L'essere e le differenze. Sul «Sofista» di Platone 8815024840, 9788815024848

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L'essere e le differenze. Sul «Sofista» di Platone
 8815024840, 9788815024848

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IL MULINO RICERCA

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Alla memoria di mio padre che per tanti anni, silenziosamente, mi aiutò a vivere

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GENNARO SASSO

L'ESSERE E LE DIFFERENZE Sul «Sofista» di Platone

IL MULINO Mauritius_in_libris

ISBN 88-15-02484-0 Copyright © 1991 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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INDICE

Prefazione

p.

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I. 1. L'inizio dell'indagine: l'essere che «non è» e il non essere che, in qualche modo, «è». - 2. La disubbidienza al 'divieto' di Parmenide: fragilità e aporeticità.

II.

23 3.11 «falso», l'errore e il µiì OV in Resp. 476 c - 479 D. - 4. Mé0e!;tc; e bmµcj>oi:epiçetv. - 5. Conclusioni sul passo della Repubblica.

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III. 6. Il nulla e la rigorizzazione dell'aporia (che lo concerne). - 7. La forma estrema dell'aporia. - 8. L'arte sofistica della parvenza. - 9 .... e la critica del Forestiero d'Elea. - 10. L'asprezza del logo concernente il nulla e i dubbi del Forestiero d 'Elea. - 11. Verso la dimostrazione del «non essere» dell'essere.

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IV. 12. Il problema dell'essere e la sua storia: trinità, dualità, unità. - 13. La «gigantomachia»: i materialisti. - 14. Oi. i:v d&òv cj>O.ot. - 15. Una digressione. - 16. Conclusioni sulla storia dell'idea dell'essere.

V.

81 17. Verso il centro della questione. Il moto e la quiete. - 18. Il moto, la quiete, l'essere e, di nuovo, la µÉ0E!;tc;. Mauritius_in_libris

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VI. 19. La prima parte del Parmenide: la questione delle idee. - 20. Le idee, la partecipazione, e le critiche di Parmenide. - 21. «Separazione» e µÉ9E!;tc;. I presupposti dell'argomento detto del 'tphoc; àv9pco1toc;. - 22. Le due forme del 'tpi'toc; àv9pco1toc; nella prima formulazione dell' argomento. - 23. «Terzo uomo», autopredicazione, predicazione. - 24. Ancora sulla prima formulazione: 132 A 9-10. - 25. La seconda formulazione del 'tpi'toc; àv9pco1toc;. - 26. Ancora su µÉ9E!;tc; e autopredicazione. - 27. Un'ultima osservazione sul 'tpi'toc; àv9pco1toc;. - 28. Gli ulteriori argomenti .... - 29 . . . . e il loro svolgimento.

VII.

135 30. Riprende l'analisi del Sofista: ancora sulla µÉ9E!;tc;. - 31. L'uso della µÉ9E!;tc;. - 32. La formulazione del tema dialettico. - 33. Il comportamento anomalo di ri VflO"tC: e cnamc; e un carattere paradossale della 1C0tvcovia dialettica. - 34. La dialettica come superamento dell'aporia. - 35. Kotvcovia e non KOtvcovia dei yév11: considerazioni e svolgimenti. - 36. Ancora sulla Kotvcovia.

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VIII. 37. La 1C0tvcovia e la deduzione. - 38. L'essere e i 'YÉVfl. - 39. L'irrequieta natura del diverso.

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IX. 40. La riduzione del µiì òv allo hepov. - 41. Riepilogo delle questioni e delle aporie. - 42. Il fallimento della deduzione (della diversità). - 43. La specifica difficoltà del «diverso». - 44. L'essere e le differenze. - 45. Gli Eio11 e i 'YÉVfl. Ancora sul carattere dell'essere nel quadro della cn>µ7tÀ.Otj. - 46. Il 'non essere assoluto', il suo congedo, il fallimento del congedo. - 47. eeai'tll'toc; 1tÉ'tE'tat. La parte conclusiva del Sofista. - 48. Le dame di Leibniz e la diversità delle foglie.

Note 6

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PREFAZIONE

Poiché, oltre che storiografica, questo libro ha natura teoretica, e anzi proprio quest'ultima apparirà a qualcuno come la sua più autentica, desidero dichiararne subito, o specificarne, l'intento e la tesi. Ho scritto questo libro per far vedere che, malgrado la sua importanza, e lo straordinario acume con il quale l'analisi dell'eleatismo e, in particolare, di Parmenide, vi è stata condotta fino alle estreme conseguenze, il Sofista culmina nella dichiarazione, non però nell'autentica dimostrazione, della «differenza». Ho scritto questo libro perché, convinto come sono che da nessuno la questione della differenza sia stata posta e discussa con altrettanta lucidità, ritengo tuttavia che, pur dopo il tentativo platonico di risolverla, questa resti, per la filosofia, aperta. Ho scritto questo libro, non per risolverla, tale questione; ma piuttosto per mostrare, in forma implicita (e, qualche volta, esplicita), perché quella tracciata da Platone sia una via che, dopo essere stata seguita fino in fondo, deve tuttavia, con decisione, essere abbandonata. L'ho scritto, infine, per far vedere quante difficoltà la consapevolezza del «fallimento» platonico riveli nel fondo della questione, e quanto lungo, aspro e disagevole sia il cammino che resta, o resterebbe, da percorrere. Strettamente connesso a Essere e negazione (1987), questo libro ne è in parte la continuazione; e, per un altro verso, è invece l'annunzio obiettivo di una nuova indagine, che verrà, se verrà, dedicata in modo specifico alle categorie della differenza. Ma, come ho detto e mi permetto di ripetere, nel saggio platonico che presento ai lettori sta altresì la ragione per la quale l'indagine specifica della differenza e delle sue categorie offrirà molte resistenze e, forse, non si lascerà concludere. Ho detto che questo è un libro storiografico e, sopra tutto, teoretico. Ma qualcuno potrebbe chiedere se sia storiografico Mauritius_in_libris

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o teoretico: se sia un libro di filosofia, o di storia della filosofia. La soluzione dell'enigma dipende dal modo in cui queste due espressioni, «filosofia» e «storia della filosofia», sono intese. Se per caso qualcuno ritenesse che tanto più, e tanto meglio, si fa storia della filosofia quanto più ci si tenga lontani da questa, ossia dalla filosofia, e ad oggetto d'indagine si ponga qualcosa che con la filosofia abbia, nel migliore dei casi, non più che un rapporto indiretto, - ebbene, questo non è un libro di storia della filosofia (perché, potrebbe dirsi, non è un libro di storia della cultura). Non può escludersi per altro che, in questa materia, qualcuno pensi, o possa pensare, in modo diverso. Per mio conto preferisco piuttosto aggiungere e dichiarare che se del filosofo non posseggo l'autentico talento, nemmeno però sono afflitto dall'arroganza che talvolta caratterizza chi Io abbia (o creda di averlo). E, per questa specifica ragione, mentre il libro accennava a prendere la sua forma, ho subito respinta, come ridicola, la tentazione di scriverlo «senza note». Il meglio che potevo e sapevo, ho invece cercato di leggere e studiare almeno una parte dell'amplissima letteratura esistente sull'argomento; che ho citata tuttavia con qualche parsimonia sia perché, dopo tutto, questo è un libro, non una «rassegna bibliografica», e conveniva che perciò i riferimenti andassero sopra tutto a contributi il cui tema, in un modo o in un altro, si legasse al mio, sia perché, malgrado la buona volontà che ci ho messa, non è stato facile stabilire utili connessioni critiche con una letteratura che, per la gran parte, s'ispira ad una filosofia (quella analitica di tradizione anglosassone) dalla quale assai lontana è l'altra alla quale m'ispiro, o cerco di ispirarmi, io. Del che, si badi, non mi rallegro, perché, per un interprete che non sia affetto dal morbo della presunzione, l'isolamento non costituisce affatto la condizione ideale. Ma, piaccia o non piaccia, la cosa sta pur così; e occorreva prenderne atto, e dichiararlo. Giova considerare inoltre che la letteratura platonica, non solo è, come si dice, «sterminata», ma, sopra tutto per quanto riguarda i dialoghi tardi, e, fra questi, il Sofista, in costante, quotidiano aumento. E questo è bensì, senza dubbio, un rilievo materiale e banale; che a parte subiecti configura tuttavia un 8

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piccolo dramma, perché l'ultimo contributo che si sia riusciti a raggiungere non è mai sul serio tale, e, anche nell'ambito della letteratura più recente, la completezza dell'informazione si rivela un miraggio. Certo, se dall 'inattingibilità dell'ultimo (che sul serio sia tale) si deducesse la regola che, fino a quando I 'inattinto non sia stato raggiunto, vieta di pubblicare libri saggi e articoli di argomento platonico, chi sa quante sciocchezze, a cominciare dalle nostre, resterebbero utilmente inedite. Ma le sciocchezze non possono essere abolite, o vietate, per legge; e nella sua astuzia, o nella sua saviezza, la ragione dichiara che sarebbe, quella, una regola comunque retriva e oscurantista. Il che naturalmente è vero: anche se la modestia e il realismo suggeriscano di intenderla, questa dichiarazione, nel senso che, dopo aver scritto un libro, è difficile, e forse impossibile, che l'autore possegga la lucidità necessaria a lasciarlo nel cassetto, o, meglio, e per non indurre i posteri in tentazione, a distruggerlo. La materia di questo libro è stata elaborata in tre corsi universitari consacrati, nell'ultimo decennio, al commento del Sofista; che una volta costituì da solo l'oggetto delle lezioni, una altra fu presentata in connessione con il Parmenide, una terza con il Teeteto. A Antonello D'Angelo e Mauro Visentin, che hanno avuto la pazienza di leggerlo nelle sue varie stesure, e che con me lo hanno discusso nei suoi punti principali, vada il mio cordiale ringraziamento. G.S. Roma, 30 dicembre 1990

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Avvertenza I testi platonici sono citati secondo l'edizione del Burnet (Oxford 1900, ristampa 1946). Le edizioni in lingue moderne delle quali mi sono giovato, e ho fatto uso, sono di volta in volta indicate nelle note; le versioni date nel testo sono, salvo contrario avviso, opera mia. Soltanto in alcuni casi, e cioè quando il contesto lo rendesse a sufficienza perspicuo, ho lasciato senza traduzione il testo greco. Vorrei aggiungere che, per non ingenerare equivoci, ho mantenuto il segno greco dell'interrogazione (;) soltanto quando ricorresse all'interno di un passo; ma l'ho sostituito con il nostro (?) quando si trovasse invece in posizione terminale.

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I 1. L'inizio dell'indagine: lessere che «non è» e il non essere che, in qualche modo, «è»

Il centro ideale del Sofista si trova, forse, in 241 D 5-7: nelle parole con le quali il Forestiero d'Elea, prima raccomanda a Teeteto di non voler pensare che quanto fin Il detto, nel corso dell'indagine, sia per condurlo a farsi 7t1'croµev, Kà.v ou'tro 'tà Mo À.Éyot 't' dv craq,fo'tcna ev), e al caldo, quindi, di non poter avere di contro a sé il freddo, al quale a sua volta era impedito di avere di contro a sé il caldo. In tal modo, attraverso queste rapide e brucianti battute, il logo dell'ospite eleate ritrovava di fronte a sé, in una prospettiva specifica, la questione dell'essere e dell'uno, che aveva costituito il tema, arduo e affascinante, e tanto più affascinante quanto più arduo, dell'analisi svolta nel Parmenide 52• A coloro

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che all'uno, inteso come il carattere stesso dell'essere, dirigono lo sguardo, egli rivolge perciò la domanda essenziale: chiede, infatti, se solo l'uno sia «essere». E come, alla domanda, la risposta non può, o cosl sembra, non suonare affermativa, ecco allora che, non senza qualche malizia, l'ospite eleate si diverte a far notare che, se sul serio l'essere fosse «uno» (e in questo carattere fosse tenuto fermo con coerenza), allora una ben singolare conseguenza emergerebbe: essendo in effetti evidente che, posto l'essere come uno, e l'uno come essere, due sono tuttavia i nomi che si richiedono perché questa «unità» sia resa possibile nell'affermazione che se ne fa. 244 C 1-2 1t6'tepov 01tep ev, Ém 'tcQ mhci) 1tpocrxproµevot ouotv 6v6µcxcrtv, ii mik? Alla domanda, quando la si specifichi, è dunque facile rispondere congetturando che nulla questi pensatori avrebbero saputo e potuto rispondere, perché, certo, concedere che si diano due nomi quando si sia sostenuto che nulla c'è al di fuori dell'uno, è cosa risibile 53 • La questione del nome non è, d'altra parte, semplice; e suggerisce infatti al Forestiero d'Elea una acuta, quanto breve, analisi, relativa al suo «essere» di nome, che, senza dubbio, sarebbe interessante esaminare nella sua struttura. Ma maiora premunt. Subito dopo, infatti, e chiamando in causa, addirittura, i versi di Parmenide affermanti che il tutto è miv't00EV, EÙKUKÀ.O'U crc)>a{p1w ÈvaÀ.tyKtOV OyKCOl, µrncr60Ev icronaAf:i; nciv'tTjt · -rò yàp ou-rE n µEtçov ou-rE n ~mo-rEpov 1tEÀ.Évm XPE6v Ècm 'ti'jt Ti 'ti'jt 54

il Forestiero d'Elea passa a considerare se, nell'opinione esaminata, il tutto debba esser preso come diverso dall'unoessere, oppure come identico a questo. «Identico» costoro lo diranno, - questa, almeno, è l'opinione di Teeteto; e, per quanto concerne l'intenzione che li guidò, a tale opinione, certo, l'ospite non potrebbe contraddire. Ma, al di là dell 'intenzione, guardando alla cosa stessa, nessuno, invece, potrebbe dire che quella, l'intenzione, ne risulti confermata; ed egli infatti osserva che persino dalle parole di Parmenide emerge un concetto dal quale l'intenzione è addirittura smentita. In realtà, i vv. 43-45 del fr. 8 Diels-Kranz sono fra i più

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tormentati, e tormentosi, dell'intero poema (o di ciò che ne resta); e tutti, al riguardo, conoscono il travaglio delle interpretazioni, che non sarà per altro necessario, in questa sede, ripercorrere 55 • Basti infatti osservare che, postosi di fronte a questi tre versi, non senza arbitrio Platone li interpretò come se, con quello dell'estensione materiale, l'idea della «ben rotonda sfera» (EÙKUKÀ.ou crO.tPllC:) implicasse, per conseguenza, il concetto della sua divisibilità56 ; e come se a contrastare questa esegesi non fosse sufficiente l'affermazione secondo cui all'essenza, per così dire, di questa figura ideale ogni minorazione, maggiorazione e, comunque, differenza di essere, è, di necessità, estranea. Ne ricavò infatti la conseguenza che 'tOlOÙ'tOV "(E OV µfoov 'tE KO.Ì. EcrXù.'tO. EXEl, 'tO.Ù'tO. Oè exov 1téiO'O. àvayKTJ µÉpTJ EXElV (244 E 6-7); e stabilito questo punto, che gli sembrava inconfutabile, dette inizio alla sua argomentazione distruttiva. Se l'essere ha parti, ed è l'articolazione delle sue parti, niente, certo, vieta di supporre che, al di sopra delle parti che lo costituiscono, a lui sia dato di partecipare dell'unità; e che, in forza di questa partecipazione, altresì · gli sia dato di essere 'tÒ 1téiv e 'tÒ oÀ.ov, - un tutto e un intero. La difficoltà, per altro, si dà subito a vedere in ciò, che quel che in tal modo è reso partecipe dell'uno, in nessun senso potrebbe, in sé stesso, essere assunto come «uno». E non solo per la ragione formalmente addotta, e cioè che come «diviso in parti» e, dunque, come molteplice lo si era fin dall'inizio considerato, ma anche, se così fosse lecito dire, per la ragione che sta dentro questa ragione. Se, al di qua della partecipazione, l'essere fosse «uno», perché mai, allora, per esser tale, ne parteciperebbe (e dovrebbe parteciparne)? Non è forse evidente che se, distinto dall'uno del quale partecipa, l'uno partecipasse dell'uno, l'uno che partecipa sarebbe, non «uno», ma «uno dei due», - a quel modo stesso che «uno dei due», e non uno, sarebbe l'uno del quale il primo partecipa? Che sia così, è evidente. Ma, se fosse così, impossibile sarebbe la partecipazione dell'uno, perché, in realtà, non l'uno si dà, ma, per il fatto stesso della partecipazione (che l'uno fa dell'uno), il due. Nei confronti dell'idea della «metessi», il rilievo che è stato formulato contiene in sé una potenzialità distruttiva assai più alta di quella che fin qui non sia emersa; e se, già a questo

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punto, si potesse svolgerla e esplicarla, dimostrarlo non sarebbe difficile. Come che sia di ciò, è un fatto, tuttavia, che, senza porre formalmente in questione la struttura concettuale di ciò che ha nome «metessi», Platone si restringe qui ad osservare che, se come assolutamente privo di parti dev'essere pensato ciò che sul serio è «uno», allora, partecipandone (e un «tutto di parti» essendo il soggetto della partecipazione), la conseguenza sarà che un «tutto (di parti)» e un «uno» sarà l'essere; e questo è assurdo, perché, se è un «tutto (di parti)», com'è possibile che sia «uno», e se, per contro, è «uno», com'è possibile che sia un «tutto (di parti)»? In modo indiretto, e con l'ambiguità che al suo ragionamento deriva dal non essere riuscito a prendere contatto con il fondo autentico della questione, attraverso il suo stesso involgersi nella difficoltà il Forestiero d 'Elea rende esplicito il tratto aporetico da cui l'idea della partecipazione è segnata57 • Palesemente, il risultato del processo partecipativo gli si configura come la somma dei termini che, intrinseci al processo, di questo sono altresl costitutivi: da una parte, l'essere che, essendo un «tutto (di parti)» partecipa dell'uno, da un'altra l'uno che, scevro di parti, dal «tutto (di parti)» è partecipato. E qui, allora, se ci si pone mente, l'equivoco intrinseco all'idea della µÉ0e!;tc;, la sua discrasia interna, la sua irresistibile tendenza al circolo vizioso, rifulgono di piena luce. È evidente infatti che, se dell'essere si dice che è un «tutto (di parti)», anche dovrà dirsi che è il contrario-opposto di una scissione; il contrario-opposto di una scissione e, dunque, un 'unità -1 'unità che a lui deriva dal suo intrinseco partecipare dell'uno: che se dell'uno non partecipasse nell'intrinseco, ossia, si badi, nell'atto stesso in cui è un «tutto (di parti)», se, come che sia, il filo aureo dell'unità non legasse fra loro le parti, e queste stessero, scisse, l'una di contro ali' altra, come mai sarebbero costituite in un tutto, e di questo sarebbero le parti? Ma, se è cosl, di qui allora discende che, come totalità e unità di parti, l'essere è «uno» già al di qua del processo partecipativo che, per contro (e come s'immagina), dovrebbe renderlo tale. E, altamente paradossale, configurante inoltre un'autentica impossibilità, la conseguenza allora è che il risultato della partecipazione deve già essere stato conseguito innanzi ali' atto che, 62

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come si pretende, lo istituisce: il che significa che conseguirlo attraverso la partecipazione è tanto più impossibile in quanto, a richiederlo come necessaria premessa del suo atto, è proprio la partecipazione che, invece, dovrebbe consentire il suo concreto determinarsi nella realtà. Per ragioni varie che, è sperabile, il corso ulteriore della ricerca poco alla volta chiarirà, a questa interna dissoluzione del concetto della «metessi» il Forestiero d 'Elea non riuscirà a pervenire: anzi, nella parte centrale del dialogo, sarà costretto a servirsene (e la cosa riesce sorprendente se si pensa - ma dovrà riparlarsene - a quel che si legge nello straordinario prologo del Parmenide 58 ). Come che sia, sta di fatto che, svolgendo in questo luogo del dialogo le ulteriori implicazioni del concetto al quale è pervenuto, l'ospite eleate osserva che, costretto ali 'unità dal suo stesso atto partecipativo, l'essere non sarà, proprio in ragione di questo atto, identico ali 'uno (del quale partecipa); e la ragione di questo asserto che, a prima vista, non appare, forse, del tutto perspicua, sta in questa sequenza che, per chiarirne il senso, occorrerà cercar di rendere esplicita. Se, per esser «uno», è necessario che dell '«uno» l'essere partecipi, segno è che, nella sua immediatezza d'essere, non è «uno». Ma, se è così, è proprio, allora, ciò che lo «rende identico ali 'uno» a svelarne l'originaria differenza. Realizzando l'unità dell'essere, l'atto partecipativo ribadisce che, ali 'origine, essere e unità non sono lo stesso; e che per questo, perché non sono lo stesso, l'atto partecipativo mostra la sua necessità. Per questo verso, dunque, la partecipazione è l'atto mediante il quale l'essere giunge alla pienezza di sé, e stringe in unità le sue parti che, altrimenti, starebbero, scisse, le une contro le altre. Ma c'è di più (e, per questo aspetto, i termini della questione tendono a capovolgersi, anzi, si capovolgono senz'altro). Se l'essere è l'essere, è ovvio che il tutto non possa «mancargli», per ciò stesso che anche al «tutto» mai potrebbe mancare l'essere. Ne consegue che, mentre nel primo movimento del concetto la partecipazione sembrava indicare la via lungo la quale ali' essere era consentito di raggiungere il traguardo della sua propria pienezza, qui, per contro, essa si rivela come addirittura intrinseca alla pura posizione dell 'es-

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sere: al quale, in effetti, come potrebbe «mancare», se è un «tutto», l'uno? Ma se la partecipazione è intrinseca all'essere, anzi, cosl intrinseca da coincidere, addirittura, con il suo atto d'essere, ossia con l'essere nella sua concretezza, come non vedere allora che di un processo partecipativo del quale l'essere si faccia, per cosl dire, I' auctor e il soggetto, non è possibile, né lecito, parlare? Come non vedere, altresì, che se l'essere è un tutto (di parti), e non più che una sua parte è l'uno, necessariamente è, e a riconoscerlo è lo stesso Forestiero d'Elea, più che uno? Se per altro è cosl, allora è evidente che, al di là della consapevolezza che il personaggio platonico mostra di averne, una ben grave difficoltà si è formata, e proprio in questo punto, alla radice del suo ragionamento. Una difficoltà che, conducendo (nell'esame che se ne faccia) oltre il testo, richiede particolare attenzione. Se l'uno, che, per definizione, è uno, e, se è tale, non ha parti, è tuttavia parte di un tutto, allora, certo, non sarà uno; e non può dirsi per conseguenza che, nell'includerlo e nel sommarlo a sé, più che uno l'essere venga ad essere. Dire cosl non è possibile perché, come potrebbe l'uno, che non ha parti, esser parte di un tutto? Se è parte di un tutto, necessariamente starà in relazione ad altro, ossia alle «parti» onde il tutto è costituito. Ma l'uno è uno: come potrebbe dunque, se è tale, stare in relazione ad «altro»? Non è forse evidente che, nel suo stare in relazione ad altro, starebbe altresl, e proprio in sé stesso, nel «due», e che mai perciò potrebbe sul serio essere «uno»? In realtà, l'equivoco e l'inconseguenza a cui, in questo punto, il ragionamento dell'ospite eleate dà luogo, nascono da ciò, che, senza interrogarsi intorno alla sua possibilità, Platone ha posto nella sua immediatezza, e quindi non ha «fondato», il concetto del tutto come «tutto di parti», come «unità delle parti», come l'organico «intreccio» di queste. Ha parlato di un'unità che, oltre e al di là delle parti, è l'unità delle parti; e dell '«oltre» e dell' «al di là» non ha indagato il senso: ossia, se siano possibili. Era lecito che a questa indagine non desse corso? Era lecito porre a questo modo il concetto dell'unità? In realtà, non era lecito. Sebbene, nel prospettarlo, il Forestiero d 'Elea lo definisse come ovvio, di per sé stesso evidente, come 64

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tale, in altri termini, che il parlarne non richiedesse un previo atto di «fondazione», basta poco in realtà per avvedersi che, senza fondazione, il concetto dell'unità (delle parti) non riesce a consistere con sé stesso. Certo, postulando, oltre e al di là delle parti, l'unità e la totalità, Platone ha supposto che a queste, e all'una non meno che all'altra, non potesse mancare ciò che le rende tali, e dunque l'uno; e la ragione di questa sua postulazione sta, con ogni probabilità, nel previo convincimento che, se questa è un'unità, e totalità, di parti, come potrebbe, in quanto tale, non esser «una»? Come potrebbe, in quanto tale, essere in sé stessa molteplice? Forse che l'unità sarebbe unità (di parti) se, in sé stessa, fosse divisa in parti? Ma, ammesso che la questione possa esser posta in questi termini (e che il concetto non richiedesse quella previa, e più radicale, ricognizione della sua propria «possibilità», della quale si parlava); ammesso che l'unità delle parti sia in sé stessa, come «unità», «una» e priva di parti, resta tuttavia da considerare il punto essenziale; e questo è che se, come certo in questo quadro si assume e deve assumersi, nell'unità le parti sono sul serio «parti», allora non solo saranno (e dovranno essere) l'una diversa dall'altra (come, altrimenti, sarebbero «parti»?), ma anche saranno (e dovranno essere) diverse dal1'unità: che se cosl non fosse, e all'unità fossero invece identiche, come mai sarebbero (e potrebbero esser definite come) quelle parti «reali» di cui, appunto, si postula, e deve postularsi, la diversità? Se, per altro, nell'unità le parti sono parti (al punto che, come suole dirsi nelle sublimazioni «dialettiche» di questa situazione concettuale, è l'unità a rendere reali le parti, ma sono queste a rendere reale l'unità); se, per esser tali, debbono essere diverse l'una dall'altra, e diverse altresl dall'unità che le stringe in sé, non è allora evidente che, come diversa dalle parti (che a loro volta ne sono diverse), l'unità non è che un «diverso», e, proprio per questo, non può essere quel che s'immagina, o si fantastica, sia, - l'unità e la totalità delle parti? Non basta. Se, ulteriormente considerando, si scopre che, come diversa dalle parti, l'unità non è che un diverso, non sarà anche evidente che fra l'unità e le parti non si dà alcuna diversità? Non è evidente, in altri termini, che, l'unità essendo diversa dalle parti tanto quanto queste sono diverse

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dall'unità, nel «tanto quanto» le diversità si pareggiano, e si rivelano identiche? Non è evidente, insomma, che fra «diversità» e «diversità» nessuna autentica diversità è possibile porre, e che, per conseguenza, il «tutto (di parti)» si dà a vedere come l'identico (privo di parti), ossia, quando sia esaminato nelle sue intrinseche potenzialità, come un concetto che non riesce a consistere con sé e con la sua intenzione? Nell'economia di questo discorso, la parentesi può, a questo punto, considerarsi chiusa. E resta perciò da concedere ulteriore attenzione al logo che il Forestiero d'Elea è impegnato a svolgere. Se, egli dice, per essere «uno», l'essere non fosse altresl un «tutto», allora di sé stesso l'essere verrebbe a mancare 59 • E, una volta che la questione sia stata impostata in questi termini, la cosa è chiara. È chiara perché, se si dice che, per esser «uno», l'essere non è un «tutto», e di questo «manca», allora dovrà anche ammettersi che il «tutto» sia essere: essendo impossibile, altrimenti, dire quel che si è detto e si dice: ossia che, come «uno», l'essere «manca» (o è privo) del «tutto». Il «tutto», dunque, è, ed è essere. Ne consegue che in quanto, come «uno», manca del «tutto», l'essere manca di sé stesso; e altresl che, in quanto, come «uno», manca del «tutto», e come «tutto» non è uno, sempre allora l'essere «non è» essere.

13. La «gigantomachia»: i materialisti Era una conseguenza grave, questa, che l'ospite eleate traeva dal suo logo. Ma, a questo punto, una nuova sezione della difficile analisi si apre. E, ancora una volta, è come se, dall'angolo visuale appena raggiunto, Platone -invitasse il suo lettore a dirigere l'occhio della memoria verso regioni e provincie filosofiche già, in altri tempi, percorse. Nello svolgere un logo cosl radicalmente eversivo di ogni precedente consuetudine concettuale, non poteva infatti non accadere che a lui in primo luogo si imponesse la necessità di richiamare alla mente, e di ricordare, cose alle quali già nel passato aveva concesso attenzione. E chi, fra i suoi lettori, potrebbe in effetti dimenticare, o non ricordare, che già nel Teeteto 60 , ad esempio, la

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questione che anche qui, nel Sofista, viene ripresa, era stata sottoposta ad un'analisi? Chi non ricorda, o ha dimenticato, non si dice soltanto i pÉov'tec;, e, quindi, contrapposti a questi, gli l.Àot, agli amici delle forme, o delle idee. Per andare subito all'essenziale, è facile comprendere, d'altra parte, che ai materialisti resi, o divenuti, migliori Platone cerca di strappare una concessione essenziale, un'ammissione. Dalla loro viva voce vuole, in sostanza, farsi dire che, per quanto piccolo ed esile, qualcosa che non sia corporeo esiste. Esiste non solo l'anima (alla quale, come che sia, essi forse pretenderebbero di subito attribuire un crroµa., un corpo), ma anche che esistono giustizia, saggezza, le altre virtù, ciascuna accompagnata dal suo proprio éva.v'ttov; esistono «cose», insomma, che, per un verso, indiscutibilmente, «sono», posseggono l'essere, hanno realtà, senza che per altro ad esse sia possibile attribuire un corpo tangibile, pesabile, misurabile. Ma, se è cosi, non è forse vero che, a questo punto, la questione si fa assai difficile? Non è forse evidente che, se «essere» è ciò che si vede, si tocca, si pesa, si misura, ed «essere» è altresl ciò che non si vede, non si può toccare, pesare, misurare 64, allora la questione non riguarda solo i materialisti, ma chiunque, meglio di costoro, arrivi a comprendere che assai arduo concetto è quello in forza e in ragione del quale nell '«essere» si tenta di introdurre la «differenza»? Il punto cruciale e, certo, non estraneo alle «intenzioni»

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come alla sostanza filosofica del dialogo, - il grande e complicato nodo concettuale che con somma energia l'argomento platonico pone in evidenza, è questo: anche se, per un istante almeno, convenga prestare ascolto alla definizione che qui viene proposta dell'essere: che sia oÙK &ÀÀO 'tt nÀ:r)v Mvaµtc: 65 , niente altro che «potenza», e, in quanto tale, possegga perciò la capacità sia di agire, sia di patire. Prestare ascolto a questa definizione, e non insistere troppo, tuttavia, nell'analisi del suo significato; perché è Platone stesso a suggerire che, per ora, ci si comporti cosl. 14. Oi 'UiJV eiOpOVT\OlV il p~8{roç 7tEt0'9T\O"oµeea -re\) 7tav-reÀci)poveìv, cXÀÀp6v11mv il voùv, è certo un nobile esercizio. E chi, senza commozione, potrebbe leggere parole così alte, - e così ben scritte? Chi, nel leggerle, non avverte che alla sua memoria altre parole, pronunziate in altri tempi da altri scrittori, ma con non diversa intenzione, sono per sopraggiungere? Chi non ha letto il F aust 15? Ma l'intelletto, la scienza, il pensiero non possono essere difesi se non con l'intelletto, la scienza e il pensiero; e difenderli significa infatti usarli nell'unica forma che ad essi convenga, - nella forma della dimostrazione e della prova, la forma pura del logo che dimostra e deduce, e, come non conosce le armi della minaccia e della costrizione, così nemmeno conosce e si serve di quelle della parenesi morale che, per indicare la via del bene, descrive intanto, con foschi colori, il terrore dell'inferno. Certo, e sia consentita la breve, ulteriore, digressione, alla radice di questo atteggiamento un altro è possibile scoprirne e indicarne; e l'intreccio che, pur senza confondersi o identificarsi, l'uno e l'altro costituiscono, è istruttivo e degno di qualche considerazione. Non è, in effetti, solo la speranza del bene, e l'orrore del male, è anche la convinzione che, così come si presentano nella normale rappresentazione che se ne fa, le cose si danno nell'esperienza obiettiva, a legittimare questo stile argomentativo; che, in effetti, che altro ha di mira se non l'accordo del logo con l'esperienza, ossia la riduzione di quello alla legge di questa? E questa convinzione, dalla quale è la metafisica stessa a prendere il suo avvio e a ricavare la sua forma specifica, - questa convinzione che, nella realtà se non nelle intenzioni, è comune al pensiero metafisico, e poi anche, in forme varie, a coloro che Io criticano e dicono di averne orrore, questa convinzione è fonte di gravi equivoci; che non possono, per altro, essere tutti illustrati in questa sede. Dove, piuttosto, converrà notare che non solo, in questa prospettiva, dopo esser stata presa come !'«esperienza», - come esperienza, si badi, e non come logo, questa viene, non di meno, essa stessa assolutizzata, resa irrefutabile e incontrovertibile (cosi irrefutabile e incontrovertibile che, appunto, nel

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contrasto, è l'incontrovertibilità del logo a dover cedere le armi), ma si fa anche di peggio: qualcosa, in ogni caso, di più grave. Senza che in alcun modo si giunga ad avvedersene, oltre quelli dell'irrefutabilità e dell'incontrovertibilità, all'esperienza si assegna il carattere dell'immobilità; - le si assegna, in altri termini, quel tratto che, in questo contesto platonico, significa morte, assenza di anima, di pensiero, di vita, e, proprio per questo, contro Parmenide, si ritiene di non dover ascrivere all'essere. Potrà sembrare, questo, un paradosso: potrà leggervisi qualcosa come una ritorsione polemica, un capovolgimento eristico, una provocazione. Ma non è così. Che, data la premessa, questo accada è, a guardar bene, inevitabile. Se, in effetti, nella sua struttura, ossia nel suo essere ciò che è, e non altro, l'esperienza non fosse immobile; se, in sé medesima, nella sua tessitura di «esperienza» e nella qualità del suo esser tale, ad essa accadesse di esser «questo» e poi anche il contrario-opposto; se al suo essere appartenesse di passare al «non essere», e dalla vita pervenire alla morte, a quel modo stesso che, come si assicura, entro la sua cornice, le cose vanno e vengono e poi, di nuovo, vanno, si affermano, passano e, ancora non hanno toccato il punto della 'tEAf:tO't11C:, della perfezione, che già prendono congedo dal loro essere, e si allontanano; se, insomma, il «questo ed altro» che l'esperienza racchiude in sé, e tiene fermo, fosse il suo stesso, strutturale carattere, allora, certo, alla sua cornice non potrebbe concedersi che sia una cornice, alla sua struttura non potrebbe concedersi che sia una struttura, e schiettamente contraddittorio sarebbe dire che, al contrario, possiede una cornice e, a sé stessa, costituisce una struttura. Sarebbe contraddittorio, inoltre, assumere che, con lo spettacolo che offre di varietà e di movimento, essa, l'esperienza, fosse in sé stessa altrettanto variabile e non ferma delle cose che, nel suo quadro, si muovono e si trasformano; perché, appunto, è la fermezza a costituire la condizione, la ragion d'essere e il fondamento di quel che si muove. E si lasci pure da parte, qui, l'ulteriore questione se, poste le cose in questi termini, la fermezza riesca a rimaner tale, e il movimento ad essere garantito nella sua realtà specifica di movimento. Su questo punto, che è di grande delicatez-

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za e che, in altre sedi, ha costituito materia di qualche riflessione, non si può, in questa, se non invitare il lettore alla cautela e, se si preferisce, al dubbio; che diventerebbe bensì certezza, ma negativa, qualora l'indagine venisse spinta verso il fondo. Come che sia di ciò, è in ogni caso inevitabile ammettere che, presa come garanzia, testimonianza, fondamento del movimento, l'esperienza è, in sé, immobile. E, in questo contesto platonico, l'immobilità è morte: veneranda e santa, ma morte. Se è così, come allora potrà dirsi che per far rifluire nelle vene dell'essere la linfa della vita, per sottrarlo alla morte, per ridargli anima e pensiero, proprio dell'esperienza, che anch'essa è immobile e, quindi, morta, dovremmo fare il fondamento e la condizione del suo esser vivo e mobile? L'ambizione era che il logo si incarnasse nell'esperienza, vi si facesse concreto, si rimodellasse sulla sua realtà senza perdere niente che fosse intrinseco alla sua essenza. Era, in altri termini, che con l'esperienza giungesse a stringere l'accordo. Ma, irresistibilmente, e senza che di ciò ci si avvedesse, all'esperienza si sono assegnati i caratteri che, proprio perché presenti nel logo, imponevano che questo si accordasse con quella!

16. Conclusioni sulla storia del/' idea del/' essere L'essere (e con questo il contesto platonico può essere riavvicinato) non può tuttavia essere solo mobile. La critica rivolta a Parmenide non può ricondurre, quasi si trattasse di un luogo risolutivo, a Eraclito. Se 'tÒ xwouµevov ori x:al KlVflC1lV cruncop11tfov cix òvta, non perciò potrebbe dirsi che l 'immobilità, essa, non sia. A non ammetterla, si darebbe vita, infatti, ad una difficoltà non diversa da quella nella quale s'incorre quando, escludendo che l'essere possa muovere e, eo ipso, esser mosso, lo si priva del pensiero; e dopo aver proposto il suo cauto elogio del movimento, il Forestiero può allora proporne uno, altrettanto cauto, non però, nel fondo, meno preciso, della quiete. Alla domanda tò x:mà. taùtà. x:al OOC1ClU'tCOC KClL 1tEpl 'tÒ ClÙ'tÒ ÒOKEl C10l xcoplc; C1'tClcrECOC "(EVÉC19at 1tOt' à.v 76 ? la risposta non può infatti suonare se non negativa: e con questo, alla vittoria dell'eraclitismo, è posto un

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limite insuperabile. Senza queste cose, opposte, e non di meno, allo stesso modo, necessarie, - senza, da una parte, il movimento, e, da un 'altra, la quiete, e dunque la ~e~mé,..n1c; 'tiìc; oucrl.cxc;, non si darebbe mente, non si darebbe pensiero. E qui, nelle forme già viste, il testo innalza, all'improvviso, il suo tono. Sono, come si diceva, parole pericolose, quelle che ora Platone pronunzia; e si è cercato di far vedere perché, e in che senso, lo siano. Sono, non di meno, parole solenni che, nell 'atto in cui fanno risuonare il grande tema dialettico che, a partire di qui, animerà la ricerca, anche delineano il compito proprio del filosofo; che tale è se queste cose, µaÀ.tcr'ta, onora, e, come non si sottrae alla necessità di non accogliere né l'immobilità del tutto, né l'unicità dell'uno, né, per un altro verso, la pluralità senza orizzonte delle forme, così del pari rispetta l'altra che vieta di muovere, in ogni possibile direzione, l'essere. La tesi dei filosofi che, ora con sottigliezza, ora con grossolanità, ora con eleganza, ora con arrogante rozzezza, hanno indagata l'inquieta natura dell'essere, sono, in tal modo, respinte tutte. E l'esempio dei 1tatoec;, il cui costume è di prendere insieme, dell'essere e del tutto, e l'immobilità e la mobilità77 , proprio questo, forse, sta a significare: che, ripercorrendo la storia dei pensieri, e, nel ripercorrerla, procedendo verso la vecchiaia, si sappia nello stesso tempo andare in senso inverso, compiere il miracolo, e rifare giovane e puro l'animo.

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V 17. Verso il centro della questione. li moto e la quiete

La grande analisi propedeutica è, in tal modo, giunta alla fine; e sta per aver inizio quella risolutiva e costruttiva che, a parte l'importanza filosofica che è giusto riconoscerle, è altresl una delle poche che, in Platone, si presenti con questo carattere di esplicita conclusività e costruttività. Eppure, proprio qui, dove più l'intenzione costruttiva e risolutiva e conclusiva rifulge, e, non senza qualche soggettiva soddisfazione, guardando al cammino percorso, il Forestiero d 'Elea dichiara di essere riuscito, Èmeucci)c;78 , a circuire l'essere, - proprio qui, con la sua grande sapienza ironica, Platone fa intervenire una sorta di anticlimax. Non senza crudeltà, introduce, infatti, qualcosa come una sospensione; e mentre Teeteto già immagina che, con il richiamo al vero filosofo che deve saper tenere insieme immobilità e mobilità, il viaggio sia giunto al termine e altro non resti da desiderare e da fare, per suo conto avverte che, in realtà, la ricerca è appena agli inizi, che la soluzione è lontana e che, con occhi fermi, occorre saper affisare e discernere 'tTJV Ù7topicxv 'tljc; mcÉ'lfECOC:, la difficoltà della ricerca. Teeteto ne è come contrariato: 7tci)c; cxu K