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Italian Pages 472 Year 2002
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FORME DEL PENSIERO STUDI DI RETORICA CLASSICA a cura di ; EDOARDO BONA E GIAN FRANCO GIAN OTTI
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CULTURE ANTICHE.
STUDI E TESTI
Collana diretta da
A. PENNACINI, P.L. DONINI G.F. GIANOTTI
16
Volume pubblicato con il contributo del MURST
(cofin 1999)
In copertina:
Il maestro segue la lettura dello scolaro e impartisce spiegazioni (particolare) Treviri, Landesmuseum = Roma, Museo della Civilta Romana
ADRIANO
PENNACINI
FORME DEL PENSIERO STUDI DI RETORICA CLASSICA
a cura di Edoardo Bona e Gian Franco Gianoiti
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Bibliografia di Adriano Pennacini'
Cercida e il secondo cinismo, “Atti dell’ Accademia no”, 1955-56.*
delle Scienze di Tori-
Recensione a R. Mondolfo, Alle origini della Filosofia della cultura, Bologna 1956, “Il Politico” 1958. Recensione a J.de Romilly, La crainte et l’angoisse d’Eschyle, Paris 1958, “Riv. di Filol.” 1959.
dans
le théatre
Nota bibliografica A R.Murray Jr, The Motif of Io in Aeschylus Suppliants, Princeton 1958, “Riv. di Filol.” 1959. Recensione a A.Masaracchia, Solone, Firenze 1958, “Riv. di Filol.” 1960.
Recensione a M. Delcourt, Oreste et Alcméon. Etude sur la projection legendaire du matricide en Grèce, Paris 1959, “Riv. di Filol.” 1962. Voci nel Grande Dizionario Enciclopedico UTET 1962: Alceo, Archiloco, Aristofane, Callimaco, Cercida, Erodoto, Esiodo, Euripide, Ipponatte, Isocrate, Menandro, Pindaro, Plutarco, Polibio, Saffo, Senofonte, Sofo-
cle, Teocrito, Teognide, Teopompo, Tucidide. Recensione
a J.Kabiersch,
Untersuchungen zum Begriff der Philanthropia
bei dem Kaiser Julian, Wiesbaden 1960, “Riv. di Filol.” 1964. Recensione a Polybe, Livre XII. Texte établi, traduit et commentée par P. Pedech, Paris 1961, “Riv. di Filol.” 1964.
Docti e crassi nella poetica di Lucilio, “Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino”, 1965-66.*
Le fragment comme échantillon, “Revue” 1968 (Organisation internationale pour l’étude des langues anciennes par ordinateur, Liege).* Funzioni della rappresentazione
del reale nella satira di Lucilio, “Atti
dell’ Accademia delle Scienze di Torino”, 1968.*
! Con l’asterisco (*) sono altresì indicati i saggi compresi nella presente raccolta.
XII
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Recensione a Petronio, Satyricon (a cura di V.Ciaffi), Torino 1967, “Riv. di Filol.” 1969.
Cicerone-Orazio-Quintiliano: Societa educazione famiglia, l’istituto magistrale, Torino 1969.
antologia per
I procedimenti stilistici nella satira I di Persio, “Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino”, 1970.*
Analyse structurale et recherche computationelle, “Revue” 1970 (Organisation internationale pour l’etude des langues anciennes par ordinateur, Liege). Tecnica e scienza applicata nel mondo antico, antologia di prosatori latini, Milano 1971. Temi di prosa latina da Catone a Teodosio, Torino 1971.
Gli altri popoli antichi, antologia di testi greci storici e etnografici, Torino 1973:
La funzione dell’arcaismo e del neologismo nelle teorie della prosa da Cornificio a Frontone, Torino 1974. Amore e canto nel locus amoenus, Torino 1974.*
Recensione a A. Scaglione, The Classical Theory of Composition from its Origins to the Present. A Historical Survey, Chapel Hill, North Carolina, 1972, “Riv. di Filol.” 1974.
Recensione a A.D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori, storici e filosofi Latini, Bologna 1974, “Il Verri” 1975. Recensione a M. Coccia, Le interpolazioni in Petronio, Roma 1973, “Riv. di Filol.” 1975. Recensione a O. Pecere, Petronio. La novella della matrona di Efeso, Padova 1975, “Riv. di Filol.” 1976.
Figure di pensiero nella Oratio pro Rhodiensibus di Catone Maggiore, Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano, 1977.*
BIBLIOGRAFIA DI ADRIANO PENNACINI
XII
Lettura tematica dell’elegia I4 di Tibullo, Rivista di Cultura Classica e Medievale, 1978.*
L’ars di Priapo, Sigma 1978.
Posizione di Cicerone nella questione dell’applicabilità della retorica alla poesia, Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano 1979. Lo stato degli studi sul Romanzo latino in Apuleio letterato filosofo mago, Bologna 1979.*
Tecniche del racconto nelle Metamorfosi in Apuleio letterato filosofo mago, Bologna 1979. Storia e forme della letteratura latina (in collaborazione con G.F.Gianotti), Torino 1981. Bioneis sermonibus et sale nigro, in Prosimetrum e spudogeloion, Genova 1982.* Eloquenza dell’imperatore e prosa dei dotti nella dottrina di Frontone, Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano 1983.* Retorica, diatriba cinica e satira Romana,
in Miscellanea di studi in memo-
ria di F.Arnaldi, Vichiana 1983.*
Strutture retoriche nelle biografie di Svetonio, in Retorica e storia nella cultura classica, Bologna 1985.* Retorica e storia nella cultura classica, (a cura di -) Bologna 1985.
Situazione e struttura dell’epistola familiare “Quaderni di retorica e poetica” 1985.* Riso e conoscenza:
nella
diatriba cinica e satira Romana,
teoria
classica,
in Mondo
classico:
percorsi possibili, Ravenna 1985. Il ritorno della retorica: la tecnica del discorso, “Insegnare” 1985. Recensione a Marco Aurelio, Scritti. Lettere 1984, “Sileno” 1986.
a Frontone,
Pensieri, Torino
XIV
FORME
DEL PENSIERO.
STUDI DI RETORICA
CLASSICA
Loci amoeni. Letteratura italiana e letterature classiche nei licei, in Minora
premunt Bologna 1986. L’immaginario e la cultura degli avi, “Aufidus” 1987.
L’arte della parola, in Lo spazio letterario di Roma vol. II.*
antica Roma
1988,
Recensione a D. Gagliardi, Un’arte di vivere, Roma 1986, “Sileno” 1988.
Voci nell’Enciclopedia Virgiliana: amoenus, vol.I (1984), 141-142; retorica, vol.IV (1988), 457-460; siccus,vol.IV (1988), 832-833.
Bione di Boristene: la retorica al servizio della filosofia, in Mnemosynum. studi in onore di A. Ghiselli, Bologna 1989.* Recensione a A. Rostagni, Orazio, Venosa 1988, “Sileno” 1989.
La narrazione patetica di Virgilio: Orfeo nell’Ade, in Retorica della comunicazione nelle letterature classiche, Bologna 1990.* Funzione drammatica dell’apostrofe nel discorso di Didone (Verg.IV.9-29), in Studi in onore di Lore Terracini, Roma 1990.*
Retorica e comunicazione: aspetti didattici e professionali, relazione inau-
gurale del convegno “Retorica: i metodi e la ricerca”, Camigliatello, settembre 1989, “Vichiana” n. s. 1, 1990.
Il silenzio negli occhi (versi), Alessandria 1990. Lessico della retorica classica, Atti del I Seminario Tecnici Greci e Latini, Messina 1991, 93-100.
di Studi sui Lessici
Paupertas sermonis: Quintilian and New Words (Quintil.Inst. or. VIII.3,33),
relazione presentata alla Biennial Conference of the International Society for the History of Rhetoric, September 25-29, 1991, The John Hopkins University, Baltimore, Maryland.*
Cursus, in “Historisches Woerterbuch der Rhetorik” herausgegeben Gert Ueding und Walter Jens, I, Tiibingen 1992, pp.397-401.
von
BIBLIOGRAFIA DI ADRIANO PENNACINI
XV
La poesia d’occasione, in Atti del convegno nazionale di studi su Orazio dell’ Associazione Italiana di Cultura Classica, Torino 13-15 aprile 1992, Regione Piemonte, Assessorato ai Beni Culturali, Torino 1993, pp.7380.*
Talento e nobiltà secondo Bione di Boristene, in Tradizione e innovazione
nella cultura greca da Omero all’età ellenistica, miscellanea in onore di Bruno Gentili, Roma 1993, parte III pp.1003-1006.*
Ideologia, politica e tecnica della persuasione in un discorso di Lenin, in Retorica e comunicazione: teoria e pratica della persuasione nella società contemporanea, Atti del Congresso (Torino 4-6 ottobre 1990), (a cura di -), Alessandria 1993, pp.69-75. Gaio Giulio Cesare, Opera omnia, in traduzione italiana con testo a fronte,
note, saggio introduttivo, con la collaborazione di Albino Garzetti, Antonio La Penna, Dionigi Vottero e Michele Faraguna, Giulio Einaudi Editore, Torino 1993.
Rhetoric in the Age of Global Communication, Opening Address for the IX Biennial Conference of the International Society for the History of Rhetoric (Turin, July 21th-24th, 1993). Retorica e scienza: alcuni procedimenti retorici in Vitruvio, De architectura, e in Plinio, Naturalis historia, in Voce di molte acque, miscellanea di
studi offerti a Eugenio Corsini, Torino 1994, pp.207-212.* From Allusion to Emphasis in Present-Day Italian Political Oratory, Paper Presented in Drittes internationales Colloquium Zur Aktualitaet der Rhetorik, Universitaet Hessen 29-30 Juni 1995.
Rhetoric and Theology: the 33rd Canto of the Paradise of Dante, Relazione
presentata alla Tenth Biennial Conference of the International Society for the History of Rhetoric, Edinburgh.
July 18th-22th,
1995, The University of
Arguments about Ethnical and Cultural Differences in Ancient and Modern Oratory. Opening Address for “The First African Symposium on Rhetoric: Persuasion and Power”, University of Cape Town, July 11-13, 1994 in Studi di retorica oggi in Italia 1997, Bologna 1998, pp.73-91.*
XVI
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Comunicazione 1. Quaderno di studi 1996 (a cura di -), Bologna 1996.
Comunicazione 2. Quaderno di studi 1997 (a cura di -), Bologna 1998.
Studi di retorica oggi in Italia 1997 (a cura di -), Bologna 1998. Liberta e solidarieta: valori, luoghi e argomentazioni nell’oratoria politica italiana di oggi, comunicazione presentata al Primer Congreso Internacional de Retorica en Mexico, Universidad Nacional Autonoma de Mexico, 20-24 abril 1998 [in corso di pubblicazione].
L’idée d’ecart dans la théorie rhétorique latine, communication présenté au colloque franco-italien Skhema/figura. Recherches interdisciplinaires sur la théorie des figures dans l’antiquité, Paris 26-29 mai 1999 [in corso di pubblicazione]. Retorica moderna e retorica classica, premessa alla ristampa anastatica del Cannocchiale
aristotelico di Emanuele
Tesauro
a cura di G. Menardi,
Biblioteca Civica della Citta di Fossano, Savigliano 2000. Quintiliano, /nstitutio oratoria, traduzione italiana con testo a fronte, note,
saggio introduttivo, aggiornamenti, con la collaborazione di M. S. Celentano, A. Falco, R. Granatelli, A. M. Milazzo, F. Parodi, T. Piscitelli, M. Squillante, R. Valenti, M. Vallozza, D. Vottero, V. Viparelli, Torino, Einaudi 2001.
Retorica e teologia nel canto XXXIII del Paradiso, in La parola al testo. Scritti per Bice Mortara Garavelli, Alessandria 2002, II, 933-942.
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Si precisa che dei singoli lavori si è mantenuto l’aspetto originario; pertanto non si è uniformato il sistema delle citazioni bibliografiche e delle abbreviazioni, che risulta coerente solo all’interno di ciascun testo.
CERCIDA E IL SECONDO CINISMO* Riassunto. — Di Cercida pochi frammenti ci sono pervenuti. Difficile, l’Autore riconosce, è quindi la definizione del poeta. Par chiaro tuttavia che Cercida, già definito cinico dagli antichi, abbia accolto la dottrina cinica. L’Autore crede però di poter individuare nei frammenti di Cercida una attenuazione del rigore dei primi cinici; che lo collegherebbe coi secondi cinici, quelli che sentirono l'influsso dello stoicismo. L’imperturbabilita del sapiente è per Cercida il fine supremo. Ma quel fine non s’ottiene, per lui, soltanto con un ascetismo schivo; il sapiente non disconosce il valore dei beni che anche nel mondo si possono cogliere, primo quello della cultura.
Si ritiene che il frammento 4 Diehl di Cercida appartenga ad un componimento di carattere gnomico e insieme autobiografico, scritto dal poeta in vecchiaia. Di questo componimento mancano il principio e la fine; il testo di quanto rimane presenta una breve lacuna al principio del primo verso, un’altra più grande poco oltre la metà del frammento, ma senza detrimento per la comprensione; mentre nell’ultima parte, di difficile interpretazione, appare oscuro e forse corrotto. La prima frase non è di facile interpretazione. Il testo, per quanto lacunoso sul principio!, non appare corrotto o d’intricata costruzione. Ma Cercida si esprime con una metafora, e il dubbio involge appunto l’interpretazione di questa metafora. La frase, tradotta alla lettera, suona così: “spesso, domato, il mortale chiude gli occhi suo malgrado?. Le espressioni delle quali importa chiarire il significato sono “domato” e “chiudere gli occhi”. Ambedue queste locuzioni sono state variamente intese; ma gli studiosi? non si sono curati di
sostenere le interpretazioni mediante confronti persuasivi, né di definire, per quanto è possibile, le tradizioni culturali e di linguaggio dove locuzioni tali o affini ebbero vita.
* «AAT», 90, 1955-56, 1-27. Nota presentata dal Socio corrisp. Antonio Maddalena
nell’adunanza del 21 nov. 1955. ! S. A. Hunt supplisce zoAAaxt1c, che mi pare congettura adatta e accettabile. 2 Kav@6g indicava in origine l’angolo dell’occhio, venne a designare l’occhio solo in epoca alessandrina. Il numero esiguo e la qualità delle testimonianze persuadono che l’uso di tale vocabolo in luogo del comune 6@0aAudcg fu vivo soltanto nella lingua letteraria. Cfr. Callimach.
fr. 150
(O.SCHNEIDER,
Callimachea,
Lipsia
1873,
vol. 2°, p. 418);
Phi-
lipp.Thess. A. P. 6. 62; Opp. Cyn. 4. 218; Mosch. fr. 9, 8 (TGF Nauck? , pp. 812-816); Paul. Silent. A. P. 5. 219; Isid. Aeg. A. P. 7. 221. 3 Ho tenuto presenti soprattutto le interpretazioni dell’intero frammento di G. Fraccaroli, I lirici greci, poesia melica, Torino 1913, p. 568; di U. v. WILAMOWITZ, Kleine Schriften, Berlin 1941, vol. 2°, pp. 141-142; di E. A. BARBER, Nuovi capitoli nella storia della letteratura greca, trad. it., Firenze 1935, p. 14.
4
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Dal Fraccaroli e dal Wilamowitz Suade£ig fu inteso: “abbattuto da molestie e da cure”; dal Barber: “piegato dalla vecchiaia”. In alcuni luoghi delle sue tragedie Euripide designa i morti 5ua0évtec. Non è possibile avanzare dubbi intorno al significato di tale vocabolo nei testi euripidei. La metafora si spiega — io credo — ricordando che per i Greci ia qualità principale e caratteristica dell’uomo era la sua essenza mortale. Lo stesso destino di morte sopraffa tutti gli uomini egualmente; e se a qualunque altra sventura l'ingegno dell’uomo può e sa porre rimedio, contro la morte niente può e il guerriero più forte e il più profondo sapiente. Il destino di morte sempre ha domato e domerà gli uomini accorti e tenaci. Se dunque la morte è colei che sola doma gli uomini, gli uomini morti sono i domati. Il vocabolo può essere nondimeno inteso in senso più largo che non suggerisca Euripide; non soltanto chi è morto è “domato” dal destino comune degli uomini, ma anche l’uomo giunto al tempo estremo della vita, per vecchiaia o per morbo, cioè l’uomo che ha cessato di contendere con la morte, che sa di avere davanti a sé non altro che la morte. Già allora l’uomo è domato dal destino di morte. Anche questo può significare duaQeic, senza bisogno di complementi, così come compare nei luoghi di Euripide. Terminato l’esame della prima proposizione del frammento, si vedrà come quest’ultimo significato si adatti al contesto cercideo. Si tratta ora di stabilire che cosa intendesse Cercida scrivendo éxAaée xavOws. Diogene Laerzio® ha tramandato un detto di Bione di Boristene:
EDXOAOV THV Etc “Ardov 6dév xatauvovtag yodv amiévar. Perchè rappresentarci disagevole e paurosa la via dell’ Ade, argomentava Bione, quando sappiamo bene che coloro che la percorrono hanno gli occhi chiusi? Una via destinata solo a siffatti viaggiatori è certamente facile e comoda. Lo stesso pensiero ricompare in un frammento di Leonida da Taranto, conservato da Stobeo’; ivi la descrizione della via dell’ Ade è alquanto più ricca di dettagli, tanto che, se la confronto con il conciso e secco apoftegma riferito da Dioge-
4 Il Barber (1. c.) fonda la sua interpretazione del vocabolo sull’interpretazione del pensiero di tutto il frammento; ma non cita né io ho trovato testimonianze atte a provarne la correttezza; eguale è il procedimento del Wilamowitz; neppure egli cita testimonianze, ma poiché intende xAateiv xavOovc come “cedere, lasciarsi vincere”, è naturale che interpreti duadeis come “abbattuto da molestie”. Tuttavia non si conosce alcun documento che persuada di intendere “chiudere gli occhi” per “cedere”; al contrario, Platone scrive: 1a-
géxerv (Eavtdv) uvoavta eb xaì avdgetws...téuverv xai xderv iated (Gorg. p. 480 c); cioè “ad occhi chiusi” come in italiano diremmo “stringendo i denti”, per significare ferma resistenza ai dolori più gravi.
° EURIP., Tro. 175 xaì G@vteg xai Sua0évteg; Iph. T. 198 tév rodotev Suabévtov: Alc. 127, di Esculapio risuscitatore di morti: 8ua0évtas yao aviotn. 2D. ids 49) * STOB: flor. 12029.
CERCIDA E IL SECONDO CINISMO
5.
ne, stimo corretto opinare che Leonida abbia direttamente attinto da Bione
ritenendone alcunchè dello stile colorito e ridondante’. Il pensiero non è espresso in forma di ragionamento, ma il poeta, dopo aver enumerato i difetti che la via non ha e i pregi che ha, conclude, affinché sia del tutto chiaro e indubbio che essa è facilissima e che non vi è alcun motivo
di temerne,
che €x ueuvxotov odev_etar. Per Bione e per Leonida, dunque, i morti sono “coloro
che hanno
gli occhi chiusi”.
Mveiv,
xatauberv
sono
chiara-
mente eufemismi per “morire”. Ambedue gli scrittori tuttavia richiamano l’attenzione dei lettori sul significato originario del vocabolo, quasi invitandoli a rappresentarsi la teoria dei morti che “con gli occhi chiusi” discende pur agevolmente la comoda via dell’ Ade. Bione e Leonida, in sostanza, intendono concretamente la metafora — qui sta il calembour — e la introducono come una considerazione decisiva ai fini della loro dimostrazione. Non avrebbero potuto valersi di tale procedimento se la locuzione eufemistica non fosse stata di uso molto comune. I lettori e gli ascoltatori dovevano essere in grado di afferrare subito il significato della frase e il gioco di parole. L’effetto comico cresce ove si noti che una condizione propria dei corpi senza vita — gli occhi chiusi — viene attribuita alle ombre. Il verbo xatauòa compare inoltre in un luogo di Luciano’, come eufemismo per morire, senza alcun complemento; ricompare ancora, nella forma semplice pv, in un epigramma sepolcrale di Isidoro Egeate!°, ma accompagnato da xavOovc. Mentre il luogo di Luciano conferma che xataudo doveva essere nella lingua d’uso, con l’anzidetto valore eufemistico, il passo dell’epigramma di Isidoro Egeate mostra come tale locuzione eufemistica venisse volentieri modificata e travestita dai poeti mediante vocaboli meno
comuni o più adatti alla lingua e allo stile che il componimento richiedeva. Ed è il caso di xAatewv xavOovc: l’espressione equivale a uoetrv e ne costituisce una variazione operata secondo un gusto di lingua e un costume letterario che tenterò più avanti di determinare.
Rileggendo ora daccapo tutta la frase s’intenderà: “spesso, ormai domato, il mortale!! muore contro voglia”, cioè “spesso, domato, il mortale non si rassegna, ma soffre di dover morire”. Il pensiero di Cercida è un rimprovero
8 Cfr. D. L. 4. 47: ...fjv 0 Biv... toAUTEOTIOS Xai GOPLOTNs Torxidog; 4. 52: ...TOOTOG B. tiv P1rdocogpiav avOiva Évedvoev. ° LUC., D. Mer. 7. 2: Av 6 yéowv xatapdon. 10 ISID. AEG., A. P. 7. 221: xavOovdc tovds yAvxEgovs Envoas. !l L’accostamento
Suadeig Beotdc non è casuale: è legge di natura che il mortale sia
domato dalla morte; su questo Cercida pone l’accento. Che Cercida abbia attinto da Euripide è verisimile; nel fr. 2 D. egli stesso cita esplicitamente il tragico come sua fonte; del resto Euripide era tra gli scrittori prediletti dai cinici; cfr. R. HELM, Lucian und Menipp, Lipsia 1906, p. 243.
6
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
all’uomo di non accogliere con animo sereno e forte un avvenimento al tutto naturale quale è la morte, quando ormai il suo destino è per compiersi, quando la natura lo sospinge, rapidamente e senza scampo, verso “l’ampia soglia dell’ Ade”, ma di abbandonarsi ai rimpianti e alle vane querele. Questa interpretazione si accorda benissimo con il contenuto di pensiero della restante parte del frammento. La frase successiva presenta, nella lezione offerta dal papiro, una difficoltà sola ma rilevante; che venne risolta brillantemente dal Wilamowitz!. La
congettura proposta dallo studioso tedesco fu accolta da quasi tutti coloro che studiarono il frammento. Sicché questa frase va così intesa: “ma tu dentro al petto hai sempre avuto un cuore (=animo) inflessibile e invincibile da tutti gli affanni dei mangiatori di carne grassa”. Cercida afferma che per tutta la vita il suo animo si è mostrato costante e fermo tanto che non si lasciò mai piegare nè vincere dagli “affanni dei mangiatori di carne grassa”. Questi ultimi sono certamente gli uomini che vivono tutti rivolti alla soddisfazione dei desideri del corpo e a procurarsi i piaceri dei sensi. Quanto agli affanni, si può, per ora, pensare che si tratti delle molestie e delle ansie che questi uomini soffrono nello sforzo di procacciarsi tali soddisfazioni e tali piaceri. La frase è introdotta da una particella avversativa; d’altra parte il pensiero che essa esprime non sta in opposizione con quello espresso nella frase precedente. L’autore dapprima nota che gli uomini in generale riluttano a morire; poi rivolge lo sguardo a sé stesso e, distinguendosi subito dalla generalità degli uomini, dichiara che il suo animo non fu mai piegato né vinto dalle cure che sono proprie degli uomini dediti ai piaceri del corpo. Dopo la costatazione con la quale si apre il frammento, comincia un’argomentazione la cui conclu- . sione sarà un pensiero contrastante in qualche modo alla costatazione suddetta. La presenza della congiunzione avversativa è determinante. Continuando Cercida sviluppa l’argomentazione: “Per questo nulla mai di quanto è bello ti sfuggiva, ma tutta nei tuoi visceri era la graziosa selvaggina delle Muse, e delle Pieridi pescatore navigavi, animo mio, e cercatore di tracce abilissimo”. Considerando questo secondo membro dell’argomentazione e notando il nesso che lo lega col primo, si comincia a comprendere il pensiero di Cercida e a intravvedere dove voglia giungere. Intanto non credo sia necessario spendere parole per dimostrare che, se per pesca e caccia delle Pieridi si può intendere lo studio e l’esercizio della poesia, per “la graziosa selvaggina
'2 Tl WILAMOWITZ, op. cit., p. 142, congetturò, in luogo del miweAocagxo@ayév recato dal papiro, Tiwehocagxopayev, come genitivo plurale di un aggettivo in -oc. La predilezione di Cercida per i vocaboli composti è attestata da numerosi esempi presenti negli altri frammenti, specie nel fr. I D. A conforto della congettura mi pare opportuno citare ovyxatavevoipayos, vocabolo foggiato da Cratete cinico; v. PPh Diels, fr. IL.
CERCIDA E IL SECONDO CINISMO
7
delle Muse” si deve certamente intendere il complesso delle discipline liberali, tra le quali primeggiava la filosofia!. Cercida ci fa sapere, non senza compiacimento e fierezza, che sempre la sua mente fu limpida e il suo animo costante nello studio delle arti liberali e nella ricerca della sapienza. Mente limpida e animo costante gli derivarono dalla fermezza con la quale seppe tenersi lontano dai piaceri del corpo e dai costumi degli uomini volgari. Sicché tutte le cose belle egli afferrava, di tutto quanto offre la dolce sapienza egli si appropriava. Il tono diviene ora più appassionato; la voce di Cercida risuona più calda e più viva. Il terzo e per noi ultimo membro dell’argomentazione è costituito da due parti. La prima consiste di una descrizione ridondante e commossa della vecchiaia dell’autore!*. Nella seconda è detto: “ancora investigo ciò che è vero e bene!, a quest’età, e mi compiaccio di cosa degna di consumarvi tempo, scorgendo l’ampia soglia del termine della vita”. Cioè: proprio perché son vecchio, proprio perché vedo da vicino la soglia dell’ Ade, continuo a ricercare ciò che è vero e bene, e solo in questa meditazione spendo il mio tempo. Un fatto, comunemente sperimentato, attira l’attenzione di Cercida: gli uomini hanno paura della morte; quanto più essa si avvicina, tanto più se ne x
13 Cfr. PLAT., Tim., p. 88, Phaed., p. 61. È noto che i Greci vedevano nelle Muse il simbolo non soltanto della poesia, ma anche, e propriamente, di tutte le arti liberali; tra queste era la poesia. Il Wilamowitz (op. cit., p. 142) e il Barber (op. cit., p. 14) ritengono che in questo passo Cercida si riferisca solo al culto della poesia. Tale interpretazione, come si vedrà, non è compatibile con il tema e con il contenuto di pensiero del frammento. 14 Vi sono in questa parte due lacune. A supplire la prima valgono alcuni confronti: ATHEN. 12. 425 F, dove è riportato un passo del poeta Asio nel quale vengono descritti i Samii, che incedono pomposamente e lasciano che le loro yatta. è' Nooedt' dvéuo;
ORPH. Arg. 1225: aro xgatòg éd£10at...j60Nvto; ALCIPHR. Ep. 3. 55. 4, dove è introdotto il pitagorico Archibio rAoxduove att’ GxEas TS XEMAATS dxor OTEQVOV ATALE@V. Fondandosi su questi luoghi e sulla superstite lettera E nel papiro, si può con buona probabilità supplire é0e1001 (come fece, senza spiegazioni, P. Maas). Per l’altra lacuna, da vax1A€0 io non so ricavare nulla; ma per tutta la frase penso sia da tener presente PIND. Ol.
I 70: Adyvar viv uédav yÉverov Eqegov. Il pensiero di Cercida può essere: e i peli (incanutendo) mi hanno fatto bianco il mento. Kvnxég vale biondo, rossiccio, bianco. In questo caso, avendo l’occhio al contesto, sarà da preferirsi l’ultimo significato. Cfr. ESYCH. s. v.
xvnx0c, e Schol. ad Theocr. 7. 16. 15 Tenterò a suo luogo di precisare, per quanto è possibile, il valore del termine xonyvog nel testo cercideo. Ritengo, per ora, di tradurre “vero e bene”, poiché ambedue queste accezioni sono documentate dai luoghi che ho esaminati al proposito. Il concetto di “bene” sembra discendere da un originario significato di “utile”; v. //. I. 106. Si tratterà perciò di un bene legato in qualche modo a concezioni e considerazioni di morale pratica. Quanto al significato di “vero”, i lessici moderni suppongono discendesse da incomprensione del luogo omerico citato. Indicativa ed esauriente circa le possibilità espressive appare la spiegazione dell’ Etym. M.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
tormentano, e vorrebbero, ma non possono, fuggirla. Ebbene, prosegue lo scrittore, prendete ad esempio me: mi sono sempre tenuto lontano dai piaceri, il mio cuore non ha conosciuto mai le cure che inquietano gli uomini sensuali. Per questo il mio animo é stato sempre limpido e perspicace; e ho potuto conoscere e studiare poesia e sapienza. Ora anch’io son vecchio, anch’io scorgo l’ampia soglia dell’ Ade, pure continuo a studiare, continuo a ricercare ciò che è vero e bene. Tale è il pensiero contenuto nel frammento. Ed è mutilo; ma non occorre molto per completarlo, senza timore di trascendere le intenzioni
dell’autore. Ho notato dianzi che la proposizione iniziale è legata con quella seguente mediante una congiunzione avversativa. Poichè i pensieri espressi dalle due proposizioni non contrastano,
almeno
immediatamente,
osservavo
che da quella congiunzione principia un’argomentazione che deve certamente concludersi con un pensiero contrastante in qualche modo con quello espresso dalla proposizione iniziale. Bisogna seguire questa argomentazione e scoprirne il processo logico: sarà allora possibile indicarne, io credo, la conclusione.
Il discorso, sopra il quale Cercida ha voluto stendere colore e aspetto di notizia autobiografica, è ben chiaramente composto di due parti: l’una dal v. 2 al v. 7, Valtra dal v.8 alla fine. La prima costituisce una premessa di carattere generale, e riguarda le facoltà intellettuali e conoscitive dell’uomo. L’autore stima queste tanto più alte ed efficaci, quanto meno l’animo e i sensi siano occupati dalla ricerca del piacere e della soddisfazione del corpo. Chi vince i desideri della carne, chi sottopone il corpo al dominio dell’animo, costui conserva e accresce le facoltà intellettuali e conoscitive, che, del resto,
sono proprie dell’animo. Costui è in grado di riconoscere e di appropriarsi bellezza, sapienza, poesia. Tutto ciò, come ho detto, è tradotto in termini autobiografici: Cercida afferma di avere informato le sue azioni, per tutta la vita, a quei principi direttivi, e che perciò ha fatto proprie bellezza, sapienza, poesia. La seconda parte ha carattere particolare. Vi si distinguono due momenti, sempre nell’ambito del processo logico che vengo riconoscendo. Il primo costituisce una precisazione, una sorta di premessa secondaria: l’autore dichiara di essere ormai vecchio. Dico una sorta di premessa secondaria, ma in realtà dopo il pensiero espresso nella prima parte (e che si può riassumere così: io sono sapiente), questa dichiarazione gioca un ruolo di notevole importanza: essa mostra che Cercida ritorna a considerare il concetto della vecchiaia e della morte vicina, dal quale si era partito sviluppando momento l’argomentazione. Il secondo costituisce una anch’esso precisazione, e insieme un corollario del pensiero della prima parte: lo scrittore dice che “ancora investiga in che consista ciò che è vero e bene (xoiTL patever xQayvov = et quid sit verum et bonum quaerit) e si compiace di cose degne di consumarvi tempo”. Poiché è sapiente, anche
CERCIDA E IL SECONDO
CINISMO
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quando è vecchio e la morte è vicina — è significativo che questa condizione sia notata ancora una volta — egli si conduce in modo degno di un sapiente: usa della sua mente limpida e perspicace a ricercare che cosa sia vero e bene, e si occupa soltanto di quelle cose che egli, sapiente, giudica degne di interesse. Così egli si porta nella vecchiezza e davanti ala morte. In questo modo definito il processo logico dell’argomentazione e interpretato il nesso dei pensieri, appare chiaro quale debba essere l'affermazione ultima e conclusiva: vecchio e vicino a morte, ormai domato, io non piango né mi ribello, ma accetto di morire e rimango sereno e imperturbato. Forse il componimento non finiva a questo punto: è possibile — dico possibile, ma si tratta di una possibilità molto vicina alla realtà — che per terminare Cercida esortasse gli uomini a seguire il suo esempio, cioè ad acquisire la condizione di spirito del sapiente, così da affrontare senza paura e senza turbamento la morte. Per concludere, non mi pare arrischiato affermare che il tema del frammento è l’opportunità che l’uomo si rassegni alla morte. Cercida stima opportuna e utile per l’uomo la rassegnazione alla morte. Questa condizione viene ottenuta mediante l'acquisizione e l’esercizio della sapienza; ma per attingere la sapienza è necessario aver l’animo sgombro dalle cure del senso e del corpo, poichè da una vita condotta inseguendo la soddisfazione del senso e del corpo l’uomo ritrae l’animo ottenebrato e l’intelletto inabile. Ora, esaminando il frammento, è possibile stabilire che cosa pensava Cercida intorno alla morte, e perché ritenesse opportuno esortare gli uomini a non temerla. Si confronti l'osservazione circa la riluttanza di gran parte degli uomini a morire con la descrizione dell’operosità dell’autore vicino a morte. Il discorso comincia da quell’osservazione e termina con quella descrizione. Ho accertato che i due pensieri sono sostanzialmente opposti. Alla riluttanza degli uomini Cercida non oppone la sua rassegnazione, ma la perseveranza con la quale “vecchio, ancora investiga che cosa è vero e bene” e la sapienza che sempre lo soccorre, così che egli “si compiace di cose degne di spendervi tempo”. Non dice di temere la morte, nè di disprezzarla nè di desiderarla; di-
chiara solo che essa gli è vicina, ma pure non gli impedisce di continuare nella ricerca di ciò che è vero e bene. Non sulla rassegnazione Cercida pone l’accento, ma sulla sapiente operosità; che non sarebbe possibile ove la morte fosse per lui ragione d’inquietudine. Nei vv. 2-4 ha detto che i piaceri del corpo non l’hanno turbato né mai si sono impossessati del suo animo; e pensava che essi sono di ostacolo all’acquisto della sapienza. Insomma egli è sempre stato imperturbabile dai piaceri volgari; per questo ha accolto in sé poesia, bellezza, sapienza. Giunto a tarda età lo minaccia la morte, mentre i
piaceri del senso vanno estinguendosi. Ed egli rimane imperturbabile anche dalla morte, e come per tutta la vita poesia, bellezza, sapienza sono state og-
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
getto del suo studio, cosi ora continua a indagare che cosa é vero e bene e ad approfondirne la conoscenza. La presenza della morte nella vita degli uomini è importante solo in quanto è cagione di turbamento, solo in quanto allontana e distrae l’uomo dall’indagine e dalla conoscenza tod xenyvov. Del resto la sostanza dell’osservazione che apre il frammento è che gli uomini, pur quando hanno la morte addosso, inevitabile, tuttavia se ne turbano, e muoiono
a
malincuore. Cercida dunque giudicava la morte, come i piaceri volgari, in sé né bene né male; bensì cagione di male, in relazione al modo col quale venga considerata dagli uomini; e riteneva che il sapiente sa che la morte non è né bene né male per l’uomo. Quanto meno la paura della morte turba il sapiente
e lo distoglie dal conoscere e dall’indagare ti xenyvov éoti, tanto più essa impedisce, a chi sapiente non è, di partecipare di questa indagine e conoscenza. Di qui l’opportunità di esortare gli uomini a non lasciarsi turbare dalla morte, e in sostanza ad apprendere e a persuadersi che essa non è né bene né male. I sapienti — e Cercida è sapiente — stimano la morte e i piaceri del corpo cose indifferenti: non se ne curano e non se ne lasciano turbare. Non così fanno i più, che vivono inquieti fra desideri e paure; costoro — i più — sono gli
stolti. Ho parlato sopra di acquisizione della sapienza: Cercida scrive di essere divenuto sapiente perché non si lasciò mai turbare dai piaceri del corpo; appare poi che la sapienza gli insegna a rimanere imperturbato davanti alla morte, e che, conservandosi sereno, può perseverare nello studio e nell’indagine di ciò che è vero e bene. I due concetti di imperturbabilità e di sapienza sono così profondamente legati l’uno con l’altro, che i rapporti e i nessi logici sembrano inseguirsi in un circolo vizioso. In realtà imperturbabilità e sapienza non sono legate da rapporto di causa ed effetto, né si dispongono, nella vita di un uomo,
in successione cronologica; ma
si identificano.
Un uomo non comincia ad abolire i motivi di turbamento una volta che sia divenuto sapiente, né viceversa la mancanza di turbamento fa il sapiente. Mi pare si possa giungere ad affermare che per Cercida l’uomo diviene ad un tempo sapiente e imperturbabile. Naturalmente perché ciò avvenga è necessario che si verifichi una condizione. Nei vv. 5-7 è fatto cenno alla sostanza di questa condizione, ma per via d’immagini, mediante un linguaggio che vorrebbe apparire colorito e brillante. Per contro, ove si ponga mente all'affermazione che “vecchio, ancora bada a indagare ti xerjyvdov goti ”, affermazione che, pronunciata in quel momento, quando scorge “l’ampia soglia del termine della vita”, mostra la somma, fondamentale importanza di quell’indagine e di quel concetto — to xomnyvov — nell’etica cercidea, apparirà chiaro senza dubbio che la comprensione, appunto, di “cid che è vero e bene”
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è la condizione necessaria ed essenziale perché l’uomo passi dal novero degli stolti e dominati dai più diversi turbamenti a quello dei sapienti e imperturbabili. Non intendo negare ogni valore di pensiero alla frase contenuta dai vv. 57, considerandola semplicemente un travestimento immaginoso — di cattivo gusto — di un concetto; direi nondimeno che vi sono espressi alcuni aspetti rilevanti — bellezza, sapienza, poesia — che il concetto essenziale dell’etica cercidea assume realizzandosi nella pratica. Sapienza (cioè conoscenza del vero e bene) e imperturbabilità, ho notato, sono i due pilastri dell’etica cercidea; e sono molto strettamente connesse Puna con l’altra. L'uomo le acquisisce ambedue ad un tempo. Chi è sapiente è insieme imperturbabile. Sicché essere sapiente significa conoscere e distinguere quel che turba da quel che non turba. Dunque il vero, che è pure cagione di bene all’uomo, è ciò che non turba, mentre tutto quanto è motivo di turbamento è falso, è apparente, ed è cagione di male. Ora, che Cercida dica vero ciò che non turba ed è causa del benessere dell’uomo, significa, se non er-
ro, che vero è ciò che è proprio all’essenza dell’uomo, falso ciò che le è estraneo; poiché soltanto ciò, che essenzialmente si conviene ed è proprio all’uomo, non lo turba ma anzi lo rende felice, e viceversa. Considerando poi
l’importanza dell’imperturbabilità nel pensiero cercideo, non si rischia nulla affermando che l’etica, sulla quale si fonda il frammento, predica e rappresenta come uomo ideale l’uomo imperturbabile, che respinge lontano da sé tutto quanto non è pertinente alla sua essenza, vale a dire alla natura umana, e accoglie in sé, per contro, tutto quanto è proprio alla sua essenza. Insomma, l’uomo ideale predicato dall’etica di Cercida (cioè il sapiente), è colui che,
imperturbabile, vive secondo la natura propria dell’uomo. In sostanza, al di là di codeste sottili disquisizioni intorno a quanto è proprio e a quanto è estraneo alla natura umana, è certo che l’etica, cui è ispirato questo frammento, non cura di fornire norme e regole atte a dirigere l’uomo in una vita in società con altri uomini, ma al contrario tende a svincolarlo dal più gran numero di condizioni che con il mondo esterno (uomini e cose) lo leghino, e a liberarlo
da tutte le paure e da tutti i desideri. Importante fra le paure quella della morte, fra i desideri sopra gli altri da sfuggirsi quelli che suscitano i piaceri volgari. Tale etica vede dunque nell’imperturbabilità lo stato perfetto dell’uomo, in breve, la felicità. Per conseguirla è necessario che l’animo umano conosca sì il vero, ma anche non si lasci piegare né vincere da quanto produce in lui turbamento
(cfr. vv. 2-3); è necessario che l’uomo
sia forte
nell’animo e costante nell’esercizio di questa fortezza. Nell’etica, sopra la quale è fondato questo frammento, non è difficile, ora, riconoscere la parte essenziale dell’etica cinica, quale, almeno, ci è stata tra-
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
mandata. Il papiro di Ossirinco!, che fornì nel 1911 il testo di alcuni componimenti — fra i quali il frammento 4 Diehl qui esaminato — e buon numero di frustoli, reca una sottoscritta!” nella quale Cercida è detto esplicitamente ci-
nico. Tale notizia è confermata dall’esame del contenuto di pensiero: l’etica di Cercida è etica cinica; e tutti i frammenti, in armonia con l’orientamento
della scuola, attestano principalmente interessi morali. Lo studio di quanto rimane dell’opera vale a riconoscere nell’autore un cinico; il quale nondimeno per alcuni aspetti più o meno notevoli divergeva dalla dottrina insegnata dai maestri
del quarto
secolo,
Antistene,
Diogene,
Cratete.
Queste
divergenze
permettono di collegare Cercida con una seconda fase del cinismo, che si manifestò nel corso del terzo secolo, della quale vi sono documenti, quantunque scarsi. Il filosofo cinico teneva per suo compito di insegnare, con la parola e più con l’esempio!8, come l’uomo possa, conoscendo e accogliendo ciò che è proprio alla sua natura e conveniente ad essa, respingendo ciò che ad essa è estraneo con indomabile forza d’animo, giungere all’imperturbabilità e quindi alla felicità. Perché dallo stolto si sviluppi il sapiente, perché l’uomo si liberi dal viluppo di desideri, timori, tradizioni, pregiudizi, opinioni errate dai quali è involto e impedito di scorgere la via della sapienza! sono necessarie ed essenziali due cose. L’intelletto deve essere limpido e perspicace. La necessità di questa condizione è accennata nella prima parte del fr. 4 D. testè esaminato, ed è enunciata chiaramente nel fr. 7 D.”: “La mente vede e la mente ode; come potrebbero vedere la sapienza, che pure sta loro accanto, quegli uomini che hanno l’animo stipato di fango e d’incancellabile feccia?”. Mentre da un lato Cercida afferma solennemente l’importanza somma dell’intelligenza, dall’altro con altrettanta solennità constata quanto inabile essa sia allorché la ottundano desideri, pregiudizi, piaceri, i quali sono molto difficili a cancellarsi (3voéxvirtog). Questo pensiero conferma quanto notai più sopra: 16 V. S. A. HUNT, The Oxyrhinchus Papyri VII n. 1082, London 1911. 17 Kgegnida xvvoc usdiaupor. 18 È noto che i cinici, sebbene tutti lasciassero opere scritte di vario genere, si valsero,
per la diffusione del loro ideale di vita, di conversazioni (diatribe) improvvisate per le piazze e più ancora dell’esempio che essi stessi, con il loro modo di vivere, offrivano. Del resto la logica cinica (nominalismo) escludeva la possibilità di conoscere il bene mediante la discussione e la ricerca razionale, bensì affermava essere la conoscenza intuizione dell’essenza del bene. Di qui l'opportunità di mostrare nella realtà l’uomo che conosce il bene e vive secondo esso. !° Nella lotta contro le convenzioni, considerate cause di turbamento, i cinici fecero propria la distinzione tra physis e nomos, identificando nella physis il concetto che avevano del bene.
20 G. STOBEO, flor. ed Hense, vol. I°, p. 229.
CERCIDA E IL SECONDO
che
sapienza
(cioè
capacità
imperturbabilità si condizionano
CINISMO
dell’intelligenza reciprocamente,
di
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scorgere
il vero)
e
si verificano ad un tempo,
in sostanza coincidono. Non deve mai venir meno la virtù, cioè la forza d’animo, che sola sostiene
l’uomo nella lotta per abolire desideri, timori, ecc.; di ciò è fatta parola nel fr. 4 D. (tu hai sempre avuto un animo inflessibile e invincibile...). La perseveranza nel tener lontano tutto quanto, pur ambito e desiderato, riesca motivo di turbamento, fortifica l’animo, costituisce il faticoso esercizio della virtù.
Ma l’insegnamento del sapiente cinico si esplica soprattutto nella censura dei vizi (che sono consuetudini e atteggiamenti che derivano all’uomo dall’accoglimento di quanto è estraneo alla sua natura) e nella dimostrazione che i vizi, lungi dal produrre uno stato felice seppur momentaneo, sono causa di turbamento e d’infelicità. Si tratta insomma di mostrare agli stolti che sono stolti: quando essi l’abbiano compreso, hanno già compiuto un buon passo verso la sapienza. I piaceri del senso sono considerati causa dei più profondi turbamenti; Cercida accenna, nel fr. 4 D. con disprezzo e sarcasmo ai “mangiatori di carne grassa”, notando che essi traggono dalla loro dissolutezza non gioia ma turbamento (ueAed@vn). L’invettiva contro i crapuloni e la dimostrazione che
il lusso della tavola è cagione d’inquietudine e in sostanza d’infelicità, furono certamente argomenti trattati da Cercida in composizioni di qualche ampiezza. Ne fa testimonianza Gregorio di Nazianzo”!, riferendo alcune considera-
zioni alquanto violente intorno ai crapuloni e ai cibi che essi mangiano, e intorno alla frugalità di Cercida stesso, che, al dire di Gregorio, avrebbe man-
giato soltanto sale e pane, per poter sputare salati scherni sui crapuloni. Alla censura delle raffinatezze culinarie si congiungeva facilmente l’invettiva contro la vita lussuosa e delicata, che snatura l’uomo e lo allontana dalla virtù. E questo è il tema del fr; 3 D. I dissoluti vi sono chiamati “mortali disfatti dal piacere” e “generazioni cresciute nell’ombra”, cioè stirpi di uomini pallidi ed estenuati come piante venute sù lungi dalla luce del sole. Ma poi vi è cenno di un tumulto guerriero, e i dissoluti sono descritti mentre si lasciano prendere dal terrore, la loro voce si fa balbettante, il polso palpita, il cuore e le spalle sono corsi da tremiti. Ciò avviene quando è l’ora di combattere. È noto che i cinici praticavano e consigliavano vita semplice e pasti frugali: bisognava indurare il corpo e abituarlo alla privazione dei conforti. Questo esercizio era parte dell’ascesi cinica, contribuiva a fortificare la virtù, era un aspetto dell’opera di purificazione e liberazione che il sapiente perseguiva. Ma in questo frammento Cercida sembra rimproverare i dissoluti perché la debolez21 GREG. NAZ., poem. mor. X, vv. 595-600 (PG XXXVII col. 723) = fr. II A Diehl; e GREG. NAZ., poem. mor. VII, vv. 96-98 (PG XXXVII col. 656) = fr. II B Diehl.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
za del corpo e dello spirito, cui li ha tratti la diuturna pratica del lusso, impedisce loro di combattere con le armi in pugno. Né i maestri del secolo quarto, né i seguaci del terzo posero mai fra i principi dell’etica della setta il dovere di combattere per chicchessia o checchessia. Non con le armi e non per la patria o per i cari o per la ricchezza combatteva il sapiente cinico, ma con l’esercizio della virtù, che serviva d’esempio, e con la predicazione, contro l’infelicità dell’uomo e contro tutto ciò che nell’animo dell’uomo la produce. Nondimeno fra i piaceri del senso il più temibile è l’amore. Stoltissimo fra tutti gli stolti è chi si lascia possedere da Afrodite; egli crede di andare verso la gioia, e non ne ritrae che infelicità e amarezza. Il cinismo antico condannò rigidamente l’amore e lo escluse al tutto dalla vita del sapiente; Cratete di Tebe dichiarava che “l’amore è spento dal digiuno; se questo non vi riesce, dal tempo; qualora poi nessuno di questi rimedi abbia esito, dal laccio col quale ci si strozza”. Diogene soddisfaceva all’impulso erotico in modo osceno. Cercida, per parte sua, non condivide il rigoroso giudizio dei maestri. Nel fr. 2, dove tratta l’argomento, egli, servendosi secondo un procedimento cinico, di un mito, dichiara che vi sono due specie d’amori: l’uno, nutrito di misura e di temperanza, conduce l’uomo a vita felice, l’altro, eccessivo e su-
scitatore d’incontinenza, a vita inquieta e infelice. “Duplice soffio dalle guance, si racconta, c’invia il figlio di Afrodite dalle ali azzurre... E quello dei mortali al quale mite e benevola soffi la guancia destra, costui governa tranquillamente la nave d’amore col temperante timone di Pitho. Ma quelli, ai quali scatenando il soffio della guancia sinistra, susciti procelle e tempestosi turbini di desideri, costoro, avranno una traversata del tutto burrascosa”. L’autore afferma di avere attinto il mito da Euripide; e lo conferma il confronto con alcuni luoghi del tragediografo”. Ma procedendo egli ne interpreta a suo modo il pensiero, ed enuncia una norma generale circa il comportamento dell’uomo nelle cose d’amore, cui fa seguire un suggerimento pratico: “se sono due, è preferibile allora scegliere il vento a noi favorevole, e valendosi con temperanza del timone di Pitho navigare diritto là dov’é il passaggio di Afrodite. (lacuna) e non dolore. L’afrodite di piazza e non curarsi di nulla, quando vuoi, dove desideri, non paura, non inquietudine, per un obolo te
22 PPh Diels, fr. 14; cfr. D. L. 6. 86. Bie DIla 6746: 2 Cfr. EURIP. Med. 627 sgg.; Iphig. A. 546 sgg.; fr. 388 (TGF Nauck? ) vv. 3-7; fr. 331 enim O22 25 tO undevòs uéAerv: è l’imperturbabiltà, predicata dai cinici come stato perfetto dell’uomo. L’espressione deriva certamente da un componimento di Cratete di Tebe, del quale Telete ha tramandato un frammento (7. reliquiae, ed. O. Hense, p. 44; cfr. PPh Diels
fr. 18).
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la metti sotto? e allora ti pare di essere il genero di Tindaro”. Non l’abolizione del desiderio erotico e l’astensione dall’amore è bene per l’uomo, ma per contro è bene pervenire alla soddisfazione del desiderio per via agevole e sicura, senza porre a rischio l’imperturbabilità, che in questo caso è propriamente detta temperanza. E a questo scopo non vi è niente di meglio che servirsi delle prostitute. Come si vede, Cercida attenua alquanto l'opinione dei maestri del cinismo intorno all’amore: ammette e ritiene opportuna la soddisfazione del desiderio erotico, alla condizione che essa avvenga in modo che l’uomo conservi inalterata l’imperturbabilità. Naturalmente nemmeno nell’amore per le prostitute bisogna eccedere: questo sembra fosse il tema di un altro componimento, del quale Ateneo? ha tramandato un verso, qualora si voglia accogliere le congetture avanzate al riguardo da G. A. Gerhard®. Anche dell’amore omosessuale s’interessò Cercida, nel fr. 9. Il testo è alquanto lacunoso, ma, anche per merito degli studi dell’ Arnim e del Wilamowitz”, è possibile intenderne il pensiero. L’autore osserva come di questo amore vi siano due specie: l’una sensuale, l’altra spirituale. E conclude che l’unico amore che deve legare maschio a maschio è quello spirituale; non è chiaro se tale vincolo debba stabilirsi tra sapiente e sapiente o tra sapiente e giovinetto incline alla virtù. Poiché non è noto se e quale opinione nutrissero al riguardo i cinici antichi, non è neppure possibile accertare se e in che cosa ne divergesse Cercida, tanto più che nel fr. 9 egli prende come riferimento il concetto che dell’amore tra maschi ebbe Zenone di Cizio™. Il ri26 Diogene Laerzio (6. 4) narra di Antistene che “vedendo una volta un adultero fuggire — sciagurato — gli disse — quanto grande pericolo potevi evitare con la spesa di un obolo!”. Il confronto tra i pericolosi amori degli adulteri e quelli tranquilli e comodi con le etere ricompare in un pensiero attribuito a Cratete (D. L. 6. 89), il quale inoltre consigliava al figlio di sostituire alla moglie la cortigiana (D. L. 6. 88). Anche i cinici primi indulsero talvolta, salvo restando il principio dell’imperturbabilità, a suggerire l’amore con le cortigiane, a coloro che impazzavano per le donne maritate, correndo grandi rischi. Tali suggerimenti erano senza dubbio dati in sede pratica, non tanto per condurre l’uomo alla conoscenza della verità, ma piuttosto per lenire, se possibile, le conseguenze dell’eccessivo ardore erotico. In linea di principio rimaneva fermo che l’amore andava ignorato da parte del sapiente. 77 ATHEN. 12 554 D. 28 V. G. A. GERHARD, Cercidaea, in “Wiener Studien” 37 (1915), pp. I sgg. 29 H. v. ARNIM, Zu den Gedichten des Kerkidas, “Wiener Studien” 34 (1912) p. 24; U. v. Wilamowitz, Kleine Scriften, Berlino 1941, vol. 2°.
30 Sembra che Cercida in questo frammento polemizzi coi mali intenditori di Zenone, i quali, fondandosi sull’affermazione del filosofo che l’avversione per la pederastia come per l’incesto ecc. è soltanto pregiudizio, andavano probabilmente dicendo che Zenone approvava l’amore sessuale tra maschi.
Ma a ben altro amore, e sia pure tra maschi, Zenone dà,
nella sua Politeia, somma importanza: “l’amore dio dell’amicizia e della libertà, che è causa di concordia e di niente altro” (ATHEN. 13, 561 C). Questo Eros essaltava Cercida:
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
fiuto dell’amore sensuale tra maschi si giustifica, io credo, non con l’accoglimento dell’opinione comune, ma con la considerazione che tale amo-
re produce soltanto turbamento e, in fondo, l’infelicità; l’amore spirituale, nella concezione di Cercida, doveva esser non altro che soccorso e sostegno o
reciproco o del sapiente al giovinetto nella faticosa ascesa verso la sapienza e l’imperturbabilità. Il rifiuto dell’amore sensuale tra maschi sembra confermato dal fr. 5 Hunt, dove secondo le congetture di A. Mayer? Cercida lamenterebbe, rivolgendosi ironicamente a uno stoico, che i giovani si accostino più volentieri agli uomini sensuali che ai sapienti. Accanto ai piaceri del senso i cinici considerarono causa di grave turbamento i pregiudizi religiosi e le convenzioni sociali; combatterono soprattutto, con i discorsi e con i fatti, la credenza nella provvidenza divina e il concetto di proprietà?. Anche Cercida, nel fr. I, il più lungo fra quelli resi noti dalla scoperta di Ossirinco, si sforza di provare che gli dei non si curano degli uomini, e tratta pure del concetto di proprietà. Ma non condivide affatto con gli antichi cinici il pensiero che sia opportuno non possedere nulla. Anzi ritiene che è necessaria ad ogni uomo una piccola somma di denaro, sufficiente alla soddisfazione dei bisogni fondamentali della vita. Per contro in realtà questo non avviene. Vi sono pochi ricchi e molti miseri. Sicché in luogo di dimostrare che, per vivere senza turbamenti e felice, l’uomo deve rinunciare a qualsiasi proprietà, egli tratta dell’ineguale ripartizione della ricchezza e indica due norme pratiche alle quali gli uomini debbono adeguarsi, se vogliono che ognuno di loro disponga di un poco di denaro per soddisfare i suoi bisogni. Queste due norme pratiche sono allegoricamente designate coi nomi di Pean e Metados, il mutuo soccorso
materiale e spirituale e la generosa liberalità.
Dicevano i cinici antichi: non bisogna temere gli dei, poiché essi non intervengono nei fatti degli uomini; per sfuggire i turbamenti che nascono dalla ricchezza, non bisogna possedere nulla. Non v’era alcun motivo di porre in relazione le due questioni. Ma Cercida stima che sia necessario disporre di tanto denaro quanto basti a soddisfare i bisogni fondamentali. E poiché ciò
amore tra sapienti, nella libertà dal senso e dai pregiudizi, amore che si stabilisce sulla comune conoscenza della verità e sul comune esercizio della virtù.
31 Vv. A. MAYER, BphW, p. 1421 sgg. 3 La polemica contro il concetto di provvidenza divina non fu tuttavia condotta dai cinici primi in modo esplicito e diretto. Si preferì colpire con detti mordaci i pregiudizi che nascevano negli uomini dalla persuasione che gli dei intervenissero in qualche modo negli avvenimenti di questa terra: p. es., i misteri e la divinazione, cfr. D. L. 6. 39; Plut., de aud.
poet. p. 21 F; Cic. de N. D. 3. 34, I. Quanto all’atteggiamento dei cinici primi avverso la proprietà, si ricordi il gesto di Cratete, il quale si privò di ricchezza e di terre allorché abbracciò la dottrina cinica, cfr. D. L. 6. 87. V. inoltre Stob. Flor. ed. H. 4, p. 708, 807; Xen. Symp. 13. 8, 9, e R. HELM, Lucian und Menipp, Lipsia 1906, pp. 169 sgg., 262, 330.
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non avviene, i miseri sono tratti dalle tradizionali credenze religiose a turbarsi fortemente contro gli dei, i quali dovrebbero distribuire la ricchezza con giustizia. Ora, ammesso che gli dei, solo che lo vogliano, possano fare ciò, è chiaro che, se non lo fanno, anche non lo vogliono. Dunque la provvidenza divina non esiste. L’ineguale ripartizione della ricchezza dipende dagli uomini; soltanto gli uomini possono porvi riparo. Tale il pensiero di Cercida. La questione della provvidenza divina è trattata in funzione di quella della ripartizione della ricchezza. La divergenza sostanziale dall’etica del primo cinismo, e che ne costituisce, come nel caso dell’amore, un’attenuazione, sta nel pensiero che un poco di denaro è necessario. La polemica contro la provvidenza divina, che Cercida conduce con molta abilità mettendosi dal punto di vista del credente, s’inquadra benissimo nella lotta contro i pregiudizi già combattuta
dagli antichi
maestri;
e così le due norme
pratiche,
accennate
sotto il nome di Pean e Metados, sono certamente da collegarsi con la cosiddetta filantropia cinica, cioè con la concezione della propria missione di liberatore dai dolori e dalle paure e purificatore dei vizi e dei piaceri, che sempre
il cinico ebbe. Pertinente al medesimo tema dell’uso del denaro per la soddisfazione dei bisogni fondamentali della vita è da considerarsi il fr. 5: “ricordati il detto della rugosa testuggine: poiché la miglior casa ben davvero è la propria”; si tratta di un ammonimento a vivere nella sicurezza e nella tranquillità della propria casa, poiché se pure vivere sotto un tetto proprio o altrui o all’aria aperta è cosa indifferente, tuttavia è preferibile e non è contro natura abitare casa propria. Anche questa opinione contrasta con i discorsi e con i fatti dei cinici del quarto secolo”. L’etica cercidea, per quanto riguarda i principi e i fini, è etica cinica; ma se ne distingue nella considerazione dell’amore e della ricchezza. La divergenza si realizza nell’attenuazione del rigore dei maestri. Altra divergenza notevolissima è nell’affermazione della necessità che animo e corpo siano forti da sostenere il combattimento con le armi. Per Antistene, Diogene, Cratete niente vi era degno di interesse fuori della
virtù e del vizio, dell’imperturbabilità e del turbamento. Badi l’uomo a vivere virtuoso e imperturbabile, badi a lottare contro il vizio e a tener lontano da sé ciò che turba. Tutte le cose che nell’uomo suscitano vizio e turbamento sono
33 I cinici primi s’ imposero la missione di purificare gli uomini, di liberarli dai dolori e dai pregiudizi. Tale missione essi adempivano andando di città in città, faticando virtuosa-
mente come Eracle, che era il loro ideale modello. Non era dunque loro adatto il detto della testuggine, animale nel quale i Greci vedevano il simbolo della vita di casa e della tranquillità, cfr. PLUT., Praecept. coniug. 32; de Isid. et Osir. 75. Del resto i cinici primi non ebbero una casa, cfr. Telet., ed. cit., p. 8.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
indegne di cura; il sapiente deve ignorarle. Vita e morte, morbo e sanita, ricchezza e miseria, gloria e oscurita, patria ed esilio, amore, ecc. sono cose in-
differenti all’animo del sapiente. A Cercida per contro pare che tra vita e morte, finché per via naturale quest’ ultima prevalga, sia da preferirsi la vita: una vita semplice e frugale, s’intende, dalla quale non nascano vizi e turbamenti. E alla vita errabonda e malsicura ritiene sia preferibile quella sicura e tranquilla in casa propria. E alla vita “in società con sé stesso” preferisce quella nutrita di spirituale concordia in società con altri che sia “mousikés harmosménos” (fr. 9). Quanto all’amore, piuttosto che ignorare l’impulso erotico, è meglio soddisfarlo in un modo che non dia luogo a inquietudini. Cercida stimava dunque che fra le cose considerate indifferenti alcune fossero preferibili ad altre, salva restando in ogni caso l’imperturbabilità. Una dottrina delle cose indifferenti fu elaborata in questo senso dagli stoici; essi vi affermavano che tra il bene e il male vi sono altre cose, estranee all’uno e all’altro: fra queste cose l’uomo ha facoltà di scelta. Sono indifferenti, p. es., la sanità e la malattia del corpo, l’integrità e la minorazione dei sensi e delle
membra, la povertà e la ricchezza, la buona e la cattiva riputazione; l’uomo può scegliere tra queste cose, e gli stoici aggiungevano che sono da preferire, p. e. l’integrità alla minorazione del corpo, la ricchezza alla povertà, la buona alla cattiva riputazione, o perché sono cose secondo natura, o perché producono effetti secondo natura. La sistemazione di questa dottrina nella forma a noi pervenuta sembra doversi attribuire a Crisippo*. Parrebbe quindi corretto concludere che Cercida apprese dagli stoici a distinguere tra le cose indifferenti, e definirlo un cinico stoicizzante. E tale giudizio non è, in realtà, distante dal vero. Tuttavia, prima che cogli stoici, Cercida è da collegarsi con il cinico Metrocle di Maronea, cognato e discepolo di Cratete, fiorito intorno al 300 a. C.*. D lui Diogene Laerzio ha conservato due sentenze: “la ricchezza è dannosa, se non viene usata convenientemente” e “delle cose altre bisogna acquistarle col denaro, come la casa, altre col tempo e l’applicazione, come la cultura”. Metrocle si discosta senza dubbio dal suo maestro e dagli altri anteriori cinici. Egli pensa che la ricchezza è utile, se viene usata convenientemente, dannosa in caso contrario. Certo anche per lui ricchezza e povertà sono indifferenti, ma la prima è preferibile da parte di chi sappia usarne in modo tale da non ritrarne turbamento. Quale debba essere in pratica l’uso conveniente della ricchezza già è in parte accennato nella seconda sentenza di Metrocle da me riportata; e si noti l’affinità col pensiero espresso nel fr. 5 da = Ofrd De late 6:
°° V. E. BREHIER, Chrysippe, Paris 1951, p. 226 sgg. °° Cfr. D. L. 6. 94. Metrocle compose delle raccolte di sentenze e aneddoti esemplari, AY IBY ee, ©, SISY.
CERCIDA E IL SECONDO CINISMO
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Cercida; ma piu chiaramente é indicato da Telete, vissuto nella seconda meta del secolo terzo, autore di diatribe, la cui fonte principale é Bione di
Boristene, filosofo cinicizzante contemporaneo di Zenone. Telete nel sermone “La poverta e la ricchezza” scrive: “dissero gli antichi: degli uomini parte usa, parte possiede; poiché gli uni usano i loro beni, gli altri li possiedono soltanto, senza concedere nulla a sé, senza farne parte agli altri”>’. Usa convenientemente della ricchezza chi ne concede parte a sé, soddisfacendo i bisogni fondamentali della vita, parte agli altri: cura di sé e cura liberale del prossimo. E Cercida esorta, nel fr. I, chi è ricco e sapiente a soccorrere con generosità i miseri (Metados). Sicchè il cinico Cercida concorda con Bione, Telete e soprattutto con il cinico Metrocle nel considerare il denaro utile, qualora chi lo possiede ne usi saggiamente per soddisfare i propri bisogni e per beneficiare il prossimo. Non Cercida solo, tra i cinici, distinse fra le cose indifferenti, riputandone le une preferibili
alle altre, ma anche Metrocle, il quale pur sotto certe condizioni preferì la ricchezza alla povertà. La dottrina delle cose indifferenti fu degli stoici, ma fu anche nel secolo terzo dei cinici. Del resto Metrocle e Zenone, probabilmente
coetanei, si trovarono
insieme in Atene, sullo scorcio del se-
colo quarto, discepoli di Cratete**. Forse allora cominciò in ambedue quel processo di pensiero che portò l’uno a fondare la scuola stoica, l’altro a distaccarsi in parte dal cinismo anteriore. Metrocle fu dunque l’iniziatore di una seconda fase del cinismo, nella quale trovava luogo una dottrina delle cose indifferenti preferibili, affine a quella elaborata dagli stoici nei medesimi anni. La dottrina cinica perdeva così il rigore che la caratterizzò nell’insegnamento dei suoi rappresentanti del quarto secolo. Il cinismo secondo dissenti dal primo pure riguardo all’opportunità del suicidio. Il cinismo anteriore a Metrocle, a dispetto di tutte le storielle che la gente raccontava, non ammise il suicidio’. Metrocle per contro si uccise, perché sentiva di non tollerare le infermità della vecchiaia*. Anche Bione, nel sermone dell’autosufficienza predica l’opportunità del suicidio, quando la vita sia impacciata dagli acciacchi della vecchiaia e
37 Teletis reliquiae, ed. O. Hense? , Tubinga 1909, p. 37, 5 sgg. 2° CID'ILO, 945 774° 39 Naturalmente gli aneddoti che sono stati tramandati al riguardo da Diogene Laerzio e da altri appaiono quanto mai contraddittori; mi pare tuttavia che più delle versioni della morte di Diogene o d’altri cinici, importino dichiarazioni come questa, che Diogene, ammalato e sofferente, fece ad uno che gli diceva “perché non muori dunque e ti liberi dai mali?”: “quelli che sanno che cosa bisogna fare nella vita e che cosa bisogna dire, a costoro spetta di vivere...ed io sono esperto di queste cose, a me si addice di vivere”, V. AEL. Var. Hist. 10, 4; cfr. inoltre D. L. 6. 55. 63. € D:L- 6194.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
della povertà”; e pure gli stoici ammettevano il suicidio: “è cosa razionale da parte del sapiente darsi la morte, e per la patria e per i cari, e pure se si trova in troppo dura sofferenza o minorazione fisica o dolorosa malattia”. Cercida, da parte sua, loda, nel fr. 6, un ignoto filosofo che, a differenza di quel “mangianuvole” di Diogene, si uccise troncandosi il respiro coi denti, e dimo-
strò così di essere veramente figlio di Zeus (Dio-gene) e cane celeste: “Non invero il Sinopeo di prima, quello che portava il bastone, la veste doppia e si pasceva d’aria. Ma salì piantandosi i denti nei labbri e mordendosi il fiato. Poichè veramente era figlio di Zeus e cane celeste”. Il principio sul quale si fonda l’opportunità del suicidio è analogo a quello che presiede alla dottrina delle cose preferibili. Vita e morte sono bensì indifferenti agli occhi del sapiente; ma ove il corpo sia sano, è da preferirsi la vita, ove la vecchiaia rechi malanni, minorazione nell’uso delle membra, dolori intollerabili, allora prefe-
ribile è la morte. L’opinione dei cinici secondi a riguardo del suicidio è molto simile a quella degli stoici. Rimane da chiarire l'affermazione di Cercida circa la necessità che il sapiente eserciti le membra e l’animo affinché possa fortemente combattere con le armi (fr. 3). È un’affermazione del tutto contrastante con l’etica cinica. Ma
è possibile che nell’etica del secondo cinismo trovasse luogo. Questa giustificava il suicidio per vecchiaia e per morbo. Gli stoici lo giustificavano per vecchiaia e per morbo e per la patria e per i cari. E, mi pare, è lo stesso che dire che è cosa razionale che il sapiente affronti la morte per la patria e per i cari, cioè combattendo in difesa della sua città e della sua famiglia. Se analo-
gia vi è tra stoici e cinici secondi nella giustificazione del suicidio, è anche possibile vi sia in quella della morte in battaglia per la difesa della patria. . Anche questo giudizio è legato alla dottrina delle cose preferibili. Vivere schiavo di guerra e lontano dalla patria, e dai cari, lasciare che questi patiscano le stesse sventure erano considerate cose non conformi a natura o comunque tali da non produrre effetti conformi a natura; meglio tentare di stornare codeste sciagure combattendo e affrontando la morte in battaglia. Il cinismo secondo, del quale schietti rappresentanti appaiono, per quel che ci consta, Metrocle e Cercida, si distinse dal primo riguardo alla considerazione delle cose indifferenti preferibili. Fondamento di questa distinzione è un diverso concetto della natura dell’uomo, mentre senza mutamento è conservato il principio dell’etica secondo il quale l’imperturbabilità è lo stato perfetto dell’uomo. Fra le cose, che il cinismo primo stimava indifferenti, il cinismo secondo scopre alcune capaci di turbare, capaci di impedire il virtuoso adoperarsi del sapiente per conseguire l’imperturbabilità. Cercida indica, 4! Teletis reliquiae, ed. cit., p. 15 sg. # D. Le 70130: cfr SAVE: pp. 187-191
CERCIDA E IL SECONDO CINISMO
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in questo senso, la miseria, l’impossibilità di soddisfare il desiderio erotico, le conseguenze di una guerra perduta — penso l’esilio, la schiavitù, la separazione dai cari. I cinici secondi condivisero con gli stoici il giudizio che tra il bene e il male non tutte le cose sono sempre ugualmente indifferenti, ma, secondo le circostanze, parte è conforme alla natura dell’uomo, parte no. Si tratta dunque essenzialmente di una attenuazione del rigore ideale dell’etica dei maestri; essa apre la via a una produzione letteraria di carattere moralistico pratico, poiché richiede che il sapiente mostri quali cose, pur tra il bene e il male, possano o non possano venire accolte dall’uomo. Le fonti del pensiero cercideo sono le opere e i detti di Antistene, Diogene, Cratete, per quanto riguarda il primo cinismo; di Metrocle, che Diogene Laerzio informa aver composto raccolte di apoftegmi, per quanto riguarda il secondo cinismo. Inoltre Cercida conobbe certamente le opere di Zenone e la dottrina stoica, e ne trasse partito. La polemica contro la credenza nella provvidenza divina fu tema della predicazione cinica: sono pervenute alcune mordaci sentenze di Diogene sull’argomento; nondimeno vi è affinità tra Cercida ed Epicuro circa il concetto espresso dalla massima “Zeus degli uni patrigno, degli altri padre” (fr. I), dove gli uni sono i buoni, gli altri i viziosi*®. D'altra parte è noto che Epicuro negò il concetto di provvidenza divina, e Diogene Laerzio* informa che egli, per l'elaborazione della sua dottrina degli dei, si valse dell’opera di Teodoro di Cirene, del quale Bione di Boristene fu scolaro. Teodoro e Bione furono ambedue famosi per la loro polemica distruttiva contro la religione tradizionale.
Sicché la cultura cinica, Teodoro,
Bione ed Epicuro contribuirono per via diretta e indiretta a formare l’atteggiamento di Cercida verso la religione tradizionale. Il linguaggio, lo stile, i procedimenti espressivi collegano Cercida con i rappresentanti della diatriba Bione e Telete, con Timone
di Fliunte, il brillante scrittore di silli,
con Aristofane, con Cratete di Tebe, ai quali soprattutto lo accostano i vocaboli composti, oscuri e astrusi dapprima,
ma, compresi che siano, gustosi e
significativi; con la tradizione letteraria dei cinici, per il costume di attingere dalle opere di Omero
(fr.I) e di Euripide (fr. 2), adattandone liberamente il
pensiero ai propri fini‘. Cercida, seguace del secondo cinismo, visse nel secolo terzo a. C.; la sua
acme è da porsi intorno alla metà del secolo; è facile che si trovasse nell’opportunità di combattere per la sua patria (fr. 3). Queste considerazioni, insieme con altre di genere diverso* persuadono ad accogliere come possibile 4 Cfr. LACT., Div. Inst., 3. 17. 8. # Di Le 9a
45 V. R. HELM, op. cit., p. 243. 46 S. A. Hunt, che trascrisse e pubblicò i papiri scoperti a Ossirinco, tentò per primo di
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
e quasi certa l’identificazione del moralista con l’uomo politico omonimo di Megalopoli, del quale dà notizia Polibio”.
stabilire l’epoca della vita di Cercida. Fondandosi sulla menzione dell’eros di Zenone (fr. 9 D.) — Diog. Laerzio (7. 6) testimonia che il filosofo stoico era in vita nell’ ol. 130, cioè nel 260-256 — e sulla menzione di Sfero, discepolo di Zenone (fr. 5 Hunt), nonché sulla probabile supposizione che Aristofane di Bisanzio conoscesse gli scritti di Cercida e se ne servisse per i suoi lavori linguistici (V. POLL. Onom. 3. 26), lo Hunt afferma che Cercida non può essere collocato molto più tardi del 3° secolo a. C. Riconosce così il poeta nell’omonimo uomo politico del 3° sec., vissuto a Megalopoli, che ricoprì cariche nella Lega Arcadica e fu amico di Arato di Sicione e filomacedone. (V. POLYB. 2. 48, 50, 65). Il WILAMOWITZ, op. cit., condivide la cronologia e l’identificazione proposte dallo Hunt: aggiunge che, per quanto è possibile raccogliere da luoghi d’autori e da iscrizioni, cinque uomini portarono il nome di Cercida nell’antichità greca, e tutti furono megalopolitani. Appartennero tutti alla stessa famiglia, e dalle notizie di Polibio (loc. cit. e 17. 14) e da iscrizioni si deduce che furono favorevoli ai re di Macedonia, da quando questi cominciarono con Filippo a ingerirsi negli affari interni della Grecia, e inoltre che furono capi autorevoli nell’ambito della Lega Arcadica e più tardi anche della Lega Achea. In ordine di tempo, il poeta è il quarto di questa serie di Cercida. M. Croiset (Kerkidas de M., “Journal des Savants”, 1911, pp. 480-493), H. v. Arnim (Zu den Gedichten des K., “Wiener Stu-
dien” 34, 1912, pp. 1-27), G. A. Gerhard (Cercidaea, “Wiener Studien” 37, 1915, p. 1 sgg.) consentirono con la proposta dello Hunt. Anche E. A. Barber (Cercidas, New Chapters in the History of greek literature, Oxford 1921, pp. 2_12) vi consentì, annotando che “un’altra prova dell’esattezza di questa cronologia è offerta dalle condizioni sociali che si riflettono nei nuovi frammenti. La prima poesia del frammento I (nell’ordine dello Hunt) è evidentemente scritta in un tempo in cui la questione della proprietà assorbiva il pubblico interesse: tale era la situazione nella seconda metà del 3° sec. in tutta la Grecia ecc.”. 4 V. POLYB., Hist. 2. 48, 50, 65. Per il testo è ora edizione di riferimento L. Lomien-
to, Cercidas. Testimonia et fragmenta, Romae 1993.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO" Nota di ADRIANO PENNACINI presentata dal Socio corrispondente Italo Lana nell’adunanza del 19 Aprile 1966
Riassunto. — Argomento di questo studio è la questione dei nessi che legano la poetica di Lucilio (e le sue scelte stilistiche e linguistiche) con il contesto culturale e sociale e le condizioni politiche dell’Italia nel II sec. a. C. La crisi, che si apre in Italia dopo la distruzione di Cartagine e di Corinto, nei rapporti tra ricchi e poveri, tra Romani e non Romani è, a parere dell’A., la condizione di fondo che provoca nella sfera della cultura letteraria l’invenzione della satira. Al sistema politico e culturale (mos e doctrina), dentro al quale egualmente si muovono, pur lottando fra loro, i diversi elementi sociali e culturali, Lucilio oppone quell’area di umanità che doctrina tradi non potest, la sola che possa garantire, sul piano individuale, la comunicazione tra le parti opposte, e possa fornire uno strumento e un criterio per mettere a prova il significato e l’ampiezza della nozione di humanitas trasmessa e avvalorata dal mos e dalla doctrina.
IL MOMENTO
POLITICO E CULTURALE.
Una cultura nazionale che tenta l’ultima resistenza contro una cultura universalistica, ma da posizioni ormai sostanzialmente compromesse; il problema delle responsabilità morali e politiche competenti alla nazione egemone; le ambizioni imperialistiche e la prospettiva, per quanto remota, di una comunità di nazioni autonome i cui rapporti reciproci fossero regolati da una élite di saggi; infine la pressione dei vinti di ieri, oggi alleati, per entrare a far parte della nazione egemone. Questi, molto in generale, i problemi che emergevano a Roma e in Italia dopo la terribile vittoriosa prova della guerra annibalica. Politici, intellettuali, artisti parteciparono da posizioni diverse e nelle sfere loro pertinenti al chiarimento e alla soluzione di questi problemi, anche se la rapida alterazione delle condizioni economiche e sociali aggravò nel seguito la situazione, fino a che parve che altro mezzo non vi fosse per restituire or-
dine e pace a Roma e all’Italia che la rivoluzione o la reazione armata. Per gran parte del II sec. a. C. la problematica, che ho sommariamente ricordato, apparve nella sfera della cultura come un dibattito tra filelleni e antielleni, tra conservazione delle tradizioni e dei costumi indigeni e superamento proposto dalla nobilitas illuminata.
" “AAT” 100, 1965-66, 293-360.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
‘... è visibile ... nell’umanita rappresentata da Plauto, per la sua natura caricaturale, la critica, l’ironia, il deprezzamento
‘Se i
della vita alla greca’.
Greci erano davvero come Plauto li rappresentava, se vivevano realmente come Plauto li faceva agire sulla scena, aveva ragione Catone a condannarli ...7. ‘... più volutamente che casualmente, Plauto contribuì in maniera efficacissima a dare vigore e impulso alla campagna antiellenica dei conservatori e ad acquistarle la simpatia di larghi strati popolari”!. Al principio del II sec. a. C. la nobilitas appariva divisa in due fazioni: l’una di filelleni, l’altra di antielleni. Opinioni e sentimenti antiellenici mani-
festava anche la plebe, o gran parte di essa. Motivi e scopi che provocavano la convergenza di parte della plebe e di una frazione della nobilitas sulla medesima posizione antiellenica possono essere trovati mediante un esame delle condizioni economiche e politiche dei Romani e dei loro Socii nell’ eta indicata. Prima di tutto, la plebe di quel tempo non è la plebe diseredata dell’età dei Gracchi; ma è formata di piccoli proprietari agrari, di artigiani, di commercianti, di uomini d’affari. I contadini costituivano l’esercito, e avevano
pro-
fittato fino ad allora delle conquiste e delle vittorie in Italia per soddisfare la loro fame di terra mediante la deduzione di colonie di cittadini romani e la di-
stribuzione di lotti a titolo personale (viritim)’. Al principio del II sec. a. C. l'occupazione e la distribuzione di terra italiana a cittadini romani avevano ormai toccato e in qualche luogo superato i confini non solo dell’Italia peninsulare, ma anche della Gallia cisalpina. I contadini romani non volevano dividere con nessuno il privilegio, che la cittadinanza loro concedeva, di ricevere terra e di sentirsi le colonne dello Stato, o almeno dell’esercito. Avevano avuto la terra ed erano cives Romani rispettati e invidiati. Antichi desideri e remote aspirazioni, trasmesse di padre in figlio, avevano finalmente ottenuto soddisfazione. Era naturale che guardassero con sospetto qualsiasi straniero che tentasse di farsi accogliere dentro lo Stato. La civitas doveva rimanere limitata ai veri Romani,
quelli che avevano
con le
armi conquistato l’Italia: Romani, Latini, Sabini e quanti fra i Socii avessero bene meritato di Roma. Quindi il sentimento antiellenico, a mio parere, era il punto più rilevato e più significativo di un generale atteggiamento xenofobo, di una attitudine di È L LANA, Terenzio e il movimento filellenico in Roma, “RFIC” 1947, 49-51. Diverge in parte dall’interpretazione di Lana L. FERRERO, Letteratura latina, Firenze 1959, 54, laddove, pur facendo riferimento ad altro problema, scrive che Plauto non rifletteva una direttiva né esprimeva un’esigenza partita da gruppi politici, ma era interprete e portavoce dei favori e delle tendenze del pubblico. 2 V. M. WEBER, Agrarverhdiltnisse
im Altertum, in Gesammelte
Wirtschaftgeschichte, Tiibingen 1924, 227 sgg.
Aufsdtze zur Sozial-und
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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sospetto verso tutti quegli stranieri vinti e sottomessi, che ora si sforzavano di entrare a far parte della civitas e di dividere con i veri Romani i privilegi che questi si erano conquistati con sacrifici e valore. Intendo dire che i Greci dell’Italia meridionale rappresentarono il gruppo etnico e culturale che apparve come il più pericoloso aspirante alla partecipazione alla comunità dei Romani. D'altra parte appunto i Greci mostravano nella loro vita una così marcata differenza di costumi con i Romani — mentre altrettanto non si poteva dire a proposito degli Italici — che la xenofobia e la gelosia nazionale potevano facilmente trovare valide giustificazioni in motivazioni di carattere moralistico. In fondo la xenofobia era anche difesa ed esaltazione del mos maiorum della nazione romana di fronte alla concorrenza di altri mores più agili, evoluti, spregiudicati. In sostanza i Greci e quindi in genere i mores Graecorum o di chi viveva alla greca finirono per costituire l’oggetto degli attacchi dei conservatori, o meglio dei difensori dell’assetto sociale e politico ed economico della nazione romana tra la fine del III e il principio del II sec. a. C., perché in loro, meglio che negli altri abitanti dell’Italia, veniva dai Romani ravvisato un esempio di vita, di costume, di comportamento diverso, di-
vergente, addirittura opposto a quello apprezzato e sentito come esemplare dai patrioti di quella età. È verosimile che anche lo strato degli affaristi (di origine plebea), del quale comunque non è opportuno sopravvalutare l’importanza per quell’età, preferisse non correre il rischio di dividere con i commercianti dell’Italia meridionale le possibilità che venivano offrendosi nei mercati del Mediterraneo e nella stessa Italia. In più, sia affaristi sia contadini vedevano di buon occhio l'eventualità di
continuare la politica delle annessioni, gli uni in Italia, con la corrispondente distribuzione di terra e deduzione di colonie, gli altri fuori dei confini della penisola, al fine di aprire aree di sfruttamento e mercati privilegiati. Cioè, sia contadini sia affaristi muovevano
verso la trasformazione della federazione,
della quale Roma era egemone, in uno Stato con dipendenze coloniali (province), nelle quali gli uni potessero impiantare i loro affari, gli altri ottenere terre. L’avversione verso i Greci e verso la vita alla greca è dunque l’indizio di una xenofobia fondata sopra la paura di dover dividere i privilegi dell’appartenenza al corpo dei cives optimo iure, e nutrita in misura non irrilevante da un sentimento di superiorità e da un senso del gruppo chiuso dei cives. Quindi, a mio parere, la polemica antiellenica era anche o celava una posizione di affermazione del diritto esclusivo dei Romani a fruire della condizione di cives optimo iure e della posizione di dominatori. Questa spinta veniva essenzialmente dai contadini, i quali dunque si battevano e approvava-
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
no chiunque si battesse per dimostrare la necessita della conservazione delle condizioni acquisite. Appariva quindi opportuno mostrare l’indegnità di coloro che non facevano parte della comunità dei Romani, e la necessità, perché i
costumi romani rimanessero puri, che coloro non ne facessero parte. Gli esclusi dovevano apparire esclusi per motivi etici e non politici. Nelle commedie di Plauto sono sì i Greci ad apparire indegni ed immorali, ma sono anche gli umili, o meglio: la società greca, che vi è rappresentata, riassume in sé tutte le caratteristiche negative di coloro che non facevano parte né erano degni di far parte della comunità romana. E la descrizione, come è ovvio, puntava da una parte sulle connotazioni del comportamento di coloro che, pur essendo esclusi, vivevano dentro alla società romana, e che i Romani
conoscevano bene: servi, meretrici, avventurieri; dall’ altra sull’attribuzione di caratteri e di modelli di comportamento nettamente diversi o contrari a quelli che la tradizione, le abitudini, la convinzione patriottica e nazionalistica ac-
creditavano come tipici e propri dei Romani. Una parte della nobilitas accoglieva e favoriva questa posizione culturale; e precisamente quella parte che teneva rapporti con il mondo degli affari. Si tratta in sostanza della nobiltà del denaro, che talvolta aveva in Senato e nelle magistrature suoi membri o rappresentanti o amici. Basta a questo proposito fare il nome di Catone. Vi fu insomma in quell’età una alleanza provvisoria tra le forze del nascente capitalismo (agrario e mercantile) e i contadini. Entrambi si battevano per la conservazione del presente stato politico e sociale, per motivi diversi, ma in quel momento non contrastanti. L’ opposizione a questa posizione culturale e politica proveniva dalla co- . siddetta nobiltà delle magistrature, ed era rappresentata dalla famiglia degli Scipioni e dai suoi amici nobili e intellettuali. I due fratelli, 1’ Africano e l’ Asiatico, avevano mostrato avversione per la politica imperialistica e annessionistica in Africa e in Asia’; l’ Africano in particolare aveva mostrato di considerare l’importanza e il peso delle popolazioni italiche e greche escluse dal diritto di cittadinanza”. Tale atteggiamento lascia supporre che gli Scipioni considerassero l’Italia come qualcosa di diverso da un territorio di frontiera, le cui terre fossero a disposizione della colonizzazione e della speculazione. Appunto dagli Scipioni venne il contrattacco alla campagna antiellenica: con il loro sostegno Terenzio contrappose, alla polemica caricarurale di Plauto, i Greci e i loro mores come simbolo della humanitas universalistica, 3 Cfr. per Il’Africa Liv. 30, 24 e 30, 30-31; App., Lib. 31 e 43-48; PoLyB. 15, 6-14; EUTROP. 3, 21. Per l’ Asia Liv. 37, 34 e 37, 45; App., Syr. 29 sg.; POLYB. 21, 15.
* Liv. 30, 45.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
29]
rappresentò sulle scene un modo di vivere nel quale si riflettesse non un antimos, ma dei mores assai più comprensivi e appunto universali, i quali potessero sopravanzare per validità e comprensività gli angusti e intolleranti limiti del mos maiorum dei Romani. Fu chiaramente una battaglia per la tolleranza etica e culturale; una battaglia per l’instaurazione di una mentalità aperta e non esclusiva, idonea appunto a preparare il tempo dell’accoglimento degli esclusi, di coloro che erano considerati, secondo Terenzio a torto, diversi, e invece non lo erano, qua-
lora si guardasse a loro con più ampio senso di umanità e si avesse ben chiaro in mente che l’umanità è una. Ed è altrettanto chiaro che tale battaglia venisse da Terenzio combattuta non solo per i Greci o per coloro che fossero politicamente esclusi dalla comunità dei Romani, ma anche e in particolare per coloro che, pur vivendo dentro la comunità o addirittura dentro le famiglie e a contatto quotidiano con i Romani, erano considerati dei mezzi uomini: servi, liberti, meretrici.
Si vede bene dunque, credo, che il problema è assai complesso e mostra più facce. Non è solo politico e nemmeno solo sociale, ma è anche precisamente ‘umano’, cioè morale. È insomma un grosso problema di cultura, che nasce, come è naturale, sul terreno delle concrete condizioni del vivere. In questa prospettiva, mi pare, oltre che nel contesto della cultura e della tecnica letteraria, è opportuno considerare le questioni della poetica e dello stile: cioè in relazione con le cose (appunto, le condizioni del vivere) e con le persone delle quali e per le quali lo scrittore scrive (la cultura, appunto, ma non la doctrina, bensì il comportamento, cioè la cultura in senso antropologico). Ed è a questo punto, che per la prospettiva nella quale mi pongo, si apre secondo me il discorso su Lucilio. A me pare infatti che Lucilio, procedendo per la via aperta da Terenzio, riconsideri proprio il problema della diversità ed estraneità posto da Plauto; ma non riprenda più la tematica dei Greci e dei mores più umani o più universalmente validi, bensì affronti proprio la tematica della estraneità, ovvero muova alla scoperta e al ricupero sul piano culturale degli esclusi, senza negare, per poter operare il ricupero, la loro differenza e diversità. Né Lucilio intende, io credo, offrire una via di assimilazione agli esclusi; ma vuole invece ritrovare l’umanità nella loro estraneità, rappresentare in forma quasi drammatica il loro vivere, cioè i mores, diversi spesso
per i contenuti, ma eguali nelle forme al mos romano, sperimentare un linguaggio e uno stile che, non concedendo niente alle idealizzazioni epicotragiche né alle deformazioni comico-parodistiche, gli consentano di portare alla luce della storia e della cultura, nella loro reale e autentica umanità, coloro che fino a quel momento vi erano stati ammessi come comparse o come simboli; linguaggio e stile diretti a provocare appunto rotture e ricuperi lessi-
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cali, stilistici, etici; forniti cioè di un potere demifisticatorio capace non solo di corrodere i pictae tectoria linguae’, ma anche di detrahere pellem, nitidus 9
é
6
qua quisque per ora cederet, introrsum turpis .
POSIZIONE DI LUCILIO VERSO CULTURA E CRITICA
. ut C. Lucilius, homo doctus et perurbanus, dicere solebat ea, quae scriberet, neque se ab indoctissimis neque a doctissimis legi velle, quod alteri nihil intellegerent, alteri plus fortasse quam ipse; de quo etiam scripsit ‘Persium non curo legere’, — hic fuit enim, ut noramus, omnium fere nostrorum hominum doctissimus — ‘Laelium Decumum volo’, quem cognovimus virum bonum et non inlitteratum, sed nihil ad Persium; sic ego, si iam mihi disputandum
sit de his nostris studiis,
nolim
equidem
apud rusticos,
sed multo minus apud vos; malo enim non intellegi orationem meam quam reprehendi!. Il pensiero di Lucilio appare chiaramente centrato sulla esclusione degli indoctissimi e dei doctissimi (G. Persio è menzionato come rappresentante tipico dei docti), e completato dalla indicazione di D. Lelio come rappresentante di un terzo gruppo, che potrebbe provvisoriamente essere definito dei viri boni et non inlitterati, dai quali Lucilio voleva fossero lette le sue composizioni. Nella recusatio disputationis, che viene introdotta nella forma di secondo termine della comparazione, la menzione del terzo gruppo o del suo rappresentante è scomparsa: rimane l’opposizione tra rustici e docti. Crasso si schermisce accampando pretesti di modestia e di vanità: mai parlerebbe di ars dicendi a degli ignoranti; ma ancor meno a uomini dotti come i presenti; se dovesse scegliere tra gli uni e gli altri, preferirebbe parlare agli ignoranti: meglio non essere capito che disapprovato. Due cose mi sembrano importanti nella utilizzazione del pensiero di Lucilio, che Cicerone attribuisce a Crasso: la prima è la scomparsa del terzo gruppo o del suo rappresentante D. Lelio, l’uomo che Lucilio voleva come lettore dei suoi scritti; la seconda è che i due gruppi degli indocti e dei docti non sono posti, come nelle parole di Lucilio, sul medesimo piano, ma l’àccento cade con rilievo notevole sui docti. La presenza dei rustici pare
° Pers. 5, 25. ° Hor., sat. 2.1, 64-65. 7 Cic., de or. 2.6, 25; cfr. 592-593 M. Le citazioni dei frammenti di Lucilio seguono naturalmente la numerazione di MARX: C. Lucia, Carminum reliquiae, recensuit enarravit Fr. Marx, Lipsia (T.) 1904-1905.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
29
avere soltanto funzione di contrasto: oggetto del discorso sono appunto i docti. Quindi Cicerone, per quanto a me pare, interpretava il pensiero di Lucilio come una reiectio eruditorum o a quel significato la riduceva*. Bisogna anche notare che la definizione di D. Lelio come di vir bonus et non inlitteratus non è di Lucilio, ma di Crasso o, meglio, di Cicerone; e lo stesso vale
per la sostituzione di rusticus a indoctissimus: il fatto che Cicerone li sentisse come sinonimi (credo che la sostituzione risponda a criteri formali) non impedisce peraltro che da tale sostituzione si possa ricavare un’indicazione utile per comprendere come Cicerone interpretava l’opposizione indocti-docti di Lucilio. Al proposito è anche da ricordare che al principio del passo esaminato lo stesso Lucilio è definito da Crasso
(da Cicerone)
homo
doctus
et
perurbanus. Mi pare dunque che la tripartizione luciliana fosse intesa da Cicerone così: docti/urbani, indocti/rustici, viri boni et non inlitterati. Alta cultura e città, ignoranza e campagna, galantuomini non privi di qualche istruzione. Vi è un quadro della società stratificato secondo criteri culturali quantitativi, e in parte etico-sociali. La campagna (i paesani) vi è opposta alla città (i cittadini come modello esemplare di ‘cultura’ e di finezza: urbanus/perurbanus); vi sono tuttavia anche degli uomini che non sono né rustici né urbani, né indocti né docti: di essi è detto che sono boni (che è una quali-
ficazione etica e sociale designante il cittadino onesto, rispettoso delle leggi e dell’ordine costituito, di condizione economica solida: qualcosa come il nostro ‘per bene’) e non inlitterati: mentre la prima qualificazione appare generica e in sostanza non omogenea con le qualificazioni usate per gli altri due gruppi, la seconda è del tutto pertinente. Secondo Cicerone dunque Lucilio distingue i suoi lettori fondandosi sul criterio della quantità di doctrina posseduta; rifiuta chi ne possiede molta, accetta chi ne possiede una quantità ‘media’. A questo punto è chiaro che viene naturale fare riferimento all’ideale della moderazione, dell’aurea mediocritas, della uecoòtng di derivazione peripatetica’, cui si può aggiungere il riferimento allo stile medio dello stoico Panezio, 8 Cfr. PLIN., n. h. praef. 7, riferito forse ai perduti primi capitoli del de republica di Cic.: Praeterea est quaedam publica etiam eruditorum reiectio. Utitur illa et M. Tullius extra omnem ingenii aleam positus et, quod miremur, per advocatum defenditur: nec doctissimis. Manium Persium haec legere nolo, Iunium Congum volo. Quod si hoc Lucilius, qui primus condidit stili nasum, dicendum sibi putavit, Cicero mutuandum, praesertim cum de re publica scriberet, quanto nos causatius ab aliquo iudice defendimur! Di qui il Marx congetturò il fr. 595. Che l’interpretazione di Cic. ponga in posizione preminente i docti, mi pare appaia bene dal passo ora riportato di Plinio. E dallo stesso passo mi pare confermato che Cic. interpretasse il discorso di Lucilio appunto come una eruditorum reiectio, cioè come una formale proclamazione cautelativa di modestia. Ciò è sottolineato da quanto scrive Plinio sulla modestia di Lucilio, il quale, pure, primus condidit stili nasum, e tuttavia volle esplicitamente e in tutte lettere dichiarare che non per i grandi della cultura aveva scritto le sue satire. ? L. FERRERO, op. cit., 95.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
di cui Cicerone” scrive: ad usum popularem atque civilem de re publica disserebat, tenendo presenti i rapporti tra Panezio e il gruppo di Scipione Emiliano. Le interpretazioni dei moderni si attennero all’ indicazione di Cicerone. Cichorius: ‘Lucilius sich als Leser seiner Satiren ... gewiinscht hat ... den feingebildeten Durchschnittsr6mer aus den Kreisen der Gesellschaft’'! e ‘L. bezeichnete als erwiinschte Leser den gut gebildeten, verstindnisvollen Durchschnittsvertreter
der damaligen
Gesellschaft’!
; Fiske, rimandando
a
Hor., sat., 1.10, 73 sgg.: ‘L. ... writes neither for the crowd nor for the men of technical scholarship, but for the men of general or rather of average culture’! ; Terzaghi, facendo anche riferimento a CIC., de fin., 1.3, 7: ‘L. desiderava diffondere le sue satire ... tra le persone intelligenti, ma non di così alta levatura da incutergli timore e rispetto”!* ; Coppola: ‘L. non cerca ... di conseguir rinomanza presso i più, presso i dotti e presso gli ignoranti, ma d’esser letto da pochi né dotti né indotti, in un esiguo cenacolo’ !.
Nec vero ut noster Lucilius recusabo quominus omnes mea legant! Utinam esset ille Persius! Scipio vero et Rutilius multo etiam magis: quorum ille iudicium reformidans Tarentinis ait se et Consentinis et Siculis scribere. Facete is quidem, sicut alia; sed neque tam docti tum erant, ad quorum iudicium elaboraret, et sunt illius scripta leviora, ut urbanitas summa appareat, doctrina mediocris". Quest’altro passo conferma che Cicerone interpretava il discorso di Lucilio come una recusatio e non anche come una indicazione positiva, come una
scelta che esclude alcuni e accoglie altri. Anche qui i docti occupano la posizione dominante, e dell’affermazione di Lucilio, che egli scriveva per i Tarantini, i Cosentini e i Siciliani, Cicerone si libera con un facete is quidem,
sicut alia. Agli occhi di Cicerone i docti sono tout le monde, omnes: perché ‘tutti’ leggano i suoi scritti è necessario che fra i suoi lettori vi siano uomini come ‘quel’ Persio, e, ancor meglio, Scipione e Rutilio. Nella sfera della ‘cultura’, dei Tarantini, Cosentini e Siciliani si parla solo per scherzo. E ancora alla indicazione ciceroniana si attenne Cichorius illustrando ampiamente il passo con notizie attinenti la condizione politica ed economica di quei popoli’’, ma per quanto riguarda il significato letterario e culturale liberandosi
‘0 Cic., de leg. 3.13, 6-14. !! C. CICHORIUS, Untersuchungen zu Lucilius, Berlin 1908, 71.
'2 C. CICHORIUS, op. cit., 104. !3 G. C. Fiske, Lucilius and Horace, Madison 1920, 348 Sg.
!4 N. TERZAGHI, Lucilio, Torino 1934, 105. Gi COPPOLA, Gaio Lucilio cavaliere e poeta, Bologna 1941, 27-29.
!° Cic., de fin. 1.7 = 594 M.
'7 €. CICHORIUS, op. cit., 23 sgg.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
>I
del problema col dire che ‘das Ganze vom Dichter wohl gar nicht im Ernst,
sondern scherzhaft gesagt gewesen (ist)’'®. Qualcuno dei suoi dottissimi ami-
ci, continua Cichorius, gli avrebbe rivolto critiche, e Lucilio avrebbe risposto che non per loro erano state scritte le satire (si tratta ovviamente delle satire contenute nei libri 26.-30.), ma per dei remoti provinciali. Cichorius anzi si serve del passo per congetturare che oltre che in Sicilia Lucilio possedette la-
tifondi nel Bruttium e nell’ Apulia, o comunque nel territorio di Taranto. Coppola ne conclude che Lucilio ‘scrive (oltre che per pochi amici di una certa dottrina) per i suoi bifolchi e villici di Cosenza, di Taranto e di Sicilia’. Più
cauto Terzaghi commenta che Lucilio scriveva per i provinciali”. In quest'ordine di idee Marx, seguendo Madvig”, forse troppo sbrigativo, ma più concreto, osserva: ‘Latino sermone id genus utebatur, qualem usurparant Scipionis milites ex tota Italia coacti, sermone
minime nimirum urbano aut
eleganti’. Tuttavia Marx dimentica che nella stessa testimonianza Cicerone rileva la summa urbanitas degli scritti di L. Ora credo si possa tentare di ricostruire il pensiero di Lucilio nella sua interezza e al di fuori delle interpretazioni e utilizzazioni di Cicerone, che a me sembrano tendenziose. Tengo conto delle due testimonianze di Cicerone e di quella di Plinio, riportata alla nota 8, che peraltro risale anch'essa a Cice-
rone. Al gruppo di coloro dai quali Lucilio si augura siano letti i suoi scritti e che indica nominando due uomini, D. Lelio e Giunio Congo, dei quali si sa pochissimo”, ritengo non sia da attribuire la qualificazione di viri boni et non inlitterati, per i motivi suesposti”. Mi pare più significativo che Lucilio abbia definito quel gruppo, sia pure emblematicamente, con i nomi dei Tarentini, dei Consentini e dei Siculi. E mi pare anche che il reformidans di CIC., de fin., 1.3, 7, sia appunto non di Lucilio, ma di Cicerone; 0, se è di Lucilio, è
detto ironicamente. Il iudicium, menzionato nello stesso passo, direi che è di Lucilio: infatti solo Lucilio poteva sostenere che il giudizio degli indocti e quello dei docti non erano pertinenti, cioè non si fondavano sopra una corretta comprensione della sua opera, mentre invece pertinente era quello del terzo gruppo. Qui, nel motivo per il quale Lucilio riteneva che il iudicium di questo terzo gruppo fosse legittimo, si trova, io credo, la soluzione di tutto il problema posto dalle testimonianze finora esaminate. L'indagine diretta a '8 IDEM, op. cit., 28. 19 G. COPPOLA, op. cit., 28.
20 N. TERZAGHI, op. cit., 23 e 105. 2! M. TULLI CICERONIS, de finibus bonorum et malorum libri quinque. J. N. MADVIG recensuit et enarravit, New York 1882, I 3, 7.
22 V. per l’uno e per l’altro la R.E.
3 V. pp. 28-30.
32
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
trovare il motivo tuttavia deve fare un lungo giro, e affrontare, in sostanza, il problema della poetica secondo la quale Lucilio cominciò a comporre satire e che presentò, insieme con il primo corpo dei suoi componimenti, al pubblico romano nella satira proemiale del libro 26, A guardare bene nella testimonianza stessa di Cicerone de fin. si vede che tra L. e Cicerone vi era un contrasto profondo: infatti secondo Cicerone gente come i T., C. e S. non trova luogo nella sfera della cultura letteraria; e dal
suo punto di vista ciò è logico e giusto, in quanto L. stesso li esclude dal gruppo dei docti; ma Cicerone dimentica che L. li esclude anche dal numero degli indocti e che dicendo di ‘scrivere’ per loro L. intende dire qualcosa di diverso, che non ha a che fare né con la doctrina né con la carenza di doctrina. O contrasto o incomprensione: il discorso di Cicerone è tutto centrato e fondato sulla doctrina; quello di L. su qualcosa di diverso o estraneo alla doctrina, ma in qualche modo ad essa legato. I T., C. e S. non sono dunque per L. né indocti né docti. Ma, poiché sarebbe davvero insensato dedurne che essi sono i ‘Durchschnittsvertreter der damaligen Gesellschaft’ o i ‘Durchschnittsròmer’, tanto quanto sarebbe insensato dedurre che tra i C., T. e S. non ci fosse assolutamente nessuno ‘di così alta levatura da incutergli (a L.) timore e rispetto’ o che tra loro non ci fossero né dotti né ignoranti, o ancora che essi costituissero ‘un esiguo cenacolo’; o ancora che D. Lelio e Giunio Congo venissero da Taranto o da Co-
senza o dalla Sicilia; non resta che supporre che L. intenda dire che i suoi lettori egli non li sceglie secondo il criterio del possesso o del non possesso della doctrina, ma secondo un altro criterio, che niente ha in comune con la doctrina. È evidente che anche secondo questo criterio L. indica Giunio Congo e D. Lelio come lettori desiderati; per i quali dunque non ha senso alcuno dire che sono viri boni et non inlitterati: voglio dire, non ha senso nel discorso di L.; altrimenti bisognerebbe estendere tale qualificazione anche ai T., C.
e S. e ciò sarebbe davvero incredibile. Che la doctrina non fosse un elemento essenziale e significativo negli scritti di L. appare anche da CIC., de fin., 1.3, 7: sunt illius scripta leviora, ut urbanitas summa appareat, doctrina mediocris. L’evidente opposizione tra summa e mediocris persuade che qui mediocris non abbia alcun riferimento alla mediocritas peripatetica; la traduzione appropriata credo sia mo-
2 Secondo MARX, Prolegomena, XXXIV sg., il libro 26. fu scritto tra il 131 e il 130 a.C., mentre Scipione e Lelio erano ancora vivi, L. Cornelio Lentulo Lupo era princeps senatus e Q. Cecilio Metello Macedonico era censore. Secondo CICHORIUS, op. cit., 73-77, la satira proemiale fu scritta nel 123 e ad essa egli attribuisce anche i vv. 671-672, sopra i quali è fondata la sua dimostrazione cronologica. COPPOLA, op. cit., 8 e 15 sgg., accetta questa dimostrazione e colloca la satira proemiale nel 123-122.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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desta, con lo stesso significato limitativo che l’aggettivo ha in italiano. Questo giudizio di Cicerone deve essere naturalmente riconsiderato dal punto di vista di L.; tenendo conto che in de or., 2.6, 25 Cicerone definisce L. homo
doctus et perurbanus, mentre nel brano surriferito dice che nei suoi scritti la doctrina vi è modesta, che gli scritti stessi sono cose né serie né importanti, che grandissima vi è invece la urbanitas, cioè ‘finezza’ e/o ‘buon gusto’. Credo che Plinio, là dove dice di L. che primus condidit stili nasum, traduca la urbanitas di Cicerone in termini letterari, accentuando, anche con l’aggiunta del primus condidit, il significato e l’importanza esemplare della
proposta stilistica luciliana, avversa alle idealizzazioni epico-tragiche e in genere alle intensificazioni patetiche. Forse proprio perché tale era il senso della scelta stilistica di L., Cicerone preferì parlare genericamente di urbanitas. Cicerone dunque, riconosciuta la personale doctrina di L., notato che fu uomo di fine buon gusto, non dubita di dichiarare che nei suoi scritti egli mise poca doctrina,
tanto che, in fondo,
non
aveva
in realtà motivo
alcuno
di
preoccuparsi del iudicium dei docti: infatti le sue opere si leggono non per la doctrina ma per la finezza e il buon gusto che vi abbondano. Quindi, anche se per Cicerone coloro che legittimamente possono pronunciare un giudizio su opere letterarie sono soltanto i docti, tuttavia è ammissibile che uno scritto
venga giudicato non per la doctrina ma per il buon gusto che vi appare. Si tratta però di un giudizio di seconda classe. Il discorso di L. si può, io credo, ricostruire con buona approssimazione così: ea quae scribo neque ab indoctissimis neque a doctissimis legi volo, quod alteri nihil intellegunt, alteri plus fortasse quam ipse (intellego). Manilium, Persium haec legere nolo (non curo legere), Iunium
Congum,
Lae-
lium Decumum volo. Scipionem et Rutilium haec legere nolo. Quorum iudicium (reformido). Tarentinis et Cosentinis et Siculis scribo.
i
M. Manilio, homo novus, console nel 149, amico di Scipione, grande giurista e apprezzato oratore, vir prudens”; G. Persio, litteratus homo, quem significat valde doctum esse Lucilius”°; P. Cornelio Scipione Emiliano; P. Rutilio Rufo, nato nel 154 da famiglia plebea, console nel 105, stoico; Giunio Congo, se si accoglie l’ipotesi di Roth”, peraltro avversata da Marx”, sarebbe M. Giunio Congo Graccano, homo curiosus et diligens eruendae vetustatis; nam historicus...”’, il quale era grande erudito: infatti bene conosceva historiam... e possedeva prudentiam iuris publici et antiquitatis memoriam et
% Cic., de rep. 1.18.
6 Cic., Brut. 99. 2 K. L. ROTH, Rhein. Museum 8.1853, 613 sgg. 73 Fr. MARX, Studia Luciliana, Bonn 1882, 28.
29 Schol. Bob., p. 163, I St. a Cic., p. Planc., 58.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
exemplorum copiam, era istis rebus instructissimus®, autore di 7 libri de potestatibus, dedicati al padre di T. Pomponio Attico. D. Lelio, del quale nulla si sa fuori di quanto Cicerone scrive nel passo del de or., 2.6, 25: vir bonus et non inlitteratus. Naturalmente l’esame di questi personaggi potrebbe, almeno per cinque di essi, venire approfondito; ma da tutte le testimonianze che ho potuto vedere non mi pare sia possibile ricavare alcuna luce. Un’indagine analoga ho tentato sui Tarantini, Cosentini e Siciliani. Ecco
quanto ho potuto trovare.
Contro quanto scrive Cichorius*! su Taranto, basandosi su Strabone”, che al tempo di L. quella città era ancora greca, si può osservare che nell’ultimo decennio del III sec. a.C. vigeva fra Tarantini e Romani il ius connubii*. Riguardo ai Cosentini si può forse far riferimento ad alcune testimonianze intorno agli usi linguistici dei Brutii: bilingues Bruttates Ennius dixit ... quod Brutii et Osce et Graece loqui soliti sint**, cui si contrappone almeno in parte quest'altra: Canusini bilinguis quoniam utraque lingua (latina e greca, dunque) usi sunt, sicut per omnem illum tractum Italiae; ideo ergo et Ennius et Lucilius Bruttaces bilingues dixerunt®. Per quanto riguarda la presenza degli Italici e dei Greci dell’Italia meridionale nel mondo romano credo sia sufficiente un rimando a T. Frank: ‘... the Greek and Oscan merchants of South Italy had reaped the harvest of trade that followed Rome’s conquests eastward ... The Greek of Southern Italy as far up as Naples and Cumae had for hundreds of years participated in the active trade of the Aegean, and many Campanians, Lucanians and Apulians had been drawn into this commerce, as
well as the Brundisian Latins and allies. Several of the southern cities were now too weak to continue this trade, but Brundisium,
Tarentum,
Rhegium,
Naples and the Campanian towns still shared in it and found their field of operations extending with the advance of the pax Romana’**. ‘The residents of Southern Italy and Sicily were for a long time in close connection with the Greek world first through Athens, then through Rhodes and Delos. Allies of the Romans,
Romans
themselves in the eyes of the Orient, protected by Ro-
man magistrates and the Roman-Italian armies, the Greeks and hellenized Italians of Southern Italy could not miss the great opportunity which the growing importance of the Italian market, the increased production of Italy,
9° Cic., de or. 1.256. #1 op eithy23.
6253)
38 Cfr. A. RONCONI, Letteratura latina pagana, Firenze 1963, 20. % Fest., de verborum significatione (epit. Pauli) s.v. Bilingues.
* PoRPHYR., ad Hor. sat. 1.10, 30.
3 The Cambridge Ancient History, vol. VII, 347-348.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
35
especially in olive-oil and wine, and the opening of the harbour of Delos presented them’>’.
Anche di qui, come si vede, non appare molto; per quanto, a mio parere, sia interessante la notizia che gia nel II sec. a. C. gli abitanti dell’Italia meridionale in genere (comprendendovi anche i Siciliani) valevano all’estero per Romani. La corsa alla romanizzazione era già cominciata: Socii e provinciali mostravano di voler essere Romani; la pressione degli esclusi già veniva avvertita nella sfera politica” e come è ovvio, anche in quella più vasta della cultura nazionale. Ora, oggetto dell’indagine è, mi pare, trovare che cosa voleva dire nella sfera della cultura letteraria L. quando dichiarava di scrivere per T., C. e S., e quindi di far riferimento al loro iudicium. In altre parole, bisogna vedere quali sono le condizioni soggettive della presenza di questi uomini in Italia e davanti a Roma e ai Romani, 0, meglio, secondo quali modalità queste condizioni soggettive (psico-sociologiche) si qualificano nel momento in cui un Romano, intellettuale e poeta, per portarle alla luce della storia e della civiltà, le confronta, così da distinguerle e caratterizzarle positivamente, con il paradigma del mos e della doctrina della sua società e del suo tempo. Che L. ponga a confronto il mos e la doctrina della sua società con una condizione umana diversa e non riducibile a termini di doctrina, mi pare appaia sia dalla ricostruzione del discorso di L., sia dal modo con il quale C. lo interpreta, alterandolo e, forse, fraintendendolo.
Nella ricostruzione mi sem-
bra implicito che vi sia comparazione, quando si guardi all’importanza del iudicium degli uni, indocti e docti, rifiutato, degli altri, T., C. e S., accettato
e cercato. Il confronto di una condizione umana diversa con il mos e con la doctrina della propria società è un procedimento di conoscenza: ed è precisamente lo stesso procedimento del quale con scopo tendenzioso si valse Plauto. Infatti il iudicium è lo stesso Plauto a darlo, e non sulla validità letteraria e culturale della sua
opera,
ma
su quella condizione
umana
diversa,
cioè sui mores
Graecorum, che appunto perché diversa viene condannata. Il criterio del iudicium è, secondo Plauto, interno alla cultura (mos e doctrina) nazionale: alla fase dell’inspicere dovrà seguire o il perdiscere, che Plauto (e Catone) rifiu-
tano, o la reiectio, che è appunto la proposta esibita nelle commedie plautine e negli scritti di Catone. Diverso è lo scopo di L.: la conoscenza, acquisita mediante il procedimento della comparazione, realizzata attraverso l’invenzione di un linguaggio
*” Idem, 644. 38 Lex Iunia Penni del 126, per la quale i non cittadini non potevano risiedere in Roma; oratio C. Fanni de Sociis et nomine Latino contra C. Gracchum, del 122.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
e di uno
stile idonei a rappresentare
quella condizione
umana
proprio in
quanto essa abbia di estraneo (e di autentico), non è assolutamente la premes-
sa di un giudizio etico unilaterale: infatti il giudizio, e non un giudizio etico, ma semmai proprio stilistico, è richiesto proprio ai rappresentanti di quella diversa condizione umana. Cioè, lo scopo di L. è capire una certa realtà psichica, che gli strumenti della doctrina non abilitano a comprendere, ma solo a rifiutare. Una ricerca diretta ad una definizione della poetica di L. non potrà quindi omettere, dopo avere indicato, pur sommariamente, la posizione di L. verso cultura e critica, di indagare quella realtà psichica, sia nelle sue caratterizzazioni interiori o soggettive, sia per quanto riguarda gli schemi cognitivi applicati dall’esterno, e inoltre modalità, funzioni, e significati della sua presenza
nell’opera di L.
LA SCELTA DI UN PUBBLICO:
I CRASSI.
horum est ludicium: crassis, ut dixi, scribimus, ante;
hoc est quid sumam, quid non, in quoque locemus® Nonio 396, 17: Sumere etiam significat eligere ... L. satyrarum lib. X: honorum est iudicium crassis ut discribimus ante etc. Roth lesse in luogo di honorum, horum; Marx, in luogo di crassis, crisis, spiegando che post vocabulum Latinum posuerat poeta artis vocabulum Graecum tamquam interpretamentum necessarium; Cichorius lesse Crassis, spiegando che L. intendesse dire ‘ich schreibe fiir Manner wie Crassus (L. Licinius Crassus orator), denen gestehe ich willig Recht und Fahigkeit zu einen Urteil in diesen Dingen abzugeben’; Leo congetturò crassis, ut dixi, scribimus, ante e spiegò: ‘Leuten, denen dies iudicium zukommt
(horum, nihmlich subtiliorum hominum,
von denen eben die Rede war) stellt er crassi gegeniiber; die crassi sind also was bei Martial 9.22, 2 vulgus crassaque turba; zum Dativ crassis gehòrt nicht discribimus, sondern scribimus’. L’interpretazione e la congettura di Leo sono particolarmente interessanti; tuttavia non appare chiaro il senso di crassis, ut dixi, scribimus, ante, perché in conformità con il pensiero che vi riconosce Leo, L. direbbe di aver scritto qualcosa per i crassi (vulgus crassaque turba, cioè, mi pare, identificati senz'altro con gli indocti), ai quali poi negherebbe seccamente facoltà di giudizio.
°° Fr. 386; K. L. Rou, Rheinisches Museum 8, 1853, 613 sgg. C. CICHORIUS, op. cit., 299300. Fr. Leo, Ausgewdhite kleine Schriften I, Roma 1960, 235-236.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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Le difficoltà del testo proposto da Leo possono essere superate qualora si ritenga che tra horum e crassis vi sia non opposizione, ma, al contrario, identità. Così il fr. viene a significare: “a questi spetta giudicare: come ho già detto, scrivo per i crassi; cioè da questi dipendono le scelte linguistiche e stilistiche (che io faccio)”. Questo fr. appartiene al 1.10. (esametri; datato tra il 116 e il 110); le testi-
monianze di Cicerone e di Plinio sono attribuite alla satira proemiale del 1.26. (settenari; tra il 132 e il 129, ma la satira proemiale, se si accetta l’argomentazione del Cichorius, sarebbe stata composta nel 123). Uno spazio di parecchi anni intercorrerebbe dunque tra il 386 M e i 592-596 M; peraltro a nessuno sfugge, io credo, che tra questi e quello vi sono affinità di tema, di lessico, di sintassi. Cito: quorum ille iudicium reformidans — horum est iudicium; crassis scribimus — Tarentinis et Consentinis et Siculis scribere. Sicché penso non sia scorretto usare di questi e di quello per cercare di chiarire ancora il pensiero di L. Egli non scrive per i docti, non vuole essere letto da loro (essi capirebbero dei suoi scritti più di quel che egli stesso ne capisce), non desidera il loro giudizio; non scrive per gli indocti, non vuole essere letto da loro (essi non capirebbero nulla dei suoi scritti); scrive per i crassi, desidera il loro giudizio, in
particolare per quanto riguarda le scelte linguistiche e stilistiche. I crassi sono indicati in due uomini, D. Lelio e Giunio Congo, e in tre popoli dell’Italia, i Tarantini, i Cosentini e i Siciliani. Queste indicazioni, per quanto riguarda D. Lelio e Giunio Congo, sarebbero molto significative, se conoscessimo più e meglio quegli uomini; per quanto riguarda i tre etnonimi, non credo si possa dire più di quanto ho detto di sopra. È opportuno quindi vedere se la sfera semantica di crassus contenga qualche elemento che consenta una lettura significativa e pertinente dei frammenti e delle testimonianze e una interpretazione del discorso di L. valida ai vari livelli definiti dai problemi accennati. Accanto a crassus nella lingua letteraria appaiono altre qualificazioni evidentemente affini o addirittura sinonimiche: crasse illepideve compositum poema", crassa,
lutea immo Minerva", pingui Minerva“, crassiore Musa”,
vulgus (altri populus) crassaque turba™. Nelle pagine, dalle quali ho estratto le espressioni citate e che riporto in nota, la sfera semantica di crassus appare caratterizzata da valori negativi o spregiativi: grossezza, carenza di buon 4 Hor., epist., 2.1, 76. 4 FRONT., ad M. Caes., 4.12. 4 CoLuM., de re rust. I praef., 33.
4 QuINT., L10, 28. 4 MARTIAL., 9.22, 2.
38
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
gusto, rozzezza,
ignoranza, carenza
di acumen.
Per Quintiliano la crassior
Musa è il modo di ragionare degli imperitiores; Columella contrappone alla pinguis Minerva, caratterizzata da mancanza di acutezza, una subtilissima Minerva. Vi è nel fondo una bipartizione degli uomini in ‘spessi’ (crassi) e acuti (acumen e subtilissima Minerva). A questi ultimi poi è attribuito, come applicazione della subtilitas, il buon gusto. Tutto questo lascia intravedere una opposizione tra cultura e incultura, tra docti e indocti, nella quale i crassi sono identificati con gli indocti. Vi è tuttavia nella sfera semantica di crassus-pinguis un’area divergente, dove si avverte la presenza di elementi positivi e non qualificabili in base al criterio della doctrina. Di nuovo Cicerone, e, cosa quanto mai interessante e significativa, anche Orazio forniscono le testimonianze idonee. Nel de amicitia 17-19 Cic. fa pronunciare da G. Lelio (sapiens) un discorso intorno alla idoneità a disputare all’improvviso. Doctorum est ista consuetudo, eaque Graecorum, ut iis ponatur de quo disputent quamvis subito; ... quae disputari de amicitia possunt ab eis petatis qui ista profitentur; ... hoc primum sentio; neque id ad vivum reseco ut illi, qui haec subtilius disserunt, fortasse vere, sed ad communem utilitatem parum; negant enim quemquam esse virum bonum nisi sapientem. Sit ita sane; sed eam sapientiam interpretantur, quam adhuc mortalis nemo est consecutus, nos autem ea, quae sunt in usu vitaque communi, non ea quae finguntur aut optantur, spectare debemus. Agamus igitur pingui, ut aiunt, Minerva. Qui ita se gerunt, ita vivunt, ut eorum probetur fides, integritas, aequitas etc.; ... hos viros bonos ... appellandos putemus, quia sequantur, quantum homines possunt, naturam optimam bene vivendi ducem. Ai docti, cui è attribuita la idoneità a subtilius disputare e disserere e dai quali si afferma che solo il sapiens è vir bonus, ma d’altra parte le virtù
che distinguono il sapiens sono quae finguntur aut optantur, ai docti vengono opposti coloro che agunt pingui Minerva, che sentiunt, che badano a ciò che avviene in usu vitaque communi, che considerano viri boni quelli che si comportano natura duce. Direi che, pur con tutta una tradizione filosofica alle spalle, Cicerone ab-
bia fatto dire a Lelio cose in sostanza avverse alla doctrina. Mi pare che la natura dux, anche se nell’intenzione di Cic. non è opposta alla philosophia, cioè, seppure la differenza tra i due modi esposti di perseguire una vita virtuosa è soltanto una differenza tra esigenze teoriche e necessità o opportunità pratiche, tra idealismo e pragmatismo, e del resto si tratta di una nozione cor-
rente nell’etica post-socratica, tuttavia, dicevo, mi pare che la natura dux, delimitata così bene da sentio, usu vitaque communi, pingui Minerva, rimandi ad un mondo o meglio ad una umanità non tanto quantitativamente diversa
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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per quanto attiene la doctrina, ma proprio qualitativamente diversa, dove appunto non trova luogo il subtilius disserere e disputare, ma il sentire, V agere pingui Minerva, e si guarda non agli ideali quae finguntur aut optantur, ma alla realtà vissuta, usus vitaque communis. Quegli altri saranno sapientes, questi si contentano di comportarsi concretamente da viri boni. Mi pare che emerga nelle parole di Lelio (di Cicerone) quella opposizione molto romana tra il buon senso comune e la speculazione filosofica. Insomma è chiaro che i docti sono rifiutati, e coloro invece che ‘ragionano con i sentimenti’ (sentiunt) e sono guidati da quella forma di intelligenza del concreto, che si riassume nella figura della pinguis 0 crassa Minerva (HOR., sat., 2.2, 2-3: Ofellus rusticus, abnormis sapiens crassaque Minerva), questi sono accettati; anzi Lelio” in fondo accredita l’impressione di volersi considerare
uno di quelli. Degli indocti non è parola; nemmeno L. del resto si dilunga a parlarne, limitandosi al cenno nihil intellegerent. Restano appunto i crassi. Ora a me pare che per comprendere la sostanza del discorso di L. questa pagina di Cicerone sia molto utile; penso infatti che il motivo della rivendicazione del valore dell’esperienza e del buon senso, per quanto attiene in particolare alla vita morale, di fronte alle sottigliezze dei docti e dei filosofi, motivo che troviamo in Cicerone sviluppato nel senso di una rivalutazione della tradizione sapienziale romana nei confronti della cultura filosofica greca, e in particolare stoica, non era del tutto estraneo al discorso di L., dove peraltro appariva con altra faccia e con implicazioni più ampie e forse sorprendenti. Difficile da apprezzare, ma comunque notevole che sia G. Lelio (purtrop-
po non D. Lelio), amico di Scipione e di L., a fare questa difesa dei crassi e della pinguis Minerva; ma soprattutto interessante e prezioso che tale difesa venga da due uomini, Lelio e Cicerone, che furono senza dubbio docti e sapientes: questo vuol dire, secondo me, che L., Lelio e anche Cicerone sapevano della possibilità di sentire e agere pingui crassaque Minerva, pur avendo, come si dice, tutte le carte in regola con l’alta cultura, pur essendo doc-
tissimi. D’altra parte ecco Ofellus rusticus, certamente mis sapiens crassaque Minerva. Il quale pensa e dice crassa Minerva, e in ciò mostra di essere sapiens, ma normam, bensì appunto, come rusticus, sapiente di una
indoctus — sentit non ad sapienza
ma abnoret agit — eruditorum che non ri-
4 Non si vuole con ciò aprire il discorso sulla qualità della sapientia di G. Lelio; né si vuol mettere in dubbio che egli fosse doctus (cfr. Cic., de amic., 7: (Laelium) non solum natura et mo-
ribus, verum etiam studio et doctrina esse sapientem, nec sicut vulgus, sed ut eruditi solent appellare sapientem; ma v. anche Cic., de fin., 1.3, 7: ... neque tam docti tum erant, ad quorum iudicium elaboraret) e sophos (Lucil. 1236 M). Si veda ora su questo problema G. Garbarino, Evoluzione semantica dei termini sapiens e sapientia nei secoli III e II a.C., “AAST” 100, 196566, 253 sgg. 4 V. Cic., de amic., 18 e cfr. la nota precedente.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
sponde ai criteri della doctrina. Ofello, oserei dire, è uno di quei Tarentini, Consentini, Siculi per i quali L. dice di scrivere. In sostanza la pinguis o crassa Minerva è una attitudine psichica, è un
modo di conoscere la realtà‘, un modo che non passa per la doctrina, per la
filosofia,
per la razionalità,
per il mos
trasmesso
dalla
tradizione
etico-
politica, o dalle scuole; peraltro non esclude il possesso della doctrina né è inficiato dal non possesso della doctrina. Il tema in HoR., sat., 2.2. è appena accennato, ma con molta precisione; tuttavia il rimando alla crassa Minerva è formulato in maniera da apparire nella forma una dichiarazione di scarico di responsabilità (nec meus hic sermo est, sed quae praecepit Ofellus ...), ma nella sostanza si tratta di un consaputo riferimento a quel certo modo di conoscere la realtà, di cui ho detto di sopra, al quale, io credo, L. si richiamò per collocarsi in una posizione idonea a fondare — e non solo sul piano ‘culturale’, cioè etico, sociale e politico, ma anche nella sfera del linguaggio e dello stile — il nuovo genus scribendi, la satira. Del resto, nella sat. 2. vi è un esplicito riferimento a L.: il v. 47 senza dubbio rimanda al fr. 1235 M. È noto che il nuovo genus scribendi si qualificò in termini di letteratura come un attacco e una protesta contro la nobilitas della poesia tragica*; questa polemica doveva trovare luogo, come mostrano i frammenti, soprattutto nei libri 26.-30., ma anche, come indicano le testimonianze, nel libro 10.”. E
il libro 10. ci rimanda a Persio, il quale Jecto Lucili libro decimo vehementer
ALE si SEN., ep., 121, 11-12: infans ... quid sit constitutio non novit constitutionem suam no-
vit: et quid sit animal nescit, animal esse se sentit. Praeterea ipsam constitutionem suam crasse intellegit et summatim et obscure. “8 Una sintesi acuta ed esaustiva della tematica connessa con questa attitudine polemica della satira di L. verso la tradizione tragica si legge in I MARIOTTI, Studi luciliani, Firenze 1960, 1218. In particolare per l’irrisione della nobilitas tragica v. M. PUELMA PIWONKA, Lucilius und Kallimachos, Frankfurt a. M. 1949, 168 e n. 2. Brillante l’interpretazione che P. P., partendo da FISKE, op. cit., 457 (‘What seems to the tragic poet an ignobilitas is in reality the simple expression of real feeling. It is not a strange, but a natural style’), propone del fr. 608 (nunc ignobilitas his mirum ac monstrificabile): “L. in seiner ersten Programmsatire ... mit einem Seitenhieb auf die ‘Erhabenheit’ (nobilitas) ‘tragischer’ Poesie (cfr. nobiles trimetri des Accius, Hor., A. P., 259; cfr. Luc. gegen die semnotes fr. 15 M) seine eigene Dichtung in ironischem Kontrast als ignobilitas bezeichnet, die er in den Augen seiner Gegner, in spòttischer Umkehrung der Lage, als mirum ac monstrificabile erscheinen lisst”. Cfr. ancora FISKE, op. cit., 450 sui frgg. 587 e 590: ‘L. began his literary polemic against the tragedians with a discussion on the grand style of tragedy which he distinguishes from the simple language and direct purpose of his satire’. ” Oltre che nel 3. e nel 9., cfr. PORPHYR., ad Hor. sat., 1.10, 53 (nil comis tragici mutat Lucilius Acci?): Facit autem hoc Lucilius cum alias tum vel maxime in tertio libro: meminit in IX et
X.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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saturas componere studuit®. Il rapporto o la dipendenza di Persio da L. appaiono, secondo Puelma Piwonka™, nei Choliambi, che si collegano di proposito con i libri più antichi, 26.-30., nella sat. 1. e nella prima parte della 5. (1-29), dove è evidente la tematica luciliana; tuttavia per le dichiarazioni dei
principi poetici e stilistici è valido, più di ogni altro, il confronto del libro 26. di Lucilio con i Choliambi e la 1. di Persio. Ora, senza voler con ciò mutare nulla delle affermazioni del P.P., io vorrei riconsiderare la notizia della vita Persi intorno alla vocazione di scrittore di satire che Persio si scoprì leggendo il libro 10. di L.
PERSIO, SEMIPAGANUS.
Nec fonte labra prolui caballino, / nec in bicipiti somniasse Parnaso / memini, ut repente sic poeta prodirem; / Heliconidasque pallidamque Pirenen / illis remitto, quorum imagines lambunt / hederae sequaces: ipse semipaganus / ad sacra vatum carmen adfero nostrum. Partendo da un passo di Plinio il Giovane” e dalla annotazione dello scoliasta, semipaganus viene spiegato semipoeta, cioè, commenta il lex. tot. lat.: non plane in castris poetarum merentem stipendia. L’interpretazione dipende dalla opposizione attestata tra paganus (che conduce vita borghese o civile: cultus paganus, come scrive appunto Plinio) e miles. Nel passo di Plinio la comparazione è tra castra e litterae; sicché il lex. tot. lat. illustra: latentes quidem in secessu atque otio, nec professos palam se litterarum studiosos, doctos tamen et eruditos, donde semipaganus, sempre secondo il lex. potrebbe anche significare semidoctus. L’interpretazione semipoeta, è generalmente accolta: vi si riconosce la polemica opposizione degli scrittori di satire ai poeti laureati scrittori di tragedie (ignobilitas — nobiles trimetri), la quale poi deriverebbe dalle posizioni letterarie di Callimaco, avverse al poema epico e all’ opus grande. Interpretazione senza dubbio validissima sul piano letterario, e dalla quale in ogni caso non si può prescindere; ma interpretazione (e analisi) valida appunto esclusivamente nella sfera letteraria, nel senso che la posizione di Persio, come quella di L., viene spiegata con un rimando ad un fatto di cultura letteraria (e prevalentemente tecnico-stilistica), senza cercare nelle condizioni della cultura e della società del tempo le motivazioni dell’adesione dello 50 Vita Persi de commentario Probi Valeri sublata in fine: ... mox ut a schola magistrisque devertit, lecto Lucili etc.
51 M. PUELMA PIWONKA, op. cit., 358-367, cfr. 153. 2 Pun,, ep., 7.25, 6.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
scrittore ad una proposta avanzata quasi due secoli prima da Lucilio, o addirittura tre secoli prima da Callimaco, e in societa e culture diverse. Manca l’interpretazione sociologica, cioè non si comprende quale sia il significato realmente culturale della presa di posizione di Persio, come di quella di L. Sulla base della testimonianza di Plinio accanto alla spiegazione semipoeta offerta dallo scoliasta porrei anche quella semidoctus; e confronterei la definizione pliniana di questi irregolari della letteratura con gli irregolari della sapientia, gli abnormes sapientes, come l’Ofello di Orazio. In realtà, mi pare, la spiegazione semipoeta porta fuori strada: Persio stesso rifiuta il titolo di poeta; infatti ipse semipaganus si contrappone proprio a ut repente sic poeta prodirem del v. 3, come a dire che egli non è né si sente poeta; inoltre, con forte effetto di contrasto ad ipse semipaganus segue al v. 7 ad sacra vatum: che, se non erro, è la società chiusa dei poeti, l’ambiente dove sono ammessi gli ‘addetti ai lavori’; e Persio tuttavia vi porta il suo carmen, anche se è, si sente e si proclama un irregolare. La polemica contro la sartago loquendi e i pictae tectoria linguae, la relectio eruditorum, nella quale, come nei fr. 592-596 di L., emerge l'adesione di Persio ai motivi dell’avversione alla magniloquentia degli epici e dei tragici e della affettazione della humilitas e del sermo pedester (verba togae), tradizionali degli scrittori di satire, sono motivi, che tutti certo concorrono a sistemare Persio nella storia della cultura letteraria; ma sono traduzione in termini appunto di cultura letteraria di una problematica che Persio sentì fortemente a livello personale, come si avverte nei Choliambi, che tuttavia non era né soltanto sua né gli era giunta solamente per mezzo dello Stoicismo, della diatriba, del genere satirico. i Questa problematica costituisce il nocciolo della vocazione e dell’attitudine satirica di P. La sat. 5.21-29 offre il maggior numero di elementi atti ad avviare la soluzione di questo problema’; che in prima approssimazione si può definire in sese descendere (4.23) e che si presenta nella sat. 5 sotto diversi punti di vista, attraverso i quali davvero Persio introduce il lettore nella sua mente e nel suo cuore, cioè, appunto, lo fa descendere in sese. E infatti subito sono nominati i praecordia e l’anima; poi vi è la distinzione, che non tocca soltanto questioni di stile e di linguaggio, tra quid solidum crepet e i pictae tectoria linguae; e ancora sinuosum pectus, infine voce traham pura; la conclusione riassume con un discorso veramente esaustivo: totumque hoc verba resignent, quod latet arcana non enarrabile fibra. Tralasciando il riferimento al debito morale e culturale verso Cornuto, che del re-
sto, così pertinente com’è al tema, conduce direi naturalmente P. a dichiarare * A. RosTAGnI, Storia della lett. latina, 3°, ed. riveduta e ampliata a c. di I Lana, vol. 2, S61.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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la sua poetica, la quale poi altro non è che traduzione in termini di stile di un problema morale, tutto il discorso punta a mostrare nettamente e vivamente che il criterio per giudicare della validità di una tematica e di un linguaggio di poesia consiste nella loro aderenza ad un sentire interiore. I praecordia infatti appaiono come la sede del sentire più autentico ed intimo, e in particolare presso i satirici”. Tanto interiore è la voce di quest’ultima e definitivamente autentica realtà umana che essa è non enarrabile. Ed è proprio questo non enarrabile il criterio in base al quale Cornuto e Persio sanno distinguere quid solidum crepet e pictae tectoria linguae; e partendo da questa inspiegabile, inesprimibile consapevolezza di umanità nascono il sentimento di ciò che è vivo, vitale e vissuto e l’acutezza di mente idonea a sceverare quanto ha un senso per l’uomo da quanto è maschera ingannevole e ingannatrice; di là quindi viene la sostanza della umanità di Persio, da un’area che sta al di qua
della doctrina e della razionalità, che sfugge ad una descrizione o interpretazione filosofica, ma che produce un discorso di immagini e di riferimenti al concreto, al vissuto”, un discorso animato e sostenuto dall’ansia di dire tutto, di separare senza sbavature il fittizio dall’autentico. Mi pare insomma che Persio abbia in mente la crassa Minerva (p. 40) e perciò mi sembra quanto mai significativo l’appellativo semipaganus che egli si attribuisce nei choliambi: in questo la sua ‘irregolarità’ consiste: nel collocarsi in quella attitudine psichica donde un uomo, con o senza doctrina, è in grado di intuire quale è
l’umanità più piena ed autentica, è in grado di sentire l’uomo e di distinguerlo dai ‘mostri’. Che poi la doctrina, intesa come cultura letteraria e filosofica, intervenga nel dare forma al non enarrabile, intervenga cioè a trasferire in termini di comunicabilità culturale e stilistica quanto la crassa Minerva ha intuito, questo è innegabile. Del resto appunto sul terreno della comunicazione è possibile il giudizio della validità del discorso: se la voce è pura e se verba totum resignent, se lo stile e il linguaggio, che non possono non nascere nella sfera della doctrina e della urbanitas, sono chiari e semplici così da esprimere immediatamente il sentire, così da eliminare o ridurre al minimo l’effetto deformante dei filtri, che mos e doctrina, per la loro natura idealizzante e razionale, portano con sé, allora il discorso
sarà compreso
da chi,
doctus 0 indoctus, senta e intuisca quod latet arcana non enarrabile fibra. E non mi pare assurdo notare che nei versi ora esaminati vi sia un’eco del fr. 590 di L.: ego ubi quem ex praecordiis ecfero versum®, di cui totum hoc
* Hor., epod., 3, 5; 5, 95; 11, 15; sat., 1.4, 89. PERS., 1, 116-117; 5, 21. IUVEN., 1, 167; 13, 181-182. PETR., 17.
5 A. ROSTAGNI, op. cit., vol. 2, 562.
°° Appartenente, secondo la testimonianza di Nonio, p. 297, 17, al 1. 26, e per questo, come per il suo contenuto, ragionevolmente riferibile ad una dichiarazione di criteri poetici.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
verba resignent quod latet arcana non enarrabile fibra pare uno sviluppo e un’amplificazione. Del resto dei praecordia anche Persio fa cenno poco prima. Secondo me il fr. 590 è da collocarsi nel discorso di L. a proposito dei crassi, proprio nel senso ora indicato per Persio. In questa prospettiva proporrei l’identificazione di semipaganus con crassus, con abnormis sapiens crassaque Minerva.
0, come già accennato,
Accanto a quanto ho creduto di poter ricavare da Persio, giungendo alla conclusione che dicendo semipaganus P. intendeva far riferimento a quella attitudine psichica denominata crassa o pinguis Minerva, mi pare sia opportuno collocare alcune considerazioni sul modo nel quale questa attitudine consentì a L. di fondare la satira, attribuendole scopi di critica morale, sociale e politica.
STRUMENTO
CRASSA MINERVA: DI ROTTURA E CRITERIO DI DEMISTIFICAZIONE.
Cicerone, come si è visto, descrive attraverso le parole di Lelio la pinguis Minerva come un procedimento mentale fondato sul sentire, che punta alla realtà della cronaca (spectat quae sunt in usu vitaque communi), cioè alle condizioni esistenziali, e non a quae finguntur aut optantur. Queste caratteristiche positive e negative vengono rilevate nella prospettiva di una comparazione con i procedimenti razionali, sottili, rigorosi della filosofia, in particolare stoica. Ma appunto è utile vedere in che cosa si traducono queste caratteristiche, quando vengano trasferite in una sfera più genericamente culturale. Se nella filosofia quae finguntur aut optantur sono gli ideali di comportamento, la virtus ac sapientia del grande saggio, del filosofo (stoico, p.e.), nella vita e nella cultura vissuta sono anche e forse soltanto le grandi ipocrisie mascherate da virtù, e da pristina virtus. Guardare oltre quae finguntur aut optantur significa allora mirare a scoprire che cosa sia realmente l’uomo della cronaca: Lupo, p.e., il giudice corrotto ammantato della virtù antica e della magnificenza tradizionale del princeps senatus. Insomma la pinguis crassaque Minerva è l’attitudine alla critica morale, è il criterio della demistificazione,
che si realizza mediante
il confronto
di quanto
è vivamente
e
concretamente sentito e intuito dell’autentica interiore realtà degli uomini (uomini che vengono conosciuti nel loro fare e nel loro vivere quotidiano con la guida istintiva di quel sentire che non è né razionale né irrazionale, perchè sta tutto al di qua o a monte della distinzione tra ragione e sentimento) con quanto questi uomini fanno credere di sé, avvalendosi appunto di quae finguntur e di quae optantur, cioè di tutti i bei desideri della buona gente e di
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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tutte le virtù esemplari degli avi. Ed eccoli che nitida pelle per ora cedunt, travestiti, così da apparire uomini di fides, integritas, aequitas, liberalitas, constantia; e invece sono introrsum turpes: cupiditas, libido, audacia. Nel mos maiorum, cioè nella tradizione sapienziale e nei modelli di comportamento trasmessi dalla cultura nazionale aristocratica e contadina, Plauto aveva trovato il criterio di un discorso demistificatorio, ma tendenzioso, intorno ai mores Graecorum, e, in sostanza, intorno agli stranieri. Quel criterio
era stato in seguito invalidato dalla diffusione sia degli stessi mores Graecorum sia della cultura filosofica greca; e dall’affacciarsi di una esigenza di giustizia e di libertà, che assumeva nella sfera della cultura e della letteratura l’aspetto della proclamazione dell’universalismo etico e di un più ampio e comprensivo sentimento dell’umanità (Terenzio), mentre nella sfera politica appariva come crescente aspirazione e pressione degli Italiani per divenire Romani ed entrare nello Stato. Secondo i filelleni dall’incontro del mos maiorum con la cultura greca dovevano nascere dei mores più ricchi e più articolati; il sapiens more maiorum sarebbe divenuto senza contraddizioni anche sapiens doctrina et studio”. Ma quell’esigenza di umanità e di tolleranza rimaneva tuttavia acquisizione di letterati e di intellettuali —
e non di tutti —
;
non veniva accolta dal gruppo dirigente né si traduceva in prassi politica; al contrario la somma degli interessi costituiti, dei privilegi e delle tradizioni produsse una posizione di rigida chiusura verso gli esclusi, molto probabilmente condivisa al tempo di G. Gracco perfino da parte della plebe. La cultura greca, l’ellenismo, la moda del vivere e del parlare alla greca si diffusero e furono accolti largamente e talvolta condussero ad eccessi che fornirono occasioni di riso e di ironia’; ma la sostanza del discorso di Terenzio non fu accettata,
né si tradusse
in costume.
Rimase
un’acquisizione
teorica; nella
pratica emerse solo nel comportamento di alcuni uomini””. Per contro i nazionalisti tenevano bene le loro posizioni, sostenuti dal crescere degli interessi imperialistici e degli appetiti annessionistici, opponendo all’apertura, difficile e appena tentata, dei filelleni il filellenismo piratesco di Mummio,
e implican-
do l’Emiliano stesso nella loro politica punitiva e spietata a Cartagine e a Numanzia. Infine il più grosso tentativo politico dei filelleni, quello di far attribuire supremi poteri all’Emiliano nel 129, fallì con la morte, naturale o violenta, del protagonista. Ad un gruppo di potere, che aveva espresso il suo programma culturale e la sua posizione morale e, implicitamente, le linee della sua azione politica mediante l’universalismo etico (humanitas) di Te-
PV CIC Laci. J. 8 Cfr. Lucil. fr. 88 sgg. M; per Scipione, v. Macrob. 3.14, 6. 9 M. Manilio a Cartagine con Polibio, Plb. 36.3, 1-4; Scipione in Oriente con Panezio, Scipione a Numanzia con Giugurta, Scipione e i Socii per lager publicus.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
renzio, il principato si presentava, dopo il fallimento di ogni altro sforzo, come l’unica e ultima scelta politica coerente con le premesse ideologiche. Per-
ciò il fallimento provò definitivamente l’insufficienza operativa dell’ideologia nelle condizioni che si davano intorno alla metà del II sec. a.C. a Roma e in Italia. Sul piano della cultura letteraria, il fallimento dei filelleni si traduce
nella denuncia dell’astrattezza della poetica terenziana. Il problema di una più razionale organizzazione del sistema politico romano era stato affrontato in maniera unilaterale, muovendo dagli ideali per arrivare ad essi. Eguale procedimento aveva usato Terenzio, che per mostrare la
bontà dei mores dei Greci si era servito spesso della rappresentazione di comportamenti ideali secondo il criterio dell’umanità universalistica. Si trattava allora di riformulare il discorso e il problema secondo un criterio concreto e bilaterale. Sia Plauto sia Terenzio avevano fatto un discorso unilaterale: il primo era fondato sul mos, il secondo sulla doctrina come fonte di mores universali. Gli esclusi e gli umili vi apparivano come oggetti; nessuno li interrogava né si curava di sapere chi essi fossero; non venivano considerate le condizioni soggettive della loro presenza alle porte di Roma; si voleva mostrare che in loro vi era l’homo, e tanto doveva bastare, perché humani nihil a me alienum puto. Non vi era tentativo alcuno di comunicazione e di conoscenza. Il problema della loro presenza e quello del loro ricupero era posto in maniera unilaterale. Ora, per stabilire la comunicazione, per avviare un processo culturale di ricupero, era necessario porre la questione in termini di rapporto, cioè in maniera bilaterale. Questo significava trovare un terreno comune, un luogo d’incontro, dove anche gli esclusi e gli umili avessero accesso; o, in altre parole, un’attitudine psichica e un criterio stilistico che consentissero di conoscere e di sollevare dall’inespresso le loro condizioni soggettive. Il mos maiorum procedeva con il criterio della romanità; la doctrina
con il criterio della humanitas. Quello conosceva il Romano; questa l’homo. Mi pare che non ci fossero scelte: l’estensione dell’area culturale romana fino all’inclusione in essa degli esclusi e degli umili non poteva realizzarsi nell’ambito della doctrina. Nec doctissimis neque indoctissimis. Quindi: crassis scribimus. Il luogo d’incontro, il criterio che abilitava l’intellettuale romano a ricuperare gli esclusi era la crassa Minerva, la abnormis sapientia, che sta a monte della doctrina, che abilita a conoscere con mente e sensi, che non è né razionale né irrazionale, perché l’uno e l’altro vi coesistono nell’indistinzione. Si affaccia qui un elemento essenziale del genere satirico: la repugnanza ad una sistemazione dottrinale. All’adozione di un tale criterio conseguiva naturalmente l’assunzione di una posizione aggressiva e polemica verso l’establishment della cultura e della letteratura (ignobilitas opposta ai nobiles trimetri), e di uno stile di
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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‘rottura’, che non poteva, come è ovvio, puntare a risultati meramente formali, ma intendeva invece afferrare, al di là della nobilitas e della doctrina (e
per l’una e l’altra vale sul piano letterario il riferimento ad Accio, mentre sul piano della politica e della moralità pubblica e privata non mancano nomi nei fr. di L.) quanto vi fosse di autentico, nel bene e nel male, in ogni uomo. Nella sfera stilistica e lessicale, questo intendimento
si tradusse nell’uso di
vocaboli e di locuzioni non solo del sermo vulgaris e castrensis, ma anche provenienti da altri dialetti italici o addirittura gallici e siriaci™. L'inserimento di questi elementi in una lingua media e piana, animata da parodistiche impennate dotte e nobili, otteneva lo scopo di rompere l’involucro del fittizio e del mistificato. Sicché il nuovo genus scribendi aggrediva e demistificava i Romani singolarmente e collettivamente: arripuit primores populi populumque tributim; detrahere pellem qua nitidus quisque per ora cederet. Riconsiderando ora tutto il discorso di L. sugli indocti, i docti e i crassi, mi pare chiaro che L. dica che i suoi scritti per essere compresi e rettamente giudicati, debbono essere letti non secondo il criterio della doctrina, ma della crassa Minerva. Chi troverà, dice L., doctrina nei miei scritti, ne avrà capito più di quel che io, che li ho composti, ne capisco; chi vi troverà ignoranza,
non ne avrà capito nulla. Cioè: un giudizio positivo sui miei scritti fondato sulla doctrina, che si può creder di trovarvi, mostra che il lettore è andato oltre al significato dei testi; un giudizio negativo fondato sull’ignoranza, che si può credere di trovarvi, mostra che il lettore non ha capito il significato dei testi. Una lettura comprensiva e significativa e un giudizio pertinente non possono fondarsi sopra il criterio della doctrina; appunto L. scrive per i crassi o, emblematicamente, per i Cosentini, i Tarantini, i Siciliani: in sostanza il
lettore è invitato a capire e giudicare crassa Minerva; del resto la menzione dei tre popoli non è solo emblematica: proprio soltanto su un terreno situato a monte della sapientia costituita dal mos maiorum dei Romani e dalla doctrina ac studium poteva realizzarsi un discorso atto a provocare sia l’estensione dell’area della cultura romana fino all’inclusione in essa degli umili e degli esclusi, sia la rottura di schemi e di formule cristallizzati e antiquati, sia il ricupero di una più vera e autentica moralità. E si tratta, a mio parere, di tre livelli nei quali si realizza o tende a realizzarsi la medesima operazione. Inoltre, come non è solo emblematica la menzione dei tre popoli, così non è probabilmente da intendersi soltanto su un piano culturale la menzione degli indocti e dei docti: in altre parole, crassi, indocti, docti, costituiscono, con la loro presenza nel discorso di L., un riferimento non solo a criteri di giudizio
© V. MARX, op. cit., index vocabulorum peregrinorum.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
etico e stilistico diversi (doctrina-crassa Minerva), ma anche ad una situazione sociale e politica.
OLIGARCHI E MOLTITUDINE.
Non paucis malle ac sapientibus esse probatum
i) rio xatagp@iuévororv dvdcoeiv™ Nonio cita introducendo con questo discorso: veterum memorabilis scientia paucorum numerum pro bonis ponebat, multos contra malos appellabant. Il passo dal quale é tratto il verso menzionato di Omero é parte della risposta di Achille a Odisseo, 1.11. 488 sgg.: ‘Non mi consolare della morte, Odisseo. Vorrei stare sotto padrone in campagna presso un uomo povero, senza patrimonio, piuttosto che fare il re su tutti i morti’. Commenta Marx: Fortasse Scipionis dictum narrat Lucilius, qui Homeri versus saepenumero habuit in ore vulgusque contempsit®. Anche se mancano, come si vede, prove certe della interpretazione di Marx, tuttavia, poiché è indubitabile che L. fu amico di Scipione e ne condivise gli interessi, pur riservandosi libertà di critica e, secondo me, assumendo la responsabilità di discordare da lui intorno a scelte di rilievo, è opportuno vedere, in base alle testimonianze recate da Marx e ad altre, a quale posizione politica di Scipione potesse corrispondere il fr. L’apophthegma 22 di Scip. Min. è questo: ‘L’urlo degli eserciti non mi ha mai turbato, tanto meno mi turba l’urlo di uomini avventizi (immigrati o addirittura bastardi), dei quali so che l’Italia non è madre ma matrigna’. A mia notizia due possono essere state le fonti dell’apophthegma: VELL. 2.4, 4 hostium armatorum clamore non
territus,
qui possum
vestro
moveri,
quorum
noverca
est Italia?; VAL.
MAX. 6.2, 3 non efficietis ut solutos verear quos alligatos adduxi. Ora, la proposizione vulgus contempsit, con la quale Marx interpreta e riassume l’atteggiamento di Scipione davanti all’assemblea popolare, è, a mio parere, generica e, eccedendo
nella semplificazione,
in luogo di chiarire,
offusca
i
contorni. Nelle frasi pronunciate da Scipione vi è senza dubbio un profondo disprezzo, ma ne viene anche addotta la causa, che costituisce insieme una dichiarazione politica. E la causa è che per Scipione la plebe urbana, quella che scende in piazza è composta di ‘falsi Romani’, di liberti e di immigrati. Valerio Massimo sintetizza efficacemente il pensiero: la plebe schiamazzante è formata di ex-prigionieri di guerra, che lo stesso Scipione condusse in catene 9! Er. 462 M = Non. 519, 9. Hom., Od., 11.491. °° E cita per la prima affermazione PLUT., Ti. Gracch., 21 e App., Lib., 71, per la seconda Apophth. Scip. Min. 22.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
49
a Roma, e che ora, liberti, godono di una immeritata cittadinanza, e osano urlare in faccia ad un vero Romano. Secondo me questo atteggiamento di Scipione è databile tra il 132 e il 129, anzi più precisamente può essere collegato con le considerazioni che Appiano bell. civ. 1.19 attribuisce a Scipione tra il 130 e il 129 in rapporto alla questione del possesso di ager publicus da parte dei Socii italici: ‘egli (Scipione), che per le guerre aveva profittato del loro coraggio e della loro alacrità, ebbe vergogna di non interessarsi di loro’. Al disprezzo esplicitamente manifestato verso la plebe urbana politicizzata e fautrice dei Gracchi, corrisponde l’apprezzamento del valore e della lealtà degli Italici. D’accordo che ai ‘falsi Romani’ viene contrapposto un solo ‘vero Romano’, che è Scipione, il quale poi dalla pubblicistica del suo gruppo, da lui autorizzata, veniva proclamato l’unico sostegno di Roma, come trasmette l’apophthegma 23 Scip. Min., cosicché il criterio per decidere del patriottismo diveniva la lealtà verso Scipione; ma costoro, quos alligatos adduxit, sono indicati precisamente come figliastri dell’Italia quorum noverca est Italia, da Velleio e non come figliastri di Roma. Intendo dire che sulla base delle testimonianze di Appiano, già citata, e di CIC., de rep. 1.14 e 6.12, la forma nella quale Velleio trasmette il dictum appare la più vicina all’ originale, o, almeno quella che più da vicino riflette il pensiero che lo ispirava. Sotto la contrapposizione tra plebe ‘bastarda’ e Scipione c’è un terzo termine, che è costituito dai Socii Italici, quorum mater est Italia, che appunto avevano dimostrato lealtà e dedizione al grande Scipione. In termini politici la contrapposizione vera è tra plebe ‘bastarda’ e Italici. Peraltro, come ho notato, non vi sono prove certe che i due versi del fr. 462 M riproducano un dictum di Scipione; perciò, fino a prova contraria, è corretto considerarli una espressione del pensiero di L. stesso. Il problema è di vedere quale senso attribuisca L. alla opposizione tra pauci considerati boni e multi considerati mali. Se si accetta l’interrogativo e il supplemento quem credimus porro di Marx, il fr. dice: ‘(chi vogliamo dunque credere che) non preferisca la stima dei pochi e sapienti al regno su tutti i morti?’. Cioè: meglio ottenere l’approvazione dei pochi e sapienti (quelli che contano), piuttosto che il favore di quelli che non contano. Se non si accoglie l’interrogativo il senso muta e diviene, a mio parere, più interessante: ‘non preferire l’approvazione dei pochi e sapienti al favore di quelli che non contano’, cioè ‘preferire la disapprovazione dei pochi e sapienti al favore di quelli che non contano’. Il discorso diviene così straordinariamente polemico: il dilemma si pone tra i pochi e sapienti da una parte e i molti e stolti dall’altra; la risposta al dilemma: non cerco l’approvazione dei pochi e sapienti né il favore dei molti e stolti. Nec doctissimis neque indoctissimis.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Nel testo di Omero l’alternativa è tra: vivo stare sotto padrone a fare il contadino, morto regnare sui morti. La scelta di Achille denuncia la fine dell’ideale eroico. Il verso omerico, collocato nel contesto di L., assume evi-
dentemente un senso diverso: ‘tutti’ si contrappone a pauci e sapientes a ‘morti’; alla ‘approvazione’ risponde il ‘regno’. Se poi confrontiamo il primo corno del dilemma omerico con il primo corno del dilemma del fr. di L. viene il sospetto che L. ricalchi in termini di giudizio etico e stilistico l’affermazione di Achille. Dove Achille dice ‘Vorrei stare sotto padrone in campagna presso un uomo povero, senza patrimonio’, L. sostituisce: non paucis malle ac sapientibus esse probatum, che è il ricalco in negativo e nei termini di un discorso stilistico ed etico-politico, formulato nella situazione culturale dell’Italia della seconda metà del II sec. a. C., del verso di Omero. Nel rifiuto dell’approvazione dei pochi e sapienti (a mio parere, gli oligarchi della politica e della cultura) è implicita la scelta dell’uomo di campagna che lavora a mercede. Come Achille preferisce all’eroe morto regnante su tutti i morti il bracciante vivo, così L. preferisce implicitamente ai doctissimi (pauci ac sapientes) e agli indoctissimi (i morti) gli uomini veramente vivi, anche se rustici. Anche qui dunque contrapposto ai docti e agli indocti un terzo gruppo o un diverso tipo di connotazione culturale, sebbene in maniera implicita, per quanto almeno è dato di congetturare dai due versi pervenuti. A questo punto la posizione di Scipione, quale emerge dalle testimonianze proposte, appare l’effetto di un approccio, diverso sia per la sfera nella quale avviene sia per i fini che persegue, allo stesso problema che interessava anche L.: Scipione preferiva alla plebe ‘bastarda’ gli Italici; L. scriveva non per i pauci ac sapientes ovvero docti né per i multi atque indocti, ma Tarentinis . et Consentinis et Siculis ovvero per i crassi. La diversità dell’approccio di Scipione al problema si comprende ove si consideri che esso, per quanto consta, avvenne negli anni 130-129, poco dopo la repressione violenta del tentativo di Ti. Gracco, nel ricordo ancora vivo del grande turbamento suscitato non solo dalla minaccia reale o presunta di una rivoluzione popolare, ma anche dalla esasperata ferocia con la quale la parte graccana era stata aggredita. Si aggiunga che peraltro il gruppo dei democratici si era ricostituito sotto la guida di G. Gracco, e le pretese della plebe non erano affatto mutate: la commissione per il reperimento dell’ager publicus e la distribuzione dei lotti era al lavoro. Il rischio della rottura dell’equilibrio sociale e della trasformazione della struttura statale appariva ancora vicino. Alla prospettiva della dittatura di un tribuno della plebe Scipione opponeva il programma del principato moderato nella forma, ma progressivo nella sostanza, in quanto lo sco-
po cui verosimilmente guardava era la trasformazione della città-Stato in Stato territoriale (da Roma ad Italia), e appunto per questo avverso al nazio-
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
af
nalismo corporativo della plebe e alla sua riforma agraria. Scipione, come uomo politico, non svela i suoi programmi; combatte la battaglia del momento preparando la prossima mossa con prudenza e ‘gradualita’. E Scipione non solo era un politico, ma era un politico romano e per di più un patrizio. Il suo giudizio di una situazione politica, il modo con il quale la affrontava e cercava una soluzione, tenevano come centro e come criterio Roma. Nella posizione nella quale Roma allora si trovava nei confronti dell’Italia, questo approccio era, come ho già accennato, unilaterale. Infatti, non solo la contrapposizione tra plebe romana e Italia è implicita e non espressa (dichiarata è l’opposizione plebe-Scipione), ma soltanto la plebe è oggetto di un discorso, e solo dando il logico complemento di opposizione alle qualificazioni che le vengono attribuite si ottiene il disegno dell’avversario che Scipione intendeva opporle. Questa unilateralità vale anche per l’approccio alla questione degli Italici ricordato da Appiano. Il criterio della considerazione è addirittura il comportamento degli Italici verso Scipione stesso. Non vi è motivo di ritornare sul carattere bilaterale che L. al contrario impresse al suo approccio al problema. Vale invece la pena di continuare ad approfondirlo e di completarne la descrizione, per quanto i frammenti consentono.
ATTITUDINE ALLA DICACITAS E VOCAZIONE SATIRICA.
; : . , 63 conicere in versus dictum praeconis volebam Grani”. Marx osserva che tra il 116 e il 110, anni nei quali si ritiene sia stato composto il 1.II., si doveva certamente ricordare la boutade di Q. Granio della quale rac-
conta Cic., p. Plancio 33: Consuli P. Nasicae praeco Granius medio in foro, cum ille edicto iustitio domum decedens rogasset Granium, quid tristis esset, an
quod reiectae auctiones essent: ‘immo vero’ inquit ‘quod legationes’. P. Nasica fu console nel 111 con L. Calpurnio Bestia; le /egationes sono quelle che Giugurta inviò allora per tentare di impedire che il Senato gli dichiarasse guerra, con la raccomandazione: omnis mortalis pecunia adgrediantur™, alle quali per deliberazione del Senato fu ingiunto di lasciare l’Italia entro dieci giorni”. Il iustitium provocava la sospensione di ogni affare pubblico, e perciò anche delle aste, ma Granio, alla ironica domanda di Nasica, risponde con una frecciata politica contro gli amici di Giugurta, fra i quali era Q. Opimio Giugurtino™. È possibile che il 63 411 M = GELL. 4.17, 1: Lucilii ex XI versus sunt etc.
A Save Siig? 28) 1 95 Ibidem 2. 66 Per cui cfr. il fr. 418 M di Lucilio.
32
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
dictum Granii, di cui parla L., sia proprio quello che Cic. ricorda, tanto pit che di Granio L. racconta anche altrove (fr. 1180) e CIC., Brut. 46.172 informa che di lui multa Lucilius. La menzione di L. come di una fonte di abbondanti notizie su
Granio si inserisce, nella forma di una interruzione da parte di Bruto, in un discorso di Cic. sull’urbanitatis color, provocato da una domanda di Bruto stesso: qui est tandem iste urbanitatis color? (46.171). Per chiarire il suo pensiero Cic. confronta la parlata latina della Gallia Cisalpina con quella di Roma: in questa retinnit quiddam et resonat urbanius; e per concludere racconta delle contese verbali di T. Tinca di Piacenza e di Q. Granio, il quale Tincam non minus multa ridicule dicentem obruebat nescio quo sapore vernaculo. In tutte e due le testimonianze di Cic. (Brutus e pro Plancio) la figura di Granio è caratterizzata mediante il riferimento implicito o esplicito alla dicacitas, che, peraltro, appare connessa al mestiere di praeco®’, mentre il certamen dicacitatis è proprio di persone di non elevato o basso livello sociale (cfr. HOR., sat. I.5, 52). Nella testimonianza
di Cic., p. Plancio 33 il praeco appare un uomo di qualità inferiore: quae fuit olim praeconi in ridendo, nunc equiti Romano in plorando non sit concessa libertas. Provocare il riso non è cosa seria: leve ... est totum hoc risum movere (CIc., de or. 2.218); e d’altra parte alla /evitas (giudizio etico-sociale: la plebs è levis mentre i viri boni sono constantes)® corrisponde secondo il criterio della cultura la carenza di doctrina: nullo modo videtur doctrina ista res posse tradi (Cic., ibidem), giudizio che non è forse in sé negativo, ma non può non valere come definizione di estraneità. L’uso di questa dote nativa, di questo ingenium (cfr. de or. 216 e 219: natura fingit homines et creat imitatores et narratores facetos ) può recare vantaggio nei processi; le facetiae possono bene contribuire al conseguimento della persuasione, che è lo scopo dell’oratoria forense; peraltro le implicazioni della facetia non debbono superare i limiti che lo scopo dell’orazione pone all’avvocato. Laddove la facetia non si inserisca, in posizione subordinata, in un procedimento tecnico, ma si presenti indipendente e di per se stessa significativa, allora sopra chi la pronuncia si riflette interamente la qualificazione della dicacitas, che pertanto costituisce di quello la connotazione caratteristica esaustiva e lo colloca, come persona (homo) nella sfera del ‘leve’ e nella condizione di
chi non è da giudicare o considerare secondo il criterio della doctrina. Alla qualificazione sociale (/eve/plebeo, e, a proposito di Granio, la distinzione, che è pur di qualità, praeco-eques Romanus) si affianca quella culturale; e la seconda, in una
società, dove la legge garantisce a ciascuno il rispetto dei suoi diritti, quale era quella di Cic., è assai significativa e autorevole. In quanto la dicacitas è ‘levis’ ed è fuori della doctrina, l’uomo che non appare fornito di altre connotazioni sta, © V. MARX, op. cit., commentario al fr. 411. 8 Cfr. Cic., Brut., 27.103: perpetuam in populari ratione levitatem; Hor., epist., 1.19, 17:
...ventosae plebis.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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almeno nella rappresentazione che ne viene offerta, nella sfera del ‘/eve’ (non serio/comico) e dell’irrazionale o arazionale. Sta cioè ‘prima’ della doctrina, al di qua di una razionale sistemazione del dire e del fare. Tuttavia il comico può anche essere il mezzo di un discorso critico demistificatorio: CIC., p. Planc. 33: (Gra-
nius) L. Crassi, M. Antoni voluntatem asperioribus facetiis saepe perstrinxit. Queste considerazioni di Cicerone sulla natura del comico contengono, pur diversamente sistemata e sentita, la stessa tematica di L. sul genere satirico. Tor-
nando al fr. 411, soltanto se collochiamo il dictum Grani praeconis in una prospettiva articolata in maniera differente e sviluppante più ampie e sostanziali implicazioni, seppure costituita degli stessi elementi fondamentali, possiamo, io credo, comprendere le motivazioni e il significato della volontà di L. di metterlo in versi. Le linee essenziali che, a mio parere, caratterizzano la posizione di L. dinanzi a questi temi, sono già state esposte. Nel confronto con Cicerone apparirà che in luogo di ‘leve’ L. parla di ‘ignobilitas’, ma con implicazioni diverse e scopi divergenti”. I riferimenti ad una sfera estranea alla doctrina (ingenium), alla autenticità di un dire, che aderisce, per quanto è possibile, immediatamente al sentire (CIC., de or. 219-222), occupano un luogo essenziale sia nel discorso di Cic. sia in quello di L. Nell’umorismo, nel senso del comico, nella intuitiva comprensione e nella ‘af-
fettiva’ espressione della inconciliabilita dell’apparente con il reale, consiste il punto di incontro più ricco di possibilità e di significati tra l’intellettuale (letterato) romano anticonformista e i crassi nel II sec. a. C.
Nella satira di L. l’inserimento del dictum Grani praeconis non ebbe certo scopo di mero divertimento, e nemmeno funzione accessoria in rapporto ad un procedimento persuasivo; bensì rappresenta per noi emblematicamente la congenialità nativa della crassa Minerva con la vocazione di L. per la satira. Q. Granio, per quanto appare in Cicerone, nella sua posizione sociale di praeco, per la sua qualificazione di dicax (e perciò neque indoctus nec doctus), per i significati e le intenzioni dei suoi dicta (cfr. fr. 1180 M: Granius autem non contemnere se
et reges odisse superbos), è non soltanto un esemplare di quei crassi dai quali L. voleva essere letto e dai quali riteneva legittimo essere giudicato, ma anche un interlocutore: in lui, almeno per il momento nel quale L. scriveva quei versi, si incarnava il luogo di incontro della crassa Minerva con la vocazione satirica di L.
® Sulla natura del comico nella esposizione di Cic., de or., cfr. A. PLEBE, La teoria del comico da Aristotele a Plutarco, Torino 1952, 70-77.
7° V. n. 48 p. 40 e pp. 43-44.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA CONNOTAZIONI E CONDIZIONI OGGETTIVE DEI CRASSI.
Unus modo de multis qui ingenio sit". Appartiene al libro 13., datato negli anni 115-107; deriva dallo stesso capitolo
di Nonio dal quale è stato trasmesso il fr. 462. Sotto il lemma ‘de compendiosa doctrina 12. de doctorum indagine’ Nonio tratta della distinzione ‘culturale’ tra ‘pauci’ e ‘multi’: veterum memorabilis scientia paucorum numerum pro bonis ponebat; multos contra malos appellabant. Alla riga 12 del lemma nella edizione di W. M. Lindsay si legge: unu’ modo de multis qui ingeniosust, che Marx legge ingenio sit. Per il significato della locuzione unus de multis Marx cita CIC., de fin. 2.66 e Tusc. 1.17, PLIN., ep. 1.3, 2, DEMOST., in Mid. 96, cui aggiunge unus multorum, HOR., sat. I.9, 71; e spiega: itaque agitur de homine qui ingenio non praestans, sed quasi unus est de populo. Mi pare che questa interpretazione neghi o attenui il valore e la funzione di ‘ingeniosust’ (o ‘ingenio sit’). Il testo non dice che si tratti di un uomo ingenio non praestans, e che la persona, di cui è fatto cenno, sia quasi unus de multis. La relativa ‘qui ingeniosust o ‘qui ingenio sit’ vale evi-
dentemente a precisare la locuzione ‘unus de multis’ : il discorso riguarda uno che si distingue fra i molti per doti naturali. Non è uno qualunque della plebe, ma, proprio come il praeco Granius, si distingue dalla massa per una dote o connotazione positiva: ingenium. Il praeco Granius si distingueva per la dicacitas, che appartiene essa pure alla sfera delle doti native, che, cioè, è essa stessa un ingenium; lo sconosciuto del quale è parola nel fr. 448 si distingue, più genericamente ma più comprensivamente, per l’ingenium. Ora, rimettendo insieme gli elementi con i quali mi è parso di poter finora rico- . struire, almeno in parte, il discorso di L., credo sia lecito congetturare uno schema
come il seguente:
indoctissims | doctssimis |
EDMNG Fares, Consentini, Siculi
TÙOLV VEXVEGOL XATAPOLWEVOLOL
pauci ac sapientes
(unus de) multis
psi
po
(ETd00v006)
ingeniosus (quiingenio sit) entri Aq dictum Grani praeconis
Nella terza colonna sono riunite alcune connotazioni etniche, psichiche e sociali, mediante le quali, a mio parere, L. caratterizza i suoi lettori e interlo-
71 Fr. 448 M = Non., 519, 12.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
55
cutori; di esse alcune sono parziali e specifiche: p.e. una caratterizzazione professionale come praeco, sentita tuttavia come sociale, e la connotazione della dicacitas sono quella parziale, questa specifica; la connotazione dell’ ingenium è generale ed appare molto interessante e significativa, quando la si ponga, insieme con la connotazione
‘crassi’, a chiarire il terzo termine
implicito nella duplice esclusione indocti-docti; dicacitas e crassa 0 pinguis Minerva o sapientia sono due aspetti specifici di quell’ingenium, che, in luogo della doctrina, costituisce il criterio di una reciproca comprensione e comunicazione; criterio, in base al quale L. conduce un discorso fuori della doctrina; discorso, che, appunto, potrà essere giudicato soltanto fuori della doctrina, e perciò dai crassi. La connotazione etnica realizza un inaspettato aggancio con la realtà storica e contingente: io credo che sia lecito interpretarla sia nella funzione emblematica che certo essa ha, sia nel suo significato
letterale, anche se i nomi dei popoli vanno intesi come designanti una categoria di persone. È chiaro che queste connotazioni vanno considerate singolarmente: esse sono 1 risultati di approcci eseguiti a livelli diversi e da punti di vista qualitativamente differenti del medesimo problema. E il problema era, per quanto a me pare — e ne ho già parlato — stabilire una comunicazione tra Romani (‘quelli che fanno la storia’) e gli esclusi: una comunicazione,
s’intende, au-
tentica e perciò bilaterale e significativa per entrambe le parti. Considerare quelle connotazioni omogenee, collocarle tutte sul medesimo piano, utilizzarle tutte simultaneamente per definire il pubblico di L., cioè le persone per le quali e in nome delle quali egli scrisse, e dalle quali riteneva legittimo fosse pronunciato un giudizio sui suoi scritti, sarebbe un procedimento candido e semplicistico, fondato sul presupposto irreale che lo scrittore non derivi i modi e i temi della sua opera dalla problematica che storia e cronaca della sua età (a tutti i livelli, naturalmente: dalla magia alla filosofia, dalla tecnica
alla scienza, dall’etica alla politica) presentano. Non vi è, se non come frutto di una volontà di astrazione, un rapporto lineare e semplice tra l’oggetto dello scrivere e la rappresentazione che di esso appare nello scritto. Cioè, la rappresentazione dell’oggetto riceve un senso non solo dalla volontà formativa dello scrittore, ma anche e soprattutto dalla posizione che l'oggetto stesso occupa nel contesto della società e dalla qualità e quantità dei luoghi o livelli nei quali emerge la problematica che esso produce. La definizione di un ‘pubblico’, soprattutto quando è dichiarata con un discorso esplicito dal poeta, come nel caso di L. e di Orazio, implicito nel caso di Persio, è anche definizione di una poetica; la posizione del genere satirico nei confronti degli altri generi letterari richiedeva, a quanto pare, una dichia-
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
razione degli scopi e dei modi per attestare le motivazioni culturali (etiche e sociali) e letterarie di un genere poco amato dalle ‘belle lettere”. Ho notato che le connotazioni sono i risultati di approcci eterogenei; che, a mio parere, vanno considerate singolarmente. La connotazione ‘ingenium’, indivisibile dalle due connotazioni specifiche, che di quella appunto costituiscono aspetti particolari ma omogenei, della ‘pinguis Minerva’ o ‘crassa sapientia’ e della ‘dicacitas’, è la linea che unisce D. Lelio e Giunio Congo, molto probabilmente optimi viri, a Q. Granio, praeco, e L. stesso ad unus de multis. Il criterio dell’ingenium (‘fuori della doctrina’) consente a L. di aprire alla comunicazione un’area sociale ed etnica che comprende Romani e Italiani (Italici e Italioti), uomini di buona condizione e banditori delle aste, plebei e grandi, come egli stesso era, e, in realtà, dotti e indotti, poichè l’ingenium, la dicacitas e la crassa sapientia non si acquistano con la doctrina né sono oggetto di ars. Indicate così, sommariamente,
zioni oggettive della presenza
ma, credo, in maniera sufficiente, le condi-
dei crassi
nella società
romana
e italiana
dell’età di L., è necessario ora individuare almeno alcuni aspetti concreti, si-
gnificativi nella sfera della-storia e della cronaca, attraverso i quali L. ritenne di portare dall’inespresso alla luce dell’espressione letteraria le condizioni soggettive della presenza dei crassi. Soltanto l'emergere di queste condizioni soggettive, pure in forma allusiva, garantisce della volontà di stabilire una comunicazione; solo l'apparire di una sostanza umana nativa e autentica (o di una struttura culturale non deformata dagli interventi della doctrina e del mos,
cioè dalla razionalizzazione
politico-culturale
romana),
sottratta,
per
quanto è possibile, alle alterazioni o riduzioni che un’interpretazione dottrinale produce (poetica della immediatezza: fr. 590, pp. e fr. 632: evadat saltem aliquid aliqua, qua conatus sum), può assicurare la bilateralità effettiva del rapporto, può provare sul piano stilistico, che è quello che in letteratura conta, che è stata davvero impostata una operazione di ricupero degli ‘esclusi’, equivalente, peraltro, alla proclamazione polemica di un più ricco significato della humanitas. CONDIZIONI SOGGETTIVE DEI CRASSI
Nunc itidem populo istum scriptoribus voluimus capere animum illorum”.
Voluimus capere animum illorum può significare ‘abbiamo voluto far nostro l’animo di coloro’, invece di delectare, come spiega Nonio. Considerando l’intero frammento, non contrapporrei populo ad illorum, bensì populo 7 Non. 253, 14 fr. 588 M.
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
SY
con scriptoribus ad illorum. Il testo della ricostruzione più legittima a me pare quello di Leo”: Nunc itidem populost ut scriptoribus, dove populus € scriptores appaiono legati dalla correlazione itidem-ut (egualmente-come), e perciò, quale che fosse il contenuto del fr., accomunati, seppure fra loro distinti. Così impostata l’interpretazione della prima riga, apparirà, io credo, la distinzione del contenuto di essa da quello della seconda. Z/li non sono né populus né scriptores; questi e quello, accomunati nella forma di due termini di una comparazione di eguaglianza e appunto in ciò distinti tra loro, non appaiono legati mediante alcun nesso (asindeto?) con illi. Vi è qui una tripartizione configurata nella forma di opposizione tra un membro (i/li) e un gruppo di due membri (populus-scriptores), della quale è possibile sottoporre a prova il significato, collocandola, in via di ipotesi, accanto alla tripartizione della quale è parola nel fr. 592-596: un gruppo (D. Lelio, Giunio Congo, Tarantini, Cosentini, Siciliani) è contrapposto ad un altro gruppo costituito di due membri (indoctissimi, qui nihil intellegerent — doctissimi, qui plus fortasse quam ipse intellegerent). Le questioni sono: chi L. designi con i/li; chi designi rispettivamente con populus e con scriptores, e che cosa vi sia di comune tra questi due gruppi;
quale senso abbia la contrapposizione tra illi e populus-scriptores; e anche che cosa accomuni non positivamente, ma negativamente i due gruppi populus e scriptores nei confronti degli i/li. Sviluppando il confronto prima accennato con il fr. 592-596, si può cominciare a considerare gli scriptores come una parte dei doctissimi; il populus verrebbe a collocarsi accanto agli indoctissimi. A riguardo del nesso tra populus e scriptores — considerando questi come parte dei pauci ac sapientes del fr. 462 con tutte le connotazioni culturali e politiche connesse — è possibile far riferimento al fr. 1228-1234. In quei versi L. accomuna item pariterque ... populusque patresque: si tratta di una nota formula del linguaggio politico designante la nazione nel suo complesso, senza alcun riferimento alla distinzione tra patricii e plebs; L. se ne serve di proposito per denunciare la corruzione di tutti i Romani, dei pauci ac sapientes e dei multi, dei nobiles e degli ignobiles, dei docti e degli indocti. Mentre L. vede nel comportamento di tutti, grandi e piccoli, i medesimi vizi (si noti come ogni osservazione punta sulla simulazione, coerentemente con la origine e il fine del programma etico e poetico di L., che dall’ingenium muove all’autentico), e perciò accomuna populusque patresque, Accio nel fr. 1 dei Myrmidones
oppone, per bocca di Achille, i fortes agli indocti —
cioè ap-
punto i pauci ac sapientes (i doctissimi, che, a parte il giudizio divergente
3 Fr. LEO, op. cit., vol. 2, 238.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
dell’uno e dell’altro poeta, sono anche gli scriptores, ma gli scriptores del genere di Accio) ai multi atque indocti. Trasferendo sul piano della cultura letteraria il contenuto del fr. 12281234 si ottiene un discorso polemico molto luciliano. Populusque patresque: entrambi simulano nella sfera etica e politica: il discorso si svolge a livello del mos: vi compaiono anche espressamente termini come studium e ars, che rimandano alla doctrina. Itidem populost ut scriptoribus: si tratterà ovviamente dei poetae laureati e particolarmente dei tragediografi, scrittori di nobiles trimetri e autori di pictae tectoria linguae, che ingannano il popolo e dai quali il popolo ama farsi ingannare. Anche qui il discorso si svolge a livello dell’ars e della doctrina, che, se non mantengono un vitale contatto con l’ingenium, producono uno stile e un gusto falsificati. Non da questi scrittori né da questo popolo L. vuole essere letto e giudicato; nessuno di costoro, pauci ac sapientes e multi atque indocti, possiede il metro e il gusto per giudicare dei versi che L. ecfert ex praecordiis, versi non nobili, e perciò, certo, ignobili, ma vivamente ispirati da un ingenium, che si rivela nella dicacitas e nella crassa Minerva, criterio e strumento di un discorso che smaschera colui che simulat bonum virum se egualmente come demistifica le res grandes che la Musa dà al poeta laureato. Molto luciliano mi pare il modo con il quale il discorso è condotto, ove, naturalmente, si accetti l’ipotesi avanzata; modo che
consiste nell’introdurre in un contesto di valori e di significati omogenei appartenenti al sistema culturale romano (mos e doctrina) un elemento disomogeneo, mediante il quale, sia sul piano culturale, sia su quello stilistico, viene operata una rottura. È un procedimento ‘provocatorio’, del quale L. si serve per sottoporre a prova la razionalità di una struttura culturale. Ciò si realizza appunto introducendo in essa un elemento estraneo e quindi (relativamente) irrazionale. Già un aspetto di questo procedimento provocatorio appare nel criterio secondo il quale L. costruisce il suo discorso sulla doctrina e sui crassi: un criterio così ‘irriverente’ che molti studiosi di L. non l’hanno riconosciuto. Si pensi alla opposizione tra docti e indocti e al rifiuto degli uni e degli altri: come può un ‘dotto’, sia pure dei nostri tempi, accettare che in quel discorso sia implicito il rifiuto della dottrina? Di qui la soluzione proposta e considerata ragionevole (ma già questo ‘ragionevole’ avrebbe dovuto muovere sospetto), che L. volesse per lettori i Romani di cultura media. Analogo, a mio parere, il procedimento in questo fr.: parlando di populus e di scriptores L. mostra di muoversi nella sfera del mos, della doctrina, dell’ ars;
populus e scriptores significano in una societa letteraria stabilita ‘la gente che legge’ e ‘la gente che scrive’: come si può immaginare che L. pensi a persone qualificabili in base ad un altro criterio? Non sono già tutti compresi in quella locuzione? Ma L. procede per una via diversa, per una via ‘irriveren-
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te’: egli non sceglie i suoi lettori e i suoi giudici tra quelli che convenzionalmente sono il populus e gli scriptores, egli oppone a questi convenzionali criteri di definizione un criterio disomogeneo (ingenium, dicacitas, crassa sapientia) e in base a questo traccia una linea che passa dentro e fuori dell’area culturale romana,
dentro e fuori del ‘sistema’,
e raccoglie i suoi
lettori. L’interpretazione della locuzione capere animum è importante nella prospettiva ora indicata. La mia proposta è di intendere, traducendo alla lettera, ‘impadronirsi di un animo’: un certo numero di testimonianze mostra che la frase, prima di assumere il significato traslato di delectare, che le attribuisce Nonio, vale proprio ‘prendere, occupare, appropriarsi un animo’”*. Mi pare assai significativa, soprattutto per la fonte dalla quale deriva, la testimonianza di CIC., Phil. 3.11, 29: aliquando ... patrium animum virtutemque capiamus.
Qui la locuzione,
sotto una trasparente metafora, ha conservato
il suo
senso originario: ‘facciamo nostro l’animo dei padri’, ovvero ‘comportiamoci come
se fossimo i nostri padri” 0, ancora,
‘mettiamoci nei panni dei nostri
padri e facciamo quel che essi avrebbero fatto al posto nostro”. Di chi dunque L. dice di aver voluto capere animum, l’animo di chi ha voluto far suo, di chi ha voluto appropriarsi l’animo e, almeno temporaneamente, sostituirlo al proprio? Già questa interpretazione indica in quale direzione è, a mio parere, opportuno muoversi per definire chi sono questi illi. L’operazione designata con la locuzione capere animum appartiene alla sfera del magico: si tratta di un modo di conoscere e di comunicare che non usa gli universali e perciò non procede secondo un ordine razionalistico, ma istituisce un rapporto immediato a livello del sensibile. La locuzione appartiene al mondo della cultura della prassi, non della teoresi. La sua interpretazione può essere anche: ‘conoscere quelli’ dal loro punto di vista, poiché non si deve dimenticare che capere animum illorum significa ‘appropriarsi dell’ animo di quelli’ e sostituirlo al proprio, almeno temporaneamente. Quindi, appunto, ‘conoscere quelli dal loro punto di vista’, o, e di quest'altro modo di dire vi è anche traccia in L. (fr. 670 M), ‘mettersi nei loro panni’ o addirittura ‘nella
loro pelle’. Cioè, conoscerli nella loro realtà caratteristica e differente, in ciò che essi hanno di autenticamente e storicamente umano, non solo di universalmente umano. Questa interpretazione di capere animum porta con sé la risposta alla domanda sulla identità degli i/li. Costoro saranno tutti coloro che sono accessibili a questo modo di conoscere, che passa per la via dell’intuizione e della sensibilità, che passa per il particolare e non per l’universale, per la realtà
SAL
Cate 145° Liv 6.368; 1.279,06: ID; 27:13,.12;. Cic. Phil 7311329:
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sensibile (vi è un sesto senso) e non per i concetti. Saranno, insomma, i cras-
si, coloro con i quali ci si può anche intendere fuori della doctrina. At libertinus, tricorius, Syrus ipse, at mastigias, x 5 s È 75 quicum versipellis fio et quicum commuto omnia”.
Secondo I. Mariotti, ‘tutto il frammento luciliano ... è tipicamente comico’. Naturalmente ‘comico’ in relazione all’uso linguistico, non come apprezzamento di merito. Infatti non pare che L. abbia usato linguaggio comico per produrre effetti comici. Cioè, il linguaggio è comico, ma il frammento produce un effetto comico soltanto se viene assunto nel suo significato letterale. La seconda riga del fr. rimanda esplicitamente e direttamente al mondo della magia. Versipellis o vorsipellis è precisamente il licantropo”, ma è anche, in generale, chi sa mettersi nella pelle degli altri, assumendo l’aspetto di
altri: PLAUT., Amph. 123: eccum luppiter; | in Amphitruonis vortit sese imaginem | omnesque eum esse censent servi qui vident: / ita vorsipellem se facit quando lubet. Per traslato, è anche colui che sa adattarsi al prossimo: PLAUT., Bacch. 657: vorsipellem frugi convenit / esse hominem, pectus quoi sapit / bonus sit bonis, malus sit malis. Commutare e mutare appaiono accostati, in forza di una affinità semantica, a vertere sia in un passo riguardante la perpetua trasformazione della realtà naturale di LUCRET. 5. 831: omnia migrant, | omnia commutat natura et vertere cogit, sia in un passo di CIC., Div. 2.14, 33: omnia versa et mutata in peiorem partem. Anche questa capacità di commutare omnia, di cambiare la faccia delle cose, è propriamente una attitudine magica: Petr. 63, 9: sunt mulieres plussciae, sunt Nocturnae, et quod sursum est, deorsum faciunt”. Ora, chi nel fr. parla, sia egli L. o altri, dopo avere enumerato quattro qualificazioni tipiche di personaggi umili della commedia (qualificazioni che, verosimilmente, sono riferite ad una sola persona indeterminata), dice che con questa umile e disprezzata persona (figlio di un liberto, una canaglia, con cui non bisogna risparmiare la frusta, uno schiavo siriano, uno che capisce solo il linguaggio della frusta) egli cambia tutto e, addirittura, si mette nella sua pelle. Qualunque sia il contesto dal quale derivano queste righe e qualunque sia l’interpretazione complessiva che si dà del fr. (la quale varia se si intende ipse come nella commedia nel senso di ‘padrone’ e si sottintende est, o se ipse 5 7° 7 8
Non., 38, 7 = fr. 669 M. I MARIOTTI, op. cit., 43. Dun., n. h., 8.22, 34; PETR., 62, 13. Cfr. APUL., Met., 1.8.
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viene attribuito come aggettivo al soggetto di versipellis fio), resta indubitabile che qui vi è uno che dice: ‘con un figlio di un liberto, una canaglia, Siriano, un tipo da frusta, io faccio cambio e mi metto nella sua pelle’. Anche se, venendo a conoscere il contesto, ci trovassimo nella possibilità di decidere che la frase è metaforica, tuttavia dovremmo spiegarci perchè L. abbia fatto ricorso ad una locuzione così chiaramente legata al mondo della magia. A me pare che la presenza di locuzioni magiche abbia una sola giustificazione: non è possibile condurre un discorso fuori della doctrina se non passando per la cultura ‘selvaggia’, per il mondo dell’intuizione e del ‘sesto’ senso. L’apparizione di tali locuzioni nel linguaggio di L. mostra che davvero gli riuscì di capere animum illorum, cioè di muoversi ad un livello psichico che sta al di qua della doctrina. E anche qui ravviserei almeno un cenno di quel procedimento provocatorio, di cui ho già detto: dopo avere accumulato vocaboli tipici della commedia, vocaboli significativamente accettati dalla tradizione letteraria e culturale romana, in quanto destinati alla rappresentazione comico-parodistica (‘disumanizzante’) degli umili, non in quanto viri, bensì in quanto motivo di effetti comici, L. improvvisamente esce dal mondo della cultura letteraria convenzionale afferrando una realtà irrazionale ed estranea e calandola in quella che pareva una situazione comica tradizionale. Di qui, naturalmente l’effetto di rottura culturale e stilistica e il ricupero di un’area umana estranea senza la sua riduzione a posizioni marginali e senza la sua alterazione in base a schemi prefissati.
LA CONOSCENZA DEL CONCRETO:
IL LINGUAGGIO DEGLI OGGETTI.
La questione dell’apparizione del magico nella lingua letteraria può essere affrontata da diversi punti di vista: già sperimentato, ma esposto a confusioni e accentuazioni retoriche quello dell’affettività; più difficile e idoneo a cogliere i movimenti di ricupero letterario delle attitudini magiche quello volto a individuare i ricalchi stilistici di formule d’incantamento. Altro punto di vista può essere quello diretto a rilevare mediante l’esame del lessico e dei nessi sintattici un modo di instaurare i rapporti tra uomo e uomo e tra uomo e cose: un modo corrispondente alla ‘cultura selvaggia’. Accettato che la ‘cultura dei concetti’ introduce mezzi di conoscenza diversi da quelli propri della cultura degli oggetti, e che quest’ultima è propria e fu propria della visione magica, mentre la prima è propria dell’uomo razionalistico, consegue che il linguaggio corrispondente alla cultura dei concetti è un linguaggio eminentemente ordinatore, diretto a stabilire e a rendere perspicui i collegamenti e i nessi dei fatti tra loro, dei fatti con i concetti, dei concetti tra loro. Il latino di Cicerone è
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essenzialmente uno strumento atto ad introdurre un ordine teoretico nel caos della realtà materiale e psichica. Come nota Auerbach”,
‘ gli strumenti del le-
game sintattico raggiungono somma acutezza, esattezza e varietà ... (essi) debbono servire ... all’ordine esatto, perspicuo e nello stesso tempo elastico e ricco di sfumature’. Da ciò, continua Auerbach, deriva ‘una sorprendente duttilità di ragionamento sopra i dati di fatto e una libertà per lungo tempo non più raggiunta nei riguardi del contenuto”. Ho scritto di proposito ‘teoretico’, perché mi pare che appunto la teoresi sia il fine primo del linguaggio concettuale; teoresi che è naturalmente anche, e non potrebbe non esserlo, sistemazione, cioè introduzione del cosmo nel caos. Ma del cosmo portatore è l’uomo, o meglio l’homo sapiens, l’uomo raziocinante. Infatti la realtà viene ordinata secondo un criterio antropomorfico: ciò che distingue, secondo la sintesi di Lévi-Strauss®, il mondo dell’uomo ra-
zionale da quello dell’uomo ‘selvaggio’, il quale più non secondo un criterio antropomorfico, ma secondo di qui nasce il linguaggio degli oggetti. Il problema è: che cosa significhi ‘stilisticamente’ La risposta accolta finora punta sulla scoperta dei
che ordinare cataloga e un criterio fisiomorfico: comunicare per oggetti. caratteri dell’affettività,
dalla pura interiezione alla cosiddetta espressività affettiva, caratteri che se-
condo i linguisti e i critici letterari si manifestano in tutta una serie di strumenti sintattici, grammaticali, morfologici*!. A questi caratteri si deve aggiungere, credo, la tensione della comunicazione, una specie di protendersi verso l’uditore alla ricerca del punto di incontro, del punto nel quale l’uditore si rende comunicabile. L’idea che la comunicazione visiva si svolgesse mediante piccole immagini materiali, che si staccano dagli oggetti e attraverso gli occhi penetrano negli organi dell’intelligere, o comunque ‘entrano nell’uomo’, mi pare rispecchi in qualche misura, pur rappresentando uno schema (grossolanamente) razionalizzato, la sensazione che la comunicazione
sia contatto e penetrazione.
Se
questa dottrina può essere interpretata storicamente come residuo di una prassi del conoscere propria della cultura degli oggetti, mi pare sia chiaro che il rapporto conoscitivo era considerato identico per quanto riguarda la conoscenza tra uomimi e la conoscenza delle cose da parte degli uomini. Ciò entra perfettamente nell’ipotesi che il primitivo consideri l’uomo come un elemento di natura. Sia uomini sia cose comunicano con l’uomo, in quanto entrambi penetrano nell’uomo.
? E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it., Torino 1956, vol. 1, 99.
8 V. C. Lévi-Strauss, II pensiero selvaggio, trad. it., Milano 1964, 13 sgg. e 238 sgg. 8! Cfr. J. B. HOFMANN, Lateinische Umgangssprache, Heidelberg 1951.
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E. de Martino nel suo Mondo magico tratta a lungo della mimesi a cui vanno soggette persone appartenenti alle cosiddette culture primitive: una persona vede una cosa e ‘diventa’ la cosa veduta, vede una persona e ‘diventa’ la persona veduta, imitandone i gesti. Mi pare che questo processo mimetico (che rimanda a un momento di indistinzione della persona nel mondo circostante) sia omogeneo con il processo mediante il quale sembra compiersi la conoscenza da parte dell’uomo ‘selvaggio’. La cosa o la persona (l’oggetto) entra nell’uomo e l’occupa, al punto che al limite ne scaccia l’io sostituendovisi: ecco il licantropo. Ed ecco nella nostra lingua espressioni come ‘ho sofferto con te’ o addirittura ‘ho sofferto per te’. Si tratta di locuzioni esprimenti
un’attitudine alla comunicabilità intuitiva e mimetica. Una locuzione corrente a riguardo del conoscere è ‘ho ricevuto un’impressione’: essa rimanda a una rappresentazione del conoscere fondata sul recepire da parte del conoscente di una realtà estranea, ricezione come momento
finale di un processo naturale mediante il quale la cosa o l’uomo
entrano in un uomo per via di una percezione sensibile, vi trovano spazio per un certo tempo e vi lasciano una impressione o vi imprimono qualcosa di sé. Ecco allora che la piena conoscenza di qualcuno può trovare espressione nelle locuzioni capere animum alicuius, cioè ‘ricevere in sé l’animo di alcuno’ o addirittura può essere tradotta nei termini di una provvisoria identificazione con altra persona: versipellis fio. Si tratta, come si vede, di schemi di interpretazione che debbono ricevere
colore e concretezza in relazione alla situazione storica esaminata. La funzione espressiva di una locuzione affettiva può essere, almeno in parte, chiarita con un riferimento al contesto socio-culturale in relazione al quale la locuzione è stata assunta. L’apparizione di un elemento magico nel linguaggio di uno scrittore va giudicata non soltanto per l'efficacia distruttiva e insieme costruttiva dell’intrusione, ma anche per l’aggancio che essa stabilisce con una certa realtà umana, sia essa etnica sia sociale sia professionale. La rilevazione di tali nessi mi pare sia necessaria in un esame di quel linguaggio mediante il quale alcuni autori antichi tentarono di esprimere le realtà psichiche, sociali, umane dei gruppi che non partecipavano alla cultura dell’aristocrazia (cioè, in altre parole, non stavano al passo con il progredire della cultura dei concetti, che, come sempre, è più rapido al centro che alle periferie); tentarono cioè di rappresentare coloro, che non partecipavano del mondo culturale della nobilitas, non più come personaggi comici, secondo i criteri dello stile
parodistico della commedia, drammatica.
bensì nella loro realtà, che può anche essere
82 E. DE MARTINO, II mondo magico, Torino 1958, 91 sgg.
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IL RICUPERO
DELL’
AREA UMANA E SOCIALE DEI CRASSI
Lucilio appunto é uno dei primi, a nostra conoscenza, fra quelli che con un certo grado di consapevolezza tentano di appropriarsi al livello dell’espressione letteraria e quindi della coscienza culturale del mondo umano degli ‘esclusi’. Peraltro si deve tener presente che al tempo di Lucilio il mondo della cultura selvaggia non esiste più in posizione indipendente e autonoma, ma i rapporti sociologicamente ipotizzabili degli ‘esclusi’ con il mondo della cultura nobiliare dei docti (condizione di inferiorità politica in quanto Socii e non cives, di estraneità che sfuma nell’inferiorità in quanto provinciali e non cittadini/urbani, in sostanza, almeno nei limiti del discorso di Lucilio, in quanto Italici e non Romani) inducono a considerare le sopravvivenze della cultura selvaggia come preponderanza delle attitudini che producono la conoscenza per oggetti sulle attitudini alla conoscenza per concetti acquisita attraverso lo studio delle lettere e della filosofia (grammatica, logica, sistema etico politico del cui apprendimento è garante l’adesione al mos, possesso della lingua). Uno dei significati della distinzione tra doctissimi e indoctissimi si chiarisce alla luce di quanto detto con un riferimento all’interpretazione del fr. 462 M. La mia interpretazione è: ‘preferire la disapprovazione dei pochi e sapienti al favore di quelli che non contano’. Indoctissimi, nella sfera culturalepolitica, sono coloro che non hanno il senso dell’etica politica aristocratica, o
meglio il senso del posto che loro compete nel sistema etico politico della Roma dei nobiles (e di questo appunto trattano le testimonianze circa il com- . portamento di Scipione Emiliano davanti all’assemblea popolare). Di tale nozione ci ha trasmesso un sunto lo stesso Lucilio nei versi famosi sulla virtus e anche in altri versi famosi ha descritto il comportamento dei pauci (patres) e dei multi (populus), che nel foro ogni giorno gareggiano nell’ingannarsi e nell’ingannare. Né i pauci dunque né i multi a Roma si comportano come sia il mos maiorum insegna sia indicano le dottrine filosofiche ellenistiche (stoicismo, probabilmente, ma anche più in generale le Socraticae chartae). Lucilio, mi pare, si trova dinanzi ad una situazione di corruzione individuale e so-
ciale, di cui partecipano patresque populusque: solo gli Italici, i Socii, tenuti finallora fuori della civitas, sono ancora integri e infatti, secondo le preziose ammissioni di Scipione, solo essi offrono un reale sostegno allo Stato. AI livello polemico di una letteratura impegnata credo sia senz'altro valida l’identificazione dei pauci ac sapientes con la nobilitas; d’altra parte la tradizione epico-tragica procedeva, fino ad Accio, a questa identificazione: il fr. x 1 dei Myrmidones, come si è già visto, introduce Achille a dire di sé che
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l’eroe è anche dotto (fortes ai quali vengono contrapposti gli indocti, eroi-
moltitudine). In un testo così polemico quale sono le satire di Lucilio, fra le quali alcune erano espressamente dedicate proprio alla polemica contro Accio e contro non solo lo stile epico-tragico, ma anche contro la mentalità matrice di questo stile, non mi sembra che possa apparire incomprensibile e ingiustificabile l’uso anche di sapiens con intenzione ironica, indirizzata appunto verso la sapientia dei pauci, di quei patres, che in nome di quella sapientia, o meglio di quanto di essa ancora rimaneva loro, cioè detriti ed istituti sclerotizzati (si pensi alla polemica di Catullo contro i senes severiores e il loro moralismo formale), vogliono conservare il governo dello Stato e si trovano, per l’intrinseca debolezza degli strumenti etici e ideologici e politici, a lottare con il popolo servendosi dei doli e dei raggiri, cioè delle stesse armi dei demagoghi e dei ‘falsi Romani. In sostanza propongo di interpretare pauci nel valore che ha nella pubblicistica politica; la presenza, accanto a pauci, di sapientes non disloca il problema del significato, qualora si accolga l’interpretazione da me proposta di quel termine. Per quanto riguarda poi la testimonianza di CIC., de fin., 1.3, 7, dove al dire di Cicerone, Lucilio avreb-
be rifiutato il giudizio di Scipione sposta sul piano culturale: Lucilio satire che si accinge a pubblicare scenza delle condizioni psichiche
e di Rutilio, qui il discorso, secondo me, si intende sottolineare che quella parte delle sono il risultato di quel tentativo di conodei crassi (voluimus capere animum illo-
rum, 589 M) e pertanto, come trasmette anche CIC., de or., 2.25, non sono
fatte né per i grandi dotti né per gli ignoranti: gli uni non ne avrebbero capito nulla, gli altri ne avrebbero capito più di quel che ne capiva Lucilio stesso. Cioè: le condizioni psichiche dei crassi non sono accessibili a chi si muova sul terreno della doctrina, sia egli qualificato come ignorante sia come dottissimo; quest’ultimo d’altra parte vi avrebbe trovato (nella cultura degli oggetti tipica dei crassi, e quindi anche in quanto di essa Lucilio riteneva di aver tradotto in satire) plus fortasse quam ipse, cioè, mi pare, dei concetti, che Lucilio non vi aveva messo e non aveva intenzione di mettervi. La posizione culturale, e, credo, anche politica di Lucilio è avversa alla plebe urbana: nella sua visione la parte popolare, quella che fornì ai Gracchi la base per l’azione politica di riforma dello Stato, non ha un luogo, ed è vista come un elemento negativo (i morti, quelli che non contano, nel fr. 462); ma
all’avversione verso i multi non corrisponde la simpatia verso i pauci ac sapientes, ovvero verso la nobilitas questo elemento viene definito secondo un criterio positivo, tuttavia non vi è dubbio alcuno che sia risolutamente rifiu-
tato e avversato. Mi pare che tutto il discorso di Lucilio sui docti e sugli indocti, che sembra essere stato condotto essenzialmente nella sfera della cultu-
ra, possa essere visto, ed ebbe certamente un senso, secondo una prospettiva
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politica; ma nel contesto politico Lucilio introduce mediante il caratteristico procedimento provocatorio l’elemento disomogeneo (o asistematico), cioè i crassi, a distruggere la esaustività della opposizione pauci-multi/nobilitaspopulares. In sostanza questo discorso, dirò culturale, ma nel significato più vasto e comprensivo del termine, mediante il procedimento provocatorio viene dislocato dalla sfera del sistema, che inquadra e definisce le persone per il luogo sociale, politico, culturale (in senso stretto), che occupano (p.e.: praeco) secondo mos e doctrina, alla sfera dell’ingenium o di un valore individuale, nativo ed asistematico (p.e. dicacitas) e, in particolare, non riducibile
a sistema. Per questa via anche unus de plebe si distingue dalla massa e acquisisce connotazioni positive appunto in quanto crassus: mentre la connotazione collettiva della plebe è negativa; si pensi alla plebs levis di fronte ai viri constantes*: caratteristica della plebe è di non avere caratteristiche sue proprie, bensì di distinguersi dai nobiles in quanto ne rappresenta sotto l’aspetto sociale e umano l’opposto. Disomogeneità, irriducibilità a sistema, asistematicità: ecco ciò che carat-
terizza la poetica di Lucilio, e, a confronto con le ‘belle lettere’, il genere satirico. Queste caratteristiche emergono mediante il procedimento di rottura, che consiste appunto nell’introduzione del disomogeneo nel sistema, a diversi livelli: in particolare ai livelli della ‘cultura’, della moralità, della lingua e del linguaggio. Utile e pertinente per definire il significato delle scelte di Lucilio in riferimento alla questione dello stile e delle modalità di rappresentazione dell’uomo è una comparazione con Terenzio. Il problema stilistico in Terenzio è affrontato dal Rostagni così: ‘(Terenzio) al linguaggio sboccato del popolo sostituiva quello urbanissimo dei circoli colti; la rappresentazione ridanciana e fantastica si trasformava in fine gioco di conversazione’. Terenzio in sostanza rifiuta il filtro caricaturale e comicizzante, lirico-fantastico, si pone al di fuori di ogni intensificazione co-
mica (tutto ciò che gli antichi indicavano con le locuzioni vis comica, fabula motoria). Questo indubbiamente spoglia i personaggi delle commedie di Terenzio di quegli effetti comico-parodistici, che noi conosciamo come plautini, che venivano prodotti caricando, per così dire, le inadempienze al mos nazionale romano e che impedivano alla personalità del personaggio di emergere, anzi, di prendere forma. Tuttavia i personaggi di T. sono in realtà dei caratteri, cioè più creazioni di una cultura concettuale che imitazioni della realtà umana. Viene individuato un carattere, ma la forma della individuazione consiste in una pretesa di universalità; il linguaggio quindi tende al concettuale e al generico; prevale nella rappresentazione l’idea o l’ideale; i personaggi acS'Ci'n'e3tp52 * A. ROSTAGNI, op. cit., vol. 1, 303.
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quistano dignità in rapporto con la loro pretesa validità universale, ma perdono per altra via la possibilità di acquisire una personalità reale storicamente significativa. T. parte dal concetto: gli interessa e gli sta a cuore la humanitas; di lì muove a costruire e a far vivere i personaggi. In questo modo gli umili vengono ammessi nella letteratura non più come uomini di qualità inferiore, ai quali sono affidate le parti buffonesche e che giustificano la loro presenza nella società dei viri boni prestandosi come motivi di effetto comico, ma nemmeno come uomini totali con la loro intera realtà psichica e sociale ed economica, bensì come esemplari di umanità provvisti appunto per il predominio del concettuale nella rappresentazione di una pretesa validità universale. Di qui appunto il predominio nel linguaggio di T. delle scelte linguistiche degli uomini colti, quelli nella conversazione dei quali trovava luogo un discorso sulla umanità, sull’individuo, sull’universale. Nelle commedie di T. l’umile è ripristinato ad un livello di umanità: vi è l’uomo, 0, meglio, vi è il
concetto dell’uomo, ma non vi sono gli uomini, se non con la loro storia, almeno con la loro condizione psichica e ‘culturale’. L'elemento universale e concettuale in realtà si caratterizza mediante un’introspezione psicologica condotta per tipi, ma non per tipi storicamente rappresentativi, bensì per tipi considerati e pensati come universalmente validi. È una caratterologia di genere filosofico (Teofrasto-Menandro), nella quale sul fondo comune della humanitas viene distinta ciascuna specie di essere umano, non ciascun uomo o ciascuna donna; bensì il giovane innamorato, il padre rispettoso del mos e pensoso della felicità del figlio, la fanciulla innamorata e teneramente dedita al giovane, il liberto memore del buon servizio, il servo astuto e imbroglione, la meretrice capace di un onesto sentire e di caldi affetti ecc. Sono tipi e situazioni, relazioni e comportamenti senza dubbio derivati dalla vita, è appunto la imitatio vitae di Menandro, che riappare in Terenzio; ma, almeno a me così pare, tutti questi personaggi vengono fatti muovere agire pensare come se appartenessero alla medesima couche sociale e culturale: è quella che il Rostagni chiama il bon ton delle commedie terenziane. Servi, liberti, meretrici, ragazze, giovanotti, uomini maturi e rispettati, tutti sono allineati sul medesimo livello culturale, con le sole differenze derivanti dalla diversa posizione che occupano nello stesso sistema. Come dicevo prima, l’umile è sì ripristinato da T. al livello dell’umanità, ma non della sua
umanità, bensì di quella dei docti e dei viri boni. Naturalmente questo dipende direttamente dal fatto che T. e i suoi amici pensavano che vi sia un solo metro per misurare l’umanità, perché l’umanità nacque come un concetto e non dall’esperienza. Terenzio non concepiva altro modo di affermare il diritto degli umili nella storia fuori della dimostrazione che essi sono nella sostanza uguali ai grandi:
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la parità dei diritti è garantita dalla presenza di una sostanza umana eguale. Così facendo T. scavalca tutta un’area di differenziazione e di incomprensione che costituisce proprio il terreno dove ha un senso discutere di parità e affrontare il problema dell’eguale diritto alla storia. Ecco perché, per quanto a me pare, T. comincia sì a traslocare i personaggi umili dalla sfera del comicoparodistico o addirittura grottesco alla sfera del serio, alla sfera di quello che per lui è l’umano, ma ciò facendo perde per via quanto di essi è più tipico e caratteristico. Di qui, secondo me, nasce per T. la necessità del cosiddetto stile medio, che non è più quello comico-parodistico di Plauto, ma appunto un impasto fondato sopra un criterio di scelta linguistica corrispondente al concetto di umanità universale individuantesi nei caratteri; il risultato di questa scelta è un aspetto di uniformità, appunto di medietas, realizzato evitando il ricorso al vocabolario che troppo direttamente rimanda al mondo affettivo e sensuale degli umili, fondato sopra un approccio della realtà che avviene al livello della percezione del sensibile. T., come è stato rilevato, punta sull’universale: homo sum: humani nihil a me alienum puto; questo è il punto di partenza: un concetto; appunto un universale. E la medietas è uniformità in questo senso, che.la scelta stilistica di T. è diretta a rappresentare ciò che accomuna i personaggi, e non ciò che li differenzia: si pensi ai sedati motus, una sfera, quella dei sentimenti, nella quale particolarmente T. comprese l’opportunità di attenuare, allo scopo di far prevalere nella rappresentazione dell’agire e del vivere quel che fa umani gli uomini, almeno secondo il pensiero suo e dei suoi grandi amici: la ragionevolezza. Non si rivela una distinzione tra eroi e umili, tra nobili e plebei, tra docti e indocti, tra boni viri e ‘vil gente meccanica’; differenziazione si realizza mediante i caratteri e anche . mediante i tipi, intendendo per tipi le posizioni sociali. Mi riferisco, in sostanza, a una distinzione di comportamenti, tutti peraltro omogenei e inseribili in un sistema, che non è più il mos maiorum, ma è comunque unitario: i mores, filosoficamente fondati e universalistici.
Manca qualsiasi distinzione derivata dalle posizioni economiche; ma in realtà nelle commedie di Terenzio la sola posizione economica chiaramente indicata è quella di proprietario agrario; di altre posizioni vi è talvolta menzione, p.e. Eunuchus 255 sgg.; ma, per quanto appare, non mai viene introdotto un personaggio che porti ben chiari i segni della sua professione 0, comunque, del suo lavoro: che parli cioè come parla un fornaio o un contadino o un operaio a giornata o un artigiano o un commerciante. E mi pare che qui si palesi un aspetto importante, una lacuna nel processo di ricupero alla storia degli umili da parte di T.: umili che poi non erano in realtà, secondo il nostro metro assai più economicistico, umili, quando si pensi che sul piano politico questo ricupero degli umili fu tentato e in buona parte effettuato dai Gracchi
DOCTI E CRASSI NELLA POETICA DI LUCILIO
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nei riguardi degli equites, i più ricchi fra gli umili. La lacuna consiste appunto, come dicevo sopra, nella mancata rappresentazione, anche in termini letterari o di una cultura non etnologica, cioè di una cultura dei docti, delle condizioni e attitudini tipiche degli umili in quanto esse hanno di diverso, di differenziante, o, ancor meglio, di disomogeneo. Appunto qui, mi pare, appare l’astrattezza della poetica terenziana; e qui si inserisce di diritto il discorso di Lucilio sui docti e sugli indocti egualmente rifiutati, e sul giudizio invocato dei crassi. La testimonianza di Frontone” sulla presenza nella lingua di Lucilio di verba ... cuiusque artis ac negotii propria ... è preziosa per mostrare che già gli antichi critici, pur nella direzione della stilistica formale, avevano afferrato questa caratteristica di L. Che l’ordine di idee nel quale venivano svolte queste considerazioni fosse appunto quello della stilistica formale, mi sembra possa essere dedotto dal testo nel quale è trasmessa la testimonianza: infatti di Novio e Pomponio Frontone osserva che si segnalavano particolarmente nell’uso di verba rusticana ac ridicularia (un parlar da paesani di sicuro effetto comico), di Atta dice il medesimo a proposito dell’uso di vocaboli propri del linguaggio delle donne, di Sisenna a proposito delle sue scelte linguistiche dirette ad esprimere letterariamente la sfera del sensuale e dell’erotico. Interessante come certo riferimento all’interpretazione comico-parodistica che Novio e Pomponio offrivano (o che Frontone vi rinveniva) della plebe rurale l'accoppiamento di rusticanus con ridicularius a formare un’unica nozione. Novio e Pomponio introducevano gli umili nella letteratura e nella cultura solo come elementi di comicità buffonesca. La notizia di Frontone dovrà naturalmente essere sottoposta a prova, per quanto i frammenti consentono; e soprattutto sarà interessante e utile vedere quale significato è possibile attribuire alla presenza di questo linguaggio nelle satire di L. È importante stabilire, p.e., se e in quale misura l’introduzione di un tale linguaggio provochi un processo di rottura nella lingua letteraria; se scopo e risultato di questa rottura sia l’effetto comico che nasce dal contrasto, o piuttosto la prova dell’insufficienza, in rapporto ad un criterio provocatorio ed irriverente, della lingua letteraria. Il testo di Frontone tende a schiacciare la notizia concernente L. nello schema della pluralità e della diversità delle vocazioni e dei talenti; inoltre il linguaggio viene articolato per strati sociali (rusticana verba), professionali (artis ac negotii), ripartizioni sessuali (muliebribus); e infine anche in rap-
porto ai significati (/ascivis). Se accanto a rusticana non vi fosse ridicularia si potrebbe pensare che Frontone sostenga che Novio e Pomponio intendessero valersi del linguaggio dei contadini per portare dentro al sistema culturale 85 M. CORNELII FRONTONIS, Epistulae, ed. M. P.
J. Van Den Hout, 57, 7 [libr. IM 3, 2].
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
romano le condizioni psichiche, esistenziali, umane (la humanitas non terenziana) dei contadini. La presenza di ridicularia elimina senz’altro la questione: l’introduzione del linguaggio dei paesani nel teatro romano (nella lingua o anche nella città delle lettere, seppure in quella posizione marginale e non ufficiale che fu del mimo) servì agli autori nominati a produrre effetti comicoparodistici fondati sul confronto esplicito, o implicito nelle menti degli spettatori, tra urbanitas e rusticitas.
Altro forse il significato dell’uso del linguaggio delle donne e di un lessico del sensuale (Atta e Sisenna): quali che ne fossero gli scopi, il risultato dell’introduzione di questi elementi era un ricupero o mostrava la volontà di procedere ad un ricupero di gruppi e di mentalità diverse e non apprezzate o svilite nel confronto con gli schemi o modelli di comportamento offerti dal mos maiorum. Un discorso interpretativo così orientato necessita di una prova eseguita sui testi; prova che, almeno con valore indicativo, alcuni frammenti di L. forniscono. Mi sembra infatti che il tema dei crassi e la presenza pur di una sola — almeno nei testi considerati — qualificazione professionale (praeco) autorizzino ad assumere l’uso di un linguaggio professionale o di mestiere (gergo) nel senso sopra accennato. Non si vuol dire che i crassi si trovino solo tra artigiani e businessmen, ma che, per stabilire una comunica-
zione significativa e bilaterale con quanti fra quelli sentano e pensino crassa Minerva e siano abnormes sapientes, poiché quella sapientia e quella Minerva sono abnormes e crassae (cioè ‘fuori del sistema’), e artigiani e businessmen non dispongono di canali di espressione legittimati dalla doctrina né quanto si configura come crassa Minerva e come abnormis sapientia è recepito e quindi reso comunicabile dal mos, per questo non vi è altra via che l’assunzione del loro gergo professionale, in quanto la loro struttura culturale, le loro condizioni soggettive, la loro umanità particolare si traducono pienamente in quel linguaggio. Notevole la pluralità, chiaramente indicata da Frontone, dei gerghi cuiusque artis ac negotii; la locuzione designa quello che oggi si dice il settore della produzione e della distribuzione (industria e commercio), e questo mi appare assai significativo. Infatti costituisce il segno di una grossa e reale operazione di apertura e di ricupero all’area culturale romana dei gruppi (intesi in senso corporativo) degli addetti all’industria (o meglio, artigianato industriale) e al commercio. Verba cuiusque artis ac negotii propria significa che l’approccio non fu fattoin maniera generica al ‘mondo del lavoro’, ma tenne conto delle diversità e delle particolarità che ca-
ratterizzano ciascun gruppo.
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VA
Poiché nella sfera politica, seppure ad alto livello, questa operazione, vagamente accennata da Scipione e da Lelio”, fu concretamente tentata da Gaio
Gracco, la notizia di Frontone appare utile a confermare e consolidare l’interpretazione della figura di Lucilio come di un intellettuale/letterato vicino al circolo di Scipione, e situato, a mio parere, su una posizione forse più aperta e progressiva. Ho osservato di sopra che, per quanto a me pare, Terenzio non introduce mai nelle sue commedie un personaggio nella cui personalità appaiano, oltre a quei tratti di carattere riferibili ad una caratterologia universalistica teofrastea e ad altri corrispondenti ad alcune tipizzazioni storiche della società antica (libero, liberto, servo, matrona, ecc.), anche dei tratti culturali, psichici,
sociali riconducibili ad un milieu economico-sociale diverso da quello dei boni viri. Nella dichiarazione della sua poetica Lucilio mostra di aver compreso che i criteri rappresentativi di Terenzio non sono sufficienti. È evidente che non parvero sufficienti a Lucilio in quanto nella sua età quegli uomini, che prima ho chiamato, per comodità, umili, non apparivano più, almeno politicamente, umili; cioè Lucilio vide anch'egli quel movimento, del quale Scipione si accorse bene®’ e con lui anche Lelio ed altri, di avanzata dei provinciali
verso la partecipazione allo Stato. Si parla di provinciali per dire Italici, e la nozione è assai più culturale che geografica, anche se per indicarli Lucilio si serve proprio di etnonimi non romani né latini, ma appunto italici o addirittura italioti. Gli insufficienti criteri terenziani vengono completati, a mio parere, ponendo accanto alla già acquisita consapevolezza di una umanità universale una diversa faccia, 0, se così si può dire, una manifestazione di umanità — altrettanto valida — che si realizza ad un livello qualitativamente diverso. E questo tuttavia senza contraddire l’universalismo terenziano e nemmeno l’individualismo in esso implicito, anzi trovando a quel diverso livello psichico e intellettuale proprio il vécu individualistico e mostrando per altra via che tutto ciò che è pertinente all’uomo è umano. Tuttavia il fine del ricupero non è essenzialmente un’estensione sociale dell’area culturale romana: non si tratta tanto per Lucilio di collocare accanto ai boni viri i praecones e tutti gli altri gruppi pertinenti alle arti e ai mestieri, quanto di aprire il sistema (doctrina e mos) alla comunicazione con ciò che 8° Si veda la carriera politica di P. Rupilio, protetto da Scipione Emiliano: dapprima al servizio dei publicani in Sicilia, aiutato da Scipione riuscì console nel 132 ed ebbe con il collega P. Popilio Lenate l’incarico di perseguire i Graccani; ma scansò l’ingrato compito recandosi in Sicilia dove represse la rivolta degli schiavi; riordinò infine l’isola con un provvedimento legislativo elaborato insieme ad una commissione di dieci senatori. Cfr. R.E. Si veda anche il comportamento di C. Lelio nel 138, quando rappresentò delle societates publicanorum, che avevano l’appalto dello sfruttamento dei boschi del Bruttium, accusate di gravi crimini. Cfr. R.E.
87 V. pp. 48-50.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
sta fuori del sistema e non é recepibile dal sistema. Cioé, il problema non é di
porre in comunicazione un sistema culturale con altri sistemi considerati, in base a criteri interni a quello, inferiori o subordinati, ma di introdurre con un atto provocatorio e polemico nel sistema cid che non sopporta schemi e regole, ciò che doctrina tradi non potest, né può divenire mos, cioè è irripetibile e ripugna ad una funzione paradigmatica. Soltanto quanto non è contenibile nella iterazione circolare del tempo, e perciò non è razionalizzabile, soltanto
questo cade nell’area della crassa Minerva, dell’abnormis sapientia: questo è oggetto dell’approccio di Lucilio, dell’operazione di ricupero ed è anche, per la sua natura, strumento di un procedimento di rottura e criterio di prova della sufficienza e della comprensività del sistema. Lucilio non intende offrire una via di assimilazione e di integrazione: questo, semmai, era lo scopo di Terenzio. Certo sarebbe bello trovare una formula luciliana da contrapporre, per completarla, a quella di Terenzio, ma forse il problema si pone, come spesso accade, in termini stilistici e semantici, cioè la stessa frase di Terenzio homo
sum: humani nihil a me alienum puto poteva essere e forse fu fatta propria da Lucilio, partendo però non dal concetto (dall’universale) homo/anthropos ma dall’intuizione sperimentale dell’individuo a livello del sensibile: versipellis fio.
LE FRAGMENT COMME ÉCHANTILLON® Il est possible, moyennant l’application de méthodes statistiques, de déterminer certaines caractéristiques du langage et du style d’une oeuvre. Mais de nombreuses Oeuvres anciennes, grecques ou latines, ne nous sont pas connues dans leur intégrité; nous ne possédons d’elles que des fragments. Par conséquent, le probléme se pose d’apprécier la valeur du fragment comme échantillon, de fixer des critères aptes 4 mesurer la légitimité de l’élévation du fragment a la dignité d’échantillon d’un univers. Ce problème présente différents aspects. On se demandera d’abord si les fragments sont aléatoires ou non. En effet, ils peuvent avoir été conservés par tradition directe, dans un papyrus ou un manuscrit, où seuls quelques passages sont lisibles; ils peuvent aussi nous étre parvenus par voie indirecte, c’est-a-dire par l’intermédiaire d’ouvrages d’autres auteurs. Dans ce cas, il s’agit de citations allant d’un seul mot a quelques dizaines de vers ou de lignes. Dans le premier cas, les fragments sont à considérer, sans aucun doute, comme des échantillons aléatoires et, en tant que tels, ils peuvent étre pris,
sans restriction aucune, comme représentatifs des caractères de l’ensemble. Naturellement, les statisticiens préfèrent opérer eux-mémes les prélèvements, dans les conditions qu’ils ont choisies, de manière que les échantillons répondent, quant a leur extension et a leur composition, a des critères fixés par les chercheurs, en rapport avec l’hypothèse de travail. Mais cela n’est pas possible au philologue. Il devra se contenter du hasard de l’échantillonnage, qui est, dans ce cas, hors de doute. Il devra rassembler un nombre satisfaisant de fragments suffisamment étendus pour que l’on puisse raisonnablement supposer que les principales caractéristiques lexicales et stylistiques du texte y sont représentées. Les constatations se feront fragment par fragment et, de chacun d’eux, on extraira des données quantitatives sous forme de moyennes, de pourcentages, de fréquences. Réunies, ces données en fourniront d’autres, plus générales, relatives a l’ensemble des fragments.
Ces résultats, pris isolément
ou en corrélation,
serviront de base a
indication des probabilités de certaines caractéristiques de |’ oeuvre tout entière. Quoique les échantillons — toujours dans le cas de fragments aléatoires — n’aient pas été prélevés selon des critères répondant à l’hypothèse de travail, ils pourront toutefois étre analysés selon des critères suggérés par cette méme hypothèse, la fortuité de l’échantillonnage n’étant pas dérivée de |’ application de normes préétablies mais étant, pour ainsi dire, historique.
* “Revue” 1, 1968, 1-9.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Le chercheur établira 4 quelle caractéristique de |’ oeuvre il va s’intéresser sur la base des résultats de l’ analyse des échantillons; on pourrait dire: sur la base de l’inventaire des matériaux repérables dans les échantiilons. Il pourra, par exemple, laissant de cété les contenus et ne s’occupant que des paroles, relever, a l’intérieur de chaque membre du discours (période ou proposition), la succession des vocables, classés au point de vue morphologique ou au point de vue syntaxique. Cette recherche pourra se faire si le matériel est suffisant. Souvent, hélas! le fragment ne permet que des constatations d’ ordre lexical, car il ne posséde pas l’extension nécessaire pour rassembler des éléments significatifs sur les modules expressifs employés. En substance, tant dans le cas de fragment 4 transmission directe que dans le cas de fragment à transmission indirecte, l’hypothèse de travail doit étre déterminée après l’inventaire du matériel présent dans les fragments. Bien que nous soyons tous d’accord pour dire que chaque partie d’un texte est reliée au reste (en d’autres termes, que l’emploi des méthodes statistiques suppose l’admission de l’hypothése structurale), il est possible, 4 mon avis, de différer l'utilisation du schéma structural ou d’en réduire l’ampleur, dans une mesure correspondant a la richesse et a la signification du matériel repérable dans les fragments. Dans la plupart des cas, l’extension insuffisante du fragment n’autorise aucune constatation concernant,
par example,
la marche syntaxi-
que: type ou durée des propositions ou des périodes, distribution de la coordination et de la subordination, correspondance de certaines sphéres lexicales et
de certaines constructions etc. Il conviendra donc de déterminer des éléments simples, dont la signification et l’appréciation ne dépendent pas ou dépendent très peu du contexte. Je dirais méme qu’il faut choisir des éléments qui peu- . vent étre considérés comme la base des choix syntaxiques et stylistiques. En cette matière, c’est l’élément lexical qui est le premier et peut-étre 1’ élément fondamental. Une fois définies, dans les limites du possible, toutes les données qualitatives et quantitatives se rapportant à chaque élément, on pourra en induire, par voie statistique, l’univers probable, je veux dire l’ensemble des choix lexicaux, ou méme, si l’on veut, l’univers des choix concernant l’emploi, par exemple, des adjectifs qualificatifs, des noms abstraits, des noms concrets, etc. Par là, je ne veux pas nier, chose évidente, que l’oeuvre est (ou mieux, fut, parce qu’elle a disparu) un ensemble, dans lequel chaque partie était solidement liée par ses fonctions avec toutes les autres, mais je veux suggérer de renvoyer a plus tard l’analyse des connexions, qui font exister la structure de l’oeuvre. Je veux suggérer aussi que le matériel fourni par les fragments offre rarement la possibilité de construire une image complete, bien que probable, de l’ensemble de la structure de l’oeuvre perdue: nature, fonction et signifi-
LE FRAGMENT
COMME ECHANTILLON
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cation des rapports et des connexions, qui couraient entre les grandes parties de l’oeuvre, par exemple, entre les chapitres ou méme entre les livres d’une oeuvre historiographique perdue; ou bien entre les compositions, qu’un poéte rassembla en un méme livre; ou encore entre les actes d’une oeuvre dramatique (dont, bien entendu, le canevas ne serait pas connu è partir d’une autre source): en fait, la nature, la fonction et la signification des rapports et des connexions entre ces parties ne seront pas apparentes; elles seront au-dela de l’horizon du chercheur, qui ne dispose que de fragments. Bref, la vision d’ensemble, depuis les microstructures jusqu’aux mégastructures, reconstruite selon des probabilités sur la base des échantillons, n’est jamais ou n’est que rarement possible dans le cas considéré. Une fois envisagés les ensembles de tous ces éléments, que le matériel fourni par la constatation a permis de définir de manière claire et, autant que possible, non équivoque, ce sera le moment d’établir des corrélations entre les ensembies pour arriver à une définition statistique du style. Naturellement, de ce style, le lecteur a, bien qu’a travers des fragments, une impression; et souvent il est méme en mesure d’indiquer les situations de langage, qui donnent naissance aux effets phoniques et sémantiques, qui se nomment style; en plus d’étre qualitatif, le style est, comme tous les phénomènes qui ont lieu dans l'emploi de la langue, quantitatif; c’est pourquoi il est intéressant de quantifier les faits, pour le dire comme de Saussure, syntagmatiques et les faits associatifs, et d’établir des corrélations (ce sera au chercheur a décider quelles
corrélations établir, sur la base de sondages qualitatifs opérés sur les échantillons, méme d’extension limitée); ou bien, pour employer le vocabulaire traditionnel, il sera intéressant d’établir des corrélations entre le lexique (c’est-à-
dire les ensembles se rapportant au lexique) et la syntaxe et la morphologie (c’est-à-dire les ensembles se rapportant a l’une et a |’ autre). Tout ce qui précéde tente de répondre à la question que je posais en commengant: est-il possible, sur la base du matériel repérable dans des fragments de courte ou de trés courte extension, d’avancer des hypothéses raisonnables, ou mieux, d’avancer des hypothéses selon la méthode scientifique sur l’univers des choix de langage et le style d’une oeuvre? Je ne dis pas d’un auteur, je ne dis pas de toute I’ oeuvre d’un auteur, pour des raisons évidentes: mais, en se basant sur l’hypothèse structurale, il est sans aucun doute légitime de supposer que d’un nombre suffisant d’échantillons l’on puisse dériver un ensemble d’éléments tels qu’ils définissent la signification et la fonction des choix de langue et de style opérés par un auteur dans la composition d’une oeuvre. Mais, comme j’ai tenté de l’expliquer, la réalisation de ce résultat, son im-
portance, son ampleur et son étendue, dépendent de la quantité et de la qualité
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du matériel repérable dans les échantillons. A ce sujet, l’extension moyenne de l’echantillon est particulièrement importante. Lotti
Ce que je viens d’exposer concernait le fragment parvenu par voie directe. Il peut étre traité comme un échantillon fortuit et offre toutes les garanties, quant aux constatations faites sur lui et aux déductions qui peuvent en étre tirées en vue de la reconstruction selon les probabilités de certaines caractéristiques de l’oeuvre disparue, toutes les garanties, dis-je, que les statisticiens attribuent a l’échantillon fortuit. Toutefois, il y a aussi dans la littérature grecque et latine des fragments qui nous sont parvenus par voie indirecte, c’est-a-dire par d’autres écrivains qui les ont cités, et qui ont donc été conservés dans les corps du texte d’une autre oeuvre. Ces fragments posent un probléme difficile: ils ne sont pas fortuits, car l’auteur qui les a insérés comme citation dans son ouvrage, en a considéré le plus souvent le còté lexical, mais aussi parfois l’aspect morphologique ou syntaxique. J’ai défini les trois points selon la théorie traditionnelle de la langue; toutefois, cela ne cache pas au lecteur leur importance par rapport a la formation d’un style. Le probleme consiste en ceci: est-il légitime de considérer l’élément, a cause duquel le fragment, ou mieux, le passage a été extrait de l’oeuvre à laquelle il appartenait (il s’agit précisément d’excerpta) comme correctement calculable dans les constatations des données? La reconstruction des caractéristiques de l’oeuvre disparue ne sera-t-elle pas faussée par des éléments dont la présence ne dépend pas du choix fortuit d’un échantillon? Que l’on considère le cas de fragments-excerpta conservés à cause de la présence en eux de formes vulgaires et archaiques par des grammairiens et des érudits de la langue latine. Une fois identifié l’auteur de l’oeuvre ou des oeuvres, d’où les excerpta ont été extraits, une fois vérifié quels fragmentsexcerpta proviennent de chaque oeuvre, une fois effectuées les constatations, faits les comptes et constaté que, dans le vocabulaire constitué sur la base des excerpta, sur cent vocables, douze présentent des formes archaiques et sept des formes vulgaires, il n’est pas possible d’en déduire que l’oeuvre d’où les excerpta ont été extraits, présentait, sur le total des vocables utilisés, 12% de formes archaiques et 7% de formes vulgaires. Et cela pour une raison trés simple: il n’est absolument pas certain que, dans les parties disparues, la distribution des vocables respecte les mémes valeurs; on pourrait méme supposer, a vouloir étre candide ou pessimiste, que dans les parties disparues il n’y avait aucune forme vulgaire ou archaique, et que celles qui ont été conservées étaient les seules. Ce sont 1a, disons-le, les cas limites: dans les parties dispa-
LE FRAGMENT COMME ECHANTILLON
TT
rues, ou bien pourcentages égaux a ceux des excerpta ou bien absence totale. Il est donc clair qu’il n’est pas légitime, vu l’intentionalité de l’excerptum (en ce sens que l’excerptum a été fait pour conserver, en tant qu’exemple, un élément linguistique jugé intéressant par l’auteur), de calculer la probabilité de l’élément a cause duquel l’excerptum nous est parvenu. Faut-il pour cela re-
fuser de prendre en considération
l’excerptum
en entier? Cette solution
d’exclusion radicale libérerait le chercheur de toute préoccupation; mais dans la plupart des cas, elle le libérerait aussi de la possibilité de mener des recherches sur des oeuvres fragmentaries; en effet, la majeure partie des oeuvres fragmentaires, qui nous sont parvenues de l’antiquité grecque et latine, sont précisément constituées par des excerpta et des citations. Mais d’autres solutions sont possibles: en premier lieu, procéder à une classification des fragments sur la base de l’élément qui en a provoqué la conservation: éliminer de la recherche les groupes de fragments, distingués par un élément révélateur des choix de langue et de style. Mais le résultat serait d’affaiblir précisément la reconstruction de ces choix; ou méme d’enlever tous les fondements ou la majeure partie d’entre eux au procédé statistique de reconstruction. Reste alors le procédé le plus efficace et en méme temps le plus économique, en ce sens qu’il permet d’utiliser au maximum les échantillons dans les limites des critéres de correction de la méthode statistique: partant de la répartition des fragments en classes, comme nous l’avons déjà mentionné, par rapport a l’élément qui en a provoqué la conservation et procédant a la constatation des données se rapportant aux caractéristiques de la langue et du style, but de la recherche, l’élément “intentionnel” ne sera pas considére au
cours de la constatation concernant cet élément, tandis que tous les autres éléments repérables dans le fragment seront relevés et auront leur juste poids dans la reconstruction des choix linguistiques et stylistiques. Procédant par exemple à la constatation des éléments aptes a déterminer les caractéristiques de la langue employée dans l’oeuvre perdue, ni l’archaisme, ni le vulgarisme, ni l’idiotisme etc. ne seront pris en considération, au cas ou ces éléments ont été la cause de la transmission du fragment,
alors que l’on se servira d’archaismes, de vulgarismes, etc. figurant dans le texte de fragments transmis pour d’autres raisons. Mais cet archaisme sera considéré non pas en tant qu’archaîsme, mais en tant, par exemple, que technicisme, au cas où, transmis comme archaîsme, il porterait aussi une signification technique et où, pour déterminer le modèle de langue employé, il conviendrait de rechercher aussi la présence de vocabulaire technique dans l’oeuvre perdue. En procédant ainsi, il est naturel que l’on ne tienne pas compte de manière
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
rigoureuse des exigences de l’hypothèse structurale; parce que, a vouloir étre des structuralistes rigoureux, il semble naturel de supposer que la présence d’un vulgarisme dans un passage n’ait pas été sans conséquences tant sur le choix des autres vocables que sur le choix des structures syntaxiques, des fi-
gures rhétoriques etc. Toutefois, si cette affirmation est raisonnable du point de vue structuraliste, bien qu’elle soit fondée plus sur un raisonnement intuitif que sur une preuve scientifique ou une démonstration empirique, il reste le fait qu’il ne semble pas y avoir d’ autre voie de sortie entre celle que je propose et l’exclusion du fragment tout entier. Du reste, l’exigence structuraliste,
mise de còté pour le moment, resurgira lorsque les résultats des recherches et des constatations sectorielles seront reliés. On constituera, par exemple, des tables, où la donnée lexicologique recontrera la donnée syntaxique, cette dernière la donnée métrique, celle-ci la donnée rhétorique etc. Il est naturel que le vide créé par l’exclusion d’un élément ne sera pas rempli par cette opération structurale successive; mieux vaut cependant pécher par omission que par exces.
FUNZIONI DELLA RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO”. (In appendice il lessico luciliano del reale). Nota di ADRIANO PENNACINI presentata dal Socio corrispondente Italo LANA nell’adunanza del 21 Novembre 1967
N
Riassunto. — /n questa ricerca, che è continuazione e complemento di quella pubblicata nel vol. 100 (a. 1965-66, pp. 293-360), l’A., mediante analisi linguistica e stilistica di alcuni frammenti di L., scelti per ampiezza e significatività, esamina i procedimenti con i quali L. demistifica e ricupera vocaboli e oggetti, apre canali di ricezione da aree culturali diverse. L’esito di questi procedimenti fu la rappresentazione di un’area di realtà fisica e psichica che stava fuori del sistema etico e culturale dei Romani e che o non era recepita o era recepita come sede dei non-valori. L’effetto più impressionante di rottura con i modelli del mos e della doctrina è prodotto dalla rappresentazione degli elementi del processo attraverso il quale, storicamente, molti Romani e Italici lasciarono l’anonimato della condizione plebea per divenire individui: denaro, oggetti (posseduti e fruiti; quindi anche artes ac negotia), corpo (come elemento reale e realisticamente sentito e assunto). Proprio perché sia possibile misurare qualità e quantità di queste presenze, l’A. ha fatto seguire alla ricerca quello che in realtà è stato la base della ricerca: un lessico dei verba cuiu-
sque artis ac negotia propria, un vocabolario del corpo umano e delle bestie, e infine, perché sia possibile anche misurare la presenza dell’illustre e del tecnico-volgare nella lingua, un lessico dell’uno e dell’altro.
Già Frontone!, sensibile e ghiotto esploratore del vocabolario degli antichi scrittori, aveva notato la presenza nell’opera di Lucilio di verba cuiusque artis ac negotii propria, e ne aveva apprezzato l’eleganza dell’esito stilistico. Grammatici e studiosi della lingua di età tardo-antica vi trovarono abbondante materiale per osservazioni lessicali: vocaboli rari, forme scomparse dall’uso, volgarismi; tanto che parecchi frammenti sono in realtà excerpta del testo trasmessi proprio in considerazione di quei fatti linguistici. Il lettore che conosce il lessico del latino classico, accostandosi al testo dei frammenti, vi
scopre subito questa caratteristica, per le difficoltà di comprensione che incontra:
il lessico letterario e illustre della lingua latina, che è il nucleo di
quanto gli scrittori hanno tramandato, non è sufficiente. Nel controllare i vocaboli sui dizionari si leggono comunemente rimandi a scrittori de re rustica: Catone,
Varrone,
Columella;
di satire:
Varrone,
Orazio,
Persio,
Petronio,
* “AAT” 102, 1968, 311-435. 'M. CORNELII FRONTONIS, Epistulae, ed. M.P.J. Van den Hout, 57, 7 [libr. IM 3, 2].
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Giovenale, Marziale; di commedie: Plauto, Terenzio; scientifici: Plinio, Celso, Firmico Materno; tecnici: Vitruvio; di medicina: Sereno Sammonico, e co-
si via. E da questa osservazione appare che la rarita del lessico di L. é relativa al tipo di vocabolario che ha le maggiori frequenze nei testi letterari. Il fatto che vocaboli presenti in L. abbiano basse o bassissime frequenze nella letteratura latina, ma siano testimoniati nei pochi testi tecnici e scientifici e in
quelli satirici e comici significa, senza dubbio che essi non erano recepiti in ragione del livello sociale, dove venivano usati, e della realtà materiale cui facevano riferimento. La lingua illustre della società colta romana ha respinto quei vocaboli, ha simulato di non conoscerli e di ignorare la gente che li usava. La lingua umile dunque là dove compare è un segno certo di una consapevole attitudine culturale nei riguardi o delle cose o degli uomini del mondo umile. Non si vuol con ciò dire che eguali siano le motivazioni della ricezione di vocaboli umili e tecnici per tutti gli scrittori che ne fanno uso. Come sanno gli statistici della lingua, la frequenza di determinate classi di vocaboli dipende soprattutto dai temi trattati. L'osservazione tuttavia vale più per il vocabolario tecnico che per la lingua volgare di tutti i tipi; e anche per i vocaboli tecnici vale nel caso appunto di opere esplicitamente tecniche-scientifiche. Ma nel caso di opere satiriche, come quelle di L., Varrone, Petronio, ecc., è
chiaro che bisogna dedurre dalla presenza di lingua volgare e di tecnicismi un’aspirazione dell’autore alla rappresentazione realistica’; ma bisogna anche porsi il problema della funzione stilistica che assolve nella rappresentazione realistica la presenza del vocabolo volgare o tecnico; il problema dell’effetto che la lingua umile e i tecnicismi producono nella struttura dell’opera o del discorso; il problema del significato che la rappresentazione realistica assume nel contesto letterario e culturale del tempo. Infine, o forse per cominciare, : bisogna porsi la domanda: a quale realismo aspira l’autore? Tale realismo implica un diverso modo di considerare l’uomo e la società, l’individuo e i suoi rapporti con la comunità? indica una proposta di sostituzione dei valori accettati dalla società, e sui quali la società si regge, — se non di tutti, di alcuni, e allora quali —
con valori diversi? E in che cosa consiste questa diver-
sità? A mio parere, la scelta del lessico, dei moduli, dello stile da parte di L.? risponde alla volontà di ecferre versum ex praecordiis*: cioè lessico, moduli,
° Cfr. A. RONCONI, L. critico e poeta, “Maia” 1963, 515-525. > Cfr. A. PENNACINI, Docti e crassi nella poetica di L., “AAST”
100, 1965-66, 311-317, sui
vv. 386-388 M ( = 408-410 TR). 4 V. i ww. 590-591 M ( = 633-634 TR); cfr. J. R. C. Martyn, Imagery in L., “Wissenschaftliche Zeitschrift der Universitat Rostock”, Jahrgang XV 1966, Heft 4/5, 499-500: ‘I suggest’ that ex praecordiis means the innermost secrets of the satirist’s heart...; e anche la n.
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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stile sono realistici nel senso che aboliscono gli effetti idealizzanti o mortificanti della tradizione culturale (politica, etica, letteraria) illustre sulla rappresentazione di uomini, istituzioni, cose. E l’abolizione di questi effetti viene conseguita mediante la mistione dei lessici, dei moduli, degli stili: combina-
zione quindi di moduli retorici e aulici, figure, vocaboli dotti di ogni genere con elementi realistici — volgarismi e tecnicismi di ogni origine — a fine di demistificazione sia della lingua illustre (l’autentico contro l’illustre) sia delle rappresentazioni che la lingua illustre propone. Appunto la demistificazione della lingua illustre — la distruzione dei suoi effetti — richiede l’uso dei vocaboli tecnici e umili. Sincerità, franchezza, immediatezza di espressione? Si-
gnificano in concreto sul piano della lingua e dello stile la scelta di vocaboli forniti di una sfera denotativa ben circoscritta, e di moduli che assicurino la piena esplicazione di tali denotazioni. Ma questi sono i vocaboli tecnici, i soli che portino una ben netta denotazione; e ancora: i vocaboli tecnici umili, perché quelli illustri sono mistificati dalle connotazioni che li fanno illustri. Accanto a questi i vocaboli umili non appartenenti a sfere tecniche, forniti si di connotazioni, ma pertinenti, direi, a quel sensuale commercio con il reale, che è elemento primario del vivere più degli umili che degli illustri, più degli indocti che dei docti, ma in realtà di quegli uomini che, docti o indocti, hanno quell’ingenium che è il senso e il gusto del ricco, polposo, colorato mondo dei viventi e degli oggetti. Quindi all’analisi del procedimento demistificatorio, sul piano lessicale e stilistico, deve seguire l’analisi del procedimento,
lessicale e stilistico, di ri-
cupero del lessico del reale, che implica, naturalmente, il ricupero alla cultura di una conoscenza più storicamente autentica del reale®. La satira di L. non è dunque — semplicisticamente — arcigna — pur per la via del comico-parodistico — castigatio morum, secondo il precetto oraziano castigare ridendo mores, degli individui o dei tipi, ma anche — e con particolare energia — proposta di una apertura e di una revitalizzazione della cultura letteraria romana del II sec. a. C., mediante l’approccio senza pregiudizi e senza filtri deformanti a quell’area di attitudini psichiche e di realtà oggettive, che L. designò indicando come suoi lettori i crassi!.
52: ‘... the word may have special significance where satirist are involved’. Cfr. A. PENNACINI, op. cit., 319-321. 5 Cfr. W. KRENKEL, Zur literarischen Kritik bei L., “Wissenschaftliche Zeitschrift der Universitat Rostock”, 7 Jahrgang 1957-58, Heft 2, 264 (dicere verum).
V. W. KRENKEL, op. cit., 264. ? Cfr. p. 80 n. 3.
82
FORME DEL PENSIFRO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
I vv. 422-424 M (= 448-450 TR) appaiono idonei ad illustrare le operazioni che L. compie nella sfera della lingua e in quella dello stile per conseguire l’effetto satirico. L’esame di questi versi contribuisce anche ad illuminare natura e significato della satira di L. Cassius Gaius hic operarius, quem Cephalonem dicimus, sectorem furemque, hunc Tullius Quintus iudex heredem facit, et damnati alii omnes
In tre versi lo stesso fatto viene considerato da quattro punti di vista diversi; da principio la persona sulla quale è il discorso: Cassius Gaius hic operarius. Il nome gentilizio in prima sede seguito immediatamente dal praenomen assicura con precisione anagrafica l’identificazione della persona; il dimostrativo hic lo segnala in tono declamatorio con un gesto risoluto e vivace; operarius, in terza sede, comincia a qualificarlo con la determinatezza e il colore dei tecnicismi umili, quando siano usati per la sfera connotativa sociale-culturale di cui talvolta sono latori®. Poi il modo con cui la gente che lo conosce (noi) lo vede e lo chiama: cioè reputazione della persona: quem Cephalonem dicimus, sectorem furemque. A questo punto con un vigoroso anacoluto, bene rispondente all’efficacia dell’apertura del discorso — apertura che appunto resta isolata, priva di nessi sintattici (salvo il quem etc.) con il contesto —, marcato dall’epesegetico hunc, l’attenzione è attirata sull’autore o responsabile del fatto: Tullius Quintus iudex. Il parallelismo evidente di questa frase con l’apertura del passo sottolinea con acre ironia il nesso tra i due uomini, anche se — anzi, appunto perché — le rispettive qualificazioni (iudex-operarius) non sono né sul piano delle denotazioni né su quello delle connotazioni omogenee. Segue, e fa tutt'uno con quanto precede, la menzione, sobria e concisa, del fatto: heredem facit; la frase è un calco di stile giuridico (tanto più chiaro, se, come
il senso richiede, vi leghiamo iudex), senonché
l’heredem era già stato definito da hunc, riassuntivo di un verso e mezzo di ingiurie, efficace ed espressivo sia per la posizione che occupa sia per il contenuto cui allude. Altro parallelismo vi è tra hunc heredem facit e quem Cephalonem dicimus, di effetto anche questo acremente ironico. Ancora un elemento di stile: i rapporti tra G. Cassio e Q. Tullio sono nettamente segnalati dalla posizione di perspicua opposizione dei nomi dei due uomini nel rispettivo verso: l’uno in principio, l’altro in fine. Ultimi entrano in scena — comicamente, ma la comparazione implicita suscita un effetto indubbiamente e seriamente satirico — gli altri, che si aspettavano — a buon diritto, o, almeno,
con lo stesso diritto di G. Cassio — di partecipare all’eredità: et damnati alii gua
gas
see
3
no
5
Si pensi in italiano a un certo uso di “carrettiere” o “facchino”.
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
omnes.
Pur servendosi di un verbo —
damnare
—
83
tecnico’, il cui uso evi-
dentemente è suscitato dal richiamo dei vocaboli e della locuzione specialistici precedenti, tuttavia L. vi fa seguire una locuzione di stampo colloquiale — alii omnes —"®, e la inserisce nel discorso con un espressivo et. Qui appunto appare la coordinazione come mezzo stilistico affettivo, carico di forza e di emotività. Un cum avrebbe segnato il nesso tra la frase in questione e la precedente,
ma
l’et,
svincolando
l’affermazione
dal
contesto,
consente
allo
scrittore di caricare il fatto di costernazione non priva di uno svelto sberleffo. Accanto alla coordinazione anche il mutamento di soggetto opera nel senso di isolare il fatto e di chiedere al lettore di concentrarsi su di esso!!. I tre esametri hanno tutti la cesura pentemimera, la più comune e la più convalidata dalla tradizione, una cesura che consentì la costruzione di un tipo
di esametro di una limpida e armoniosa musicalità. Ma L. tratta questo verso con la più fine malizia! cioè riesce a far entrare in questo schema metrico un
discorso composto di moduli del colloquiale e del gergo giuridico abilmente manipolati. La distribuzione dei vocaboli nelle sedi metriche produce alla lettura un andamento spezzato o precipitoso, che è concretamente un tipico carattere — emotivo — del colloquiale. L’effetto è provocato o dalla coincidenza della fine del vocabolo con la fine del piede, o dall’estensione del vocabolo — operarius, p.e., di cinque sillabe, occupa un dattilo e mezzo —, o dall’elisione: damnati alii omnes, dove lo scherno è rappresentato anche sul piano fonico dalla rapidità che la lettura metrica impone alla frase. Le cesure inoltre conferiscono lo spazio necessario perché i vocaboli abbiano il risalto che il loro significato e la loro funzione stilistica richiedono: la pentemimera del v. 422 cade tra hic e operarius, lasciando a hic il tempo di sviluppare la sua efficacia gestuale e declamatoria e preparando quel vuoto che verrà riempito pesantemente da operarius; la pentemimera del v. 423 separa sectorem da furemque, impedendo che i due vocaboli facciano sul piano semantico una unità e lasciando quindi a sectorem, che del resto porta due accenti metrici,
un forte rilievo, corrispondente alla spigolosa sonorità del suo valore ingiurioso: furem, dopo la pausa, compare a concludere riassumendo con precisio? Nonio, 276, 22, trasmettendo il passo, spiega: damnare est exheredare. !0 Locuzione che finirà per entrare nell’uso anche dei buoni scrittori, come Cic., ma appunto nei testi di stile colloquiale: di fatto è un solecismo, per ceteri.
!! Del resto, come chiaramente mostra I. MARIOTTI, Studi luciliani, Firenze 1960, 81 sgg., L. fu avverso alla retorica gorgiana e ai parallelismi: perciò, se se ne serve, non lo fa per eleganza; inoltre questo fr. mostra che L. curò poco anche la logica formale della sintassi, quando una violazione della sintassi favorisce l’espressività. 2 O, come voleva Orazio, stans pede in uno, 0, come forse lui stesso, per polemica professione di semplicità — fatta tuttavia con marcata nonchalance — scriveva: evadat saltem aliquid aliqua, quod conatus sum, 632 M (= 656 TR).
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
ne giuridica l’opinione dei conoscenti su G. Cassio, ma, legato per via di elisione attraverso l’enclitica que a hunc, il quale, a sua volta, essendo la se-
conda sillaba di uno spondeo, è sostenuto dall’ultima sillaba di furem, apre anche sul piano metrico come su quello semantico il passaggio al personaggio del iudex; questo, poi, occupa la prima sede del v. 424, mentre heredem, il vocabolo di maggiore importanza per quanto riguarda il fatto narrato, cade in cesura pentemimera: heredem/facit; il primo emistichio ha un andamento metrico solenne, pari alla serietà delle due parole, che sopportano — in cinque sillabe complessive — ben tre accenti, e heredem ne porta da sola due. Ma l’andamento lento e serioso cessa repentinamente dopo la cesura: facit è atono e appoggia su et; il secondo emistichio (dell’ultima frase ho già detto) precipita rapido e schioccante. Ho già notato gli elementi volgari-espressivi presenti in maniera vistosa e con effetti coloriti nella sintassi del fr. Anche nella sfera del lessico appaiono elementi volgari, tecnici, gergali: operarius, Cephalonem, sectorem. Il primo (operarius) è un tecnicismo umile: esso designa l’uomo che vende la sua forza-lavoro, ma non contiene alcuna altra qualificazione che illumini sulla tec-
nica mediante la quale questa opera sarà applicata: si tratta quindi di un uomo senz’arte, appunto di un manovale a giornata, 0, come oggi si dice, di personale non qualificato!; Cephalonem, da una parte, in quanto soprannome di G. Cassio, può essere considerato elemento di un gergo di una cerchia ristretta (= capoccione); e in favore di questa interpretazione sta l’osservazione di I. Mariotti": Cephalo=Capito. Non si comprenderebbe, se non nell’ambiente
bilingue dell’oligarchia
romana,
il gusto della traduzione
in
greco di un soprannome assai più perspicuo e quindi significativo nella sua forma latina. Dall’altra, tuttavia, per il contesto semantico nel quale è collocato (C. dicimus, sectorem furemque),
esso rimanda
ad un personaggio
del Satiricon,
15: ... nescio quis ex cocionibus, calvus, tuberosissimae frontis, invaserat pallium ... Ceterum apparebat nihil aliud quaeri nisi ut ... vestis inter praedones strangularetur ... Si tratta di un ladro, che tuttavia si impadronisce della roba altrui adducendo pretesti giuridici; del resto solebat aliquando etiam causas agere. La descrizione di questo truffatore punta sulla forma e sulle dimensioni della testa: calvizie e bozze e bitorzoli sulla fronte. Una testa
notevole e mostruosa, indizio, evidentemente, della sua furberia e cattiveria. Sectorem furemque: locuzione composta nella quale è collocato prima l’elemento particolare, poi quello generale. Fur è, per così dire, il concetto o 13 D'accordo che Cic. Tusc. 5. 104 interpreti il vocabolo come significante homo barbarus: ma questa è una connotazione, che, in ogni caso, nasce sul terreno di una precisa denotazione.
14 Op. cit.,75 n. 1.
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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addirittura la definizione legale di una persona in rapporto ad una sua azione o attività; sector è la precisazione della particolare tecnica o specialità del ladro. È un tagliaborse”. L. colloca prima il particolare, poi il generale, prima il concreto e poi l’astratto. Il procedimento sectorem furemque, cui può anche essere connessa la menzione di operarius, seppur remota e sintatticamente non legata, rispecchia l’attitudine mentale di chi comincia a conoscere dalla percezione del sensibile e di lì risale alla concezione del razionale. L'introduzione di fur apre la via, pur se il passaggio, come già notato, è fortemente segnato sia dall’anacoluto sia dall’epesegetico hunc, al discorso tutto di concetti che segue: iudex heredem facit et damnati etc. L'adozione di vocaboli e costrutti del linguaggio giuridico conferisce alla frase quel tanto di decoro, che, senza sollevarla allo stile alto, la separa da tutta la parte precedente (Cassius — furemque), provocando così, per l’iniquità della deliberazione che vi è enunciata, l’effetto demistificatorio, che è il primo e fondamentale gradino della castigatio morum, a carico non di G. Cassio, ben noto per l’inettitudine e la disonestà, ma del giudice Q. Tullio, evidentemente anch’egli uomo che, come Lupo, nitidus ... per ora cederet ... introrsum turpis. L'effetto demistificatorio è realizzato proprio sul piano dello stile, mediante l’ironico raffronto —
ironia nera, come quella della vera satira —
delle
qualificazioni ufficiali della posizione di Q. Tullio (per così dire, con toga, parrucca e tocco) iudex, che heredem facit (nomina erede), con quelle non ufficiali, ma vere e verificate dall’esperienza (quem C. dicimus, s. f. que) di G. Cassio. Questo raffronto, questo urto avviene nella sfera lessicale e sintattica tra due strati linguistici diversi, non di per sé inconciliabili, ma nella sostanza eterogenei; uno dei quali (sermo vulgaris e verba cuiusque artis ac negotii propria), inoltre, viene espressamente opposto all’altro. In realtà l’urto si rivela nella sfera lessicale e lì sviluppa i suoi effetti, producendo il discorso della satira, della demistificazione, ma anche prospettando, sempre attraverso il trattamento cui le parole — certe parole — vengono sottoposte nelle combinazioni sintattiche e nei giochi stilistici, una via di redenzione dell’individuo mediante il ricupero dei significati autentici dei vocaboli, cui non può non corrispondere il ricupero dei valori e dei criteri etici. Nei vv. 422-424 dall’accostamento e dalla comparazione sia sul piano linguistico sia su quello personale di G. Cassio con Q. Tullio, attraverso il racconto del nesso che li
'S In realtà tagliaborse è il sector zonarius: cfr. PLAUT. Trin. 862; sector è anche vocabolo giuridico designante colui che prende parte alla spartizione dei beni di un proscritto; v. per es. Cic. p. Sex. Roscio Amer. 36, 103. Ma la connotazione ingiuriosa del vocabolo in questa accezione difficilmente può esser nata prima dell’età delle proscrizioni mariane e sillane; i moti graccani e le repressioni che li seguirono non provocarono proscrizioni.
86
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
ha occasionalmente posti a contatto, la persona di Q. Tullio esce demistifica-
ta; ma il ricupero opera sul vocabolo iudex: un iudex non avrebbe mai agito come Q. Tullio; il lettore è sollecitato a pensare all’ officium di un iudex, cioè al significato autentico della parola, al di 14 del suo suono e della immagine di veneranda onorabilita che essa, per antica, remota consuetudine suscita, e quindi alla virtù che deve risiedere in un uomo che sia chiamato a indossare la veste del giudice. Meno forte è la sollecitazione al ricupero del significato autentico di damnare, perché esso è già compreso — implicito — nel procedimento cui è sottoposto iudex e perché nel contesto il vocabolo — damnati — gioca un ruolo di rinforzo ironico. huic homini quaestore aliquo esse opus atque corago publicitus qui mi atque e fisco praebeat aurum Come nei vv. 422-424, così anche nei vv. 428-429 (= 453-454 TR) si tro-
vano tecnicismi politici, e quindi — almeno a Roma — portatori di un decoro, se non letterario, almeno sociale, tecnicismi del mondo degli affari, e perciò umili, anzi —
a Roma, e non solo a Roma —
decisamente volgari; e tutti
e due interpretati maliziosamente secondo i criteri di un gergo furbesco; collocati in una frase dove un elemento spicca: l’io; e proprio i moduli e la maniera, con cui la prima persona viene indicata, sono, almeno in parte, espressivi e popolari. Questo materiale — lingua e cultura — è organizzato in un discorso chiaro e disteso: colloquiale è senz’altro la sovrabbondanza lessicale (quaestore — corago; publicitus — e fisco), ma stilisticamente significativa; e questa distesa e aperta espressività è trattata secondo criteri stilistici apparentemente alti: elementi uniti per il senso vengono spezzati e collocati, seppur nello stesso verso, a notevole distanza tra loro; il secondo verso si apre con publicitus, che in realtà fa tutt'uno —
addirittura è sinonimo —
con e fi-
sco (p. atque e f.), press’a poco come quaestore atque corago nel primo verso. Un ironico gioco di corrispondenze e di parallelismi lega i due versi: ad huic homini del primo risponde mi nel secondo; ma mi è in seconda posizione, mentre huic homini occupa la prima; del resto a quaestore in seconda corrisponde publicitus in prima; a corago, ultima sede del v. 428, corrisponde e fisco, ultima precisazione tecnica prima della dichiarazione finale, che giunge non inaspettata, tuttavia sufficientemente pesante per la presenza sia di praebeat, vocabolo in questa accezione di uso specialistico, sia di aurum, vocabolo carico di decoro e di prestigio sociale e letterario. Mi pare che vi siano in questo frammento due elementi, che L. ha trattato sul piano dello stile in maniera diversa: la prima persona e il denaro; quest’ultimo è visto, attraverso le parole di chi parla, in una prospettiva che lo integra allo Stato.
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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Il modulo, nel quale la prima persona compare all’ attenzione del lettore, è una notevole combinazione di un elemento popolare-espressivo (homini) con un elemento retorico (huic, con funzione epidittica). E l’apertura del discorso é appunto huic: il tono declamatorio e di pretesa letteraria indica che il personaggio comincia a parlare con l’intenzione di tenere un tono alto, quale evi-
dentemente pensa sia opportuno in relazione al discorso che vuol fare. Ma subito la sua natura impulsiva e la sua incultura prevalgono, ed egli prosegue con homini, che esibisce ben chiara la sua matrice nel sermo vulgaris. L’espressivita della locuzione, derivante si dalla presenza dell’elemento volgare, ma soprattutto dalla composizione vivacemente eterogenea, è intensificata dalla posizione iniziale nel verso e dal fatto che una cesura tritemimera la separa dal resto del verso. Il verso chiede di avere la sola tritemimera, che
divide le due parti che realmente vogliono essere divise. Il v. 429 ha anche esso una cesura tritemimera, dopo publicitus, che per una sfera di significati sia denotativi sia connotativi è legato e in parte opposto a huic homini; e una cesura bucolica (e fisco/praebeat): che, anche se non così rilevatamente espressiva come la tritemimera del v. 428, assolve alla funzione di concludere tutta la prima parte del fr. (huic homini-e fisco), lasciando una breve pausa perché vi abbia spazio la dichiarazione finale praebeat aurum. Dalla combinazione dei tecnicismi illustri e umili e dei volgarismi — di connotazione: accezioni furbesche di vocaboli —, integrata, come è ovvio, dal gioco delle strutture delle frasi e dei versi, deriva quel procedimento provocatorio che isola e tira alla luce le aree mistificate e isterilite della lingua, in-
dicando in che cosa consista la mistificazione e la mortificazione del vocabolo e dell’oggetto che esso designa; e sollecitando quindi da una parte l’assunzione, a livello di accettazione consapevole, di una realtà umana,
so-
ciale e linguistica nella quale verso le gerarchie e verso lo Stato non corrono quella riverenza e quel rispetto che una remota tradizione etica-politicareligiosa vorrebbe; dall’altra il ricupero del significato pieno del vocabolo in una nuova più vera, più viva realtà umana, sociale e linguistica, anche se diversa da quella sognata dai lodatori di Camillo e di Curio Dentato. Quaestore è senza dubbio un tecnicismo illustre; con tutta la forza concettuale, la determinatezza e il peso di un vocabolo portatore di una ben pre-
cisa denotazione semantica: una istituzione che si incarna di volta in volta in un uomo. Per altro la specificità del vocabolo è trivialmente ridotta all’indefinito aliquo, il quale insieme denuncia quel po’ di titubanza che il personaggio prova nell’usare vocaboli illustri e nel tentare di attingere quel tono alto di cui ho già accennato. Poi, nuovo conato di un tono di importanza,
segue esse opus, non per nulla sintatticamente legato a huic homini: la locuzione, anche se ben presto entrata nel colloquiale, vi conservò una sua colo-
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FORME DEL PENSIERO.
STUDI DI RETORICA CLASSICA
ritura pretenziosa. L’infinito, qualora nei versi che precedevano non vi fosse stata alcuna reggenza, sarebbe un elemento popolare-espressivo!°. Staccato di alcune parole segue corago, che completa e insieme comincia a precisare come vada inteso quaestore. Coragus!” è l’impresario responsabile della amministrazione dei fondi messi a disposizione dallo Stato, per mezzo degli edili, per gli spettacoli teatrali, e più in generale il finanziatore di qualsiasi intrapresa. Si tratta di un vocabolo assai preciso, un tecnicismo nel quale l’assenza del prestigio storico-politico, che è ben evocato da un vocabolo come quaestor, e la sua origine greca!* consentono che la sfera delle connotazioni sia quasi del tutto eliminata a vantaggio di una precisa denotazione, della quale per suo carattere è portatore un vocabolo tecnico. L’unica connotazione che il vocabolo porta è legata proprio alla sua origine: yYoonyog era in Atene il cittadino ricco al quale toccava di provvedere il compenso e la spesa di preparazione di un coro per la rappresentazione di una tragedia. E quindi, almeno per noi, coragus evoca la tragedia e le feste e il teatro di Dioniso; ma si tratta di una connotazione fievole, e molto probabilmente presente più a noi che ai Romani degli ultimi decenni del II sec. a. C. Accanto all’efficacia denotativa del vocabolo
doveva,
a rinforzo,
giocare sì una
connotazione,
ma
evocativa di una sfera di prestigio tecnologico, quale senza dubbio accompagnava i vocaboli tecnici greci. I Greci debbono essere apparsi per molte generazioni, a Romani e Italici, come i possessori di tecniche progredite ed efficienti, pertinenti a parecchi aspetti del vivere e dell’operare umano civilizzato. I frammenti di L. non sono piccola testimonianza della quantità considerevole di vocaboli greci entrati nell’uso corrente. Dunque, tecnicismo illustre quaestor, ricco di connotazioni, attenuate tut- .
tavia da una trivializzazione (aliquo); tecnicismo umile coragus, con una sua precisa sfera denotativa e una connotazione che, in luogo di attenuarla, la rin-
forza. La forza della connotazione pertinente al prestigio storico-politico di quaestor appare evidente al principio del v. 429, dove certamente la presenza di publicitus!, è stata sollecitata proprio dalla sfera connotativa di quaestor, la quale, molto genericamente, è la maestà dello Stato. Mentre questo vocabolo evoca il tesoro dello Stato, coragus produce l'apparizione di fiscus (e fisco), che è appunto anch’esso un vocabolo tecnico fortemente denotativo in origine assai umile (cesta), poi, quando la cesta dello Stato si colmò, allora 16 Cfr. J. B. HOFMANN, Lateinische Umgangssprache, Heidelberg 1951, § 55, 50-51.
!7 Cfr. LI MARIOTTI, op. cit., 61 sg. 18 Origine volgare, non dotta: parrebbe strano che fosse dotto un imprestito dal dorico; gli ellenismi dotti sono attici. !° Preclassico e forse volgare — arcaismo o volgarismo, questione pur sempre aperta, cfr. A. RONCONI, Arcaismi 0 volgarismi, “Maia” 1957, 7-35 — attestato in Ennio una volta e frequente nei Comici in luogo di publice che lo soppiantò nel I sec. a. C.
RAPPRESENTAZIONE
meno
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
umile, ma pur sempre infinitamente meno
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illustre di publicitus, che,
come publice, rimanda a res publica. Tra publicitus ed e fisco compare, a ricordare con sommessa petulanza huic homini del v. 428, mi. Ed è anche que-
sta una forma volgare, che, mentre la ricorda, sostituisce la composizione retorica-popolare che denunciava le fallite pretese del parlante. Infine, a concludere sia sul piano dello stile sia su quello del discorso, ecco praebeat aurum, che regge mi: e sono i due argomenti principali, io e il denaro. Unito a publicitus e ad e fisco, praebere aurum appare una locuzione tecnica del gergo politico-burocratico, alla quale la menzione di aurum in luogo di aes, pecunia o nummi o altro offre il sostegno di una sfera connotativa portatrice di un decoro nobiliare e letterario”. Colui che parla è senza dubbio un uomo d’affari; nella sua mente vi è un
valore, grosso e fondamentale, il denaro; e un criterio (un punto di riferimento), secondo il quale le cose e gli uomini assumono un senso: il suo Io. D'altra parte è anche chiaro che l’individualità di questo personaggio assume un senso e una realtà nella misura in cui le istituzioni dello Stato — i centri del potere: e per lui il potere è il denaro — entrano in rapporto con lui 0 comunque gli stanno di fronte, ponendosi, ai suoi occhi, come le fonti dei condi-
zionamenti più significativi del suo esistere. Il commento migliore a questo discorso è offerto dallo stesso L., v. 1120 M (= 1154 TR): tantum habeas, tantum ipse sies, tantique habearis. Naturalmente qui l’antico rapporto tra il cittadino e lo Stato, secondo il quale il cittadino tutto doveva allo Stato, perché tutto aveva ricevuto da lui, è completamente mutato: la realtà è che attraverso lo Stato passa la via del denaro e della ricchezza — ed è la ricchezza che fa crescere l’io —: gli appalti di ogni genere furono lo strumento che sol-
levò molti umili Romani dall’anonimato della plebe all’individualismo degli equites. Ora, chi ha denaro ha potere di acquistare oggetti: il denaro non è altro che la traduzione concettuale del possesso e della fruizione delle cose. La diffusione dell’individualismo a Roma e in Italia nel corso della seconda metà del II sec. a. C., dove non passava per i libri — e di libri ce n’erano pochi —, passò per il denaro (il denaro fa l'io), e anche così fu non soltanto un avvenimento psichico, ma anche in grosso progresso di cultura. Nella mente del personaggio un quaestor è classificato, perché possa essere utilizzato e, quindi, compreso, accanto ad un coragus, e lo Stato (publicitus) e il tesoro (fiscus) sono davvero delle ceste dalle quali egli possa, pur per mezzo d’altri — strumenti, quindi, accettabili nella misura in cui soddisfino ai suoi bisogni attingere. I finanziamenti statali (praebere aurum), poi, entrano nella realtà di una concreta e attuale verifica solo se si traducono in denaro che gli venga versato in mano.
2° Cfr. Pimp. Ol. 1, 1 sgg.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
L’assunzione del denaro come di un-elemento che condiziona l’ingresso dell’individualismo nella storia sociale dei Romani appare in questi versi strettamente connessa con un profondo e brutale mutamento dell’ attitudine dei cittadini — o di parte di essi — verso lo Stato. Il sentimento dello Stato — l’adesione totale del cittadino all’etica comunitaria — comincia a indebolirsi non soltanto ad opera degli intellettuali di formazione ellenistica. Tali sono le soggettive condizioni etiche e culturali di un anonimo personaggio, sentito, io credo, come rappresentativo di un momento sociale e culturale : il publicanus, o forse, secondo una interpretazione più comicamente satirica, il decoctor. L. le ha fatte emergere combinando tecnicismi illustri e umili, volgarismi di accezione, lessicali e morfologici, in una frase dove la distribuzione e la successione dei vocaboli si allontana dalla consuetudine del più banale colloquiale solo nella misura in cui risponda da una parte alle richieste di espressività del personaggio, dall’altra alla aspirazione, seppur tenue e per L. insulsa, del medesimo a un decoro letterario, che si traduce in un debole conato di costruire un paio di parallelismi. L. ha rappresentato l’aspetto significativo e caratteristico di una condizione soggettiva, nella quale si manifestò l’individualismo, secondo criteri realistici nella scelta sia degli oggetti da rappresentare sia dei mezzi linguistici della rappresentazione. Un effetto propriamente satirico deriva, come è ovvio, dalla mistione degli strati linguistici e anche da quella degli stili; mistioni che qui producono risultati sia comici sia demistificatori, e indicano il procedimento attraverso il quale L. da una parte mette a prova la solidità semantica dei vocaboli illustri, dall’altra sollecita il lettore a conoscere — se non ad accogliere — una sfera di attitudini psichiche e di condizioni soggettive estranee alla tradizione (mos maiorum), e a ricuperare, a prezzo di una personale esperienza — se non operativa — almeno linguistica, il significato autentico del vocabolo (sia quaestor sia publicitus), estraendolo così dal glaciale irrigidimento del gergo politico-burocratico come dalla mortificazione e riduzione che vi opera un uso triviale e furbesco.
Satira e realismo, almeno in L., vivono insieme, si integrano reciprocamente; direi, anzi, sono due aspetti, per L. beninteso (per gli altri scrittori di satire, Orazio, Persio, Giovenale, il discorso è diverso —
e diverso per cia-
scuno di loro), della medesima attitudine conoscitiva, interpretativa e critica della società romana e italica del tempo. La mistione degli stili e quella, di cui ho già fatto cenno, degli strati linguistici — che, d’altra parte, è un elemento indispensabile per l’attuazione della prima — contengono già, naturalmente in relazione ai criteri e ai moduli che presiedono ad esse, i fondamenti dai
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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quali deriva il conseguimento sia del fine della satira, sia dell’ effetto — ricupero o apertura — realistico. Tale attitudine investe, come è noto, non solo le manifestazioni della vita sociale e individuale, ma anche, e con notevole irriverenza, le tradizioni cultu-
rali e letterarie più venerande. Tuttavia anche in questo caso il discorso non è meramente letterario, ma l’argomentazione demistificatoria è svolta ricorrendo appunto a quelle mistioni, di cui ho detto, di modo che il risultato non è una semplice critica razionalistica conclusa con un rifiuto del mondo epicotragico, delle sue cristalline e incontaminate idealizzazioni, delle sue intensificazioni e sublimità stilistiche; ma consiste nell’indicazione di una realtà umana, magari solo corporea — anzi, è proprio questa presenza e questo senso del reale corporeo a provocare, con tutto il suo peso e con un tagliente e greve sberleffo, la distruzione del sublime epico-tragico — da acquisire come irrinunciabile dimensione della conoscenza dell’uomo. Un esempio caratteristico di questi vari aspetti è nei vv. 540-546 M (= 570-576 TR), dove il materiale lessicale e le strutture sintattiche provengono da strati diversi, divergenti, addirittura, nel sentimento del parlante, opposti e violentemente contrastanti. num censes calliplocamon callisphyron ullam non licitum esse uterum atque etiam inguina tangere mammis, conpernem aut varam fuisse Amphitryonis acoetin Alcmenam, atque alias, Helenam ipsam denique... nolo dicere: tute vide atque disyllabon elige quodvis xovonv eupatereiam aliquam rem insignem habuisse, verrucam, naevum, punctum, dentem eminulum unum?
Il passo si apre con num censes: l’intero periodo (7 versi) è sostenuto da questa falsa interrogazione; e non è qui il caso di discutere l’affettività di una affermazione formulata secondo lo schema della interrogazione — per di più diretta —: in questa maniera chi parla o scrive sollecita la partecipazione e il consenso dell’uditore o del lettore al suo pensiero. È una tra le forme più immediate di mozione degli affetti”!. Il verbo censes, pur testimoniato nella lingua comica e nel colloquiale delle persone colte”, vi par conservare un qualche tono di importanza, e ancor più mostra la connotazione seriosa nei Comici, dove appare proprio quando il consiglio o il giudizio vengono enfatizzati in rapporto ad un contesto di azione o situazione che richieda, per caricatura,
2! Sull’origine popolare-espressiva di num cfr. HOFMANN, op. cit., 41-43.
2 Cfr. PLaut. Amph. 1027, Men. 605; Cic. ad Att. 10, 11, 4.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
un vocabolario decoroso e fornito di efficacia denotativa”. Quid censes™* è la
formula con la quale un senatore o magistrato viene richiesto formalmente e ufficialmente di pronunciare il suo parere intorno all’argomento per il quale il senato è stato convocato. Inoltre il vocabolo denota anche l’atto di stimare, attribuire un valore; censor censet i cittadini, cioè li iscrive nelle liste di cit-
tadinanza nella classe corrispondente al loro reddito. Censes è dunque in origine una locuzione alquanto impegnativa, che chiede all’interrogato di esprimere un’opinione ponderata, della quale in ogni caso egli sarà responsabile. Anche se la locuzione fu usata largamente fuori delle situazioni politiche e giuridiche, nelle quali essa assumeva tutta la sua efficacia denotativa, tuttavia, per il fatto solo che mantenne la sua posizione di vocabolo politicogiuridico, portava, anche nel colloquiale, se non quell’efficacia denotativa, almeno una enfatica e pretenziosa connotazione di serietà e di impegno. Dopo num censes cade la cesura tritemimera, che divide questa apertura molto romana e scherzosamente illustre da calliplocamon, accusativo greco translitterato. Tutto il passo è condotto in tono scherzoso, e quindi non si può non concordare con I. Mariotti St. luc. 49, che definisce calliplocamon e callisphyron “reminiscenze scherzose da Omero”. Lo stesso Mariotti indica Il. 14.326 e 319 come le fonti della reminiscenza, dove entrambi i vocaboli “si trovano in uno stesso contesto”. Sono ellenismi dunque dottissimi — appunto omerici —: perciò non dottissimi soltanto, ma anche — e soprattutto — evocativi della antica, immobile, grandiosa luce e bellezza dell’epos. Se si isola calliplocamon dal contesto — e invero L. ha fatto in modo che esso fosse il più isolato possibile: infatti tra quello e callisphyron cade la eftemimera — pare che esso, per le accennate connotazioni che porta con sé, significhi — e . infatti, se non significa, almeno evoca — ben più che i bei capelli di una donna. L’effetto evocativo cala con callisphyron, sia per la posizione nel verso, sia perché L. vi ha fatto seguire ullam, che comincia a ridurre il tono alto dei vocaboli precedenti, con il suo valore di indefinito. Il v. 541, pur iniziando con licitum esse, che si ricollega, per la sua origine giuridica, a censes, e che, per quanto banalizzato, ha qui una sua precisa sfumatura di significato: “... che fosse possibile o permesso” (per definizione un’eroina è perfetta, ma — insinua L. — poteva esserle concesso di avere qualche difetto), oppone al tono alto, epico e pretenzioso del precedente un discorso nel quale i vocaboli latini con la precisione, la nudità e la crudezza delle loro denotazioni anatomiche non tanto corrodono, quanto travolgono e distruggono quell’antica, immobile, grandiosa luce dell’epos. Notevole che, mentre il v. 540 porta le due cesure (tritemimera ed eftemimera) ben nette e in posizione, rispetto alla 2 Cfr. PLAUT. Curc. 1170)
24 Liv. Hist., 1, 32, 11.
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collocazione dei vocaboli, notevolmente significativa, questo v. 541 non porta alcuna cesura né pausa, ma si fa leggere tutto d’un fiato — dal secondo al quarto piede si contano ben cinque elisioni —, rappresentando così, in sede metrica, — di fronte alla limpidezza un poco dura e secca della rievocazione epica — la sovrabbondanza affettiva e la foga popolaresca dell’oppositore della tradizione aristocratica. “Le mammelle toccano il ventre e perfino gli inguini”: non è un discorso né osceno né triviale, ma certo brutale; e la brutalità consiste proprio nella determinatezza dei vocaboli, i quali designano senza circonlocuzioni né eufemismi pudorosi alcune parti del corpo femminile; brutalità,
che, naturalmente,
nasce
dal contrasto
con
la rappresentazione
idealizzata del verso precedente, cui viene opposta la descrizione enfatizzata di un difetto fisico, considerato, come è ovvio, essenzialmente un difetto este-
tico. La descrizione si vale di vocaboli tecnici-scientifici recepiti, più tardi, anche dalla lingua letteraria, ma presenti nella satira’, ma soprattutto l’effetto di contrasto e la potenza realistica della rappresentazione saltano fuori dai due ultimi vocaboli: tangere, che conserva sia nel significato letterale sia nel traslato una considerevole efficacia espressiva, e soprattutto mammis, vocabolo sicuramente volgare e del linguaggio familiare, anche se non disdegnato a livello letterario, dove tuttavia prevale uber?°. Quindi la demistificazione delle fole dell’epos è anche — e non potrebbe non essere — ricupero, pur se procede in questo caso per la via della caricatura (enfasi), della sfera delle concrete condizioni corporee. È un aspetto, forse il più crudo, di un discorso realistico.
Il ricupero, sul piano del lessico, comporta che nell’esametro — l’ironico rovesciamento dei valori è evidente, se si pensi che l’esametro è il verso del poema epico, che proprio dal suo nome greco ha preso il nome — entrino vocaboli tecnici e volgari designanti al di fuori di ogni idealizzazione parti o difetti del corpo. Il v. 542 è anch’esso un piccolo capolavoro metrico: porta la cesura pentemimera, che divide la parte realistica e tecnica-volgare conpernem aut varam’’ dalla seconda fuisse Amphitryonis acoetin, nella quale L. ripete il procedimento
del v. 540 (acoetin
= axortiv),
rinforzandolo
con
l’introduzione di un nome di eroe. L’espressione è presa tutta intera da Od. 11. 266; ma notevole è Amphitryo in luogo dell’Amphitruo plautino; stessa osservazione” per Alcmena in luogo di Alcumena: L. preferisce per ragioni 4 inguina in CELS. VERG. Liv. Ovip. Hor. IUv. SVET. STAT.; uterum in PLAUT. PROP. Hor.
Ovib. TAC. PLIN. 2 Cfr. G. BONFANTE, La lingua delle Atellane e dei mimi, “Maia” 1967, 18.
27 compernis = cum + perna: che ha le anche o le cosce piegate all’indentro; ma Non. 25. 28: conpernes dicuntur longis pedibus; varus: che ha i piedi o le gambe curve in dentro; NON. ibidem: vari dicuntur obtortis plantis.
2 Cfr. I MARIOTTI, op. cit., 80.
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metriche la trascrizione dell’ originale greco alla forma evidentemente corrente a Roma. Alias, come al v. 540 ullam, con il suo largo significato di indefini-
to, spegne, almeno in parte, la forza evocativa di Amphitryonis acoetin Alcmenam; infine, a toccare il più elevato livello delle idealizzazioni della bellezza e del fascino femminili, appare Helenam ipsam denique, davanti alla quale L. tace, costruendo maliziosamente la figura della reticentia 0 aposiopesis: nolo dicere: tute vide atque disyllabon elige quodvis. Una reticenza causata dalla volontà di evitare l’uso di vocaboli osceni, quali Marx suggerisce (scortum, moecham), o la menzione di un disgustoso difetto fisico? Non è
certo il caso di un autore come L.; semmai si può supporre un’adesione ironica al mito di Stesicoro, e sarebbe del tutto nello spirito di L. questo giocare, in un contesto sulla cui irriverenza non vi possono essere dubbi, con un mito, recitando fuggevolmente la parte del poeta pio. E di nuovo, con rinnovata ironica irriverenza, l’uditore viene coinvolto e sollecitato con tute vide, locuzione che, sia per la esplicitazione del pronome personale, sia per il rafforzativo che vi è congiunto, sia per l’uso dell’imperativo e di una accezione colloquiale di videre, appare notevolmente intinta di elementi espressivi. Ma subito, con un’alternanza già notata, L. esibisce una frase dove i due vocaboli
significativi sul piano concettuale appartengono alla lingua dei docti: disyllabon” ed elige, che rimanda alla electio verborum. Dalla lingua dei docti (anzi, dei grammatici e dei retori) alla lingua epica, al greco omerico addirittura: XOÙONV eupatereiam®°. Notevole che al contrario di calliplocamon, callisphyron, acoetin, che appaiono mere translitterazioni dall’alfabeto greco a quello latino, eupatereiam abbia la desinenza regolare della I° declinazione latina”. “Ritieni impossibile che una fanciulla figlia di un nobile padre avesse qualche imperfezione?” Aliquam rem insignem habuisse: “qualche cosa di notevole””; e dopo questa prosaica, un poco enfatica introduzione irrompono nel fatato mondo delle bellissime eroine, combinati in un esametro dall’andamento molto pedester®, quattro tipi di difetti estetici, di nessuna
2? Cfr. I MARIOTTI, op. cit., 75, 78 n. 3. *° Cfr. I MARIOTTI, op. cit., 49, che rimanda a Il. 6. 292 e 22. 227. 3! I codici portano la desinenza an, ma indiscutibili ragioni metriche persuadono a sostituirla con am. °° Cfr. fr. 583 M: insignis, usato con connotazione spregiativa, varis cruribus et petilis. Anche qui, come al v. 545, insignis sta accanto a varus in un contesto analogo. 33 Il verso è costituito da quattro spondei nelle prime quattro sedi; nella quinta un dattilo con elisione nella prima sillaba — tem eminu —, nella sesta un’altra elisione nella prima sillaba — lum unum —. La presenza degli spondei produce un ritmo lento e pesante, e le due elisioni, che riducono sette sillabe a cinque, provocano un andamento un poco incespicante, segnalato anche
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particolare gravita, ma tali da incrinare la cristallina perfezione attribuita dal racconto epico alle bellissime. Come qualsiasi altra donna, che non sia figlia di papa (eupatereia), anche quelle, a fil di buon senso, possono aver avuto verrucam, naevum, punctum, dentem eminulum unum. Dopo uterum, inguiecco che L. attira analiticamente na, mammis, varam, conpernem,
l’attenzione del lettore sopra altri aspetti del corpo umano; che si tratti di aspetti considerati come difetti estetici è certo cosa importante in rapporto con il tipo di discorso che L. ha condotto in questo passo; ma non si dica che realismo è parlare di difetti; l’insistenza sul difetto o su ciò che l’opinione
comune sente e considera come brutto, è soltanto un momento — il primo approccio, l’aggressione polemica — del processo di distruzione del mistificato e di ricupero del reale e autentico. In questo stesso fr. si può osservare la gradazione nell’attacco alle bellezze del mito: la rappresentazione iperbolica di un difetto (le poppe che cadono fino alla pancia e oltre) apre l’argomentazione con spietata e brutale comicità; di Alcmena basta dire che magari aveva gambe o piedi storti; poi Elena: ma di quella meglio tacere; chiunque (tu) può scegliere una parolina di due sillabe per etichettarla (quale che fosse il difetto che L. intendeva rimproverarle);
infine, ormai del tutto
profanato l’ideale modello di bellezza rappresentato dalle eroine (con tutte le connotazioni sociali e culturali che ciò comporta)”, il processo demistificatorio sostituisce, per così dire, ai pugni negli occhi le osservazioni pettegole. Il progresso del procedimento demistificatorio, con questa attenuazione dell’elemento caricaturale e brutale, riduce e infine elimina l’effetto comico,
sgombrando la via all'emergere degli oggetti, visti e rappresentati, per quanto è possibile, nella loro oggettività: cioè mediante un lessico sopra il quale non abbia operato con le sue interpretazioni idealizzanti o deformanti alcuna tradalla interruzione della iterazione del suono u mediante la liquida di eminulum. La u compare ben sei volte affiancando sul piano fonico l’effetto spondaico. * Per le implicazioni satiriche dirette alla “società bene” contemporanea cfr. v. 990 M (= 1100 TR) euplocamo digitis, discerniculumque capillo, dove euplocamos è la nobile e ricca signora, cui spetta, nel gergo della flatterie del jet-set di quell’età, di incarnare il personaggio dell’eroina; come del resto igrandi Romani trovavano negli eroi iliaci i loro modelli, v. L. Papirius Cursor, VAchille rédac @xdc. Per il senso del fr. v. L MARIOTTI, op. cit., 49-50: “il marito che deve comperare anelli per la ben chiomata” e l’ago per fare la scriminatura nei capelli. Notevole che, anche qui, l’effetto satirico sia il risultato della composizione di un elemento operante sia sul piano della cultura letteraria sia su quello della moda (euplocamos) con un elemento realistico operante nella direzione del ricupero di un vocabolo tecnico umile (discerniculum). Per questa integrazione dell’effetto satirico con il procedimento di ricupero realistico, sono, tra gli altri esemplari i vv. 1056-1057 M (= 1095-1096 TR): curare domi sint/gerdius, ancillae, pueri, zonarius, textor, che forse significa: il marito di una euplocamos deve provvedere che siano a disposizione della signora (cioè, appunto, domi) dei tessitori specialisti (gerdius) e generici (textor), un fabbricante di cinture (zonarius), oltre alla comune servitù.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
dizione culturale e letteraria. Si obietterà che nessun vocabolo è stato mai fuori da una cultura e da una tradizione, pur se non letterarie; ma l’oggettività può essere attinta ricorrendo a vocaboli tecnici (eventualmente scientifici) e specialistici, nei quali la efficacia denotativa prevale sulla sfera connotativa. In altre parole, il nesso tra vocabolo e oggetto è più diretto e immediato, non interponendosi tra il segno e l’oggetto alcun elemento della cultura istituita (a Roma, doctrina e mos) a caricare l’oggetto di valori, p.e., etici o estetici positivi o negativi. La testimonianza di un uso o tecnico-scientifico o volgare di un vocabolo è sufficiente a provare che la scelta del vocabolo risponde al criterio della rappresentazione realistica; l’uso volgare corrisponde infatti a una attitudine conoscitiva che si svolge attraverso la percezione sensibile del concreto e l’intuizione del sentimento, nella quale poco si sentono le astrazioni prodotte dalla cultura razionalistica concettualizzante. Perfino i vocaboli già sistemati dalla cultura razionalistica nella sfera degli universali, quando siano recepiti, per qualsiasi motivo e via, dall’uso volgare, scendono in gran parte e spesso dal livello dell’astrazione per ritrovare un vitale contatto con le cose. L’ultimo verso del passo esaminato (v. 546) mostra assai bene la graduale apparizione dell’attitudine realistica; da verrucam a dentem eminulum, tutti i
vocaboli sono provvisti di una ben precisa e ben attestata’ efficacia denotativa; ma l’ultimo, eminulum, mostra oltre a questo un’altra caratteristica: esso designa, a giudicare dalle testimonianze, scarse, ma omogenee — un fatto
materiale, e non appare usato in traslato, per cui partecipa di caratteri sia tecnici sia volgari. Inoltre non è attestato in età classica”.
paenula, si quaeris, cantherius, servus, segestre utilior mihi quam sapiens Situazione e procedimento analoghi a quelli usati nei vv. 428-429 appaiono nei vv. 515-516 M (= 530-531 TR), dove L. fa parlare un uomo che proclama con un discorso risoluto e concreto la sua adesione ad un’etica materialistica e utilitaristica. La prima cosa che salta all’occhio è che nel v. 515 sono allineati in una rapida, pesante enumerazione quattro vocaboli desi35 verruca: PLIN. n. h., 20, 12, 48 $ 123; 22. 21, 29 § 59; 33, 4, 25 § 85. naevus: Cic. N. D. 1. 28, 79. punctus: PLIN. n. h., 10. 52, 74 $ 144; id. 37. 8, 34 $ 113. dens: PLIN. n. h., 11, 37, 61 $
160; Cels. 3. 1. % Eminulum è attestato due volte in L., qui e a 117 M, in entrambi i casi riferito a un dente; tre volte in VARRONE, R. R. 2. 5, 8 (genua), 2. 9, 3 (dentes), 2. 9, 4 (spina); vedi M. LEUMANN, Lateinische Laut- und Formenlehre, Monaco 1977, I $ 283, la; W. M. Linpsay, The Latin Language, Oxford 1894, v. 21-22; V. PISANI, Grammatica latina, Torino 1974, $ 217. 9? Cfr. A. RONCONI, Arcaismi o volgarismi?, “Maia” 1957, 17 sgg.
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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gnanti alcuni tra gli strumenti idonei a garantire, in rapporto con il livello e il tipo della società civile di quell’età, soddisfacenti condizioni di vita. L’esametro porta la cesura pentemimera, due elisioni di -s finale: se non si tiene conto di quest’ultimo fatto?*, che certo non piacque ad Orazio, il verso esibisce una struttura metrica decorosa e gradevole, e corre senza intoppi e senza particolarità. La enumerazione degli oggetti (oggetto è anche servus) è vivacemente interrotta da si quaeris, locuzione della cui importanza stilistica è garante la posizione nel verso, a conclusione del primo emistichio. Infatti tra quaeris e cantherius cade la cesura. Si quaeris è locuzione colloquiale, corrispondente in italiano a “se vuoi saperlo” o “se ti interessa”; locuzione che stabilisce una situazione, per così dire, di complicità tra il parlante e l’uditore; con la quale il parlante si attribuisce la facoltà di dire francamente il suo pensiero, anche se — la sfumatura dipende molto dal tono con cui la locuzione viene pronunciata, dalla persona dell’uditore e dai rapporti che intercorrono tra i due — quel che vuol dire possa riuscir sgradito all’uditore. In altre parole si quaeris può aprire la via a uno sfogo del cuore diretto a un amico benevolo, o alla dichiarazione di un’opinione che chi parla presume o sa nettamente opposta a quella dell’uditore. Comunque il punto saliente della sfera semantica della locuzione è la franchezza che essa promette, e quindi lo stabilimento, con l’assunzione di essa, di un rapporto diretto, personale e non formale. Insomma “se cerchi il mio pensiero, ti dirò francamente che...”. In realtà tuttavia il discorso è già iniziato (intendo il discorso che risponde a si quaeris; naturalmente si può supporre che prima dei vv. 515-516 ci fosse già un discorso del medesimo personaggio e che i due versi ne siano la conclusione): paenula, che anticipa la seguente serie dei tre oggetti esemplari, è in posizione, per così dire, anaforica; il parlante ha già assunto quella posizione di franchezza quasi brutale, che poi, con un tratto sforzato di gentilezza, vuol giustificare. Dal suo cuore e dalla sua mente con facilità, rompendo un esile riparo, evidentemente costituito non dalla cultura (doctrina: nozioni diretta-
mente o indirettamente derivate dall’insegnamento dei filosofi greci fiancheggiato da una interpretazione universalistica e da una idealizzazione del mos maiorum:
Scipione Minore ammaestrato da Polibio, p. e., o da Panezio), ma
solo da una adesione formale all’etichetta urbana e colta, balzano nette le rappresentazioni degli oggetti. E nette proprio perché i vocaboli non appaiono accompagnati da aggettivi, né collocati in un contesto tendenzioso destinato a convalidarne ed esaltarne il peso. Il parlante non sente affatto la necessità di un discorso, coperto o scoperto, giustificativo delle sue scelte morali: gli og38 Frequente del resto in L., che evidentemente non lo considerò un difetto estetico, forse per adesione all’uso: è probabile che a Roma la -s finale cominciasse a esser muta o comunque assai debole già allora. Cfr. M. BONIOLI, La pronuncia del latino, Torino 1962, 109 sg.
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| FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
getti non vengono filtrati né caricati di alcun valore idealizzante. Si tratta proprio di una paenula (mantello di lana), di un cantherius® (castrone o mulo, bestia da soma), di un servus, di un segestre (coperta di pelle o di paglia tessuta per proteggere persone o cose dalla pioggia), sentiti e designati dal parlante nella loro concreta e determinata natura per mezzo di vocaboli tecnici o usati in una accezione strettamente denotativa, e perciò appunto assimilabili a quelli tecnici per l’effetto stilistico. Tecnici e, con qualche lieve oscillazione, volgari, sono paenula, cantherius, segestre. Essi sono — rare però le testimonianze — presenti, oltre che in Varrone, anche nel colloquiale delle persone colte‘. Del resto la rarità delle testimonianze è la prova migliore, appunto, della loro posizione di vocaboli volgari, 0, se si vuole, di tecnicismi umili, in una lingua dove il materiale lessicale trasmesso dagli scrittori è, per la maggior parte, illustre. Servus: già nel mondo antico questo vocabolo era latore, in forza della diffusione della philanthropia e delle opinioni della Stoa circa l’humanitas e i servi, di una sua efficacia connotativa pertinente alla considerazione
in cui
era o voleva essere tenuta la condizione sociale dello schiavo e la sua natura di homo. L’uso del diminutivo servulus, anche se non ipocoristico né affettivo, ma assai spesso banalizzato (= puer = garcon), è pur sempre indicativo di una attitudine almeno paternalistica, anche se generalmente recepita in una sua interpretazione formale, del padrone o del libero verso il servo". Già, comunque, la presenza, qui, del positivo elimina la possibilità di ogni illazione nelle direzioni accennate. Inoltre, è chiaro che l’inserimento di servus in una enumerazione di vocaboli denotativi, i quali assolvono al compito non di esplicare un discorso di merito sugli oggetti che designano, ma proprio e sol- . tanto di designarli, persuade a considerare anche questo vocabolo come tecnicismo di accezione. La pressione esercitata da paenula, cantherius, segestre su servus nel senso indicato appare ben chiara quando si consideri che quei vocaboli designano cose o animali in quanto oggetti d’uso e strumenti; e quindi anche servus è qui sentito precisamente come instrumentum, magari vocale, secondo la nota definizione di Cicerone. Utilior, al principio del v. 516 riassume il significato del verso precedente e insieme proclama in chiare lettere il criterio di giudizio del parlante. Per la sua importanza sia espressiva sia concettuale esso occupa la prima sede del verso, e, quadrisillabo com'è, riempie un dattilo e mezzo, segnalando, anche con la sua estensione sillabica, il suo peso. Mihi, come è noto, è della lingua
colta e illustre; e altrettanto si può dire di sapiens. Al v. 515, tutto solido e °° È attestato da L. anche a 1207 M (= 107 TR): mantica cantheri costas gravitate premebat.
” Cic., Hor., SEN., PLIN., JUV., SVET. Al
e
3
È
È
ei
De
Di dominus e di erus non consta esistessero nell’uso diminutivi.
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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concreto di cose che servono, nel quale il personaggio aprendo mente e cuore indica per via di esempi i criteri del suo conoscere e del suo operare, concedendo ben poco ad una formale — e in fondo insolente — attenuazione di urbanita, segue l’avanzo del v. 516, dove la lingua tende o accenna al concettuale e all’illustre. Mihi in luogo di mi” è un fatto stilistico chiaro ed efficace; così utilior nella sua genericità (filosofica?); infine sapiens, ultimo vocabolo del passo — e dobbiamo pensare che Nonio abbia condotto la citazione fin dove il senso chiedeva — conclude e assomma il pensiero, apparendo, per la comparazione con i quattro vocaboli del v. 515, sbiadito, fioco, umbratile. Nessuna utilità offre il sapiens al personaggio che parla; nessuna concretezza, nessuna solida e determinata rappresentazione la sua sfera semantica, così ricca di connotazioni, ma così povera di denotazioni, propone al lettore. Proprio questo, come appare, L. voleva conseguire. Un vocabolo illustre, sì, evocativo sia di una tradizione severa sostenuta dalla gloria di figure esemplari quali Cincinnato, Fabrizio o i Fabi, sia forse di una nuova raffinata cultura etica e letteraria; ma queste connotazioni dicono qualcosa a chi crede nella felicità ottenuta
mediante
l’impassibilità
e l’abolizione
dei desideri,
o nel
premio della gloria che la patria e i posteri daranno a chi de re publica bene meruit. Costoro possono trascurare, e in realtà trascurarono, di amare le cose; non certo il personaggio di questo fr., che o non conosce quella felicità e quel premio o non vi crede. L. demistificando il sapiens secondo i criteri di un uomo — è improbabile che in queste parole vi sia il pensiero dell’autore — che conosce, comprende e apprezza solo le cose che cadono sotto la percezione dei suoi sensi e che forniscono a lui individualmente un servizio, propone al colto lettore romano e latino del suo tempo una apertura da una parte antropologica a tipi e livelli di umanità diversi da quelli terenziani e paneziani, e, dall’altra — e soprattutto — verso la solida, determinata realtà degli oggetti, verso quella realtà materiale, sia essa fatta di corpi — vivi — di uomini e di animali o di cose fabbricate dall’uomo per gli usi quotidiani dell’uomo. E questa apertura, condotta efficacemente sul piano della lingua e dello stile, è anche procedimento di provocazione e di rottura in quelle due direzioni, per il ricupero di aree linguistiche vive e vitali, legate al saldo terreno dei sensi e del quotidiano, e per la liberazione dei mezzi espressivi e stilistici letterari dall’immobilità e dalla sistemazione delle forme e delle idee.
4 Nel corpus dei frammenti di L. vi sono 8 mi di fronte a 16 mihi. Cfr. anche I MARIOTTI, op. cit., 98-99.
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_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Chiaro che da questo verso e mezzo — condivida o no L. l’atteggiamento del personaggio* — il sapiens esce distrutto ed esibisce la sua vuota irrealtà. Questo, io credo, era non solo ciò che L. voleva che il personaggio facesse, ma era anche ciò che L. voleva ottenere: nec doctissimis scribo. Ciò che non significa affatto che egli volesse scribere indoctissimis; e nemmeno, a mio parere, per i lettori di mezza cultura; ma appunto per quegli uomini, fossero docti o indocti, che, come lui, sentivano che la letteratura, perché sia vera e viva, deve sentire, cioè praticare, uomini e cose ad ogni livello e prenderne esperienza e conoscenza secondo tutti i criteri storicamente reperibili nella loro civiltà. È sempre molto difficile stabilire se attribuire a L. o ad un personaggio il pensiero espresso in un fr.; tuttavia, più della risoluzione di tale problema, è importante — e vantaggioso per comprendere l’attitudine di L. verso l’argomento trattato nel fr. — l’esame della lingua e dello stile. Mi è parso certo che il sapiens esca distrutto dai vv. 515-516, anche se non è altrettanto
certo — anzi è probabile il contrario — che il discorso non sia di L. ma da lui posto in bocca ad un personaggio del genere di quello che pronuncia le parole dei vv. 428-429. Tuttavia è anche probabile che L. volesse proprio, comparando un certo tipo di sapiens tutto spirituale e astratto con un uomo tutto materiale e concreto, mostrare appunto la inanità di quella sapientia*. Ciò che non significa, naturalmente, che per L. non esistesse sapientia. Si parla, è ovvio, di sapientia come di una sfera — non pare opportuno parlare, a proposito di L., di sistema — di criteri di comportamento; al cui centro sta la virtus: ma, in luogo dei notissimi vv. 1326-1338 (= 1140-1152 TR) sulla virtus, preferisco considerare i vv. 716-717
(= 762-763
TR), dove, secondo
un procedimento già osservato, due situazioni, l’una umile e l’altra illustre — se non altro per la tradizione filosofica e letteraria dalla quale è sostenuta” — vengono confrontate. cocus non curat cauda insignem esse illam, dum pinguis siet;
4 PUELMA PIWONKA, L. und Kallimachos, Frankfurt a/M 1949, 149 n. 1: ‘ 516 bezieht sich der Satiriker offenbar auf sich selbst, wenn er sich ... iiber die Leute anlisst, die eine paenula niitzlicher diinkt als die Ermahnungen des sapiens, d. h. des Satirikers, dessen Aufgabe mit das monere ist ’. “ Che si tratti della dottrina stoica, può darsi, ma non è per niente possibile affermarlo; che ci sia un’eco della dottrina delle cose indifferenti ma preferibili o non secondo la loro utilità — eco ironica —, è possibile ma non certo. * Per l’amicitia come tema letterario e filosofico (trascurando le sue implicazioni politiche) basta riferirsi a CIC. de off., 1. 17, 56; In. defin., 1. 20, 65 e 68; 2. 26, 82; 3. 21, 70; In. Lael. 13.
45: luoghi tutti nei quali Cic. rimanda alle fonti greche (e si potrebbe naturalmente citare Senofonte, Memorabili ed Aristotele, Etica Nicomachea), dalle quali attingeva, certamente note a L.
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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sic amici animum quaerunt, rem parasiti ac ditias
La comparazione é anche tra due aree non solo diverse per considerazioni culturali e sociali, ma anche, nella sostanza, eterogenee.
Somiglianza e dis-
somiglianza, omogeneita e disomogeneita vengono illuminate mediante combinazioni, incontri e parallelismi lessicali e di stile. Nel primo verso vi è un solo elemento molto probabilmente volgare: cocus in luogo di coquus'; vi è peraltro insignis, usato, come negli altri due casi in tutto il corpus dei frammenti di L., in relazione ad aspetti del corpo”. La sintassi è colloquiale: il tipo di frase non curat cauda insignem esse illam**, del quale Petronio, 68, 8, dà l'equivalente volgare quod strabonus est non curo, non sembra essere stata recepita dalla lingua letteraria, che preferisce far dipendere da curo un’infinitiva che abbia in comune con la reggente il soggetto”. Il soggetto della infinitiva iJlam non è naturalmente ille celebrativo, ma un popolare ille in parte scaduto dal suo valore di dimostrativo, cfr. il toscano “prendi un’oca, e bada che /a sia bella grassa”; pinguis, riferito alla presenza di adipe in un corpo di uomo o di bestia (qui non è chiaro quale bestia sia), è accezione propria e concreta (denotativa) del vocabolo. Nel secondo verso lo iato tra amici e animum — in mancanza del rilievo che dà ai vocaboli la cesura dell’esametro: questi sono settenari trocaici — isola il vocabolo e contribuisce a creare con il seguente animum un effetto di allitterazione, che risponde ad analogo effetto nelle stesse sedi metriche del v. precedente: cocus non curat cauda. Si noti anche l’omofonia: nei tre vocaboli compare la medesima vocale u; mentre nella seconda parte del verso un’altra
omofonia consiste nella iterazione della vocale i: insignem esse illam, dum pinguis siet. Abbiano o no questi fenomeni una funzione, è certo che essi rimandano a moduli del colloquiale, dove ritmo, assonanze e consonanze giocano un ruolo avvalorante nei confronti dei contenuti. I parallelismi tra i due versi sono collocati in posizione chiastica: a cocus non curat cauda insignem esse illam corrisponde e si oppone sic animum quaerunt; questa frase, breve e lapidaria, è senza dubbio più intellettuale della sua corrispondente; e ciò appare dalla collocazione del verbo, la quale per altro consente la giustapposizione — espressiva — amici animum. Eguali considerazioni valgono per rem parasiti ac ditias, dove ditias è una amplificazione espressiva di rem: la forma ditiae in luogo di divitiae (nei fr. di L. 1 ditiae contro 3 divitiae) è
46 Cocus in iscrizioni: v. THESAURUS, dove cfr., per il significato culturale della grafia coquus, sotto la voce coquo le testimonianze dei grammatici.
7 Cfr. n. 32, p. 94. 48 Attestata nei fr. di L. anche a 593 M (= 639 TR): Persium non curo legere.
4 Cfr. Cic. ep. ad fam. 9. 10, 1 nihil Romae geritur, quod te putem scire curare.
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considerata volgare dai linguisti”; mentre rem comporta una sfera denotativa assai vasta, ma molto concreta (la roba), ditias vi aggiunge lo splendore del lusso. Parasiti, opposto ad amici, come animum a rem ac ditias, introduce una nota urbana: sono i vocaboli greci che la commedia romana, rielaborando
quelle greche, introdusse nel colloquiale cittadino. A questa frase corrisponde nel v. 716 dum pinguis siet. Come notato, le corrispondenze tra i due versi sono in posizione chiastica: alla bestia cauda insignem rispondono rem ac ditias, cercate dai parasiti; mentre alla bestia pinguis risponde l’animum, cercato dagli amici. L., quindi, come distingue tra i criteri di scelta di chi è veramente amicus da quelli di chi è parasitus, così implicitamente distingue tra i criteri di scelta di un cuoco saggio e di un cuoco sciocco. Il cuoco saggio non cura le apparenze, ma bada alla sostanza. L'opposizione tra sostanza e apparenza, rappresentata in maniera concreta nella scelta operata dal cocus, viene ribaltata sulla coppia animum - rem ac ditias, dove l’animum è la sostanza (corrisponde a pinguis) e rem ac ditias è l’apparenza (corrisponde a cauda insignem). Provocatoria è, mi pare, questa comparazione tra cuoco e uomo che sa essere amico e scegliere bene gli amici; perché si fonda sopra una analogia di pensiero inaccettabile da una cultura razionalistica (doctrina). Come si può pensare e dire che allo stesso modo che il cuoco palpando sceglie la bestia grassa, così un uomo scrutando l’animo scopre l’amico? Questa è operazione etica e intellettuale, quella sperimentale e sensibile. Ma appunto di qui passa la provocazione di L.: se sapiens è chi conosce l’animo di un uomo e ne diviene amico, allora sapiens è anche il cuoco che riconosce la bestia grassa; oppure non è la sapientia il criterio che presiede all’una come all’altra delle . due scelte. È, insomma, qualcosa che un uomo, sia mentre esplica mansioni di
cuoco, sia nel suo personale e privato vivere, quando si fa un amico, possiede e usa. Anche il cocus, che non è doctus, ha un sapere, una facoltà di giudizio che gli consente di scegliersi e di avere gli amici. Come distingue la bestia grassa, così sa quaerere animum. Del cocus dunque L. parla come di uomo
né doctus né indoctus, ma come di uomo che possiede (non avendo appreso nulla di ciò che doctrina tradi potest) un ingenium dal quale gli viene un criterio capace di guidarlo così nel mondo delle cose materiali come in quello dei valori morali. Sia L. stesso a parlare, o faccia dire questi due versi da un personaggio, credo che il gioco della lingua e dello stile mostri bene come il pensiero sia di L.: vi è una etica — socratica? — anche nei rapporti tra uomo e cose. Il discorso, in questo caso, riguarda l’umile area dei cuochi e delle cucine; e, mentre implicitamente contesta che docti e reges superbos (v. 1182 M), muovendosi per ricchezza e cultura molto al di sopra delle res ac ditiae, °° Cfr. G. BONFANTE, La lingua delle Atellane e dei Mimi, “Maia” 1967, 9.
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DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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possano essi soltanto conoscere quel grandissimo bene che è |’ amicitia, indica un motivo — e non di poco conto — del ricupero di questa sfera del reale. Il medesimo criterio presiede all’operazione tecnica — scelta della bestia grassa — e all’atto etico-sociale — scelta degli amici —; l’equivalenza o identità di sostanza tra una operazione tecnica e un atto morale legittima nella misura più larga e nella maniera più provocatoria (almeno quando questo discorso vien fatto a Roma nel II sec. a. C.) la proposta di apertura della cultura e della letteratura romana alla Bavavoia. Il ricupero dell’area linguistica pertinente al corpo umano non passa solo per un procedimento demistificatorio, come quello considerato nei vv. 540546, ma anche attraverso l’individuazione e l’esplicitazione di un rapporto analogico idoneo a scoprire e illuminare la presenza di una sostanziale omogeneità tra criteri di apprezzamento e di interpretazione applicabili a livelli di realtà diversi — spirituale e materiale —, che la doctrina considera incomunicabili ed eterogenei. Così L., come con una provocatoria rappresentazione realistica del particolare stabilisce che un medesimo criterio presiede alla scelta della bestia grassa e alla scelta degli amici, anche indica, mediante un discorso più generico — a giudicare almeno dal frammento che ne è rimasto
—, una analogia, malinconicamente invocata dal cuore”, negata dal destino naturale ai viventi, tra la salute del corpo e la salute dell’animo: si tam cor-
pus loco validum ac regione maneret / scriptoris, quam vera manet sententia cordi (vv. 189-190 M = 194-195 TR). Il paragone, pur se ipotetico, è stabilito tra la sanità del corpo e la vera sententia”, che risiede nel cor. Questo è, come è noto, la sede del senno intelligente”. E di lì viene la vera sententia, come dai praecordia viene il versus (v. 591 M = 634 TR). Questa volta la franchezza del sentire non è solo determinata con il rimando alla sede dalla quale essa proviene (là i praecordia, qui il cor), ma anche è sottolineata con 5! Cfr. v. 740 M (= 778 TR): fuimus pernices, aeternum id nobis sperantes fore, che illumina con vivissima e toccante franchezza una caratteristica condizione soggettiva della giovinezza. 52 M. PUELMA PIWONKA, op. cit., attribuisce alla vera sententia la similitudine assunta dalla vita militare: loco ... ac regione maneret, scrivendo, 26 “der ... Wahrheitssinn ... in seinem Herzen, fest wie ein Soldat auf Wachtposten ... steht”; mentre J. R. MARTYN, op. cit., 500: “L. de-
scribes his own body’s health in terms of a soldier at his post”. D'altra parte PUELMA, ibidem, 25 n. 3 collega i vv. 189-190 M al problema “der ‘wahren’ und ‘falschen’ Stilformen”, notando che “der Dichter mit dem Vergleich der valitudo corporis mit der vera sapientia (cordis) sich im Bereich der Metaphorik der Stillehre von der natiirlichen Sch6nheit befindet u. s. w.”; diversamente A. RONCONI, L. critico letterario, “Maia” 1963, 515-525: “la forma si adegui al concetto confermando la validità della formula vera manet sententia cordi, se questa intendiamo come adesione della parola, nel senso stoico, al pensiero o alle intenzioni dello scrittore, il quale solo così può dire di sé si quem ex praecordiis ecfero versum (590 M. = 633 T.)”. 53 Cfr. un soprannome come Corculum, o una qualificazione come bene cordatus.
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_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
l’attributo vera, che risponde a validum del v. precedente. Non è dubbio, inoltre, che il discorso riguardi L.: scriptoris è certo un modo concreto di designare se stesso. Ma che il paragone tra la sanità del corpo e la vera sententia sia condotto in relazione non all’uomo in generale, né ad un uomo in particolare, ma ad uno scrittore — e in questo scrittore sia da riconoscere L. —, ciò persuade a considerare il discorso come pertinente, anche se in via di accenno, alla questione, in ultima analisi, delle scelte linguistiche e stilistiche. Si tratta, cioè, del fondo etico, che, come già più volte notato, sostiene la poetica dell’autenticità, alimenta l'attitudine demistificatoria, offre alle scelte
lessicali, sintattiche, stilistiche la necessaria e significativa base delle corrispondenti scelte culturali. La locuzione vera sententia richiama — a mio parere — il noto vere vivitur di Ter. Heaut. 154, dove è esplicitamente questione di un vivere —
sociale —
autentico, non falsificato, non mistificato, soste-
nuto dall’impegno etico — individuale — della comunicazione con il prossimo. La sententia, che vera manet cordi, costituirebbe, nel contesto di Terenzio, il fondamento irrinunciabile di un vere vivere; qui, collegata com'è, attraverso il confronto, con scriptoris, costituisce la base che sola può autore-
volmente reggere una poetica: naturalmente, se lo scriptor è, come pare, L., una poetica — demistificatoria e realistica — della satira. E la vocazione realistica appare proprio nel fatto che sia il corpus ad essere paragonato alla sententia, e che alla sanità corporale — corpus loco validum ac regione — venga trovato un analogo nella autenticità del sentire — vera sententia —, che è quell’interiore — spirituale, se si vuole — criterio che consente di intuire in un uomo quanto vi è di autentico: la misura del suo vere vivere, la realtà sotto la pelle che lo fa bello. i Che la menzione della sanità corporale sia motivata — come io credo — da una malattia di L. non riduce per nulla l’importanza dell’assunzione della vera sententia come termine di confronto. Il modo della considerazione della realtà del proprio corpo da parte di L. può essere indagato esaminando appunto il termine di paragone, evidentemente introdotto per il valore esemplare che lo scrittore gli attribuiva. D'altra parte non sarebbe sensato spingere l’interpretazione fino ad attribuire al corpus validum le stesse connotazioni culturali che comporta la vera sententia; né il discorso di L. è così semplice. Il fatto è che le condizioni del corpo, benché, come malinconicamente ammette lo scrittore — siano affatto indipendenti da quelle dell’animo, tuttavia sono tanto importanti quanto le condizioni di quello. Un corpo valido possiede sensi retti e svegli, che consentono percezione e sperimentazione della realtà materiale senza alterazioni e deformazioni. La percezione del proprio Io fisico è chiara, netta, veritiera.
Malattia e vecchiaia
alterano
i sensi, e
l’uomo, inconsapevole — o, forse, in parte consapevole — mistifica la realtà
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materiale. La sententia rimane vera nel cor dello scriptor; le attitudini dell’animo, le facoltà della mente non si offuscano; si ottundono quelle del
corpo. Ma il punto essenziale resta che il corpo — una realtà materiale, direi, biologica — conta al punto che lo scrittore la compara ad una realtà spirituale. Anche per questa via — una via per la quale L. è stato condotto dai suoi personali e occasionali sentimenti — il ricupero di una concreta — percettiva —
considerazione del corpo umano, come di un autentico, irrinuncia-
bile dato dell’esperienza del vivere, trova una sua legittimazione, e in tanto più piena e significativa, in quanto è offerta da una analogia con un fondamentale elemento — etico — della poetica di L.™*. D'altra parte, come si è visto, p.e., ai vv. 428-429 e 515-516, L., in realtà,
per acquisire alla rappresentazione letteraria la sfera della percezione del concreto, non ha bisogno di una legittimazione che la integri al sistema dei valori accettati dalla società colta. Appunto come ai vv. citati l’operazione può essere condotta a quello stesso livello umano, dove la percezione del concreto è parte essenziale, se non di un sistema, certo di una attitudine verso i fatti della vita. L'operazione quindi riesce anche al risultato di rappresentare realisticamente — cioè senza alterazione degli oggetti rappresentati — le condizioni soggettive di un personaggio. L’umile entra nella letteratura con la sua umanità umile: lo scrittore sceglie pensieri, vocaboli, locuzioni che caratterizzino, anche se per scorcio o parzialmente, quel livello di umanità. La doctrina appare solo in una funzione strumentale, come del resto ovunque nel testo di L., che appunto non esibisce la doctrina, ma la usa. E la usa proprio per realizzare quella maniera di scrivere che non piacque ad Orazio — meglio: che Orazio criticò fondandosi sopra criteri di stile diversi —: quel fluere lutulentum, quel miscere Latina verba Graecis; in breve: la mistione degli strati linguistici e degli stili, idonea a conseguire non solo l’effetto parodistico e quello satirico, ma anche la rappresentazione realistica, cioè a sollecitare il ricupero di una realtà umana
(psichica) e materiale (cose) al di fuori della
pressione deformante esercitata dai luoghi comuni della cultura aristocratica. Nei vv. 153-158 ( = 157-162 TR) l'intelligenza, l’acume, il buon gusto (ur* Il nesso — o l’analogia — vivamente sentito da L. tra fatti spirituali e fatti corporali appare perspicuo, p. e., nel v. 764 M ( = 804 TR): aquam te in animo habere intercutem, dove l'enunciazione di un vizio o di uno stato dell’animo è sostenuta dall’efficacia denotativa di una locuzione tecnica-scientifica. Aqua intercus è l’idropisia; ma, pur nella sua funzione concettuale, la locuzione conserva, per via degli elementi lessicali dei quali è composta, una solida adesione alla sfera delle cose concrete: in realtà, più che il nome di una malattia, è quello di un sintomo,
cioè, appunto, di un fatto. Si tratta quindi di una espressione tecnica, più che scientifica, capace, per mezzo della precisione semantica di cui è fornita, di afferrare nettamente l’oggetto che designa. Il discorso etico è anche, come già notato, apertura ad un’area lessicale pertinente la realtà materiale, e, insieme, legittimazione dell’apertura stessa.
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. FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
banitas), la preparazione letteraria (doctrina) e la conoscenza
degli uomini
(studia humanitatis) hanno consentito a L. di comporre con quella distesa e viva scorrevolezza, che è il risultato sul piano dello stile della imitatio vitae e che anche fu interpretata come sovrabbondanza nemica del labor limae (in hora saepe ducentos / versus, ut magnum, dictabat stans pede in uno), un discorso dove le caratteristiche di espressività e di affettività del colloquiale trovano posto in una serie di sei esametri costruiti, dal punto di vista metrico,
in maniera corretta e significativa; la presenza di 16 elisioni in soli 6 versi risponde appunto, sul piano metrico, alla fluidità propria di un colloquiale appassionato e caloroso. Ma tra gli elementi affettivi e i volgarismi di un discorso dove la franchezza diventa spocchia, la fiducia nel proprio valore sicumera, il desiderio (o il bisogno) di esaltarsi pretenziosità e sovrabbondanza, appare un moto di pensiero forse furbesco” in superficie, serio tuttavia nella sostanza.
“occidam illum equidem et vincam, si id quaeritis” inquit. “verum illum credo fore: in os prius accipiam ipse, quam gladium in stomacho sura ac pulmonibus sisto. odi hominem, iratus pugno, nec longius quicquam nobis, quam dextrae gladium dum accommodet alter. usque adeo, studio atque odio illius, ecferor ira” Nel v. 153 si dispiega con accenti di corrucciata grandiosità l’alto senso di sé di un popolano, che sa di suscitare in quel momento l’interesse e l’entusiasmo degli spettatori. Pur mutando tono, tutto il discorso contenuto nel fr. è una prova della apparizione dell’individualismo nel pathos: l’io, come attraverso il denaro, si affermò attraverso il sentire. Più in generale, come
nei nostri tempi, la via di affermazione dell’individuo di fronte e contro agli altri passa per il successo, per l’aspirazione e la ricerca alla contrapposizione della propria individualidità a quella di ciascun altro e agli altri in generale. Della foga affettiva, con la quale il gladiatore Pacideianus si presenta, sono testimonianze:
l’inversione
dell’ordine
logico vincam
illum
et occidam,
al
quale L. preferisce occidam illum et vincam, appunto perché occidam rappresenta un fatto che dice al cuore degli uomini (del gladiatore che parla e degli spettatori) molto di più che vincam®; l’inciso si quid quaeritis”, che D
9 Come vuole Marx, seguito da N. TERZAGHI, Lucilio, Torino 1934, 305.
°° Si potrebbe anche intendere “lo ucciderò e sarò il vincitore”, considerando vincam come usato assolutamente, ma non pare che l’uccisione dell’avversario fosse la condizione per uscire vincitore dal confronto dei gladiatori. Lich: p. 97 intorno a si quaeris del v. 515.
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DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
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come già notato, consente al parlante l’assunzione di una attitudine franca fino alla brutalità; qui tuttavia non priva di una magnanima istrionesca untuosità nei riguardi di coloro ai quali il discorso è diretto”. Dopo l’esplosione, tutta affettiva e aggressiva, di individualismo, giocata sul piano di un concreto rapporto con il prossimo, interviene, introdotto da una forte avversativa, il momento della prudenza e del ripensamento, tuttavia giocato non nella sfera della ragione, ma in quella della magia, mediante una — furbesca o ironica o scherzosa — presunzione di insuccesso con funzione apotropaica: verum illud credo fore: in os prius accipiam ipse, / quam gladium in stomacho, sura ac pulmonibus sisto”’. Pacideianus si cautela — da una parte impressionato egli stesso dalle sue parole (quell’occidam, come notato, è pieno di effetto sia sul piano dell’espressività sia su quello del pathos), dall’altra per suscitare, da accorto campione, un poco di suspense nei suoi ammiratori —, bilanciando la superbia dei due futuri volitivi del v. 153 con l’insinuazione (credo) che l’avversario lo colpirà sulla faccia, prima che egli gli cacci la spada in stomacho, sura ac pulmonibus. Pacideianus non nomina gli dèi, ma il senso del suo atteggiamento è che se egli presume troppo di sé, qualche dio (la Fortuna o chicchessia) potrebbe mandargli una
sventura. Ma Pacideianus non è fuori di senno e non vuol essere rovinato da alcuna divinità; nella sua aggressività egli sa tener conto non solo dell’avversario, del pubblico e della propria reputazione di campione, ma anche degli elementi che non cadono se non indirettamente sotto gli effetti delle azioni umane: dèi, dèmoni, geni, spiriti, la fortuna, insomma l’incognito e insieme ben noto e sempre presente mondo degli esseri sovrumani, che bisogna farsi amici e benevolenti. Un mondo presente, ma, ad onta di tutti i nomi e i personaggi nei quali si individua, poco definito, al punto che il gladiatore non sente la necessità di fare un esplicito e preciso riferimento. Ma tutti sanno che il corso dei fatti dipende solo in parte dagli uomini: vi è una potenza che interviene secondo modi che l’uomo non sa comprendere e cerca di immaginare. Fondamentale tuttavia la preoccupazione di non dar motivi di castigo con un comportamento superbo. L. dunque, attraverso il discorso di Pacideianus ricupera, in una situazione di vivo e immediato resoconto cronistico, un elemento fondamentale delle condizioni soggettive etiche — religiose degli umili del suo tempo e della sua società. Ma l’ipotesi apotropaica del gladiatore accomuna nell’apertura verso la sfera della magia l’operazione di ricupero di una considerazione del corpo e 5 Siano essi il pubblico popolare dei /udi, siano degli spettatori di particolare rispetto, cfr. C. CicHoRIUSs, Untersuchungen zu Lucilius, Berlino 1908, 263-264. 9 Mi pare che accipiam possa bene reggere un gladium, sottinteso, che può essere ricavato da gladium del v. 155.
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delle sue parti fondata sopra la figurazione che di esse nasce dalla percezione concreta — visiva in questo caso —. Ed è molto interessante questo legame tra l’apparire di una attitudine magica e la massiccia irruzione di vocaboli denotativi designanti parti del corpo, anche se il loro uso in questo contesto non comporta alcuna implicazione tecnica-scientifica nella direzione della medicina; ma per un verso o per l’altro l’attitudine magica suscita, appunto perché la magia consiste nell’agire con le parole sugli oggetti o sulle situazioni, l’introduzione di vocaboli concreti, soprattutto di quelli designanti parti del corpo o malattie. Esemplare, in quanto testimonianza — purtroppo esigua — di ricupero sia dell’attitudine magica — che certo non era dei docti, ma nemmeno poteva essere attribuita agli indocti, bensì stava e sta fuori del sistema delle nozioni che doctrina tradi possunt —, sia della realtà corporale — che costituisce una delle sfere preferite dell’azione magica — e di un suo lessico non mistificato, è il v. 1195 ( = 1283 TR): inguen ne existat, papulae, tama, ne boa noxit, che comporta, in una locuzione che è ricalco di una formula apotropaica, una serie di vocaboli tecnici — papulae (pustole), tama (gonfiore), boa (ser-
pe d’acqua, ma anche tumefazione provocata dal morso di quello o pustole del morbillo) —,
tecnicismi di accezione —
inguen (bubbone), existat —,
e
infine, per la sua forma arcaica tecnicismo magico più che scientifico, noxit. Ricupero di attitudine magica appare anche nei vv. 62-63 ( = 55-56 TR) in una locuzione tuttavia forse metaforica — ma la presenza di ben due vocaboli, la cui accezione magica è sicuramente attestata, costituisce un peso se-
mantico considerevole —: qua ego nunc (huic) Aemilio praecanto atque go et excanto (e per questa via io ora ad Emilio (qui presente) predico estorco e gli cavo fuori con incantesimo). Se, come pare, il fr. appartiene parte del II libro dove L. rappresentava il processo di Q. Mucio Scevola
exie gli alla Au-
gure, e un accusatore (T. Albucio?) annuncia che tirerà fuori di bocca ad un
teste della difesa una testimonianza avversa all’imputato, allora anche qui, come altrove, L. non solo ricupera vocaboli (e atti) di un mondo umile, ma anche li inserisce in una situazione contemporanea e corrente della società
romana — in breve: li colloca non nel tempo mitico degli incantesimi, ma nella viva realtà, nel contesto di fatti e persone dei quali si faceva la cronaca di Roma. Ed è questo un modo di riscoprire un solido significato e una auten-
tica funzione di un vocabolo, collocandolo in un immediato e concreto legame con uomini e cose. La magia, cioè, solo se viene considerata come un'attitudine — non legittimata dalla doctrina — ad intendere i rapporti di un individuo col prossimo, attitudine che emerge talvolta, in momenti di par9 Praecanto: PETR. 131 lapillos ... praecantatos. Excanto: LEG. XII TAB. (PLIN. n. h.. 28. 17) qui fruges excantassit; Prop. 3. 3, 49 clausas sciat excantare puellas.
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ticolare tensione, a fornire le sue oscure ma potenti risorse — e per procurarSi questo soccorso è sufficiente che l’uomo pronunci quelle parole che una antica tradizione ha trasmesso cariche di efficacia evocativa (la magia sta nella parola) — solo così appunto la magia può essere accettata come elemento di una descrizione antropologica di un Romano o Italico del II sec. a.C. In altre parole: né L. né i suoi personaggi fanno incantesimi, come Orazio fa fare a Canidia; il magico è, nell’età di L. e nella società della quale L. rappresenta i personaggi, molto probabilmente un residuo svalutato, umiliato, mortificato. Vi sono dei resti, e sopravvive un modo di porsi davanti a uomini e cose, che si fonda sulla presunzione (o addirittura, direi, trova la sua vali-
dità nella forza della suggestione che esercita su chi se ne serve) di potere, mediante certi vocaboli e certi atteggiamenti psichici e fisici, mutare le situazioni e agire sulle persone. Questo modo viene occasionalmente assunto e appare inserito, come elemento non omogeneo, negli schemi di una cultura prevalentemente razionale”. Cosi il vocabolo, per mezzo del quale l’inserzione avviene, da una parte mette a prova con la sua intrusione la solidità del sistema linguistico, dall’altra è esso stesso messo a prova, nella misura in cui la situazione linguistica — i nessi semantici — disomogenea costringe il lettore a scoprire o riscoprire un significato e una funzione attuali e autentici, non archeologici e mistificati. Non conta — e non è possibile — chiarire se L. fosse, su un piano politico e sociale, favorevole all’avanzata degli Italici e degli umili verso lo Stato romano, all’aggressione degli umili e dei poveri contro gli illustri e ricchi. Conta che le scelte lessicali e i criteri stilistici ottengono il risultato di rappresentare realisticamente fatti e personaggi, condizioni oggettive e soggettive umili, e di demistificare l’illustre mondo dei grandi, la risplendente gloria delle istituzioni, il sublime cristallo delle virtù patrie. Considerati gli avvenimenti politici e sociali a Roma e in Italia nel II sec. a.C., appare che L. — quali che fossero la sua opinione e il suo giudizio etici-politici — avvertiva le forze vive del suo tempo e della sua società. Avvertiva il crescere dell’importanza nella società romana del mondo del lavoro e del commercio; avvertiva l’urto tra un sistema etico-politico-culturale chiuso
(quello della nobilitas) e le forze sociali e individuali che non ne erano parte e
°! Per ragioni metriche l’edizione Terzaghi-Mariotti divide praecanto, collocando il prefisso in un verso e il verbo nel seguente. In questo caso la tmesi, cioè un procedimento stilistico illustre, opera sopra un vocabolo portatore di una sfera semantica magica: un vocabolo quindi che la cultura contemporanea, prevalentemente razionale e laicista, respingeva al margine. E anche questa considerazione mostra quanto il residuo di una attitudine magica sia inserito, anzi inte-
grato nella realtà vivente e vissuta degli uomini del tempo.
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_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
che premevano per trasformarlo così da trovarvi luogo. Avvertiva l’irrigidimento del sistema e la sua incapacità o grandissima difficoltà a comprendere le forze nuove, ad accoglierle, a far loro un posto. Intendeva — e interpretava
nella sfera della letteratura —
le attitudini,
le scelte etiche, i
comportamenti operativi di questa umanità umile ed estranea. L. comprendeva inoltre che la letteratura romana rischiava di arrestarsi nell’imitazione dei modelli greci — da Omero a Euripide a Menandro — e di congelarsi nella contrapposizione tra il mos maiorum e i mores universali dei filosofi. Per un verso e per l’altro la cultura letteraria correva il pericolo di isolarsi dalla società e di guardare solo alla propria intellettualistica — anche se universale — spiritualità. La Roma dei severi difensori delle tradizioni avite e la Roma dei filosofi e dei filelleni non erano tanto dissimili: entrambe stavano nelle menti e nei cuori dei pauci ac sapientes e dei docti, assai remote da quel tessuto vario e mutevole di persone e cose, di vizi e virtù, di fatti dello spirito e fatti della carne, di ambizioni e vanità, di successi ed umi-
liazioni, di ipocrisie e verità grandi e piccole, che era la Roma reale. Alla acquisizione di una humanitas concettuale L. affianca una rappresentazione concreta dell’uomo e degli uomini. L’homo universale riceve il complemento dell’homo particolare; in una letteratura, che pareva ormai costretta tra l’imitazione dei modelli greci, la continuità frigida della tradizione enniana, la progrediente assimilazione delle filosofie ellenistiche postsocratiche e l’incipiente apertura alla poetica alessandrina, viene introdotta una tematica che nessuna delle correnti menzionate proponeva davvero, cioè la rappresentazione delle condizioni oggettive e soggettive, delle attitudini psichiche, delle realtà corporali dell’uomo. Ma dire uomo non basta: bisogna dire tipi e individui; perché appunto la pluralità e la diversità dei tipi e la singolarità degli individui sono la sfera delle rappresentazioni di L.; e dell’individuo, come del tipo, a qualsiasi livello sociale e culturale appartenga, L. rappresenta non gli aspetti convenzionali, che riducono l’individuo a una macchietta e il tipo ad un carattere, ma gli elementi psichici e corporali idonei appunto a distinguere significativamente i tipi in quanto rappresentativi di forze e movimenti sociali e culturali, e gli individui in ciò che nella situazione data è, secondo quel che cor e praecordia dicono allo scrittore, autenticamente e propriamente personale nella sfera psichica e in quella fisica”. ‘ D'altra parte all’homo dei filosofi e dei letterati euripidei e menandrei e al vir dei senes severiores L. oppone e affianca la percezione della realtà corpo°° Cfr. C. A. VAN Rooy, Studies in classical Satire and related literary Theory, Leiden 1965, 52 “his poems deal with practicalls all aspects of contemporary life”; ibidem: “Above all, L. made the ‘satura’ a vehicle both of personal expression, in the sense of self-revelation, and of personal criticism, in the sense of censure of prominent contemporaries by name”.
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
111
rale e sensuale. Cioè: non solo aspetti o difetti fisici caratteristici di una singola persona, ma anche, in generale, parti e organi del corpo, comportamenti e atteggiamenti fisici trovano luogo e spazio nel discorso di L. sull’umanità; e l’uomo appare, pur analiticamente (del resto lo stato frammentario dell’opera è forse causa non ultima di questa impressione), raffigurato nella sua natura psichica e fisica: due aspetti per L. inscindibili e l’uno e l’altro irrinunciabili; ma motivi polemici e la volontà di attrarre l’attenzione sopra un’area, che filosofi e intellettuali parevano trascurare, condussero lo scrittore ad insistere con la forza di una vigorosa coloritura sull’aspetto fisico. La rappresentazione delle condizioni oggettive degli uomini passa per un processo provocatorio di risoluta rottura della sfera del lecito e del convenzionale in letteratura. Le artes (i mestieri) e i negotia (gli affari) sono alcuni tra i più vistosi di quegli elementi mediante i quali può essere criticata e completata l’astratta concezione universalistica dell’uomo; e proprio quelle e que-
sti non erano recepiti a livello di rappresentazione letteraria, perché non appartenevano al mondo etico e culturale della aristocrazia e dei viri inlustres. E con le artes e i negotia giungevano nella letteratura non solo le condizioni oggettive dei multi, ma anche quelle soggettive: le loro attitudini psichiche, i loro sentimenti, i loro pensieri; e anche le cose con le quali e sulle quali lavoravano: strumenti, materiali, tecniche. Altro complemento e insieme mezzo di
critica della concezione universalistica dell’uomo è la rappresentazione delle realtà corporali e sensuali dell’uomo e di altri animali. Anche questi temi (e i vocaboli pertinenti) non erano per niente recepiti nei limiti del lecito in lette-
ratura®. La trattazione di tutti questi argomenti era gia dunque non solo un’aggressione ai filosofi e ai patrioti, ma anche una scandalosa violazione delle regole che definivano il decoro dell’opera letteraria; e inoltre: non solo rompevano con un’operazione provocatoria l'isolamento della letteratura illustre e aristocratica, ma anche portavano dentro alla cittadella della cultura letteraria romana personaggi, situazioni, tipi, fatti e soprattutto vocaboli che le convenzioni degli uomini illustri e dei letterari avevano escluso. Nell’opera di L. viene alla luce — e proprio attraverso i procedimenti rappresentativi già descritti — un modo concreto di affermazione dell’individuo. L’individualismo,
indizio dell’insorgere della libertà dell’intellettuale contro
lo Stato, sintomo della crisi degli ideali eroici, della disgregazione della polis e dell’indebolimento della cultura/letteratura aristocratica, apparve non solo nell’ambito dei letterati e dei docti, degli intellettuali e dei grandi, ma anche tra gli umili e si sviluppò non soltanto per le vie della cultura e della filosofia, 5 J. R. C. MARTYN, op. cit., 504: “... L. ... has trades, with their technical terms, as one of his largest categories of subject-matter and has everyday life as another, enjoyed...”.
1
_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
ma anche per le vie del lavoro, del denaro, del successo negli affari, della ricchezza. Oltre alle note posizioni individualistiche assunte dallo scrittore stesso nella sfera sociale (cfr. vv. 678-679 = 719-720 TR), v. 680 ( = 725 TR), v. 686 ( = 724 TR) sul matrimonio)
e in una sfera spirituale del carattere
(cfr. vv. 671-672 = 627-628 TR), tutto quanto riguarda il ricupero del reale è pertinente, nella sostanza, alla rappresentazione del moto individualistico. La presenza di oggetti, come strumenti o materiali da lavoro, suppellettili, cibi, di aspetti concreti del corpo umano maschile e femminile, di caratteristiche e difetti corporali di persone, risponde appunto ad una volontà di individuazione che si manifesta, in rapporto a condizioni psichiche e soggettive non legittimate dalla doctrina, a tutti i livelli della sfera del sensibile.
L’individualità è acquisita in relazione agli oggetti. L’io si afferma ed emerge alla luce della storia e della cronaca come il metro per misurare l’utilità delle cose. Le cose delimitano, circonscrivono l’uomo, segnando i confini della sua personalità. Questa tanto più vale, quanti più oggetti usa, possiede, consuma. Di fronte all’idea dell’individuo, acquisita concettualmente in uno sforzo di assolutizzazione (io son io; io son chi sono etc.), si af-
faccia l’individualità concretamente sperimentata nel confronto e nel rapporto quotidiano con le cose e con le persone. Pacideianus afferma la sua individuale personalità contro Aeserninus (occidam illum et vincam), di fronte agli spettatori (si id quaeritis), nei riguardi della presenza ignota delle potenze oscure (verum illud credo fore: in os prius accipiam), infine in rapporto ad un gesto che stabilisce un contatto con l’altro, allo strumento mediante il quale il contatto avviene e agli oggetti nei quali materialmente il contatto ha luogo (gladium in stomacho sura ac pulmonibus sisto). Umanità (humanitas), individualità, personalità conosciute, introspettate, interpretate, rappresentate mediante l’indicazione delle relazioni concrete e quotidiane con persone e cose che costituiscono la sfera operativa dell’uomo. Essenziale è appunto che il processo conoscitivo avvenga nella sfera operativa: la categoria dell’utile (v. utilior del v. 516, riferito a sapiens, ma in un
contesto che, descrivendo oggetti d’uso con la secchezza di un inventario, colloca il sapiens e la sapientia, di cui quello è latore, al livello del fruibile quotidiano), le relazioni e le analogie, impensate e provocatorie, colte tra aspetti dell’operare intellettuale ed etico (sic amici animum quaerunt, res parasiti ac ditias) e di quello materiale e utilitaristico (cocus non curat cauda insignem esse illam, dum pinguis siet), la riduzione di persone e istituzioni a condizione di strumenti idonei all’uso individuale (huic homini quaestore aliquo esse opus atque corago) e destinati all’esecuzione di operazioni finanziarie (publicitus qui mi atque e fisco praebeat aurum) dirette a porre in essere una delle situazioni più significative e più ricche di conseguenze proprio per
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
113
la maturazione e l’affermazione dell’individuale personalità: il possesso e l’uso del denaro. Mi par dunque che il risultato finale delle scelte linguistiche e stilistiche di L., per quanto riguarda questa tematica dell’humanitas e dell’individualismo, risponda alla volontà di una rappresentazione dell’individuale personalità — pertinente sia alle condizioni soggettive e alle attitudini psichiche e culturali sia alle condizioni oggettive e agli aspetti del corpo — condotta tutta ben dentro al concreto terreno della cronaca e della storia; e che si attua nella de-
finizione — attraverso materiale lessicale e moduli espressivi — di un contesto di nessi dai quali sia come soggetto sia come oggetto l’individuo viene delimitato e circoscritto: insomma, proprio per mezzo di quel tessuto di connessioni soggettive e oggettive con il mondo nel quale e del quale vive, l'individuo può essere riconosciuto appunto nella sua individualità.
114
. FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
APPENDICE LESSICO DEL REALE E DELLA LINGUA ILLUSTRE PARTE PRIMA: la natura.
I. — Ambiente. 2. — Colori.
3. — Vegetali. 4.1. — Bestie.
4.2. — 4.3. — S.1.5.2. — 5.3. — 5.4. —
Parti del corpo delle bestie. Aspetti e comportamenti. L'uomo e il suo corpo. Parti del corpo. Aspetti e comportamenti. Malattie e difetti.
PARTE SECONDA: le operazioni dell’uomo. — Coito. Erotica. . — Magia. . — Cure. . — Cosmesi. . — Agricoltura. .— Culinaria. YANRWN . — Il vino. 8. — La produzione. 8.1. — Strumenti. Operazioni. 8.2. — Materiali.
8.3. 8.4. 8.5. 9. —
10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.
— Misure. — Oggetti di uso personale e domestico. — La casa. Navigazione.
— — — — — — —
Vita militare. Mestieri. Affari. Qualificazioni. Vocaboli politici specialistici e gergali. Giochi. Lingua colloquiale come manipolazione affettiva del reale.
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
115
PARTE TERZA: lingua illustre. 1. — Religione. 2. — Politica e diritto. 3. — Lingua della doctrina. AVVERTENZE PER LA LETTURA DEL LESSICO.
1) Dei due numeri che precedono la testimonianza, il primo indica il verso nell’ordine di Marx, il secondo nell’ordine di Terzaghi-Mariotti, Saturarum reliquiae, Firenze 1966. Se è citato un solo numero, esso è della numerazione
di Terzaghi.
2) F significa frequenza: il numero nell’intero corpo dei frammenti di Lucilio.
delle
ricorrenze
del
vocabolo
3) I versi, per i quali la numerazione Terzaghi-Mariotti dà cifre dal 1350 al 1384, sono dubbi. 4) La frequenza indicata sarà spesso superiore a quella risultante dalle testimonianze. Ciò deriva dal fatto che il vocabolo compare nel testo dei frammenti in accezioni diverse.
5) L’ordine dei casi (nel quale sono disposte le testimonianze) è: nominativo, vocativo, accusativo, genitivo, dativo, ablativo, locativo ( che è l’ordine impiegato dal Laboratoire d’ Analyse statistique des Langues anciennes dell’ Universita di Liegi, Belgio, diretto dal prof. Louis Delatte, presso il quale sono stati fatti, a mezzo di computer, le analisi grammaticali e l’ index dell’intero corpus luciliano). 6) Al termine del lessico vengono presentate alcune semplici elaborazioni statistiche pertinenti la ripartizione del vocabolario di Lucilio indicata dal lessico.
116
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
PARTE PRIMA - LA NATURA 1. — Ambiente. 527.563. duo hos ventos, austrum atque aquilonem 998.1107. simul ac paulo vehementius aura / inflarit 292.284. auram adversam segetem inmutasse 529.565. istos / ex nimbo austellos nec nosse nec esse putare 527.563. duo hos ventos, austrum atque aquilonem 601.655. ne caelum bibat. 939.1002. sereni caeli numina 1278.482. qui campos collesque gradu perlabitur uno 1278.482. qui campos collesque gradu perlabitur uno 870.874. ventorum flamina 871.875. ventorum flamina / flando suda 999.1108. simul ac paulo vehementius aura / inflarit, fluctus erexerit extuleritque. 40.29. nam si tu fluctus undasque e gurgite salso / tollere decreris. 996.1106. vir mare metitur magnum et se fluctibus tradit. 390.412. fluctibus a ventisque adversis firmiter essent. 1152.1254. decumanis fluctibus 315.327. verum flumen uti, atque ipso divortio aquarum / iligneis pedibus cercurum currere ut aequis. 126.117. Silari ad flumen
aquilo aura austellus auster
caelum
329.343.
nm NO I n
si ostrea Cerco / cognorit fluvium, limum ac caenum sapere ipsum. 1260.1244. Priverno Oufentina venit fluvioque Oufente 1008.1009. Musarum e fontibus 939.1002. salsi fretus 101.100. freta, Messanam, Regina videbis / moenia 40.29. fluctus undasque e gurgite salso 1308.1319. terra abit in nimbos imbremque 1162.1271. et suffocare lacuna conatur 1219.1310. resultabant aedesque lacusque 644.699. lucorum sanctorum Albanum 466.494. Carpathium mare. 996.1106. vir mare metitur magnum. 727.755. neque alia in mare ulla offendere
113.111. aiytAutes montes. 799.846. tantis e tenebris montes se in aethera tollent. 247.255. oriundi montibus
Lucanis
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
LEMMA
117
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
nigror
2
nimbus
2
nox
3
pelagus promontorium saxum
1 1 4
sol
3
sudus
2
tempestas
4
tempus terra
5 6
ventus
6
unda
1
|209.224. noctis nigrore. 1218.1286. alga atque nigrore |529.565. istos ex nimbo austellos. 1308.1319. terra abit in nimbos |127.118. media remis Palinurum pervenio nox. 1228.1126. a mani usque ad noctem. 209.224. noctis nigrore 1291.495. Carpathium in pelagus 125.116. promontorium Minervae |1376.1379. Sisyphus versat / saxum sudans nitendo. 1374.1377. vivum de saxo Tarpeio. 1293.1311. saxa et stridor ubi atque rudentum sibilus instat. 872.876. saxa spargens tabo 191.199. sed nunc sol is mi in magno maerore. 292.284. solem, auram adversam segetem inmutasse. 68.63. sole occaso |1303.1315. suda. 871.875. ventorum flamina / flando suda secundent |38.40. tempestatem hanc scelerosi / mirentur. 626.678. te in tranquillum ex saevis transfert tempestatibus | 1.1. aetheris et terrae genitabile quaerere tempus |1308.1319. terra abit in nimbos imbremque. 255.267. Sardiniensem / terram. 1.1. terrae genitabile tempus. 405.416. terra ... Hibera. 468.484. Hibera / in terra. 491.538. miles Hibera/ terrast |42.31. ventum, inquam, tollas. 41.30. venti prius Emathii vim. 666.713. pars difflatur vento. 527.563. duo hos ventos, austrum atque aquilonem. 870.874. nec ventorum flamina. 390.412. fluctibus a ventisque adversis firmiter essent | 40.29. si tu fluctus undasque e gurgite salso / tollere decreris
2. — Colori.
aquilus (color est fuscus et| subniger Paul. ex Fest. 22.)
1
1270.1208. albam pampinum. 661.711. multitudinem / tuorum quam in album indidisti. 831.900. . 831.900. signat linea alba 1110.1249. aquilum
118
_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
E CATEGORIA GRAMMATICALE 873.877. sanguine / atro 1145.1262. cretatumque bovem duc ad Capitolia magna 1047.1081. vestimentis maculosis 311.319. omnicolore 1270.1208. purpuream uvam. 568.601. purpureo
ater
cretatus (=candido) maculosus omnicolor
purpureus
gausape
i
1289.1309. ravi 945.982. virde cima
ravus viridis
3. — Vegetali.
cactus flos herba
1 1 3
pampinus sabucum
1 1
scirpus (giunco) sentis (rovo)
2
uva
2
1
333.344. contritis arbore costis. 644.699. fulguritarum arborum 1099.1245. cactum 1116.1245. florem delegeris |1076.1068. aliquae id genus herba. 1188.218. hic sunt herbae quas sevit Iuppiter ipse. 947.980. austerissimarum herbarum 1270.1208. albam pampinum |733.783. ardum, miserinum atque infelix lignum sabucum vocant |36.28. nodum in scirpo |213.227. stat sentibus pectus. 1301.1313. stat sentibus fundus |1270.1208. purpureamque uvam facit albam pampinum habere
4.1. — Bestie. acceptor (=accipiter) anguis anser aries asinus
bisulca (bestie dall’unghia fessa) boa (se rpe d’acqua)
1170.1275. extra acceptoris et unguis 587.650. nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos | scribitis 268.290. anseris collus 534.552. ibat forte aries 974.1053. uti pecudem te, asinumque ut denique nasci / praestiterit. 1299.1343. asino carduos comedente 1067.1075. corpus ... perolesse bisulcis 1195.1283. ne boa noxit
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
bos caballus
camphippus (hippocam-
Li9
E CATEGORIA GRAMMATICALE 388.406. ne bovem in arce descripsi magnifice. 1145.1262. cretatumque bovem duc ad Capitolia magna 1375. Satureianus caballus. 163.176. succussatoris taetri tardique caballi 1126.1256. camphippi
pus) canes (=canis) catulus
cercopithecus colubra delphinus echinus elephantocamellus elephas equus
fera fetus gallinaceus gallus grus lea leo
lupus mergus mulus mus (mollusco) musimo (muflone) olor ostreum
pecus
pecus
polypus
2.2. irritata canes. 1221.1288. laniorum immanis canes 164.177. catulos ferai. 287.301. ad catulos accedere 1321.1324. vernam ac cercopithecon 575.608. Marsus colubras disrumpit cantu 284.305. si movet ac simat nares, delphinus ut olim 1201.1199. luna implet echinos 1126.1256. elephantocamellos 14.13. miracla ciet elephantas 476.481. ipse ecus, non formonsus, gradarius, optimus vector. 256.268. qui vendit equum. 1284.1175. hunc currere ecum. 1078.1125. publico . 1305.1317. sustineas currum, ut bonus saepe agitator,
equosque 164.177. 164.177. 300.316. 300.316. 168.170.
fetumque ferai fetumque ferai gallinaceus gallus gallinaceus gallus longior hic quam grus, grue tota cum volat
olim 287.301. iratae leae 985.1048. deducta tunc voce leo. 980.1043. leonem aegrotum ac lassum. 286.300. esuriente leoni ex ore exculpere praedam 826.895. vetulum lupum Annibalem 1103.1216. agrarius mergus 435.460. hunc iuga mulorum protelo ducere centum
non possunt 1201.1199. luna muribus fibras / et iecur addit 256.268. qui vendit equum, musimonem 268.290. si olorum atque anseris collus 1201.1199. luna alit ostrea 974.1053. uti pecudem te, asinumque ut denique nasci / praestiterit 212.226. lascivire pecus nasi rostrique repandum. 1246.1294. pascali pecore ac montano, hirto atque soloce 862.964. iam edet haec se, ut polypus ipsa
120
_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA
F.
porcus pulix rhinoceros
2 1 2
scorpios taurus tinia vermiculus vulturius (avvoltoio)
1 1 1 1 1
vulucer
1
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE |333.344. scaberat ut porcus |675.716. pulices mutem meos |118.136. dente adverso eminulo hic est rinoceros. 159.163. rinocerus velut Aethiopus 1022.1028. hic ... ut scorpios cauda / sublata |247.255. Lucanis oriundi montibus tauri |995.1105. tiniae omnia caedunt |266.289. ne vermiculi qui |46.46. vulturius |587.650. volucris ac pinnatos
4.2. — Parti del corpo delle bestie. cauda
2
oculus
8
|716.762. cauda insignem esse illam, dum pinguis siet. 1022.1028. hic ... ut scorpios cauda / sublata |248.256. tauri / ducere protelo validis cervicibus possent. 1347.569. ut petimen naso aut lumbos cervicibus tangat |268.290. olorum atque anseris collus |1207.107. mantica cantheri costas gravitate premebat. 333.344. ut porcus contritis arbore costis |301.317. gallinaceus cum victor se gallus honeste / altius digitos primoresque erigit unguis |1170.1275. exta acceptoris |1201.1199. luna ... muribus fibras ... addit 1202.1200. luna ... muribus ... iecur addit |1347.569. lumbos cervicibus tangat |511.540. truleus pro stomide huic ingens de naribus pendet |212.226. pecus nasi rostrique repandum. 1347.569. petimen naso ... tangat |1286.1177. ergo oculis equitat
cervix
2
collus costa
2 2
digitus
2
exta fibra iecur lumbus naris
1 1 1 2 3.
nasus
2
os
13
|286.300. ex ore (leoni) exculpere praedam
pellicula
1
pes rostrum testis unguis
13 5 2 2
|536.554. pellicula extrema exaptum pendere onus ingens | 193.210. intubus praetera pedibus praetensus equinis |212.226. pecus nasi rostrique repandum
|535.553. quantis testibus |301.317. gallinaceus cum victor se gallus honeste / altius in digitos primoresque erigit unguis. 1170.1275. exta acceptoris et unguis
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
121
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
— Aspetti e comportamenti. equito
fabulus
(stercus
capra-
rum) fimus (sterco)
formosus gradarius hinnitus (nitrito)
hirtus indomitus (selvatico) montanus
pascalis petimen (ulcerazione alla spalla di bestia da soma) repandus (piegato all’in
1285.1176. equitat curritque. 1286.1177. ergo oculis equitat. 1284.1175. hunc currere ecum atque equitare. 1285.1176. oculis equitare videmus 1018.1017. hic in ... fabulis
1018.1017. hic in ... fimo 476.481. ipse ecus non formonsus 476.481. ipse ecus non formonsus, gradarius 1275.1305. quantum hinnitum atque equitatum 1246.1294. pascali pecore ac montano, hirto atque soloce 1042.1091. Thessalam ut indomitam 1246.1294. pascali pecore ac montano 1246.1294. pascali pecore 1347.569. petimen naso ... tangat 212.226. pecus nasi rostrique repandum
su)
rudo (ruggisco) Satureianus
261.275. haec, inquam, rudet ex rostris (originario
1375. Satureianus caballus
della Puglia)
solox (grossolano) stercus
succussator (che scuote)
succussor (che scuote) sucerda (stercus suillum) tolutim (al trotto)
1246.1294. pascali pecore ac montano, hirto atque soloce 399.419. omnis / extra castra ut stercus foras eiecit. 1018.1017. hic in stercore 163.176. succussatoris caballi 507.542. Campanus sonipes succussor 1018.1017. hic in ... sucerdis 313.329. si omne iter evadit stadiumque acclive tolutim. 314.330. velle tolutim hic semper et incepturus videtur
122
| FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA
F.
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
5.1. — L’uomo e il suo corpo. homo (come sostitutivo di vir o di un pronome personale o dimostrativo)
corpus
55
|66.61. homo inpuratus. 150.152. quidam / Samnis, spurcus homo. 173.185. hic tam formonsus homo. 242.270. non magnus homo est. 280.303. testam sumit homo Samiam sibi. 419.443. formonsus homo fuit. 836.912. quis tu homo es? nemo sum homo. 1224.1156. non tango, quod avarus homo est. 1238.1160. es homo miser. 1221.1288. nequam et magnus homo. 156.160. odi hominem. 276.298. huncin ego unquam Hyacintho hominem, cortinipotentis / deliciis, contendi? 426.451. non laudare hominem quemquam. 514.535. te primum cum istis insanum hominem et cerebrosum. 559.594. aurum vis hominemve? hominem? quid ad aurum. 921.831. nomen deferre hominis. 58-59.58. vix vivo homini ac monogrammo. 246.254. omnia in una / sunt homini bulga. 428.453. huic homini. 432.458. assensus sum homini. 548.578. magna ossa lacertique / adparent homini. 582.618. nasum rectius nunc homini est suraene pedesne? 656.668. nec homini mea prosperatur pax. 953.675. homini amico et familiari non est mentiri meum. 618.722. sumtum homini praebeat. 803.851. hoc invenisse unum ad morbum illum homini vel|. bellissimum. 918.944. concedat homini id quod velit. 1372.1374. quare, da te homini. 505.529. visuri alieni / sint homines. 678.719. homines ipsi hanc sibi molestiam ultro atque aerumnam offerunt. 1255.1184. porro homines nequam. 90.80. praeclarorum hominum ac primorum 189.194. si tam corpus loco validum ac regione maneret. 1296.568. si corpore corpus (praestat). 935.1003. nasum hoc corpusque scutum. 1067.1075. quis scis corpus iam perolesse bisulcis. 639.684. doloribus confectum corpus animo obstitere. 641.691. cum in stadio, in gymnasio, in duplici corpus siccassem pila. 859.965. hic corpus solidum invenies. 115.119. curando corpore. 174.182. corpore duro. 1296.568. si corpore corpus (praestat). 638.683. videmus corpore hunc signum dare. 646.690. distento corpore. 859.966. corpore marmo-
reo
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
2,
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
5.2. — Parti del corpo.
cerebrum
filum (oris liniamentum,
948.974. collo caput sustentatur. 179.178. in caput insilit. 288.281. iactari caput. 523.558. caput ungunt horridulum. 883.889. caput scabit. 841.917. has e fenestris in caput / deiciunt. 1090.1137. se nutricatum insane caput opprimit ipse. 1277.197. capitis dolores. 783.829. capitis dicturum diem 224.220. scutam / ligneolam in cerebro infixit 289.282. iactari caput atque comas, fluitare capronas / altas, frontibus immissas 43.44. quae facies? 44.45. vultus item ut facies. 1296.568. si facie facies praestat. 271.291. aetatem et faciem. 334.345. si nihil ad faciem. 269.292. aetatis facieque. 1257.1298. facie honestae. 1296.568. si facie facies praestat. 794.844. pro facie, pro statura Accius. 833.902. in adulescentulis meliore paulo facie. 1039.1083. vultu ac facie. 1116.1237. acri ex facie
816.865. filum non malum
Non. 313.17.)
rostrum (muso, grugno, ceffo) vultus oculus
auricula auris
210.239. designati rostrum praetoris. 336.351. rostrum labeasque ... percutio. 1121.1255. baronum ac rupicum squarrosa incondita rostra 43.44. qui vultus viro? 44.45. vultus item ut facies. 1039.1083. vultu ac facie 1342.510. uno oculo. 267.285. quos? oculi non sunt neque nasum? et qualia sunt! 706.758. illo oculi deducunt ipsi. 983.1046. inluvies scabies oculos huic deque petigo/ conscendere. 1094.1097. praestringat oculorum aciem. 1095.1021. inde canino ritu (ricto Lindsay) oculisque / involem. 1285.1176. oculis equitare videmus 266.289. ne auriculam obsidat caries 610.674. per auris pectus inrigarier. 1080.1120. sicubi ad auris / fama tuam pugnam praeclaram adlata dicasset. 1220.1155. nequam aurum est, auris quodvis vehementius ambit
124
_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
labea
labellum labrum
barba barbula
capillus capronae (Non. 22.5: capronae dicuntur comae quae ante frontem sunt) coma
E CATEGORIA GRAMMATICALE 574.607. eduxique animam in primoribus naris. 284.305. si movet ac simat nares 267.285. oculi non sunt neque nasum? et qualia sunt! 582.618. nasum rectius nunc homini est suraene pedesne? 942.1349. nasum deductius / quam pandius. 935.1003. nasum hoc corpusque scutum 546.576. dentem eminulum unum. 117.135. dente ‘ladverso eminulo. 337.352. dentesque advorsos discutio omnis. 414.424. et uncis / forcipibus dentes evelleret 336.351. rostrum labeasque hoc vociferanti / percutio. 584.620. Zopyrion labeas caedit utrimque secus 303.312. labra labellis / fictricis conpono 303.312. Jabra labellis / fictricis conpono. 1004.1114. labra delingit. 1299.1343. similem habent labra lactucam asino carduos comedente 378.396. canina / si lingua dico. 1364.1367. linguae centum 137.132. malas tollimus nos atque utimur ... rictu 154.158. in os prius accipiam ipse (gladium). 18.14. fecit pausam ore loquendi. 398.418. spurcos ore. 417.440. ore improbus duro. 456.499. manducamur in ore. 585.621. iucundasque puer qui lamberat ore placentas. 965.979. quaenam vox ex tuo ore resonans meo gradu remoram facit? 1046.1080. mansum ex ore. 1242.1291. ore corupto. 1244.1293. ore salem expiravit amarum. 1266.1302. pro obtuso ore pugil. 1364.1367. ora centum. 573.607. animam in primoribus oribus naris 137.132. utimur ... rictu 1007.1113. neque barbam inmiseris istam 321.334. unde pareutactoe, clamides ac barbula prima 991.1101. discerniculumque capillo. 955.673. praeficae multo et capillos scindunt 288.281. fluitare capronas / altas, frontibus inmissas
288.281. iactari caput atque comas 57.57. in fauces invasse 946.986. omnes mandonum gulae 1167.1193. et ventrem et gutturem eundem
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
125
aoe mamma
papilla sumen
(mammella)
uber bulga (vulva)
eugium (Non. 107.28: media pars inter naturalia
E CATEGORIA GRAMMATICALE 991.1101. euplocamo digitis 176.184. manus uberibus, lactanti in sumine, sidat. 1031.1036. et muttonis manum perscribere posse tagacem. 177.180. ne agitare manu tu / pessulum ... possis. 711.761. canicas ac pultem e Magonis manu. 724.770. in eo dare, quo superatur, manus. 901.930. manus a muliere abstinere melius est. 796. 841. omnia viscatis manibus leget 1245.1239. palmisque misellam depuviit me 541.571. uterum atque etiam inguina tangere mammis 859.965. hic stare papillas corpore marmoreo 176.184. lactanti in sumine 176.184. manus uberibus, lactanti in sumine, sidat 623.626. e bulga est matris in lucem editus 940.861. Hymnis si sine eugio
muliebria) uterus
vulga (=bul caulis moetinus
a)
muto
mutonium natrix
pes (=penis) testis vallum (=veretrum, parti genitali maschili o femminili) clunis natis
podex
posticus (postica pars: de-
541.571. uterum atque etiam inguina tangere mammis 73.67. in vulgam penetrare pilosam 281.304. praecidit caulem 78.68. quid moetino subrectoque huic opus signo 307.320. at laeva lacrimas muttoni absterget amica. 1031.1036. et muttonis manum perscribere posse tagacem 959.987. muttonium 72.65. si natibus natricem inpressit crassam et capitatam 1248.143. inposui pede pellibus labes 281.304. testisque una amputat ambo 1317.1345. vallo 330.349. crisabit ut si frumentum clunibus vannat 1363.1366. naterum. 72.65. natibus natricem inpressit 1267.1230. podicis, Hortensi, est ad eam rem nata palaestra 119.137. non peperit, verum postica parte profudit
retano)
abdomen articulus calx
976.1041. abdominis taetri / inpulsu 162.166. haeret verticulis adfixum in posteriore / parte atque articulis 1064.1061. ipso cum domino calce omnis excutiamus. 259.309. cum ad calcem. 477.478. calx
126
|
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
E CATEGORIA GRAMMATICALE 703.748. collus cernui. 948.974. collo caput sustentatur
coxendix
crus
genus inguen lacertus
488.516. signis cor inesse in aenis. 190.195. vera manet sententia cordi. 626.641. res ... est cordi. 629.644. quod tibi cordi est. 1017.1016. nonne ante in corde volutas 949.975. truncus sustinetur coxendicibus 844.920. crus lapide ... si te offenderit. 306.315. cruribus crura diallaxon. 583.619. insignis varis cruribus et petilis 162.166. nam ut nobis talus genusque est 1195.1283. inguen ne existat. 541.571. inguina tangere mammis 547.577. magna ossa lacertique / adparent homini. 175.183. tenero maneat, qui sucus, lacerto. 246.254. bulga haec devincta lacerto est 305.314. tum latus conponit lateri. 872.876. latere pendens i 278.306. illam autem ut frumentum vannere lumbis 919.945. nervos omnis eligat 547.577. magna ossa lacertique / adparent homini 213.227. interea stat sentibus pectus. 305.314. cum pectore pectus. 610.674. haec tu si voles per auris pectus inrigarier. 136.131. acidos ex pectore ructus. 1187.164. haerebat mucro gladiumque in pectore totum. 296.310. pectore puro. 305.314. cum pectore pectus. 431.457. firmiter hoc, pariterque tuo sit pectore fixum. 1049.1082. quandoque pudor ex pectore cessit. 971.1038. risu res pectora rumpit 795.843. timido pede percitus vadit. 210.239. designati praetoris pedes. 582.618. nasum rectius nunc homini est suraene pedesne? 883.889. hic ubi me videt / pedes legit. 1109.1248. Apulidae pedibus
planta
praecordia pulmo
stlembi. 193.210. pedibus equinis. 1342.510. pedibus duobus. 1161.1238. et pedibus laeva Sicyonia demit honesta 129.124. cernuus extemplo plantas convestit honestas 642.686. venas hominis tetigit ac praecordia. 590.633. ex praecordiis ecfero versum 106.106. pulmonibus aeger agebat. 155.159. gladium in stomacho sura ac pulmonibus sisto. 169.171. Tisiphone Tityri pulmonibus atque adipe unguen / excoctum attulit
RAPPRESENTAZIONE
stomachus
1
sura
2
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
127
E CATEGORIA GRAMMATICALE 155.159. gladium in stomacho sura ac pulmonibus sisto 155.159. gladium in stomacho sura ac pulmonibus sisto. 582.618. nasum rectius nunc homini est surae-
talus tergum truncus vena
1 1 1 2
venter
6
ne pedesne? 162.166. nam ut nobis talus genusque est 772.815. dum salvo tergo et tergino licet |949.975. truncus sustinetur conxendicibus |576.609. iam disrumpetur ... / ... venas cum extenderit omnis. 642.686. venas hominis tetigit ac praecordia |645.689. si eluviem facere per ventrem velis. 813.858. ventrem alienum. 1071.1077. nemo istum ventrem pertundet. 1167.1193. et ventrem et gutturem eundem. 501.525. rugas conducere ventris. 75.71. vivite lurcones, comedones, vivite ventris
verticula (giuntura, vertebra)
1
161.165. haeret verticulis parte atque articulis
adfixum
in posteriore /
5.3. — Aspetti e comportamenti. 1190.1279. horret et alget 1058.1098. barbati moechocinaedi 268.290. calda siem ac bene plena =oS = 72.65. natibus natricem inpressit crassam et capita-
algeo barbatus calidus capitatus
tam
broccus
(CGL
V
443.28:
1
117.135. broccus Novi manus
caninus
2
caleo calvus
1 2
compernis
1
crassus
4
|377.395. canina si lingua dico. 1095.1021. inde canino ritu (ricto Lindsay) oculisque / involem |966.985. scinde calam ut caleas |972.1039. calvus Palantino quidam vir non bonus bello. 1211.1228. Myconi calva omnis iuventus |542.572. conpernem aut varam fuisse Amphitryonis acoetin |72.65. natibus natricem inpressit crassam. 413.437. Lucius Cotta senex, crassi pater huius 61.87. in capulo hunc non esse aliumque cubare
brocci sunt producto ore et dentibus .—prominentibus; Non. 25.24. broncus, cfr. broncio)
cubo
128
| FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
deductus
eminulus
empleuros (bonis lateribus praeditus) formosus
gracilis honestus
horridulus imberbus langueo ligurrio macellus magnus mordicus
muliercula nasutus
pandus
passus pernix petilus pilosus puellus purus scabo
E CATEGORIA GRAMMATICALE 942.1349. nasum deductius / quam pandius paulo vellem 546.576. dentem eminulum unum. 117.135. dente adverso eminulo 1251.1205. pistricem validam ... / addas empleuron 173.185. tam formonsus homo. 419.443. formosus homo fuit. 1226.1170. formonsus dives liber rex. 1026.1032. omnes formonsi 296.310. quod gracila est, pernix 566.592. mulierculam honestam. 1257.1298. facie honestae. 129.124. plantas honestas 524.559. caput ungunt / horridulum 1058.1098. inberbi androgyni 400.420. qui in latrina languet 530.560. extrema ligurris 242.270. non magnus homo est, nasutus, macellus 242.270. non magnus homo est. 1221.1288. nequam et magnus homo 659.702. mordicus petere aurum e flamma expediat, e caeno cibum 566.592. mulierculam honestam 242.270. non magnus homo est, nasutus, macellus 943.1350. nasum deductius / quam pandius paulo vellem 557.587. rugosi passique senes 740.778: fuimus pernices, aeternum id nobis sperantes fore. 296.310. quod gracila est, pernix 583.619. insignis varis cruribus et petilis 73.67. in bulgam penetrare pilosam 425.446. tener ipse etiam atque puellus. 173. 185. tam formonsus homo ac te dignus puellus 296.310. quod gracila est, pernix, quod pectore puro 333.344. scaberat ut porcus. 883.889. hic ubi me videt/ ... caput scabit ... 284.305. si movet ac simat nares, delphinus ut olim 859.965. hic corpus solidum invenies 794.844. pro facie, pro statura Accius 1297.1241. si vero das quod rogat, et si suggeris suppus 883.889. hic ubi me videt/ ... subpalpatur 425.446. tener ipse etiam atque puellus. 175.183. tenero maneat qui sucus lacerto 393.415. stabat rorarius velox
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
120
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
LEMMA
5.4. — Malattie e difetti. abzet (pro mortuus Paeligna vox) angina
est:
arepia arquatus (itterico) arthriticus balbus
boa (gonfiore provocato dal morso del serpe di acqua omonimo) cadaver capularis (da sepoltura) caries cariosus catax (coxo vel claudus) cicatrix claudo claudus
depetigo (impetigine) distendo dolor
elino (insudicio) febris
gangrena gibber gravedo herpesticus (serpeggiante)
intercus (aqua intercus=idropisia)
581.617. primum Pacilius tesorophylax, pater, abzet
1093.1135. quem una angina sustulit hora 923.999. quem febris una atque una darewpia, vini, inquam, cyathus unus potuit tollere 1092.1070. nos esse arquatos 331.347. arthriticus ac podagrosus 238.249. thauma men, inquit balba
1195.1283. ne boa noxit
1369.1372. pergit capulare cadaver 1369.1372. pergit capulare cadaver 266.289. ne auriculam obsidat caries 1062.1057. clauda una est pedibus cariosis mensula vino 77.91. Hostilius contra / pestem permitiemque, Catax quam et Manlius nobis 741.784. cicatrix melius: papulae differunt 250.261. cinerarius cludebat 1062.1057. clauda una est pedibus cariosis mensula vino 983.1046. inluvies scabies oculos huic deque petigo / conscendere 646.690. cura ne omnibus distento corpore expiret viis ; 1314.198. lateralis dolor. 1277.197. capitisque dolores. 639.684. doloribus confectum corpus 647.695. si hic vestimenta elevit luto 998.923. quem febris una ... potuit tollere. 1194.1282. iactans me ut febris querquera. 494.520. arcessit febris 53.51. serpere uti gangrena mala 1179.1277. gibbere magno 820.946. urget gravedo saepius culpa tua 53.51. serpere uti gangrena mala atque herpestica posset 764.804. aquam te in animo habere intercutem
130
_
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE lateralis (lateralis dolor=pleurite) lippus mancus (monco, storpio)
naevus papula
podagrosus porrigo (forfora, tigna) punctum (piccolo difetto della pelle) purgo pus querquera (querquera febris o querquera: febbre con brividi)
rames (=ramex, ernia, or-
1314.198. lateralis dolor, certissimus nuntius mortis
195.206. lippus edenda acri assidue ceparius cepa 332.348. quod mancus miserque 546.576. verrucam naevum punctum 741.784. verruca aut cicatrix melius: papulae differunt. 1195.1283. inguen ne existat, papulae, tama, ‘ne boa noxit. 331.347. arthriticus ac podagrosus 983.1045. porriginis plenum 546.576. verrucam, naevum, punctum 1037.1026. quin totum purges, devellas me 494.520. arcessit febris senium vomitum pus 1277.197. querquera consequitur capitisque dolores. 1194.1282. iactans me ut febris querquera 332.348. ramite magno
chiocele)
raucio ruga rugosus scabies
scabiosus senium
squarrosus (coperto di pustole) stlembus (tardo) strabo
tabum tama (gonfiore dei piedi o delle mani) tussis varus
varicosus vatax (dai piedi storti)
567.597. rausuro tragicus qui carmina perdit Oreste 501.525. rugas conducere ventris 557.587. rugosi passique senes. 430.455. rugosum atque fami plenum 983.1046. inluvies scabies oculos huic deque petigo conscendere. 597.651. squalitate summa ac scabie ... obrutam. 982.1045. tristem et corruptum scabie 857.959. scabiosum / eicere istum abs te quam primum et perdere amorem 1117.1180. es, ait quidam, senium atque insulse sophista. 494.520. arcessit febris senium vomitum pus 1121.1255. squarrosa incondita rostra
1109.1248. Apulidae pedibus stlembi 704.756. non strabonem fieri saepius / deliciis me istorum 872.876. saxa spargens tabo 1195.1283. inguen ne existat, papulae, tama 1277.197. querquera consequitur tussim. 1108.205. quidam / perditus Tiresia tussi grandaevus gemebat 543.573. varam fuisse Amphitryonis acoetin. 583.619. insignis varis cruribus et petilis 801.848. varicosus Vatax 801.848. varicosus Vatax
RAPPRESENTAZIONE
LEMMA vermiculus
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
131
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 1
266.289.
ne auriculam
obsidat caries, ne vermiculi
qui |741.784. verruca aut cicatrix melius: papulae differunt. 546.576. verrucam naevum punctum |602.688. quam fastidiosum ac vescum vivere cum fastidio |1185.1278. haec odiosa mihi vitiligo est
verruca
2
vescus (senza appetito)
1
vitiligo
1
vomica (ascesso)
1
802.852. non mortifero adfectus vomicae vulnere
vomitus
1
|494.520. arcessit febris senium vomitum pus
PARTE SECONDA - LE OPERAZIONI DELL’UOMO 1. — Coito. Erotica. amor
5
androgynus cinaedus
1 2
criso (dimeno le anche) cubo delenio delingo diallaxon [aoristo impera-
1 2 2 1 1
1004.1114. delenit amore 1058.1098. inberbi androgyni |1140.1223. luci effictae atque cinaedo. 32.16. stulte saltatum te inter venisse cinaedos 330.349. crisabit ut si frumentum clunibus vannat |925.995. Cretaea...ad me cubitum venerat 1004.1114. delenit amore 1004.1114. labra delingit 306.315. et cruribus crura diallaxon
1
1186.969. haec inbubinat
1
|1186.969. at contra te inbulbitat
tivo attivo 2. per. di òLaAAGO (incrocio)] imbubino (menstruo mu-
lierum sanguine inquino) imbulbito (puerili stercore| inquino) lupa lupor (mi prostituisco)
lustrum (/upanar) maltha (invertito) moechocinaedus molo (macinare) noctipuga pathicus pedicum prostibulum scortum
334.345. si olim lupa prostibulumque 207.230. tu inpune luperis 1034.1019. quem sumptum facis in lustris 732.776. quem maltam ac feminam dici videt 1058.1098. barbati moechocinaedi 278.306. hunc molere 1222.1289. noctipugam 680.725. pathicam familiam 74.66. pedicum iam excoquit omne 334.345. si olim lupa prostibulumque 1271.1240. Pyrgensia scorta
fd nm mmm
132
_
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE scultimidonus (qui scultimam suam, quod est podicis orifitium, gratis largiuntur) secubito (dormire sola, di una moglie che si nega al marito) surrigo vanno re)
(vagliare,
far salta-
virosus (ninfomane) boXioxortodpar (tentigine rumpor)
1373.1376. scultimidoni
685.729. si secubitet, non impetret
sic quoque
a me quae roget
78.68. quid moetino subrectoque huic opus signo 330.349. ut si frumentum clunibus vannat. 278.306. illam autem ut frumentum vannere lumbis 282.307. virosam uxorem caedam 304.313. cum poclo bibo eodem, amplector, labra labellis fictricis conpono, hoc est cum baXoxorodpat
2. — Magia. cantus commuto
excanto (estrarre mediante incantamento, cioè recitando un carmen) ne noxit praecanto
saga terricula (spauracchio) versipellis
576.609. ut Marsus colubras disrumpit cantu. 1006.1116. acri inductum cantu 670.706. quicum versipellis fio et quicum conmuto omnia 63.56. qua ego nunc Aemilio praecanto atque exigo et excanto 1195.1283. inguen ne existat, papulae, tama, ne boa noxit 62-63.55-56. qua ego nunc Aemilio praecanto atque exigo et excanto 271.291. ut saga et bona conciliatrix 484.512. terriculas, Lamias, Fauni quas Pompiliique instituere Numae, tremit has etc. 670.706. quicum versipellis fio
3. — Cure. amputo castro
cataplasma eluvies (lavanda intestinale) evello
281.304. 283.308. met me 814.859. 645.689. 404.424.
testisque una amputat ambo uxorem caedam potius quam castrem egoex molito hordeo uti cataplasma si eluviem facere per ventrem velis forcipibus dentes evelleret
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
133
E CATEGORIA GRAMMATICALE 311.319. permu!sam fomento 1367.1371. panacean ubique salem 1367.1371. panacean ubique salem 641.691. cum in stadio, in gymnasio, in duplici corpus siccassem pila 642.686. venas hominis tetigit ac praecordia
fomentum (lenitivo)
panacea sal sicco
tango (tasto, del medico che tasta il polso)
4. — Cosmesi. desquamo devello
1
264.287. rador, subvellor, desquamor etc. 1037.1026. quin totum purges, devellas me atque deuras etc. | 265.288. pumicor, ornor, expolior, pingor | 600.654. hic cruciatur fame / frigore, inluvie, inbalnitie etc. |600.654. hic cruciatur fame / frigore, inluvie, inbal-
expolio imbalnities
1 1
imperfundities
1
lavo
2
nitie, inperfunditie, incuria 245.253. cum bulga cenat, dormit, lavit
orno pingo piscinensis pumico rado subvello ungo
1 1 1 1 1 1 2.
|264.287. pumicor, ornor, etc. |265.288. expolior, pingor 1266.1302. pugil piscinensis reses |264.287. desquamor, pumicor, ornor, etc. 264.287. rador, subvellor, etc. |264.287. rador, subvellor, etc. |523.558. caput ungunt horridulum
5. — Agricoltura. ager agrarius aratrum
cippus ferrum frumentum
164.177. concursaret agros, etc. 1358. dives agris (Hor. sat. 1. 2, 13: Lucilio tribuit, Immisch) 1103.1216. agrarius mergus 1043.1092. succedere aratro 1255.1184. homines nequam ... cippos collegere omnes
1044.1093. glebas proscindere ferro 278.306. frumentum vannere. 330.349. ut si frumentum clunibus vannat. 555.585. millia ducentum frumenti tollis medimnum 1301.1313. stat sentibus fundus. 532.549. fundi delectat virtus te
134
gleba gutullioca
_
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
(=nucis
puta-|
1
E CATEGORIA GRAMMATICALE 1044.1093. glebas subigas proscindere ferro 1184.1196. gutulliocae
men, scorza di noce)
hortus iugum
1 2
messis proscindo
2 1 1
|311.319. omnicolore |1043.1092. tune iugo iungas me. 435.460. hunc iuga mulorum protelo ducere centum / non possunt |707.759. non magno messe. 549.581. si messes facis |1044.1093. glebas subigas proscindere ferro |667.623. decimae proveniunt male
provenio seges solum vanno (vagliare)
1
292.284. auram adversam segetem inmutasse
1 2
vindemia
1
|446.467. adde Syracusis sola |330.349. ut si frumentum clunibus vannat. 278.306. illam autem ut frumentum vannere lumbis |707.759. non proba vindemia
6. — Culinaria. abdomen acarne (pesce persico)
2 1
|49.49. abdomina thynni 50.50. cephalaeaque acarnae
acerosus (che crusca o paglia) acetum
1
502.526. farre aceroso
1
354.370. scribemus ‘pacem, placide, Ianum, aridum, acetum’ 136.131. acidos ex pectore ructus 1240.1162. acupensere cum decimano 169.171. adipe unguen / excoctum 196.212. adipatam / pultem |454-455.501. caseus alium olit 1201.1199. luna alit ostrea. 718.764. centum cibicidas alas
contiene
acidus acipenser (storione) adeps adipatus allium alo
1 1 1 1 1 2
altilis
2
amian (genus piscis) anser aprinus asparagus austerus
1 2 1 2 1
caepa
3
caeparius canicae (crusca) carduus caseus
1 1 1 1
|1175.603. altilium lanx. 770.813. magnam ... altilium vim interfecisti 1304.1316. sumere te atque amian 1106.1187. anseris herbilis 1341.1210. viscus aprinum 133.128. asparagi nulli. 945.982. asparagi molles | 947.980. austerissimarum herbarum sucos exprimebat 195.206. acri cepa. 531.548. cepe serebat. 194.211. flebile cepe 195.206. lippus edenda acri assidue caeparius cepa 711.761. canicas ac pultem 1299.1343. asino carduos comedente 454-455.501. caseus alium olit
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
casinas
catillo (pesce) caulis
cena
E CATEGORIA GRAMMATICALE 961.984. oleum Casinas 1176.604. Tiberinus ... catillo 135.130. calix rutai caulis 1353.1355. centenaria cena. 49.49. ad cenam
195
addu-
cam. 473.496. cenam, inquit, nullam. 440.462. hoc fit
cephalaeum (testa) cibicida cibus
cima (broccolo) cobius (ghiozzo) colustra (/ac concretum) comedo
idem in cena 245.253. cum bulga cenat. 241.265. Mucius cum cenabat. 466.494. cenabis Rhodi. 1239.1161. cenasti in vita numquam bene 50.50. cephalaeaque acarnae 718.764. viginti domi an triginta an centum cibicidas alas 444.464. idem epulo cibus. 1368.468. panis, pemma, lucuns, cibus qui purissimus multo est. 659.702. mordicus petere ... e caeno cibum. 662.703. lautum cibum 945.982. virde cima 938.911. thynno capto cobium excludunt foras 311.319. permulsam fomento ... colustra 180.179. commanducatur totum ... comestque. 1091.1060. conficit ipse comestque. 171.173. qui edit se, hic comedit
commanducor condio
coquo crustulum
devoro
edo
epulae
epulum esurio excoquo
me. 861.964. paulisper comedent. 1290.1343. asino carduos comedente. 1173.1194. fici comedantur 180.179. commanducatur totum. 513.533. vilicum Aristocratem ... / commanducatus conrupit 1123.1164. bene cocto et condito 1122.1163. bene cocto et condito. 979.1063. turdi curati cocti 1183.1195. gustavi crustula solus 737.780. devorare se omnia 171.173. qui edit se, hic comedit me. 195.206. edenda acri assidue ceparius cepa 444.464. epulae Iovis omnipotentis. 1288.1167. epulas victu praeponis honesto. 569.605. epulis capiuntur opimis 444.464. idem epulo cibus 286.300. esuriente leoni 74.66. pedicum iam excoquit omne. 170.172. unguen excoctum
exprimo far fartim
947.980. herbarum sucos exprimebat 502.526. farre aceroso 79.69. carnaria fartim / conficeret
136
|
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
TESTIMONIANZA 978.1062. circum volitant ficedula, turdi
ficedula (beccafico) ficus
gizeria (Non. 119.18: intestina gallinarum) gusto
helops (pesce di mare assai pregiato: pesce spada o storione) hepatia (fegatini) herba
1173.1194.
fici comeduntur.
1101.1186.
adsiduas
ficos.
198.214. primos ficos. 1198.1198.
lactentes
fi-
cos 309.324. gizeria ni sunt / sive adeo hepatia 637.682. si nil gustat internundino. stavi crustula solus 1276.1209. praeclarus helops
1183.1195.
gu-
maena (=uGivn, pesce di
310.325. gizeria ni sunt / sive adeo hepatia 1076.1068. aliquae id genus herba. 947.980. herbarum sucos exprimebat anseris herbilis 510.539. surpiculique holerorum 813.858. ex molito hordeo uti cataplasma 193.210. intubus ... pedibus praetensus equinis. 1076.1068. pulmentaria, ut intubus 1069.1077. ius maenarum. 54.52. iura siluri 1198.1198. lactentes ficos 1299.1343. similem habent labra lactucam 585.621. iucundasque puer qui lamberat ore placentas 1235.1157. o lapathe, ut iactare, nec es satis cognitus qui sis! 79.69. ut lurcaretur lardum 530.560. extrema ligurris 1368.468. lucuns, cibus qui purissimus multo est 79.69. ut lurcaretur lardum 453.500. macrosque palumbes 1077.1069. ius maenarum
poco valore) mamphula (Fest. panis Syriaci genus) manducor
1251.1205. pistricem validam quae sciat omnis 456.499. manducamur in ore
herbilis (nutrito di erba) holus hordeum intubus (indivia o cicoria) ius lacteo lactuca lambo
lapathus (lapazio, specie di acetosa)
lardum ligurrio (lecco, assaggio) lucuns lurcor macer
mando (mastico) mel (leccornia)
122,1
... / ... mamphulas
1046.1080. mansum ex ore daturum 134.129. mel ... / incrustatus calix rutai caulis habetur
molo
813.858. ex molito hordeo uti cataplasma. 278.306.
murena murex (conchiglia)
hunc molere 317.331. sallere murenas 1210.1203. murexque marinus
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
137
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE myctyris (alii: mictyris o mictiris, da mingo) (sugo di erbe e salsa di maena, cfr.) nutricor
obson (=6wpov, companati-
1077.1069. mictyris haec est
1090.1137. nutricatum insane caput opprimit 335.346. nummi opus atque obsi
co)
obsonium (companatico) olea oleum olo ostrea ostreum
ovum palumbes panis
peloris (conchiglia)
pemma (réuua, torta, dolciume) penus (provvista di cibi conservata in casa)
pinguis piscis
placenta (focaccia) plenus pono popina porcus porrus praecisum (cotoletta) pulmentarium (companatico)
1208.1202. mantisa obsonia vincit 502.526. rugas conducere ventris / farre aceroso, oleis, decumano pane coegit 961.984. oleum Casinas 454-455.501. caseus alium olit 132.127. ostrea nulla fuit 328.342. si ostrea Cerco / cognorit fluvium limum ac caenum sapere ipsum. 440.462. dabis ostrea milibus nummum empta 1151.1191. decumana ova 453.500. macrosque palumbes 1368.468. panis, pemma, lucuns, cibus qui purissimus multo est. 1157.1168. fragmenta interficis panis. 200.209. nec plebes pane potitur. 474.497. pane privo. 502.526. decumano pane 132.127. nulla peloris 1368.468. panis, pemma, lucuns, cibus qui purissimus multo est 1205.1215. magna penus parvo spatio consumpta peribit. 1350.1242. uxori legata penus. 519.555. legavit quidam uxori mundum omne penumque. 520.556. quid mundum atque penum? quid non? 716.762. cocus non curat cauda insignem esse illam, dum pinguis siet 166.168. hi prae se portant ingentes munere pisces. 767.812. piscium magnam atque altilium vim interfecisti 585.621. iucundasque puer qui lamberat ore placentas 268.290. calda siem ac bene plena 1370.217. ponuntur tenues porri 11.10. odisse popinam 1343.511. dimidiatus ut porcus 1370.217. ponuntur tenues porri 569.605. illi praeciso ... capiuntur 1076.1068. pulmentaria, ut intubus aut aliquae id genus herba
138
_
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
2
puls
197.213. adipatam pultem. 711.761. canicas ac pultem
purpura (conchiglia) rapum ructus ruta
sallo (marinare) saperda (acciuga o sardella)
ee [CE N
132.127. non purpura 1357.1360. ferventia rapa vorare 136.131. acidos ex pectore ructus 135.130. calix rutai caulis 317.331. sallere murenas 54.52. occidunt, Lupe, saperdae te 329.343. si ostrea Cerco / cognorit fluvium, limum ac caenum sapere ipsum 1276.1209. quem Aegypto sargus movebit
sapio sargus (pesce molto pregiato) silurus (pesce)
54.52. iura siluri 1240.1162. omnia in ista / consumis squilla 947.980. austerissimarum herbarum sucos exprimebat 1175.603. illum sumina ducebant
squilla (gamberetto) SUCUS sumen (mammella, come
pietanza) talla
194.211. lacrimosaeque ordine tallae 49.49. abdomina thynni. 938.911. thynno capto 978.1062. turdi curati cocti 169.171. pulmonibus atque adipe unguen / excoctum 1173.1194. fici comeduntur et uvae 1106.1187. anseris herbilis virus NE RK NR DE 1341.1210. viscus aprinum. 475.498. viscus dederas tu quidem. 474.497. pane et viscere privo. 475.498. viscera largi 1157.1168. durum molle voras. 1357.1360. ferventia rapa vorare
thynnus (tonno)
turdus unguen uva virus viscus
voro
@potopéc (spremuto da
961.984. @uotoBéc oleum Casinas
olive acerbe)
7.- Il vino. abbibo (tracanno)
374.390. abbibere: non multum est ‘d’ siet an ‘bh’
abstemius
239.250. ‘thauma men’ inquit balba, sororem ... dici
bibo
303.312. cum poclo bibo eodem. 222.238. da bibere ab summo. 501.525. gallam bibere 1154.1165. chrysizon vinum
... abstemiam ubi audit
chrysizon
(participio
pre-
_
sente da xouvoilo, splendo come oro)
combibo
665.709. magnis conbibonum ex copiis
RAPPRESENTAZIONE
LEMMA crucius
cyathus
i 1
dapsile defundo (vinum in amphoras=imbottiglio) ebrius galla (=vappa, vino svani-
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
139
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 1146.1190. vinum crucium 924.999. quem ... / vini, inquam, cyathus unus potuit tollere 1074.1067. qui invitavit dapsilius se 1155.1165. defusum ... vinum 172.174. obtursi ebrius 501.525. gallam bibere
to)
impermixtus lymphor (=aqua) siccus (digiuno, sobrio) vinum
1196.1197. inpermixtum lymphorem 1196.1197. inpermixtum lymphorem 239.250. sororem/ ... siccam QA = ae 1146.1190. vinum crucium. 1155.1165. defusum vinum. 556.586. vini mille cadum. 924.999. vini cyathus. 1062.1057. mensula vino. 1074.1067. bene longicum mortalibus morbum / in vino esse
8. — La produzione. 8.1. — Strumenti e operazioni canalicula (conduttura) cantherius (bestia da soma)
commissura (giuntura) cribrum (crivello)
cuneus degrumor (livello)
effringo fabrica
fiscina (canestro)
folliculum (dem. di follis:
1 N
1127.1257. canalicula 515.530. paenula, si quaeris, cantherius, servus, segestre / utilior mihi quam sapiens. 1207.107. mantica cantheri costas gravitate premebat 209.224. per commissuras rimarum 681.721. cribrum, incerniculum, lucernam 178.181. hunc vectem possis cuneis 100.96. viamque degrumabis 839.913. vecte atque ancipiti ferro effringam cardines. 840.914. nemo hos ancipites ferro effringat cardines 1165.1273. in fabrica fervens cum marculus ferrum ... tundit 201.216. fiscina fallaci cumulo 622.625. quo folliculo nunc sum indutus
sacco di cuoio)
forceps (tenaglie) frenum frigidarium (ghiacciaia) fulmenta (sostegno, puntello)
401.421. scalprorum forcipiumque / milia viginti 1042.1091. te ..., /Thessalam ut indomitam, frenis subigam 317.331. mercem in frigdaria ferre 160.167. fulmentas quattuor addit. 777.825. fulmentas ... subducere
140
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
furnax iacio ictus
incerniculum (staccio) irretio iumentum (bestia da soma o da tiro) laqueus
licium (filo torto, usato nella tessitura) marculus metaxa (matassa) necto
palus panus (7îjvoc = trama, filo da servire per la trama) pergula (laboratorio, studio) petaurum (machina qua
ioculatores incedebant) pilum (pestello) pinso (pesto) pistrina (bottega con forno) pistrinum (mulino)
pons praetero (amalgamare) protelum (trazione continuata di animali)
restis (corda)
rete
rutellum (rasiera) sacculus (filtro)
scalprum (scalpello)
E CATEGORIA GRAMMATICALE 291.280. primum fulgit, uti caldum ex furnacibus ferrum 408.428. iaciendum huc aggerem et id genus rudus. 633.657. aggere in iaciendo 1166.1274. in fabrica ... cum marculus ferrum / ... magnis ... ictibus tundit 681.721. cribrum, incerniculum, lucernam
990.1100. laqueis manicis pedicis mens inretita est 243.251. cui neque iumentum est 990.1100. sic laqueis manicis pedicis mens inretita est 681.721. cribrum, incerniculum, lucernam, laterem in telam, licium 1165.1273. in fabrica fervens cum marculus ferrum ... magnis ... ictibus tundit 1192.1281. lini mataxam 217.234. retia nexit 1371.1373. prymnesius palus 288.321. foris subteminis panus 489.517. pergula pictorum 1298.1312. sicuti mechanici cum alto exiluere peteuro 359.384. pilum quo piso 360.385. pilum quo piso 521.551. media est pistrina 312.326. pistrinum adpositum 1176.604. pontes duo inter 793.828. praeterito tepido glutinator glutino 248.256. quem neque ... tauri ducere protelo ... possent. 435.460. hunc iuga mulorum protelo ducere centum non possent 251.259. tre a Deucalione grabati restibus tenti. 1060.1055. unus consterni nobis, vetus, restibus aptus 217.234. retia nexit 322.338. modium hic secum atque rutellum una adfert 1155a.1166. cui (vino) nil, dum fit, vas et sacculus abstulit 401.421. scal prorum forcipiumque / milia viginti
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
LEMMA
sparum (spiedo a punta
141
l
curva) sterno
1315.175. tum spara, tum rumices portantur 408.428. viai / sternendae 511.540. truleus pro stomide huic de naribus pendet
stomis (otopic, freno da bocca per animali) subtemen (trama)
suo (cucire) tela truleus (vasculum ferreum, quod loco freni erat; baci-
298.321. 747.790. 681.721. n nm fn 511.540.
no, catino) uter (otre) vas (=prelum)
foris subteminis panus suere centonem optume laterem in telam truleus pro stomide huic de naribus pendet
1104.1217. Andronius Flacci teget utria 1155a1166. cui (vino) nil, dum fit, vas et sacculus abstulit 839.913. vecte effringam cardines. 178.181. hunc vectem possis cuneis 85.76. emblemate vermiculato
vectis (leva, piede di porco) vermiculatus (lavorato a mosaico finissimo) zonatim
249.260. zonatim circum impluvium
8.2 — Materiali. aeneus
aenus
aluta (pelle finissima) auratus
aureolus caelo cannabinus (di canapa) corium eburnus emblema
1365.1368. aenea vox. 777.825. fulmentas+aeneis atque+aeneis subducere 486.414. pueri infantes credunt signa omnia aena / vivere. 488.516. credunt signis cor inesse in aenis 446.467. adde Syracusis sola, pasceolum aluta 71.64. chirodyti aurati 290.283. aureolo cinctu 410.430. torques caelati magni 1325.1327. abina 326.350. ipsa suo e corio omnia lora 683.727. eburno speculo nm dmn 85.76. emblemate vermiculato
(€uBAnua=mosaico) ferrum
glutinum (colla) iligneus (di legno di elce, ilex) lana
N
291.280. caldum e fornacibus ferrum. 1165.1273. in fabrica fervens cum marculus ferrum tundit. 145.147. in stricturis quod genus olim / ferventi ferro. 839.913. ancipiti ferro effringam cardines. 840.914. nemo hos ancipites ferro effringat cardines 793.828. praeterito tepido glutinator glutino 316.328. iligneis pedibus cercurum currere 995.1105.
lana, opus omne,
perit
142
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 224.220. scutam / ligneolam 1192.1281. linique mataxam
ligneolus linum lorum (striscia di cuoio) maltha (malta)
pensum plumbum rudus (pietrisco; rottame) strictura (massa di ferro incandescente in lavorazione)
suberies (=suber, sughero) tesserula (tesserina di mosaico)
thomix (06u1yÉ=corda) villus (pelo di bestia e di stoffa)
visco (spalmo di viscum)
nm dm fd n
326.350. ipsa suo e corio omnia lora 732.776. insanum vocat, quem maltam ac feminam| dici videt 736.781. pensum faciat 1192.1281. plumbi pauxillum rodus rudus. 408.428. iaciendum huc id genus 1192.1281. plumbi pauxillum rodus 144.146. crebrae ut scintillae, in stricturis quod genus olim / ferventi ferro 1302.1314. suberies 84.75. quam lepide lexis compostae, ut tesserulae
1325.1327. abina 13.12. psilae atque amphitapoe, villis molles 796.841. omnia viscatis manibus leget
ingentibus,
8.3. — Misure. centenarius
1353.1355. centenaria cena (cena di costo non superiore ai cento assi, secondo la lex Licinia). 776.824.
ballistas iactas centenarias? (proiettili del peso di cento librae, scagliati da balestra) centussis (cento assi)
cubitum decussis (decem asses) dupondius (moneta da due assi) medimnus
modius pes quadrans (moneta: 1/4 di un as) semis (mezzo as)
1172.1211. Fanni centussis misellus (riferimento alla lex Fannia: cento assi massimo per una cena) 526.562. Lysippi Iuppiter ... / quadraginta cubita altus 1153.1265. decusis. 1154.1266. sive decusibus est 1318.425. vasa quoque omnino dirimit non sollo dupundi 500.524. pluris quam totus medimnus. 555.585. millia ducentum frumenti tollis medimnum 322.338. modium hic secum ... adfert 482.508. ducentos Cyclops longus pedes
1272.1304. quadrantis ratiti 499.523. praeter quam in pretio, primus semisse
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
143
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
LEMMA
8.4. — Oggetti di uso personale e domestico. amphitapos (dugitartog,
3
coperta col pelo doubleface) aqualis (brocca, boccale) armillum (vas vinarium) arutaena
(aeutaiva=brocca) aulaeum (tenda di porpora, sipario) bacillum (bastone) bulga (borsa)
cadus
(orcio
da
vi-
1356.1359. super amphitapo bene molli. 13.12. psilae atque amphitapoe, villis ingentibus, molles. 252.258. pluma atque amphitapoe 17.38. ‘arutaenae’ que, inquit, aquales 767.806. anus russum ad armillum 17.38. ‘arutaenae’ que, inquit, aquales 817.866. vos aulaea obducite
482.508. huic (Polyphemo) maius bacillum / quam malus navi e corbita maximus ulla 246.254. bulga haec devincta lacerto est. 244.252. bulgam et quidquid habet nummorum secum habet ipse. 245.253. cum bulga cenat, dormit, lavit. 246.254. omnia in una sunt homini bulga 556.586. vini mille cadum
no=xdd06) cala (legno da ardere) calix (tegame) capulus (bara) carnarium (dispensa) catinus (piatto) catulus (genus vinculi, qui interdum canis appellatur) cento (abito o coperta o materasso cucito di pezzi di stoffa diversa) chirodytus (=manica, manica lunga fino a coprire le mani) clamys (clamide, abito greco) cinctus (cintura) clinopus (pes /ecti) collare
culcitula (cuscino)
996.985. scinde calam ut caleas 135.130. incrustatus calix rutai caulis
61.87. in capulo hunc non esse aliumque cubare 79.69. carnaria fartim conficeret
445.469. Samio curtoque catino 854.957. cum manicis catulo collarique ut fugitivum / deportem 747.790. sarcinatorem esse summum, suere centonem optume. 1061.1056. culcitulae accedunt privae centonibus binis
71.64. chirodyti aurati
321.334. clamides ac barbula prima 290.283. aureolo cinetu rorarius veles 15.36. porro ‘clinopodas’ ‘lychnos’ que, ut diximus semnos / ante, ‘pedes lecti’ atque ‘lucernas’ 854.957. cum manicis catulo collarique ut fugitivum / deportem 1061.1056. culcitulae accedunt privae centonibus binis
144
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE decalautico
(provvedo
una calautica: cuffia con veli ai lati) despeculo (fornisco di specchio)
discerniculum (ago per discernere i capelli e fare la scriminatura) echinus (recipiente di pelle) folliculum (sacchetto di pelle) fulcrum (piede del letto, o anche letto) fundus (il fondo della botti-
683.727. decalauticare
683.727. eburno speculo despeculassere 991.1101. euplocamo digitis, discerniculumque capillo
1158.1268. echinus 622.625. quo folliculo nunc sum indutus 160.167. subicit huic fulcrum
139.134. vertitur oenophori fundus
glia) gausapes (strofinaccio)
grabatus (xodfatoczletto
568.601. purpureo tersit gausape mensas 251.259. tres a Deucalione grabati restibus tenti
basso, turca)
lanx (piatto) lectus lucerna
lychnus (=lucerna) manica (manica lunga a coprire le mani; nelle testimonianze=manette) mantelum (salvietta) mantica mappa (fazzoletto) mensa
mensula mitra (copricapo da donne e effeminati) mixtarius (cratere) mundus (corredo per l’acconciatura femminile) muscipula (trappola da topi) oenophorus (vaso da vino) paenula (mantello di lana, per l’inverno)
1175.603. altilium lanx 16.37. pedes lecti. 1248.143. permixi lectum 681.721. cribrum, incerniculum, lucernam. 16.37. ‘lychnos’ que, ut diximus semnos / ante ... ‘lucernas’. 146.148. Romanis ludis forus olim ornatus lucernis 15.36. ‘lychnos’ que, ut diximus semnos
854.957. cum manicis catulo collarique. 990.1100. sic laqueis manicis pedicis mens inretita est 1206.1201. mantela merumque 1207.107. mantica cantheri costas gravitate premebat 1164.1192. et velli mappas 443.466. cum accumbinus mensam. 662.703. e mensa pure capturus cibum. 568.601. tersit gausape mensas 1062.1057. mensula vino 71.64. ricae, thoracia, mitrae 221.237. urceus haut longe Gemino, mixtarius Paulo 519.555. legavit quidam uxori mundum omne penumque. 520.556. quid mundum quid non? 1022.1028. muscipulae tentae 139.134. vertitur oenophori fundus 515.530. paenula, si quaeris, cantherius, servus, segestre / utilior mihi quam sapiens
RAPPRESENTAZIONE
palla (soprabito da passeggio per signora) papaveratus (sbiancato con succo di papavero) pasceolus (borsetta di pelle) pedica (catena da piede) peniculamentum (coda; strascico di un abito) pluma (piumino) pes (piede, gamba di letto o tavola) pellis (coperta di pelle) pessulus poculum praetexta psila (coperta pelosa da una parte) pulvinus (guanciale) redimiculum (nastro in-
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
145
505.529. spiram, pallas, redimicula promit 1144.1333. crebrae papaveratae (togae) 446.467. pasceolum ... aluta
990.1100. sic laqueis manicis pedicis mens inretita est 565.591. peniculamento vero reprehendere noli 252.258. pluma atque amphitapoe 16.17. pedes lecti. 1062.1057. una est pedibus cariosis mensula vino 1248.143. inposui pede pellibus labes 178.181. ne agitare manu tu pessulum ... possis 303.312. cum poclo bibo eodem 12.11. praetextae ac tunicae Lydorum 13.12. psilae atque amphitapoe
138.133. et pulvino fultus 505.529. spiram, pallas, redimicula promit
torno ai capelli, al collo o sulla fronte) rica (scialletto con frange) scruta (stracci, ciarpame)
scuta (=scutra, vaso da cucina; scodella da scutella) segestre (=segestra e segestria: coperta di pelle o di paglia intrecciata) sella (seggetta; latrina annessa alla casa) sicyonius (genus calciamenti) solea (calzare, sandalo)
speculum spira (=o7e1Qa, cerchio per l’acconciatura dei capelli) strigilis (spazzola per strofinare la pelle dopo il ba-
gno)
71.64. chirodyti aurati, ricae, thoracia 1282.1173. et scruta quidem ut vendat laudat 223.219. scutam ligneolam
scrutarius
515.530. paenula, si quaeris, cantherius, servus segestre / utilior mihi quam sapiens
312.326. pistrinum adpositum, posticum, sella, culina 1161.1238. et pedibus laeva Sicyonia demit honesta 1283.1174. scrutarius laudat / ... soleam dimidiatam 683.727. eburno speculo 505.529. spiram, pallas, redimicula promit
1283.1174. praefractam strigilim
inprobus
146
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA
F.
surpiculus (=scirpiculi, sirpiculi: canestri di vimi-
1
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE |510.539. tintinnabulum abest hinc surpiculique holerorum
ni) terginum (staffile di cuoio) testa (terracotta, coccio, vaso) thoracium (=Oagdax1ov: busto, fascia per il petto) tintinnabulum (campanello) toga triclinium truleus (bacino, catino di ferro) tunica
1
|772.815. salve, dum salvo tergo et tergino licet
1
280.303. testam sumit homo Samiam
1
|64.71. chirodyti aurati, ricae, thoracia, mitrae
1
510.538. tintinnabulum abest hinc
1 1 1
|495.532. videt tunica et toga quid sit 1107.204. ante fores autem et triclini limina |511.540. truleus pro stomide huic ingens de naribus pendet |495.532. videt tunica et toga quid sit. 926.996. ut tunicam et cetera / reiceret. 12.11. tunicae Lydorum |221.237. urceus haut longe Gemino |1318.425. vasa quoque omnino dirimit non sollo dupundi |647.695. hic vestimenta elevit luto. 934.1001. ve-
3
urceus vas
1 2
vestimentum
4
stimenta posueram. 643.687. vestimentis atque horrorem exacturum putet. 1047.1081. mentis maculosis
frigus vesti-
8.5. — La casa. aceratus (Non. 445.22: aceratum est lutum paleis mixtum, ut laterariis usus est) appositus (annesso) caenum (fango) camera (soffitto)
caminus cardo
cenaculum (sala da pranzo; soffitta) columella (pilastrino) columna culina
325.341. caenumque aceratum
312.326. pistrinum adpositum 325.341. caenumque aceratum 1351.1353. cameraque camini 1351.1353. cameraque camini — WCW = Woe 773.823. confectores cardinum. 839.913. vecte atque ancipiti ferro effringam cardines. 840.914. nemo hos ancipites ferro effringat cardines 1 |846.922. primum exadvorso si quod est cenaculum, / quo recipiat te 1 |580.616. Lucili columella hic situs Metrophanes 1 |1203.1226. Maenius columnam / cum peteret 1 |312.326. pistrinum adpositum, posticum, sella, culina
fenestra
841.917. has e fenestris in caput / deiciunt
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
LEMMA
147
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
foris (porta)
1
1107.204. ante fores
fornix later (mattone)
1 2
latrina latrinum
1 1
lutum (argilla, creta)
4
palea (paglia)
1
pavimentum
1
pessulus posticum (parte posteriore della casa)
1 1
1177.1337. fornicem Lucilianum |681.721. laterem in telam. 324.340. et lateres qui ducit |400.420. qui in latrina languet |253.257. hoc tu apte credis quemquam latrina petisse? |325.341. lateres qui ducit, habet nihil amplius numquam / quam commune lutum |325.341. lateres qui ducit, habet nihil amplius numquam / quam commune lutum ac paleas |85.76. quam lepide lexis compostae, ut tesserulae, omnes / arte pavimento 178.181. ne agitare manu tu / pessulum ... possis |312.326. pistrinum adpositum, posticum, sella, culina
scalae (scale, scalini)
1
392.414. trinis deducere scalis
sella (seggetta) transenna (transennas dicit tegulas per quas lumen
1 1
|312.326. pistrinum adpositum, posticum, sella 1311.1321. transennas
admittitur Luc,
CGL IV 186.43)
9. — Navigazione. anquina (anquinae, vincla quibus antemnae tenentur
1114.1252. anquina soluta
Non. 536.7)
armamenta (attrezzatura
1
di una nave)
carchesium (xaQxz1S10V; cima dell’albero, coperta di metallo) catapirates (xataret-
1
1
eats; scandaglio) celes (xéAng; navigium actuarium; brigantino al servizio di navi maggiori) cercurus (xÉ0%0v006; scialuppa) classis
1113.1251.
armamenta
tamen, malum,
vela, omnia
servo
|1309.1253. tertius hic mali superat carchesia summa
1191.1280.
hunc
catapiratem
puer
eodem
deferat
unctum 1
1359.1362. hypereticosque celetes
2
|316.328. cercurum currere. 465.493. cercurum sumam |219.235. custodem classis. 606.665. solus ... vim de classe prohibuit Vulcaniam
2
corbita (corvetta)
1
483.509. malus navi e corbita maximus ulla
funis
2
|1114.1252. funis enim praecisus cito. 389.411. tonsillas quoque praevalidis in funibus aptas
148
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA gubernum (=gubernaculum; timone,
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 1
578.614. detundete guberna
timoneria)
malus
pes (sta per remus) portus
prora prymnesius (palus, ad quem funis nauticus reli-
483.509. malus navi e corbita maximus ulla. 1309.1253. tertius hic mali superat carchesia summa. 1113.1251. armamenta tamen, malum, vela, omnia servo 316.328. iligneis pedibus cercurum currere 126.117. portumque Alburnum. 722.768. qui inscriptum e portu exportant clanculum 578.614. proras despoliate 1371.1373. prymnesius palus
gatur; PAUL. ex FEST. 224;
Ttovuvn=prora) remus rudens (cavo, gomena) secundo
tonsilla (=prymnesius palus; Ist. orig. 21, 2, 14;
125.116. promontorium remis superamus Minervae. 127.118. hinc media remis Palinurum pervenio nox 1293.1311. rudentum sibilus 871.875. ventorum flamina / flando suda iter secundent 389.411. tonsillas quoque praevalidis in funibus aptas
ad quem funes navium illigantur)
velum (vela)
1113.1251. Servo
hypereticus (actuarius)
1359.1362. hypereticosque celetes
armamenta
tamen,
malum,
vela,
omnia
10. — Vita militare. adorior
agger Albesius (di Alba) anceps (a doppio taglio) arma ballista (balestra; proiet-
tile da balestra)
120.138. conturbare animam potis est quicumque adoritur 408.428. iaciendum huc aggerem. 633.657. aggere in iaciendo 1150.1264. Albesia scuta 839.913. ancipiti ferro 449.474. acribus inter se cum armis confligere cernit 776.824. ballistas iactas centenarias
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
braca catapulta centurio confligo contio contubernalis
copia cornu classis custos
deletio exercitus
gladium
149
E CATEGORIA GRAMMATICALE 450.475. aut forte omnino ac fortuna vincere bello. 614.661. Romanus populus victus vi et superatus proeliis / saepe est multis, bello vero nunquam, in quo sunt omnia. 615.662. bello vinci a barbaro Viriato, Annibale. 972.1039.vir non bonus bello. 973.1040. saevo ac duro in bello. 409.429. conventus pulcher: bracae, saga fulgere 213.235. custodem classis catapultas pila sarisas 89.79. municipem Ponti, Tritani, centurionum 449.474. acribus inter se cum armis confligere cernit 605.664. rauco contionem sonitu et curvis cogant cornibus 1137.1189. conque tubernalem 665.709. magnis conbibonum ex copiis 605.664. rauco contionem sonitu et curvis cogant cornibus 219.235. custodem classis. 606.665. solus ... vim de classe prohibuit Vulcaniam 219.235. custodem classis 823.898. deletionem nostri ad unum exercitus 823.898. deletionem nostri ad unum exercitus 1187.164. haerebat mucro gladiumque in pectore totum
gladius
hasta insidiae invado
155.159. gladium in stomacho sura ac pulmonibuw’ sisto. 157.161. dextrae gladium dum accomodet alter. 601.655. suspendatne sese an gladium incumbat 290.283. quinque hastae. 1349.1331. ut veles bonus, sub vitem qui subicit hastas 856.954. tela insidiasque locavi. 1234.1132. insidias facere. 1320.1323. improviso insidiisque 472.480. puncto uno horae qui quoque invasit. 260.274. suam enim rem invadere se atque innubere censent. 1079.1119. in Caeli pugnas te invadere. 57.57. inpuratum hunc in fauces invasse 10.9. et mercedimerae legiones 189.194. si corpus loco ac regione maneret 406.417. annos hic terra iam plures miles Hibera / nobiscum
meret.
491.538.
dum
miles Hibera / terrast,
atque meret ter sex aetate quasi annos. 1078.1125. publico lege ut mereas 358.383. ‘miles’, ‘militiam’, tenues ‘i’. 405.416. annos hic terra iam plures miles Hibera / nobiscum meret. 490. 537. dum miles Hibera / terrast 359.384. ‘militiam’, tenues ‘i’
150
|
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE mirmillonicus (appartenente ad un mirmillo, specie di
gladiatore; Paul. ex Fest. 144; myrmillonica scuta dicebant, cum quibus de muro pugnabant) mucro paludatus (vestito del paludamentum, mantello militare più grande e più elegante del
1362.1365. murmillonica scuta
1187.164. haerebat mucro gladiumque in pectore totum 393.415. pone paludatus stabat rorarius velox
sagum)
pellis (pelli per ripa-
397.426. pellesque ut in ordine tentae
ro=tende)
pilum
pluteus (riparo)
proelior pugna
pugno rorarius (Non. 553.3: rorarii appellabantur milites, qui antequam congressae essent acies, primo non multis iaculis inibant proelium) rudis (bastone per gli esercizi di scherma) rumex (giavellotto simile allo sparum, ricavato dalla pianta omonima) sagum (mantello militare, =saio) sarisa scutum
signifer
tectum (riparo) telum
361.386. addes ‘e’, ‘peila’ ut plenius fiat. 219.235. custodem classis catapultas pila sarisas. 360.385. si plura haec feceris pila / quae iacimus 837.915. pluteos ex scutis tectaque et testudines reddet 960.978. proeliari sub vitem 621.642. pugnam Popili. 1081.1121. tuam pugnam praeclaram. 1323.1325. magnam pugnavimus pugnam. 1079.1119. in Caeli pugnas te invadere vidi 1323.1325. magnam pugnavimus pugnam. 1232.1130. pugnare dolose 290.283. aureolo cinctu rorarius veles. 393.415. rorarius velox
1274.156. Samnis in ludo ac rudibus cuivis satis asper 1315.175. tum rumices portantur
409.429. conventus pulcher: bracae, saga fulgere 219.235. custodem classis catapultas pila sarisas 935.1003. nasum hoc corpusque scutum. 1150.1264. decumana Albesia scuta. 1362.1365. murmillonica scuta. 837.915. pluteos ex scutis 90.80. praeclarorum hominum ac primorum signiferumque 837.915. ex scutis tecta 856.954. tela insidiasque locavi
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
LEMMA testudo torquis tragula (specie di giavellotto) turma veles vinea vitis (=vinea)
IS.
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 1 1 1
|837.915. ex scutis testudines |409.429. torques caelati magni 1315.175. tum rumices portantur, tragula porro
1 2 1 2
|93.83. turma omnis chorusque |290.283. rorarius veles. 1349.1331. ut veles bonus |633.657. si quost vineis actis opus |960.978. proeliari sub vitem. 1349.1331. ut veles bonus sub vitem qui subicit hastas
11. — Mestieri. agitator (cocchiere)
1305.1317.
sustineas currum, ut bonus saepe agita-
tor, equosque
auceps (uccellatore)
1
1320.1323. velut olim / auceps ille facit, cum improviso insidiisque |994.1104. apud aurificem |105.105. Symmachus bubulcus. 512.533. vilicum
aurifex bubulcus (bifolco)
1 2
caeparius
1
|195.206. lippus edenda acri assidue ceparius cepa
caupona cernuus (funambolo)
1 2
128.123. caupona hic tamen una Syra |129.124. cernuus extemplo plantas convestit honestas. 703.748. modo sursum, modo deorsum,
cinerarius (parrucchiere)
1
conciliatrix coquus coragus (impresario, finanziatore) ergastilus (Non. 447.5: custos poenalis loci) frumentarius (mercante di grano) gerdius (tessitore)
1 1 1 1
503.527. non ergastilus unus
1
gladiator
N
1
322.338. frumentarius est: modium hic secum atque rutellum / una adfert 1057.1096. curare domi sint / gerdius, ancillae, pueri, zonarius, textor 152.154. optimus multo / post homines natos gladiator qui fuit unus. 677.717. rediisse ac repedasse, ut Romam vitet, gladiatoribus |793.828. praeterito tepido glutinator glutino
1
|496.536. nemo est halicarius posterior te
Aristocratem, mediastrinum atque bubulcum
tamquam collus cernui
glutinator (legatore di libri) halicarius (=alicarius, mugnaio, da alica=spelta)
1
249.260. cludebat | 271.291. |716.762. |428.453.
zonatim
circum
impluvium
cinerarius
ille
saga et bona conciliatrix cocus non curat cauda insignem esse illam quaestore aliquo esse opus atque corago
ap
_
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
lanius (macellaio) leno mechanicus (meccanico; acrobata) medica (ostetrica) mensor (geometra; ingegnere militare) operarius pictor pistrix (fornaia)
praeco praefica
propola (roorwAng= bottegaio) prostibulum publicanus pugil quartarius (Fest. 346.28: muliones mercenarios quod quartam partem quaestus capiebant) sarcinator (sarto; ram-
E CATEGORIA GRAMMATICALE 1221.1288. laniorum immanis canes ut 892.872. ad lenonem venio 1298.1312. sicuti mechanici cum alto exiluere peteuro
1222.1289. noctipugam medica 100.96. viamque degrumabis, uti castris mensor facit olim 422.448. Cassius Gaius hic operarius 491.517. pergula pictorum 1250.1204. pistricem validam / addas, empleuron, mamphulas quae sciat omnis. 1252.1206. pistrices 411.431. conicere in versus dictum praeconis volebam / Grani 955.673. mercede quae conductae flent alieno in funere / praeficae 198.214. primos fico propola recentis / protulit
334.345. si olim lupa prostibulumque 671.627. publicanus vero ut Asiae fiam 1266.1302. pro obtuso ore pugil piscinensis reses 1255.1184. malus ut quartarius
747.790.
sarcinatorem
esse
summum,
suere
cento-
mendatore)
nem optume
scripturarius (esattore dell’imposta sui pascoli)
671.627. publicanus vero ut Asiae fiam, ut scripturarius 1282.1173. et scruta quidem ut vendat scrutarius laudat 423.449. sectorem furemque
scrutarius (rigattiere)
sector (tagliatore; tagliaborse)
suppilo (qui pueros pilosos subvellit) tesorophylax textor tocoglyphos
967.988. subpilo, pullo, premo
581.617. primum Pacilius: tesorophylax, pater, abzet 1057.1096. curare domi sint / gerdius, ancillae, pueri, zonarius, textor 497.521. ille tocoglyphos ac Syrophoenix
(toxoyAv@oc=usuraio) vilicus zonarius (fabbricante di cinture)
532.549. vilicus paulo strenuior si evaserit. 512.533. vilicum Aristocratem 1057.1096. curare domi sint / gerdius, ancillae, pueri, zonarius, textor
RAPPRESENTAZIONE
LEMMA
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
153
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
12. — Affari. aes
2
argentum
2
aurum
8
bolus (BoXoc: getto di rete; colpo) calvo (inganno con raggiri) care
1 1 1
clepo (rubo, sottraggo) conduco
a =
|886.891. perversa aera. 884.890. summam aeris ad-
1
de alieni |760.807. si argenti indiges. 1053.1089. argenti sescentum ac mille reliquit |761.809. aurum redundat. 1119.1153. aurum specimen virtutis. 1220.1155. nequam aurum est. 684.728. quantum auri petit. 429.454. publicitus qui mi atque e fisco praebeat aurum. 559.594. aurum vis. 559.594. quid ad aurum? 659.702. mordicus petere aurum e flamma |881.885. quovis posse me emungi bolo ; |552.582. si non it, capito eum, et si calvitur |668.704. trado ergo alias nummo porro, quod mihi constat carius 1118.1181. se illi clepsere 969.1352. quid re et quaestu conducat suo. 878.853. magno quod conduxeris. 954.672. conductae mercede flent alieno in funere praeficae 1134.1218. conlusor Galloni
1
|819.884. redi in consortionem
consto decima
3. 1
deiero defraudo depilo (spellare, spennare) depeculor deargento
1 1 1 1 1
|668.704. |667.623. male |818.883. |619.723. |845.921. |682.726. |682.726.
divitiae
4
dominium (proprietà privata, opp. di possessio)
1
collusor (chi ha un accordo segreto con altro per far danno a un terzo; compagno di gioco) consortio (partecipazione al parti eguali; consorteria)
quod mihi constat carius male me accipiunt decimae
et proveniunt
deierat non scribsisse genium suum / defrudet, alieno parcat depilati omnes sumus depeculassere aliqua sperans me depeculassere aliqua sperans me ac dear-
gentassere
|558.523. hi quos divitiae producunt. 203.205. qui credimus porro / divitias ullas animum mi explere potisse? 763.717. amici animum quaerunt, rem parasiti ac ditias. 1190.1332. divitiis pretium persolvere |438.470. primum dominia atque sodalicia omnia / tollantur
154
_
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
emungo (mungere, pelare) expilator (saccheggiatore) exporto
fallax fenus fiscus fructus
inscriptus (non registrato alla dogana) iuro lego (trasmettere per testamento)
mantisa (Paul.Fest. 132: additamentum dicitur lingua Tusca) (profitto, guadagno; giunta) mercatura merces
merx nummarius
nummus
persolvo portorium (dazio)
E CATEGORIA GRAMMATICALE 1253.1297. quod proinde minore erat emptum. 441.463. dabis ostrea milibus nummum empta 881.885. quovis posse me emungi bolo 728.772. rerum expilatorem mittam 722.768. qui inscriptum e portu exportant clanculum 201.216. fiscina fallaci cumulo 1048.1072. licentia fenus refertur. 1358. dives posi{tis in fenore nummis 429.454. e fisco praebeat aurum 620.624. qui tibi fructum ferat. 561.589. illos fruc-
tus quaeras. 433-434.459. quibus fructibus me decollavi victus 722.768. qui inscriptum e portu exportant clanculum 997.1085. iuratam se uni 519.555. legavit quidam uxori mundum mque. 1350.1242. uxori legata penus 1208.1202. mantisa obsonia vincit
omne penu-
318.332. et mercaturae omnes et quaesticuli isti / intuti 954.672. mercede quae conductae flent. 878.853. non magna mercede 317.331. mercem in frigdaria ferre 414.438. magnus fuit trico nummarius 335.346. nummi opus. 500.524. primus semisse, secundus / nummo. 668.704. trado nummo, quod mihi constat carius. 1250.1204. si nummi suppeditabunt. 492.518. qui nummos tristis inuncat. 244.252. quidquid habet nummorum. 327.337. milli nummum potes uno quaerere centum. 440.462. ostrea milibus nummum / empta. 1358. dives positis in fenore nummis 1205.1215. magna penus parvo spatio consumpta peribit. 1350.1242. uxori legata penus. 519.555. legavit quidam uxori mundum omne penumque. 520.556. quid mundum 1326.1140. pretium persolvere verum. 1332.1146. pretium persolvere posse 723.769. ne portorium dent
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
los
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 256.268. et pretium redimet. 1040.1084. hoc pretium reddebamus. 1326.1140. pretium persolvere verum. 1332.1146. pretium persolvere posse. 199.215. ficos / pretio ingenti dat primitus paucos. 499.523. in pretio, primus semisse. 750.793. nec parvo Catulo pretio provenio publicanus publicitus
quaero
quaesticulus ratio
ratitus redimo repudium scripturarius sodalicium (societa, compagnia; corporazione) solvo summa sumptus
thesaurus
vador vendo
667.623. decimae proveniunt male 671.627. publicanus vero ut Asiae fiam 429.454. publicitus atque e fisco. 530.560. publicitus vendis 717.763. quaerunt rem parasiti ac ditias. 561.589. tu illos fructus quaeras. 327.337. milli nummum potes uno quaerere centum. 1331.1145. quaerendae finem re scire modumque 318.332. et mercaturae omnes et quaesticuli isti / intuti 886.891. hoc est ratio? 887.892. rationes omnes subdu-
cet suas 1272.1304. quadrantis ratiti 256.268. et pretium redimet 849.925. repudium filiae 671.627. publicanus vero ut Asiae fiam, ut scripturarius 438.470. primum dominia atque sodalicia omnia / tollantur 414.438. solvere nulli lentus 886.891. summa est subducta improbe. 884.890. summam subduc 1050.1086. quid sumti facere ac praebere potisset. 618.722. sumtum homini praebeat. 1034.1019. quem sumptum facis. 1288.1167. quod sumtum atque epulas victu praeponis honesto. 884.890. summam sumptus subduc. 442.465. nam sumptibus magnis 761.809. tensauri patent 416.441. nec mihi amatore hoc opus nec tricone vadato 530.560. publicitus vendis. 549.581. Musas si vendis Lavernae. 256.268. qui vendit equum, musimonem. 1253.1297. plure foras vendunt quod proinde minore erat emptum. 1282.1173. et scruta quidem ut vendat scrutarius laudat 811.857. esse cum cognoris 550.579. cetera contemnit et in usura omnia ponit / non magna: proprium vero nil neminem habere. 708.760. nec si paulo minus usurast magna
adiutatus diu
156
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
13. — Qualificazioni.
ancilla baro (homo agrestis et stupidus) blennus (sciocco)
bovinator (ille qui iniuriam alicui infert) calix (bicchiere: cioè beone) carissa (significat vafrum) cephalo (=capito: testone,
capoccione) cinaedus columella (servus maior)
combibo comedo conciliatrix (mezzana) confector congerra (=congerro: compagnone di divertimenti) coniux crassus
263.286. Phryne nobilis illa, ubi amatorem improbius quem. 902.935. favitorem tibi me, amicum, amatorem putes. 416.441. nec mihi amatore hoc opus 1057.1096. curare domi sint / ancillae 1121.1255.
baronum
ac rupicum
squarrosa,
incondita
rostra
1063.1058. deblaterant, blennus bonus rusticus concinit una 417.440. si tricosus, bovinatorque ore improbus duro
1069.1059. Troginus calix per castra cluebat 1129.1259. carissam 422.448. Cassius Gaius hic operarius, quem Cephalonem / dicimus 1140.1223. luci effictae atque cinaedo. 32.16. stulte saltatum te inter venisse cinaedos 580.616. Lucili columella hic situs Metrophanes 665.709. magnis conbibonum ex copiis 75.71. vivite lurcones, comedones, vivite ventris 271.291. ut saga et bona conciliatrix 773.823. confectores cardinum 1307.1213. Tappulam legem rident congerrae Opimi
680.725. coniugem infidamque, pathicam familiam 413.437. Lucius Cotta senex, crassi pater huius. 386.409. horum est / iudicium: crassis, ut dixi, scribimus, ante
defensor dives famulus fautor
fictrix fugitivus
1335.1149. defensorem hominum morumque bonorum 1226.1170. formonsus dives liber rex solus ut extet. 1358. dives agris, dives positis in fenore nummis 1055.1094. neu te ignaro famuli subducere possint 270.293. aetatis facieque tuae se / favitorem ostendat. 902.935. favitorem tibi me, amicum, amatorem putes 304.313. labra labellis / fictricis conpono 854.957. cum manicis catulo collarique ut fugitivum deportem
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
157
E CATEGORIA GRAMMATICALE |553.583. ergo / fur dominum? 423.449. quem Cephalonem / dicimus, sectorem furemque. 367.381. mendaci furique addes ‘e’, cum dare furei / iusseris. 775.822. agite agite, fures N 1066.1074. illae gumiae vetulae inprobae ineptae. 1237.1159. conpellans gumias ex ordine nostros 1238.1160. o gurges Galloni 239.250. sororem / lanificam dici 334.345. si olim lupa prostibulumque 75.71. vivite lurcones 946.986. omnes mandonum gulae 669.705. at libertinus, tricorius, Syrus ipse, at mastigias N Pea 512.533. vilicum Aristocratem, mediastrinum atque bubulcum 728.772. miserum mendicum petam 59.58. vix vivo homini ac monogrammo. 725.771. quae pietas! monogrammi quinque adducti; pietatem vocant 56.54. qui te di, montane, malum 468.484. lucifugus, nebulo, id genus sane. 577.613. nugator, cui dem, ac nebulo sit maximus multo 1280.447. nuculam an confixum vis facere? 5
gumia gurges lanificus lupa lurco mando (mangione) mastigias (uomo da frusta) mediastinus (servo per i servizi vili) mendicus
monogrammus montanus
nebulo
nucula (dem. di nux; nuculae appellabantur Praenestini) nugator
nutricula (balia) parasitus pareutactos
(magevtaxtos, in Atene i giovani
che
facevano
577.613. nugator, cui dem, ac nebulo sit maximus multo. 1002.1112. quam me hoc tempore, nugator, cognoscere non Vis 1366.1369. nutricula sicca vetusta 717.763. quaerunt rem parasiti ac ditias 752.801. ephebum quendam, quem pareutacton vocant. 321.334. unde pareutactoe, clamides ac barbula prima
il
servizio militare di leva)
pauci philosophus physicus praesul (capo dei sacerdoti Salii) premo (e nomine deae
Premonae, quae concubitum regit) puellus
687.635. ad paucos rettuli. 462.488. non paucis malle ac sapientibus esse probatum 754.798. tristis ac severus philosophus 635.680. principio physici omnes constare hominem ex anima et corpore / dicunt 320.336. praesul ut amptruet inde 967.988. subpilo, pullo, premo
173.185. hic tam formonsus homo ac te dignus puellus. 425.446. tener ipse etiam atque puellus
158
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
pullo (=pullarius, corruttore di ragazzi) pupillus rapister rupex (zotico) sapiens
scortum
scriptor
scurra sectator
E CATEGORIA GRAMMATICALE 987.988. subpilo, pullo, premo 366.378. pupilli, pueri, Lucili 66.61. et est inpune rapister 1121.1255. baronum ac rupicum squarrosa, incondita rostra 516.531. utilior mihi quam sapiens. 624.693. bona semper petere sapientem. 462.488. non paucis malle ac sapientibus esse probatum 1271.1240. Pyrgensia scorta 190.195. si tam corpus validum maneret / scriptoris quam vera manet sententia cordi. 588.646. nunc itidem populost ut scriptoribus 1134.1218. Coelius, conlusor Galloni, scurra 1141.1224. deliciis, luci effictae atque cinaedo, et / sectatori adeo ipse suo
servulus
servus
sophistes sophos syrophoenix (strozzino)
tagax (tocchino; ladro)
tragicus (tragediografo) trico (cavillatore) tricorius (cfr. Plaut. Poen. 138 in tergo meo tris facile corios vapulando contrivisti, I.Mariotti) tricosus (cavilloso) tyrannus verna veterator
730.774. cum mei me adeunt servuli 243.251. cui neque iumentum est nec servus nec comes ullus. 515.530. paenula, si quaeris, cantherius, servus, segestre / utilior mihi quam sapiens. 579.615. servus neque infidus domino neque inutilis quaquam. 228.242. servorum est festus dies hic 1117.1180. senium atque insulse sophista 1236.1158. in quo Laelius clamores, sophos ille, solebat edere 497.521. ac de isto sacer ille tocoglyphos ac Syrophoenix / quid facere est solitus? 1031.1036. et muttonis manum perscribere posse tagacem 567.597. rausuro tragicus qui carmina perdit Oreste 414.438. magnus fuit trico nummarius. 416.441. nec mihi amatore hoc opus nec tricone vadato 669.705. at libertinus, tricorius, Syrus ipse
417.440. si tricosus bovinatorque 742.791. Socraticum quidam tyranno misisse Aristippum autumant 1321.1324. vernam ac cercopithecon 826.895. veteratorem illum, vetulum lupum / Annibalem acceptum
RAPPRESENTAZIONE
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
159
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
14. — Vocaboli politici specialistici e gergali. agipes (Fest. 210: qui tacitus transeundo ad eum | cuius sententiam probat, quid sentiat indicat) agrarius (sostenitore delle
leges agrariae, e chi, per mezzo di quelle, sperava di appropriarsi di ager publicus tolto ai legittimi affittuari) dominium (proprieta; convito, festino) sodalicium
1
1102.1246. agipes vocem mittere cepit
1
1103.1216. agrarius mergus
1
|438.470. dominia atque sodalicia omnia tollantur
1
|438.470. dominia atque sodalicia omnia tollantur
15. — Giochi. alveolus (tavola da gioco) calx (=calculus: dado da
gioco) collusor (che gioca insie-
457.502. naumachiam licet haec, inquam, alveolumque putare / et calces 458.503. naumachiam licet haec, inquam, alveolumque putare et calces 1134.1218. Coelius, conlusor Galloni
me)
corolla (Isid. Orig. 19.30, 1 corona insigne victoriae ... a Lucilio corolla dicta) eludo (paro la palla o respingo) gymnasium
ludo (gioco: trigonum; tiro la palla) naumachia (battaglia navale: gioco dei bambini) palaestra pila
1143.1261. corolla
1136.1220. ludet et eludet
641.691. cum in stadio, in gymnasio in duplici corpus siccassem pila. 804.849. in gymnasio ut schema
antiquo spectatores retineas 1135.1219. trigonum / cum ludet. 1136.1219. ludet et eludet. 359.384. pilam in qua lusimus 457.502. naumachiam licet haec, inquam, alveolumque putare / et calces 1267.1230. podicis, Hortensi, est ad eam rem nata palaestra 359.384. pilam in qua lusimus. 641.691. cum in stadio, in gymnasio, in duplici corpus siccassem pila
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
160
LEMMA stadium
2
trigonus (sc. /usus: il gioco della palla a tre)
1
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 641.691. cum in stadio, in gymnasio, in duplici corpus siccassem pila 1134.1219. trigonum/ cum ludet
16. — Lingua colloquiale, come operazione affettiva sul reale. anniculus anus (moglie)
1
aridus bellus
bene
calidus capto
carcer (pezzo da galera) cariosus carpo Caecilius clanculum
clandestino
collus (collo, maschile in luogo di collum, class.) creper curtus
de decimanus
decollo (privare, derubare) defraudo
13
130.125. annicula aspera 280.303. anu noceo, inquit, / praecidit caulem testisque una amputat ambo 733.783. ardum, miserinum atque infelix lignum sabucum vocant 905.850. aetatem istuc laturam et bellum, si hoc bellum putas. 803.851. hoc invenisse unum ad morbum illum homini vel bellissimum 268.290. bene plena. 1070.1065. bene potus. 1073.1066. bene longincum. 1356.1359. super amphitapo bene molli 268.290. calda siem ac bene plena. 291.280. caldum ex furnacibus ferrum 696.744. quod si paulisper captare atque observare haec volueris 1128.1258. carcer, vix carcere dignus 1062.1057. clauda una est pedibus cariosis mensula |. vino 917.951. hiemem unamquamque carpam 1130.241. Cecilius pretor ne rusticus fiat 722.768. illi qui inscriptum e portu exportant clanculum, ne portorium dent 651.629. clandestino tibi quod conmissum foret / neu muttires quicquam 268.290. anseris collus. 703.748. modo sursum modo deorsum, tamquam collus cernui 192.200. tristitia in summa, crepera re 445.469. Samio curtoque catino 497.521. 498.522. de isto / quid facere est solitus? 502.526. decumano pane. 1240.1162. acupensere cum decimano. 1151.1191. decumana ova. 1150.1264. decumana Albesia scuta. 1152.1254. decumanis fluctibus 433.459. quibus fructibus me decollavi 619.723. genium suum / defrudet, alieno parcat
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
deliquo (dichiaro) demagis (=valde magis)
deorsum (=giuso, giù) depuvio (=pavio, batto) desubito (improvvisamen-
1
161
E CATEGORIA GRAMMATICALE 1071.1077. ‘nemo istum ventrem pertundet’ delicat ipsa 528.564. austrum atque aquilonem / novisse aiebat se solos demagis 703.748. modo sursum modo deorsum | 1245.1239. palmisque misellam depuviit me 392.414. quamvis desubito trinis deducere scalis
te)
difflo discutio disrumpo (rompere, far scoppiare, crepare) ditiae ducentum (accusativo sin-
golare o indeclinabile) eminulus
exentero (=éEevteoita: sviscero, sventro) fastidiosus (schifiltoso)
flacceo (esser fiacco o lan-
guido) fortis (degno, onorevole) frigidarium fruniscor (=fruor) fulgo
gannio grandaevus heiulito hilum
honeste (fieramente)
666.713. pars difflatur vento 337.352. dentesque advorsos discutio omnis 576.609. ut Marsus colubras / disrumpit cantu. 575.608. iam disrumpetur, medius iam, / venas cum extenderit omnis 717.763. amici animum quaerunt, rem parasiti ac ditias 555.585. millia ducentum frumenti tollis medimnum. 1051.1087. quid vero est, centum atque ducentum possideas si / milia 546.576. dentem eminulum unum. 117.135. dente eminulo 470.486. ille, ut dico, me exenterat unus
602.688. quam fastidiosum ac vescum fastidio 275.294. si Agrion longius flaccet
vivere cum
241.265. dominum fortem. 1026.1032. omnes formonsi, fortes tibi 317.331. mercem in frigdaria ferre 554.584. aeque fruniscor ac tu 291.280. primum fulgit, uti caldum ex furnacibus ferrum. 409.429. conventus pulcher: bracae, saga fulgere, torques / caelati magni 285.297. eodem pacto gannis 1108.205. quidam / perditus Tiresia tussi grandaevus gemebat 261.275. haec, inquam, rudet ex rostris atque heiulitabit 1021.1025. quod tu laudes culpes, non proficis hilum. 1376.1379. Sisiphus versat / saxum sudans nitendo neque proficit hilum. 458.503. hilo non rectius vivas 300.316. gallinaceus cum victor se gallus honeste / altius in digitos primoresque erigit unguis
162
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
honestus (‘che va bene’, bello)
horno (quest’ anno)
horridulus impuratus incilo
indulgeo (con accusativo) internundinum inunco involo (rubare)
labosus lassus lupus
lustror (frequento i bordelli) lustrum (bordello) lux (vezzeggiativo: anima mia, luce dei miei occhi) mi (=mihi) minutim miraculum
misellus miserinus
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 116.119. et spatium curando corpore honestum / sumemus. 566.592. mulierculam honestam. 1257.1298. primum facie quod honestae / tantis accedis. 129.124. cernuus extemplo plantas convestit honestas. 1161.1238. et pedibus laeva Sycionia demit honesta 273.295. nunc, praetor, tuus est: meus, si discesseris horno, / Gentius. 781.816. utrum anno an horno tu te abstuleris a viro 523.558. caput ungunt horridulum 66.62. homo inpuratus. 57.57. inpuratum hunc in fauces invasse animamque / elisisse illi 1035.1020. nunc, Gai, quoniam incilans nos laedis, vicissim 900.929. tu qui iram indulges nimis 637.682. si nil gustat internundino 492.518. qui nummos tristis inuncat 1096.1022. inde canino ritu (ricto Lindsay) oculisque / involem 109.122. omne iter est hoc labosum atque lutosum 981.1044. leonem / aegrotum ac lassum 826.895. vetulum lupum Annibalem 1034.1019. quem sumptum facis in lustris, circum oppi-
da lustrans 1034.1019. quem sumptum facis in lustris 1140.1223. luci effictae atque cinaedo
94.84. 191.199. 205.203. 217.234. 429.454. 617.670. 903.933. 208.223. dic quam cogat vis ire minutim 14.13. miracla ciet elephantas
629.644.
1172.1211. Fanni centussis misellus. 1245.1239. palmisque misellam depuviit me 733.783. miserinum atque infelix lignum sabucum vocant
mu muttio
nil (=nihil)
nox obturgesco pauxillus permingo (scompiscio) pertundo pipo (pigolare, gridare al soccorso)
426.451. neque mu facere unquam 652.630. neu muttires quicquam 148.94. 231.262. 348.353. 380.398. 384.403. 551.580. 558.588. 770.682. 1155a.1166 127.118. hinc media remis Palinurum pervenio nox 172.174. obtursi ebrius 1192.1281. plumbi pauxillum rodus 1248.143. permixi lectum 1071.1077. nemo istum ventrem pertundet 1249.1296. petis, pipas? da. libet, inquit
RAPPRESENTAZIONE
poculum praeservio praetor probus remillus (=repandus, piegato all’in sù) repedo
rugosus russum (=rursum) scelerosus senium (vecchio barbogio) sescentum (accusativo sin-
golare o indeclinabile) simitu (=simul)
sollo (Osce dicitur id quod nos totum vocamus, Fest. 298) spurcus
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
E CATEGORIA GRAMMATICALE 303.312. cum poclo bibo eodem 1004.1114. praeservit, labra delingit, delenit amore 1130.241. Cecilius pretor ne rusticus fiat 707.759. non proba vindemia 1303.1315. remillum 676.718. ego a Metelli Roma iam repedabam munere. 677.717. rediisse ac repedasse 430.455. rugosum atque fami plenum. 557.587. rugosi passique senes 767.806. anus russum ad armillum 38.40. tempestatem hanc scelerosi / mirentur 1117.1180. es, ait quidam, senium atque insulse sophista 1053.1089. Maximus si argenti sescentum ac mille reliquit 1011.1007. illisque tibique simitu 1318.425. vasa quoque omnino dirimit non sollo dupundi 150.152. quidam / Samnis, spurcus homo. 798.845. aspectu sunt spurca et odore. 398.418. spurcos ore quod omnis / extra castra ut stercus foras eiecit ad unum 1162.1271. et suffocare lacuna / conatur 883.889. hic ubi me videt / subblanditur, subpalpatur, caput scabit, pedes legit 703.748. modo sursum modo deorsum 110.108. haec ludus ibi, susque omnia deque fuerunt. 111.109. susque et deque fuere, inquam, omnia 795.843. timido pede percitus vadit 1358.1361. hos vappones 736.781. aedis verrat, vapulet 631.679. non idcirco extollitur nec vitae vegrandi datur. 1383. vegrandi macie torridum 44.45. vultus item ut facies, mors cetera, morbus venenum 282.307. vetulam atque virosam / uxorem. 826.895. vetulum lupum / Annibalem. 1066.1074. illae gumiae vetulae 302.318. vinibuas 945.982. virde cima quaeque
suffoco suppalpor (carezzo) sursum (suso, sù) susque deque
vado vappo vapulo vegrandis (piccolo) venenum
vetulus
163
164
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA
F.
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
PARTE TERZA — LA LINGUA ILLUSTRE 1. — Religione. amptruo ancile
1 1
|320.336. praesul ut amptruet inde |319.335. hinc ancilia, ab hoc apices capidasque re-
apex Apollo
1 2
|319.335. ab hoc apices capidasque repertas |23.20. pulcher Apollo. 895.941. Apollost numen
averrunco
1
averto capis (vaso ad una sola ansa)
1 1
653.698. di monerint meliora, amentiam averruncassint tuam 899.943. deum rex avertat verba obscena
deus
3
pertas
divino effero
fulguritus haruspex Ianus infelix
da te LU) N i a
Iuppiter
4
lucus Mars Minerva monstrum
1 1 1 1
mysterium Neptunus Orcus
1 2 2
portendo
1
portentum
2
|319.335. ab hoc apices capidasque repertas 56.54. qui te , montane, malum. 653.698. di monerint meliora. 899.943. deum rex avertat verba obscena
34.18. qua re divinas quicquam 652.630. neu mysteria ecferres foras 644.699. fulguritarum arborum 1348.1235. Nostius dixit aruspex 21.24. Ianus 395.434. lustrum malum infelixque fuisse. 733.783. infelix lignum sabucum vocat |1188.218. hic sunt herbae ... quas sevit Iuppiter ipse. 240.264. qui te bonus Iuppiter. 525.561. Lysippi Iuppiter. 444.464. epulae Iovis omnipotentis |644.699. lucorum sanctorum |21.22. Mars 125.116. promontorium remis superamus Minervae |481.507. multa homines portenta in Homeri versibus ficta / monstra putant |652.630. neu mysteria ecferres foras |21.22. Neptunus pater. 1313.1234. Neptuni filius |31.15. non Carneaden si ipsum Orcus remittat. 663.708. qui sex menses vitam ducunt, Orco spondent septimum |727.755. nam hi reditum quidem / talem portendebant |480.506. multa homines portenta in Homeri versibus
ficta / monstra putant. 587.650. nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis praesul
320.336.
praesul ut amptruet inde
RAPPRESENTAZIONE
LEMMA prosecia (=prosectum o prosecta) Quirinus redamptruo religiosus sanctus
Saturnus
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
165
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 1
py (US
473.496. neque divo proseciam ullam 22.24. Quirinus pater 320.336. ut vulgus redamptruet inde 746.786. anno vertenti dies / taetri miseri ac religiosi 676.718. sanctum ego a Metelli Roma iam repedabam munere. 644.699. lucorum sanctorum. 170.172. sanctissima Erinys 21.22. Saturnus pater
2. — Politica e diritto. accuso aedilis albus caput
cohors damno
designo dico dies exlex exul extermino
fiscus heres
imperium iudex legatus lex
792.840. timeo ne accuser 48.43. per saturam aedilem factum 661.711. multitudinem / tuorum, quam in album indidisti 783.829. capitis dicturum diem 1348.1235. praetoris cohors 424.450. et damnati alii omnes 210.239. ne designati rostrum praetoris pedesque / spectes 783.829. capitis dicturum diem 783.829. capitis dicturum diem 83.74. et vagus exul et erret / exlex. 1088.1133. accipiunt leges, populus quibus legibus exlex 82.73. vagus exul 877.881. ni rediret ad se atque illam exterminare in— saniam / miseram 429.454. publicitus qui mi atque e fisco praebeat aurum 423.450. hunc Tullius Quintus iudex / heredem facit. 691.734. heredis fletu nullo 607.666. imperium regis 424.450. hunc Tullius Quintus / iudex heredem facit 464.492. ad regem legatus 48.43. qui legibus solvat. 573.606. saeva lege in Pieen pd OO: sonis reprendi. 853.953. legumque rogator. 1078.1126. publico equo lege ut mereas. 1088.1133. leges accipiunt. 1088.1133. populus quibus legibus exlex. 1200.1212. legem vitemus Licini. 1307.1213. Tappulam rident legem 1226.1170. formonsus dives liber rex solus ut extet
166
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
LEMMA
F.
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE
libertas
1
lictor
2
892.872. ad lenonem venio, tribus in libertatem milibus / destino 356.372. vero hoc lictoribus tradam. 93.83. lictores,
ordo patres populus
5 1 9
praetor
8
publicitus
2
publicus quaestor |
1 3.
quirito res
1 42 1
rogator Romanus
servitus
i
4
1
urbs
turma omnis chorusque |691.733. vester ordo 1229.1127. populusque patresque |613.660. ut Romanus populus victus vi. 1229.1127. populusque patresque. 1088.1133. populus quibus legibus exlex. 1147.1182. populus vix totus satis est. 5.4. quo populum pacto servare potisset. 688.730. rem populi. 971.1038. populi risu res pectora rumpit. 588.646. nunc itidem populost ut scriptoribus. 123.114. Dicarchitum populos |91.81. ergo praetor Athenis. 1130.241. Cecilius pretor ne rusticus fiat. 398.418. praetor noster. 469.485. si mihi non praetor siet additus atque agitet me. 273.295. nunc, praetor, tuus est: meus, si discesseris horno, / Gentius. 210.239. ne designati rostrum praetoris pedesque / spectes. 1348.1235. praetoris cohors. 1160.1270. ergo praetorum est ante et prae ire |429.454. publicitus qui mi atque e fisco praebeat aurum. 530.560. publicitus vendis 1078.1125. publico equo |467.483. Publius Pavus mihi Tubitanus quaestor Hibera / in terra fuit. 1078.1125. praesto est tibi quaestor. 428.453. quaestore aliquo esse opus |262.276. clareque quiritans | 688.730. rem populi 853.953. legumque oriundus rogator |5.6. urbem
Romanam.
88.78.
Graecum
te, Albuci,
quam Romanum atque Sabinum / ... maluisti dici. 613.660. Romanus populus |715.753. primum qua virtute servitute excluserit 4.5. urbem Romanam
3. — Lingua della doctrina. acoetis aether
Agamennon
1 2
|542.572. Amphitryonis acoetin / Alemenam |1.1. aetheris et terrae genitabile quaerere tempus. 799.846. tantis e tenebris montes se in aethera tollent 654.667. fastidire Agamemnonis
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
167
E CATEGORIA GRAMMATICALE agelastus Alcmena alochos Amphitryo Amyclae Apelles Apulida archaeotera Archilocus Aristippus
1300.1344. agelastus 543.573. Amphitryonis acoetin /Alemenam 25.26. Ixionies alochoeo 542.572. Amphitryonis acoetin 958.632. Amyclas tacendo periisse 829.948. epiteugma Apelli 1109.1248. Apulidae pedibus stlembi 1111.1179. archaeotera unde haec sunt omnia nata 698.750. ergo antiquo ab Archiloco excido fasi nm ee 742.791. ee n Socraticum quidam tyranno misisse Aristippum autumant
atechnon Athos atomus
Atticus Babylon bilinguis Bruttacis cacosyntheton caelicola
fmi nm n
186.191. quod atechnon 113.111. asperi Athones 753.802. eidola atque atomus Epicuri 1199.1285. Atticon hoc est 464.492. Rhodum, Ecbatanam ac Babylonem / ibo 1124.121. Bruttace bilingui 1124.121. Bruttace bilingui 377.395. ‘1’: non multum est hoc cacosyntheton atque canina/ si lingua dico 28.34. vellem concilio vestrum, quod dicitis olim, / caelicolae, hic habitum, vellem adfuissemus
calliplocamos callisphyros Camena Capitolium carmen Carneades Cassandra Chironeus
chorus
Chryses cibicida claustrum
clueo concilium
540.570. num censes calliplocamon callisphyron ullam 540.570. num censes calliplocamon callisphyron ullam 1028.1010. cui sua conmittunt mortali claustra Camenae 1145.1262. Capitolia magna 567.597. rausuro tragicus qui carmina perdit Oreste 15.31. non Carneaden si ipsum Orcus remittat 656.668. nec homini mea prosperatur pax, quod Cassandram meo signo deripuit 802.852. Chironeo et non mortifero adfectus vomicae vulnere 93.83. turma omnis chorusque 876.880. primum Chrysi cum negat sic natam reddere 718.764. viginti domi an triginta an centum cibicidas alas 1028.1010. cui sua conmittunt mortali claustra Camenae 1069.1059. cuia opera Troginus ‘calix’ per castra cluebat 30.27. concilio antiquo. 27.33. concilio vestrum. 29.35. priore concilio
168
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
contemnificus cordipugus corpus
cortinipotens Cyclops Cyllarabus Deucalion Diomedes
disyllabon doctissimus doctrina domiporta domuitio Ecbatana eidolon Eissocratium Emathius enthymema ephebus Epicurus epiphoni (=é71@@vet) epistula epiteugma (capolavoro) Erinys Eumenides Euclides eupatereia euphonos euplocamos exodium
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE 654.667. ego enim contemnificus fieri 968.1351. cordipugis versibus 789.837. corpus. 635.680. constare hominem ex anima et corpore. 788.836. anima et corpore privabit 276.298. huncin ego unquam Hyacintho hominem, cortinipotentis / deliciis, contendi 482.508. ducentos Cyclops longus pedes 1149.1334. Cyllarabo 251.259. tres a Deucalione grabati restibus tenti
1149.1334. Diomedes 544.574. disyllabon elige quodvis 595.637. nec doctissimis ego scribo nec scribo indoctissimis 834.904. partiret doctrinas bonis 1377.1380. terrigenam herbigradam domiportam 607.666. domuitionis cupidi 464.492. Ecbatanam ac Babylonem / ibo 753.802. eidola atque atomus Epicuri 186.191. Eissocratium hoc 41.30. venti prius Emathii vim, / ventum, inquam, tollas SE — n I 347.365. versum unum culpat, verbum, enthymema, poema 752.801. ephebum quendam, quem pareutacton vocant 753.802. eidola atque atomus vincere Epicuri volam 908.905. tum illud epiphoni, quod etiam nunc nobile est 341.359. epistula item quaevis non magna poema est 829.948. epiteugma Apelli 170.172. Eumenidum sanctissima Erinys 170.172. Eumenidum sanctissima Erinys 518.546. Euclides 545.575. eupatereiam aliquam rem insignem habuisse 1168.1335. euphona (verba) 991.1101. euplocamo digitis nm pn nm mmm1265.1301. principio exitus dignus / exodiumque
se-
quetur exordium
gymnasium
Helena herbigradus
875.879. verum tristis contorto aliquo ex Pacuviano exordio 641.691. cum in stadio, in gymnasio, in duplici corpus siccassem pila. 804.849. in gymnasio ut schema antiquo spectatores retineas 543.573. Helenam ipsam denique 1377.1380. terrigenam, herbigradam, domiportam 5
RAPPRESENTAZIONE
hexameter
historia Homerus
Hyacinthus idiota
Ilias indoctissimus inlitteratus Ixionis Leda lexis Lydus Lysippus mercedimerus monosyllabus monstrificabilis Orestes oxyodontes parilis pareutactos
pelagus phaos philosophus physicus
poeeticos (attinente la produzione)
poema
DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
169
E CATEGORIA GRAMMATICALE |229.243. servorum est festus dies hic / quem plane hexametro versu non dicere possis 612.659. veterem historiam inductus studio scribis ad amores tuos 1189.1339. alter Homerus (de Ennio). 345.363. nemo, qui culpat Homerum, / perpetuo culpat. 480.506. portenta in Homeri versibus ficta 276.298. huncin ego unquam Hyacintho hominem, cortinipotentis / deliciis, contendi? 649.648. quid ne et tu idem inlitteratum me atque idiotam diceres 342.360. illa poesis opus totum, tota Ilias una est 595.637. nec scribo indoctissimis 649.648. inlitteratum atque idiotam 25.26. Ixionies alochoeo 25.26. Thestiados Ledae 84.75. quam lepidae lexis compostae 12.11. tunicae Lydorum 525.561. Lysippi Iuppiter 9.9. mercedimerae legiones 1209.1340. monosyllabo finiri versus 608.692. ignobilitas his mirum ac monstrificabile 567.597. rausuro tragicus qui carmina perdit Oreste 1065.1073. Lamia et Bitto oxyodontes E I i 447.472. cui parilem fortuna locum fatumque tulit fors N 752.801. ephebum quendam, quem pareutacton vocant. 321.334. unde pareutactoe, clamides ac barbula prima 1291.495. Carpathium in pelagus 1360.1363. iuvenale phaos 754.798. tristis ac severus philosophus 635.680. principio physici omnes constare hominem ex anima et corpore / dicunt 495.532. scit poeeticon esse, videt tunica et toga quid sit 340.358. pars est parva poema. 341.359. epistula item quaevis non magna poema est. 339.357. primum hoc, quod dicimus esse poema. 344.362. et maius multo est quam quod dixi ante poema. 347.365. ver1
sum
unum culpat, verbum, enthymema, poema. 1013.1012. et sola ex multis nunc nostra poemata ferri 342.360. illa poesis opus totum. 346.364. quod dixi ante poesin
170
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
TESTIMONIANZA E CATEGORIA GRAMMATICALE Polemon
Poliphemus rhetoricoterus
sal schedium (genus navigii inconditum, Paul. 335; improvvisazione) schema schola Scipiadas
semnos (=c£uv®g) Sisyphus Socrates Socraticus
soloecismus
sophos stadium
stoechium
syllaba symmiraciodes (=puerile) Tantalus Theognis Thermopylae Thessalus Thestias Tiresia
Tisiphone
Tityus
755.799. Polemon et amavit, morte huic transmisit suam / scolen quam dicunt 481.507. Poliphemus ducentos / Cyclops longus pedes 86.77. Crassum habeo generum, ne rhetoricoterus tu seis 1244.1293. ore salem expiravit amarum 1279.1306. qui schedium fa
804.849. ut schema antiquo. 1133.1332. bonum schema 756.800. suam / scolen quam dicunt 1139.1222. Cornelius Publius noster Scipiadas. 394.433. Scipiadae magno 15.36. ut diximus semnos 1375.1378. Sisyphus versat saxum
832.901. Socrates in amore et in adulescentulis 742.791. Socraticum quidam tyranno misisse Aristippum autumant. 709.741. sic ubi Graeci, ubi nunc Socratici carti? 1100.399. adde soloecismon genera atque vocabula centum 1236.1158. Laelius sophos ille 313.329. si omne iter evadit stadiumque acclive tolutim. 641.691. cum in stadio, in gymnasio, in duplici corpus siccassem pila 788.836. duo habet stoechia. 786.834. aoyaic hominem et stoechiis simul / privabit. 790.838. posterioribus /| stoechiis, si id maluerit, privabit tamen 352.368. brevis syllaba 187.192. Anew@des que simul totum ac symmiraciodes 140.141. Tantalus, qui poenas, ob facta nefantia poenas / pendit 952.989. priusquam Theognis nasceretur 1310.1320. Thermopulas 1042.1091. Thessalam ut indomitam 25.26. Thestiados Ledae 1108.205. quidam / perditus Tiresia tussi grandaevus gemebat. 226.221. verum unum cecidisse tamen senis Tiresiai / aequalem constat 169.171. Tisiphone Tityi pulmonibus atque adipe unguen / excoctum attulit 169.171. Tityi pulmonibus atque adipe unguen / excoctum
RAPPRESENTAZIONE DEL REALE NELLA SATIRA DI LUCILIO
tragicus Tusculidas tyrannus Vulcanius zetematium
aiyuuw (da capre) "AréALOV
DAI
E CATEGORIA GRAMMATICALE 567.597. rausuro tragicus qui carmina perdit Oreste 1259.1243. prima Papiria Tusculidarum 742.791. Socraticum quidam tyranno misisse Aristippum autumant 606.665. solus etiam vim de classe prohibuit Vulcaniam 650.649. si quod verbum inusitatum aut zetematium offenderam
113.111. 231.262. 355.371. 786.834.
aiyiAureg montes tov 8 éEnorafev
“AT6MOv “Ages “Ages Graeci ut faciunt doeyaîc hominem et stoechiis simul / pri-
vabit 789.837. yî corpus, anima est tvedua
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172
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
TAVOLE STATISTICHE Nota: V è il numero dei vocaboli; F è il numero delle ricorrenze dei vocaboli; MF è la media di frequenza (F/V).
I.- LA NATURA MF 1,4
TOTALI
V 317
E 561
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II. - LE OPERAZIONI UMANE MF 1,4
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ANALYSE STRUCTURALE ET RECHERCHE COMPUTATIONNELLE Cette communication a été présentée par M. A. PENNACINI au nom d’une équipe qui se consacre à la recherche sur la pensée politique ancienne 4 I’Institut de Philologie Classique “A. ROSTAGNI” de l’Université de Turin.
Dans l’application des méthodes computationnelles à l’analyse structurale, le probleme principal est de dépasser le niveau des relevés des structures de la phrase (mots et fonctions dont la phrase est constituée) et d’arriver aux relevés des structures spécifiques d’une oeuvre littéraire, c’est-à-dire, des éléments et des fonctions dont |’ oeuvre est constituée en tant qu’ oeuvre littéraire, douée de caractères littéraires spécifiques. Le repérage des procédés d’art, aussi bien en poésie qu’en prose, comporte deux aspects qu’il convient de ne pas négliger: premiérement, recueillir les éléments de langue et de style, deuxièmement, évaluer les fonctions de ces éléments au sein du système constitué par la structure spécifique de I’ oeuvre. Il ya toutefois, 4 la base, un autre probleme: celui qui concerne les rapports entre l’analyse qualitative et l’analyse quantitative exécutée par lV ordinateur. Résoudre ce problème signifie repérer dans la structure de |’ oeuvre et dans son style des éléments que la machine puisse reconnaitre très facilement et par conséquent soumettre aux calculs. Mais a ce moment-là nous avons encore un probléme 4a résoudre: quels sons les critéres objectifs pour la caractérisation de ces éléments? Et comment apprécier leur objectivité? Il s’agit, ne l’oublions pas, d’éléments qui ont été concus en tant qu’ayant une fonction littéraire. Cela signifie qu’on parle de tous les outils de la langue littéraire et de ses règles, par exemple, de la rhéto-
rique.
i
La réponse a cette question est jusq’a présent négative. Il ne semble pas que l’ordinateur soit capable de distinguer, par exemple, l’emploi propre et l’emploi métonymique d’un mot. Que l’on considère le vers de Virgile (I, 177), cité par Quintilien (VIII, 6, 23) afin de donner un exemple de méto-
nymie, Cererem corruptam undis. L’ordinateur n’est pas à méme d’analyser Cererem comme métonymie; il pourra peut-étre, s’il regoit des instructions convenables, nous dire qu’un nom de divinité est suivi d’un verbe appartenant à un champ lexical d’actions qui ont lieu dans la réalité naturelle (ou, par un emploi métaphorique, au champ des actions morales), et suivi encore par un substantif appartenant au champ lexical des objets naturels.
* “Revue” 1, 1970, 49-56.
228
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
L’ ordinateur peut encore apprendre à dire, à propos de certains mots, s°il s’agit d’archaismes, de néologismes, de technicismes, de vulgarismes (formes vulgaires). Il y aurait toutefois 4 résoudre le probléme des références chronologique et culturelle; mais l’ordinateur peut considérer comme synchronique, par hypothèse, tout le matériel linguistique qu’il connait et laisser au chercheur la tàche de discerner. D’ailleurs, déterminer si les mots, reconnus par l’ordinateur comme archaismes, etc. à l’intérieur du texte (de l’oeuvre ou
du passage considéré) exercent une fonction littéraire et déceler quelle est cette fonction, c’est la tache du chercheur, qui est le seul à pouvoir le dire, en examinant le texte. En conclusion,
l’ordinateur
peut, au moyen
des instructions
et des con-
naissances qui sont maintenant dans sa mémoire, distinguer et relever les mots en tant que parties du discours, en donnant une description du texte qui en reflète la structure grammaticale (morphologique); et structure ici désigne l’ordre selon lequel se suivent les parties du discours. Et sans doute peut-on tirer de cette description des indications avantageuses (voir par exemple L. DELATTE, Revue, 1966/3, p.12, à propos de la séquence préposition-verbe dans la Consolatio ad Helviam, qui renvoyait à la construction ad suivi par un adjectif verbal, construction absente dans les autres oeuvres de Sénéque dépouillées). Mais l’explication du sens (motivation et fonction) de la présence d’une séquence “c’est”, comme M. Delatte l’a écrit, “la tache du philologue ou du critique”.
Par ailleurs, on pourrait peut-étre ajouter d’autres instructions et connaissances a celles déjà mémorisées par I’ ordinateur, de fagon qu’il puisse reconnaitre les mots en tant qu’appartenant a différents niveaux de langue (archaismes — neologismes; langue haute ou illustre — langue vulgaire; technicismes hauts — technicismes humbles); ou 4 différents niveaux linguistiques concernant des sphéres spécifiques (politique, juridique, commerciale, militaire, médicale, religieuse, magique, agricole, etc.); ou è des champs lexicaux (l’eau, la mére, le temps, l’espace, la nature, l’amour, la reproduction, l’homme, la femme, etc.).
L’ordinateur pourrait ainsi d’un còté indiquer — par l’extérieur — des composantes linguistiques et des themes (autre chose sera de découvrir et d’évaluer le poids, la fonction et la position hiérarchique des thèmes a l’intérieur de la structure de l’oeuvre; à ce propos les relevés quantitatifs fournis par l’ordinateur peuvent toutefois diriger vers une hypothèse de recherche); et d’un autre còté relever les croisements et les combinaisons des composantes linguistiques et, surtout, des thèmes, c’est-à-dire proposer au chercheur des données partiellement élaborées concernant les rapports entre plusieurs éléments de la structure de l’oeuvre.
ANALYSE STRUCTURALE
ET RECHERCHE
COMPUTATIONNELLE
229
Les croisements et les combinaisons de thèmes — interactions entre éléments — jouent un ròle d’une certaine importance non seulement en ce qui concerne les thèmes pour eux-mémes mais surtout en ce qui concerne leurs fonctions et aussi la variabilité des fonctions elles-mémes. La situation ou position hiérarchique des thèmes 4 l’intérieur de la structure de 1’ oeuvre peut en effet changer: un méme théme peut jouer un ròle tantòt prééminent, tantòt subordonné, ou disparaitre ou encore étre préfiguré. Au cours d’une analyse par ordinateur d’un poéme ou d’un récit (a còté des donnéés linguistiques et morphologiques) la machine peut, si elle a recu des instructions convenables, recueillir les noms des personnages et les mots
désignant des faits et des actions (selon les champs lexicaux que l’on a insérés en mémoire) qui apparaissent dans les passages où elle a recueilli les noms des personnages. Dans ce domaine, la question principale — et la plus difficile 4 résoudre — consiste a établir la longueur du passage, c’est-à-dire le nombre de mots avant et après le nom du personnage qui dovient étre rassemblés par la machine. A ce moment-là, la machine pourra calculer les fréquences et la distribution de ces combinaisons ou, si vous voulez, de ces concordances (personnages avec situations, faits, actions) pour chaque partie de l’oeuvre (chant, livre, chapitre ou autre chose), et y ajouter un total des données. Lorsque le chercheur aura la quantité, la distribution, la fréquence, les croisements,
la concordance
des thèmes,
et les données
qui concernent
les
connections entre les personnages et les états, faits et actions, il sera sans doute à méme de procéder aisément à l’examen de la structure de l’oeuvre; et je pense aussi à la structure dynamique de l’oeuvre, à propos de laquelle le grand formaliste russe Juri Tynianov a écrit des pages pleines de pénétration. Les données ainsi préparées par les machines (ordinateur et trieuse) permettront au critique — moyennant bien entendu une lecture renouvelée et attentive du texte — d’apprécier du point de vue quantitatif et distributionnel l’evolution des fonctions des thèmes, personnages, actions; et de clarifier par conséquent sur une base, je crois, objective et quelque peu solide, l’aspect qualitatif. Je pense en conclusion qu’a l’aide de fiches et de perforations additionnelles,
il est possible d’étendre l’emploi des machines
à l’étude de la
structure spécifique d’une oeuvre littéraire. Mais ce n’est pas seulement vers l’aspect spécifiquement littéraire des textes que l’Institut de Philologie Classique de 1’ Université de Turin oriente ses études et ses recherches. Comme
nombre de savants ici réunis le savent,
l’Institut de Philologie Classique dispose d’une équipe dirigée par M. Italo Lana, professeur de littérature latine, dont nous sommes membres (c’est-à-
230
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
dire Mlle Fiocchi, Mlle Lomanto,
M. Marinone,
M. Bertelli et moi-méme),
travaillant depuis 1964 a l’aide du Conseil National des Recherches, dans le but de composer un lexique de la pensée politique ancienne (grecque et latine, des origines — Homére — jusqu’au cinquième siècle de notre ère). A notre avis l’étude de la culture et de son histoire (ou si vous voulez, du
système évolutif de la culture) est, d’une part, indispensable à la compréhension et à l’interprétation correcte des faits littéraires et, d’autre part, indispensable à la connaissance de la civilisation ancienne dans son ensemble. Nous sommes tous d’accord que la civilisation d’une certaine société est constituée en forme de système complexe encadrant, en les organisant et en les hiérarchisant, d’autres systèmes ou des éléments simples. Il y a des connections (qu’il faudra étudier moyennant des centres interdisciplinaires) entre la série de la littérature et les séries sociale, économique, politique, etc. Ces connections forment les liaisons structurales du système des sociétés des hommes. L’ étude de la pensée politique ancienne, le rassemblement et l’élaboration des témoignages qui la concernent, ont donc pour but de rendre disponibles des matériaux non pas épisodiques ou anecdotiques mais au contraire — bien que le lexique ait un ordre alphabétique — pourvus de tous les moyens permettant, dans la perspective des études interdisciplinaires, une utilisation que nous voudrions satisfaisante. Nous avons jusq’a présent constitué un fichier concernant la pensée politique dans les poèmes homériques. Cependant, quand nous avons commencé ce travail, nous n’étions pas encore renseignés sur le système de perforation IBM (un mot par carte). Nous avons par conséquent choisi une carte qui s’appelle Carte Décimale Universelle (30x20 cm environ) où l’on dispose de la place pour écrire ou bien, comme nous l’avons fait, pour coller au-dessous du mot (qu’on écrit en haut) tous les passages qui le concernent. Tous les passages de l’Iliade et de l’Odyssée, que nous avons choisis en considération de leur signification politique, se trouvent maintenant recueillis sur 1.600 fiches (=600 lemmes). Chaque fiche peut contenir environ dix passages, mais il y a aussi des mots qui ne sont représentés que par un seul passage. Les quatre bords de cette fiche sont tous préparés pour étre perforés. Il y a 32 sections (classifications): dans chacune on peut perforer des trous qui symbolisent les chiffres de zéro jusqu’a neuf. Il est par conséquent possible de combiner les trous de facon que chaque mot soit symbolisé par un chiffre et en méme temps réuni à tous les mots qui lui sont apparentés par le sens, en utilisant un autre chiffre. Nous sommes à présent en train de constituer d’après le fichier le lexique de la pensée politique dans les deux poèmes. Chaque mot sera suivi de sa ou
ANALYSE STRUCTURALE ET RECHERCHE COMPUTATIONNELLE
254
de ses significations, de quelques renseignements sur son étymologie, d’ observations à propos de son emploi et de sa position métrique, des témoignages le plus significatifs avec traduction en italien, des références de tous les autres témoignages et finalement de la bibliographie, s’il y en a. En ce qui concerne l’emploi des techniques mécanographiques, en 1967, nous avons adopté les fiches IBM élaborées par le L.A.S.L.A. pour l’analyse de la langue grecque afin de dresser un fichier qui constitue l’étape précédant la constitution du lexique. Compte tenu de la recherche, qui ne concerne pas l’aspect morphologique mais la signification ou l’acception politique des mots, nous avons quelque peu modifié la fiche, c’est-a-dire que nous avons supprimé les colonnes 27-55 afin que le chercheur puisse y inscrire le passage concernant le mot. Le mot lui-méme, lemmatisé, sera perforé dans les colonnes
1-26; les colonnes 56-80
seront réservées à la perforation des références. Nous avons maintenant environ 6.000 fiches IBM (un mot par fiche) tirées des oeuvres des auteurs suivants: Alcée, Aleman, Anacréon, Ananios, Archi-
loque, Callinos, Hipponax, Ibycus, Mimnerme, Phocylide, Sappho, Simonide, Simonide d’ Amorgos, Solon, Stésichore, Théognis, Tyrtée. En méme temps, comme prolongement de cette recherche, l’équipe est en train de projeter un relevé concernant la distribution géographique et chronologique des mots politiques dans la Grèce archaique.
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AMORE E CANTO NEL LOCUS AMOENUS* 1.TEOCRITO Nell idillio 1. di Teocrito il colloquio introduttivo! alla canzone, con la quale Tirsi cantera passione e morte di Dafni, inizia con una brevissima ed essenziale topografia o descriptio? loci, pronunciata da Tirsi stesso, che assolve alla fun-
" Torino 1979. ! THEOCR.
1, 1-11; U. OTT, Die Kunst des Gegensatzes in Theokrits Hirtengedichten, Spu-
dasmata, vol. 22, Hildesheim-New York 1969, esamina con un’analisi attenta a pp. 14-42 il 5. e a pp. 85-137 il 1. idillio proponendo la seguente ripartizione: 1. colloquio introduttivo. 2. disputa sulle condizioni con offerta dei premi. 3. gara o eventualmente esibizione di un solista. 4. conclusione e chiusura della cornice. Di particolare interesse l’introduzione, pp. 1-9, riguardante il concetto di contrasto o agone e la prima sezione del 1. capitolo “La topica dei componimenti poetici sulla gara o tenzone”; utile la bibliografia, provvista di 96 titoli. Sul contrasto v. anche L.E. ROSSI, Vittoria e sconfitta nell’agone bucolico letterario, «GIF», Il [XXIII], 1, 1971, 13-24.
? Sulla legittimità dell’ applicazione della retorica in poesia, corrispondente ad una concezione tecnicistica della poesia opposta a quella spiritualistica, v. H. LAUSBERG, Retotica e poesia, «Il Verri» 35/36, 1970, 140-166, a 161 nn. 48, 49 con rinvio ad ARISTOT. Poet. 1456 A. Riguardo alla definizione di descriptio le più antiche notizie disponibili sono del principio del 1. sec. a.C.; peraltro i Romani cominciarono a conoscere la dottrina retorica per la mediazione di maestri e di manuali greci nel corso del 2. sec. a.C.; è ragionevole supporre che la dottrina presente in testi latini e greci del 1. sec. a.C. e del 1. d.C. ripeta e rifletta quella elaborata e sistemata dai dotti greci di età ellenistica. Sulla descriptio si veda la sintesi di H. LAUSBERG, Handbuch der literarischen Rhetorik, Monaco 1960, 399-407, nn. 810-819 in particolare n. 819; 544, n. 1133; cfr. IDEM, Elementi di retorica, trad. it. di L. Ritter Santini, Bologna (Il Mulino) 1969, 197-198, n. 369: “L’oggetto che si intende descrivere dettagliatamente può essere un’idea che esprime un giudizio, una esigenza, oppure può essere un oggetto concreto di rappresentazione. Se il pensiero che si vuol esporre dettagliatamente è un oggetto concreto da rappresentare, specialmente una persona o una cosa (che si intende descrivere), oppure un processo collettivo di avvenimento più o meno simultaneo, l’esposizione dettagliata si chiama evidentia (illustratio, demon-
stratio, descriptio; évagyeia, dmotitaoIo, Siatirwotc, Éxpoaotc). La vivace esposizione dei dettagli presuppone una simultanea testimonianza visiva ecc.”. Le differenti denominazioni sono anche riferite a differenti specie di descriptiones, cfr. CORNIFICI, Rhetorica ad C. Herennium, a cura di G. Calboli, Bologna 1969, 400-401, n. 235, riguardo a Rhet. Her. 4, 51, dove la descriptio è definita quae rerum consequentium continet perspicuam et dilucidam cum gravitate expositionem. Sono considerati pertinenti alla definizione della descriptio due luoghi di Cicerone: de or. 3, 202 (...) rerum, quasi gerantur, sub aspectum paene subiectio (cfr. CIC. or. 139) e part. or. 20 (...) verba (...) ab ipsa actione atque imitatione rerum non abhorrentia. Est enim haec pars quae rem constituat paene ante oculos; is enim maxime sensus attingitur, sed et ceteri tamen et maxime mens ipsa moveri potest. Si vedano anche THEON. praeex. ed. Walz 239 ss. (=
Spengel 118, 6-120, 11) éxpeacig goti Adyosg reomymuatixòs Évaoy@g Ur' div dyov TO dnAovuevov; QUINTIL. 9, 2, 40 Illa vero, ut ait Cicero, sub oculos subiectio tum fieri solet cum res non gesta indicatur sed ut sit gesta ostenditur, nec universa sed per partis: quem locum proximo libro subiecimus evidentiae (...) proposita quaedam forma rerum ita expressa verbis ut cerni potius videantur quam audiri etc.; cfr. IDEM 4, 2, 63 e 8, 3, 61 ss., dove è fatta menzione della évagyera come virtus della narratio (per la quale oltre al LAUSBERG,
Handbuch
etc.,
234
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
163 ss. e 167 ss. v. ARISTOT. Rhet. 1416 B; Rhet. ad Her. 1, 14; CIC. de inv. 1, 27-30), de or. 2. 80, 83, 326, top. 97; THEON. praeex. ed. Spengel II. 79, 20 ss.; QUINTIL. 4, 2, 31, 61; HERMOG. praeex. 2; Anon. [Cornut.] ed. Spengel I. 365, 6; RUF. ed. Spengel I. 402, 13), e ne viene data la seguente definizione magna virtus res de quibus loquimur clare atque ut cerni vi-
deantur enuntiare, che è definizione, come si vede, pertinente alla descriptio; si veda del resto IDEM 6. 2, 32: évdeyea, quae (...) non tam dicere videtur quam ostendere; cfr. anche HERMOG. praeex. 10 dove la évdoyera è assegnata come virtus alla £xpoao1g o descriptio, la
quale è definita così: Expeacic Esti A6Y0g (...) Ùr' diprv Gyov TO BnAovuevov, che riprende in parte la definizione già citata di Teone; inoltre Ermogene,
/oc. cit., così definisce la funzione
della évdoyera nella sfera dello stile in rapporto con la é&xpoacic: Set yag trv Éounvetav dia THs dxofig OxESOv TAV dpiv UNYavaoVar. La definizione di Teone, ripresa da Ermogene, è poi ripresa dall’ Anonimo o pseudo-Cornuto, ed. Spengel 1. 369, 13 ss.; cfr. ancora PRISCIAN. de praeex. rhet. 10, ed. Halm. 558. La retorica classica distingue la descrizione dalla narrazione (narratio) con l’assegnare alla seconda la funzione di informare (docere) ovvero enunciare o rife-
rire i fatti e le azioni in quella che lo scrittore giudica essere la loro struttura logica, essenziale, generale, alla prima la funzione di specificare e dettagliare nei particolari, nei colori e nelle forme, quando il fine, che l’oratore o scrittore si propone, lo richieda o il decorum lo suggerisca, fatti cose azioni personaggi. L'azione del racconto passa in secondo piano o, in sostanza, si arresta quando viene inserita una descrizione, che, come osserva Lausberg, tendenzialmente esce dalla diacronia per collocarsi nella sincronia, esce dal tempo (sia pure il tempo fittizio del racconto) per dispiegarsi nella simultaneità: il lettore passa dalla cognizione dei fatti e delle azioni nella loro concatenazione temporale ad una percezione visiva in una dimensione spaziale (ticoscopia: osservazione dalle mura); sicchè in conclusione è valida anche per la retorica classica la dichiarazione di G. GENETTE, Frontiere del racconto, 33, in “Figure II. La parola letteraria”,
trad. italiana di F. Madonia, Torino (Einaudi) 1972, 23-41, che “la narrazione si interessa di azioni e di eventi considerati come puri processi, e perciò pone l’accento sull’aspetto temporale e drammatico del racconto; la descrizione, indugiando su certi oggetti e certi esseri colti nella loro simultaneità, e anzi considerando i processi stessi come spettacoli, sembra sospendere il corso del tempo e contribuisce a dilatare il racconto nello spazio. Mi pare invece non completamente adatta alla descriptio della retorica classica la definizione che Genette (ibidem, 30) ne dà come di un procedimento “mirante a rappresentare un oggetto nella sua mera esistenza spaziale, al di fuori di ogni evento e anche di ogni dimensione temporale”, dal momento che la descriptio rappresenta, sia pure: nel taglio sincronico
del “quadro
vivente”
anche
un
avvenimento,
un fatto,
un’azione. Riguardo al rapporto tra narratio e descriptio, come suggerisce QUINTIL. 4. 2, 63 e 8. 3, 61 la descriptio è un procedimento complementare della narratio, alla quale fornisce un contributo di precisazioni oggettuali e particolari, dal momento che la narrazione informa e la descrizione rappresenta. Anche Genette (ibidem, 317) giunge a riconoscere che “la descrizione è per natura ancilla narrationis, schiava sempre necessaria ma sempre sottomessa, mai emancipata” e conclude il suo esame del procedimento osservando (ibidem, 34) che “se la descrizione segna una frontiera del racconto, è però una frontiera interna e in ultima analisi piuttosto incerta” e che “si considererà la descrizione non come uno dei modi del racconto, il che implicherebbe una specificità di un linguaggio, ma, più modestamente, come uno dei suoi aspetti, sia pure, da un certo punto di vista, il più avvincente”. Ph. HAMON, Qu’est-ce qu’une description?, «Poétique» 12, 1972, 465-485 esamina la descrizione nella narrativa francese moderna studiando le modalità d’inserzione nel testo, il funzionamento interno, la funzione nella struttura del racconto; riguardo all’ultimo punto, pur limitandosi, come dichiara esplicitamente a pag. 482, ad accostarlo, conclude (485) le sue considerazioni con la dichiarazione che “la descrizione è il luogo dove il racconto segna una pausa mentre si organizza”, che riprende la formulazione iniziale (482) che la defini-
AMORE E CANTO NEL LOCUS AMOENUS
235
zione di esordio o apertura sia dell’idillio sia dell’intero corpus Theocriteum o almeno della raccolta dei componimenti di Cos*: “Dolce cosa il sussurro (delle frondi?) e quel pino, o capraio, che presso le sorgenti canta”. Questa descriptio contiene gli elementi essenziali del locus amoenus5: albero e acqua; l’ombra, che sce “luogo privilegiato dove si organizza (o si distrugge) la leggibilità di ogni racconto”. Genette, op. cit., 31-32, avendo riconosciuto “che lo studio dei rapporti tra narrazione e descrizione si riduce quindi essenzialmente a considerare le funzioni diegetiche della descrizione, ossia il fine che assolvono i brani o gli aspetti descrittivi nell’economia generale del racconto”, annota che “nella tradizione letteraria classica (da Omero fino alla fine del XIX secolo)” la descrizione assolve a “due funzioni”: l’una decorativa, estetica, di pausa o ricreazione, l’altra “di ordine esplicativo e simbolico insieme” per cui guadagna in importanza drammatica. Interessante la conclusione di Hamon nel secondo punto (477): “ogni descrizione si presenta come un insieme lessicale metonimicamente omogeneo”, dove l'accento cade sulla omogeneità sia interna sia esterna, cioè con il racconto, del lessico impiegato nella descrizione, omogeneità che si manifesta nella contiguità semantica. > Come la descriptio in generale, così anche la descriptio loci o toroyoapia è un elemento della narratio, cfr. THEON. praeex. ed. Spengel II. 79, 20 che ne enumera sei: persona, cosa, luogo, tempo, causa, modo; IDEM ibidem 79, 7-11 elenca gli elementi di una ’topografia’ tra i quali si legge: “piano o montuoso, arido o umido, brullo o alberato”. Cfr. QUINTIL. 9. 2, 44 Locorum quoque dilucida et significans descriptio eidem virtuti (a 9. 2, 40 si tratta di hypotyposis) adsignatur a quibusdam, alii toroygagiav dicunt. Un compendio della dottrina si veda naturalmente in H. LAUSBERG, Handbuch cit., n. 342, dove è trattata la ’topografia’ come digressione, e n. 819, dove è trattata come excursus. 4V. G. LAWALL, Theocritus’ Coan Pastorals. A Poetry Book, Cambridge Massachusetts 1967, 108-110, sostiene che gli idilli 1-7 del corpus Theocriteum furono scritti a Cos e concepiti come una unità; l’idillio 7. (ibidem, 110-117) è, secondo Lawall, una ricapitolazione di tutti i motivi presenti nei primi sei. 5 Naturalmente è fondamentale riguardo al locus amoenus E.R. CURTIUS, Europdische Literatur und lateinisches Mittelalter, Berna e Monaco 1969’, capitolo 10. (Die Ideallandschaft) 191209, particolarmente a 195-206. Specifica sul locus amoenus
o Lustort la sezione 6, 202-206.
Cfr. H. LAUSBERG, Handbuch cit., n. 247, 135, e IDEM, Elementi cit., n. 83, 2. Si menzionano come cenni al locus amoenus VERG. Aen. . 734 e 7. 30 (cfr. SERV. ad loc.); HOR. a.p. 17 discute la pertinenza e funzionalità della descriptio di un locus amoenus; THEON. praeex. ed. Spengel, 68, 12-13 menziona la descrizione della valle tessalica di Tempe contenuta nel libro 9. delle Storie Filippiche di Teopompo, come /ocus amoenus nel mezzo di una regione selvaggia; per confronto si citano: THEOCR. 22, 36; PLIN. n.h. 4. 8; 15. 31; AELIAN. v.h. 3. 1. Si veda infine QUINTIL. 3. 7, 27 Est (laus) et locorum, qualis Siciliae apud Ciceronem: in quibus similiter speciem et utilitatem intuemur, speciem maritimis planis amoenis utilitatem salubris fertilibus; cfr. HERMOG. praeex. 10. Discute il concetto di locus amoenus, cercando di approfondirlo U. OTT, op. cit., 28-30 “non si può parlare di loci amoeni nel senso di paesaggi ideali, qualora da una parte venga mantenuto il confine tra uomo e ambiente, dall’altra la destinazione del luogo — il più delle volte è un luogo adatto alla gara — costituisca la ragione della descrizione, e in terzo luogo il rapporto degli interlocutori, dunque dei pastori, con il paesaggio resti conforme alla loro situazione sociale: un campagnolo si sceglierà certo un luogo di riposo anche in conformità a vantaggi estetici o pratici, ma difficilmente si profonderà nella lode di un paesaggio. Per la prima volta la descrizione sentimentale in bocca ai pastori da ad un siffatto locus amoenus il carattere di “paesaggio ideale”. A questo riguardo la descrizione di luogo nella cornice del 5. idillio com-
236
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
altrove® appare essere altro elemento essenziale, è implicata dalla menzione sia dell’albero (pino, v. 1) sia del mezzogiorno (v. 15), che a sua volta implica un
paesaggio assolato o quanto meno solatio’. Per altro il capraio, nello stesso dicorso che comincia al v. 15, menziona anch’egli almeno un elemento di un locus amoenus, gli alberi: olmo (v. 21) e querce (v. 23), riferendosi ad altro luogo, non opposto ma per officiosa dimostrazione di gentilezza collocato accanto a quello che Tirsi aveva brevemente descritto al v. 1. Sebbene non segua un carmen amoebaeum o certamen’, ma l’idillio si compia tutto nella canzone cantata da Tirsi, tuttavia il colloquio introduttivo tra Tirsi e il capraio assume figura di altercatio’, sia pure con molta delicatezza; ad ogni discorso viene comunque opposta una risposta divergente o contrastante: Tirsi paragona il canto del capraio al canto di Pan: il capraio sarà in ogni caso secondo dopo Pan; il capraio risponde che il canto di Tirsi è più dolce dell’acqua che scorre giù dalla rupe!’ e avrà il secondo premio dopo le Muse; anche il luogo, nel quale i due dovranno ripararsi e
porta un penetrante tono sentimentale, che — in conformità alla tecnica dell’agone in questo passaggio — cresce dal discorso alla replica”. Cfr. IDEM, ibidem, 22, 24, 27-30, 29. E.A. SCHMIDT, Poetische Reflexion. Vergils Bukolik, Monaco 1972, 153-154, nota che “vi sono formule abbreviate di locus amoenus. Si tratta di raccolte di elementi di un tempo e di uno spazio ideali, come centri ideali del tempo naturale (anno agrario) e dello spazio naturale (campagna, paesaggio). Tali elementi del locus amoenus hanno carattere idillico, ma non si trovano in natura. Essi sono prodotti della fantasia poetica ecc. In questo modo diventano sigle del mondo poetico. Locus amoenus e primavera sono sigle del mondo poetico dei pastori: questi trovano il loro spazio e il loro tempo nella realtà della campagna e del ritmico mutamento delle stagioni; in essi la poesia bucolica ha scelto i luoghi, dove quel mondo diviene consapevole di sé”. La relazione tra locus amoenus e poesia è ampiamente sottolineata dal LAWALL, op. cit., particolarmente a pag. 106, ‘ dove trattando del 7. idillio, osserva che “uccelli e insetti sono simboli dell’espressione poetica (le api); vino, acqua e ninfe sono simboli dell’ispirazione poetica; il raccolto dei frutti è simbolo della poesia”. Si vedano anche le osservazioni sparse di E.LEGRAND, Etude sur Théocrite, Parigi 1898, 196-197; 201-202; 203; 205; 439; e anche si veda J.B. VAN SICKLE, The Unity of the Eclogues: Arcadian Forest, Theocritean Trees, «TAPA» 1967, 491-508; e sul paesaggio bucolico G. JACHMANN, L’Arcadia come paesaggio bucolico, Maia» 5, 1952, 161-174. 6 V. id. 5, 31-34 e 45-49. TV. id. 5, loc. cit. a n. 6. Del resto in Teocrito, come in Tibullo, Virgilio e più tardi Calpurnio Siculo le descrizioni di un locus amoenus comprendono elementi che suscitano per antitesi l’immagine del sole ardente. Peraltro, come si vedrà, spesso è fatta menzione della calura e della vampa del sole; in realtà la stagione dei bucolica carmina è l'estate matura, quando la canicola picchia e i frutti cominciano a cadere. è Anche per l’idillio 1. U. OTT, op. cit., 85-137, v. n. 1, indica una ripartizione che comporta il colloquio introduttivo (vv. 1-18), la disputa sulle condizioni (vv. 19-63), la canzone (vv. 64142) e la conclusione o chiusura della cornice (vv. 143-152). ? Altercatio è il dialogo di brevi battute e repliche tra accusatore e difensore, nel quale la parola passa continuamente dall’uno all’altro; v. QUINTIL. 6, 4, 1-22. Il certamen o carmen amoebaeum o agone o contrasto è il suo corrispondente nella poesia pastorale.
10 A questi vv. 7-8 si accosta VERG. ecl. 5, 45-47.
AMORE E CANTO NEL LOCUS AMOENUS
2341
che è oggetto delle già citate descrizioni essenziali, sembra sì da principio con la sua presenza soltanto rispondere alla domanda ubi, occupando quindi con la descrizione lo spazio determinato dal locus a loco, ma diviene presto anche un elemento del contrasto che anima il colloquio preliminare o, se si preferisce, della struttura stilistica nella quale il colloquio si configura: all’invito di Tirsi di venire da lui a sedere sotto le tamerici, per suonare la zampogna, il capraio risponde che egli, come capraio, non può suonare la zampogna a mezzogiorno, per timore dell’ira di Pan, e a sua volta invita Tirsi a cantare i dolori di Dafni, proponendogli un altro luogo: “Qui sotto l’olmo sediamoci di fronte a Priapo e alle Ninfe delle fonti, dove vi sono quel sedile da pastori e le querce”.
Il locus amoenus si inserisce ed è accolto nella serie o enumerazione di oggetti sui quali in forma di altercatio si svolge il colloquio preliminare.
In entrambi i passi il locus amoenus è risposta alla domanda ubi, che si trova nel locus a loco; è oggetto di descriptio; è assunto in uno schema di antitesi comparativa; inoltre vi è un nesso tra locus amoenus e poesia 0 carmen". Anche nell’idillio 5.", che è componimento 0 carmen amoebaeum o in forma di altercatio, il locus amoenus, del quale la prima menzione è collocata nella cornice, appare in seguito essere oggetto di contesa, anche se il luogo di tale altercatio è nel colloquio contenzioso!?, per le condizioni del contrasto (vv. 21-79); del resto su tutti gli oggetti nominati nel componimento i personaggi contendono; mentre il contrasto vero e proprio corrisponde assai meglio ad un confronto, nel !l Sull’antitesi v. LAUSBERG, Handbuch, cit., nn. 787-807, in particolare 795, dove è trattata la contrapposizione fra frasi opposte per contenuto; v. E. NORDEN, Die antike Kunstprosa, Lipsia e Berlino 19155, 16-23; sull’impiego che ne fa Teocrito, sul significato e sulla funzione che le attribuisce, v. G. LAWALL, op. cit., 13 “Il mondo di Teocrito è un mondo di polarità e di antitesi”; 34 “Gli idilli 1. e 2. (e 7.) stabiliscono fondamentali antitesi tra l’ideale e il reale, tra la
campagna e la città”; ibidem “(i due idilli) esplorano i due grandi poli delle relazioni umane, come li concepisce Teocrito: armonia ideale in un immaginario mondo pastorale e contesa degli amanti nel mondo reale della città contemporanea”. Sull’antitesi tra realtà e idealità, sui modi nei quali si manifesta, sulle funzioni dell’antitesi, v. U. OTT, op. cit., 210-214; sulla funzione strutturale dell’antitesi nell’idillio 5. v. IDEM, ibidem, 40-42; in generale sulla figura v. IDEM, ibidem, 1-2, con riferimento ad ARISTOT. Rhet. 1410 A e QUINTIL. 9, 3, 81. Il locus amoenus, solo con la sua presenza, implica un’antitesi con un locus ’inamoenus’ ovvero horridus; rispetto
all’ambiente nel quale è collocato il locus amoenus è un luogo privilegiato; lì soltanto si trova pace e conforto, v. G.LAWALL, op. cit., 53. 12 vv. 31-34 e 45-49. Sull’idillio 5. v. G.LAWALL, op. cit., 52-65 e U. OTT, op. cit., 14-42; riguardo ad un’interpretazione allegorica, che riconoscerebbe Callimaco in Comata e Apollonio in Lacone, v. indicazioni bibliografiche essenziali in LAWALL, 129-130.
13V. n. le n. 8. Dialogo, altercatio, antitesi sono le forme nelle quali la poesia pastorale di Teocrito sembra di preferenza trovare espressione.
238
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
quale i personaggi confrontano (provano e danno prova) la loro arte e il loro ingegno nel comporre versi!. Lo schema (o figura) dell’altercatio, nel quale gli oggetti sono recepiti, non implica che essi non assolvano alla funzione di rispondere ad una domanda proposta da un locus; la descriptio del locus amoenus secondo la teoria della retorica classica, cfr. n. 3, assolve pur sempre alla funzione di mostrare, come qualsiasi topografia, il luogo nel quale il personaggio si trova ovvero il pastore canta o si accinge a cantare o è invitato a cantare’. È naturale peraltro che il locus amoenus assolva anche a funzioni specificamente letterarie; d'altra parte i procedimenti che lingua e retorica propongono vengono appunto dal poeta (e in generale dallo scrittore) impiegati a livello non poetico ma letterario! La prima menzione del locus amoenus si legge ai vv. 31-34, dove Lacone, mostrando di credere che l’eccitazione, che Comata esibisce!’, sia ispirata da desiderio di cominciare il confronto, lo invita alla calma, e a recarsi da lui nella macchia
di oleastri per sedervisi all'ombra, dove stillando sgorga una sorgente, cresce l’erba, vi è un giaciglio di foglie e chiacchierano le cavallette: questo è il locus amoenus di Lacone; ai vv. 45-49 Comata risponde all’invito con la descrizione! del suo locus amoenus: qui, non costì da te, le querce, qui due fonti di acqua fresca, qui uccelli cinguettanti sugli alberi, qui ombra per nulla simile a quella che
14 V. L.E. ROSSI, op. cit. alla n. 1. !5 Cfr. THEOCR. 1, 12-14; 5, 31-33. Sulla relazione tra campagna (e locus amoenus come parte privilegiata di essa) e canto pastorale (e quindi poesia), v. E.A. SCHMIDT, op. cit., 107112. Sul genere bucolico come “poesia riflessa” nel senso che “Dichtung Dichtung dichtet” o “Poesie in Poesie gespiegelt wird”, v. IDEM, ibidem, 115-119. 16 Si tratta della questione appena accennata alla n. 2; l'applicabilità della retorica alla poesia dipende dalla interpretazione dell’origine e del funzionamento della poesia. Un’interpretazione nettamente spiritualistica quale quella di PLAT. Jon. 533 E, rispecchiata da CIC. de fin. 4, 10 Aliud est (...) poetarum more verba fundere, aliud ea, quae dicas, ratione et arte distinguere, esclude in poesia l’impiego della retorica; mentre un’interpretazione tecnicistica di origine alessandrina la autorizza pienamente: HOR. c. 4, 2. 27 ego apis Matinae / more modoque / grata carpentis thyma per laborem / plurimum circa nemus uvidique / Tiburis ripas operosa parvus / carmina fingo.
'7 Secondo LAWALL, op. cit., 58, tutto il contrasto tra Comata e Lacone è fondato sopra il precedente, sia pure remoto, dei rapporti erotici tra i due (vv. 116-117); al momento Comata, secondo Lawall, continua a desiderare Lacone, che lo respinge; nel comportamento aggressivo di Comata si riconosce il suo mestiere 0, meglio, la sua vocazione di capraio; Lacone, pecoraio, è scherzoso come un agnello (p. 60); come altrove nei componimenti di Teocrito, anche qui vi è il personaggio del poeta (cantore) e amante frustrato (p. 65). Per un'eventuale interpretazione allegorica, v. n. 12. 18 Sicché la prima funzione, da una angolazione retorica, della descriptio nella altercatio dell’idillio è la giustificazione del rifiuto opposto alla proposta che l’interlocutore ha avanzato con la sua descriptio; cioè: antitesi comparativa 0, se si preferisce il linguaggio giudiziale, argumentum di una refutatio.
AMORE E CANTO NEL LOCUS AMOENUS
209
C'è da te, qui dal pino cadono pigne. In luogo di una vi sono due fonti; all’acqua e all’ ombra si aggiungono le api sussurranti; per il resto le querce sostituiscono gli oleastri, gli uccelli le cavallette, le pigne l’erba. Il locus amoenus appare anche nell’idillio 7. (Talisie), vv. 133-147. Dopo un
contrasto per via tra Licida e Simichida (io narrante)!, questi con Eucrito e Aminta giunge presso Frasidamo, dove appunto si celebrano e si festeggiano le Talisie. Anche qui il locus amoenus è la risposta alla domanda ubi, che si trova nel locus a loco; esso è occasione di un’ampia e dettagliata descriptio; non è recepito come elemento di enumeratio o di antitesi comparativa, né viene impiegato come argumentum per una refutatio. S’intende, peraltro, che si possono trovare o attribuirgli funzioni significative nella sfera specificamente letteraria. Gli elementi della descrizione sono: giacigli di foglie, alberi, acqua (sacra, che sgorga dalla fonte dello speco delle Ninfe), cicale che cantano nell’ombra, rane che gracidano tra i rovi, uccelli che cantano, api che volano, frutti maturi in abbondanza, orci di vino?!. I particolari sono numerosi, come del resto suggeriva la teoria retorica”, che consigliava di costruire la descrizione con molti dettagli e particolari concreti e coloristici. Si veda: “cantavano le allodole e i cardelllini, gemeva la tortora”;99, 66 “pere ai nostri piedi, ai nostri fianchi mele in abbondanza rotolavano; e si curvavano i rami sovraccarichi di prugne fino a terra”; “sugli ombrosi ramo-
'9 Sul problema dei rapporti tra la persona storica dell’autore, il poeta e l’io narrante nella poesia pastorale, v. E.A. SCHMIDT, op. cit., 45-47; in generale v. G. GENETTE, op. cit., 36. 20 Ai molti elementi che costituiscono la descrizione è possibile attribuire funzione allegorica, cioè considerarli simboli; v. LAWALL, op. cit., 106 “Più volte è fatta allusione alle acque della poesia: la fonte Burina (v. 6) è reminescenza di Ippocrene; l’acqua sacra delle Ninfe appare nella fonte del boschetto alla festa del raccolto (...). La fonte fondamentale dell’ispirazione di Teocrito resta il vino, anche se è necessario l’effetto di sobrietà prodotto dall’acqua e dall’artificio. Teocrito raggiunge un misurato compromesso tra Dioniso e Apollo”. Per le implicazioni poetiche e letterarie della menzione del vino e delle Muse, v. A. BARIGAZZI, Il vino di Frasidamo nelle Talisie di Teocrito, «SIFC» 41, 1969, 5-12. Si consideri poi la presenza delle api, elemento che comporta appunto una duplice funzione, come del resto, quasi tutti gli altri particolari, e cioè, quella descrittiva e quella simbolica: l’ape è il poeta. Inoltre: chi accolga la proposta dal LAWALL, op. cit., 74-117, di interpretare l’idillio 7. come conclusione del libro degli idilli di Cos e come ricapitolazione dei temi e motivi della poesia pastorale (che è, mi pare, l’idea di R. CANTARELLA, Teocrito, Milano 1966, 156), vedrà nella descriptio del locus amoenus la ricapitolazione dell’idillio e considererà il locus amoenus come il luogo privilegiato e ideale nel quale Simichida, Eucrito e Aminta pervengono, lasciata la città e traversata la campagna. Sicchè il locus amoenus appare essere contemporaneamente luogo della poesia e della felicità; cfr. U. OTT, op. cit., 171-173; E.R. CURTIUS, op. cit., 196. 21 Come già accennato, si trovano qui riuniti oggetti destinati a comporre una corretta e soddisfacente descriptio, ma anche latori di simbologie pertinenti sia alla stagione e al raccolto (le Talisie, festa delle primizie) sia alla letteratura e alla cultura poetica. 2 Cfrasn. 268!
240
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
scelli le nere cicale si affaticavano a chiacchierare”; “volavano bionde intorno alle
fonti le api”; dove si osserva bene la ricerca di particolari coloristici e pseudorealistici®. Teocrito perviene così alla costituzione di un paesaggio particolarmente spesso e ricco, che tende a superare il modello del locus amoenus per attingere quello della aurea aetas o almeno della felicitas*. Anche a id. 9. 7-13 la descrizione del locus amoenus si inserisce in una altercatio come uno degli elementi di una enumeratio; ma non risponde alla domanda ubi, cioè non nasce dalla considerazione del locus a loco. Il contrasto è tra
Dafni e Menalca: Dafni descrive un locus amoenus dove vi è un giaciglio di erbe vicino alla fresca acqua; ivi il pastore non si dà mente dell’arsura dell’estate; Me-
nalca risponde con la descrizione di un luogo di riparo dai rigori dell’inverno. A 11 44-48 (Ciclope) è descritto un locus amoenus consistente nell’antro di Polifemo; è un elemento di una enumeratio o partitio dell’ elogio di sé pronunciato dal Ciclope per persuadere Galatea a sposarlo. È introdotto come termine di comparazione (antitesi comparativa) con il mare, sede abituale di Galatea, ma risponde anche alla domanda ubi, cioè la descrizione del locus amoenus è anche descrizione del locus dove abita Polifemo e dove abiterebbe Galatea. Elementi: alberi (allori, cipressi), verde (edera), frutti (uva), acqua.
2 Su allegorie e simbologie, v. Theocritus ed. A.S.F. GOW, vol. II, Cambridge 1950, 164169; U. OTT, loc. cit.; LAWALL, op. cit., 102-107. Naturalmente un giudizio sulla funzione dei particolari reali e oggettuali dipende dal livello al quale si sceglie di procedere; comunque gli oggetti menzionati nella descriptio assolvono a funzione o retorica-stilistica o simbolicaculturale; non contano nella struttura del testo, per il peso, la forma, la destinazione che hanno in quanto oggetti; dunque, pur essendo reali non contribuiscono a comporre una descrizione capace di una funzione realistica. J.B. VAN SICKLE, Poetica teocrite, «,tn pipette. wh Pectin reztarifosazio nei 155 Suso Comin Seni peat spre atcontra insite a
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LETTURA TEMATICA DELLA ELEGIA 1.4 DI TIBULLO'
Questo titolo segue molto da vicino la formulazione della lezione propostami all'esame per la libera docenza in letteratura latina da Marino Barchiesi, da me scelta e tenuta 11.4.1971. Sulla base di un index (8000 parole) dei primi due libri del Corpus Tibullianum, senza dubbio di Tibullo, il L.A.S.L.A.! di Liegi stabilì nel 1967? la lista delle parole-chiave? dell’opera di Tibullo qui riportata: 1. 2. 3. 4.
PUELLA TENER COMA FORES
5. AMOR 6. CANO TPES 8. DURUS
9. HERBA 10. PRECOR 11. FLEO 12. SINUS
13. — 14. 15. 16.
AQUA STO TURBA PARCO
17. 18. 19. 20.
SACER IUVENIS CARMEN MANUS
Di queste sono presenti nella elegia 1.4 le seguenti parole, qui riportate nell’ ordine della frequenza* con la quale appaiono nella elegia: N. lemma 1. AMOR 2. AQUA 3. TENER 4. CARMEN 5. COMA 6. IUVENIS 7. STO
F 5 = 3 js 2 2 2
Numero nella lista delle parole-chiave 3 13 Z 19 3 18 14
* «RCCM» 1978, 1081-1092. ! I Laboratoire pour l’Analyse Statistique des Langues Anciennes par Ordinateur, attivo dal 1964 a Liegi (Belgio) per mezzo di un calcolatore elettronico capace di analizzare automaticamente qualsiasi forma della lingua latina (e da qualche anno anche della greca) e di altre macchine automatiche, ha preparato Indices verborum avec relevés statistiques di parecchie opere latine e greche; pubblica inoltre un periodico trimestrale «Revue», di cui si rende conto regolarmente sul Bollettino di Studi Latini. 2 L. DELATTE, Key-words and poetic themes in Propertius and Tibullus, «Revue», 1967, 3312795 3 Tra le parole di maggiore frequenza in un testo si scelgono quelle di frequenza più alta tra le parole fornite di significato (mots pleins; lasciando quindi congiunzioni, preposizioni, cioè mots outils, verbo esse etc.); tra queste si scelgono quelle che hanno una frequenza più alta rispetto alla norma. Si applica qui la nozione di scarto significativo; la norma si deduce da rilevazioni su universi alquanto estesi: Delatte indica due opere da cui sono state attinte le frequenze medie: M. MATHY, Vocabulaire de base du latin, Parigi 1952 e P. B. DIEDERICH, The Frequency of Latin Words and their Endings, Chicago 1939. A tali opere si affianca ora D.D. GARDNER, A Frequency Dictionary of classical Latin Words, Ann Arbor 1975. 4 Sbrigativamente gli statistici dei fatti linguistici e stilistici usano «frequenza» per indicare il numero delle ricorrenze di una parola in un testo dato.
270
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
8. TURBA 9. CANO 10. DURUS 11. MANUS 12. PARCO
2 1 1 1 1
15 6 8 20 16
Accanto queste parole, per una esauriente analisi tematica o topica, sarà bene collocarne altre non presenti nella lista delle parole-chiave, ma congiunte a quelle per significato, in ordine di frequenza: N. lemma
F
1. PUER 2. AMO 3. CRINIS 4. FRETUM 5. FLETUS 6. IANUA 7. MITIS 8. MOLLIS 9. QUERELLA 10. UNDA
6 2 2 2. 1 1 1 1 1 1
vocabolo della lista al quale il lemma è congiunto PUELLA AMOR COMA AQUA FLEO FORES TENER TENER FLEO AQUA
N.
1 5 3 13 11 4 2 2 11 13
Queste parole coprono un’area semantica vicina e affine a quella delle corrispondenti parole presenti nella lista delle parole-chiave, indicate a fianco; esse insomma concorrono con le parole-chiave a definire i principali e pit uniformemente distribuiti spazi tematici delle elegie di Tibullo. Ma se, appli- ° cando medesimi criteri e tecniche, costituisco la lista delle parole-chiave della elegia 1.4, ottengo la lista qui appresso riportata: N. lemma
1. PUER 2. AMOR 3. AQUA 4. DIES 5. CITO 6. NUDUS 7. ARS 8. ANNUS 9. TENER 10. DEUS 11. LONGUS
F
6 5 4 4 3 eB} 3 3 8 5 3
Frequenza media di D.D. Gardner Oy 0,31 0,33 0,60 0,00 0.17 0,27 0,34 0,40 0,56 0,70
Scarto ridotto
6,01 8,52 6,43 4,41 3,00 6,90 5335, 4,58 4,12 3,29 ZII
LETTURA TEMATICA DELLA ELEGIA 1.4 DI TIBULLO
271
La prima parola, puer, si trova al primo posto secondo quanto suggeriscono sia l'argomento della elegia sia la lista delle parole-chiave dell’intera opera (Delatte), dove occupa il primo posto la parola puella; per il resto avvengono alcuni cambiamenti di posto: amor sale dal 5. al 2., aqua dal 13. al 3., tener scende dal 2. al 9. (è significativo, per la graduatoria, a parità di numero di ricorrenze, lo scarto tra la frequenza o numero di ricorrenze calcolato da D.D. Gardner5 su 31.250 parole di testi di opere teatrali, di poesia lirica e elegia e simili, e il numero di ricorrenze della parola nella elegia); ma, quel che è più interessante, delle 11 parole diverse considerate, ben 7 non sono comprese nella lista riguardante l’opera: dies, cito, nudus, ars, annus, deus, longus. Queste parole quindi sono da considerarsi come indicative di temi più particolari e specifici del testo in esame: non voglio con ciò sostenere che i temi propri di questa elegia si individuino stilisticamente per mezzo delle parole-chiave non comprese nella lista riguardante l’opera di Tibullo; ma che, appunto, tra i temi propri di questa elegia appaiono più interessanti e forse significativi quelli pertinenti non alla generalità dell’opera, ma alla specificità della elegia. Partendo da queste considerazioni è possibile definire la struttura tematica della elegia sia nei suoi aspetti specificamente attinenti all'argomento in essa trattato, sia negli aspetti, come già detto, attinenti alla tematica generale dell’opera di Tibullo. L’area, che la tematica generale occupa nella elegia 1.4, non considerando le frequenze 1, può dunque essere indicata e definita da una lista di parolechiave completate da pertinenti associazioni nella medesima sfera semantica: 1. PUER 2. AMOR, AMO 3. AQUA, FRETUM
4. TENER 5. CARMEN, MUSAE 6. COMA, CRINIS
7. IUVENIS 8. STO 9. TURBA
Volendo rimanere sopra alla frequenza 2, la lista riportata si fermerà a tener; da carmen in poi le parole hanno frequenza 2. Lasciando ad altra occasione di studiare significato e funzione del tema aqua, fretum, unda etc.° presente nella lista delle parole-chiave della tematica generale (13. posto) e preminente in questa dell’elegia 1.4 (3. posto), considei Noah ds 6 V. L. DELATTE, art. cit., 51-59 sull’impiego di un’ampia gamma di parole e di immagini pertinenti all’acqua nelle elegie di Properzio. Nella lista dei key-words di Properzio aqua occupa il n. 11, in quella di Tibullo il n. 13. Al momento in cui si fanno i campi lessicali anche per l’opera di Tibullo, come per quella di Properzio, si può dire quello che scrive Delatte, art. cit. 51: «Words expressing the idea of aqua forme an extraordinary theme which had not appeared when reading the texts».
272:
| FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
riamo le parole che inserendosi nella lista generale delle parole-chiave la modificano istituendo un’area tematica propria della elegia. Una considerazione strutturale dei temi indicati da tali parole e della loro specifica funzione letteraria implica la individuazione della forma stilisticaretorica dell’elegia” ovvero della distribuzione delle parti e degli argomenti. L’elegia, come suggerito da Dissen e Riposati, è costruita in generale come un’orazione;
nell’exordium
(vv. 1-8) alla captatio benevolentiae
(vv. 1-2),
nella forma di una propiziazione del dio, segue la enunciazione o propositio della questione; che è proprio formulata come una quaestio ovvero domanda: quae tua formosos cepit sollertia? Domanda, per altro, formulata in modo che appare essere pertinente a Priapo e a lui solo. Naturalmente il lettore (che non può collocarsi, a meno che non sia del tutto profano e candido, davanti a questa propositio, come davanti ad una interrogazione pura e semplice, priva di qualsiasi scopo — del resto l’invocazione diretta a un dio e la propiziazione, ad essa legata, mostrano che chi invoca vuole ottenere qualche cosa dal dio) pensa che l’interrogante intenda farsi insegnare da Priapo la tecnica della seduzione dei formosi (la sua abilità, sollertia); il lettore, cioè, segue il procedimento, che Tibullo gli suggerisce, di associazione per omissione. La descrizione di Priapo, che occupa i vv. 3-6, appartenenti ancora alla invocazione, e 7-8, che segnano il passaggio alla esposizione della scienza della seduzione dei formosi, si configura, per la sua funzione nella struttura retorica, come una confirmatio: infatti, accumulando elementi che direttamente o indirettamente rimandano all’aspetto sgradevole di Priapo, essa persegue il fine di rinforzare la validità e legittimità della propositio, s'intende a livello concettuale. L'efficacia della descriptio di Priapo è corroborata da anafora: non ti-
7B. RIPOSATI, Introduzione allo studio di Tibullo, Milano 1967, 187, n. 10 citando da L. Dissen, Albii Tibulli carmina, Gottinga 1835, osserva che le elegie di Tibullo si compongono di un exordium, un medium carmen, un exitum, rinviando anche, per il concetto di compiutezza, a PLAT. Phaedr. 264 C.
8 Una rilettura della cato e interprete geniale storicistica del Rostagni verso un metodo capace
«Lettura di Tibullo» (Torino 1944) di Vincenzo Ciaffi, critico delidella letteatura latina, che seppe sviluppare la lezione idealistica e nella direzione più significativa per la cultura contemporanea, cioè di integrare lo studio della specificità letteraria con la considerazione materialistica del rispecchiamento della realtà sociale ed economica, può suggerire,
pur da un contesto assai datato e nei suoi esiti di critica prosopografica non più valido, parecchi modernissimi approcci all’opera di Tibullo. Si veda in particolare riguardo all’apertura di Tibullo verso il mondo dell’eros puerile a p. 62: «AI momento d’iniziare un nuovo ciclo, sembra quasi che il poeta abbia voluto chiarire a se stesso gli elementi della nuova materia, penetrare nelle regole della nuova ars». «... prima che Marato appaia sulla scena, occorre anche qui che ci sia il suo mondo: quello dell’amore pederastico, con la figura del suo dio, con i suoi agili corpi di garzoni, con il suo melanconico senso di caducità».
LETTURA TEMATICA DELLA ELEGIA 1.4 DI TIBULLO
273,
bi... non tibi, v. 4 e nudus... nudus, vv. 5, 6, parallelismo: hibernae... frigora brumae, aestivi tempora sicca Canis, con una variatio semantica (frigora-tempora sicca). Con i vv. 7, 8 questi vv. 3-6 svolgono anche una funzione di descriptio, 0, per così dire, bozzettistica; tale esito, che non esclude la fun-
zione di confirmatio dei vv. 3-6, appare chiaro nei vv. 7, 8, dove sono introdotti elementi caratteristici della figurazione del dio (Bacchi rustica proles, armatus curva falce deus), ma che non paiono funzionali al fine della confirmatio, salvo che si voglia scavare nel senso della menzione di Bacchus, come coadiutore e sollecitatore della nascita del desiderio erotico?. Le qualificazioni nudus (in anafora) e rusticus contribuiscono invece a rafforzare la
validità e legittimità della propositio, illuminando l’umiltà del dio e quindi, per converso, l'efficacia della sua ars. L'aggettivo nudus nella lista delle parole-chiave di questa elegia comporta 3 ricorrenze: 2, come si è visto ora, implicano una connotazione di umiltà e ignobilitas («Priapo è una divinità minore»); l’altra ricorrenza (v. 52) si legge nella serie di situazioni esemplari che Priapo propone come occasione per l’amante o innamorato di conquistarsi confidenza, riconoscenza, affetto presso il ragazzo: si volet arma, levi temptabis ludere dextra; saepe dabis nudum, vincat ut ille, latus; dove nudus è del linguaggio militare ed equivale a «indifeso», collocandosi così, peraltro,
in un’area semantica non lontana da quella dell’altro nudus riferito a Priapo: in entrambi i casi il senso è «non protetto». Sicché le tre ricorrenze di nudus non configurano un tema significativo di questa elegia; la parola, in entrambi i casi, assolve ad una funzione particolare e marginale: nei vv. 5 e 6 produce un rinforzo della ragionevolezza della domanda contenuta nella propositio; quanto più vile e spregevole appare Priapo, tanto più efficace è la sua arte di conquistare i formosi. Al v. 52 la presenza di nudus dipende solo dall'impiego in quel passaggio del linguaggio militare. Alla domanda formulata dal poeta!’ Priapo da principio risponde in modo deludente: per 6 versi il dio scoraggia l’interrogante dall’intraprendere ° Cfr. APUL. Met. 2. 16, 3-4. 10 I personaggi dell’elegia, per quanto attiene alla sua forma drammatica, sono tre: poeta, narratore, Priapo. Narratore e poeta si identificano formalmente. Sul discorso in prima persona acutissima l’osservazione di R. BARTHES, Introduzione in AA. VV., L’analisi del racconto, trad. ital., Milano 1969, 36: «la persona psicologica (di ordine referenziale) non ha alcun rapporto con la persona linguistica che è definita solo dal suo posto (codificato) nel discorso». Si veda anche IDEM, ibidem, 34: «narratore e personaggi sono essenzialmente esseri di carta; l’autore non può essere confuso con un narratore». Aggiungerei che nemmeno laddove l’autore menziona se stesso, in quanto narratore, col proprio nome, è opportuno identificare il personaggio storico col personaggio fittizio (appunto, di carta), il quale vive di una vita specificamente letteraria e non reale. Questo vale anche per i personaggi rappresentati realisticamente, i tipi rappresentativi. La realtà di un’opera letteraria non è la realtà delle cose anche nel caso che realisticamente la rispecchi.
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_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
l’amore per i ragazzi. Il discorso di Priapo costituisce il medium carmen; anch’esso tuttavia proprio perché è un discorso si distribuisce in un ordine espositivo. Nello schema del discorso (vv. 9-72) il v. 9 è la propositio, in forma di esortazione-comando.
Il v. 10 è una confirmatio;
i vv.
11-14 sono
una demonstratio. Il tema impiegato è quello della varietà e molteplicità delle inclinazioni e delle occasioni: l’innamoramento (e quindi, di nuovo non detto, ma associato per omissione, il corteggiamento) nasce per molti, diversi, im-
prevedibili (sembra di poterlo dedurre
dalla funzione paradigmatica
della
enumerazione) motivi. Questa demonstratio è costituita di loci qui in eo ipso de quo agitur haerent; sul piano letterario svolge la funzione di descrivere,
per accenni esemplari, la società degli amori efebici. Come nella precedente descrizione riappare l’anafora: hic, hic, hic (vv. 11, 12, 13) rotta e conclusa da una forte opposizione: at illi (vv. 13, 14). Nella descrizione Tibullo presenta tre modelli di comportamento e uno di tipo psico-fisico, che possono suscitare l’amore. Gli elementi descrittivi puntano sulla bellezza efebica e sulla vivacità adolescenziale (angustis quod equum compescit habenis, v. 11), ma anche sulla bellezza o aspetto di tipo femmineo (virgineus teneras stat pudor ante genas, v. 14). Con questa descrizione viene introdotto il tema, già accennato ai vv. 3 e 9, dei pueri o puelli formosi. La demonstratio è quindi anche il primo gradino di una preparazione all’esposizione della tecnica dell’amore puerile. Infatti Priapo vi propone all’attenzione dell’interrogante la varietà dei motivi per i quali esso può nascere, prendendo, cioè, inizio ab ovo. Al v. 15 infine Priapo comincia a rispondere alla domanda; c’é anche qui una propositio: il caso del rifiuto iniziale da parte del ragazzo. E introdotto così il motivo del tempo! e della perseveranza, che vincono l’ostacolo più duro. L’accento batte sul tempo: le anafore di longa dies (vv. 17, 18) e di annus (vv. 19, 20) sono assai significative; più importante tuttavia la menzione dell’annus, che è l’anno della natura, l’anno agrario, l’anno delle stagioni e del cielo delle costellazioni. Attraverso questo tema si affaccia l’aspirazione e la speranza di trovare felicità (qui come amore corrisposto) in campagna, ovvero nel paese d’ Arcadia'*. L’amore sentito o rappresentato come cosa di natura, integrato nello spazio e nel tempo della natura troverà successo e un
!! Vv. H. MusurILLo,
The theme of time as a poetic device in the Elegies of Tibullus,
«TAPhA» 98, 1967, 253-268. 1? V. A. PENNACINI, Amore e canto nel locus amoenus, Torino 1974, 9-11.
LETTURA TEMATICA DELLA ELEGIA 1.4 DI TIBULLO
275
esito felice. Della felicità dell’esito garantisce appunto il ricupero dell’ amore ad uno spazio e ad un tempo di natura!3. Sicché anche i vani giuramenti d’amore trovano un luogo in un mondo o, meglio, in una rappresentazione del mondo dove dèi e natura governano e vigilano le cose d’amore: i vv. 21-26 sono occupati dal luogo del giuramento che non sarà mantenuto, usuale in amore, e permesso dagli dèi. L'appartenenza del luogo alla tradizione alessandrina!* provoca lo scatto dell’erudizione mitologica: Dictynna. Ma non è più che uno scatto. In realtà Priapo ritorna subito al tema dei vv. 17-20: l’inserimento dell’amore — che sia efebico appare marginale — nel tempo della natura; questa volta tuttavia il tempo è visto da una angolazione rovesciata rispetto ai vv. 17-20: è il tempo presente che precipita nel passato. Chi ritarda, perde l’occasione di gioire: at si tardus eris, errabis: transiet aetas, v. 27. Il presente fugge, l’età passa e non si arresta. Nei vv. 17-20 e 27-36 appaiono sia le quattro ricorrenze di dies, sia le tre di cito, sia le tre di annus: dunque le tre parole-chiave che definiscono l’area tematica del tempo in questa elegia: si noti che nessuna di tali parole è compresa nella lista delle parole-chiave dell’opera di Tibullo. Dunque, sebbene l’aspirazione al ricupero della realtà naturale e agreste, al reinserimento nel tempo stagionale dell’anno agrario sia considerato un tema tra i principali e preminenti dell’opera di Tibullo, nei fatti esso è proprio, caratteristico e specifico di alcune elegie, tra le quali quella qui esaminata. Come l’attesa e la speranza del futuro (vv. 17-20), così il senso della fuga del presente si traducono nella descrizione dei segni e delle stagioni ovvero dell’anno agrario. In entrambi i passaggi le anafore longa dies (vv. 17, 18), annus (vv. 19, 20, cui si aggiunge il v. 35), quam cito (vv. 28, 29, 30) raccolgono quasi tutte le parole-chiave di questo tema. È anche notevole che, pur considerato e interpretato in modo opposto, in entrambi i casi l’autunno rappresenti emble-
maticamente il tempo della natura: l’autunno che porta a maturazione le uve come gli amori (v. 19), l’autunno che porta via i colori brillanti dell’estate (v. 29), come la maturità porta via l’età dell'amore efebico.
I vv. 41-56 descrivono l’ars di Priapo per conquistare i ragazzi; tale ars amandi
è molto semplice: l’amante dia all’amato tutte le soddisfazioni;
ne
otterrà così l’amore. La descrizione dell’ars amandi in realtà si traduce in una serie di descrizioni di situazioni e occasioni nelle quali l’innamorato può
13 V. F. Solmsen, Tibullus as an Augustan poet, «Hermes» 90, 1962, 295-325: «le leggi che governano l’amante nei suoi rapporti con l’amato, sono trattate come applicazioni di leggi cosmiche universalmente valide» (322).
14 Cfr. Call. ep. 25; Pfeiffer; Ovin. A. a. 1.633. Ma osserva il Ciaffi, op. cit., 67, 68: «ai vv. 25 sg diresti di essere giunto al mondo del melodramma: te lo fanno pensare quei crines di Minerva, quelle enfatiche (e tanto preziose) saette di Dictynna».
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
guadagnarsi l’affetto e la fiducia dell’amato. La varietà delle situazioni prospettate rimanda al luogo della varietà delle vocazioni degli uomini, delle situazioni e condizioni: viaggiatore, navigatore, lavoratore manuale, cacciatore,
guerriero’. Il vagheggiamento e la speranza della felicita, sia pure solo nella forma di un amore corrisposto, suscitano, per un congegno topico caratteristico della cultura classica, la menzione della decadenza. L’amore corrisposto assume una connotazione propria dell’eta d’oro: la felicita abita nell’eta d’oro; per questo spesso anche il paese d’ Arcadia appare assimilato al luogo della felicità e quindi al mondo dell’età d’oro. La connotazione è la spontaneità del dono: ipsa... per se dabat omnia tellus, OVID. Met. 1.101-102 e (oscula) rapta dabit primo, post afferet ipse roganti, / post etiam collo se implicuisse velit (vv. 55-56). Ma l’associazione con l’età d’oro comporta subito lo scatto del meccanismo topico: di li si passa nel locus della corruzione. Vi è stata per l’eros puerile e per le relative artes amandi un’età d’oro, ma haec saecula (v. 57), cioè il presente, hanno portato la decadenza: e questa, come nel mito delle età, consiste proprio nel passaggio da una fruizione gratuita al commercio: iam tener adsuevit munera velle puer (v. 58). Ma per la poesia Priapo invoca una sorta di esenzione: Pieridas, pueri, doctos et amate poetas, / aurea nec superent munera
Pieridas (vv. 61, 62); esenzione dalla corruzione
che si realizza nella commercializzazione dell’amore efebico. Ai poeti diano gratis il loro amore i ragazzi: culto delle muse e desiderio di denaro si escludono a vicenda. D'altra parte la poesia abita proprio nel luogo della felicità: nel locus: amoenus e nel paese d’ Arcadia!; vale a dire, quindi, che dove stanno poesia e poeti, là vi è l’amore corrisposto, là vi è il paese della felicità, là vi è l’età d’oro. Le tre ricorrenze della parola-chiave di questa elegia ars — cui aggiungerei sollertia del v. 3, dove senza dubbio vi è un riferimento alla tecnica (sollerssollus-ars, i.e. totus ars) — cadono tutte quante nella parte della elegia, dove,
15 V. V. CIAFFI, op. cit., 68: «Tutto è contemplato in un’aura di bel gioco, in una atmosfera da bel quadro»; 67: «Tutto è raffinato, elegante: ma tutto è insieme forzato, lontano dal cuore di chi parla. Eppure, nonostante l’artificio della materia... quanto sincero il ritmo sonnolento di alcuni versi!»; ibidem: «la parte che riguarda i giuramenti degli amanti si svolge in un ritmo di gioco elegante, di piccolo inganno da salotto»; ibidem, 68: «a 1.4, 26 perque suos riprende perque suas di più sopra. Un timido accenno di ritorno: quel passato (il mondo di Delia) di nuovo si afferma come scoperta di un mondo che vuole morire»; ibidem, 66: «È l’ora del distacco... non da una figura di donna, ma da tutta una scoperta sentimentale. E 1° Arcadia che se ne va: sono i dolci abbandoni, le parole pronunziate ad occhi chiusi.. nasce in Tibullo quell’atteggiamento tra l’ironico e il teatrale che pervade di sé la materia di Marato e che culminerà nel melodramma di Nemesi».
16 V. A. PENNACINI, op. cit., 5, 12-16.
LETTURA TEMATICA DELLA ELEGIA 1.4 DI TIBULLO
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in persona o di Priapo o del poeta, Tibullo lamenta il disprezzo con il quale tale arte è al presente considerata o la sua insufficienza e inefficienza: Heu male nunc artes miseras haec saecula tractant (v. 57); al v. 76 all’arte che il
poeta ha appreso da Priapo è opposta altra multa ars della quale callidus un puer maltratta i suoi innamorati. Nel giuoco dell’amore o del corteggiamento vi è posto sia per l’arte con la quale l’amante tenta di conquistare l’amato, sia per quella con la quale l’amato accende e tormenta l'amante; al v. 82 di nuovo l’esito fallimentare delle arti e degli stratagemmi dell’amante. Sicché ars, parola-chiave di questa elegia, insieme ad altre parole della medesima area semantica, quali docere (59), magister (75), callidus (76), consultare (78), praecepta (79), dolus (82), magisterium (84), definisce lo spazio di una operazione umana diretta o a modificare o a sollecitare il processo dell’incontro tra l'amante e l’amato, incontro che, se per un atto di fede nelle Muse e di fiducia nella letteratura avverrà non sul terreno economico della società con-
temporanea, ma nell’ambito delle eterne leggi naturali che governano il ciclo stagionale della vegetazione, riprodurrà, almeno per un momento arrestando il corso della corruzione, il tempo della felicità, o, uscendone, il locus amoenus, luogo dove privilegiatamente si ritrovano amore e poesia e dove si conclude la longa via!. Le tre ricorrenze di longus (longa dies ai vv. 17, 18 in anafora, e longa via al v. 41) riguardano tempo e spazio; inoltre implicano un riferimento ai vv. 17, 18, alle gioie che col passare del tempo maturano; al v. 41, per con-
verso, alla fatica che bisogna durare per conseguire quelle gioie. In sostanza: longa dies e longa via significano i due valori complementari della durata (a parte la distinzione tra spazio e tempo): la durata foriera di beni e la durata fatta di fatica. Come già altrove, l’apparizione di un luogo comune, 0, meglio, di uno stereotipo provoca lo scatto del congegno topico e quindi l'apparizione di ‘esempi e riferimenti mitologici (vv. 63, 64), ma anche un’altra uscita dal tempo verso la mitopea letteraria: la funzione eternatrice del poeta, che farà durare colui che sarà oggetto del suo canto fin quando durerà il mondo. A chi non ama i poeti e fa commercio d’amore Priapo irroga la sua maledizione: sia colui preso e invasato da Cibele e si eviri; abbia un destino che è l’opposto di quanto significa Priapo. Con la rinnovata proclamazione che l’amore è luogo non di commercio, ma di tenerezze, pianti, suppliche, termina l’exitum della elegia (vv. 65-72). Il congegno topico ha continuato a funzio!7 In questa elegia, vv. 41-42: Neu comes ire neges, quamvis longa via paretur / et Canis arenti torreat arva siti; cfr. el. 1. 26-28: nec semper longae deditus esse viae, / sed Canis aestivos ortus vitare sub umbra / arboris ad rivos praetereuntis aquae; cfr. A. PENNACINI, op. cit., 9-11.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
nare, conducendo il poeta, per bocca di Priapo, in altri luoghi della erudizione mitologica. Col v. 72 si conclude il discorso di Priapo e l’elegia ritrova un suo andamento pedestre gia accennato nei vv. 1-8, non senza qualche sospetto di intonazione comica-parodistica: il poeta (narratore) dichiara che non per sé aveva interrogato Priapo, ma per Titius; al quale tuttavia la moglie vieta di ricordare i precetti del dio; sicché egli, il poeta, li terra per sé e diventera maestro di tutti coloro che sono tormentati e maltrattati da un puer: egli sarà un sapiens al quale si rivolgeranno i giovani. Ma nemmeno questa interpretazione resiste: è proprio il poeta che ha bisogno del soccorso di Priapo: Heu, Heu, quam Marathus lento me torquet amore! (v. 81). Alla prova della realtà l’ars insegnata dal dio (ma è un dio nudo e rustico) fallisce (vana magisteria, v. 84): l’ultimo verso dell’elegia proclama la vanità di tutta la dottrina che Priapo ha insegnato al poeta; i poeti inoltre sono già di per sé dotti (doctos poetas, v. 61); sicché, sebbene dotti e addottrinati da Priapo, questi scholastici'* in ogni caso falliscono. Alla doctrina, delle Musae e di Priapo, è preferito il denaro. Il poeta patisce dunque un doppio insuccesso: come benedetto dalle Muse e dagli dèi!’ e come possessore di una scienza segreta comunicatagli direttamente da un dio?°. Scholastici, poeti quasi divino quodam spiritu inflati, sacerdoti o comunque iniziati da una rivelazione divina: tutti, o per la venalità di una società corrotta o per il capriccio di un ragazzino, falliscono?!. Alla luce di queste conclusioni si deve considerare senso e funzioni dell’ultima parola-chiave della elegia: deus; le sue tre ricorrenze sono così distribuite: una prima del principio del discorso di Priapo (v. 8), una circa a metà (v. 35), una subito dopo la fine (v. 73). La
prima e l’ultima menzione del vocabolo assolvono alla funzione di ricordare e proclamare la fonte dei praecepta riferiti dal poeta, ovvero di sottolineare l’origine divina del discorso; al v. 7 è citato anche il padre di Priapo, Bacco. Mentre la menzione del vocabolo al v. 8 conclude una descriptio sospetta di 18 Cfr. V. CIAFFI, Intermezzo nella cena petroniana, «RFIC» N.S. 33, 1955, 113-145; IDEM, Introduzione a PETRONIO, Satyricon, Torino 1967, XXXII-XXXIV; cfr. anche «Lettu-
ra di Tibullo», 69: «Tibullo fa il gesto di scoprire le proprie carte: egli non vuole essere l’amante torturato, ma il magister di quelli che amano; se non che — e qui l’artificio diventa ironia, la grazia quasi caricatura — il Magister è schiavo come i discepoli (v. 81)». 1° Cfr. Cic. p. Archia, 18: poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et quasi divino quodam spiritu inflari. Qua re suo iure noster ille Ennius sanctos appellat poetas, quod quasi deorum aliquo dono atque munere commendati nobis esse videantur. 20 F. SOLMSEN, art. cit., 321, rileva che Tibullo tratta di una sapienza «arcana» (iniziatica), trasmessa dal dio ad un mortale, che quindi lo privilegia (v. 77: gloria cuique sua est). 21 F. SOLMSEN, art. cit., 321 «La sapienza iniziatica scompare quando Tibullo si volge alla realtà»; cfr. 324.
LETTURA TEMATICA DELLA ELEGIA 1.4 DI TIBULLO
219.
intenzioni parodistiche con la enumerazione di alcuni particolari e dettagli caratteristici, idonei a individuare esattamente il dio (com’é d’obbligo nelle preghiere, invocazioni e in ogni altra relazione tra uomini e dèi), e cioè: il nome del padre, la condizione di abitante delle campagne, la falce della quale è armato, la menzione del v. 73 da una parte richiama, pur omettendoli, ma per associazione, gli elementi individualizzanti di cui sopra, dall’altra esplicitamente attribuisce al discorso appena riportato il carattere di responso, impiegando il verbo edere, specifico appunto della rivelazione oracolare. Non è chi non veda come l’intonazione illustre, conseguita con il v. 73, e in particolare con gli ultimi piedi deus edidit ore, sia subito smentita con la rapida rottura (impertinenza) prodotta dai vv. 74, 75 Titium coniunx haec meminis-
se vetat. / Pareat ille suae. La maestà dell’apparizione del sacro si sbriciola in una contesa per gelosia tra marito tentato da desideri pederastici e una moglie forte e autoritaria, decisa a tutelare i suoi diritti e a farsi obbedire. Il noto procedimento di rottura per accostamento di diversi divergenti livelli oggettuali, linguistici e stilistici? provoca alla fine la minutio o attenuazione, a po-
steriori (spesso l’artificio letterario dei docti poetae comporta una lettura a ritroso), delle connotazioni implicate dalle menzioni del vocabolo deus e dalle modalità linguistiche e stilistiche di tali menzioni. A questo punto una rilettura dei vv. 1-8 mostrerà che Tibullo vi preannuncia per mezzo di un tono lievemente ironico la successiva minutio del dio, anche se là la funzione dei dettagli (barba e chioma incolte, nudità) tende ad avvalorare (o a mostrare di
avvalorare) per converso l’efficacia dei praecepta che il dio sta per rivelare. In conclusione dunque proprio le parole-chiave di questa elegia, che non appaiono nella lista delle parole-chiave del Corpus Tibullianum, indicano due temi specifici della elegia: il tema del tempo come dimensione delle vicende delle cose e delle persone fondata sopra un fatale ritmo della natura che gli dèi tutelano (v. 35: Crudeles divi! serpens novus exuit annos: | formae non ullam fata dedere moram): ma questo tema sta tutto dentro il discorso ovvero la rivelazione oracolare di Priapo; la sua validità è dunque attenuata dalla minutio di cui si è già detto. E questo significa anche, credo, che Tibullo non ignorava il carattere utopistico della sua aspirazione ad una fuga nella natura, come in un luogo della incorrotta felicità. Infatti il secondo tema indicato dalle parole-chiave è quello dell’origine divina dell’ars amandi pederastica, 22 V. CIAFFI, Lettura di T., cit., 65: «Qui (nell’el. 1.4) già l’inizio è tutto in un giro caricaturale... t'accorgi facilmente che alle radici di tutto c’è un tono che è quasi di canzonatura».
23 V. A. PENNACINI, Funzioni della rappresentazione del reale nella satira di Lucilio, «Atti dell’ Accademia delle Scienze di Torino» 102, 1968, 311-435; IDEM, / procedimenti stilistici nella I satira di Persio, «Atti dell’ Accademia
417-487.
delle Scienze di Torino» 104, 1970,
280
_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
che si risolve o traduce nel tema del fallimento come della doctrina e della poesia, così della rivelazione divina; un fallimento, s’intende, pratico, che si
realizza, cioè, nel momento in cui esse vengono al confronto operativo con la realtà.
POSIZIONE DI CICERONE NELLA QUESTIONE DELLA APPLICABILITÀ DELLA RETORICA ALLA POESIA” Nella pro A. Licinio Archia oratio' Cicerone definisce la letteratura (le humanae litterae ovvero la cultura umanistica o generale, nella quale occupa un suo luogo la poesia), la sua funzione e in particolare il poeta. x Archia, il poeta, vi è presentato? come il depositario e l’interprete che mette a disposizione degli uomini i beni della cultura, i quali vengono senz altro identificati con le litterae (la letteratura, quindi) e in particolare con la poesia. Queste sono descritte, almeno in primo approccio, come stru-
menti idonei a ristabilire un equilibrio morale e psichico, diretti ad assolvere una funzione sussidiaria”. In un secondo momento
la funzione, ancora sussi-
diaria, appare più importante e strutturalmente connessa con l’esercizio dell’eloquenza. Infatti dallo studio della poesia, della letteratura, della cultura letteraria l’oratore deriva argomenti e temi con i quali costruire ogni giorno
Ò Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano 1979 La pro A. Licinio Archia oratio fu pronunciata nel 62 a. C. in un processo appunto contro Archia accusato da un certo Grattius, altrimenti ignoto, di spacciarsi per cittadino romano senza esserlo. Secondo la lex Papia chi si attribuisse i diritti di cittadino romano illegittimamente era condannato all’esilio da Roma. Il processo si tenne davanti al pretore, che era quell’anno Quinto Tullio Cicerone, fratello dell’oratore. L’accusa di Grattio colpiva sì personalmente Archia, ma indirettamente colpiva anche i Luculli, Lucio e Marco, che apparivano allora i patroni del poeta.
In particolare la posizione di Archia si fondava, secondo quanto Cicerone afferma al n. 8, proprio sulla testimonianza di Marco Lucullo. Del resto il nomen di Licinio, che Cicerone attribuisce ad Archia, proclama che Archia ha ricevuto proprio dai Luculli la cittadinanza; si ricordi che Lucio Licinio Lucullo è il grande condottiero, ‘vincitore di Mitridate. Si può quindi supporre che l’accusa sia stata intentata non tanto per nuocere ad Archia, quanto per mettere in imbarazzo i Luculli; tuttavia ci sfuggono i termini del giuoco politico, che senza dubbio era sotto la superficie. Da quanto è possibile cavare dall’orazione di Cicerone intorno agli argomenti dell’accusa, parrebbe che non vi fossero motivi di dubitare che Archia fosse cittadino romano. Ma questa è la versione che dà appunto l’avvocato della difesa, minimizzando o addirittura sopprimendo le argomentazioni dell’accusa. È stato quindi supposto che l’orazione, nella forma nella quale noi la conosciamo, non sia in tutto quella che Cicerone pronunciò davanti ai giudici e al pretore, ma ne sia una versione rielaborata, nella quale Cicerone volle inserire o ampliare la lunga digressione sugli studi letterari. Sulla importanza dell’orazione per la testimonianza che trasmette riguardo alle posizioni di Cicerone verso la poesia e sui criteri di interpretazione, v. M. Gelzer, Cicero, in R.E., vol. 7, t. 1, Stoccarda 1939, 895-896; R. Reitzenstein, A. Licinius Archias, in R.E., vol. 2, t. 1, Stoccarda, 1895 463-464; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der ròmischen Literatur, t. 1, Mo-
naco 1959, 425-426.
2 V. Cic., p. Archia, 12, 13, 14. 3 V. n. 12: Quaeres a nobis, Gratti, cur tanto opere hoc homine delectemur. Quia suppeditat nobis ubi et animus ex hoc forensi strepitu reficiatur et aures convicio defessae conquiescant.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
discorsi adatti ai più vari soggetti. La cultura letteraria nutre ed esercita la mente; insieme distende gli animi affaticati dalla tensione*. Cicerone si sente o mostra di sentirsi talmente impegnato — in prima persona — a sostenere le ragioni della poesia e della letteratura, che senz’altro si apre ad una dichiarazione che, pur nella forma di una ammissione, è in realtà una proclamazione fiera e non priva di pompa, con la quale riconosce e dichiara di essere dedito agli studi di poesia e di letteratura; aggiungendo tuttavia che tali studi non lo sottrassero mai all’impegno di fornire utili servizi alla comunità; anzi gli studi letterari e di poesia accrescono l’eloquenza e rendono più facile e abbondante il discorso’. Anche chi consideri frivola cosa l’abbondanza e la facilità dell’eloquenza non potrà negare che i principi morali fondamentali derivino proprio di lì, dagli studi di letteratura e di poesia’. Dunque Cicerone propone una interpretazione della letteratura e della poesia che attribuisce
ad esse una
funzione
sussidiaria,
strumentale,
integrata
nella struttura della società. In sostanza la professione dell’uomo di lettere aveva bisogno, nel pensiero di Cicerone, di una giustificazione sociale e pubblica. Coloro che coltivavano letteratura e poesia, se di tale loro attività non
giungeva al pubblico e alla comunità alcun frutto, erano esposti al sospetto e al biasimo. Dai letterati, poeti, scrittori due cose si pretendevano, secondo Cicerone: che pubblicassero le loro opere e che producessero qualcosa di cui la comunità potesse fruire”. Cicerone si fa interprete di una opinione solidamente radicata nella tradizione culturale delle comunità del mondo pagano, secondo la quale ogni cittadino era tenuto a svolgere una attività che riuscisse in qualche modo e in qualche misura utile a tutti o alla comunità nel suo complesso. Anche gli intellettuali e i letterati, gli scrittori e i poeti dovevano essere integrati nella società: il vates*, inteso come poeta nazionale, o, nei tempi più antichi, come sacerdote, profeta e interprete della volontà degli dèi, è un modello di intellettuale, beninteso in una società arcaica, perfettamente integrato.
4 V. n. 12: An tu existimas aut suppetere nobis posse, quod cotidie dicamus in tanta varietate rerum, nisi animos nostros doctrina excolamus, aut ferre animos tantam posse contentionem, nisi eos doctrina eadem relaxemus? ° V. n. 13: (...) ex his studiis haec quoque crescit oratio et facultas (...). ° V. n. 13: Quae si cui levior videtur, illa quidem certe, quae summa sunt, ex quo fonte hauriam sentio. 14. Nam nisi multorum praeceptis multisque litteris mihi ab adulescentia suasissem, nihil esse in vita magno opere expetendum nisi laudem atque honestatem (...). ? V. n. 12: (...) ceteros pudeat, si qui ita se litteris abdiderunt, ut nihil possint ex his neque ad communem adferre fructum neque in aspectum lucemque proferre (...). è V. Enn. 214 Vahlen: Scripsere alii rem versubus quos olim Fauni vatesque canebant, trasmesso da Varr., de l. L. VII.36, cui rimanda Idem, ibidem, VI.52: Dicti idem (vates) vaticinari, quod vesana mente faciunt: sed de hoc post erit usurpandum cum de poetis dicemus.
QUESTIONE DELLA APPLICABILITA DELLA RETORICA ALLA POESIA
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Se comunque gli studia litterarum fossero coltivati per la delectatio sola? e non producessero altro frutto, tuttavia anche la sola ricreazione dello spirito o distensione psichica'°, sarebbe un valido motivo e una valida giustificazio-
ne. Se l’amor di patria, il sentimento del dovere verso la nazione, l’onestà na-
scono dagli studia humanitatis, allora senza dubbio le humanae litterae sono integrate nelle strutture durevoli della società romana; in caso contrario Cicerone non è comunque disposto a rinunciarvi, e allora le acquisisce in base ad una funzione sussidiaria da una parte, di evasione dall’altra. Il discorso sulla natura del poeta e della vocazione poetica comincia! con la menzione di Archia per la sua capacità di dire versi all’improvviso su fatti di storia contemporanea, senza preparazione alcuna, e per l’approvazione che i componimenti da lui scritti con cura e riflessione ricevevano, così da pervenire ad una reputazione pari a quella degli antichi scrittori. Ottenere veterum scriptorum laudem significa che l’opera viene giudicata in rapporto con un modello e che comunque esistono dei metri di apprezzamento, desunti da opere di autori antichi, considerati validi in generale per tutte le opere e per tutti gli autori, anche di età diverse. Anche se il vocabolo classicus non era ancora usato in questo senso”, tuttavia il concetto di classico era già vivo e operante; il successo di un’opera letteraria veniva verificato attraverso la comparazione con il successo di un’opera antica; e così è chiaro che Cicerone dava per dimostrato che ad opere e ad autori anche molto lontani nel tempo si potesserro applicare eguali misure e criteri di giudizio. In connessione con il pensiero precedente Cicerone riporta nello stesso luogo un’opinione o credenza antichissima, che attribuiva al poeta e all’atto poetico natura divina!; premette che homines summi eruditissimique hanno ? V. Cic., p. Archia, 16: Quod si non hic tantus fructus ostenderetur et si ex his studiis delectatio sola peteretur (...).
10 V. n. 16: tamen, ut opinor, hanc animi remissionem humanissimam ac liberalissimam iudicaretis. !l V. n. 18: Quotiens ego hunc Archiam vidi, iudices (...) cum litteram scripsisset nullam, magnum numerum optimorum versuum de iis ipsis rebus, quae tum agerentur, dicere ex tempore! quotiens revocatum eandem rem dicere commutatis verbis atque sententiis! Quae vero accurate cogitateque scripsisset, ea sic vidi probari, ut ad veterum scriptorum laudem pervenirent. 1? 11 vocabolo classicus cominciò ad essere usato in questo senso di “esemplare” nel II sec. d. C., cfr. Gell., n. A, 19.8, 15: e cohorte illa dumtaxat antiquiore vel oratorum aliquis vel poetarum, id est classicus adsiduusque aliquis scriptor, non proletarius. !3 Cic., p. Archia, 18: Atque sic a summis hominibus eruditissimisque accepimus, ceterarum rerum studia et doctrina et praeceptis et arte constare, poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et quasi divino quodam spiritu inflari. Qua re suo iure noster ille Ennius sanctos appellat poetas, quod quasi deorum aliquo dono atque munere commendati nobis esse videantur. Non è noto il luogo dal quale Cicerone trasse questo generico riferimento ad un pensiero di En-
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_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
trattato della cosa e quindi, con l’autorevolezza che viene dall’intelligenza e
dall’erudizione, l'hanno sanzionata!‘ La menzione di questa opinione introduce un criterio importantissimo e decisivo riguardo alla definizione della poesia con l’attribuirle specifici caratteri che la distinguono da tutti gli altri generi dai quali è costituita la letteratura o cultura letteraria: ceterarum rerum studia et doctrina et praeceptis et arte constare, poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et qua-
si divino quodam spiritu inflari!. Da una parte vi sono praecepta, doctrina, ars: strumenti razionali o, seppur nati dall’esperienza, razionalizzabili, che consentono di apprendere e di eseguire operazioni in ogni altro genere letterario, su ogni altra materia, nell’ambito di ogni altra disciplina; dall’altra vi è la natura: essa fornisce al poeta la sua qualità di poeta; di lì proviene l’ispirazione che soffia nell’animo del poeta: e questa ispirazione è o pare divina!. Cicerone presenta una versione attenuata della credenza nell’origine divina della poesia, quale per esempio appare nei poemi omerici. In luogo della divinità, matrice della poesia è qui la natura: cioè la facoltà poetica, svincolata dal cielo, è rifluita tutta nell'uomo; e allora il discorso sarà appunto sulla natura dell’uomo, sulla natura del singolo, sulle attitudini e inclinazioni.
nio, secondo cui i poetae sono sancti e la vena poetica è assimilata ad una ispirazione divina; il
pensiero appartiene alla concezione arcaica del poeta ispirato dagli dèi, quale appare, formalizzata, nei poemi omerici e in Esiodo. Cfr. n. 8. Dal luogo in questione il Vahlen trasse un frammento sancti poetae, che collocò negli Jncerta al n. 19. 14 Gli homines summi eruditissimique sono Democrito e Platone, come Cic., de oratore, 2.194 comunica: Saepe enim audivi poetam bonum neminem — id quod a Democrito et Platone in scriptis relictum esse dicunt — sine inflammatione animorum exsistere posse et sine quodam afflatu quasi furoris; Idem, de divinatione, 1.80: negat enim sine furore Democritus quemquam poetam magnum esse posse, quod idem dicit Plato; cfr. Plat., Phaedr., 245 A; Ion, 533 E; Apol., 22 BC; leg., 682 A, 719 C; Meno, 99 CD; nel de divinatione 1.66 Cicerone così definisce il furor: (...) furor appellatur, cum a corpore animus abstractus divino instinctu concitatur. Quanto all’espressione divino quodam spiritu inflari, essa sembra traduzione o interpretazione del greco &vBovardie09ar. In generale sulla concezione spiritualistica della poesia, v. W. Kroll, Studien zum Verstdndnis der rémischen Literatur, Stoccarda 1924, 24-34; naturalmente il Kroll sa che “nell’età antica vi furono due concezioni del poetare: una idealistica o spiritualistica, l’altra pragmatica o tecnicistica” (ibidem). Opinioni avverse alla poetica aristotelica o in genere peripatetica in realtà si collegano con la poetica spiritualistica, più antica o comunque di maggior prestigio nell’età arcaica, come osserva M. Valgimigli, Introduzione a Aristotele, Poetica, tr. it., Bari 1934”, 3: “Dove (scrittori anche più tardi e di età romana) sembrano alla Poetica avversare, in realtà essi rappresentano semplicemente strati di pensiero che risalgono a età pre-aristotelica”.
! Cfr. nn. 13 e 14.
16 Cfr. Quintil., 8.3, 37: (...) si quid periculosius finxisse videbimur, quibusdam remediis praemuniendum est: “ut ita dicam”, “si licet dicere”, “quodam modo”, “permittite mihi sic uti”. Quod idem etiam in iis quae licentius tralata erunt proderit.
QUESTIONE DELLA APPLICABILITA DELLA RETORICA ALLA POESIA
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A Roma parte importante di questo processo di laicizzazione del mito del poeta ispirato da dio fu Ennio: proprio Ennio é citato da Cicerone a sostegno della sua argomentazione; infatti proprio lui scrisse che ai poeti è toccato, per così dire (nel testo: quasi), un dono degli dèi, che li fa poeti e insieme santi".
È nota l’affermazione di Ennio intorno all’anima di Omero trasmigrata nel suo corpo": misteriosa l’origine del talento (metempsicosi?), ma l’attitudine poetica sta tutta nell’animo del poeta.
La precisazione di Cicerone” poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari annulla, se ve ne fosse bisogno, il seguente quasi divino quodam spiritu inflari, dove peraltro, quasi e quodam assegnano a divino spiritu funzione di metafora; sicché spiritus divinus sarà da intendersi, per analogia, come ispirazione proveniente dalla natura e dalle vires mentis”. Stesso ragionamento deve farsi a riguardo della citazione — non letterale — da Ennio: ille Ennius sanctos appellat poetas, quod quasi deorum aliquo dono atque munere commendati nobis esse videantur. Anche qui la causa e la qualità della sanctitas dei poetae è da ricercarsi non solo nel dono e nella concessione degli dèi, che sono menzionati solo per chiarire, in via di analogia e di comparazione con un fatto noto e fissato nella tradizione mitologica e religiosa, il carattere della santità stessa, ma nella loro natura e psiche, ovvero nel loro in-
genium o genio”. A rinforzare il senso della sovrumanità o divinità dei poeti, della loro “naturale” eccezionalità e santità, Cicerone non esita a suggerire, come termine di paragone, il precedente (exemplum o modello mitico) di Orfeo, alla voce del quale “pietre e deserti rispondono” e “spesso le bestie feroci
all’udire il suo canto si arrestano”. La “naturale” eccezionalità, sovrumanità e santità dei poeti si rivela dunque nel divinus quidam spiritus che li inflat, per metafora, e, in realtà, nelle vires mentis che per natura suscitano l’energia poetica (poetam natura ipsa
ue
intra ct
18 V. Enn. 15 Vahlen: memini me fiere pavom; cfr. Pers., sat., 6.9-11 e Schol., ad loc.; cfr. Stat., Theb., 3.484 e Schol., ad loc.
!9 Cic., p. Archia, 18. 20 Cfr. Cic., epist. ad Q. fratrem, 3.4, 4, de versibus, quos tibi a me scribi vis, deest mihi quidem opera, quae non modo tempus sed etiam animum vacuum ab omni cura desiderat; sed abest etiam &vBovoracuds; idem, ibidem, 3.5, 4: opus est ad poema quadam animi alacritate quae plane mihi tempora eripiunt; cfr. E.Malcovati, Cicerone e la poesia, Pavia 1943, 1-9. 21 Sul processo di dissacrazione e laicizzazione della concezione del poeta ispirato da dio, v. in generale W. Kroll, Studien zum Versttindnis der ròmischen Literatur, Stoccarda 1924, 24-43
(Das dichterische Schaffen), 64-86 (Die moralische Auffassung der Poesie), 87-116 (Grammatisch-rhetorische Theorien). ae Cic., p. Archia, 19: saxa et solitudines voci respondent. 3 Idem, ibidem, 19: bestiae saepe immanes cantu flectuntur atque consistunt.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
valere et mentis viribus excitari). Non contano a produrre le caratteristiche specifiche della poesia né ars dicendi né doctrina: la poeticità è qualcosa che doctrina tradi non potest*; il gusto, il criterio o metro di giudizio, l’unità di misura e di riferimento si trovano, sono nella natura dell’uomo, particolarmente del poeta, ma anche dell’uditore, del lettore, del critico, dell’amatore; i
quali, s’intende, li ritrovano nelle opere, come, per largo e durevole consenso, avviene a riguardo delle opere classiche. Che cosa vi è secondo Cicerone nella natura dell’ individuo (del poeta, del critico, del lettore), che gli consente di riconoscere la poesia? In che cosa consiste il criterio di giudizio? Cicerone in primo luogo esclude i sensi : “ che cosa possono giudicare i sensi? che una cosa è dolce o amara, che è liscia 0 scabra, che è vicina o lontana, che è ferma o si muove, che è quadrata o rotonda ”*. I sensi colgono solo alcuni stati assai nettamente caratterizzati e concepiti come membri di opposizioni binarie. Peraltro i sensi sono ricuperati da Cicerone con l’implicazione che dietro e sotto ad essi, integrata alla sensi-
bilità fisica, si affacci una sensibilità psichica: “ sono le orecchie che misurano i ritmi del discorso, perché sia evitata l’incompletezza dell’espressione o la sua ridondanza rispetto al pensiero ””; cioè, il ritmo della frase, che si rende
specificamente manifesto nel tipo e nella distribuzione delle clausole, deve rispondere alla compiutezza del pensiero, in modo che non sorga nell’uditore l'impressione che qualcosa manchi o sovrabbondi. Viene supposta o stabilita una corrispondenza tra la forma e la misura del pensare e la forma e la misura del dire. Esiste un sentimento naturale che fonda la critica; ed è avvertito manifestamente nell’eloquenza: “ Infatti le orecchie stesse o piuttosto lo spirito per mezzo delle orecchie possiede una certa naturale misura di tutte le voci ”?. L’udito è strumento dello spirito. Lo spirito è il principio dell’interpretazione dei fenomeni fisici e conferisce ad essi valore spirituale. Nell’animus o comunque nella psiche trova la sua sede un sentimento naturale, che valendosi dello strumento dei sensi, conosce e giudica: “Nemmeno
il
verso fu scoperto dalla ratio ( = procedimento razionale, tecnica, ars), ma dalla natura e dal senso ( = dal sentimento naturale), e la ratio, avendolo mi-
surato, formulò la teoria che spiega il fenomeno”*. Importantissima questa * Cic., de orat., 2, 218; è detto della dicacitas. 25 Cic., de fin., 2.36: quid iudicant sensus? dulce amarum, leve asperum, prope longe, stare movere, quadratum rotundum. ICI part. orat., 18: numeros aures ipsae metiuntur, ne aut non compleas verbis quod proposueris aut redundes. "7 Cic., orator, 177, 178: Ipsae enim aures vel animus aurium nuntio naturalem quandam in se continet vocum omnium mensionem. 28/2 RO 5 ‘ Cic., orat., 183: neque enim ipse versus ratione est cognitus, sed natura atque sensu, quem dimensa ratio docuit quid accideret.
QUESTIONE DELLA APPLICABILITA DELLA RETORICA ALLA POESIA
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esplicita affermazione che il versus è stato scoperto da natura atque sensus; altrettanto importante l’esclusione della ratio dal meccanismo della scoperta. L'opposizione tra ratio e natura, formulata come ars e natura, è fondamentale nella teoria di Cicerone riguardo alla poesia. La natura non solo in generale garantisce al poeta il suo specifico carattere di poeta e il suo valore, ma anche fornisce in particolare il criterio per riconoscere il verso, soccorsa in questo dai sensus, che vengono così ricuperati e sottratti alla rozzezza; natura quindi produttrice e giudice, poiché sente, trova e riconosce, mentre ratio metitur, misura e quindi concettualizza. La conoscenza propria del poeta (o mediante la poesia, del lettore) avviene dunque non per via della ratio, ma per via di natura. La procedura di questa conoscenza è descritta da Cicerone dove racconta come Fidia eseguisse le statue di Giove e di Minerva: “ E in verità quel celebre artista nel raffigurare Giove o Minerva non considerava alcuno, per trarne elementi da imitare, ma nella mente di lui stesso dimo-
rava una certa eccezionale immagine di bellezza; ed egli dirigeva la mano e l’arte al fine di imitarla guardando in essa fissamente (...). Queste forme delle cose Platone, quel gravissimo maestro e promotore non solo dell’intendere, ma anche del dire, afferma che non sono generate e sostiene che sono eterne e consistono di ratio ( = razionalità) e di intellegentia ( = intelligenza, intuizione, percezione) ””. Ratio e intellegentia sono, in questa esposizione di Cicerone, le due vie per le quali l’uomo viene a contatto con le idee 0 species: ratio è lo strumento concettuale, astratto, razionale; intellegentia è lo strumento dell’intuizione, della percezione. Nel luogo citato il processo cognitivo di Fidia è detto intueri. Con il primo di questi strumenti l’uomo giunge alla conoscenza giunge col secondo astratta; razionale, teoretica, all’intuizione, alla percezione, all’intendimento per via dell'immagine, della i fantasia, della visione. Anche in questo luogo nel rapporto natura-ars appare che alla natura è attribuita un’istituzionale superiorità, cioè una capacità innata di contemplare le forme innate e da principio dimoranti nello spirito dell’individuo, sopra l’ars 0 tecnica: species pulchritudinis (...) quam intuens in eaque defixus ad illius similitudinem artem et manum dirigebat. L'uomo governa la tecnica e
2 Cic., or., 9, 10: nec vero ille artifex cum faceret Iovis formam aut Minervae, contemplabatur aliquem e quo similitudinem duceret, sed ipsius in mente insidebat species pulchritudinis eximia quaedam, quam intuens in eaque defixus ad illius similitudinem artem et manum dirigebat. (...) Has rerum formas appellat idéac ille non intellegendi solum sed etiam dicendi gravissimus auctor et magister Plato easque gigni negat et ait semper esse ac ratione et intellegentia contineri. 3° Sull’interpretazione di intellegentia in Cicerone, v. A. Hus, Intellegentia et intellegens chez Cicéron, in Hommages à Jean Bayet, (Latomus), Bruxelles 1964, 264-280.
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| FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
la mano, che è il mezzo materiale della tecnica, così da imitare l’idea della
bellezza. Poeti si nasce, con le idee dentro e la capacità di percepirle creandone delle immagini: la tecnica (ars, doctrina, praecepta) è un sussidio materiale, assolutamente non sostitutivo. Tale posizione, cioè la teoria del poeta per natura, cui l’ingenium suggerisce, attraverso le idee, materia per il canto, appoggiata a Platone?! e Democrito, a Roma nel I sec. a.C. contrastava con la tendenza dominante, che si ri-
assume nell’ Alessandrinismo e si precisa nella poetica peripatetica, sostenuta, s’intende, dalla Poetica di Aristotele.
La tradizione peripatetica e la filologia alessandrina (critica e linguistica), che cominciarono ad essere note a Roma nel corso del II sec. a. C., la produzione poetica ellenistica, che per prima i Romani conobbero con l’etichetta di “ letteratura greca ”, dopo le traduzioni e rielaborazioni in latino di testi ome-
rici ed euripidei, avvalorarono fin dalle origini della cultura letteraria romana la persuasione che poesia e letteratura in generale siano per larga parte o prevalentemente frutto di un’elaborazione artistica; che la poesia sia prodotta
dall’applicazione corretta di ars, praecepta, doctrina”. Si riconosce in questa
3! Nessun dubbio che non sia possibile attribuire ad Aristotele la dottrina qui esposta, secondo la quale “ oggetto dell’arte sarebbero degli universali-idee rappresentati simbolicamente ” (M. Valgimigli, op. cit., 34); né certo può essere aristotelica una dottrina che si configura come “ una specie di antitesi alla teoria platonica, quasi che l’arte rappresentasse non già il reale sensibile e fenomenico, ma quella essenza o idea di verità, che è intima di ogni essere ecc. ” (Idem, ibidem, 34). >? Sui rapporti tra concezione tecnicistica della poesia e poetae novi, v. W. Kroll, op. cit., 36: “Cornelio Gallo, amico e allievo di Partenio, si dedicò alla imitazione di Euforione, e cantores Euphorionis Cicerone chiama l’intero gruppo dei neoterici”. La poesia romana da Ennio (224 Vahlen: nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc. Nos ausi reserare) in poi, di nuovo da Lutazio Catulo e da Valerio Catone è pur sempre figlia della poesia, della critica, della letteratura
alessandrina, legata quindi alla retorica letteraria e poetica. V. anche Idem, ibidem, 36: “Anche nel fondo o meglio nel sostrato del ’Sublime’ vi è un’abbondante serie di prescrizioni e osservazioni retoriche (=tecniche), cui a posteriori l’autore attribuisce funzione e significato spirituale. (...) Dagli Alessandrini (poeta doctus, carmina docta etc.) a Orazio, per giungere infine a Tac., dialogus, la poesia cade o è recepita sia in pratica sia in teoria sotto il dominio della retorica; per esempio nel dialogus de oratoribus non è nominato un talento poetico: la scelta tra professione di oratore e attività poetica dipende dalla opportunità e dalla considerazione”. Quanto ad Aristotele osserva il Kroll (op. cit., 34-41) che “dall’esposizione di Aristotele si ricava l’impressione che egli non faccia alcuna differenza tra talento poetico e letterario (retorico)”. La poetica ellenistica “come Aristotele, non ha dimenticato la concezione del poeta ispirato, e sebbene mostri di voler considerare alla stessa stregua studium e vena (ars e natura), tuttavia si occupa in generale della
tecnica, perché considera la poesia dal punto di vista retorico”. Un’esposizione della poetica dal punto di vista della retorica letteraria si legga in H. Lausberg, Retorica e poesia, “Il Verri” 3536, 1970, 140-166; in particolare sul luogo della Poetica di Aristotele dove si fa rimando alla re-
torica, a 161.
QUESTIONE DELLA APPLICABILITA DELLA RETORICA ALLA POESIA
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posizione, che ai tempi di Cicerone con forza i poetae novi sostennero, appunto l’eredità della Poetica di Aristotele. L’adesione ad una poetica spiritualistica implica in ogni caso che alla tecnica in generale e alla retorica in particolare sia attribuito un ruolo accessorio o addirittura sia opposto un rifiuto; Cicerone mostra di propendere per una soluzione estremistica di svalutazione e di rifiuto. E poiché Aristotele apparve con la sua Poetica il fautore e il promotore della concezione tecnicistica della poesia” è decisivo che con il solo luogo della Poetica, dove si legge un esplicito rinvio alla teoria retorica, Cicerone discordi, anzi contraddica
in modo
espresso e pertinente a quanto tale luogo implica. Il luogo è il capitolo 19*: “Resta ora da dire del linguaggio (de elocutione) e del pensiero (de sententia). Le questioni relative al pensiero (de inventione) debbono trovare posto
nei libri sulla retorica; ciò infatti è più proprio di quel sistema”. Questo significa che almeno la dottrina dei Joci 0 topica (disciplina inveniendorum argu-
mentorum) può essere legittimamente usata in poesia, secondo Aristotele. In realtà, attraverso la poetica peripatetica e l’ Alessandrinismo passò progressivamente al servizio della poesia tutta quanta la retorica. Cicerone, credo con piena consapevolezza, proprio a questa affermazione di Aristotele si oppone: “ Sebbene taluni, dotati di grandi talenti naturali (ingeniis magnis praediti) trovino in abbondanza cose da dire (dicendi copiam) senza ricorrere a metodi razionali (sine ratione), tuttavia l’arte (la tecnica) è guida più sicura della natura (nel reperimento di temi, argomentazioni e prove per la preparazione
di un discorso). Infatti altra cosa è lasciar scorrere le parole al modo dei poeti
(verba fundere), altra cosa è abbellire le cose, che intendi dire, con metodo e arte (ratione et arte) ”*. ‘ Abbondanza di cose da dire ” cerca di rendere copia dicendi: si riferisce alla inventio di res e argumenta; sono le cose da dire che taluni trovano naturalmente, appunto perché forniti di grandi doti naturali; ma in generale le cose da dire si trovano meglio e più sicuramente con la tecnica della inventio. Non però in poesia, conclude Cicerone: lì è la natura che ispira, è la natura che suggerisce le parole (verba fundere) e con le parole le idee. I poeti, secondo Cicerone, non hanno bisogno di alcuna dottrina dei loci o topica (inventio), né di alcuna tecnica diretta a distinguere (abbellire;
quindi si tratta della elocutio) le cose che vogliono dire. Mi pare che questo
33 V. n. precedente, in particolare W. Kroll, op. cit., 34-41
3 Aristot., Poetica, 1456 A, 33: reoì uèv odv TOV dMuov cid@v siontar, Routòv dè TEQL Miéews xai Siavotac eimeiv. TO univ regi tiv Siavotav Ev TOIc TEQl ONTORIXTC xElow TOUTO yao iStov UGAAOV ExEtvne THs Le06dov. 35 Cic., de fin., 4.10: etsi ingeniis magnis praediti quidam dicendi copiam sine ratione consequuntur, ars tamen est dux certior quam natura. Aliud est enim poetarum more verba fundere,
aliud ea, quae dicas, ratione et arte distinguere.
290
passo
_ FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
proclami
l’esclusiva
appartenenza
della
retorica
all’eloquenza
e
l’illiceità del suo impiego in poesia”. L’opposizione irriducibile tra ars e natura nel pensiero di Cicerone sulla poesia e l’interpretazione addirittura negativa che dell’ars Cicerone eventualmente propone, appaiono assai bene in un celebre e discusso giudizio di Cicerone su Lucrezio: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis, che si intenderà compiutamente solo nell’ambito di quella opposizione e non sostituibilità di ars e natura: “ L’opera di Lucrezio risplende di molte doti naturali, tuttavia è frutto di molta tecnica ”””.
% Delle tre operazioni che producono un discorso (inventio, dispositio, elocutio) due, inventio ed elocutio, secondo Cicerone non riguardano la poesia. Sarebbe curioso che alla poesia egli applicasse la dispositio. V., oltre a E. Malcovati, Cicerone e la poesia, già citato, A. Traglia, L’ideale poetico di Cicerone e il suo giudizio su Lucrezio, Roma 1947. Il giudizio su Lucrezio si legge in Cic., epist. ad Q. fratrem, 2.9, 3.
LO STATO DEGLI STUDI SUL ROMANZO
LATINO*
Dopo la pubblicazione di Erwin Rohde, Der griechische Roman und seine Vorldufer, Lipsia 1876, la narrativa antica in lingua greca e latina è stata studiata da più angolazioni con metodi, tecniche e risultati diversi. La maggioranza degli studiosi ha trattato due questioni: quella della definizione o del genere letterario e quella dell’origine della narrativa ovvero del romanzo e della novella?. Nella considerazione di molti le due questioni tendono a coincidere: l'origine fu cercata appunto in un genere letterario; furono considerati mitografia, apologo, epica, elegia, lirica, drammatica, mimo, storiografia, biografia, epistolografia, declamazione. L’ipotesi dell’origine dalla declamazione, cioè da controversiae e suasoriae su argumenta o exempla ficta, quale era esercitata nelle scuole di retorica, si abbina all’idea che la narrativa, come finzione (romanzo e novella), sia l’esito di un processo evolutivo o di deca-
denza della storiografia, che avvenne proprio nell’ambiente letterario delle scuole di retorica; proposta dal Thiele* nel 1890, per molti anni discussa e infine confutata, fu riproposta nel 1973 da Q. Cataudella, che attribuisce il passaggio alla narrativa dalla storiografia «all’influsso della declamazione, attraverso la deformazione e sostituzione del materiale storico realizzata nella Ionia, dove la Lust zu fabulieren (voglia di raccontare) permeò l’epica, entrò nella storiografia come digressione e infine assunse la forma autonoma di novella erotica». Il Pepe con fondate e persuasive osservazioni e considerazioni
* A. Pennacini-P.L. Donini-T. Alimonti-A. Monteduro Roccavini, Apuleio letterato, filosofo, mago, Bologna 1978, 1-20. ! Una rassegna utilissima e non priva di contributi originali si legge in L. Pepe, La narrativa, in «Introduzione allo studio della cultura classica», I, Marzorati, Milano 1972, 395465, cui segue una bibliografia fondamentale e completa fino al 1970, 466-472. Di recente è stata tradotta in italiano un’opera che studia il Satyricon nei suoi vari aspetti: J. P. Sullivan, Il «Satyricon» di Petronio. Uno studio letterario, La nuova Italia, Firenze 1977. ? Già il Rohde, menzionato nel testo, e più tardi A. Lesky, Geschichte der griechischen Literatur, Berna 1957-58, trad. ital. di F. Codino, Storia della letteratura greca, Milano 1962, hanno sostenuto che non vi è nesso alcuno tra romanzo e novella, che non hanno origine comune né appartengono al medesimo genere. 3 G. Thiele, Aus der Anomia in «Archiol. Beitrige C. Robert dargebracht», Berlino 1890, 124 sgg. 4 Q. Cataudella, Introduzione a Il romanzo antico greco e latino, Firenze 1973, XXXII. Il Cataudella, inoltre, esclude che la commedia abbia avuto parte nell’origine della narrativa, osservando che «mentre la commedia ha prodotto o inventato il tipo deducendolo
dalla realtà (imitatio vitae), nel romanzo non vi è verosimiglianza, nessuno dei personaggi.è un tipo; peraltro, trovando nelle scuole di retorica l’origine del romanzo, si spiega an-
che quel che di umbratile, convenzionale, falso è in esso»: tale osservazione, trasferita al Satyricon, non pare sostenersi e, in ogni caso, richiedeva e richiede una chiara definizione a livello storico-culturale e letterario della nozione di tipo. Al proposito basta menzionare G. Lukàcs Saggi sul realismo, Torino 1950, 17: «La categoria centrale, il criterio fondamentale della concezione letteraria realistica è il tipo, ossia quella particolare sintesi che,
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cronologiche pertinenti alla declamazione’ respinge questa ipotesi, che tuttavia integra in un processo organico tre elementi decisivi nella struttura di base o del sostrato strutturale del romanzo:
connessione con l’epica, della quale
il romanzo è o è considerato succedaneo, consapevolezza che i fatti narrati sono invenzione, indicazione nella digressione in forma di narratio del procedimento letterario 0, se si preferisce, stilistico-retorico, che fornì schema e spazio allo sviluppo della narrativa. Anche il passaggio del genere narrativo, per giungere al romanzo, attraverso la novella risponde, seppure più col valore di una indicazione che di una proposta interpretativa, al dato certo della mistione di novella e romanzo sia nel Satyricon sia nelle Metamorfosi di Apuleio. Anche la derivazione della narrativa dalla storiografìa è contestata: Pepe® la rigetta, osservando che le digressioni, dove trova luogo il procedimento della narrazione, perseguono, per esempio, nelle Storie di Erodoto, il fine di motivare i fatti storici e, talvolta, di simboleggiarli. Del resto la filologia contemporanea pare consideri decisivo per il passaggio dalla storiografia alla narrativa l’elemento
dell’invenzione:
i fatti narrati non
devono,
si sostiene,
essere storici, ma d’invenzione, e di questo vi deve essere consapevolezza. Peraltro né la critica storicistica né quella strutturalistica accolgono come significativo e decisivo questo elemento: ciò che nell’ambito più largo della letterarietà distingue la specificità del racconto” non consiste nella certezza
tanto nel campo dei caratteri, che in quello delle situazioni, unisce organicamente il generico e l’individuale. Il tipo diventa tipo non per il suo carattere individuale, per quanto anche approfondito, bensì per il fatto che in esso confluiscono e si fondono tutti i momenti determinanti, umanamente e socialmente essenziali, di un periodo storico; per il fatto che esso presenta questi momenti nel loro massimo sviluppo, nella piena realizzazione delle lo-
che i limiti della completezza dell’uomo e dell’epoca». 5 L. Pepe, op. cit., 415 «la pratica della declamazione in Grecia non risale oltre il 1° secolo a. C. e a Roma prima della fine della repubblica (...) anteriormente al 1° secolo a. C. l’esercizio retorico si basava su exempla ficta che avessero però attinenza con la realtà del foro e delle assemblee». L’ipotesi della origine della narrativa nell'ambiente delle scuole di retorica sostenuta dopo il Thiele anche da W. Schmid, nell’appendice alla terza edizione del Rohde nel 1914, successe all’ipotesi, proposta dal Rohde, che indicava l’origine nella fusione del racconto di viaggio con il racconto d’amore per opera o nell’ambito della seconda sofistica nel 2° secolo d. C. Questa ipotesi fu invalidata dalla scoperta di papiri che consentì a B. Lavagnini, Le origini del romanzo greco, Pisa 1921, di collocare nel 2° o al più tardi nel 1° secolo a. C. l’origine della narrativa, derivandola dalla elaborazione popolare delle leggende locali nel quadro della storiografia locale.
© L. Pepe, op. cit., 395 e 400. 7 S’intende romanzo e novella, che taluni filologi vorrebbero distinti sia per l’origine sia per la struttura, mentre altri, come Pepe, considerano impossibile distinguere per l’assenza di caratteri propri e peculiari a ciascun genere, ammettendo solo che «il romanzo
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che i fatti raccontati non siano mai avvenuti, ma nella funzione, cui il rac-
conto assolve, di «rappresentare un evento o una sequenza di eventi reali o fittizi per mezzo del linguaggio e più particolarmente del linguaggio scritto»* o, secondo una interpretazione di tendenza ancor più formalista, nella funzione «non di rappresentare, ma di costituire uno spettacolo, che non può essere di ordine mimetico; la realtà di una sequenza non risiede nella serie ’naturale’ delle azioni che la compongono, ma nella logica che vi si espone, vi si rischia e vi si compie»; 0, secondo una interpretazione sostanziale e comprensiva del grande teorico della critica letteraria dello storicismo materialistico, Gyérgy Lukacs!°, nella funzione di «mostrare come in movimenti minuti, impercetti-
bili e, si vorrebbe dire, capillari della vita individuale si manifesti la direzione di una tendenza dell’evoluzione sociale»!! e di perseguire «lo scopo essenziale di presentare la direzione di movimento
della società»!?; altrove Lukàcs
os-
serva che, mentre la forma della novella è adatta a rispecchiare con particolare efficacia aspetti ed elementi specifici della vita, la forma del romanzo rappresenta la totalità di un contesto sociale, sia del presente sia del passato!3. Tale interpretazione del carattere proprio dell’una e dell’altra forma narrativa concorda bene anche con la costatazione che il romanzo, più complesso e comprensivo, è posteriore in Grecia alla novella, che nasce con Aristide di Mileto nel 2° secolo a. C.; anche se opportunamente è stato notato che la na-
avrà in genere proporzioni e sviluppi narrativi più ampi» che la novella. In effetti la più breve estensione della novella è il segno di un carattere specifico o tratto distintivo: «questa forma è adatta a rendere (rispecchiare) con specifica energia rapporti molto specifici della vita», mentre «in essa non si vuole affatto rappresentare una totalità di manifestazioni di vita» (G. Lukacs, Der historische Roman, Berlino 1957, Il romanzo storico, trad. ital. di E. Arnaud, Torino 1965, 330). 8 G. Genette, Frontiere del racconto, in AA.VV., L’analisi del racconto, Milano
1969,
2735 ° R. Barthes, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, 45, in AA.VV.,
op. cit.,
7-46.
!0 G. Lukàcs, I] romanzo storico, cit., 188-189. !! [idea che il movimento della storia sia graduale, impercettibile, capillare non ottiene più unanime consenso; è stato proposto di interpretare il corso della storia come una linea segmentata con stasi, accelerazioni, regressi.
12 G. Lukacs, IJ romanzo storico, cit., 188-189. È noto che E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. ital., Torino 1956, vol. 1, 38 sostiene che «nel realismo antico non vengono messe in luce le forze sociali che stavano in quel tempo alla base dei rapporti rappresentati» e che «la società appare come un'istituzione immutabile». 13 G. Lukacs, JJ romanzo storico, cit., 330. L. Pepe, op. cit., concordando con Cataudella, propone questa definizione della novella della letteratura classica: «La forma della novella si realizza in una trama narrativa per lo più breve (ma ciò non è essenziale) nella
quale sono fusi elementi della realtà e del mondo della fantasia con assoluta prevalenza di interessi umani e con l’esclusione di tutto ciò che è al di qua e al di là dell’umanità».
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scita o la affermazione della novella con Aristide coincide con l’avvio del romanzo. D'altra parte nei secoli 2° e 1° a. C. avviene nella letteratura greca il passaggio dalle vecchie forme narrative, cioè dal poema epico e dalla storiografia di tradizione erodotea, alle nuove: novella e romanzo. Ora più d’uno tra gli studiosi della narrativa antica greca e romana e la maggior parte di quelli della narrativa
moderna,
cioè del 19° secolo,
hanno
avvertito
nella
scomparsa del poema epico il segno letterario della caduta della società e cultura aristocratica e oligarchica; e nell’apparizione della novella, per esempio nel 14° secolo in Italia, e del romanzo, nel 19° secolo in Inghilterra, Francia e Germania, il segno letterario dell’affermazione e maturazione della società e cultura borghese. Questa collocazione storica e sociologica dell’origine della narrativa in prosa'*, comunque della novella e del romanzo, implica dunque da una parte l’indicazione di una relazione specifica della serie storica e sociale con la serie letteraria, dall’altra una definizione della narrativa in quanto forma succedanea del poema epico!: novella e romanzo come rappresentazione a carattere tendenzialmente realistico di un mondo antieroico, con carattere borghese o popolare, rispecchiante una società nuova’®, affermatasi, come suggerisce Lukàcs, nel corso del processo di dissacrazione e laicizzazione della civiltà e società aristocratiche e arcaiche, con il passag-
14 G. Lukàcs, Die Theorie des Romans, 1920, trad. ital. La teoria del romanzo, Milano 1962, 89 osserva che «sarebbe atto superficiale e soltanto artistico quello di ricercare nel verso e nella prosa gli unici, i decisivi tratti caratteristici, quelli che determinano il genere». !5 G. Lukacs, Il romanzo storico, cit., 329: «(...) nel confronto del romanzo storico col ‘ dramma storico, abbiamo ampiamente mostrato come ogni genere sia un modo particolare di rispecchiare la realtà, come i generi possono sorgere solo quando sono sorti fatti generali della vita tipici e regolarmente ricorrenti, le cui caratteristiche di contenuto e di forma non si possono rispecchiare in modo adeguato nelle forme già esistenti». Ma si legga anche il discorso di V. Skliovskij, riferito da B. Eichenbaum, La teoria del metodo formale, trad. ital., in T. Todorov, J formalisti russi, Torino 1968, 49: «Una nuova forma appare non per esprimere un nuovo contenuto, ma per sostituire una forma vecchia che abbia ormai perduto il proprio valore artistico», che credo si opponga solo in superficie al discorso di Lukàcs, in realtà ne sia una indispensabile integrazione sostanziale. Cfr. J. Tynjanov, L'evoluzione letteraria, in T. Todorov, I formalisti russi, trad. ital., Torino 1965, 136-137:
«II sistema della serie letteraria è prima di tutto il sistema delle funzioni della serie letteraria, nella sua incessante correlazione con le altre serie».
16 Ma nella narrativa greca prevalse la esposizione di vicende immaginarie organizzate intorno ad un nucleo di amore, viaggi e avventure (cfr. L. Pepe, op. cit., 430) restando quindi la pur presente vocazione realistica limitata ad elementi o di fondo (meglio sarebbe dire fondale o scenario) o di dettaglio; trovando tuttavia talvolta la via della parodia per rappresentare taluni aspetti o elementi significativi e tipici della struttura sociale e della cultura del tempo, per esempio nelle Metamorfosi di Apuleio la custodela feralis in 2.2130.
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gio dalla agetn alla poovnots, dal yévoc o clan all’individuo!”, dalla nobiltà del sangue all’intelligenza borghese. Sicché il romanzo assolve! a funzione affine a quella cui assolveva l’epica, tuttavia rivolgendosi a (ovvero comunicando con) larghe masse di lettori. Questo aspetto sociologico era già stato indicato come proprio del pubblico del romanzo da Otto Weinreich!?, laddove osservava che perfino il romanzo d’amore” assolveva ad una funzione fondamentale e di vitale importanza in una forma letteraria o genere, che era appunto la più adatta al lettore medio nell’età ellenistica-romana o imperiale, e che,
sempre
secondo
Weinreich,
costituiva
l’ultima
fase
dell’evoluzione
dell’elemento patetico-avventuroso dell’epica. Anche se la relazione tra successo della narrativa e scomparsa della società e cultura arcaiche-classiche della polis o città-stato non è assimilabile in tutto alla relazione tra successo del romanzo e nascita della società e cultura liberali-borghesi del 19° secolo in Europa”, tuttavia è certo che in età ellenistica, dal 3° secolo a. C., nei paesi di lingua greca o governati dai Macedoni e dai Greci in Asia, e nel 1° secolo dell’impero, dal principato di Augusto alla caduta dei Giulio-Claudi, nelle regioni occidentali, Italia principalmente”, si manifestano mutamenti nella sfera dell’economia, quali il passaggio in agricoltura dalla produzione per i bisogni e i consumi famigliari alla produzione per il mercato, l’applicazione di energia di origine inorganica, come l’energia idrica nel mulino ad acqua”, la produzione secondo procedimenti parcellizzati, e cioè indu-
'7 G. Lukàcs, Il romanzo storico, cit., 9-107 (La forma classica del romanzo storico); in specie si considerino le osservazioni sul significato sociale dei romanzi di W. Scott. 18 Sulla funzione dell’epopea e del romanzo v. G. Lukàcs, Il romanzo storico, cit., 110JEL7A 19 O. Weinreich, Nachwort zur Heliodor-Ubersetzung von R. Reymer, Zurigo 1950, 328 sgg. 20 L’unica narrazione che nell’ antichita classica sia stata accolta in una definizione di genere, sia pure con una molteplice e oscillante terminologia, è il romanzo d’amore: erotici scriptores, cfr. L. Pepe, op. cit., 395-396. 21 G. Lukacs, IJ romanzo storico, cit., 184: «Occorre tutta la brutale mancanza di senso storico della sociologia volgare per essere completamente ciechi di fronte ai nessi tra società di classi e di individui, prodotta dalla borghesia, e romanzo, e per far rientrare il «romanzo» greco, persiano, ecc. sotto lo stesso genere della forma specificamente moderna della «epopea borghese». 22 Lo sviluppo di un’agricoltura diretta a produrre per il mercato, mediante investimento di capitali in attrezzature e miglioramenti degli impianti, e di una produzione industriale di consistenti dimensioni in Gallia e in Hispania, avviene più tardi che in Italia, dalla fine del 1° secolo a. C. in poi; cfr. M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, trad. ital., Firenze 1933, 73-83; 105-114; F. M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, trad. ital., Bari 1972, 978-980. 23 S. Lilley, Men, Machines and History, Londra, trad. ital. di F. Genova: Storia della
tecnica, Torino 1951, 64-68; vi fu solo un principio di sviluppo verso una società rivolta a
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striali e non più artigianali, di oggetti in quantità notevoli, destinati alla esportazione per mercati anche remoti; quindi cominciava a configurarsi una società simile per qualche aspetto ad una società borghese moderna «intenta alla produzione per il mercato, dove gli oggetti sono misurati al consumo con il valore d’uso, mentre alla produzione contano per quantità e prezzo di vendita». E proprio negli anni tra il 1° secolo a. C. e il 1° d. C. appare e si afferma la narrativa, nella forma della novella e del romanzo; sicché é legittimo cerca-
re quali relazioni corrono tra struttura della societa e struttura del romanzo, considerando i suggerimenti che Lukacs avanza nella gia citata Teoria del romanzo: «La forma del romanzo rispecchia una società dove non vi sono più valori autentici; il protagonista, intento a cercarli, è egli stesso problematico, cioè non conosce quei valori». Tale situazione, secondo Lukàcs, sarebbe omologa a quella della società borghese di cui si è di sopra riportata la descrizione. Inoltre la problematicità si traduce nei fallimenti cui sono destinati i personaggi nei loro incontri con la realtà esterna e con la società: essi confrontano la propria interiore problematicità con una realtà sociale problematica. Avventure e scontri si risolvono sempre in fallimenti, dal momento che o personaggio o realtà sociale sono inadeguati; in più il personaggio è a tal punto dominato dal sentimento o pathos, che non agisce in base ad un carattere, ma secondo gli stati d’animo. In conclusione, suggerisce Lukàcs, la struttura del romanzo è una forma letteraria dell’assenza: sua caratteristica è appunto l’assenza di valori, ovvero l’insufficienza e problematicità dei valori non solo nella coscienza dell’eroe, ma anche in quella dell’autore. Queste considerazioni mettono capo alla nota formula del romanzo come «forma aperta», che tuttavia è bene chiarire citando dalle medesime pagine di Lukacs*; «il romanzo appare (...) un divenire, un processo», «la normativa incompiutezza e problematica del romanzo rappresenta una forma (letteraria)».
i
La società classica non divenne mai una società borghese intenta a produrre per il mercato; vi apparvero solo, in età ellenistica-romana, alcune punte isolate ed emergenti, presto riassorbite in una generale riduzione al livello dell’economia agricola di sussistenza. Il momento più significativo nella sfera produrre per il mercato: la capacita di produzione della società classica dipendeva in massima parte dalla disponibilità di manodopera servile; finché durarono le guerre di espansione il largo numero di schiavi impedì o ostacolò lo sfruttamento dell’energia inorganica, che si sarebbe concretato nella sostituzione di macchine al lavoro umano. Sicché l’istituzione della schiavitù di fatto limitò l'espansione della produzione, ad un certo momento arrestando lo sviluppo dei caratteri capitalistici e borghesi della società.
# L. Goldmann, Introduzione a G. Lukacs, Teoria del romanzo, trad. ital., cit., 35 sgg. 25 G. Lukacs, Teoria del romanzo, cit., 110-112.
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della produzione per il mercato fu in Italia nell’eta di Augusto e di Tiberio; gia ai tempi di Claudio e di Nerone i prodotti delle province sottraggono i mercati a quelli italiani*®, causando quindi indirettamente un’inversione nella tendenza a considerare gli oggetti come merce prima che per il loro valore d’uso, rallentando perciò e infine arrestando la trasformazione della produzione artigianale in industria, nel quadro, comunque, di una economia dove la servitù scoraggiava il progresso tecnologico, elemento decisivo per l’istaurazione di condizioni industriali di produzione. D'altra parte la letteratura classica non produsse il romanzo storico né quello realistico, muovendo invece verso il romanzo di evasione, nella forma
del romanzo di avventure e d’amore. Tuttavia l’analisi di Lukàcs sia nella Teoria del romanzo sia nel Romanzo storico è in certa parte utile e pertinente allo studio e alla comprensione della narrativa classica e in particolare latina. Il suo contributo fondamentale e più importante per la teoria della letteratura è la definizione del romanzo come di una «forma aperta», della quale è già stato detto. Questa idea, che il romanzo sia un processo inconcluso e problematico, appare specificamente pertinente alla fase di sviluppo della narrativa nella letteratura latina, quando si voglia correttamente considerare l’opera d’arte nella sua interezza e nella strutturale integrazione di tutti i suoi livelli. Cioè: d’accordo che la problematicità del romanzo, secondo Lukàcs, è stilizzazione letteraria della crisi di una cultura e di una società, ossia dell’apparizione di rapporti nuovi e distorti tra produzione e uso degli oggetti (si produce per vendere e non per usare; si acquista e si usa per consumare) e della scomparsa della adeguazione tra individuo e società; ma questa problematicità si rivela anche nella specificità letteraria? della narrativa, che fu in età classica ed è stata nei tempi moderni una «forma aperta» a livello delle istituzioni letterarie. Questa osservazione riguarda non
26 Si tratta principalmente di olio e vino; v. S. J. De Laet, Aspects de la vie sociale et économique sous Auguste et Tibère, Bruxelles 1944, 52. 27 B. Eichenbaum, art. cit., in T. Todorov, op. cit., 36-37: «il concetto di forma si fonde con l’idea di opera d’arte» (...) «il concetto di ’materiale’ non esula dall’ambito della forma; anch’esso
è formale; confonderlo
con elementi
non costruttivi
è erroneo».
Riguardo
alla narrativa, si veda specificamente a p. 24: «la costruzione dell’intreccio rientra nella sfera dello studio formale, come caratteristica specifica delle opere letterarie» con la conclusione che «il concetto di forma coincide col concetto di fatto letterario». 28 Nei nostri anni chiunque segua le pubblicazioni della narrativa sa quanto romanzo e novella siano discussi e in movimento o in caduta; vede anche che la «forma» è più che mai aperta e rispecchia problematicità e ricerca dell’autentico; considerazioni simili possono essere svolte riguardo agli inizi della narrativa sia per l’età della fine dell'Illuminismo e il principio del Romanticismo (secoli 18°-19°) sia per i già citati secoli 1° a. C. e 1° d. C. nella letteratura greca e latina.
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la forma dell’ opera o struttura”, ma la forma o classificazione istituzionale o definizione del genere. Per tale via la problematicità riappare sì a livello tassonomico e descrittivo, ma anche di esplicazione genetica, pertinente dunque alla questione dell’origine. In definitiva l’esito degli studi condotti finora sulla narrativa classica conferma proprio l’analisi e la descrizione che Lukàcs dà del romanzo? Che i critici e i filologi delle letterature classiche abbiano discordemente indicato l’origine della narrativa nei più svariati generi letterari e abbiano riconosciuto nei romanzi conservati molte e diverse componenti,
è la prova migliore, che gli studi potevano offrire, della validità della teoria del romanzo di Lukàcs. Accanto all’elenco dei generi, riportato al principio di queste pagine, sarà sufficiente, per suggerire ancora quanto vari e molteplici 29 J. Tynjanov, Il concetto di costruzione, 122-123, in T. Todorov, I formalisti russi, cit., 119-124: «L’unità dell’opera non è un tutto simmetrico e chiuso, ma un insieme dinamico in sviluppo; i suoi elementi non sono collegati dal segno statico dell’eguaglianza e dell’addizione, ma da quello dinamico della correlazione e dell’integrazione. La forma dell’opera letteraria va riconosciuta come forma dinamica».
30 L. Pepe, op. cit., 396, muovendo dalla definizione di narratio di Platone e di Aristotele come procedimento comune alla prosa e alla poesia e quindi — è sempre il pensiero di Pepe — diversa dalla concezione moderna della narrativa (ma per questo si veda sia Lukacs, loc. cit., sia AA. VV., L’analisi del racconto, cit.), menziona un intervento di M.
Gigante, Prolegomeni alla storia della narrativa antica, «Filologia e letteratura» 8, 1962, 27 sgg., il quale da quelle definizioni argomenta «che non è possibile procedere ad una storia della narrativa antica tenendo presente la forma letteraria moderna della novella e del romanzo oppure che occorre impostarla molto diversamente da quella di una storia della narrativa moderna». Pepe (ibidem) risponde che «tale obiezione in verità sarebbe insormontabile se la ricerca mirasse ad un’astratta proiezione nell’antichità di un genere letterario maturato nella coscienza moderna; ma quando, astraendo dalla codificazione dei generi letterari formulata dalla riflessione critica dei filosofi e retori, si prendono in esame opere che presentano affinità di ispirazione e di destinazione, anche se di varia struttura e intonazione, e se ne stabiliscono i nessi reali inquadrandole in una cornice unitaria che non ne alteri la prospettiva storica, allora l’ostacolo cade e nessun rimprovero può essere mosso a chi esamini determinati prodotti letterari antichi e li riconduca a forme che, ancora indistinte e inclassificabili nell’antichità, hanno determinato, attraverso una loro spontanea evoluzione, un genere letterario che si è consolidato soltanto in seguito nel genere narrativo della novella e del romanzo». L’obiezione di Gigante è fondata e vigorosa; la risposta di Pepe raccoglie tutte le argomentazioni che la cultura contemporanea mette a disposizione; peraltro il racconto, quale Barthes, Greimas, Genette, Eco, Todorov analizzano con tecniche e strumenti strutturali, funzionalistici e semiologici, è conosciuto nelle letterature europee non solo in età moderna, ma anche in tutti i secoli passati fino ad Omero ed era noto anche nelle letterature in lingue diverse dal greco e dal latino. Cioè: la determinazione di un oggetto comporta anche definizioni diverse in relazione all’applicazione di criteri diretti a individuare in letteratura il carattere specifico della letterarietà di un’epoca, di un procedimento, di un comportamento linguistico; inoltre: la considerazione del racconto che le letterature classiche hanno trasmesso non può avvenire a livello scientifico con metodi e tecniche e nemmeno con criteri e idee che nell’età classica apparivano validi, ma deve avvalersi dei più avanzati efficaci, sofisticati sistemi di analisi, controllo e studio.
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caratteri letterari siano stati riconosciuti nella narrativa classica, riferire la tassonomia del romanzo, quale fu proposta da Rudolf Helm*!: 1. storico 2. mitologico 3. viaggi e utopia 4. erotico 5. cristiano 6. biografico 7. parodico 8. comico-satirico. Ma l’argomento più autentico e più prezioso è la storia della narrativa latina fino al Satyricon. A parte la versione latina delle fabulae Milesiae di Aristide di Mileto eseguita da Cornelio Sisenna al principio del 1° secolo a. C., che esercitò comunque un influsso efficace e durevole sulla tecnica della narrazione in prosa e in versi**, la narrativa d’invenzione trova il suo spazio
di sperimentazione nella satura Menippea; dove si devono notare alcuni elementi che assai bene rispondono a o prefigurano quelli che Lukàcs attribuisce alla narrativa in prosa del romanzo: problematicità ovvero autore ed eventualmente personaggi cercano l’autentico, il che si traduce a livello di stile nella cosiddetta mistione degli stili diretta a perseguire l’autentico mediante la demistificazione per rottura della continuità stilistica; quindi forma aperta anche sul versante delle istituzioni; inoltre tendenza alla rappresentazione realistica in quanto esito della demistificazione, e in tale àmbito o direzione tendenza a costruire i personaggi come tipi rappresentativi di momenti o fasi sociali ed economiche. Elementi questi che tutti o in parte appaiono nelle pur frammentarie ed esigue testimonianze delle Menippeae di Varrone, nella Apocolocyntosis di Seneca, infine, funzionali e funzionanti, nel Satyricon. E proprio il Satyricon è la prova più autentica che già in età antica il romanzo nasce come forma aperta in tutti i suoi aspetti: quella parte di racconto, contenuta nei libri 15° e 16°, nota appunto come Satyricon, è una sezione di una grossa raccolta di saturae Menippeae e quindi di tali componimenti condivide i caratteri; come romanzo contiene strutturalmente integrata la novella e il racconto metamorfico: assolve quindi anche, almeno in superfìcie, alla funzione di cornice; dell’epopea greca e del romanzo d’amore greco imita in parodia elementi fondamentali: all’ira di Posidone che perseguita Ulisse sostituisce l’ira di Priapo che perseguita Encolpio, e alla coppia di sposi e fidanzati o amanti* separati da disgrazie, violenze, iniquità sostituisce 31 R. Helm, Der antike Roman, 1° ed. Berlino 1948, 2* ed. Gottinga 1956. 32 L. Pepe, op. cit., 441-442. 33 Come in Texaris e Philopseudes di Luciano, dove una cornice raccoglie e collega tra loro delle novelle (v. Decameron). Sulla narrativa d’invenzione nella letteratura greca e la-
tina e su taluni suoi caratteri inerenti alla tematica e alle tecniche del racconto, v. B. E. Perry, The Ancient Romances. A Literary-historical Account of their Origins, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1967.
34 Secondo K. Kerenyi, Die griechische-orientalische Romanliteratur in religiongeschichtlichen Beleuchtung, Tubinga 1927, la coppia degli amanti divisi e ricongiunti attraverso molte peripezie è il riflesso della coppia Iside e Osiride.
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la coppia omosessuale di Encolpio e Gitone, divisa, più che dal fato o dalle sventure, da imprevedibili capricci e mutamenti di stati d’animo:5; della fabula Milesia, accanto all’elemento osceno o licenzioso, impiega un caratteristico e significativo procedimento: la narrazione in prima persona*, che implica la cosiddetta autopsia o testimonianza diretta o comunque di prima mano
dei fatti narrati, che vale a confermare la veridicità del racconto au-
tenticando la credibilità con la menzione della presenza o partecipazione dello scrittore. Può darsi che tale fosse l’intenzione consapevole dell’autore e anche che in questo modo la narrazione in prima persona sia stata considerata e interpretata dagli antichi?”; tuttavia appare non solo legittimo, ma perfino necessario considerare questo procedimento e in generale le opere antiche mediante tecniche e metodi di analisi e di studio contemporanei, prodotti da un secolo di progresso accertato e scientifico nella sfera linguistica, psicologica e semiologica**; e sulla narrazione in prima persona taluni moderni espriacutissima, per esempio, considerare: opinioni che conviene mono l’osservazione di Barthes®: «La persona psicologica (di ordine referenziale) non ha alcun rapporto con la persona linguistica che è definita solo dal suo posto (codificato) nel discorso». Aggiungerei che nemmeno laddove l’autore menziona se stesso, in quanto narratore, col proprio nome, come Catullo, è opportuno identificare il personaggio storico con il personaggio fittizio (appunto, di carta) Catullo, il quale vive di una vita che è specificamente letteraria e non reale. Questo vale anche per i personaggi rappresentati realisticamente, i tipi rappresentati-
35 G. Lukacs, Teoria del romanzo, cit., 165s: «stato d’animo e riflessione sono elementi
costitutivi della forma del romanzo, ma la loro importanza formale è determinata da ciò, che in essi il sistema regolativo di idee, sotteso all’intera realtà, può divenire manifesto e, col lo-
ro intermediario, essere raffigurato; e dunque dal fatto che stato d’animo e riflessione hanno un rapporto positivo, ancorché problematico e paradossale, col mondo esterno». 36 Cfr. Ovidio, Tristia, 2.413 iunxit Aristides Milesia crimina secum, dove secum indica la narrazione in prima persona, per cui i crimina o dissolutezze di Mileto ovvero raccontati nella novella milesia sono attribuiti all’autore. Il che naturalmente si basa sulla identificazione o confusione dell’autore col narratore. 37 Cfr. l’uso che fa Apuleio di questo procedimento in 1.2, 1 e 11.27, 9.
38 V. nota 31. 3° R. Barthes, Introduzione in AA. VV., op. cit., 36; v. anche 34: «Narratore e personaggi sono essenzialmente «esseri di carta»; l’autore non può essere confuso con un narratore di questo racconto». «Se l’autore dispone di segni di cui dissemina la sua opera, va supposto tra la persona e il suo linguaggio un rapporto segnaletico che fa dell’autore un soggetto pieno e del racconto l’espressione strumentale di questa pienezza: cosa a cui l’analisi strutturale non può risolversi». T. Todorov, IJ racconto letterario, in AA. VV., op. cit., 254-256
indica nella relazione tra narratore e personaggio tre aspetti: narratore > personaggio, narratore = personaggio, narratore < personaggio; nel secondo caso (narratore = personaggio) questo può essere cosciente di essere narratore (Encolpio) oppure incosciente: in questo caso lo scrittore lo descrive e lo segue dal di dentro.
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vi*°. La realtà del racconto o, più genericamente, di un’ opera letteraria, non è la realtà delle cose, anche se, realisticamente, la rispecchia. Che dunque la satura in genere e in specie la satura Menippea siano «forme aperte» penso non sia dubbio: esse sono appunto forme problematiche che rispecchiano situazioni e momenti economici, sociali e culturali problematici, cioè in via di trasformazione, cercandovi attraverso il personaggio dello scrittore-narratore o attraverso altri personaggi l’autentico al di là e al di sotto della pelle splendida che lo ricopre*!. Ad un vero satirico l’autentico è degradazione, assenza di valori, corruzione e stravolgimento di rapporti. Se dunque il procedimento di demistificazione o, quale che sia, l'approccio satirico implicano una tendenza alla rappresentazione realistica, pare evidente che la satira e in particolare la satira menippea per la sua problematicità, disponibilità e molteplicità istituzionale fosse luogo dove di preferenza una narrazione orientata alla rappresentazione realistica in senso lukacsiano di una società problematica si potesse perseguire e conseguire. Per questo segna una stazione di importanza preminente ed essenziale nella storia della critica della narrativa classica l’esito degli studi, delle analisi, delle riflessioni del Ciaffi sul Satyricon, quale egli espone nella magistrale e davvero fondamentale Introduzione alla sua traduzione del Satyricon pubblicata nel 1967, p. XXVI: «II romanzo storico, in senso lukacsiano, nasce con Petronio»; p. XXVII: «Nasceva così il romanzo come genere aperto. Non per nulla il terreno di Petronio era quello della satira menippea, sensibile più di ogni altra a suggestioni letterarie diverse. Se non che nella menippea di Petronio una delle componenti in gioco era il romanzo tradizionale, per cui, su quel terreno aperto, era proprio il romanzo, il racconto continuato che per la prima volta si apriva alla dialettica degli stili»4. Questa si compone dello 40 V_ nota 6. 41 Cfr. Hor. sat. 2.1, 63-65: (...): est Lucilius ausus / primus (...) / detrahere et pellem,
nitidus qua quisque per ora | cederet, introrsum turpis. 42 Nella già citata Introduzione, XXVII, il Ciaffi manifesta l'opinione che «la fioritura» del romanzo greco d’amore e d’avventure, che passim definisce «tradizionale», «se Petronio va collocato, come sembra, nella prima metà del 1° secolo d. C., era allora già iniziata da un pezzo e con gli stessi caratteri che avrebbe in seguito avuto», tali e tanti «sono i rapporti tra Petronio e quelle opere». Lo stato attuale delle conoscenze suggerisce per la narrativa una cronologia che colloca al principio del 1° secolo a. C. Aristide autore delle fabulae Milesiae, subito dopo la versione o rielaborazione latina di Sisenna, sempre nel 1° secolo a. C. il romanzo di Nino e le Menippeae di Varrone, delle quali, come nota il Ciaffi, op. cit. X, «alcune ebbero bisogno di articolarsi in più libri, mentre di altre così rilevante è il numero dei frammenti sino a noi pervenuti e così varia e intricata la materia»; nel 1° secolo d. C. Seneca (Apocolocyntosis), Petronio, Caritone; nel 2° secolo Apuleio, Giamblico, Achille Tazio, Longo Sofista; nel 3° Senofonte di Efeso ed Eliodoro. Sicché a nostra scienza Petronio poté conoscere Aristide, Sisenna, Varrone e il romanzo di Nino; non è escluso
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stile del romanzo che il Ciaffì chiama tradizionale, che è il romanzo d’amore
e d’avventura, e dello stile del mimo, nel quale «la lingua è misurata sulla classe o la professione di ognuno» (ibidem, p. XXVIII). Sicché la mistione e l’incontro degli stili rappresenta la dialettica dei tipi rappresentativi: infatti «Petronio guarda al romanzo greco, ma come a un documento di costume»;
i
personaggi colti, che pensano, parlano e agiscono secondo stile e modi del romanzo sono «gente senza una professione, senza un passato, che a caso si aggruppa e a caso si divide, disposta sempre a nuove esperienze, ma destinata quasi sempre a nuovi fallimenti». Comportamenti, tecniche narrative, lingua del romanzo idealistico caratterizzano di volta in volta, con effetto parodistico, i personaggi colti, «un certo ambiente sociale che ha perduto il contatto con la realtà». Ma mistione e dialettica degli stili producono non solo la forma aperta della narrativa, ma anche una struttura idonea alla rappresentazione realistica; infatti «agli eroi da romanzo, trattati parodisticamente nello stile del loro genere, si contrappongono i personaggi della realtà più umile, che appartengono invece a uno spazio e a un tempo determinato» (ibidem, p, XXVIII) (non a un genere letterario), che è quello della «realtà quotidiana che, per essere tale e giustificare al confronto» (con l’irreale romanzesco) «la sua forza d’urto» (con la quale dunque dimostra appunto l’irrealtà, ovvero la mistificazione del personaggio che si comporta come se fosse in un romanzo) «ha bisogno di uno stile particolare, che è quello, si capisce, delle forme più popolari della cultura: del mimo soprattutto, colla sua precisione nel localizzare la scena e la sua lingua misurata sulla classe e la professione di ognuno». La forma aperta consente attraverso la mistione degli stili la rappresentazione realistica di due strati culturali e sociali e dei rapporti problematici che tra quelli corrono a livello di individui. Anche questo è parte della struttura del romanzo realistico quale descritta da Lukàcs. Peraltro non solo questa nascita del romanzo storico in senso lukacsiano, come si premura di aggiungere il Ciaffì (ibidem, p. XXVI), «ha del casuale», ma il realismo del racconto vi ha caratteri che la letteratura moderna non conosce più o comunque integra con altri sentiti come più corrispondenti al no-
che circolasse altra produzione appartenente al genere del romanzo di evasione (Amore e avventure), della quale tuttavia non è giunta alcuna notizia. L’esistenza di tale produzione, secondo il Ciaffi, è implicata dalla costatazione che nel Satyricon, scritto al più presto nella prima metà del 1° secolo d. C., appaiono in parodia parecchi temi ed elementi propri del posteriore romanzo d’avventure e d’amore; tali temi ed elementi Petronio usa, secondo il Ciaffi, per la stilizzazione letteraria del comportamento psichico e verbale delle persone colte: «Lo stile di quel romanzo, la sua lingua urbana, il suo idealismo di maniera gli servono a caratterizzare un certo ambiente sociale che ha perduto il contatto con la realtà. Dei suoi personaggi sono quelli colti, ma sradicati dal loro terreno d’origine, Encolpio in testa (...) che ubbidiscono alle regole del genere» (XXVII, Int. cit.).
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stro gusto critico: «come romanzo, il Satyricon è scarsamente moderno. Li dentro le avventure non sono molte, né si sviluppano da un intrico: d’altro canto l’indugiare sulla pagina — a tratti persino ossessivo: la Cena — è più in senso fisico che spirituale. I personaggi non pensano, non si ascoltano vivere: o parlano ad alta voce o gestiscono. È un mondo, il loro, tutto esterno, fatto di suoni e di movimenti: e ci riporta proprio in questo alla realtà viva, quale possiamo vederla da una finestra o riprodotta sulla scena dall’ attore»*. Ma già quel rinvio alla realtà rappresentata nel Satyricon come sopra una scena implica il confronto della lingua dei liberti con quella del mimo: a personaggi indocti si attaglia il sermo humilis, ma nella stilizzazione, teatrale più che letteraria, del mimo“. Riguardo al fine del Satyricon o alla funzione cui esso complessivamente assolve, già nel 1951 il Ciaffì rifiutava, direi prima di tutto per ragioni di intelligenza e sensibilità artistiche, l’interpretazione corriva e banalizzante che attribuisce al Satyricon un intento parodistico verso i liberti e gli arricchiti o che, addirittura, riconosce in Trimalcione la caricatura di Nerone: «Inutile di-
re che tutto questo ha del cliché: come ridurre alle Historiae e agli Annales la vita del primo secolo nel suo complesso, immaginandola in ogni parte ’politica’, tutta ribellione o debolezza» (p. 14): definendo fin d’allora la direzione dell’indagine: «Chi esce beffato dal gioco prospettico (dei continui passaggi dal mondo degli incolti a quello dei colti e viceversa) non è l’uomo volgare, ma l’altro: quello che in un istintivo paragone tra parti in prosa e parti in verso rivela al raffronto più pulizia d’abito, ma sangue meno rosso e gagliardo 43 Inizia così l’introduzione del Ciaffi alla sua prima versione del Satyricon, pubblicata a Torino nel 1951. 4 Così nell’Introduzione alla versione del 1967, XXVIII, mentre in quella del 1951, 9, il rimando, ma non per la lingua, bensì per la tecnica rappresentativa indica accanto a! mimo anche l’atellana (ibidem, 9); per la lingua nel 1951 il Ciaffi riconosceva nel sermo posto da Petronio in bocca agli indocti «una lingua letteraria più conservativa forse della letteraria vera e propria, anche se per la mancanza di termini di confronto può dare l’impressione di una maggiore immediatezza: la lingua della cultura popolare, carica di una sua sapienza di secoli, in parte comune in parte distinta pure essa dalla lingua del mercato e del porto» (ibidem, 12). Questa idea di lingua della cultura popolare, della quale altre testimonianze non si trovano, è scomparsa nella /Intr. del 1967, dove, XLVIs, la situazione della lingua e dello stile dei Satyricon è cosi analizzata: «La sfera linguistica del Satyricon è quella affettiva, che nei suoi componenti variamente graduati di lingua espressiva e di lingua dell’uso tende a risolversi in comunicazione orale piuttosto che scritta o in comunicazione scritta di interesse immediato e pratico». «(...) i due mondi linguistici, che sono insieme culturali e sociali (dei colti e degli incolti), restano sostanzialmente diversi. E il significato realistico del Satyricon è proprio nel contrasto tra quei due mondi». È ovvio quindi che la mistione degli stili e degli strati linguistici assolve ad una funzione specificamente realistica, rappresentando a livello di personaggio e di individuo caratteri tipici di mondi culturali e sociali divergenti e talora opposti in un urto di incomunicabilità.
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nelle vene» (p. 11), che nel 1967 era pervenuta ad una illuminante e definitiva
sistemazione: «Ma più che letterario il problema fu morale. In Petronio, uomo di gusto ancor classico, ma tutt’altro che cieco nel suo conservatorismo, non c’è crisi soltanto, ma coscienza della crisi. Di quei due mondi a fronte, il suo e il rovescio del suo, egli ha soppesato le forze. Può avere delle nostalgie per il passato, come dimostrano, in un gioco tutto nuovo di contrappunti, gli squarci in versi della sua opera, e più ancora, per bocca di questo o di quel personaggio, le sue proteste contro i vizi dell’eloquenza e la corruzione delle arti. Ma sa bene che quel passato non è più. Può per converso sentire ripugnanza per le nuove superstizioni o le smanie degli arricchiti. Ma sa bene che in tanta volgarità c’è un lievito oscuro di vita» (pp. XX VIII-XIX): conclusione di un vigoroso e rigoroso approfondimento scientifico, fondato sul profìcuo uso dei già menzionati contributi critici alla teoria della letteratura di Lukàcs, che si può forse riassumere in un paio di discorsi: «nel Satyricon c’è una dialettica di personaggi, che è una dialettica reale di culture: i fallimenti di Encolpio e compagni, precipitati dalla scuola nel sottosuolo del mondo antico e incapaci di reagire alle esigenze di vita prepotenti e sanguigne che vi stanno germinando, sono in concreto i fallimenti di quel metodo di insegnamento retorico e di quelle regole ormai vuote, dove, per altro verso, l’astuzia
crudele dei più umili o a tratti la loro innegabile saggezza tradiscono il lievitare di una forza in tutto diversa dall’antica,
ancora
oscura e indecisa, ma
potenzialmente già vittoriosa» (p. XLIV), cui, mi pare, logicamente segue l’interpretazione o spiegazione a livello sociale-economico: «(...) il realismo di Petronio, in senso sociale ed economico, ha (...) una carica dinamica ben
più forte di quanto l’ Auerbach ammetta: nel Satyricon e in particolare nella . Cena di Trimalcione (...) v'è una presa di coscienza problematica delle forze in gioco, come dimostrano, a guardare più in là della cena o a interpretare la presunta
comicità
in funzione
del significato
dialettico
dell’insieme,
certi
aspetti tipici del 1° secolo d. C., quali il livellamento delle classi, con il decadere dopo le guerre civili dell’antica aristocrazia del sangue o del censo, e l’insorgere per converso di un ceto tutto nuovo di procuratori imperiali e di liberti operosi, e il formarsi sulle piccole proprietà terriere di latifondi smisurati e in certo modo autonomi, in Africa soprattutto, e la progressiva industrializzazione, con le inevitabili scosse legate al fenomeno, della zona per l'appunto in cui il romanzo in gran parte si svolge, la Campania» (pp. XLVII-XLIX). Il primo risultato dunque dello studio e della frequentazione del testo del Satyricon, iniziati, com'è ovvio, prima del 1951, apparve in occasione della pubblicazione della traduzione del 1951; seguirono, a testimoniare la conti-
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nuità di quel rapporto, un articolo e un saggio, pubblicati nel 1955“. Il primo, attraverso un'analisi della trama e dei comportamenti dei personaggi, quali dall’esterno e dall’interno appaiono rappresentati nei discorsi che fanno, riesce ad una descrizione dei tipi, che in quei personaggi si traducono; il significato complessivo degli interventi che seguono all’uscita di scena di Trimalcione è cosi riassunto dal Ciaffì: «(...) gli uomini del popolino, ignorati per lo più in ogni tempo dalla letteratura ufficiale, eppure nella loro incolta franchezza testimoni quanto mai attendibili della vita e dei suoi problemi, uscito il loro padrone e con lui l’interesse più vivo dell’autore, si affacciano alla ribalta e libertatem nacti parlano finalmente a modo loro. (...) da quel parlare in libertà non procede il caos, ma i discorsi, all’apparenza slegati, si accordano invece per linee interne, sì che ne nasce il senso di una società che a poco a poco si risveglia dal letargo cui è stata dannata ed acquista coscienza di sé e dei suoi problemi» (pp. 113-114). Dove direi che la specificità letteraria è toccata là dove i personaggi «libertatem nacti parlano finalmente a modo loro. (...) da quel parlare in libertà ecc.»; infatti sono qui integrati tre elementi strutturali: il passato e sostrato servile, soprattutto con i condizionamenti psichici che esso implica, la presente situazione e posizione di liberti mercanti e affaristi, infine la lingua, dove «è la quantità dei solecismi che diventa un segno di scelta e in ciò di qualità», per cui l’accumulazione dei solecismi caratterizza i personaggi in quanto essi hanno, al di là del sostrato, di istintuale. A questo articolo, che segnò un rilevante progresso verso lo studio della specificità letteraria del realismo del Satyricon, seguì nel medesimo 1955 il
saggio, di quasi 150 pagine, sulla «Struttura del Satyricon»; vi è indagata la forma del racconto,
non tanto la serie naturale dei fatti o fabula, quanto la
funzione che ai singoli fatti e alla loro successione attribuisce l’ordine nel quale sono disposti: quindi, appunto, la struttura; che il Ciaffì descrive come un labirinto che conduce i personaggi, attraverso un complesso congegno di trappole, al punto di partenza. Trappola è per esempio la nave di Lica, dove Eumolpo, Encolpio e Gitone riparano in fuga, come sicuro mezzo di salvezza, che in realtà li fa ritrovare in una situazione dalla quale altra volta erano fuggiti: Gitone insidiato da Trifena, Encolpio da Lica: trappola dunque come elemento strumentale ma decisivo del meccanismo, che riconduce al punto di partenza; altrove e in generale trappola perché appare come una via di scampo da un pericolo imminente rivelandosi, quando il personaggio vi si inoltra, 45 Intermezzo nella «Cena» petroniana (41, 10-46, 8), «Rivista di Filologia e d’Istruzione classica» 83, 1955, 113-145, e Struttura del Satyricon, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università di Torino, vol. VIII fasc. 1, Torino 1955, 141.
46 Introduzione cit., XLVII.
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come una situazione o minacciosa o foriera di pericoli non meno di quella dalla quale il personaggio fuggiva: «in realtà tutta la cena (...) è costruita come una grande trappola, che ha la sua esca nella possibilità per i personaggi di scampare al pericolo di Quartilla. (...) Ma che si tratti lì dentro (nella casa di Trimalcione) di prigionia o di labirinto è solo sulla fine che lo avvertiamo, quando il tentativo di fuga fallisce e riaffiora il tema della speranza delusa». Vittime delle trappole e dei labirinti sono sempre gli scholastici, i colti, i quali appunto vi concludono puntualmente avventure e tentativi, inetti come sono a decifrare la lingua delle cose e i segni degli uomini, capaci solo di manipolare parole: «Gli scacchi di Eumolpo e compagni (...) hanno un significato generale ed eterno, che coinvolge la condizione stessa dell’uomo (...). Ma tali scacchi corrispondono pure, com’é del realismo in ogni tempo, a una determinata situazione storica e ambientale», che il Ciaffì allora era propenso a riconoscere nella crisi della scuola e della cultura scolastica: «il significato ultimo di tutto il racconto vuole essere una polemica contro i metodi correnti di insegnamento, per cui i giovani una volta usciti dagli schemi astratti della cultura scolastica, si tratti da parte loro di ribellione e di fuga, o semplicemente di studi condotti a termine, si trovano delati in alium orbem o ’sbalestrati in un altro pianeta’ come dice sempre Encolpio a I, 2, e finiscono
fatalmente per la loro ingenuità e inesperienza col cadere da una trappola in un’altra»*; una interpretazione parziale e incompleta, tuttavia già orientata verso la conclusione che la struttura del Satyricon rispecchia la crisi o addirittura l’inizio della fine della cultura classica, cui viene mancando il sentimento della realtà e la capacità di provvedere l’uomo di schemi operativi®. Secondo il Ciaffi dunque il Satyricon di Petronio trova il suo precedente proprio nelle Menippeae di Varrone, con le quali condivide l’alto numero di libri, la varietà dei temi e la volontà parodistica. Come è nella tradizione dei
satirici, Lucilio Varrone Orazio, anche Petronio si concesse uno o più spazi autobiografici: l’ultima satura o liber fu il componimento che Tacito (ann. 16, 18-19) chiama codicilli, dove la narrazione parodistica dei flagitia principis procede fino alla morte dell’autore, culminando nella dimostrazione per 47 Introduzione cit., XXXI. 48 Introduzione cit., XXXII. 49 Struttura ecc. cit., 78-79; cfr. 134: «(...) stabilire un rapporto più largo col mondo. un’aspetto della loro condizione: sradicati dal climatarsi al nuovo ambiente, non possono che
non hanno la forza di rompere l’incanto e di In questo senso la camera è in concreto
terreno d’origine, ma incapaci tuttavia di acrinchiudersi tra quattro mura o in se stessi».
°° Già nel 1951 (Intr. cit. alla prima edizione della versione, p. 10) il Ciaffi scriveva che Petronio scoprì «che la cultura tradizionale e codificata (...) si è ormai esaurita: e che
occorre affrontare una materia nuova, nuova lingua e nuovo ambiente, se non si vuole cadere in un frigido neo-classicismo».
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mezzo della rottura della trulla myrrhina 0 poculum murrinum, della impos-
sibilita di Nerone, che tale tazza desiderava e avrebbe ereditato, di adeguarsi ad uno stile di vita, (elegantia) del quale anche nel tempo estremo Petronio si rivelava maestro
(arbiter). Dei codicilli questa, che sarebbe in tale ipotesi
l’ultima satura della raccolta, composta di almeno 16 libri, fu parodia, non solo perché Petronio vi narrò, come attesta Tacito, i flagitia del principe, ma anche perché, coerentemente con la tradizione satirica, vi appariva dominante l’elemento biografico, con «la descrizione dei preparativi per il suicidio e il congedo estremo dagli amici e dal tiranno», nonché con il diseredamento di Nerone mediante la distruzione della preziosa tazza.
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“BIONEIS SERMONIBUS ET SALE NIGRO”
Michail Bachtin' scriveva nel 1938: “La realtà contemporanea, il ‘basso’ presente fluente e transeunte, questa ‘vita senza inizio e senza fine’ è stata oggetto di raffigurazione soltanto nei generi letterari bassi. Ma prima di tutto essa era oggetto principale di raffigurazione nella sfera vastissima e ricchissima della creazione comica popolare. È proprio qui — nel riso popolare che vanno cercate le vere radici folcloristiche del romanzo. Il presente, l’età contemporanea come tale, |’“io in persona” e i ‘miei contemporanei” e il ‘mio tempo’ erano in origine oggetto di riso ambivalente, allegro e distruttivo contemporaneamente. Proprio qui si va formando un atteggiamento radicalmente nuovo verso la lingua, verso la parola. Accanto alla raffigurazione diretta — derisione della viva età contemporanea — qui rifioriscono la parodia e il travestimento di tutti i generi letterari alti e delle immagini alte del mito nazionale, il ‘passato assoluto’ degli dei, dei semidei e degli eroi qui — nelle parodie e in particolare nei travestimenti — si ‘contemporaneizza’: è abbassato, raffigurato al livello dell’età contemporanea, nell’ambiente quotidiano di questa, nel suo linguaggio basso”. “Da questo elemento del riso popolare sul terreno classico cresce direttamente una sfera alquanto vasta e varia di letteratura che gli antichi chiamavano in modo espressivo ortovdoyéXotrov, cioè la sfera del ‘serio-comico’ ”. Tra i generi letterari nei quali nella letteratura greca e latina si realizzò lo orovdoyéXorov vi fu, accanto alla diatriba o — si dice — in dipendenza, almeno parziale, da essa, la satira; ma ricordiamo che Quintiliano’, che cono-
sceva, credo, di prima mano la letteratura latina, ci ha lasciato quella sua famosa dichiarazone, forse consumata in passato da un uso retorico, satura tota nostra est; e la satira fu, come scrissi nel 1968 e 1970, dopo studi condotti, credo, con senso e comprensione del fatto letterario sui testi e sul loro
funzionamento, un genere contenuto “tutto ben dentro al concreto terreno della cronaca e della storia”? e (la satira) “visse nella storia, per la storia e
per la cronaca”.
” Prosimetrum e spudogeloion, Genova 1982, 55-61. ! M. Bachtin, Estetica e romanzo, Torino 1979, 407-495; ma vedi Problemi di teoria del romanzo, Torino 1976, 179-221 e Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino 1968, 138-179.
? Quintil. 10.1.93. 3 A. Pennacini,
Funzioni della rappresentazione del reale nella satira di Lucilio, “Atti dell’ Accademia delle Scienze di Torino”, Torino 1968, 358. 4 A. Pennacini, J procedimenti stilistici nella I satira di Persio, “Atti dell’ Accademia delle Scienze di Torino”, Torino 1968, 140.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Sottolinea Bachtin° che i generi del serio-comico pur con tutta la loro esteriore varietà sono uniti “da un profondo legame con il folclore carnevalesco e tutti permeati, in vario grado, da uno specifico sentimento carnevalesco del mondo: alcuni di essi sono direttamente varianti letterarie dei generi orali folcloristici-carnevaleschi”. Il Gentili, che nel 1976 e recentissimamente ha studiato il tema e sviluppato interessanti riflessioni, osserva? che “l’oggetto della rappresentazione è il mondo contemporaneo, non il passato mitico e storico come nell’epica e nella tragedia, e il rapporto con la realtà contemporanea è sempre diretto, immediato, provocatorio, non privo talora di una certa voluta grossolanità e villa-
nia di modi espressivi”; che “questo carattere pubblicistico, diremmo oggi giornalistico, di attualità, nasce sempre dalla libera esperienza e da un libero atteggiamento critico, denigratorio, anticonformistico verso i dati della cultura tradizionale”; infine, aggiungo, questo carattere ora descritto si realizza nel testo letterario mediante procedimenti di rottura diretti a recuperare l’autentico impedendo l’assunzione automatizzata del testo e rompendo gli irrigidimenti e le incrostazioni del linguaggio codificato. Ancora di recente, come prima accennavo,
il Gentili” ha attribuito al biasimo, di cui parla Ari-
stotele nella Poetica, il campo semantico dell’intera dimensione del seriocomico “nel senso che questo termine ha assunto nella teoria del testo letterario di Bachtin”; vi ha inoltre aggiunto la menzione di Eveno di Paro (floruit
450 a.C.), di cui fa cenno Platone’, sul tagérarvog e tagdpoyog (che traduce paralode e parabiasimo), che designano, secondo la spiegazione di Ermia'’, lode e biasimo indiretti: “si tratta di due forme di discorso nelle quali la
lode e il biasimo non sono svolti in forma diretta, ma attraverso alcuni espedienti retorici, quali la persona loquens" o la formulazione di un aforisma o di una sentenza a carattere gnomico”. Lode e biasimo indiretti sono appunto procedimenti nei quali si realizza il serio-comico: biasimare o lodare non in maniera esplicita, ma implicita e indiretta, sono procedimenti analoghi alle enunciazioni di affermazioni o verità gravi e serie mediante espressioni comiche: dir cose serie comicamente. Molte osservazioni di ogni genere ha fatto Lawrence Giangrande nelle 139 pagine del suo studio sull’uso dello omovdaoyéAotov nella letteratura greca ° M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino 1968, 140.
° B. Gentili, Storia della letteratura latina, Bari 1976, 136. 7B. Gentili, Biasimo e lode, in corso di stampa: ho consultato il dattiloscritto per cortesia dell’ Autore. 8 Aristot. Poetica 1448 b 25.
? Plat. Phaedr. 267 a. 0 Tn Plat. Phaedr. 267 a, p. 238, 7 Couvreur.
!! Aristot. Rhet. 1418 b 23.
“BIONEIS SERMONIBUS
ET SALE NIGRO”
Si
e romana”. Mi provo a tradurre un paio di definizioni di orovdaroyéXotov suggerite dal Giangrande: a pp. 8-9 “Qualora vi sia uno squilibrio — una tensione tra elementi incompatibili — sia essa fisica, mentale, morale o sociale, e il disordine sia di natura inoffensiva, abbiamo la commedia, un tenta-
tivo di restaurare l’ordine nel conflitto tra ragione ed emozione. Qualora, d’altra parte, il disordine che minaccia sia pericoloso, abbiamo la tragedia. Se l’equilibrio è restaurato in questo disordine corporale, mentale, spirituale o del comportamento, il riequilibramento risultante o l’armonia conseguita è nella natura del piacere contemplativo, che è il fine dell’arte. Un metodo artistico (artificiale) di ripristinare questo equilibrio passa attraverso il metodo stilistico dello ortovdaroyéXorov, che combina il serio e il comico in una consonanza che ci consente di ridere delle incongruenze morali della vita ecc. ecc.”. Oppure, a p. 122: “onovdaroyéAovov è un metodo stilistico usato per restaurare il disordine del corpo, della mente, dello spirito o dei comportamenti, con il proposito di conseguire l’armonia della contemplazione che è il fine dell’arte ecc. ecc.”. Vale forse la pena di aggiungere che uno dei procedimenti usati nella diatriba, sia pure annotando l’opinione del Kindstrand", secondo il quale non è mai esistito un genere letterario chiamato diatriba, con l’osservazione che tuttavia gli anop0éyuata venivano costruiti, per gli scopi demistificatori cui di solito erano diretti, seguendo certi procedimenti stilistici e letterari, e nella satira per dire comicamente cose serie è lo straniamento. Secondo le osservazioni sviluppate da Aristotele nel capitolo 22 della Poetica lo straniamento si realizza con l’impiego o della metafora o comunque di qualsiasi vocabolo usato impropriamente. Il fine dello straniamento — ce l’ha è di comunicare o consentire la percezione mostrato Sklovskij — dell’autentico. Confronterò ora i procedimenti letterari di Bione di Boristene con quelli di Lucilio; del resto la dipendenza di questo da quello fu già osservata nel tardo antico dallo pseudo Acrone e da Porfirione: lividis et amaris iocis, idest satyra. Sunt autem disputationes Bionis philosophi, quibus stultitiam vulgi ar-
guit, cui paene consentiunt carmina Luciliana". La mia attenzione e, prego, quella degli uditori verterà appunto sul proce-
dimento stilistico-letterario, non sulla topica; il Kindstrand! annota che la possibile influenza di Bione su Lucilio è stata grossolanamente esagerata dal
1? L. Giangrande, The Use of Spoudaiogeloion in Greek and Roman Literature, L’ Aja-Parigi 10:72: !3 J.F. Kindstrand, Bion of Borysthenes, Uppsala 1976, 23. 4 ps. Acro, Scholia in Hor. vetustiora ad Ep. 2.2.60.
!5 JR. Kindstrand, op. cit., 157.
312
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Fiske!: “Non vi sono casi nei quali possa sicuramente accertarsi che Lucilio usi Bione, e le somiglianze che si trovano hanno carattere di vero e proprio luogo comune e non provano una relazione stretta”. Ma questa riflessione si riferisce ai temi; io vorrei considerare i procedimenti letterari 0, meglio, ciò che realmente fa della pagina o della riga un testo letterario. In un mio studio pubblicato, come si dice, nel ‘lontano’’ 1968!" condussi un’analisi
linguistica,
stilistica,
letteraria
di alcuni
frammenti
di Lucilio,
portando, credo, alla luce la tecnica con la quale Lucilio demistifica e ricupera vocaboli e oggetti. Questa tecnica consiste nell’uso di elementi linguistici e stilistici non omogenei. Si tratta in concreto di strati linguistici: sermo vulgaris, castrensis, verba cuiusque artis ac negotii propria, dialettismi, lingua illustre (letteraria, politica, religiosa), e di stili: alto (epico, tragico), medio
(comico, della conversazione colta), umile (affettivo, popolaresco). La disomogeneità può essere controllata solo sulle testimonianze. L’uso simultaneo (in un medesimo contesto) di strati linguistici e di stili diversi dà luogo al procedimento di rottura, i cui effetti stranianti investono lingua e stile, ma anche, e con efficacia notevole, l’area dei significati 0, se si vuole, dei valori.
Vocaboli e oggetti, come si diceva nel 1968, vengono demistificati: viene rotto l’involucro fittizio e mistificato nel quale vocabolo e oggetto giacciono; rimosse le incrostazioni di qualsiasi origine che ne alterano e deformano l’aspetto, il vocabolo appare nella sua realtà storicamente autentica, per quel che significa e vale in quel momento e in quel luogo. Il procedimento di rottura quindi, con l’effetto straniante che produce, svolge la funzione di rimuovere i filtri culturali — quali che siano le origini, i fini, i significati — che deformano la conoscenza attuale dell’oggetto. Nel procedimento di rottura usato da Lucilio occupa un suo posto, com'è logico, l’attesa frustrata: si tratta ancora di una rottura, ma questa volta è la rottura di un sistema: del sistema costituito dalla sequenza di vocaboli precedente al vocabolo disomogeneo. Ecco dunque che il procedimento di rottura si manifesta al lettore nell’apparizione dell’inaspettato, che appunto frustra l’attesa: alterando — straniando — con le connotazioni poste in essere dal contesto la sfera semantica del vocabolo l’inopinatum fornisce al lettore o uditore la via per la percezione dell’autentico referente di cui è latore il vocabolo.
Nel frammento 66 Kindstrand di Bione EùxoAov tiv sic “Ardov 686v: xatauvovtag yoùv dtiévai la disomogeneità non deriva da procedimento di rottura realizzato da mistione di linguaggi e di stili, bensì dall’antitesi semantica tra edxoXov (idea di agevolezza, di facilità) e il resto della frase dove si !© G.C. Fiske, Lucilius and Horace: A Study in theClassical Theory of Imitation, Madison 1920, 178. !7 Vedi nota 3.
“BIONEIS SERMONIBUS
ET SALE NIGRO”
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descrivono pur sommariamente i morti che discendono per la via che conduce al regno di Ade. Di uverv (“chiudere gli occhi”, “addormentarsi”, “sonnecchiare”’) è attestato nel 3 secolo a.C. l’uso come metafora eufemistica ormai lessicalizzata (“chiudere gli occhi”, “spegnersi”, “scomparire”) per
morire!. Sicché eÙxoAov connota e provoca lo straniamento di xatapvovtac, sollecitando il lettore o uditore a ricuperarne il significato proprio, estraendo il vocabolo dalla metafora eufemistica e lessicalizzata. Dura la via della morte, difficile la via degli inferi: questa l’opinione comune, che la gente vuol attenuare, mascherare. Al contrario argomentava Bione: perché rappresentarci disagevole la via per l’ Ade, quando sappiamo che coloro che la percorrono hanno gli occhi chiusi? Una via destinata solo a siffatti viaggiatori è certamente facile e comoda. Lo stesso pensiero ricompare in un passaggio di Leonida di Taranto, conservato in forma di excerptum da Giovanni Stobeo!; qui la descrizione della via dell’ Ade è assai più ricca di dettagli, tanto che, confrontata con il conciso e secco apoftegma riferito da Diogene Laerzio, suggerisce che Leonida abbia attinto direttamente da Bione ritenendone alcunché dello stile colorito e ridonante’. Nel frammento di Leonida il pensiero non è espresso in forma di ragionamento, ma il poeta dopo avere enumerato i difetti che la via non ha e i pregi che ha, conclude, affinché sia completamente chiaro e indubbio che essa
è agevole e facilissima e che non vi è alcun motivo per temerne, che €x ueuvxotTov 6devtar. Per Bione e Leonida dunque i morti sono “coloro che hanno gli occhi chiusi”. Ambedue gli scrittori tuttavia richiamano l’attenzione dei lettori sul significato proprio e originario del vocabolo, quasi invitandoli a rappresentarsi la teoria dei morti che “con gli occhi chiusi” discende pur agevolmente la via dell’ Ade. Bione e Leonida, in sostanza, intendono il vocabolo fuori e addirittura “contro” — se così posso dire — la metafora. Non avrebbero potuto valersi di tale procedimento se la metafora eufemistica non fosse stata di uso comune. Lo straniamento prodotto dal ricupero della funzione descrittiva propria del vocabolo appare più intenso ove si noti che una condizione propria dei corpi senza vita — gli occhi chiusi — viene attribuita alle ombre. La cosa seria è la morte; e seria è anche la facilità della morte, la facilità
con cui moriamo. La cosa comica, con la quale Bione ci mostra che è facile
18 Usata da Leonida di Taranto, vedi lohann. Stobaeus, Florilegium, Laus mortis, 120.9.4; cfr The Greek Anthology: Hellenistic Epigrams, ed. by A.S F. Gow & D.L. Page, vol. 1., Cambridge University Press, Cambridge 1965: Leonidas of Tarentum LXXIX, p. 1333
!° Vedi nota 18.
20 J.F. Kindstrand, op. cit., T11, T12, T13, p. 108.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
morire, è la considerazione che i morti hanno gli occhi chiusi. Come dicesse: è tanto facile morire, che si muore ad occhi chiusi. Anche noi in italiano, per sottolineare la facilità di una operazione, diciamo: “si fa anche ad occhi chiusi” o addirittura “dormendo”. Sempre trattando della funzione del serio-comico scriveva Bachtin che ‘il riso distrugge la paura’; mi permetto di aggiungere: la paura della conoscenza e dell’esperienza; lo straniamento, e qui certamente mi ripeto, oltre a sorprendere, commuovere ed eventualmente provocare il riso, agevola appunto la conoscenza seria e autentica della realtà.
ELOQUENZA DELL’ IMPERATORE E PROSA DEI DOTTI NELLA DOTTRINA DI FRONTONE" A Roma nel 139 d.C. il professore di retorica Marco Cornelio Frontone, allora intorno ai 35 anni d’età, scrive al suo scolaro Marc’ Aurelio, diciottenne, commentando il discorso da lui tenuto per ringraziare l’imperatore e padre adottivo Antonino Pio e il senato per il conferimento del titolo di Cesare: “Anche tu, quando dovesti parlare in senato o nell’assemblea del popolo, non usasti nessun vocabolo insolito, nessuna figura oscura o inconsueta, poiché tu sai che l’eloquenza di Cesare deve somigliare alla tromba, non al flauto, che ha un suono minore e presenta maggiore difficoltà”!. Ho studiato in altra occasione questo passo dal punto di vista della teoria della prosa’; tenterò qui di ricavarne delle indicazioni sulla interpretazione che |’ Autore vi da dei rapporti tra retorica, potere e classi sociali. In esso Frontone approva la decisione di Marc’ Aurelio di non impiegare “parole insolite” né “figure oscure o inconsuete” in discorsi da tenere in senato o nell’assemblea del popolo. Le parole insolite sono arcaismi e neologismi. In relazione a questa decisione non importa il genere del discorso (potrebbe essere deliberativo) e nemmeno il genere dello stile. Conta qui il criterio della convenienza o decorum in rapporto sia alle persone che ascoltano sia alla persona che parla; anzi il criterio decisivo qui è proprio la considerazione della persona che parla o della parte che l’oratore impersona: da tale considerazione discendono delle conseguenze a livello di stile che Frontone esprime con il paragone della tromba: eloquentiam Caesaris tubae similem esse de-
bere, non tibiarum’. Vi è dunque un’eloquenza imperiale, propria e caratteristica del principe; d’altra parte l’imperatore deve essere oratore; o, addirittura, all’imperatore precipuamente e a preferenza di ogni altro tocca di essere oratore*. A ” Retorica e classi sociali. Atti del IX Convegno interuniversitario di studi: Bressanone 1981, Padova 1983, pp. 31-38. ' M. C. Frontonis Epistularum libri, ed. M. P. J. Van den Hout, Leida 1954; le traduzioni,
salvo lievi ritocchi, sono di F. Portalupi, Opere di M. C. F., Torino 1974: idem tu, quom in senatu vel in contione populi dicendum fuit, nullo verbo remotiore usus es, nulla figura obscura aut insolenti; ut qui scias eloquentiam Caesaris tubae similem esse debere, non tibiarum, in quibus
minus est soni, plus difficultatis; p. 36, 5-9. 2 V. A. Pennacini, La funzione dell’arcaismo e del neologismo nelle teorie della prosa da Cornificio a Frontone, Torino 1974. > Sulla tromba e sul flauto, sulle loro caratteristiche e sulla loro contrapposizione, v. J. Vahlen, Bemerkungen zum Ennius in Gesammelte Philologische Schriften, Hildesheim 1970. 4 Si veda quanto Frontone stesso scrive (ed. Van den Hout pp. 116-118 e 136): “Dunque, se cercate il vero imperatore del genere umano, troverete che è la vostra (la lettera è diretta all’imperatore Lucio Vero) eloquenza: essa regge e domina le menti. Essa incute il timore, concilia l’amore, suscita l’operosità, riduce al silenzio l’impudenza, esorta
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Marc’ Aurelio, destinato al principato, il dilemma “o filosofo o oratore” si pone nei termini, che Frontone avverte come storicamente veri, “o filosofo 0
Cesare”: “Cerca, o Cesare, di raggiungere la sapienza di Cleante o di Zenone, pur contro voglia dovrai tuttavia vestire il manto di porpora, non quello di lana grezza”. Chi non è oratore non può esercitare la politica; il solo vero e
autentico politico è il principe: il solo vero e autentico oratore è il principe. L’opposizione tra filosofia ed eloquenza è istituita al livello pit alto e più significativo; i compiti che Frontone considera caratteristici del principe possono essere assolti solo da chi possieda ed eserciti l’arte retorica; le funzioni
più importanti e decisive dell’imperatore si identificano con talune operazioni dell’eloquenza; in conclusione, è l’eloquenza del principe che esercita il potere imperiale. Un impiego metaforico di tuba? designa lo stile sublime in generale; più specificamente nel poema epico’ e nell’eloquenza*. Frontone stesso altrove? informa che l’eloquenza, che trova la sua sigla emblematica nella tuba, è dotata di potenza terribile; il senso della metafora è la forza e potenza del diSCOrso. Ma accanto a questa interpretazione, per cosî dire emozionale’’, ne è tramandata una tecnicistica, che collega la tuba alla trasmissione dei segnali militari, latori in un codice univoco e sempre proprio di informazioni e co-
la virtù, reprime i vizi, persuade, addolcisce, insegna, consola. Vi sfido infine con coraggio secondo la vecchia usanza: mettete da parte l’eloquenza e comandate; cessate dal pronun-
ziare orazioni in senato e sottomettete l’ Armenia”. soltanto il potere, ma anche un comando.
“La parola “impero” poi non esprime
Poiché la forza dell’autorità si esercita coman-
dando e vietando. Un comandante che non elogi ciò che è ben fatto, che non biasimi ciò che è mal fatto, che non esorti al valore, che non distolga dall’errore, vien meno al suo nome ed è chiamato a sproposito comandante”. “Spetta ai Cesari in effetti persuadere il senato di ciò che è conveniente, convocare il popolo in assemblea riguardo a una gran parte di affari, modificare una legge ingiusta, mandare continuamente lettere in ogni parte della terra, mettere alle strette i re delle nazioni straniere, reprimere le colpe degli alleati con editti, elogiare ciò che è stato fatto bene, placare i dissidenti, incutere timore agli arroganti. Tutte cose, non c’è dubbio, che si debbono fare a parole o con lettere”. ° Van den Hout, p. 138, 18-20: Fac te, Caesar, ad sapientiam Cleanthis aut Zenonis posse pertingere, ingratiis tamen tibi pallium erit sumendum, non pallium soloci lana. A ° V. Prudenzio, contra Symm. 2, 6, Sidonio, Epist. 4.3., 10. ? V. Marziale, Epigr. 8.3, 22; 8.56, 4; 10.64, 4; 11.3, 8; Claudiano, Jn Prob. et Olybr. cons.
197. È Marziano Capella 5.566.
? V. Van den Hout p. 143, 20-24. 10 Sul nesso linguistico e semantico tra tuba clangere e la paura, v. Valerio Flacco, 3, 348349 ter inhorruit aether luctificum clangente tuba; Stazio, Theb. 4.342 et iam horrida clangunt
signa tubae; cfr. F. Lammert, Tuba, in R.E. nel VII Al, pp. 749-752, che rimanda al fr. 140 Vahlen di Ennio At tuba terribili sonitu taratantara dixit. Si veda anche J. Vahlen, loc. cit.
ELOQUENZA DELL’ IMPERATORE
mandi;
la testimonianza
nell’ Epitoma
forse
E PROSA DEI DOTTI
piti evidente
di questa
TLT
interpretazione
è
rei militaris di Renato Vegezio (principio del sec. 5.)!!, dove è
detto che “segnali semivocali sono quelli che si danno con la tromba o il corno o la buccina (...); per mezzo di questi l’esercito viene a sapere da suoni inequivocabili se deve star fermo o avanzare o ritirarsi; se portare avanti l’inseguimento dei fuggitivi o ritornare alla base”. Mentre nei due luoghi già citati tuba è metafora diretta a suscitare un’ immagine di potenza e di forza per via delle connotazioni che dai contesti vi convergono, in un diverso contesto, per connotazioni diverse, il vocabolo assolve alla funzione di metafora diretta a suscitare l’immagine di una comunicazione univoca, propria, esplicita, nella quale vocaboli e strutture linguistiche di ogni livello si comportano come gli indubitati soni (suoni inequivocabili) della tuba che comunicano in un codice o cifrario noto a tutti gli utenti e garantito dalla tradizione e dall’autorità messaggi già conosciuti. Quindi tuba come immagine della potenza e della forza, ma principalmente con la funzione metaforica di descrivere un codice linguistico di segni (vocaboli e strutture) univoci e propri. Come alla minore potenza sonora del flauto corrisponde la terribile potenza della tromba, cosî alla maggiore difficoltà, che il flauto comporta, corrisponde la minore difficoltà della tromba. La minore difficoltà o la facilità della tromba può intendersi riferita alla decodificazione dei messaggi che essa comunica: si tratta della univocità e proprietà del codice dei segnali militari trasmessi per mezzo della tromba. Trasferita alla eloquenza dell’imperatore questa idea della minore difficoltà o della facilità si traduce nella descrizione per metafora di uno stile diretto ed esplicito, che per la sua organizzazione e per i mezzi linguistici e retorici che impiega offre all’uditore tutte le garanzie di una solida assenza di problematicità, di dubbi e di ambiguità, in una totale adesione ai comportamenti e ai principi del sistema vigente della lingua e dello stile: proprio come il codice dei segnali emessi dalla tromba, univoci, certi, garantiti per la corrispondenza con gesti determinati dalla tradizione e dall’autorità. Un tale stile assicura la facilità della ricezione della comunicazione (garantisce la comunicabilità) da parte dell’uditore o lettore: la comunicazione avviene in modo, per cosi dire, automatico, dal momento che il destinatario, come il soldato, conosce in precedenza ogni elemento del discorso e il suo significato. La richiesta di non allontanarsi nella scelta delle parole dal vocabolario dell’uso e di non introdurre nel discorso figure incomprensibili 0 !! R. Vegezio, Epitoma rei militaris 3.5 signa semivocalia (perché sono emessi dalla voce umana per mezzo di uno strumento a fiato) sunt quae per tubam aut cornu aut bucinam dantur (...) indubitatis per haec sonis agnoscit exercitus utrum stare vel progredi an certe regredi
oporteat, utrum longe persequi fugientes an receptui canere.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
insolite soddisfa all’esigenza di mantenere la scelta dei mezzi di comunicazione all’interno del sistema vigente della lingua e dello stile, sistema che la società del tempo accetta e nel quale si riconosce: dunque un’esigenza di con| servazione. Dentro a questo sistema la società trova tutti gli strumenti e i materiali per pensare e parlare: vale a dire, nulla sia introdotto nel discorso che non sia già inventariato, nulla che metta a prova l’efficienza e la sufficienza del sistema linguistico, nulla che provochi problemi di giudizio, di comprensione, di definizione, nulla che non si incontri con il criterio pertinente e idoneo a collo-
carlo al suo posto nella gerarchia dei concetti, dei valori, dei comportamenti. Tutti gli elementi devono essere attinti dal patrimonio noto, comune e approvato dalla società e dalla tradizione: ogni procedimento di organizzazione linguistica e stilistica deve già essere collaudato e conosciuto; qualsiasi argomento deve apparire in una struttura linguistica e stilistica atta a non suscitare problemi di identificazione, idonea a non scombiccherare la gerarchia
dei valori, anche se l’organizzazione dei temi del discorso perseguirà lo scopo di mostrare la preferibilità di un comportamento o di una interpretazione. L’assimilazione con il suono della tromba e la circostanza che il destinatario sia o il senato o la contio del popolo riunito in assemblea o dell’esercito implicano che non si tratta del genere deliberativo, ma di un discorso di un
genere, per cosi dire, imperatorio, con il quale non si aprono dibattiti né vi si partecipa, bensi, si persuade, si dimostra, si ammonisce, si corregge, si rimprovera, si minaccia. È l’eloquenza del potere, diretta ai sudditi.
Potenza terribile e comunicabilità cristallina sono i due elementi caratteri- . stici; la comparazione con il suono
dei flauti implica l’esistenza di un’altra
eloquenza, cui sono attribuiti altri elementi caratteristici: potenza minore e maggiore difficoltà di decodificazione. Questa dipende dalla presenza di parole insolite e di figure oscure e inconsuete: infatti da tali elementi di lingua e stile è prodotta l’oscurità che appunto rende inintellegibile o di difficile comprensione uno scritto o un discorso; ma la maggiore difficoltà riguarda anche la composizione, cioè l'impegno necessario per il reperimento di parole rare: “parole insperate e inattese si scoprono
solo con sommo
studio, attenzione,
sollecitudine e reminescenza degli antichi poeti”!*. S’intende che la minore potenza dell’eloquenza o prosa oratoria consente all’uditore o lettore di impegnare maggiore attenzione e applicazione nella decodificazione del messaggio, cioè consente allo scrittore di impiegare parole rare e procedimenti stilistici insoliti. Il confronto tra il suono della tromba e quello del flauto apre la questione se la maggiore difficoltà sia da collocarsi nella tecnica del suono o
12 V. Van den Hout, p. 57, 1-28.
ELOQUENZA DELL’ IMPERATORE
E PROSA DEI DOTTI
319
nella comprensione da parte dell’uditore: se, in sostanza, il giudizio implicito nel confronto di uno stile col suono della tromba, dell’altro con quello dei flauti, riguardi l’applicabilità della tecnica (più facile in un caso, pit difficile nell’altro) o la comunicazione (cioè la comprensione da parte dell’uditore).
In realtà le due possibili interpretazioni sono non tanto i corni di un dilemma, quanto due aspetti strutturalmente connessi e reciprocamente condizionati. Oltre alle connotazioni metaforiche esplicitamente dichiarate, pertinenti al sonus e alla difficultas, anche tibia, come tuba, comporta altre connotazioni, che per via di metafora contribuiscono a costruire una significativa descrizione di un genere di eloquenza diverso dall’eloquenza dell’imperatore o forse addirittura ad esso opposto. Particolarissimo interesse suscita l’attribuzione al flauto dei caratteri “patetico” e “orgiastico”!; quest’ultimo, designato anche “bacchico”, è in realtà sinonimo di “patetico” da un’angolazione specificamente religiosa!*; l’aspetto “patetico” è sufficientemente chiarito da Quintiliano!’, che, come Orazio!°, trasmette che al flauto va attribuito il potere di agere in insaniam (“far impazzire”), ma anche quello di contenere e sedare
l'eccitazione psichica e fisica. Tucidide!’ riportato da Gellio!*, trasmette che gli Spartani muovevano all’attacco lentamente al suono dei flauti; e che cosî facevano non per motivi religiosi, ma per avanzare ad andatura regolare, con uniformità e perché l’ordine dei reparti non si rompesse. Istituendo una distinzione per via di opposizione tra tromba e corno da una parte e flauto dall’altra, Gellio” fornisce una testimonianza vicina per il senso (del resto è anche coeva) al luogo di Frontone e perciò assai utile per migliorarne l’interpretazione. Infatti, come Frontone, anche Gellio oppone tromba a flauto, attibuendo poi a ciascun strumento una funzione opposta e divergente; la tromba (e il corno) assolvono alla funzione di eccitare e stimolare gli animi, il flauto al contrario li modera e li costringe in un ritmo o misura. Dunque: di fronte alla tromba, strumento produttore di eccitazione e di spavento, il flauto, strumento produttore di tranquillità e di piacere; ma anche: di fronte alla tromba, strumento di una comunicazione razionalizzata di informazioni già formulate in un cifrario certo e invariabile, un flauto stru13 V. Aristotele, Politica 1341-1342; Platone, Repubblica 399. '4 I] flauto è proprio dei riti della Magna Mater, cfr. Orazio, Odi, 3.19, 18-19; Idem, ibidem, 4.1, 22-24; Catullo, 63, 22; dei riti di Bacco, cfr. Virgilio, Eneide, 11.737.
!5 Quintiliano, 1.10, 32-33. 16 Orazio, Odi, 3.19, 18. !7 Tucidide, Storie, 5.70. 18 Aulo Gellio, Le notti attiche, 1.11, 1-5.
!° V. nota precedente.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
mento di espressione di stati psichici irriducibili ad uno schema razionale e comunque non razionalizzabili, almeno nello spazio della cultura classica, ma insieme, rigorosamente insieme, strumento per governare e contenere tali spazi psichici. È chiaro a questo punto che l’eloquenza simile al suono del flauto si propone, per dirla in breve, di offrire i mezzi tecnici atti all’espressione di sentimenti, emozioni, stati psichici per i quali l’eloquenza simile al suono della tromba non possiede né prevede segni di comunicazione. L’eloquenza simile al suono del flauto non è diretta né al senato né alle adunate popolari; è per i circoli dei dotti, degli intenditori, vi si avverte un cenno alla poetica del difficile e dell’oscuro. In uno stile cosi organizzato (elocutio novella) trovano ragionevolmente luogo le parole insolite, insperate e inattese, estratte dagli anfratti della storia della lingua, e le figure oscure o inconsuete; ma il carattere più interessante che la comparazione con il flauto attribuisce alla prosa dei dotti è il “patetico”, che a livello di stile può essere interpretato su due versanti: dalla parte dello scrittore si intenderà come idoneità dello stile all'espressione di sentimenti, emozioni e in generale stati psichici diversi per qualità e intensità da quelli per tradizione e per convenzione considerati normali; dalla parte dell’uditore o lettore come sollecitazione, provocata proprio da quegli elementi, al riconoscimento e alla sperimentazione in laboratorio, con garanzia che l’esperienza sarà teoretica e non sconfinerà nella prassi, di quei sentimenti, emozioni, stati psichici.
Vi è dunque uno stile d’eloquenza (l’eloquenza dell’imperatore) che formalizza la comunicazione persuasiva, coercitiva, direttiva del sommo potere con i sudditi; è noto che una monarchia assoluta (e tale era nella sostanza an-
che l’impero dei cosiddetti optimi principes del II secolo d.C.) tende a livellare tutti i sudditi: quindi l’eloquenza dell’imperatore si rivolge egualmente al senato come alle assemblee (contiones) del popolo e dell’ esercito. In particolare questa eloquenza traduce nei termini propri della società antica o classica la gestione del consenso sia dell’apparato di governo sia soprattutto della base popolare e militare. Come è stato rilevato pit volte dagli storici, vi fu un canale che specificamente collegò l’imperatore con le masse popolari, legandole con un patto fiduciario alla persona del principe” e coinvolgendole nelle sue scelte culturali, religiose, etiche (si ricordi Caligola, Nerone, Commodo).
AI tempo di Marc’ Aurelio, è stato rilevato da Pier Luigi Donini”, valentissimo studioso di filosofia antica, lo stoicismo è un vistoso segnale del filo di2 V. P. Veyne, Le pain et le cirque, Parigi 1976. 2! P. L. Donini, Le scuole l’anima 1 ‘impero. La filosofia da Antioco a Plotino, Torino 1982.
ELOQUENZA DELL’ IMPERATORE
E PROSA DEI DOTTI
321
retto che lega gli strati sociali più alti e illustri (in questo caso l’imperatore stesso) con i più bassi e più umili: “la diffusione dello stoicismo anche negli
strati popolari sembra sufficientemente documentata: si impone cosi l’immagine di una filosofia presente ai due livelli estremi della gerarchia delle classi nella società romana”. “Questa duplice possibilità di espansione” continua Donini “non sembra esserci stata, fino al II secolo, per tutte le altre dottrine filosofiche, in particolare per la medioplatonica e l’aristotelica, dirette antagoniste dello stoicismo. L’area di reclutamento dei platonici e degli aristotelici si situò probabilmente negli strati medio-alti della società imperiale occupando forse una spazio sociale intermedio fra le due aree di diffusione della dottrina stoica”. “Si può forse collegare la fioritura medioplatonica e aristotelica del II secolo con la fortuna delle città e dei ceti agiati urbani, borghesie cittadine o aristocrazie municipali”. Letterati, retori, filosofi, che provengono (come Frontone e Apuleio) da questo ceto, sono proprio i latori del nuovo stile dell’elocutio novella, il linguaggio nel quale sono scritte le opere ad esso dirette, in qualche modo summae della cultura classica e sistemazioni della nuova sensibilità etica e religiosa; nel quale sono composte le conferenze e le lettere che i membri di questo ceto si indirizzavano. Mentre l’eloquenza imperiale riassume il genere che un tempo si chiamava deliberativo, e che nel II secolo si può definire politico, l’elocutio novella fornisce lo strumento per l’oratoria e la prosa epidittiche (compresa la storiografia), dove tuttavia non più il sociale, ma il privato e il personale si esprimono con sottigliezza e ricchezza.
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RETORICA, DIATRIBA CINICA E SATIRA ROMANA”
Fino al 5. secolo a. C. in Grecia la comunicazione della cultura avvenne in misura prevalente per via orale; la nozione di oralità per altro comprende tre aspetti: composizione
estemporanea
o improvvisazione;
comunicazione
ver-
bale; trasmissione orale (tradizione affidata alla memoria). I tre elementi possono non coesistere: la poesia fatta per l’udito, di cui parla Platone!, è comunicata per via orale, ma anche trasmessa per via orale. Questa attività, ha scritto B. Gentili, consisteva nella recitazione accentuatamente gestuale di canti omerici o di composizioni giambiche ed elegiache o di canti lirici di tipo citarodico mandati a memoria. Nel 5. secolo a. C. fu introdotto in Grecia il libro nella forma di rotolo (volumen 0 BiBMov): è stato detto? che da quel momento “discorsi e conferenze vengono prima scritti e poi imparati a memoria oppure che i libri sono progettati per essere letti ad un vasto uditorio”. La forma e l’ampiezza del rotolo corrispondono al saggio filosofico o al libro (Adyoc) delle storie di Erodoto. La diffusione del rotolo si accompagna alla trasformazione della cultura, o, se si preferisce, all'affermazione della cultura di tendenza razionalistica e individualistica e alla decadenza della cultura aristocratica. La trasformazione della cultura si accompagna alla trasformazione dei modi della comunicazione. La composizione di un’opera per la lettura individuale comporta la costruzione logica o comunque meditata del discorso e l’applicazione di una tecnica e di procedimenti idonei. Del resto il 5. secolo segna non solo la trasformazione della cultura, ma com’é ovvio, della società: il mutamento del ceto dirigente produce anche l’introduzione di forme e di modi nuovi di governo: nelle assemblee e nei tribunali si discute, si persuade, si vota; appare la retorica: sistema di regole della comunicazione orale diretta alla persua-
sione attraverso la convinzione e la commozione o emozione; presto la retorica invade la letteratura: tutta la prosa ne è permeata, ma nemmeno la poesia — soprattutto la tragedia e in genere il teatro — vi si sottrae. I modelli sono forniti da Aristotele e da Isocrate: a mio avviso la retorica isocratea ebbe un ruolo notevole nella letteratura greca, proprio perché è una retorica che non si ispira alla dialettica, proprio perché non è una retorica ‘filosofica’, anche se pretendeva di essere la vera filosofia, ma è l’arte della persuasione ragionevole e colta. In ogni modo proprio con Isocrate la retorica si afferma come tecnica della composizione scritta destinata alla lettura individuale. * “Vichiana” N.S. 12, 1983, 282-288.
! Repubblica 10, 603 b. ? E. G. TURNER, Athenian Books in the fifth and fourth Centuries B. C., Londra 1952, tr. it. di
M. e L. MANFREDI, in Libri, editori e pubblico nel mondo antico, a cura di G. CAVALLO, Bari 1977, 19.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Tuttavia pur nel 4. secolo viene esercitata l’arte dell’improvvisazione: si ricorda Licofrone, compositore estemporaneo di discorsi; l’oralità della composizione e della comunicazione perdura o riemerge sulle soglie dell’età ellenistica, nella quale la composizione estemporanea letteraria e oratoria ritrovò spazio e cultori. Basti citare per la letteratura un esempio tardo ma rinomato: il poeta Archia di Antiochia, che trasferitosi a Roma vi guadagnò grande nomea appunto per la sua abilità a comporre all’improvviso, tanto da attirare l’attenzione della nobile famiglia dei Licinii e per riflesso quella di Cicerone. Per l’eloquenza basta ricordare gli esercizi di declamazione improvvisati nelle scuole di retorica, in Italia tenuti, ancora al tempo di Cicerone, in greco e in latino. La composizione all’improvviso forni alla filosofia cinica lo strumento più fortunato: la predicazione popolare nella forma della diatriba (o conversazione: in latino sermo, titolo scelto per le proprie composizioni dai satirici Lucilio e Orazio): il discorso di propaganda caratterizzato da taglienti battute umoristiche, dalla aggressione satirica e dalla polemica espressa in dialoghi con un interlocutore fittizio: da questo può derivare il nome di è1ateBn, ma anche dalla situazione di conversazione e di scambio (anche questo fittizio) di
opinioni con il pubblico. Dopo Antistene, il fondatore del cinismo, i più celebri cinici furono Diogene di Sinope e Cratete di Tebe. Nell’ambito di una generale contestazione dei valori vigenti — Diogene è un Socrate pazzo’ — e della civiltà avvertita come corruttrice e fonte di inquinamento, i cinici affermavano la necessità di ritrovare i semplici criteri di una vita secondo natura, pro-
clamando per le piazze e con l’esempio che per vivere bene, cioè secondo natura, si deve rinunciare agli elementi più significativi e caratteristici della cultura e della civiltà di quel tempo: da una parte i beni materiali, gloria, nobiltà, potere, ricchezza, forza fisica, salute, bellezza; dall’altra i beni culturali: arti cosiddette liberali, dialettica, fisica, retorica, erudizione, storia, matematica, musica, medicina.
Questa composizione orale all’improvviso o estemporanea che fu propria e caratteristica della filosofia popolare cinica (popolare perché presentata nelle piazze in forme semplici e di facile comprensione) è attribuita in particolare a Bione di Boristene, greco probabilmente per parte di madre, schiavo e figlio di schiavo, vissuto nel 3° secolo a. C., amico e ospite per qualche tempo di Antigono Gonata, dal 277 re di Macedonia, la cui morte nel 239 costituisce un ferminus ante quem per la data di morte di Bione. Giovanetto e di aspetto gradevole, venduta tutta la sua famiglia perché il padre aveva frodato il dazio, fu acquistato da un retore, che alla sua morte lo lasciò erede del proprio patrimonio. Queste notizie sono trasmesse nelle Vitae philosophorum da Dio3 Diogene Laerzio, Vite di filosofi 6.54.
RETORICA, DIATRIBA CINICA E SATIRA ROMANA
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gene Laerzio. È verosimile che negli anni in cui servi presso il retore egli apprendesse le regole della comunicazione persuasiva. Ci sono due testimonianze antiche note e da tempo discusse, una di Strabone, l’altra di Diogene Laerzio’, la cui interpretazione rinvia con ampio margine di verosimiglianza al possesso di una raffinata tecnica retorica da parte di Bione, nella quale si debbono includere per il loro effetto teatrale (0eatorxòg Av) le figure gorgiane, la capacità di rendere a livello linguistico e stilistico la propria mordacità e aggressività polemica e contestativa, l’uso di vocaboli della lingua colloquiale e volgare per rappresentare (’imitare’) la verità della vita quotidiana, l’abilità di mescolare ogni genere di discorso (mistione degli stili); in conclusione, sosteneva di lui Eratostene, Bione per primo fece indossare alla filosofia una veste a fiori. Proprio sul significato metaforico di questa veste a fiori verte la discussione; una tesi avanza la proposta di identificare la veste a fiori con quella indossata sulla scena dagli attori nei drammi satireschi: pare evidente che la base di questa interpretazione consiste nella corrispondenza tra date pn, sermo, satura, satyra; altra proposta identifica la veste a fiori con l’abito delle etere o cortigiane; ma a questo proposito bisogna chiarire quale senso comporta la metafora della filosofia che indossa l’abito a fiori. M. Bachtin nell’excursus, che nel suo studio su Dostoevskij dedica al serio-comico,
identificando forse un po’ cursoriamente la filosofia (cinica) con la satira menippea e questa, a sua volta, con la diatriba, osserva che “già nelle prime menippee appare un naturalismo sordido: le avventure della verità sulla terra avvengono sulle strade maestre, nei lupanari, nei covi dei ladri, nelle taverne,
sulle piazze dei mercati, nelle prigioni e cosi via. L'idea non teme nessun luogo sordido e nessuna bruttura della vita. Il saggio s'imbatte nell’espressione estrema
del male, della degenerazione
e della bassezza
del mondo.
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Bione di Boristene gli antichi dicevano che per primo rivesti la filosofia dell’abito variopinto di una etera”. Non c’è dubbio che questo discorso di Bachtin implica identificazione tra etera e sordidezza; ma nella società pagana la figura dell’etera produceva idea di piacere e di gioia dei sensi, e l’abito a fiori era un ornamento che consentiva all’etera di suscitare meglio e con maggiore finezza e gradevolezza il desiderio sensuale e sessuale degli uomini e di attrarli. Dunque la filosofia indossa l’abito a fiori perché vuol suscitare l’interesse degli uomini e attrarli a sé. E l’attrazione avviene anche attraverso il piacere estetico prodotto dall’applicazione di procedimenti stilistici e reto-
4 Strabone, Geografia 1.2, 2 e Diogene Laerzio, Vite di filosofi 4.52; cfr. Bion of Borysthenes a cura di G. F. KINDSTRAND, Uppsala 1976, 108 nn. 11 e 12; per l’interpretazione cfr. ID., ibidem, 49 ss. e anche 152 ss.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
rici destinati a ritrovare la verità o quella che Bione credeva fermamente essere la verità. L’abito a fiori è l’ornato del discorso, 0, se si vuole, la retorica”.
Il procedimento con il quale Bione ritrova il vero o conduce l’uditore a cogliere la verità o ad accogliere il messaggio etico del cinismo (vivere secondo natura, riconoscere
le cose nella loro realtà naturale)
è l’ATtgoodoxnTOv,
l’inopinatum, la frustrazione dell’attesa: attraverso lo straniamento® prodotto da questo procedimento l’uditore giunge alla conoscenza del vero. È possibile che la presenza notevole di questo procedimento sia dovuta al fatto che la maggior parte degli scritti trasmessi sotto il nome di Bione hanno forma di
massime (dartop@nyuata). Particolarmente curioso e divertente il frammento 4 dell’edizione del Kindstrand’: “A Rodi, dove gli Ateniesi si esercitavano nella retorica, egli insegnava la filosofia: a colui poi che gliene faceva una colpa disse ’ho portato grano e vendo orzo?’”. Divertente perché Bione usa la retorica per persuadere gli uditori che la filosofia vale molto di più della retorica; e conduce l’uditore a questa persuasione attraverso lo straniamento delle immagini sia della retorica sia della filosofia mediante la sostituzione ad esse di due metafore: in luogo della filosofia il frumento, in luogo della retorica l’orzo. Sono metafore
distanti, a longinqua similitudine ductae, ma non durae (Quintiliano), fon-
date in generale sul criterio di comparare attività od operazioni o realtà tecniche e fisiche (la Bavavoia, qui l’importazione e la vendita con l’insegnamento) con attività o realtà culturali 0, se si vuole, spirituali, come fa anche altrove Bione, con molta gustosa acutezza per esempio nel frammento 3; in particolare basate sulla nozione del potere nutritivo maggiore nel frumento, minore nell’orzo come maggiore il potere della filosofia, minore il potere della retorica di nutrire la mente o l’anima. Quindi la filosofia come il frumento e la retorica come l’orzo. Nella cultura greca è attestata la considerazione dell’orzo come surrogato: chi non ha vino di vite beve vino d’orzo (birra). Lo straniamento attraverso la metafora mediante vocaboli pertinenti a realtà tecniche, corporee, fisiche consente a Bione di attingere — come mostrò nel 1929 V. Sklovskij — la percezione dell’autentico, che in questi testi è una verità spirituale collocata fuori del divenire o, se si preferisce, una affermazione o petizione assiologica, diretta a contestare i valori della cultura e della
° Lo stile medio è detto in latino anche floridus, traduzione del greco avOnQoc, cfr. Isocr. 13.18 (Adversus sophistas); Plut. Disputationum convivalium II, 2, 1 (2.648 b); Quintil. Inst. or. 12.10, 59; Phot. Bibl. 239. ° Aristotele nella Poetica, 22, suggerisce che lo Eevixdv o estraniamento si realizza con una metafora o con l’uso improprio di qualsiasi vocabolo.
’ Cfr. Bion of Borysthenes, cit., 114, cfr. 189 s.
RETORICA, DIATRIBA CINICA E SATIRA ROMANA
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società nel tempo, che vengono scavalcati risolutamente per pervenire all’adesione immediata alla natura. Descrizione straniata mediante inopinatum o frustrazione dell’attesa: alterando la sfera semantica di un vocabolo, attraendo l’attenzione dell’uditore o sulle connotazioni o sulla denotazione il procedimento propone la via per l’intuizione del vero o comunque offre al filosofo il mezzo per segnalare qual è, secondo la sua dottrina, il vero.
Dalla proclamazione di un vero spirituale al ricupero della conoscenza attuale di un oggetto: il serio-comico dalla diatriba di Bione passa nel 2. secolo a. C. a Roma nei sermones di Lucilio, realizzandosi nella tecnica con la quale Lucilio demistifica e ricupera vocaboli e oggetti. Testimone un tardo commentatore di Orazio”, che ad esplicazione di Epist. 2.2, 59-60 (carmine tu gaudes, hic delectatur iambis, / ille Bioneis sermonibus et sale nigro)
scrive: Lividis et amaris iocis, idest satyra. Sunt autem disputationes Bionis philosophi cui paene consentiunt carmina Luciliana. Questa tecnica luciliana del serio comico (ma anche, a livello di lingua e di linguaggi, della mistione degli stili) consiste nell’uso di elementi linguistici e stilistici non omogenei; l’uso simultaneo in un medesimo contesto di strati linguistici e di stili diversi dà luogo al procedimento di rottura, i cui effetti stranianti investono lingua e stile, ma
anche, e con efficacia notevole, l’area dei significati ed eventual-
mente dei valori. Il procedimento di rottura svolge la funzione di rimuovere i filtri culturali — quali che ne siano le origini, i fini e i significati — che deformano la conoscenza attuale dell’oggetto. Nel procedimento di rottura usato da Lucilio occupa un suo posto l’attesa frustrata: si tratta ancora di una rottura,
ma questa volta è la rottura di un sistema: del sistema costituito dalla sequenza di vocaboli precedente al vocabolo disomogeneo; sicché il procedimento di rottura si manifesta nell’apparizione dell’inaspettato. Procedimenti molto simili dunque nella diatriba del cinico Bione e nei sermones del romano Lucilio: anche se nel primo il punto di riferimento è l’ideale della vita secondo natura, mentre nel secondo è certamente il mos maiorum integrato dalla cono-
scenza di un’etica pratica ispirata dell’Academia non senza coloriture stoiche. L’esito di tale procedimento, com’é caratteristico del resto della satira, è una rappresentazione realistica delle condizioni oggettive e soggettive dei contemporanei. Nel frammento 530 Terzaghi (515 Marx) paenula, si quaeris, cantherius, servus, segestre / utilior mihi quam sapiens (“Se me lo chiedi ti dirò che un mantello di lana, una bestia da soma, un servo, un impermeabile
8 Elenio Acrone, forse del 5° secolo d. C., cui sono attribuiti scolii ad Orazio.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
mi sono più utili di un sapiente/filosofo”)® Lucilio fa parlare un uomo che proclama con un discorso risoluto e concreto la sua adesione ad un’etica materialistica e utilitaristica. Nel primo verso sono allineati in una rapida e pesante enumerazione quattro vocaboli designanti alcuni tra gli strumenti idonei a garantire, in rapporto con il livello e il tipo della società civile di quell’ eta, soddisfacenti condizioni di vita. Con facilità, rompendo l’esile riparo di una adesione formale all’etichetta urbana balzano nette le rappresentazioni degli oggetti; nette proprio perché i vocaboli non appaiono accompagnati da aggettivi né collocati in un contesto tendenzioso diretto a convalidarne e ad esaltarne il peso. Il parlante non sente affatto la necessità di un discorso, coperto o scoperto, giustificativo delle sue scelte morali: i vocaboli non vengono caricati di alcun valore idealizzante. La denotazione prevale sulla connotazione. Gli oggetti sono sentiti e designati nella loro concreta e determinata natura per mezzo di vocaboli tecnici o usati in una accezione strettamente denotativa. L’inserimento di servus in una serie di vocaboli denotativi, i quali assolvono al compito non di esplicare un discorso di merito sugli oggetti che designano, ma proprio e soltanto di designarli, persuade a considerare anche questo vocabolo come tecnicismo di accezione. la pressione esercitata da paenula, cantherius, segestre su servus nel senso indicato appare ben chiara quando si consideri che quei vocaboli designano cose o animali in quanto oggetti d’uso o strumenti; e quindi anche servus è qui sentito precisamente come instrumentum vocale, secondo la nota definizione di Cicerone.
Utilior, al prin-
cipio del secondo verso, riassume il significato del verso precedente e insieme proclama in chiare lettere il criterio di giudizio del parlante. Per la sua importanza sia espressiva sia concettuale esso occupa la prima sede nel verso. . Mihi, com'è noto, è della lingua illustre e colta; altrettanto si può dire di sa-
piens, che, ultimo vocabolo del passo — e dobbiamo pensare che Nonio abbia condotto la citazione fin dove il senso chiedeva — conclude e assomma il pensiero, apparendo, per la comparazione con i quattro vocaboli del primo verso, sbiadito, fioco, umbratile. Nessuna utilità offre il sapiens al personaggio che parla; nessuna concretezza, nessuna solida e determinata rappresentazione la sua sfera semantica, cosi ricca di connotazioni, cosi povera di denotazioni, propone al lettore. Un vocabolo illustre, evocativo sia di una tradizione severa sostenuta dalla gloria di figure esemplari, quali Cincinnato, sia forse di una nuova raffinata cultura etica e letteraria, come Gaio Lelio, detto appunto
sapiens; ma queste connotazioni dicono qualcosa a chi crede nel premio della gloria che la patria e i posteri dànno a chi de re publica bene meruit o a chi crede nella felicità ottenuta mediante l’impassibilità e l’abolizione dei deside? L’analisi che segue è ripresa da “La rappresentazione del reale nella satira di Lucilio”, vd. p. 96 ss.
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ri; non certo al personaggio di questo frammento che o non conosce quel premio e quella felicità o non vi crede. Lucilio, demistificando il sapiens secondo i criteri di un uomo che conosce, comprende e apprezza solo le cose che cadono sotto la percezione dei suoi sensi e che forniscono a lui individualmente un servizio — è improbabile che nelle parole di questo frammento vi sia il pensiero dell’autore — propone al colto lettore romano del suo tempo un’apertura da una parte antropologica a tipi e livelli di umanità diversi da quelli terenziani e paneziani e dall’altra parte verso la solida e determinata realtà degli oggetti, verso la realtà materiale sia essa fatta di corpi di uomini e di animali sia fatta di cose fabbricate dall’uomo per gli usi quotidiani dell’uomo. Questa apertura culturale si realizza sul piano della lingua e dello stile nella mistione
degli stili e dei livelli linguistici ovvero nella frustrazione dell’attesa; procedimento che mette alla prova la solidità semantica del vocabolo e ne ritrova il significato attuale.
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STRUTTURE RETORICHE NELLE BIOGRAFIE DI SVETONIO™ Trattare, sia pure in breve, della tecnica biografica di Svetonio e dei suoi rapporti con la retorica richiede una preliminare e rapida informazione sulle interpretazioni che si dànno della tecnica di Plutarco. Delle biografie di Plutarco scrisse nel 1888' Alessandro Setti: “Le biografie di Plutarco, avvicinate le une alle altre, comprendono gran parte della storia greca e romana, e costituiscono uno dei più ricchi repertori di fatti, che ci abbia trasmesso l’antichità. Dal punto di vista storico l’opera presenta gravi difetti. Taluni di questi derivano dalla forma biografica, che Plutarco prescelse, e dal fine che si propose. L’esposizione storica in forma di biografia lo condusse a trascurare l’azione delle forze politiche ed economiche; a dare un'assoluta prevalenza, nello svolgimento dei fatti, al carattere e alla volontà degli individui; ad ingrandire, oltre la realtà storica, figure di secondaria importanza”. Ancora nel 1938 Carlo Del Grande sviluppa questi temi’: “Plutarco si preoccupa meno della verità dei fatti e più degli elementi aneddotici che chiarificano il carattere della persona di cui scrive, e mira a forma-
re i suoi quadri secondo principi preconcetti. In certo senso egli è il primo, che, sia pure oscuramente, accede all’opinione che la storia è fatta da pochi uomini, i quali con la volontà e l’opera agiscono sulle masse,
avviandole a
imprese da essi capi maturate e definite”. Sulla proposta di considerare Plutarco come il primo ad accedere, sia pure oscuramente, all’opinione che la storia è fatta da pochi uomini, si può ricordare quanto scrisse, in generale, Erich Auerbach’: “. .. non vengono messe in luce le forze sociali che stavano in quel tempo alla base dei rapporti rappresentati ...” “... la società non esiste come problema storico, ma tutt'al più come problema moralistico, e inoltre il
moralismo si rivolge più all’individuo che alla società. La critica dei vizi e delle aberrazioni pone sempre il problema come problema di individui, cosicché la critica della società non porta mai alla scoperta delle forze che la muovono”. “Non esiste nell’antichità una profonda indagine storica che tratti metodicamente lo sviluppo dei movimenti sociali e nemmeno quello degli spirituali”. Questo è stato notato di passaggio da studiosi moderni; così Eduard
* B. GENTILI-C. NATALI-A. MAFFI-M. MAULINI-A. FALCO-A. PENNACINI-E. MATTIOLI, Retorica e storia nella cultura classica, Bologna 1985, 81-88. ! A. SETTI, Storia della letteratura greca, Firenze 1888; la citazione è presa dalla edizione del 1956 a cura di Augusto Traversa, 370ss. ? C. DEL GRANDE, Storia della letteratura greca, Napoli 1938. 3 E.AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. ital., Torino 1965, passim.
332
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Norden‘: “Dobbiamo pensare che un’esposizione delle idee generali che muovono il mondo antico non é stata in genere mai fatta dagli antichi, anzi nemmeno mai tentata”. “Gli antichi” conclude Auerbach “non vedono forze, bensì vizi e virtù, successi ed errori; la loro impostazione del problema non è evo-
luzionistica né nei riguardi dello spirito né in quelli della materia; è invece moralistica”. Chiedere a Plutarco una interpretazione non individualistica della storia significa dunque attribuire alla cultura antica greca e romana quella consapevolezza dei movimenti di fondo, che si svolgono ai livelli sociale ed economico così come etico e religioso e quindi anche politico, che la cultura antica o classica appunto non possedeva. Ma una contestazione in toto, non solo generale ma anche specifica, delle affermazioni sia del Setti sia del Del Grande, fondata sulla teoria biografica
di Plutarco stesso (la sua poetica, le istituzioni del genere e della sua scrittura) si legge in Albin Lesky?: “La tradizione biografica alla quale appartiene Plutarco è largamente influenzata dalla dottrina peripatetica, che nel sistema etico attribuisce importanza decisiva alle azioni di un uomo: intendendo con ciò non il fatto ovvio che nelle azioni si rivelano le qualità morali, ma la teoria aristotelica’ che le virtù etiche non preesistono naturalmente al loro manifestarsi e sorgono invece come atteggiamenti abituali (sia pure essendo presupposta una disposizione in un senso dato) nell’azione e attraverso essa. Questo nesso tra 797 e modéeis determina nella biografia plutarchea una rappresentazione del carattere che muove costantemente dall’agire dei personaggi; per conseguenza vi è introdotto materiale storico in abbondanza. Spesso si è biasimato Plutarco per l’uso che ne fa. In realtà sarebbe difficile con- . siderarlo storico di grande valore, ma non era questo che Plutarco voleva essere. In proposito (nel proemio della Vita di Alessandro) egli dice che il suo campo è la biografia e non la storia. Non gli interessano i nessi storici o l’etiologia politica come la concepisce Tucidide: egli guarda soltanto alle grandi figure umane. I cui lineamenti si manifestano — dice lui stesso — non soltanto nelle grandi imprese, ma anche in un piccolo gesto, in un motto”. Tre elementi della dottrina aristotelica sono presenti e importanti in generale nella teoria e nella pratica della biografia e in particolare nella produzione di Plutarco”: la dottrina del rapporto tra le azioni dell’uomo e il suo 70068; la dottrina del 70806; infine quella dei tipi etici o caratteri e ad essa connessa
4 E. NORDEN, Die antike Kunstprosa, Lipsia e Berlino 1918, vol. 2, 647. > A. LESKy, Storia della letteratura greca, trad. ital., Milano 1962, vol. 3, 1017-1018. ° aristor. Ethica ad Nicom. IL 1ss. iV. A. DIHLE, Studien zur griechischen Biographie, Gottinga 1956, passim. Cfr. n. 6.
STRUTTURE
RETORICHE NELLE BIOGRAFIE DI SVETONIO
333
quella dei tipi di vita. Il primo elemento è gia stato illustrato riportando alcune righe del Lesky; del secondo: ogni commozione o mozione è un za@¥oc: vi sono delle duvauetg o potenzialità sentimentali e vi è una ÉÉ1g o habitus: un comportamento psichico e sentimentale. Il terzo: i caratteri in realtà sono illustrazioni delle pratiche conseguenze di un determinato comportamento morale. Connesso con il precedente, l'elemento delle tre forme di vita (Aristotele):
voluttuosa (= dedita al piacere), attiva, contemplativa. Le tre forme di vita individuano non le azioni e i comportamenti di un uomo, ma la moralità che nelle azioni, negli atti, nelle attività si manifesta e si compie. Azioni e sentimenti: due elementi di origine aristotelica, evidentemente ben conservati dal
Peripato, presenti nella teoria e nella pratica della biografìa ellenisticaromana. I 7a8n, secondo Aristotele, sono una specie di materia prima morale: essi nascono quando un’azione esterna s’incontra in una corrispondente disposizione psichica, e nel momento della loro apparizione dànno occasione alla éÉ16 morale, vizio o virtù, di realizzarsi come comportamento morale. Sicché Plutarco da una parte procede alla rappresentazione della vita nell’ambito di una coerenza prodotta dall’7jd0c del personaggio, dall’altra usa l’rjdog del personaggio, o meglio i suoi elementi precipui come criteri di selezione dei fatti da accogliere nel racconto. La selezione dei fatti è eseguita in funzione dei fondamentali elementi costituenti 1’ 7¥0¢ del personaggio. Non vi è, come nelle biografie di Svetonio, una rappresentazione per species; ma le peculiarità etiche valgono come categorie e criteri di selezione. Questo implica che Plutarco abbia chiaramente identificato l’7jd0c che il personaggio ha acquisito attraverso le sue azioni. In sostanza la struttura narrativa della vita è una climax o gradatio della realizzazione delle potenzialità o virtualità psichiche del personaggio in una serie di comportamenti il cui complesso costituisce l’7)d0g. La selezione accoglie fatti della vita quotidiana, avvenimenti che provano o rivelano l’esistenza delle qualità etiche, discorsi, gesti, che rivelino i costumi e i sentimenti, dal momento che un sentimento dà occasione
ad una attitudine di realizzarsi in una azione. La biografia di Otone inizia con il suo primo gesto come principe: ciò significa che anche la situazione e la condizione dove il personaggio agisce sono soggette a selezione, in quanto una potenzialità si attualizza qualora e quando un’azione esterna promuova appunto la traduzione in atto o comportamento di una attitudine. Che Plutarco selezioni i fatti all’interno dello spazio del principato significa che non scrive la vita del personaggio in quanto uomo, ma in quanto imperatore; cioè che gli interessa 1’7)?0og che il personaggio ha rivelato o maturato da imperatore. La gradatio narrativa procede quindi a costruire o espone e descrive la rivelazione o la attualizzazione dell’7j00¢ per tempora; l’unità cronologica è senza dubbio la vita del principe o meglio la durata del suo principato. A
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
questo punto appare chiaro che la compiuta attuazione dell’ 7j¥0c, il momento più vero e più intenso nel quale il principe produce ogni vizio e virtù dalle sue attitudini, è la morte, nella quale dunque la gradatio trova il suo termine e il suo sommo. Il personaggio compiutamente realizza nella morte ogni sua attitudine; noi diremmo: realizza se stesso. Il biografo lo conduce fino a questa
estrema e compiuta realizzazione, magnanimo o meschino che sia, e tale lo consegna alla memoria dei posteri e alla storia, in una figurazione definita ed esemplare “sottratta alla contingenza”. Intorno al proprio metodo biografico Svetonio precisa: “Dopo aver anticipato un compendio della sua vita, ne tratterò le parti una per una, non in ordine cronologico, ma secondo gli aspetti (per species), sicché riescano chiari ed evidenti con maggiore precisione””!°. La considerazione sincronica si traduce in una esposizione letteraria prodotta dall’impiego dell’artificio o procedimento della descriptio, che si realizza fuori della diacronia, in una figurazio-
ne tabulare o orizzontale. Se si vuole, si può raffrontare questa tecnica con quella del quadro vivente o anche col singolo fotogramma di una storia a fumetti. I diversi fotogrammi mostrano ovvero descrivono un comportamento, una pars vitae del personaggio; ma in realtà non un comportamento, che sarebbe di nuovo
una
considerazione
dinamica
o diacronica,
ma
un fatto in
quanto prova del possesso da parte del personaggio di una facoltà, appunto, di fare; quindi, in termini pratici, di vizi e di virtù. Species è un tortog 0 locus: Cicerone!! menziona il locus a forma generis, dove forma equivale a species, mediante il quale si procede alla divisio del genus cui appartiene la res di cui si tratta. Si distinguono partitio e divisio: Cicerone! osserva che in partitione quasi membra sunt, ut corporis caput,
umeri, manus, latera, crura, pedes et cetera; in divisione formae sunt, quas Graeci ei6n vocant; sulla divisio di un genus Cicerone! specifica che genus est notio ad pluris differentias pertinens; forma est notio, cuius differentia ad caput generis et quasi fontem referri potest. Ea est insita et animo praecepta cuiusque formae cognitio, enodationis indigens. Formae sunt igitur eae in quas genus dividitur, ut si quis ius in legem, morem,
aequitatem divi-
dat (“Il genere è una nozione pertinente a più oggetti differenti; la forma o specie è una nozione la cui nota distintiva può essere riferita al genere come al suo principio e per così dire alla sua fonte. Essa è la conoscenza innata di
°F. DELLA CORTE, Svetonio eques Romanus, Firenze 1967, 2. ed., 141.
!° sver. Vita Divi Aug. IX. 1: Proposita vitae eius velut summa, partes singillatim neque per tempora sed per species exsequar, quo distinctius demonstrari cognoscique possint. !! Cic. topica 14.
12 Cic. topica 30. 13 Cic. topica 31.
STRUTTURE
RETORICHE NELLE BIOGRAFIE DI SVETONIO
335
ogni forma o specie, conoscenza che ha bisogno di enucleazione. Le specie dunque sono le divisioni del genere, come se si dividesse il diritto in legge, costume, equità”). Nell’ultimo esempio par chiaro che ius è il genere, species sono la legge, il costume e l’equità.
Si tratta dunque non di smembrare quell’unità che è la vita di un uomo mediante il procedimento della partitio, ma di affrontarla e descriverla da vari punti di vista ‘speciali’. Unità la vita di un uomo, perché Svetonio considera la vita del personaggio nella sua conclusa compiutezza, sincronicamente, come una serie di scene ognuna delle quali ne presenta un aspetto o virtuoso o vizioso, ovvero un eidog o forma o species. Unità nella conclusa compiutezza, e quindi descriptio, cioè visione tabulare, paradigmatica sia in senso funzionale e strutturale, sia in senso etico di modello da imitare o da fuggire. Del resto, come /ocus è la species in base alla quale la vita viene divisa in partes!*, così locus è l’auctoritas in questo caso hominum che, fondata sulla virtutis opinio’’, consente di integrare nel sistema topico anche il giudizio etico, ovvero la classificazione per vitium e virtus. Al di là o a monte della realizzazione negli schemi retorici di una pagina letteraria, secondo Svetonio un uomo si esprime in una serie e varietà di momenti, che sono l’equivalente delle species 0 cién, momenti nei quali di volta in volta si esprime nella sua totalità l’individuo. Sicché l’unità della species si ricompone nel genus, in questo caso costituito dalla conclusa compiutezza della vita del personaggio. Ed è funzionale a tale logica, che è insieme un sistema topico, che la struttura letteraria della biografia collochi in primo luogo un sommario della vita!°, dal
momento che formae 0 species sunt eae in quas genus dividitur'’: l’unità della vita è un dato preliminare ed essenziale, cui consegue l’esposizione dei momenti e aspetti diversi nei quali è realizzata ed è classificabile. L’unità sommaria naturalmente non contiene i momenti e gli aspetti diversi, ma soltanto li implica: solo un’operazione logica e classificatoria liindividua e li enuclea dalla conclusa compiutezza della vita. Se tuttavia la descri-
zione per species avviene secondo un sistema tabulare e sincronico (com’é logico che sia una descriptio), nella sommaria esposizione della vita la diacronia, la successione cronologica dei fatti riappare: spesso la vita inizia perfino dagli avi del futuro imperatore, poi è descritta per elementi significativi o 14 V. n. 10. Cfr. anche Cic. topica 14: forma generis, quam interdum, quo planius accipiatur, partem licet nominare. !5 Cic. topica 78: In homine virtutis opinio valet plurimum (...) ingenio, studio, doctrina praeditos (...) quorum vitam constantem et probatam vident (...) ut Catonis, Laeli, Scipionis aliorumque plurium (...) qui in honoribus populi reque publica versantur (...) oratores, philosophos, poetas, historicos.
SV 1.10:
!7 Cic. topica 31.
336
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
considerati emblematici l’infanzia e la giovinezza. Fatti e gesti sono funzionali alla identificazione di un Voc virtuale o potenziale; oppure paiono considerati come indicativi di inclinazioni. Per esempio, nella Vita di Otone! una
sbrigativa notizia suggerisce che nel personaggio giacevano latenti inclinazioni alle virtù politiche e pragmatiche: capacità amministrativa, equilibrio, disinteresse o rispetto per il denaro pubblico e privato: provinciam administravit quaestorius per decem annos, moderatione atque abstinentia singulari”. Schema sicuramente cronologico dunque nella esposizione della vita, anche se prodotto dalla aspirazione ad una precisione che giunge alla minuzia erudita e, come molti pedanti sostengono, al pettegolezzo; anche Plutarco? sosteneva che piccolezze, scherzi o una sola parola spesso sono éu@paoets nYovc, indicia o imagines ingenii; è quindi opportuno e legittimo considerare che i fatti recati da Svetonio rinviano, in quanto imagines o indicia, ad un noc, a vizi o virtù; che cioè la selezione, che ne è stata fatta, è fondata sul criterio della significazione o segnalazione, che tali fatti comportano, della conformazione psichica, virtuale o in atto?! del personaggio. Solo questo può essere il principio unificante o la “formula unica” o il ‘nesso organico”, non tra le varie parti o tra i vari e diversi fatti e gesti, ma tra tutti questi elementi, disparati e anche incongruenti tra loro quanto si voglia, e la complessa struttura della biografìa intesa come ricostruzione e descrizione, per species e per onueta, dell’1j90g del personaggio nella sua totalità e organica unità. In talune biografie peraltro, come in quella di Otone e in quella di Galba, la narrazione della vita non è una parte quantitativamente limitata e di ridotte dimensioni, in quanto costituita mediante una selezione sommaria
e formale
dei fatti, ma finisce per occupare l’intera biografia. Quindi la descriptio del personaggio per species è reintegrata nella narratio per tempora, nella forma di narrazioni descrittive, distinte tra loro appunto in base alle species cui si riferiscono, e inserite nel corso della narrazione ovvero del racconto come ar-
resti o sezioni (= tagli) sincronici della successione dei fatti. Per esempio nella Vita di Otone, 4, dopo la notizia dell’immediata adesione di Otone alla
ribellione di Galba contro Nerone e in relazione situazione del momento gli aveva suggerito che aspirare all’impero, Svetonio inserisce’? una (cioè: narrazione di un’azione presentata come
alla successiva notizia che la poteva con buone probabilità breve narrazione descrittiva consueta e di frequente ripe-
!8 Vita Othonis 3.5. !° “Con autorità da questore per dieci anni governò una provincia, dimostrando straordinario equilibrio e disinteresse”.
20 Vita Alexandri 1.2. 21 Prut. Vita Alex. 1.3.: tO tig onueîa.
°° Sver. Vita Othonis 4.3.
STRUTTURE RETORICHE NELLE BIOGRAFIE DI SVETONIO
337
tuta), che consegue appunto il fine di descrivere o presentare un comportamento di Otone diretto a ottenere favore e popolarità; il lettore può quindi procedere a induzioni proprio sull’7¥o0¢ del personaggio. Sicché anche la ricostruzione dell’7¥0¢ del personaggio mediante documentazione consistente in fatti e comportamenti procede e si svolge attraverso una accumulazione progressiva che segue la linea del tempo. In termini letterari retorici la struttura della biografia si traduce quindi in una climax o gradatio: per successive accumulazioni di notizie intorno a comportamenti, gesti, fatti, la rappresentazione del personaggio giunge al suo finale compimento, che è anche il compimento storico della fine del personaggio: la morte. Subita o data di propria mano, la morte è il luogo o la condizione, dove l’rjdoc del personaggio pienamente si realizza e si rivela. Sicché appunto la biografia di Svetonio tende a ricuperare la dimensione storica traducendola in una gradatio del racconto e soprattutto delle digressioni (o inserzioni) narrative a scopo descrittivo.
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SITUAZIONE E STRUTTURA DELL’EPISTOLA FAMILIARE NELLA TEORIA CLASSICA" Nella tradizione letteraria greca si ha notizia della prima lettera privata nell’Iliade': Antia, moglie di Preto, re degli Argivi, innamorata di Bellerofonte,
ospite del marito, lo tenta; poiché questi non cede, lo denuncia al marito come se avesse lui attentato alla sua virtù. II marito Preto lo manda dal suocero, re della Licia, con una lettera segreta con la quale gli chiedeva di ucciderlo. Bellerofonte scamperà alla morte, anzi conquisterà un’altra figlia del re della Licia, che sposerà. Ma è importante segnalare questa notizia della prima lettera riservata (il segreto epistolare) inviata nella più remota antichità. Essa presuppone uso e conoscenza della scrittura in epoca preomerica (prima del 1200 a.C.), elemento attestato dal ritrovamento recente di tavolette scritte in lineare B datate al XV secolo a.C. Tuttavia per lungo tempo la lettera privata fu di uso assai raro; notizie e frammenti suggeriscono che la lettera agli amici, e cioè la lettera privata e familiare, sia apparsa nella società greca in età ellenistica: qualche frammento di lettere private agli amici di Epicuro (III secolo a.C.), frammenti di lettere a parenti, anonime, su resti di papiro; infine la notizia, trasmessa dal retore Demetrio? nel primo paragrafo della sezione del meQi gounvetag (de elocutione), 223, dedicata al genere epistolare, che Artemone (III secolo a.C.) pubblicò le lettere di Aristotele, di cui sono stati conservati solo frammenti,
ma che possiamo senz'altro riconoscere come lettere private e familiari sulla base del contesto del passo di Demetrio, che tra poco esaminerò. Relativamente più diffusa in età arcaica in Grecia e a Roma la lettera pubblica, destinata ad istituti o organi dello Stato o semplicemente alla lettura di più persone. Gli antichi stessi’ distinguevano tra lettere private e lettere pubbliche: le une scritte per essere lette dal solo destinatario, le altre .per essere rese note e per circolare in un più vasto uditorio; la distinzione implicava la volontà dell’autore della lettera di farla circolare in più copie, cioè, appunto, di pubblicarla. Si conoscono in Grecia numerose lettere di propaganda politica, per esempio di Isocrate, di Platone, con specifico destinatario, ma scritte in realtà per essere
lette da tutti (“lettere aperte’). A Roma le lettere pubbliche sono in primo luogo e originariamente destinate al Senato e inviate da generali, governatori, magistrati
* «Quaderni di Retorica e Poetica” 1985, 11-15. ' Libro VI, vv. 168-169. ? Un tempo identificato con Demetrio Falereo o di Falero, stato governatore di Atene per conto dei Macedoni nel II secolo a.C., è situato oggi nella seconda metà del II secolo a.C. > Cicerone ne riporta un’eco in Epist. ad famil. XV .21, 4 aliter scribimus quod eos solos quibus mittimus, aliter quod multos lecturos putamus.
340
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
in forma di rapporti su fatti di pubblico interesse avvenuti nelle rispettive aree di competenza; solo in seguito anche i Romani scrivono lettere “aperte” o pamphlets; così nel I secolo a.C. Cicerone, Cesare, Antonio, Sallustio. Cicerone scrive
lettere al fratello Quinto o a Pompeo, che in realtà sono lettere aperte ai politici romani, nelle quali vengono trattati problemi fondamentali della situazione sociale e politica e sottoposte all’ opinione pubblica soluzioni e proposte. Nella cultura latina, almeno da quanto testimonia la raccolta degli Epistolographi Latini minores, vi è notizia di lettere o private o pubbliche addirittura nell’età dei Tarquini e in seguito nei primi tempi dell’età repubblicana; ma sono considerate in generale falsificazioni di scrittori posteriori; la prima notizia certa di una lettera pubblica riguarda Marco
Furio Camillo,
dittatore,
comandante
dell’assedio di Veio*, inviata al Senato per interpellarlo sulla destinazione e distribuzione della preda, che in città così ricca e grande si annunciava straordinaria e abbondante; mentre la prima notizia certa di una lettera privata è dell’età di Catone il Vecchio, a lui stesso attribuita: il destinatario è il figlio Marco, allora recluta nell’esercito di Popilio durante la guerra contro Perseo di Macedonia’. Dopo l’età di Catone si infittiscono gli scambi di lettere private. Testimonianza monumentale dell’attività epistolare dei Romani del I secolo a.C. è l’epistolario di Cicerone, pubblicato dopo la sua morte dall’amico Tito Pomponio Attico; nel 44, un anno prima della morte, Cicerone aveva espresso l’idea di pubblicare una settantina delle sue lettere; Attico e Tirone, che, prima
segretario di Cicerone, fu poi il curatore e l’editore dell’epistolario, ne pubblicarono 774: non tutte, ma moltissime. Nei 37 libri dell’epistolario sono largamente presenti i tre fini istituzionali del genere: comunicazione ufficiale, comunicazione privata e personale, propaganda politica. Nei tre trattati premessi dallo Hercher ai suoi Epistolographi Graeci® (che
sono i typi epistolares, tomo. E16 TOALXOL, attribuiti dalla tradizione al retore Demetrio, ma assegnati dai dotti moderni ad un momento imprecisato tra
il I secolo a.C. e il I d.C., il de forma epistulari, negì ÈmrotoMpatov yaeaxtneoc, del platonico Proclo del V secolo, una sezione, 223-235, del de elocutione del Demetrio già citato) si possono trovare elementi sufficienti per ricostruire pur in forma sommaria ed essenziale la teoria dei retori greci e degli scrittori latini sulla situazione e sulla struttura della lettera in generale e in particolare della lettera privata e familiare. * Secondo Proclo, che registra una tradizione consolidata, la situazione nella quale trova luogo la lettera, quale ne sia il genere, è l’assenza: ETLOTOAN BEV oùv EOTLV OMLALA TIC ÈyYodupatog arévtog TEdG drévta yivouévn, 4 Nell’anno 396 a.C.
5 171-169 a.C. ° Paris, Didot 1873.
STRUTTURA DELL’ EPISTOLA FAMILIARE NELLA TEORIA CLASSICA
Eget dÉ tic Ev aùrtij drteo dv Tay
341
Tic MEdG MaQdvta (“L’epistola è
dunque per cosi dire una conversazione scritta (trascritta) di un assente con un assente, ma vi si diranno le cose che uno presente direbbe ad un interlocutore presente”). Il fine per il quale si istituisce la lettera è la sostituzione della comunicazione orale, resa impossibile dall’assenza; la lettera, sostituto
della comunicazione orale, è una comunicazione scritta con l’assente. La situazione dell’assenza si realizza nello spazio: lo scrivente è lontano dal destinatario, il destinatario è lontano dallo scrivente; ma anche nel tempo: il destinatario leggerà la lettera nel futuro: il destinatario sta nel futuro quando lo scrivente scrive la lettera e lo scrivente starà nel passato quando il destinatario leggerà lo scritto. La situazione nella quale trova luogo la lettera privata implica la destinazione ad una sola persona e quindi il segreto epistolare. Nella Philippica II, 4, 7, non pronunciata, ma fatta circolare scritta nell’autunno del 44 a.C., Cicerone attacca duramente Antonio tra l’altro perché aveva letto in pubblico una lettera privata da Cicerone stesso a lui indirizzata: at etiam litteras, quas me sibi misisse diceret, recitavit homo et humanitatis expers et vitae communis ignarus. Quis enim umquam, qui paulum modo bonorum consuetudinem nosset, litteras ad se ab amico missas offensione aliqua interposita in medium protulit palamque recitavit? (“Ma addirittura lesse pubblicamente una lettera che sosteneva essergli stata mandata da me, (mostrando così di es-
sere) uomo privo di cultura e ignaro delle regole della vita associata. Infatti chi mai, che conosca anche poco la buona creanza (bonorum consuetudinem:
le abitudini delle persone per bene), a causa di qualche offesa, ha esibito e letto in pubblico una lettera speditagli da un amico?”). Ma questa è già la situazione della lettera familiare: infatti Cicerone continua nello stesso passaggio della II Philippica osservando che rendere pubblica una lettera inviata ad un uomo creduto amico significa tollere amicorum colloquia absentium (“abolire i colloqui tra gli amici assenti (lontani)”), cioè: eliminare la condizione essenziale della lettera privata (la riservatezza) impedisce che si istituisca la situazione caratteristica della lettera familiare, che
comporta la confidenza e la franchezza propria della comunicazione (colloquio o dialogo) tra amici: quella confidenza che consente agli amici di scriversi scherzosamente e seriamente di cose da ridere e di cose gravi; nello stes-
so passo Cicerone: quam multa ioca solent esse in epistulis, quae prolata si sint inepta videantur! quam multa seria neque tamen ullo modo divulganda! (“Quanti scherzi vi sono di solito nelle lettere, che resi pubblici parrebbero sciocchi! Quante cose serie e tuttavia da non divulgarsi!”). La situazione di riservatezza, di confidenza e di franchezza che è propria della lettera familiare implica anche, come si vede, la definizione dei contenuti: oltre al generico
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
invio di notizie, vi è soprattutto la espressione dei propri sentimenti e la partecipazione ai sentimenti dell’amico nella buona e cattiva fortuna, e la manifestazione dei propri pensieri. Che Proclo attingesse ad una dottrina consolidata si rileva osservando che nel definire la fondamentale forma epistolaris egli la identifica con una outMa cioè “conversazione”, che Cicerone chiama le lettere familiari amicorum colloquia, che Demetrio nel già menzionato de elocutione 223 riporta le definizioni che Artemone, editore delle epistole di Aristotele, dà della lettera come
della metà di un dialogo: ‘Agtéuov pèv obv pnoîv sivar tv EMLOTOANY oiov TÒ EtEQov péo0g Tod SLaX6yov (“Artemone dice che la lettera è come la metà del dialogo”). La lettera privata e familiare si struttura dunque come la metà di un dialogo con un amico ovvero consiste nella metà di una conversazione orale e
improvvisata: 6 è1dA0yog UEV yae pipeitar adtooyedialtovta (“il dialogo (la conversazione) infatti imita chi parla all’improvviso” (Demetrio 224). Scrive Cicerone al fratello Quinto (XVI.45) cum tua lego te audire et... cum,
ad te scribo, tecum loqui videor. Dunque la metà di una conversazione orale e improvvisata con un interlocutore lontano collocata nel futuro in sincronia con il momento in cui il destinatario con la lettura della lettera realizzerà e completerà la struttura dialogica. E l’interlocutore o destinatario,
assente e
lontano, deve essere appunto ben presente nell’immaginazione di chi scrive la lettera, al punto che questi dovrà congetturare quali saranno le sue reazioni nel leggere e sappia tenerne conto nello svolgimento del discorso: OToYyaoTEOV Yao Tod ME0Cc@MOD d Yedpetar (“bisogna infatti congetturare il volto di colui al quale si scrive”); proprio come in un colloquio chi parla osserva nel viso dell’ascoltatore i segni prodotti dall’impressione che le sue parole fanno nel suo animo. Tanto maggiore l’attenzione quanto più sincero il discorso, quale la lettera familiare consente e richiede. Dal momento che la forma della lettera privata è la metà di un dialogo, la
lettera si scriverà nello stile del dialogo, della conversazione (è1ato1ipn, sermo): nello stile umile: Em1otoAxdg yaQaxtHe Seitat ioyvétntog (“il genere epistolare necessita dello stile tenue”) dichiara Demetrio; Cicerone, mentre sottolinea che le lettere private si scrivono diversamente (aliter) da
quelle pubbliche, precisa più volte che il loro stile è appunto quello umile: epistulas vero cotidianis verbis texere solemus o addirittura, sempre nella stessa lettera" quid tibi ego videor in epistulis? nonne plebeio sermone agere tecum? Sermo plebeius e cotidiana verba costituiscono l’humile ac tenue di7 Teone Progymnasata 20.
8 Ad familiares IX.21, 1.
STRUTTURA DELL’ EPISTOLA FAMILIARE NELLA TEORIA CLASSICA
343
cendi genus impiegato nella lettera privata e familiare; sermo plebeius e cotidiana verba sono usati nella conversazione orale e improvvisata; lo stesso materiale linguistico che si usa nel dialogo e quindi anche nella lettera: dei év
TO ata TEOTH SidAoyov Te yed@erv xai Emo toAdcs (“bisogna scrivere dialogo e lettera nello stesso modo”, Demetrio). Accanto alle chiacchiere (AaAsciv) e agli scherzi (iocari, ioca), cioè al parlare in libertà proprio della lettera all’amico, lo stile umile della lettera esibisce due caratteri della conversazione: urbanitas, varietas, che Seneca? così spiega: varius nobis fuit sermo, ut in convivio, nullam rem usque ad exitum adducens sed aliunde alio transiliens (saltar di palo in frasca).
Ma c’è una differenza — sempre nell’analisi degli antichi — tra dialogo (conversazione) e lettera; Demetrio nota che il dialogo “imita chi parla all’improvviso, mentre la lettera viene scritta e per così dire mandata in dono; perciò deve essere elaborata con maggior arte (Otoxateoxevdoat) del dialogo”. Il dialogo è dunque un’improvvisazione fittizia, la lettera è la stilizzazione letteraria della conversazione: la maggiore elaborazione artistica è diretta appunto alla ricostruzione scritta del linguaggio parlato: quella lingua colloquiale propria in realtà della conversazione degli uomini colti (i soli che si scrivessero lettere), nella quale sono scritte le lettere familiari. Un segnale di particolare peso della presenza nella lettera familiare in lingua latina di una raffinata tecnica diretta alla costruzione di un messaggio destinato a costituire la metà di una conversazione è rappresentato dal tempo in cui sono coniugati i verbi del congedo: il punto di riferimento della consecutio temporum non è il momento nel quale viene scritta la lettera, ma quello nel quale essa verrà letta: appunto la lettera è spedita non solo lontano, ma anche nel futuro, quando il dialogo si realizzerà. Un finissimo artificio dello stile umile per afferrare un momento futuro nel quale con le parole di tutti i giorni un amico possa incontrare un amico cui confidare in libertà e franchezza, scherzando e sul
serio, cose da ridere e cose gravi!°. | La lettera familiare nella teoria e nella pratica degli antichi — peraltro riesce difficile pensare ad altri che non sia Cicerone — riflette sul piano della struttura letteraria e dello stile la volontà di afferrare e rappresentare situazioni, sentimenti, emozioni della vita quotidiana e personale e di renderne più
intensa l’esperienza comunicandole agli amici. Presso i Greci e i Latini l’amicizia rappresentò uno spazio da cui l’uomo attingeva parte delle energie necessarie per affermare la propria individuale presenza; e Cicerone ha lasciato due monumentali testimonianze della funzione dell’amicizia nella società del suo tempo: il trattato de amicitia e le epistulae ad familiares.
° Epist. 64, 2. 10 Ad Atticum 1.18, 1; Ad familiares TX.21, 1.
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L’ARTE DELLA PAROLA" 1. LE ORIGINI SICILIANE
Nella rapida rassegna che dedica alla sistemazione e all’interpretazione della preistoria della retorica Cicerone’, richiamandosi all’autorità di Ari-
stotele, osserva che prima di Corace e Tisia vi furono bensi persone capaci di parlare ordinatamente e con cura, ma nessuno possedeva metodo e arte (via nec arte), l’approccio sistematico e tecnico consegui appunto all’affermazione della retorica. Sicché questa, mentre nell’atto, in quanto sistema di regole diretto a consentire la produzione di un discorso finalizzato alla persuasione, si colloca in uno spazio di priorità teorica e pratica, nella storia e nella storiografia viene dopo, collegata com’é da Cicerone (e da Aristotele) ad uno specifico processo storico, quello che dalla caduta della tirannide militare conduce all’istituzione della democrazia parlamentare a Siracusa e nella Sicilia orientale con le connesse azioni legali per il ricupero * Lo spazio letterario di Roma antica. Volume II. La circolazione del testo, Roma 1989, 215-
267. ! Brutus, 12 45: Pacis est comes otique socia et iam bene constitutae civitatis quasi alumna quaedam eloquentia. 46. Itaque ait Aristoteles, cum sublatis in Sicilia tyrannis res privatae longo intervallo iudiciis repeterentur, tum primum, quod esset acuta illa gens et controversia } natura, artem et praecepta Siculos Coracem et Tisiam conscripsisse — nam antea neminem solitum via nec
arte, sed accurate tamen et descripte plerosque dicere (“L’eloquenza è compagna della pace e socia del tempo libero e, per cosi dire, trova alimento in uno stato ormai ben fondato. 46. E cosi dice Aristotele che quando, eliminati in Sicilia i tiranni, dopo lungo tempo si intentavano processi per ottenere la restituzione di patrimoni privati, allora per la prima volta, poiché quella popolazione è di mente acuta e per natura (incline alle) controversie legali, i siciliani Corace e Tisia composero per iscritto un’arte e delle regole — infatti prima nessuno era solito tenere discorsi secondo un metodo e un’arte, ma tuttavia una gran parte teneva discorsi con cura e ordinatamente”). In generale sulla dottrina e sulla storia della retorica antica si vedano: Ernesti, I.C.T., Lexicon Technologiae Graecorum Rhetoricae, Lipsiae 1795 (rist. Hildesheim 1983); Ernesti, IC.T., Lexicon Technologiae Latinorum Rhetoricae, Lipsiae 1797 (rist. Hildesheim 1983); Volkmann, R., Die Rhetorik der Griechen und Roemer, Lipsia 1885 (rist. Hildesheim 1987); Lausberg, H., Elemente der literarischen Rhetorik, Monaco 1949 (2.ed.1967); ed.it.: Elementi di retorica, Bologna 1969; Perelman, C. - Tyteca L., Traité de l'argumentation. La nouvelle rhétorique, Parigi 1958; tr.it. Trattato dell'argomentazione. La nuova retorica, Torino 1966; Lausberg, H., Handbuch der literarischen Rhetorik, Monaco 1960; Clarke, D.L., Rhetoric at Rome. A Histo-
rical Survey, Londra 1962; Kennedy, G., The Art of Persuasion in Greece, Princeton 1963; Barthes, R., L’ancienne rhétorique. Aide-mémoire, in COMMUNICATIONS n. 16, 1970; tr.it, La retorica antica, Milano 1972; Florescu, V., La retorica nel suo sviluppo storico, Bologna 1972; Kennedy,G., The Art of Rhetoric in the Roman World, Princeton 1972; Riposati, B., La retorica in Introduzione allo studio della cultura classica, Milano 1973; Martin, J., Antike Rhetorik. Technik
und Methode, Muenchen 1974; Eisenhut, W., Einfuehrung in die antike Rhetorik und ihre Geschichte, Darmstadt 1974; Barilli, R., Corso di retorica, Milano 1976 (2.ed.1995); Kennedy, G., Greek Rhetoric under Christian Emperors, Princeton 1983; Mortara Garavelli, B., Manuale di
retorica, Milano 1988 (2. ed. 1997); Plebe, A., Storia della retorica antica, Bari 1988; Plebe, A.Emanuele, P., Manuale di retorica, Bari 1988.
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
346
dei patrimoni confiscati al momento della presa del potere da parte dei tiranni.
2. NASCITA
DELL’ ELOQUENZA A ROMA
Anche a Roma si pronunciarono discorsi prima che la retorica vi fosse conosciuta, studiata e praticata; la più antica orazione, tramandata per iscritto, secondo Cicerone? fu tenuta nel 280 a.C.: Appio Claudio, detto Cieco, parlò in Senato per dissuadere i Romani dal far pace con Pirro dopo la disfatta di Eraclea. Certamente prima furono tenute davanti al Senato e al Comizio altre orazioni, delle quali tuttavia non abbiamo notizia; di questa, che le raccolte intitolano de Pyrrho rege, Cicerone (I sec. a.C.) e Quintiliano (I sec. d.C.) leggevano il testo e lo lodavano; noi ne leggiamo in vari autori dei cenni, in Plutarco e Appiano (autori greci del I-II sec.) il riassunto per sommi capi delle argomentazioni. Ennio ne diede una rielaborazione poetica negli Annali: vi è chi sospetta che il testo dell’orazione non sia mai stato scritto, dal momento che vi è precisa testimonianza che a Roma Catone fu il primo oratore a scrivere e pubblicare i suoi discorsi; ma sia stato inventato seguendo la rielaborazione poetica data da Ennio, in età posteriore all’autore, magari in una scuola di retorica del I sec. a.C., poiché Cicerone dice di averlo letto. Ad un’epoca un poco più recente si riferisce la notizia di Seneca riguardante Tiberio Coruncanio, scelto come modello dagli amanti dell’eloquenza arcaicizzante insieme con Appio Claudio’. * Brutus, 15-16 61: Nec vero habeo quemquam antiquiorem, cuius quidem scripta proferenda putem, nisi quem Appi Caeci oratio haec ipsa de Pyrrho et nonnullae mortuorum laudationes forte delectant. Et hercules eae quidem exstant (“Né invero posso menzionare qualche oratore più antico, del quale creda di poter esibire gli scritti, salvo che per caso a qualcuno piacciano proprio
questa orazione De Pyrrho e alcuni discorsi in lode dei defunti”). > Che Catone abbia di proposito scritto le sue orazioni dando inizio ad una pratica prima di lui non usuale a Roma, si induce oltre che dalla testimonianza di Cicerone citata nella nota preceden-
te, anche dal Brutus 80-81, dove è menzione dell'orazione contra Servium Galbam ad populum: quam etiam orationem scriptam reliquit, e inoltre dalla considerazione che nella orazione de sumptu suo egli fa leggere il testo di un altro discorso e che nelle Origines inserì i testi di due sue orazioni: la pro Rhodiensibus e la contra Servium Galbam pro direptis Lusitanis. Quanto a Tiberio Coruncanio, Seneca, epist. 114 12: Multi ex alieno saeculo petunt verba, duodecim tabulas locuntur. Gracchus illis et Crassus et Curio nimis culti et recentes sunt, ad Appium usque et Coruncanium redeunt (“Molti cercano le parole in altri secoli, parlano la lingua delle Dodici Tavole. Per loro i Gracchi e Crasso e Curio sono troppo raffinati e recenti, tornano indietro fino ad Appio e Coruncanio”). Sull’oratoria e sulla retorica latina d’età arcaica si vedano: G. Boissier, L’introduction de la rhétorique grecque a Rome, in Mélanges Perrot, Paris, Hachette, 1903: C. Bione, I piu antichi trattati di arte retorica in lingua latina, Pisa, La Nuova Italia, 1910 (rist.
1965); F. Sbordone, L’eloquenza in Roma durante l’età repubblicana, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1965; R. Stark (a cura di), Rhetorika, Hildesheim, Olms, 1968.
L’ARTE DELLA PAROLA
347
3. LA RETORICA GRECA A ROMA
Accanto alla notizia che Catone per primo scrisse e pubblicò le sue orazioni si devono collocare due informazioni pertinenti alla storia della retorica a Roma: che Catone intraprese lo studio della lingua e della cultura greca aetate iam declinata, in età ormai avanzata; che nel 161 a.C. il Senato
espulse da Roma i retori greci che vi tenevano insegnamento. Da queste due notizie si induce come certa la presenza sia di manuali sia di scuole di retorica a Roma nella prima metà del II secolo a.C.; per la seconda metà (intorno agli anni nei quali i Gracchi condussero i loro tentativi di riforma) è prova sufficiente della trionfante diffusione della retorica un famoso frammento del satirico Lucilio: “Ora invece da mattina a notte, in giorno festivo e feriale, tutto il popolo e i patrizi del pari e senza eccezioni, tutti si agitano nel foro, non se ne vanno altrove, tutti si dedicano ad una sola e medesima
occupazione e arte, di imbrogliarsi accortamente con le parole, contendere con gli inganni, gareggiare con i complimenti, simulare di essere un uomo onesto, tendere agguati, come se tutti fossero nemici di tutti”. I manuali di retorica scritti in greco, che circolano a Roma nella prima metà del II secolo a.C., verosimilmente accompagnarono l’immigrazione dei professori, servi o liberi che fossero; il bisogno di manuali in latino cominciò ad essere avvertito forse proprio per opera di Catone; ma solo di un’opera scritta in latino de ratione dicendi (“Tecnica del discorso”), attribuita all’oratore Marco Antonio, vi sono notizie attendibili.
4. CATONE IL VECCHIO
La rivendicazione non solo della legittimità, ma della necessità di una ars dicendi in lingua latina e l’attribuzione di un carattere tecnicistico allo
4 Su Catone si veda Quintiliano, XII 11.23; il senatusconsultum del 161 a.C. è conservato da Svetonio, De grammaticis et rhetoribus, 25, 2; Lucilio, Saturarum reliquiae, a cura di N. Terzaghi-I. Mariotti, Firenze, Le Monnier, 1966, 1126-32 (=1228 Marx): Nunc vero a mani ad noctem,
festo atque profesto / totus item pariterque die populusque patresque / iactare indu foro se omnes, decedere nusquam, / uni se atque eidem studio omnes dedere et arti / verba dare ut caute possint,
pugnare dolose, / blanditia certare, bonum simulare virum se, / insidias facere, ut si hostes sint omnibus omnes. Per un’interpretazione complessiva della poetica, dello stile e delle scelte lessicali, della natura e della funzione del realismo nella satira di Lucilio si vedano: A. Pennacini, Docti e crassi nella poetica di Lucilio, Torino, Accademia delle Scienze, 1966, 293-360; Id., Funzioni
della rappresentazione del reale nella satira di Lucilio, Torino, Accademia delle Scienze, 1968, 311-435.
348
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
studio
appartengono,
da
Catone
fino
al
tempo
di
Gaio
Mario,
all’orientamento anti-ellenico della parte popolare. Per la prima basta far riferimento al frammento notissimo dei Libri ad Marcum filium, dove Catone dichiara una risolutissima ostilità e avversione verso la cultura e la tecnica (la medicina)
dei
Greci;
per
la seconda
si consideri
la definizione
dell’oratore come galantuomo esperto nell’arte del dire (vir bonus dicendi peritus), dove senza dubbio i due elementi sono nettamente distinti e indipendenti: onestà e possesso della tecnica. La questione se, come, quanto Catone conobbe e impiegò la tecnica retorica greca si può affrontare esaminando i procedimenti stilistici e retorici presenti nei frammenti delle orazioni. L’esame dei testi mostra che Catone conosce una tradizione di stile propriamente latina e che ne usa consapevolmente i suggerimenti: una analisi dell’exordium della pro Rhodiensibus, pronunciata da Catone nel 167 a.C., inserita, come
attesta Livio, nel libro V delle Origines,
della quale Aulo
Gellio ha trasmesso sette frammenti, mostra che la maggior parte dei procedimenti ivi accertati è bensi nota attraverso la retorica greca, ma nello stesso tempo ha un sostrato italico: nessi sinonimici, ripetizioni o anafore, cumuli,
allitterazioni, redundantia; si aggiunga che tali procedimenti in nessun testo greco ricorrono con tanta frequenza e che anche l’oratoria classica ne fece un impiego molto parco, mentre arcaisti, come Sallustio e Gellio, ne furono
entusiasti. Ma l’esame dei testi rivela anche la presenza di figure di pensiero e mostra che le argomentazioni sono spesso e volentieri organizzate in forma di entimemi e talora di paradigmi o esempi. Gli entimemi compaiono nelle forme tipiche dell’uso retorico, dove la premessa maggiore consiste in un verisimile fondato su un concetto generale a livello di opinione comune o di affermazione statistica (“di solito”, “il più delle volte”, “la maggior parte”) e la struttura è variamente abbreviata o ellittica; quanto ai paradigmi o esempi è sufficiente ricordare che tra i rilievi che Tirone, segretario e liberto di Cicerone, fece a questa orazione di Catone ed espose in una lettera scritta a Quinto Assio, amico di Cicerone, dei quali Aulo Gellio nelle Atti
cae Noctes? riferisce, ve n’è uno che riguarda l’uso del ragionamento per induzione. Scrive Gellio che Tirone accusò Catone di avere impiegato argomentazioni disoneste, astute e ingannevoli o, addirittura, malizie degne di
sofisti greci. Infatti, dice Tirone, essendo rivolta ai Rodii l’accusa di aver voluto far guerra ai Romani, Catone affermò che non meritavano punizione,
perché non l’avevano fatta, anche se avevano vivamente desiderato di farla; dice Tirone che a questo punto Catone “introdusse nel suo discorso il procedimento che i dialettici chiamano induzione (€maywyn), che è ragiona° Gellio, VI 3 8 sgg.
L’ARTE DELLA PAROLA
349
mento insidioso e sofistico, escogitato più per l’inganno che per la verità”. Catone avrebbe cosi tentato con esempi ingannevoli di dimostrare e provare che non è giusto punire chi volle commettere
una cattiva azione, se non ha
anche realizzato questa sua volontà. Il ragionamento per induzione è un procedimento che perviene o tenta di pervenire alla dimostrazione e alla prova mediante esempi. Mentre Tirone e Gellio parlano di &mtay®y1, seguendo molto probabilmente Cicerone, che nei Topica 42’ così la descrive: “Vi sono
delle similitudini che attraverso parecchi confronti giungono dove vogliono [...]. Questo procedimento, che perviene dove vuole attraverso parecchie stazioni, si chiama induzione; in greco prende nome di éxaywyn; moltissimo se ne servi nei dialoghi Socrate”, Aristotele preferisce la dizione tagddetyua per il procedimento impiegato in retorica, riservando énaywyn per il procedimento impiegato in filosofia". L’esempio è sostanzialmente un riferimento alle procedure di ragionamento e di comportamento degli uditori, pertinenti in qualche modo all’affermazione della quale si vuol dimostrare la credibilità. L’oggetto portato ad esempio deve possedere, per quanto e come lo conoscono
gli uditori, caratteri tali che consentano di considerarlo
analogo all’oggetto in questione, così che si possa indurre che l’oggetto in questione possiede caratteri e qualità, che in esso l’uditore non vede, ma vede e sa (crede ed è convinto) esservi nell’oggetto portato ad esempio. Naturalmente non contano le cose quali sono in realtà, né quali le vede l’oratore, ma quali le vede il pubblico. Si comprende che taluni “esempi” apparissero ingannevoli, come mostra di temere che avvenga spesso Tirone, il quale accusa esplicitamente Catone di avere impiegato una induzione fatta di argomentazioni poco oneste e troppo audaci, ma astute e ingannevoli. Gellio riconosce che le critiche di Tirone non sono insensate e per ribatterle discute e analizza il procedimento di Catone. Per dimostrare, per convincere e persuadere i senatori che non è giusto considerare una colpa dei Rodii avere desiderato che i Romani perdessero la guerra contro la Macedonia, Catone, osserva Gellio, “cercò e raccolse cose che né il diritto naturale né il diritto delle genti proibiscono, ma soltanto leggi proposte e votate in circostanze particolari”. “Queste leggi” continua Gellio “vietano di fare talune cose, non di desiderare di farle”. “Queste cose Catone paragonò” continua ancora Gellio “e gradualmente mischiò con ciò che di per sé non è onesto né fare né voler fare”, come desiderare che il proprio amico e alleato perdesse
6 Gellio, VI 3 35: induxisseque eum dicit, quam dialectici émaywynv appellant, rem admodum insidiosam et sophisticam neque ad veritates magis quam ad captiones repertam.
? Cicerone, top. 42: Sunt enim similitudines quae ex pluribus conlationibus perveniunt quo volunt [...]. Haec ex pluribus perveniens quo vult appellatur inductio, quae Graece émaywyn nominatur, qua plurimum est usus in sermonibus Socrates.
8 Aristotele, rhet. 1356b.
350
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
la guerra e desiderare di entrare in guerra contro il proprio amico e alleato. E secondo Gellio la mistione riesce a celare la “disparita delle similitudini” cioè la disomogeneità degli oggetti comparati. La mistione implica ius naturae (diritto naturale), ius gentium (diritto internazionale) e ius /egum (diritto posto in essere dalle leggi dello Stato); da quest’ultimo sono tratti exempla pertinenti ai rapporti tra persone, che vengono comparati ad una situazione che ricade nella sfera del diritto internazionale. Il riferimento a comportamenti vietati o consentiti dalle leggi metteva in moto un processo di coinvolgimento dei senatori, conducendoli a considerare i rapporti tra Roma e Rodi analoghi a quelli, da loro ben conosciuti, correnti tra senatori romani. È chiaro che, se i rapporti internazionali non sono omologhi con i rapporti interpersonali, allora gli esempi sono ingannevoli e tutto il procedimento mette in atto delle captiones (frodi, cavilli, sofismi). Tirone, secondo quanto riferisce Gellio, segnalava anche un entimema cattivo (vizioso) e di nessun valore (hoc, inquit, enthymema nequam et vitiosum est): ea nunc derepente tanta beneficia ultro citroque, tantam amicitiam relinquemus? quod illos dicimus voluisse facere, id nos priores facere occupabimus? “Dobbiamo ora subito abbandonare quegli obblighi reciproci cosi grandi, l’amicizia cosi grande? Faremo noi per primi quello che diciamo che essi hanno voluto fare?”; l’entimema si analizza cosi: premessa maggiore: “Tra Romani e Rodii c’è una grande amicizia”; premessa minore: “i Romani dicono che i Rodii hanno voluto troncarla”; conclusione: “i Romani la troncheranno prima?”. È evidente, credo, che la premessa minore non possiede quei requisiti di verosimiglianza che consentono di poterla usare efficacemente in un procedimento
dimostrativo;
la conclusione
poi non è realmente
una conclusione,
bensi un’interrogazione che esprime retoricamente un dubbio. Del resto già Tirone aveva visto e Gellio non negava che Catone assimilava illegittimamente situazioni definite dal diritto internazionale con situazioni definite dal diritto civile. Non vi fu punizione dei Rodii; è possibile che i senatori
siano stati persuasi dalle argomentazioni di Catone; in questo caso bisogna ammettere che Catone scelse le argomentazioni adatte e che i senatori non le considerarono dei sofismi. D’altra parte è anche possibile supporre che neanche lui le considerasse sofismi; cioè che fosse tanto partecipe di quella mentalità, da applicare senza problemi le regole del diritto privato alle relazioni di diritto internazionale, considerando gli Stati come persone. Non pa-
re che un impiego cosi sottile ed eventualmente mistificante di tali argomentazioni possa essere suggerito solo dalla pratica e trovi un fondamento solo nell’area del pragmatismo. Se peraltro Catone non attinse alla retorica greca, fu sicuramente la posteriore retorica ed oratoria latina che attinse da lui: di questo è possibile trovare qualche traccia; in altre parole Catone può, almeno fino al classicismo ciceroniano e già di nuovo nell’età d’ Augusto,
L’ARTE DELLA PAROLA
Soul
per esempio con Asinio Pollione, avere sostenuto in competizione con i mo-
delli greci, i maestri e la retorica greca il ruolo di pater dell’ eloquenza politica in lingua latina. Appare verosimile che Catone abbia conosciuto la retorica greca, anche se non ne fu innamorato, e sapesse servirsene bene e con freddezza. Egli pose comunque a Roma una questione che impegnerà dopo di lui gli intellettuali e gli oratori romani almeno fino a Cicerone, al quale dobbiamo la maggior parte delle notizie che la riguardano. È la questione del rapporto tra la materia del discorso (res) e la sua forma (elocutio). Questione che implica anche il senso e la funzione da attribuirsi alla retorica: scrivendo che l’oratore è vir bonus dicendi peritus e rem tene, verba sequentur Catone prendeva una posizione chiara, secondo la quale la preminenza toccava all’uomo e ai suoi problemi, al vir (bonus) e alla res; questo significava attribuire alla retorica una funzione non culturale, ma meramente tecnica’.
5. L'ORATORE MARCO ANTONIO
Su posizione
simile, secondo
quanto trasmette
Cicerone,
si trovò, due
generazioni più tardi, il grande oratore Marco Antonio (143-87), il quale giudicava di preminente importanza l’inventio (Catone appunto diceva rem tene, verba sequentur, e la res è la quaestio), cioè la tecnica di trovare gli argomenti e le prove, ars topica o inveniendorum locorum, e la dispositio, l’arte di collocarli in un ordine opportuno e finalizzato al conseguimento della convinzione; veniva poi la memoria e infine l’actio; all’efficace esecuzione di queste operazioni Antonio reputava più pertinente la pratica della professione forense che una vasta cultura filosofica e letteraria. Nel suo manuale de ratione dicendi, di cui sono pervenuti due frammenti, Antonio teo-
rizzava in latino questa concezione tecnicistica e non letteraria della retorica, dove all’elocutio è lasciato poco spazio.
? H. Jordan, Marci Catonis praeter de re rustica quae extant, Leipzig, Teubner, 1860, Libri ad Marcum filium (Rhetorica) fr. 14. Sull’oratoria di Catone il Vecchio si vedano: A. Pimmer, Der Prosarhythmus in Catos Reden, in Festschrift fiir K. Vretska, Heidelberg, Winter, 1970; M.T. Sblendorio, Note sullo stile dell’oratoria catoniana, “AFLC” XXXIV, 1971, 5-32; G. Calboli, Cicerone, Catone e i Neoatticisti, in Ciceroniana. Hommage à K. Kumaniecki, Leiden, Brill, 1975;
E. Malcovati, Sull’orazione di Catone de bello Carthaginiensi, “Athenaeum” LXIII, 1975, 20511; A. Pennacini, Figure di pensiero nell’orazione pro Rhodiensibus di Catone, in “Retorica e politica”, Padova, Liviana, 1977; M. Porci Catonis Oratio pro Rhodiensibus, a cura di G. Calboli, Bologna, Pàtron, 1978.
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
852
6. I RHETORES LATINI
A Marco Antonio, pur senza mettere per iscritto le proprie idee, si opponeva l’altro grande oratore di quel tempo, quasi coetaneo, Lucio Licinio Crasso (140-91); egli riteneva che la materia, sulla quale si esercitava l’inventio, fosse una infinita o magna silva (de orat.II 65-70; II 93), un va-
sto territorio folto di nozioni, di conoscenze complesse e disparate, di elementi di filosofia e di letteratura. In sostanza Crasso delineava un oratore fornito di un’ampia e profonda cultura umanistica, che costituiva un grosso serbatoio da cui attingere la materia specifica di un discorso (de orat.I 59 72; 128; 158). Restava perciò a questo punto la redazione o stesura formale del testo dell’orazione: nell’operazione occupava quindi un luogo di rilievo la cosiddetta elocutio, che istituiva il discorso nella forma con la quale l’oratore l’avrebbe presentato al pubblico; quindi l’attenzione di Crasso si concentrava sulle scelte lessicali, sull’ordine delle parole, sulle strutture dei
periodi e delle frasi, sulle clausole. La posizione di Crasso, avversa ad una concezione tecnicistica della retorica, riappare illuminata e arricchita da Cicerone in altro luogo del De oratore (III 93-95), dove Crasso è introdotto a dire che egli non dispera (il dialogo si immagina tenuto nel 91 a.C.) che la retorica sarà trattata elegantemente in latino quando vi saranno a farlo degli uomini eruditi: uomini colti e dotti, profondi conoscitori della cultura e della letteratura dei Greci; appunto, uomini forniti di quella cultura umanistica e generale che riunisce in sé tutte le più ricche e idonee fonti della materia
di
un’orazione.
Di
tali
uomini,
afferma
Crasso,
a
Roma
nell’eloquenza del suo tempo non ve ne sono ancora stati. È chiaro che Crasso non reputa sufficiente il De ratione dicendi di Marco Antonio, e che Cicerone, facendo dire ciò a Crasso, accenna a se stesso: è lui l’uomo eru-
dito, capace di trattare elegantemente la retorica in latino, che Crasso dice di attendere. Tale prospettiva implica un giudizio negativo sui tentativi precedenti; e infatti nello stesso passo Cicerone fa ricordare a Crasso che l’anno precedente (92 a.C.) Latini magistri dicendi exstiterunt: comparvero dei maestri di retorica latini, che insegnavano la retorica in latino. Contro costoro Crasso stesso, in quell’anno censore, pubblicò un editto, con il quale proibi loro di insegnare. Le motivazioni di questo divieto furono che in queste scuole dei rhetores Latini si otteneva il risultato di “indebolire gli ingegni e alimentare la sfacciataggine”. Concludendo Crasso afferma che “questi nuovi maestri non erano in grado di insegnare nulla, se non l’arroganza”. La violazione delle norme sociali del comportamento individuale, anche se è “congiunta con l’apprendimento di nozioni buone, bisogna con grande impegno evitarla, in quanto la violazione delle norme correnti è
L’ARTE DELLA PAROLA
353
di per se stessa condannabile”. Termina Crasso il suo discorso cost: “Constatato che questa sola cosa veniva insegnata (la sfacciataggine), e che quella era una scuola di sfacciataggine, stimai che toccasse al censore di provvedere che questo malanno non si diffondesse di più”. Ed ecco l’editto dei censori del 92 a.C. Gneo Domizio Enobarbo e Lucio Licinio Crasso, tra-
smesso da Svetonio nel libro De grammaticis et rhetoribus 25: “Ci è stato comunicato che taluni hanno istituito un nuovo genere di insegnamento e che la gioventù, attratta, vi si raduna per imparare; che costoro si sono dati il nome di rhetores Latini (maestri di retorica in lingua latina): ci consta che in quelle scuole dei giovani trascorrono oziosamente giornate intere. I nostri maggiori stabilirono quel che volevano che i loro figli imparassero e quali scuole frequentassero.
Queste novità, contrarie
alla consuetudine
e al co-
stume avito, sono riprovevoli e scorrette. E perciò è opportuno che rendiamo noto il nostro parere sia a quelli che tengono queste scuole sia a quelli che le frequentano, che non approviamo queste attività”!°. Il discorso attribuito da Cicerone a Crasso e il testo dell’editto dello stesso Crasso e di Domizio Enobarbo indicano, in un linguaggio apparentemente etico, in realtà politico, con sufficiente chiarezza e precisione le motivazioni
dell’opposizione alle scuole dei rhetores Latini dell’oligarchia romana, cioè del gruppo dirigente; e insieme mostrano a quali condizioni Cicerone poté, nella generazione seguita a quella di Crasso, assolvere al compito che si erano
posti i rhetores Latini; e naturalmente
anche con quali riduzioni
e
modificazioni del programma e degli scopi che, a quanto pare, i rhetores Latini avevano perseguito. Nel discorso attribuito da Cicerone a Crasso l’accento cade, come già notato, su arroganza e sfacciataggine: nozioni che
appaiono connesse con un’interpretazione etica di un gesto politicoculturale ispirata a criteri conservativi. Non mancano naturalmente anche notizie esterne sulle quali fondare l’interpretazione in senso conservativo del parere (placitum) dei censori del 92 a.C.; è noto che Crasso, iniziata la sua carriera politica nella parte popolare, dopo il tribunato della plebe (107
!° Svetonio, gramm. 25: Renuntiatum est nobis, esse homines qui novum genus disciplinae instituerunt, ad quos iuventus in ludum conveniat; eos sibi nomen imposuisse Latinos rhetores: ibi homines adolescentulos dies totos desidere. Maiores nostri, quae liberos suos discere et quos in ludos itare vellent, instituerunt. Haec nova, quae praeter consuetudinem ac morem maiorum fiunt, neque placent neque recta videntur. Quapropter et iis qui eos ludos habent, et iis qui eo venire consuerunt, videtur faciundum ut ostenderemus nostram sententiam, nobis non placere. Sulla Rhetorica ad C. Herennium si veda: I. Adamiez, Ciceros De inventione und die Rhetorik ad Herennium, Diss. Marburg 1960; G. Calboli, Cornificiana 2. L'autore e la tendenza politica della
Rhetorica ad Herennium, Bologna, Atti dell’ Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, Tipografia Compositori, 1965; Id., Cornifici Rhetorica ad Herennium, Bologna, Patron, 1969; A. Pennacini, Arcaismo e neologismo nelle teorie della prosa da Cornificio a Frontone, Torino, Giappichelli, 1974.
354
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
a.C.), se non prima, come taluni pensano, passò ai conservatori; e pare che proprio a tale passaggio dovesse il proseguimento della sua carriera fino alla pretura poco dopo il 100 (anno nel quale prese le armi per reprimere insieme con gli oligarchi la rivolta di Saturnino, tribuno della plebe), al consolato nel 95 e infine alla censura nel 92. In sostanza il tentativo dei rhetores Latini ebbe un chiaro significato politico o comunque di politica culturale: si trattava di fornire ai giovani provenienti dai ceti meno abbienti e non appartenenti alla oligarchia dei patricii e dei nobiles de plebe, giovani che non avevano studiato il greco, i mezzi per divenire oratori e cioè uomini politici; si trattava di aprire una via nazionale alla cultura superiore; si trattava anche di opporre alla cultura letteraria filo-aristocratica grecizzante una cultura nazionale latina; e ciò costituiva già di per sé un gesto politico di significato democratico.
7. RETORICA, ORATORIA E
HUMANAE LITTERAE
Come si è visto, nel parere dei censori del 92 non è fatto alcun nome dei maestri di retorica cosi autorevolmente invitati a sospendere la loro attività; tuttavia il nome di uno di loro è reso noto da Seneca Retore, il padre del filosofo, coevo di Augusto e di Tiberio, nel proemio del II libro delle Controversiae: “Plozio fu il primo in assoluto ad insegnare a Roma la retorica in latino, quando Cicerone era ragazzo”. Altre fonti completano il nome: Lucio Plozio Gallo, che, come appare nell’orazione pro Archia di Cicerone, fu anche poeta e amico di Gaio Mario. La collocazione cronologica di Seneca Retore si attaglia molto bene al 92 a.C.: puero Cicerone indica un’età anteriore ai 17 anni, e Cicerone, nato nel 106, nel 92 aveva 14 anni. Egli stesso (come riferisce Svetonio, gramm.261) scrive che alla notizia dell’apertura
della scuola dei rhetores Latini era stato preso da desiderio di frequentarla, ma autorevoli parenti e amici lo dissuasero. Un giudizio di parte oligarchica su Plozio Gallo e sulla sua attività didattica è stato lasciato da Varrone nelle Saturae Menippeae (è il giudizio di un contemporaneo: Varrone nacque nel 116 a.C.): Autumedo meus, quod aput Plotium rhetorem bubulcitarat, erili dolori non defuit (fr.257 Buecheler: “Il mio Automedonte, poiché aveva urlato come un vaccaro alla scuola del retore Plozio, non trascurò di esprimere le sue condoglianze al padrone”), e ille ales gallus, qui suscitabat faitharumf Musarum scriptores? an hic qui gregem rabularum? (fr. 379 Buecheler: “quel gallo alato che destava gli scrittori delle Muse ... o questo che sveglia un branco di cani latranti?”) dove gallus è allusione a Gallus e rabula (“can che abbaia”) designa il causidicus o dicendi peritus, preparato alla scuola di Plozio solo nella tecnica retorica in opposizione all’oratore
L’ARTE DELLA PAROLA
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perfetto e sapiente, erudito e dotto, quello che Cicerone (orat. 47) definisce: non enim declamatorem aliquem de ludo aut rabulam de foro, sed doctissimum et perfectissimum quaerimus (“non cerchiamo qualcuno che sappia declamare a scuola o abbaiare nel foro, ma un oratore dottissimo e perfettissimo”). Sicché sul versante politico la concezione tecnicistica della retorica e la preparazione di oratori rabulae, capaci soltanto di gridare o latrare, sono proprie della parte popolare, mentre gli optimates — i membri dell’oligarchia patricii e nobiles de plebe —, si riconoscono in un’oratoria nutrita di elevata
cultura e sostenuta dalle humanae litterae.
8. AL SERVIZIO DELLA POLITICA
Circa la metà degli Oratorum Romanorum Fragmenta liberae rei publicae editi da E. Malcovati, cioè dalle origini all’età di Augusto, appartiene ad orazioni tenute nel Il secolo fino al principio del I secolo a.C. Per molti anni, dopo il volontario esilio di Scipione Africano, dominò la scena politica Catone, che tenne anche moltissimi discorsi in senato, in tribunale, da-
vanti al popolo, con un’eloquenza che assai bene integrava l’abile uso della tecnica retorica con l’infiammato impeto dell’indignazione e con l’enfasi di una moralità passionale, se non talora viscerale. In essa un sostrato di procedimenti stilistici arcaici si accompagna e si incontra con i suggerimenti
dell’arte greca; le scelte di stile corrispondono alla sostanza delle posizioni morali e politiche. Il movimento vivace, le antitesi nette, la spontaneità apparente delle ridondanze e dei procedimenti sinonimici producono, pur nelle durezze del linguaggio arcaico, un prevalente effetto patetico, segnando la via dell’eloquenza romana verso Cicerone. Per la stessa via passano due dei politici romani del II secolo a.C. che portarono alla luce della storia i grossi nodi della vita sociale ed economica dell’Italia: Tiberio e Gaio Gracco; il
primo riuscendo a tradurre la passione per la giustizia e il dolore per le pene sofferte dalle plebi in descrizioni formalmente misurate, dove il sentimento del tragico si impone in una visione ferma e intensa; il secondo muovendo vivamente il discorso secondo sentimenti ed emozioni rapide e violente, de-
scrivendo, anzi rappresentando con andatura drammatica i fatti, i gesti, le azioni inique degli oligarchi. Il giudizio di Cicerone, nel Brutus, sull’eloquenza dei fratelli Gracchi è nettamente positivo. Come esempio insigne di un’eloquenza diretta più a convincere che a commuovere, dunque meno patetica e più raziocinante, si deve ricordare Scipione Emiliano, per qualche anno capo dell’oligarchia, parente per adozione e per matrimonio dei Gracchi (Cornelia, madre dei Gracchi, figlia di Scipione Africano, era sorella di suo padre adottivo, e Sempronia, sua mo-
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
glie, era sorella di Tiberio e di Gaio); questi negli ultimi anni della sua vita, tornato vincitore da Numanzia, dovette impegnarsi nella lotta scatenata da Tiberio Gracco (allora gia ucciso) per la ridistribuzione della terra demaniale (ager publicus) e prese posizione molto abilmente a favore degli Italici, che avevano in affitto grandi lotti di questa terra e l’avrebbero persa, se
la distribuzione fosse stata fatta, né avrebbero potuto parteciparvi, perché non
erano
cittadini
romani.
È stato
conservato
un
dictum,
estratto
da
un’orazione tenuta per questa causa tra il 130 e il 129, forse addirittura nel 129 poco prima della morte; ve ne sono due versioni, una di Velleio Patercolo, l’altra di Valerio Massimo. Scipione, avendo dichiarato che Tiberio Gracco, se progettava di impadronirsi dello Stato, a ragione era stato ucciso, fu soverchiato dalle urla di disapprovazione dell’assemblea popolare davanti alla quale parlava; tenendo fieramente testa alla folla tumultuante Scipione disse: Hostium armatorum totiens clamore non territus, qui possum vestro moveri, quorum noverca est Italia? (Velleio Patercolo, I 4 4: “Io, che
non ho mai avuto paura del grido dei nemici armati, come posso turbarmi per il vostro, figli bastardi dell’Italia?”); il pensiero è completo e più chiaro nel dictum trasmesso da Valerio Massimo, VI 2 3: non efficietis ut solutos verear quos alligatos adduxi (“non mi farete paura ora che siete liberi, voi che ho condotto qui in catene”); nel pensiero di Scipione la plebe urbana, che schiamazza contro di lui e per Tiberio Gracco, è composta di falsi Romani, di liberti e immigrati, addirittura di ex-prigionieri di guerra, che Sci-
pione stesso aveva condotto in catene a Roma e che ora, liberati, godono di una immeritata cittadinanza e osano urlare in faccia ad un vero Romano. Sotto l’opposizione tra plebe bastarda e Scipione, c’è un terzo termine, i socii Italici, quorum mater est Italia; anzi l'opposizione vera è tra plebe bastarda e Italici. Un’eloquenza asciutta e misurata, dura e tagliente: come nella lingua Scipione vi persegui regolarità e simmetria; le scelte di stile corrispondono alle scelte politiche e morali.
9. IL TRIONFO DELLA RETORICA “UMANISTICA”
Nella tendenza innovatrice e filo-democratica dell’insegnamento della retorica in lingua latina trova luogo anche la composizione di artes dicendi; la prima — e la sola che conosciamo — è la cosiddetta Rhetorica ad C.Herennium, composta tra l’anno 88 e l’anno 82 a.C. in età di poco posteriore al De ratione dicendi del grande oratore Marco Antonio e di poco anteriore al De inventione di Cicerone; l’autore, sconosciuto, è stato identifi-
cato con Cornifico (cfr. Quintiliano, inst. II I 21: scripsit de eadem materia (rhetorica) non pauca Cornificius). Il destinatario fu un membro della illu-
L’ARTE DELLA PAROLA
BOT
stre famiglia plebea (nobiles de plebe) e filo-mariana degli Herenni. L’autore, uomo di condizione sociale elevata e di cultura superiore (rhet. Her. I 1: Etsi in negotiis familiaribus inpediti vix satis otium studio suppeditare possumus et id ipsum, quod datur otii, libentius in philosophia consumere consuevimus...: “sebbene assorbito dai miei affari privati abbia ben poco tempo da dedicare allo studio e preferisca consumare di solito i momenti liberi, che riesco a trovare, nella filosofia...”), fu forse amico di Marco Antonio (il quale, per quanto nobile, si comportò spesso da filodemocratico) e di Lutazio Catulo, conservatore, uomo colto e aperto; la sua
posizione politica fu quasi sicuramente filo-democratica; in filosofia aderi probabilmente alla nuova Academia. Parecchi passi del De inventione di Cicerone sono eguali o paralleli a passi della Rhetorica ad C.Herennium: di qui derivò la tendenza ad attribuire quest’ultima a Cicerone; oggi prevale la supposizione che entrambe le opere derivino da una tradizione greca e latina, al capo della quale i dotti collocano una téyvy di Ermagora di Temno, professore di retorica del II secolo a.C., che concepi la retorica come una sottospecie della logica, nella cui competenza ricadono tutte le questioni di diritto pubblico, in particolare quelle giuridiche e politiche. Ma l’autore della Rhetorica ad C. Herennium, in polemica con Ermagora, sostiene che in una ars dicendi si devono introdurre esempi non tratti da poeti e oratori, ma originali; inoltre, come si è visto, egli dichiara il proprio preminente interesse per la filosofia. Ermagora era considerato un retore tecnico, non interessato alla cultura generale e alla filosofia; i filosofi, nella loro consueta malizia, lo accusavano, anche in base alla considerazione che egli si avvale-
va di esempi tratti da poeti e oratori, di non essere capace di formare veri oratori. L’autore della Rhetorica ad Herennium, pur collocandosi genericamente
nella tendenza democratica e antiellenistica,
in realtà si trova nella
linea che porterà all’affermazione ciceroniana di una retorica umanistica e nutrita di filosofia e di letteratura. Si annunciava quella tendenza sincretistica già presente in talune scuole retoriche e filosofiche ellenistiche, dalle cui posizioni appunto Cicerone sarebbe partito per proporre una mediazione della contesa tra filosofi e retori per il controllo della cultura e tra Asiani e Atticisti per la priorità dei sentimenti o della ragione. Uno dei più attivi
rappresentanti di questo sincretismo fu Antioco d’Ascalona in Palestina, nato tra il 130 e il 120, scolaro di Filone di Larissa: egli insegnò ad Atene, dichiaratamente tentando di combinare le dottrine dell’ Academia, della Stoa
e del Peripato, nel 79-78 ed ebbe tra i suoi scolari Varrone, Cicerone e Bruto. Un impulso verso la concezione di una retorica umanistica e non meramente tecnica era venuto già da Filone di Larissa, che durante la guerra mitridatica (iniziata nell’anno 88 a.C.) tenne scuola di filosofia, presentando tra l’altro le posizioni dell’ Academia nella retorica; di Filone fu scolaro an-
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
che l’oratore Antonio, che Cicerone nel De oratore introduce a sostenere la
teoria dei /oci (o categorie generali mediante le quali l’oratore trova gli argomenti per fondare la propria dimostrazione) che si ritrova eguale, ma esposta in prima persona, nei Topica di Cicerone; e Marco Antonio fu scolaro di Carmada, fiorito ad Atene intorno al 107 a.C., discepolo di Carneade, esponente dell’ Academia, avverso anche lui alla retorica tecnicistica. Sem-
bra dunque che l’avversione al tecnicismo retorico e la spinta verso una retorica umanistica,
alimentata dalla filosofia ed essa stessa pilastro fonda-
mentale e tramite principale di una formazione culturale generale (encyclopaedia), provenga dall’ Academia. Il suggerimento fu accolto a Roma da coloro che si provarono a condurre tentativi di mediazione tra novatori e conservatori, tra le dirompenti forze dell’individualismo e la necessità, avvertita soprattutto attraverso l’adesione agli schemi del mos maiorum, di una coesione etica e culturale della nazione; Cicerone,
che da giovane fu
democratico o forse perfino mariano in politica, e provò qualche inclinazione per il tecnicismo dei rhetores Latini e per l’asianesimo nell’eloquenza, giunto alla maturità tentò la mediazione tra novatori e conservatori nella politica, nella cultura, nella letteratura, proponendo posizioni mediane, tali da assicurare la coesistenza del mos maiorum, e quindi delle tradizioni letterarie codificate, con la spinta individualistica, provinciale e della cultura,
per cosi dire, asiana e anomalistica.
10. CICERONE
Nel De oratore (55 a.C.) l'oratore Lucio Licinio Crasso (nato nel 140) è
presentato come esponente di un asianesimo equilibrato: egli sostiene che la cultura dell’oratore deve essere politica, filosofica, giuridica; la precettistica retorica viene accolta non come norma vincolante, ma come esperienza codificata posta a disposizione dei contemporanei. Nelle orazioni, come nelle opere politiche e retoriche (naturalmente anche in quelle filosofiche) appaiono la lingua e il linguaggio — lo stile della prosa — che Cicerone forni alla società romana: uno stile simmetrico, urbano, misurato, depurato da ar-
caismi, provincialismi, volgarismi, neologismi. Sobrietà formale minore di
quella richiesta dagli Atticisti, purezza della lingua maggiore di quella degli Asiani. Questo stile soddisfa alle esigenze di espressività affettiva come a quelle di una disposizione lucida e ragionevole del pensiero e del sentimento; i nessi sintattici adempiono al fine di articolare il discorso in ordine al conseguimento della dimostrazione e della persuasione. Cicerone ebbe una parte molto importante, assai larga e storicamente decisiva nell’adattamento e nella trasformazione della lingua latina in uno strumento
L’ARTE DELLA PAROLA
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di operazioni concettuali, specificamente destinato alla dimostrazione e alla descrizione dei rapporti tra gli oggetti e alla persuasione della loro verisimiglianza. La retorica fu forse la forza più dinamica ed efficace operante in questo processo di arricchimento e di rinnovamento della lingua. Essa non si contentò mai, per tutta la durata della civiltà antica e in particolare dell’impero romano, di un ruolo specialistico e parziale. Cicerone ne descri-
ve natura e fini per bocca dell’oratore Licinio Crasso nel libro I del De
oratore: Etenim cum illi in dicendo inciderint loci, quod persaepe evenit, ut de dis immortalibus, de pietate, de concordia, de amicitia, de communi civium, de hominum, de gentium iure, de aequitate, de temperantia, de magnitudine animi, de omni virtutis genere sit dicendum, clamabunt, credo, omnia gymnasia atque omnes philosophorum scholae sua esse haec omnia propria, nihil omnino ad oratorem pertinere; quibus ego, ut de his rebus in angulis consumendi oti causa disserant, cum concessero, illud tamen oratori tribuam et dabo, ut eadem, de quibus illi tenui quodam exsanguique sermone disputant, hic cum omni iucunditate et gravitate explicet (I 13 56-57); quam ob rem, si quis universam et propriam oratoris vim definire complectique vult, is orator erit mea sententia hoc tam gravi dignus nomine, qui, quaecumque res inciderit, quae sit dictione explicanda, prudenter et composite et ornate et memoriter dicet cum quidam actionis etiam dignitate. Sin cuipiam nimis infinitum videtur, quod ita posui “quacumque de re”, licet hinc quantum cuique videbitur circumcidat atque amputet, tamen illud tenebo, si, quae ceteris in artibus atque studiis sita sunt, orator ignoret tantumque ea
teneat, quae sunt in disceptationibus atque usu forensi, tamen his de rebus ipsis si sit ei dicendum, cum cognoverit ab eis, qui tenent, quae sint in quaque re, multo oratorem melius quam ipsos illos, quorum eae sint artes, esse dicturum (I 15 64-65)"!. 'l “Se in un discorso dovessero essere illustrati — cosa che capita spesso — temi come gli dèi immortali, la pietà, la concordia, l'amicizia, il diritto comune dei cittadini, degli uomini, delle genti, la giustizia, la temperanza, la generosità e ogni altro genere di virtù, tutti i ginnasi — lo credo bene — e tutte le scuole filosofiche griderebbero che tali argomenti sono di stretta loro spettanza e che non interessano per nulla l’oratore, ma quando io avrò concesso che i filosofi possano discutere di questi argomenti nel chiuso delle loro scuole, a titolo di svago, dovrò riconoscere all’oratore la facoltà di illustrare con un discorso veramente piacevole ed efficace quei temi che quelli trattano con un discorso, per cosi dire, debole e senza forza”; “se volessimo dunque dare un’esatta e completa definizione del concetto di oratore, nel suo complesso e nella sua essenza, dovremmo dire che oratore perfetto e degno di un nome cosi illustre è solo colui che, qualunque sia l'argomento che dovrà essere illustrato con la parola, saprà parlare con cognizione di causa, con ordine, con eleganza, con buona memoria e nello stesso tempo con una certa dignità di gesti. Se poi a qualcuno sembrerà eccessiva la mia affermazione “qualunque sia l’argomento”, io permetto che essa sia circoscritta e ridotta, come a ciascuno piacerà. Comunque su questo punto terrò duro: anche se l’oratore ignora ciò che appartiene alle altre discipline e agli altri studi e conosce solo ciò che è
360
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Retorica e oratoria non trovano luogo soltanto nelle aule dei tribunali e in poche altre occasioni pubbliche e private, ma intervengono nella fondazione
e
nella
costruzione
della
società,
nella
conservazione
e
di produrre inoltre consentono delle istituzioni; nell’adeguamento un'efficace opera di divulgazione, che consiste nel tradurre nei termini di un discorso generale le acquisizioni delle discipline speciali. Cicerone poté introdurre una dottrina dell’ars dicendi, in latino, nella misura in cui non
accettava di attribuirvi un significato e una funzione politica di contestazione dell’ordine e del potere costituito. Con ciò non si esclude che Cicerone, come tutti gli altri, non vedesse bene l’efficacia e la potenza della retorica nella sfera politica: la tecnica della manipolazione del consenso degli uditori ovvero l’arte della propaganda e della persuasione, per mezzo della quale il cittadino, il soldato, il suddito vengono integrati nella gerarchia dei valori e dei poteri costituiti. La retorica compie queste operazioni passando per la mente e per l’animo dell’uditore: fidem facere (convincere) e animum movere (commuovere).
La commozione
passa per i
sentimenti e le emozioni: dunque per i contenuti e per le figure di pensiero, ma anche per le figure di parola e per i tropi, poiché produce commozione anche il sentimento estetico (la percezione del “bello”). L’operazione della convinzione
dell’uomo:
si realizza
all’uditore
nella
vengono
parte
razionale,
presentate
0,
meglio,
ragionevole
idee o opinioni meritevoli
di
connesso con le discussioni e la pratica forense, dovendo discutere su questi stessi problemi a lui ignoti, purché abbia appreso dagli intenditori ciò che si riferisce a ciascun problema, parlerà molto meglio di quelli stessi che coltivano quelle discipline” (traduzioni di G. Norcio). Sull’oratoria e sull’impiego della retorica nelle orazioni di Cicerone si veda: O. Seel, Cicero, Wort, Staat, Welt, Stuttugart, Klett, 1953; J. Humbert, Les plaidoyers écrits et les plaidoyers réelles de Cicéron, Paris, P.U.F., 1925; L. Laurand, Etudes sur le stile des discours de Cicéron, Paris, Les Belles Lettres, 1940*; M.v. Albrecht, Das Proemium von Ciceros Rede pro Archia poeta und das Problem der Zweckmassigkeit der Argumentatio extra causam, “Gymnasium” LXXVI, 1969, 419-29; A. Manzo, Facete dicta Tulliana, Torino, Biblioteca della Rivista di Studi Classici, 1969; R. Meyer, Literarische Fiktion und historischer Gehalt in Ciceros De oratore, Diss. Freiburg, Stuttgart, 1970; G. Petrone, La battuta a sorpresa negli oratori latini, Palermo, Palumbo, 1971; A. Weische, Ciceros Nachhamung der attischen Redner, Heidelberg, Winter, 1972; AA.VV., Ciceros literarische Lei-
stung, a cura di B. Kytzler, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1973; K.A. Geffcken, Comedy in the pro Caelio, Leiden, Brill, 1973; E. Castorina, L'ultima oratoria di Cicerone, Catania, Giannotta, 1975; W. Stroh, Taxis und Taktik. Die advokatische Dispositionskunst in Cicero Gerichtsreden,
Stuttgart, Teubner,
1975; P. Militerni Della Morte, Studi su Cicerone
oratore.
Struttura della pro Quinctio e della pro S. Roscio Amerino, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977; H. Gotoff, Cicero ’s Elegant Style. An Analysis of the pro Archia, Urbana-Chicago-London, Univ. of Illinois Press, 1979; B. Riposati, Studi sui Topica di Cicerone, Milano, Pubblicazioni
dell’Università del S. Cuore, 1947; E. Castorina, L’atticismo nell'evoluzione del pensiero di Cicerone, Catania, Giannotta, 1952; F. Portalupi, Su//a corrente rodiese, Torino, Giappichelli, 1957;
A. Michel, Rhétorique et philosophie chez Cicéron, Paris, P.U.F., 1960; G. Achard, Pratique rhétorique et idéologie politique dans les discours “optimates” de Cicéron, Leiden, Brill, 1981.
L’ARTE DELLA PAROLA
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approvazione (probabilia). È molto importante e spesso decisivo il modo nel quale sono presentate (“codificate”) e quindi comunicate le idee e le opinioni. In tale prospettiva è fondamentale |’ e/ocutio ed in essa la funzione attribuita all’ornatus; ma a monte anche l’inventio, la dispositio, i criteri della narratio, tutti gli strumenti per l’argumentatio hanno un ruolo rilevante nel processo di codificazione. In tale processo giuoca un ruolo decisivo l’amplificatio, su cui scrisse Cicerone: Summa autem laus eloquentiae est amplificare rem ornando, quod valet non solum ad augendum aliquid et tollendum altius dicendo, sed etiam ad extenuandam atque abiciendum (De oratore, HI 104)”; è chiaro che amplificatio viene intesa in un’accezione neutra: è il procedimento retorico mediante il quale l’oratore può costruire un'immagine dell’oggetto idonea a conseguire il fine della persuasione dell’uditore. In effetti non le res (gli oggetti) sono offerte alla conoscenza dell’uditore o del lettore, bensi uno degli aspetti che può essere loro attribuito, una delle immagini che di essi può essere presentata, dal momento che al fine della persuasione ciò che in realtà conta non è la conoscenza esatta della cosa, ma l’impressione che la sua presentazione o descrizione produce. Tuttavia la retorica forni alle letterature antiche dei procedimenti atti alla descrizione realistica e alla satira demistificatoria, per esempio l’inopinatum (o ameocdoxntov) e lo Éevixov (o straniamento), spiegati come procedimenti che producono nella psiche dell’uditore o del lettore uno choc, un trauma derivati dall’imprevista, inattesa descrizione di un oggetto altrimenti noto. Nel De oratore Cicerone fa presentare dai due grandi oratori della generazione precedente, Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, le due posizioni
che si fronteggiavano a Roma nell’oratoria e nella retorica. Ad Antonio viene attribuita una posizione prevalentemente tecnicistica; il discorso, a suo parere, è il risultato di tre operazioni: inventio, dispositio, memoria; il me-
todo dell’inventio è quello dei Topica di Aristotele e poi di Cicerone; nella dispositio si realizza la capacità di manovrare strategicamente, con il fine di conseguire la persuasione, le argomentazioni prodotte dall’ inventio, fondata a sua volta e nutrita dalla pratica del foro; la memoria consente all’oratore di conservare la padronanza dei luoghi e degli argomenti acquisiti mediante
l’esperienza. A Crasso viene attribuita invece una posizione tendente a privilegiare la cultura generale e la filosofia come fondamento necessario e insostituibile dell’eloquenza; solo da una vasta e ricca cultura umanistica un oratore potrà ricavare, come un artigiano da una rerum silva magna (de orat.Ill 93), i materiali pertinenti e sufficienti alla costruzione di 12 “I culmine dell’eloquenza consiste nell’amplificare un argomento con l’efficacia del discorso: ciò si ottiene non solo quando ingrandiamo e innalziamo qualcosa per mezzo della parola, ma anche quando l’abbassiamo e la rimpiccioliamo” (trad. di G. Norcio).
362
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
un’orazione. Sicché a partire da una larga cultura letteraria e filosofica sara l’elocutio il momento operativo qualificante, destinato a trasformare il materiale, ordinato secondo i criteri della dispositio, in una orazione vera e propria. Nell’Orator Cicerone riassume con grande calore e profonda passione la concezione della retorica umanistica, che segnò e accompagnò
la
sua carriera di oratore. La validità dell’interpretazione dell’eloquenza come di una disciplina non tecnica ma umanistica è subito affermata: Positum sit igitur in primis, quod post magis intellegetur, sine philosophia non posse effici quem quaerimus eloquentem (orat. 4 14)"; tale affermazione è sviluppata più avanti fino a ricuperare alla cultura dell’oratore la storiografia e tutta la prosa non connessa con il discorso giudiziale; in generale si può dire che le humanae litterae nutrono l’eloquenza, alimentano la ricchezza dei temi e delle argomentazioni, abbelliscono l’espressione, corroborano la lingua e lo stile. Per sottolineare la distanza e la differenza tra l’oratore perumanistico-filosofica fetto e quello “popolare” tra la concezione dell’eloquenza e quella tecnicistica, Cicerone afferma che l’oratore colto deve sottrarre quanto più può la trattazione della sua causa ai particolari specifici e concreti ad essa inerenti, sviluppando gli aspetti generali: ciò che trattato in generale ottiene approvazione, dovrà necessariamente essere approvato ove sia considerato nella sua specificità (orat. 14 45: orator, non ille vulgaris, sed hic excellens, a propriis personis et temporibus semper, si potest, avocet controversiam; latius enim de genere quam de parte disceptare licet, ut quod in universo sit probatum id in parte sit probari necesse; haec igitur quaestio a propriis personis et temporibus ad universi generis rationem traducta appellatur 8£01g!. Di questa preferenza per le trattazioni generali e generiche Cicerone discorre in una lettera (III. 3, 4) dell’anno 54. a.C. diretta al fratello Quinto riguardante l’istruzione retorica del proprio figlio: vi afferma che il suo metodo didattico è paulo eruditius et Yetix@tEgov (“contiene un po’ più cultura ed è più pertinente all’argomentazione”) 13 “Sia innanzi tutto fermo questo principio, che sarà chiarito meglio più avanti, che senza filosofia non si può avere quell’oratore che noi ricerchiamo” (trad. di G. Norcio).
14 “Il nostro perfetto oratore, cosi diverso dal comune oratore, tutte le volte che lo potrà toglierà alla discussione ogni carattere personale e contingente: infatti essa è più ampia quando si discute su un principio generale anziché su un fatto particolare, per cui ciò che si ammette per il principio generale si dovrà necessariamente ammettere per il fatto particolare; ora, quest’indagine spostata da persone e circostanze determinate a un principio generale si chiama 0éo1¢”. Sull’ideale del perfetto oratore nel pensiero di Cicerone cfr. K. Barwick, Das rednerische Bildungsideal Ciceros, Berlin, Akademie Verlag, 1963; A. Michel, L’originalité de l’idéal oratoire de Cicéron, in “Les Etudes classiques” XXXIX, 1971, 311-28; G.V. Summer, The Orator in Cicero’s Brutus.
Prosopography and Chronology, Toronto and Buffalo, Univ. Of Toronto Press, 1973; A.D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori, storici e filosofi latini, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1974; A. Desmouliez, Cicéron et son gotit. Essai sur une définition d’une esthétique romaine à la fin de la république, Bruxelles, Collection Latomus, 1976.
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di quello usato dal maestro del figlio, Peone; cioè: si avvale di più della cultura e delle questioni generali; vi è anche, implicita, una critica rivolta
alla concezione e tendenza tecnicistica dello studio della retorica, che risponde esattamente all’affermazione del primato di una eloquenza colta e nutrita di filosofia. L’ambizione di trattare i problemi, ove sia possibile, da un’angolazione generale e generica rispecchiava la tendenza intellettualistica della cultura e della lingua colta latina del I secolo a.C., una lingua “quasi eccessivamente ordinatrice, nella quale il lato materiale e sensibile dei fatti è più veduto e ordinato dall’alto che reso evidente nella sua sensibilità materiale”. La dottrina di Cicerone teorizza proprio questo allontanamento dal contingente, dal cronistico, dal particolare, mentre d’altra parte sancisce che il fine generale della retorica e dell’eloquenza è di far circolare nel pubblico dei profani in linguaggio corrente e in formulazioni concettuali accessibili a tutti (de orat. I 12: dicendi autem omnis ratio in medio posita communi quodam in usu atque in hominum ore et sermone versatur ut [...] in dicendo autem vitium vel maximum sit a vulgari genere orationis atque a consuetudine com-
munis sensus abhorrere)" le acquisizioni specifiche delle discipline particolari (de orat. I 65: illud tenebo, si quae ceteris in artibus atque studiis sita sunt, orator ignoret tantumque ea teneat, quae sint in disceptationibus atque usu forensi, tamen his de rebus ipsis si sit ei dicendum, cum cognoverit ab eis, qui tenent, quae sint in quaque re, multo oratorem melius quam ipsos illos, quorum eae sint artes, esse dicturum)". Sicché la retorica, tecnica o scienza dell’eloquenza, appare il luogo dell’incontro comune tra discipline speciali, è una disciplina specializzata nella non-specialità, è tramite per il passaggio delle discipline speciali dall’area della fruizione specialistica a quella comune. Un oratore capace di questa operazione dovrà conoscere, secondo Cicerone, la dialettica, la letteratura in prosa e in versi, le scienze naturali, l’astronomia, la religione, l’antropologia e la sociologia, il di-
ritto, la storia universale. Ma questa un’adeguata inventio: l’oratore, come lo (Orator, 69 ss.), dovrà anche essere abile gare gli animi degli uditori ai suoi intenti.
è solo una base sufficiente per immagina e lo descrive Cicerone ad argomentare, a dilettare, a pieA ciascuna di queste abilità corri-
!5 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, I, trad. it., Torino, Einaudi,
1956, 99. 16 Cfr. IDEM, op.cit., 150. 4 Cfr. A.D.LEEMAN, Orationis ratio, Amsterdam 1963, I 297, 298.
° vide N.1. © LUCR.L830-832: Nunc et Anaxagorae scrutemur homoeomerian / quam Graeci memorant nec nostra dicere lingua / concedit nobis patrii sermonis egestas: “now let us also examine the homoeomeria of Anaxagoras, as the Greeks call it, which cannot be named in our language because of the poverty of our mother speech”; CIC. de finibus II1.3: Stoicorum autem non ignoras quam sit subtile vel spinosum potius disserendi genus, idque cum Graecis, tum magis nobis qui-
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
words suitable to designate scientific and philosophical concepts derived from Greek culture. Evidence of this deficiency in the Latin language was easy to discover by comparing Latin and Greek vocabularies, as Lucretius and Cicero as well as Quintilian made quite clear.
Quintilian noted’ that, together with this native paucity of words, the Latin language of his time as used in literature and by the learned was unable to create new words, whose sound could represent a designated object: that is, onomatopeic words’. In Quintilian’s thinking, many such words were in use but had been created long since. This creative capability had disappeared in time however, tamquam consummata sint omnia, just as though all possible onomatopeic words had already been created and exploited. His acute linguistic sensitivity made Quintilian perceive that his own Latin language — especially that of literature and of learned — was losing its strength and vitality. Many onomatopeic words created by the ancients were disappearing every day. Quintilian’s linguistic awareness and sensitivity enabled him to perceive the obsolescence of old onomatopeic words, that is, to note an aspect of evolution in language and style’.
bus etiam verba parienda sunt imponendaque nova rebus novis nomina: “but the Stoics affect an exceedingly subtle or rather crabbed style of argument; and if the Greeks find it so, still more must we, who have actually to create a vocabulary, and to invent new terms to convey new ideas”.
’ vide QUINTIL.VIIL6, 31-32. è QUINTIL.LS, 72 sed minime nobis concessa est ovopatorotta. Quis enim ferat, si quid si-
mile illis merito laudatis Aty&e Bios et cibev opdahuoc, fingere audeamus? Nam ne balare quidem aut hinnire fortiter diceremus, nisi iudicio vetustatis niterentur: “on the other hand the power of onomatopeia is denied us. Who would tolerate an attempt to imitate phrases like the
much praised Arye Bios (Homer I.IV 125) “the bow twanged” and oilev 6pdaduoc (0d.IX 394) “the eye hissed”? We should even feel some qualms about using balare “to baa”, and hinnire, “to whinny”, if we had not the sanction of antiquity to support us”; VIIL3, 30 fingere, ut primo libro dixi (1.5, 32: feliciores fingendis nominibus Graeci), Graecis magis concessum est, qui sonis etiam quibusdam et adfectibus non dubitaverunt nomina aptare, non alia libertate quam illi primi homines rebus appellationes dederunt. Nostri autem in iungendo aut in derivando paulum aliquid ausi vix in hoc satis recipiuntur: “the coining of new words is more permissible in Greek, for the Greeks did not hesitate to coin nouns to represent certain sounds and emotions, and in truth they were taking no greater liberty than was taken by the first men when they gave names to things. Our own writers have ventured on a few attempts at composition and derivation, but have not met with much success”. ? Cfr. K.BARWICK, Quintilians Stellung zu dem Problem Sprachlicher Neuschoepfungen, “Philologus” XCI, 1936, 97-101.
PAUPERTAS
SERMONIS: QUINTILIAN AND NEW WORDS
409
Quintilian took a voluntaristic stance. Each person speaking, in this case each orator, is responsible for the management of language and in particular for coining neologisms’”. He expressed this position with the verb audere by designating the behaviour suggested to the speaker from an ethic standpoint: nihil generare audemus'', related to onomatopeic words; audendum tamen", especially related to the coining of neologisms except for onomatopeic words; audendum itaque'?, related to neologism in general and paulum aliquid ausi, especially related to neologism formed by composition (in iungendo) and by derivation (in derivando)"*. The meaning of this exhortation for neologism is clarified at book VIII,
chapter II, paragraph 36. Based on the distinction between verba nativa and verba reperta as expressed by Cicero, Quintilian distinguishes two kinds of verbal creation here: primitive and onomatopeic words (verba nativa) and those formed by derivatio orflexio or by coniunctio (verba reperta)'*. If the creation of onomatopeic words not only stopped but was also discouraged by a linguistic sensitivity which considered them so disagreable and intolerable as to disapprove of the imitation of Greek onomatopeic locutions
!° Vide IMAROUZEAU, Traité de stylistique latine, Paris 1962, 178: J.COUSIN, Etudes sur Quintilien, t.I Contribution a la recherche des sources de | institution oratoire, Paris 1935, 409.
!! cfr. QUINTIL.VIII.6, 32. '? QUINTIL.LS, 72. 13 QUINTIL.VIIL3. 35.
'* QUINTIL.VIII.3, 36 Nam, cum sint eorum alia, ut ait Cicero, “nativa”, id est “quae significata sunt primo sensu”, alia “reperta quae ex his facta sunt”: ut iam nobis ponere alia, quam quae illi rudes homines primique fecerunt, fas non sit, at derivare, flectere, coniungere, quod natis postea concessum est, quando desiit licere?: “for some words, as Cicero says, are native, that is to say, are used in their original meaning, while others are derivative, that is to say, formed from the native: granted then that we are notjustified in coining entirely new words having no resemblance to the words invented by primitive man, I must still ask at what date we were first forbidden to form derivatives and to modify and compounds words, processes which were undoubtedly permitted to later generations of mankind”. !° CIC.part.or.16 Prima vis est in simplicibus verbis, in coniunctis secunda. Simplicia invenienda sunt, coniuncta collocanda. Simplicia verba partim nativa partim reperta. Nativa ea quae significata sunt sensu; reperta, quae ex eis facta sunt et novata aut similitudine aut imitatione aut inflexione aut adiunctione verborum: “The first resource consists in single words. Single words require discovering, combination calls for arrangement. Also single words are some of them natu-
ral and some invented. Natural words are ones that are indicated by the meaning: invented words are made out of the former. and are coined either by similarity or imitation or modification or combination of words”. K.BARWICK, Probleme der stoischen Sprachlehre, 83: “Hat Quintilian richtig verstanden was bei Cicero mit den verba nativa gemeint ist. Es sind die puoer entstandenen (daher nativa) stoischen zeW@ta1 povai, die ihre Bedeutung erhalten auf Grund der sinnlichen Eindruck, den die Dinge in der Seele des Menschen der Urzeit (daher primo) hinterliessen”.
410
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
by analogy, then, so Quintilian thought, the creation of neologisms by derivatio, flexio and coniunctio can be allowed'°. The learned and scholars were however reluctant to accept neologisms even by coniunctio and by derivatio'’; even a slight deviation from consuetudo gave the speaker or writer the more slanderous than honorable reputation of audax'®. Quintilian holds that speakers and writers must not be afraid of new and unusual words but must dare to venture out in creating neologisms by derivation or conjunction. This was the only way to contrast the paucity of Latin in Quintilian’s age: paupertate sermonis laboramus: audendum itaque: neque enim accedo Celso, qui ab oratore verba fingi vetat". There had already been a trend in Cicero’s age to reduce the speakers freedom of language and style; there was however an opposite trend to allow poets ample and almost limitless freedom (licentia) in creating words”. Quintilian notes that this trend appears again in the part of Celsus’s encyclopaedia dedicated to rhetoric. It is so strong and firm in accordance with Atticism and purism that it allows poets more freedom in creating neologisms and
less to orators, but it forbids the latter to create new words”. While openly opposing Celsus, Quintilian also separates his position on the issue from Cicero’s, though without emphasizing it’. He only urges formal caution to obtain the audience’s favour ad benevolentiam conciliandam”. '©K BARWICK, op.cit., 89 n.1: “derivare und flectere sind hier synonym”. 'T QUINTIL.VIIL3, 31 Nostri aut in iungendo aut in derivando paulum aliquid ausi vix in hoc satis recipiuntur: “Our own writers have ventured on a few attempts at composition and derivation, but have not met with much success”. 18 QUINTIL.VIIL6, 32 vix illa, quae menoinpéva vocant, quae ex vocibus in usum receptis quocumque modo declinantur, nobis permittimus: “Indeed we scarcely permit ourselves to use new derivatives, so they are called, which are formed in various ways from words in common use”.
!° cfr. QUINTIL.VII.3, 33, 35. 2° CIC.0r.68 [in poetis] licentiam maiorem esse quam in nobis [oratoribus] faciendorum iungendorum verborum: “[poets] have a greater freedom in the formation and arrangement of words than we [orators] have”; or.202 liberiores poetae; nam et ... priscis [verbis] libentius utuntur et liberius novis: “the poets take greater liberties; and use archaisms more willingly and more freely new words”. 2! For Celsus’s position, see QUINTIL.VII.5, 35 neque enim accedo Celso, qui ab oratore verba fingi vetat; and remember what had been Caesar’s position according to A.GELL.N.A.I.10, 4 id, quod a C.Caesare, excellentis ingenii ac prudentiae viro, in primo de analogia libro scriptum est, habe semper in memoria atque in pectore, ut “tamquam scopulum, sic fugias inauditum atque insolens verbum”.
* vide CIC.de or.1.70; I.170; or.68. 5 QUINTIL.VII.3, 37 sed si quid periculosius finxisse videbimur, quibusdam remediis praemuniendum est: “ut ita dicam”,”» “si licet dicere”, “quodam modo”, permittite mihi sic uti”:
PAUPERTAS
SERMONIS: QUINTILIAN AND NEW WORDS
411
The caution in using neologisms in oratorial prose, as suggested by Cicero to respect the ears and customs of the audience (est auribus consuetudinique parcendum), disappears or is minimized in Quintilian, especially when exorting Latin orators ad audendum. Some caution, suggested by a sense of balance, appears at the end of a discourse on archaism: oratio vero, cuius summa virtus est perspicuitas, quam Sit vitiosa, si egeat interprete? Ergo, ut novorum optima erunt maxime vetera, ita veterum maxime nova”. In conclusion, Quintilian warmly advises Latin orators to create new words and introduce neologisms into the language of literature and the learned. This was the only way to remedy the gradual impoverishment of the Latin language of his times. From the statement that Quintilian considered the use of neologism more a necessity than a way to embellish prose”, we can infer that he perceived the
attraction both of neologisms and archaisms. That is, he began to measure and weigh the expressive force of new words.
“If, however, one of our inventions seems a little risky, we must take certain measures in advance
to save it from censure, prefacing it by phrases such as “so to speak”, “if I may say so”, “in a certain sense”, or “if you will allow me to make use of such a word”; QUINTIL.I.5, 71 usitatis [verbis] tutius utimur, nova non sine quodam periculo fingimus: “current words are safest to use: there is a spice of danger in coining new”. 2 QUINTIL.L6, 41: “But what a faulty thing is speech, whose prime virtue is clearness, if it requires an interpreter to make its meaning plain! Consequently in the case of old words the best will be those that are newest, just as in the case of new words the best will be the oldest”.
25 vide QUINTIL.VIIL3, 33-35.
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. L’analisi dell’esempio mostra che in realtà Bione anche in questo frammento valorizza un’affermazione astratta assimilandola ad un comportamento manuale e tecnico, con ciò suggerendo che i valori solidi a cui far riferimento,
perché la gente intenda quali sono i valori dell’etica nuova, diffusa al principio dai Sofisti, ora dai Cinici e dagli Stoici, si ritrovano nel mondo sensibile e manuale,
nel mondo
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provano la consapevolezza che i Cinici possedevano della realtà concreta e insieme suggeriscono quale era il pubblico cui le prediche dei filosofi erano
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RETORICA E SCIENZA: ALCUNI PROCEDIMENTI RETORICI IN VITRUVIO, DE ARCHITECTURA, E PLINIO, NATURALIS HISTORIA" I rapporti tra scienza e retorica possono senza dubbio essere considerati da più punti di vista o approcci; ve ne sono almeno tre canonici o, addirittura, istituzionali: quello retorico, quello letterario, quello scientifico. Tralascio il
punto di vista letterario non perché non lo consideri pertinente al tema — infatti le opere scientifiche costituirono dall’antichità classica fino al 18. secolo un genere letterario —, ma perché la presenza della retorica nelle opere letterarie, soprattutto in lingua latina, appare vastissima e talora imponente ed è stata esaminata durante i secoli — già nell’antichità stessa — da decine di studiosi. Anche chi scrive ha dato il suo contributo allo studio della retorica in letteratura dedicando per esempio un saggio al romanzo di Apuleio! nel quale sì esaminano i procedimenti narrativi; saggio fondato in parte sopra un'analisi della natura e della distribuzione delle clausole metriche.
Si potrebbe cominciare considerando la presenza della dimensione scientifica nel concetto di retorica: Cicerone? e Quintiliano? dicevano che la retorica è la scientia dicendi o bene dicendi, cioè consideravano la retorica come conoscenza sistematica e teoria del discorso; se ne può dedurre, con qualche forzatura e per amore del motto di spirito, che mentre i Greci e i Romani conoscevano la scienza della retorica, nella nostra epoca, dopo due secoli di potente progresso scientifico e tecnologico, noi conosciamo la retorica della scienza. Ma che la retorica sia una scienza o anche soltanto una tecnica vi era qualche dubbio anche ai tempi di Cicerone. Nel De oratore* l'oratore Antonio è introdotto a dire che non omnia, quaecumque loquimur, mihi videntur ad artem et ad praecepta esse revocanda. In particolare Antonio pensa che l’inventio relativa all’elogio non dipenda dall’arte e dalle regole: neque licebit illa elementa desiderare quae ut nemo tradat quis est qui nesciat quae sint in homine laudanda? Inoltre nel Brutus — una piccola storia della retorica e dell’oratoria a Roma — Cicerone dà una definizione della retorica che
s’appoggia alle idee di ars (cioè quel che i Greci chiamavano téyvn), di via e di praecepta (la prima e la terza parola sono presenti nel passaggio del De oratore già citato): artem et praecepta Siculos Coracem et Tisiam conscrip* Voce di molte acque.
Miscellanea
di studi offerti
a Eugenio
Corsini, Torino
1994,
207-212. ! A. Pennacini-P.L. Donini-T. Alimonti, Apuleio letterato filosofo mago, Bologna 1979.
2 Cic., De oratore II, 9, 36. 3 Quintil., Institutio oratoria VII, 3, 6. 4 Cic., De oratore II, 11, 44-45.
426
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
sisse; nam antea neminem solitum via nec arte dicere5. L’impiego del vocabolo via rinvia all’idea di metodo: il nome greco di via è 6606c, e di metodo è
ué00doc, composto da ueta e 6d0c, cioè la via che si deve percorrere (“procedimento”) per eseguire un’operazione qualsiasi. Bisogna ancora aggiungere che il vocabolo latino scientia non corrisponde, per la sfera semantica di cui è latore, al vocabolo moderno “scienza”; al concetto moderno di scienza si avvicina un poco l’espressione latina naturalis historia, che traduce l’espressione greca puorxm iotogia cioè a dire “ricerca e conoscenza della natura”: nei testi latini che leggiamo il vocabolo scientia significa “conoscenza”. Altro punto di vista o approccio: la scienza ha bisogno della retorica? La risposta istituzionale è “no”; in effetti ogni procedimento dimostrativo — ma-
ogaderyuo o exemplum, £vQvunua — impiegato dalla retorica mira a convincere
l’uditore
della credibilità
di un’affermazione,
non
della verità
di un
enunciato o della realtà di un fatto. Secondo un’espressione tradizionale la retorica mira al verisimile; essa, per così dire — ut ita dicam — lavora con dei materiali che si collocano nel dominio del senso comune e della norma (che si deve intendere nella sua accezione statistica: Cicerone spiega il concetto di verisimile dicendo quod plerumque ita fit). La considerazione della norma statistica avvicina la retorica alla concezione moderna della scienza, la quale
ha ormai rinunciato all’ambizione di raggiungere la certezza (da lungo tempo la scienza ha lasciato alle religioni il compito di aspirare alla verità) e si contenta di verificare la validità di una legge nella grande maggioranza dei casi. Ma la scienza ha bisogno della retorica? Cioè: la scienza ha bisogno dei procedimenti della retorica per conseguire il suo scopo? L'atteggiamento degli uomini di scienza e dei tecnici davanti alla retorica e all’oratoria e in generale verso ogni sorta di lode e di celebrazione nel mondo classico può essere bene illustrata e riassunta da due passaggi, l'uno di Celso, l’altro di Frontino. Celso’, esponendo le idee e le posizioni dei medici che chiama empiricos, porta un colpo all’oratoria col dire che mentre in omnibus cogitationibus in utramque partem disseri posse, itaque ingenium et facundiam vincere, morbos autem non eloquentia sed remediis curari. Forse il bersaglio di questa aggressione non sono soltanto l’oratoria e la retorica, ma anche la filosofia e la dialettica: l’impiego nel testo citato del vocabolo disseri (disserere, dissertatio) allude a questo campo di attività intellettuale; poco sopra Celso, sempre esponendo le idee degli empirici, scrive che ne agricolam quidem aut > Cic., Brutus 46. ® Cic., Part. or. 34, 40. ? Cels., De medicina I proemium.
RETORICA E SCIENZA
427
gubernatorem disputatione sed usu fieri. Come si vede, i medici empirici istituivano una netta opposizione tra disputatio (cui deve aggiungersi disseri, ingenium, facundia, eloquentia) e usus (cui si può affiancare remedia). È il
mondo delle cose, della pratica e della prassi che viene opposto al mondo dei discorsi, delle discussioni, dei filosofi, dei retori: ‘fatti e non parole!”. Anche
Frontino* condivide in qualche misura questo atteggiamento, al quale dava voce Celso, laddove, dopo aver esposto le dimensioni degli acquedotti che portavano l’acqua a Roma, in tre righe afferma la superiorità degli acquedotti romani sulle piramidi d'Egitto e sui rinomati monumenti dei Greci (per esempio, il Colosso di Rodi e il tempio di Diana a Efeso): Tot aquarum tam multis necessariis molibus pyramidas videlicet otiosas compares aut cetera inertia sed fama celebrata opera Graecorum. Da una parte l’utilità (usus), provata dalla realtà delle cose e dei servizi resi alla gente, dall’altra la fama, che, s'intende, è prodotta dai discorsi della gente e dai retori che pronunciano elogi (laudes). Tornando a Celso, la differenza tra i medici empirici e i medici
rationales è la seguente: gli empirici sostengono, come ho detto sopra, che il problema del trattamento delle malattie dipende dalle conoscenze acquisite
mediante l’esperienza e dalla disponibilità dei rimedi; i rationales pensano che il trattamento delle malattie dipenda dalle cause che hanno prodotto la malattia, anche se sono cause occulte (abditarum causarum).
La volontà di
perseguire questo fine ha condotto dei medici a praticare la vivisezione: longeque optime fecisse Herophilum et Erasistratum, qui nocentes homines, a regibus ex carcere acceptos, vivos inciderint, considerarintque, etiamnunc spiritu remanente, ea quae natura ante clausisset. Ma, dal momento che la maggior parte dei medici non aveva questa possibilità, restava loro la via dell’ipotesi e della congettura, cioè la via della discussione e del verisimile. Sembra dunque verosimile porsi la questione, se la scienza o l'esposizione delle conoscenze scientifiche abbia bisogno dei procedimenti retorici. A livello della superficie linguistica e stilistica del testo una rapida analisi mostra la presenza di clausole ritmiche negli esordi o nei proemi delle opere di soggetto scientifico o tecnico. Pur con qualche riserva si rileva la presenza di clausole nella praefatio del trattato De agri cultura di Catone. Ho contato 25 clausole nei primi quattro paragrafi, fra le quali vi sono tre clausole composte da cretico e trocheo, quattro da due trochei o due spondei. Molto più regolari sia nella forma sia nella distribuzione le clausole che si trovano in Vitruvio, De architectura, nei
primi capitoli del trattato. Nella prefazione ho rilevato 21 clausole, delle quali undici del tipo ditrocheo o dispondeo o spondeo seguito da trocheo, sette del tipo della clausola epica, cioè dattilo seguito da trocheo o spondeo, le altre 8 Frontin., De aquaeductibus urbis Romae XVI.
428
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
del tipo cretico o pean. Nel paragrafo 18, che conclude il primo capitolo del primo libro, ho rilevato la presenza di sei clausole, delle quali tre composte di due spondei e una composta di cretico e trocheo. Nei primi paragrafi del proemio del trattato De medicina di Celso ho rilevato 19 clausole, delle quali cinque composte da cretico seguito da spondeo, quattro composte da due spondei, due composte da anapesto seguito da spondeo, due composte da trocheo e pirrichio, due composte da cretico e dattilo. Riguardo a Plinio il Vecchio non ho preso in considerazione l’epistola dedicatoria, ma alcune parti al principio del II libro, cioè i primi tre capitoli. Ho contato 13 clausole, delle quali cinque composte da cretico e trocheo, tre composte da due trochei, due composte da due cretici, due costituite da un pean. Perfino il trattato De aquaeductibus urbis Romae di Giulio Frontino contiene nei due primi capitoli undici clausole, delle quali quattro composte da cretico e spondeo o trocheo, due composte da spondeo e cretico, due costituite da un pean. Nel capitolo XVI, citato sopra, Frontino colloca alla fine delle tre righe nelle quali proclama la superiorità degli acquedotti romani sulle Piramidi d’Egitto e sui monumenti dei Greci, una bella clausola formata da un pean e un trocheo. Del resto, un.campionamento casuale mostra che nelle opere citate la presenza di clausole fuori dei proemi e delle prefazioni è esigua. Esigua appare anche la presenza di procedimenti dimostrativi, dal momento che i testi scientifici o tecnici conservati non espongono delle ricerche, ma dei risultati di ricerche già compiute o delle conoscenze derivate da esperienze accumulate dagli studiosi o semplicemente dalla gente comune mediante l’osservazione quotidiana. Comunque è possibile trovare, sia pure ra- . ramente, procedimenti di confirmatio o di asseverazione, suggeriti dall’inventio, e figure di discorso, di parola e tropi. Vitruvio’ fonda la sua definizione dell’euritmia e simmetria di un edificio, cioè della sua bellezza e della gradevolezza del suo aspetto, sull’analogia dell’edificio con il corpo umano. La similitudine istituita tra un oggetto creato dall’uomo e l’uomo medesimo è molto comune nella cultura antica: basta menzionare l’assimilazione della storia di una città, d’un popolo, d’uno stato con la vita di un uomo, presente nelle opere politiche di Platone e d’ Aristotele e nelle Storie di Tito Livio. La similitudine sviluppata da Vitruvio nel paragrafo 4 è annunciata nel paragrafo 3 dalla presenza del vocabolo membrum, impiegato in metafora: Eurythmia est venusta species commodusque in compositionibus membrorum aspectus. Haec efficitur cum membra operis convenientia sunt altitudinis ad latitudinem,
summam
latitudinis ad longitudinem
et ad
omnia respondent suae symmetriae. La duplice presenza del voca-
° Vitr., De architectura I, 2, 3-4.
RETORICA E SCIENZA
429
bolo membrum è, per così dire, una prolessi o anticipazione della similitudine che segue nel paragrafo 4: Uti in hominis corpore e cubito, pede, palmo, digito ceterisque particulis symmetros est eurythmiae qualitas, sic est in operum perfectionibus. Nel fondo vi è la concezione che il modello, la tavola delle misure e dei valori estetici è l’uomo, è la figura umana, che possiede in se stessa, almeno in potenza, la perfezione delle proporzioni e l’armonia delle misure. Questa concezione, inespressa, costituisce il punto di partenza del procedimento, poiché la similitudine consegue lo stesso scopo dell’exemplum o tagdderyua, di accrescere mediante un’analogia le conoscenze dell’uditore o del lettore. Quintiliano osserva che praeclare vero ad inferendam rebus lucem repertae sunt similitudines!° e il senso è che esse danno la luce della conoscenza, non solo della bellezza. Anche Plinio!! utilizza il principio dell’analogia tra la parte esterna (il cielo) e la parte interna del mondo (la terra), per ottenere la prova che nel cielo vi sono delle figure di animali, di uomini e di altre cose. Il meccanismo di questa dimostrazione è un po’ contorto; Plinio comincia con la conclusione del procedimento: esse innumeras ei (mundo, la volta celeste) effigies animalium rerumque cunctarum impressas (‘innumerevoli figure di animali e di tutte le cose sono impresse nella volta celeste”); vi aggiunge una prima prova: terrenorum
argumentis
indicatur (“gli animali terrestri ne sono prova e di-
mostrazione”); questa prova è subito spiegata: quoniam inde deciduis rerum omnium seminibus innumerae, in mari praecipue, ac plerumque confusis monstrificae, gignantur effigies (“Poiché dai semi di tutte le cose, che di là cadono, nascono innumerevoli figure soprattutto nel mare e nella maggior parte mostruose a causa della confusione dei semi”). Segue un’altra prova: praeterea visus probatione, alibi ursi, tauri alibi (si noti il piccolo chiasmo), alibi litterae figura, candidiore medio per verticem circulo (“inoltre vi è la prova della vista: qui degli orsi, dei tori là, altrove la figura d’una lettera, con un cerchio bianco nel mezzo che attraversa la sommità del cielo”: si tratta delle costellazioni del Triangolo e della Via lattea); una terza prova: equidem
et consensu gentium moveor: namque et Graeci nomine ornamenti appellavere eum et nos a perfecta absolutaque elegantia mundum (“da parte mia accolgo il consenso dei popoli: in effetti i Greci lo chiamarono con il nome di ornamento [x6cuog] e noi lo chiamiamo mundus per la sua perfetta e com-
piuta eleganza”). Ancora una prova: caelum quidem haud dubie caelati argumento diximus, ut interpretatur M. Varro (“il cielo senza dubbio l’abbiamo chiamato così partendo dal cesello, come interpreta M. Varrone”).
10 Quintil., Jnst. or. VIII, 3, 72. 11 Plin., N.H. II, 3.
430
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Come si vede, vi sono, a cominciare dalla fine: go della coniugatio o dell’etimologia; una prova delle tradizioni delle lingue di due popoli, i Greci e un consensus gentium (che può ben sostituire con
una prova estratta dal luofondata sopra l’auctoritas i Romani, presentata come il medesimo valore il con-
sensus omnium), dove si affaccia con tutta la sua efficacia istituzionale il ve-
rosimile prodotto dall’opinione comune e generale; una prova personale o autoptica; una prova scientifica o considerata scientifica. Dunque, dopo l’enunciazione del fatto, vi è una climax inversa di prove, che comincia dalla scienza, continua con l’esperienza individuale di tutti gli uomini, poi con il consenso dei due popoli più importanti, infine si conclude con la menzione di una interpretazione etimologica sostenuta dalla auctoritas di un grande studioso come Varrone. Sulla base delle testimonianze esaminate si può constatare che la prosa scientifica e tecnica latina è concepita e realizzata, soprattutto negli exordia e nelle parti giudicate d’importanza pubblica, secondo i suggerimenti dell’arte, cioè come prosa numerosa; più dei procedimenti dimostrativi per deduzione (entimemi), la prosa scientifica impiega la topica, l’ars inveniendorum locorum, la tecnica di trovare i luoghi e nei luoghi trovare prove e argomentazioni.
ARGUMENTS ABOUT ETHNICAL AND CULTURAL DIFFERENCES IN ANCIENT AND MODERN ORATORY"
The consciousness of the ethnical and cultural features of a people appears, perhaps for the first time in ancient Greek literature, in a passage of Herodotus (Book VIII 144, 2). In the year 480 B.C. after the sea-battle of Salamina,
Alexander
son of Amynthas,
a Macedonian,
delegate of Mardo-
nios, the commander of the Persian army in Greece, went to Athens and proposed a separate peace agreement between the Great King — Xerxes — and the Athenians. Representatives of Sparta participated in the meeting with Alexander and the Athenians. They said they were afraid of a separate peace agreement between Athenians and Persians: the rest of Greece would have fallen into the Persians’s hands. The Athenians responded first to Alexander and then to the Lacedaemonians; they refused the Persians’s offer of a separate peace agreement and reassured the Spartan envoys of their intention to persevere the common war against the barbarians. The short speech by the Athenians proved that there was no reason for the Spartans to be afraid. The Athenians delivered the following speech: «It was most human that the Lacedaemonians should fear our making an agreement with the barbarian; but we think you do basely to be afraid, knowing the Athenian temper to be such that there is nowhere on earth such store of gold or such territory of surpassing fairness and excellence that the gift of it should win us to take the Persian part and enslave Hellas. For there are many great reasons why we should not do this, even if we desired; first and foremost, the burning and destruction of
the adornements and temples of our gods, whom we are contrained to avenge to the uttermost rather than make covenants with the doer of these things, and next the kinship of all Greeks in blood and speech, and the shrines of gods and the sacrifices that we have in common, and the likeness of our way of life, to all which it would ill beseem Athenians to be false. Know this now, if
you knew it not before, that as long as one Athenian is left alive we will make no agreement with Xerxes». The logical structure of the speech of the Athenians seems to be: an opening enthymeme, whose major premise has been suppressed («It is evil to agree with the barbarian») and a minor premise, that has also been suppressed, i.e. «The barbarian has offered us an agreement»; finally the conclusion of the enthymeme is explicit: «It was most human that the Lacedaemonians should
fear our
making
an agreement
with the barbarian».
Therefore,
the
enthymeme is strongly elliptic and only the conclusion has been expressed;
* Symposium on rhetoric: persuasion and power, Cape-Town, July 11-13 1994, opening address. In Studi di retorica oggi in Italia 1997, Bologna 1998, 73-91.
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FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
even the speech begins with the elliptic conclusion of the enthymeme. The speech continues with the conclusion of another elliptic enthymeme, introduced by a strong adversative particle, which stresses the contrast between the
previous and the following thought: dtd aisyeds ye cixate AQQMdToat («but you do basely to be afraid»); the major and minor premises can be extract from the rest of the period: é&emiotdpevor tO “AOnvatov peovnuo («you know the Athenian temper or attitude») and that is the major premise; OÙTE LQLIOS EOTL YTS ovdauo@i TOGODTOG OÙTE LOQN >xaXier xai AQETH uéya ÙrEgpEgOvOA, tà nueîg ScEGuevor &0EAOMEV dv undicavteg xatadovAboar tiv EMdéa («there is nowhere on earth such store of gold or such territory of surpassing fairness and excellence that the gift of it should win us to take the Persian part and enslave Hellas») and that is the minor premise, whose structure takes on the form of an enthymeme: major premise «on earth there is a store of gold or a territory of surpassing fairness and excellence», minor premise: «the Great King would offer it to», conclusion: «this offer would not win us to take the Persian part and enslave Hellas»; the Athenians add two proofs of the minor premise of the great enthymeme, but they are also proofs of the small internal enthymeme: «there are many great reasons why we should not do this», i.e. «to take the Persian part and enslave Hellas». The first reason or proof is the duty of avenging the burning and destruction of the statues and temples of the gods: therefore it is a reason directly concerning the Athenians themselves; the second reason is the result of a conceptual amplificatio; it concerns not only the Athenians, but the kinship of all Greeks, among which obviously there are the Athenians in so far as they are subject and object of the speech; as well, the second reason is also seen from the point of view of the Athenians, but includes a list of requirements which are common to all Greeks. The basic features of a people (we would rather say nation) are, according to the Athenians, being of the same blood, speaking the same language, sharing temples and rites, sharing uses and cu-
stoms. But there is a difference between Athenians and Spartans in the linguistic use as regard to calling the aliens; the latter, refers Herodotus, Book IX 11,
3, 2, eivoug Exaheov toùs pagBdgovc, i.e., «they called the barbarians foreigners»; and in the same book, chapter 55, 2, tavtyn TH pupo pnpite-
cba EPpy un pevyerv toùg ÉÉvovs, AEyov tods PagBdgovs («he said he voted with his vote not to escape and not to avoid the foreigners, and by that he meant the barbarians»). It seems likely that the Spartans did not distinguish between aliens of Greek origin and aliens of other origin: they were all foreigner to them.
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ABOUT ETHNICAL AND CULTURAL DIFFERENCES
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On the other hand the Athenians recognized a kinship of elements which united the different peoples and cities and created the basis of Hellas; then they also recognized the difference between Greeks and non-Greeks. Thus in the fifth century B.C.
Herodotus
(and the Athenians)
indicated four basic
elements which define requirements for belonging to a people/nation: blood, language, religion and customs: having these things in common means being Greeks (tò “EAAnvixdv). Therefore there are two levels of being alien: first, belonging to a different city, i.e. the citizenship (for example: being either Athenian or Spartan, but belonging to the same nation, being Greeks); second, belonging to a different nation, i.e. not sharing blood, language, religion and customs: for example: being Persian, Roman, i.e. barbarians. The biographer Hermippos (IV-III century B.C.) refered similar and related climax to the philosopher and astronomer Thales (VII-VI century B.C.). This was recorded by Diogenes Laertius, Vitae philosophorum 1.33 (III century A.D.): «Thales used to say that there were three blessings for which he was grateful to Fortune: first, that he was born a human being and not one of the brutes; next, that he was born a man
and not a woman;
thirdly, a Greek
and not a barbarian» (me@tov pèv OTL AVOEMTMOS EyEVOUNV xai OD ONEIoV, gita OTL AVNE xai où yovn, TELTOV OTL “EAANV xai ov PapBPagoc). That is a climax composed of three pairs of opposities, i.e. a climax in which the three steps are also antithesis; it was typical of the Ionian philosophy or physiology to recognize and define both natural and cultural reality by means of pairs of antithetical members. Romans themselves were refered to as barbarians: Cato by Plinius N.H. 29, 7 talks about the attitude of the Greeks towards the other peoples and says that the Greeks iurarunt inter se barbaros necare omnes medicina, sed hoc ipsum mercede facient, ut fides iis sit et facile disperdant: nos quoque dictitant barbaros («they swore among themselves to kill all barbarians (i.e.
foreigners) by means of the practice of medicine, but they will do it while being paid, in order to obtain reliability and to be able to ruin us easily: they call us barbarian as well»). One hundred years later, in the fourth century B.C., Isocrates, an Athenian orator, developed the idea of ethnical difference
by means of a concept of natural and cultural differences; he comments in the Antidosis (291-294) the different degrees of praise that his fellow citizens ex-
pressed about the eloquence by nature and the eloquence achieved by education. The reasoning starts from a general and major premise which is: «there are men who have been given the gift of eloquence by nature and by fortune and men who have gained eloquence by the study of philosophy and by the exercise of reason»; but in the minor premise Isocrates observes that «Athenians very much praise and felicitate men who are eloquent by nature and de-
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spise those who wish to become eloquent»; in this way he suggests the reason for despising, which is rhetorically used as the proof of the minor premise: the despising is based on the grounds that those men desire an immoral education (the art of rhetoric). Isocrates’s comment points out the contradiction of this behaviour: «Pray, what that is noble by nature becomes shameful and base when one attains it by effort?»; the conclusion:
«Therefore,
it behoves
all men to want to have many of their youth engaged in training to become speakers, and you Athenians most of all»; this conclusion is supported by proof and in this proof Isocrates puts his conception of natural, cultural and ethnical hierarchies: «For you (Athenians), yourselves, are pre-eminent and superior to the rest of the world in the qualities by which the nature of man rises above the other animals, and the race of the Hellenes above the barbarians, namely, in the fact that you have been educated as have been no other people in wisdom and in speech» (cfr. Plato, Apology 29 d-e). The praise of the natural and cultural values of the world can be put into this order: the Athenians, the rest of the Hellenes, the barbarians, the other animals. The consideration of the basic feature that distinguishes the Athenians from the other men rises from a logical proceedure belonging to the rhetorical climax and amplificatio, a conceptual amplificatio: animals, barbarians, Hellenes, Athenians; the qualities (wisdom and eloquence) by which the Athenians surpass the others are the same by which the Greeks surpass the barbarians and the men surpass the other animals; the proceedure or process begins from the state of nature and reaches culture and eloquence, i.e. the Greeks and the Athenians step by step (climax); the conceptual amplificatio unites all living creatures of the world in an uninterrupted order. Possession or lack of elo- . quence and culture is used by Isocrates in order to characterize and distinguish all living beings and to put them in a hierarchy. Then the distinguishing features of Greeks and Athenians are eloquence and culture. In fact, says Isocrates in chapters 253 and 254 of Antidosis, «the power of eloquence is the source of most of our blessings. For in the other powers which we possess, we are in no way superior to other living creatures; on the contrary, we are indeed inferior to many in swiftness and in strenght and in other resources; but, as we possess the power to persuade each other and to make whatever we desire clear to each other, not only have we escaped the life of wild beasts, but we have come together and founded cities and made laws and invented arts; and, generally speaking, there is no institution devised by man which the power of speech has not helped to establish». Isocrates developed this amplificatio and this climax, whose starting-point was the celebration of the glorious cultural history of the city of Athens, to the point of producing the idea that the word Hellenes was the name of all people who possessed Greek edu-
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cation rather than the name of men who had the same Greek blood. He dealt with this thought in his Panegyricus, chapters 47-50: «Philosophy, I say, was given to the world by our city. And Athens it is that has honoured eloquence, which all men crave and envy in its possessors; for she realized that this is the one endowment of our nature which singles us out from all living creatures» «So far has our city distanced the rest of mankind in thought and speech that her pupils have become the teachers of the rest of the world (cfr. Thucid. II 41, 1) in such a way that the name Hellenes no longer suggests a race but an intelligence, and that the title Hellenes is applied to those who share our culture rather than to those who share common blood». Herodotus defined, in the passage quoted above, the belonging to a people or nation as kinship of blood, language, religion and customs; Isocrates developed the distinctivness of his city and indicated culture as being another element which had to be used in the definition of the city’s own ethnical character. The political and administrative practice of the Greek cities in the IV and III centuries B.C. did not grant foreigners, who lived abroad, the full right to citizenship (father and mother transfered citizenship to their children by way of blood), but allowed them to have civil rights, for example the right to trade, to marry, to possess etc., but they never conceded political rights to foreigners, i.e. the rights to serve in the army, to vote and to be elected in the charges of the State; nevertheless they were asked to pay taxes and financial contributions. Popular tradition, burocracy and also the common-sense of Greeks still kept and preserved in the hellenistic age the concept of citizenship expressed by Herodotus; and the continuity of the blood took a very important part in it. It is evident that they supported their idea and practice in this field with the locus of quality, i.e. they refered their distinctiveness above all to a natural and native specific feature. In the III century B.C. many Greek cities lost a lot of citizens, due to the
wars, to the interior conflicts and to the decreasing number of births. At the end of the same century (219 and 214 B.C.) king Philippos V of Macedonia sent two letters to the government and to the city of Larissa, an important town in Thessalia, which was subject to his protectorate; in the first letter he dealt with the decreasing number of the citizens: «your city is in want of more inhabitants
(colonists) due to the wars;
until we contrive to find a greater
number of men worthy of the citizenship of your city, I strongly suggest that at the moment you give citizenship to the Thessalians and to the Greeks who are living in your city. I am convinced that, after having accomplished this and held all people together by that humane treatment, your city and I myself will derive many other advantages, and the land will be more cultivated». The intervention of a king brought to light a different and more general point of
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view about regarding the problem of naturalization, i.e. of giving citizenship to the foreigner (of Greek origin) who were living abroad (uétorxo1). The arguments of the King do not concern the natural and cultural features of the citizens; his reasoning starts from an elliptic major premise, whose content is that a city (a state) must have a sufficient number of citizens (the right quantity of citizens); the minor premise is that the city Larissa is in want of citizens; and the conclusion is that the city must give citizenship (concede naturalization) to the Thessalian and Greek people who live in Larissa. King Philippos also gives some reasons for the conclusion: «I am convinced that, after having achieved it and held all people together by that humane treatment, your city and I myself will derive many other advantages, and the land will be more cultivated». In the opinion of the king the consequence of the resolution would have been to keep and to hold together all people who were living in the city by a humane treatment, i.e. by the undue and gracious gift of citizenship; then, keeping and holding together all people in a city produces a social and political situation which the Greek politicians called 6uovora and Romans concordia,
and, the king adds, many other advantages for himself and
for the city; another consequence will be that the land will be more cultivated as well. An enthymeme can have two kinds of conclusion: either demonstrative or exhortative; i.e. it can concern either knowledge or action; king Philippos suggests or orders to do something by the conclusion of the enthymeme; the proof of the conclusion, according to the pragmatism of political rhetoric, is the desired and expected consequence of the action. Since the government of Larissa had voted in favour of giving the citizenship to Thessalians and Greeks, Philippos developed the topic of the benefits and advantages produced by the increased number of citizens in a second letter: «When a great number of people share citizenship, the most beautiful thing is that the city is strong and the land is not left as dry as it shamefully now is»; then the king adds historical evidence to his suggestion: «When Romans give their slaves freedom, they even grant them citizenship and call them to share in the government; by doing so they have not only increased their own country, but also sent colonies abroad to almost seventy places». Some of this information is indeed erroneous: it is not true that the liberti were admitted into the government; and the number of seventy colonies is strongly exaggerated: it is stated that forty-two colonies had been sent abroad by the Romans up to the year
214 B.C. In the V century B.C. in Rome the plebeians were strongly fighting against the patricians for the equality of rights, especially for the right to elect a plebeian to the consulate. The year 445 B.C., as Livy relates in his IV book, was a year of quarrels both at home and abroad: Fuit annus domi forisque infe-
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stus. Nam principio et de conubio patrum et plebis C.Canuleius tribunus plebis rogationem promulgavit, qua contaminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur, et mentio primo sensim inlata a tribunis, ut alterum ex plebe consulem liceret fieri, eo processit deinde ut rogationem novem tribuni promulgarent, ut populo potestas esset, seu de plebe seu de patribus vellet, consules faciendi; id vero si fieret, non volgari modo cum infimis, sed prorsus auferri a primoribus ad plebem summum imperium credebant. «For at its commencement Gaius Canuleius, a tribune of the plebs, proposed a bill regarding the intermarriage of patricians and plebeians which the patricians looked upon as involving the debasement of their blood and the subversion of the principles inhering in the gentes, or families; and a suggestion, cautiously put forward at first by the tribunes, that it should be lawful for one of the consuls to be chosen from the plebs, was afterwards carried so far that nine tribunes proposed a bill giving people the power to choose the consuls as they might see fit, from either the plebs or the patriciate. To carry out this last proposal would be, in the estimation of the patricians, not merely to give a share of the supreme authority to the lowest of the citizens, but actually to take it away from the nobles and bestow it on the plebs». The consuls delivered speeches in the Senate, in which they dealt with these propositions of the tribunes, as follows: Reminiscerentur quam maiestatem senatus ipsi a patribus accepissent, quam liberis tradituri essent... Quas quantasque res Gaius Canuleius adgressus! Conluvionem gentium, perturbationem auspiciorum publicorum privatorumque adferre, ne quid sinceri, ne quid incontaminati sit, ut discrimine omni sublato nec se quisquam nec suos noverit. Quam enim aliam vim conubia promiscua habere nisi ut ferarum prope ritu volgentur concubitus plebis patrumque? Ut qui natus sit ignoret, cuius sanguinis, quorum sacrorum sit; dimidius patrum sit, dimidius plebis, ne secum quidem ipse concors. Parum id videri, quod omnia divina humanaque turbentur; iam ad consulatum volgi turbatores accingi. «Let them recall the majesty of the senate, when they had taken it over from their fathers, and think what it was likely to be when they passed it on their sons. ...What tremendous schemes hat Gaius Canuleius set on foot! He was aiming to contaminate the gentes and throw the auspices, both public and private, into confusion, that nothing might be pure, nothing unpolluted; so that, when all distinctions had been obliterated, no man might recognize either himself or his kindred. For what else, they asked, was the object of promiscouus marriages, if not that plebeians and patricians might mingle together almost like the beasts? The son of such a marriage would be ignorant to what blood and to what worship he belonged; he would pertain half to the patri-
cians, half to the plebs, and be at strife even with himself. It was not enough
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for the disturbers of the rabble to play havoc with all divine and human institutions: they must now aim at the consulship». Canuleius delivered a speech and responded to the arguments of the consuls: Verum enimvero lege id prohiberi et conubium tolli patrum ac plebis, id demum contumeliosum plebi est. Cur enim non fertis, ne sit conubium divitibus ac pauperibus? Quod privatorum consiliorum ubique semper fuit, ut in quam cuique feminae convenisset domum nuberet, ex qua pactus esset vir domo in matrimonium duceret, id vobis sub legis superbissimae vincula conicitis, qua dirimatis societatem civilem duasque ex una civitate faciatis. Cur non sancitis ne vicinus patricio sit plebeius nec eodem itinere eat, ne idem convivium ineat, ne in foro eodem consistat?
«But the prohibition and annulment of marriage between patricians and plebeians is indeed at last an insult to the plebs. Why do you not bring in a law that there shall be no marriage between rich and poor? That which has always and everywhere been a matter of private policy, that a woman might marry into whatever family it had been arranged, that a man might take a wife from that house where he had engaged himself, you would subject to the restraint of a most arrogant law, that thereby you might break up our civil society and make two states out of one. Why do you not enact that a plebeian shall not live near a patrician, nor go on the same road, that he shall not enter
the same festive company, that he shall not stand by his side in the same forum?». At the end one of the consuls, Gaius Curtius, came forth to the people and the tribune Canuleius asked him cur plebeium consulem fieri non oporteret? («Why should a plebeian not be chosen consul?») ut fortasse vere, sic parum utiliter in praesens Curtius respondit: «Quod nemo plebeius auspicia . haberet»... plebes ad id maxime indignatione exarsit, quod auspicari, tamquam invisi dis immortalibus, negarentur posse» («to whom Curtius replied, with truth perhaps, yet, in the circumstances, to little purpose, «because no plebeian has the auspices»... At this the plebs fairly blazed with indignation, because it was declared that they could not take auspices, as though they were hated by the immortal gods»). The Roman patricians as well as the Greeks took their arguments from the locus of quality; and this is normal for men who support the idea of a natural and native difference between men. In their opinion patrician blood is different from that of the plebeians; but saying different is not enough. The blood of the patricians is more complete; there is in it the competence to take auspicia, i.e. the faculty to treat the business of the city and of the state with gods, the competence to ask the consent of the gods for the entreprises and engagements of the Romans. This competence is not in the blood of the plebeians. Moreover, they employ the locuses of quality, of specifying, of continuity: the
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patrician blood passes unpolluted through the generations (an etymology of patricius, proposed by the ancients, was qui patrem ciere quit: «He who can call his father») and keeps and retains the pristina virtus maiorum:
therefore
a cultural acquisition has thus become a natural feature. The plebeians responded with arguments taken from the locus of quantity, which produces the ideas of generality, of the natural features men have in common, i.e. not specifically regarding a single man nor a group of men, but all men in general, obviously Roman citizens; the tribunes of the plebs presented some hypothetical examples (exempla) aiming at proving the nonsense and the iniquity of the legal prohibition of marriage between patricians and plebeians; these examples transfer the oratorical confrontation from the locus of quality to the locus of quantity: the difference between patricians and plebeians is compared to the difference between the rich and the poor (from quality to quantity). Through the locus of quantity it is possible to pass from the «normal» to the «normative»,
i.e. from the verification of the common
and current beha-
viour to the affirmation that what is common and current is best and preferable, therefore the norm allows common behaviour among people.As a matter of fact the plebeians used the locus of quantity; they observed that people behave according to current and common behaviour, i.e.: by choosing a wife ubique semper fuit privatorum consiliorum («everywhere and always has marriage been a matter of private policy»). The two adverbs clearly show how much this behaviour was considered common and current, and consequently «normal». The law that forbade the intermarriage between patricians and plebeians was a lex superbissima, i.e. it was founded and supported by the locus of quality; from the point of view of the plebeians the locus of quality was the basis of oligarchy; the consequence of that arrogant law might be the splitting of the civilian society and the making of two states out of one. The locus of quantity unites, the locus of quality divides. When the exceptionality is no longer accepted by the masses, or when its space of application decreases, then the locus of quantity, supported by the power of the likely (verisimile), a power of weak intellectual prestige, but very effective in persuading the masses, then the locus of quantity becomes the basis of a new interpretation of the values of society and of culture and a reasonable basis for democracy. The patricians of Rome indeed were first of all good politicians and thought that the most important thing for government and for State leaders, was
saving the State, its territory and its independence. Thus, since in
that year 445 B.C. Veientes, Volsci and Aequi were going to wage war on the Romans, the senators concessere, allowed the law regarding intermarriage to be passed. The main reason for this was because they thought that by doing
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so, the tribunes would either give up their contention for plebeian consuls completely or would postpone it until after the war. The plebs, in the meantime, contented with the right of intermarriage, would be ready to submit to recruitment. The locus of deliberative oratory is the locus of possibility. The politics, says a maxim, is the art of possibility; also in rhetoric the Romans prefered and privileged reality: Cato said rem tene, verba sequentur («seize the topic — the cause —, the words will follow»); pragmatism won and during the fourth century B.C. the Roman aristocracy accepted the idea of equality of political rights in respect of the plebs; at the beginning of the first century B.C. Roman citizenship was given to Italics; and at the middle of the same century Caesar, a patrician, gave citizenship to the inhabitants of Gallia Cisalpina (now Northern Italy); in other words, the aristocracy or perhaps a few able and clever patricians led this process of naturalization. Nevertheless they continued to use the locus of quality although, on principle, they accepted the locus of quantity; but actually they only gave citizenship to the men who had honourably served either in the Roman army or in positions of political responsibility even in their country. In short, the men who had been good and loyal servants of Rome. According to Isocrates the concept of nationality — for example: the Athenians — included the «possession» of philosophy and eloquence, i.e. culture, as a characteristic element. Culture is a Greek achievement; and civilization is Hellenism. In fact, the concept did not disappear in the following centuries; on the contrary, it developed further, as the patricians of Rome, conquered by Greek culture — Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio — succeeded in setting culture besides the loyalty to Rome. Therefore they also gave citizenship on the basis of cultural merits. Thus Greek culture captured the Romans and later Graeco-roman civilization was to capture the barbarians of western Europe: once won, the Gauls quickly became Roman; romanization was the way by which the people of western Europe and Africa acquired civilization and viceversa. In the year 62 B.C., Cicero, pro Archia 22, supported the statement that the Greek poet Archias was a Roman citizen by means of a tendencious example: illum (Ennium), Rudinum hominem, maiores nostri in civitatem receperunt: nos hunc Heracliensem, multis civitatibus expetitum (like Homer), in hac (civitate) autem legibus constitutum, de nostra civitate eieciemus?
At the end of this process of acculturation, in year 415 A.D., after the sack of Rome by Alaric (410), Rutilius Namatianus, a Roman government official of Gaulish origin, wrote a poem de reditu suo, where, in celebrating Rome (I, 63-66), he resumes the integration of the locuses of quantity and of
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quality, of unity and universality: fecisti patriam diversis gentibus unam, urbem fecisti quod prius orbis erat. Therefore, blood no longer had a determining value when the acceptance of political and cultural values substituted it; however, in spite of this, the ancients did not renounce their own origin (locus of quality). An example of this is: civis Romanus natione Gallus; on the contrary, they were proud, like Rutilius, to belong to the Empire.
This ingenious and very civilized political invention, which integrated the specific with the general, quality with quantity, the particular with the universal, pluralism with unity, miserably fell when the emperors Valentinianus and Theodosius, in the year 380 A.D., enacted an edict at Thessalonica, by which
they ordered all peoples to espouse the catholic religion, the only true religion: Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari quam divinus Petrus Apostolus Romanis tradidit. Hanc legem sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero dementes vesanosque indicantes haeretici dogmatis infamiam sustinere, divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex caelesti arbitrio sumpserimus, ultione plectendos. There are no arguments in the text, but there are some powerful ideas: authority (iubemus), quantity (cunctos populos), sanctity (divinus Petrus),
tradition (tradidit). It was not by chance that the reaction of the gentiles was supported by the rhetors, its most important and authoritative representative being Aurelius Symmachus, a patrician from an ancient family and a man of great culture. In his Relatio X.III (year 384) he addressed some remarks the emperor Gratianus, in Milan, at that time the chief-town of the empire, about this subject: Aequum est, quidquid omnes colunt, unum putari. Eadem spectamus astra, commune caelum est, idem nos mundus involvit: quid interest qua quisque prudentia verum requirat? Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum. It seems that there are two enthymemes in the passage. The first has a major premise: «all peoples have a religion»; the minor premise goes: «each people has his religion»; the conclusion is: «it is right to think that there is only one divine being»; the evidence being: «the same stars, a common sky, the same universe». Now, the previous conclusion becomes the major premise of another enthymeme, whose minor premise is: «there is no one way to reach such a great secret»; the conclusion being: «therefore everyone searches after truth by means of his own culture».
But this is again the proposal of the Roman gentiles, whose aim is to integrate the universal and the particular, unity and multiplicity, the quality that distinguishes with the quantity that unites.
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Ambrosius, the bishop of Milan who, as Symmachus, also belonged to the gens Aurelia, immediately wrote a reply to emperor Valentinianus and reminded him of the consideration due to the vera religio: Cum omnes homines,
qui sub ditione Romana
sunt,
vobis militent,
imperatoribus
terrarum
atque principibus, tum ipsi vos omnipotenti Deo et sacrae fidei militatis. Aliter enim salus tuta esse non poterit, nisi unusquisque Deum verum, hoc est Deum Christianorum, a quo cuncta reguntur, veraciter colat; ipse enim solus verus est Deus. In western Europe, after the fall of the Roman Empire and the christianization of almost all barbarians of germanic origin, within the christian community (populus christianus) religion did not succeed in overcoming the new cultural
and ethnical
differences
that existed
between
the Byzantines,
who
named themselves Romans, and the germanic peoples who had conquered western Europe and ruled it (by the way, they had been called barbarians by the Romans and Greeks). The arguments for stressing the differences are ethnical and cultural. They are collected in a passage of the Liudprand’s Relatio de legatione Costantinopolitana ad Ottonem, Sacri Romani Imperii natione Germanica imperatorem, written in the year 968. Liudprandus was a Langobard; he was the bishop of Cremona in northern Italy. He had been sent to the emperor Nicephorus Phocas in Byzantium by the emperor Otto of Bavaria. While having dinner, the emperor Nicephorus asked Liudprand about the political and military power of Otto. He answered with sincerity, says Liudprand, but his answer was disdained and despised. Nicephorus immediately accused Liudprand of lying: mentiris, and that is an ethical reproach; the reasons for this accusation are given in a detailed enumeration and concern culture in a broad sense, i.e. in this case military technique and alimentary uses: Domini tui milites equitandi ignari, pedestris pugnae sunt inscii, scutorum magnitudo, ensium longitudo galearumque pondus neutra parte eos pugnare sinit; nec est in mari domino
tuo classium
numerus;
impedit eos et gastri-
margia, hoc est ventris ingluvies (voraciousness); quorum Deus venter est, quorum audacia crapula, fortitudo ebrietas, ieiunium dissolutio, pavor sobrietas. Vos non Romani, sed Langobardi estis! The last statement resumes the whole idea in a strong antithesis and recalls us of Isocrates’ idea, that the basical difference between the Greeks and the barbarians is culture. ‘ Liudprand answered back: Romanos nos, Langobardi, Saxones, Franci, Lotharingi, Bagoarii, Suevi, Burgundiones tanto dedignamur, ut inimicos nostros nil aliud contumeliarum nisi: Romane! dicamus. Hoc solo, id est Romanorum nomine, quicquid ignobilitatis, timiditatis, avaritiae, luxuriae, mendacii, immo quicquid vitiorum est, comprehendentes. The ethnical difference is conceived in terms of moral behaviour, i.e. of culture; but moral be-
ARGUMENTS
ABOUT ETHNICAL AND CULTURAL DIFFERENCES
443
haviour is conceived as depending on the nature of the peoples; the locus of quality has come back to separate the barbarians from the Romans; but this time the barbarians claim their superiority. The kingdoms and potentates of the Middle Ages and the European States of the modern Age (after the end of Feudalism, since the Renaissance and the
Reformation) inherite some judicial precedents from the Roman Empire, particularly in matter of religion. An often quoted precedent concerning the prohibition to dwell in the Roman territory for any kind of heretic people (i.e. Manichaeans, Schismatics and generally Heretics), was promulgated by Theodosius and Valentinianus. The quoted text is: nusquam in Romanum solum conveniendi morandique habeant facultatem. Religion was considered an essential condition for fully enjoying of civil rights. I am now going to deal shortly with the arguments used in their confrontation by both the government of the Duke of Savoy and the Waldenses. The Waldenses were subjects of the Duke and lived in Piedmont in the western Italian Alps: they were a small community of protestants who had followed the preaching of Pierre Vaud of Lyon (in italian Pietro Valdo) in the Middle Ages. In the year 1594, after the French invasion of Piedmont,
the Walden-
ses, who had aided the French army, presented a petition to the Duke Charles Emmanuel in order to obtain the Duke’s pardon and the redintegration into their possessions. They also asked the Duke to have licence to enjoy their privileges, immunities
and freedom of conscience
as they had done before.
In
exchange, they promised they would go on praying incessantly the Lord for the prosperity of the Duke. The petition starts with an implicit major premise: «The old is better than the new», (and that argument comes from the locus of quantity: a longer duration is better than a short one) and a minor premise, again elliptic, i.e., «the Duke too knows and appreciates the freedom of conscience». Every type of reasoning which refers to individuals is supported by the locus of quality. The result was that the Duke gave his pardon, but on condition
that, first, the Catholic
Church
would
return
to the Waldensian
Valleys, second, the properties of the Church were given back, and, third, the Waldenses would pay the tithes. As for the freedom of conscience the Duke got rid of it by deferring «the detail of religion and other details» to some of his ministers who would be sent to settle them with the people. Reason of State prevailed; the Duke and his government did not look at the distinctiveness of Waldenses,
but at their status as subjects. The answer,
in
fact, ends with a statement of goodwill and a request to the Waldenses to declare their loyalty to the Duke as true, good and loyal subjects must do. But the Duke, indeed, was open-minded in the matter of freedom of conscience;
and when he sent a Senator to the Waldensian Valleys, he reccomended him
444
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
that «all people belonging to the previous mentioned religion had not to be bothered as for their conscience».
Thus, the Duke also showed that he was
able to practice the principle of convenience in the frame of an implicit agreement with his subjects, who, having recognized his sovereignty, became the object of his protectorate and safeguard. Different was the case of foreign heretics, who lived in the States of the Duke, particularly in Turin. The counsellors of the Duke in matter of law gave advice on the question in the year 1711. The advice goes that a Catholic Prince can never authorize and confirm the domicile of heretics in his States, nor accord them the citizenship through a public act, i.e. the naturalization, nor consequently receive them under his protectorate and safeguard. The statement is the conclusion of an enthymeme, whose major premise, elliptic, is that the only true religion in the world is Catholicism (Catholica Apostolica Romana Religio). The minor premise is explicit: canonical laws provide that heretics should be sent out of the christian countries; and the civil laws provide the same. To prove the provisions, the law promulgated by the emperors Theodosius and Valentinianus, mentioned above, was quoted in the advice. The advice also refers to some decrees generally concerning any sect of heretics, which provide either that heretics should be segregate from the other people or that they should be sent out of the cities and of the States, to avoid that cities and
States would be infected by such a pernicious contagion; finally, it refers to the famous decree of Frederic the emperor, by means of which all heretics of whatever sex and name were condemned to a perpetual infamy, to banishment and to the confiscation of all properties. According to Herodotus, religion was only one of the four elements which defined the concept of nation: blood, language, religion and customs. From a rhetorical point of view, the use of these concepts was supported by the locus of quality, particularly the idea that political and religious rights and competence are trasmitted by means of blood. Isocrates added the idea of culture, whose effect is developed on the level of individual i.e., its starting point is the locus of quality, although also quantity operates, as each individual (i.e. all men) can acquire culture. The Romans opened a lawful way to obtain citizenship: subjects became citizens after having honourably served in the army and in local government. From a rhetorical point of view this way was also supported by quality (culture and loyalty) and opened to quantity; all men, in fact, were in theory able to behave in such a way as to gain citizenship.
ARGUMENTS
ABOUT ETHNICAL AND CULTURAL DIFFERENCES
445
Finally, with Caracalla’s edict (212 A.D.) Roman citizenship was within hand of each inhabitant of the Empire. The locus of quantity prevailed and united all people of the ancient world. The advent of Christianism in the form of Catholicism, the victory of St
Ambrosius against Symmachus in the battle for the liberty and preservation of paganism and the position of State religion that Christianism acquired in the same years, transformed the status of the Roman citizen by introducing a basical requirement consisting of being Catholic. Since the fall of the western Roman Empire until the French and American revolutions, religion remained a decisive element for citizenship. Before the Reformation, only Catholic religion; after the Reformation, cuius regio eius religio. A perverted and perverse use of the locus of quality, completed by the locus of uniqueness and reinforced by the locus of authority, with the premise, often implicit, that Catholic religion is the only true religion, offered the basis for an abnormous developing of ethnical and cultural differences derived and founded upon religions.
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INDICE
Gian Franco Gianotti Retorica e scienze della comunicazione
Bibliografia di Adriano Pennacini
XI
Cercida e il secondo cinismo, Atti dell’ Accademia delle Scienze di Torino, 1955-56
Docti e crassi nella poetica di Lucilio, dell’ Accademia delle Scienze di Torino, 1965-66
Atti
Le fragment comme echantillon, “Revue” 1968 (Organisation internationale pour l’étude des langues anciennes par ordinateur, Liège)
73
Funzioni della rappresentazione del reale nella satira di Lucilio, Atti dell’ Accademia delle Scienze di Torino,
1968
16)
I procedimenti stilistici nella satira I di Persio, Atti dell’ Accademia delle Scienze di Torino, 1970 Analyse
structurale
et
recherche
Os)
computationelle,
“Revue” 1970 (Organisation internationale pour |’ étude des langues anciennes par ordinateur, Liège) Amore e canto nel locus amoenus, Torino 1974
Figure di pensiero nella Oratio pro Rhodiensibus di Catone Maggiore, Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano, 1977
259)
Lettura tematica dell’elegia I.4 di Tibullo, Rivista di Cultura Classica e Medievale, 1978
269
Posizione di Cicerone nella questione dell’applicabilita della retorica alla poesia, Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano 1979
281
448
FORME DEL PENSIERO. STUDI DI RETORICA CLASSICA
Lo stato degli studi sul Romanzo latino in Apuleio letterato filosofo mago, Bologna 1979 Bioneis
sermonibus
et sale nigro,
in Prosimetrum
291
e
spudogeloion, Genova 1982
309
Eloquenza dell’imperatore e prosa dei dotti nella dottrina di Frontone, Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano 1983
315
Retorica, diatriba cinica e satira Romana, in Miscellanea di studi in memoria di F.Arnaldi, Vichiana 1983
323
Strutture retoriche nelle biografie di Svetonio, in Retorica e storia nella cultura classica, Bologna 1985
33
Situazione e struttura dell’epistola familiare nella teoria classica, “Quaderni di retorica e poetica” 1985
339
L’arte della parola, in Lo spazio letterario di Roma antica Roma 1988, vol.II
345
Bione di Boristene: la retorica al servizio della filosofia, in Mnemosynum. studi in onore di A.Ghiselli, Bologna 1989
389
La narrazione patetica di Virgilio: Orfeo nell’Ade, in Retorica della comunicazione
nelle letterature
classi-
che, Bologna 1990
395
Funzione drammatica dell’apostrofe nel discorso di Didone (Verg.IV.9-29), in Studi in onore di Lore Terracini,
Roma 1990
401
Paupertas sermonis: Quintilian and New Words (Quin-
til.Inst. or.VIII.3,33), relazione presentata alla Biennial Conference of the International Society for the History of Rhetoric, September 25-29, 1991, The John Hopkins Uni-
versity, Baltimore, Maryland.
407
INDICE
La poesia d’occasione, in Atti del convegno nazionale di studi su Orazio dell’ Associazione Italiana di Cultura Classica, Torino 13-15 aprile 1992, Regione Piemonte, Assessorato ai Beni Culturali, Torino 1993, pp.73-80.
449
413
Talento e nobiltà secondo Bione di Boristene, in Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica, miscellanea in onore di Bruno Gentili,
Roma 1993, parte III pp.1003-1006.
421
Retorica e scienza: alcuni procedimenti retorici in Vitruvio, De architectura, e in Plinio, Naturalis historia, in Voce di molte acque, miscellanea di studi offerti a Eugenio Corsini, Torino 1994, pp.207-212.
425
Arguments about Ethnical and Cultural Differences in Ancient and Modern Oratory. Opening Address for “The First African Symposium on Rhetoric: Persuasion and Power”, University of Cape Town, July 11-13,
1994 in Studi di retorica oggi in Italia 1998, pp.73-91.
1997, Bologna 431
Finito di stampare nel settembre 2002 da Editel in Moncalieri per conto delle Edizioni dell’ Orso
ISBN
88-7694-590-3
788876"945908