LETTERATURA LATINA VOL. II Volume: L'età imperiale (Sintesi) (Italian Edition)


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Letteratura latina
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Indice
Parte prima: La prima età imperiale
Capitolo 1. Il contesto. Da Tiberio ai Flavi
I La successione ad Augusto
2 La dinastia giulio-claudia
3 L’anno dei quattro imperatori (69 d.C.)
4 La dinastia flavia
5 Letteratura e principato
Capitolo 2. I generi poetici nell’età giulio-claudia
I La stagione d’oro della poesia ‘minore’
2 La poesia astronomica: Germanico e Manilio
3 Epica e tragedia
4 L’Appendix Vergiliana
5 I Priapea
6 Fedro e la tradizione della favola in versi
7 La poesia ‘minore’ di età neroniana
Capitolo 3. Cultura e spettacolo nella prima età imperiale
I Letteratura e teatro
2 La spettacolarizzazione della letteratura
3 Seneca il Vecchio e le declamazioni
Capitolo 4. Storiografia e discipline tecniche in età giulio-claudia
I Gli storici del consenso: Velleio Patercolo e Valerio Massimo
2 Curzio Rufo, fra storiografia e romanzo
3 Le discipline tecniche e la prosa scientifica
4 La precettistica culinaria: Apicio
Capitolo 5. Seneca
I Il filosofo e il potere
2 I Dialogi e la saggezza stoica
3 Gli altri trattati: filosofia e politica
4 La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae ad Lucilium
5 Lo stile «drammatico» delle opere filosofiche
6 Le tragedie
7 L’Apokolokỳntosis
8 Gli epigrammi
9 Seneca, la fortuna
Capitolo 6. Lucano
I L’epica dopo Virgilio
2 Il ritorno all’epica storica
3 La Pharsalia e il genere epico
4 La Pharsalia e l’Eneide: la distruzione dei miti augustei
5 Un poema senza eroe: i personaggi della Pharsalia
6 Il poeta e il principe: l’evoluzione della poetica lucanea
7 Lo stile della Pharsalia
8 Lucano, la fortuna
Capitolo 7. Petronio
I Un capolavoro pieno di interrogativi
2 Una narrazione in ‘frammenti’
3 Un testo in cerca di un genere
4 L’originalità del Satyricon
Capitolo 8. La satira
I La trasformazione del genere satirico
2 Persio: la satira come esigenza morale
3 Giovenale: la satira tragica
Capitolo 9. L’epica di età flavia
I I tre epigoni di Virgilio
2 Stazio, un dotato poeta di corte
3 Valerio Flacco, un raffinato rielaboratore
4 Silio Italico, il cultore di Virgilio
Capitolo 10. Plinio il Vecchio e il sapere specialistico
I La cultura scientifica a Roma nell’età imperiale
2 Plinio il Vecchio e il ‘catalogo del mondo’
3 Frontino, uno scrittore tecnico
Capitolo 11. Marziale
I Il campione dell’epigramma
2 La scelta del genere
3 L’epigramma come poesia realistica
4 Satira e arguzia
5 Lingua e stile per una poesia realistica
6 Marziale, la fortuna
Capitolo 12. Quintiliano
I Retore e pedagogo
2 Il dibattito sulla corruzione dell’eloquenza
3 La Institutio oratoria come risposta alla decadenza dell’oratoria
4 Il programma educativo di Quintiliano
5 Oratore e principe
6 Lo stile: una revisione del modello ciceroniano
Capitolo 13. Il contesto. L’età degli imperatori per adozione
I Un secolo di stabilità politica
2 Da Nerva a Traiano
3 Adriano e gli Antonini
4 Commodo (180-192 d.C.): la fine di un’epoca
5 Il clima culturale del II secolo
6 Letteratura di maniera ed erudizione filologica
7 I segni di una religiosità inquieta
Capitolo 14. Plinio il Giovane
I Un intellettuale compiaciuto e mondano
2 Plinio e Traiano
3 L’epistolario: struttura e temi
Capitolo 15. Tacito
I Il pathos della storia
2 Le cause della decadenza dell’oratoria
3 Agricola, un esempio di resistenza al regime
4 L’idealizzazione dei barbari: la Germania
5 Le Historiae: gli anni cupi del principato
6 Gli Annales: alle radici del principato
7 Tacito, la fortuna
Capitolo 16. Svetonio e la storiografia ‘minore’
I Le nuove tendenze della storiografia
2 Svetonio, un biografo a corte
3 Floro, uno storico della ‘vita’ di Roma
Capitolo 17. Apuleio
I Un intellettuale poliedrico
2 I trattati filosofici
3 L’attività oratoria: Flòrida e Apològia
4 Apuleio e il romanzo
5 Lingua e stile
6 Apuleio, la fortuna
Capitolo 18. Filologia, erudizione e critica letteraria, diritto
I L’attività filologica a Roma fino all’età dei Flavi: una ricognizione
2 La filologia tra i Flavi e gli Antonini
3 La letteratura giuridica
Capitolo 19. La poesia nei secoli II e III d.c.
I Una poesia ‘minore’
2 I poetae novelli, un’avanguardia arcaizzante
3 Adriano, l’imperatore poeta
Parte seconda: La tarda età imperiale
Capitolo 20. Il contesto. dai Severi a diocleziano
I Un’epoca di forti tensioni politico-sociali
2 La dinastia dei Severi
3 Dopo i Severi, fra restaurazione e rinnovamento
4 La soluzione di Diocleziano (284-305 d.C.)
5 Una società in crisi
6 La diffusione del cristianesimo
Capitolo 21. La prima letteratura cristiana
I La nascita di una nuova letteratura
2 Le traduzioni dei testi sacri
3 Gli Acta martyrum
4 La Passio Perpetuae et Felicitatis
5 Gli apologisti
6 Tertulliano, ovvero l’integralismo della fede
7 Minucio Felice: un ponte fra mondo classico e cristianesimo
8 Cipriano, il vescovo martire
9 Altri apologisti: Novaziano e Vittorino di Poetovium
Capitolo 22. La poesia cristiana: commodiano
I L’unico poeta del cristianesimo delle origini
2 Il poeta dei poveri e dei diseredati
3 Lo stile
Capitolo 23. Tra continuità e innovazione: poesia ed erudizione nel III secolo
I Gli ultimi prodotti dei poetae novelli
2 L’Anthològia Latina
3 Terenziano Mauro, la metrica in versi
4 Saggezza e medicina in versi
5 Nemesiano e la poesia didascalica
6 La letteratura erudita
Capitolo 24. Il contesto. da costantino al sacco di Roma
I Costantino (312-337 d.C.) e la cristianizzazione dell’Impero
2 Da Costantino a Teodosio
3 Teodosio (379-395 d.C.): il cristianesimo religione di Stato
4 L’Impero dopo Teodosio
5 Un secolo di grandi mutamenti sociali
6 La fine di Roma come fine del mondo
Capitolo 25. La letteratura pagana in prosa: erudizione, oratoria e storiografia
I Grammatica, filologia ed erudizione
2 L’oratoria
3 La storiografia
Capitolo 26. La letteratura pagana: poesia e teatro nel IV secolo
I La ripresa dell’attività poetica
2 Il teatro: il Querolus
Capitolo 27. Il trionfo del cristianesimo
I Costantino e l’affermazione del cristianesimo
2 La lotta contro le eresie
3 La letteratura agiografica
4 La poesia cristiana
5 La Bibbia in versi: giochi poetici sui testi sacri
Capitolo 28. I padri della chiesa
I Il ‘secolo d’oro’ del pensiero cristiano
2 Ambrogio
3 Girolamo
4 Agostino
5 Altri padri della Chiesa
Capitolo 29. Il contesto. Da Onorio a Odoacre
I Le invasioni barbariche
2 Valentiniano III, l’ultimo dei teodosiani
3 La fine dell’Impero d’Occidente
Capitolo 30. La fine dell’Impero
I Conservazione e permanenza dell’antico
2 La poesia: le ultime voci
3 La storiografia: una nuova metodologia cristiana
Capitolo 31. Gli albori del Medioevo
I Una cultura di transizione, fra continuità e innovazione
2 Il diritto: le grandi raccolte di leggi sotto Giustiniano
3 La poesia fra Europa e Africa
4 Verso una nuova era
Indice dei nomi
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LETTERATURA LATINA VOL. II Volume: L'età imperiale (Sintesi) (Italian Edition)

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Gian Biagio Conte

Letteratura latina L’età imperiale

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INDICE

Parte prima LA PRIMA ETÀ IMPERIALE Capitolo 1. Il contesto. Da Tiberio ai Flavi 1 La successione ad Augusto 2 La dinastia giulio-claudia 3 L’anno dei quattro imperatori (69 d.C.) 4 La dinastia flavia 5 Letteratura e principato Capitolo 2. I generi poetici nell’età giulio-claudia 1 La stagione d’oro della poesia ‘minore’ 2 La poesia astronomica: Germanico e Manilio 3 Epica e tragedia 4 L’Appendix Vergiliana 5 I Priapea 6 Fedro e la tradizione della favola in versi 7 La poesia ‘minore’ di età neroniana Capitolo 3. Cultura e spettacolo nella prima età imperiale 1 Letteratura e teatro 2 La spettacolarizzazione della letteratura 3 Seneca il Vecchio e le declamazioni Capitolo 4. Storiografia e discipline tecniche in età giulio-claudia 1 Gli storici del consenso: Velleio Patercolo e Valerio Massimo 2 Curzio Rufo, fra storiografia e romanzo 3 Le discipline tecniche e la prosa scientifica 4 La precettistica culinaria: Apicio

Capitolo 5. Seneca 1 Il filosofo e il potere 2 I Dialogi e la saggezza stoica 3 Gli altri trattati: filosofia e politica 4 La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae ad Lucilium 5 Lo stile «drammatico» delle opere filosofiche 6 Le tragedie 7 L’Apokolokỳntosis 8 Gli epigrammi 9 Seneca, la fortuna Capitolo 6. Lucano 1 L’epica dopo Virgilio 2 Il ritorno all’epica storica 3 La Pharsalia e il genere epico 4 La Pharsalia e l’Eneide: la distruzione dei miti augustei 5 Un poema senza eroe: i personaggi della Pharsalia 6 Il poeta e il principe: l’evoluzione della poetica lucanea 7 Lo stile della Pharsalia 8 Lucano, la fortuna Capitolo 7. Petronio 1 Un capolavoro pieno di interrogativi 2 Una narrazione in ‘frammenti’ 3 Un testo in cerca di un genere 4 L’originalità del Satyricon Capitolo 8. La satira 1 La trasformazione del genere satirico 2 Persio: la satira come esigenza morale 3 Giovenale: la satira tragica Capitolo 9. L’epica di età flavia 1 I tre epigoni di Virgilio 2 Stazio, un dotato poeta di corte 3 Valerio Flacco, un raffinato rielaboratore

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Silio Italico, il cultore di Virgilio

Capitolo 10. Plinio il Vecchio e il sapere specialistico 1 La cultura scientifica a Roma nell’età imperiale 2 Plinio il Vecchio e il ‘catalogo del mondo’ 3 Frontino, uno scrittore tecnico Capitolo 11. Marziale 1 Il campione dell’epigramma 2 La scelta del genere 3 L’epigramma come poesia realistica 4 Satira e arguzia 5 Lingua e stile per una poesia realistica 6 Marziale, la fortuna Capitolo 12. Quintiliano 1 Retore e pedagogo 2 Il dibattito sulla corruzione dell’eloquenza 3 La Institutio oratoria come risposta alla decadenza dell’oratoria 4 Il programma educativo di Quintiliano 5 Oratore e principe 6 Lo stile: una revisione del modello ciceroniano Capitolo 13. Il contesto. L’età degli imperatori per adozione 1 Un secolo di stabilità politica 2 Da Nerva a Traiano 3 Adriano e gli Antonini 4 Commodo (180-192 d.C.): la fine di un’epoca 5 Il clima culturale del II secolo 6 Letteratura di maniera ed erudizione filologica 7 I segni di una religiosità inquieta Capitolo 14. Plinio il Giovane 1 Un intellettuale compiaciuto e mondano 2 Plinio e Traiano 3 L’epistolario: struttura e temi

Capitolo 15. Tacito 1 Il pathos della storia 2 Le cause della decadenza dell’oratoria 3 Agricola, un esempio di resistenza al regime 4 L’idealizzazione dei barbari: la Germania 5 Le Historiae: gli anni cupi del principato 6 Gli Annales: alle radici del principato 7 Tacito, la fortuna Capitolo 16. Svetonio e la storiografia ‘minore’ 1 Le nuove tendenze della storiografia 2 Svetonio, un biografo a corte 3 Floro, uno storico della ‘vita’ di Roma Capitolo 17. Apuleio 1 Un intellettuale poliedrico 2 I trattati filosofici 3 L’attività oratoria: Flòrida e Apològia 4 Apuleio e il romanzo 5 Lingua e stile 6 Apuleio, la fortuna Capitolo 18. Filologia, erudizione e critica letteraria, diritto 1 L’attività filologica a Roma fino all’età dei Flavi: una ricognizione 2 La filologia tra i Flavi e gli Antonini 3 La letteratura giuridica Capitolo 19. La poesia nei secoli II e III d.C. 1 Una poesia ‘minore’ 2 I poetae novelli, un’avanguardia arcaizzante 3 Adriano, l’imperatore poeta Parte seconda LA TARDA ETÀ IMPERIALE Capitolo 20. Il contesto. Dai Severi a Diocleziano

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Un’epoca di forti tensioni politico-sociali La dinastia dei Severi Dopo i Severi, fra restaurazione e rinnovamento La soluzione di Diocleziano (284-305 d.C.) Una società in crisi La diffusione del cristianesimo

Capitolo 21. La prima letteratura cristiana 1 La nascita di una nuova letteratura 2 Le traduzioni dei testi sacri 3 Gli Acta martyrum 4 La Passio Perpetuae et Felicitatis 5 Gli apologisti 6 Tertulliano, ovvero l’integralismo della fede 7 Minucio Felice: un ponte fra mondo classico e cristianesimo 8 Cipriano, il vescovo martire 9 Altri apologisti: Novaziano e Vittorino di Poetovium Capitolo 22. La poesia cristiana: Commodiano 1 L’unico poeta del cristianesimo delle origini 2 Il poeta dei poveri e dei diseredati 3 Lo stile Capitolo 23. Tra continuità e innovazione: poesia ed erudizione nel III secolo 1 Gli ultimi prodotti dei poetae novelli 2 L’Anthològia Latina 3 Terenziano Mauro, la metrica in versi 4 Saggezza e medicina in versi 5 Nemesiano e la poesia didascalica 6 La letteratura erudita Capitolo 24. Il contesto. Da Costantino al sacco di Roma 1 Costantino (312-337 d.C.) e la cristianizzazione dell’Impero 2 Da Costantino a Teodosio 3 Teodosio (379-395 d.C.): il cristianesimo religione di Stato

4 5 6

L’Impero dopo Teodosio Un secolo di grandi mutamenti sociali La fine di Roma come fine del mondo

Capitolo 25. La letteratura pagana in prosa: erudizione, oratoria e storiografia 1 Grammatica, filologia ed erudizione 2 L’oratoria 3 La storiografia Capitolo 26. La letteratura pagana: poesia e teatro nel IV secolo 1 La ripresa dell’attività poetica 2 Il teatro: il Querolus Capitolo 27. Il trionfo del cristianesimo 1 Costantino e l’affermazione del cristianesimo 2 La lotta contro le eresie 3 La letteratura agiografica 4 La poesia cristiana 5 La Bibbia in versi: giochi poetici sui testi sacri Capitolo 28. I padri della Chiesa 1 Il ‘secolo d’oro’ del pensiero cristiano 2 Ambrogio 3 Girolamo 4 Agostino 5 Altri padri della Chiesa Capitolo 29. Il contesto. Da Onorio a Odoacre 1 Le invasioni barbariche 2 Valentiniano III, l’ultimo dei teodosiani 3 La fine dell’Impero d’Occidente Capitolo 30. La fine dell’Impero 1 Conservazione e permanenza dell’antico 2 La poesia: le ultime voci 3 La storiografia: una nuova metodologia cristiana

Capitolo 31. Gli albori del Medioevo 1 Una cultura di transizione, fra continuità e innovazione 2 Il diritto: le grandi raccolte di leggi sotto Giustiniano 3 La poesia fra Europa e Africa 4 Verso una nuova era Indice dei nomi

ESPANSIONI ON LINE

Sul sito www.mondadorieducation.it, alla pagina dedicata al manuale, è possibile trovare i seguenti 4 apparati in edizione digitale (formato pdf), consultabili liberamente on line e scaricabili, che devono essere considerati parte integrante dell’opera: Glossario di cultura romana Glossario di retorica e stilistica Repertorio di autori greci Tavole cronologiche

Parte prima

La prima età imperiale

Il contesto. Da Tiberio ai Flavi 1 Storia 1

La successione ad Augusto

Tiberio al potere (14 d.C.) L’ambiguità della costruzione politica augustea, derivante dalla tensione irriducibile fra un potere di fatto assoluto e il rispetto formale della tradizione repubblicana, emerge con particolare evidenza nella questione della successione. Nel 13 d.C. Augusto concede a Tiberio, nato dalle prime nozze della moglie Livia Drusilla con Tiberio Claudio Nerone, l’imperium proconsulare maius, che di fatto lo eleva al rango di coreggente, rinnovandogli anche la tribunicia potestas (che attribuisce la sacra inviolabilità della persona fisica e il diritto di veto). Non potendo nominare ufficialmente un successore, Augusto deve infatti assicurare al prescelto una posizione di forza che renda ‘naturale’ la sua ascesa al principato. Nel 14 d.C. Augusto muore e Tiberio, dopo un iniziale rifiuto (un gesto per rassicurare il senato circa le proprie intenzioni di legalità), accetta di ricoprire il ruolo lasciato vacante dal grande imperatore. Una travagliata ascesa al trono L’ascesa al potere di Tiberio è tutt’altro che lineare. Appartenente per nascita a una delle più antiche e illustri casate patrizie, la gens Claudia, generale valoroso in importanti campagne nei territori più a rischio dell’Impero – nell’Illirico (13-9 a.C.), dove seda in quattro anni la ribellione delle popolazioni dalmate e pannoniche, e in Germania (8-7 a.C.), dove sostituisce il fratello Druso,

2

La dinastia giulio-claudia

2.1 IL PRINCIPATO DI TIBERIO (14-37 D .C.) Nel solco della tradizione augustea Esponente dell’antica aristocrazia conservatrice, Tiberio impronta la sua azione di governo al rigido rispetto della tradizione augustea. Ottimo amministratore, oculato nella gestione finanziaria, cerca di consolidare il nuovo ordinamento attraverso la cooperazione con il Senato, cui attribuisce la prerogativa di eleggere i magistrati e il diritto di amministrare la giustizia nei processi per crimini gravi intentati contro senatori e cavalieri (come nel caso dell’accusa di tradimento contro Seiano), pur riservando all’imperatore una funzione di controllo. Anche la politica estera è orientata al contenimento delle frontiere; le uniche modifiche territoriali interessano l’Oriente, con l’annessione all’Impero di Cappadocia e Cilicia alla morte dei re clienti. La morte di Germanico e l’ascesa di Seiano Nel 15 d.C. Tiberio concede a Germanico il trionfo per la campagna condotta nei territori oltre il Reno, ma l’imbarazzante popolarità di cui gode il figlio adottivo induce l’imperatore ad allontanarlo da Roma con l’incarico di una nuova campagna in Oriente. Qui Germanico muore nel 19: sospetti di avvelenamento ricadono sul governatore della Siria Gneo Calpurnio Pisone, uomo di fiducia di Tiberio. Intanto guadagna il favore dell’imperatore il nuovo prefetto del pretorio Lucio Elio Seiano, che vede crescere enormemente il suo potere quando le nove coorti pretorie vengono riunite in un unico accampamento a Roma presso la porta Viminalis. Seiano entra in aperta rivalità con Druso, cui la morte di Germanico ha aperto la strada alla successione; ma nel 23 anche Druso muore assassinato dalla moglie Claudia Livilla, con cui Seiano intrattiene una relazione. La lotta dinastica si inasprisce: Seiano perseguita i figli di Germanico, già adottati da Druso e posti da Tiberio sotto la tutela del Senato, e la loro madre Agrippina. Per sottrarsi al clima di crescente ostilità, Tiberio nel 27 si ritira a Capri, da dove continua a governare l’Impero, comunicando con Roma per via epistolare. Seiano, tuttavia, si avvantaggia moltissimo dell’assenza

3

L’anno dei quattro imperatori (69 d.C.)

Galba, una ‘parentesi’ augustea Galba rappresenta la continuità con il passato: membro dell’antica aristocrazia senatoria, nei pochi mesi in cui resta al governo tenta di restaurare il regime augusteo, adotta un Pisone e lo nomina coreggente. Intanto, però, le legioni di stanza sul Reno acclamano il legato Aulo Vitellio e i pretoriani l’ex alleato di Galba, Salvio Otone. Eliminato Nerone, infatti, restano in campo altre forze estranee agli interessi dell’aristocrazia senatoria: gli eserciti provinciali, per i quali il lealismo verso l’impero significa prima di tutto fedeltà incondizionata al proprio comandante; i pretoriani, che temono di perdere l’autonomia guadagnata sotto Nerone; le componenti sociali cresciute all’ombra dell’apparato imperiale, ostili a qualsiasi tentativo di restaurazione che possa limitarne l’influenza. Nel gennaio del 69 Galba è ucciso nel Foro romano. Otone e Vitellio: Oriente contro Occidente Otone cerca l’accordo con il Senato, ma non riesce a trattare con Vitellio. Le province si schierano: l’Africa e l’Oriente per Otone, l’Occidente per Vitellio. Scoppia di nuovo la guerra civile: questa volta però non assistiamo allo scontro di due rivali politici che si contendono il potere, ma alla contrapposizione di interessi di due metà dell’Impero, rappresentate dagli eserciti e dai generali provinciali. Lo scontro decisivo ha luogo a Bedriaco, presso Cremona, e si conclude con il suicidio di Otone. Gli eserciti orientali però non si piegano alla vittoria di Vitellio e proclamano imperatore Vespasiano, il generale inviato da Nerone a reprimere la rivolta in Giudea. L’ascesa di Vespasiano Mentre a Roma Vitellio dà inizio a una nuova ondata di condanne e repressioni, Vespasiano, affidata al figlio Tito la Giudea, manda avanti in Italia i suoi eserciti. In una seconda battaglia presso Cremona, le forze di Vitellio sono battute. I generali di Vespasiano marciano su Roma; mentre si cerca la trattativa con Vitellio, in circostanze poco chiare l’imperatore viene ucciso. L’anno dei quattro imperatori si chiude così con l’ascesa al potere di un uomo che per la prima volta non appartiene all’aristocrazia romana:

4

La dinastia flavia

4.1 VESPASIANO (69-79 D .C.) Restaurazione e attenzione alle province Tito Flavio Vespasiano è il fondatore della nuova dinastia flavia: nel 71 si associa il figlio Tito con pieni poteri e nomina Cesare l’altro figlio, Domiziano, designandolo in subordine al fratello maggiore. Rinnovato l’accordo con il Senato, l’imperatore avvia un programma di conservazione in linea con la tradizione romana, una politica prudente volta a perpetuare lo schema augusteo, pur tenendo conto dei mutati rapporti tra Italia e province. Due sono i principali obiettivi del suo governo: stabilità e buona amministrazione. Ai primi anni del principato risale una serie di atti pubblici che attestano la volontà di porsi nel solco della tradizione: il restauro del tempio di Giove Capitolino nel 71; la cacciata degli astrologi e dei filosofi da Roma nel 72 e nel 74. Fatto eccezionale per un imperatore, Vespasiano riveste la censura nel biennio 73-74, carica che gli permette di immettere nel Senato di Roma, decimato dalle guerre civili, elementi italici e occidentali di estrazione prevalentemente equestre; anche la concessione della cittadinanza riceve nuovo impulso (la Spagna ebbe lo ius Latinum). La politica della stabilità Attraverso una politica economica di tesaurizzazione e sfruttamento intensivo delle risorse, Vespasiano ottiene la disponibilità finanziaria necessaria a dare tranquillità alle province che ne hanno sostenuto l’ascesa, e a incrementare le opere pubbliche e le spese a favore della plebe urbana, tese a garantire le condizioni della stabilità. Nei primi anni del principato Vespasiano deve sedare i moti insurrezionali che agitano le province: nel 70 reprime la rivolta di Giulio Civile, sfociata nella proclamazione di un impero gallico; nello stesso anno Tito occupa Gerusalemme e distrugge il Tempio, mentre la caduta della fortezza di Masada nel 73, con il suicidio collettivo di tutti gli assediati, segna l’inizio della grande diaspora ebraica. Per la vittoria sui Giudei Vespasiano concede a Tito il trionfo, celebrato nel 71 (per l’occasione viene eretto l’arco di Tito sulla via Sacra). Alcuni interventi militari mirano a stabilizzare le aree di

Società e cultura 5

Letteratura e principato

La disaffezione al programma culturale augusteo Già la seconda generazione augustea, quella che era stata appena sfiorata dalla stagione sanguinosa delle guerre civili, e nutriva quindi, rispetto a chi ne era stato investito, una gratitudine minore verso il principe che aveva restaurato la concordia e la pace sociale, aveva dato segni di disaffezione, se non di aperta insofferenza, per la letteratura che a quel programma di restaurazione morale e politica aveva prestato, in forme più o meno mediate, il proprio appoggio e consenso. La figura di Ovidio costituisce un caso emblematico di questo mutato atteggiamento verso la poesia alta, di impegno civile (rappresentata in primo luogo da Virgilio), e della preferenza accordata alla letteratura leggera, di gusto ellenistico. La crisi del mecenatismo e la storiografia ostile al principato La scomparsa di Mecenate, e il venir meno della sua accorta opera di mediazione fra il potere politico e l’élite intellettuale, provoca un distacco che non si sarebbe più ricomposto se non in modo occasionale e precario: la crisi del mecenatismo è già manifesta con Tiberio, che non sembra nemmeno porsi il problema di organizzare un programma di egemonia culturale (anche il suo gusto per la poesia leggera, alessandrineggiante, è indicativo di questa indifferenza) di fronte al rinvigorirsi di una storiografia contraria al principato (fino ad avere i suoi ‘martiri della libertà’, come lo storico Cremuzio Cordo, morto suicida nel 25 d.C.). È in questa corrente storiografica, innestata sulla tradizione repubblicana dell’élite senatoria, che nasce quell’atteggiamento di ostilità verso la dinastia giulio-claudia che avrebbe esteso il suo influsso fino a Svetonio e a Tacito, e a cui risale l’immagine che dei sovrani di quella famiglia sarebbe stata trasmessa alla posterità. Claudio, un letterato e un erudito senza un programma culturale La situazione non sembra migliorare con Claudio, che pure aveva personalmente un’ottima fama di erudito, e che sappiamo avere scritto

I generi poetici nell’età giulio-claudia 2 1

La stagione d’oro della poesia ‘minore’

La predilezione per i generi letterari ‘minori’ Nella storia della poesia latina il periodo che va dall’inizio del principato di Tiberio all’avvento di Nerone è uno dei più difficili da inquadrare sinteticamente. Si fa schiacciante l’influsso di personalità come Virgilio, Orazio e Ovidio, da una parte; dall’altra, mancano nuove figure di letterati che si impongano come punti di riferimento. La caratteristica più evidente della produzione letteraria di questo periodo, e cioè la passione per generi poetici ‘minori’, come l’epillio (il breve carme di argomento mitologico-sentimentale), la poesia bucolica o l’epigramma, è proprio ciò che rende più difficile la ricerca di costanti. La frammentazione delle opere e dei generi letterari sotto Tiberio, Caligola e Claudio corrisponde anche al declino delle grandi tensioni progettuali che avevano animato la letteratura augustea. La predilezione di Tiberio per certi filoni minori della poesia alessandrina, carmi dotti e mitologici, è in netta controtendenza rispetto allo sforzo compiuto sotto Augusto dal circolo di Mecenate per valorizzare una letteratura impegnata su grandi temi: la poesia didascalica ed epica di Virgilio, la poesia civile, la poesia etica e la critica letteraria di Orazio, la programmata rinascita del teatro latino. 1.1 LA POESIA MINORE DELLA GENERAZIONE OVIDIANA

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La poesia astronomica: Germanico e Manilio

L’influsso di Arato e l’interesse romano per l’astrologia A questa tendenza neoalessandrina si può ricollegare anche la poesia astronomica di Germanico e Manilio, che scelgono come modello (pur con interessi nuovi e tra loro divergenti) i Fenomeni di Arato (310-240 a.C. ca.), il poema didascalico che era stato già tradotto da Cicerone e imitato da Varrone Atacino, nonché da Virgilio (nelle Georgiche), e che sarà nuovamente tradotto in età tardoantica da Avieno (vedi p. 279). L’interesse per l’astrologia è una componente notevole della cultura romana, a partire almeno dall’età cesariana. Non si tratta soltanto di interesse scientifico ed erudito, ma anche filosofico e religioso. Lo stoicismo per esempio attribuiva grande importanza al rapporto dell’uomo con il cosmo, al legame tra destino umano e leggi naturali, mentre anche nella religione popolare si andava affermando il concetto di predestinazione astrale. Della fede nelle stelle, poi, gli imperatori facevano un uso politico e propagandistico già a partire da Augusto, che attribuiva grande importanza al proprio oroscopo. Gli Aratea e i Prognostica di Germanico Uomo di potere, non a caso, è lo stesso Germanico (15 a.C.-19 d.C.). Figlio adottivo di Tiberio e successore designato, Germanico (che ereditò tale appellativo dal padre Druso, morto combattendo in Germania) si segnalò giovanissimo come generale combattendo anch’egli contro i Germani; la sua morte improvvisa, mentre era governatore della Siria, fu attribuita a un complotto. Dell’attività poetica di Germanico ci restano quasi un migliaio di esametri: un poemetto dal titolo Aratea, incompleto (ne abbiamo 725 versi), traduzione dei Fenomeni di Arato, e alcuni frammenti di una libera rielaborazione dei Pronostici del poeta greco, intitolata appunto Prognostica; quindi, rispettivamente, un poemetto sui corpi celesti e uno sui segni del tempo. Non sappiamo se Germanico concepisse l’insieme come opera unitaria. Il proemio degli Aratea contiene una dedica a un genitor che è certamente Tiberio (nel corrispondente proemio Arato si rivolgeva invece a Zeus). La datazione è probabilmente di poco posteriore alla morte di Augusto, e quindi tra il 14 e il 19.

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Epica e tragedia

3.1 IL NAUFRAGIO DELL’EPOS STORICO La perdita di una vasta produzione La poesia epica a soggetto storico conosce a Roma una fortuna ininterrotta, lacunosa solo per noi, che ne abbiamo, per tutto il periodo che va da Ennio a Lucano, solo isolati frammenti, spesso solo titoli e nomi di autori. La perdita di queste opere è un segno dei mutamenti di gusto: contro l’epica storica e panegiristica polemizzarono Catullo, Orazio, Properzio, e la mancata conservazione di una produzione che non rispondeva alle nuove tendenze letterarie non può essere ritenuta di per sé indizio di scarso valore letterario. Vario Rufo e Albinovano Pedone Tra le opere perdute è forse da rimpiangere il forte epos, come lo definisce Orazio nelle Satire, di Lucio Vario Rufo, l’editore dell’Eneide, poeta di spicco del circolo di Mecenate, autore apprezzato di una tragedia, Tieste, di un poema forse didascalico, De morte, e di un Panegirico di Augusto. Ma il più significativo poeta storico della tarda età augustea sembra che fosse Albinovano Pedone, elegante emulo di Virgilio e Ovidio. Il suo poema narrava l’avventurosa spedizione di Germanico nei mari del Nord (16 d.C.): ne abbiamo un frammento (circa trenta esametri) che svolge in uno stile enfatico e patetico un tema derivato dalle celebrazioni delle gesta di Alessandro Magno e caro a retori e a scuole di declamazione: è giusto che l’uomo si spinga sempre più in là, oltrei confini naturali del suo mondo? 3.2 LA RIPRESA DEL TEATRO TRAGICO La rinascita della tragedia e la polemica antitirannica La produzione del Thyestes di Vario, nel 29 a.C., si inseriva nel progetto augusteo di rinascita dell’attività teatrale, che non ebbe in realtà molta fortuna. Della ripresa del teatro tragico nella prima età imperiale la testimonianza più autorevole che abbiamo sono le tragedie di Seneca, gli unici testi tragici giunti fino a noi in forma non frammentaria. In età giulioclaudia e nella prima età flavia, l’élite intellettuale senatoria sembra ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea a esprimere

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L’Appendix Vergiliana

Una raccolta formatasi in età umanistica Nel quadro della poesia ‘minore’ del I secolo d.C. trova posto anche una raccolta di piccoli componimenti che, per essere stati in passato attribuiti a Virgilio, vengono denominati Appendix Vergiliana. Il termine appendix è moderno (fu usato per la prima volta da Giuseppe Giusto Scaligero nel 1572) e si riferisce alla consuetudine di stampare questi testi, tutti insieme, in calce alle opere genuine di Virgilio: la silloge è stata raccolta appunto in età umanistica. Nessuna delle opere comprese nell’Appendix ha probabilità di essere virgiliana, salvo forse un paio di brevi componimenti nella raccolta dei Catalepton. L’attribuzione dei singoli carmi a Virgilio poggia su testimonianze variabili per numero, autorevolezza e antichità: il Culex, per esempio, era ritenuto opera giovanile di Virgilio già ai tempi di Lucano, mentre il Moretum è indicato come virgiliano solo da testimonianze di età medievale. Autori diversi e diversa epoca La scarsità o l’abbondanza di queste testimonianze non può costituire da sola la prova conclusiva dell’autenticità. Conclusivo è invece l’esame stilistico delle singole opere; e lessico, metrica, prosodia, allusioni sono indizi che depongono a favore di una datazione spesso più tarda dell’età augustea. I componimenti non sono comunque tutti databili allo stesso periodo, e sono sicuramente di mani diverse; inoltre, non si può dire con certezza se siano stati concepiti intenzionalmente come falsi virgiliani, poiché l’abbondanza di imitazioni da Virgilio è un tratto stilistico comune a tutta la poesia di età imperiale. Alcuni di questi componimenti erano probabilmente opera di autori poco illustri, e qualcuno successivamente li ha attribuiti a Virgilio per colmare la curiosità del pubblico dotto, stimolata forse dall’assenza di una genuina produzione ‘minore’ e ‘giovanile’ del più grande poeta romano. Consideriamo dunque separatamente i vari carmi che compongono l’Appendix. Dirae e Lydia, un comune sfondo bucolico Le Dirae (o «maledizioni») sono una poesia di invettiva, sul genere dell’Ibis ovidiana e, prima ancora, delle Arài di Callimaco. Questa operetta in esametri sembra

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I Priapea

Il dio Priàpo nella cultura latina Alla seconda metà del I secolo d.C. risale con ogni probabilità il libro dei Priapea, una raccolta, giuntaci anonima, di circa ottanta componimenti di lunghezza e metro variabile. I componimenti sono saldamente legati fra loro dalla presenza unificante del dio Priàpo, che protegge giardini e orti con la sua smodata sessualità. È un dio connesso alla fecondità, ma nella cultura romana non è mai trattato con serioso rispetto; nel folklore e nella letteratura è associato a scherzi salaci e motti osceni. L’epigramma priapeo Il genere «priapeo» è dunque un tipo particolare di epigramma di tono scherzoso e tematica per lo più esplicitamente sessuale. Il genere fu praticato sporadicamente da letterati illustri: oltre che da un autore dell’Appendix Vergiliana, da Catullo, un poeta molto attento al folklore, e da Marziale. Qui abbiamo invece un’opera unitaria, molto probabilmente dovuta a un singolo autore specializzato. Varietà e parodia nei Priapea Data la relativa monotonia del tema, la bravura dell’autore (i Priapea sono un’opera di notevole livello tecnico) sta nel produrre effetti di varietà, alternando diversi metri e forme poetiche. Abbiamo così carmi di dedica, ritratti satirici, maledizioni, enigmi, ma tutto è ricondotto alla limitata prospettiva di questa rustica divinità. Nella raccolta spicca una goliardica ma abbastanza divertente rilettura dell’Odissea in chiave pornografica (carme 68).

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Fedro e la tradizione della favola in versi

Il primo autore di favole della letteratura latina Nell’ambito della poesia minore dell’età giulio-claudia, una voce del tutto isolata è rappresentata dal caso di Fedro. Per molti versi Fedro è un autore marginale: ha una posizione sociale assai modesta come individuo e, come poeta, non si può definire un virtuoso; pratica un genere letterario minore, anch’esso marginale rispetto alle grandi correnti letterarie della prima età imperiale. Tuttavia, Fedro è per certi versi una delle massime glorie della letteratura latina. L’affermazione può stupire, ma a questo umile artigiano tocca una priorità storica importante: è il primo autore, nella cultura grecoromana, che ci presenti una raccolta di testi favolistici, concepiti come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura. Non è un’iniziativa da poco: solo nella satira e nel romanzo la cultura romana mostra un’autonomia altrettanto spiccata. La vita: schiavo o liberto? Fedro deve essere nato in una fase non troppo avanzata del principato di Augusto (intorno al 20 a.C.?); fu attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio; è probabile una data di morte intorno al 50 d.C. Nel quadro della letteratura della prima età imperiale, è uno dei pochissimi autori di nascita non libera: a quanto sappiamo, era uno schiavo di origine tracia; nei manoscritti delle sue opere è citato come libertus Augusti, e sembra quindi che fosse stato liberato dall’imperatore. L’opera: la struttura della raccolta I codici ci tramandano poco più di novanta favole, divise in cinque libri, e tutte in senari giambici (il verso che era stato il più usato nella palliata di età repubblicana). È del tutto certo che il corpus originario fosse molto più ampio; tra l’altro, alcuni libri appaiono di una eccezionale brevità: il secondo contiene solo otto favole, il quinto dieci, ed entrambi hanno meno di duecento versi. Sono sicuramente genuine anche le favole (una trentina) raccolte nella cosiddetta Appendix Perottina, che prende nome dall’umanista Niccolò Perotti, curatore della raccolta; altre favole si possono ricostruire da parafrasi in prosa che ebbero fortuna nella tarda antichità (degno di nota tra queste il Romulus). Fedro, la tradizione esopica e la codificazione della favola poetica Fedro, come narratore, inventa ben poco: prese una per una, le sue favole

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La poesia ‘minore’ di età neroniana

Calpurnio Siculo: la concezione allegorica della poesia pastorale Continua anche sotto Nerone la fioritura dei generi ‘minori’, in particolare la poesia bucolica e l’epigramma (noi non trattiamo, perché scrive in greco, dell’epigrammista Lucillio, che sarà un modello importante per Marziale). Un certo Calpurnio Siculo, la cui biografia ci è del tutto ignota, ci ha lasciato sette egloghe, componimenti pastorali alla maniera di Virgilio, che ha soppiantato Teocrito quale modello del genere bucolico. La datazione all’età neroniana è sicura per la presenza di allusioni all’imperatore. Calpurnio è importante soprattutto perché è il primo testimone di una concezione ‘allegorica’ della poesia pastorale. Alcuni dei pastori di Calpurnio sono semplici allegorie di personaggi storici. La tendenza a utilizzare l’Arcadia come travestimento di realtà contemporanee riapparirà nel Rinascimento e, più avanti, nella tradizione pastorale europea fino al Settecento. Calpurnio potenzia certi spunti allegorici che erano già presenti nelle egloghe virgiliane: la misteriosa profezia dell’età dell’oro della IV egloga virgiliana diventa, nella visione cortigiana di Calpurnio, l’avvento dell’età dell’oro incarnato nel buon governo del principe Nerone. Le sottili e ambigue allusioni di Virgilio a circostanze reali diventano qui una vera e propria poesia ‘a chiave’, sicuramente destinata a un circolo ristretto, ma non priva di spunti propagandistici. I Carmina Einsidlensia Insieme alle egloghe di Calpurnio sono tramandate quattro egloghe di Nemesiano, un poeta del III secolo (vedi p. 248) che continua il filone bucolico. Databili all’età neroniana, per le allusioni a Nerone e per la tecnica poetica assimilabile a quella di Calpurnio, sono invece i cosiddetti Carmina Einsidlensia, due frammenti bucolici rinvenuti nel 1869 in un manoscritto del monastero di Einsiedeln, in Svizzera. Anche qui, nel secondo frammento, ricorre il motivo del ritorno dell’età dell’oro, allusione panegiristica al regno di Nerone. La Laus Pisonis Alcuni attribuiscono a Calpurnio anche la Laus Pisonis, un lungo panegirico in esametri di un Calpurnio Pisone, forse l’aristocratico che capeggiò la congiura spenta nel sangue da Nerone nel 65.

Cultura e spettacolo nella prima età imperiale 3 1

Letteratura e teatro

La pantomima Durante il regno di Nerone e per tutta l’età flavia il teatro torna a godere di immensa fortuna. Il genere di spettacolo favorito era la pantomima, una rappresentazione in cui un attore cantava, accompagnato dalla musica, il testo del libretto, mentre un secondo attore, col volto mascherato, mimava la vicenda con i movimenti del corpo e i gesti delle mani. Abbiamo perduto i testi e le musiche di questi spettacoli, ma le testimonianze indirette di scrittori come Seneca e Giovenale ci danno notizie significative sugli sfrenati entusiasmi che la pantomima suscitava e l’enorme popolarità che ne derivava agli attori. Sembra che caratteristico della pantomima fosse il realismo nella rappresentazione di certi effetti. Nel Laureolus del mimografo Catullo un attore vomitava sangue, e per rappresentare una crocifissione si portava in scena ‘dal vero’ l’esecuzione di un criminale. Anche per l’influenza di un fenomeno culturale così rilevante, la stessa letteratura coeva assume spesso caratteri ‘teatrali’ e spettacolari.

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La spettacolarizzazione della letteratura

Le recitationes Un fenomeno culturale di grande importanza in questo periodo è la pratica delle recitationes, a cui aveva dato inizio Asinio Pollione (vedi volume I, p. 330). Si tratta della lettura di brani letterari davanti a un pubblico di invitati. Questo costume porta presto a trasformazioni importanti nel campo dell’intera produzione letteraria, come del resto non sfuggiva neppure ai contemporanei: divenendo un bene di consumo per sale pubbliche o teatri, la letteratura tende ad acquisire tratti ‘spettacolari’. Se il metro di valutazione di un pezzo letterario diventa l’applauso dell’uditorio, non sarà strano che il poeta finisca per comportarsi come una sorta di prestigiatore della parola, sempre alla ricerca dell’effetto capace di suscitare uno stupore ammirato. L’abuso degli strumenti retorici La letteratura viene ormai concepita come spettacolo, esibizione d’ingegno. I poemi scritti per le sale, opere come le tragedie di Seneca o i vari componimenti d’occasione di Stazio, sono costruiti come una serie di ‘pezzi di bravura’, tesi a strappare l’applauso, più per singole parti autonome che secondo un disegno complessivo. L’abuso degli artifici retorici, del resto, è una componente caratteristica della letteratura di questo periodo (che per convenzione si definisce «argentea», per indicarne il declino rispetto all’età «aurea» di Augusto). La reazione anticlassicistica Ma, oltre che dall’invadenza della retorica, la letteratura argentea è caratterizzata da una forte reazione anticlassicistica, che si manifesta sia nella scelta dei contenuti (predilezione per temi e soggetti insoliti, esotici o comunque ‘spettacolari’) sia nel trattamento delle forme, dove si accentuano i toni cupi e patetici e le tinte espressionistiche.

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Seneca il Vecchio e le declamazioni

Le declamationes Un altro importante fenomeno culturale del periodo è rappresentato dalla diffusione delle pubbliche declamazioni. La declamatio era un tipo di esercizio in uso da tempo nelle scuole di retorica: possediamo in proposito una testimonianza preziosa, quella di Seneca il Vecchio, che ci dà anche un quadro dell’attività oratoria e dei principali retori del suo tempo in un’opera intitolata Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores (le sententiae sono le frasi di tipo epigrammatico e sentenzioso destinate a impressionare l’ascoltatore; le divisiones sono i modi in cui il declamatore articola gli aspetti giuridici della vicenda; i colores costituiscono le ‘coloriture’ stilistiche con cui i declamatori presentano personaggi e situazioni). Seneca il Vecchio Nativo di Cordova, in Spagna, attorno al 50 a.C., e di estrazione equestre, Seneca il Vecchio divise la sua lunga vita tra Roma e la Spagna, probabilmente fino a vedere il regno di Caligola (ma la sua morte è comunque anteriore all’esilio del figlio, Seneca filosofo, del 41 d.C.). Frequentò gli ambienti romani socialmente più elevati, ma nulla di certo sappiamo sulla sua pubblica attività. Fu allievo di retori, non retore egli stesso (è improprio, dunque, l’epiteto di Rètore con cui comunemente lo si definisce): l’opera, frutto dei suoi ricordi di scuola e composta negli ultimi anni della sua vita – forse verso la fine del principato di Tiberio –, testimonia quel mutamento che l’avvento del principato e la progressiva scomparsa della libertà politica hanno prodotto sull’attività retorica a Roma. La decadenza della retorica Venuto meno lo spazio dell’oratoria politica e di quella giudiziaria, viene meno anche la funzione civile della retorica: non più strumento per la formazione dei futuri cives, essa serve soprattutto ad addestrare brillanti conferenzieri. Ecco che la retorica si è immiserita in futili esercitazioni, le declamationes appunto, che vertono su temi e argomenti fittizi, romanzeschi (irrisi, per esempio, da Petronio nei primi capitoli superstiti del Satyricon), prescelti proprio per la loro singolarità o stranezza, che deve fungere da elemento stimolante sugli ascoltatori (accentuando così la caratterizzazione in senso letterario di questi esercizi di retorica), cioè gli studenti delle scuole ma anche il

Storiografia e discipline tecniche in età giulio-claudia 4 1

Gli storici del consenso: Velleio Patercolo e Valerio Massimo

La storiografia dell’opposizione di età augustea In epoca augustea, accanto alla storiografia di Livio, celebrativa del regime, era fiorita anche una storiografia ‘dell’opposizione’ (vedi volume I, p. 452), rappresentata da autori come Asinio Pollione, Pompeo Trogo e Tito Labieno, la cui opera è stata prontamente offuscata dal regime e, conseguentemente, censurata dall’azione del tempo. La stessa sorte, sotto il regno di Tiberio, tocca a Cremuzio Cordo con i suoi Annales. Le Historiae di Velleio Patercolo: un panegirico di Tiberio Velleio Patercolo, di Aeclanum, in Irpinia, rappresenta una tendenza storiografica del tutto diversa. Le sue Historiae ad Marcum Vinicium (console nell’anno 30 d.C.), in due libri, che iniziavano dai tempi più remoti per arrivare all’età contemporanea, sono, nella sezione dedicata alla storia attuale, un commosso panegirico delle capacità militari e della sagacia politica di Tiberio: ne risulta un ritratto ben diverso da quello che dell’imperatore darà Tacito. In effetti si sa che Tiberio, da giovane comandante in Germania, ma anche, poi, come amministratore dell’Impero, dovette essere tutt’altro che il crudele maniaco descritto da Tacito: nella storiografia senatoria covava sempre l’ostilità al principe della classe aristocratica, estromessa dal potere. Velleio apparteneva a una famiglia di buone condizioni, ma non aristocratica. Con Tiberio aveva combattuto, appunto nelle campagne contro i Germani, al comando della cavalleria, ed è il portavoce della classe militare, lealista verso l’imperatore.

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Curzio Rufo, fra storiografia e romanzo

Le Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo Quinto Curzio Rufo, un personaggio altrimenti sconosciuto (si è proposto di identificarlo con un retore ricordato da Svetonio), compose delle Historiae Alexandri Magni in dieci libri, di cui i primi due sono andati perduti, mentre gli altri ci sono pervenuti con qualche lacuna. La datazione dell’opera di Curzio Rufo continua a essere uno dei problemi più tormentati degli studi filologici poiché, in mancanza di qualsiasi notizia dovuta ad altri scrittori, si è costretti ad affidarsi esclusivamente a quelle che si ritengono essere allusioni ad avvenimenti più o meno contemporanei contenute all’interno dell’opera. L’ipotesi da lungo tempo prevalente è comunque che Curzio Rufo scriva sotto il regno di Claudio, poco dopo la morte di Caligola. Il mito di Alessandro Magno Il mito di Alessandro Magno fu sempre vivace nella Roma di età imperiale, contribuendo fra l’altro a ispirare pose e atteggiamenti di alcuni principi; d’altra parte il sovrano macedone era un ‘esempio’ largamente diffuso nelle scuole di retorica, come sappiamo da Seneca il Vecchio e vediamo dalla raccolta di Valerio Massimo, dove occupa un posto d’onore e figura sotto le ‘rubriche’ più diverse: amicitia, patientia, iracundia, clementia, superbia e, ovviamente, cupiditas gloriae. La figura di Alessandro non era tuttavia solo un elemento dell’iconografia politica o materia di esercitazioni retoriche, perché da tempo si era conquistata un posto importante nella tradizione della letteratura di intrattenimento: già la cultura ellenistica aveva fatto del sovrano macedone una specie di eroe da romanzo, dilettandosi nel racconto delle sue avventurose conquiste nelle remote regioni orientali, spesso avvolte da un alone fiabesco e meraviglioso. L’uso delle fonti e l’influsso sul Romanzo di Alessandro Della combinazione di tutti questi aspetti della tradizione su Alessandro risente l’opera di Curzio Rufo, destinata a sua volta a influenzare largamente le diverse redazioni del cosiddetto Romanzo di Alessandro, che avrebbe incontrato vasta fortuna nella cultura del basso impero e del Medioevo (vedi p. 273). Curzio Rufo, che scrive in uno stile intensamente ritmico e pieno di colore, con la facile scorrevolezza che è tipica della tradizione liviana, ha

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Le discipline tecniche e la prosa scientifica

Le carenze della prosa scientifica latina In generale la cultura latina è priva di prosa scientifica. Il prestigio della retorica impediva la nascita di una prosa che rinunciasse agli ornamenti e puntasse alla definizione di una terminologia precisa e al rigore dell’argomentazione. D’altra parte, a non lasciar formare una vera e propria prosa scientifica contribuiva anche la forte tradizione del poema didascalico (cui ricorrono, per esempio, Lucrezio e Manilio), ritenuto adatto a trattare anche di argomenti tecnico-scientifici. Tuttavia la prima età imperiale conosce una discreta fioritura di letteratura scientifica. 3.1 LA MEDICINA : CELSO L’«enciclopedia» di Celso Un intento analogo a quello perseguito in età augustea da Vitruvio, ovvero conferire dignità alle discipline tecniche, è riconoscibile nell’opera di Aulo Cornelio Celso, vissuto nell’età di Tiberio e autore di un vasto trattato destinato a una sistemazione complessiva delle artes. In un ampio manuale a carattere enciclopedico Celso dava sistemazione ad agricoltura, medicina, arte militare, oratoria, filosofia, giurisprudenza, mettendo insieme, con una scelta non priva di coraggio, discipline pratiche e discipline teoriche. Di quest’opera ci restano soltanto gli otto libri relativi alla medicina, nei quali l’autore rivela notevoli conoscenze, tanto da far supporre che fosse un medico di professione. L’intenzione di sistemare in un manuale enciclopedico tutte le conoscenze e le capacità umane costituisce una novità di rilievo, e anticipa quello che sarà, in età flavia, il grandioso progetto concepito da Plinio il Vecchio con la sua Naturalis historia (vedi pp. 117 ss.). 3.2 L’AGRICOLTURA : COLUMELLA Il De re rustica Fra le discipline tecniche l’agricoltura occupava una posizione di privilegio. Gli aristocratici romani legavano le loro prerogative al possesso della terra, e anche membri della classe dirigente, come Catone e Varrone, non avevano disdegnato di scrivere trattati in prosa su questo

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La precettistica culinaria: Apicio

Il De re coquinaria: un corpus eterogeneo A Marco Gavio Apicio (il vero nome sembra fosse semplicemente Marco Gavio: il cognomen gli sarebbe derivato dal fatto che si chiamava Apicio un celebre buongustaio, vissuto alla fine del II secolo a.C.), contemporaneo di Tiberio, i manoscritti attribuiscono un corpus di ricette culinarie in dieci libri, intitolato De re coquinaria: si tratta, in realtà, di una raccolta formatasi con l’apporto di varie stratificazioni successive fino al IV secolo d.C. Il nucleo apiciano del corpus, derivato probabilmente a sua volta da due diverse opere (una sulle salse e una sull’elaborazione completa di alcuni piatti), non è facilmente individuabile nella massa composita delle ricette pervenuteci, dovuta a un maldestro compilatore tardoantico, che dimostra di conoscere assai poco la terminologia tecnica e, in generale, la materia culinaria. Temi e stile Alla base del De re coquinaria sono riconoscibili opere di carattere medico (spesso infatti le ricette vengono fornite in funzione delle loro proprietà dietetiche o come medicine per disfunzioni dell’apparato digerente) e trattati di culinaria greca. Lo stile espositivo è privo di qualsiasi eleganza retorica e formale, gli ingredienti sono indicati con puntigliosa essenzialità in una lingua spesso pedestre. A dispetto di questa assoluta trascuratezza formale, colpisce la grande attenzione rivolta alla creatività e all’elaborazione scenografica dei piatti, la cui punta estrema può essere riassunta con la stessa conclusione paradossale di Apicio: «a tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia». Bibliografia Sulla cultura nell’età giulio-claudia, dopo G. BOISSIER , L’opposizione sotto i Cesari, trad. it. Milano 1937, vedi C. WIRSZUBSKI , Libertas. Il concetto politico di libertà a Roma tra Repubblica e Impero, trad. it. Bari 1957, e M. GRIFFIN , Nero: the End of a Dinasty, London 1984. Sugli aspetti più propriamente letterari: G. WILLIAMS , Change and Decline: Roman Literature in the Early Empire, Berkeley-London 1978. Storiografia

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Il filosofo e il potere

Lucio Annèo Seneca è uno dei pochi personaggi, nella storia della filosofia, che abbia potuto realizzare, almeno per qualche tempo, l’utopia platonica dei filosofi al potere. Egli, infatti, oltre a trattare le principali tematiche dello stoicismo – la corrente filosofica nella quale si riconosceva –, quali la fugacità del tempo, l’imperturbabilità del saggio, la morte come destino ineluttabile, cercò di mettere in pratica le sue concezioni filosofiche, senza limitare il proprio impegno politico alla stesura di trattati, ma intervenendo in prima persona come precettore e consigliere dell’imperatore Nerone. 1.1 VITA E MORTE DI UNO STOICO La nascita in Spagna e la formazione Lucio Annèo Seneca nacque in Spagna, a Cordova (città di tradizioni repubblicane, che si era schierata con Pompeo al tempo delle guerre civili), da una ricca famiglia provinciale di rango equestre (il padre è Seneca il Vecchio), negli ultimi anni precedenti l’era volgare, forse nel 4 a.C. Venne presto a Roma, dove fu educato nelle scuole retoriche, in vista della carriera politica, e filosofiche (ebbe fra i suoi maestri lo stoico Attalo e Papirio Fabiano, un ex retore vicino alla scuola stoico-pitagorica dei Sestii, caratterizzata da tendenze ascetiche nonché da curiosità naturalistiche). La fama e l’esilio Attorno al 26 d.C. si recò in Egitto (al seguito di uno zio prefetto); al ritorno a Roma, nel 31, iniziò l’attività forense e la carriera politica, ottenendo un successo cospicuo se è vero che Caligola (37-41), geloso della sua fama oratoria, arrivò a decretarne la condanna a morte, da cui lo avrebbe salvato un’amante dell’imperatore. Non si salvò però dalla relegazione che, nel 41, gli comminò il nuovo imperatore Claudio, con l’accusa di coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livilla, figlia minore di Germanico e sorella di Caligola (ma in realtà si voleva colpire l’opposizione politica coagulatasi attorno alla famiglia di Germanico). Dall’esilio a precettore di Nerone Nella selvaggia, inospitale Corsica Seneca restò fino al 49, quando Agrippina riuscì a ottenere da Claudio il

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I Dialogi e la saggezza stoica

Lo stoicismo moderato di Seneca Le singole opere dei Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si inscrive (uno stoicismo, comunque, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale, sulle orme della cosiddetta «scuola di mezzo», e non conosce chiusure dogmatiche). La composizione dei Dialogi si colloca lungo tutto l’arco della vita di Seneca, ma ben pochi di essi sono databili con sicurezza, cosicché risulta difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero, o collegarlo alle sue vicende biografiche. 2.1 LE CONSOLATIONES Ad Marciam, Ad Helviam e Ad Polybium Il genere delle consolazione, già coltivato nella tradizione filosofica greca (vedi scheda qui sotto), si costituisce intorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell’uomo, ecc.), che anche Seneca riprende e rielabora nelle sue consolationes e attorno ai quali ruota gran parte della sua riflessione filosofica. La Consolatio ad Marciam, scritta sotto il principato di Caligola (forse attorno al 40), è indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della morte di un figlio. Al periodo dell’esilio in Corsica risalgono invece le altre due consolationes pervenuteci: quella Ad Helviam matrem (forse del 42) cerca di tranquillizzare la madre sulla condizione del figlio esule, esaltando gli aspetti positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo; l’altra (del 43?), rivolta Ad Polybium, un potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita di un fratello, si rivela in realtà come un tentativo di adulare indirettamente l’imperatore per ottenere il ritorno a Roma (ed è l’opera che più è costata a Seneca l’accusa di opportunismo). GENERI LETTERARI

Il genere della consolatio

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Gli altri trattati: filosofia e politica

Il saggio partecipa alla vita politica Influente ministro di Nerone nei primi cinque anni del suo principato (il cosiddetto «quinquennio felice»), Seneca dedica gran parte della sua riflessione a temi ‘pubblici’. Abbiamo già visto come in alcuni dialoghi (in particolare nel De tranquillitate animi e nel De otio) affrontasse il problema della partecipazione del saggio alla vita politica, risolvendolo con una sorta di compromesso: il sapiente non dovrà tenersi lontano dagli affari dello Stato, a condizione che la partecipazione non turbi la serenità interiore; egli potrà dunque lavorare per il benessere della sua comunità, almeno finché i contrasti non diventino troppo tumultuosi e rischino di provocare in lui turbamento. Altre opere sono invece legate più strettamente al suo impegno politico, alla sua esperienza di consigliere del principe. 3.1 IL RAPPORTO CON IL PRINCEPS: IL DE CLEMENTIA Un programma per il sovrano ‘illuminato’ L’opera in cui Seneca espone in maniera più compiuta la sua concezione del potere è il De clementia, opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (negli anni 55-56) come traccia di un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, né le forme apertamente monarchiche che esso ha ormai assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal lògos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l’Impero; senza considerare, infine, che si era ormai imposto nei fatti, e non sembrava realistico confidare in quel miraggio di una restaurazione della libertas repubblicana che animava i circoli stoicheggianti dell’opposizione aristocratica. Il problema, piuttosto, è quello di avere un buon sovrano: e in un regime di potere assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà trattenere dal governare in modo tirannico. La clemenza (che non si identifica con la

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La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae ad Lucilium

Dopo il ritiro dalla politica, l’individuo Se è vero che non si possono distinguere troppo nettamente, nell’elaborazione filosofica di Seneca, i due momenti dell’impegno civile e dell’otium meditativo (l’aspirazione ad assolvere una funzione sociale, nelle forme mediate concesse dalla situazione, resta forte anche nelle opere tarde), è tuttavia innegabile che nella produzione successiva al suo ritiro dalla scena politica egli si muove soprattutto nell’orizzonte della coscienza individuale. L’epistolario a Lucilio L’opera principale della sua produzione tarda, e la più celebre in assoluto, è costituita dalle Epistulae ad Lucilium, una raccolta di lettere di maggiore o minore estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento indirizzate appunto all’amico Lucilio (personaggio di origini modeste, un po’ più giovane di Seneca e proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative, di buona cultura, poeta e scrittore egli stesso). Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua tuttora a discutere: non ci sono difficoltà insormontabili per credere alla realtà di uno scambio epistolare (varie lettere richiamano quelle di Lucilio in risposta), ipotesi peraltro non inconciliabile con la possibilità che altre lettere, specie quelle più ampie e sistematiche, non siano state effettivamente inviate e siano state invece inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L’opera ci è giunta incompleta, e si può datare a partire dal periodo del disimpegno politico (62-inizio 63); costituisce in ogni caso un unicum nel panorama letterario e filosofico antico. La funzione pedagogica delle epistole Seneca mostra piena consapevolezza, non priva di orgoglio, di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, che egli tiene polemicamente a distinguere dalla comune pratica epistolare, anche quella di tradizione più illustre, rappresentata da Cicerone. Il modello cui intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici aveva saputo perfettamente realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio. Le sue lettere vogliono essere uno strumento di crescita morale, un diario delle conquiste dello spirito nel lungo itinerario verso la sapientia.

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Lo stile «drammatico» delle opere filosofiche

Lo stile di Seneca, tra teoria e pratica Se il fine precipuo della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare alle res, non alle parole ricercate ed elaborate: non delectent verba nostra sed prosint, «non siano piacevoli le nostre parole, ma utili» (Epistulae ad Lucilium, 75, 5). Esse si giustificheranno solo se – proprio in virtù della loro efficacia espressiva, in forma per esempio di sententiae o citazioni poetiche – assolveranno a una funzione psicagogica, se contribuiranno cioè a fissare nella memoria e nell’animo un precetto o una norma morale. In realtà, a fronte di un programma di stile inlaboratus et facilis (Epistulae ad Lucilium, 75, 1), la prosa filosofica senecana è diventata quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell’effetto e dell’espressione concisamente epigrammatica. La paratassi, in contrasto con il periodo ciceroniano Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che nella sua disposizione ipotattica voleva rendere chiara la gerarchia logica del pensiero, e preferisce invece la paratassi, la giustapposizione di brevi frasi indipendenti. Lo stile di Seneca – anche nell’intento di riprodurre il sermo, la lingua parlata – frantuma l’impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all’antitesi e alla ripetizione (producendo quell’impressione di «sabbia senza calce» che gli rinfacciava il malevolo Caligola). Retorica asiana e diatriba cinica Questa prosa antitetica all’armonioso periodare ciceroniano e, come avvertiva preoccupato Quintiliano, rivoluzionaria sul piano del gusto (e destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d’arte europea), affonda le sue radici nella retorica asiana – che nelle scuole di declamazione, a Seneca ben familiari, celebrava i suoi trionfi – e nella predicazione dei filosofi cinici: il suo tipico procedere mediante un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi serrato di frasette nervose e staccate (le minutissimae sententiae deplorate da Quintiliano), con una sorta di tecnica ‘puntillistica’, produce l’effetto di sfaccettare un’idea secondo tutte le

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Le tragedie

Seneca e la fortuna del genere tragico Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è occupato dalle tragedie. Quelle di Seneca sono le sole tragedie latine a noi pervenute in forma non frammentaria. Oltre che per questa ragione, che ne fa una testimonianza preziosa di un intero genere letterario, le tragedie di Seneca sono importanti anche come documento della ripresa del teatro latino tragico (vedi pp. 17 ss.), dopo i tentativi poco fortunati che la politica culturale augustea fece per promuovere una rinascita dell’attività teatrale. Problemi di autenticità e cronologia Le opere ritenute generalmente autentiche sono nove (qualche dubbio sussiste solo per l’Hercules Oetaeus), tutte di soggetto mitologico greco. Molto poco, comunque, è ciò che sappiamo su di esse, sulle circostanze della loro eventuale rappresentazione o sulla data di composizione, sulla quale non è possibile avanzare illazioni nemmeno in base a criteri stilistici o, tanto meno, a presunti riferimenti a eventi contemporanei. Si elencano dunque nell’ordine in cui le trasmette la tradizione più autorevole. La trama e i modelli greci delle nove tragedie L’Hercules furens, sul modello dell’Eracle euripideo, tratta il tema della follia di Ercole, che, provocata da Giunone, induce l’eroe a uccidere moglie e figli. Una volta rinsavito, e determinato a suicidarsi, Ercole si lascia distogliere dal suo proposito e si reca infine ad Atene a purificarsi. Le Troades, basate sulla contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l’Ecuba, rappresentano la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti di fronte al sacrificio di Polìssena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca. Le Phoenissae, unica tragedia senecana incompleta, modellata sulle Fenicie di Euripide e sull’Edipo a Colono di Sofocle, ruota attorno al tragico destino di Èdipo e all’odio che divide i suoi figli Etèocle e Polinice. La Medea, basata naturalmente sulla Medea di Euripide, ma forse anche sull’omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio, rappresenta la

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L’Apokolokỳntosis

Il titolo Un’opera davvero singolare, nel panorama della vasta produzione senecana, è il Ludus de morte Claudii (come lo definiscono due dei tre manoscritti principali che lo trasmettono) o Divi Claudii apotheosis per saturam (secondo la definizione, a mo’ di glossa, del terzo). Il titolo sotto cui l’opera è più comunemente nota è quello, greco, di Apokolokỳntosis, che ci fornisce lo storico Dione Cassio (60, 35). Questa parola implicherebbe un riferimento al greco kolòkynta («zucca»), forse come emblema di stupidità, e andrebbe intesa come «deificazione di una zucca, di uno zuccone», con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio godeva. L’operetta contiene infatti la parodia della divinizzazione di Claudio, decretata dal Senato subito dopo la sua morte (nel 54 d.C.), un evento che dietro il fragile velo dell’ufficialità aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell’opinione pubblica. Seneca prende spunto da questo episodio per dare sarcastico sfogo al risentimento contro l’imperatore che lo aveva condannato all’esilio, in una sorta di pamphlet la cui composizione deve risalire allo stesso anno 54. Il contenuto dell’opera Il componimento narra la morte di Claudio e la sua ascesa all’Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dèi, i quali lo condannano invece a discendere, come tutti i mortali, agli Inferi, dove egli finisce schiavo del nipote Caligola e da ultimo viene assegnato al liberto Menandro; una sorta di contrappasso per chi aveva fama di essere tenuto in pugno dai suoi potenti liberti. Allo scherno per l’imperatore defunto Seneca contrappone, all’inizio dell’opera, parole di elogio per il suo successore, preconizzando nel nuovo principato un’età di splendore e di rinnovamento. Il genere letterario: la satira menippea L’opera rientra nel genere della satira menippea (vedi la scheda qui sotto), e alterna perciò prosa e versi di vario tipo, in un singolare impasto linguistico e stilistico che accosta i toni piani delle parti prosastiche a quelli spesso parodicamente solenni delle parti metriche, con sapide coloriture colloquiali e beffarde incursioni nel lessico volgare. Uno stile che rivela qua e là assonanze con la

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Gli epigrammi

Problemi di attribuzione Sotto il nome di Seneca vanno anche alcune decine di epigrammi in distici elegiaci tramandati in un codice del IX secolo: sono anonimi, ma siccome tre, in un altro codice, sono attribuiti a Seneca, pure per gli altri è stata proposta l’attribuzione al filosofo, anche se la paternità senecana è in molti casi difficilmente sostenibile. Il livello è generalmente decoroso ma non particolarmente brillante; alcuni di essi accennano all’esperienza dell’esilio del filosofo in Corsica; uno ricorda il nipote Lucano bambino.

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Seneca, la fortuna

Le opere filosofiche La fortuna di Seneca, dall’antichità all’età moderna, è imponente. Dopo la reazione al suo immediato successo, alimentata da Quintiliano e dal movimento arcaizzante, nella tarda antichità guadagnò presso i cristiani (è del IV secolo il falso carteggio con san Paolo) quel prestigio altissimo che durò per tutto il Medioevo e oltre, fino a influire profondamente sulla cultura gesuitica, ma anche su quella protestante. Le tragedie Più tarda (soprattutto dal XIV secolo in poi) la fortuna delle tragedie, che dopo aver agito come modello del teatro tragico rinascimentale italiano influenzarono profondamente, con il loro barocco truce e tenebroso, il teatro elisabettiano, soprattutto Shakespeare. Ma la loro azione fu rilevante anche sul teatro classico francese (Corneille, Racine, poi Voltaire) e su quello romantico tedesco; in Italia soprattutto Alfieri, nella sua violenta polemica antitirannica, ne mutuò la vibrante tensione. Bibliografia L’edizione completa delle opere in prosa è curata da F. HAASE , Leipzig 1852-1853. Per i Dialogi svariate le edizioni singole, anche con commento: fra queste, buone, in Italia, quelle di A. TRAINA al De brevitate vitae, Torino 1970, e alle Consolazioni, Milano 1987; al De providentia, Milano 1997, e, a cura di N. LANZARONE , Firenze, 2008; l’edizione di I. DIONIGI al De otio, Brescia 1983; l’edizione con commento di De otio e De brevitate vitae a cura di G.D. WILLIAMS , Cambridge 2003; l’edizione al De tranquillitate animi, a cura di C. LAZZARINI , Milano 1997; recente l’edizione del De clementia con testo critico e commento a cura di E. MALASPINA , Alessandria 2001; con traduzione e commento in inglese, a cura di S. BRAUND , New York-Oxford 2008; La Consolatio ad Helviam matrem con un’antologia di testi, a cura di A. COTROZZI , Roma 2004. I Dialogi sono ora disponibili nell’edizione curata da L.D. REYNOLDS , Oxford 1977, al quale si deve anche la più attendibile edizione delle Epistulae ad Lucilium, Oxford 1965. L’edizione completa dei Dialogi, con testo a fronte è a cura di P. RAMONDETTI , Torino 1990. Per le Naturales quaestiones, vedi l’edizione a cura di D. VOTTERO , testo latino a fronte, Torino 1990; a cura di P. PARRONI , Roma 2002; a cura di R. MUGELLESI , Milano 2004. Vedi inoltre: Seneca, Lettere a

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L’epica dopo Virgilio

Virgilio, canone epico imprescindibile Nel processo che, durante l’età tardorepubblicana e augustea, realizzava l’ambizione di elaborare una letteratura nazionale paragonabile al corpus della letteratura greca classica ed ellenistica, l’Eneide ha rappresentato il momento conclusivo: con l’Eneide la cultura romana si è dotata finalmente di un capolavoro capace di sostituire Omero. Il poema virgiliano, che entra subito nella scuola e diventa il testo base dell’educazione letteraria latina, è il canone indiscusso e imprescindibile del genere epico. Dopo Virgilio, il poeta epico non può sottrarsi al confronto con il grande modello, anche quando l’esperienza del potere imperiale rende difficile, se non impossibile, continuare a credere negli ideali eticopolitici cui l’epos nazionale virgiliano aveva dato forma, anche quando le illusioni dei miti augustei erano definitivamente crollate. Lucano ‘contro’ Virgilio È il caso di Lucano, giovane poeta di talento morto suicida a ventisei anni, nella repressione della congiura pisoniana: della sua produzione, sorprendentemente vasta e varia, ci resta il poema epico Pharsalia, un’appassionata, coraggiosa denuncia della guerra fratricida che aveva prodotto la fine della libertà romana e l’avvento della tirannide. Non potendo mettersi nel solco di Virgilio, Lucano scrive ‘contro’ di lui adottando una puntuale tecnica di ‘contestazione’ del modello, basata su un nuovo tipo di arte allusiva, che è stata definita «allusività antifrastica»: attraverso la ripresa ‘a rovescio’ del modello, Lucano si propone di smascherare l’inganno con cui Virgilio ha coperto la trasformazione dell’antica res publica in dominato.

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Il ritorno all’epica storica

La celebrazione della libertà repubblicana L’opera principale di Lucano, il poema epico Pharsalia, sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo, segna un forte stacco rispetto alla precedente produzione del poeta. Dai titoli delle opere perdute sembra infatti di poter cogliere una totale adesione ai gusti e alle direttive neroniane: l’Ilìacon veniva incontro alla passione del principe per le antichità troiane; le Silvae e i libretti per pantomime ben si inserivano nel quadro di quella poesia di intrattenimento, ricca di spunti occasionali e raffinata nella fattura, che l’imperatore pareva prediligere. Anche se la Pharsalia non era fin dall’inizio in contrasto marcato con le tendenze culturali di Nerone – che personalmente andava progettando un poema epico sulla storia romana –, il modo in cui Lucano sceglie di trattare l’argomento si risolve in un’esaltazione dell’antica libertà repubblicana, e in un’esplicita condanna del regime imperiale. Il contenuto della Pharsalia Libro I. Dopo l’esposizione dell’argomento del poema, e un lungo elogio di Nerone, Lucano passa a illustrare le cause della guerra. Segue la narrazione del passaggio del Rubicone da parte di Cesare, e del terrore che si diffonde a Roma alla notizia del suo avvicinamento. Una serie di presagi annuncia la catastrofe incombente. Libro II. Lamenti dei Romani, che ricordano il precedente conflitto civile tra Mario e Silla e giungono alla consapevolezza che quello fra Cesare e Pompeo sarà ben più terribile. Dibattito notturno fra Bruto e Catone: è giusto astenersi da un conflitto che comunque si risolverà col dominio assoluto del vincitore, o è invece consigliabile schierarsi dalla parte di Pompeo, nella speranza di condizionarlo? Catone persuade Bruto a scegliere la seconda alternativa. Sotto la pressione delle legioni di Cesare, Pompeo fugge dall’Italia. Libro III. Appare in sogno a Pompeo l’ombra di Giulia, figlia di Cesare e sua prima moglie, per minacciargli terribili sciagure. Cesare entra in Roma e si impadronisce del tesoro pubblico. Pompeo raduna gli alleati, soprattutto orientali, dei quali Lucano fornisce un lungo elenco, alla maniera del cosiddetto «catalogo delle navi» dell’Iliade. Il teatro della

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La Pharsalia e il genere epico

Un poema nuovo e perciò criticato La novità del poema lucaneo consiste non tanto nella scelta di un argomento storico (tale era stata l’epica romana prima di Virgilio) quanto nel completo abbandono dell’apparato mitologico: nella Pharsalia non assistiamo più all’intervento di divinità che prendono parte all’azione al fianco dei protagonisti umani. Per questo il poema fu aspramente criticato nell’antichità, come testimoniano la tradizione scoliastica e i giudizi dei grammatici (Servio) e dei retori (Quintiliano, Frontone): la rinuncia agli interventi delle divinità, l’ordine della narrazione quasi ‘cronachistico’ o ‘annalistico’, tipico più delle opere storiche che di quelle poetiche, e inoltre l’uso e l’abuso delle sententiae concettistiche, che avvicinerebbero lo stile del poema a quello oratorio, sono tra le censure più spesso mosse alla Pharsalia. I motivi che hanno spinto Lucano su questa via sono legati all’atteggiamento dell’autore nei confronti della tradizione epica romana e dei suoi modelli: in particolare l’Eneide di Virgilio rappresentava un inevitabile termine di confronto sia per il poeta che per i suoi lettori. Del resto, difficoltà oggettive impediscono di valutare con precisione l’attendibilità di queste critiche. La deformazione della realtà La perdita del materiale storiografico a cui con ogni probabilità si rifaceva Lucano (i libri di Livio sulle guerre civili e le Storie di Seneca il Vecchio) non permette infatti di verificare se il poeta abbia seguito le proprie fonti in modo sostanzialmente pedissequo. Di certo nel poema di Lucano la fedeltà scrupolosa alla fonte storica viene sacrificata alle ‘deformazioni’ della verità a fini ideologici, soprattutto per quel che riguarda Pompeo, Cesare e i rispettivi sostenitori. In tal caso l’alterazione riguarda il modo di presentare o di colorire alcuni degli avvenimenti tramandati dalle fonti; altre volte, invece, essa si spinge fino al punto di inserire episodi estranei alla realtà dei fatti, come la scena di negromanzia nel Libro VI o l’intervento di Cicerone a Farsàlo nel VII. Lucano e l’epica storica romana È possibile, inoltre, che il criticato modulo cronachistico fosse un ‘difetto’ tradizionale di tutta l’epica storica, ad argomento monografico, dell’ultima età repubblicana e del primo

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La Pharsalia e l’Eneide: la distruzione dei miti augustei

Lucano, l’«anti-Virgilio» Nella tradizione romana, a partire dal Bellum Poenicum di Nevio e dagli Annales di Ennio, il poema epico era stato monumentum, celebrazione solenne delle glorie dello Stato e dei suoi eserciti. E monumentum era stata anche l’epica ‘omerica’ di Virgilio, canto di fatiche e di lutti che dovevano tuttavia fondare l’impero della pax Romana. Nelle mani di Lucano, il poema epico diventa invece la denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori, dell’avvento di un’era di ingiustizia. L’inversione di prospettiva rispetto all’Eneide è netta, e al confronto con Virgilio spinge volontariamente la stessa Pharsalia: a ragione si è potuto parlare del poema come di una sorta di «anti-Eneide», e del suo autore come di un «anti-Virgilio». Appunto Virgilio diventa per Lucano il modello da rovesciare e confutare: per Lucano Virgilio ha coperto con un velo di mistificazioni la trasformazione dell’antica res publica in tirannide, esaltando l’avvento di Augusto come una missione fatale. Il tema del canto: non più il mito ma la storia La via che Lucano sceglie per sconfessare Virgilio è in primo luogo il mutamento dell’oggetto: non si tratta di rielaborare racconti mitici, ma di esporre, con sostanziale fedeltà, una storia recente e ben documentata, soprattutto universalmente conosciuta. Questa scelta programmatica di fedeltà al ‘vero’ storico spiega, in larga parte, la rinuncia agli interventi delle divinità, che tanto faceva scandalizzare la critica antica. La polemica antivirgiliana incomincia a delinearsi fino dai versi immediatamente successivi al proemio, dove le allusioni a Virgilio sembrano atteggiate secondo un gesto di opposizione: nell’epos di Virgilio il tema storico delle guerre civili si affacciava qua e là nel testo ma, proiettato in un passato mitico, era per così dire solo adombrato nel remoto conflitto fra Troiani e Latini (destinati poi a fondersi in un unico popolo); Lucano vuole invece riproporlo in tutta la sua ineludibile realtà storica, presentandone le nefaste conseguenze sulla storia successiva. Il rovesciamento del modello: la «negromanzia» Lucano sembra inoltre proporsi di confutare e quasi rovesciare puntualmente personaggi, scene, addirittura singole espressioni del modello virgiliano. Molti esempi

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Un poema senza eroe: i personaggi della Pharsalia

Cesare, l’‘eroe nero’ La Pharsalia non ha, come l’Eneide, un personaggio principale, un vero e proprio ‘eroe’; l’azione del poema – se si eccettuano diverse figure minori – ruota soprattutto intorno alle personalità di Cesare, di Pompeo e (in particolare nell’ultima parte) di Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: spesso guidato dall’ispirazione momentanea, o addirittura dalla temerarietà, assurge a incarnazione del furor, che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro l’antica potenza di Roma. Nell’incessante attivismo dispiegato da Cesare, l’‘eroe nero’ del poema, si è voluto intravedere talvolta quasi il segno dell’ammirazione di Lucano, ed è indubbio che il poeta sembra qua e là soccombere al fascino sinistro del suo personaggio. I tratti tipici del tiranno In fondo Cesare rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali che nell’Eneide venivano domate e sconfitte: il furor, l’ira, l’impatientia e una colpevole volontà di farsi superiore allo Stato sono le passioni che maggiormente agitano il suo animo. Sono, questi, tratti tipici della rappresentazione del tiranno, presenti già nella tragedia romana arcaica e riproposti nel teatro di Seneca. In questa tipologia rientrano anche la ferocia e la crudeltà: nella Pharsalia Lucano spoglia Cesare del suo attributo principale – la clemenza verso i vinti – a costo di stravolgere la verità storica (come quando gli fa decidere di lasciare insepolti i caduti di Farsàlo). Pompeo, un Enea succube del destino Alla frenetica energia di Cesare si contrappone, fin dall’inizio del poema, una relativa passività da parte di Pompeo: un personaggio in declino, affetto da una sorta di senilità politica e militare. Questo tipo di caratterizzazione serve tuttavia, in modo abbastanza paradossale, a limitare le responsabilità di Pompeo: la forsennata brama di potere di Cesare è la principale responsabile della catastrofe che porterà Roma al tracollo. L’intento di Lucano è quello di fare di Pompeo una sorta di Enea cui il destino si mostra avverso invece che favorevole: in questo senso, egli diviene una figura ‘tragica’, l’unica che, nello svolgimento del poema, subisca un’evoluzione psicologica. La Pharsalia rappresenta infatti il precipitare di Pompeo dai vertici più alti,

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Il poeta e il principe: l’evoluzione della poetica lucanea

Le speranze nell’avvento al potere di Nerone La Pharsalia presenta al lettore una visione della storia a tinte fosche, che non lascia intravedere alcuna possibilità di redenzione. È abbastanza probabile che il pessimismo lucaneo sia andato maturando progressivamente nel corso della stesura del poema: in una fase iniziale, Lucano avrà condiviso le speranze di palingenesi politico-sociale suscitate dall’avvento al potere di Nerone. Nel proemio infatti sembra ancora possibile interpretare la comparsa di Nerone come una sorta di compensazione per le sciagure provocate dal conflitto civile (vv. 33-38): Ma se i fati non trovarono altra via all’avvento di Nerone e ad un tale prezzo si preparano i regni eterni ai numi, e il cielo poté servire il suo sovrano, il Tonante, solo dopo le guerre dei crudeli Giganti, non ci lamentiamo più, o Celesti, e questi crimini e misfatti accogliamo volentieri per simile ricompensa. (traduzione di L. Canali)

L’elogio del nuovo Augusto L’elogio di Nerone riprende da Virgilio tutta una serie di motivi rivolti alla glorificazione del principe: è evidente il ricordo delle parole con le quali, nel Libro I dell’Eneide (vv. 291 ss.), Giove aveva profetizzato a Venere l’avvento di una nuova età dell’oro, dopo che Augusto avesse posto fine alle contese civili. L’attribuzione a Nerone di tratti augustei era diffusa nella letteratura del tempo: così, per esempio, in Calpurnio Siculo e nei Carmina Einsedlensia (vedi pp. 23 ss.). Agli occhi di Lucano, tuttavia, il nuovo Augusto è molto migliore del primo, e tesserne l’elogio implica entrare in velata polemica con Virgilio: Nerone, e non Augusto – sembra voler dire il poeta – è la vera realizzazione delle promesse del Giove virgiliano. I dubbi sulla sincerità del poeta Questa interpretazione presuppone la ‘sincerità’ dell’elogio di Nerone, non univocamente condivisa dagli studiosi moderni. Già alcuni scolii antichi avevano visto, negli esuberanti tumores

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Lo stile della Pharsalia

Il linguaggio del genere epico: forma di un’ideologia nazionale La tradizione epica aveva costruito tutto un linguaggio complesso, capace di dare l’attraente forma di narrazione ai grandi modelli culturali e ai valori cui si ispirava la società romana. Tenacia, equità, forza d’animo, resistenza, capacità di sacrificio, rispetto per la divinità e per la giustizia, culto dello Stato e lealtà alle sue leggi erano alcuni dei valori fondamentali che, ‘interpretati’ dalle strutture del linguaggio epico-eroico, si trasformavano in suggestivi racconti poetici, dove gli eroi che nelle loro imprese impersonavano quei valori diventavano veri e propri modelli di virtù. Lo stile grande e solenne di questi poemi, che significativamente si servivano di una lingua dalle coloriture arcaiche, era quello che, nella gerarchia dei generi letterari, faceva dell’epos la più alta forma di espressione poetica. Nell’immaginario dell’epica eroica la coscienza e l’orgoglio di un popolo avevano trovato forme adeguate a trasfigurare gli eventi del proprio passato; le imprese conservate nel ricordo collettivo, o quelle più recentemente vissute, erano diventate i momenti forti di un racconto edificante che sapeva accordare il mito con la storia, che metteva insieme la rievocazione di antiche credenze magico-favolose con le verità di un’ideologia statale vista nelle sue prove pratiche: un racconto che accanto alla contemplazione del religioso e del sovrumano proponeva l’ammirazione per le avventure di uomini eccezionali. Lucano e la crisi del genere epico A questo compito di positiva commemorazione dei grandi modelli eroici l’epos non può più far fronte, ora che lo sviluppo degli eventi ha tradito quel mondo ideale e ha tolto credito alle forme letterarie che lo raccontavano e, insieme, ha generato nuove aspettative nel pubblico. Lucano non ha la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure sente insufficiente ai suoi bisogni. Più che tentare una rifondazione del linguaggio epico, cerca un rimedio di compenso nell’ardore ideologico con cui ne denuncia la crisi. Così la presenza di un’ideologia politico-moralistica si fa in lui ossessiva, invade il suo linguaggio, diventa anzi tutta e solo linguaggio, perché viene gridata, ostentata: propugnata linguisticamente (in sententiae costruite a effetto o in

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Lucano, la fortuna

Un immediato successo nell’antichità Nella cultura romana la Pharsalia conosce una rapida fortuna: Marziale (14, 194) ci attesta che il poema al suo tempo continuava a ‘vendere’ molto bene. E ciò nonostante le polemiche letterarie cui l’opera aveva dato luogo forse fin da prima del suo apparire, se, com’è probabile, il Bellum civile di Petronio intendeva in qualche modo contrapporsi alle tendenze del poema che Lucano andava elaborando. La polemica continuò, e venne accolta dai grammatici successivi: Frontone critica Lucano per la ripetitività degli stessi concetti e per la sovrabbondanza espressiva; Servio, nel suo commento all’Eneide, sentenzia con altri che la Pharsalia è una storia, e non un poema. Letto e ammirato nel Medioevo e nel Rinascimento Tuttavia l’opera continuò a essere letta, specialmente nelle scuole, per tutta la tarda antichità; il successo si protrasse nel Medioevo, come attestano i numerosi manoscritti della Pharsalia sparsi per tutta l’Europa. Dante, che ebbe per Lucano particolare ammirazione – fino a collocarlo quarto fra gli «spiriti magni», dopo Omero, Orazio e Ovidio (Inferno, IV, 90; Lucano è citato come modello anche in Inferno, XXV, 94 ss.) –, ne trasse alcuni spunti di orrido espressionismo, e in generale di stile ‘tragico’; al Catone lucaneo è largamente ispirato quello che Dante e Virgilio incontrano nel Purgatorio. Anche Petrarca tenne largamente presente Lucano, soprattutto nella composizione dell’Africa. Tasso ne trasse spunti e suggestioni per alcuni episodi della Gerusalemme liberata, ma la venerazione per il modello virgiliano fece sì che egli (nel saggio Del poema eroico) tornasse a far sue le critiche alla Pharsalia come storia versificata, che già erano state dei grammatici antichi. La riscoperta di Lucano nell’età moderna Dopo un periodo di relativo oscuramento, la fortuna di Lucano riprende vigore a partire dal tardo Settecento e dall’Ottocento. Neoclassici, romantici e alfieriani vi trovano materia e personaggi congeniali al loro gusto e ai loro ideali. Goethe, nel Faust, trasse parte dell’episodio della notte di Valpurga dalla descrizione dei riti della maga tessala Erìttone. In Italia, Foscolo derivò da Lucano alcuni accenti dei Sepolcri. Alfieri aguzzò con la lettura di Lucano

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Un capolavoro pieno di interrogativi

Le questioni poste dal Satyricon Sotto il nome di Petronio l’antichità ci ha trasmesso uno dei massimi capolavori della narrativa mondiale, comunemente noto con il titolo di Satyricon. Pregiudizi moralistici hanno inibito a lungo la sua diffusione, precludendogli la via delle scuole; ma lo sviluppo del romanzo europeo è stato profondamente influenzato da questa narrazione di avventure comiche, satiriche, paradossali. Grandi artisti moderni come Gustave Flaubert o James Joyce hanno chiaramente riconosciuto il loro debito con questo isolato, impressionante esperimento della narrativa antica, che continua tuttavia a essere oggetto di interrogativi molteplici e sovrapposti: del Satyricon sono incerti l’autore, la data di composizione, il titolo e il significato del titolo, l’estensione originaria, la trama, per non parlare di questioni meno concrete ma importanti, quali il genere letterario in cui si inserisce e le motivazioni per cui questo testo, per molti versi eccentrico, venne concepito e pubblicato. Per fortuna, non tutti gli aspetti dell’opera sono altrettanto incerti: per l’attribuzione e la datazione esiste una soluzione pienamente soddisfacente; per altre questioni, invece, sarà bene tenere presente quanto limitate e parziali restino le nostre conoscenze e le relative ipotesi. 1.1 IL SATYRICON , UN’OPERA IN CERCA D’AUTORE Petronio, elegantiae arbiter di Nerone Nessun autore antico ci dice chi fosse il misterioso Petronius Arbiter autore, secondo la tradizione manoscritta, del Satyricon. Oggi, tuttavia, la grande maggioranza degli interpreti concorda nell’identificarlo con un cortigiano di Nerone mirabilmente ritratto da Tacito negli Annales: un fascinoso personaggio di nome Petronio, console nel 62, suicida per volontà dell’imperatore nel 66, considerato da Nerone il giudice per eccellenza dello chic e della raffinatezza: il suo elegantiae arbiter. Tacito non parla però del Satyricon, e l’identificazione del Petronio tacitiano con l’autore del Satyricon, a dire il vero, non poggia su alcuna testimonianza che la renda esplicita. D’altra parte, a giudicare dalla tradizione indiretta, l’opera deve essere stata

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Una narrazione in ‘frammenti’

Frammentarietà e stratificazione del testo Del Satyricon ci è rimasto un lughissimo frammento narrativo in prosa, con sezioni in versi, residuo di una narrazione molto più lunga. Secondo le indicazioni della tradizione manoscritta, la parte che abbiamo comprende (con alcuni vuoti e salti intermedi) stralci dei Libri XIV e XVI e la totalità del Libro XV; è verosimile che il XV coincidesse in gran parte con il celebre episodio noto come Cena di Trimalchione. Non sappiamo di quanti libri fosse composta l’opera. La complicata trasmissione del testo Il testo ebbe infatti un destino capriccioso e complesso; fu mutilato e antologizzato in età tardoantica, subendo qua e là dei tagli, forse anche delle interpolazioni e degli spostamenti di sezioni narrative. Di questa riduzione del Satyricon, la Cena di Trimalchione, la parte oggi più popolare del lungo frammento narrativo in nostro possesso, ricomparve soltanto nel XVII secolo, in un codice ritrovato nella cittadina dalmata di Traù (il codex Traguriensis); altre parti invece erano già note agli umanisti italiani a partire dal 1423. Il titolo dell’opera Il titolo tramandato nei codici, Satyricon, propriamente un genitivo plurale neutro (sottinteso libri) equivalente a Satyrica (proprio come Georgicon libri equivale a Georgica, «Le Georgiche»), è un grecismo formato da Satyri, «satiri», le grottesche creature della mitologia, più il suffisso di derivazione greca -icus, che caratterizza i titoli di molti romanzi greci (per esempio Ethiopica, Ephesiaca, vedi la scheda a p. 80). Interrogativi sull’intreccio Le particolari vicende della trasmissione del testo si riflettono anche nella nostra conoscenza dell’intreccio. La parte più integra del frammento narrativo in nostro possesso è il famoso episodio della Cena di Trimalchione: è chiaro che questo brano esercitava su chi ha manipolato il testo di Petronio un’attrattiva particolare. Di sicuro, il testo che abbiamo era preceduto da un lunghissimo antefatto (narrato in quattordici libri, stando alle indicazioni tramandate nei codici) e seguito da una parte di lunghezza per noi imprecisabile.

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Un testo in cerca di un genere

3.1 IL SATYRICON E LA NARRATIVA D’INVENZIONE La complessità del Satyricon: la struttura… A quale genere letterario può essere ricondotto il Satyricon? Nessun testo narrativo classico, a nostra conoscenza, si avvicina anche lontanamente alla complessità letteraria che caratterizza Petronio. Complessa è, anzitutto, la trama. La parte superstite si presenta come una libera successione di scene, con tonalità variabili; ma queste scene sono collegate da un complesso gioco di richiami narrativi. Ci sono personaggi che appaiono e rispuntano molto più tardi, come nel caso di Lica e Trifena. Ci sono, soprattutto, situazioni tipiche, che si ripetono: cambiano scenari e personaggi minori, ma Encolpio continua a essere intrappolato, umiliato, costretto a tentativi di fuga che si risolvono, per un’accanita perversione della sorte, in peggioramenti ulteriori. … e la forma della narrazione Complessa è anche la forma. La prosa narrativa è interrotta, con apprezzabile frequenza, da inserti poetici: alcune di queste parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi, soprattutto a quella di Eumolpo, che, anche in situazioni poco opportune, dà spazio alla sua torrenziale vocazione poetica; è il caso della Presa di Troia e della Guerra civile, per citare le inserzioni più lunghe. Questi inserti sono ‘motivati’ e hanno come uditorio i personaggi. Ma molte altre parti poetiche sono strutturate come interventi del narratore, che nel vivo della sua storia abbandona la relazione degli avvenimenti per commentarli. Le sezioni in versi, strumento di ironia Spesso questi commenti hanno una funzione ironica; non perché si tratti di poesie ‘mal fatte’ – ché, anzi, Petronio si rivela come un poeta dalla versatilità tecnica straordinaria e ammirevole –, ma perché il commento poetico non corrisponde, vuoi per stile e livello letterario, vuoi per contenuto e orientamento, a quella situazione in cui dovrebbe inquadrarsi. Ne derivano dei contrasti, degli sbalzi tra aspettative e realtà, tra illusioni materiate di fantasmi (fantasmi a loro volta nutriti di cultura e di letteratura) e brusche ricadute, anche di volgarità brutale. Quando Encolpio paragona una losca fattucchiera

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L’originalità del Satyricon

4.1 REALISMO E AGGRESSIONE SATIRICA Il realismo nel Satyricon L’aspetto più originale del Satyricon è forse la sua forte carica di realismo, evidente a noi soprattutto nella Cena di Trimalchione – dove diventa anche mimetismo linguistico – ma ben presente anche altrove. Il romanzo ha una sua storia da raccontare, la vita avventurosa di Encolpio, ma nel farlo si sofferma a descrivere luoghi che non sono visti astrattamente e fuori dal tempo, come in gran parte del romanzo greco. Sono luoghi tipici e fondamentali del mondo romano: la scuola di retorica, i riti misterici, la pinacoteca, il banchetto, la piazza del mercato, il postribolo, il tempio. L’autore ha un vivo interesse per la mentalità delle varie classi sociali, oltre che (nella sola Cena di Trimalchione, però) per il loro linguaggio quotidiano. Le illusioni del «sublime» letterario In particolare, però, il realismo entra nel Satyricon come forza antagonistica del «sublime» letterario, secondo cui il protagonista-narratore, Encolpio, e i suoi compagni, giovani nutriti di cultura scolastica, pretendono di interpretare, nobilitandola, la realtà delle loro misere esistenze. Encolpio è infatti un piccolo avventuriero che si arrangia a vivere vagabondando qua e là, ma il tempo dell’azione è continuamente rallentato dalle riflessioni di un altro Encolpio, uno scholasticus, come direbbero gli antichi, fresco di studi e vittima degli schematismi della scuola, che ingenuamente si esalta immedesimandosi nelle grandi figure di personaggi mitico-letterari. Quando per esempio Ascilto gli rapisce Gìtone, Encolpio piange sulla riva del mare come Achille privato di Briseide dalla prepotenza di Agamennone (Satyricon, 81; cfr. Iliade, 1, 348-351); e subito dopo, quando armato e fuori di sé ritorna in città alla ricerca del ragazzo, agisce come Enea che nell’ultima notte di Troia cerca la sposa Creusa lungo tutti i porticati della città (Satyricon, 82; cfr. Eneide, 2, 749-773). Uno strumento di aggressione satirica Ai grandi miti eroici, ai modelli alti dell’epica e della tragedia, che il protagonista-narratore si illude di poter rivivere, si contrappone la forza materiale delle cose, la fisicità del

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La trasformazione del genere satirico

Una nuova destinazione sociale Anche se la rispettiva produzione poetica è separata da circa mezzo secolo (l’uno scrive sotto Nerone, l’altro nell’arco di tempo da Nerva ad Adriano), Persio e Giovenale mostrano importanti tratti comuni. Tutti e due dichiarano di ricollegarsi alla poesia satirica di Lucilio e di Orazio, nella cui tradizione dunque si collocano. Tuttavia, al di là delle intenzioni programmatiche, i due poeti imprimono a questo genere letterario un cambiamento piuttosto marcato, soprattutto rispetto all’impostazione oraziana. Le innovazioni sono vistose sia nella destinazione sociale delle opere sia nella forma del discorso satirico. Le satire di Lucilio e Orazio, infatti, assumevano come verosimile riferimento la cerchia degli amici, mentre quelle di Persio e Giovenale, sebbene formalmente rivolte a un destinatario singolo, sono in realtà dirette a un pubblico generico di lettori-ascoltatori, di fronte ai quali il poeta si atteggia a censore del vizio e dei costumi. Il distacco dall’ascoltatore e l’invettiva La forma del discorso non è più quella oraziana della conversazione ‘costruttiva’ che, mentre guarda ai difetti umani, si dispone a sorridere e a far sorridere: nasceva di qui, nella satira oraziana in particolare, una sorta di complicità fra autore e ascoltatore, che era il segno di una comunanza di linguaggio abilmente conquistata, di una comunicazione felicemente riuscita. L’autore poteva figurare egli stesso, nel testo, come destinatario implicito del proprio discorso; e, viceversa, l’ascoltatore, fatto compagno del poeta e associato da lui nell’orizzonte del discorso satirico, diventava quasi attivamente compartecipe nell’elaborazione di un modello di vita. Adesso, invece, se all’ascoltatore è negata ogni vicinanza e ogni possibile identificazione, la parola del poeta satirico si pone su di un piano di comunicazione diverso, distaccato e più in alto. La forma dell’invettiva (la denuncia impietosa che abbassa e distrugge) prende il posto del modo confidenziale e garbato, del sorriso autoironico, dell’indulgente comprensione per le comuni debolezze umane che caratterizzavano la satira oraziana. Il poeta, mentre si erge a correggere gli uomini, fa sue quelle forme di moralismo arcigno (il rigorismo cinico-

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Persio: la satira come esigenza morale

Ricerca morale e passione filosofica Nonostante la sua vita brevissima, Persio, uno dei principali autori satirici latini, si impose all’attenzione dei contemporanei e dei posteri per la straordinaria tensione etica che seppe riversare nella sua opera. La sua ricerca morale e la sua passione filosofica, che ne fecero il campione della critica al vizio e alla corruzione, lo portarono a imprimere alla satira trasformazioni di grande rilievo, destinate a influenzare notevolmente la storia di questo genere letterario. 2.1 UNA VITA BREVE Le origini etrusche Sulla biografia di Persio ci informa una Vita che si fa risalire al grammatico del I secolo d.C. Valerio Probo, primo commentatore del poeta. Aulo Persio Flacco nacque nel 34 d.C. a Volterra, in Etruria (dell’origine etrusca rimane traccia nel suo prenome, Aules, forma di compromesso tra l’etrusco Aule e il latino Aulus), da una ricca famiglia equestre. Orfano di padre fin dall’età di sei anni, fu inviato a Roma intorno ai dodici o tredici anni per formarsi presso le migliori scuole di grammatica e retorica. L’incontro con Anneo Cornuto Su di lui esercitò un’influenza decisiva non un retore, bensì un filosofo, ovvero lo stoico Anneo Cornuto, che gli trasmise la passione per gli studi filosofici e lo introdusse negli ambienti dell’opposizione senatoria al regime neroniano: tra gli altri, Persio entrò in rapporti con Cesio Basso e Lucano, di cui divenne amico, Seneca e Tràsea Peto (l’autore di una vita di Catone Uticense che fu molto famosa nell’antichità e che servirà da modello a Plutarco per la sua vita di Catone; a Trasea Peto il giovane volterrano era legato da vincoli non solo di ammirazione, ma anche di parentela). La ‘conversione’ alla filosofia portò Persio a condurre una vita appartata, concentrata sullo studio e sugli affetti familiari; una vita assai breve perché Persio morì, non ancora ventottenne, nel 62. 2.2 LE OPERE

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Giovenale: la satira tragica

Una nuova vitalità nel genere Giovenale è l’ultimo grande rappresentante della tradizione satirica. Pur richiamandosi al magistero di Lucilio ed essendo chiaramente influenzato da Persio, con la sua rabbiosa intransigenza riesce a infondere nella satira una vitalità nuova. I suoi violenti attacchi a una società considerata come irrimediabilmente degradata si realizzano infatti poeticamente attraverso l’elaborazione di tratti stilistici originali, destinati ad avvicinare la satira alla tragedia. La sua impietosa denuncia del vizio e della corruzione morale, la cupa grandiosità dei suoi toni drammatici hanno segnato la fortuna duratura della satira giovenaliana, celebrata quasi ininterrottamente dalla tradizione moralistica occidentale. 3.1 UNA VITA ALL’OMBRA DEI POTENTI Una biografia incerta Poche e incerte le notizie sulla vita di Giovenale, ricavabili dai rari cenni autobiografici presenti nelle sue satire e da alcuni epigrammi dedicatigli dall’amico Marziale (poco attendibili sono le numerose Vitae che di lui ci restano, la più antica delle quali risalente al IV secolo). Decimo Giunio Giovenale sarebbe nato ad Aquino, nel Lazio meridionale, tra il 50 e il 60 d.C. (ma, secondo alcuni studiosi, l’anno di nascita sarebbe il 67), da famiglia benestante, giacché ebbe una buona educazione retorica (mentre scarso interesse nutrì per la filosofia). Sembra che abbia esercitato l’avvocatura, ma senza ricavarne i guadagni sperati, e si sia dedicato alle declamazioni allora di moda; all’attività poetica arrivò probabilmente in età matura, dopo la morte di Domiziano (96), e seguitò a comporre fin sotto Adriano. Visse, come il più anziano amico Marziale, all’ombra dei potenti, nella disagiata condizione di cliente, privo di autonomia economica. Nulla sappiamo della sua morte, certamente posteriore al 127 d.C., ultimo riferimento cronologico ricavabile dai suoi versi. Scarsamente attendibile è la tradizione antica che parla di un suo allontanamento da Roma: col pretesto di un incarico militare, sarebbe stato

L’epica di età flavia 9

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I tre epigoni di Virgilio

Stazio, Valerio Flacco e Silio Italico Anche se i rapporti reciproci fra Stazio, Valerio Flacco e Silio Italico sono abbastanza oscuri ed è intricata la cronologia relativa, si tende comunque a studiarli come un gruppo a sé stante. Questo si deve a notevoli concordanze di gusto e di clima culturale, meno marcate forse in Stazio, che dei tre è la figura più vivace e originale. La poesia di questi tre autori assume come suo referente ormai classico l’opera di Virgilio: l’Eneide, che per Lucano era stato un modello ma anche uno stimolo innovativo, diventa adesso una sorta di rifugio e di orizzonte chiuso. Altrettanto importante è l’influsso di Ovidio, che determina soprattutto le costanti dello stile narrativo.

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Stazio, un dotato poeta di corte

Uno specchio del suo tempo Stazio fu probabilmente il poeta che meglio seppe rappresentare e trasmettere ai posteri un’immagine fedele della sua epoca. Le sue notevoli doti artistiche, che gli valsero onori e apprezzamento presso gli ambienti più altolocati di Roma, nonché alla corte di Domiziano, si esercitarono infatti non solo nella poesia elevata di tradizione epica, ma anche nella stesura di testi d’occasione, in cui egli seppe abilmente descrivere il mondo ricco e composito della raffinata società imperiale del suo tempo. 2.1 VITA E OPERE Da Napoli a Roma Publio Papinio Stazio nacque a Napoli fra il 40 e il 50 d.C. da un erudito maestro di scuola, che in seguito si trasferì a Roma. Assai giovane si cimentò in recitazioni pubbliche e gare poetiche, riscuotendo notevoli successi e guadagnandosi il favore e la protezione di Domiziano. Rientrato a Napoli, morì poco prima dell’imperatore, forse nel 96. I poemi epici Stazio è autore di due poemi epici in esametri, la Thèbais («Tebaide»), in dodici libri (per oltre 10.000 versi), pubblicato nel 92, e l’Achillèis («Achilleide»), incompiuto (rimane solo il Libro I e l’inizio del Libro II, per un totale di poco più di 1100 esametri); perduto è invece un poema storico sulle gesta di Domiziano, il De bello Germanico. Le Silvae Ma la produzione poetica di Stazio spazia anche al di fuori del genere epico: a differenza di Silio e del misterioso Valerio, egli è infatti un letterato di professione, che vive della sua opera, scrivendo versi su commissione; queste composizioni occasionali sono raccolte nelle Silvae, cinque libri di versi in metri vari, editi gradualmente a partire dal 92. L’Agàve Perduto è, infine, un libretto per pantomimo (un genere teatrale di rango inferiore e spesso sconveniente), l’Agàve, che sappiamo da Giovenale avere riscosso un grande successo. Fonti Le Silvae consentono molte osservazioni preziose sull’ambiente di Stazio, la sua biografia e i suoi rapporti personali. Notevole anche la

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Valerio Flacco, un raffinato rielaboratore

Valerio Flacco, probabilmente il più misterioso e difficile fra i poeti epici di età flavia, è un autore di notevole raffinatezza culturale. Il suo poema incompiuto, gli Argonautica, rivela una grande elaborazione letteraria, capace di tenere insieme un articolato incrocio di modelli e strutture poetiche, la cui raffinata complessità rende particolarmente spiacevole il vuoto di notizie su questo autore. 3.1 LA VITA E LE OPERE Una biografia ignota La vita del poeta (il cui nome completo è Gaius Valerius Flaccus Setinus Balbus) è del tutto ignota; da un breve accenno di Quintiliano (multum in Valerio Flacco nuper amisimus, «di recente, con Valerio Flacco, abbiamo avuto una grave perdita», 10, 1, 90), si ricava che morì poco prima del 92 d.C. Temi e struttura degli Argonautica Del poema epico Argonautica restano (verosimilmente per incompiutezza piuttosto che per guasti della tradizione manoscritta) sette libri e una parte dell’VIII; si tratta di una serie di vicende che corrisponde all’incirca a tre quarti del racconto sviluppato dal poeta epico greco Apollonio Rodio (III secolo a.C.) nei quattro libri del suo omonimo poema. Valerio narra: i motivi della spedizione di Giàsone in cerca del vello d’oro (Libro I); il viaggio avventuroso e contrastato fino alla Colchide (Libri II-V); gli intrighi e le lotte alla corte del re Eeta e l’amore tra Giàsone e Medea, figlia di Eeta; la conquista del vello d’oro e il principio del travagliato ritorno (Libri VI-VIII). 3.2 GLI ARGONAUTICA E I LORO MODELLI Una rielaborazione di Apollonio Rodio Valerio, Pur riprendendo quasi tutti gli episodi principali dal poema di Apollonio Rodio, che si imponeva come canonico modello di riferimento per la narrazione epica del mito, mira a una riscrittura del tema argonautico in gran parte autonoma e non si limita a una ‘romanizzazione’ come quella (rimasta celebre) attuata da Varrone Atacino (vedi volume I, p. 292). Vi sono abbreviamenti,

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Silio Italico, il cultore di Virgilio

L’interesse per Silio Italico, autore del più lungo poema storico della letteratura latina, è legato soprattutto alle fonti e al materiale antiquario che la sua opera testimonia. Celebre per l’ammirazione quasi ossessiva per Virgilio, del quale intendeva di fatto proseguire l’opera, questo poeta costituisce l’ultimo anello pervenutoci della tradizione epica dell’età flavia. 4.1 LA VITA E LE OPERE Un importante uomo politico Tiberio Cazio Asconio Silio Italico, nato intorno al 26 d.C., fu un importante uomo politico dei suoi tempi: console nel 68 sotto Nerone e poi proconsole d’Asia sotto Vespasiano. Ritiratosi a vita privata, dedicò gli ultimi anni al suo ampio poema storico, i Punica. Nel 101, provato da un male incurabile, si lasciò morire di fame. I Punica Il poema storico Punica, in diciassette libri (per oltre 12.000 versi; ma si ipotizza un progetto originario in diciotto, parallelo alle dimensioni degli Annales di Ennio), racconta la seconda guerra punica dalla spedizione di Annibale in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama. Fonti: la testimonianza di Plinio il Giovane Le notizie biografiche su Silio si fondano su notazioni di contemporanei, fra cui Tacito (che in Historiae, 3, 65 ci informa sull’attività politica) e Plinio il Giovane (che in Epistulae, 3, 7 ne fa il necrologio). Ombre sul passato di Silio L’epistola di Plinio il Giovane, oltre a registrare i momenti principali della vita pubblica e ufficiale di Silio Italico, rivela uno spiccato gusto per l’aneddoto (secondo la tendenza tipica dell’autore a illuminare in tal modo, con efficace rapidità e brillante leggerezza, gli aspetti più curiosi dell’altrui vita privata). Plinio ricorda come la familiarità con l’imperatore Vitellio e il privilegio accumulato con il proconsolato in Asia sotto Vespasiano avessero contribuito a sopire il ricordo dell’oscuro passato di Silio, delatore partigiano di Nerone. L’attenzione del lettore, tuttavia, è portata a fissarsi soprattutto sul resoconto della giornata nella villa campana, dedicata a un otium eruditoletterario, che agli occhi di Plinio costituiva forse il primo motivo di riscatto

Plinio il Vecchio e il sapere specialistico 10 1

La cultura scientifica a Roma nell’età imperiale

La prima età imperiale e la sistemazione del sapere: i manuali Uno sforzo di sistemazione del sapere è evidente in tutta la cultura romana della prima età imperiale e si esprime soprattutto in opere di tipo manualistico: testi che intendono raccogliere il meglio delle conoscenze in un certo settore dello scibile o delle attività pratiche e fornire al lettore un orientamento accessibile e complessivo. La destinazione pratica di queste sintesi tende a indebolire sempre più la tensione teorica e lo sperimentalismo autonomo; l’obiettivo della completezza dell’informazione, d’altra parte, non favorisce lo sviluppo di capacità critiche. I tempi sono sempre più maturi per lo sviluppo di vere e proprie enciclopedie, intese come ‘inventari’ delle conoscenze acquisite. L’espansione dei ceti tecnici e professionali La Roma imperiale conosce una grande espansione di ceti che noi chiameremmo ‘tecnici’ e ‘professionali’: medici, architetti, esperti in acquedotti e reti fognarie, agronomi, amministratori. Questi ceti in parte coincidono con la nascente burocrazia imperiale e, d’altra parte, capacità tecniche vengono richieste anche ai politici: coloro che amministrano le province, per esempio, sono sempre meno condottieri militari, e sempre più dei tecnici; si interessano di economia e finanza, di risorse territoriali, di mezzi di trasporto e di sfruttamento della natura. C’è in questi ceti sociali una crescente richiesta di informazione, di divulgazione scientifica.

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Plinio il Vecchio e il ‘catalogo del mondo’

Nonostante la molteplicità delle sue opere, la fama di Plinio il Vecchio rimane legata a quella straordinaria impresa culturale costituita dalla Naturalis historia, che può essere considerata come un monumento al desiderio umano di conoscere e classificare il reale. L’aspirazione di Plinio a costruire un gigantesco ‘catalogo del mondo’ resta dunque ancora oggi come il segno concreto del valoroso spirito di servizio che questo autore manifestò nei confronti del sapere. 2.1 LA VITA Il servizio militare in Germania Gaio Plinio Secondo nasce a Como intorno al 23 d.C. Destinato a una brillante carriera in qualità di cavaliere al servizio della corte imperiale, in giovane età presta servizio militare in Germania per due lunghi periodi tra il 46 e il 58 d.C., partecipando a campagne militari di confine. Conosce così personaggi importanti come il grande generale Gneo Domizio Corbulone, il generale e uomo di lettere Pomponio Secondo, e il giovanissimo Tito, che sarà imperatore molti anni dopo. Vita privata e cariche pubbliche Dopo la morte di Claudio, Plinio si ritira a vita privata, rinunciando a cariche pubbliche e impegni politici per la sua violenta avversione nei confronti di Nerone (testimoniata da alcune allusioni contenute nella Naturalis historia). Con l’ascesa di Vespasiano (69), Plinio inizia un’attiva carriera come procuratore imperiale, con numerosi incarichi di rilievo e senza rinunciare a una intensa attività letteraria, che lo porterà a scrivere proprio nel corso degli anni 70 alcune fra le sue opere più impegnative. La tragica morte In questo periodo Plinio svolge anche una mansione in apparenza tranquilla, quella di prefetto della flotta imperiale di stanza in Campania. È in tale veste – e per cause di servizio – che trova la morte il 24 agosto del 79 d.C., travolto dall’eruzione vesuviana. Il racconto della sua fine, che dobbiamo al nipote Plinio il Giovane, ha molto contribuito alla fortuna di Plinio come personaggio esemplare, «protomartire della scienza

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Frontino, uno scrittore tecnico

Acquedotti e vita militare Nell’ambito dell’interesse per la cultura scientifica e per il sapere specialistico che si manifesta in età imperiale, merita almeno un cenno Sesto Giulio Frontino (governatore della Britannia, due volte console, morto durante l’impero di Traiano). Di lui si conservano due opere, il De aquis (o De aquae ductu) urbis Romae e gli Strategemata, questi ultimi una raccolta di aneddoti di vita militare di poca importanza per la strategia e di nessuna per la storia della letteratura. Lo scritto sugli acquedotti è invece una buona e concreta trattazione dei problemi di approvvigionamento idrico a Roma. Frontino era stato curator aquarum, cioè responsabile degli acquedotti, e il trattato riflette la serietà e la scrupolosità del suo impegno. L’agrimensura Frontino scrisse anche un trattato di agrimensura, De agri mensura libri II, che è andato perduto. L’agrimensura (chiamata a Roma gromatica, dalla parola groma, che designava lo strumento usato per le misurazioni dei terreni agricoli) è la disciplina che ha per oggetto la rilevazione, la rappresentazione cartografica e la determinazione della superficie agraria di un terreno. Bibliografia La Naturalis historia è edita e commentata per singoli libri, con versione francese a fronte, nella serie «Les Belles Lettres», 1949-1972. Edizione Teubner a cura di C. MAYHOFF , Leipzig 18921909, ed edizione Loeb a cura di H. RACKHAM , W.H.S. JONES e D.E. EICHOLZ , Cambridge (Mass.), 1938-1963. Edizioni con testo a fronte: G.B. CONTE – A. BARCHIESI – G. RANUCCI et al. (a cura di), Torino 1982-1988 (6 tomi). Nel primo tomo dell’opera un ampio saggio introduttivo di G.B. CONTE (ora anche in Generi e lettori, Milano 1991), bibliografia e altri sussidi eruditi; Storia delle arti antiche. Naturalis historia XXXIV-XXXVI, con il commento «archeologico» di S. FERRI e l’introduzione di M. HARARI , Milano 2000; edizione con testo a fronte e brevi note di commento al Libro XXXVII, a cura di C. LEFONS , Livorno 2000. Altre traduzioni: Storia naturale IV: Medicina e Farmacologia: Libri 28-32, traduzione e note di U. CAPITANI e I. GAROFALO , Torino 1986; Storia naturale V: Mineralogia e Storia dell’arte: Libri 33-

Marziale 11 1

Il campione dell’epigramma

Un caposaldo nella storia del genere Marziale è diventato celebre in vita e per i posteri dedicandosi a un solo genere letterario, l’epigramma. Questo tipo di poesia, originariamente destinato a impieghi concreti (era inciso sulle tombe o sugli oggetti dedicati agli dèi), nel corso dei secoli aveva ampliato sempre di più la propria gamma tematica fino a includere ogni occasione e sentimento della vita umana: con Marziale, l’epigramma si specializzò nel senso che ha ancora ai giorni nostri, quello della satira mordace e della presa in giro aggressiva. Un testimone prezioso Ma Marziale è prezioso anche e soprattutto per il suo realismo: nei suoi versi rivive in mille scenette vivaci la vita quotidiana dell’antica Roma: strade, mestieri, terme, monumenti, amicizie, eventi sportivi, cene, litigi, tutto sembra tornare alla vita nei suoi versi arguti, testimonianza dell’epoca imperiale preziosa non solo per lo studioso di letteratura, ma anche per l’archeologo e lo storico. 1.1 UN ’ESISTENZA INQUIETA Dalla Spagna a Roma Le notizie biografiche su Marco Valerio Marziale ci vengono dai suoi stessi versi e da una lettera di Plinio il Giovane. Nacque a Bìlbilis, nella Spagna Tarragonese, il 1° marzo di un anno tra il 38 e il 41 d.C. Venne a Roma nel 64, trovandovi il generoso appoggio della famiglia spagnola più in vista nella capitale, quella di Seneca, che lo introdusse nella buona società: conobbe Calpurnio Pisone e gli ambienti dell’opposizione senatoria a Nerone, sui quali però nel 65 si

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La scelta del genere

Un genere «umile» accanto all’epica Un aspetto importante della cultura letteraria dell’età dei Flavi, nel clima di restaurazione morale che la caratterizza, è la tendenza al recupero del genere poetico più alto, l’epica (Stazio, Silio Italico, Valerio Flacco). Parallelamente, però, si assiste anche alla diffusione e al cospicuo successo dell’epigramma, considerato il genere più umile di tutti, come attesta lo stesso Marziale: Quid minus esse potest? Epigrammata fingere coepi (12, 94, 9) Ho cominciato a comporre epigrammi – che ci può essere di meno pregevole?

Una scelta esclusiva Marziale fa dell’epigramma il suo genere esclusivo, l’unica forma della sua poesia, apprezzandone soprattutto la duttilità, la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale. La varietà, la mobilità di un genere agile come l’epigramma sono i pregi che Marziale polemicamente contrappone ai generi illustri, all’epos e alla tragedia, con i loro toni seriosi e i loro contenuti abusati, quelle trite vicende mitologiche tanto lontane dalla realtà della vita quotidiana. GENERI LETTERARI

L’epigramma Le origini greche L’origine dell’epigramma risale all’età greca arcaica, dove la sua funzione era essenzialmente commemorativa, come rivela il nome stesso, che significa «iscrizione»: era inciso su pietre tombali o su offerte votive, a ricordare una persona, un monumento, un luogo o un evento famoso (come l’epigramma dedicato da Simonide ai caduti alle Termopili). Diversi epigrammi circolavano sotto il nome di Simonide e di altri celebri poeti lirici, come Saffo e Archiloco, anche se questi componimenti hanno poche probabilità di essere autentici. La fioritura in età ellenistica In età ellenistica l’epigramma, pur conservando la sua caratteristica brevità, si emancipò dalla forma

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L’epigramma come poesia realistica

L’aderenza al reale come tratto costitutivo dell’epigramma Marziale rivendica il realismo, l’aderenza alla vita concreta, come tratto qualificante della propria poesia: hominem pagina nostra sapit (10, 4, 10) nella nostra pagina si sente l’uomo.

e vede la sua scelta orgogliosamente confermata dall’enorme successo che il pubblico le accorda. Nei suoi epigrammi quel pubblico poteva trovare la concisa rievocazione di un evento spettacolare (come nel De spectaculis), o lo spunto per accompagnare con una battuta spiritosa, con un arguto biglietto poetico, un dono agli amici o ai convitati (come nelle raccolte di Xenia e Apophoreta), oppure la commemorazione di fatti concreti, di momenti importanti nella vita dei vari destinatari, come nascite, matrimoni, feste, celebrazioni, ecc.: vi ritrovava cioè la propria esperienza filtrata e nobilitata da una forma artistica dotata di agilità e pregnanza espressiva. Un tipo di poesia, quindi, che coniuga fruibilità pratica e divertimento letterario, tratteggiando un quadro variegato e incisivo della realtà quotidiana con le sue contraddizioni e i suoi paradossi. E così, una forma poetica minore, una volta che l’ambiente di cortigiani e patroni le concede un suo legittimo ‘spazio di destinazione’, diventa facilmente una componente del galateo sociale, e finisce per acquistare anche valore autonomo e dignità artistica. Tra realismo e deformazione grottesca Marziale osserva lo spettacolo della realtà e dei vari personaggi che ne occupano la scena con uno sguardo deformante che ne accentua i tratti grotteschi e li riconduce a tipologie ricorrenti: parassiti, vanitosi, plagiari, spilorci, imbroglioni, cacciatori di eredità, poetastri petulanti, medici pericolosi, ecc. Deformazione e grottesco sono il frutto di una tecnica di rappresentazione molto ravvicinata, quasi un effetto che, secondo i modi propri dell’epigramma scommatico (cioè «denigratorio»), focalizza singoli personaggi e tratti isolati negando loro

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Satira e arguzia

Varietà tematica e rappresentazione comico-satirica I temi degli epigrammi di Marziale sono vari e investono l’intera esperienza umana: accanto a quelli più radicati nella tradizione (come l’epigramma funerario), altri riguardano più da vicino le vicende personali del poeta (molti sono gli epigrammi di polemica letteraria, in cui Marziale illustra le sue scelte poetiche o lamenta la decadenza delle lettere e del mecenatismo) o il costume sociale del tempo (come gli epigrammi celebrativi o adulatori nei confronti di Domiziano). In generale, rispetto alla tradizione l’epigramma di Marziale sviluppa fortemente l’aspetto comico-satirico: in ciò prosegue un processo avviato già da un precedente autore di epigrammi, il poeta greco di età neroniana Lucillio, che aveva fatto largo spazio a personaggi caratterizzati da vistosi difetti fisici, a tipi e caratteri sociali rappresentati comicamente, e si inserisce nella tradizione satirica romana, attenta all’analisi del costume sociale e pronta a tratteggiarne i tipi più rappresentativi. Tecnica della stoccata finale e schema tipo dell’epigramma Da Lucillio Marziale mutua anche alcuni procedimenti formali, come per esempio la tecnica della trovata finale, della battuta che chiude in maniera brillante il breve giro del pensiero. La tendenza a concentrare l’arguzia nella chiusa si avvertiva già nell’epigramma ellenistico, ma era stato appunto Lucillio a sviluppare questo procedimento e sarà Marziale a perfezionarlo: con lui l’epigramma acquista una fisionomia e una forma tipica, diventa un meccanismo comico costruito appunto in funzione del fulmen in clausula, della «stoccata finale». Un tratto, questo, che s’accorda col gusto della pointe, tanto caro alla retorica contemporanea (già Seneca il Vecchio ne aveva raccolti alcuni esempi significativi). Le forme compositive sono svariate, ma generalmente si riconducono a una modalità ricorrente, che ha indotto i critici (fin da Lessing) a fissare uno schema-tipo dell’epigramma: a una prima parte, che descrive la situazione, l’oggetto, il personaggio e suscita nel lettore una tensione di attesa, segue la parte finale, che scarica quella tensione in un paradosso, in una ‘impennata’

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Lingua e stile per una poesia realistica

Il lessico osceno Una scelta di poesia realistica come quella che Marziale pratica e ripetutamente ribadisce comporta naturalmente un linguaggio e uno stile conformi, aperti alla vivacità dei modi colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano. Accanto ai termini che designano la realtà umile e ordinaria, Marziale si compiace spesso di introdurne altri drasticamente osceni, la cui efficacia espressiva viene talora esaltata dall’abilità della collocazione e degli accostamenti. Il realismo osceno, infatti, è un aspetto rilevante della sua poesia, che il poeta sente il bisogno di giustificare col ricorso al motivo della distinzione fra arte e vita: lasciva est nobis pagina, vita proba (1, 4, 8). Il linguaggio manierato degli epigrammi celebrativi Ma un poeta duttile come Marziale sa alternare forme espressive molto varie, passando da toni di limpida sobrietà ad altri di maggiore eleganza e ricercatezza (notevole il ricorso in funzione parodistica ai moduli solenni della poesia illustre): in quest’ambito, i suoi epigrammi celebrativi e adulatori sono un documento importante del linguaggio manierato in uso negli ambienti di corte e nella sfera della cultura ufficiale. Una ricchezza, quindi, di modalità espressive che corrisponde alla molteplicità dei temi e riproduce la mobilità e la varietà del mondo reale, di cui l’epigramma intende farsi interprete.

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Marziale, la fortuna

Dall’antichità all’Umanesimo Il successo di Marziale fu immediato: fortissimo il suo influsso sui poeti di epigrammi e carmi brevi della tarda antichità, come Ausonio, Claudiano, Sidonio Apollinare. Il Medioevo lo conobbe soprattutto attraverso florilegi di versi sentenziosi e brani moraleggianti, mostrando così di cogliere l’amarezza satirica in cui talvolta si condensa il deludente spettacolo delle miserie umane. Lo apprezzò Boccaccio, avviandone l’enorme fortuna raggiunta in età umanistica e rinascimentale, quando il poeta latino fu assunto a maestro e modello della nuova moda di comporre epigrammi (vi si cimentarono fra gli altri Pontano e Sannazaro). Il declino del genere La sua fama restò altissima dal XVI a tutto il XVIII secolo, quando l’epigramma conobbe la sua stagione più fiorente, per declinare nell’Ottocento insieme alle sorti del genere poetico cui Marziale aveva indissolubilmente legato il suo nome. Bibliografia Fra le edizioni critiche, fondamentale quella di W.M. LINDSAY , Oxford 1929 2; con versione inglese l’edizione Loeb in tre volumi, a cura di D.R. SHACKLETON BAILEY , Cambridge (Mass.)-London 1993. Unico commento completo quello di L. FRIEDLÄNDER , Leipzig 1886. Tra i commenti parziali, eccellente quello al Libro I di M. CITRONI , Firenze 1975 e quello di P. HOWELL , London 1980; e il commento a Selected epigrams, a cura di L. e P.A. WATSON , Cambridge 2003. Vedi anche: Libro II a cura di C.A. WILLIAMS , Oxford 2004; Libro III a cura di A. FUSI , Hildesheim 2006; Libro IV a cura di R.M. SOLDEVILA , Leiden-Boston 2006; Libro V a cura di P. HOWELL , Warminster 1995; Libro VI a cura di F. GREWING , Göttingen 1997; Libro VIII a cura di CH. SCHÖFFEL ,

Stuttgart 2002; Libro IX a cura di C. HENRIKSÉN , 2 voll., Uppsala 1998 (vol. I), 1999

(vol. II); Libro X a cura di G. DAMSCHEN – A. HEIL , Frankfurt am Mein 2004; Libro XI a cura di N.M. KAY , London 1985; Libro XIV a cura di T.J. LEARY , London 1996. Vedi inoltre: a cura di G. CERONETTI , Marziale, Epigrammi, testo latino a fronte, Torino 1979; a cura di G. NORCIO , Marziale, Epigrammi, Torino 1980; a cura di C. VIVALDI , Gli epigrammi, testo latino a fronte,

Quintiliano 12 1

Retore e pedagogo

Un retore autorevole Il magistero culturale di Quintiliano, il retore più importante dell’età flavia, contribuì non poco a riportare in auge un gusto classicheggiante decisamente più vicino ai modelli dell’età di Cesare e di Augusto, contrapponendosi a quel gusto ‘barocco’ predominante nella prima età imperiale, il cui corifeo era stato Seneca. Sono rimasti celebri i suoi sintetici giudizi sugli scrittori precedenti, che egli valutò dal punto di vista stilistico nella sua lunga carriera di retore. L’interesse pedagogico Forte della sua esperienza di insegnamento (Quintiliano fu il primo professore la cui cattedra fosse pagata dallo Stato), in tarda età compose una imponente Institutio oratoria, nella quale si propose di educare il perfetto oratore non solo in età giovanile al momento dello studio delle discipline canoniche (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio), ma già dalla primissima infanzia. La sua opera è di grande interesse proprio perché, nella sua attenta e amorevole osservazione del comportamento dei bambini, è il primo trattato di pedagogia della storia. 1.1

LA VITA

Avvocato e maestro, dalla Spagna a Roma Marco Fabio Quintiliano nacque a Calagurris (oggi Calahorra), in Spagna, intorno al 35 d.C.; suo padre era maestro di retorica. In gioventù si trasferì a Roma, dove seguì l’insegnamento del grammatico Remmio Palèmone e del retore Domizio Afro. Successivamente fece ritorno in Spagna, dove probabilmente svolse attività forense. Fu richiamato a Roma da Galba, nel 68 d.C., e incominciò

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Il dibattito sulla corruzione dell’eloquenza

La degradazione morale: le delazioni Nell’epoca di Quintiliano fu molto avvertita una generale corruzione dell’eloquenza, e la ricerca delle cause fu un problema molto dibattuto tra i retori. Questa decadenza riguardava sia la morale sia il gusto letterario. L’aspetto morale era particolarmente evidente nel diffuso malcostume della delazione, che spesso asserviva l’eloquenza a fini di ricatto materiale e morale; inoltre, a quanto pare, nelle scuole erano abbastanza diffuse figure di insegnanti corrotti e a loro volta corruttori della moralità degli allievi (era tristemente celebre l’esempio di quel Remmio Palèmone che fu tra i maestri di Quintiliano). La degradazione del gusto: lo stile Il secondo aspetto del problema riguardava le scelte letterarie, perché nelle virtù e nei vizi dello stile alcuni vedevano l’espressione di virtù e vizi del carattere. In epoca flavia fu particolarmente acceso il dibattito fra i diversi orientamenti dell’oratoria: l’arcaizzante, il modernizzante, il ciceroniano. Dal punto di vista dei gusti letterari, Quintiliano fu il vessillifero di una reazione classicistica nei confronti dello stile «corrotto» e «degenerato» di cui egli vedeva in Seneca il principale esponente e insieme il maggiore responsabile. La spiegazione morale… Gli antichi, tuttavia, non seppero trovare in generale adeguate spiegazioni per un fenomeno che indicavano semplicemente come degradazione del gusto, dovuto a perdita di valori morali. La crisi della grande oratoria era da loro interpretata in termini moralistici come il segno di un infiacchimento generale di cui soffrivano le nuove generazioni, viste ormai solo come l’ombra di quel grande modello umano che aveva contrassegnato la Roma repubblicana. … e quella politica Le cause della crisi dell’oratoria furono però individuate con lucidità da Tacito nel Dialogus de oratoribus (vedi pp. 158 ss.) e dall’anonimo autore del trattato greco Sul sublime: erano proprio le mutate condizioni politiche ad aver posto fine alla grande oratoria, in quanto con la fine della libertà repubblicana si era chiuso ogni spazio per un autentico dibattito politico nel Foro, e nei processi il verdetto, spesso

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La Institutio oratoria come risposta alla decadenza dell’oratoria

Decadenza dell’oratoria e insegnamento Quintiliano, non diversamente da altri autori antichi, considera il problema della decadenza dell’oratoria in termini moralistici e ne addita le cause nella generale degradazione dei costumi; ma egli è in primo luogo un uomo di larga esperienza scolastica, profondamente convinto dell’efficacia dell’educazione: la corruzione dell’oratoria ha ai suoi occhi anche cause ‘tecniche’, che egli ravvisa nel decadimento delle scuole e nella vacuità stravagante delle declamazioni retoriche. A una rinnovata serietà dell’insegnamento Quintiliano affida pertanto il compito di ovviare al problema nella misura in cui è possibile. L’Institutio oratoria delinea quindi un programma complessivo di formazione culturale e morale, che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente dall’infanzia fino all’ingresso nella vita pubblica. Dedica e contenuto dei dodici libri La Institutio oratoria è dedicata a Vittorio Marcello (un oratore che era ammirato anche da Stazio ed era amico di Valerio Probo) e preceduta da una lettera a Trifone, l’‘editore’ che deve curarne la diffusione; si compone, come abbiamo accennato, di dodici libri. I primi due libri sono propriamente didattici e pedagogici: trattano dell’insegnamento elementare e delle basi di quello retorico, discutendo fra l’altro dei doveri degli insegnanti. I Libri III-IX si addentrano in una trattazione più tecnica che esamina analiticamente le diverse sezioni della retorica, a cominciare dalle sue suddivisioni, passando per la inventio, la dispositio e la elocutio, fino alle figure di parola e di pensiero (vedi volume I, scheda a p. 186). Il Libro X insegna i modi di acquisire la facilitas, cioè la disinvoltura nell’espressione; prendendo in esame gli autori da leggere e da imitare, Quintiliano inserisce qui un famoso excursus storicoletterario sugli scrittori greci e latini, preziosa testimonianza sui canoni critici dell’antichità. Ma i giudizi critici hanno carattere esclusivamente retorico, e questo dà in qualche modo ragione di strane valutazioni e di inattese omissioni: Quintiliano è tutto teso a mostrare come la cultura letteraria latina regga il confronto con la greca (molti dei suoi giudizi sono divenuti

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Il programma educativo di Quintiliano

Il Libro X: la formazione culturale dell’oratore Il tipo di oratore ideale che Quintiliano delinea si avvicina a quello ciceroniano per la vastità della formazione culturale richiesta; ma in questa formazione generale, la filosofia sembra aver perduto terreno rispetto alla retorica e alla cultura letteraria, di cui Quintiliano rivendica il primato. Perciò il programma di letture tracciato nel Libro X mette in primo piano la scelta degli scrittori greci e latini. Per quanto talora riecheggi schemi convenzionali, Quintiliano dà prova di equilibrio notevole soprattutto là dove prende posizione nella disputa – che si protraeva dai tempi di Cicerone e poi di Orazio – sulla superiorità degli scrittori antichi o dei moderni: negli arcaici vede per esempio notevoli manchevolezze, ma sa distinguere fra ciò che deve essere attribuito (a lode o a biasimo) specificamente al poeta, e quanto invece all’età in cui visse. Il libro è per noi prezioso soprattutto perché la lunga rassegna degli scrittori proposti alla lettura contiene giudizi critici, che ci informano sulla recezione dei testi.

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Oratore e principe

Il Libro XII: il ruolo politico dell’oratore Un problema particolare pone il dodicesimo e ultimo libro della Institutio, dove Quintiliano accenna alla questione dei rapporti fra oratore e principe. Alcuni interpreti hanno attribuito a Quintiliano l’ideale dell’oratore come «burocrate della parola»: un funzionario subalterno che si serve della tecnica oratoria che detiene per trasmettere al proprio uditorio – principalmente il Senato – le direttive dell’imperatore. Grande rilievo, in questa prospettiva, è stato ovviamente attribuito al fatto che Quintiliano sia divenuto a un certo punto il primo titolare di una cattedra di retorica ufficialmente stipendiata. La moralità dell’oratore Più probabilmente Quintiliano si schierava fra quegli intellettuali che, come farà Tacito (vedi pp. 159 e 167), accettavano il principato come una necessità. Nei limiti di questa situazione precostituita, il suo sforzo fu di ottenere per l’oratore il massimo di ‘professionalità’ insieme a un alto grado di dignità. L’oratore quintilianeo non pone certo in discussione il regime, ma le doti morali che deve possedere sono utili, prima che al principe, alla società in generale; per esempio, queste doti allontanano l’oratore dalle tentazioni della delazione, che pure era per il principe un importante strumento di potere e di controllo sul ceto aristocratico. Quintiliano cercò di recuperare, per l’oratore, lo spazio di una missione civile altrettanto aliena dal ribellismo sterile quanto dal servilismo avvilente. Un’illusione infondata Resta però vero che l’ideale propugnato da Quintiliano di un oratore che sia ancora, secondo l’antico modello catoniano, vir bonus dicendi peritus, guida al Senato e al popolo romano, è un’illusione del tutto infondata, quasi una negazione fatta alla realtà storica dell’Impero. Un giudizio ben altrimenti fondato, amaramente realistico, della posizione che tocca ormai all’oratore ci è conservato nel più o meno contemporaneo Dialogus de oratoribus di Tacito, fortemente marcato dalla coscienza di un ruolo ormai decaduto, dalla disincantata denuncia di una irreversibile impotenza politica.

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Lo stile: una revisione del modello ciceroniano

Il modello stilistico per l’oratore Nel programma di Quintiliano, le letture degli autori più diversi hanno lo scopo precipuo di formare lo stile dell’oratore: ma a quest’ultimo egli addita soprattutto il modello ciceroniano, reinterpretato ai fini di una ideale equidistanza tra asciuttezza e ampollosità. In realtà Quintiliano era avverso sia all’arcaismo, che di lì a non molto avrebbe trovato in Frontone il suo massimo rappresentante (vedi pp. 206 ss.), sia all’eccessivo ‘modernismo’ dell’asianesimo senecano, la corrupta oratio dal periodare a volte turgido, più spesso lambiccato e lezioso. Lo stile di Quintiliano Ciò nonostante, lo stile dello stesso Quintiliano non è armoniosamente ampio e simmetrico come quello di Cicerone; in qualche modo, esso pare aver subìto il condizionamento esercitato dalla prosa di Seneca. Ma in generale si deve riconoscere che lo stile di Quintiliano rappresenta il miglior esempio delle virtù che egli stesso raccomanda: ricerca al massimo la perspicuità ed evita gli eccessi dell’ostentazione espressiva. Flessibile e antidogmatico, più che perseguire intenti di originalità mostra equilibrio nella scelta dei modelli cui adeguare il discorso. Lo stesso suo gusto per la misura, per il giudizio sorretto dall’esperienza (e alieno perciò da estremismi precostituiti) fece di Quintiliano un autore particolarmente caro al Medioevo e in generale alla cultura del Rinascimento. GENERI LETTERARI

La retorica La nascita nella Grecia del V secolo In quanto manuale di retorica, l’Institutio quintilianea si inserisce in una tradizione secolare che affonda le sue radici in Grecia. La retorica, la disciplina che insegna l’arte del discorso, è un genere che si affaccia nel panorama letterario nel V secolo a.C., sviluppandosi in stretta connessione con le esigenze legate alla pratica dell’oratoria. I primi manuali, infatti, nascono a opera di Còrace e Tisia in Sicilia, in un momento storico in cui si diffonde una florida

Il contesto. L’età degli imperatori per adozione 13 Storia 1

Un secolo di stabilità politica

Da Nerva a Marco Aurelio Il periodo che comincia col principato di Nerva (96 d.C.) e arriva fino alla morte di Commodo (192 d.C.) è (se si eccettuano gli ultimi dodici anni, quelli del principato di Commodo) un secolo intero di stabilità, che non ha uguali, per durata e per benefici effetti, in nessun altro periodo della storia romana. Se il primo secolo dell’impero era stato caratterizzato da tensioni e conflitti di governo, il secondo è contraddistinto da una sostanziale uniformità di conduzione del potere. Un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato Il Senato, di fatto ormai esautorato, ritrova una sua parvenza di potere nei confronti dell’imperatore e finisce per adattarsi a un ruolo limitato o, meglio, subordinato, ma non più esposto a quelle aggressioni insultanti e violente che avevano segnato tanto negativamente il governo dei Cesari del I secolo dell’impero. Il problema della successione degli imperatori aveva trovato una soluzione soddisfacente nel sistema dell’adozione: e questo garantì, almeno fino a Marco Aurelio, una serie di imperatori dotati di alte qualità personali. La stabilità raggiunta dall’ordinamento governativo attenuò quello che era stato l’assillo continuo di congiure e ribellioni gestite dai grandi generali dell’esercito, pronti a servirsi della propria forza militare per realizzare

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Da Nerva a Traiano

2.1 L’ADOZIONE DI TRAIANO E LA ROMANIZZAZIONE DELL’ OCCIDENTE Un senatore conservatore e moderato: Nerva (96-98 d.C.) Eliminato Domiziano con la congiura del 96, il Senato si accordò sulla scelta di un senatore anziano e senza figli, Cocceio Nerva, leale servitore dell’Impero legato alla dinastia flavia. Come primo atto formale, Nerva giurò pubblicamente che sotto il suo regno non ci sarebbero state condanne a morte contro membri del Senato, abolì i processi per lesa maestà, concesse l’amnistia e la restituzione delle proprietà confiscate sotto Domiziano, ma non riuscì comunque a coinvolgere il Senato nella politica di governo; anzi, le sue relazioni con il partito che aveva sostenuto i Flavi lo esposero a tentativi di congiura. Asceso al potere per volontà del Senato, Nerva cercò di guadagnarsi il consenso del popolo e dell’esercito con donativi, assegnazioni di terre e sgravi fiscali, depauperando così le casse dello Stato. Le misure adottate contro la crisi economica e finanziaria, e cioè l’istituzione di una commissione per ridurre la spesa corrente (i V viri minuendis publicis sumptibus), o la coniazione di monete con il metallo prezioso ricavato dalla fusione delle statue abbattute di Domiziano, non potevano avere una reale efficacia. Nerva adotta il suo successore, Traiano Presso l’esercito, poi, era ancora alto il prestigio di Domiziano. Nerva sostituì il prefetto del pretorio, Tito Petronio, uno dei capi della congiura contro l’imperatore assassinato, ma non assecondò le richieste dei soldati, che volevano la sua condanna a morte. L’insoddisfazione dei pretoriani sfociò in rivolta: le guardie assediarono il palazzo e presero l’imperatore in ostaggio; Tito Petronio e altri congiurati furono uccisi. La situazione di rischio indusse Nerva all’adozione di Marco Ulpio Traiano, un generale amato dall’esercito, l’uomo che poteva dare una soluzione militare alla crisi economica e restituire all’imperatore il prestigio compromesso. Ma Nerva restò imperatore ancora per poco; alla sua morte, avvenuta per cause naturali nel gennaio del 98, Traiano gli succedette senza incidenti.

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Adriano e gli Antonini

3.I L’«ETÀ AUREA» DEL PRINCIPATO La filosofia al potere L’età di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio rappresenta già nella coscienza dei contemporanei un periodo felice nella vita dell’impero. Il nuovo corso inaugurato da Adriano rispetto alla politica del suo predecessore porta all’affermazione di un nuovo tipo di monarca illuminato, amante della cultura e delle arti, che si richiama ad Augusto in opposizione a Cesare: «non cesarizzarti» era il monito che Marco Aurelio ripeteva a se stesso prendendo le distanze dalla gloria delle vittorie militari e del potere. Alle differenze tra le singole personalità di questi imperatori e tra le varie vicende dei loro imperi corrisponde un comune schema di governo e una concezione condivisa del potere imperiale, tanto da incarnare il mito platonico del governo affidato ai filosofi. 3.2 L’IMPERO UMANISTICO DI ADRIANO (117-138 D .C.) Adriano e il nuovo corso della politica imperiale La designazione tardiva del successore di Traiano alimentò il sospetto di una montatura ordita da Adriano d’accordo con la moglie dell’imperatore, Plotina, che avrebbe tenuto nascosta la morte di Traiano fino all’avvenuta acclamazione del nuovo imperatore da parte dell’esercito. Con Adriano, cugino di Traiano e come lui di estrazione spagnola, Roma abbandonò la politica di espansionismo militare ritornando a una strategia difensiva, realizzata anche attraverso la costruzione di fortificazioni permanenti lungo il limes dell’Impero, come il Vallo di Adriano in Gran Bretagna. All’imperatore conquistatore (Traiano) subentrò l’imperatore viaggiatore: Adriano trascorse lunghi periodi in viaggio, passando dall’Occidente all’Oriente e in Grecia, per ispezionare personalmente le legioni sul campo ma soprattutto per partecipare alla vita pubblica delle province e promuovere la costruzione di infrastrutture e opere pubbliche. A Tivoli edificò la Villa Adriana, in cui volle che fossero riprodotti i più importanti edifici ellenistici.

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Commodo (180-192 d.C.): la fine di un’epoca

La svolta autocratica di Commodo Chiusa la guerra sul fronte danubiano, Commodo rivelò subito una concezione del potere in netto contrasto con quella paterna. A corte favorì un clima di incertezza e di tensione, esaltando e facendo cadere uomini del suo entourage, tanto che una prima congiura, repressa, fu tentata già nel 182. Privo di interesse per l’amministrazione dello Stato, Commodo lasciò il governo nelle mani di una serie di suoi collaboratori, prima il prefetto del pretorio Tigidio Perenne, ucciso nel 185, poi il liberto Cleandro, che fu messo a morte dall’imperatore come capro espiatorio in seguito a una rivolta della plebe urbana nel 192. Commodo, l’Ercole romano Il sostanziale disinteresse della politica imperiale per le province di confine determinò la ribellione degli eserciti, mentre a Roma la concezione autocratica dell’imperatore assumeva forme difficilmente conciliabili con la tradizione romana: l’incendio della capitale nel 191 offrì l’occasione per la sua rifondazione con il nome di Colonia Commodiana; l’imperatore poi assunse il titolo di Ercole romano, facendosi rappresentare in quella veste divina non solo in numerose statue distribuite sul territorio imperiale, ma utilizzando quell’effigie anche per la monetazione, nel tentativo di imporre la sua identificazione con la divinità. Una nuova congiura alla fine del 192 eliminò il tiranno, aprendo la strada ai pronunciamenti militari, che avrebbero caratterizzato le successioni al trono nel secolo seguente.

Società e cultura 5

Il clima culturale del II secolo

Tranquillità e armonia, cifre di un’epoca Anche se i confini dell’Impero raggiungono ora la massima estensione, non è certo questo un periodo che possiamo definire eroico: regna piuttosto un clima improntato in generale all’armonia e all’operosa collaborazione, grazie soprattutto alla mancanza di gravi tensioni politiche e sociali. Questa immagine di diffusa ‘serenità’ non deve far dimenticare il vigore di spiriti fortemente morali, come testimoniano le profonde convinzioni e l’impegno inflessibile di scrittori quali Tacito e Giovenale; né manca spirito di avventura, se guardiamo a testimonianze come il Pantheon o la Colonna Traiana, se ricordiamo le guerre di Traiano stesso e l’apertura di traffici con l’Estremo Oriente. Plinio il Giovane e Tacito, intellettuali soddisfatti del loro tempo Tutto il periodo è dominato da una nuova ricerca di grazia e cortesia, da un garbato senso della cultura intesa come arte di forme sociali capaci di nascondere e di censurare gli aspetti meno gradevoli del vivere reale: Plinio il Giovane può in questo senso valere come personaggio emblematico dell’età traianea, un’età che si compiace di credere alla felicità ritrovata dall’Impero, e quasi si meraviglia che tutto non sia sempre stato così sereno e tranquillo come pare essere ora. Non c’è solo cortigianeria o retorica di maniera nel Panegirico di Traiano scritto da Plinio; c’è anche il sincero entusiasmo (trasposto in forma declamatoria) di chi crede e vuol far credere che ora l’autorità romana sia più forte, la pietas più diffusa. Anche la lucida acredine di Tacito si esercita solo contro il passato, ed è così un implicito riconoscimento che le cose ora (diversamente da com’era prima) stanno davvero come ama mostrare la contenta superficialità di Plinio.

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Letteratura di maniera ed erudizione filologica

L’amore per la cultura e la riscoperta della letteratura greca La cultura tende ora ad un’alta sofisticazione. La classe colta sceglie la via di un’estetizzazione della vita, che si celebra nel culto di opere d’arte raffinate, e nello stesso manierismo prezioso della letteratura di questo periodo. L’ampia disponibilità di testi e biblioteche, l’amore per la tradizione creano ora un gusto arcaizzante, una spiccata propensione per la filologia e l’erudizione. Anche a Roma, è il momento della rinascita della letteratura greca. La «seconda sofistica»: professionisti della parola a pagamento Frutto più appariscente di questa fioritura della cultura greca è il movimento detto della «seconda sofistica», una tendenza, una moda di letterati brillanti che ricordano un poco i sofisti dell’età classica greca, come Gorgia. Spesso in viaggio, questi intellettuali sono ambasciatori presso la corte imperiale delle loro città o province. Sanno scrivere o recitare orazioni su temi di diversa attualità e di vario interesse: religioso, morale, politico, consolatorio. Alcuni sono immessi nell’ordine equestre, o addirittura in Senato. I più illustri sono Erode Attico, Elio Aristide, o anche il romano Frontone, maestro di Marco Aurelio. Lo stesso Marco Aurelio scrive in greco, ma di filosofia: sono i celebri «ricordi» A se stesso, che commuoveranno Montaigne e Leopardi. Adriano, poeta e letterato Fra gli imperatori, letterato è anche Adriano, detto Graeculus per il grande amore verso la cultura greca. Poeta egli stesso, tenue ma raffinato, scrisse piccoli componimenti alla maniera dei catulliani. Aderendo al gusto arcaizzante della sua età, preferisce Catone a Cicerone, Ennio a Virgilio, gli annalisti a Sallustio. Adriano fonda a Roma un’accademia, l’Athenaeum, dove terranno lezione letterati di gran nome. Ma, soprattutto, Adriano è un grande cultore di arti figurative: la sua villa di Tivoli diventa presto un museo, dove egli stesso raccoglie molte opere degli antichi maestri. Adriano, inoltre, fa eseguire moltissime copie di opere d’arte greche. È da queste copie (per lo più marmi che riproducono bronzi antichi) che l’Occidente impara a conoscere la grande arte greca.

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I segni di una religiosità inquieta

Verso una società cosmopolita: l’influenza della cultura orientale Si è ripetutamente accennato a una certa ‘serenità’ d’immagine che il II secolo offre nel suo complesso allo sguardo dello storico; ma si deve per converso credere che proprio tale diffusa tranquillità socio-politica, proiettata in un ideale di ritrovato classicismo, celasse dentro di sé, e anche alimentasse, nuovi decisivi sviluppi della cultura successiva. Il mondo romano si sarebbe presto trasformato (sarà l’età dei Severi a lasciar emergere chiaramente quelle trasformazioni, di cui ora si possono solo percepire i segni della gestazione) in una realtà sociale che, per l’influenza dilagante di esperienze culturali orientali, si sarebbe fatta più marcatamente cosmopolita. Non si può altrimenti capire come di lì a qualche decennio, decaduti quasi del tutto gli interessi per la politica e, viceversa, divenuti dominanti nuovi interessi spirituali, si determinasse un clima di sincretismo religioso in cui si mescolavano le divinità e le credenze delle più diverse forme di fede. La ripresa delle credenze nell’aldilà Si dice che Severo Alessandro abbia fatto costruire nel suo palazzo due ‘cappelle’, l’una dedicata a Orfeo, Abramo, Cristo e Apollonio di Tiana, l’ascetico santone itinerante che diffondeva il credo neopitagorico, e l’altra dedicata a Cicerone, Virgilio e a quelli fra i suoi avi che erano stati benefattori dell’umanità. Tra le principali ragioni di questo processo può essere indicata la concomitanza di due fattori elementari. Da una parte, le religioni pagane praticate nel corso del I e del II secolo subiscono una sorta di livellamento generale, in quanto molte delle religioni e dei culti propri delle diverse province dell’Impero vengono assimilati per analogia, e così assorbiti, dall’ufficialità dei culti di Roma. Dall’altra parte, anche tra le persone colte, anzi soprattutto fra queste (basti pensare a figure diversamente significative come Svetonio e Plutarco), riprendono vita convinzioni e pratiche legate alla credenza di un mondo dell’aldilà: tornano in auge – segno di una diffusa esigenza spirituale – oracoli, presagi, interpretazioni dei sogni, pratiche magiche, fede nei poteri sovrannaturali e nelle virtù taumaturgiche degli imperatori (divinizzati). La fine dello stoicismo Esaurito il fascino esercitato da dottrine e sette filosofiche come quella stoica (lo stoicismo finirà presto per essere

Plinio il Giovane 14 1

Un intellettuale compiaciuto e mondano

Quella di Plinio il Giovane è la figura di un intellettuale benestante e mondano, perfettamente integrato nella vita politica e sociale del suo tempo. Brillante e compiaciuto del proprio ruolo e della propria attività letteraria, Plinio ci ha lasciato un fortunato epistolario, da cui emerge un vivace affresco della società romana e delle abitudini della sua classe dirigente tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. 1.1 LA VITA E LE OPERE Una carriera di successo Gaio Cecilio Secondo nacque a Como nel 61 o nel 62 d.C.; alla morte del padre venne adottato da Plinio, suo zio materno, di cui assunse il nome (di qui la distinzione fra i due Plinii, definiti rispettivamente il Vecchio e il Giovane). A Roma studiò retorica sotto la guida di Quintiliano e di Nicete Sacerdote, un retore greco di indirizzo asiano. Incominciò presto la carriera forense, in cui ottenne notevoli successi, e il cursus honorum: fu successivamente questore, tribuno della plebe, pretore e, nel 98, venne nominato praefectus aerarii Saturni (quasi «ministro del tesoro»). Nel 100, insieme allo storico Tacito, che era suo amico, sostenne l’accusa contro Mario Prisco, proconsole d’Asia; quindi, verso la fine di quello stesso anno fu nominato consul suffectus. Il passaggio dal principato di Domiziano a quelli di Nerva e Traiano fu dunque del tutto indolore ai fini della carriera forense e politica di Plinio, che, nel 111, proprio Traiano nominò suo legato in Bitinia. Plinio morì non molto tempo dopo, probabilmente nel 113.

2 2.I

Plinio e Traiano IL PANEGYRICUS

Le origini di un genere Il Panegyricus ci è pervenuto come primo in una raccolta di più tardi panegirici di vari imperatori (sui quali vedi pp. 264 ss.): quasi l’inaugurazione di un genere letterario. Il titolo forse non è originale: il termine panegyricus indicava in origine i discorsi tenuti nelle solennità panelleniche e nel I secolo d.C. passò a indicare l’encomio del monarca. La concordia tra imperatore, aristocrazia e ceto equestre Il discorso di ringraziamento, la gratiarum actio, di fronte al Senato, si trasforma in un encomio dell’imperatore, al quale spettava raccomandare in Senato la nomina dei magistrati. Plinio enumera ed esalta le virtù dell’optimus princeps Traiano, che ha reintrodotto la libertà di parola e di pensiero. Auspicando, dopo la fosca tirannide di Domiziano, aspramente denigrata, un periodo di rinnovata collaborazione fra l’imperatore e il Senato, Plinio si sforza anche di delineare un modello di comportamento per i principi futuri: un modello fondato ovviamente sulla continuazione della concordia fra imperatore e ceto aristocratico e sulla stretta intesa politica, e integrazione culturale, fra aristocratici e ceto equestre, dal quale in gran parte provenivano i quadri della burocrazia e dell’amministrazione. L’educazione del princeps Nonostante il tono fondamentalmente ottimistico, il Panegyricus lascia affiorare qua e là la preoccupazione che principi ‘malvagi’ possano nuovamente salire al potere e che il Senato possa tornare a soffrire come sotto Domiziano. Non senza qualche ingenuità, Plinio sembra così rivendicare una funzione ‘pedagogica’ nei confronti del principe; attraverso i molti elogi e le formule di cortesia, traspare il tentativo di esercitare una blanda forma di controllo sul detentore del potere assoluto. Non a caso è stata sottolineata una certa affinità, anche dal punto di vista stilistico, del Panegyricus con la Pro Marcello di Cicerone (vedi volume I, p. 181). 2.2 IL CARTEGGIO CON L ’IMPERATORE

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L’epistolario: struttura e temi

L’ordinamento: un epistolario destinato alla pubblicazione I primi nove libri delle Epistulae furono pubblicati, come si è detto, a cura dello stesso Plinio, forse per gruppi. Nella lettera proemiale a Setticio Claro, Plinio afferma di non aver seguito, nel raggruppare le proprie lettere, alcun criterio preciso, in particolare di non aver fatto caso alla cronologia: le lettere si susseguirebbero dunque secondo un ordine del tutto casuale. L’affermazione di Plinio è da interpretarsi come una civetteria: è probabile che l’ordinamento segua soprattutto un criterio di alternanza di argomenti e motivi, in modo da evitare al lettore la monotonia. Le lettere di Plinio sono infatti solitamente dedicate ciascuna a un singolo tema, sempre trattato con cura attenta dell’eleganza letteraria: è questa una delle differenze più importanti che separa l’epistolario di Plinio, concepito fin dall’inizio per la pubblicazione, da quello ciceroniano (vedi volume I, p. 207), in cui l’urgenza della comunicazione spingeva spesso l’autore ad affastellare gli argomenti più vari, talora per accenni brevissimi e poco perspicui a un lettore diverso dal destinatario particolare. Vita pubblica e privata: la cronaca di un intellettuale integrato Le lettere di Plinio sono in realtà una serie di brevi saggi di cronaca sulla vita mondana, intellettuale e civile. L’autore intrattiene spesso i suoi interlocutori sulle proprie attività e sui periodi di riposo, informandoli delle preoccupazioni che aveva in qualità di grande proprietario terriero. Dipinge i suoi paesaggi con toni di maniera, descrivendoli soprattutto come panorama goduto attraverso le finestre delle proprie ville (anche se alcune rappresentazioni, come quella delle fonti del Clitumno o quella dell’eruzione del Vesuvio, in cui trovò la morte suo zio Plinio il Vecchio, sono di indubbia efficacia e hanno avuto grande fortuna presso i posteri). Elogia personaggi diversi, soprattutto letterati e poeti viventi o morti da poco, come Silio Italico e Marziale, ed è raro che non trovi, per qualcuno, una frase gentile che ne metta in evidenza qualche tratto positivo. Plinio si rivela un frequentatore assiduo delle sale dove si tenevano recitationes e declamationes, manifestazioni culturali che egli stesso contribuiva in larga parte a organizzare. È un entusiasta, che non lesina parole di lode a quasi

Tacito 15 1

Il pathos della storia

Lo storico dell’impero Tacito è giustamente considerato uno dei più importanti storici dell’antichità. Nelle sue opere egli si fa interprete dello stato d’animo dei suoi contemporanei nei confronti dell’impero, raccontando, con toni tragici e insieme solenni, le pagine più cupe della dittatura imperiale, sotto Nerone e Domiziano. Nostalgico della libertas repubblicana, Tacito è tuttavia convinto della necessità dell’impero e plaude all’operato di quei sovrani che, come Nerva e Traiano, sono riusciti a conciliare principato e libertà. La storia di Tacito non è però solamente cronaca o analisi oggettiva degli avvenimenti, ma è una storia viva e pulsante di passioni, una storia animata da personaggi tragici che si muovono su un palcoscenico fatto di intrighi, tradimenti, paure ed emozioni violente. 1.1 LA VITA Tacito genero di Agricola Publio (o Gaio?) Cornelio Tacito nacque intorno al 55 d.C., secondo alcune fonti a Terni, ma più probabilmente nella Gallia Narbonese, da una famiglia forse di condizione equestre. Studiò a Roma, e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, autorevole statista e comandante militare; anche grazie all’aiuto di quest’ultimo, iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano. La carriera politica Dopo essere stato pretore nell’88 (nello stesso anno è attestata la sua presenza nel collegio dei quindecemviri sacris faciundis, uno dei maggiori collegi sacerdotali), Tacito fu per qualche anno

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Le cause della decadenza dell’oratoria

Il Dialogus de oratoribus Il Dialogus de oratoribus non è probabilmente la prima opera di Tacito: la tesi oggi prevalente è che sia stato composto dopo l’Agricola e la Germania; ma è tradizione consolidata iniziare ogni trattazione su Tacito da questo testo, che per varie ragioni occupa un posto a parte nella sua produzione. Ambientazione e personaggi Il dialogo è ambientato nel 75 o nel 77 (dal testo si ricavano in proposito indicazioni parzialmente contraddittorie). Riallacciandosi alla tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici, riferisce una discussione che si immagina avvenuta in casa di Curiazio Materno, retore e tragediografo, fra lo stesso Curiazio, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo, e alla quale Tacito dice di avere assistito in gioventù. Poiché all’inizio della conversazione Apro ha rimproverato Materno di trascurare l’eloquenza in favore della poesia drammatica, in un primo momento si contrappongono i discorsi di Apro e Materno, in difesa rispettivamente dell’eloquenza e della poesia. L’andamento del dibattito subisce una svolta con l’arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell’oratoria. La decadenza dell’oratoria: le cause Messalla indica le cause di questo fenomeno nel deterioramento dell’educazione, sia familiare sia scolastica, del futuro oratore, non più accurata come nei tempi antichi: i maestri sono impreparati, e una vacua retorica si sostituisce spesso alla cultura generale. Dopo una sezione parzialmente lacunosa, il dialogo si conclude con un discorso di Materno, evidentemente portavoce di Tacito, il quale sostiene che una grande oratoria forse era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l’anarchia, che regnava al tempo della repubblica, nel fervore dei tumulti e dei conflitti civili; diviene anacronistica, e sostanzialmente non più praticabile, in una società tranquilla e ordinata come quella conseguente all’instaurazione dell’impero. La pace che esso garantisce deve essere accettata senza eccessivi rimpianti per un passato che pure forniva un terreno più favorevole al rigoglio delle lettere e alla fioritura delle grandi personalità.

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Agricola, un esempio di resistenza al regime

Tra laudatio funebris e biografia Verso gli inizi del regno di Traiano, Tacito approfittò del ripristino dell’atmosfera di libertà dopo la tirannide domizianea per pubblicare il suo primo opuscolo storico, che tramanda ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola, leale funzionario imperiale e principale artefice della conquista di gran parte della Britannia sotto il regno di Domiziano. Per il tono qua e là apertamente encomiastico l’Agricola si richiama in parte allo stile delle laudationes funebri; dopo un rapido riepilogo della carriera del protagonista prima dell’incarico in Britannia, l’opera si incentra principalmente sul tema della conquista dell’isola, lasciando un certo spazio a digressioni geografiche ed etnografiche, che derivano da appunti e ricordi di Agricola, ma in parte anche dalle notizie sulla Britannia contenute nei Commentarii di Cesare. Proprio a causa di queste digressioni, l’argomento dell’Agricola è sembrato talora eccedere i limiti di una semplice biografia. In realtà, l’autore non perde mai il contatto col proprio personaggio principale: la Britannia è soprattutto il campo in cui si dispiega la virtus di Agricola, il teatro delle sue brillanti imprese. La virtus di Agricola Nell’elogiare il carattere del suocero, Tacito mette in rilievo come egli, governatore della Britannia e capo di un esercito in guerra, avesse saputo servire lo Stato con fedeltà, onestà e competenza anche sotto un pessimo principe come Domiziano (le critiche a quest’ultimo e al suo crudele regime di spionaggio e di repressione sono più di una volta esplicite da parte di Tacito). Così per esempio Tacito afferma: Sciant, quibus moris est illicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta, sed in nullum rei publicae usum ambitiosa morte inclaruerunt. (Agricola, 42, 6) Sappiano, quanti hanno per abitudine di ammirare i gesti di ribellione, che si può essere grandi uomini anche sotto cattivi imperatori, e che l’obbedienza e la moderazione, se in

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L’idealizzazione dei barbari: la Germania

L’unica opera etnografica conservata Gli interessi etnografici, già largamente presenti nell’Agricola, sono al centro della Germania, un’opera dedicata interamente alla descrizione del territorio della Germania e dei suoi abitanti, che rappresentavano una costante minaccia per l’Impero romano. Quest’opera costituisce per noi praticamente l’unica testimonianza (a parte gli excursus più o meno ampi contenuti in opere storiche) di una letteratura specificamente etnografica, che a Roma doveva godere di una certa fortuna: sappiamo per esempio di monografie di Seneca sull’India e sull’Egitto. Ma gli interessi etnografici erano stati già forti nella cultura ellenistica (basti pensare a Posidonio); a Roma, si possono far risalire al De bello Gallico di Cesare, che aveva tratteggiato anche il sistema di vita dei Germani. Successivamente storici come Sallustio e Livio erano probabilmente ricorsi, in sezioni perdute delle loro opere, ad ampie digressioni etnografiche, che introducevano un elemento di variazione nelle lunghe esposizioni di avvenimenti, e contemporaneamente permettevano di fare mostra di dottrina e versatilità: un excursus sulla Germania doveva trovarsi nel Libro III delle Historiae di Sallustio, mentre Livio può averne trattato verso la fine della sua opera, occupandosi delle campagne di Druso oltre il Reno. Le fonti di Tacito: i Bella Germaniae di Plinio È stato sottolineato come le notizie etnografiche contenute nella Germania non derivino da osservazione diretta, ma quasi esclusivamente da fonti scritte: per quanto Tacito mostri di averne consultate diverse, si è suggerito che egli possa avere tratto la maggior parte della documentazione dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno e aveva preso parte a spedizioni oltre il fiume, nelle terre dei Germani non ancora sottoposti al dominio romano. Tacito sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà, accontentandosi di migliorarne e impreziosirne lo stile (il colorito sallustiano è frequente nella Germania, e piuttosto numerose sono le punte ‘epigrammatiche’) e di aggiungere pochi particolari per ammodernare l’opera (le notizie di Plinio risalivano a circa quarant’anni addietro); ciò nonostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la Germania sembra

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Le Historiae: gli anni cupi del principato

Il piano dell’opera Il progetto di una vasta opera storica era presente già nell’Agricola, dove, in uno dei capitoli iniziali, Tacito esternava l’intenzione di narrare gli anni della tirannide di Domiziano, e poi la libertà recuperata sotto i regimi di Nerva e Traiano. Nelle Historiae il progetto appare modificato: mentre la parte che ci è rimasta contiene la narrazione degli eventi degli anni 69-70, dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano; nel proemio, Tacito afferma espressamente di riservare invece per la vecchiaia la trattazione dei principati di Nerva e di Traiano, «materia più ricca e meno rischiosa». Le Historiae affrontavano perciò un periodo cupo, sconvolto da varie guerre civili, e concluso da una lunga tirannide. Il contenuto delle Historiae Il Libro I, che in ossequio alla tradizione annalistica si occupa degli avvenimenti a partire dal 1° gennaio 69, si apre con la narrazione del breve regno di Galba; seguono l’uccisione di quest’ultimo e l’elezione all’impero di Otone. In Germania, tuttavia, le legioni acclamano imperatore Vitellio. I Libri II e III narrano della lotta fra Otone e Vitellio, conclusasi con la sconfitta e il suicidio del primo, e quella successiva fra Vitellio e Vespasiano. Acclamato imperatore dalle legioni di vari Paesi, Vespasiano lascia in Oriente il figlio Tito ad affrontare i Giudei, e, spostatosi in Egitto, fa dirigere le sue truppe su Roma, dove si è rifugiato Vitellio, che viene catturato e ucciso. Il Libro IV tratta del sacco di Roma ad opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in Germania. Il Libro V, che ci è pervenuto mutilo e si arresta al Capitolo 26, dopo un excursus sulla Giudea, dove si trova Tito, passa a raccontare gli avvenimenti di Germania e i primi segni di stanchezza mostrati dai ribelli. 5.1 I PARALLELISMI DELLA STORIA

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Gli Annales: alle radici del principato

La prosecuzione dell’opera di Livio Nemmeno nell’ultima fase della sua attività Tacito mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano. Terminate le Historiae, la sua indagine si rivolse ancora più addietro, ed egli, negli Annales, intraprese il racconto della più antica storia del principato, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. La data scelta da Tacito per l’inizio degli Annales ha fatto supporre che intendesse la sua opera come una prosecuzione di quella liviana (probabilmente il progetto iniziale di Livio, interrotto dalla morte, prevedeva 150 libri, i quali dovevano arrivare a trattare l’intero principato di Augusto: nulla vieta di supporre che, nella prefazione a qualche libro per noi perduto, ma noto a Tacito, Livio affermasse esplicitamente tale sua intenzione). In effetti, il titolo presente nei manoscritti tacitiani (Ab excessu divi Augusti) sembra richiamare quello liviano Ab urbe condita. I libri giunti fino a noi Degli Annales si sono conservati i Libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla morte di Augusto (14 d.C.) a quella di Tiberio (37 d.C.), con una lacuna di un paio d’anni fra il 29 e il 31; e i Libri XI-XVI, col racconto dei regni di Claudio (a partire dall’anno 47) e di Nerone (il Libro XI è lacunoso e il XVI è mutilo, arrestandosi per noi agli eventi dell’anno 66). Il regno di Tiberio e le gesta di Germanico I Libri I-V seguono in parallelo le vicende interne ed esterne di Roma. Nella capitale il progressivo manifestarsi del carattere chiuso, sospettoso e ombroso di Tiberio, il dilagare dei processi per lesa maestà, l’ascesa e poi la caduta della sinistra figura di Seiano (ma ci manca la parte in cui ne era narrata la morte), il degenerare del regime nella crudeltà e nella dissolutezza, fino alla morte di Tiberio. All’esterno, i successi di Germanico in Germania, i suoi contrasti con Pisone, la morte in Oriente, per la quale Pisone è sospettato di avvelenamento; e avvenimenti minori, come la vittoriosa guerra in Africa contro il numida Tacfarinate, e il soffocamento della rivolta della popolazione germanica dei Frisi.

6.I TACITO E IL TRAMONTO DELLA LIBERTAS Il pessimismo di Tacito Negli Annales, Tacito mantiene la tesi della necessità del principato; ma il suo orizzonte sembra essersi ulteriormente incupito: in un passo famoso (3, 28), mentre ribadisce che Augusto ha garantito la pace all’Impero dopo lunghi anni di guerre civili, lo storico sottolinea anche come da allora i vincoli si siano fatti «più duri»: Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu iusserat abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur. Acriora ex eo vincla. Alla fine Cesare Augusto, nel suo sesto consolato, sicuro del proprio potere, abolì quanto aveva decretato da triumviro e diede le leggi delle quali ci potessimo valere in pace e sotto la guida di un principe. Pertanto i vincoli si fecero più duri.

La critica al Senato e ai filosofi Tacito conferisce un colore uniforme e tetro all’intero quadro della vita umana sotto i Cesari. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell’aristocrazia senatoria, essa stessa del resto coinvolta in un processo di decadenza morale e di corruzione che la rende vogliosa di un servile consenso (quella che Tacito definisce libido adsentandi) nei confronti del principe. Scarsa simpatia lo storico dimostra anche, come già abbiamo sottolineato a proposito dell’Agricola, verso coloro che scelgono l’opposta via del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi filosofici. Prosperava, a partire dall’età neroniana, una letteratura di exitus illustrium virorum: non a caso, descrivendo il suicidio di Petronio, Tacito insiste sul capovolgimento ironico di questo modello filosofico da parte del personaggio. Germanico e Corbulone: l’élite sana Raccontando le vicende di Roma, Tacito conduce il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza luce o speranza. La parte sana dell’élite politica – ritroviamo qui una certa continuità con l’Agricola – seguita tuttavia a dare il meglio di sé nel governo delle province e nella guida degli eserciti: l’opera bellica di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di

6.3 LO STILE DEGLI ANNALES Straniamento e disarmonia Lo stile degli Annales è per certi aspetti mutato rispetto a quello delle Historiae: almeno nei libri precedenti il XIII, si registra una linea di evoluzione che va in direzione del crescente allontanamento dalla norma e dalla convenzione: una ricerca di ‘straniamento’ che si esprime nella predilezione per forme inusitate, per un lessico arcaico e solenne, ricco di potenza. Rispetto alle Historiae, gli Annales risultano meno eloquenti e scorrevoli, più concisi e austeri. Perdura e si accentua il gusto per la inconcinnitas, ottenuta soprattutto attraverso la variatio, cioè allineando a un’espressione un’altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente strutturata (due esempi tratti dalla narrazione dell’incendio di Roma, in Annales, 15, 38: pars mora, pars festinans, cuncta inpediebant e [incendium] in edita adsurgens et rursus inferiora populando anteiit remedia). Retorica e poetismi Le disarmonie verbali riflettono la disarmonia degli eventi e le ambiguità nel comportamento umano. Abbondano le metafore violente (le immagini sono quelle della luce e delle tenebre, della distruzione e dell’incendio) e l’uso audace delle personificazioni. È frequente la coloritura poetica, soprattutto virgiliana, ma notevoli sono anche le tracce di Lucano nella prosa di Tacito. L’‘involuzione’ dello stile All’interno degli Annales si registra tuttavia una certa modificazione dello stile, in cui alcuni hanno visto una involuzione. A partire dal Libro XIII Tacito sembra ripiegare su moduli più tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo. Lo stile si fa più ricco ed elevato, meno serrato, acre e insinuante; nella scelta dei sinonimi, lo storico passa dalle espressioni scelte e decorative a quelle più sobrie e normali. La differenza è stata attribuita al diverso argomento: il regno di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva di essere trattato con minore distanziamento solenne di quello ormai remoto di Tiberio, che sembrava ancora radicato nell’antica res publica. Qualche trascuratezza notata soprattutto nei Libri XV e XVI ha fatto anche pensare che gli Annales non abbiano ricevuto l’ultima revisione.

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Tacito, la fortuna

Ammiano Marcellino Tacito trovò un ammiratore entusiasta in Plinio il Giovane, ma la sua vera fortuna incominciò nel IV secolo, quando Ammiano Marcellino compose un’opera storica che intendeva riallacciarsi alla sua; più o meno nello stesso periodo, i riecheggiamenti da parte di vari altri scrittori mostrano che egli era fra gli autori letti comunemente. L’età moderna e il «tacitismo» Nell’Umanesimo e nel primo Rinascimento a Tacito venne spesso preferito Livio; ma già Guicciardini indicò in lui il maestro che insegnava a fondare le tirannidi. Su questa linea, nell’epoca della Controriforma e delle monarchie assolute prese piede il fenomeno del «tacitismo», che vide nell’opera di Tacito un complesso di regole e di principi direttivi dell’agire politico di tutti i tempi. Così Tacito venne talora usato, dai teorici della ragione di Stato, come pretesto alla formulazione di una teoria dell’idea imperiale. Ma la tradizione tacitista seppe trarre da Tacito anche l’indicazione di come vivere sotto i tiranni, evitando sia il servilismo, sia una sterile opposizione. È una linea di pensiero che dura anche dopo la fine del tacitismo, per arrivare, per esempio, fino a Diderot e alla sua giustificazione (attraverso un’apologia di Seneca) della collaborazione del filosofo con i sovrani. Ma le generazioni dell’Illuminismo sentirono Tacito soprattutto come l’oppositore della tirannide. In campo letterario, alcuni grandi tragici, come Corneille, Racine e Alfieri, trassero da ‘drammi’ tacitiani materia e ispirazione per i loro tormentati personaggi. Bibliografia Edizioni moderne. Opere minori: R.M. OGILVIE – M. WINTERBOTTOM , Oxford 1975 (l’Agricola è edito separatamente a cura di J. DELZ , Stuttgart 1983; ora nella nuova edizione teubneriana a cura di J. v. UNGERN STERNBERG , Berlin-New York 2010); Historiae: K. WELLESLEY , Leipzig 1989; J. HELLEGOUARC ’H – H. BONNIEC – P. WUILLEUMIER , 3 voll., Paris 1987-1992; Annales: H. HEUBNER , Stuttgart 1983; Libri I-VI nell’edizione a cura di I. BORZSÁK , Stuttgart-Leipzig 1992; Libri XI-XVI nell’edizione a cura di K. WELLESLEY , Leipzig 1986. Si segnalano inoltre, per

Svetonio e la storiografia ‘minore’ 16 1

Le nuove tendenze della storiografia

Nella prima età imperiale si avverte l’esigenza di rinnovare i modelli storiografici tradizionali. Grande fortuna sembra avere il genere biografico, il cui rappresentante principale è senza dubbio Svetonio, passato alla storia per le sue biografie degli imperatori Romani da Augusto fino a Domiziano: ricche di particolari scandalistici e segreti sulla vita di corte, queste opere mostrano il vero volto dei Cesari. Altro rappresentante delle nuove tendenze storiografiche è Floro, che racconta la storia di Roma come se fosse l’evoluzione di un organismo biologico.

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Svetonio, un biografo a corte

2.1 LA VITA La carriera presso la corte imperiale Di Gaio Svetonio Tranquillo non conosciamo esattamente né l’anno di nascita né quello di morte: possiamo solo supporre che sia nato poco dopo il 70 d.C. da famiglia di rango equestre di modesta condizione (nulla di certo si sa sul luogo di nascita). Per un po’ dovette svolgere attività forense, poi – quando aveva già iniziato a dedicarsi a studi eruditi – grazie alla protezione di personaggi influenti (prima Plinio il Giovane, poi Setticio Claro) entrò a corte in qualità di funzionario: fu prima preposto, da Traiano (che gli accorderà lo ius trium liberorum), alla cura delle biblioteche pubbliche; poi, sotto Adriano (117138), fu addetto all’archivio imperiale e alla corrispondenza dello stesso principe (incarico che sarebbe stato determinante per le sue ricerche). La caduta in disgrazia La sua brillante carriera burocratica si interruppe bruscamente nel 122, quando cadde in disgrazia insieme a Setticio Claro, prefetto del pretorio e suo protettore. Dopo la destituzione e l’allontanamento dalla corte si perdono le sue tracce; non sappiamo quanto tempo dopo sia morto. Le fonti La vita di Svetonio si ricostruisce dalle scarse indicazioni autobiografiche che ci fornisce l’autore e da altre notizie che possiamo ricavare dall’epistolario di Plinio il Giovane, dall’Historia Augusta e da un’iscrizione scoperta qualche decennio fa. 2.2 OPERE Le opere perdute di carattere erudito Di una copiosa produzione di opere erudite, in greco e in latino, abbiamo notizia, più che dai miseri frammenti, soprattutto grazie alla Suda, un lessico bizantino (X secolo), che ce ne elenca diversi titoli (gli argomenti sono svariati, dai costumi romani al calendario, dai segni diacritici usati dai filologi alle cortigiane famose, dai difetti fisici agli scritti politici di Cicerone, ecc.). Prata, o Pratum, sarebbe un’opera di carattere enciclopedico, suddivisa in diverse sezioni in base agli

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Floro, uno storico della ‘vita’ di Roma

La vita e le opere L’esigenza di rinnovare i modelli storiografici tradizionali, o di variarne le caratteristiche, sembra documentata, oltre che da Svetonio, anche dall’opera tramandataci sotto il titolo di Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, in due o quattro libri, e attribuita a Publio Annio (o Anneo) Floro. Dell’autore non sappiamo niente di preciso. Si propone congetturalmente che sia quel Floro che compose il dialogo Vergilius orator an poeta e che, legato d’amicizia all’imperatore Adriano, scambiò con lui scherzosi componimenti poetici del tipo caro ai poetae novelli (vedi p. 213). Un titolo inappropriato Qui ci occupiamo solo della sua opera storiografica. Il titolo, che sarà stato aggiunto da altri, è inappropriato, perché quello di Floro non è un riassunto da Livio; questi costituisce sì la sua fonte principale, ma non certo l’unica, e inoltre Floro tratta di avvenimenti successivi alla conclusione della trattazione liviana. Lo sviluppo di Roma come crescita biologica Interessante, dell’opera, è che la crescita progressiva della potenza romana viene modellata sullo schema di una crescita biologica. Floro personifica il popolo romano, facendone una sorta di protagonista collettivo della narrazione, e ne descrive le varie età dall’infanzia (monarchia) all’adolescenza (prima età repubblicana), alla maturità, raggiunta con la pax augustea, e destinata a essere seguita dalla vecchiaia del primo secolo dell’impero, che Floro evita di trattare. L’adozione dello schema biologico, di antica tradizione stoica, e presente già in Varrone e in Seneca il Vecchio, tradisce l’influsso delle biografie svetoniane (nel senso che configura la storia di un organismo statale come la vita di un personaggio) e la ricerca di nuove forme storiografiche, più adatte al gusto di un pubblico cui sembrano volersi adeguare anche la narrazione agile e concisa e lo stile retoricamente colorito. Bibliografia Svetonio

Apuleio 17 1

Un intellettuale poliedrico

Apuleio è una delle figure più rilevanti del II secolo d.C.: sebbene la sua fama sia legata soprattutto a un romanzo, Le metamorfosi, i suoi interessi furono vastissimi e spaziarono dal campo giuridico a quello retorico-oratorio, dall’ambito filosoficoreligioso a quello magico-misterico. Fu dunque un intellettuale poliedrico e un brillante affabulatore, nella cui esperienza si sommano in modo affascinante e originale i tratti di un’intera epoca. 1.1 LA VITA Le origini africane e la formazione Nel completo silenzio dei contemporanei, ricaviamo tutto quello che sappiamo della cronologia e della biografia apuleiane dalle opere stesse dell’autore. Di Apuleio (Apuleius o Appuleius) ci è ignoto il praenomen, che alcuni codici tramandano come Lucius (ma verosimilmente ricavandolo dal nome del protagonista-narratore del suo romanzo). Africano di Madaura (l’attuale Mdaurusch), in una zona di confine tra la Getulia e la Numidia (corrispondente all’incirca all’odierna Algeria), nacque intorno al 125 d.C.; fu di estrazione agiata (il padre era duovir iuri dicundo), il che gli permise di compiere gli studi a Cartagine, fulcro della vita culturale della provincia, e quindi ad Atene, dove poté assecondare meglio i propri interessi filosofici. Fu poi probabilmente per qualche tempo a Roma e viaggiò più volte in Oriente, tenendo conferenze di grande richiamo e successo in varie località.

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I trattati filosofici

Il problema dell’autenticità È oggi generalmente accettata l’autenticità dei tre trattati filosofici De deo Socratis, De Platone et eius dogmate, De mundo, considerati frutto della studiosa giovinezza di Apuleio. Un forte, ma non concorde scetticismo sussiste invece sulla paternità del Perì ermenèias, rielaborazione di un omonimo trattatello greco di scuola peripatetica, una sorta di manualetto che compendia la dottrina aristotelica del sillogismo (in particolare del sillogismo assertorio) e che ebbe fondamentale importanza nel Medioevo come testo di scuola. Viene infine ritenuto spurio il dialogo Asclepius, il dio medico (venerato da Elio Aristide, come dimostrano i suoi Discorsi sacri) che certo non era ignoto ad Apuleio (di qui probabilmente l’attribuzione). Il De mundo Il De mundo, rifacimento del Perì kòsmu pseudoaristotelico, rispecchia gli interessi speculativi per le forze che regolano l’universo. Il fatto che una sezione dell’operetta (i capitoli 13 e 14) sia tratta dalle Noctes Atticae di Gellio (2, 22) ha costituito un problema per la datazione del De mundo, da ritenere posteriore alla pubblicazione dell’opera di Gellio (seconda metà del II secolo): sulla base della tesi che vuole giovanili le opere filosofiche conservate, si è perciò negata la paternità apuleiana. Questa difficoltà è stata però superata retrodatando la pubblicazione dell’opera di Gellio (per la quale non ci sono impedimenti). La tendenza ad accogliere spunti aristotelici capaci di conciliare indagine naturalistica e interessi metafisico-teologici era tipica del platonismo medio. Il trattatello è basato su un’interpretazione, vicina alla dottrina deterministica dello stoicismo (che negava il libero arbitrio dell’individuo, subordinandolo ai disegni della Provvidenza), che appare molto lontana dall’ortodossia platonica. Naturalmente il contenuto filosofico dell’operetta non appartiene esclusivamente ad Apuleio, ma deriva dal trattatello pseudoaristotelico preso a modello. Il contributo personale di Apuleio sta piuttosto nell’impegno, comune anche alle altre opere filosofiche, a introdurre nella lingua latina il linguaggio tecnico specialistico delle scienze naturali.

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L’attività oratoria: Flòrida e Apològia

I Flòrida: brani di virtuosismo retorico Dell’aspetto più appariscente comune ai letterati della seconda sofistica – l’attività di oratori itineranti – Apuleio ci ha lasciato ampia documentazione. Per un caso fortunato, lo stesso codice che ci ha conservato il romanzo e l’Apològia contiene pure i Flòrida, una raccolta di ventitré brani oratori su temi diversi e di diversa estensione, stralciati dal testo di conferenze e pubbliche letture tenute da Apuleio in Africa, dopo il suo ritorno a Cartagine. La natura dei brani contenuti in questa breve antologia, tutti distinti da una ricercatezza retorica spesso vicina al funambolismo, lascia intuire le ragioni che hanno guidato il compilatore della raccolta nella sua scelta: assecondando probabilmente i gusti del tempo, egli antologizzò i pezzi di più insistita bravura retorica a prescindere dai contenuti. Dai Flòrida emerge l’immagine di un conferenziere pronto a trattare ogni questione: c’è l’oratore dei discorsi politici ufficiali, il panegirista religioso, l’erudito, il letterato, il moralista, il narratore di storie interessanti, il filosofo convinto che l’arte di vivere e l’arte di parlare possano atteggiarsi con la stessa grazia intellettuale e la stessa eleganza. Si tratta di eccezionali esempi di virtuosismo retorico, che testimoniano fra l’altro lo straordinario successo che l’arte della parola poteva garantire a un geniale retore capace di affascinare un pubblico sofisticato (proprio nei Flòrida Apuleio ringrazia la cittadinanza cartaginese, che per ammirazione gli ha dedicato una statua). L’Apològia, l’antefatto del processo L’Apològia (o Apulei Platonici pro se de magia liber, secondo i codici, in cui il testo è arbitrariamente suddiviso in due libri) è una lunga orazione giudiziaria, l’unica a noi pervenuta di età imperiale. Il processo in cui fu coinvolto Apuleio sembra essere stato originato da ragioni d’interesse economico. Il suocero di Ponziano, Erennio Rufino, forse già poco dopo il matrimonio di Apuleio e Pudentilla, cercò l’appoggio di Ponziano stesso e, alla morte di lui, quello del fratello ancora minorenne, Pudente, per colpire Apuleio: lo scopo era quello di interdirgli l’accesso futuro all’eredità della moglie, ben più anziana di lui, col pretesto di tutelare gli interessi di Pudente. Caduta quasi subito una prima accusa,

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Apuleio e il romanzo

4.1 LE METAMORFOSI: DATA, TITOLO E TRAMA L’unico romanzo integro della letteratura latina Insieme con il Satyricon di Petronio, le Metamorfosi (Metamorphoseon libri) di Apuleio rappresentano per noi l’unica testimonianza del romanzo antico in lingua latina: l’unica, dunque, pervenuta intera. Datazione Il terminus post quem è costituito dalla stessa Apològia: se il romanzo, con il suo intreccio di episodi variamente connessi con la magia, fosse già stato scritto, l’accusa vi avrebbe sicuramente fatto riferimento. Se ne deduce che all’epoca del processo (158 d.C.) il romanzo non aveva ancora conosciuto una pubblica diffusione. Il titolo: Metamorfosi o Asino aureo Il titolo conservato concordemente dai codici, quello di Metamorphoseon libri, conobbe presto la concorrenza di quello con cui l’opera sarebbe stata indicata da Agostino (De civitate Dei, 18, 18): Asinus aureus, dove è incerto se l’aggettivo vada riferito a un apprezzamento della qualità del testo o piuttosto al colore fulvo dell’animale. Recentemente, in base ad argomenti forniti dagli storici delle religioni (quello più importante, considerando che il Libro XI è una professione di fede nella dea Iside, ricorda che l’asino nel culto isiaco si identificherebbe con Tiphone-Seth, il dio del male), è stato difeso il titolo testimoniato da Agostino, che probabilmente conviveva con l’altro. La trama delle Metamorfosi: i Libri I-III L’opera si compone di undici libri, dei quali i primi tre sono occupati dalle avventure del protagonista, il giovane Lucio, prima e dopo il suo arrivo a Hypata, in Tessaglia (tradizionalmente terra di maghi). Coinvolto già durante il percorso, per il tenebroso racconto di Aristomene, suo compagno di viaggio, nell’atmosfera carica di mistero che circonda il luogo, il giovane manifesta subito il tratto distintivo fondamentale del suo carattere, la curiositas, che lo conduce a cadere vittima delle trame sempre più fitte di sortilegi che animano la vita della città. Ospite di Milone, un ricco del posto, e della sua sposa Panfila, in odore di magia, riesce a conquistarsi i favori della servetta Fòtide, e la convince a farlo assistere di nascosto a una

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Lingua e stile

Arcaismo e letterarietà Vissuto in un’epoca di fervori arcaizzanti (concentrati soprattutto intorno alla figura di Frontone: vedi p. 207), Apuleio conosce la predilezione dei suoi contemporanei per la parola obsoleta (per fare solo un esempio, è amplissimo l’uso degli avverbi uscenti in -im, assai comuni nella lingua di Sisenna) e per gli autori arcaici (a quanto possiamo vedere dalle sue opere, amò moltissimo Plauto, che riecheggiò più volte), ma fa rientrare tale predilezione in una più generale ricerca di letterarietà. La preziosità verbale, associandosi a una consolidata pratica oratoria, si traduce in una piena padronanza di registri diversi, variamente combinati nel tessuto linguistico. Di qui, la libertà assoluta nell’accostare arcaismi e neologismi, volgarismi e poetismi mescolandoli al lessico tecnico della scienza e dei mestieri. L’attenzione alla forma dell’espressione La lingua di Apuleio è un perfetto esempio di lingua letteriaria, nel senso che richiama continuamente l’attenzione del lettore sulla forma espressiva, prima che sul contenuto del messaggio: le parole si fanno evocative, dotate di suggestive connotazioni implicite. Si ha spesso l’impressione che in Apuleio si possa avvertire in particolare la tendenza, tipica di tutta la letteraura latina, a modellare il pensiero e la lingua secondo le esigenze dell’orecchio. Si è anzi pensato che l’intero romanzo abbia alla base una struttura ‘musicale’, vale a dire che sia costruito non tanto secondo un preciso ordine architettonico, ma sostanziandosi di richiami ed echi, come fosse una sinfonia. Formularità e stilizzazione linguistica Ancora più interessante è il modo in cui di volta in volta Apuleio attua le proprie scelte. Grande conoscitore di letteratura, sembra avere a disposizione una sorta di lessico letterario specializzato, raccolto e organizzato attorno ad alcune situazionitipo, formatosi sui classici (Ennio, Virgilio, ecc.). È come se conoscesse dei formulari, repertori di iuncturae consolidate, per descrivere scene di lutto, quadri di eroismo, effusione di passioni e stati d’animo: a questi fa volentieri ricorso, con la sua retorica abilità a comporre ‘pezzi’ su un tema specifico, ricombinando in modo nuovo e personale il materiale desunto dalla tradizione, e rinnovandolo dall’interno grazie a frequenti neologismi.

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Apuleio, la fortuna

Boccaccio scopre le Metamorfosi Taumaturgo, filosofo, mago, Apuleio esercitò un comprensibile fascino sui fermenti dell’ultimo paganesimo e sulla cultura medievale. Ma la fortuna e l’influenza, davvero notevoli, dell’autore sulla letteratura europea sono legate al romanzo, la cui diffusione si deve al ritrovamento da parte di Boccaccio del codice che ne contiene il testo assieme a quello dell’Apològia: si tratta del codice Laurentianus, 68, 2 dell’XI secolo, considerato il testimone più antico della tradizione apuleiana, da cui discenderebbe l’importante Laurentianus, 29, 2 del XII o XIII secolo. Boccaccio ne fece pure una trascrizione (il codice Laurentianus, 54, 32) e inoltre commentò la favola di Amore e Psiche. Le traduzioni: una fortuna europea Da allora il romanzo fu ovunque letto e apprezzato e, con l’invenzione della stampa, ne apparvero varie edizioni in tutti i Paesi europei. Fu tradotto in italiano da Boiardo (Apulegio volgare, pubblicato attorno al 1518) e, in una libera rielaborazione (dalla quale veniva escluso ad esempio il Libro XI), Firenzuola (Asino d’oro, pubblicato intorno al 1550). Probabilmente esercitò un qualche influsso sulla nascita del genere picaresco, in Spagna, dove venne poi letto e studiato nella pregevole traduzione di Lopez de Cortegana (1525). Fornì temi e spunti per la novellistica europea, dal Boccaccio dei celebri racconti del Decameron, a Calderón de la Barca, a La Fontaine, influenzando pure anche a livello stilistico i romanzi barocchi e concettosi («eufuistici», dal nome del protagonista, Eufue) di John Lyly (1554-1606) e dei suoi successori. Bibliografia Un’edizione completa di Apuleio è quella di P. THOMAS – R. HELM , 4 voll., Leipzig 1908-1931; per le opere filosofiche vedi quella di P. BEAUJEU , Paris 1973 e di C. MORESCHINI , Stuttgart 1991; Apològia e Flòrida sono editi da P. VALLETTE , Paris 1924. Edizioni con traduzione italiana: per il De mundo vedi l’edizione a cura di M.G. BAJONI , Pordenone 1991; per il De deo Socratis, l’edizione a cura di B.M. PORTOGALLI CAGLI , Venezia

Filologia, erudizione e critica letteraria, diritto 18 1

L’attività filologica a Roma fino all’età dei Flavi: una ricognizione

1.1 LA NASCITA DELLA FILOLOGIA A ROMA Fonti Le nostre informazioni sullo sviluppo della filologia a Roma si basano per un lungo tratto su notizie indirette e su fonti più tarde (cioè su testi giunti a noi integralmente, opera di eruditi, grammatici e commentatori vissuti tra II e VI secolo d.C. Particolarmente preziosa la sezione De grammaticis del De viris illustribus di Svetonio). Filologia e letteratura La prima fioritura di studi filologici è strettamente collegata allo sviluppo in età arcaica di una letteratura colta, orientata verso modelli greci e attenta anche ai problemi tecnici dello stile e della poesia. Autori come Ennio, Terenzio, Accio e Lucilio mostrano direttamente nei loro testi dimestichezza con gli studi greci di filologia, di retorica e di poetica. In questo senso Ennio si proclamava dicti studiosus, cioè «amante della parola», «filologo» (il sintagma latino è infatti un calco del greco philòlogos). Di Terenzio possiamo ricordare le discusisoni di poetica; di Accio e Lucilio abbiamo frammenti che trattano, in precisa terminologia tecnica, problemi di critica letteraria e di linguistica. La prima filologia, esercitata su testi greci È chiaro che in questi letterari giunge a maturazione un’intensa frequentazione della cultura greca di età alessandrina. Meno chiaro è quando a quest’attività di filologia intimamente connessa con la pratica letteraria si sia affiancata la pratica di studi filologici applicati ai testi. Un forte impulso venne intorno alla metà

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La filologia tra i Flavi e gli Antonini

2.1 PROBO, UN FILOLOGO QUASI MODERNO L’attività editoriale di Valerio Probo Lo studio filologico e critico dei testi latini giunge a piena maturazione nel periodo tra i Flavi e gli Antonini. Nell’età dei Flavi si colloca l’attività del filologo più importante del secolo, Marco Valerio Probo, il grande studioso di Virgilio. Per quanto ne sappiamo, Probo è lo studioso latino che più si avvicina alla specializzazione di un moderno filologo, e che dedica la parte più rilevante della sua attività alla cura di edizioni attendibili dei classici. Probo si occupò di Virgilio e Terenzio (che nella tarda antichità saranno quasi gli unici autori letti nelle scuole), ma anche di un suo contemporaneo come Persio. Probo correggeva gli errori che si erano prodotti nella tradizione manoscritta, apponeva segni diacritici e li spiegava in annotazioni poste in calce al testo (ci è pervenuto un elenco dei segni che Probo adottava e la loro spiegazione). Si procurava manoscritti particolarmente antichi e autorevoli, ma senza arrivare alle moderne tecniche di raccolta e valutazione comparata delle varianti della tradizione; pare, anzi, che egli si sentisse particolarmente libero di intervenire sul testo con correzioni e congetture proprie o espungendo i versi che trovava inaccettabili. L’opera di commentatore e insegnante svolta da Probo lasciò tracce durature presso eruditi e commentatori successivi (Gellio, Macrobio, Elio Donato, Servio) e rappresenta il meglio della cultura filologica latina. Non è probabile però che Probo abbia plasmato secondo i propri criteri la tradizione manoscritta giunta fino a noi, per esempio, di Virgilio: prima dell’avvento della stampa, infatti, l’influenza dei dotti sulla circolazione dei manoscritti era solo occasionale e ristretta a piccoli gruppi di intenditori. Verso una selezione degli studi scolastici Una conseguenza dell’incontro tra educazione retorica e studio dei classici fu la tendenza a restringere progressivamente gli ‘autori di scuola’, separandoli dagli altri. Nella tarda antichità, alla fine di questo processo di selezione, basato su criteri di purezza stilistica, chiarezza linguistica ed esemplarità morale,

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La letteratura giuridica

Le Constitutiones principis e il mutamento del diritto romano Con l’età di Adriano si completa quel processo di sistemazione delle discipline erudite avviato a partire dalla prima età imperiale. Come nell’ars grammatica, anche nella giurisprudenza le contrapposizioni fra scuole diverse diventano sempre meno significative e si assiste a uno sforzo di sistemazione organica delle dottrine. All’inizio del principato non era del tutto chiaro il fondamento costituzionale del potere legislativo dell’imperatore: in pratica gli edicta imperiali erano trattati come espressioni dell’imperium di un magistrato ed era pur sempre il Senato ad approvare le volontà legislative dell’imperatore, cioè a emettere le leggi. Ma in seguito la risoluzione del Senato divenne una pura formalità e le Constitutiones principis (decreti e rescritti imperiali, decisioni che l’imperatore come magistrato supremo prendeva su particolari questioni giuridiche) acquistarono la forza di leggi. Così tutta la dottrina giuridica, che si era esercitata fino ad allora nell’interpretazione degli edicta praetoris, passa a esercitarsi direttamente sulle decisioni del principe, che ora detiene il nuovo imperium di sommo magistrato. Questo mutò profondamente la fisionomia del diritto e della giurisprudenza, portando un nuovo ordine accentratore. Salvio Giuliano e la revisione dell’edictum praetorium La grande sistemazione unitaria realizzata in età adrianea nella giurisprudenza romana è legata al nome di Lucio Ottavio Cornelio Salvio Giuliano, scolaro di Giavoleno Prisco, il capo della «scuola sabiniana» (vedi volume I, p. 458) in età traianea. Con Salvio Giuliano la scienza legale raggiunse i massimi vertici e, anche se alcuni giuristi dell’età dei Severi (come Ulpiano e Papiniano) gli furono superiori per mole di opere e per dottrina enciclopedica, essi subirono tutti la forte influenza della sua opera. Ebbe una straordinaria carriera di uomo pubblico (fece parte del consilium principis sotto Adriamo e Antonino Pio), ma soprattutto godette di un prestigio eccezionale come giurista: non ancora trentenne, fu incaricato dall’imperatore Adriano di eseguire la revisione dell’edictum praetorium (una serie di rimedi di tipo processuale volti a integrare le disposizioni del

La poesia nei secoli II e III d.C. 19 1

Una poesia ‘minore’

L’esaurimento dei generi poetici tradizionali Il II secolo presenta, nel suo complesso, un quadro sociale, artistico e culturale di grande vivacità: la crisi economica, morale e culturale di Roma precipiterà, piuttosto, nel secolo successivo; e sarà questa storica rottura a introdurre la fase, per tanti versi nuova, del tardo impero romano. I ‘tempi’ della poesia sono assai diversi: i prosperi e vitali anni di Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio non vedono una significativa fioritura di talenti poetici. Dall’epistolario di Plinio il Giovane la poesia emerge come un raffinato hobby delle classi elevate, più che come una vocazione profonda. Nell’età dei grandi retori e dell’erudizione trionfante, la poesia sembra aver perso ormai ogni centralità culturale. Già all’inizio del principato di Adriano si perdono le tracce dei generi poetici tradizionali: non abbiamo testi epici, siano essi storici o mitologici, dopo l’età flavia; la satira si estingue con Giovenale; l’elegia, intesa come il genere di poesia personale codificato dagli augustei, lascia solo flebili postumi; e la poesia scenica, dopo Seneca e l’Octavia, non dà più segno di sé.

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I poetae novelli, un’avanguardia arcaizzante

Una versione in tono minore dei poetae novi Per quanto ne sappiamo, si continua a praticare un genere di poesia minore e pluriforme. In quest’area letteraria, di per sé poco definita se non in opposizione alla poesia ‘grande’, si addensano ai nostri occhi alcune figure minori, di cui abbiamo scarsi frammenti. Gli storici della letteratura, che per la natura del loro lavoro hanno un certo orrore degli spazi vuoti, tendono a saturare lo spazio della poesia del II (e III) secolo ricostruendovi una vera e propria scuola: sarebbe il gruppo, o filone, dei poetae novelli. Il ritorno al passato La definizione di poetae novelli è già antica, e racchiude in sé densi presupposti storico-letterari: la chiave del riferimento è evidentemente la scuola neoterica del I secolo a.C., il gruppo dei poetae novi (Catullo, Cinna, Calvo, Valerio Catone, ma anche certi loro predecessori, come Levio), di cui i novelli sarebbero una versione in tono minore. La loro stessa novità non è, come quella dei poetae novi, avanguardistica e modernizzante, ma si alimenta di recuperi regressivi, rivolti a ciò che è arcaico e fuori moda. Abbiamo così un chiaro parallelo rispetto a quella ricerca di novità che caratterizzava, nella prosa d’arte, l’antiquariato stilistico di un Frontone: il rinnovamento dello stile, per sfuggire all’imperio dei grandi classici, si rivolge a esperienze più antiche e ormai desuete. Anniano e gli altri novelli La definizione di poetae novelli è riferita dal grande metricista Terenziano Mauro (II-III secolo) ad alcuni poeti di cui abbiamo poverissimi resti. Anniano, ricordato anche da Gellio, scrisse dei Carmina Falisca, composti in un verso anomalo (il «falisco»: tre dattili e un giambo), e dei misteriosi Fescennini. Alfio Avito poetò sugli uomini illustri della storia di Roma. Un certo Mariano compose dei Lupercalia. Settimio Sereno cantò tematiche rurali e pastorali. Lo sperimentalismo metrico La più vistosa affinità di tendenza tra queste umbratili figure è lo sperimentalismo metrico, che si esplica o nell’invenzione di forme nuove (il «falisco» di Anniano) oppure, sempre in segno di rottura rispetto ai grandi classici, nell’applicazione di metri inattesi e apparentemente impropri ai temi tradizionali. Così, Sereno tratta temi

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Adriano, l’imperatore poeta

La figura di maggiore spicco del II secolo La personalità più interessante di questa fioritura minore è, nel quadro del II secolo, un imperatore romano. Sappiamo dai biografi che Adriano era uomo di cultura raffinatissima e versatile. La sua politica di integrazione universale abbracciava Roma, le province, la Grecia e l’Oriente in uno sforzo di fusione culturale non meno che amministrativa. Adriano aveva una profonda cultura greca, letteraria e artistica, e incoraggiava ogni aspetto dell’arte e dell’erudizione. Fu anche, per quanto ne sappiamo, un pregevole versificatore; non a caso, componeva in entrambe le lingue di cultura dell’Impero. I versi residui: pochi ma celebri Di lui ci restano pochi versi; tra essi quelli in risposta a uno ‘scherzo’ poetico di Floro (Adriano 1 Morel, p. 136 = 1 Buechner, p. 169): Ego nolo Florus esse, ambulare per tabernas, latitare per popinas, culices pati rutundos. Non mi va d’essere Floro, marciare per botteghe, imboscarmi per locande, sopportar tonde zanzare. (traduzione di G. Ravenna)

Questo frammento è citato nell’Historia Augusta (un’opera tarda a carattere storico-biografico, vedi pp. 269 ss.) da Elio Sparziano insieme a un altro (che ispirò traduttori e poeti, tra i quali Thomas Stearns Eliot), un’invocazione all’anima nel presentimento della morte, che ci presenta l’aspetto più meditativo della personalità dell’imperatore. È un testo giustamente famoso per la sua musicale grazia neoterica, all’apparenza

Parte seconda

La tarda età imperiale

Il contesto. Dai Severi a Diocleziano 20 Storia 1

Un’epoca di forti tensioni politico-sociali

La grande crisi dell’impero Il periodo che va da Settimio Severo a Diocleziano (193-305 d.C.) non si lascia facilmente racchiudere in una formula: questi due imperatori, fin dalla storiografia antica, rappresentano i termini di un’epoca caratterizzata da profonde tensioni sociali e politiche, su cui mancano fonti storiche omogenee. Fu un momento assai drammatico nella vita di Roma: la sopravvivenza stessa dell’Impero sembrò in dubbio di fronte alle ricorrenti guerre civili, che comportavano decimazioni dei ceti dirigenti, impoverimenti del sistema produttivo nelle regioni attraversate dagli eserciti, indebolimenti delle difese che alle frontiere dovevano resistere contro la pressione dei barbari. Come se non bastasse, i grossi cambiamenti interni (sociali, istituzionali, religiosi) rimisero in discussione i cardini stessi dell’ordinamento statale. Ma, contro ogni aspettativa, l’Impero riuscì ad attraversare questa che fu senz’altro la sua più grave crisi prima del definitivo sfaldamento alla fine del V secolo: da questo convulso periodo l’Impero uscì profondamente modificato ma ben saldo, riorganizzato nei punti nodali dell’apparato statale, e capace di affrontare, ancora per due secoli, tutti i pericoli esterni.

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La dinastia dei Severi

2.1 SETTIMIO SEVERO (193-211 D .C.) E CARACALLA (211-217 D .C.) Al potere dopo quattro anni di incertezza Alla morte di Commodo, nel 192 d.C., a Roma i pretoriani acclamarono imperatore il senatore Elvio Pertinace, ma dopo soli tre mesi di governo lo eliminarono sostituendogli un altro senatore, Didio Giuliano. Nel 193 si ebbe una serie di pronunciamenti nei territori lontani da Roma: le province danubiane proclamarono imperatore il legato della Pannonia, Settimio Severo, le province orientali il governatore della Siria, Pescennio Nigro, mentre le province occidentali sostenevano la candidatura di Clodio Albino. La lotta si risolse a favore di Settimio Severo, un provinciale di estrazione africana, che aveva sposato un’orientale legata a tradizioni religiose siriache, ed era quindi privo di forti legami con il Senato. Una politica di rottura con il governo degli Antonini Fedele soprattutto alle forze che lo avevano eletto, Settimio iniziò a smantellare il sistema di governo degli Antonini: dal 193 procedette all’epurazione del Senato; smobilitò le coorti pretorie e le ricostituì procedendo alla leva fuori d’Italia; istituì tre nuove legioni, le partiche, collocandone una di stanza in Italia. Nel 198 si associò il figlio Caracalla e nominò Cesare l’altro figlio, Geta: la soluzione dinastica tornava ad essere preferita all’adozione. Uomo d’armi, condusse una campagna contro i Parti, riconquistando Ctesifonte e restando in Oriente fino al 202. Nel 208 partì con i figli per una campagna in Britannia, ma nel 211 morì di malattia a York. La breve avventura di Caracalla Un anno dopo la morte di Settimio Severo, Caracalla si assicurò la supremazia assassinando il fratello Geta ed eliminando quanti all’interno della corte erano favorevoli all’impero collegiale. Nel solco della politica filoprovinciale del padre si colloca la Constitutio Antoniniana, promulgata da Caracalla nel 212, che concedeva la cittadinanza romana a tutti i liberi residenti nell’Impero. Il nuovo imperatore, però, perse ben presto il favore di cui godeva presso l’esercito: l’ambiziosa campagna contro i Parti, in crisi per l’emergere della nuova dinastia sassànide di Artaserse, si risolse in un rovinoso insuccesso.

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Dopo i Severi, fra restaurazione e rinnovamento

3.1 GLI ANNI DELL’ANARCHIA MILITARE La pressione dei barbari ai confini e il ruolo politico dell’esercito Con la fine della dinastia dei Severi si apre il periodo più confuso del III secolo: molti imperatori restano in carica pochi mesi o addirittura pochi giorni, si contrappongono l’uno all’altro, danno vita a effimere amministrazioni e ad ancora più effimeri progetti politici. Le due principali frontiere, europea e asiatica, sono sottoposte a una continua pressione: sul confine del Reno e del Danubio le popolazioni germaniche fanno incursioni che penetrano fin nel cuore dell’Impero e che vengono arrestate a prezzo di enormi sforzi militari ed economici; sul confine orientale l’espansionismo del nuovo regno persiano si avvale di armi più moderne di quelle romane ed è sorretto da una solida organizzazione statale, da una fiorente economia e da un’indiscussa fede nei destini imperiali della nazione. Nello stesso tempo anche altre frontiere vengono insidiate: il confine inglese (il vallo di Adriano) dagli Scozzesi e i territori africani dalle popolazioni provenienti dal Sud. L’importanza assunta dall’esercito, garante della sopravvivenza dello Stato, è densa di conseguenze per tutta l’organizzazione imperiale. La scelta dell’imperatore, ormai, è controllata dalle truppe; gli stessi comandanti non sono più esponenti della classe superiore, ma uomini venuti dai bassi ranghi e persino barbari: di qui una mobilità sociale che vede un trace, Massimino, e un arabo, Filippo, ascendere al soglio dell’impero. 3.2 DA MASSIMINO TRACE A FILIPPO L ’ARABO (235-249 D .C.) Massimino Trace (235-238 d.C.), l’imperatore soldato inviso al Senato Massimino fu acclamato imperatore per concludere la guerra sul fronte danubiano e nei tre anni del suo regno non si recò mai a Roma, dove però fece porre in Senato una statua in suo onore, fomentando il clima di ostilità. I senatori proprietari di latifondi in Africa, formato un esercito privato nelle cui file accorsero anche loro coloni e schiavi, nel 238 proclamarono imperatore il proconsole Gordiano, che però cadde insieme al figlio scontrandosi con l’esercito provinciale della Numidia. Il Senato

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La soluzione di Diocleziano (284-305 d.C.)

La tetrarchia, una gestione collegiale del potere imperiale A Diocleziano si deve il primo tentativo di riassetto istituzionale capace di dare all’Impero un periodo di stabilità. I primi anni di governo furono assorbiti dall’attività militare. Le aree nevralgiche dell’Impero erano in fermento: nel 286 si ribellò il prefetto della flotta della Manica, Carausio, mentre movimenti di barbari minacciavano l’Africa e il fronte del Danubio. Diocleziano si associò il generale Massimiano affidandogli il compito di reprimere una rivolta di contadini gallici e poi di combattere Carauso. Nel 293, quando il confine orientale tornò a essere minacciato dal nuovo re persiano Narsete, ai due augusti furono associati in posizione subalterna due cesari, Costanzo Cloro in Occidente, con Massimiano, e Galerio in Oriente, con Diocleziano. Nasceva così l’istituto della tetrarchia. Funzioni distinte ma un’unica guida A ogni tetrarca era affidata una distinta sfera di competenza, ma l’Impero continuava a essere concepito come un’entità unica. Il potere imperiale ebbe una sanzione ideologicoreligiosa nella titolatura assunta dai due augusti: Diocleziano si nominò Giovio e Massimiano Erculeo. Insieme alla sanzione della natura divina del potere assoluto si definiva così una precisa gerarchia: Diocleziano esercitava una supremazia che garantiva unità di direzione al governo. La tetrarchia proponeva inoltre una ridefinizione del problema dinastico, prevedendo la successione dei due cesari al ruolo di augusti. Ma l’abdicazione contemporanea di Diocleziano e Massimiano nel 305 si risolse in una nuova lotta. Il successo della politica militare La tetrarchia si rivelò una soluzione vincente sul piano militare: le rivolte furono domate e l’Impero fu capace addirittura di una nuova spinta espansionistica. In Oriente Diocleziano e Galerio riuscirono non solo a bloccare l’avanzata di Narsete verso Antiochia, ma lo respinsero avanzando a loro volta al di là del Tigri. La pace stretta nella città carovaniera di Nisibi nel 298 fissava condizioni estremamente vantaggiose per i traffici commerciali romani; furono inoltre insediati oltre il Tigri vari presidi romani, che formarono un cuscinetto all’espansione persiana.

Società e cultura 5

Una società in crisi

La democratizzazione della società sotto i Severi Nei primi anni del III secolo, la dinastia dei Severi promosse una rigorosa politica di accentramento, che si accompagnava a un processo di ‘democratizzazione’ della società, soprattutto nelle province: particolare attenzione veniva prestata alle necessità dei ceti più poveri, mentre i rappresentanti del potere centrale si assumevano il compito di sorvegliare che i ricchi e i potenti non prevaricassero i diritti degli humiliores e pagassero con regolarità i tributi al fisco (in questa politica si inserisce la Constitutio Antoniniana di Caracalla). Ma la necessità di sostenere un costante sforzo bellico, per la pressione dei barbari ai confini dell’Impero, determinò una grave crisi economica. La crisi dell’economia Le campagne si spopolavano; le città costituivano un rifugio più sicuro per le mura che le cingevano (perfino Roma, la capitale, avvertì il bisogno di circondarsi di una nuova cinta di mura sotto Aureliano), ma erano esposte agli assedi e ai saccheggi; le vie di comunicazione erano insicure, e ne derivò una generale riduzione dei commerci; la necessità di spese per difendere lo Stato dagli eserciti nemici comportò un inasprimento fiscale che mise in crisi molte attività economiche, soprattutto nei centri urbani, e la forte inflazione provocò aumenti dei prezzi che, ancora una volta, colpirono soprattutto le città. Calamità naturali ed epidemie, causa di un forte calo demografico A questo quadro così negativo vanno aggiunti catastrofi naturali, terremoti (che colpirono anche la città di Roma) ed epidemie, più frequenti e micidiali che in altri periodi: ne consegue un impressionante calo della popolazione, che risulta in alcuni momenti quasi dimezzata rispetto alle medie dei decenni precedenti.

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La diffusione del cristianesimo

Una rapida affermazione Questo stato di insicurezza, esteso a tutte le aree dell’Impero, favorisce il clima millenaristico, la paura della fine del mondo e l’attesa di una salvezza oltremondana. Assistiamo, nel giro di un paio di secoli, a una straordinaria diffusione del cristianesimo, che prevale sugli altri culti e riuscirà presto a diventare religione ufficiale dell’Impero. Nato prevalentemente come religione urbana dei ceti subalterni, arriva a contare, durante il III secolo, adepti in tutti i ceti della società, e soprattutto a Roma riesce a conquistare molte donne di famiglie ricche e nobili, che assicurano sostanziosi donativi e anche ascolto e prestigio perfino presso le fasce sociali più alte. Se il cristianesimo in Oriente si afferma sempre più come corrente di pensiero, e dà vita a elaborazioni filosofiche che raggiungono livelli tra i più alti nella storia della cultura del III secolo, in Occidente un certo ritardo nelle elaborazioni teoriche si accompagna a una capacità organizzativa che impianta una struttura solida e capace di resistere alle ricorrenti persecuzioni del potere politico. Il cristianesimo e il potere: fra tolleranza e persecuzioni Per tutto il secolo i rapporti fra le comunità cristiane e le istituzioni furono complessi e ambigui: a periodi di tolleranza, in cui i procedimenti contro i cristiani erano rari o del tutto assenti, se ne alternavano altri in cui i martirii erano all’ordine del giorno; particolarmente dura fu la persecuzione di Diocleziano, che colpì i cristiani nel 303-304 con quattro editti che autorizzavano confische di beni, distruzioni di chiese e punizioni esemplari. Inoltre, non tutte le zone e non tutte le classi erano investite allo stesso modo da queste ondate di violenza: se le vittime delle persecuzioni furono relativamente poche in Italia, e pochissime fra gli appartenenti ai ceti più alti, la situazione fu invece assai più drammatica in Africa, dove i vertici della Chiesa furono ripetutamente colpiti. Di qui anche le differenze di atteggiamento che i cristiani mostrarono nei confronti dell’Impero e delle sue tradizioni: a volte più rigoristi e intransigenti, a volte più disponibili a una ‘secolarizzazione’, che sarà più accentuata nella capitale, i cristiani, fra ortodossia ed eresie, coprirono un ventaglio molto ampio di posizioni, con

La prima letteratura cristiana 21 1

La nascita di una nuova letteratura

Il cristianesimo in Oriente: il peso della cultura giudaica Per molti decenni il cristianesimo crebbe come una delle tante sette che movimentavano il panorama della componente giudaica dell’Impero romano. Nonostante gli influssi provenienti dal mondo greco introdotti da Paolo o da Luca l’evangelista, le posizioni di fondo in campo religioso e culturale del cristianesimo restano legate, in un primo tempo, al giudaismo. Quest’ultimo, sia in Palestina sia soprattutto ad Alessandria, dove vivevano centinaia di migliaia di Ebrei, si era da tempo aperto alle teorie di pensiero dominanti nel bacino orientale del Mediterraneo, senza mai rischiare di perdere però i propri caratteri di originalità: gli Ebrei (e quindi i cristiani) scrivevano spesso, o addirittura prevalentemente, in greco, parlavano di lògos e di pnèuma, ma le loro elaborazioni discendevano sempre dal libro ‘nazionale’, l’Antico Testamento, che costituiva un punto di riferimento indiscusso, pur fra le tante diverse interpretazioni che ne venivano suggerite. L’attivismo dei cristiani All’interno di questo variegato mondo giudaico i cristiani si segnalano presto per uno spiccato attivismo: compongono testi di notevole rilevanza, sia quelli che poi verranno uniti nel Nuovo Testamento (i quattro Vangeli canonici, gli Atti degli apostoli, le Lettere canoniche, l’Apocalisse) sia vari altri, che le generazioni successive non accoglieranno con la medesima devozione (vari altri Vangeli, detti «apocrifi», altre Lettere, tutta una letteratura nella quale i rapporti con l’insegnamento di Gesù sono meno evidenti).

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Le traduzioni dei testi sacri

Le prime traduzioni della Bibbia Alle origini di questa letteratura si è soliti collocare le traduzioni dei testi sacri effettuate in Africa e in Italia. A partire già dal II secolo, comunità cristiane che non parlavano il greco – dapprima più numerose in Africa, poi sempre più presenti anche in Europa, man mano che nel corso del III secolo si riduceva in Occidente la conoscenza di quella lingua – avvertirono l’esigenza di disporre di una Bibbia in latino. Questa antica traduzione del libro sacro viene comunemente indicata come Vetus Latina, cioè la «Vecchia traduzione latina»: «vecchia» rispetto a quella di Girolamo, che diventerà poi ufficiale (vedi scheda pp. 306 ss.). Vetus Afra e Vetus Itala In realtà, non si trattò di un’unica traduzione, diffusa presso i cristiani di tutto l’Occidente: innanzitutto, c’erano sicuramente delle differenze fra i testi africani, la Vetus Afra, e quelli italici, la Vetus Itala; in secondo luogo, anche all’interno di queste due aree geografiche le traduzioni furono ben più d’una, a volte anche abbastanza discordanti tra loro. Queste prime Bibbie in latino non ci sono pervenute direttamente perché la Vulgata di Girolamo le soppiantò tutte, ma ne abbiamo numerosi campioni, grazie alle citazioni degli scrittori cristiani fioriti prima che la Vulgata divenisse l’unico testo ufficiale. I testi non canonici Per le esigenze dei cristiani di lingua latina, accanto alla Bibbia venivano tradotte anche altre opere che non fanno ora parte del Nuovo Testamento, ma che a quei tempi erano considerate assai autorevoli: della lettera di Clemente e del Pastore abbiamo traduzioni latine che risalgono al II secolo.

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Gli Acta martyrum

L’esempio dei martiri I cristiani scampati alle persecuzioni redigevano dei memoriali, dove si intendeva perpetuare l’eroismo dei compagni mandati al martirio. Gli Acta martyrum Scillitanorum, del 180, contengono i resoconti dei processi tenuti contro i cristiani durante una delle persecuzioni. Le narrazioni erano a volte redatte dagli stessi martiri, finché era loro possibile, e completate dagli altri fedeli per le ultime ore di vita e la descrizione delle esecuzioni. Si tratta quasi sempre di opere assai efficaci, essenziali, che devono soprattutto alla brevità dell’esposizione e all’apparente distacco della scrittura la loro capacità di colpire ed emozionare il lettore. La produzione di questi Acta copre tutto il III secolo. In questi racconti emerge la contrapposizione tra i cristiani, portatori del nuovo, non violenti, sicuri della loro vita dopo la morte, e i magistrati di Roma, difensori dei vecchi ordinamenti, costretti a servirsi della forza e a essere crudeli anche al di là delle loro personali intenzioni, privi di speranze per il futuro. VALORI IDEALI

Dalla gloria del mondo alla gloria del martirio: come i valori pagani diventano cristiani Vecchi e nuovi valori: amicitia e gratia Con l’avvento del cristianesimo, molti dei valori cardine della società pagana subirono una profonda trasformazione. In qualche caso, persero di importanza, come il concetto di amicizia, che è poco presente nel Nuovo Testamento e passa in secondo piano rispetto a quello, più intenso, del legame di amore e fratellanza fra tutti i credenti. Altri ottennero invece nuova visibilità: la grazia, per esempio, era un elemento marginale nel pensiero pagano, sia di ambito giuridico (dove non veniva prevista) che religioso. Gli dèi dell’Olimpo potevano sì comportarsi con benevolenza verso gli uomini, ma i loro doni erano limitati e casuali, e recavano soltanto un momentaneo aiuto o sollievo; in ambito cristiano, invece, attraverso

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La Passio Perpetuae et Felicitatis

Il martirio di Perpetua Simili agli Acta sono le Passiones, opere tuttavia più personali, e meno legate alla forma di un resoconto ufficiale. Capolavoro del genere è la Passio Perpetuae et Felicitatis, sul martirio di una giovane signora africana, Perpetua, della sua schiava Felicita e del loro catechista Saturo, avvenuto a Cartagine nel 202. Un’opera di tre autori? Il testo è presentato, nella prima parte, come opera della stessa Perpetua, che racconta i tentativi fatti dal padre per farle rinnegare il cristianesimo in cambio della libertà promessa dai giudici, e le difficoltà che il carcere comportava per una giovane madre, che aveva con sé il figlio ancora lattante. Seguono alcune parti composte apparentemente da Saturo, il quale racconta alcune sue visioni; l’opera si conclude con la narrazione del martirio, avvenuto durante i giochi nell’anfiteatro, e raccontata da un anonimo redattore (si è formulata l’ipotesi che l’intera narrazione sia opera di questo redattore, da identificare per alcuni con Tertulliano). Personaggi estranei alla gerarchia ecclesiastica Un dato di rilievo della Passio Perpetuae è, fra gli altri, il fatto che i personaggi additati all’ammirazione dei fedeli non fanno parte della gerarchia ecclesiastica di Cartagine: testimonianza, questa, di un momento in cui la proposizione di modelli esemplari non passava ancora necessariamente attraverso la mediazione dell’autorità ecclesiastica, che ben presto gestirà in proprio la propaganda dei martiri. La fortuna della Passio Perpetuae L’efficacia della Passio Perpetuae viene confermata dal suo successo presso i cristiani; su di essa furono modellate altre successive Passioni africane, composte da gruppi ereticali, e se ne fece addirittura una traduzione greca. È questo un evento molto raro, per quei tempi, in cui il mondo latino cristiano era debitore di quello greco per elaborazioni di pensiero e opere letterarie: la Passio Perpetuae è senz’altro uno dei primissimi testi latini che gli orientali ritenessero opportuno conoscere. Le Passiones e il romanzo In epoca più tarda il genere delle Passioni subisce un’evoluzione che lo accosta progressivamente ad altri

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Gli apologisti

I primi scrittori latini cristiani Accanto agli Acta martyrum e alle Passiones, forme di letteratura a volte popolare, ma non per questo meno interessante anche sul piano della resa stilistica, intorno alla fine del II secolo compaiono anche i primi scrittori latini cristiani sui quali si posseggono informazioni sufficienti perché siano presentati con un’immagine più compiuta. La produzione letteraria che si propone la diffusione delle teorie cristiane e la loro difesa dagli attacchi dei pagani va sotto il nome di «apologetica», e «apologisti» sono comunemente chiamati gli scrittori che operano in tal senso tra gli ultimi anni del II secolo e i primi del IV (in greco apologhìa vuol dire «discorso di difesa»). Le Apologie in latino Anche per queste opere c’è da segnalare un più rapido sviluppo nel mondo orientale, e un relativo ritardo in quello occidentale: le prime Apologie scritte a Roma sono opera di Giustino, martire nel 165, ma sono composte in greco, e ancora in greco sono varie altre opere di poco più tarde, scritte con le medesime intenzioni in diverse parti dell’Impero. I primi a scrivere in latino sono Minucio Felice e Tertulliano, ai quali spetta il titolo di primi autori latini cristiani. Quale dei due sia più antico è un problema pressoché insolubile: di Tertulliano conosciamo bene molte vicende, e possiamo ragionevolmente ricostruirne la cronologia; tutto più incerto è invece per Minucio Felice, e gli argomenti su cui ci si basa per considerarlo più o meno recente di Tertulliano sono prevalentemente soggettivi e reversibili, o interpretabili in maniera diversa, a seconda delle tesi sostenute dagli studiosi. Opposte tendenze della letteratura cristiana È comunque importante osservare che fin dagli inizi si manifesta – nelle diverse posizioni assunte da Minucio e Tertulliano – quella che sarà una costante all’interno della produzione letteraria cristiana: da un lato (con Minucio) una tendenza conciliante, che cerca di non rompere con il passato classico e di recuperare da esso quanto non sia in stridente contrasto con il messaggio cristiano; dall’altro (con Tertulliano) un atteggiamento di rigorosa intransigenza, che postula una decisa svolta rispetto al mondo pagano e ai suoi valori, anche se tale svolta si esprime in una lingua letteraria che risente comunque degli

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Tertulliano, ovvero l’integralismo della fede

6.1 LA VITA E LE OPERE Notizie biografiche Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nacque a Cartagine intorno alla metà del II secolo da genitori pagani; studiò retorica e diritto nelle scuole tradizionali, dove apprese anche il greco; esercitò la professione di avvocato in Africa, e per un certo periodo anche a Roma, prima del rientro in patria e della conversione, che avvenne soltanto in età piuttosto avanzata, probabilmente verso il 195. Fu anche prete, e le sue posizioni religiose si dimostrarono molto rigorose, tanto che nel 213 finì con l’aderire a una delle sette ereticali più note per l’intransigenza e il fanatismo, quella dei montanisti; negli ultimi anni di vita abbandonò anche questo gruppo, e ne fondò uno nuovo, che si chiamò dei tertullianisti. Morì dopo il 220, anno a cui risalgono le ultime notizie che abbiamo su di lui. Opere teologiche e di polemica contro il paganesimo Di Tertulliano ci sono pervenuti oltre trenta scritti, a orientamento teologico e polemico; polemiche contro i pagani e contro i cristiani che non condividevano le sue tesi. Tra i più notevoli ricordiamo: Ad martyras, esortazione a un gruppo di cristiani incarcerati e in attesa del martirio; Ad nationes, Apologeticum e De testimonio animae, composti tutti e tre nel 197, per difendere il cristianesimo dagli attacchi dei pagani; De praescriptione haereticorum, del 200 circa, contro i cristiani che contaminano la loro fede con dottrine filosofiche pagane e propugnano interpretazioni troppo libere del testo biblico; De anima, scritto intorno al 211, forse l’opera più notevole della maturità di Tertulliano, nella quale sono rielaborate ampiamente anche fonti pagane; Ad Scapulam, del 212, indirizzato al governatore dell’Africa proconsolare che conduceva una campagna contro i cristiani. Opere morali Accanto a queste vanno ricordate opere che affrontano problemi morali e di comportamento del cristiano nella vita quotidiana, offrendo pertanto al lettore anche spunti interessanti sulla società africana tra II e III secolo: De spectaculis, contro la partecipazione agli spettacoli del teatro, dell’anfiteatro e del circo; De cultu feminarum, sui vestiti delle donne, che devono essere particolarmente discreti; De virginibus velandis,

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Minucio Felice: un ponte fra mondo classico e cristianesimo

7.1 LA VITA E LE OPERE Notizie biografiche Anche lui avvocato e africano (era nato probabilmente a Cirta, la patria di Frontone), Marco Minucio Felice esercitava la sua attività a Roma, dove godeva di condizioni di buona agiatezza economica. Contemporaneo di Tertulliano, secondo alcuni scrisse qualche anno prima di lui, sul finire del II secolo; secondo altri, invece, la sua opera deve essere collocata nei primi decenni del III secolo, fra la produzione di Tertulliano e quella di Cipriano. Oltre al dialogo Octavius, che ci ha lasciato, Minucio avrebbe scritto un De fato, che però non ci è pervenuto. Il contenuto dell’Octavius Il dialogo Octavius si svolge sul lido di Ostia, fra tre personaggi: il pagano Cecilio, il cristiano Ottavio e Minucio stesso. Ottavio rimprovera Cecilio per un gesto di adorazione a una statua del dio Seràpide, e Cecilio propone di esporre le reciproche ragioni e di nominare Minucio giudice della controversia; ma dopo le due orazioni, quella di Cecilio contro il cristianesimo e quella di Ottavio a suo favore, non c’è bisogno di un giudizio, perché Cecilio ammette di essere stato sconfitto. 7.2 MINUCIO E TERTULLIANO Argomentazioni razionali a favore del cristianesimo Gli argomenti discussi sono quelli che compaiono anche negli altri apologeti, compreso Tertulliano: il monoteismo è preferibile, anche razionalmente, al politeismo; i cristiani non sono colpevoli dei misfatti che vengono loro imputati, anzi spesso sono proprio i loro accusatori a essere macchiati da tali colpe; se i pagani comprendessero le istanze di pace e di amore del cristianesimo non lo avverserebbero, anzi si convertirebbero subito. Minucio e i pagani colti La differenza fra la trattazione impostata da Minucio e quella di Tertulliano, per esempio nell’Apologeticum, non potrebbe però essere più evidente: Minucio è scrittore fine e delicato, rifugge dalle grossolanità che Tertulliano invece ama; Minucio fonda la sua

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Cipriano, il vescovo martire

8.1 LA VITA E LE OPERE Notizie biografiche Tascio Cecilio Cipriano nacque intorno al 200 a Cartagine, si formò nelle scuole di quella città, fu rinomato maestro di retorica fino al 246, quando si convertì e donò tutti i suoi beni ai poveri. Eletto vescovo alla fine del 248, dovette affrontare la durissima persecuzione decretata dall’imperatore Decio nel 250, durante la quale dimostrò grande coraggio e seppe evitare alla comunità cristiana lutti ancora più gravi; non sfuggì, invece, alla persecuzione di Valeriano nel 257258, quando fu processato e condannato all’esilio, poi richiamato per un secondo processo, che si concluse con la condanna a morte e il martirio, il 14 settembre del 258. Le opere Vari gli scritti di carattere apologetico, come l’Ad Donatum, sulla propria conversione (alcuni toni autobiografici hanno fatto vedere in quest’opera un precedente alle Confessioni di Agostino), e l’Ad Demetrianum, sulle colpe dei pagani e le punizioni divine, o il Quod idòla dii non sint, della cui autenticità alcuni dubitano. Altri trattati affrontano questioni connesse con la guida della diocesi di Cartagine, come il De lapsis, sulla questione dell’atteggiamento da tenere nei riguardi di quei cristiani che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni, ma si erano poi pentiti e volevano rientrare nella comunità ecclesiastica; il De catholicae ecclesiae unitate, ferma presa di posizione contro tutte le eresie e gli scismi, che Cipriano considera una sciagura maggiore delle stesse persecuzioni contro i cristiani (l’opera fu inviata a Roma e utilizzata come la più compiuta teorizzazione del primato papale, minacciato in quel periodo dallo scisma di Novaziano: vedi p. 238); il De habitu virginum, il quale verte sui comportamenti che devono tenere le donne che abbiano fatto voto di consacrarsi a Dio. Molto importante è anche l’epistolario, che comprende ottantuno lettere, sessantacinque di Cipriano e sedici a lui inviate; da esso possiamo dedurre precise informazioni sulle condizioni di vita nell’Africa proconsolare alla metà del III secolo e sui problemi che le persecuzioni creavano alle comunità cristiane.

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Altri apologisti: Novaziano e Vittorino di Poetovium

Un’ampia produzione apologetica: Novaziano Tertulliano, Minucio Felice e Cipriano sono i tre principali scrittori di questo secolo, ma accanto ad essi fiorirono molti altri apologisti, a noi più o meno noti, e la polemica fra le diverse sette del cristianesimo diede vita a una vasta letteratura di argomento teologico e dottrinale, che qui non può essere trattata in maniera esaustiva e neppure accennata con sufficiente ampiezza. Basterà ricordare Novaziano, un prete di Roma, che nella questione dei lapsi si schierò contro Cipriano. Quando, dopo più di un anno di sede vacante, nel 251 fu eletto papa Cornelio, il quale sul problema dei lapsi condivideva le posizioni di Cipriano, Novaziano, postosi a capo del partito rigorista, si lasciò eleggere a sua volta papa dai propri seguaci, dando vita a un’eresia che durerà più di un secolo. La sua opera principale è un De Trinitate (un titolo che avrà molta fortuna nella letteratura successiva); compose inoltre un De spectaculis e un De bono pudicitiae, chiaramente ispirati a Tertulliano. Vittorino di Poetovium Vittorino di Poetovium (oggi Ptuj, in Slovenia) è un altro ecclesiastico che ci ha lasciato opere in latino; morì nel 304, vittima della persecuzione scatenata da Diocleziano. Scrisse molti commenti biblici, sui quali ci informa Girolamo; di essi ci resta solo un commento all’Apocalisse, la più antica opera di esegesi biblica in lingua latina che ci sia giunta. Bibliografia Fra le storie della letteratura latina cristiana di più utile consultazione e più facilmente reperibili per il lettore italiano si ricordano M. SIMONETTI , La letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze-Milano 1969; J. FONTAINE , La letteratura latina cristiana, trad. it. Bologna 1973; S. D’ELIA , Letteratura latina cristiana, Roma 1982. Per le collane di testi, oltre a quelle dedicate in generale agli autori latini (Les Belles Lettres, Oxford, Teubner, Corpus Paravianum, Classici UTET, ecc.) riguardano esclusivamente gli scrittori cristiani J.P. MIGNE , Patrologiae cursus completus. Series Latina, Paris 1844 ss., 221 voll. + 4 di

La poesia cristiana: Commodiano 22 1

L’unico poeta del cristianesimo delle origini

Un poeta per le persone semplici Fra tanti scrittori in prosa il cristianesimo delle origini produce un solo ma significativo poeta, Commodiano. A differenza degli altri scrittori cristiani, egli non mostra profonde competenze teologiche, né tanto meno particolare raffinatezza stilistica: la sua poesia si rivolge ai più semplici con un linguaggio elementare e toni apocalittici. Una biografia incerta Le notizie su Commodiano sono talmente incerte che alcuni studiosi lo collocano addirittura nel V secolo, ma sembra più probabile una datazione alla metà del III secolo, quando scoppiarono le persecuzioni di Decio e di Valeriano, alle quali fanno forse riferimento alcuni suoi versi. Da un altro suo passo si ricava che era originario di Gaza, in Palestina, da dove però doveva essere partito per recarsi in Occidente, probabilmente in Africa, come dimostrerebbero le somiglianze di contenuto con le opere dei contemporanei apologisti africani e le particolarità metriche, che compaiono piuttosto simili in molte iscrizioni africane del IIIIV secolo. Ma anche su questi punti gli studiosi sono in disaccordo, e c’è chi esclude la sua origine orientale, e chi pensa che la sua attività si sia svolta nella Gallia meridionale, o anche a Roma. Le opere: le Instructiones… Ci sono giunte le Instructiones, in due libri per complessivi ottanta componimenti in esametri, di varia lunghezza, da un minimo di sei a un massimo di quarantotto versi. Il Libro I comprende i carmi contro i pagani e quelli contro gli Ebrei; il II le composizioni per i cristiani, rimproverati per i loro peccati ed esortati a una vita più devota. I carmi sono degli acrostici: le prime lettere dei singoli

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Il poeta dei poveri e dei diseredati

Una voce fuori dal coro Commodiano è per molti aspetti un poeta strano, una voce anomala nel panorama della poesia latina: è interessato alle fasce meno alte della società, e nelle sue opere rappresenta le credenze e le aspirazioni dei diseredati, le loro passioni forti e senza sfumature, avvalendosi di un latino che risente degli sviluppi del parlato e di una metrica priva ormai di continuità con quella dei classici. Anche nel campo della dottrina cristiana le sue conoscenze sono piuttosto approssimative e grossolane, lontane dalle ricche elaborazioni degli apologisti occidentali e dalle raffinate elucubrazioni di quelli orientali: non si spiega bene il ruolo dello Spirito Santo, pensa che gli dèi pagani siano figli degli angeli e di donne mortali, è convinto che la fine del mondo sarà preceduta da un’età felice sulla terra: saranno rovesciati gli Stati che si fondano sull’ingiustizia e sullo sfruttamento dei deboli, e verrà un regno terreno di Dio, in cui i poveri, i derelitti, i maltrattati vedranno esaudite le loro speranze e riconosciuti i loro diritti. Il «millenarismo» Questa speranza, cosiddetta «millenaristica», che credeva in un concreto cambiamento delle condizioni di vita sulla terra, prima e più che nelle ricompense celesti del paradiso, era assai diffusa nel cristianesimo degli ambienti più umili e rispondeva a precise esigenze sociali. Un polemista poco efficace Se come teorico Commodiano è quantomeno confuso, anche come polemista mostra qualche limite. Ha l’irruenza e la forza di un Tertulliano, e come lui è capace di trovare improperi popolari e pesanti per i pagani e per i Giudei, ma gli mancano la fantasia e la capacità retorica dell’avvocato cartaginese: le ripetizioni sono piuttosto frequenti, le volgarità scontate e poco efficaci. I tratti più incisivi sono il rigoroso moralismo, la profonda convinzione di essere dalla parte giusta, lo scontro con le morenti istituzioni classiche. L’ultimo dei profeti L’ardore con cui sono presentate le visioni apocalittiche, e le speranze rivoluzionarie in esse riposte, fa sì che Commodiano sia stato definito l’ultimo dei profeti; l’unico che si sia espresso in lingua latina. Riconoscere fino a che punto l’autore si faccia

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Lo stile

Verso una nuova metrica Il verso di Commodiano colpisce per la sua anomala prosodia, completamente diversa da quella classica. L’esametro non è più una successione regolare di sillabe brevi e sillabe lunghe, ma una riga composta di un certo numero di sillabe (non più di diciassette e non meno di dodici); è l’andamento degli accenti tonici delle parole, non l’alternanza quantitativa, a garantire il ritmo dell’insieme. In questo senso Commodiano anticipa l’evoluzione che dalla metrica quantitativa porterà alla poesia accentuativa propria delle lingue romanze. Semplicità nel lessico e nello stile Questa novità si mescola con un lessico elementare e ripetitivo, con una sintassi semplificata ai limiti del possibile, con una logica sommaria e a volte assurda nella sua partigianeria. Ne risulta, come dicevamo, l’immagine di una figura atipica e stimolante: uno scrittore che non ignora completamente i classici e le tradizioni, ma li riprende in forme banalmente scolastiche o estremamente modificate, involgarite, popolareggianti; un poeta che si presenta come portavoce degli emarginati, con tutte le loro spinte irrazionali, violente, ma anche con una sete di giustizia confortata dalla promessa divina; un polemista che alterna le piccole meschinità dell’invettiva personale contro l’avversario a vasti affreschi cosmici sul ritorno del Cristo e sul fuoco che brucerà i malvagi, risparmiando i pochi onesti che ci sono a questo mondo. LA VOCE DEGLI AUTORI

La confessio di Commodiano Racconto di una conversione Gli aspetti più caratteristici di Commodiano, lo spirito moralistico, la polemica con il mondo pagano e la convinzione di aver abbracciato la vera fede, emergono già nei primi versi del Carmen apologeticum (vv. 1-14). Commodiano racconta la propria conversione alludendo a una duplice confessio (sullo slittamento di significato che subisce il termine in età cristiana vedi la scheda a p. 315): riconosce ancora il proprio errore per aver seguito idoli pagani

Tra continuità e innovazione: poesia ed erudizione nel III secolo 23 1

Gli ultimi prodotti dei poetae novelli

Uno scarso interesse per la poesia Gran parte della produzione poetica del III secolo può essere ricondotta al filone dei poetae novelli del secolo precendente. Si tratta di componimenti che rielaborano temi e argomenti della poesia classica, con una marcata tendenza a ricercare atmosfere rarefatte e funambolismi tecnici, appunto secondo il gusto che era stato proprio dei poetae novelli dell’età antoniniana. Anche quantitativamente la produzione che ci è pervenuta non pare rilevante: pochi autori, poche opere, non molti versi, tanto che non è difficile dedurre una complessiva riduzione di interesse per la poesia nella società dell’epoca. Del resto gli autori cristiani, dai quali vengono le maggiori novità per la produzione letteraria in prosa, non hanno interesse alla poesia (unica eccezione Commodiano, se davvero visse nel III secolo): evidentemente la forma poetica non è ritenuta adatta alle esigenze di confutazione degli avversari e di divulgazione religiosa, che restano primarie in tutto il periodo delle persecuzioni.

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L’Anthològia Latina

Una raccolta di origine scolastica Molte delle composizioni che si è soliti assegnare a questo periodo sono state conservate nell’Anthològia Latina, una vasta raccolta di carmi messa insieme in Africa nel VI secolo. Contiene prevalentemente scritti di poeti africani della tarda antichità, ma non trascura anche testi di epoche più antiche, soprattutto se attribuiti ad autori di grande fama (è il caso di alcuni epigrammi che vanno sotto il nome di Seneca o di Petronio). L’antologia rimanda ad ambienti scolastici, dove quei versi potevano essere sopravvissuti anche dopo le invasioni barbariche, e ha il merito di tramandarci opere e autori che altrimenti sarebbero andati irrimediabilmente perduti. Una copia, in un antico codice conservato ora a Parigi, fu in possesso dell’umanista francese Claude de Saumaise (o, in latino, Salmasius, 1588-1653): di qui il nome di codex Salmasianus per questo fondamentale testimone dell’Anthològia Latina. Altre poesie che ci sono pervenute in altri manoscritti sono state unite alla silloge del Salmasiano nell’edizione fondamentale dell’Anthològia Latina, a cura di Riese. Un’ulteriore fonte di conoscenza per la cultura letteraria di quest’epoca sono varie composizioni epigrafiche in versi, soprattutto iscrizioni tombali, in gran parte edite da Buecheler in un’altra sezione dell’Anthologia. Non è sempre facile datare le varie poesie della raccolta: spesso mancano raffronti di qualsiasi genere e i nomi degli autori sono altrimenti sconosciuti. 2.1 IL PERVIGILIUM VENERIS Incertezze nella datazione Il tema della natura è una costante di molte delle composizioni che fanno parte dell’Anthològia, dai numerosi carmi sulle rose a quello che è forse il più famoso tra i pezzi della raccolta, l’anonimo Pervigilium Veneris («Veglia di Venere»). I problemi di datazione non mancano anche per questo testo, che alcuni assegnano all’età degli Antonini, per talune coincidenze con lo stile e il gusto dei novelli (si è

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Terenziano Mauro, la metrica in versi

Trattati grammaticali e metrici Assai importante ai fini della conoscenza delle tecniche poetiche di questo periodo è l’opera grammaticale e metrica in versi di Terenziano Mauro, esperto di grammatica e teorico della poetica dei novelli vissuto negli ultimi anni del II secolo (alcuni però lo considerano più tardo di circa un secolo). Di Terenziano Mauro ci sono rimaste tre opere, tramandate in un unico volume, ma distinte l’una dall’altra: un breve De litteris, un De syllabis e un più lungo De metris, che ci è giunto incompleto. Nel De litteris si descrivono suoni e segni delle vocali e delle consonanti, ma non manca una parte sul valore numerico delle lettere e sulle loro possibilità misticomagiche in alcune formule particolari. Il De syllabis esamina vocali e dittoghi e poi questioni prosodiche sulla quantità delle varie sillabe nella versificazione esametrica. La teoria metrica di Terenziano, esposta nel De metris, appartiene alla scuola «derivazionista» che si rifaceva a Cesio Basso e, prima ancora, a Varrone. Secondo questa tesi, tutti i metri greci e latini sarebbero modificazioni di due strutture metriche fondamentali, l’esametro e il trimetro giambico, i quali avrebbero dato origine agli altri versi per mezzo di aggiunte, sottrazioni e modificazioni di sillabe; un ruolo importante in questo sistema è riservato anche al falecio, il verso caratteristico di Catullo. Il trattato di Terenziano non si limita a esporre la teoria ma fornisce sempre degli esempi pratici e per alcuni metri è l’unica testimonianza di cui disponiamo.

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Saggezza e medicina in versi

I Disticha Catonis Molto famosi durante il Medioevo per il loro carattere di piccoli condensati di saggezza, facili a ricordarsi e adatti alla citazione, furono i cosiddetti Disticha Catonis. Si tratta di una raccolta di massime, ognuna di due esametri, che occupa ben quattro libri e fu messa insieme tra la fine del II e l’inizio del IV secolo. Il nome di Catone il Vecchio, indicato come autore delle sentenze, richiama, insieme all’immagine di uomo saggio e integerrimo, celebre moralista, il titolo di un’opera autentica di Catone, il Carmen de moribus; per rendere più credibile la paternità catoniana dei versi si approntò anche una dedica al figlio. I distici sono basati sulla saggezza popolare romana, ma con riferimenti anche alla tradizione letteraria e ai modelli arcaici. I precetti riguardano le piccole cose di tutti i giorni, il comportamento da tenere con gli amici, con i vicini, con le donne. È stato giustamente notato che quest’invito a tenere presenti le virtù dei progenitori e le qualità che avevano resi grandi Roma e il Lazio nasce proprio negli anni in cui, con l’editto di Caracalla, la cittadinanza romana viene estesa a tutti gli abitanti dell’Impero, e giunge a compimento quella tendenza all’allargamento dei diritti che tanto aveva scandalizzato i moralisti dei secoli precedenti, come Giovenale. Il Liber medicinalis di Sereno Sammònico Di salute, malattie e rimedi si interessava invece Quinto Sereno Sammònico, importante personaggio che visse alla corte dei Severi e dei Gordiani. Possedeva una ricchissima biblioteca che contava ben 62.000 volumi, e sulle sue molte letture, più che su una concreta esperienza di medico, fondava le proposte di cure elencate nella sessantina di ricette che compongono il suo Liber medicinalis, in più di 1100 esametri. La fonte principale è Plinio il Vecchio, ma sono presenti altri modelli e Sereno ama anche arricchire le sue ricette con citazioni letterarie da Plauto, Lucrezio, Orazio e altri scrittori greci e latini. Le cure suggerite riguardano varie malattie, indicate in ordine dalla testa verso i piedi. Accanto a medicine tratte da essenze naturali, Sereno propone anche formule e oggetti magici, come i foglietti con la scritta abracadabra; sembra preoccuparsi inoltre di fornire medicamenti per tutti i pazienti e non

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Nemesiano e la poesia didascalica

La Cynegetica Marco Aurelio Olimpio Nemesiano, poeta africano, probabilmente di Cartagine, visse nella seconda metà del III secolo, come dimostra la dedica della sua opera principale, i Cynegetica, agli imperatori Carino e Numeriano (283-284). La poesia didascalica che aveva per argomento la caccia aveva riscosso e continuava a riscuotere in quegli anni un buon successo in lingua greca, come dimostrano varie opere in prosa o in versi; a Roma poteva contare il precedente di Grattio Falisco (vedi pp. 14 ss.), autore anch’egli di Cynegetica; e proprio con Grattio (e con gli Halieutica attribuiti a Ovidio) il testo di Nemesiano è tradito nel codice ritrovato da Sannazzaro, che ce lo conserva. Per quanto è possibile giudicare dai non molti esametri che ci sono pervenuti (soltanto 325, per un guasto della tradizione manoscritta), l’intento didascalico lascia spazio a eleganti descrizioni di paesaggi, ispirati a Virgilio. Le egloghe di Nemesiano Alle Bucoliche virgiliane si richiamano strettamente le quattro Egloghe che ci sono pervenute sotto il nome di Nemesiano e che costituirono un unico corpus insieme alle egloghe di Calpurnio Siculo (sulla base delle affinità stilistiche e tematiche, alcuni datano il poeta d’età neroniana a un’età molto più vicina a quella di Nemesiano, vedi pp. 23 ss.).

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La letteratura erudita

Le scuole pubbliche, per la formazione di un ceto di burocrati Nel III secolo registriamo una notevole crescita dell’importanza delle scuole, un fenomeno che raggiungerà la massima evidenza nel secolo seguente. La trasformazione dell’amministrazione statale, non più privilegio esclusivo degli esponenti delle famiglie più importanti, ma vera e propria carriera riservata a professionisti di varia estrazione sociale, comportò la creazione di centri scolastici atti alla formazione di questo ceto di burocrati. Assistiamo infatti a un significativo aumento delle scuole pubbliche, statali e municipali, che si affiancano a quelle private e si dimostrano attive in vari campi dello scibile, da quelli tradizionali della grammatica, della retorica e della giurisprudenza, a quelli scientifici come la medicina, l’architettura, la musica. Le scuole cristiane Nel mondo della scuola sono particolarmente attivi i cristiani, che si dedicano all’insegnamento in strutture sia pubbliche che private. La scuola cristiana non fu però confessionale: i programmi erano identici a quelli delle scuole non cristiane e finalizzati alla formazione di un corpo di funzionari ben preparati, sufficientemente omogeneo per mentalità e cultura. La diffusione del libro: dal volumen al codex Questa notevole diffusione della cultura, e quindi del libro, contribuisce alla progressiva sostituzione del vecchio, costoso volumen, il rotolo di papiro, con il nuovo codex, fatto di pagine di pergamena, più economico e più adatto a prendere appunti e contenere dispense e raccolte di lezioni scolastiche. Alla base di ogni istruzione rimangono sempre i classici, soprattutto Cicerone e Virgilio, sui quali i fanciulli prima imparano a leggere e in seguito apprendono le regole della grammatica e i precetti della retorica; dai classici si ricavano le informazioni erudite e antiquarie che costituiscono il bagaglio culturale comune a tutti gli appartenenti ai ceti medio-alti. Accanto ai classici vengono impiegati molti manuali, di varia dimensione, che affrontano le molteplici discipline oggetto d’insegnamento: così, ad opere grammaticali di tipo tradizionale, a commenti di classici, a trattati retorici si affiancano

Il contesto. Da Costantino al sacco di Roma 24 Storia 1

Costantino (312-337 d.C.) e la cristianizzazione dell’Impero

L’avvento di Costantino e la conversione del 312 Dopo l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, nel 305 diventarono augusti i due cesari Galerio e Costanzo Cloro, ma il meccanismo della successione previsto dall’istituto della tetrarchia era destinato a fallire: morto improvvisamente Costanzo nel 306, l’esercito acclamò imperatore suo figlio Costantino, mentre a Roma veniva nominato il figlio di Massimiano, Massenzio; poco dopo si impose sulla scena anche un generale fedele a Diocleziano, Licinio. Morto Galerio nel 311, Costantino affrontò Massenzio e lo sconfisse al ponte Milvio nel 312; secondo la tradizione fu quell’evento a determinare la conversione di Costantino, che alla vigilia della battaglia, obbedendo a una visione mistica, aveva ordinato di porre sulle insegne il simbolo cristiano della croce, che gli avrebbe assicurato la vittoria. Quando Costantino sferrò l’attacco definitivo a Licinio nel 324, battendolo ad Adrianopoli, in Tracia, e sull’Ellesponto, poteva ormai presentarsi come il campione della fede cristiana. Verso il cesaropapismo: la repressione delle eresie Benché l’accordo di Milano del 313 avesse impegnato Costantino e Licinio a una politica di tolleranza religiosa, di fatto Costantino aveva favorito la Chiesa concedendo privilegi, come l’immunità fiscale ai chierici o il

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Da Costantino a Teodosio

Dopo Costantino Alla morte di Costantino nel 337, la successione al potere dei figli Costanzo II in Oriente e Costantino II in Occidente fu accompagnata dall’eliminazione dei rami collaterali della dinastia. Tuttavia Costantino II dovette presto affrontare la ribellione del fratello minore Costante, che lo sconfisse ma cadde a sua volta nella congiura del 350. Costanzo fece allora ricorso agli unici due sopravvissuti all’epurazione dinastica, i giovani Gallo e Giuliano, nominando cesare il primo in Oriente nel 350, il secondo in Gallia nel 355. A sua volta Giuliano, battuti gli Alamanni nel 357 a Strasburgo, fu acclamato augusto dall’esercito a Parigi e invano cercò l’accordo con Costanzo, allora impegnato in una nuova campagna contro i Persiani: Costanzo marciò contro Giuliano ma morì in Pannonia prima dello scontro. Giuliano l’Apostata (357-363 d.C.): la rivincita del paganesimo Giuliano, benché educato al cattolicesimo, si era convertito al paganesimo (di qui il soprannome di Apostata): giunto al potere, attuò un programma di restaurazione della tradizione classica e del paganesimo, cui tentò di restituire un ruolo egemone nelle istituzioni imperiali. Inaugurando una politica religiosa anticristiana, con l’abolizione dei privilegi finora concessi alla Chiesa e la restaurazione dei templi pagani, incontrò l’opposizione dei cristiani e anche dei pagani meno intransigenti, che volevano la tolleranza religiosa. In campo militare Giuliano rilanciò con obiettivi ambiziosi ma con scarso successo la campagna persiana che Costanzo aveva abbandonato e vi trovò la morte nel 363. Valentiniano, Valente e Graziano Il successore scelto dai generali di Giuliano, Gioviano, trattò la pace con il re persiano Sapore II e morì nel viaggio di ritorno dall’Oriente. A sostituirlo fu chiamato ancora un ufficiale dell’esercito, Valentiniano. Divenuto imperatore nel 364, Valentiniano affidò l’Oriente al fratello Valente e si associò il figlio Graziano. Costretto ad affrontare una recrudescenza di ribellioni locali, Valentiniano rafforzò il legame dell’esercito con il potere imperiale attraverso una politica a favore dei soldati, che lo portò a scontrarsi con l’aristocrazia senatoria. Alla morte di Valentiniano, fatto eliminare da Graziano nel 375, i generali imposero la

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Teodosio (379-395 d.C.): il cristianesimo religione di Stato

Una politica filobarbarica Quando Teodosio ascese al potere, l’esercito romano da tempo faceva ricorso a contingenti barbarici per sopperire all’enorme sforzo bellico della difesa, con l’effetto che alcuni elementi non romani avevano raggiunto anche i vertici della gerarchia militare. In particolare i Goti, già convertiti al cristianesimo, avevano ripetutamente fornito soldati e generali all’Impero, suscitando tensioni irrisolte all’interno del loro stesso gruppo. Comunque, la strategia romana di rigida difesa dei confini si era rivelata fallimentare. Teodosio cambiò radicalmente la politica imperiale: nel 381 autorizzò lo stanziamento di un vasto gruppo di Goti nella penisola balcanica, legandoli a Roma con un trattato di alleanza. La politica religiosa: la questione dell’altare della Vittoria Nei primi anni di governo Teodosio affrontò il problema religioso: nel 380 proclamò di nuovo l’ortodossia del simbolo di Nicea, e nei due anni seguenti convocò ben cinque concili per combattere l’arianesimo. A Roma intanto si era riacutizzata la resistenza pagana per la politica a favore della Chiesa promossa da Graziano e sostenuta dall’attività del vescovo di Milano Ambrogio. Nel 382 l’abolizione di tutti i culti pagani con la conseguente rimozione dei simboli religiosi tipici della tradizione classica portò al celebre scontro tra Ambrogio e un autorevole esponente del Senato romano, Aurelio Simmaco, sulla questione dell’altare della Vittoria, alla cui rimozione dalla curia l’aristocrazia senatoria tentò di opporsi, incontrando la fiera opposizione del vescovo milanese. Teodosio e Ambrogio: un duello finito con la condanna del paganesimo La repressione violenta della rivolta di Tessalonica ordinata dall’imperatore provocò la dura reazione di Ambrogio: Teodosio fu scomunicato e costretto a fare pubblica ammenda nel Natale del 390. Subito dopo l’imperatore inasprì la politica antipagana, proibendo ogni atto pubblico di culto, cioè i riti privati e i culti collettivi che si celebravano nei templi. La resistenza dell’aristocrazia senatoria si coagulò allora intorno alla figura di un nuovo usurpatore, il professore di retorica Eugenio, imposto

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L’Impero dopo Teodosio

Un unico Impero con due sedi distinte Alla sua morte nel 395, Teodosio lasciò l’Impero d’Oriente al figlio maggiore Arcadio e l’Impero d’Occidente al figlio minore Onorio, di cui affidò la tutela al generale Stilicone; una soluzione, questa, che favorì l’evoluzione indipendente delle due strutture amministrative e burocratiche, destinate a divenire realtà politiche distinte. In Occidente Stilicone dovette affrontare l’emergenza creata dall’intensificarsi delle incursioni barbariche nel territorio dell’Impero. Per ragioni difensive nel 402 la corte fu trasferita a Ravenna, che da allora divenne la residenza stabile dell’imperatore in Occidente. Le invasioni barbariche e il sacco di Roma (410 d.C.) Nel 402 Stilicone sconfisse una prima volta i Visigoti di Alarico e batté nel 405 una nuova coalizione di barbari a Fiesole. Nel 406 il fronte del Reno cedette di nuovo a una violenta invasione di Alani, Suebi e Vandali. Alarico, intanto, chiedeva l’insediamento del suo popolo nei Balcani in cambio dell’impegno a non invadere più l’Italia. In un clima di estrema difficoltà Stilicone cadde in una congiura di palazzo nel 408. Dopo trattative mal gestite dalla corte, Alarico calò in Italia da nord e nel 410 mise a sacco Roma per tre giorni.

Società e cultura 5

Un secolo di grandi mutamenti sociali

L’età di Costantino, tra stabilità politica e cambiamenti sociali L’ascesa al trono della dinastia di Costantino inaugurò un nuovo periodo di stabilità politica, assicurando all’Impero un’ultima stagione di fioritura, che vide una produzione letteraria fra le più imponenti nella storia dello Stato romano. In Occidente, la vita si spostò, per la prima volta da secoli, nelle campagne: i grandi latifondi, come le villae galliche, garantirono ai poveri una vita più sicura, meglio fornita dei mezzi di necessaria sussistenza. Le città si spopolarono. La Chiesa, ormai saldamente organizzata come struttura di potere, cooperava con l’autorità amministrativa, spesso svolgendo una funzione vicaria dello Stato. I grandi concili e le grandi eresie Il IV secolo fu il momento dei grandi concili e delle grandi eresie, spesso represse nel sangue. Proprio perché il cristianesimo era diventato ormai un’istituzione ufficiale, l’adesione all’ortodossia divenne una questione di Stato. Oltre al donatismo e all’arianesimo, che presto si diffuse enormemente (ariani furono i primi missionari partiti a convertire i Germani), lacerarono la Chiesa il manicheismo e, soprattutto, il pelagianesimo. Il pelagianesimo Pelagio era un monaco britannico, vissuto tra la fine del IV e il principio del V secolo. Di lui possediamo una Epistula ad Demetriadem seu liber de institutione virginis, un Libellus fidei ad Innocentium papam e un commento alle Lettere di san Paolo. Perduta è invece l’opera fondamentale, il De libero arbitrio, in quattro libri. Punto centrale dell’eresia pelagiana è che le opere buone, da sole, la vita pura, il comportamento onesto possono meritare all’uomo il paradiso. Questa dottrina non teneva conto della necessità della grazia per la salvezza dell’uomo, e quindi svalutava il ruolo di mediazione della Chiesa. Contro Pelagio polemizzerà severamente sant’Agostino.

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La fine di Roma come fine del mondo

Stupore e paura di fronte a un evento epocale Il sacco di Roma fu un momento di grande impressione, sia per i pagani sia per i cristiani. Molti cristiani pensarono che fosse giunta la fine del mondo, con le distruzioni profetizzate nell’Apocalisse; altri ebbero momenti di crisi: se l’Impero di Roma era stato voluto da Dio per facilitare la diffusione della vera fede (una teoria che rimane ben salda nelle interpretazioni teologiche e finalistiche della storia elaborate dagli intellettuali cristiani, fino a Dante e oltre), se la pace romana era il presupposto della pace cristiana, e finiva con l’identificarsi in essa, come mai Dio poteva permettere tante rovine, e il rovesciamento di tutto ciò che era ritenuto eterno e immodificabile? Una seria riflessione sui rapporti tra religione e politica Ma gli ingegni più lucidi, e soprattutto Agostino, dall’imprevedibile caduta della città che era considerata «capitale del mondo», trassero i motivi di un ripensamento sostanziale del rapporto fra religione e politica, in contrapposizione alla tendenza verso la secolarizzazione (e la romanizzazione) del cristianesimo. Confutando l’accusa che gli ultimi pagani rivolgevano ai cristiani, e cioè che la nuova religione avesse indebolito le resistenze militari e ideologiche dello Stato, mettendone in crisi le tradizioni, questa nuova apologetica propose una diversa contrapposizione, non più fra gli Stati e i popoli, ma fra le due ‘città’, quella di Dio e quella dell’uomo, spazialmente coesistenti in tutte le parti del mondo, e in continua lotta per la salvezza o la dannazione. È un’impostazione che avrà grande diffusione nelle epoche successive e soprattutto nel Medioevo: insieme con le premesse del sistema economico feudale e della fusione tra cultura latina e germanica, questa novità religiosa segna la fase di passaggio dal mondo antico a una diversa società. Bibliografia Oltre ai manuali di Kovaliov, Maier e Mazzarino e al volume di Brown, già ricordati nella bibliografia relativa al III secolo, per il quadro storico complessivo si vedano E. STEIN , Histoire du Bas-Empire, trad. fr. Paris 1949; S. D’ELIA , Introduzione alla civiltà del Basso Impero, Napoli

La letteratura pagana in prosa: erudizione, oratoria e storiografia 25 1

Grammatica, filologia ed erudizione

La scuola e la continuità con il passato Nel mondo della scuola, che prosegue lungo le linee di crescita quantitativa e qualitativa già notate nel secolo precedente, la continuità con il passato è assai forte. Per la scuola passano i figli dei senatori e i futuri burocrati, nella scuola si pongono le basi dei futuri assetti ideologici dello Stato: di qui una grande attenzione da parte dei cristiani ma anche da parte del potere, con una copiosa legislazione in proposito, che diventa particolarmente precisa sotto Giuliano, detto l’Apostata, imperatore dal 361 al 363. Giuliano tentò di restaurare la religione tradizionale: proibì ai maestri cristiani l’insegnamento nelle scuole e impose la lettura e lo studio dei soli autori pagani. Enciclopedismo e trattati di grammatica Quel senso della fine di una civiltà che impronta l’intero IV secolo rende più tenace il bisogno di conservare, ricordare, insegnare l’antico. Si afferma in questo periodo la tendenza alla creazione di grosse raccolte enciclopediche, summae di lingua e letteratura, repertori capaci di conservare e tramandare ai posteri la tradizione classica. Nascono in questo contesto storicoculturale opere grammaticali come: l’Ars grammatica (in cinque libri, con osservazioni di stilistica e metrica) di Flavio Sosipatro Carisio, che intorno alla metà del secolo insegnò a Roma e a Costantinopoli; l’Ars grammatica di Diomede in tre libri su morfologia, stilistica e metrica; l’Ars grammatica di Dosìteo,

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L’oratoria

Collegata con il mondo della scuola e della cultura retorica è anche l’oratoria. E questo non solo perché la declamazione di discorsi basati su occasioni fittizie costituiva ancora una delle esercitazioni più importanti e diffuse nelle scuole di retorica, ma anche perché erano spesso maestri di scuola a tenere i discorsi ufficiali con cui si ringraziavano gli imperatori per le iniziative prese a favore dello Stato o di una particolare regione. Si tratta di un preciso genere letterario, non nuovo, ma canonizzato da poco da retori greci, soprattutto da Menandro di Laodicea (III secolo d.C.): quello dei panegyrici. 2.1 I PANEGYRICI LATINI Caratteri e datazione Di quelle particolari orazioni che prendono il nome di panegirici ci è pervenuta un’importante raccolta che va sotto il nome di Panegyrici Latini, e comprende dodici discorsi rivolti a vari imperatori che coprono il periodo tra la fine del III e la fine del IV secolo, eccezion fatta per il primo e il più famoso della serie, che è il Panegirico di Plinio il Giovane a Traiano (vedi p. 151). La raccolta, che fu messa insieme in Gallia tra la fine del IV secolo e il V, copre esattamente un secolo di oratoria elogiativa, e consente di analizzare con sufficiente ampiezza di dati un genere letterario che fu molto importante nella tarda antichità. Destinatari e autori Dopo il panegirico di Plinio a Traiano, posto all’inizio della raccolta sia per l’importanza dell’autore sia perché è di gran lunga il più antico, seguono gli altri undici discorsi in ordine sparso: due sono dedicati a Massimiano, collega di Diocleziano; un terzo congiuntamente a Massimiano e Costantino; uno a Costanzo, il padre di Costantino; quattro a Costantino; uno è rivolto a Giuliano; uno a Teodosio; uno, infine, ha per destinatario non un personaggio imperiale ma il governatore della Gallia. Dopo il panegirico di Plinio, si trovano altri tre discorsi con l’indicazione del nome dell’autore: Latinio Pacato Drepanio, autore del panegirico a Teodosio, l’ultimo in ordine cronologico (389); Flavio Claudio Mamertino, che ringrazia Giuliano per averlo nominato

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La storiografia

Una produzione vasta La produzione storiografica del IV secolo è particolarmente vasta e in questo genere letterario si impegnarono anche i principali esponenti della vita politica, come Nicomaco Flaviano, il personaggio dei Saturnali di Macrobio, che fu autore di Annales per noi perduti. 3.1 AURELIO VITTORE E LA HISTORIA TRIPERTITA Il Liber de Caesaribus Di poco posteriore alla metà del IV secolo è l’opera di Sesto Aurelio Vittore, un africano di umili origini che riuscì a percorrere una prestigiosa carriera fino alla prefettura di Roma nel 389. Nel 360 compose un Liber de Caesaribus, noto anche col titolo di Historiae abbreviatae, con le biografie degli imperatori da Augusto a Costanzo. Suo intento è di unire insieme la tecnica annalistica di Livio e quella biografistica di Svetonio, interpretando gli avvenimenti secondo le posizioni dell’aristocrazia romana, alla quale Aurelio Vittore era assai vicino nella difesa della tradizione, nella condanna del cristianesimo, nella preoccupazione per gli eccessivi poteri dei militari. La questione dell’Historia tripertita Il Liber de Caesaribus è accompagnato da due operette storiografiche che, insieme ad esso, costituiscono un corpus che la tradizione manoscritta assegna, almeno in parte, ad Aurelio Vittore, ma che va attribuito nella sua interezza ad autori diversi da lui: un’Origo gentis Romanae, con la ‘storia’ di Roma dal mitico dio Saturno fino a Romolo, e un De viris illustribus, quasi in continuazione dell’opera precedente, da Proca, re di Alba Longa, fino ad Antonio e Cleopatra. È chiara l’intenzione di creare una sorta di trattato suddiviso in tre parti – un’Historia tripertita, secondo il nome che si suole dare a questa raccolta –, dalle età più remote alla fine del IV secolo, quando verosimilmente è stata confezionata la silloge. L’Origo si segnala per l’incredibile quantità di citazioni che sarebbero tratte da annalisti (Fabio Pittore, Cincio Alimento) e pontefici di età arcaica. Se queste riprese fossero autentiche ci troveremno davanti a un testo di

La letteratura pagana: poesia e teatro nel IV secolo 26 1

La ripresa dell’attività poetica

Poesia di corte e ripresa dei classici augustei Le corti imperiali della seconda metà del secolo sono importanti centri di produzione poetica. Il fenomeno si spiega con la presenza di un pubblico colto relativamente ampio, con l’interesse dei regnanti a circondarsi di letterati e soprattutto di poeti, che potevano all’occorrenza diffondere le ideologie dominanti presso i ceti economicamente e politicamente più significativi, e infine con il fatto che spesso un carme ben composto poteva schiudere al suo autore possibilità concrete di una brillante carriera. Intorno agli imperatori circolavano scrittori di vario genere: ricchi signori che si dilettavano di letteratura e conponevano nel tempo libero dall’attività politica e dalle cure del patrimonio; rispettabili uomini di scuola che si erano segnalati per la loro cultura ed erano stati chiamati per questo a corte; infine veri e propri poeti itineranti, quasi dei cantastorie costretti a trarre dal loro mestiere di poeta il necessario per vivere, e quindi abituati a comporre versi per esaltare i potenti. Queste differenze comportavano notevoli varietà di temi e di atteggiamenti, anche se è possibile rilevare almeno un tratto comune a questa poesia: la ripresa dei classici dell’età augustea, sia perché erano considerati gli autori di assoluta eccellenza e quindi da imitare, sia perché il principato di Augusto era il modello ideale a cui dichiaravano di volersi ispirare gli imperatori tardoantichi. 1.1 AUSONIO

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Il teatro: il Querolus

L’unica commedia latina di età imperiale pervenutaci Accanto alla ripresa dell’attività poetica, la seconda metà del IV secolo segna anche un ritorno della produzione teatrale. Opera di un anonimo, comunque di ambiente gallico, è la commedia intitolata Querolus sive Aulularia. Il Querolus («Piagnone») va collocato negli ultimi anni del IV secolo o nei primi del V, ed è importante perché costituisce l’unico caso di commedia latina di età imperiale che ci sia pervenuta. Novità nella fruizione e nella composizione delle opere teatrali Essa ci mostra quanto sia cambiata la struttura di uno scritto teatrale rispetto ai testi di Plauto e Terenzio, e come sia ora diversa la sua fruizione da parte del pubblico. L’autore dichiara di aver composto la sua opera fabellis atque mensis, cioè perché fosse letta o rappresentata durante i banchetti, dunque in recite private, e non più sulla scena. Un’altra importante novità è che il testo è scritto in prosa, e non in versi come era consuetudine del teatro greco e di quello latino, anche se si tratta di una prosa un po’ particolare, ricca di andamenti metrici. È significativo che i testi drammatici tardoantichi, destinati a un pubblico diverso e più selezionato rispetto a quello che aveva assistito alle rappresentazioni nei teatri, adottino una differente forma di espressione, che anticipa di molti secoli il moderno teatro in prosa. Il titolo: una continuazione dell’Aulularia Il riferimento nel titolo all’Aulularia plautina non significa che ci si trovi davanti al rifacimento di un pezzo di sicuro successo: il Querolus è semmai il seguito dell’Aulularia, una continuazione del racconto, in cui il tema dell’avarizia, centrale nella commedia di Plauto, è molto meno importante. La storia è questa: il vecchio Euclione, l’avaro dell’Aulularia, morente in terra straniera, confida a Mandrògero che ha nascosto, nella propria casa, un tesoro e lo prega di informare di ciò il figlio Querulo; in cambio, Mandrògero sarà coerede. Mandrògero, con due lestofanti, si introduce nella casa di Querulo e ruba il tesoro; ma, aperta la cassa, i tre ladri trovano un’urna funeraria e, convinti di essere stati imbrogliati da Euclione, la gettano dalla finestra. L’urna si rompe e ne esce l’oro: Mandrògero chiede

Il trionfo del cristianesimo 27 1

Costantino e l’affermazione del cristianesimo

Un periodo di cambiamenti epocali L’età di Costantino segna per il cristianesimo una fase di cambiamenti importanti, che vanno anche al di là del riconoscimento ufficiale contenuto nell’editto di Milano del 313, con cui si sanciva la liceità della nuova religione. Il progressivo estendersi del cristianesimo nei ceti abbienti e potenti, l’attenzione dell’imperatore per le dispute teologiche, il rapido passaggio dei cristiani da un’atteggiamento difensivo (anche se vivace e a volte violento, come quello di parte della precedente apologetica) a una posizione di potere e addirittura di monopolio ideologico comportarono necessariamente rivolgimenti profondi, che lasciarono traccia nel dogma non meno che nell’organizzazione, nella composizione sociale del clero non meno che nella produzione letteraria. Un’idea della rapidità con cui intervennero questi cambiamenti si può avere confrontando le posizioni di tre scrittori che vissero a pochi anni di distanza l’uno dall’altro: Arnobio, Lattanzio e Firmico Materno. 1.1 ARNOBIO L’aggressività del neofita L’apologetica di Arnobio risente molto della violenza che caratterizza i primi scrittori cristiani della terra d’Africa: non è un caso che per la propria opera Arnobio abbia scelto un titolo che richiama molto da vicino quello del primo scritto di Tertulliano, l’Ad nationes. Ma Arnobio è anche un neofita, convertito solo in età adulta, se non addirittura alle soglie della vecchiaia, e anche per questo avverte più forte l’esigenza di polemizzare contro le cose in cui aveva creduto da giovane.

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La lotta contro le eresie

I nuovi nemici: non più i pagani ma gli eretici Il IV secolo è caratterizzato dal proliferare, in tutte le parti dell’Impero, di una serie di dottrine eretiche, che minano e mettono a rischio l’unità della Chiesa cristiana; per questo le energie che i primi apologisti cristiani avevano profuso contro il paganesimo si rivolgono adesso, sotto il regno dei successori di Costantino, contro le eresie. Tra gli scrittori cristiani particolarmente attivi nella polemica contro l’eresia di Ario si segnalano: Lucifero, vescovo di Cagliari, che per le sue accese posizioni antiariane fu anche esiliato (dal 356 al 361); Eusebio, vescovo di Vercelli dal 345, anch’egli esiliato in Oriente per motivi religiosi; Zenone, vescovo di Verona dal 360 al 370. Ma il personaggio di maggior rilievo nella battaglia contro l’arianesimo è certamente Mario Vittorino. 2.1 MARIO VITTORINO Un convertito di formazione neoplatonica Nonostante l’impegno profuso nella lotta contro l’arianesimo, Mario Vittorino non raggiunge l’importanza di altri grandi personaggi, come per esempio Ilario di Poitiers (vedi p. 290). Anche la Chiesa del tempo dà giudizi piuttosto diversificati su di lui: non lo amava Girolamo, che lo considerava troppo oscuro, comprensibile solo a un pubblico colto; molto invece lo stimava Agostino, che meglio poteva apprezzare un cristianesimo nato dal neoplatonismo e ancora ricco di componenti filosofiche derivate da quella scuola. La vita Di origine africana, nato intorno al 300, passò a Roma per esercitare con grande successo l’attività di retore: nel 353 gli fu persino eretta una statua nel Foro. In questo periodo le sue posizioni sono molto lontane dal cristianesimo, legate piuttosto al neoplatonismo. Pertanto la sua conversione, intorno al 355, stupì molto i contemporanei. Quando, pochi anni dopo, l’imperatore Giuliano stabilì che i cristiani non potevano tenere lezioni nelle scuole pagane, Vittorino si ritirò dall’insegnamento (362), e si dedicò interamente alla pubblicistica cristiana di argomento religioso.

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La letteratura agiografica

Un nuovo genere A partire dalla metà del IV secolo si viene affermando un nuovo genere, quello dell’agiografia, vale a dire il racconto delle vite di santi, monaci e vescovi cristiani. Molti elementi sono ripresi dalla biografia tardoantica di impianto svetoniano, ma innegabile è anche l’influsso delle Passioni e degli Atti dei martiri, risalenti all’età delle persecuzioni (vedi pp. 227 ss.); non mancano inoltre spunti derivanti dalla letteratura romanzesca e fantastica. Rispetto alle tradizionali vite di imperatori o personaggi illustri profani, in cui spesso prevaleva il gusto per il particolare piccante o l’informazione erudita, qui è predominante la finalità educativa. La Vita di Antonio All’interno di questo filone agiografico spicca la Vita di Antonio, l’eremita del deserto che oggi è indicato come sant’Antonio abate. Ebbe molto successo, forse anche per l’ambientazione esotica della biografia (Antonio era copto, cioè un cristiano sudanese o etiope) e la sua vivacità romanzesca. A questo genere si riallaccia anche la più tarda Vita sancti Martini di Sulpicio Severo (vedi p. 322).

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La poesia cristiana

Le ragioni della nascita della poesia cristiana Fino all’età di Costantino, gli autori cristiani avevano scritto in prosa, sia perché i temi affrontati non rientravano fra quelli tradizionalmente trattati in poesia, sia per pregiudizio nei confronti di una modalità di scrittura che privilegiava particolarmente l’eleganza formale e i richiami al mito. Dopo il raggiungimento della pace religiosa, l’allentarsi delle polemiche antipagane consentiva una posizione meno avversa alla poesia, che i cristiani istruiti, oltretutto, erano comunque abituati ad apprezzare per via dell’insegnamento scolastico. La rapida propagazione della nuova fede presso i ceti colti e quindi capaci di comporre testi letterari, la complessiva ripresa del gusto per la poesia nell’età che va da Costantino a Teodosio sono tra i principali motivi della nascita di una poesia cristiana e della sua progressiva diffusione e differenziazione nella seconda metà del secolo IV. I caratteri della poesia cristiana: diffondere la fede e combattere il paganesimo Sotto la denominazione di «poesia cristiana» si possono raccogliere opere anche molto diverse fra loro (per genere letterario, tecnica di versificazione e destinazione), ma unite dall’intenzione di propagandare la nuova fede e di combattere i residui di paganesimo, ancora forti sia nelle classi più alte sia in quelle più povere. Si continuano a scrivere inni, un genere che non doveva mancare anche nella Chiesa delle origini, ma che conosce ora il suo periodo di massima fioritura, con autori come Ilario di Poitiers (di cui si è appena detto), Prudenzio e soprattutto Ambrogio; le tradizionali iscrizioni funebri in versi assurgono a una nuova dignità letteraria grazie agli epitaffi di papa Dàmaso; esercizi di bravura come i centoni vengono praticati dai cristiani a fini edificanti e trovano una diffusione anche superiore che presso i pagani. La mediazione fra classicismo e cristianesimo Soprattutto emergono figure di poeti cristiani che recuperano la tradizione della poesia classica, per fare dei versi antichi su concetti nuovi. In questo senso, la poesia cristiana del IV-V secolo contribuisce a saldare la frattura che si era determinata fra cristianesimo rigorista e tradizione classica, in una contrapposizione che continuerà ad angosciare per secoli molti cristiani.

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La Bibbia in versi: giochi poetici sui testi sacri

Un nuovo genere letterario I vari testi biblici latini che circolavano nella parte occidentale dell’Impero erano di discutibile valore letterario, e cresceva presso i cristiani l’esigenza di scritti che narrassero in maniera più degna ed elevata la storia della salvezza: in questo quadro, sorge un nuovo genere letterario, la rielaborazione in versi del testo biblico. Giovenco: il Vangelo e l’epica Giovenco, un prete spagnolo di Giliberri (oggi Elvira, presso Granada), forse venuto a corte presso il suo conterraneo Osio di Cordova, il consigliere ecclesiastico dell’imperatore Costantino, compose intorno al 330 una versione in esametri del Vangelo di Matteo, integrato con episodi tratti dagli altri Vangeli, sotto il titolo di Evangeliorum libri IV. L’opera nasce da un progetto ambizioso: mettere insieme il principale testo del cristianesimo, i Vangeli, dai quali è desunta la materia, e il principale autore latino pagano, Virgilio, di cui è utilizzato il verso esametrico, e che è ripreso in molti nessi e frasi. Fra i generi letterari tradizionali, quello a cui Giovenco si avvicina di più è infatti l’epica: un fatto di fondamentale importanza per l’umanità, qual è la redenzione, non poteva essere cantato che nello stile più alto. Dare alla narrazione biblica l’eleganza della poesia virgiliana era però un’impresa superiore alle forze di Giovenco, che rimane schiacciato sotto il peso dei suoi due modelli. Pochi i suoi interventi personali: una prefazione programmatica, in cui la validità dell’opera è garantita dalla sacralità dell’argomento e dall’autenticità dell’ispirazione, dovuta non alle Muse ma allo Spirito Santo; qualche descrizione arricchita secondo i canoni della retorica classica. Nel complesso Giovenco è fedelissimo al testo sacro; la sua dotta rielaborazione ebbe notevole fortuna e molti imitatori nell’antichità. Porfirio e i carmi figurati A questa tendenza per la poesia dotta e per raffinatezze tecniche che sfiorano il gioco di pazienza rinviano le composizioni di Publilio Optaziano Porfirio, un senatore pagano convertito al cristianesimo, che, caduto in disgrazia con Costantino, riuscì a riconquistare il favore dell’imperatore inviandogli un volume di carmi figurati, molti dei quali di argomento cristiano. Tali carmi si fondano su un

I padri della Chiesa 28 1

Il ‘secolo d’oro’ del pensiero cristiano

Che cos’è la patristica Gli anni dalla seconda metà del IV secolo al sacco di Roma sono, complessivamente, uno dei momenti più felici nella produzione letteraria latina, sia per la quantità delle opere sia per la loro ricchezza culturale sia per l’eleganza della forma; ma c’è soprattutto un campo in cui si riscontra una fertilità veramente prodigiosa, ed è quello della «patristica», ovvero della letteratura dei «padri della Chiesa». Sono così chiamati gli scrittori cristiani di questo periodo, sia greci sia latini, i quali compirono un’opera di mediazione tra la cultura classica e quella cristiana, e portarono l’analisi dei problemi etici e religiosi a sottigliezze e profondità mai raggiunte fino ad allora. Una schiera di grandi autori e intermediari È stato detto che nell’epoca antica ci furono due momenti fondamentali per la definizione dell’uomo, delle sue caratteristiche sociali e culturali: il V e il IV secolo a.C., in Grecia, per il pensiero classico, e il IV e V secolo d.C. per il pensiero cristiano. In questo secondo periodo il mondo latino continuò a essere, almeno sul piano della riflessione teologica e dell’esegesi biblica, debitore di quello greco, come attestano le numerose traduzioni; tuttavia riuscì anche a produrre figure di primissimo piano, che si occuparono di politica ecclesiastica, di catechesi e di analisi dottrinale. Oltre a questi grandi autori, la cultura latina fu vivificata da numerosi intellettuali per così dire intermedi, che si assunsero un compito divulgativo: trasmisero con successo ai fedeli le elaborazioni dei grandi pensatori, li orientarono nelle difficili controversie tra ortodossia ed eresia, resero sempre più capillare e funzionante la rete organizzativa della Chiesa. Fra tutti svettano però i nomi

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Ambrogio

2.1 LA VITA Una carriera politica di alto livello Ambrogio nacque intorno al 339340 a Trèviri, una delle principali città della Germania, dove suo padre risiedeva come prefetto del pretorio per la Gallia. Di importante famiglia senatoria, già cristianizzata (imparentata con la potente gens Aurelia, di cui facevano parte i Sìmmachi, pagani), Ambrogio seguì gli studi tipici dei giovani di buona famiglia destinati a fare carriera nell’amministrazione pubblica, frequentando le migliori scuole di Roma. Poco più che trentenne, intorno al 370 fu inviato a Milano come consularis Liguriae et Aemiliae, in pratica come governatore di tutta l’Italia Settentrionale, guadagnandosi la stima e l’affetto dei cittadini, e risolvendo anche situazioni difficili. Un vescovo potente Dopo la morte (374) del vescovo di Milano Aussenzio, che era ariano, Ambrogio riuscì a sopire i conflitti e le violenze reciproche tra ariani e cristiani ortodossi, tanto che la sola via d’uscita da uno scontro altrimenti insolubile fu di nominare vescovo proprio lui, nonostante fosse catecumeno e non avesse quindi ricevuto ancora il battesimo. Nel 381 ebbe un ruolo fondamentale nel concilio di Aquileia, che sancì la sconfitta dell’arianesimo in Occidente; nel 384 contrastò Simmaco nella disputa sull’altare della Vittoria in Senato (vedi p. 266) e intervenne sui problemi della Chiesa orientale. La sua influenza sull’imperatore Teodosio fu molto forte: lo indusse a una politica rigorosamente antigiudaica e, dopo che un intervento di polizia aveva provocato molti morti a Tessalonica, lo minacciò di scomunica e gli impose pubblica penitenza. Ambrogio fu, di fatto, una delle principali autorità dello Stato, e il suo ruolo fu assai più incisivo di quello di molti papi, messi in secondo piano dalla sua vigorosa personalità. La morte Morì nel 397, dopo aver avuto per oltre venti anni un ruolo di primo piano nelle principali vicende dell’Impero e della Chiesa, alle quali Ambrogio partecipò sempre con l’abilità del grande politico, ma anche con battagliera veemenza.

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Girolamo

3.1 LA VITA E LE OPERE Gli studi e l’eremitaggio Sofronio Eusebio Girolamo nacque a Stridòne, in Dalmazia, intorno al 347; venne a Roma nel 354 e studiò nelle migliori scuole della città, avendo per maestri Mario Vittorino e Donato, e per compagno il suo futuro nemico Rufino. Viaggiò molto, soprattutto in Oriente, dove apprese il greco e fu ordinato sacerdote; trascorse anche tre anni di vita monastica nel deserto della Càlcide, ma non fu favorevolmente colpito dai monaci, troppo dediti alle controversie teologiche. Da Roma a Betlemme Nel 382 tornò a Roma, dove ebbe un grande successo: il papa Dàmaso lo scelse come suo segretario e molte nobili dame lo elessero a proprio consigliere spirituale, costituendo un circolo che si ispirava al suo insegnamento. Alla morte di Dàmaso (384) l’autorità e il prestigio di Girolamo declinarono rapidamente, e si diffusero pesanti critiche sugli eccessi del suo ascetismo; nel 385 lasciò quindi la città per l’Oriente, seguito da alcune delle matrone che si erano affidate a lui. Per sua iniziativa furono fondati conventi maschili e femminili, uno dei quali nel 389 a Betlemme, dove Girolamo trascorse l’ultimo periodo della sua vita e dove morì, nel 419 o nel 420. Le opere polemiche La sua personalità potente e aspra risalta nel ricco epistolario ma soprattutto nei testi di polemica religiosa: l’Apològia adversus libros Rufini, in tre libri; il Contra Iohannem Hierosolymitanum episcopum, sulla controversia origeniana; l’Adversus Iovinianum, sull’ascetismo e la verginità; l’Adversus Vigilantium, sul culto dei martiri; il Dialogus adversus Pelagianos, in tre libri, contro l’eresia di Pelagio. La Vulgata e le opere erudite Ma l’opera principale di Girolamo, che ha condizionato tutta la cultura occidentale, è la traduzione in latino della Bibbia, la cosiddetta Vulgata. Per gli studi di letteratura sono particolarmente importanti due scritti: il Chrònicon, che traduce e aggiorna, ampliandola, l’opera dallo stesso titolo dello scrittore greco Eusebio di Cesarea (ca. 265-340), con molte importanti notizie sugli autori latini antichi, e il De viris illustribus, con 135 biografie di scrittori cristiani, da

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Agostino

4.1 LA VITA Una giovinezza inquieta Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, una città della Numidia, in Africa Settentrionale; la madre, Monica, era una fervente cristiana. Studiò dapprima a Madaura e poi a Cartagine, dove, giovanissimo, ebbe un figlio illegittimo; a diciannove anni la lettura dell’Hortensius di Cicerone gli causò una profonda crisi spirituale, che lo portò ad accostarsi alla dottrina del manicheismo, la quale tentava di conciliare il carattere di trascendenza, proprio di ogni religione, con aspetti di razionalismo assai stimolanti per un intellettuale. Una brillante carriera di retore Insegnò a Tagaste, poi a Cartagine, infine (nel 384) a Roma. Grazie alla raccomandazione di Simmaco, il capo del gruppo senatorio pagano, ottenne la cattedra di retorica a Milano, e qui insegnò dall’autunno del 384. La conversione A Milano gli stretti rapporti con i circoli neoplatonici della città, l’ascolto delle prediche di Ambrogio, la presenza della madre, che lo aveva raggiunto col figlio, lo portarono alla definitiva conversione. Lasciato l’insegnamento e ricevuto il battesimo (387) tornò in Africa (sulla via del ritorno gli morì la madre), e qui si dedicò alla vita monastica. L’episcopato Nel 391 fu ordinato prete a Ippona (oggi Bona, in Algeria), di cui divenne vescovo nel 395 o l’anno successivo. Come capo della diocesi combatté contro varie sette ed eresie, soprattutto contro i manichei, i donatisti e i pelagiani, ma si preoccupò anche dei problemi concreti dei suoi fedeli, sempre più gravi e pressanti man mano che le strutture dell’Impero cedevano dinanzi alle invasioni. Morì nel 430, mentre Ippona era assediata dai Vandali che, guidati da Genserico, stavano procedendo alla conquista dell’Africa Settentrionale. 4.2 LE OPERE Una produzione vastissima Secondo un calcolo del suo amico e discepolo Possidio, Agostino fu autore di 1030 scritti; non tutti ci sono

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Altri padri della Chiesa

Accanto a questi tre protagonisti, Ambrogio, Girolamo e Agostino, che ebbero il ruolo più rilevante nell’ampio scenario della patristica latina, operarono molti altri autori, alcuni con maggiore impegno per le questioni teologiche e dottrinali, altri più attenti all’aspetto più propriamente letterario. 5.1 RUFINO La polemica su Orìgene Va ricordato in primo luogo Tirannio Rufino di Aquileia (ca. 345-411), che fu prima compagno e amico di Girolamo, e poi divenne oggetto dei suoi durissimi attacchi. La produzione originale di Rufino è quasi tutta legata alla polemica su Orìgene. Egli lo difende ipotizzando nel De adulteratione librorum Origenis che i vari passi non ortodossi reperibili nelle opere dello scrittore greco siano frutto del lavoro di falsari; altri scritti, e soprattutto i due libri dell’Apològia contra Hieronymum, servono a giustificare le proprie posizioni di caldo apprezzamento per il grande pensatore greco. Le traduzioni Per invito di Paolino di Nola scrisse invece il De benedictionibus patriarcharum, un’opera di esegesi veterotestamentaria. Ma, come è per Girolamo, anche per Rufino l’attività di traduttore è più imponente e significativa di quella di scrittore. Moltissime furono le sue traduzioni da Orìgene, ma anche dai grandi padri orientali del IV secolo; le più interessanti sono forse quelle sulle storie dei monaci d’Egitto, che contribuirono alla diffusione del fenomeno monastico nell’Occidente latino, e la rielaborazione della Historia ecclesiastica di Eusebio, che Rufino tradusse, integrò e completò aggiungendo la parte che tratta gli anni dal 324 al 395. 5.2 SULPICIO SEVERO Scrittore brillante e piacevole è Sulpicio Severo, che dedicò buona parte della propria produzione letteraria alla figura di san Martino, la cui

Il contesto. Da Onorio a Odoacre 29 Storia 1

Le invasioni barbariche

La fine dell’Impero Con il V secolo si conclude la lunghissima parabola della storia romana: come il 753 a.C., anno della fondazione di Roma, era stata la data che aveva segnato la nascita di un mondo, così il 476 d.C., anno della deposizione di Romolo Augusto, ne segna la fine. Ma la caduta dell’Impero romano consiste, prima della deposizione dell’ultimo imperatore, nel progressivo frantumarsi di ogni controllo centralizzato. La nuova geopolitica dell’Impero in Occidente L’Oriente faceva già storia a sé: meno ferita dalle invasioni, quella parte dell’Impero sopravviverà ancora per un millennio. Le province occidentali, invece, persero ogni forma di legame con l’Italia: Vandali, Alani, Suebi, poi Visigoti, Franchi, Burgundi si insediarono su un arco territoriale che andava dall’Africa romana alla Gallia. La Britannia venne abbandonata dalle legioni prima ancora che sbarcassero gli invasori Angli e Sassoni. In Germania l’invasione degli Unni, una popolazione asiatica che arrivò a devastare anche l’Italia del Nord, rappresentò un momento drammatico sia per i Latini sia per i Germani. I Visigoti e i Burgundi in Gallia, gli Svevi in Spagna Dopo il sacco di Roma, il successore di Alarico, Ataulfo, condusse i Visigoti in Gallia, dove costituì un regno con capitale Tolosa. Ataulfo aveva portato con sé e

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Valentiniano III, l’ultimo dei teodosiani

La reggenza di Galla Placidia e l’ascesa di Ezio Nel 423, alla morte di Onorio, Teodosio II impose in Occidente la reintegrazione della dinastia paterna, e inviò a Ravenna Valentiniano III, con la madre Galla Placidia come reggente. In quegli anni emerse la figura di un generale di origine illirica, Ezio, che seppe sfruttare il legame personale con gli Unni, presso i quali aveva trascorso la gioventù, per accrescere il proprio potere e combattere gli altri popoli barbarici. Ezio aveva l’appoggio dell’aristocrazia senatoria, che enfatizzò i suoi successi militari celebrandolo come colui che aveva imposto la pace ai barbari sia con le armi sia con i trattati (il generale ebbe anche un suo panegirista nel poeta Flavio Merobaude), ma queste formule tradizionali contrastavano drammaticamente con la realtà dei fatti. La minaccia di Attila, re degli Unni Il potere di Ezio cominciò a declinare quando gli Unni, sotto il comando di Attila, mutarono politica volgendosi contro l’Occidente: Ezio restò privo dell’alleato militare cui tante volte aveva fatto ricorso. Nel 451 Attila invase la Gallia, ma Ezio lo sconfisse ai Campi Catalaunici (presso Troyes). Tuttavia il re unno tornò all’attacco minacciando di marciare su Roma, e fu necessario l’intervento di papa Leone Magno per indurlo a desistere. Ma la paura cessò solo con la morte di Attila nel 453 e con il ritirarsi di questa popolazione nelle pianure della Pannonia. La fine di Ezio e Valentiniano Intanto la crescente ostilità della corte verso Ezio ne decretò la fine. Il generale fu ucciso dallo stesso Valentiniano III, che non seppe prevedere però la reazione dell’esercito, legato al suo capo: nel 455 l’imperatore fu ucciso in una esercitazione militare.

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La fine dell’Impero d’Occidente

Il secondo sacco di Roma (455 d.C.) Subito dopo la morte di Valentiniano III, Genserico sbarcò in Italia e mise a sacco Roma: l’estrema facilità con cui fu compiuto il sacco del 455 era la dimostrazione lampante della disgregazione del governo centrale. L’incursione di Genserico pose fine al breve regno di Petronio Massimo, acclamato imperatore dai militari che avevano voluto la morte di Valentiniano; il nuovo imperatore era un prefetto della Gallia, Eparchio Avìto, legato all’aristocrazia locale, tra i cui membri troviamo Sidonio Apollinare, suo panegirista. Sotto il regno di Avìto un generale d’origine sveva, Ricimero, si costruì un solido potere personale sfruttando l’appoggio dell’aristocrazia italica tagliata fuori dal nuovo imperatore gallico: Ricimero eliminò Avìto e impose la nomina di un suo ufficiale, Maggiorano, che nel 457 ebbe il riconoscimento ufficiale dell’imperatore d’Oriente Leone. Ma l’insuccesso di una campagna contro i Vandali sancì la fine anche di Maggiorano, fatto uccidere da Ricimero nel 461. La deposizione di Romolo Agusto e il regno italico di Odoacre Seguirono anni di grande instabilità. Al governo di Libio Severo (461-465), un senatore imposto da Ricimero e suo succube, seguì il regno di Antemio (467-472), designato dall’imperatore d’Oriente Leone: Antemio condusse una spedizione fallimentare contro i Vandali e poi contro i Visigoti e venne quindi eliminato da Ricimero. Leone impose nel 473 Giulio Nepote, ma la situazione in Italia era insostenibile: il comandante dell’esercito italico, costituito da federati barbari, Flavio Oreste, nominò imperatore il figlio Romolo Augusto, ma questi fu presto esautorato, non potendo soddisfare le richieste dei suoi soldati che chiedevano terre. Con la deposizione di Romolo Augusto da parte di Odoacre, il capo dei federati barbari, la sede imperiale restò vacante. Era il 476: l’Impero d’Occidente era caduto, mentre Odoacre si faceva proclamare re dai suoi federati.

La fine dell’Impero 30 1

Conservazione e permanenza dell’antico

I barbari e la cultura latina Nell’epoca delle invasioni, l’arrivo dei barbari non è sempre così traumatico e non si risolve sistematicamente in una semplice occupazione militare; del resto, molti dei barbari vivevano già nell’Impero. Per lo più, l’amministrazione e la burocrazia rimangono quelle romane, come anche l’aristocrazia fondiaria e quella ecclesiastica restano spesso latine. La cultura antica continua a essere tramandata e insegnata, e anche i barbari capiscono la necessità delle scuole. Questa continuità culturale assume sia le forme più dotte delle summae a carattere grammaticale o giuridico, sia quelle più popolari legate alla letteratura d’evasione e in particolare al genere della storia romanzata. 1.1 MARZIANO CAPELLA Il De nuptiis Mercurii et Philològiae Una certa importanza, per le conseguenze che la sua opera avrà sulla cultura medievale, riveste in questo periodo la figura di un cartaginese, un avvocato divenuto scrittore in età avanzata: Marziano Capella, autore di un’enciclopedia dell’erudizione antica, il De nuptiis Mercurii et Philològiae, o meglio Philològia (visto che l’altro titolo si applica ai soli primi due libri dell’opera, in cui vengono descritti appunto gli allegorici sponsali di Mercurio e della Filologia). L’opera, che si data all’incirca alla prima metà del V secolo e che costituisce una summa della cultura e della scienza antiche, si compone di nove libri ed è scritta in prosa ma con frequenti parti in versi.

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La poesia: le ultime voci

Recupero e innovazione Nel V secolo la produzione letteraria mostra ancora qualche guizzo di vitalità soprattutto per la poesia. Tra recupero della tradizione classica e innovazione legata al nuovo contesto storico, si assiste in questa fase a una rielaborazione culturale più attiva di quanto comunemente non si ritenga. 2.1 RUTILIO NAMAZIANO La vita e la produzione poetica Rutilio Claudio Namaziano, di origine gallica, si era trasferito a Roma in età relativamente giovane. Il padre ricopriva posti di rilievo nell’amministrazione e la carriera di Namaziano fu anche più brillante di quella paterna: fu infatti prefetto di Roma nel 414. Nel 417 tornò in patria, perché le gravi notizie provenienti dalla Gallia gli suggerirono di sorvegliare personalmente le sue proprietà. Nel De reditu suo, un’opera in due libri di distici elegiaci (che ci è pervenuta incompleta: la parte di cui disponiamo consiste nel Libro I e in pochi versi del II), Namaziano racconta il viaggio per mare da Ostia fino alla parte settentrionale della Toscana; qualche accenno alla Liguria è in un frammento del Libro II, recentemente ritrovato. Uno sguardo malinconico rivolto al passato Poeta pagano, legato agli ultimi ambienti di intellettuali neoplatonici e in contatto con alcuni dei personaggi della Roma senatoria pagana descritti da Macrobio, Namaziano riempie il proprio giornale di viaggio con malinconici rimpianti per un mondo che sta finendo. Di fronte al problema dei barbari i cristiani si ponevano in maniere diverse, ma sempre con l’attenzione rivolta al futuro, al ‘che fare’ per superare le attuali difficoltà in una nuova sistemazione politica e sociale che poteva prescindere dall’Impero, ma non dalla religione; Rutilio non ha questa speranza e per lui l’unico rifugio consiste nel passato, da esaltare acriticamente e da confrontare con il presente, sempre a scapito di quest’ultimo. È vero che Namaziano sostiene esplicitamente che Roma è eterna, sottratta al destino degli altri imperi, perché capace di trovare in se stessa la

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La storiografia: una nuova metodologia cristiana

L’egemonia culturale dei cristiani La storiografia del IV secolo era stata coltivata prevalentemente da autori di origine pagana (basti pensare soprattutto ai suoi principali rappresentanti, Ammiano Marcellino e l’Historia Augusta); nel V secolo l’egemonia culturale è, anche in questo campo, degli scrittori cristiani, che elaborano una nuova metodologia storiografica con Agostino. Dopo di lui, due sono i nomi da ricordare: Orosio e Salviano. 3.1 OROSIO La vita e le opere Paolo Orosio, nato intorno al 390, era un sacerdote spagnolo (forse originario di Tarragona) e fu costretto a fuggire dalla penisola iberica per l’invasione dei Vandali. In Africa, nel 414, entrò in contatto con Agostino e, l’anno seguente, in Palestina, con Girolamo. Nel 417 completò le Historiae; da quella data non abbiamo più notizie di lui. Il primo scritto di Orosio, il Commonitorium de errore Priscillianistarum et Origenistarum, dedicato ad Agostino, riguarda le eresie più diffuse in Spagna, mentre il Liber apologeticus è scritto contro l’eresia pelagiana. Le Historiae adversus paganos, in sette libri, sono l’opera principale, che fu sollecitata da Agostino come raccolta di materiale da utilizzare poi per il De civitate Dei: i primi sei libri sono dedicati alla storia dell’umanità dalle origini alla venuta di Cristo e all’impero di Augusto, mentre il settimo riguarda il periodo imperiale fino al 417. Un contributo non originale ma importante Orosio non ha l’originalità di Agostino: segue schemi tradizionali e si rifà per la massima parte alle fonti più consuete, non senza gravi fraintendimenti. Le notizie di qualche utilità riguardano il periodo a lui più vicino, cioè gli ultimi anni del IV secolo e i primi due decenni del V: per quest’epoca Orosio ci fornisce informazioni che non ci sono state tramandate da altri. Ma Orosio è importante anche per la sua complessiva impostazione interpretativa, che si contrappone sostanzialmente a quella di Agostino, anche se ciò non avviene in maniera consapevole né volontaria. Per Orosio è la Provvidenza divina

Gli albori del Medioevo 31 1

Una cultura di transizione, fra continuità e innovazione

La fine dell’unità politica e letteraria Dopo la caduta dell’Impero si continuò a scrivere in latino, ma la rottura dell’unità politica ebbe varie conseguenze anche sulla letteratura. In una prima fase, fino all’impero di Carlo Magno, il lento assestamento dei vari regni e le differenze di tempo nell’integrazione fra Romani e Germani nelle diverse regioni provocarono difformità nell’attività letteraria. L’Italia è ancora piuttosto attiva nel VI secolo, con figure come Boezio e Cassiodoro che, fra l’altro, definiscono un’enciclopedia del pensiero filosofico, religioso, scientifico da trasmettere alle future generazioni. La Spagna e la Britannia acquistano invece un ruolo di primo piano più tardi, rispettivamente all’inizio del VII e dell’VIII secolo, quando con Isidoro di Siviglia e con Beda esprimono i momenti più rilevanti della cultura europea. 1.1 I GRANDI DOTTI: GRAMMATICA, FILOSOFIA ED ENCICLOPEDISMO Prisciano a Costantinopoli I grandi dotti, come Boezio e Cassiodoro, Beda e Isidoro di Siviglia, costituiscono, in un certo senso, il ponte tra il mondo classico e quello medievale per aver raccolto e riassunto quanto più possibile della tradizione antica. Da questo punto di vista una figura non meno rilevante, anche se dagli interessi più settoriali, è il grande grammatico Prisciano, attivo a Costantinopoli nella prima metà del VI secolo e autore di quella Institutio de arte grammatica che sarà il libro di

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Il diritto: le grandi raccolte di leggi sotto Giustiniano

Il Corpus iuris civilis Nell’ambito della conservazione della tradizione antica, importanza fondamentale riveste il Corpus iuris civilis, o più semplicemente Corpus iuris, nome col quale, a partire dal basso Medioevo, è nota la monumentale sintesi del diritto romano, compilata dal 528 in poi per impulso dell’imperatore Giustiniano. Il primo frutto di questa attività fu una raccolta di leggi, pubblicata nel 529 sotto il nome di Codex Iustinianus e oggi perduta. Seguì, dopo tre anni di lavoro (530-533), la pubblicazione di una raccolta di brani di giuristi classici, col titolo di Digesta (o Pandectae): ad essa dobbiamo in massima parte la nostra conoscenza del diritto romano antico. Giustiniano le attribuì valore non solo storico, ma anche normativo: a tal fine i brani furono, dove occorreva, modificati per adattarli alle esigenze pratiche. Subito dopo i Digesta, nello stesso 533, furono pubblicate le Institutiones, in quattro libri (contro i cinquanta dei Digesta), una sorta di riassunto dell’opera maggiore concepito a scopo didattico. L’intensa attività giuridico-legislativa degli ultimi anni rese necessaria la pubblicazione di un nuovo codice, che sostituisse quello del 529; dopo un anno di lavoro, alla fine del 534, fu promulgato il Codex repetitae praelectionis, in dodici libri, che possediamo. Infine, le leggi entrate in vigore nel successivo trentennio, fino alla morte di Giustiniano (avvenuta nel 565), ci sono giunte, anche se non raccolte organicamente, col nome di Novellae (sottinteso constitutiones): molte di esse sono scritte in lingua greca, o in entrambe le lingue, greca e latina.

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La poesia fra Europa e Africa

Per un caso paradossale, i poeti in latino più interessanti vengono dall’Africa del Nord, dal regno dei Vandali, che, sebbene destinato a una breve vita perché presto sarà riconquistato dai Romani d’Oriente, esprime una interessante stagione poetica, una sorta di «primavera vandalica». Non mancano comunque altre figure interessanti di estrazione più strettamente europea. 3.1 LA «PRIMAVERA VANDALICA» Draconzio Draconzio, morto intorno al 500, va ricordato per una tragedia, l’Orestis tragoedia, e due epilli, il De raptu Helenae e la Medea. Di lui si cita anche la Satisfactio, una sorta di palinodia («Ritrattazione») rivolta al re vandalo Guntamondo per chiedere perdono di una colpa commessa (l’aver celebrato, in vece sua, un altro personaggio, probabilmente l’imperatore d’Oriente Zenone). Notevole, in quest’opera, il ricordo di altri poeti classici che, caduti in disgrazia, avevano cercato di ottenere perdono per mezzo delle loro opere. Tra questi, spiccano le citazioni da Ovidio, che dall’esilio nel Ponto si rivolgeva ad Augusto, o ad amici più in auge presso la corte, che potessero farlo richiamare a Roma. Fulgenzio Si ritiene che risalgano a questo periodo di fioritura poetica nell’ambito del regno vandalico anche le opere di Fabio Planciade Fulgenzio: i Mythologiarum libri, che cercano, nei più famosi miti pagani, verità o motivazioni ‘scientifiche’; l’Expositio Vergilianae continentiae, un dialogo in cui è Virgilio stesso a illustrare le allegorie riposte sotto i versi dell’Eneide e a proporre una possibile lettura del suo poema epico in chiave morale; il De aetatibus mundi et hominis, un riassunto storico che va dalla creazione alla seconda metà del IV secolo. Corippo Quando l’Africa del Nord viene riconquistata dai Bizantini, stranamente questa fioritura di scrittori si esaurisce. L’unico degno di menzione è Corippo, autore di un poema epico, la Iohannìs («Giovànnide»), che celebra – ricalcando nel titolo e nella forma della narrazione l’Eneide – la gloria degli eserciti imperiali guidati dal generale Giovanni.

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Verso una nuova era

La nascita delle lingue romanze Gli sconvolgimenti etnici e sociali rinnovano radicalmente il quadro dell’Occidente europeo e mediterraneo. I cambiamenti più profondi investono la lingua latina, in cui il divario fra lingua scritta e lingua parlata cresce al punto che quest’ultima non può più essere riconoscibile come forma popolare dell’idioma in cui continuano a essere composti i libri: nascono così le lingue romanze, e il latino diviene una lingua dotta, destinata allo scambio culturale ad alto livello, oltre che a una effettiva continuità come lingua liturgica della Chiesa d’Occidente. È, già all’epoca di Carlo Magno, quasi un linguaggio artificiale, un sistema di comunicazione per poche persone colte: ciò segnerà in modo decisivo tutta la letteratura a partire dal IX secolo. La rottura del rapporto fra latino e società Intorno a Carlo Magno si riunisce una corte, le ambizioni del regnante favoriscono i letterati, nasce un circolo di poeti, la cui produzione letteraria – che per molti aspetti recupera miti e temi della poesia augustea – è tutt’altro che spregevole per quantità e qualità delle opere; ma ormai il rapporto fra la lingua latina e la società è profondamente alterato, compromesso. Vi saranno rinascenze, recuperi, nobili forme di filologia e di erudizione, ma il collegamento, il filo della continuità, è ormai irrimediabilmente spezzato: lo scrivere in latino è divenuto un’elaborazione mediata e simbolica. Siamo ormai agli albori del Medioevo. Bibliografia Fra le storie della letteratura latina medievale scritte in italiano si segnalano: L. ALFONSI , La letteratura latina medievale, Firenze-Milano 1972; V. PALADINI – M. DE MARCO , Lingua e letteratura medio-latina, Bologna 1980; C. LEONARDI et al., Letteratura latina medievale, Firenze 2002. Per l’inquadramento storiografico: G. PEPE , Il Medioevo barbarico d’Italia, Torino 1963; IDEM , Il Medioevo barbarico in Europa, Milano 1967; P. BREZZI , L’urto delle civiltà nell’alto Medioevo, Roma 1971. Utile informazione di carattere generale in L. GENICOT , Profilo della civiltà medievale, trad. it. Milano 1968; per un argomento più specifico, ma di rilevante importanza, F.E.

INDICE DEI NOMI

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Accio (Lucius Accius), 200, 259 Achille Tazio, 79 Acrone (Helenius Acro), 205 Acta martyrum, 149, 227, 228, 229, 232, 291 Acta martyrum Scillitanorum, 227 Adriano, 87, 94, 142, 143, 144, 147, 175, 180, 206, 208, 209, 211, 212-213, 219, 307 Aetna, 20 Afranio, autore di togate (Lucius Afranius), 259 Afranio Burro, vedi Burro Agostino (Aurelius Augustinus), 93, 152, 188, 189, 208, 228, 234, 237, 256, 287, 289, 290, 295, 296, 300, 303, 304, 307, 308, 309, 311-321, 327, 335, 336, 337, 340 Agricola (Gnaeus Iulius Agricola), 10, 11, 157, 158, 162-163 Agrippa (Marcus Vipsanius Agrippa), 3, 33 Agrippina Maggiore, 5 Agrippina Minore, 6, 7, 37, 52, 155 n., 169, 170 Alarico, re dei Visigoti, 255, 296, 326 Albinovano Pedone (Albinovanus Pedo), 17, 128 Alessandro Magno, 17, 31, 60, 134, 272, 273 Alfieri, V., 54, 69, 99, 173 Alfio Avito, vedi Avito, poeta novellus Alighieri Dante, vedi Dante Ambrogio (Ambrosius), 228, 254, 266, 278, 290, 291, 295, 300, 301-304, 310, 311, 321 Ambrosiaster, 302 Ammiano Marcellino (Ammianus Marcellinus), 99, 173, 270-272, 335 Ammonio Sacca, neoplatonico, 310 Andronico, vedi Livio Andronico Anneo Cornuto, vedi Cornuto Anneo Mela, fratello di Seneca, 57 Anniano, poeta novellus (Annianus Faliscus), 212 Annibale, 112, 113, 114, 267 Anonimo del Sublime, 134, 139, 140 Antemio, imperatore, 328, 334 Anthologia Latina, 72, 244-245 Anthologia Palatina, 128 Antimaco di Colofone, 106 Antonino Pio, imperatore, 143, 144, 145, 209, 211, 263 Antonio, santo eremita, 291 Antonio, triumviro, 17, 59, 268

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Apicio (Marcus Gavius Apicius), 33-34 Apollonio di Tiana, 148, 188 Apollonio Rodio, 39, 106, 109, 110, 111, 112 Appendix Perottina, 21 Appendix Vergiliana, 18-20 Appio, seguace di Pompeo, 59 Apuleio (Apuleius), 78, 79, 81, 182-198, 206, 207, 212, 260, 315 Aquila, 307 Arato di Soli, 15, 279 Arcadio, imperatore d’Oriente, 255 Archiloco, 23, 127 Ario, vescovo eretico, 253, 289 Ariosto, L., 99, 191 Aristarco, 201 Aristide di Mileto, 81 Aristofane, 23 Aristotele, 117, 139, 183, 185, 289, 319, 340 Arnobio (Arnobius), 285-286, 287, 288 Arria Maggiore, 89 Artaserse, 218, 219 Artemidoro di Daldi, 184 Asclepiade, 127 Asconio Pediano (Quintus Asconius Pedianus), 204 Asinio Gallo, 12 Asinio Pollione (Gaius Asinius Pollio), 12, 27, 30, 202, 203 Assio Paolo, retore, 278 Ataulfo, re dei Visigoti, 326 Attalo, filosofo stoico, 36 Attila, re degli Unni, 327 Attilio Regolo, 114 Auerbach, E., 271 Aufidio Basso (Aufidius Bassus), 120 Augusto (Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus), 3, 4, 12, 14, 15, 16, 17, 20, 21, 28, 33, 61, 65, 66, 132, 143, 158, 167, 169, 170, 175, 177, 178, 185, 202, 204, 266, 268, 276, 336, 342 Aureliano, imperatore, 221, 222 Aurelio Caro, imperatore, 221 Aurelio Probo, imperatore, 221 Aurelio Vittore (Sextus Aurelius Victor), 268 Aureolo, imperatore, 221 Ausonio (Decimus Magnus Ausonius), 130, 152, 266, 276-279, 280, 295, 296 Aussenzio, vescovo di Milano, 302 Aviano, favolista, 279 Avidio Cassio, governatore di Siria, 145 Avieno (Rufus Festus Avienus), 15, 262, 279 Avito, imperatore, 328, 334 Avito, poeta novellus (Alfius Avitus), 212

B • • • • • • • • • • • •

Balbino, imperatore, 219 Basilio di Cesarea, 301 Bautone, generale, 266 Beda il Venerabile, 339, 340-341 Bione di Boristene, 53 Boccaccio, G., 130, 193, 197, 198 Boezio (Anicius Manlius Severinus Boetius), 339-340, 341 Boiardo, M.M., 197 Britannico, figlio di Claudio, 6, 97 Bruto, il cesaricida (Marcus Iunius Brutus), 59 Buecheler, F., 245 Burro, prefetto del pretorio sotto Nerone, 6, 7, 37, 169, 170

C • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Calcidio (Calcidius), 260 Calderon de la Barca, P., 198 Caleno, marito di Sulpicia, 25 Caligola, imperatore, 5, 6, 14, 21, 28, 31, 33, 36, 37, 38, 40, 48, 53, 185 Callimaco, 18, 22, 78, 93, 106, 127, 128 Calpurnio Pisone, vedi Pisone Calpurnio Siculo, 12, 24, 65, 248 Calvino, I., 119 Calvo, poeta neoterico (Gaius Licinius Calvus), 211 Caracalla, imperatore, 217, 218, 222, 247, 249 Carducci, G., 99 Carino, imperatore, 248, 269 Carisio, grammatico, 258 Caritone, 79 Carlo Magno, 339, 343 Carmina Einsidlensia, 24, 65 Carmina figurata, 212 Caro, imperatore, 221, 269 Cassio Dione, vedi Dione Cassio Cassiodoro (Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus), 339, 340, 341 Catalepton, 18, 19 Catilina (Lucius Sergius Catilina), 62, 168 Catone, poeta neoterico e grammatico, vedi Valerio Catone Catone il Censore (Marcus Porcius Cato), 32, 147, 161, 206, 208, 247 Catone il Giovane, vedi Catone Uticense Catone il Vecchio, vedi Catone il Censore Catone Maggiore, vedi Catone il Censore Catone Minore, vedi Catone Uticense Catone Uticense, 59, 60, 63, 64, 69, 88

• • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Catullo (Gaius Valerius Catullus), 17, 19, 20, 21, 53, 74, 128, 206, 211, 212, 247 Catullo, mimografo, 27 Cecilio Epirota, 203 Cecilio Stazio (Caecilius Statius), 201, 208 Celso (Aulus Cornelius Celsus), 32, 120 Censorino (Censorinus), 180, 250 Cesare (Gaius Iulius Caesar), 12, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 66, 76, 132, 136, 143, 162, 163, 176 Cesio Basso (Caesius Bassus), 25, 88, 89, 247 Cicerone (Marcus Tullius Cicero), 12, 13, 15, 39, 45, 47, 60, 61, 134, 136, 137, 138, 140, 147, 148, 151, 152, 154, 159, 160, 163, 176, 188, 202, 203, 204, 206, 207, 208, 236, 249, 261, 262, 273, 279, 286, 306, 311, 317, 340 Cincio Alimento (Lucius Cincius Alimentus), 268 Cinna, poeta neoterico (Gaius Helvius Cinna), 203, 211 Cipriano (Tascius Caecilius Cyprianus), 152, 228, 235, 236-238 Ciris, 19, 20 Claudiano (Claudius Claudianus), 130, 280-282, 332, 333, 334 Claudio, imperatore (Tiberius Claudius Nero Germanicus), 6, 7, 12, 14, 18, 21, 31, 36, 37, 38, 52, 79, 97, 119, 120, 169 Claudio il Gotico, imperatore, 221 Claudio Quadrigario (Quintus Claudius Quadrigarius), 259 Claudio Tacito, imperatore, 221 Cleandro, liberto di Commodo, 146 Clemente Alessandrino, 310 Clemente Romano, papa, 226 Cleopatra, 60, 268 Clodia, 188 Clodio Albino, 218 Clotario, re dei Franchi, 342 Codex Iustinianus, 341 Codex Theodosianus, 330 Coleridge, S.T., 282 Columella (Lucius Iunius Moderatus Columella), 32-33 Commodiano (Commodianus), 240-243, 244 Commodo, imperatore, 141, 145, 146, 217, 307 Consolatio ad Liviam, 39 Constitutio Antoniniana, 218, 222 Copa, 20 Corace, retore greco, 139 Corbulone (Gnaeus Domitius Corbulo), 8, 119, 169, 171 Cordo, seguace di Pompeo, 60 Cordo, vedi Cremuzio Cordo Corippo (Flavius Cresconius Corippus), 342 Corneille, P., 54, 173, Cornelia, moglie di Pompeo, 59, 60, 65 Cornelio, papa, 238 Cornelio Nepote (Cornelius Nepos), 176, 330 Cornelio Severo (Cornelius Severus), 61

• • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Cornelio Sisenna, vedi Sisenna Cornuto, filosofo stoico, 57, 88, 89 Corpus iuris, 209, 341 Cosroe, re dei Parti, 143 Costante, imperatore, 253, 288 Costantino, imperatore, 229, 252, 253, 255, 264, 269, 285, 287, 288, 289, 291, 297, 298, 330 Costantino II, imperatore, 253 Costanzo II, imperatore, 253, 254, 266, 268, 270, 288, 290 Costanzo III, imperatore, 326, 332 Costanzo Cloro, imperatore, 221, 252, 264 Crantore, 39 Crassicio (Lucius Crassicius Pasicles Pansa), 203 Cratete di Mallo, 176, 200-201, 203 Cremuzio Cordo (Aulus Cremutius Cordus), 12, 30, 38 Crispo, figlio di Costantino, 287 Culex, 18, 19-20 Curiazio Materno (Curiatius Maternus), 18, 158 Curione, seguace di Cesare, 59 Curzio Rufo (Quintus Curtius Rufus), 31-32

D • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Damaso, papa, 266, 291, 305, 308 Daniel, P., 260 Dante, 43, 68, 69, 99, 108, 256, 336, 339, 341 Darete Frigio, 330 Decebalo, re di Dacia, 11, 143 Decio, imperatore, 220, 236, 237, 240, 269, 310 Demetrio Falereo, 22 Democrito, 98 Demostene, 161 Diderot, D., 173 Didio Giuliano, imperatore, 217 Digesta, 209, 341 Diocleziano, imperatore, 217, 221, 223, 238, 252, 263, 264, 265, 269, 285, 287, 288, 320 Diomede, grammatico, 258 Dione Cassio, 37, 52 Dionigi di Alicarnasso, 139, 140 Dirae, 18-19 Disario, medico, 262 Disticha Catonis, 247 Ditti Cretese, 272, 330 Domiziano, 9, 10-11, 94, 95, 102, 103, 129, 132, 133, 141, 142, 150, 151, 157, 158, 159, 162, 165, 167, 175, 176 • Domizio Afro, retore, 132 • Domizio Corbulone, vedi Corbulone • Domizio Enobarbo, seguace di Pompeo, 6, 60, 64

• • • • • • • • • •

Domizio Marso (Domitius Marsus), 14, 128 Domizio Ulpiano, vedi Ulpiano Donato (Aelius Donatus), 176, 205, 259, 260, 305 Donato, vedi Tiberio Donato Donato, vescovo eretico, 252, 320 Dositeo, grammatico, 258 Draconzio (Blossius Aemilius Dracontius), 342 Drepanio, panegirista (Latinius Pacatus Drepanius), 264 Druso Maggiore, 3, 4, 5 Druso Minore, 4, 5, 163

E • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Ebuzio Liberale, amico di Seneca, 44 Edilo, epigrammatista greco, 127 Elagabalo, imperatore, 218 Elegiae in Maecenatem, 20 Elio Aristide, 147, 184, 185 Elio Lampridio, 269 Elio Sparziano (Aelius Spartianus), 213, 269 Elio Stilone, vedi Stilone Elio Vero, figlio adottivo di Adriano, 144 Eliodoro, 79, 80 Eliot, T.S., 213 Elogia Scipionum (Elogi degli Scipioni), 128 Elvio Pertinace, imperatore, 217 Emiliano, imperatore, 220, 269 Emilio Macro (Aemilius Macer), 14 Emilio Papiniano, vedi Papiniano Endelechio (Severus Sanctus Endelechius), 298 Ennio (Quintus Ennius), 17, 22, 53, 61, 112, 113, 147, 197, 200, 201, 203, 259 Epicuro, 45, 47, 90, 152, 201 Epigrammata Bobiensia, 279 Erasmo da Rotterdam, 308 Erennio Rufino, 186 Ermagora di Temno, retore greco, 139 Erode Attico, 147 Eschilo, 49, 106 Esiodo, 22, 23, 113, 301 Esopo, 22, 23, 279 Eugenio, usurpatore dell’Impero, 255, 262 Eumenio, panegirista (Eumenius), 265 Eurico, re dei Visigoti, 334, 335 Euripide, 49, 50, 106, 161, 301 Eusebio, oratore, 262 Eusebio di Cesarea, 179, 288, 305, 309, 321 Eusebio di Vercelli (Eusebius Vercellensis), 289

• • • •

Eustazio, figlio di Macrobio, 261 Eustazio, filosofo, 262 Eutropio (Eutropius), 268-269 Ezio, generale, 327, 333, 334

F • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Fabio Giusto, console nel 102 d.C., 158, 159 Fabio Pittore (Quintus Fabius Pictor), 268 Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio, 144 Fedro (Phaedrus), 21-23 Felice, santo protettore di Nola, 296 Filippo l’Arabo, imperatore, 219, 220, 269, 310 Firenzuola, A., 197 Firmico Materno (Iulius Firmicus Maternus), 285, 288-289 Flaubert, G., 71 Flavi, famiglia dei, 11, 13, 127, 136, 142, 154, 164, 204, 206 Flaviano, vedi Nicomaco Flaviano Flavio Vopisco (Flavius Vopiscus), 269 Floro (Publius Annius Florus), 175, 180, 213, 245 Foscolo, U., 69 Fozio, 192 Frontino (Sextus Iulius Frontinus), 123 Frontone (Marcus Cornelius Fronto), 60, 68, 138, 147, 152, 196, 207, 208, 212, 235 Fulgenzio (Fabius Planciades Fulgentius), 193, 342

G • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Gaio, giurista (Gaius), 209 Gaio Cesare, nipote di Augusto, 3, 4 Galba, imperatore, 8, 132, 165, 166, 167, 168 Galerio, imperatore, 221, 252 Galla Placidia, 326, 327 Gallieno, imperatore, 220 Gallione, vedi Giunio Gallione, retore, e Novato, fratello di Seneca Gelasio, papa, 298 Gellio (Aulus Gellius), 185, 204, 205, 206, 207-208, 212, 262 Genserico, re dei Vandali, 311, 327 Germanico (Germanicus Iulius Caesar), 4, 5, 6, 15, 16, 17, 36, 165, 169, 170, 279 Gerolamo, vedi Girolamo Gervasio e Protasio, santi, 303 Geta, fratello di Caracalla, 218 Giavoleno Prisco, vedi Iavoleno Prisco Giovanni, evangelista, 228, 312 Giovanni, generale di Giustiniano, 342 Giovanni, vescovo di Gerusalemme, 305, 306

• Giovenale (Decimus Iunius Iuvenalis), 13, 27, 82, 87, 88, 94-99, 103, 126, 133, 146, 205, 211, 247, 260 • Giovenco (Gaius Vettius Aquilinus Iuvencus), 297-298 • Gioviano, imperatore, 254 • Girolamo (Sophronius Eusebius Hieronymus), 93, 133, 152, 176, 179, 226, 238, 259, 289, 295, 300, 305-310, 313, 321, 335, 336 • Giulia, figlia di Cesare, 59 • Giulia Livilla, 36 • Giulia Maggiore, 3, 4, 5 • Giulia Mamea, 218 • Giulia Mesa, 218 • Giuliano d’Eclano, amico di Paolino di Nola, 296 • Giuliano l’Apostata, 253, 254, 258, 264, 266, 269, 270, 289 • Giulio Capitolino (Iulius Capitolinus), 269 • Giulio Igino, vedi Igino • Giulio Nepote, imperatore, 328 • Giulio Paolo, giurista (Iulius Paulus), 249 • Giulio Secondo, 158 • Giulio Solino, vedi Solino • Giulio Vindice, 8 • Giunio Gallione, retore, 40 • Giustina, imperatrice, 303 • Giustiniano, imperatore, 340, 341 • Giustino, apologista cristiano, 232 • Goethe, J.W., 69 • Gordiano, imperatore, 219 • Gordiano II, imperatore, 219 • Gordiano III, imperatore, 219 • Gorgia, 147 • Grattio, 14-15, 16, 248 • Graziano, imperatore, 254, 265, 266, 276, 278 • Gregorio di Nazianzo, 301 • Gregorio di Nissa, 301 • Gregorio di Tours (Gregorius Turonensis), 340 • Guicciardini, F., 173 • Guntamondo, re dei Vandali, 342 H • • • • • •

Historia Alexandri Magni, 273 Historia Apollonii regis Tyrii, 273 Historia Augusta, 176, 178, 213, 269, 335 Historia tripertita, 268 Hugo, V., 99 Huysmans, J.K., 282

I • • • • • • • • •

Iavoleno Prisco, giurista (Gaius Octavius Tidius Tossianus Lucius Iavolenus Priscus), 209 Igino (Gaius Iulius Hyginus), 204, 205 Ilario di Poitiers (Hilarius Pictaviensis), 289, 290, 291 Ilias Latina, 12, 24-25 Iperide, 161 Isidoro di Siviglia (Isidorus Hispaniensis), 179, 180, 339, 340, 341 Itinerarium Antonini, 263 Itinerarium Egeriae, vedi Peregrinatio Aetheriae Itinerarium Hierosolymitanum, 263

J • Joyce, J., 71 L • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

La Fontaine, J. de, 23, 198 Laberio (Decimus Laberius), 259 Labieno (Titus Labienus), 30 Lampadione, vedi Ottavio Lampadione Lattanzio (Lucius Caelius Firmianus Lactantius), 93, 188, 245, 285, 286-288, 315 Lattanzio Placido (Lactantius Placidus), 103 Laus Pisonis, 24 Leone, imperatore d’Oriente, 328 Leone Magno, papa, 228, 327 Lentulo, seguace di Pompeo, 60 Lentulo Getulico (Gnaeus Cornelius Lentulus Gaetulicus), 128 Leonida di Taranto, 127 Leopardi, G., 69, 147, 334 Lessing, G.E., 130 Levio, poeta preneoterico (Laevius), 289-290, 309 Libio Severo, imperatore, 328 Licinio, imperatore, 252 Licinio Calvo, vedi Calvo Licinio Muciano (Gaius Licinius Mucianus), 118, 168 Livia Drusilla, 3, 4, 5 Livio (Titus Livius), 12, 30, 61, 113, 135, 154, 163, 169, 173, 180, 260, 268, 269 Livio Andronico (Lucius Livius Andronicus), 259 Lisia, 206 Longo Sofista, 80 Lopez de Cortegana, 198 Luca, evangelista, 225, 302 Lucano (Marcus Annaeus Lucanus), 7, 17, 18, 24, 54, 57-69, 74, 85, 88, 102, 105, 107, 110, 111, 114, 136, 170, 172, 176

• • • • • • • • • • • • •

Luciano di Samosata, 54, 184, 192 Lucifero di Cagliari (Lucifer Caralitanus), 289 Lucilio, amico di Seneca, 37, 42, 45, 160 Lucilio (Gaius Lucilius), 82, 87, 94, 200, 203, 259 Lucillio, 24, 129 Lucio Cesare, nipote di Augusto, 3, 4 Lucio di Patre, 192 Lucio Settimio (Lucius Septimius), 272 Lucio Vero, 144, 145, 207 Lucrezio (Titus Lucretius Carus), 16, 32, 90, 91, 248 Lucullo (Lucius Licinius Lucullus), 202 Lydia, 19 Lyly, J., 198

M • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Macrino, imperatore, 218 Macrobio (Ambrosius Theodosius Macrobius), 180, 205, 260-262, 268, 317, 331 Macrone, prefetto del pretorio sotto Tiberio, 5 Maggiorano, imperatore, 328, 334 Mai, A., 207 Mamerco Scauro (Mamercus Aemilius Scaurus), 18 Mamertino, console nel 362 d.C., 264 Mani, fondatore del manicheismo, 319 Manilio (Marcus Manilius), 15-17, 20, 32 Marcello, nipote e figlio adottivo di Augusto, 3 Marco Apro, 158 Marco Aurelio, imperatore (Marcus Aurelius Antoninus), 42, 141, 142, 143, 144, 145, 147, 148, 206, 207, 211 Mariano, poeta novellus, 212 Mario (Gaius Marius), 59 Mario Prisco, 150, 157 Mario Vittorino (Gaius Marius Victorinus), 289-290, 305 Martino, vescovo di Tours e santo, 322 Marziale (Marcus Valerius Martialis), 13, 21, 24, 25, 61, 68, 93, 94, 125-130, 133, 153, 260 Marziano Capella (Martianus Minneus Felix Capella), 329-330 Masaniello, 271 Massenzio, imperatore, 252 Massimiano, imperatore, 221, 252, 264 Massimino Trace, imperatore, 218, 219 Massimo, usurpatore dell’Impero, 266 Masurio Sabino (Masurius Sabinus), 249 Masters, E.L., 277 Matteo, evangelista, 297 Mecenate (Gaius Cilnius Maecenas), 11, 14, 17, 20, 160, 203 Medicina Plinii, 122, 263 Mela, vedi Pomponio Mela

• • • • • • • • • • • • • • • •

Meleagro di Gadara, 127 Memmio, vedi Simmaco, figlio dell’oratore Menandro, il commediografo greco, 22, 136, 183, 208 Menandro, liberto di Claudio, 53 Menandro di Laodicea, 263 Menippo di Gadara, 53-54, 78 Merobaude (Flavius Merobaudes), 327, 333-334 Messalina, 6, 97, 169 Messalla Corvino (Marcus Valerius Messalla Corvinus), 19 Minucio Felice (Marcus Minucius Felix), 228, 232, 235-236, 238 Momigliano, A., 269 Monica, madre di Agostino, 311 Montaigne, M.E. de, 147 Monti, V., 6, 94 Moretum, 18, 20 Mulomedicina Chironis, 263

N • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Narcisso, liberto di Claudio, 169 Naucellio (Iunius Naucellius), 279 Nazario, retore, 264 Nemesiano (Marcus Aurelius Olympius Nemesianus), 24, 248 Nerone, imperatore, 6-8, 9, 12, 13, 14, 19, 20, 23, 24, 25, 27, 36, 37, 43, 44, 52, 58, 59, 60, 64, 65, 66, 71, 72, 73, 74, 87, 112, 119, 120, 125, 155 n., 157, 169, 170, 171, 172, 226 Nerva, imperatore, 87, 126, 141, 142, 145, 150, 157, 165, 166, 169, 269, 270 Nevio (Gnaeus Naevius), 61, 114, 201, 202, 259 Niceo, 99 Nicete Sacerdote, retore greco, 150 Nicomachi, famiglia dei, 260 Nicomaco di Gerasa, 183 Nicomaco Flaviano (Virius Nicomachus Flavianus), 261, 266, 268 Nigidio Figulo (Publius Nigidius Figulus), 16 Nonio (Nonius Marcellus), 258-259 Nosside di Locri, 127 Notitia dignitatum, 330 Novato, fratello di Seneca, 40 Novaziano, apologista, 237, 238 Novio, autore di atellane, 259 Numeriano, imperatore, 248, 269

O • Octavia, 52, 211 • Odoacre, 328 • Ofonio Tigellino, vedi Tigellino

• • • • • • • • • • • • • •

Olibrio, console nel 395 d.C., 280 Omero, 25, 57, 68, 83, 84, 108, 109, 111, 113, 189, 201, 202, 301 Onorio, imperatore d’Occidente, 255, 280, 281, 326, 327, 332 Optaziano Porfirio (Publilius Optatianus Porphyrius), 298 Orazio (Quintus Horatius Flaccus), 14, 17, 22, 47, 50, 53, 68, 82, 87, 90, 91, 93, 96, 97, 137, 176, 203, 205, 248, 278, 292, 293 Origene, 301, 305, 306, 307, 308, 309, 310, 321 Oro, filosofo, 262 Orosio (Paulus Orosius), 280, 335, 336, 337 Osidio Geta (Hosidius Geta), 246 Osio di Cordova (Hosius Cordubensis), 260, 297 Otone, imperatore, 7, 8, 165, 166, 168 Ottavia, 6, 7, 52 Ottavio Lampadione (Gaius Octavius Lampadio), 202 Ovidio (Publius Ovidius Naso), 4, 11, 14, 15, 16, 17, 20, 49, 51, 53, 68, 97, 102, 106, 110, 114, 195, 206, 248, 278, 342, 343

P • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Pacuvio (Marcus Pacuvius), 259 Palladio (Palladius Rutilius Taurus Aemilianus), 263 Pallante, liberto di Claudio, 6 Paolino, amico di Seneca, 41 Paolino di Nola (Meropius Pontius Paulinus Nolanus), 278, 292, 295-297, 298, 313, 321, 322 Paolo di Tarso, l’apostolo, 38, 54, 225, 227, 256, 289, 290, 293, 302, 314 Panegyrici Latini, 263, 264-265 Panezio, 39, 42 Papiniano, giurista (Aemilius Papinianus), 209, 249 Papirio Fabiano, 36 Parini, G., 99, Parmenide, 319 Passio Cypriani, 228 Passio Perpetuae et Felicitatis, 229-231 Passiones, 229, 230, 232, 291, 294 Pastore di Erma, 226 Peanio, traduttore di Eutropio, 269 Pelagio (Pelagius), 256, 305, 320 Pentadio, 245, 246 Peregrinatio Aetheriae, 263 Periochae, 269 Perotti, N., 21 Persio (Aulus Persius Flaccus), 20, 24, 25, 58, 82, 87, 88-94, 96, 205 Pervigilium Veneris, 245, 246 Pescennio Nigro, 218 Petilio Ceriale, 10 Petrarca, F., 69, 99, 179

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Petronio (Petronius Arbiter), 7, 28, 54, 68, 71-85, 161, 170, 171-172, 189, 191, 244 Petronio, prefetto del pretorio sotto Nerva, 142 Petronio Massimo, imperatore, 327 Pietro, apostolo, 237, 293, 305 Pietro Valvomeres, 271 Pindaro, 161 Pisone, adottato da Galba, 8, 166, 168 Pisone, autore della «congiura», 7, 24, 37, 58, 125, 170 Pisone, uomo di fiducia di Tiberio, 4, 169 Pittore, vedi Fabio Pittore Platone, 37, 47, 152, 161, 183, 185, 260, 262, 286, 301, 318 Plauto (Titus Maccius Plautus), 74, 196, 200, 201, 203, 206, 248, 282, 283 Plinio il Giovane (Gaius Plinius Caecilius Secundus), 112, 113, 125, 126, 128, 132, 146, 147, 150-155, 158, 167, 173, 175, 176, 211, 264, 265, 266, 306 Plinio il Vecchio (Gaius Plinius Secundus), 10, 18, 32, 118-123, 164, 248, 250, 263 Plotina, moglie di Traiano, 144 Plotino, 183, 310, 317, 319 Plutarco, 39, 88, 148, 262 Pompeo, 36, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 76 Pomponio, autore di atellane (Lucius Pomponius), 259 Pomponio, giurista (Sextus Pomponius), 209 Pomponio Mela (Pomponius Mela), 33, 120, 250 Pomponio Secondo (Publius Calvisius Sabinus Pomponius Secundus), 18, 119 Pompeo Trogo, vedi Trogo Pontano, G., 130 Ponziano, amico di Apuleio, 182, 186, 187 Ponzio, diacono, 238 Poppea Sabina, 7, 37, 52 Porfirio, filosofo neoplatonico, 317, 319 Porfirione (Pomponius Porphyrio), 205 Posidippo, 127 Posidonio di Apamea, 42, 163 Possidio, amico di Agostino, 311 Pretestato (Vettius Agorius Praetextatus), 261, 262, 266 Priapea, 20-21, 83 Priapea nell’Appendix Vergiliana, 20 Prisciano, 339 Proba, 298 Probino, console nel 395 d.C., 280 Probo (Marcus Valerius Probus), 88, 93, 135, 176, 204-205, 221 Properzio (Sextus Propertius), 17 Prudenzio (Aurelius Prudentius Clemens), 291, 292-295, 297, 334 Pseudo-Acrone, vedi Acrone Pudente, figlio di Pudentilla, 186, 187, 231 Pudentilla, moglie di Apuleio, 182, 186, 187 Pupieno, imperatore, 219

Q • Quadrigario, vedi Claudio Quadrigario • Querolus, 282-283 • Quintiliano (Marcus Fabius Quintilianus), 23, 25, 37, 48, 54, 60, 68, 93, 103, 109, 120, 126, 132-140, 150, 153, 159, 160, 161, 206, 208 • Quinto Cerellio, amico di Censorino, 250 R • • • • • • • • • • • • • •

Rabirio (Rabirius), 61 Racine, J., 54, 173 Radegonda, moglie di Clotario, 342 Remmio Palemone (Quintus Remmius Palaemon), 132, 133, 204 Reposiano, 246 Ricimero, generale, 328 Ricomere, generale, 266 Riese, A., 245 Romano, santo, 293 Romanzo di Alessandro, 31, 273 Romolo Augusto, l’ultimo imperatore, 326, 328 Rousseau, J.J., 318 Rufino di Aquileia (Tyrannius Rufinus), 305, 306, 310, 321 Rutilio Namaziano (Rutilius Claudius Namatianus), 331-333, 334

S • • • • • • • • • • • • • • • •

Saffo, 25, 127 Sallustio (Gaius Sallustius Crispus), 136, 147, 160, 163, 168, 171, 259, 273, 330 Salmasius, vedi Saumaise Salviano (Salvianus), 335, 336-337 Salvio Giuliano, giurista (Lucius Octavius Cornelius Salvius Iulianus Aemilianus), 209 San Girolamo, vedi Girolamo San Paolo, vedi Paolo di Tarso Sannazaro, J., 130 Sant’Agostino, vedi Agostino Sapore I, figlio di Artaserse, 219 Saumaise, C. de, 244 Scaligero, G.C., 18, 113 Sceva, seguace di Cesare, 59, 64 Scipione Africano (Publius Cornelius Scipio Africanus), 112, 113 Seiano, 4, 5, 22, 169, 171 Seneca (Lucius Annaeus Seneca), 7, 12, 17, 20, 22, 27, 28, 36-54, 57, 63, 65, 66, 68, 78, 88, 106, 107, 110, 114, 117, 122, 125, 132, 134, 136, 137, 138, 152, 160, 163, 169, 170, 173, 211, 244, 246, 334, 340 • Seneca il Vecchio (Lucius Annaeus Seneca), 28-29, 31, 61, 129, 135, 161, 180

• Senofonte, lo storico greco, 206 • Senofonte Efesio, 80 • Serena, moglie di Stilicone, 281 • Sereno, amico di Seneca, 37, 40 • Sereno, vedi Settimio Sereno, poeta novellus • Sereno Sammonico, scrittore di medicina (Quintus Serenus Sammonicus), 247-248 • Servio (Maurus Servius Honoratus), 60, 68, 99, 180, 205, 259, 260, 262 • Servio Danielino, 260 • Sesto Pompeo, console nel 14 d.C., 31 • Sesto Pompeo, figlio di Pompeo, 59, 62 • Setticio Claro, amico di Plinio il Giovane e di Svetonio, 153, 175, 176 • Settimio Sereno, poeta novellus, 212 • Settimio Severo, imperatore, 217, 218, 249 • Severi, famiglia dei, 148, 205, 209, 218, 219, 222, 247 • Severo Alessandro, imperatore, 148, 218, 249, 310 • Shakespeare, W., 54 • Sidonio Apollinare (Gaius Sollius Modestus Apollinaris Sidonius), 130, 154, 328, 334-335 • Sienkiewicz, H., 73 • Silio Italico (Tiberius Catius Asconius Silius Italicus), 102, 103, 107, 112-114, 126, 127, 153 • Silla (Lucius Cornelius Sulla Felix), 59 • Simia di Rodi, 212 • Simmachi, famiglia dei, 260, 261, 301 • Simmaco, figlio dell’oratore (Quintus Fabius Memmius Symmachus), 265 • Simmaco, oratore (Quintus Aurelius Symmachus Eusebius), 152, 154, 254, 262, 265-267, 278, 279, 280, 295, 302, 303, 311, 317, 335 • Simmaco, traduttore greco della Bibbia, 307 • Simonide di Ceo, 127 • Sirone, 19 • Sisenna (Lucius Cornelius Sisenna), 81, 191, 196, 259 • Sofocle, 49, 50, 161 • Solino (Gaius Iulius Solinus), 122, 250 • Stazio (Publius Papinius Statius), 13, 17, 28, 58, 61, 102-108, 111, 127, 135, 334 • Stefano, vescovo di Roma, 237 • Stella, amico di Stazio, 104 • Stilicone, generale, 255, 266, 280, 281, 282, 332 • Stilone (Lucius Aelius Stilo Praeconinus), 200, 201 • Suda, lessico bizantino, 176 • Sulpicia, 25, 279 • Sulpicio Apollinare (Gaius Sulpicius Apollinaris), 208, 297 • Sulpicio Severo (Sulpicius Severus), 291, 295, 322 • Svetonio (Gaius Suetonius Tranquillus), 12, 31, 58, 119, 148, 154, 167, 175-180, 200, 202, 203, 204, 250, 259, 262, 268, 269, 309 T • Tacito (Cornelius Tacitus), 11, 12, 18, 30, 37, 40, 58, 71, 72-73, 112, 119, 120, 122, 132, 134, 136, 138, 146, 147, 150, 153, 154, 157-173, 270, 271

• • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Tasso, T., 69 Teocrito, 24 Teodorico, 339 Teodosio, imperatore, 254-255, 264, 266, 269, 279, 291, 295, 302, 303 Teodosio II, imperatore d’Oriente, 327, 330 Teodozione, 307 Terasia, moglie di Paolino di Nola, 295 Terenziano Mauro (Terentianus Maurus), 72, 212, 247 Terenzio (Publius Terentius Afer), 176, 200, 205, 259, 261 Tertulliano (Quintus Septimius Florens Tertullianus), 93, 227, 228, 229, 232-234, 235, 236, 237, 238, 241, 246, 285, 287, 306, 310, 315 Testamentum Porcelli, 250 Tiberio, imperatore, 3, 4, 5, 11, 14, 15, 16, 18, 20, 21, 22, 28, 30, 32, 34, 120, 169, 171, 172 Tiberio Donato (Tiberius Claudius Donatus), 259-260 Tiberio Gemello, 5 Tibullo (Albius Tibullus), 14 Tigellino, prefetto del pretorio sotto Nerone, 7, 37, 170 Tigidio Perenne, prefetto del pretorio sotto Commodo, 146 Timesiteo, prefetto del pretorio sotto Gordiano III, 219 Tisia, retore greco, 139 Titinio, autore di togate, 259 Tito, imperatore, 9, 10, 11, 119, 120, 121, 126, 157, 159, 165 Tito Livio, vedi Livio Tito Petronio, vedi Petronio, prefetto del pretorio sotto Nerva Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra, 60 Traiano, 123, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 150, 151, 152, 154, 157, 162, 165, 166, 167, 169, 175, 205, 211, 264, 269, 334 Trasea Peto (Publius Clodius Thrasea Paetus), 88, 89, 170 Trebellio Pollione (Trebellius Pollio), 269 Treboniano Gallo, imperatore, 220 Trifone, ‘editore’ di Quintiliano, 135 Trogo (Pompeius Trogus), 30 Tucidide, 136, 161 Turpilio, autore di palliate, 259

U • Ulpiano, giurista (Domitius Ulpianus), 209, 218, 249 V • • • • •

Vacca, biografo di Lucano, 58, 65 Valente, imperatore, 254, 268, 270, 272 Valentiniano, imperatore, 254, 265, 270, 272 Valentiniano II, imperatore, 254, 255, 266, 303 Valentiniano III, imperatore, 327, 333

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Valeriano, imperatore, 220, 236, 237, 240, 269 Valerio Catone, poeta neoterio e grammatico (Publius Valerius Cato), 200, 202-203, 212 Valerio Flacco (Gaius Valerius Flaccus Setinus Balbus), 102, 108-112, 127 Valerio Massimo (Valerius Maximus), 30-31 Valerio Messalla, vedi Messalla Corvino Valerio Probo, vedi Probo Valgio Rufo (Gaius Valgius Rufus), 14 Vario Rufo (Lucius Varius Rufus), 17, 50 Varrone (Marcus Terentius Varro), 16, 32, 54, 78, 120, 122, 176, 180, 200, 201, 220, 247, 259, 262 Varrone Atacino (Publius Terentius Varro Atacinus), 15, 109 Vegezio (Flavius Vegetius Renatus), 263 Velleio Patercolo (Velleius Paterculus), 30 Venanzio Fortunato (Venantius Honorius Clementianus Fortunatus), 342-343 Vespa, 246 Vespasiano, 8, 9, 10, 11, 13, 18, 112, 119, 120, 132, 136, 157, 165, 166, 168, 179 Vetus Afra, 226 Vetus Itala, 226, 307 Vetus Latina, 226, 307, 308 Vipstano Messalla, 158 Virgilio (Publius Vergilius Maro), 11, 12, 13, 14, 15, 17, 18, 19, 20, 24, 32, 50, 53, 57, 60, 61, 62, 65, 66, 69, 84, 85, 102, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 147, 148, 176, 195, 197, 203, 204, 205, 206, 246, 248, 249, 259, 260, 261, 262, 273, 277, 278, 292, 297, 298, 334, 342 Virginio Rufo, console nel 97 d.C., 157 Vitellio, imperatore, 8, 9, 112, 165, 166, 167 Vitruvio (Vitruvius Pollio), 32, 33, 120 Vittorino di Poetovium, 238 Vittorio Marcello, oratore, 135 Volcacio Gallicano (Volcacius Gallicanus), 269 Volcacio Sedigito (Volcacius Sedigitus), 201 Voltaire, 54 Volusiano, imperatore, 220 Vulgata, 226, 305, 308, 309 Vulteio, seguace di Pompeo, 59

Z • Zenodoto, 203 • Zenone, imperatore d’Oriente, 342 • Zenone di Verona (Zeno Veronensis), 289