Le frontiere del far west. Forme di rappresentazione del grande mito americano 8888865675, 9788888865676

Nel corso del Novecento nessun genere letterario o cinematografico ha tanto influito sulla costruzione dell'identit

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Le frontiere del far west. Forme di rappresentazione del grande mito americano
 8888865675, 9788888865676

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LE FRONTIERE DEL FAR

Forme di rappresentazione del grande mito americano

ÀCOMA

Forme di rappresentazione del grande mito americano

a cura di

STEFANO ROSSO

Cover Rosie Pianeta

Immagine di copertina: Edward S. Curtis

© 2008. ShaKe

ShaKe Edizioni Redazione e Sede legale Viale Bligny 42-20136 Milano; tel/fax 02.58317306 Amministrazione e Magazzino Via Bagnacavallo 1/a, 47900 S. Giustina (Rimini) tei. 0541.682186; fax 0541.683556 info@'shake.it Aggiornamenti quotidiani sulla politica e sui mondi deirunderground: www.decoder. it www.gomma.lv

Stampa: Fotolito Graphicolor Snc, Città di Castello (PG) - novembre 2008 ISBN: 978-88-88865-67-6

Pubblicalo con il contributo del Dipartimento di Scienze dei Linguaggi, della Comunicazione e degli Studi Culturali dell'U ni versi tà degli Studi di Bergamo

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INDICE

Introduzione: attualità di un genere sempre al tramonto Stefano Rossa---------------------------------- ----------------------------- 9

1 a tesi della frontiera tra mito e storia Bruno Cariosio________________________________________ 21 Dagas> pistolasy ciienwsdechivQ'Aa. rappresentazione del ribelle e del fuorilegge messicano nel corrida di frontiera Erminio Corti_________________________________________ 41

11 cinema western risto dagli indiani. Vendetta e riolenza in Sentieri selvaggi di John Ford e Indian Killer di Sherman Alexie Giorgio Mariani------------------------------------------------------------ 57 Post-western esemplari: Innesome Dove di larry Me Minin' e Blood Meridian di Cormac McCarthy Stefano Rosso -------------------------------- 78 “Indians walk softly": il mitn della wilderness e dei suoi abitanti Marcella Schmidt di Friedberg------------------------------------------- 101

Sempre in sella. Costruzioni e ricostruzioni del mito del cowboy tra geopolitica popolare e relazioni internazionali Elena dell’Agnese_______________________________________ 115 Western o northern? Sergio Arecco_________________________________________ 131 I ontano ovest: ai margini della metropoli Nuccio Iridato______ _____________ ______________________ 141

l ina buona lezione Scazzottate nel western classico Siefaiio-Ghislotti-----------------------------------------------------------153

Appunti su un motivo paesaggisticodel genere western Barbara Grespi

16 7

Gli autori____________________________________________ 176 Ringraziamenti

179

Indice dei nomi------------------------------------------------------------ 181

Alla memoria di Sergio Zanga, silenzioso estimatore del western

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Introduzione

ATTUALITÀ DI UN GENERE SEMPRE AL TRAMONTO

Stefano Rosso

Vamonos muchachos! Jean-Michel Charlier e Jean "Moebius" Gi­ raud, Chihuahua Pearl, 1973'

"A mans got to do what a mans got to do". (humorous) Something men say when they are going to do something which may be unpleasant or which they are pretending will be unpleasant asa joke. I hate catching spiders. Still, a mans got to do what a mans got to do. Cambridge International Dictionary of Idioms

Nel corso del Novecento è stato più volte annunciato il tramonto del genere western, ma coloro che lo avevano previsto sono stati sempre smentiti. Per quel che riguarda il cinema, già alla fine degli anni Die­ ci i western muti ebbero una prima battuta d'arresto sebbene ritor­ nassero poi in auge grazie a /pionieri (The Covered Wagon) di James Cruze del 1923. Dopo l’avvento del sonoro, i western a grosso budget dovettero ben presto cedere il passo ai più economici B movies e riacquistarono popolarità solo nel 1939, con Ombre rosse (Stagecoa­ ch) di John Ford. Di lì cominciò una fase di grande e duratura pro­ sperità, il cosiddetto periodo "classico” in cui operarono, oltre a Ford, registi come Howard Hawks, Anthony Mann, Fred Zinneman e molti altri? Tale periodo arriva fino all’inizio degli anni Sessanta e vede una vera e propria conquista del mercato cinematografico e televisivo da parte del genere. John Cawelti ha scritto che nel 1959 erano western "otto dei dieci programmi televisivi di maggiore successo”, e così trenta programmi di prima serata. Per quel che riguarda la distribu­ zione nelle sale, ancora Cawelti ci ricorda che nel 1958 furono rea­ lizzati almeno 54 film western.' Per quanto negli anni le uscite nelle sale andassero diminuendo, nel 1967, in una settimana di settembre scelta come campione, i quattro maggiori canali televisivi di Chica­ go "mandavano in onda 18 ore di western [...] tra le 18 e le 22, occu­ pando approssimativamente il 16 percento dello spazio televisivo"? Dopo il calo produttivo dei primi anni Sessanta, si registrò un’en­ nesima ripresa legata agli "spaghetti western” e a pellicole spesso in­ fluenzate dalle lotte per i diritti civili, dalla contestazione e dalla Guerra del Vietnam; a quel punto ebbe inizio una crisi che parve di­ 9

ventare definitiva dopo il 1975. Nel 1980 il disastro commerciale provocato da Z cancelli del cielo (Heaven’s Gate) di Michael Cimino la sua realizzazione costò circa 40 milioni di dollari e ne incassò uno e mezzo - determinò il fallimento della United Artists e sembrò san­ cire definitivamente il fatto che il western era stato soppiantato da altri generi. Ci furono un paio di timidi tentativi di Clint Eastwood (Bronco Billy, 1980, e II cavaliere pallido, 1985), uno di Walter Hill (Z cavalieri dalle lunghe ombre, 1980), uno di Lawrence Kasdan (Silve­ rado, 1985) e una barcollante parodia del genere a opera di John Landis (Z tre amigos, 1986), ma si trattò di casi isolati e di contenuti successi di pubblico. Tuttavia furono ancora due western, Balla coi lupi (Dances with Wolves, Kevin Costner) e Gli spietati (Unforgiven, Clint Eastwood) a vincere l’Oscar rispettivamente nel 1990 e nel 1992 e ad aprire una nuova stagione, che si prolunga fino a oggi, in cui il genere non è cer­ to dominante ma si riaffaccia ciclicamente sulla scena come attcsta­ no vari film, di qualità peraltro diseguale, quali L'ultimo dei mollico­ ni, Tombstone, Posse e Posse II. Geronimo, Wyatt Earp, Maverick, Bad Girts, Dead Man, Pronti a morire, Wild Bill, Lone Star-Stella solitaria, Buffalo Soldiers (il film TV del 1997, non quello omonimo del 2001), Two for Texas, per giungere fino ai recentissimi Quel treno per Yuma (2007), L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007) e Appaloosa (ottobre 2008)/ È chiaro che alcuni ingredienti del genere western, senza avere la forza di attrazione del periodo classico, costituiscono ancora un certo richiamo per una parte del pubblico contemporaneo. Infatti sono moltissimi i film recenti che, pur non essendo western in senso stretto, ripropongono tratti, sim­ boli e situazioni riconducibili a quel genere? Facciamo un passo indietro, alle origini del fenomeno. Com'è no­ to, il western nasce propriamente nella narrativa del primo Ottocento grazie alla fortunata serie dei Leatherstocking Tales (Racconti di Calzadicuoio) di James Fenimore Cooper, che recuperava sapientemen­ te la tradizione dei racconti di prigionia (captivity narratives), la visio­ ne dicotomica "civiltà vs vita selvaggia" alla base della cultura purita­ na, la fama di alcune figure mitiche come Daniel Boone e certi tratti del romanzo storico inglese. Cooper, per quanto criticato (con toni addirittura sarcastici da Mark l\vain) per la sua tendenza al melo­ dramma e per la costruzione di personaggi eccessivamente rigidi, diede il via a una celebrazione della vita di ''frontiera" che acquisì nel corso del secolo una straordinaria fortuna. Pur sostenendo la supe­ riorità dell’uomo bianco, egli celebrava anche il debito che i "civiliz­ zatori" avevano contratto nei confronti dei primi abitatori del territo­ rio americano, lamentava (in termini pre-ecologisti) la fine della wil­ derness e, in ultima istanza, rifiutava di celebrare il "progresso" che spingeva i coloni a spostarsi, prima al di là del Mississippi e poi sem­ pre piti a ovest, fino a quello che sarebbe divenuto il mitico Far West. Nonostante alcuni limiti di scrittura, gli intrecci di Cooper sono me­ no ingenui di quelli che comparvero nelle centinaia di romanzi da po­ to

chi soldi (dime novels) che conquistarono il mercato americano nella seconda metà dell’ottocento, mentre emergevano le prime voci dissen­ zienti (oltre a Mark l\vain, si vedano alcuni racconti ironici di Bret Harle e di Stephen Crane) e la concorrenza del genere poliziesco.7 In realtà, il western come lo conosciamo noi e dal quale ha avuto origine il formidabile fenomeno del cinema americano, nasce all’ini­ zio del Novecento con II virginiano (The Virginian: A Horseman of the Plains, 1902) di Owen Wister,” un romanzo che mescolò abilmente l’ideologia della frontiera espressa da Theodore Roosevelt in The Winning of the Wes/ (1889-1896), la pittura dell’epoca (soprattutto quella di Frederic Remington) e la volontà di riaffermare la centra­ lità maschile entrata in crisi prima della fine del secolo.9 È stato pro­ prio questo romanzo, ormai ignoto ai più (anche negli Stati Uniti), a stabilire un modello di riferimento per i romanzieri e i registi ameri­ cani che seguirono. La fortuna del western in letteratura (di qualità spesso discutibile, ma anch'essa di solito superiore a quella dei dime novels ottocente­ schi), si rafforzò con scrittori come Zane Grev (1875-1939), Ernest Haycox (1899-1950), A.B. Guthrie (1901-1991), Frederick Manfred (1912-1994), Conrad Richter (1890-1968), Luke Short (Frederick Glidden, 1908-1975), Walter Van Tilburg Clark (1907-1971), Elmore Leonard (1925) e soprattutto Louis L'Amour (1908-1988), che pro­ dussero formidabili best-seller, spesso trasformati in film molto po­ polari.10 1 lettori di western continuarono a lungo a rappresentare una fetta importante del mercato editoriale americano, tanto che, nel 1958, "i western costituivano il 10,76 per cento delle opere di fic­ tion pubblicate ”11 e che le vendite totali di Louis L’Amour, il roman­ ziere western di maggior successo di tutti i tempi, costituivano una cifra superiore a 200 milioni di copie (secondo alcune fonti addirittu­ ra 300 milioni). È noto che il western cinematografico ebbe una straordinaria dif­ fusione non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, e in particola­ re in Europa, a partire dalla conclusione della Seconda guerra mon­ diale. Dopo la caduta del fascismo, anche le sale italiane furono inva­ se da western doppiati, più di 650 dal 1945 al 1973,12 che poi furono costantemente riproposti nei passaggi televisivi. La forza di attrazio­ ne del western fu tale che anche in Europa i registi si cimentarono in una produzione autoctona. Alcuni film western tedeschi (chiamati ironicamente "Sauerkraut”) comparvero all'inizio degli anni Sessan­ ta; poi, grazie alla fortunata stagione degli "spaghetti western”, Italia e Spagna divennero luoghi abituali di nuove produzioni. La letteratura western, invece, non riuscì mai a conquistare i merca­ ti esterni agli Stati Uniti, mentre da tempo la notorietà in ambito cine­ matografico si era estesa alla musica country-western, al fumetto e ai cartoni animati.1' Per quel che riguarda l'Italia il maggiore successo tra le strisce disegnate spettò a “Tex”, che cominciò le pubblicazioni nel 1948 e si affermò definitivamente dopo il 1958. Tuttavia, a testimo­ nianza dell’interesse per il genere bisogna ricordare che notevole diffu­ 11

sione ebbero anche altri personaggi come ''Capitan Miki” (1951), “Il grande Blek" (1954), “Cocco Bill" (1957), "Zagor" (1961), “Maschera Nera" (1962), “Ei Gringo” (1965), "Comandante Mark” (1966), "Ken Parker” (1977) e recentemente "Magico Vento” (1997). In lingua fran­ cese - lo stesso Simenon, nel 1948, si era cimentato in un curioso ro­ manzo western ambientato in Arizona’4 - apparvero, in produzioni franco-belghe, strisce con personaggi che vanno dal Lucky Luke di Goschinny al tenente Blueberry di Charlier e Giraud.15 A queste opere va aggiunta la produzione di film di animazione di cui Htalia vanta un esi­ larante “anti-vvestern”, decisamente in anticipo sui tempi, il West and Soda ( 1965) di Bruno Bozzetto, una parodia di tutti gli stereotipi del ge­ nere, che non Ita mancato di influenzare film successivi come Mezzo­ giorno e mezzo di fuoco (Blazing Saddles, Mel Brooks 1974) e Mucche al­ la riscossa (Home on the Range, Will Finn e John Sanford 2004). 1 giovani di oggi raramente conoscono quei film che hanno nutrito almeno due generazioni di italiani (non solo maschi), non leggono "Tex" e, sicuramente, non hanno mai sentito patiate dei romanzi di Wister e L'Amour. Eppure il western continua a essere presente non soltanto nell'abbigliamento (stivali, cinture, bluejcans e altro) o nella scelta dei nomi indiani dei potenti fuoristrada che occupano fastidio­ samente i marciapiedi delle città, ma anche nelle librerie (e ormai an­ che nei supermercati) che ci propongono sia traduzioni dall’inglese sia western italiani di discreto successo come ad esempio II collare di fuo­ co (2005) di Valerio Evangelisti, Fuori da un evidente destino (2006) di Giorgio Paletti o Manituana (2007) del gruppo bolognese Wu Ming.16 La critica letteraria ha faticato ad affrontare il fenomeno western perché troppo a lungo ha rifiutato di considerare i generi popolari come degni di analisi. Questo emergeva nel fondamentale Virgin Land (1950) di Henry Nash Smith, uno dei primi studi importanti sul mito del West in letteratura. La situazione si modifica lentamente negli anni Cinquanta e Sessanta per due motivi principali. Il primo risiede nell'uso spregiudicato di teorie sociologiche e psicanalitiche come quelle proposte da critici controcorrente come Leslie Fiedler. Nel suo Amore e morte nel romanzo americano (1960), quest’ultimo sosteneva, tra (altro, che la narrativa degli Stati Uniti dal 1780 al 1950 si distingue da quella europea per l’incapacità di rappresentare il rapporto amoroso fra uomo e donna, e lo sostituisce con ossessioni di morte, di incesto e di omosessualità (latenti). Tesi provocatoria che apriva gli studi a generi "maschili” come il western e a due secoli di cultura popolare di cui Fiedler dimostrava di essere profondo co­ noscitore. Il secondo motivo dipende dal progressivo recupero del western hollywoodiano avviato dalla critica cinematografica france­ se negli anni Cinquanta, in particolare dai "Cahiers du cinema"?7 Dopo i fermenti culturali degli anni Sessanta, i generi di massa (poliziesco, spionistico, fantascientifico, horror, rosa, ecc.) furono sempre più considerati materiali degni di studio e anche il western fu preso in considerazione, in un primo momento solo da parte di sociologi e storici, e più tardi anche da parte di crìtici letterari di va­ 12

rie tendenze che si erano aperti aH'intcrdisciplinarietà. Non vi è qui lo spazio per una carrellata dei “progressi” della critica in questo am­ bito.13 Voglio solo ricordare pochi titoli. Dopo gli stimoli forniti da Fiedler, che era ritornato sull’argomcnto con The Return of the Vanishing American,' * nel 1970 uscì, a opera di John Cawelti, il primo studio che tematizzava con precisione l’ar­ gomento, per quanto fosse ancora indebitato con uno strutturalismo acerbo, come emerge dalla separazione troppo netta tra gli aspetti testuali e le dinamiche sociali soggiacenti al genere?0 Sulla scia di Cawelti - che poi ritornò sull’argomento con una eccellente versione modificata del suo saggio21 - il sociologo Will Wright propose una in­ teressante tassonomia delle varianti western che aveva lo scopo di spiegare il mito del West e della Frontiera sulla base dei grandi cam­ biamenti della società americana degli ultimi due secoli.22 Ma l'ope­ ra che più di tutte rivoluzionò gli studi sul western si deve allo stori­ co Richard Slotkin; in Regeneration through Violence egli infatti ri­ cercava la chiave per leggere le peculiarità del "carattere americano” nella mitologia che il paese si era dato fin dagli inizi della colonizza­ zione inglese del Nuovo Mondo. Secondo Slotkin, i coloni puritani avevano visto nei territori di oltremare un luogo ideale, una sorta di nuovo Eden in cui “rinascere a nuova vita” sotto molteplici aspetti: spirituale, economico e politico (cioè orientato verso la costruzione di un'identità nazionale indipendente dall’oppressione e dall’in­ fluenza britannica). In questa prospettiva la violenza (contro i nativi, contro la natura, contro la madrepatria, contro gli altri colonizzatori e i dissidenti religiosi) aveva avuto un ruolo cruciale. Anzi, con il pas­ sare del tempo - come Slotkin cercava di dimostrare attraverso una lunga analisi che dai primi racconti delle guerre indiane (Indian War Narratives) arriva fino a Daniel Boone e al ciclo di Leatherstocking di Cooper - la violenza era diventata la metafora “strutturante” della colonizzazione anglosassone dell’America che la cultura statuniten­ se, senza mai indagarla, si limitava a vedere come realizzazione po­ sitiva e inevitabile del Manifest Destiny.23 Slotkin avrebbe completato il suo quadro storico in due volumi successivi altrettanto ponderosi, The Fatal Environment (1985) e Gunfighter Nation (1992), che arrivano fino al periodo post-Vietnam.24 Nonostante alcune oscillazioni di accento, nella notevole tri­ logia la violenza ha una centralità assoluta e per certi aspetti sembra quasi costituire lo strumento per distinguere la cultura americana dalle culture europee. Non sono mancate le critiche, come quelle espresse da Myra Jehlen: Slotkin, e certi aspetti degli American Stu­ dies successivi alla Guerra del Vietnam, potrebbero essere accusati di aver indebolito i termini del discorso storico introducendo catego­ rie psicologistiche che inducono a spiegare il passato soprattutto in termini di patologia.25 Che lo studioso statunitense abbia fondato con rigore storico la sua analisi o abbia assolili izzalo i termini del suo discorso trasformandolo in una visione totalizzante di tipo jun­ ghiano non è questione che può essere affrontata in questa breve in13

troduzionc. Certo è che egli ha opportunamente messo in evidenza il ruolo pervasivo della violenza nella letteratura e nella cultura dell’America coloniale britannica e successivamente degli Stati Uniti, e per la prima volta ha sottolineato con vigore che tale violenza è stata spesso accompagnata da una mitologia della rinascita a cui il we­ stern non è affatto estraneo. Dopo e anche grazie a Slotkin gli studi sul western si sono molti­ plicati dando vita ad analisi che hanno messo l’accento sull’incontro/scontro tra culture che ebbe luogo nel corso dell’ottocento nei territori del West. Tali studi, che vanno sotto il nome di “New We­ stern History”, mettono seriamente in dubbio la visione proposta da Frederick Jackson Turner nel suo intervento del 1893 - uno dei più citati nella storiografia statunitense del Novecento - e cioè che la vita avventurosa nei territori di frontiera sia stato un motore essenziale per la democrazia americana e per il “sano” individualismo che la caratterizza.26 Alcuni storici che si mossero in questa direzione con risolutezza, soprattutto Richard White, Patricia Nelson Limerick e Donald Worster, prepararono il terreno per una rilettura di tutta la storia della conquista del West che mettesse in luce il punto di vista di coloro che avevano pagato duramente l’espansione verso ovest:2' anzitutto le popolazioni indiane, ma anche quelle messicane e messiconordamericane, le afroamericane e asiaticoamericane, e quei la­ voratori bianchi (cowboy, braccianti, minatori, lavoratori delle fer­ rovie...) il cui nemico erano stati i loro rispettivi padroni più degli in­ diani: grandi allevatori, proprietari e speculatori terrieri, compagnie ferroviarie e minerarie.2* Inoltre veniva finalmente indagato il ruolo a lungo misconosciuto delle donne che parteciparono alla “conqui­ sta del West”. Raccontare la “vera” storia di quel periodo diede anche 1’awio a quel processo di profonda revisione - secondo alcuni critici più moderati non privo di eccessi e di forzature - di tutta la produ­ zione culturale (letteraria, cinematografica, storica) che aveva gene­ rato e alimentato la diffusione del mito della “frontiera” e del “Far West” nel corso del Novecento, ivi compresa la presenza di una reto­ rica western nel linguaggio politico di molti presidenti e uomini poli­ tici. Tale compito “revisionista” non fu svolto stilo da studiosi bian­ chi: anche se con notevole ritardo le voci dei nativi, romanzieri, poe­ ti, storici, studiosi di letteratura, introdussero prospettive inedite (si pensi ad esempio all’accento posto sull'oralità nel racconto scritto).29 Anche i gender studies si sono rivolti al western con ritardo: forse il motivo va ricercato nel luogo comune che si tratta di una modalità narrativa così inequivocabilmente basata su un punto di vista pa­ triarcale e maschilista che non varrebbe neppure la pena affrontarlo criticamente?0 In realtà il western è costituito da una straordinaria molteplicità di sfaccettature, che dietro ad alcuni tratti comuni facil­ mente riconoscibili (abbigliamento, armamento, cavalcatura, sem­ plicità dell'intreccio, binarismo etico, prevalenza del maschile), cela inaspettate sorprese. È proprio negli interstizi delle narrazioni, e non solo sulle strutture, sui tratti e sui simboli ricorrenti, che è necessa­ 14

rio indagare. Su questo punto mi sento di sostenere con fermezza che Patteggiamento snobistico nei confronti del western è frutto di ingenuità e pregiudizio; fatte le debite distinzioni, è una posizione si­ mile a quella di chi volesse sostenere che molte opere di Shakespeare si basano su null’altro che rappresentazioni di violenza spettacolare, patologica e voyeuristica, come ha scritto ironicamente un critico. E chi non ha alcun interesse a indagare sulla mescolanza di stereotipi e schemi narrativi che ricordano la tragedia classica, dovrebbe alme­ no domandarsi come sia possibile che almeno due generazioni di oc­ cidentali maschi del Novecento abbiano costruito la loro identità plasmandola su due eroi western, John Wayne e il Marlboro Man. E come mai tante donne li abbiano presi sul serio.11 * Ir tri

I saggi contenuti in questo volume prendono l’avvìo dal Seminario "Le frontiere del Far West. Letteratura e cinema, storia e geografia", tenutosi allUniversità di Bergamo il 17 dicembre 2007, e rappresen­ tano uno spettro ampio e vario di posizioni e interessi critici, che vanno dalla New Western History (Cartosio) all'analisi culturale dei testi letterari (Corti, Mariani e Rosso), dallo studio critico della no­ zione di paesaggio (Schmidt) a quello del legame tra geopolitica e mito del West (Dell’Agnese). Non possono poi mancare interventi le­ gati allo specifico filmico ( Arecco e Lodato), nonché ad alcuni motivi e temi tipici del western classico (Ghislolti) e a quel cinema contem­ poraneo che, pur non rientrando in senso stretto nel genere, ne ri­ prende alcuni tratti evidenti (Grespi). Il contributo di Bruno Cartosio si concentra sulle rappresentazio­ ni dell’ovest nella pubblicistica di fine Ottocento e sulle interazioni tra mitologizzazione e ricerca storica. L'oggetto privilegiato è il già citato saggio di Frederick Jackson Turner, Il significato della frontiera nella storia americana, che divenne una delle chiavi interpretative fondamentali delfiniera storia statunitense. Cartosio mette in luce i limiti non solo ideologici, ma anche metodologici del testo di Tumer, notando tuttavia importanti specificità. Per esempio la celebrazione della razza bianca è molto meno esplicita in Turner che in The Win­ ning of the di Theodore Roosevelt o in altri contemporanei apo­ logeti del “destino manifesto" degli Stati Uniti. Al tempo stesso Car­ tosio presenta i dati storico-politici e sociali legati all’espansione sta­ tunitense che, certamente noti a Tumer, avrebbero dovuto imporre al giovane storico lutt'altra cautela nel celebrare il "procedere della Frontiera" come la progressiva affermazione ed estensione dell'au­ toctona "democrazia americana". Erminio Corti segue le peripezie del corrido, una forma di canzone popolare diffusa in Messico, al di là della frontiera, tra la comunità dei chicanos degli Stali Uniti, e in particolare di quel sottogenere che ha come soggetto le gesta nel Sudovest americano di fuorilegge di origine messicana. In questo percorso, in cui vengono analizzate le 15

composizioni popolari relative alle imprese di Joaquin Murrieta e di Gregorio Cortez, si scopre che, a partire dagli anni Venti del Novecen­ to, tale sottogenere epico si è trasformato in modo significativo, per­ dendo in larga misura la sua carica sociale originaria e assumendo come soggetto narrativo le imprese dei contrabandistas, in particola­ re dei trafficanti di sostanze stupefacenti tra Messico e Stati Uniti. Giorgio Mariani affronta il problema della presenza del cinema western in numerosi testi letterari indiano-americani, proponendo un’interpretazione incrociata del film di John Ford Sentieri Selvaggi (1956) e del romanzo di Sherman Alexie, Indian Killer (1996). Nelle due opere il tema della vendetta occupa una posizione di primissimo piano e tanto Ford quanto Alexie dimostrano come sia diffìcile di­ stinguere tra una violenza "buona" e civilizzatrice (o emancipatrice) e una violenza puramente distruttrice. Pur volendo in larga misura celebrare la storia della "conquista del West", Ford non nasconde la brutalità della civilizzazione bianca. Nel suo thriller urbano, Alexie ripercorre allegoricamente quella storia e, sebbene dimostri di com­ prendere le ragioni della rabbia indiana, non può negare che l’odio per i bianchi non farebbe, in ultima analisi, che rispecchiare quello riflesso nei gelidi occhi azzurri dello "Indian hater” (odiatore di in­ diani) John Wayne. Nel mio saggio ho cercato di definire le caratteristiche di quelle opere (letterarie o cinematografiche) che sono state definite "postwestem”, che riguardano cioè testi successivi alla crisi di inizio an­ ni Settanta. Si tratta di testi che privilegiano, con toni elegiaci e spes­ so disincantati, il periodo finale della "conquista”, rifiutano le rigide dicotomie indiani-cowboy e così pure una rappresentazione stereo­ tipata dei rapporti difender, indeboliscono l’aura eroica dei protago­ nisti e presentano una concezione della violenza lontana dall'idea di rigenerazione proposta dai puritani. Due "postwestern" risultano esemplari per l’influenza che hanno avuto sulle opere successive: Lonesome Dove di Larry McMurtry e Blood Meridian di Cormac Mc­ Carthy, entrambi del 1985.11 primo si fa portatore di un revisionismo narrativo e di una modalità “enciclopedica”; il secondo, forse memo­ re dell'esperienza storica ed estetica della Guerra del Vietnam, sce­ glie la sola violenza e ne mette in scena l'insostenibile oscenità. Marcella Schmidt si concentra sull'idea di parco nazionale, che nasce negli Stali Uniti di inizio Ottocento, e osserva come il paesag­ gio dell’Ovest americano, percepito dai primi coloni come wilder­ ness, sia in seguito trasformato in oggetto positivo da “preservare”. Il paesaggio mitico, rigenerante e puro, è centrale nella concezione che ha dominato la letteratura e il cinema fino a divenire universalmente radicato neirimmaginario occidentale. In realtà nell'America preco­ lombiana, come emerge da testimonianze sempre nuove, l’impronta umana era profonda e diffusa: qualunque sia stato il ruolo degli ame­ rindi nel produrre e mantenere celebrati paesaggi, rimane aperto il problema di come e cosa "conservare” nei parchi nazionali di oggi. Per questo, durante tutto il ventesimo secolo e ancora di recente, i 16

parchi sono stati i principali terreni di scontro tra popolazioni nati­ ve, amministratori e ambientalisti: l'idea di wilderness ebbe e conti­ nua ad avere un ruolo cruciale nel mascherare l’espropriazione delle terre ai primi abitatori. Elena Dell'Agnese affronta il problema dei discorsi geopolitici for­ giati attraverso la cultura popolare il cui percorso nella "cultura” del Far West va da romanzi e dime novels, al Wild West Show di Buffalo Bill, fino al cinema di Hollywood, mentre musica country e rodei sono sempre più relegati a fenomeno regionale. Nonostante la diminuita popolarità del western negli ultimi quarant anni, la sua retorica conti­ nua a caratterizzare la collocazione degli Stati Uniti nelle relazioni in­ ternazionali. A dimostrazione di questa ipotesi, Dell'Agnese prende in esame tre prodotti cinematografici, due dei quali destinati al pubblico infantile e giovanile, che coprono l'arco di un decennio: Toy Story (1995), Three Kings ( 1997) e Hidalgo. Oceano di fuoco (2004). Il saggio di Sergio Arecco prende le mosse dalla pentalogia we­ stern di Anthony Mann e si propone di individuare, aJl’interno della geografia western, una specifica “geografìa northern”. E lo fa sia rin­ tracciando (in un cortometraggio di Griffith del 1909, The Redmans View) le origini stesse del northern, sia ripercorrendone gli sviluppi in alcuni campioni del western anni Quaranta e Cinquanta, quali Passaggio a Nord Ovest di King Vidor, La magnifica preda di Otto Pre­ minger, Le giubbe rosse del Saskatchewan di Raoul Walsh e II cavalie­ re della valle solitaria di George Stevens. Questo consente di mettere in relazione il denso pittoricismo di queste opere filmiche con la Hudson River School, con un approfondimento del rapporto pittura/cinema: rapporto che ha alimentato da sempre il western classico, sia in termini di raffigurazione della wilderness sia in termini di raffi­ gurazione del nesso uomo-natura. Nuccio Lodato propone invece tre filoni di riflessione concomi­ tanti. Il senso e la funzione della violenza nel western; il correlato rapporto tra città nascenti e/o morenti e selvaggi spazi aperti nell’e­ vocazione filmica dell'ovest; infine lo stesso “mistero” dello scompa­ rire e ricomparire del genere, almeno nell’ultimo trentennio. Secon­ do Lodato i generi, anche filmici, probabilmente non scompaiono. Possono magari soggiacere a straordinari fenomeni di “carsismo”: inabissarsi nelle viscere del tempo per ricomparire, mutati, più in là. Oppure di travestismo: circolare latenti nelle vene dell'America per riaffiorare, mutuati, in “altrove” talora solo apparenti. L’articolo di Stefano Ghislotti prende in esame la scazzottata, elemento ricorrente nel western classico di cui costituisce non sem­ plicemente una trovata spettacolare, ma un espediente di coinvolgimento del pubblico. 11 combattimento a pugni nudi e l’esito che ne deriva sollecitano concrete riposte emotive, e contribuiscono, con sfumature diverse, all’intrattenimento tipico del western. Inol­ tre la particolare tonalità emotiva evocata dal confronto e dal suc­ cesso dell’uno o dell’altro contendente, orienta la visione di ciò che accade in seguito. Infatti la scazzottata è, insieme alla sfida verba­ 17

le e al duello con la pistola, uno dei tre livelli di confronto tra per­ sonaggi, soprattutto in relazione alle opposte dimensioni morali. Il suo risultato permette al pubblico di instaurare tra i personaggi una relazione che è al tempo stesso una differenza, la gerarchia che si crea, e un vincolo, un’esperienza comune che può dar luogo a ul­ teriori sviluppi. Secondo Barbara Grespi, la sopravvivenza del western nella cultu­ ra cinematografica contemporanea è garantita non tanto da processi di ibridazione ma dalla migrazione al di fuori del genere di figure e motivi tipici deirimmaginario della frontiera. Come emerge in il grande Lebowski, la figura del cespuglio rotolante (tumbleweed), che nel cinema hollywoodiano segna il tramonto della formula classica fordiana e l’avvento della variante crepuscolare, si ripresenta oggi in molti film (dal road-movie alla commedia, dal dramma all’opera con­ cettuale) che raccontano con particolare amarezza la fine di un’era, coincidente in ultima analisi con il declino degli Stati Uniti.

Note 1 Chihuahua Pearl fa parte della serie western, iniziata nel 1963, dedicata al tenente Blueberry. J Tra i principali bisogna almeno citare William Wyler, Budd Boettichcr, Delmcr Daves, William Wellman, King Vidor, Raoul Walsh, Edward Dmytryck, Nicholas Ray, Allan Dwan, Samuel Fuller, Henry Hathaway, John Sturges, Otto Preminger, Michael Curtiz e George Marshall. ' John C. Cawclti, The Six-Gun Mystique Sequel, Bowling Green State University Popular Press, Bowling Green, OH 1999, p. 1. 1 Ivi, p. 2. Tra le serie di maggiore successo vanno ricordate Gunsmoke e Bonanza. In seguito al successo della “miniserie" tratta da Lonesome Dove nel 1989 (su cui si vcda il mio saggio in questo volume), vi fu una momentanea ripresa delle serie western che si esaurì in tempi brevi. Recentemente ha avuto notevole successo la serie Deadwood (2004) ambientata in South Dakota. ? Il film è tratto dal romanzo omonimo (2005) dello scrittore di polizieschi Robert P. Parker. * Nel saggio che chiude questo volume. Barbara Grespi affronta esplicitamente questo argomento, concentrandosi sui film lù’entynine Palms (2003) e Gerry (2002). Per la narrativa si vedano ad esempio alcuni romanzi di James Crumley, soprattutto L'anatra messicana (Mondadori, Milano 1999, ed. orig. 1993). Per la televisione si può citare la serie di fantascienza Firefly. ' Sui rapporti tra gli aspetti formulaici del western e della detective-story1 si veda an * cora John C. Cawclti, Adventure, Mystery, and Romance: Formula Stories as Art and Po­ pular Culture, University of Chicago Press, Chicago 1976. ’ Esiste una traduzione italiana del 1965 a opera di A. Pellegrini (Longanesi, Milano). v Si veda Michael Kimmel, Manhood iti America: A Cultural History, Free Press, New York 1996. ,n Tra i romanzi di maggiore successo, oltre a quelli di L’Amour si veda soprattutto Riders of the Purple Sage ( 1912) di Zane Grey. In Italia molte opere di Grey sono appar­ se tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, quasi tutte edite da Sonzogno, mentre quel­ le di L’Amour sono state pubblicate da Mondadori fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Oggi sono introvabili. " Cawclti, The Six-Gun Mystique Sequel, cit., p. I. 121 dati sono calcolati sulla base dell’indice dei western contenuto nel fondamentale Raymond Bellour, a cura di, Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografìa, Feltri­ nelli, Milano 1973,pp. 385-43O(ed. it. a cura di Gianni Volpi, ed. orig. 1966e 1969).

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n Oggi, in Italia, i romanzi western "classici" non sono più disponibili in traduzio­ ne: si trovano solo sulle bancarelle di libri usati e nel negozi di remainders. '♦ La fumetti perdite, 1948. Le traduzioni di tutte le opere di Simenon sono previste per l'editore Adelphi. 15 Si vedano, tra gli altri, "Jerry Spring”, "Comanche", "Buddy Longway”, "Manos Kelly”, “Mac Coy” e "Jonathan Cartland”. Ib Tra i più recenti si veda II carro magico di John Lansdale (Fanuccì, Roma 2008, ed.orig. 1986). 17 Tra i saggi che Influenzarono la ripresa di interesse per il western si veda quello di André Bazin, Evolution du western, apparso sui "Cahiers du cinema" nel 1955 (trad, it. oggi disponibile in Id., Che cos'è il cinema. Garzanti, Milano 1999, pp. 261-71). Va aggiunto che ovviamente i critici cinematografici ebbero buon gioco a essere precoci rispetto ai colleghi di letteratura poiché la produzione di cui si occupavano era di qua­ lità ampiamente superiore a quella letteraria. La situazione si è modificata con i "post-westem” degli ultimi due-tre decenni (su questo si veda il mio saggio nel presente volume). 1,1 Su questo, peraltro, John Cawelti ha scritto pagine di grande interesse nel suo incguagliato The Six-Gun Mystique Sequel, cit.; si veda in particolare il capitolo Analy­ zing the Western (ivi, pp. 127-66) e la bibliografia con parti ragionate (pp. 167-215). Ho in progetto una panoramica della critica western c una bibliografia che prevedo di rendere disponibile nella sezione “Western americano" del sito del Groppo di ricerca dei Linguaggi della Guerra e della Violenza nei prossimi mesi (http://dinamico2.unibg.it/guerra/). 19 Stein & Dav, New York 1968 (tr. it. L. Brioschi, Il ritomo del pellerossa. Rizzoli, Milano 1972). 2,1 Si veda John C. Cawelti, The Six-Gun Mystique. Bowling Green State University Popular Press, Bowling Green, OH 1971. 21 La nuova versione e del 1999: si veda The Six-Guu Mystique Sequel, cit. (una se­ conda ed. con modifiche limitate era già apparsa nel 1984). 22 Si veda Will Wright, Sixguns & Society: A Structural Study of the Western, Univer­ sity of California Press, Berkeley 1975. Di Wright si veda anche il recente The Wild West: The Mythical Cowhoy A Social Theory, Sage, London 2001. 21 Richard Slotkin. Regeneration through Violence: The Mythology of the American Frontier, 1600-1860, Wesleyan University Press, Middletown, CT 1973, p. 5. 24 Richard Slotkin, The Fatal Environment: The Myth of the Frontier in the Age of In­ dustrialization (Atheneum, New York 1985) e Gunfighter Nation: The Myth of the Fron­ tierin Twentieth Century America (ivi, 1992). 2* Si veda Myra Jehlen. I futuri possibili degli studi americani: ripartire dal passalo, "Acoma. Rivista intemazionale di studi nordamericani”, Vili, 22 (2002), soprattutto le pp. 108-12. 2b Frederick Jackson Turner, The Significance of the Frontier in American History (1893) in Id., The Frontier in American History, The University of Arizona Press, Tuc­ son 1986. Su Turner si veda il saggio di Bruno Cartosio in questo stesso volume. 27 Mi limito qui a citare l’opera di Patricia Nelson Limerick che più ha contribuito a creare dibattito: The Legacy of Conquest: The Unbroken Past of the American IVcrt, W.W. Norton, New York-London 1987. 2* Su questo si veda, per esempio, Bruno Cartosio, Contadini e operai in rivolta. Le Gorras Blancas in New Mexico. Shake Edizioni, Milano 2003. 2’ Si veda Giorgio Mariani, La penna e il tamburo. Gli indiani d'America e la lettera­ tura degli Stali Uniti, ombre corte, Verona 2003. 3° per uno studjo provocatorio, anche se talvolta assertivo e non sufficientemente documentato, si veda Jane Tompkins, West of Everything: The Inner Life of Westerns, Oxford University Press, New York 1992: per uno studio sul “maschile" nel western si veda Lee Clark Mitchell, Westerns: Making the Man in Fiction and Film, University of Chicago Press, Chicago & London 1996. 11 Sulla straordinaria popolarità di John Wayne e sulla ripresa di tale popolarità dopo IT 1 settembre 2001 si veda il mio 11 piacere "doloroso" delia violenza, in Stefano Rosso, a cura di, Un fascino osceno. Guerra e violenza nella letteratura e nel cinema. ombre corte, Verona 2006, soprattutto le pp. 96-101.

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E C. Winchell sulla cima del menile a cui diede il suo nome nel 1888. in Ca­ ntoni ia. incarna 'Tuomo del West": solo, armato, avvolto nella bandiera.

LA TESI DELLA FRONTIERA TRA MITO E STORIA *

Bruno Cartosio

La "tesi della frontiera" venne presentata da Frederick Jackson Tur­ ner il 12 luglio 1893, quando il giovane storico dell’università del Wi­ sconsin lesse il suo saggio su "H significato della frontiera nella sto­ ria statunitense” di fronte ai colleghi dell'American Historical Asso­ ciation, riuniti in congresso in occasione dell'Esposizione colombia­ na di Chicago. La faraonica Esposizione universale celebrava la ci­ viltà occidentale e lo specifico contributo degli Stati Uniti. Anche nel saggio turneriano era contenuta l'esaltazione insieme dell'uomo americano e dell’impero che egli era andato costruendo nel Nuovo mondo. Il saggio, pubblicato all’inizio dell'anno successivo, ebbe nel corso dei decenni una straordinaria fortuna. Lo storico Charles Beard, pur dissentendo da Turner, riconobbe tra le due guerre che le sue idee sulla frontiera avevano avuto "sul pensiero storico statuni­ tense un influsso più profondo di qualsiasi altro saggio o volume scritto in proposito”. Nell’immediato secondo dopoguerra George Pierson registrava che l'interesse per le tesi turneriane e "lo stupore per la sua voga straordinaria" erano più vivi che mai. Qualche anno più tardi, anche William Appleman Williams ne ribadiva l'importan­ za storica, affermando che "la sua tesi invase le università e penetrò nella cultura diffusa come un'onda di marca”? Tumer dichiarava in apertura del suo saggio di avere preso spunto dalle conclusioni avanzate in un Bollettino dell’ufficio del Censi­ mento in cui si sosteneva, sulla base dei dati del 1890, che era tonninata l’epoca in cui gli Stati Uniti avevano conosciuto una "frontiera” occidentale sul proprio territorio: "Fino a tutto il 1880 il paese aveva una frontiera di insediamento, ma oggi l'area non insediata è stata così frammentata da isole di insediamento da rendere arduo affer­ mare che esista una linea di frontiera. Non è più possibile, dunque, discutere della sua estensione, del suo spostamento verso ovest ecc. nei rapporti del censimento”? In altre parole, non tutto il paese era * Il presente saggio è la prima parte di un più ampio lavoro in fieri sulle rappresen­ tazioni dell'ovest nella pubblicistica di fine Ottocento e sulle interazioni tra mitologizzazione e ricerca storica.

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uniformemente insediato e popolato e le densità di popolazione era­ no molto diverse nei vari stati e territori, ma anche le aree a minore densità erano state ormai così penetrate dai coloni anglosassoni che non aveva più senso parlare di frontiera. Le poche pagine di testo del Bollettino erano state scritte da Robert P. Porter, il responsabile dell’ufficio del censimento, e la mappa che vi­ sualizzava la distribuzione degli insediamenti e le densità di popola­ zione era dovuta a Henry Gannett, geografo dell'ufficio e capo-geografo della US Geological Survey. Nessuno mise allora in discussione le affermazioni di Porter, nonostante la concisione e l’impianto scarsa­ mente analitico del suo testo e la discutibile ipostasi - su cui si tornerà più avanti - dell’esistenza stessa di una linea di frontiera prima del 1890. In realtà, l’asserzione secondo cui la frontiera era scomparsa era "impressionistica’', scrive Gerald Nash; in essa si rifletteva più lo stile giornalistico di Porter che una generalizzazione derivante dall’analisi dei dati del censimento. La definizione della frontiera di Porter era chiaramente approssimativa, perché molte aree dell’Ovest avevano ancora meno di due persone per miglio quadrato. [...] Alla lu­ ce della mancanza di competenza e della dilettantesca natura del cen­ simento del 1890, né i dati raccolti, né l’interpretazione delle statisti­ che elaborate dovrebbero essere accettati come probanti.

A sua volta, "la cartografìa che tanto ispirò Turner", aggiunge John Mack Faragher, "era il frutto più dell’immaginazione che della scienza”.’ Altrettanto approssimative sono anche le osservazioni di uno stu­ dioso come Francis Amasa Walker, economista di rilievo e sovrinten­ dente ai Censimenti del 1870, del 1880 e dello stesso 1890, il quale aveva sottolineato già nel 1889 che la "linea della frontiera’’, cioè la "linea continua degli insediamenti”, aveva ormai raggiunto il Pacifi­ co e quindi non era più "tracciabile su una carta geografica”. Ma le parole di Walker, così simili a quelle di Porter e poi a quelle che Tur­ ner avrebbe usato pochi anni dopo, potrebbero essere state soltanto approssimazioni occasionali, pronunciate come furono davanti a un uditorio non accademico.4 In realtà, una tale lìnea non era veramente mai esistita: gli inse­ diamenti anglosassoni non avevano mai proceduto verso ovest con un fronte di avanzamento coerente. A conferma delle parole di Nash e Faragher, se si osserva la stessa carta della distribuzione geografi­ ca degli insediamenti disegnata da Gannett, appare evidente, per esempio, che sulla quasi totalità delle terre del Wyoming (di cui, tra l’altro, faceva parte dal 1872 quasi tutto il Parco nazionale di Yel­ lowstone), sulla stragrande maggioranza delle terre di Nevada e North Dakota (riportate secondo i confini appena definiti dalla loro recentissima trasformazione in stati), su gran parte dei territori di Arizona e New Mexico e in tutto il Texas occidentale la densità della popolazione era inferiore a un abitante per miglio quadrato e che soltanto in aree molto limitate di quegli stati e territori la densità 22

era superiore a due abitanti per miglio quadrato. Inoltre nei due ter­ ritori del New Mexico e dell’Arizona - che fino al 1863 avevano co­ stituito il New Mexico Territory - e nei due Dakota erano presenti ri­ sene indiane senza che fosse chiara la considerazione in cui veniva­ no tenute.5 Ma la conclusione di Gerald Nash va anche oltre: Il rapporto sul censimento di Porter contribuì a propagare il mito se­ condo cui dopo il 1890 non cera più frontiera, che nessun Ovest era di­ stintamente diverso da altre parti del paese. Sebbene non sostenuto dalla realtà, il mito si radicò saldamente nella mente di milioni di sta­ tunitensi. Pervase libri, articoli, film e gli altri materiali di cui sono fat­ ti i miti. *

Altri, prima e dopo Walker e Porter e più di loro, furono i respon­ sabili della costruzione, in senso proprio, del mito della frontiera. Quella di Porter fu una metaforizzazione del concetto di frontiera, una lettura dei dati e una generalizzazione che è lecito immaginare condizionate da un intento apologetico nei confronti dei successi nell'espansione nazionale degli ultimi decenni. La stessa scelta del 1890 come data epocale ha valore soprattutto simbolico. Il censi­ mento effettuato in quell’anno veniva preso come il momento della codificazione formale - e conclusiva - degli eventi di grande signifi­ cato socio-politico e simbolico degli anni immediatamente prece­ denti. Ci si può limitare al biennio 1889-90. In estrema sintesi: nel 1889, in aprile, erano state aperte agli insediamenti bianchi le tetre che il Congresso aveva sottratto a\VIndian Territory (terre che sareb­ bero diventate il territorio deH’Oklahoma nel maggio 1890); ad ago­ sto, le popolazioni sioux del South Dakota avevano ceduto al gover­ no degli Stati Uniti undici milioni di acri delle loro tene (aperte poi agli insediamenti nel febbraio 1890): a novembre, entrarono a fare parte dell’unione i nuovi stati del North e South Dakota, del Monta­ na e di Washington; a luglio del 1890, diventarono stati dell’unione anche il Wyoming e l’Idaho. A suggellare anche simbolicamente la fi­ ne delle cosiddette guerre indiane, a dicembre dello stesso 1890 ven­ ne ucciso Toro Seduto e subito dopo ebbe luogo il massacri) di Wounded Knee, nel South Dakota, in cui i soldati del generale Miles devastarono l'accampamento di Piede Grosso e uccisero o ferirono i due terzi dei suoi componenti. Infine, per quanto riguarda tutte le popolazioni indiane, si tenga conto che nel 1887 la “legge Dawes” sulla ripartizione della proprietà delle terre tribali indiane tra i capi­ famiglia e i maschi adulti aveva posto le basi per l’estinzione degli in­ diani come soggetti separati "tutelati dal governo" e delle loro pro­ prietà collettive delle terre.7 In ogni caso, che le conclusioni dello statistico fossero motivate più dagli entusiasmi ideologico-politici che dalla realtà verificabile appare indirettamente confermato agli occhi del ricercatore attuale dai dati disponibili relativi alla distribuzione reale della popolazione nazionale, che indicano, in primo luogo, lo scarsissimo popolamene 23

to di larga parte dell’ovest al di là delle Grandi Pianure e quindi, in secondo luogo, il fatto che il pur effettivo procedere verso ovest del "centro della popolazione” statunitense in quegli anni - su cui ragio­ nava Francis A. Walker nella conferenza del 1889 - non fu dovuto tanto alla crescita demografica della estrema parte occidentale del paese, quanto dell’estesa regione che proprio allora cominciava a es­ sere definita Middle West * Per quanto riguarda la distribuzione della popolazione nel Moun­ tain West - corrispondente agli stati attuali di Arizona, Colorado, Idaho, Montana, Nevada, New Mexico, Utah e Wyoming - il Censi­ mento del 1880 aveva registrato una popolazione complessiva di 653.119 unità. Nel 1890, secondo il censimento successivo, essa era passata a 1.213.935, con il Nevada e il Wyoming che risultavano gli stati meno popolosi, rispettivamente con 47.355 e 62.555 abitanti (e seguiti da Arizona e Idaho con poco più di 88.000). L'incremento re­ gistrato nell’arco di un decennio fu consistente, ma da una parte, nel 1890, la popolazione complessiva dell’intera regione non faceva altro che avvicinarsi alla popolazione di alcuni singoli stati di medie di­ mensioni, recenti come la California o antichi come il Mississippi, e, dall'altra parte, nel caso di Nevada, North Dakota, Wyoming, Arizo­ na e Montana la densità media della popolazione rimaneva inferiore a un abitante per miglio quadrato: al di sotto, quindi, di quella soglia dei due-sei abitanti per miglio quadrato presa da Porter come indice del popolamento minimo necessario per definire "insediata” un’a­ rea. Inoltre, i due terzi delfine remento demografico del Mountain West era dovuto al solo Colorado, i cui abitanti passarono da quasi 40.000 a oltre quattrocentomila tra un censimento e l’altro? Se si prende in considerazione il "centro medio della popolazione” la dinamica risulta ancora più chiara. Nella definizione ufficiale il centro della popolazione è il "punto in cui un’immaginaria, piatta, senza peso e rigida mappa degli Stati Uniti si troverebbe in equilibrio se pesi di uguale valore venissero posti su di essa in corrispondenza della collocazione di ciascuna persona” presente entro i suoi confini. La continua crescita della popolazione nelle terre dai Monti Appaia­ tili al Pacifico nel corso di oltre un secolo e mezzo ha progressiva­ mente spostato il centro medio della popolazione verso ovest: dalla longitudine ovest 76° 11' 12” nel 1790, alla longitudine 88° 09’ 33” nel 1950. Lo spostamento fu pari a oltre sei gradi tra il 1790 e il 1870, quando la popolazione nazionale crebbe da quasi 4 milioni a 38, 5 milioni. Nei vent'anni successivi, in cui la popolazione passava a po­ co meno di 63 milioni, lo spostamento del centro della popolazione fu di due gradi: dalla longitudine ovest 83° 35' 42” alla longitudine 85° 32' 53": da Portsmouth, nell’Ohio, a Greensburg, nell’indiana. Nel ventennio 1870-90, la crescita demografica occidentale fu sen­ za dubbio cospicua: la popolazione complessiva del Pacific West (Washington, Oregon, California) e del Mountain West passò da 990.510 a 3.102.269 abitanti. Gli stati responsabili di tale crescita fu­ rono soprattutto il Colorado e quelli affacciati sul Pacifico, i cui abi­ 24

tanti passarono da circa 715.00 a poco più di 2300.000. Tuttavia, per quanto significativa sul piano regionale, quella crescita era piuttosto bassa non solo in termini assoluti, ma anche relativamente ad altre parti del paese. Nello stesso periodo, infatti, le popolazioni comples­ sive del Middle Atlantic (New York, New Jersey, Pennsylvania) e delTEosf North Central (Ohio, Indiana, Illinois, Michigan, Wiscon­ sin) passavano da poco meno di 18.000.000 di abitanti a quasi 26.200.000. Fu proprio la crescita demografica degli stati del Middle West centro-settentrionale, più che quella dell'estremo Ovest - con città come Chicago, passata da meno di 300.000 a 1.100.000 abitanti nel 1870-90 - a far progredire verso ovest il centro della popolazione, facendolo avvicinare al meridiano di Chicago.10 Turner utilizzò le conclusioni esposte nel Bollettino dell'ufficio del censimento, dietro cui stava però anche l'autorevolezza di Walker, come innesco retorico del suo discorso - "Questa breve comunica­ zione ufficiale segna la chiusura di un glande movimento storico”, scrisse - e come nucleo di senso elementare attorno a cui organizzar­ ne l’impalcatura teleologica: "Fino a oggi la storia degli Stati Uniti è stata in larga misura la storia della colonizzazione del Grande Ove­ st”. In altre parole, l’espansione transappalachiana oggetto del sag­ gio era, da una parte, l'inizio di una marcia della civiltà destinata a concludersi trionfalmente sulle coste del Pacifico e, dall’altra, conte­ neva in sé le premesse di quel trionfo. L’incidenza del Bollettino del Censimento era tutta in quelle prime frasi. Dell'impianto teorico su cui il resto del saggio poggiava esso non era più responsabile, scrive giustamente Lee Benson.” Il lavoro turneriano non tentava neppure la ricostruzione delle di­ namiche e dei fatti connessi con l’espansione, né cercava di rico­ struire il percorso della conquista del continente da un oceano all’al­ tro, anche se le diverse fasi di quel percorso erano oggetto di ripetute allusioni e, soprattutto, venivano lette alla luce della loro felice con­ clusione. Non era tanto un "saggio di ricerca”, quanto un "tentativo di interpretazione ”, avrebbe riconosciuto lo stesso Turner scrivendo a un amico quasi quarantanni più tardi.'2 Oggetto della sua atten­ zione erano le fasi iniziali dell’espansione dei bianchi anglosassoni sul continente. Ma sebbene si limitasse a una sintesi molto parziale e unilaterale: l’unico suo soggetto era l’uomo bianco anglofono - di soltanto alcuni caratteri dell’occupazione territoriale anglosassone fino alla valle del Mississippi, il suo intento era ambizioso: elaborare le categorie per la lettura della storia nazionale in quanto storia della crescita territoriale del paese a partire dall’allontanamento dalla co­ sta atlant ica ed estrapolare da tale crescita un modello di ciclicità va­ lido per tutte le fasi successive, fino al Pacifico. A questo carattere paradigmatico e alle intrinseche, forti connotazioni nazionalistiche, in sintonia con il “sentire” dominante allora e nei decenni successivi, esso dovette la sua fortuna.13 "Fino a oggi, la storia degli Stati Uniti è stata in larga misura la 25

storia della colonizzazione del Grande Ovest", scriveva dunque Tur­ ner all’inizio del saggio, intendendo la colonizzazione anglosassone e cancellando così con pochi tratti di penna il fatto che la colonizza­ zione o comunque la presenza francese e spagnola - e cattolica, anzi­ ché protestante - aveva preceduto di alcuni secoli quella anglosasso­ ne in gran parte del "Grande Ovest". Le regioni transappalachiane, oltre a essere abitate dalle diverse e numerose popolazioni native, erano già state in varia misura percorse o rivendicate o parzialmente occupate da altri europei quando vi arrivarono gli anglosassoni, bri­ tannici e poi statunitensi. La grande Louisiana, acquistata dagli Stati Uniti nel 1803, era stata posseduta dagli spagnoli e dai francesi; gli spagnoli, che avevano colonizzato anche gran parte della Florida, avevano occupato il vastissimo territorio compreso tra il Texas e la California attuali dal Cinquecento al 1821, quando esso divenne par­ te della Repubblica del Messico; nella regione del grande Oregon, ri­ partita tra Stati Uniti e Canada con la linea di confine concordata nel 1846, gli scarsi insediamenti britannici avevano preceduto quelli sta­ tunitensi. Anche i cacciatori di pellicce francesi avevano preceduto i trappers o mountain men statunitensi pressoché ovunque in tutte le regioni nordoccidentali. E lungo la costa del Pacifico, insieme con gli spagnoli e gli inglesi, anche i russi avevano numerosi piccoli inse­ diamenti e un grande possedimento: fu infatti proprio da loro che gli Stati Uniti acquistarono l'odierna Alaska nel 1867. Un’ulteriore ambiguità derivava dalla formulazione immediata­ mente successiva, la "formula magica" che nel corso dei decenni sa­ rebbe stata ripetuta in migliaia di manuali scolastici e nelle aule di scuole e università: "L’esistenza di un'area di terra libera, il suo conti­ nuo recedere e l’avanzare verso ovest dell'insediamento statunitense spiegano lo sviluppo degli Stati Uniti".’4 In realtà queU’affennazione, posta com'era nelle righe iniziali del testo, non poteva che essere in­ tesa nel suo senso più generico e però letterale: la terra su cui si era­ no espansi gli insediamenti statunitensi era libera perché priva di al­ tri insediamenti umani. In quanto tale, naturalmente, era falsa. An­ che ad ammettere la coincidenza tra l'avanzata anglosassone verso ovest e lo sviluppo degli Stati Uniti, non si può non ribadire che le terre occidentali non erano affatto libere. Lo stesso Turner nota più avanti nel saggio che l'avanzare degli sta­ tunitensi aveva dovuto essere pressoché ovunque preceduto e accom­ pagnato dagli eserciti, che avevano conquistato le terre con la guerra contro le popolazioni indiane e altri colonizzatori europei o stati ame­ ricani, Eppure, l'idea dell’espansione civilizzatrice su terre vergini di­ venta rapidamente ideologia nazionale. Come fa notare Michael Bellesiles in un saggio polemico tanto verso Turner stesso, quanto verso i suoi continuatori novecenteschi, l’adesione ideologica alle formula­ zioni turneriane ha portato a curiosi risultati. Scrivendo del popola­ mento britannico del Nordamerica, Bernard Bay li n scrive dell’espan­ sione "al di là di ogni insediamento europeo conosciuto, all’estremità settentrionale del Lago Champlain", e Bellesiles osserva che poco più 26

su, a meno di dicci miglia, esisteva l’insediamento europeo della Valle Richelieu e che la Montreal francese era a una giornata di viaggio ver­ so nord. “Ma questi europei parlavano francese, per cui non contano”, scrive sarcasticamente lo storico odierno. Altri scrivono di Daniel Boone portatore della civiltà nella wilderness al di là degli Appalachi, dimenticando che un po' più a ovest del suo Kentucky esisteva l’inse­ diamento francese di Si. Louis, “dove si potevano comperare e leggere Voltaire e Rousseau”. E non dicono che lo stesso Boone acquisì il suo successivo appezzamento nel Missouri da un funzionario coloniale spagnolo e che fu nominalo comandante della sua nuova comunità, diventando lui stesso un funzionario dell’impero spagnolo. “Ma questi europei parlavano spagnolo, per cui non contano".|S Nel corpo del saggio turneriano, però, proprio nell’espressione “terra libera" erano implicite alcune delle connotazioni teoriche che danno un significato forse più forte ma certo meno grossolano alle parole iniziali. I riferimenti teorici di Turner sono molti, ma l’unico studioso contemporaneo esplicitamente citato nel saggio è l’econo­ mista italiano Achille Loria. Lo storico Lee Benson ha ricostruito in modo convincente il debito sostanziale di Tumer nei confronti delle teorie economiche di Loria e ha evidenziato la presenza nel saggio turneriano delle testimonianze linguistiche e concettuali di tale de­ bito. In particolare, la teorizzazione dell'italiano riguardava l’impor­ tanza proprio della “terra libera", coltivabile senza investimenti co­ spicui di capitale, nelle fasi dello sviluppo sociale precedenti l'instau­ rarsi di rapporti capitalistici di produzione, che portano alla scom­ parsa tendenziale del piccolo agricoltore isolato, indipendente, non costretto a competere sul mercato per la propria sopravvivenza di produttore. Nel contesto di questa ascendenza teorica, la tetra libera turneriana viene dunque a significare, nelle parole di Benson, una terra "senza prezzo, non occupata, accessibile a chiunque e in grado di essere coltivata con il semplice lavoro manuale”.10 Da Loria, Turner deriva anche l’immagine dell’evoluzione territo­ riale e sociale delle colonie britanniche e poi degli Stali Uniti come “immensa pagina nella storia delle società” nella quale sono evidenti “le stratificazioni primitive”, come chiave per la comprensione degli stessi “stadi dell’evoluzione europea”. Infatti, nel passo citato da Tur­ ner, Loria scrive che “il paese che non ha storia rivela luminosamen­ te il corso della storia universale”. L’americano commenta: “C’è mol­ ta verità in questo”; e immediatamente dopo la formulazione astrat­ ta dà conto della sua applicazione concreta esemplificando la suc­ cessione degli stadi evolutivi della società con il passaggio da uno stadio al successivo che si caratterizza come continua rinascita o ri­ generazione. Naturalmente, come lo stesso Benson fa notare in un altro saggio di poco successivo a quello appena citato, Loria non è la sola fonte teorica e ideologica di Turner. Prima di Benson e dopo di lui anche al­ tri studiosi hanno ricostruito il quadro sia dei precedenti storici (da Emerson all'inglese Thomas Babington Macaulay), sia degli studiosi 27

contemporanci (dall'altro inglese Bryce a Theodore Roosevelt, agli economisti Francis Amasa Walker e Richard Ely, a Henry George e ad altri studiosi e pubblicisti ora dimenticati) da cui Turner ha tratto suggerimenti, idee c immagini. In effetti, come scrisse Roosevelt, molte delle idee che confluiscono nel suo scritto erano “nell’aria”.17 Poco oltre nel saggio si trovano le altre "figure" che sarebbero di­ ventate emblematiche, contribuendo con la loro icasticità a rendere possibile la popolarità della tesi tumeriana. Lo storico parla della "frontiera” come del ciglio esterno di un’onda, come del mobile "punto d'incontro tra il mondo selvaggio e la civiltà". E ancora» a sot­ tolineare la diversità rispetto alle frontiere che in Europa ritagliano stati e attraversano terre densamente popolate, "la cosa più signifi­ cativa della frontiera americana è che essa si pone sul ciglio della ter­ ra libera davanti a noi”. Insieme con il concetto di "terra libera” an­ che quello di "mondo selvaggio” ricorre molte volte nel corso del sag­ gio. E in quel mondo che era penetrata vittoriosamente la "civiltà” dell'uomo bianco "americano” del quale Turner fa l'esaltazione an­ che razziale, secondo i moduli del diffuso darwinismo sociale da lui condiviso. Gli stessi caratteri essenziali della "democrazia america­ na” che Turner intende celebrare sono il prodotto della continua pro­ gressione verso ovest della civiltà - o dell’Ovest e della frontiera, che nel saggio sono spesso sinonimi, come fa notare Bellesiles1” - che si identifica con la conquista territoriale.10 Ma per poter essere apologetico, Turner deve essere reticente. È sintomatico che nell'esaltazione della democrazia avanzante in sim­ biosi con il procedere della frontiera la macroscopica contraddizio­ ne rappresentata dalla schiavitù quasi non compaia. Lo storico allu­ de - niente di più - al sistema schiavistico, ma non ne discute mai né la presenza plurisecolare nella società, nella cultura, nella politica e nelle istituzioni della nazione, né il ruolo nell'espansione verso ovest. Neppure il trauma della Guerra civile, così inscindibilmente legato al sistema schiavistico, entra nel suo discorso. In sostanza, Turner tiene schiavi, schiavisti e schiavismo fuori dal suo palcoscenico, for­ se perché non rubino la scena al libero pioniere portatore di progres­ so oppure, più probabilmente, perché l'ideologia ufficiale americana - riprendo qui la definizione di Warren Susman - a cui lui stesso contribuisce è allora impegnata sia a rimuovere le tracce dell’antica contraddizione tra dichiarazione dìndipendenza e Costituzione, sia a ricomporre la sanguinosa frattura recente tra le classi dominanti della nazione. In nessun altro caso c altrettanto evidente che la lettu­ ra del passato è funzionale alle esigenze del presente. La "strada ver­ so la riunifìcazione" imboccata con il compromesso tra i ceti domi­ nanti di Nord e Sud negli anni Settanta, attualo sulla pelle degli ex schiavi, portava a un nuovo nazionalismo - di tutta la nazione, non più regionale o sezionale - e a una nuova valorizzazione dell’apparte­ nenza razziale, anglosassone e bianca. Sulla situazione degli afroa­ mericani, risottomessi e segregati dopo essere stati liberati dalla schiavitù, scendeva il greve silenzio imposto dal pregiudizio quasi 28

universalmente condiviso, e in qualche caso dall'imbarazzo. La con­ quista dell’Ovest emergeva, parallelamente, come modo per convo­ gliare l'attenzione su un altro processo la cui positività era anch’essa di tutta la nazione?” Turner non dedica attenzione neppure agli indiani, che sono evo­ cati, nominati qualche volta, ma rimangono del tutto evanescenti sia come soggetti storici autonomi, sia come antagonisti, sia come vitti­ me, Turner tace la sopraffazione fìsica e l’esproprio dei nativi. Fa co­ me se l'espansione fosse stata “una pacifica occupazione della fertile frontiera appalachìana da parte degli inglesi", come scrive Wilbur Jacobs, invece che "un'invasione da parte degli europei di terre den­ samente popolate"?1 Tace della guerra che nel 1813-14 portò alla vit­ toria sulla Confederazione Creek e all'acquisizione da parte degli Stati Uniti di venti milioni di acri di terre indiane. Tace della depor­ tazione, avvenuta durante la presidenza del sudista Andrew Jackson, di quelle che pure erano chiamate le "tribù civilizzate" dalla Georgia all'allora Indian Tetri tory, l’attuale Oklahoma, per fare spazio alle piantagioni di cotone. Delle popolazioni indiane trascura culture, ci­ viltà e storia. Gli "indiani” non sono mai figure in carne e ossa nel suo discorso, compaiono solo come simulacri del "primitivo” oppure come incombente "minaccia che richiedeva un’azione unitaria”, cioè appunto solidale, da parte degli euroamericani portatori di civiltà. Non sono molto di più di uno stratagemma retorico: quando sono presenti, lo sono soltanto per dare forza alla negazione di quello che vengono fatti rappresentare. Infatti, ogni volta che si sono addentrati nella "foresta”, gli anglo­ sassoni hanno dovuto regredire a "condizioni primitive” e quindi as­ sumere i modi primitivi degli indiani per sopravvivere in quel loro ambiente: ma lo hanno sempre fatto solo contingentemente, nelle ri­ correnti fasi iniziali del ciclo rigenerativo che ogni volta li avrebbe fatti poi risalire alla “civiltà": “Lo sviluppo sociale americano è stato un continuo, ciclico nuovo inizio sulla frontiera”. E tuttavia, proprio la vita semplice e rude dei pionieri, i frontiersmen, ha prodotto quel­ l'autocoscienza condivisa e quell’individualismo che, insieme con il progressivo allontanamento fisico e mentale dall’Europa, caratteriz­ za infine l”’uomo americano”, egoista e democratico, e quindi la na­ zione tutta intera. Per Turner, individualismo, egoismo e democrazia non sono in contraddizione tra loro. La solidarietà e il rispetto reci­ proco e la mutua difesa sono state le condizioni essenziali perché gli uguali - i bianchi anglosassoni - potessero sopravvivere e affermarsi come individui sociali nella lotta contro la naturae i selvaggi. Nel 1889, un ventisettenne Turner aveva già scritto dell’espansione verso ovest come produttrice "di una reale autocoscienza nazionale e di patriottismo", recensendo i primi due volumi di The Winning ofthe West di Theodore Roosevelt. Quattro anni più tardi, le idee portanti della sua relazione al congresso degli storici entravano in piena sinto­ nia con quelle intrinseche alla fastosa autocelebrazione nazionalisti­ 29

ca e razziale dell’Esposizione colombiana di Chicago.22 La grande esposizione universale aveva luogo significativamente nel cuore del continente, in quella città che, nata dal nulla sessantanni prima sulle terre acquistate dai Polawatomi, aveva ora più di un milione di abi­ tanti. Chicago era la second city, e rispetto alla empire city della costa orientale, New York, era considerata da molti rappresentativa dell'America più “vera”: ruvida, operosa, individualista, pugnace e schietta ma anche, come aggiungevano altri, affaristica, clientelare e corrot­ ta, brutta e puzzolente (per il tanfo provocato dai macelli più grandi del paese e dagli sconfinati recinti in cui affluivano gli animali alleva­ ti in tutto l’Ovest).25 Chicago costituiva, in un certo senso, la sommità da cui il giovane storico guardava all'indietro. 1 riferimenti propriamente storici con­ tenuti nel suo discorso non riguardavano periodi successivi ai primi decenni dell’ottocento, né aree diverse dal versante orientale della valle del Mississippi - con ben piti di metà del paese che si estendeva oltre il corso del grande fiume - e però il momento in cui esso veniva pronunciato era quello in cui, da una parte, si dava l'ulteriore solidi­ ficazione dell'ideologia nazionale attorno all’espansione imperiali­ stica come “destino manifesto” della "razza conquistatrice” e, dall’al­ tra, emergevano la contraddittorietà della stessa conquista continen­ tale e la gravità dei problemi sociali ovunque connessi con la cresci­ ta. In tali problemi erano inclusi anche lo spirito antidemocratico del mondo imprenditoriale e la corruzione che caratterizzava la vita delle istituzioni.24 Entrambi i fenomeni erano, se possibile, ancora più gravi all’Ovest che all’Est. Tuttavia di ciò, come del razzismo, de­ gli espropri e delle sopraffazioni ai danni delle popolazioni sotto­ messe, non ce traccia nel saggio turneriano. Per contro, in esso viene tacitamente esteso alla conquista di tutto il “Grande Ovest” l’elogio della cosiddetta democrazia agraria (jeffersoniana e jacksoniana) implicito nell’apologià della conquista dei tenitori transappalachiani. E però mancano una ricostruzione storica e una valutazione o in­ terpretazione dell'azione dei governi e dei presidenti del periodo, da Jefferson a Jackson.25 Per quanto riguardava l’individualismo, l’àpologìà che Turner fa­ ceva dell’uomo bianco maschio anglosassone conquistatore e co­ struttore di una nazione glande come un continente, elevava quel ti­ po umano - appartenente sia al Nord, sia al Sud - al di sopra di ogni altro: in particolare, in quel preciso momento, al di sopra degli india­ ni, degli afroamericani e di milioni di immigrati, marcandone la sua differenza intrinseca, cioè razziale. Ma anche ammettendo che quel­ lo fosse già, in sé, l'uomo “americano” che si era spinto oltre gli Appalachi nei primi decenni di vita della nazione, la figura rappresenta­ tiva del mito western di fine Ottocento non è più l’agricoltore che spinge l’aratro, icona delle democrazie agrarie. Non è più, in altre parole, l’uomo dei costrutti ideologici di Jefferson e Jackson: figura ideale, astratta ma non del tutto avulsa dall’economia preindustriale del loro tempo. È piuttosto il prolungamento nel tempo di figure let30

(erario, dal prototipico Daniel Boone raccontato da John Filson nel 1784 al Natty Bumppo dei romanzi primo-ottocenteschi di Cooper, all’Indian killer dei romanzetti da dieci centesimi della seconda metà del secolo, i cui contatti con la realtà storica sono assai labili o inesi­ stenti e comunque subordinati alle esigenze dell’intreccio romanze­ sco c delle convenzioni ideologiche e narrative.26 Contemporaneamente, anche in questo caso in armonia con di­ scorsi e idee che fluttuavano nell’aria, la valorizzazione storica del­ l'individuo rappresentativo delle ipotetiche democrazie agrarie dei primi decenni del secolo contribuiva a costruire il piedestallo su cui avrebbe poggiato l’immagine compiutamente mitologica - assoluta, congratulatoria, rassicurante - del rude americano a cavallo come uomo rappresentativo di una conquista che doveva avere i caratteri dell’epica nazionale.27 È a partire dai modelli letterari e in parallelo con essi che prende corpo la mitopoiesi dell’uomo solo, indipendente, sufficiente a se stesso, generoso ma se necessario spietato. Non è casuale che quella dello stoico uomo della frontiera, cacciatore, esploratore, combat­ tente, pony express, scout per l’esercito e infine rancher e fondatore di città, sia l’identità che William “Buffalo Bill” Cody - contemporaneo di Turner e presente a Chicago con il suo Wild West nel luglio 1893 - si costruì nel corso della sua vita, facendone letteralmente spettacolo perquarant’anni. Quello della costruzione mitica è un uomo in movi­ mento, orgoglioso signore delle sue circostanze, ma anche disposto a irreggimentarsi nell’esercito e a sacrificare la propria libertà perso­ nale in nome del bene comune. A lui spetta accompagnare e consoli­ dare la conquista armi alla mano, se lo impone il destino della nazio­ ne. In ciò è simile ai protagonisti di tutte le epopee, ma rispetto a quelle è anche uomo nuovo, eroico nella conquista della specifica wilderness americana, la natura ostile in cui si fondevano ostacoli na­ turali, fiere e selvaggi. Era l’uomo dopo il cui passaggio potevano in­ sediarsi gli agricoltori, svilupparsi i commerci, crescere le città. Eppure i fatti già allora ben noti della storia di quella conquista avrebbero dovuto impedire allo storico le reticenze e ambiguità di cui abbiamo detto. 0 forse proprio il montare della conflittualità so­ ciale negli anni immediatamente precedenti alla stesura del saggio dagli eccidi di indiani ai pogrom anticinesi, alla repressione brutale degli scioperi di cowboy, minatori e operai, all’esercizio del dominio dei grandi allevatori ai danni dei piccoli e così via, di cui scrive Ri­ chard White2'1 - consigliò a Turner la reticenza. Ma la conquista era stata fin dall'inizio un insieme di strategie economico-politiche, di­ plomatiche e militari.29 Una successione di fatti d’armi, peraltro lon­ tani dalle gesta che tradizionalmente erano state oggetto dell’epica nel Vecchio mondo, ma anche di violazioni di trattati, minacce, in­ ganni, corruzione politica e amministrativa e violenza privata, in molti casi anche a danno degli stessi statunitensi anglosassoni, non solo di quanti erano ritenuti razzialmente inferiori. Nessuna rico­ struzione storica che riguardasse i primi cento anni di storia statuni31

tense avrebbe potuto essere apologetica se non a costo di rivelare, contemporaneamente, la forza dei pregiudizi razziali e sociali dello storico. L’ambiziosa e minuziosa opera di Theodore Roosevelt, The Winning of the West, ne è la riprova. Rispetto a quella il saggio di Tur­ ner, pur rimanendo nell’alveo della stessa cornice ideologica, è pro­ tetto dalla sua sintetica brevità e dalla stessa indeterminatezza che caratterizza molti dei concetti portanti. Soffermiamoci brevemente sulla seconda metà del secolo, tenen­ do a mente i due concetti portanti dellindividualismo e della demo­ crazia. Nei processi di ristrutturazione economico-sociale e politicoistituzionale dei territori e stati ritagliati nelle sconfinate terre su­ doccidentali tolte al Messico con la guerra del 1846-48 sono leggibili vari capitoli di una storia, torbida in molti suoi aspetti ed episodi, in cui le due sfere contigue degli affari e della politica furono "interdi­ pendenti e simbiotiche”.30 Il Texas, che la Corona spagnola aveva aperto all'insediamento di coloni provenienti dalla ex Louisiana francese diventata statunitense nel 1803 (tra i quali c erano america­ ni “naturalizzati spagnoli, come Daniel Boone”, puntualizza David J. Weber),” fu preso alla Repubblica messicana al termine di una vi­ cenda pluridecennale fatta di ripetute manifestazioni di disprezzo degli accordi e di dichiarazioni d’indipendenza dal Messico da parte dei coloni statunitensi conclusasi infine con la guerra. E a guerra conclusa, nel Texas statunitense, i nuovi proprietari terrieri intro­ dussero la schiavitù. Anche nel resto del Sudovest infine acquisito con il trattato di Guadalupe-Hidalgo del 1848, gli statunitensi anglofoni, gli anglos, espropriarono spesso con l’inganno e sottomisero sia gli indiani, sia gli ex messicani, mettendo in alto nei confronti di entrambi un di­ sprezzo razziale che avrebbe segnato molto a lungo i rapporti interni a quelle società. E riprodussero anche nella stessa minoritaria com­ ponente anglosassone le divisioni di classe che lo sviluppo economi­ co aveva già definito più a Est, separando rudemente i grandi pro­ prietari terrieri, allevatori, industriali e investitori dai piccoli pro­ prietari e dai lavoratori comuni (operai, minatori, ferrovieri...). In New Mexico, figure come quelle dei missouriani trapiantati Thomas B. Catron e Stephen B. Elkins furono paradigmatiche. Uti­ lizzando in modo spregiudicato le cariche amministrative, giudizia­ rie e politiche cui era facile per loro accedere nei territori appena tol­ ti al Messico, il primo era diventato forse il maggiore proprietario terriero di tutti gli Stati Uniti, grazie alla proprietà diretta o indiretta di 6 milioni di acri; il secondo, insieme con altri investitori america­ ni, inglesi e olandesi, riuscì a impadronirsi di una concessione terrie­ ra messicana e ad ampliarla con la corruzione che permetteva di ag­ girare le leggi, facendone passare l’estensione da 97.000 a quasi 1.715.000 acri (e scatenando una lunga disputa che portò localmente a contrapposizioni violente e scontri armati).32 Anche un altro easter­ ner, nato in Tennessee e cresciuto nel Texas, John Simpson Chisum, fece fortuna nel New Mexico. I suoi pascoli si prolungavano per 150 32

miglia lungo il fiume Pccos in direzione nord-sud, scriveva la ' Ga­ zette” di Las Vegas nel 1875, mentre in direzione est-ovest si estende­ vano per tante miglia "quante può percorrerne un uomo su un buon cavallo durante un’estate”. Un centinaio di cowboy si prendevano cura per conto suo di almeno 80.000 capi di bestiame.33 È impossibile parlare di democrazia nel territorio del New Mexi­ co, in cui la maggioranza ex messicana (e indiana) della popolazione veniva espropriata e discriminata dalla minoranza anglo. Non solo. Fu profondamente antidemocratico e apertamente razzista nei con­ fronti dello stesso territorio Patteggiamento di quelle componenti del Congresso degli Stati Uniti - capeggiate dal senatore Albert Beve­ ridge dell'indiana, presidente della Commissione sui Territori - che ne impedirono fino al 1912 la trasformazione in stato per evitare che la presenza preponderante di ex messicani potesse tradursi, grazie al processo elettorale, nella messa in minoranza nelle istituzioni rap­ presentative della minoranza anglo.u Le divergenze di interessi tra grandi e piccoli proprietari terrieri e allevatori anglosassoni e il distacco di classe tra proprietari e lavora­ tori non vigevano solo nelle terre ex messicane. Anche nel resto dei Mountain States più settentrionali - negli ex territori trasformati in stati nel 1889-90 - la distribuzione della proprietà terriera non era certo riconducibile al modello della piccola proprietà diffusa: le idee dell'agrarismo jeffersoniano e della democrazia jacksoniana, fatte entrambe di piccoli proprietari indipendenti lì non si erano avverate. Non aveva raggiunto il suo scopo neppure il lincolniano Homestead Act, che nel 1862 aveva mirato a costituire un ceto diffuso di agricol­ tori indipendenti incentivando gli insediamenti. Dopo gli anni Set­ tanta, vaste porzioni delle (erre occupale dai bianchi - ma ancora nel 1890 metà dell’estremo Ovest rimaneva proprietà federale - erano laicamente oligopolizzate dalle grandi società ferroviarie e dai gran­ di proprietari terrieri, soprattutto allevatori, in parte statunitensi e in parte inglesi, scozzesi, olandesi e francesi. L’idea del grande allevato­ re uscito dai ranghi dei mandriani grazie a un'oculata gestione di po­ che bestie iniziali e ai vantaggi derivanti dall'accesso libero alle terre demaniali è quasi del tutto inconsistente. I grandi allevamenti erano strutture finanziarie complesse, che avevano alle spalle un parco as­ sai ampio di investitori. In essi "venivano investite somme enormi, c proprietà e amministrazione divennero funzioni necessariamente se­ parate. Grandi società per azioni, consorzi finanziari e trust d’inve­ stimento fornivano i capitali necessari e le strutture organizzative per gestire i problemi, non importa quanto grandi fossero”.35 Nella sintesi di David Murdoch: Le grandi società per azioni della costa orientale (quindi proprietari assenteisti) istituirono rapidamente un oligopolio e sfruttarono senza pietà i vantaggi derivanti dalle dimensioni e dalla ricchezza. Alcune delle imprese di allevamento più grandi e produttive non erano neppu­ re americane. La Prairie Cattle Company, che controllava 5 milioni di acri di pascoli in Texas, Colorado e New Mexico, era proprietà di scoz-

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zcsì. Così come i ranch XIT, Matador e Espitela con pascoli rispettiva­ mente dì tre milioni, un milione e mezzo e mezzo milione di acri. In Wyoming e in Colorado l'espressione ’cattle baron’ [barone del bestia­ me! non era metaforica: i figli dcH'aristocrazia inglese amministrava­ no gli allevamenti per conto di società londinesi i cui consigli di ammi­ nistrazione erano pieni di Pari?6

Quando nel 1883 il "re del bestiame”, o cattle king, Alexander H, Swan offrì a investitori di Edinburgo la compartecipazione nella Swan Land and Calile Company, i suoi possedimenti nel territorio del Wyoming sudorientale avevano un’estensione pari a 130 miglia di lunghezza, 42 miglia di larghezza all'estremità orientale e 100 mi­ glia all'estremo opposto. Su quelle terre, che alla fine del decennio valevano cinque milioni di dollari, pascolavano 100.000 capi di be­ stiame. Ancora più grande era il già citato XIT Ranch, collocalo nel Texas nordoccidentale: i suoi tre milioni di acri si estendevano sul territorio di nove diverse contee; sui suoi pascoli, governati da al­ meno 150 cowboy, vagavano 160.000 bovini e mandrie per un mi­ gliaio di cavalli.37 La preminenza della grande impresa non si conciliava facilmente con le virtù dell individualismo diffuso e la solidarietà tra uguali, né con la democrazia. Lo strapotere esercitato dalle grandi società fer­ roviarie sulle vaste estensioni terriere loro elargite dallo stato federa­ le dopo la guerra civile e sugli innumerevoli agglomerati da loro stes­ se creati dal nulla lungo le linee obbediva soltanto agli imperativi della ricerca del profitto speculativo, non del vantaggio generale. Ne sono indiretta testimonianza i vasti movimenti agrari di protesta tra cui la National Grange, o Patrons of Husbandry, che superò gli 800.000 aderenti negli anni Settanta, per scendere a poco più di 100.000 alla fine del decennio successivo - che indicavano nella spie­ tata rapacità delle corporations ferroviarie il loro nemico principale. La stessa logica imprenditoriale operava nelle company towns mine­ rarie, cresciute in tutte le Montagne Rocciose grazie alla ramifica­ zione dei collegamenti ferroviari e alla domanda indotta dallo svi­ luppo industriale del paese. Anche in questo caso la nascita del sin­ dacalismo nelle miniere metallifere dell’Ovest e la violenza della re­ pressione padronale della conflittualità di classe tra fine Ottocento e inizio Novecento dicono quanto fosse debole la democrazia econo­ mica e politica in quelle aree. In entrambe queste situazioni la connivenza tra potentati econo­ mici e istituzioni politiche e giudiziarie era esplicita. David Murdoch: "La politica finiva rapidamente sotto il controllo dei ricchi e del po­ tere che la ricchezza portava con sé. Verso la fine del secolo il Mon­ tana era efficacemente nelle mani della Amalgamated Copper Com­ pany, [la società mineraria] che impiegava direttamente o indiretta­ mente oltre la metà degli uomini presenti nello stato" e controllava quasi i tre quarti dei giornali in circolazione. Una tale posizione di potere consentiva a chi la deteneva di agire piegando i legislatori al suo volere o ignorando la legge e di usare la stampa a protezione dei 34

propri interessi, filtrando le notizie più che diffondendo l’informa­ zione.-8 Nel caso del Wyoming, per almeno un decennio la Stock Growers’ Association fu ''l’indiscusso sovrano del territorio”, scriveva Ernest Staples Osgood. Qualcosa cominciò a cambiare negli anni Ottanta. Per questo, nel 1892, membri dell’associazione degli allevatori diede­ ro vita a un proprio piccolo esercito privato, in cui erano presenti al­ cune decine di pistoleros assoldati in tutto l'Ovest, per agire contro i piccoli allevatori e agricoltori della Johnson County, nel Wyoming settentrionale, che i grandi proprietari accusavano di essere razziato­ ri del loro bestiame. Prendendo la "legge" nelle loro mani, i cattle kings della Stock Growers’ Association cavalcarono da Cheyenne ver­ so la Johnson County, per eliminare fisicamente i loro oppositori più attivi (di cui avevano fatto una lista precisa). Ma i loro obiettivi erano anche più ambiziosi. Oltre a voler imporre una sorta di controllo mi­ litare sulla contea - o forse sullo stato a partire da quella contea - essi volevano mettere le mani sul suo sistema giudiziario, che secondo lo­ ro proteggeva i “piccoli”, e bloccare la crescita dei partiti democrati­ co e populista. E quando i “piccoli" reagirono, sollevandosi a loro vol­ ta in armi contro gli “Invasori” in quella che fu definita la "guerra del­ la contea di Johnson”, i “grandi” ottennero da Washington prima l’in­ tervento dell'esercito a loro favore e poi la cancellazione delle accuse contro i loro sgherri da parte del tribunale di Cheyenne.3” Le definizioni di cattle kings e di cattle kingdom, re e regno del be­ stiame, non sono improprie, conclude Murdoch, perché di fatto "quella non era una repubblica’’.40 Era chiaro, scrive Malcolm Rohrbough in una prospettiva che abbraccia le più ampie questioni relati­ ve alla gestione dei titoli di proprietà delle terre in lutto l’Ovest, che nonostante le leggi e la Dichiarazione d’indipendenza "gli uomini non erano neppure lontanamente uguali" nella corsa all’acquisizio­ ne della terra: da una parte, "l'atteggiamento era che la terra era lì per essere presa e che le norme e i regolamenti posti dal governo non cambiavano i diritti naturali dei cittadini" e, dall’altra, "quelli che fi­ nivano sempre per essere avvantaggiati erano i ricchi e influenti, qualsiasi cosa dicessero le leggi". E spesso le leggi, quando non igno­ rate, erano create motti proprio localmente dagli stessi grandi pro­ prietari. Uno dei cattle kings più grandi e noti del periodo, Charles Goodnight, impose a tutti la proibizione del consumo di alcolici e del gioco nelle terre da lui controllate nel Texas nordoccidentale, co­ sì come non impedì mai l’impiccagione senza processo dei ladri di bestiame. Contro i razziatori, altri grandi allevatori creavano le loro piccole polizie private - come fecero i proprietari dello XIT, nel Texas occidentale - che però dovevano anche controllare che i cow­ boy non bevessero, non giocassero e non portassero pistole.41 Nonostante che Richard Slotkin non dedichi un’attenzione speci­ fica ai rapporti sociali e razziali nel Sudovest - cosa che avrebbe dato forza ulteriore al suo giudizio - la sua sintesi è ugualmente rappre­ sentativa: 35

L’esperienza degli agricoltori nelle regioni dominate dai possedimenti terrieri delle compagnie ferroviarie, dei minatori e dei (lavoratori] me­ tallurgici nelle zone metallifere del Montana e dell'Idaho, e dei piccoli allevatori nei pascoli cui aspiravano oligarchie come la Stock Growers’ Association del Wyoming - per tutto il periodo 1885-1899 - non sostie­ ne la tesi secondo cui le condizioni sulla ’‘frontiera" erano favorevoli sia all’individualismo, sia alla democrazia. A volte non erano favorevoli per nessuno dei due aspetti, a volte favorivano uno a danno all’altro.42

Le conclusioni degli storici odierni, molto poco turneriane, non sono frutto di dissotterramenti e ingigantimenti a posteriori di fatti marginali ignoti ai più cent anni prima. Al contrario, quei fatti erano universalmente noti al tempo di Turner come fatti della cronaca che, pur avvenendo nella parte "lontana" del paese, avevano connessioni dirette con i centri del potere economico-politico e finanziario dell’Est e con le dinamiche sociali nel loro complesso. Riguardavano cioè, nelle parole impiegate dallo stesso Turner in un saggio del 1891 (The Significance of History), “proprietà della terra, distribuzione della ricchezza e basi economiche della società in generale”. Ma se è vero, come scrisse lo stesso Turner, che “ogni epoca cerca di formarsi la propria concezione del passato" e "[...] riscrive la storia del passa­ to avendo in mente le condizioni dominanti in quel momento”, non ce dubbio che lo scrivere un saggio come il suo, con quelle caratteri­ stiche, in quel momento e su quella fase iniziale della storia naziona­ le equivaleva a dare di essa una rappresentazione funzionale alla vi­ sione del mondo dominante nel presente statunitense di fine secolo. Del resto, nello stesso saggio del 1891, il giovane storico sottolineava proprio "futilità della storia nell’addestramento a una buona cittadi­ nanza”.4’ Il risultato è che Tingombro frapposto dall'alleanza tra la reticen­ za ideologica degli storici e la mitopoiesi storico-letteraria di fine Ot­ tocento - qucst’ultima rinforzata nel secolo successivo da radio, ci­ nema e televisione - ha nascosto per decenni sia la natura, sia le di­ namiche, sia l'ampiezza dell’ingiustizia e della prevaricazione socia­ le. Solo in anni recenti la cosiddetta New western history ha prodotto una rilettura radicale della storia socio-culturale deH’Ovest in cui il mito è trattato come tale e, soprattutto, non si sostituisce alla realtà. Storia, mitopoiesi e mito vengono studiati in quanto tali e nelle inte­ razioni reciproche. La complessità sociale, con i privilegi e le disu­ guaglianze, le esclusioni e i conflitti specifici alle varie aree, rientra così nel quadro da cui le rappresentazioni mitiche l'avevano espulsa.

Note 1 Frederick J. Tumer, The Significance of the Frontier in American History, in Id., The Frontier in American History, Henry Holt , New York 1953(1920) (tr. it. La frontiera nella storia americana, Il Mulino, Bologna 1959, pp. 31-69); levitazioni dal saggio, i cui rimandi in nota sono evitati nel testo per semplicità, sono tradotte da chi scrive. Charles Beard, Turner’s “The Frontier in American History”, in Malcolm Cowley e Ber­

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nard Smith, a cuna di. Books that Changed Our Minds, Doubleday. Doran. New York 1939, p. 61; George W. Pierson, Recent Studies of Turner and the Frontier Doctrine, “The Mississippi Valley Historical Review”, XXXIV, 3 (Dicembre 1947), p. 453; Wil­ liam A. Williams, The Frontier Thesis and American Foreign Policy, "Pacific Historical Review", XXIV, 4 (Novembre 1955), p. 383. Nel corso del 1941, Pierson aveva condot­ to un'estesa indagine, basata sulla circolazione di questionari tra 1 colleghi, per verifi­ care lo stato dcH'intcrcsse e dell'apprezzamento di Turner: George W. Pierson, Ameri­ can Historians and the Frontier Hypothesis in 1941. "Wisconsin Magazine of History”, XXVI, I e 2 (Settembre c Dicembre 1942), pp. 36-60 c 170-85. 2 Department of the Interior, Census Office, Extra Census Bulletin: Distribution of Population According to Density: 1890, No. 2, April 20, 1891, Washington, D.C., pp. I6; la citaz. a p. 4. Secondo Fulmer Mood (The Concept of the Frontier, 1871-1898: Com­ ments on a Select List of Source Documents, "Agricultural History”, XIX, January 1945, pp. 24-30) cit. in Pierson, Recent Studies ofTUruer, cit., p. 455, il primo a usare l'espressione "linea di frontiera” era stato l'influente economista Francis Amasa W’alker, precedente direttore dell’ufficio del censimento e docente a Yale, in connes­ sione con il Censimento del 1870. * Gerald D. Nash, The Census of 1890 and the Closing of the Frontier, “Pacific Northwest Quarterly", LXX1, 3 (Luglio 1980), pp. 99-100; John Mack Faragher, A Na­ tion Thrown Back Upon itself: Turner and the Frontier, "Culturefront”, II, 2 (Estate 1993), p. 8. Nash sosteneva, giustamente, che “gli assunti, i metodi e le conclusioni del censimento del 1890" dovevano essere "attentamente soppesati e valutati", senza però tenere conto della impossibilitò materiale di tale revisione, dovuta al fatto che quasi tutte le schede manoscritte di quel censimento, peraltro viziato da imprecisioni di va­ ria natura, sono andate distrutte in un incendio avvenuto a Washington nel 1921, co­ me spiega Kellee Blake, "First in the Path of the Firemen": The Fate of the 1890 Popula­ tion Census, “Prologue: Quarterly Journal of the National Archives and Records Ad­ ministration”, XXVII, 1 (Primavera 1996) al sito: www.archives.gov/publications/prologue/1996/spring/1890-ccnsus.html. 4 Le citazioni sono tratte da un ritaglio, presente nei Frederick Jackson Turner Pa­ pers alla Huntington Library, in cui viene riportata una conferenza di Walker tenuta presso la confraternita studentesca Phi Beta Kappa il 19 giugno 1889. Il ritaglio risul­ ta abbondantemente commentato a margine dallo stesso Turner, scrive Wilbur R- Ja­ cobs, The Great Despoliation: Environmental Themes in American Frontier History, “Pacific Historical Review”, XLVII, I (Febbraio 1978), pp. 15-16. 5 U.S. Department of Commerce, Bureau of the Census, Historical Statistics of the United Slates, Colonial Times to 1957, Government Printing Office. Washington, D.C. 1960, Series A 123-180, pp. 12-13. 6 Nash, The Census of 1890, cit., p. 100. 7 Grazie soprattutto a tale legge le terre indiane si sarebbero ridotte da 138 a circa 47 milioni di acri tra il 1887 c il 1934. Si veda Frederick E. Hoxie, .4 Final Promise: The Campaign to Assimilate the Indians, 1880-1920, Cambridge University Press, Cam­ bridge-New York 1989. ” Inutile sottolineare che il termine “Ovest" ha indicato molte realtà territoriali di­ verse nel corso della storia coloniale inglese e statunitense. Nel periodo in cui Turner scrive definisce l’area del paese tra le Grandi Pianure c il Pacifico, al di là del 98’ op­ pure 100“ meridiano ovest. Per un’indagine dai risvolti anche curiosi, per l’evidenza della persistente disparità di opinioni in merito a “dove comincia l’Ovest”, si veda Wal­ ter Nugent, Where Is the American West? Report on a Survey, “Montana. The Magazine of Western History", XLII, 3 (Estate 1992), pp. 3-23. 4 U.S. Department of Commerce, Bureau of the Census, Historical Statistics, cit., p. 12. Più consistente e meno disegualmente distribuito il popolamento de) Pacific U'w/, passato da 675.125(1870) a l .888.334 ( 1890) abitanti, con un'eccezionale crescita de­ mografica di Oregon e Washington, anche se con la prevalenza della California in ter­ mini assoluti. 10 U.S. Department of Commerce, Census Bureau, 1990 Census of Population and Housing, “1990 Population and Housing Units Counts: United States", (CPH-2): Popu­ lation and Geographic Centers, II-1; al sito: www.ccnsus.gov/populationAvww/censusdata/hiscendata.html. Anche la latitudine nord mutò nel tempo, ma con oscillazioni

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irrilevanti ai fini del presente discorso (da 39° 16’30” nel 1790, a 39° 12’00" nel 1870, a 39’ 11'56” nel 1890). U.S. Department of Commerce, Bureau of the Census, Historical Statistics, cit.. Series A 1-3 e Series A 4-16, p. 7; Series A 123-180, pp. 12-13. Il centro della popolazione avrebbe superalo la longitudine ovest corrispondente a Chicago sol­ tanto tra il 1940 e il 1950 e il corso del Mississippi solo dopo il 1970. “ Lee Benson, Achilie Loria s Influence on American Economie Thought, "Agricultu­ ral History”, XXIV (Ottobre 1950), pp. 182-99; la citazione a p. 191. 12 Turner a Maurice G. Fulton, 12 ottobre 1931, cit. in Ray Allen Billington, The Ge­ nesis of the Frontier Thesis: A Study in Historical Creativity, The Huntington Library, San Marino, CA 1971, p. 174. IJ II suo antico studente, poi storico lui stesso, Carl L. Becker, sottolineò il disinte­ resse di Turner per "la storia intesa come successione di eventi", definendo la sua scrit­ tura come "essenzialmente descrittiva, esplicativa, espositiva": Frederick Jackson Tur­ ner (1927), in Id., Everyman His Own Historian: Essays on History and Politics, F.S. Crofts & Co., New York 1935, p. 227. A sua volta, il geografo (e amico) Isaiah Bowman sottolineò la persistente, scarsa acribia di Dimer in fatto di geografia anche dopo il 1893: "Le idee di Turner curiosamente ignoravano le verifiche derivanti dagli studi sul campo [...]. È uno storico che si fonda su documenti e su impressioni generali, piutto­ sto che lo scienziato che va a vedere di persona”; Bowman a Gladys M. Wrigley, 6 mar­ zo 1944, cit. in Robert II. Block, Frederick Jackson Turner and American Geography, "Annals of the Association of American Geographers, LXX, I (Marzo 1980), p. 40, che discute la passione di Turner per la geografia c i suoi intensi rapporti con i geografi. Sulla qualità interpretativa e sull’impiego e il senso delle tipizzazioni caratteristiche di Turner, si veda William Cronon, Revisiting the Vanishing Frontier: The Legacy of Frede­ rick Jackson Turner, "W’estem Historical Quarterly”, XVIII. 2 (Aprile 1987). pp. 157-76. M La definizione di "formula magica” è di Richard White, Frederick Jackson Turner and Buffalo Bill, in James R. Grossman, a cura di. The Frontier in American Culture, University of California Press. Berkeley-Los Angeles-London 1994. p. 12. ” Michael A. Bellesilcs, On Burying Frederick Jackson Turner, Relazione inedita al IO1’’ Milan Group Symposium “On the Frontier", Milano, 23 giugno 2000, p. 16. Su St. Louis c sulle sue biblioteche, c sulle altre città di quel "primo” Ch’est, si veda Richard C. Wade, The Urban Frontier: The Rise of Western Cities, 1790-1830, Harvard Univer­ sity Press, Cambridge, MA 1967, pp. 5-6. "* Benson, Achille Lorias Influence, cit., p. 194. Si veda anche Ferdinando Fasce, Le frontiere del discorso storico. Rileggendo Frederick Jackson Turner, “Acoma", I, 1 (Pri­ mavera 1994), pp. 40-48. 17 Si vedano almeno: White, Frederick Jackson Turner and Buffalo Bill, cit.; Lauren­ ce M. Hauptman, Mythologizing Westward Expansion: Schoolbooks and the Image of the American Frontier before Turner, "The Wrestem Historical Quarterly”, VIII, 3 (Lu­ glio 1977), pp. 269-82; Lee Benson. The Historical Background of Turners Frontier The­ sis, "Agricultural History", XXV (Aprile 1951), pp. 59-82; Herman Clarence Nixon, Precursors of Turner in the Interpretation of the American Frontier, "The South Atlantic Quarterly". XXVIII (Gennaio 1929), pp. 83-89. Per la ricostruzione dei percorsi (or­ mativi di Turner e del composito retroterra culturale c disciplinare della sua visione di storico si vedano: Fulmer Mood, The Development of Frederick Jackson Turner as a Hi­ storical Thinker, "Colonial Society of Massachusetts, Transactions”, XXXIV, (Dicem­ bre 1939), pp. 238-52; William Coleman, Science and Symbol in the Tit me r Frontier Hy­ pothesis, "American Historical Review”, LXXII, I (Marzo 1966), pp. 22-49; Billington, The Genesis of the Frontier Thesis, cit.; Richard Hofstadter, The Progressive Historians: firmer, Beard, Parrington, Vintage Books, New York 1970, pp. 3-164. A proposito di aspetti importanti non trattati qui, cui si collegano le questioni allora molto dibattute della chiusura della frontiera come scomparsa della “valvola di sicurezza" e delia op­ portunità di porre freni all’immigrazione, si vedano almeno: Fred Shannon, A PostMortem on the Labor-Safely-Valve Theory, "Agricultural History”, XIX (Aprile 1945), pp. 31-7; Norman J. Smiler, The Safety-Valve Doctrine Re-Evaluated, "Philosophical Review”, XXXII, 4 (Ottobre 1958), pp. 250-57; David M. Wrobel, The Closing Gates of Democracy: Frontier Anxiety Before the Official End of the Frontier, “American Stu­ dies”, XXXII, 1 (Primavera 1991 ), pp. 49-66. Bellesiles, Ou Burying Frederick Jackson Turner, cit., p. 4.

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IM Sul carattere metaforico e simbolico dei termini citati, e in genere del linguaggio turneriano, si veda Merrill Lewis, Language, Literature, Rhetoric, and the Shaping of the Historical Imagination of Frederick Jackson Tumer, “Pacific Historical Review”. XLV, 3 (Agosto 1976). pp. 399-427. 2n La non facile strada verso la riunificazionc, dopo la Guerra civile, è quella di cui scrive Paul H. Buck. The Road to Reunion, 1869-1900, Little. Brown & Co., Boston 1938. 21 Wilbur R. Jacobs, The Great Despoliation: Environmental Themes in American Frontier History, "Pacific Historical Review”, XXXXVI1,1 (Febbraio 1978). p. 5. 22 Sull'autocoscienza nazionale, si veda Tiziano Bonazzi, Frederick Jackson Turner’s Frontier Thesis and the Self-Consciousness of America, “Journal of American Studies”, 2(l993).pp. 149-71. 2' Nell’anno 1900, nel miglio quadrato dei recinti erano ospitati giornalmente 75.000 bovini, 80.000 ovini, 300.000 maiali e 6000 equini e il numero di maiali macel­ lati ogni giorno si aggirava intorno a 40.000. Oltre un terzo della popolazione di Chi­ cago dipendeva direttamente o indirettamente dalle attività dei macelli e dell indu­ stria delle carni. Si veda Charles J. Bushnell, Some Social Aspects of the Chicago Stock Yards. Chapter 1. Industry at the Chicago Stock Yards, “The American Journal of Socio­ logy”, VIL 2 (Settembre 1901), pp. 149,146. Sulla fisionomia sociale e sulla reputazio­ ne di Chicago nell’anno dcll'Esposizione, si veda William T. Stead, If Christ Came to Chicago, Laird & Lee, Chicago-London 1894. Sulle dinamiche politico-amministrati­ ve, si veda Lloyd Wendt e Herman Kogan, Bosses in Lusty Chicago, Indiana University Press, Bloomington-London 1974 (led. come Lords of the Levee, 1943). Si veda inoltre James Gilbert, Perfect Cities: Chicago's Utopias of 1893. University of Chicago Press, Chicago-London 1991. 2* Sull’ideologia del "destino manifesto", la cui prima formulazione risale al 1845 e all’annessione del Texas, si vedano almeno Frederick Merk, Manifest Destiny and Mis­ sion in American History, Vintage, New York 1963; Anders Stephanson, Manifest De­ stiny: American Expansion and the Empire of Right, 1995 (tr. it. Destino Manifesto. L'espansionismo americano e l'impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004). La definizione di "razza conquistatrice" è del sen. Albert Beveridge: Siamo una razza conquistatrice, discorso del 1898, in Pieno Bairati, a cura di, l profeti dell'impero americano, Einaudi, Torino 1975, pp. 241-45. Sulla corruzione politica e amministrativa 1 riferimenti d’obbligo sono al libro di Lincoln Steffens, The Shame of the Cities, Hill and W’ang, New York 1957 (1904) e alla pubblicistica primonovecentesca dei muckrakers. 2S Hofstadter. The Progressive Historians, cit., è severo: “Quasi tutto quello che Tur­ ner scrive su Jefferson, nonostante il fatto che in gran parte rientri nel vangelo nazio­ nale, è malamente sfocato, o è una ingannevole mezza verità, oppure è del tutto sba­ gliato"; (pp. 133-34). In merito alla democrazia jacksoniana, Hofstadter sottolinea soltanto che pur avendo il suo alfiere in Andrew Jackson, uomo deli’Ovcst, essa fu un movimento nazionale, piuttosto che "sezionale”. La brevità dell'accenno permette a Hofstadter di non discutere la politica indiana di Jackson e il suo favore nei confronti dell'espansione della schiavitù. 2h In merito si veda Richard Slotkin, Regeneration Through Violence: The Myth of the American Frontier, 1600-1860, Wesleyan University Press. Hanover, Nil 1973. 27 Un'epica particolare, tuttavia, per quanto riguarda TUrner, nella quale l'eroe (il bianco anglosassone conquistatore) mancava dell’antagonista (l’indiano). In ciò era forse la diversità maggiore rispetto al Roosevelt di The Winning of the West. che invece faceva dell'antagonismo e della lotta contro gli indiani - disprezzati, ma necessaria­ mente feroci c valorosi in guerra - un motivo centrale della sua ricostruzione, mollo più chiaramente plasmata sui modelli dell’epica tradizionale, oltre che, bisogna dire, sui fatti della realtà storica su cui Tumer invece sorvola. 2* Richard White dedica alla violenza razziale nei confronti degli indiani un capito­ lo del suo "it's Your Misfortune and None of My Own”: .4 New History of the American IVwZ. University of Oklahoma Press, Norman-London 1991. 29 A partire dalla controversa definizione dei confini della "Louisiana", comperata nel 1803 dalla Francia e maggiore acquisizione territoriale nei primi cinquantanni di vita degli Stati Uniti, e dalle vicende che riguardarono la Florida. Si veda David J. We­ ber. The Spanish Frontier in North America, Yale University Press, Yale-London 1992.

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Patricia Nelson Limerick, The Legacy of Conquest: The Unbroken Past of the Ame­ rican West, W.W. Norton, New York-London 1987, p. 84. M Weber, The Spanish Frontier in North America, cit., p. 296. Si veda anche Id., The Mexican Frontier, 1821-1846: The American Southwest Under Mexico, University of New Mexico Press, Albuquerque 1982. Di questo, del "Santa Fe Ring" (di cui facevano parte Catron e Elkins) e della que­ stione della terra in New Mexico, incluse le rivolte degli espropriati, si tratta più este­ samente in Bruno Cartosio, Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti e scrit­ tori nel Sudovest 11846-1930), Giunti, Firenze 1999 e in Id., Contadini e operai in rivol­ ta. Le Gorras blaucas in jVew Mexico, Shake Edizioni, Milano 2003, in cui sono presen­ ti ampi riferimenti bibliografici. M "Gazette" cit. in William A. Keleher, The Fabulous Frontier: TWelve New Mexico Items, Rydall Press, Santa Fe 1945, pp. 50-51. John S. Chisum mori nel 1884. M Howard Roberts Lamar, The Far Southwest, 1846-1912: A Territorial History, W.W. Norton, New York 1970; John Bracman, Albert J. Beveridge and Statehood for the Southwest. 1902-1912, “Arizona and the West", X, 4 (Inverno 1968). pp. 313-42; Ri­ chard Melzer, New Mexico in Caricature: Images of the Territory on the Eve of Sta­ tehood, "New Mexico Historical Review", LXI1,4 (Ottobre 1987), pp. 335-60. M Limerick, The Legacy of Conquest, cit., p. 23. Lewis Atherton, The Cattle Kings, In­ diana University Press, Bloomington 1961, p. 207; a p. 215 un'esemplificazione della complessità delle strutture finanziarie: "In realtà, lo XIT Ranch non era un’istituzione inglese. Era un consorzio [syndicate] statunitense, che aveva venduto la terra a una so­ cietà per azioni [corpora/ionj inglese, che per un certo periodo aveva uscito la terra co­ me garanzia fsecnri/v) per ottenere fondi dagli investitori inglesi. U gruppo inglese af­ fittava poi la terra alla corporation statunitense che amministrava tanto la costruzione del Campidoglio statale del Texas, quanto lo sviluppo del grande XIT Ranch". Sulla proprietà dello XIT Ranch, oltre che sui rapporti tra finanza c allevamento, si veda an­ che Gene M. Gressley, Bankers and Cattlemen, University of Nebraska, Lincoln 1966, pp. 102-3. David Hamilton Murdoch, The American West; The invention of a Myth, Welsh Academic Press, Cardiff 2001, p. 5. Secondo Lewis Atherton, The Cattle Kings, cit., pp. 190-91, nel coreo degli anni Ottanta, i capitali britannici investiti nell'allevamento sta­ tunitense ammontavano probabilmente a 45 milioni di dollari. ” Rodman Paul, The Far H'c’.vt and the Great Plains in Tritnsitiou, 1859-1900, Univer­ sity of Oklahoma Press, Norman 1998, p. 200. w Murdoch, The American West, cit., pp. 5-6; Patricia Nelson Limerick, Making the Most of Words: Verbal Activity and Western America, in William Cronon, George Miles e Jay Gitlin, a cura di. Under an Open Sky: Rethinking Americas Western Past, W.W. Nor­ ton, New York 1992, pp. 167-84. ” Ernest Staples Osgood, The Day of the Cattleman, University of Chicago Press, Chicago 1968 (1929), p. 125; Taft Alfred Larson, History of Wyoming, University of Ne­ braska Press, Lincoln 1990 (1965), pp. 272-94. 40 Atherton. The Cattle Kings, cit.; Murdoch. The American West, cit.. pp. 5-6. 41 Malcolm J. Rohrbough, The Land Office Business: The Settlement and Administra­ tion of American Public Lands, 1789-1837, Oxford University Press, New York 1968, pp. 299, 298, cit. in Limerick, The Legacy of Conquest, cit., p. 61; Atherton, The Cattle Kings, cit., pp. 43-46. 42 Richard Slotkin, The Fatal Environment: The Myth of the Frontier in the Age of In­ dustrialization, 1800-1890, New York, Harper, 1994, pp. 43-44. 44 Frederick J. Turner, The Significance of History ( 1891), in Id_ Rereading Frederick Jackson Tltmer: The Significance of the Frontier in American History, and Other Essays, with commentary by John Mack Faragher, H. Holt, New York 1994, pp. 18,23.

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DAGAS, PISTOLAS Y CUERNOS DE CHIVO: LA RAPPRESENTAZIONE DEL RIBELLE E DEL FUORILEGGE MESSICANO NEL CORRIDO DI FRONTIERA

Erminio Corti

Il corrida è un genere musicale tipicamente messicano1 che assume la forma della ballata narrativa. Il suo nome deriva dal verbo correr e si riferisce al ritmo piuttosto incalzante della musica e delle liriche che caratterizzano questo tipo di composizione.2 Secondo l’opinione dei maggiori esperti, il corrida, che diventa molto popolare a comin­ ciare dai primi decenni del Novecento, discenderebbe dal romance, un'antica forma di ballata di origine spagnola, introdotta e resa po­ polare nelle colonie americane già a partire dalla Conquista. Più controversa è invece la questione relativa al luogo e al periodo in cui sarebbero apparsi i primi corridas. Il musicologo Vicente T. Mendo­ za sosteneva che il corrido avesse avuto origine nel sud del Messico alla fine dell’ottocento;5 ricerche più recenti condotte dallo studioso chicano Americo Paredes dimostrerebbero invece che la tradizione del corrido risale alla prima metà dell’ottocento e si sviluppò nelle regioni settentrionali del Messico, che oggi corrispondono alla fascia di confine con gli Stati Uniti, per poi diffondersi altrove.4 Il corrido standard è costituito da quartine ottosillabiche che se­ guono uno schema di rime "abcb” e sono accompagnate da una mu­ sica con un ritmo ternario di 3/4 o 6/8; sono tuttavia attestati nume­ rosi corridas che adottano uno schema strofico di sei versi, come quello che celebra le gesta del bandolero Joaquin Murrieta, di cui tratteremo più avanti/ Le strofe di apertura in genere introducono l’argomento e contestualizzano la narrazione, che in seguito viene sviluppata, spesso riportando anche le parole del protagonista. Pri­ ma dellavvento dell’industria discografica, i corridas venivano com­ posti da musicisti dilettanti e si diffondevano attraverso le interpre­ tazioni di cantori che viaggiavano di villaggio in villaggio, raggiun­ gendo anche le comunità rurali più isolate. Si tratta quindi di un ge­ nere marcatamente popolare e che in prevalenza ha come soggetto temi, fatti di cronaca ed eventi importanti che riguardano in modo diretto la collettività a cui il cantore si rivolge. Per questa ragione, il corrido presenta due caratteristiche notevoli: da un lato, costituisce una vera e propria forma di comunicazione di massa, che in una so41

cictà rurale prevalentemente analfabeta sostituiva la calla stampata; dall’altro tende a riflettere i valori dominanti, le opinioni e le istanze sociali della comunità da cui nasce e a cui si rivolge. Nelle province settentrionali del Messico, il corrido si sviluppa in un periodo storico decisamente travagliato che determina un muta­ mento profondo dell’assetto geopolilico e sociale della regione. Con la guerra del 1846-48, il Messico perde infatti circa la metà del suo territorio che viene acquisito dagli Stati Uniti. Come conseguenza, anche le popolazioni messicane da secoli stanziate nella regione si trovano improvvisamente a vivere in una nazione diversa. La colo­ nizzazione angloamericana del Sudovest determina per queste co­ munità di cultura messicana trasformazioni drammatiche nelle abi­ tudini di vita. I coloni angloamericani, sostenuti dalle istituzioni, tendono a manifestare un atteggiamento di disprezzo e di discrimi­ nazione verso le popolazioni "conquistale”, nei confronti delle quali esercitano forti pressioni politiche ed economiche. Molte famiglie di origine messicana perdono i loro beni e subiscono violenze o intimidazioni. Più in generale, le comunità messicoamericane si trovano ad affrontare in questo incontro-scontro etnico un conflitto sociale e culturale le cui gravi conseguenze, in termini di subordinazione alla società dominante anglo, segnano la storia del Sudovest fino a oggi, anche se le lotte civili degli anni Sessanta cambiano in parte questa situazione. Il primo corrido epico-eroico che nasce da questo contesto e che presenta la figura del bandito ribelle messicoamericano è quello de­ dicato a Joaquin Murrieta. Il protagonista di questa famosa ballata, che presenta numerose varianti e che a partire dalla nasci­ ta dell’industria discografica ha avuto molti interpreti, è una figura storica realmente esistita. Tuttavia, nella rappresentazione che ne dà l'anonimo corridista che lo ha composto, Murrieta assume con­ notazioni leggendarie. In palle, questa dimensione leggendaria di­ pende dall'incertezza e dalla scar­ sità delle notizie biografiche sul personaggio. Solo per fare un esempio, persino la sua nazionalità non è certa. Secondo alcuni Mur­ rieta era un messicano originario dello stalo di Sonora, e come tale viene presentato nel corrido. Se­ condo altri era invece originario Poster che pubblicizza {’esposizio­ del Cile, e in questo senso lo cele­ ne della lesta di Murrieta a Stock- bra ad esempio Pablo Neruda nella sua unica opera teatrale intitolata ton nel 1853. 42

Fulgory ntuerte deJoaqutn Murieta, portata sul palcoscenico nel 1967 dal regista Pedro Orthous.6 Testo che, a sua volta, è stato adattato, musicato e interpretato dal cantan­ te e compositore uruguaiano Ma­ nuel Picón.7 La figura del bandolero compare anche come personaggio nella terza parte (* 1850-1853") del romanzo Hija de la fortuna di Isabel Allende? La vicenda di Joaquin Murrieta ha come scenario la California e si svolge in un momento chiave per la storia dell’Ovesl americano. Siamo esattamente alla metà del xix seco­ lo e gli Stati Uniti hanno da poco strappato al Messico un territorio X Till. MS HtlllBEII vastissimo c da colonizzare, che dal Texas si estende fino alla costa del Pacifico. Il 24 gennaio del 1848, po­ Incisione di Thomas Armstrong chi giorni prima della firma del pubblicata il 22 aprile 1853 sul "Union Steamer Edition"di Sacra­ trattato di resa del Messico, si mento. diffonde la notizia che in California è stato scoperto l'oro. Migliaia di aspiranti minatori, di coloni e di avventurieri attirati dalla prospetti­ va di un arricchimento facile si riversano nella regione. Molti sono stranieri e di questi la maggior parte proviene dal vicino Messico. Tra di loro ce anche Murrieta, che nel 1850, come ci racconta il cor­ rido, è venuto in California in compagnia del fratello e della moglie per cercare oro y riquezas’’. Ma il 1850 fu anche l’anno in cui il governo degli Stati Uniti, per fa­ vorire la colonizzazione angloamericana del territorio, promulgò una legge (Foreign Miners Tax Law) che penalizzò fortemente sul pia­ no economico i cercatori d’oro stranieri. Questo provvedimento che aggravò i conflitti già esistenti tra gli angloamericani e gli altri gruppi etnici spinse molti immigrati di origine messicana ad abbandonare la ricerca dell’oro per dedicarsi ad altre attività più redditizie. Com­ prese quelle illegali, come il banditismo. Le autorità angloamericane usarono in modo strumentale il fenomeno del bandolerisnio per fo­ mentare nell'opinione pubblica un atteggiamento ostile e razzista verso la popolazione di origine messicana. Anche molti immigrati che nulla avevano a che fare con il banditismo furono vittime di vio­ lenze e sopraffazioni da parte dei coloni statunitensi. Questo è il con­ testo storico e sociale in cui nasce la figura e la leggenda di Murrieta. Il nome di Murrieta inizia a comparire nelle cronache e nei docu­ menti ufficiali soltanto nel 1853 e si riferisce alle gesta di un crimina­ le di origine messicana che con la sua banda terrorizzava la regione 43

settentrionale della California. Di fronte a questa minaccia, il gover­ natore dello stato mise una taglia sulla sua testa e incaricò una pattu­ glia di ranger comandata dal capi­ tano Harry Love di dare la caccia al bandito e di catturarlo vivo o mor­ to. Nel mese di luglio del 1853 i ran­ ger si imbatterono in un gruppo di messicani che conduceva una man­ dria di cavalli. Iniziò un conflitto a fuoco e quattro messicani vennero uccisi. Il capitano Love, che inten­ deva intascare la taglia, affermò di aver catturato il bandito Joaqufn Murrieta e come prova decapitò uno dei corpi. La testa verrà con­ servata in alcool, consegnata alle autorità e negli anni successivi esi­ bita come macabro trofeo in molte Disegno del pittore Charles C. Nahl cittadine della California. che ritrae tot “demoniaco” Joaquin Nel 1854 John Rollin Ridge, di Murrieta 11875). stirpe cherokee e considerato il pri­ mo scrittore nativo americano, pub­ blicò una biografia decisamente romanzata di Murrieta che contribuì a rendere ancora più popolare la sua figura.9 La fama sinistra di cui il bandito godette nell immaginario angloamericano è testimoniata anche da alcuni suoi ritratti che lo mostrano come un personaggio truce. In una tavola del 1875 il pittore Charles Christian Nahl lo rap­ presenta come un giovane cavaliere dallo sguaixlo demoniaco che brandisce un pugnale. Ma mentre fra gli angloamericani Murrieta di­ venta l’archetipo del malvivente messicano implacabile e crudele, tia i messicani inizia invece a diffondersi una leggenda di segno opposto che vede in lui una sorta di eroe difensore dei più deboli che ha in­ trapreso la strada della violenza e dell'illegalità per vendicare i torti subiti dai propri compatrioti. Ed è in questa veste di "Robin Hood del­ la California’’ della corsa all oro che Murrieta appare nel collido che porta il suo nome.10 Secondo l’opinione di Luis Leal, la canzone fu composta da un au­ tore anonimo pochi anni dopo gli eventi e presenta il protagonista che racconta direttamente la sua vicenda." In questa narrazione liri­ ca compaiono molti elementi che connotano l’indole intrepida e fie­ ra dell’eroe e che diventeranno poi comuni nei corridas epici dei de­ cenni successivi. Anzitutto Murrieta viene presentato come un uomo passionale e generoso, animato da nobili sentimenti: "L'indio povero e semplice / lo difesi con fierezza /[...] Ai ricchi avari, / io tolsi il loro denaro. / Davanti ai poveri e agli umili / mi tolsi sempre il cappello”. È venuto in California a cercare fortuna, ma ha visto il fratello e la 44

moglie morire assassinati per mano di angloamericani: "Mio fratello lo uccisero. / E mia moglie Carmelita, / codardi l’assassinarono”. In­ dignato e accecato dal dolore decide di farsi giustizia da solo: “Vengo a vendicare mia moglie, / e lo ripeto, / Carmelita tanto bella, / quanto la fecero soffrire”. La vendetta di Murrieta inizia come un regola­ mento di conti personale con un ufficiale della polizia statunitense ("Tu devi essere quel capitano / che ha ucciso mio fratello. / Lo sor­ prendesti disarmato, / arrogante americano”) ma finisce per assu­ mere i connotati di una rappresaglia etnica di proporzioni iperboli­ che ("Girai per i saloon, / castigando gli americani / [...] La mia car­ riera iniziò / in una circostanza terribile. / Quando arrivai a settecen­ to vittime / il mio nome era temuto. / Quando arrivai a milleduecento / il mio nome terrori zzava”). L’eroe identifica nell’angloamericano il nemico e l'oppressore al quale bisogna dimostrare con i fatti che i suoi pregiudizi nei confronti dei messicani, ritenuti spregevoli e vi­ gliacchi, sono infondati. Murrieta viene quindi rappresentato come un uomo indomabile e valoroso, così audace e forte da umiliare i propri avversari: “Qualun­ que americano / faccio tremare ai miei piedi / [...] Io sono colui che doma / anche i leoni dell’Africa. / Per questo me ne vado in giro / ad ammazzare americani. / Questo è ormai il mio destino. / Quindi gente fate attenzione’”. L'immagine dcll'angloamericano tremante di paura ai piedi di Murrieta è particolarmente significativa perché rappre­ senta il rovesciamento di quella condizione di inferiorità e di sotto­ missione in cui, negli Stali Uniti, la popolazione di origine messicana viveva quotidianamente. Così come è significativo il fatto che il pro­ tagonista del corrido esprima una forma di resistenza alla conquista angloamericana nel momento in cui rivendica come messicani quei territori che con la fine della guerra del 1846-48 erano diventati statu­ nitensi: "Non sono né cileno né straniero / in questa terra che calpe­ sto. / La California appartiene al Messico / perché così Dio volle". Nel “Corrido de Joaquin Murrieta” l'eroe presenta anche altri ele­ menti che diventeranno comuni nei corridas epici della frontiera e, più tardi, nei corridas che evocheranno le gesta di contrabbandieri e narcotrafficanti. Si tratta di prerogative caratteriali che implicano una celebrazione del machismo e dei valori legati alla cultura pa­ triarcale: il senso dell’onore e della lealtà, la capacità di affrontare l’avversario a viso aperto, il dovere di proteggere in ogni modo la donna e la famiglia. In questo contesto culturale si inquadra anche l’esaltazione della violenza e delle armi, a cui il vero macho ricorre per difendere fino alle estreme conseguenze i propri diritti: “Le pi­ stole e i pugnali / per me sono giocattoli. / Pallottole e coltellate, / mi fanno sghignazzare". Non è dato sapere fino a quale punto la figura di Murrieta e la ri­ costruzione della sua vicenda così come appaiono nel corrido siano il frutto di una mitopoiesi collettiva o abbiano invece un fonda­ mento storico attendibile. È tuttavia significativo il fatto che questa composizione abbia avuto una grande popolarità e sia stata tra­ 45

mandata oralmente per oltre mezzo secolo, fino alla nascita dell'in­ dustria discografica; e ciò rivela come nell’icona del bandito ribelle che difende i deboli e punisce gli arroganti la comunità messicana avesse proiettato il suo bisogno di trovare una forma di resistenza attiva ai soprusi e alla discriminazione di cui era vittima in territo­ rio statunitense. Del resto, non furono soltanto i messicani a subire il fascino della figura di Joaquin. Horace Bell, un angloamericano che in gioventù prestò servizio tra le file dei Los Angels Rangers che diedero la caccia al bandito, nelle sue memorie pubblicate nel 1881 esprime infatti un senso di ammirazione per il coraggio e l’intelligenza di Murrieta e af­ ferma che il personaggio dovrebbe essere considerato non un sem­ plice delinquente ma, piuttosto, un potenziale capo rivoluzionario.' *

Come già accennato, nella seconda metà dell'ottocento il corrida epico ebbe una notevole popolarità, soprattutto fra la popolazione rurale. Furono infatti scritte numerose composizioni, diventate più o meno famose, che celebravano le gesta drammatiche di uomini va­ lorosi di origine messicana che si opposero con le armi alle violenze e alle sopraffazioni di cui furono vittime da parte degli angloameri­ cani e in modo particolare dei Texas Rangers. Il più classico di questi corridos che mettono l’accento sul conflitto etnico e sociale tra anglos e chicanos che si sviluppò soprattutto nella fascia di confine degli Stati Uniti con il Messico è quello dedicato a Gregorio Cortez. L’anno esatto della sua composizione non è cono­ sciuto, ma probabilmente fu scritto poco tempo dopo che si svolsero i fatti. La prima registrazione su disco di una delle sue numerose ver­ sioni risale al 1928 e fu eseguila da Pedro Rocha e Lupe Martinez.” A differenza del corrida di Murrieta, quello incentrato sulla figura di Gregorio Cortez si basa sulla ricostruzione di una vicenda ben do­ cumentata che trova riscontri oggettivi nelle fonti storiche (cronache giornalistiche, atti ufficiali delle autorità, testimonianze dirette rac­ colte dagli studiosi). Sappiamo infatti che il protagonista era nato in Messico nel 1875 e che quando era ancora adolescente si era trasferi­ to insieme alla famiglia nel Texas, nei pressi di Austin. Qui aveva ini­ ziato a lavorare come bracciante e vaquero in alcuni ranch della re­ gione. Nel 1901, aveva deciso insieme al fratello di intraprendere l’at­ tività di allevatore in proprio. Nonostante avesse avuto alcuni con­ trasti con altri allevatori angloamericani, Cortez era una persona benvoluta e stimata per la sua serietà e ottenne facilmente l'affìtto di alcuni terreni nella contea di Karnes, sui quali costruì la propria fat­ toria, nella quale andò a vivere con la moglie e i figli. La vicenda drammatica di Cortez iniziò la sera del 12 giugno 1901, quando lo sceriffo Morris, che aveva ricevuto l'ordine di cercare e catturare un ignoto ladro di cavalli che si supponeva fosse di origine messicana, si presentò al suo ranch. Lo sceriffo era accompagnato da un aiutante che doveva fungere da interprete. In realtà l'aiutante conosceva male lo spagnolo e quando iniziò a parlare con Cortez, che si trovava nella 46

veranda a riposare insieme alla moglie, ai figli e al fratello, si innescò un malinteso. Lo sceriffo si era fatto l'idea che l'allevatore fosse im­ plicato nel furto del cavallo e attraverso l’interprete disse a Cortez che avrebbe proceduto al suo arresto. Cortez rispose che non poteva essere arrestato per qualcosa che non aveva commesso. Ma l’inter­ prete riportò male le parole di Cortez e lo sceriffo credette di capire che l’uomo stava mettendo in discussione la sua autorità di rappre­ sentante della legge e voleva opporre resistenza. Per questa ragione estrasse la pistola e vedendo che di fronte a tale gesto il fratello di Cortez gli si era avvicinato, sparò prima a lui e poi a Cortez. Il fratel­ lo cadde ferito mentre Gregorio, che era rimasto illeso e che come qualsiasi cittadino girava armato, rispose prontamente al fuoco uc­ cidendo lo sceriffo. Consapevole del fatto che per aver ucciso un angloamericano, per di più un tutore dell’ordine, sarebbe stato probabilmente linciato, af­ fidò il fratello morente ad alcuni conoscenti, salì sul suo cavallo e iniziò una fuga epica. Percorse quasi 700 chilometri braccato da nu­ merose squadre di ranger che affrontò da solo in ripetuti conflitti a fuoco, nel corso dei quali uccise un altro sceriffo e un agente. Per dieci giorni riuscì a sottrarsi alla cattura, ma quando venne a sapere che la moglie e i figli in tenera età erano stati incarcerati e rischiava­ no di subire ritorsioni, decise di arrendersi. Dopo la resa Cortez fu processato e in prima sentenza condannato a 50 anni di carcere. Il suo caso mobilitò la comunità messicana da un lato e dall’altro del confine, che raccolse il denaro necessario per patrocinare la difesa e sostenere la famiglia. Il processo fu sottopo­ sto a riesame, ma alla fine dell’istruttoria il tribunale confermò il verdetto di colpevolezza e condannò Cortez all'ergastolo, non per l’uccisione di Morris (venne riconosciuto il diritto di legittima dife­ sa) ma per l'omicidio volontario del secondo sceriffo e del ranger. Nel 1913, dietro richiesta di un comitato di messicani e chicani che aveva presentato istanza di scarcerazione, il senatore angloamerica­ no del Texas concesse a Cortez la grazia. Anche nel “Corrido de Gregorio Cortez”, così come in quelli della tradizione precedente dedicati a Murrieta e ad altri personaggi di origine messicana che si ribellarono alle discriminazioni e alle vio­ lenze degli angloamericani, il dramma individuale del protagonista e la sua resistenza agli abusi subiti assumono una valenza colletti­ va.14 Il corrido epico è una forma espressiva che nasce all’interno di una comunità etnica, e in quanto tale diventa il veicolo dei sentimen­ ti, delle aspirazioni e delle rivendicazioni di questa stessa comunità. Nel canto del corridista, il conflitto che l’eroe affronta trascende così la dimensione personale, privata, per diventare la vicenda tragica in cui tutti si possono identificare, perché tutti sanno che la realtà osti­ le in cui vivono minaccia in qualsiasi istante di coinvolgerli in eventi altrettanto drammatici. Per questa ragione il "Corrido de Gregorio Cortez" si gioca su una contrapposizione netta, e quindi facilmente comprensibile, fra il 47

protagonista - che con i suoi attributi e le sue azioni incarna il bene e coloro che lo perseguitano - i quali invece incarnano il male. Così, da un lato abbiamo l’eroe solitario, vittima dell’ingiustizia e che può contare esclusivamente sulle sue forze, e dall’altro la massa di coloro che lo braccano: "Nel recinto del ranch / riuscirono a circondarlo. / Erano più di trecento uomini, / ma lui saltò lo staccato e gli sfuggì”. Un confronto epico che evoca le canzoni di gesta dell’Europa medie­ vale. Allo stesso modo vi è una contrapposizione di natura etica tra le motivazioni che sostengono Cortez, cioè il desiderio di affermare la propria innocenza e il proprio diritto a esistere (“Diceva Gregorio Cortez, / con l’animo accalorato: / ‘Non sono dispiaciuto di averlo uc­ ciso, / difendersi è legittimo'), e le motivazioni venali che animano invece i suoi inseguitori (“Gli americani si misero sulle sue tracce / veloci come il vento, / perché avrebbero intascato / una ricompensa di 3.000 pesos"). Infine vi è quella contrapposizione fondamentale che caratterizza quasi tutti i conidos nei quali viene messo in scena uno scontro tra messicani e angloamericani. E cioè la contrapposi­ zione fra la destrezza e il coraggio dell’eroe (“Diceva Gregorio Cor­ tez, / con la pistola in mano: 'non fuggite ranger codardi, / davanti a un messicano solo’. / Andò verso Laredo / senza nessuna paura: / ‘in­ seguitemi Ranger codardi, ! io sono Gregorio Cortez”') e l’inettitudi­ ne c la pusillanimità mostrata dai ranger (“Lui fuggì verso Gonzàlez. / Molti sceriffi lo videro, / ma non vollero inseguirlo / perché ne ave­ vano paura. / [...]”, e ancora "Dicevano gli americani: ì ‘Cosa faremo se lo troveremo? / Se lo affrontiamo a viso aperto / solo pochi di noi se la caveranno”’). Sia nel corrido di Gregorio Cortez sia in quello coevo dedicato a Jacinto Trevifìo15 -così come nelle composizioni più arcaiche nelle quali si narrano le gesta di valientes di stirpe messicana come Mur­ rieta, Juan Collina,16 José Mosqueda17 o Rito Garcfalfl - il valore del protagonista nel suo confronto con l’angloamericano si manifesta attraverso l’abilità nell'uso delle armi, che diventano un'estensione della sua persona e della sua volontà. Le ragioni di Cortez vengono sì espresse attraverso la sua voce (“Decfa Gregorio Cortez...”), ma il corrìdista non manca di ricordare al pubblico che il peso delle parole del protagonista (e insieme la sua caratura di “mero macho”) è ga­ rantito dalla pistola che impugna. Quella stessa pistola che anche neH’immaginario altrettanto maschilista (sebbene non di stampo pa­ triarcale) del West angloamericano rappresenta il metro di misura del valore dell’individuo ed è garanzia delle sue ragioni. A cominciare dagli anni Venti del Novecento, la produzione del corrido epico o corrido de valientes, come lo definisce Mendoza, si trasforma in modo significativo. Da un lato si assiste alla scompar­ sa della figura del bandolero ribelle che nell'immaginario messicoamericano incarnava valori come l’orgoglio etnico e la resistenza at­ tiva alle sopraffazioni degli angloamericani. Dall'altro, questo sog­ getto eroico viene sostituito da figure di fuorilegge che si scontrano sì con i tutori dell’ordine, su ambedue i lati della frontiera, ma per 48

ragioni che sono legate essenzialmente alle loro attività criminali connesse al contrabbando. Inizia così a diffondersi una tradizione del corrida che ha come soggetto le imprese dei contrabandistas, e in particolare dei trafficanti di sostanze stupefacenti. È una tradi­ zione che percorre tutto il secolo e che, soprattutto a cominciare dagli anni Settanta, dà origine al fenomeno del narcocorrido, un sottogenere che raggiunge una grande diffusione grazie ad alcuni interpreti molto popolari. Il corrida de contrabandistas appare già alla fine dell’ottocento, quando il traffico illegale era costituito soprattutto da beni di lusso rubati negli Stati Uniti e importati di frodo in Messico. Un esempio che risale circa al 1900 è costituito dal corrido che rievoca la morte di Mariano Reséndez, contrabbandiere di tessuti di pregio ucciso a sangue freddo dalla polizia per prevenire una sua possibile reazione violenta durante la cattura. Nei decenni successivi, il traffico a cui si dedicano i contrabban­ dieri diventa quello ben più redditizio, nonché molto rischioso, delle sostanze illegali che hanno un fiorente mercato nero negli Stati Uni­ ti. Durante il Proibizionismo, il contrabbando riguarda essenzial­ mente gli alcolici. “Los Tequileros", che risale agli anni Venti, è ap­ punto uno dei corridos più famosi che rievoca una vicenda di sangue legata all’esportazione clandestina di liquori attraverso la frontiera del Rio Grande.11* Vi si narra di tre messicani, “gallos finos” di Guer­ rero diretti a San Diego con il loro carico illegale, i quali, poco dopo aver attraversato il confine vengono intercettati dai ranger statuni­ tensi e uccisi a sangue freddo. In questo caso, a differenza di quanto accade nei narcocorridos, la morte dei contrabbandieri non avviene durante uno scontro armato in cui i malviventi rispondono pistola in pugno al fuoco della polizia. Secondo quanto racconta il corrìdista, i tre uomini sono stati traditi da una soffiata’, appaiono disarmati e vengono abbattuti senza pietà da una pattuglia di "rinches desdichados”, come il cacciatore fa con la sua preda: “I ranger sono molto coraggiosi / non c'è alcun dubbio, / cacciano i banditi come fossero cervi / per riuscire a ucciderli”. La narrazione della vicenda mette però l’accento su due aspetti che so­ no tipici del corrida epico-eroico tradizionale: la spietatezza e la vi­ gliaccheria dei tutori dell ordine che si contrappongono al valore del bandito messicano. I “rinches cobardes” che tendono l’imboscata vengono infatti rappresentati come una forza schiacciante che ucci­ de con una freddezza disumana; al contrario, il contrabbandiere Sil­ vano Garcia manifesta il suo coraggio e una forma di integrità mora­ le nel momento in cui, benché disarmato e ferito, sfida gli agenti di­ chiarando che morirà piuttosto che collaborare e fare la spia: “Silva­ no con due proiettili in corpo ! continuò a parlare: / Ammazzatemi ranger vigliacchi / così non potrete più farmi domande’. / Il capitano dei ranger / si avvicinò a Silvano / e nel giro di qualche secondo / Sil­ vano Garcia morì ”. Questa rappresentazione del bandito messicano come uomo valo­ 49

roso e impavido che si contrappone al ranger angloamericano codar­ do e traditore sarà un cliché pressoché costante anche in tutta la tra­ dizione successiva del corrido del narcotraffico. Narcotraffico che inizia negli anni Trenta e che riguarda in un primo momento la ma­ rijuana e la morfina (l'amministrazione Roosevelt aveva introdotto la coltivazione del papavero da oppio in Messico per fornire l’eserci­ to di morfina), e poi più lardi soprattutto la cocaina. Nei corridos che rievocano, spesso con toni celebrativi, le gesta dei narcotrafficanti, la contrapposizione tra il coraggio del bandito messicano e la viltà del poliziotto statunitense è l’unico elemento in cui si può (almeno in parte) ravvisare quel senso di orgoglio etnico che veniva espresso nel corrido epico tradizionale. Nel narcocorrido le istanze collettive e di rivendicazione sociale scompaiono per manifestarsi invece in altri sottogeneri del corrido. I protagonisti dei narcocorridos sono indivi­ dui che agiscono per un fine personale e la cui statura eroica (o antieroica) dipende dal rispetto del codice d’onore maschilista, quindi dalla fedeltà all'organizzazione criminale a cui appartengono e dalla capacità di affrontare con spavalderia il pericolo e la morte. L’esalta­ zione del valore nel conflitto a fuoco e il culto delle armi sono due aspetti sui quali gli autori, cha a partire dagli anni Trenta non sono più cantori popolari legati alla cultura orale ma professionisti legati all’industria discografica, insistono. Ne è la dimostrazione il corrido intitolato "Pistoleros famosos”,20 una celebrazione elegiaca che rievoca le figure di famosi criminali a loro modo esemplari che tra gli anni Quaranta e Sessanta vennero uccisi dalla polizia o da rivali, spesso grazie al tradimento (“Lungo le rive del Rio Grande / da Reynosa fino a Laredo / sono scomparsi i banditi / sono scomparsi i passatori / [...] E così stanno scomparendo / tutti gli uomini più intrepidi / e tutti vengono ricordati / cantando i loro corridosMalviventi intrepidi e determinati che, come sottoli­ nea la strofa conclusiva “Morirono perché erano veri uomini / non perché erano banditi È interessante osservare come in questa e in altre composizione analoghe si manifesti, attraverso le voce del cor­ ridista e le azioni dei protagonisti, un vero e proprio culto della mor­ te v iolenta quale degna conclusione dell’esistenza del fuorilegge, so­ stanzialmente assente nelle ballate tradizionali citate in precedenza: “I pistoleros famosi / non dimenticano un'offesa / e muoiono sul cam­ po / non gli importa della vita. /1 cimiteri ne sono testimoni / è la ve­ rità non sono menzogne ”. Come già ricordato, il narcocorrido è diventato un genere molto popolare soprattutto a cominciare dagli anni Ottanta, quando il traf­ fico di cocaina dal Messico agli Stati Uniti si è intensificato, inne­ scando anche una recrudescenza delle attività malavitose che assu­ me i connotati di una vera e propria guerra, sia tra bande rivali sia, naturalmente, con le forze dell'ordine. I compositori e gli interpreti che si sono specializzati in questo ge­ nere di corridos, o che li hanno inseriti nel loro repertorio, sono in­ numerevoli e molti di loro hanno ottenuto un grande successo sia in 50

termini di vendite di dischi che di riscontro da parte del pubblico. Il più famoso ed emblematico di questi interpreti è Rosalino ‘Chalino’ Sànchez. Vale la pena di sottolineare il termine emblematico’ perché sia le vicende biografiche di Chalino sia l’immagine pubblica che il cantante si costruì nel corso della sua carriera, lo avvicinarono mol­ to ai personaggi violenti o malavitosi dei suoi conidos. Chalino Sànchez nacque nel 1961 in Messico, nello stato di Sinaloa, dove visse fino all’età di quindici anni, quando, per vendicare la vio­ lenza di cui era stata vittima anni prima la sorella, avrebbe ucciso un uomo durante un conflitto a fuoco. Per evitare possibili ritorsioni emigrò illegalmente negli Stati Uniti e si stabilì a Los Angeles. Lì, nel 1989, ebbe inizio la sua carriera professionale di musicista, costruita soprattutto attraverso esibizioni dal vivo e la diffusione radiofonica delle sue canzoni. In poco tempo, grazie a un indubbio talento e a un timbro vocale particolare, oggi molto imitato dai suoi epigoni, si im­ pose all'attenzione del pubblico ispanico locale con un repertorio piuttosto eterogeneo, che va dal genere sentimentale ai conidos tradi­ zionali della Rivoluzione messicana, ma che si caratterizza soprattut­ to per la presenza dei conidos prohibidos, sempre interpretati con una particolare carica emotiva. Il grande successo arrivò però soltanto nel 1992, e fu legato a un episodio di sangue che ebbe luogo il 19 gennaio durante un suo concerto a Coachella, in California. Quella sera, ap­ profittando deUoscurità, un uomo salì sul palco e gli si avvicinò impu­ gnando un’arma da fuoco. Per difendersi Chalino estrasse la sua pisto­ la, tuttavia l’aggressore sparò per primo due colpi che lo raggiunsero al torace. Ferito in modo non grave, il cantante non ebbe modo di ri­ spondere al fuoco, ma qualcuno raccolse la sua pistola e nel locale si scatenò una sparatoria che si concluse con un morto e undici feriti. La notizia dell’incidente ebbe una notevole risonanza nei media naziona­ li e nel giro di pochi giorni Chalino divenne un personaggio famoso anche al di fuori dell’ambito regionale e di genere a cui era rimasto fi­ no a quel momento confinato. Le piccole case discografiche per le quali aveva già inciso molto materiale sfruttarono il momento di po­ polarità del musicista ristampando e mettendo sul mercato numerosi album, che riscossero un grande successo di vendite. Chalino non ebbe tuttavia il tempo di godere dell'improvvisa fa­ ma. Soltanto pochi mesi più tardi, il 16 maggio del 1992, nei pressi di Culiacàn, in Messico, dove si era recato per tenere un concerto, ven­ ne sequestrato da alcuni sconosciuti che indossavano divise della po­ lizia federale e brutalmente assassinato. Gli autori dell'omicidio non furono mai individuati e anche i moventi rimangono oscuri. Vi è chi ha ipotizzato che Chalino fosse rimasto coinvolto in un traffico di so­ stanze stupefacenti e per questo venne liquidalo in un regolamento di conti fra bande rivali o addirittura rapito e ucciso da agenti della polizia messicana in incognito. Altri ritengono che con le sue canzo­ ni avesse in qualche modo offeso un malavitoso particolarmente su­ scettibile. O ancora che il tragico episodio debba essere ricondotto alla faida famigliare innescata dall’assassinio dell'uomo che aveva violentato sua sorella; ovvero che si sia trattato di una ritorsione le­ 51

gata all'omicidio del fratello Armando, assassinato nel 1984 in un hotel di Tijuana e che Chalino avrebbe in qualche modo vendicato successivamente. Come detto precedentemente, lo stile musicale di Sànchez si ca­ ratterizza - e questo vale in modo particolare per i suoi narcocorridos e i corridos de valientes - per l’intensità delle sue esecuzioni. Questa carica emotiva si esprime anche mediante l’artificio del racconto in prima persona da parte del protagonista del corrido, una modalità espressiva relativamente poco comune nella tradizione, ma piutto­ sto frequente nel repertorio di Chalino e di cui “El gallo de Sina­ loa”,21 una delle sue interpretazioni più popolari, è solo un esempio: Soy gallo de Sinaloa jugado cn varios palcnques, no cs porque yo Ics presuma me siguc la buena sucrtc, a lo que yo me dedico trai go cerquita la mucrtc.

Sono un duro di Sinaloa ben addestrato al combattimento, non voglio sembrare presuntuoso ma la fortuna sta dalla mia parte, a causa degli affari a cui mi dedico la morte mi cammina al fianco.

Yo me la paso en la sierra ciudadcs y rancherias, y si dicen que al Gonzdles lo busca la poi le fa me voy pa’ Estados Unidos para perdemie unosdfas.

Io vivo tra montagne città e fattorie, e se dicono che Gonzàles è ricercato dalla polizia me ne vado negli Stati Uniti e scompaio per qualche giorno.

Los de la DEA me persiguen por la invasion traen permise, se llevan la mejor parte si es que hay algun decorriiso, los gringos nunca la queman la mayorfa son macizos.

Quelli della DEA mi braccano Sono autorizzati a entrare in Messico, si accaparrano il grosso della roba quando ce da fare un sequestro, i gringos non la bruciano mai c quasi tutta gente col pelo sullo stomaco.

Yo traigo un cuemo de chivo y una Super muy bonita, me limpian bien el camino y del peligro me quitan. Si me ven en un aprieto luego la muerte vomita

Io porto sempre con me un kalashnikov e una bellissima pistola automatica, mi sgombrano per bene la strada e mi tolgono da ogni pericolo. Se vedono che mi trovo nei guai la morte mi rivomita subito.

I...J

Lo stesso Chalino tende inoltre a identificarsi in prima persona con le figure dei valientes di cui celebra le gesta o le morti violente. E in questo senso è significativo il fatto che in una composizione espressamente autobiografica quale “El corrido de Rosalino”,22 il cantante si autorappresenti compiaciuto come un uomo che "cono­ sce bene il traffico illegale / questo è risaputo", che "aveva soltanto quindici anni / quando girava armato” e dal quale i nemici si devono guardare: “attenti alla sua pistola / perché spara benissimo". Molti dei suoi narcocorridos sono dei veri e propri necrologi enco­ 52

miastici destinati a perpetuare la memoria di malviventi uccisi e si di­ ce che alcuni furono composti su commissione di loro parenti o amici. Così come si ipotizza che Chalino ebbe in qualche modo dei contatti diretti con lambiente della criminalità organizzata dedita al contrab­ bando di stupefacenti, da cui avrebbe ricevuto tangibili attestazioni di stima. Automobili ma soprattutto armi, per le quali il cantante nutriva una grande passione e che vengono ostentate sulle copertine di alcuni dei suoi dischi (solo per citare due esempi, la copertina della sua pri­ ma raccolta Trece Mejores Exitos lo rappresenta in primo piano men­ tre inserisce il caricatore nella pistola automatica che impugna, lo stesso tipo di arma che compare sulla copertina della raccolta El Gallo de Sinaloa, dove Chalino è fotografato accanto al suo pick-up). Questo modo di presentarsi al pubblico offrendo un'immagine di se stesso plasmata su quella dei protagonisti dei suoi corridos proltibidos non fu soltanto un espediente commerciale usato dopo la sua morte dalle ca­ se discografiche (comprese multinazionali del calibro di EMI/Capitol e Sony)21 per alimentare l'alone di leggendario valiente che la sua ico­ na aveva assunto neH’immaginario collettivo. La morte tragica di Chalino Sànchez appare come la conclusione inevitabile dell’esistenza di un giovane artista che, giocando a tra­ scendere il confine tra finzione e realtà, finì per immedesimarsi peri­ colosamente nelle figure e nelle imprese violente di tanti personaggi del suo repertorio musicale. Anche per questa ragione, dopo il 1992, il cantante divenne per il pubblico un oggetto di culto (persino fuori dellambito regionale o di genere a cui comunque appartiene).24 Co­ me è facile immaginare, Chalino generò una folta schiera di epigoni e imitatori, i quali non mancarono di celebrare in numerosi corridos la sua immagine di valiente.2* La tragica sorte del cantante non rima­ se un caso isolato. Anche il giovane musicista californiano Saul Vie­ ra, detto “El Cavitane ilio”, uno dei tanti 'discepoli' di Chalino, nell'a­ prile del 1998 fu assassinato, senza apparente motivo, mentre usciva da un ristorante di Los Angeles. Note 1 Esistono tuttavia in Colombia e in Venezuela forme analoghe al corrido messica­ no che presentano peculiarità proprie: "come derivazioni americane del romance spa­ gnolo, troviamo in Messico, in Colombia e in Venezuela il corrido c il galerón. [...] Il corrida messicano differisce da quello colombo-venezuelano sia per la sua struttura metrica c la sua rima caratteristica sia pcr la sua musical izzazionc”. Andres Pardo To­ var, La poesia popular colombiana y sus origenes espanoles, Ediciones Terccr Mundo, Bogotà, 1966, cap. II. 1 "Il nome del corrido messicano c molto legato alle corridas o romances andalusi, forse così chiamati in Spagna perché si cantavano con uno stile fluido, vale a dire sen­ za interruzioni, e il cui accompagnamento musicale veniva eseguito in forma agile”. Eduardo Ramirez Ramirez, El corrida tnexicano, «user.dankook.ac.kri-aaìnst/pds'EL_CORRIDO_MEXICANO%5BI%5D.doc>. ultimo accesso maggio 2008. ’ Vicente T. Mendoza, El Romance Espanoly el Corrida Mcxicano: Esludio Compa­ rativo, Universidad Naclonal Autònoma de México, México D.F., 1939; El Corrida Mexicano, Fondo de Cultura Econòmica, Mexico D.F., 1954.

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4 Amérìco Paredes, Willi His Pistol in His Hand: A Border Ballad and Its Hero. Uni­ versity of Texas Press, Austin 1958. ' A tale proposito è opportuno segnalare che lo studioso José E. Limón non consi­ dera, proprio per la struttura strafica e lo schema di rime adottato, la composizione dedicata a Joaquin Murrieta un autentico corrido. (José E. Limón, Mexican Ballads, Chicano Poems: History and Influence in Mexican-American Social Poetry, University of California Press, Berkeley 1992, pp. 117-18). Il suo giudizio viene tuttavia contesta­ to da Luis Leal attraverso un'argomentazione filologica molto minuziosa che dimo­ stra come questa ballata tradizionale debba al contrario essere considerala un corrido a tutti gli effetti (Luis Leal, ElCorrido de Joaquin Murrieta: Origen y difusión, "Mexican Studies/Estudios Mexicanos”, Vol. 11. No. 1, Winter, 1995, pp. 6-11 ). * Pablo Neruda, Fulgor y muerte de Joaquin Murieta, Zig-Zag, Santiago 1967. ’ Pablo Neruda e Manuel Picón, Fulgor y muerte de Joaquin Murieta ( 1974J, Fonomusic CD 1346. Alcuni brani musicati da Sergio Onega e inseriti dell'opera teatrale ("Asf corno hoy matan negros”, "Cucca de Joaquin Murieta” c "A Joaquin Murieta”) sono stati interpretati anche da Victor Jara e dai gruppi Quilapayùn, Inti Illimani e Cuncumén. * Isabel Allende, Hija de la fortuna, Alfaguara, Santiago 1999 (tr. it. La figlia delia fortuna, Feltrinelli, Milano 1999). * John Rollin Ridge, Life and Adventures of Joaquin Murieta: The Celebrated Califor­ nia Bandit, University of Oklahoma Press, Norman, OK 1977. 10 La prima registrazione discografica del corrido risale al 1934 e fu eseguita da Los Madrugadores-Hermanos Sanchez y Linares. Questa versione è disponibile nella rac­ colta Mexican-American Border Music, Vols. 6 di 7: Corridos di Thigedias de la Frontera, Vol. 1, ArhoolieCD 7019/7020. “ Leal, El Corrido de Joaquin Murrieta: Origen y difusión, cit. 12 "In qualunque paese dell'America eccetto gli Stati Uniti, [...] le operazioni di Joa­ quin Muriella [sicj sarebbero state nobilitate con la qualilica di rivoluzione c il loro protagonista con l'appellativo di capo dei ribelli. Poiché non vi è dubbio da parte di chi scrive che gli obicttivi di Joaquin fossero superiori a quelli della semplice vendetta e del saccheggio. Se fosse stato educato nella scuola della rivoluzione nel suo paese natale, dove la linea di demarcazione tra il ribelle e il bandito, tra il razziatore e il pa­ triota, non era ben definita, è facile im magi mi re che Joaquin si sarebbe consideralo il paladino dei propri compatrioti piuttosto che un fuorilegge e un nemico della specie umana”. Horace Bell, Reminiscences of a Ranger: Or, Early Times in Southern Califomia.'farncll, Caystilc & Mathes, Los Angeles 1881, vol. 1, cap. VII, pp. 107-8. ” Questa versione è disponibile nella già citata raccolta Mexican-American Border Music, Vols. 6 di 7: Corridos di Tragedias de la Frontera. H Non è un caso che negli anni Sessanta e Settanta, durante la fase di più intensa attività politica del Movimento Chicano, la figura di Gregorio Cortez sia diventata molto popolare in quanto simbolo di resistenza al dominio politico c culturale angloa­ mericano. Nel 1982 dalla sua vicenda è stato tratto il film The Ballad of Gregorio Cor­ tez, diretto da Robert M. Young e interpretato da Edward James Olmos. Per un'analisi di questo film si veda Giorgio Mariani, Reimmaginare il passalo, in Stefano Rosso (a cura di). Un fascino osceno, ombre corte, Verona 2006, soprattutto le pp. 127-35. ” Nato in Messico, Jacinto Trevino nel 1910 fu ritenuto responsabile dell'omicidio di James Darwin, tecnico della San Benito Land & Water Company. Nel corso di un'imboscata tesagli da una truppa di Texas Rangers Trevino uccise lo sceriffo Henry B. Lawrence c l’agente Quirl B. Cames riuscendo poi a fuggire oltre la frontiera facen­ do perdere le sue tracce (cfr. < http://www.odmp.org/officer/2805-ranger-quirl-baileycamcs >. ultimo accesso maggio 2008). 10 Juan Nepomuceno "Cheno” Cortina Goseacochea, conosciuto anche con il so­ prannome di "the Red Robber of thè Rio Grande", nacque nel 1824 da una famiglia di ricchi allevatori dello stato messicano di Tamaulipas. Con la proclamazione da parte dei coloni angloamericani della repubblica indipendente del Texas (1836), la vasta te­ nuta della famiglia fu divisa dalla nuova frontiera. Fu in questo periodo che Cortina, il quale aveva assunto la cittadinanza statunitense, iniziò la sua attività di difensore dei diritti dei texani di origine messicana. A questo fine costituì una sorta di esercito pri-

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vato per contrastare le provocazioni e gli abusi dei gringos. Nel settembre del 1859 Cortina occupò con un centinaio di uomini Brownsville, perseguitando gli abitanti angloamericani e saccheggiando le loro proprietà. Nei mesi seguenti gli angloameri­ cani si riorganizzarono, ripresero il controllo della cittadina e sconfissero il ribelle. Cortina fu dichiarato fuorilegge e privato della cittadinanza statunitense. Nel 1861 Cortina, che allo scoppio della guerra civile aveva iniziato a collaborare attivamente con l'esercito nordista, sfruttò la nuova posizione per ricostituire la propria milizia privata, con la quale occupò e saccheggio Zapata County. Venne tuttavia affrontato e sconfitto da un reparto dell'esercito confederato c dovette fuggire in Messico, da dove continuò a condurre sanguinosi raid in territorio statunitense ai danni di cittadini an­ gloamericani. Le sue gesta rimasero impresse nella memoria collettiva della popola­ zione texana di origine messicana, che ne fece un eroe leggendario della resistenza al dominio angloamericano. 17 José Mosqueda fu a capo di una banda di rapinatori che nel 1891 face deragliare e svaligiò, nei pressi di Brownsville, Texas, un convoglio della Rio Grande Railroad; venne scoperio e catturato insieme ai complici alcuni giorni più tardi dallo sceriffo ed ex ranger Santiago Beilo (per uno studio del corrido omonimo si veda Americo Pare­ des, El Corrido de Jose Mosqueda as an Example of Pattern in the Ballad, “Western Folk­ lore". Vol. 17, No. 3 (Jul. 1958), pp. 154-162). Margarito “Rito” Garcia, un allevatore messicano stabilitosi in Texas, nel 1885 affrontò con le armi una pattuglia di ranger che, senza alcun mandato, erano entrati nella sua proprietà c avevano minacciato la famiglia. Nel conflitto a Fuoco uccise alcu­ ni agenti, quindi fuggì oltre la frontiera. Venne però catturato dalla polizia messicana e consegnato alle autorità statunitensi. La prima registrazione discografica di Los Tequileros, eseguita da Jesùs Maya & Timoteo Cantò, rìsale alla seconda metà degli anni Quaranta. Questa versione è dispo­ nibile nella raccolta Maya y Canili. El Primero Confutilo Norteno Famoso 1946-1949, Arhoolie CD 9013. nonché nella raccolta The Roots of the NarcoCorrido, Arhoolie CD 7053. 3U II corrido, scritto nei primi anni Settanta da Juliùn Garza Arredondo, uno dei più apprezzati compositori messicani di musica popolare nortena, ha avuto numerosi in­ terpreti. La ballata ha ispirato un film omonimo del 1981, diretto da José Loza Marti­ nez e la cui sceneggiatura è opera dallo stesso Garza, che compare anche come attore; la colonna sonora, che contiene il corrido omonimo, è stata interpretata nel 1980 dai Cadetes de Linares (Los Pistoleros Famosos, Ramex LP 1050). -1 Mis Mejores Condones: 17 Exitos, Voi. 2 , Capitol/Emi Latin CD H2-2799. Anche questo personaggio malavitoso ha ispirato un film, El gallo sinalocnse. diretto nel 1998 dal regista Javier Montalo. 33 Chalino Sanchez y Cornelio Reyna, Voi. 2, Musar! CD 1525. 33 Si vedano le copertine dei seguenti album: Dos Grandes Sinaloenses, Capitol/Emi CD H2-28364; Un Uomenafe al Mariachi Capitol/Emi CD H2-28749; Los Mejores Corri­ dos, Sony International CD 82825; Canta con Mariachi, Sony International CD 83939; Mis Mejores Condones: 17Exitos, Voi. 3 EMI International CD 32638. '* Una versione strumentale per archi di "Nacho Verduzco", uno dei più popolari narcocorridos composti da Sànchez, è stata eseguita nel 2002 dal Kronos Quartet e in­ serita nel loro album Nuevo, Nonesuch CD 79649. A oggi si contano oltre un centinaio di corridos a lui dedicati, più di quanti sono stati tributati allo stesso Pancho Villa, il personaggio storico messicano che Chalino ammirava in modo particolare.

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American Horse Icon il cappello) e Red Cloud,

IL CINEMA WESTERN VISTO DAGLI INDIANI. VENDETTA E VIOLENZA IN SENTIERI SELVAGGI DI JOHN FORD E INDIAN KILLER DI SHERMAN ALEXIE

Giorgio Mariani

In 1492, every Indian instantly became an extra in the Great American Western. Sherman Alexie, My Heroes Have Never Been Cow-boys'

Sono in molti a pensare che se il western oggi sopravvive, è soprattutto come una sorta di traccia più o meno sotterranea che aitraversa altri generi letterari e cinematografici come il poliziesco, la fantascienza, il racconto d'avventura, e così via. C’è però un ambito culturale dove questa traccia è percepibile come qualcosa di più di un rinvio a, o una ripresa di, immagini, personaggi e topoi western, e si configura invece come una vera e propria presenza spettrale', quello della letteratura in­ diano-americana moderna e contemporanea. È quasi impossibile tro­ vare un’autrice o un autore indiano che non si sia almeno una volta confrontato con il “fantasma” del western. La circostanza è tuli altro che sorprendente. Per una larga parte del Novecento il cinema we­ stern si è incaricato di diffondere capillarmente una serie d'immagini stereotipate degli indiani d’America entrate a far parte della cultura di massa non solo statunitense, ma planetaria. Inizialmente queste im­ magini sono state di segno decisamente negativo: gli indiani erano rappresentati come orde minacciose di selvaggi urlanti, destinati a es­ sere spazzati via dal provvidenziale arrivo dei “nostri". Non è diffìcile capire cosa abbia significato per molti indiani crescere negli anni in cui film e serie televisive western dominavano incontrastate, e non è un caso che forse la più famosa poesia indiana contemporanea sia Dear John Wayne di Louise Erdrich, una composizione nella quale la scrittrice esamina come, dopo averli depredati delle proprie tene, gli euro-americani abbiano poi continuato a espropriare gli indiani della propria dignità con l’industria culturale del western. * Il fatto che, so­ prattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, Hollywood abbia proposto raffigurazioni apparentemente meno offensive degli indiani d’America, non ha cambiato di molto la situazione. Le immagini di in­ diani saggi, romanticamente innocenti ed ecologisti, oppure quelle in cui i massacri dei villaggi indiani vengono assimilati alle stragi di civili durante la guerra del Vietnam, sono spesso animate da buone inten­ zioni, ma assai raramente si spingono oltre l’orbita di quello che Ro­ bert Berkhoefer, Jr., ha definito l’“indiano inventato”: un indiano, cioè, che è frutto delle paure e dei desideri dei bianchi, e solo in rari mo­ menti garantisce un efficace rovesciamento dei punti di vista.' 57

In Dear John Wayne un gruppo di giovani indiani, accovacciati sul cofano di una Pontiac (!) assistono a un film western (dal titolo im­ precisato) nel quale “The Duke” recita la parte di un implacabile cac­ ciatore d’indiani.4 Dopo che sullo schermo una pioggia di frecce si è abbattuta sui pionieri, “che muoiono magnificamente”, giunge il momento dell'inesorabile vendetta di Wayne: Il cielo si riempie, acri di occhi e sguardi di traverso blu ai quali la folla applaude. Il suo volto ci viene incontro, una spessa nuvola di vendetta, butterato come la terra un tempo carne. Ogni incavatura, ogni cicatrice è una promessa: non è finita, questa lotta, fintanto che resistete. Tutto quello che vedete ci appartiene?

Qui ciò che colpisce non è solo la caratterizzazione di Wayne co­ me un quasi sovrumano (“acri di occhi e sguardi di traverso blu”) persecutore d’indiani, che continua nel presente l’opera di espropria­ zione di un continente originariamente indiano ("Tutto quello che vedete ci appartiene"), ma il fatto che il pubblico, presumibilmente nella quasi totalità indiano, lo applauda (“la folla applaude"). Certo, potrebbe trattarsi di applausi ironici (e dunque d'una forma di resi­ stenza da parte del pubblico), ma la determinazione a possedere tut­ to manifestata dalla glaciale figura di Wayne, avvolta in una "spessa nuvola di vendetta", fa pensare che tra le cose possedute da Wayne (o che Wayne desidera possedere) vi siano anche le coscienze di molti indiani, che hanno interiorizzato la propria sconfitta storica e cultu­ rale, e dunque applaudono perché vedono se stessi con gli occhi dei colonizzatori. Questa scissione è, in buona sostanza, una versione indiano-ame­ ricana della celeberrima “doppia coscienza” nera descritta oltre un secolo fa dal grande intellettuale afroamericano W. E. B. Du Bois, che coglieva in "questo senso del guardarsi sempre attraverso gli oc­ chi degli altri, di misurare la propria anima col metro di un mondo che ti guarda con divertito disprezzo e con pietà” la causa primaria della lacerazione dell’anima del suo popolo? Il cinema western è al tempo stesso motore e metafora di quel processo di colonizzazione mentale cui la cultura dominante ha sottoposto per secoli gli indiani d’America, ed è per questo che si deve sottolineare la natura spettrale e conturbante che la comparsa deH'immaginario western ha nella letteratura indiana contemporanea. In genere, come accade con l'e­ norme viso di John Wayne nella poesia di Erdrich, oppure in modo più casuale con l'apparizione improvvisa di un poster cinematografi­ co raffigurante un altro leggendario cowboy hollywoodiano come Randolph Scott in un capitolo del romanzo di James Welch, Winter in the Blood, queste figure del western ricacciano gli indiani in una situazione di sofferenza c subalternità, incarnando un passato che non vuole andare via e torna a tormentarli. Nelle parole del narrato­ re-protagonista del romanzo di Welch: “Randolph Scott, con una ca­ 58

micia rossa, cappello bianco e pistole splendenti, ghignava crudel­ mente verso di me. [...] Randolph Scott mi aveva latto secco con un ricordo che avevo cercato di tenere lontano”.7 A questi fantasmi western un altro scrittore indiano ha conferito il suggestivo appellativo di “cowboys in our minds”. Ricordando quan­ do, da piccolo, giocava a “indiani e cowboy” nella riserva, Sherman Alexie scrive: “lutti noi ragazzini indiani stavamo dalla stessa parte e lottavamo contro i cowboy nelle nostre menti"/ Qui Alexie sottoli­ nea la volontà di opporsi a quel ruolo di “comparse” cui il “Grande Film Western" della storia americana menzionato nell'epigrafe di questo saggio vuole condannare gli indiani. Lo stesso fatto che Alexie abbia affiancato da alcuni anni alla sua prolifica attività di scrittore, quello di sceneggiatore e poi di regista, testimonia il suo impegno a ricercare alternative a quello scenario western nel quale la cultura dominante americana si ostina a voler confinare gli india­ ni. Ma al tempo stesso Alexie ha continuato a esplorare, con intelli­ genza e spesso anche con rabbia, l'impatto del cinema western sulla percezione che gli indiani hanno di sé stessi e del mondo in cui vivo­ no. Il capitolo 6 della terza parte dell’opera più discussa di Alexie - il romanzo Indian Killer - offre un’interessante e drammatica dimo­ strazioni dell’impatto devastante del western sulla psiche indiana. Reggie, un giovane indiano spokane per parte di madre, c bianco da parte di padre, sta guardando coi suoi amici indiani Tv e Harley (che è sordomuto) il celeberrimo film di John Ford, The Searchers (1956, Sentieri selvaggi). Nel film Wayne recita la parte del razzista e non pentito reduce sudista Ethan Edwards, che per anni cerca la nipote Debbie, rapita dai comanche dopo che questi ultimi hanno trucidato l'intera famiglia del fratello di Elhan. Come ricorda però Alexie, se in un primissimo momento Ethan spera di poter riportare a casa la pic­ cola Debbie, ben presto l’obiettivo della sua ricerca cambia drastica­ mente. “Se l'avesse trovata, era deciso a ucciderla, perché era stata contaminate dagli indiani”.9 Tra i giovani indiani inizia una discussione che li costringe a pren­ dere posizione non solo rispetto agli eventi narrati nel film ma, im­ plicitamente, anche sul loro modo di porsi nei confr onti del mondo urbano prevalentemente bianco, dove i tre vivono, e sugli eventi nei quali sono coinvolti. "Tu che faresti se degli indiani ti rapissero la nipote o la figlia ?” chiese a gesti Harley a TV. ‘'Penserei a che powwow possono averla portata.” "Seriamente,” "Seriamente, non ho figlie. Non lo so.” "Io la ammazzerei”, intervenne Reggie. "Capisco che cosa prova John Wayne. Voi cosa provereste se dei bianchi rapissero una bambina in­ diana? Io li taglierei a pezzi.” (296)

A un primo livello, quello che colpisce nella risposta di Reggie è che, invece di sentirsi vicino agli indiani, egli s’identifica in modo to­ 59

tale col personaggio di Wayne, arrivando a sostenere che punirebbe non solo i rapitori, ma la stessa rapita, presumibilmente perché an­ che lui la considera ormai "impura". Da un certo punto di rista la reazione ha una sua logica e sembra sia stata concepita da Alexie per illustrare ancora una volta quel processo di "scissione del sé" dello spettatore indiano di fronte a un film western. Come scrive Jennifer Gillan, "mentre la narrazione western incoraggia [gli indiani] a iden­ tificarsi con l’eroe, questi non possono non riconoscersi anche negli indiani cattivi”.'0 Reggie s’identifica con l’eroe (per quanto, come ve­ dremo tra breve, si tratti di un eroe che lo stesso film presenta come una figura molto piti negativa che positiva), e poi, quasi a bilanciare la sua identificazione con un bianco che odia gli indiani visceral­ mente, rovescia la situazione e immagina uno scenario capovolto, in cui i rapitori sono i bianchi e il vendicatore è indiano. Questa scena ha però una rilevanza specifica rispetto alle vicende narrate in Indian Killer. Reggie è un "sangue misto” che si sente in­ diano, non bianco, ma che non può dimenticare un'infanzia segna­ ta dalle percosse e dalle torture psicologiche di Bird, "quel viso pal­ lido brutale che pretendeva di essere suo padre" (296), che per anni vuole fare di lui un indiano "non ostile”. Non a caso, subito dopo aver dichiarato che avrebbe sterminato rapito e rapitori, "a Reggie era venuto il dubbio d'essere stato rapito alla sua vera famiglia” (296-97). Si tratta di un’ipotesi assai poco plausibile: che Reggie sia un sangue misto è confermato dagli occhi azzurri che condivide con l’eroe filmico in cui s’identifica. Ma la riflessione è importante per­ ché ci fa capire che la scissione di cui è vittima Reggie ha una sua specifica drammaticità. Nella misura in cui s’identifica tanto con lo spielato vendicatore dei rapitori, quanto con il rapito, la violenza che dovrebbe offrirgli una via d’uscita dall’impasse in cui si trova, si ritorce alla fine contro sé stesso. Immaginando che anche lui ucci­ derebbe Debbie (impersonata nel film da Natalie Wood), ma al tem­ po stesso immaginando sé stesso come un bambino sottratto a una famiglia tutta indiana, Reggie si segnala come una versione esaspe­ rata dell’indiano scisso tra l’immagine che ha di sé e quella che di sé gli propone il colonizzatore, perché nel suo caso la scissione s’in­ carna - letteralmente - nella sua stessa genealogia. La violenza con cui Reggie s'identifica non ha dunque alcunché di liberatorio. Al contrario, si tratta non solo di una violenza omicida, ma, in ultima analisi, suicida. Come si vedrà più sotto, questa scena ha però implicazioni più ge­ nerali, che si spingono oltre la vicenda personale di Reggie, che è un personaggio importante ma certamente non centrale nella trama di Indian Killer. Queste implicazioni più generali possono essere meglio colte in tutta la loro complessità e ricchezza attraverso un raffronto ravvicinato tra il romanzo di Alexie e il film di Ford. Non voglio soste­ nere che Indian Killer sia una vera e propria consapevole riscrittura di The Searchers, ma al tempo stesso credo che sia impossibile non ac­ corgersi delle numerose affinità non solo tematiche, ma strutturali, 60

tra le due opere. In particolare, in questa sede vorrei focalizzare la mia attenzione sul problema della violenza e della vendetta, che è centrale tanto in The Searchers quanto in Indian Killer, ma anche su una curiosa, ulteriore circostanza, che accomuna le due opere qui in discussione. Sia Ford sia Alexie sono stati accusati di essere incapaci di prendere le distanze dal razzismo e dalla violenza da loro descritte. Per quanto Ethan abbia indubbiamente connotati molto dark, e il mi­ sterioso killer di Alexie si comporti in modo non solo gratuitamente efferato ma sostanzialmente irrazionale, alla fine sia Ford sia Alexie “salverebbero" in qualche modo questi personaggi negativi dalla con­ danna morale del lettore/spettatore. Tornerò naturalmente su questo punto nelle battute finali del saggio. Per il momento vorrei invece sot­ tolineare che il mio scopo qui non è formulare un giudizio etico su questi due grandi e certamente tra loro molto diversi artisti statuni­ tensi, bensì quello di provare a leggere sia il film sia il romanzo come tentativi di trovare "una soluzione instabile e provvisoria a un dilem­ ma estetico, che è a sua volta la manifestazione di una contraddizio­ ne storica e sociale”.11 In altre parole, sulla scorta della lezione di Fre­ dric Jameson, vorrei sostenere che quelli che a prima vista potrebbe­ ro segnalarsi come i difetti estetici delle due opere sono in realtà ri­ conducibili a più profonde e irrisolvibili (sul piano della narrazione) contraddizioni di ordine storico-politico. I. The Searchers è ambientato nel celebre "Ford country" della Monu­ ment Valley - anche se i titoletti della prima inquadratura annuncia­ no che la vicenda si svolge in Texas nel 1868 - e si apre con l'inatteso arrivo di Ethan Edwards alla casa del fratello Aaron.12 Cosa piuttosto inconsueta per un personaggio interpretato da John Wayne, Ethan si distingue non solo per la rudezza nei confronti del fratello (della cui moglie è chiaramente innamorato) ma per i modi sprezzanti coi quali tratta Martin Pawley, un ragazzo adottato dagli Edwards dopo che lo stesso Ethan lo ha ritrovato come solo sopravvissuto al massa­ cro della sua famiglia da parte degli indiani. Martin afferma che “gli è stato detto" di avere origini irlandesi e gallesi, e di essere solo per un ottavo cherokee, ma Ethan lo considera “un mezzo sangue" e non vuole che lo chiami “zio”. Ethan, insomma, si segnala sin dall'inizio come un personaggio antipatico, anche se naturalmente il fatto che sia impersonato da John Wayne porta lo spettatore ad attendersi una sua evoluzione positiva, che in effetti in una certa misura non man­ cherà. Al di là di questa inusuale caratterizzazione del personaggio di Wayne, i canoni del genere paiono rispettati. Ancor prima che compaiano sullo schermo, gli indiani comanche sono liquidati come belve sanguinarie, e ben presto tornano vigliaccamente a colpire. Dopo aver fatto allontanare quasi tutti gli uomini della zona con uno stratagemma, guidati del capo Scar, i comanche assaltano la fattoria degli Edwards e trucidano Aaron, Martha e il figlio, portandosi via le figlie Lucy e Debbie. La prima delle due verrà anch'essa successiva­ mente uccisa, ma Ethan e Martin proseguiranno instancabilmente 61

“la ricerca" di Debbie, che verrà localizzata solo anni dopo, quando è oramai divenuta non solo un’indiana, ma una delle mogli di Scar. Come si è accennato sopra, l'ulteriore elemento di rottura con le convenzioni del genere sta nel fatto che Ethan continua a cercare Debbie non per salvarla, ma per ucciderla, ed è per questo che Mar­ tin lo segue dappertutto: per impedirgli di consumare questa para­ dossale vendetta, che pare anticipare il concetto dell’ "abbiamo do­ vuto distruggere il villaggio per salvarlo" reso famoso dalla guerra del Vietnam. Più l’azione procede e più Ethan si rende protagonista di gesti quantomeno discutibili. Prima spara per spregio agli occhi del cadavere di un comanche, perché secondo la tradizione tribale in tal modo il guerriero non potrà trovare la porta del cielo e continuerà a vagare eternamente nel vento. Poi continua a sparare all’impazzata su un gruppo di indiani che, visto il loro attacco respinto, si danno alla fuga. Più avanti ancora scarica le sue armi su alcuni bisonti nella speranza che questo possa affamare gli indiani. Infine, sventa un at­ tacco da parte di alcuni banditi che volevano sì ucciderlo e derubar­ lo, ma sparandogli alle spalle, mentre questi stanno fuggendo. Per lo spettatore è piuttosto difficile parteggiare per Ethan, soprattutto quando è palese il vero motivo della sua ricerca. Al di là del fatto che il personaggio è impersonato da John Wayne, il solo filo di simpatia che da un punto di vista più astrattamente narratologico lega Ethan al pubblico è rappresentato dalla sua scelta di battersi contro quello che sembra un orrore assoluto: la barbarie indiana. Ma nella secon­ da parte del film, in particolare dal momento in cui lo spettatore ha finalmente accesso almeno parzialmente al punto di vista di Scar, anche questo filo rischia di spezzarsi. A partire dalla scena in cui, durante un incontro con un gruppo d’indiani, Martin "compra” inconsapevolmente una moglie, che ac­ quisisce il non casuale nome di Look, il film prende una direzione inaspettata. Look è naturalmente la forma imperativa del verbo lo look, guardare, e tramite questo personaggio la narrazione pare mandare un monito tanto ai suoi personaggi quanto soprattutto allo spettatore. Chi guarderà con attenzione non potrà fare a meno di co­ gliere non solo la rudezza con la quale tanto Martin quanto Ethan trattano la donna indiana - irridendola e ridicolizzandola ripetutamente - ma lo sgomento sul volto di Martin quando, in seguito, ritro­ verà l’indiana tra le tante vitt ime del massacro di un villaggio coman­ che perpetrato dalla cavalleria statunitense. A quel punto Martin - e, si spera, lo spettatore - inizia a comprendere che quel confine tra barbarie indiana e civiltà bianca sin qui consideralo invalicabile, è invece del tutto poroso. Il massacro si caratterizza infatti come l’e­ satto rovescio di quello della famiglia Edwards nella prima parte del film. La brutalità dell’esercito americano non risparmia né le donne come Look, né i bambini e gli anziani. La desolazione mortale del campo indiano è lo specchio rovesciato delle rovine fumanti della fattoria Edwards. Poco più avanti, durante un memorabile incontro tra Ethan, Mar62

tin c Scar nella tenda di quest'ultimo, veniamo a sapere per bocca dello stesso Scar che l'attacco alla fattoria era a sua volta la vendetta per l’uccisione di due suoi figli da parte dei soldati americani. Que­ sto dato, come ha scritto Richard Slotkin, "altera la nostra percezio­ ne di Scar come demonio conferendogli una 'motivazione umana’ - e cioè una motivazione eguale a quella del nostro eroe bianco che odia gli indiani. Dall’altro lato, altera il nostro rispetto per l'autorità mo­ rale di Ethan dimostrando la sua somiglianza con una figura che ab­ biamo identificata come malvagia”?’ Lo stesso nome di Scar è il se­ gno di un'identità dalle implicazioni ambivalenti. Scar - inglese per cicatrice - è il simbolo vivente della ferita infetta al protagonista, o non piuttosto colui che porta incisi nella sua storia personale i segni della violenza dei colonizzatori? Ma la messa in discussione dei con­ fini tra bianchi e indiani non si limita al piano etico-morale e si spin­ ge sino a quello antropologico e “razziale”. Scar sa l'inglese - "parli bene per un comanche'' commenta sarcastico Ethan - ma Ethan sa a sua volta il comanche - "parli bene per un americano" è difatti la ri­ sposta altrettanto sarcastica di Scar. Ma non basta. Oltre a conoscere assai bene la lingua e le credenze religiose comanche, Ethan è sim­ bolicamente associato al mondo dei suoi nemici giurati sia dal fode­ ro di foggia indiana nel quale conserva il suo fucile, sia, soprattutto, dalla scena in cui, una volta che Scar è stato ucciso da Martin, Ethan lo scalpa, comportandosi da "tipico" selvaggio indiano.14 Infine, se è vero che la decisione di Ford di far impersonare Scar da un attore bianco è del lutto in linea con le convenzioni dell'epoca, il fatto che egli sia attorniato da comparse che sono invece tutte indiane, e so­ prattutto che abbia gli occhi azzurri come lo stesso Wayne, suggeri­ scono che persino Scar è probabilmente anch’egli un mezzo sangue, fisicamente non del tutto distinguibile dal suo "doppio” bianco. La struttura profonda di The Searchers parrebbe dunque quella ti­ pica della tragedia di vendetta di marca shakespeariana. Gli antago­ nisti finiscono col somigliarsi sempre più sino quasi a identificarsi, e il ciclo della vendetta viene messo a nudo come un meccanismo per­ verso e senza fine, al cui interno non solo è impossibile identificare un colpevole e una vittima, ma non tiene più la contrapposizione tra "noi” e "loro”, tra 1’ “eroe” col quale la narrazione per sua natura ci spinge a identificarci e 1’ "altro” inizialmente percepito come malva­ gità allo stato puro. Naturalmente, anche ammesso che questa lettu­ ra del film di Ford sia sostanzialmente corretta, si potrebbe obiettare che l'equiparazione tra colonizzatori e colonizzati, invasori e invasi, per quanto coraggiosa e controcorrente soprattutto nel cinema hol­ lywoodiano degli anni Cinquanta, in piena epoca maccartista, mette sullo stesso piano le vittime e i loro carnefici, sorvolando così sulle responsabilità storiche del colonialismo europeo. Eppure non è que­ sta, io credo, l’obiezione principale da muovere alle letture "progres­ siste” di The Searchers, Il vero problema è un altro. Ford non solo continua a identificarsi con l’eroica comunità dei pionieri bianchi, ma rimarcando le differenze morali tra questa e Ethan, si selve di 63

quest'ultimo per ricostituire 1 ordine infranto dall'iniziale attacco de­ gli indiani e il conseguente rapimento di Debbie, per poi esiliarlo in quello stesso deserto contro cui si battono quotidianamente i coloni. In tal modo il film, dopo aver denunciato, sia pure in modo più impli­ cito che esplicito, la sostanza violenta e razzista della “conquista del West”, cerca di forgiare una distinzione tra colonizzatori buoni e cat­ tivi, che nella realtà delle vicende narrate non regge assolutamente. 1 “buoni", difatti, attingono a piene mani ai risultati prodotti dall’ope­ ra dei "cattivi”. Martin ottiene il denaro di Ethan e ritrova la sorella­ stra, e, cosa ancora più importante, la comunità si libera definitiva­ mente della minaccia di Scar grazie a quello stesso esercito che Ford aveva inizialmente presentato come spietato esecutore di massacri. Ma prima ancora di fallire su un piano morale o politico, il film di Ford, nella sua ultima parte in particolare, non funziona sul piano squisitamente estetico-narrativo. Il "dilemma estetico" cui The Sear­ chers si sforza di offrire "una soluzione instabile e provvisoria" è quello di riuscire a rappresentare simultaneamente in chiave epica e celebrativa una fase della storia americana della quale si vuole con­ dannare ed espungere queUclemento di violenza e odio razziale sen­ za il quale, però, “il West” non esisterebbe. 11 dilemma estetico è dun­ que intrecciato in modo indissolubile a una più profonda "contrad­ dizione storica e sociale": quella tra le forze del cosiddetto “progres­ so" e i tentativi di resistenza al genocidio messi in campo dalle popo­ lazioni indigene. Qui sta la radice dello strabismo che segna l’ultima parte del film di Ford, in cui personaggi e situazioni si sdoppiano in modo pressoché antinomico, contraddicendo in tal modo la funzio­ ne narrativa alla quale sino a quel punto avevano assolto. Si è già fat­ to cenno a uno di questi sdoppiament i: quello delle "giacche blu" del­ la cavalleria americana. Quando Martin ritrova tra gli indiani mas­ sacrati anche Look, si rende finalmente conto di come il suo atteg­ giamento sprezzante nei confronti della donna "sia implicato nel razzismo che pervade il mondo del film". * ’ Eppure, poco più avanti, Martin si unirà ai soldati nell’assalto al villaggio di Scar, che Martin stesso ucciderà per liberare Debbie. Come ha osservato Slotkin, que­ sto secondo intervento della cavalleria viene presentato come una sorta di "operazione chirurgica” nella quale, mettendo da parte la violenza indiscriminata del precedente assalto, l’esercito statuniten­ se e i Ranger del capitano Clayton si distinguono per un uso mirato e selettivo delle armi.10 Nelle scene di questa seconda battaglia vedia­ mo cadere solo uomini, ma niente e nessuno ci spiega perché - im­ provvisamente - un’entità distruttiva e spietata si trasforma in una forza capace di condurre una “guerra umanitaria” ante litteram. Poi­ ché è però questa l'ultima immagine dell'esercito e dei Texas Rangers che Ford ci propone, è evidente che la sua funzione è quella di na­ scondere e trascendere la rappresentazione (storicamente assai più accurata) precedentemente proposta.1' Un'analoga scissione investe sia il personaggio di Debbie sia quello di Ethan. La prima, dopo essere stata rintracciala da Martin e Ethan, 64

si allontana dal suo villaggio per intimare al fratellastro di abbando­ nare ogni pretesa di riportarla tra i bianchi, perché si sente ormai una comanche; “sono il mio popolo”. L’affermazione è assai significativa. In una precedente scena del film, difatti, Ethan e Martin chiedono di vedere un gruppo di prigioniere bianche (o, per dirla col razzista Ethan, che "non sono bianche - non più - sono comanche") e si trova­ no di fronte uno spettacolo al tempo stesso tragico e grottesco. La sce­ na - spesso criticata per la sua "eccessività” - è segnata "dall’espressio­ ne completamente folle delle donne”, che starebbe a provare come "il contatto con gli uomini rossi le ha rese letteralmente pazze”.18 Debbie smentisce però clamorosamente l'idea che una donna rapita dagli in­ diani debba per forza uscir di senno. Anche a voler ammettere che for­ se Debbie, dichiarando di voler restare coi comanche, vuole evitare il possibile spargimento di sangue che presumibilmente accompagne­ rebbe il tentativo di liberarla, non ci possono essere dubbi sul fatto che la sua espressione fiera e controllata è distante anni luce da quella im­ pazzita delle donne “salvate” dalla cavalleria statunitense. Non sta però qui l’incoerenza artistica di Ford perché, almeno a mio parere, la follia delle donne bianche non è da imputare al loro essere state "indianizzate” - anche se è così che per certi versi il film porta a leggere la scena - bensì all’essere state testimoni del massacro perpetrato dall'e­ sercito. Non è certo un caso che la più grande delle donne urli quando vede entrare Ethan e compagni nella baracca nella quale i soldati le hanno confinate, e che continui a cullare un pezzo di legno avvolto in una coperta, chiaramente un sostituto del bambino assai probabil­ mente perito nel massacro del villaggio. L’incoerenza narrativa è al­ trove: perché mai Debbie, invece di essere sconvolta per la morte del marito e la cocente sconfitta del “suo popolo” accetta, senza pronun­ ciare una sola parola, di essere presa in braccio da Ethan e, obbeden­ do passivamente al suo "andiamo a casa, Debbie”, di regredire da don­ na indiana, moglie di Scar, a infantile nipotina di Ethan? Il film non fa assolutamente nulla per spiegare questa improvvisa e illogica conver­ sione di Debbie, il cui fine è di riportarla tra una comunità bianca cui non appartiene e nella quale non ce più nessuno dei suoi familiari, se si esclude il fratellastro Martin. È evidente che il film di Ford resta qui intrappolato tra un deside­ rio d’innovazione e quello, eguale e contrario, di restare fedele alla tradizione. Debbie deve essere reintegrata nella comunità anche se alla stregua di un soggetto muto e passivo. La ferita va sanata, la ci­ catrice (Scar) fatta scomparire. E per quanto sia multiculturale la comunità nella quale Debbie fa ritorno - composta come di ameri­ cani di origine irlandese, scandinava, scozzese, e persino da un Mose Harper in parte afro-americano - per gli indiani non c’è alcun posto, se non come traccia assai remota nella genealogia di Martin.1" Altrettanto inesplicabile è il ripensamento finale di Ethan, il quale invece di uccidere Debbie getta a terra il fucile e la prende in braccio per portarla via con sé. Il gesto può essere letto come un’improvvisa dimostrazione di umanità da parte d’un personaggio sin qui caratte­ 65

rizzato da un odio feroce e implacabile. Per come è costruita l'intera vicenda narrativa, la scelta di Ethan è poco credibile, il che non toglie che sia ideologicamente assai significativa. Anche lo spietato Ethan ha un cuore (è Ethan, ma è anche John Wayne), c alla fine porta a ter­ mine la missione che sin dall'inizio il pubblico avrebbe voluto veder­ gli compiere. Detto in termini militari, l'impresa di Ethan si trasfor­ ma da spedizione punitiva in intei vento umanitario, così che la so­ stanza etica ed emotiva del secondo finisce col farci dimenticare, o quantomeno col ridimensionare, la carica di violenza necessaria a metterlo in allo. Poiché gli eventi di una narrazione si leggono inevi­ tabilmente dal punto di vista della sua conclusione, è indubbio che l’i­ natteso mutamento di Ethan incoraggi lo spettatore a perdonare la violenza omicida che lo ha contraddistinto per gran parte del film. La contraddittorietà del finale del film non è da imputare solo alla necessità di ridare una certa, sia pur problematica, statura eroica al personaggio interpretato da John Wayne, quanto soprattutto all’irrisolvibile tensione storico-culturale cui The Searchers prova a fornire una soluzione immaginaria. Il film vuole leggere la colonizzazione del continente nordamericano come un'eroica vittoria su una natura spesso ostile e inospitale, e sui “primitivi" che la abitano, e al tempo stesso prendere le distanze dalla violenza razziale grazie alla quale ta­ le progetto epico si realizza. L'intento narrativo è palesemente con­ traddittorio: se la violenza della colonizzazione deve essere smasche­ rata, non la si può ridurre a una aberrazione di cui si rendono respon­ sabili solo alcuni “Indian haler", né si può ignorare che dai frutti di quella violenza (e cioè dalla pulizia etnica di cui sono vittime le tribù indigene) trae vantaggio l’intera comunità bianca. L'ultima scena, in cui Ethan lascia la comunità per riprendere il suo vagabondare nel deserto, è una microallegoria di questa irrisolvibile tensione. Ford vuole espellere la violenza dalla (rinata) comunità della frontiera, ma così facendo trasmette allo spettatore l’illusione che la violenza raz­ ziale di cui Ethan è simbolo vivente sia una specie di corpo estraneo, del quale ci si può sbarazzare senza dover sottoporre a una critica ser­ rata l’intero progetto della colonizzazione. Ethan viene così condan­ nato a essere trascinato “dal vento’’ - come recita la canzone finale proprio come il comanche cui ha sparato negli occhi, così che il san­ guinario scontro che per secoli ha opposto “l’indiano" al “cowboy" re­ sti confinato in uno spazio impalpabile e leggendario, estraneo al ri­ generato spazio domestico della civiltà americana.20

II. Il capitolo di Indian Killer in cui tre giovani indiani guardano alla televisione The Searchers è quanto mai pregnante in un romanzo che condivide col film un genere caratteristico della letteratura america­ na: quello della captivity narrative. Inaugurato dal primo best seller della letteratura americana - la cosiddetta “Captivity of Mary Row­ landson" (1682), dedicala al rapimento della signora Rowlandson durante la Guerra di re Filippo (1675-77) - e riadattato poi prima da James Fenimore Cooper in The Last of the Mohicans (1826) e poi in 66

innumerevoli dime nove! ottocenteschi, il genere della captivity nar­ rative viene ripreso non solo dal cinema western classico come quel­ lo di Ford, ma ha anche una funzione importante in una serie di pel­ licole che, almeno nelle intenzioni, vogliono offrire uno sguardo più interno alle società indiane, da 4 Man Called Horse (Un uomo chia­ mato cavallo, Elliot Silverstein, 1970) a Little Big Man (Piccolo grande uomo, Arthur Penn, 1970), da Soldier Blue (Soldato blu, Ralph Nel­ son, 1970) al più recente e pluripremiato Dances with Wolves (Balla coi lupi, Kevin Costner, 1990). Il romanzo di Alexie, al pari di altri ro­ manzi indiani di quest i ultimi anni come Gardens in the Dunes di Le­ slie Marmon Silko e The Heartsong of Charging Elk di James Welch, può essere letto anche come un tentativo di rovesciare la struttura tradizionale di questo genere letterario, per porre al centro della pro­ pria vicenda narrativa non un uomo o una donna bianca rapita dagli indiani, bensì il personaggio di John Smith, un indiano adottato a pochi giorni dalla nascita da una famiglia bianca.2’ Più che adottato, però, John immagina di essere stato rapito, e anche se i suoi genitori adottivi sono di una pasta ben diversa rispetto al brutale padre di Reggie e fanno di tutto perché John possa andare fiero delle sue ori­ gini indiane, nessuno sa a quale gruppo tribale appartengano i geni­ tori naturali del ragazzo e questo contribuisce a farne un personag­ gio del tutto sradicato e inassimilabile al contesto urbano di Seattle dove cresce, soffre, esce di senno e muore suicida. Il tema della captivity narrative (sia pure in forma rovesciata) non investe però solo il personaggio principale di John e quello seconda­ rio di Reggie ma, in forme diverse, lambisce tutte le figure più im­ portanti del romanzo. Come si è visto nel caso di The Searchers, a vol­ te è difficile tracciare un confine tra rapimento e adozione: Debbie viene rapita, ma poi adottata e integrata a pieno titolo nella tribù co­ manche. Si tratta di un dato che tiene conto della realtà storica: sin dalle prime guerre indiane sono numerosi i casi documentati di pri­ gioniere e prigionieri bianchi adottati da tribù indiane che rifiutaro­ no di fare ritorno "alla civiltà" quando gliene fu data l’opportunità.22 Non sorprende, dunque, che in un contesto culturale segnato - so­ prattutto a partire dalla fine dell’ottocento - dal desiderio di "diven­ tare nativi", il sogno di molti bianchi americani contemporanei sia quello di essere adottati da una tribù indiana.23 A questo peculiare “sogno americano" Alexie dedica non poche pagine al vetriolo in In­ dian Killer, prendendo di mira in particolare il professore di "Native American Studies” Clarence Mather, che fa sfoggio della sua adozio­ ne da parte di una famiglia lakota, nonché lo scrittore ed ex-poliziot­ to Jack Wilson, il quale, sulla base di prove piuttosto inconsistenti, sostiene di essere discendente della tribù shilshomish, e anche gra­ zie a questa sua identità "inventata" diviene un autore di successo. Il quadro generale che il romanzo traccia è quello, decisamente cupo, di un’umanità “prigioniera” d'identità imposte e non sentile come proprie, e che spesso agogna a possedere un’identità diversa, incu­ rante di come questa idealizzazione dell’alterità contribuisca a sog67

giogaie e a umiliare quelle stesse popolazioni che si dichiara di am­ mirare e a cui si fantastica di appartenere. Questa impostazione presta però il fianco a numerose critiche. Se Ford immagina - pur con tutti i limiti di cui si è detto - che una don­ na bianca possa perfettamente assimilarsi alla società comanche, Alexie pare invece suggerire che non vi è alcuna possibilità di co­ struttiva ibridazione sociale e culturale tra mondo bianco e mondo indiano. Considerato che Alexie è stato in genere celebrato come un autore che non crede assolutamente nella possibilità di recuperare una purezza culturale indigena e che vede l'identità indiana contem­ poranea come inestricabilmente intrecciata a una più generale iden­ tità americana, si dovrebbe ritenere che, con Indian Killer, abbia in buona parte abbandonato tali convincimenti. Se poi si tiene in conto che la trama del libro è punteggiata dai due brutali omicidi del mi­ sterioso "indiali killer" del titolo, che sceglie a caso, accoltella e scal­ pa le sue vittime, per poi "firmare” i delitti con due piume di gufo (il gufo è in molte mitologie indiane un messaggero di morte), e che, in­ fine, il romanzo si chiude con il killer (la cui identità non viene svela­ ta) che danza in un cimitero indiano, presto attorniato da altri india­ ni, si può capire perché più di un critico sìa rimasto perplesso circa gli intenti e la visione di Indian Killer. Arnold Krupat, uno dei mag­ giori studiosi contemporanei di letteratura indiano-americana, soli­ tamente assai generoso nei suoi giudizi, è arrivato ad argomentare che, per quanto rabbia e violenza non siano certo estranee all’universo del romanzo indiano-americano, Indian Killer è unico nella sua scelta di prendere "un particolare tipo di rabbia indiana, una rabbia omicida, come tema centrale - e, sembrerebbe, nellmcoraggiame l’espressione". 11 romanzo sosterrebbe, dunque, che “la violenza con­ tinua dei bianchi nei confronti degli indiani produrrà risentimento, rabbia e il desiderio di una vendetta sanguinaria che devono essere espressi, non repressi oppure incanalati in altre azioni possibili”.24 In parole povere, Indian Killer sarebbe un invito a un’indiscriminata vendetta indiana nei confronti dei bianchi. Al di là di un comune interesse per le possibilità narrative offerte dal genere della captivity narrative è soprattutto la scelta di porre un’enfasi particolare sul tema della "furia omicida” che lega il film di Ford al romanzo di Alexie. Il rinvio a The Searchers in Indian Killer non è la semplice citazione di un western qualunque, il cui scopo consiste unicamente nel mettere all'indice l'efletto alienante che l’immaginario hollywoodiano ha sulle coscienze indiane, bensì l'oc­ casione per una mise en abyme del romanzo, e cioè per porre il testo dinanzi a uno specchio affinché si auto-interroghi.25 Come si è già accennato, per quanto sia comprensibile, c'è qualco­ sa di perturbante nel fatto che Reggie si rispecchi in uno dei perso­ naggi più ferocemente razzisti del cinema western. Se davvero Alexie vuole in qualche modo conferire una per quanto ambigua legittimità alla "furia omicida” del killer, è abbastanza strano che nella scena della visione di The Searchers metta su un piano analogo l’odio anti68

indiano di Ethan Edwards e quello anti-bianco di Reggie Polatkin. Non è certo una strategia narrativa adeguata a un autore che voglia proporre una versione indiano-americana del cosiddetto “razzismo anti-razzista" di Fanon e Sartre?0 Mostrare come analoghe le due pulsioni violente è piuttosto una mossa del tutto in linea con il pro­ getto narrativo di Ford, prima che tale progetto si sfaldi nell’ultimo quarto d'ora del film. Così come Ford vede in Scar il “doppio" di Ethan, Alexie suggerisce che la rabbia di Reggie, oltre a essere auto­ distruttiva, lo porta a eroicizzare una figura che dovrebbe viceversa detestare. A questo dato ne va aggiunto un altro strutturalmente affi­ ne. Per vendicare i pestaggi di alcuni indiani perpetrati da una banda di giovani bianchi capitanata da un altro suo "doppio" (Aaron Ro­ gers, il cui fratello viene ucciso in una riserva indiana, ma da due ba­ lordi bianchi) Reggie dà vita con TV e Harley a una ronda indiana che si accanisce contro un bianco scelto a caso, torturandolo e arrivando quasi a cavargli gli occhi. La costruzione simmetrica di questi episodi è del tutto analoga al­ la simmetria perseguita da Ford per gran parte del suo film. A ogni violenza di uno dei due gruppi (o che s’immagina sia da attribuire a uno dei due gruppi) risponde la violenza dell’altro, in un ciclo appa­ rentemente senza fine. E anche se Alexie, diversamente da Ford, non coltiva alcuna ambiguità su quale gruppo sia storicamente responsa­ bile della violenza più grande, non ci possono essere dubbi sul fatto che, in perfetta sintonia con Ford, Alexie mette in primo piano la di­ mensione mimetica della violenza e della vendetta. Pur spiegando sempre le ragioni alla base della rabbia dei diversi personaggi (india­ ni, ma non solo) - e così facendo ampliando di continuo lo spettro dei candidati a ricoprire il ruolo del killer - il romanzo dimostra che non ce mai violenza che non sia specchio di una precedente violen­ za?7 Infine, se per parte sua Ford costruisce con Ethan un personag­ gio nel quale lo spettatore fatica a identificarsi, Alexie rende sempli­ cemente impossibile qualunque rapporto d’identificazione col killer, non solo perché l’identità di quest'ultimo non viene mai svelata, ma perché il killer è più una funzione narrativa che un personaggio vero e proprio: compare sulla scena per alcuni momenti solo per uccidere o per rapire il piccolo Mark Jones, e poi si dissolve. Della storia per­ sonale del killer, dei suoi valori, delle motivazioni che lo spingono - a differenza degli altri personaggi del romanzo - non sappiamo nulla. Sappiamo solo che odia i bianchi per quanto hanno fatto agli india­ ni, ma diversamente dai vendicatori coi quali la letteratura e il cine­ ma ci chiedono di simpatizzare, il killer non sceglie come suoi bersa­ gli autori di orrendi delitti o individui malvagi. Alexie, in un modo così sistematico da non poter essere casuale, fa piazza pulita di (ulte quelle strategie narrative che sono solitamente impiegate per rende­ re la violenza accettabile. Se l’intento del romanzo è quello di giusti­ ficare (o addirittura promuovere) una sorta di terrorismo “rosso", al­ lora si deve concludere che Alexie persegue tale piano in modo goffo e contraddittorio. 69

Per sostenere la sua interpretazione, Krupal cita spesso le battute di alcuni personaggi, e in particolare della giovane indiana spokane Marie, come se rappresentassero il pensiero dell’autore. C e però chi lia notato - secondo me a ragion veduta - che nessuno dei personag­ gi del romanzo è costruito in modo tale da suscitare l’incondizionata simpatia del lettore, e che non basta certo che un personaggio come Marie esprima opinioni affini a quelle espresse dall’autore in altri te­ sti o in interviste, per concludere che tutto quel che dice rappresenta il pensiero di Alexie?” Coerentemente con un progetto narrativo che ruota attorno alla volontà di suggerire che in molti potrebbero essere tentati dalla violenza, ma nessuno può essere identificato con certez­ za come colpevole, Alexie costruisce una serie di personaggi tutti im­ perfetti, e nessuno di essi assurge mai a coscienza prospettica o cen­ tro morale del libro. La stessa Marie esprime una posizione profon­ damente contraddittoria. Nell'ultima battuta che il romanzo le asse­ gna difende John Smith dall’accusa di essere il killer, e al tempo stes­ so prova a giustificare moralmente l’operato di quest'ultimo ("se qualche indiano sta uccidendo dei bianchi, è già tanto che non sia successo per cinquecento anni [378]), nonostante in precedenza avesse sostenuto l’ipotesi che il killer poteva benissimo non essere in­ diano, bensì qualcuno che "volesse solo convincere il pubblico che è un indiano che ammazza la gente" (309) - una posizione inconcilia­ bile con qualsiasi approvazione dell’operato del killer, e che anzi ne intuisce la pericolosità politica ancora prima che morale. A confer­ ma di quest’ambiguità costituiva di Marie c’è il ragionamento con cui affronta il professor Mather: "Voglio dire, chiamarlo Indian Kil­ ler non ha senso, giusto? Se è un indiano a uccidere, perché non chiamarlo Killer Indiano, giusto? Indian Killer vuol dire assassino d’indiani, come Custer. Custer era un Indian Killer, non un killer in­ diano" (228). Che ne sia consapevole, o meno, qui Marie non fa altro che anticipare quanto il romanzo ribadirà più avanti nella scena in cui Reggie s'identifica con John Wayne. L'odio è odio, e alla fine tra un Indian killer di specchiata reputazione come l’Ethan Edwards di The Searchers e un (probabilmente) aspirante killer indiano come Reggie diviene davvero arduo tracciare un confine. A ulteriore conferma di una visione che, come accade nel film di Ford, in superficie pare sostenere una data chiave di lettura per poi a un livello meno esplicito ma non per questo meno importante, smen­ tirla, ce la contrapposizione principale del romanzo: quella tra John Smith e il "wannabe Indian" e giallista Jack Wilson?9 A un primo sguardo il romanzo fa di tutto per sollecitare la simpatia del lettore nei confronti di Smith, indiano adottato/rapito, privato con la vio­ lenza di radici e senza alcuna speranza di trovare quella dimensione tribale e comunitaria cui agogna da sempre, mettendo viceversa al­ l’indice il "falso" Wilson, che lucra sulla sua identità inventata e, in quanto dipinto da Alexie come l'autore di un romanzo in progress in­ titolato proprio Indian Killer, si suppone portatore di una visione al­ ternativa a quella propugnata dall'/nd/^n Killer di Alexie. Eppure 70

non ci vuole molto per capire che Wilson non è altro che il dop­ pelganger bianco di Smith.30 Ambedue sono de facto orfani e non rie­ scono mai a essere felici nelle famiglie che li adottano. Ambedue de­ siderano essere non solo biologicamente ma culturalmente indiani e s'inventano un'identità tribale (navajo per Smith, shilshomish per Wilson). Ambedue frequentano - sia pure per diversi motivi - il mon­ do degli homeless senza peraltro riuscire mai ad appartenervi. Am­ bedue hanno un nome che ne segnala ironicamente la natura irrime­ diabilmente ibrida. Smith prende il nome del celebre esploratore e narratore inglese che fu uno dei primi prigionieri bianchi degli in­ diani, e a quanto racconta lui stesso ebbe salva la vita grazie all’inter­ cessione della mitica “principessa” Pocahontas. Jack Wilson è invece il nome anglo assunto da Wovoka, il “messia" paiute leader della Ghost Dance (Danza degli spettri), il movimento politico-religioso di fine Ottocento cui si allude a più riprese nel corso del romanzo. Infi­ ne, tanto Wilson quanto Smith sono afflitti da fissazioni monoma­ niacali: il primo immagina di scrivere “un libro capace di svelare al mondo che cosa significasse davvero essere indiano" (313), il secon­ do è convinto che sia possibile identificare un responsabile delle sue sofferenze, e lo identifica prima con I' “uomo in tuta” che lo ha strap­ pato alla madre da bambino per caricarlo su un elicottero, e poi in Jack Wilson stesso: “Sei tu il responsabile” (370).u Da quanto si è venuto sin qui dicendo, si potrebbe concludere che, pur osservando lo svolgersi degli eventi dal punto di vista indiano, Alexie - parallelamente a quanto fa Ford - insista sugli effetti perver­ si e mutualmente distruttivi di qualsiasi contrapposizione violenta tra bianchi e indiani. L’odio degli occhi azzurri di Reggie si specchia negli occhi azzurri di Ethan, così come quello di quest ultimo si specchia in quelli di Scar. Il conduttore radiofonico Truck Schultz è animato da un razzismo che ha il suo corrispettivo nel desiderio ma­ nifestato da Smith di poter vedere “la paura negli occhi azzurri" dei bianchi che lo circondano, ignaro evidentemente di come anche gli indiani possono avere gli occhi azzurri. Jack Wilson e John Smith, per quanto diversi tra loro, sono come due metà di un unico insieme. Intendiamoci: Alexie è certamente attento a distinguere tra oppresso e oppressore, colonizzatore e colonizzato, e dunque non mette mai sullo stesso piano chi ha tratto vantaggio dall'invasione dell’America, e chi ne è stato invece vittima. Su questo piano è evidente che Alexie ribalta completamente l'impostazione di Ford, che come se detto non vuole saperne di rinunciare a celebrare l’epopea della con­ quista del West. Eppure non è possibile disconoscere che tanto Alexie quanto Ford mettono in crisi qualsiasi ipotesi di contrapposi­ zione manichea tra i due gruppi, dimostrando che la violenza tende sempre a generare una dinamica nella quale gli opposti alla fine si ri­ velano dal punto di vista del comportamento simili, per quanto di­ verse possano essere le ragioni o le giustificazioni che li sorreggono. Non sorprende più di tanto, dunque, che anche Alexie, come Ford, si ritrovi nelle battute finali del suo romanzo a fronteggiare un proble­ 71

ma in qualche modo analogo a quello con cui deve fare i conti Ford nell'ultima parte di The Searchers. Il misterioso Indian killer è assai simile all'Ethan di Ford. La sua violenza è sorretta da un odio razzia­ le eguale e contrario a quello di Ethan e, come Ethan, il killer non può che rifuggire i legami sociali e perseguire la sua insaziabile ope­ ra di vendetta. Diversamente da Ethan, però, il killer non porta a ter­ mine alcuna missione specifica né si rende nel finale protagonista di un gesto generoso come quello con cui Ethan rinuncia a uccidere Debbie. Non può certo essere casuale che Alexie faccia seguire a un gesto umanitario come quello con cui il killer restituisce sano e salvo alla sua famiglia il piccolo Mark Jones, un altro omicidio gratuito. Quando la narrazione giunge al termine la furia omicida del killer non sembra assolutamente appagata, e il romanzo non fa nulla per portare in qualche modo il lettore a simpatizzare, o quantomeno a comprendere, le ragioni del killer. Se dunque Ford deve trovare il modo di liquidare narrativamente lo spettro della violenza razziale da lui evocato, anche Alexie ha il problema di assegnare una colloca­ zione alle pulsioni omicide del killer che sia coerente con la strategia del romanzo nel suo complesso. Credo si debba ammettere - più di quanto io stesso abbia fatto in passato - che il finale di Indian Killer è esteticamente insoddisfacen­ te, ma come nel caso di Ford, ciò che non funziona sul piano narrati­ vo non è altro che il sintomo di una più profonda e irrisolvibile con­ traddizione storico-politica/ * Nell’ultimo capitolo, dal titolo "A Creation Story” - una storia della creazione - il killer non è più pre­ sentato come una figura isolata e patologica. Che sia il killer in carne e ossa, oppure il suo fantasma, la figura che danza tra le tombe di un cimitero indiano assume per la prima volta nel romanzo una esplici­ ta valenza collettiva perché a lui si uniscono presto altri danzatori in­ diani. Questo, per prima cosa, sembra escludere qualsivoglia ambi­ guità circa l’identità etnica del killer. Come si ricorderà, Marie sugge­ risce per ben due volte che il killer potrebbe anche non essere un in­ diano. Il capitolo finale pare smentire tale ipotesi. Secondo, nell’aprirsi a una dimensione collettiva, il killer non è più liquidabile come un terrorista qualunque, e - come lamenta Krupat - Alexie pare sug­ gerire che la sua violenza, o più in generale la violenza indiana, sia da considerare un possibile strumento "creativo”; forse addirittura lo strumento necessario a dare forma a un’identità indiana che deve contrapporsi frontalmente al mondo dei bianchi. Lo stesso Krupat ammette che, nella misura in cui il capitolo finale funziona a un li­ vello più "cerimoniale” che storico-realistico, è passibile di un'inter­ pretazione in parte diversa, e che forse l’immagine dei gufi come "uc­ celli da preda” (birds of prey) è trascesa da quella dei gufi come "uc­ celli di preghiera” (birds ofprayer).sì Tutto questo, però, non deve farci ignorare che il capitolo finale non contiene alcun esplicito ripudio della violenza come mezzo per cambiare il mondo. Questo problema politico e morale si manifesta in primo luogo come un problema estetico perché l'atteggiamento 72

ambivalente che qui Alexie pare prediligere fa a pugni con quanto si­ no a quest ultimo capitolo il romanzo ha messo in scena. Come si è a più riprese insistito, Indian Killer, al pari di The Searchers, dimostra in modo inequivocabile che la violenza risponde per sua natura a una logica perversa, per quanto chiunque vi ricorra sostiene di avere valide ragioni per farlo. Alexie non si limita però a dimostrare come ogni atto di violenza sia sempre potenzialmente ricostruibile come risposta a una precedente violenza (reale o immaginata). ' * 4 Indian Killer rende problematica qualsiasi identificazione del killer non so­ lo sul piano individuale, ma anche su quello simbolico. Una lettura metaforica del killer come incarnazione di un risentimento indiano secolare può sembrare del tutto ragionevole, eppure nel romanzo, sia pure da opposti punti di vista, sono due personaggi inaccettabili come Truck e Mather a proporre una tale interpretazione: "Questo Indian Killer non è che un distillato della loro [degli indiani] rabbia” (321), dice il primo alla radio, mentre il secondo, in una delle sue le­ zioni, spiega che il killer indiano è "un'emanazione rivoluzionaria. [...] Gli indiani sono stati metaforicamente derubati della loro cultu­ ra e dei loro bambini dalla colonizzazione degli europei-americani. E adesso questo Indian Killer ha fisicamente e metaforicamente ru­ bato un bambino europeo-americano” (226). Persino l’idea che la danza finale nel cimitero - una sorta di fusione tra la Danza del gufo e la Danza degli spettri - sia da intendersi come preludio a un ritorno degli indiani scomparsi sul continente americano e a una cacciata dei bianchi, è in contrasto con l'episodio in cui Smith incontra un'anziana indiana, che sostiene di essere in possesso di una "mac­ china del tempo” in grado di portare Smith al momento dello sbarco di Colombo nei Caraibi. Il compito di Smith sarebbe quello di na­ scondersi e accoltellare Colombo, modificando così il corso della storia. Non è certo un caso che l’anziana si chiami Carlotta Loti. Co­ me la moglie del biblico Lott, che si tramuta in statua di sale per non voler abbandonare il passato, Carlotta è il simbolo ironico di un "ri­ torno al futuro” semplicemente impossibile. L'episodio sene dunque a sancire l’impraticabilità di quella prospettiva millenaristica legata alla Danza degli spettri, con la quale però il capitolo finale istituisce nei fatti un ambiguo legame. Si può dunque sostenere con una certa legittimità che il finale di Indian Killer è insoddisfacente da un punto di vista estetico e struttu­ rale in quanto palesemente poco coerente col resto del romanzo. Ma nella misura in cui è possibile parlare di fallimento dcH’immaginazione di Alexie, si deve sottolineare che tale fallimento estetico me­ dia e traduce un fallimento storico e politico che non è certo imputa­ bile ad Alexie. Come si può immaginare - per usare un termine-scor­ ciatoia - la rivoluzione? Come si può suggerire un orizzonte utopi­ co? Come si fa a trascendere il presente senza sconfinare nella meta­ fisica? Il capitolo finale di Indian Killer è prezioso forse proprio per la sua sfasatura rispetto all’insieme del romanzo, perché se la strut­ tura narrativa del testo suggerisce che la violenza non può trasfor73

Paul How ard Manship, Indian and Pranghorn Antelope (1914).

mare sul serio il mondo, la rabbia che alimenta la violenza non è una realtà della quale ci si può liberare facilmente, soprattutto in assenza di una strategia alternativa credibile. Alexie sa che la violenza produ­ ce violenza, ma sa anche che la violenza di chi ha subito un’oppres­ sione secolare è per certi versi comprensibile, anche se magari sem­ pre moralmente inaccettabile. Quello che rende il romanzo di Alexie diverso dal film di Ford sta proprio qui: mentre The Searchers si sfor­ za nel finale di occultare la violenza che pure per buona parte del film mette in primo piano, come se bastasse esiliare Ethan per fare salva la civiltà americana, Indian Killer non nasconde che, per quan­ to possa essere infine autolesionista, l'odio, la rabbia, la tentazione di ricorrere alla scorciatoia della violenza sono tentazioni reali, con le quali si devono fare i conti. Ripeto: a me sembra chiarissimo che se il capitolo finale suggerisce il potenziale "creativo” della violenza, la narrazione nel suo complesso dimostra l'esalto contrario: la vio­ lenza ha una carica essenzialmente distruttiva. Ma se Ford cerca di sublimare la violenza della colonizzazione, Alexie • rischiando l'in­ cocrenza e il naufragio estetico - ci ricorda che la tentazione della violenza è sempre lì, e per superarla occorre innanzi lutto non negar­ la, non fare finta che non esista. C’è una formula che Alexie ha usato più volte nei suoi testi; "So­ pravvivenza [oppure 'Poesia' ] = Rabbia x Immaginazione' .55 È una formula che lascia intendere come la rabbia da sola non basti e debba essere in qualche modo temperata e trasformata dall'imma­ ginazione. In Indian Killer l'immaginazione, però, si mette in un cerio senso al servizio della rabbia, questa volta non con l’intento 74

di mitigarla o incanalarla in un percorso costruttivo ma con quello di assecondarla, di darle libera espressione pur sapendo che - co­ me la narrazione dimostra - la rabbia non basta da sé a costruire un’alternativa. La stessa copertina del libro, che riproduce le due piume intrise di sangue con cui il killer firma i suoi delitti, sembra suggerire che almeno in parte l’autore riconosce come sua quella violenza. Al tempo stesso, però, la copertina suggerisce che il "cor­ po del delitto" è il libro stesso. La copertina del romanzo funziona dunque simbolicamente come il nome Scar in The Searchers, sug­ gerendo che il romanzo è sia l'agente sia (oggetto della violenza che mette in campo: un'espressione di rabbia sempre a rischio - co­ me accade con John Smith - di trasformarsi da omicida in suicida. Confinando nell’ultimo capitolo il killer in un cimitero, e sottoli­ neando che questi conta di "danzare per sempre’’, in un presente senza fine ("il killer non cade mai. La luna non tramonta mai"), an­ che Alexie - esattamente come Ford rispetto all’ingombrante pre­ senza di Ethan - sente in qualche modo l’esigenza di esiliare in una dimensione marginale (cosa c e di più periferico sul piano spazio­ temporale di un cimitero?) la figura di gran lunga più violenta del romanzo. Inoltre, l’alone spettrale del killer e degli indiani che a lui (o lei?) si uniscono, oltre a rafforzare - come ho cercato di spiega­ re altrove - l’ambivalenza di queste figure cimiteriali, si configura come un Altrove analogo al deserto di Ford e al "vento" della sua melanconica canzone conclusiva che trascina lo spirito inquieto di Ethan.36 Ma solo fino a un certo punto, Alexie, pur trasfigurandola a livello cerimoniale, riconosce che la violenza -"il desiderio di ri­ volta e di vendetta ”, come scrive Daniel Grassian - resta in fondo all’animo di molti indiani.37 Da questo punto di vista Alexie è cer­ tamente d’accordo con Marie quando, dinanzi a un professor Mather che insiste nel ritrovare la cifra più vera della Danza degli spettri "nella pace e nella bellezza", insiste sulla sua dimensione ri­ voluzionaria: "Se la Danza degli spettri avesse funzionato, lei non sarebbe qui. Sarebbe polvere’’. (290) Il killer che danza nei cimite­ ro, attorniato da altri indiani (o fantasmi indiani), è dunque una sorta di freudiana "formazione di compromesso’’, il cui scopo è esprimere e al tempo stesso contenere la rabbia indiana. Per Ford, al di là dell'incocrenza del suo finale, è relativamente facile sbaraz­ zarsi dello "Indian hater", visto che dall’orizzonte del film l’oggetto del suo odio è pressoché obliterato. Per Alexie, che i bianchi può solo sognare di vederli sparire, le ragioni dell'odio non sono supe­ rate anche se, specularmente a The Searchers, Indian Killer dimo­ stra che ricorrendo alla violenza - o, per dirlo con le stesse parole del romanzo, inseguendo il sogno di vedere un paio di occhi az­ zurri pieni di paura - gli indiani potrebbero finire col ritrovarsi in fronte i detestati, spietati, glaciali occhi di John Wayne.

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Note 1 Sherman Alexie. .My Heroes Have Never Been Cow-boys, in Id.. First Indian oh the Moon, Hanging Loose Press. New York 1993. p. 102. "Nel 1492 ogni indiano divenne immediatamente /una comparsa del Grande Western Americano". Qui c ove non altri­ menti specificato, le traduzioni sono mie. 2 La poesia fa parte del volume Jacklight, Henry Holt, New York 1984, pp. 12-13. ' Robert F. Berkoefer. Jr. The White Matt's Indian. Images of the American Indian from Columbus to the Present, Allred Knopf, New York 1978. 4 Come altre automobili americane, la Pontiac prende il suo nome da un indiano. In questo caso, dal leader Ottawa animatore della cosiddetta “Ribellione di Pontiac” ( 1763—1766), che non riuscì ncH'intcnto di cacciare i britannici dalla regione dei Gran­ di laghi. ! Louise Erdrich, Jacklight, cit., p. 12. * W. E. B. Du Bois, The Souls of Black Folk (1903), ir. it. R. Russo, Le anime del popo­ lo nero, a cura di Paola Boi, Le Lettere. Firenze 2007, p. 9. 7 James Welch, Winter in the Blood (1974), tr. it. P. Ludovici c G. Mariani, Invento nelsattgue. Savelli, Roma 1978, pp. 93, 97. * Sherman Alexie, My Heroes Have Never Been Cow-boys, cit. p. 102. ’ Sherman Alexie, Indian Killer, Atlantic Monthly, New York 1996; tr. it. M. Boc­ cinola, Indian Killer, Milano, Frassinelli 1997, p. 296. Tutte le citazioni sono dall'edi­ zione italiana e i riferimenti alle pagine verranno indicate in parentesi nel testo. 10 Jennifer Gillan, Reservation Home Movies: Sherman Alexies Poetry, "American Literature” 68 (March 1996), p. 102. “ La citazione è da Fredric Jameson, Fables ofAggression: Wyndham Lends, the Mo­ dernist as Fascist, University of California Press, Berkeley 1979, p. 94. Per una più di­ stesa articolazione delle lesi di Jameson si veda anche il suo The Political Uncon­ scious: Narrative as a Socially Symbolic Act (1981), tr. it. di L. Sosio, L’inconscio politi­ co: il testo narrativo come atto socialmente simbolico, Milano, Garzanti 1990. 12 The Searchers, regia di John Ford, Warner Bros. 1956. Richard Slotkin, Gunfighter Nation:. The Myth of the Frontier in TWentieth-Century America, Harper, New York 1992. p. 469. 14 Per il pubblico (e la storiografia) dell'epoca, scalpare era una pratica esclusiva­ mente indiana. Poi c'è stato chi ha cercato di dimostrare che, al contrario, furono i bianchi a introdurre questa pratica in Nord America, ma si tratta di una tesi che gode di assai poco credito tra gli studiosi più accreditati. Si veda in proposito James Axtell, The Unkindest Cut, or Who Invented Scalping? A Case Study, in Id., The European and the Indian. Essays in the Ethnohistory of Colonial North-America, Oxford University Press, Oxford 1981, pp. 16-35. ,s Christopher Sharrett, Through a Door Darkly: A Reappraisal of John Ford’s The Searchers, "Cincastc" (Fall 2006), p. 6. w Slotkin. Gunfighter Nation, cit., p. 471. 17 Nella realtà storica i Texas Rangers sono un gruppo paramilitare caratterizzato, soprattutto tra la seconda metà dell'ottocento e l'inizio del secolo successivo, da un ethos razzista e sono dunque piuttosto lontani dalla compagnia di buontemponi mes­ sa in scena da Ford. •“ Sharrett, Through a Door Darkly, cit., p. 7. 14 Su questo punto si veda Jonathan Freedman, The Affect of the Market: Economic and Racial Exchange in “The Searchers ", "American Literary History” 12 (Fall 2000), pp. 585-99, in particolare p. 595. 20 L'ultima scena del film mostra la porta della casa che si chiude mentre Ethan, di spalle, s'incammina verso il deserto. 21 Leslie M. Silko, Gardens in the Dunes, Simon and Schuster, New York 1999; Ja­ mes Welch, The Hearlsong of Charging Elk, Doubleday, New York 2000, tr. it. di F. Bandel Dragone, Il canto d’amore di Alce Impetuoso, Rizzoli, Milano 2000. Per una lettura del romanzo di Silko come riscrittura del genere della captivity narrative si veda Shari M. Huhndorf, Going Native: Indians in the American Cultural Imagination, Cornell University Press, Ithaca and London 2001, pp. 189-98. Per un’interpretazione del ro­ manzo di Welch come captivity narrative rovesciata, mi pennello di rimandare al mio

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Rewriting the Captivity Narrative: James Welch’s "The Heartsong of Charging Elk", in Ambassadors. American Studies i>t a Changing World, a cura di Massimo Bacigalupo c Gregory Dowling, Atti della XVI Conferenza biennale dell’AISNA, Busco Edizioni, Ra­ pallo 2006, pp. 214-19. 12 Si veda a riguardo, per quanto concerne il periodo coloniale, il saggio di James Axtell The White Indians of Colonial America, in The European and the Indian, cil. n Su questo tema si veda il bel libro di Shari M. Huhndorf, cit. Arnold Krupat, Red Matters, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2002, p. 103. Come scrive Donatella Izzo, la mise en abyme non solo "esibisce e autorizza", ma “tradisce necessariamente il testo mentre lo riproduce [...] negandone ogni presunta univocità" (D. Izzo, Introduzione: per una storia della mise en abyme, in Id., // racconto allo specchio, mise en abyme e tradizione narrativa. Nuova Arnica. Roma 1990, p. 11). Krupat, Red Matters, cit. (pp. 114-20) suggerisce che la violenza evocata da Alexie nel romanzo può essere considerata come una sorta di versione indiana della politica della négritude‘. una politica della rougetude il cui "razzismo" anti-bianco servirebbe a combattere il razzismo anti-indiano. 27 Per un'analisi del romanzo come “anti-detective novel" rinvio al mio La penna e il tamburo. La letteratura degli Stati Uniti e gli indiani d’America, ombre corte, Verona 2003, pp. 139-54. 2K Si veda in proposito Tina Chen, Towards an Ethics of Knowledge, "MELUS”, 30 (Summer 2005), p. 164. 2“ I "wannabe Indians” sono quei bianchi che vogliono essere considerati indiani e ricorrono o a genealogie inventate, oppure ad affinità di ordine "spirituale" con l'uni­ verso indiano. 30 Alexie ricorre spesso alla figura del doppio nei suoi testi. Si veda in proposito l’in­ teressante articolo di Karen Jorgensen. White Shadows: The Use of Doppelgangers in Sherman Alexie’s "Reservation Blues", "Studies in American Indian Literatures" 9 (Winter 1997), pp. 19-25. ” Il legame tra i due è ulteriormente sottolineato dal sogno di Wilson in cui prima vede Smith accoltellare le sue vittime, c poi è lui stesso a brandire il coltello c a colpire un bianco dopo l’altro. 32 Per la mia precedente lettura de) finale del romanzo, si veda Mariani, La penna e il tamburo, cit., pp. 148-51. 33 Krupat, Red Matters, cit., p. 121. 34 Come si è fatto cenno più sopra, Aaron mette assieme la sua banda di picchiatori bianchi per vendicare il fratello David, ucciso dopo aver vinto al casinò di una riserva indiana, ma alla fine del romanzo si scopre che a commettere il delitto sono stati due bianchi. 3S La si può ritrovare sia nel libro di poesie Old Shirts and New Skins, University of California Press, Los Angeles 1993, sia nella raccolta di racconti The Lone Ranger and Tonto Fistfight in Heaven (1993), tr. it. Maria Teresa Marenco, Lune Ranger fa a pugni in paradiso, Milano, Frassinelli 1995. ’* Mariani, La penna e il tamburo, cit., p. 154, n. 26. 37 Daniel Grassian, Understanding Sherman Alexie, University of South Carolina Press, Columbia, SC 2005, p. 126.

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POST-WESTERN ESEMPLARI: LONESOME DOVE DI LARRY MCMURTRY E BLOOD MERIDIAN DI CORMAC MCCARTHY

Stefano Rosso

Every hero becomes- a bore at last. Ralph Waldo Emerson, Representative Men, 1845’ 1. Sul "post-western"

“Post-western” è un termine impreciso ma ormai frequentemente usato dai critici per designare una produzione letteraria e soprattutto cinematografica successiva alla fine degli anni Sessanta del Novecen­ to, quando il genere western raggiunse l’apice della sua diffusione ne­ gli Stati Uniti e nel mondo intero grazie alla televisione; subito dopo comincia il suo rapido declino. Come altri termini che contengono il prefisso “post” - si pensi per esempio all'inflazionato “postmoderno” - il suo significato non è semplicemente inteso in una prospettiva cronologica (viene dopo il western), ma rinvia anche a una dimensio­ ne meta-storica (riflette sul western, lo interroga, lo decostruisce).2 Post-western sta soprattutto a indicare una modalità di fare western che prende le distanze dalla tradizione classica, cioè quella che nel ci­ nema si affermò dopo lawento del sonoro e soprattutto negli anni Cinquanta con memorabili pellicole di John Ford, Howard Hawks, Anthony Mann, Fred Zinneman, William Wyler e molti altri, e che in letteratura riguarda romanzieri di straordinario successo anche se oggi quasi sconosciuti, tra cui i più noti sono Owen Wister, Zane Grey e Louis L'Amour? In questo senso abbastanza ampio, tratti post-we­ stern erano già presenti, anche se nascosti sotto una superficie di ste­ reotipi di genere, in opere come Duello al sole {Duel in the Sun, 1946) di King Vidor o Latitante indiana (Broken Arrow, 1951 ) di Delmer Da­ ves, o ancora Cimarron (id., 1960) di Anthony Mann, per limitarsi a esempi molto noti; opere, cioè, che contengono elementi di autori­ flessività (e aulodecostruzione), non estranei peraltro alla produzio­ ne dei capolavori di Ford e di Hawks stessi. Da un punto di vista formale non esistono caratteristiche precise per definire il post-western, sebbene si possa sostenere che in genere le opere, per l’ambito letterario, tentino di mettere in crisi modalità di realismo ottocentesco ancora molto diffuse nel secolo scorso, in particolare la voce narrante onnisciente e monologica. Il termine post-westcm, che viene usato soprattutto in riferimento al campo dell’indagine tematica e ideologica, si fonda su una certa ambivalen­

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za:4 il post-western da un lato riprende stereotipi e situazioni formulaiche del western classico, ma al tempo stesso li modifica in modo più o meno radicale, complicando l’interpretazione, interrogandosi su questioni sia storiche sia metasloriche di eticità, di gender, di raz­ za e di etnia,5 proponendo scampoli di lettura critica del mito della frontiera statunitense affermatosi prepotentemente a partire dalla fine dell'ottocento.0 In questo senso si può distinguere tra “post-western” e “anti-western”: il secondo termine richiama un'opposizione esplicita, quasi programmatica, ad alcuni contenuti del western, mentre il primo è decisamente più ambiguo e problematico. Un esempio di ''anti-western'’ è Gli avvoltoi hanno fame (Two Mules for Sister Sara, 1970) di Don Siegel e ancora di piti lo è l’esilarante paro­ dia del genere proposta da Mel Brooks in Mezzogiorno e mezzo di fuo­ co (Blazing Saddles, 1974).7 O forse si potrebbe sostenere che l”’antiwestern” è una sottospecie del “post-western’’, ma ovviamente non è né l’unica né la più significativa/ L’elenco delle caratteristiche che possono fare di un romanzo o di un film un post-western è abbastanza variegato e sicuramente non troverebbe d’accordo molti studiosi. Mi limito perciò a elencare al­ cuni "ingredienti” che permettono di riconoscere un post-western, tenendo ben presente che tale riconoscibilità non è molto dissimile da quella del western classico: come ho già sottolineato nell'introduzione a questo volume, il western classico ha un tasso di riconoscibi­ lità elevatissimo, forse più di ogni altro genere, non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo occidentale (e non solo in quel­ lo): basta qualche semplice capo di vestiario (importante il cappel­ lo!). una pistola, un deserto assolato e magari qualche spunzone di roccia; niente donne e, se presenti, lontane dal centro della scena. Tra i temi visitati dal post-western, emerge molto frequentemente “la fine del Selvaggio Ovest”, quel periodo in cui la “civiltà” e le sue norme non si sono ancora totalmente affermate sul territorio di fron­ tiera, ma in cui ci si rende conto dell’inevitabilità dell’avvento di un “progresso" nei confronti del quale peraltro si nutrono fòrti dubbi (un buon esempio è il già citato Cimarron di Mann). Il tono è più ele­ giaco che trionfalistico: si pensi, nella carriera di John Ford, alla dif­ ferenza tra il celebrativo II cavallo d’acciaio (The Iron Horse, 1924) e il dimesso e malinconico II grande sentiero (Cheyenne Autumn, 1964). L'ultima rapina, l’ultima sparatoria, l’ultimo bisonte ucciso (o rispar­ miato), l'ultima resistenza indiana, l'ultima diligenza ormai soppian­ tata dal treno, a volte perfino l'ultima cavalcata, vengono visti in que­ ste opere con occhio al tempo stesso nostalgico e disincantato/ Nella maggior parte dei casi il post-western propone una visione dei nativi americani lontana da quella elementare dicotomia india­ ni-cowboy tipica dei dime novels ottocenteschi, del periodo del cine­ ma muto e dei B movies degli anni Trenta. Va detto che già nel we­ stern classico (si pensi al già citato L’amante indiana) erano emerse visioni critiche del razzismo americano ottocentesco e del genocidio delle popolazioni native. Nel post-western questa via viene spesso se­ 79

guita dando spazio a ricostruzioni storiche abbastanza rigorose, at­ tente alle conoscenze antropologiche, rifiutando l'elementare rove­ sciamento del rapporto tra "buoni e cattivi" emerso all'inizio degli anni Settanta (come nel semplicistico Soldato Blu},'0 facendo recita­ re i nativi stessi, arrivando a far parlare le popolazioni indiane nelle loro lingue e sottotitolando le pellicole come è avvenuto in Balla coi lupi (Dances with Wolves, Kevin Costner 1990)." In alcune di queste opere (come Silverado, Posse, Gli spietati}, compaiono finalmente anche gli afroamericani, che il mito della frontiera aveva escluso dal­ la narrazione ma che in realtà avevano partecipato alla conquista del West in gran numero.12 Analoga de-semplificazione riguarda la dico­ tomia “eroe vs fuorilegge". Altro settore privilegiato dal revisionismo post-westem è quello dei rapporti dì gender. Nella maggior parte della produzione western classica, più ancora in letteratura che nel cinema, l'intreccio si focalizza su comunità maschili in cui il tortissimo legame tra i compo­ nenti (male bonding} - che siano cowboy, trapper, uomini di legge o banditi poco importa - tende a escludere o a marginalizzare le donne (con alcune eccezioni, però), pur mostrandosi caparbiamente omofobico. Questo permette agli studiosi di psicanalisi di sbizzarrir­ si sulle evidenti latenze omosessuali dei pistoleri e ai sociologi di mettere in luce il risentimento del maschio novecentesco in crisi di identità di fronte alle conquiste del mondo femminile.13 In realtà gli stereotipi di gender erano già stati interrogati da alcuni grandi film del secondo dopoguerra, primo fra tutti Un dollaro d'onore (Rio Bra­ vo, 1959) di Howard Hawks.14 Certo, dopo gli anni Settanta il ruolo delle donne nel western si è fatto sempre più evidente, anche se trop­ po spesso sotto forma di elementari rovesciamenti.13 Un punto d'ar­ rivo ideale di questa trasformazione è costituito dal racconto di An­ nie Proulx, Brokeback Mountain (1998), reso celebre dal film omoni­ mo di Ang Lee (2005), in cui viene finalmente affrontato il tabù del­ l'omosessualità tra mandriani.1* Il protagonista del post-western, pur conservando una parte del­ l’aura eroica dell’epica classica, ci viene presentato come un soggetto con profonde difficoltà nel vivere sociale. In altre parole, un alienato: tende a disapprovare il progresso economico e sociale (talvolta perfi­ no quello tecnologico, grazie a una sorta di mentalità protoecologista mescolata a conservatorismo), ma non si fa portatore di un progetto alternativo. Si avvicina per certi aspetti allo sguardo disincantato del detective della tradizione hard-boiled come il Philip Marlowe di Ray­ mond Chandler, un "eroe" che si impegna a risolvere il singolo caso delittuoso obbedendo a un codice morale del tutto personale, senza riconoscersi nel sistema sociale da cui dipende l’amministrazione della giustizia. In questo senso alcuni critici tendono a considerare post-westem anche alcuni film e romanzi con ambientazioni urbane, ma che contengono evidenti simboli e situazioni del western.17 A queste caratteristiche se ne potrebbero aggiungere altre; per esempio, va evidenziata una visione della violenza che prende le di­ 80

stanze, più o meno consapevolmente, dall'idea di rigenerazione alla base dei fondamenti puritani della cultura statunitense e a cui Ri­ chard Slotkin ha dedicato tre saggi che hanno lasciato una traccia profonda negli studi sul western (e su tutti gli American Studies).' * Come ha suggerito Slotkin, il western raggiunge la sua massima dif­ fusione e incomincia il suo declino proprio in concomitanza con il palesarsi, agli occhi degli increduli americani, della sconfitta in Viet­ nam. Ora, pur rifiutando una lettura deterministica della crisi del western (che forse si sarebbe verificata comunque), non pare azzar­ dato collegare i dubbi sulla legittimità di quell'espansionismo inter­ no, che portò a espropriare i territori agli indiani e ai messicani, agli analoghi dubbi sul ruolo imperialista degli Stati Uniti in Indocina. È significativo che il Vietnam film e il Vietnam novel rubino buona par­ te dello spazio occupato precedentemente dal western e al tempo stesso che molte delle innumerevoli pellicole dedicate a quel conflit­ to conservino in modo più o meno critico tratti del western, da Ber­ retti verdi (Green Berets, 1968) di John Wayne, a II cacciatore (The Deerhunter, 1978) di Michael Cimino, a Apocalypse Now (id., 1979) di Francis Ford Coppola, fino agli innumerevoli B movies e ai ro­ manzi seriali in cui i vietcong sono più simili a nativi americani che a guerriglieri asiatici.19 Dopo II mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) di Sam Peckin­ pah, western iperviolento di ambientazione messicana, chiaramente allusivo al conflitto indocinese (e uscito un anno dopo l’offensiva del Tet), il genere sembra abbandonare definitivamente l’idea che la vio­ lenza sia contenibile all'interno dì un rituale stilizzato ed elegante, di alta ieraticità estetica, come lo era il duello nella via centrale del vil­ laggio, nello stesso modo in cui la dolorosa storia del Novecento ci ha insegnato che la guerra non è mai un evento che coinvolge soltan­ to i militari di professione e gli eserciti convenzionali, ma si estende alla popolazione civile. Con la guerra in Vietnam leccezionalismo americano sembra giunto a una svolta: la violenza fatica a trovare la via della giustificazione ideologica anche presso gli statunitensi. Le modalità del post-western sono decisamente piti evidenti nel cinema che nel romanzo. La ragione va cercata nel fatto che il siste­ ma di censura e autocensura era molto più oppressivo a Hollywood che presso l’editoria americana: il western divenne nel secondo do­ poguerra anche uno strumento per mettere in scena temi attuali e scottanti ma ancora tabù, come la sessualità e le questioni di gender, la discriminazione razziale ed etnica, la rilettura critica della fonda­ zione degli Stati Uniti, nascondendoli dietro una ambientazione sto­ rica passata e mitica. Paradossalmente fu proprio la maggiore li­ bertà di cui godette la letteratura a ostacolare la nascita di romanzi western che si interrogassero sulla loro tradizione di genere. Un esempio emblematico della pertinenza di questa ipotesi è fornito da Louis L’Amour, il romanziere che dominò la scena della letteratura western del secondo dopoguerra fino agli anni Settanta.20 L’Amour, pur dotato di creatività negli intrecci di avventura, dimostrò sempre 81

grossi limiti nell’affrontare questioni al centro degli interessi dell'e­ poca, come la sessualità (e fu incapace di proporre un recupero del vernacolo che rendesse più convincenti le sue storie). Ma forse, va aggiunto, furono proprio questi limiti a farlo diventare quello straor­ dinario fenomeno commerciale. I due romanzi post-western a cui farò accenno qui di seguito sono stati scelti perché hanno fortemente segnato la produzione letteraria western degli ultimi ventanni e hanno avuto un impatto anche sul cinema e sulla televisione; anzi, si potrebbe dire che ogni opera suc­ cessiva ha dovuto fare i conti con questi. Per coincidenza sono ap­ parsi nel 1985, sorta di annus mirabilis del post-western letterario. Lonesome Dove di Larry McMurtry si è imposto subito sia presso il pubblico sia presso la critica che gli ha attribuito il premio Pulitzer nel 1986, caso molto raro per la narrativa western;-’1 anzi il successo è stato tale da indurre McMurtry a realizzare una tetralogia, facendo seguire a Lonesome Dove due prequels e un sequel.22 Blood Meridian di Cormac McCarthy, pur riscuotendo un favorevole giudizio da par­ te della critica, ha raggiunto una moderata diffusione presso il gran­ de pubblico solo più di dieci anni dopo, grazie alla grande notorietà delle sue opere successive, la "Trilogia della frontiera” (All the Pretty Horses, The Crossing e Cities of the Plain, 1992, 1994 e 1998),2J Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 20Q5) e La strada (The Road, 2006), vincitore del premio Pultizer nel 2007. Come vedremo le strategie dei due romanzieri sono molto diverse: una versione nar­ rativa della "New Western History”, quella scelta da McMurtry; una riflessione sulla violenza post-Vietnam, quella di McCarthy24 2. Lonesome Dove: "cattle men without a cause"

Concepito negli anni Settanta come sceneggiatura per un ambizioso film western (con John Wayne, James Stewart e Henry Fonda) che non fu mai reali zzato,2 s Lonesome Dove sceglie una modalità narrati­ va che tende a nascondere la voce narrante extradiegetica e a sottoli­ neare il ruolo dei dialoghi. Il punto di vista oscilla tra i vari parteci­ panti, con una netta predilezione per gli ex ranger Gus e Cali e in va­ rie circostanze per il giovane Newt, e spesso ponendosi nella pro­ spettiva di personaggi secondari ma importanti. Dunque una voce narrante sostanzialmente ottocentesca, ovviamente già postcinema­ tografica, con una notevole capacità di sfruttare il carattere vivido del paesaggio del Sudovest e del Nordovest attraverso la prospettiva circoscritta dei singoli personaggi.20 Queste caratteristiche di scrittu­ ra ancora abbastanza tradizionali permettono un rapido riassunto dell'intreccio, sebbene il romanzo si dipani in percorsi intricati per più di novecento pagine. La vicenda è ambientata in un periodo di poco successivo al 1876 (infatti si accenna nel capitolo 90 alla sconfitta di Custer), l’epoca d’oro dei trasferimenti delle grandi mandrie dal Sudovest verso il 82

Nord degli Stati Uniti. Augustus (Gus) McCrae e Woodrow Call, due ex ranger del Texas dal passato onorevole, ora si dedicano aH’allevamento del bestiame vicino al villaggio di Lonesome Dove, in una lan­ da desolata del Texas, quasi al confine con il Messico. Lì giunge Jake Spoon, altro ex ranger scomparso da dieci anni, il quale decanta in modo così convincente i pascoli del Montana da indurli a intrapren­ dere un viaggio epico di quasi 5000 chilometri che, lasciato il Texas meridionale, li porta in Oklahoma, Kansas e Nebraska, per giungere in Wyoming e infine nei verdi tenitori del Montana, non lontano dal confine con il Canada; insomma una formidabile panoramica delle Grandi Pianure. In questo lungo viaggio la mandria - guidata da Gus e Cali, dall'a­ froamericano Deets, dal maturo cowboy Pea Eye, dal diciassettenne Newt (in fase di Bildtuig), da un gruppo di cowboy non tutti molto esperti e da un cuoco messicano eccentrico - deve attraversare lun­ ghi tratti di deserto e innumerevoli corsi d'acqua talvolta pericolosi: Nueces, San Antonio, Red River, Canadian, Republican, Yellowsto­ ne, Marias e Milk. Si parte con un sole torrido in primavera e si arri­ va con la neve. L’intreccio è vivacizzato da episodi in buona parte drammatici (dove però non manca mai lo humor): quattro personag­ gi, due dei quali di primo piano (il nero Deets e lo stesso Gus) perdo­ no la vita; Lorena, una ex prostituta che si unisce al viaggio, viene ra­ pita da un indiano feroce, violentata da un gruppo di banditi e salva­ ta in extremis da Gus; la mandria è colpita da tempeste di sabbia, pioggia e grandine, e da un apocalittico sciame di cavallette; un fiu­ me nasconde serpenti letali; più volte compaiono indiani, talvolta spauriti e affamati, altre volte assetati di sangue; non mancano grizzly giganteschi e criminali spietati. In questo intreccio di viaggio si inserisce la vicenda secondaria dello sceriffo July Johnson che da Fort Smith in Arkansas si dirige verso il Texas alla ricerca di Jake Spoon, accusato di omicidio colpo­ so, e di Elmira, la moglie incinta che, approfittando dell’assenza del marito, decide di sfuggire alle costrizioni familiari sul fiume Arkan­ sas. Ovviamente i tre percorsi confluiranno in un unico punto verso i tre quarti del romanzo, quando July ed Elmira si fermeranno in Ne­ braska presso il ranch di Clara, ex “fidanzata” di Gus e ora moglie di un allevatore moribondo. E proprio a casa di Clara, Gus vorrà fer­ marsi in un inspiegabile impulso romantico di ritorno al passato. Dopo la sosta in Nebraska, la mandria riprende il viaggio verso nord finché, in seguito a uno scontro con gli indiani Gus viene ferito, subisce l’amputazione di una gamba e piuttosto che perdere anche la seconda decide di lasciarsi morire, non prima di aver strappato al so­ dale Cali la promessa di ricondurre il suo corpo in Texas.27 Desiderio insensato che Cali esaudisce la primavera successiva, percorrendo a ritroso e da solo quel viaggio interminabile che lo riporta al punto di partenza, alla desolata Lonesome Dove. Raccontata così forse la storia non risulta troppo attraente. Tutta­ via, nelle 940 pagine del suo svolgersi, la vicenda permette di toccare 83

Martin S. Garretson, X Holdup on the Kansas Pacific-1869 (1910).

una quantità di temi e di motivi del grande racconto western e di for­ nire una rilettura che - come ho già sottolineato - ha profondamente influenzato le opere successive e grazie alla sua fortunata trasposi­ zione in sceneggiato televisivo, ha ridato vigore a un settore in crisi.28 Leggere Lonesome Dove è come far scorrere davanti agli occhi una serie di immagini del cinema e della letteratura western: ma a lutti i déjà vii si associano articolazioni narrative e situazioni se non pro­ priamente nuove per lo meno denaturalizzate. La ricostruzione storica è sostanzialmente rigorosa e questo non deve stupire, perché McMurtry aveva già mostrato la sua capacità di ricreare l'atmosfera di un'epoca in romanzi precedenti ambientati in tempi più vicini ai nostri, in particolare nell’opera prima Hud il sel­ vaggio (Horseman, Pass By, 1961) c nel notissimo L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1966), da cui furono tratti due film di succes­ so.2'4 McMurtry proviene infatti da una famiglia di allevatori, è cre­ sciuto in un ranch nel Texas settentrionale ed è stato un avido lettore di narrativa e storia del West.10 Come ha notato Elliott West (nomen omen’), in Lonesome Dove salta agli occhi una sola curiosa impreci­ sione storica: nel percorso verso nord la mandria non attraversa mai la ferrovia che a quell’epoca era presente con ben tre linee: la Atchinson, Topeka and Santa Fé, la Union Pacific e la Northern Pacific.” Me Murtry, interpellato sulla questione, rispose placidamente che nella fase di scrittura aveva preso un appunto pcr un attraversamen­ to della Union Pacific, ma poi lo aveva perso...12 Fonte di interesse del romanzo non è soltanto il rigore storico e geografico, rispettato anche per quel che riguarda le città toccate (S. Antonio, Austin e Fort Worth in Texas, Fort Smith in Arkansas, Dod­ ge City in Kansas, Ogalalla in Nebraska e Miles City in Montana). Ol­ tre a ricreare i luoghi e i paesaggi dell’epoca, Lonesome Dove mette in 84

scena le sensazioni e il sistema di credenze dei personaggi che ani­ mano la vicenda, interrogandosi su una serie di luoghi comuni del mito della frontiera, immaginando le domande che pionieri e cow­ boy si erano posti più di cent'anni prima. Ha scritto McMurtry re­ centemente: “Una delle cose che ho fatto nei miei venti romanzi è stato [...] cercare di immaginare che cosa la parola 'frontiera' signifi­ casse per i miei nonni (in opposizione, per esempio, a ciò che signifi­ cava per Frederick Jackson Turner)...’’/-' Si tratta dunque di un esplicito programma revisionista con un particolare interesse per il punto di vista deH’“uomo qualunque". Uno dei tratti distintivi più noti del western è il paesaggio. Mentre nel western mitico costituisce un costante sfondo romantico, usato per connotare fortemente le emozioni prodotte dall’intreccio (pro­ prio come buona parte della musica extradiegetica dei film), nel ro­ manzo di McMurtry esso assume il ruolo di attore materiale e di mo­ tore attivo della vicenda. In questo sfondo non romanticizzato e for­ temente conflittuale si colloca il lungo viaggio di Gus e Cali, che ri­ legge il periodo storico abbastanza breve dei cattle trails, i percorsi del bestiame dal Sudovest verso nord - dalla fine della Guerra civile ( 1865) alla seconda metà degli anni Ottanta - ma che la costruzione mitica del West ha dilatato a dismisura. La voce narrante del roman­ zo sottolinea la brevità del perìodo spiegandoci che esso riguarda so­ lo una parte della vita dei due protagonisti (e infatti occupa solo uno dei romanzi della tetralogia), ma soprattutto si interroga sull’aspetto mitico dell’impresa. Tale aspetto, indubbiamente presente, viene co­ stantemente messo in questione dalla mancanza di motivazioni e dal suo esito decisamente dubbio. Se Gus e Cali sono diventati allevatori dopo aver abbandonato laUivilà di ranger, non è per un atto medita­ to di volontà. In Lonesome Dove sembra che la maggior parte delle scelte siano in realtà accidenti del destino, cose che capitano e alle quali non ci si può sottrarre. Questo aspetto verrà poi ulteriormente sottolineato in Dead Mans Walk, il pregi tei, in cui si scopre che Gus e Cali erano diventati tutori dell’ordine per caso e in giovane età. Il mito del West e la sua rappresentazione epica hanno attribuito al trasferimento del bestiame una dimensione eroica simile a quella dei viaggi dei pionieri che si insediarono nei territori di frontiera. Nel caso di Gus e Cali l’idea di andare in Montana sembra più legata alla incontrollabile pulsione al movimento che caratterizza Cali, che a uno scopo preciso (aprire una nuova via del bestiame, come fecero alcuni famosi allevatori,34 organizzare ranch negli inesplorati terri­ tori del Nord, realizzare grandi guadagni). Qui mandria e cowboy partono per motivi non chiari e prima di giungere a destinazione metà dei personaggi principali (a cui nel frattempo il lettore si è affe­ zionato) perdono la vita in situazioni non particolarmente eroiche. Una volta giunti in Montana (lo si scoprirà nel sequel) l’impresa si di­ mostra un fallimento dal punto di vista economico. Che si tratti di un viaggio determinato da forze ideologiche della storia dominanti ma a cui il gruppo non aderisce con vera partecipazione è chiara­ 85

mente dimostrato dal fatto che alla morte di Gus (episodio che ha molto peso nell’economia dell'intreccio) Cali non esita a ripercorrere tutto il viaggio a ritroso solo perché lo ha promesso all'amico moren­ te. La sua ansia di muoversi non ha nulla a che vedere con la nota “social mobility’’ dalla funzione altamente democratica propaganda­ ta da Turner:35 è semmai un atto di individualismo fine a se stesso che impedisce a Cali di assumersi la responsabilità di un figlio (Newt, avuto da una prostituta, che non riesce a trovare il coraggio di riconoscere) e dei cowboy che hanno percorso quasi 5000 chilo­ metri per scortare la sua mandria. E per un attimo il romanzo ci la­ scia la sensazione di voler terminare con Cali, tornato in Texas con la bara, che contempla il rozzo tumulo che copre quel che resta del cor­ po di Gus, offrendo in qualche modo la possibilità di una lettura edi­ ficante sul concetto di amicizia maschile, che ribadisca i valori del male bonding. Tale ipotesi viene subito negata: prima si crea la situa­ zione comica di un gruppo di pionieri che scambiano la scritta sulla sepoltura disadorna per l'indicazione della bottega di un maniscal­ co; poi, con un anticlimax che ha lasciato sconcertati molti lettori, il romanzo si chiude molto bruscamente sul racconto di Wanz, il pro­ prietario del saloon-bordello di Lonesome Dove, che si barrica in una stanza dell'edificio dopo avervi appiccato il fuoco e muore tra le fiamme, disperato perché la sua prostituta prediletta se n’è andata: “Quando lei è partita, Wanz non ha retto” disse Dillard. “È rimasto nel­ la sua camera per un mese e poi ha bruciato tutto.” ‘'Chi?” domandò Cali, fissando la cenere. “La donna. Dicono che gli mancava quella puttana” [“The woman. They say he missed that whore.” ] (LD, cap. 102, p. 862, miei i corsivi, trad, modificata).

Mettere fine a novecentoquaranta pagine di avventure con la pa­ rola “whore’’! Difficile pensare a un anticlimax più brusco. Che cosa rimane di edificante in un finale di questo tipo? Lo sceneggiato televisivo, per altro pregevole (soprattutto l’inter­ pretazione di Robert Duvall nel ruolo di Gus) ha preferito modificare il finale, facendo seguire al racconto del suicidio di Wanz, il tentativo da parte di un giornalista di Denver di strappare a Cali una dichiara­ zione. Dice il giornalista: "So che lei era il piti famoso ranger del Texas. Dicono che ha fondato il primo ranch in Montana. Dicono che lei è un uomo dalle grandi visioni’’. Al che Tintervistato risponde con una frase intraducibile, “Yes, a hell of a vision”.** Collocare questa scena alla fine, con Cali che rifiuta di rispondere al giornalista, per­ mette di riproporre il cowboy come figura eroica: il vero eroe, infatti, è di poche parole, non rilascia interviste, non pecca di orgoglio. Ben diverso è chiudere una storia di queste proporzioni con la panila li 1 M whore . Un altro luogo comune centrale nel tipico racconto western è quello del cosiddetto “code of the West”, il codice del West. Gran par­ te delle narrazioni sottolineano il fatto storico per cui nei territori di 86

frontiera non era consuetudine applicare la legge come nell'Est: la giustizia era sommaria e sbrigativa, ma ritenuta equa perché adatta a situazioni “limite”. Tale idea sta alla base del notissimo II virginiano di Owen Wister in cui, in base appunto al codice del West, il pro­ tagonista si trova costretto a dare il suo assenso all'impiccagione di un amico coinvolto in un furto di bestiame. In Lonesome Dove, in più di un'occasione, Cali si lancia all'inseguimento di chi gli ha rubato anche pochissimi cavalli con una caparbietà inspiegabile, fino al punto di ritenere giusta l’impiccagione del caro amico Jake Spoon (cap. 74). La sua adesione al codice del West (in Texas il furto di ca­ valli veniva effettivamente punito con la morte)37 è fortemente con­ traddittoria perché, come Gus stesso ammette, gran parte dei cavalli e del bestiame che stanno spostando al Nord è stato da loro rubato in Messico (si vedano i capp. 9 e 11 ): “La vita è strana” disse Augustus. "Tùtti questi bovini e il novanta per cento dei cavalli sono tubati, eppure una volta eravamo rispettabili tu­ tori della legge. Se arriviamo in Montana dobbiamo darci alla politica. Se quel maledetto posto verrà promosso alla dignità di stato tu f inirai per diventare governatore. E allora passerai il tempo a far approvare leggi contro i ladri di bestiame." "Vorrei far approvare una legge contro di te” disse Call. (LD, cap. 24, p. 222, trad, modificata)

Tuttavia anche il lettore meno accorto è stato messo nelle condi­ zioni di interrogarsi su questo atteggiamento contraddittorio grazie a una elementare strategia narrativa usata con maestria da Mark Twain in Le avventure di Huckleberry Finn. Twain, infatti, aveva de­ nunciato il razzismo mostrando lo scontro doloroso tra i pregiudizi di Huck e il suo "buon cuore”, che alla fine risultava trionfante. In Lonesome Dove la strategia è analoga, ma rovesciata: il giovane Newt nutre fin dall'inizio (cap. 11 ) forti dubbi sul furto dei cavalli al di là della frontiera con il Messico, ma li mette a tacere fidandosi cieca­ mente di Cali, personaggio che ammira profondamente: Era sconcertante che un fiume basso e fangoso come il Rio Grande rappresentasse una differenza così decisiva tra quello che era lecito e quello che non lo era. Nel Texas, il furto dei cavalli era un reato da im­ piccagione, e molti di quelli che finivano impiccati per averlo commes­ so erano cowboy messicani che avevano attraversato il fiume per fare più o meno ciò che stavano facendo loro. [...1 Evidentemente, se attra­ versavi il fiume per farlo non era più un reato f... 1 Newt non aveva la sensazione che stessero facendo qualcosa di sba­ gliato...altrimenti, il capitano [Cali] non l'avrebbe fatto. (LD, cap. 11, pp. 124-25)’*

Ed è ancora Newt a venire usato come filtro della narrazione extradiegetica quando, in seguito al furto di dodici cavalli da parte di indiani affamati, Cali si lancia in un folle inseguimento e in questo modo causa la morte del migliore dei suoi uomini, il nero Deets (cap. 87

90).39 Dopo la sepoltura i cowboy riprendono il viaggio, ma procedo­ no per pura forza d’inerzia: lo scopo è ormai totalmente sfumato. E la successiva morte di Gus non potrà che radicalizzare i dubbi. Gli "eroi" di Lonesome Dove, per quanto accattivanti, dotati di hu­ mor e originalità, non sono propriamente gli eroi monologici che si incontrano in buona parte della tradizione western. Si è già visto che sono ladri, compiono atti irresponsabili che comportano la morte dei loro compagni e amici, e, come nel caso di Gus, sono pigri, ama­ no il whisky e il gioco delle carte più del lavoro, frequentano i bordel­ li, si perdono in interminabili chiacchiere, o, come è il caso di Cali, sono incapaci di esprìmere i propri sentimenti al punto di non rico­ noscere un figlio. L’"umanità” e i difetti li rendono meno eroici, ma sicuramente più vicini alla quotidianità del lettore. Come insegna l'epica classica, e come ribadì James Fenimore Coo­ per, un eroe degno di essere chiamato tale esige un antagonista analo­ gamente degno: più è eroico il secondo più lo diventa anche il primo. In Lonesome Dove le cose vanno abbastanza diversamente. Gli india­ ni "eroici” sono quelli che Gus e Cali hanno combattuto in gioventù quando erano ranger. Ora essi rimangono un pericolo incombente, ma non diverso dalle avversità atmosferiche, dagli animali pericolo­ si, dai fiumi da attraversare. In alcuni casi gli incontri con gli indiani (neanche troppo frequenti) non comportano grossi rischi; anzi, una volta sono i nativi stessi ad aiutare il giovane Newt a ricongiungersi ai compagni. Altre situazioni diventano pericolose per la difficoltà di comunicare o per le condizioni di sofferenza in cui gli indiani si tro­ vano a vivere, come nella scena già citata in cui viene ucciso l'afroa­ mericano Deets. Call, Gus e Deets hanno inseguito gli ignoti ladri di dodici cavalli poco pregiati e scoprono che i responsabili sono degli innocui nativi affamati. Deets, andato in avanscoperta, riferisce: "Ci sono soprattutto donne e bambini. Sono molto poveri, capitano." "Come sarebbe a dire molto poveri?” "Sarebbe a dire che hanno fame” rispose Deets. "Hanno già fatto a pez­ zi un cavallo." "Mio Dio” disse Augustus, "hanno rubato i nostri cavalli per mangiar­ li?” [-.] Erano appena una ventina, in maggioranza donne, bambini e vecchi. Cali vide solo due indiani che sembravano in età di combattere, e non erano altro che ragazzi. Avevano sventrato il cavallo e adesso tagliava­ no a pezzi le interiora e le mangiavano. [...] "Credo che non siano i temibili indiani delle pianure di cui abbiamo tanto sentito parlare” disse Augustus, (cap. 90, p. 728).

Gli autori del furto sono quasi disarmali - hanno in tulio un fucile e qualche lancia - ed è proprio questa situazione non prevista a con­ durre alla tragedia. Gli indiani si ritraggono e lasciano sul campo un bimbetto cieco. Deets lo prende in braccio e un giovane guerriero, fraintendendo le intenzioni del nero, lo colpisce a morte con una lan­ cia, morendo a sua volta sotto le pallottole di Gus e Cali. La scena 88

drammatica c commovente consena un vago alone eroico non per lo scontro tra indiani e cowboy, ma semmai per il modo in cui Deets, già trafitto dalla lancia, rifiuta di lasciare cadere a terra il bambino che ha preso in braccio. Scesero correndo da Deets, che teneva ancora tra le braccia il bambi­ no, sebbene avesse due spanne della lancia piantate nel corpo. “Lo prenda, capitano" disse, tendendo il bambino a Cali. "Non voglio posarlo in tutto quel sangue". Poi crollò sulle ginocchia (cap. 90, p. 730)

In un solo caso l'antagonista indiano è così feroce e pericoloso da richiedere un comportamento "eroico”. Si tratta di Blue Duck, un comanche che opera quasi sempre solo, rapisce donne e bambini che poi commercia con fuorilegge bianchi e nativi. Blue Duck, che ha ucciso il suo stesso padre - il capo Buffalo Hump -, viene descrit­ to come un ibrido tra un indiano ribelle e un serial killer contempo­ raneo. La sua violenza e la sua malvagità sembrano gli attributi adat­ ti per fornire a Cali la possibilità di esibire un comportamento eroi­ co. Invece, dopo che Blue Duck ha causato la morte di alcuni perso­ naggi secondari ma importanti (Joe, Janey e il vicesceriffo Roscoe) e ha rapito Lorena cedendola a dei banditi che la violentano, scompa­ re dalla scena. Solo nell'ultimo capitolo, mentre Cali sta per avvici­ narsi al luogo della sepoltura di Gus, viene a sapere che il nemico giurato Blue Duck sarà impiccato sulla piazza di Santa Rosa e deci­ de di andare a trovarlo in prigione. Il terribile comanche lo apostrofa con tono aggressivo e beffardo: l...] "Ho violentato donne e rapito bambini e bruciato case e ammazza­ to uomini e rubato cavalli e massacrato buoi e derubato chi volevo, in tutto il territorio, fin da quando sei diventato un poliziotto" disse. "E tu non mi hai mai visto da vicino prima d'ora. Non credo che ce l'avresti fatta ad ammazzarmi". (LD, 855; trad, modificata).

Dopodiché, con la frase enigmatica "lo so volare”, interrompe la conversazione. Ma mentre stanno per condurlo fuori dalla prigione collocata al terzo piano di un edificio, Blue Duck, stringendo a sé un ignaro vicesceriffo al quale è ammanettalo, si butta dalla finestra schiantandosi al suolo e chiarendo il significato del verbo “volare” (LD, 855-56). Con questi esempi non voglio sostenere che una concezione tradi­ zionale di eroismo sia totalmente estranea al testo di McMurtry; tut­ tavia, appena compare, viene in genere messa in questione. Nel caso della morte di Blue Duck, l’eroismo sembra attribuibile al malvagio indiano suicida, ma ceno è un eroismo lontano dalla moralità classi­ ca. E anche nella dolorosa scena in cui Gus impugna la pistola con­ tro Cali e rifiuta di farsi amputare la gamba residua, l’aura eroica del paziente che preferisce la morte airimmobilità viene attenuata dall’i­ nesorabile tendenza di Gus a vedere tutto in una prospettiva ironica. 89

Infatti, poco dopo, Gus chiede all’amico di esaudire il suo ultimo de­ siderio, trasportare il proprio cadavere in Texas. Dice Gus: "E il gene­ re d’impresa per la quale sei nato. Nessun altro potrebbe compierla e neppure tentarla. Ora che tutto il paese è più o meno civilizzato, non so proprio cosa potrai fare, Woodrow. Ma se farai questo per me, cre­ do che sarai felicemente impegnato per un altro anno.” (LD, 801) Non si capisce se veramente Gus voglia riposare romanticamente nel ‘'Clara’s orchard" (il frutteto di Clara, un angolino lussureggiante, sorta di locus amoenus in riva a un corso d'acqua e prediletto dall’amata), o se voglia semplicemente prendere in giro l’incontrollabile desiderio di movimento di Cali. Molti alti! sono i temi e i motivi tipici del western che Lonesome Dove rivisita criticamente e che qui non ce lo spazio di presentare:40 si pensi ai rapporti tradizionali di gender messi in questione dalla formidabile determinazione di Clara, dallo spirilo di indipendenza di Lorena, dalla tragica fuga dalle responsabilità familiari di Elmira, dalla capacità di soprawivenza di Janey; oppure alla tradizionale la­ conicità dell’eroe western maschile ironicamente contraddetta dalla chiacchiera inarrestabile di Gus. O ancora al ruolo storicamente fon­ dato attribuito ai neri e ai nativi, nonché a una visione della morte che ne evidenzia l’aspetto materiale, più ancora che quello di una ri­ generazione spirituale di stampo puritano, come emerge nelle ulti­ me righe tragicomiche dedicale al suicidio di Wantz.41 E infine non va dimenticata la sensibilità da “animal critic" che emerge nel ruolo attribuito a cavalli, tori e bisonti (aspetto peraltro non infrequente anche nel western tradizionale) e perfino a due maiali che seguono i mandriani fino al termine del viaggio. In conclusione, queste e molte altre osservazioni che si potrebbero fare, dovrebbero permettere di comprendere che l’istanza revisionisti­ ca di Lonesome Dove è esplicita e coerente, al punto che la demistifica­ zione degli aspetti formulaici e la volontà didascalica che traspare sul­ lo sfondo provocano a volte una caduta della tensione narrativa: il tut­ to risulta si più chiaro, ma meno convincente. Va detto tuttavia che, considerata la notevole lunghezza del testo, questo avviene di rado. Eppure, come alcuni critici e lo stesso McMurtiy ci segnalano,42 Lonesome Dove divenne un grande successo soprattutto perché fu let­ to "contro le sue intenzioni”, come una celebrazione del mito del West, proprio come i dime novels del secondo Ottocento e come tanti romanzi convenzionali che avevano venduto milioni di copie nel cor­ so del secolo scorso. Questo conferma ancora una volta che è il mo­ dello di lettura a determinare l'interpretazione, soprattutto nei casi, come nella narrativa di McMurtry, in cui l’ambivalenza è program­ matica. D'altra parte di questo non ci si deve stupire: come racconta Anthony Swafford nel suo coinvolgente e tragico Jarhead,43 una delle rare narrazioni di pregio uscite dalla prima Guerra del Golfo, i soldati statunitensi in Iraq reagivano a film problematici (per esempio a Apocalypse Now) come se si trovassero di fronte a celebrazioni dell'e­ roismo bellico e del patriottismo più sciovinista e maschilista. 90

Forse è proprio a causa di questa “mislcttura" che McMurtry, dopo il successo di Lonesome Dove, si cimentò anche in romanzi di riscrit­ tura creativa della storia del West in cui l’istanza demistificatrice del mito è incontrovertibile, per quanto eccentrica (Anything for Billy, 1989, dedicato a Billy the Kid e Buffalo Girls, 1991, dedicato alle don­ ne del West e soprattutto a Calamity Jane).44 Meno fraintendimenti, invece, doveva creare il revisionismo radicale di Cormac McCarthy. 3. Blood Meridian: la violenza allo stato puro45

Tutta la narrativa di Cormac McCarthy precedente e successiva a Blood Meridian ruota intorno al tema della violenza.40 Blood Meri­ dian va molto oltre. La storia raccontata nel romanzo è racchiusa nell’epoca della defi­ nitiva conquista del West: inizia alla fine degli anni Quaranta dell’ot­ tocento, al termine della guerra contro il Messico ( 1846-48) e si con­ clude con un unico capitolo di coda ambientato a Fort Griffin, in Texas, nel 1878, una decina danni prima della “chiusura della fron­ tiera’’, cioè della fine del movimento di colonizzazione dell'ovest che gli storici fanno risalire agli ultimi anni Ottanta.47 Si tratta dunque dell’inizio e della fine di quel periodo che vide lo sterminio definitivo degli indiani e dei bisonti, all’incirca lo stesso della vita di Gus e Cali, i due protagonisti di Lonesome Dove. Per il suo uso della violenza, il romanzo si discosta radicalmente dai grandi classici del western, nei quali sparatorie e ammazzamen­ ti, non poi così frequenti, tendono a rispettare un rituale di sempli­ cità e chiarezza.48 Blood Meridian, il cui titolo completo, Blood Meri­ dian or the Evening Redness in the West, evoca non tanto i tramonti infuocati ma il colore del sangue, supera gli eccessi da alcuni definiti barocchi del già citato II mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, film unanimemente considerato il punto d'avvio di una nuova estetica della violenza fondata sulla sua esasperata messa a nudo. A differen­ za del capolavoro di Peckinpah, Blood Meridian non concede neppu­ re quelle pause nostalgico-meditative (la sosta presso il villaggio messicano di Agua Verde, la visita alle prostitute, i momenti in cui il mucchio selvaggio se la spassa con una bottiglia di whisky, lascian­ dosi contagiare dalla risata maschile che sancisce il male bonding, oppure ascoltando il messicano Angel che canta canzoni malinconi­ che) che permettevano allo spettatore di riprendersi dalla violenza eccessiva. Blood Meridian non dà tregua.49 La narrazione si basa su una strategia complessa che oscilla tra un punto di vista narrativo esterno, il punto di vista limitato di un ra­ gazzino, il “kid”, i lunghi dialoghi e i racconti nel racconto, nonché le digressioni filosofiche del giudice Holden, uno dei due personaggi principali. Il narratore esterno lascia trapelare, dal modo in cui col­ lega gli eventi, un umorismo nero apparentemente involontario (è un narratore molto esterno, potremmo dire alla Hemingway) in cui 91

non compare mai un giudizio morale. Il kid, per palle sua, non sem­ bra in grado di esprimere giudizi morali particolarmente articolati. L’intreccio riguarda fatti storici ricostruiti da McCarthy a partire dal memoir di Samuel Chamberlain My Confession: The Recollections of a Rogne,50 e narra le infauste gesta di una banda di una ventina di cacciatori di scalpi, assoldati da un governatore messicano per ster­ minare gli apache che infestano la regione settentrionale del Messico. La banda, guidata dal feroce capitano Glanton, annovera alcuni dei peggiori individui mai trattati dalla letteratura, certamente da quella western; per la maggior parte si tratta di bianchi, ma fanno parte del gruppo anche un nero e alcuni indiani delavvare. Quello che è sconcertante è l'apparente mancanza di cause, e tanto meno di giu­ stificazioni, dietro alle efferatezze di questa gang. Mentre nei primi capitoli si assiste alla spedizione di un comandante dell’esercito americano violentemente razzista, certo White, che conduce i suoi soldati contro gli indiani perché ha ben introiettato l’ideologia impe­ rialista del Manifest Destiny, Glanton e la sua banda non sono ricon­ ducibili ad alcuna forma di ideologizzazione esplicita, ma sembrano rimandare a uno stadio primordiale dell'umanità. Se rientrano nel disegno del Manifest Destiny lo fanno inconsciamente. Due personaggi si distinguono nel gruppo portatore di morte: il kid (non ha un nome proprio) e il giudice Holden. Il kid, quattordi­ cenne e dunque davvero “kid" all'inizio del romanzo, ma ormai ultraquarantenne nel capitolo conclusivo, non spiega mai il motivo delle sue azioni e delle sue scelte. Fin dalle prime pagine della narrazione non è chiaro perché, ad esempio, si convinca ad appiccare fuoco alla porta della camera di un albergo dove dorme un uomo, o perché si lasci coinvolgere in zuffe che si concludono nel sangue. La violenza che caratterizza la sua vita fin dal momento in cui abbandona il pa­ dre non ha spiegazione, ancora meno di quanto ne avessero gli atti violenti nei primi romanzi di McCarthy: è semplicemente asserita. O per lo meno, poiché la storia inizia in medias res, senza che i perso­ naggi siano presentati o descritti, il lettore si aspetta per alcuni capi­ toli di trovare una spiegazione che (postmodernamente?) non giun­ ge mai, nemmeno sotto forma di flash-back. Le pagine iniziali si aprono con un primo piano del kid: “Eccolo, il ragazzino. È pallido e magro, indossa una camicia di lino lisa e sbrindellala. [...] Ha una sorella al mondo che non rivedrà mai più. Pallido e sporco, guarda il padre. Non sa leggere né scrivere, e già gli cova dentro un gusto per la violenza insensata. C e tutta la storia in quel volto, il ragazzo padre dell'uomo." (MS, 5). C’è un riferimento alla morte della madre durante il parto del kid e al conseguente dolo­ re del padre che hanno permesso a qualche critico di parlare di un ri­ torno al naturalismo,51 ma tali accenni non sono mai sviluppati e ogni interpretazione viene lasciata al lettore. Quanto al misterioso, gigantesco e glabro giudice Holden che funge un po’ da totem della gang, le sue caratteristiche demoniache e per certi aspetti faustiane non vengono mai chiarite: è un formidabile poliglotta, enciclopedi­ 92

co, botanico, mineralogista, stratega, straordinario ballerino nono­ stante la poderosa stazza, eccellente suonatore di violino e al con­ tempo brutale assassino e pedofilo. Se si osservano le frequenti manifestazioni della violenza nel ro­ manzo, ci si accorge che è equamente distribuita tra atti collettivi e individuali. Quella collettiva riguarda i massacri compiuti dal capi­ tano White e soprattutto dalla banda di Glanton; ma non mancano carneficine epiche compiute da indiani comanche, apache e yuma. In questo senso Blood Meridian, come già Lonesome Dove, non pro­ pone un revisionismo storico ingenuo in cui la rappresentazione raz­ zista del ruolo degli indiani venga semplicemente rovesciata, ritor­ nando al mito del buon selvaggio: se nel cinema classico gli indiani erano i "cattivi" qui non diventano i “buoni”, né sono semplici vitti­ me. Le tribù native che compaiono nel romanzo fanno a gara con la gang di Glanton in quanto a crudeltà e violenza. Ovviamente il letto­ re avvertito può conoscere le ragioni storiche e culturali del compor­ tamento indiano che né qui, né in altri romanzi di McCarthy, sono mai affrontate in modo didascalico. Gli esempi di rappresentazione della violenza collettiva sono innu­ merevoli, alcuni descritti in presa diretta simulata, altri grazie a rac­ conti nel racconto. Risaltano tra gli altri il massacro dei soldati agli ordini del capitano White (fine del capitolo 4) a opera dei comanche, in cui i nativi completano la carneficina sodomizzando le vittime morenti; l’uccisione di cinquantotto indiani grazie a uno stratagem­ ma geniale del giudice Holden che in mancanza di polvere da sparo ne produce un surrogato, mescolando minerali trovati in un vulcano inattivo e impastandoli con l’urina (capitolo 10); il massacro dei Glenos da parte della banda di Glanton (capitolo 12); il massacro finale della banda stessa, capitano Glanton compreso - cui viene divisa in due la testa - da parte degli indiani yuma, massacro a cui sopravvivo­ no solo il kid, il giudice e altri due membri della banda (capitolo 19). La violenza collettiva, per quanto non giustificabile, rimanda a una violenza bellica che invece è stata tradizionalmente considerata come un male inevitabile, salvo poi cercare di limitarla ai combat­ tenti risparmiando i civili; questa preoccupazione era già ben pre­ sente presso gli illuministi e ribadita in L’ultimo dei molliconi di James Fenimore Cooper.'- Anche nella tradizione del western gli atti violenti compiuti in gruppo, proprio perché avvicinati agli alti di guerra, vengono giudicati meno "colpevoli” di quelli compiuti indivi­ dualmente. Ma Blood Meridian fornisce una martellante e diversifi­ cata campionatura di crudeltà individuali. Anche in questo caso esiste solo l’imbarazzo della scelta. La fero­ cia caratterizza perfino personaggi minori come il nero John Jack­ son, che ci viene presentato in perenne conflitto con un suo omoni­ mo compagno bianco. Nell'ottavo capitolo, dopo un ennesimo mo­ mento di tensione tra i due filibustieri, mentre il resto della banda se ne sta vicino al fuoco, il nero Jackson "emerse dal buio tenendo il coltello da caccia con ambedue le mani come uno strumento da ceri93

monia [...]. I) bianco sollevò uno sguardo ebbro e il nero fece un pas­ so avanti e gli tagliò via la testa con un sol colpo” (BM: 110 ). Di fron­ te a questo atto che non è semplice omicidio, ma costituisce anche una frattura inaudita del male bonding tra i cacciatori di scalpi, ci si aspetterebbe una reazione da parte degli astanti. E invece si legge: “Nessuno parlò”. Segue, con tono freddo e distaccato, venato di umorismo nero, la semplice descrizione dell'atto materiale da parte del narratore esterno: Due fiotti grossi e due fiotti sottili di sangue nero schizzarono come serpenti dal collo e si inarcarono sibilando fino a tuffarsi nel fuoco. La testa rotolò sulla sinistra e si arrestò ai piedi dello spretato, dove rima­ se con gli occhi spalancati. Tobin ritrasse di scatto il piede, si alzò e ar­ retrò. Il fuoco mandò vapore e si anneri, e una nuvola di fumo grigio si alzò, e gli zampilli di sangue si abbassarono lentamente finché il collo ribolli leggermente come uno stufato e poi si calmò del tutto. L'uomo era seduto come prima, solo che non aveva più testa, era fradicio di sangue, il cigarillo ancora fra le dita, piegato verso la buia e fumante caverna fra le fiamme dove era fuggita la sua vita (MS, 110-11).

Glanton, il capitano della banda, oltre che dedito come i compa­ gni a epiche ubriacature, con conseguenze tragiche per i malcapitati presenti, manifesta frequentemente una crudeltà del tutto gratuita. In una situazione in apparenza tranquilla, dopo il ritrovamento di al­ cune armi, Glanton si compiace di aver rinvenuto un enorme revol­ ver a canna lunga. Dopo essersi guardalo intorno, vede che oltre agli uomini ci sono altri esseri viventi: Il primo su cui cadde lo sguardo di Glanton fu un gatto che in quel pre­ ciso istante apparve sull'alto muro dal lato opposto, silenzioso come un uccello. Si voltò e avanzò prudentemente fra i cocci di vetro inca­ strati in verticale nel fango della muratura. Glanton sollevò con una mano l'enorme pistola e tirò indietro il cane con il pollice. In quel silen­ zio assoluto l'esplosione fu spaventosa. Il gatto scomparve, semplice­ mente. [...] Glanton tirò nuovamente indietro il cane col pollice e cercò un altro bersaglio. In un angolo del conile, alcuni polli che fino a quel momento avevano beccato nella polvere asciutta si fermarono nervosi, le teste inclinate a varie angolature. La pistola ruggì e uno dei volatili esplose in una nuvola di piume. Gli altri cominciarono a trotterellare in silenzio, allungando il collo. L'uomo fece fuoco di nuovo. Un secon­ do volatile girò su se stesso e cadde a terra scalciando. Gli altri si di­ spersero, fra pigolìi leggeri, e Glanton si girò e sparò a una capretta che se ne stava terrorizzala con la gola premuta contro il muro. L'animale cadde stecchito nella polvere [...] (MS, 86).

La violenza nei confronti degli animali compare più volte nel ro­ manzo, ad esempio quando il giudice acquista da un ragazzino mes­ sicano due cuccioli di cane e subito li getta nel fiume incitando un compagno a finirli con il tiro al bersaglio, compito immediatamente svolto da costui con raccapricciante precisione (capitolo 14). Alla fi­ ne del romanzo (capitolo 23), un orso che balla goffamente vicino al­ 94

l'organetto di un saloon viene massacrato senza motivo a colpi di pi­ stola da uno degli avventori. La violenza nei confronti degli animali e degli umani indifesi (bambini, vecchi e donne) è quella che provoca più facilmente rea­ zioni di indignazione nei lettori.53 Sembra che l'impossibilità di attri­ buire valore positivo alla violenza sia definitivamente sancito da questi casi, visto che mai coloro che la commettono si redimono. E infatti, per completare il quadro, non mancano episodi di violenza nei confronti dei bambini. In due occasioni, senza che nulla sia con­ cesso al voyeurismo (la scena è sempre fuori campo), il giudice, do­ po aver coccolato dei fanciulli di una decina danni, li sodomizza e poi li uccide: a farne le spese sono prima un bambino messicano (ca­ pitolo 9), poi un piccolo indiano (capitolo 12). Altre descrizioni più vaghe lasciano intendere che si tratta di una pratica piuttosto fre­ quente da parte del giudice. I critici hanno tentato in vario modo di fornire un'interpretazio­ ne dell’antagonismo tra kid e giudice, arrivando a leggere il testo at­ traverso le sue allusioni bibliche o perfino a vederlo in una prospet­ tiva gnostica.54 Ma va osservato che l'esperienza del kid, il perso­ naggio unanimemente considerato meno negativo, con il quale il lettore può rischiare di identificarsi, non lo induce a una reale tra­ sformazione morale: la sua vita di violenza non lo spinge mai a mo­ dificarsi in modo significativo. La sensazione che gli eventi possano condurlo a una Bildnng di qualche tipo è sempre smentita dalle pa­ gine successive. Le sue esitazioni di fronte alla deliberata crudeltà del giudice (che lo accusa infatti di essere troppo 'clemente’’) non assumono la dimensione della conversione, di una rinascita spiri­ tuale radicale. Se tutta la sua vita, come alcuni critici hanno soste­ nuto, è una incessante iniziazione, tale iniziazione non sembra apri­ re alcuna prospettiva al di là di un presente accettato con fatalismo nella sua violenza quotidiana. Anche il viaggio della gang in Texas, New Mexico, Messico e Arizo­ na, diversamente dal molo che in genere assume nella cultura occi­ dentale e in quella americana (si pensi al viaggio nella wilderness dei puritani), non prelude ad alcuna rinascita, nemmeno a quella costi­ tuita dal successo economico, visto che l’oro accumulato vendendo gli scalpi a 200 dollari l’uno viene regolarmente sperperato in bisbocce. La scena finale, in cui il giudice nudo seduto in una latrina stringe a sé il kid (ormai diventato “man”), non è facilmente interpretabile. L’orrore che i successivi visitatori della latrina manifestano ci per­ mette di pensare, come ha fatto la maggioranza dei critici, che il kid sia stato brutalmente sgozzato.55 Ma è anche vero che potrebbe trat­ tarsi di violenza sessuale (o magari di stupro e di assassinio) dal mo­ mento che in un paio di occasioni il kid aveva manifestato disgusto per le ambigue avances del giudice.5* Blood Meridian assume un significato diverso se, anziché conside­ rarlo un semplice “anti-western”, come molti critici hanno fatto, si prova a leggerlo come un “post-western post-Vietnam”. E questo non 95

semplicemente per alcune curiose somiglianze di intreccio con im­ magini della Guerra del Vietnam diventate assai note. Si pensi alla scena (capitolo 7) della donna indiana incontrata nel villaggio di Ja­ nos. Senza alcun motivo Glanton "indicò qualcosa con la sinistra e lei si voltò seguendo la mano e allora lui le appoggiò la pistola alla te­ sta e sparò [...] Un buco grande quanto un pugno si spalancò sull’al­ tro lato della lesta vomitando un grande schizzo rosso, e lei crollò in avanti e giacque nel proprio sangue, irrimediabilmente morta.’’ (MS, 102). Qui il riferimento immediato è al capo della polizia di Saigon immortalalo da una famosa immagine che lo ritrae mentre uccide allo stesso modo un sospetto Vietcong e che permise al fotografo Eddie Adams di vincere il premio Pulitzer nel 1969. Oppure si veda la scena (capitolo 22) in cui il kid scorge una vecchia indiana ingi­ nocchiata vicino ai resti di un massacro e non si accorge che è morta da anni, immagine che rimanda a più di un romanzo della guerra del Vietnam e, prima ancora, a II segno rosso del coraggio di Stephen Crane. Il caso di somiglianza più evidente è quello delle orecchie umane che ornano i cacciatori di scalpi ("scapolari o collane di orec­ chie umane essicate o annerite" MS, 83), macabro trofeo che riman­ da alle “collane di lingue umane", ricorrenti in romanzi e film della Guerra del Vietnam.57 A parte queste somiglianze di superfìcie va osservato che la narra­ tiva e il cinema della Guerra del Vietnam ci hanno abituato a immagi­ ni di crudeltà inaudita che vanno ben al di là della tradizione del rac­ conto western e bellico. Uccisioni insensate compiute da combattenti spesso invasati e drogati, massacri e incendi di villaggi interi, stupri di gruppo, bombardamenti a tappeto su povere capanne, violenze gratuite su bambini, vecchi, animali da cortile e bufali tranquilli. Sebbene nel Novecento la letteratura di guerra abbia preso fre­ quentemente le distanze dai miti dell'eroismo classico tramandati fi­ no a noi, fornendoci opere volte a esibire la guerra senza veli come ha fatto tra gli altri Ernest Jùnger, nella maggior parte dei casi essa ha cercato di salvare qualcosa da) disastro morale mettendo in evi­ denza generosità, pietà, sentimenti inaspettatamente buoni dei sol­ dati in battaglia. Poi c’è stata la Guerra del Vietnam, il primo conflit­ to americano che in modo sistematico ha riconosciuto la propria brutalità e perfino ammesso il fascino subito da molti soldati nell’infliggere o semplicemente nel vedere la morte altrui.58 Come ho cerca­ to di documentare altrove,59 la letteratura della Guerra del Vietnam è riuscita solo raramente a esprimere la "verità” profonda della violen­ za a causa della diffusa ingenuità dei giovani scrittori, incapaci di andare al di là del realismo fotografico e di elencazioni prive di forza immaginativa, operazione che invece riesce a McCarthy, per quanto a spese della sensibilità del lettore.00 In questa prospettiva si può concludere sostenendo che il revisio­ nismo proposto da McMurtry predilige la più moderala modalità en­ ciclopedica: e infatti sono necessarie più di 900 pagine per passare in rassegna "tutti" gli stereotipi, i temi e i motivi della tradizione we96

stern. La sua lettura critica del mito della frontiera è sistematica, co­ me si coglie anche dai romanzi successivi, sia quelli che fanno parte della tetralogia della frontiera di Gus e Cali, sia alle riletture della vita di Billy the Kid e di Calamity Jane. McCarthy invece, tra gli ingre­ dienti offertigli dal western, sceglie la sola violenza; ma, memore del­ l’esperienza storica ed estetica della Guerra del Vietnam, la trasforma e la radicalizza fino a farla esplodere in qualche cosa di insostenibile, mettendone in scena l'assoluta oscenità. La narrativa e il cinema suc­ cessivi a Lonesome Dove e a Blood Meridian, quando si sforzano di ri­ fiutare gli stereotipi, tendono a oscillare tra questi due modelli?’ Note 1 "Ogni eroe alla fine viene a noia”. Questa citazione da Emerson è tratta da Lee Clark Mitchell, Westerns: Making the Man in Fiction and Film, University of Chicano Press, Chicago & London 1996, dove compare in epigrafe. 2 Sul significato e le ambiguità del termine "postmoderno" si veda il mio Aspetti del dibattilo sul postmoderno nella critica statunitense, in Vita Fortunati e Giovanna Franci, a cura di, L'ansia delThiterpretazione, Mucchi, Modena 1989, pp. 229-62. ’ Per un elenco più ampio di registi e romanzieri del periodo “classico" rinvio alla mia introduzione in questo stesso volume. * In questa sede non mi servo del termine "post-westem” nell'accezione proposta da Philip French, vale a dire limitata a quei western ambientati in epoca tarda, succes­ siva cioè alla cosiddetta "chiusura della frontiera” alla fine dell'ottocento (si veda Phi­ lip French, The Post-Western, in Id., Westerns: Aspects of a Movie Genre, (1973) Seeker & Warburg, London 1977, pp. 135-68.) 5 Mi servo qui dei temini "razza” cd "etnia" perché invalsi negli studi americani ed europei, pur essendo consapevole della loro imprecisione. * Sulla "costruzione" del mito della frontiera si veda il saggio di Bruno Cartosio nel presente volume. 7 Paradossalmente è stato il più notevole successo commerciale di tutta la storia del western. H Ad esempio nel suo eccellente studio, John C. Cawelti tende in alcuni casi a usare i due termini come sinonimi, altre volte a limitarsi a una prospettiva cronologica (si veda John C. Cawelti, The Six-Guu Mystique Sequel, Bowling Green State University Popular Press, Bowling Green, OH 1999. Si veda anche Nina Baym, Old Ute, Oxford 1995, capitolo 3. La traduzione italiana delle nozioni di recogni­ tion, alignment c allegiance, è mia. ' Ivi. p. 83. “ Gregory Currie, The Paradox of Caring: Fiction and the Philosophy of Mind, in Mette Hjort c Sue Lavcr, a cura di, Emotion and the Arts, Oxford University Press, New York 1997, pp. 63-77. Su visione del film ed emozioni si veda Cari Plantinga e Greg Smith, a cura di, Passionate Views: Film, Cognition and Emotion, Johns Hopkins Uni­ versity Press, Baltimore and London 1999; Greg Smith, Film Structure and the Emo­ tion System, Cambridge University Press, Cambridge, MA 2003.

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APPUNTI SU UN MOTIVO PAESAGGISTICO DEL GENERE WESTERN

Barbara Grespi

Benché il genere western possa vantare precise origini pittoriche e letterarie, la sua fortuna critica e la sua popolarità intemazionale so­ no legate al mezzo cinematografico, cioè a quella nutrita serie di film che già dal primo decennio del Novecento reinterpreta l’iconografia della frontiera (le illustrazioni di Felix Darley, le tele ufficiali di Seth Eastman, i ritratti di George Catlin, i quadri di Charles Russell e Fre­ deric Remington...), riprendendo nel contempo la fìtta trama di leg­ gende e racconti dell'ovest che gli scrittori, da James Fenimore Coo­ per a Zane Grey, hanno fissato sulla carta legando spesso tra loro im­ maginazione letteraria e tradizioni orali. André Bazin scriveva ap­ punto che il western "nasce daU’incontro di una mitologia con un mezzo di espressione”, come se il cinema, con le sue tecniche, avesse saputo rappresentare più di tutte le altre arti i grandi fatti e dilemmi morali alla base del genere (la conquista di una terra ‘'vergine”, il conflitto fra fascino della natura selvaggia e bisogno di civilizzazio­ ne). Un’analisi più approfondita della ricezione del western nei vari media potrebbe smentire, o almeno sfumare, la posizione di Bazin, ma è certo che il cinema ha assicurato al genere un ruolo di primo piano neH’immaginario novecentesco, lenendolo in vita fino a oggi. Naturalmente la sua parabola è stata tutt’altro che lineare: raggiun­ to il massimo splendore negli anni Quaranta e Cinquanta, la classica epopea del West incarnala nei volli di John Wayne, Gary Cooper, Henry Fonda si avvia al tramonto alla fine degli anni Sessanta, venen­ do apparentemente giustiziala dalla revisione critico-ideologica di Sam Peckinpah e Arthur Penn (il mucchio selvaggio, 1969; Missouri, 1976). In realtà, proprio per questa ria essa rinasce dalle proprie ce­ neri. La radicalità distruttiva dell'ondata revisionista viene riassorbi­ ta in poco più di una decina danni e il genere si ripresenta in tutto il suo splendore autografico in Silverado (1985) di Lawrence Kasdan, storia di quattro ex detenuti in viaggio per la California che ripercor­ rono tutti i topoi fordiani, indiani esclusi. Dopo lo sforzo manierista di Kasdan, Kevin Costner recupera uno sguardo vergine e aderisce senza cinismo all'universo western, pur riscrivendo la biografìa del­ 167

l’eroe (Balla coi lupi, 1990). La vicenda del lenente Dunbar che duran­ te la Guerra civile decide di aggregarsi a una tribù dei sioux, racconta in fondo di un paradiso perduto: letteralmente, il villaggio indiano, in cui sembra ancora possibile la totale fusione di uomo e natura, e me­ taforicamente l'utopia bianca, il paradiso mentale rappresentato dal credere al mito delle origini senza l’ombra della colpa. Qualche anno più tardi, Clint Eastwood contrappone all’Eden di Costner il suo in­ ferno di disillusione (Gli spietati, 1992), raccontando un West senza eroi eppure intriso di fascino decadente, mentre Gus Van Sant ne ten­ ta l'ultima revisione, declinando l’epopea al femminile in Cowgirl - Il nuovo sesso (1993), in cui Uma Thurman è un’autostoppista dai polli­ ci fallici che si accasa al Rubber Rose Ranch, un villaggio gestito da donne pistolero. Ciascuna di queste riscritture postmoderne presenta precise par­ ticolarità figurative e narrative sulle quali ci si potrebbe soffermare. Ma forse ancor più interessanti di queste evoluzioni interne al filo­ ne, sono le sopravvivenze del western e della sua epica in altri ge­ neri. La parabola di questa formula narrativa, infatti, risulta essere ben più complessa di quella fino a ora tracciata, se si include quel processo di sgretolamento del genere in figure tipiche, pronte a mi­ grare al di fuori del formato di partenza, che ha realmente garanti­ to il perdurare di una mitologia nella cultura cinematografica con­ temporanea. Motivi paesaggistici e scenografici, dimensioni eroi­ che, tratti di costume, snodi narrativi (il duello, il viaggio nel cuore della wilderness, la fuga dalla civiltà e dalla coppia) si ripresentano oggi in numerosi film, sulla carta assai lontani dalle leggende del vecchio West. In particolare il deserto, lo spazio del pericolo, del­ l’incontro con il nemico, sia esso la natura o la sua versione uma­ nizzata, cioè l'indiano, ritorna nel cinema contemporaneo come un luogo astratto, dove il confronto è ancora letale ma insieme interio­ re, e il rischio è l’autodistruzione. In Twentynine Palms (Bruno Dumont, 2003), storia di un fotografo e della sua compagna che effettuano sopralluoghi a Joshua Tree, in California, il finale atroce e risolutivo è ambientato nel cuore del de­ serto. Dumont osserva da vicino la fenomenologia della coppia, gli slanci di passione, gli odi serpeggianti e gli infiniti tempi morti, ac­ cumulando una tensione inspiegabile che esplode appunto nel de­ serto, quando l’auto dei due viene fermata da un gruppo di scono­ sciuti teppisti che, senza motivo, violentano lui sotto gli occhi di lei. Distrutto e sfigurato dalle botte, il mattino dopo il fotografo si tra­ sformerà in un assassino e fatalmente macellerà la compagna. Du­ mont Ita dato a questa storia il nome di un luogo, Twentynine Palms, una zona arida e montagnosa a est di Los Angeles, in pieno deserto del Mojave. Il nome di per sé descrìve un tratto di paesaggio, le 29 palme che originariamente caratterizzavano il punto di riferimento dell’area, l’Oasi di Mara, oggi all’interno del Joshua Tree National Park. Ma di questi tempi TU'cntyninc Palms evoca soprattutto una cosa: la più ampia base Marine degli Stati Uniti (il Marine Corps Air Ground Combat Center), almeno tanto quanto il deserto del Mojave 168

rappresenta il controverso teatro degli esperimenti nucleari ameri­ cani, anche se ai turisti mostra solo il suo volto nostalgico, quello delle ghost towns, le città-memoria del vecchio West (da Los Angeles a Las Vegas la prima è Calico, cittadina nata nel 1881 attorno a una miniera di argento). Nel film di Dumont, il deserto appare in molte versioni: durante il lungo viaggio in macchina, il paesaggio che filtra dal finestrino è quello delle mesas, formazioni di roccia dalle pareti ripide e dalla sommità piatta, cespugli secchi ai lati e al centro l’albero di Joshua; i protagonisti faranno una sosta proprio per toccarne il fusto secco e spugnoso. Poi sosteranno di nuovo per fare sesso sulle rocce, nel ri­ cordo di quello che è stato il deserto americano negli anni Sessanta, in particolare in Zabriskie Point (1969) di Michelangelo Antonioni, un luogo ossimorico in cui la massima libertà, anche sessuale, coinci­ de con un paesaggio spettrale da cui sembra aliena ogni forma di vita. Infine gli inequivocabili segni del disagio profondo e mortifero della coppia emergono all’arrivo a Twentynine Palms: lei si alza nella notte e si avvia lungo la strada deserta; spaventata dal rumore di un’auto, si nasconde dietro un furgone, temendo che il compagno sia venuto a cercarla. Sulla fiancata del furgone, una sorta di automezzo stagno dail'aria militare, si legge la scritta "Twentynine Palms"; poi sul retro si vedono una serie di codici, come se il veicolo contenesse materiale diretto alla base Marine. Lei esce dal rifugio, lui la incontra e i due si affrontano sulla strada, tirandosi calci e pugni. Si arriva così alla sce­ na della violenza carnale, dove il paesaggio torna a essere quello dei Joshua trees e dei cespugli secchi. Nel cuore di un deserto che fino a quel momento non era sembrato pericoloso e neppure così inospita­ le, appare il nemico, un nemico senza nome e senza alcun movente, che distrugge la coppia e forse l'umanità tutta. Questa storia d’amore e di orrore sospesa fra l’Ovest leggendario e l’Ovest attuale, suona ap­ punto come il presagio di un'apocalisse che avrà come teatro proprio il deserto. 11 finale di Twentynine Palms si collega idealmente all’inci­ pit di Non è un paese per vecchi di Joel & Ethan Coen (2007), dove ap­ punto il deserto è uno scenario di morte, un cerchio di cadaveri, armi e denaro dentro cui implode tutto il film. L'idea del deserto western come tomba dell’umanità, sembra il ri­ sultato di uno sgretolamento progressivo dei suoi tl'aiti paesaggistici. In particolare, verso gli anni Sessanta, lo scenario epico della Monu­ ment Valley e gli scorci sublimi delle grandi pianure spariscono, sop­ piantati da spazi meno lirici (alture aride, come in Budd Boetticher, oppure il semplice paesaggio della cittadina, con il deserto come un fuori a cui si allude di continuo ma che mai viene messo in scena). Forse tutto comincia con Un dollaro d’onore di Howard Hakws (1959), il primo western "da camera" (lo spazio centrale è l'ufficio dello sceriffo con l’annessa prigione, sostituti significativi degli spazi liberi dell’epopea) e forse il primo esempio del sottogenere crepusco­ lare. Qui il vicesceriffo Dean Martin è un alcolizzato che si stordisce e si redime fra le mura della prigione, accudito da un vecchietto brontolone (Walter Brennan), sciancato e senza denti, mentre lo sce169

riffo John Wayne, pur mantenendo una chiara dimensione eroica, è già autoironico. Nel momento del primo conflitto con i corrotti della città, John Wayne e Dean Martin si avviano sulla strada verso il sa­ loon; lira un forte vento; il deserto è lontano, ma i suoi resti, le sue "macerie”, entrano in città sottoforma di cespugli rotolanti, tum­ bleweeds. Dean Martin si ripara il viso con il cappello e un grosso ce­ spuglio secco lo colpisce, rotolando poi fino a Wayne e oltrepassan­ dolo. I due amici si guardano e si fanno un cenno di intesa. Il tumbleweed è un basso arbusto che cresce sui terreni piatti, sec­ chi e salini e che quando è secco, in autunno, si stacca dalle radici formando una sorta di "palla" che spinta dal vento può viaggiare per miglia e miglia. È uno dei pochi arbusti che crescono nei deserti americani del Centro e Nord Ovest, ma è l'unico con quelle particola­ ri caratteristiche e per questo di quelle regioni rappresenta ormai una sorta di simbolo. Pur essendo già un tratto dell'immaginario we­ stern, quantomeno musicale, il tumbleweed non entra nell’iconogra­ fia cinematografica classica. John Ford non ama fare rotolare cespu­ gli nei suoi film, benché in Rio Bravo ( 1950) usi come colonna sono­ ra la hit degli anni Trenta Tumbling, Tumbleweeds del gruppo country Sons of the Pioneers, dedicata ai leggendari cespugli. Quest'immagi­ ne non ricorre neppure nei film aurei di Anthony Mann, Fred Zinnemann e Delmer Daves, mentre appunto comincia a comparire nella fase crepuscolare, quando i toni del genere diventano nostalgici e malinconici. I tumbleweeds che entrano nelle ghost towns sono un presagio della fine, il segno che il confine fra deserto selvaggio e cen­ tro abitato dalla civiltà si sta spostando in avanti, a vantaggio della wilderness. Nelle cittadine sempre più vuote e segnate dalla memoria di quel che è stato, il deserto avanza, si insinua a recuperare ciò che in origine era suo. Il cespuglio che rotola racconta il metaforico avanzare del deserto anche quando migra al di fuori del western. Peter Bogdanovich usa questa figura nel suo L'ultimo spettacolo (1971) per raccontare la fine di un'epoca e la perdita dell'innocenza in due giovani di belle speran­ ze che non possono più credere nemmeno al mito dei pionieri. Nella cittadina texana di Anarene, che si sporge sul deserto, gli anni Cin­ quanta sono l'era del crepuscolo: mentre il cinema della città chiude i battenti, scegliendo come ultima proiezione II fiume rosso di Howard Hawks, il protagonista decide di partire per la Guerra di Co­ 170

rea, ormai contaminalo dalla colpa, come del resto i suoi concittadi­ ni. Nella scena finale in cui si scopre il cadavere dell’amico ritardato, un forte vento preannuncia la sventura portando dal deserto i tum­ bleweeds, segno che la natura (cioè gli istinti e le pulsioni incontrolla­ te) stanno per avere la meglio. Allo stesso modo, nell incipit di Lo spaventapasseri ( 1973) di Jerry Schatzberg l'incontro fra Gene Hackman e Al Pacino sulla strada per Pittsburgh è commentato da un gran rotolare di cespugli, che come in Hawks collegano i due protagonisti, antieroi della nuova America. Uno è un ex detenuto e l’altro un vagabondo, pentito di avere lasciato la fidanzata incinta e intenzionato a recuperare il proprio ruolo di padre. Il motivo paesaggistico introduce alla loro figura di ex cow­ boy decaduti, e il loro progetto (aprire una stazione di servizio a Pitt­ sburgh) diventa appunto una variante antiutopica delle grandi “mis­ sioni” western, come, per esempio, proprio l’impresa di John Wayne e Monty Clift in II fiume rosso. Nella migrazione di questo motivo, ricorre fra l'altro la costante della coppia maschile; infatti, in scena ci sono sempre due uomini. L'apparizione del tumbleweed accentua la suspense, preannuncian­ do una tensione o uno scontro fra i protagonisti lambiti dal cespu­ glio: tanto in Un dollaro donore, dove Wayne dovrà disintossicare a forza un Marlin propenso a ricadere nell alcolismo, quanto in Lo spaventapasseri, che si apre con una sorta di sfida fra i due futuri amici. Non a caso il western contemporaneo assumerà il cespuglio come figura del duello. Nel finale di Silverado, storia della lotta di quattro cowboy contro uno sceriffo corrotto, poco prima che Kevin Kline affronti il cattivo e lo uccida, il vento comincia a soffiare. Kli­ ne cammina verso il luogo dello scontro e un cespuglio lo accom­ pagna. Quando i due si trovano l'uno di fronte all’altro tutto si bloc­ ca, tranne i tumbleweeds che rotolano ai loro piedi, dando alla sce­ na un carattere fumettistico. Forse il tumbleweed, senz'altro parte della tradizione orale del vec­ chio West, come attestano le canzoni country, diventa immagine ti­ pica prima di tutto fuori dal cinema, probabilmente nel fumetto: il covote delle Montagne Rocciose, Willie, lancialo in folli corse attra­ verso il deserto all'inseguimento del road runner Beep Beep, incrocia spesso i cespugli rotolanti. 1 fratelli Coen ne percepiscono tutta la ve­ na cartoonistica, se aprono la loro commedia grottesca losangelina,

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Il grande Lebowski ( 1997), con l’immagine del tumbleweed commen­ tato dalla canzone dei Sons of the Pioners, oltre che dalla voce di un narratore di tall tales che introduce alla comica figura di Drago ( Jeff Bridges). I due uomini che si affrontano in un metaforico duello ven­ toso sono infatti proprio Drago e il cowboy narrante, sorta di alter ego leggendario che si confronta con il protagonista al bowling, ma che forse esiste solo nella sua mente. Il tumbleweed corre dal deserto fino alle colline di Los Angeles, per poi addentrarsi in città, ferman­ dosi solo davanti al supermercato in cui Drago, in ciabatte e vesta­ glia, sta facendo la spesa. Vi è infine un’ultima migrazione del cespuglio rotolante che sem­ bra tradurre la struttura del duello in una chiave particolarmente si­ gnificativa per la cultura contemporanea. Appare in un film di Gus Van Sant, Gerry, inedito in Italia. Il film, del 2002, è la terza delle sue rivisitazioni del genere western, dopo Belli e Dannati ( 1991 ), storia di due giovani alla deriva, River Phoenix e Keanu Reeves, in viaggio verso l’Ovest delle loro origini, e il già citato Cowgirl. Gerry non è un western, anche se è ambientato nella Death Valley californiana e contiene numerosi stilemi paesaggistici all’altezza del cinema di John Ford. È la storia di due uomini, Casey Affleck e Matt Damon, entrambi di nome Gerry, che stanno attraversando il deserto califor­ niano in auto e per prendere una boccata d’aria si incamminano in mezzo al nulla perdendosi nella Death Valley. Lo spazio sconfinato diventa una sorta di labirinto dove i due si pedinano reciprocamen­ te, si inseguono senza volerlo, in un circolo che potrà essere spezzato solo dalla morte. Non accade nulla, almeno fino alla scena finale in cui Damon uccide Affleck quasi senza violenza: i due giacciono a ter­ ra arsi dal sole e a un certo punto, con la sola forza dell'inerzia, uno dei due sovrasta l’altro come in un amplesso, e lo strozza. A risve­ gliarsi è Damon, che mette a fuoco la strada sullo sfondo, dove passa un’automobile. Nella sequenza successiva si trova sul sedile poste­ riore di un’auto su cui viaggia una tipica famiglia americana. Uno dei due Gerry muore, resta nel deserto, l’altro torna alla ci172

viltà. Il film lavora su molte immagini western, come il profilo delle mesas ai tramonto, nel lungo piano sequenza in cui Allleck, per più di dieci minuti, tenta di scendere da una roccia sulla quale, non si sa come, è salito. Un’altra figura tipica del western sono le chiacchiere attorno al focolare, tradizionalmente il momento in cui gli ufficiali fanno il punto sulla strategia militare da adottare contro i pellerossa, o i due cow boy diventano amici dopo una giornata i cui si sono a lun­ go studiati. Qui i due Gerry si raccontano le reciproche lantasie go­ dendo ancora della natura, senza l’angoscia di un ritorno impossibi­ le. Sarà poi la scena dei tumbleweeds a caratterizzare i due personag­ gi come due cowbov sull’orlo della tragedia. il vento si e alzalo ma i due continuano a camminare fra le rocce, inseguiti dai cespugli che incorniciano il loro passo ritmato e sinto­ nico. Questo e di fatto il loro duello, benché non si fronteggino, ma marcino l’uno di fianco allaltro. Da quel momento in poi la tensione cresce fino al panico e allo scontro, le immagini mentali e quelle rea­ li cominciano a mescolarsi, almeno nella mente di Affleck, che si sco­ pre a sognare un’oasi. Darnon invece si avvolge la T-shirt azzurra at­ torno al capo, in quella che forse voleva essere una vaga reminiscen­ za indiana, ma che finisce per divenire un costume arabo. Si qualifi­ ca, comunque, come nemico, apprestandosi a vestire i panni dell’o­ micida. Il motivo del cespuglio, che segnala l'imminenza di un duello estremo in cui la posta in gioco è l’autodistruzione (Gerry non può che uccidere Gerry), ha qui seguito un percorso particolarmente tor­ tuoso. Si presenta infatti come la ricodifica western della sequenza girata da un autore europeo, il regista che in quel momento è per Van Sant un riferimento: l’ungherese Béla Tari:

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Pochi mesi prima di iniziare le riprese, Van Sant scopre i film di Tarr alla Brooklyn Academy of Music, il centro newyorchese di performing arts, e ne rimane così colpito da modificare radicalmen­ te il suo modo di girare. Gerry c appunto considerato il film della svolta, quello che inaugura la sperimentazione sulle durate, sulla narrazione rarefatta e i lunghi piani sequenza. Le citazioni dal ci­ nema di Béla Tarr. a cui il film di Van Sant è dedicato, sono molto precise: la camminata di spalle nel canyon, con i due Gerrv rincor­ si dai tumbleweeds, e appunto ripresa da una scena di Sdtmtttmgó ( 1994) in cui due loschi liguri della fattoria ungherese al centro del film si incamminano verso la città lungo una strada di periferia, nel freddo e nel fango, mentre un gran vento fa volare attorno a loro nu­ goli di cartacce. Il carrello laterale sui loro profili in marcia è inve­ ce ripreso dall'altro film di Tarr, Le Armonie di Wreckmeister (2000), storia di una piccola cittadina congelata da un freddo polare e rac­ colta in una piazza dove si attende con impazienza l'apparizione della carcassa imbalsamata di una balena, sorta di mitico animale dell’altrove. Il principe, un uomo misterioso che parla una lingua sconosciuta, predice l’apocalisse gettando gli umani nell'ansia e nel­ l'attesa di una imminente catastrofe, che alla fine si scatenerà con inaudita violenza, spazzando via tutto, tranne la carcassa del gigan­ tesco cetaceo. All’inizio di Sàtan tango, in fondo un film su un crollo, cioè sulla fi­ ne del comuniSmo, un vecchio urla la biblica profezia di Geremia predicendo una minaccia di distruzione pari a quella subita da Israe­ le per mano di assiri e babilonesi. Si ode il rintocco delle campane, ma non c'è alcun campanile nei dintorni. La sola sintesi di queste storie dimostra che quello di Béla Tarr è un cinema dell’apocalisse, incentrato sulla sensazione dell'imminenza di una tragedia cosmica. Van Sant lo americanizza usando un luogo e tin motivo western. La sua scelta forse non è indipendente dal momento storico che sta vi­ vendo: poco prima di iniziare le riprese, il mattino dell’undici set174

tembre 2001, il regista ha assistilo al crollo delle Twin Towers dalla terrazza del suo palazzo a Manhattan. Casey Affleck, suo vicino di casa, era lì con lui. Forse anche per raccontare quel momento, l’espe­ rienza di una fine radicale, sostanzialmente suicida (da cui il lapsus del costume arabo, in un estremo Ovest che rischia di diventare il Medio Oriente), Van Sant ricorre al motivo crepuscolare del cespu­ glio rotolante, come se il tramonto del western coincidesse in fondo con il tramonto della civiltà statunitense.

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GLI AUTORI

SERGIO ARECCO (Non Ligure 1945), saggista e storico del cine­ ma, collabora da anni a "Filmcritica” e "Cinefonim". È inoltre auto­ re di monografie su registi (per II Castoro: Tavernier, 1993, Lucas, 1995, Cassavetes, 1999; per Le Mani: Resnais, 1997, Bresson, 1998, Bergman, 2000) c di volumi tematici sul rapporto cinema-paesaggio (Il paesaggio del cinema, Le Mani, 2001) e cinema-storia (Anche il tempo sogna, Ets, 2004). Ha collaborato al Dizionario critico dei film Treccani (2004) e al Dizionario dei registi del cinema mondiale Einau­ di (2005-2006). Svolge anche attività di traduttore ([email protected]). BRUNO CARTOSIO (Tortona 1943) insegna storia dell’America del Nord all'università di Bergamo. Si occupa da anni di storia so­ ciale e culturale degli Stali Uniti, collabora con varie testale giornali­ stiche (tra cui “il manifesto”) ed è autore e curatore di numerose pubblicazioni. Dirige, con Alessandro Portelli e Giorgio Mariani, "Acoma. Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”. Tra i suoi volumi: Anni inquieti. Società media ideologie negli Stati Uniti da Triiman a Kennedy (Editori Riuniti, 1992); L’autunno degli Stati Uniti (Shake Edizioni, 1998); Da New York a Santa Fe. Tetra, culture native, artisti e scrittori nel Sudovest, 1846-1930 (Giunti, 1999); Gli Stati Uni­ ti con temporanei, 1865-2002 (Giunti, 2002); Più temuti che amati. Gli Stati Uniti nel nuovo secolo (Shake Edizioni, 2005); New York e il mo­ derno. Società, arte e architettura nella metropoli americana, 187679/7 (Feltrinelli, 2007).

ERMINIO CORTI (Bergamo 1964) insegna Letteratura ispanoa­ mericana presso l'Università degli Studi di Bergamo ed è redattore di "Acoma. Rivista Internazionale di Sludi Nordamericani". Si occu­ pa in particolare di letteratura chicana e di studi comparati tra le let­ terature anglo e ispano americane dal Modernismo a oggi. Tra le sue pubblicazioni principali: Da Aztldn all’Amerìndia. Multiculturalismo e difesa dell’identità chicana nella poesia di Alurista (Mauro Baroni Editore, 1999); Da Faulkner a Onetti. Uno studio comparativo dei cro­ 176

notopi letterari fra Yoknapatawpha e Santa Malia, (Shake Edizioni, 2004); Borges, Onetti, Garcta Marquez: ties ensayos de literatura hispanoamericana (Sestante, 2004) ([email protected]).

ELENA DELL'AGNESE (Milano 1958) insegna Geografia Politica e Geografia della Comunicazione presso 1’Università di Milano-Bicocca, dove dirige il Laboratorio di Ricerca Visuale (LabVis) e coor­ dina il Corso di Laurea magistrale in Turismo, Territorio e Sviluppo locale. Si occupa di geografia politica culturale e di geografia dei me­ dia, coniugando interessi di ricerca specifici (il paesaggio di confine e la sua rappresentazione mediatica), con studi sul nazionalismo e con la prospettiva di genere. È autrice di una ottantina di saggi, fra cui The US-Mexico Border: A Political Geography Perspective ( "Geopo­ litics”, 2005), e la mascolinità del cowboy fra iconografìa nazionale e identificazione narcisistica (in Ophelia e Parsifal, Cortina, 2007). Fra i volumi, ha pubblicato Geografia politica critica (Guerini, 2005), e ha curato, con Elisabetta Ruspini, Mascolinità alVitaliana (Utet Libre­ ria. 2007). STEFANO GHISLOTTI (Bergamo 1957) insegna Storia e critica del cinema all’università degli Studi di Bergamo. È autore di molti saggi di teoria e analisi del film. Si è occupato di aspetti cognitivi del­ la visione con Riflessi interiori. Il film nella mente dello spettatore (Se­ stante, 2003) e con Repetita invanì. Mnemotecniche del film narrativo (Sestante, 2008). Con Stefano Rosso ha curato il volume Vietnam e ritorno (Marcos y Marcos, 1996) e con Benvenuto Cuminetti il volu­ me Il cinema nella scrittura (Sestante, 2000). Ha partecipato a diversi volumi collettivi, tra cui Complex Storytelling in Contemporary World Cinema, curato da Warren Buckland (Blackwell, 2008) ([email protected]).

BARBARA GRESPI (Mantova 1969) insegna Cinema e arti visive all'università degli Studi di Bergamo, dove si occupa prevalente­ mente di teoria dell’immagine. Tra le sue pubblicazioni Marchi d'au­ tore (Sestante, 2000), Howard Hawks (Le Mani, 2004), Il montaggio (Carocci, in corso di pubblicazione). Ha collaborate a quattro dei quindici volumi della Storia del cinema italiano edita da Marsilio e ha pubblicato saggi sulle riviste internazionali "Ikon”, "Àcoma”, "L’anel­ lo che non tiene”, "Bianco&Nero”. Ha svolto attività di critico per la rivista "Segnocinema” ed è attualmente selezionatore per il Festival del Cinema di Torino diretto da Nanni Moretti. NUCCIO LODATO (Voghera 1946) insegna Storia e critica del ci­ nema e Archivi e progetti per il cinema e lo spettacolo all’università di Pavia. Condirettore dell’alessandrìno Festival della Critica “Ring!” e animatore del Premio "Adelio Ferrero” dalle rispettive fondazioni (2002 e 1978), collabora a "Cinefonim” dal 1981. Ha scritte prima e dopo, dal 1967, per le principali riviste italiane; è autore o curatore 177

di monografie (Hawks, Bresson, Bellocchio, Visconti, il cinema of], Soldati, Arata) e compilatore di antologie della critica, in particolare quale consulente per la Provincia di Pavia ( 1976-1991). Ha atteso al­ l'edizione italiana degli scritti di Gregory1 Markopoulos {Chaos Phaos, Feltrinelli 1976). I suoi interessi toccano in particolare il cine­ ma italiano, francese e statunitense, quello sperimentale e mulo, l’e­ ditoria e la critica. Ha collaborato alla Storia del cinema italiano della Scuola Nazionale di Cinema/Marsilio. Lavora a due volumi su Jean Renoir e Ingrid Bergman ([email protected]). GIORGIO MARIANI (Roma 1954) insegna Lingue e Letterature Anglo-America ne all’università "Sapienza" di Roma ed è condiretto­ re (con Bruno Cartosio e Alessandro Portelli) di "Àcoma. Rivista In­ ternazionale di Studi Nordamericani”. È autore di libri e saggi sulla letteratura americana (in particolare Melville e Stephen Crane), sul­ la letteratura indiano-americana contemporanea {La penna e il tam­ buro. GH indiani d'America e la letteratura degli Stati Uniti, ombre corte, 2003) e sulla teoria della letteratura. Ha curalo Le parole e le anni (Marcos y Marcos, 1999) e attualmente sta completando uno studio sulle raffigurazioni della pace e della guerra nella cultura sta­ tunitense ( giorgio. mariani© uniromal .it). STEFANO ROSSO (Novi Ligure 1956) insegna Letteratura an­ gloamericana all’università degli Studi di Bergamo dove coordina, con Antonio Scurati, il “Gruppo di ricerca sui linguaggi della guerra e della violenza". Fa parte delle redazioni di “Àcoma. Rivista Interna­ zionale di Studi Nordamericani", "Dintorni” e "Paragrafo” e, con Ro­ berto Caglierò, dirige la collana "americane" dell'editore ombre cor­ te di Verona. È autore, tra l'altro, di Musi gialli e berretti verdi. Narra­ tiva USA sulla Guerra del Vietnam (Sestante, 2003); ha curato Un fa­ scino osceno. Guerra e violenza nella letteratura e nel cinema (ombre corte, 2006) e con Stefano Ghislotti, Vietnam e ritorno (Marcos y Marcos, 1996) ([email protected]). MARCELLA SCHMIDT DI FRIEDBERG (Palermo 1958) insegna Geografìa Culturale presso l’Università di Milano-Bicocca e Politica dell’Ambiente presso l’Università Statale di Milano. 1 suoi interessi di ricerca riguardano soprattutto le relazioni tra natura e cultura, memoria e paesaggio in contesti diversi, dal Mediterraneo al Giap­ pone. Tra le pubblicazioni ricordiamo: L’arca di Noè. Conservazionismo tra natura e cultura (Giappichelli, 2004), Geografia a scuola: monti, fiumi, capitali o altro?, a cura di (Guerini, 2005), Elisée Reclus: natura e educazione, Milano, a cura di (Bruno Mondadori, 2007) ([email protected]).

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Ringraziamenti

Come sempre sono molti gli amici, i colleghi e le istituzioni che desi­ dero ringraziare. I principali responsabili del mio interesse per il West sono Bruno Cartosio e Giorgio Mariani, che con i loro studi mi hanno fornito il primo stimolo ad affrontare l’argomento e di questo li ringrazio immensamente (mi riferisco rispettivamente ai loro Da New York a Santa Feo La pernia e il tamburo). Desidero poi esprimere la mia riconoscenza al Dipartimento di Scienze dei Linguaggi, della Comunicazione e degli Studi culturali dell’università degli Studi di Bergamo, che con il suo contributo ha permesso la realizzazione sia di questo volume sia del seminario del dicembre 2007 da cui il volu­ me trae origine. Per la pazienza nella composizione ringrazio Leo­ nardo Monaco. Per il reperimento delle fonti bibliografiche: il perso­ nale della Biblioteca delle Facoltà Umanistiche dell’università degli Studi di Bergamo e in particolare Elena Caruso; Sabrina Solcia della Biblioteca di Anglistica dell’università Statale di Milano; il personale della Biblioteca comunale “Venezia” di Milano, la Zimmermann Li­ brary della University of New Mexico at Albuquerque e John Bakv della Connelly Library della La Salle University di Philadelphia. Per le fonti filmiche è stato cruciale l'aiuto di Bianca Cassinelli e Laura Belleri. Per i preziosi consigli e/o i suggerimenti bibliografici sono infinitamente riconoscente a Mario Bensì, Roberto Caglierò, Bruno Cartosio, Fabio Cleto, Mario Corona, Erminio Corti, Giordano De Biasio, Sonia Di Loreto, Donatella Izzo, Giorgio Mariani, Silvia Mazzucchelli, Luca Carlo Rossi, Federica Rosso, Anna Scannavini, Anto­ nio Scurati e Marilyn B. Young. Una citazione di merito spetta anche ai miei studenti dell’università di Bergamo che in questi ultimi due anni hanno dovuto leggere pagine e vedere immagini che in genere sentivano lontane dalla loro sensibilità: con le loro reazioni mi han­ no fatto riflettere. Un ringraziamento particolare a Alessandro Pratesi, che mi ha ospitato generosamente mentre preparavo questo volume e a Chiara Bietoletti, per il suo aiuto nella rilettura di lutto il libro, per l’aiuto nella correzione delle bozze e per molto altro.

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