L'essere e le differenze. Sul «Sofista» di Platone 8815024840, 9788815024848

Strettamente connesso a «Essere e negazione» (1987) questo libro prosegue, attraverso una serrata interrogazione del «So

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Italian Pages 242 [247] Year 1991

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L'essere e le differenze. Sul «Sofista» di Platone
 8815024840, 9788815024848

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Strettamente connesso a «Essere e negazione•• (1987) questo libro prosegue, attraverso una serrata interrogazione del «Sofista•• platonico, l'indagine teoretica che Gennaro Sasso da tempo viene svolgendo. Non si tratta, dunque, soltanto di una ricerca di storia della filosofia. Il libro, piuttosto, è un confronto con uno dei grandi testi del pensiero occidentale; e non è animato solo da un intento di ricostruzione e di comprensione, ma anche da una forte e rigorosa passione teoretica. Al centro dell'analisi è la questione filosofica della "differenza" o della "di­ versità"; un tema che non si può discutere seriamente senza passare attraverso la lettura attenta, minuziosa ed anche impietosa di un dialo­ go come il «Sofista••.

È

qui, infatti, che la speculazione platonica tocca,

per quel che concerne il superamento deii'Eieatismo e la risoluzione del non-essere assoluto nell'esser-diverso, il suo punto più alto. La tesi di Sasso è però che il o'tEpi çetv è l ' ÈnaJlcj>o'tE­ pi çnv; se, in altri termini, l 'oscillare dell 'oscillante non può (pena il suo «non essere» l 'oscillante) superare i confini del­ l 'oscillare, - parlarne come se la sua ucnc; fosse esposta al «non essere» non meno che ali ' essere , e, viceversa, all 'essere non meno che al non essere , è, in senso assoluto, assurdo : meglio ancora, impossibile. Sarà vero, del resto, che alla dimostrazione dell 'assurdità intrinseca a questa interpretazione dell 'ÈnaJlcj>o'teptçnv proprio Platone ha fornito qualche fondamento: sarà vero che, nel suo testo, egli ha offerto la prova, impl icita, se si vuole, indiretta, ma, a suo modo, efficace, dell ' assurdo e dell ' imposs ibilità ai qual i, per al tro verso, dav a luogo. E questo avviene là dove (47 9 B -C), per spiegare la natura di questo «oggetto» oscillan­ te e ambivalente, si ricorre agli scherzi a doppio senso che sono in uso Èv 'tale; Écrnacreow, nei conviti ; oppure 'tc.i'i 'tcòv nmorov aiv iyJla'tl 'tc.i'i nepì.. 'toù eùvouxou, all ' indovinello dei ragazzi sull 'eunuco; - sull 'eunuco che colpisce il pipistrello, e sull ' oggetto con cui lo colpisce nel luogo in cui altresì lo colpisce. Qui, s ' intende, tutto è duplice, perché, come l ' eunu­ co è un «uomo non uomo», cosl egli «colpisce non colpisce» ; mentre, a sua volta, a quel modo che l 'uccello che viene «colpito non colpito» sta su un legno che è e non è un legno, cosl ciò che, senza colpirlo, lo colpisce è una «pietra non pietra» . Ebbene, se si pensa che l ' «uomo non uomo» è un eunuco che è tale (e non anche «non tale»); che l 'uccello (non 34

uccello) è una vux:-repk , dell a quale non potrebbe mai dirsi che sia «non vux:-repk» (perché è nel suo esserlo che di essa si dice che è un «uccello non uccello»); che il «colpire non colpire» è una metafora dell 'errore di mira (che tale è, e non anche «non tale»); che il «legno non legno» è una canna (alla quale appartiene di esser tale , e non anche «non tale»); che la «pietra non pietra>> è una pomice (identica, nel suo esserlo, a sé medesima), - ebbene, come non vedere che l 'equivoco qui nasce dal ritenere che, definito, ad esempio, come «uomo non uomo» e come strutturalmente «oscillante» fra questi due &x:pa, l 'oscillante sia in sé stesso oscillante , e non invece, quale di necessità è, una non oscillante struttura? Queste realtà, che Platone assume siano «oscillanti» e la cui regola è infatti l ' È1taJ.lcf>o-rept.çetv, sono più oscure della conoscenza, ma più luminose dell 'ignoranza: 47 8 C 1 3- 1 4 yvrocreox JlÉV crot cpat.­ VE'tat oo!;a CJKO'tro8ÉCJ'tEpoV, àyvo(w; 8È cf>aVO-'tEpov? Hanno dunque, in sé stessi , una luce. Forse che, nel suo essere più luminosa delle tenebre (anche se più tenebrosa della luce), questa non è tuttav ia una luce, - una luce «che è tale» (e non anche «non tale»)? 5 . Conclusioni sul passo della «Repubblica» Stiamo compiendo un giro più lungo, forse, e più compli­ cato del previsto. Ma tant'è. Occorre affrontarne e sostenerne la fatica e il rischio, e inoltre cercare di compierlo, perché , a questo punto, il giro non è ancora ritornato su sé stesso. In questo luogo della Repubblica si dice che non si dà yvc.i5crtc: se non dell 'essere; ma del «non essere», invece, il contrario, ignoranza, àyvota o àyvrocrl.a . Ebbene, nel precedente argo­ mento si è dimostrato che, se «non è» , è impossibile che il «non essere» costituisca il limite di uno spazio che abbia, ali 'altro limite, l 'essere. E se ne sono tratte varie conseguenze, tutte orientate verso questa conclusione : che il «non essere» è impossibile che sia; e «non è» . Se per altro è così, forse che maggiore consistenza, e migliore capacità di resistere alla cri­ tica, mostra l ' asserto secondo cui, come dell 'essere, e solo dell 'essere, si dà yvc.i5crtc: , così del «non essere» altro non può 35

darsi che &yvoux (o &yvrocria), - ignoranza? «Ignoranza del "non essere"» significa innanzi tutto, rovesciamento, il puro rovesciamento, della yvrocrtc; 'tOU ov'toc;; e implica il concetto che la sua possibilità esclude la possibilità del suo opposto: non solo, e non tanto, dell ' &yvota, ma anche , e piuttosto, della yvrocrtc: 'tOU IllÌ onoc; . B asta, per altro, che la questione sia prospettata in questi termini perché subito emerga la difficoltà logica che la insidia; e ci si avveda che, se si assume come possibile il parallelo e connesso rovesciamento della yvrocrtc in &yvoux, e dell ' o v nel IllÌ o v, dunque, e per ciò stesso, dovrà assumersi che possibile in sé , e non impossibile, sia l 'opposizione di queste due coppie. Ma, per essere (possibile), l 'opposizione richiede che i suoi termini «siano»; e che anche il «non essere» dunque «sia» in qualche modo. Se per altro il «non essere>> fosse «in qualche modo>> , allora certo non sareb­ be «non essere>> (ché, se lo fosse, il «qu alche modo>> non potrebbe essergli riferito e attribuito). E la conseguenza allora è che, proprio qui , dove si cerca di conferire «possibilità» alla sua possibilità, l ' opposizione si rivela, nell ' intrinseco, impos­ sibile. In altre parole; l 'opposizione è impossibile sia nel caso che il «non essere» sia tenuto fermo come «non essere», sia nel caso che, col parlo come «in qualche modo essente», alla sua cj>ucrtc; di ll'TÌ ov si contravvenga e non si tenga fermo. Se il «non essere» è tenuto fermo come «non essere», l 'opposizione non si costituisce perché uno dei due «opposti» non è; se non è, non è un opposto, e non può perciò costituire termine di opposizione. Se viene preso come «in qualche modo essente», e dunque come termine «che è», non può, proprio per questo, esser tenuto fermo come opposto : anche l ' altro termine è infat­ ti un «Opposto-che-è» ; e l ' opposizione, pertanto , non si costi­ tuisce . Come infatti l 'essere potrebbe oppors i all ' essere? E per quanto concerne la natura dell '&yvrocria o &yvoux, basti così. Non questa, infatti, è la sede dove possa dirsene di più, svol­ gendo i curiosi paradossi che, senza eccessivo sforzo, potreb­ bero essere individuati alla sua radice. Non è questa la sede nella qu ale convenga riprendere un tema che già è emerso nel corso dell 'analisi; e del quale in effetti si disse a sufficienza quando si osservò che poiché, al pari della yvwmc;, anche l ' &yvrocri a (o &yvota) si presenta, nel ragionamento di Plato36

ne, come una ouvaf..l.lt: , e il suo carattere è perciò di «intenzio­ nare», - come dunque proprio a questa potrebbe riconoscersi la capacità di conservare al «non essere» il suo specifico carat­ tere? Come si potrebbe, se «intenzionare» significa altresì riferirsi a «ciò che>> si intenziona, e, di necessità (e per la sua stessa natura), il riferimento suppone l 'essere al quale si rife­ risce e dal qu ale è reso possibile?

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III

6. Il nulla e la rigorizzazione dell' aporia (che lo concerne) Malgrado l ' impegno con il quale, fra l ' essere e il non essere, cercò di aprire Io spazio logico-ontologico della &>!;a. e del oo!;a.cr-r6v, dell 'opinabile, nessuno potrebbe dire che qui, in queste pagine (per altro mirabili), Platone riuscisse nell 'im­ presa che si era proposta. Quali che siano le differenze rinve­ nibili fra questa sua idea della &>!;a., e del f u:-ra.!;u che la rea­ lizza (o dovrebbe realizzarla), e quella, enigmatica fin quasi all ' impenetrabilità, che compare nel poema di Parmenide, certo è che una compatta atmosfera eleatica avvolge il ragiona­ mento; e, connessa con quella del «non essere» , la questione del «falso» e dell 'errore vi risulta insoluta: a quel modo, può aggiungersi , che insoluta, e insolubile, risulta nelle sottili e problematiche discussioni (che qui conviene dare per note) svolte nel l 'Eutidemo, nel Crati/o, nel Teeteto 18 • Riprendiamo dunque, dopo questa non breve parentesi, l ' analisi diretta del Sofista. Riprendiamola al punto in cui, su­ bito dopo averla iniziata, la interrompemmo per dare spazio alla digressione; e, come che sia del rilievo che è stato mosso all 'esordio stesso del l ' argomento che , conclusa la parte dedi­ cata alle definizioni del sofista, il Forestiero d 'Elea aveva preso a svol gere nella forma della «disubbidienza» al logo di Parmenide, osserviamo piuttosto che in quel che segue (237 B sgg.) il discorso assume un volto sottilmente paradossale. Per un verso infatti il suo scopo è di dimostrare che, per ciò stesso che se ne parla, del nulla deve e può dirsi che «in qualche modo» è. Ma, per un altro, la disubbidienza si realizza attra­ verso la forma estrema di una paradossale fedeltà che, quanto più è e pretende di esser tale, di altrettanto evoca lo spirito della ribell ione, del distacco, della critica .. Non diversamente dal Forestiero d'Elea, anche Parmenide avev a sostenuto che ..

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mentre l 'essere è, ed è dovunque con pari forza, pieno di essere, J nì èòv o'dv 7tCXVtòc: Melto19, il non essere è privo di tutto, cosi che crù 'tlÌC: o'à' ÒOoù ot ç"' crt oc: EÌ pyE V O T\J.La 20 .. Implicitamente , se si vuole, e tuttavia con sostanziale chi arez­ za, anche Parmenide aveva sostenuto che il J.!Tt Mv non può essere oggetto né di /ogos né di noema. Nella logica da cui il suo argomento è costituito, il «nulla» è infatti bensl nulla, ma essere, per contro, e non nulla, è la òoòc: ot ç"' crt oc: cix m'n e f crnv 21 dalla quale è necessario che il noema sia tenuto lon­ tano: con la conseguenza che basta, anche qui, un minimo di riflessione per avvedersi che, se il nulla è il nulla, e non di meno lo si pronunzia, lo si dice, lo si pensa e se ne fa l 'oggetto di un logos e di un noema, allora è autocontraddittorio asserire che dal nulla è necessario che logos e noema siano tenuti lontani. Rilevando questa, che è in effetti la «contraddizione» di Parmenide, il Forestiero si allontanava bensl da lui e dalla sua impostazione; ma solo perché (e in questo era invece massimamente fedele al suo tema più profondo) non facev a che rendere esplicito il problema che gli si agitava dentro. Come che sia del sottile gioco che, nel segno dell 'identifi­ cazione, conferendo altresl al discorso il suo peculiare, ironico e insieme solenne, aroma dialettico, in questo punto conduce, sta di fatto che nella rigorizzazione del nulla e della sua aporia Platone raggiunse forse il punto più alto della sua lunga inda­ gine specul ativa, e, in assoluto, uno dei più alti a cui la filoso­ fia occidentale sia stata in grado di pervenire . Nell ' accingersi all 'indagine che ha per «oggetto» il nulla, e che , già per questo suo necessario presentarlo come il suo inevitabile oggetto (e non, dunque, come nulla), di continuo rischia di andare a far parte dell 'apori a dalla quale, nell ' intrinseco (e per ciò .che ha un «intrinseco») il nulla appare segnato, all 'orecchio di Plato­ ne risuonavano, senza alcun dubbio, i temi eleatici che, in altre pagine, variamente erano stati da lui intrecci ati con il filo aureo dell ' ironi a, della paradossalità, della levità letteraria, ma anche della grande serietà che, al di qua dell 'ironia e del gioco elegante dei paradossi, vi riconoscev a. Alle sottigliezze eristi­ che dei Dionisodoro e degli Eu tidemo22, senza sul serio riu­ scire a dimostrarne l 'infondatezza avev a contrapposto l ' ironia di Socrate. Ma, per le ragioni che sono state dette , questa era ..

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rimasta prigioniera di sé stessa; e come quelli davano corpo ai paradossi più stridenti circa il «non essere» dell 'errore e del falso, cosi , per allontanarli da sé, per toglier loro la parola che pure avev a ad essi concessa, per riprendere contatto con l 'one­ sta realtà dell 'esperienza e ritrovare la pace, si era servito di un qualsiasi artificio della drammatizzazione dialogica, quasi che, a confutarli, un mutamento, ali ' improvviso introdotto nell a tonalità argomentativa, potesse sul serio essere sufficiente. Allo stesso modo, e con la medesima tecnica, aveva cercato di tener testa all a rigorosità estremistica di Cràtilo23, che, per al­ tro, e ancora una volta, non riusciv a a sconfiggere nel suo autentico nucleo. Di fronte a questi avversari l 'eleganza e la sapienza letteraria avevano tenuto il posto dell ' autentica criti­ ca filosofica; e poiché dopo tutto li prendeva sul serio, a lui non era riuscito di rassicurare, con questi strumenti, né il lettore né sé stesso. Ma ora, in questo conclusivo esperimento della sua grande vicenda intellettuale, Platone avvertiva che, nei confronti di Parmenide e dell 'eleatismo, ironia e letteratura non potevano bastare. Avvertiv a che ogni indugio doveva es­ sere troncato; e, come se a parlare e a condurre il discorso fosse stato, non il suo alter ego di Elea, quanto piuttosto un qualsiasi, insidioso, Dionisodoro o Eutidemo, agli argomenti eristici conferiv a (o riconoscev a) serietà, e non esitav a a chie­ dere : l 'assoluto «non essere» è, esso stesso, cosa che ci sentia­ mo di pronunziare24? Poiché, d ' altra parte, cosi , leggermente, come se si trattasse di stare al solito gioco eristico delle sotti­ gliezze e delle audaci provocazioni logiche, alla domanda dell 'Eleate Teeteto rispondeva di si, che al quesito poteva darsi risposta affermativ a e dire possibile l 'enunciazione del «non essere», - ecco che , nel discorso, subito l 'ospite introdu­ ceva la nota grave della serietà. Se a Teeteto aveva rivolta quella domanda, certo, spiegava, non l ' aveva fatto per gioco; ma, al contrario, perché non era possibile che, giunta l ' indagi­ ne a quel punto, egli non la formulasse. Era una seria, non frivola, domanda quella che egli poneva al suo interlocutore; e seria, non frivola, era l ' ulteriore questione che, per convincer­ lo della grav ità del dibattito da cui entrambi si erano lasciati prendere, delineava dinanzi agli occhi della sua mente: se cioè fosse possibile, questa espressione «non essere», riferirla, 41

quando la pronunziamo, a «cosa che sia» , e se, nel pronunziar­ la, sia possibile sottrarla a questa specifica necessità. Il muta­ mento tonate che, in tal modo, il Forestiero d ' Elea introduceva nel discorso era del resto cosl netto che subito la risposta di Teeteto vi s ' intonava: xaM:1tÒV il pou !Wl crxeoov EÌ1tEÌV Ol(\) yc_ ÈJ.10t 1tav'ta1tacrtv à1topov25• E a questo punto l ' ardua ricerca ha inizio. 7 . L a forma estrema dell' aporia L ' argomento al quale, iniziando l ' analisi, subito il Fore­ stiero d 'Elea fa ricorso è che a niente «che sia» il «non essere» può essere riferito. Ma, se è cosl , neppure allora si direbbe bene e rigorosamente se si assumesse che almeno a un 'tl , a un «qualche» , a un grado infinitesimo di realtà il J.LlÌ ov possa essere riferito. Che, in effetti , dire cosl non sia possibile26 è tanto più ev idente in quanto, come il 'tl, il «qualche», non può a sua volta non essere riferito a cosa che sia (della quale di necessità fa parte, e rispetto alla quale, e al suo «essere», non può essere separato o isolato), cosl il primo rilievo che a questo assunto fu rivolto risulta confermato e, se possibile, rafforzato. Confermato e rafforzato risulta il concetto in ragio­ ne del quale è necessario che, chi dice «qualche», una qualche cosa dica ('tov n 'Aiyov'ta ev yé 'tt 'Aiynv27) : con la conse­ guenza che, addirittura, in questa concisa presentazione del problema, alla radice del 'tl è dato discernere lo ev, l ' uno, e il discorso s ' avvia a raggiungere quella che potrebbe esser defi­ nita la sua prima stazione argomentativa. Chi non dice qualco­ sa, è necessario, anzi necessarissimo (àvayKatO'ta'tov), 1tavtci1tacrtv J.L11 ÙÈv ÀÉyetv, che, in senso assoluto niente di­ ca28; e allo stesso modo, con altrettanta intransigenza, di qui discende l ' impossibilità, non solo che, dicendo, si dica «nien­ te» , ma altresl , sull 'altro fronte, che dica e dia luogo ad un autentico ÀÉyetv chi enunzia, o pretende di enunziare, il non essere. Il «non essere», in altri termini , non può nemmeno essere detto : nel senso che «niente», e «non dire», è il dire che lo dice (o pretende di dirlo)29• Questa prima stazione argomentativa è stata appena rag42

giunta, e già, confidando di essere riuscito ad intravvedere, fra le nebbie del difficile argomento, la soluzione , Teeteto ritiene di potersi abbandonare al più schietto ottimismo (237 E 7 'tÉÀoc; youv àv ànopiw; o Àoyoc; fxOt). Ma il Forestiero d ' E­ lea è pronto a disilluderlo, e nel modo più crudo. In effetti, proprio qui, dove il suo interlocutore aveva sperato che l a difficoltà fosse stata vinta, o avviata almeno verso la s u a riso­ luzione, essa svela la sua natura più aspra, e si palesa come l a più grande e la prima, 'tcilv ànoptrov il J.u:yicr'tll 1caì 7tpcO'tTl3 0• Per misurame la grandezza e la primalità, l ' altezza e l 'esten­ sione, non basta, in realtà, limitarsi a far vedere che, se al «non essere» non è consentito unire «cosa che sia», e, dunque, nemmeno il numero, allora è necessario chiedersi come sia possibile pronunziare OlÒ: 'tOU O''tOJlcX'tOU, con la bocca, O concepire 't'l} otavoi�. con il pensiero, 'tÒ: IllÌ ov't a il 'tÒ IllÌ o v, le cose che non sono o ciò che non è: chiederselo, e concludere che è impossibile, dal momento che, in verità, quando diciamo «cose che non sono», che altro facciamo se non pensarle nella loro pluralità e , quindi, contravvenendo alla già vista e stabili­ ta «impossibilità», unire ad esse, che non sono, un numero «che è»? E qu ando diciamo «ciò che non è», come altrimenti procediamo se non con il «singolare» , e dunque , ancora una volta contro la regola, con il numero3 1 ? Non basta, in realtà, a giudizio del Forestiero d 'E le a, spingersi fino a questo confine, dal quale , per altro, e con buona probabilità di discernere i contorni concettuali , è pur possibile contemplare, nell a sua radicalità, il principio secondo il quale, indicibile e impensabi­ le, il lllÌ ov è sul serio àotaVOTl'tOV 'tE Kat >, ossia in un luogo che «non è» un luogo; e come di questo (che non è un «questo» , o è un «non questo») il Forestiero d 'El e a non riesce ad istituire l ' ÈÀ.eyxoc. così nem­ meno gli accade di snidarlo dal suo nascondiglio, di recarlo 44

alla luce del sole e qui di dissolvere il suo inganno. Occorrerà allora dire che, capace di ogni impresa (7taV'tÒt; navoupyoc;), a quel modo che è andato a cacciarsi dc; anopov -ronov, cosl, per questa medesima ragione, il sofista merita di esser definito in possesso di una av-racrn1Cl) "tÉXVTJ35 , di un ' arte dell ' im­ magine e della parvenza? Assai complessa è, in effetti , la questione che ora comincia a delinearsi; e non solo in sè stessa, ma nel suo punto d ' avvio, e, dunque, nella sua intrinseca «possibilità» di autocostituzio­ ne. Non si tratta infatti soltanto e unicamente del tema specifi­ co che, riprendendo in questo punto del dialogo quanto aveva detto a 235 D 6 sgg.36 (dove per altro era rimasto indeciso se il sofista dovesse essere assegnato all ' arte icastica o a quella fantastica), di nuovo Platone fa risuonare; e non si tratta nem­ meno della circostanza che è alla seconda di queste -réxvm che ora egli assegna la sua ucrtc:. Ma si tratta bensl di una diffi­ coltà preliminare, concernente, come si diceva, il punto d ' av­ vio e, dunque, l ' intrinseca possibilità di autocostituzione. Non riesce agevole, in effetti , comprendere (e anzi, a rigore, non si comprende affatto) come sia possibile che, nascosto nell ' &nopoc; -ronoc che è il iJ.� òv, il sofista (che certo per parte sua «è» e non è «non essere») possa nascondervisi. Se il -ronoc è, e proprio in quanto «è» è anopoc;, ossia suscettibile di ricevere questa predicazione, allora è impossibile che, nascondendovi­ si, il sofista vi realizzi l a sua propria inaccessibilità, inafferra­ bilità, introvabilità. Era infatti il «non essere» del luogo che, secondo l 'ingegnoso paradosso platonico, di queste sue prero­ gative costituiva la condizione. Ma, per ciò stesso che «è» anopoc, il -ronoc, come si è detto, «è»; e non è «non essere» . E del resto, chi non vede che, al di là de li ' aspetto paradossale dell ' argomento, assurda è la premessa stessa di ciò che si assume: e cioè che il «non essere» possa circondare e nascon­ dere «Ciò che è»? Ma può dirsi di più; e conviene andare avanti . Se, a sua volta, il sofista è, e non è non essere, allora non si riesce proprio a comprendere come e perché si potrebbe mai definirlo in possesso di -réxvm concernenti , non l 'essere, ma «altro»; come e perché si potrebbe definirlo un produttore (ed ecco il senso di questo « altro») di illusioni e di immaginP7• Che, 45

nel luogo in questione e, quindi, nel l ' impianto stesso del dia­ logo, il punto d ' avvio, e la possibilità di autocostituzione della tesi, risultino non sottoposti a rigoroso controllo razionale, sembra evidente; e, scherzando, potrebbe dirsi che il sofista non aveva tutti i torti nel suo probabile ribellarsi alla definizio­ ne che di lui era stata data (di «produttore di immagini e di illusioni>>), e altresì nel chiedere, a chi così lo definiva, che cosa propriamente intendesse con «immagine» e «illusione». Si voleva forse dire che , come produttore di immagini e fabbri­ cante di illusioni , il sofista fosse, in sé stesso, e in quanto produttore delle une e delle altre, della medesima qualità del suo prodotto, - fosse immagine e illusione? Ma se, in sé stesso, fosse stato immagine e illusione, come allora ne sarebbe stato il produttore? Forse che è illusione ciò che produce l ' illusione, è immagine ciò che produce l 'immagine? Non è possibile, in effetti , che, essendo illusione , l ' illusione produca l 'illusione (e non è possibile , in senso inverso, che, se produce l ' illusione, l ' illusione sia illusione ). Non è possibile che, essendo immagi­ ne, sia questa a produrre l ' immagine (e non è possibile, in senso inverso, che, se produce l 'immagine, l ' immagine sia immagine). Non è possibile perché, come non è illusione il produrre illusioni, e non è immagine il produrre immagini, così è ovvio che se questo nesso (di produzione e illusione, di produzione e immagine) non venisse spezzato e a ciò che produce (l 'immagine e l ' illusione) non si riconoscesse salda realtà, mai potrebbe dirsi che illusione ed immagine siano tali da poter essere prodotte. C 'è, d ' al tronde, il rovescio di questa situazione. Se l ' illu­ sione che produce illusioni non è illusione, se è essere e non illusione, come, dunque, può dirsi che produce illusioni? E lo stesso può esser ripetuto per l ' immagine. Posta in questi termi­ ni, la questione dell 'immagine , dell ' illusione, e di ciò che le produce, appare assai più complessa di quanto non risulti dal­ l ' analisi che, in questo luogo, Platone ne fornisce; e richiama, in effetti, da vicino le difficoltà nelle quali aveva finito con l ' impigliarsi nelle pagine della Repubblica consacrate all ' in­ dividuazione, fra la yvrocrtc; (che concerne l ' essere) e l 'àyvota (che concerne il «non essere»), del J.lE'tal;u, ossia dell ' «opi­ nabile» che, appunto, proprio «fra» l 'essere e il non essere 46

trov a, o dovrebbe trov are, posto. In altri termini : anche l 'immagine è in effetti tale che, senza essere vera (perché del vero è soltanto «mimetica» ), non perciò è «non vera» , e, senza essere «non vera», non per questo è necessariamente vera e col vero coincidente. Anche l 'immagine si presenta come un J.U:'ta/;u -et , come qualcosa d 'intermedio fra l 'esser vero e il non es­ serlo. Ebbene, se è così, una conseguenza s ' impone con forza e dev 'essere tratta con la maggiore, possibile chiarezza. Alla luce della controanalisi che qui su è stata condotta dell 'imma­ gine, del l ' illusione, e di ciò che le produce, è impossibile condividere la tesi che, con estrema sottigliezza (e fin quasi con amabile malizia), Platone svolge in questa parte del dia­ logo38. A guardar bene, la sua tesi è duplice, e implica il coinvolgimento di due specifici oggetti polemici, - da una parte il sofista, da un ' altra Parmenide (e l ' opposizione dell ' as­ soluto essere ali 'assoluto «non essere» ). Al sofista, in sostan­ za, Platone obietta che se l 'immagine, della quale egli è pro­ duttore e con la quale coincide, è cosa che, senza esser vera, al vero (e quindi a «ciò che è») assomiglia, allora, in quanto «non vera» , sarà opposta al vero, dal momento che , indubitabilmen­ te, -cò Jl1Ì cXÀ119tvov è évav-c(ov cXÀ119oi5c, il «non vero» è l 'opposto del vero. Ma, come «non vera» , l ' immagine è tutta­ via «ciò che» al vero assomiglia, questo suo «somigliare al vero» essendo il suo essere e la sua verità; e, se è così, ne deriva che, sebbene «non vera» e, in questo senso, «non essen­ te», indiscutibilmente, per un altro verso, essa è ed è vera; perché, appunto, come ei Krov, come immagine, non può ne­ garsi che sia e sia vera. 240 B 1 1 - 1 2 o ÙK o v &pa [ o ÙK ] ov-cc.oc; Écnlv ov-cc.oc; T\ v MYOJ.!EV ei KOva? ' domanda a questo punto, il Forestiero d 'Elea; e con il compl icato intreccio che rivela, la risposta non può non suonare affermativa. Se, per altro, suona affermativ a, allora l 'ulteriore conseguenza è che, per ciò stes­ so che in qualche modo «essenti» il «non essere» e il «non vero» si sono rivelati , il nascondiglio del sofista è stato viola­ to, l a sua inaccessibilità è stata vinta. Per un altro verso, tuttavia, e proprio perché il Jl1Ì ov è in qualche modo un ov, un essente, deve anche ammettersi che in qualcosa quel personag­ gio ambiguo e dalle molte teste (7tOÀUKÉcj>aÀoc) ha vinto. Se 47

infatti l a confutazione del «non essere>> è confutazione del sofista e dell 'impenetrabilità del suo rifugio, come allora que­ sta medesima confutazione potrebbe non riguardare l ' assoluta opposizione dell 'òv e del Jllt òv, dell 'essere e del non essere; e dunque in primo luogo Parmenide che , a differenza di quel malizioso personaggio, di teste ne avev a una , non molte, e a chi , come forse (a suo parere) Eraclito39, avesse preteso di averne due , avev a rivolto gli strali della sua solenne polemica? 9. . .. e la critica del Forestiero d' Elea Condotta in questa guisa, l 'argomentazione di Platone si rivela come un autentico capolavoro, non solo di sottigliezza concettuale, ma altresì di grazia ed eleganza letteraria, di im­ palpabile e pur percepibile ironia. Ma con altrettanta decisione occorre tuttavia ribadire quel che già fu anticipato: che non persu ade . Palesemente, di traverso o di scorcio, essa utilizza la tripartizione, stabilita nella Repubblica, della yvrocrtc , del­ I ' ayvota , della Ml;a; e si dice di traverso, o di scorcio, per­ ché, dopo avere (almeno in forma implicita) presentato l ' im­ magine (che se non è vera nemmeno, per altro verso, è «non vera») in termini di J.l.E'tal;u fra «vero» e «non vero», «essere» e «non essere», sull ' «intermedio» Platone si ferma bensì , ma per ragioni ulteriori a quelle che dovrebbero costituire ed inte­ ressare la «dimostrazione» della sua realtà ed autonomia. Non a questa dimostrazione infatti il suo logo ora tende; e come della necessità che questa sia fornita egli non sembra avvertire la necessità, cosi , senza per altro cogliere e saper cogliere il punto della differenza, tende piuttosto all ' individuazione del diverso sul fondamento dell 'immagine e del suo esistere; ten­ de, se si preferisce, alla sua immediata deduzione da questa, dal suo esserci e dal modo in cui lo si ottiene e produce : quasi che «diverso» e «immagine» fossero cose della medesima natura, e, afferrata questa, anche quello, il diverso, fosse ine­ vitabilmente colto e afferrato. Ma dali ' «immagine» (e non in astratto, bensì neiia realtà specifica del pensiero di Platone) il diverso è diverso. E, a rendersene conto, basta considerare che, mentre questo, il diverso, non è in alcun modo un 'imma48

gine del vero e dell 'essere, perché ne è piuttosto un ' articola­ zione necessaria, inevitabile e costitutiva, - l 'immagine è in­ vece immagine e non articolazione necessaria del vero : con l a conseguenza che è improprio servirsene per provare la realtà del «diverso» e pervenire alla sua fondazione. Era, dunque , uno scambio illegittimo quello che in tal modo il personaggio poneva in atto; e tanto più in quanto non è vero quel che qui sopra sembrav a fosse stato ammesso, - e cioè che dell 'immagine il suo lo go aveva colto, non solo il fatto, ma, insieme con questo, la genesi. Vero è invece che, come dell ' immagine egli ha preteso di fornire la dimostrazio­ ne ricavandone la realtà dal suo immediato «esserci» e esistere e darsi a vedere nella così detta concretezza dell 'esperienza, e senza quindi fondame, in nessun modo, la possibilità, così l 'illegittimità dello scambio risulta doppia. E senza insistere ora sulla questione del «diverso», e sul «modo» (che ci occu­ perà in seguito40) della sua deduzione, sul difetto di dimostra­ zione che questa ricerca dell 'immagine rivela occorre invece far battere con forza l ' accento. Palese è infatti , nel logo di Platone, la tendenza, illegitti­ ma, a sottendere la constatazione fattuale dell ' «immagine» alla dimostrazione del suo esserci , darsi, costituirsi. E che sia così è evidente. Se, posta e tenu ta ferma l 'equivalenza eleatica di «essere» e «esser vero» (che qui è, in effetti, posta da Platone , e tenuta ferma), si fa che tuttavia l ' immagine «sia», e sia senza, ciò non ostante , esser vera, la ragione per la quale questa equiv alenza, o, meglio, identità, subisce l 'eccezione, non può in alcun modo essere considerata come un 'autentica ragione fondante. E deve al contrario essere identificata con il vizio dedu ttivo per il quale la costituzione antologica dell 'im­ magine è presupposta alla regola che, stabilendo l 'identità di «essere» e «esser vero», in realtà la esclude. Se infatti il vero è l ' essere, e questo è il vero, delle due l 'una: o, in quanto essere, l 'essere del l ' immagine è «esser vero>>, e allora non può esser vero che, essendo, l 'immagine sia senza esser vera; op­ pure è vero che l ' immagine non è vera, e allora, semplicemen­ te, non è possibile che sia (l 'immagine). Insomma: se l ' imma­ gine «è» , e perciò è vera, allora è «verità-realtà» , non immagi­ ne (della «verità-realtà»). Se non è vera , non solo non è possi49

bile che «sia» (l ' immagine), ma, più radicalmente, non è pos­ sibile che sia. In entrambi i casi, la realtà-verità dell 'immagine (in quanto immagine) non riesce ad essere dedotta (nella sua possibilità di non essere immediatamente identificata con la «realtà-verità» dell 'essere). Se è così , è necessario riconoscere che, nel suo tentativo di «dedurre» la realtà dell ' immagine (in qu anto immagine), l 'o­ spite eleate è riu scito tanto poco quanto poco, nella Repubblica, era andato a segno il tentativo socratico di dar vita, pensandolo come un JlE'tal;u inserito fra l' essere e il «non essere» , all 'opi­ nabile; e che proprio qui dove, con maggior forza, riteneva di essere riuscito a provare la necessità della disubbidienza, tanto più, invece, il «divieto» parmenideo si mostra insuperabile e ineludibile. Che sia cosi, è, a capirsi, non difficile. E lo si capisce, infatti, se, ulteriormente, si abbia la pazienza (che del resto proprio I 'Eieate sente, e a ragione, di dover raccoman­ dare4 1 ) di seguire le ultime battute che costituiscono questa parte del dialogo e dell ' analisi, che vi si svolge, del «non essere». La si prenda, questa analisi, a 240 C sgg.: ossia nel punto in cui, stabilito che (come riteneva di aver provato), senza esser vera, l ' immagine tuttavia «è» , il Forestiero d 'Eiea avverte che nei confronti di Parmenide il sofista dalle molte teste ha pur conseguito il risultato di costringerci ad ammette­ re , nolenti, che il «non essere» in qualche modo «è>> . 240 C 45 ò 7tOÀ.uKÉij>aJ..oc; crolj>t> . Ma occorrerà pur sempre chiedersi se «essere>> sia altresl, e possa non essere, il conoscere dal quale si dice che l 'essere è conosciuto; e poiché certo non potrà farsi che «non essere>> , invece che «essere» , il conoscere sia; poiché non potrà farsi che, senza essere, il conoscere «sia>> il conoscere, ecco allora che, essendo (ed essendo perciò «essere»), l ' essere sarà agente , se tale è il conoscere, ma anche paziente, se paziente si assume che l 'essere (conosciuto) sia: con la conse­ guenza che, e questo è impossibile, l 'essere sarà agente e 71

paziente, movente e mosso. Né, al riguardo, per sfuggire a questo paradosso, potrebbe dirsi che l ' identificazione contrad­ dittoria di questi «opposti» concerne bensì l 'essere che, allo stesso modo, sottende il conoscere e l 'essere conosciuto; non però questi due ul timi , che sono diversi, e possono, di conse­ guenza, sopportare il peso di diverse predicazioni . Ciascuno vede infatti che, se fosse così , lungi dal risul tare appianata, la difficoltà toccherebbe il punto estremo della esasperazione. Distinguendosi (o pretendendo di distinguersi) come agente e paziente, movente e mosso, su un fondamento che, per sé, è tanto movente quanto mosso, tanto agente quanto paziente, ciascuna di queste determinazioni opposte si opporrebbe in sé stessa; e, perduta l ' identità, non potrebbe più corrispondere alla su a propria definizione. L 'agente sarebbe, infatti , anche paziente; il movente, mosso: senza che, per la forza delle premesse, l ' identità di ciascuno possa essere recuperata e mes­ sa in salvo. E c ' è di più. Svolgendo l ' analisi, non è difficile infatti comprendere che , se si assume che, per la sua natura stessa, il conoscere muov a ciò che conosce, e questo, per conseguenza, ne sia mosso, ecco allora che il conoscere viene a trovarsi in una situazione , sotto ogni riguardo, singolare. Se, conoscendo, muove il conosciuto, e, sebbene mosso, questo è, non di meno, conosciuto, dovrà concludersene che il conoscere conosce il «mosso» ; che, per conseguenza, non sarà mosso, e non si muoverà, al di là dell ' ambito che il conoscere costituisce. Ma se, mosso dal movente , ossia (in questo caso) dal conoscere, il «mosso>> non eccede l ' ambito del conoscere, e il limite che questo pone a sé stesso e al conosciu to (se li eccedesse, come potrebbe essere conosciuto?), allora è necessario ammettere che, proprio in quanto mosso, esso sia incluso nell ' ambito di ciò che lo muove (e conosce). Se, per altro, è incluso, come mai si muoverebbe? Se è «incluso>>, non può essere mosso al di là di ciò che lo include. Ne consegue che, in quanto conosciu­ to, non è mosso, e in qu anto, eventu almente, sia mosso, non è, e non può essere , conosciuto. Ma, se è cosl, se il nesso che, poste le premesse, dovrebbe risultare assoluto, fra «esser co­ nosciuto» e «esser mosso» , si spezza invece senza rimedio, non è altresì evidente che , proprio ragionando in questa forma, 72

nemmeno ali 'altro termine del rapporto potrebbe mai ricono­ scersi il carattere che invece gli si vuole attribuire? Se il conoscere fosse agente, e l 'essere paziente , se il primo perciò muovesse e l ' altro fosse mosso, la conseguenza sarebbe che, mosso dal movente, il mosso starebbe perennemente insieme e oltre il movente : insieme al movente nel punto in cui questo, con la sua energia, gli comunica il suo impulso e, in tal modo, lo muove; oltre il movente nel suo necessario riceveme l ' im­ pulso e allontanarsi dal luogo in cui lo riceve. Ma, se fosse così , il conoscere (che è un muovere) includerebbe per non includere , - questo essendo il carattere che il concetto del­ l ' «insieme oltre» racchiude in sé; e di qui discenderebbe che il conoscere «conosce non conosce». Come, dunque, potrebbe dirsi che sia il «conoscere>>? Ancora. Se fosse così , nemmeno potrebbe dirsi che il conoscere realizzi la sua ouvaJ.ltC: inclu­ dendo l 'essere; e che, come «incluso» , questo si distingua dali 'includente. Forse che, se l ' «incluso» è l 'essere, il cono­ scere non è «essere»? Forse che vorremo definirlo come «non essere» , o come «più che essere»? Se, necessariamente, il conoscere è essere, certo non sarà «non essere»; e meno che mai lo definiremo «più che essere», per l 'ovvia ragione che ciò che viene detto «più che essere» non potrà, per esser tale e se è tale, essere se non «essere»; e non mediante il «più che essere» si definirà, bensì, invece, medi ante l 'essere. Se, dun­ que, essere è il conoscere, - essere, e non «non essere» o «più che essere» ; se essere è l 'includente, ed essere altresì l ' inclu­ so, - con quale diritto l 'essere potrebbe esser definito come «inclusione» dell 'essere? Forse che è possibile che l ' essere che include sia il medesimo che ne è incluso, e, sempre essen­ do il medesimo essere, sia includente e, eo ipso, incluso70'? 1 5 . Una digressione Sulle difficoltà intrinseche a questo rapido, ma assai im­ portante, passaggio platonico, non fermarsi era impossibile. E tanto più in quanto, non solo esso contiene di scorcio una tendenza alla risoluzione dell 'antologia in gnoseologia, che, nell 'intrinseco, si rivela immotivata e aporetica; ma anche 73

perché altro, ben altro, vi si dà a vedere . Dopo aver rivolto a Parmenide l ' implicito rilievo secondo cui, se «patisce», ed è «mosso» dall ' atto mediante il quale lo si conosce, dunque non sarà vero che l ' essere è immobile, a Platone questo ril ievo non basta. Travolto dalla passione, o, se si preferisce, dalla forza delle sue stesse convinzioni morali, di quella passione e di questa conv inzione diviene egli stesso la vittima; e mentre, nel suo argomento, il «bene» e il «buono» prendono il sopravven­ to sul «vero», egli scrive parole di alta, solenne, e tuttavia, a tratti , quasi sinistra eloquenza. 248 E 6-249 A 2 n òè 1tpòc: �t6c:; ck àÀTJ9c.i)c; nVTJO'lV KCll çc.olÌV KCll 'ljfUXlÌV KCll cjlpOVTJO'lV Ti pQo{c.oc; 7tetcr9TJ, si consideri il luogo in cui Parmenide chiede - ed è la domanda fondamenta­ le - se realmente si diano idee dalle quali, poiché ne partecipa­ no, le cose traggono il nome : come avviene delle cose simili, che così si dicono perché partecipano della simiglianza, o delle grandi, che partecipano della grandezza, e così pertanto si dicono, o, infine, delle belle e giuste. 1 30 E 5- 1 3 1 A Llox:d crot, ck l)c;, E1vat etÒT\ àna, &v 'taòe 'tà àA.A.a J..LE'taAaJ..L � civovta 'tàc; È7trovuJ..Li. ac: mhwv tcrxnv, o1ov OJ..LO tO'tT\'tOC: J..LÈV J..LE'ta­ A.a�ov'ta OJ..LO ta, J..LEYÉ9ouc; òè J..Lq ciA.a, x:ciA.A.ouc; òè x:a\. òt­ x:atOOOUVT\C: òi.x:atci 'tE x:a\. x:aA.à yi.yvecr9at1 01 ? La domanda, come si vede, è formulata con estrema semplicità, ma con altrettanto rigore; e nell ' atto stesso in cui si avvia ad investire un aspetto essenziale della questione , tale anche da sollev are, sul concetto stesso della partecipazione, un dubbio, e anzi una critica, così radicali che proprio si stenta a credere che, ciò nonostante, dopo averla formulata, Platone abbia pensato di potersi comunque ancora servire di ciò che con simile, distruttiva energia metteva in questione. In realtà, la critica che, per gradi, passo dopo passo, Parmenide rivolge a Socrate è così acuta da poter essere considerata un autentico capolavoro. E notevole essa è, fin dal suo esordio. Posto che ogni oggetto che si dia 95

nella realtà partecipi di un' idea, che cosa deve dirsi - che partecipa della sua intera estensione, o invece di una sua parte102? Oppure esiste una terza modalità partecipativa, in ragione del­ la quale né del tutto né della parte (dell ' idea) l ' oggetto parte­ cipa, e tuttavia, in qualche modo, di essa partecipa? In realtà, qui come altrove, il ragionamento platonico si svolge con cosi fulminea concentrazione, che intere sezioni rimangono, per così dire, nella rete delle cose implicite; e occorre qualche sforzo di pazienza per farsele rifluire, complete ed esplicite, nella mente. Ragionando intorno al rapporto, o, se si preferisce , al nes­ so che lega insieme le idee e le cose, Platone ha subito posto il problema della differenza e della molteplicità; e non soltanto per quel che concerne le idee, che tante sono quanti sono gli oggetti che, in forza della �éeeçte , ad esse corrispondono; non soltanto per qu anto concerne questi ultimi, che molteplici , potrebbe dirsi, sono per definizione; non soltanto per quel che concerne l ' organismo concettuale intrinseco ali ' atto parteci­ pativo. Ma lo ha posto per ci ascuna di queste situ azioni concettuali : e anche, se non in primo luogo, per lo stesso atto partecipativo. Il quale, se è un atto, non potrà essere in sé stesso molteplice. E non di meno è un atto partecipativo: tale, dunque, che proprio perché partecipa dell 'unità, non di questa, nella sua intera estensione, può in realtà partecipare, ma, ap­ punto, per ciò stesso che ne partecipa, di una sua parte soltan­ to; ché se, al contrario, del l ' intera sua estensione partecipasse, non che ne partecipa sarebbe giusto dire, bensì piuttosto che vi coincide al punto che, con la teoria che la definisce, ogni differenza di partecipante e partecipato svanirebbe, e di parte­ cipazione non potrebbe in alcun modo parlarsi più Hl3 . Così , svolgendo questo aspetto della questione, occorre aver chiaro, e dire, che la teoria della �Éeeçte si presenta come un' artico­ lazione della generale teoria della diversità; e in termini tali, quindi, che, con questa, sta o cade. Occorre dire, in altre parole, che, per costituirsi come concreto atto partecipativo, questo non può riferirsi ali 'intera estensione e, dunque, ali 'u­ nità dell 'idea; ma, come si è notato, alla sua parte. Se, per altro, si riferisse alla parte, allora, certo, non potrebbe dirsi che partecipa dell 'idea; la quale è la sua estensione, la sua unità, e, 96

al di qua di queste, non è l ' ide a che pur si assume come «ciò di cui» si partecipa. A considerare la questione da questo punto di vista, l ' apori a si rivela dunque intrinseca alla formulazione e, addirittura , alla dizione stessa della teoria che ritrae l ' atto in cui la J1É9el;tc; consiste; e che è infatti schiettamente autocon­ traddittorio perché, nel suo stesso esercizio, nega quel che afferma, - e cioè che sia e possa essere l 'idea (l ' idea presa, com 'è necessari o, nella sua intera estensione e nella sua unità) «ciò di cui» esso, l ' atto partecipativo, partecipa. Ma c ' è di più. Non può dirsi, infatti, che con queste consi­ derazioni il qu adro delle aporie sia stato sul serio es aurito. Nella sua prima articolazione, l ' aporia, rivela che , per ciò stesso che «partecipa» dell 'idea, l ' atto partecipativo non par­ tecipa dell ' idea, - dell ' idea, si vuoi dire, nella sua interezza, perché «partecipare» significa partecipare della parte. Nella seconda articolazione , l ' aporia, o, se si preferisce, il rilevamento dell ' aporia, dice che partecipare della parte è impossibile. Per partecipare de lla parte, si richiede che il partecipante sia in grado di assumere, come oggetto del suo atto partecipativo, la totalità. E che sia così , è evidente. Forse che la parte non è la parte di un tutto (o del tutto)? Ma se, per definizione, il parteci­ pante partecipa della parte, e non della totalità, e, nondimeno, per partecipare della parte è costretto a partecipare della totalità, non si viene con ciò a dire che, nell 'intrinseco, il suo concetto è autocontradittorio? Non basta. Assumere la totalità come oggetto della partecipazione significa, o che, abbracciandola con il suo sguardo in ciascuna delle sue parti, il partecipante include in sé la total ità; o che vi coincide. In entrambi i casi, le difficoltà appaiono insuperabili. Se l ' atto partecipativo inclu­ de la totalità, questa è parte, non totalità; e perciò deve dirsi che, per ciò stesso che la include, l ' atto partecipativo non include la total ità. Se, viceversa, vi coincide, come, allora, potrebbe dirsi che ne partecipa? Nel primo caso, la totalità non è la total ità. È meno di sé stessa, perché è minore del parteci­ pante che la include. Nel secondo, coincide con sé e coincide con il partecipante : che perciò, se la totalità è la totalità, non è il partecipante, è la totalità, perché, sia pure autocontradditto­ riamente, partecipare significa partecipare della parte, non della totalità. 97

Non basta ancora. Si è detto : se partecipasse dell 'idea presa nella sua totalità, allora nella sua totalità, e nell ' interezza della sua estensione, l 'atto partecipativo sarebbe atto, non di J..LÉ 9EI;K, ma di coincidenza; e non sarebbe, perciò, atto parte­ cipativo. Il partecipante che , per definizione, è parte, si por­ rebbe, infatti, come il tutto. Se questa, per altro, è la difficoltà, potrebbe forse dirsi che la si eviterebbe , o, se si preferisce, si eviterebbe di farla nascere, se si tornasse ali 'assunto in ragione del quale si dice che il partecipante, che è parte, partecipa della parte? Ma a questo assunto, e già lo sappiamo, tornare è im­ possibile; e riproporlo non giova. «Partecipare» significa che, per ciò stesso che «partecipa» , il partecipante è ciò che va a «far parte». Ma se si assume che, essendo parte, della parte, mediante il suo atto, il partecipante vada a «far parte», allora, anche qui, è impossibile assumere che il partecipante partecipi della parte (della quale si era invece supposto che partecipasse e potesse partecipare). Se infatti , come parte, partecipasse della parte, non per questo la partecipazione cesserebbe di essere segnata dai caratteri che la rendono autocon traddittoria e impossibile. Assunta come oggetto, o termine, di partecipa­ zione , la «parte» starebbe, nei confronti di ciò che ne parteci­ pa, nella posizione del tutto: sarebbe bensì , rispetto al tutto, la parte, ma sarebbe anche, rispetto al partecipante, un tutto. Se è così , la questione torna allora a presentarsi nei termini noti . Necessariamente, l 'atto partecipativo è, o di inclusione, o di coincidenza. Nel primo caso, il partecipante è maggiore di ciò che costituisce, o dovrebbe costituire , l 'oggetto del suo atto; e questo è impossibile. Nel secondo, è identico (coincidente fino ali 'identità); e, per conseguenza, il suo non è, e non può essere considerato, un atto di partecipazione. È piuttosto, se così è lecito esprimersi, un atto di identità. Del resto, se ad ogni costo volesse assumersi che, come parte, il partecipante partecipi dell a parte, come non capire che, proprio perché la parte «va­ le» qui come «il tutto», non della parte parteciperà, ma dell a parte della parte, e che sempre la specifica determinatezza del suo oggetto regredirebbe al di qu a del suo limite costitutivo? La questione, come si vede, è intricata; e non sarebbe difficile, forse, prosegui me, in questa direzione , l ' analisi apo­ retica. Ma, tornando al testo (che, del resto, non è stato affatto 98

perso di vista: è stato solo allontanato perché meglio potessero osservarsene le implicazioni e connessioni intrinseche), con­ verrà rilev are che a qualcosa di molto simile a quel che qui sopra si è detto Platone avev a la mente là dove fa che a Socrate Parmenide chieda se gli sembri possibile che l ' idea passi tutta intera in ciascuno degli oggetti molteplici, e, ciò nonostante, mantenga la sua unità. I16tEpoV oùv OOKEt O'Ol oA.ov "tÒ d&x: Év EKclO'"t(l) Elvat -roov 1toA.A.oov ev òv, 1l 1tàk? ( 1 3 1 A 9- 1 0). La differenza che, senza dubbio, può notarsi fra il modo tenuto in precedenza e questo che ora emerge dal testo, consiste nella netta inversione che qui Platone produce: essendo evidente che, per sfuggire all 'aporia che subito si manifesta allorché si nota che, per poter partecipare dell 'essere, e cosl essere, il partecipante non può, a sua volta, non essere (il partecipante), egli preferisce assumere la partecipazione che gli oggetti fan­ no del l ' idea nella forma di una sorta di comunicazione che l ' idea fa di sé stessa agli oggetti che , per tale via, vengono a parteciparne. Ma, comunque sia di ciò (e a parte le difficoltà che anche tale inversione suscita), è evidente che, a partire di qui, il percorso aporetico è, quanto meno, simile a quello che già è stato in breve tracci ato. Con grande acutezza, Platone osserva che se l ' idea passasse intera in ciascuno degli oggetti nei quali, appunto, passa (o si dice che passa), essa sarebbe una e identica, e poi anche diversa da sé medesima: sarebbe mede­ sima, per cosl dire, e non medesima. E l 'unico rilievo che, al rigu ardo, potrebbe muoversi concerne l ' esigenza, o il deside­ rio, di una più aderente determinazione del quadro problema­ tico. È evidente infatti che, se si dicesse che tutta intera l 'idea passa negli oggetti e che è la molteplice esistenza di questi a separarla e a renderla diversa da sé, si argomenterebbe in modo incompleto, anzi, semifantastico. La rigorosa determi­ nazione del concetto che ora emerge richiede infatti altro; e cioè che, moltiplicandosi negli oggetti e tuttavia rimanendo una, rimanendo una e tuttavia moltiplicandosi negli oggetti (se infatti non rimanesse una, non potrebbe dirsi che sia essa, l 'idea, a moltiplicarsi negli oggetti), la diversità del l ' idea dal­ l ' idea sia concepita come una pura diversità di identici, e dunque come non autentica divers ità. «Diversità di identici» nient ' altro infatti significa che rapporto o nesso di identici; e, 99

dunque, identità : nei confronti della quale, come potrebbe dirsi che, posto che sul serio ne siano penetrati, gli oggetti conservano la loro molteplicità e differenza? Non è forse evi­ dente che tutti , allo stesso modo, penetrati dali ' idea (che in ci ascuno immane nella sua interezza), gli oggetti sono altresì non molteplici, ma identici : identici ali 'idea, che è identica, e identici l 'uno ali ' altro, dal momento che tutti , allo stesso mo­ do, ne sono penetrati? Come che sia, di questo ulteriore e più rigoroso svolgi­ mento (nonché delle conseguenze che ancora potrebbero trar­ sene), rimane che, nel suo intento fondamentale, questo è lo scopo al qu ale il testo tende. Esso tende, infatti , ad una sorta di radical izzazione e problematizzazione di ogni facile certezza che, al riguardo, si ritenesse, o si fosse ritenuto, di poter nutri­ re. Si lasci quindi da parte la questione, che è stata sollevata e che non avrebbe comunque dovuto essere decisa mediante l 'assegnazione della vittoria ali ' argomento socratico, se sia più sottile il logo di Parmenide, che la esemplifica con l ' imma­ gine del velo che, lasciato cadere sopra una moltitudine di uomini, è non di meno ev bd. 1toA.A.olc; 8A.ov , ( 1 3 1 B 9) uno e intero sopra questi molti, oppure quello delineato dal più gio­ vane e alludente al giorno e alla sua luce, che risplendono integri e uni pur se molti si ti ne siano illuminatP04• Ali 'uno come ali ' altro argomento non sarebbe in realtà difficile pre­ sentare obiezioni. Ma, stabilito quel che in effetti appare indi­ scutibile, e cioè che , nell a logica di questo scambio e contrasto concettuale , è l ' argomento di Parmenide (il quale sottolinea l 'impossibilità che il velo stia «tutto» su ciascuna delle parti), non l ' altro, di Socrate, a prev alere , ne deriv a che ogni difesa che si tenti di questo contro quello ha la sua radice nelle scelte e nelle preferenze ideologiche, o, se si vuole, filosofiche, dei critici che, appunto, la delineano e propongono. E costoro, beninteso, avranno le loro buone ragioni a fare di Socrate una sorta di superiore paradigma della civiltà, dell 'umanità e ma­ gari persino della verità105; ma non possono tuttavia pretendere che , come personaggio (e per di più giovane e ancora inesper­ to) di un di alogo pl atonico, sia nel vero anche quando, palese­ mente, il suo auctor gli dà torto. Invece di isolare un suo argo­ mento (per la verità non irresistibile) e, riscrivendo a proprio 1 00

gusto il dialogo che Platone avrebbe dovuto scrivere e tuttavia non ha scritto, sollevare questo personaggio al di sopra del puro fluire logico delle «tesi» che lo costituiscono, gioverà restare al testo; e considerare quel che vi accade. Se, come del resto anche Socrate è costretto ad ammettere, le idee sono divisibili per ciò stesso che è l a molteplicità degli oggetti ai quale esse si comunicano a suppome come necessaria la divi ­ sibilità, - ecco allora che �E pt cr-r à &pa [ . . ] (crnv mh à -rà elOTt , KCIÌ. 'tCÌ �'tÉXOV'tCI CIÙ'troV J.lfpouç Ò.V �E'tÉXOl, KCIÌ. OÙKÉ'tl èv ÉKaCJ't(\) oA.ov, àA.A.à J.lfpoc: ÉKacr-rou à.v ElTI ( 1 3 1 C 5-7), ­ le idee sono divisibili , e gli oggetti che di un' idea partecipino, di una delle sue parti parteciperanno, e quella, l ' idea, non starà allora intera in ciascun oggetto, ma soltanto in una sua parte. Se, per altro, è cosl , dovrà allora ammettersi (e anche Socrate, dunque, dovrà) che, come divisibili (�E pt cr-r a ), ciò non ostante ciascuna rimarrà una? Ammetterlo sembra, a Parmenide, im­ possibile; e anche Socrate, a questo punto, si dichiara d' ac­ cordo. La questione è dunque , come si vede, se sia possibile che, nel comunicarsi alle cose (che in tal modo vengono a parteci­ pame), le idee rimangano, ciascuna, una. E cosl importante è il punto in discussione che , convinto che questa «possibilità» sia, piuttosto, un 'imp6ssibilità, Parmenide avverte tuttav ia l 'e­ sigenza di insistere con altri esempi , e di togliere, in tal modo, alla teoria della partecipazione ogni possibile fondamento. La parte che segue è stata tuttavia giudicata difficile, oscura, e tale che, sol tanto per congettura, il pensiero che Platone vi espone può esserv i colto e ricostruito. E non c'è dubbio: è proprio cosl . La pagina che, attraverso aspre determinazioni concettuali, culmina nel cosl detto argomento del -rp{-roe; &v9pro7toc;, è sul serio difficile: sebbene chiaro ne sia, per altro verso, l 'intento. È pur sempre contro la teoria della partecipa­ zione che, infatti, i suoi argomenti sono diretti . La questione che ora Parmenide presenta a Socrate concer­ ne la grandezza106, - la grandezza in sé, l ' idea della grandezza; che sarà divisibile, se si assicura che, per sé stessa, ogni idea lo sia. Se, per altro, la grandezza in sé, o idea della grandezza, venisse divisa (e pensata nelle sue div isioni), ecco allora che, necessariamente, le sue sarebbero «parti» della grandezza, e .

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«grandi» proprio perché 'tOÙ J.1EyÉ9oU< J.lE'tÉXOV'tO., partecipi della grandezza in sé. Ma ciò che, partecipando dell a grandez­ za, è grande, in concreto non partecipa che di una parte dell a grandezza, e , proprio i n quanto n e partecipa, non può che essere «meno grande», o «più piccolo» , della grandezza: con la conseguenza che il grande è «meno grande», ed è perciò il «più piccolo» che, contro ogni aspettativa, ora, ali 'improvvi­ so, interviene nella trattazione. Considerazioni analoghe sono richieste dal i ' esempio che segue, e che riguarda l ' eguaglian­ za 1 07; la quale - questo è ora l ' argomento di Parmenide ali 'oggetto comunica soltanto una parte di sé. Ma, se è cosl, ­ se, come soltanto partecipato, l 'eguale è sempre minore del l 'e­ guale in sé (o «eguaglianza») di cui partecipa, se, insomma, a non poter essere sul serio eguale è proprio questo, - l 'eguale, non è allora evidente che mai e poi mai un oggetto potrà essere, in senso rigoroso, eguale ad un altro; e che, anche qui , tanto più l ' altro dall 'eguale , il diseguale, interviene, quanto più è inev itabile che differisca dali 'eguale in sé , ossia dali 'e­ guaglianza, ciò che in tal modo ne partecipa? Così , come si vede , sebbene l 'analisi che Platone attribu isce a Parmenide non giunga fino alle conseguenze estreme che, se non sia illusione, sono state toccate nelle precedenti pagine, è tuttavia pur sempre questa la direzione in cui, nella sostanza, si muove. E, del resto, lucida, netta, e chiaramente affermata, appare l a consapevolezza che egli ha del fatto che della partecipazione, e della teori a che ne determina il tema, questi sono, non già inconvenienti, quanto piuttosto autentiche impossibilità. La battuta che si legge a 1 3 1 D-E ha, senza dubbio, un forte sapore eristico 1 �; e il gusto ellenico della sottigliezza, della bravura, se non, addirittura, dell a destrezza concettuale, la percorre infatti per intero, da un capo ali 'altro. Nel suo nucleo è, per altro, ben solida. Posta la «piccolezza in sé», e posta al tresì la parte della piccolezza, a scaturime è, in effetti , un paradosso, un 'tÉpro; che, a ben considerarlo, si rivela tuttavia ricco di autentica forza speculativa, e, nei confronti della teo­ ria della partecipazione, eversivo e distruttivo. Poiché l ' idea in sé, e quindi la «piccolezza» , è un tutto, che sempre è maggiore della parte, la conseguenza è che, per un verso, l a piccolezza in sé, del la quale niente in effetti dovrebbe essere più piccolo, è 1 02

più grande della parte; mentre, per un altro, questa parte essen­ do piccola, l 'aggiunta che di essa si faccia ad un qualsiasi oggetto produce non il suo accrescimento, ma la sua diminu­ zione . Sì che , come Parmenide dice a Socrate, non c 'è proprio alcun modo di fondarla, questa dottrina della partecipazione, sottraendol a agli assalti e alle insidie dell ' aporia. Né per il tutto, infatti , né per la parte, è possibile che le cose partecipino delle idee. Ti. va oùv 'tpo1tov, el1tetv, ro I:roKpa'tEC:, 'toov elooov O"Ot 'tà aU a J.l.E'taÀ:r\ 'VE'tat, J.lr\'tE Ka'tà J.l.ÉpTJ J.lr\'tE Ka'tà OÀ.a J.l.E'taÀaJ.l�avetv ouvaJ.l.EVa? E a Socrate non resta, in effetti, che convenirne. Où J.lcX 'tÒV Ma [ . . . ] , ou J.l.Ot ooKet EUKoÀOv EL vat 'tÒ 'tOtoÙ'tOV OÙOaJ.l.OOc; otopi.cracr9at 109• ..

2 1 . «Separazione» e J.lÉOEçtt:. I presupposti dell' argomento detto del -rp{-rot: &vOpmnot: La parte che segue è, com 'è noto, per intero occupata dall 'esposizione , per altro assai veloce, dell' argomento detto del 'tpi.'toc; &vepro1toc; 1 10 : argomento celebre, variamente di­ scusso e apprezzato, e che, a seconda del modo in cui lo si ricostruisce ed intende, merita, oppure no, la fama di irresisti­ bilità confutativa della quale, presso alcuni , gode. Ma, sia per il rispetto che, in ogni caso, si deve alle tradizioni illu s tri e agli argomenti celebri, sia per il carattere «privilegiato» che, ri­ spetto agli altri addotti e messi in campo da Parmenide nella sua disputa con Socrate, gli si può riconoscere, sia infine perché, come s 'è detto, potrebbe darsi che, convenientemente interpretato, rivelasse integra la sua energia confutativa, - è necessario, questo argomento, non solo esaminarlo a parte, e con qualche cura, ma altresì richiamare le premesse filosofi­ che sul cui fondamento, e nel cui quadro, trova il suo senso specifico1 1 1 • Occorre evitare infatti che la sua «struttura logi­ ca» sia isolata dal suo fondamento e considerata al di fuori del suo quadro : come se appunto il contesto del 'tpi.'toc; &vepro1toc; consistesse nello spazio astratto dell ' argomentazione logica, e non invece nella teoria delle idee e nella relativa questione11 2 • Se è così, dopo aver ricordato che nel Parmenide l 'argomento riceve due formulazioni, o che, almeno, viene svolto sul fon1 03

damento di due diverse idee (da un lato, quella della grandez­ za, da un altro, quella della «simiglianza» ), passiamo all ' a­ nalisi. Considerato nella sua intera estensione logica, l' argomen­ to detto del terzo uomo assume come suo proprio e necessario punto di riferimento la «separazione» delle idee dalle cose, la loro «perfezione» che, in quanto tale, implica, nei confronti dell 'opposto mondo del divenire e della &Sça, il carattere della trascendenza; e, sebbene in modo implicito e indiretto, a mate­ ria di critica e di confutazione assume altresì il vario tentativo che Platone compie di far sì che le idee costituiscano il criterio in forza e in ragione del quale l ' esperienza, o, se si preferisce, il mondo del divenire e della Mça, cessa di essere il puro fluire di ciò che non ha regola per conformare sé medesimo al segno dell 'intelligibilità razionale. Di questi due aspetti, per altro strettamente congiunti, l 'argomento detto del «terzo uo­ mo» intende, com 'è noto, fornire la confutazione. La dottrina delle idee culmina nel paradosso (che ha per altro in Platone pretesa di verità) secondo cui è proprio la «separazione» loro dalle cose (che sono perciò in sé stesse irrazionali) a costituire, attraverso la JlÉOEçtc:, la premessa e la condizione del loro essere assumibili e pensabili in un qu adro di intrinseca razio­ nalità. L' argomento del «terzo uomo» assume invece che que­ sto paradosso esprima, non la verità, ma piu ttosto il vizio della logica che insidia l ' intera costruzione degli EÌOTI , intesi nella loro «separazione» , e quindi, attraverso la Jléeeçtc:, nel nesso che stabiliscono con le cose. E allora, agli occhi dell ' interpre­ te, la questione è : l 'argomento del «terzo uomo» è, in quanto tale, un ' autentica e sostanziale confutazione della dottrina che pone le idee come separate dalle cose? Oppure non lo è (e non perché la dottrina delle idee abbia di per sé la energia suffi­ ciente a respingere ogni critica che le sia rivolta, ma per la diversa ragione che l ' argomento del «terzo uomo» non colpi­ sce il suo punto critico)? Se è così , si lasci per ora indecisa la questione se, in quanto argomento confutativo, quello del «terzo uomo» concluda o non concluda, abbia o non abbia efficacia. E prescindendo dalle modalità argomentative che si rivel ano intrinseche alla sua struttura logica, si consideri piuttosto, preliminarmente, 1 04

quel che la «separazione» delle idee dalle cose induce nel quadro che, mediante questo concetto, e l ' altro che gli si con­ giunge della J..1É 9el;tc: , Platone intende costruire. Ebbene, co­ munque ora si giudichi del loro essere moltepl ici di numero (ed esempl ate, per questo lato, sulla molteplicità stessa delle cose alle qu ali, infatti , corrispondono) 1 13, è fuori questione che le idee sono, ci ascuna , un «in sé>> ; e questo, come si sa, com­ porta che , prive, ciascuna, di interna molteplicità, tutte siano ferme in sé stesse : ferme, e cioè extratemporali, sottratte alla vicenda dell 'essere e del non essere, dotate di intrinseca per­ fezione1 14. Fuori di questione è altresì , e per converso, che, rispetto alle idee, le cose appaiono e sono in possesso del carattere opposto; e quanto quelle sono «in sé» , altrettanto queste sono «per altro», quanto quelle sono scevre di interna moltepl icità e caratterizzate piuttosto nel senso dell 'identità, altrettanto queste sono segnate di molteplicità e, almeno prima facie, non di identità , quanto le prime sono un «esser sempre», altrettanto queste sono pervase di temporalità e, se cosl potes­ se dirsi, di imperfezione ontologica l lS . Se è così, fra l 'ordine ideale e quello mondano c'è differenza: massima e radicale differenza. E come della realtà di questa differenza non può dubitarsi perché, a garantirla, è la stessa, diversa, struttura che si rivela intrinseca alle idee, da una parte, alle cose, da un' al­ tra, così nemmeno può dubitarsi del punto che, in effetti , Platone cons idera fondamentale: e cioè che la fermezza delle idee e il loro «essere separate» tanto più debbono esser assunti con rigore, e tenuti saldi al centro del quadro, in quanto è in questo carattere che può rinvenirsi, o deve comunque ricercar­ si, il criterio che alle cose, altrimenti irrazionali, conferisce l 'opposto carattere della razionalità. Se è così , proprio in questo punto la costruzione comincia a rivelare la debolezza del suo impianto. Da quanto s 'è detto consegue infatti che, anche a prescindere dalle difficoltà che insorgono alla radice della differenza che Platone asserisce esistente fra le idee (che, ciascuna essendo in sé stessa «una» e non molteplice, tutte sono, non di meno, molteplici per numero e non «una» 1 16), la struttura complessiva dell'universo è segnata da una duplice differenza. Mentre infatti, molteplici di numero, le cose sono altresì ciascuna molteplice in sé stessa, 1 05

flu ida, e variabile dalla vita alla morte , le idee sono bensì moltepl ici di numero, ma in sé stesse sono, ciascuna, «una» . E la difficoltà che a questo punto si dà a vedere consiste in ciò che, affermata, la di fferenza non ritrov a tuttavia in sé stessa la forza che ad essa consenta di pensarsi e di essere pensata: con la conseguenza che il suo essere affermata, e non pensata, induce nell 'universo platonico il dissidio e la difficoltà. Senza insomma che Pl atone riesca ad avvedersene, e a controllare il movimento obiettivo del suo pensiero, insensibilmente (e ora lo vedremo) l ' estrema «separazione» e la massima differenza sussistenti fra l 'eternità delle idee e la temporalità delle cose tendono a capovolgersi nel loro contrario-opposto; ed è l 'iden­ tità che, infatti, emerge e rivela il suo volto. Al di là del loro essere diverse, e quindi molteplici, le cose sono infatti, tutte e ciascuna, diverse dalle idee che ad esse (si dice che) corrispondono. Ma appunto, se è così, non dovrà asserirsi che identicamente esse sono diverse dalle idee? E come, in effetti , se non identicamente, potrebbero esserlo? Diverse, come si presume, fra loro, le cose sono tutte, e ciascu­ na allo stesso modo dell ' altra, intessute di tempo, - tutte , e ciascuna allo stesso modo dell' altra, sono sottoposte alla vi­ cenda dell 'essere e del non essere, del nascere e del perire. E non è forse per questo, ossia per il loro intrinseco essere molteplici, che sono diverse dalle idee? Per questo, senza dubbio. E dunque , identicamente diverse. Se per altro è così, se nell 'essere, tutte e ci ascuna, diverse dalle idee, tutte rivela­ no il medesimo carattere, e sono identiche, - in che modo saranno fra loro «anche» diverse? Non è forse nell 'essere «non idee» che, tutte e ciascuna, le cose trovano la ragione del loro «essere cose»? Come si deduce, dunque, quell ' «anche» , che è la conseguenza, ma altresì dev 'essere la radice, della loro differenza? Si risponderà platonicamente che la ragione onde, tutte e ciascuna, le cose sono fra loro diverse risiede nella differenza, e qui ha la sua radice, che le idee intrattengono fra loro? Si risponderà che la differenza delle cose non è, in altri termini, se non il riflesso della differenza delle idee, di cui le cose sono copie, immagini, imitazioni, e che, per conseguen­ za, si tratta di una differenza indotta: - un 'imitazione di diffe­ renza? 1 06

Ebbene, lasciando da parte l ' arduo problema che subito, per altro, si porrebbe se, in questo contesto, il significato di «imitazione» fosse sottoposto ad analisi, sia pur questa la risposta: perché, certo, almeno nelle linee essenzi ali, così è in Pl atone . Ma in tal modo, e anche nel caso in cui il concetto della copia, del l ' immagine, del l ' imitazione fosse mediato da quello della JlÉeEI;tc; , certo è che non perché sia stata assunta sotto il segno di un 'ulteriore e più estesa differenza (quella, appunto, che concerne le idee), la differenza delle cose (dalle cose) risulterebbe meglio fondata, giustificata, dedotta. È ve­ ro, anzi, il contrario: dal momento che la differenza delle idee, nella quale si ravvisa e si indica il criterio in ragione del quale quella delle cose si costituisce, è, anch 'essa, non già dedotta, bensì crudamente presupposta alla sua possibilità. Che infatti, identiche ciascuna alla sua ucw; di idea, e quindi alla propria intrinseca identità e non molteplicità, le idee siano poi molte­ plici, e, in quanto tali, diverse, è bensì assunto esplicito di Platone; il quale parla di tante idee qu anti sono gli oggetti , o gli «insiemi » di oggetti , ai quali, riconoscendone il carattere, di volta in volta ciascuna di esse si riferisce. Ma è, il suo, assunto dogmatico, e, quel che più conta, autocontraddittorio, perché se degli dò11 si dice che ciascuno è caratterizzato dal­ l' assoluta identità, e non moltepl icità, che intrattiene con sé, come mai potrebbe anche assumersi che la sua identità abbia il suo «oltre» nell 'identità degli altri dò11? L' «oltre» dell 'iden­ tità è un 'alterità anche nel caso in cui si asserisse che nient ' al­ tro che un ' identità è ciò che sta «Oltre» l ' identità. È, dunque, un' alterità; che è impossibile trovi un legittimo posto nella sede concettu ale delle idee, il cui carattere è, rigorosamente, costituito dali 'identità. In altri termini : se si dice che le idee sono, ciascuna, identica a sé, questo stesso asserto è autocon­ traddittorio, perché dire «ciascuno» è dire cosa incompatibile con la nominazione del l ' identico. E il paradosso è dunque che, quando pure si ammettesse la molteplicità delle idee, e si pretendesse tuttav ia di tener fermo ali 'irrinunziabile punto della identità di ciascuna, proprio questa ammissione, che ci ascuna è identica alla sua identità, toglierebbe alla radice la possibilità che le idee fossero specificate come aventi «ciascu­ na» la propria identità e come tali da costituire, essendo eia1 07

scuna una specific a idea, una serie molteplice. È evidente infatti che se ciascuna è identica a sé , e tutte sono quindi segnate da questo medesimo carattere fondamentale, nell 'es­ sere identica a sé ciascuna sarà identica ali 'essere, ciascuna, identica a sé: con la conseguenza che né di «ciascuna» potrà parlarsi , né di «altra» idea, ma solo di identità: di identità senza alcuna molteplicità. Se per altro è così , proprio di qui emerge , e non senza qualche apparenza di paradossalità, l 'estrema aporia che la dottrina delle idee rivela nella sua stessa filigrana logica. Se infatti , molteplice o unitario, l 'oggetto mondano non è un'i­ dea, e da questa dunque è diverso, altrettanto dovrà dirsi del­ l ' idea, - che «non è» l 'oggetto mondano e da questo, per conseguenza, è diversa. L ' idea e la cosa, o, se si preferisce, l 'ordine ideale e quello mondano, sono dunque diversi , - sim­ metricamente diversi. Ma come la simmetria dei diversi è in sé a sé stessa identica e non diversa (che, altrimenti , non sarebbe la simmetria dei diversi), così , costituendo gli estremi di quel­ l ' identico a sé che è la simmetria, i diversi sono identici l 'uno all ' altro, e non diversi: che se, nell 'essere gli estremi dell'i­ dentico, fossero diversi, l 'identico non sarebbe l ' identico. Op­ pure, e se si preferisce: l ' «essere i diversi diversi» è, in quanto tale, identico. O ancora: come i diversi potrebbero essere di­ versi dalla diversità in ragione della quale sono diversi, e che, non potendo essere diversa da sé, è in effetti a sé stessa iden­ tica? - Ebbene, se è così, le conseguenze che da questo ragio­ namento scaturiscono sono delle più gravi. E sia, infatti, che l 'identità (dei diversi) sia stabilita nell ' ambito ontologico del­ le idee (e le cose siano perciò, non cose, ma idee), sia che per contro sia stabilita in quello delle cose (e le idee siano perciò cose), sia infine che , forse con maggior rigore, si assuma che il fatto dell ' identità è tale da risolvere in sé l 'essere idea dell 'idea e l 'esser cosa della cosa, la conseguenza è, in ci ascu­ no di questi tre casi, distruttiva. Nel primo caso, il ragiona­ mento ha messo capo a un mondo di idee senza cose; nel secondo, ad un mondo di cose senza idee; nel terzo (che è come la verità dei primi due), alla pura identità priva di artico­ lazioni, - ad una sorta di trionfo negativo del più crudo e feroce eleatismo. 1 08

Sarebbe v ano, e forse anche ridicolo, chiedersi quali aspet­ ti di questa difficoltà Pl atone fosse giunto a percepire, in qu ale forma se la prospettasse, fino a che punto, nella straordinaria acutezza della su a capacità autocritica, fosse stato in grado di intendere il rivelarsi, al la radice della diversità intesa come pura simmetria dei diversi, dell ' identità. Certo è che dell a differenza, e delle conseguenze che n e scaturiscono, fu fino in fondo consapevole , perché non da altro dedusse il tentativo di collegare, mediante l a fJ.É9el;tt: , i due ordini delle idee e delle cose. Ma, come sappiamo (e qui si può velocemente ricorda­ re), se pur non riuscì peggiore, il rimedio non eliminò il male. Con la differenza, e la sua immediata «presupposizione», lo riprodusse alla radice dello strumento con il quale cercava di rimuoverlo ed el iminarlo. Nella varia gamma delle sue realiz­ zazioni, e specificazioni, lo strumento partecipativo dà infatti luogo a moltepl ici, e pur connesse, difficoltà. Nei riguardi dell 'essere e della partecipazione che, appunto, per essere, le cose ne fanno , la fJ.É9E/;tc: produce, come sappiamo, lo scarto per il quale, per essere, le cose debbono partecipare dell 'esse­ re, per partecipare dell 'essere, debbono essere117• Ma nei ri­ guardi di questo luogo logico, e di ogni altro che gli si connet­ ta, lo scarto che essa produce non è, e anche questo lo sappia­ mo già, meno grave. Se «partecipare di» non è lo stesso che «identificarsi con», allora è inevitabile che, partecipando del­ l 'essere, della bellezza, della grandezza, della giustizia, pro­ prio in qu anto ne partecipano, e non vi si identificano, le cose siano « altre» dall 'essere, dalla bellezza, dalla grandezza, dalla giustizia. È inevitabile , se al loro esser «altre» si intenda con­ ferire un 'ulteriore determinazione, che siano «meno» essenti , «meno» belle, «meno» grandi, «meno» giuste delle corrispon­ denti idee, senza che d ' altra parte lo strumento partecipativo offra il modo onde questa «differenza» sia controllata, inclusa in un ambito razionale, oppure eliminata. Di qu i, come si vede, gravi conseguenze . Non solo, infatti , non ha senso dire che l 'ente è «meno» dell 'ente, e la cosa bella è «meno» della bellezza. Ma nessun senso razionale è altresì possibile confe­ rire, su questo fondamento, al mondo delle cose; che, abban­ d Ònato alla sua «minorità» logico-ontologica, torna a ribadire, nei confronti di quello ideale, la netta differenza che, per parte

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sua, lo strumento partecipativo aveva cercato, se non di aboli­ re , almeno di risolvere in un orizzonte di razionalità, e non riesce invece se non a confermare. Escogitata per mediare la differenza dell 'ordine ideale e di quello mondano, l a J..Lé eel;tc: dunque non media. Non media ma, piuttosto, esaspera (e non occorre ora ribadire come nell 'esasperazione stessa della dif­ ferenza traluca, nel fondo, il volto del l ' identità) . Si assuma infatti , a mo' d 'esempio e di ipotesi , che, parte­ cipata dalla cosa, l 'idea (che di per sé non è una cosa perché, appunto, è un «in sé») «si faccia» , ossia divenga, cosa, e, per così dire, entri a far parte dell 'ordine mondano. Ebbene, poi­ ché il senso di questa espressione («farsi, o divenire, cosa», «entrare nell 'ordine mondano») richiede di essere determinato con precisione contro il rischio immanente della v aghezza metaforica, si osservi allora che se il «farsi cosa» della idea significasse che, venendo a far parte delle cose e della cj>ucrtc; che caratterizza il loro specifico esser tali nell' ambito che costituiscono e che le accoglie, questa, l ' idea, penetra in quelle senza tuttavia assumerle nel suo ordine specifico, il guadagno sarebbe ben misero; e grande , per contro, la complicazione. È evidente infatti che , divenuta cosa, l ' idea non è, né può più essere, quel fermo «in sé» , quell ' assoluto valore, quel non tramontabile 1ta.pciòetyJ..L a. , che, come garanzia di razionalità, si era pur deciso di conservare alla radice de li' atto costitutivo di ciò che è «oggettività» : sì che , ancora una volta, è ad una razionalità dimidiata che in questo caso ci si rivolgerebbe : ad una razionalità dimidiata, e non a quella piena che si pretende­ va di aver sottesa alle cose. Né al rigu ardo varrebbe osservare che, divenuta cosa, non per ciò l ' idea ha cessato di essere idea: dal momento (potrebbe aggiungersi) che diventar cosa questo significa, - penetrare in essa e, in questo atto, ricostruirla, dali ' interno, nel segno della razionalità. Questa osservazione non ha in effetti alcun v alore, è fatta di pure parole prive di senso; e rischia per di più di riuscire gravemente fuorviante, perché a due diverse prospettive il ragionamento che la sotten­ de mette a capo: e rispetto al quadro categoriale entro il quale le idee assumono il loro senso, entrambe sono insostenibili. La prima prospettiv a delinea, culminandovi , una sorta di situazione intermedia, un J..LE'ta.l;u che, in quanto risulta dal1 10

l 'incontro e dal contatto che le idee realizzano e stabiliscono con le cose, si colloca altresì , ma in senso ideale, fra queste e quelle; ed è in ogni senso inconsistente perché , posto che l 'idea è eterna e la cosa, invece , mortale, che l ' una è «in sé e per sé» e l ' altra «per altro» , che la prima non è sottoposta alla vicenda dell ' essere e del non essere, del nascere e del perire, e la seconda invece proprio dali 'esservi sottoposta trae il suo carattere, - che cosa sarebbe questo �E'tal;u se non una mo­ struosa «eternità mortale» (o «mortalità eterna»), un «in sé­ per-sé-per-altro» (o un «per-altro-in sé-per sé»), un «essere non essere» (o un «non essere essere»)? Che cosa sarebbe se non la forma pura della contraddizione, la forma (si vuoi dire) di ciò che è «impossibile» , il supremo àc%va'tov1 18? La se­ conda prospettiva delinea, culminandovi, non già questa as­ surda situazione intermedia, che non regge e dev 'essere ab­ bandonata; ma l ' assai diversa situazione in forza della quale il «divenir cosa» dell ' idea cede al «divenir idea» della cosa, e l a luce dell a razionalità si raccoglie nel punto, massimamente inesteso, in cui la sua essenza consiste. Rispetto alla premessa generale del discorso è anch 'essa, tuttavia, per intero assurda. Quale mondo in effetti questo raggio di luce illuminerebbe se il mondo si è, per così dire, essenzializzato in lui, si è fatto esso stesso raggio di luce, e non ha per sé alcuna consistenza? 22. Le due forme del -rp{-rot: &v8pm1rot: nella prima formula­ zione dell' argomento

Nella sua forma specifica, e nella peculiarità della sua struttura argomentativa (che, assumendo il «fatto» della sepa­ razione delle idee e la pretesa che possa farsene il criterio per l 'intelligenza delle cose , li critica entrambi nella «contraddi­ zione», e per la «contraddizione» , che producono) , il «terzo uomo» esprime il senso generale di questa critica ed è riduci­ bile al suo tema filosofico? Per decidere quale risposta debba darsi a questa domanda, osserviamo quel che in concreto acca­ de a 1 32 A 1 -B 2, che è il luogo nel quale l ' argomento detto del «terzo uomo» è esposto nella prima delle sue due forme. Come si ricorderà, nelle linee immediatamente precedenti Parmenide 111

e Socrate avev ano dibattuto la questione dell a grandezza in sé, della piccolezza in sé, della parte e del tutto. E richiamandosi alle difficoltà incontrate e, d ' altro lato, cercando di spiegare a sé stesso perché mai tanto il suo interlocutore riluttasse a distaccarsi dalla dottrina delle idee e, con giovanile accani­ mento, in ogni modo cercasse di difenderla e ribadirla, Parme­ nide osserva: 1 3 2 A 1 -3 OtiJ.ai O"E ÈK 'tOÙ 'tOlOÙÙE f.v EKacr'tov EtÙOC: OlE0"9al ElVal . O'taV 1tOÀ.À.' ana J.l.f'YUÀ.a crot MI;l] ElVal, fllCX 'ttt; t a roe: OOKEL lùéa Tt aÙ't'JÌ El Val È1tl 1tUV'ta iMvn, o9EV f. v 'tÒ llÉ"fa 'ft)'lj E1 Val 1 19• Nella ricostruzione che Parmenide ne fornisce, è dunque la visione delle cose grandi a suggerire che in esse si dia e vi sia un 'unica idea, - la grandezza in sé, 'tÒ IJ.Éya, o 'tÒ 1J.ÉyE9oc , che, venendo fuori dalle cose grandi in virtù del loro stesso esser grandi, le trascende per collocarsi sul piano metempirico che alle idee spetta di diritto. A questo punto, l ' argomento entra nel vivo, e raggiunge la sua articola­ zione essenzi ale . Ottenuto il consenso di Socrate, Parmenide infatti aggiunge : 1 3 2 A 6-8 'ti ù' aù'tò 'tÒ llÉ"fa x:a\. 'taÀ.À.a 'tà IJ.EYUÀ.a, èàv rocrmhroc: Ttj 'lfUXiì È1tt 1tUV'ta lÙl]t;' oùxì. EV 'tl aù Jléya av d'tal, 'taù'ta 1taV'ta àvayKll IJ.EyaÀ.a aivE­ cr9al 120? E subito dopo, traendo l 'estrema conseguenza: 1 32 A 1 0-B 2 aÀ.À.o apa EÌOOt; 1J.EyÉ9ouc; àvaav� crE'tal, 1tap' aÙ'to 'tE 'tÒ 1J.É'yE90c; yeyovÒc; KCXl 'tÙ IJ.E'tÉXOV'ta aÙ'toù· Kat È1tt 'tOU'tOtt; aù miat v E'tEpov, q> 'taù'ta 1tUV'ta IJ.EyaÀ.a EO"'tal Kat oÙKÉ'tt Ù'JÌ ev eKacr'tov crot 'trov Elùwv ecr'tal, àì..ì..à a1tEtpa 'tÒ 1tÀ.if9ot:1 2 1 • Questa dunque, scandita nelle sue tre fasi, la sequenza dell 'argomento. Ebbene, prescindendo, o cercando di prescin­ dere, dalla specificità argomentativa (il regresso all ' infinito) che il terzo uomo assume, osserviamo le proposizioni che costituiscono il fondamento filosofico della dottrina (quella delle idee) che s ' intende dimostrare viziata d' incoerenza. Il primo tempo della sequenza non richiede particolare discorso, perché, comunque si pensi di averla dedotta, l ' idea della gran­ dezza è presentata come tale che , con la sua unità, sovrasta l ' ambito (che essa stessa in questo atto costituisce) delle cose grandi ; ed è questo che, coincidendo con il carattere generale che Pl atone riconosce alla sua essenza, in primo luogo conta e interessa. È vero bensi , senza dubbio, che, sottilizzando al·

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quanto (e in modo dopo tutto non illegittimo), a proposito di questo primo tempo dell 'argomento potrebbe almeno notarsi che opera in esso il rischio del circolo vizioso, dal momento che , per un verso, è lo spettacolo stesso delle cose grandi a far insorgere in colui che lo contempla l 'idea della grandezza, mentre, per un altro, il senso complessivo del lago impone di concludere che è piuttosto il possesso dell'idea dell a grandez­ za a rendere possibile la contemplazione delle cose grandi, se non, addirittura, a costituire, antologicamente, lo spettacolo che esse offrono. E il rischio del circolo vizioso è, come si comprende, qualcosa di più che un semplice rischio: come subito si vede se si consideri che , nel modo in cui Parmenide velocemente lo formula e lo costituisce, il primo tempo del­ l ' argomento postula qualcosa come uno sguardo che, scevro ancora del criterio atto a far riconoscere nelle cose grandi l a grandezza per la quale sono tali, a tal punto tuttavia per un altro verso deve non esserne scevro che dalle cose grandi deduce l 'idea, - quella stessa che, certo, mai riuscirebbe a dedurre se non la possedesse alla radice dell' atto mediante il quale, appunto, la deduce. Malgrado l ' insidiosità dei problemi che qui sono stati accennati , i punti essenziali, e che richiedo­ no la maggiore attenzione, stanno tuttavia nel secondo e nel terzo tempo; ed è a questi che, appunto, ora occorre rivolgersi . Nel secondo tempo si suppone che, per il suo stesso carat­ tere di «idea» e, dunque, in ragione del suo essere trascendente e «separata» , la «grandezza in sé>> , che a colui che contempla­ va le «cose grandi» s ' imponev a come il criterio e la ragione del loro esser tali, formi, divenuta cosa, l ' oggetto di un 'ulte­ riore contemplazione; e che alla radice del nuovo atto una nuov a idea della grandezza insorga, in forza della qu ale ciò che è grande appare grande : non solo le «cose» grandi delle quali la prima idea è andata a far parte, ma questa stessa idea, divenu ta, essa pure, una cosa grande. La situazione concettua­ le che, svolto in questa forma ciò che vi è implicito, questo passo delinea, prevede dunque che non si dia, né possa darsi, contempl azione di oggetti , o di un ordine di oggetti omogenei, se alla radice stessa del l ' atto contemplante , e come suo imma­ nente criterio, non agisca l ' idea che al carattere di quegli oggetti corrisponde. E nel suo ulteriore svolgimento implica 1 13

altresì che se l ' idea, con il cui criterio gli oggetti sono stati contemplati e riconosciuti nel loro carattere, viene a sua volta contemplata insieme agli oggetti che da lei trassero, e traggo­ no, il carattere della grandezza, - perché questa ulteriore con­ templazione sia possibile è necessario (e già lo si è detto) che una nuova idea della grandezza insorga : una nuova idea, alla luce della quale la grandezza della grandezza, e quella altresì delle cose grandi , appaiano e si manifestino come tali. Ebbene, se è così , il nervo della questione è stato toccato nel suo punto più vivo. E occorre perciò chiedersi : qual è, propriamente, e di che natura, la difficoltà logica che qui si rivela e che, nelle sue tipiche modalità argomentative e confu­ tative, il 'tpl'tOC:: &vepomoc:: cerca di recare in piena luce (per­ ché ciascuno, e in primo luogo chi si fosse fatto sostenitore della dottrina delle idee separate, possa persuadersi della su a insostenibilità)? Per rendere possibile la risposta, si cominci con il considerare che della natura specifica della grandezza che, avendo dapprima costituito il criterio in ragione del quale le cose grandi sono grandi, entra nell 'ambito di queste e fa perciò insorgere una una nuova idea della grandezza si richiede, che infatti , inevita­ bilmente, si delinea ali 'orizzonte della sua intelligibilità. Ma rispetto a questa possibilità interpretativa (che il testo non esclude e, forse , in anal isi estrema, richiede), Pl atone è, come si diceva, alquanto esitante; e non senza, infatti , qualche ambi­ guità, per questa idea alla radice della quale la nuova idea è sorta parla di 'tÒ J..LÉya, o di 'tÒ J..LÉYE9oc:: , distinguendola, sem­ brerebbe, dalle «altre cose grandi» ('tÒ.ÀÀa 'tà J..LEYcXÀa), nel cui ambito, tuttavia, per un altro verso la colloca. Non senza am­ biguità; perché se 'tÒ J..LÉya è, al di fuori di ogni possibile dub­ bio, la «grandezza in sé» , l ' idea della grandezza, e, propria­ mente, quella con il cui criterio le «altre cose grandi» erano 1 14

state contemplate e riconosciute in questo loro carattere , vero è anche che, in quanto sia a sua volta e in qualche modo divenuta oggetto di contemplazione, e questa si riveli impossi­ bile se all a sua radice non sia una «nuova» idea, essa è, a rigore, non più 'tÒ J.l.Éya, la «grandezza in sé», l ' idea dell a grandezza, ma è bensl , ormai, u n a «cosa grande», e come tale va considerata. Per chiarezza, si considerino dunque, distinta­ mente, le due ipotesi che qui su sono state delineate : ( l ) che, anche se ormai si trovi a far parte del «campo» che include le cose grandi e sia, per questa parte, una di esse, 'tÒ J.l.Éya sia, per un' altra, e seguiti ad essere, 'tÒ J.l.Éya, l ' idea dell a grandezza; (2) che, inclusa nel campo delle cose grandi, non sia ormai che una di queste, e il carattere dell ' idea non gli appartenga più. Le due ipotesi richiedono infatti, in prima istanza, di essere di­ stintamente esaminate. Se poi, e in che senso, tendano a ricon­ vergere in unità, è quanto si vedrà svolgendole. Se è cosi che la questione richiede di essere schematizzata, e queste sono le ipotesi che ne articolano il campo, si prenda a considerare la prima, e se ne misuri il grado di coerenza, o, eventualmente, di incoerenza. ( l ) A parte la disparità di un campo ontologico-semantico che, essendone al contempo co­ stituito, si trovi ad ospitare tanto 'tÒ J.l.Éya, la grandezza in sé, l 'idea della grandezza, quanto 'taÀ.À.a 'tà Jlf'YaÀ.a, le altre cose grandi, - ben altro infatti , a questo riguardo, rimane da consi­ derare. Le incongruenze che si rivelano intrinseche alla sua costituzione non sono che le difficoltà emergenti da questa simultanea e duplice assunzione del l ' idea come idea e come cosa. E si consideri allora, in primo luogo che, se è cosl, altro sarà il rapporto che, insorgendo, la nuova idea intratterrà con le «cose grandi», altro, necessariamente, quello che intratterrà con la «grandezza» che, sebbene stia fra le cose e del loro ambito sia andata a far parte, è tuttavia ancora definita come 'tÒ J.l.Éya, come l ' idea della grandezza. Se nel primo caso, e quali che siano le difficoltà, le inconseguenze, le complicazioni strutturali, che questo tipo di rapporto fa insorgere, la predica­ zione che le cose fanno dell' idea è, in sostanza, fondata sulla «differenza» intercorrente fra questa e quelle: sulla differenza, se si preferisce, che sussiste e si mantiene fra il soggetto e il predicato, e che il JlE'tÉXELV riassume e simboleggia, - nel " � 1 15

condo non potrà invece essere che di un altro tipo. Palesemen­ te, infatti, 'tÒ f.J.Éya è un 'idea; e, sebbene faccia parte dell ' am­ bito in cui 'tÙÀ.À.a 'tà f.J.E')'cXÀ.a sono incluse, non è una cosa: con la conseguenza che identica, e soltanto identica, alla sua natura specifica sarà la natura dell 'ulteriore «grandezza» che , non per altro che per questo «aggettivo», verbalmente introdotto, potrà distinguersene. Se è così , non si richiede allora particolare sottigliezza per comprendere che la predicazione non potrà essere, in questo caso, se non un ' autopredicazione, intesa tut­ tavia, a sua volta, nella forma estrema e rigorosa della perfetta identità del soggetto e del predicato, - ossia, in modo tale che ogni distinzione ne sia tenuta lontana, e, con la distinzione, ogni autentica discorsività predicativa sia sacrificata al rigore della identità che, in sé stessa, e senza alcun bisogno di uscire da sé stessa, l ' idea realizza 1 23• Ma, se è così , allora è evidente che mediante questa argomentazione viene in sostanza a dirsi che, poiché l 'idea non può mai essere altra da sé, e p èr essa, che non ha tempo ed estensione, non si dà un tempo e un 'esten­ sione lungo i qu ali le sia concesso di presentarsi e ripresentar­ si, sdoppiarsi e riappropriarsi della sua identità, così appunto è impossibile che l ' idea si presenti e si ripresenti , si sdoppi e si ri appropri della sua identità, - entrando nella serie del «que­ sto» e dell ' «altro» . Che è poi quel che, interpretando il senso profondo di questa situazione, l 'argomento del «terzo uomo» cerca di mettere in chiaro, e di criticare, là dove osserva che, in questo quadro, lo sdoppiamento delle idee è inevitabile, e, poiché è contraddittorio, impossibile. È inevitabile perché , se si fa che l 'idea in ragione della quale le cose sono «grandi» e con questo carattere appaiono a chi le contempli, entri nel campo antologico in cui queste sono incluse e se ne l asci, anch 'essa, includere, necessariamente allora dovrà ammettersi che essa venga a trovarsi dinanzi ad un 'idea «altra e identica», «identica e altra» ; e questo, appunto, è contraddittorio, - con­ traddittorio e, dunque, impossibile, perché , per definizione, l ' idea è identica e, in quanto tale, ogni traccia di alterità non può che essere esclu sa dal suo orizzonte antologico. Alla con­ traddittorietà che si rivela intrinseca ali 'assunto che l ' idea, alla quale ogni divenire è estraneo, entri nel divenire e, rimanendo ciò non astante un 'idea, si «faccia cosa», si aggiunge così 1 16

quella che potrebbe esser definita del l ' «identico e altro», del­ l ' «altro e identico» : la contraddittorietà, si vuoi dire, che emerge dal concetto secondo cui, alla radice dell 'identico, un «altro» identico (che sia «identico», ma anche «altro» , che sia «altro», ma assurdamente, anche «identico») può insorgere, e cosl via, ali ' infinito124• Sono queste le aporie che, interpretato a sua volta nel suo motivo di verità, e al di là quindi delle imperfezioni che possa­ no, eventualmente , rilevarsi in questa sua prima formulazione, l ' argomento del «terzo uomo» scopre nella dottrina delle «idee» e del loro «esser separate». E l 'unica avvertenza, unica ma fondamentale, che al riguardo sia richiesta, è che se, come talvolta accade, si fa che l 'argomento consideri anomalo, non tanto lo sdoppi amento regressivo dell 'idea, quanto piuttosto la sua conseguenza, e cioè la non fermezza del fondamento (che, preso in quel regresso, non è un fondamento), allora si dà luogo ad un ' anomalia altrettanto grave di quella che s 'intende porre in luce e, appunto, confutare : ad un' anomalia, e non ad un argomento confutativo. Posta l 'identità dell ' idea, a risulta­ re , e ad essere, inammissibile è infatti (e qui sta il fulcro dell 'argomento) proprio il suo sdoppi amento regressivo (nel quale in effetti non altro si esprime se non la pretesa, autocon­ traddittoria, che ali ' identità un ' «altra» identità possa accom­ pagnarsi , al «sé stesso» dell ' dOO< un identico, e tuttavia «al­ tro», sé stesso); e lungi dal poter essere materializzato in una qualsiasi sequenza fenomenologica e temporale, il cosl detto «regresso» ali 'infinito non è se non il simbolo di questa impos­ sibilità logica, - della contraddizione per la quale l ' identico si sdoppi a nell 'identico, o, se si preferisce , è identico e, tuttavia, assurdamente si sdoppia 125• Il punto delicato è qui. L ' argomento detto del «terzo uo­ mo» rivela la sua efficacia in ciò che, evocando lo spettro dell a molteplicità, o della moltiplicazione, dell ' idea conseguente al suo sdoppiamento, nonché dello sdoppiamento conseguente al suo moltiplicarsi, e facendo dell 'uno e dell ' altro il risultato tanto della «separazione» che le idee intrattengono nei con­ fronti delle cose, quanto del tentativo messo in atto per supe­ rarla, di entrambi questi procedimenti dichiara l 'impossibilità logica : ossia, la contraddittorietà. Quel che in altri termini esso 1 17

pone in luce come «Contraddizione» e «impossibilità» è che, assunta a criterio di interpretazione e di riconoscimento del carattere intrinseco alle cose , l ' idea si sdoppi, decada nella cosa e, in questo atto stesso, risorga come idea; e ad essere contraddittorio, impossibile e assurdo è perciò, come si vede, lo sdoppia mento, - lo sdoppi amento in quanto tale, e non il suo riprodurs i, dopo essersi una prima volta prodotto, ali 'infinito. Il «regresso>> (o progresso) ek à7tetpov può infatti essere bensl visto come il simbolo della contraddittorietà intrinseca ali ' assunto che, identica com 'è a sé stessa, l ' idea possa farsi «altra» da sé, - passare nella cosa e riemergere come idea. Ma la contraddittorietà sta, appunto, nello sdoppiamento; e non nel suo doversi ripetere (che, in quanto tale, sarebbe conse­ guenza di ciò che non è ammissibile, e cioè che il «primo» sdoppiamento si produca). (2) Si assuma ora l ' altra ipotesi : che, divenuta «cosa» mercé il suo stesso includersi nell 'ambito degli oggetti che, con il suo criterio, sono stati «riconosciuti» come «grandi», non come idea, ma, appunto, come «cosa grande» l ' idea stia dinanzi all ' idea che ora sorge ali 'orizzonte : questo sorgere essendo in sostanza interpretabile come la conseguenza del suo essere «divenuta» cosa. E si consideri , innanzi tutto, que­ sto concetto del «divenir cosa» : ci si soffermi su questo «dive­ nire», che della situazione che stiamo studi ando costituisce il nucleo, - il nucleo problematico, e deve tuttavia essere presup­ posto come se si trattasse di un ovvio, pacifico e niente affatto problematico concetto; ché, in caso contrario, la tesi stessa dell 'essere, o del divenire, «cosa» dell 'idea non sarebbe for­ mulabile. Che, in effetti , questo concetto del «divenire» sia richiesto dal modo concreto in cui la questione si presenta, è ovvio. All 'inizio, quando era assunta come il criterio in ragio­ ne del quale le «cose grandi» sono riconoscibili per tali, l 'idea infatti era l ' idea, non la cosa : il suo essere idea, e non cosa, essendo richiesto dal l ' i stanza razionalistica intrinseca alla dottrina, e cioè dal l ' irrinunziabile tesi secondo cui , senza il riferimento ad un ordine in sé stesso saldo, intransitivo e im­ mutabile, la flu idità e transitività degli enti mondani sarebbe stata travolta nel suo stesso gorgo e per sempre , di conseguen­ za, si sarebbe sottratta al tentativo che si fosse compiuto di 118

decifrarla e comprenderla in termini di ragione. Se quindi si fa che l 'idea sia niente di più che una cosa quando, in virtù del suo stesso costituire la ratio essendi et cognoscendi della «grandezza», ad esempio, delle cose grandi , entra a far parte del loro ordine specifico, il ricorso al concetto del divenire si rende indispensabi le. E, nel rendersi tale, sottolinea e pone in rilievo la contraddittorietà dell 'intera situazione. Il divenire (e non potrebbe essere al trimenti) è qui inteso come il divenire stesso dell ' idea; che div iene infatti e, divenendo, si fa cosa. Ma per ragioni ovvie, e che non è perciò necessario rendere esplicite, il divenire non può appartenere ali ' idea, il cui carat­ tere è infatti la fermezza, l ' intransitività, l 'eternità. Appartie­ ne, per definizione, alla cosa: con la conseguenza che, se diviene, è in quanto cosa, non in quanto idea, che l ' idea divie­ ne; e con l 'ulteriore conseguenza della contraddizione, della grave contraddizione, che a questo punto si rivela. Se infatti è in quanto «cosa» che l 'idea div iene , la contraddizione è evi ­ dente nello scambio che qui s i determina i n riferimento al soggetto del divenire, che è contemporaneamente indicato nel­ l ' idea e nella cosa. Ed è altresl evidente nella situazione che, in termini generali, qui si manifesta. Per diventare cosa, è neces­ sario, come si è visto, che l ' idea sia cosa, perché è a questa, e non a quella, che il divenire , in quanto tale, appartiene. Ma in questo caso è il divenire a risultare impossibile : la cosa infatti è, e non div iene , cosa (e se div iene , è in quanto cosa che diviene : il che esclude l ' inversa possibilità che, divenendo, divenga cosa). Perché il divenire fosse messo fuori questione, occorrerebbe che a divenir cosa fosse ciò che non è cosa; e dunque l ' idea; alla quale per altro di «divenire» è rigorosa­ mente vietato. Nel primo caso, per conseguenza (e dato che fosse altrimenti possibile), il divenire è inutile; nel secondo, è impossibile. È questa dunque la ragione essenziale per la quale è im­ possibile che, al pari del resto di ogni altra «idea» (che sul serio sia, e sia presa come, tale), la «grandezza in sé» divenga una cosa (grande), - e come «cosa grande» stia fra le altre cose grandi . Con che diritto, in effetti , pronunzieremmo un giudizio dal quale si ricavasse che l ' idea, ossia «ciò che è immortale e non passa», si fa ed «è» cosa, ossia «ciò che muore , passa», 1 19

esce dal circolo luminoso dell 'esistenza e, come immaginosa­ mente si suoi dire , entra, per non uscime più, nelle compatte tenebre del nulla? Se è cosl, la seconda ipotesi si svela come una pura contraddizione. Ed è questo, in sostanza che, nella sua modal ità specifica, l ' argomento del «terzo uomo» pone in rilievo: questo, ossia l 'impossibilità che, rimanendo per un altro verso idea, questa si faccia e sia una cosa. 23.

«Terzo uomo» , autopredicazione, predicazione

Via via che l ' analisi ha proceduto verso il loro centro, sempre di più le due ipotesi hanno rivelato quel che le accomu­ na; e non avevamo dunque torto a chiederci, nell ' iniziarla, se sul serio fossero due. Distinte per comodità espositiva e per ragioni di chiarezza, nella realtà del concetto che le sottende queste due ipotesi infatti non si distinguono, ma piuttosto si unificano : la seconda essendo al più un modo abbrev iato e più veloce di esprimere il senso e la direzione della prima. E poiché il punto è pacifico e non richiede ulteriore dimostrazio­ ne, si aggiunga allora che, ricostruito cosl , l ' argomento del «terzo uomo» dimostra che la contraddizione insorge quando e in quanto dell ' idea si pretenda che, oltre che di sé stessa, possa essere predicata delle cose (e costituisca il criterio del loro riconoscimento) . Più specificamente, e con maggiore esattez­ za, l ' argomento del «terzo uomo» dimostra che sia nel caso che, come unica forma possibile, ali 'idea si assegni l 'autopre­ dicazione , sia nell ' altro, che viceversa si ritenga di poterla predicare delle cose, - il risultato è la contraddittorietà dell ' as­ sunto : e cioè che di essa possa farsi il criterio per l ' interpreta­ zione e il riconoscimento della realtà empirica. Che l ' assunto sia contraddittorio nel primo caso è tanto più evidente quanto meglio si consideri che autopredicazione autentica si ha quan­ do si intende che la proposizione «la grandezza è grande» significhi, non che la grandezza è una «cosa grande», ma che la grandezza è la grandezza126• È indiscutibile infatti che, se questo è il senso dell ' autopredicazione e che soltanto di questo tipo è la predicazione che alla cj>ucrv; dell 'idea si rivela confa­ cente, allora è contraddittorio asserire che l ' idea può essere 1 20

predicata delle cose: l 'identità non può essere infatti predicata dell a molteplicità, né questa può essere predicata di quella. Che lo sia nel secondo, è del pari evidente . Se, predicandosi del moltepl ice, l ' idea entra nel molteplice, allora è molteplice; se è molteplice, non è idea, perché l ' idea è identità e non molteplicità. E perciò è contraddittorio assumere che, predi­ candosi del moltepl ice, l ' idea entri nel molteplice; senza dire che se, autocontraddittoriamente, entrasse nel molteplice e fosse perciò moltepl ice, non sarebbe più idea. Ma se fosse molteplice, e non idea, come potrebbe dirsi che l ' idea costitui­ sce il criterio in ragione del quale il molteplice è riconosciuto nei caratteri che le corrispondono? La questione della predicazione e dell ' autopredicazione richiede senza dubbio altri svolgimenti e molte , ulteriori preci­ sazioni . Ma, per quanto concerne l ' argomento del «terzo uo­ mo» , il punto essenzi ale è stato forse toccato: l ' assunto che le idee costituiscano altrettanti criteri d'interpretazione della realtà empirica è contraddittorio in relazione tanto ali 'autopredica­ zione quanto alla predicazione . 24.

Ancora sulla prima formulazione : 132 A 9-1 0

Sulla prima articolazione argomentativa e confutativa del «terzo uomo» l ' essenziale, per quel che sta in noi, è stato detto; e non resterebbe perciò che procedere ali ' analisi della seconda se non vi si desse ancora un «passaggio» al quale conviene forse prestare attenzione e conferire rilievo. A 1 32 A 1 0- 1 1 aÀÀo a pa etOOt; J.u:yé9ouç àvaljlav� O'E'tat, 1tap' a\m) 'tE 'tÒ JJ.Éye9oç yeyovòç Kaì. 'tà JlE'tÉXOV'ta a'Ò'toù , con estrema chiarezza Parmenide osserva che una nuova, o un 'altra, idea della grandezza si paleserà al di là della precedente e delle cose che ne partecipano ('tà JlE'tÉXOV'ta a'Ò'toù) e per questo, può aggiungersi, sono grandi. Ebbene, se è cosl, cercando di interpretare il senso di queste linee e, in particolare, dell 'e­ spressione 'tà JlE'tÉXOV'ta a'Ò'toù, dovrà dirsi che, con e nel suo insorgere, la nuova idea troverà dinanzi a sé, non solo l a precedente idea (della grandezza) e 't à JlE'tÉXOV'ta a'Ò'toù, le cose che ne partecipano, ma altresl il nesso che, comunque lo 121

SI mterpreti, ne consegue . In altre parole: l ' idea e le cose stanno bensl dinanzi alla nuova idea che, con il suo stesso insorgere, le include in un orizzonte: l ' orizzonte, in questo caso, che la grandezza delle cose grandi costituisce. Vi stanno, per altro, non come disparate e irrelate; ma come strette in quel particolare rapporto che ha nome J.!É9el;tc: . Se è cosl, qui forse può cogliersi l 'estrema radice della difficoltà che, prospettata e pensata con il criterio della «partecipazione», la dottrina delle idee rivela: - una difficoltà che, per altra via, già ci è nota. Poiché «partecipare di» significa bensl OJ.l.OlOV dvat 1 27? ; e di qui ricava la prima conseguenza: 1 3 2 D 9- 1 0 : 'tÒ ÒÈ OJ.l.OLOV 'tcQ OJ.l.Ol ({) àp' où J.l.E-yaÀ.Tl à.vayKTl ÉvÒc; 'tOÙ aÙ'tOÙ [dòouc; ] l28 J.l.E'tÉXELV 129?: e quindi dopo la prec isazione, presentata in forma interrogativa: où 8' àv 'tà OJ.l.Ota J.l.E'tÉXOV'ta OJ.l.Ota 1) , o ùx: èx:etvo Éa'tat aÙ'tÒ 'tÒ d8oc 1 30, l 'ultima, nella quale l 'argomento del «terzo uomo» si dispiega nella sua interezza : 1 3 2 E 6- 1 33 A 3 OÙK apa o16v 'tÉ 'tl 'tcQ elÒEl OJ.l.OlOV d Val, OÙÒÈ 't Ò dòoc aÀ.À.({)" et ÒÈ J.l.Tl , 1tapà 'tÒ EÌÒOC Ò.EÌ. aÀ.ÀO Ò.VaaV'T)O'E'tat EÌÒOC:, KClt àv èx:Etv6 'tq> OJ.l.OLOV 1) , hepov aù, x:aì. oÙÒÉ1tO'tE 7tm)ae'tat ciel. KCllVÒV EÌÒOC 'Ylyv6J.l.EVOV, f:àv 'tÒ ElÒOC 'tucw;, dissimili entrambi dall 'esser simili, ossia divers i : dissimili dali 'esser simili e diversi, e perciò identici. Ne consegue che, per un verso la partecipazio­ ne della simiglianza (che per sé è non simile a sé, ma identica) stabilisce, fra dOOt; e 'tà. Jle'téxov'tc:x mhoù, la differenza ir­ riducibile; e per un altro, invece, l 'identità. Ne consegue altre­ si che , anche per questa via, il logo ci ha ricondotti dinanzi a due identità che, identicamente altre, non sono altre ma, in realtà, identiche - a un 'unica identità, e quindi a un mondo o di idee senza cose, o di cose senza idee. Anche per questa via, si giunge dunque a ribadire la conclusione che per suo conto, e con i suoi modi tipici, il 'tpi'Toc; àv9pC01toc; consegue : - anche per questa via che, nella sua letterale diversità da quella trac­ ciata dali 'argomento, ne ripete tuttavia, e ripropone, lo spirito. 26. Ancora su J.LÉ8Eçtt: e autopredicazione A questa medesima conclusione si perviene, e con pari necessità, se la questione del «terzo uomo» sia di nuovo esami­ nata, anche qui in breve, sotto il profilo sia della predicazione che l ' idea fa delle cose (che ne partecipano) , sia dell ' autopre­ dicazione , ossia della predicazione che, in sé stessa, fa di sé stessa. In entrambi i casi, è impossibile sottrarsi alla contrad­ dizione. Sotto il primo profilo, la questione concerne essen­ zialmente il carattere della «cosa partecipata»; che, se è intesa come una sorta di sintesi, o, forse, meglio, di identità dell 'eter­ no e del transeunte, culminante e specificante sé stess a nel l ' as­ serto secondo cui l' «eterno è transeunte», oppure nell 'altro, analogo, in ragione del quale si dice che «l 'idea che è passata nelle cose passa con il passare di queste», è, in sostanza, una pura contraddizione («ciò che, per sua natura, non passa, pas­ sa»), la semplice semantizzazione di un ' impossibilità. Sotto il secondo profilo, posto che l ' idea sia l ' ide a e che il suo carat­ tere risieda perciò nel suo «esser sempre», nell 'eternità e indi­ visibilità, o come altrimenti piaccia dire, allora è evidente che l 'unica predicazione che questo carattere contempli e consen1 27

ta, è l ' autopredicazione, intesa nella forma del l ' assoluta 'ta1rr O 'tTJC:. Ma, intesa cosl, l ' autopredicazione significa che lo sdoppiamento dell ' idea è (già lo sappiamo) autocontradditto­ rio, e come tale, impossibile. Soltanto nel caso in cui la propo­ sizione «la bellezza è la bellezza» fosse intesa come «la bellez­ za è (una cosa) bella» , lo sdoppiamento predicativo sarebbe poss ibile (perché fondato sulla differenza, non sulla pretesa che, in quanto tale, l ' identità possa essere differenza, o compa­ tibile con essa); ma, appunto, anche qui a prezzo di una con­ traddizione, perché, come sappiamo, la «bellezza» che compa­ re nella posizione del «soggetto» è l ' idea, che, se è tale, lungi dal poter entrare nell 'ambito molteplice delle cose «belle» e qui farsi cosa e molteplicità, non coincide invece che con sé stessa. Ne consegue che , anche in questo caso, l a possibilità dello sdoppiamento predicativo non ha alcuna reale consisten­ za, e, ammessa verbis, dev ' essere ritirata. (Che poi nella se­ quenza «la bellezza è la bellezza, e non è una cosa bella», il «non è>> possa cel are la «differenza ontologica» , è possibile. Ma è una questione che richiede di essere trattata altrove, non qui). 27. Un' ultima osservazione sul -rpi-roç &v8pw;roç Ad un 'ultima osservazione, prima di cons iderare conclusa l ' analisi dedicata all ' argomento del «terzo uomo», conviene dare spazio: con rapidità, tuttavia, congiunta a molta cautela, perché estremamente arduo è proporre argomenti nei quali siano implicite questioni di cronologia platonica. La lunga digressione concernente la prima parte del Parmenide ha, co­ me si ricorderà, la sua ragion d 'essere in ciò che, avendo in questo dialogo criticato fino ali 'ul tima conseguenza il concet­ to della J..Lé 9EI;tc: , non solo nel tessere, in alcuni punti , il filo delle «ipotesi» e delle aporie, Platone tornò a servirsene, ma nel Sofista, che nella serie cronologica occupa , con ogni pro­ babilità, un luogo successivo, addirittura ne fece uno dei fon­ damenti dcii ' argomentazione consacrata ali 'operazione dia­ lettica. Come mai, sembrò legittimo chiedersi, dopo la critica, il ritorno, senza alcuna giustificazione, alla cosa criticata? 1 28

Ebbene, la questione è, come si è visto, tanto «reale» quanto, a risolversi, difficile. Ma si dà tuttavia, in questo medesimo contesto concettuale, e se ne avverte (o è come se se ne avverti sse) il suono, un altro tema al quale, come si diceva, conv iene dedicare attenzione; e questo è che in ciascuno dei suoi aspetti la grande impresa che Platone affronta nel Sofista può forse esser vista come il tentativo volto a dare una risposta positiva e costruttiv a alla critica, culminante ne11 ' argomento del 'tpi 'tOc; &vepronoc;, che nel dialogo intitolato al suo nome Parmenide aveva diretta contro la teoria delle idee, il loro «essere separate» e le conseguenze , infine, che ne deriva­ no. Malgrado l 'eterodossia eleatica intrinseca agli argomenti che Platone gli fa esporre, può infatti ben dirsi (e non è un paradosso), che, svolgendo la sua critica, Parmenide è come costretto a prendere atto del punto più acutamente critico della sua stessa dottrina, che infatti in che altro culmina se non nell ' impossibilità (in ogni senso analoga a que11a che si dà a vedere ne11a teoria de11e idee, da una parte, delle cose sensibili, da un' altra) che fra il regno de1 1 ' cH:r� 9eta e quello de11a MI; a, fra l 'ordine de1 1 'autentico essere, imperituro e indistrut­ tibile, e quello del nascere e del perire, si indichi il Kotvov e, quindi , il pass aggio? E questa è bensì , se si vuole (e come qui si propone), una critica che, mentre la dirige a Platone, Parme­ nide rivolge altresì a sé stesso. Ma è poi anche una critica rivolta a Platone e a11a sostanza (che non a caso è profonda­ mente parmenidea) del suo pensiero : con la conseguenza che ogni tentativo che egli intendesse compiere, e in realtà compis­ se, di criticare la teoria delle idee necessariamente dovev a coinvolgere il suo fondamento eleatico, ponendosi perciò, sen­ za possibilità di scampo, come un' autocritica136• Se è così , era inevitabile che il tentativo di superamento esperito nel Sofista dovesse innanzi tutto presupporre alla ra­ dice di sé stesso la caduta, o il tramonto, della separazione esistente fra le idee e le cose; della situazione concettuale, in altri termini , che l ' argomento del «terzo uomo» avev a tolto ad oggetto della sua critica. E lo strumento dal quale la caduta fu provocata ebbe ne11a teoria dei yÉVT\ la sua radice : nella teoria dei YÉvT\ , che degli eLÒT\ hanno bensì la necessità, non però anche l ' altro carattere del l ' assoluta separabilità e separazione 1 29

dalle cose, perché è appunto la distinzione fra dòTt e 7tpay­ JlCX'ta che tacitamente in questa rappresentazione dei yÉvTt è data ormai per superata, ali ' assoluta separabilità e separazione contrapponendosi e sostituendosi l ' arte dialettica del KOtvrovEtv, che tiene (o presume di poter tenere) legati i yÉvTt nella O'UJl7tÀOK� anche nel caso in cui la connessione (e la possibi­ lità di connettere) coesistano con la non connessione (e l ' im­ possibilità di connettere). È una questione complessa, questa; complessa ed esegeticamente difficile; e richiederebbe forse una nuova, speciale trattazione , tanto più che, come l ' analisi dedicata al nucleo dialettico del Sofista dimostra, nemmeno per questa via il tentativo platonico è riuscito a pervenire al suo scopo. S arebbe tuttav ia difficile lasciarsi sfuggire che in tanto a Platone il tema della Kotvrovia 'trov yEvrov s ' impose in quanto, ripensata attraverso l ' argomento del 'tpt'toc:; àvepomoc:;, la teori a delle idee gli apparve incapace di dar conto, senza contraddizione , non solo della possibilità che queste , le idee, entrassero in contatto con il mondo sensibile, ma altresì del loro contemporaneo essere identiche a sé e, non di meno, moltepl ici . In realtà, nel l ' atto stesso in cu i gli appariv ano come molteplici di numero, essendo tuttavia, ciascuna, un'i­ dentità (come il «Santo» , ad esempio, di cui nell 'Eutifrone si dice che sempre è identico a sé stesso in tutte le sue azioni 137), era impossibile che, ali ' occhio acuto di Platone , le idee non rendessero palese la questione del loro essere, sul fondamento dell 'identità, mol teplici : la questione, in sostanza, che, come si è detto, egli avev a svolta in forma aporetica mediante l ' argo­ mento del «terzo uomo» . Bastava, per questo, che , tenendo ferma l ' identità come il carattere di ciascuna, egli lasciasse scorrere l 'occhio lungo la linea costituita dal (dogmatico) succedersi delle «identità» che, in tal modo, contraddicev ano sé stesse nella molteplicità. E subi to avrebbe compreso quel che in effetti comprese, e cio� che se all ' identità e alla molteplicità si fosse voluto non dover «dire addio» (in questo atto anche della filosofia dichiarando l ' impossibilità) , non c ' era altra via all ' infuori di quella che conduce a provare «come» , invece che in un nesso contraddit­ torio, e autocontraddittorio, gli èvav'tia della 'ta{mhTtc:; e della É'tEpO'tTtC: potessero tuttavia essere posti in relazione e 1 30

comunicazione. Fu questo, come si sa, il tentativo che, nel Sofista, Platone esperì . E perché dunque meravigliarsi se in

esso additiamo la risposta che egli provò a dare all ' autocritica della quale l ' argomento del «terzo uomo» rappresenta il mo­ mento aporeticamente più intenso? In effetti , non c ' è in questa indicazione niente di cui ci si debba merav igliare : anche se, come si diceva, sia necessario aggiungere che, nel dare questa risposta e nel criticare , insieme con Parmenide, anche il suo precedente sé stesso, Platone non poté non far ricorso allo strumento della J.!Éed;tc: , ossia ad un concetto che, sorto nel­ l ' ambito della teoria delle idee per consentire che la loro «se­ parazione>> fosse in qualche modo «violata» dalle cose che ne «partecipano» , anch 'esso era stato colpito dalla critica del «terzo uomo» e non avrebbe perciò dovuto essere riproposto come idoneo a risolvere la contraddizione, della quale, in realtà, era parte.

28. Gli ulteriori argomenti . . . Malgrado l a spettacolarità e i l virtuosismo confutativo che lo caratterizzano, l ' argomento detto del «terzo uomo» non costituisce, nella varia critica che Parmenide rivolge alla teo­ ria delle idee e della partecipazione, l 'ultima parola. La critica, infatti , prosegue . Dopo avere egli stesso considerato chiuso il discorso concernente le idee e il loro «essere separate» dalle cose che ne partecipano; dopo aver invitato il suo interlocutore a guardare indietro al cammino percorso e alle difficol tà che, mentre si svolgev a, via via (e senza che nel contempo si sapes­ se indicare il criterio del superamento) si presentav ano allo sguardo, Parmenide avverte che, in realtà, della più grande e terribile ancora non si è preso atto. E la indica in ciò che, se le idee sono tali che, per essere «in sé» , necessariamente non sono, e non possono essere, «in noi» (ché, in questo caso, non «in sé» sarebbero, ma «in al tro»), allora non potrà sfuggirsi alla conclusione che , fra questi due diversi «in sé» (anche l ' «in noi» è infatti , rispetto ali 'altro, «in sé» ), la frattura e il divario sono incolmabili; e l 'unità dell 'universo, da una parte 131

l '«in sé», da un ' altra (senza possibilità di comunicazione) l ' «in noi» , giace in pezzi. Ebbene, forse che questa non è una considerazione interes­ sante e, nella strategia complessiva degli argomenti , d 'impor­ tanza addirittura essenziale? Tanto, in realtà, lo è che, nel formularla, l ' intento di Platone fu di conferire alla critica e ali 'autocritica delle idee la maggior forza. Di qui , infatti, fino alla fine del «proemio» , il crescendo degli argomenti rivolti contro la dottrina delle idee, e della loro «separazione» dalle cose, è sul serio impressionante. Coinvolge in sé la scienza, la verità, Dio, il destino stesso degli uomini . Poiché, d ' altra par­ te, non riguarda in modo specifico il centro della questione, che già è stato raggiunto, e, piuttosto, la svolge e la specifica nei suoi , pur importanti , corollari , ci si consenta allora di non seguirla, questa critica, punto per punto; e di darla per nota. Non può invece non rilevarsi che il momento della più alta drammaticità questa indagine platonica lo consegue là dove, invertendo il senso della critica e proponendo una sorta di apologia negativa della cosa criticata , Parmenide osserva che se, senza alcuna possibilità di alternativa, alla prima si dovesse consentire fino in fondo, e da essa fossimo perciò costretti a dire che le idee non esistono e, meno che mai, si dà, per ciascuno degli enti , un' idea che determinatamente gli corri­ sponda, allora, certo, la disperazione sarebbe completa, non sapremmo più dove rivolgere il pensiero e infranta per sempre gi acerebbe la 'toù ùtaÀÉyecreat ùuvaJ,.Ltc:, l 'energia o l a forza della dialettica. Ti oùv 1t0t "'cret< tÀ.ocroia< nÉpt; 7t1j 'tpÉ'lfll àyvoouJ,.LÉvrov 'tO'\hrov 138? E, come ciascuno intende, la do­ manda è altamente drammatica: certo non è formulata per gioco. A esserne coinvolti sono la sorte stessa della filosofia, e il destino di chi pensa. Se è un gioco, è perciò un ben drammatico gioco quello che si è svolto fin qui; un gioco drammatico è quello che sta per avere inizio. L' esercitazione dialettica nella quale, a partire da questo punto, il di alogo si risolve, può essere, a ragione, considerata enigmatica nella sua quasi ostentata incapacità conclusiva, non scevra, forse, di ironia. È certo, per altro, che ad essa sono cons apevolmente affidate, e da Parmenide e da Socrate, in questo concordi, le sorti stesse della filosofia. 1 32

29 .

...

e il loro svolgimento

L' argomento detto del «terzo uomo» è da Socrate conside­ rato forte abbastanza da indurlo ad abbandonare il suo logo e a proporne uno nuovo che , d' altra parte, e lo abbiamo notato, impl acabile Parmenide criticherà. La prima formulazione del­ l 'argomento detto del «terzo uomo», e cioè la (presunta) dimo­ strazione del l ' idea data e concepita come «una» gli ha in effetti prodotto dentro una tale impressione che, qu asi rico­ minciando da capo, egli ora propone di considerare le idee come tali che ci ascuna sia un VOllJlCX, un pensiero, Kat ouoaJloù a'Ò'tù) 7tpocrT\ K1J èyy{yvecr9at àÀ.. À.o. 9t ,; Èv 'l'uxak : di natura siffatta, dunque, che non possa esser nata altrove che nelle anime139• Gli sembrava che, in tal modo, al precedente rilievo parmenideo potesse sfuggirsi . Ma, ancora una volta, si ingannav a e s ' illudev a. La risposta che il suo interlocutore a questo punto offre è velocissima; e nel l ' estrema concentrazio­ ne in cui , 12er cosl dire, si raccoglie, non facile ad essere ricostruita. E presentata, tuttav ia, come irreversibile. Alla tesi socratica, che ciascuna di queste idee non è che un VOllJla, nato e quindi incluso nell' anima, Parmenide ribatte che, se fosse cosl , il pensiero sarebbe VOllJlCX o uoevoc: 140 , «pensiero di nulla» . E poiché il suo interlocutore ammette che questo non può essere, ed è assurdo, subito lo invita a considerare che di necessità, se non è pensiero di nulla, il pensiero è pens iero di qualcosa, e di esistente, per giunta, non di inesistente: di un oggetto, in altri termini , che, alla maniera di un' idea, esso, il pensiero, concepisce come presente in tutto141 • Ma, poste le cose secondo questa specifica modalità concettuale, Parmeni­ de (che cosl, appunto, ha contribuito a perle) è pronto a far scattare la critica; la quale consiste nel rilievo secondo cui, poiché ogni cosa viene definita come tale che partecipa 't>, moto e quiete partecipano dell 'essere, e posto altresì che, al pari dell'essere, sono 'YÉVll , e non semplicemente «cose» , oggetti , c 'è qualche ragione per assumere che solo per questo, - per il fatto di questa differen­ za, la dottrina della partecipazione presentata nel Sofista sfugge alle critiche formulate nel «proemio» del Parmenide? Oppure deve dirsi che , sarà bene che, come "(ÉV11 , moto e quiete non sono oggetti , ma che come tali tuttav ia si comportano, e debbono comportarsi , nel quadro di un' assunzione concettuale il cui criterio sia costituito, appunto, dalla teoria della partecipazio­ ne? Che in questi , e non in quei, termini, la questione stia, sembra in effetti pacifico. Sia pure un problema, infatti , e non una certezza, che ali ' essere debba riconoscer si il carattere del «genere sommo» , e soltanto «generi», non «generi sommi», siano per contro i yév11 , il moto e la quiete, che, senza esserne partecipati, ne partecipano. Ma se si fa che dell 'essere il moto e la quiete partecipino, allora è evidente che, in questo atto , a ciò di cui partecipano essi stanno, e necessariamente debbono stare , nella stessa proporzione in cui , rispetto ali 'idea, stanno gli oggetti : a quel modo stesso, deve dirsi, che se dal dialogo platonico risultasse che (e come che sia delle altre complica­ zioni intrinseche a questa ipotesi) anche l 'essere partecipa del moto e della quiete, a questi allora, e non a quello, apparterreb­ be, in questo atto, il carattere del «genere sommo». Se per altro è così , e pur sempl ificando qui ed ora la trama delle difficoltà, la conseguenza è che la critica rivolta, nel «proemio» del Parmenide, alla teoria della partecipazione, anche a questa situazione concettu ale può essere , e con pieno diritto, riferita. Che sia così è, dunque, evidente. Ma, quale che ne sia il motivo, a queste complicazioni, nel Sofista Platone non bada: il che gli consente di svolgere una ricerca, e di innalzare una costruzione, alle quali addirittura non avrebbe potuto metter mano se, a quei temi, fino in fondo avesse prestato ascolto. È una circostanza singol are, questa, alla quale, al di là del gioco (forse vano) delle precedenze, non sarebbe dopo tutto stato male se si fosse concessa maggiore attenzione concettuale. È infatti alla radice stessa dell 'operazione dialettica, ossia nel criterio che la costituisce e la rende possibile; - è dunque nella f.!Éed;v; e nella teori a che Platone ne delinea, che si annidano

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le difficoltà: quelle, si vuoi dire, dalle quali, invece che «pos­ sibile» , essa è resa incerta, precaria, anzi schiettamente impos­ sibile.

3 1 . L' uso della J1É8Egtt: Come mai, dunque, dopo aver criticato nel «proemio» del Parmenide e la teoria delle idee e lo schema formale della

«meressi», - come mai, dopo esser giunto a dire che J.L'T1'te lW'tà. J.LÉ P11 J.L'T1 'te Ka'tà. oÀa le cose possono 'tcilv dòrov J.LE'taÀaJ.L�avetv 149, e, con l ' argomento detto del «terzo uo­ mo» , aver fornito di questo insieme di dottrine una critica giudicata irresistibile, - come mai , si ripete , se non formal­ mente la prima, nel Sofista Platone torna a presentare il se­ condo 1 50; e cioè lo schema partecipativo, del quale anzi, come se niente fosse, a tal punto si avvale da farne il centro ideale della pars construens, e risolutiv a, del dialogo? Rispondere a questa domanda è, come si è detto, difficile; e tanto più lo è in quanto si consideri che, anche nel Parmenide, dopo averlo criticato nel «proemio», dello schema formale della «metessi» il protagonista del dialogo si serve per tessere il lungo filo aporetico delle ipotesi. Se ne serve , si vuoi dire, non già per­ ché, tenuta ferma la sua aporeticità abbia a giudicarsi che, in tanto le «ipotesi» rivelano il loro volto aporetico, in quanto, appunto, proprio dall 'aporeticità dello schema procedono e di questa sono conseguenza. Se ne serve, al contrario, perché, nella concretezza del ragionamento volto a far emergere l 'apo­ ria intrinseca alle ipotesi, lo schema partecipativo si rivela come lo strumento, in sé (si presume) niente affatto aporetico, mediante il quale lo svelamento dell 'apori a consegue il suo proprio traguardo. Si dirà che questa non è una risposta. S ia pure : non è una risposta. Non attinge il fondo della questione . Produce «incon­ venienti» e, non adducendo ragioni, non risolve l ' argomento. Ma, senza nulla concedere a schemi interpretativi di gusto catastrofico, e, certo, non indulgendo noi, per abito mentale, a quella che potrebbe dirsi la «maniera» di Henry J acksoni S I , è tuttavia difficile non convenire sul punto che qui è stato messo

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in rilievo; e cioè che alcuni degli argomenti addotti contro la teoria delle idee e lo schema della «metessi» sono tali da non consentire che all 'una e ali ' altro si tomi come se la potenzia­ lità critica e distruttiv a che li caratterizza non si fosse per intero esplicata nella sua irresistibilità. Potrà dirsi, senza dub­ bio, che, come il passaggio dal «proemio» alla seconda parte del dialogo dimostra, di ciò che, e con tale energia, avev a criticato, Platone non potev a fare a meno. Rimane che , in alcuni suoi aspetti , la critica si rivela assai più forte della cosa criticata; che a nessun titolo, dunque, se si rimanesse sul terre­ no della filosofia, potrebbe pretendere ad una difesa e ad una rivalutazione, concettualmente intonate. E questa è una con­ clusione obiettiva, ricavata, si vuoi dire, dall' analisi del con­ cetto, non dalla divinazione degli intenti : una conclusione obiettiva, dunque, e che tanto più richiede di essere sottoli­ neata e tenuta ferma, in quanto, consapevole della gravità delle critiche mosse da Parmenide alla dottrina delle idee e della partecipazione, Pl atone si mostrav a tuttavia convinto che ri­ presentarla, e serv irsene, fosse, per chi avesse a cuore la filo­ sofia e la forza del suo logo, indispensabile15 2 • 32. La formulazione del tema dialettico E veniamo, finalmente, ali 'operazione dialettica, o, se si preferisce, alle condizioni che la rendono (o dovrebbero ren­ derla) possibile ; e che, come sappiamo, nell 'opinione del Fo­ restiero d 'Elea consistono nell 'avvertimento che , rispetto alle due ipotesi opposte del l ' assoluta incomunicabilità e, per con­ verso, dell 'assoluta comunicabilità, e varia componibilità, del­ le cose, la più assurda è la prima, - ossia quella di coloro che in nessun modo consentono che una cosa partecipi , e possa partecipare, della condizione di un ' altra. Nel mettere in atto questa esclusione , i pensatori che ne proclamano la necessità non s ' avvedono infatti che, in tanto «esclusioni», separazioni e consimili esercizi logico-concettuali sono possibili, in quan­ to, nel discorso in cui occorrono, ci si serv a di espressioni di opposto significato, e non di esclusioni e separazioni si faccia u so, ma di «inclusioni» e «connessioni»153• Accade cosl che, 1 38

nel comportamento che mettono in atto, simili in questo al ventriloquo Èuricle, il contraddittorio essi lo tengano, senza saperlo, celato in sé stessi; e che altresl lo presuppongano, e perciò, per cosl dire, se ne facciano guidare, dando luogo, in tal modo, alla confutazione di sé stessi. Non assoluta separa­ zione , dunque; perché, in questo caso, di niente potrebbe aver­ si intelligenza. Ma neppure il contrario : ché se tutto avesse comunione e comunicazione con tutto, ecco allora (e a osser­ varlo è lo stesso Teeteto) che il moto si fermerebbe nella quiete , questa si muoverebbe e sarebbe moto; e di nuovo, proprio come nell ' altra ipotesi, alla mescolata comunicazione del tutto con il tutto niente altro corrisponderebbe che l ' impo­ tenza del logo a comprenderla e a conoscerla. È a questo punto che l 'esito catastrofico al quale, concordi, queste due opposte vie conducono, fa scattare, per intrinseco contrasto, l 'esigenza dell 'ipotesi intermedia, ossia del vero criterio specul ativo al quale, nella sua pars construens , il dialogo si ispira. E, certo, la struttura complessiva di questo argomento richiederà, fra breve, qualche commento : non pri­ ma, per altro, di aver rilevata , a proposito della seconda ipote­ si, la difficoltà logica che, ove la si scruti in relazione alla prima, vi appare evidente. A confutazione della prima ipotesi, - che tutto fosse separato da tutto, il Forestiero d 'Elea aveva affermato le ragioni che, direttamente o indirettamente, parla­ no in nome, e a favore, della connessione. Ma, nel criticare l a seconda, s i limita a d accogliere il suggerimento d i Teeteto relativo al necessario fermarsi , se a questa ipotesi si tenesse fermo, del moto, e, per converso, al non meno necessario muoversi della quiete. E questa è un 'osserv azione bensl acuta, ma parziale; e tale infine che, per conseguenza, contro la sua intenzione, finisce col ripresentare, in sé sussistenti e indipen­ denti , i 'YÉVTl che si pretende vi si siano «confusi». È evidente, infatti , che, se si assume che, ogni cosa avendo comunicazione con ogni altra, il risultato è la «confusione», è bene perché ogni cosa viene per un attimo presa nella sua autonomia e distinzione, e al di qua, quindi , del suo «confondersi» con le altre, è bene per questo che la «confusione» può aver luo­ go 1 54. In tanto, insomma, la «confusione» può aver luogo in quanto, a fondamento della sua possibilità, si ponga, e si man-

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tenga, il suo contrario: ossia la distinzione , ali 'origine, delle cose che, poi, si confondono. Il punto è delicato; e contro la possibilità di (per altro) facili fraintendimenti , occorre, al ri­ guardo, precisare che, certo, sarebbe gravemente errato sup­ porre che fra «distinzione» e «confusione» si dia qualcosa come uno scarto cronologico, e, quindi, una «successione>> : come se nel subentrare alla «distinzione», l a confusione ne prendesse il posto e, o la «annullasse» , o la ric acciasse indie­ tro, nell 'inattualità del passato. È vero invece che, struttural­ mente, la possibilità della confusione riposa sulla possibilità, e la persistenza, della distinzione; e che è proprio in quanto conservano, ciascuna, la propria specifica identità ontologica, che le cose possono «confondersi» . Queste considerazioni sono, salvo errore , importanti; e tanto più , in effetti , meritano di essere tenute presenti in quan­ to aiutano ad affisare un punto logico al qu ale non si suole, in genere, guardare con sufficiente attenzione. Il punto al quale deve prestarsi attenzione è che fra l ' asserto secondo cui «mo­ to» e «quiete» sono contraddittorii, non hanno nulla in comune o, se si preferisce, sono privi di ogni Kotvrovia, e l ' altro as­ serto secondo cui se si confondessero, e quindi stessero «insie­ me» , sarebbero contraddittorii , c ' è assoluta incompatibilità; e prender li (come talvolta accade) «insieme», facendo d eli 'uno il fondamento dell 'altro, è, in senso forte , impossibile. B asta infatti che l 'argomento sia considerato con rigore, e spinto verso le sue conseguenze, perché subito si faccia chiaro che, pensata sul fondamento della «confusione» , la contraddizione non è contraddizione. Se, come il testo suggerisce, la confusio­ ne comportasse il muoversi della quiete e, simultaneamente , il fermarsi del moto, avremmo in realtà tutt 'altro dalla contrad­ dizione. Avremmo infatti , non solo la quiete (in luogo del moto) e il moto (in luogo della quiete); ma avremmo altresl che proprio perché, come si assume, questo scambio si produ­ ce in simultaneità, e tuttav ia si produce, proprio per questo dal suo prodursi la simultaneità sarebbe divisa in sé stessa e resa successiva. Non è forse vero che alla quiete che si muove e, in quanto tale, è moto, segue, o se si preferisce la metafora spaziale, si affianca, il moto che si ferma e, in quanto tale, è quiete? Ne deriva che , contro ogni diversa apparenza, la dedu140

zio ne messa in atto dal Forestiero d 'Elea non regge e non conclude. La deduzione dice : se tutto si confonde con tutto, l a quiete e il moto si contraddicono i n s é stessi, dando luogo ad un moto che si ferma e ad una quiete che si muove: ad un moto, quindi (ed è qu i che il logo non controlla più sé stesso), che è quiete , e ad una quiete che è moto. Ma, come si diceva, l a deduzione non conclude; e i n tanto la contraddizione non ha luogo in quanto nello spazio e nel tempo, ossia nella simulta­ neità resa successiva, i due termini (il moto e la quiete) coesi ­ stono, e seguitano a coesistere, nel continuo e ininterrotto scambio del loro carattere costitutivo; che perciò, ininterrotta­ mente, si ricostituisce. Perché alla «contraddizione» possa darsi luogo si richiede, in realtà, altro. Si richiede, non già che il moto si fermi, e «sia» quiete , e che questa si muova, e «sia» moto: si richiede bensl che, persistendo come moto, questo sia quiete, e che, nel per­ sistere come quiete, questa sia moto. Si richiede in altri termini che la simultaneità sia simultaneità, non sia resa successiva, ed ospiti, ciò non astante, la dualità dei termini : si richiede , in poche parole , l 'impossibile, - ossia che la contraddizione, che è impossibile, sia possibile, e di essa possa parlarsi come di una «realtà», di qu alcosa insomma che sia in possesso di uno status antologico. O, se si preferisce dire cosl, si richiede che, essendo in sé stessa simultanea e non successiva, la simulta­ neità sia successiva e non simultanea. Se, per altro, la simulta­ neità fosse, in sé stessa, successiva e non simultanea, e della «contraddizione» , che è impossibile, potesse non di meno par­ larsi come di un «qualcosa» che abbia un «sé stesso» e a cui sia perciò attribuibile uno status, la contraddizione non sarebbe contraddizione; e questo è lo svolgimento che occorre impri­ mere al discorso. Ammesso che la contraddizione sia «qualco­ sa» , ed abbia uno status che possa perciò essere riferito al suo «essere», del suo «qualcosa>>, del suo status e del suo «essere» sarebbe impossibile, e contraddittorio, negare l ' incontraddit­ torietà. E perciò deve assumers i che parlare della contraddi­ zione , ossia del supremamente impossibile, è aouvc:x-rov , im­ possibile. Impossibile è fame l 'oggetto di un discorso; e anche di un discorso che la neghi e la dica impossibile, perché negar­ la e dirla impossibile si gnifica antologizzarl a, prenderla, auto141

contraddittoriamente, come «possibile» , conferirle l 'essere (che si dice impossibile conferirle e riconoscerle155). Il che ulte­ riormente significa che, essendo impossibile (e autocontrad­ dittorio) affisarla «in sé» (perché l ' «in sé» della contraddizio­ ne è impossibile che non sia incontraddittorio), soltanto nel rinvio alla «Contraddizione» che insorge nell ' atto in cui se ne parla, questa, la contraddizione, consiste156• Ma, dopo averv i accennato, non è necessario, questo argomento, condurlo alle estreme conseguenze : almeno in questa sede, dove, se mai, occorre precisare che , al di là di quel che nel suo logo permane di non pensato e di non chiarito, c 'è tuttavia, nell 'assunto del Forestiero d 'Elea, qualcosa come il presentimento della estre­ ma difficoltà che questo giro di questioni racchiude in sé. Il modo in cui il x:ot vrovdv e il J.nì x: m vrovetv dei 'YÉV11 sono stabiliti rivela senza dubbio, nell ' argomentazione che lo con­ cerne , qualcosa di estrinseco, di non necessario, di presuppo­ sto e non dedotto : nel senso che è dalla pura analisi dei yÉVTJ , non dalla necessità del loro costituirsi , che il Forestiero ricava la ragione del loro x:otvrovdv e JllÌ x:otvrovdv. Ma nel di­ chiarare la non compossibilità di x:tVll crtC e cr"tacrtc Platone era tuttavia guidato dalla consapevolezza che il rapporto dei yÉVTJ della quiete e del moto non è di puri contraddittorii, forse anche che il loro non è un rapporto: e occorre rilevar lo perché, quando si tenga fisso lo sguardo alle implicazioni della cosa intorno alla quale in questo dialogo si affaticò, non può esclu­ dersi che alla radice del diverso rapporto che egli intrecciò, o cercò di intrecciare, fra i «generb> operi la divinazione del carattere autocontraddittorio della pura contraddizione. 33. Il comportamento anomalo di 1d.VT]01t; e araaK e un ca­ rattere paradossale della Kat vwvia dialettica Il che per altro non toglie che, dopo aver dissertato in questi termini sulle conseguenze, o le impl icazioni, filosofi­ che, che il concetto della «contraddizione», e l ' altro dell ' «im­ possibilità» (che ambiguamente la sottende), contengono in sé, occorra giungere, a questo riguardo, ad un 'ulteriore deter­ minazione; e, dato (e non concesso) che l ' idea della «contrad142

dizione» sia costruibile e prospettabile nella forma dell ' «im­ possibilità>> (ossia in modo tale che del moto e della quiete si dice che , stretti in un rapporto, è «impossibile>> che stiano in questo medesimo rapporto), chiedersi se sia senz ' altro impos­ sibile, e cioè contraddittorio (oppure : se sia contraddittorio, e cioè impossibi le) il rapporto che, se si stringesse, stringerebbe quiete e moto. Detto in altri termini. Il Forestiero d ' Elea asse­ risce che se fra «moto>> e «quiete» si desse un rapporto, a caratterizz arlo sarebbe la contraddittorietà; e che perciò è im­ possibile che fra moto e quiete si dia un rapporto. Ma è proprio vero che , nella obiettività del suo ragionamento, a questa linea egli rimanga fedele, e che, al contrario, fra moto e quiete non finisca per dischiudere una qualche (non confessata e non voluta) possibilità di rapporto? Il punto è delicato (e, come si vede, non privo di qualche faticosa compl icazione intrinseca). Ma dev 'essere affrontato perché è di essenziale importanza; e per cominciare a svolger­ lo, si osservi allora, innanzi tutto, che per un verso nel suo ragionamento il Forestiero d ' Elea esclude che fra il moto e la quiete possa darsi un rapporto, perché, se si desse, la conse­ guenza ne sarebbe la contraddizione , ossia (si badi) l ' impossi­ bilità, per l 'uno e per l ' altra, di «essere» nel rapporto (che verrebbe dunque, esso stesso, ad essere impossibile). Ma, per un altro, il personaggio è pur costretto ad almeno in parte contravvenire al suo asserto, e ad ammettere quel che avev a negato. Lo si vede, infatti, e si arriva a comprenderlo, se si considera che, incomunicanti fra loro e privi perciò di ogni Kotvov, il moto e la quiete partecipano tuttavia, non solo dell 'essere, ma anche, e il Forestiero esplicitamente lo asseri­ sce, dell ' identico e del diverso (255 B 3 J.l.E'tÉXE'tOV J.l.ftV ÙJ.l.ro -raù-roù Kat ea-rÉpou), ossia di quei yÉVT\ che alla quiete con­ sentono di essere la quiete e non il moto, e a questo di essere il moto e non la quiete. Se per altro, distintamente e non Kot v'ij-, il moto e la qu iete partecipassero dell 'identico e del diverso, dovrebbero altresl partecipare di ciò che questi due 'YÉVT\ hanno in comune, e che ad essi viene invece negato; e questo è il Kotvrovdv, il reciproco contatto. Ma a questa con­ seguenza che, se tratta con rigore , avrebbe complicato non poco la linea del suo logo, il Forestiero d ' Elea non perviene. 143

La «diversità», dalla quale il Kotvrovetv e il J..I.Tt Kotvrovetv traggono, o piuttosto dovrebbero trarre, la loro ragion d'esse­ re , non viene né spiegata né tanto meno, e in un qu adro così ricco di ambizioni deduttive, dedotta. È semplicemente antici­ pata alla dimostrazione della sua possibilità. E questo, per la verità, è procedimento irrazionale : sul quale, per altro, l 'edifi­ cio della dialettica viene innalzato, e l 'essere di Parmenide trasgredito e violato. Detto questo, può passarsi a cogliere, ed indicare, il carat­ tere «paradossale» che alla relazione dialettica si rivela intrin­ seco. Formalitater spectata, la > , o nell 'inversa, «la quiete "non è" moto>> , indica piuttosto la contrarietà che non l a contraddi ttorietà. E allora? S e fra moto e quiete non si dà contraddittorietà, e nemmeno , d ' altra parte, contrarietà, che cosa si dà fra moto e quiete? Che cosa esprime il «non essere» l 'uno l ' altra? Se è così, e alla domanda formulata qui su il testo non consente alcuna decisiva risposta, è necessario allora ribadire che uno degli elementi sui quali la O'UJ.l7tAoKll si regge, e fonda la sua possibilità, presenta un carattere di forte, e anzi fortissi­ ma, indecisione strutturale; che con la maggiore evidenza ri­ salta quando, ad esempio, si consideri che, essendo un rappor­ to di «diversi», reso possibile dalla Kotvrovta di alcuni YÉVTI e dalla non Kotvrovta di altri, anche quest'ultima, la non Kotvro­ v{a, l a O'UJ.l7tÀOKll dovrà includere dopo averla in qualche mo­ do assunta come uno dei fondamenti dell a sua stessa possibi­ lità. Se per altro la O'UJ.l7tÀOKll è un rapporto, e certo nient' altro è la O'UJ.l7tÀOKll se non un rapporto; se, ulteriormente, la sua possibilità di esser tale è fondata non solo sul rapporto, ma anche sul «non rapporto» , dei yÉVTt , questo allora viene ad es­ sere incluso nel rapporto che, includendo a sua volta il rappor­ to e il non rapporto, si presenta con il volto della O'UJ.l7tAoKll . Ne consegue che se il «non rapporto» entra, con il rapporto, nella O'UJ.l7tÀOKll , ossia nel più ampio rapporto che ha nome O'UJ.l7tÀOKll e in cui ogni rapporto e «non rapporto» entrano, anche quest'ul timo (il «non rapporto») deve stare in essa come un elemento e, dunque , come un diverso. Ma se, standovi come un diverso, vi stesse come un «contrario non contraddit­ torio» , come mai allora, rispetto al «rapporto», il «non rappor­ to» configurerebbe una assoluta alterità? Se per altro è così, questo è allora l ' indizio della persistente difficoltà, o anoma­ lia, intrinseca al criterio mediante il quale l ' intreccio dei «ge­ neri» è stato pensato e descritto dal Forestiero d 'Elea. 34. La dialettica come superamento dell' aporia E fermiamoci, giunti a questo punto, sulla struttura dell ' ar­ gomentazione che, aprendosi (o cercando di aprirsi), fra queste 145

v arie difficoltà, il suo spazio, dischiude, o cerca di dischiude­ re , a giudizio di Platone, la possibilità del superamento dell ' a­ poria. La esamineremo, sia pure con relativa brevità, sotto due distinti profili: concernente , il primo, quel che in essa sembra presentarsi nella forma di una sorta di «principio del terzo escluso» ; rigu ardante, il secondo, la relazione che in concreto vi si stabilisce, o vi risulta stabilita, fra l ' aporia e il suo supe­ ramento. E si cominci, naturalmente, dal primo. Dice , con molta chiarezza, il Forestiero d 'Elea: 252 E 1 -2 KCll J 11)V EV "{É 'tl 'tOÙtroV UVCl"{KCllOV, Tl 1tciV'tCl Tl J.lllÒÈV Tl 'tà J.lÈV È9ÉÀ.etv, 'tà òè J.llÌ crUJ.lJ.letyv oo 9at . Nella sua articolazio­ ne, l 'argomento esibisce una necessità, una avci"{Kll , o un avayx:atov , che esclude il contraddittorio: una verità il cui , carattere è di escludere il falso. E l avayKatov del quale si parla affermando che, delle tre ipotesi prese in esame , una è «necessaria», e dunque vera, e le altre no, questo, in effetti, significa : significa il suo esser vera a differenza delle altre che, corrose dal loro stesso interno contraddirsi, inesorabilmente sono fal se. Ebbene, che, presentato così, l ' argomento dia luo­ go a qualcosa come una «esclusione del terzo» , risulta, se ci si fa attenzione, evidente. Apparentemente, si ha qui la presenta­ zione di tre ipotesi, o, se si preferi sce, di tre tesi , delle quali due cadono, e si rivelano false, e una emerge come la vera: sì che, da questo punto di vista, sembrerebbe impossibile ricon­ durre la struttura conferita ali ' argomento a quella delineante il principio del terzo escluso, che di due termini consiste, non di tre, il terzo ri sultando appunto, di necessità, escluso. Non occorre dire, infatti , che due, e non più di due, sono i termini mediante i qu ali questo principio si articola: essendo evidente che fra la verità dell 'uno e la falsità del l ' altro il «terzo» è bensì «nominabile» , ma, appunto, soltanto come «impossibile» . Nella sostanza, per altro, le cose non vanno, in nessun modo, così . Non sarà il caso, in questa sede, di sottilizzare su un punto che, in un ' altra e più propizia, potrebbe addirittura rivelarsi essen­ ziale; e cioè sul senso che, nel suo essere escluso, e proprio perché escluso, il «terzo» viene ad assumere nella costituzione formale del principio che ne vieta la possibilità, o, se si prefe­ risce, lo proclama «impossibile» . Il nesso che, in tal modo, e per tale via, si stabilisce fra «nominazione» e «impossibilità» ..

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(del terzo) è assai delicato, ricco, anzi , di complicazioni e di asprezze; e senza indagame di proposito l a natura specifica, converrà tuttav ia tener la sullo sfondo, allo scopo, se il discorso sia per richiederlo, di poteme, al momento opportuno, richia­ mare il tema . Ma, contro l ' apparenza che tre , e non due, siano le tesi che si articolano nell ' argomento delineato dal Forestie­ ro d 'Eiea, non può invece non osservarsi che, nella sua realtà effettiva, e al di là, quindi, di ogni formale apparenza, le tesi che vi si contrappongono sono due, non tre; e, come l 'una è vera e I ' altra falsa, così non si dà, fra esse , l a possibilità del terzo. L'osservazione apparirà capziosa, perché, proprio nel suo essere intermedia fra le due contrapposte affermazioni della comunicabilità e dell ' incomunicabilità (di tutto con tutto), la tesi difesa dal Forestiero d 'Eiea ritrova il suo carattere proprio di verità; e tanto più, in effetti, può apparire capziosa, e, in ultima analisi, errata , in quanto, se il principio del terzo esclu­ so vieta, appunto, che il terzo, e l ' intermedio, giungano mai a costituirsi, proprio come un terzo, e un intermedio, questa pretende invece di atteggiarsi e, secondo il giudizio del Fore­ stiero d'Eiea, si atteggia. Ma capziosa l 'osservazione non è affatto : meno che mai, errata. Quello dell 'intermedio è, in filosofia, un assai arduo concetto; e non è detto che, a ben studiarlo, si riveli pensabile e possibile 1 57• È evidente infatti che il tentativo che si compia di istituirlo non può aver luogo se non alla condizione che due, ed entrambi reali, siano i termini fra i quali I ' intermedio è, in effetti, intermedio: ché se, per contro, questa dualità si rivelasse fittizia, in che senso, e sopra tu tto, con qu ale diritto segu iteremmo a parlare di un «terzo» e di un «intermedio»? Di un terzo, si vuoi dire, e di un intermedio, non esclus i, bensì, piuttosto, inclusi nell 'argomen­ to e tali da articolarne la specifica struttura? Ma, a guardar bene , i termini qu i non sono affatto due; e in tanto, nella sua effettu alità, I ' argomento delineato dal Forestiero d 'Eiea si pre­ senta come una (implicita) formulazione del principio del ter­ zo escluso, in qu anto, se delle tre tesi che costituiscono la stru ttura dcii 'argomento due sono certamente autocontraddit­ torie, e dunque false, di entrambe allora può e deve dirsi che, identiche I 'una all 'altra nell 'essere del pari autocontradditto147

rie, il loro destino strutturale è, o di ridursi ad una, o, se si preferisce dire così , di non essere mai state due. Ne consegue che se uno, e non duplice, è il termine che le simboleggia, non a due termini, ma ad uno, la così detta tesi intermedia (che tale dunque non può essere) si contrappone come la tesi vera. E l 'ulteriore conseguenza è che, mentre ogni apparenza di triplicità si rivela per tale, ossia come apparenza, e si dissolve, la dualità dei termini viene altresì a configurarsi come la pura e semplice opposizione del vero e del falso, fra i quali, appunto, secondo la legge enunziata dal principio, tertium non datur. 35. Kot vmvia e non Kot vmvia dei yéV1}: considerazioni e svolgimenti

La questione che si è posta potrebbe, naturalmente, essere approfondita ben oltre questo limite (che, per altro, converrà in questa sede non ol trepassare). È necessario infatti dar corso ali 'altra cons iderazione che la struttura intrinseca ali 'argo­ mento addotto dal Forestiero d'Elea richiede. Come si ricorde­ rà, la sua analisi si era esercitata sulle opposte tesi della sepa­ razione e della connessione del tutto; e poiché entrambe ave­ vano dato luogo al rilievo d 'inconcepibilità, era ad una terza, e intermedia, che, per superare l ' impasse , egli si era rivolto. Che nessuna cosa abbia Kotvrovia con un' altra, o con le altre, è altrettanto falso del caso inverso, - che tutto comunichi , e possa comunicare, con tutto. E la verità è dunque che, come accade per le lettere dell ' alfabeto, che talvolta (nelle parole della lingua greca) si combinano e altre volte no, in alcuni casi i «generi» comunicano e partecipano l 'uno de l i ' altro, in altri non partecipano e non comunicano, e così , partecipando e non partecipando, comunicando e non comunicando, danno luogo ad un sistema articolato e connesso, la cui unità e assolutezza proprio dalla non assoluta separazione e dalla non assoluta connessione è garantito. Ebbene, formalmente considerato, questo argomento si rivela non poco problematico. È evidente, in primo luogo, che nel suo ril ievo specifico la tesi emergente come vera, in tanto è tale, in qu anto appunto a farl a emergere è l ' autocontradditto-

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rietà intrinseca alla tesi opposta, relativa all ' assoluta separa­ zione e ali 'assoluta connessione . E non per caso, a ritrarre questa situazione ci si è serviti del verbo «emergere»; che in effetti dà bene l 'idea alla quale qui deve conferirsi rilievo: l 'idea, si vuoi dire, del contatto che, alla radice di sé stesso, «ciò che emerge» stabilisce con «ciò da cui emerge». Anche Venere, che pure era una dea, sarà emersa bagnata dalle spume del mare : perché dunque non anche il vero? Ma in realtà, e con tutto il rispetto, la verità non è la stessa cosa di un dio o di una dea; e se a questi è, a quel che pare, concesso di bagnarsi nelle acque del mare greco e, quindi, di emergerne , a quello, al vero, altrettanto non è concesso: non è concesso di venir fuori e, appunto, di «emergere» da cosa che sia diversa dalla sua es­ senza: tanto divers a, in questo caso, qu anto la falsità è divers a dal vero. Si dice tuttavia (e anche il Forestiero d ' Elea si rivela in tal modo tributario di questa idea, o dei suoi incunaboli), che la verità consiste nel trascendimento del falso, dell 'errore, di ciò che è in sé stesso contraddittorio. Ma il trascendimento del­ l 'errore, del falso, di ciò che è in sé stesso contraddi ttorio, implica in realtà che, per la sua stessa possibilità, il suo atto rinvii al «trasceso>> : ossia all 'errore, al falso, al contradditto­ rio, che , in tal modo, vengono a costituire, addirittura, il suo fondamento e la sua ragion d 'essere. E questo è assurdo, per­ ché, al di là dei giochi di fantasia a cui lo spirito rappresenta­ tivo indu lge, come potrebbe essere di autentico trascendimen­ to un atto il quale di necessità abbia nel «trasceso» la ragion d 'essere e il fondamento della sua possibilità? Forse che è nell 'errore che, con il suo proprio fondamento, la verità trov a il criterio del suo essere (anzi , in questo caso, del suo «venire ali 'essere»)? La questione è, come si vede, assai delicata; e tale , anzi, che, a guardar bene, coinvolge lo stesso criterio della reductio ad absurdum, al quale, in una precedente battuta argomentati­ va, noi pure abbiamo fatto ricorso. In realtà, la riduzione al­ l ' assurdo di un argomento, l ' esibizione della sua fals ità, l a dimostrazione del la s u a autocontraddittorietà e , per conse­ guenza, la sua risoluzione in un altro e contrario argomento (che di questi caratteri negativi si mostri privo) , - tutto questo 149

ha non poco da chiedere al rigore e alla coerenza. Se, infatti, è il confronto con l 'assurdo (a cui errore, falsità, contradditto­ rietà e autocontraddittorietà mettono capo) a imporre la tra­ sformazione di un argomento; se, insomma, il confronto con l 'assurdo impl ica che con questo si stabilisca una relazione, ­ che cosa è, allora, l 'assurdo? Se è qualcosa che è, come mai , dunque, essendo, sarebbe assurdo? L ' assurdo è, per conse­ guenza, «non essere»? Ma, se fosse non essere , non sarebbe ; e nemmeno, quindi, sarebbe l 'assurdo, con il quale nessuna rela­ zione potrebbe, in questo caso, essere stabilita. Oppure si dirà che, sì, l ' assurdo è, ma come assurdo (a quel modo che anche l 'errore, il falso, il «non essere» sono, ma, appunto, come l 'errore, il falso, il «non essere»)? Senonché, dire cosl è come dire che l ' assurdo è assurdo; e dire che l 'assurdo è assurdo implica che sia bensl tale l ' assurdo che, come soggetto, viene predicato del l ' assurdità; non però che assurda sia questa, ché altrimenti non sarebbe possibile, ma, appunto assurdo, che l ' assurdo fosse assurdo. A guardar bene, c ' è , tuttavia, di più; e nemmeno questa specifica deduzione può essere mantenuta nella sua interezza. Se si fa che l ' assurdo che in tal modo viene predicato dell ' assurdità (non assurda) sia, per un verso, assur­ do, e non di meno costituisca, per un altro, il soggetto della predicazione, come mai allora potrebbe dirsi che, costituendo il soggetto e, dunque, essendo, sia assurdo? È perciò assurdo che l ' assurdo sia assurdo, ossia che, aJ.J.CX, l ' assurdo sia assurdo e l 'essente soggetto dell ' assurdità. Ma, di nuovo, come potreb­ be essere «assurdo» l ' assurdo designante l ' assurdità di una situazione per la quale l ' assurdo è tanto l ' assurdo quanto l ' es­ sente soggetto del l ' assurdità? La questione è dunque delicata; e rischia di non poter essere risolta se non si arriva a dominare l ' insidioso processo aporetico lungo il quale (se questa metafora può, in un' analisi rigorosa, essere concessa) l ' assurdo sfugge, all ' infinito, a sé stesso. Rimane, per altro, che, per grande che sia la difficoltà che si incontra a dominare e a risolvere questa situazione aporetica, e il suo ripresentarsi nell ' atto in cui sfugge a sé stessa, sarebbe in ogni caso impossibile addurre l ' inconveniens che essa rappresenta a sostegno del l ' argomento criticato : e cioè che la verità possa emergere dalla «crisi» di alternative 1 50

autocontraddittorie. Che, del resto, anche per altre ragioni questa possibilità sia esclusa, non è difficile comprendere se, più da vicino, si osservi quel che emerge dal presentarsi della tesi difesa dal Forestiero d ' Elea come in qualche modo «inter­ media» fra le due alternative opposte e autocontraddittorie. Le quali ne sono bensì , in quanto le si assuma nella loro intera estensione, rifiutate : non però in quanto, per contro, si presen­ tino, e siano prese, nella loro parzialità. È falso infatti che tutto sia separato da tutto; ma è vero che alcune cose sono separate da altre cose, e, con queste, non comunicanti . È falso che tutto sia connesso con tutto; ma è vero che, con alcune cose, alcune cose sono connesse ; e con queste, dunque, comunicanti . Ne consegue che la tesi intermedia esclude bensì la totalità delle alternative contrapposte, in quanto la pretesa di questa sia di imporre, senza condizioni, sé stessa; ma non le esclude affatto in quanto, al contrario, sia, per così dire, disposta a valere soltanto come parte e a riconoscere che, appunto, per la sua parte, anche l ' altra e opposta alternativa possiede un elemento di verità. Se è così, la tesi intermedia risulta, non dal rifiuto, bensì piuttosto dalla riduzione a parte della totalità (alla quale cia­ scuna delle due alternative pretende), e, quindi, dalla combina­ zione della parte con la parte. Ma, se è così , la possibilità di questa operazione suppone il darsi , come totalità, delle alter­ native . Ne consegue che è il darsi dell ' autocontraddittorietà (le alternative sono infatti , o sono presentate come, autocontrad­ dittorie) a porsi, autocontraddittoriamente, come condizione del darsi dell 'operazione dalla quale la tesi intermedia scaturi­ sce; e ne consegue altresì che questa, la tesi intermedia, deriva dal porsi dell ' autocontraddittorietà come totalità. Posto infatti che fosse possibile ciò che la tesi intermedia esige come con­ dizione del suo potersi costituire, e cioè che l 'autocontraddit­ torietà sia la totalità alla quale essa, la tesi intermedia, sottrae, per potersi costituire, una parte , l 'ulteriore conseguenza sareb­ be un'ulteriore aporia : della quale ci si avvede qualora non manchi l 'animo di entrare, sia pure per una breve ricognizione, nell 'arida e spinosa questione del tutto e della parte. Il tutto e la parte : ossia, come si suole argomentare, il tutto come «tutto di parti». Ebbene, si prescinda qui dal rilievo 151

concernente, uberhaupt, l a concepibilità di questa espressio­ ne. Se il tutto è «tutto di parti», e, d' altro lato, non c 'è luogo, o parte, del tutto che non sia parte; se, in altri termini, il tutto è nelle parti che, esse sole, formano il tutto, allora è ev idente che questo non è mai attingibile , in sé , come tutto : essendo parti, e soltanto parti , le realtà che, come si dice , lo compongo­ no. Non varrebbe in effetti dire che, inattingibile dall 'intelletto analitico che , discorsiv amente , lo ripercorra nelle sue parti e non incontrando perciò al tro che «parti», il tutto possa invece essere attinto in virtù di un atto di pura intuizione, capace, in quanto tale, di coglierne il legame e la connessione : il legame e la connessione (delle parti) che, appunto, sono il tutto. Se, infatti, si assume che il legame e la connessione siano il tutto, e, conforme alla definizione, si seguiti a tener fermo al punto che il tutto è «tutto di parti», non è allora evidente che, lungi dal l ' aver fatto un passo innanzi, siamo al contrario restati esattamente al punto di partenza? Se viceversa si assume che, proprio perché è un «tutto di parti» , il tutto va oltre le parti, e che in questo « andar oltre» consistono il legame e la connes­ sione, non è, anche qui, evidente che, per questa via, la solu­ zione non è stata e non può essere trovata? Si assume infatti che l ' « andar oltre» sia un autentico andar oltre, e dunque qualcosa come un «trascendere». Ma se, di contro al trascen­ dere, le parti costituiscono il «trasceso» , non è allora evidente che proprio per questo, perché si distingue dal «trasceso» , il trascendere è anch 'esso parte, - parte, dunque, e non tutto? Si assume che l' « andar oltre», il «trascendere», o comunque que­ sto atto sia nominato, non lascino oltre sé le «parti» e si pongano come il tutto (che ha le parti non fuori , o innanzi a sé, ma dentro, racchiuse nel suo ambito). Ma se fosse così, non sarebbe allora, ancora una volta, evidente che l 'attingibilità del tutto in qu anto tale risulta impossibile; e che in effetti siamo tornati proprio alla definizione (il tutto è «tutto di par­ ti») che rendeva ineseguibile la sua attingibilità? Se tali, quindi, sommariamente descritte, sono le difficoltà (o alcune delle difficoltà) che l 'unità-distinzione del tutto e delle parti presenta, a superarle certo non v arrebbe osservare che , il tu tto essendo immanente nella parte per dò stesso che questa riceve la sua definizione dal suo organico parteciparne, 1 52

chi colga l a parte coglie il tutto e, senza fare e dover fare ricorso all ' ambigua «intuizione», lo possiede nella sua inte­ rezza. Questa osservazione non contribuisce, in effetti, a risol­ vere le difficoltà; e anzi , se possibile, le aggrava, le esaspera, le conduce al risultato opposto a quello che si immaginava di conseguire. Non è necessario, e nemmeno possibile, elencare in questa sede le questioni che, a seguire questa via, insorgono e non trovano risposta. Ma basta, in effetti , considerare che se, eo ipso, il coglimento della parte fosse il coglimento del tutto, allora dovrebbe altresl esser vero che, per ciò stesso che nella totalità delle due alternative in contrasto la tesi intermedi a ritaglia una parte, i n questo stesso atto coglie il tutto. Coglie i l tutto : ed entra quindi i n contatto con la totalità delle due alternative. Se per altro fosse cosl, non sarebbe allora evidente che l ' atto medi ante il quale la tesi intermedia si costituisce come verità sta a prov are che l 'errore, il falso, la contraddizio­ ne nella sua interezza, - sono questi a rendere possibile la verità? 36. Ancora sulla K"Ot vmvia

Di questa difficoltà non può, qui ed ora, dirsi di più . Ma, sulle sogl ie del l ' analisi che sta per essere dedicata alla que­ stione dei YÉV11 e dell a loro Kotvrovia, era necessario sottoli­ nearl a e insisterv i alquanto. È infatti sul fondamento infido dell 'aporia che, senza avvedersene, il Forestiero d 'Elea prova ad innalzare la sua costruzione. Nel l ' innalzarla, egli per contro introduce l 'elogio del metodo con il quale l ' impresa sarà, di n innanzi , perseguita e condotta alle estreme conseguenze. E bene a ragione pronunzia questo elogio, perché, cercando il sofista, gli sembrava di aver trov ato di meglio, di molto me­ glio, - di aver trov ato il filosofo, e, sopra tutto, la dialettica che, della filosofia, è, per cosl dire, l ' affare supremo, se è vero che in nient ' altro questa consiste che nel «dividere per generi» (Ka'tà yÉvll owtpe'lcr9m) e, dunque, nel non giudicare né l 'i­ dentico come diverso, né questo come identico158 : nel non se­ parare, in altri termini, tutto da tutto senza, per ciò solo, tutto con tutto confondere . È a questo principio che, in effetti, dan1 53

do inizio al momento conclusivo della ricerca, il Forestiero d ' Elea torna a rivolgersi : sembrandogli evidente che quanto ritenev a di aver provato e dimostrato, e cioè l 'insostenibilità delle tesi contrapposte del l ' assoluta separabilità e del l ' assolu­ ta inseparabilità, costituisse il fondamento dell a costruzione. Non sorprende perciò che, riprendendo qu anto affermato a 253 B -C , dei "YÉV11 egli dichiari che alcuni comunicano, altri no 1 59: anche se, per la verità, non possa poi nascondersi il disagio che nasce allorché, nel prosieguo, e come se si trattasse di un' inezia, prima il personaggio afferma che alcuni comuni­ cano per una piccola, altri invece per una maggiore estensio­ ne 1 60, e subito dopo, tuttavia, rassicura il lettore circa il suo intento, che non è di svolgere, in quella sede , l ' analisi della questione 1 6 1 : quasi che trattarla, una questione del genere , cosl grave e cosl strettamente intrecciata con la teoria del J!E'tÉXEtV, o non trattarla, potesse dipendere, non dalla necessità obiettiv a della cosa, ma da un «intento», ossia da un semplice atto della volontà ! Non staremo, per altro, a sottilizzare; né accadrà che, entrando in gara con il Forestiero d ' Elea, proviamo noi a svolgere le conseguenze della sua asserzione. Ma, di nuovo, non può nascondersi il disagio che, in effetti, di nuovo insorge quando, anche qu i come se niente fosse, l ' Eleate dichiara che, evitando, per non correre il rischio di perdersi nella moltepli­ cità, di considerare tutti i generi , egli ne sceglierà soltanto alcuni, e fra questi proverà a stabilire le relazioni : ossia a determinare il loro vario e intrecciato potersi e non potersi connettere. Il disagio nasce in realtà da ciò che se, come sembra doversi ammettere, i yÉVTI costituiscono un sistema, allora il rischio della dispersione nella moltepl icità non sussi­ ste, e richiamarlo è vano. Dove si dà «sistema>>, non si dà, per ciò stesso, molteplicità: che se al contrario, e come non do­ vrebbe potersi ammettere, non il sistema si desse ma, appunto, la molteplicità, - la pura e astratta molteplicità, allora nessuna scelta che si facesse di un yÉvoc; avrebbe razionalità. Sarebbe infatti casuale, e tutto fuor che un sistema potrebbe stringere i "YÉV11 che, come che sia, si fossero scelti . Ma a questa difficoltà che, a differenza della precedente, non trova presso il Forestie­ ro d 'Elea la minima udienza, non conviene, in questa sede, concedere ulteriore spazio. Già troppo a lungo abbi amo indu1 54

giato sulle difficoltà che insidiano l ' avvio della pars con­ struens. E conviene perciò entrare in argomento. Insieme alla grandezza dell ' analisi, e alle tante cose mirabili che racchiude in sé , ritroveremo in questa parte del dialogo le difficoltà che , per altro verso, lo rendono cosl affascinante , e, per l a filosofia, insostituibile.

1 55

VIII

37 . La

K"Ot

vwv{a e la deduzione

È notevole, innanzi tutto, che subito dopo aver composto l a pagina che si è appena finito di commentare, quasi che di quel che vi avev a scritto avvertisse lui pure l ' inadeguatezza, Platone si cimenti in un tentativo di deduzione dei generi fra i qual i sta per intessere la Kotvrovta dialettica. La deduzione che qui egli mette in atto è senza dubbio, almeno intenzionalmen­ te, e per un verso, una deduzione 1 62, volta a sottrarre alla pura immediatezza del loro «esser dati» i generi che costituiscono l 'oggetto del logo. Ma, per un altro verso, è parziale. Riguarda infatti, a rigore, i due generi, l 'identico e il diverso, che, con l 'essere, il moto e la quiete, formano l 'intero dialettico. E la sua parzialità rifulge in ciò che , nell 'iniziarla, Platone non si chiede se anche l 'essere, il moto e la quiete, dei quali aveva fin lì ragionato, non esigessero, essi pure, che la «deduzione» li coinvolgesse, in questo atto strappandoli alla immediatezza del loro puro «esser dati». Li assume, al contrario, come se della loro realtà, e della posizione che occupano, non potesse dubitarsi; e li definisce generi sommP63• 254 D 4-5 �ytcr'ta Jl'IÌV 'tci>V yevrov à VUVÙ'JÌ Ùt'ljJlEV 'tO 'tE ÒV aÙ'tÒ Kat opci che ciascuno definisce il suo carattere. A differenza di quel che si sostenev a qui su, la «separazione>> onde l 'una è la quiete e l ' altro il moto significa «riferimento» che, a sua volta, e necessariamente, significa «contatto». E "contatto" significa «partecipazione». Come mai , in effetti , la quiete entrerebbe in contatto con il moto, e que sto con la quiete , se, appunto, l 'una non andasse in qu alche modo a «far parte» della realtà dell ' altro, e viceversa? Ma, con estrema chiarezza, il Forestiero aveva escluso che la quiete potesse «partecipare» del moto, e che questo potesse mai partecipare della quiete. Non avrebbe perciò, sull 'altro fronte della sua 1 82

considerazione, dovuto assumere che moto e quiete sono fra loro massimamente opposti, o contrari : non avrebbe dovuto perché, dire «massima opposizione», che al tro significa se non che, per potersi opporre, i termini che la costituiscono debbo­ no entrare in contatto, e qui , appunto, nel contatto, produrre la loro opposizione? La prima tesi esclude, infatti , la seconda. Questa esclude quella. Ma, senza avvedersi della difficoltà nella quale in tal modo entrava, il Forestiero d 'Elea le sosten­ ne, l 'una dopo l ' altra, o, meglio, l 'una contemporaneamente ali 'altra, entrambe. Che a questa non lieve inavvertenza logica egli fosse, per cosi dire , costretto, e quasi predestinato, dalla duplice esigenza che avvertiva in sé di prendere e pensare insieme, nella loro relazione e poi al di fuori di questa, separa­ tamente, il moto e la quiete, è evidente. Ma, come si vede, l 'esigenza era non solo duplice. Era altresi contraddittoria. E di questo egli non riusci ad avvedersi . 44. L' essere e le differenze La questione della comunicabili tà-incomunicabilità che qui , da vari punti di vista, stiamo indagando e dibattendo, riguarda, naturalmente , anche l 'essere : del quale può, salvo errore, ben dirsi che, come, per suo conto, s ' unisce ai quattro generi che con lui formano la crUfJ.1tÀ.OKll , cosi , allo stesso modo, consente che questi gli si uniscano. Che, infatti , moto, quiete, identico, diverso «siano» , - questo è, per il Forestiero d 'Elea, indiscutibile. Ma non altrettanto indiscutibile potrebbe per contro risultare il rovescio, o il reciproco, di questo concet­ to; e cioè che, a quel modo che i qu attro generi «sono» e perciò partecipano dcll 'essere, anche l 'essere ne partecipa ed è quin­ di, di volla in volta, diverso da sé in ragione, sia del suo non essere in moto, qu ando è in quiete, e in quiete, quando è in moto, sia del suo essere diverso dal diverso, se è identico, sia del suo essere diverso dali 'identico, se è diverso. Questa con­ clusione potrebbe in effe tti risultare discutibile in ragione del­ l 'ambiguità che, a più riprese, ci si è rivelata intrinseca al concetto del la crUfJ.1tÀ.OKll ; che, per la verità, non coglie questo punto, e lascia indeciso se identico e diverso, moto e quiete 1 83

siano ciò che sono perché, e in qu anto, partecipi dell 'essere, o di questo partecipino perché , e in quanto, sono (l ' identico, il diverso, il moto, la quiete). Ed in realtà, se a questa ambiguità si tiene fermo come al carattere stesso della teoria della metes­ si, risolvere la questione è difficile: anzi, a rigore , impossibile; sì che, dopo aver detto che, senza dubbio, l 'essere è partecipa­ to dai qu attro generi che, perciò, «Sono» , dire che di questi quello partecipa non è né possibile né impossibile fin tanto che permanga l 'ambiguità che sta alla radice di questa situazione concettuale . Se è così , si arriva allora a comprendere perché, nella schematizzazione e (parziale) deduzione dei generi , che il Forestiero d ' Elea pone in atto, o cerca, almeno, di eseguire, questi siano, per un verso, cinque ; ma altrettanti non riescano ad essere nella concretezza del ragionamento che , ripercorren­ do il senso complessivo di quella schematizzazione e (parzia­ le) deduzione, cerchi altresì di stringerne l 'ultimo significato. È noto, e da varie parti vi si è particolarmente insistito 1 8 1 , che non perfetta è, o sembra essere, nel Sofista, l a rispondenza fra 243 D 1 82 e 256 D-E 1 83 : ossia fra i luoghi cruciali nei qu ali si parla dell 'essere e della sua posizione nei confronti degli altri generi . Fra questi due luoghi c 'è, o ci sarebbe, discordanza, perché, mentre nel primo l 'essere è definito 'tÒ J.1Éytcr'tov e àpxeyoc: , a quel modo stesso, ali 'incirca, che nel Ti me o, 3 1 A 4, è m:pté xov 7tav'ta, nel secondo è invece assai meno pacifico che questo ruolo gli competa e che, rispetto a quiete, moto, identico e diverso, sul serio l 'essere si collochi più in alto, in una posizione che gli consenta, quei qu attro yÉVT\ , di sovra­ starli e, ecco appunto il 7teptéxov, di abbracciarli e accoglierli nel suo ambito, senza, perciò, andare a farne parte. Certo, se, come ad alcuni è sembrato, così la situazione concettuale e, quasi si direbbe , la proporzione interna ai generi richiedessero di essere schematizzate, i YÉV1l sarebbero cinque solo nel caso che nel numero si decidesse di far entrare anche ciò che, per natura e autorevolezza ontologica, da tutti gli altri si differen­ zia: ché se al contrario, in ragione di questa diversa natura e diversa autorevolezza ontologica, tale inclusione fosse giudi­ cata scorretta, ecco allora che a quattro i generi dovrebbero essere ridotti , e a cinque non potrebbero, in nessun modo, essere innalzatP84• Quattro, dunque, i generi , se l 'essere sia sul 1 84

serio il capo; cinque se , pur con questo nome , non sia che uno dei yÉVT\ . Ma se è alla prima di queste due ipotesi che s ' intende assegnare il maggior peso filosofico, allora è ev idente che nella natura dell 'essere occorre scav are fino a rendeme evi­ dente la più nascosta radice - e cioè la capacità per l a quale a lui compete bensì di essere partecipato, non però di essere anche, a sua volta, un soggetto di partecipazione : la capacità, in altri termini, che Aristotele riconobbe alla sostanza che, certo, anch 'essa è, fra le categorie, una categoria, ma tale che, mentre tutte le altre la presuppongono, «sono» in quanto la presuppongono, e sono, altresì , per lei , essa, al contrario, non ne pre suppone alcuna e, rigorosamente, è «per sé», Ka9 ' a{Yto . Se per altro a questo riconoscimento il Forestiero d 'Elea fosse stato costretto; se la nostalgia del padre che avev a appena ucciso o era nell ' atto di uccidere , lo avesse indotto a dar corpo a questa idea della «separabilità in sé» dell 'essere, a fame il punto di riferimento esclusivo di ogni operazione partecipati­ va, e a colloc arlo, quindi, al di fuori di ciascuna di tali opera­ zioni , allora, certo, grav i sarebbero state le conseguenze. Da queste premesse sarebbe infatti derivata, in primo luogo, una sorta di singolare duplicazione dell 'essere; che, oggetto e non soggetto di partecipazione, per un verso sta a sé e, per questo suo «Stare», non richiede altro; ma per un altro verso è l 'essere che, per partecipazione, i qu attro yÉVT\ del moto, della quiete, del l ' identico e del diverso assumono quale fondamento del loro specifico essere, - l 'essere in forza e in ragione del quale «sono>> i yÉVT\ che sono. Se per altro fosse così, e tanto l 'essere fosse incapace di partecipazione , quanto, per contro, è capace di riceverl a; se, ancora, e in altri termini , tutto intero l 'essere stesse presso di sé, e al di qua, quindi, di ogn i sua determina­ zione «generica» (il moto, la quiete, l ' identico, il diverso); se le determinazioni stessero «al di là» dell 'essere e questo fosse non di meno il fondamento di ci ascuna, - ebbene, non è allora evidente che da questo suo carattere, acute e non dominabili, scaturirebbero le difficoltà, delle qual i si parl ava? Si consideri innanzi tutto che, assunto così , il concetto della «separazione>) presenta come un interno disagio costitu­ tivo: essendo ev idente che per un verso «separazione» signifi­ ca il puro «stare a sé» dell 'essere, mentre, per un altro, costi1 85

tuendo la condizione del suo poter essere partecipato, per ciò stesso contiene in sé la radice nascosta di un «esser per altro». Una difficoltà, questa, analoga a quella che può rinvenirsi nel fondo della dottrina aristotelica della sostanza; - della sostan­ za che, palesemente, nel suo essere separata dalle categorie che, al contrario, la presuppongono per il loro specifico essere e poter essere , è senza dubbio immune dalla necessità di do­ verle, a sua vol ta, presupporre; ma è anche tale che, proprio attraverso questo specifico «non» presupporle, e questo sol­ tanto, si definisce : con la conseguenza che, questo suo speci­ fico «non» presupporle essendo di necessità presupposto, e costituendo anzi il suo carattere, la sua qn)crtc: finisce con l 'apparire congegnata in forma contraddittoria. È questa una difficoltà alla quale soltanto in sede aristotelica potrebbe con­ ferirsi l ' adeguato sviluppo185• E qui invece è tempo di sottoli­ neare l ' altra, alla quale il concetto della «separazione» dà luogo. Se, assolutamente, l 'essere stesse «per sé» e, con pari assolutezza, fosse «Separato» , non è allora evidente che , anco­ ra una volta, al sistema della O'UJ.1.1tAoKll questa sua «separa­ zione» imporrebbe una «differenza» che, condizione della O'UJ.1.1tAoKll stessa, ed esterna tuttavia al suo confine , mai po­ trebbe essere ricondotta, e spiegata, ali 'interno della sua speci­ fica razionalità? Non è anche evidente che questa «differen­ za» , dalla quale il sistema delle connessioni dialettiche prende l ' avvio e dipende, non ha niente a che vedere con la «differen­ za» che, interna alla O'UJ.1.1tAoKll , è una parte, e non l ' autrice, del l ' articolazione dialettica? Il punto essenziale è questo; ed è a questo che occorre rivolgere , e tener fermo, lo sguardo. Lasciamo perciò da parte, in questa sede, le varie compli­ cazioni che da questo discorso scaturirebbero se, con riferimento a osservazioni già in precedenza formulate, si richiamasse alla memoria il punto fondamentale secondo cui, poiché «parteci­ pare di» non è la stessa cosa che «identificarsi con» , nel parte­ cipare dcii 'essere non di tutta la sua estensione i generi parte­ ciperebbero, e soltanto per una parte lo tradurrebbero in sé come il proprio essere : con la conseguenza, se fosse così , che dalla partecipazione l 'essere sarebbe come diviso, e una parte rimarrebbe presso di lui (che sta intero, e padrone di ogni sua parte, presso di sé), mentre un' altra passerebbe nei generi che 1 86

in tal modo «sarebbero» bensl, ma, proprio riguardo al loro essere, in forma dimidi ata (il loro «essere» non essendo che una parte dell 'essere). Lasciamole da parte, queste osservazio­ n i : ossia, evitiamo di svolgerle con astratto spirito sistematico. E passiamo piuttosto a considerare l ' altro aspetto della que­ stione, - quello per il quale, in un senso ulteriore a quello fin qui esaminato, sembra che da cinque i generi si riducano a quattro. Se, in effetti , si dice che tante volte l ' essere è quanto, per contro, «non è», non è allora evidente che il suo essere non è scindibile dal «non essere»; che per contro ne è condizionato e che, a prender posto sull 'orgoglioso p iedistallo eleatico esso non può più in alcun modo ambire? E vero bensl che in una linea del passo che svolge queste considerazioni il Forestiero d 'Elea osserva che, poiché partecipa del «diverso» , l 'essere è diverso dagli altri generi (257 A 1 -2 ouKoùv Kat 'tÒ òv au'tÒ "trov Ò.À.À.rov hepov elvm AeK'tÉov); e poiché è diverso da questi, è l 'essere . Ma, a parte la sottile ambiguità che, a ben guardare, si rivela intrinseca a questa specifica formulazione e senza richiamare in forma esplicita le difficoltà che, in genera­ le (ed anche qui), deriv ano dall 'uso dello schema partecipati­ vo, sta di fatto che nella «diversità da» che il Forestiero ravvi­ sa nell 'essere sarebbe senza dubbio assurdo pretendere di co­ gl iere qualcosa come la sua assoluta autonomia, la sua capaci­ tà di essere oggetto e mai, per contro, il soggetto della parteci­ pazione, il segno, insomma , della sua eccellenza ontologica. Sarebbe assurdo perché quella diversità è una «diversità da» : implica perciò la relazione, e, con questa, la dipendenza, non l 'autonomia. Sarebbe assurdo perché, lungi dal supporre e far supporre che, oggetto di partecipazione , mai l 'essere possa partecipare di altro, con grande chiarezza il testo dice proprio il contrario. Vi si legge infatti che, proprio in quanto partecipa del diverso, l 'essere è l 'essere e «non è» i generi (il diverso compreso) ; e deve trarsene perciò la conseguenza che, al pari degli altri 'YÉVTl , anche l 'essere è nel «non essere» gli altri 1 86 • La «diversità» in forza e in ragione della quale è sé stesso è, da questo punto di vista, non diversa da quella che agli altri generi consente di essere «sé medesimi» e non gli altri . È non diversa, e, anzi, ri gorosamente la stessa: con la conseguenza che , con­ forme al qu adro categoriale che ha nella CfUJ..l1t À.OK1) il suo 1 87

strumento e il suo criterio, dell 'autonomia dell 'essere deve dirsi che è un' autonomia, non dalla, ma nella relazione , aggiungendosi che , nell 'esser tale, è pari e non superiore alle altre che anch 'esse, infatti , sono autonome nella, e non dalla, relazione. Se è così , l 'essere non è 'tÒ JlÉyunov, non è l ' àpxTJyoç; meno che mai è il 1tEptéxov 1tUV'ta del Timeo; perché, lungi dall 'abbracci are senza ricevere l 'abbraccio, partecipa, invece, ed è partecipato, e se di lui volesse dirsi che è 'tÒ JlÉyt> qu ante «non è» 189; e che, in virtù di questa situazione, l 'intreccio dell 'essere e del non essere si è rivelato assai più intrinseco di quanto mai il verdetto eleatico potesse ammette­ re , e comunque, rispetto ad ogni precedente dicotomizzazione, assai diversamente congegnato. Se non fosse per questo, non avrebbe potuto mettere in atto la di subbidienza, ed eseguire il parricidio. E con questo, nell ' atto stesso in cui la differenza fra generi e idee tocca il punto estremo della chiarezza, siamo giunti per la seconda volta, di fronte ali 'essere, e alla domanda che, nel Sofista, concerne la sua natura. Al di là, o al di qu a, delle altre anomalie che, intrinseche allo strumento partec ipativo, l ' analisi ha fin qui puntualmente cercato di far emergere, il qu adro che , in questa parte centrale del di alogo, Platone delinea ne presenta infatti una di partico­ lare asprezza; che, come si notav a, concerne l 'òv , l ' essere, e se di lui possa dirsi che è 'tÒ 1J.Éyunov, l 'ciPXTIYCk. Alla domanda concernente la sua natura, può rispondersi affermando che 'tÒ 1 94

ov, l 'essere, è un yévoc;, il quinto, o il primo, dei JJ.Éyt> , e non per altro, anche in lui si configurava come un essere «per altro», e non per sé , essendo come costret­ to a non potersi definire «per sé» se non in ragione di quel «per altro» del quale ammettev a l 'esistenza e con il quale cercava la Kot v rovi a e il contatto. Intrinseca alla dottrina delle idee, al loro «essere separate» e, ciò nonostante, in contatto con le cose del mondo, questa difficoltà era destinata a rivelarsi intrinseca ali 'essere quando, come accade in certe movenze del Sofista, questo fosse stato tratto fuori dalla serie dei generi nella quale pur trova posto. E c ' è di più. Nel momento in cui, dalla logica stessa della sua impostazione , era condotto a far riemergere, dalla sua riduzione alla concretezza ontologica dei yÉVJ1 , l' essere come àPX1lY> di realtà che non la realtà piena e tutt' intera. Questa osservazione non supera, e piuttosto ribadisce la difficoltà, perché, dato e non concesso che possa essere assunto in forma non problematica e la sua conseguenza non sia (come invece è) la rivel azione di un 'ulteriore difficoltà, il concetto secondo il quale la real tà è articolata in «gradi» è comunque non omoge­ neo a quello per il quale deve ben essere per intero reale ed essente l ' essere che al partecipante consente la partecipazione : con la conseguenza, se è così , che la «minorità d 'essere» intrinseca ai yév11 (che per questo, e non in quanto partecipano del diverso, sono diversi dali 'essere) avrebbe alla radice di sé, e come sua condizione, il suo contrario-opposto: non la mino­ rità, ma la pienezza, dell 'essere ! Anche su un altro punto (già vari amente toccato nel corso dell 'indagine) deve del resto insistersi; e questo è che se il «non essere relativo» è altresì un diverso essere, e diverso, perciò, dall ' assoluto non essere, non è allora evidente che tanto poco questo può essere escluso, vietato, negato, che, nell 'escluderlo, vietar lo, negarlo lo si ammette , autocontrad­ di ttori amente, come condizione del divieto che se ne fa (e che, per questa ragione, non si ha il diri tto di fare)? Non è evidente che è proprio la negazione platonica del nulla, o, se si preferì200

sce, il modo determinato in cui , nel Sofista, il nulla assoluto viene negato e congedato, a riammetterlo nel quadro e a far nascere la relativa questione? Una questione che, d ' altra parte, si presenta identica quando si prenda a considerare, nel suo complesso, la stessa crUJ..l7t À.OKll . Della quale non basta dire che, come ha i yÉV'Jl dentro di sé, o è tale che esprime e simbo­ leggia la relazione che questi intessono e stringono, così , e per la stessa ragione , nel suo ambito logico chiude il non essere; che non è l ' assoluto nulla, ma il diverso essere che, nel con­ trapporsi ad ogni altro, ciascun yÉvoc; è. Dire cosl , di tale questione, non basta: e deve infatti aggiungersi che, come gli «essere per altro» , che la >, e «parricida», e, conforme ad un' etimologia che godette di credito anche presso filologi e giuristi (cfr., al riguardo, U. Coli, Pa­ ricida est o, in Studi in onore di V .E. Paoli, Firenze 1955, pp . 1 7 1 -94 ) , s ' intenda l'uccisione, e l ' uccisore, del padre (ma, per fare un esempio, già P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Milano 1934, p. 1 9 8 n. l, as sumev a parer nel senso di un capo delle gentes e specificav a che «par­ ricidium era forse l 'uccisione di un parer o compiuta da un parer»), meglio che al breve saggio di G. Pasquali, Paricidas esto ( 1 93 8), ora in Terze pagine stravaganti, Firenze 1 942, pp. 1 35-38, rinvio per la questione a A. Pagliara, La fo rmula 'Paricidas esto ' », in A ltri saggi di critica seman­ tica, Firenze-Messina 197 1 , pp. 4 1 - 1 1 0, dove potrà trovarsi un'ampia bibliografia. S arà vero che, come passim il Pagliara osserva, su paricidas si formò, per etimologia popolare, 'parri cida' col signific ato di «uccisore del padre» . M a, come lo stesso P agliara rilev a (p. 8 8 ) , l ' arbitrio dell 'accostamento (parricida) rese alla fine «necessaria una definizione precisa del termine nella legislazione » e la K'tr\crtmtt, 6 Eu9ufll1 Jl oc;, il ooJCEi crm oi6v ,;'eì.vm \ji'Eu&cr9at; N'lÌ .1-ia, tcllll . d !l'lÌ JlatVOJla{ ye. n61:epov ')..iyov,;a 1:Ò 7tpdyJla 7tEpÌ. où àv 6 'A.&yoc; T) , ii JllÌ ')..iyov,;a? Ebbene, l' Eutidemo non è, come si sa, un dialogo facile: e certo è che anche quando , come in questo luogo , alludono a questioni serie, i paradossi di Eutidemo e Dionisodoro non sono discussi da Platone; che sembra in realtà non prenderli sul serio e voler suggerire che, per criticarli, basti presentarli in questo loro carattere. Cfr. quel che al riguardo si legge in A.E. Taylor, Platone, tr. it ., Firenze 1975, p. 1 52 . - Sul passo 21 1

dell ' Eutidemo richiamato qui su, cfr. H. Chemiss, Timaeus 38 A 8-B 5, «Journal of Hellenic Studies», l ( 1 975), pp. 1 8 - 1 9 ( Selected Pape rs , Leiden 1 977, pp . 340-4 1 ), il quale, discutendo G.E.L. Owens, The Piace ofthe "Timaeus " in Plato ' s D ialo gues, «Classica! Quarterly», 47 ( 1 953), pp. 79-95 , lo ha giustamente messo in rel azione a Theaet. 188 D- 1 89 B , e a Crat. 3 8 5 B, dove analoga è l ' impostazione, m a diversa, e cioè seria in modo esplicita, risulta essere la disposizione ad affrontare e risolvere la difficoltà. Sul modo in cui, in questi dialoghi, la questione si atteggia, non è possibile fermarsi qui. Ma ancora utile è, al riguardo, il contributo offerto da A. Lev i, Il problema dell'errore nella metafisica e nella gnoseologia di Platone, a cura di G . Reale, Padova 1 97 1 . 1 5 Cfr. qui di seguito , § 39. 16 Desidero ricordare che i ' È1tO:JlO'tEpiçnv platonico, quale appare in questo luogo della Repubblica, è stato sottoposto ad analisi da E. Severino , Il destino della necessità, Milano 1 980, pp. 21 sgg .; ma in una direzione divers a da questa. E cfr. anche A letheia, in Il pro blema della contradd iz ione («Verifiche» 1 0, 1 9 8 1 ), Trento 1 9 8 1 , pp. 1 07 sgg . (ristampato in L ' essenza del nichilismo , Milano 1 982, pp . 4 1 5 -34). 17 Uno studio recente della questione è Ch. Bigger, Participation. A p/atonie lnquiry, B aton Rouge 1 968 ; e cfr . anche V. Brochard, La théorie =

pla�onicienne de la participat ion d' après le "Parménide " et /e "Sophiste " , in Etudes de philosophie ancienne et de philosophie moderne, Paris 1 974,

pp. 1 1 3 -50. Ma ancora da tener presente e da meditare è il saggio di E. Ho ffmann, Metexis und Metaxy, «Mitteilungen des philosophischen Vereins», 1 9 1 9 ; nonché le cons iderazioni dedicate alla J.LÉ9e!;u; da N. H artmann, Platos Log ik des Seins, Berlin 1 965, pp . 3 1 4 sgg . , 3 60-65, passim . Fra le molte cose che di recente, direttamente o no, sono state dedicate alla questione, cfr. M. Frede, Priidikation und Existenzaussage, «Hypomnemata>> , 1 8 ( 1 967), pp. 9-99, J.L. Ackrill, Plato and the Copula: Sophist 251 -259, in Plato, I, Metaphysics and Epistemology, ed. G. Vlastos, New York 1 97 1 , R.T. Ketchum, Participation and Pred icat ion in Sophist 25 1 -2 60, «Phrones is», 23 ( 1 978), pp. 42-62. Per le critiche di Aristotele, rimane fondamentale, anche se talora discutibile, il libro di L. Robin, La théorie platonicienne des idées et des nombres d' après Aristate, Paris 1 908, pp . 79 sgg., passim . E si veda anche L. S tefanini, Platone, Milano 1 932, I, 242-44. 1 8 Rinvio per questo ai saggi del Levi citati alla n. 1 4. Ma cfr. anche, fra gli altri, C. Ritter, D ie Kerngedanken der platonischen Philosophie, Miinchen 1 93 1 , pp . 243 -44 (e anche Platon, I, 534 sgg ., passim ; Il, 98 sgg.). 1 9 Parm . B 7, 3 3 DK. 20 B 7, 2 DK. 21 Sul senso di Stçr\crux (oiçT)crtt;), oiçT)cr9o:t, etc ., cfr. Untersteiner, Parmenide, p. LXXXI n. 1 1 9, il quale vi coglie l ' espressione di «una incertezza esegetica precedente la scoperta del vero» (cfr. O. B ecker, Das Bi/d des Weges und verwandJe Vorstellung imfrii.hgriechische Denken,

«Hermes» Einzelschriften, 4, Berlin 1 937, p. 1 4 1 ) .

212

22 Cfr. qui su 1 4 . 23 Cfr. n. 1 1 3 .

24

Soph.

25

Soph.

237 B 7 - 8 .

23 7 C 5-6. U n ' analisi dei luoghi (23 7 B sgg .) che, qui di seguito, saranno affrontati nel testo, è in Y. Lafrance, Sur une /ecture analytique concernant le non-etre (Sophiste 237 B 1 0-239 A 12 ) , «Revue de philo sophie ancienne», 2 ( 1 984), pp . 74-7 6. La «lecture analytique» alla quale il Lafrance rivolge la sua attenzione è quella di J .M.E., Moravcsik, Being and Meaning in the Sophist, «Acta philosophica Fennica», 14 ( 1 962), pp . 23 -78 (ma, in particolare, 26 -29 ), alla quale noi pure avremo talvolta occasione di riferirei; e occorre dire che di questa interpretazione il suo saggio fornisce una critica, anche se cordialmente intonata, radicale, volta ad infirmare il criterio stesso che la ispira (sulle «interpretazioni analitiche» che riscuotono molta e, anzi, pressoché esclusiva fortuna nella storiografia anglosassone, cfr. la «tesi di dottorato» di M .J. Quirk, Contemporary Analitica/ Commentary on P/ato' s Parmenides . A Critique,

New York 1 985, che, pp. 66- 1 1 3 , prende l ' avvio dall ' esame delle tesi di G . Vlastos). Non sono purtroppo riuscito a vedere fin qui il libro di S . Rosen, Plato ' s Sophist. The Drama of Origina/ and lmag e, Ne w H aven and London 1983, che [a quanto apprendo sopra tutto da «Lustrum», p . 209], nella s u a prima parte svolge una serrata critica delle interpretazioni analitiche del Sofista e, in genere, della filosofia platonica). Al Lafrance replica, ribadendo la bontà del punto di vista analitico, J. Thorp, Form, Concept and 'tÒ J.nì ov, «Revue de philosophie ancienne», 2 ( 1 9 84), pp. 77-92. Per quanto infine concerne l ' interpretazione che il Lafrance offre del passo citato del Sofista, basti dire che, a suo giudizio, la probi ematica platonica «repose entiérement sur une théorie du langage et de la vérité selon la quelle tout discours do it porter sur un pragma qui est, et elle soulève le cas tout à fait insolit et signalé par les sophistes de l'époque, d'un pragma qui n ' est pas ou qui n' existe pas. Dans sa réponse à cette difficulté sophistique, Platon maintient que tout discours porte sur un pragma et propose de concevoir le pragme qui n'est pas comme un pragma qui est "autre" que celui désigné dans le discours. C 'est de cette façon qu 'il établit, contre les sophistes, la possibilité du jugement faux. Cette lecture ontologique du Sophiste (23 7 b-239 a) nous semble plus près de la vérité his torique que la lecture conceptualiste de Moravcsik» (p. 76). Vorrei lasciare da parte, in questa sede, se gli interpreti che si ispirano alla filosofia analitica siano, o no, mossi unicamente dall 'esigenza di «établir la verité philosophique» del testo antico ; e piutto sto osservare che la «ripeti zione» che il Lafrance compie della «tesi platonica» sarà, nelle grandi linee, fedele, ma lascia tuttavia nell'ombra alcune delle più acute fra le «aporie» concernenti il «non essere».

26

Soph.

237 c 1 0 - 1 1 où1eoùv btdm:p où1e bn 'tò ov, ouS'btl 'tò 'tt

Soph .

23 7 D 6-7 àpa 'tlj'SE 01C01trov m)J.llj>11c;, ci>c; àvdy1C11 'tOV

lj>Éprov 6pe6k; dv

27

'Ak.yov'ta f.v yÉ 28 Soph.

n

'tu;

lj>Épot .

n

M.ynv?

237 E 1 -2

213

29 30 31 32 33

Soph. 23 7 E 4-6. Soph. 23 8 A 2 . Soph. 2 3 8 B - D . Soph. 23 8 C 1 0.

Soph. 23 8 D 4-7 & 9au�J.amE, mh: ÉVVoEtc; aù-rok -roic; ì.q9Eicnv O'tl. lC di essere e non essere. La questione è discussa con grande ricchezza di osservazioni da Cherniss, Aristotle' s Criticism, pp. 423 sgg ., 437 sgg . ; e andrebbe esaminata non tanto qui, quanto piuttosto in riferimento al concetto di yÉvtcrt< : ad un concetto, dunque, in ragione del quale la nozione di «cambiamento» può con facilità essere assimil ata a quella, non solo di moto, ma anche di diversità. Vorrei tuttav ia osserv are che a ragione il Cherniss (p. 437 n. 374) ha rilevato che, contro ogni diversa apparenza, Platone «continued to assert that the ideas are immobile and unchangeable [ . . ] The idea of motion [ . . . ] is itself immobile» . Certo, il rapporto fra mobilità e immobilità andrebbe discusso; e, svolta con rigore, la discussione condurrebbe a infirmare il fondamento stesso della distinzione. M a, in linea specifica, il Cherniss ha ragione. Su questo punto , cfr . comunque le diverse interpretazioni del Cornford, P lato ' s Theory of Knowledge, pp . 245 -47 ; di C .J. Vogel, Philosophia l. Studies in Greek Philosophy, Assen 1 970, pp. 200 sgg . ; del Ross, P lato' s Theory ofldeas, pp. 1 1 0- 1 1 ; del Runciman, P lato ' s Later Epistemology, pp. 81 sgg. ; di P. Seligman, Being and Not­ Being. An /ntroduction to Plato' s Sophist, The Hague 1 974, pp . 33 -40; e infine di L.M. De Rijk, P lato' s Sophist. A philosophical Commentary (Koninklijke Nederlandse Akademie v an Wetenschappen. Verhandelingen Afdeling Letterkunde), 1 984, pp. 1 03 sgg . 74 La v eau).laa"trov 1tEpì "tÒ (v Kaì. 1tOÀÀ.à, auyKEXroPT\J..LÉVa

234

OÈ ci>t; Érroc el.m:iv U7tÒ 7t(lV't(l)V T\0, !l'lÌ oriv 'tOOV 'tOtmhrov U7t'tEoopa -cote; Myatc; È IJ.7toota u7tOÀ.aiJ.�av6v-crov yiyvrcr9at.

1 54 Con gli svolgimenti che gli sono intrinseci, e che, nel testo ho cercato di rendere espliciti, questo punto è di importanza fondamentale; e sembra, ciò non astante, essere sfuggito all 'attenzione degli studiosi (a me noti). Notev ole, per altro, è il caso del Moravcs ik, Being and Meaning, p. 45 , il quale, dopo aver osservato che, «if there were a thoroughgoing universal mingling, then Rest and Motion could not be regarded as separate Forms», aggiunge che, in questo caso, «Motion and Rest could not be contradictories, and this is absurd». Per la sua singolarità, l 'osservazione merita un breve commento. È evidente innanzi tutto che, senza averne l ' aria ed esserne forse a pieno consapevole, il Moravcsik rovescia il versus dell ' argomento platonico . A differenza del critico , nel luogo in questione (252 D 6-8 ), Teeteto non dice che, se si desse un 'universale e onnipervasiva «confusione», allora, assurdamente, moto e quiete non si escluderebbero come l'uno all 'altra contradditori. Ma dice bensì che, EÌ7tEp Èmytyvoicr9TJv b'aU r\ ì..>, 22 ( 1 977), pp. 29 -47 . L ' interpretazione del passo è affidata al discorso svolto nel testo .

1 59 Soph. 254 B 8-9 'tà f..lÈ.v Élt'òA.iyov, 'tà o'bn 1toA.M:i. 1 60 Soph. 254 B 8-D 2. Sulla questione della magg iore o minore estensione, cfr. H. Chemiss, L ' enigma dell'A ccademia platonica, tr.it., Firenze 1 974, pp. 65- 66, il quale osserva, giustamente, che la minore estensione di «moto» e «quiete» rispetto alla maggiore di «essere», «identico» e «diverso» non implica che i primi due siano meno indipendenti di questi tre. La questione alla quale il Chemiss accenna è, in realtà, ass ai più complessa di quanto da questa sua esposizione non risulti; e, per delinearla, occorrerebbe chiedersi se l' «indipendenza», la «primalità» e la «sostanzialità» che, aristotelicamente, egli attribuisce alle «forme» platoniche debbano esser considerate tali anche nei confronti della OUJ..l7tÀOK"Ti e della Kotvrovia, o se, piuttosto, con questi caratteri, convenga assumerle all 'interno di queste: nel senso che, dipendendo dalla OUJ..l7tÀOJcr\ e dalla ICotvrovia allo stesso modo che queste dipendono dalle «forme», è senza dubbio vero che le forme non dipendono in senso assoluto dalla OUJ..l7t ÀOK"Ti e dalla ICotvrovia, e, tuttavia, non meno vero è che non possono prescindeme. Per queste ragioni escluderei che l' «indipendenza», la «primalità» , la «sostanzialità», o come altrimenti piaccia dire, delle forme possano essere senz' altro interpretate come la s tess a co sa dell ' indipendenza, primalità, anteriorità che, nei confronti delle altre categorie, caratterizza la «sostartZa» aristotelica; e questa è, fra le altre, la ragione che occorrerebbe tenere in maggior conto quando si dovesse discutere il punto, sollev ato e positivamente risolto da Plotino (Enn. 6, l e 2), respinto da altri (cfr., ad es ., Com ford, Plato' s Theory of Knowledge, pp. 274-79), se i yÉvll presentino o no caratteri analoghi alle categorie aristoteliche. La tesi proposta da Plotino va respinta non perché, per dirla con Y. Lafrance, La théorie platonicienne de la Doxa, Montréal-Paris 198 1 , p. 343, quella «des Formes-Genres du Sophiste est une théorie ontologique, tandis que la théorie aristotélicienne des catégories est une théorie logique entièrement élaborée dans le cadre de la prédication», ma perché (a parte la plausibilità dell ' assunto in ragione del quale le categorie aristoteliche sono intese così), è la questione della primalità, del l ' anteriorità e dell ' autonomia a essere qui decisiv a; e nessuno dei generi platonici ha, nei confronti degli altri, la stessa pretesa di primalità e autonomia di cui gode la ouaia. Non l ' essere, come si è v isto ; e neppure, in relazione ai generi, la OUJ..l7t ÀOK"Ti . -

161 Taylor, Platone, p. 604. Analizzando questo passo nel quadro della sua interpretazione dell a filosofia esposta nei dialoghi alla luce della «non scri tta teori a dei princìpi» , H. Kriimer, Platone e i fondamenti della metafisica, intr. e tr. di G. Reale, Milano 1 9 87, p. 205 , vi ha colto l ' intenzione e la volontà, non solo di «mantenere il silenzio su certe cose» , ma altresì di lasciare nell'oscurità «proprio l ' essenza dell 'essere e

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del non essere», «il che risulta ulteriormente accentuato, se si considera il progetto del Filosofo che avrebbe dovuto contenere la esposizione positiv a e che Platone non eseguì mai per iscritto» . Che, senza reale neces sità, il passo sia qui «sforzato» ad un significato ulteriore a quello che appare come il più semplice e il più ovvio, sembra evidente. Il Forestiero d' Elea non parla infatti dell ' impossibilità di cogliere, in quella specifica sede, l' essenza dell ' essere e del non essere; ma dice solo del suo non poterla afferrare mi Eip111:m 'ti 7to't' Ècrnv ..; oùcri.a., on 1:ò Jl'IÌ JCa.8 ' ù7toJCEtJ.LÉvou à.ì.M JCa.S ' où 1:à àì.ì.a.. E poiché è proprio Aristotele a dire che questa definizione non è sufficiente, cfr. 1 029 a 27 -28, dov ' è detto che 'tÒ xroptcr'tÒV lCO.l 'tÒ 'tOOE n Ù7tapxnv OoKE'ì: JlO.Àtcr'ta. 't1j oùcri.q. E cfr. altresì � 8, 1 0 1 7 a 24; e Z 1 3 , 1 038 b 23-29. (Cfr., da ultimo, G. Fine, Separation, «Oxford S tudies in Classica! Philosophy», 2, 1 984, pp. 3 1 -87; D. Morison, "Choristos" in Aristotle, «Harvard S tudies in Classica! Philology», 89, 1 985, pp. 89 sgg., G . Vlastos, Separation in Plato, «Oxford S tudies in Classica! Philosophy», 5, 1 987, pp . 1 87 -96). 1 86 Sy mp . 210 E 6-2 1 1 A l . 187 «Essa stessa in sé e per sé, uniforme in eterno, e tutte le altre cose belle partecipi di lei in tal modo che, mentre queste nascono e muoiono, essa non cresce né diminuisce per nulla, né subisce alcuna mutazione» (è la versione di G. Calogero, Il Simp osio di Platone, B ari 1 928, p. 1 33 ) .

1 88 Su questo punto, che mi sembra essere di importanza fondamentale,

è necessario insistere. Ma sia ben chiaro : non perché a differenza delle idee, che sono l 'una dcii ' altra impartecipi, i yév11 siano ora partecipi e ora, invece, impartecipi , sarebbe giusto interpretarli alla stregua di pure funzioni predicative, alla maniera del Moravcsik, Being and Meaning, pp . 4 1 -56, o anche, alla maniera del Prede, Priidikation, pp. 93-94, come significati predicativi. Che si tratti di strutture antologiche è, per me, indiscutibile: anche se, di volta in volta, l ' espressione richieda di essere interpretata. 1 89 Soph. 257 A 4-b. 1 90 Soph. 259 D 9-E 3 JCa.Ì. ycip, còya.SÉ, 1:0 yE miv à.1tÒ 7ta.V'tÒI; f.mxupdv

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