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Italian Pages 1620 [1622] Year 2008
ARISTOTELE LE TRE ETICHE Testo greco a fronte
Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di Arianna Fermani Presentazione di Maurizio Migliori
BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE
ISBN 978-88-452-6122-0
© 2008 R.C.S. Libri S.p.A., Milano Tedizione Bompiani Il Pensiero Occidentale giugno 2008
«I discorsi veri sono utilissimi, non solo per la conoscenza, ma anche per la vita; infatti, quando sono in accordo con i fatti, convincono e, per questo, riescono a stimolare coloro che li comprendono a vivere in accordo con essi>>.
Etica Nicomachea X, 1, 1172 b 4-7.
PRESENTAZIONE
di Maurizio Migliori
I. RICCHEZZA E ATTUALITÀ DELL'ETICA ARISTOTELICA
1. Uno strumento nuovo ed utile Una nuova traduzione integrale di tutte le opere etiche di Aristotele richiede se non giustificazioni, certo chiarificazioni di varia natura, dal piano formale-editoriale a quello storico-filosofico. Sul piano formale, va sottolineato che sono qui raccolte in un unico volume le traduzioni, con testo greco a fronte, delle tre Etiche (l'Etica Nicomachea, l'Etica Eudemia e la Grande Etica) e del trattato Sulle virtù e sui vizi. Già questo costituisce una importante novità per tre motivi: 1. la presentazione unitaria delle opere etiche dello Stagirita è (stranamente) piuttosto rara; 2. il trattato Sulle virtù e sui vizi non era tradotto in italiano moderno; quindi questa raccolta è un unicum: solo ora possiamo dire che il lettore ha a disposizione tutto il pensiero etico di Aristotele; 3. a differenza di una abitudine generalizzata, nella traduzione dell'Etica Eudemia non sono stati omessi i cosiddetti "libri comuni", cioè i libri IV-V-VI dell'Etica Eudemza, corrispondenti ai libri V-VI-VII dell'Etica Nicomachea; ciò consente al lettore di leggere, di seguito e integralmente, ora l'uno ora l'altro testo, senza inutili e noiosi rimandi. Non è questione marginale, perché elimina una scelta privilegiata, e immotivata, a favore dell'Etica Nicomachea e favorisce una più efficace lettura dell'Etica Eudemia. Ciò
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certamente aiuta a recuperare l'atteggiamento corretto nei riguardi di questi grandi testi antichi, che non vanno letti come se fossero una raccolta di frammenti: «Vi è bisogno di tornare a leggere direttamente i testi di Aristotele nella loro interezza ... per trovare, tramite questa via, ove e in quanto ciò sia possibile, stimoli e spunti utili ad una riflessione sull'agire morale che non si limiti a ripercorrere dibattiti altrui»1. A questi primi meriti ne vanno aggiunti altri, che ci limitiamo ad elencare: a. lo sforzo fatto dalla traduttrice per mostrare in opere operato l'unitarietà, e quindi anche l'autenticità, dei testi aristotelici; b. alcune coraggiose scelte innovative nella traduzione; in particolare segnalo l'uso di virtù morali al posto di virtù etiche, di virtù intellettuali al posto di virtù dianoetiche, di valutazione al posto di deliberazione, di aspirazione al posto di appetizione o, genericamente, di desiderio, di funzione specifica al posto di opera o di opera propria; c. il ricco apparato costituito dalle note e dalla Introduzione; d. l'ampio e articolato Indice ragionato dei concetti, con cui Arianna Fermani ha cercato di evidenziare i nessi e gli elementi di continuità, formale e contenutistica, che sussistono tra i vari concetti etici; e. la presenza di un Indice dei nomi propri e di un'ampia Bibliografia. Possiamo in sintesi dire che questo volume mette a disposizione del lettore uno strumento di sicuro interesse, tanto più che, come ora ci apprestiamo a ricordare, le opere di Aristotele e in particolare quelle etiche, non solo hanno svolto un ruolo decisivo nella costruzione della cultura occidentale, ma hanno anche visto crescere il loro peso negli ultimi decenni.
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2. Un momento "rinascimentale" in una storia ininter-
rotta Anche se può apparire banale, non possiamo non ricordare la bellissima immagine delle Stanze di Raffaellc2, che esprime così bene un momento forte dell'immaginario dell'Occidente: urio stuolo diversificato di soggetti e di atteggiamenti, gruppi e individui isolati, lavori comuni e momenti di diverbio, e al centro i due "giganti" tra i filosofi dell'antichità. Meno banale è però riflettere sulle opere che l'artista, manifestando una concezione del tempo, pone in mano ai due personaggi. Molto ci sarebbe da dire sulla scelta del Timeo per Platone, scelta che al sottoscritto appare molto più interessante e condivisibile di quella Repubblica che quasi certamente gli studiosi contemporanei si aspetterebbero, mentre, vedendo avanzare Aristotele con la sua Ethica, non possiamo che ricordarci che, tra le tante opere di Aristotele, l'Etica Nicomachea è quella che ha esercitato una costante influenza nel pensiero occidentale. Ma una seconda riflessione si impone subito: la plurisecolare frequentazione del testo aristotelico esprime un approccio prima di tutto :filosofico, e mai esclusivamente, o essenzialmente, filologico-erudito, come spesso è avvenuto negli ultimi duecento anni. Per secoli si sono chiesti allo Stagirita lumi per capire e ancor più per gestire saggiamente - e quindi felicemente, per quanto gli eventi lo consentono - la propria vita. Su questo terreno i lettori hanno sempre trovato nel testo aristotelico una messe di indicazioni e di riflessioni, un vero aiuto per questo sforzo. La cosa rilevante, che certamente rimanda a una particolare condizione non solo del pensiero filosofico contemporaneo, ma dell'intero Occidente, è che questo approccio filosofico si è venuto, nel corso del XX secolo, ulteriormente approfondendo, il che colloca l'etica aristotelica in una posizione di straordinario rilievo rispetto a tanti altri autori classici: «l'etica di Aristotele è uno tra i pochissimi campi
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del pensiero antico che non sono studiati solo per un puro interesse storico, ma vengono ancora oggi considerati attuali da parte di varie correnti della filosofia contemporanea. Anche il lettore mosso esclusivamente da interessi filologici deve tener conto di questo elemento: ciò spiega come mai oggi l'etica di Aristotele sia uno degli argomenti su cui si pubblica di più, e per quale ragione molti autori leggano Aristotele come se fosse un nostro contemporaneo>>3. Si tratta di un dato che non esprime un'onda di breve periodo, una "moda", ma che ha le sue profonde radice nell'intera vicenda del XX secolo, anche se noi, per ovvie ragioni di spazio, ci limiteremo a riflettere solo sul terreno filosofico.
3. Il revival aristotelico nel Novecento Per illustrare questo tema vogliamo avvalerci di un aureo libretto4 che espone in modo semplice, ricco di riferimenti e di annotazioni, anche critiche, con una grande efficacia comunicativa, questa importantissima vicenda, a partire dal fatto che «sarebbe segno di ignoranza credere ancora che Aristotele sia scomparso dalla scena della filosofia europea ... dopo l'avvento della scienza moderna ... o che sia sopravvissuto soltanto nella tradizione della Scolastica, rinverdita dalla Chiesa Cattolica alla fine dell'Ottocento ... Nel Seicento, invece, e persino nel Settecento, sia pure con maggiori difficoltà, la :filosofia di Aristotele restò dominante in tutte le università europee, specialmente per quanto riguarda la logica, la metafisica (intesa come ontologia e teologia razionale), e soprattutto la filosofia pratica, cioè l'etica, la politica, ma anche la retorica e la poetica>:.5. Nell'Ottocento, poi, nell'ambito della reazione all'illuminismo, abbiamo con Hegel «una vigorosa riabilitazione dell'intera filosofia aristotelica, fatta eccezione proprio per la logica»6, che invece era la parte "salvata" da Kant. E in Hegel troviamo un'affermazione che, come vedremo, avrebbe potuto sottoscrivere, nel Novecento, un altro gigante della filosofia tedesca come
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Heidegger: «Se tuttavia la filosofi.a venisse presa sul serio, non vi sarebbe cosa più degna che tenere un corso di lezioni su Aristotele, il più degno di essere studiato, fra gli antichi filosofì.»7. Questa importanza decisiva di Aristotele risulta ancora più evidente nel Novecento. Tralasciando per ragioni di spazio momenti anche molto rilevanti del dibattito sul pensiero dello Stagirita8 , ci limitiamo a tre passaggi che mostrano in modo chiaro il peso che l'Aristotelismo ha avuto nella filosofi.a del XX secolo.
3.1. Heidegger9 Heidegger, fin dai suoi giovanili studi su Brentano e le prime ricerche sul concetto di "essere", si imbatte in Aristotele e nella sua complessa trattazione di questo concetto. Tale stretto rapporto non termina affatto nel momento in cui egli aderisce all'impostazione fenomenologia, anzi si approfondisce e porta il giovane filosofo ad un nuovo approccio, con la valorizzazione di altri elementi del discorso aristotelico, quali il concetto di verità, aletheia, interpretato come disvelamento dell'essere. Non a caso, dunque, i suoi tre corsi a Friburgo (1921-1922), come assistente di Husserl, hanno come tema Aristotele, anche se, osserva Berti, «in questi corsi, veramente, malgrado i loro titoli, di Aristotele non si parla ancora molto»10 . Questo invece non si può dire dei successivi corsi che tenne all'Università di Marburgo (proprio mentre era impegnato nella redazione del suo libro più importante, Essere e tempo, uscito nel 1927), che sono quasi tutti dedicati allo Stagirita; tra le opere, poi, l'Etica Nicomachea è quella che attira maggiormente la sua attenzione. Non rientra nei limiti di questa introduzione seguire le vicende teoretiche della filosofi.a heideggeriana11 . Ci interessa però sottolineare due dati: 1. Heidegger manifesta precocemente «il proposito di sviluppare una "ermeneutica dell'effettività" o della "fattici-
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tà", intendendo con questa espressione una comprensione della vita umana intesa essenzialmente come il modo di essere proprio dell'uomo>>12. Su questa linea di pensiero, mentre nel corso degli Anni Venti veniva maturando il suo distacco da Husserl e la sua "distruzione" della metafisica aristotelica, diventava via via più rilevante il contributo che trovava nello Stagirita sul piano della >32. Non ci si può affidare ad un principio assoluto, esterno alla ricerca etica, come l'Idea del Bene platonica, che, in virtù della sua trascendenza, non sarebbe acquisibile e realizzabile dall'essere umano. Il bene di cui Aristotele va in cerca,
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dunque, è un bene umano, un anthropinon agathon, cioè «un bene immanente, non ... un bene già una volta per tutte realizzato, bensì ... un bene realizzabile e attuabile dall'uomo e per l'uomo>>33. Questo bene dunque, non può presentarsi come un dato, ma come un itinerario concreto, una sorta di costante realizzazione della felicità nella forma di una costante approssimazione alla stessa. In sintesi, si tratta di elaborare il miglior quadro possibile di regole "strategiche", la cui elaborazione nulla però dice della concreta applicazione "tattica" nelle varie e diverse situazioni determinate, in cui la capacità e l'esperienza dell'individuo giocano un ruolo sempre decisivo. Ma proprio perché si tratta di realizzare un processo, fin dalle prime battute delle tre Etiche Aristotele elimina qualsiasi speranza di "semplificare" la risposta: la domanda "che cos'è la felicità" si ramifica immediatamente in una pluralità di risposte possibili. Ciò appare del tutto necessario, se stiamo parlando della condizione umana, se l'ottica è quella di una ricerca della felicità che è, contemporaneamente, di tutti e di ciascuna3 4 : tutti, infatti, desiderano essere felici, ma ognuno desidera esserlo in modo diverso. Trattandosi però di una ricerca di "regole", l'apertura di questo ampio varco alla ricerca - come Aristotele subito mostra - non concede affatto uno spazio indiscriminato a tutte le risposte possibili, perché molte appaiono non accettabili e altre richiedono una valutazione molto attenta. Lo prova il semplice fatto che lo stesso individuo può costruire ipotesi di felicità continuamente diverse, dato che spesso ... la pensa diversamente: quando è malato, pensa che sia la salute, quando è povero che sia la ricchezza (Etica Nicomachea, I, 4, 1095 a 23-24).
Quelle che lo Stagirita scarta immediatamente sono solo le proposte più tradizionalmente condivise nella società greca del tempo (e non solo in quella), che vanno condannate soprattutto per la loro unilateralità. Non è possibile identi-
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ficare la felicità con il piacere, vivendo come bestie e dando libero sfogo alle passioni più sfrenate, non è possibile tentare di realizzare un modello di vita felice puntando solo sugli onori o sulle ricchezze. Una condanna non generica né unilateralmente definita: Aristotele compie subito una seconda operazione, sottolineando una differenza interna a questi stessi modelli negativi. Infatti, mentre i piaceri e gli onori sono ricercati per se stessi, la ricchezza non serve in sé, ma è in funzione di altro, a volte addirittura degli stessi piaceri e onori. In qualche senso, quindi, ha una funzione strumentale e non è un vero fine, per cui la vita che punta ad ammassare ricchezza è ancora meno felice e meno rispettabile delle altre35.
2. Il duplice procedimento attivato Bisogna quindi individuare criteri e principi guida, almeno sul piano delle procedure. Infatti, secondo Aristotele, nessuna teoria etica può essere legittimamente elaborata senza passare attraverso un duplice esame: «La costruzione della mappa della vita felice può essere allora realizzata proprio saggiando le opinioni altrui, mettendole alla prova; una prova mai disgiunta da un'attenta analisi della realtà fattuale, da quella fenomenologia dell'esistenza che deve costituire il banco di verifica di ogni teoria sulla vita felice>>3 6 . Se il dato fattuale, il riferimento ad una attenta analisi fenomenologia, può essere facilmente capito, il procedimento dialettico che Aristotele usa abitualmente, cioè il riferimento ad un costante confronto con quella che Ritter37 ha definito "hypolepsis38 ermeneutica", in questo contesto può facilmente essere ricondotta ad una passiva accettazione della "morale convenzionale", mentre probabilmente trova una migliore configurazione se l'assumiamo come una sorta di "pre-giudizio" che accetta di prendere in esame esigenze diverse dalle proprie e di cogliere il (magari debole e insufficiente) fondamento delle concezione di felicità espresse da altri.
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Bisogna dunque trovare un'argomentazione che, contemporaneamente, ci dia conto nel modo migliore delle opinioni intorno a questi problemi e che risolva anche le difficoltà e le contraddizioni. Ciò accadrà se le opinioni contrarie sembreranno razionalmente fondate; d'altra parte un'argomentazione di questo tipo sarà massimamente in accordo con i fatti (Etica Eudemia, V1I, 2, 1235 b 13-18). Questo intreccio, a sua volta sempre variabile, tra riflessione teorico-dialettica e attenzione al dato fenomenologico spiega, come ora meglio vedremo, la contemporanea presenza non solo di diverse opzioni, ma anche di due diversi modelli di felicità. Questo dato non è spiegabile se non alla luce di una concezione che trae origine da altri elementi teorici della :filosofia aristotelica, il che rivela quanto e come, nell'ambito della riflessione dello Stagirita, pesino i dati del suo sfondo "metafisico".
3. !_;antropologia aristotelica La visione dell'essere umano è, in Aristotele come in Platone, binaria, anzi trinaria. Il modello binario dipende dal fatto che per Aristotele è certamente sostanza l'individuo concreto, fatto di anima e di corpo, ma lo è altrettanto l'anima39. Questa, però, a sua volta, rivela una duplicità che continuamente si ripresenta· in Aristotele, tra un'anima che, essendo pura forma del corpo, non può che essere mortale, e un nous razionale e immortale40 . Questa duplicità si manifesta nelle opere etiche ad un ulteriore livello, e in un modo non immediatamente sovrapponibile con le forme precedentemente citate. Infatti la stessa anima razionale risulta divisa in due funzioni. La prima, la sapienza, la sophia, ha per oggetto le realtà stabili, necessarie, immutabili ed eterne, mentre l'altra è rivolta alle cose instabili, calcola i mezzi per attuare i fini, si misura con quello che avviene "per lo più", con una forte accentuazione della dimensione del possibile e del probabile. La differenza tra le due attività è quindi notevole.
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La saggezza, la phronesis, riguarda i beni umani e le cose su cui è possibile prendere delle decisioni, è quindi connessa all'azione e al particolare (Etica Nicomachea, VI, 7, 1141 b 8-2.3); invece è chiaro che la sapienza (crocpia) verrà a costituire la scienza più esatta. Ed è necessario che il sapiente non solo conosca ciò che deriva dai principi, ma che si trovi nel vero anche rispetto ai principi stessi. Di conseguenza la sapienza verrà ad essere, insieme, intelletto e scienza (vouç Kaì È1ttcr'titµ11), e sarà come una scienza che possiede il fondamento delle realtà più eccellenti. Infatti sarebbe assurdo che qualcuno ritenesse che la politica e la saggezza (cpp6vT]crtç) costituiscano la forma più alta di conoscenza, se è vero che la realtà più elevata del cosmo non è rappresentata dall'essere umano (Etica Nicomachea, VI, 7, 1141 a 16-22).
Il riferimento ad un orizzonte metafìsico è qui palese. Le conseguenze di questa distinzione emergono in tutto il loro peso se andiamo ad indagare qual è quel bene che apre la via alla felicità. Gioca qui una concettualizzazione profonda del pensiero e del linguaggio greco antico, quella per cui il senso più vero di virtù, areté, rimanda al perfetto compimento del proprio operare, alla realizzazione concreta della propria natura. In questo senso si può parlare dell'areté di un buon campo che è fertile, come dell'areté di un cane che ha un ottimo :fiuto, come per l'occhio che vede perfettamente, e così via. Per quanto diversi siano questi riferimenti, in ognuno di questi casi la realtà in oggetto realizza appieno la propria funzione specifica (ergon). Questo vale dunque anche per l'essere umano:
il bene umano risulta essere l'attività dell'anima secondo virtù, e, se le virtù sono molte, secondo la più eccellente e la più perfetta. E, inoltre, in una vita compiuta (Etica Nicomachea, I, 7, 1098 a 16-18). Quindi Aristotele sostiene che
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1. c'è un criterio per identificare il bene ed è la virtù, la realizzazione di sé; 2. se il bene consiste nella realizzazione della propria funzione specifica, quella dell'essere umano non consiste né nel semplice vivere, che è comune anche alle piante, né nel sentire, che è comune agli animali; .3. la virtù umana è dunque pensare e agire secondo un pensiero, cioè chiama in causa direttamente l'anima; 4. c'è la possibilità, successivamente confermata, di virtù graduate gerarchicamente, a vari livelli, morali e intellettuali, connesse alla saggezza, phronesis, o alla sapienza,
sophia; 5. la valutazione etica nella sua determinazione sommarimanda ad una visione dell'intera vita.
Questo presentare la felicità come prodotto di una costruzione, come compito che un individuo deve svolgere per realizzare se stesso in una compiutezza che può essere propria solo della vita intera, stabilisce subito una distanza forte tra l'eudaimonia e le esperienze di appagamento più o meno momentanee, a cui la felicità è stata spesso assimilata, e che niente hanno a che spartire con questa visione del 'giocar bene', eu prattein. Dunque, se il bene consiste nella realizzazione della funzione specifica, che nel caso dell'essere umano coinvolge l'anima e il pensiero, non deve affatto stupire il fatto che l'impalcatura teorica dello Stagirita sia sorretta da un duplice modello di felicità, quella dell'uomo che agisce virtuosamente e quella di chi esprime la sua razionalità nella forma somma della contemplazione.
4. La "normale)} vita virtuosa Questa compresenza di due modelli disposti, come vedremo, su un asse verticale, non comporta una visione antagonista peggio, una sorta di implicita condanna della "normale" vita virtuosa, propriamente umana: «l'intima
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tensione della dottrina aristotelica della vita teoretica, che da un lato viene definita come l'attività umana in senso pieno, ma della quale, dall'altro, si dice che l'uomo non ne è capace in quanto è uomo, ma solo in quanto "è insito in lui un elemento divino" (1177 b 27-28); questa tensione interiore, anzi questo paradosso, ha la sua causa nella duplice determinazione dell'essere spirituale»41 . L'essere umano è nous, ma, in quanto umano, non è solo nous, ma ha, costantemente, a che fare con mille limiti, comprese le tante cose di cui ha bisogno, come i beni del corpo, la fortuna e i beni esteriori, senza le quali non può essere felice: è per questo che l'individuo felice ha bisogno dei beni del corpo, di quelli esteriori e di quelli che dipendono dalla sorte, affinché la loro mancanza non costituisca un ostacolo (Etica Nicomachea, VII, 13, 1153 b 17-19).
Aristotele ci propone un modello di vita felice, elevata ma non ottima, tanto che, nel testo aristotelico, viene esplicitamente collocata al secondo posto 42 : è la vita dell'essere umano inteso come composto di anima e di corpo, chiamato a muoversi ed operare nel mondo, a realizzare una "felicità umana" e a vivere da uomo (pros to anthropeuesthai, Etica Nicomachea, X, 8, 1178 b 7). Ciò vuol dire che non dimentica mai, nemmeno in questo caso, la disparità di valore delle due componenti e quindi il primato dell'anima stessa. «La socratica "cura dell'anima" resta, dunque, anche per Aristotele la via, l'unica via che conduce alla felicità. A differenza di Socrate e soprattutto di Platone, tuttavia, Aristotele ritiene indispensabile essere sufficientemente dotati anche di beni esteriori e di mezzi di fortuna; infatti, se essi, con la loro presenza, non possono dare la felicità, la possono tuttavia guastare o compromettere (almeno in parte) con la loro assenza. E a questa parziale rivalutazione dei beni esteriori si associa anche una certa rivalutazione del piacere che, per Aristotele, corona la vita virtuosa, ed è come necessario conseguente di cui la virtù è come l'antecedente»43.
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Tuttavia i beni esteriori sono solo una componente secondaria. Prendendo a prestito i termini del dibattito contemporaneo sulla qualità della vita, possiamo dire che per Aristotele una vita buona è una vita a cui non basta il fatto di essere dotata di risorse, ma la cui qualità si esprime piuttosto in termini di "funzionamenti" e di "capacità". «Le risorse riflettono solo indirettamente e in maniera imperfetta ciò in cui consiste realmente la qualità della vita. Una vita di qualità non è necessariamente una vita ricca di risorse, ma è una vita ricca di funzionamenti di valore, e di capacità di acquisire tali funzionamenti:»44. Torna quindi centrale il concetto di virtù, come dimostra il semplice fatto che, come abbiamo già visto, la più "classica" delle definizioni aristoteliche di felicità parla di "attività dell'anima secondo virtù"45 . In questo senso Aristotele sembra fornirci una nozione di felicità che non si lega alla "vita virtuosa" in modo estrinseco. Se la virtù è eccellenza, cioè perfetta realizzazione del proprio compito, della propria funzione, se la virtù può essere intesa - tra l'altro - come forza, operante in noi stessi e sulle incerte vicende della vita, se la virtù può essere sviluppata come arte, come capacità di modulare l'esistenza al meglio, la felicità appare in qualche modo un possibile, se non probabile, esito. Questo è ciò che si offre all'essere umano in quanto "umano". Non a caso alle virtù morali, è dedicata la maggior parte delle tre Etiche e la totalità dell'operetta Sulle virtù e sui vizi. Come già detto, si tratta dell'insieme delle disposizioni tipicamente umane, che, per esprimere la natura propria, devono essere guidata dalla ragione, cioè rimandano, sempre e direttamente, all'anima, alla psiche. La guida della ragione si esercita su tutti gli impulsi che l'individuo ha al suo interno e nelle esperienze della sua vita. Questo spiega la molteplicità delle virtù stesse, che sono tante quanti sono gli impulsi che nascono nell'essere umano. L'analisi che Aristotele svolge non ha un particolare ordine o rigore, ma al contrario sembra molto empirica e quasi
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rapsodica, fortemente sensibile alle concrete condizioni in cui l'uomo, qui inteso come individuo maschio greco, deve operare. Ecco allora l'attenzione al coraggio, giusto mezzo tra viltà e temerarietà, alla temperanza, mediana tra intemperanza e insensibilità, e così via. Tuttavia il quadro di riferimento rimane unitario, e non solo per la presenza decisiva della ragione. Le virtù morali sono unificate per la caratteristica del loro funzionamento, che è basato sull'abitudine, non intesa come un semplice adattamento sociale, ma al contrario come esercizio continuo che porta alla costruzione di un modo interiore d'essere, un habitus appunto, che rende poi davvero possibile e quasi facile compiere "normalmente" l'atto virtuoso. I.;habitus è quella configurazione stabile della propria esistenza che un individuo può costruire solo attraverso una "prassi costante", costituisce quella rotta che la vita prende in seguito a una sequenza di scelte46 : «la virtù si costituisce a seguito di scelte ripetute e dallo sviluppo di abitudini di scelta»47. In questo modo Aristotele si oppone all'illusione intellettualista che sia possibile con il solo sapere essere virtuosi, ma anche a quella aristocratica, per cui il lignaggio fa nascere "virtuosi".
5. Il giusto mezzo L'altra importante caratteristica unitaria di queste virtù è che si configurano come capacità di attenersi al giusto mezzo, cioè di non scivolare né verso l'eccesso né verso il difetto. «Dire che la "virtù è medietà" implica che la persona virtuosa si attenga al giusto mezzo nel caso in cui vi siano due caratteristiche possibilità di errare, una in direzione dell'eccesso e l'altra in quella del difetto. La virtù non è opposta al vizio, ma piuttosto un modo di evitare vizi tra loro contrapposti» 48 . Il giusto mezzo, quindi, si configura come la misura dei vizi, cioè dell'eccesso e del difetto, nel senso che il "troppo" e il "poco" possono essere detti tali solo rispetto
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al "giusto", cioè alla virtù e alla misura. Si tratta di un modello, peraltro già noto a Platone, che nel Filebo e nel Politico lo aveva espresso in modo chiarissimo49 , secondo cui la distanza tra virtù e vizi può essere stabilita come opposizione tra ciò che è misurato e buono (la virtù) è ciò che, in quanto "s-misurato", cioè privo di misura, è cattivo (i vizi). Questo spiega perché Aristotele possa dire che la stessa valutazione della virtù non può essere unica ma comporta una duplicità: Perciò, da un lato, se si prende come punto di riferimento la sostanza e la definizione che ne esprime l'essenza, la virtù si configura come una medietà, mentre dall'altro, se il punto di riferimento è l'ottimo e il bene, la virtù si configura come un estremo (àKp6-rnç) (Etica Nicomachea, II, 6, 1107 a 6-8).
Quindi la virtù per un verso è in. mezzo ai due estremi viziosi, per un altro è l'apice, il vertice positivo della vita umana, mentre i due vizi, per eccesso e per difetto, occupano il polo negativo. Emerge così un decisivo tema teorico che chiama direttamente in causa la questione della misura; ciò si riverbera sulla stessa felicità, perché è alla base di quell'atteggiamento che spinge Aristotele a mostrare come, soprattutto in questo campo, sia necessario muoversi con la massima flessibilità e con un metron il più possibile duttile. La misura in questione, quindi, si configura come una realtà mobile, mai stabilita una volta per tutte, mai valida in assoluto, ma sempre attentamente da ricalibrare. Non è relativismo, ma l'opposto: l'assunzione di questo modello investe l'uomo di un compito e di una responsabilità enormi, quello di regolarsi continuamente, un compito tanto più arduo quanto più l'intento di determinare esattamente e definitivamente il giusto mezzo si rivela impraticabile. Aristotele era pienamente consapevole delle difficoltà connesse a questo obiettivo. Non a caso «egli... ritiene necessario dare indicazioni pratiche per raggiungerlo: I) bisogna tenersi
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lontani maggiormente dall'eccesso più contrario; infatti non tutti gli eccessi sono contrari allo stesso modo rispetto al giusto mezzo ... II) si deve cercare di reagire alle inclinazioni naturali, che sempre ci spingono verso uno degli estremi; III) non si deve cedere al piacevole ... Facendo così avremo molte possibilità di cogliere il giusto mezzo (1109 b 18-20). Sono indicazioni che presuppongono la variabilità della risposta giusta nella situazione data, e l'impossibilità di determinarla esattamente>>5°: Intendo dire che l'intermedio in relazione alla cosa, intermedio che è uno solo per tutti, è ciò che dista in modo uguale da ciascuno degli estremi, mentre l'intermedio rispetto a noi è ciò che non eccede né difetta; e questo non è uno solo né è lo stesso per tutti. Ad esempio se dieci sono molti e due sono pochi, come giusto mezzo rispetto alla cosa (kata to pragma) si prende sei; infatti supera ed è superato in misura uguale: questo è il giusto mezzo in base alla proporzione aritmetica. Quello relativo a noi (to de pro emas), invece, non deve essere colto in questo modo; infatti non è vero che, se mangiare dieci mine è troppo e due è poco, l'allenatore prescriverà di mangiare sei mine; infatti anche ciò, forse, per chi deve ingerirle, potrebbe risultare o troppo o poco. Infatti per Milone è poco, mentre per chi è un principiante della ginnastica è troppo. E lo stesso vale per la corsa e per la lotta. Così, allora, ogni esperto rifugge dall'eccesso e dal difetto, mentre va alla ricerca del giusto mezzo e lo sceglie, ma non il giusto mezzo rispetto alla cosa, ma quello rispetto a noi (Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6, 1106 a 29-1106 b 7).
In questo brano Aristotele chiarisce esplicitamente una serie di dati che non possono essere sottovalutati: 1. c'è un intermedio in relazione alla cosa, che quindi 1.1. dista in modo uguale da estremi fissi, cioè è sempre lo stesso; 1.2. è uno solo per tutti; 1.3. trova la sua massima espressione nella media aritmetica, certa per eccellenza;
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2. c'è un intermedio rispetto a noi, che quindi 2.1. si riferisce solo all'eccesso e al difetto, cioè a concetti
non aprioristicamente ed esattamente definibili; 2.2. quindi non è sempre lo stesso
2.3. né vale ugualmente per tutti gli individui, come mostra il diverso trattamento alimentare di un atleta rispetto ad un individuo comune; 2.4. quindi questo termine mediano deve, ogni volta, essere ricercato e rimodulato in base alle circostanze, alle situazioni, agli individui; 2.5. pertanto si richiede l'intervento di un esperto. 3. In conclusione, questo esperto nelle vicende della prassi umana cerca il giusto mezzo non in relazione alla cosa, ma in relazione ai soggetti implicati e alla situazione in cui si trovano. In sintesi, l'estrema varietà delle caratteristiche psico-:fisiche e l'instabilità e la mutevolezza del mondo in cui l'uomo si trova a operare, rende impossibile la rigida applicazione della regola della media aritmetica. Ma il punto che interessa ad Aristotele è che, anche se l'agire umano non può essere misurato e determinato matematicamente e in modo assoluto, non deve essere abbandonato al soggettivismo e all'arbitrio. «Svincolare la vita umana da criteri di misurazione "oggettivi", non significa escludere da essa la misura tout-court, privarla di ogni criterio di misurazione. . . proprio nel recupero della nozione di giusto mezzo, di quel "medio rispetto a noi" che costituisce uno degli assi portanti dell'etica ... aristotelica ... l'agire umano può trovare il proprio criterio, la propria misura>>5 1. Una misura sempre approssimativa, sempre rivedibile, continuamente da sottoporre a verifica, sempre e nuovamente da commisurare rispetto alla situazione data. Solo per mezzo di tale commisurazione, infatti, è possibile valutare effettivamente la validità della misura; solo dopo che questa, determinata sulla base di un'attenta analisi fenomenologica, risulta efficacemente applicabile alla realtà obiettiva, può es-
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sere detta "giusta misura". «Se il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà, solo la precisa determinazione ... della realtà cui ci stiamo riferendo consente di individuare qual è l'azione corretta, cioè coraggiosa. Non c'è mai la possibilità, nella condizione di complessità e imprevedibilità tipica dell'esperienza vitale, di dare una regola che non vada sottoposta ad una attenta valutazione rispetto alle condizioni concrete date>>52 . Ma quando questo compito è realizzato, si consegue nello stesso tempo il medio e l'ottimo (meson te kai ariston)53 : la virtù morale. . . riguarda le passioni e le azioni, ed è in queste che si danno eccesso, difetto e giusto mezzo; per esempio del provare paura, dell'essere coraggiosi, del desiderare, dell'arrabbiarsi, del provare pietà e, in genere, del provare sensazioni di piacere e di dolore, vi è un troppo e un poco, ed entrambi non sono buoni; al contrario il provarli nel momento opportuno, riguardo alle cose e alle persone adatte, per il fine e nel modo adatto, è il giusto mezzo e l'ottimo, e questa è la caratteristica della virtù (Etica Nicomachea, II, 6, 1106 b 16-23).
La medietà, lungi dall'essere sinonimo di mediocrità, significa dunque esattamente il contrario: trovare il giusto mezzo equivale a trovare il massimo. «Il "giusto mezzo", infatti, è nettamente al di sopra degli estremi, rappresentando, per così dire, il loro superamento, e quindi, come dice Aristotele, un "culmine", cioè il punto più elevato dal punto di vista del valore, in quanto segna l'affermazione della ragione sull' irrazionale>>54 . «C'è qui, quasi, una sintesi di tutta quella saggezza greca che aveva trovato espressione tipica nei poeti gnomici e nei sette Savi, la quale aveva più volte additato nella via media, nel nulla di troppo, nella giusta misura, la suprema regola dell'agire morale: regola che è stata come una cifra paradigmatica del modo di sentire ellenico. E c'è, anche, l'acquisizione della lezione pitagorica, che additava nel limite (il péras) la perfezione, e soprattutto c'è una precisa eco del
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concetto di "giusta misura", che tanta importanza ha soprattutto nell'ultimo Platone»55. Si tratta, quindi, di dare misura al proprio agire, di rapportarsi adeguatamente a sentimenti, passioni ed azioni, dato che è su questo terreno composito che la virtù morale deve operare, elaborando impegnative strategie comportamentali. Non a caso, ricorda Aristotele, la virtù «è una cosa rara»56 . Questo anche perché c'è un elemento costante che interferisce con tale sforzo: piacere e dolore accompagnano l'intera vita dell'uomo, fin dalla nascita. Occorre avere un giusto atteggiamento verso di loro, cosa che, senza virtù, non è realizzabile: lo spoudaios, il virtuoso, l'individuo moralmente retto, è il miglior giudice dei piaceri e dei dolori, cioè il criterio di misura delle passioni. Tale complesso compito di misurazione non può essere svolto da chi ha rovinato se stesso con dolori e piaceri eccessivi, così come non può misurare credibilmente chi ha gli occhi rovinati per aver guardato incautamente e prolungatamente fonti di luce abbaglianti. Solo un individuo sano, non turbato dalla presenza di forti piaceri e/o dolori, può valutare, e può farlo perché, in un processo circolare su cui dovremo ritornare a riflettere, egli già esprime un controllo delle passioni. Tuttavia, anche a proposito della complessa e studiatissima questione del piacere - a cui sono dedicate due trattazioni specifiche contenute nel VIl e nel X libro dell'Etica Nicomachea - va osservato che, oltre al criterio dello spoudaios, emerge chiaramente la presenza anche di un criterio ontologico, che permette di distinguere i piaceri superiori (quelli legati alle attività teoretico-contemplative) da quelli inferiori (legati alla vita vegetativo sensibile). «Ogni attività, dunque, ha un suo piacere; quindi ogni piacere, nel suo g~ nere, è appunto vero piacere. Tuttavia, come vi sono attività convenienti e buone e attività sconvenienti e cattive, così vi sono piaceri convenienti e buoni e piaceri sconvenienti e non buoni>>57.
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6. J.;azione volontaria e la scelta La virtù, dunque, si esplica come un giusto modo di sentire, un modo appropriato di moderare (nel senso latino di dare una "misura'', di conferire una "forma") i propri desideri. Ciò mette in campo le fondamentali nozioni di scelta, di volontarietà e, più in generale, di responsabilità dell'agire, nuclei problematici e concettuali al centro di un dibattito ultramillenario. Su questo terreno Aristotele assume un atteggiamento preciso: egli considera "volontarie" non solo le azioni decise razionalmente, ma anche quelle dettate dall'impeto e dal desiderio, questo perché considera volontarie tutte le azioni, il cui principio risiede in chi agisce. Ciò rende possibile applicare la nozione di volontarietà anche alle azioni compiute dai bambini e dagli animali. Tale concetto risulta, a questo punto, diverso da quello di scelta, anche perché, mentre la volontà riguarda i fini, la scelta, come pure la valutazione che la precede, riguarda i mezzi, e impegna solo l'individuo adulto. «È la scelta... a costituire per Aristotele l'autentico perno dell'azione: nella sua concretezza, essa investe la coscienza umana, sia come intelligenza dei principi morali, sia come consapevolezza della situazione specifica. La scelta dipende in modo esclusivo dal soggetto, ed è soltanto in base ad essa che ha un senso quel complesso di atteggiamenti, attestati dall'esperienza universale, che sono la lode, il biasimo, il premio, la punizione, l'esortazione, il rimprovero ecc.>>58 . Dunque, Aristotele distingue tre dati: la volontarietà (tò EKOD>105 . Ancora, se sono sottoposti al controllo della phronesis non solo i mezzi, ma anche i fini particolari che l'individuo si propone, se cioè questi non sono extrarazionali, ma sono relati alle virtù intellettuali, è possibile delineare un procedimento "di tipo ermeneutico", con il quale un individuo razionale può perfezionare la sua stessa razionalità sulla base di una costante rivisitazione dei propri comportamenti e degli ''abiti" conseguenti. In questo senso bisogna valorizzare a fondo le due forme di razionalità pratica. Quella che più facilmente viene rico-
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nosciuta è la phronesis, in quanto capacità di individuare i mezzi più efficaci per la realizzazione di un fine "buono", una forma di razionalità pratica, alla portata di tutti coloro che conducono una vita ordinata e razionale, che sanno controllare se stessi e amministrare la propria vita, la casa etc. etc. Però, se ci si limita a questo livello, il peso dei condizionamenti sociali appare sovrastante e quindi la pretesa dell'etica cade. Perché sembra che non abbiamo strumenti per giudicare il fine "buono". Il fatto è che Aristotele riconosce alla ragione la capacità di individuare sia il bene dell'uomo, cioè la felicità, sia i passaggi intermedi, i fini concreti, che devono essere tentati (onde parlavamo di "strategie") per realizzare quel fine supremo. Naturalmente questo procedimento, applicandosi a realtà mutevoli, non può basarsi su principi necessari e assoluti, anzi deve continuamente fare i conti con elementi variabili. Si lavora in una chiave probabilistica, ma si lavora razionalmente e per via argomentativa, valutando attentamente tutti i dati che emergono dalla realtà, compresa la discussione continua delle varie ipotesi strategiche che altri hanno elaborato. Questa razionalità pratica, che consente di individuare i fini ultimi e prossimi, cioè la felicità come realizzazione piena di tutte le capacità umane, mette in gioco l'intreccio tra le virtù intellettuali, e tra phronesis e virtù morali. Si apre in questo modo il necessario processo "ermeneutico" che solo può aspirare a realizzare processualmente quell'insieme di capacità, la cui affermazione permette, alla fine della vita, di riconoscerla come "felice". Si tratta di un vivere umano che via via diviene sempre più capace, per successive correzioni, sulla base di un'esperienza illuminata dalla ragione, con l'apporto dialettico del confronto con altre ipotesi, di tentare questa strada.
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1. Il problema del rapporto tra etica e metafisica Il problema del fine e/o dei fini e l'intreccio tra forme diverse di razionalità ci pone di fronte al complesso rapporto che possiamo cogliere in Aristotele tra etica e metafisica, rapporto che in un certo senso deve essere negato risolutamente mentre in un altro non può assolutamente esserlo. Deve essere negato, perché lo sforzo teorico di Aristotele è quello di evitare i due estremi, che si presentano spesso in una forma concettuale più completa e raffinata, ma che non sono "realistici". Da una parte abbiamo il modello che Aristotele aveva visto proposto dal suo maestro Platone, l'astratta affermazione di un Bene, fine ultimo, aprioristicamente individuato, che ha senso e peso all'interno di un sistema ordinato e coerente, dall'altra l'empirismo a sfondo emozionale e individualistico che porta poi a rifiutare qualunque vero "giudizio" etico. Aristotele, invece, non rinuncia ad un fine ultimo che, in qualche modo, possa dare ragione dell'intero sistema, ma si oppone continuamente a qualsiasi forma di astrattezza. Tale principio deve essere giustificato e condiviso, quindi concreto e del tutto umano. Noti a caso fin dalla prima pagina dell'Etica Nicomachea lo Stagirita lo indica nella felicità, qualcosa che deve prima di tutto essere cercato e poi esperito nella esperienza individuale. Infatti, come abbiamo visto, Aristotele non impone nemmeno un unico modello di felicità, ma, data la molteplicità degli individui e delle virtù morali, presuppone esplicitamente la possibilità di vari modelli di vita felice, escludendo nel contempo l'accettazione di quelli che privilegiano unilateralmente un dato, sia esso piacere, onore o ricchezza. Quindi il modello di felicità, indicato come fine ultimo, come unico bene umano, è un cosmo di modelli che sono poi complessi al loro stesso interno, con un gioco di equilibri sicuramente diversificato. Ma se possiamo escludere che ci sia un processo derivativo da una metafisica a una morale, dobbiamo anche ri-
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conoscere che ci sono nell'etica aristotelica una molteplicità di elementi che sarebbero del tutto inesplicabili senza il riferimento alla sua ontologia. L'orizzonte che incombe sul quadro etico è infatti metafisico, a partire dalla evidente accettazione della esistenza di due ambiti, uno finito, contingente, visibile e uno che non è visibile ed è soprasensibile. In questa chiave rientra la duplicità anima-corpo, fino all'affermazione di una anima immortale e "divina", che esplode nella trattazione della sophia. Questa situazione non può essere dimenticata, sottovalutata o liquidata come una semplice contraddizione, per varie ragioni. In primo luogo perché costituisce una movenza originaria di passaggi decisivi dell'etica: Che, poi, la virtù su cui si deve indagare sia quella umana, è evidente; infatti umano è il bene e umana è la felicità che cerchiamo. E diciamo "umana" non la virtù del corpo ma quella dell'anima; e diciamo anche che la felicità si configura come attività dell'anima. Se le cose stanno così, poi, è chiaro che il politico deve possedere una qualche nozione di ciò che riguarda l'anima, come anche chi cura gli occhi deve avere anche una certa conoscenza generale del corpo, e ciò a maggior ragione in quanto la politica ha più valore rispetto alla medicina ed è superiore ad essa (Etica Nicomachea, I, 13, 1102 a 13-21).
Per questo, come già si intravede, a fianco della accettazione di vari modelli di vita felice, si colloca anche una classificazione in senso verticale. Infatti la virtù pìù perfetta non è quella morale, ma quella intellettuale, propria della parte migliore dell'anima razionale, quella che conosce le cose immutabili (Etica Ni"comachea, VI, 1). La massima felicità si ha dunque con la sophia, senza mai dimenticare che anche la phronesis mira alla felicità (Etica Nicomachea, VI, 12). Ma è anche sbagliato intendere questa verticalità come una sorta di passaggio per salti, visto che in vario modo Aristotele sottolinea un sistema di nessi, in quanto «la saggezza comanda in vista della sapienza, ma non comanda alla sa-
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pienza» (Etica Nicomachea, VI, 13, 1145 a 9) perché quella gli è superiore. Ancora più chiaramente Aristotele afferma una duplice integrale irnplìcanza con le virtù morali: non è possibile essere virtuosi senza la saggezza né essere saggi senza la virtù etica (Etica Nicomachea, VI, 13, 1144 b 31-33).
Quindi, la funzione superiore, nella forma più specificamente umana, la phronesis, agisce in strettissimo legarne con le virtù proprie dell'anima sensitiva-razionale e in vista della sophia. La distinzione c'è, come anche il necessario intreccio, come anche la struttura verticale per cui il primato spetta a ciò che è superiore.
2. Una visione sempre polivoca Molti studiosi intendono questa pluralità di piani nella chiave di momenti diversi del pensiero aristotelico o più semplicemente come contraddizioni che minano il suo pensiero. Al contrario, quello che qui emerge è un atteggiamento che considera la realtà talmente ricca che solo il moltiplicarsi di schemi interpretativi, anche tra loro profondamente diversi - e a volte persino irriducibili l'un Paltro - può consentire di "comprenderla" e dominarla. È un dato che aveva ben colto Jaeger che, al di là della sua anche troppo fortunata (ma ormai in via di superamento) ipotesi evolutiva106, rifiutava la tradizionale visione di Aristotele come "autore sistematico per eccellenza", preferendo mettere in risalto il suo aspetto "analitico". Non a caso nel pensiero aristotelico manca «il termine greco systema, il quale caratterizza esattamente il carattere costruttivo e totalitario e l'autosufficienza, aliena dalla perenne vita dell'indagine, delle concezioni ellenistiche dell'universo. Lo spirito del pensiero aristotelico non è nel synistànai, ma nel dihairèin, considerato non come motivo di costruzioni dialettiche, ma come strumento di viva ricerca scientifica. Perciò il suo "sistema" resta provvisorio ed aperto in ogni
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direzione»107. In sostanza Jaeger, pur riconoscendo la gerarchia che connota il sistema concettuale dello Stagirita (il che implica la presenza in ogni diversa disciplina di alcuni concetti base, come sostanza, forma e materia, atto e potenza), sottolinea con forza due elementi: in primo luogo il carattere problematico della indagine aristotelica, che sembra sempre alla ricerca di nuove soluzioni e/o di un costante perfezionamento di quelle adottate; in secondo luogo la compresenza di elementi diversi nella sua stessa filosofia. Di conseguenza, egli rifiuta entrambe le posizioni estreme: quella che nega, magari in chiave "positivista", la presenza in Aristotele di un pensiero metafisico (che, anzi, per lui costituisce un motore centrale di tale riflessione filosofica) e quella che sottovaluta le parti non metafisiche e il suo evidente interesse per laricerca empirica. Certo poi Jaeger, non riuscendo ad accettare la compresenza di questi due elementi, quello platonico, letto in chiave essenzialmente religiosa108 , e quello scientifico, interpreta questa molteplicità come segno di un diverso prevalere di interessi nelle diverse fasi, o in un complesso e irrisolto rapporto con il suo maestro Platone. Al contrario, è forse meglio, non potendo dire nulla di certo su questo terreno, riconoscere e valorizzare la presenza di un atteggiamento teso a moltiplicare gli schemi in modo da costituire una molteplicità di possibili interpretazioni di una realtà che è per sua natura uni-molteplice. Questo, che è certamente vero in tutto il "sistema" aristotelico, lo è soprattutto per la dimensione etica e antropologica: «appare degno di nota il fatto che Aristotele, adottando una pluralità di metodi osservativi sull'oggetto, pur restando fedele a quella che si può definire una tendenza naturalistica di fondo (basti pensare alla sua attenzione alla dimensione biologica e alla sua analisi della conoscenza sensibile [cfr. De Anima, II e III]), tende a rispettare la complessità del dato. In particolare: la sua concezione del carattere immateriale della conoscenza intellettuale e, di conseguenza, quella
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dell'intenzionalità e dell'apertura trascendentale dell'anima suggerita dalla nota espressione "l'anima è in certo qual modo tutte le cose"[De Anima, III; 8, 431 b], mettono in discussione ogni concezione esclusivamente naturalisticoriduzionistica della ragione»109. Questo non vuol dire negare apriori la possibilità di forti tensioni all'interno del "sistema", frutto di questa stessa moltiplicazione di schemi, ma implica il rifiuto della soluzione semplicistica di tagliare il problema parlando di contraddizione. Bisogna invece assumere il tema del "punto di vista" che la riflessione assume: se parlo di essere umano parlo di una cosa, se parlo dell'anima di quell'individuo parlo di una realtà che è insieme la stessa e diversa; se parlo di anima come principio biologico assumo un punto di vista che è diverso da, e irriducibile a, quello che muove dalla accettazione dell'esistenza di un'anima immortale e divina, etc. In questo senso possiamo tenere insieme una visione che riconosce livelli - vorrei dire - "ontologicamente" diversi di felicità e insieme l'accettazione di molti differenti modelli di felicità, "orizzontalmente" collocati, come è giusto fare una volta che si sia riconosciuta la complessità della dimensione umana qua talis. Proprio perché Aristotele non si propone il raggiungimento di un Bene predeterminato, ma apre una ricerca sulle strategie per condurre una vita felice, può anche ipotizzare, rispettando alcune sue concezioni di fondo, la liceità di procedere su strade diverse e nel contempo anche la possibilità di andare oltre le "normali" condizioni di una vita virtuosa e felice. «Se noi chiediamo "come è bene per me vivere?" oppure "quale è per me il migliore modo di vivere?" oppure ancora "come dovrei vivere?" non possiamo rispondere con una sola parola o proposizione. Infatti una vita intera è qualcosa di altamente complesso, e per questo si dovrebbe rispondere alla questione come una persona debba vivere articolando per esteso un intero modo di vivere nella sua estensione orizzontale e verticale»110. È questa stessa ricerca che, unita ad alcune categorie di
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fondo, dà unità al sistema, in quanto si propone un termine unico: l'autorealizzazione del soggetto, quella cosa che il greco riusciva ad esprimere con la sola parola aretè.
3. Un problema aperto Questo ci porta al fondo del problema che molti sollevano anche a proposito della attuale ripresa dell'etica aristotelica. Il punto cui siamo giunti può essere così riassunto: la prospettiva che Aristotele assume è quella di una visione complessa, sia nel senso che esclude soluzioni semplici e unilaterali, sia nel senso che l'unità della proposta deve necessariamente differenziarsi in una molteplicità di schemi possibili. Proprio perché gli esseri umani sono tra loro diversi e diverse sono le condizioni in cui essi sono costretti ad operare, come diversi sono anche i punti di vista che possono essere assunti nel valutare le diverse strategie, il modello di Aristotele non è un modello, ma l'apertura a una costellazione di modelli. La variazione costituisce in Aristotele, come nel suo maestro Platone, l'unico strumento, se non adeguato almeno "paradossalmente coerente", per cogliere la molteplicità di aspetti e di possibilità che si offrono all'intelligenza e all'azione dell'essere umano. Questo atteggiamento si connette strettamente con un principio di concretezza: per Aristotele, soprattutto su questo specifico terreno, la validità di una teoria nòn dipende dalla sua astratta coerenza, ma dalla verifica nella prassi. In questo senso il modello base aristotelico ha una forte valenza teorica e una forte valenza fenomenologia. Tutto questo si manifesta bene nel cosiddetto sillogismo pratico: nella premessa maggiore c'è l'indicazione di un fine, che ha un carattere universale, la premessa minore indica quali sono i mezzi migliori per raggiungere il fine, ha quindi un carattere particolare, perché rimanda a situazioni contingenti. La conclusione del sillogismo pratico è l'azione stessa. Questo modo di procedere comporta diversi momenti teorici, quin-
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di un procedimento "argomentativo'', che dirige e motiva la prassi. Ma si apre anche il problema di che cosa qualifìca il fine ultimo e i fini specifici. Eliminiamo subito un possibile equivoco: il testo aristotelico ha i segni evidenti del suo tempo e delle convinzioni sociali che lo Stagirita accetta, sia pure con una serie di tensioni teoriche che qui non vogliamo nemmeno accennare. Aristotele è greco, ed è un greco moderato, che si contrappone a qualsiasi considerazione utopica o eticamente assoluta. In questo senso non deve stupirci di trovare nei suoi testi elementi che (a mio avviso) non hanno un fondamento teorico, ma esprimono solo la logica condizionante di una intensa esperienza culturale. In questa chiave vanno lette la legittimazione della schiavitù su base naturale, l'inferiorità della donna, la valutazione negativa del lavoro produttivo, etc. etc. Il problema non nasce a questo livello, ma a quello della teoria, che Aristotele propone e che deve valere, se vale, una volta "eliminati" questi elementi111• Quando Aristotele propone un modello che deve essere gestibile da "i più" intende certamente parlare di essere umani "maschi, greci e liberi", ma il ragionamento vale, se vale, anche se noi oggi intendiamo questi "più" come "maschi e femmine", "di qualsiasi etnia" etc. etc. Viceversa, se il criterio proposto da Aristotele rinvia necessariamente ed esclusivamente ad un individuo formato secondo un certo modello sociale (nel suo caso greco, ma questo, se è un elemento di teoria, vale qualunque sia il modello socio-educativo di riferimento), la pretesa della sua etica si ridimensiona immediatamente e torniamo ad una situazione uguale, se non peggiore, di quella a cui, secondo tanti autori contemporanei, con l'aiuto di Aristotele si potrebbe tentare di porre rimedio. Infatti, fermo restando che non c'è in Aristotele un'etica assoluta, un modello che ha il suo fondamento teorico in un individuo formato in una determinata congiuntura storica «non potrà dare ragione delle esigenze del pluralismo della società moderna, perché
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le diverse concezioni e tradizioni etiche sono irriducibili a una unità»112 . Si tratta di un problema divenuto particolarmente evidente e pressante nel giro degli ultimi anni, con l'esplosione della mondializzazione. La cultura occidentale sta scoprendo che alcuni dei principi cardine che essa ha faticosamente guadagnato, come ad esempio i diritti universali dell'essere umano, non possono facilmente essere accolti in contesti culturali radicalmente diversi. Il tentativo di giustificarli razionalmente appare impotente proprio perché si scontra con la difficoltà costituita dal paradigma messo in gioco. Bisogna quindi procedere su altre strade. Quello di cui abbiamo bisogno è di individuare un ground zero, un livello "tipicamente e irriducibilmente umano", a partire dal quale individui e civiltà diverse possano incontrarsi, cominciare a parlarsi e a tentare di costruire un percorso comune. Il problema è se a) il riferimento alle diverse strategie che un soggetto può e deve costruire b) sulla base di un atteggiamento descrittivo-fenomenologico c) molto attento ai limiti della prassi umana, d) alla luce di un bene ultimo che è la felicità dell'individuo impegnato in questa impresa, può aiutarci a guadagnare questo punto di vista. Un'impresa certo non facile: la stessa trattazione aristotelica ci ricorda, e insieme ci mostra, quanto ci si muova sempre nell'ambito di un orizzonte sociale che è tanto più inavvertito quanto più è interiorizzato dal soggetto stesso; di conseguenza, questo contesto gioca implicitamente anche quando il procedimento viene ricondotto ad un nesso fini particolari - mezzi sottoposto al controllo della ragione in funzione della realizzazione dell'individuo. Il problema diventa allora in che misura possiamo avere un modello "per quanto possibile depurato". Dobbiamo, ad esempio, chiederci se è possibile intendere il senso comune, cui necessariamente l'approccio fenomenologico di Aristotele si riferisce, in modo che questo, pur essendo sempre e necessariamente storicizzato, ci consenta di avvicinarci a
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quelle esperienze che caratterizzano l'essere umano nella sua "uscita" dalla pura animalità. Certo l'educazione sembra a volte essere l'unico strumento che condiziona i desideri inserendoli in un contesto sociale determinato, quindi in un sistema di valori, dalla famiglia all'essere cittadino, quindi dentro una norma sociale che non può che essere storica se non addirittura etnica (III, 6). Ma c'è nello stesso tempo la necessita e possibilità di sottoporre i desideri ad un controllo razionale, che li liberi dalla animalità come anche dalla "socialità". Forse per questa strada possiamo tentare di individuare alcuni elementi fondamentali in cui ricomporre un contesto etico adatto alla complessità del mondo in cui viviamo. L'obiezione che solitamente si fa a questa interpretazione è che nello Stagirita una movenza fondamentale è la necessità di riferirsi costantemente ad opinioni socialmente condivise; a questo si aggiunge la sua propensione a dare a tali processi molta fiducia, anche perché per Aristotele gli esseri umani hanno una naturale predisposizione per la verità (Etica Eudemia, I, 6) 113 . Ma non sembra difficile trovare in questo stesso discorso anticorpi per una lettura etnicoconservatrice dell'etica aristotelica, a partire dal fatto che, se si condivide la fiducia nella naturale predisposizione dei più alla verità, bisogna poi attribuirla agli esseri umani e alla loro natura, e non solo a quelli di una particolare società. Inoltre, e soprattutto, Aristotele indica come opinioni condivise non solo e sempre quelle che riguardano i più, ma anche quelle che coinvolgono i pochi, purché validi ed esperti come sono ad esempio i filosofi (Etica Nicomachea, I, 8, 1098 b 9 ss.). Questo apre la strada ad un ripensamento critico radicale, perché è immediatamente evidente che tra le opinioni dei più e quelle dei filosofi il contrasto non è affatto una eccezione. Inoltre il metodo aristotelico, come abbiamo più volte sottolineato, ritiene di dover partire sia dalle opinioni correnti sia da un'attenta valutazione dei fatti concreti, che non
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sono sempre e solo le pure opinioni diffuse, il che implica un, anche complesso, lavoro intellettuale e selettivo: bisogna, come negli altri casi, una volta tenuto fermo ciò che si manifesta ('tà cpmv6µeva) e aver per prima cosa sviluppato le aporie, mostrare nel modo più esauriente possibile tutte le opinioni autorevoli espresse a proposito di queste passioni o, se questo non è possibile, la maggior parte di esse e quelle più significative; infatti, nel caso in cui le difficoltà siano state risolte e le opinioni autorevoli siano lasciate sussistere, sarà stata fornita una dimostrazione adeguata (Etica Nicomachea, VII, 1, 1145 b 2-7).
La riprova della tensione dialettica che si determina in questo modello è duplice. Da una parte la condanna di quei modelli di felicità che i più certamente condividono, quelli basati su piacere, onore e ricchezze, dall'altra alcune «vistose eccezioni»114 come l'esaltazione della vita contemplativa. Ma in realtà non sembra corretto parlare di eccezioni: su che cosa sia la felicità, vi è disaccordo e la gente comune non la definisce allo stesso modo dei sapienti. Infatti, mentre i primi credono che si tratti di qualcosa di tangibile e di visibile, come piacere o ricchezza o onore, i secondi ritengono che si tratti di un'altra cosa (Etica Nicomachea, I, 4, 1095 a 20-23).
Come si vede il contrasto sul terreno fondamentale è originario, radicale e tematizzato da Aristotele stesso. D'altra parte, abbiamo visto che la felicità consiste «nell'attività della parte razionale dell'anima secondo virtù ... Una siffatta defìnizione di felicità non è certamente reperibile nell'ambito delle opinioni diffuse»115, e infatti viene giustificata razionalmente sulla base di una serie di caratteristiche che vanno riconosciute. Ma prendiamo anche una delle :figure che sembrerebbero confermare i più radicali dubbi rispetto a quanto stiamo tentando di ipotizzare: lo spoudaios, l'uomo virtuoso che più volte viene indicato come il metro con cui valutare le azioni.
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In questo caso, infatti, Aristotele non presenta un modello basato sul "prima e poi", del tipo: dato un uomo virtuoso, costui indica nella sua prassi ciò che è virtuoso. Lo Stagirita ha ben presente il problema della formazione di questa figura che, fermo restando il ruolo centrale dell'educazione, non può però essere ricondotta ad una pura eterodirezione. L'uomo virtuoso non può essere solo colui che è stato educato da altri ad essere virtuoso. Ciò comporterebbe la fine di un atteggiamento morale. Quello che emerge è quindi un modello circolare o, se si preferisce, una progressiva costruzione di quell'abito che rende il virtuoso tale. Infatti Aristotele dice che le azioni giuste e temperanti sono quelle che compirebbe la persona giusta o temperante; d'altra parte giusto e temperante non è solo colui che compie azioni di questo tipo, ma che le compie come le compiono i giusti e i temperanti. Dunque è giusto dire che dal compiere azioni giuste si genera il giusto e dal compiere azioni sagge il saggio; al contrario, nessuno potrà mai pretendere di diventare virtuoso se non compie azioni di questo tipo (Etica Nicomachea, II, 4, 1105 b 7-12).
La cosa sembra possibile in quanto la movenza di fondo è costituita dal dominio della ragione, propria dell'essere umano, che deve valutare attentamente gli impulsi naturali che, in modo diverso, si manifestano in tutte le società: Infatti, dal momento che sono tre gli elementi che spingono a scegliere e tre quelli che inducono a fuggire, e cioè bello, utile, piacevole e i rispettivi contrari, cioè turpe, dannoso e doloroso, l'individuo virtuoso è colui che giudica correttamente rispetto a tutto ciò, mentre il vizioso è colui che lo fa sbagliando, soprattutto in rapporto al piacere (Etica Nicomachea, II, 3, 1104 b 30-34).
Ancora, questo complesso e articolato rapporto con le passioni mette in campo, come abbiamo visto, le nozioni di scelta, di volontarietà e, più in generale, di responsabilità dell'agire, nuclei concettuali al centro di una riflessione
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facilmente condivisibile almeno nei suoi aspetti problematici. Infine, si può sottolineare che questo modello pone un fìne che ha valore universale se non nella sua posizione positiva, certamente in quella negativa, nel senso che è impossibile negarlo; nessun essere umano può, razionalmente ed emotivamente, dire che non vuole essere felice, così come nessuno può negarsi il diritto di scegliere, almeno nel senso di scegliere di rinunciare a una "propria scelta", affidandosi ad altro. La forza di questi principi è nella loro capacità di resistere a qualsiasi tentativo di negarli. In sintesi, è possibile tentare, sulla base di Aristotele, di individuare percorsi condivisibili proprio in forza del tipo di approccio che egli propone: «Così procede Aristotele, e il concetto di felicità che egli ne ricava non è che il risultato della hypolepsis ermeneutica. Egli porta a determinatezza ciò che nella molteplicità delle determinazioni della felicità è all'opera, seppure in modo indeterminato e complicato da ambigue sovrapposizioni, come loro elemento comune. Aristotele pensa la felicità limitandosi a pensare ciò che è comune al pensare universale e vietandosi di sostituirlo col proprio pensare particolare.. . Qual è il risultato di questo procedimento? Comune è, in primo luogo, il fatto che tutti intendono per "felicità" qualcosa come "vivere bene" e "star bene", espressioni di cui però, in greco, risuona il senso dell'attività e del "riuscir bene". In secondo luogo è comune il fatto che tutti inseguono la felicità come una condizione di vita che appare loro "compiuta e definitiva" (teleion). Se lo si è raggiunto, allora si ha ciò a cui da sempre si voleva giungere; la "felicità" indica una condizione di vita che non è fuggevole e passeggera, ma durevole e che nella sua stabilità non tende più ad oltrepassarsi per inseguire mete sempre nuove e diverse. Secondo la concezione dei più, la felicità pone termine all'inquietudine del ricercare»ll6. Ma il ricercare ne è la necessaria premessa. La molteplicità di approcci cui prima ci siamo riferiti mostra che la vi-
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sione dello Stagirita esclude la possibilità di costruire una teoria a tutto tondo che offra la soluzione ai tanti problemi morali dell'individuo e della società: «per la sua attenzione all'esperienza morale, individuale e collettiva, per il suo rispetto della razionalità pratica, la prospettiva aristotelica genera una teoria morale che, come lo stesso agire umano, presenta una grande complessità e ricchezza e, come lo stesso agire, rimane sempre aperta nella sua ricerca di soluzioni ai nuovi problemi, sempre chiamata, come la ragione pratica, a mettere a prova il suo rigore e la sua coerenza e perciò sollecitata sempre a continuare la sua riflessione»117.
NOTE ALLA PRESENTAZIONE
1 C. Natali, Etica, in E. Berti [et al.], Guida ad Aristotele: logica, fisica, cosmologia, psicologia, biologia, metafisica, etica, politica, poetica, retorica, Laterza, Roma-Bari 1997, 20002 , pp. 241-282, p. 281. 2 Al commento analitico di questo capolavoro è dedicato un bel libro di G. Reale, La scuola di Atene di Raffaello, Bompiani, Milano 2005. 3 C. Natali, Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione, introduzione e note, con testo greco a fronte, Laterza, Roma-Bari 1999, p. XII. 4 E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992. Per un approfondimento della questione si rimanda anche ai vari studi contenuti in E. Berti.- L. Napolitano Valditara (a cura di), Etica, politica, retorica. Studi su Aristotele e la sua presenza nell'età moderna,Japadre, L'Aquila 1989. 5 Berti, Aristotele... , p. 3. Di tutto questo poi Berti dà ampie e documentate prove, pur ricordando che 20 , si è deciso, per ragioni di completezza e per evitare a chi legge il noioso e continuo rimando da un testo all'altro, di riproporre i tre libri, nella traduzione e nel testo greco a fronte, in entrambe le opere. Si è cercato, inoltre, sia in questa sede21 , sia nelle note, sia nell'Indice ragionato dei concetti, di individuare e di evidenziare per quanto è possibile i nessi e gli elementi di continuità tra le opere in questione, dal punto di vista formale, strutturale e contenutistico. Infine occorre precisare che, per ragioni puramente editoriali, sono state adottate, per le opere in questione, edizioni critiche diverse. L'edizione critica di riferimento dell'Etica Eudemia è quella curata da Franz Susemihl per la collana "Bibliotheca Teubneriana": Aristotelis Ethica Eudemia.
Eudemi Rhodii Ethica. Adiecto de Virtutibus et Vitiis Libello. Recognovit Franciscus Susemihl, editio stereotypa, Lipasiae 1884. L'edizione critica di riferimento dell'Etica Nicomachea, invece, è quella curata da L. Bywater per la collana "Scriptorum classicorum bibliotheca oxoniensis": Aristotelis Ethica Nicomachea. Recognovit brevique adnotatione critica instru-
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xit L. Bywater, Scriptorum Classicorum Bibliotheca Oxoniensis, Oxford Classical Texts 1894. Quanto alla Grande Etica l'edizione critica di riferimento è quella della collana "Loeb Classica! Library", London-Cambridge 1935, mentre per Sulle virtù e sui viz~ il testo greco è tratto dall'edizione Bekker (I. Bekker, a cura. di, Aristotelis Opera, Georg Reimer Verlag, Berlin 1831-1870). L'adozione di diverse edizioni critiche ha determinato un ulteriore problema per i cosiddetti libri comuni, che abbiamo riportato, nel caso dell'Etica Eudemia, nell'edizione curata da Franz Susemihl e rivista da Otto Apelt (1912) e, nel caso dell'Etica Nicomachea, nell'edizione curata da L. Bywater.
II. STATUS QUAESTIONIS DELLE TRE ETICHE
Prima di tentare di entrare più nello specifico nei contenuti delle opere in questione è necessario ricostruire, seppur a grandi linee e senza la minima pretesa di esaustività, un rapido status questionis22 . Data la notevole differenza strutturale tra le tre Etiche e il trattatello Sulle virtù e sui vizi, nonché la radicale sproporzione dal punto di vista del loro "peso" filosofico-ermeneutico e della loro "storia degli effetti" CWirkungsgeschichte) (come dimostra anche il semplice fatto che, come è stato già ricordato, a tutt'oggi non risulta esserci alcun'altra traduzione in italiano moderno del trattato Sulle virtù e sui vizi (ITEPI APETQN KAI KAKIQN23 ), tratteremo separatamente questi due gruppi di opere, concentrandoci per lo più sull'Etica Eudemia, l'Etica Nicomachea e la Grande Etica, e dedicando a Sulle virtù e sui vizi l'ultima parte di questo inquadramento generale delle opere in questione.
1. Breve inquadramento storico-filosofico delle tre Etiche Tentare di ripercorrere, anche solo sommariamente, lo sterminato e secolare dibattito sui tre scritti maggiori (cioè, appunto, l'Etica Nicomachea: gr. H0IKQN NIKOMAXEIQN, lat. Ethica Nicomachea; Bekker: 1094 a 1-1181 b 23; l'Etica Eudemia o Eudemea; gr: H0IKQN EY~HMIQN; lat. Ethica Eudemea o Ethica Eudemica, Bekker: 1214 a-1249 b 25 e la Grande Etica: gr. HE>IKQN MErAAQN; lat. Magna Moralia; Bekker: 1181 a 24-1213 b), costituisce un'impresa non solo ardua ma forse perfino irrealizzabile, se si pensa che, solo per quanto concerne l'Etica Nicomachea, è stato ricordato come «nessun'opera di Aristotele è stata oggetto di studio
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così intenso ai tempi nostri ... e per nessun'altra possediamo una serie così cospicua di esaurienti commentari>>24 . Per farsi un'idea dell'ampiezza e della complessità del dibattito e dell'interesse suscitato da quest'opera, ad esempio, basterebbe leggere la vastissima introduzione al commentario dell'Etica Nicomachea curato da Gauthier eJolif25, o il ricco contributo di Carlo Natali su Gli studi italiani sull'Etica Nicomachea dalla fine del sec. XIX a oggi26. Con la delineazione di questo breve status questionis, come è evidente, si è ben lungi dal pretendere di attraversare e dissodare un terreno così ampio e stratifìcato27, ma si vuole tentare esclusivamente di fornire alcune coordinate per affrontare la lettura dei testi in questione. In questo senso si è proceduto in maniera estremamente sintetica e schematica, facendo talvolta ricorso anche a tabelle riassuntive, al fine di permettere di visualizzare la questione tramite uno sguardo d'insieme. Si procederà, pertanto, ad un rapido inquadramento delle opere e del dibattito relativo ad esse.
1.1. Opere esoteriche 1.1.1 Osservazioni preliminari di carattere generale
C'è una nota quanto fondamentale distinzione che attraversa le opere aristoteliche28 , in base alla quale esse sono tradizionalmente suddivise in due grandi gruppi: a) da un lato ci sarebbero gli scritti cosiddetti essoterici (tçmi;EptKOÌ 'A6yot)29, per lo più composti in forma dialogica, che erano destinati ad un ampio pubblico e quindi a circolare al di fuori (f.çro, appunto) della scuola, e, dall'altro, b) gli scritti esoterici o acroamatici (dal greco È>3°. Sul senso da attribuire agli aggettivi "esoterico" e "essoterico" si è discusso fin dall'antichità31 , dando luogo
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ad una serie di posizioni interpretative32 che non è possibile ricostruire nemmeno sommariamente in questa sede. Un ulteriore elemento di discussione, che invece merita di essere quantomeno accennato, è quello riguardante il rapporto tra questi due gruppi di scritti e il valore da assegnare a ciascuno di essi. Sin dall'antichità ci si è chiesti, cioè, se ci troviamo di fronte ad opere diverse solo dal punto di vista formale o anche dal punto di vista contenutistico, ovvero, detto in altri termini, se le opere da noi possedute possano essere lette o meno in continuità con quelle andate perdute. Una prima e chiara risposta alla dibattuta questione viene fornita da Cicerone che, nel V libro del De finibus, afferma esplicitamente che tra i due tipi di scritti c'è una differenza solo formale e non contenutistica. Le opere essoteriche, quindi, stando alla testimonianza ciceroniana, si differenzierebbero da quelle esoteriche solo per il loro carattere divulgativo, cioè per il fatto di essere scritte "per il pubblico ordinario" (populariter scriptum), a differenza delle opere di scuola, scritte Hmatius (lett. "in modo più rigoroso"), ma non si differenzierebbero per un maggiore o minore grado di verità. D'altra parte, che la distinzione tra i due gruppi di opere possa essere posta solo dal punto di vista formale e non anche contenutistico, non determinando cioè uno iato, una sfasatura o comunque un insanabile mutamento di pensiero da parte del Filosofo, sembra essere attestatol dal fatto stesso che, come si vedrà più approfonditamente nella parte che segue, nelle stesse opere di cui ci stiamo occupando c'è il rinvio esplicito ad opere essoteriche, testimoniando come sia l'Autore stesso ad istituire una continuità tra di esse e a confermarne, anche se solo implicitamente, la coerenza dal punto di vista concettuale e contenutistico. Più in generale, e in assenza di prove contrarie, si può concordare pienamente con Diiring quando osserva che «non abbiamo ... alcun fondamento per supporre che nelle numerose opere che sono andate perdute Aristotele abbia esposto opinioni diverse o si sia occupato di settori della
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scienza diversi da quelli illustrati dalle opere conservate. Non esiste, in questo senso, un "Aristotele perduto">>33 .
1.1.2. Questioni specifiche Soffermandoci, invece, più nello specifico sulle opere in questione, si può osservare come, il fatto che tutte e tre le Etiche siano scritti esoterici34 , sia da considerare un dato incontrovertibile, in quanto desumibile da alcuni elementi presenti nei testi a nostra disposizione. Prima di passare sommariamente in rassegna questi elementi occorre osservare come le tre Etiche costituiscano un unicum all'interno della produzione dello Stagirita: 35. Un singolarissimo trittico, che, secondo alcuni, potrebbe essere addirittura arricchito dell'ulteriore quarto tassello del trattato Sulle virtù e sui vizi3 6, che testimonia l'assoluta centralità dell'etica all'interno del pensiero aristotelico. Lasciando momentaneamente in sospeso il problema dell'autenticità delle opere in questione3 7 e cercando di presentare, seppur in rapida successione, gli elementi a sostegno del carattere "esoterico" di tali scritti, si potrebbe partire da un primo e fondamentale dato: sia nell'Etica Nicomachea, sia nell'Etica Eudemia, si fa esplicito riferimento ad opere essoteriche implicando, con ciò, un distanziamento e l'implicita collocazione su un terreno diverso rispetto alle opere richiamate. In Etica Nicomachea I, 5, 1096 a 3-4, infatti, si legge: «Ma basta parlare di questi argomenti; infatti ne abbiamo parlato quanto basta nelle opere che circolano .
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1174 a-1176 a: piacere: intero a cui non può essere aggiunto nulla; il piacere è perfetto in ogni suo momento; il piacere si genera in corrispondenza di eiascun senso e perfeziona 1'attività come un completamento che vi si aggiunge; i piaceri estranei alle attività che si stan.no svolgendo sono d'ostacolo a quelle stesse attività; essere umano in buone condizioni è criterio e misura delle virtù e dei piaceri;
1246 b-1248 b: il fatto che un'azione riesca dipende anche dalla fortuna; la fortuna esiste ed è causa di beni e di mali; della fortuna non c'è scienza; sono fortunati coloro che hanno successo pur essendo privi di razionalità; esame delle varie forme di fortuna;
1176 a-1177 a: dopo aver parlato di virtù, amicizia e piaceri, occorre parlare a grandi linee della felicità, ricordando che: a) non è uno stato abituale ma un'attività; b) è fine ultimo; c) è attività secondo virtù; se, inoltre, è attività secondo virtù perfetta sarà una felicità perfetta;
1248 b-1249 b: dopo aver parlato delle virtù particolari, occorre parlare della bellezza e perfezione morale; è moralmente bello e perfetto chi possiede tutte le virtù; buono è colui per cui sono buone le cose buone per natura; esame della necessità di vivere subordinandosi al principio che comanda; bellezza e perfezione morale è ciò che permette di coltivare la contemplazione del dio.
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GRANDE ETICA
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ETICA NICOM. 1177 a-1178 a: l'attività perfetta è attività contemplativa: la più alta, la più continua, la più piacevole e la più autosufficiente, la più amata per se stessa; attività esercitata dall' essere umano in quanto in lui c'è qualcosa di divino; sono queste le caratteristiche della felicità perfetta;
1178 a-b: al secondo posto viene la felicità derivante da esercizio di virtù morali, cioè le virtù del composto: felicità umana, che necessita di beni esteriori in misura maggiore rispetto a esercizio dell'attività cont=plativa; 1178 b: attività contemplativa è perfetta, come risulta da attività degli dèi; più essere umano cont=pla più è felice; 1179 a: necessità della prosperità esteriore anche per chi cont=pla; dèi ricompensano con beni esteriori coloro che esercitano attività più elevate; essere umano più caro agli dei è il più felice;
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ETICA EUDEMIA
GRANDE ETICA
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ETICA NICOM.
ETICA EUDEMIA
GRANDE ETICA
1179 a-1181 b: indicazioni su come diventare virtuosi; insegnamento della virtù attraverso le leggi (potere coercitivo); legislazione ed indicazioni metodologiche su come affrontare la trattazione.
Ciò che sembra emergere immediatamente è, da un lato, l'assoluta affinità delle tre opere dal punto di vista contenutistico, e, dall'altro, la notevole vicinanza delle stesse anche da un punto di vista più propriamente strutturale. Come ha osservato giustamente Natali, «nello stato in cui ci sono pervenute, le tre Etiche hanno una struttura abbastanza simile, e i temi principali si succedono sempre nello stesso ordine: 1) il bene supremo e la felicità; 2) la virtù etica in generale e le virtù etiche particolari; 3) le virtù dianoetiche o intellettuali; 4) i vizi, la mancanza di autocontrollo; 5) l'amicizia; 6) la virtù perfetta, la felicità completa»211 . A partire, inoltre, dalla inevitabile presa d'atto della profonda affinità delle tre opere, anche da parte di chi riufìuta l'ipotesi che tutte e tre possano essere aristoteliche212 , sono state elaborate diverse riflessioni volte a sostenere, ora una vicinanza maggiore tra due di esse, ora una maggiore affinità tra altre due. A partire da Schleiermacher, ad esempio, ci si è resi conto che i nessi che potevano essere istituiti tra l'Etica Eudemia e la Grande Etica erano molto stretti, e che esse erano molto più legate tra di loro di quanto entrambe lo fossero rispetto all'Etica Nicomachea213. Ora, al di là del fatto che si tratta di una lettura che non risulta, a nostro avviso, totalmente supportata dai testi, nel
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senso che, per lo meno in alcuni casi, sembra poter essere ravvisata una maggiore vicinanza tra la Nicomachea e la Grande Etica, mentre in altri l'Eudemia sembra snodarsi lungo un percorso maggiormente affine a quello tracciato dalla Nicomachea, ciò che va osservato è che ci troviamo di fronte a un dato che, mentre in un'ottica unitaria non suscita alcun problema ma anzi costituisce un'ulteriore conferma dell'unità e della coerenza delle tre opere, risulta invece difficilmente· spiegabile alla luce di paradigmi evoluzionistici di varia natura. Più nello specifico si tratta di un dato che risulta particolarmente problematico nell'orizzonte dell'impostazione storico-genetica di stampo jaegeriano, per cui l'ordine secondo il quale le opere sarebbero state scritte, e sulla base della quale sarebbe possibile ricostruire una parabola evolutiva del pensiero dello Stagirita, verrebbe ad essere il seguente: Etica Eudemia-Etica Nicomachea-Grande Etica. Se le cose stanno così, però, come ha osservato giustamente Kenny2 14 , ci troveremmo di fronte ad una strana e inesplicabile vicinanza, contenutistica e strutturale, tra opere appartenenti a due momenti molto distanti dello sviluppo di pensiero del Filosofo, quale, appunto l'Etica Eudemia e la Grande Etica. Questo breve excursus e questo attraversamento, necessariamente incompleto, delle tre Etiche e del ricchissimo dibattito che le accompagna da millenni, sembra, quanto meno, aver evidenziato, da un lato, quanto ogni tentativo di ricostruzione del quadro storico-interpretativo di un mondo in cui ci si muove letteralmente fra rovine risulti inevitabilmente problematico e irrimediabilmente congetturale e, dall'altro, quanto dei testi che da più di 2500 continuano a far discutere possano continuare ad esercitare uno straordinario potere attrattivo e a destare un inalterato interesse.
IV BREVE INQUADRAlvIBNTO STORICO-FILOSOFICO DELL'OPERA SULLE VIRTù E SUI VIZI
1. Status quaestionis Come si è detto all'inizio dell'introduzione, in quest'ultima parte si accennerà al breve trattato TIEPI APETQN KAI KAKIQN, lat. De virtutibus et vitiis, (Bekker 1249 a 26-1251 b). Si tratta di un'opera generalmente poco letta e poco studiata, considerata spesso insignifìcate215 e totalmente da scartare216, nonostante il fatto che di essa ci sia pervenuta una ricca traduzione manoscritta217, e che, per lo meno fino al XIII secolo, circolasse insieme alle tre Etiche sotto il nome di Aristotele218 . La ragione di tale generale disinteresse nei confronti del trattato è, dunque, relativamente "recente", e risiede nel fatto che essa è tradizionalmente ritenuta spuria219 o, quantomeno, di origine incerta220 . Secondo alcuni interpreti essa risalirebbe all'epoca dello scolarcato di Teofrasto221, mentre secondo altri l'autore sarebbe da identificare in un eclettico222 o un peripatetico dell'inizio dell'era cristiana223 . Estremamente oscillante, di conseguenza, e ulteriormente problematico, risulta ogni tentativo di datazione della stessa: c'è chi ipotizza e chi il IV-III secolo a.C. 224 e chi, come Susemihl225 , la pone a cavallo tra il I secolo prima o dopo Cristo226 . Su una linea nettamente diversa rispetto a quest'ultima ipotesi di datazione si pone Gohlke quando, rilevando il forte "sapore" platonico dello scritto227, sottolinea come esso debba essere attribuito ad un Aristotele ancora molto vicino
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all'Accademia228 . Quest'opera, quindi, sulla cui autenticità, ad avviso dello studioso, non ci sono ragioni di dubitare229, va inquadrata in una prima fase del pensiero dello Stagirita, e va posta accanto alla Grande Etica. Secondo questa ricostruzione, inoltre, non solo le due opere aristoteliche andrebbero lette in continuità, ma alcuni passaggi della Grande Etica risulterebbero comprensibili solo a condizione di essere letti accanto ad altri passaggi del trattato Sulle virtù e sui vizi230 . Sulle virtù e sui vizi costituirebbero, dunque, l'opera etica aristotelica più antica231, seguita, nell'ordine, dalla Grande Etica, dall'Etica Eudemia e dall'Etica Nicomachea 232 . Al di là delle osservazioni specifiche condotte da Gohlke, molte delle quali anche condivisibili (come per esempio l'osservazione, solo apparentemente banale, che se l'opera fosse davvero inautentia e fosse stata scritta da un epigono del maestro dopo le altre Etiche, non si capisce perché avrebbe dovuto .figurare tra gli scritti aristotelici), ci sembra che, più in generale, sia possibile affermare quello che, mutatis mutandis, abbiamo osservato a proposito delle Etiche. Se da un lato, infatti, non possediamo gli strumenti per determinare con assoluta certezza né l'autenticità dello scritto né tantomeno la sua datazione, dall'altro, in linea di principio, viene da chiedersi perché escludere a priori che si tratti di un"'opera" aristotelica, o comunque di uno scritto di scuola, redatto a scopo didattico o ipomnemtico233 . Dal punto di vista contenutistico, infatti, non sembra esserci qualche elemento234 di contrasto o anche solo di disomogeneità rispetto alle altre opere etiche, tale da poter escludere la paternità aristotelica dello scritto. Per di più l'opera sembra costituire il tentativo, dal "sapore" tipicamente aristotelico, di riassumere (senza ridurre) i vari significati delle nozioni prese in esame, visualizzando, seppur in modo estrememente rapido e con un ritmo molto serrato235 , i vari significati della questione esaminata.
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2. Struttura e contenuti Lo scritto, che costituisce certamente un'opera di scuola236, è molto breve e, come indica il titolo stesso, parla, in modo sintetico e in forma estremamente schematica, delle virtù e dei loro contrari. L'opera risulta essere strutturata nel modo che segue: Cap.1 (1249 a26-1250 a2)
Definizione delle virtù e dei vizi in generale ed esame del rapporto tra vizi virtù e parti dell'anima.
Cap.2 (1250 a 3-1250 a 15)
Elenco delle seguenti virtù: l. saggezza 2. mitezza 3. coraggio 4. temperanza 5. continenza 6. giustizia 7. generosità 8. fierezza
Cap.3 (1250a16-1250 a29)
Elenco dei seguenti vizi: 1. stoltezza 2. irascibilità 3. viltà 4. intemperanza 5. incontinenza 6. ingiustizia 7. avarizia 8. piccineria
Cap.4 (1250 a 30-1250 b 12)
Esame delle caratteristiche delle seguenti virtù: 1. saggezza 2. mitezza 3. coraggio 4. temperanza
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Cap.5 (1250 b 12-1250 b 42)
Cap.6 (1250 b 43-1251a29)
Cap. 7 (1251 a 30-1251b25)
Cap.8 (1251b26-1251b37)
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Esame delle caratteristiche delle seguenti virtù: 5. continenza 6. giustizia 7. generosità 8. fierezza Esame delle caratteristiche dei seguenti vizi: 1. stoltezza 2. irascibilità 3. viltà 4. intemperanza 5. incontinenza Esame delle caratteristiche dei seguenti vizi: 6. ingiustizia 7. avarizia 8. piccineria Conclusioni sulla virtù e sul vizio in generale
Come si evince dallo schema appena proposto, l'opera, pur nella sua estrema brevità, risulta perfettamente dotata di unità e di coerenza, procedendo in modo ordinato e snodandosi lungo un percorso assolutamente lineare: 1. introduzione; 2. elencazione di 8 virtù e di 8 vizi; 3. esame specifico, secondo la sequenza indicata nell'elenco, di ciascuna virtù e di ciascun vizio; 4. conclusione. Si tratta, come è evidente, di uno scritto che non è destinato alla pubblicazione e di una sorta di compendio, che
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non solo presenta una natura squisitamente didattica, ma che addirittura, come si accennava, sembra avere le caratteristiche di una sorta di memorandum. Il fatto, inoltre, che lo scritto non abbia né l'ampiezza, né lo spessore filosofico, né riproduca minimamente la struttura delle tre Etiche non pregiudica, per lo meno in linea di principio, la sua autenticità. A livello contenutistico, infatti, come si ricordava, non solo non sono evidenziabili elementi di rottura rispetto alle altre tre opere, ma viene prospettato un quadro delle virtù e dei vizi assolutamente coerente con quello delineato più ampiamente dalle Etiche, come risulta evidente anche dall'Indice ragionato dei concetti~ a cui si rimanda. Anche in questo piccolo scritto, dunque, sembrano poter essere rinvenute le caratteristiche salienti di un pensiero affascinante e fecondo come quello aristotelico, la cui forza risiede nella capacità di rendere costantemente conto della straordinaria ricchezza del reale, ricostruito sempre attentamente e meticolosamente nelle sue molteplici pieghe, con uno sguardo acuto e, insime, rispettoso. «Aristotele è abbastanza vicino agli albori della filosofia da essere ancora in grado di sentire e formulare senza imbarazzo questioni elementari e vederne con chiarezza, nelle linee generali, le possibili soluzioni. Non è gravato, come capita a noi, del peso di una tradizione di tecnicismi e teorie. Ma, al tempo stesso, egli è abbastanza progredito ed esperto da poter argomentare in modo raffinato, elaborando concetti e teorie sottili efertili. La mescolanza di un'immediatezza quasi infantile con una profonda potenza intellettuale costituisce in buona parte il fascino di Aristotele. Ed è ciò che rende la sua filosofia facile da accostare, ma difficile da abbandonare>>237.
RINGRAZIAMENTI
Questa traduzione delle opere etiche aristoteliche, che è il frutto di alcuni anni di lavoro, è stato seguito in tutte le sue fasi, con estrema cura e con grande rigore, dal Prof. Maurizio Migliori, a cui vanno tutta la mia riconoscenza e la mia stima. Oltre a lui vorrei ringraziare le Dott.sse Lucia Palpacelli, Marina Bernardini e Beatrice Bernasconi, che hanno contribuito, con generosità e competenza, a seguire alcuni passaggi cruciali del lavoro, fornendo preziose indicazioni sul piano della traduzione e dei contenuti. Molto proficuo, inoltre, si è rivelato il dibattito avviato, in occasioni diverse, con la Prof.ssa Maria Letizia Perri, che ha mi ha permesso anche di ripensare e ricalibrare alcuni snodi concettuali della riflessione etica di Aristotele, e con le Prof. sse Linda Napolitano Valditara e Cristina Rossitto. Vorrei inoltre ringraziare, per gli importanti suggerimenti relativi alla traduzione di alcuni termini, la Prof.ssa Carla Danani e il Dott. Salvatore Lavecchia. Un ringraziamento, inoltre, a Patrizio Ciabocco, per aver fornito delle coordinate fondamentali per orientarsi nell'attraversamento di alcuni snodi specifici del discorso aristotelico e al Dott. Marco Permani, per la preziosa collaborazione tecnica, nonché per il sostegno "fraterno". Fondamentale anche la collaborazione di Alberico Montecchiari e di Giuliana Menichelli, che hanno contribuito con grande disponibilità e professionalità alle ricerche bibliografiche e al reperimento di testi, e del Prof. Giuseppe Girgenti, che ha seguito con grande attenzione e competenza la sistemazione e la revisione finale del testo. A questi ringraziamenti specifici si deve aggiungere lari-
conoscenza per quanti, a diverso titolo, hanno reso possibile la realizzazione di questo lavoro. Innanzi tutto un doveroso e sentito ringraziamento al Prof. Giovanni Reale, che mi ha voluto onorare della sua fiducia, affidandomi questo compito e fornendomi, con ciò, una fondamentale occasione di crescita. Una gratitudine profonda, poi, verso mio padre e mia madre, per l'aiuto, il sostegno e la costante presenza amorevole. L'ultimo ringraziamento va a mio marito Marco, senza la cui cura questo lavoro non avrebbe mai visto la luce.
NOTE AL SAGGIO INTRODUTTNO
1 U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003. 2 G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. 46. 3 «Tradurre significa sempre "limare via" alcune delle coseguenze che il termine originale implicava. In questo senso, traducendo, non si dice mai la stessa cosa» (Eco, Dire..., pp. 93-94). 4 La negoziazione è quel «processo in base al quale, per ottenere qualcosa, si rinuncia a qualcos'altro-e alla fine le parti in gioco dovrebbero uscirne con un senso di ragionevole e reciproca soddisfazione, alla luce dell'aureo principio per cui non si può avere tutto» (Eco, Dire..., p. 18). 5 (H.G. Gadamer, Aristoteles. Nikomachische Ethik 6., hrsg. und iibersetzt von HansGeorg Gadamer, Klostermann, Frakfurt a. Main 1998; trad. dal tedesco F. Bolina, Aristotele, Ethica nicomachea libro VL introduzione e commento di Hans-Georg Gadamer, trad. italiana a fronte, Il melangolo, Genova 2002, p. 9). 7 «Dal punto di vista logico, a livello di micro-argomentazione, nella massima parte dei casi la struttura del discorso aristotelico nell'Etica Nicomachea è molto semplice: p, infatti q. Aristotele, cioè, invece di dedur-
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NOTE AL SAGGIO INTRODUTI1VO
re una tesi da una serie di premesse, tende ad affermare immediatamente la sua tesi (p) e successivamente, di solito nello spazio di due o tre righe, a confermare quanto ha detto o con un argomento, o con un esempio, o con l'indicazione della causa (infatti q; ad esempio q; la causa di ciò è q). La dimostrazione nei vari capitoli si costruisce di solito per aggiunzione di queste cellule argomentative minuscole, spesso semplicemente giustapposte... , spesso disposte a catena>> (C. Natali, Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione, introduzione e note, con testo greco a fronte, Laterza, Roma-Bari 1999, p. IX). 8 Come ha osservato a proposito dell'Etica Nicomachea J. Voilquin, Aristate. Éthique de Nicomaque, texte, traduction et notes, Garnier, Paris 1950, p. IV, «certamente si ha l'impressione di un'opera completa, che obbedisce ad un piano unitario, ma la maggior parte della quale è stata redatta in modo frettoloso, con una scarsa attenzione allo stile, e la cui preoccupazione fondamentale è quella di avere sotto mano i riferimenti, gli esempi utili ad una dimostrazione. In breve, si tratterebbe di annotazioni, destinate a facilitare la relazione per un corso pubblico piuttosto che di un lavoro al quale l'autore avrebbe dato l'ultima mano». 9 vaµtç où8Eµi.a) possono dire che il proprio fine è il bene, ma il compito di affrontare una questione di questo tipo spetta a un'altra disciplina (aÀ.À.T)ç 8uvuµEroç)» (Grande Etica I, 1, 1182 b 23-24; corsivi nostri). Esempi analoghi possono essere rinvenuti, ad esempio, a proposito della politica, che viene prima definita una 8-6vaµ1ç (Grande Etica l, 1, 1182 b 1), e poi un'èntcr'tTtµT) (Grande Etica I, 1, 1183 a 33), e a proposito dell'architettura che, mentre in Grande Etica I, 34, 1198 a 33-34 viene detta essere una scienza (hì tàç È.1tl>. 87 «Cicerone, quindi, è testimone del fatto che al suo tempo l'Etica Nicomachea non godeva del primato che è venuta ad assumere nelle generazioni successive, in quanto espressione canonica del pensiero etico di Aristotele» (Kenny, Aristotelian Ethics.. ., p. 17). Quest'opera, che è stata certamente la più letta e la più commentata, è diventata, come è stato ricordato, «per antonomasia, l'Etica di Aristotele. La quale, introdotta a Parigi sin dal 1215, fu la più popolare delle opere aristoteliche, riassunta, tradotta, commentata in ogni tempo e in ogni nazione; in Italia specialmente, nell'ultimo medioevo e nell'età della Rinascenza. Da san Tommaso a Dante si operò rapidamente la sua compenetrazione con la morale civile del tempo, preparandone la più rigogliosa :fioritura, avvenuta quando negli ozi intellettuali ed eleganti delle Signorie cinquecentesche parve rinnovarsi lo splendore dell'età di Pericle» (A. Carlini, Aristotele, !;etica Nicomachea, Laterza, Bari 1955, p. 6). «Da molti secoli l'Etica Nicomachea è considerata come l'Etica di Aristotele. Dal periodo bizantino sopravvivono venti manoscritti dell'Etica Nù:omachea; dell'Etica Eudemia solo 81
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due» (Kenny, Aristotelian Ethics.. ., p. 1). D'altra parte, come osserva lo studioso, la "supremazia" dell'Etica Nicomachea sulle altre Etiche si afferma solo dopo il II secolo d.C.: «Gli autori antichi, fino al II secolo d.C., non considerano l'Etica Nicomachea come caratterizzata da quella supremazia sull'Etica Eudemia che le è stata assegnata dall'ultimo millennio e anche più» (Kenny, Aristotelian Ethics.. ., p. 5). 88 Come ricorda Kenny, Aristotelian Ethics.. ., pp. 12 ss. i riferimenti di Teofrasto alle Etiche aristoteliche sono da riferirsi all'Etica Eudemia piuttosto che alla Nicomachea. Lo stesso dicasi per altri peripatetici quali, ad esempio, Senarco di Seleucia (che fu alla guida della scuola nel I secolo a.C.). Su tutta la questione cfr. Kenny, Aristotelian Ethics.. ., pp. 1-49. D'altra parte va anche ricordato che nel catalogo delle opere di Aristotele redatto da Andronico di Rodi nel I secolo a.C. mancava proprio l'Etica Nicomachea, mentre sono riportate, rispettivamente al n. 35 e al numero 36, la Grande Etica in due libri e l'Etica Eudemia in otto libri (indicazione, quest'ultima, che costituisce anche un'informazione importante per la questione, di cui ci occuperemo nello specifico più avanti, dell'attribuzione dei considdetti "libri comuni"). Non solo, quindi, non c'è una supremazia l'Etica Nicomachea, ma addirittura si assiste a una sorta di primato dell'Etica Eudemia, come dimostra il fatto che in alcuni autori (come ad esempio in Favorino di Arles, secondo quanto ci.viene riportato da Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi V, 21) è l'Etica Eudemia ad essere menzionata come "!"'Etica di Aristotele (cfr. Kenny, Aristotelian Ethics.. ., pp. 26-28). 89 Lo stesso Kenny, Aristotelian Ethics.. ., p. 17, che ritiene che la Grande Etica· non sia autentica, è costretto curiosamente a ricordare come Cicerone, nel De finibus bonorum et malorum, Il, VI, 18-19, affermi che per Aristotele la prosperità non era solo condizione o strumento della virtù, ma anche elemento essenziale della felicità, questione che viene affrontata, appunto, nella Grande Etica: «Cicerone attribuisce ad Aristotele una definizione della felicità come l'esercizio della virtù accompagnata dalla prosperità di una vita completa. Questa definizione è probabilmente più vicina a quella fornita nella Grande Etica piuttosto che in qualsiasi altra delle Etiche autentiche>>. 90 «Il primo di tutti è quello di Aspasio di Atene della prima metà del II secolo d.C., che riguarda i libri 1-4, 7 e 8. Poi c'è il commentario a Etica Nicomachea 2-5, pubblicato in CAG 20, che può derivate da Adràsto di Afrodisia» (R. Sorabji, The ancient commentators on Aristotle, in R. Sorabji, ed., Aristotle Transformed. The ancient commentators and their inf/.uence, Duckworth, London 1990, p. 16). Sui commentari antichi dell'Etica Nicomachea cfr. H.P.F. Mercken, The Greeks Commentators in Aristotle's Ethiès in R Sorabji, ed., Aristotle Transformed.. ., pp. 407-444.
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91 «li relativo silenzio dell'antichità riguardo l'Etica Nicomachea termina con Aspasia, autore di un commentario interlineare sull'Etica, che è il primo di tuttti i commentari aristotelici che ci sono rimasti. Nello scritto di Aspasia ci troviamo di fronte alla situazione che, da secoli, ci è diventata familiare: l'Etica Nicomachea è l'opera sicuramente aristotelica, l'Etica Eudemia è il trattato problematico sulla cui attribuzione ci sono pareri discordanti, considerata ora come opera autentica di Aristotele, ora come l'opera del suo discepolo Eudemo» (Kenny, Aristotelian Ethics .. ., p. 29). 92 Emblematica di questo modo di procedere è la riflessione condotta da Pierluigi Donini all'interno del sùo studio, già ricordato, I.:etica dei Magna Moralia, il quale procede costantemente sulla scorta di un continuo avvicinamento-e-distanziamento, ovvero attraverso un modello "sì, ma". Dopo aver, ad esempio, affermato che «la formulazione del programma del corso posta proprio all'inizio del libro (brnifrrì n:pompouµE0a 'A.ÉyEiv i:mÈp 'Ì)01K'.éòv) corrisponde al carattere generale degli esordi aristotelici» (p. 3) aggiunge (pp. 3-4): «eppure c'è in queste linee (intendo MM 1181a 24-b28) una nota che invano si cercherebbe nei proemi ai libri di Aristotele: voglio dire una specie di formalismo o schematismo, che sembra più di scolaro e di commentatore che di maestro e che si rivela quando vediamo l'autore chiedersi subito, come prima questione da trattare (n:péò'tov, 1181 a24) "di che cosa sia parte la scienza degli 11011 e poi rispondere che la trattazione degli 11011 "è parte e punto di partenza" della politica ... , e precisare quale sarebbe l'esatta denominazione del corso: K'.aÌ 'tTtV Èn:rovoµiav 01Kairoç oOK'.Et cxv µ01 EXElV Ti n:payµa'tEia o'Òic fi0tKTtV à.'A.'A.à n:o'A.1nK'.fiv (1181b 27-28). Le introduzioni di opere aristoteliche, che pur sono opere di scuola, non hanno mai un tono così scolastico; questa problematica (partizioni della fìloso:fìa, titolo del trattato), che, di fatto, non si ritrova mai in Aristotele, sembrerebbe piuttosto tipica di un commentatore». Analogamente, in Donini, Etica dei Magna Moralia .. ., p. 5, si legge, a proposito del presunto autore dell'opera, che «la convinzione da lui espressa è certamente nell'ortodossia aristotelica, ma la pagina di MM presuppone come fondamento metodico l'intera etica di Aristotele>>, mentre a p. 15 l'autore scrive che «la struttura dell'introduzione dei MM, nella successione dei diversi temi, si rifà alla struttura del primo libro dell'EN» (p. 15). Sulla stessa linea sembrano porsi Ollé Laprune, Essai..., p. 298, quando afferma che «nella Grande Etica troviamo un testo che, senza essere di Aristate, è nondimeno conforme, mi sembra, al suo spirito» (Ollé-Laprune, Essai..., p. 298); Cooper (cfr. J.M. Cooper, The Magna Moralia and the Aristotle's Moral Philosophy, «AmericanJournal of Philology» 94, 1973, pp. 327-349), secondo cui lo stile non è quello di Aristotele ma l'opera è una trascrizione accurata delle prime lezioni aristoteliche intorno alle
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materie morali; Irwin, Nicomachean Ethics .. ., p. XXI, il quale, mentre da un lato attesta che l'opera non è stata scritta da Aristotele, dall'altra afferma che essa potrebbe contenere la dottrina aristotelica, anche se diversa sia dall'Etica Eudemia che dall'Etica Nicomachea; Caiani, Etiche..., p. 35, secondo cui «è evidente che l'autore dei Magna Moralia conosce sia l'Etica Eudemea sia l' Etica Nicomachea e che si ispira ora all'una ora all'altra, senza però l'attitudine del semplice copista; egli non si perita di riassumere o sviluppare le argomentazioni in chiave personale :finanche... al fraintendimento; ma rimane comunque il più antico dei "commentatori" di Aristotele e, in quanto tale, merita una certa considerazione». 93 Donini, Etica dei Magna Moralia .. ., p. 4. Secondo lo studioso, inoltre, nell'opera sarebbe rilevabile il tentativo del presunto autore dell'opera «di adeguarsi al metodo aristotelico» (Donini, Etica dei Magna Moralia .. ., p. 14). Ci sono, peraltro, a fronte delle incoerenze rilevate da Donini tra la Grande Etica e le altre Etiche (o, meglio, l'Etica Nicomachea, dato che l'autore sembra dubitare anche dell'autenticità dell'Eudemia), su cui non è possibile soffermarsi analiticamente, numerose altre affinità tra le opere. Tra queste, ad esempio, l'individuazione delle caratteristiche fondamentali della felicità: «le due proprietà che definiscono l'eudaimonia aristotelica, 'tÉÀ.oç ed ÈvÉpycw., sono note all'autore dei MM» (Donini, Etica dei Magna Moralia ..., p. 41). 94 Donini, Etica dei Magna Moralia .. ., p. 85, n. 10. Proprio per questo, secondo lo stesso Donini, «è importante definire :fino a qual punto giunga l'aristotelismo dell'autore» (p. 132). 95 «È chiaro, finalmente, che non senza qualche riserva si parlerà di aristotelismo nei MM: in un senso, infatti, non c'è niente di aristotelico nei MM come non c'è niente di qualsiasi altro pensatore, perché l'autore dei MM non è Aristotele, è se stesso e sente e espone a suo modo l'etica. In altro senso, tutto o quasi tutto quel che c'è nei MM può esser detto aristotelico, perché l'anonimo tratta un complesso di temi e di problemi che, pur sentiti in altro modo, anche sono di Aristotele. Decidere caso per caso, tema per tema, quando e quanto l'autore creda di essere aristotelico, è impossibile e, in fondo, non è essenziale alla comprensione dei MM» (Donini, Etica dei Magna Moralia .. . , pp. 224-225). Analogamente Volpi, Dizionario ... , p. 63, ha affermato, riferendosi alla Grande Etica, che «la dottrina qui esposta corrisponde in tutto e per tutto a quella dei trattati di etica considerati autentici». 96 Cfr. W. Jaeger, Aristoteles: Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin 1923. In realtà, prima di Jaeger, ci furono altri due :filologi tedeschi a rivendicare l'autenticità dell'opera: si tratta di P. von der Mii.hll (De Aristotelis Ethicorum Eudemiorum auctoritate, Dieterich, Gottingen 1910) e di E. Kapp (Das Verhaltnis der eudemischen zur niko-
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machischen Ethik, Freiburg 1921), ma è solo con Jaeger che si inaugura formalmente la stagione di "riabilitazione" dell'Etica Eudemia. 97 J.M. Cooper, The Magna Moralia and Aristotle's Mora! Philosophy, in , 94 (1973), pp. 327-349. 98 Cfr. Dirlmeier, Aristoteles, Magna Moralia .. ., cit. In un primo momento, invece, Dirlmeier fu sostenitore dell'inautenticità dell'opera. Cfr. F. Dirlmeier, Die Zeit der grossen Ethik, «Rheinisches Museum», 88 (1939), pp. 214-224. 99 Cfr. Elorduy, Los Magna Moralia .. ., cit., il quale sostiene che mentre la Grande Etica è un'opera di Aristotele, l'Etica Eudemza e l'Etica Nicomachea costituirebbero degli appunti dei suoi discepoli. 100 Cfr. Gadamer, Etica Nicomachea ... , cit. 101 Gohlke, Die Entstehung.. ., cit. 102 V. Masellis, Nuovi Argomenti per l'autenticità della "Grande etica': «Rivista di Filologia e di istruzione classica>>, N.S. 3~ (1954), pp~168-188. Ad avviso dello studioso l'opera deve essere ritenuta autentica anche per ragioni stilistiche, oltre che contenutistiche: >, 46, 1948, pp. 343-345). Secondo alcune interpretazioni ci sarebbero, quindi, due corsi di morale tenuti da Aristotele: uno ad Asso (all'incirca negli anni intorno al 347), che corrisponderebbe all'Etica Eudemia, e un altro ad Atene (nel periodo che va dal 335 fino al 322, anno della morte del Filosofo), che corrisponderebbe all'Etica Nicomachea. Quindi, in generale, stando ad un settore della critica, l'Etica Eudemia deve essere considerata la più antica delle tre, e come appartenente ad una fase "più platonica" rispetto alle altre. 159 Ci sono anche studi specifici sulla cronologia dei singoli libri. Cfr., ad esempio, Léonard, Bonheur.. ., pp. 195-200: Appendice II: Chronologie du VIe livre de l'Éthique à Nicomaque; pp. 201-208: Appendice III: Chronologie du livre de l'Ethique à Nicomaque. Sulla questione cfr., tra gli altri, Kenny, Aristotelian Ethics.. ., cap. 9: The Dating of the Aristotelian Ethical Treatises. 160 N.O. Dahl, Practical reason, Aristotle and the Weakness of the Will, University of Minnesota Press, Minneapolis 1984. l6l Cfr. Gauthier-Jolif, Éthique ... , II, 1, p. 1, che precisano «è vero che è al suo primo corso di morale, cioè all'Etica Eudemia, che pensa normalmente Aristotele nei suoi rinvii». 162 «Si ritiene generalmente (ma non universalmente) che l'Etica Eudemia ... sia anteriore all'Etica Nicomachea» (Irwin, Aristotle, Nicomachean Ethics.. ., p. XXI). l63 Jaeger, conformetnente alla sua interpretazione genetica, ritiene che l'Etica Eudemia costitisca la Urethik, appartenente al cosiddetto periodo intermedio, mentre al terzo periodo del suo pensiero e della sua produzione apparterrebbe, tre le altre opere, l'Etica Nicomachea. 16 4 Cfr. A. Kenny, The Aristotelian Ethics. A study of the relationship between the Eudemian and Nicomachean Ethics o/ Aristotle, Clarendon Press, Oxford 1978. l65 J.D. Monan, Mora! Knowledge and its Methodology in Aristotle, Clarendon Press, Oxford 1968. 166 Cooper, Reason .. ., p. XI: «La Grande Etica sembra riportare ... le lezioni tenute da Aristotele sull'etica molto prima della composizione dell'Etica Eudemia, e pertanto rappresenta la prima versione della teoria morale di Aristotele». l67 La precisazione è resa necessaria dal fatto che Dirlmeier ha cambiato idea su questo terreno. Infatti, mentre in un primo momento (cfr. F. Dirlmeier, Die Zeit der grossen Ethik, «Rheinisches Museum», 88, 1939,
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pp. 214-243), sulla base di un'affermazione presente nel testo attribuibile a Diodoro Siculo, e che quindi giustificherebbe una datazione contemporanea o posteriore al personaggio, aveva datato la redazione dell'opera nella seconda metà del II secolo, nel suo successivo commento all'opera (Cfr. F. Dirlmeier, Aristoteles, Magna Moralia, iibersetzt und kommentiert von F. Dirlmeier, Zweite, durchgesehene Auflage, Akademia Verlag, Berlin 1958, 1983 4) ha sostenuto che la Grande Etica costituisce la prima delle tre etiche aristoteliche. 168 «Sebbene, relativamente alle dottrine, la tendenza dei MM manifesti un grande distacco da Platone, sotto l'aspetto formale e nella formulazione linguistica questa etica sta con i dialoghi di Platone in un rapporto più diretto che le posteriori etiche ... Che i MM siano strettamente collegati, per il contenuto e per la terminologia, alle opere di Aristotele riconosciute come giovanili, è stato provato da Dirlmeier; e altrettanto, che questioni che nei MM sono ancora insolute vengano nuovamente riprese e siano risolte nell'EE... è perfettamente chiaro che i MM sono più vicini all'EE che all'EN» (Diiring, Aristotele..., p. 500). La conclusione a cui arriva lo studioso è, pertanto, che «i MM sono un primo abbozzo autonomo, sono la prima schematica stesura della teoria etica di Aristotele» (Diiring, Aristotele..., p. 500). 169 V. Masellis, Nuovi Argomenti per l'autenticità della "Grande etica", >. 213 Cfr. Kenny, Aristotelian Ethics.. ., p. 9. Anche secondo Pirrone, Due nuovi argomenti... , p. 18, ci sarebbe una maggiore vicinanza strutturale tra la Grande Etica e l'Etica Eudemia, mentre, «più indipendente dallo schema della G.E. è la Nicomachea». Infatti, continua lo studioso, «la G.E. finisce ... con la questione sulla possibilità di abusare della virtù del pathos e con le teorie sulla fortuna, sulla virtù perfetta e sulla retta ragione. Gli stessi argomenti nello stesso ordine, se anche diversamente trattati, si trovano nell'Eudemia e ne costituiscono la conclusione, come prova il fatto che nella Nicomachea essi sono sostituiti dalla seconda trattazione del piacere e dalla più appropropriata conclusione intorno alla felicità. La G.E. e l'E.N. concludono conformemente alla loro premesse, l'una trattando della virtù suprema e della norma della virtù, l'altra della vita contemplativa in cui consiste la felicità. J;E.E., invece, imposta il suo problema come la Nicomachea e conclude come la G.E.». (Pirrone, Due nuovi argomenti... , p. 20). 214 Kenny, Aristotelian Ethics.. ., p. 9: «sembrò strano che la prima e l'ultima etica assomigliassero l'una all'altra più di quanto ciascuna di esse assomigliasse a quella intermedia». 215 «Quest'opera è interessante come esempio del modo in cui la riduzione di Aristotle alla forma scientifica del sistema etico lasciato intravvedere da Platone, è stato successivamente sistematizzato e stereotipato da pensatori più mediocri» (H. Racliliam, Aristotle, The Athenian Constitution, The Eudemian Ethics; On virtues and vices, The Loeb classicallibrary, Harvard University Press, Cambridge-London 1935, vol. XX,p.484). 21 6 «Opera insignificante, di cui Aristote non è certamente l'autore, e che, fosse solo per la sua brevità, è totalmente da scartare» (J. Tricot, Aristate. Éthique à Nicomaque, nouvelle traduction avec introduction, notes et index, Vrin, Paris 1979, p. 10). 217 M. Cortesi-E.V. Maltese, Ciriaco d'Ancona e il'De virtutibus' pseudoaristotelico, «Studi Medievali», 33 (1992), p. 145, osservano come ci sia «una ricca tradizione manoscritta dell'opuscolo pseudo-aristotelico», e ricordano (p. 145 n. 50) come esistano una «ventina di manoscritti conservati in biblioteche italiane». 218 «Questa è la storia... delle versioni impiegate nel XIII secolo... delle tre o piuttosto delle quattro opere sulla morale che circolavano allora sotto il nome di Aristotele» (A. Pelzer, Les versions latz"nes des ouvrages de morale conservés sous le nom d'Aristote en usage au XIII" siècle,
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«Revue Néo-scolastique de Philosophie», 23, 1921, p. 323). Sulla tradizione latina medievale dell'opera cfr., in particolare, pp. 321 ss. 21 9 Cfr. Caiani, Etiche di Aristotele..., p. 29, n. 9. 220 Su questa linea si pongono Berti, Guida ad Aristotele..., p. 19: «il De virtutibus et vitiis è di autenticità molto dubbia» e Diiring, Aristotele..., p. 43, n. 214, quando la annovera fra altre opere del corpus di origine incerta quali IIepì CXKOU0'1:WV, Ilepì ch6µcov ypaµµéòv, Ilepì eauµacri.cov aKoucrµai:rov, IIepì K6crµou, MTtxavtKa, IIepì 3gvocpavouç, IIE:pì ZiJvcovoç, Il!òpÌ fopyi.ou, Oi.KovoµtKéx, Ilepì nvdiµai:oç, IIpo!D..iJµai:a, ·p'Tl1:0PtKT\; npòç 'Aì..é1;a.v8poç, ucrwyvcoµovtKéx, Il!òpì cpui:éòv, II!òpì xproµai:cov, Hist.an.VII, IX, Metaph. Kappa. 221 «L'operetta, che probabilmente risale all'epoca dello scolarcato di Teofrasto ... non è un'etica vera e propria: mancano in essa, in particolare, gli elementi centrali della filosofia aristotelica» (Jori, Aristotele..., p. 39). 222 Gauthier-Jolif, Éthique.. ., I, 1, p. 99, definiscono «il piccolo trattato pseudo-aristotelico Le virtù e i vizi» una «raccolta di definizioni d'ispirazione eclettica». Dello stesso avviso risultano essere Susemihl e Zeller. 223 Tricot, Aristate. Éthzque à Nicomaque.. ., p. 10. 224 Cfr. E. A. Schmidt, Aristoteles, Ueber die Tugend; in Aristoteles werke: in deutscher ubersetzung, iibersetzt und erlautert von E.A. Schidt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft Darmstadt 1965, Akademie, Berlin 198él3. 225 F. Susemhil, Aristotelis Ethica Eudemia: Eudemi Rhodii Ethica: adiecto De virtutibus et vitiis libello, recognovit Franciscus Susemihl, in aedibus B. G. Teubneri, Leipzig 1884, Bibliotheca scriptorunt Graecorum et Romanorum Teubnerian, p. XXXI, sostiene che l'opera sia stata redatta tra il I secolo a.C. e il I d.C., da un autore non molto abile, apparentemente un peripatetico, che ha cercato di conciliare la morale aristotelica con quella platonica. 22 6 Cfr. anche Gauthier-Jolif, Éthique.. ., I, 1, p. 99. Secondo questa interpretazione l'opera verrebbe ad essere contemporanea al trattato Il!òpÌ na.9éòv (Le passioni) dello pseudo-Andronico «che ne riprende la materia e vi incorpora una serie di definizioni stoiche» (p. 99). Sulla questione cfr. anche The Greek commentaries of the Nicomachean ethics of Aristotle in the Latin translation of Robert Grosseteste, Bishop of Lincoln (1253), I: Eustratius on Book I and the anonymous scholia on Books II, III, and IV, critical ed. with an introductory study by H. Paul F. Mercken, E. J. Brill, Leiden 1973, 19912 , vol. III, pp. 36 ss. 227 Gohlke, Grosse Ethik .. ., p. 6. La vicinanza a Platone emergerebbe soprattutto a 1249 a 31, in cui Aristotele fa propria la tripartizione platonica dell'anima.
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intellettuale. Infatti, lodiamo non solo coloro che sono giusti, ma anche coloro che sono intelligenti e coloro che sono sapienti; in effetti si è ammesso-5 9 che è meritevole di lode la virtù oppure la funzione specifica, e queste non mettono in attività, mentre ci sono attività che derivano da queste. Poiché, inoltre, le virtù intellettuali sono connesse alla ragione, tali virtù sono proprie della parte razionale, cioè di quella parte dell'anima che possiede la ragione atta a comandare, mentre le virtù morali sono proprie della parte che è sì irrazionale, ma che per natura è capace di seguire la parte razionale; infatti, non diciamo nulla del carattere di una persona quando diciamo che è sapiente o abile, ma quando diciamo che è mite o temeraria. Detto ciò, occorre esaminare in primo luogo, a proposito della virtù morale, che cos'è e quali sono le sue parti (infatti eravamo arrivati qui) 60 , e con quale mezzi si genera. Dunque bisogna ricercare come fanno tutti negli altri ambiti, quando già posseggono una qualche nozione dell'oggetto, cosicché, attraverso ciò che si dice essere vero, anche se non in modo chiaro, si cerchi di comprendere l'oggetto in modo vero e in modo chiaro. Ora, infatti, la nostra condizione è come se sapessimo che la salute è la migliore disposizione del corpo e che Corisco è il più scuro degli individui che si incontrano in piazza; infatti, hon sappiamo che cosa sia ciascuno dei due e, tuttavia, per conoscere che cosa ciascuno di essi sia, è necessario trovarsi in questa condizione. Si ammetta, dunque, in primo luogo, che la disposizione migliore deriva dai fattori migliori e che, per ciascuna cosa, le cose migliori provengono dalle virtù di ciascuna, come per esempio sono gli esercizi :fisici migliori e il cibo migliore quelli da cui deriva una buona forma :fisica, e dalla buona forma :fisica derivano gli esercizi migliori; inoltre, ogni disposizione è generata e corrotta in qualche modo dagli stessi fattori, applicati in un modo o in un altro, come la salute è generata o corrotta dall'alimentazione, dagli esercizi e dal tempo 61 • Queste cose, poi, risultano chiare per via induttiva. Anche la virtù,
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meno; adulatore, poi, è colui che elogia più di quanto è opportuno, mentre colui che elogia meno di quanto si deve è ostile; da un lato, poi, la compiacenza consiste nel fatto di essere troppo disposto a procurare piacere, mentre la superbia consiste nell'esserlo poco e a fatica; inoltre, chi non sopporta nessun dolore, nemmeno se sarebbe meglio sopportarlo, è smidollato, mentre chi resiste indifferentemente a ogni dolore è, per dirla in breve, privo di nome, anche se metaforicamente viene detto duro, miserabile e nato per sopportare fatiche. Presuntuoso, invece, è colui che stima se stesso più del dovuto, mentre piccino d'animo è chi si stima di meno di quanto dovrebbe; dissipatore, inoltre, è colui che eccede in ogni spesa, e avaro chi difetta in tutte; lo stesso dicasi per il meschino e per lo spaccone, perché l'uno eccede rispetto al conveniente, l'altro difetta; e il furbo è colui che vuole trarre vantaggio in tutti i modi e da ogni situazione, mentre l'ingenuo non trae vantaggio neppure da dove si dovrebbe; invidioso, d'altro canto, è colui che si addolora per il successo altrui più di quanto si deve (infatti anche coloro che meritano il successo, proprio per la loro prosperità, addolorano gli invidiosi), mentre l'individuo ad esso contrario è privo di nome ed è colui che eccede nel non addolorarsi neppure di fronte a coloro che non meritano il successo che hanno, anche se va dètto che costui è un tipo che si accontenta facilmente, come i golosi davanti al cibo, mentre l'invidioso è incontentabile, proprio a causa dell'invidia. Inoltre stabilire, per ogni singolo caso, che esso deve possedere queste caratteristiche in modo non accidentale sarebbe superfluo; infatti nessuna scienza, né teoretica, né produttiva, dice o agisce aggiungendo questa precisazione, ma essa serve solo contro gli inganni degli artifici logici. Si diano dunque semplicemente queste definizioni, e quando parleremo degli stati abituali opposti entreremo più nello specifico67. Le diverse specie di queste passioni, poi, ricavano il loro nome dall'eccesso o di durata o di intensità o di qualche altro loro elemento costitutivo. Intendo dire, per esempio, che
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essere stabilito da quella stessa ma da altre facoltà. Su tali questioni, inoltre, bisogna esprimersi in modo più chiaro. Allora: c'è una certa facoltà dell'anima che chiamiamo abilità; essa è tale da renderci capaci di compiere e di cogliere le azioni che ci portano allo scopo prefisso. Ora, se lo scopo è bello, tale facoltà è lodevole, ma se lo scopo è riprovevole essa si trasforma in furbizia; per questo, infatti, chiamiamo abili sia i saggi sia i furbi. La saggezza, d'altro canto, non è identica a tale facoltà, ma non si dà senza di essa. Inoltre tale stato abituale non si realizza nell'occhio dell'anima senza virtù, come abbiamo già detto e come del resto è chiaro; infatti i sillogismi che sono alla base delle azioni suonano così: "dato che il fine e la cosa migliore sono di questo tipo ... ", qualsiasi cosa esso sia; poniamo, tanto per dire, che sia una cosa qualunque. Ma tale principio non risulta evidente a chi non è virtuoso, dato che il vizio stravolge e fa cadere in errore riguardo ai principi pratici. Di conseguenza è chiaro che è impossibile essere saggi senza essere virtuosi. Quindi bisogna tornare a prendere ìn esame la virtù. Infatti anche la virtù si trova in una situazione analoga: coma la saggezza sta all'abilità (pur non essendo identica ma simile), così anche la virtù naturale sta alla virtù strictu sensu. Tutti, infatti, sono del parere che ciascun tipo di stato abituale, in qualche modo, ci appartiene per natura (infatti subito, sin dalla nascita, siamo giusti, temperanti, coraggiosi e così via); ma, in realtà, noi cerchiamo qualcosa di diverso, cioè il bene in senso stretto, e che tali qualità ci appartengano in un altro modo. Infatti gli stati abituali naturali appartengono anche ai bambini e alle bestie, ma senza intelletto esse sono dannose, come è evidente. Comunque sia, è possibile osservare almeno questo e cioè che, come a un corpo forte privo di vista capita di cadere rovinosamente a terra per il fatto di non possedere la vista, anche in questo caso si verifica la stessa cosa; quando uno avrà acquistato l'intelletto agirà in modo diverso, e lo stato abituale, pur essendo simile a quello naturale, sarà virtù strictu sensu. Di conseguenza, come vi
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