Le sette colonne della Sapienza. Arti ed alchimia nel Campanile di Giotto 8856402181, 9788856402186

Il saggio propone un'originale lettura dei caratteri storici, artistici e architettonici del Duomo di Firenze visto

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Le sette colonne della Sapienza. Arti ed alchimia nel Campanile di Giotto
 8856402181, 9788856402186

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STORIE DEL MONDO 16

RENZO MANETTI

Le sette Colonne della Sapienza Arti ed Alchimia nel Campanile di Giotto

www.mauropagliai.it

© 2014 EDIZIONI POLISTAMPA Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) [email protected] - www.leonardolibri.com ISBN 978-88-564-0218-6

“La Sapienza si è costruita la casa; vi ha innalzato sette colonne” (Pb. 9,1)

SOMMARIO

Introduzione

pag.

9

1. L’archetipo dell’albero cosmico o della conoscenza

»

11

2. L’archetipo della femminilità celeste ed i Fedeli d’Amore

»

19

3. Il Fiore della cattedrale di Firenze

»

39

4. Il Campanile, Pilastro della Sapienza

»

49

5. Le formelle alchemiche del Campanile

»

65

Bibliografia

»

83

INTRODUZIONE

Questo libro nasce dalla rivisitazione di un saggio che ho scritto molti anni fa, uscito nella mia raccolta “Desiderium Sapientiae” pubblicata dall’editrice Giuntina nel 1996. Vi si interpretava il campanile di Giotto come Pilastro della Sapienza e le formelle cosiddette dei pianeti, che lo impreziosiscono, come un’allegoria delle operazioni alchemiche. In questi anni non ho mai smesso di riflettere sul simbolismo della cattedrale di Firenze e del suo campanile, trovando sempre nuove evidenze e conferme a quella mia lettura. Nel frattempo ho scritto anche diversi saggi sulle icone della Madonna del Parto collegandole ai Fedeli d’Amore, questa confraternita esoterica a cui si deve la concezione dell’amore di molti poeti stilnovisti, primo fra tutti Dante. Questo studio propone una lettura nuova della cattedrale come Dimora della Sapienza, come icona della Madonna incinta che nasconde dentro di sé un Verbo che attende di manifestarsi. Le Madonne del Parto, che appaiono in Toscana proprio negli anni della costruzione di Santa Maria del Fiore, sono a mio parere il simbolo dell’attesa messianica di un popolo che sperava in un profondo rivolgimento dei tempi e della Chiesa, quale aveva profetizzato Gioacchino da Fiore. Accanto alla cattedrale il campanile ne completava il simbolismo, come Pilastro della Sapienza in cui si manifesta un itinerario esoterico che culmina nella visione profetica. Di questo percorso fanno parte le formelle, nelle quali il simbolismo dei pianeti si rivela quello delle operazioni alchemiche. Un particolare ringraziamento va all’amico Daniel Vogelmann, dell’editrice Giuntina, che ha collaborato a questo progetto editoriale mettendo volentieri a disposizione le pellicole del “Desiderium Sapientiae”. Un ringraziamento anche all’Opera di Santa Maria del Fiore, al suo Presidente Franco Lucchesi, al suo consigliere Francesco Gurrieri ed al suo archivista Giuseppe Giari che ha cercato e fornito per questa pubblicazione le immagini in possesso dell’Opera. RENZO MANETTI 9

1.

L’ARCHETIPO DELL’ALBERO COSMICO O DELLA CONOSCENZA

L’albero cosmico è uno dei simboli più antichi dell’umanità. Dalle radici saldamente piantate nella terra e la chioma immersa nel cielo, rappresenta il misterioso passaggio che collega le due dimensioni, quella materiale e quella spirituale, delle quali cielo e terra sono allegorie. Possiede un significato analogo anche il pilastro del cielo, che non sostiene la calotta celeste come verrebbe da pensare ma, come l’albero, la collega alla terra1. Il cielo è la sede delle anime e della divinità suprema in tutte le culture antiche. Anche Cristo insegna a pregare il Padre nostro che è nei cieli. Il cielo è dunque simbolo della realtà trascendente. Eppure c’è qualcosa di più. I nostri antenati avevano la piena consapevolezza che tutto è frutto di una medesima energia vitale, la quale ogni cosa permea, ad ogni cosa dà movimento, ogni cosa rinnova in un vortice perenne che si manifesta in modo uguale dall’infinitamente piccolo del mondo subatomico all’infinitamente grande delle galassie. Ogni energia che muove il cosmo ha origine in una fonte eterna ed inesauribile e questa fonte è un’energia intelligente. A dimostrarlo è la presenza stessa dell’intelligenza in mezzo a noi. La troviamo al suo grado più alto nell’uomo, quindi negli animali; ma anche il mondo vegetale possiede una sua intelligenza istintiva e non è sbagliato pensare che nelle pietre si condensi una sorta di memoria delle ere passate. Non c’è niente sulla Terra che non esista anche nell’universo. L’intelligenza non può dunque essere un unicum, un appannaggio esclusivo della nostra specie: se si manifesta sul nostro pianeta, significa che essa è diffusa ovunque nel cosmo ed anzi è lecito pensare che ne rappresenti la struttura più intima; non è dunque sbagliato l’at-

1

Vedi Eliade 1981, pp. 43 e sgg. e 1992, pp. 18 e sgg.

11

Le Sette Colonne della Sapienza

teggiamento degli antenati che guardavano al cielo come alla sua fonte. Sia in senso simbolico che letterale, il Padre-Madre, l’origine e la sorgente perenne della nostra intelligenza e della vita sta proprio nel Cosmo. E questa sorgente è pura Intelligenza essa stessa. Tradizionalmente usiamo chiamarla Dio. Così il percorso sapienziale si è sempre manifestato come un’ascensione al cielo ed il simbolo più efficace per rappresentarlo è stato quello dell’asse verticale che la natura offriva sotto forma di albero o di monte. Gli alberi sembravano attirare ed incanalare l’energia celeste, come dimostrava il fatto che su di essi si abbattevano i fulmini. I riti più antichi si svolgevano dunque sui monti o di fronte agli alberi più alti. Poi gli antenati hanno appreso il potere della pietra, questa materia apparentemente inerte eppure carica di energia. La pietra apparve loro come un condensatore nel quale si raccoglievano le forze che vibrano in questo nostro mondo. Alzarono pietre al cielo, infiggendole saldamente nel terreno. Collocarono questi menhir nei luoghi dove più intensamente avvertivano emergere le correnti telluriche che si agitano nelle viscere incandescenti del nostro pianeta, permettendo a queste di incontrare le forze che discendono dal cosmo, dai pianeti, dal sole, dalle profondità siderali. Si accorsero che la pietra infissa vibrava impercettibilmente sotto la cascata delle opposte energie e che questo aveva un’influenza salutare sul corpo e sulla psiche, liberando la mente dai vincoli della materia. Così i menhir divennero circoli megalitici o torri possenti come quelle dei nuraghi, nello spazio circoscritto dei quali corpo e mente si immergevano in un bagno di energia. Qui le barriere del tempo sembravano allentarsi e la mente proiettarsi nel passato e nel futuro, in una dimensione misteriosa che fu chiamata eternità. Questo asse benefico che incanala la forza del cielo è comune a tutte le culture antiche sotto le forme più diverse, dall’albero sacro dei druidi, ai totem delle genti d’America, agli obelischi egiziani dal vertice d’oro, allo stesso bastone sacro dei capitribù e dei sacerdoti. È per questo che sacerdozio e regalità si fregiavano e si fregiano tuttora del bastone, come quello delle figurine votive degli abitanti dei nuraghi, come lo scettro dei sovrani, come il pastorale dei vescovi cristiani. Anche la bacchetta del mago svolgeva la stessa funzione catalizzatrice. Il simbolo dell’Albero cosmico è al centro anche del racconto della Genesi. In esso si parla prima di un albero posto al centro del giar12

1. L’archetipo dell’albero cosmico o della conoscenza

dino, poi di due, quello della Vita e l’altro della Conoscenza, ma tutto il racconto fa capire con chiarezza che entrambi sono due aspetti di una medesima realtà. In antichi testi gnostici copti, gli alberi dell’Eden diventano cinque, come le vergini dei Vangeli2. Il numero cinque è sempre stato associato allo spirito. Per gli antichi la manifestazione dello spazio e del tempo si articolava sul numero quattro: quattro i punti cardinali, quattro gli elementi che parevano comporre la materia (acqua, aria, terra e fuoco), quattro le fasi lunari che determinarono i calendari più remoti, quattro le stagioni calibrate sui cicli del sole. La figura umana sembrava invece imperniata sul cinque che rappresentava il quinto elemento, lo spirito etereo, che rende l’uomo superiore alla realtà apparente della manifestazione. La pluralità degli alberi dell’Eden, sia nel racconto biblico che nei simboli gnostici, può corrispondere dunque ai diversi stati che formano la coscienza ed ai gradini da salire per ricostituire la completezza primordiale della persona: in una parola a quell’unico albero cosmico simbolo della natura divina dell’uomo e dello stato di perfezione originale3. La Genesi narra il dramma ed il mistero della rottura dell’unità originaria fra uomo e Dio: cogliendo il frutto di un solo albero, cioè introducendo la diversità dove prima era l’unità, Adamo infranse la completezza della sua natura e separò la Terra dal Cielo, l’Uomo dal Creatore. I testi gnostici descrivono questo evento ancestrale mediante il simbolismo della caduta sulla terra della Sapienza di Dio, che si separò così dalla integra totalità dello stato primordiale4. Da allora Sophia, la Sapienza, decaduta nella materia, ricerca la sua origine ed il ricongiungimento con il suo principio. L’umanità è il corpo mistico di Sophia e brama di ritrovare la perfezione perduta. Il luogo dove gli antichi innalzavano un pilastro celeste era considerato l’ombelico della comunità. L’ombelico è infatti il centro di ogni persona, perché è la sede del cordone che lega alla madre il feto e gli consente di maturare fino alla nascita. L’asse cosmico è il cordone ombelicale che collega il nostro spirito con la sua fonte celeste, da 2

Vedi Puech 1985, pp. 413 e sgg.; e Davy 1980, p. 249. “Il nous, con le cinque membra che gli sono immanenti, costituisce l’uomo o, più esattamente, lo Spirituale, quale era in origine, qual’è e rimane in se stesso in virtù della sua natura primitiva. Esso corrisponde allo stato in cui si trovava l’uomo nel Paradiso…” Puech 1985, p. 415. 4 Puech 1985, pp. 180 e 271. 3

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Le Sette Colonne della Sapienza

dove proviene l’alimento spirituale che gli permette di crescere fino alla rinascita, al ritorno nel divino. Nel corpo umano l’ombelico è considerato dallo yoga un centro sottile: attraverso di esso, controllando e indirizzandovi la respirazione, il prana penetra nel corpo infondendovi l’energia pulsante del cosmo. Anche nell’Esicasmo, l’antica pratica mistica della chiesa d’oriente, l’ombelico assumeva un ruolo fondamentale nella respirazione associata all’invocazione del Nome di Gesù; esso vi diventava una porta che univa il microcosmo umano al macrocosmo divino5. Gli antichi avevano anche notato che l’ombelico divide il corpo umano in due parti fra loro proporzionali secondo il rapporto aureo, simbolo dell’incommensurabilità della dimensione divina. Vitruvio dal canto suo considerava l’ombelico il centro del corpo e su di esso costruiva la figura dell’uomo inserito nel cerchio, che tanta suggestione avrebbe suscitato nell’Umanesimo6. Leonardo riprese quest’immagine aggiungendo all’uomo nel cerchio anche quello nel quadrato: egli disegnò un solo corpo, i cui arti ruotano a determinare entrambe le figure geometriche, rimanendo fissi solo l’ombelico e la testa. Il quadrato è individuato dalle gambe erette e dalle braccia a squadra, il cerchio da braccia e gambe divaricate a formare triangoli, simbolo di divinità. Il cerchio è simbolo del cielo, perché la volta celeste ci appare come una calotta sferica; il quadrato lo è della terra, perché la dimensione dello spazio-tempo è regolata dal numero quattro. Nella figura umana di Leonardo troviamo dunque rappresentata l’unione di cielo e terra, che è quanto Pico della Mirandola aveva spiegato nella sua Oratio De Hominis Dignitate: “Ti ho collocato come centro del mondo perché da lì tu potessi meglio osservare tutto quanto è nel mondo. Non ti creammo né celeste né terrestre, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa forgiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare

5

Vedi Poli 1981; Vannucci 1978, Eliade 1992, p. 22. “Il centro parimente, ossia il mezzo del corpo umano, naturalmente è l’umbilico; perciocché, ove l’uomo si ponga supino colle mani e co’ piedi stesi, e, fatto centro colle seste nell’umbilico, si descriva un cerchio, toccherà esso colla sua circonferenza gli estremi delle dita delle mani e de’ piedi” in L’architettura di Vitruvio nella versione di Carlo Amati, 1988, 2 voll., libro III capitolo I, p. 70. Sull’ombelico ed il rapporto aureo vedi AA.VV., Raffaello e la sezione aurea, 1984. 6

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1. L’archetipo dell’albero cosmico o della conoscenza

negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nelle creature divine”7. L’uomo è la congiunzione del cielo e della terra, dello spirito e della materia. È questo il senso della figura trimorfa che troviamo in alcuni amboni medievali, come quello di San Miniato al Monte di Firenze: un uomo che poggia i piedi sulla testa di un leone e sulla propria sorregge un’aquila8. Il trimorfo identifica l’uomo stesso come asse cosmico, tramite fra le dimensioni dell’esistenza transitoria e di quella celeste, perché il leone è il re del regno animale mentre l’aquila lo è del cielo, unico essere animato in grado di sostenere la vista del Sole. È un simbolo analogo all’albero cosmico anche alla scala che Giacobbe vide nel sogno, lungo la quale salivano e scendevano gli Angeli. La Scala di Giacobbe è diventata nella tradizione mistica il simbolo più efficace del passaggio che l’uomo può aprirsi verso il Cielo, essa è infatti destinata a noi prima che agli angeli: la meditazione rabbinica, così attenta ai significati nascosti delle parole della Scrittura, si è sempre interrogata sul perché Giacobbe vedesse gli angeli prima salire e poi scendere, quando la logica vorrebbe che dal cielo prima si scenda e poi si risalga. La spiegazione più convincente che la mistica ebraica è riuscita a trovare è semplice e sorprendente: gli angeli visti in sogno da Giacobbe siamo in realtà noi uomini e donne che, attraverso una transitoria trasmutazione spirituale, possiamo infrangere le barriere dello spazio e del tempo e percorrere i giardini dell’Eden, per essere poi ricondotti interiormente trasfigurati sulla terra: “Un’attenta lettura del testo rivela che gli angeli salivano e scendevano sulla scala. La successione è errata: se gli angeli stanno in cielo, l’ordine non dovrebbe essere inverso, cioè scendevano e salivano? La tradizione rabbinica offre diverse spiegazioni possibili… Gli angeli non stavano affatto in cielo, vivevano sulla terra ed erano dei comuni essere umani…”9. Paradossalmente il percorso della Scala è in realtà una discesa più che un’ascesa: i mistici ebraici che ricercavano l’estasi attraverso rigorose tecniche ascetiche si definivano Yoredè Merkavah, cioè coloro

7

Giovanni Pico della Mirandola Oratio de Hominis Dignitate, 2003; 21, 23. Vedi il mio La lingua degli angeli, Firenze, Polistampa, 2009, pp. 75 e sgg. 9 Kushner 1994, pp. 12-13. 8

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Le Sette Colonne della Sapienza

che scendono verso il Carro. Il Carro è il Trono di Dio, secondo la visione che ne ebbe il profeta Ezechiele il cui libro, insieme con quello della Genesi, è uno dei due fondamenti dell’esoterismo ebraico. Coloro che scendono verso il Carro hanno dunque la consapevolezza che il Trono sta nel profondo della coscienza e che salire la scala di Giacobbe significa in realtà addentrarsi nel mistero di Sophia, immagine luminosa che è il centro nascosto, l’ombelico spirituale del nostro essere10. I testi gnostici descrivono questo percorso interiore con l’allegoria delle nozze mistiche fra l’uomo e la sua Immagine archetipa, simboleggiata ora dalla veste luminosa ora dalla perla: Subito vidi la veste e mi parve che di me fosse lo specchio, e tutto intero in essa mi scorsi, e grazie ad essa mi conobbi e vidi me stesso; ché, in parti divisi pur venendo da una forma sola ora uno eravamo di nuovo in virtù di quell’unica forma11. Nell’ombelico della comunità, gli antichi hanno da sempre costruito edifici di pietra, che in uno spazio circoscritto incanalassero in modo uniforme l’incontro delle opposte energie: torri, piramidi, templi a pianta centrale. Tutti manufatti cioè che implicano sia l’individuazione di un centro che quella di un asse verticale, immagini simboliche dell’albero cosmico. Fra le piante centrali occupa un posto particolare quella ottagonale, perché l’ottagono rappresenta nella geometria sacra il passaggio dal quadrato simbolo della terra al cerchio simbolo del cielo. Per questo essa è stata fin dall’antichità impiegata nei battisteri: come l’ottagono lega il quadrato al cerchio, così la rinascita nell’acqua congiunge l’uomo alla sua fonte originaria12. 10

Sugli Yoredè Merkavah vedi Scholem 1993, pp. 53-58; Goetschel 1995, pp. 25 e sgg., Tretti 2007, p. 273 e Laras 2006, pp. 181 e sgg. 11 Angelino 1987 (a cura di), Il canto della Perla (Acta Thomae 108-113), p. 37. 12 Vedi Guenon 1975, pp. 222 e sgg., pp. 234 e sgg.; e Davy 1988, pp. 191 e sgg. Sul valore simbolico del numero otto in Gregorio di Nissa, in Sant’Ambrogio e nell’architettura paleocristiana con particolare riferimento alle piante dei battisteri,

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1. L’archetipo dell’albero cosmico o della conoscenza

In epoca bizantina importanti cattedrali vennero dedicate alla celeste Sophia: nella loro architettura il simbolismo ascensionale dell’Albero della Vita e del centro del mondo è evidente nell’adozione ricorrente di piante centrali. Fu il caso di Santa Sophia a Costantinopoli e delle numerose chiese bizantine a pianta centrale, nelle quali il cubo del mondo è sormontato dall’immensa cupola celeste. Fu il caso di Santa Sophia di Edessa, collocata nel punto di incrocio fra la cultura mediterranea e quella mesopotamica, che oggi è scomparsa, ma della quale un antico inno minuziosamente descrive il simbolismo cosmico. Le parole dell’inno rivelano esplicitamente i caratteri perenni dell’architettura sapienziale, che diventa manifestazione del divino nel mondo e la cui costruzione costituisce un atto sacro e di perfezionamento interiore. L’edificio sacro, costruito secondo le leggi eterne ed immutabili del cosmo, vibra in sintonia con esso come un inno perenne, aiutando l’anima a raggiungere il suo principio: “A Te, Essenza che risiedi nel Tempio Santo, nel Tempio la cui gloria, per sua natura, viene da questa Essenza. Donami la grazia dello Spirito per parlare del Tempio di Edessa. È Basaleel che costruì il Tabernacolo per servirci da tipo, quest’uomo fu istruito da Mosé. E furono Amidonio e Asaph e Addai che costruirono per Te ad Edessa il Tempio glorioso. Manifestamente essi hanno rappresentato in esso i Misteri della Tua Essenza e del Tuo piano di Salvezza… Infatti è realmente ammirevole che nella sua piccolezza esso sia paragonato al vasto mondo… E la sua cupola elevata, ecco che è paragonabile al cielo dei cieli… I suoi archi, grandi e splendidi, rappresentano i quattro lati del mondo… Il suo marmo è paragonabile all’Immagine non fatta da mano d’uomo e le sue pareti ne sono rivestite armoniosamente; e per il suo splendore, tutto lucente e tutto bianco, esso raduna in sé la luce, come il sole… Elevati sono i misteri di questo Tempio concernenti i cieli e la terra…”13.

vedi Marco Rossi e Alessandro Rovetta Indagini sullo spazio ecclesiale della Gerusalemme Celeste in AA.VV., La Gerusalemme Celeste, 1983, pp. 77-118. 13 Cit. in Passuello, Dissegna 1976, pp. 113-115, vedi anche AA.VV., La Gerusalemme Celeste, 1983.

17

2.

L’ARCHETIPO DELLA FEMMINILITÀ CELESTE ED I FEDELI D’AMORE

Nella teologia cristiana la Divina Sapienza si identifica con Cristo. La grande chiesa di Costantinopoli, Santa Sophia, ebbe dunque come giorno della dedicazione il 25 dicembre e, pur essendo a pianta centrale, fu dotata di una piccola abside orientata verso sud est al sorgere del sole nel solstizio di inverno, in prossimità del Natale. Altre cattedrali nella Chiesa orientale furono dedicate alla Santa Sophia, molte delle quali in Russia: così a Kiev, Novgorod, Polock. Ma, contrariamente a quella di Costantinopoli, tutte queste ebbero il giorno della loro dedicazione in una festa mariana, fosse questa l’Assunzione il 15 agosto, o la Natività l’8 settembre. In Russia Sophia fu dunque associata alla Madre di Dio e non a Cristo, tanto che le sue chiese furono denominate “casa della Dei para”. In una lettera del metropolita Iona del 1458 si legge esplicitamente: “La Sophia va intesa come la purissima e immacolata vergine Dei para”14. Questa identificazione fu esportata anche in Occidente, come dimostra un’iscrizione latina del XII secolo nella chiesa romana di Santa Maria in Cosmedin, nella quale si definisce Maria come “Sophia di Dio”. Il poeta Enrico di Meissen, contemporaneo di Dante, in un inno celebra Maria con parole che ricalcano quelle bibliche sulla Sapienza: “Io sono lo specchio limpido e puro nel quale Dio per primo si riconosce; io ero con lui quando egli progettò il mondo”15. Che è un’evidente parafrasi di Proverbi 8, 30: “Quando disponeva le fondamenta della terra io ero con lui quale architetto”. Assai più spazio occorrerebbe per riflettere sui motivi del rinnovato culto della Madonna nel XII secolo, che cronologicamente si accompagna al diffondersi delle eresie gnostiche provenienti dalla Grecia e 14

AA.VV., Sophia la Sapienza di Dio, 1999, p. 34; sulla femminilità di Sophia vedi in particolare le pp. 5 e 32. 15 Heinz Mohr, Sommer 1989, p. 153.

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Le Sette Colonne della Sapienza

dai Balcani, in primo luogo quella catara. Nello stesso tempo assistiamo alla comparsa in Provenza della Cabbalà ebraica, che presenta una concezione della femminilità celeste con caratteristiche analoghe a quella di Maria. La Cabbalà si sviluppa probabilmente dall’antica mistica ebraica della Merkavà, i cui adepti si spingevano in un pericoloso percorso verso i misteri del Carro di Ezechiele16. La Cabbalà insegna che Iddio si manifesta nel cosmo attraverso dieci aspetti o emanazioni, articolate in una trinità superiore ed in un settenario inferiore. Le sette sephirot inferiori sono identificate con le sette voci per mezzo delle quali è avvenuta la creazione o con i sette ordini emanati “per guidare i mondi segreti che non sono stati svelati ed i mondi che sono stati svelati”17. Queste energie intelligenti, ipostasi di un’unica fonte, vengono rappresentate come un albero, il cosiddetto albero delle Sephirot che presenta un’evidente analogia con quello posto in Eden. In alto troviamo Keter, la Corona, l’aspetto inconoscibile della sovranità misteriosa ed assoluta, alla quale seguono i due aspetti della Sapienza: Hokhmah, la Conoscenza, e Binah, l’Intelligenza. Al di sotto l’albero sviluppa i suoi rami con altre sei sephirot: Chesed, la grazia, Geburà, il rigore, Tifereth, la misericordia, Nezach, la perseveranza, Hod, la maestà, Jesod, il fondamento o trono. La decima sephirà18, la base dell’albero piantata nella terra, è detta anche piccola Hokhmah, piccola Sapienza, con un chiaro riferimento alla dottrina gnostica valentiniana di un Sophia superiore e di una inferiore19. Questa ultima sephirà, chiamata Schekhinah o Malkhut, Presenza gloriosa dell’Eterno nel mondo della manifestazione, è intesa come un elemento femminile interno al divino, quasi dotato di una propria autonomia20.

16 Vedi Goetschel 1995, p33 e sgg.e Scholem 1980 p. 124: “Per quanto possano essere sottili i fili che legano la tradizione cabbalistica più antica all’eredità gnostica, anche in un senso storico, tuttavia l’esistenza di questi fili mi sembra sicura”. 17 Zohar, 11; ediz. Toaff, 1988, p. 4. 18 Sephirà è il singolare del plurale sephirot. 19 Nel logion 39 del Vangelo di Filippo leggiamo: “Una cosa è Achamot e un’altra cosa è Echmot. Achamot è semplicemente Sophia, mentre Echmot è la Sophia della morte. È questa che conosce la morte e che è chiamata piccola Sophia”. 20 “Essa è vista come un aspetto di Dio, che viene concepito come elemento femminile al suo interno e diventa quasi autonomo… È vista come il femminile in genere che integra il momento umano maschile, è contemporaneamente madre,

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2. L’archetipo della femminilità celeste ed i Fedeli d’Amore

Si tratta di una teologia dell’eterno femminino, già sottintesa in quella sorprendente immagine di Dio che la Genesi indica con un termine plurale, gli Elohim. In Dio convivono infatti sia il maschile che il femminile. È significativo che nel Bahir, il primo dei testi cabbalistici (XII sec.), la Shekhinah sia definita con una terminologia analoga a quella che la Gnosi utilizzava per Sophia: “Il Bahir parla di una principessa venuta da lontano, presa dalla parte della luce e che corrisponde alla figlia della luce degli antichi inni gnostici”21. Questa Presenza femminile appare anche nella gnosi sciita islamica, che la identifica con Fatima, la figlia del Profeta. Si tratta di una convergenza sorprendente, sia per il tema che per la contemporaneità dell’elaborazione, che dimostra un legame stretto dell’esoterismo delle grandi religioni monoteiste. Fatima rappresenta ad un tempo sia la comunità dei credenti che l’anima trasfigurata: “Fatima-Sophia è l’Anima, l’Anima della creazione, l’anima di ogni creatura, e cioè quella parte costituiva dell’essere umano che si presenta alla coscienza essenzialmente sotto la forma di un essere femminile, Anima. Essa è l’eterno femminino nell’uomo e per questo l’archetipo della Terra Celeste; essa è il paradiso e ne è l’iniziazione”22. Come Fatima, anche la Shekhinah si identifica sia con l’anima individuale che con la comunità dei credenti, l’Ecclesia di Israele23. Ma questo ruolo non è analogo a quello che il Cristianesimo attribuisce a Maria? Maria è infatti ad un tempo figura dell’Ecclesia, cioè del popolo cristiano, e di ogni anima che pronuncia il suo assenso silenzioso all’irradiazione dello Spirito. Abbiamo visto che le chiese russe intitolate alla Santa Sophia sono in realtà dedicate a Maria e che l’identificazione fra la Madre di Dio e

sposa e figlia, anche se si manifesta in una maniera diversa in ciascuno di questi differenti aspetti. L’istituzione di un elemento femminile all’interno di Dio è ovviamente uno dei passi più ricchi di conseguenze che la Kabbalah abbia fatto e cercato di giustificare con un’esegesi di tipo gnostico” Scholem 1980, pp. 133-134. 21 Goetschel 1995, p. 71. 22 Corbin 1986, p. 87. 23 “Due altri simboli, fra i molti, hanno un’importanza decisiva per la comprensione della Shekhinah cabbalistica: la sua identificazione con l’Ecclesia mistica di Israele da un lato e con l’anima (Neshamah) dall’altro… L’interpretazione allegorica del Cantico dei Cantici nel senso della relazione di Dio con l’Ekklesia ebraica,

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Le Sette Colonne della Sapienza

la Sapienza appare anche in Occidente. In russo, come in greco, la parola “Sophia” è femminile, come lo è il termine “Sapienza” in latino e nel volgare medievale. Se dunque l’associazione di Cristo con il Verbo e con il Logos non incontrava ostacoli fonetici essendo entrambi vocaboli maschili, l’uno nella lingua latina e l’altro in quella greca, quella con la Sapienza doveva risultare meno comprensibile. Appariva dunque più facile e spontaneo collegare la Sapienza alla Donna celeste, a Maria-Sophia. L’idea gnostica delle due Sophie, che corrispondevano nella Cabbalà alla Sapienza (Hokhmah) ed alla Piccola Sapienza (Shekhinah), offriva anche ai Cristiani una duplicità con la quale risolvere la contraddizione: Sapienza di Dio il Figlio, Dimora della Sapienza la Madre e dunque partecipe della Sapienza Ella stessa. La radice Skhn di Shekhinah in ebraico significa Dimora e conferma l’analogia della decima sephirà con Maria. Parallelamente si sviluppò una diversa visione della figura di Sophia, assai più vicina all’antica Gnosi: quella della Donna Angelo cantata dai trovatori provenzali e dai poeti Stilnovisti. L’identificazione della Donna con Sophia è evidente nei cosiddetti Fedeli d’Amore24. che era un dato antichissimo della tradizione ebraica, non conteneva ancora la minima traccia di un’elevazione mistica dello stato dell’Ekklesia a quello di una potenza o ipostasi divina. Né la letteratura talmudica identifica mai la Shekhinah con l’Ecclesia. Del tutto diversamente procede la Kabbalah, dove proprio questa identificazione trae seco la completa irruzione dell’elemento femminile nella sfera del divino. Tutto ciò che nelle interpretazioni talmudiche del Cantico dei Cantici era stato detto della comunità di Israele come figlia e sposa, secondo questa identificazione veniva ora applicato alla Shekhinah” Scholem 1980, pp. 134-135. 24 La letteratura sui Fedeli d’Amore è vasta e non sempre attendibile. Con riferimento alla bibliografia di questo volume, citiamo i più significativi: innanzitutto il Valli, professore di letteratura italiana e discepolo del Pascoli, le cui opere sono contenute nell’edizione del 1994; quindi il Ricolfi nella ristampa del 1983 e Vinassa de Regny nella nuova edizione del 1988. Recentemente il Molli ha pubblicato La rinascita di Dante: un commento del 2010 della Vita Nuova che ne mette in evidenza il senso allegorico e anagogico. Rimando infine ai miei saggi, che non sono riportati in bibliografia: Le Madonne del Parto icone templari del 2005, il già citato Beatrice e Monnalisa anch’esso del 2005, editi entrambi a Firenze da Polistampa. Nel secondo saggio ho ripercorso le tappe della tradizione iranica e gnostica da cui scaturisce la figura della Donna Angelo. Cito quindi il mio più recente Cavalieri del mistero. Templari e Fedeli d’Amore in Toscana edito a Firenze da Le Lettere, nel quale ho approfondito il tema dei rapporti fra Fedeli d’Amore e Templari, sul

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2. L’archetipo della femminilità celeste ed i Fedeli d’Amore

La denominazione di Fedeli d’Amore viene usata da Dante più volte nella Vita Nuova per indicare i destinatari dell’opera, i soli che sono in grado di comprenderne il significato allegorico. La Vita Nuova, come del resto anche la Divina Commedia, va infatti letta secondo i quattro sensi che Dante indica nel Convivio: quello letterale, quello morale, ai quali si ferma purtroppo la maggior parte dei critici, quindi quello allegorico e quello anagogico. Con quest’ultimo termine Dante intende il senso mistico che conduce all’interno del mistero divino. Gli ultimi due modi di lettura non sono generalmente presi in considerazione da una critica impregnata di una presunzione falsamente illuminista. Ne erano invece ben consapevoli i primi commentatori della Commedia, come Cristoforo Landino che pubblicò nel 1481 il suo “Comento sopra la Commedia” con l’intento dichiarato di investigare “gl’arcani et occulti, ma al tutto divinissimi sensi della Commedia del fiorentino Dante Alighieri” 25. Il termine Fedeli d’Amore fu ripreso da Luigi Valli per indicare, sulla scorta di Gabriele Rossetti26, una tradizione iniziatica segreta, che utilizzava le forme e la terminologia della poesia di amore cortese, per comunicare fra gli adepti una dottrina, il cui fondamento era un Amore inteso come motore del cosmo e impulso per raggiungere Sophia e la visione profetica. Sarebbero stati Fedeli d’Amore molti di quei poeti che cantavano l’amore per una Donna misteriosa, si trattasse di trovatori provenzali, di poeti della scuola siciliana o di stilnovisti. Beninteso non tutta la poesia d’amore medievale è carica di significati reconditi, ma non si può negare che il trobar clus di molti trovatori e le allegorie incomprensibili degli stilnovisti non possano che rinviare a significati accessibili solo a chi possedesse la chiave per comprenderli. Come riconobbe il grande dantista Erich Auerbach: “Non si può negare l’oscurità della maggior parte delle poesie dello Stil Nuovo, o cercare in ogni singolo caso delle spiegazioni storiche, perché la quantità delle stranezze è troppo grande, i rapporti e le concordanze di contenuto e di espressione troppo evidenti, e troppo quale avevano avanzato ipotesi sia Guenon ne L’esoterismo di Dante che il sacerdote cattolico Robert John nel Dante templare. 25 Proemio 25-27, nell’ ediz. 2001 pp. 219-220. 26 Gabriele Rossetti (1783-1854) fu esule prima a Malta e poi in Inghilterra per la sua partecipazione ai moti napoletani del 1820-1821. Scrisse La Beatrice di

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frequenti gli accenni a un significato arcano, accessibile solo agli eletti… Questo sentire, che ricorda correnti mistiche, neoplatoniche ed averroiste, è per lo meno una fortissima sublimazione delle dottrine della Chiesa, è una cosa autonoma che può trovar posto ancora entro la Chiesa, ma che è assai vicina al limite dell’eterodossia. E difatti alcuni di quella cerchia avevano fama di liberi pensatori”27. Concludeva così il celebre studioso: “Tutti i poeti dello Stil Nuovo hanno una amata mistica, a tutti loro Amore dispensa o rifiuta doni, che sembrano più un’illuminazione che un godimento dei sensi, tutti appartengono a una specie di lega segreta, che determina la loro vita interiore e forse anche esteriore”28. Parole che non sono poi così distanti da quelle di Luigi Valli, considerate eterodosse dal mondo accademico: “La poesia dei Fedeli d’Amore non si inquadra nello spirito tra le cortesie feudali e i canti di Calendimaggio. Si deve inquadrare tra la strage degli Albigesi e quella dei Templari; si deve incorniciare in quel fervore di tentate rivoluzioni religiose, di aspettazioni apocalittiche, di odi contro la Chiesa carnale, di ricerca della Chiesa ideale, che nei secoli XIII e XIV pervade tanto l’interno quanto l’esterno dell’ortodossia e che comprende il movimento di San Francesco, il resto del movimento dei Catari, dei Valdesi, dei Patarini, il movimento dei Fraticelli e forse le idee segrete dei Templari. Dappertutto, nelle forme più diverse, nel fervore dell’ambiente politico e religioso vibra un pensiero sovrano: La Chiesa si è corrotta, ma in essa è la verità. E i Fedeli d’Amore dicono: Nella Chiesa è la Sapienza santa, ma essa, la Chiesa carnale, è una turpe meretrice. Ebbene scindiamo questa corruzione da quella Sapienza incorruttibile. Noi odiamo ciò che nella Chiesa è corrotto, amiamo la sua incorruttibile Sapienza. E se ci si vieta di amarla nella Chiesa, ebbene noi l’amiamo nella setta sotto forma e simbolo di una donna purissima. La Chiesa la nasconde

Dante che uscì postumo, nel quale indicò il carattere allegorico ed iniziatico della figura di Beatrice. Si pensa che egli sia stato introdotto nella tradizione dei Fedeli d’Amore durante il soggiorno a Malta, l’isola dei cavalieri che avevano raccolto l’eredità templare. Suo figlio Dante Gabriel fu esponente di spicco del movimento artistico dei Preraffaelliti, nelle cui opere è costante il richiamo ai simboli segreti di Dante e degli Stilnovisti. Dante Rossetti compose anche poesie sul modello stilnovista. 27 Auerbach 1977, pp. 26-27. 28 Auerbach 1977, p. 54.

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per servire i suoi bassi interessi. La Chiesa non diffonde più la vera dottrina; noi amiamo quella, esaltiamo quella, adoriamo quella, la sentiamo tra noi quando stiamo insieme, come una presenza miracolosa e bellissima, ne parliamo con sospiri d’amore. La Sapienza incorruttibile è tra noi cinta delle virtù più pure e più sante, coronata di divina bellezza, a essa incorruttibile ci appelliamo contro la Chiesa corrotta… Ebbene tutto questo dicono e fanno i Fedeli d’Amore. Sono un gruppo di anime elette, raffinate, non contrarie all’essenza della Chiesa Cattolica, ma per amore di quella che ritengono la sua vera santa dottrina, odiatori della presente Chiesa corrotta, per amore della santa Beatrice odiatori di quella meretrice che ha usurpato il posto di Lei sul carro della Chiesa”29. Ad un lettore non accecato da pregiudizi accademici, Beatrice appare immagine della Sapienza celeste non solo quando si presenta nell’anagogia sublime della Commedia, ma già nell’allegoria misteriosa della Vita Nuova. Ella è una Sapienza nella quale si racchiudono i due aspetti gnostici e cabbalistici della grande e della piccola Sophia: assise la prima sul Carro che è il Trono divino collocato nell’alto dei cieli, nascosta la seconda nel profondo dell’interiorità di ciascuno. Come cantò il poeta tedesco Heinrich von Morungen, assai vicino ai nostri stilnovisti, la Donna celeste dimora infatti nell’intimo di ogni persona: Sapessi che il segreto mantenete io vi farei vedere la mia donna. E se a metà mi si rompesse il cuore così com’è la si vedrebbe dentro30. La Sophia dei Fedeli d’Amore scaturisce da un’antica tradizione di origine iranica e gnostica, veicolata in Occidente per tre strade convergenti: la prima quella dell’eresia catara, la seconda della Cabbalà ebraica, la terza della mistica sufi radicata in Spagna e nei regni crociati d’Oltremare. Anche i sufi utilizzarono infatti le allegorie amorose per indicare la strada verso la visione trascendente. Non è una coincidenza che il ter-

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Valli 1994, pp. 175-176. Grossato 2004, p. 121.

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mine usato da Dante derivi da questa mistica islamica. Ibn Dawud Ispahani (morto nel 909) scrisse una summa della teoria platonica dell’Amore col titolo significativo de “Il libro del Fiore”; Ahmad Ghazali, mistico sufi morto nel 1126, compose “Le intuizioni dei Fedeli d’Amore”; Ruzbehan di Shiraz (anch’egli sufi, 1128-1209) scrisse “Il Gelsomino dei Fedeli d’Amore”. Il poeta persiano Shihaboddin Yahya Sohravardi (1155-1191), il grande mistico che cercò di resuscitare in chiave sufi l’antica teosofia zoroastriana, definì gli angeli come “i celesti Fedeli d’Amore” e descrisse la Sapienza come un’illuminazione che è innanzitutto conoscenza del sé nascosto31. Il misticismo dei sufi ebbe largo sviluppo in Spagna, con Ibn Masarra di Cordova (883-899), poi con Ibn Hazm (994-1063), quindi con Ibn Arabi (Murcia, 1165-1240). Nelle sue opere “Libro del viaggio notturno” e “Rivelazioni della Mecca”, il viaggio di Maometto dagli inferi al Paradiso attraverso le sfere celesti presenta indiscutibili analogie con l’itinerario della Divina Commedia. La Spagna fu un fertile luogo di incontro fra le culture e la mistica islamica, ebraica e cristiana. Wolfram von Eschenbach, l’autore del Parzival, racconta che la storia del Graal sarebbe stata rinvenuta dal provenzale maestro Kyot a Toledo, in un manoscritto arabo il cui autore, Flegetanis, sarebbe nato da padre arabo ma discendente dalla stirpe di Salomone. Se ricordiamo che Toledo fu nel Medio Evo un centro di dialogo interreligioso, in cui si tradussero in latino i libri sacri ebraici e musulmani, nonché i testi della sapienza antica pervenuti solo in lingua araba, il Graal si delinea come quella Realtà Ultima (per usare un’espressione del benedettino Willigis Jäger) alla quale tendono tutte le religioni. La mistica dell’Amore si diffuse con grande rapidità nel mondo occidentale, non solo dalla Spagna ma anche dalla Terrasanta delle Crociate che, contrariamente a quanto si pensa, fu più terra di incontro che di scontro fra le religioni. Assistiamo così nello stesso giro di anni all’apparire e al rapido diffondersi del ciclo del Graal (la Conte del Graal di Chretien de Troyes è della fine del XII secolo); della mistica cistercense, che esaltò l’Amore ed i suoi gradi come via per raggiungere l’estasi e che con la Queste del Saint Graal (ca. 1210), scritto da chierici cistercensi, si collega indiscutibilmente al tema del Graal;

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Corbin 1988, p. 160.

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della fondazione e del rapido sviluppo dell’ordine dei Templari, che ebbero la Regola scritta da San Bernardo, verso il 1130; della poesia cortese fra i trovatori provenzali e della Linguadoca. La poesia dei poeti siciliani della corte di Federico II ed in seguito quella del Dolce Stil Nuovo e di Dante si collocarono nell’alveo di questa tradizione esoterica e riproposero i temi della poesia d’amore mistica dei trovatori. La tradizione non si esaurì con Dante e con il XIV secolo, ma attraverso Boccaccio e Petrarca, nelle cui rime si ritrovano gli stessi simboli esoterici dei Fedeli d’Amore, si trasmise al Rinascimento e trovò nell’Umanesimo nuova linfa e nuovi motivi. Petrarca ammise la sua appartenenza ad un’Amorosa schiera, che è definizione analoga a quella di Fedeli d’Amore32 e cantò una donna, Laura, dai caratteri uguali a quelli di Beatrice e delle altre donne celesti dei poeti che lo avevano preceduto. La mistica d’Amore trovò nel circolo dei Medici una vigorosa fioritura: Marsilio Ficino scrisse il Libro dell’Amore, nel quale espressamente riconosce come maestro lo stilnovista in odore di eresia Guido Cavalcanti33. Pico della Mirandola, pur ammettendo che i misteri più profondi non possono essere messi per iscritto ma solo trasmessi verbalmente per via iniziatica da maestro a discepolo, commentò una Canzone d’Amore di Girolamo Benivieni, esponendo con chiarezza una teologia d’amore della quale, come Ficino, dichiara apertamente la continuità di pensiero con Guido Cavalcanti e Dante34. Lorenzo de’ Medici nelle sue poesie riprese i temi convenzionali della poesia d’amore dei secoli precedenti, con gli stessi inequivocabili simboli35. Lo stesso fecero poeti e filosofi vicini ai Medici ed in quella poesia esoterica si cimentarono artisti come Raffaello, Bronzino, Michelangelo. Gli arcani danteschi furono attentamente indagati da maestri come Brunelleschi, Leonardo e Botticelli. La Beatrice di Dante è l’Intelligenza intuitiva che subentra a Virgilio, Ragione razionale, quale guida nel cammino iniziatico della Commedia. La Donna celeste è accompagnata dalle virtù, che seguono il Carro su cui ella appare a Dante per introdurlo nel Paradiso, al quale 32

Petrarca, Canzoniere, CCLXXXVII e CCCLX. Marsilio Ficino, El libro dell’Amore, ediz. 1987. 34 Giovanni Pico della Mirandola, Commento sopra una canzone d’amore, ediz. 1994. 35 Lorenzo de’ Medici, Canzoniere, ediz. 1990. 33

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la Ragione non ha la capacità di accedere. Beatrice induce il risveglio interiore e l’immersione nel divino mentre, gradino dopo gradino dell’ascensione all’Empireo, i sensi si offuscano e la ragione cede. L’annullamento di sensi e di ragione sulla strada per raggiungere l’estasi era stato descritto da Riccardo di San Vittore nel “Beniamino minore”. Così si esprimeva paragonando la Rachele biblica alla Ragione: “Qui viene meno la ragione umana. Qui Rachele muore… La morte di Rachele rappresenta… la defezione di tre facoltà: senso, memoria e ragione. Quando la mente, rapita sopra se stessa, si innalza alle cose più alte, vengono interrotti il senso fisico, la memoria delle cose esteriori e la ragione umana”36. Questa è esattamente l’esperienza di smarrimento della coscienza sensibile, descritta da Dante nella Vita Nuova ogni volta che si trova al cospetto di Beatrice-Sophia37. Rientrato in sé dopo uno di questi incontri, Dante esclama: “Mi sono spinto sul confine fra la vita e la morte, al di là del quale non è consentito procedere se si abbia intenzione di tornare indietro”38, dimostrandosi consapevole di esser giunto sulla soglia di quella porta arcana attraverso la quale è concessa una breve visione della realtà trascendente, ma che non deve essere varcata perché, una volta oltrepassata, il ritorno sarà impossibile. La visione avviene nel terzo cielo, come spiega ancora una volta Riccardo di San Vittore, il quale distingue tre cieli o gradi di ascesa verso Dio: “La conoscenza di Dio che possiamo avere in questa vita, la possiamo distinguere in tre gradi e attribuire un grado ad ogni cielo. Dio si vede in un modo per fede, in un altro si conosce con la ragione, in un altro ancora con la contemplazione. La prima visione appartiene

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Riccardo di San Vittore, Beniamino minore, ediz. 1991, p. 153. Vedi ad es. Vita Nuova cap. 2: “lo spirito della vita cominciò a tremare sì fortemente… lo spirito animale si cominciò a meravigliare molto… lo spirito naturale cominciò a piangere… ”, cap. 11: “uno spirito d’amore, distruggendo tutti gli altri spiriti sensitivi, piangea… tale che lo mio corpo… molte volte si movea come cosa grave inanimata”; e nel capitolo 14: “mi parve di sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto dalla sinistra parte e distendersi subito per tutte le parti del mio corpo… Furono sì distrutti li miei spiriti per la forza di Amore… che non rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti”. 38 “Io tenni li piedi in quella parte della vita di là dalla quale non si puote ire più per intendimento di ritornare”, Vita Nuova, cap. 14. 37

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al primo cielo, la seconda al secondo, la terza al terzo.La prima è al di sotto della ragione, la terza al di sopra. Al primo e al secondo cielo della contemplazione gli uomini possono certo ascendere, ma non arrivano mai a quello che è al di sopra della ragione se non rapiti fuori di sé nell’estasi”39. Il terzo cielo si riferiva al misterioso cenno autobiografico di San Paolo che, nella seconda lettera ai Corinzi (12, 2), aveva rivelato: “Conosco un uomo che fu rapito (se nel corpo o fuori del corpo io non lo so) fino al terzo cielo”. Si comprende così perché in una celebre canzone Dante si rivolga alle intelligenze angeliche che muovono il terzo cielo, perché anche Beatrice e le altre donne dei Fedeli d’Amore abbiano tutte come sede questo cielo. Cecco d’Ascoli scrisse con grande chiarezza che il terzo cielo lo univa totalmente alla sua Donna, la celeste Sophia: Io sono dal terzo cielo trasformato in questa donna, tanto da non saper più chi ero prima, passo dopo passo si accresce in me la beatitudine. È Lei che dette forma al mio intelletto, mi giunse dai suoi occhi la salvezza, contemplai la virtù della sua presenza. Dunque io sono lei. E se dovesse abbandonarmi, l’ombra della morte sarebbe su di me40. Prima della visione finale, come già era avvenuto per Virgilio, Beatrice deve scomparire perché l’estasi trascende ogni sensibilità umana, non solo quella legata alla ragione ma anche quella intuitiva dell’intelligenza. È da questo annichilimento totale, che può condurre anche ad esiti negativi come la morte del corpo o la follia, che scaturisce lo spirito profetico in chi si affaccia al di là della barriera della morte. La profezia è infatti l’esito di una visione che, come racconta Dante, non è esprimibile a parole o con i consueti concetti logici:

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Riccardo di San Vittore, Beniamino minore, ediz. 1991, p. 142. “I’ son dal terzo celo trasformato/ in questa donna, che non so chi foi, /per cui me sento onn’ora più beato./Da lei prese forma el meo intellecto, /mostrandone salute li occhi soi, /mirando la vertù del so conspecto, /donqua, io so ella; e se da me scombra, /allora de morte sentiraggio l’ombra” Acerba, libro III cap. I; vedi Valli 1994, p. 304. 40

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Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio (Par. XXXIII, 55-57). I Fedeli d’Amore ricercavano dunque l’estasi, l’immersione nel mistero, la capacità di profetizzare. Il loro fine era identico a quello dei sufi e dei cabbalisti. Questi ultimi si riunivano in confraternite che derivavano dalla tradizione degli Yoredè Merkavà, anch’essi costituiti in gruppi organizzati41. Al loro interno, attraverso un percorso iniziatico, si insegnavano vere e proprie tecniche per raggiungere il silenzio dei sensi ed il rapimento estatico: si trattava di un periodo di digiuno lungo alcuni giorni, di costanti meditazioni notturne in una posizione quasi fetale con la testa rannicchiata sulle ginocchia, di una respirazione controllata e consapevole, infine della ripetizione sussurrata di formule, inni e canti42. Queste tecniche vennero affinate in epoca medievale, ai primordi della Cabbalà. Il cabbalista Abulafia, che fu accusato dai suoi compagni di aver divulgato con eccessiva disinvoltura i segreti della confraternita, nelle sue opere descrive modalità analoghe per ottenere la visione, il cui esito è la profezia43. Seguendo queste tecniche, la chiave della porta celeste appare alla portata di tutti ma, una volta aperta, da quel varco possono insinuarsi diavoli invece di angeli e condurre l’incauto alla follia o imprigionarne l’anima in un abisso di cieco terrore. È per questo che la chiave veniva affidata solo a chi fosse stato adeguatamente preparato e ritenuto in grado di affrontare tali pericoli. Per la stessa ragione le confraternite e gli iniziati dovevano velare con le allegorie i loro segreti. L’esistenza di queste tecniche anche in ambito cristiano viene indirettamente confermata dall’anonimo inglese che nel XIV secolo compose un testo di mistica, La nube della Non-Conoscenza. Egli mette infatti in guardia contro il loro uso, ricordando che “riguardo alla con-

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Gruppi “che tramandano e coltivano una determinata tradizione, … che non sono disposti a rivelare a chiunque la loro sapienza segreta, la loro gnosis” Scholem 1993, p. 57. Sulle confraternite dei cabbalisti, vedi ad esempio Goetschel 1995, p. 73 e sgg. 42 Vedi le istruzioni di Hai Gaon (939-1038) riportate in Idel 1992, p. 37. 43 Scholem 1993, pp. 133 e sgg. Per le tecniche suggerite da Maimonide e dai suoi discepoli vedi Fishbane 2002, pp. 44 e sgg.

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templazione: Dio la accorda liberamente, senza tener conto dei meriti… In quest’opera gli uomini non devono assolutamente far uso di mezzi (tecniche) e di vie, né possono sperare di giungere alla contemplazione grazie a chissà quali aiuti”44. Le analogie fra le tecniche ascetiche dei sufi, dei mistici ebrei, dei cabbalisti e quelle che traspaiono dalle allegorie dei Fedeli d’Amore, insieme con il comune continuo richiamo alla segretezza, fanno ritenere che questi ultimi fossero costituiti in confraternite dello stesso tipo e che ne rappresentassero anzi il corrispondente cristiano. Del resto i rapporti fra l’esoterismo delle tre religioni cosiddette del Libro fu nel Medio Evo assai intenso. Abulafia scriveva di aver trovato fra i Cristiani personaggi che credevano in Dio più degli Ebrei, di aver avuto con alcuni di loro proficui scambi di opinioni sui sensi di interpretazione delle Scritture e di aver sviluppato con uno in particolare una sincera amicizia45. Nella Vita Nuova Dante descrive, sotto il velo dell’allegoria, il cammino verso l’estasi che si conclude con la morte di Beatrice, con la scomparsa cioè di ogni capacità percettiva umana. Diventano chiare sotto questa luce le parole che egli usa per parlare della morte della sua donna, parole che alla critica accademica paiono incomprensibili: “Anche se mi piacerebbe ora trattare della sua morte, non è mia intenzione farlo in questa sede per tre ragioni: la prima è che ciò non costituisce oggetto di questo libro, stando a quanto ho esposto nel proemio; la seconda è che, se anche fosse stato oggetto del libro, le mie parole non sarebbero sufficienti a trattarne come si converrebbe; la terza è che, quando anche le prime due condizioni fossero possibili, sarebbe per me disdicevole trattarne, perché così facendo dovrei lodare me stesso, cosa davvero riprovevole per chi la fa; perciò lascio questo compito ad altri”46. Il primo motivo per cui Dante ritiene più 44 La Nube della non-conoscenza, ediz. 1997, cap. 34, pp. 183-184. Commentava questo passo Thomas Merton: “La Nube… ci avverte che l’appetite for experiences – o più crudamente il desiderio di stati di trance – costituiscono il danno più grave allo sviluppo di un’autentica vita mistica”, ibidem p. 39. 45 Scholem 1993, p. 141.È di grande interesse anche il fatto che Abulafia spiegasse il nome Binah della terza sephirà come l’unione di Ben, figlio e Jah, Dio, cioè Figlio di Dio, con un chiaro riferimento alla Trinità cristiana, vedi Idel 1992, p. 231. Sui rapporti fra i mistici ebrei e cristiani vedi anche Battistoni 2004, Stow Debenedetti 2004, Busi 2007. 46 “E avvegna che forse piacerebbe al presente trattare alquanto de la partita da noi, non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni: la prima è che ciò

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opportuno il silenzio sta dunque nel fatto che la morte di Beatrice non rientrerebbe nel proposito della Vita Nuova, come egli l’aveva esposto nel proemio. Ma lì Dante si era proposto di scrivere tutto ciò che ricordava. Dunque il poeta non ricordava niente della morte di Beatrice? Apparirebbe piuttosto strano se si trattasse di un evento reale. In secondo luogo egli, apparentemente correggendosi, spiega che in realtà non è la memoria a difettargli bensì la capacità di trovare parole adeguate ad esprimere un avvenimento così elevato. Possibile che un poeta come lui non sapesse comporre versi per lamentare la morte dell’amata? In terzo luogo Dante lascia il lettore addirittura attonito, dicendo che parlare della morte di Beatrice significherebbe lodare se stesso e che questo sarebbe un inaccettabile atto di vanità. Il poeta si sarebbe dunque vantato della morte dell’amata? Assurdo. Di fronte all’interpretazione di questo passo gli studiosi di Dante si sono sempre arresi: “È generale la resa degli interpreti davanti a questa oscura ragione”47. Un sonetto di Cino da Pistoia, fedele d’Amore amico sia di Dante che di Boccaccio, composto in occasione della morte di Beatrice, spiega il vero senso delle frasi della Vita Nuova: sotto l’allegoria della morte della Donna si nasconde la visione dell’eternità, cioè l’estasi, che secondo l’antica tradizione mistica era definita “excessus mentis”, il superamento e l’abbandono delle facoltà intellettive. Come avviene nella Divina Commedia, Beatrice-Intelletto è dunque anche nella Vita Nuova la guida nella via della contemplazione, ma destinata a farsi da parte perché la visione celeste possa manifestarsi. Ecco le parole che Cino rivolge a Dante: Di che vi stringe il cor pianto ed angoscia, ché dovreste d’Amor sopraggioire, ché avete in ciel la mente e l’intelletto?

non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello; la seconda si è che, posto che fosse del presente proposito, ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare come si converrebbe di ciò; la terza si è che, posto che fosse l’uno e l’altro, non è convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fae; e perciò lascio cotale trattato ad altro chiosatore”, Vita Nuova, XXVIII, 2. 47 Gorni 1997, p. 147.

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2. L’archetipo della femminilità celeste ed i Fedeli d’Amore

Li vostri spirti trapassar da poscia per sua vertù nel ciel…48. Diventano allora comprensibili anche le due affermazioni precedenti, le quali rispecchiano fedelmente quanto Dante dirà nella Divina Commedia a proposito della visione del Paradiso, quando incapacità di ricordare e di raccontare accompagneranno lo sprofondamento dell’intelletto nell’inesprimibile: … e vidi cose che ridire né sa né può chi di là su discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire (Par. I, 5-9). Nella Vita Nuova Beatrice è indicata come la sposa del Cantico, attraverso l’allegoria delle sessanta donne più belle della città. Fra di loro ella sta al nono posto, che nella numerologia dantesca è il più elevato trattandosi della potenza del mistico tre. Come potenza della Trinità, il nove rappresenta la manifestazione dell’arcano, cioè il miracolo. Beatrice, spiega dunque Dante, è un miracolo perché si identifica col nove: “Secondo la verità che non erra, lei fu questo numero; intendo come allegoria e mi spiego meglio. Se dunque il tre contiene in sé la radice del nove e la radice di ogni miracolo è il tre, cioè il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, i quali sono tre ed uno, questa donna fu accompagnata dal numero nove per dimostrare che ella era un nove, cioè un miracolo, la cui radice è soltanto nella ammirabile Trinità”49. Le sessanta donne della Vita Nuova corrispondono indiscutibilmente alle sessanta regine del Cantico ed il nono posto è quello dell’eletta, la sposa. Nella Commedia, al suo apparire, Beatrice è salutata

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In Valli 1994, p. 378. “… Secondo la infallibile veritade, questo numero fu ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così. Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è il tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare a intendere ch’ella era un nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitate”, Vita Nuova, XXIX, 4. 49

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dal canto Veni, sponsa, de Libano, e con ciò viene identificata, qui senza enigmi, con la Sposa-Sapienza, di cui Salomone dice: “Questa ho amato e ricercato fin dalla mia giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza” (Sap. 8, 2). Ancora due secoli dopo, uno degli epigoni della tradizione ermetico sapienziale, Giordano Bruno, nell’Oratio valedictoria con la quale prendeva commiato dall’università di Wittenberg, ripetendo le parole di Salomone descrisse Sophia, la Sapienza divina, come l’amata e la sposa dell’anima: “Lei ho amato e ricercato fin dalla prima giovinezza, ho desiderato farla mia sposa, e sono diventato amante della sua bellezza…”. Beatrice-Sophia è dunque la Sponsa de Libano, cioè la sposa del Cantico dei Cantici. Nel Convivio Dante afferma che questa sposa non è altro che la Sapienza50 la quale, conducendo l’uomo alla beatitudine, può definirsi “beatrice”, che è proprio il nome della sua Donna: Beatrice 51 . L’identificazione della Donna celeste con la Sapienza non potrebbe essere più esplicita. Il Cantico, il più misterioso dei libri sapienziali, fu considerato dalla mistica sia ebraica che cristiana come il testo esoterico per eccellenza, nel quale si velava, con l’allegoria del rapporto fra la sposa e lo sposo, il mistero dell’unione mistica fra l’anima e Dio, della ricongiunzione fra le due Sophie. I Commenti al Cantico sono frequenti. San Bernardo lo considerò come l’iniziazione per eccellenza alla vita mistica ed identificò nel Bacio la pienezza dell’unione con Dio: “Mi baci, disse, col bacio della Sua bocca. Chi lo dice? La Sposa. Chi è costei? L’anima che ha sete di Dio”52. Il bacio è un’allegoria dell’estasi, come scriverà anche Pico della Mirandola: “La più perfetta e intima unione che l’amante può avere con l’amata celeste viene chiamata unione del bacio… cioè morte di bacio, quando l’anima, separata dalle cose sensibili, si sprofonda talmente nel rapimento estatico che sollevata dal corpo lo abbandona totalmente… Questo è il significato delle parole del nostro divino Salomone nel suo Cantico: Mi baci con i baci della sua bocca”53. 50

Dante, Convivio II, 14, ediz. 1999, pp. 135-136. Dante, Convivio III, 15, ediz. 1999, p. 206. 52 “Osculetur me, inquit, osculo oris sui. Quis dicit? Sponsa. Quenam ipsa? Anima sitiens Deum, cit. in Gilson 1987, p. 116. 53 “La più perfetta e intima unione che possa l’amante havere dalla celeste amata, si denota per la unione del bascio… cioè morte di bacio, è quando l’anima 51

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2. L’archetipo della femminilità celeste ed i Fedeli d’Amore

A testimonianza di una temperie spirituale e di un cammino esoterico che nel Medioevo fu comune alle tre grandi religioni o almeno ai loro mistici, ecco che troviamo il Cantico meditato e commentato con accenti analoghi a quelli cristiani anche dai cabbalisti: “… Vi devo informare qui della materia di coloro che cercano la profezia, che è simile a quello che io ho detto a proposito della similitudine dello sposo e della sposa; e di questo è stato detto: Se tutti i canti sono santi, il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi. Perché l’intenzione completa di quel poeta fu di narrarci per mezzo di parabole e segreti e immagini la forma della vera profezia e la sua natura e come raggiungerla”. Ma il Cantico rappresenta anche l’incontro fra i due aspetti di Sophia: “Questo è un grande potere dell’uomo: può unire la parte inferiore alla superiore e l’inferiore salirà e si unirà alla superiore, e la superiore discenderà e bacerà l’entità che ascende verso di essa, e come uno sposo bacia veramente la sua sposa, per il suo grande e vero desiderio caratteristico della gioia di entrambi, per il potere del Nome di Dio”54. Anche Maria, la Madre di Cristo, fu allegoricamente identificata come la Sposa del Cantico. Nel grande mosaico absidale di Santa Maria in Trastevere a Roma, commissionato da Innocenzo III verso il 1140, Cristo e Maria sono assisi sul medesimo Trono ed il Figlio abbraccia la Madre, la quale tiene in mano un cartiglio che identifica questo abbraccio come quello fra gli sposi del Cantico. Come Sposa, Maria è dunque figura dell’anima e nello stesso tempo di ogni Ecclesia che in Cristo si riconosce. Come il Bahir, il Libro Fulgido, definiva la Schekhinah ad un tempo Madre, Sposa e Figlia, così anche Dante invoca Maria come “figlia del tuo figlio”55, cioè Madre e Figlia. Maria è dunque Madre, Figlia e infine Sposa in quanto Ecclesia, con riferimento al Cantico.

nel ratto intellettuale talmente alle cose separate si unisce, che dal corpo elevata in tutto quello abandona… Questo è quello che il divino nostro Salomone ne la sua cantica esclama: Bacimi, co’ baci della sua bocca” Pico della Mirandola, Commento sopra una canzone d’amore III, 8, ediz. 1994, pp. 111-112. 54 Abraham Abulafia, cit. in Idel 1992, pp. 212-215. 55 “Nel proprio amore, talvolta la chiamava sorella mia, giacché provenivano da un unico luogo, talvolta la chiamava sua figlia, poiché era la sua figliola, e talvolta la chiamava madre mia” in Busi Loewenthal 1999, p. 167.

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Le Sette Colonne della Sapienza

Se Beatrice, la Donna dei Fedeli d’Amore, e Maria sono entrambe la Sposa, assistiamo dunque ad una sovrapposizione evidente fra le loro figure. Non meraviglia allora trovare Guido Cavalcanti che, in un sonetto inviato a Guido Orlandi, riconosce nell’icona di Maria conservata nella loggia di Orsanmichele la sua Donna: Una figura della Donna mia s’adora, Guido, a San Michele in Orto, che, di bella sembianza, onesta e pia, de’ peccatori è gran rifugio e porto. E qual con devozion lei s’umilia, chi più languisce, più n’ha di conforto: li’nfermi sana e’ demon’ caccia via e gli occhi orbati fa vedere scorto. Sana ‘n publico loco gran langori; con reverenza la gente la ‘nchina; di luminara l’adornan di fori. La voce va per lontane camina, ma dicon ch’è idolatra i Fra’ Minori, per invidia che non è lor vicina56. Nel 1292 erano cominciati prodigi di fronte ad un’immagine della Madonna col Bambino, posta su un pilastro della loggia di Orsanmichele. Gli episodi avevano avuto una vasta risonanza e la venerazione popolare era stata subito spontanea ed intensa. L’episodio è ricordato anche dal cronista Giovanni Villani, con parole che sembrano ricalcare quelle del Cavalcanti: “Nell’anno 1292, il 3 di luglio, cominciarono ad avvenire grandi e manifesti miracoli di fronte ad un’immagine di Santa Maria dipinta su un pilastro della loggia di Orsanmichele, dove si vende il grano. Venivano guariti infermi, raddrizzati storpi, liberati indemoniati in gran quantità. Ma i frati predicatori ed i frati minori non davano credito a queste cose, o per invidia o per qualche altro motivo, ragion per cui caddero in grande discredito presso i Fiorentini”57. I frati, sia Francescani che Domenicani, sospettavano dunque in questa venerazione una tendenza eretica. 56

n. XLVIII nell’edizione del Contini 1991. “Nel detto anno (1292), a dì III del mese di luglio, si cominciarono a mostrare grandi e aperti miracoli nella città di Firenze per una figura dipinta di santa Maria in uno pilastro della loggia d’Orto Sammichele, ove si vende il grano, 57

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2. L’archetipo della femminilità celeste ed i Fedeli d’Amore

Nel 1304 un incendio danneggiò la loggia e l’immagine sacra. Fu quindi commissionata a Bernardo Daddi una nuova immagine, per proteggere la quale fu eretto nel 1359 un ricco tabernacolo nel quale Andrea Orcagna ripropose probabilmente il modello per la cupola di Santa Maria del Fiore. Cupola analoga, con costoloni fiammeggianti e guglie, fu raffigurata da Simone Talenti58, ancora una volta in Orsanmichele nel tabernacolo dell’Arte dei Medici e degli Speziali. Dentro questo tabernacolo fu collocata nel 1399 una statua di Maria col bambino, detta della Rosa, perché la Vergine tiene in mano un ramo di rose. Sembra anche questa una raffigurazione del progetto della cupola di Santa Maria del Fiore ed un riferimento al nuovo titolo della chiesa. È interessante ricordare che l’Arte dei Medici e Speziali non accoglieva solo chi preparava i rimedi farmaceutici, ma anche i pittori e tutti coloro che per la loro professione intellettuale non potevano riconoscersi in alcuna altra Arte. Così fu questa l’Arte dei filosofi, dei poeti e di Dante stesso. In una parola l’Arte anche dei Fedeli d’Amore, nella cui sapienza mistica ed esoterica pare riassumersi la vicenda simbolica della cattedrale di Firenze e della sua cupola.

sanando infermi, e rizzando attratti, e isgombrare imperversati visibilmente in grande quantità. Ma i frati predicatori e ancora i minori per invidia o per altra cagione non vi davano fede, onde caddono in grande infamia de’ Fiorentini” Libro VIII, capitolo CLV. 58 Simone era figlio di quel Francesco Talenti che dal 1351 era stato capomaestro dell’Opera della Cattedrale.

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3.

IL FIORE DELLA CATTEDRALE DI FIRENZE

Simboli del Medioevo e del Rinascimento si congiungono nell’immenso ottagono del Duomo di Firenze, dedicato ad un’inconsueta Santa Maria del Fiore, cioè a Maria-Sophia. La cattedrale fu fondata su progetto di Arnolfo di Cambio nel 1296. Egli pensò ad una chiesa a tre navate che si concludeva in un ottagono circondato da tre tribune, quali esedre classicheggianti. Abbiamo già evidenziato il simbolismo trascendente dell’ottagono come passaggio fra la terra e il cielo, che è frequente nel transetto delle cattedrali gotiche, spesso sovrastato da una torre. Arnolfo sopra l’ottagono progettò invece una cupola, con una soluzione nuova per l’arte gotica e di chiara derivazione classica, che richiamava per la sua vastità il modello del Pantheon di Roma. L’aggiunta di una lanterna sopra l’oculo centrale si modellava su quanto era stato fatto nell’adiacente battistero. Arnolfo ebbe senz’altro presenti anche le brevi cupole delle cattedrali di Pisa e di Siena, ma quella di Santa Maria del Fiore avrebbe avuto dimensioni inusitate, come sembra dimostrare l’affresco in Santa Maria Novella di Andrea di Bonaiuto che con tutta probabilità ricalca il progetto arnolfiano. L’immagine della cupola, rossa per il manto di cotto e bianca per i costoloni di marmo, non rimandava solo alla volta celeste ma anche al ventre di Maria incinta, circondata dalle tribune come la corolla attorno al Fiore. Come vedremo, è probabilmente con Giotto, capomastro dell’Opera dal 1334, e col suo campanile che il tema della Sapienza si collega per la prima volta alla nuova cattedrale di Firenze, per poi giungere fino a mutarne il titolo stesso da Santa Reparata a Santa Maria del Fiore. Il Fiore è un sinonimo di Sophia. Nel 1352 la chiesa era ancora intitolata a Santa Reparata, lo dimostra il fatto che i Fiorentini mandarono ambasciatori a Luigi di Francia per ottenere una reliquia della santa, da onorare “nella nobile 39

Le Sette Colonne della Sapienza

chiesa cattedrale della nostra città, ch’è edificata a suo nome”. Così il Villani. La prima menzione del nuovo titolo si trova in un documento del 11 maggio 1378, quando la cattedrale appare dedicata sia a Santa Reparata che alla beata Maria Vergine del Fiore. Di nuovo Santa Maria del Fiore è citata in un documento del 6 luglio 138459. Nel 1367 si stabilirono i dati dimensionali e tipologici definitivi della cattedrale, ampliando il progetto arnolfiano con misure per il transetto e la cupola che erano multiple del mistico numero 12. L’altezza della Cupola, che avrebbe dovuto essere pari a 144 braccia, richiamava la misura della Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse che discende dal cielo “preparata come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap. 21, 1), immagine della Sposa del Cantico e di conseguenza, per l’analogia dantesca, di Beatrice e della Donna celeste dei Fedeli d’Amore. In quegli anni, fra le persone consultate per il nuovo progetto, troviamo Niccolò figlio di quel Francesco da Barberino che aveva scritto I documenti d’Amore, vera e propria summa della dottrina dei Fedeli; Bartolomeo figlio di Dino Compagni che, come i Fedeli d’Amore, aveva identificato la propria Donna con Madonna Intelligenza; Riccardo degli Albizzi infine, figlio di quel Franceschino, amico e sodale del Petrarca che lo pone fra i poeti dell’”amorosa schiera”, cioè ancora una volta tra i Fedeli d’Amore. È lecito pensare che anche i figli fossero stati iniziati alla tradizione dei padri e che nel programma costruttivo della cattedrale avessero inserito la loro mistica sapienziale. Ma non è escluso che Dante stesso avesse contribuito all’elaborazione del simbolismo del progetto arnolfiano. Il 29 marzo 1412 troviamo una provvisione del Comune di Firenze, la quale stabilisce in via definitiva che la nuova cattedrale si debba intitolare a Santa Maria del Fiore. In questo documento non si fa nessun riferimento al simbolo della città, secondo l’interpretazione ottocentesca che voleva la cattedrale intitolata ad una Vergine protettrice del giglio cittadino, ma si afferma esplicitamente il significato mistico del Fiore, legato alla discesa del Verbo: “Il Fiore e inizio della nostra redenzione fu l’Incarnazione del Figlio di Dio, umile, dispensatrice di bene e di grazia, che fu annunziata dall’angelo il 25 del mese di marzo”60. 59

Cit. in Guasti 1887. “Et flos ac initium nostre redemptionis fuit benigna humilis ac gratiosa Incarnatio dicti Filii Dei, que fuit per angelum nuntiata die vigesimo quinto mensis martii” Guasti 1887, pp. 310-311. 60

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3. Il Fiore della cattedrale di Firenze

Dante nel XXIII Canto del Paradiso, contemplando Maria, la definisce: “Il nome del bel Fior ch’io sempre invoco/ e mane e sera…” (8889). Il Fiore è dunque Maria che reca il Verbo, nascosto nel suo grembo finché non si manifesterà come il frutto. Ma fiore e frutto sono solo due momenti diversi di una stessa natura. Questo Fiore è la Rosa, perché Maria fin dal Medio Evo le è sempre stata associata, basti pensare al titolo di Rosa Mistica nelle litanie lauretane o al nome “rosario” dato alla preghiera mariana. Anche Dante identifica il Fiore di Maria con la Rosa: “Qui è la Rosa in che il verbo divino carne si fece” (Par.XXIII, 73). Guinizelli, che Dante nel canto XXVI del Purgatorio indica come precursore delle proprie rime, aveva paragonato la sua Donna alla rosa ed al giglio: Io vo del ver la mia donna laudari, et assembrarla a la rosa e a lo giglio…”61. Come Dante, anche Guinizelli identifica dunque la propria Donna, che è la stessa Donna dei Fedeli d’Amore, con la sposa del Libano, perché i suoi versi sono un chiaro riferimento alle parole che la sposa pronuncia nel Cantico: “Io sono il giglio dello Sharon, la rosa delle valli” (Ct.II, 1). Gli stessi fiori Dante nella Commedia li applica a Maria: “Qui è la rosa in che il verbo divino carne si fece. Qui son li gigli al cui odore si prese il buon cammino” (Par.XXIII, 73-75). Questi versi sembrano un rimando quasi letterale ad un brano che lo Zohar riferiva alla Schekhinah: “Rosa – all’inizio è giglio, cioè quando desidera unirsi al re; poi quando si è unita al re, mediante il bacio, si chiama rosa”62. I simboli della Sposa del Cantico vengono dunque attribuiti con le stesse espressioni ora a Maria, ora a Schekhinah, ora alla Donna dei Fedeli d’Amore a dimostrazione che, al di là dei differenti nomi, siamo sempre in presenza dell’unico volto di un unico mistero. Il Fiore come allegoria di Sapienza è al centro del “Roman de la rose” di Guillaume de Lorris, che fu rifatto in volgare italiano col titolo di “Fiore” da Durante, nel quale ormai la maggior parte dei cri-

61 62

Sonetto X in Contini 1991. Zohar, I, 221a.

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Le Sette Colonne della Sapienza

tici, a partire dall’autorevole Contini, hanno riconosciuto lo stesso Dante Alighieri63. Non sorprenderà allora scoprire che esiste un archetipo iranico di Beatrice-Sophia, una compagna di luce il cui nome era Daena64 e che anche questa entità femminile avesse per simbolo una rosa65. Nell’età ellenistica e romana la rosa sarà simbolo di Venere e dei segreti che si celano nella femminilità celeste: Quel che sotto la rosa si dice non si deve riferire. Verità o invenzione tacite stiano sotto la rosa66. Segreto fu anche il simbolismo alchemico, nel quale con l’allegoria della rosa si velava la materia dell’Opera: la rosa bianca rappresentava la materia albificata, quella rossa la rubedo, cioè la materia trasmutata in oro filosofico67. Abbiamo visto che al 1399 risale il tabernacolo dell’Arte dei Medici e degli Speziali nel quale, sotto una cupola come quella che 63

Gianfranco Contini, Un nodo della cultura medievale: la serie Roman de la Rose, Il Fiore, Divina Commedia, saggio del 1976 ristampato in Dante “Il Fiore” edizione del 1996. Sull’identificazione del Fiore con la Sapienza vedi Ricolfi 1983 pp. 177 e sgg.; nonché Valli 1994, pp. 209 e sgg. e 235 e sgg. 64 “Alla domanda dell’anima stupefatta, che chiede ’Ma chi sei?’ alla fanciulla che avanza… essa risponde: ‘Sono la tua propria Daena’ – ciò che vuol dire: io sono in persona la fede che hai professato e quella che te l’ha ispirata, quella per cui hai garantito e quella che ti ha guidato, quella che ti ha riconfortato e quella che ora ti giudica, perché io sono in persona l’Immagine proposta a te stessa fin dalla nascita del tuo essere e l’Immagine voluta infine da te stessa”, Corbin 1986, p. 66. Sull’origine iranica della donna angelo stilnovista, vedi il mio Beatrice e Monnalisa, Firenze, Polistampa, 2005. 65 “È un tratto caratteristico dell’angelologia mazdea dare a ciascuno dei suoi arcangeli e dei suoi angeli un fiore per emblema, come per indicare che, se si vuole contemplare mentalmente ciascuna di quelle figure celesti e diventare il ricettacolo delle loro energie, lo strumento migliore di meditazione è effettivamente quel fiore che è il loro rispettivo simbolo…; a Daena, (corrisponde) la rosa centifoglia…”, Corbin 1986, pp. 57-58. 66 “Quidquid sub rosa fatur repetitio nulla sequatur. Sint vera vel ficta sub rosa tacita dicta”, versi di un monaco quattrocentesco del convento di Tegernsee, citati in Heinz Mohr 1989, p. 106, testo al quale rimando per il simbolismo della rosa. 67 Vedi Pernety, ediz. 1985 alla voce “rosa”.

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3. Il Fiore della cattedrale di Firenze

si progettava per la cattedrale, fu collocata la statua di Santa Maria della Rosa. Qualche anno prima nella chiesa ex templare di San Jacopo si era dipinta un’immagine intitolata alla Madonna del Giglio, ritenuta anch’essa ben presto miracolosa. Sembrano questi titoli riferimenti ai fiori che Dante associa a Maria come Sposa del Cantico e dunque come Sophia. Nello Zohar la Schekhinah viene definita anche come rosa dai tredici petali e dalle cinque foglie forti: “Chi è la rosa? È la comunità di Israele. Come la rosa, che si trova fra le spine, ha in sé i colori rosso e bianco, così la comunità di Israele ha in sé il giudizio e la pietà. Come la rosa ha tredici petali, così la comunità di Israele ha tredici attributi di pietà, che la circondano da ogni parte. Anche Dio dal momento che fu ricordato per la prima volta fece scaturire tredici parole che ricordassero la comunità di Israele e la proteggessero: poi fu ricordato per la seconda volta. Perché il nome di Dio fu ricordato per la seconda volta? Per far scaturire le cinque foglie forti che circondano la rosa, che sono chiamate salvezze e costituiscono cinque porte”68. È una coincidenza che Maria sia apparsa il tredicesimo giorno del quinto mese, in un luogo che porta il nome, Fatima, della figlia del profeta? Che questa apparizione rechi con sé una delle profezie più misteriose? Anche l’anno della prima apparizione, il 1917, è un anno particolare perché la somma delle sue cifre dà il numero nove69. Nel mondo dello spirito le coincidenze non esistono, sono sempre e soltanto segni da interpretare. Ancora fra Quattrocento e Cinquecento la cattedrale di Santa Maria del Fiore veniva sentita come dedicata alla Sapienza. Lo conferma la collocazione nella navata destra, nel 1521, del ritratto di Marsilio Ficino, definito nell’iscrizione “sophiae pater”. Il busto del Ficino si accompagna infatti a quelli di Brunelleschi del 1446, di Giotto del 1490, di Antonio Squarcialupi, organista della cattedrale, del 1519, ai ritratti cioè di personaggi legati alla costruzione della chiesa o al suo officio. Ficino, che in realtà della cattedrale non si era mai occupato, viene associato a costoro perché “sophiae pater”,

68

Zohar, I-1a. Ho sviluppato l’argomento di Fatima nel mio Fatima. L’abbraccio della Madre universale in Il Governo delle Cose, 4, ottobre 2001, pp. 82-90. 69

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confermandoci che la chiesa era intesa come Tempio della Sapienza dedicato a Maria-Sophia70. Così nel 1465 nella cattedrale veniva collocata la tavola di Domenico di Michelino che raffigura Dante ed i tre regni della Divina Commedia, commissionata appositamente dagli Operai del Duomo di Firenze, in sostituzione di una precedente tavola di soggetto analogo. Non sappiamo se Dante avesse contribuito prima dell’esilio al programma concettuale dell’architettura arnolfiana, ma è certo che l’itinerario sapienziale della Commedia e la sua commossa venerazione per Maria Sophia trovavano un puntuale riscontro nei simboli di Santa Maria del Fiore. Fino a poco tempo fa, interprete di un’antica tradizione esoterica, la liturgia cattolica riproponeva nelle feste mariane letture dai libri sapienziali. Per la festa dell’Immacolata si leggeva il passo del Libro dei Proverbi nel quale la Sapienza celebra se stessa: “Il Signore mi ha creata all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin da allora. Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra” (Pb. 8-22). Anche nella solennità dell’Assunzione, la più antica delle feste mariane, che ne lega il mistero al titolo di regina del cielo, si proponeva un’altra citazione sapienziale: “Fra tutti i popoli cercai dove posarmi; mi stabilii in Gerusalemme, tra il popolo che è retaggio di Dio…” (Eccl.24, 11). Nella bolla Ineffabilis Deus, con la quale nel 1854 (ancora un anno la cui somma delle cifre è nove) proclamava il dogma dell’Immacolata Concezione, papa Pio IX giustificava così il motivo di questa consuetudine: “La Chiesa era solita inserire negli uffici ecclesiastici, riferendole anche alla Vergine, le stesse identiche parole impiegate dalla sacra scrittura per parlare della Sapienza increata e per descriverne le origini eterne, perché entrambe erano state preordinate nell’unico e identico decreto dell’Incarnazione della Divina Sapienza”71. È evidente l’analogia con la preghiera che conclude la Commedia, dove Maria è definita “termine fisso d’etterno consiglio”. Il dogma dell’Immacolata Concezione non si riferisce, come molti erroneamente pensano, al parto verginale di Maria 70 Questo il testo dell’iscrizione: “En hospes hic est Marsilius sophiae pater platonicum qui dogma culpa temporum situ obrutum illustrans et atticum decus servans latio dedit fores primus sacras divinae aperiens mentis actus numine vixit beatus ante cosmi munere. Laurique medicis nunc revixit publico. S.P.Q.F. AN. MDXXI”. 71 Cit. in Tornielli 2004, p. 561.

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3. Il Fiore della cattedrale di Firenze

ma alla consapevolezza che la Sua natura è posta su un piano metafisico diverso da quello del resto dell’umanità. Nella Ineffabilis Deus la figura della Vergine Madre viene elevata al di sopra della dimensione del tempo e dello spazio, indicando che in Lei si racchiude la parte femminile dell’eterna Sapienza72. Giovanni Vannucci, dell’Ordine dei Servi di Maria, avvertì le profonde implicazioni di questa affinità fra le figure di Maria e della Sophia celeste: “È questa intuizione che presiede alle numerose invocazioni con le quali esprimiamo la nostra devozione alla Vergine Madre. Invocazioni che troviamo in tutte le religioni che venerano il mistero della Femminilità eterna, della Vergine celeste. Così invochiamo Maria Regina degli angeli, delle stelle, delle acque, delle piante, dei fiori, degli animali, degli uomini, per indicare che Lei, nel suo mistero archetipale, nella sua realtà nell’invisibile è la Porta che mette in comunicazione l’Assoluto unico con la molteplicità svariata delle creature, nelle quali è presente come centro verginale e fecondo. L’Immacolata Concezione, Immacolata visione del mondo creato, posta tra l’eternità e il tempo, come l’essere perfetto e imperfezionabile subito dopo Dio, è lo specchio in cui Dio contempla se stesso, è il perno di ogni legge, avulsa da ogni altra legge che non sia quella dell’Amore perfetto. Regina degli angeli, nati dopo di Lei, Madre degli uomini, ancora nella mente di Dio ma già pensati ed amati. Essa è la Sapienza, la celeste Sofìa che nutre di sé le anime create, la Madre dei tempi fuori del tempo, la medicina preparata prima che la malattia fosse”73. Le parole di padre Giovanni riassumono e condensano il senso di questo libro. Esiste nella chiesa fiorentina di San Francesco di Paola un affresco conosciuto come la “Madonna del Parto”, attribuito un tempo a Giotto ed ora a Taddeo Gaddi74. Si tratta di un’immagine di Maria incinta che, come il Tabernacolo del Tempio, racchiude in sé l’Eterno inconoscibile ed invisibile. Essa tiene in mano un libro: forse quello stesso 72

Nella bolla il papa, seguendo i Padri della Chiesa, applicava a Maria sia le parole della Sposa del Cantico sia quelle che il libro biblico dell’Ecclesiastico poneva sulla bocca della Sapienza: “Regina straordinaria che, ricolma di delizie e appoggiata al suo Diletto, uscì dalla bocca dell’Altissimo assolutamente perfetta e bella” cit. in Tornielli 2004 p. 568. L’espressione “uscii dalla bocca dell’Altissimo” è riferita alla Sapienza in Ecclesiastico 24, 3. 73 Vannucci, I Servi e la Vergine Madre in Pellegrino dell’assoluto, 1985, p. 25. 74 Intorno a questa immagine ho scritto il testo a cui rimando Le Madonne del Parto icone templari Firenze, Polistampa, 2005. Essa proviene dalla scomparsa

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libro della Sapienza di Dio, che nell’iconografia tradizionale compare nelle mani di Cristo. Il libro è chiuso ad indicare una conoscenza segreta ed esoterica. Contrariamente alla consuetudine iconografica nella quale il manto è blu, la veste di Maria è rossa ed il suo manto è bianco. Si tratta di due colori che evocano suggestioni profonde. Nella Vita Nuova Beatrice-Sophia appare a Dante prima vestita di rosso e poi di bianco. Bianco e rosso contraddistinguono anche la cupola della cattedrale. Nella Divina Commedia Beatrice è invece vestita dei tre colori delle virtù: bianco, rosso e verde (Purg, XXX, 30-33). Anche la Madonna di San Francesco di Paola, a ben guardare, ha il manto candido orlato di una striscia di verde marino; nella sua figura si ritrovano dunque tutti e tre i colori di Beatrice-Sapienza. Tutto l’esterno della cattedrale di Santa Maria del Fiore è impostato su questa tricromia, col marmo bianco di Carrara, col serpentino verde di Prato, col rosso del cotto o del marmo rosa. Con suggestiva intuizione uno studioso, Irving Lavin, ha notato il contrasto fra la ricchezza dei marmi delle facciate e l’austerità dell’interno. Ha suggerito quindi che tutta la cattedrale vada intesa come un’immagine del ventre di Maria incinta. Santa Maria del Fiore ci appare dunque come rappresentazione sublime di Maria Sophia, con le facciate rivestite delle vesti sontuose che indossa Beatrice assisa sul Carro di Dio, con la grande cupola bianca e rossa in cui riecheggia il mistero delle Madonne del Parto, che si diffondono nell’aria fiorentina proprio a partire dai primi decenni del XIV secolo75. Si è scritto che le icone della Madonna incinta sarebbero state dipinte in funzione anticatara, per confutare agli occhi dei fedeli l’immagine di un Cristo fatto di sola luce e non di carne e sangue. Si è scritto anche che potrebbero scaturire da un improvviso riemergere di antichi culti della fertilità. Nei miei libri precedenti ho collegato le Madonne del Parto alle aspettative delle comunità templari disperse dopo la violenta soppressione del loro ordine, avvenuta pochi anni prima della comparsa di queste icone: la sentenza non definitiva di papa Clemente V lasciava spazio chiesa di San Pier Maggiore, dove era stata affrescata probabilmente da Taddeo Gaddi per conto della famiglia degli Albizzi, anch’essa legata ai Fedeli d’Amore. 75 Sulle Madonne del Parto vedi il catalogo della mostra La Madonna nell’attesa del parto, 2000 e Walter 1996, oltre ai miei citati.

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3. Il Fiore della cattedrale di Firenze

alle speranze di una ricostituzione del Tempio e della sapienza che vi si custodiva. Di questa sapienza era allegoria il Verbo nascosto nel ventre di Maria, ormai prossimo a manifestarsi come prossima pareva la rinascita templare. Non c’è qui lo spazio per ripercorrere gli argomenti che ho addotto a sostegno di questa tesi, per i quali rimando ai miei testi76. Pur ritenendola ancora valida, penso oggi che le immagini delle Madonne incinta non siano state solo il simbolo di comunità vicine al Tempio, ma di un intero popolo in attesa, di un’Ecclesia che attendeva un rinnovamento profondo dei tempi e della Chiesa. Gli anni a cavallo fra la fine del XIII e i primi decenni del XIV secolo sono permeati di questa attesa messianica, della quale si era fatto interprete Gioacchino da Fiore profetizzando l’avvento dell’età dello spirito, del Vangelo Eterno, quando ciascuno sarebbe stato in grado di comprendere dentro di sé l’annunzio di Cristo senza necessità di mediazioni. L’Apocalisse aveva parlato di 1260 giorni nei quali la Città Santa sarebbe stata calpestata dai pagani e Gioacchino aveva detto che quei giorni erano da intendersi come anni. Dunque il tempo della profezia apocalittica sembrava scaduto. La figura di Francesco, con la coraggiosa rinuncia ai beni ed il ritorno alla povertà evangelica, sembrava incarnare e preannunciare questo radicale rinnovamento del popolo di Dio. La Chiesa sarebbe tornata a Cristo, spogliandosi del potere, della corruzione e dell’arroganza temporale. Dante, nato proprio allo scadere del tempo annunziato, si fece interprete di questa attesa con le parole profetiche di Beatrice che annunziano un prossimo giudizio divino, nel quale un misterioso inviato farà giustizia dei corrotti: Sappi che’l vaso che ‘l serpente ruppe, fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda che vendetta di Dio non teme suppe. Non sarà tutto tempo senza reda l’aguglia che lasciò le penne al carro, per che divenne mostro e poscia preda; ch’io veggio certamente, e però il narro, a darne tempo già stelle propinque, secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro, 76

Le Madonne del Parto icone templari, Firenze, Polistampa, 2005, Beatrice e Monnalisa, Firenze, Polistampa, 2005 e Cavalieri del mistero. Templari e Fedeli d’Amore in Toscana, Firenze, Le Lettere, 2011.

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nel quale un Cinquecento Diece e Cinque, messo di Dio, inciderà la fuia con quel gigante che con lei delinque… (Purg.XXXIII, 34-45).

La profezia del Cinquecento Dieci e Cinque è introdotta dalla citazione del salmo 78 che lamenta la distruzione del Tempio (“Deus venerunt gentes…”), con un possibile riferimento al dramma dell’ordine cavalleresco. Essa tuttavia non si collega solo alla speranza dei templari dispersi, ma anche all’opera di Giovacchino ed agli apocrifi gioachimiti che circolavano segretamente fra i Francescani spirituali, considerati dai confratelli conventuali e dalla Chiesa in odore di eresia. Dopo la morte di San Francesco, i frati si erano infatti ben presto divisi in due correnti: quelli che intendevano seguire alla lettera la povertà evangelica del santo fondatore, perciò detti Spirituali, e gli altri che invece volevano indirizzare l’ordine nelle consuetudini e nelle regole meno rigorose del mondo conventuale e perciò detti Conventuali. Nell’elogio commosso che fa di Francesco nella Commedia, Dante dimostra di essere vicino ai primi ed a Madonna Povertà, che chiama la sposa del santo77. Nell’affresco della spoliazione degli averi nella Cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, anche Giotto indica la povertà di Francesco come pietra angolare della Gerusalemme Celeste e della Ecclesia78. Le Madonne del Parto sono dunque l’espressione di un popolo cristiano che attende con fede il prossimo rinnovamento spirituale della Chiesa e della società intera. La cattedrale di Firenze è un monumento a questa speranza. 77

“Ma perch’io non proceda troppo chiuso/ Francesco e Povertà per questi amanti/ prendi oramai nel mio parlar diffuso./ La loro concordia e’ lor lieti sembianti/, amore e maraviglia e dolce sguardo/ facieno esser cagion di pensier santi;/ tanto che’l venerabile Bernardo/ si scalzò prima, e dietro a tanta pace/ corse e, correndo, li parve esser tardo./ O ignota ricchezza, oh ben ferace!/ Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro, / dietro allo sposo, sì la sposa piace./ Indi sen va quel padre e quel maestro/ con la sua donna e con quella famiglia/ che già legava l’umile capestro/… Quando a colui ch’a tanto ben sortillo/ piacque di tirarlo suso a la mercede, / ch’el meritò nel suo farsi pusillo, / a’ frati suoi, si come a giuste rede, / raccomandò la donna sua più cara, / e comandò che l’amassero a fede” (Par.XXI, 73-85; 109-114). La posizione di Dante a favore degli Spirituali è dunque chiarissima. 78 Vedi il mio saggio Giotto e la Gerusalemme Celeste in Desiderium Sapientiae. Simboli esoterici nella città antica, Firenze, Giuntina, 1996.

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Vista della Cupola di Santa Maria del Fiore.

-I-

Vista dal lato est del Campanile di Giotto.

- II -

Domenico di Michelino, Dante e il suo poema, 1465, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore.

Annunciazione, XIII secolo. Il bassorilievo è posto fra la cattedrale ed il campanile.

- III -

Andrea Pisano, Creazione di Adamo, Campanile di Giotto.

- IV -

Andrea Pisano, Creazione di Eva, Campanile di Giotto.

-V-

Andrea Pisano, Il lavoro dei progenitori, Campanile di Giotto.

- VI -

Andrea Pisano, Arte edificatoria, Campanile di Giotto.

- VII -

Andrea Pisano, Legislazione, Campanile di Giotto. La figura nella mandorla mistica potrebbe essere quella di Ermete Trismegisto.

- VIII -

Andrea Pisano, Dedalo, Campanile di Giotto.

- IX -

Andrea Pisano, Ercole sconfigge Caco, Campanile di Giotto.

-X-

Andrea Pisano, Theatrica, Campanile di Giotto. L’auriga che guida i cavalli potrebbe riferirsi anche al mito platonico.

- XI -

Andrea Pisano, Architettura, Campanile di Giotto.

- XII -

Andrea Pisano, Saturno, Campanile di Giotto.

Andrea Pisano, Giove, Campanile di Giotto.

- XIII -

Andrea Pisano, Marte, Campanile di Giotto.

Andrea Pisano, Sole, Campanile di Giotto, particolare della Pietra.

Andrea Pisano, Sole, Campanile di Giotto.

- XIV -

Andrea Pisano, Mercurio, Campanile di Giotto.

Andrea Pisano, Venere, Campanile di Giotto.

- XV -

Andrea Pisano, Luna, Campanile di Giotto.

Taddeo Gaddi, Madonna del Parto, Firenze San Francesco di Paola.

- XVI -

4.

IL CAMPANILE, PILASTRO DELLA SAPIENZA

Il simbolismo dell’asse cosmico e della scala della sapienza è alla base del progetto di Giotto per il campanile della cattedrale di Firenze. Nel 1334 l’anziano artista venne chiamato nel prestigioso incarico di Capomaestro dell’Opera del Duomo e delle fortificazioni della città. I lavori della nuova cattedrale fiorentina, dopo la morte del progettista Arnolfo di Cambio, si erano trascinati stancamente. Giotto, ormai all’apice della fama, avrebbe dovuto dar nuovo slancio e vigore al grande cantiere. In realtà, come è noto, egli preferì concentrare i propri sforzi e le risorse dell’Opera non nella prosecuzione del progetto di Arnolfo ma nella costruzione di un campanile, nel quale lasciare un’opera originale e personale di architettura. Ideò dunque una torre imponente, dall’apparenza sottile rispetto all’altezza inusitata, decorata nella parte basamentale, quella visibile ad occhio nudo, con rilievi e sculture di carattere allegorico. Sulla presunta esilità del campanile non mancarono polemiche, traccia delle quali è nelle parole di un anonimo commentatore: “Compose et ordinò il campanile di marmo di Santa Riparata di Firenze: notabile campanile et di gran costo. Commisevi due errori: l’uno, che non ebbe ceppo da piè; l’altro, che fu stretto: posene tanto dolore al cuore, ch’egli si dice, ch’egli ne ’nfermò et morissene”79. Il campanile, che sembra dovesse concludersi con un’alta guglia gotica, si alza snello verso il cielo, sottile come obelisco, come pilastro cosmico che sostiene la volta celeste, come asse del mondo eretto nell’ombelico della terra. Le formelle e le statue accentuano questo simbolismo assiale, conducendoci all’interno di un percorso ascensionale che ci parla di Bethel, il luogo in cui Giacobbe vide la scala sui cui gradini faticosamente l’uomo può elevarsi dalla materia allo spi-

79

Cit. in Guasti 1887; p. XLVII.

49

Le Sette Colonne della Sapienza

rito. Giotto progettò il campanile con misure simboliche che rappresentavano tutto questo: ogni lato è di 25 braccia, potenza del numero cinque che abbiamo visto essere connesso alla quintessenza, allo spirito etereo; l’altezza doveva essere di 144 braccia, il numero della Gerusalemme Celeste, potenza del dodici, numero cosmico e celeste. L’apparente esilità della torre fu dovuta proprio alla volontà di rispettare i due numeri sacri. Già tre mesi dopo l’incarico, Giotto era in grado di dare inizio ai fondamenti, che scesero per dodici metri nella terra fino a saldarsi tenacemente alla roccia viva. Erano passati appena tre anni, quando il maestro morì, lasciando il campanile costruito solo fino alla prima cornice. Nonostante il poco tempo trascorso, è ormai opinione consolidata che Giotto avesse già preparato un progetto completo di tutta l’opera e del programma simbolico delle decorazioni; è anzi probabile che già in quei tre brevi anni egli avesse fatto iniziare le formelle, come era consuetudine nella pratica costruttiva dei cantieri gotici: “Dalla coerenza architettonica della parte inferiore del campanile si desume che Giotto ha progettato i rilievi di entrambe le sezioni del basamento e le statue nei tabernacoli collocati immediatamente al di sopra, e che quindi queste opere si basano su un programma unitario”80. Lorenzo Ghiberti, nei suoi Commentari, scrisse di aver visto i bozzetti originali di Giotto per le decorazioni scultoree: “Le prime storie sono nello edificio, il quale da lui fu edificato, del Campanile di Santa Reparata, furono di sua mano scolpite e disegnate.Nella mia età vidi provvedimenti di sua mano di dette istorie egregiissimamente disegnate”81. Le formelle sono attribuite ad Andrea Pisano il quale alla morte del maestro gli subentrò nella costruzione del campanile, ma lo stesso Ghiberti aggiunge che di Andrea sarebbero solo quelle romboidali dell’ordine superiore, cioè “sette opere di misericordia, sette virtù, sette scientie, sette pianeti”82. Anche in questo caso Andrea avrebbe seguito il programma iconografico di Giotto. Lo stesso progetto cromatico delle facciate si può far risalire a Giotto. Abbiamo visto come questi colori associno la cattedrale ed il campanile a Beatrice-Sophia. 80 Gert Kreytenberg, Le sculture trecentesche all’esterno e all’interno in AA.VV., La cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, 1994-1995, vol.II, p. 74. 81 Cit. in Carlotti 2008, p. 39. 82 Cit. in Carlotti 2008, p. 39.

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4. Il Campanile, Pilastro della Sapienza

Giotto e Dante si conobbero e si stimarono. Pochi sanno che anche il pittore compose poesie, dai contenuti analoghi a quelle dei Fedeli d’Amore e con lo stesso invito alla segretezza, che fa ritenere anche lui un membro della confraternita. Le decorazioni del campanile si sviluppano su due ordini sovrapposti di formelle: sette nell’ordine inferiore e sette in quello superiore, per ciascuna facciata. Al di sopra quattro nicchie accolgono le statue. Sette è numero mistico, il numero della Creazione, la matrice divina all’interno della quale l’energia eterna, simboleggiata dal tre, penetra e rende viva la materia, simboleggiata dal quattro. Su questo numero sette si regge pertanto la casa che la Sapienza si è edificata: “La Sapienza si è costruita la casa;vi ha innalzato sette colonne” (Proverbi, 9, 1). Tutto il programma simbolico del campanile narra come l’uomo possa risalire la scala della Sapienza attraverso il lavoro, le arti manuali, quelle intellettuali, la pratica delle virtù, il sostegno dei sacramenti e giungere così a quella che è sempre stata la sua Dimora, dove avrà la visione di Dio. L’ultimo gradino è dunque, come in Abulafia e in Dante, quello della profezia, rappresentato dalle statue delle Sibille e dei profeti. Luisa Becherucci ha interpretato il programma simbolico come “una storia evolutiva dell’umanità”, delle attività con le quali “l’uomo gradualmente si libera dalla pratica necessità della sopravvivenza per assurgere alla libera speculazione che lo farà degno della Redenzione”83; ha inoltre notato le affinità tra tale programma ed il sistema teologico filosofico della Scolastica84. Le formelle inferiori del lato ovest mostrano prima la Creazione di Adamo, quindi quella di Eva. Subito dopo segue il Lavoro dei Proge83

Becherucci, Brunetti s.d., vol. I, p. 233. “Dalle attività umane distinte nella Scolastica nelle tre categorie della Necessitas (Artes mechanicae intente al dominio sulla natura e includenti anche, per la loro manualità, le arti figurative), della Virtus (arti inerenti alla pratica organizzazione della famiglia, della società, dello Stato), della Sapientia (Artes Liberales volte alla speculazione teorica), sarebbero qui rappresentate le Artes Mechanicae ed alcune altre attività della pratica Virtus nelle personificazioni dei loro mitici inventori, classici e biblici. Negli ordini superiori, il programma si completerà con le allegorie delle Arti liberali del Trivio e del Quadrivio che, nella superiore direzione delle Virtù cardinali e teologali, renderanno l’uomo di nuovo degno della Redenzione. E questa è allusa nelle grandi statue dell’ultimo ordine dalle figure di 84

51

Le Sette Colonne della Sapienza

nitori, cioè di Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden. È da notare che l’albero posto sopra la figura di Adamo, nella formella della creazione, è una quercia, che nel simbolismo dell’alchimia rappresenta la materia prima. Teniamolo a mente, perché sull’alchimia torneremo nel seguito di questo scritto. La quarta formella raffigura Jabal, definito nella Genesi “il padre di tutti coloro che abitano sotto le tende presso il bestiame” (IV, 20), la quinta suo fratello Jubal, “padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto” (IV, 21), la sesta Tubalcain “il fabbro, padre di tutti i lavoratori del rame e del ferro” (IV, 22), la settima Noè, coltivatore della terra e primo viticultore. Il programma prosegue nel lato sud, con Gionitus, definito da Brunetto Latini nel Tresor l’inventore dell’astronomia. Nella seconda formella è raffigurata l’arte del costruire, con un maestro che mura una parete di pietre disposte nei consueti filaretti medievali. Nella terza troviamo la Medicina, nella quarta l’Equitazione, nella quinta il Lanificio (arte tessile). Nella sesta la tradizione riconosce la figura di Phoroneo, che Brunetto Latini definì l’inventore delle leggi.Egli appare assiso su un trono dalla mistica figura della mandorla e dal piedistallo ottagonale, entrambi simboli di passaggio fra le dimensioni del cielo e della terra, ad indicare che la legge è un’emanazione della Giustizia divina. Non si può escludere tuttavia che questo personaggio arcano sia da identificarsi con quell’Ermete Trismegisto che, secondo Cicerone e Lattanzio, avrebbe dato agli Egiziani le leggi e le lettere. Si riteneva infatti che Ermete nei suoi scritti avesse profetizzato la venuta del Verbo. Sulle parole di Lattanzio la sua figura fu considerata come portatrice di una Verità antica, che avrebbe trovato nella venuta di Cristo il suo compimento85. Per questo la sua immagine fu posta sul pavimento del Duomo di Siena, di fronte all’ingresso. La settima formella raffigura Dedalo, primo architetto e primo scultore, che si lancia nel vuoto con ali sapienti simili a quelle degli angeli. Dedalo, inventore del Labirinto, ne uscì volando verso il Sole, ma il figlio Icaro trovò la morte per aver cercato, come l’Ulisse di Dante, di quelli che nell’antichità biblica e classica l’avevano preparata e vaticinata: i Patriarchi, i Profeti, i Re del vecchio Testamento, le Sibille” Becherucci, Brunetti s.d., vol. I, p. 234. 85 “Trismegisto, che ha scoperto non so come la verità pressoché intera, spesso ha descritto la potenza e la maestà del Verbo” Lattanzio, Divinae Istitutiones IV, 9, 3, in Scarpi 2011, p. 15.

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4. Il Campanile, Pilastro della Sapienza

salire verso altezze di conoscenza proibite a chi non fosse stato adeguatamente preparato. Il Labirinto era posto spesso all’ingresso delle cattedrali, dove veniva percorso a piedi nudi come simbolo del percorso iniziatico. Il volo di Dedalo è quello del mistico che ascende, come angelo, la scala di Giacobbe verso l’immersione nella Sapienza. Nel lato est la prima formella rappresenta l’arte della Navigazione (il dominio dell’uomo sulla forza del mare). Nel libro del Bahir si definisce il Trono celeste come il Mare della Sapienza86; la formella può dunque alludere anche al saggio che naviga nel mare della Conoscenza. La seconda formella ritrae Ercole che, ai piedi di una quercia, sconfigge Caco, da intendersi, secondo l’opinione corrente, come “la giustizia sociale o la liberazione della terra dai mostri”87. In realtà Ercole sembra piuttosto rappresentare la lotta contro le forze telluriche presenti nel profondo della nostra psiche, il cui controllo è condizione necessaria per proseguire nella scala sapienziale. In alchimia la quercia, come abbiamo ricordato, rappresenta la materia prima di un’Opera, nella quale le operazioni sui minerali sono solo lo specchio di quelle che avvengono nell’anima dell’iniziato. La materia domata da Ercole è dunque quella interiore, la pulsione dell’ego che, se lasciata libera, impedisce la discesa verso l’incontro con la Sophia nascosta. La terza formella rappresenta l’Aratura, attraverso la quale la fertilità della terra viene indirizzata alla fecondazione del seme e, su un piano più alto, l’allegoria dell’energia vitale dell’uomo e della donna che viene rivolta alla rigenerazione spirituale. La quarta formella è conosciuta come la Theatrica, l’arte degli spettacoli. Vi si rappresenta in realtà un carrettiere che conduce un carro tirato da due cavalli e pare perciò riferirsi piuttosto ai carrai ed all’arte del commercio. Ma anche in questo caso si deve scorgere un livello di comprensione più profondo, ricordando che il cavallo rappresentava nell’antichità l’energia naturale e passionale. Il suo controllo da parte dello spirito e della volontà, fin dall’allegoria platonica era simboleggiato dall’auriga che, alla guida di una biga o di un carro, indirizzava o frenava con sapienza ed arte la corsa dei destrieri. Èsignificativo il fatto che Ezechiele utilizzasse proprio il simbolo del carro per indicare il Trono celeste.

86 87

Busi Loewenthal 1999, p. 176. Becherucci, Brunetti s.d., vol. I, p. 234.

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Le Sette Colonne della Sapienza

Completavano il primo settenario le raffigurazioni di Architettura, Scultura e Pittura, ma le ultime due furono spostate sul lato settentrionale nel 1431, in seguito alla sistemazione della nuova porta del campanile. Come la scultura estrae l’anima della pietra, così l’Architettura costituisce un’evoluzione rispetto alla semplice arte del costruire, che era stata già raffigurata nel lato sud. L’architettura è infatti disegno e progetto, non semplice muratura; così nella formella troviamo raffigurato l’architetto seduto al tavolo ed intento a disegnare con un compasso, strumento principe per costruire ogni figura geometrica. Se il maestro muratore usava soprattutto la squadra, all’architetto spettava il compasso: passando dall’angolo retto all’arco, dal quadrato al cerchio, si sublimava la terra nel cielo, si conduceva come un esperto auriga la materia alle nozze con lo spirito. Nel lato settentrionale rimangono solo cinque formelle, visto che il posto di due era stato occupato da quelle spostate dal lato orientale. Esse risalgono all’inizio del XV secolo e sono opera di Luca della Robbia. Secondo l’interpretazione tradizionale la prima formella rappresenterebbe la Grammatica; la seconda la Filosofia, con Platone e Aristotile che parlano fra loro; la terza ci conduce alla Musica, mostrando Orfeo che incanta gli animali col suono del liuto; la quarta indica l’Aritmetica, con due saggi in turbante che discutono; la quinta ed ultima, nella quale si vede un sapiente percuotere un’incudine usando alternativamente due martelli, rappresenterebbe l’Astrologia. Secondo il Vasari infatti il personaggio raffigurato sarebbe Tolomeo ed il ritmico battito dei martelli sarebbe allegoria del suono delle armonie cosmiche. Se l’ordine inferiore delle formelle rappresenta le arti meccaniche o comunque le attività legate alla logica ed alla ragione, l’ordine superiore ci solleva nel campo delle attività spirituali. Sul lato ovest le formelle indicherebbero, secondo un’interpretazione che risale a Ghiberti, i sette pianeti. Per spiegare una presenza così insolita in un programma che racconta solo attività, materiali e spirituali, ma sempre direttamente riferibili all’uomo, si è scritto che i pianeti “rappresenterebbero le forze elementari che, con le forze morali (Virtù) e spirituali (Arti Liberali), contribuirebbero a dirigere il lavoro dell’uomo, oltre la pura necessità, verso le mete più alte che lo renderanno degno della Redenzione”88.

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Becherucci, Brunetti s.d., vol. I, p. 237.

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4. Il Campanile, Pilastro della Sapienza

La prima formella mostra Saturno che con un braccio sorregge un fanciullo e con l’altro una ruota ad otto raggi; la seconda Giove, raffigurato come un frate che in una mano tiene una croce e nell’altra un calice; la terza Marte, come guerriero su cavallo rampante; la quarta il Sole, un re coronato che in una mano tiene lo scettro e nell’altra una pietra; la quinta Venere, fanciulla che in una mano sostiene due giovani, maschio e femmina, nudi ed abbracciati; la sesta Mercurio, figura barbuta con un cappello orientaleggiante ed un libro in grembo, col capo reclinato nella meditazione e presso di lui due giovani assorti; nella settima formella troviamo infine la Luna, raffigurata come una giovane, assisa sulle acque, che tiene in mano una fontana al centro della quale si eleva un albero. Su lato sud sono rappresentate in forma femminile le sette virtù. Innanzitutto le teologali: la Fede, con la croce ed il calice (come Giove), la Carità con una sfera ed una cornucopia, la Speranza, come figura orante alata; seguono le quattro cardinali: la Prudenza, con due volti, tiene in una mano uno specchio e nell’altra un serpente; la Giustizia, con bilancia e spada; la Temperanza, nell’atto di travasare il contenuto di un recipiente in una brocca; la Fortezza con clava e scudo. Sul lato orientale sono rappresentate le sette Arti Liberali. La prima formella rappresenta l’Astronomia, con l’astrolabio in mano; seguono la Musica con uno strumento musicale; la Geometria col compasso e la tavoletta quadrata; la Grammatica che, colta nell’atto di insegnare a tre giovani, tiene in mano un flagello a tre corde; la Retorica, con un piccolo scudo e la spada; la Logica o Dialettica, con in mano le forbici; la Matematica che, con una mano chiusa a pugno sul petto e l’altra sollevata con due dita tese, indica da una parte l’uno come centro ed origine del tutto, quindi il due, inizio della molteplicità e primo numero capace di generare gli altri. L’uno coincide con il cuore, il centro nascosto ed inviolato di ogni persona. L’ultimo ordine di formelle rappresenta con scenette realistiche i sette sacramenti: il Battesimo, la Penitenza, il Matrimonio, il Sacerdozio, la Cresima, l’Eucaristia, l’Estrema Unzione. Assai più in alto dei due ordini di formelle si collocano le figure dei profeti. Sul lato ovest Abacuc, Geremia, Abdia ed un quarto profeta; sul lato sud tre profeti e Mosé, sul lato est tre profeti ed Abramo; sul lato nord la Sibilla Tiburtina, il Re Davide, il Re Salomone e la Sibilla Eritrea. Lattanzio annoverava anche le Sibille 55

Le Sette Colonne della Sapienza

accanto al Trismegisto tra i cosiddetti profeti pagani e questo spiega il loro posto nel programma del campanile89. Negli anni ’80 del XV secolo, Ermete e le Sibille verranno rappresentati sul pavimento ermetico della cattedrale di Siena. La figura del mitico profeta pagano fu collocata di fronte all’ingresso, rappresentata nell’atto di rivolgersi a due filosofi, uno del mondo islamico, l’altro di quello ebraico. La Sapienza supera la differenza fra le religioni, nella coscienza che tutte conducono ad una medesima Verità. I due filosofi sono rappresentati anche nella formella del campanile che mostra Phoroneo o, piuttosto, anch’essa Ermete. Il simbolismo ascensionale presente nella decorazione del campanile è a questo punto evidente: il campanile è concepito da Giotto come pilastro della Sapienza e ripropone l’ancestrale simbolismo di quell’asse del mondo posto nell’ombelico della terra che, comune a tutte le culture antiche, unisce la terra al cielo. L’ascensione dello spirito avviene attraverso un progressivo perfezionamento al quale contribuiscono il lavoro, le arti, lo studio, le virtù, i sacramenti. L’esito è la Conoscenza che si traduce nella veggenza e nella profezia. Le arti, anche quelle manuali, costituiscono gradini importanti di questa ascensione: non è una coincidenza che lo schema settenario delle arti medievali abbia radici antiche che risalgono almeno al primo secolo avanti Cristo. Questo schema è stato paragonato nel Medio Evo ai sette pilastri della Casa della Sapienza. Certamente fra le arti manuali e quelle spirituali c’è differenza di grado e San Bernardo paragona le prime allo stato carnale e le seconde a quello spirituale, ma è sempre Bernardo ad affermare che per accedere al livello spirituale è necessario passare da quello carnale. Per Ugo di San Vittore “quella ricerca assidua della Sapienza chiamata Filosofia, ha il suo inizio nella meccanica… La Sapienza non è presente dappertutto nella stessa misura; meno nella meccanica che non nella teorica; ma la filosofia non può disprezzare nulla. Tutti gli atti umani, anche i più semplici, hanno rapporto con la Sapienza”90. Per Guglielmo di Conches, esponente della scuola neoplatonica ed ermetica di Chartres, tutte le attività umane possono essere finalizzate alla ricerca di Dio ed all’ottenimento della Sapienza: “Esiste una gerarchia delle arti, ma tutte concorrono, secondo la loro impor89 90

Vedi Yates 1981, pp. 21-22. Davy 1980, p. 47.

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4. Il Campanile, Pilastro della Sapienza

tanza, all’acquisizione della Sapienza. Così la lavorazione della lana, quella delle pelli, il cucito, l’uso degli strumenti agricoli o di quelli della navigazione… sono al servizio della filosofia. Questo carattere universale deve essere sottolineato e tenuto presente. La medicina, al pari dei divertimenti teatrali, serve all’equilibrio dell’uomo. Grazie a questa perfetta armonia, l’uomo diventa capace di dedicarsi alla sapienza. Niente è disprezzato e trascurato, così come nella costruzione di un edificio le pietre hanno tutte la loro utilizzazione”91. Bernardo Silvestre, anch’egli maestro di spicco della celebre scuola di Chartres, descrive la scala delle arti in una Summa didascalicae, composta significativamente di sette libri. Nel contesto del programma simbolico del campanile, l’unico elemento problematico e fuori posto sembra costituito dai pianeti. Se pure volessimo considerarli, con le parole di Becherucci, “forze elementari”, influssi capaci di aiutare la salita dell’uomo verso la Conoscenza, questi rappresenterebbero comunque un’influenza esterna che prescinde dalla nostra volontà, mentre tutte le altre formelle contengono laboriose conquiste della ragione o dello spirito: anche le virtù sono infatti qualità da raggiungere con un faticoso cammino di perfezionamento spirituale, così come i sacramenti sono azioni sacre in cui è necessario l’intervento rituale dell’uomo per conseguire l’effusione della Grazia. Vediamo dunque di comprendere i motivi di questa apparente anomalia. L’ordine con il quale i pianeti sono rappresentati è quello tradizionale tramandato dall’antichità, formato da tre pianeti sopra e tre sotto il sole: “Più in basso di tutti gira la Luna, che riceve e rimanda i vapori della Terra; sopra, i due compagni di viaggio del Sole, il piccolo, insignificante Mercurio e il possente e quasi bianco pianeta Venere, simile al Sole. Nella quarta sfera, quindi in mezzo, giace lo stesso Sole, il cui potere dominante era apparso sempre più chiaro agli antichi. Seguono i tre pianeti superiori: l’igneo e minacciosamente rosso Marte, il giallo chiaro Giove dalla luce mite e il giallo torbido Saturno, che con la lentezza del vegliardo descrive la sua orbita in remote regioni del cielo… L’ottava sfera, situata al di sopra delle sette sfere planetarie, secondo l’opinione comune condivisa anche da Aristotele, sorregge tutte le stelle fisse”92. 91 92

Davy 1980, p. 48. Boll, Bezold, Gundel 1979, pp. 61-62.

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Nella concezione ermetica, i pianeti concedono i loro poteri alle anime che si incarnano, rendendole partecipi delle virtù cosmiche. Nel Libro dell’Amore, Marsilio Ficino, sulla scorta dei testi ermetici da lui tradotti, elenca i sette poteri dei pianeti: “E questi doni principalmente sono sette: sottlÿità di contemplare, potentia di governare, animosità, chiarezza di sensi, ardore d’amore, acume d’interpretare, fecondia di generare. La forza di questi doni Iddio principalmente in sé contiene, dipoi concede questa a’ sette iddii che muovono e sette pianeti, e da noi si chiamano angeli sette, che intorno al trono di Dio di rivoltano…”93. Il dono della visione viene concesso agli uomini attraverso Saturno, quello del governo attraverso Giove, la grandezza d’animo attraverso Marte, la profezia, frutto della chiarezza dei sensi, attraverso il Sole, l’amore attraverso Venere, la conoscenza attraverso Mercurio, la fecondità infine attraverso la Luna. Nel Pimandro, il più conosciuto dei testi ermetici, i pianeti rappresentano anche la scala che conduce l’uomo a liberarsi della prigione materiale ed a ritrovare dentro di sé la natura divina che vi è nascosta. Quando l’anima si separa dal corpo, essa sale attraverso le sette sfere planetarie ed in ciascuna di esse si libera di una delle passioni che impediscono la Conoscenza: “E così l’uomo inizia la sua ascesa attraverso il complesso armonico delle sfere. E nella prima fascia si libera dell’energia che provoca la crescita come il suo contrario; nella seconda degli espedienti della malvagità, astuzie ormai prive di effetto; nella terza della seduzione dei desideri, anch’essa ormai senza energia; nella quarta della vanità del comando, priva ormai delle sue ambizioni; nella quinta dell’empia audacia e della sconsiderata temerarietà, ormai anch’esse senza vigore; nella sesta dei desideri malvagi prodotti dalla ricchezza, venuto meno l’impulso anche in questo caso; alla settima fascia, infine, consegna l’insidiosa menzogna, anch’essa ormai senza vigore. Allora, ormai denudato degli effetti prodotti dal complesso armonico delle sfere, l’uomo perviene alla natura ogdoadica, fornito soltanto della sua potenza, e canta inni in onore del padre assieme agli altri esseri… Allora, ordinatamente, tutti questi salgono verso il padre e si consegnano alle potenze; dopo di che, divenuti a loro volta potenze, entrano in Dio. Questo è l’ottimo fine per chi è giunto a possedere la conoscenza: diventare Dio”94.

93 94

Ficino, El libro dell’Amore, ediz. 1987, p. 117. Poimandres, ediz. 1987, pp. 61-63.

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4. Il Campanile, Pilastro della Sapienza

Nel viaggio fuori dal corpo l’anima si spoglia via via delle qualità negative insite nei poteri che ciascun pianeta le aveva conferito alla nascita. Non possono sfuggire le analogie con l’ascesa di Dante nel Paradiso, attraverso le sfere planetarie. Concezione analoga appare quella neoplatonica, ma di origine pitagorica: le anime discendono sulla terra per la porta del Cancro, corrispondente al solstizio di estate e, dopo essersi purificate attraverso le sette sfere planetarie, ritornano al cielo per la porta del Capricorno, corrispondente al solstizio di inverno. Le due porte furono dai latini simboleggiate nel culto di Giano bifronte, festeggiato nei solstizi; questa tradizione, attraverso le opere di Macrobio, è passata nel Cristianesimo che ricorda in prossimità dei solstizi i due San Giovanni, la cui assonanza fonetica col nome di Giano è indiscutibile. L’ascesa attraverso le sette sfere planetarie trova una corrispondenza immediata anche nelle iniziazioni mitraiche, i cui sette gradi corrispondono ai sette pianeti. Siamo così arrivati ad una collocazione più consona dei pianeti nel simbolismo ascensionale del campanile, non come energie elementari che giungono dalla volta celeste, ma come gradini di un percorso che l’anima segue dopo il distacco dal corpo, ma che può essere affrontato anche in vita dal mistico. È questo il fine che si proponevano le confraternite degli Yoredé Merkavà, dei cabbalisti, dei Fedeli d’Amore. Eppure c’è qualcosa di più. Osservando la figura del Sole, raffigurato al centro dei pianeti come re coronato, si è colpiti dal fatto che egli tenga in mano una pietra. È stato scritto che il giovane re sosterrebbe in realtà un disco solare. Ma l’oggetto oblungo e grezzo raffigurato nella formella non è una sfera che ha perso la sua rotondità per il deterioramento del tempo: lo dimostrano i rombi smaltati dello sfondo, che ne assecondano intatti il perimetro irregolare. Giotto ha posto nelle mani del Sole proprio una pietra. Analoghe rappresentazioni di un re coronato Giotto le aveva dipinte nel grande ciclo astrologico del Palazzo della Ragione a Mantova, fra il 1307 e il 1308, seguendo un programma iconografico dell’astrologo Pietro d’Abano95. I dipinti di Giotto andarono perduti in un

95

Vedi Graziella Federici Vescovini, La teoria delle immagini di Pietro d’Abano e gli affreschi astrologici del Palazzo della Ragione di Padova in AA.VV., Die Kunst

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Le Sette Colonne della Sapienza

incendio del 1420 e furono reinterpretati e rifatti, cercando di riprodurre le immagini preesistenti. La figura del re coronato ve la troviamo come immagine del Sole che, assiso su un trono a forma di mandorla e posto su un carro, tiene nelle mani uno scettro ed un altro oggetto assai deteriorato, che potrebbe essere una sfera o forse una pietra. Non ci è dato sapere se la figura originale di Giotto avesse in mano anche in questo caso la pietra. Nel pavimento ermetico del Duomo di Siena, un re coronato con lo scettro e la sfera è assiso sopra la cosiddetta ruota della Fortuna, che ha otto raggi come quella di Saturno nel campanile di Giotto. Questo mosaico è purtroppo opera ottocentesca, in rifacimento dell’originale del XIV secolo che era ormai rovinato dal calpestio di secoli. Quale fosse l’originale possiamo tuttavia desumerlo da una figura analoga contenuta nei coevi Documenti d’Amore di Francesco da Barberino, che raffigura appunto la Fortuna nell’atto di muovere la ruota cosmica, istruita dalla Sapienza: al vertice della ruota sta una figura regale definita come “Prudenza”, perché solo con la prudenza si sale al vertice della ruota. Negli altri punti cardinali sono rappresentate come a Siena tre figure umane, una sta in basso opposta al re, le altre due sono colte nell’atto rispettivamente di salire e di scendere. La figura che sale, precisa il Barberino, è la Sollecitudine che tende all’alto, quella che scende è l’Ingratitudine che non ha saputo riconoscere la grazia che le era stata data, la figura in basso è infine la Pigrizia, che non intende muoversi dal proprio stato96. La Fortuna non è dunque cieca e volubile, ma corrisponde all’ordine armonico delle cose create, regolato come nel Pimandro dalle sfere planetarie e dalla Sapienza. Il raggiungimento della regalità equivale a trovare la piena armonia con il cosmo e con l’ordine che lo regola, al conseguimento cioè della Sapienza. Ma quest’ultima si dispensa solo per illuminazione, cosicché è effettivamente un ingrato chi non riesce a mantenersi in questo stato di grazia. Nei Documenti d’Amore la Prudenza corrisponde al settimo grado, che nella scala planetaria mitraica è quello del Sole. Nel ciclo di affreschi del Cappellone degli Spagnoli (1366-1368) nel convento di Santa Maria Novella a Firenze, le figure dei pianeti sono und der Studium der Natur von 14. zum 16. Jahrh, Weinheim, 1987, pp. 213-235; e AA.VV., Il Palazzo della Ragione in Padova, 1990. 96 Francesco da Barberino, I documenti d’amore secondo i manoscritti originali, ediz. 1982, vol. I, pp. 291-293.

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4. Il Campanile, Pilastro della Sapienza

associate alle Arti ed ai loro inventori; in figura di re coronato con la sfera in mano questa volta è Saturno. Che Saturno possa assumere il carattere solare e regale può essere spiegato solo in termini alchemici, sulla base delle corrispondenze fra oro e Sole da una parte e Saturno e piombo dall’altra, perché Saturno è la base per la realizzazione dell’oro, inteso sia in senso materiale che soprattutto spirituale, quale oro interiore: “I filosofi hanno scritto molto del loro piombo… e io sono dell’opinione che questa Opera saturnina non deve essere intesa con il piombo comune, ma con il piombo dei filosofi. Sappi, figlio mio, che la pietra, detta pietra dei filosofi, viene da Saturno. E sappi come verità che in tutta l’opera vegetabile non c’è mistero più grande che in Saturno. Perché nemmeno nell’oro troviamo la perfezione che si trova in Saturno, perché interiormente esso è oro buono. In ciò tutti i filosofi concordano, ed è necessario soltanto che tu per prima cosa allontani tutto ciò che vi è di superfluo. Poi, che tu volgi l’interno verso l’esterno, che è il rosso: allora sarà oro buono… Tutte le strane parabole in cui i filosofi hanno parlato in senso mistico di una pietra, di una luna, di un forno, di un vaso, tutto questo è Saturno; perché tu non puoi aggiungere nulla di estraneo, oltre a ciò che scaturisce da esso stesso”97. La figura del Re, sia essa riferita al Sole che a Saturno, ci riconduce pertanto al simbolismo dell’Alchimia ed alla Pietra che rappresenta il compimento dell’Opera. A conclusione dei Documenti di Amore di Francesco da Barberino, troviamo un’immagine del re coronato posta in cima ad una scala composta da dodici gradini, corrispondenti ai gradi di amore descritti nell’opera: essa tiene in una mano lo scettro e con l’altra solleva una pietra98. I Documenti d’Amore, composti fra il 1296 e il 1313, sono una summa dello scibile, esposto sotto forma di gradi iniziatici, rivolta ai Fedeli d’Amore. Vi è illustrata in modo criptico, come in ogni testo dei nostri poeti, una dottrina che considera l’Amore come motore di un cosmo generato dalla Sapienza. Il testo è bilingue: a versi composti in volgare toscano, ne corrispondono altri in latino che non sono una semplice traduzione dei primi, ma ne ampliano i concetti. C’è infine

97 98

Testo alchemico citato in Scholem 1995, pp. 29-30. Francesco da Barberino, I documenti d’amore, ediz. 1982, IV, p. 399.

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una terza parte dottrinale, più profonda ed accurata, scritta ancora in latino sotto forma di glosse ai primi due testi; quest’ultima è accompagnata da figure allegoriche disegnate dallo stesso Barberino. La natura iniziatica dell’insegnamento è apertamente dichiarata: più volte si afferma infatti che non tutti gli argomenti possono essere divulgati perché appartengono ad un insegnamento esclusivamente orale e personale, da maestro a discepolo. Questo della discrezione e dell’impossibilità di rendere manifesto tutto il pensiero nascosto sotto il velo delle allegorie è una costante dell’insegnamento esoterico medievale ed in particolare delle opere dei Fedeli d’Amore. Nella Vita Nuova Dante spiega che le allegorie possono essere comprese solo dai Fedeli d’Amore e più volte ripete che chi non è in grado di capire è meglio se si fa da parte. Il tema del segreto diverrà una costante anche nei testi ermetici dei neoplatonici del Rinascimento, come Pico della Mirandola. I gradini da salire per giungere al termine della scala iniziatica sono dodici, come quelli della Scala di Giacobbe. Anche la Regola benedettina ha dodici gradini, come dodici sono i basamenti della Gerusalemme Celeste descritta dall’Apocalisse, che scende dal Cielo come la Sposa del Cantico. L’esito è l’estasi, l’excessus mentis, cioè la “visione intellettuale dell’essenza divina sicut fuit raptus Paulus”99. Questa visione equivale alla Profezia e per questo l’ordine più alto del campanile accoglie i profeti, perché in essi si conclude il cammino della Sapienza. Così non sorprende che il dodicesimo ed ultimo dono di Costanza, la Donna celeste che dal terzo cielo guida Francesco da Barberino, sia il Pomo Profetico che Ficino considerava un dono solare sulla scorta dei testi ermetici. La profezia è una finestra aperta sull’eternità. Nel Bahir si legge che “un re aveva una figliola buona, bella, piacevole e perfetta. La sposò al figlio di un re: la incoronò, la adornò e gliela diede con grandi ricchezze.Poteva il re vivere fuori della propria dimora? No. Poteva quindi stare tutto il giorno con la figliola? No. Che cosa fece allora? Collocò tra sé e la figlia una finestra: ogni volta che la figlia aveva bisogno del padre, o che il padre aveva bisogno della figlia, comunicavano attraverso la finestra”100. Con questa parabola il Bahir

99

Valli 1994, p. 115. Trad. in Busi Loewenthal 1999, p. 164.

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rivela l’esistenza di un passaggio arcano fra il mondo transitorio della manifestazione e quello eterno dello spirito, un passaggio il cui rinvenimento è il fine della Cabbalà e dei Fedeli d’Amore, un passaggio che è possibile al mistico percorrere nei due sensi, ma dal quale l’incauto non farà ritorno. L’ultimo gradino dei Documenti d’Amore è intitolato proprio all’Eternità, della quale è figura il re coronato con la pietra nella mano, che la didascalia originale definisce come Perenne Grazia. Egli è disegnato sotto Amore insieme con le figure della Sollecitudine, della Verità e della Fortezza. Perenne Grazia è innegabilmente affine alla figura regale che siede sulla ruota della Fortuna, al di là del movimento dei sensi, perché l’“ingrato” è colui che scivola giù dalla ruota e dalla grazia. Profezia ed Eternità coincidono anche nei testi ermetici, perché, come spiega il Nous ad Ermete in uno dei dialoghi del Corpus Hermeticum: “Apprendi, figlio mio, ciò che sono Dio e l’universo. Dio, l’eternità, il mondo, il tempo, la generazione: Dio fa l’eternità, l’eternità fa il mondo, il mondo fa il tempo, il tempo fa la generazione… L’eternità sta fissa in Dio, il mondo si muove nell’eternità, il tempo si compie nel mondo, la generazione si produce nel tempo. Origine dell’universo è Dio, essenza ne è l’eternità, sostanza il mondo. La potenza di Dio è l’eternità; l’opera dell’eternità è il mondo che non è nato mai, ma che è continuamente prodotto dall’eternità… L’anima dell’eternità è Dio, l’anima del mondo è l’eternità, l’anima della terra è il cielo. Dio è nell’Intelligenza, l’Intelligenza nell’anima, l’anima nella materia, e tutto questo attraverso l’eternità”101. La pietra che il re tiene in mano è dunque il simbolo della profezia e della finestra misteriosa che il re ha posto fra la sua dimora e quella della figlia lontana. Nella figlia possiamo scorgere la scintilla luminosa nascosta nel profondo della nostra coscienza. Questa finestra, aperta fra il mondo sensibile e l’eternità, è la pietra filosofale degli alchimisti.

101

L’Intelligenza a Ermete in Il Pimandro ossia l’Intelligenza suprema che si rivela e parla ed altri scritti ermetici, 1984, pp. 89-90.

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5.

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La ricerca della pietra filosofale è innanzitutto una ricerca interiore, analoga alla “Queste” del Santo Graal. L’Alchimia non è infatti una chimica in embrione. Gli alchimisti hanno sempre tracciato una netta demarcazione fra la loro Opera e le sperimentazioni chimiche. Come quelle usate dai cabbalisti e dai Fedeli d’Amore, anche le operazioni alchemiche erano tecniche per raggiungere la Sapienza e si servivano delle operazioni sui metalli come specchio e supporto di quelle spirituali. Scriveva Corbin: “La meditazione che interiorizza le trasmutazioni compiute nel corso dell’Operazione reale, genera il corpo spirituale… Trasmutando in simboli i processi o accadimenti sensibili, attiva essa stessa delle energie psichiche che trasmutano radicalmente il rapporto tra l’anima e il corpo”102. Questo aspetto dell’Alchimia ci aiuta a comprendere perché essa fosse inserita nelle formelle del Campanile. Tutte le strade che conducono al Graal hanno un unico comune denominatore: la certezza che con un paziente cammino fatto di disciplina interiore lo spirito possa separarsi dal corpo e, nel silenzio dei sensi, ricevere per grazia un’illuminazione che è visione e conoscenza. L’illuminazione può giungere solo in un ricettacolo vuoto, depurato da passioni, pensieri, sensazioni. Questo stato è simboleggiato dal vaso o dal calice. Il vaso nell’alchimia rappresenta l’atanor, il fornello chiuso dentro il quale si forma lentamente, per successive fasi, la pietra filosofale che gli alchimisti definiscono spesso come un “bambino”. L’atanor, il vaso, è allegoria sia dell’anima personale che di Maria, perché entrambe fanno crescere in sé la Sapienza fino alla sua manifestazione. L’anima deve infatti “divenire Maria per generare Dio dal proprio interno”103.

102 103

Corbin 1986, p. 115. Angelo Silesio cit. in Matthews 1982, p. 17.

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Nel Divina Commedia troviamo un chiaro riferimento all’Alchimia. Dante prende a paragone una fanciulla, definita figlia del Sole, la cui pelle ora bianca era in origine nera: Così si fa la pelle bianca nera nel primo aspetto della bella figlia di quel ch’apporta mane e lascia sera… (Par. XXVII, 136-138).

Di questi versi è stato notato il riferimento alla sposa nigra sed formosa del Cantico dei Cantici104, scura come la materia alchemica nel suo stato originario. I versi di Dante, che i commentatori non riescono a spiegare in modo plausibile, diventano chiari quando si pensi alle fasi dell’Opera nelle quali il primo aspetto della materia è nero ed alla Tavola Smeraldina, il testo ermetico basilare dell’Alchimia composto nel IX secolo da un anonimo autore musulmano, la quale afferma che il Sole è il Padre della Materia e di conseguenza anche della Pietra che essa partorisce: “Suo Padre è il Sole e sua Madre la Luna. Il vento l’ha portato nel suo ventre e la Terra è la sua nutrice”105. Non sorprenda trovare un’allegoria alchemica nella Commedia, perché non è cosa infrequente nella mistica medievale. Anche Meister Eckhart, contemporaneo di Dante, nelle sue Prediche ne fa abbondante uso106. La “bella figlia” di Dante ci appare allora come la prima materia alchemica la quale, passata dal colore nero a quello bianco, si trasmuta dando vita a quel mercurio filosofico che esotericamente corrisponde allo spirito presente nel fondo luminoso di ogni persona. Questo è lo spirito mercuriale, che Botticelli ha rappresentato ne La Primavera nell’atto di svelare col caduceo ciò che le nubi velano. Nello specchio dell’Opera alchemica i filosofi scorsero riproporsi anche il mistero dell’Annunciazione alla quale paragonarono la prima fase della loro Opera, quando la mente si trasforma in un vaso vuoto. Nei dipinti dell’Annunciazione fra l’angelo e Maria si trova frequen-

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Auerbach 1977, p. 254. Traduzione in Burckhardt 1974, p. 170. 106 Ad esempio: “L’anima non può diventare pura se non è riportata alla sua purezza prima, come Dio l’ha creata. Allo stesso modo non si può fare oro dal rame, se non lo si fonde due o tre volte per riportarlo alla sua prima natura”, Meister Eckhart, Predica 57, ediz. 1995, p. 105. 105

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5. Le formelle alchemiche del Campanile

temente rappresentato un vaso, simbolo del ricettacolo puro interiore. I gigli, che nell’iconografia tradizionale spesso si trovano nel vaso dell’Annunziata, simboleggiano il candore della purificazione e, con le parole del padre Vannucci, “l’immagine della sostanza bianca femminile… che eleva l’uomo verso l’alto”107. In un testo alchemico, l’Aurora consurgens, si afferma che la pietra filosofale è la “pietra della castità… sempre la stessa e sempre costante e senza pecca”, allegoria dell’anima di Maria108. La festa dell’Annunziata, venendo nove mesi prima del Natale, cade nei giorni dell’equinozio di primavera, quando il sole entra nel segno dell’Ariete, momento che tutti gli alchimisti definirono il più propizio per l’inizio dell’opera. È questa la stagione della rinascita della natura, nella quale con più forza si manifesta la potenza generativa dell’universo. Non è un caso che il segno dell’Ariete coincida con il simbolo alchemico dello Zolfo puro, cioè della forza fecondatrice maschile che trasmuta la materia femminile nell’atanor. Firenze, da sempre pervasa di una religiosità ricca di misticismo esoterico, ebbe una particolare venerazione per l’Annunziata. Vi si costituì un ordine religioso a Lei intitolato che il padre Vannucci, il quale vi appartenne, non esitò a definire di “natura iniziatica”109: quello dei Servi di Maria, la cui basilica divenne uno dei più venerati santuari cittadini. Lo stesso provvedimento del 1412, che intitolava definitivamente la cattedrale a Santa Maria del Fiore, stabiliva che la festa della chiesa avrebbe dovuto celebrarsi ogni anno il giorno dell’Annunciazione, ma le proteste dei padri serviti per questa sovrapposizione con la loro ricorrenza fecero spostare la data al 2 di febbraio. Su una facciata della cattedrale, di fronte al campanile, si trova un piccolo bassorilievo della fine del XIII secolo, che raffigura l’Annunziata mediante un’iconografia insolita: alle sue spalle svetta infatti una torre esile che termina con un’alta guglia. Maria, torre d’avorio delle litanie lauretane, sembra qui esplicitamente paragonata a quel pilastro della Sapienza che Giotto prese a modello del suo campanile. Wolfram von Eschenbach nel Parzival definisce il Graal non più un vaso ma una pietra della specie più dura chiamata lapsit exillas, ter-

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Vannucci 1985, p. 50. Matthews 1982, p. 19. 109 Vannucci 1985, p. 44. 108

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mine assai analogo al lapis exilis di un testo alchemico, il Rosarium Philosophorum il quale a sua volta è un evidente riferimento alla “pietruzza bianca”, che lo Spirito consegna al vincitore della grande prova nel secondo capitolo dell’Apocalisse. Il Parzival di Wolfram appare pieno di riferimenti alchemici: Gahmuret, padre di Parsifal, lascia la cristianità per porsi al servizio del califfo di Bagdad, dove sposa la regina Belacane, “nera come la notte”, dalla quale ha un figlio Feirefiz. Tornato in Galles, sposa la regina Herzeloyde, “chiara come la luce del sole”, dalla quale nasce Parsifal. Parsifal e Feirefiz, durante la ricerca del Graal, si incontrano e si combattono aspramente, finché non si riconoscono fratelli: “Questi due non fanno che uno. Mio fratello ed io siamo un essere unico”110. Si recano quindi entrambi al castello del Graal, dove insieme contemplano la Pietra, che è custodita dai cavalieri templari. Sembra questa un’allusione al simbolismo alchemico dello scontro fra le due nature, maschile e femminile, re e regina, bianca e nera, che si svolge all’interno del vaso. La Pietra, afferma Wolfram, fa sì che la Fenice si incenerisca e rinasca: la Fenice (dal greco phoinix, rosso) in alchimia rappresenta la pietra filosofale, che è rossa. Il colore rosso misticamente deriva dalla fusione del bianco e del nero, della luce e delle tenebre, tanto che Sohravardi afferma che il crepuscolo e l’aurora sono rossi, perché in essi si mescolano il bianco del giorno ed il nero della notte111. Feirefiz il nero e Parsifal il bianco conquistano il Graal, la pietra, la rossa Fenice, la Donna amata dai Fedeli d’Amore, che altri non è se non la mistica Sophia. I Fedeli d’Amore più volte paragonano la loro Donna alla Fenice. Così Petrarca: È questo il nido, in che la mia fenice mise l’aurate et le purpuree penne, che sotto le sue ali il mio cor tenne, et parole et sospiri ancho ne elice”112. E Boccaccio ne l’Amorosa Visione:

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Ponsoye 1989, pp. 48-49. Corbin 1983, pp. 93-98. 112 Canzoniere CCCXXI, 1-4. 111

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Ahi quanto allor mi riputai felice, non tirando a mirar gli occhi da quella che per bellezza si può dir fenice113. Luigi Valli ha messo in risalto il rapporto dei Fedeli d’Amore con l’alchimia: “Ho accennato molto brevemente nel mio libro, all’evidente rapporto che esiste tra la figura Moglier e Marito del Tractatus Amoris di Francesco da Barberino e il rebis alchemico, figura d’indubitabilissimo carattere iniziatico. L’ho accennato non solo perché ciò riconferma il carattere iniziatico della figura barberiniana, ma perché mette in luce i rapporti del Fedeli d’Amore con gli alchimisti. Probabilmente tutti costoro sotto il simbolo della Rosa, della donna o della Pietra filosofale nascondevano la stessa idea”114. Quella a cui fa riferimento il Valli è una serie di tredici figure poste a triangolo secondo due sequenze di sei, convergenti verso il vertice. Qui una tredicesima duplice figura, settima in ognuna delle due scale, è il rebis alchemico, per metà uomo e per metà donna (Moglier e Marito), la figura androginale nella quale il maschio e la femmina si congiungono in un’unica natura. In un sonetto di Francesco da Barberino, la Donna celeste, che egli chiama Costanza, porge la Pietra al suo amante: “Lo guiderdone e la grazia ch’io faccio a te, perché t’ho trovato fedele, è ch’io ti lasso una pietra preziosa d’esta corona ch’io dal cielo addussi.La quale tanto è di nuova virtute, che chi savesse legger quella a punto ed intendesse ben sua proprietade, egli averia d’ogni cosa chiarezza… Rivolgiti con questa pietra in mano inver la parte d’onde il sole imbianca, e leva gli occhi attorno della pietra… Poi ti rimembra di che vuoi sapere, e non ti fia cosa nessuna ascosa”115. Beatrice, Costanza, la Sposa del Cantico porgono la preziosa Pietra della conoscenza e vi si identificano, analogamente alla Schekhinah che nel Bahir “è designata come la pietra preziosa in cui si trovano riuniti i gioielli di tutti i re di tutti i paesi”116.

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Amorosa Visione, canto XLI, 19-21. Valli 1994, pp. 671-672. Ho ampiamente descritto questa figura del Barberino e le sue implicazioni nel capitolo ottavo del mio Beatrice e Monnalisa, edito da Polistampa nel 2005. 115 Francesco da Barberino, Reggimenti e costumi delle Donne, cit. in John 1987, pp. 339-340. 116 Goetschel 1995, p. 71. 114

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Il Sole, come Re coronato che solleva la pietra nelle formelle del campanile di Giotto, non può non richiamarci l’immagine simbolica di Costanza-Sophia che porge la Pietra al suo fedele. Ma se accettiamo che il Sole corrisponda alla fase finale dell’Opera alchemica, all’apparizione nell’atanor della pietra filosofale, allora anche le altre formelle dei pianeti potrebbero contenere un simbolismo alchemico ed assumere una collocazione più coerente nel percorso del campanile, che è costituito dalle arti e dalle attività dell’uomo. L’alchimia infatti riassumeva in sé tutta la scienza della natura ed era considerata nel Medioevo l’arte per eccellenza, l’Arte appunto detta regale. Appare dunque plausibile, nell’itinerario sapienziale di Giotto, un suo inserimento doverosamente velato ai non iniziati. Il significato alchemico non esclude quello dei pianeti perché fra questi e le operazioni dell’Arte regale esisteva una stretta corrispondenza. Le fasi canoniche e tradizionali dell’alchimia sono tre, numero mistico e ritmo stesso della divinità: l’opera al nero, la putrefazione della materia; l’opera la bianco, la rinascita dello spirito e l’opera al rosso, la perfezione della Pietra. Ma all’interno di queste tre fasi simboliche, la materia sembra subire nell’atanor un numero più cospicuo di passaggi di stato. È stato così possibile per gli alchimisti individuare all’interno delle tre fasi principali un numero più complesso di operazioni, riassunte in un altro numero simbolico: il sette. Doveva affascinare la corrispondenza fra le operazioni sui minerali ed i sette giorni della creazione, dove il settimo era quello del compimento e del riposo di Dio. L’alchimia considera se stessa come uno specchio nel quale si riflette l’opera della creazione: “Quando parlo dello specchio dei filosofi, intendo l’operatio secreta artis, e cioè l’operazione dell’Elisir, poiché i filosofi hanno fatto di essa uno specchio nel quale si possono contemplare tutte le cose che esistono al mondo, sia che si tratti di una realtà sensibile concreta sia che si tratti di una realtà sopransensibile”117. A questo specchio nell’alchimia interiore si accede per sette porte: “Lo specchio è posto al di sopra delle sette porte che corrispondono ai sette cieli, al di sopra del mondo sensibile, al di sopra delle dodici case celesti. Al di sopra di tutto, si trova l’occhio dei sensi invisibili, l’occhio dello spirito sempre e dappertutto presente. È là che possiamo contemplare questo spirito perfetto che contiene in potenza

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Shaykh Ahmad Ahsai, cit. in Corbin 1986, pp. 207-208.

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tutte le cose”118. Altrove gli alchimisti, con significato analogo, definiscono la loro opera come un libro che si apre infrangendo sette sigilli. Questi sette gradi della purificazione alchemica sono già noti a Zosimo e ricorrono continuamente nei testi alchemici119. Essi corrispondono al superamento della scala planetaria da parte dell’anima liberata dal corpo. È altrettanto antica la connessione fra i metalli e i sette pianeti. Gli Arabi l’hanno presa da fonti greche e siriache, le quali a loro volta le avevano tratte dall’alchimia babilonese: “Tra i Babilonesi, poiché ogni pianeta era governato da un dio, ve ne era evidentemente uno per ciascun metallo… Queste relazioni magiche fra pianeti, dei e metalli – che creavano corrispondenze tra i colori, la data di nascita, il destino ecc. – erano ancora vive nelle credenze popolari medievali”120. In un trattato sulla pietra filosofale attribuito da una tradizione incerta a San Tommaso d’Aquino si legge: “I metalli sono formati per natura, ciascuno secondo la costituzione del Pianeta che gli corrisponde; ed è così che l’artista deve operare. Esistono dunque sette metalli che partecipano ciascuno di un pianeta, e sono: l’Oro che viene dal Sole e che ne porta il nome; l’Argento, dalla Luna; il Ferro, da Marte; l’Argento vivo da Mercurio; lo Stagno, da Giove; il Piombo da Saturno; il Rame e il Bronzo da Venere. Questi metalli prendono, per altro, il nome del loro pianeta”121. Scrive un alchimista ebreo, Abufalach: “Sappi o figlio desiderato che tutto quanto riguarda le piante ed i minerali di questo mondo è controllato dalla ruota dello zodiaco… L’aspetto dei metalli è in accordo con le potenze causative che operano su di essi e che conferiscono loro potere per mezzo degli elementi; infatti l’aspetto dell’oro è dovuto al sole, ed esso brilla, il biancore dell’argento è dovuto alla luna ed allo stesso modo l’aspetto di ogni tipo è dovuto ad una delle stelle mobili, cosicché la nerezza è dovuta a Saturno, il rosso a Marte, il verde a Giove, il blu a Venere, e ciò che si compone di vari aspetti alla stella solare”122. Per questo gli alchimisti descrivono la loro arte anche come un’“astronomia inferiore”123. 118

Burckhardt 1974, p. 39. Vedi Evola 1971, pp. 73-77. 120 Eliade 1992, p. 25. 121 In Trattato della pietra filosofale, ediz. 1991, p. 45. 122 Cit. in Patai 1997, pp. 124-125. 123 Roob 1997, p. 80. 119

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Gli alchimisti attribuivano gli stessi simboli sia ai metalli che ai pianeti, perché ritenevano che la generazione dei metalli avvenisse nell’oscurità della terra sotto l’influsso planetario124. In tutti i metalli è presente il principio dell’oro ed essi venivano classificati a seconda della minore o maggiore somiglianza con esso: l’oro e il sole erano simboleggiati da un cerchio con un punto centrale; la luna, spesso intesa come Materia prima, da un semicerchio che è metà del cerchio solare; gli altri cinque pianeti avevano simboli che comprendono sia la croce, segno dei quattro elementi e dell’ordine materiale, che la mezzaluna; solo il mercurio combinava in sé tutte e tre i segni fondamentali: il cerchio solare, la croce degli elementi e il semicerchio lunare, perché l’argento vivo era ritenuto il principio matrice di tutti i metalli. Nello Zohar, il grande testo cabbalistico del XIII secolo, si descrivono sette tipi di oro, paragonati alle membra di Davide. Nel simbolismo cabbalistico Davide corrisponde alla luna, all’argento ed alla Sheckhinah; i sette tipi di oro sembrano dunque alludere alla progressiva trasmutazione dell’argento in oro: “E questo è oro mistico superiore, che è il settimo di tutti quei sette tipi di oro. E questo è oro che splende e brilla negli occhi, e questo è oro tale che, se appare nel mondo, chi lo ottiene lo nasconde dentro di sé, e da lì, cioè da questo oro mistico, provengono e irradiano tutti gli altri tipi di oro. E quando è che l’oro è detto con ragione oro? Quando brilla e sale nello splendore delle regioni mistiche del timore di Dio, e poi è nello stato della gioia mistica, che anche alle regioni inferiori può fare gioia. E quando è nel rigore, ossia quando da quel colore passa nel colore blu, nero e rosso, allora è oro nella regione del duro rigore. Ma il vero oro appartiene alla gioia e ha il suo luogo là dove il timore di Dio ascende alla gioia e dove si alza la gioia. L’argento invece è al di sotto… Ma quando l’argento diventa perfetto, allora è contenuto nell’oro… Così risulta che nella vera perfezione l’argento diventa oro e allora il suo luogo è perfetto. E perciò ci sono sette tipi di oro… L’oro superiore mistico è però un segreto nascosto e il suo nome è oro chiuso, chiuso e nascosto a tutti, e per questo è detto chiuso, perché è nascosto all’occhio che così non ha alcun potere su di esso…”125. 124 “Il cielo effonde la sua potenza nel sole e nelle stelle, e le stelle effondono la loro potenza in mezzo alla terra e producono l’oro e le pietre preziose… Ogni pietra, ogni erba è una piccola dimora delle stelle che nasconde in sé una potenza celeste”, Meister Eckhart, Predica 54, ediz. 1995, pp. 85-86. 125 Scholem 1995, pp. 27-29.

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Lo sposo del Cantico è bianco e rosso, ma il suo capo è d’oro: “L’amato mio è bianco e rosso, insigne fra mille e mille, il suo capo è oro, oro fino” (Ct.V, 10-11). Nell’allegoria del Cantico sembra racchiudersi il mistero della trasmutazione della sposa nigra sed formosa che, unita allo sposo, diventa prima bianca quindi rossa, per risplendere infine come sigillo di oro puro. La corrispondenza fra pianeti e fasi dell’opera non è uguale in tutti gli scritti alchemici. La più costante è quella che mette al primo posto il mercurio, non perché esso rappresenti la materia prima, ma perché è la chiave stessa per procedere all’opera126. Nelle varie fasi ciascun metallo è caratterizzato da un colore che indica il grado di purificazione raggiunto dalla materia: “La materia pervenuta al colore nero con la putrefazione è il loro Saturno o il loro piombo; il colore grigio che succede al nero è il loro Giove, o il loro stagno; il colore bianco è la loro Luna, o argento; il colore di zafferano è la loro Venere, o il loro rame, come pure il colore verde; il color ruggine di ferro è il loro Marte, o il loro Ferro, ed il color rosso porpora è il loro Sole, o il loro oro”127. Come si vede non è citato il mercurio, perché esso è l’elemento catalizzatore di tutti gli altri metalli. Lo stesso ordine è descritto sotto forma poetica in un manoscritto alchemico di Antonio Allegretti conservato dal primo granduca di Firenze, Cosimo, che proseguiva la tradizione alchemica ed ermetica della sua famiglia. Il fornello alchemico vi è simboleggiato da una fontana nella quale si prepara il bagno del Re mentre i pianeti, come nel campanile, sono simboli delle operazioni che si succedono nell’atanor: “Quando entra ’l Re nel fonte nol pensate vedere alcun per molti giorni e molti. La veste sua è d’un bel drappo d’oro, e di negro velluto è il suo giubbone, e la camicia è come neve bianca, e la sua carne come sangue rossa… Sol l’uccide la fontana e sola lo risuscita poi, e quand’egli entra ne la fontana, pria si spoglia quella veste di drappo d’oro e la concede al suo primo baron, Saturno detto, che dì quaranta la serba e la guarda. Poscia si spoglia il giubbon mezzo e’l dona a Giove, suo secondo amico e servo, ed ei lo serba giorni trenta appunto, e quando il Re glielo comanda, lo dona a la Luna, ch’è terzo suo parente. Dopo si tragge la camicia e dalla a Venere, la sua quarta soggetta, che dì qua-

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Vedi Evola 1991, pp. 191-199; Burckhardt 1974, pp. 157-168. Pernety 1985, vol. II, p. 111.

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ranta la guarda, e la dona a Marte all’or che il Re glielo comanda, che la guarda ancor giorni quaranta. Da poi ne viene il Sol chiaro e lucente che la prende e la guarda”128. Che la Pietra della Sapienza ottenuta dall’alchimista e la Pietra o il Calice del Graal siano simboli analoghi lo dimostra anche l’analogia dei doni e degli effetti che essi arrecano. Nicolas Flamel, nel “Libro delle figure geroglifiche”, scritto nel 1399, afferma che la Pietra “porta l’uomo fuori da questa valle di miserie, cioè fuori dagli incomodi della povertà e infermità sollevandolo gloriosamente con le sue ali al di fuori delle stagnanti acque d’Egitto (che sono i pensieri ordinari dei mortali) e facendogli disprezzare la vita e le ricchezze presenti, notte e giorno lo fa meditare su Dio e i suoi Santi, abitare nel Cielo Empireo e bere alle dolci sorgenti delle fonti della speranza eterna”129. Basilio Valentino pone l’accento sul fatto che la Pietra dona la salute ed una vita lunga, la verità e l’auspicio di eternità130. Il Graal reca l’illuminazione dello Spirito. Nella Queste, Galahad vedendolo esclama: “Ora vedo chiaramente tutto ciò che la lingua non potrebbe mai esprimere e il cuore pensare”; inoltre nutre e dona la vita, guarisce le ferite e le infermità131. Pietra Filosofale e Graal rappresentano il compimento di un medesimo cammino interiore il cui simbolo è la Scala di Giacobbe. Le fasi dell’opera che, è bene ribadirlo, si compie innanzitutto nell’anima sono i sette gradini di questa scala. Verso la fine del XV secolo il cabbalista e mistico Josef Taitatzak paragona esplicitamente l’alchimia ad una scala: “E nel segreto della scala diventeranno chiare anche cose grandi e potenti, cioè come voi salirete nel segreto della scala, e questo è il segreto del versetto: Ed ecco gli angeli di Dio salgono e scendono su di essa… E qui vi diverrà chiaro il segreto della natura nel salire e scendere, perché il segreto del salire e scendere è il segreto della scienza della divinità. E con ciò vi diverrà chiaro anche il segreto dell’oro e dell’argento superiori, e il segreto dell’oro e dell’argento inferiori, e così come potete compierlo in questo tempo e nella natura, 128

Lensi Orlandi 1991, pp. 75-76. In Il libro di alchimia. Itinerario alchemico attraverso i testi dei veri sapienti, 1986, p. 90. 130 In Il libro di alchimia. Itinerario alchemico attraverso i testi dei veri sapienti, 1986, pp. 96 e 105. 131 In Evola 1972, pp. 70 e sgg. 129

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da tutti i sette tipi di metalli, e questa è la vera scienza della natura, che consiste nel segreto della scala”132. I simboli presenti nelle formelle dei Pianeti corrispondono a quelli dell’alchimia. Del Sole come fase finale dell’Opera abbiamo già detto, vediamo dunque gli altri. Saturno è rappresentato con la ruota ad otto raggi e con un bambino: la ruota in alchimia rappresenta la successione delle operazioni che conducono alla nascita del Bambino, cioè della Pietra Filosofale. È giusto che essa sia sorretta da Saturno perché questi è l’inizio dell’opera e, come abbiamo già visto, la contiene già tutta in sé. La ruota rappresenta perciò anche la cottura della materia: “Il fuoco sostenuto, costante ed eguale che l’artista mantiene giorno e notte durante questa operazione è chiamato perciò fuoco di ruota”133. Nicolas Flamel indica come simbolo della prima delle sette operazioni una figura analoga, la ruota formata da due serpenti che mordono l’uno la coda dell’altro restando così avvinti strettamente: “Contempla bene questi due draghi perché sono i veri principi della Filosofia… Sono Sole e Luna di sorgente mercuriale e di origine sulfurea, i quali per mezzo del fuoco continuo si ornano di abiti regali per vincere – una volta uniti e poi cambiati in quintessenza – ogni cosa metallica, solida, dura e forte. Sono quei serpenti e draghi raffigurati dagli antichi egiziani in un tondo con la testa che morde la propria coda, per dire che sono usciti da una stessa cosa che da sola basta a se stessa e che si perfeziona nel suo contorno e circolazione… Sono i due serpenti attaccati intorno al Caduceo o Verga di Mercurio, con i quali questi esercita la sua grande potenza trasfigurandosi come vuole…”134. L’immagine dei serpenti intrecciati è assai diffusa nell’arte romanica; un significato analogo ha anche il motivo ricorrente del nodo, in cui due elementi si stringono l’un l’altro quanto più si cerca di dividerli tirando. Il simbolo riconduce anche alla ruota cosmica nella quale sono presenti i quattro elementi: “Nel linguaggio dell’alchimia, il mozzo della ruota è la quinta essentia, termine con cui si vuole indicare non solo il polo spirituale dei quattro elementi, ma anche la loro

132

Scholem 1995, pp. 36-37. Fulcanelli 1972, p. 54. 134 In Il libro di alchimia. Itinerario alchemico attraverso i testi dei veri sapienti, 1976, pp. 75-76. 133

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sostanza fondamentale comune, l’etere, che li contiene indivisibilmente”135. L’alchimia presentandosi come scienza della natura, cioè protesa a scoprire le leggi intime che regolano la generazione della materia attraverso lo spirito, ha come base i quattro elementi, rappresentati dalla croce che Giove tiene in mano. La Pietra scaturisce infatti dagli elementi: “La nostra Pietra è nata e uscita da una massa confusa contenente in sé tutti gli elementi, la quale è stata creata da Dio e per suo miracolo la nostra Pietra ne è uscita e nata”136. Il processo che conduce alla formazione della Pietra si svolge nel vaso alchemico, raffigurato dalla coppa che Giove sorregge con l’altra mano, simbolo del forno dell’alchimista ma anche dell’anima che si trasmuta meditando la trasformazione della materia. Marte cavalca un cavallo che si impenna, simbolo delle parti volatili della materia alchemica: “Il cavallo, simbolo di rapidità e leggerezza, indica la sostanza spirituale; il suo cavaliere indica la pesantezza del corpo metallico grezzo. Ad ogni distillazione, il cavallo disarciona il suo cavaliere, il volatile abbandona il fisso; ma lo scudiero riassume nuovamente il comando, e così fin quando l’animale estenuato, vinto e sottomesso, acconsente a portare quel fardello ostinato e non può più liberarsene”137. Venere sorregge il re e la regina, la natura maschile e quella femminile, che si congiungono per dar luogo alla Pietra, nella quale si rinnova l’androginia primordiale: “Dunque ti raffiguro qui due corpi, uno di maschio e l’altro di femmina per insegnarti che in questa seconda operazione hai veramente, ma non ancora perfettamente, due nature congiunte e sposate, quella maschile e quella femminile, o piuttosto i quattro elementi, e che i nemici naturali – caldo e freddo, secco e umido – cominciano ad avvicinarsi amabilmente gli uni agli altri… Dunque hai due nature sposate, perciò una ha concepito dall’altra ed attraverso questa concezione si è convertita in corpo di maschio ed il maschio in quello di femmina; si sono fatti un solo corpo che è l’Androgino degli antichi… In tal modo ti raffiguro qui che hai due nature riconciliate le quali (se sono condotte e rette saggia135

Burckhardt 1974, p. 87. In Il libro di alchimia. Itinerario alchemico attraverso i testi dei veri sapienti, 1976, p. 31. 137 Fulcanelli 1972, p. 99. 136

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mente) possono formare un embrione nella matrice del vaso e poi partorirti un re potentissimo, invincibile ed incorruttibile perché sarà una meravigliosa quintessenza”138. Mercurio non appare raffigurato con simboli particolari, se non il libro della sapienza o della materia, aperto sulle gambe, perché come abbiamo già visto, il mercurio non corrisponde ad un’operazione particolare, ma all’agente universale con il quale si realizza tutta l’opera alchemica. Accanto a lui, sotto forma di fanciulli, i due princípi maschile e femminile. La Luna è rappresentata mentre sorregge la Fonte da cui scaturisce un Albero. Anche nel Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella, la Luna sorregge la fonte con l’albero. Questa immagine è assai diffusa: è nota la fonte ottagonale con al centro un melograno in ferro battuto del castello di Issogne in Val d’Aosta. In un pannello ligneo delle Fiandre è raffigurata la fonte ottagonale: al centro di essa al posto dell’albero, ma con analogo significato, sta un pilastro di ferro sormontato da un angelo; la fonte è posta nel giardino del Paradiso, fra i beati e gli angeli che adorano l’Agnello, mentre lo Spirito irradia i suoi raggi e sullo sfondo riluce d’oro Gerusalemme. La stessa fonte è descritta nel “Roman de la Rose”, come fonte della conoscenza, il cui fondo è di argento lunare; si tratta di una conoscenza cui presiede Amore, nella quale la ragione si smarrisce. È una fonte che può condurre per sentieri fuorvianti, chi non è preparato a contemplarla: Una fontana e un pino annoso, alto e superbo, mai visto prima, sono argomento di questa rima… Sotto quel pino alto, gigante una fontana grande, importante, ed una pietra di vero marmo… Guardavo il fonte: senza mistero era il suo letto: sabbia d’argento, quasi per gioco mossa dal vento, che la strappava lassù alla luna; tanto brillava come nessuna. … Come uno specchio, che tutte svela le cose intorno, tutto rivela 138

Nicolas Flamel, cit. in Il libro di alchimia, 1976, pp. 79-80.

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sia dei colori sia dei contorni e li rimanda semplici o adorni, così quell’onda tutto riflette di quel giardino, per chi v’immette l’occhio e lo spinge fino al profondo… chi fissa troppo quella fontana, anche se è forte e ha mente sana, non è sicuro né può giurare che non vi trovi cosa da amare. Lo specchio sempre porta rovina anche ai migliori, poiché trascina per i sentieri non sempre onesti o per cammini scuri e silvestri. Qui si smarrisce l’animo saggio, il grande ingegno, per quel miraggio sente dapprima un po’ attrazione e poi vi annega cuore e ragione…139. Wolfram descrive una Fontana Selvaggia posta sotto un grande albero lungo il cammino che conduce al Graal. Anche i Fedeli d’Amore parlano spesso di questa fontana ai piedi di un albero. Nel palazzo di Madonna Intelligenza, Dino Compagni così la descrive: “In un verziere, all’ombra d’un bel pino d’acqua viva aveavi una fontana, intorneata di fior di gelsomino”140. Il gelsomino era l’emblema dei Fedeli d’Amore persiani141. Una vasca ottagonale era un tempo collocata al centro dell’ottagono magico di Castel del Monte. Il celebre e misterioso castello federiciano, costruito secondo rapporti matematici mistici e ritmi astronomici, forse con l’aiuto di maestri templari, sembra rappresentare un tentativo di realizzare il Castello di Amore, il Palazzo di Madonna Intelligenza, il recinto prezioso di un Graal laico legato alla sacralità dell’Impero. Alla corte di Federico II la lirica d’amore provenzale, con quanto sottintendeva di esoterico, aveva del resto trovato la sua prima espressione in terra italiana.

139

Il romanzo della rosa, ediz. 1984, pp. 69-76. Cit. in Valli 1994, p. 215. 141 Kretzulesco 1994, pp. 111 e sgg. 140

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Nell’alchimia l’acqua della fontana rappresenta la materia dell’opera e nello stesso tempo il solvente o mercurio universale: la Pietra si estrae infatti dall’acqua, dicono gli alchimisti. Bernardo Travisano descrive la fonte ai piedi di una quercia. Altri alchimisti, fra cui Abu’l Qasim al Iraqi che scrive nel IX secolo, paragonano la materia prima ad un albero che affonda le sue radici nel mare142. Nel Sogno di Polifilo, racconto iniziatico alchemico del XV secolo, si trova spesso il simbolo della fonte: una fontana della ninfa dormiente, dietro alla quale alcuni satiri mostrano i simboli alchemici dei serpenti intrecciati e del vaso, è dedicata alla Panton Tokadi, cioè a colei che tutto genera, alla madre o materia primigenia143. Tutto il libro è intriso di simboli alchemici ed ermetici e, costituendo un compendio della dottrina d’Amore sotto forma di un itinerario iniziatico analogo a quello della Commedia dantesca, dimostra che l’alchimia costituiva una pratica esoterica e sapienziale dei Fedeli d’Amore ancora nel XV secolo. La materia prima viene spesso associata alla Luna e dai cabbalisti alla Shekhinah: “È innegabile che il simbolismo della Shekhinah, dell’elemento femminile nel mondo divino delle sefirot, che rappresenta l’ultimo di questi dieci gradi di emanazione all’interno della divinità, così come viene abbondantemente sviluppato nello Zohar, presenti stretti parallelismi con il simbolismo della prima materia presso gli alchimisti… Molti dei simboli collegati alla Shekhinah tornano nella letteratura alchimistica del tardo Medioevo, dove soprattutto la Luna e tutta la relativa simbologia del femminile vengono sviluppate in connessione con la prima materia dell’Opera alchemica. Non credo che si possa trattare di connessioni storiche, quanto piuttosto di una affinità strutturale tra l’ascesa dall’ultima sefirah fino alla più alta e gli stadi che in una concezione mistica della magna ars la prima materia percorre fino alla sua purificazione nell’oro filosofale”144. Un’immagine analoga ci viene proposta nella filosofia islamica, dove l’acqua primordiale rappresenta l’insieme della creazione, della materia, su cui poggia la Sapienza divina designata come Trono o Tempio; per cui il Trono, come l’Albero cosmico, si può dire elevato

142

Burckhardt 1974, pp. 93 e sgg. Vedi Calvesi 1983, pp. 156 e sgg.; Calvesi 1988, Hypnerotomachia Poliphili, ediz. 1998. 144 Scholem 1995, pp. 33-34. 143

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sull’acqua e ingloba la creazione tra le sue radici volgendola verso il cielo145. Gli alchimisti hanno sempre ripetuto che alle fasi dell’Opera deve corrispondere un progressivo perfezionamento interiore dell’operatore, ottenuto con la pratica assidua della preghiera e della meditazione finché egli, depurato dalle passioni come la sua pietra dalle scorie, diventi in grado di attingere alla Conoscenza. Essi sono arrivati ad affermare esplicitamente che per la produzione della Pietra della Sapienza è necessario l’apporto delle energie interiori dell’adepto, senza le quali essa non potrebbe avere il suo potere. Questo processo è chiaramente espresso dal motto alchemico condensato nell’acronimo v.i.t.r.i.o.l.: “visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem”, e cioè: “Visita le profondità telluriche del tuo essere, operando su di esse troverai la pietra nascosta”. La pietra nascosta è la pietra scartata dai costruttori, ma destinata a diventare la testata d’angolo della nuova Gerusalemme. Una pietra preziosa, filosofale, cioè sapienziale, il cui raggiungimento è lo scopo reale e spirituale di ogni alchimista come di ogni mistico. La lenta trasmutazione metallica aiuta così quella interiore ad accordarsi con la musica segreta del cosmo e la Pietra della Sapienza ci appare corrispondere al raggiungimento di quella vibrazione intima dell’essere, che permette di infrangere le barriere che si frappongono fra la Terra ed il Cielo, fra lo spazio e l’infinito, fra la dimensione del tempo e quella dell’eternità, dove tutto avviene, è già avvenuto ed avverrà. Ecco la ragione del mistero con cui l’Opera alchemica è stata accuratamente circondata, avviluppando il cammino del neofita con una selva inestricabile di simboli ed allegorie: era necessario infatti che l’apprendimento avvenisse per gradi, con un progressivo mutamento di coscienza grazie al quale potesse svilupparsi quella conoscenza intuitiva, la “conoscenza del cuore”, che si manifesta come pura e improvvisa illuminazione. La profezia è uno dei doni della Pietra della Sapienza, come capacità di superare il tempo e di scorgere con immediatezza il passato, il presente ed il futuro146. Possiamo in conclusione riassumere il percorso simbolico del campanile con le parole dell’imam Ibn Abi Talib: “L’Alchimia è sorella

145 146

Corbin 1983, pp. 80 e sgg. Evola 1971, pp. 206 e sgg.

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della profezia, perché vi è un’immunità che preserva la profezia dall’essere profanata: il fatto che la gente comune ne parla soltanto nel senso letterale”147. Nella comprensione dell’arte medievale, sia essa letteraria, pittorica, scultorea, architettonica, non possiamo fermarci al senso immediato, ma addentrarci con pazienza nel labirinto di una conoscenza segreta. La cupola di Santa Maria del Fiore, come il ventre di Maria incinta, ci apparirà allora lo scrigno prezioso di una Sapienza della quale il mistico attende in sé la manifestazione; ed il campanile di Giotto, come Albero della Conoscenza, ci indicherà la scala da ascendere perché la Sposa possa unirsi nel bacio con lo Sposo. Ci accorgeremo dunque con stupore che nella cattedrale di Firenze si racchiude per simboli il mistero dell’eternità dell’anima e della sua natura celeste.

147

Corbin 1986, p. 209.

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Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa Gennaio 2014