dalla realtà dello Stato romano. ■ Il De re publica (La repubblica)

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Scritto negli anni 54-52 è un dialogo in 6 libri che si immagina avvenga nel 129 a.C. nella villa di Scipione l’Emiliano: per tre giorni conversano il padrone di casa, Lelio, Furio Filo, Manlio Manilio e personaggi minori. L’opera, giunta frammentaria, fu ritrovata da Angelo Mai nell’Ottocento in un palinsesto vaticano; prima se ne conosceva solo la parte conclusiva, il Somnium Scipionis (Sogno di Scipione). Nel I libro Cicerone illustra la teoria, risalente attraverso Polibio ad Aristotele, delle forme fondamentali di governo – monarLe forme di governo chia, aristocrazia, democrazia – con le loro degenerazioni – e le loro rispettivamente tirannide, oligarchia, demagogia. Da tali dedegenerazioni generazioni lo Stato romano è tuttavia immune, perché vi coesistono in armonia le tre forme base, rappresentate dalle istituzioni del consolato, del Senato e dei comizi popolari. I libri successivi, giunti incompleti, trattano lo sviluppo della costituzione romana, della giustizia, della figura del princeps ideale, un’autorità super partes e non in contrasto Il sogno di Scipione con il Senato. Nella sezione conclusiva Scipione l’Africano, apparso in sogno al suo discendente Scipione Emiliano, gli addita, dall’alto dei cieli, il destino d’immortalità che attende i giusti, benemeriti della patria. ■ De legibus (Le leggi) Iniziato nel 52 a.C., se ne conservano i primi tre libri, oltre che frammenti del IV e del V. Come Platone aveva fatto seguire le Leggi alla sua Repubblica, così anche alla Repubblica ciceroniana segue questo dialogo tra Cicerone, il fratello Quinto e Pomponio Attico, am-

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5 - Cicerone

bientato sulle rive del Liri e nella villa di Cicerone ad Arpino. Cicerone dimostra che le leggi sono insite nella società e Le leggi sono un che sono un misto di elementi sacri e profani, come i fon- connubio di sacro damenti della costituzione giuridica romana. Indica il com- e di profano plesso delle XII Tavole come il migliore fra le leggi di Roma.

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L’epistolario Le lettere costituiscono una documentazione preziosa e viva sia per la conoscenza della personalità di Cicerone sia per la ricostruzione degli eventi politici a lui contemporanei. Sono scritte per lo più con un linguaggio spontaneo e immediato, senza preoccupazioni formali, che riflette il sermo cotidianus delle classi colte ed esprimono stati d’animo, entusiasmi, dubbi, incertezze e preoccupazioni. Sono pervenute 864 lettere, delle quali 90 sono di suoi corrispondenti, ma il carteggio di Cicerone doveva essere molto più voluminoso. È diviso in quattro raccolte: Epistulae ad familiares (Le lettere ai familiari), tra il 62 e il 43 a. C., in 16 libri; i principali corrispondenti sono Terenzio Varrone, Dolabella, Cornelio. Il libro XIV contiene le lettere alla moglie Terenzia, il XVI quelle al liberto Tirone, suo segretario, l’VIII le lettere di Celio Rufo a Cicerone. Epistulae ad Atticum (Le lettere a Attico, 68-44), in 16 libri, sono indirizzate al dotto amico che aveva curato come editore alcune delle opere ciceroniane. È la raccolta più numerosa, ben 396 lettere, e la più significativa per valore storico. In esse Cicerone introduce brani in greco per far piacere all’amico, che amava la Grecia, e testimonia così l’abitudine all’espressione bilingue nella conversazione familiare e quotidiana dei romani colti. Epistulae ad Quintum fratrem (Le lettere al fratello Quinto, 60-54 a.C.) sono 28 lettere in tre libri; la più importante è quella in cui dà consigli al fratello, proconsole della provincia d’Asia, sul modo di reggere il governo con equilibrio ed umanità. Epistulae ad Marcum Brutum (Le lettere a Marco Bruto, 43 a.C., in due libri), sono lettere, di dubbia autenticità, di Bruto (il cesaricida) a Cicerone e di Cicerone a Bruto, quando quest’ultimo era in Illiria e in Epiro e si preparava alla guerra contro i triumviri.

Valore storico dell’epistolario

La lingua quotidiana colta

Epistulae ad familiares

Ad Atticum

Ad Quintum fratrem

Ad Marcum Brutum

Cicerone poeta Cicerone fu anche poeta e traduttore. Di questa parte della sua produzione, di minore importanza, sono pervenuti so93

5 - Cicerone

Poesia poco apprezzata

lo frammenti. Scrisse in versi i poemetti mitologici Pontius Glaucus e Alcyones; Uxorius, di argomento scherzoso; l’operetta geografica Nilus; il poema epico Marius; Pratum, sulla drammatica; De consulatu meo e De temporibus meis (Sul mio consolato e Sui miei tempi), poemi in 3 libri, già criticati nell’antichità per il tono enfatico; Limon, una specie di satura. Tradusse liberamente il poema astronomico Fenomeni del poeta greco Arato di Soli (320 ca-240 ca a.C.).

SCHEMA RIASSUNTIVO (Arpino 106 - Formia 43 a.C.). Homo novus, frequenta le migliori scuole e i più famosi oratori e filosofi. A 25 anni esordisce come avvocato. Inizia il cursus honorum come questore nel 75; in seguito è eletto edile, pretore e console nel 63, l’anno della congiura di Catilina. Esiliato nel 58, ritorna a Roma nel 57, avvicinandosi ai triumviri. Nel 51 a.C. è proconsole in Cilicia. Nella guerra civile si schiera con Pompeo, ma dopo la morte di questo si riconcilia con Cesare. Viene ucciso dai sicari di Antonio.

LE ORAZIONI

Sono giunte complete 58 orazioni il cui stile è personale, adattato alle circostanze e mirante alla partecipazione emotiva degli ascoltatori. Il periodo è strutturato sulla concinnitas.

LE OPERE FILOSOFICHE

Scritte nei suoi ultimi tre anni di vita, hanno lo scopo di far conoscere alla classe dirigente romana la filosofia greca. Creato nella lingua latina il linguaggio filosofico poi passato alla cultura occidentale.

I DIALOGHI POLITICI

Nel De re publica e nel De legibus tratta i problemi dello Stato e del diritto da un punto di vista filosofico. Non teorizza uno Stato ideale, come le omonime opere di Platone, ma ha sempre come riferimento la storia e la realtà dello Stato romano.

L’EPISTOLARIO

Le Lettere, divise in quattro raccolte, presentano un linguaggio spontaneo e im mediato, il sermo cotidianus delle classi colte di Roma. Costituiscono un prezioso documento per la conoscenza della personalità di Cicerone e della politica dell’epoca.

LE POESIE

Rimangono solo frammenti e titoli.

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LA VITA

6 Cesare Cesare, condottiero, statista, scrittore e storico, è il vero protagonista dell’ultimo periodo della repubblica e del suo trapasso al principato. La sua figura, tra le più celebri del mondo antico (è dal suo nome che derivano i titoli di imperatore in tedesco, Kaiser, e in russo, zar), ha lasciato una traccia indelebile non solo nella storia politica e militare dell’Urbe, ma anche nella letteratura latina, in cui occupa un posto di primo piano.

La vita

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Gaio Giulio Cesare (Roma 100-44 a C.) nacque il 13 luglio da Di antichissima una antichissima famiglia di origine patrizia, la gens Iulia, famiglia patrizia che si vantava di discendere per via paterna da Iulo, figlio di Enea e, perciò, da Venere; per via materna, da Anco Marzio. La madre Aurelia era figlia di Aurelio Cotta, seguace di Silla; la zia paterna, Giulia, era sposata a Mario e la seconda moglie dello stesso Cesare, Cornelia, era legata al partito mariano, in quanto figlia di Cinna, uno dei capi democratici.

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■ Gli anni giovanili Sono scarse le notizie sulla sua formazione culturale, che dovette comunque essere molto approfondita e accurata. Il suo atteggiamento antiaristocratico si rivelò subito, quando si oppose al ripudio della moglie Cornelia, impostogli dal dittatore Silla. Già sospettato per i legami familiari (era imparentato con Mario e con Cinna), Cesare fu incluso nelle liste di proscrizione e si salvò fuggendo da Roma. Graziato dal dittatore per l’intervento di personalità legate alla famiglia della madre, giudicò più prudente non ritornare nella capitale e riparò in Asia nell’81, dove fece le sue prime esperienze militari. Ritornato a Roma nel 78, dopo la morte del dittatore, esordì sulla scena politicogiudiziaria pronunciando, senza successo, un discorso di accusa per concussione contro Cornelio Dolabella, potente rappresentante del partito aristocratico. Si recò quindi a Rodi per un viaggio d’istruzione e seguì le lezioni di Apollonio Molone, che era stato anche maestro di Cicerone.

Atteggiamento antiaristocratico

Le esperienze militari in Asia

Il viaggio d’istruzione a Rodi

Titolo

■ L’adesione ai popolari Rientrato a Roma, fu eletto pontefice nel 73 e riprese l’attività Pontefice giudiziaria sostenendo l’accusa contro Antonio, parente del futuro triumviro. Aderì al cosiddetto partito democratico, di- L’adesione al partito venendone in breve tempo uno dei capi. Nel 70 sostenne le democratico leggi, proposte dai consoli Pompeo e Crasso, per ripristinare

95

6 - Cesare

La pretura

Console Il triumvirato con Pompeo e Crasso La riforma agraria

La campagna in Gallia

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■ Il cursus honorum La sua carriera politica fu rapida: questore in Spagna nel 68, edile nel 65, pontefice massimo nel 63, anno del consolato di Cicerone e della congiura di Catilina. È discussa la sua partecipazione all’impresa, comunque, una volta fallita, egli si oppose invano alla condanna a morte dei congiurati contro l’intransigenza di Cicerone. Fu pretore nel 62 a.C., propretore nel 61 nella Spagna Ulteriore, dove sottomise i lusitani. L’amministrazione della Spagna gli procurò fama e ingenti ricchezze, che usò per acquistare ulteriore influenza a Roma. Nel 60 si presentò candidato al consolato. ■ Il primo triumvirato Eletto console nel 59 con l’appoggio di Pompeo e di Crasso, anch’essi scontenti del senato, stipulò con loro quel patto privato di enorme importanza politica che è noto come primo triumvirato. Rinsaldò la politica di alleanza con Crasso e Pompeo, cui aveva dato in moglie la figlia Giulia nel 60, e realizzò gli accordi stabiliti con loro, senza che il senato e l’altro console, Calpurnio Bibulo, potessero opporsi. Fece approvare una riforma agraria (Lex Iulia agraria) per la distribuzione di terre ai veterani dell’esercito di Pompeo e ottenne la ratifica delle misure da lui prese in Oriente dopo la guerra mitridatica; per compiacere Crasso costrinse il senato ad abbonare parte della somma dovuta allo Stato dai cavalieri per gli appalti in Asia. ■ Il proconsolato in Gallia Si fece affidare per cinque anni il proconsolato dell’Illirico e della Gallia Cisalpina, a cui si aggiunse poi (con la Lex Vatinia) quello della Gallia Narbonense. Lasciato il tribuno della plebe Publio Clodio a Roma per tenere sotto controllo il Senato, si recò in Gallia dove, dal 58 al 52 a.C., condusse con grande successo una serie di campagne militari. Conquistò l’intera regione fino al Reno, ottenendo un risultato fondamentale per l’espansione del dominio di Roma, oltre che per l’accrescimento del proprio potere personale. La proroga del proconsolato (56) per altri 5 anni lo trattenne in Gallia fino al 50. A Roma gli anticesariani del

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La carriera politica

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Il favore del popolo

le prerogative dei tribuni della plebe, che Silla aveva esautorato, e richiamare dall’esilio i seguaci di Mario; nel 66 sostenne in Senato la legge Manilia che concedeva a Pompeo pieni poteri nella guerra contro Mitridate. Cominciò a guadagnarsi il favore del popolo con elargizioni in grano, denaro e spettacoli a proprie spese, al punto da indebitarsi pesantemente.

6 - Cesare

Senato avevano incominciato a riorganizzarsi, già con il richiamo di Cicerone dall’esilio nel 57 a.C. La situazione peggiorò con la rottura dell’equilibrio fittizio delle forze associate nel triumvirato per la morte di Crasso, sconfitto e ucciso dai parti nella battaglia di Carre nel 53, e con l’uccisione di Clodio (52). Cesare si trovò di fronte solo a Pompeo, che si era riavvicinato all’oligarchia senatoria ed era stato scelto come difensore della legalità repubblicana, per contrastare le mire di Cesare tese a creare un potere monarchico fondato sulla forza dell’esercito. Pompeo fu nominato console unico e incaricato di riportare ordine nella capitale, dopo i tumulti avvenuti in seguito alla morte di Clodio. ■ La guerra civile Benché lontano da Roma, Cesare chiese nel 49 di presentarsi candidato al consolato, rifiutando di congedare l’esercito come ordinatogli dal Senato. Il Senato allora decretò lo stato di emergenza e affidò a Pompeo i pieni poteri, ma Cesare passò con una legione il Rubicone (10 gennaio 49), dando così inizio alla guerra civile. Impadronitosi facilmente dell’Italia, inseguì Pompeo in Oriente. Lo scontro decisivo avvenne a Farsalo in Tessaglia nell’agosto del 48, quando Cesare ebbe ragione dell’esercito senatorio di Pompeo, pur numericamente superiore. Gli ultimi focolai di resistenza, dopo la morte di Pompeo in Egitto, furono annullati in Africa a Tapso (46) e in Spagna, a Munda (45). ■ La dittatura Padrone di Roma, Cesare varò una serie d’importanti riforme: allargò a 900 membri il numero dei senatori, inserendovi suoi ex ufficiali e molti provinciali; aumentò, a garanzia d’una migliore amministrazione dello Stato, il numero di questori, edili e pretori; estese la cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina; favorì le classi subalterne e in particolare i suoi soldati con assegnazioni di terre; modificò il calendario. Ispirandosi a quella moderazione che aveva assunto come costante riferimento del suo programma politico, non infierì contro gli ex avversari, evitando condanne e liste di proscrizione, come avevano fatto Mario e Silla: uno dei primi ad avvantaggiarsi del perdono fu Cicerone. Contemporaneamente egli consolidò il suo potere personale controllando personalmente la gestione di tutte le magistrature. Il Senato gli assegnò ripetutamente il titolo di console (46 e 45), quello di imperator, con cui controllava l’esercito, quello di censore triennale come praefectus morum

La rottura del triumvirato

Le mire a un potere monarchico fondato sull’esercito

Il passaggio del Rubicone La vittoria nella battaglia di Farsalo

Le riforme

Politica di moderazione

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Il consolidamento del potere personale e la dittatura a vita

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6 - Cesare

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Cumulo di cariche e di onori

e, infine, la dittatura a vita nel 44. Sebbene avesse rifiutato il titolo di rex, offertogli da Marco Antonio, il cumulo delle cariche e degli onori lo rese sempre più inviso all’oligarchia senatoria che, guidata da Marco Giunio Bruto e da Gaio Cassio, organizzò una congiura in seguito alla quale fu ucciso il 15 marzo del 44.

Cesare scrittore I Commentarii

L’epistolario

Le orazioni

Il trattato De analogia Disputa tra “analogia” e “anomalia”

Il significato di “promemoria” 98

Delle opere di Cesare sono giunti completi i Commentarii de bello gallico (La guerra gallica), i Commentarii de bello civili (La guerra civile), un acuto epigramma in 6 versi sul commediografo Terenzio: una parte, dunque, della sua vasta attività di scrittore. Delle numerose Epistulae di Cesare, riunite e pubblicate dopo la sua morte, rimangono solo sette lettere contenute nell’epistolario di Cicerone; sono giunti i titoli di alcune raccolte: Al senato, A Cicerone, Ai familiari, A G. Oppio, a C. Balbo. Restano scarsissimi frammenti e alcuni titoli delle sue orazioni, ammiratissime dai contemporanei, come Cicerone, e dai posteri, come Quintiliano e Tacito; probabilmente fu un atticista, ma da ciò che è rimasto è difficile poterlo dire con sicurezza. Rari sono anche i frammenti del trattato grammaticale sui problemi di lingua e di stile il De analogia (Sulla analogia), in due libri scritti durante la campagna di Gallia (54) e dedicato a Cicerone. Nel dibattito sulla lingua latina tra i sostenitori dell’analogia, cioè del purismo con la regolarità degli schemi grammaticali, e quelli dell’anomalia, cioè della libertà di espressione, si schierò dalla parte dei primi. Sono perdute tutte le altre sue opere letterarie: l’Anticato (Anticatone) del 45, in due libri, era una critica alla figura di quel Catone l’Uticense che Cicerone aveva celebrato come ultimo “eroe della libertà” e di cui Cesare invece contestò gli atteggiamenti e persino la scelta etica del suicidio. In versi erano il poemetto Iter (Il viaggio, del 46), che aveva per tema il viaggio di Cesare da Roma alla Spagna contro i pompeiani; le giovanili Laudes Herculis (Lodi di Ercole) e la tragedia Oedipus (Edipo); il De Astris (Le stelle) doveva essere un trattato di astronomia, forse legato alla riforma del calendario. ■ I commentarii come genere storiografico Il termine commentarii significava propriamente “appunti, promemoria” e indicava un genere minore di narrazione, in-

6 - Cesare

tesa come nuda registrazione di notizie personali, di dati destinati a essere rielaborati da altri nella forma più completa e artistica, propria del genere storiografico. Cicerone, Silla e tanti altri personaggi avevano redatto dei commentarii sul loro consolato. Cesare era ben consapevole del grande valore artistico del- Consapevolezza le sue due opere di storia e forse le aveva così chiamate storiografica di per falsa modestia. D’altra parte con il titolo di commenta- Cesare rii voleva sottolineare il suo atteggiamento di storico che raccontava e interpretava cioè solo le vicende a cui aveva partecipato, senza sovrabbondanze ed espedienti retorici per renderle più attraenti. Cicerone stesso, che pur non aveva simpatia per Cesare, escluse che qualsiasi altro potesse mai intervenire su un’opera di ineguagliabile semplicità. ■ Commentarii de bello gallico La guerra gallica è formata da 7 libri, ciascuno dei quali tratta le vicende di un anno di guerra che portò sotto il dominio di Roma un’altra importante provincia (58-52). Il titolo originale dell’opera era probabilmente G. Iulii Caesaris commentarii rerum gestarum, completato dal sottotitolo “belli gallici”. Secondo la testimonianza del luogotenente Aulo Irzio, sono stati composti da Cesare nell’inverno del 52-51, e il 51 è anche l’anno di pubblicazione.

DE BELLO GALLICO Libro I (58). Dopo una descrizione geografica della Gallia, sono narrate le campagne militari di Cesare per bloccare le migrazioni degli elvezi e dei suebi. Gli elvezi, in cammino verso la più fertile e ampia Gallia occidentale, minacciavano la provincia romana. Sconfitti sul Rodano presso Ginevra e poi a Bibracte, sono costretti a ritornare nei territori d’origine. Cesare affronta poi la tribù germanica dei suebi che, comandata da Ariovisto, si era insediata in Gallia; sconfitti in una battaglia campale in Alsazia sono costretti a riattraversare il Reno. Libro II (57). È il resoconto della conquista della Gallia nord-orientale. Belgi,

nervii e altre popolazioni stanziate tra il Reno, la Schelda, la Senna e l’Atlantico si erano coalizzate contro i romani. Il tempestivo intervento di Cesare sottomette tutto il territorio, dopo una lotta accanita. Il libro si chiude con un pubblico ringraziamento agli dei per la vittoria (supplicatio) di 15 giorni, decretato dal senato. Libro III (56). Si apre con la campagna di Servio Galba, luogotenente di Cesare, contro la ribellione delle popolazioni delle Alpi Pennine (57) e tratta della conquista della Gallia occidentale e dell’Aquitania. I veneti della Bretagna, sconfitti in battaglie terrestri e navali condotte da Tito Labieno, sono deci-

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6 - Cesare mati e venduti come schiavi; gli aquitani, alleati dei veneti, vengono sottomessi da Publio Crasso. L’ultima campagna termina a inverno già iniziato con la sottomissione dei mòrini e dei mènapi, stanziati nelle odierne Fiandre. Libro IV (55). Sono raccontate le spedizioni contro i germani e contro i britanni. Cesare interviene al nord su richiesta dei mènapi il cui territorio era stato invaso dalle orde germaniche degli usipeti e dei tencteri. Annientati presso Aquisgrana, Cesare, per fare un’azione dimostrativa, insegue i superstiti attraversando il Reno su un ponte costruito in soli dieci giorni e devasta il territorio dei sicambri. È introdotta una breve digressione sui costumi dei germani e sulla loro tribù più potente e bellicosa, i suebi.Tornato in Gallia Cesare allestisce una spedizione oltre la Manica contro i britanni, che avevano aiutato i galli, ma senza molto successo per lo scarso numero di soldati impiegati e per una tempesta che distrugge parte delle navi. Dopo un mese è costretto al ritorno in Gallia. Libro V (54). Tratta della seconda spedizione in Britannia. Nell’inverno Cesare fa costruire una nuova flotta e in primavera riattraversa la Manica con 800 navi, 5 legioni e 2000 cavalieri; penetra nell’interno dell’isola e sconfigge ripetutamente le tribù guidate da Cassivellauno, spingendole a nord del Tamigi. Inizia la rivolta delle tribù della Gallia del nordest, che assediano le le-

gioni romane sparse nei vari insediamenti invernali. Gli eburioni, guidati da Ambiorìge, annientano 15 coorti romane. Libro VI (53). Tratta delle operazioni militari contro Ambiorìge e gli alleati trèviri e menapi. Con 10 legioni, Cesare inizia la campagna contro gli insorti sconfiggendo i trèviri, i senoni, i menapi e altre tribù. Attraversa il Reno per intimidire i suebi che aiutavano gli insorti. Nella narrazione introduce un nuovo e più ampio excursus sugli usi, costumi e ordinamenti dei galli e dei germani. Con assalti continui stermina quindi gli eburoni, senza riuscire a catturare Ambiorìge. Libro VII (52). Narra la grande insurrezione generale dei galli guidata da Vercingetorige, re degli arverni La situazione dei romani, sparsi nei vari accampamenti, si fa critica. Cesare ac corre dalla Cisalpina in pieno inverno, distrugge Cenabum (Orléans) e Avaricum (Bourges), assedia senza successo Gargovia, capitale degli arverni. Gli edui aderiscono alla rivolta e Cesare, ricongiuntosi con difficoltà con le legioni del luogotenente Labieno, si ritira verso la Provenza. Vercingetorige, cercando di impedirgli la ritirata, si lascia coinvolgere in una battaglia campale e, sconfitto, si rinchiude in Alesia (Alise-Sainte Reine, in Borgogna) che viene da Cesare assediata e cinta da poderose fortificazioni e alla fine presa per carestia. Vercingetorige viene catturato.

■ Commentarii de bello civili La guerra civile è formata da 3 libri che trattano gli avvenimenti degli anni 49 e 48 a.C., dal passaggio del Rubicone all’inizio della guerra alessandrina e alla morte di Pompeo. Il titolo dell’opera era probabilmente G. Iulii Caesaris commentarii rerum gestarum, completato dal sottotitolo belli civilis. Incerti sono sia il periodo di composizione sia quello di pubblicazione.

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6 - Cesare

DE BELLO CIVILI Libro I. Nei primi capitoli viene esposta la situazione politica di Roma; segue il passaggio del Rubicone, la conquista d’Italia, la fuga di Pompeo. Vengono trattati poi l’assedio di Marsiglia, la guerra in Spagna con la vittoria sui legati di Pompeo, Afranio e Petreio a Ilerda (oggi Lerida). Libro II. Si narra la fine dell’assedio di Marsiglia, la resa delle ultime legioni pompeiane comandate da Varrone. Se-

gue la sconfitta e la morte del luogotenente di Cesare, Curione, nella campagna militare in Africa contro i pompeiani e il loro alleato Giuba di Numidia. Libro III. Si raccontano la guerra di Cesare contro Pompeo, in Epiro e in Tessaglia, la battaglia di Farsalo, l’inseguimento di Pompeo in Egitto, il suo assassinio da parte di Tolomeo, l’intervento di Cesare che rimette sul trono Cleopatra e l’inizio della guerra alessandrina.

Relatore delle proprie imprese Pur trattando una materia che lo vede protagonista assoluto, Cesare riesce a mantenere uno sguardo lucido sulle vicende esposte: l’uso stesso della narrazione in terza persona (secondo l’esempio dello storico greco Senofonte nell’Anabasi) è segno della volontà di trattare la materia in modo obiettivo. È chiara anche la funzione politica dei due commentari: Cesare sente la necessità di giustificare la sua opera. Nel De bello gallico presenta l’intervento nelle varie guerre e la conquista di tutta la Gallia come necessarie alla difesa del territorio romano minacciato dai nemici esterni. Nel De bello civili addossa agli avversari la responsabilità di aver scatenato la guerra per cupidigia e ambizione. La sua autodifesa, tuttavia, se gli ha suggerito tagli particolari nella presentazione di alcuni episodi e qualche alterazione nella cronologia degli eventi, non ha comportato falsificazioni sostanziali della realtà. La lingua purissima, il nitore dell’espressione, l’elegante semplicità ed essenzialità della sintassi, il rifiuto di abbellimenti retorici dipendono da una scelta di stile: “nudi, schietti, belli, svestiti di ogni ornamento” così li giudica Cicerone nel Brutus; ma essi riflettono anche la lucidità intellettuale di Cesare e il suo dominio sulla complessità della forma. Nei commentari non vi sono analisi psicologiche particolari, né discorsi, né racconti pittoreschi, ma l’esposizione nuda e cruda delle vicende che, raccontate con straordinaria efficacia drammatica, tengono sempre vivo l’interesse del lettore. Di grande importanza sono le notizie sugli usi militari dei romani, sulle loro opere di ingegneria, come costruzioni di ponti, di navi e di fortificazioni; rilevante è la presentazione delle caratteristiche geografiche

Sguardo oggettivo e impassibile, narrazione in terza persona Funzione politica delle sue opere

Un’autodifesa senza falsificazioni Lingua purissima ed elegante Lucidità intellettuale

Interesse documentario su usi e costumi

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6 - Cesare

Strategia e tattica militare

delle regioni e degli aspetti etnici della diverse popolazioni dell’Europa nord-occidentale: galli, germani, britanni. La descrizione delle battaglie evidenzia l’eccellenza della strategia e della tattica militare di Cesare, che sarà oggetto di studio nei secoli. E su tutto domina la figura di Cesare, la moderazione con cui presenta i propri successi, la cordialità e la simpatia con cui parla dei suoi soldati e dei suoi ufficiali, specie quelli di grado subalterno, come i centurioni, evidenziando i loro atti di eroismo, la disciplina, la devozione verso il generale.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

(Roma 100 - 44 a.C.). Cesare fa le prime esperienze militari in Asia ed esordisce come oratore a 22 anni. Aderisce al partito democratico e, dopo una veloce carriera politica, diventa console nel 59, con l’aiuto di Pompeo e Crasso coi quali ha stipulato il primo triumvirato. Con una serie di campagne militari (58 - 52) conquista tutta la Gallia e poi sconfigge Pompeo nella guerra civile. Ormai padrone di Roma, viene assassinato alle idi di marzo.

Commentarii de bello gallico

Composti nell’inverno del 52-51, narrano la conquista della Gallia in 7 libri, uno per ogni anno di guerra.

Commentarii de bello civili

Trattano in 3 libri, due anni di guerra civile, dal passaggio del Rubicone alla morte di Pompeo, in Egitto.

LO SCRITTORE

Cesare tratta la materia in modo impersonale e obiettivo, narrando di sé in terza persona. La lingua purissima, l’eleganza espressiva, la semplicità della sintassi, l’efficacia drammatica della narrazione tengono sempre vivo l’interesse del lettore e fanno di Cesare uno dei maggiori prosatori latini.

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LE OPERE PERDUTE

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Non sono pervenute le orazioni, ammirate dai contemporanei, il trattato grammaticale De analogia, l’Anticato, l’Iter, il De Astris, le Laudes Herculis e la tragedia Oedipus.

7 Sallustio Sallustio, di cui rimangono gran parte delle opere, è il primo grande storico romano, nel senso proprio del termine. Personalità complessa e contraddittoria, con la sua opera indaga sul progressivo disgregarsi delle antiche istituzioni nel periodo di crisi dell’ultima età repubblicana e nascita del principato, alle cui vicende politiche partecipa attivamente dalla parte di Cesare.

La vita

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Gaio Sallustio Crispo (Amiternum, Sabina 86-Roma 35 a.C.) Di famiglia plebea era di famiglia agiata, probabilmente di origine plebea. Il benestante fatto di non appartenere alla classe dirigente influenzò senz’altro i suoi giudizi storici. Si sa poco della sua formazione culturale: dai suoi scritti si rileva che tra gli autori latini conoscesse bene Catone e, tra i greci, senz’altro Tucidide.

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■ La carriera politica Per completare la sua educazione si recò a Roma, dove intraprese la carriera politica da homo novus. Sostenitore delle esigenze dei “provinciali”, sempre più coscienti della propria importanza, entrò nel partito democratico e fu fedele seguace di Cesare, che aveva impostato una politica tesa a valorizzare le classi dirigenti di tutta la penisola. Probabilmente fece esperienze militari tra gli anni 70 e 60. Debuttò nella politica come questore (55 o 54), entrando così in Senato e nel 52 divenne tribuno della plebe. In quell’anno Clodio, fedele a Cesare era stato ucciso dai sicari dell’aristocratico Tito Annio Milone; Sallustio, anche per inimicizia personale, attaccò violentemente Milone, che fu processato e condannato, nonostante fosse difeso da Cicerone con una celebre orazione. Si attirò l’ostilità degli ottimati e nel 50 fu espulso dal Senato sotto la generica accusa di vita scostumata, accusa probabilmente pretestuosa, che intendeva privare Cesare di un risoluto sostenitore.

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Fedele seguace di Cesare

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Tribuno della plebe

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L’attacco contro Milone e Cicerone

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L’espulsione dal Senato

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■ La guerra civile Raggiunse allora in Gallia Cesare, che gli affidò incarichi importanti durante la guerra civile contro Pompeo. Reintegrato nel Senato (49) e posto al comando di una legione, Sallustio Le attività militari compì nel 49 un’azione militare contro i pompeiani che assediavano Dolabella e Antonio nell’isola di Curicta, nelle acque del Quarnaro, ma l’impresa non ebbe l’esito sperato. Nel 48 Nuovamente divenne nuovamente questore; nel 47 come pretore designa- questore

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7 - Sallustio

Governatore dell’Africa Nova

Le accuse di malversazione

La morte

■ Il ritiro dalla vita politica Al ritorno a Roma fu accusato di malversazione per aver depredato la provincia da lui amministrata. Le prove erano dubbie, ma la cattiva amministrazione delle province da parte dei governatori per arricchirsi era un fatto consueto ed è probabile che l’accusa anonima di rapacità lanciatagli avesse una base di verità. È certo, comunque, che aveva accumulato un’immensa fortuna, ma non fu processato per intervento di Cesare; si ritirò però per sempre dalla vita pubblica, o perché fu costretto dal venir meno del favore di Cesare assassinato, oppure volontariamente, come egli sostenne. La sua ricchezza gli consentì di acquistare la villa di Cesare a Tivoli e di farsi costruire uno palazzo a Roma, nella valle tra il Quirinale e il Pincio, circondato da vasti e splendidi giardini, gli horti Sallustiani. In questo lussuoso ritiro si dedicò alla composizione delle opere storiche. Morì, secondo la testimonianza di san Girolamo, nel 35-34 a.C. Non si sa se egli avesse avuto una crisi di coscienza, ma il fervore morale per l’onestà e per la virtù, l’impegno per il bene del popolo, che appaiono nei suoi scritti, contrastano in modo evidente con la sua censurabile condotta di vita.

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Lo “splendido” ritiro

to per l’anno successivo fu inviato a sedare un ammutinamento delle truppe di Cesare in Campania, di nuovo senza successo. Come pretore fece la campagna d’Africa nel 46; al comando di una parte della flotta conquistò l’isola di Cercina presidiata dai pompeiani, impadronendosi di ingenti scorte di frumento. Dopo la vittoria di Tapso (46), venne nominato da Cesare, col titolo di proconsole, governatore dell’Africa Nova, la provincia appena formata da gran parte del regno di Numidia, il cui re Giuba si era schierato dalla parte di Pompeo. Qui rimase fino al 45 o all’inizio del 44.

Le opere Le monografie sono conservate intere due sue monografie composte tra il 43 e il 40, La congiura di Catilina o La guerra di Catilina (De Catilinae coniuratione o Bellum Catilinae) e La guerra giugurtina (Bellum Iugurthinum). Le Storie (Historiae) sono andate quasi completamente perdute; incerta è la paternità delle due Lettere a Cesare sul governo della Repubblica (Epistulae ad Caesarem de republica), del 50 e del 46 a.C., pervenute anonime, ma comprese in un codice del sec. IX contenente altre opere di Sallustio, e della Invettiva contro Cicerone (Invectiva in Ciceronem). Secondo

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Le due monografie

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7 - Sallustio

una notizia dubbia, lo scrittore avrebbe composto anche un poema, non pervenuto, Empedoclea, sul pensiero di Empedocle. ■ La Congiura di Catilina La Congiura di Catilina è il primo lavoro storico di Sallustio, una breve monografia in 62 capitoli, scritta tra il 43 e il 42, che narra le vicende della rivolta di Catilina contro le istituzioni repubblicane per impossessarsi del potere che non era riuscito a conseguire legalmente. Il moto rivoluzionario era sostenuto non solo da alcuni membri dell’aristocrazia, ma anche da veterani e plebei impoveriti e sovraccarichi di debiti. La congiura è scoperta soprattutto per l’azione di Cicerone; i congiurati rimasti a Roma sono arrestati e condannati a morte, e, infine, nella battaglia di Pistoia, muore lo stesso Catilina. La prima parte della monografia è dedicata all’indagine sulle cause morali, psicologiche e storiche della congiura e presenta un quadro assai vivace della società romana decadente e corrotta. I ritratti psicologici dei personaggi sono vivi: Sempronia, Cesare, Catone e, soprattutto il protagonista, Catilina, la cui figura domina per malvagità, coraggio e intelligenza.

La narrazione delle vicende

L’indagine sulle cause I ritratti psicologici

■ La Guerra giugurtina Più vivace e artisticamente valida è la seconda monografia, in 114 capitoli, che ha come argomento la guerra contro Giugurta, re di Numidia (111-106 a.C.). Scritta negli anni 41-

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RIASSUNTO DELLA CONGIURA DI CATILINA Dopo l’introduzione Sallustio traccia un profilo psicologico di Catilina e, prendendo spunto dalla decadenza morale, espone una breve storia di Roma in cui si rimpiangono i tempi antichi (cap. 1-13). In questa situazione di degrado, Catilina si circonda di simpatizzanti, che per vari motivi, bramano un cambiamento delle istituzioni; li lega a sé con molteplici espedienti e li infiamma con un discorso (cap. 14-20). L’aristocrazia subodora il complotto e affida il consolato ad Antonio e a Cicerone, un homo novus; Catilina prosegue i suoi preparativi e raduna un esercito a Fiesole (cap. 21-24). Seguono un ritratto di Sempronia, una delle donne che partecipa alla congiura, la

sconfitta di Catilina alle elezioni consolari, che lo mette decisamente sulla via della rivolta, i pieni poteri conferiti a Cicerone (cap. 26-29). Cicerone pronuncia in Senato la prima delle 4 orazioni contro Catilina, il quale lascia Roma per raggiungere in Etruria il complice Manlio e il suo esercito (cap. 30-36). I complici rimasti in città sono arrestati; vi sono poi i discorsi di Cesare e Catone che sono posti da Sallustio a confronto; i congiurati sono condannati a morte e giustiziati (cap. 37-55). Gli ultimi 6 capitoli narrano della fuga di Catilina e dei suoi seguaci verso la Gallia Transalpina, la sua sconfitta e la morte nella battaglia presso Pistoia.

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7 - Sallustio

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40, presenta complessità e articolazione maggiori rispetto alla Congiura di Catilina. A un’introduzione di carattere Il ritratto di Giugurta morale, segue il ritratto del coraggioso ma privo di scrupoli Giugurta, pronto ad assassinare i parenti, a corrompere a Roma i senatori e in Africa il console Calpurnio Bestia, inviato con l’esercito contro di lui, per ottenere una pace faLe vicende vorevole. La guerra riprende con l’incorruttibile Cecilio Medella guerra tello che, riorganizzato l’esercito, sconfigge una prima volta il re di Numidia. Alleatosi con Bocco di Mauretania, Giugurta riprende la lotta, ma è sconfitto dal console Gaio Mario, un homo novus, già legato di Metello. Attirato in un tranello da Silla e da Bocco, che ha chiesto una pace separata, Giugurta viene consegnato a Mario. La narrazione è contiNumerose nuamente interrotta da varie digressioni: discorsi, lettere, digressioni ritratti di personaggi, descrizioni geografiche e racconti mitici. Questi excursus precisano il carattere dei protagonisti e definiscono le idee politiche e i criteri seguiti dall’autore. A questo proposito grande rilievo hanno i discorsi di Memmio, il tribuno che aveva condotto a Roma Giugurta perché testimoniasse contro i senatori corrotti, e di MaViolento attacco rio, nei quali si ha un violento attacco all’aristocrazia che, all’aristocrazia prolungava una guerra redditizia per le tasche dei senatori dissanguando le casse dello Stato e il popolo. In contrapEsaltazione posizione, Sallustio esalta i democratici “uomini nuovi”, e il di Mario trionfo di Mario, il migliore dei populares, rappresenta per e dei popolari lo storico l’inizio di una possibile nuova era. La guerra in Africa e la lotta dei partiti a Roma si intersecano e formano un quadro del momento storico. Come Catilina, anche Un quadro Giugurta è un personaggio negativo, ma non è statico come complesso del Catilina che rimane sempre uguale a se stesso: Giugurta è momento storico figura più complessa, la cui personalità si delinea e si sviluppa via via nel corso dell’opera.

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■ Le Storie I 5 libri delle Storie (Historiae) furono scritti da Sallustio dopo La guerra giugurtina, nel pieno della sua maturità di storico e artista, per questo è grave la loro perdita. Egli lasciò lo schema monografico per una trattazione ad ampio reLa forma annalistica spiro e in ordine cronologico, proseguendo l’opera di Cornelio Sisenna, dalla morte di Silla (78) alla terza guerra contro il re del Ponto Mitridate (67). Rimangono un proemio, 4 discorsi, 2 lettere e frammenti. Sallustio opera una sintesi tra lo schema annalistico e quello monografico; dai frammenti pervenuti si nota infatti come la narrazione fosse vivacizzata dall’introduzione di discorsi diretti, di lettere che ponevano in risalto i protagonisti.

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7 - Sallustio

La storiografia di Sallustio Nell’introduzione delle opere su Catilina e Giugurta Sallustio sostiene che la conoscenza della storia è fondamentale per un uomo politico; per questo egli si è messo a scrivere opere storiche, quando ha lasciato la vita attiva a causa della corruzione dilagante, che aveva ormai messo in crisi la società e le istituzioni repubblicane. Giustifica così con ragioni di ordine etico il suo ritiro dalla politica per dedicarsi all’otium dello scrittore, fatto che poteva sembrare prematuro ai romani, che “anteponevano l’agire al parlare”. A prescindere dalle Historiae, nelle quali espone le vicende in una narrazione continua, secondo il tradizionale criterio annalistico, Sallustio nella Congiura di Catilina e nella Guerra giugurtina mette subito in mostra la sua originalità di storico con la scelta del genere monografico. La caratteristica principale della monografia è quella di mettere a fuoco un singolo problema, che emerge da uno sfondo storico organico. È proprio questo che fa Sallustio: le sue due monografie ritagliano, nel percorso storico della repubblica romana, due episodi per lui densi di significato, uno vicino nel tempo e uno un po’ più lontano, indagati nella loro circoscritta autonomia e assunti come paradigmatici. Solo un ventennio separava la stesura della prima monografia dalla congiura di Catilina (63), che aveva rappresentato un pericolo senza precedenti per la repubblica. La Guerra giugurtina riguardava un episodio della fine del sec. II, una guerra protrattasi per ben 6 anni per incompetenza e corruzione. Entrambi gli avvenimenti sono assunti da Sallustio come meritevoli di indagine, in quanto sintomatici di quella degenerazione del costume politico che era ormai esplosa, durante la vita dell’autore, nell’ultima grave crisi sociale e istituzionale della repubblica. Per Sallustio le premesse di tali crisi erano da ricercarsi nella vittoria definitiva su Cartagine; la distruzione della città punica aveva eliminato un pericoloso nemico esterno, la cui esistenza aveva agito da collante per la comunità. Dalla definitiva sconfitta di un nemico così temuto era iniziata la decadenza di Roma per la caduta della tensione morale, in particolare dell’aristocrazia, che si era accompagnata all’eclisse dei valori del mos maiorum. E Sallustio, un “democratico”, assegna una parte di rilievo nel processo di decadenza al dittatore aristocratico Silla.

La storia indispensabile alla politica Fare storia è etico

La novità della storia monografica

Episodi come paradigmi storici

Degenerazione del costume politico La vittoria su Cartagine causa della crisi della repubblica

Il metodo e lo stile

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Sallustio prende come modello di metodo lo storico greco Tucidide, modello di Tucidide, ma si distingue da lui sia perché ricerca le cause dei metodo storico

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7 - Sallustio

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processi storici e delle azioni dei singoli in motivi di ordine etico, sia per la visione cupamente pessimistica degli avvenimenti, che lo induce a digressioni “archeologiche” sul bel temCause dei fatti po passato. Ma, come Tucidide mette a fuoco le cause degli e analisi psicologica avvenimenti e l’analisi psicologica dei protagonisti. La sua visione severamente etica si traduce in una scrittura L’inconcinnitas rapida ed essenziale basata sull’inconcinnitas, cioè proprio il contrario della ricercatezza di simmetria e dei periodi ampi ed equilibrati che costituivano la concinnitas di Cicerone. Lo stile sallustiano presenta una sintassi libera, in cui compaiono asimmetrie, antitesi, grecismi, termini dotti Uno stile e antichi. È uno stile vigoroso e appassionato, austero e appassionato e maestoso, che ha il modello nel Catone delle Origines. austero Incisivi e vibranti sono i discorsi: splendidi, nella Congiura di Catilina, quelli contrapposti di Cesare e Catone: il primo contrario, in nome della legalità, all’immediata condanna a morte dei congiurati, il secondo favorevole a essa in nome del rigore morale. Intensi e psicologicamente penetranti sono poi i ritratti dei protagonisti, tra cui celeberrimo è quello di Catilina.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

Gaio Sallustio Crispo (Amiternum 86 - Roma 35 a.C.) nasce da famiglia plebea agiata e inizia la carriera politica come homo novus diventando seguace di Cesare. Questore e poi tribuno della plebe, nella guerra civile comanda una legione e compie missioni con alterna fortuna. Nominato governatore dell’Africa Nova, al suo ritorno a Roma viene accusato di malversazione; si ritira così dalla politica per dedicarsi alla storiografia.

LE OPERE

Rimangono complete le due monografie La congiura di Catlina, che narra in 62 capitoli il tentato colpo di stato contro le istituzioni repubblicane da parte di Catilina, e La guerra giugurtina, in 114 capitoli, che narra l’azione militare contro Giugurta, re della Numidia. Rimangono frammenti delle Storie, su 12 anni di storia romana, dal 78 al 67 a.C.

LO STORIOGRAFO

L’uso della monografia fissa l’attenzione su due singoli episodi della storia, che diventano paradigmatici della degenerazione del costume politico del tempo.

LO STILE E IL METODO

Sallustio si ispira a Tucidide: la scrittura è rapida ed essenziale, basata sull’anticoncinnitas, il metodo storico mette a fuoco le cause e la psicologia dei protagonisti, divergendo dallo storico greco per il pessimismo e la ricerca delle cause dei processi in motivi etici.

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8 Varrone e gli scrittori minori Notevole è l’influenza esercitata sulla cultura latina dall’eclettica e singolare figura di Varrone, scrittore di vastissima erudizione e di tendenze enciclopediche, una delle personalità più significative dell’età cesariana. Di lui san Girolamo disse “uno degli uomini più acuti, e di sicuro il più colto, che siano mai nati”.

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Una lunga vita

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Marco Terenzio Varrone (Rieti 116-Tuscolo 27 a.C.) è soprannominato Reatino, dalla città d’origine, per distinguerlo dall’omonimo poeta della scuola dei neóteroi (vedi a pag. 65). Veniva da una benestante famiglia di proprietari terrieri di ceto equestre. Ebbe un’accurata educazione a Roma con il filologo Lucio Elio Stilone e perfezionò la sua formazione culturale con il tradizionale viaggio in Grecia, ad Atene, dove seguì nella Nuova Accademia il filosofo Antioco di Ascalona. Intraprese la carriera politica e militare aderendo al partito oligarchico: fu questore, tribuno della plebe, pretore. Seguì Pompeo in Spagna nella campagna contro Sartorio, in Oriente in quella contro i pirati e contro Mitridate, nella guerra civile. Dopo la battaglia di Farsalo ottenne il perdono di Cesare, che gli affidò l’ambito incarico della costituzione e dell’organizzazione in Roma della prima biblioteca pubblica, che però non fu realizzata per la scomparsa del dittatore. Incluso nelle liste di proscrizione da Antonio e da Ottaviano, evitò la morte per l’intervento dell’amico Fufio Caleno, che lo nascose in casa propria. Graziato in seguito da Ottaviano e ritiratosi a vita privata, si dedicò interamente agli studi fino alla morte, che avvenne, forse nella sua villa di Tuscolo, a novant’anni nel 27 a.C., anno in cui Ottaviano diventava Augusto. Varrone godette presso i contemporanei di grande fama e della considerazione di dotto insuperabile; come sistematore delle tradizioni culturali di Roma egli influenzò gli scrittori successivi fino al Medioevo.

L’educazione La carriera politica e militare, come seguace di Pompeo Il perdono di Cesare

Fama di dotto insuperabile

Le opere pervenute Studioso infaticabile, si occupò di discipline diverse, dal- Una produzione la letteratura alle antichità e dalla retorica alle scienze, che vastissima e trattò in 74 opere per un complesso di oltre 600 libri. Del- pluridisciplinare l’immenso corpus varroniano sono pervenuti: De re rustica, il solo integro, un trattato sull’agricoltura, certo non una 109

8 - Varrone e gli scrittori minori

delle sue opere più importanti; 2 libri interi e sezioni frammentarie di altri 4 del De lingua Latina, un trattato di morfologia e sintassi latina in 25 volumi; circa 600 versi delle Saturae Menippeae e pochi frammenti delle altre opere.

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La forma dialogica

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Destinato ai grandi latifondisti

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Primo libro

■ De re rustica Il Rerum rusticarum libri è un trattato sull’agricoltura, che Varrone scrisse a 80 anni, nel 37, quando Virgilio si accingeva a comporre le Georgiche. La materia, esclusivamente tecnica, è divisa organicamente in 3 libri, cui corrispondono 3 dialoghi tenuti in date, luoghi e con interlocutori diversi, di cui uno è sempre Varrone. Il primo libro è dedicato alla moglie Fundania, che aveva acquistato una proprietà terriera, e tratta della fattoria, della coltivazione della terra, degli strumenti di lavoro, delle vigne, degli uliveti (De agricultura). Il secondo libro, dedicato a Turranio Nigro, ha come oggetto l’allevamento del bestiame: bovini, cavalli, suini, pecore, capre ecc. (De re pecuaria). Il terzo libro è dedicato a Quinto Pinnio e parla dell’allevamento nelle grandi villae degli animali da cortile e di altre specie pregiate, come lepri, caprioli, cinghiali, pesci e api (De villaticis pastionibus). Destinatari dell’opera di Varrone non sono i piccoli proprietari terrieri, ma i grandi latifondisti, che posseggono vaste coltivazioni e allevamenti, amanti della vita lussuosa e perciò attenti ai cospicui profitti. La forma dialogica indica in Varrone una certa ambizione letteraria: è briosa e spigliata, quando non è schiacciata dallo sfoggio di erudizione; lo stile è semplice, poco elegante, infarcito di termini arcaici, tecnici e di derivazione greca.

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Trattato sull’agricoltura

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■ De lingua latina È un trattato di grammatica e sintassi latina, composto tra il 47 e il 45, in 25 volumi, i primi quattro dedicati a Publio Settimio e gli altri a Cicerone. Dopo il I libro introduttivo, l’opera era divisa in parti: la prima dedicata all’etimologia delle parole (II - VII), la seconda all’analogia (VIII - XIII), la terza alla sintassi (XIV - XXV). Dei libri rimasti (V - X), tre trattano dell’etimologia e tre dell’analogia. Poiché non esisteva ancora lo studio della fonetica e delle sue leggi, Varrone compie grossolani errori etimologici; nella questione tra Anomalia e analogia anomalia e analogia (vedi il riquadro a pag. 111), pur ritenendo più valide le ragioni di quest’ultima, egli sembra propendere per una via mediana. L’opera è molto importante La prima perché rappresenta la prima esposizione sistematica della grammatica latina grammatica latina.

Trattato di grammatica e sintassi

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8 - Varrone e gli scrittori minori ANALOGIA E ANOMALIA Durante tutto il sec. I a.C. si svolse a Roma un vivace dibattito sulla questione della lingua tra gli analogisti, che seguivano la scuola di Alessandria d’Egitto, e gli anomalisti, seguaci della scuola di Pergamo, in Asia. La dottrina dell’analogia sosteneva che la lingua è un prodotto razionale e non naturale e che il suo uso corretto si fonda su regole grammaticali fisse; una buona lingua ha

perciò caratteristiche di purezza e di regolarità e rifiuta i neologismi. La dottrina dell’anomalia asseriva invece che la lingua è un fatto spontaneo, condizionato dal suo uso vivo, e che si modifica ed evolve con il passare delle generazioni e il mutare delle idee; pertanto erano ammesse la più ampia libertà di espressione personale e la presenza di neologismi.

Le opere poetiche ed erudite perdute Ingente fu la produzione poetica di Varrone. Le Saturae Menippeae, in 150 libri, erano un misto di prosa e di versi alla maniera del filosofo cinico greco Menippo di Gadara (sec. III a.C.); dai 600 versi e dai circa 70 titoli rimasti si arguisce l’atteggiamento critico dell’autore verso i vizi dei contemporanei e nostalgico verso il passato. Altri scritti poetici erano i 10 libri di Poemata, i 6 di Pseudotragoediae e i 4 di Saturae. Numerose opere testimoniano l’attenzione di Varrone per gli studi grammaticali e di storia letteraria: De Sermone latino, De antiquitate litterarum, De poetis, De comoedis plautinis ecc. Di carattere storico ed erudito erano le Antiquitates, monumentale repertorio di antichità romane: 25 libri di Rerum humanarum, che trattavano degli uomini, dei luoghi, dei tempi e degli eventi, 16 libri di Rerum divinarum, che trattavano dei templi, dei riti, delle cerimonie e degli dei. Di quest’ultima parte si possiedono citazioni dovute soprattutto ai padri della Chiesa, specie sant’Agostino. I 76 libri di Logistorici erano probabilmente dialoghi per lo più di argomento morale e filosofico. Un’opera enciclopedica erano le Disciplinae, in 9 libri, sulle nove arti liberali, dalle quali nel Medioevo derivano le sette arti componenti il trivio e il quadrivio. Pure di carattere enciclopedico erano i 15 libri delle Imagines, raccolta di 700 ritratti di uomini illustri, sia greci sia latini, riuniti in serie di sette (Hebdomades); ogni immagine era seguita da un elogio in versi e da notizie biografiche.

La produzione poetica e le Saturae Menippeae

Le opere grammaticali e critiche Le opere storiche ed erudite

L’enciclopedia Disciplinae I ritratti di uomini illustri

Cornelio Nepote

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Più che tra gli storici Cornelio Nepote (Gallia Cisalpina 100 ca Un erudito biografo - dopo il 27 a.C.) va annoverato tra gli eruditi compilatori di

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8 - Varrone e gli scrittori minori

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biografie e di cronologie. Sua è l’idea di mettere a confronto gli illustri personaggi romani con quelli stranieri.

Dedito agli studi Le amicizie intellettuali

Le biografie Novità della contrapposizione Il libro dei condottieri

Le vite di Tito, Pomponio Attico e Catone il Censore Definizione morale del personaggio

Stile chiaro ma monotono La Chronica 112

■ La vita Sono scarse le notizie sulla sua vita: si ignora anche il prenome. Nacque forse a Pavia o a Ostiglia e passò tutta la vita (moralmente irreprensibile, come sostenevano i contemporanei) a Roma, dedicandosi agli studi e tenendosi lontano dalla vita pubblica. Da giovane si dilettò di poesia leggera e il conterraneo Catullo gli dedicò il lepidum novum libellum. Strinse amicizia con Tito Pomponio Attico, che lo introdusse nella ricca e colta società della capitale: a lui dedicò una delle sue migliori biografie. Fu in relazione epistolare con Cicerone e molto stimato da Varrone. Morì sotto il principato di Augusto.

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Scarse le notizie biografiche

■ De viris illustribus Il De viris illustribus (Gli uomini illustri) è la sua opera più vasta e ambiziosa, è una raccolta in almeno 16 libri di biografie suddivise in una quindicina di categorie: condottieri, storici, re, poeti ecc. Ognuna aveva una parte dedicata ai romani e una agli stranieri. Questa contrapposizione è una novità che sarà poi ripresa, in modo del tutto originale e con maggiore pregio artistico dallo scrittore greco Plutarco (secc. I-II d.C.) nelle sue Vite. Rimangono: il Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium (Libro sugli eccellenti generali dei popoli stranieri), che comprende biografie di 19 personaggi greci, tra i quali Aristide, Alcibiade, Epaminonda, il persiano Datame, i due cartaginesi Amilcare e Annibale, e in più, cenni sui re che guidarono gli eserciti; le vite di Tito Pomponio Attico e di Catone il Censore, appartenenti alla sezione degli storici latini. Forse l’intento di Cornelio Nepote era quello di porre a confronto personaggi di civiltà diverse, ma molto più probabilmente era di natura informativa e pedagogica: l’autore appare infatti interessato ai particolari aneddotici e al profilo morale dei suoi personaggi più che alla veridicità storica delle vicende illustrate. La biografia più riuscita è forse quella di Attico, del quale è narrata la vita privata, dedita agli affari e alle amicizie importanti, anche se lontana dalla vita politica attiva. Lo stile è semplice e chiaro, ma la mancanza di vivacità lo rende monotono. ■ Le opere perdute È andata perduta la Chronica (Cronaca), una storia universale in 3 libri, che trattava soprattutto degli avvenimenti ro-

8 - Varrone e gli scrittori minori

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mani e greci, apprezzata da Catullo che vantava la dottrina e l’impegno dell’amico. Era comunque la prima opera di questo genere nella letteratura latina. Fu scritta prima del 54 a.C.; rimangono solo 6 frammenti, tramandati soprattutto da Aulo Gellio e da Solino. Non sono pervenuti neppure gli Exempla, probabilmente Gli Exempla in 5 libri, raccolta di notizie, aneddoti, curiosità di vario genere, miranti a colpire la fantasia dei lettori.

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Pomponio Attico e Nigidio Figulo Tito Pomponio Attico (Roma 109-32 a.C.) fu meno dotto di Varrone, ma erudito più elegante e fine. Di famiglia ricchissima, non partecipò alla vita politica attiva e durante le guerre civili lasciò Roma e visse per ben 23 anni ad Atene, per cui fu soprannominato “Attico”. Aderì alla filosofia epicurea; al suo ritorno a Roma si dedicò all’attività di mercante d’arte, di banchiere e, soprattutto, di editore, servendosi di numerosi copisti. La sua casa divenne un punto di incontro di studiosi e letterati. Fu consigliere ascoltato di molti uomini politici, fra cui Ottaviano, e soprattutto fu amico fraterno di Cicerone, che ebbe con lui un’intensa corrispondenza epistolare (i 16 libri delle Lettere ad Attico). Pubblicò tutte le opere di Cicerone e di molti altri autori. Come studioso si dedicò soprattutto alla storia e compilò il Liber annalis, un classico e apprezzato manuale di cronologia della storia universale e romana, una genealogia di famiglie romane, un componimento in greco sul consolato di Cicerone ed epigrammi con ritratti di grandi personaggi. Di tutta la sua produzione rimangono solo scarsi frammenti. Anche Publio Nigidio Figulo (Roma 98 ca-45 a.C.) fu un erudito; nella guerra civile parteggiò per Pompeo e per questo fu mandato da Cesare in esilio, durante il quale morì. Scrisse opere di argomento grammaticale, filosofico, astrologico, meteorologico ecc., di cui rimangono solo scarsi frammenti di derivazione indiretta e per lo più di difficile interpretazione.

Tito Pomponio Attico

Mercante ed editore

Soprattutto storico

Publio Nigidio Figulo

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8 - Varrone e gli scrittori minori

SCHEMA RIASSUNTIVO TERENZIO VARRONE La vita Le opere

CORNELIO NEPOTE La vita Le opere

(Rieti 116 - m. 27 a.C.). Di famiglia equestre, fu questore, tribuno della plebe e pretore. Seguace di Pompeo, dopo la battaglia di Farsalo ottenne il perdono di Cesare, ma incluso nelle liste di proscrizione di Antonio e Ottaviano, evitò la morte ritirandosi dalla vita pubblica per dedicarsi agli studi. Scrittore enciclopedico di vastissima erudizione, compose 74 opere per oltre 600 libri. Sono pervenuti solo il De re rustica, un trattato sull’agricoltura; appena 6 libri lacunosi del trattato De lingua latina; circa 600 versi dei 150 libri di Sature Menippeae. Sono perdute altre opere erudite. (Gallia Cisalpina 100 ca - dopo il 27 a.C.). Si tenne lontano dalla politica, dedicandosi allo studio. Fu amico di Catullo e di Pomponio Attico, e in relazione epistolare con Cicerone. Rimangono 19 biografie del Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium e le vite di Pomponio Attico e di Catone il Censore, che facevano tutte parte della sua opera più famosa, il De viris illustribus. Lo scrittore si interessa più ai particolari aneddotici e al profilo morale dei suoi personaggi che alla verità storica. Sono perdute una Chronica e gli Exempla, raccolta di notizie, aneddoti e curiosità vari. Tito Pomponio Attico (Roma 109 - 32 a.C.). Di famiglia ricchissima, erudito fine ed elegante, fu l’editore di Cicerone e di altri scrittori. Delle sue opere rimangono scarsi frammenti; lo scritto più famoso è un trattato di storia universale (Liber annalis).

NIGIDIO FIGULO

Publio Nigidio Figulo (Roma 98 - m. 45 a.C.). Erudito enciclopedico, seguì Pompeo e fu esiliato da Cesare. Delle sue numerose opere rimangono solo scarsi frammenti.

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POMPONIO ATTICO

L’ETÀ DI AUGUSTO

1 Società e cultura sotto il principato di Augusto 2 Virgilio 3 Orazio 4 L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio 5 Ovidio 6 Livio

Il ritorno della pace, dopo il lungo periodo di guerre civili, la saggia politica di distensione di Augusto aprono il periodo di maggiore splendore della civiltà romana. Tutti i personaggi più importanti di Roma partecipano in prima persona alla vita culturale, a partire dallo stesso Augusto, oratore e scrittore. La letteratura trova perciò le condizioni più favorevoli per il suo sviluppo, sotto la protezione dei collaboratori del principe; a loro è affidato l’ambizioso progetto politico-culturale di fondere i tempi nuovi con il recupero delle tradizioni avite. L’accentramento del potere nelle mani di un solo uomo, pur nel rispetto formale della costituzione repubblicana, ha come risultato la decadenza dell’oratoria politica che si riduce al campo giudiziario. I più grandi scrittori dell’epoca si esprimono in piena autonomia, anche se condividono nel complesso le linee generali del disegno di Augusto. In Virgilio la lezione della poesia greca, da Omero agli alessandrini, si fonde con il recupero della tradizione e la coscienza della grandezza di Roma, in una visione permeata da una profonda sensibilità religiosa che si interroga sul significato della vita dell’uomo e del suo destino. Senso della misura, ironia, indulgenza umana si esprimono con assoluta perfezione formale in Orazio, la cui lirica riflette brillantemente la nuova età. Sorge e fiorisce anche l’elegia, genere già in uso nel mondo ellenistico, ma profondamente rinnovato e originale nei contenuti, specie nell’erotismo languido di Tibullo e in quello appassionato di Properzio. I versi di Ovidio sono ispirati da una gamma amplissima di contenuti, dalle galanterie amorose e senza inibizioni alle fantasie caleidoscopiche del mito. Livio, il massimo prosatore dell’età augustea, seguendo il genere annalistico, ripercorre nella sua opera vastissima tutta la storia di Roma, ricercando le premesse della grandezza del presente nella venerabile maestà del passato.

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il principato di Augusto

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Terminate le guerre civili e rappacificati gli animi per l’accorta politica di distensione attuata da Augusto, la civiltà e la letteratura romana raggiungono il periodo di massimo splendore. Il senso patriottico e il culto della storia di Roma diventano l’ispirazione di fondo a cui il “principe richiama gli intellettuali del suo tempo. Messalla e Mecenate danno vita a circoli intorno ai quali ruota tutta la produzione letteraria e artistica.

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La politica di Augusto

Regime monarchico

Ritorno al mos maiorum con legittimazione

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La battaglia di Azio (31 a.C.), con la sconfitta di Antonio, conclude la lunga fase delle guerre civili e consegna nelle mani di Ottaviano e delle sue legioni tutto l’impero romano. A eccezione della breve dittatura di Cesare, il regime di Augusto, sostanzialmente monarchico, rappresenta un fatto nuovo per i romani. Ottaviano vuole ottenerne il consenso presentandosi non solo come il restauratore della pace e dell’ordine, ma soprattutto come colui che fa risorgere le libertà repubblicane e ripristina quei valori morali tradizionali, la cui degenerazione aveva dato inizio alle lotte civili. Egli cerca così la legittimazione del nuovo regime nel passato, con il ritorno al mos maiorum, ai valori di una società formata da contadini e soldati. Augusto realizza varie iniziative per risollevare l’agricoltura depressa da anni di guerra, restituisce dignità alla famiglia e alle antiche cerimonie religiose che andavano scomparendo per l’arrivo di nuovi culti di origine orientale. È insomma un innovatore che vuole apparire conservatore, così nulla deve essere in contrasto con la tradizione.

Un innovatore conservatore

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■ Una blanda opposizione La politica di pacificazione, il ritorno del benessere economico e della sicurezza dai nemici esterni hanno un ruolo importante per ottenere il consenso al regime. I nostalgici della repubblica manifestano una opposizione blanda anche Rispetto formale perché Augusto rimane formalmente rispettoso della co- della repubblica stituzione repubblicana: non abolisce le tradizionali magistrature sempre appannaggio dell’aristocrazia senatoria, nei confronti della quale, al contrario di Cesare, egli si mostra sem-

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1 - Società e cultura sotto il principato di Augusto

Tutto il potere nelle mani di Augusto

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pre deferente, tutelandone gli interessi. Tutto il potere però si concentra gradatamente nelle sue mani: l’imperium proconsolare maius lo pone a capo delle legioni, con la tribunicia potestas ottiene l’inviolabilità, la facoltà di convocare i comizi popolari e il diritto di veto, come princeps senatus e pontefice massimo diviene la personalità più importante delIl titolo di “Augusto” la politica e della religione romana, il titolo di Augustus (da augere, accrescere) infine conferisce alla sua supremazia un carattere sacrale.

La cultura e l’arte Le date dell’età augustea

I collaboratori: Messalla e Mecenate

La prima biblioteca pubblica

L’età di Augusto abbraccia la produzione letteraria dal 43 a.C., data della morte di Cicerone e della nascita del secondo triumvirato (con Ottaviano, Antonio e Lepido), al 17 d.C., anno della morte di Ovidio e di Livio (Augusto era già morto nel 14 d.C.). Per realizzare il processo di riassetto e sviluppo dello Stato romano, Augusto si circonda di validissimi collaboratori, che sono anche amanti delle lettere. A Cilnio Mecenate e a Valerio Messalla affida la promozione delle arti e della cultura; Roma è abbellita con costruzioni come l’Ara Pacis, il Pantheon, il Foro di Augusto; statue del princeps e di altri importanti personaggi decorano la capitale e tutte le città dell’impero. Nel 39 a.C. Asinio Pollione fonda la prima biblioteca pubblica, cui segue, nel 28 e nel 23 a.C., l’inaugurazione di altre due, una annessa al tempio di Apollo Palatino, l’altra nel portico di Ottavia.

■ Le linee letterarie Augusto affida implicitamente ai collaboratori anche il compito di conquistare il favore degli intellettuali, che vengono stimati, ammirati, incitati e fatti oggetto di particolari beRuolo degli scrittori nefici. La letteratura di tutto il periodo fiorisce intorno a Mecenate e a Messalla: essi non chiedono agli scrittori un atteggiamento adulatorio verso il princeps né l’abbassamento a un’arte mercenaria, bensì una letteratura pervasa di spirito patriottico, esaltante la grandezza di Roma e il nuovo asAdesione setto politico. L’adesione dei letterati al programma di Aual programma gusto fu certamente sincera; del resto i poeti della prima geaugusteo nerazione iniziarono a scrivere prima della nascita del principato e molti furono coetanei di Augusto. Virgilio e Orazio, per esempio, si avvicinarono a Mecenate e al partito di Ottaviano molto prima che questi divenisse padrone di tutto l’impero e ottenesse dal senato il titolo di Augusto. Una straordinaria Nel volgere di pochi anni si ha una fioritura irripetibile di fioritura di capolavori capolavori, i più significativi dei quali sono composti nella

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1 - Società e cultura sotto il principato di Augusto

prima parte del lungo principato, saldandosi così con le importanti opere della fine dell’età precedente. Se si escludono le opere di Virgilio, Orazio, Tibullo, Properzio, Ovidio e Livio, quasi nulla è pervenuto della produzione di tanti altri scrittori, dei quali rimangono soltanto i nomi e un arido elenco di titoli. Spentasi ormai da tempo la grande letteratura drammatica comica e tragica, anche l’eloquenza viene relegata al solo ambito giudiziario per il dissolversi dello stato repubblicano. Prosperano tuttavia le scuole di retorica perché si convertono in palestre di eloquenza, dove si tengono le declamationes (declamazioni), non più come esercizi propedeutici all’oratoria, ma come esibizione dell’abilità di maestri e studenti davanti a un pubblico di appassionati. Per ottenere l’applauso degli spettatori, ritorna in uso lo stile ridondante e virtuosistico dell’asianesimo, che soppianta quello sobrio dell’atticismo. Diventano di moda le recitationes, cioè letture pubbliche da parte dei poeti delle proprie poesie. Assoluta dominatrice del periodo è la poesia, da quella lieve e raffinata, iniziata dai neòteroi, a quella elevata: coesistono insieme l’epica e la lirica, la satira e l’elegia, genere quest’ultimo del tutto nuovo in Roma. ■ Augusto scrittore Anche Augusto si dilettò di letteratura, come tutti i grandi personaggi di Roma, ma fece dell’ironia sulle sue modeste capacità di scrittore. Perduti sono il poemetto Sicilia, un libretto di epigrammi, un’autobiografia in 13 libri, una risposta polemica all’esaltazione di Catone l’Uticense fatta da Bruto, una biografia di Druso e la tragedia Aiax (Aiace), forse incompiuta Di lui però è rimasto l’Index rerum a se gestarum, cioè un elenco delle sue imprese, dei risultati ottenuti, delle cariche ricoperte per volontà del senato e del popolo romano, dei doni e dei benefici elargiti. Lo scritto è noto anche con il titolo di Monumentum Ancyranum, perché è stato trovato ad Ancyra in Galazia (l’odierna Ankara), redatto nelle lingue latina e greca. Questo documento propagandistico, di grande interesse storico, è composto da 35 brevi capitoli, in uno stile conciso e solenne. Venne inciso su tavole di bronzo e collocato davanti al mausoleo di Augusto; ne furono inviate copie in tutte le città dell’impero per ordine del senato e di Tiberio. Sotto Augusto sorsero alcuni cenacoli promossi da eminenti personalità della nobiltà romana, che si circondarono di artisti e letterati, offrendo loro protezione oltre che l’occasione di incontro e scambio culturale. Fra questi Mecenate

I generi letterari

Le declamationes

Le recitationes Dominio della poesia

Modeste capacità di scrittore

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Il Monumentum Ancyranum

I circoli letterari di Mecenate, Messalla e Pollione 119

1 - Società e cultura sotto il principato di Augusto

fu il più celebre e potente: non a caso dal suo nome è derivato il vocabolo “mecenatismo” come sinonimo di protettore e benefattore degli artisti e dei letterati. Altri circoli assai frequentati furono quelli di Messalla e Pollione. ■ Mecenate Caio Cilnio Mecenate (Arezzo 70 ca - 8 a.C.) nacque da una famiglia di ceto equestre discendente da lucumoni etruschi. Abile uomo politico, esperto diplomatico e amministratore, Il maggior coltissimo e favolosamente ricco, fu il maggior collaboratocollaboratore re di Augusto, anche nell’attuazione della sua politica cultudi Augusto rale; non occupò mai cariche ufficiali e rimase un semplice cavaliere per tutta la vita. Intorno alla figura di Mecenate Protettore di letterati ruotarono i maggiori poeti dell’età di Augusto, da lui protetti, beneficati e orientati nell’ispirazione verso una letteratura nazionale, idealmente impegnata a celebrare la granIl circolo dei poeti dezza di Roma e del principato. Nel suo circolo entrarono Virgilio e Orazio, Properzio e Vario Rufo, Domizio Marso, Plozio Tucca e Quintilio Varo: con essi Mecenate visse in comuLo scrittore nione di pensiero e in affettuosa familiarità. Fu anche scrittore: delle sue poesie, leggere e scherzose, sono giunti brevi frammenti riportati da Seneca, restano invece solo i titoli delle due opere Symposion e De cultu suo. L’immortalità della sua fama si deve ai letterati del suo cenacolo: Virgilio gli dedicò le Georgiche, Orazio gli Epodi, le Satire e i primi tre libri delle Odi, Properzio il secondo libro delle elegie.

Il ruolo del suo circolo letterario

La formazione

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■ Messalla Corvino Anche Marco Valerio Messalla Corvino (64 a.C. - 8 d.C.) promosse e protesse le lettere e costituì un importante circolo letterario, autonomo rispetto alle tendenze della maggior parte degli scrittori riuniti intorno a Mecenate. Ne fecero parte Tibullo, l’esponente di maggior spicco, Ligdamo, la poetessa Sulpicia, il giovane Ovidio e altri minori. Nato della nobilissima famiglia Valeria, Messalla ebbe una formazione culturale molto accurata; in occasione del tradizionale viaggio di studio in Grecia incontrò Orazio e Cicerone. Politico di tendenze repubblicane, seguì Bruto e Cassio a Filippi; dopo la sconfitta si accostò prima ad Antonio e poi, nel 38 a.C., a Ottaviano. Al seguito di quest’ultimo partecipò alla battaglia contro Sesto Pompeo, comandò una parte della flotta ad Azio e, nel 30 a.C., sconfisse in Gallia i ribelli aquitani e celebrò il trionfo. Il legame con Augusto non gli impedì di mantenere una certa indipendenza, come quando nel 26, assunse la carica di prefetto della città (praefectus urbis), dalla

1 - Società e cultura sotto il principato di Augusto

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quale si dimise dopo soli sei giorni, perché non riteneva di poterla esercitare in piena autonomia. Fu acuto critico lette- Critico, autore rario, oratore ammirato da Tacito e da Quintiliano per la sua e poeta grazia e per la cura formale; scrisse versi leggeri in latino e in greco. Della sua produzione non è rimasto nulla.

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■ Asinio Pollione Promotore di cultura fu anche Gaio Asinio Pollione (Roma 76 a.C. - 4 d.C.), di nobile famiglia di origine marrucina (abruzzese). Fu seguace prima di Cesare, poi di Antonio. Quando fu incaricato della distribuzione delle terre ai veterani egli restituì il podere a Virgilio, il quale celebrò la sua ascesa al consolato (40 a.C ) nella IV ecloga e nell’VIII parlò della sua spedizione in Dalmazia contro i partini. Con il bottino della campagna militare aprì (39 a.C.) la prima biblioteca pubblica a Roma. Tenutosi in disparte nel conflitto tra Ottaviano e Antonio, si ritirò a vita privata, mantenendo sempre una decisa posizione di autonomia nei confronti di Augusto. Pollione fu un oratore apprezzato, un finissimo uomo di cultura, protettore di artisti e letterati, anche se il suo cenacolo non era paragonabile a quelli di Mecenate e di Messalla. Sono giunti alcuni suoi pungenti giudizi critici su Cicerone, Sallustio, Cesare; Livio, per esempio, fu accusato di patavinitas, cioè di avere uno stile dialettale di gusto padovano. A lui risale l’introduzione delle recitationes (letture pubbliche) organizzate in sale private o pubbliche, in cui i poeti leggevano e declamavano le proprie opere davanti a spettatori. Avvenimenti tra il culturale e il mondano, le recitationes si diffusero per tutto il sec. I d.C., alimentate dalla passione letteraria dei personaggi dell’alta società; contro questa moda si scagliarono gli strali satirici di Orazio, Persio e Giovenale. Scarsi frammenti sono rimasti della sua opera più importante, Historiae (Storie), 17 libri sugli avvenimenti dal primo triumvirato (60 a.C.) alla battaglia di Filippi (42 a.C.). Lo scritto fu lodato da Orazio e servì come fonte per gli storici seguenti. Del tutto perdute sono le sue poesie di tendenza neoterica e le sue tragedie, lodate da Orazio e Tacito, probabilmente destinate più alla lettura che alla rappresentazione.

La prima biblioteca pubblica a Roma Oratore e protettore di artisti

Le recitationes

Le Historiae

Poesie e tragedie

Gli scrittori minori Oltre ai capolavori dei sei grandi autori, che caratterizzano l’età di Augusto, poco è giunto della vastissima produzione di poeti e prosatori minori, ricordati anche da Ovidio, Quintiliano e Seneca. 121

1 - Società e cultura sotto il principato di Augusto

I poemetti didascalici

Il poema epico-storico

Astronomica: astronomia e astrologia

Dottrina della provvidenza Fredda erudizione

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■ Emilio Macro Emilio Macro nacque a Verona e morì nel 16 a.C. durante una spedizione in Asia Minore. Fu amico di V rgilio, Tibullo e Ovidio. Compose tre poemetti didascalici, di cui rimangono pochi frammenti: Theriaca, sui serpenti velenosi, De herbis, sulle erbe curative, Ornithogonia, sugli uccelli. Le sue fonti furono alessandrine. Fu lodato da Ovidio e Quintiliano e i suoi testi ebbero un certo successo.

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■ Albinovano Pedone Albinovano Pedone (sec. I a.C. - sec. I d.C.), del quale non si hanno notizie biografiche, è autore di un poema epicostorico, che celebrava la spedizione di Germanico contro i germani. È pervenuto solo un frammento di pochi esametri, che descrive una tempesta marina e mostra uno stile enfatico e retorico. Perduti sono il poemetto Theseis (Teseide), ricordato da Ovidio, e gli epigrammi ammirati da Marziale. ■ Marco Manilio Della vita di Marco Manilio (sec. I a.C. - sec. I d.C.) non si sa nulla; è autore del poema didascalico Astronomica (Gli astronomici) che ci è giunto completo e che fu tenuto presente da Lucano e Giovenale. È in 5 libri, di cui solo il primo tratta di astronomia, mentre gli altri riguardano le credenze astrologiche: i caratteri e le proprietà dei corpi celesti, i modi per compilare gli oroscopi, gli influssi delle costellazioni sulla natura e sul destino degli uomini. Iniziato presumibilmente negli ultimi anni del principato di Augusto, l’opera fu portata a termine sotto quello di Tiberio. Il poema si richiama al De rerum natura di Lucrezio, ma segue la dottrina stoica della provvidenza invece della concezione epicurea di un universo governato dal caso. È un’opera di fredda erudizione, non sempre chiara anche per la difficoltà dell’argomento; i periodi lunghi e complessi, il tono spesso solenne, la lingua zeppa di arcaismi le impediscono di raggiungere livelli poetici accettabili. ■ Vario Rufo Lucio Vario Rufo (n. 75 ca a.C.) fu membro del circolo di Mecenate e amico di Virgilio e Orazio, che lo ricorda più di una volta nelle sue satire e che gli attribuisce il merito di averlo introdotto presso Mecenate. Scrisse una tragedia Thyestes (Tieste), un Panegyricus Augusti (Elogio di Augusto). Compose anche un poemetto epico, De morte (La morte) di ispirazione epicurea. Delle sue opere restano solo alcuni

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1 - Società e cultura sotto il principato di Augusto

frammenti tramandati da Quintiliano. Insieme a Plozio Tucca curò per incarico di Augusto la pubblicazione postuma Editore di Virgilio dell’Eneide di Virgilio. ■ Pompeo Trogo Non sappiamo nulla della vita di Pompeo Trogo (sec. I a.C.), a parte il fatto che era originario della Gallia Narbonese e che suo padre militò sotto Cesare. Oltre a due opere perdute di storia naturale, De animalibus (Gli animali) e De plantis (Le piante), che furono una delle fonti di Plinio il Vecchio, scrisse le Historiae Philippi- Le Storie filippiche cae (Storie filippiche), una storia universale da Nino e Semiramide di Babilonia fino alla conquista del regno macedone e di tutto l Occidente da parte di Roma. L’originalità dell’opera consiste nel fatto che Trogo mette in primo piano il regno macedone e non Roma. Dei 44 libri sono pervenuti solo i prologhi di ogni libro e alcuni frammenti. È giunto però un compendio, redatto da Marco Giustino nel sec. III d.C., famoso nel Medioevo perché era l’unica storia universale che si possedeva: da questo si ricava che l’opera di Trogo aveva carattere annalistico, con abbondanti notizie strane e fantasiose.

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■ Vitruvio Vitruvio Pollione (sec. I a.C.) fu architetto e ingegnere militare, combattè con Cesare e collaborò con Augusto, progettando la basilica di Fano. Scrisse De architectura (L’ar- De architectura chitettura) in 10 libri, composti tra il 40 e il 25 a.C. e dedicati ad Augusto. È un trattato in cui l’esperienza tecnica si fonde con vaste conoscenze scientifiche, di geometria, medicina, acustica, e persino di filosofia. L’opera, l’unica nel suo genere pervenuta, è di estremo interesse per la conoscenza delle metodologie costruttive oltre che dei canoni architettonici dell’antichità romana. La materia, completata da disegni andati perduti, era ripartita nei vari libri come segue: formazione dell’architetto e considerazioni generali sulle città (I); materiali da costruzione (II); edilizia sacra e ordini architettonici (III e IV); edilizia pubblica (V); edilizia privata (VI); rifinitura e decorazione degli edifici (VII); opere idrauliche (VIII); costruzioni di meridiane (IX); macchine da costruzione e da combattimento (X). È uno Scarso valore scritto importante per l’ingegneria, ma poco significativo letterario dal punto di vista letterario, nonostante gli intenti dell’autore. Ebbe grande fortuna già nell’antichità e soprattutto nel Rinascimento e fu preso a modello per i trattati di architettura.

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1 - Società e cultura sotto il principato di Augusto

Il commento su Virgilio

Libri sugli oratori e i retori

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■ Igino Gaio Giulio Igino (60 a.C. - 10 d.C.) era nativo della Spagna e fu portato a Roma come schiavo, divenendo poi liberto di Augusto e prefetto della biblioteca palatina. Fu un erudito di vastissimi interessi; compose numerose opere di argomento storico, geografico, religioso, oltre a un Commentarii in Vergilium (Commento su Virgilio), andate tutte perdute. Sotto il suo nome sono pervenuti un trattato di astronomia (De astronomia) e una raccolta di 277 leggende, un vero e proprio manuale mitologico a uso scolastico, che tuttavia gli studiosi più recenti attribuiscono a un altro Igino, vissuto nel sec. III d.C. ■ Seneca il Vecchio, o il Retore Lucio Anneo Seneca, detto il Vecchio o il Retore (Cordova 55 ca a.C. - Roma 40 ca. d.C.), era padre del filosofo omonimo e apparteneva a una famiglia equestre; trascorse a Roma gran parte della sua lunghissima vita. Scrisse, in almeno 11 libri, Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores – pensieri, tracce e ornamenti degli oratori e dei retori – di cui rimangono 5 libri di controversiae, esercitazioni relative a una causa su argomenti tratti dal mito e dalla storia, e uno di suasoriae, discorsi deliberativi, che sono testimonianza di una retorica diventata uno spettacolo pubblico. Rimangono estratti dei libri perduti.

1 - Società e cultura sotto il principato di Augusto

SCHEMA RIASSUNTIVO LA POLITICA CULTURALE DI AUGUSTO I circoli letterari

GLI SCRITTORI MINORI

Augusto, anch’egli autore del Monumentum Ancyranum, un elenco delle sue imprese di pace e di guerra, si avvale di validissimi collaboratori cui affida la protezione delle arti e delle lettere e, implicitamente, il compito di avvicinare gli intellettuali al nuovo regime. In questo senso sono determinanti i circoli letterari di Mecenate (Arezzo ca 70 - Roma 8 a.C), il maggior collaboratore di Augusto, del quale entrano a far parte i maggiori poeti dell’età augustea (Virgilio, Orazio, Properzio); di Messalla Corvino (64 a.C. - 8 d.C.), che accoglie, fra gli altri, Tibullo, il giovane Ovidio, Ligdamo e la poetessa Sulpicia; di Asinio Pollione (Roma 76 a.C. - 4 d.C.), al quale si devono la prima biblioteca pubblica di Roma e l’introduzione delle recitationes, pubbliche letture di poesie. Nel volgere di pochi anni si ha una serie irripetibile di capolavori, in cui la poesia è la dominatrice assoluta. Terminata la stagione drammatica, anche l’eloquenza decade. Sono di moda le declamationes e le recitationes. Emilio Macro (m. 16 a.C.) è autore di tre poemetti didascalici, Theriaca, De herbis, Ornithogonia; Albinovano Pedone (secc. I a.C. - I d.C.) scrive un poema storico sulla spedizione di Germanico; Marco Manilio (secc. I a.C. - I d.C.) è autore del didascalico ed erudito Astronomica, in 5 libri; Vario Rufo (n. 75 ca a.C.) autore della tragedia Thyestes, del Panegyricus Augusti e del poemetto De morte; Pompeo Trogo (sec. I a.C.) scrive una storia universale, Historiae Philippicae, andata perduta, ma di cui esiste un compendio redatto da Giustino nel sec. III d.C; Vitruvio (sec. I a.C.), architetto e ingegnere militare, compone De Architectura, importante trattato sulle metodologie e sui canoni architettonici romani; Igino (60 a.C. - 10 d.C.) nativo della Spagna, è autore di un trattato di astronomia e 277 miti, successivamente attribuiti a un Igino del sec. III d.C. Seneca il Vecchio (55 ca a.C. - 40 ca d.C.) scrive Oratorum et Rhetorum sententiae divisiones colores, sugli oratori e retori in 11 libri, di cui restano 5 di controversiae e 1 di suasoriae.

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2 Virgilio Virgilio è uno dei più grandi poeti dell’antichità classica e tra i maggiori di ogni tempo, e fu l’interprete più significativo dell’età di Augusto. Dante lo definì “Maestro di color che sanno” e il suo grande poema, l’Eneide, rigenera la poesia epica e professa miti di cui la cultura occidentale si è a lungo nutrita.

La vita La fonte più attendibile di notizie sulla vita di Publio Virgilio Marone (Andes 70 - Brindisi 19 a.C.) è il grammatico Elio Donato, che attinge i dati da Svetonio. Altre notizie sono ricavabili dalle sue stesse opere e da quelle degli scrittori contemporanei.

Una famiglia di proprietari terrieri

Gli studi a Roma e a Napoli

Gli amici letterati

l■oGli o anni formazione ncdieMarone sso nacque Publio Virgilio presso Andes, l’odierna Pien lice tole nei sobborghi di Mantova. Al n dz fuori poa adelladleggenda oraa una co si sa del suo ceto; apparteneva probabilmente f o lfa-l miglia di medi proprietari terrieri, il cui reddito era comun-

que tale da consentirgli un’accurata istruzione a Cremona e a Milano, il maggiore centro culturale dell’Italia settentrionale. Secondo le fonti, intorno ai 16 anni incominciò a scrivere, subendo l’influenza della dotta e raffinata corrente dei poetae novi. Sui 20 anni si recò a Roma, dove fu discepolo del retore Epidio, e poi a Napoli. Abbandonò quasi subito l’arte oratoria, cui era destinato, per dedicarsi alla poesia e agli studi filosofici presso il dotto epicureo Sirone, che insegnava a Napoli, città che rimase sempre la preferita dal poeta. In quegli anni si legò in amicizia con personaggi della cultura del tempo, come Orazio, Plozio Tucca, Quintilio Varo e Lucio Vario, e completò la sua formazione lontano dalla vita politica e quindi dalle lotte civili.

■ La confisca del podere Dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.) Ottaviano compensò i veterani per i lunghi anni di guerra con l’assegnazione di terre nella Gallia Cisalpina, terre che furono confiscate soprattutto La confisca a favore nel Cremonese e nel Mantovano. Virgilio, che era tornato neldei veterani di la sua proprietà fin dal 45, fu certamente coinvolto in queAugusto sto dramma, che si svolse con alterne vicende, impossibili da ricostruire con esattezza. Sembra che in un primo tempo egli riuscisse a evitare la confisca dei propri campi per l’intervento di Asinio Pollione, governatore della Cisalpina, e che in un

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2 - Virgilio

secondo tempo ne fosse privato; forse gli vennero restituiti un’altra volta. Fu comunque un’esperienza dolorosa, della quale si trovano tracce nelle Bucoliche composte tra il 42 e il 39. La poesia già matura delle Bucoliche fa pensare che esse non siano la prima opera di Virgilio; della produzione precedente resta solo l’Appendix Vergiliana, la cui attribuzione è però molto dubbia. Partì per Napoli nel 40 ca, andando ad abitare in una villa forse ereditata da Sirone. ■ Alla corte di Mecenate Comunque Virgilio uscì senza danni dalla vicenda della confisca dei suoi poderi, perché più tardi fu indenizzato con proprietà in Campania, in Sicilia, a Taranto e con una casa sull’Esquilino, ma crebbe anche nella considerazione dei potenti dopo l’uscita delle Bucoliche. L’opera gli attirò le sim- Il successo delle patie e la protezione dello stesso Ottaviano e di Mecena- Bucoliche te, nel cui circolo il poeta entrò, divenendone presto una delle figure di maggior spicco. Nel 37 a.C., insieme con Orazio e con altri, seguì il potente ministro in una missione diplomatica a Brindisi e a Taranto per preparare il terreno in vista di una conferenza di pace fra Ottaviano e Antonio. ■ Il viaggio in Grecia Il resto della sua vita trascorse senza avvenimenti particolari tra la capitale e i lunghi soggiorni nella città partenopea; un’esistenza quieta e ritirata, intenta alla composizione dei quattro libri delle Georgiche (37-30) e del capolavoro, il poema Le Georgiche epico Eneide (29-19). Sobrio nel cibo e di salute cagionevole, ebbe un carattere timido e impacciato: candido, come scrisse l’amico Orazio; a Napoli lo chiamavano benevolmente partenias (la verginella). Nel 19 intraprese un viaggio in Gre- Il viaggio in Grecia cia, forse, dice la tradizione, per documentarsi meglio riguardo al suo poema. Ad Atene incontrò Augusto e, nonostante il clima torrido delle estati elleniche, volle proseguire La morte a Brindisi verso l’interno del paese. Ammalatosi a Megara nel 19 a.C., ebbe solo il tempo di raggiungere la nave e di approdare a Brindisi, dove morì il 21 settembre. Fu sepolto a Napoli.

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Le Bucoliche I Bucolica (sottinteso carmina, cioè canti di pastori) furono scritti tra il 42 e il 39 a.C., e rappresentano la prima opera sicuramente virgiliana. La datazione è confermata dai dati ricavabili dall’opera stessa. Sono 10 brevi componimen- Dieci ecloghe ti o ecloghe (in greco “poesie scelte”) in esametri, disposti in esametri secondo un criterio estetico e non cronologico, la maggior 127

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parte dei quali è in forma dialogica. Il termine bucolica, derivato dal greco, si richiama direttamente al modello alessandrino e precisamente agli idilli pastorali di Teocrito. ■ Arte e poesia delle Bucoliche Arcadia senza tempo La maggior parte delle ecloghe è ambientata in Arcadia, la e storia regione montuosa all’interno del Peloponneso, scelta da al-

RIASSUNTO DELLE BUCOLICHE I ecloga È un dialogo tra due pastori, Melibeo, espropriato dai propri campi per far posto ai veterani delle guerre civili, e Titiro, che ha conservato il possesso dei suoi per l’intervento di un “giovane” di Roma. Alla serenità di Titiro, intento a cantare la sua Amarillide, corrisponde l’angoscioso lamento di Melibeo costretto, come tanti altri agricoltori, a lasciare la casa per un triste destino di esule. II ecloga Coridone, innamorato senza speranza del giovane Alessi, schiavo di un ricco cittadino, grida il suo disperato canto d’amore alla natura. Si convince infine che Alessi non è adatto alla vita agreste. III ecloga È un dialogo tra Dameta e Menalca, in cui uno mette in dubbio le capacità poetiche dell’altro. Da qui nasce una gara, in cui i due si alternano a recitare versi (forma amebèa, cioè alterna). La vita pastorale, l’amore e la poesia sono i temi toccati; Palemone fa che il giudice dichiari pari la gara. Deliziosa è l’immagine fuggente di Galatea, innamorata di uno dei due. IV ecloga Ha un tono profetico e nulla a che fare col mondo pastorale. Virgilio, rivolgendosi al console Asinio Pollione, annuncia l’avvento di un nuovo ciclo cosmico, che riporterà nel mondo la mitica età dell’oro. L’inizio dell’era coincide con la nascita di un “fanciullo” prodigioso, che durante la sua vita realizzerà una rinnovata età di pace e di felicità. V ecloga Il pastore Menalca invita Mopso a una gara di canto in forma amebèa. Mopso eleva un disperato lamento per la

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triste morte di Dafni; Menalca celebra l’apoteosi di Dafni, assunto in cielo con gli altri dei, la gioia delle campagne e l’istituzione di cerimonie per la nuova divinità. VI ecloga Narra la vicenda di Cromide e di Mnasillo che, trovato Sileno addormentato ed ebbro, con l’aiuto della bellissima naiade Egle, lo legano per obbligarlo a cantare. Sileno, svegliatosi, racconta la nascita del mondo e alcuni miti antichi. Il poeta inserisce tra le leggende un elogio per l’amico Gallo. VII ecloga Melibeo narra una gara poetica tra i pastori Tirsi e Coridone, che ottiene la vittoria. Degna di nota è la descrizione del paesaggio agreste mantovano, solcato dal fiume Mincio. VIII ecloga I due pastori Damone e Alfesibeo, gareggiano nel canto: il primo si lamenta per l’infedeltà della bella Nisa e dichiara di voler morire, il secondo narra le pratiche magiche di una donna per riconquistare il suo amante. IX ecloga Il vecchio Meride, mentre conduce dei capretti al suo nuovo padrone, un ex soldato, narra a Licida come Menalca sia stato cacciato dalle proprie terre. Licida, addolorato, ricorda le piacevoli poesie che erano soliti sentire dalla voce di Menalca. X ecloga È un canto consolatorio che i pastori, il dio Pan e tutta la natura elevano per alleviare il dolore di Gallo, abbandonato dalla sua Licoride. Il poeta si illude inutilmente di trovare la pace nei paesaggi d’Arcadia; fuori di metafora egli non lascia l’elegia d’amore per la poesia bucolica.

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lora per secoli nella cultura occidentale come paesaggio em- Paesaggio ai limiti blematico della poesia pastorale, dell’amore, della pace, pae- dell’irreale saggio senza tempo e senza storia, ai limiti dell’irreale. La lontananza (Teocrito aveva scelto la Sicilia a lui più familiare) consente al poeta di velare qualunque riferimento alla storia e alla cronaca, ogni notizia autobiografica, sino quasi a occultarli o renderli percepibili soltanto a pochi. ■ La I e la IX ecloga Eppure, nel sapiente ordinamento che Virgilio scelse nel pubblicare l’opera, due ecloghe, la prima e l’ultima (la IX, se si consideri la X soltanto un “congedo”), non hanno niente a che vedere con l’Arcadia: vi si parla di Roma, Cremona, Mantova e del Mincio; i personaggi sono uomini altolocati oppure gli esuli espropriati del Mantovano; c’è chi, recatosi a Roma, ottiene “qualcosa” e chi non ha mai conosciuto le vie della capitale, ma soltanto quelle dell’esilio. Cammina per le strade del Mantovano chi deve portare il suo tributo di greggi al proprietario della terra che un tempo gli apparteneva e racconta di asprezze, soprusi, rischi mortali subiti. Compaiono inoltre i nomi di poeti romani contemporanei (Vario, Cinna), di importanti uomini politici (Alfeno Varo, colui che “gestì” le confische). Ma il residuo di Arcadia che in queste due ecloghe permane, ancorché molto tenue (i nomi greci dei personaggi, l’enfasi posta sull’attività pastorale, accenni all’amore e al canto), è decisivo e, grazie anche a sapienti ambiguità, a riferimenti solo accennati, impedisce ai moderni di ricostruire ad personam proprio gli eventi cui Virgilio si riferisce, le vicende che lo riguardarono. Sarebbe ingenuo e pericoloso utilizzare le due ecloghe come documenti storici; la sola realtà “biografica” che il poeta vuol fare intuire è la sua personale devozione verso uno iuvenis citato nella prima ecloga: l’unico iuvenis che potesse comportarsi come un divus e come tale essere ringraziato era Ottaviano.

Il tema di Roma

I poeti e i contemporanei

Gli spunti autobiografici

■ Le altre ecloghe L’ambiente dell’Arcadia torna a essere lo sfondo in cui si muovono i protagonisti della II, III, VII e VIII ecloga: queste, tranne la II, hanno in comune il tema della gara poetica. Nel- La gara poetica la VIII ha forte rilievo il tema del mare, un tema “perturbante” in Arcadia e non casualmente collegato alla volontà di suicidio di uno dei due personaggi. Enigmatica e grandiosa, intonata su note profetiche, è l’ecloga IV, che con Il Virgilio “cristiano” l’annuncio di un “fanciullo prodigioso” (inteso poi come Cristo dagli autori cristiani) contribuì per secoli all’im-

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La III ecloga

magine di un Virgilio “cristiano”. La III ecloga è dotta e anch’essa enigmatica in alcune parti: Sileno, ambigua divinità boschereccia, intona un carme cosmogonico seguito dalla rievocazione, apparentemente confusa, di miti primordiali, fra cui quelli di Deucalione, di Prometeo, di Pasifae e del suo folle amore, dell’età dell’oro. In posizione centrale, la V ecloga è un lamento a due voci (non in gara, ma in rispettosa solidarietà reciproca) sulla morte violenta di Dafni, il personaggio simbolo d’Arcadia. In questo caso non è forse arbitrario identificarlo con Giulio Cesare e la sua morte violenta.

■ Grandezza delle Bucoliche La grandezza dell’opera risiede nell’intensa partecipazione di Virgilio alla propria materia. Egli esalta la serenità e la pace della vita bucolica, il senso profondo dell’amicizia, che però si scontrano con la realtà amara della vita e con l’amore inteso come passione sconvolgente. Da questo conAngoscia per fronto scaturisce un senso di angoscia per l’infelicità del’infelicità umana e gli uomini, di cui i personaggi sono simboli. Unico conforconforto dalla poesia to all’infelicità è entrare nel mondo della poesia, che è piacere e serenità. Per tutto questo le Bucoliche sono un’opera originale, che è lontana dai modelli di riferimento, pur avendo ben presenti sia Teocrito, in particolare, sia Lucrezio sia i poeti neòteroi, in quanto poesia dotta e raffinata. Virgilio usa un linLa lingua guaggio semplice ma nello stesso tempo elegante, evita i termini ricercati; la costruzione sintattica procede con periodi brevi e paratattici: complessivamente ottiene un effetto di coerenza e di unità stilistica.

I temi

Le Georgiche

Lunga gestazione

Lavoro di lima

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Le Georgiche sono un poema epico-didascalico di 2183 esametri in 4 libri, incentrato sulle attività agricole. Il titolo Georgica è tratto dal verbo greco georgéin (“lavorare la campagna”). L’opera richiese un lungo periodo di composizione nella tranquillità della dimora napoletana, dal 37 al 29 a.C., anno in cui Virgilio, insieme a Mecenate, la lesse a Ottaviano. Del resto gli antichi sapevano bene che il poeta curava con scrupolo quasi maniacale la perfezione di ogni minimo particolare, con un continuo lavoro di lima. Le Georgiche sono dedicate a Mecenate che ne fu l’ispiratore e il suggeritore (nel III libro lo stesso Virgilio accenna agli haud mollia iussa, cioè alle forti insistenze del suo protettore), in un momento in cui il ministro di Ottaviano, con

2 - Virgilio RIASSUNTO DELLE GEORGICHE Libro I Dopo la dedica a Mecenate e la rituale preghiera agli dei agresti, vengono date raccomandazioni sui modi, luoghi e tempi del coltivare e del seminare. Segue l’esposizione della legge che Giove ha dato agli uomini: il progresso va conquistato solo attraverso la fatica e il lavoro. Si illustrano poi gli attrezzi del contadino e le tecniche per preparare l’aia e conservare i semi. In seguito si tratta dei presagi desumibili dagli astri, delle ore, dei giorni, delle stagioni migliori per seminare. Il libro si chiude con il ricordo dei segni premonitori che precedettero le guerre civili dopo la morte di Cesare. Libro II All’iniziale invocazione a Bacco segue l’elencazione dei vari tipi di piante e dei modi per aumentarne la produttività, a cominciare dal terreno e dal clima più adatti a ciascuna. Vengono poi esaltate l’Italia e la sua fertilità. Quindi è trattata la coltivazione della vite: vengono elencate tutte le cure e le precauzioni che questa pianta richiede. Vi sono poi nozioni sulla coltura dell’ulivo, più semplice di quella della vite, e di altri alberi da frutto. Il libro conclude con un appassionato elogio della vita del contadino, tranquilla e lontana dalle lotte di potere.

Libro III Tratta gli animali: sono esposte le regole fondamentali da seguire per l’allevamento, la riproduzione e la salute degli armenti. Dapprima si parla del bestiame di grossa taglia, bovini ed equini; vi è pure la necessità di tenere sotto controllo la potenza della passione amorosa anche tra gli animali. Poi, intorno ad un idilliaco quadro della vita dei pastori libici e sciti, si parla delle pecore e delle capre. Infine, dopo l’esposizione dei metodi per proteggere gli animali da serpenti e malattie, viene descritta la terribile pestilenza che decimò gli animali sulle Alpi noriche. Libro IV Riguarda esclusivamente l’apicoltura: vengono esposte le tecniche per costruire gli alveari, per trattare e, in caso, curare gli sciami. L’organizzazione sociale delle api fa pensare che esse siano partecipi della celeste anima divina. Vi sono poi i consigli per prendere il miele, per eliminare i parassiti e le malattie e anche le indicazioni nel caso in cui lo sciame venga distrutto: il modo per riformarlo viene indicato con la narrazione del mito di Aristeo, al cui interno viene raccontata anche la favola di Orfeo e Euridice.

un’avveduta politica agricola, cercava di riportare all’amore per la terra sia i vecchi piccoli proprietari sia i nuovi dei fondi confiscati. Virgilio curò due edizioni dell’opera: una intorno al 29 e una dopo il 26 a.C.; nella seconda sostituì Le due edizioni con il mito di Aristeo, o con la sola favola di Orfeo e Euridice, l’elogio per Gallo, che si era suicidato in Egitto dopo aver perso il favore di Augusto. Questa ultima è l’edizione che è giunta. ■ Arte e poesia delle Georgiche Il capolavoro virgiliano è il poema didascalico per eccel- Poema didascalico lenza di tutta la letteratura latina. La sua architettura è molto semplice: ogni libro tratta un’attività specifica del contadino. I quattro libri sono divisi in due coppie, dedicate rispettivamente alla coltivazione e all’allevamento. All’interno La struttura e i temi della prima coppia, il primo libro è dedicato al lavoro dei

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cess

campi, il secondo alla coltivazione delle piante, in particolare di quelle tipiche del paesaggio mediterraneo, come la vite e l’ulivo; all’interno della seconda coppia, l’allevamento del bestiame “nobile”, bovini ed equini, è trattato separatamente rispetto a quello del bestiame “minuto” (le api: tema esclusivo del IV libro è l’apicoltura). Domina la simmetria: ogni libro inizia con un prologo e si conclude con una favola mitologica. Il genere letterario didascalico era ritenuto privo di alcuna utilità pratica. Questa scelta, nelle intenzioni di Mecenate, aveva un fine ultimo di propaganda, ma Virgilio crea un’opera di pura poesia. Tuttavia si documentò seriamente sulla bibliografia specifica e non si accontentò di consultare il De agri cultura di Catone o l’appena pubblicato De re rustica di Marrone, ma risalì fino alle Opere e i Giorni del poeta greco Esiodo, alle Georgiche del poeta greco Nicandro, all’Economico dello storico greco Senofonte. Nato in Grecia con Esiodo, il poema didascalico aveva assunto un suo stile particolare, elevando a linguaggio poetico quello che era un idioma tecnico specifico.

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Iniziale fine propagandistico

Le fonti

Messaggio politico e ideologico Valori del mos maiorum

Il mondo reale è la campagna

Tono dell’idillio celebrativo 132

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■ Il mondo delle Georgiche Le Georgiche contengono un chiaro messaggio politico e ideologico, fondato sui valori tradizionali della concordia, della pace, della sobrietà, della laboriosità, della devozione religiosa, della castità e del patriarcato, i valori propri del mos maiorum. La campagna è il luogo in cui questi valori trovano l’attuazione pratica, poiché essa richiede un lavoro continuo per non essere sterile. Il poeta è consapevole dell’aspra fatica che la vita del contadino richiede e l’attribuisce alla volontà di Giove che non vuole infecondi e pigri i suoi regni. In quest’opera la campagna è colta nella sua concretezza, nelle fatiche umili e quotidiane: è un mondo reale e non di fantasia come quello delle Bucoliche. Accanto al tema del “lavoro” è sviluppato anche quello del ritorno all’età dell’oro, perché Virgilio intende la vita rustica come la più consona alle esigenze dell’uomo e come tale la idealizza. ■ Vivacità espositiva Il poeta alterna passi prettamente didascalici con altri sentimentali, scaturiti dal profondo del suo animo, e mitologici, prodotto della sua fervida fantasia: ne consegue una trattazione molto vivace, che non ha nulla della freddezza e della monotonia della precettistica rurale. Alcune di queste digressioni hanno il tono dell’idilllio celebrativo, come, nel

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II libro, l’esaltazione dell’Italia, l’inno alla primavera (uno dei passi più belli del poema), di cui dà intensa e fantasiosa rappresentazione, e la beatificazione della vita dei campi, intesa come mezzo potente di restaurazione sociale e civile. Altri brani sono caratterizzati da una maggiore inquietudine, Inquietudine e come i presagi della morte di Giulio Cesare, con le incer- presagio tezze della situazione politica instabile, nonostante il potere emergente di Ottaviano. Altrove fatica e idillio trovano un compiuto equilibrio, come nella descrizione della vita quotidiana, dura ma tranquilla, di un vecchio di Corico che, trasferitosi nei dintorni di Taranto, coltiva con meravigliosi risultati un piccolo podere che ha reso fertile con opera assidua e intelligente. ■ L’amore e la morte Scomparso del tutto l’idillio, nel III libro si impongono grandiosi scenari di potenza e di tragedia. Dominano i temi dell’amore e della morte nel mondo animale. La descrizione della grande pestilenza di animali nell’ultima parte del libro contiene un messaggio diretto alla stessa condizione umana, così come l’amore tra gli animali è come l’amore fra gli uomini. In tutto il poema piante e animali sono sentiti come esseri simili all’uomo: a loro il poeta conferisce sentimenti e passioni tipicamente umane. Nel libro sulle api la parte didascalica è ridotta al minimo, mentre grande rilievo è dato alla favola di Orfeo e di Euridice. Virgilio la inserisce nel “mito cornice” di Aristeo, che ha perso tutto il suo alveare perché ha cercato di possedere Euridice, provocandone involontariamente la morte. Il poema è una grande raccolta di liriche, in cui passi didascalici e di pura poesia si fondono armoniosamente: come in un mosaico, ogni particolare concorre alla bellezza dell’insieme. La lingua di Virgilio è semplice, senza termini rari o tecnici; lo stile è elevato, con periodi ben costruiti, che appaiono spontanei, ma sono invece il frutto di un sapiente lavoro di lima. Con le Georgiche Virgilio ha creato l’opera di più alta perfezione di tutto il mondo classico.

Dal mondo animale all’uomo

Piante e animali simili all’uomo La favola di Orfeo ed Euridice

La lingua e lo stile

L’Eneide L’Eneide è un poema epico in esametri di 12 libri che narra le peregrinazioni di Enea e gli scontri da lui sostenuti contro i latini per dare vita a un nuovo popolo, che avrebbe in seguito fondato Roma. L’opera fu composta nell’ulti- Opera non rifinita mo decennio di vita di Virgilio, dal 29 al 19 a.C., e rimase incompiuta perché la morte del poeta troncò il lavoro di 133

2 - Virgilio RIASSUNTO DELL’ ENEIDE Libro I Enea, con la flotta troiana decimata da una tempesta suscitata da Giunone, approda alle coste africane. Ospitato a Cartagine, da poco fondata da Didone, esule da Tiro, trova quasi tutti i compagni che credeva morti. Per intervento di Venere, madre di Enea, la regina si innamora dell’eroe e gli chiede di raccontare la fine di Troia. Libro II Enea narra la finta ritirata dei nemici, l’abbattimento delle mura per introdurre l’enorme cavallo di legno nella città, la fuoriuscita nella notte dal suo ventre dei guerrieri achei, la strage, la morte del re Priamo e l’incendo della città. Solo Enea, con il padre Anchise, il figlio Ascanio e pochi compagni, si salva dal disastro e salpa in cerca di una nuova patria. Libro III I fuggiaschi giungono in Tracia, da dove ripartono su consiglio di Polidoro, trasformato in arbusto. Dopo aver consultato l’oracolo di Delo, sbarcano a Creta, ma sono costretti a riprendere il mare a causa di una pestilenza. Sbarcano alle Strofadi, dove si scontrano con le Arpie, in Sicilia, nell’isola dei Ciclopi e a Drepano, luogo in cui muore Anchise; infine la tempesta che li porta a Cartagine. Libro IV In seguito a un accordo tra Giunone e Venere, Enea si unisce a Didone; ma Giove, invocato da Iarba che aspira alla mano della regina, ordina al troiano di andarsene. Didone, dopo aver invano pregato Enea di restare, si toglie la vita, mentre guarda le navi troiane allontanarsi. Libro V Gli esuli ritornano a Drepano, dove tengono dei giochi in onore di Anchise. Giunone brucia loro le navi, ma una pioggia mandata da Giove spegne l’incendio. Enea riparte, lasciando a terra i compagni stanchi di errare per mare. Durante la navigazione Palinuro cade in acqua di notte e muore. Libro VI Sbarcato a Cuma, Enea si reca dalla Sibilla che gli consiglia di scendere nell’oltretomba. Qui incontra le anime di Deifobo, Didone, Palinuro e, nei Campi Elisi, di Anchise. Il padre gli mostra i futuri eroi romani, tra cui Cesare e Augusto. In seguito riprende il mare alla volta di Gaeta.

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Libro VII Enea è ormai alla fine del viaggio: giunto alle foci del Tevere, risale il fiume fino a Laurento, dove Latino, re del Lazio, lo accoglie amichevolmente, gli concede di fondare una città e gli promette in sposa la figlia Lavinia. Giunone, tramite la furia Aletto, fomenta contro i troiani Amata, la moglie di Latino, e il principe dei rutuli Turno, promesso sposo di Lavinia. Scoppia la guerra. Libro VIII Su suggerimento del dio Tiberino, Enea si reca a chiedere aiuto al re di Pallanteo, Evandro, che mette a sua disposizione dei cavalieri, guidati da suo figlio Pallante; un altro sostegno gli viene dai popoli etruschi. Dalla madre Venere poi riceve un’armatura forgiata da Vulcano, che sullo scudo racconta le future vicende di Roma. Libro IX Comincia la battaglia: i troiani sono in difficoltà per l’assenza di Enea e decidono di cercarlo. Incaricati della missione sono i due giovani volontari Eurialo e Niso che vengono uccisi mentre stanno facendo una strage nel campo nemico. Turno riesce a penetrare nel campo troiano, ma costretto alla fuga, si salva gettandosi nel Tevere. Libro X Giove ordina agli altri dei di non intervenire nella contesa. Intanto ritorna Enea, che risolleva le sorti della battaglia. L’uccisione di Pallante, da parte di Turno, fa infuriare il troiano che, non riuscendo a trovare il principe dei rutuli, uccide il suo più forte alleato, il tiranno Mesenzio. Libro XI Il momento della tregua per seppellire i caduti dura poco. Turno manda all’attacco la cavalleria sotto il comando di Messalo e di Camilla, regina dei volsci; ma la morte della fanciulla fa disunire i latini ed Enea riesce facilmente a giungere con gran parte dell’esercito fino a Laurento. Libro XII Turno sfida Enea a duello; durante la tregua la ninfa Diuturna, incitata da Giunone, fa riaccendere la battaglia, nella quale Enea è ferito e guarito da Venere. Tornato nella mischia, egli assalta la città di Laurento: la regina Amata, disperata, si toglie la vita. Accorre Turno, che era stato allontanato con un trucco, affronta Enea, ma è sconfitto e ucciso.

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rielaborazione e rifinitura. Virgilio aveva espresso, per questo, la volontà che l’Eneide fosse distrutta dalle fiamme, ma Vario Rufo e Tucca, gli esecutori testamentari, la consegnarono ad Augusto, il quale ordinò che fosse pubblicata senza alcuna correzione, nonostante qualche incoerenza e 58 versi incompiuti, e avesse la massima divulgazione possibile: l’Eneide rappresentava infatti il poema da lui tanto atteso. La composizione fu lunga e travagliata perché Virgilio non possedeva una tradizione alla quale potesse rifarsi e perciò doveva scegliere fra le molte versioni del mito narrare il crollo di una città antenata di Roma, creare un “padre fondatore”, esule ed errante. Era necessario rappresentarlo come un combattente e accettare la tradizione secondo la quale una guerra sanguinosa era stata combattuta fra i progenitori di Roma e quelli che sarebbero stati i suoi alleati storici, i latini. Nella sua struttura simmetrica l’Eneide riprende, grosso modo, in dimensione minore, i poemi omerici: l’Odissea nei primi sei libri e l’Iliade nei secondi sei. ■ La leggenda Quasi certamente sollecitato da Augusto a comporre il poema, Virgilio intuì che seguire lo svolgimento dei fatti anno per anno, secondo il metodo di Ennio, o concentrare la materia epica su un solo episodio, secondo quello di Nevio, avrebbe potuto portarlo a comporre semplicemente un panegirico di Augusto, perché doveva necessariamente evitare l’esaltazione di un secolo di guerre civili. Per questo Virgilio si stacca dal presente, risale alla leggendaria caduta di Troia, alla quale fa risalire la ancor lontana fondazione di Roma, ma dominante e certa nelle profezie. La guerra di Troia è pertanto narrata per giustificare un unico esito voluto dagli dei: Roma. Virgilio innova decisamente il poema epico: Omero aveva composto un poema tutto mitologico, in Ennio il mito è solo un antefatto alle vicende storiche, in Nevio è una digressione: Virgilio ambienta il suo poema in un’età mitica e introduce la storia come digressione, sotto l’aspetto di visione profetica. La leggenda di Enea già era sorta nel IV secolo ed era divenuta dalla fine del sec. II in poi di attualità per la conquista dell’universo greco del Mediterraneo, che rappresentava la rivincita dei discendenti troiani sui greci. Con Virgilio essa assume una forma più coerente e complessa: quello di Enea è un ritorno all’antiqua mater, alla terra degli avi perché dall’Italia, e precisamente dall’etrusca Cortona, era partito Dardano, il capostipite dei troiani.

Pubblicata per ordine di Augusto

Le fonti storico-letterarie

I poemi omerici

Esito voluto dagli dei: Roma

Il mito di Enea

Ritorno all’antiqua mater

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La pietas, senso del dovere e sacrificio

Frequente tono elegiaco Riflessioni personali

Partecipe dei suoi personaggi

Epica, dramma ed elegia 136

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Eroi umani e non divini

■ I personaggi Nell’Eneide Virgilio non crea figure di eroi esuberanti e baldanzosi, dotati di una vitalità prorompente, come Omero; i suoi personaggi hanno carattere più sfumato, sono approfonditi psicologicamente, spesso dipinti con atteggiamento dolente e meditativo. Sono personaggi umani e non eroi divinizzati come quelli di Omero. Enea non è un guerriero come Achille o Ettore, o un eroe come Ulisse: egli è colui che accetta con rassegnazione il destino e obbedisce, talvolta con dolore, al Fato. Quando è necessario egli manifesta doti di valoroso guerriero; quando uccide Turno non compie un atto di crudeltà, ma un indispensabile finale già deciso dal destino per dar vita alla futura Roma. Le sue caratteristiche sono la pietas, cioè il senso del dovere e la capacità di sacrificio. Il “pio” Enea è il riflesso della personalità del poetastesso, che rifugge dalle tinte cruente e dai sentimenti forti: il suo carattere è raccolto, incline alla meditazione, dotato di sensibilità delicata, ed egli lo trasferisce nei personaggi e nelle situazioni dell’Eneide, dove il tono elegiaco compare spesso. Virgilio osserva sempre con commossa attenzione i sentimenti e gli stati d’animo di chi è coinvolto nelle imprese eroiche; interviene direttamente nel racconto con commenti e riflessioni personali o, indirettamente, mediante l’uso degli aggettivi; se poi i personaggi sono protagonisti di episodi sanguinosi o patetici li segue con un senso di profonda pietà. Si sofferma molto sui personaggi secondari, come Polidoro, Eurialo, Niso, Camilla, morti nel fiore dell’età, ai quali va tutta la sua personale e intensa simpatia. Il poeta è partecipe dei suoi personaggi e li interpreta con intenso sentimento. Così piange la profonda delusione d’amore di Didone, che Enea è costretto dal Fato ad abbandonare e ne rappresenta drammaticamente il suicidio con intenso pathos. La regina di Cartagine è una delle figure più complete di tutto il poema, presentata prima nella piena forza del sentimento amoroso, poi nella crudezza della morte e, infine, nell’odio inestinguibile, oltre la vita, per l’amante che l’ha tradita. Con lui si uniscono e si alternano nell’epica il dramma e l’elegia. Pur essendo Omero il punto di riferimento, l’Eneide ri-

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Celebrazione di Augusto

Inoltre il poeta perfezionava la tradizione mitica della nobilissima famiglia Giulia, e cioè di Cesare e Augusto, che si gloriava di discendere da Iulo o Ascanio, figlio di Enea, a sua volta figlio della dea Venere. Virgilio faceva così coincidere la storia di Roma, fin dalle sue origini, con quella della famiglia che comandava nella città e in tutto l’impero. Il VI libro non ha nulla di omerico: è la celebrazione di Augusto attraverso la sfilata dei suoi antenati.

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La mitica origine della famiglia Giulia

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sulta un’opera complessivamente diversa e del tutto originale. La preoccupazione di Virgilio è quella di cantare Roma, arrivata al culmine della sua potenza e di esaltarne la missione. È La grandezza la grandezza di Roma che commuove Virgilio, non il trionfo di Roma di Enea, del quale mostra solo l’anima triste per l’ineluttabile volgere degli eventi. Per primo introduce nell’epica forme drammatiche e liriche.

L’Appendix Vergiliana Sono pervenuti, attribuiti a Virgilio, otto piccoli componimenti, a cui fu dato nell’umanesimo il titolo di Appendix Vergiliana, che però la critica contemporanea è quasi unanime nel ritenere apocrifi e risalenti al sec. I d.C., esercizi di imitatori o componimenti di scuola. Oggi si ritiene che soltanto un paio di epigrammi (il V e l’VIII) dei 14 compresi nell’Appendix, possano, con buona probabilità, esser considerati autenticamente virgiliani. Di particolare interesse il V, che proclama la conversione dalla retorica alla filosofia epicurea. Qualche possibilità di autenticità esiste per il X, brillante parodia del quarto carme di Catullo. Anche il Culex (La zanzara) ha una certa probabilità di essere di Virgilio, perché vari autori del sec. I d.C., come Lucano, Stazio e Marziale, lo ritenevano opera giovanile del poeta. È un epillio di circa 400 esametri in cui una zanzara rimprovera in sogno un pastore di averla uccisa e di non averla sepolta. La Ciris (L’airone bianco) è un epillio di 540 esametri sulla leggenda di Scilla che, avendo tradito per amore il padre, viene trasformata in un uccello marino. Le Dirae (Le imprecazioni) sono due carmi di circa 100 versi: nel primo un pastore inveisce contro il proprio podere che gli è stato confiscato, nel secondo un pastore lamenta l’assenza della donna amata. Il Copo (L’ostessa) è un breve idillio in distici elegiaci in cui un’ostessa invita i viandanti a entrare nel suo locale. Il Moretum (La focaccia) è un poemetto in 122 esametri in cui un contadino si prepara la colazione prima di recarsi nei campi. L’Aetna (L’Etna) è un poemetto didascalico di 645 esametri sulle eruzioni dei vulcani. Le Elegiae in Maecenatem sono due carmi, in distici elegiaci, di compianto per il ministro di Augusto.

Gli unici componenti autentici

Culex

Ciris Dirae

Copo Moretum Aetna Elegiae in Maecenatem

La fortuna Il poeta di Mantova fu riconosciuto ancora in vita come un classico e come tale fu imposto, e si impose, appena dopo la morte, quale argomento di studio, discussione, insegnamento per 137

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“Maestro di color che sanno”

Dal mito alla reale grandezza storica

tutta l’antichità, il Medioevo e l’era moderna. Ogni epoca lo lesse partendo dalla propria prospettiva culturale e ognuna vi ritrovò, o credette di ritrovarvi, i propri valori. Fu annoverato da Dante fra i “maestri di color che sanno”: accanto al poeta, e forse in misura ancora maggiore, nel volgere delle epoche si vide in lui il sommo oratore, l’erudito, il vertice di ogni conoscenza umana, il vate di nascoste verità. Fin dai primordi del cristianesimo Virgilio apparve come il preannunciatore del Messia, dotato quindi di virtù profetiche; fu il “mago” della tradizione popolare. Maestro di stile nell’Umanesimo, punto di riferimento fondamentale per la scienza filologica, Virgilio continua a dominare come il più significativo testimone dell’ideologia augustea, il rigeneratore della poesia epica, il fondatore di generi letterari che nutrirono sino a ieri la cultura occidentale: l’Arcadia, la poesia pastorale, l’idealizzazione della vita agreste. Si può forse dire che, dopo il grande lavoro della filologia dell’800, soltanto nella seconda metà del ’900 Virgilio sia uscito definitivamente, e quasi a ogni livello, dal mito, per esser recuperato nella sua difficile, talvolta contraddittoria, grandezza storica.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

Publio Virgilio Marone (Andes 70 - Brindisi 19 a.C.), nasce da una famiglia di proprietari terrieri, studia a Milano, Roma e Napoli. Dopo la confisca del podere si stabilisce a Roma e a Napoli. Protetto da Ottaviano, entra nel circolo di Mecenate. Muore di ritorno da un viaggio in Grecia.

LE BUCOLICHE

Sono 10 componimenti (ecloghe) in esametri di genere pastorale, per lo più ambientati in Arcadia, e ispirati agli idilli del greco-siracusano Teocrito. Emerge un senso di angoscia per l’infelicità degli uomini: unico conforto è la poesia, che dà serenità e piacere.

LE GEORGICHE

È un poema didascalico in 4 libri in esametri, incentrato sulle attività agricole (lavoro dei campi, coltivazione delle piante, allevamento e apicoltura). È opera di alta poesia, una delle più pregevoli del mondo classico: la natura e gli animali nutrono sentimenti simili a quelli dell’uomo

L’ENEIDE

È il poema epico per eccellenza della romanità, narra in 12 libri le peregrinazioni di Enea e le lotte da lui sostenute contro i latini. I personaggi di Virgilio sono umani e non eroi divinizzati come quelli omerici; la pietà, il senso di sacrificio e del dovere dei suoi eroi riflettono la personalità di Virgilio.

FORTUNA

Creatore di generi letterari e di miti che hanno nutrito la letteratura occidentale fino al ’700, considerato a lungo “precursore” del cristianesimo, solo nell’800 - ‘900 Virgilio è stato recuperato alla sua grandezza letteraria liberata dalla mitologia celebrativa.

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3 Orazio Orazio con Virgilio è il più grande poeta dell’età augustea e in assoluto una delle personalità più significative di tutta la cultura classica. La sua poesia si ispira all’aurea mediocritas, l’equilibrio etico e dei sentimenti proposto dalla filosofia epicurea. È un sublime maestro di stile: l’espressione sintetica ed essenziale, la lingua nitida e precisa, la struttura compositiva ordinata e diretta confluiscono in una poesia di grande chiarezza e rigore formale, raffinata da un continuo “lavoro di lima”.

La vita La biografia di Quinto Orazio Flacco (Venosa 65-Roma 8 a.C.) è ricostruibile dai numerosi riferimenti personali sparsi nella sua opera e da notizie ricavabili da una Vita tramandata insieme ai suoi testi e risalente probabilmente al De poetis di Svetonio. ■ Gli anni di formazione Orazio nacque in una colonia militare romana al confine tra Puglia e Lucania, vicino al fiume Ofanto, da un liberto proprietario di un piccolo podere, esattore nella vendita alle aste pubbliche, incarico redditizio, anche se socialmente poco stimato. Trasferitosi a Roma, il padre volle che Orazio avesse un’accurata istruzione, come i giovani di famiglie aristocratiche. Studiò con il grammatico Lucio Orbilio Pupillo, da lui definito nelle satire plagosus (manesco), a causa della bacchetta usata sugli allievi distratti. In seguito, non si sa se prima o dopo il viaggio in Grecia, frequentò a Napoli il circolo epicureo di Filodemo e di Sirone. Come i giovani dell’aristocrazia romana si recò ad Atene per approfondire le sue conoscenze filosofiche e retoriche, frequentando le lezioni di maestri come l’accademico Teomnesto e il peripatetico Cratippo di Pergamo. Incominciò a scrivere i primi versi in lingua greca. Portato dai suoi studi a ideali di libertà repubblicana, come tanti altri giovani romani, nel 44 si arruolò nell esercito che Marco Giunio Bruto stava raccogliendo in Grecia e in Macedonia per affrontare i triumviri Ottaviano, Lepido e Antonio; col grado di tribunus militum comandò una legione, ma fu travolto con l’uccisore di Cesare nella battaglia di Filippi (42). Il fatto che, costretto alla fuga, avesse vilmente gettato lo scudo, è forse più che un dato storico un topos letterario, ripreso dai greci Archiloco e Alceo.

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Le origini modeste

Gli studi a Roma

Approfondì le sue conscenze filosofiche e retoriche I primi versi in greco

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A fianco di Bruto contro Ottaviano

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3 - Orazio

L’amnistia

Le prime satire e i primi epodi

■ La confisca del podere Dopo il ritorno in Italia nel 41, godette di un’amnistia, ma si vide confiscare il podere in Puglia per la distribuzione delle terre ai veterani. Costretto dalle precarie condizioni economiche, trovò allora per vivere un impiego come archivista addetto ai questori (scriba quaestorius), con l’incarico di compilare i registri della pubblica contabilità. Iniziò a scrivere le prime satire e i primi epodi, composizioni di carattere polemico che lo fecero apprezzare da poeti famosi come Virgilio e Vario con cui strinse amicizia; furono proprio loro che lo presentarono nel 38 a Mecenate.

■ Nel circolo di Mecenate Il potente collaboratore di Augusto, dopo un breve periodo L’amicizia e l’affinità di attesa e di prova, accolse Orazio nel suo circolo; una profonspirituale con da amicizia, fondata su una affinità spirituale li unì per tutMecenate ta la vita; con lui condivise gusti letterari e occupazioni di ogni giorno, scherzi e malinconie. Nel 37 accompagnò con Virgilio il suo protettore in un viaggio a Brindisi, in seguito al quale fu stipulata un’effimera intesa tra Ottaviano e Antonio: il viaggio è descritto in una famosa satira. Da Mecenate il poeta ebbe in dono nel 33 una villa con un piccolo podere in Sabina, nella cui quiete spesso trovò rifugio, proteggendo la propria autonomia e le aspirazioni alla tranquillità, che lo indussero persino a rifiutare, pur con devota gratitudine, l’importante incarico di segretario personale offertogli da Augusto. Nel 17 Augusto gli conferì l’incarico di comporre l’inno a Il Carmen saeculare Diana e Apollo per i ludi saecolares di Roma (il Carmen saeculare). Nessun avvenimento degno di nota, a eccezione della pubblicazione delle sue varie raccolte poetiche, segnò il resto della sua vita, che si chiuse, come profeticamente aveva La morte cantato il poeta stesso, il 27 novembre dell’8 a.C., due mesi dopo quella di Mecenate. Fu sepolto sull’Esquilino, vicino alla tomba del grande amico. Come Virgilio non si sposò e non ebbe figli; era “piccolo di statura, incanutito precocemente, abbronzato dal sole”, scrisse di se stesso il poeta nella ventesima Epistola del I libro.

Le opere I tre periodi

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Nonostante le date di composizione indichino l’alternarsi di opere di vario genere, nell’attività poetica di Orazio si possono individuare tre periodi, che sono indice di una evoluzione che è insieme intellettuale, poetica e umana. A una fase di polemiche e di sfoghi giovanili, di cui sono frutto le Satire e gli Epodi, segue una seconda più matura, di raffinato clas-

3 - Orazio

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sicismo e di perfetta elaborazione formale, rappresentata dalle Odi e, infine, l’ultima, in cui si dedica alle Epistole. Non compreso nelle raccolte citate è il Carmen saeculare; autonoma, anche se posta in molte edizioni a conclusione del II libro delle epistole, è l’Ars poetica o Epistola ai Pisoni.

Gli Epodi La prima raccolta poetica di Orazio è costituita dagli Epodi (Epodon libri) alla cui composizione attese dal 41 al 30 circa. I 17 componimenti degli Epodi, di carattere satirico, si succedono secondo criteri non cronologici né tematici, ma semplicemente metrici: il termine stesso di epodo (ritornello) in- Schema dell’epodo: dica uno schema metrico formato da distici (o giambi) in cui il distico giambico a un verso lungo segue uno più breve. Orazio si vanta di essere stato il primo a introdurre nella letteratura latina queCONTENUTO DEGLI EPODI I Orazio dichiara con fermezza di essere pronto a seguire l’amico Mecenate nella guerra contro Antonio e Cleopatra. II In 33 distici fa un elogio entusiastico della serenità della vita agreste, messo ironicamente in bocca a un usuraio ipocrita. III Il poeta rimprovera Mecenate di averlo quasi avvelenato a una cena con una pietanza fortemente agliata. IV Invettiva contro un liberto arricchito, giunto alla carica di tribuno in virtù della rivoluzione sociale, che ostenta per Roma il suo denaro. V Invettiva contro la maga napoletana Canidia, macchiatasi di delitti orrendi per preparare le sue pozioni magiche. VI Invettiva contro un poeta che diffamava i deboli e non osava attaccare Orazio, conoscendone la violenza dei giambi. VII Rimprovero ai cittadini romani per aver ripreso le lotte civili dopo l’uccisione di Cesare; condanna della guerra. VIII Contro una vecchia donna lussuriosa e corrotta, cui il poeta scaglia ingiuriosi oltraggi. IX Invito rivolto a Mecenate, rimasto a Roma, di festeggiare la vittoria su Cleopatra, di cui compaiono chiari indizi.

X Augurio al poetastro Mevio, che criticava gli scritti di Virgilio e di Orazio, di far naufragio in mare. XI Confessione a Pettio in cui dichiara di non poter più scrivere versi perché preso da amore per la giovane Licisca. XII Invettiva contro una vecchia prostituta insaziabile di piaceri. XIII Probabilmente il primo epodo a essere composto; è un invito ai compagni d’arme a brindare sotto la tenda alla vigilia della battaglia di Filippi e ad approfittare di questa gioia perché la vita è breve. XIV È una lettera di scuse a Mecenate cui non ha inviato una poesia promessa, perché l’amore per Frine gli ha impedito di scrivere. XV Triste constatazione del tradimento di Neera che, dopo avergli giurato fedeltà, si è data a un altro uomo. XVI Invito ai concittadini, che hanno di nuovo ripreso la lotta fratricida, a lasciare Roma per recarsi alle isole Fortunate, dove gli uomini non sono mai arrivati a portare disgrazie. XVII Invettiva ancora contro la fattucchiera Canidia, cui Orazio finge di chiedere perdono.

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Le fonti

sto tipo di strofa. I primi 10 epodi hanno un trimetro seguito da un dimetro giambico; altri 6 uniscono dattili e giambi; l’ultimo è un trimetro giambico continuato, cioè non epodico. Sempre scrupoloso nel citare le fonti greche, quasi a nobilitare la sua opera alla luce di un’ascendenza illustre, Orazio dice di aver mutuato da Archiloco e da Ipponatte i metri e l’ispirazione, non gli argomenti. Altre fonti del poeta latino furono gli epigrammisti ellenistici e il Callimaco dei Giambi. E in questo modo, iambi, li chiamò Orazio: il termine Epodi comparve per la prima volta in Quintiliano.

■ Tematiche e stile Passionalità e gusto Alla composizione degli Epodi il poeta sarebbe stato spinto per l’inventiva dalla “sfrontata povertà”: in essi domina la passionalità, il furore giovanile, il gusto per l’invettiva, che sono talora espressione di sdegno e di rancore, ma più spesso raffinato gioco puramente letterario. Gli strali di Orazio si appuntano contro la vanità dei nuovi ricchi o dei cattivi poeti, I temi contro la laida oscenità di qualche vecchia lussuriosa, ma anche, con voluta dissonanza tra l’enfasi della scrittura e la modestia dell’episodio, contro l’offerta inopportuna, fattagli da Mecenate, di una pietanza condita con troppo aglio. Alcuni componimenti si ispirano a temi politici, in altri prevalgono riflessioni morali. Nell’epodo più noto, il II, il commosso elogio della vita campestre è contraddetto a sorpresa, nei versi finali, dall’ambiguità di chi lo pronuncia: un usuraio.

Le Satire Iniziate come gli Epodi in un momento di preoccupazioni finanziarie e di amarezza in seguito alla caduta degli ideali repubblicani a Filippi (42), le Satire (Saturae) furono comIL CONTENUTO DELLE SATIRE Libro primo Satira I È dedicata a Mecenate e, prendendo lo spunto dell’incontentabilità di cui è causa l’avarizia, tratta del “giusto mezzo”, seguendo il quale l’uomo dovrebbe accontentarsi della propria sorte. Satira II Si combattono gli eccessi amorosi, specialmente l’adulterio, che sono fonte di tormenti e di rischi, e si consiglia di non avere avventure con le si donne sposate di classe elevata.

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Satira III Poiché tutti hanno difetti, il poeta invita a essere indulgenti verso i peccati degli altri, non applicando il rigorismo stoico secondo il quale tutte le colpe sono ugualmente gravi. Satira IV È una difesa del genere satirico, che Orazio mutua dai poeti greci Eupoli, Aristofane e Cratino e dal latino Lucilio, che però ritiene “fangoso” e poco attento al “lavoro di lima”. Contiene interessanti notizie autobiografiche riguardanti l’educazione ricevuta dal padre.

3 - Orazio Satira V È una vivace descrizione del viaggio, di 15 giorni, da Roma a Brindisi, fatto nel 37 con Virgilio per accompagnare Mecenate, inviato da Ottaviano a Taranto, per siglare un accordo con Antonio. Spassosi e impensati incidenti accadono durante le varie tappe. Il modello è la satira del viaggio da Roma in Sicilia di Lucilio. Satira VI Orazio ringrazia Mecenate per l’amicizia accordatagli nonostante le sue umili origini, mettendo in risalto la propria disinteressata devozione verso il suo protettore. È quasi un’autobiografia e anche qui ricorda l’educazione morale ricevuta dal padre. Satira VII È la descrizione brillante e comica dello scontro in tribunale (43), davanti al propretore d’Asia Marco Bruto, tra il romano Publio Rupilio Re e il greco Persio, ricco levantino di Clazomene. Forse Orazio aveva veramente assistito all’episodio. Satira VIII La statuetta del dio Priapo racconta in prima persona come egli stesso abbia messo fine, con uno sconcio rumore, alle repellenti pratiche magiche sull’Esquilino di due fattucchiere, Canidia e Sagana, già ricordate dal poeta negli Epodi. Satira IX In forma dialogica il poeta racconta come sia stato importunato, lungo la pubblica via, da un seccatore, che chiedeva con insistenza una raccomandazione presso Mecenate. Nello stesso tempo, loda l’illustre amico che sa ben distinguere negli uomini i veri pregi. Satira X È una polemica letteraria contro coloro che esaltavano Lucilio a suo danno e un’esposizione delle idee del poeta riguardo all’arte poetica. Il poeta attenua il duro giudizio pronunciato in precedenza su Lucilio. Libro secondo Satira I Il poeta difende il genere satirico, rispondendo al giureconsulto Gaio Trebazio Besta, suo amico, che lo metteva in guardia contro i rischi, in sede giudiziaria, derivanti dalle sue satire.

Satira II Orazio tramite Ofello, modesto possidente terriero di Venosa, condannando i bagordi, esalta la vita semplice della campagna e la tradizionale temperanza del popolo latino. Satira III È la più lunga, 326 versi; Orazio finge di ricevere la visita di un certo Damasippo che, economicamente rovinato e pronto al suicidio, era stato salvato dallo stoico Stettino con una dissertazione sulla pazzia universale. Il poeta prende lo spunto dalla sentenza stoica che ogni vizio è pazzia e tutti sono pazzi tranne il sapiente. Satira IV Dialogo tra il poeta e un certo Cazio, che descrive una serie di raffinate e complicate ricette di cucina, apprese da un esperto, forse Cazio Milziade, liberto e scrittore di arte culinaria, ricordato da Cicerone. Satira V È rivolta contro i cacciatori di testamenti. Il poeta immagina un incontro agli Inferi tra Ulisse e l’ombra dell’indovino Tiresia, che consiglia all’eroe, per rifarsi dalla rovina dei suoi beni sperperati dai Proci, di farsi nominare erede da un vecchio ricco e senza figli, non badando a scrupoli morali. Satira VI È divisa in tre parti: nella prima il poeta esprime a Mecenate la sua gioia per il dono della villa e descrive con vivacità i fastidi della vita cittadina; nella seconda esalta la tranquilla vita di campagna; nella terza narra la favola del topo di città e del topo di campagna. Satira VII In un giorno delle feste Saturnali di dicembre, in cui veniva concessa libertà agli schiavi, Davo, servo di Orazio, fa la predica al suo padrone. Gli rimprovera tutte le contraddizioni della sua vita, servendosi di precetti appresi dal portiere del filosofo stoico Crispino. Satira VIII Il poeta Fundanio descrive a Orazio una cena offerta da Nasidieno Rufo, un volgare arricchito. Fra i convitati ci sono, fra gli altri, il poeta Vario e lo stesso Mecenate. L’ospite pretende di essere un raffinato signore, mentre non manifesta che rozzezza e maleducazione.

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3 - Orazio

La struttura

poste tra il 41 e il 30 ca. Sono poesie di carattere satirico in esametri, ripartite in due libri, rispettivamente di 10 e di 8 componimenti. Il primo, dedicato a Mecenate, fu pubblicato tra il 35 e il 33, il secondo nel 30, insieme con gli Epodi.

■ La poesia delle Satire L’autore stesso definì Sermones (discorsi) le sue Satire, quasi a sottolinearne l’andamento discorsivo e apparentemente dimesso. Definì anche pedestris (senza slancio) la propria ispirazione poetica e giunse al punto di negare al ge Un genere letterario nere satirico la dignità di vera poesia, mentre invece i latini originale lo sentirono come proprio genere originale. Rivendicò però l’importanza del suo predecessore Lucilio, al quale attribuì l’invenzione del genere, di cui si sentì erede: da lui apprese l’aggressività dei toni e, soprattutto, l’intervento essenziale dell’esperienza personale, della testimonianza autobiografica, ma non nascose pure quanto c’era da eliminare e da limare nelle opere di Lucilio. La dichiarata modestia delle intenzioni del poeta è consapevolmente smentita dalla granLo stile de abilità stilistica con cui usa il verso esametro, che Orazio sa modulare con arte squisita, piegandolo a tutti gli effetti desiderati, passando dal tono colloquiale, a quello comico, a quello polemico.

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Andamento discorsivo

Misura e autosufficienza 144

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Cenni biografici

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Distaccata ironia sorridente

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Riflessione morale

■ I temi Gli argomenti sono tratti dall’osservazione della vita quotidiana, nella quale si stigmatizzano i comportamenti, i vizi e le manie degli uomini: appunti di viaggio, cene, incontri più o meno graditi. Non sono trattati con lo sfogo passionale dei Giambi, ma con un misurato equilibrio: infatti il tutto è filtrato sempre attraverso una riflessione morale, che si caratterizza non tanto per l’amarezza o il sarcasmo della denuncia quanto per l’indulgenza della condivisione o, al massimo, per il distacco di un’ironia sorridente. Molti spunti sono tratti dalla filosofia epicurea, altri dalla polemica stoico-cinica; talvolta il poeta si scaglia direttamente contro l’astratto rigorismo degli stoici; in ogni caso, i temi filosofici sono proposti con la semplice naturalezza di un accostamento in prima persona. Nella VI satira del primo libro, come nella corrispondente del secondo, l’autore parla direttamente di sé, della propria modesta origine, della propria educazione, dei rapporti con Mecenate: ne emerge, oltre che il ritratto cordiale e insieme pudico nell’uomo, il senso della sua moralità, fondata sui valori della misura e dell’autosufficienza, la greca autàrkeia, cioè l’autosufficienza interiore.

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La vita quotidiana

3 - Orazio

Le Odi Le Odi (Carmina) furono pubblicate in due momenti diversi: i primi tre libri nel 23, il quarto probabilmente nel 17. Nel complesso sono 103 odi: 38 nel primo libro, 20 nel se- La struttura condo, 30 nel terzo e 15 nel quarto. I primi tre libri furono dedicati a Mecenate. I lettori contemporanei accolsero con grande entusiasmo l’uscita dell’opera; per tutti valga il giu- Il giudizio di Ovidio dizio di Ovidio: “Orazio con i suoi ritmi perfetti affascinò le mie orecchie, mentre faceva risuonare i suoi canti raffinati sulla cetra italica”. ■ La lirica Orazio nelle Odi rappresenta se stesso più che nelle Satire. Emergono il suo mondo interiore, le sue aspirazioni, la sua visione della vita, i sentimenti verso se stesso e gli altri. Le Odi tuttavia risultano, più che una confessione intima o un monologo interiore nel senso moderno del termine, l’espressione di un colloquio con gli altri; spesso, infatti, Orazio si rivolge a un interlocutore, un amico, una donna o comunque un personaggio ora fittizio, ora storicamente definito. Pur nella variegata pluralità dei temi, gli 88 carmi compresi nei primi tre libri costituiscono un insieme unitario: non a caso la raccolta si apre con la declamazione, fatta a Mecenate, della propria “vocazione” di poeta lirico e si chiude, nell’ultimo carme del III libro, con l’orgogliosa affermazione “di aver per primo portato il carme eolico nei ritmi italici”, la grande lirica greca cui si è ispirato, quella soprattutto di Alceo, Saffo, Anacreonte, Simonide e Mimnermo; da loro mutua spunti, temi, metri e persino alcuni incipit. Anche Pindaro è un modello ideale, ma la sua forza impetuosa non si adatta alle scelte artistiche di Orazio, che richiedono un’accurata elaborazione e un incessante lavoro di lima. La sua poesia si sviluppa poi in modo assolutamente originale, sia nella configurazione tipicamente latina sia nella peculiarità del suo percorso sentimentale. Il IV libro, uscito dopo il I delle Epistole, raccoglie i componimenti più tardi e riflette sentimenti e pensieri della senilità, per questo staccandosi dai primi tre.

La visione della vita del poeta Colloquio con gli altri

I carmi costituiscono un insieme unitario

Ispirazione della lirica greca

Il IV libro raccoglie componimenti più tardi

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■ I temi La fantasia del poeta spazia senza limiti, creando immagini che hanno sempre la caratteristica dell’immediatezza, perché nascono dalla sua personale esperienza. La poesia sca- La poesia scaturisce turisce da particolari precisi e concreti, con un’incredi- da particolari precisi bile varietà di temi, spesso anche sapientemente intreccia- e concreti

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3 - Orazio

Amicizia, convivialità, amore

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ti tra loro. Gli argomenti sono molteplici e variano da quello dell’amicizia, con i suoi legami affettivi, a quello della convivialità, con il classico motivo del vino, gioia del cuore e rimedio per gli affanni. L’amore poi non è mai un sentimento intenso come nel liber di Catullo o elegiaco come in Tibullo e in Properzio; è innamoramento, gelosia, abbandoni, personificato in una galleria di figure femminili – Lidia, Lalage, Cloe, Mirtale, Leuconoe... –, fanciulle acerbe, donne sensuali, quando non proterve, che sotto un nome fittizio forse celano persone realmente esistite nella vita del poeta. Frequente è anche il tema del fluire inarrestabile del tempo, con la prospettiva inevitabile della vecchiaia e della morte, il cui brivido inquietante si placa nell’accettazione serena del destino e dell imperativo del carpe diem, un invito a godere del tempo presente. È presente anche il tema patriottico-politico non solo nell’ode in cui esalta la vittoria di Ottaviano su Antonio e Cleopatra (I, 37) – “ora si può bere e si può danzare”, perché è finito l’incubo della guerra –, ma anche nelle prime 6 composizioni del libro III, le cosiddette Odi romane, e in alcune liriche del libro IV. In queste odi, l’adesione al programma culturale di Augusto si rivela, più che nella diretta celebrazione delle gesta dell’imperatore, nell’esaltazione dei valori tipici del mos maiorum. E ancora c’è il tema della natura, nella bellezza delle sue stagioni: l’inverno con la cima del Soratte innevata e il mare in tempesta (I, 9), l’estate con il sole dell’ardente canicola (III, 13), gli zefiri primaverili e l’autunno con i suoi frutti (IV, 7). Orazio ha coscienza del proprio valore poetico: nell’ultima ode del III libro si gloria “di aver eretto un monumento più durevole del bronzo, più alto della mole regale delle piramidi”, destinato a vincere il tempo, sicuro che “non tutto perirà” di lui, “divenuto potente da umile”.

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Il fluire del tempo: carpe diem

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Politica

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Le Odi romane

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■ Lo stile e i metri La disposizione dei carmi obbedisce, oltre che a una esigenza di equilibrio interno, a criteri di ordine metrico: non è certo casuale che i primi nove componimenti del I libro presentino nove forme diverse di metrica, come a sperimentarne tutte le possibilità oltre che a dar prova di grande perizia tecnica. Orazio usa ben 24 tipi di versi, che associa in modo diverso: nel complesso dell’opera, le strofe alcaiche, numericamente prevalenti, si alternano alle saffiche e ai sistemi asclepiadei. Lo stile, sobrio e limpidissimo, costituisce l’espressione più matura del classicismo latino: la semplicità del lessico si alterna al gioco raffinato di inediti ed espres-

3 - Orazio

sivi accostamenti, in un periodare che unisce la naturalezza con la stesura sempre attentamente disciplinata, con la quale il poeta controlla sentimenti e passioni.

Le Epistole Dopo i primi tre libri delle Odi, Orazio si dedicò alle Epistulae, lettere rivolte ad amici o conoscenti, e in questo sta la ragione del titolo. Il primo libro, di 20 componimenti, dedicato a Mecenate, fu pubblicato nel 20; il secondo libro di 3 lettere, composto presumibilmente tra il 19 e il 13, fu raccolto dopo la sua morte. A conclusione di quest’ultimo, a sé stante è l’Epistola ai Pisoni, detta comunemente Arte poetica. Non compreso nelle raccolte citate è il Carmen saeculare, scritto per incarico di Augusto nel 17 con lo scopo di propiziare e ringraziare le divinità e destinato a essere cantato da due cori di 27 giovinetti e fanciulle per celebrare la conclusione dei ludi secolari.

Lettere poetiche ad amici e conoscenti

L’Arte poetica Il Carmen saeculare

GLI ARGOMENTI DELLE EPISTOLE Primo libro Epistola I a Mecenate: giustifica l’abbandono della lirica con il nuovo interesse per la filosofia e dichiara di non seguire nessuna dottrina in particolare: il sapiente è libero e onorato. Epistola II a Massimo Lollio: rivolge al giovane amico consigli di virtù che si possono ricavare dalla lettura di Omero. Epistola III a Giulio Floro: chiede al giovane notizie sui letterati che avevano accompagnato Tiberio in Asia e lo esorta allo studio della filosofia. Epistola IV ad Albio Tibullo: è una lettera spiritosa, in cui esorta l’amico poeta a godere la vita e lo invita ad andare a trovarlo. Epistola V a Torquato: invita il famoso avvocato, la sera precedente il compleanno di Ottaviano, a casa sua per una cena frugale, ma allietata da sereni conversari. Epistola VI a Numicio: tratta il tema dell’imperturbabilità e lo consiglia a tenere l’animo libero dalle passioni o, almeno, di essere coerente nel perseguire l’ideale di vita scelto. Epistola VII a Mecenate: si giustifica per la sua prolungata assenza da Roma e riaf-

ferma con garbo la sua esigenza di libertà e autonomia. Epistola VIII a Celso Albinovano: dichiara di trovarsi in un periodo di crisi spirituale e si congratula per il suo nuovo incarico. Epistola IX a Tiberio: è un biglietto di raccomandazione per l’amico Settimio, del quale mette in buona luce le qualità. Epistola X ad Aristio Fusco: sostiene che la felicità consiste nella vita agreste e nell’accontentarsi di poco. Epistola XI a Bullazio: gli consiglia di trovare uno scopo nella vita, senza cercare lontano la tranquillità dello spirito che forse è vicina. Epistola XII a Iccio, amministratore dei beni di Agrippa in Sicilia: è una lettera di raccomandazione in favore di un amico, Pompeo Grospo. Epistola XIII a Vinio Asina: gli affida l’incarico di consegnare ad Augusto i volumi delle sue Odi. Epistola XIV dedicata al fattore della sua villa in Sabina, che desiderava vivere in città: tratta della bellezza della vita di campagna rispetto a quella della capitale. Epistola XV a Numonio Vala: chiede informazioni sul clima di Salerno e Velio, perché

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3 - Orazio segue gli è stato consigliato di andarvi per ragioni di salute. Epistola XVI a Quinzio Irpino: ribadisce la serenità della vita di campagna e lo esorta a essere virtuoso e saggio. Epistola XVII a Sceva: gli dà una serie di consigli sul come comportarsi con i potenti, esortandolo a non rinunciare alla propria libertà e offre se stesso come esempio. Epistola XVIII a Lollio: tratta ancora del modo di comportarsi con i grandi e gli consiglia di valutare i vantaggi e gli svantaggi, di essere cauto e discreto. Epistola XIX a Mecenate, in difesa della sua poesia lirica contro imitatori e detrattori. Epistola XX è un congedo rivolto dall’autore alla sua opera e una raccomandazione all’attenzione dei lettori. Secondo libro Epistola I ad Augusto: è una lunga lettera di 270 versi nella quale Orazio lamenta che i lettori preferiscano i poeti arcaici a quelli viventi senza rendersi

Stile discorsivo

Autonomia di pensiero

Intenti didascalici

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conto dei loro difetti e descrive lo sviluppo della letteratura latina contemporanea; si scusa infine di essere incapace di celebrare degnamente le gesta di Augusto. Epistola II a Giulio Floro: è una specie di commiato dalla poesia perché ha raggiunto una certa agiatezza e preferisce dedicarsi allo studio e alla meditazione filosofica nella quiete della sua casa di campagna. Epistola III ai Pisoni o De arte poetica: è un trattato organico sulla poesia, che illustra il pensiero estetico oraziano secondo la concezione di Aristotele, al quale il poeta si riferisce, soprattutto per il genere epico e drammatico: tragedia, commedia e dramma satiresco, del quale non è pervenuto nulla. Fonte delle teorie furono, con buona probabilità, gli scritti del peripatetico Neottolemo di Pario, vissuto nel sec. III a.C. Il poeta ribadisce anche la sua concezione di una poesia raffinata, frutto di un paziente labor limae.

■ Stile e temi Orazio torna a usare lo stile discorsivo tipico dei Sermones; usa in prevalenza l’esametro e tratta temi più elevati fra i quali prevale quello moraleggiante, anche se alcune di queste Epistole possono sembrare niente più che lettere di amicizia. In corrispondenza di un atteggiamento di delusione e di stanchezza il poeta, che sente l’avvicinarsi della vecchiaia ed è più insofferente verso gli impegni della vita sociale, si ripiega sulle sue irrisolte inquietudini, rinuncia ai toni comici e talvolta aggressivi delle Satire e accentua invece i momenti pensosi e didascalici. Orazio vanta ora la propria autonomia di pensiero rispetto al dogmatismo delle scuole filosofiche: l’epicureismo gli sembra insufficiente e accoglie elementi del pensiero stoico. Le sue intenzioni didascaliche si accentuano nel II libro che comprende due lunghi componimenti – ad Augusto e a Gaio Floro – in cui sono trattati argomenti autobiografici e soprattutto letterari, con un confronto tra la poesia arcaica e quella moderna. A essi viene aggiunta la famosa Epistola ai Pisoni, sull’arte poetica.

3 - Orazio

La fortuna di Orazio Orazio ebbe nel tempo non tanto imitatori quanto estima- Estimatori, ma non tori; Ovidio ne riconobbe la perfezione tecnica e Quintilia- imitatori no sostenne che era l’unico poeta degno di essere letto. Entrò presto nel numero degli autori studiati nelle scuole e fu commentato nei primi secoli dell’era volgare. Nel Medioevo fu apprezzato come poeta didascalico: Dante lo citò come “Orazio satiro” e lo collocò nel Limbo con i grandi poeti classici, Omero, Ovidio e Lucano. Nell’Umanesimo e nel Rinascimento la sua poesia fu assunta come modello di classicità, e anche l’Ars poetica fu un esempio autorevole. L’opera oraziana venne apprezzata per l’eleganza e la raffinatezza nell’epoca illuministica; restò estranea alla cultura romantica, ma Leopardi ne riconobbe la superiorità e ritenne imprescindibile lo studio delle sue opere anche per la sua età, in quanto rappresentative della cultura classica.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

Epodi o Giambi (41-30) Satire (41-30) Odi

Epistole

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Quinto Orazio Flacco (Venosa 65 - Roma 8 a.C.) studia a Roma, Napoli e ad Atene; milita come tribuno militare nell’esercito di Bruto a Filippi. Entra a far parte, presentato da Virgilio, del circolo di Mecenate, con il quale stringe una profonda e duratura amicizia. Nel 17 a.C. compone su incarico di Augusto il Carme secolare. Trascorre il resto della vita tra Roma e la villa in Sabina. È la prima raccolta poetica, di 17 ecloghe, in cui dominano il furore e la passionalità giovanili, autentici o espressione di raffinato gioco letterario. Il poeta si vanta di aver introdotto l’epodo nella letteratura latina. Sono 18 poesie di carattere satirico in esametri, ripartite in 2 libri che trattano in modo discorsivo vari argomenti, anche di carattere autobiografico, filtrati attraverso una riflessione morale e una sorridente ironia. Sono 103 carmi in 24 tipi di versi, suddivisi in 4 libri, nei quali il poeta espone il proprio mondo interiore e la personale visione della vita. I temi: l’amicizia, l’amore, la convivialità, la natura, il fluire inarrestabile del tempo, il patriottismo. È un capolavoro che costituisce per lo stile limpidissimo una delle espressioni più mature del classicismo latino. Sono 23 lettere in esametri indirizzate ad amici e conoscenti. In stile discorsivo trattano vari argomenti, spesso filosofici, letterari e autobiografici. La più famosa è l’Epistola ai Pisoni sull’arte poetica.

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4 L’elegia d’amore:

Tibullo e Properzio

Nell’età di Augusto fiorisce l’elegia d’amore, genere presente nel mondo greco fin dall’epoca del poeta greco Mimnermo di Colofone (secc. VII-VI a.C.), ma profondamente rinnovato e originale nei contenuti. I poeti latini esprimono direttamente i loro sentimenti alla donna amata, non attraverso il mito, sia pure quello raffinato e dotto degli ellenisti. È opera di Cornelio Gallo il passaggio dalla elegia mitico-erudita a quella soggettiva latina, che ha la sua maggiore espressione nell’erotismo languido di Tibullo, in quello appassionato di Properzio e nella genialità artistica di Ovidio.

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L’amicizia con Virgilio

Gli Amores

L’iniziatore del genere elegiaco a Roma

Cornelio Gallo Caio Cornelio Gallo (Forum Iulii 69-26 a.C.) nacque nella Gallia Narbonese, presso l’odierna Fréjus, tra Nizza e Marsiglia, da famiglia appartenente al ceto equestre. A Roma fu amico di Virgilio e del filosofo Partenio e frequentò l’ambiente dei neòteroi. Seguace fin da giovane di Ottaviano, combattè al suo fianco contro Antonio e Cleopatra e fu nominato governatore della prefettura d’Egitto. Caduto in disgrazia presso Augusto, condannato alla confisca dei beni e all’esilio, si uccise nel 26 a.C. Virgilio gli dedicò la X ecloga e, forse, la parte conclusiva delle Georgiche, sostituita poi, quando l’amico cadde in disgrazia, con il mito di Orfeo ed Euridice. Rimangono solo una decina di versi lacunosi dei 4 libri degli Amores (Gli amori), poesie elegiache di carattere erotico per Licòride, pseudonimo della mima Volumnia, che lasciò il poeta per seguire un ufficiale di Agrippa sul Reno. Ovidio considerava Gallo l’iniziatore del genere elegiaco in Roma e i frammenti della sua opera lasciano intravedere alcuni temi della lirica soggettiva, che saranno caratteristici del genere, come la donna ispiratrice e destinataria del canto e la subordinazione dell’amante all’amata.

Tibullo Sulla vita di Albio Tibullo (60/54-19/18 a.C.) si hanno scarse notizie ricavabili, oltre che da cenni sparsi nelle sue elegie e negli scritti di altri autori, da una Vita anonima. Ignoto è il 150

4 - L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio

suo prenome, incerti sono il luogo e la data di nascita. Egli è uno dei poeti più rappresentativi della letteratura latina e di quell’elegia, intrisa nel suo caso di erotismo, destinata a diventare genere tipicamente latino. ■ La vita Tibullo nacque forse a Gabii o a Pedum, cittadine del Lazio tra Tivoli e Palestrina. La famiglia, di ordine equestre, era di agiate condizioni economiche e possedeva proprietà nella zona, sebbene pare che alcune terre le fossero state confiscate in favore dei veterani di guerra. A Roma entrò a far parte del cenacolo culturale di Valerio Messalla Corvino, divenendone il più importante esponente. Nel 30 seguì il potente amico in una spedizione militare in Aquitania per reprimere una rivolta e nel 28 in Asia Minore, che non raggiunse perché costretto a tornare a Roma, dopo essersi ammalato a Corfù, come egli stesso scrisse nella III elegia del I libro. Trascorse l’ultima parte della vita nei suoi possedimenti di Pedum, dove Orazio, di cui fu amico, lo rappresenta malinconico e isolato. Un epigramma del poeta Domizio Marso ci informa che Tibullo morì in giovane età, poco dopo la scomparsa di Virgilio.

Nel circolo di Messalla Corvino Le spedizioni militari

Il ritiro in campagna

■ Il Corpus Tibullianum Con il nome di Corpus Tibullianum è pervenuta una rac- Raccolta di elegie colta di elegie, ripartite in tre libri, l’ultimo dei quali fu diviso in età umanistica in due parti. Con certezza sono di Tibullo i primi due libri (vedi riquadro a pag. successiva). Il Delia primo libro, Delia, l’unico sicuramente pubblicato dall’autore nel 26 o 25 a.C., contiene 10 elegie, 5 delle quali dedicate a Delia, pseudonimo greco della donna amata dal poeta, il cui vero nome era, secondo la testimonianza di Apuleio, un più popolano Plania. Delle 6 elegie, che costituiscono il secondo libro, Nemesi, 3 sono composte per una Nemesi donna avida, non meglio identificata, chiamata Nemesi, nome che in greco significa “vendetta” e che allude, forse simbolicamente, a una nuova passione del poeta, come rivalsa per l’abbandono di Delia che ha scelto un vecchio danaroso. Il contenuto del terzo libro non è del tutto attribuibile a Tibullo. ■ La poetica di Tibullo Nonostante che la finzione letteraria comporti il ricorso al Immedesimazione repertorio canonico della poesia d’amore (incontri, abban- in un’esperienza doni, gelosie, tradimenti), il mondo sentimentale di Tibullo vissuta nasce da una esperienza autenticamente vissuta, come è

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4 - L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio I PRIMI DUE LIBRI DEL CORPUS TIBULLIANUM Libro primo Elegia I È una delle elegie più belle e famose: il poeta dichiara a Messalla di preferire la vita serena con la donna amata Delia, alla gloria delle imprese di guerra. Dice poi a Delia di voler vivere con lei fino alla morte nella tranquillità della campagna. Elegia II È un lamento del poeta davanti alla porta chiusa di Delia, invitandola ad avere coraggio e a introdurlo furtivamente in casa. Elegia III Il poeta pensa all’amata, mentre giace ammalato a Corfù, e loda l’età di Saturno, nella quale gli uomini vivevano senza guerre; segue poi una vivace descrizione dell’oltretomba, con i Campi Elisi e il Tartaro. Elegia IV È una richiesta a Priapo di insegnargli il modo di conquistare gli adolescenti, ma tutto si rivela vano e il poeta, innamorato di Marato, non trova pace. Elegia V Il poeta, preso dalla gelosia, sfoga il suo dolore per il tradimento di Delia che gli ha preferito un ricco amante. Elegia VI Come nella precedente, parla dell’abbandono di Delia, della speranza del suo ritorno, indicandole quale triste fine Venere riservi alle donne infedeli. Tre poesie sono per il giovane sdegnoso di nome Marato, amato dal poeta. Elegia VII. È un elogio a Messalla per il suo compleanno, dopo il trionfo decretatogli nel 27 per la guerra contro gli aquilani. Elegia VIII Il poeta chiede a Foloe di non far più soffrire Marato e di accogliere le sue proposte d’amore. Elegia IX È un rimprovero a Marato per-

ché lo ha abbandonato per un uomo più ricco, contro il quale scaglia violente ingiurie. Elegia X Il poeta deplora la guerra e l’avidità di ricchezza che di essa è causa; loda in seguito i tempi antichi e chiede agli dei una vita serena in campagna a fianco della donna amata. Libro secondo Elegia I Inizia con una descrizione della festa agreste degli Ambarvalia, per implorare dagli dei la fecondità della terra, e prosegue con elogi di Messalla e della vita campestre. Elegia II Invito al Genio natale, nel giorno del compleanno dell’amico Cornuto, a esaudire i desideri del giovane di stare sempre vicino alla donna amata e di avere numerosi figli. Elegia III È la prima delle tre elegie dedicate a Nemesi: il poeta esprime il dolore per la lontananza di Nemesi e per la sua cupidigia, lanciando invettive contro il ricco liberto che lei gli ha preferito. Elegia IV Nemesi non ama i versi, ma i doni e il poeta, che non sa staccarsi da una donna così avida, è disposto a diventare ladro per procurarglieli. Elegia V All’inizio si ha un elogio a Messalino, figlio di Messalla, per la sua nomina al collegio sacerdotale dei quindecemviri sacris faciundis; seguono una rievocazione della leggenda di Enea e del primitivo Lazio bucolico e la descrizione delle antiche feste pastorali delle Palilie. Elegia VI Tibullo afferma la sua speranza nell’amore di Nemesi e maledice l’ancella che gli nega l’accesso alla donna amata.

del resto tipico per gran parte dell’elegia latina. In contrasto con le tonalità sensualmente appassionate di Properzio e le galanterie superficialmente brillanti di Ovidio, la sensibilità tibulliana si esprime di preferenza in toni malinconiSfumata malinconia ci e sfumati. Nelle elegie di Tibullo, dopo l’annuncio del tema che viene poi ripreso solo alla fine, caratteristica origi152

4 - L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio

nale è quel muoversi in un mondo quasi di sogno, in cui le immagini si succedono le une alle altre per evocazione e per analogia, senza un filo logico. Assente il gusto per l’erudizione mitologica, peculiare di Tibullo è lo sfondo campe- Sfondo campestre stre, rappresentato con vive immagini, un mondo ideale su cui il poeta proietta il suo desiderio di pace e di vita semplice e serena. Lo stile, di apparente semplicità nel suoi rit- Lo stile terso ed mi fluidi e armoniosi, con i suoi toni delicati e leggeri, è in- elegante vece estremamente raffinato e sorvegliato. Già Quintiliano ne aveva colto la purezza lessicale e insieme la disciplina, definendo Tibullo poeta “terso ed elegante”, giudizio del tutto condiviso dalla critica moderna. Le due elegie di Tibullo

Le sei elegie di Ligdamo

Le ipotesi sull’identità di Ligdamo Il Panegirico a Messalla Le elegie di Sulpicia

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■ Il terzo libro del Corpus Tibullianum Il terzo libro delle elegie giunte sotto il nome di Corpus Tibullianum, raccoglie 20 componimenti, di cui sono sicuramente suoi gli ultimi due. Nel XIX il poeta promette eterno amore a una fanciulla della quale non dice il nome; il XX è un epigramma sulle voci che si mormorano riguardo alla fedeltà della sua fanciulla. Le prime sei elegie sono di un imitatore del poeta, un certo Ligdamo, che canta il suo amore per Neèra. Questo autore, che usa uno pseudonimo di origine greca, è stato variamente identificato dagli studiosi con Cassio Parmense o con Vario Rufo o con un figlio di Messalla o con Tibullo stesso, cosa altamente improbabile, oppure con Ovidio giovane, ipotesi quest’ultima sostenuta dal fatto che nel testo è citato l’anno di nascita dell’autore, il 43, che coincide con quello di Ovidio e, per di più, è espresso con un verso che ritorna proprio nel poeta di Sulmona. Segue il Panegirico a Messalla, un lungo componimento elogiativo in 212 esametri, di incerta attribuzione, in cui si esaltano le sue doti oratorie e le sue campagne militari. Cinque elegie, sugli amori di Sulpicia e Cerinto, sono ritenute da gran parte degli studiosi autenticamente tibulliane; di mano della stessa Sulpicia, invece, si pensa che siano i rimanenti 6 brevi carmi, quasi dei “biglietti” amorosi, per complessivi 40 versi, inviati all’innamorato. Della vita di Sulpicia non si hanno notizie precise: forse fu nipote del giurista Servio Sulpicio Rufo e figlia di una sorella di Messalla, di cui divenne pupilla dopo la morte del padre, entrando nel circolo letterario animato dallo stesso Messalla. Sono poesie di un amore bruciante, intenso e sincero, interessanti anche per la storia del costume nella Roma d’Augusto. In questo caso Sulpicia sarebbe dunque l’unica poetessa di cui si ha testimonianza nell’ambito della letteratura latina. Indi-

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4 - L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio

pendentemente dallo loro identità, i vari poeti del corpus sono vicini a Tibullo per stile e per ambiente culturale, quello del circolo di Messalla.

Properzio Con Tibullo e Ovidio, Sesto Properzio (Assisi? 49/47-16/15 a.C.) è il maggior esponente dell’elegia nell’età augustea.

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■ La vita Nacque in Umbria e rimase da fanciullo orfano di padre. I beni della famiglia, di ordine equestre, andarono perduti du rante la guerra di Perugia (41-40) e in seguito alle confische imposte da Ottaviano: è pertanto probabile che la famiglia avesse sostenuto Antonio. Si trasferì a Roma, dove forse intendeva dedicarsi all’attività forense e alla vita pubblica, ma, entrato in contatto con gli ambienti mondani della capitale, si occupò soltanto di poesia. Fece amicizia con Gallo, Pontico e con Tullo: a quest’ultimo indirizzò la poesia di apertura del suo primo libro di elegie, nel quale la maggior parte dei componimenti erotici è dedicata alla donna amata con lo pseudonimo di Cinzia, il cui vero nome era Ostia, secondo la testimonianza di Apuleio. L’amore per la colta, raffinata e spregiudicata Cinzia durò 5 anni. Pubblicato nel 28, il volume ebbe fortuna e gli valse l’attenzione e la stima di Mecenate, del cui circolo poetico entrò a far parte. Negli anni successivi compose altri tre libri di elegie, il primo dei quali fu dedicato a Mecenate. Conobbe e ammirò molto Virgilio, divenne amico di Ovidio, al quale leggeva le sue poesie; meno stretti furono i suoi contatti con Orazio, che non sembra nutrisse particolare stima per lui. Nessun altro avvenimento della sua vita è noto. Forse si sposò ed ebbe un figlio: Plinio il Giovane, in una lettera, scrive che il poeta Paolo Properzio era suo discendente. Gli ultimi riferimenti cronologici contenuti nelle sue opere riguardano il 16 a.C.: probabilmente quello, o il seguente, fu l’anno della morte.

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Trasferimento a Roma

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L’amore per Cinzia

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Nel circolo di Mecenate

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Le Elegie Le date dei quattro libri

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Properzio scrisse 4 libri di elegie la cui datazione è piuttosto incerta e si fonda unicamente su alcuni riferimenti cronologici rilevabili dalle sue poesie. Il primo libro, detto alla greca Monóbiblos, cioè “libro singolo”, risale agli anni 30-29 e fu pubblicato nel 28; non si hanno notizie sicure sulla composizione e sulla pubblicazione del secondo e del terzo libro, ma due elegie del secondo sono databili, quella per l’inaugura-

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Le elegie

4 - L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio

zione del portico del tempio di Apollo sul Palatino (28) e quella per il suicidio del poeta Cornelio Gallo. Nel terzo è ricordata la morte di Marcello, nipote di Augusto, avvenuta nel 23. Il quarto libro contiene riferimenti all’anno 16 e fu probabilmente pubblicato postumo. ■ Contenuto delle elegie Il primo libro comprende 22 elegie, di cui 10 indirizzate a Il primo libro Cinzia e 12 ad amici e rivali. La relazione con Cinzia domina tutto il volume, anche nelle elegie non dedicate a lei. Il poeta invita l’amata ad evitare il lusso e crede di essere padrone del suo cuore (II, III), ma in effetti diventa suo schiavo (VI); si rode di gelosia per un suo soggiorno a Baia (XI), la rimprovera per la sua indifferenza (XV), ha paura che lei fugga in Illiria con un altro amante (VIII). Nonostante tutto il poeta persiste nel suo amore: “Cinzia fu la prima e Cinzia sarà l’ultima” (XII): ripensa alla donna amata durante una tempesta (XVII), lontano da Roma rievoca la sua figura, chiamando a testimoni gli alberi e gli uccelli della sua fedeltà (XVIII), e immagina che l’amata pianga per la sua morte (XIX). Le ultime due poesie del libro, brevissime, sono le più antiche: la XXI riporta le parole di un moribondo durante la guerra di Perugia e, nella XXII, il poeta dichiara di essere nato in Umbria e ricorda le guerre civili. Il secondo libro contiene 34 elegie; il poeta introduce la mi- Il secondo libro tologia erudita sul modello della poesia alessandrina: l’amore per Cinzia è ancora protagonista incontrastato. Properzio ne esalta la bellezza (II, III), si lamenta della sua crudeltà e della sua leggerezza (IV, V), soffre di gelosia per il ritorno del rivale pretore dall’Illiria (XVI) e per i viaggi di lei a Tivoli, Tuscolo, Preneste (XXXII). Ora gioisce per una riconciliazione (XIII, XIV, XV), ora desidera morire, perché la donna amata lo ha abbandonato (VIII, IX), e si propone di dimenticarla (XI). Vi sono anche elegie di altro argomento: nella I si scusa con Mecenate garbatamente di non poter celebrare le gesta di Augusto, perché non è il suo genere di poesia; nella XXXI celebra l’inaugurazione del portico del tempio di Apollo sul Palatino; la più interessante è però l’ultima (XXXIV), nella quale Properzio elogia la poesia amorosa e loda Virgilio come il solo degno di celebrare le gesta di Augusto. Il terzo libro contiene 25 elegie nelle quali l’amore per Cin- Il terzo libro zia si alterna ad altri argomenti. La donna è gelosa del poeta (VI), che è costretto a raggiungerla di notte a Tivoli (XVI); Properzio cerca consolazione dei tradimenti nel vino (XVII) e invano le chiede di sposarlo (XX). Ormai la sua relazione

Titolo concesso in licenza a

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4 - L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio

Il quarto libro

Le elegie “romane”

amorosa volge al termine e il libro si chiude con l’addio a Cinzia. Di tono moraleggiante sono le elegie contro la disonestà e l’avidità dei romani, contro il lusso delle donne e la loro corruzione (XIII, XIV, XIX); nell’elegia di apertura il poeta si dichiara continuatore dei poeti greci Callimaco e Filita e preannuncia la sua eterna gloria (II). In altre, di carattere civile e celebrativo, elogia Augusto e Mecenate (III, IV), rievoca la vittoria di Azio e le vicende di Antonio e Cleopatra (XI) e tesse le lodi di Roma e dell’Italia (XXII); vi è poi il canto funebre per la morte del giovane Marcello (XVIII). Il quarto libro è composto da 11 elegie, di cui solo due sono dedicate a Cinzia. Properzio, libero dalla passione amorosa e sollecitato da Mecenate, si dedica ora a celebrare Roma attraverso le antiche leggende. Nella I egli descrive in prima persona le origini di Roma e si proclama il “Callimaco romano”. Le 5 poesie, cosiddette “elegie romane”, hanno per argomento leggende, monumenti antichi ed episodi della storia di Roma. Nella II il simulacro del dio etrusco Vertumno, posto nel foro, racconta la sua storia; nella IV si narra la leggenda di Tarpea, che per amore di Tito Tazio, tradì Roma; la VI rievoca la battaglia di Azio e la costruzione del tempio di Apollo sul Palatino; nella IX il poeta tratta l’origine dell’Ara Massima e la leggenda di Ercole che uccide Caco; nella X celebra il santuario di Giove Feretrio, dove Romolo, Cornelio Cosso e Claudio Marcello avevano consacrato le spoglie di un comandante nemico da loro ucciso. Nell’ultima elegia Cornelia, figliastra di Augusto e moglie di Lucio Emilio Paolo, morta nel 16, ricorda la sua virtuosa vita di sposa e di madre e invita il marito a non piangere per lei. In due elegie torna il tema d’amore per Cinzia che, morta, gli appare in sogno e lo rassicura che il suo amore durerà anche nell’oltretomba (VII).

■ L’itinerario poetico di Properzio Il mondo poetico di Properzio nasce da una sintesi di elementi culturali diversi, in cui sono presenti influssi dell’epigramma e dell’elegia ellenistica accanto a suggestioni riprese da Catullo, dai neòteroi, da Cornelio Gallo. Properzio attua una completa fusione tra l’elegia romana e quella alesMito e autobiografia sandrina, nella quale miti ed elementi autobiografici si uniscono in un’opera di perfetta armonia. Tuttavia, come è tiEsperienza d’amore pico dell’elegia latina – a differenza di quella ellenistica, preautenticamente valentemente mitologica ed erudita – il canzoniere di Provissuta perzio nasce da un’esperienza d’amore autenticamente vissuta. Essa, pur nell’adesione ai temi caratteristici della poesia erotica, quali l’innamoramento, i capricci della don-

Influenze ellenistiche, neoteriche

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4 - L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio

na, le gelosie, i tradimenti, assume una valenza del tutto personale nell’accentuazione sensuale e drammatica delle situazioni e, quindi, nelle tonalità dense e impetuose della scrittura. Pur nelle molte concessioni all’erudizione mitologica e alle convenzioni letterarie, il canzoniere tratteggia una storia psicologicamente reale: in essa domina la personalità della donna amata, bella, raffinata, colta ed elegante, ma nello stesso tempo spregiudicata e volubile, che impone al poeta, nella continua alternanza degli slanci e degli abbandoni, una schiavitù amorosa cui egli non sa e non vuole sottrarsi e di cui, anzi, fa consapevolmente il centro della sua vita e della sua poesia. È un appassionato ed esclusivo amore, che si identifica con la stessa vita di Properzio e diventa la sorgente inesauribile di poesia, la quale è sfogo all’infelicità e mezzo per avvicinare l’amata.

Amore, sorgente di poesia

Le elegie romane

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■ L’elegia civile Il contatto con il circolo di Mecenate portò Properzio ad accostarsi a temi civili, secondo le indicazioni culturali suggerite dal regime augusteo. Nel secondo libro, in corrispondenza con l’incrinarsi del suo rapporto amoroso con Cinzia, si fanno più frequenti i temi celebrativi e nel quarto appaiono le cosiddette “elegie romane”, mentre quelle dedicate alla donna amata sono solo due. Properzio illustra le cause di culti, nomi e riti di Roma, evocando antichi eroi e leggende, come farà Ovidio, a distanza di pochi anni, nei Fasti. L’adesione al programma augusteo di recupero dei valori della tradizione, presente in forme diverse anche in Virgilio e in Orazio, si attua nel poeta nei modi che più gli sono congeniali, cioè nella fedeltà ai canoni della poetica alessandrina e di Callimaco in particolare; di lui Properzio riprende non solo il genere eziologico, ma anche il gusto per l’erudizione e la grandissima raffinatezza formale.

Erudizione mitologica e storia psicologicamente reale

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Adesione al programma augusteo

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Poesia difficile

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■ Lo stile di Properzio La poesia di Properzio è di difficile comprensione; numerose metafore e analogie, costruzioni sintattiche complesse e particolari la rendono talvolta volutamente oscura. A questo contribuisce anche il pensiero che non segue uno svolgimento logico; i concetti procedono uno dopo l’altro senza un collegamento, seguendo i moti imprevedibili del suo animo. Certe elegie danno l’impressione di essere una giustapposizione di temi isolati. Anche il linguaggio è arduo: allusivo, ricco di significati, con poche parole quotidiane e molte rare e preziose, grecismi, sia lessicali sia sintattici.

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Un pensiero legato al sentimento

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La lingua allusiva

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4 - L’elegia d’amore: Tibullo e Properzio

SCHEMA RIASSUNTIVO L’ELEGIA D’AMORE

Fiorisce, profondamente rinnovata e originale rispetto a quella greca perché l’amore è espresso direttamente e non attraverso il mito.

CORNELIO GALLO

(Forum Iulii 69-? 26 a.C.). Amico di Virgilio e seguace di Ottaviano, quando cade in disgrazia si uccide. Restano una decina di versi degli Amores in 4 libri.

ALBIO TIBULLO

(? 60/54-?19-18 a.C.). A Roma entra nel circolo di Messalla Corvino. Trascorre l’ultima parte della vita nel podere di Pedo. Opere: 2 libri di elegie, il primo dedicato a Delia, il secondo a Nemesi. Un terzo libro gli è solo in parte attribuito; alcune poesie sono sicuramente opera di Ligdamo e di Sulpicia, l’unica poetessa nota della letteratura latina. Poetica: la poesia di Tibullo nasce da un’autentica esperienza di vita. Preferisce i toni malinconici e sfumati. Suo mondo ideale è quello campestre. Lo stile è terso ed elegante, lessicalmente puro e raffinato.

SESTO PROPERZIO

(? Assisi, 49/47-? 15 ca a.C.). Vive a Roma, entra nel circolo di Mecenate, si dedica solo alla poesia. Opere: 4 libri con 92 elegie, la maggior parte delle quali è dedicata a Cinzia, la donna amata. Cinque elegie di argomento civile, sono dette “romane”, e illustrano le cause di culti, nomi e riti di Roma. Poetica: Properzio fonde armoniosamente l’elegia latina e quella alessandrina. È ispirato dalla sua esperienza d’amore, autenticamente vissuta. Lo stile è spesso oscuro, con metafore e sintassi complessa.

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5 Ovidio

Ovidio, l’ultimo dei grandi poeti elegiaci dell’età di Augusto, rispecchia con la sua vasta e raffinata produzione la società mondana frivola e spensierata di quell’epoca. La sua indagine del cuore umano, dei sentimenti, è condotta con sicuro virtuosismo tecnico e con grande finezza psicologica.

La vita Publio Ovidio Nasone (Sulmona 43 a.C.-Tomi, Mar Nero 17 d.C.) nacque da una ricca famiglia appartenente al ceto equestre. A 12 anni venne inviato con il fratello a Roma, dove frequentò le scuole dei retori più famosi del tempo, Arellio Fusco e Porcio Latrone. Completò la sua formazione ad Atene, come tutti i giovani di buona famiglia; in seguito visitò l’Asia Minore, l’Egitto e la Sicilia. Tornato a Roma, iniziò, come era desiderio dei genitori, la carriera pubblica, limitandosi tuttavia a magistrature minori, con il compito di far eseguire le pene capitali e risolvere le cause di cittadinanza. Ma la politica non faceva per lui: Ovidio amava la vita brillante e la poesia, alla quale si dedicò interamente. ■ Nel circolo di Messalla Corvino La facilità a comporre versi si era svelata fin dal suo arrivo a Roma: com’era di moda li recitava con successo in pubblico. Questo talento lo portò a entrare nel circolo culturale di Valerio Messalla Corvino. Frequentò i migliori poeti del tempo, da Orazio a Properzio e a Tibullo; conobbe, anche se solo marginalmente, Virgilio. Aveva già composto una tragedia, Medea, ora perduta, ma fu la pubblicazione delle prime sue elegie amorose, gli Amores e le Heroides, che gli procurò immediatamente, a circa trent’anni, un largo successo, facendolo diventare il poeta prediletto degli ambienti mondani, interprete della loro vita elegante e disimpegnata, lontana ormai dai travagli delle guerre civili. Seguirono l’Ars amatoria, i Remedia amoris e i Medicamina faciei femineae. Successivamente, dopo la morte di Messalla nel 3 d.C., Ovidio cambiò la sua produzione, dedicandosi, con i Fasti e le Metamorfosi, a una poesia meno frivola e più impegnata. Si sposò tre volte, ma solo l’ultimo matrimonio, con Fabia, fu duraturo.

Di ricca famiglia equestre

Una carriera politica senza rilievo

Poeta di successo

Le prime elegie amorose Poeta prediletto del bel mondo

■ L’esilio a Tomi La vita di Ovidio cambiò radicalmente nell’8 d.C., quando L’allontanamento da Augusto lo relegò a Tomi (oggi Costanza), luogo inospita- Roma

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5 - Ovidio

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Le cause

le sul Mar Nero e lontanissimo dalla vita agiata di Roma, senza il conforto della famiglia e degli amici. I motivi di questo provvedimento, che fu un soggiorno obbligato più che un vero e proprio esilio, dato che non ci fu un processo, non sono accertabili con precisione: lo stesso Ovidio attribuisce la causa a duo crimina, carmen et error (due colpe, una poesia e un errore). Il carmen era forse l’accusa di immoralità mossa alla sua Ars amatoria (che, tuttavia, al tempo del confino, era già stata pubblicata da molti anni), e l’error era probabilmente un coinvolgimento del poeta nello scandalo che travolse la nipote di Augusto, la spregiudicata Giulia Minore (19 a.C.-28 d.C.). I suoi libri furono tolti dalle biblioteche. A Tomi Ovidio scrisse i Tristia, le Epistulae ex Ponto e l’Ibis. Tutti i tentativi di ottenere la grazia, suoi e della moglie, teneramente amata, furono respinti da Augusto. Nel vuoto caddero anche, dopo la morte di Augusto (14 d.C.), le speranze di clemenza poste in Germanico e in Tiberio. Morì a Tomi e lì fu sepolto, nonostante il suo desiderio di essere sepolto a Roma.

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La morte in esilio

La cronologia delle opere La produzione poetica di Ovidio è molto vasta ed è giunta quasi completa. Si può ripartirla in quattro periodi: i primi due comprendono le elegie amorose, in distici elegiaci. Il primo periodo Del primo periodo giovanile (dal 25 al 13 a.C.), sono gli giovanile Amores (Amori), 49 elegie per un totale di quasi 4500 versi, dedicate a una donna chiamata Corinna, pubblicati in un primo tempo in 5 libri e, in una seconda edizione, in 3 libri. Sempre a questo periodo appartengono le Heroides o Epistulae (Eroidi), 21 lettere d’amore poetiche per circa 4000 versi, per la maggior parte di donne ai loro mariti o amanti. Il secondo periodo, Il secondo periodo, dal 13 a.C. al 3 d.C., comprende l’Ars delle opere erotiche amatoria (l’Arte di amare), carme didascalico sull’arte di conquistare le donne e gli uomini, in 3 libri di circa 2300 versi. Seguono i trattatelli Remedia amoris (I rimedi d’amore), dall’ 1 a.C all’ 1 d.C., appendice dell’opera precedente, che descrive i modi per liberarsi dall’amore, e i Medicamina faciei femineae (Medicamenti del volto femminile), di cui rimangono solo 50 distici, che tratta della cosmesi delle donne. Il terzo periodo, delle Del terzo periodo, dal 3 all’8 d.C., è il Metamorphoseon liMetamorfosi bri (Metamorfosi), poema in 15 libri per complessivi 12 000 esametri, in cui vengono narrate circa 250 metamorfosi. Seguono i Fasti, poema dedicato a Germanico, che l’autore interruppe dopo 6 dei 12 libri previsti, uno per mese. 160

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Nel quarto periodo, quello dell’esilio, Ovidio compone i Il quarto periodo, Tristia (Tristezze), 50 elegie per complessivi 3500 versi ri- dell’esilio partite in 5 libri, le Epistulae ex Ponto (Lettere dal Ponto), 46 composizioni indirizzate alla moglie e agli amici, in 4 libri, per un totale di 3200 versi, l’Ibis, poemetto di 322 distici, elenco di invettive e imprecazioni contro un nemico non meglio identificato, infine Halieutica, un poemetto didascalico di 35 esametri sulla pesca e sui pesci, l’ultima fatica del poeta, secondo Plinio il Vecchio. Non sono pervenuti la tragedia Medea, il poema epico Gi- Le opere perdute gantomachia, il poema astronomico Fenomeni e i carmi in morte di Augusto e in lode di Tiberio. Sicuramente spuri sono l’elegia Nux (La noce), i Priapea (Carmi priapei), 890 liriche in vari metri e la Consolatio ad Liviam (Consolazione a Livia), rivolta alla moglie di Augusto in occasione della morte di Druso.

Amores Ovidio si sentì erede dei primi grandi poeti elegiaci, Cornelio Gallo, Albio Tibullo e Sesto Properzio. Con loro ebbe in comune le forme poetiche e la tematica amorosa (incontri, gelosie, abbandoni, sofferenze e il ricorso agli esempi mitologici), ma non l’intensità sentimentale. Se per Catullo, prima ancora che per Tibullo e Properzio, la donna amata costituisce il centro di tutta la vita affettiva oltre che dell’ispirazione poetica, per Ovidio l’amore è gioco galante, contemplato con distacco sorridente quando non con ironia, e talvolta anche con autoironia, come nell’epigramma introduttivo. Alcuni motivi tipici sono rovesciati dal poeta con gusto gioioso del paradosso: non implora l’amata di essergli fedele, ma di fingere di esserlo; non odia il marito della donna, ma anzi lo invita a proteggerla meglio, perché “ciò che è permesso non piace, ciò che è proibito accende una passione ardente”. La Corinna cui sono dedicati gli Amores non è una donna reale, ma piuttosto la sintesi di più immagini femminili, tutte ugualmente vagheggiate da un poeta che confessava di sentire attrazione per tutte le donne pur che fossero belle. Corinna è un personaggio letterario, un elemento unificatore delle varie elegie.

Una tematica amorosa senza intensità sentimentale

Amore come gioco galante

Corinna sintesi di più donne

Heroides o Epistulae Con le Eroidi (cioè eroine mitiche) Ovidio passò dall’ele- Elegia gia erotico-soggettiva a quella erotico-mitologica, intro- erotico-mitologica ducendo un genere della cui originalità andò orgoglioso: 161

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Le eroine letterarie

Gli eroi

quello delle fantastiche 21 lettere poetiche di argomento amoroso. Nelle prime 15 lettere alcune eroine della letteratura si rivolgono ai propri amanti o mariti: Penelope a Ulisse; Fillide a Demofonte; Briseide ad Achille; Fedra a Ippolito; Enone, una ninfa del monte Ida; a Paride; Ipsipile, regina di Lemno, a Giasone; Didone a Enea; Ermione a Oreste; Deianira a Ercole; Arianna a Teseo; Canace a Macareo, un amore incestuoso; Medea a Giasone; Laodamia a Protesilao; Ipermestra a Linceo; Saffo (l’unica figura storica e non mitologica, ma divenuta leggendaria per il suo infelice amore) a Faone. Le ultime 6 lettere sono a coppie, 3 lettere di eroi a cui è abbinata la risposta: Paride a Elena, Leandro a Ero, Aconzio a Cidippe. La materia del mito diventa in lui fonte di sentimenti quotidiani ed è piegata al servizio di un gusto patetico – è frequente il tema dell’abbandono da parte dell’uomo – che sa modulare con finezza ogni aspetto dell’indole e della psicologia femminile.

L’arte di amare Precettistica amorosa

Il primo libro: la conquista della donna

Il secondo libro: come conservare l’amore di una donna

Il terzo libro rivolto alle donne

L’amore cantato da Ovidio si trasforma da passione in un’arte, che può essere insegnata con una precettistica minuta. Il poeta sviluppa così l’aspetto didascalico presente nella poesia elegiaca, scrivendo questo poemetto, L’arte di amare, perché, come è annunciato nei primi due versi, chi lo legge possa amare da esperto. I primi due libri sono indirizzati agli uomini. Il primo libro è dedicato alla conquista della donna, a cominciare dai luoghi dell’incontro, i teatri, il circo, le passeggiate, i Portici di Pompeo, dove le donne vanno per vedere ed essere vedute; come ottenerne i favori, sostenendo che si possono conquistare tutte le donne: basta saper tendere bene i lacci. Il secondo libro insegna come si può, una volta conquistata una donna, conservarne l’amore: sono necessari intelligenza, amabilità, assecondarne i desideri; è inutile scrivere versi, perché “la poesia si loda, ma si preferiscono i grandi doni: purché sia ricco, piace anche un barbaro”; nascondere i propri tradimenti e fingere di non conoscere quelli dell’amata. Il terzo libro è rivolto alle donne, perché anch’esse imparino a conquistare e conservare l’amore di un uomo: curare la propria persona (acconciatura, trucco, vestiti), nascondere i difetti, amare la poesia, il canto, la danza e i poeti che non corrono dietro al guadagno. Poiché tutte le donne sono conquistabili, l’austera severità della matrona ro-

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5 - Ovidio IL CONTENUTO DELLE METAMORFOSI Dopo una breve invocazione agli dei perché siano propizi all’impresa, il poema inizia con la genesi della terra dal caos originale, la creazione degli animali e degli uomini, le quattro età del mondo, la metamorfosi del malvagio Licaone in lupo, il diluvio universale e il ripopolamento per opera di Deucalione e Pirra. Ai miti cosmogonici seguono le leggende connesse con gli dei e gli eroi, le loro passioni, odi, gelosie morbose, ripicche e abbandoni. Alcuni miti sono celebri: Dafne trasformata in alloro da Apollo e Io in giovenca da Giunone (I); Fetonte che precipita dal carro del sole; Callisto mutata in orsa e trasportata da Giove in cielo come costellazione (II); Atteone trasformato in cervo da Diana per averla vista nuda e sbranato dai suoi cani; Narciso innamorato di se stesso (III). E ancora Priamo e Tisbe, con il loro amore tragico; Perseo che salva Andromeda da un mostro marino (IV); il rapimento di Proserpina da parte di Plutone (V); Aracne tramutata in ragno e Niobe in rupe per aver osato sfidare rispettivamente Minerva e Latona; Procne e Filomena mutate in rondine e in usignolo (VI); Medea

e i suoi misfatti (VII); i buoni vecchi Filemone e Bauci diventati alberi; il volo sventurato di Dedalo e Icaro (VIII). Seguono la drammatica morte di Ercole e la sua apoteosi (IX); Orfeo ed Euridice e il loro infelice amore; Pigmalione invaghito della sua bellissima scultura che, per intervento di Venere, diventa donna viva e lo sposa; Atalanta, invincibile nella corsa, e il marito Ippomene trasformati in leoni da Cibele per aver profanato un tempio (X); Mida, che tramuta in oro tutto ciò che tocca; le nozze di Peleo e Teti (XI). Ovidio narra poi la guerra di Troia, le imprese di Achille e la battaglia tra i Lapiti e i Centauri (XII); Glauco tramutato in dio; la contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille; Scilla trasformata in mostro marino da Circe (XIII); le peregrinazioni e la divinizzazione di Enea, la fondazione di Roma e l’apoteosi di Romolo, la cui moglie Ersilia diviene la dea Hora, associata a Quirino-Romolo. Nell’ultimo libro vi è il lungo discorso del filosofo Pitagora a Numa Pompilio sulla metamorfosi, l’apoteosi di Cesare, assunto in cielo come costellazione e l’elogio di Augusto.

mana, fulcro della famiglia, sulla cui sacralità Augusto aveva fondato il recupero dei valori della tradizione, è, per esplicita ammissione del poeta, lontanissima dalla sua fantasia. Il Libro scandaloso ai libro fece scandalo, ma, pur nella sua indiscutibile spregiu- tempi, ma pieno di dicatezza, è una squisita opera intrisa di umorismo, redat- umorismo ta da un libertino di raffinata sensibilità. L’analisi attenta della psicologia femminile, le similitudini, le azzeccate digressioni e gli esempi illustrativi dei precetti fanno dei libri di Ovidio una deliziosa opera d’arte.

Le metamorfosi Le metamorfosi, capolavoro di Ovidio e una delle opere più significative della letteratura latina, nascono da un’ambizione più ampia. L’autore intende tracciare attraverso la sequenza di circa 250 trasformazioni – da uomo a pianta o ad animale o a statua o ad altra diversa forma inanimata – una

Il capolavoro di Ovidio Le trasformazioni come storia del cosmo 163

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sorta di storia del cosmo, dal caos originario fino all’apoteosi di Cesare e alla glorificazione di Augusto. L’ampiezza delCarmen perpetuum l’opera, l’uso dell’esametro, la struttura stessa di carmen perpetuum (poesia ininterrotta) svelano l’intenzione di Ovidio Le fonti di riprodurre la grandezza dell’epos nel campo della mitologia e non in quello della solennità eroica. Oltre all’Esiodo della Teogonia, le fonti sono prevalentemente alessandrine, da Nicandro a Eratostene e soprattutto Callimaco; tra i latini, Ovidio ebbe presenti i neòteroi e Virgilio. Dottrina pitagorica La concezione di fondo è tratta dalla dottrina pitagorica, con cenni stoici e platonici, e tuttavia l’intento dottrinale è continuamente sopraffatto dalla suggestione del poeta di fronte alle immagini dei miti che si susseguono in continuazione. La visione cosmica svela forse l’intento di gareggiare con Lucrezio, la cui strenua analisi razionale è tuttavia agli antiColoritura patetica podi della coloritura intensamente patetica di molte pagine ovidiane. All’interno dell’unità, costituita dalle metamorfosi, le leggende sono accostate tra loro secondo criteri geografici o genealogici e talora, per le parti che hanno relazione con la storia di Roma, anche cronologici. La loro successione, tuttavia, sembra obbedire soprattutto alle necessità interne della poesia, che ora privilegia l’esigenza della varietà e dell’antitesi, ora quella dell’analogia e della contiguità dei Soggetto principale, temi. Soggetto principale è ancora l’amore, se pure traspol’amore sto dagli ambienti mondani della Roma del tempo alla lontananza favolosa del mito.

I Fasti Calendario poetico, del programma augusteo

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I Fasti sono una specie di calendario poetico, in distici elegiaci, delle feste e dei riti romani, distribuiti mese per mese e analizzati nelle loro origini: è un omaggio consapevole al programma augusteo di recupero dei valori della religione e delle tradizioni avite. I libri composti riguardano i primi sei mesi dell’anno ed elencano i vari giorni secondo il nuovo calendario giuliano, con le loro feste religiose e le varie riStorie di feste religiose e ricorrenze correnze, spiegandone le origini, l’etimologia, gli usi e i riti corrispondenti. Sono esposti anche i miti riguardanti le divinità prettamente romane, quali Giano, Flora e CarLe divinità romane menta, e le costellazioni caratteristiche di ogni mese. Ovidio inserisce vivaci episodi narrativi e descrittivi, legati alle ricorrenze e alle costellazioni e numerosi elogi ad Augusto e ai suoi familiari. L’autore si riallaccia alla tradizione della poesia eziologica di Callimaco, autore degli Àitia (Le cause), e fa sfoggio di erudizione antiquaria, dedotta da Varrone, Verrio Flacco, Igino e Tito Livio. Non portò a termine il 164

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progetto dei 12 libri preventivati, forse perché distolto dal- Opera incompiuta le vicende dolorose dell’esilio o perché il carattere religioso e nazionalistico-celebrativo dell’opera si rivelò sostanzialmente estraneo alla sua più autentica ispirazione.

Le opere dell’esilio Relegato ai confini dell’impero, in una terra “barbara” i cui abitanti non parlavano neppure latino, Ovidio divenne lui Le tematiche stesso il protagonista della sua poesia e vi espresse il rimpianto per il successo di un tempo, la nostalgia per gli affetti perduti e per i suoi cari lontani, le speranze di ritorno, le suppliche ad Augusto, la constatazione di condurre ormai un’inutile esistenza in un luogo orrendo, la sofferenza per la durezza della vita presente. Sono questi i temi che ricorrono, talora ossessivamente, nelle ultime raccolte di elegie i Tristia (Tristezze) e le Epistulae ex Ponto (Lettere dal Pon- Tristia ed to), dirette alla moglie e agli amici. Nelle ultime raccolte do- Epistulae ex Ponto mina in genere l’aspetto melodrammatico e l’enfasi, anche se nei Tristia non mancano spunti felici, quali la descrizione della drammatica notte in cui è arrivato l’ordine di esilio, con il patetico accenno al pianto straziante della sua sposa, la rigidità dell’inverno a Tomi, in cui gelano mari e fiumi, il vento rade al suolo alte torri e scoperchia i tetti, e l’arrivo della primavera con le “folate di Zefiro che attenuano il freddo”, con “i prati che si coprono di fiori variopinti” e la speranza che da Roma arrivi qualche nave. Celebre è la decima elegia del quarto libro, in cui Ovidio racconta per sommi capi la propria vita.

La fortuna

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Ovidio ebbe un grande successo già in vita; nelle età successive fu studiato e imitato per la brillantezza dei temi e il virtuosismo nel comporre versi. Quintiliano lo giudicò con Una fama seconda severità, ma sia la tarda antichità sia il Medioevo lo conside- solo a Virgilio rarono un modello di poesia, secondo solo a Virgilio. Dante lo collocò nel Limbo, tra i grandi poeti del passato, insieme a Omero, Orazio e Lucano. Il suo influsso fu fondamentale sulla poesia trobadorica e sulla cultura francese dei secoli XII e XIII: Chrétien de Troyes tradusse l’Ars amatoria. Anche il Rinascimento, non solo italiano, amò la poesia di Ovidio che del resto, per la raffinata evidenza della sue immagini, lasciò tracce anche nella cultura pittorica di tutta Europa. La sua fama decadde solo con il Romanticismo, poco incline ad accettare la brillante facilità del poeta latino.

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SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

Publio Ovidio Nasone (Sulmona 43 a.C - Tomi 17 d.C.), di ricca famiglia equestre, compie gli studi a Roma e il tradizionale viaggio d’istruzione ad Atene, fa una breve carriera politica, si dedica infine alla poesia entrando nel circolo di Messalla Corvino, divenendo il poeta prediletto degli ambienti mondani. Coinvolto forse nello scandalo che travolge la nipote di Augusto, è relegato fino alla morte a Tomi sul Mar Nero.

LE OPERE

La produzione di Ovidio fu molto vasta. Minori sono I rimedi d’amore, I medicamenti del volto femminile e le opere dell’esilio Tristezze e Lettere dal Ponto.

AMORI

Gli A m , 3 libri di elegie d’amore in cui l’amore appare un gioco galante da contemplare con distacco sorridente e ironia.

EROIDI

Le Eroidi, 21 lettere poetiche di argomento erotico-mitologico da parte di eroine della letteratura ai propri mariti o amanti.

ARTE DI AMARE

L’A t d a a , opera di precettistica minuta diretta agli uomini per conquistare le donne e viceversa, che fece scandalo, ma rivela raffinata sensibilità e umorismo.

LE METAMORFOSI

a s , il capolavoro di Ovidio, un poema mitologico, in 15 libri in esametri, in cui si narrano circa 250 metamorfosi sul tema dell’amore.

FASTI

, una sorta di calendario poetico delle varie ricorrenze e festività romane, di cui Ovidio spiega le origini, l’etimologia, gli usi e i riti per celebrare il programma culturale di Augusto.

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6 Livio Livio è lo storico di Roma per eccellenza. Nella sua opera la virtus romana viene celebrata con sincera commozione e ne nasce una storia etica, civile e religiosa che, pur se manifesta limiti metodologici, non manca di esercitare un profondo fascino. Patriota conservatore, severo e rigoroso, sacrifica volentieri l’obbiettività propria dello storiografo a vantaggio di un utile ammaestramento morale. I grandi personaggi del passato balzano fuori dalla sua pagina con intensa vitalità, espressione dei più autentici valori della tradizione e garanzia del futuro destino imperiale della città.

La vita Tito Livio nacque a Padova, nel 59 a. C., da nobile famiglia. La città natale dello storico vantava le stesse origini di Roma, che, secondo la leggenda, risalivano al troiano Antenore. La città era inoltre di sentimenti repubblicani e favorevole agli ottimati: nacquero così in Livio quelle tendenze conservatrici e repubblicane, che non scomparvero neppure quando, ancor molto giovane, si trasferì a Roma. Qui si dedicò a studi di retorica e filosofia, scrisse dialoghi e cominciò a scrivere la sua grande opera storica. Il suo ingegno e la solida preparazione culturale lo misero ben presto in vista. Fu grande la sua familiarità con Augusto, del quale fu ospite e consigliere. Tuttavia l’amicizia dell’imperatore non costituì un ostacolo alle sue convinzioni ed idealità: tant’è vero che nel trattare delle guerre civili poté ugualmente colmare di lodi Pompeo, addirittura ricordare onorevolmente Bruto e Cassio, gli uccisori di Cesare, e perfino sollevare dubbi sull’utilità, per lo Stato romano, dell’operato di Cesare. La cosa non deve poi stupire più di tanto. Da una parte, infatti, Livio, turbato per i gravi sconvolgimenti appena finiti, era convinto della necessità di un ordine nuovo, che garantisse una serena vita civile (ed accettava in Augusto il garante di quella pace e quell’ordine, che tutti auspicavano), d’altra parte, Augusto stesso, era sì l’innovatore che voleva rifondare lo Stato, ma era anche colui che intendeva restaurarne le antiche forme repubblicane, che si era assunto il compito di ricondurre in Roma le antiche tradizioni, che voleva ripristinare l’antica religione: sentiva, quindi, di potersi giovare dell’opera di quel patriota conservatore, severo e moralmente rigoroso. Alla morte di Augusto (14 d.C), Livio, ricco di fama e di onori, tornò nella città natale, ove continuò ad attendere con instancabile lena alla stesura

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Da Padova a Roma L’amicizia con Augusto

I sentimenti repubblicani

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della sua opera, che, però, non portò a termine: la morte lo colse nel 17 d. C.

L’opera L’opera che gli diede la fama si intitola Ab urbe condita libri e consta di ben 142 libri, sui 150 che l’autore aveva previsti, divisi in decadi (gruppi di dieci). Livio cominciò a scriverla verso il 25 a. C. Si tratta di un’opera gigantesca, in cui narrò la miracolosa storia di Roma, assurta da umili origini alla gloria del più grande impero che mai fosse esistito. L’opera doveva giungere alla morte di Augusto (14 d. C.), invece si fermò al 9 a.C (morte di Druso). Un’opera di così vasta mole non poteva reggere al logorio del tempo e andò, infatti, perduta in gran parte. Così ci sono rimasti solo 35 libri: – la prima decade, dalla fondazione di Roma alla terza guerra sannitica, con la battaglia di Sentino (293 a. C.); – la terza decade, che comprende la seconda guerra punica, dalla presa di Sagunto (218 a. C.), alla vittoria e alla pace di Zama (201 a. C.); – la quarta decade, dal 201 alla morte di Filippo V di Macedonia (I79 a. C.); – metà della quinta decade, dal 178 alla vittoria del console Lucio Emilio Paolo a Pidna nel 169 a. C., che pose fine alla III guerra macedonica. Di tutti i 142 libri, tranne il 136 e il 137, ci sono rimaste però Strutture delle storie le periochae, sommari che un anonimo autore compilò al principio dell’era volgare, forse nel IV secolo, verosimilmente per esigenze di scuola. Queste, comunque, tranne quando si fanno semplici indici della materia trattata, non mancano di utili indicazioni. Abbiamo poi dei compendi meno aridi e impersonali, le epitomae Quelle più degne di menzione, sono quelle di Floro e Granio Liciniano (II sec.), Eutropio e Rufo Festo (IV sec.), e Paolo Orosio (V sec.).

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■ Significato e valore delle storie Livio seguì il sistema tradizionale annalistico, ovvero divise la sua esposizione anno per anno, non esitò, però, a troncare la narrazione di un avvenimento per seguire gli sviluppi di altri eventi verificatisi in quello stesso anno. Quanto alle fonti, consultò gli Annales pontificum, i Commentarii magistratuum, resoconti dei magistrati, gli Acta diurna, nonché gli storiografi precedenti (Fabio Pittore, Celio Antipatro, Polibio…) e persino i poeti, come Nevio, Ennio, Accio. Nel registrare e valutare i fatti sceglie la versione più probabile e, in caso di dubbio, presenta anche più di una versione, per dar prova di lineare im-

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Sommari e commenti

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parzialità. Segue i parametri soliti della storiografia precedente, ci fornisce, pertanto, scarsi accenni alla vita culturale dei Romani e non mostra particolari interessi di tipo giuridico, amministrativo, economico. La stessa sua competenza militare è modesta. Dedica invece molta cura all’elencazione di sogni, prodigi, la cui narrazione rende suggestive molte delle sue pa- Le fonti gine. Ai prodigia mostra di non credere, ma ammette che in casi eccezionali la volontà divina si manifesti anche con segni portentosi. Il suo spirito è profondamente religioso e vede che le azioni umane sono regolate dagli dèi, che è d’obbligo rispettare: da qui muovono le sue lodi alla semplice e sana religiosità del buon tempo antico e, di contro, la sua condanna per la noncuranza dei valori religiosi (neglegentia deum) in atto nel presente. Al di sopra della volontà degli dèi e degli uomini, per Livio, però, si erge l’incontrovertibile forza del Destino (vis Fati). È però compito dell’uomo condurre una vita operosa, perché le sue virtù sono il fattore determinante per orientare gli eventi in positivo: il successo non è un evento fortuito. Anche se non particolarmente scrupoloso nel riportare i fatti, con gli occhi sempre rivolti ai Romani, trascurando con una certa disinvoltura gli altri popoli, ha dato tuttavia vita ad Gli uomini e gli déi un’opera che, ispirata dall’orgoglio di sentirsi romano, sacrifica volentieri l’imparzialità al fine di un utile ammaestramento morale: una storia condotta criticamente, con severo controllo delle fonti, non rientrava, pertanto, nei suoi programmi. Livio è stato un geniale ricostruttore, in pagine immortali, degli eventi di cui fu protagonista il popolo più famoso della terra. Ha scritto le sue storie con l’intento di consegnare ai posteri le memorie di un periodo glorioso, che possano servire da guida e da ammonimento alle età future, e di preservare un patrimonio morale e civile di grande valore, a cui la sua prosa ha ridato vita e dimensione eroica.

Arte e stile Livio è scrittore di ampie qualità narrative. Con naturale semplicità di dizione, lontana da ogni vuoto esercizio retorico, riesce in un’espressione efficace, ma non scarna. Non mancano, comunque, dei momenti di stanchezza, cadute stilistiche peraltro inevitabili in un’opera di così generose dimensioni. Nel complesso il suo periodare, maestoso e scorrevole, si richiama alla compatta rotunditas ciceroniana, piuttosto che alla breviloquenza della prosa sallustiana, più tagliente e incisiva, ma meno consona alla solennità della sua visione storica, che è tutt’uno con la grandezza di Roma, con la forza delle sue antiche virtù. Quintiliano (Institutio orat., X, 1, 32; 101) ha va169

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I modelli: Cicerone, Sallustio

lutato con cura i caratteri essenziali del linguaggio di Livio e lo ha definito di “meravigliosa piacevolezza” (mirae iucunditatis), di “luminosissima eleganza” (clarissimi candoris) e ha di “stile ampio e pastoso” (lactea ubertas). Asinio Pollione, invece, lo accusò di patavinitas, ma noi non siamo in grado di capire in che cosa consista questo presunto suo difetto. Eppure, anche Sallustio finisce per essere il modello di Livio: al suo grande predecessore lo accomuna il gusto per il cromatismo espositivo. All’imitazione sallustiana Livio deve vari espedienti narrativi: il ricorso ai proemi per rilasciare le proprie riflessioni etiche; l’abilità nel ritrarre il profilo psicologico di molti uomini illustri; l’uso dei discorsi, che egli mette in bocca ai personaggi per sintetizzare un dato momento od una certa situazione e che si adattano al carattere dei personaggi e li fanno sembrare reali; l’intensità drammatica di certe descrizioni (discesa di Annibale dalle Alpi; battaglia di Canne; la morte degli eroi…).

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

Visse fra il 59 a.C. e il 17 d.C. Appartenente all’aristocrazia provinciale romana, ebbe sentimenti moderatamente repubblicani, al punto che Augusto, affabilmente ma non senza ironia, lo chiamava Pompeianus. Il rapporto con Augusto, pur non sempre facile, fu sempre sincero e corretto e comunque gli consentì di applicarsi diligentemente, per circa 40 anni, alla composizione della sua immensa opera storica. Tornò a Padova, sua città natale, a tarda età. Della sua vita non sappiamo altro.

L’OPERA

Sono andati perduti alcuni suoi scritti morali, ai quali fanno allusione sia Seneca (Ep. ad Luc., C, 9) e che Quintiliano (Inst. or., X, 1, 39). La sua opera storica Ab Urbe condita libri (o Annales ab Urbe condita) è un grandioso monumento letterario: vi si narra la storia di Roma dalla sua fondazione al 9 d.C. (morte di Druso). Non sappiamo se la divisione in decadi sia stata opera dello stesso Livio. Oggi possiamo leggere solo 35 libri dei 142 di cui constava l’intera opera: i libri che narrano dalle origini sino alla II guerra Sannitica e dall’inizio della II guerra Punica alla fine della III guerra macedonica (169 a.C.). Già all’epoca di Marziale dell’opera circolavano dei compendi. Dei libri mancanti abbiamo le periochae, dei sommari che ci danno utili indicazioni, e le epitomae, compendi di più complessa elaborazione, meno aridi e impersonali, composte da autori provvisti anche di buone qualità letterarie (Floro, Eutropio…).

LO STILE

Livio è scrittore di ampie qualità narrative. Nel complesso il suo periodare, maestoso e scorrevole, si richiama alla compatta rotunditas ciceroniana, e risulta consono alla solennità della sua visione storica. Quintiliano (Institutio orat., X, 1, 32; 101) del suo linguaggio dice che è di “meravigliosa piacevolezza” (mirae iucunditatis), di “luminosissima eleganza” (clarissimi candoris) e del suo stile che è “ampio e pastoso” (lactea ubertas). Asinio Pollione, invece, lo accusava di patavinitas, ma noi non sappiamo con certezza a quale difetto si riferisca, supponiamo che si tratti di una patina linguistica provinciale.

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L’ETÀ GIULIO-CLAUDIA

1 Seneca 2 Lucano e la poesia minore 3 Petronio e la prosa minore 4 La satira: Persio

Dopo molte esitazioni Tiberio assunse, nel 14 d.C., la carica di princeps, che mantenne fino alla morte, nel 37. Tiberio era stato un valente e popolare generale, e ora, quasi obbligato dagli eventi, doveva ricoprire in un ruolo che non sentiva suo: aristocratico conservatore e, quindi, fautore dell’antica libertas senatoria. Ossequioso della tradizione, più che come mediatore tra l’ordine senatorio e quello equestre, secondo il programma augusteo, si presentò come sostenitore del senato e ritenne opportuno rinunciare a tutte quelle onorificenze che potessero essere giudicate culto della personalità. Tale atteggiamento filosenatorio mutò dopo alcuni anni, quando, per riaffermare un prestigio che andava scemando, instaurò un vero e proprio regime poliziesco. Sempre più schivo, nel 27, Tiberio si ritirò a Capri, lasciando, in modo decisamente avventato, tutto il potere nelle mani di Seiano, l’ambizioso prefetto del pretorio, che divenne il vero arbitro delle sorti dell’impero. Per aver osato cospirare contro lo stesso principe, Seiano fu condannato a morte. Un clima di sospetto e di paura, inasprito dal frequente ricorso a condanne per lesa maestà, caratterizzò l’ultima fase del principato di Tiberio, che, comunque sempre da Capri, prese a governare lo Stato con più energia. Alla sua morte gli successe il nipote Gaio, figlio di Germanico. Gaio Cesare, soprannominato Caligola (la madre da piccolo gli faceva spesso calzare le scarpe in dotazione ai soldati, le caligae), nei pochi anni del suo mandato (37–41 d.C.), si rivelò una personalità di fragile equilibrio psichico, facile ad impeti di follia, smaniosa di protagonismo. Questi aspetti furono in abbondanza sottolineati dalla storiografia antica, ostile ad un principe per niente incline ad una politica di collaborazione con la nobilitas. Intenzione di Caligola era di avviare una dispotica concentrazione del potere nelle proprie mani, sempre più modellando lo Stato sul tipo delle monarchie ellenistiche. I rappresentanti delle più cospicue famiglie (fortemente provati nei propri interessi per la politica di tassazione, a volte predatoria, a cui correntemente erano sottoposti), organizzata una congiura, a cui non restarono estranei i pretoriani, si liberarono con la violenza del principe: Caligola venne assassinato con la moglie e la figlia. Claudio (41–54 d.C.), un uomo di cinquant’anni, vissuto sempre un po’ appartato dalla vita pubblica, piuttosto dedito a studi eruditi, venne acclamato imperatore dai pretoriani. Il nuovo principe tornò all’indirizzo di Augusto, ma solo esteriormente: in effetti condusse a termine un accentramento burocratico dei poteri. Riorganizzò l’amministrazione imperiale e la cancelleria e, poco fidandosi della classe dirigente

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tradizionale, ne dette la direzione a liberti (Pallante, Narciso, Polibio…), posti direttamente alle sue dipendenze. Avviò una politica di conquiste e aprì le porte del senato a nuovi elementi provenienti dalla Spagna e dalla Gallia (le province più romanizzate); fece approvare alcune leggi intese a impedire un’eccessiva penetrazione in Italia di motivi orientali. Claudio con i suoi provvedimenti diede prova di notevole senso pratico; meno capace fu nel disimpegnarsi nelle faccende private: fu nel complesso succubo delle donne della domus imperiale, prima Messalina e poi Agrippina minor. Proprio quest’ultima, donna spregiudicata e avida di potere, gl’impose di adottare un suo figlio di prime nozze, L. Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone. Improvvisamente, nel 54, Claudio morì, forse avvelenato dalla stessa Agrippina, che volle così affrettare l’elezione al trono del figlio di soli 17 anni. Questi seguì per alcuni anni (il cosiddetto quinquennio felice) una politica filosenatoria, lasciandosi guidare dal suo maestro, il filosofo Seneca, rappresentante della nobilitas, e dal prefetto del pretorio Afranio Burro, che tutelava gli interessi della classe equestre. Ma poi, svincolatosi dalla tutela dei due e dalle pesanti interferenze politiche della madre Agrippina, che ad un certo punto fece uccidere (59 d.C.), Nerone riprese la politica di concentramento monarchico del potere, che già era stata di Caligola. Prese a sostegno del suo principato la classe popolare, il cui tenore di vita cercò di elevare con provvedimenti vari, tra cui un’importante riforma monetaria che colpiva i ceti abbienti: sempre più si definiva il profilo di una monarchia ellenistica La nobilitas fu colpita con condanne e confische di beni, con le quali il principe tentò di toglierle le importanti leve economiche di potere di cui ancora disponeva. Seneca, visto fallire il suo disegno di educatore (fare di Nerone un principe illuminato), preso anche da un moto di disgusto per la torbida atmosfera di corte, si allontanò dalla domus. La reazione del ceto di governo contro questa politica antisenatoria si fece sempre più forte. Nel 65 d.C. si coagulò intorno alla figura del nobile Calpurnio Pisone una poderosa congiura (congiura dei Pisoni). Nerone, venutone a conoscenza, scatenò la sua vendetta: Seneca, Lucano, Petronio ne furono le vittime illustri. Il carattere dispotico del principe s’inasprì ancora di più, finché un più vasto complotto non pose fine all’annoso dissidio: messo alle strette e dichiarato nemico pubblico dal senato, Nerone si tolse la vita.

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Dalla morte di Augusto (14 d.C.) in poi, si può dire fino all’età di Traiano (117 d.C.), la poesia entra in una fase di involuzione, per cui anche le opere geniali e di maggior spicco sembrano prive di ispirazione interiore, se confrontate con quelle dei grandi autori dell’età precedente. Ne è causa il cambiamento del gusto, che segna il trionfo della retorica, fondamento dell’educazione e della cultura. La poesia tende in genere a imitare modelli, a ripetere schemi fissi e all’erudizione tecnica. La moda delle recitationes, nello stesso tempo intrattenimento e sfoggio di abilità personale, induce ad abusare di artifici retorici per ottenere il consenso del pubblico. Scompare l’elegia, mentre l’epica dà grande spazio alla digressione, alla rappresentazione retorica dei personaggi, con pezzi di bravura che appaiono spesso inseriti di forza nel contesto. La prosa, retorica e filosofica, in un moderno spregiudicato arianesimo raggiunge vette eccellenti. Seneca, diviso tra le incombenze di governo e la ricerca filosofica, esamina con acume le inquietudini e le contraddizioni dell’animo umano. L’epica di Lucano è intenzionalmente antivirgiliana nell’argomento, nella concezione della storia e nello stile, in cui si alternano enfasi e pathos, produce, però nuove categorie espressive. Le Satire dello stoico Persio, nel loro rigorismo morale, sono lontane dal sorriso indulgente e bonario di Orazio. Grande e problematica è la personalità di Petronio, il cui Satyricon (romanzo o parodia di romanzo) offre un quadro realistico della società dell’epoca, colta con sguardo irridente e presentata con un impasto linguistico assolutamente originale.

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1 Seneca Seneca, filosofo e uomo politico, è da considerare, per la vastità dei suoi interessi, la bellezza e duttilità della sua prosa, l’acume e la profondità con cui esplora le inquietudini e le contraddizioni dell’animo umano, una delle personalità più grandi della cultura latina, nella quale impresse un’impronta fortissima.

La vita Lucio Anneo Seneca (Cordoba 4 ca a.C. – Roma 65 d.C.) nacque da Seneca il retore e da Elvia, secondogenito di tre figli. Si recò da bambino a Roma, dove frequentò le miglio- L’educazione ri scuole di retorica e quelle dei principali maestri della raffinata filosofia, quali lo stoico Attalo e Papirio Fabiano, vicino alla scuola stoico-pitagorica dei Sestii, caratterizzata da interessi naturalistici e da un forte rigorismo morale. Dopo un lungo soggiorno in Egitto (26-31 d C ), che arricchì la sua curiosità filosofica e scientifica, intraprese a Roma la carriera forense e il cursus honorum e conseguì la carica di Il cursus honorum questore.

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■ L’esilio in Corsica Fu decisamente inviso a Caligola che, forse per una controversia giudiziaria, lo condannò a morte nel 39 d.C.; fu salvato solo per l’intervento di una donna, amante dell’imperatore. Con Claudio la sua posizione si aggravò: nel 41 d.C. venne accusato da Messalina, moglie dell’imperatore, di aver Le condanne commesso adulterio con Giulia Livilla, sorella di Caligola e degli imperatori figlia minore di Germanico, e condannato all’esilio in Corsica. Seneca vi restò otto anni, finché Agrippina Minore, la nuova moglie di Claudio, gli fece revocare l’esilio e lo richiamò a corte. La sua carriera politica riprese con la carica di pretore; il suo prestigio politico aumentò quando Agrippina lo scelse come pedagogo del figlio di primo letto, Lu- Maestro di Nerone cio Domizio Nerone, destinato, nei progetti materni, alla successione di Claudio, da cui era stato adottato. ■ Al fianco di Nerone Nel 53 d.C. divenne imperatore Nerone e Seneca fu al suo fianco, condividendo con il solo Afranio Burro, prefetto del pretorio, il ristrettissimo “consiglio del principe”. Con tutta Nel consiglio la prudenza possibile cercò di guidare nei primi anni del del principe principato la politica e la vita del giovanissimo principe: è il

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1 - Seneca

Gravi compromessi politici

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periodo del buon governo, in cui venne attuata una difficile politica di equilibrio tra il potere imperiale e quello dell’aristocrazia senatoria, cui apparteneva lo stesso Seneca. I provvedimenti tendenti a restituire il prestigio al Senato e a ottenere il favore della plebe indicano che la politica di Seneca ebbe successo, non senza però gravi compromessi da parte del filosofo. Nulla dicono le fonti circa una sua corresponsabilità nell’avvelenamento di Britannico, fratellastro dell’imperatore e da questi fatto uccidere, ma neppure esiste traccia di una sua opposizione. Del matricidio perpetrato da Nerone (59 d.C.) il filosofo dovette essere, per lo meno, il regista nelle fasi difficili, quando si trattò di costruire una copertura autorevole di fronte al Senato.

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La congiura dei Pisoni

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Fine dell’influenza di Seneca

■ Il suicidio La morte di Burro (62) e l’ascesa di Tigellino, nuovo prefetto del pretorio, orientarono la politica di Nerone sempre più in senso antisenatorio e segnarono la fine dell’influenza di Seneca, il cui ruolo divenne insopportabile per l’imperatore. Nello stesso anno fu congedato dalla corte e la meditazione sulla morte, che sempre aveva scandito la sua riflessione, divenne da allora il suo più assiduo esercizio nelle composizioni e nella vita. Quando nel 65 fu scoperta la congiura antineroniana dei Pisoni, Seneca, coinvolto e condannato a morte, si tolse la vita: quel suicidio “stoico”, di cui resta testimonianza in una pagina mirabile di Tacito, doveva assumere significato esemplare di autonomia spirituale e intellettuale nei secoli successivi, soprattutto nel mondo cristiano.

Le opere Seneca fu uno scrittore molto prolifico sia in prosa sia in poesia; della sua vasta produzione sono pervenuti i Dialoghi, raccolta in 12 libri di argomento morale; il De clementia, trattato in 3 libri, di cui sono giunti il primo e l’inizio del secondo; il De beneficiis, in 7 libri sulla beneficenza e sulla gratitudine; le Naturales quaestiones, di carattere scientifico sui fenomeni atmosferici e celesti; le Epistulae morales ad Lucilium, 124 lettere raccolte in 20 libri; 9 tragedie; il Ludus de morte Claudii, scritto satirico per la morte dell’imperatore Claudio; una settantina di epigrammi, molti dei quali di dubbia autenticità. Di altre numerose opere sono giunti solo i titoli o rari frammenti per via indiretta: si tratta di scritti di scienze naturali e di filosofia, orazioni, lettere al fratello Novato, una biografia del padre. 176

1 - Seneca ■ I Dialoghi I Dialoghi (Dialogorum libri) sono una raccolta di 10 scritti filosofico-morali che la tradizione manoscritta distribuisce in 12 libri. Ognuno si rivolge esplicitamente a personaggi ben precisi, ma il tono è piuttosto quello della diatriba stoica, non senza importanti “aperture” verso l’epicureismo, che sono una costante della riflessione di Seneca. La struttura dialogica è più letteraria che drammatica: spesso è un monologo in cui interviene, per vivacizzare l’esposizione, un interlocutore fittizio presente – il destinatario stesso – cui sono affidate obiezioni già pronte per essere superate. La data di composizione dei dialoghi è incerta; qui di seguito essi vengono esposti secondo il probabile ordine cronologico. Consolatio ad Marciam: è dedicato a Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, per consolarla della morte del figlio Metilio; sono già presenti temi caratteristici, come quello della labilità delle cose e della precarietà della vita. De ira: è un trattato in 3 libri, dedicato al fratello Novato; pubblicato dopo la morte di Caligola, tratta della genesi delle passioni, in particolare dell’ira, e del modo di dominarle. Si chiude con una invettiva contro Caligola. Consolatio ad Helviam: è dedicato alla madre Elvia, per consolarla del dolore che le ha provocato l’esilio del figlio in Corsica. Consolatio ad Polibium: scritto in Corsica, è dedicato a Polibio, potente liberto di Claudio, per consolarlo della morte di un fratello. Le numerose adulazioni presenti mirano a ottenere il richiamo dall’esilio. De brevitate vitae: è dedicato a Paolino, prefetto dell’annona; tratta della vita, che è apparentemente breve per chi non sa utilizzarla con saggezza. De constantia sapientis: è dedicato a Sereno e tratta dell’imperturbabilità del sapiente, per il quale non esiste né ingiuria né offesa. De vita beata: è dedicato al fratello Novato, che aveva assunto il nome di Gallione dal padre adottivo; tratta della felicità e della ricchezza ed è una risposta a coloro che lo accusavano di incoerenza fra ciò che sosteneva nei suoi scritti e il suo comportamento, che gli aveva procurato un immenso patrimonio. De tranquillitate animi: dedicato a Sereno, svolge il tema della serenità e della coerenza del sapiente. De otio: dedicato a Sereno, è una giustificazione del suo ritiro dalla vita pubblica e un’esaltazione della vita appartata.

Stoicismo ed epicureismo

Consolatio ad Marciam De ira

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De tranquillitate animi De otio 177

1 - Seneca

De providentia

De providentia: è dedicato a Lucilio e tratta della provvidenza secondo la dottrina stoica e del male inflitto ai buoni per fortificare la loro virtù. ■ De beneficiis Il De beneficiis (I benefici) è un trattato in 7 libri dedicato a Ebuzio Liberale, composto negli ultimi anni della vita. L’opera affronta la casistica legata all’atto del beneficio, sia di chi lo elargisce sia di chi lo riceve, e ne sottolinea l’importanza sociale. Preoccupazione costante di Seneca è svincolare il beneficio dai legami della materialità, dell’interesse e di elevarlo da prassi a valore.

■ Naturales quaestiones Le Naturales quaestiones, composte dopo il suo ritiro dalla vita politica, sono dedicate all’amico e discepolo Lucilio (cui è anche indirizzato l’epistolario), magistrato di ordine equestre e procuratore in Sicilia nel 63-64 d.C. Dopo una prefazione in cui dichiara il proposito di giungere alla conoscenza di Dio, immanente nel mondo attraverso le sue manifestazioni, Seneca articola il discorso in 7 libri, secondo un criterio non sempre evidente, basato sui quattro elementi – aria, terra, acqua, fuoco –, ma palesemente squilibrato a favore dei fenomeni atmosferici, i sublimia, che riguardano la regione tra terra e cielo: i fuochi celesti, i tuoni, i fulmini e i lampi, le nubi e i venti. Tre libri sono dedicati ai fenomeni terrestri, le acque, le inondazioni del Nilo e i terremoti; uno soltanto all’astronomia: le comete. Ogni argomento si conclude con riflessioni di natura morale: la degenerazione delle epoche umane, la meditazione sulla

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Filosofia alla base della direzione dello Stato

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Il programma politico per Nerone

■ De clementia Il De clementia (La clemenza) è un trattato politico-filosofico in 3 libri, dedicato a Nerone e scritto nel primo anno del suo principato; dell’opera sono rimasti il primo libro e 7 capitoli del secondo. Traccia il programma politico per il giovane imperatore, fondato sul valore della clemenza e della moderazione come caratteristiche del principe ideale. Seneca legittima la costituzione di uno Stato monarchico che è più corrispondente alla concezione stoica; in un tale regime, però, l’importante è avere un buon sovrano e dunque si rivela fondamentale la filosofia come base della direzione dello Stato. Proprio il continuo riferimento alla clemen za come virtù cardinale di un principe denota la consape volezza, da parte del filosofo, di doversi predisporre ad af frontare un probabile despota.

Le manifestazioni di Dio nel mondo

Gli elementi, i fenomeni meteorologici, l’astronomia Riflessioni morali 178

1 - Seneca

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morte, i cicli cosmici che segnano la storia dell’umanità, la polemica contro il commercio, le guerre, la stasi della ricerca filosofica. Le Naturales quaestiones sono la testimonianza della versatilità di Seneca e del suo interesse verso le scienze, anche se l’aspetto etico prevale su quello scientifico.

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■ Epistulae morales ad Lucilium Le Epistole morali a Lucilio sono il capolavoro di Seneca, la sua opera più ricca di vita interiore. Lo scrittore le compose negli anni del ritiro a vita privata e le indirizzò a Lucilio. Probabilmente non sono pervenute tutte; Aulo Gellio testimonia la presenza di un XXII libro. Sono 124 lettere, divise in 20 libri, che espongono la riflessione filosofico-morale di Seneca su temi fondamentali quali l’immortalità dell’anima, il sommo bene, la funzione della filosofia, la divina provvidenza, le passioni, l’amicizia, il problema della morte, la schiavitù; non mancano anche osservazioni sulla vita dell’epoca, commenti su avvenimenti di particolare interesse, critiche riguardanti la letteratura. Formalmente esse rispettano, almeno in parte, i canoni del genere epistolare; non sono però lettere private, non danno e non chiedono notizie, ma piuttosto sollecitano la meditazione e un dialogo a distanza, che non prevede l’obbligo formale della risposta scritta. Le Epistole morali costituiscono la summa del pensiero filosofico di Seneca, concepito più come indagine su se stesso ed esortazione all’amico che come sistema organizzato. Esse non trattano mai di politica né di fatti politici e per questo non assumono l’importanza documentaria dell’epistolario di Cicerone. Il filosofo infatti tace quasi completamente sulla sua vita passata e sulle sue eccezionali esperienze: il ricordo è diventato riflessione ed essa coinvolge una problematica più ampia e complessa che va oltre le persone degli interlocutori. Ogni lettera è mediatrice di una saggezza inquieta, spesso autocritica, mai appagata da una risposta precostituita. Da questo epistolario, redatto da uno stoico, è possibile ricavare un ampio florilegio di sentenze epicuree o della scuola di Epicuro, sovente apposte come sigillo al testo. Lo scrittore mette in secondo piano i contrasti, all’origine radicali, tra le due fi osofie, per trovarne i punti in comune, specialmente nell’etica, a vantaggio di una verità che la compresenza di voci diverse non confonde. Non vi si parla mai di Claudio, né di Nerone, ma sempre di Seneca, di un Seneca che si ritiene dolorosamente abilitato a parlare di tutti e per tutti, coinvolgendo impietosamente nella critica la propria persona “liberare se stessi di fronte a se stessi”.

Capolavoro di Seneca

I temi fondamentali Osservazioni e commenti sulla vita dell’epoca Lettere che sollecitano la meditazione

Esclusa la politica

Saggezza inquieta, autocritica

Etica che media tra stoicismo ed epicureismo

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1 - Seneca

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■ Ludus de morte Claudii Incaricato di pronunciare l’orazione funebre ufficiale in onore di Claudio davanti al Senato, Seneca enfatizzò intenzionalmente i toni celebrativi fino al punto di suscitare le risa dell’uditorio e il defunto imperatore divenne oggetto di derisione in un breve componimento, Ludus de morte Claudii, (Satira sulla morte di Claudio), più comunemente nota come Apocolocyntosis divi Claudii (Zucchificazione del divo Claudio), che alterna prosa e versi come la satira menippea. Il titolo grecizzante di Apocolocyntosis è di solito interpretato come parodia di “apoteosi” e assume il significato, degradante rispetto a divinizzazione, di “zucchificazione” o “inzuccamento”. Claudio vorrebbe essere accolto nell’Olimpo come un dio; invece è deriso e insultato dagli altri dei e sottoposto a un processo, in cui il pubblico ministero, spietato nell’accusarlo, è Augusto in persona. Claudio finirà nell’Averno trascinato da Mercurio, condannato a umili mansioni di schiavo-segretario, simili a quelle dei liberti, ai quali aveva affidato in vita tanto potere. La satira è una bizzarra e gustosa invenzione letteraria, permeata di feroce sarcasmo, in uno stile brioso e vivace, che unisce espressioni auliche ad altre volgari e popolari.

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La zucchificazione del divo Claudio

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L’argomento

Satira bizzarra e gustosa

Le tragedie Le tragedie attribuite con certezza a Seneca sono nove, anche se per l’Hercules Oetaeus esiste ancora qualche dubbio di autenticità. Sono tutte di soggetto mitologico e non si hanno sicure date di composizione, per cui fa fede l’ordine in cui sono state tramandate secondo il codice etrusco-laurenziano.

Le sole tragedie conservate della letteratura latina

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■ Tragedie destinate alla lettura Le tragedie di Seneca rivestono grande interesse perché sono le uniche conservate interamente della letteratura romana. Benché risentano di un’impostazione filosofica, che innesta sentenze, temi e riflessioni stoiche ed epicuree nelle leggende antiche (si pensi ai frequenti scontri tra il tiranno e il suo oppositore, ai conflitti tra passione e ragione), queste tragedie sono vere e proprie opere letterarie, di poesia drammatica. Le scarse notizie pervenute non permettono di sapere con certezza le modalità di rappresentazione, la letteratura tragica, in età già anteriore a Seneca, prevedeva sia la rappresentazione, sia la sola lettura nelle sale di recitazione. In considerazione degli aspetti filosofico-morali, della difficoltà di mettere in scena certi episodi e sulla base

1 - Seneca RIASSUNTO DELLE TRAGEDIE DI SENECA

Herculens furens (La follia di Ercole): per volontà di Giunone, Ercole è colto da follia e uccide la moglie e i figli, rinsavito vorrebbe uccidersi, ma cambia idea e va ad Atene per purificarsi. Troades (Le Troiane): sono evocate la morte di Astianatte, figlio di Ettore, e di Polissena, la schiavitù di Andromaca e di Ecuba, la dispersione delle donne troiane catturate e deportate dai greci. Phoenissae (Le Fenicie): è incompleta e non ha più, o non ha mai avuto, i cori e si compone soltanto di due lunghe scene; nella prima Antigone dissuade il padre Edipo, cieco ed esule, dal suicidio, nella seconda Giocasta cerca di impedire lo scontro fra i suoi figli, Eteocle e Polinice. Medea: narra la vicenda di Medea che, abbandonata da Giasone, in procinto di sposare Creusa, provoca la morte di quest’ultima e per vendetta uccide i figli avuti dall’eroe. Phaedra: Fedra, moglie di Teseo, si innamora del figliastro Ippolito, ma è da lui respinta; la regina allora lo fa accusare presso il padre di aver tentato di sedurla. Net-

tuno, invocato da Teseo, provoca la morte di Ippolito; Fedra confessa la sua colpa e si uccide. Oedipus (Edipo): l’indovino Tiresia rivela che il colpevole della morte del re Laio è Edipo, il suo stesso figlio che ha poi sposato, senza saperlo, la madre Giocasta. Edipo, scoperta la verità, si acceca e Giocasta si uccide. Agamennon (Agamennone): al ritorno da Troia Agamennone viene ucciso dalla moglie Clitennestra e dall’amante di lei, Egisto. La figlia Elettra salva il fratello Oreste affinché possa vendicare il padre. Thyestes (Tieste): tratta della vendetta di Atreo che, per punire il fratello Tieste che gli aveva sedotta la moglie, lo inganna con una falsa riconciliazione e, invitatolo a un banchetto, gli imbandisce le carni dei figli. Hercules Oetaeus (Ercole sull’Eta): Deianira, per riconquistare Ercole, innamoratosi di Iole, gli manda la tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, credendo che abbia un potere magico; ma la tunica è avvelenata ed Ercole muore; viene assunto tra gli dei e Deianira si uccide.

Destinate alle recitazioni pubbliche Tensione drammatica esasperata Le fonti

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di alcune peculiarità stilistiche, gli studiosi ritengono che quelle di Seneca fossero tragedie destinate soprattutto alle recitazioni pubbliche o alla lettura privata. Caratteristiche salienti sono la frammentazione dialogica, l’enfasi declamatoria nelle sentenze, nelle massime e nei dialoghi stessi, le tinte fosche e macabre, il gusto per i sortilegi e la magia, l’esasperazione della tensione drammatica, ottenuta mediante lunghe digressioni, vere e proprie scene autonome rispetto al contesto drammatico. Seneca si ispira a Euripide, soprattutto, e a Sofocle; ma la contaminatio, da lui spesso usata, e la ristrutturazione dell’impianto drammatico, mostrano la sua grande autonomia rispetto ai modelli. Alle tragedie di argomento greco si aggiunge una praetexta, un dramma cioè di ambientazione romana, l’Octavia, che vede come protagonista Ottavia, la prima moglie ripudiata e fatta uccidere da Nerone, che si era innamorato di Poppea. Seneca ne fu senz’altro l’ispiratore, ma non l’autore, per-

La tragedia praetexta contestata 181

1 - Seneca

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ché in essa vengono narrati, con l’artificio della profezia, particolari della morte di Nerone, avvenuta nel 68 d. C., troppo corrispondenti alla realtà, che Seneca, morto tre anni prima, non poteva ovviamente conoscere. Inoltre lo stesso filosofo figura tra i personaggi.

Lo stile e la fortuna di Seneca

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Prosa spezzata, concisa, incalzante

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Lo stile di Seneca è affascinante e personalissimo, una delle creazioni più originali della letteratura latina. Il cambiamento del gusto, l’influsso dell’asianesimo delle scuole di declamazione portano il filosofo al rifiuto dell’architettura armoniosa e ordinata del complesso periodo ciceroniano. La sua è una prosa spezzettata dall’andamento paratattico, composta da frasi concise e incalzanti, spesso concluse da una sentenza, ciascuna dotata di autonomia espressiva, collegate da ripetizioni, da antitesi e parallelismi inconsueti, con la ricerca di espressioni e concetti inattesi. Seneca è un grande declamatore, che sa esplorare le varie sfaccettature dell’animo umano. I critici hanno parlato di stile drammatico, perché da una parte ricerca l’interiorità, dall’altra vuole comunicare al lettore il suo messaggio morale. Seneca ebbe un immediato successo, alimentato da Quintiliano (vedi a pag. 207) e rafforzato, nella tarda antichità, dal prestigio altissimo acquistato presso i cristiani. Dante nella Divina Commedia lo colloca nel Limbo, fra gli “spiriti magni”. Le tragedie ebbero maggior fortuna nel corso del sec. XIV; dopo aver influenzato il teatro rinascimentale italiano, esse furono assunte a modello del teatro elisabettiano e da W. Shakespeare. Successivamente, il teatro classico francese, con J. Racine, P. Corneille e Voltaire, quello romantico tedesco e l’italiano, soprattutto con V. Alfieri, raccolsero la lezione di Seneca.

Stile “drammatico” La fortuna

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1 - Seneca

SCHEMA RIASSUNTIVO (4 ca a.C. - 65 d.C.). Studia a Roma retorica e filosofia; intraprende la carriera politica, diventando questore. Viene esiliato in Corsica da Claudio Ritornato a Roma, diventa pedagogo di Nerone, di cui guida la politica nei primi anni del principato. Allontanato dalla corte nel 62 d.C., si suicida perché accusato di coinvolgimento nella congiura dei Pisoni.

LE OPERE

Dialoghi, 10 scritti filosofico-morali (Consolatio ad Marciam, De ira, Consolatio ad Helviam, Consolatio ad Polibium, De brevitate vitae, De constantia sapientis, De vita beata, De tranquillitate animi, De otio, De providentia), di incerta cronologia, ognuno rivolto a un personaggio preciso; la struttura dialogica è letteraria più che drammatica. De beneficiis, trattato sul valore dei benefici elargiti e ricevuti. De clementia, incompleto, sviluppa per il giovane imperatore Nerone un programma politico, fondato sulla clemenza e sulla moderazione. Naturales quaestiones, trattato sui fenomeni atmosferici e astronomici, di interesse più etico che scientifico. Epistulae morales ad Lucilium, capolavoro di Seneca che in 124 lettere espone il proprio pensiero filosofico sui temi fondamentali dell’esistenza. Ludus de morte Claudii, briosa e sarcastica caricatura dell’imperatore Claudio. Tragedie: sono 9 di argomento mitologico e sono le uniche pervenute complete di tutta la letteratura latina; presumibilmente destinate alla lettura e alla recitazione.

LO STILE

È personalissimo, fatto di frasi brevi e incalzanti, collegate da ripetizioni, parallelismi e antitesi, che danno drammaticità alla sua prosa.

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LA VITA

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2 Lucano e la poesia minore L’epica latina dell’età imperiale, dopo la mirabile lezione di Virgilio, trova felice espressione in altre notevoli figure di poeti. Lucano innova in modo originale il poema epico latino, collocandosi consapevolmente, sia per indirizzo ideologico sia per gusto poetico, agli antipodi di Virgilio. Le altre forme poetiche presentano personalità minori che vale la pena di ricordare, come Germanico, Calpurnio e soprattutto Fedro.

Lucano Marco Anneo Lucano (Cordova 39 - Roma 65 d.C.) era nipote di Seneca e venne condotto giovanissimo a Roma, doLa formazione ve divenne allievo del filosofo stoico Anneo Cornuto e condiscepolo di Persio (vedi a pag. 195). Al ritorno del tradizionale viaggio di studio ad Atene, diventò amico intimo di Nerone, dal quale ottenne, prima dell’età legale, la cariI rapporti controversi ca di questore e l’ingresso nel collegio degli auguri. I rapcon Nerone porti con l’imperatore si guastarono bruscamente, più o meno all’epoca in cui anche lo zio lasciava la corte: gli antichi ne indicano la ragione nella gelosia letteraria, benché sia più probabile che a Nerone non piacesse la nostalgia della repubblica che appariva nel suo poema. L’inimicizia per Nerone portò Lucano a partecipare alla congiura ordita dagli aristocratici facenti capo a Pisone. Arrestato dopo la scoperta della congiura, dimostrò poco coraggio denunciando altri cospiratori e la sua stessa madre nel tentativo di eviIl suicidio tare la condanna. Fu costretto al suicidio nel 65 d.C., a 26 anni d’età.

Farsaglia

Le opere minori

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■ Le opere Poeta dalla vena facile, Lucano incominciò fino dall’adolescenza a comporre scritti di vario genere; l’unico rimasto è il poema epico-storico Bellum civile, più noto come Pharsalia (Farsaglia), di circa 8.000 esametri, diviso in 10 libri. L’opera, che ha per argomento la guerra civile tra Cesare e Pompeo, è incompiuta e si interrompe bruscamente, probabilmente per la morte dell’autore, al verso 546 del libro X, con Cesare assediato nel palazzo di Alessandria. I primi tre libri sono stati pubblicati nel periodo in cui Lucano era intimo di Nerone, gli altri postumi. Delle opere minori rimangono solo i titoli: Iliacon, poemetto sulla guerra di Troia; Catachtonion, “Discesa agli Inferi” di qualche eroe; Orpheus, epillio su Orfeo; Silvae, 10 libri di liriche varie; Me-

2 - Lucano e la poesia minore

dea, una tragedia incompiuta; 14 Fabulae salticae, libretti per pantomimi. ■ Pharsalia Soggetto del poema è un fatto storico, la guerra civile tra Cesare e Pompeo, ben conosciuto dai contemporanei. Lucano si pone così nella linea di Nevio ed Ennio, ma, come uno storico rigoroso, non trascura nessuna delle cause, nessun avvenimento principale: tutto è scelto con cura ed esposto in ordine cronologico; l’autore è stato anche citato come unica fonte storica per certi particolari. Non si sa quanta materia dovesse abbracciare il poema; l’evento capitale, che dà il titolo all’opera, è la battaglia di Farsalo, collocata nel VII libro. Lucano elimina il tradizionale repertorio mitico e ogni concezione provvidenzialistica della storia; gli dei non intervengono nelle vicende umane, ma non manca l’elemento fantastico e meraviglioso: vi sono prodigi, sogni, leggende, magia, astrologia, responsi di oracoli e scene macabre. I personaggi sono talvolta ben delineati nei loro caratteri e nei loro pensieri, talvolta abbozzati confusamente e con scarso rilievo. I frequenti discorsi, orazioni, descrizioni contribuiscono a drammatizzare l’azione, nella quale interviene continuamente l’autore in prima persona, che commenta i fatti alla luce della propria ideologia, ora inveendo con acrimonia ora esaltando con enfasi. Il poema si apre con l’elogio di Nerone, ma via via assume sempre più nitidamente i toni di una denuncia del potere imperiale, di cui Cesare è considerato il perfido antesignano, contrapposto alla grandezza ormai puramente ideale di Pompeo. L’avvento del potere imperiale non è per Lucano apportatore di elevati destini, ma di decadenza inarrestabile: non per niente la figura più nobile è quella di Catone, che trova nel suicidio l’unico margine di libertà consentitogli dalla rovina ormai imminente dei valori dello Stato repubblicano. La tesi di fondo pone Lucano in posizione antivirgiliana. ■ Lo stile e la fortuna Lo spirito anticlassico di Lucano si esprime nella predilezione per uno stile ben lontano da quello equilibrato di Virgilio a cui contrappone uno stile drammatico ed espressivo, con la ricerca di effetti sublimi o patetici, con frequenti aperture al gusto dell’orrido e del macabro; ma lo scrittore sa anche essere sobrio e sintetico specie nelle sentenze. La lingua presenta numerose antitesi, iperboli, nessi verbali arditi e oscuri e periodi complessi, che rendono difficile la lettura diretta.

La guerra civile tra Cesare e Pompeo

Assenza del mito, presenza del fantastico

Denuncia del potere imperiale Esaltazione dello Stato repubblicano

Stile anticlassico: drammatico e d’effetto La lingua

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2 - Lucano e la poesia minore SOMMARIO DELLA FARSAGLIA Libro I. Cesare, varcato il Rubicone, marcia vittorioso su Roma, che è abbandonata da Pompeo e dai senatori devoti alla causa repubblicana; seguono funesti presagi, sacrifici agli dei e lugubri profezie. Libro II. I romani, terrorizzati, ricordano le lotte tra Mario e Silla; Catone e Bruto si schierano a favore di Pompeo, che si ritira prima a Capua e poi, inseguito da Cesare che ha conquistato Corfinio, a Brindisi, dove si imbarca. Libro III. Pompeo approda a Durazzo e vi raduna i suoi alleati; nel frattempo Cesare, entrato in Roma e impadronitosi del tesoro pubblico, risale la penisola, pone sotto assedio Marsiglia e si dirige verso la Spagna, per combattervi i pompeiani. Libro IV. Cesare costringe alla resa i pompeiani di Spagna, comandati da Afranio e da Petreio, dopo averli sconfitti a Ilerda, ma gli sono sfavorevoli i combattimenti in Illiria e in Africa, dove muore il suo luogotenente Curione,. Libro V. Il Senato, in esilio, affida a Pompeo il comando; il pompeiano Appio, consulta l’oracolo di Delfi, che dà un responso ambiguo. Cesare, ritornato a Roma e fattosi eleggere console, si dirige a Brindisi e passa in Epiro con parte dell’esercito.

La fortuna

Libro VI. La lotta in Epiro è sfavorevole a Cesare, che si dirige in Tessaglia inseguito da Pompeo. La maga Erittone, consultata da Sesto Pompeo, gli rivela la rovina che sta per abbattersi sulla sua famiglia e su Roma. Libro VII. Pompeo, per l’insistenza dei suoi seguaci, tra cui Cicerone, nonostante i presagi sfavorevoli si dirige a Farsalo; sconfitto nella battaglia campale, fugge a Larissa, mentre il suo campo viene saccheggiato. Libro VIII. Pompeo rifiuta di continuare la guerra, si rifugia in Egitto con la moglie Cornelia e con il figlio Sesto. Qui viene decapitato per ordine del re Tolomeo; un fedele seguace ne seppellisce il corpo mutilo. Libro IX. Catone, assunto il comando delle truppe rimaste, attraversa il deserto libico, da Cirene a Leptis, tra orrori e difficoltà di ogni genere, per congiungere le sue forze con quelle di Giuba di Mauretania. Cesare arriva in Egitto e gli viene presentata la testa di Pompeo. Libro X. Cesare, visitata la tomba di Alessandro Magno, viene assediato dagli egiziani sollevatisi nel palazzo reale di Alessandria, dove stava festeggiando con un banchetto la riconciliazione tra Tolomeo e la sorella Cleopatra. Qui il poema si interrompe.

Il poeta godette di grande fortuna nel Medioevo. Dante lo citò tra gli “spiriti magni” del Limbo e a lui si ispirò per il canto XXV dell’Inferno. F. Petrarca si rifece a Lucano per il poema Africa. Amarono la Farsaglia poeti dell’età preromantica, quali V. Alfieri e U. Foscolo, nonché G. Leopardi.

La poesia minore dell’epoca imperiale Il poemetto Aratea

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Cesare Germanico (Roma 15 a.C. - Antiochia 19 d.C.) era nipote e figlio adottivo dell’imperatore Tiberio; fu generale e uomo politico. Scrisse il poemetto didascalico Aratea nel quale tradusse i Fenomeni del poeta greco Arato di Soli (315 ca – 240 a.C.), aggiornandoli secondo le nuove conoscenze astronomiche. Sono giunti 725 esametri che trattano del cie-

2 - Lucano e la poesia minore

lo, degli astri e delle costellazioni dello zodiaco; la precisione scientifica dei termini si accompagna a versi eleganti e pieni di grazia. Dei Prognostica, in cui elaborò l’opera omo- I Prognostica nima di Arato, introducendo una visione astrologica estranea al greco, sono rimasti pochi estratti e frammenti.

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Di Calpurnio Siculo (sec. I d.C.), non si hanno notizie biografiche, a parte qualche vago cenno nei suoi scritti, come il riferimento all’apparizione di una cometa nel 54 d.C. Il cognome stesso può indicare sia il luogo d’origine, sia il genere bucolico, detto anche siculo dal poeta siracusano Teocrito. Sono pervenute di lui 7 eclogae, la cui composizione Le eclogae è da situare nei primi anni del principato di Nerone. Di carattere prevalentemente pastorale, si ispirano a Virgilio per contenuto e per forma. È frequente l’esaltazione del giovane Nerone, il cui principato (cosa insolita nella letteratura latina) è celebrato come l’inizio di una nuova età dell’oro. Non è un grande poeta, ma i suoi versi hanno una certa eleganza. Gli è stato attribuito anche il mediocre poemetto encomiastico in esametri, Laus Pisoni, in onore di Calpurnio Pisone, di cui il poeta forse era stato liberto.

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Fedro Fedro (15 ca a.C. – 50 ca d.C.) era di origine tracia; fu condotto a Roma da giovane come schiavo di Augusto, dal quale fu poi affrancato. Nel titolo della sua opera si legge “favole di Fedro liberto di Augusto”. Sembra che abbia subito la persecuzione di Seiano, il potente ministro di Tiberio, che gli avrebbe intentato un processo per presunte allusioni offensive alla sua persona: forse ne uscì indenne o invece subì una condanna, visto che nel III libro lamenta di essere stato vittima di un’ingiustizia. Visse almeno fino al regno di Claudio. L’opera che l’ha reso celebre è la raccolta di Favole in versi. IL PANTOMIMO Il cambiamento di gusto della prima età imperiale determina la scomparsa della commedia e il ritiro della tragedia nelle sale di lettura. Sopravvivono con discreta fortuna, se pur modificati, l’atellana e il mimo. Ora è il pantomimo lo spettacolo di maggior successo, quello che riempie i teatri di spettatori e dà fama e agiatez-

za agli interpreti. Un attore, al massimo due, mima l’azione scenica con movimenti del corpo e gesti delle mani, mentre un altro attore, o un piccolo coro, canta il testo di un libretto, la fabula saltica, accompagnato dalla musica. Poeti di fama, come Lucano e Stazio, scrivono fabulae salticae, perché ben retribuite.

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2 - Lucano e la poesia minore ■ Le favole Il corpus originario delle favole di Fedro doveva essere più Il corpus delle favole esteso di quello pervenuto, che comprende 93 componimenti in senari giambici, divisi in 5 libri di estensione diseguale: 31 nel primo libro, 8 nel secondo, 19 nel terzo, 25 nel quarto e 10 nel quinto. A queste vanno aggiunte altre 32 favole della cosiddetta Appendix Perottina, scoperte dall’umanista Niccolò Perotti nel sec. XV e che sono ritenute auFavola esopica tentiche. Fedro è il primo a introdurre nella letteratura latiin versi na la favola esopica in versi come genere autonomo, con il fine di ammonire e divertire. La forma allegorica della favola, che presenta una massima di valore generale, la morale, rimarrà inalterata nei secoli. Egli utilizza le raccolte greche allora diffuse sotto il nome di Esopo, dalle quali rivendica un’ampia autonomia, consapevole di compiere un’operaProtagonisti zione letteraria di grande rilievo. Protagonisti sono quasi gli animali sempre gli animali e talvolta le piante; eccezionalmente comI temi paiono anche personaggi reali del tempo. I temi si ispirano alla rivendicazione dei diritti degli umili contro i soprusi e l’ingiustizia dei potenti: in tal senso l’opera di Fedro è anche fortemente autobiografica e proprio la carica personale di sofferenza, umiliazione e fierezza gli dà un’asprezza che Lo stile lo ha fatto talvolta avvicinare ai poeti satirici. Brevi e vivaci nello stile, felici nella scelta degli epiteti, le favole di Fedro hanno però un tono popolaresco e infantile.

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SCHEMA RIASSUNTIVO LUCANO Pharsalia

(Cordova 39 - Roma 65 d.C.). Giunge giovane a Roma, dove è allievo dello stoico Cornuto. Implicato nella congiura dei Pisoni, si suicida per ordine di Nerone. Opera principale: Pharsalia. Poema epico sulla guerra tra Cesare e Pompeo, interrotto al X libro; assenti il tradizionale repertorio mitologico e ogni concezione provvidenzialistica della storia, ma non il meraviglioso. Lo stile è anticlassico, con ripetuto intervento diretto dell’autore e ricerca dell’effetto drammatico.

GERMANICO

(Roma 15 a.C. - Antiochia 19 d.C.) autore dell’elegante poemetto Aratea in esamentri e dei Prognostica, entrambi libere traduzioni di opere del poeta greco Arato di Soli.

CALPURNIO SICULO

(sec. I d.C.) è autore di 7 eclogae di ispirazione virgiliana e forse del poemetto encomiastico Laus Pisoni.

FEDRO

(15 ca a.C. – 50 ca d.C.) di origine tracia, vive a Roma all’epoca di Augusto fino al regno di Claudio. Per primo introduce nella letteratura latina la favola esopica come genere autonomo; protagonisti dei suoi 5 libri sono animali e piante, sotto i quali si celano gli esseri umani.

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3 Petronio e la prosa minore L’enigmatica personalità di Petronio dà con il Satyricon, testo eccentrico e unico nel complesso della letteratura latina, un quadro vivacissimo e beffardo della società neroniana. In questo periodo un notevole numero di scrittori si dedicarono alla storiografia, all’erudizione, alla geografia, alla medicina, all’agricoltura e anche all’arte culinaria.

Petronio

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Di Gaio Petronio (m. Cuma 66 d.C.) non si sa nulla direttamente della vita e della personalità, ma la critica è praticamente unanime nell’identificare l’autore del Satyricon con il Petronio Arbitro descritto da Tacito negli Annali, che fu un politico accorto, proconsole in Bitinia e console verso il 62. Fu famoso presso la corte di Nerone soprattutto come intellettuale ed esteta raffinatissimo, elegantiae arbiter (arbitro di eleganza). Arbiter elegantiae Sempre secondo Tacito, egli fu all’inizio amico di Nerone, poi cadde in disgrazia e, per evitare la condanna, si suicidò a Cuma tagliandosi le vene e continuando a conversare con gli amici durante un banchetto allietato da frivoli canti, in modo quindi del tutto opposto alle tragiche morti di altri oppositori di Nerone, primo fra tutti Seneca. Tacito non fa menzione della sua attività letteraria; ma la raffinatezza intellettuale del personaggio, la sua spregiudicatezza e stravaganza comunque ben si accordano con quella dell’autore del Satyricon.

■ Satyricon Del romanzo resta una lunga sezione che occupava, secondo i codici antichi, i libri XV e XVI che, pertanto, rappresenterebbero solo una piccola parte dell’opera. Vi sono compresi anche alcuni inserti novellistici – Il lupo mannaro, il fanciullo di Pergamo, la matrona di Efeso – e alcuni brani di poesia, i più estesi dei quali sono un Bellum civile (La guerra civile) di 295 esametri, che richiama l’opera omonima di Lucano, e una Troiae halosis (Presa di Troia), di 65 trimetri giambici, che forse fanno il verso al poema sulla caduta di Troia cantato da Nerone. L’opera pone numerosi problemi: la data di composizione, collocata nel sec. III d.C., epoca in cui inizia a essere citata, prima che fosse concordemente accettata la sua attribuzione al Petronio tacitiano; lo stesso titolo, indicato ora come Saturae ora come Satyricon. La parola Saturae ricollegherebbe lo scritto alle Satire menippee, sottolineandone la com-

Novelle e poesie

Problemi: data di composizione e titolo

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3 - Petronio e la prosa minore

mistione fra prosa e poesia; mentre Satyricon sarebbe da intendersi come un genitivo plurale neutro, in connessione con un sottinteso libri (quindi Satyricon libri). L’opinione più accreditata è che si tratti, se pure nell’assoluta peculiarità delle Parodia del romanzo sue forme, di un romanzo e forse della parodia del romanzo greco ellenista greco ellenistico, di cui ribalterebbe in chiave di crudo realismo gli aspetti più ingenuamente sentimentali.

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Visione ironica complessiva non quotidiana

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Ritratto di una società corrotta e decadente

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Evoluzione della greca satira menippea

■ Le caratteristiche del Satyricon La parte pervenuta del Satyricon (forse quella conclusiva) ha una trama estremamente complessa, una successione di tante scene apparentemente autonome, ma legate tra loro dal filo conduttore rappresentato dal protagonista-narratore, Encolpio. È un insieme di vicende stravaganti, avventure di ogni genere, pratiche magiche, racconti fiabeschi, storie d’amore che fanno capo a vagabondi cinici e senza scrupoli, bramosi solo di godersi la vita. Il Satyricon è il primo esempio di romanzo della romanità che, per la mescolanza di prosa e versi, si riallaccia alla satira menippea, di cui sembra un’evoluzione. L’episodio più esteso, originale e famoso della Cena di Trimalcione, illustra in 52 capitoli con distaccata ironia il contesto sociale delle classi emergenti dei nuovi ricchi, con la volgarità dello loro idee e del loro linguaggio. L’autore offre un quadro straordinariamente acuto e ricco della società del tempo, corrotta, cinica e avida, soprattutto del sottofondo umile e laido che fermenta sotto gli orpelli della ricchezza e della potenza, presentando lucidamente un’epoca torbida in cui già affiorano i germi della decadenza. L’originalità di Petronio sta nel rappresentare una visione complessiva del reale, e non solo frammenti di vita quotidiana, con uno sguardo ironico e beffardo, senza dare un giudizio morale, come fanno i poeti satirici. Il carattere realistico si ritrova anche nel linguaggio: il Satyricon si segnala per la varietà dei registri espressivi e per le connessioni col parlato. I personaggi si esprimono come nella realtà, i più dotti – Encolpio, Gitone, Eumolpo – usano una lingua viva, conforme alle regole linguistiche, mentre i più umili, come i liberti, usano un idioma ben diverso da quello letterario, con volgarismi, imprecazioni e con errori grammaticali e sintattici di tipo popolaresco. Inoltre i personaggi usano un linguaggio a seconda della situazione: per esempio, Encolpio ed Eumolpo passano indifferentemente da volgarismi a declamazioni raffinate e classicheggianti. Petronio è uno sperimentatore: il suo impasto linguistico è una creazione geniale e anche sotto questo aspetto l’opera costituisce un testo unico in tutta la letteratura latina.

3 - Petronio e la prosa minore LA TRAMA DEL SATYRICON Il giovane Encolpio, colto, dotato di raffinato senso estetico e di ironico distacco, narra in prima persona le sue avventure durante i vagabondaggi nelle città dell’Italia meridionale, vivendo di espedienti, ruberie e pranzi scroccati. Suo compagno è l’adolescente Gitone, del quale è innamorato; ai due si affianca nella prima parte del racconto Ascilto, a sua volta attratto da Gitone e questo è fonte di gelosia e di liti. Questo terzetto, cinico e amorale, affronta con spirito di avventura ogni esperienza: barattano un mantello rubato con una tunica nella quale sono cuciti dei denari; accusati dalla corrotta sacerdotessa Quartilla di aver profanato un sacrificio a Priapo, sono sottoposti a innumerevoli torture erotiche. Partecipano quindi alla cena, offerta dal ricchissimo liberto Trimalcione, con altri nuovi arricchiti e parassiti: nel suo palazzo arredato in modo grottescamente sfarzoso, vengono servite innumerevoli portate, descritte minuziosamente. In questa ostentatamente lussuosa gozzoviglia domina la figura del padrone di casa, Trimalcione, ignorante e rozzo che si atteggia a persona istruita. La scena culmina con la parodia dei funerali di Trimalcione, che per il chiasso fa accorrere i vigili di quartiere. Nella confusione generale, i tre compagni si allontanano e riparano in una locanda dove litigano. Lasciato solo, En-

colpio trova un nuovo compagno nel poeta vagabondo Eumolpo, un personaggio, sudicio ma geniale, che recita una sua composizione sulla distruzione di Troia. Gitone si riunisce a loro, ma si rinnovano le liti furibonde e le scene di gelosia. I tre si imbarcano infine sulla nave di Lica e dell’amante Trifena, ma scoppia una furibonda rissa tra Encolpio e Gitone. La pace torna per merito di Eumolpo, che racconta la novella della Matrona di Efeso, una piccante parodia dei propositi di castità delle vedove. Una tempesta fa naufragare la nave: Lica muore, Trifena si salva su una barca e i tre avventurieri sono gettati su una spiaggia vicino a Crotone. L’ultima parte del testo è la più lacunosa. In città pullulano i cacciatori di testamenti e i cittadini sembrano appartenere a due categorie, gli imbroglioni e gli imbrogliati. Per questo Eumolpo, dopo aver recitato un poemetto sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo, si finge ricco e ammalato per sfruttare l’avidità dei crotonesi. Encolpio è adescato dalla bella e ricca Circe, ma diviene impotente per l’ira del dio Priapo (non si sa perché) e guarisce soltanto per intervento di Mercurio, mentre Eumolpo, per sfuggire ai cacciatori di dote, tra cui la matrona Filomena, detta un testamento secondo il quale soltanto coloro che mangeranno il suo cadavere potranno ereditare i suoi beni.

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Gli altri prosatori dell’età imperiale da Tiberio a Traiano Gaio Velleio Patercolo (19 ca a.C. - dopo il 30 d.C.) comandò la cavalleria di Tiberio in Germania, fu questore nel 7 d. C., pretore nel 14. Pubblicò una breve Historia romana in due Historia romana libri, il primo dei quali è giunto lacunoso, dalle origini al consolato di Vinicio. La chiara impronta filoimperiale e l’esaltazione di Tiberio, suscitarono la riprovazione di Tacito. Il suo stile risente delle scuole di declamazione ed è retorico e am- Stile declamatorio polloso, non privo comunque di vivacità e di notizie utili sul piano documentario e letterario. 191

3 - Petronio e la prosa minore

Valerio Massimo (sec. I d.C.), forse di modeste condizioni economiche, godette della protezione di Sesto Pompeo, che seguì nel 27 d.C. in Asia. Scrisse, tra il 31 e il 32 d.C., 9 libri Fatti e detti dei Factorum et dictorum memorabilium (Fatti e detti mememorabili morabili), dedicati a Tiberio. L’opera è una vasta raccolta di aneddoti relativi alla religione, alle istituzioni politiche, alla vita morale e culturale, tratti da fonti greche e romane. L’interesse dello scrittore non è storico, ma morale e letterario e lo stile è decisamente declamatorio, acceso nella polemica contro i vizi, enfatico nella presentazione delle virtù e ridondante nell’elogio dei personaggi. Quinto Curzio Rufo (sec. I d.C.) visse prima di Tacito. ScrisStoria di Alessadro se una Historia Alexandri Magni (Storia di Alessandro MaMagno gno) in 10 libri, di cui sono andati perduti i primi due, la fine del quinto e l’inizio del sesto. Attingendo a fonti diverse e senza rigorosità scientifica, l’autore costruisce una biografia di Alessandro Magno, in cui prevale l’aspetto avventuroso e fantastico, ai limiti del romanzesco. Interessanti sono le notizie sui costumi e sulle civiltà dei popoli barbari. Lo stile, d’impronta liviana, è chiaro e piacevolmente discorsivo. Fenestella (Cuma 52 o 35 a.C. - 19 o 36 d.C.) visse all’epoca di Augusto e di Tiberio e scrisse un’opera in 22 libri, AnnaAnnales les, una storia di Roma di cui sono giunti solo frammenti. Più che uno storico Fenestella era un erudito che riportava accurate notizie sui costumi, sulle istituzioni e sull’abbigliamento, che furono utili a Plinio il Giovane, a Plutarco e a Svetonio. Cornelio Celso Aulo Cornelio Celso (sec. I d.C.), forse originario della Gallia Narbonese, visse durante l’impero di Tiberio e scrisse ArOpera enciclopedica tes (Le arti), un’opera enciclopedica di vaste proporzioni che su varie discipline trattava di agricoltura, medicina, retorica, filosofia, giurisprudenza e strategia militare. Sono pervenuti gli otto libri I libri sulla medicina sulla medicina, materia che Celso fu il primo a esporre in modo sistematico. Dopo aver accennato alle scuole greche degli empiristi e dei razionalisti, senza prendere posizione, i libri trattano dell’igiene, delle patologie generali, delle malattie particolari, della farmacologia e terapia clinica, della chirurgia e dei malanni delle ossa. Essi costituiscono una delle fonti principali per la conoscenza della medicina antica e del metodo ippocratico, al quale lo scrittore si ispirò. Lo stile è chiaro e particolarmente curato. Pomponio Mela Pomponio Mela (Tingentera, odierna Gibilterra, sec. I d.C.) scrisse in tre libri il primo trattato di geografia redatto a RoIl primo trattato ma, De chorographia (Descrizione dei luoghi), che è la più latino di geografia antica descrizione conosciuta del mondo romano. L’opera,

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3 - Petronio e la prosa minore

composta probabilmente sotto il principato di Claudio, dà informazioni geografiche ed etnografiche, sul modello dei peripli greci, soprattutto sulle regioni costiere del Mediterraneo e dell’Atlantico. Lo scrittore si rammarica nella prefazione di non poter far sfoggio di eloquenza, che non si addice a un trattato scientifico; per questo, forse, dà ampio spazio a colorite descrizioni di zone esotiche e a notizie particolari: ne risulta un tono un po’ fantastico che rende più piacevole la lettura. Prima di lui il generale di Augusto, Marco Vipsanio Agrippa, aveva disegnato un’enorme carta geografica, con dati sulle distanze e sulla estensione delle località, di cui però nulla è pervenuto. Marco Gavio Apicio (sec. I d.C.) visse sotto Tiberio; era un famoso buongustaio che si suicidò per paura della povertà e della fame. Dedicò alla sua passione per la cucina e il cibo il ricettario di culinaria De re coquinaria, in 10 libri. L’opera è pervenuta manipolata e ampliata in rifacimenti dei sec. III e del IV d.C. Sesto Giulio Frontino (35 a.C. - 101 d.C.) fu tre volte console, governatore in Britannia, sovraintendente delle acque di Roma sotto l’imperatore Nerva. Di lui sono pervenuti gli Strategemata (Gli stratagemmi), in 4 libri – il quarto di dubbia autenticità – sulle astuzie tattiche dei generali antichi; il De aquis urbis Romae (Le acque della città di Roma), in 2 libri, un trattato con interessanti notizie tecniche. Restano frammenti del Gromatica, sull’agrimensura, mentre è andato perduto completamente il De re militari, menzionato da Vegezio.

Vipsanio Agrippa

Apicio

Frontino Gli stratagemmi Le altre opere

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■ Columella Lucio Giunio Moderato Columella (Gades, odierna Cadice, sec. I d.C.) visse all’epoca di Nerone. Fu tribuno militare in Siria, dove risiedette a lungo, e funzionario in varie parti dell’impero. Ritiratosi a vita privata, si dedicò alla cura dei suoi possedimenti terrieri in Italia. Scrisse De re rustica, 12 libri, Trattato il più ampio trattato didascalico sull’agricoltura giunto sull’agricoltura completo dal mondo latino. Columella vi riversò la sua passione e le sue conoscenze tecniche sul lavoro e la concimazione dei campi, sulla piantagione e cura degli alberi, sul modo di gestire razionalmente la proprietà. Il decimo libro, l’unico in versi (430 esametri), è dedicato ai giardini, tema suggerito dalle Georgiche di Virgilio. L’opera è scritta in uno stile vivace e chiaro. È rimasto di lui anche il De arboribus (Gli alberi), che presumibilmente faceva parte di una precedente edizione dell’opera.

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3 - Petronio e la prosa minore

SCHEMA RIASSUNTIVO Satyricon

(m. 66 d.C), non si sa nulla della sua vita; secondo gli studiosi è da identificare con l’esteta raffinato, arbiter elegantiae, vissuto alla corte di Nerone; caduto in disgrazia si taglio le vene. Opera principale: Satyricon. Primo romanzo della letteratura latina di cui rimangono solo i libri XV e XVI lacunosi. Scritto in prosa e in poesia, narra le avventure di alcuni vagabondi cinici e spregiudicati, offrendo un quadro realistico e ironico della corrotta società dell’epoca neroniana, in una lingua originalissima per la varietà dei registri espressivi.

VELLEIO PATERCOLO

(19 ca. a.C. - dopo il 30 d.C.), autore di una breve Historia romana pervenuta lacunosa.

VALERIO MASSIMO

(sec. I d.C.), dedica a Tiberio Factorum et dictorum memorabilium libri, una raccolta di fatti e detti memorabili di contenuto morale.

CURZIO RUFO

(sec. I d.C.), compone una Historia Alexandri Magni, in cui prevale l’aspetto avventuroso e fantastico.

FENESTELLA

(52 o 35 a.C. - 19 o 36 d.C.), autore di Annales eruditi di cui sono giunti solo frammenti.

CELSO

(sec. I d.C.), scrive Artes, opera enciclopedica su varie discipline di cui sono giunti 8 libri sulla medicina.

MELA

(sec. I d.C.), autore del primo trattato latino di geografia, De Chorographia.

APICIO

(sec. I d.C.), compone il ricettario di culinaria, De re coquinaria, ampliato e manipolato nei secoli successivi.

FRONTINO

(35 ca - 101 d.C.), ricopre varie importanti cariche politiche. Opere: gli Stratagemmi, sulle astuzie dei generali, e il trattato tecnico, Le acque della città di Roma.

COLUMELLA

(sec. I d.C.), originario della Spagna, scrive De re rustica, in 12 libri, il più ampio trattato sull’agricoltura pervenuto.

PETRONIO ARBITRO

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4 La satira: Persio Erede di Orazio nella satira in esametri è Persio, che riversa nel suo Liber, con audace sperimentalismo linguistico, i concetti morali della filosofia stoica. Il suo mondo poetico risente molto della sua scarsa conoscenza dell’animo umano e non si allontana dai luoghi comuni della diatriba stoico-cinica.

La vita Aulo Persio Flacco (Volterra 34 - Roma 62 d.C.) apparteneva a una ricca famiglia di ordine equestre. Rimasto orfano di padre a 6 anni, fu allevato dalla madre Fulvia Sisenna, che gli fece seguire gli studi a Roma presso il grammatico Remnio Palemone e il retore Virginio Flavo. A sedici anni diventò allievo del filosofo stoico Lucio Anneo Cornuto, originario di Leptis Magna e si legò a lui da affetto e grande amicizia. Fu amico di Lucano, Cesio Basso, Trasea Peto, marito di sua cugina, col quale fece lunghi viaggi e, pur senza partecipare alla vita pubblica, frequentò gli ambienti dell’opposizione al regime neroniano. Condusse una vita austera e appartata, dedita agli studi, agli affetti familiari e agli amici. Morì a 28 anni per una malattia di stomaco.

Le opere Persio non pubblicò nulla in vita. L’amico Cesio Basso curò l’edizione del libro delle Satire, dopo una revisione di Cor- Le opere perdute nuto, che aveva sconsigliato la pubblicazione delle altre opere poetiche: una tragedia pretesta, un libro di viaggi e un elogio ad Arria Maggiore, suocera di Trasea Peto, scritti che pertanto sono andati perduti. Le Satire sono 6 per un totale di Le Satire 669 esametri dattilici, precedute da 14 versi coliambi, da alcuni ritenuti un prologo, da altri un epilogo, in cui Persio si dichiara un dilettante e polemizza con i poeti esistenti. ■ Le Satire Le satire di Persio sono ispirate alla dottrina stoica e stigmatizzano i vizi dell’uomo: superstizione, ipocrisia, avarizia, ozio, schiavitù delle passioni. Predomina il senso del dovere e della vita onesta e irreprensibile, di una rigida e severa morale che non ammette deroghe. Pur debitore di Orazio nella scelta di molti temi, egli non ne conosce l’indulgenza e la cordialità umana, chiudendosi invece in una visione di intransigente e spigoloso rigorismo. Più che un poeta, Persio appare un morali-

Dottrina stoica

Intransigente rigorismo e moralismo 195

4 - La satira: Persio

LE SATIRE DI PERSIO Satira I: è un dialogo tra il poeta e un amico, in cui si biasima il malcostume dei poetastri del tempo che ricorrono a qualsiasi mezzo pur di ottenere nelle pubbliche declamazioni applausi e ricchezze. Satira II: in forma di epistola indirizzata all’amico Plozio Macrino per il suo compleanno, critica l’ipocrisia di chi in segreto chiede favori materiali con sacrifici agli dei, che invece dovrebbero essere invocati con cuore puro e sincero per migliorare se stessi. Satira III: sviluppa il tema dell’educazione; il poeta esorta un giovane ricco e ozioso a seguire lo studio della filosofia morale per vivere saggiamente. Satira IV: è un breve dialogo sull’adagio

socratico “conosci te stesso”, in cui Socrate incita Alcibiade a prepararsi per la vita pubblica, deplorando il malcostume di giudicare i difetti degli altri senza conoscere profondamente se stessi. Satira V: è la più lunga (190 versi) ed è dedicata a Cornuto di cui si rievoca affettuosamente la bontà e l’amicizia. Tratta, secondo i dettami stoici, il bene della vera libertà, cioè quella dello spirito che si ottiene vivendo onestamente, con desideri moderati, in modo sobrio e sottraendosi in tempo alle passioni. Satira VI: epistola contro l’avarizia, diretta all’amico Cesio Basso, in cui il poeta afferma la necessità di seguire il giusto mezzo tra prodigalità e avarizia.

sta intollerante, con una visione pessimistica della società, che egli giudica da una posizione privilegiata e distaccata.

Stile volutamente aspro Messaggio spesso oscuro

La fortuna

■ La sperimentazione linguistica Le Satire mettono in luce un’audace e accurata sperimentazione linguistica, frutto di una raffinatissima abilità tecnica, in cui le parole assumono una molteplicità e ambiguità di significati. È uno stile volutamente aspro nella connessione dei termini e dei concetti, denso di metafore, tese a riscoprire il valore primigenio dell’immagine, di traslati, di audaci forme sintattiche e figure retoriche, che rendono a volte di difficile interpretazione il messaggio, tanto da risultare ermetico fino a rasentare l’oscurità. La sua poesia assume per questo un’impronta del tutto personale, unica nel panorama della letteratura latina, destinata a un pubblico ristretto e raffinato. Nonostante ciò, Persio ebbe molta fortuna già presso i suoi contemporanei e, soprattutto nel Medioevo, fu molto ammirato per il rigore morale.

SCHEMA RIASSUNTIVO PERSIO Le Satire

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(Volterra 34 - Roma 62 d.C.). Di agiata famiglia equestre, frequenta a Roma le migliori scuole di retorica e di grammatica. Conduce una vita austera e appartata, dedita agli studi e agli affetti familiari. Sono giunte 6 satire per un totale di 669 esametri, precedute da 14 versi coliambi. Ispirate alla filosofia stoica, condannano i vizi umani con intransigente e distaccato moralismo. La lingua difficile e le parole rendono talvolta oscuro il suo messaggio; è una poesia fortemente personale, rivolta a pochi raffinati lettori.

Titolo

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L’ETÀ DEI FLAVI

1 Marziale 2 Poeti epici 3 Quintiliano 4 Plinio il Vecchio

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Con la morte di Nerone termina la dinastia Giulio-Claudia, ma quella duplicità di orientamento politico, che aveva visto il succedersi di prìncipi inclini o ad un regime dispotico ellenizzante (cesarismo) o ad una linea politica rispettosa delle prerogative del senato (diarchia augustea), segnerà anche gli anni successivi Si apre nell’anno 69 (anno dell’anarchia militare) un breve periodo di lotte per la successione, durante il quale gli eserciti acclamano imperatori i loro rispettivi generali, mentre da più parti si leva un profondo risentimento contro le popolazioni privilegiate d’Italia e contro le classi ricche delle province più romanizzate. Si avvicendarono così al potere Galba, Otone e Vitellio. Alla fine su tutti prevalse Vespasiano, che, impegnato fin dal 66, in Palestina, nella repressione della rivolta giudaica, venne acclamato da tutte le legioni orientali, e, sconfitto e trucidato Vitellio, ottenne dal senato i pieni poteri (69). Tito Flavio Vespasiano, proveniente da modesta famiglia della Sabina, ma dotato di acume politico, subito capì che, per regnare in sicurezza doveva risolvere i due problemi più importanti legati al governo: legittimare il suo potere nei confronti del senato, su di una concreta base giuridica, e risolvere la crisi militare, per non dipendere dalla volubilità delle truppe. Suo primo atto fu la promulgazione della Lex de imperio Vespasiani, con la quale si delimitavano reciprocamente (de iure e non solo de facto) i poteri del senato e quelli del principe. Quanto all’esercito, congedò le legioni italiche, troppo inclini ad interferire nelle faccende politiche, e provvide ad arruolare nuove truppe nelle province da più tempo legate a Roma: all’atto dell’arruolamento garantiva, a chi non l’avesse, la cittadinanza romana. La sua politica si orientò al modello augusteo e, nel corso dei dieci anni (69–79) del suo regno, diede frutti di rilievo. In particolare: il principe rinsaldò i confini occidentali dell’impero; immise nel senato numerosi elementi della classe equestre e del nuovo ceto medio italico e provinciale (sicché, dopo pochi anni del suo governo, l’assemblea risultava profondamente mutata); risollevò lo Stato dalla pesante crisi economica (il dissesto economico iniziato con gli sperperi di Nerone, si era aggravato a seguito delle recenti guerre civili); superò l’ormai antiquata distinzione fra italici e provinciali; promosse opere pubbliche e migliorò le vie di comunicazione tra le varie parti dell’impero. Gli successe il figlio Tito, che regnò poco tempo (79–81). Al di là di certi atteggiamenti orientaleggianti, continuò la politica paterna di pacifica coesistenza con il senato, al punto da ottenere buona e duratura propaganda (basti pensare che Svetonio lo defini198

sce amor et deliciae generis umani). Tito si mostrò nel complesso più munifico del padre nelle spese per i giochi del circo e nelle elargizioni al popolo. Sotto di lui venne, tra l’altro, ultimato il Colosseo, che era stato iniziato per volontà di Vespasiano. Mostrò tutta la sua generosità nel sovvenire il popolo in occasione di una pestilenza scoppiata a Roma e a seguito dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Una svolta si ebbe con suo fratello Domiziano (81–96). Il nuovo principe perseguì senza incertezze un indirizzo politico che conduceva alla monarchia assoluta. Guadagnandosi il favore del popolo, con ampie elargizioni, e delle milizie, con l’aumento delle retribuzioni militari (soldo), diede inizio ad una lotta a fondo contro la classe senatoria. Assunse il titolo di dominus et deus, per affermare in modo indiscusso il suo primato, e volle la censura a vita, per colpire i senatori con condanne e confische di beni. Ancora, poi, aprì le porte del senato ad elementi nuovi, tra cui anche degli orientali, al fine di alterare la composizione di quell’assemblea e di comprometterne il carattere di oligarchia repubblicana: a questo punto il senato non risultava più il centro di un potere politico ed economico omogeneo, quindi capace di contrapporsi con efficacia alle iniziative assolutistiche del principe. La lotta iniziata da Domiziano contro la nobilitas assunse forme persecutorie e suscitò una vasta opposizione, che portò ad alcune congiure e alla rivolta di Lucio Saturnino (89), legato della Germania Inferiore. Il tentativo sovversivo venne prontamente represso, ma la diffidenza del principe nei confronti di coloro che lo circondavano aumentò: il risultato fu un ulteriore inasprimento delle misure di sicurezza. Negli ultimi anni del suo governo (i cosiddetti tempora saevitiae) s’instaurò un vero e proprio clima di terrore, simile a quello di Tiberio e Nerone, che fu deleterio non solo sotto l’aspetto politico, per l’inevitabile contrazione, e addirittura paralisi, delle iniziative di governo, ma anche perché di fatto il principe finì per alienarsi il favore di tutti. Domiziano nel 96 cadde vittima di una congiura. In quest’età non mancano iniziative poetiche di rilievo. Valerio Flacco, Silio Italico e Papinio Stazio si riallacciano all’epica di Virgilio, pur in modo del tutto nuovo. Quintiliano, teorico dell’oratoria, cerca di recuperare la lezione di Cicerone. L’opera di Marziale si inserisce nella tradizione degli epigrammi e mira a restituire il gusto dell’uomo e della vita, pur nei limiti di una vena spesso caricaturale. Plinio il Vecchio dà un alto esempio di dottrina.

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199

1 Marziale Gli epigrammi di Marziale hanno per soggetto l’uomo e riflettono la società di cui rappresentano vizi e difetti con schietto spirito realistico, senza che il poeta mai si atteggi a maestro di morale.

La vita

Cliente di famiglie ricche

Il ritorno in Spagna

Marco Valerio Marziale (Bilbilis, odierna Calatayud, Spagna Tarragonese 40 ca - 104 d.C.) studiò grammatica e retorica e poi, come tutti i giovani provinciali, fu attratto da Roma, dove giunse nel 64. Entrò in contatto con la famiglia spagnola degli Annei, a cui appartenevano Seneca e Lucano; è probabile che questi lo aiutassero a entrare nell’ambiente letterario. Divenne amico di Plinio il Giovane e di Giovenale. Non esercitò alcuna attività retorica né forense: la sua fu una vita di letterato povero e dalla povertà cercò di uscire rendendosi gradito agli imperatori Tito, Domiziano e infine Nerva. Nonostante il successo dei suoi epigrammi, molto celebri anche nelle province, che gli fruttarono riconoscimenti economici e l’acquisizione di cariche onorifiche (ebbe il tribunato militare), condusse la vita disagiata e affannosa del cliente di famiglie ricche e potenti. Riuscì comunque ad avere una casetta sul colle Quirinale e un piccolo podere nel Nomentano, doni di qualche protettore. Nel 98, dopo 34 anni di soggiorno, lasciò Roma, povero come vi era giunto, e tornò in Spagna, anche con l’aiuto materiale di Plinio il Giovane che gli donò la somma necessaria. Nella nativa Bilbilis trovò serenità e relativo benessere per l’aiuto di una ricca ammiratrice e amica, Marcella, ma nel XII libro degli epigrammi lasciò trapelare il suo rimpianto per la vita turbolenta di Roma.

Le opere ovvero epigrammi Gli spettacoli

Gli Xenia

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L’opera completa di Marziale comprende il Liber spectaculorum (Gli spettacoli), 33 epigrammi composti nell’80 per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio (il Colosseo) sotto l’imperatore Tito, che per questo concesse al poeta lo ius trium liberorum, cioè gli stessi diritti riservati ai padri di tre figli, e il titolo di tribuno militare con la dignità di cavaliere; gli Xenia (Doni agli ospiti), 124 epigrammi di un solo distico, destinati ad accompagnare doni alimentari che era uso inviare a parenti e amici durante le festività dei Saturnali; gli

1 - Marziale

Apophoreta, 223 epigrammi allegati agli omaggi da portar via, che, estratti a sorte, venivano offerti ai partecipanti ai ricevimenti. Sia gli Xenia sia gli Apophoreta sono composti su commissione e risalgono agli anni 84 - 85; nell’opera completa sono indicati con il numero XIII e XIV. Dall’86 al 97 Marziale compone e pubblica la sua opera maggiore, 11 libri di Epigrammi propriamente detti, ai quali segue un dodicesimo, scritto in Spagna nell’ultimo periodo della sua vita. Gli epigrammi sono il frutto dell’osservazione della vita di tutti i giorni: “Qui non troverai né Centauri, né Gorgoni, né Arpie: le mie pagine sanno di uomo”. In alcuni Marziale parla di sé, delle sue vicende personali, dei suoi ideali di vita tranquilla e della patria lontana; in altri espone la ragione delle sue scelte letterarie o deplora la decadenza del mecenatismo e delle lettere. Sono per lo più satirici e colpiscono i cacciatori di eredità, i parassiti e i corrotti, i medici ignoranti, i liberti arricchiti, le ricche e appassite zitelle, e così via. Vi sono anche epigrammi malinconici e delicati, come quelli funerari dedicati a personaggi virtuosi; se ne trovano altri descrittivi di luoghi, di paesaggi, di animali e di oggetti, rievocati con intenso calore e con immagini smaglianti: ora è la villa di Apollinare sulla spiaggia di Formia e della “quiete viva del mare”, ora un monte candido per la neve, ora l’acqua gelida e limpida di un ruscello, ora la caccia al capriolo e i cavalli scalpitanti.

Gli Apophoreta

Gli Epigrammi La vita di tutti i giorni

Satira e malinconia

Gli epigrammi descrittivi

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■ Il carattere degli epigrammi L’epigramma era un componimento che aveva una lunga tradizione, ma è merito di Marziale avergli dato la struttura che è ancora quella di oggi: una sintetica poesia che, a una breve presentazione di vicende o di persone, fa seguire una battuta conclusiva ironica, irridente o satirica. Lo scrittore, con la scelta esclusiva del genere epigrammatico, si contrappone volutamente alla poesia dotta dell’epos e della tragedia, assumendo a tema la vita quotidiana, nella sua varietà sfaccettata e nella colorita e sovente grottesca caratterizzazione dei personaggi di ogni giorno. Il realismo di Marziale non esclude epigrammi scandalosi o termini osceni: “la mia vita è onesta, lascivi sono solo i versi” e, ancora, nel proemio del I libro: “Catone non entri nel mio teatro, o, se vi entra, assista allo spettacolo”. Il suo realismo si risolve talvolta in un bozzettismo di maniera, con il ricorso a forme stereotipe di comicità caricaturale, come difetti fisici o manie varie. Marziale è anche prudente: mette in caricatura solo la folla anonima, mai un personaggio della Roma importante, mai vicende della vita politica; usa nomi propri perché sa che at-

Struttura dell’epigramma

Realismo spesso osceno

Prudente caricatura solo di anonimi 201

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1 - Marziale

Assente la morale, solo divertimento

La lingua I metri

traggono l’interesse dei lettori, ma sono fittizi. Il suo epigramma non è una satira perché è assente il giudizio morale: lo scopo di Marziale è divertire. Non vi è penetrazione psicologica e tutto si ferma alla superficie: fatti e personaggi non sono aspetti propri del mondo romano a lui contemporaneo, ma si adattano a tutti i tempi e a tutti i luoghi. In alcuni momenti Marziale si rivela poeta lirico, capace di ritrarre con un linguaggio proprio un’umanità osservata con incisiva partecipazione e finezza. Il linguaggio, semplice e colloquiale, cede spesso al gusto per il termine osceno e alla ricerca del particolare sorprendente, per lo più alla fine dell’epigramma, come è nella tradizione del genere. Nei metri prevalgono i distici elegiaci, alternati ai faleci e ai trimetri scazonti. L’amico Plinio il Giovane, dopo la sua morte, lo giudica in una lettera “ingegnoso, acuto e pungente, che scriveva per lo più con arguzia e acrimonia, ma anche con candida schiettezza”.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

Marziale (Bilbilis 40 ca - 104 d.C.) giunge nel 64 a Roma dove conduce una vita disagiata facendo il cliente di famiglie ricche. Dopo 34 anni ritorna nella città natale.

GLI EPIGRAMMI

Marziale ne scrive 15 libri, di cui 12 costituiscono la sua opera maggiore: sono epigrammi per lo più satirici, che nascono dall’osservazione della vita. I due libri XIII e XIV, Xenia e Apophoreta, sono invece epigrammi scritti su commissione. A parte sta il Liber spectaculorum, composto per l’inaugurazione del Colosseo.

IL CARATTERE DEGLI EPIGRAMMI

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Marziale fa dell’uomo il reale protagonista dei suoi epigrammi, non colpisce mai però persone importanti né fatti politici, così talvolta il suo è un bozzettismo di maniera. Non è vera e propria satira, perché egli non fa la morale; suo scopo è solo quello di divertire.

2 Poeti epici Valerio Flacco, Silio Italico e Stazio si rifanno dichiaratamente a Virgilio, pur non riuscendo a riproporne l’ispirazione e lo stile. Non mancano ad orientarli modelli greci tradizionali (Omero) e innovativi (Apollonio Rodio), ma la poesia resta convenzionale al di là dell’entusiatico apprezzamento dei contemporanei.

Valerio Flacco Di Gaio Valerio Flacco Balbo (m. 90 ca d.C.) poco si sa: il La vita e le opere soprannome Setino lo indica forse originario di Sezze, cittadina nel Lazio; visse al tempo degli imperatori Flavi, ai quali tributò elogi, e fece parte dei quindecemviri sacris faciundis; la data di morte è testimoniata da Quintiliano. Il suo nome è legato alla composizione degli Argonautica.

La conquista del Vello d’oro

Medea e Giasone

Le fonti

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■ Argonautica Il poema epico Argonautica (Gli Argonauti), incompiuto al verso 467 del libro VIII, era rimasto sconosciuto nel Medioevo e venne scoperto da Poggio Bracciolini nel 1416. Narra la mitica impresa nella Colchide per la conquista del Vello d’oro da parte degli Argonauti, tra cui Ercole, Peleo, Castore, Polluce, Orfeo, al comando di Giasone. Nei primi cinque libri del poema si narrano le avventure degli eroi nel lungo viaggio sulla nave Argo, l’arrivo in Colchide e il rifiuto del re Eeta di consegnare il Vello d’oro. Nel VI libro entra in scena Medea, la figlia del re, che si innamora di Giasone e che con la sua magia rende possibile l’impresa. Il poema si interrompe con Absirto, figlio del re della Colchide, che insegue Medea, Giasone e gli Argonauti. È probabile che il poema dovesse raggiungere i 12 libri. Il poeta si ispira all’omonima opera in 4 libri dell’alessandrino Apollonio Rodio (sec. III a.C.), ma, a parte gli episodi principali, si allontana molto dal modello, con l’introduzione di epopee e digressioni geografiche. L’Argonautica rivela forti influssi virgiliani, sia perché l’impresa, come quella di Enea, è voluta dal Fato, sia per l’impostazione morale del racconto, sia per lo stile, rinnovato secondo il nuovo gusto poetico drammatico ed enfatico. Il personaggio più interessante è quello di Medea per l’analisi psicologica del suo conflitto tra il dovere verso il padre e l’amore per Giasone.

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2 - Poeti epici

Silio Italico

Soggetto

Intervento divino

Stile Le fonti

Silio Italico nacque forse a Padova nel 25 ca d.C. e morì in Campania nel 101 d.C. A Roma si dedicò all’avvocatura e alla politica: fu console nel 68, l’ultimo anno di Nerone, e nel 77 proconsole in Asia. Ricchissimo, si ritirò a vivere in Campania, dove possedeva numerose e splendide ville, tra cui quella di Cicerone a Tuscolo e quella di Virgilio a Napoli. Nel 101 si lasciò morire di fame per evitare le sofferenze dovute a un tumore allo stomaco. Fu un raffinato cultore di poesia e di filosofia, grande ammiratore di Virgilio e amico dello stoico Cornuto.

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La vita e le opere

■ Il poema Punica Poema epico-storico sulla seconda guerra punica, in 17 libri per complessivi 12 200 versi, l’opera è dedicata ai Flavi e soprattutto a Domiziano, di cui esalta le gesta; racconta le vicende che vanno dall’assedio di Sagunto alla vittoria di Zama, narrando le imprese di Annibale in Italia, la riscossa dei romani con l’uccisione di Asdrubale al Metauro, lo sbarco in Africa di Scipione. Ampio spazio hanno gli interventi degli dei, l’immancabile discesa agli Inferi, con la rassegna dei grandi personaggi romani, i vaticini e i giochi funebri. Il poema è composto “con accuratezza più che con ingegno”, come scrisse Plinio il Giovane. Elementi dominanti sono la retorica e la ricerca dell’effetto; gli eccessivi discorsi declamatori, le epopee, le digressioni rendono la narrazione pesante e monotona, appena ravvivata qua e là da alcune drammatiche scene di battaglia. La fonte storica principale, seguita fin troppo da vicino, è l’opera di Livio, ma il tentativo di Silio Italico di narrare la storia in versi risulta scarsamente originale. Il poeta segue strettamente la tradizione virgiliana e omerica, però la sua opera è solo quella di un colto letterato, buon costruttore di versi.

Stazio La vita e le opere

Publio Papinio Stazio (Napoli 40 ca - 96 d.C.) ricevette un’accurata educazione dal padre, maestro di retorica e poeta. Ancor giovanissimo compose versi e vinse un premio ai ludi AuPoeta precoce gustali della città natale. Stabilitosi a Roma con il padre, che Il soggiorno a Roma vi aveva trasferito la sua scuola, si dedicò interamente alla poesia e ottenne riconoscimenti e successo, recitando pubblicamente i versi della Tebaide. Le sue modeste condizioni economiche, come riporta Giovenale, lo costrinsero a vendere a un attore una fabula saltica. Entrò nella cerchia di Do204

2 - Poeti epici

miziano, dal quale ottenne favori e benefici. Nel 94 con la moglie Claudia ritornò a Napoli, dove morì. Scrisse dall’80 al 92 il poema epico Tebaide, in 12 libri; tra l’89 e il 95 le Silvae (il cui titolo significa “miscellanea”); 32 componimenti lirici divisi in 5 libri; il poema epico Achilleide, rimasto incompiuto per la morte dell’autore. Sono andati perduti il De bello germanico, un poema sulle gesta di Domiziano contro i germani, e la pantomima Agave. ■ Tebaide Stazio, abbandonando l’argomento storico che aveva ispirato l’epos di Lucano, ritorna con la Tebaide, come Valerio Flacco, al tema mitologico, narrando il conflitto tra Eteocle e Polinice, figli di Edipo, per il trono di Tebe. L’accordo tra i due fratelli, secondo il quale si sarebbero alternati al potere ogni anno, viene rotto da Eteocle, che scatena così la guerra tra gli Argivi, sostenitori di Polinice, e i Tebani. I due fratelli si uccidono in combattimento, gli Argivi vengono sconfitti, la madre Giocasta si suicida, Edipo viene cacciato dalla città. L’influsso di Virgilio è evidente sia nella struttura dell’opera sia nell’adozione di luoghi comuni, quali l’intervento degli dei, i giochi funebri, gli episodi di guerra e d’amore, la discesa agli Inferi, la rassegna dei guerrieri. La materia è arricchita da suggestioni derivate dai tragici greci, sia classici sia alessandrini. Nel poema domina la retorica: il gusto del patetico, dell’enfasi e del virtuosismo tecnico; le continue digressioni, con episodi all’interno di altri episodi, rendono il poema poco unitario e pesante alla lettura. ■ Silvae Le Silvae rappresentano l’unico esempio di poesia lirica del primo secolo dell’età imperiale. Sono per lo più componimenti d’occasione per nascite, matrimoni, anniversari, manifestazioni diverse. Sono anche frequenti le descrizioni di ville, giardini, oggetti d’arte, che rendono l’opera preziosa per la conoscenza del gusto e della vita del tempo. I carmi encomiastici, direttamente rivolti a Domiziano, testimoniano lo sviluppo del culto imperiale, le cerimonie e le manifestazioni pubbliche. I metri usati vanno dall’esametro ai versi lirici.

Ritorno al tema mitologico

Influsso di Virgilio

Patetismo ed enfasi

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Poesia lirica

Valore anche documentario I metri

■ Achilleide Dell’Achilleide, poema incompiuto, rimangono il primo libro e l’inizio del secondo, per un complesso di poco più di mille versi. Stazio narra la giovinezza di Achille, la sua educazione con il centauro Chirone, il vano tentativo di sottrarsi

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2 - Poeti epici

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alla guerra di Troia, il suo matrimonio con Deidamia. Presumibilmente l’opera avrebbe dovuto narrare tutta la vita e le imprese dell’eroe, fino alla sua morte. I versi rimasti mostrano grazia, vivacità e un tono romanzesco più che eroico.

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■ La fortuna Considerato con Silio Italico e Valerio Massimo uno degli interpreti più significativi della cultura letteraria dell’età flavia, Stazio fu molto apprezzato nel Medioevo, in particolare da Dante, che immaginò una sua conversione al cristianesimo, sia pure tenuta nascosta. Le Silvae, sconosciute in età medioevale, furono ritrovate dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1417.

SCHEMA RIASSUNTIVO (m. 90 ca d.C.) vive al tempo degli imperatori Flavi e scrive il poema epico Argonautica sul viaggio degli Argonauti alla conquista del Vello d’oro e l’amore di Medea per Giasone.

SILIO ITALICO

(? Padova 25 ca - 101 d.C.) ricchissimo avvocato e politico si lascia morire di fame; compone il poema Punica, in 17 volumi, sulla seconda guerra punica, dominato dalla retorica e dalla ricerca dell’effetto.

PAPINIO STAZIO

(Napoli 40 ca - 96 d.C.) ha successo con le recitazioni pubbliche ed entra nella cerchia di Domiziano. Opere: Tebaide, poema epico sul conflitto tra Eteocle e Polinice per il trono di Tebe, che risente dell’influsso virgiliano; le Silvae, unico esempio di poesia lirica del sec. I d.C., preziose per la conoscenza del gusto e della vita del tempo; Achilleide, poema incompiuto che narra l’educazione e la giovinezza dell’eroe.

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VALERIO FLACCO

3 Quintiliano Marco Fabio Quintiliano, il maggior maestro e teorico dell’eloquenza nell’età imperiale, cerca di recuperare, in polemica con Seneca il filosofo, l’eredità del classicismo ciceroniano. È un personaggio di spicco, capace di orientare gli interessi culturali della sua età e di sancire, nell’educazione dei giovani, il primato della retorica sulla filosofia.

La vita

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I dati essenziali sulla vita di Quintiliano si ricavano, oltre che dagli accenni nella sua opera, dalle testimonianze di scrittori, come Marziale e Plinio il Giovane, e dalle notizie fornite dalla Cronaca di San Girolamo. Marco Fabio Quintiliano (Calagurris, odierna Calahorra, Spagna 35 ca - Roma 96 d.C.) era figlio di un maestro di oratoria che lo condusse a Roma per completare la sua educazione con il grammatico Remmio Palemone e con il retore Domizio Afro. Terminati gli studi, tornò nella città natale, dove esercitò l’attività forense e conobbe Galba che, diventato imperatore, lo condusse con sé a Roma.

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■ La prima cattedra pubblica di eloquenza Quintiliano si stabilì definitivamente a Roma, dedicandosi con successo alla professione di avvocato e di mae- Avvocato e maestro stro di retorica. Dovette la sua fama soprattutto all’attività di retorica di insegnante: ottenne dall’imperatore Vespasiano, con il cospicuo compenso di 100 000 sesterzi, la prima cattedra di eloquenza pubblica istituita a Roma, che egli ricoprì per oltre un ventennio con grande successo, avendo tra i suoi discepoli Plinio il Giovane e, forse, anche Tacito. Dopo il ritiro dall’insegnamento pubblico, fu incaricato da Domiziano di curare l’educazione dei suoi nipoti, figli della sorella Flavia Domitilla, ottenendo la dignità consolare. Dedicò gli ultimi anni della vita alla composizione dell’Institutio oratoria. Maestro stimatissimo e ricco di soddisfazioni e riconoscimenti pubblici, tuttavia Quintiliano fu nella vita privata amareggiato dalla morte della moglie in giovane età e da quella dei figli, ancora bambini. Dopo la morte, Quintiliano fu dimenticato, ma venne mol- La fortuna to apprezzato nel Medioevo e nel Rinascimento dopo che venne scoperto, a San Gallo, un manoscritto con le sue opere. Il suo trattato di retorica venne preso a modello per lo studio di questa disciplina.

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3 - Quintiliano ■ Le opere L’unica opera giunta completa e la più importante è l’InstiLa formazione tutionis oratoriae libri XII, ovvero la Institutio oratoria (La dell’oratore formazione dell’oratore), dedicata all’amico Vittorio Marcello e nella quale Quintiliano espone i risultati della propria riflessione teorica e della sua lunga esperienza di insegnante. Il resto della sua produzione non è pervenuto. Quintiliano non pubblicò i discorsi tenuti in tribunale, a eccezione di un’orazione andata perduta in difesa di un certo Nevio Arpiniano, accusato di aver ucciso la moglie. Perduta è la sua prima opera, De causis corruptae eloquentiae (Le cause della corruzione dell’eloquenza), in cui Decadenza Quintiliano, analizzati i motivi della decadenza dell’elodell’eloquenza, colpa quenza e, più in generale, dell’arte del parlare e dello scridello stile corrotto vere, ne individuava le cause nello stile ”corrotto” di Senedi Seneca ca e nei maestri incompetenti e dediti alle artificiose e grottesche declamazioni, di moda già alla fine dell’età di Augusto. Ai discepoli di Quintiliano sono dovuti 2 libri sull’arte retoArs rhetorica rica, Ars rhetorica, contenenti forse dispense del maestro, pubblicate tuttavia contro la sua volontà. Declamazioni Le declamazioni tramandate dai manoscritti sotto il suo nomaggiori e minori me sono spurie: le19 dette “maggiori” sono databili al sec. IV; le 145 dette “minori” sono superstiti di una raccolta, collocabile fra il I e il II secolo, che ne comprendeva all’origine 388.

LA INSTITUTIO ORATORIA Libro I: tratta dell’educazione del fanciullo in casa e dell’insegnamento di base, preferibilmente in scuole pubbliche. Libro II: tratta dell’istruzione retorica e di come deve essere impartita; al buon oratore sono necessarie la natura (predisposizione) e soprattutto la doctrina (buona cultura). Libri III - VII: trattano il lato scientifico e tecnico dell’eloquenza: la inventio (reperimento degli argomenti), la dispositio (collocazione logica degli argomenti nel discorso). Infine, le cinque parti che compongono l’orazione: proemium e narratio (esposizione dei fatti), probatio (dimostrazione della tesi), refutatio

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(confutazione) e peroratio (conclusione). Libro VIII: tratta dello stile dell’orazione. Libro IX: tratta delle figure retoriche e della composizione armonica del periodo. Libro X: tratta della facilitas (disinvoltura nell’esposizione) e degli autori da leggere e imitare, fornendone un lungo elenco, con giudizi sintetici. Libro XI: tratta delle tecniche di memorizzazione, dell’arte di intonare la voce di gestire e della mimica. Libro XII: tratta della figura dell’oratore ideale che deve essere un uomo di alta moralità, di profonda cultura, di grande ingegno.

3 - Quintiliano ■ Formazione intellettuale e morale dell’oratore Nel definire la figura dell’oratore ideale, Quintiliano riprende la formula del vir bonus dicendi peritus, cioè dell’uomo onesto abile nel parlare, già usata da Catone per sottolineare la preminenza delle doti morali sugli aspetti più specialistici della disciplina. Quintiliano si richiama soprattutto a Cicerone, alla sua sistematica capacità di organizzare ed esporre i propri pensieri nell’ambito dell’eloquenza; da lui mutua l’idea della formazione culturale dell’oratore, che deve essere più vasta e completa possibile, per quanto non ritenga indispensabili gli studi filosofici. Molto polemico, invece, è verso Seneca, cui imputa la responsabilità della degenerazione del gusto e quindi della pratica retorica. Lo stile di Seneca, spezzato e nervoso, gli appare l’espressione, sul piano formale, di un’inquietudine della coscienza e di una fragilità del sentire dannosi soprattutto per i giovani. Sostanzialmente trascurato è il rapporto fra l’esercizio dell’eloquenza e le condizioni politiche in cui essa si trova a operare. Nell’affrontare il tema dell’educazione del bambino, prima nell’ambito familiare e poi in quello scolastico, la preoccupazione per una pedagogia corretta e rispettosa della natura e delle esigenze del giovane gli detta pagine psicologicamente sottili. Di grande interesse è anche l’excursus letterario contenuto nel libro X, in cui Quintiliano elenca, dividendoli per generi, gli autori greci e latini la cui lettura è utile alla formazione dell’oratore. Vi si nota la sua predilezione per quelli più recenti rispetto agli arcaici, l’intento di sottolineare l’originalità tutta latina di certi generi, soprattutto della satira, e la formulazione di giudizi critici molto felici, condivisi dalla sensibilità moderna.

Cicerone come modello Polemico verso Seneca

Eloquenza e politica

Excursus letterario

SCHEMA RIASSUNTIVO QUINTILIANO

(Calagurris, Spagna 35 ca - Roma 96 d.C.) completa la sua educazione e si stabilisce a Roma facendo l’avvocato. Per vent’anni ricopre, sotto Vespasiano, la prima cattedra pubblica di eloquenza. Opere principali: Istitutionis oratoriae libri XII, la più importante, è una specie di manuale, giunto completo, per intraprendere la carriera di oratore; perduta è invece De causis corruptae eloquentiae. La formazione dell’oratore: Quintiliano, in polemica con Seneca, si richiama a Cicerone per indicare le caratteristiche principali dell’oratore ideale, che sono l’onestà, la capacità organizzativa ed espositiva, la vasta cultura. Di grande interesse sono l’elenco dei letterati latini e greci e i relativi sintetici giudizi critici.

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4 Plinio il Vecchio Infaticabile studioso e scrittore, Plinio il Vecchio è il massimo rappresentante dell’erudizione nella prima età imperiale. La sua Storia naturale è una monumentale opera enciclopedica sulle conoscenze scientifiche del mondo antico.

La vita Gaio Plinio Secondo, detto il Vecchio (Como 23 - Stabia 79 d.C.), nacque da una ricca famiglia di ceto equestre; le sue notizie biografiche sono ricavate soprattutto dal nipote Plinio il Giovane: rivestì cariche militari e politiche importanti; fu ufficiale della cavalleria nelle campagne di Germania e, dopo un breve isolamento sotto Nerone, procuratore imperiale di varie province al tempo di Vespasiano. Quando scoppiò l’eruzione del Vesuvio, era comandante della flotta di Porto Miseno in Campania, intuì la gravità del fenomeno e sbarcò a Stabia, sia per innata curiosità scientifica sia per portare soccorso alle popolazioni, trovando la morte, soffocato dai gas velenosi del vulcano.

Le opere

La Storia naturale Le opere perdute

Studioso infaticabile, prendeva appunti su tutto ciò che leggeva e vedeva, raccogliendoli in ben 160 volumi. Compose opere di argomenti vari; l’unica pervenuta è la monumentale Naturalis historia (Storia naturale), in 37 libri. Gli scritti perduti, elencati in ordine cronologico, riportati dal nipote in una lettera a Tacito, sono: De iaculatione equestri unus, un libro sul lancio del giavellotto da cavallo; De vita Pomponii Secundi duo, due libri sulla vita del poeta Pomponio Secondo; Bellorum Germaniae viginti, 20 libri sulle guerre di Germania; Studiosus, 3 libri sulla formazione dell’oratore; Dubii sermonis octo, 8 libri, su questioni grammaticali e linguistiche, dei quali sono giunti vari frammenti in citazioni di grammatici; A fine Aufidi Bassi triginta unus, 31 libri sulla continuazione della storia di Roma di Aufidio Basso, dalla morte di Claudio a Vespasiano. ■ Naturalis historia L’imponente Naturalis historia (Storia naturale), dedicata al futuro imperatore Tito, fu pubblicata postuma da Plinio il Giovane. È un’enciclopedia in cui lo scrittore riversò tutto il

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4 - Plinio il Vecchio

frutto delle sue ricerche, tratte da 2000 volumi di 500 autori diversi tra latini e greci, e dei suoi appunti di viaggio, per un complesso di 34 000 notizie. Dopo gli indici generali e bibliografici (libro I), composti dal nipote, ma le fonti erano premesse a ogni singolo libro, l’opera tratta di cosmologia (libro II); di geografia ed etnografia dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia (libri III-VI); di antropologia (libro VII); di zoologia (libri VIII-XI); di botanica (libri XII-XIX); di medicina basata sui farmaci tratti dalle piante e dagli animali (libri XX-XXXII); di mineralogia, con importanti notizie sulle arti figurative (libri XXXIII-XXXVII). L’opera è frutto, oltre che della curiosità, della volontà dell’autore di essere utile agli uomini, i quali diversamente dagli animali che agiscono per istinto, devono imparare tutto per poter vivere. Plinio non è uno scienziato, ma un erudito con senso pratico e serietà morale. Alcuni dati hanno dello strabiliante e del favoloso; non sempre poi risultano organizzati secondo criteri di rigorosa sistematicità, anche perché privi di una concezione unitaria di base. Tuttavia la Storia naturale è considerata fondamentale sia per la ricchezza dell’informazione sia come repertorio delle conoscenze scientifiche del mondo antico. L’opera non ha grande valore dal punto di vista letterario; d’altra parte la sua ampiezza escludeva la possibilità di una rielaborazione stilistica, che non rientrava del resto nella tradizione enciclopedica romana.

Struttura dell’enciclopedia

Volontà di essere utile Erudizione non scienza

Scarso valore letterario

SCHEMA RIASSUNTIVO PLINIO IL VECCHIO Naturalis Historia

(Como 23 - Stabia 79 d.C.) di famiglia ricca, riveste importanti cariche militari e civili. Muore nell’eruzione del Vesuvio. Opera principale: Naturalis Historia. Una enciclopedia in 37 libri che tratta di cosmologia, geografia, etnologia, antropologia, zoologia, botanica, medicina e mineralogia; Plinio è un erudito non uno scienziato, pertanto le numerose notizie difettano di sistematicità.

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L’ETÀ DI NERVA E TRAIANO 1 Tacito 2 La satira: Giovenale 3 Plinio il Giovane

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Dopo l’uccisione di Domiziano ottenne il potere il senatore Marco Cocceio Nerva (96–98 d. C.), di 66 anni, esponente della nobilitas, il quale procedette subito ad una reazione contro l’indirizzo dell’imperatore precedente: egli diminuì infatti alcune imposte, concesse al senato una giurisdizione speciale, ridusse entro limiti più ristretti la lex maiestatis, annullò gli atti di governo di Domiziano, diede congrui donativi alle truppe e al popolo. Il suo tentativo di restaurare il potere senatorio era però destinato a fallire: ormai la nobilitas non era più il ceto dominante dell’impero, costituito ora dalla nuova borghesia e dalla classe militare. Dell’ostilità dell’elemento militare Nerva si rese ben conto. Dovette, infatti, scendere a patti con i Pretoriani, che pretesero prima la condanna degli uccisori di Domiziano e poi che accettasse di adottare e di associare alla dignità imperiale un ufficiale di origine spagnola, Traiano, molto popolare tra le legioni occidentali. Per evitare motivi per un nuovo conflitto civile, con molto senza pratico Nerva accettò le condizioni imposte. Alla morte di Nerva, che fu divinizzato (98), la successione di Traiano fu riconosciuta immediatamente. La prassi dell’adozione (adoptio), ovvero della scelta del migliore, con cui si escludeva la successione dinastica, iniziata con Traiano restò in vigore per circa un secolo. Marco Ulpio Traiano (98–117 d.C.), nativo di Italica (Siviglia), fu il primo principe non italico. Durante il suo ventennale principato egli curò sempre che i rapporti con la nobilitas si mantenessero buoni. Si mostrò così rispettoso del senato da saggiarne sempre gli umori prima di prendere qualsiasi decisione: a questo scopo si servì, come intermediari, di alcuni senatori suoi amici, personaggi di grande prestigio, tra i quali Plinio il Giovane. Anche il senato, dal canto suo, non fece mai mancare al principe la sua premura e la sua deferenza. Pur accogliendo molti provinciali nel senato e negli alti gradi dell’amministrazione, il principe, con abile mossa, volle mantenere la superiorità dell’elemento italico su quello provinciale, come era nella tradizione romana e nei desideri del conservatorismo senatorio. In breve tempo si conquistò fama di liberalità. Anch’egli, particolarmente attento ai problemi sociali, diede un grande impulso all’istituzione assistenziale degli alimenta, creata dal suo predecessore, che aveva il compito di allevare ed educare i giovani delle città italiane, col contributo dello Stato (in scuole controllate dal governo), per assicurare in futuro un sufficiente numero di funzionari e soldati italici. In realtà, però, i provvedimenti finanziari furono dal principe sempre rivolti a favore dell’elemento militare, della classe popolare e del nuovo ceto me-

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dio, col risultato che la classe senatoria divenne sempre meno necessaria come gruppo dirigente. In effetti, Traiano con il suo prudente conservatorismo di facciata, senza contrasti ed aperti dissidi, riuscì ad imporre senza alcun limite la propria volontà e a garantire quella concordia interna che consentì al regime imperiale di ricompattarsi su nuove basi. Al di là della sua azione politica Traiano non dimenticò mai di essere soprattutto un generale e, pertanto, volle ampliare i possedimenti dell’Impero con la conquista della Dacia (l’attuale Romania), una regione ricca di miniere d’oro e di salgemma. A seguito di una spregiudicata e aggressiva campagna militare, la Dacia, con la sconfitta del suo re Decebalo, fu ridotta a provincia. In tal modo il principe assicurò all’’impero lo sfruttamento di ricchezze ingenti e anche l’usufrutto immediato di un enorme bottino di guerra, quale non si era più visto dai tempi della vittoria sull’Egitto. Traiano mise rapidamente in circolazione tutto questo denaro, spendendolo in una serie di grandi opere pubbliche (strade e acquedotti, bonifica di zone paludose) feste e donativi per il popolo e l’esercito. Successivamente, tra il 106 e il 117, strappò al regno dei Parti vari territori, ricchi e strategicamente importanti. I Parti erano rimasti tranquilli per circa cinquant’anni, perché preoccupati dalla pressione dei Mongoli alle loro frontiere, ma ora, sotto la guida del re Pacoro, avevano ripreso una politica espansionistica verso Occidente, esercitando una pericolosa pressione al confine dell’Eufrate. Le armi romane conquistarono in breve l’Armenia, la Mesopotamia e l’Assiria, che furono subito organizzate a province. Traiano morì nel 117, dopo aver rafforzato il prestigio dell’Impero e lasciando ai suoi successori un chiaro esempio di pragmatismo politico. In questa età la letteratura, traendo i migliori benefici dalla temperie di concordia e di pace, trova nuovi e interessanti stimoli. Le Satire di Giovenale, l’ultima vera voce etica della spiritualità romana, denunciano degenerazioni e nefandezze dei ricchi e dei potenti, creando una lugubre galleria di personaggi. Plinio il Giovane, con il suo Epistolario, traccia con garbata eleganza il quadro della vita sociale e culturale contemporanea: un documento molto attendibile del suo tempo, seppure vagliato dall’aristocratico danaroso che si guarda intorno con occhi sereni e fiduciosi. Tacito, il più grande storico della Roma imperiale, indaga con lucido pessimismo le vicende oscure dei suoi protagonisti e compone un’opera di intensa tensione drammatica.

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1 Tacito Tacito è il maggior storico della Roma imperiale: la sua visione obiettiva dell’interpretazione di fatti e personaggi ne fa uno degli esponenti di più alto rilievo della storiografia classica.

La vita

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Le scarse notizie sulla vita di Cornelio Tacito (56? - dopo 116 d.C.) si desumono da cenni sparsi nella sua opera, oltre che da testimonianze di altri scrittori, tra cui soprattutto Plinio il Giovane, che allo storico indirizzò alcune lettere. Incerti sono l’anno e il luogo di nascita, Terni oppure una località della Gallia Narbonese; incerto è anche il praenomen, Publio o Gaio. Studiò a Roma lettere ed eloquenza con Marco Apro, Giulio Secondo e fu forse discepolo di Quintiliano. Esercitò con successo l’attività forense; nel 78 sposò Giulia, figlia del senatore Giulio Agricola, conquistatore della Britannia centrale e poi governatore. Iniziò l’attività politica sotto Vespasiano: fu questore (79), edile (80), pretore (86), quindecemviro (88), console supplente sotto Nerva (97), proconsole d’Asia (112-113). Dal 93 al 96 si tenne in disparte e non venne coinvolto nella repressione dell’aristocrazia attuata da Domiziano. Nel 100 sostenne con Plinio il Giovane l’accusa nel processo per concussione contro Marco Prisco a nome degli abitanti della provincia d’Africa.

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La carriera politica

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La carriera forense

Le opere minori Nulla è giunto dei suoi discorsi da avvocato che, a detta di Plinio il Giovane, erano eccellenti; forse non furono mai pubblicati. È rimasto però uno scritto teorico sull’oratoria, che è da attribuire a Tacito, anche se tuttora resta qualche dubbio, il Dialogus de oratoribus (Dialogo sull’oratoria), che la tradizione manoscritta ha conservato insieme al De vita et moribus Iulii Agricolae (Vita e costumi di Giulio Agricola), pubblicato nel 98, e al pressoché contemporaneo De origine et situ Germanorum (Origine e sede dei Germani). Seguono le opere maggiori: le Historiae (Storie), scritte tra il 100 e il 110, e gli Annales (Annali), pubblicati dopo il 115 e, probabilmente, interrotti per la morte dell’autore. ■ Il Dialogus de oratoribus Il Dialogo sull’oraroria, dedicato a Fabio Giusto, si riallac-

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e i olo conc

1 - Tacito

cia alla tradizione ciceroniana, soprattutto al De oratore. Tacito immagina di aver assistito da giovane (74-75) a una discussione in casa di Curiazio Materno, un avvocato che si era dato interamente alla poesia, tra lo stesso Materno, Marco Apicio e Giulio Secondo, avvocati famosi, e Vipstanio Messalla, uomo di profonda cultura e autore di memorie sulla guerra civile. Tre sono gli argomenti trattati: se per un uomo di ingegno sia più degno dedicarsi all’oratoria o alla poesia; se l’eloquenza moderna sia pari a quella ciceroniana, giungendo alla conclusione che quest’ultima è superiore; quali siano le ragioni della decadenza dell’oratoria, è questa la parte più interessante. Tacito ne ravvisa le cause non già nel declino della scuola e, più in generale, della cultura e nell’incompetenza dei maestri, fatti che sicuramente si erano verificati, bensì nella cessazione della funzione primaria per cui l’eloquenza era nata, quella cioè di sostenere il dibattito delle idee e il libero confronto politico, venuto meno con la fine dell’età repubblicana e l’avvento del principato: “la pace interna ha distrutto l’eloquenza”. La lucidità dell’analisi e la concezione stessa del principato, che sarà più tardi ripresa nelle grandi opere storiche, sono bene attribuibili a Tacito. Lo stile richiama la concinnitas di Cicerone (vedi a pag. 87), se pur filtrata attraverso la lezione di Quintiliano (vedi a pag. 207) ed è lontano dall’inconcinnitas “tacitiana”delle opere storiografiche. La maggioranza degli studiosi considera il Dialogus opera di Tacito giovane, momento in cui il neociceronianesimo era la tendenza in uso nelle scuole di retorica e che sarebbe stata pubblicata molto più tardi, dopo la morte di Domiziano; altri, con maggior ragione, sostengono che il dialogo sia stato composto dopo l’Agricola e la Germania e che l’impronta ciceroniana debba unicamente attribuirsi all’argomento retorico del trattato.

Oratoria e poesia, raffronto tra eloquenza moderna e Cicerone, decadenza dell’oratoria

Lo stile

■ De vita et moribus Iulii Agricola Di genere biografico, con elementi derivati dagli elogi funebri, è la Vita e costumi di Giulio Agricola, suocero di Tacito, pubblicata nel 98. L’opera, in 46 capitoli, è contempora- Panegirico, neamente un panegirico, una monografia storica di tipo sal- monografia e lustiano (vedi a pag. 103) e un manifesto politico. La Vita manifesto politico tende a delineare la personalità del generale, sottolineandone l’alta umanità, la dirittura morale, le doti di funzionario integerrimo e di valente soldato. Dopo aver parlato della sua gioventù e degli studi, Tacito descrive la carriera militare, la campagna militare in Britannia e il suo governatorato: le operazioni di guerra di Agricola offrono l’occasione

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1 - Tacito

Digressioni geografiche e etnografiche

Il dovere verso Roma Lo stile

Le fonti Il contenuto

Unica opera etnografica dell’antichità

Lo stile

per digressioni geografiche e etnografiche della regione, che si fondano su ricordi e appunti di Agricola stesso e sui Commentarii di Cesare. L’autore narra poi il ritorno del generale a Roma, il trionfo decretatogli dal Senato e la fredda accoglienza dell’imperatore, geloso della sua gloria, il ritiro a vita privata e la morte (93) per cause non chiare, secondo alcuni per mano di Domiziano. La biografia dell’illustre personaggio dimostra come fosse preferibile alla sterile rinuncia di molti oppositori del regime, giunti fino al suicidio, l’atteggiamento di chi, come appunto Agricola, seppe assolvere fino in fondo al proprio compito, pur sotto la tirannide di Domiziano, cui Tacito sembra imputare la morte del suocero: il dovere verso Roma è più importante dei propri sentimenti di opposizione al principe. Ampi discorsi mettono a fuoco i personaggi, come quelli di Calcago, il capo dei ribelli, e di Agricola, che danno vivacità alla narrazione; lo stile non è ancora del tutto quello di Tacito, si sentono forti echi ciceroniani, sallustiani e liviani. ■ De origine et situ Germanorum Sull’origine e sede dei Germani, opera in 46 capitoli più comunemente nota come Germania, nasce da interessi geografico-etnografici. Le fonti di Tacito furono sia letterarie, come Plinio il Vecchio e Cesare, sia orali, come le informazioni raccolte da prigionieri, soldati e commercianti. Nella prima parte dell’opera si illustrano i confini della Germania, l’origine, i caratteri fisici e morali, le armi, il sistema politico e religioso, l’educazione dei giovani, i costumi, i mezzi di vita, le occupazioni quotidiane dei germani. La seconda parte passa in rassegna tribù per tribù, con notizie particolari per ognuna. La Germania è l’unico esempio pervenuto di opera prettamente etnografica dell’antichità; tuttavia non si deve dimenticare che, proprio nel periodo della pubblicazione (98), Traiano, appena proclamato imperatore, si trovava nella Germania Superiore, intento a rafforzare le frontiere sul Reno. Tacito, mettendo in forte rilievo la forza ancora incorrotta delle popolazioni situate tra il Reno e il Danubio, così lontana dalla raffinatezza decadente della contemporanea società romana, ne sottolinea il pericolo per Roma, ricordando tutte le vittorie e le sconfitte romane: “tanto tempo ci vuole per vincere la Germania”. La narrazione non risulta mai monotona per la varietà degli argomenti, per l’efficacia descrittiva, per l’incisività dello stile a periodi brevi con un certo colorito poetico.

Le opere maggiori: Historiae e Annales Le Storie 218

Le Historiae (Storie) dovevano abbracciare le vicende del-

1 - Tacito

l’impero dall’avvento di Galba (69) alla morte di Domiziano (96): restano solo i libri I - IV e parte del V. Distribuendo la materia secondo la tradizione annalistica, Tacito, presumibilmente proseguendo una precedente storia, inizia la sua narrazione dal 1° gennaio del 69, pochi giorni prima della morte di Galba. Posteriore è la composizione degli Annales (Annali) che, partendo dal 14, anno della morte Gli Annali di Augusto (l’opera nei manoscritti che la conservano è intitolata Ab excessu divi Augusti, Dalla morte del divo Augusto), dovevano giungere alla morte di Nerone (68), ricongiungendosi dunque alla materia trattata nell’opera precedente. Degli Annali restano interi i libri I - IV, un frammento del V e parte del VI e i libri XI - XVI, di cui l’XI lacunoso e il XVI mutilo. Complessivamente Storie e Annali comprendevano, stando alla testimonianza di san Gerolamo, 30 libri: non se ne conosce tuttavia l’esatta partizione, perché secondo alcuni le Storie erano composte di 14 libri e gli Annali di 16, e secondo altri rispettivamente di 12 e di 18 libri.

s

■ Lo storico Accingendosi alla composizione delle Storie, Tacito delinea il Le Storie fosco scenario della materia che si accinge a trattare – “una CONTENUTO DELLE STORIE Libro I. Il fatto di poter creare il principe anche “altrove che a Roma” genera nella capitale e negli eserciti delle varie province, inquietudine e profonde scissioni. Le legioni della Germania acclamano imperatore Vitellio, rifiutando di giurare fedeltà a Galba, che la guarnigione insorta a Roma uccide proclamando poi imperatore Otone, il primo marito di Poppea. Otone muove contro Vitellio, che dalla Germania sta marciando verso l’Italia. Libro II. Si accenna all’Oriente, dove Vespasiano e Tito sono impegnati nella rivolta giudaica. In Italia le truppe di Vitellio e Otone si scontrano a Bedriaco e Otone, sconfitto, si suicida. Seguono l’ingresso trionfale di Vitellio a Roma, il saccheggio dell’erario per accontentare i soldati, il tentativo di mettere ordine nell’impero. Si riapre la guerra civile, perché le legioni di Siria e d’Egitto proclamano imperatore Vespasiano, subito confermato dai soldati del Danubio e dalla flotta di Ravenna.

Libro III. Spagna, Gallia e Britannia si dichiarano per Vespasiano, le cui truppe attaccano e sconfiggono gli avversari a Cremona, saccheggiata e data alle fiamme. A Roma, i seguaci di Vitellio attaccano quelli di Vespasiano e ne uccidono il fratello Flavio Sabino, mentre il figlio, Domiziano, si salva a stento rifugiandosi in un tempio di Iside. Roma cade dopo furibondi combattimenti per le vie e Vitellio viene trucidato. Libro IV. Scoppiano rivolte in Gallia e in Germania; il Senato elegge Vespasiano e Tito consoli e Domiziano pretore; Vespasiano si reca ad Alessandria, lasciando Tito a proseguire la guerra contro i giudei; alcuni eventi miracolosi nel tempio di Serapide gli preannunciano il destino imperiale. Libro V. Tito assedia Gerusalemme e Tacito, a questo punto, traccia una breve storia dei giudei, partendo da Mosé. Negli ultimi capitoli prosegue il racconto della guerra in Germania che sta volgendo alla fine.

219

1 - Tacito

storia densa di vicende, terribile per le battaglie, torbida di sedizioni, tragica anche nella pace” – e, dopo aver professato l’obiettività della propria visione, esente sia da ostilità preconcetta sia da indulgente cortigianeria, dichiara di riservarsi per la vecchiaia la trattazione del periodo di Nerva e Traiano, un’età più felice, in cui, per l’inconsueta “fortuna” è lecito “pensare ciò che si vuole e dire ciò che si pensa”. Invece, negli Annali, l’autore riprende dagli inizi la storia del principato romano, concentrandosi sulle sue origini e sui suoi primi protagonisti: Augusto,Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone. Nella visione di Tacito il passaggio dalla travagliata età repubLa visione politica blicana all’età imperiale era stata una necessità storica e posul principato litica per superare i drammatici conflitti determinatisi con le guerre civili, indispensabile al mantenimento della pace e utile per il benessere delle province: “il corpo immenso dell’impero non può stare ed equilibrarsi senza un reggitore”, scrive nelle Storie. Non resta dunque che sperare in un principe illuminato, che si può avere soltanto se la successione avviene per adozione, come aveva fatto Nerva con Traiano. Ma con il nuovo assetto si era fatalmente estinta la libertà repubblicana e si era spento via via ogni residuo di dignità moDegenerazione delle rale, sia per la degenerazione del Senato, di cui l’autore fa istituzioni parte, sia soprattutto per le nefandezze degli imperatori, che lo storico tratteggia con drammatica forza espressiva in una CONTENUTO DEGLI ANNALI Libri I – VI. Trattano il regno di Tiberio (1437 d.C.). Dopo aver accennato alla forma del principato di Augusto e descritto la sua morte, Tacito segue il progressivo inasprirsi del dispotismo e del carattere sospettoso di Tiberio, l’aumento dei processi per lesa maestà, il successo e la caduta del ministro Seiano, gli innumerevoli intrighi della famiglia imperiale, la sempre maggiore crudeltà e dissolutezza del principe e, infine, la sua morte. L’autore narra anche le imprese di Germanico in Germania, la sua morte, pare per avvelenamento, e la guerra in Africa contro i numidi. Libri XI – XII. Trattano gli ultimi nove anni dell’impero di Claudio (47-54). L’imperatore è rappresentato come imbelle e vanesio, maniaco dell’erudizione, dominato dalle mogli e dal liberto Narcisso. La prima moglie, Messalina, lussuriosa e folle, giunge al punto di sposare Gaio Silio men-

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tre Claudio è lontano da Roma; il potente liberto Narcisso fa uccidere Messalina all’insaputa dell’imperatore; la seconda moglie, Agrippina, già madre di Nerone, avida di potere e superba, dopo aver fatto adottare il proprio figlio da Claudio, fa uccidere il marito con funghi avvelenati, perché diventi imperatore Nerone. Libri XIII – XVI. Trattano il principato di Nerone (54-66). Tacito narra le drammatiche e tenebrose vicende di Nerone, il crescente disaccordo con l’intrigante Agrippina, l’avvelenamento di Britannico, figlio di Claudio, e il matricidio per mano di un liberto. Seguono gli eccessi di dissolutezza e di istrionismo dell’imperatore, il ripudio e l’uccisione della prima moglie Ottavia, il matrimonio con la bellissima Poppea, l’incendio di Roma, la congiura dei Pisoni e i suicidi dei congiurati.

1 - Tacito

galleria di tragici profili, dei quali alcuni critici hanno sottolineato l’eccessiva deformazione grottesca: Tiberio sospettoso e astutamente falso, Claudio imbelle e dominato dalle mogli, I ritratti Nerone dissoluto e istrione. Negli Annali la visione tacitiana diventa totalmente pessimi- Visione pessimistica stica e tragica e non risparmia né i protagonisti, i soli artefici della storia, né le masse, inconsapevoli, influenzabili, spesso inclini alla violenza, giudicate dall’alto di una concezione severamente e sprezzantemente aristocratica. Tacito traccia un’approfondita analisi psicologica dei personaggi attraverso Analisi psicologica i loro comportamenti e le situazioni in cui si trovano ad agire. ■ Lo stile e la fortuna La scrittura di Tacito, intensa e di grande suggestione arti- Concisione e stica, è originalissima; la prosa, concisa e allusiva, predilige varietas le ellissi, le metafore violente, la varietas (dissimmetria) con mutamenti inaspettati di struttura e nell’ordine delle parole. Il lessico alterna termini arcaici e solenni, poetici, di ori- Il lessico gine popolare e introduce nuove sfumature semantiche. I suoi ritmi, rapidi e spezzati, contrastano con la calibrata euritmia e perfezione formale del gusto ciceroniano. L’incontestata eccellenza artistica dell’autore, comunque, non può portare a svalutare il significato e la grandezza della sua analisi del mondo romano, come pure è accaduto da parte di alcuni critici. Alla lezione di Tacito, storico di un’età di “tiranni”, si richiamò Francesco Guicciardini nei Ricordi.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

(56 ca - dopo 116 d.C.). Avvocato inizia la carriera politica che culmina nel consolato e nel proconsolato in Asia.

OPERE

Dialogus de oratoribus, in cui Tacito individua la causa della decadenza dell’oratoria nella fine del libero confronto politico per l’avvento del principato; De vita et moribus Agricolae, opera che tratta della vita e delle imprese in Britannia del suocero Agricola, con ampie digressioni etnografiche; De origine et situ Germanorum, l’unica opera etnografica latina pervenuta; tratta delle origini, dei caratteri e dei costumi delle tribù germaniche. Historiae e Annales: sono le sue opere maggiori: delle Storie ci sono rimasti gli avvenimenti dalla morte di Galba fino all’avvento di Vespasiano; degli Annali tutto il principato di Tiberio, nove anni di quello di Claudio e quello di Nerone fino al 66.

LA VISIONE STORICA

Per Tacito l’avvento dell’impero è stata una necessità politica. La sua visione della storia è cupa e pessimistica.

LO STILE

Lo stile di Tacito è originalissimo, conciso e allusivo, lontano dalla concinnitas ciceroniana; il lessico si avvale di termini arcaici, solenni, popolari, introducendo nuovi significati.

221

2 La satira: Giovenale Giovenale, ultimo significativo rappresentante della satira latina, nella denuncia dei vizi della corrotta società contemporanea esprime la sua amara visione della vita. La sua indignatio è autentica, la sua forza espressiva notevole; gli nuoce il reiterato tono aggressivo, con il quale, senza tregua, incalza i suoi bersagli. ■ La vita Decimo Giunio Giovenale (Aquino 55 ca - dopo 127 d.C.) fu il più significativo poeta dell’epoca di Traiano. Le scarse notizie sulla vita si ricavano dai rari cenni autobiografici contenuti nelle sue Satire e da quelli presenti negli epigrammi dell’amico Marziale. Non sono affidabili i dati provenienti da varie biografie, redatte almeno due secoli più tardi. Nacque da una famiglia forse non ricca, ma in grado di procurargli una buona educazione. Giunto a Roma in giovane età, sembra che abbia esercitato l’attività di avvocato fino almeno a quarant’anni, alternandola con quella di declamatore. Non dovette ottenere grande successo e rimase povero; si ridusse per questo a essere cliente, come Marziale, di qualche cittadino eminente. Incominciò a scrivere satire in età matura, forse intorno ai cinquant’anni. Le sue condizioni economiche forse migliorarono, se è vero che potè acquistare una casa a Roma e un podere a Tivoli. Poco attendibile è la tradizione antica secondo la quale concluse la sua vita in Egitto, dove sarebbe stato costretto a recarsi per aver offeso un favorito della corte di Adriano. Dalla sua opera si ricava l’indicazione secondo la quale era ancora attivo nel 127. ■ Le Satire La produzione poetica di Giovenale è composta da 16 Satire, per circa complessivi 3800 esametri, suddivise in 5 libri di diversa estensione, che comprendono rispettivamente le satire I-V, VI, VII-IX, X-XI, XIII-XVI; dell’ultima sono giunti solo i primi 60 versi. Non si conosce la data della loro pubblicazione che, visto il tono, ebbe inizio solo dopo la morte di Domiziano (96 d.C.); furono composte con tutta probabilità negli ultimi suoi trent’anni di vita.

Bersagli delle satire 222

■ Tematiche e valore artistico Gli argomenti delle Satire spaziano dalla condanna dei vizi – gola, frode, omosessualità, vanità delle aspirazioni umane,

2 - La satira: Giovenale

LE SATIRE DI GIOVENALE Satira I: come introduzione il poeta afferma che il genere satirico soddisfa pienamente le sue ambizioni e che vi è stato indotto per sdegno contro il malcostume e la corruzione dilaganti in Roma. Dichiara infine di rivolgere le sue satire contro personaggi “che sono sepolti lungo le strade Flaminia e Latina”, per non subire ritorsioni da parte dei contemporanei. Satira II: invettiva acerba e realistica contro l’ipocrisia degli uomini effemminati che condannano in pubblico le turpitudini di cui essi stessi sono colpevoli in privato. Satira III: Umbricio, un vecchio amico del poeta, disgustato dalla corruzione di Roma, spiega perché si ritira in campagna, presso Cuma: gli onesti e i poveri non possono più vivere in una città, in cui trionfa l’affarismo della gente nuova, in cui la fanno da padroni schiavi e istrioni arricchiti e gli immigrati greci sovvertono gli antichi virtuosi costumi. Segue una colorita rappresentazione delle strade di Roma affollate, rumorose, piene di malviventi e pericolose per i continui incendi e crolli. Satira IV: descrizione eroicomica della riunione del consiglio imperiale, voluta da Domiziano, per decidere sul modo migliore di cucinare un gigantesco rombo; viene proposta la costruzione di una grande padella. Satira V: tratta la condizione umiliante dei clienti mortificati da patroni ricchi, rozzi e arroganti, soprattutto durante i banchetti. Satira VI: è la più lunga (661 esametri) e la più nota tra quelle scritte da Giovenale, che passa in rassegna i vizi delle donne di ogni ceto, soprattutto delle mogli, la loro infinita immoralità, spinta talora fino al delitto. Satira VII: descrive la misera condizione morale e materiale di intellettuali, poeti, avvocati, retori, insegnanti, costretti a subire mortificazioni di vario genere per sopravvivere e meno considerati dei cam-

pioni sportivi o degli attori di grido. Satira VIII: sulla nobiltà di nascita, che non ha valore se non è accompagnata dalla virtù. Per esempio, i nobili Catilina e Nerone si resero colpevoli di azioni disonorevoli, mentre Cicerone e Mario, uomini nuovi, divennero famosi per i loro meriti. Satira IX: il parassita Nerolo si lamenta, con un linguaggio molto realistico e crudo dello scarso compenso ottenuto per i turpi servizi resi a un ricco effeminato vizioso. Satira X: sulla vanità dei falsi beni (ricchezza, gloria oratoria e militare, potenza, longevità e bellezza), che portano rovina più che felicità: agli dei si deve domandare soltanto mens sana in corpore sano. Satira XI: condanna dei banchetti lussuosi, che rovinano economicamente, ed elogio della sobrietà; il poeta espone poi la lista dei cibi che l’amico Persico troverà sulla sua mensa. Satira XII: Giovenale, sotto forma di epistola, narra a Corvino il naufragio a cui è scampato l’amico Catullo, padre di tre figli, e i sacrifici da lui predisposti come ringraziamento, senza sospetto di interesse personale. Satira XIII: il poeta consola un amico truffato di una grossa somma di denaro, come caso non raro, visto che i malviventi sono numerosissimi, e sostiene che, pur rimanendo impunito, il colpevole sarà tormentato dal rimorso. Satira XIV: sull’educazione dei giovani, mette in evidenza i cattivi esempi dati dalla condotta immorale dei padri; si scaglia soprattutto contro l’avarizia e l’avidità; esalta gli antenati che davano ai figli esempi di virtù. Satira XV: il poeta si scaglia contro la crudeltà umana, prendendo spunto da un episodio di cannibalismo, accaduto in Egitto. Satira XVI: incompleta, sui privilegi e sui vantaggi della vita militare.

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2 - La satira: Giovenale

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fanatismo e superstizione – al rimpianto per l’abbandono delle antiche virtù, all’invettiva contro le classi nuove e i nuovi gruppi emergenti (liberti, orientali), all’invasione dei costumi greci, al servilismo, alla miseria del popolo e alla penosa condizione dei letterati. Nonostante siano chiaramenSincerità grottesca e te evidenti l’esagerazione, la deformazione grottesca e l’indeclamatoria flusso della tecnica declamatoria, caratteristica di Giovenale è la sincerità: la sua poesia nasce da un senso di rettitudine morale, dall’indignazione di fronte alle prepotenze e alle dissolutezze, di cui è ogni giorno testimone. Fatti e perSpecchio della realtà sonaggi rispecchiano la realtà e la sua satira, oltre che gesociale nericamente umana, assume l’aspetto di un’invettiva contro le classi alte della capitale. La lunghissima sesta satira, con una serie di ritratti caricaturali, è una grottesca e lugubre galMisoginia leria delle nefandezze di tutte le donne, un testo tra i più misogini espressi dalla letteratura antica. Giovenale è lontanissimo dall’ironia sorridente e benevola di Orazio, non possiede la serenità moralistica di Cicerone né l’austera finalità educativa di Persio; la sua poesia nasce da un temperamento aggressivo e pugnace e riflette piuttosto una visione amara e sarcastica della vita, con passi di insolita acredine. Stile Nello stile, pungente e vivace, incisivo ed efficace, prevalgono la ricerca del colore, il gusto arcaicizzante, i toni epici, drammatici e declamatori, che non escludono, talvolta, l’andamento del discorso familiare e popolare, il ricorso al termine inusitato o volgare.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

(Aquino 55 ca - dopo 127 d.C.) giunge a Roma da giovane e si dedica senza successo all’avvocatura e alla declamazione. Inizia a scrivere satire in età matura, dopo la morte di Domiziano.

Le Satire

Sono 16 per circa 3800 esametri, ripartite in 5 libri, con argomenti che vanno dalla condanna dei vizi umani, della corruzione dilagante e del servilismo imperante, alla nostalgia per le antiche virtù e alla constatazione delle miserie del popolo e della triste condizione dei letterati. Giovenale si esprime con aggressiva sincerità e indignazione, anche se la moda della declamazione lo porta all’esagerazione e al grottesco. La sua è una visione amara della vita.

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3 Plinio il Giovane Plinio il Giovane, una delle figure più caratteristiche dell’epoca di Traiano, traccia con garbata eleganza un quadro dell’élite colta e mondana della capitale nel nuovo clima di serenità e di stabilità politica.

■ La vita Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto il Giovane (Como 61/62 - Bitinia? 113 d.C.), era figlio di una sorella di Plinio il Vecchio; rimasto presto orfano di padre, fu adottato dallo zio materno del quale assunse il nome. Di ricchissima famiglia del ceto equestre, studiò retorica a Roma con Quintiliano e con Nicete Sacerdote. A 19 anni esordì nella carriera forense e divenne avvocato di successo; intraprese subito la car- La carriera forense riera pubblica che fu rapida e fortunata. Fu nominato tri- e politica buno militare in Siria, comandante di uno squadrone di cavalieri e questore. Nel 90 entrò nell’ordine senatorio. Divenne poi tribuno della plebe, pretore, prefetto dell’erario militare e prefetto dell’erario di Saturno, console nel 100, anno in cui sostenne con l’amico fraterno Tacito l’accusa contro il proconsole d’Asia Marco Prisco, reo di malversazione. Fu nominato legato imperiale in Bitinia e morì durante l’esercizio di tale funzione o, forse, subito dopo il ritorno in Italia. Uomo ricchissimo, intelligente, cordiale e simpatico, fu amico dei più importanti personaggi del mondo politico e letterario del suo tempo. Sono andate perdute le orazioni da avvocato e le poesie, di cui Plinio stesso fa orgogliosamente menzione; restano il Panegyricus Traiano imperatore dictus (Panegirico a Traiano) e 10 libri di Epistulae.

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■ Il Panegirico a Traiano È la redazione del discorso pronunciato in senato, nell’anno 100, per ringraziare l’imperatore Traiano della nomina a console; ampliato dallo stesso Plinio, finì per raggiungere la non comune lunghezza di 95 capitoli. L’orazione è riportata come prima di una raccolta di panegirici di vari imperatori. Plinio ricorda gli avvenimenti più importanti della vita del- Argomento l’imperatore: la gioventù, l’adozione da parte di Nerva, le imprese militari, le riforme civili, la liberalità, la sobrietà, l’azione moralizzatrice della vita pubblica. Dopo un’invettiva contro Domiziano, Plinio elogia la moglie e la sorella del-

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3 - Plinio il Giovane

Tono sincero ma enfatico Lo stile

l’imperatore, ringrazia il principe per l’onore accordato a lui e al suo collega Tertulo e chiude con una preghiera a Giove Capitolino. Nonostante il tono enfatico e adulatorio, il panegirico rispecchia la sincerità di sentimenti dell’autore e le reali doti morali e intellettuali dell’“ottimo imperatore”, la cui figura di sovrano illuminato appare in piena luce. Lo stile di Plinio è fluido ed espressivo, con frasi chiare e semplici, anche se elaborato e ampolloso, come era nella moda dell’epoca.

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■ Le Epistulae L’opera più importante e originale di Plinio sono i 10 libri delle Epistole. I primi nove libri furono pubblicati dall’autore e comprendono 247 lettere di varia lunghezza inviate a Lettere composte familiari e amici. Nella prima, a Setticio Claro, Plinio dichiaper la lettura ra di aver riunito le lettere a caso, senza nessuna valutazioo la pubblicazione ne critica o di ordine cronologico; ma è solo falsa modestia, perché esse sono evidentemente composte per la lettura e la pubblicazione – se non addirittura per i posteri – come rivela l’accorta alternanza dei temi proposti, ordinati sul piano artistico con lo scopo di evitare la monotonia, e la semplice ma sorvegliata eleganza della scrittura. Non hanno Modello di Cicerone quindi l’immediatezza talora drammatica delle lettere di Cicerone, cui pure Plinio intendeva fare riferimento. Le letteQuadro della vita re offrono un quadro molto particolareggiato della vita quotidiana di Roma quotidiana di Roma, importante per gli storici e per gli archeologi: illustrano le occasioni e le manifestazioni culturali, specie le declamazioni e recitazioni poetiche, magnificano le sue numerose ville, parlano della vita familiare e delle amicizie, fanno cenno ai letterati più famosi, da Marziale a Silio Italico, da Svetonio a Tacito. Altre sono semplici biglietti d’invito, di raccomandazione, di condoglianze, di affari. In alcune lettere Plinio dimostra notevoli capacità descrittive come in quelle sulle fonti del Clitunno, sull’inondazione del Tevere o, come nella più famosa, indirizzata a Tacito, in cui L’eruzione del è descritta l’eruzione del Vesuvio del 79, che distrusse le Vesuvio città campane di Ercolano, Pompei, Stabia e in cui morì PliDecimo libro: nio il Vecchio. Il decimo libro fu pubblicato postumo, con corrispondenza con la corrispondenza dell’autore, a quel tempo governatore delTraiano la Bitinia, a Traiano – 79 lettere – con 50 risposte dell’imperatore ai quesiti di natura fiscale, politica e amministrativa postigli dal suo solerte quanto indeciso funzionario. A lettere su argomenti di importanza secondaria si alternano altre su temi di grande rilievo, come la 96, che riguarda il proProcessi contro blema del comportamento da tenersi nei processi contro i i cristiani cristiani; molto equilibrata è la risposta di Traiano – lettera

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3 - Plinio il Giovane

97 – che impone di non tener conto delle denunce anonime e comunque di sospendere i processi contro i cristiani, qualora questi accettino di sacrificare all’imperatore.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

(Como 61/62 - Bitinia 113 ca d.C.) di ricchissima famiglia, studia a Roma, diviene avvocato e fa una brillante carriera politica fino a diventare console nel 100 e governatore in Bitinia. Opere principali: Il Panegirico a Traiano, discorso di ringraziamento all’imperatore per la nomina a console e Le Epistole.

Le Epistole

9 libri, pubblicati da Plinio, di 247 lettere inviate a familiari e amici che offrono un quadro dettagliato della vita dell’autore e della Roma imperiale. La più famosa è indirizzata a Tacito e descrive l’eruzione del Vesuvio del 79 e la morte di Plinio il Vecchio. Il X libro, postumo, comprende il carteggio tra Plinio, governatore di Bitinia, e Traiano. La più famosa riguarda il comportamento da tenersi nei processi contro i cristiani.

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DALL’ETÀ DI ADRIANO ALLE SOGLIE DEL MEDIOEVO 1 La poesia 2 La prosa: Svetonio, Floro, Frontone, Gellio 3 Apuleio 4 La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti 5 Tertulliano e l’apologetica cristiana 6 La poesia cristiana 7 I Padri della Chiesa latina 8 Agostino e gli ultimi prosatori latini

Nell’età che va dall’impero di Adriano (117-138) alla caduta dell’Impero romano d’Occidente (476), la vita culturale è orientata allo studio dei modelli antichi; la curiosità e l’aneddotica sostituiscono l’originalità e un grigiore uniforme subentra alla varietà. Venute meno le condizioni che avevano dato vita alle grandi opere poetiche, storiche e filosofiche dei secoli precedenti, fioriscono quelle di biografia, di grammatica, di antiquariato, di scienza e di diritto. Nella vita spirituale tramontano definitivamente i tradizionali valori religiosi e sorgono nuove forme di curiositas intellettuale e nuove aspirazioni mistiche. Nel II secolo operano lo storico Svetonio, autore di fortunate biografie, il retore ed erudito arcaicizzante Frontone, Apuleio, lo scrittore più significativo, autore del singolare romanzo Metamorfosi, e iniziano la loro attività gli apologisti cristiani difensori appassionati della nuova religione, i cui esponenti più significativi – Minucio Felice, Tertulliano, Cipriano, Arnobio e Lattanzio – vengono dall’Africa, a dimostrazione della fertilità intellettuale di quella regione. Nei secoli IV e V, non essendo più necessario difendere il cristianesimo, si afferma l’esigenza di una rinnovata esegesi dei testi sacri e di una sistemazione organica della dottrina. Per dare forma compiuta alla cultura cristiana, i padri della Chiesa attingono alla cultura classica, dopo averne superato l’originaria diffidenza. Ambrogio riprende temi e forme ciceroniane, Girolamo, filologo raffinatissimo, cura la revisione e la traduzione in latino della Bibbia, Agostino pone le basi di una tradizione di pensiero, che si svilupperà nei secoli seguenti fino all’età moderna. Nell’ambito della cultura pagana, ormai soccombente, nel III e IV secolo fioriscono gli ultimi poeti della classicità: Nemesiano, Ausonio, Rutilio Namaziano e Claudiano. Ammiano Marcellino, memore della lezione tacitiana, è l’ultimo grande storico di Roma. Donato e Servio, commentatori di Virgilio, e Macrobio, con il commentario al Somnium Scipionis di Cicerone, sono i filologi e gli eruditi di maggior spicco, mentre Prisciano (VI secolo) esercita, con la sua Institutio de arte grammatica, un influsso decisivo sullo studio del latino nel Medioevo.

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1 La poesia La produzione poetica di questo periodo dell’impero entra in una spirale di decadenza dalla quale non si risolleverà, perché il genere non è più al centro dell’interesse letterario. Non si esprime quindi più in testi epici, mitologici o storici, né teatrali, né satirici; la poesia sopravvive solo, con forme languide e leziose, nell’esercizio letterario dei poëtae novelli, che trattano i temi eterni dell’amore e della natura. Non manca qualche lodevole eccezione (Pervigilium Veneris), in cui un’arte raffinata sa offrire immagini suggestive, che ci riportano alla migliore produzione neoterica.

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I poëtae novelli

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Nel II secolo riscosse un certo successo la scuola dei poëtae novelli (poeti novelli), definizione creata da Terenziano Mauro (II-III secolo) per indicare un gruppo di poeti così denominati perché si richiamavano ai neóteroi del I secolo a.C. Rispetto ai predecessori non furono degli innovatori, ma degli arcaicizzanti. Si distinsero per la delicatezza e tenuità della vena lirica, per la brevità delle loro composizioni e per lo sperimentalismo metrico e lessicale. Esempi di questo virtuosismo furono i versi reciproci, che si leggevano da sinistra a destra e viceversa, i rhopalici, in cui ogni verso aveva una sillaba in più del precedente. Esponenti di questo movimento furono Anniano Falisco, autore di Carmina Falisca di ispirazione agreste e dei Fescennini; Settimio Sereno, autore di Opuscula ruralia (Poemetti campestri); Alfio Avito, autore di Excellentes, una raccolta di aneddoti riguardanti personaggi famosi; Mariano, autore, secondo la tradizione, dei Lupercalia, riguardanti gli antichi riti religiosi dei Lupercali. Di tutti questi poeti non ci rimangono che scarsissimi frammenti. Altri carmi anonimi presenti nella africana Anthologia Latina – raccolta di poesie risalente al VI secolo – sono riconducibili a questo movimento poetico. La personalità più significativa del II secolo fu l’imperatore Adriano, uomo di grande cultura, amante delle lettere e poeta lui stesso. Di lui ci sono rimasti alcuni versi indirizzati a Floro e 5 dimetri giambici in cui Adriano saluta mestamente la sua “animuccia vagabonda e carezzevole”.

Il recupero “arcaicizzante” dei poëtae novi Delicatezza e tenuità della vena lirica

Anniano e gli altri novelli

L’imperatore Adriano

Pervigilium Veneris Della Anthologia Latina fa parte il Pervigilium Veneris (La veglia sacra di Venere), uno dei più notevoli esempi di poe231

1 - La poesia

Inno a Venere

Temi popolari ed erudizione letteraria

sia lirica dell’ultimo periodo della letteratura latina. Anonimo, databile tra il II e il IV secolo e attribuito ora a Floro, ora ad Apuleio, ora a Nemesiano, è un grazioso carme in 93 settenari trocaici, in cui i versi, suddivisi in strofe irregolari, sono intercalati dal ritornello “chi non ha mai amato, domani amerà, chi amò già, amerà”, chiaro invito all’amore nei giorni dedicati alla dea. È infatti un inno a Venere, dea dell’amore e forza vivificatrice della natura; forse doveva essere cantato da un coro di fanciulle in occasione della festa notturna (pervigilium) che si celebrava a Ibla, in Sicilia, ai piedi dell’Etna, per festeggiare l’arrivo della primavera. In questa occasione si celebravano le nozze di tutti gli esseri, di cui restano famose quelle delle rose che “sono nate dal sangue di Venere e dai baci d’Amore”. Il carme si chiude con un vivace quadro degli animali che sono lieti delle loro recenti unioni e con il desiderio espresso dal poeta: “Quando viene per me la primavera?” Suggestivo nella sua apparente semplicità, il carme nasconde nel tono popolare tratti di arte raffinata e motivi di chiara derivazione greca, echi lucreziani e virgiliani. La lingua, postclassica, non è esente da volgarismi. L’opera è stata considerata talvolta un canto popolare, talvolta una produzione dotta.

Nemesiano

Poemetto didascalico sulla caccia

Le ecloghe

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Marco Aurelio Olimpio Nemesiano, di origine africana, forse nato a Cartagine, fu attivo nella seconda metà del III secolo, come testimonia la dedica della sua opera agli imperatori Carino e Numeriano. Scrisse Cynegetica, un poemetto didascalico sulla caccia, di cui ci è giunto un lungo frammento di 325 esametri. Dopo aver dichiarato nel lungo proemio di non voler trattare triti soggetti mitologici, Nemesiano descrive minuziosamente i preparativi per la caccia, l’addestramento dei cavalli e, soprattutto, dei cani, la preparazione delle reti. Di lui ci sono giunte anche 4 ecloghe a imitazione delle Bucoliche di Virgilio, che sono state conservate, in alcuni manoscritti, insieme a quelle di Calpurnio Siculo, con le quali sono state spesso confuse. Verseggiatore preciso e di buon gusto, Nemesiano non è un grande poeta perché gli mancano l’originalità e la fantasia, anche se qualche verso è esteticamente pregevole.

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1 - La poesia

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SCHEMA RIASSUNTIVO

Gruppo di poeti che si richiamano ai neóteroi del I secolo a C. Si distinguono per la vena poetica delicata e tenue e per lo sperimentalismo metrico e lessicale. I principali sono Anniano Falisco, Settimio Sereno, Alfio Avito, Mariano e l’imperatore Adriano.

PERVIGILIUM VENERIS

È un inno in 93 esametri a Venere, di ignoto, databile tra il II e il IV secolo compreso nella raccolta africana Anthologia Latina, risalente al VI secolo. Rappresenta uno degli esempi più pregevoli di lirica dell’ultimo periodo della letteratura latina.

NEMESIANO

(Seconda metà del II secolo). Di questo poeta, di origine africana, rimangono un frammento di 325 esametri di un poemetto sulla caccia, Cynegetica, e 4 ecloghe a imitazione delle Bucoliche.

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POËTAE NOVELLI

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2 La prosa: Svetonio, Floro, Frontone, Gellio

Svetonio, erudito e biografo tra i più apprezzati e famosi della letteratura latina, esercitò una grande influenza sulla biografia e sulla storiografia dell’età successiva. La sua opera è un chiaro segno dei mutamenti di gusto in atto: si perdono di vista, quando non si falsano, i grandi avvenimenti per mettere in rilievo soprattutto gli aspetti esteriori e l’aneddotica, anche inventata, per soddisfare la curiosità dei lettori. È l’età in cui si affermano Frontone e l’atticismo arcaizzante, la modesta duttilità di Floro, che si cimenta anche con la poesia, i preziosi quanto disordinati interessi antiquari di Gellio.

Svetonio

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Gaio Svetonio Tranquillo (70/75 d.C.-140/150) nacque da una famiglia di ordine equestre. Suo padre, Svetonio Leto, aveva combattuto nella guerra civile negli anni 69-70, come ufficiaAttività forense le della XIII legione A Roma si dedicò inizialmente all’attività forense e divenne in seguito funzionario imperiale con l’appoggio prima di Plinio il Giovane e poi di Setticio Claro. SotGli incarichi to Traiano fu addetto alle biblioteche pubbliche e gli fu accordato lo ius trium liberorum; sotto Adriano divenne magister epistularum, cioè segretario per la corrispondenza personale del principe, e addetto all’archivio imperiale. Caduto Venne rimosso dalle in disgrazia insieme con il prefetto del pretorio Setticio Clasue funzioni ro, venne rimosso dalle sue funzioni nel 122, con la motivazione ufficiale di aver mancato di rispetto all’imperatrice Sabina. Si ritirò allora a vita privata, dedicandosi interamente agli studi. Si ignora il luogo e l’anno della morte, avvenuta presumibilmente tra il 140 e il 150. L’amico Plinio il Giovane lo definisce in una lettera “uomo probissimo ed eruditissimo”.

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■ Le opere Nulla è pervenuto della sua imponente produzione, in latino e greco, di carattere erudito. Si ha notizia di due grandi opere enciclopediche, Roma e Prata (o Pratum); sono inoltre giunti numerosi titoli di scritti minori, contenuti soprattutto nel cosiddetto lessico bizantino (X secolo) della Suda, alcuni dei quali dovevano probabilmente essere compresi nelle due precedenti miscellanee. Dotato di molteplici interessi, Svetonio trattò gli argomenti più disparati, dalle feste pubbliche agli usi e costumi, dai giochi e spettacoli alle

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Varietà di temi trattati

2 - La prosa: Svetonio, Floro, Frontone, Gellio

cortigiane famose, dal calendario allo studio dei segni critici impiegati in filologia, dai difetti fisici alle abbreviazioni. Di Svetonio ci sono giunte le biografie: una sezione del De viris il- Le biografie lustribus e, completo, il De vita Caesarum. ■ De viris illustribus De viris illustribus (Gli uomini famosi) è una raccolta di bio- Una raccolta di grafie di letterati, divise per generi: oratori, poeti, filosofi, sto- biografie di letterati rici, grammatici e retori. Rimane solo la sezione dedicata ai grammatici e ai retori (De grammaticis et rhetoribus), mutila delle ultime 11 biografie. Restano le vite di 20 grammatici, dal greco Cratete di Mallo a Valerio Probo, e di 5 retori. Delle altre sezioni si hanno solo frammenti sparsi, giunti per via indiretta: probabilmente dal De poetis derivano, forse parzialmente rimaneggiate, le vite di Terenzio, Virgilio, Orazio e Lucano. ■ De vita Caesarum Praticamente completa è l’opera De vita Caesarum (La vita degli imperatori) in 8 libri, che contiene le biografie dei 12 imperatori da Giulio Cesare a Domiziano. Dedicata a Setticio Claro, fu pubblicata quando Svetonio era segretario di Adriano. Sono andati perduti la prefazione e i primi anni della vita di Cesare. I primi sei libri sono dedicati ciascuno a un imperatore della casa Giulio-Claudia: Cesare, Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone; il settimo comprende le vite di Galba, Otone e Vitellio, l’ottavo quelle dei Flavi: Vespasiano, Tito e Domiziano. Nel tracciare i 12 profili l’autore segue uno schema costante: alla presentazione (cronologica) degli eventi dalla nascita all’ascesa al trono, segue l’illustrazione per species, cioè per categorie, dei tratti della personalità, del carattere, dei vizi e delle virtù, dei meriti e delle colpe; la biografia si conclude con la descrizione della morte, delle onoranze funebri e del testamento. ■ Carattere, stile e fortuna delle biografie Svetonio non è uno storico, perché nelle sue biografie la figura del principe compare quasi esclusivamente come uomo, mentre nulla o quasi fa riferimento alla vita e agli eventi dell’impero romano. Dei personaggi lo scrittore ci mostra gli aspetti fisici, il loro modo di vestire, di mangiare, di dormire, le virtù e i vizi, anche i più segreti; le notizie, raccolte con scrupolo negli archivi pubblici e imperiali, sono riferite con obiettività, ma senza preoccuparsi dell’ordine cronologico né con l’intenzione di tracciare giudizi o analisi psicologiche: appunto questi sono i limiti più evidenti dell’opera. La stessa individualità dei protagonisti risulta

La vita degli imperatori

Schema-tipo delle biografie di Svetonio Non per tempora sed per species

Non è uno storico

Disinteresse per l’ordine cronologico e le analisi psicologiche 235

2 - La prosa: Svetonio, Floro, Frontone, Gellio

Pettegolezzo e demistificazione Ricchezza delle informazioni Linguaggio sobrio, semplice e chiaro

Fortuna delle opere

frammentata in una serie di curiosità e aneddoti, talvolta superficiali e al limite del pettegolezzo, soddisfacendo il gusto del pubblico dell’epoca. Svetonio riferisce giudizi, sentenze, motti spiritosi pronunciati dai protagonisti, che ne illuminano in modo preciso alcuni aspetti dei personaggi, rendendoli vivi. L’opera è quindi interessante e preziosa per la ricchezza delle informazioni e per le notizie sulla vita privata degli imperatori. Svetonio usa un linguaggio sobrio ed essenziale, semplice e chiaro, con frequenti costruzioni participiali, neologismi, grecismi e termini astratti, come era d’uso nel linguaggio parlato del tempo. Le vite dei Cesari, diventate presto famose, diventarono un modello per le successive biografie di imperatori, e furono molto apprezzate durante il Medioevo e nell’Umanesimo. Anche il De viris illustribus godette di ampia notorietà: san Girolamo se ne servì per arricchire la sua Cronaca e il Petrarca si ispirò a esse per la sua opera omonima.

Floro Identità tra il poeta e La critica più recente identifica con Lucio Anneo (o Annio) lo storico Floro sia l’omonimo poeta e maestro di retorica dell’epoca di Adriano, autore di versi scherzosi e di epigrammi, sia lo storico Floro, scrittori che sino a poco tempo fa si consideravano come due persone diverse.

Amico di Adriano

■ La vita e l’opera Della sua vita si sa solo quel poco che lo stesso Floro dice nel dialogo, di genere autobiografico, Vergilius orator an poeta (Virgilio oratore o poeta), di cui è pervenuta la parte iniziale. Di origine africana, partecipò a Roma a una gara di poesia nella quale ingiustamente non fu premiato per la gelosia di Domiziano. Floro lasciò allora, indispettito, la capitale e viaggiò a lungo nel Mediterraneo; si fermò in Spagna, a Tarragona, dove insegnò retorica. Ritornato nella capitale, divenne amico dell’imperatore Adriano e si dedicò alla poesia e alla storia. Non si conosce l’anno della morte.

■ Epitoma de Tito Livio La sua opera storica Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC (Riassunto di 700 anni di guerre secondo Tito Livio) ha un titolo probabilmente non autenFonti diverse da Livio tico, perché l’autore, se attinge soprattutto a Livio, se ne differenzia nello spirito e nell’impostazione e utilizza

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2 - La prosa: Svetonio, Floro, Frontone, Gellio

ampiamente altre fonti, quali Sallustio, Cesare e Seneca il Retore, registrando inoltre avvenimenti successivi alla trattazione liviana. Floro divide la storia romana in quattro età, come quelle della vita umana, secondo un criterio che aveva adottato Seneca il Vecchio nelle sue Historiae: il periodo monarchico (infanzia), l’età repubblicana fino alla conquista di tutta le penisola italica (adolescenza), la costruzione di un impero e la pacificazione di Augusto (maturità), l’età imperiale fino ad Adriano (vecchiaia). L’opera è un panegirico, pieno di retorica e di enfasi, del valore militare di tutto il popolo romano, di cui esalta le gesta dalle origini. Di Floro poeta ci sono rimasti alcuni epigrammi in trimetri trocaici e alcuni versi scherzosi indirizzati ad Adriano con relativa ironica risposta dell’imperatore-poeta.

Schema “biologico” della crescita di Roma

Un panegirico del valore militare di Roma

Frontone Marco Cornelio Frontone nacque a Cirta in Numidia verso il 100, da una facoltosa famiglia di origine italica. Trasferitosi a Roma dopo gli studi all’epoca dell’imperatore Adriano, divenne il più famoso oratore del suo tempo, tanto che Antonino Pio gli affidò, nel 139, l’educazione dei due figli adottivi, i futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero, con i quali mantenne buoni rapporti anche dopo la loro ascesa al trono, benché si rammaricasse che Marco Aurelio avesse lasciato gli studi retorici per quelli di filosofia. Ottenne anche cariche importanti, che culminarono nel 143 con il conso- Le cariche lato: in questa occasione ringraziò l’imperatore con una orazione pronunciata in Senato. Capo riconosciuto della cor- Il purismo rente letteraria del purismo arcaizzante, i cui seguaci pre- arcaizzante sero il nome di “frontoniani”, estese la sua influenza a tutto il movimento di reazione culturale del II secolo. Morì a Roma, probabilmente intorno al 170; le ultime notizie di lui sono legate alla promessa fatta a Lucio Vero di narrare le campagne militari da lui condotte contro i parti nel 166. ■ Le opere Della vasta produzione di Frontone, che comprendeva orazioni, esercitazioni retoriche, anche di argomento paradossale, saggi storici ed epistole, tanto ammirata dai critici an- Limite della nostra tichi, non rimaneva quasi nulla fino al 1815, quando il futu- conoscenza di ro cardinale Angelo Mai ritrovò nella Biblioteca Ambrosiana Frontone di Milano e, successivamente, nella Biblioteca Vaticana, alcuni testi dello scrittore. Le speranze degli studiosi andarono deluse quando si scoprì che i palinsesti comprendevano

237

2 - La prosa: Svetonio, Floro, Frontone, Gellio

Le opere

raccolte di lettere, brevi declamazioni e testi narrativi, in greco e in latino, e frammenti di poco conto, ma che non vi era nessuna delle orazioni che gli avevano procurato tanta fama, quali le arringhe contro Pelope e contro il retore Erode Attico e il discorso pronunciato in Senato contro i cristiani, di cui restano alcuni frammenti tramandati da Minucio Felice. Delle esercitazioni retoriche sono conservate, tra le altre, l’Arion, antica favola di Arione, le Laudes neglegentiae (Elogio della pigrizia), le Laudes fumi et pulveris (Elogio del fumo e della polvere), di cui rimane la parte iniziale. I saggi storici giuntici sono due: il De bello Parthico (La guerra contro i parti) e i Principia historiae, una premessa alla narrazione delle campagne militari di Lucio Vero contro i parti, in cui egli enuncia le proprie idee sulla storiografia. La parte più notevole della produzione di Frontone è composta dalle Epistole, indirizzate ad Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero, all’imperatrice Faustina e ad alcuni amici. Gli argomenti trattati riguardano in genere la retorica e la stilistica. Nei testi pervenuti Frontone mostra una fredda erudizione, scarso interesse per temi morali, filosofici e politici, culto per l’artificio retorico e amore per uno stile puristico, forgiato sull’esempio di Ennio, di Catone e di Sallustio, in cui abbondano termini arcaici e raffinati.

Tito Il culto della parola

Gellio

Simpatie per la letteratura latina arcaica Le Noctes Atticae, opera asistematica

Esposizione piacevole 238

Aulo Gellio nacque intorno al 130 probabilmente a Roma, dove studiò con i più celebri maestri del tempo, quali il grammatico Sulpicio Apollinare, i retori Tito Castrizio e Antonio Giuliano e il filosofo Favorino. Fu amico di Frontone di cui condivise le simpatie per la letteratura latina arcaica. Soggiornò ad Atene, dove conobbe il retore Erode Attico e il filosofo Tauro. A Roma intraprese la carriera di giudice, dedicandosi nel tempo libero agli studi. Incerta è la data della morte. Scrisse le Noctes Atticae (Le notti attiche), in 20 libri, di cui sono andati perduti l’inizio della prefazione e il libro ottavo. Il titolo allude alle lunghe serate invernali trascorse in Attica riordinando l’immenso materiale raccolto. L’opera è, infatti, una miniera di notizie e di questioni tra le più disparate, che spaziano dal diritto alla filosofia, dalla storia all’arte, dalla geometria alla letteratura. Esse sono esposte senza alcun ordine: “Ho seguito l’ordine fortuito in cui si trovavano i miei appunti”, scrive nel proemio l’autore. Gellio stesso dichiara anche di voler scrivere in una prosa non elaborata e senza pretese, ma il tono dell’esposizione è piacevole ed è ravvivato da dialoghi, incontri, episodi spesso

2 - La prosa: Svetonio, Floro, Frontone, Gellio

immaginari. Sono soprattutto preziosi i cospicui frammenti di testi letterari greci e latini – che altrimenti sarebbero andati perduti – che Gellio ci ha trasmesso attraverso le numerose citazioni.

SCHEMA RIASSUNTIVO SVETONIO Le opere

Il biografo

Gaio Svetonio Tranquillo (70/75 - 140/150) esercita la professione forense, diventa addetto alle biblioteche pubbliche e poi segretario di Adriano. Rimosso dalle sue funzioni nel 122, si ritira a vita privata, dedicandosi agli studi. De viris illustribus, raccolta di vite di letterati divisa per generi della quale sono giunte 25 biografie di grammatici e retori. Pervenuta completa è l’opera De vita Caesarum, 12 biografie di imperatori da Cesare a Domiziano, nelle quali Svetonio segue uno schema costante. Nulla ci è rimasto delle sue opere di erudizione enciclopedica. Svetonio non è uno storico, ma un serio raccoglitore di notizie riportate con obiettività, ma senza ordine cronologico, giudizi e analisi psicologiche. Preziose per la ricchezza di informazioni, le biografie sono esposte con un linguaggio sobrio, essenziale e semplice. (ca 80 - ca 140). Di origine africana, a Roma diviene amico di Adriano. Scrive l’Epitoma de Tito Livio bellorum omnium, un riassunto delle opere di Livio, da cui si differenzia per l’impostazione e per lo spirito. Floro divide la storia in 4 età; l’opera è un panegirico del popolo romano.

FRONTONE

Frontone (Cirta ca 100-Roma ca 170). Diviene il più celebre oratore di Roma. Assume l’incarico di precettore dei futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero Ricopre cariche importanti che culminano nel consolato. Della sua vasta produzione non rimangono che alcune esercitazioni retoriche, due saggi storici e le Epistole. Frontone è un erudito cultore dell’artificio retorico e del purismo arcaizzante.

GELLIO

(Roma ca 130 - ?). Amico di Frontone, con cui divide le simpatie per la letteratura arcaica, intraprende la carriera di giudice. Scrive le Noctes Atticae, fonte di notizie di vario genere esposte senza ordine, ma di piacevole di lettura.

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FLORO

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3 Apuleio La curiosa e versatile personalità di Apuleio domina la seconda metà del II secolo, rivelandosi il più autentico interprete dei gusti e delle nuove tendenze mistico-religiose. Oratore, filosofo, scienziato, conferenziere, egli scrive l’unico vero e proprio romanzo della letteratura latina che sia pervenuto integro.

La vita L’origine africana

Gli studi

Il prenome di Apuleio è ignoto; quello di Lucio, tramandato dai codici antichi, è verosimilmente derivato dal nome del protagonista del suo romanzo. Nacque intorno al 125 a Madaura in Numidia (l’odierna Algeria) da una famiglia agiata che gli permise di trasferirsi prima a Cartagine, per seguire gli studi di grammatica e di retorica, e poi ad Atene, dove si dedicò all’eloquenza e all’approfondimento degli studi filosofici. Avido di sapere, si interessò anche di scienze naturali, geometria, astronomia, medicina e musica, si vantò infatti di essersi dedicato alle discipline di tutte le Muse Fu attratto dalle dottrine religiose e venne iniziato ai misteri di Dioniso, di Iside e di altre divinità. Viaggiatore instancabile (disse di sé viae cupidus et peregrinationes cupiens, avido di viaggiare e desideroso di peregrinare), fu a Roma e in molte altre località dell’Oriente, acquistando la fama di grande conferenziere.

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Il matrimonio

Accusato di magia

240

■ Il matrimonio e il processo Tornato in Africa e stabilitosi a Cartagine, durante un viaggio verso Alessandria si fermò a Oea (l’odierna Tripoli), dove fu ospite di Ponziano, suo compagno di studi ad Atene. Qui, nel 155, si colloca l’episodio più rilevante e più ricco di conseguenze della sua vita: il matrimonio con Pudentilla, ricchissima vedova madre dell’amico. Dopo tre anni, infatti, i parenti della donna accusarono Apuleio di aver plagiato e sedotto Pudentilla con filtri malefici (mala medicamenta) e formule magiche (magici sussurri) e dell’omicidio dello stesso Ponziano. Il processo per il reato di magia fu tenuto a Sabrata davanti al proconsole romano Claudio Massimo. Apuleio smontò le accuse mossegli, dimostrandone l’inconsistenza, con una difesa tanto articolata e argomentata da mettere in luce non solo la sua vasta e brillante cultura, ma anche la meschinità e l’ignoranza degli accusatori, come testimonia il testo giunto dell’Apologia. In seguito Apuleio tornò a Cartagine, dove esercitò

3 - Apuleio

la professione forense, quelle di medico, bibliotecario e conferenziere. Non si sa dove né quando morì, probabilmente a Cartagine verso la fine del principato di Marco Aurelio.

Le opere Della vasta produzione di Apuleio in prosa e in poesia, in latino e in greco, sono pervenute le opere più significative: i trattati filosofici De Platone et eius dogmate, De deo Socratis, De mundo; l’antologia Flòrida, l’orazione l’Apologia e il romanzo Metamorphoseon libri. Delle opere perdute si posseggono alcuni titoli: Naturales quaestiones, Ludiera, Quaestiones conviviales, De re rustica, De arboribus, Carmina amatoria, una traduzione del Fedone di Platone, tramandati dallo stesso Apuleio o da altri autori antichi, quali Cassiodoro, Carisio, Microbio e Fulgenzio. Sono la testimonianza della molteplicità degli interessi dello scrittore, che andavano dall’astronomia all’agricoltura, dalla filosofia alla medicina, dall’aritmetica alla poesia e alla musica.

Vasta produzione letteraria

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Molteplicità di interessi

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Il filosofo Apuleio fu un seguace della corrente del platonismo che univa le idee di Platone con le dottrine mistico-religiose provenienti dall’Oriente; non fu un vero e proprio filosofo, un pensatore razionalista, bensì piuttosto un divulgatore di cultura. Il più significativo dei suoi scritti filosofici è il De deo Socratis (Il demone di Socrate), un trattato tripartito sulla dottrina dei demoni, originale dissertazione su una realtà popolata di forze misteriose. Nella prima sezione sono esaminati i mondi degli dei e degli uomini, nella seconda si precisa la posizione dei demoni come intermediari tra i due mondi, la terza è dedicata al demone di Socrate, voce interiore che spinge il saggio a ricercare la verità. Il De mundo (Il mondo), trattato sulla teologia cosmica, nonostante una certa pretesa, è solo un affrettato e non molto curato rifacimento di un omonimo scritto pseudoaristotelico. Il De Platone et eius dogmate (Platone e la sua dottrina), in due libri, riassume le teorie platoniche di filosofia naturale ed etica, basandosi soprattutto su tarde elaborazioni del pensiero del filosofo greco.

“Filosofo platonico”

De deo Socratis

De Platone et eius dogmate

L’oratore I Flòrida (Florilegio) sono una breve antologia di 23 passi Flòrida 241

3 - Apuleio

scelti, tratti da sue conferenze e suoi discorsi raccolti, da un ignoto compilatore, in 4 libri. Gli argomenti trattati sono vari e mostrano la raffinata abilità dello scrittore nel narrare con vivaci e talora fantastiche descrizioni temi di natura filosofica, aneddotica e mitologica: i ginnosofisti e le meraviglie dell’India, l’elogio del pappagallo, Apollo e Marsia, un viaggio di Pitagora, il confronto tra la sua versatilità e l’ingegno del sofista Appia. Apologia L’Apologia, o Apulei Platonici pro se de magia liber, è un’opera per noi molto importante, perché è l’unico esempio pervenuto di oratoria giudiziaria di età imperiale. Essa è Riassunto dell’opera una rielaborazione letteraria posteriore – le varie digressioni non sono adatte infatti a una orazione giudiziaria – ma fedele alle argomentazioni sostenute in tribunale nel processo per magia. Apuleio dapprima confuta le accuse minori, ricavate dalla sua persona e dalla sua vita privata, come quella di essere troppo bello per essere un filosofo, di lavarsi i denti con una pasta dentifricia, di possedere uno specchio, di aver scritto versi d’amore per due giovinetti. Passa poi a Apuleio “mago” difendersi dall’accusa principale di essere un mago per aver creato filtri magici, per possedere uno scheletro che non è altro che una statuetta di Mercurio. Ricostruisce la sua vita dall’arrivo a Oea, sostenendo che era stato l’amico Ponziano a spingerlo al matrimonio con la madre, che non era povero, che non aveva toccato la dote della moglie, la quale, anzi, aveva nominato erede nel testamento il figlio Pudente. Rielaborazione del L’orazione è una rielaborazione personale ed erudita del modello retorico modello retorico ciceroniano. Il linguaggio vivace, pieno ciceroniano di arcaismi, neologismi, volgarismi, sostiene una trattazione brillante, ironica e scanzonata, in cui mette in ridicolo i suoi avversari ed esalta la sua condizione di filosofo, di scienziato naturale e la sua iniziazione ai misteri dei culti orientali. Il fatto curioso è che Apuleio nega l’accusa di magia solo in modo indiretto e mai decisamente, cosicché non riesce a dissipare del tutto il sospetto, tanto che nelle epoche successive conservò la fama di mago.

Le Metamorfosi o L’asino d’oro Apuleio e il romanzo Le Metamorfosi (Metamorphoseon libri) sono un’opera singolare in 11 libri, capolavoro di Apuleio, l’unico romanzo della letteratura latina giunto completo. Presumibilmente esso fu scritto a Cartagine durante la maturità, dopo il processo per magia; era noto già al tempo di Agostino con il titolo L’asino d’oro, con il quale fu tramandato nel Medioevo e nel Rinascimento. All’inizio Apuleio precisa che l’opera ha 242

3 - Apuleio

in Grecia la sua origine e che si ispira alle Fabulae Mile- Le Fabulae Milesiae siae, novelle di contenuto erotico ordinate da Aristide di Mileto (II secolo a.C.) e tradotte in latino da Cornelio Sisenna; poiché non ci sono giunte, né l’originale né la traduzione, non si sa quale rapporto intercorra tra esse e il romanzo di Apuleio. Le Metamorfosi, poi, sono affini come Le fonti delle contenuto a Lucio o l’asino, scritto molto più breve che ci Metamorfosi è pervenuto con le opere del contemporaneo greco Luciano di Samosata, che la critica ritiene apocrifo. È una questione tuttora aperta se Apuleio si sia servito come fonte dello pseudo-Luciano, e per quali parti, o se ambedue le opere derivino da un perduto romanzo dello scrittore greco Lucio da Patrasso, come sostiene il patriarca di Costantinopoli, Fozio (IX secolo). ■ Caratteristiche del romanzo Nelle Metamorfosi fantastiche avventure, amori sensuali e osceni, bellissime fanciulle e briganti truci, prodigi e magie, fiabe soavi e particolari raccapriccianti e scabrosi, miseria e ricchezza si fondono in un quadro mirabile. Lucio, narratore in prima persona, è lo spettatore muto di un mondo realistico e vivo, sensuale e cosmopolita, colorito e raffinato, materialista e spiritualeggiante che è quello della società a lui contemporanea. “Stai attento, lettore, ti divertirai”, dice all’inizio Apuleio e l’autore infatti si abbandona con compiacimento alla fantasia più sfrenata, alla gioia del narrare per il narrare. A questa chiave di lettura di tipo fiabesco e popolare, se ne aggiunge un’altra simbolica e mistica, in cui il racconto ha valore di ammaestramento: il protagonista è coinvolto in vicende nel corso di un vero e proprio “attraversamento degli Inferi”, durante il quale tocca il fondo dell’avvilimento fisico e morale per raggiungere, riacquistando la forma umana, una profonda e intensa trasformazione interiore.

Le Metamorfosi come racconto esemplare Una fotografia realistica

Gioia del narrare per narrare

Novella popolare e racconto mistico-simbolico

Lo stile e la fortuna di Apuleio Al di là dei significati simbolici o della possibile lettura autobiografica attraverso l’identificazione della curiosità di Lucio con la sete di sapere di Apuleio, l’opera è particolarmente felice per la vivace fantasia e per la freschezza narrativa che Vivace fantasia e sa alternare con ritmo incalzante i più diversi generi lette- freschezza narrativa rari. Pienamente in possesso delle regole della nuova retorica, le utilizza con grande perizia: ritmo, allitterazioni, omoteleuti, assonanze, rime, antitesi, giochi di parole e altre ricercatezze rendono interessante la lettura. È uno stile per243

3 - Apuleio RIASSUNTO DELLE METAMORFOSI Il protagonista narratore, Lucio, giovane colto e spensierato, durante un viaggio in Tessaglia, ascolta da due viandanti una tenebrosa storia di streghe. Curioso di conoscere i misteri delle arti magiche, raggiunge la città di Ipota, dove Panfila, moglie del suo ospite, ha fama di strega, capace anche di trasformare i propri amanti in animali e in pietre. Durante un banchetto ascolta un’altra storia di magia e, sempre più desideroso di penetrarne i segreti, assiste di nascosto alla trasformazione di Panfila in gufo. Nell’intento di imitarla, con la complicità dell’ancella Fotide, si spalma con un unguento, ma sbaglia vasetto e si trasforma in asino, conservando tuttavia la ragione umana. Fotide lo rassicura che riprenderà il suo aspetto se mangerà delle rose. Ma questo non si avvera e hanno inizio le rocambolesche e tragicomiche avventure di Lucio-asino. Cade in mano a feroci predoni, aiuta la bella Carite, una fanciulla da loro rapita, a liberarsi e a sposarsi, viene venduto a sacerdoti degenerati della dea Siria. Passa quindi al servizio di un mugnaio, di un ortolano, di un pasticcere e di un cuoco, questi ultimi due schiavi di un potentissimo signore che, scoperte le sue eccezionali qualità, lo tratta come un ospite di riguardo. Lucio si esibisce in pubblico e ha persino un’avventura amorosa con una matrona innamorata di lui; viene condotto al teatro di Corinto per accoppiarsi con una donna condannata per assassinio. Riesce a fuggire e giunge a Cencrea, nel golfo di Salonicco. Dopo una preghiera alla dea Iside, la dea, apparsagli in sogno, gli preannuncia il suo ritorno alle sembianze umane. Il giorno succes-

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sonalissimo e originalissimo, caratterizzato da un vocabolario enormemente ricco di arcaismi e di tonalità arcaicizzanti, di neologismi, di parole gergali della lingua popolare e di termini tecnici e poetici: ora è un linguaggio alto ed enfatico, ora triviale e realistico. Apuleio è abilissimo a mescolare i toni espressivi e si allontana sia dal classicismo sin-

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Stile personale e originale

sivo, infatti, Lucio partecipa alla processione in onore di Iside e il sacerdote, su ispirazione della stessa dea, offre all’asino delle rose: Lucio le mangia e riacquista il suo aspetto originario. Il sacerdote gli spiega poi il significato delle meta morfosi: vittima della superstizione e della lussuria, attraverso infinite avventure, egli si è purificato. Lucio, seguendo il volere della dea, rimane nel tempio e viene iniziato ai misteri sacri. In seguito, sempre su ispirazione di Iside, si reca a Roma e viene iniziato ai misteri di Osiride. Ottiene lauti compensi come avvocato e, infine, diviene pastoforo, cioè portatore dell’immagine del dio nelle processioni. Nella narrazione sono inserite numerose avventure con altri protagonisti e novelle, ora tragiche ora comiche ora epiche. La più celebre, sia per la posizione, sia per la lunghezza, sia per il significato allegorico, è la favola di Amore e Psiche. Psiche, figlia di un re, per la sua bellezza suscita la gelosia di Venere e viene condannata a essere esposta su un’alta rupe, per diventare la sposa di un mostro, di cui hanno paura gli uomini e gli stessi dei. Amore, figlio di Venere, si innamora di lei e la fa portare da un soave vento nel suo palazzo incantato Si reca da lei nel buio della notte e la fa sua; lei non dotrà mai vederlo in viso, pena terribili sciagure. Psiche, spinta dalle sorelle, con una lampada illumina le fattezze di Amore dormiente, che lei credeva un mostro: il bellissimo dio fugge via e Psiche erra invano alla sua ricerca. Per poterlo riavere, deve superare terribili prove impostele da Venere. Alla fine Amore corre in suo aiuto, ottiene per lei l’immortalità e la sposa.

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tattico severo di Cicerone sia dall’incisiva brevità di Sallustio o di Tacito e adotta una struttura più duttile. Apuleio ebbe, già presso i contemporanei, fama di mago, di iniziato ai sacri misteri, di taumaturgo: Lattanzio un secolo più tardi lo accomuna ad Apollonio di Triana, mentre Agostino, pur non ritenendolo un mago e ammirandolo, lo considera uno scrittore pericoloso. Dopo il ritrovamento da parte del Boccaccio del suo manoscritto, ebbe traduzioni e grande fortuna: a lui devono molto il romanzo picaresco I suoi successori spagnolo, le fiabe e novelle europee.

SCHEMA RIASSUNTIVO LA VITA

(Madauraca ca 125 - Cartagine ca 180). Studia grammatica, retorica e filosofia. Viaggiatore instancabile e abile conferenziere, è attratto dalle dottrine religiose e iniziato ai misteri di Dioniso. Si sposa a Cartagine con una ricca e matura vedova, Pudentilla, i cui parenti lo accusano di plagio e di magia. Nel processo Apuleio smonta le accuse con una brillante difesa. Esercita la professione di avvocato, medico, bibliotecario e conferenziere.

IL FILOSOFO

Scrive tre trattati filosofici: il De deo Socratis, il De mundo e il De Platone et eius dogmate. Egli non è però un filosofo, ma un divulgatore di cultura.

L’ORATORE

Ci rimangono i Flòrida, antologia di 23 passi tratti dai suoi discorsi e conferenze e l’Apologia, unico esempio di oratoria dell’età imperiale giunto fino a noi. È la rielaborazione letteraria, brillante e ironica, della sua difesa nel processo per magia.

Le Metamorfosi

Noto anche come Asino d’oro, è l’unico romanzo della letteratura latina pervenutoci completo. Narra le avventure tragicomiche di Lucio che, per un sortilegio, si è trasformato in asino. Lo stile, originale e personalissimo, si adatta via via alle varie situazioni. Il romanzo ebbe subito grande e duratura fortuna.

245

4 La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

Nel quadro decadente dell’epoca campeggia solitaria, nel IV secolo, la figura di Ammiano Marcellino, l’ultimo grande storico di Roma, al quale si affiancano, fino alla tarda latinità, uno stuolo di prosatori che si occupano di storiografia, studi di grammatica, filologia, giurisprudenza... Molti sono declamatori e conferenzieri (conferiscono dignità di genere letterario al panegirico, in precedenza semplice esercitazione retorica), dotati di buona cultura, anche di profonda erudizione, ma di scarsa originalità, così come nel complesso risultano i poeti, che, tra gli eccessi del loro virtuosismo stilistico e metrico, manifestano un respiro poetico piuttosto arido.

Ammiano Marcellino

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Ammiano Marcellino nacque ad Antiochia in Siria intorno al 330 da una benestante famiglia pagana di lingua e di cultuLa carriera militare ra greca. Intraprese la carriera militare sotto l’imperatore Costanzo e partecipò come ufficiale agli ordini del magister equitum (comandante della cavalleria) Ursicino, alle campagne in Germania, nelle Gallie e in Oriente. Nel 359 si salvò a fatica quando la città di Amida fu conquistata dai parti, contro i quali combatté nel 363 al seguito dell’imperatore GiuSi ritirò a vita privata liano. Fallita la spedizione, si ritirò a vita privata nella città natale. Dopo i viaggi in Egitto, dove studiò i geroglifici, e in Grecia, nel 378 si stabilì definitivamente a Roma, dove approfondì la conoscenza della lingua latina, che aveva imparato nell’esercito. Nell’ultimo quindicennio della vita si dedicò alla stesura della sua opera storica. Morì probabilmente a Roma nel 400 circa.

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Continuatore di Tacito

246

■ Rerum gestarum libri XXXI La sua opera storica in 31 libri, Rerum gestarum libri, proseguiva le Storie di Tacito e narrava gli avvenimenti dell’impero romano da Nerva (96) alla morte di Valente (378). I primi 13 libri sono andati perduti; i 18 pervenutici trattano il periodo 353-378: l’uccisione di Gallo e la persecuzione dei suoi seguaci, le azioni militari di Ursicino in Oriente e il suo richiamo, i principati di Giuliano e le sue

4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

campagne di Gallia, di Gioviano, di Valentiniano I e di Valente, fino alla sua morte nella battaglia di Adrianopoli contro i Goti. Il fatto che nei primi 13 libri siano esposte le vicende di più di 250 anni e nei rimanenti 18 gli avvenimenti di solo 25 anni, indica chiaramente che Ammiano Marcel- Narrazione dei fatti lino volle narrare approfonditamente soprattutto i fatti a lui contemporanei contemporanei, dei quali era stato testimone se non partecipe. ■ Lo storico Ammiano Marcellino è l’ultimo grande storico della letteratura latina, l’unico che si possa in qualche modo associare ai grandi narratori romani. Egli si riallaccia a Tacito, non solo cronologicamente, ma anche per metodologia “La storia – dice – è solita correre sulle alte vette degli avvenimenti e non a indagare le minuzie delle umili cose”: su questa premessa egli tratta sia le vicende politiche e la vita interna dello stato sia gli intrighi di corte sia le guerre esterne. Lo legano al grande predecessore, inoltre, la narrazione di tipo annalistico, l’introduzione di discorsi, le riflessioni filosofico-morali, il senso fatalistico della storia e il cupo pessimismo sull’età contemporanea, che riserva solo amarezze e delusioni. Come lo storico greco Polibio, Ammiano inserisce nella narrazione acuti profili di popoli, descrizioni geografiche, tecniche e scientifiche; molto efficaci sono le descrizioni delle battaglie e della vita militare. Lo storico mostra libertà e imparzialità di giudizio: “Non ho mai osato corrompere sia col silenzio sia con la falsificazione la mia opera che fa professione di verità”. Egli è infatti un interprete obiettivo del suo tempo, lontano da ogni eccesso e da ogni intolleranza. Acceso assertore della grandezza di Roma, “che sarà vittoriosa finché avrà uomini”, ne denunzia senza remore la decadenza; è ammiratore, da fedele soldato, dell’imperatore Giuliano, cui dedica i libri dal 21 al 25, ma ne rileva puntualmente i difetti, disapprova il suo editto con cui si allontanavano dall’insegnamento i retori e grammatici cristiani e stigmatizza la sua avversione nei confronti del cristianesimo. La tolleranza religiosa è per Ammiano Marcellino indice di umanità, come per gli intellettuali antichi.

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Spirito critico di Ammiano

Osservazioni etnografiche, geografiche e scientifiche

Assertore della grandezza di Roma

Tolleranza religiosa indice di umanità

■ Lo stile La lingua presenta irregolarità sintattiche e grecismi lessi- Grecismi lessicali cali, che indicano la doppia cultura dell’autore, cosicché tal- e sintattici volta sembra che lo storico pensi in greco e traduca in latino. La sua narrazione è però efficace e viva, anche se risente di un insegnamento scolastico; non si deve dimenti-

247

4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

care che Ammiano Marcellino era un militare e non un uomo di cultura.

La storiografia minore

Granio Liciniano

Lucio Ampelio

Prefetto di Roma

Punto di vista dell’aristrocrazia romana

248

La decadenza della storiografia è evidente nel privilegio dato alla narrazione annualistica, agli aneddoti pubblici e privati alle stranezze, alle meraviglie e ai particolari secondari alla moda dei sommari ed epitomi che vanno incontro all’interesse dei lettori e, infine, al genere nuovo della lettura storica romanzata, destinata al pubblico benestante, una produzione che anticipa quella romanzesca popolare in voga nel Medioevo. Granio Liciniano, vissuto tra il II e il III secolo, compose una Storia di Roma, di cui ci sono giunti frammenti di difficile lettura dei libri 26, 28, 33, 36, contenuti in un palinsesto egiziano conservato nel Museo Britannico di Londra. Sono aneddoti e fatti curiosi, probabilmente attinti da una epitome liviana. Lucio Ampelio è autore di un curioso Liber memorialis, una specie di promemoria dedicato a un certo Macrino. In 50 capitoli l’autore compendia, raccolte in rubriche, una serie di notizie di carattere storico, geografico, cosmologico e mitologico, che sono esposte in una forma piuttosto confusa e con intento divulgativo. Presumibilmente lo scrittore utilizzò come fonti Varrone, Tito Livio, Cornelio Nepote e Floro. ■ Aurelio Vittore Africano d’origine, Sesto Aurelio Vittore ricoprì importanti incarichi fino a diventare nel 389 prefetto di Roma. Scrisse il Liber de Caesaribus (I Cesari), noto anche come Historiae abbreviatae (Storie abbreviate), in cui tratta le biografie degli imperatori da Augusto a Costanzo. La narrazione segue in forma annalistica lo schema di Svetonio, ma offre anche un giudizio sulle vicende esposte, con osservazioni moralistiche e filosofiche. Il testo, che ha scarso valore storico e letterario presenta però la peculiarità di interpretare i fatti secondo il punto di vista dell’aristocrazia romana, di condannare il cristianesimo e di evidenziare la preoccupazione derivante dallo strapotere dei militari. Lo scritto ci è giunto insieme a tre operette storiche di tre ignoti autori diversi: Origo gentis Romanae (Origine del popolo romano), sulla preistoria di Roma da Saturno a Romolo, De viris illustribus (Gli uomini illustri), 86 biografie da Proca, re di Alba Longa, ad Antonio e Cleopatra, Epitome de Caesaribus, sui fatti da Augusto alla morte di Teodosio.

4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

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■ Eutropio e i Breviari Nella seconda metà del IV secolo diventa di moda scrivere storia sotto forma di breviari, comodi manuali che vengono incontro all’esigenza della nuova classe dirigente di conoscere le gloriose vicende di Roma – sia pure in forma sintetica e superficiale – ormai ignorate. Il più famoso di questi sommari fu quello di Eutropio, un retore di origine italica che prese parte alla campagna militare di Giuliano contro i parti (363) e divenne magister memoriae (segretario particolare) dell’imperatore Valente, da cui ebbe l’incarico di scrivere una breve storia di Roma. Il suo Breviarium ab Urbe condita, in 10 libri, è un sommario di carattere scolastico, in cui sono narrate le vicende principali dalla fondazione di Roma fino alla morte di Gioviano (364), senza alcun commento e senza riferire gli episodi che non fanno onore al popolo romano. Eutropio utilizzò come fonte per l’età repubblicana Livio, Svetonio e altri per l’età imperiale. L’opera è mediocre, ma per l’agilità della struttura, la lingua chiara e facile, esente da artifici retorici, ebbe molta fortuna: fu rielaborata dallo storico longobardo Paolo Diacono (720 ca799), tradotta in greco da Peanio, letta in tutto il Medioevo. Più sintetico e superficiale è il Breviario di Rufio Festo, composto dopo il 371. Egli, magister memoriae dell’imperatore Valente, dopo un’introduzione in cui elenca cronologicamente i re, i consoli e gli imperatori, passa in rassegna le diverse province raccontandone la conquista e la conseguente creazione dell’impero. Tratta infine i rapporti tra Roma e i parti fino alla sua epoca. Conclude con un’esortazione a Valente perché risolva definitivamente la questione orientale. Le fonti utilizzate sono le stesse di Eutropio. Ammiano Marcellino utilizzò il testo di Festo per le digressioni geografiche della sua opera storica. ■ Le storie romanzate Intorno al IV secolo si diffonde un nuovo genere di lettura storica, destinata a un pubblico non particolarmente colto, ma di ceto benestante. La produzione letteraria è molto limitata: i temi preferiti sono il ciclo troiano e le avventure di Alessandro Magno. Si tratta di traduzioni di originali greci o di rielaborazioni di storie antiche. L’importanza di questa letteratura di evasione sta nel fatto che anticipa e prepara il romanzo popolare, che avrà tanta diffusione nel Medioevo. L’opera più nota è l’Ephemeris belli Troiani (Diario della guerra di Troia) di un non meglio identificato Lucio Settimio, vissuto certamente nel IV secolo, dal momento che dedica il suo scritto a un Quinto Aradio Rufino, prefetto di Ro-

Il successo dei breviari

Vita di Eutropio

Breviarium ab Urbe condita sulla storia di Roma

Opera mediocre

Il Breviario di Rufio Festo

Il ciclo troiano e le avventure di Alessandro Magno Letteratura di evasione

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Historia de excidio Troiae

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Giulio Valerio Polemio

Historia Apollonii regis Tyrii

ma nel 312 e console nel 316. Narra che il greco Ditti Cretese aveva tenuto un diario, annotando gli avvenimenti di cui era diretto testimone quando aveva combattuto la guerra di Troia. È in 6 libri, di cui i primi cinque raccontano l’assedio e la distruzione di Troia, l’ultimo contiene le avventure degli eroi superstiti. Ancora di argomento troiano è la Historia de excidio Troiae (Storia dell’eccidio di Troia), arrivata sotto il nome del leggendario sacerdote troiano Darete Frigio; i fatti sono narrati dal punto di vista di un troiano. Alla saga di Alessandro Magno appartengono l’Historia Alexandri Magni (Storia di Alessandro Magno) e un Itinerarium Alexandri (Viaggio di Alessandro). L’autore è probabilmente Giulio Valerio Polemio, di cui non si sa nulla di preciso. Le invenzioni fantasiose e le assurdità si mescolano ai fatti storici; la lingua usata è un latino popolare, con molti termini propri del parlato. Il romanzo anonimo Historia Apollonii regis Tyrii (Storia di Apollonio re di Tiro) è il più fantasioso. Il protagonista è Apollonio di Tiro, giovane di stirpe regale, che diventa re di Antiochia dopo innumerevoli vicissitudini. L’intreccio infatti è complicatissimo, con viaggi avventurosi, storie d’amore e di incesti, enigmi, assalti di pirati, rapimenti e ritrovamenti.

HISTORIA AUGUSTA Con il nome di Historia Augusta (Storia imperiale) viene indicata una raccolta di biografie di imperatori romani da Adriano a Numeriano (117-284), scritta da sei autori diversi (Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione e Flavio Vopisco) dei quali non si hanno notizie da altre fonti. Vissero sotto Diocleziano e sotto Costantino, imperatori ai quali hanno dedicato le varie biografie. Probabilmente la Storia doveva comprendere anche le vite di Nerva e Traiano, necessarie per collegarsi al De Vita Caesarum di Svetonio, di cui voleva chiaramente essere la continuazione. Sono andati perduti anche gli anni dal 244 al 253 e cioè le biografie di Filippo l’Arabo, di Decio, di Gallo, di Emiliano e l’inizio di quella di Valeriano. Il titolo nei manoscritti è Vita diversorum principum et tyrannorum e gli imperatori sono divisi in

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buoni e in cattivi. Non si conosce la data in cui venne messa insieme questa raccolta, molto probabilmente alla fine del IV secolo o all’inizio del V; secondo alcuni studiosi, inoltre, l’opera sarebbe stata redatta da un solo autore, per altro ignoto, che avrebbe rielaborato biografie scritte in precedenza. Tutte le Vite sono composte a imitazione di quelle di Svetonio, ma hanno un valore artistico e storico nettamente inferiore. Sono fondate prevalentemente su aneddoti, curiosità, pettegolezzi e hanno una lunghezza disuguale; in quelle fino a Caracalla è evidente un rigore maggiore nella ricerca dei dati, mentre le altre riportano particolari chiaramente inventati e sono meno attendibili. Tuttavia la Historia Augusta è importante perché è la principale fonte di notizie – per certi imperatori l’unica – di quel periodo travagliato.

4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

Simmaco

L’epistolario

Il tema dell’amicizia

Un’immagine viva della realtà burocratica e politica

T

Quinto Aurelio Simmaco nacque a Roma intorno al 340 da nobile famiglia pagana, la gens Aurelia. Ricoprì cariche pubbliche importanti: fu governatore della Lucania nel 365, proconsole d’Africa nel 373, prefetto di Roma nel 383-385 e, infine, console nel 391. Personaggio tra i più illustri della nobiltà romana, rappresentò varie volte il Senato alla corte di Milano. Della sua attività di oratore, molto celebrata nell’antichità, rimangono solo frammenti di 8 discorsi: tre sotto forma di panegirici agli imperatori Valentiniano I e Graziano, uno di ringraziamento al Senato per la carica di console concessa al padre, quattro sulla carriera politica di personaggi importanti dell’ambiente senatorio. Lo stile è enfatico e pieno di pathos, tipico delle scuole di retorica. Meglio conservato è l’epistolario, pubblicato dal figlio Memmio dopo la sua morte, in 10 libri, contenente più di 900 lettere. Il decimo - lettere personali agli imperatori – è quasi del tutto perduto: rimangono solo due lettere a Teodosio e a Graziano. I destinatari delle epistole degli altri 9 libri sono, oltre ai familiari, i personaggi più in vista della vita politica e culturale e generali barbari, come Ausonio, Nicomaco Flaviano, Ambrogio, Silicone. Uno dei temi più trattati è quello dell’amicizia e dello scambio di favori che essa comporta; molte lettere, infatti, sono di raccomandazione: lo stesso sant’Agostino vi ricorre per avere un posto a Milano. Altre trattano temi quali l’edilizia, gli scandali, le tasse e costituiscono una documentazione storica preziosa per la conoscenza dell’epoca, anche quelle che hanno contenuto frivolo e leggero. Sono pervenute poi 49 Relazioni ufficiali all’imperatore, inerenti alla funzione di prefetto di Roma, su questioni giuridiche e amministrative. La più interessante e nota è la terza, del 384, in cui Simmaco, difensore del paganesimo morente, chiede all’imperatore Valentiniano II di ripristinare nella Curia l’altare della dea Vittoria che era stato rimosso due anni prima per ordine di Graziano: la petizione non fu accolta per l’opposizione di Ambrogio.

Grammatici ed eruditi

conces

Nell’età imperiale dal II secolo assumono via via sempre più importanza le scuole, nelle quali si formano i funzionari, or- Le scuole mai veri e propri professionisti di varia estrazione sociale. Alla base dell’insegnamento stanno gli studi degli autori classici, della grammatica, della retorica, di diritto e delle discipline tecniche, con la diffusione di opere enciclopedi251

4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

che. Gli insegnanti, oltre ai testi di grammatica, scrivono anche commenti ai classici e opere di erudizione. Acrone

Porfirione

De die natali

Fragmentum Censorini

Donato, famoso grammatico

Ars Minor e Ars Maior 252

■ Acrone e Porfirione Il grammatico Elenio Acrone, contemporaneo di Aulo Gellio, fu autore di acuti e famosi Commenti a Orazio, all’Adelphoe e all’Eunuchus di Terenzio e, forse, a Persio, in gran parte perduti. Il commento a Orazio è chiamato dello Pseudo-Acrone, poiché il testo originale è stato abbondantemente rielaborato e ampliato da autori successivi tardolatini e medioevali. Nella seconda metà del III secolo operò il grammatico Pomponio Porfirione, autore di un commento a Orazio, il più antico che ci sia pervenuto, in quanto i precedenti sono andati perduti o ampiamente rimaneggiati. È un commento di tipo scolastico, volto ad agevolare la comprensione del testo, di cui presenta un’analisi stilistica e grammaticale; sono riportati anche dati biografici. ■ Censorino Censorino, erudito del III secolo, fu autore di trattati di scienza antiquaria e di grammatica, come il De accentibus (L’accentuazione), ora perduti. È pervenuta un’interessante ed erudita operetta, De die natali (Il giorno natale) del 238, in 24 capitoli. Scritta per il compleanno di un certo Quinto Cerellio, tratta nella prima parte della nascita e della vita dell’uomo in relazione all’aspetto fisico, all’influsso degli astri e, soprattutto, alla sua divinità protettrice, il Genio, e i sacrifici adeguati per propiziarselo. Nella seconda parte l’autore passa a dare notizie sul tempo e sulla sua scansione. Sullo stesso manoscritto ci è giunto sotto il suo nome – ma si hanno forti dubbi sull’attribuzione – un’opera didascalica molto lacunosa, chiamata Fragmentum Censorini, con notizie di astronomia, geometria, musica e metrica. ■ Donato e Servio Di Elio Donato si ignora l’anno e il luogo di nascita, ma fu attivo a Roma verso la metà del IV secolo. Grammatico famoso, fu insegnante del futuro san Gerolamo, che lo ricorda come praeceptor meus (mio maestro). Compose due Artes, manuali di grammatica di impostazione scolastica, i più completi e antichi della lingua latina fra quelli pervenuti, che ebbero larga diffusione come libro di testo fino al Medioevo e oltre. L’uno, l’Ars Minor, è destinato ai principianti e tratta le otto parti del discorso; l’altro, Ars Maior, è destinato ai più esperti e tratta di morfologia, di stilistica e di me-

4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

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trica. Di Donato sono pervenuti due commenti: uno a Te- I commenti renzio, quasi completo, con note sullo stile e sul teatro dell’età arcaica, e uno a Virgilio, di cui rimane solo la Vita – di derivazione svetoniana –, la dedica a Lucio Munazio e un’introduzione alle Bucoliche. Allievo di Donato fu Servio Onorato, forse originario della Onorato Mauretania, che insegnò a Roma nella seconda metà del IV secolo. Scrisse un Commento a Virgilio, giuntoci completo, che è una preziosa miniera di notizie utili per la conoscenza dei testi del poeta mantovano. Contiene informazioni di tipo antiquario e mitologico, citazioni, interpretazioni e giudizi di commentatori precedenti, note grammaticali e retoriche. È pervenuta anche una stesura ampliata, scoperta nel 1600, chiamata Servius Danielinus o Servius auctus, probabilmente di un ignoto grammatico posteriore che integrò il testo di Servio con dati presi da altre fonti. ■ Nonio Marcello Nonio, nato a Tubursicum in Numidia, visse nella prima metà del IV secolo. Grammatico e lessicografo. Scrisse un manuale dedicato al figlio, De compendiosa doctrina (La scienza in compendio), in 20 libri di lunghezza variabile, dei quali non è giunto il sedicesimo. I primi dodici trattano questioni di carattere linguistico e grammaticale: l’uso dei vocaboli, dei sinonimi, dei generi e delle declinazioni, dei verbi e delle coniugazioni, degli avverbi e delle anomalie del periodo. Nei rimanenti libri Nonio tratta la terminologia tecnica di navi, cibi, bevande, vestiti, utensili domestici e armi. È una pura enumerazione senza pretese letterarie, ma occupa un posto particolare nella storia della letteratura latina, perché nella prima parte, a sostegno delle sue argomentazioni, l’autore riporta numerose citazioni di scrittori antichi, molti dei quali sarebbero stati altrimenti perduti.

Un manuale dedicato al figlio

Nonio e la ricostruzione degli autori “perduti”

■ Macrobio Ambrogio Teodosio Macrobio, erudito del IV-V secolo, forse di origine africana, visse a Roma, dove ricoprì alti incarichi nell’amministrazione imperiale. Fu amico di Simmaco e di altri importanti personaggi. Scrisse un commento di ispirazione neoplatonica al Somnium Scipionis (Sogno di Commento al Scipione), ultima parte del De republica di Cicerone, che Somnium Scipionis ebbe grande fortuna nel Medioevo e nel Rinascimento. Nei due libri tratta della natura dell’anima, dell’universo e degli astri, con interpretazioni mistiche e religiose. La sua opera più importante è i Saturnali, in 7 libri, conversazioni con- I Saturnali

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4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

Una miniera di notizie

Enciclopedia delle arti liberali Il gusto allegorico Scritta in prosa e poesia

Collectanea rerum memorabilium

Compilazione di informazioni non organizzate

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viviali immaginarie, tenute da un gruppo di dotti romani contemporanei durante le feste dei Saturnali. Vengono trattati gli argomenti più svariati, soprattutto legati all’arte poetica e alla retorica di Virgilio (cui sono dedicati ben quattro libri), considerato un modello di perfezione poetica ed esperto in tutti i rami del sapere umano. I Saturnali sono una miniera di notizie, che vanno dalle forme linguistiche alla gastronomia, dalle scienze agli usi e costumi delle origini, dalla mitologia alle sentenze celebri. Di Macrobio rimangono anche alcuni frammenti di una sua opera sui verbi greci e latini, dedicata a Simmaco. ■ Marziano Capella Marziano Capella fu attivo a Cartagine nella prima metà del V secolo; fu avvocato e divenne scrittore in età matura. Fu autore di una curiosa opera erudita De nuptiis Mercurii et Philologiae (Le nozze di Mercurio e della Filologia), in 9 libri, una specie di enciclopedia delle arti liberali, scritta tra il sacco di Roma del 410 e quello di Cartagine a opera dei vandali del 439. Nei primi due libri si narrano le nozze allegoriche di Mercurio, visto come protettore degli studi, con la Filologia; negli altri si immagina che le sette ancelle della sposa – Grammatica, Dialettica, Retorica, Geometria, Aritmetica, Astronomia e Musica – espongano ciascuna la propria dottrina. Scritta parte in prosa e parte in poesia, come le Saturae Menippeae, in un linguaggio artificioso ricco di volgarismi, metafore e figure retoriche, l’opera godette di enorme fortuna nel Medioevo. ■ Solino Gaio Giulio Solino raccolse notizie curiose in una Collectanea rerum memorabilium (Raccolta di cose memorabili), breve repertorio di geografia, corredato da notizie storiche, antiquarie, etnografiche, aneddotiche e di scienze naturali, anche con errori grossolani. Ebbe fortuna presso i contemporanei – indice del livello culturale e dei gusti dell’epoca –, nella tarda latinità e nel Medioevo, in cui lo scritto fu conosciuto anche con il nome di Polyhistor. L’opera deriva principalmente dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, di cui può essere considerata un compendio, con l’utilizzo di altre fonti, quali Varrone, Pomponio Mela, Svetonio e altri sconosciuti. È una compilazione di informazioni non organizzate, abbastanza piacevole alla lettura, ma di mediocre valore artistico. La novità introdotta da Solino è quella di considerare Roma come principio, in quanto capitale del mondo.

4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti ■ Palladio Rutilio Tauro Emiliano Palladio compose il trattato Opus Opus agriculturae agriculturae (I lavori agricoli), in 14 libri: il primo è un’introduzione generale all’argomento; altri dodici illustrano i lavori agricoli annuali mese per mese; l’ultimo, in versi, è dedicato agli innesti degli alberi (De insitione). Utilizzò fonti greche e latine; tra queste ultime sono citati Columella e Gargilio Marziale. L’opera mostra una buona conoscenza del- Buona conoscenza l’argomento ed ebbe molta fortuna lungo i secoli. dell’argomento

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Tit o

■ Prisciano Prisciano, l’ultimo dei grandi grammatici latini, nacque a Cesarea di Mauritania e visse e insegnò a Costantinopoli tra il V e il VI secolo. Compose l’Institutio de arte grammatica (Istituzione dell’arte grammatica), in 18 libri, il più voluminoso e importante scritto sulla grammatica latina. Con il supporto di molte citazioni di autori classici, nei primi 16 libri illustra con sistematicità la fonetica e la morfologia, negli ultimi due la sintassi. Il suo trattato fu il testo più celebrato e più usato nelle scuole medievali, tanto che Dante nomina Prisciano nella Divina Commedia. Tra le opere minori ci sono pervenuti un panegirico dell’imperatore Anastasio, in 312 esametri, e brevi trattati di retorica e di metrica.

Importante scritto di grammatica latina

Usato nelle scuole medievali

I panegiristi Tra la fine del III secolo e quella del IV si riscontra un’abbondante produzione di panegirici, non solo come esercitazioni scolastiche di retorica, ma come genere letterario vero e proprio. Spesso sono gli stessi insegnanti a pronunciare agli imperatori i discorsi ufficiali di ringraziamento, che assumono un carattere specificatamente encomiastico. È giunta una raccolta con il titolo di Panegyrici Latini, comprendente 12 discorsi pronunciati da retori di origine gallica, a eccezione del primo, che è quello che Plinio il Giovane scrisse a Traiano, in ringraziamento per la sua nomina a console. Cinque sono anonimi e diretti a Costanzo e a Costantino; cinque sono rivolti a Massimiano, Giuliano e Teodosio e sono scritti da Nazario, Mamertino e Drepanio. L’ultimo, intitolato Pro instaurandis scholis, al governatore della Gallia Lugdunense, è il più famoso e fu pronunciato ad Autun nel 298 da Eumenio, direttore delle scuole, per chiedere la loro ricostruzione dopo le devastazioni operate dalle tribù batave, giungendo a offrire per questo scopo il suo altissimo stipendio annuo. Nel complesso i panegirici sono di notevole interesse come fonte storica.

Panegyrici Latini

Il panegirico strumento di riflessione politica e culturale

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4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

I giuristi

Gaio

Papiniano

Ulpiano

Giulio Paolo

Nel periodo che va da Adriano alle soglie del Medioevo, gli studi di diritto assunsero una straordinaria intensità sotto la spinta delle leggi emanate dagli imperatori, che devono essere redatte, coordinate e accordate con quelle precedenti, interpretate dai giuristi. La giurisprudenza raggiunse in questa epoca il suo apogeo. Quasi nulla si sa della vita di Gaio, vissuto nel II secolo, che non ricoprì nessun incarico pubblico. Scrisse le Institutiones (Istituzioni) in 4 libri, l’unica opera di diritto civile che sia giunta praticamente nella forma originaria. Scritta all’epoca di Antonino Pio e di Marco Aurelio, mirabile per la chiarezza espositiva e per l’organicità del contenuto, è divisa in tre parti, dedicate rispettivamente ai soggetti del diritto: persone, cose e azioni. Emilio Papiniano, il più grande dei giureconsulti romani, visse al tempo degli imperatori Marco Aurelio e Settimio Severo e ricoprì importanti incarichi pubblici. Fu ucciso nel 212 per ordine di Caracalla con il quale era entrato in discordia. Scrisse 37 libri di Quaestiones, 19 di Responsa e 2 di Definitiones, di cui ci sono pervenuti vari frammenti insieme a commenti posteriori. La sua opera, che ha soprattutto carattere pratico, influenzò profondamente le legislazioni successive. Domizio Ulpiano, nato nella fenicia Tiro intorno al 170, fu prefetto del pretorio nel 222 sotto Alessandro Severo. Fu ucciso nel 228 dai pretoriani. Della sua vastissima produzione, comprendente 51 libri di diritto civile Ad Masurium Sabinum e 83 libri Ad edictum praetoris, sono giunti circa 2500 passi, raccolti nel Corpus iuris civilis giustinianeo. Direttamente ci è pervenuta un’opera minore, il Liber singularis regularum, sulla cui attribuzione tuttavia sussistono dubbi. Giulio Paolo, amico di Papiniano, ricoprì pure la carica di prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo. Si occupò praticamente di tutte le parti del diritto, cercando di determinare i principi fondamentali della giurisprudenza del suo tempo. Compose 86 opere in 319 libri, di cui abbiamo solo frammenti ed estratti per via indiretta.

I poeti: Ausonio Ausonio è il più noto e importante poeta della cultura gallica della seconda metà del IV secolo. ■ La vita Decimo Magno Ausonio nacque a Burdigala (l’odierna Bor-

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4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

deaux) verso il 310, da padre medico. Dopo gli studi com- Docente di piuti nella città natale e a Tolosa, insegnò a Burdigala per 30 grammatica e anni prima grammatica, poi retorica. Fu poi chiamato a Tre- retorica viri da Valentiniano I come precettore del figlio, il futuro imperatore Graziano, dal quale fu nominato governatore della Gallia e console nel 379. Alla morte di Graziano nel 383 si ritirò a vita privata a Burdigala, dove si dedicò agli studi e dove morì intorno al 395. ■ Le opere Nelle sue numerosissime opere di difficile datazione, Ausonio mostra grande facilità e abilità nel comporre nei metri più vari, spesso buon gusto, chiare capacità tecniche e una profonda erudizione, ma come poeta è piuttosto mo- Poeta modesto desto, perché difetta di originalità, di spontaneità e d’ispirazione. Fra le sue opere commemorative si ricordano: le Parentalia, 30 epigrammi per i parenti defunti, la Commemoratio professorum Burdigalensium, epitaffi di celebri insegnanti della sua città, che vengono descritti nella loro vita quotidiana, gli Epitaphia, iscrizioni sepolcrali fittizie per gli eroi della guerra di Troia. Di carattere scolastico compose Caesares, Ordo nobilium urbium, Ludus septem sapientium, brevi composizioni in versi per presentare imperatori, le più importanti città dell’impero e i sette sapienti. Ci rimangono inoltre 120 epigrammi, ironici o sentimentali, sempre diversi nel metro e nei contenuti, 25 epistole in versi, in prosa o miste, indirizzate tra gli altri a Simmaco e a Paolino di Nola, Ephemeris, descrizione in metri vari della giornata di un alto funzionario imperiale, Bissula, raccolta di brevi poesie dedicate alla bella donna omonima che era stata sua schiava e che aveva liberato. L’opera più importante di Ausonio è la Mosella, Il poemetto Mosella poemetto di 483 esametri in cui descrive il paesaggio lungo il sua opera migliore fiume Mosella, durante un suo viaggio; pur conservando le tracce di un’erudizione scolastica, presenta alcune descrizioni assai suggestive e non prive di grazia.

I poeti: Claudiano Claudiano è il più importante poeta della seconda metà del IV secolo, l’ultimo rappresentante della tradizione classica pagana della letteratura latina. ■ La vita Claudio Claudiano nacque ad Alessandria d’Egitto, intorno al 370 da una famiglia di lingua e di cultura greca e imparò il latino studiando i classici. Trasferitosi a Roma nel 395, di- Prima a Roma

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Poi a Milano

venne l’elemento di maggior spicco del circolo di Simmaco; passò quindi a Milano alla corte dell’imperatore Onorio, dove godette dell’amicizia e della protezione del generale vandalo Stilicone, del quale celebrò le vittorie contro i goti. Ottenne onori anche dagli imperatori Arcadio e Onorio, che gli fecero erigere una statua di bronzo nel Foro Traiano. Le ultime sue notizie risalgono al 404 ed è probabile che morisse non molto tempo dopo.

■ Le opere Le numerose opere di Claudiano risalgono tutte al periodo 395-404 e si possono dividere, secondo l’argomento, in encomiastiche, satiriche, epiche e mitologiche. Al primo grupI panegirici po appartengono 6 panegirici in onore di tre consolati di Onorio, di quelli di Olibrio e Provino, di Manlio Teodoro e di Stilicone; quest’ultimo, in 3 libri di 1215 versi, è il più lungo; tutti questi, nonostante l’intento encomiastico, mostrano la sincerità del poeta e la verità storica non viene mai traGli scritti satirici visata. Gli scritti satirici sono rappresentati da due invettive, ciascuna di due libri, contro Rufino (In Rufinum) e contro Eutropio (In Eutropium), due potenti funzionari di ArI poemi epici cadio, imperatore d’Oriente, che erano nemici di Stilicone. Compose due poemi epici: il De bello Gildonico (La guerra gildonica), scritto nel 398 in 526 esametri, celebra la campagna militare condotta da Stilicone contro Gildone, re di Mauretania; il De bello Gothico (La guerra gotica) esalta le vittorie di Stilicone su Alarico, re dei goti, nel 402 a PollenLa mitologia: zo e Verona. Di argomento mitologico sono un frammenDe raptu Proserpinae to di un centinaio di versi di una Gigantomachia e quella che è considerato, forse, il suo capolavoro, il De raptu Proserpinae (Il rapimento di Proserpina), in 3 libri, scritto tra il 395 e il 398. L’opera appare incompiuta perché il terzo libro finisce nel momento in cui Cerere inizia la ricerca della figlia Proserpina. La fonte è un episodio delle Metamorfosi di Ovidio. Ci sono pervenute anche opere minori di Claudiano, quali la Laus Serenae, lode in onore di Serena, moglie di Stilicone, il De nuptiis Honorii et Mariae, per le nozze di Onorio con Maria, figlia di Stilicone, alcune lettere in versi, idilli e brevi liriche. Abile versificatore, dotato di fertile e potente fantasia e di senso del ritmo, Claudiano scrive in un latino non dissimile da quello dei classici.

I poeti: Avieno, Aviano, Rutilio Namaziano Avieno 258

Le notizie sulla vita di Rufo Festo Avieno si ricavano da una iscrizione dell’autore stesso dedicata a Nortia, dea etrusca

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della fortuna. Nacque a Bolsena da una illustre famiglia e visse sempre a Roma; fu seguace della filosofia stoica e per due volte ricoprì la carica di proconsole. Tradusse in modo elegante in esametri i Fenomeni di Arato, un trattato astronomico, e rivisitò nella Descriptio orbis terrae (Descrizione della terra) la Periegesi dello storico e retore greco Dionigi d’Alessandria, sempre in esametri. Compose, in trimetri giambici, il poemetto Ora maritima (I litorali marittimi), di cui è pervenuta la descrizione della costa britannica fino a Marsiglia. Si ignora tutto della vita di Flavio Aviano, poeta presumibilmente vissuto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo. Sotto il suo nome ci è giunta una raccolta di 42 favole in distici elegiaci d’ispirazione esopica, forse indirizzata a Macrobio, l’autore dei Saturnalia. Aviano si propose di riscrivere con più eleganza le favole di Fedro, aggiungendone altre attinte dal greco Babrio. I racconti sono però prolissi e artificiosi, privi di arguzia, di scarso valore letterario, con un metro elegiaco fuori luogo, ma ottennero molta fortuna nel Medioevo. Claudio Rutilio Namaziano, pagano di origine gallica, figlio di un alto funzionario, fu a Roma praefectus Urbis nel 414. Nel 417 ritornò in patria per mettere ordine nelle sue proprietà dopo le devastazioni dei Goti. Poeta garbato, descrisse il viaggio nel poemetto De reditu suo (Il ritorno), che ci è pervenuto interrotto al verso 68 del secondo libro. Nell’opera hanno particolare risalto il sentimento di venerazione per l’alta maestà di Roma e l’avversione per il cristianesimo, responsabile, secondo Rutilio, della rovina e della desolazione dell’impero. Il momento di ispirazione più genuina è rappresentato dal saluto rivolto dal poeta a Roma, al momento della partenza, in cui la città è celebrata come regina del mondo, conquistatrice e unificatrice delle genti.

Le opere

Aviano Le favole

Namaziano Poeta garbato

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SCHEMA RIASSUNTIVO L’opera

(Antiochia, ca 330 - Roma, ca 400). Di origine greca, intraprende la carriera militare, che abbandona dopo la fallita spedizione contro i parti. Ritiratosi a vita privata, nel 378 si stabilisce a Roma e si dedica agli studi. L’ultimo grande storico della letteratura latina compone 31 libri di Rerum gestarum, nei quali si riallaccia per metodologia a Tacito. Ci rimangono gli ultimi 18, in cui tratta gli avvenimenti a lui contemporanei. Scrittore obiettivo, ammira la grandezza dei romani, ma ne denuncia la decadenza. Inserisce nella narrazione profili di popoli, descrizioni geografiche, tecniche e scientifiche.

LA STORIOGRAFIA MINORE

Si caratterizza per andamento annalistico e privilegia l’aneddotica rispetto allo strano, al compendio e al romanzato.

LICINIANO

(II - III secolo). Si posseggono solo frammenti di una Storia di Roma, di difficile lettura, in cui prevalgono aneddoti e curiosità.

AMPELIO

(II - III secolo). Ci è giunto il Liber memorialis, una specie di promemoria, in cui l’autore compendia in 50 capitoli notizie di vario genere.

AURELIO VITTORE

(IV secolo). Nel Liber de Caesaribus, seguendo lo schema di Svetonio in forma annalistica, tratta le biografie degli imperatori da Augusto a Costanzo, interpretando i fatti dal punto di vista dell’aristocrazia senatoriale.

EUTROPIO

(IV secolo). Scrive un Breviarium ab Urbe condita, in 10 libri, un sommario di storia romana, che veniva incontro alle esigenze di conoscenza della nuova classe di funzionari. L’opera è mediocre, ma ebbe molta fortuna.

RUFIO FESTO

(IV secolo). Compone un Breviario di storia romana più sintetico e superficiale di quello di Eutropio.

STORIE ROMANZATE

Nel IV secolo si diffonde la moda delle storie romanzate, una vera “letteratura di evasione”. Trattano della guerra di Troia e di Alessandro Magno l’Ephemenis belli Troiani di Lucio Settimio, l’Historia de excidio Troiae, pervenutaci sotto il nome di Darete Frigio e l’Itinerarium Alexandri di Valerio Polemio. Il romanzo più fantasioso è l’Historia Apollonii regis Tyrii, di anonimo.

SIMMACO

(Roma ca 340 - ?). Ricopre cariche importanti che culminano nel consolato. Sono rimasti frammenti di 8 discorsi, l’Epistolario e 49 relazioni ufficiali all’imperatore, importanti per la conoscenza della sua epoca.

GRAMMATICI ED ERUDITI: ACRONE E PORFIRIONE

Acrone è l’autore di due commenti a Orazio e a Terenzio, in gran parte perduti; di Porfirione è il più antico commento a Orazio pervenutoci.

CENSORINO

Di questo erudito è giunta un’interessante operetta, De die natali, sulla nascita dell’uomo, sul suo Genio protettore e sull’astrologia.

DONATO E SERVIO

(IV secolo). Donato scrive due manuali (Artes) di grammatica e due commenti, uno a Terenzio, giunto quasi completo, e uno, mutilo, a Virgilio. Servio è l‘autore di un commento a Virgilio, giunto integro, preziosa fonte di informazioni sul poeta mantovano.

NONIO

(Tubursicum, IV secolo). Di lui è rimasto il De compendiosa doctrina, un manuale di carattere linguistico e grammaticale.

AMMIANO MARCELLINO La vita

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4 - La fine della letteratura pagana: i prosatori e gli ultimi poeti

SCHEMA RIASSUNTIVO (IV - V secolo). Vive a Roma, dove ricopre importanti incarichi pubblici. Scrive un commento al Somnium Scipionis di Cicerone e i Saturnali, la sua opera più importante, miniera di notizie di vari argomenti, soprattutto sull’arte poetica e sulla retorica di Virgilio.

MARZIANO CAPELLA

(Cartagine, V secolo). È autore di una curiosa opera erudita, De nuptiis Mercurii et Philologiae, una sorta di enciclopedia delle arti liberali.

SOLINO

È l’autore di Collectanea rerum memorabilium, mediocre repertorio di geografia con notizie di vario genere, di scarso valore artistico.

PALLADIO

Scrive un trattato di agricoltura, Opus agriculturae, in cui mostra una buona conoscenza dell’argomento.

PRISCIANO

(Cesarea - Costantinopoli V - VI secolo). L’ultimo grande grammatico latino compone l’Institutio de arte grammatica, la più importante opera di grammatica latina e la più usata nel Medioevo.

I GIURISTI

Nel periodo assumono grande rilevanza gli studi di diritto. Gaio è autore delle Institutiones, opera di diritto civile pervenutaci nella forma originaria; Emilio Papiniano, il più grande dei giuristi romani, scrive 37 libri di Quaestiones, 19 di Responsa e 2 di Definitiones, di cui sono rimasti vari frammenti. Domizio Ulpiano è scrittore prolifico di cui sono giunti circa 2500 passi compresi nel Digesto di Giustiniano; Giulio Paolo fissò la giurisprudenza del tempo ma della sua opera si hanno solo frammenti indiretti

I POETI: AUSONIO

(Burdigala, ca 310 - ca 395). È stato precettore di Graziano e governatore della Gallia. Ci ha lasciato molte opere che mostrano a sua facilità nello scrivere i metri più vari. L’opera più importante è il poemetto Mosella, di 483 esametri, in cui descrive un viaggio lungo il fiume omonimo.

CLAUDIANO

(Alessandria d’Egitto, seconda metà IV secolo). Di origine greca, è l’ultimo poeta della tradizione classica pagana. Si trasferisce a Roma e poi alla corte imperiale a Milano. Ci ha lasciato 6 panegirici, due invettive satiriche, due poemi epici, due mitologici e altre opere minori. Il capolavoro è il De raptu Proserpinae di ispirazione ovidiana.

AVIENO

(Bolsena, IV secolo). Ricopre importanti cariche pubbliche. Traduce i Fenomeni di Arato e il poemetto Ora maritima, giunto mutilo.

AVIANO

(IV - V secolo). Con il suo nome sono giunte 42 favole, prolisse e artificiose, in distici elegiaci d’ispirazione esotica.

NAMAZIANO

(IV - V secolo). Pagano di origine gallica, diventa praefectus Urbis. Di lui è arrivato un poemetto, De reditu suo (Il ritorno), nel quale esalta la grandezza di Roma.

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MACROBIO

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5 Tertulliano e l’apologetica cristiana

Il cristianesimo, propagatosi all’ombra del giudaismo, si rivela un movimento autonomo solo all’epoca di Nerone. Da quel momento l’impatto, che i seguaci della nuova religione hanno con il mondo latino, è spesso violento e comporta per loro isolamento e persecuzione, in quanto adepti di un culto illecito. Il nuovo movimento religioso, che dimostra grande forza di penetrazione nelle classi umili, si organizza in unità associative, dapprima in Oriente e poi nel mondo occidentale, dalle quali esce un’aristocrazia intellettuale che, oltre a guidare i fedeli, dà vita a una produzione letteraria apologetica, tesa a difendere i cristiani dalle false accuse di ateismo dalle persecuzioni e a ottenere per la dottrina diritto di vita e di libera professione. Questo nuovo tipo di letteratura, iniziata già nel II secolo, culmina nel III e l’entusiasmo che anima la polemica degli apologisti, quasi tutti oriundi africani, comporta la presenza nelle loro opere di aspetti originali e artistici; gli scritti assumono spesso un carattere missionario, teso a far opera di propaganda e a convertire quella parte dell’alta società romana, colta e stoica, aperta alla problematica sociale e filosofica. Su tutti primeggia la forte personalità di Tertulliano

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Tertulliano

Tertulliano è il più geniale e poliedrico scrittore della letteratura cristiana prima di Gerolamo e Agostino. Autore della più brillante apologia dell’antichità, per il vigore passionale dello stile e per le serrate dissertazioni giuridiche, influenzò gli apologisti successivi, con particolare riferimento al delicato problema dei rapporti tra Stato e Chiesa.

L’educazione: studi retorici e giuridici

262

■ La vita Quinto Settimio Florente Tertulliano nacque tra il 155 e il 160 a Cartagine, vivo centro culturale africano. Figlio di un centurione della coorte proconsolare, in gioventù fu pagano come il padre e avverso al cristianesimo. Ebbe un’accurata educazione retorica, formata sui testi letterari e filosofici degli autori classici; acquisì un’ottima conoscenza del greco, tanto da scrivere correttamente in tale lingua opere originali e traduzioni. Possedette anche una profonda cultura giuridica ed esercitò la professione forense in Africa e a Roma. Si convertì

5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

al cristianesimo in età matura, intorno al 195, per motivi non precisabili, forse perché colpito dalla serenità con cui i cristiani affrontavano il martirio. Si sposò e, secondo la testimonianza di Girolamo, divenne sacerdote. Nel 213 ruppe con la Chiesa e aderì al movimento eretico di Montano (montanismo), di cui condivise le concezioni dogmatiche e soprattutto il rigorismo e l’intransigenza morali. Verso la fine della vita si staccò dal montanismo per fondare la setta ancora più estremista, chiamata, dal suo nome, dei Tertullianisti. Incerta è la data della sua morte, che non è collocabile prima del 220, anno in cui risalgono le ultime notizie che lo riguardano; Gerolamo, comunque, la colloca nel 240.

Conversione al cristianesimo Il montanismo

I Tertullianisti

■ Le opere di argomento apologetico Negli scritti apologetici la rivendicazione della libertà religiosa e la giustificazione della dottrina cristiana avviene attraverso lucidissime argomentazioni giuridiche e un temperamento passionale che si esprime nei toni ironici e sarcastici più pungenti. Ad nationes (Ai popoli) del 197, in 2 libri, è una violenta requisitoria contro i pagani, che perse- Polemica contro i guitano i seguaci della nuova religione oltre i limiti delle leg- pagani gi; ritorce contro di loro le accuse di immoralità e di lesa maestà che essi addossano ai cristiani. Dello stesso anno e sullo stesso argomento, ma non più indirizzato globalmente ai “gentili”, cioè ai pagani, bensì ai governatori imperiali delle province, responsabili delle persecuzioni e dei processi contro i cristiani, è l’Apologeticum (Apologetico) in 50 ca- L’Apologeticum pitoli, considerato il suo capolavoro. Un’appassionata e fervida difesa della nuova fede, da parte di un neofita, svolta secondo le regole retoriche del tempo, e insieme decisa affermazione della sua superiorità sul paganesimo, che presenta diversi punti di contatto con l’Octavius di Minucio Felice. Databili al 197 sono pure il De testimonio animae (La prova dell’anima), che sviluppa il tema, già presente nell’Apologeticum, dell’anima umana che è naturaliter cristiana, cioè naturalmente incline a recepire il messaggio del cristianesimo, e Ad martyras (Ai martiri), lettera consolatoria indirizzata ai cristiani incarcerati a Cartagine, durante la persecuzione del 197; e infine ultimo degli scritti apologetici Ad Scapulam (Contro Scapula) del 212 nel quale minaccia l’ira divina contro Scapula, governatore d’Africa persecutore dei cristiani; i cristiani si appellano a Dio di fronte al quale gli uomini non possono e non potranno mai nulla.

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■ Le opere di argomento dottrinale Tra le opere di carattere dottrinale le più notevoli sono Ad-

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5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

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versus Marcionem del 207, confutazione dell’eresia gnostica di Marcione che contrapponeva il Dio dell’Antico Testamento a quello del Nuovo, rivelatosi nel Cristo; Adversus Hermogenem, scritto tra il 200 e il 205, in cui confuta la dottrina del filosofo Ermogene che aveva sostenuto l’eternità della materia. Pure contro gli eretici sono: Adversus Valentianos, contro gli gnostici seguaci del filosofo Valentino; Adversus Iudaeos, contro i giudei del Sinedrio; De praescriptione haereticorum (Le eccezioni pregiudiziali contro gli eretici), del 200 circa, in cui sostiene che la fede cristiana ha valore cattolico, cioè universale; De carne Christi e De resurrectione, contro il docetismo che negava la realtà corporea del Cristo e la resurrezione della carne.

Linguaggio aggressivo e ideologia antifemminista

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Scritti di carattere morale, ascetico e disciplinare

■ Le opere di argomento morale Il gruppo più consistente degli scritti, di cui è incerta la cronologia, verte su argomenti di carattere morale, ascetico e disciplinare. Nel De spectaculis (Gli spettacoli) lo scrittore invita i fedeli a non frequentare gli spettacoli teatrali e circensi, in quanto pagani, immorali e fonte di corruzione; nel De ieiunio adversus Psychicos (Digiuno contro i cattolici) esalta il rigoroso ascetismo contro le tendenze moderate della chiesa di Roma, sostenendo l’importanza del digiuno, pratica seguita dai montanisti e ignorata dai lassisti (gli “psichici”, appunto, cui si contrappongono gli “pneumatici”, fedeli allo Pneuma o Spirito); nel De oratione esorta alla preghiera con una spiegazione del Padre nostro. Interessanti come specchio della vita del tempo, oltre che come espressione della violenta misoginia di Tertulliano, sono De cultu feminarum (Dell’abbigliamento femminile), in 2 libri, contro il lusso delle donne, la cui ricercatezza nell’abbigliamento e nella cura della persona sono indice di vanità; De virginibus velandis, in cui si sostiene il dovere per le vergini cristiane di velarsi in pubblico, perché sono spose di Cristo; Ad uxorem (Alla moglie) è un invito indirizzato alla moglie a mantenersi casta dopo la morte del primo marito. De exortatione castitatis (Esortazione alla castità), De monogamia (Sulla monogamia) e De pudicitia (Sulla castità) trattano i problemi della sessualità e della vita matrimoniale e, con intransigenza montanistica, si condannano come adultere le vedove che passano a seconde nozze, pretendendo dalle donne una vita di rinuncia che richiederebbe la spiritualizzazione del corpo. Nel De pallio, il più breve degli scritti, l’autore giustifica il proprio rifiuto a indossare la toga romana, optando per il mantello greco (il pallio appunto) proprio dei filosofi; per alcuni critici l’operetta indicherebbe la

5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

sua conversione al cristianesimo, per altri al montanismo. L’ostilità radicale verso il mondo pagano si accentua in una serie di scritti: nel De corona militis (La corona del soldato), sull’importante problema dei rapporti tra Stato e Chie- L’intransigente sa, Tertulliano sancisce il divieto per il cristiano di servire integralismo nell’esercito pagano (“Sarà permesso avere a che fare con la spada, se il Signore afferma che morirà di spada chi avrà usato la spada?”); nel De idolatria (L’idolatria), si vieta tassativamente ai cristiani ogni partecipazione alla vita pubblica, ogni professione, persino quella del maestro, perché comporta un coinvolgimento con il mondo e la cultura pagana e, pertanto, con le pratiche idolatre; nel De fuga in persecutione (Sulla fuga durante la persecuzione) in cui proclama l’obbligo per il cristiano di non sottrarsi alla persecuzione, voluta da Dio per la purificazione dei peccati. ■ La difesa del cristianesimo Le opere dogmatiche di Tertulliano svelano la lucidità tagliente del polemista vigoroso, quelle morali sono l’espressione di un rigorismo che è stato considerato ai limiti del fanatismo. Sono però gli scritti più propriamente apologetici a riflettere gli aspetti più validi della personalità dello scrittore. Mettendo la sua cultura giuridica e la sua passione di credente al servizio della difesa del cristianesimo, Tertulliano ritorce contro il paganesimo l’accusa di iniquità e di superstizione in forza della quale venivano condannati i martiri. I processi contro i cristiani, assolutamente infondati sul piano giuridico, dimostravano come non fosse loro imputabile alcun crimine, ma solo l’aperta confessione della propria fede. La difesa del cristianesimo diviene, oltre che l’orgogliosa affermazione della propria identità umana e spirituale, un atto di accusa implacabile contro il mondo pagano. La schiera numerosa dei martiri di Cristo,

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Espressività di uno stile acre

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Accusa il paganesimo di iniquità e superstizione

L’ APOLOGETICUM Nell’esordio Tertulliano mostra che i cristiani sono perseguitati e condannati solo in quanto tali e non perché colpevoli di un crimine: ne è prova che essi vengono messi in libertà quando negano di appartenere alla comunità cristiana. Confuta poi le accuse di crimini segreti, quali incesti e infanticidi, e di delitti manifesti, quali il sacrilegio, la lesa maestà e l’immoralità, ritorcendoli contro gli

stessi accusatori. Lo scrittore esalta poi la vita pura e innocente delle comunità cristiane, l’amore del prossimo e la fedeltà verso l’imperatore. Nella conclusione sostiene la superiorità della nuova dottrina di un solo dio creatore e ordinatore del mondo nei confronti del politeismo e dimostra l’inutilità delle persecuzioni perché il “sangue dei martiri genera cristiani”.

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Registro stilistico e linguistico

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5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

lungi dal proporre un’immagine di debolezza della nuova fede, è lo strumento più grande e il pegno più manifesto della sua prossima, inevitabile diffusione. Per esprimere questi concetti l’autore usa uno stile personalissimo e una lingua di straordinaria potenza drammatica, tesa, concentrata e talora difficile fino all’oscurità, diversa da quella della cultura del tempo e da quella del contemporaneo Minucio Felice. Il periodo si impenna in immagini ardite e si spezza nel gioco frequente delle interrogative e delle esclamazioni retoriche. Il lessico è composito e alterna echi classici e arcaismi con vivaci espressioni di origine plebea, con termini tecnici giuridici e con la prosa solenne delle reminiscenze bibliche.

Minucio Felice

L’Octavius

Poco si conosce della vita di Marco Minucio Felice, nativo probabilmente della provincia romana dell’Africa e vissuto tra il II e il III secolo. Esercitò l’avvocatura a Roma e si convertì al cristianesimo in epoca non stabilita, seguendo l’esempio del suo amico Ottavio Ianuario. Di lui è pervenuto il dialogo in 40 capitoli Octavius, che, con l’Apologeticum di Tertulliano, è la più antica opera apologetica latina. Lo scritto è una serena e pacata confutazione delle accuse dei gentili (così erano allora chiamati i pagani) ai cristiani, che si avvicina più ai toni dell’apologetica greca che a quelli passionali e aspramente polemici di Tertulliano. Nel dialogo si immagina una conversazione tra lo stesso Minucio e Ottavio, convertiti al cristianesimo, e Cecilio, un avvocato romano che difende il paganesimo. L’opera ha contenuti piuttosto sfumati e, nel polemizzare contro le superstizioni pagane, riprende argomenti caratteristici della tradizione filosofica: Minucio sembra rivolgersi alla classe dirigente raffinata. Modelli sono soprattutto Cicerone, Seneca e l’orazione contro i cristiani di Frontone. Il testo possiede un’elevata

L’OCTAVIUS Durante una passeggiata sul lido di Ostia con gli amici cristiani Minucio e Ottavio, il pagano Cecilio rivolge un gesto di adorazione a una statua di Serapide. Ottavio rimprovera allora Minucio di aver lasciato il suo amico Cecilio in preda alla superstizione. Inizia una discussione in cui Cecilio esprime il proprio pensiero sul cri-

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stianesimo, e Ottavio con garbo confuta tutte le accuse e rileva i lati negativi del paganesimo. Quando Minucio sta per intervenire come arbitro nella discussione, Cecilio si dichiara sconfitto e al tempo stesso vincitore, perché “come Ottavio mi ha sconfitto, così io ho trionfato sull’errore”.

5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

qualità letteraria e il tono elegante richiama lo stile e l’at- Equilibrio e classica mosfera ciceroniana del dialogo classico. eleganza

Cipriano Tascio Cecilio Cipriano (Catagine 200 ca-258) è una delle figure più rappresentative del cristianesimo delle origini. Ebbe una raffinata educazione scolastica. Professore di retorica, si convertì nel 246 al cristianesimo e nel 248-249 fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 250, durante la persecuzione di Decio, lasciò Cartagine, pur continuando a dirigere la sua comunità. Rientrato in città nel 251, sostenne che si dovessero riammettere nella comunità cristiana i “lapsi”, cioè i cristiani che, durante la persecuzione, avevano rinnegato la propria religione per salvarsi. La disputa iniziata successivamente con il vescovo di Roma Stefano, sulla dottrina del battesimo, venne interrotta dalla persecuzione di Valeriano del 257: arrestato ed esiliato a Curubis, fu in seguito Arrestato ed esiliato richiamato a Cartagine dal proconsole Galerio, di nuovo processato, condannato e giustiziato il 14 settembre del 258. ■ Le opere Cipriano più che intervenire nelle dispute teologiche sui principi dottrinari così frequenti nel cristianesimo del III secolo, si occupò soprattutto dei propri fedeli, come mostrano le sue opere. Di Cipriano ci sono pervenuti 13 trattati e 81 lettere. Di carattere apologetico sono Ad Donatum del 246, dedicato all’amico Donato, forse un retore neoconvertito, al quale Cipriano racconta la sua conversione; Ad Demetrianum, contro un certo Demetriano che accusava i cristiani di essere i responsabili di tutti i mali che affliggevano il mondo. Nel De catholicae ecclesiae unitate (Sull’unità della Chiesa cattolica) l’autore ribadì la dottrina dell’unica Chiesa, fondata da Pietro e l’autorità dei vescovi come successori degli apostoli; nel De lapsis (I caduti, cioè gli apostati) affronta il problema della riammissione nella comunità ecclesiale dei cristiani che avevano rinnegato la fede sotto l’incalzare delle persecuzioni e che poi si erano pentiti. Ispirate a opere di Tertulliano sono De bono patientiae (Sulla pazienza), del 256, sulla virtù cristiana della pazienza, e De habitu virginum (Sull’abito delle vergini), sulle fanciulle consacrate a Dio. Conforta i cristiani colpiti dalla peste del 252 nel De mortalitate (Sulla Morte); nel De exhortatione martyrii (L’esortazione al martirio), opera scritta durante la persecuzione del 257, attraverso alcuni passi della Bibbia esorta i fedeli a sopportare con serenità il martirio

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5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

Stile semplice ed elegante

di cui fa l’esaltazione. L’epistolario comprende 65 lettere ai suoi fedeli di Cartagine, scritte dal 248 al 258, e 16 di suoi corrispondenti: esse mostrano la personalità di Cipriano, la sua attività di vescovo, la vita e l’organizzazione della Chiesa africana del tempo. Il suo stile è semplice ed elegante, molto diverso da quello di Tertulliano.

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Conoscenza imprecisa delle Sacre Scritture

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Opera insolita ed eccentrica

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Arnobio, vissuto tra il III e il IV secolo, fu un famoso maestro di retorica a Sicca Veneria in Numidia (nell’odierna Tunisia nord-occidentale), dove era nato. Combatté aspramente il cristianesimo al quale si convertì in età matura, forse in seguito a un sogno, come ci dice san Girolamo, e professò la nuova fede in modo ardente e polemico. Per convincere il vescovo di Sicca della sincerità della propria conversione, scrisse il trattato Adversus nationes, l’unica sua opera pervenuta. Non si conosce l’anno della morte, che dovette avvenire comunque poco dopo il 327, data in cui Girolamo parla di Arnobio nella sua Cronaca. L’opera Adversus nationes (Contro i pagani), in 7 libri, fu probabilmente composta intorno al 305, dopo la sanguinosa persecuzione di Diocleziano, ed è il più insolito ed eccentrico degli scritti apologetici della letteratura latina. Nel condurre la difesa del cristianesimo Arnobio attacca la religione e la cultura pagana, valendosi di argomenti filosofici tratti proprio da pagani, quali Platone e Lucrezio. Non risulta tanto un atteggiamento di difesa del cristianesimo quanto di battaglia al paganesimo. Nei primi due libri difende i cristiani dall’accusa di essere la causa di tutti i mali e mostra come negli scritti dei filosofi pagani si ritrovi molta dottrina cristiana; nel terzo, quarto e quinto analizza le contraddizioni e l’immoralità dei riti e del culto pagano; negli ultimi due accusa i pagani di empietà per i loro simulacri e i loro sacrifici cruenti. Arnobio possiede un’approfondita conoscenza dei culti e dei miti del paganesimo, mentre risulta approssimativa, imprecisa e spesso errata la conoscenza delle Sacre Scritture. Interessanti sono l’inquietudine profonda e il pessimismo sulla natura umana, ai limiti del tormento, che animano la sua prosa elegante e ricca di reminiscenze classiche.

Lattanzio Lattanzio è l’ultimo dei grandi apologisti latini per l’acume intellettuale: viene definito dagli umanisti il “Cicerone cri268

5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

stiano” per l’eleganza dello stile e per la matrice classica del pensiero. ■ La vita Lucio Celio Firmiano Lattanzio nacque in Africa, forse a Cirta, verso il 250, da genitori pagani. Compì accurati studi e fu allievo di Arnobio a Sicca; intorno al 290 fu chiamato da Diocleziano a insegnare retorica latina a Nicomedia in Bitinia, Insegnò retorica capitale della zona orientale e sede ufficiale dell’imperato- latina re, ma la sua scuola fu poco frequentata per la forte tradizione greca della città. A Nicomedia si convertì al cristianesimo; riuscì a evitare le persecuzioni di Diocleziano e di Galliano, lasciando l’insegnamento e allontanandosi dal paese. Ritornò in Bitinia dopo l’editto di tolleranza emanato da Costantino a Milano nel 313. In vecchiaia, intorno al 317, fu chiamato in Gallia, a Treviri, da Costantino come precettore del figlio Crispo. ■ Le opere La prima opera scritta dopo la conversione e largamente influenzata dalla filosofia classica è il De opificio Dei (Sull’opera creatrice di Dio), che risale al 303-305. In essa Lattanzio esalta la sapienza divina nella creazione della natura, in particolare dell’uomo e dell’anima. L’argomentazione è tratta da Aristotele, Cicerone e Varrone e si oppone al pessimismo del suo maestro Arnobio. Un ampio progetto di sistemazione della dottrina cristiana sta alla base della sua opera più importante, le Divinae institutiones (Le divine istituzioni) in 7 libri, composte tra il 304 e il 314, con aggiunte successive. I primi due libri difendono il monoteismo e criticano il politeismo pagano, ricercando nella filosofia antica l’origine di tale fede religiosa; il terzo è contro la filosofia, ritenuta incapace di procurare agli uomini la saggezza di cui hanno bisogno; il quarto verte sulla figura del Cristo, portatore di sapienza; i libri quinto e sesto affrontano i temi della giustizia e della teologia cristiana; l’ultimo è dedicato alla fine del mondo, al giudizio finale e al destino delle anime. Nel breve trattato De ira Dei (L’ira di Dio), scritto nel 314, Lattanzio confuta la concezione epicurea e stoica dell’indifferenza della divinità nei riguardi delle vicende umane – lo stesso Arnobio sosteneva l’impassibilità divina – e, asserendo che Dio non è apatico, postula la necessità della collera di Dio contro i malvagi come speculare alla sua benevolenza verso i giusti. Il tema della punizione ispira anche De mortibus persecutorum (La morte dei persecutori), non attribuito, in passato, allo scrittore cristiano per la violenza e

Argomentazione sistematica della dottrina cristiana

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Il tema della punizione 269

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5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

la ferocia della sua requisizione. Lattanzio si compiace della morte crudele e miseranda, dipinta a tinte fosche, di alcuni imperatori malvagi (contrapposti agli imperatori “buoni”, fra cui Costantino), che è messa in connessione con la loro politica di persecuzione contro il cristianesimo: “La loro morte deve essere di esempio in modo che si riconosca che Dio è uno solo e che è anche il giudice che condanna gli empi”. Di 65 distici elegiaci è composto il poemetto De ave phoenice (La Fenice), di dubbia attribuzione, anche se idee e lingua sono affini a quelle di Lattanzio: il mitico uccello Fenice, che risorge dalle sue ceneri, è interpretato come simbolo di Cristo. Non sono conservate le opere scritte da Lattanzio prima della conversione, di cui sono giunti alcuni titoli: un Simposio, un Itinerario in esametri sul suo viaggio dall’Africa in Bitinia, e un Liber grammaticus. Eru dito e filologo, Lattanzio ha lasciato molti frammenti di scrittori che altrimenti sarebbero andati perduti. Valido nella critica al paganesimo, non lo è altrettanto nel trattare la dottrina cristiana, in cui si riscontrano lacune e imprecisioni. È uno scrittore elegante, dal lessico scelto e dallo stile limpido e piano.

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Scrittore elegante

Firmico Materno Il più ampio trattato di astrologia

Firmico e il clima di intolleranza contro i pagani

Giulio Firmico Materno, nativo della Sicilia, visse nel IV secolo; fu avvocato e compose prima della conversione il Matheseos libri (Matesi) in otto libri, il più ampio trattato di astrologia del mondo latino pervenuto. L’opera, dedicata al governatore della Campania Lolliano Mavorzio, è nel primo libro una difesa dell’astrologia contro i detrattori, in quanto essa mette in contatto gli uomini con le divinità. Negli altri sette libri prevalgono gli aspetti tecnici e pratici, con la posizione delle stelle alla nascita di personaggi famosi. Divenuto cristiano, scrisse tra il 346 e il 350 De errore profanarum religionum (L’errore delle religioni profane), un violento attacco contro le religioni misteriche del paganesimo, di cui auspica la definitiva scomparsa, esortando gli imperatori Costante e Costanzo, ai quali l’opera è dedicata, ad annientare anche con la forza quello che rimaneva dell’idolatria.

I tardi apologisti latino-cristiani La nuova concezione cristiana della storia, introdotta da Agostino, rifiuta la visione classica spostando l’interesse dalla realtà terrena a quella soprannaturale: le vicende umane portano a compimento il disegno provvidenziale divino. Le esi270

5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

genze della nuova cultura inducono alcuni autori cristiani alla narrazione storica. ■ Orosio Paolo Orosio nacque verso il 390 a Bragara (Braga) di Lusitania in Portogallo. Presi gli ordini sacerdotali, abbandonò la penisola iberica per sottrarsi alle incursioni dei vandali. Nel 414 si recò in Africa da Agostino per approfondire la propria formazione teologica. In seguito raggiunse Girolamo a Betlemme, in Palestina, dove fu coinvolto nelle lotte contro i pelagiani: fu proprio Orosio a sostenere l’accusa di eresia contro Pelagio di fronte a Giovanni, vescovo di Gerusalemme. Ritornato in Africa, scrisse su sollecitazione di Agostino Historiae adversus paganos (Storie contro i pagani), la sua opera principale. Non si hanno più notizie di lui dopo il 418. Le Historiae adversus paganos sono un sommario di storia universale in 7 libri, composti nel 417-418. Orosio dedica ad Agostino l’opera (ad te ex te redit, da te, a te ritorna) perché si ispira alla sua affermazione nel De civitate Dei – peraltro non ancora terminato – che i mali passati sono peggiori di quelli presenti e che comunque non sono imputabili al cristianesimo. I primi sei libri trattano della storia dell’uomo dalle origini alla nascita di Cristo e all’impero di Augusto, il settimo narra gli avvenimenti fino al 417. Le fonti, usate acriticamente, sono Eusebio, Girolamo, Giustino, Tito Livio, Cesare, Tacito, Eutropio. La sua visione della storia è provvidenzialistica e ha il suo fulcro nella venuta di Cristo e nella contemporanea e non casuale nascita con Augusto dell’impero romano, sentito come uno strumento di diffusione del messaggio cristiano. È una concezione pessimistica perché mette in luce i grandi mali che hanno afflitto e che affliggono l’umanità, sottolineando però che dopo l’avvento del cristianesimo si è avuto un progressivo miglioramento. Nello stesso tempo guarda con ottimismo alla convivenza futura con le tribù barbariche che, secondo Orosio, si sarebbero convertite al cristianesimo, sottovalutando il problema costituito dai germani. L’opera ebbe una grande diffusione nel Medioevo per la concezione della funzione provvidenziale dello Stato. Orosio ci ha lasciato anche i trattati contro le eresie più diffuse: Commonitorium de errore Priscillianistarum et Origenistarum e Liber apologeticus contra Pelagianos.

Historiae adversus paganos

Visione provvidenzialistica della storia

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Fortuna dell’opera

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■ Salviano Nato forse a Treviri forse a Colonia intorno al 400, divenne sacerdote e visse a Marsiglia; morì secondo la testimonian-

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5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

za di Gennadio intorno al 470. Scrisse verso la metà del secolo De gubernatione Dei (Il governo di Dio) un trattato Difende l’azione apologetico-polemico in 8 libri. Salviano difende l’azione della Provvidenza della Provvidenza, messa in dubbio da alcuni a causa delle sciagure provocate dalle invasioni barbariche. Egli sostiene che i mali della loro età sono una punizione divina per l’immoralità e i vizi imperanti. Ai cittadini romani l’autore conLa rivalutazione degli trappone i barbari decisamente più virtuosi, nonostante invasori non conoscano ancora la parola di Dio. L’opera è interessante per le notizie storiche e di costume. Di Salviano, oltre a 9 lettere, ci è giunta anche Ad ecclesiam (Alla chiesa), opera in 4 libri, in cui esorta i cristiani, specialmente i possidenti e i chierici, a donare i loro beni alla Chiesa per aiutare i poveri. La vita

Stile semplice ed essenziale

Modello per gli altri scrittori agiografici

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■ Sulpicio Severo Sulpicio Severo nacque in Aquitania intorno al 360; studiò a Burdigala (l’odierna Bordeaux), sposò una ricca giovane di famiglia consolare, esercitò l’avvocatura. Per l’improvvisa morte della moglie si fece monaco, anche per consiglio dell’amico Martino, vescovo di Tours. Costruì un convento a Primuliacum (Prémillac) nell’odierno Périgord, in cui visse fino alla morte, avvenuta intorno al 415. Scrisse una Chronica in 2 libri, sintesi della storia del cristianesimo dalla creazione al consolato di Stilicone nel 400. Dopo la vita di Cristo, tralascia i Vangeli e tratta subito delle persecuzioni e delle eresie. Lo stile semplice ed essenziale, senza pesantezza retorica, risente dell’influsso dei classici, soprattutto di Sallustio. Ci ha lasciato anche un’agiografia, Vita sancti Martini. Completata dai Dialoghi di Postumiano e di Gallo, è una delle prime vite di santi scritta nel mondo occidentale e ha contribuito alla diffusione della leggenda dell’apostolo della Gallia. La Vita di san Martino ebbe grande fortuna nel Medioevo e divenne un modello per altri scrittori agiografici. Per la quantità di elementi fantasiosi essa assomiglia più a un romanzo che a una biografia storica.

5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

SCHEMA RIASSUNTIVO L’APOLOGETICA CRISTIANA

Nel II e nel III secolo fiorisce l’apologetica cristiana, tesa a difendere i fedeli dalle persecuzioni.

TERTULLIANO

Tertulliano (Cartagine 155/160 - ca 240) esercita la professione di avvocato e si converte al cristianesimo intorno al 195. Nel 213 aderisce al movimento eretico montanista e, in seguito, fonda una setta ancora più estremista. Di argomento apologetico sono: Ad nationes, violenta requisitoria contro i pagani, Apologeticum, il suo capolavoro, appassionata difesa del cristianesimo, De testimonio animae, sull’anima che è di natura cristiana, Ad martyras, lettera consolatoria, Ad Scapulam, contro un persecutore dei cristiani. Di carattere dottrinario sono: Adversus Marcionem, Adversus Hermogenem, Adversus Valentianos, De carne Christi, De praescriptione haereticorum e De resurrectione, tutte contro varie eresie. Gli scritti di carattere morale, ascetico e disciplinare sono: De spectaculis, De oratione, De virginibus velandis, De monogamia, De corona militis. Polemista vigoroso, ai limiti del fanatismo, ha uno stile personalissimo e un linguaggio di grande vigore drammatico.

Le opere

MINUCIO FELICE

(II-III secolo). Si converte al cristianesimo e scrive un dialogo, Octavius, pacata e serena confutazione delle accuse mosse ai cristiani.

CIPRIANO

(Cartagine ca 200 - Cartagine 258). Si converte al cristianesimo e nel 248-49 diviene vescovo di Cartagine. Opere di carattere apologetico sono Ad Donatum e Ad Demetrianum. Tra le opere di carattere pastorale e dottrinario sono: De catholicae ecclesiae unitate, De lapsis, De bono patientiae, De habitu virginum. Ci è pervenuto anche l’Epistolario, comprendente 81 lettere. Ha uno stile semplice e elegante.

ARNOBIO

(Sicca III-IV secolo). Dopo averlo combattuto aspramente, si converte in età matura al cristianesimo. Scrive il trattato Adversus nationes, il più insolito degli scritti apologetici. La sua prosa è elegante e classicheggiante.

LATTANZIO

(Cirta, ca 250 - Treviri, dopo 320). Allievo di Arnobio, insegna retorica a Nicomedia, dove si converte al cristianesimo. In tarda età diviene precettore del figlio di Costantino. La sua opera più importante è Divinae institutiones, esposizione della dottrina cristiana in 7 libri. Altre opere sono: De opificio Dei, esaltazione della sapienza divina nella creazione, De ira Dei, contro la concezione epicurea e stoica dell’indifferenza divina, De mortibus persecutorum, sulla morte violenta dei persecutori del cristianesimo. Scrive in modo elegante, con stile limpido e piano.

FIRMICO MATERNO

(IV secolo). Prima della conversione scrive Matheseos libri VIII, il più ampio trattato di astrologia pervenuto. Del periodo cristiano è De errore profanarum religionum, violento attacco al paganesimo, contro cui invoca l’intervento degli imperatori.

PAOLO OROSIO

(Tarragona?, ca 390 - ? dopo il 418). Sacerdote spagnolo, si trasferisce in Africa presso Agostino e in seguito si reca a Betlemme da Girolamo. Scrive Historiae adversus paganos, un breviario di storia universale dalla creazione al 417, che si ispira a una visione provvidenzialistica della storia. L’opera ebbe una grande diffusione nel Medioevo. Ci ha lasciato anche dei trattati sulle eresie più diffuse.

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5 - Tertulliano e l’apologetica cristiana

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SCHEMA RIASSUNTIVO (Treviri, ? ca 400 - Marsiglia ?, ca 470). Diventa sacerdote e si reca a vivere a Marsiglia. Scrive De gubernatione Dei, un trattato apologetico polemico, in cui difende l’opera della Provvidenza, messa in dubbio da alcuni per i mali che colpiscono l’impero. Ci sono giunte anche Ad ecclesiam e 9 lettere

SULPICIO SEVERO

(? ca 360 - Prémillac, ca 415). Esercita l’avvocatura e, dopo l’improvvisa morte della moglie, costruisce un convento a Prémillac e si dà alla vita ascetica. Scrive una Chronica, sintesi di storia universale, e una agiografia, Vita sancti Martini, che ebbe grande fortuna nel Medioevo.

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SALVIANO

6 La poesia cristiana Le prime forme poetiche cristiane sono rappresentate da preghiere liturgiche, invocazioni e inni, a carattere collettivo e modellati sui salmi biblici. Solo nei secoli IV e V si sviluppa una vera e propria produzione lirica cristiana, che fonde i temi didascalici e morali con le forme auliche della tradizione classica, in concomitanza con l’effimero risveglio della poesia pagana.

Prudenzio Clemente Aurelio Prudenzio, il più grande poeta latino cri- Il più grande poeta stiano, nacque a Calagurris (oggi Calahorra) in Spagna, nel latino cristiano 348. Studiò retorica, esercitò l’avvocatura e raggiunse alla corte di Teodosio una posizione di prestigio, che lo portò due volte al governo di una provincia spagnola. In età matura, intorno al 400, si ritirò a vita privata per dedicarsi interamente alla poesia religiosa. Nel 402-403 fece un pellegrinaggio a Roma. Non si hanno notizie di lui dopo il 405. ■ Le opere liriche La sua vasta produzione, composta negli ultimi anni della vita, fu pubblicata nel 405 dallo stesso autore in un’unica raccolta, con una Praefatio (Introduzione) di 45 versi e un Epilogus (Conclusione) di 34 versi. Le opere di carattere lirico sono due: Cathemerinon (Inni della giornata) e Peristephanon (Libro delle corone). Cathemerinon comprende 12 inni in metri vari; i primi sei sono da cantare nei vari momenti di preghiera della giornata: al canto del gallo, al mattino, prima e dopo il pasto, al tramonto quando si accendono le lampade e prima di prendere sonno. Gli altri sei riguardano la pratica del digiuno (due), la preghiera valida per ogni ora del giorno, le esequie dei defunti, il Natale e l’Epifania. Il Peristephanon, l’opera lirica più originale e notevole di Prudenzio, insieme di narrazione e di rappresentazione drammatica, raccoglie 14 carmi in metri diversi, in onore dei martiri spagnoli (come Emeterio e Chelidonio, Eulalia di Merida, il vescovo Fruttuoso), romani (come Lorenzo, Agnese e Ippolito) e di altri paesi (come Cipriano di Cartagine). Prudenzio mostra vivacità di ispirazione e la sua è una lirica dotta, artisticamente elaborata, con raffinati artifici retorici. Le opere didascaliche sono 4 poemetti di argomento teologico-morale: Apotheosis (Apoteosi), Hamar tigenia (L’origine del male), Psychomachia (La lotta per l’anima) e Contra Symmachum (Contro Simmaco). Nell’A-

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Opere liriche

Il Libro delle corone

Vivacità di ispirazione e lirica dotta

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6 - La poesia cristiana

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potheosis, in circa 1100 esametri, espone e difende il dogma della Trinità e della divinità di Cristo contro le numerose eresie, che rendono difficoltoso per il fedele seguire la vera via; vi è anche una violenta polemica contro i giudei, che contrasta con la libertà di culto concessa loro da Teodosio. L’Hamartigenia è in 966 esametri, nei quali, dopo un’introduzione su Caino e Abele, Prudenzio confuta l’ereL’origine del male sia di Marcione sul bene e sul male. In Psychomachia, di 915 esametri, espone allegoricamente la lotta, che si disputa nell’animo umano, tra Fede, Virtù e Concordia da una parte e Superstizione, Discordia e Lussuria dall’altra. Circa 1800 esametri compongono i due libri Contra Symmachum: nel primo si scaglia contro il politeismo pagano, nel secondo, seguendo gli argomenti di Ambrogio, si oppone alle ragioni addotte da Simmaco per riportare nella Curia l’altare della dea della Vittoria. In esametri è pure il Dittochacon (Due nutrimenti), 49 quartine in esametri di argomento biblico. Poesia cristiana nei Prudenzio trasferì la poesia cristiana nei metri e nei modi metri e nei modi della poesia classica: per i primi si ispirò a Orazio, per i sedella poesia classica condi a Virgilio, di cui abbondano le reminiscenze. Ebbe grande fortuna nel Medioevo.

Commodiano Poeta del III secolo

Le Instructiones

Il Carmen apologeticum

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Scarsi e del tutto incerti sono i dati sulla singolarissima figura di Commodiano, poeta del III secolo, nativo forse della Palestina, forse dell’Africa. Alcuni studiosi collocano la sua nascita nel IV o nel V secolo, ma certi toni derivati da Tertulliano e da Cipriano e il suo linguaggio decisamente popolaresco rendono molto improbabile che egli sia vissuto in un’epoca di restaurazione classicistica. Compose le Instructiones (Istruzioni), in 2 libri, raccolta di 80 componimenti in esametri, di lunghezza dai 6 ai 48 versi. I carmi sono acrostici, cioè le prime lettere di ogni verso, lette verticalmente, compongono il titolo. Nel primo libro attacca con violenza i pagani e i giudei, nel secondo espone una serie di consigli per i cristiani. Gli viene anche attribuito un Carmen apologeticum (Carme apologetico), in 1060 esametri, riuniti in 530 coppie. Dopo una narrazione della rivelazione da Mosé a Cristo, con violenti attacchi agli ebrei e ai pagani, che invita a convertirsi, il poeta espone la sua dottrina apocalittica, con l’apparizione di due Anticristo, che precederanno il giudizio universale. Il linguaggio è efficace, ma primitivo e popolare, ricco di grecismi e barbarismi sintattici e morfologici; la prosodia è molto distante da quella classica.

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6 - La poesia cristiana

Giovenco

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Le scarse notizie sulla vita di Gaio Vettio Aquilino Giovenco si devono a Girolamo. Nacque a Giliberri (l’odierna Elvira, presso Granada) in Spagna, da nobile famiglia; fu sacerdote e visse all’epoca di Costantino. Cultore della poesia classica, e in particolare di Virgilio, traspose in esametri il Vangelo Il Vangelo di Matteo di Matteo, integrato con passi tratti dagli altri Vangeli. L’o- in esametri pera, composta negli anni 329-330 con il titolo di Evangeliorum libri quattuor (Quattro libri degli Evangeli), è una scialba parafrasi di scarso valore artistico del testo evangelico, elaborato in un linguaggio di ascendenza virgiliana. Giovenco ebbe comunque fortuna, soprattutto nel Rinascimento.

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Damaso Damaso nacque nel 305 forse a Roma; fu pontefice, in un periodo travagliato, dal 366 al 384. Fece edificare varie basiliche, restaurare le catacombe e fu il primo papa poeta. Amante della letteratura classica e di Virgilio, compose Epigrammi, epitaffi metrici in esametri e in distici elegiaci per le tombe dei santi, dei martiri, delle persone devote e per i monumenti religiosi. Damaso incaricò dell’incisione un calligrafo famoso, Fabio Dionisio Filòcalo: la bellezza dell’incisione stessa e la devozione spinsero molti fedeli a ricopiare su codici le epigrafi, che così sfuggirono alla distruzione. Gli epigrammi mostrano purezza linguistica, reminiscenze virgiliane e dei migliori scrittori augustei, ma mancano di ispirazione e hanno un mediocre valore artistico.

Il primo papa poeta

Purezza linguistica e reminiscenze virgiliane

I CENTONI E PROBA Il genere di esercitazioni retoriche, già presenti nel mondo greco e note come “centoni”, diventano di moda anche per i cristiani nel sec. IV. Essi trattano vari argomenti con versi ritagliati e cuciti insieme dalle opere di Virgilio. Il primo centone cristiano fu composto da una poetessa, la nobildonna romana Petronia Proba, moglie di Clodio Celsino Adelfio, prefetto di Roma nel 351. Prima della conversione si era già cimentata nella poesia con un poemetto sulla guerra tra Costanzo II e Magnenzio. Quando l’imperatore Giuliano allontanò

dalle scuole gli insegnanti cristiani, Proba compose per i figli, intorno al 362, un poemetto in 694 esametri, il Centus Vergilianus, formato da emistichi tutti tratti dalle opere di Virgilio. In esso sono esposte alcune storie dell’Antico e del Nuovo Testamento: la creazione del mondo e dell’uomo, la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, il diluvio, la vita, la morte, la resurrezione e l’ascensione di Cristo. Non sempre la poetessa riesce a superare le difficoltà formali imposte dal contenuto e l’opera è piuttosto mediocre.

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6 - La poesia cristiana

Paolino di Nola

La carriera politica

I Carmina natalicia

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Meropio Ponzio Paolino, più noto come Paolino di Nola, nacque a Burdigala (l’odierna Bordeaux) nel 353 da antica e nobile famiglia. Allievo prediletto del poeta Ausonio, si trasferì a Roma dove intraprese una brillante carriera politica, ricoprendo alti incarichi: fu console, senatore, governatore della Campania. Si convertì con la moglie al cristianesimo intorno al 390; donò tutti i suoi beni e condusse vita ascetica. Divenne prete a Barcellona nel 390 e nel 409 fu eletto vescovo di Nola, dove visse fino alla morte. Paolino ha lasciato una trentina di componimenti poetici di varia lunghezza, ai quali è legata la sua fama di uno fra i più ispirati poeti cristiani. Tra gli scritti risaltano i 14 Carmina natalicia (Carmi natalizi), composti anno per anno per la festa di San Felice nel giorno del suo martirio. In forma classica l’autore descrive con vivacità e freschezza narrativa episodi e miracoli della vita del santo, cerimonie in suo onore durante la sua festa; non manca anche il timore per le invasioni barbariche. Gli altri carmi contengono parafrasi di salmi, panegirici, epitalami, inni sacri e lettere in versi ad Ausonio, in risposta al rammarico del maestro perché si era convertito al cristianesimo. È giunto anche un Epistolario di 51 lettere, scritte dopo la conversione, alcune delle quali sono indirizzate ad Agostino, a Girolamo, a Sulpicio Severo e a Delfino, vescovo di Burdigala Sono pesanti alla lettura, perché prolissi e densi di artifici retorici.

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Il Carme pasquale

Scarse sono le notizie sul poeta Sedulio (prima metà del IV secolo), che era probabilmente di origine italica o gallica. Insegnò retorica, si trasferì in Grecia, dove pubblicò il suoi scritti. Forse fu prete e vescovo. La sua opera principale è il poema Carmen paschale (Carme pasquale), in 5 libri di esametri in cui sono riassunti e parafrasati alcuni fra i più notevoli miracoli dell’Antico Testamento e quelli operati da Cristo, seguendo la narrazione dei Vangeli, soprattutto quello di Matteo. Il linguaggio è semplice, vivo ed è modellato su quello dei classici. Il Carmen ebbe molto successo e Sedulio ne scrisse anche una versione in prosa, nella quale dominano l’enfasi e l’artificio retorico. Di lui restano anche due inni dedicati al Natale e all’Epifania, parte dei quali sono entrati nell’innografia ufficiale della Chiesa.

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6 - La poesia cristiana

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Sidonio Apollinare

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Gaio Sollio Modesto Sidonio Apollinare nacque a Lione intorno al 430, da nobile famiglia gallo-romana di magistrati. Accompagnò a Roma l’imperatore Avito, di cui aveva sposato la figlia Papianilla, e divenne prefetto di Roma. Tornato in Gallia, La carriera politica fu eletto vescovo di Arverna (oggi Clermont-Ferrand). Durante l’invasione dei visigoti patì il carcere per aver organizzato contro di essi la resistenza. Morì intorno al 486. Compose, prima del periodo episcopale, 24 Carmina classicheggianti in metri vari, comprendenti 3 panegirici agli imperatori Avito, Maggioriano e Antemio, epitalami, epistole in versi, epigrammi, in uno stile ampolloso e molto elaborato. Rimangono anche 9 libri di Epistole, scritte dopo l’elezione a vescovo; sono 147 lettere nelle quali sono inserite composizioni poetiche. Di valore letterario modesto, la sua opera è tuttavia un prezioso documento sulla vita e le vicende del V secolo.

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Vittore e Draconzio Claudio Mario Vittore visse nel V secolo e fu maestro di retorica a Marsiglia, sua città natale. Compose il poemetto in esametri Alethìa (La verità) in 3 libri, dedicato al figlio Eterio. È una parafrasi della Genesi, primo libro della Bibbia, dalla creazione del mondo alla distruzione di Sodoma e Gomorra, in cui si sentono echi di Virgilio, Ovidio e Lucrezio. Blossio Emilio Draconzio è considerato l’ultimo poeta della letteratura latina. Appartenente a una famiglia senatoria africana, visse a Cartagine, nel periodo del dominio dei vandali. Incorso nell’ira del re Guntamondo per aver scritto un elogio di Zenone, imperatore d’Oriente, venne imprigionato per anni, fino alla morte del sovrano. Compose una raccolta di scritti di ispirazione mitologica pagana, Romùlea, di cui fanno parte due epilli, De raptu Helenae (Il rapimento di Elena) e Medea. A Draconzio è stata attribuita anche la tragedia in esametri Orestes (Oreste). In carcere scrisse Satisfactio ad Guntamundum (Soddisfazione a Guntamondo), in distici elegiaci, per implorare il perdono del re, e De laudibus Dei (Le lodi di Dio), in 3 libri di esametri, componimento consolatorio, che esalta la benevolenza di Dio verso gli uomini ed è ritenuta la sua opera migliore.

Claudio Mario Vittore

Draconzio, ultimo poeta della letteratura latina

Scritti di ispirazione mitologica pagana

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6 - La poesia cristiana

SCHEMA RIASSUNTIVO PRUDENZIO

(Calagurris 348-? dopo il 405). Il più grande poeta latino cristiano esercita l’avvocatura e ricopre importanti cariche politiche sotto l’imperatore Teodosio. Compone tutte le opere negli ultimi anni della vita, dal 400 al 405. Scritti lirici: Cathemerinon, 12 inni per le preghiere della giornate e per le feste religiose; Peristephanon, 14 carmi in lode dei martiri, la sua opera più originale e artisticamente notevole. Opere didascaliche: Apotheosis, sulla Trinità e contro le eresie; Hamartigenia, sull’origine delo male; Psychomachia, poemetto allegorico; Contra Symmachum, contro la sopravvivenza del paganesimo. La sua è una poesia dotta, artisticamente elaborata e classicheggiante.

COMMODIANO

Compone Instructiones, in cui attacca giudei e pagani e presenta una serie di consigli per i cristiani; Carmen apologeticum, in cui espone la dottrina della rivelazione e quella apocalittica. Il linguaggio è popolaresco, ma efficace.

GIOVENCO

(Giliberri, IV secolo). Sacerdote, vissuto all’epoca di Costantino, traspone in esametri il Vangelo di Matteo, opera di scarso valore artistico, con un linguaggio modellato su quello di Virgilio.

PAPA DAMASO

(Roma 305-Roma 384). Papa dal 366 al 384, scrive Epigrammi, una serie di epitaffi per le tombe dei martiri, dei santi e per i monumenti religiosi. Vi si riscontrano purezza linguistica, reminiscenze classiche, ma mediocre valore poetico.

PAOLINO DI NOLA

(Burdigala 353-Nola 431). Dopo una brillante carriera politica, si converte al cristianesimo, diviene sacerdote e poi vescovo di Nola. Ci ha lasciato una trentina di carmi, tra i quali spiccano, per vivacità descrittiva, i 14 Carmina natalicia, in onore di San Felice. Del suo Epistolario ci sono pervenute 51 lettere, prolisse e ricche di artifici retorici.

SEDULIO

(IV secolo). Pubblica in Grecia il Carmen paschale, in 5 libri di esametri, sui miracoli dell’Antico e del Nuovo Testamento. Compone anche 2 inni religiosi entrati nella liturgia.

SIDONIO APOLLINARE

(Lione ca 430-Arverna ca 488). Diventa prefetto di Roma e poi vescovo di Arverna. Compone 24 Carmina classicheggianti e 9 libri di Epistole. La sua opera ha un valore letterario modesto.

VITTORE

(Marsiglia, V secolo). Compone in esametri una parafrasi della Genesi, il poemetto Alethìa, in 3 libri.

DRACONZIO

(V secolo). Vive a Cartagine sotto i vandali. Scrive la raccolta Romùlea, di cui fanno parte gli epilli De raptu Helenae e Medea. Altre sue opere sono: Satisfactio ad Guntamundum, De laudibus Dei e la tragedia Orestes.

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7 I Padri della Chiesa latina Con l’editto di Costantino di Milano (313), che poneva fine alle persecuzioni e concedeva libertà di culto alla nuova religione, la letteratura latino-cristiana entrò in una nuova fase. Nasceva la necessità di discutere e definire i dogmi, di interpretare criticamente i testi sacri per elaborare una dottrina teologica organica e completa, senza abbandonare però la polemica contro gli scismi e le eresie. Gli scrittori, che si distinsero in questa produzione e che operarono una fusione tra il cristianesimo e la cultura classica, sono i cosiddetti Padri della Chiesa e il loro felice operare in questo senso fece dei secoli IV e V il periodo d’oro della letteratura latino-cristiana.

Ambrogio

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Ambrogio, vescovo di Milano, fu una personalità determinante nell’affermazione del cristianesimo sia per la sua attività ecclesiale sia per la sua produzione letteraria.

La formazione retorica, giuridica e religiosa

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■ La vita Aurelio Ambrogio nacque a Treviri in Germania intorno al 335, figlio di un alto funzionario imperiale di famiglia senatoria cristiana, prefetto del pretorio della Gallia. Dopo la morte del padre, si trasferì con il fratello Satiro e la sorella Marcellina presso la madre a Roma, dove frequentò le migliori scuole di retorica e di diritto, come tutti i giovani dell’alta società destinati alla carriera di funzionari imperiali. Accurata fu anche la sua formazione religiosa. Intrapresa la carriera pubblica, fu nominato nel 370 governatore dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Alla morte del vescovo ariano Aussenzio, Ambrogio riuscì a evitare lo scontro tra le comunità ortodossa e ariana con una saggia politica di pacificazione. Si guadagnò così la stima e l’affetto di tutti e la proclamazione da parte del popolo a successore di Aussenzio. Dopo aver ricevuto l’approvazione imperiale, Ambrogio fu battezzato (pur essendo cristiano non era stato battezzato secondo l’uso dell’epoca) e sette giorni dopo, il 7 dicembre 374, consacrato vescovo di Milano. Dopo quattro anni dedicati alla meditazione, al completamento della sua formazione culturale, all’approfondimento dei testi sacri e alla lettura delle opere dei grandi teologi orientali, Ambrogio si rivelò vigoroso uomo d’azione, oltre che un pastore che si preoccupava della formazione morale e spirituale dei suoi fedeli. Condusse con energia la lotta con-

Vescovo di Milano

Vigoroso uomo d’azione e buon pastore 281

7 - I Padri della Chiesa latina

tro l’arianesimo con un intervento decisivo al concilio di Aquileia del 381, si occupò dei problemi della Chiesa orientale, si oppose al ripristino dell’altare della dea Vittoria in Senato, seppe influenzare gli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio, scontrandosi spesso con loro. Dopo il massacro di Tessalonica del 390, impose all’imperatore Teodosio pubblica penitenza, dopo averlo minacciato di scomunica, e contrastò sempre i progetti del potere politico ogniqualvolta non gli sembravano conciliabili con la libertà della Chiesa. Negli ultimi anni della vita si occupò soprattutto dei problemi della diocesi di Milano, ove morì il 4 aprile del 397. ■ Lo scrittore Nonostante la sua notevole attività pastorale e politica, Ambrogio fu autore di un numero considerevole di opere di carattere esegetico, dogmatico, ascetico-morale e soggettivo. Esse sono sostenute da una profonda cultura filosofica Difesa e teologica, sempre ispirata dalla volontà di affermare e didell’ortodossia fendere l’ortodossia cristiana. Fra gli scritti di carattere esecristiana getico il più originale è l’Hexàmeron (I sei giorni), una raccolta di 9 omelie in 6 libri, di straordinario slancio religioso, sui sei giorni della creazione del mondo: sono un’esaltazione della saggezza e della provvidenza divina, testimoniate dalla bellezza della natura. Fra gli altri scritti esegetici si ricordano la Expositio in Lucam, commento al Vangelo di Luca, il De Cain et Abel, il De Abraham, il De Noë et Arca e nuInterpreta l’Antico merosi altri. Ambrogio interpreta l’Antico Testamento seTestamento con guendo il metodo allegorico dei teologi greci Origene e metodo allegorico Clemente di Alessandria. Di argomento dogmatico sono De fide ad Gratianum Augustum (All’imperatore Graziano, sulla fede), sulla natura divina del Cristo e contro l’eresia ariana; De paenitentia (La penitenza), sull’efficacia della penitenza contro il rigorismo dei Novaziani; De spiritu sancto (Lo Spirito Santo); De misteriis (I misteri), rivolto ai neo battezzati, sulla spiegazione dei gesti rituali. Notevoli per il loro valore ascetico e morale sono i 3 libri del De officiis ministrorum (I doveri dei sacerdoti), in cui riprende il De officiis di Cicerone, interpretandolo e completandolo in senso cristiano. Tra gli altri scritti si ricordano anche il De virginitate e i 3 libri De virginibus, dedicati alla sorella MarLe opere di carattere cellina, ambedue sulla serenità della vita monastica. Di casoggettivo rattere soggettivo sono 4 Orazioni funebri, due per il fratello Satiro, morto nel 379, una per la morte di Valentiniano II e una per quella di Teodosio. La prosa limpida ed elegante, modellata sulle forme classiche di quella ciceroniana, ren-

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7 - I Padri della Chiesa latina

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de gli scritti di Ambrogio piacevoli alla lettura. Ci è giunto anche un Epistolario di 91 lettere, che comprendono il periodo della sua attività episcopale tra il 379 e il 396. Le lettere, ai familiari o ufficiali, sono importanti sia per il loro valore storico e politico sia come testimonianza della personalità di Ambrogio. Va inoltre ricordata la sua attività nell’ambito del canto religioso: Ambrogio fu anche autore di alcuni inni liturgici in dimetri giambici secondo la metrica classica quantitativa, ma che già si avvicinano a quella accentuativa; in essi è anche frequente il canto alternato, tra le due parti del coro. Gli “inni ambrosiani” autentici sono solo quattro, secondo la testimonianza di Agostino (anche se la critica moderna tende ad attribuirgliene altri): Aeterne conditor, canto mattutino, Iam surgit hora tertia, canto della passione e della morte di Cristo, Deus creator omnium, canto della sera, Veni redemptor gentium, canto di Natale. Come testimonia Ambrogio stesso, in un discorso contro gli ariani, gli inni furono composti nel 386, per sostenere i fedeli asserragliati in una basilica milanese, per impedire che l’imperatrice Giustina la concedesse agli ariani. Gli inni hanno un notevole valore artistico ebbero un tale successo da diventare patrimonio della liturgia milanese e di quella di Compose anche tutta la cristianità. Ambrogio ne compose anche l’accom- l’accompagnamento pagnamento musicale, ispirandosi a melodie tradizionali. musicale

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Con la sua produzione dogmatico-ascetica Girolamo esce dagli schemi dottrinali tradizionali per il raffinato senso artistico, degno dei migliori scrittori classici.

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Passione per la letteratura classica

Vita ascetica dell anacoreta

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■ Una vita inquieta Sofronio Eusebio Gerolamo (o Girolamo) nacque a Stridone, in Dalmazia, da famiglia cristiana, intorno al 347. Trasferitosi a Roma, studiò retorica, filosofia e frequentò la scuola del grammatico Elio Donato, da cui derivò la grande passione per la letteratura classica. Ebbe come compagno Rufino, di cui poi divenne avversario nella controversia riguar dante le tesi di Origene. Dopo aver ricevuto il battesimo al termine degli studi, si recò in Gallia, ad Aquileia e poi in Siria, ad Antiochia, dove seguì le lezioni dell’esegeta Apollinare di Laodicea. Si dedicò per tre anni (375-378) alla vita ascetica dell’anacoreta nel deserto di Calcide, vicino ad Antiochia, e iniziò ad apprendere la lingua ebraica ed aramaica. Fu ordinato sacerdote e nel 380 fu discepolo a Costantinopoli del Padre della Chiesa greca Gregorio Nazianzeno.

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7 - I Padri della Chiesa latina

Tornò a Roma nel 382 per partecipare a un sinodo, su invito di papa Damaso, di cui divenne segretario. Ricevette l’inRevisione della carico di riordinare e rivedere, sul testo greco, la versione versione latina della latina della Bibbia. Fu anche consigliere spirituale, in un Bibbia cenacolo monastico, di alcune matrone aristocratiche, fra le quali vi erano la vedova Paola e la figlia Eustochio. Entrato in conflitto con il clero romano, troppo mondanizzato per i suoi ideali monastici, Gerolamo, dopo la morte di Damaso (384), lasciò Roma con Paola ed Eustochio, per l’Egitto e, poi, per la Palestina, fermandosi definitivamente a Betlemme. Qui fondò un eremo dove visse fino alla morte, dedito allo studio e alla preghiera, dirigendo anche una scuola monastica e tre conventi femminili, edificati con il patrimonio di Paola.

La Vulgata

“Ciceronianus es, non Christianus”

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■ La produzione letteraria La fama di Gerolamo è legata indissolubilmente alla traduzione in latino dell’Antico e del Nuovo Testamento, la cosiddetta Vulgata editio, riconosciuta, nel concilio di Trento del 1546, come l’unica valida versione dei testi sacri. Durante il suo soggiorno a Roma, su incarico di papa Damaso, intraprese la revisione dell’Itala, il testo latino dei Vangeli allora in uso, confrontandolo con quello greco: ne uscì una nuova versione. Giunto a Betlemme si dedicò alla revisione del testo dell’Antico Testamento, prima utilizzando il testo dei Settanta e, in seguito, non convinto delle traduzioni latine e greche, direttamente l’originale in ebraico e aramaico, lingue che conosceva bene. Gerolamo realizzò una ingegnosa versione in un linguaggio semplice e chiaro, adatto a essere compreso dai fedeli, in un latino popolare e nel contempo ciceroniano. Non si limitò alle traduzioni, ma commentò anche vari libri sacri: quello dei Salmi, quelli dei Dodici Profeti minori e dei Quattro maggiori, l’Ecclesiaste, quattro Lettere di San Paolo, il Vangelo di Matteo e l’Apocalisse. È uno studio critico-filologico attento soprattutto al significato letterale. Gerolamo fu anche uno studioso appassionato e filologo esperto dell’antichità classica, tanto da rimproverarsi, in un passo famoso, d’essere “ciceroniano”, più che “cristiano”. Tra le opere storiografiche ha particolare importanza il Chronicon (Cronaca), un compendio di storia universale da Abramo in poi. Girolamo lo tradusse dall’opera omonima del vescovo greco Eusebio di Cesarea, che giungeva al 325, integrandolo con le vicende storiche, politiche e letterarie - queste ultime desunte da Svetonio – fino al 378, anno della morte dell’imperatore Valente. Proprio da Svetonio egli riprese titolo e genere per l’opera De viris il-

7 - I Padri della Chiesa latina

lustribus (Gli uomini illustri), 135 brevi biografie di autori De viris illustribus cristiani, a partire da san Pietro. Vi sono compresi anche Flavio Giuseppe, Filone l’Ebreo e Svetonio, che non furono cristiani; l’ultima è la sua autobiografia. A questo genere appartengono anche le biografie di tre monaci, Paolo, Malco e Ilarione, piacevoli per lo stile vivace e semplice e per il tono fiabesco. Fra i numerosi testi dogmatici si ricordano: Adversus Halvidium, sulla verginità di Maria; Adversus Iovinianum, sul valore della verginità e sul digiuno; Adversus Vigilantium, sul celibato dei presbiteri e sul culto dei martiri; Apologia adversus libri Rufini, apologia in 3 libri contro Rufino accusato da Gerolamo di essere un sostenitore delle idee di Origene. Un’opera letteraria finemente elaborata, importante testimonianza sia storica sia per la conoscenza della vita dell’autore, è l’Epistolario, che compren- L’epistolario de 150 lettere, di cui 117 sicuramente di Gerolamo più altre di corrispondenti o apocrife, di ampiezza varia: alcune sono dei veri e propri trattati polemici. Interessante è la XXII, in cui lo scrittore espone il suo pensiero sulla conciliabilità degli studi classici con la vita cristiana.

Ilario di Poitiers

La lotta contro l’arianesimo

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Nato a Poitiers all’inizio del IV secolo da nobile famiglia pagana, Ilario ricevette un’ottima educazione retorica. La lettura dei testi sacri lo portò a convertirsi al cristianesimo. Successivamente, intorno al 350, fu eletto vescovo della sua città per la sua grande cultura e per il suo fervore religioso. La sua decisa lotta contro la diffusa eresia ariana lo fece entrare in conflitto con buona parte dell’episcopato della Gallia e dell’Italia; per questo nel 356 venne esiliato in Frigia dall’imperatore Costanzo, simpatizzante dell’arianesimo. Il contatto con la Chiesa orientale completò la sua cultura dottrinale e perfezionò le sue doti di polemista. Ritornato in patria dopo tre anni e ripresa la cattedra episcopale, continuò la lotta contro gli ariani, riportando gran parte della Gallia all’ortodossia. Morì nel 367. Gli scritti più numerosi di Ilario sono di argomento dogmatico e polemico. Il suo capolavoro, De Trinitate (La Trinità), trattato in 12 libri, fu composto e pubblicato durante l’esilio; in esso Ilario espone il dogma della Trinità, polemizzando contro gli ariani che negavano a Cristo la natura divina. L’opera è soprattutto notevole perché introdusse in Occidente le elaborazioni dottrinali della Chiesa orientale. De Synodis (I sinodi) è un’esposizione delle discussioni tenute nei sinodi orientali sulla dottrina di Ario; Contra Con-

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Scritti dogmatici e polemici

285

7 - I Padri della Chiesa latina

Primo esempio di innografia cristiana occidentale

stantium imperatorem è un’invettiva contro Costanzo, tanto violenta da essere pubblicata solo dopo la morte dell’imperatore; Contra Arianos vel Auxentium Mediolanensem (Contro gli Ariani o contro Aussenzio di Milano) è un opuscolo contro Aussenzio, vescovo ariano di Milano. Tra le altre opere vi sono anche commenti ed esegesi di passi della Bibbia. Di lui ci sono pervenuti anche tre inni religiosi, importanti perché rappresentano il primo esempio di innografia cristiana occidentale. Pur conoscendo bene la retorica – imitatore di Quintiliano, disse di lui Girolamo – Ilario è uno scrittore mediocre e poco originale.

SCHEMA RIASSUNTIVO

Le opere

Le opere

ILARIO DI POITIERS

286

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GEROLAMO

Sant’Ambrogio (Treviri ca 335 - Milano 397). Di famiglia senatoria cristiana, studia a Roma e diventa governatore dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Nel 374 diviene vescovo di Milano. Uomo d’azione, conduce una decisiva lotta contro gli ariani, si occupa dell’attività pastorale e politica, influenzando gli imperatori della sua epoca. Ambrogio scrive numerose opere di carattere esegetico, dogmatico, asceticomorale. La più originale delle opere di carattere esegetico è l’Hexaemeron; di carattere ascetico-morale è il De officiis ministrorum; De fide e De paenitentia sono di argomento dogmatico. È pervenuto anche un Epistolario di 91 lettere. Sicuramente autentici sono 4 Inni che, ancora oggi fanno parte della liturgia cristiana.

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AMBROGIO La vita

San Gerolamo (Stridone in Dalmazia ca 347 - Betlemme 420). Studia a Roma retorica, filosofia e letteratura; viaggia molto soprattutto in Oriente, dove vive un’esperienza di eremita nel deserto della Calcide. Dopo un breve soggiorno a Roma, come segretario di papa Damaso, si stabilisce definitivamente a Betlemme, in un eremo da lui fondato. La sua fama è legata alla Vulgata, traduzione direttamente dall’originale ebraico e aramaico dei testi sacri, l’unica ritenuta valida dal concilio di Trento. Commenta anche vari libri dell’Antico e Nuovo Testamento, soprattutto sotto l’aspetto critico-filologico. Tra le opere storiografiche è da ricordare Chronicon e, tra quelle biografiche, De viris illustribus. Importanti per la conoscenza della vita dell’autore e dell’epoca storica sono le Epistole. Sant’Ilario (Poitiers, inizio IV secolo - Poitiers 367). Di famiglia pagana, si converte al cristianesimo e diventa vescovo di Poitiers. Gli scritti più notevoli sono di argomento dogmatico e polemico: De Trinitate, il suo capolavoro, De Synodis, Contra Constantium imperatorem. Ci ha lasciato anche commenti ed esegesi di passi della Bibbia e 3 Inni, i primi della innografia cristiana occidentale.

8 Agostino e i tardi prosatori latini

Agostino è una delle personalità fondanti del cristianesimo occidentale, il più importante degli autori della letteratura latino-cristiana. Visse gli anni drammatici della lunga crisi finale dell’Impero romano, caratterizzati dal crescente timore per le invasioni barbariche. Le sue Confessioni sono l’opera di più impressionante modernità che la letteratura antica abbia tramandato, un acuto sguardo introspettivo e psicologico sui misteri dell’anima umana, sempre drammaticamente scissa nella dualità materia e spirito.

Agostino Aurelio Agostino nacque a Tagaste in Numidia (l’odierna SoukAhras in Algeria) il 13 novembre del 354, da una famiglia di modesta condizione. Il pade Patrizio era pagano (accostatosi al cristianesimo e battezzatosi solo negli ultimi anni della vita), decurione romano della città, e la madre Monica era una fervante cristiana. Dopo aver frequentato gli studi primari nella città natale e una scuola di grammatica nella vicina Madaura, dove apprese ad amare i grandi autori latini, a diciotto anni, con l’aiuto economico di un ricco amico di famiglia, entrò nella scuola di retorica di Cartagine. Qui frequentò il teatro, il circo e si legò a una giovane donna, di modeste condizioni, con la quale convisse per 12 anni e dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. A 19 anni fu spinto allo studio della filosofia in seguito alla lettura dell’Hortensius di Cicerone. Iniziò così il suo lungo itinerario intellettuale. L’esortazione alla filosofia, che il dialogo ciceroniano oggi perduto conteneva, segnò l’inizio di una febbrile ricerca della verità che condusse Agostino alla lettura della Bibbia. Ma ne rimase deluso per alcune contraddizioni e per la forma che, come scrisse poi nelle Confessioni: “mi sembrò semplicemente indegna del confronto con la dignità ciceroniana”. Aderì nel 374 all’eresia manichea, che gli sembrava risolvere il problema dell’origine del male. Infatti questa setta cristiana ipotizzava l’esistenza di una divinità del bene e di una del male. Il manicheismo lasciò una traccia permanente nel suo pensiero, dominato dalla categoria della dualità e dell’opposizione: materia e spirito, uomo carnale e uomo spirituale, Dio e uomo, eletti e dannati, città di Dio e città dell’uomo. La nota della scissione caratterizzò sempre drammaticamente il pensiero agostiniano. In questa prima fase della sua vita aprì

Padre pagano e madre fervente cristiana

Febbrile ricerca della verità Adesione all’eresia manichea

La scissione

287

8 - Agostino e i tardi prosatori latini

una scuola di grammatica a Tagaste; nel 376 tornò a Cartagine per insegnarvi retorica.

Esame critico del manicheismo

Simpatia per lo scetticismo

■ L’attività retorica Agostino coltivò negli anni 376-383 interessi letterari e retorici in vista della carriera: vinse una gara per composizioni poetiche teatrali e scrisse la sua prima opera, un trattato ora perduto. Questi anni furono caratterizzati da un esame critico del manicheismo e dallo studio della filosofia e dell’astronomia in funzione dell’approfondimento e della verifica delle dottrine manichee. Agostino si giovò dell’appoggio di amici manichei nel 383, quando decise di lasciare l’Africa alla volta di Roma per aprirvi una scuola di retorica, in cerca di migliori guadagni e di successo. Nella città si avvicinò allo scetticismo degli Accademici. Scontento del breve soggiorno romano, che era stato rattristato da gravi febbri e dal mancato pagamento delle lezioni da parte degli studenti, nel 384, per intervento del pagano Simmaco, prefetto di Roma, ebbe la cattedra di retorica a Milano, dove fu raggiunto dalla compagna, dal figlio e dalla madre (il padre era morto nel 371).

■ La conversione A Milano Agostino ascoltò i sermoni del vescovo Ambrogio, che commentava la Scrittura in senso allegorico, secondo l’inLettura della filosofia segnamento dei neoplatonici Basilio e Origene. La lettura neoplatonica dei filosofi pagani neoplatonici, come Plotino che Agostino interpretò alla luce dei dogmi del cristianesimo, lo spinse alla sua prima riconciliazione con i testi sacri. Del resto era stato proprio il Padre della Chiesa greca Basilio di Cesarea a Abbandono del riconoscere l’utilità e la necessità della lettura dei classici pamanicheismo gani come introduzione alla Scrittura. Abbandonò così dee dello scetticismo finitivamente il manicheismo e lo scetticismo. Decisiva per la sua conversione fu anche la lettura delle opere di san Paolo. Ormai convertito, si ritirò nel 386 per alcuni mesi in una villa a Cassiciaco (oggi Cassago) in Brianza, insieme ad alcuni amici, alla madre Monica e al figlio Adeodato. Si dimise quindi dall’insegnamento e si liberò da tutti gli impegni che potevano distoglierlo da una vita di preghiera, di pietà e di Il battesimo studio. Il 25 aprile del 387, sabato santo, ricevette il battesimo da Ambrogio.

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■ L’attività teologico-pastorale Cominciò così la seconda parte della sua vita: nello stesso anno del battesimo partì per l’Africa, ma a Ostia, in attesa dell’imbarco, morì la madre e Agostino si fermò a Roma fino all’estate del-

288

8 - Agostino e i tardi prosatori latini

en esso in lic ito o conc

l’anno successivo. Tornato a Tagaste nel 388 realizzò il proprio ideale di vita monastica insieme ai discepoli Alipio ed Evodio e al figlio Adeodato, che morì pochi mesi dopo. Così grande fu la sua fama di pietà e di dottrina che, in seguito alle pressioni popolari, venne ordinato sacerdote nel 391 da Valerio, vescovo di Ippona; qui fondò e scrisse la regola dell’ordine che porta il suo nome. Morto Valerio, Agostino nel 395-96, fu acclamato dal popolo vescovo di Ippona. Si dedicò assiduamente alle cure della sua diocesi, senza trascurare d’intervenire nelle controversie dottrinali del tempo e di prendere posizione contro le sette eretiche. Sollecitò i chierici alla vita monastica e diede contributi importanti ai numerosi sinodi del clero africano, intrattenendo continue relazioni epistolari con Gerolamo, Paolino di Nola e altri. Combatté il manicheismo, difese, contro i sostenitori delle dottrine rigoriste del vescovo Donato, l’efficacia dei sacramenti, in quanto tali, e non in rapporto alla “santità” di chi li amministrava, e approvò la persecuzione dei donatisti da parte dello Stato, chiedendo tuttavia che non venissero condannati a morte. S’impegnò a fondo, fino ai suoi ultimi giorni, contro le dottrine di Pelagio, che proclamavano la capacità dell’uomo di salvarsi con le sue sole forze, e ribadì il dogma del peccato originale e la necessità della grazia. Morì nell’agosto del 430, mentre i vandali di Genserico, che avevano invaso l’Africa, assediavano Ippona.

Ideale di vita monastica

Controversie dottrinali

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■ Le opere La vita di Agostino è caratterizzata da un’incessante e fecondissima attività di scrittore: in 50 anni compose più di 100 opere, senza contare le lettere e i molti sermoni. Il suo discepolo Possidio elencava più di 1000 scritti, non tutti però pervenuti. Dato l’elevato numero è impossibile citarle tutte. Di carattere filosofico sono i dialoghi scritti a Cassiciaco (Contra Academicos, De beata vita, De ordine); Soliloquia, dialogo tra lo scrittore e la Ragione; De Musica, sull’importanza della musica; De magistro, sul metodo e sui limiti dell’insegnamento. La più importante delle opere di carattere dogmatico è De Trinitate in 15 libri, scritto tra il 399 e il 419, che tratta del problema della Trinità. Di carattere apologetico è il De civitate Dei, in 22 libri composti tra il 413 e il 427. Di carattere autobiografico sono le Confessiones e le Retractationes (Le revisioni): in quest’ultimo scritto del 426 in 2 libri, Agostino riesamina tutte le sue opere precedenti, elencando di ciascuna titolo, numero dei libri, argomento, luogo e tempo della composizione, con correzione di errori e chiarimenti. Le opere di carattere polemico sono nu-

Scrittore fecondo

Opere filosofiche

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Opere dogmatiche Opere apologetiche Opere autobiografiche

Opere polemiche 289

8 - Agostino e i tardi prosatori latini

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merosissime: contro i manichei, De libero arbitrio, in 3 libri, De moribus ecclesiae catholicae et de moribus manichaeorum, in 2 libri, Contra Faustum Manichaeum, in 33 libri; contro i donatisti, De Baptismo contra Donatistas, in 7 libri; contro i pelagiani, De spiritu et littera. Agostino scrisse anche contro le sette dei marcioniti, dei priscilliani e degli origeniani. Di carattere morale e pastorale sono De catechizandis rudibus, De doctrina Christiana, in 4 libri. Di carattere esegetico sono De sermone Domini in monte, De consensu evangelistarum, in 4 libri. Ricco di oltre 200 lettere è l’Epistolario; più di 500 sono i Sermones (non tutti però autentici), prediche che pronunciò come vescovo. Agostino fu anche saltuariamente poeta: il polemico Psalmus contra partem Donati è una breve storia del donatismo in versi che seguono il ritmo accentuativo, per un totale di 20 strofe e un epilogo.

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Opere morali e pastorali Opere esegetiche

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Il genere autobiografico

Originalità e profondità del pensiero

Stile alto e commosso Le cause del male e del dolore

Un atto di fede

290

■ Le Confessiones Le Confessiones rappresentano una novità nell’ambito della letteratura classica, sia greca sia latina, poiché sono la prima autentica espressione del genere autobiografico. Furono scritte da Agostino tra il 397 e il 400, molto tempo dopo i fatti narrati e si compongono di 13 libri. Nei primi nove libri, che si arrestano alla morte della madre, lo scrittore ripercorre le tappe salienti della sua vita, che culmina nella conversione. I rimanenti quattro libri, abbandonata la memoria del passato, affrontano i grandi temi dell’uomo e di Dio e non di rado arrivano a toccare i vertici del pensiero filosofico, come nel memorabile libro XI, dedicato al problema del tempo, in cui, secondo il filoso inglese Bertrand Russell (1872-1970), c’è tutto quanto si può dire a tal proposito: “Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so”. Ma la vera grandezza delle Confessioni sta nello stile, alto e commosso, di cui Agostino si serve per scendere nelle profondità del proprio animo, per interrogarsi spietatamente non, come è stato detto, con la durezza eccessiva del convertito, ma con la lucidità del grande anatomista dell’anima, alla ricerca delle cause del male e del dolore. Esemplare quanto afferma con amara ironia a proposito dell’istinto del bambino: “Dunque l’innocenza dei bambini risiede nella fragilità delle membra, non nell’anima”, che sembra precorrere con incredibile acume le analoghe tesi psicoanaliste di Sigmund Freud (1856-1939). Le Confessioni sono prima di tutto un atto di fede, in cui anche la sincerità ha senso solo se offerta a Dio, luce e conferma di ogni intenzione umana.

8 - Agostino e i tardi prosatori latini ■ De civitae Dei Agostino con l’opera La Città di Dio intendeva difendere il cristianesimo dall’accusa di essere stato la causa del sacco di Roma da parte dei visigoti nel 410, ma durante la stesura ampliò l’argomento tanto da ottenere una grandiosa trattazione della storia universale, interpretata secondo una concezione filosofica e teologica. Nei suoi 22 libri Agostino rappresenta la prima grande riflessione sui fini del processo storico, compilando una sorta di grande enciclopedia della civiltà pagana e di quella cristiana, concludendo che il paganesimo non solo non poteva portare alla felicità, né terrena né eterna, ma neppure alla giustizia. Il tema di fondo dell’opera si precisa nella distinzione tra città dell’uomo e città di Dio, nella distinzione e contrapposizione di fini: il volere dell’uomo e il volere di Dio. L’impero romano, come i grandi imperi della terra, è espressione della civitas terrena, che alla fine soccomberà di fronte al trionfo della civitas celeste; pertanto anche le sciagure subite dall’impero romano non sono altro che episodi nel percorso verso il trionfo dello spirito di Dio sulla terra.

Grandiosa opera della storia universale

Distinzione tra il valore umano e quello divino

■ Profondità e modernità di Agostino Ultimo grandissimo autore dell’epoca classica, Agostino si serve della tradizione letteraria pagana, di cui è consapevole erede, e la utilizza per un’ispirata e originale opera autobiografica e per gli scritti teologici e polemici. Il penRIASSUNTO DELLE CONFESSIONI Libro I: narra dei primi 15 anni della vita, del suo scarso amore per lo studio, delle sue colpe. Libro II: narra delle sregolatezze dl sedicenne, persino di un piccolo furto di pere. Libro III: narra gli anni dal 17° al 19°, segnati dalla lettura dell’Hortensius di Cicerone, dai suoi amori e dalle attrattive manichee. Libro IV: narra l’adesione al manicheismo, il turbamento per la morte di un amico, l’amore per le gioie terrene, la sua attività di insegnamento a Cartagine. Libro V: narra dell’allontanamento dal manicheismo, dell’andata a Roma e poi a Milano, dell’incontro con Ambrogio.

Libro VI: narra dell’arrivo a Milano della madre, dello studio, delle passioni terrene, del figlio Adeodato. Libro VII: narra della lettura dei neoplatonici e del suo avvicinarsi a Dio. Libro VIII: narra la crisi spirituale, la lettura del Vangelo e la sua definitiva conversione. Libro IX: narra il ritiro nella villa di Cassiciaco, il battesimo, la morte e l’elogio della madre a Ostia. Libro X: narra dei cambiamenti operati dalla conversione e del problema della conoscenza di Dio. Libri XI, XII, XIII: trattano del tempo e dell’eternità in rapporto con Dio, della Trinità e della creazione.

291

8 - Agostino e i tardi prosatori latini

Pensatore incredibilmente moderno

Problema del peccato originale

L’argomento filosofico del “cogito”

siero filosofico di Agostino è straordinariamente acuto e presenta spesso un aspetto di incredibile modernità. Prova ne è la concezione della relatività del tempo, che non è una realtà assoluta se non nell’eterno, ma un fatto soggettivo che esiste solo nella memoria. Il tempo è costituito da tre non esistenze: il passato che non è più, il futuro che non è ancora e il presente, attimo fuggente tra la non esistenza del passato e quella del futuro. Anche il problema del peccato originale, presupposto imprescindibile per definire il libero arbitrio, sta a indicare la profondità di pensiero. Rigoroso interprete dell’apostolo Paolo, Agostino sostiene che il libero arbitrio, come capacità di scegliere, appartiene all’essenza umana in quanto dono divino. Tuttavia, a causa del peccato originale, esso si ritorce contro l’uomo che non è più certo di saper scegliere il bene né di poterlo compiere. Solo la grazia, donata da Dio a pochi predestinati, imperscrutabilmente, ma non ingiustamente, in quanto tutti gli uomini sono peccatori e dunque meritano il castigo, garantisce la possibilità di operare in modo giusto, secondo il destino originario della libertà stessa. Gran parte del pensiero medievale è stato stimolato dalle idee di Agostino, alle quali si rivolse anche la Riforma protestante per elaborare le sue basi dottrinarie. Le teorie della coscienza, consapevolezza che accompagna l’atto del pensare, fornendo la base di ogni certezza, fa di Agostino il primo formulatore del cosiddetto argomento del cogito (penso) da cui, con Campanella e Descartes, prenderà le mosse la filosofia moderna.

I tardi prosatori latini Fra i più tardi eruditi latini occupano un posto particolare le figure di Boezio, la cui fama è legata alla tradizione filosofica, e di Cassiodoro.

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Amico e consigliere di Teodorico

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■ Boezio Anicio Manlio Torquato Severino Boezio nacque a Roma verso il 480 dalla nobile famiglia senatoria degli Anici, da tempo convertita al cristianesimo. Compì studi filosofici che perfezionò ad Atene. Fu amico e consigliere del re ostrogoto Teodorico, che inizialmente aveva cercato di promuovere l’inserimento dell’aristocrazia romana nel suo regno. Divenne console nel 510 e ricoprì alti incarichi ufficiali. Accusato di tradimento nel 523, fu imprigionato a Pavia e poi giustiziato senza processo l’anno successivo. La sua multiforme opera nacque anzitutto dall’intento di

8 - Agostino e i tardi prosatori latini

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conservare il grande patrimonio filosofico dell’antichità, nel momento dell’eclissi del mondo classico. Nel campo filosofico tradusse e commentò gli Analitica priora (Analitici primi) di Aristotele e l’Isagoge di Porfirio; compose egli stesso trattati di logica, aritmetica, geometria, musica e inoltre di teologia sulla Trinità e contro alcune eresie. La sua fama è soprattutto legata alla sua ultima opera, scritta in carcere nel 523-524, De consolatione De consolatione philosophiae (La consolazione della filosofia), in 5 libri. philosophiae L’opera, insieme di prosa e versi, è un dialogo tra Boezio e la Filosofia, che gli appare come una nobile matrona venuta a consolarlo. Nel contenuto filosofico convivono elementi platonici e stoici. Lo stile è vigoroso e la lingua classicheggiante. L’opera, considerata una specie di altissimo testamento spirituale, ebbe vasta risonanza in tutto il mondo medioevale.

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■ Cassiodoro Flavio Magno Aurelio Cassiodoro nacque verso il 490 a Squillace in Calabria, figlio di un potente funzionario di Teodorico di origine siriana, patrizio e prefetto del pretorio. Raggiunse i più alti gradi della carriera amministrativa alla corte del re ostrogoto: fu questore, console e magister officiorum (ministro degli interni), carica nella quale sostituì Boezio. Collaborò con Teodorico nella politica di conciliazione tra i barbari conquistatori e l’aristocrazia romana. Divenne prefetto del pretorio con il re Atalarico e ricoprì anche prestigiosi incarichi con i successori, Teodato e Vitige. Dopo la caduta di Vitige nel 540, Cassiodoro si ritirò nelle sue terre in Calabria, nel monastero di Vivario da lui stesso fondato, impegnando il resto della sua vita in un’infaticabile attività di studio dei testi sia pagani sia cristiani e nella formazione intellettuale dei monaci del convento, che avevano l’obbligo di copiare e studiare i codici antichi. Morì ultra novantenne nel 583. Nel primo periodo della vita scrisse Chronica, un compendio di storia universale dalla creazione del mondo, con l’elenco di tutti i consoli da Bruto e Tarquinio fino a Eutarico del 519, al quale dedicò l’opera; Historia gothica (Storia dei Goti), in 12 libri, andata perduta e di cui è giunta un’epitome del goto Iordanis; Variae (sottinteso epistulae, Lettere varie), in 12 volumi, 468 lettere ufficiali che rappresentarono un modello per lo stile burocratico medioevale. Nel periodo monastico scrisse Institutiones divinarum et humanarum litterarum (Istituzioni di letteratura sacra e profana), in 2 libri, in cui Cassiodoro dava ai suoi confratelli i criteri per interpretare le scritture,

La carriera

Un modello per lo stile burocratico medioevale 293

8 - Agostino e i tardi prosatori latini

i precetti della vita monastica, trattando anche delle sette arti liberali. Tra gli scritti minori si ricorda l’Historia ecclesiastica tripartita, rielaborazione di tre storie ecclesiastiche greche.

SCHEMA RIASSUNTIVO AGOSTINO: LA VITA

(Tagaste 354-Ippona 430). Agostino studia a Cartagine, dove poi insegna retorica. Si dedica alla filosofia, aderisce all’eresia manichea. Nel 383 si reca a Roma e subito dopo a Milano, dove ottiene la cattedra di retorica (384). Entra in contatto con il vescovo Ambrogio, dal quale riceve il battesimo (387). Ritornato in Africa nel 388, viene ordinato sacerdote a Ippona, città in cui fonda l’ordine che porta il suo nome. Nel 395-396 viene acclamato vescovo di Ippona e, fino alla morte, si dedica alla cura della diocesi, alle controversie dottrinali e alla lotta contro le eresie.

OPERE FILOSOFICHE

Le più note sono i Dialoghi scritti a Cassiciaco, (Soliloquia, De Musica, De magistro).

OPERE DOGMATICHE

De Trinitate.

OPERE APOLOGETICHE

De civitate Dei, capolavoro di Agostino, è una grandiosa riflessione sulla storia universale, interpretata secondo la concezione cristiana.

OPERE AUTOBIOGRAFICHE

Confessiones e Retractationes. Nelle Confessioni, novità nel genere autobiografico, Agostino ripercorre le tappe della sua vita, affrontando i temi dell’uomo e di Dio.

OPERE POLEMICHE

Numerosissimi scritti contro le eresie dei manichei, i donatisti, i pelagiani, i marcioniti, i priscilliani, gli origeniani.

ALTRE OPERE

Ci sono pervenute anche opere morali, pastorali, esegetiche, 200 lettere dell’Epistolario e i Sermones.

Il giudizio critico

Agostino è l’ultimo grande autore classico, filosofo acuto e di incredibile modernità, come dimostrano le sue concezioni del libero arbitrio del tempo. Le sue idee influenzano gran parte del pensiero medievale; vi attinge la Riforma protestante e danno inizio, per certi aspetti, alla filosofia moderna.

I TARDI PROSATORI LATINI: BOEZIO

(Roma ca 480 - Pavia 524). Alto funzionario e consigliere del re Teodorico, è accusato di tradimento e giustiziato senza processo. L’opera più importante è De consolatione philosophiae, un dialogo in prosa e in versi tra Boezio e la Filosofia, che ha grande fortuna nel Medioevo.

CASSIODORO

(Squillace ca 490 - Vivario 583). Potente funzionario di Teodorico e dei suoi successori, si ritira nel monastero di Vivario, da lui stesso fondato. Scrive Chronica, sommario di storia universale fino al 519, Historia gothica, non pervenuta, Institutiones divinarum et humanarum litterarum. Le sue 468 lettere Variae diventano nel Medioevo un modello di stile burocratico.

294

51

Glossario di retorica e metrica nce so n li en z a dora fo lin a

Accento, particolare intensità assunta dalla voce per dare risalto a una determinata sillaba nella parola o nella frase. L’accento tipico delle lingue europee moderne si dice espiratorio perché si produce attraverso un aumento della forza espiratoria. Acròstico, componimento poetico in cui le lettere iniziali dei versi o le prime lettere dei versi o delle strofe, se lette di seguito in senso verticale, formano nomi e parole. Dal greco acros, “estremo”, e stichos, “verso”.

Actio, ultima delle cinque grandi partizioni dell’arte retorica: riguarda i modi di eseguire il discorso (recitazione, mimica, ecc.). Adèspoto, si dice di un testo di un autore ignoto, non attribuibile con sicurezza. Adonio, nome di un verso greco o latino composto di un dattilo e di uno spondeo o trocheo con l’effetto di intonazione discendente. Caratteristico della strofa saffica, deriva il suo nome da un’invocazione al dio Adone fatta in tale metro: Ò ton Adònin (¯ ˘ ˘ ¯ ¯˘ ).

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Ady´naton, (impossibile) figura retorica formata da un’iperbole in forma di paradosso, che consiste nell’evidenziare l’incredibilità di un evento facendolo dipendere da un fatto impossibile. Per esempio: “in cielo dunque pascoleranno i cervi…, e l’esule Parto berrà nell’Arari, il Germano nel Tigri, prima che dal nostro cuore scompaia la sua immagine” (Virgilio). Dal verbo greco dynamai, con prefisso negativo.

tragedia sia in commedia: consiste nella rivelazione della vera natura o origine di un personaggio rimasta sino ad allora sconosciuta. Allegoria, figura retorica per cui il significato letterale di un termine, o di un’espressione, rimanda a un significato più ampio e nascosto. Per esempio, nella Divina Commedia, Dante racconta un viaggio immaginario nel mondo dell’aldilà, che significa allegoricamente l’itinerario di un’anima verso la salvezza cristiana. Allessandrino (-ismo), derivato da Alessandria, la metropoli ellenistica dell’Egitto, il termine si applica, in senso letterario, a una fase storica della poesia e cultura greca, nel periodo che corre tra il principio del III secolo a.C. e la fine del II. Allitterazione, ripetizione in inizio di parola della stessa consonante o, meno propriamente, della stessa vocale, allo scopo di creare particolari effetti. Per esempio: “o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti ” (Ennio). Allusione, figura retorica in cui si nomina una cosa per richiamarne un’altra. Per esempio: “L’Amor che muove il Sole e l’altre stelle” (=Dio). Anadiplòsi, figura retorica che consiste nella ripetizione dell’ultima parola di un verso o di una frase all’inizio del verso o della frase successivi, allo scopo di darne maggior rilievo ritmico e semantico. Per esempio: “questo voi renderete bellissimo per Gallo,/ per Gallo, l’amore del quale…” (Virgilio).

Aforisma, breve massima di validità generale, enunciato conciso di tipo sentenzioso o precettivo. Costituisce storicamente un genere dialettico e retorico, coltivato da poeti, filosofi e moralisti. Per esempio: “Nella gelosia c’è più egoismo che amore” (La Rochefoucauld).

Anàfora, figura retorica che consiste nel ripetere più volte, in un periodo o in una strofa, lo stesso vocabolo, allo scopo di enfatizzarne il valore semantico o metrico. Per esempio: “terruit urbem, terruit gentis” (Orazio).

Agnizione, (riconoscimento). Situazione tipica (e analizzata da Aristotele) nello scioglimento di opere drammaturgiche, sia in

Anapesto, piede di due brevi e una lunga (˘ ˘ ¯) usato in alcuni tipi di verso della poesia scenica latina.

295

Glossario di retorica e metrica

Antìfrasi, propriamente, l’uso di un termine di valore positivo per indicare un concetto negativo, e viceversa (come il colloquiale “Ora viene il bello!”). Più in generale, nella terminologia letteraria, un procedimento compositivo che - prendendo spunto da predenti letterari - li riutilizza ribaltandone il segno. Dal greco antí, contro e phrasis, espressione. Antilogìa, discorso che sostiene tesi opposta ad un altro; comporre discorsi contrapposti, a coppie antilogiche, era un diffuso esercizio retorico. “a parte”, a teatro, battuta che convenzionalmente si ritiene non udita da altri personaggi presenti sulla scena. Può essere esplicitamente rivolta al pubblico.

,8

enza a d o a follina

Aposiopèsi, reticenza: interruzione deliberata da una frase, che lascia al destinatario il compito di integrarla. Per esempio: “quos ego…” (Virgilio, Eneide 1, 135).

Aprosdòketon, è l’inatteso emergere nel discorso di un aspetto a cui l’ascoltatore non è preparato. Procedimento tipico di una certa letteratura a effetto, in cui un’imprevista aggiunta o conclusione sorprende bruscamente il lettore che era preparato a un esito diverso del discorso. Arcaismo, termine, forma, o costruzione appartenente a uno stadio della lingua sentito come passato o in disuso (arcaismi “lessicali”, “morfologici”, “sintattici”). Archètipo, immagine che si può ritenere universalmente valida, all’interno di una data cultura, o per l’umanità in genere. Asìndeto, serie di unità lessicali o di proposizioni accostate senza congiunzioni, per esempio veni, vidi, vici.

Canticum, qualsiasi tipo di “canzone, aria cantata”; è termine tecnico per le parti cantate delle opere drammatiche in opposizione alle parti recitate e in particolare a

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Carme, componimento poetico, originariamente di carattere rituale o solenne, in seguito di genere più vario. Può essere anche cantato e recitato. Catalèttico, catalessi vale “sospensione, cessazione”, perciò catalettico è detto di un verso in cui è soppresso qualcosa, una o due sillabe, alla fine. Catarsi, “purificazione”, effetto di liberazione dalle passioni che, secondo la teoria aristotelica, la poesia tragica produce sui suoi destinatari. Centone, componimento poetico composto con versi o parti di versi di un autore famoso, adattati ad altri significati. L’abilità sta nel produrre un insieme coerente ed, eventualmente, significati nuovi rispetto a quelli dei contesti originali da cui si cita. Cesura, da caedo (taglio). Pausa ritmica di un verso che, nella metrica classica, cade alla fine di una parola, ma sempre all’interno di un piede, e divide il verso in due emistichi. Nella metrica moderna cade in diverse sedi, secondo il senso e il ritmo del verso.

o in

Anticlìmax, gradazione discendente (si veda climax).

quelle recitate senza accompagnamento musicale. In particolare nella palliata romana i cantica sono prevalentemente degli “a solo” di singoli attori.

T i t o l o c oncess

Anàstrofe, inversione nell’ordine abituale delle parole. Per esempio: haec inter per inter haec.

Chiasmo, disposizione incrociata di elementi della frase che si corrispondono, e formano lo schema A B B A. Per esempio: “satis eloquentiae, sapientiae parum” (Sallustio). Clàusola, la parte terminale di un verso, di un enunciato, di un discorso. Climax, figura retorica che consiste nel disporre i termini di un discorso graduandoli con sempre maggior forza (uri vinciri verberari). La progressione contraria, discendente, è detta anticlimax (si veda). Coliambo (o scazonte), “giambo zoppo”: forma particolare del trimetro giambico, che presenta una lunga irrazionale nella penultima sillaba del verso (detto perciò “zoppicante”). Era chiamato anche ipponattèo perché adoperato con frequenza dal poe-

Glossario di retorica e metrica

515, ord

ta greco Ipponatte (VI secolo) che lo usò nelle sue poesie ingiuriose, o scazonte che in greco significa appunto zoppicante.

Concinnitas, ricerca di equilibrio nella struttura artistica del periodare (tipica per esempio dello stile di Cicerone); interessa la distribuzione delle parole e l’architettura compositiva del discorso.

dor follina, a z n lic in o s i olo conce

Contaminatio, nella filologia dei moderni, indica il procedimento di fondere assieme due o più modelli; la fortuna del termine deriva dalla poetica di Terenzio, che difende contro i suoi critici la legittimità di questa operazione condotta sui modelli teatrali greci delle sue opere. Corpus, gruppo di testi o di documenti che ci sono stati tramandati insieme; o anche insieme di testi accomunati dalla paternità di un unico autore, o attribuiti a un unico autore. Dàttilo, piede di tre sillabe e quattro tempi (¯ ˘ ˘). Il verso più comune costituito da dattili è l’esametro dattilico. Diàtriba, dissertazione a contenuto moraleggiante che può assumere varie forme e gradi di elaborazione letteraria. Fonde dottrine e problematiche filosofiche con un realismo attento alla vita quotidiana. Dièresi, segno ortografico (¨) usato per indicare, specie in poesia, che due vocali non formano dittongo, e si devono pronunciare separatamente; per esempio la dieresi detta bucolica cade tra quarto e quinto piede nell’esametro dattilico.

Dispositio, la seconda delle cinque grandi ripartizioni in cui si scompone l’arte retorica: riguarda essenzialmente l’ordine in cui si presentano i temi e gli argomenti. Dìstico, strofa di due versi; caso più noto è il distico elegiaco, formato da un esametro e un pentametro. Ècloga, termine greco usato dai grammatici latini per indicare i singoli componimenti di argomento pastorale in cui si articolano le Bucoliche di Virgilio (si dice perciò “il libro delle Bucoliche” ma “la prima, seconda ecloga”).

Èkphrasis, termine retorico greco che designa descrizioni letterarie di opere d’arte, un soggetto molto amato nella letteratura ellenistico-romana. Elegia, componimento lirico di carattere nostalgico-sentimentale. Ellissi, figura retorica che consiste nella soppressione di un elemento della frase.

Elocutio, terza parte della tecnica retorica: scelta e combinazione accorta delle parole che formano il discorso. Emistichio, “mezzo verso”; nella pratica, per esempio, dell’esametro dattilico, il verso è diviso in due emistichi dalla cesura principale. Per esempio “Tityre tu patulae/recubans sub tegmine fagi” (Virgilio). Enjambement, indica il fenomeno metrico per cui l’unità logico-sintattica tra due parole o gruppi di parole, come sostantivo o aggettivo, soggetto e predicato verbale, soggetto e complemento oggetto, si spezza alla fine del verso, per proseguire in quello successivo, dando luogo a una particolare intensità espressiva. Epica, genere poetico che narra fatti eroici, storici o leggendari, relativi a un personaggio o a un popolo. Epicèdio, componimento poetico in morte di una persona cara (o di un animale: il passero di Catullo). Epìllio, vocabolo di uso moderno, composto dal termine greco epos più il suffisso greco –yllion, che ha valore diminutivo; si applica alle poesie epiche “brevi” dell’età alessandrina, come il carme 64 di Catullo. Epita(f)fio, elogio funebre, che può essere rappresentato sia da un’orazione, sia da un componimento poetico. Epitalàmio, componimento poetico destinato a una celebrazione nuziale (Catullo 61 e 62). Epìteto, aggettivo qualificativo. Epòdo, nella metrica antica, termine che indicava un verso breve che si aggiunge-

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Glossario di retorica e metrica va a uno più lungo oppure il distico stesso che ne risultava, caratterizzato da un ritmo vivace, adatto alla satira.

care brevi componimenti lirici di argomento pastorale, in cui si idealizza la vita campestre.

Esametro, verso canonico della poesia epica greco-latina composto da sei piedi dattilici dei quali l’ultimo è catalettico.

Incipit, “comincia”, sottinteso “il libro”, termine in uso nei manoscritti latini, oggi vocabolo tecnico per indicare le prime parole di un testo.

Ethos, in greco significa sia “carattere” sia “sentimento”; il termine è di uso retorico in opposizione a pathos , e indica la produzione di effetti non concitati e drammatici, ma più moderati, volti a suscitare consenso e a provocare piacere. Fabula, il vocabolo copre, in latino, non solo il nostro “favola”, ma tutti i tipi di finzione: miti e leggende, romanzi, testi scenici, siano essi comici o drammatici. Nella critica letteraria moderna fabula indica in genere una descrizione astratta e lineare del contenuto narrativo di un’opera. Falecio, verso di undici sillabe, in genere utilizzato per poesie di contenuto leggero e occasionale (spesso è presente nelle nugae catulliane). Fonèma, unità minima isolabile nella catena parlata, e sprovvista di senso proprio; per esempio /p/.

Geminatio, ripetizione immediata della stessa parola o gruppo di parole. Giambo, 1) piede della metrica classica formato da una sillaba breve e da una lunga (˘ ¯). 2) Per estensione, componimento poetico di carattere satirico e aggressivo in metro giambico. Glossa, 1) termine difficile (perché arcaico, raro e dialettale) studiato da grammatici o poeti “dotti”; 2) nota – posta tra una riga e l’altra del testo – che spiega locuzioni difficili o commenta il contenuto di un passo. Una raccolta di glosse ordinate alfabeticamente costituisce un glossario. Iato, incontro di due vocali che si pronunciano separatamente. Contrario del dittongo. Idillio, dal greco eidy´llion (vignetta) è il termine usato dai grammatici greci per indi-

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Inconcinnitas, rifiuto dei principi della concinnitas (si veda). In medias res, lo è, per esempio, l’inizio dell’Odissea; è un modo di cominciare i racconti “a metà” della storia, per poi risalire agli antefatti. Inno, nell’antica Grecia, componimento poetico solenne, dedicato a una divinità o a un eroe, cantato in coro e accompagnato dalla musica. Nell’età cristiana, canto corale d’argomento religioso eseguito dai fedeli durante le cerimonie. In epoca moderna, componimento lirico di argomento religioso, patriottico ecc. Interstualità, fenomeno per cui, in letteratura, ogni nuovo testo si costituisce in una rete di relazioni con testi già scritti. Intreccio, costruzione narrativa di un racconto, distinta dalla fabula, che è la presentazione riassuntiva, lineare e cronologica, degli stessi eventi che l’intreccio organizza.

Inventio, arte di trovare gli argomenti e le argomentazioni, prima parte dell’arte retorica. Ipèrbato, figura sintattica per cui si muta l’ordine naturale delle parole del discorso per dar maggior rilievo a quelle su cui si vuole attirare l’attenzione del lettore e dell’ascoltatore. Ipèrbole, figura retorica basata sull’esagerazione. Ipotassi, (subordinazione). Strutturazione sintattica per cui le proposizioni del periodo sono ordinate ed espresse secondo un rapporto di dipendenza logica e temporale. L’ipotassi si oppone alla paratassi, uno stile di scrittura in cui due o più frasi sono disposte l’una accanto all’altra, giustappo-

Glossario di retorica e metrica ste come equivalenti e non come interdipendenti. Lìtote, figura retorica per cui viene formulato un concetto mediante la negazione del suo contrario. Locus amoenus, classico topos descrittivo, rappresentazione di un ameno paesaggio idealizzato, dove la serenità della natura cancella i problemi della società e della storia. Menippèa, genere di satira risalente all’opera del polemista greco Menippo di Gadara (II secolo a.C.), praticato poi da Varrone. La menippèa è caratterizzata da mescolanze volutamente disarmoniche tra prosa e versi, comicità e serietà, realismo popolare e raffinate citazioni.

Neologismo, parola non attestata in passato, che non compare in testi anteriori. Novella, breve narrazione in prosa, più raramente in versi, di un fatto inventato, ma verosimile. Ode, componimento lirico, di varia forma metrica e strofica; vario è pure il contenuto anche se prevalentemente amoroso o etico-civile. Originariamente, in greco, la parola faceva riferimento all’unione della poesia con il canto e con la musica. Omofonia, similarità, o identità, nel suono di parole diverse.

c

Onomatopèa, riproduzione mediante parole di un suono naturale.

s

Metrica, (da métron, in greco = misura) insieme degli elementi (accenti, misure, rime ecc.) che presiedono alla composizione dei versi e alle loro varie combinazioni (strofe), in relazione a un contesto storico-letterario. Nella metrica quantitativa (per esempio la metrica classica) il verso è definito dal succedersi di sillabe brevi e lunghe mentre nella metrica ritmica (per esempio quella italiana) il criterio fondamentale è dato dal numero di sillabe (versi ottonari, endecasillabi ecc.) e dalla loro accentazione. Il diverso modo di organizzazione dei versi dà luogo a differenti tipi di componimenti poetici

Mimo, “imitazione” della vita di tutti i giorni: testo destinato alla scena, o anche alla lettura, che rappresenta personaggi e situazioni quotidiane.

c

Metonìmia, figura retorica che consiste nel sostituire una parola con un’altra avente con la prima qualche tipo di relazione: causa-effetto, concreto-astratto, contenente-contenuto, autore-opera ecc. Per esempio: “vulnera dirigere” (Virgilio)= “lanciare ferite” per “lanciare dardi”.

Metro, nella poesia greco-latina indica l’unità di misura di un verso; nella poesia moderna indica la struttura di un verso o di una strofa.

itolo

Metafora, figura retorica per cui un vocabolo o un’espressione vengono usati per intendere un concetto diverso da quello che di solito esprimono, ma con il quale hanno un rapporto di analogia. A differenza della similitudine, i termini fra i quali si coglie la somiglianza sono posti in relazione di identità. Per esempio “la sera della vita = la vecchiaia”.

(canzoni, ballate, sonetti ecc.) e alle loro differenti parti ritmiche (terzine, ottave ecc.).

Oratoria, genere letterario della prosa, sviluppatosi nell’antica Grecia e basato sull’arte della parola. Produce discorsi destinati a persuadere il pubblico su vari temi. Ordine, disposizione lineare delle parole, oppure dei contenuti: la retorica oppone un ordo artificialis e un ordo naturalis, a seconda che questa disposizione appare o meno “naturale” e prevedibile. Ossimòro, figura retorica che consiste nel ricercare effetti speciali accostando parole di significato contraddittorio. Per esempio: “symphonia discors” (Orazio), “una discordante armonia”. Panegirico, discorso pubblico in celebrazione di un personaggio. Pantomimo, sorta di balletto, spettacolo di musica e danze molto popolare nella Roma del I secolo d.C. Poteva essere basato

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Glossario di retorica e metrica su noti temi mitologici, e sostenuto da una vera e propria sceneggiatura scritta. Paratassi, rapporto di coordinazione fra due o più frasi, opposto a ipotassi (si veda). Paronomàsia, accostamento di parole dotate di qualche somiglianza fonica; procedimento-base dei “giochi di parole”.

Pathos, effetto violento, drammatico, intensamente sentimentale, distinto per grado di intensità dall’ethos; viene consapevolmente ricercato con strategie di stile e di contenuto sia dall’oratore sia dal poeta. Pentàmetro, verso della metrica classica composto da cinque piedi. Insieme all’esametro formava il distico elegiaco. Piede, unità di misura del verso greco-latino costituita dall’aggregazione di determinate quantità sillabiche. Per esempio il dattilo (¯ ˘ ˘), lo spondeo (¯ ¯), il giambo (˘ ¯), il trocheo (¯ ˘). Plurilinguismo, apertura dello stile letterario verso una pluralità di livelli e di registri linguistici; la tendenza opposta, selettiva e omogenea, si può definire monolinguismo. Poema, componimento poetico narrativo solenne e di vasto respiro. Generalmente ripartito in canti o libri, definito, secondo la materia trattata, poema epico, cavalleresco, storico, didascalico ecc.

Poikilía, “varietà” di temi, strutture metriche, e soprattutto di stile e linguaggio, all’interno di una poetica consapevole. Termine greco, dal verbo poikíllo, “rendere vario, ricamare”. Polìmetri, carmi composti in metri vari.

Tito o c

Poliptòto, ripetizione contestuale di una parola in differenti casi grammaticali, per esempio “pectora pectoribus rumpunt” (Virgilio)

onc

Polisemìa, pluralità di significati di cui si dota una parola, o un intero enunciato (più comunemente si parla di ambiguità). Proemio, forma di esordio tipica del poema epico.

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Prosìmetro, forma letteraria caratterizzata da un’alternanza frequente, non episodica di prosa e versi. Prosodìa, (propriamente in greco “modulazione della voce”) parte della fonetica che tratta della quantità delle sillabe e dell’accentazione delle parole. Il termine svela l’originaria natura melodica che l’accento ha sia in greco sia in latino. Lo studio della prosodia è fondamentale, in quanto la versificazione latina, come quella greca era basata sull’alternanza di sillabe lunghe e brevi. Prosopopea, artificio mediante il quale si dà voce, impersonandolo, a un personaggio, o a un’astrazione (per esempio lo Stato, la Natura). Retorica, nella cultura greca è l’arte del discorso e il suo scopo consiste nel persuadere un uditorio. A partire dalla trattazione aristotelica e fino al suo inserimento, in epoca medievale, nel gruppo delle arti liberali del trivio, la retorica si compone di 5 parti: l’inventio (che riguardagli argomenti del discorso), la dispositio (che si occupa del loro ordinamento), l’elocutio (che tratta le questioni stilistiche), l’actio (che detta le norme della gestualità dell’oratore), la memoria (che insegna a ricordare il discorso). Con il passare dei secoli, e soprattutto in epoca romantica, l’interesse per la retorica si riduce alla sola elocutio, vale a dire ai problemi di poetica letteraria. Ritmo, nella metrica latina, si basa sull’alternanza quantitativa di sillabe lunghe e brevi di un verso, regolata secondo schemi particolari; nella poesia moderna, ordinata successione di sillabe toniche e atone. Saffica (ode), composizione costituita da strofi saffiche. Viene così chiamata perché prediletta da Saffo, ma in realtà è forma metrica propria della lirica eolica. Ripresa dai poeti ellenistici, fu portata in latino da Catullo e fu largamente usata da Orazio; se ne servirono anche Seneca, Stazio, Paolino di Nola, Prudenzio e altri. Satira, componimento letterario, origina-

Glossario di retorica e metrica

T

riamente tipico dell’antica Roma, dapprima in prosa e versi e poi solo in versi. Esprime giudizi di tipo moralistico-polemico sui vizi della società contemporanea.

olo

Semantica, studio dei significati delle parole e della loro evoluzione.

c

Senario, verso latino di sei sillabe.

nc

Settenario, verso latino di sette sillabe, con l’accento sulla sesta.

es

so

Similitudine, figura retorica che accosta due realtà che appartengono a contesti diversi, paragonandole; dalla similitudine può nascere, per sostituzione la metafora (si veda).

in

z

en

Simposiale, “conviviale”, detto di poesia destinata all’uditorio di un convivio, o comunque che canta temi connessi a questa situazione.

o

ad

Sinèddoche, estensione o riduzione del significato comune di un termine (si designa la parte per il tutto, il singolare per il plurale, o viceversa).

f

Sinestesia, “percezione simultanea”; fe nomeno tipico della lingua poetica per cui si associano sfere sensoriali diverse, per esempio auditiva e visiva.

Sintagma, costrutto sintattico, combinazione di elementi (due o più) nella catena parlata. Spondeo, piede di due sillabe lunghe, e perciò quattro tempi (¯ ¯), equivalente al dattilo al quale si alterna nella versificazione esametrica. Tetrametro, nella metrica classica greca e latina, verso composto da quattro metri. Poteva essere dattilico, anapestico, giambico, coriambico. Il più comune è il trocaico catalettico. Topos, luogo comune o stereotipo cui attingono sia il discorso comune sia quello letterario. Trimetro, verso composto da tre metri. Il più noto è il trimetro giambico. Trochèo, piede formato da una sillaba lunga e una breve (¯ ˘). Urbanitas, qualità pura ed elegante del latino parlato a Roma, in opposizione alla lingua del contado (rusticitas), al latino delle province (peregrinitas).

n

Vertere, termine usato spesso dai letterati romani per indicare la “traduzione” da originali greci.

301

Indice analitico

A

Tit o

Accio, Lucio 38-39 Acrone, Elenio 252 Afranio, Lucio 53 Agostino 287-292 Agrippa, Marco Vipsanio 193 Ambrogio 281-283 Ammiano Marcellino 246-248 Ampelio, Lucio 248 Andronico, Livio 22-23 Anziate, Valerio 42 Apicio, Marco Gavio 193 Appio Claudio Cieco 12-13 Apuleio 240-245 Arnobio 268 asianesimo 64 Atta, Tito Quinzio 53 atticismo 64-65 Augusto 117-120 Aulo Gellio 238-239 Ausonio, Decimo Magno 256-257 Aviano, Flavio 258-259 Avieno, Rufo Festo 258-259 Avito, Alfio 231

l

302

B Bibaculo, Marco Furio 68 Boezio 292-293 Bruto, Marco 90

C Calpurnio Pisone, Lucio 42 Calpurnio Siculo 187 Calvo, Gaio Licinio 68-69 Capella, Marziano 254 Cassiodoro 293-294 Catilina 85, 105 Catone il Censore, Marco Porcio 43-46 Catone, Publio Valerio 68 Catullo 71-76 Celio Antipatro, Lucio 42 Celso, Aulo Cornelio 192 Censorino 252 Cesare, Gaio Giulio 95-102 Cicerone, Marco Tullio 84-94 Cincio Alimento, Lucio 42 Cinna, Gaio Elvio 69 Cipriano 267-268 Claudiano, Claudio 257-258 Clodia 72

Columella, Lucio Giunio Moderato 193 Commodiano 276 Cornelio Nepote 111-113 Cornificio, Quinto 70

D Damaso, papa 277 Donato, Elio 252-253 Draconzio 279

E Ennio 34-37 Epicuro 80, 82 Eutropio 249

F Falisco, Anniano 231 Fedro 187-188 Fenestella 192 Festo, Rufio 249 Floro 236-237 Frontino, Sesto Giulio 193 Frontone 237-238

Indice analitico

I Igino, Gaio Giulio 124 Ilario di Poitiers 285-286

L Laberio, Decimo 65-66 Lanuvino, Lucio 52 Lattanzio 268-270 Levio 57 Liciniano, Granio 248 Livio, Tito 167-170 Lucano, Marco Anneo 184187 Lucilio, Gaio 55-56 Lucrezio 78-83 Lutazio Catulo 57

M Macro, Emilio 122 Macrobio, Ambrogio Teodosio 253-254 Manilio, Marco 122 Mariano 231 Marziale 200-202 Massimo, Valerio 192

N Namaziano, Claudio Rutilio 259 Nemesiano, Marco Aurelio Olimpio 232 neóteroi 67 Nevio, Gneo 23-24 Nigidio Figulo, Publio 113 Nonio, Marcello 253 Novio 53-54

co

nc

e

Plauto 26-33 Plinio il Giovane 225-227 Plinio il Vecchio 210-211 poëtae novi 67 Polemio, Giulio Valerio 250 Pollione, Asinio 121 Pomponio Attico, Tito 113 Pomponio Mela 192-193 Pomponio, Lucio 53-54 Porfirione, Pomponio 252 Prisciano 255 Properzio, Sesto 154-157 Prudenzio 275-276 Publilio, Siro 66

lo

Gaio 256 Gallo, Caio Cornelio 150 Germanico, Cesare 181-182 Gerolamo 283-285 Giovenale 222-224 Giovenco 277 Giugurta 105-106

Materno, Giulio Firmico 270 Mazio, Gneo 57 Mecenate, Caio Cilnio 118, 119, 120, 140 Messalla Corvino, Valerio 118, 119, 120, 159 Minucio Felice 266-267

ito

G

Q Quintiliano 207-209

O

R

Onorato, Servio 252-253 Orazio 139-149 Orosio 271 Ovidio 159-165

Rufo, Quinto Curzio 192 Rufo, Vario 122-123

P Pacuvio 38 Palladio, Rutilio Tauro 255 panegiristi, I 255 Paolino di Nola 278 Paolo, Giulio 256 Papiniano, Emilio 256 Patercolo, Gaio Velleio 191 Pedone, Albinovano 122 Persio 195-196 Petronio 189-190 Pittore, Quinto Fabio 42

S Sallustio 103-108 Salviano 271-272 satura 16 Scipioni, circolo degli 45 Sedulio 278 Sempronio Asellione 42-43 Seneca il Vecchio 124 Seneca, Lucio Anneo 175182 Sereno, Settimio 231 Severo, Sulpicio 272 Sidonio Apollinare 279 Silio Italico 204

303

Indice analitico

Simmaco 251 Sisenna, Cornelio 42 Solino, Gaio Giulio 254 Stazio, Cecilio 47-48 Stazio, Publio Papinio 204206 Svetonio 234-236

Tertulliano 262-266 Tibullo, Albio 150-154 Tìcida 70 Titinio 52 Trogo, Pompeo 123 Tucidide 107 Turpilio, Sesto 52

T

U

Tacito 216-221 Terenzio 48-51

304

Ulpiano, Domizio 256

V Valerio Flacco 203 Varrone Atacino, Publio Terenzio 69-70 Varrone, Marco Terenzio 109-111 Virgilio 126-138 Vitruvio 123 Vittore, Aurelio 248 Vittore, Claudio Mario 279 Volcacio Sedigito 57