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Italian Pages 528 [638] Year 2020
Johan Huizinga L’Autunno del Medioevo
A cura di Franco Paris
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Titolo dell’opera originale Herfsttij der Middeleeuwen. Studie over levensen gedachtenvormen der veertiende en vijftiende eeuw in Frankrijk en de Nederlanden Traduzione dal nederlandese di FRANCO PARIS
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2020 da prima edizione nell’“Universale Economica” – I CLASSICI febbraio 2020 ISBN ebook: 9788858838754 In copertina: Bernisches Historisches Museum. © DeAgostini/Getty Images. Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
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L’Autunno del Medioevo Studio sulle forme di vita e di pensiero del quattordicesimo e quindicesimo secolo in Francia e nei Paesi Bassi
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Prefazione
Di solito sono le origini del nuovo quello che il nostro spirito cerca nel passato. Vogliamo sapere come sono sbocciate le nuove forme di pensiero e di vita che avrebbero raggiunto il pieno splendore in tempi successivi; consideriamo ogni epoca soprattutto per la promessa del futuro che reca in sé. Con questo impegno si sono ricercati i germi della cultura moderna nella civiltà medioevale, un impegno così profondo da dare talvolta l’impressione che la storia intellettuale del Medioevo sia stata quasi il preludio del Rinascimento. Del resto, in quel periodo che una volta era considerato rigido e desolato, dappertutto si vedevano i sintomi di un mondo nuovo, e tutto pareva indicare una perfezione futura. Tuttavia, nel cercare le tracce della nuova vita che nasceva, si dimenticava facilmente che nella storia come nella natura la morte e la vita procedono sempre di pari passo. Vecchie forme di civiltà si spengono nello stesso tempo e nello stesso luogo nel quale il nuovo trova linfa vitale per svilupparsi. Qui abbiamo cercato di prendere in considerazione il XIV e il XV secolo non come annuncio del Rinascimento, bensì come tramonto del Medioevo, la civiltà medioevale nel suo ultimo respiro, come un albero dai frutti troppo maturi, completamente cresciuto e sviluppato. Argomento di queste 5
pagine è il moltiplicarsi di vecchie, obbligate concezioni sul nucleo vitale del pensiero, e l’inaridirsi e l’irrigidirsi di una ricca civiltà. Nello scrivere questo libro lo sguardo si è ritrovato immerso nella profondità di un cielo serale, di un cielo rosso di sangue, pesante, un cielo di piombo, pieno di un ingannevole chiarore di rame. Quando rileggo ciò che ho scritto mi domando se, qualora lo sguardo si fosse soffermato più a lungo su quel cielo serale, i torbidi colori non si sarebbero poi risolti in pura luminosità. Mi pare che il quadro, ora che gli ho dato linea e colore, sia diventato però più tetro e meno sereno di come intendevo dipingerlo quando iniziai il lavoro. Niente di più facile che, quando rivolgiamo l’attenzione continuamente al declino, alla fine e alla rovina, l’ombra della morte si diffonda troppo su tutto il lavoro. Il punto di partenza di questa opera è stato il bisogno di comprendere meglio l’arte dei Van Eyck e dei loro seguaci, di inquadrarli nella loro epoca in tutte le sue manifestazioni. Volevo prendere in considerazione la società borgognona come un’unità a sé stante: mi pareva possibile trattarla come un periodo culturale tanto completo quanto il Quattrocento italiano, e il titolo del libro inizialmente doveva essere Il secolo della Borgogna. Tuttavia man mano che le mie conclusioni assumevano un carattere più generale, dovetti abbandonare quella limitazione; solo in un senso molto ristretto, infatti, era possibile postulare un’unità della cultura borgognona; la Francia non-borgognona richiedeva per lo meno un’eguale attenzione. Così alla Borgogna si sostituì il dualismo, molto differente, Francia e Paesi Bassi. Considerando, infatti, la decadenza della cultura medioevale in generale, l’elemento nederlandese rimaneva necessariamente molto 6
indietro rispetto al francese; solo in quei campi nei quali i Paesi Bassi hanno un significato proprio, cioè nella vita religiosa e nell’arte, esso viene trattato in modo più ampio. Non credo che debba essere giustificato il fatto che nel XVI capitolo siano stati oltrepassati di poco i limiti geografici fissati, per poter avvalerci delle testimonianze anche di Eckhart, Suso e Taulero, accanto a quelle di Ruusbroec e Dionigi il Certosino. Il numero degli scritti del XIV e XV secolo che ho analizzato mi appare esiguo, in confronto a tutto ciò che avrei voluto leggere. Avrei volentieri aggiunto molte altre testimonianze accanto alla serie di quelle delle correnti spirituali, sulle quali si basano quasi sempre le mie argomentazioni. Tuttavia, se tra gli storici Froissart e Chastellain sono quelli che cito con maggior frequenza, tra i poeti Eustache Deschamps, tra i teologi Jean Gerson e Dionigi il Certosino, tra i pittori Jan van Eyck, ciò non dipende solamente dalla scarsità del materiale, ma molto più dal fatto che costoro, per la ricchezza e l’acutezza delle loro opere, rispecchiano in modo eccellente lo spirito di quei tempi. Sono le forme della vita e del pensiero che qui ho cercato di descrivere. Avvicinarsi al contenuto essenziale, racchiuso in quelle forme, potrà mai essere oggetto dell’indagine storica? J.H. Leida, 31 gennaio 1919
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1. La veemenza della vita
Quando il mondo era più giovane di cinque secoli tutti i casi della vita avevano forme esteriori molto più violente. Tra dolore e gioia, tra calamità e felicità la differenza pareva più grande di quanto lo sia per noi; tutto ciò che si provava aveva ancora quel grado di immediatezza e di assolutezza che la gioia o il dolore hanno ancora oggi nello spirito infantile. Ogni avvenimento, ogni azione erano circondati da forme chiare ed esplicite, erano innalzati alla solennità di uno stile di vita rigido e immutabile. Le grandi cose: la nascita, il matrimonio, la morte, rifulgevano, tramite il sacramento, dello splendore del mistero divino. Ma anche i casi meno importanti, un viaggio, un lavoro, una visita, erano accompagnati da mille benedizioni, cerimonie, massime, usanze. Alle calamità e all’indigenza si trovava meno sollievo rispetto al giorno d’oggi, esse arrivavano più tremende e strazianti. La malattia si differenziava più nettamente dalla salute, il freddo rigido e l’oscurità angosciosa dell’inverno erano un male più concreto. Onore e ricchezza si godevano più intimamente e più avidamente, perché si differenziavano più spiccatamente dalla miserevole povertà e dall’abiezione. Un tabarro di pelliccia, un bel caminetto acceso, un bicchiere, 8
una battuta e un letto morbido offrivano ancora quella grande fonte di piacere, che forse il romanzo inglese, con la descrizione della gioia di vivere, ha evocato più a lungo e con maggior brio. E tutte le cose della vita avevano un’eco fastosa e crudele. I lebbrosi facevano suonare le loro raganelle e giravano in processione, i mendicanti si lamentavano nelle chiese e mettevano in mostra le loro deformità. Ogni classe, ogni ordine, ogni mestiere era riconoscibile dall’abito. I grandi signori non si muovevano mai senza fare sfoggio di armi e livree, imponenti e ambite. L’amministrazione della giustizia, il commercio dei venditori ambulanti, le nozze e i funerali, tutto si annunciava con clamore e con cortei, grida, lamenti e musica. L’innamorato portava l’insegna della sua dama, i confratelli l’emblema della loro confraternita, la fazione i colori e il blasone del suo signore. Anche nell’aspetto esteriore delle città e delle campagne dominavano quel contrasto e quella varietà. La città non si disperdeva, come le nostre, in sobborghi disordinati di fabbriche squallide e villette malriuscite, ma era racchiusa nelle sue mura, con una figura ben definita, irta di innumerevoli torri. Per quanto le case di pietra dei nobili o dei mercanti fossero alte e minacciose, erano sempre le chiese con le loro masse che si innalzavano al cielo a dominare la veduta della città. Il contrasto tra estate e inverno era più netto allora che nella nostra vita, così come quello tra la luce e il buio, tra il silenzio e il rumore. La città moderna non conosce quasi più il buio assoluto e il silenzio assoluto, l’effetto di un singolo lumicino o di una singola voce lontana. Attraverso il continuo contrasto e le molteplici forme con cui tutto si imponeva allo spirito, la vita quotidiana emanava 9
un’eccitazione, una carica passionale che si manifestavano nei mutevoli stati d’animo tra i quali oscillava la vita cristiana medioevale: rozza esuberanza, violenta crudeltà e sincera tenerezza. C’era un suono che riusciva sempre a sovrastare tutto il fragore dell’esistenza affaccendata e che, per quanto disordinato e tuttavia mai confuso, sollevava temporaneamente ogni cosa in una atmosfera di ordine: il suono delle campane. Le campane erano nella vita di tutti i giorni come spiriti benigni ammonitori che, con voce familiare, annunciavano ora lutto, ora gioia, ora riposo, ora ansia, ora chiamavano a raccolta, ora esortavano. Si individuavano con nomi familiari: Jacqueline la grossa, la campana Roelant; si comprendeva il significato dei rintocchi o dei suoni. Nonostante l’eccessivo scampanio non si era insensibili al suono. Durante il famigerato duello tra due cittadini di Valenciennes, che nel 1455 tenne col fiato sospeso la città e l’intera corte borgognona, la grande campana suonò finché durò il combattimento, “laquelle fait hideux à oyr”, dice Chastellain.1 Nella torre della chiesa di Notre-Dame in Anversa pende ancora la vecchia campana d’allarme del 1316, Orida, cioè horrida, l’orrida.2 “Sonner l’effroy”, “faire l’effroy”, si diceva suonare la campana d’allarme3; la parola significava originariamente discordia, exfredus, poi lo scampanio divenne annuncio di una situazione di contesa, quindi segnale di pericolo, infine terrore. Che fragore assordante deve essere stato, quando tutte le chiese e i conventi di Parigi facevano suonare le campane da mattina a sera, e persino per tutta la notte, perché era stata firmata una pace tra borgognoni e armagnacchi.4 Anche le processioni dovevano essere di grande efficacia. Se i tempi erano pieni di angoscia, e lo erano spesso, esse si 10
susseguivano talvolta giorno dopo giorno, per intere settimane. Quando il fatale dissidio tra le case di Orléans e Borgogna conduce infine alla guerra civile aperta e il re, Carlo VI, nel 1412 prende l’orifiamma per combattere insieme a Giovanni senza Paura gli armagnacchi, che dopo un’alleanza con l’Inghilterra sono diventati traditori della patria, a Parigi viene impartito l’ordine di tenere ogni giorno delle processioni, dal momento in cui il re si troverà in territorio nemico. Le processioni durano dalla fine di maggio a luglio, con gruppi, ordini o corporazioni sempre diversi, seguendo percorsi sempre diversi, con diverse reliquie: “les plus piteuses processions qui oncques eussent été veues de aage de homme”. Procedevano tutti scalzi e a stomaco vuoto, signori del Parlamento e poveri cittadini; quelli che potevano portavano una candela o una torcia; vi partecipavano sempre numerosi bambini. Anche dai villaggi dei dintorni di Parigi arrivavano, a piedi nudi e dopo lunghe marce, i poveri contadini. Si partecipava o si guardava “en grant pleur, en grans lermes, en grant devocion”.5 E in quasi tutti quei giorni pioveva a dirotto.6 C’erano poi le entrate trionfali, preparate con tutta l’ingegnosità di cui si era capaci. E, con una frequenza mai interrotta, le esecuzioni capitali. La crudele eccitazione e la rozza compassione suscitata dal patibolo costituivano un elemento di gran peso nel nutrimento spirituale del popolo. Era uno spettacolo con una morale. Contro i misfatti atroci la giustizia ideò punizioni atroci; a Bruxelles un giovane incendiario e assassino viene incatenato a un anello che poteva girare intorno a una pertica, dentro un cerchio di fascine ardenti. Egli stesso si offriva al popolo come esempio con toccanti parole, “et tellement fit attendrir les coeurs que tout le monde 11
fondoit en larmes de compassion”. “Et fut sa fin recommandée la plus belle que l’on avait oncques vue.”7 Messere Mansart du Bois, un armagnacco che viene decapitato a Parigi nel 1411 durante il terrore dei borgognoni, non solo concede volentieri al boia il perdono che costui gli chiede secondo la consuetudine, ma prega il boia di baciarlo. “Foison de peuple y avoit, qui quasi tous ploroient à chaudes larmes.”8 Spesso le vittime erano gran signori; allora il popolo godeva soddisfatto della severità della legge e del severo ammonimento sulla caducità della grandezza terrena, più vivido di qualsiasi esempio dipinto o Danza macabra. Le autorità facevano in modo che nulla mancasse alla suggestione dello spettacolo: con le insegne della loro grandezza i signori compivano il triste viaggio. Jean de Montaigu, “grand maître d’hôtel” del re, vittima dell’odio di Giovanni senza Paura, va verso il patibolo seduto molto in alto su un carro, preceduto da due trombettieri; indossa l’abito di gala, cappa, cappuccio e calze metà bianche e metà rosse, speroni d’oro ai piedi; con quegli speroni d’oro il corpo decapitato pende dalla forca. Il ricco canonico Nicolas d’Orgemont, vittima della vendetta degli armagnacchi nel 1416, viene condotto per Parigi sul carro delle immondizie, avvolto in un grande mantello viola e con un cappuccio, per assistere alla decapitazione di due compagni, prima di essere condannato al carcere a vita “au pain de doleur et à eaue d’angoisse”. La testa di maestro Oudart de Bussy, che aveva rifiutato un posto nel Parlamento, fu dissepolta per ordine speciale di Luigi XI e, in un cappuccio scarlatto foderato di pelliccia “selon la mode des conseillers de parlement”, esposta nel mercato di Hesdin con una piccola poesia a commento. Lo stesso re ne scrive con feroce sarcasmo.9 12
Più rari delle processioni e delle esecuzioni erano i sermoni dei predicatori, che di tanto in tanto venivano a scuotere il popolo con le loro parole. Noi lettori di giornali possiamo farci a malapena un’idea del formidabile effetto della parola su uno spirito famelico e ignorante. Il popolare predicatore fra Riccardo, che poté assistere Giovanna d’Arco come padre confessore, predicò a Parigi nel 1429 per dieci giorni consecutivi. Cominciava la mattina alle cinque e terminava tra le dieci e le undici, per lo più nel cimitero degli Innocenti, sotto il cui colonnato era dipinta la famosa Danza macabra, con le spalle rivolte agli ossari scoperti, nei quali, sopra l’arcata tutt’intorno, erano ammucchiati ben visibili i teschi. Quando, dopo la sua decima predica, comunicò che questa sarebbe stata l’ultima, poiché non aveva ottenuto il permesso di farne altre, “les gens grans et petiz plouroient si piteusement et si fondement, commes s’ilz veissent porter en terre leurs meilleurs amis, et lui aussi”.10 Quando finalmente lascia Parigi, il popolo crede che la domenica lui predicherà ancora a St. Denis; numerosissimi, ben seimila, dice il Borghese di Parigi, si mettono in moto il sabato sera dalla città, per assicurarsi un buon posto e passano la notte nei campi.11 Anche al francescano Antoine Fradin fu proibito di predicare a Parigi, poiché aveva inveito con veemenza contro il malgoverno. Ma proprio per questo egli era amato dal popolo, che lo proteggeva giorno e notte nel convento dei Cordelier; le donne vi facevano la guardia, con munizioni di cenere e sassi. Ci si fa gioco del bando che proibisce questa guardia: che ne sa il re! Quando finalmente Fradin, esiliato, deve lasciare la città, il popolo lo accompagna, “crians et soupirans moult fort son département”.12 Quando viene a predicare il venerabile domenicano Vin13
cente Ferrer, da ogni città il popolo, i magistrati, il clero, gli stessi vescovi e prelati si muovono per raggiungerlo, intonando degli inni. Egli viaggia con una nutrita schiera di seguaci, che ogni sera dopo il tramonto girano in processione flagellandosi e cantando. Da ogni città giungono nuove schiere per accompagnarlo e lui provvede con gran cura agli alloggiamenti e al vitto di tutti quei discepoli, nominando quartiermastri uomini irreprensibili. Numerosi preti di diversi ordini viaggiano con lui per poterlo assistere continuamente nell’ascoltare le confessioni e nel celebrare la messa. Lo accompagnano alcuni notai, per mettere subito a verbale la composizione delle liti che il pio predicatore riesce a compiere dappertutto. Il magistrato della città spagnola di Orihuela dichiara, in una lettera al vescovo di Murcia, che quegli aveva effettuato nella loro città 123 riconciliazioni, di cui 67 relative a casi di assassinio.13 Dove predica Vincente, un’impalcatura di legno deve proteggere lui e il suo seguito dall’impeto della folla che vuole baciargli la mano o le vesti. Gli artigiani fermano il lavoro finché predica. Accadeva raramente che non facesse piangere chi lo ascoltava, e quando parlava del giudizio universale e delle pene dell’inferno o della passione del Signore, allora sia lui sia coloro che lo ascoltavano scoppiavano a piangere in modo tale che era costretto a tacere per un bel po’ finché le lacrime non si fossero placate. I malfattori venivano a gettarsi a terra davanti a tutti e a confessare in lacrime i loro grandi peccati.14 Quando, nel 1485, il famoso Olivier Maillard tenne le prediche quaresimali a Orléans, tanta fu la gente che si arrampicò sui tetti delle case che furono messi in conto 64 giorni di lavoro per le riparazioni delle tegole.15 È lo stato d’animo dei revival anglo-americani e dell’Ese14
rcito della Salvezza, ma molto più intenso e con un pubblico più numeroso. Davanti alla descrizione dell’effetto prodotto da Ferrer, non c’è bisogno di supporre una pia esagerazione da parte dei suoi biografi; il sobrio e freddo Monstrelet descrive in modo quasi uguale l’impressione che un certo fra Tommaso, che si faceva passare per carmelitano ma che in seguito fu smascherato come imbroglione, suscitò, nel 1428, con le sue prediche nella Francia settentrionale e nelle Fiandre. Anche a lui le autorità andavano incontro, mentre i nobili gli tenevano le redini del mulo; anche per lui molti uomini, compresi alcuni signori che Monstrelet cita per nome, abbandonarono la casa e la famiglia per seguirlo dappertutto. I notabili adornavano l’alto pulpito, che avevano eretto per lui, con gli arazzi più preziosi che ci fossero. I predicatori popolari riuscivano a toccare molto profondamente l’animo della gente parlando della passione e del giudizio finale, ma soprattutto della lotta contro il lusso e la vanità. Il popolo, dice Monstrelet, era grato e affezionato a fra Tommaso, soprattutto perché calpestava lo sfarzo e la frivolezza e in particolare per i rimproveri che scagliava contro la nobiltà e il clero. Quando illustri dame osavano introdursi nel suo uditorio con le loro acconciature a cono, egli soleva aizzare contro di esse i bambini (con la promessa d’indulgenza, afferma Monstrelet) al grido di “au hennin, au hennin!”, cosicché le donne durante tutto quel tempo non osavano più portare gli hennins e giravano imbacuccate come beghine. “Mais à l’exemple du lymeçon”, dice il gioviale cronista, “lequel quand on passe près de luy retrait ses cornes par dedens et quand il ne ot plus riens les reboute dehors, ainsy firent ycelles. Car en assez brief terme après que ledit prescheur se fust départy du pays, elles mesmes recommencèrent 15
comme devant et oublièrent sa doctrine, et reprinrent petit à petit leur viel estat, tel ou plus grant qu’elles avoient accoustumé de porter”.16 Sia fra Riccardo che fra Tommaso fecero divampare i roghi delle vanità, così come, sessanta anni dopo, avrebbe fatto Firenze per volere di Savonarola, su scala più grande e con danni irreparabili per l’arte. A Parigi e nell’Artois, nel 1428 e 1429 ci si limitò alle carte da gioco, ai tavolini da tric trac, ai dadi, alle acconciature e agli ornamenti, che uomini e donne consegnavano di buon grado. Nel XV secolo, tanto in Francia che in Italia, questi falò erano un elemento costante nel gran fermento provocato dai predicatori.17 Erano il cerimoniale nel quale si concretizzava l’avversione dei penitenti per le vanità e per i piaceri, la stilizzazione di un’intensa emozione in un atto pubblico e solenne, seguendo la tendenza dell’epoca a creare per ogni cosa delle forme rituali. Bisogna tener presente questa suscettibilità ed emotività d’animo, questa predisposizione alle lacrime e alla conversione, questa sensibilità, per comprendere quali fossero allora il colore e l’asprezza della vita. In quei tempi un lutto pubblico aveva ancora l’aspetto di una calamità. Ai funerali di Carlo VII il popolo esce di senno per l’emozione quando vede il corteo: tutti i dignitari di corte “vestus de dueil angoisseux, lesquelz il faisoit moult piteux veoir; et de la grant tristesse et courroux qu’on leur veoit porter pour la mort de leurdit maistre, furent grant pleurs et lamentacions faictes parmy toute ladicte ville”. C’erano sei paggi del re su cavalli interamente bardati di velluto nero. “Et Dieu scet le doloreux et piteux dueil qu’ilz faisoient pour leur dit maistre!”.18 Il popolo intenerito raccontava che uno dei 16
paggi, per il dolore, non aveva né mangiato né bevuto per quattro giorni.19 Tuttavia non è soltanto l’emozione per un gran lutto, per una accesa predicazione o per i misteri della fede che fa piangere a dirotto. Anche solennità mondane provocano fiumi di lacrime. Un ambasciatore che il re di Francia manda a Filippo il Buono in visita di cortesia scoppia ripetutamente in lacrime, durante il suo discorso. Alla partenza del giovane Giovanni di Coïmbra dalla corte borgognona piangevano tutti, così come al ricevimento del Delfino e al vertice dei re d’Inghilterra e di Francia ad Ardres. Si vide Luigi XI versare lacrime al suo ingresso ad Arras; Chastellain lo descrive frequentemente in singhiozzi e in lacrime durante il suo soggiorno come Delfino alla corte dei borgognoni.20 C’è naturalmente dell’esagerazione in quelle descrizioni; bisogna paragonarle all’“erano tutti in lacrime” di una notizia giornalistica. Nella descrizione del congresso per la pace ad Arras nel 1435, Jean Germain rappresenta l’uditorio prostrato a terra per l’emozione, senza parole, in preda a sospiri, singhiozzi e lacrime, dopo i commoventi discorsi degli ambasciatori.21 Sicuramente non sarà andata così, ma il vescovo di Chalon riteneva che dovesse andare così: nell’esagerazione si riesce a intuire la verità. Era come per i fiumi di lacrime dei sentimentali del XVIII secolo: il pianto era edificante e bello. E poi, chi ignora l’intensa commozione, fino ai brividi e alle lacrime, che può suscitare ancor oggi un’entrata trionfale, anche se magari il principe fastosamente onorato ci è completamente indifferente? Allora una tale immediata emozione era accompagnata da una venerazione semi-
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religiosa per lo sfarzo e la grandezza e provocava vere lacrime. Chi non vede la differenza di sensibilità esistente tra il XV secolo e il nostro tempo, la può capire da un piccolo esempio preso da un campo diverso da quello delle lacrime, ossia da quello dell’irruenza. Ci riesce probabilmente difficile immaginare un gioco più pacifico e tranquillo degli scacchi. La Marche dice che spesso nel gioco degli scacchi sorgono delle liti, “et que le plus saige y pert patience”.22 Il litigio dei figli di re per una partita a scacchi era ancora, nel XV secolo, un motivo comune come lo era stato nei romanzi del ciclo carolingio. Nella vita quotidiana c’era per ogni occasione un’illimitata possibilità di ardenti passioni e infantili fantasie. La storia scientifica moderna del Medioevo, che a causa della scarsa attendibilità delle cronache attinge notizie preferibilmente dai documenti ufficiali, talvolta cade per questo in un pericoloso errore. I documenti ci fanno comprendere poco la differenza tra il nostro tono di vita e quello di allora. Essi ci fanno dimenticare il veemente pathos della vita medioevale. Di tutte le passioni che le danno colore, i documenti di solito ne menzionano solamente due: l’avidità e la combattività. Chi non si è spesso stupito della quasi incomprensibile veemenza e dell’insistenza con cui l’avidità, la litigiosità, la sete di vendetta emergono dai documenti giudiziari di quei tempi? Solo mettendoli in relazione con la passionalità collettiva che infuocava la vita in ogni campo, quei tratti ci diventano accettabili e spiegabili. Perciò i cronisti, pure così superficiali per quel che riguarda i fatti e così frequentemente in errore, rimangono indispensabili per avere un quadro esatto dell’epoca. 18
La vita, sotto più di un aspetto, aveva ancora il colore della fiaba. Se i cronisti di corte, uomini eminenti e dotti che conoscevano da vicino i loro principi, non sanno vedere e descrivere i personaggi illustri sotto una forma che non sia arcaica e ieratica, che cosa non deve essere stato per l’ingenua immaginazione popolare il magico splendore della regalità! Ecco un esempio di quel tono fiabesco preso dall’opera storiografica di Chastellain. Il giovane Carlo il Temerario, ancora conte di Charolais, giunge da Sluis a Gorkum, e lì apprende che suo padre, il duca, gli ha tolto la pensione e tutti i benefici. Chastellain descrive come il conte convochi alla sua presenza l’intera corte, sguatteri compresi, e comunichi loro la sua sventura con un discorso commovente, nel quale manifesta il suo rispetto per il padre ingannato, la cura per il benessere dei suoi e l’amore per tutti loro. Esorta quelli che hanno mezzi propri ad attendere insieme a lui tempi migliori; lascia liberi di partire quelli che sono poveri, e se dovessero sentire che la fortuna del conte è mutata “tornate, riavrete tutti il vostro posto e sarete i benvenuti, e premierò la pazienza che avrete avuta per amore mio”. “Lors oyt-l’on voix lever et larmes espandre et clameur ruer par commun accord: ‘Nous tous, nous tous, monseigneur, vivrons avecques vous et mourrons’.” Profondamente commosso Carlo accetta la loro fedeltà: “Or vivez doncques et souffrez; et moy je souffreray pour vous, premier que vous ayez faute”. Allora i nobili gli offrono ciò che possiedono; “disant l’un: j’ay mille, l’autre: dix mille, l’autre: j’ay cecy, fay cela pour mettre pour vous et pour attendre tout vostre advenir”. E tutto andava avanti come al solito e non c’era un pollo in meno da spennare in cucina.23 La scena naturalmente è stata dipinta dalle pennellate di 19
Chastellain e non sappiamo fino a che punto il suo racconto sia una stilizzazione della realtà. Ciò che conta, tuttavia, è che lui vede il principe sotto le semplici forme della ballata popolare e l’avvenimento è completamente dominato dal più primitivo senso di fedeltà reciproca, che si manifesta con sobrietà epica. Mentre i meccanismi governativi e amministrativi in realtà hanno già assunto forme complicate, la politica si proietta nello spirito popolare in figure semplici e fisse. Le idee politiche più diffuse sono quelle espresse dalla canzone popolare e dal romanzo cavalleresco. I re sono ricondotti, per così dire, a un limitato numero di tipi, ognuno più o meno corrispondente a un motivo preso dalle canzoni o dai racconti d’avventure: il principe nobile e giusto, il principe fuorviato da consigli maligni, il principe vendicatore dell’onore della sua stirpe, il principe caduto in disgrazia sostenuto dalla fedeltà dei suoi. I cittadini di uno stato tardomedioevale, gravati da imposte e senza voce in capitolo riguardo all’impiego del denaro pubblico, vivono continuamente con il sospetto che i loro quattrini vengano sprecati o non siano impiegati per il bene del paese. Questa diffidenza nei confronti dell’operato dei politici si esprime in un’unica idea: il re è circondato da consiglieri avidi e scaltri, ovvero è colpa del lusso e della prodigalità della corte reale se il paese è in cattive acque. Così le questioni politiche si riducono per il popolo ai casi narrati nelle favole. Filippo il Buono capì qual era la lingua compresa dal popolo. Durante le sue feste all’Aia, nel 1456, per impressionare gli olandesi e i frisoni che ritenevano gli mancasse il denaro per impadronirsi del vescovato di Utrecht, fece esporre in una stanza, accanto alla Sala dei Cavalieri, del vasellame prezioso del valore di tren20
tamila marchi d’argento. Tutti potevano venire a guardare. Inoltre furono portate da Lilla due casse di denaro contenenti duecentomila leoni d’oro. Chiunque poteva cercare di sollevarle, ma nessuno ci riuscì.24 Si può immaginare una combinazione più pedagogica di credito statale e divertimento da sagra? Spesso la vita condotta dai principi aveva aspetti fantastici che ci ricordano il califfo delle Mille e una notte. Talvolta, nel bel mezzo di azioni politiche calcolate con freddezza, costoro si comportano con una impetuosità temeraria che mette in pericolo, per un capriccio personale, la loro vita e la loro opera. Edoardo III mette in gioco se stesso, il principe di Galles e la causa del suo paese per attaccare una flotta di mercanti spagnoli e punirli di alcune piraterie.25 Filippo il Buono si è messo in testa di far sposare a uno dei suoi arcieri la figlia di un ricco birraio di Lilla. Quando il padre si oppone alle nozze e si appella al Parlamento di Parigi, il duca, acceso di rabbia, interrompe improvvisamente gli importanti affari di stato che lo trattengono in Olanda e intraprende, nella settimana santa prima di Pasqua, un pericoloso viaggio per mare da Rotterdam a Sluis pur di spuntarla.26 Un’altra volta, preso da un’ira insensata per una lite col figlio, se ne va di nascosto da Bruxelles come uno scolaretto in fuga e durante la notte si smarrisce in un bosco. Quando torna, spetta al cavaliere Philippe Pot il delicato compito di tranquillizzarlo. L’accorto cortigiano trova le parole giuste: “Bonjour monseigneur, bonjour, qu’est cecy? Faites-vous du roy Artus maintenant ou de messire Lancelot?”.27 Allo stesso modo si comporta da califfo quel duca che, avendogli prescritto i medici di farsi radere la testa, ordina che tutti i nobili facciano come lui e incarica Peter van Ha21
genbach di tagliare le chiome di ogni nobiluomo che dovesse incontrare intonso.28 O quando il giovane re di Francia, Carlo VI, salito con un amico sullo stesso cavallo, va a vedere travestito l’ingresso della sua sposa Isabella di Baviera, e nella ressa viene picchiato dalle guardie.29 Un poeta del XV secolo deplora il fatto che i principi promuovano a consigliere e ministro il loro buffone o trovatore, come accade a Coquinet le fou de Bourgogne.30 La politica non è ancora interamente racchiusa dentro i confini della burocrazia e del protocollo; in ogni momento il principe vi si può sottrarre per cercare altrove le norme da seguire. Così i principi del XV secolo si consigliano frequentemente, per gli affari di stato, con asceti visionari e predicatori popolari esaltati. Dionigi il Certosino e Vincente Ferrer si adoperarono come consiglieri politici; lo strepitante predicatore Olivier Maillard, un Brugman francese, era a conoscenza dei più segreti piani delle corti principesche.31 In tal guisa un elemento di tensione religiosa si mantenne vivo nell’alta politica. Verso la fine del XIV e l’inizio del XV secolo gli animi, contemplando l’elevato spettacolo delle gesta e del destino dei principi, dovevano essere più che mai pervasi dall’idea che nelle corti si svolgessero, in una romantica e sanguigna atmosfera, solamente orribili tragedie, piene dei più impressionanti crolli di troni e onori. Nello stesso mese di settembre del 1399, quando a Westminster si riunì il Parlamento inglese per ricevere la notizia che il re Riccardo II, vinto e fatto prigioniero dal suo nipote di Lancaster, aveva rinunciato alla corona, a Magonza i principi elettori tedeschi si erano già riuniti per deporre il loro re Venceslao di Lussemburgo, titubante, incapace di regnare e capriccioso come suo cogna22
to d’Inghilterra, ma non destinato a una fine così tragica. Venceslao rimase ancora per lunghi anni re di Boemia, mentre invece alla deposizione di Riccardo seguì la sua misteriosa morte in prigione, che richiamò alla memoria l’uccisione del suo avo Edoardo II, avvenuta settant’anni prima. Non era forse la corona un bene triste e pieno di pericoli? Nel terzo grande regno della Cristianità sale al trono un pazzo, Carlo VI, e ben presto il paese è dilaniato da selvagge lotte di parte. Nel 1407 la rivalità tra le case di Orléans e Borgogna degenera in aperta ostilità; Luigi d’Orléans, fratello del re, cade ucciso da sicari assoldati da suo cugino il duca di Borgogna, Giovanni senza Paura. Dodici anni dopo arriva la vendetta: nel 1419 Giovanni senza Paura viene ucciso a tradimento durante una solenne riunione sul ponte di Montereau. Ambedue gli assassinii, con il loro interminabile strascico di vendette e lotte, hanno impresso alla storia francese di un intero secolo un tono tetro dominato dall’odio, perché lo spirito popolare vede tutte le sciagure che succedono in Francia alla luce di quel grande, drammatico motivo e non riesce ancora a concepire altre cause che non siano personali e passionali. A tutto ciò si aggiungano i turchi, che avanzano sempre più minacciosi, e che pochi anni prima, nel 1396, hanno distrutto nei pressi di Nicopoli il magnifico esercito di cavalieri francesi che si era temerariamente messo in marcia sotto quello stesso Giovanni di Borgogna, allora ancora conte di Nevers. Si consideri infine la Cristianità lacerata dal grande scisma che dura già da un quarto di secolo: due papi si proclamano tali, ognuno sostenuto con convinzione appassionata da una parte dei paesi occidentali; e presto, quando il Concilio di Pisa del 1409 fallisce vergognosamente nel suo 23
tentativo di ristabilire l’unità della Chiesa, saranno in tre a contendersi il papato. “Le Pappe de la Lune” veniva comunemente chiamato in Francia l’ostinato aragonese Pietro di Luna che, come Benedetto XIII, stava saldamente ad Avignone; quale suono bizzarro non avrà avuto, per il popolino, quel “le Pappe de la Lune”? Si aggiravano in quei secoli per le corti principesche molti re detronizzati, per lo più in ristrettezze e con grandi progetti, avvolti dallo splendore del meraviglioso Oriente dal quale provenivano: Armenia, Cipro, ben presto la stessa Costantinopoli, e ognuno era un personaggio nell’immagine, che tutti avevano ben presente, della ruota della Fortuna dove i re precipitano con scettri e troni. Tra loro non c’è Renato d’Angiò, sebbene fosse anch’egli un re senza corona: si sentiva a suo agio nei suoi ricchi possedimenti in Angiò e in Provenza. Tuttavia in nessuno la caducità della fortuna principesca era meglio personificata che in questo principe della casa di Francia, che aveva perso sempre le migliori occasioni, che aveva aspirato alle corone d’Ungheria, di Sicilia e di Gerusalemme, e non aveva trovato altro che sconfitte, fughe difficoltose e lunghe prigionie. Questo re poeta senza trono, che si dilettava di poesia pastorale e di arte della miniatura, deve esser stato profondamente frivolo, altrimenti il destino l’avrebbe guarito. Aveva visto morire quasi tutti i suoi figli e la figlia che gli era rimasta ebbe una sorte ancor più tetra della sua. Margherita d’Angiò, piena di spirito, ambizione e sentimento, aveva sposato, sedicenne, il re d’Inghilterra, Enrico VI, uno sciocco. La corte inglese era un inferno di odio. In nessun altro luogo la diffidenza verso i parenti del re, le accuse contro i potenti servitori della corona, gli assassinii segreti e giudiziari per amore della sicurezza o per lo spirito 24
di parte si erano insinuati così profondamente nei costumi politici come in Inghilterra. Per lunghi anni Margherita aveva vissuto in quell’atmosfera di persecuzione e di paura, finché la grande contesa tra i Lancaster, la casa del consorte, e gli York, quella dei loro numerosi e turbolenti nipoti, giunse a un livello di violenza aperta e sanguinaria. Allora Margherita perse la corona e il patrimonio. Le varie vicende della guerra delle Due Rose l’avevano trascinata attraverso i pericoli più terribili e la miseria più amara. Rifugiatasi, finalmente al sicuro, alla corte borgognona, raccontò a voce a Chastellain, il cronista di corte, la storia commovente delle sue sventure e dei suoi vagabondaggi: come avesse dovuto affidare se stessa e il suo giovane figlio alla pietà di un bandito, e come una volta a messa, per fare un’offerta, avesse dovuto chiedere una moneta a un arciere scozzese “qui demy à dur et à regret luy tira un gros d’Escosse de sa bourse et le luy presta”.32 Il buon storiografo, commosso da tanta sofferenza, le dedicò per consolarla un Temple de Bocace,33 “acun petit traité de fortune, prenant pied sur son inconstance et déceveuse nature”.34 Egli credette, secondo la ricetta diffusa in quei tempi, che non ci fosse incoraggiamento migliore per la tanto provata figlia del re che mostrarle una fosca galleria di disgrazie principesche. Nessuno dei due poteva sapere che il peggio per lei doveva ancora arrivare: a Tewkesbury nel 1471 i Lancaster furono definitivamente sconfitti, il suo unico figlio cadde in battaglia o fu ucciso subito dopo, il consorte fu ucciso misteriosamente, ella stessa rimase prigioniera cinque anni nella Torre di Londra, per essere infine venduta da Edoardo IV a Luigi XI, al quale come ringraziamento per la sua liberazione dovette cedere l’eredità di suo padre, Re Renato. 25
Se autentici figli di re subivano un tale destino, come poteva un Borghese di Parigi non prestar fede ai racconti di corone perdute e di esili con i quali i vagabondi talvolta chiedevano interesse e compassione? Nel 1427 apparve a Parigi una banda di zingari, che si spacciavano per penitenti, “ung duc et ung conte et dix hommes tous à cheval”. Il resto della banda, forte di centoventi uomini, dovette restar fuori. Venivano dall’Egitto; il papa, come penitenza per aver rinnegato la fede cristiana, aveva loro imposto di errare sette anni senza dormire in un letto. Erano stati milleduecento, ma il loro re, la loro regina e tutti gli altri erano morti strada facendo. Come unica consolazione, il papa aveva ordinato a ogni vescovo e a ogni abate di dar loro dieci libbre di tornesi. I parigini arrivavano a frotte a guardare quella strana gente e si facevano leggere la mano dalle donne, che sapevano trasferire il denaro altrui nelle proprie borse “per art magicque ou autrement”.35 Aleggiava sulla vita dei principi un’atmosfera di avventura e di passione. Non era soltanto l’immaginazione popolare che le conferiva quel tono. L’uomo moderno non ha di solito alcuna idea della sfrenata stravaganza e dell’infiammabilità dell’animo medioevale. Quando si consultano solamente i documenti ufficiali, giustamente considerati come contenenti i dati più certi per la conoscenza storica, allora può essere possibile disegnare, di un pezzo di storia medioevale, un quadro che in niente è fondamentalmente diverso da una descrizione della politica di ministri e ambasciatori del XVIII secolo. Ma a un tale quadro manca un elemento importante: il colore forte della violenta passione che ha animato i popoli e i principi. Senza dubbio un elemento passionale è presente ancora oggi nella politica, ma trova, tranne nei periodi 26
di rivoluzioni e guerre civili, più freni e ostacoli ed è incanalato in gran parte dentro i rigidi schemi del complesso meccanismo della vita sociale. Nel XV secolo l’emozione immediata si esprime ancora nell’azione politica in modo tale che i calcoli utilitaristici vengono continuamente elusi. Se poi quell’emozione è accompagnata da un senso di potenza, come nel caso dei principi, allora agisce con doppia intensità. Chastellain lo esprime in modo conciso con i suoi termini solenni. Non c’è da meravigliarsi, dice, che i principi spesso vivano in inimicizia tra loro, “puisque les princes sont hommes, et leurs affaires sont haulx et agus, et leurs natures sont subgettes à passions maintes comme à haine et envie, et sont leurs coeurs vray habitacle d’icelles à cause de leur gloire en régner”. Questo non è forse all’incirca ciò che Burckhardt ha chiamato “das Pathos der Herrschaft”?36 Chi volesse scrivere la storia della dinastia borgognona, dovrebbe sempre mettere in evidenza come tratto dominante del racconto un desiderio di vendetta, nero come un catafalco, che infondesse a ogni azione, in consiglio e in battaglia, l’amaro sapore del suo spirito, vendicativo e orgoglioso. Certo sarebbe sciocco voler tornare alla concezione troppo semplicistica che il XV secolo stesso aveva della storia. Naturalmente non si tratta di far derivare l’intera lotta per il potere, da cui si è sviluppato il contrasto secolare tra la Francia e gli Asburgo, dalla faida tra Orléans e Borgogna, i due rami della casa di Valois. Tuttavia bisogna tener sempre presente, più di quanto di regola accada nel campo delle indagini sulle cause politiche ed economiche generali, il fatto che per i contemporanei, sia per gli spettatori sia per quelli che agivano di persona nella grande disputa, quella faida fu il momento cruciale che determinò le azioni e le sorti dei principi 27
e dei paesi. Filippo il Buono è per loro in primo luogo il vendicatore, “celluy qui pour vengier l’outraige fait sur la personne du duc Jehan soustint la gherre seize ans”,37 e l’aveva assunta come un compito sacro: “en toute criminelle et mortelle aigreur, il tireroit à la vengeance du mort, si avant que Dieu luy vouldroit permettre; et y mettroit corps et âme, substance et pays tout en l’aventure et en la disposition de fortune, plus réputant oeuvre salutaire et agréable à Dieu de y entendre que de le laisser”.38 Il domenicano che tenne nel 1419 la predica al funerale del duca assassinato, fu purtroppo biasimato per aver osato accennare al dovere cristiano di non vendicarsi.39 La Marche lascia intendere che il dovere dell’onore e della vendetta era anche per i paesi del duca il motivo principale delle loro ambizioni politiche: tutti gli stati, dice, gridavano vendetta insieme a lui.40 Il trattato di Arras che pareva dovesse sancire, nel 1435, la pace tra la Francia e la Borgogna, comincia con l’ammenda per l’assassinio di Montereau: si doveva erigere una cappella nella chiesa di Montereau, dove Giovanni era stato dapprima sepolto e dove, nei secoli dei secoli, ogni giorno sarebbe stato cantato un requiem; allo stesso modo si doveva fondare nella medesima città un convento di certosini; far alzare una croce sul ponte stesso dove era stato commesso il fatto; celebrare una messa nella Certosa di Digione, dove erano sepolti i duchi di Borgogna.41 Ciò era solamente una parte di tutte le pubbliche ammende che il cancelliere Rolin aveva preteso a nome del duca; chiese e capitoli dovevano essere fondati non solo a Montereau, ma anche a Roma, Gand, Digione, Parigi, Santiago de Compostela e Gerusalemme, con lapidi che dovevano raccontare il fatto.42 Un bisogno di vendetta che si ammantava di forme così 28
ampie deve aver avuto il predominio dello spirito. D’altra parte, riguardo alla politica dei suoi principi, che cosa avrebbe potuto comprendere il popolo meglio di questi semplici, primitivi motivi di odio e vendetta? L’attaccamento al principe aveva un carattere infantile e impulsivo, era un sentimento molto immediato di fedeltà e solidarietà. Era un allargamento dell’antica, forte coscienza che univa i compurgatori all’accusatore, i sudditi al loro signore, e che nelle liti e nelle lotte divampava in una passione che faceva dimenticare ogni cosa. Era senso del partito, non dello stato. Il tardo Medioevo è l’età delle grandi lotte di parte. In Italia i partiti si consolidano già nel XIII secolo, in Francia e nei Paesi Bassi sorgono dappertutto nel XIV. Chiunque studi la storia di quei tempi è certo colpito dalla inadeguatezza delle ricerche storiche che spiegano la nascita di quei partiti con cause economico-politiche. I contrasti economici, che ne sarebbero il fondamento, sono spesso solo costruzioni schematiche che non si possono ricavare dalle fonti, neanche con la migliore volontà. Nessuno vorrà negare l’esistenza anche di cause economiche nella divisione in partiti; tuttavia, insoddisfatti dell’esito che ha accompagnato finora tali spiegazioni, siamo portati a domandarci se, per spiegare le lotte di fazione del tardo Medioevo, un punto di vista sociologico non offra attualmente più vantaggi di un punto di vista politico-economico. Ciò che effettivamente le fonti evidenziano sulla nascita dei partiti è all’incirca questo. Nel periodo feudale si vedono dappertutto liti particolaristiche e circoscritte, nelle quali nessun altro motivo economico è presente se non l’invidia che l’uno aveva dell’altro. Tuttavia non si tratta solo dei beni, ma anche, e certamente in misura non inferiore, dell’ono29
re. Orgoglio di famiglia e sete di vendetta, fedeltà appassionata da parte dei seguaci diventano allora assolutamente predominanti. Ora, man mano che il potere dello stato si rafforza e si diffonde, tutte queste liti familiari si polarizzano verso l’autorità sovrana, e si compongono in partiti, che vedono le cause del loro contrasto alla luce della solidarietà e dell’onore comune. Approfondiamo forse la nostra visione, se postuliamo contrasti economici? Se un acuto contemporaneo dichiara che per l’odio tra Hoeken e Kabeljauwen non era possibile rintracciare alcun motivo ragionevole,43 non bisogna essere sprezzanti e voler essere più saggi di lui. D’altro canto non c’è davvero alcuna spiegazione soddisfacente sul perché gli Egmond siano stati Kabeljauwen e i Wassenaar Hoeken; i contrasti economici, che caratterizzano le loro famiglie, nascono infatti dalla loro posizione nei riguardi del principe come fautori di questo o di quel partito.44 Da ogni pagina della storia medioevale si comprende con quanta intensità potessero agire i sentimenti di fedeltà al principe. Il poeta del miracolo Marieken van Nimwegen ci mostra come la cattiva zia di Marieken, dopo aver violentemente bisticciato con le vicine a proposito del conflitto tra Arnold e Adolf van Gelre, in preda all’ira, scacci di casa la nipote e in seguito, sdegnata per il fatto che il vecchio duca è stato liberato dalla prigione, si tolga la vita. Questo poeta intende ammonire contro i pericoli della “faziosità”; a tale scopo egli sceglie un esempio estremo, un suicidio per “faziosità”, una esagerazione senza dubbio, tuttavia ciò prova quanta passionalità il poeta attribuisse allo spirito di parte. Ci sono esempi più consolanti. Nel mezzo della notte gli scabini di Abbeville fanno suonare le campane, poiché è arrivato un messaggero di Carlo di Charolais con la richiesta 30
di pregare per la guarigione di suo padre. I cittadini, allarmati, per tutta la notte accorrono in chiesa, accendono centinaia di candele, si inginocchiano o si gettano a terra, in lacrime, mentre le campane continuano a suonare.45 Quando nel 1429 il popolo di Parigi, ancora favorevole agli inglesi e ai borgognoni, apprende che fra Riccardo, che poco prima lo aveva così profondamente commosso con le sue prediche, è un armagnacco, che segretamente opera per far cambiare opinione alle città, lo maledice per Dio e per i santi; invece della medaglia di stagno con il nome di Gesù che egli gli aveva dato, prende la croce di Sant’Andrea, l’insegna dei borgognoni. Ci fu persino la ripresa del gioco dei dadi, contro il quale si era scagliato fra Riccardo, come dice il Borghese di Parigi, “en despit de luy”.46 Si potrebbe perciò credere che lo scisma tra Avignone e Roma, che non aveva d’altronde alcun fondamento dogmatico, non potesse neanche risvegliare passioni religiose, per lo meno non nei paesi, molto distanti da entrambi i centri, dove i due papi erano conosciuti solo di nome e che non erano direttamente interessati dallo scisma. Tuttavia anche lì lo scisma si trasforma subito in una questione di parte, aspra e agitata, in un antagonismo simile a quello tra credenti e infedeli. Quando Bruges passa dal papa di Roma a quello di Avignone, molte persone abbandonano casa e città, mestiere o prebenda, per poter vivere a Utrecht, a Liegi o in un altro territorio che presta obbedienza a Urbano VI e seguire il suo partito.47 Nel 1382, prima della battaglia di Rozebeke, il comando dell’esercito francese si pone il problema se spiegare o meno contro i ribelli fiamminghi l’orifiamma, il sacro stendardo reale, che poteva essere usato solamente in una guerra santa. Si decide infine per il sì, perché quei fiamminghi sono 31
Urbanisti, quindi infedeli.48 Lo scrittore e agente politico francese Pierre Salmon, durante una visita a Utrecht, non riuscì a trovare un prete che volesse ammetterlo alla celebrazione della Pasqua, “pour ce qu’ils disoient que je estoie scismatique et que je créoie en Benedic l’antipape”, cosicché va a confessarsi da solo in una cappella, come se lo facesse davanti a un sacerdote, e ascolta la messa nel convento dei certosini.49 Il carattere molto forte dei sentimenti di appartenenza a un partito e di fedeltà a un principe era ulteriormente accresciuto dalla grande suggestione che emanava dalle varie insegne, colori, emblemi, motti, grida che talvolta si susseguivano in modo molto variopinto, cariche per lo più di messaggi di assassinio e morte, raramente segno di cose più liete. Ben duemila persone andarono incontro al giovane Carlo VI quando, nel 1380, fece il suo ingresso a Parigi e tutte erano vestite allo stesso modo, metà verde e metà bianco. Per tre volte, negli anni dal 1411 al 1423, si vide tutta Parigi improvvisamente ornata di altre insegne: cappe viola con la croce di Sant’Andrea, cappe bianche, poi di nuovo violette. Venivano portate persino da sacerdoti, donne e bambini. Nel 1411, durante il governo di terrore dei borgognoni, a Parigi, ogni domenica gli armagnacchi venivano scomunicati al suono delle campane; le immagini dei santi venivano coperte con la croce di Sant’Andrea, e si diceva che alcuni preti durante la messa e il battesimo non volevano fare il segno della croce dritto, come era stato crocifisso il Signore, ma lo facevano obliquamente.50 La cieca passione con la quale gli uomini seguivano il loro partito, il loro signore oppure i loro interessi personali, era anche, in parte, una manifestazione di quel senso di giustizia 32
inflessibile e rigido proprio dell’uomo medioevale, ovvero l’incrollabile convinzione che ogni azione esiga il suo estremo risarcimento. Il senso del diritto era ancora per tre quarti pagano: era soprattutto bisogno di vendetta. La Chiesa aveva cercato di mitigare le abitudini giuridiche insistendo sul tema della dolcezza, della pace e del perdono, ma con ciò non aveva cambiato il comune senso di giustizia. Al contrario, l’aveva esasperato, aggiungendo al bisogno di risarcimento l’odio contro il peccato, che troppo spesso lo spirito esagitato identificava con l’operato del proprio nemico. Il senso del diritto era arrivato a poco a poco a una tensione estrema tra i poli del concetto barbarico di occhio per occhio, dente per dente, e del ribrezzo religioso per il peccato, mentre il compito dello stato di punire severamente era sempre più sentito come una urgente necessità. La sensazione di incertezza, la paura angosciosa che in ogni crisi chiede al potere statale atti di terrore, nel tardo Medioevo, era cronica. La concezione del riscatto del crimine perse terreno a poco a poco, per diventare quasi un ricordo idilliaco dell’antica giovialità, via via che si affermava l’idea che il crimine fosse contemporaneamente una minaccia per la società e un’aggressione alla maestà di Dio. In tal modo la fine del Medioevo divenne la sbalorditiva stagione in cui fiorirono la giustizia impietosa e la crudeltà giudiziaria. Non si dubitava, neanche per un attimo, che il criminale avesse meritato la sua pena. C’era un’intima soddisfazione per gli atti di giustizia eseguiti dallo stesso principe in modo adeguato. Di tanto in tanto le autorità si davano a severe campagne di giustizia, ora contro banditi e disonesti, ora contro streghe e maghi, ora contro la sodomia. Ciò che colpisce nella crudeltà giudiziaria del tardo Me33
dioevo non è la perversità morbosa, ma la gioia bestiale e ottusa che il popolo ne traeva, un diletto da fiera. Gli abitanti di Mons comprano un capobanda a un prezzo molto alto, per il piacere di squartarlo, “dont le peuple fust plus joyeulx que si un nouveau corps sainct estoit ressuscité”.51 Durante la prigionia di Massimiliano a Bruges nel 1488, l’aculeo è posto su un palco nel mercato, visibile al re prigioniero, e il popolo non si stufa mai di veder torturare continuamente i magistrati accusati di tradimento e impedisce l’esecuzione, implorata da questi ultimi, per potersi godere nuove torture.52 A quali risoluzioni, indegne per un cristiano, portasse proprio la commistione di fede e desiderio di vendetta, lo dimostra la consuetudine, dominante in Francia e in Inghilterra, di rifiutare ai condannati a morte non solo il viatico ma anche la confessione. Non si voleva salvare la loro anima, ma rendere più forte la loro paura della morte avendo la certezza dell’inferno. Invano papa Clemente V, nel 1311, aveva ordinato di concedere per lo meno il sacramento della penitenza. Philippe de Mézières, un politico idealista, insistette di nuovo al riguardo, prima presso Carlo V di Francia, poi presso Carlo VI. Tuttavia il cancelliere Pierre d’Orgemont, di cui “la forte cervelle”, dice Mézières, era più difficile da smuovere di una macina da mulino, vi si oppose, e Carlo V, sebbene saggio e pacifico, dichiarò che durante il suo regno l’usanza non sarebbe stata cambiata. Solo quando la voce di Jean Gerson si unì a quella di Mézières con cinque considerazioni contro l’abuso, un editto reale del 12 febbraio 1397 ordinò di concedere la confessione al condannato. Pierre de Craon, ai cui sforzi si doveva il decreto, fece erigere presso il patibolo di Parigi una croce di pietra, dove i frati minori po34
tevano assistere i malfattori pentiti.53 Però neanche allora la vecchia consuetudine popolare scomparve del tutto: poco dopo il 1500 il vescovo di Parigi, Étienne Ponchier, deve rinnovare lo statuto di Clemente V. Nel 1427 un predone giovane e nobile viene impiccato a Parigi. Durante l’esecuzione un alto funzionario, gran tesoriere al servizio del reggente, viene a sfogare il suo odio contro il condannato, impedisce che gli venga concessa la confessione, sebbene la richieda, sale imprecando sulla scala dietro il condannato, lo picchia con un bastone, randella il boia, perché esorta la vittima a pensare alla salvezza della sua anima. Il boia, sconvolto, si affretta: il capestro si spezza, il povero malfattore cade, si rompe gamba e costole, e deve risalire, così conciato, sulla scala.54 Nel Medioevo mancano tutti quei sentimenti che hanno reso il nostro senso di giustizia meno rigido e implacabile: l’idea della semi-imputabilità, il concetto di fallibilità del giudice, l’opinione che la società è corresponsabile del misfatto del singolo, la domanda se non sia possibile rieducarlo invece di farlo soffrire. O forse sarebbe meglio dire che quei sentimenti non mancavano, ma erano riuniti, inespressi, in un improvviso impulso alla compassione e al perdono, che, indipendentemente dalla colpa, interrompe talvolta la crudele soddisfazione per l’esecuzione della giustizia. Laddove noi applichiamo con esitazione delle pene miti, la giustizia medioevale conosce solamente due estremi: o una pena crudele o la grazia. Nel concedere la grazia ci si domanda molto meno spesso di quanto accade oggi se il colpevole la meriti per qualche speciale ragione: per ogni colpa, anche la più palese, si può applicare in qualsiasi momento il condono completo. In pratica la pura pietà non sempre era determi35
nante per quei condoni. È sorprendente l’indifferenza con la quale i contemporanei raccontano come l’intervento di parenti influenti procuri “lettres de rémission” al malvivente. Ciononostante la maggior parte di quelle lettere non riguarda fuorilegge illustri, ma povera gente del popolo, che non aveva raccomandazioni dall’alto.55 Il contrasto netto tra crudeltà e pietà domina i costumi anche al di fuori dell’amministrazione della giustizia. Da un lato la disumanità più spietata verso i bisognosi e i disabili, dall’altro una infinita tenerezza, un profondo sentimento di fraternità per i malati, i poveri e i matti, unito alla crudeltà, che troviamo anche nella letteratura russa. Il piacere delle esecuzioni capitali viene almeno accompagnato, e fino a un certo punto giustificato, da un senso di giustizia pienamente soddisfatto. Al contrario nella incredibile, ingenua durezza, nell’insensibilità, nello scherno crudele, nella gioia per le altrui disgrazie con cui si considera la sventura dei miserabili, manca persino quest’ultimo elemento. Il cronista Pierre de Fenin conclude il racconto dell’annientamento di una banda di predoni con le parole: “et faisoit-on grant risée, pour ce que c’estoient tous gens de povre estat”.56 A Parigi, nel 1425, viene dato un “esbatement” con quattro ciechi muniti di corazza che litigano per un porcellino. Il giorno prima percorrono la città nelle loro armature, preceduti da un suonatore di cornamusa e da un uomo con una grande bandiera, sulla quale è dipinto il porcellino.57 Velazquez ci ha tramandato le facce di una malinconia toccante delle nanerottole che ai suoi tempi erano ancora onorate alla corte spagnola come tipi stravaganti e che costituivano un oggetto di divertimento assai ricercato nelle corti principesche del XV secolo. Negli artistici “entremets” delle 36
grandi feste di corte mostravano le loro arti e la loro deformità. Madame d’Or, la nana dai capelli dorati di Filippo di Borgogna, era conosciuta da tutti. Veniva fatta lottare con l’acrobata Hans.58 Alle feste di nozze di Carlo il Temerario con Margherita di York, nel 1468, Madame de Beaugrant, “la naine de Mademoiselle de Bourgogne”, arriva travestita da pastorella, cavalcando un leone d’oro più grande di un cavallo. Il leone può aprire e chiudere il muso e canta una canzoncina di benvenuto; la pastorella è offerta in dono alla giovane duchessa e messa sulla tavola.59 Non conosciamo tristi storie sulla sorte di quelle donnettine, bensì partite contabili che ci dicono però qualcosa di più. Ci raccontano come una duchessa mandasse a prendere una di quelle nane dalla casa paterna, come la madre o il padre la conducesse da lei, come loro in seguito venissero di tanto in tanto a trovarla e ricevessero una mancia. “Au pere de Belon la folle, qui estoit venu veoir sa fille…” Il padre tornava a casa lieto e assai onorato del servizio a corte di sua figlia? Nello stesso anno un fabbro di Blois fornì due collari di ferro, uno “pour attacher Belon la folle et l’autre pour mettre au col de la cingesse de Madame la Duchesse”.60 Come fossero trattati i dementi si può ricavare da una notizia relativa all’assistenza prestata a Carlo VI, che in qualità di re ebbe certo delle cure diverse e migliori di quelle ricevute dagli altri. Per cambiare la biancheria al povero folle non si trovò niente di meglio che farlo cogliere di sorpresa da dodici uomini tinti di nero, come diavoli che venissero a prenderlo.61 Nella durezza di quei tempi c’è qualcosa di ingenuo che ci fa morire la condanna sulle labbra. Nel bel mezzo di un’epidemia di peste, che funestava Parigi, i duchi di Borgogna e 37
di Orléans chiedono di istituire una “cour d’amours” a mo’ di distrazione.62 Nel 1418, durante una tregua dei massacri degli armagnacchi, il popolo di Parigi fonda nella chiesa di Sant’Eustachio la confraternita di Sant’Andrea; tutti, preti e laici, portano una corona di rose rosse; la chiesa ne è piena e odora “comme s’il fust lavé d’eau rose”.63 Quando i processi contro le streghe, che avevano infestato Arras nel 1461 come una piaga infernale, vengono finalmente aboliti, la cittadinanza festeggia questa vittoria del diritto con una gara di “folies moralisées”: primo premio è un giglio d’argento, quarto premio un paio di capponi; le vittime martoriate erano ormai già morte da un pezzo.64 Così cruda e così variopinta era la vita, che si potevano sopportare insieme l’odore del sangue frammisto a quello delle rose. Il popolo oscilla tra angosce infernali e i divertimenti più infantili, tra crudeltà atroce e tenerezza singhiozzante, come un gigante dalla testa di bimbo; vive tra gli estremi, tra la totale rinuncia a tutte le gioie mondane e un attaccamento folle ai beni e ai piaceri, tra l’odio cupo e la bonarietà più allegra. Ben poco ci è rimasto del lato luminoso di quella vita: è come se tutta la lieta dolcezza e serenità dell’anima del XV secolo sia sprofondata nella sua pittura e cristallizzata nella rarefatta purezza della sua sublime musica. Il riso di quelle generazioni è spento, la loro generosa gioia di vivere e la loro spensierata allegria vivono solo nella canzone popolare e nella farsa. Ce n’è abbastanza perché alla nostra nostalgia della bellezza di altri tempi si aggiunga anche il desiderio della solarità del secolo dei Van Eyck. Ma chi studia davvero a fondo quell’epoca ha spesso difficoltà a rintracciarne gli aspetti positivi, perché dovunque, al di fuori della sfera del38
l’arte, regna il buio. Nei minacciosi ammonimenti dei sermoni, negli stanchi gemiti della letteratura più elevata, nelle monotone relazioni delle cronache e dei documenti, dappertutto urlano i pittoreschi peccati e piange la miseria. I tempi successivi alla Riforma non hanno più visto i peccati capitali dell’orgoglio, dell’ira e dell’avidità in quella pletora sanguigna e insolenza sfacciata con cui si aggiravano tra l’umanità del XV secolo. L’orgoglio smisurato dei borgognoni! L’intera storia di quella stirpe, dall’atto di bravura cavalleresca, da cui trasse origine la crescente fortuna del primo Filippo, all’amara invidia di Giovanni senza Paura e al nero desiderio di vendetta dopo la sua morte, alla lunga estate di quell’altro Magnifico, Filippo il Buono, alla folle caparbietà che porta alla rovina l’ambizioso Carlo il Temerario, non è forse l’epopea dell’orgoglio eroico? I loro paesi erano i più fiorenti dell’Occidente: la Borgogna, forte come il suo vino, “la colérique Picardie”, l’ingorda e ricca Fiandra. Sono gli stessi paesi dove fioriscono in tutto il loro splendore la pittura, la scultura e la musica, e dove regna il più violento spirito di vendetta e la più feroce barbarie si sfoga tra i nobili e i borghesi.65 Di nessun peccato si ebbe maggiormente coscienza in quei tempi quanto dell’avidità. Orgoglio e avidità possono essere contrapposti come peccato del tempo antico il primo e quello del tempo nuovo il secondo. L’orgoglio è il peccato dell’epoca feudale e gerarchica, nella quale la proprietà e la ricchezza sono poco mobili. Il senso del potere non è ancora legato soprattutto alla ricchezza, è più personale, e per essere riconosciuto tale, deve manifestarsi attraverso un grande sfarzo, un seguito numeroso di fedeli, ornamenti preziosi e un modo di fare straordinario. La coscienza di valere qual39
cosa di più di un’altra persona viene alimentata continuamente dal pensiero feudale e gerarchico con forme vive: omaggio e ubbidienza offerti in ginocchio, onori solenni e pompa imponente, cose che, tutte insieme, fanno sentire la superiorità nei confronti degli altri come molto reale e legittima. L’orgoglio è un peccato simbolico e teologico, le sue radici si inseriscono profondamente in tutte le concezioni della vita e del mondo. La superbia fu l’origine di tutti i mali; l’orgoglio di Lucifero fu il principio e la causa di ogni rovina. Questa era la visione di Agostino e tale rimase la concezione dei posteri: l’orgoglio è la fonte di tutti i peccati, che crescono da esso come il tronco dalla radice.66 Tuttavia accanto al passo biblico, che confermava questa opinione: “A superbia initium sumpsit omnis perditio”,67 ve n’era un altro: “Radix omnium malorum est cupiditas”.68 Pertanto si poteva considerare anche l’avidità come la radice di tutti i mali, poiché per “cupiditas”, che come tale non si trova nella serie dei peccati capitali, si intendeva qui “avaritia”, come era riferito anche in un’altra lezione del testo.69 E sembra che, soprattutto dal XIII secolo in poi, la convinzione che sia l’avidità sfrenata a corrompere il mondo scacci l’orgoglio dal suo posto di primo e più fatale dei peccati nel giudizio delle genti. L’antico primato teologico della superbia viene scalzato dal sempre più forte coro di voci che attribuiscono tutti i guai dei tempi alla sempre crescente avidità. Come l’ha maledetta Dante: la cieca cupidigia! All’avidità manca il carattere simbolico e teologico dell’orgoglio; essa è il peccato naturale e materiale, un istinto puramente terrestre; è il peccato dell’epoca in cui la circola40
zione del denaro ha trasformato e sciolto da vincoli precedenti le condizioni dello sviluppo del potere. Il valore della dignità umana diventa un calcolo aritmetico. Si è aperto un campo sconfinato alla soddisfazione di desideri sfrenati e all’accumulazione di tesori, che non hanno ancora la spettrale impalpabilità che il credito moderno ha conferito al capitale: è ancora lo stesso giallo oro a catturare l’immaginazione. L’impiego della ricchezza non ha ancora il carattere automatico e meccanico del continuo investimento di capitali: la soddisfazione sta ancora tra gli estremi dell’avarizia e dello sperpero. Nello sperpero l’avidità si sposa all’antico orgoglio. Questo era ancora forte e vivo: il pensiero feudale e gerarchico non aveva perso ancora niente del suo splendore, il desiderio di lusso e di pompa, di fronzoli e di magnificenza era ancora così scarlatto. Proprio l’unione con un orgoglio primitivo conferisce all’avidità del tardo Medioevo quel tono immediato, appassionato, esasperato che i tempi successivi sembrano aver perso. Il Protestantesimo e il Rinascimento le hanno dato contenuto etico, l’hanno resa legittima in quanto utile generatrice di benessere. Il suo stigma si attenuò a misura che le lodi per la rinuncia ai beni terreni vennero cantate con minor convinzione. Nel tardo Medioevo, al contrario, lo spirito poteva ancora oscillare tra l’avidità peccaminosa e la carità o la povertà volontaria. Dappertutto risuonano, nella letteratura e nelle cronache di quell’epoca, l’amaro odio contro i ricchi e il lamento per l’avidità dei grandi, sia nel proverbio che nel pio trattato. Talvolta è presente un vago concetto di lotta di classe, che si esprime attraverso lo sdegno morale. In questo ambito i documenti possono darci, altrettanto bene come le fonti lette41
rarie, il senso del tono della vita di quel tempo, perché in tutti gli atti dei processi si manifesta la più sfacciata avidità. Nel 1436 fu possibile interrompere per ventidue giorni l’ufficio divino in una delle chiese più frequentate di Parigi, perché il vescovo non voleva riconsacrarla prima di aver ricevuto una certa somma di denaro da due mendicanti, che si erano azzuffati profanando la chiesa con un po’ di sangue e che i poveretti non avevano. Il vescovo, Jacques du Châtelier, aveva fama di “ung homme très pompeux, convoicteux, plus mondain que son estat ne requeroit”.70 Ma nel 1441, sotto il suo successore Denys de Moulins, la situazione era la medesima: per quattro mesi non fu possibile né seppellire né far processioni nel cimitero “des Innocents”, il più famoso e frequentato di Parigi, perché il vescovo esigeva una tassa più alta di quella che la chiesa poteva pagare. Questo vescovo era definito “homme très peu piteux à quelque personne, s’il recevoit argent ou aucun don qui le vaulsist, et pour vray on disoit qu’il avait plus de cinquante procès en Parlement, car de lui n’avoit on rien sans procès”.71 Bisogna seguire la storia dei “nouveaux riches” di quei tempi, la famiglia d’Orgemont per esempio, in tutte le bassezze dovute alla loro spilorceria e litigiosità, per comprendere l’odio violento del popolo, l’ira dei predicatori e dei poeti, che si riversava senza sosta sui ricchi.72 Il popolo considera la propria sorte e gli avvenimenti del tempo come nient’altro che una successione ininterrotta di malgoverno e sfruttamento, di guerra e saccheggi, carestia, miseria e pestilenza. Lo stato di cronicità che la guerra soleva assumere, la continua preoccupazione di città e campagne per ogni sorta di malviventi, la perpetua minaccia di una giustizia dura e corrotta, uniti alla paura opprimente del42
l’inferno, dei diavoli e delle streghe, alimentavano una sensazione di generale insicurezza, certamente adatta a dare un tono cupo alla vita. Non sono solamente gli umili e i poveri a trascorrere l’esistenza in una rischiosa insicurezza; anche in quella dei nobili e dei magistrati i più seri cambiamenti di fortuna e i continui pericoli rientrano quasi nella norma. Mathieu d’Escouchy, piccardo, è uno storico del genere che il XV secolo ha prodotto in gran numero: la sua cronaca, semplice, precisa, imparziale, pervasa dall’usuale culto dell’ideale cavalleresco e dall’usuale tendenza moralistica, ci farebbe supporre un autore rispettabile che abbia dedicato il suo talento a un coscienzioso lavoro di storico. Quale risulta invece la sua vita dai dati che l’editore di quest’opera ha rintracciato nei documenti!73 Mathieu d’Escouchy inizia la sua carriera di magistrato come consigliere, scabino, giurato, prevosto della città di Péronne tra il 1440 e il 1450. Fin dall’inizio lo troviamo coinvolto in una specie di faida con la famiglia del procuratore di quella città, Jean Froment, una faida che viene combattuta a colpi di processo. È il procuratore che procede contro d’Escouchy accusandolo ora di frode e assassinio, ora di “excès et attemptaz”. Il prevosto a sua volta procede contro la vedova del suo nemico con un’inchiesta per stregoneria, di cui lei era sospettata; ma la donna riesce a ottenere un mandato in virtù del quale d’Escouchy deve rimettere la sua inchiesta nelle mani della giustizia. L’affare giunge davanti al Parlamento di Parigi e d’Escouchy finisce in prigione per la prima volta. In seguito lo ritroviamo ancora sei volte in arresto come imputato e una volta prigioniero di guerra. Si tratta sempre di gravi cause criminali e più di una volta è messo ai ferri. La gara di reciproche accuse tra la famiglia Froment e d’Escouchy è segui43
ta da uno scontro violento nel quale quest’ultimo è ferito dal figlio di Froment. Ognuno assolda dei delinquenti per attentare alla vita dell’altro. Dopo che questa lunga faida è scomparsa dal nostro orizzonte ecco arrivare nuovi attentati; questa volta il prevosto è ferito da un monaco; seguono nuove querele; poi, nel 1461, d’Escouchy sospettato a quanto pare di altri misfatti si trasferisce a Nesles. Ciò non gli impedisce di far carriera: diventa balivo, prevosto di Ribemont, “procuratore del re” a Saint-Quentin, infine viene fatto nobile. Dopo nuovi ferimenti, prigionie, ammende, lo troviamo militare: nel 1465 combatte per il re contro Carlo il Temerario a Montlhéry, e vi è fatto prigioniero. Da un’altra campagna torna mutilato. Poi si sposa, ma ciò non significa l’inizio di una vita tranquilla. Lo ritroviamo, sotto l’accusa di contraffazione di sigilli, condotto prigioniero a Parigi “comme larron et murdrier”,74 coinvolto in una nuova faida con un magistrato di Compiègne, sulle cui azioni egli doveva indagare, costretto a confessare con la tortura e privato del ricorso in appello, condannato, riabilitato, condannato di nuovo, finché le tracce di questa esistenza piena di odio e di azioni persecutorie scompaiono dagli atti. Ogni volta che ripercorriamo le vicende delle persone menzionate nelle fonti di quell’epoca, troviamo un’identica immagine di vite molto intense. Si leggano, per esempio, i particolari che Pierre Champion ha raccolto sul conto di tutti coloro che Villon ha ricordato o nominato nel suo Testamento,75 o le annotazioni di Tuetey sul diario del Borghese di Parigi. Sono i processi, i crimini, le liti e le persecuzioni senza fine a colpirci. E queste sono le vite di gente qualunque, ricavate da atti giudiziari, ecclesiastici o da altri documenti. Cronache come quelle di Jacques du Clercq, una col44
lezione di misfatti, o il diario di Philippe de Vigneulles, cittadino di Metz,76 tracciano un quadro fosco dell’epoca; perfino le “lettres de rémission”, che ritraggono la vita quotidiana con tanta vivace esattezza, a causa dei crimini di cui trattano, illuminano unicamente i lati negativi della vita. Tuttavia ogni ricerca, fatta su un materiale qualsiasi, conferma le idee più cupe. È un mondo cattivo. Il fuoco dell’odio e della violenza divampa, l’ingiustizia è potente, il diavolo copre con le sue nere ali una terra tetra. L’umanità attende di lì a poco la fine di tutte le cose. Ma gli uomini non si convertono; invano la Chiesa lotta, invano i predicatori e i poeti gemono e ammoniscono.
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2. L’aspirazione a una vita migliore
Ogni epoca anela a un mondo migliore. Quanto più profonde sono la disperazione e la rassegnazione causate da un presente torbido, tanto più ardente diviene quel desiderio. Verso la fine del Medioevo un’amara malinconia pervade la vita. La nota di ardita gioia di vivere e di fiducia nelle proprie possibilità, che risuona attraverso la storia del Rinascimento e dell’Illuminismo, si ode a malapena nell’atmosfera franco-borgognona del XV secolo. Ma quella società è stata davvero più infelice di altre? Talvolta si è portati a crederlo. Dovunque si cerchi nelle notizie di quel tempo, negli storici, nei poeti, nei sermoni, nei trattati religiosi, nei documenti, non ci è stato tramandato quasi nient’altro che il ricordo di liti, odio e malizia, avidità, brutalità e miseria. Ci si domanda: quel tempo non ha conosciuto altre gioie che quelle dovute alla crudeltà, all’orgoglio e alla sfrenatezza, non c’era in nessun luogo serena letizia e vita tranquilla? È vero, ogni epoca lascia nella tradizione più tracce della sua sofferenza che della sua felicità, e sono le calamità che diventano storia. Un’istintiva convinzione ci dice che la somma di tutta la felicità, gioia serena e pace beata che è mai stata concessa agli uomini non può variare molto da un periodo a un altro. 46
D’altra parte lo splendore della felicità tardomedioevale non si è poi spento del tutto: rivive ancora nella canzone popolare, nella musica, nelle quiete prospettive dei paesaggi e nei gravi volti dei ritratti. Tuttavia verrebbe da dire che nel XV secolo non era di moda né di buon gusto lodare apertamente la vita e il mondo. Chi prendeva in considerazione con serietà il corso quotidiano degli eventi e poi esprimeva il suo giudizio sulla vita, soleva menzionare unicamente il dolore e la disperazione. Vedeva avvicinarsi la fine dei tempi e tutte le cose terrene andare in rovina. L’ottimismo, che crescerà a partire dal Rinascimento per regnare incontrastato nel XVIII secolo, era ancora ignoto allo spirito francese del XV. Chi sono coloro che per primi parlano con speranza e soddisfazione della propria epoca? Certo non i poeti, ancor meno i pensatori religiosi e gli uomini di stato, ma gli studiosi, gli umanisti. È la gioia di aver ritrovato l’antica saggezza che strappa per la prima volta agli spiriti note di giubilo sul proprio tempo: è un trionfo intellettuale. Il ben noto grido di esultanza di Ulrich von Hutten: “O saeculum, o literae! juvat vivere!” viene interpretato di solito in senso troppo ampio. Non è tanto l’uomo che giubila quanto il letterato entusiasta. Dall’inizio del XVI secolo si potrebbe citare una serie di simili espressioni di giubilo per la magnificenza dell’epoca, ma si noterà sempre che esse riguardano quasi esclusivamente la riconquistata civiltà intellettuale e non sono affatto manifestazioni entusiastiche di una piena gioia di vivere. Anche nell’umanista l’immagine della vita è ancora temperata dal vecchio, pio distacco dal mondo. Meglio che nelle troppo spesso citate parole di Hutten, la si può rintracciare nelle lettere di Erasmo risalenti al 1517. Non nelle successive, perché rapida47
mente svanisce in lui l’ottimismo che gli aveva strappato quelle note liete. “Non sono davvero così attaccato alla vita,” scrive Erasmo a Wolfgang Fabricius Capito1 all’inizio del 1517, “sia perché per quel che mi riguarda, essendo entrato nel mio cinquantunesimo anno, penso di aver vissuto già più o meno abbastanza, sia perché non vedo in questa vita nulla di tanto magnifico o piacevole che valga la pena di essere perseguito da chi abbia appreso dalla fede cristiana che una vita molto più felice attende coloro che l’hanno abbracciata, secondo le loro capacità. Nondimeno ora mi verrebbe quasi voglia di tornar giovane per qualche tempo, unicamente perché nel prossimo futuro vedo nascere, per così dire, un secolo d’oro.” Poi descrive come tutti i principi d’Europa siano d’accordo e ben disposti verso la pace (a lui tanto cara) e prosegue: “Sono portato a sperare fermamente che non solo i buoni costumi e la pietà cristiana, ma anche una letteratura autentica2 e bellissime scienze in parte rinasceranno e in parte avranno un nuovo sviluppo”. S’intende in virtù della protezione dei principi. “Al loro senso della pietà dobbiamo il fatto che vediamo ovunque, come a un segnale convenuto, gli illustri geni destarsi e levarsi e cospirare insieme per restaurare le belle lettere” (“ad restituendas optimas literas”). Ecco un’autentica espressione dell’ottimismo cinquecentesco: l’atmosfera dominante del Rinascimento e dell’Umanesimo è qualcosa di molto diverso dalla sfrenata gioia di vivere che di solito consideriamo la nota dominante di questo periodo. Il piacere di vivere che ha Erasmo è sobrio e compassato, è un piacere decisamente intellettuale. Ciononostante la sua è una voce che nel XV secolo, fuori d’Italia, non si era ancora udita. Intorno al 1400 gli spiriti in Francia e nei 48
paesi borgognoni amano ancora scagliare invettive contro la vita e l’epoca. E, significativamente (tuttavia non senza futuri parallelismi, si pensi al byronismo), più partecipano alla vita mondana più cupo è il loro animo. Quelli che esprimono con maggior forza la profonda malinconia tipica del tempo non sono infatti coloro che hanno rifiutato per sempre il mondo, preferendo il convento o lo studio, ma sono soprattutto i cronisti e i poeti di corte che, privi di una cultura superiore e senza possibilità di usufruire meglio delle gioie dell’intelletto, continuano a lamentarsi della degenerazione del mondo e dubitano della pace e della giustizia. Nessuno si è lamentato così a lungo perché il bene ha lasciato il mondo come Eustache Deschamps. Temps de doleur et de temptacion, Aages de plour, d’envie et de tourment, Temps de langour et de dampnacion Aages meneur près du definement, Temps plains d’orreur qui tout fait faussement, Aages menteur, plain d’orgueil et d’envie, Temps sanz honeur et sanz vray jugement, Aage en tristour qui abrege la vie.3 Su questo tono egli ha composto le sue numerose ballate, monotone smorte variazioni su un tema scialbo. Una profonda tristezza deve aver certamente regnato tra gli alti ceti, dal momento che la nobiltà fece ripetere così spesso quelle parole al suo poeta. Toute léesse deffaut, Tous cueurs ont prins par assaut Tristesse et merencolie.4
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Jean Meschinot, tre quarti di secolo dopo, canta Deschamps ancora nello stesso identico tono. O miserable et très dolente vie!… La guerre avons, mortalité, famine; Le froid, le chaud, le jour, la nuit nous mine; Puces, cirons et tant d’autre vermine Nous guerroyent. Bref misere domine Noz mechans corps, dont le vivre est très court.5 Anche lui esprime continuamente l’amara convinzione che tutto nel mondo vada male: la giustizia si è persa, i grandi depredano gli umili, e gli umili si depredano l’un l’altro. A quanto dice, la sua ipocondria lo porta persino sull’orlo del suicidio. Così descrive se stesso: Et je, le pouvre escrivain, Au cueur triste, faible et vain, Voyant de chascun le dueil, Soucy me tient en sa main; Tojours les larmes à l’œil Rien fors mourir je ne vueil.6 Tutte le manifestazioni dell’immagine del mondo e della vita dei maggiorenti testimoniano un bisogno dell’anima di vestirsi di nero. Quasi tutti dichiarano che non hanno visto altro che miseria, che il peggio deve ancora venire, che non vorrebbero ripercorrere il cammino della vita. “Moi douloreux homme, né en eclipse de ténèbres en espesses bruynes de lamentation”, così si annuncia Chastellain.7 “Tant a souffert La Marche”8 è il motto che si è scelto il poeta di corte e cronista di Carlo il Temerario; egli trova che la
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vita è amara e il suo ritratto ci mostra quei lineamenti mesti che ritroviamo in tante immagini di quel tempo.9 Nessun personaggio di quel secolo sembra avere una vita così pervasa di orgoglio terreno e di sensualità superba, e così coronata da successi, quanto Filippo il Buono, ma anche in lui si cela la stanchezza di vivere del tempo. Quando gli viene comunicata la morte del suo figlioletto di un anno dice: “Fosse piaciuto a Dio di far morire anche me così giovane, mi considererei felice”.10 È degno di nota il fatto che, in quest’epoca, nella parola malinconia si fondono i significati di tristezza, riflessioni gravi e fantasia. In tal modo ogni seria attività dello spirito sembrava dover assumere toni cupi. Di Filippo di Artevelde, che sta riflettendo su una notizia appena ricevuta, Froissart dice: “quant il eut merancoliet une espasse, il s’avisa que il rescriproit aus commissaires dou roi de France” etc. Deschamps parla di qualcosa che sorpassa in bruttezza ogni immaginazione: nessun pittore è così “merencolieux” da poterla dipingere.11 Nel pessimismo di questa gente disgustata, delusa, stanca c’è un elemento religioso, ma è irrilevante. La loro stanchezza di vivere è dovuta anche all’attesa dell’imminente fine del mondo, che dalla rifiorita predicazione popolare degli ordini mendicanti era stata diffusa dappertutto negli animi con minacce nuove e con fantasie dai colori più accesi. I tempi foschi e sconcertanti, i disastrosi effetti delle guerre croniche ovviamente non fecero altro che avvalorare quell’aspettativa. Pare fosse diffusa nel popolo, negli ultimi anni del XIV secolo, la credenza che dal grande scisma in poi nessuno fosse più salito in paradiso.12 L’avversione per la fatua vita di corte faceva maturare il 51
proposito di ritirarsi dal mondo. Tuttavia quello stato d’animo di depressione, così come è espresso dagli adulatori e dai cortigiani, ha pochissimo di religioso; tutt’al più le idee religiose hanno dato un po’ di colore a una semplice stanchezza di vivere. D’altra parte il desiderio di scagliarsi contro la vita e il mondo è molto lontano da una vera coscienza religiosa. Il mondo, dice Deschamps, è come un vecchio rimbambito; prima è stato innocente, poi saggio per molto tempo, giusto, virtuoso e coraggioso: Or est laches, chetis et molz, Vieulx, convoiteus et mal parlant: Je ne voy que foles et folz… La fin s’approche, en vérité… Tout va mal…13 Non si tratta solamente di stanchezza di vivere ma anche di paura di vivere, di un tirarsi indietro davanti alla vita per gli inevitabili dolori che l’accompagnano, di un atteggiamento dello spirito che nel Buddismo costituisce la base della concezione della vita: avversione sgomenta per le fatiche quotidiane, paura e ribrezzo di fronte agli affanni, alla malattia e alla vecchiaia. Gli indifferenti dividono questa paura di vivere con coloro che non hanno mai ceduto alle lusinghe del mondo, poiché hanno sempre fuggito la vita. Le poesie di Deschamps abbondano di queste meschine critiche alla vita. Felice chi non ha figli, perché i bambini sono solo chiasso e puzza, fatica e affanni; devono essere vestiti, calzati, nutriti; rischiano sempre di cadere e di farsi male; si ammalano e muoiono, o crescono e diventano cattivi; vanno in prigione. Dai figli non ricaviamo nient’altro che fastidi e dolore; nessuna gioia ci compensa delle cure, delle fatiche 52
e dei costi dell’educazione. Non c’è sventura peggiore, poi, che avere figli deformi. Il poeta non ha per loro alcuna parola affettuosa, fa dire alla Scrittura che il figlio deforme è cattivo di cuore. Felice chi non è sposato, perché con una moglie cattiva si vive male, mentre una buona temiamo continuamente di perderla. La felicità è temuta non meno della sventura. Nella vecchiaia questo poeta non vede che male e ribrezzo, la miserevole decadenza del corpo e della mente, il ridicolo e il disgustoso. Si diventa subito vecchi, la donna a trent’anni, l’uomo a cinquanta, e a sessanta è il limite massimo della vita.14 Quanto si è lontani in questi scritti dal sereno idealismo con il quale Dante nel suo Convivio aveva descritto la dignità del nobile vegliardo!15 Una tendenza religiosa, che è appena presente in Deschamps, può dare un tono più elevato a simili considerazioni sulla paura di vivere, mentre aleggia dappertutto più lo sconforto desolato che la vera devozione. Anche nelle più sincere esortazioni a una vita santa risuona ripetutamente quell’elemento negativo piuttosto che un’autentica voglia di santità. Allorché Jean Gerson, impeccabile cancelliere dell’Università di Parigi e luminare della teologia, compone per le sue sorelle un trattato sull’eccellenza della verginità, si serve tra i suoi argomenti di una lunga lista di dolori e pene connessi al matrimonio. Un marito potrebbe rivelarsi un ubriacone o uno spendaccione o un taccagno. Se invece è onesto e buono, può sempre capitare un cattivo raccolto, una moria di bestiame o un naufragio a togliergli tutti i suoi averi. Che guaio è poi la gravidanza e quante donne muoiono di parto! Che sonno tranquillo può avere la madre che allatta, che allegria e che gioia? Forse i figli saranno malformati o disubbidienti; forse 53
il marito morirà e la madre resterà vedova tra affanni e ristrettezze.16 Una profonda rassegnazione per la miseria terrena caratterizza l’accordo profondo con il quale viene osservata la realtà quotidiana, non appena alla giovanile gioia di vivere o al cieco godimento subentra l’età della riflessione. Dov’è il mondo migliore che ogni epoca è portata a vagheggiare? L’aspirazione a una vita migliore ha avuto di fronte a sé in ogni tempo tre vie per raggiungere la meta lontana. La prima portava direttamente fuori dal mondo: è la via dell’ascesi. In questo caso una vita migliore sembra raggiungibile unicamente nell’aldilà e può essere soltanto una liberazione da ogni cosa terrena; ogni attenzione prestata al mondo ritarda la salvezza promessa. Ogni civiltà superiore ha percorso questa strada; il Cristianesimo aveva inculcato questo ideale così fortemente negli spiriti, sia a livello di vita individuale che come fondamento culturale, da impedire quasi, per molto tempo, di percorrere la seconda via. Questa era la via che conduceva al miglioramento e al perfezionamento del mondo stesso. Il Medioevo ha conosciuto appena questo ideale. In questo periodo il mondo era considerato buono ed era cattivo nella misura in cui poteva esserlo, vale a dire che tutte le istituzioni, in fin dei conti volute da Dio, erano buone; è il peccato dell’uomo che tiene il mondo nella miseria. Quell’epoca non conosce, infatti, come stimolo al pensiero e all’azione, la lotta consapevole per migliorare e riformare le istituzioni sociali o politiche. Praticare il proprio mestiere in maniera virtuosa è l’unica cosa che possa giovare al mondo, e anche in questo caso il vero scopo dell’operare resta l’altra vita. Anche dove viene creata una nuova forma sociale, all’inizio la si considera come un ripri54
stino del buon diritto antico o come la abolizione di abusi tramite una delega data all’autorità a questo preposta. L’istituzione cosciente di organismi concepiti davvero come nuovi è rara anche nella intensa opera legislativa che la monarchia francese conobbe sin dai tempi di San Luigi e che i duchi di Borgogna continuarono nei loro stati. Che con quel lavoro si dia modo all’ordinamento statale di svilupparsi verso forme più efficaci è un fatto del quale non sono ancora, o solo a malapena, consapevoli. Non hanno in mente un progetto per il futuro, né un ideale; ancora una volta è soprattutto l’applicazione immediata del loro potere e l’adempimento dei loro doveri per amore del benessere comune che li spinge a emanare ordinanze e insediare collegi di giudici. Niente ha così fortemente contribuito a creare quell’accordo profondo di pessimismo e di disperazione nei confronti dell’avvenire quanto questa assenza di una volontà collettiva di costruire un mondo migliore e più felice. Nel mondo stesso non c’era alcuna promessa di cose migliori. Chi anelava al meglio e tuttavia non riusciva ad allontanarsi dal mondo e da tutte le sue piacevolezze, aveva davanti a sé solo la disperazione; non trovava in alcun luogo né speranza né letizia; al mondo restava ancora poco da vivere, e in quel poco non c’era che miseria. Quando si intraprenderà la strada del miglioramento del mondo, inizierà una nuova epoca, nella quale la paura di vivere cederà il posto al coraggio e alla speranza. In realtà questo concetto è ribadito soltanto nel XVIII secolo. Il Rinascimento aveva attinto da altre gioie il suo ottimismo. Solo il XVIII secolo innalza l’idea di rendere migliore l’uomo e la società a suo dogma fondamentale, e l’ideale economico e sociale del secolo seguente perde solo quell’ingenuità, non il coraggio e l’ottimismo. 55
La terza via a una vita migliore è quella del sogno. È la via più facile, che però lascia la meta sempre ugualmente lontana. Se la realtà terrena è così inevitabilmente penosa e la rinuncia al mondo così difficile, allora lasciateci colorare la vita di belle apparenze, fuggire nel mondo dei sogni e delle fantasie luminose, mitigare la realtà con l’estasi dell’ideale. È sufficiente un semplice tema, un unico accordo, per far risuonare la fuga avvincente: è sufficiente la speranza nella felicità sognata di un passato più bello, uno sguardo sul suo eroismo e la sua virtù, oppure l’allegro raggio di sole della vita in mezzo alla natura e secondo il suo esempio. Su questi pochi temi, il tema eroico, il tema della saggezza e il tema bucolico è stata costruita tutta la cultura letteraria dall’antichità in poi. Il Medioevo, il Rinascimento, il XVIII e il XIX secolo, tutti insieme non trovano molto di più che nuove variazioni sulla vecchia canzone. Tuttavia, questa terza via a una vita migliore, l’evasione dalla dura realtà verso una bella illusione, è solamente un motivo letterario? Sicuramente è qualcosa di più. Influisce sulla forma e sul contenuto della vita sociale altrettanto bene come le altre due tendenze, ed è tanto più forte quanto più primitiva è la civiltà. L’effetto prodotto dai tre punti di vista sulla vita reale è molto diverso. Il contatto più stretto e costante tra vita e ideale nasce là dove l’idea spinge a migliorare e a perfezionare il mondo stesso. Qui la forza animatrice e il coraggio si infondono nello stesso lavoro materiale, qui la realtà immediata si riempie d’energia; mentre adempie al proprio compito l’uomo tende anche a raggiungere l’ideale di un mondo migliore. Anche in questo caso possiamo pensare che motivo animatore è un sogno di felicità. Fino a un certo punto 56
ogni civiltà tende a realizzare i propri sogni nella realtà, trasformando le forme della società. Però, mentre in altri casi si tratta di una trasformazione spirituale, l’idea di una perfezione immaginaria rispetto alla cruda realtà, per poterla dimenticare, in questo caso invece l’oggetto del sogno è la realtà stessa. È questa che si vuole trasformare, purificare e migliorare; il mondo sembra essere sulla strada giusta che conduce alla realizzazione dell’ideale, purché l’uomo continui a lavorare. La vita ideale sembra davvero poco lontana dall’esistenza reale, c’è solamente un esiguo divario tra realtà e sogno. Dove ci si accontenta di tendere alla massima produzione e alla più equa distribuzione dei beni, dove l’ideale si identifica con il benessere, la libertà e la cultura, lì si chiede poco all’arte di vivere. Non si sente più il bisogno di esaltare l’uomo come un essere superiore o un eroe o un saggio o un raffinato cortigiano. Ben diversa è l’influenza che ha sulla vita reale il primo dei tre atteggiamenti spirituali, la rinuncia al mondo. L’anelito alla salvezza eterna rende indifferenti all’andamento e alle forme dell’esistenza terrena, purché in essa sia coltivata e tenuta viva la virtù. Non si desidera cambiare le forme della vita e della società, ma si cerca di permearle di moralità trascendentale. In tal modo il rifiuto del mondo non agisce solo in maniera negativa sulla società terrena, ma la irradia anche di opere benefiche e misericordia attiva. Che azione esercita sulla vita il terzo atteggiamento, l’aspirazione a un’esistenza migliore secondo un ideale sognato? Esso traduce le forme della vita in forme d’arte, ma non esprime il suo sogno di bellezza solo nei capolavori in quanto tali, perché vuole nobilitare la vita stessa attraverso il bello, e riempie anche la società di gioco e forme gradevoli. 57
Proprio qui si esige il massimo dell’arte di vivere che ciascuno possiede e sorgono esigenze che possono essere soddisfatte solo da una élite, in un gioco artistico. Imitare l’eroe e il saggio non è cosa da tutti; è un divertimento costoso tingere di colori eroici o idilliaci la vita, e in genere riesce anche molto male. L’aspirazione a realizzare la bellezza nelle forme della stessa società ha come “vitium originis” un carattere aristocratico. In questo modo ci siamo avvicinati all’aspetto sotto il quale dobbiamo ora considerare la civiltà della fine del Medioevo: l’abbellimento della vita aristocratica con le forme dell’ideale, la luce artificiale del romanticismo cavalleresco sulla vita, il mondo camuffato con i costumi della Tavola Rotonda. Il divario tra forme di vita e realtà è particolarmente grande; la luce è falsa e abbagliante. Consideriamo l’aspirazione a una vita migliore come l’aspetto più caratteristico del Rinascimento. Qui vediamo la più piena armonia tra l’appagamento della sete di bellezza nell’opera d’arte e nella vita stessa, qui l’arte è al servizio della vita e la vita dell’arte come mai prima. Ma il confine tra Medioevo e Rinascimento anche in questo caso è stato tracciato troppo nettamente. La voglia di permeare la vita di bellezza, la raffinata arte di vivere, la variopinta manifestazione di un ideale di vita, sono tutte molto più antiche del Quattrocento italiano. Gli stessi motivi dell’abbellimento della vita, che i fiorentini continuano a sviluppare, non sono altro che vecchie forme medioevali: Lorenzo de’ Medici rende omaggio all’antico ideale cavalleresco come alla forma nobile della vita non meno di Carlo il Temerario; sotto certi aspetti egli arriva a vedere in quest’ultimo il suo modello, nonostante il suo sfarzo barbarico. L’Italia ha scoperto nuovi orizzonti di 58
bellezza, ha accordato la vita su un nuovo tono, e tuttavia l’atteggiamento nei confronti della vita, che si è soliti considerare tipico del Rinascimento, ovvero il tentativo di elevare la propria vita a opera d’arte, anche oltrepassando la misura, non è stato affatto introdotto dal Rinascimento. Un divario più netto, riguardo alla concezione della bellezza della vita, si ha piuttosto tra il Rinascimento e i tempi moderni. La svolta avviene laddove arte e vita cominciano a separarsi, quando si comincia a godere l’arte non più come elemento centrale della vita, come una parte nobile della gioia di vivere stessa, ma fuori della vita, come qualcosa da tenere in grande considerazione, a cui ci si rivolge nei momenti di edificazione e di svago. L’antico dualismo che separava Dio e il mondo è così tornato sotto una forma diversa, come separazione fra arte e vita. È stata tracciata una linea in mezzo ai piaceri della vita, sono stati divisi in due, una metà inferiore, l’altra superiore. Per l’uomo del Medioevo erano tutti peccaminosi, ora sono considerati tutti permessi, ma di dignità molto differente, a seconda della loro maggiore o minore spiritualità. Le cose che possono rendere piacevole la vita sono rimaste le stesse. Ora come allora sono la lettura, la musica, le arti figurative, i viaggi, il godimento della natura, lo sport, la moda, tutto quanto è apprezzato dalla società (ordini cavallereschi, cariche onorifiche, riunioni) e lo stordimento dei sensi. Il limite tra la metà superiore e quella inferiore sembra porsi soprattutto tra il godimento della natura e lo sport. Ma quel limite non è fisso. Lo sport, per lo meno in quanto espressione del vigore fisico e del coraggio, sarà presto considerato nuovamente superiore. Per l’uomo medioevale, al contrario, il limite era collocato subito dietro la lettura; per59
sino il piacere di leggere poteva essere santificato soltanto dall’aspirazione alla virtù o alla sapienza, e nella musica e nelle arti figurative veniva apprezzata esclusivamente la loro subordinazione alla fede; il piacere di per sé era peccaminoso. Il Rinascimento si era liberato dall’idea del rifiuto della gioia di vivere come di qualcosa di intrinsecamente peccaminoso e non aveva tracciato alcun confine tra piacere superiore e inferiore: voleva godersi la vita nella sua interezza senza darsene pensiero. La nuova separazione è il risultato del compromesso sul quale poggia la mentalità moderna tra Rinascimento e Puritanesimo, è una mediazione con la quale l’uno poteva salvaguardare la bellezza e l’altro condannare il peccato. Per il severo Puritanesimo, esattamente come per il Medioevo, tutto ciò che serviva ad abbellire la vita era condannabile come sostanzialmente peccaminoso e mondano, a meno che questo non assumesse forme decisamente religiose e si giustificasse mediante una diretta manifestazione della fede. Solo quando la concezione puritana della vita cominciò a indebolirsi, l’accettazione rinascimentale di tutte le gioie della vita riguadagnò il terreno perduto addirittura ampliandolo, perché, a partire dal XVIII secolo, si afferma la tendenza a vedere nel naturale una intrinseca moralità. Chi, ai nostri giorni, volesse tracciare una linea di demarcazione tra gioia superiore e inferiore, così come ce la detta la nostra etica, non separerebbe più l’arte dal piacere sensuale, il godimento della natura dall’esercizio fisico, il sublime dal naturale, ma solamente l’elemento egoistico, ingannevole e vano da quello puro. Quando, verso la fine del Medioevo, si affermò un nuovo spirito, all’inizio l’unica scelta possibile era ancora quella classica tra Dio e il mondo: un totale ripudio di tutte le deli60
zie e bellezze della vita terrena si contrapponeva all’accettazione di queste ultime a rischio dell’anima. La bellezza del mondo, proprio per la sua riconosciuta peccaminosità, diventava doppiamente seducente: chi si dava a essa ne godeva con una passione sconfinata. Ma chi non voleva privarsene, e tuttavia non voleva arrendersi al mondo, doveva nobilitare la bellezza. Poteva santificare l’arte e la letteratura, in cui il godimento era dovuto soprattutto all’ammirazione, mettendole al servizio della fede. Anche se in realtà era il piacere dei colori e delle linee che animava gli estimatori di quadri e miniature, il soggetto sacro toglieva al godimento artistico il marchio del peccato. Ma come nobilitare ed elevare tutto quello la cui bellezza era ritenuta altamente peccaminosa, condannato e respinto dalla fede, ovvero il culto del corpo nello sport cavalleresco e nella moda di corte, l’orgoglio e l’avidità di cariche e onori, l’incantevole inesplicabilità dell’amore? In questo caso occorreva percorrere la via che conduceva nel mondo dei sogni e rivestire il tutto della bella apparenza di fantastici ideali antichi. L’impegno volto a perfezionare la vita nelle forme di un ideale eroico è il tratto che unisce la civiltà cavalleresca francese, dal XII secolo in poi, al Rinascimento. Il culto della natura era ancora troppo debole per permettere agli uomini di onorare con piena convinzione la bellezza della terra nella sua nudità, così come aveva fatto lo spirito greco; il concetto del peccato era, al riguardo, troppo forte; solamente ammantandosi delle vesti della virtù la bellezza poteva diventare cultura. L’intera vita aristocratica del basso Medioevo, sia che si tratti della Francia e della Borgogna o di Firenze, è un tenta61
tivo di dare vita a un sogno, sempre lo stesso sogno, quello degli antichi eroi e savi, del cavaliere e della vergine, dei pastori semplici e soddisfatti. La Francia e la Borgogna recitano il brano ancora nell’antico stile; Firenze compone, sullo stesso tema, uno spettacolo nuovo e più bello. La vita dei nobili e dei principi è impreziosita da un ampliamento delle forme espressive: tutti gli aspetti della vita sono, per così dire, ammantati di mistero, abbelliti di colore e sfarzo, travestiti da virtù. Gli eventi della vita e le emozioni che essi suscitano sono riportati a forme belle ed edificanti. So bene che tutto ciò non è specificatamente tardomedioevale, in quanto già esiste nei primi stadi della civiltà, possiamo chiamarlo anche cineseria e bizantinismo, e non scompare col Medioevo, come è provato dal Re Sole. La corte è il terreno nel quale le forme estetiche della vita possono svilupparsi pienamente. Sappiamo quanta importanza i duchi di Borgogna abbiano attribuito a tutto ciò che riguardava lo sfarzo e la pompa della loro corte. Dopo la gloria militare, dice Chastellain, la corte è la prima cosa cui si volge lo sguardo e il cui ordinamento e buon mantenimento sia considerato della massima necessità.17 Olivier de la Marche, il cerimoniere di Carlo il Temerario, su richiesta del re inglese Edoardo IV, scrisse un trattato sulla corte dei duchi al fine di offrire al re un modello di cerimoniale e di etichetta.18 Gli Asburgo hanno ereditato dalla Borgogna la sofisticata vita di corte e l’hanno trapiantata in Spagna e in Austria, che fino a poco tempo fa ne erano il baluardo. La corte di Borgogna era infatti ammirata da tutti come la più ricca e la meglio organizzata che esistesse.19 Soprattutto Carlo il Temerario, con la mania dell’ordine e della regola, e che invece non lasciò altro che disordine, ebbe la passione del cerimo62
niale. Aveva rivestito di una bella forma l’antica illusione che il principe in persona ascolti i lamenti dei poveri e degli umili e giudichi senza indugio, e due o tre volte la settimana, dopo il pranzo, concedeva una pubblica udienza, durante la quale chiunque poteva avvicinarlo con delle petizioni. Tutti i nobili della sua Casa dovevano essere presenti: nessuno osava mancare. Divisi con cura secondo il loro rango, sedevano ai due lati del passaggio che conduceva all’alto seggio dei duchi. Ai suoi piedi, i due “maistres des requestes”, l’“audiencier” e un segretario, inginocchiati, leggevano le petizioni e le sbrigavano secondo gli ordini del principe. Dietro le balaustre che circondavano la sala stava la corte di rango inferiore. Chastellain dice che, apparentemente, era “une chose magnifique et de grand los”, ma gli spettatori costretti ad assistere si annoiavano terribilmente, e lui dubita dei vantaggi di questo modo di procedere: era una cosa che, ai suoi tempi, non aveva visto presso nessun altro principe.20 Per Carlo il Temerario, anche lo svago doveva avere forme eleganti: “Tournoit toutes ses manières et ses moeurs à sens une part du jour, et avecques jeux et ris entremeslés, se délitoit en beau parler et en amonester ses nobles à vertu, comme un orateur. Et en cestuy regart, plusieurs fois, s’est trouvé assis en un hautdos paré, et ses nobles devant luy, là où il leur fit diverses remonstrances selon les divers temps et causes. Et toujours, comme prince et chef sur tous, fut richement et magnifiquement habitué sur tous les autres”.21 Questa consapevole arte di vivere, nonostante le forme ancora rigide e ingenue, è in realtà puro Rinascimento, è ciò che Chastellain chiama “haute magnificence de coeur pour estre vu et regardé en singulières choses”,22 ovvero la qualità peculiare dell’uomo del Rinascimento, come lo descrive Burckhardt. 63
Gli ordinamenti gerarchici della vita di corte sono di una succulenza pantagruelica, quando si riferiscono ai pasti e alla cucina. Il pranzo di corte di Carlo il Temerario, con le prestazioni di panettieri, trinciatori, coppieri e capocuochi regolate con dignità quasi liturgica, era come la rappresentazione di uno spettacolo teatrale grandioso e drammatico. Tutta la corte mangiava in gruppi di dieci in stanze separate, servita e trattata come il signore, tutto era organizzato con cura secondo il rango e il ceto. Tutto funzionava così bene che ogni gruppo, quando era il momento, dopo il pasto poteva venire a salutare il duca, che era ancora a tavola, “pour luy donner gloire”.23 Lo sconosciuto che descrive il pranzo del martedì grasso,24 21 giugno 1469, che il duca Sigismund offrì, a Thann, ai commissari borgognoni in occasione dell’entrata in possesso della contea di Pfirt, si sente molto superiore ai tedeschi, per quel che riguarda il galateo a tavola: “Là sopra ghiozzi fritti, che il mio detto signore d’Austria spargeva sul tavolo”; “Pure da notare, che non appena il piatto arrivò a tavola, tutti si servirono, e talvolta i plebei per primi”.25 In cucina (si pensi alla cucina eroica con i suoi setti camini giganteschi, unica cosa che ci resta del Palazzo Ducale a Digione), il cuoco di servizio è seduto su un seggio tra il camino e il buffet, da dove può sorvegliare l’intero locale. In mano tiene un grande cucchiaio di legno, “che gli serve per due scopi: per assaggiare la minestra e le salse e per scacciare gli sguatteri dalla cucina per fargli fare il loro dovere, e, se necessario, per picchiarli”. In certe rare occasioni è il cuoco in persona che viene a servire magari i primi tartufi o le prime aringhe, con una torcia in mano. Per il serio cortigiano che ci descrive questa scena, si trat64
ta quasi di sacri misteri, e ne parla con rispetto e con una specie di scientificità scolastica. Quando ero paggio, dice La Marche, ero ancora troppo giovane per capire le questioni di precedenza e cerimoniale.26 Egli pone ai suoi lettori quesiti molto seri sull’ordine delle precedenze e sul servizio di corte, per poi risolverli con la sua esperienza. Perché durante il pranzo dei signori è presente il cuoco e non lo scudiero della cucina? Come viene designato il cuoco? Chi deve sostituirlo in sua assenza: il maestro degli arrosti (hateur) o il maestro delle zuppe (potagier)? Questa è la mia risposta, dice il saggio: quando deve essere nominato un cuoco alla corte di un principe, i maggiordomi (maîtres d’hôtel) devono chiamare gli scudieri della cucina (escuiers de cuisine) e tutti coloro che servono in cucina, l’uno dopo l’altro; e con una votazione solenne, fatta da ognuno sotto giuramento, viene designato il cuoco. Riguardo al secondo quesito, aggiunge poi che né il maestro degli arrosti né quello delle zuppe possono sostituirlo, ma il sostituto del cuoco deve essere eletto nello stesso modo. Perché i panettieri e i coppieri appartengono a un rango superiore a quello dei trinciatori e dei cuochi? Perché il loro ufficio riguarda il pane e il vino, che sono resi sacri dal sacramento della comunione.27 In questo caso notiamo uno stretto legame tra quanto appartiene alla sfera della fede e l’etichetta di corte. Non è azzardato pensare che in quell’apparato di belle e nobili forme di vita si nasconda un elemento liturgico, e che la loro importanza quasi assurga, per così dire, a una sfera religiosa. Solamente così si spiega l’importanza straordinaria che viene attribuita a tutte le questioni di precedenza e di cortesia, non solo nel basso Medioevo. Nel vecchio impero russo, prima dei Romanov, le contese 65
per la precedenza a corte avevano condotto all’istituzione di un dipartimento permanente del servizio di stato. Gli stati occidentali del Medioevo non conoscono quell’istituzione, ma anche qui la gara per la precedenza svolge un ruolo importante. Sarebbe facile raccogliere degli esempi al riguardo. Anche in questo caso tuttavia si tratta di dimostrare come il voler migliorare i costumi diventi un gioco bello ed edificante e la sua degenerazione vana pompa. Ecco alcuni esempi di come la bella forma, talvolta, può far trascurare l’efficacia di un’azione. Poco prima della battaglia di Crécy quattro cavalieri sono andati in ricognizione avvicinandosi allo schieramento inglese. Il re, che attende con impazienza loro notizie e cavalca lentamente attraverso il campo, si ferma quando li vede tornare. I quattro si fanno largo tra la calca finché arrivano davanti al re, che domanda quali notizie portino. “Si guardarono senza dire una parola, perché nessuno voleva parlare prima dell’altro. E si dicevano l’un l’altro: ‘Signore, ditelo voi, parlate voi al re io non parlerò prima di voi’. Questa storia andò avanti per un po’, poiché nessuno ‘par honneur’ voleva cominciare a parlare”, fino a quando il re lo ordina a uno di loro.28 Ancor di più la bella forma soppianta l’efficienza nel caso di messere Gaultier Rallart, chevalier du guet a Parigi nel 1418. Questi, che era capo della polizia, non faceva mai la ronda senza essere preceduto da tre o quattro suonatori, che suonavano allegramente, e il popolo diceva che lui, in questo modo, avvisava i delinquenti di scappare, perché stava arrivando.29 Il suo non è un caso isolato. Anche Jean Balue, vescovo di Evreux nel 1465, fa la ronda di notte a Parigi con claroni, trombe e altri strumenti musicali, “qui n’estoit pas acoustumé de faire à gens faisans guet”.30 Le distinzioni di rango e di ceto sono osservate con 66
severità perfino sul patibolo: quello del conestabile di Saint Pol è riccamente ornato di gigli, il guanciale e la benda sono di velluto cremisi e il boia è alla sua prima esecuzione, un privilegio peraltro discutibile dal punto di vista del condannato.31 La gara di cortesia, che oggi ha assunto un carattere piccolo borghese, era straordinariamente sviluppata nella vita di corte del XV secolo. Si considerava un’intollerabile vergogna non lasciare al superiore il posto che gli spettava. I duchi di Borgogna davano scrupolosamente la precedenza ai loro parenti reali di Francia. Giovanni senza Paura rese sempre un ossequio esagerato alla sua giovane nuora Michela di Francia: la chiamava Madama, si inginocchiava davanti a lei, e voleva sempre servirla, cosa che lei non permetteva.32 Quando Filippo il Buono apprende che suo cugino, il Delfino, si è rifugiato nel Brabante in seguito a una lite col padre, toglie l’assedio a Deventer, inizio di una spedizione per sottomettere la Frisia, e torna in fretta a Bruxelles per porgere il benvenuto all’illustre ospite. Man mano che si avvicina il momento dell’incontro comincia la gara per essere ciascuno il primo a rendere omaggio all’altro. Filippo ha una gran paura che il Delfino gli venga incontro; corre a spron battuto e manda un messaggero dopo l’altro per convincerlo ad aspettarlo lì dove si trova. Giura che, se il figlio del re gli venisse incontro, tornerebbe indietro e andrebbe così lontano tanto che l’altro non potrebbe più trovarlo, perché per lui, che è solo duca, sarebbe una beffa e una vergogna che il mondo intero gli rimprovererebbe per sempre. Rinunciando umilmente al consueto sfarzo, Filippo fa il suo ingresso a Bruxelles; smonta in fretta da cavallo fuori del palazzo, entra e avanza velocemente nell’interno. Lì trova il Delfino che, 67
lasciata la sua stanza insieme alla duchessa, gli viene incontro a braccia aperte nella corte. Il vecchio duca si scopre immediatamente il capo, si inginocchia un attimo e poi si rimette a correre. La duchessa trattiene il Delfino, perché questi non si muova, il Delfino a sua volta trattiene invano il duca per impedirgli di inginocchiarsi e cerca inutilmente di farlo alzare. Ambedue piangono di commozione, dice Chastellain, e con loro tutti gli astanti. Durante l’intera permanenza di questo ospite, che di lì a poco, nominato re, sarebbe diventato il peggior nemico della sua Casa, il duca si abbandona a numerose smancerie; chiama se stesso e suo figlio “de si meschans gens”, si lascia bagnare la testa dalla pioggia sebbene sessantenne, offre al Delfino tutte le sue terre.33 “Celuy qui se humilie devant son plus grand, celuy accroist et multiplie son honneur envers soymesme, et de quoy la bonté mesme luy resplend et redonde en face.”34 Con queste parole Chastellain conclude il racconto del conte di Charolais, che, prima del pranzo, rifiutò ostinatamente di usare la catinella insieme alla regina Margherita d’Inghilterra e al suo giovane figlio. I nobili ne parlarono tutto il giorno; il caso fu sottoposto al vecchio duca, che fece sostenere da due nobili i pro e i contro dell’atteggiamento di Carlo. Il senso dell’onore feudale era ancora così vivo, che si reputavano queste dispute veramente importanti, belle ed edificanti. Come spiegarsi altrimenti tutti i convenevoli per la precedenza lunghi di solito un quarto d’ora?35 Più si continua a rifiutare, più i presenti si sentono edificati. Chi ha diritto al baciamano nasconde la mano per sfuggire all’onore. Per questo la regina di Spagna nasconde la sua mano davanti al giovane arciduca Filippo il Bello che aspetta un poco, ma quando gli si presenta l’occasione gliela afferra di 68
sorpresa e la bacia. Questa volta la severa corte spagnola si mette a ridere, perché la regina se ne era dimenticata.36 I moti d’affetto che dovrebbero sorgere spontanei sono accuratamente codificati. Non solo si descrive in modo dettagliato quali dame di corte debbano camminare mano nella mano, ma anche quale delle due debba invitare l’altra a questo gesto così familiare. Questo incoraggiamento, il farsi cenno a vicenda per andare insieme (hucher), è, per la vecchia dama di corte che descrive il cerimoniale borgognone, una questione tecnica.37 La formalità per cui non si deve lasciar andare un ospite in partenza, viene spinta fino agli estremi più fastidiosi. La consorte di Luigi XI è stata ospite per qualche giorno di Filippo di Borgogna; il re ha fissato il giorno del suo ritorno, ma il duca rifiuta di farla partire, nonostante le suppliche del suo seguito e sebbene ella stessa tremi per la collera del suo consorte.38 Goethe ha detto: “Es gibt kein äusseres Zeichen der Höflichkeit, das nicht einen tiefen sittlichen Grund hätte”; Emerson ha chiamato la cortesia “virtue gone to seed”.39 Forse non è corretto sostenere che quella ragione morale fosse ancora sentita nel XV secolo, ma è certo che si sentiva il suo valore estetico che sta tra la sincera manifestazione d’affetto e l’arida convenzione sociale. Ovviamente questo pletorico abbellimento della vita è diffuso soprattutto nelle corti principesche, dove la gente aveva il tempo e lo spazio necessari per dedicarvisi. Che però esso fosse diffuso anche nelle sfere più basse della società, lo prova il fatto che oggi è proprio presso la piccola borghesia (senza contare le corti stesse) che si incontra il retaggio più consistente di quelle forme. I ripetuti inviti a servirsi ancora, a restare un altro po’, il rifiutarsi di passare davanti agli altri, 69
sono tutte convenzioni sociali praticamente scomparse nell’ultimo mezzo secolo tra l’alta borghesia. Nel XV secolo esse conoscono il massimo splendore. Però, mentre vengono scrupolosamente seguite, già sono oggetto di vivace scherno. Soprattutto la chiesa è teatro di convenevoli belli e lunghi. Si comincia con l’“offrande”. Nessuno vuol essere il primo a deporre la sua elemosina sull’altare. Passez. – Non feray. – Or avant! Certes si ferez, ma cousine. – Non feray. – Huchez no voisine, Qu’elle doit mieux devant offrir. – Vous ne le devriez souffrir, Dist la voisine: n’appartient A moy: offrez, qu’a vous ne tient Que li prestres ne se delivre.40 Quando finalmente il personaggio più importante è passato avanti, comunicando umilmente che lo fa solamente per porre fine a tutto ciò, la stessa storia si ripete al momento di baciare il “paesberd”, “la paix”, la “tabula pacis”, ossia il piattino di legno, argento o avorio, che nel basso Medioevo era venuto in uso durante la messa, in sostituzione del bacio della pace sulla bocca dopo l’Agnus Dei.41 Quel “paes” che passava di mano in mano tra i notabili che rifiutavano cortesemente di baciarlo per primi era diventato un inconveniente fisso e prolungato della funzione. Respondre doit la juene fame: – Prenez, je ne prendray pas, dame. – Si ferez, prenez, douce amie. – Certes, je ne le prendray mie; 70
L’en me tendroit pour une sote. – Baillez, damoiselle Marote. – Non feray, Jhesucrist m’en gart! Portez a ma dame Ermagart. – Dame, prenez. – Saincte Marie, Portez la paix a la baillie. – Non, mais a la gouverneresse.42 Quest’ultima finalmente lo prende. Perfino un uomo santo e distaccato dal mondo come Francesco da Paola ritiene sia suo dovere seguire questi cerimoniali,43 e questo viene considerato dai suoi devoti veneratori come un segno di genuina umiltà, il che dimostra come il contenuto etico di quelle formalità non era ancora del tutto scomparso. Cosa quei comportamenti significassero viene del resto ben chiarito dal fatto che essi erano il rovescio della medaglia di violente e incessanti contese per quella stessa precedenza in chiesa, che si voleva concedere con tanta gentilezza44: erano una rinuncia bella e lodevole a un orgoglio nobiliare o borghese sentito ancora come vivo. In tal modo andare in chiesa diventava una specie di minuetto, perché all’uscita la musica ricominciava; successivamente iniziava la gara per lasciare la destra o dare la precedenza su una passerella o in un vicolo a chi si riteneva superiore. Una volta a casa, come ancor oggi usa in Spagna, si doveva invitare l’intera compagnia a bere un bicchiere e gli invitati erano tenuti a scusarsi cortesemente, infine bisognava accompagnarli per un bel pezzo di strada; il tutto era abbinato a cortesi resistenze.45 Tutte queste belle maniere acquistano qualcosa di commovente, se si pensa che esse fioriscono dalla dura lotta di 71
una generazione veemente e passionale contro il proprio orgoglio e la propria ira. Spesso, quando l’aspra rudezza irrompe nei buoni modi, la rinuncia formale all’orgoglio fallisce. Giovanni di Baviera è ospite a Parigi di grandi signori; questi danno delle feste durante le quali l’eletto di Liegi vince al gioco tutto il loro denaro. Uno dei principi non riesce a dominarsi ed esclama: “Che diavolo di prete è questo qui? Come? Vincerà tutto il nostro denaro?”. Al che Giovanni risponde: “Io non sono prete, e non ho bisogno del vostro denaro”. E lo prese e lo gettò tutt’intorno. “Dont y pluseurs orent grant mervelle de sa grant liberaliteit.”46 Hue de Lannoy picchia con un guanto di ferro un altro, mentre sta in ginocchio davanti al duca per accusarlo; il cardinale di Bar sconfessa un predicatore in presenza del re e gli dà del cane.47 Il senso formale dell’onore è così forte che, come ancor oggi accade presso molti popoli orientali, trasgredire l’etichetta diviene un’offesa mortale, perché mette in discussione la bella illusione di una vita più alta e più pura, che soccombe davanti a una realtà resa manifesta. Per Giovanni senza Paura è una vergogna incancellabile l’aver salutato Capeluche, il boia di Parigi, che gli era andato incontro con gran pompa, come se fosse un gentiluomo e l’avergli toccato la mano; solamente la morte del boia può cancellare quella macchia.48 Nel 1380, il giorno dell’incoronazione di Carlo VI, durante il banchetto Filippo di Borgogna si mette con la forza tra il re e il duca d’Angiò al posto che gli spetta come “doyen de pairs”49; i loro rispettivi seguiti si fanno già largo minacciosi per risolvere la disputa con la violenza, quando il re li placa acconsentendo alle richieste del borgognone.50 Anche nella dura vita militare al campo non viene tollerata 72
alcuna trascuratezza: il re d’Inghilterra si adira quando L’Isle d’Adam gli appare con un vestito “blanc gris” e lo guarda in faccia.51 Un condottiero inglese manda subito a farsi radere un parlamentare proveniente dalla città di Sens assediata.52 Il magnifico ordine della corte borgognona, tanto lodato dai contemporanei,53 acquista il suo vero significato solo se paragonato alla confusione che regnava di solito nella molto più vecchia corte francese. Deschamps si lamenta in numerose ballate della miseria della vita di corte, e le sue lagnanze sono qualcosa di più dell’abituale critica all’esistenza del cortigiano, di cui parleremo in seguito. Vitto e alloggio sono cattivi, imperano chiasso e confusione, imprecazioni e litigi, invidia e scherno, la corte è una sentina di vizi, una porta dell’inferno.54 Nonostante il sacro rispetto per la regalità e la superba preparazione di cerimonie grandiose, il decoro, persino nelle occasioni più solenni, spesso viene meno. Nel 1422 al funerale di Carlo VI a Saint Denis si accende una lite violenta tra i monaci dell’abbazia e la corporazione dei salinatori (henouars) di Parigi, per l’abito da cerimonia e le altre vesti che coprono la salma reale; entrambi i partiti ne rivendicano il diritto, le afferrano, e stanno quasi per venire alle mani quando il duca di Bedford rimette la controversia al tribunale, “et fut le corps enterré”.55 Lo stesso caso si ripete nel 1461 al funerale di Carlo VII. Sulla strada di Saint Denis, arrivati alla Croix aux Fiens, gli henouars rifiutano, dopo un battibecco coi monaci dell’abbazia, di continuare a portare il corpo del re, se non ricevono le dieci libbre parigine sulle quali accampano diritti. Lasciano la bara in mezzo alla strada e il corteo è costretto a fermarsi a lungo. I cittadini di Saint Denis vogliono già assumersene l’incarico, quando il 73
gran écuyer promette agli henouars di pagarli di tasca propria, consentendo così la ripresa del viaggio, che si conclude solo alle otto di sera con l’arrivo in chiesa. Subito dopo la sepoltura segue un’altra lite tra il gran écuyer del re stesso e i monaci sull’abito da cerimonia.56 Simili tumulti per il possesso degli strumenti usati durante una celebrazione erano ormai assai diffusi. La violazione della forma era diventata essa stessa forma.57 Fino al XVII secolo, era proprio la vasta risonanza che veniva data a tutti gli avvenimenti importanti della vita dei re a causare il disordine totale nelle maggiori cerimonie. Al banchetto dell’incoronazione del 1380 la ressa degli spettatori, dei partecipanti e dei servitori è così grande, che i servitori reali, che di questo erano incaricati, il conestabile e il maresciallo di Sancerre, devono distribuire le varie pietanze stando a cavallo.58 Quando nel 1431 a Parigi, Enrico VI d’Inghilterra è incoronato re di Francia, il popolo già di buon mattino invade il salone del palazzo dove sarà tenuto il banchetto, per dare un’occhiata, rubacchiare e godersela. I signori del Parlamento, dell’Università, il prévôt des marchands e gli scabini riescono a malapena, in mezzo alla calca, a raggiungere la sala da pranzo e, una volta lì, si accorgono che i posti loro assegnati sono stati presi da artigiani di ogni genere. Si cerca di allontanarli, “mais quant on en faisoit lever ung ou deux, il s’en asseoit VI ou VIII d’autre costé”.59 Alla consacrazione di Luigi XI, nel 1461, è stata presa la precauzione di chiudere per tempo gli ingressi della cattedrale di Reims e di sorvegliarli, cosicché non possono esserci nella chiesa più persone di quelle che il coro può tranquillamente contenere. Queste però si accalcano in modo tale intorno all’altar maggiore, dove ha luogo l’unzione, che gli stessi prelati che assi74
stono l’arcivescovo possono muoversi a malapena, e i principi di sangue vengono quasi schiacciati sui loro scanni.60 La Chiesa di Parigi tollerava malvolentieri di essere ancora (fino al 1622) suffraganea dell’arcivescovado di Sens. In tutti i modi si fa capire al metropolita che la sua autorità non è tenuta in considerazione e ci si appella all’esenzione papale. Il 2 febbraio 1492 l’arcivescovo di Sens ha celebrato la messa in Notre-Dame a Parigi alla presenza del re. Il re non ha ancora lasciato la chiesa che l’arcivescovo, benedicendo il popolo, si ritira, preceduto dalla croce. Due canonici e una frotta di sagrestani si fanno largo, afferrano la croce e la danneggiano, slogano la mano al portatore, e causano un tumulto durante il quale vengono strappati i capelli ai servitori dell’arcivescovo. Quando l’arcivescovo cerca di sedare la rissa “sans lui mot dire, vinrent près de lui; Lhuillier (decano del capitolo) lui baille du coude dans l’estomac, les autres rompirent le chapeau pontifical et les cordons d’icelluy”. L’altro canonico insegue l’arcivescovo “disant plusieurs injures en luy mectant le doigt au visage, et prenant son bras tan que dessira son rochet; et n’eust esté que n’eust mis sa main au devant, l’eust frappé au visage”. Il processo che ne seguì durò tredici anni.61 Lo spirito di quei tempi passionale e violento, duro e nello stesso tempo facile alle lacrime, sempre oscillante tra la più tetra disperazione nei confronti del mondo e l’abbandono alla sua variopinta bellezza, non poteva fare a meno di forme così rigide. Era necessario racchiudere le emozioni in una salda cornice di forme convenzionali; così facendo la convivenza sociale acquisiva, almeno formalmente, un certo ordine. In tal modo, per gli animi, gli avvenimenti della vita propria e altrui diventavano un bello spettacolo; si godeva 75
delle patetiche manifestazioni di dolore e della gioia sotto una luce artificiale. Mancavano ancora i mezzi per esprimere sentimenti in modo puro; solamente grazie alla possibilità di tradurre in forme estetiche adeguate gli stati d’animo può essere raggiunto quell’alto grado di espressività che l’epoca perseguiva. Naturalmente ciò non significa che questi riti, specialmente quelli che accompagnano i grandi, antichi, sacri eventi della nascita, del matrimonio e della morte, siano nati con questo scopo. Usi e costumi solenni si sono evoluti da credenze e culti primitivi, ma il significato che hanno avuto all’origine ci è ignoto ormai da molto tempo, e al suo posto quelle forme hanno assunto un nuovo valore estetico. L’esaltazione della commozione mediante forme suggestive trovò il suo apice nelle cerimonie funebri. Là c’erano illimitate possibilità per quella splendida esagerazione del dolore, cui faceva riscontro l’esagerazione della gioia nelle colossali feste di corte. Non seguirà ora una descrizione particolareggiata di tutta la tetra pompa degli abiti da lutto, di tutto il fasto dei servizi funebri che accompagnavano la scomparsa di ogni principe. Essi non sono peculiari del basso Medioevo; le monarchie li hanno conservati fino al giorno d’oggi, e il carro funebre dei borghesi ne è ancora la brutta copia. La suggestione di tutto quel nero di cui, alla morte di un principe, si ammantavano non solo i membri della corte ma anche i magistrati, le corporazioni e il popolo, deve essere stata ancora più intensa per via del contrasto con la varietà di colori della vita cittadina medioevale. La pompa funebre per Giovanni senza Paura, quando fu assassinato, è stata preparata con lo scopo evidente di produrre un grande effetto, in parte politico. La scorta militare con la quale Filip76
po si mette in marcia, per incontrare i re di Francia e d’Inghilterra, fa sfoggio di duemila banderuole nere, di stendardi e bandiere neri lunghi sette braccia, dalle frange di seta nera, il tutto ricamato o dipinto di stemmi dorati. Gli scanni e la carrozza da viaggio del duca vengono dipinti di nero per l’occasione.62 Al convegno solenne di Troyes Filippo accompagna le regine di Francia e d’Inghilterra indossando un abito da lutto di velluto che scende dal dorso del suo cavallo fino a terra.63 Per molto tempo non soltanto lui, ma anche il suo seguito, continua a vestire di nero.64 Talvolta un’eccezione, in mezzo a tutto quel nero, ingrandiva l’effetto: mentre l’intera corte, compresa la regina, indossa il nero, il re di Francia porta il lutto in rosso.65 E nel 1393 i parigini videro con sorpresa un funerale pomposo completamente in bianco, quello del re d’Armenia Léon de Lusignan, morto in esilio.66 Senza dubbio quel nero era spesso il segno di un dolore intenso, sinceramente sentito. Il profondo ribrezzo della morte, il forte senso della famiglia, il fervido attaccamento al signore rendevano la morte di un principe un evento veramente traumatizzante. E se, come nel caso dell’assassinio del duca di Borgogna nel 1419, l’onore di una stirpe orgogliosa veniva ferito e la vendetta chiamava come un sacro dovere, allora l’espressione grandiosa del dolore e la pompa erano adeguate al sentimento. Chastellain si è divertito a descrivere minutamente gli aspetti estetici di questo annuncio di morte; egli inventa, nello stile grave e lento della sua raffinata retorica, il lungo discorso con il quale, a Gand, il vescovo di Tournai prepara lentamente il giovane duca alla terribile notizia, i lamenti maestosi di Filippo stesso e della sua consorte Michela di Francia. Ma non c’è alcun dubbio sul ful77
cro del suo racconto: la notizia provoca un attacco di nervi al giovane duca, la sua consorte perde i sensi, la corte precipita in una confusione selvaggia, urla di dolore si sentono nella città, insomma la sfrenata esagerazione con cui fu accolto il fatto.67 Anche la descrizione che Chastellain fa delle manifestazioni di dolore di Carlo il Temerario alla morte di Filippo nel 1467, reca i tratti della verità. In questo caso il colpo fu molto meno forte; il vecchio duca, quasi rimbambito, dava ormai da tempo solo segni di peggioramento; il rapporto tra lui e il figlio era stato negli ultimi anni tutt’altro che cordiale, cosicché lo stesso Chastellain nota che destava meraviglia il fatto che Carlo, al letto di morte, piangesse, gemesse, si torcesse le mani, cadesse a terra, “et ne tenoit règle, ne mesure, et tellement qu’il fit chacun s’esmerveiller de sa démesurée douleur”. Anche nella città di Bruges, dove il duca morì, “estoit pitié de oyr toutes manières de gens crier et plorer et faire leurs diverses lamentations et regrets”.68 In queste e in altre descrizioni del genere è difficile stabilire fin dove arrivi lo stile di corte, che trova conveniente e bello manifestare rumorosamente il proprio dolore, e fin dove invece sia presente una reale, intensa commozione, tipica del tempo; vi è certamente presente un elemento di formalità primitiva: il piangere ad alta voce il morto, che si era stilizzato nelle prefiche e aveva trovato espressione artistica nei “plourants”, e che proprio in quei tempi conferisce alla scultura sepolcrale una intensità emotiva molto forte, è un elemento culturale antichissimo. L’unione di primitivismo, estrema sensibilità e bella forma si può rintracciare anche nella grande paura che si provava nel comunicare un avvenimento luttuoso. La morte del 78
padre viene nascosta per molto tempo alla contessa di Charolais, quando era incinta di Maria di Borgogna; a Filippo il Buono, che giace malato, non si osa comunicare alcuna morte che lo tocchi in qualche modo, cosicché Adolf van Cleef non può portare il lutto per sua moglie. Quando tuttavia il duca intuisce qualcosa della morte del suo cancelliere Nicolas Rolin (Chastellain usa l’espressione: “avoit esté en vent un peu de ceste mort”), domanda al vescovo di Tournai che viene a trovarlo se sia vero che il cancelliere è morto. “Monsignore,” dice il vescovo, “in verità egli è morto, perché è vecchio e malconcio, e non può più vivere a lungo.” “Déa!” dice il duca, “non chiedo questo, chiedo se egli è mort de mort et trespassé.” “Ah! monsignore,” replica il vescovo, “non è morto, ma paralizzato da un lato, quindi è come se fosse morto.” Il duca si arrabbia: “Vechy merveilles! Adesso dimmi chiaramente se è morto”. Solo allora il vescovo dice: “Sì monsignore, egli è realmente morto”.69 Non è presente in questo singolare modo di comunicare un evento luttuoso piuttosto una vecchia forma di superstizione che un senso di riguardo per l’ammalato, che non poteva che irritarsi per questa esitazione? Questo comportamento sottintende la stessa mentalità che spingeva Luigi XI a non servirsi più dei vestiti che indossava, o del cavallo che montava quando era raggiunto da una cattiva notizia, e perfino a far abbattere una vasta zona del bosco di Loches, dove gli era stata comunicata la morte del figlio appena nato.70 “M. le chancellier,” egli scrive il 25 maggio 1483, “je vous mercye des lettres etc. mais je vous pry que ne m’en envoyés plus par celluy qui les m’a aportées, car je luy ay trouvé le visage terriblement changé depuis que je ne le vitz, et vous prometz par ma foy qu’il m’a fait grant peur; et adieu.”71 79
Quali che siano gli antichi tabù che si nascondono dietro i rituali funebri, il loro valore culturale consiste nel dare forma alla sofferenza, trasformandola in qualcosa di bello e di elevato. Danno ritmo al dolore, trasportano la vita reale nella sfera del dramma e le fanno calzare i coturni. Nelle civiltà primitive, penso per esempio a quella irlandese, i riti funebri e i lamenti poetici formano ancora un tutto unico; anche il lutto di corte dell’epoca borgognona si può comprendere solo considerando le sue affinità con l’elegia. La pompa funebre mostra in bella forma come il colpito debba essere sopraffatto dal dolore. Più il rango è elevato, più grandiosa deve essere la manifestazione di dolore ostentata. La regina di Francia deve rimanere un anno intero nella stanza dove le è stata annunziata la morte del consorte, le principesse sei settimane. Quando si comunica a Madame de Charolais, Isabella di Borbone, la morte di suo padre, ella prima assiste alle esequie nel castello di Couwenberg, poi rimane sei settimane nella sua stanza, sempre a letto, appoggiata su cuscini, ma indossando la barbette,72 cappuccio e mantello. La stanza è interamente tappezzata di nero, sul pavimento invece di un tappeto morbido c’è un grande drappo nero, e anche l’ampio atrio è tappezzato di nero. Le nobildonne rimangono sei settimane a letto solo se si tratta del marito, per il padre o la madre soltanto nove giorni e trascorrono il resto delle sei settimane sedute davanti al letto su un grande drappo nero. Per il fratello maggiore si rimane sei settimane in camera, ma non a letto.73 Si comprende perciò facilmente come, in un’epoca che adottava un simile cerimoniale, fosse ricordata come gravissima la circostanza che Giovanni senza Paura, assassinato nel 1419, fosse stato sep-
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pellito con la giubba, la calzamaglia e le scarpe che aveva addosso.74 La commozione, abbellita ed elaborata in quelle belle forme, svanisce facilmente; la tendenza a drammatizzare la vita crea un retroscena nel quale il nobile pathos viene sconfessato. C’è un’ingenua distinzione tra “gala” e vita reale, come emerge chiaramente dallo scritto della vecchia dama di corte Aliénor de Poitiers, che venera come sacro mistero tutto quel cerimoniale di corte; alla descrizione del magnifico lutto di Isabella di Borbone fa seguire: “Quand Madame estoit en son particulier, elle n’estoit point toujours couchée, ni en une chambre”.75 L’espressione “en une chambre” non va intesa come “nella stessa stanza”. Chambre significa qui tutta una serie di arazzi, di tappeti, di coltri etc. che serviva a tappezzare una sala, quindi una stanza di gala appositamente preparata.76 Tuttavia, la principessa riceve in questa stanza esclusivamente per salvare la bella forma. Aliénor dice inoltre: per un consorte è opportuno portare il lutto per due anni, “a meno che non ci si risposi”. Proprio i ceti più alti, segnatamente i principi, spesso si risposavano molto presto; il duca di Bedford, reggente di Francia per il giovane Enrico VI, dopo appena cinque mesi. Accanto al lutto, è la stanza della puerpera quella che più si presta a un rigido cerimoniale e a una differenziazione gerarchica delle varie manifestazioni. I colori seguivano regole fisse. Il verde, che era ancora nel XIX secolo il colore abituale del letto borghese e dello scaldino, era nel xv la prerogativa di regine e principesse. La stanza di puerpera della regina di Francia è di seta verde; prima era completamente bianca. Persino le contesse non potevano avere “la chambre verde”. Stoffa, pelliccia e colore delle coperte e dei copriletti sono 81
dettati da regole precise. Sulla credenza ardono continuamente due grandi candele su candelieri d’argento, perché le imposte della stanza della puerpera vengono aperte per la prima volta dopo quattordici giorni! Più notevoli di tutto sono però i letti da parata, vuoti come i cocchi ai funerali del re di Spagna. La giovane madre riposa su una couchette davanti al fuoco, e la bambina, Maria di Borgogna, in una culla nella sua stanza; ma soprattutto, nella stanza della puerpera, ci sono due grandi letti che formano un’artistica composizione di tendine verdi, preparati e montati come se ci si potesse dormire, e nella stanza della bambina altri due grandi letti, tutti in verde e in violetto, e ancora un grande letto in un’anticamera completamente rivestita di raso cremisi. Questa “chambre de parement” era stata donata a suo tempo a Giovanni senza Paura dalla città di Utrecht e la stanza si chiamava perciò “la chambre d’Utrecht”. Durante i battesimi solenni quei letti facevano parte del cerimoniale.77 L’estetica delle forme si manifestava nell’aspetto quotidiano della vita sia in città che in campagna: la rigida gerarchia di stoffe, colori e pellicce dava alle diverse classi sociali una cornice esteriore, che innalzava e conservava il senso della dignità. L’estetica delle emozioni non si limitava alle gioie solenni e ai dolori al momento della nascita, del matrimonio e della morte, per i quali esistevano debite cerimonie. Ogni fenomeno etico è visto volentieri in una forma ben costruita. Questo elemento è presente nell’ammirazione per l’umiltà e le opere di penitenza di un santo, per il pentimento di un peccatore, come per esempio per la “moult belle contrition de ses péchés” di Agnès Sorel.78 Ogni rapporto sociale è stilizzato; al posto del desiderio che noi oggi abbiamo di nascondere e cancellare le relazioni intime e le forti emozioni, 82
si cerca di trasformarle in una forma e uno spettacolo anche per gli altri. Così anche l’amicizia, nella vita del XV secolo, ha la sua forma ben elaborata. Accanto alla vecchia fratellanza di sangue e alla fratellanza d’armi, onorata sia dal popolo sia dalla nobiltà,79 si conosce una forma di amicizia sentimentale, che è espressa con la parola mignon. Il mignon del principe è un’istituzione stilizzata, che si mantiene durante tutto il XVI e parte del XVII secolo. È il rapporto che intercorre tra Giacomo i d’Inghilterra e Robert Carr e George Villiers; anche Guglielmo d’Orange, al momento dell’abdicazione di Carlo V, va visto sotto questo aspetto. Il rapporto tra il duca e il presunto Cesario, descritto nella Twelfth Night, si comprende solo tenendo presente questa abituale forma di amicizia. Il rapporto è considerato un parallelo dell’amore cortese. “Sy n’as dame ne mignon,” dice Chastellain.80 Comunque mancano del tutto allusioni che possano ricondurlo all’amicizia greca. La disinvoltura con cui si affronta il fenomeno mignon, in un’epoca che aborriva il crimen nefandum, deve far tacere ogni sospetto. Bernardino da Siena adduce ad esempio ai suoi connazionali, tra i quali la sodomia era assai diffusa, la Francia e la Germania, dove non è conosciuta.81 Solo un principe molto odiato viene talvolta accusato di rapporti illeciti con il suo favorito ufficiale, come accade a Riccardo ii d’Inghilterra e a Robert de Vere.82 Tuttavia di solito si tratta di una relazione irreprensibile, che fa onore al favorito, il quale la ammette. Commines stesso racconta come Luigi XI l’avesse onorato esprimendogli il suo compiacimento, così da andar vestito come questi.83 Perché questo è il segno usuale del rapporto. Il re ha un mignon en titre vestito come lui, al quale si appoggia nei ricevimenti.84 Spesso sono due amici, coetanei ma di diverso rango, che si vestono 83
in modo uguale e dormono nella stessa camera, qualche volta anche nello stesso letto.85 Una tale inseparabile amicizia esiste fra il giovane Gaston de Foix e il fratello bastardo, e finisce tragicamente; tra Luigi d’Orléans (allora anche di Touraine) e Pierre de Craon86; tra il giovane duca van Cleef e Jacques de Lalaing. Allo stesso modo le principesse hanno un’amica intima, che si veste come loro ed è chiamata mignonne.87 Tutte quelle belle forme stilizzate, che dovevano elevare la rozza realtà a una sfera di nobile armonia, facevano parte della grande arte di vivere, e non lasciavano un’impronta diretta sull’arte in senso più stretto. I rapporti sociali con la loro amichevole apparenza di spontaneo altruismo e autentica considerazione per gli altri, il fasto e l’etichetta di corte con la loro ieratica solennità e serietà, il lieto addobbo delle nozze e della stanza della puerpera, tutto questo è svanito con tutta la sua bellezza senza lasciare tracce dirette nell’arte e nella letteratura. Il mezzo d’espressione che le unisce non è l’arte, bensì la moda. Ora, la moda è generalmente molto più vicina all’arte di quanto l’estetica accademica voglia ammettere. Con quel suo accentuare artificialmente la bellezza e il movimento del corpo, essa è intimamente legata a una delle arti, cioè la danza. Inoltre il terreno della moda, o se si preferisce del modo di vestirsi, è più vicino, nel XV secolo, a quello dell’arte di quanto siamo portati a credere e non solo perché l’uso frequente di gioielli e la lavorazione del metallo nelle uniformi da combattimento portano nei costumi elementi dovuti alle arti decorative. La moda e l’arte hanno in comune caratteristiche essenziali: per ambedue stile e ritmo sono egualmente indispensabili. Il basso Medioevo ha continuamente espresso, nel modo di vestirsi, un certo stile di cui 84
oggi persino le solennità di un’incoronazione non sono che un pallido riflesso. Nella vita di tutti i giorni le differenze di pellicce e di colore, di cuffia e di cappuccio mostravano il rigido ordinamento delle classi sociali, le cariche di cui onorarsi, lo stato di gioia o di dolore, gli affettuosi rapporti tra amici e innamorati. L’aspetto estetico di tutte le relazioni sociali era elaborato nel modo più espressivo possibile. Più era elevato il grado di bellezza e di moralità di tali relazioni, più la relativa espressione poteva diventare pura arte. La cortesia, l’etichetta trovavano la loro migliore espressione solo nella vita stessa, negli abiti e nello sfarzo. Il lutto invece si esprimeva con forza grazie a una forma d’arte potente e durevole: il monumento sepolcrale, e il suo valore culturale era accresciuto dal legame con la religione. Ma ancora più ricca era la fioritura estetica di questi tre elementi della vita: il coraggio, l’onore e l’amore.
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3. La concezione gerarchica della società
Quando, verso la fine del XVIII secolo, agli albori del Romanticismo, si cominciarono ad assumere come propri i valori culturali medioevali, la prima cosa che si scoprì nel Medioevo fu la cavalleria. Il primo Romanticismo era incline a identificare senz’altro Medioevo ed epoca cavalleresca. Vedeva dappertutto pennacchi ondeggianti, e, per quanto ciò possa sembrare oggi paradossale, in un certo senso aveva ragione. In verità uno studio più approfondito ci ha insegnato che la cavalleria è solo una parte della civiltà di quell’epoca, che lo sviluppo politico e sociale si realizza in gran parte al di fuori di quella forma. L’epoca del più pieno spirito feudale e della fioritura cavalleresca volge al termine già nel XIII secolo; a essa segue il periodo comunale-principesco del Medioevo, nel quale i fattori dominanti, nello stato e nella società, sono la potenza mercantile della borghesia e la potenza finanziaria dei principi che su di essa poggia. Ai nostri giorni ci siamo giustamente abituati a volgere l’attenzione molto di più verso Gand e Augusta, ovvero verso il nascente capitalismo e le nuove forme di stato che verso la nobiltà, che pure ovunque, in misura diversa, aveva perso terreno. La stessa ricerca storica, rispetto al periodo romantico, si è 86
democratizzata. Però anche chi, come noi, è abituato a considerare il tardo Medioevo nel suo aspetto politicoeconomico, deve aver notato continuamente che le stesse fonti, in particolare quelle narrative, danno alla nobiltà e al suo operato un posto molto più importante di quello che saremmo portati ad attribuirle. Ciò vale non solamente per il basso Medioevo, ma anche, addirittura, per il XVII secolo. Questo perché il modo di vivere dei nobili ha conservato il suo ascendente sulla società, anche quando la nobiltà aveva perso ormai da tempo il suo ruolo predominante come classe sociale. Nello spirito del XV secolo la nobiltà è ancora, indiscutibilmente, l’elemento sociale più prestigioso; la sua importanza viene sopravvalutata dai contemporanei, quella della borghesia sottovalutata; non si vede infatti che le vere forze motrici dello sviluppo sociale non risiedono nella vita e nelle azioni della nobiltà guerriera ma altrove. Si dirà dunque che l’errore è dei contemporanei, e dei romantici che ne seguivano passivamente le idee, mentre l’indagine storica moderna ha mostrato come realmente si svolgesse la vita tardomedioevale, in particolare la vita politica ed economica. Ma per la conoscenza della cultura di allora la stessa illusione, nella quale i contemporanei vivevano, conserva il valore di una verità. Anche se la cavalleria non fosse stata altro che una brillante patina sulla realtà della vita, sarebbe ugualmente necessario che lo storico riuscisse a comprendere quella vita con lo splendore di quella vernice. D’altro canto essa è stata molto più di una patina. Il concetto della divisione della società in classi sociali permea nel Medioevo tutte le considerazioni teologiche e politiche. Non si limita assolutamente alle solite tre, clero, nobiltà e terzo stato. Il concetto di classe ha non soltanto un valore maggio87
re, ma anche una portata molto più ampia. In generale ogni gruppo, ogni funzione, ogni mestiere viene visto come una classe, cosicché accanto alla divisione della società in tre classi se ne può trovare una in dodici.1 Perché la classe è “stato”,”estat” o “ordo”, e sottintende l’idea di una entità voluta da Dio. Le parole “estat” e “ordre” si riferiscono nel Medioevo a un gran numero di raggruppamenti umani, che ai nostri occhi risultano molto eterogenei: i ceti così come noi li intendiamo; i mestieri; lo stato matrimoniale accanto a quello verginale; lo stato di peccato o “estat de péchié”; i quattro “estats de corps et de bouche” alla corte: panettieri, coppieri, trinciatori e cuochi; gli ordini clericali: prete, diacono, suddiacono etc.; gli ordini monastici; gli ordini cavallereschi. Nel pensiero medioevale il concetto di “stato” o di “ordine” è legato, in tutti questi casi, all’idea che ogni gruppo rappresenta un’istituzione divina, una parte del sistema cosmico, essenziale e rispettabile gerarchicamente come i troni celesti e le potenze nelle gerarchie angeliche. Nella bella immagine che l’uomo si era fatto dello stato e della società, a ognuna delle classi era asse gnata la sua funzione, non secondo la sua provata utilità ma secondo il suo grado di santità o la sua magnificenza. Si poteva così deplorare la degenerazione del clero o la decadenza delle virtù cavalleresche, senza per questo rinunciare all’immagine ideale, perché se i peccati degli uomini possono impedire la realizzazione dell’ideale, questo resta però il fondamento e la norma del pensiero sociale. L’immagine medioevale della società è statica, non dinamica. Chastellain, lo storiografo di corte di Filippo il Buono e di Carlo il Temerario, il cui ricco lavoro rispecchia ancora una volta meglio di ogni altro il pensiero dell’epoca, vede la so88
cietà dei suoi tempi come un miraggio meraviglioso. Ecco un uomo che, cresciuto tra i campi delle Fiandre, poteva osservare il fantastico sviluppo della potenza borghese nei Paesi Bassi, e che nondimeno, abbagliato dallo splendore emesso dalla magnifica vita borgognona, considera fonte di forza nello stato solamente il coraggio e la virtù della cavalleria. Dio ha creato il popolo perché lavori, coltivi la terra, provveda mediante il commercio al sostentamento materiale; il clero per le opere della fede; la nobiltà per innalzare la virtù e mantenere la giustizia, affinché gli altri si facciano specchio delle azioni e dei costumi delle persone ragguardevoli. Tutti i più alti compiti dello stato, la protezione della Chiesa, la diffusione della fede, la difesa del popolo contro l’oppressione, il mantenimento del benessere pubblico, la lotta contro la violenza e la tirannia, il consolidamento della pace, Chastellain li assegna alla nobiltà. Sincerità, coraggio, moralità e mitezza sono le sue qualità, e la nobiltà di Francia, dice questo ampolloso panegirista, risponde a quell’immagine ideale.2 Attraverso l’intera opera di Chastellain si comprende come egli in realtà veda gli avvenimenti della sua epoca attraverso queste lenti deformanti. La sottovalutazione della borghesia deriva dal fatto che lo stereotipo con cui l’immaginario si rappresentava il terzo stato, non era affatto modellato sulla realtà, era semplice e conciso come una miniatura del calendario o un bassorilievo raffigurante le opere dell’anno: l’agricoltore che sgobba, l’artigiano operoso o il mercante indaffarato. La figura del potente patrizio che soppianta il nobile, il fatto che la nobiltà traesse continuamente linfa vitale e forza dalla borghesia, non trovavano posto tra quelle immagini lapidarie, né tanto meno lo trovava la figura del combattivo membro di una 89
corporazione e il suo ideale di libertà. Nell’idea di terzo stato borghesia e classe operaia rimasero indistinte fino alla Rivoluzione francese; ora emerge la figura del povero contadino, ora quello del ricco e pigro borghese,3 ma quel concetto di terzo stato non ebbe mai una delimitazione conforme alla sua effettiva funzione economico-politica. Un programma di riforme ipotizzato nel 1412 da un frate agostiniano poteva in tutta serietà pretendere che chiunque in Francia non fosse nobile dovesse essere costretto al lavoro artigiano o a quello dei campi, oppure dovesse essere espulso dal paese.4 Si comprende così che un uomo come Chastellain, la cui predisposizione ad accogliere illusioni di stampo etico è pari alla sua ingenuità politica, attribuisca le più alte qualità alla nobiltà e solo virtù meschine e servili al terzo stato. “Pour venir au tiers membre qui fait le royaume entier, c’est l’estat des bonnes villes, des marchans et des gens de labeur, desquels ils ne convient faire si longue exposition que des autres, pour cause que de soy il n’est gaires capable de hautes attributions, parce qu’il est au degré servile.” Le sue virtù sono l’umiltà e lo zelo, l’obbedienza al re e la disponibilità ad accontentare i signori.5 Quella totale incapacità di prevedere un’epoca di emancipazione e potenza della borghesia ha forse contribuito a far sì che Chastellain e quelli che la pensavano come lui e attendevano la salvezza solo dalla nobiltà, avessero una visione così tetra dei loro tempi? I cittadini ricchi sono ancora chiamati da Chastellain senz’altro “vilains”.6 Egli non ha la benché minima idea di quel che può essere l’onore borghese. Filippo il Buono aveva l’abitudine di abusare del suo potere, per far sposare i suoi “archers”, di solito piccoli nobili, o altri servitori della sua 90
casa, con vedove o figlie di ricchi borghesi. I genitori maritavano le loro figlie il più presto possibile, per sfuggire a quelle proposte: per questo motivo una vedova si risposò due giorni dopo i funerali di suo marito.7 Una volta il duca urtò contro l’ostinata opposizione di un ricco birraio di Lilla, che non voleva concedere sua figlia per un simile matrimonio. Il duca fa arrestare la ragazza; il padre, umiliato, si trasferisce con i suoi averi a Tournai, per essere fuori della giurisdizione del duca e poter portare indisturbato la causa davanti al Parlamento di Parigi. Non ne ricava però altro che affanni e preoccupazioni; si ammala di dolore, e la fine della vicenda, che mostra chiaramente il carattere impulsivo di Filippo8 e certo non gli fa onore, è che il duca restituisce la figlia alla madre venuta a supplicarlo, ma aggiunge al perdono scherno e disprezzo. Chastellain, che altrove non teme assolutamente di biasimare il suo signore, simpatizza senza riserve col duca; per il padre offeso non trova altre parole che “ce rebelle brasseur rustique”,”et encore si meschant vilain”.9 Nel suo Temple de Bocace, un cupo, altisonante tempio della fama e della sventura nobiliare, Chastellain ammette il grande finanziere Jacques Coeur non senza una parola di giustificazione, mentre l’esecrabile Gilles de Rais, nonostante i suoi atroci crimini, vi accede facilmente grazie ai suoi alti natali.10 Chastellain ritiene inutile comunicare i nomi dei borghesi che caddero nella grande battaglia per Gand.11 Malgrado questa scarsa considerazione per il terzo stato, è presente nell’ideale cavalleresco stesso e nell’esercizio delle virtù e dei compiti prescritti alla nobiltà, un duplice elemento contenente un’idea del popolo meno sprezzante. Accanto alla derisione del popolano, piena di odio e di disprezzo, che risuona nella canzone fiamminga Kerelslied e nei Prover91
bes del vilain, c’è nel Medioevo un filone che esprime sentimenti opposti, di compassione per il povero popolo che se la passa così male. Si fault de faim perir les innocens Dont les grands loups font chacun jour ventrée, Qui amassent a milliers et a cens Les faulx tresors: c’est le grain, c’est la blée, Le sang, les os qui ont la terre arée Des povres gens, dont leur esperit crie Vengence à Dieu, vé à la seignourie…12 Il tono dei lamenti è sempre lo stesso: il povero popolo, vessato dalle guerre, spremuto dai funzionari, vive nell’indigenza e nella miseria; tutti vivono alle spalle del contadino, che soffre pazientemente, “le prince n’en sçait riens”, e se per caso mormora e inveisce contro l’autorità, “povres brebis, povre fol peuple”, il signore lo ricondurrà, con una sola parola, alla calma e alla ragione.13 In Francia, sotto l’impressione delle terribili devastazioni e dell’insicurezza che la guerra dei Cento Anni aveva trasmesso a tutto il paese, scaturisce da quei lamenti un motivo: il contadino saccheggiato, taglieggiato e maltrattato dalle soldatesche di amici e nemici, derubato dei suoi buoi, scacciato da casa e dalla corte. I lamenti di questo tipo non finiscono più. Verso il Quattrocento li sentiamo espressi dai grandi teologi di tendenze riformiste, da Nicolaas de Clemanges nel suo Liber de lapsu et reparatione justitiae,14 da Gerson nella sua predica politica coraggiosa e commovente tenuta davanti ai reggenti e alla corte sul tema Vivat rex, il 7 novembre 1405, nel palazzo della regina a Parigi. “Le pauvre homme n’aura pain à manger, sinon par advanture aucun peu de seigle ou d’orge; sa pauvre femme 92
gerra, et auront quatre ou six petits enfants au fouyer, ou au four, qui par advanture sera chauld; demanderont du pain, crieront à la rage de faim. La pauvre mere si n’aura que bouter es dens que un peu de pain ou il y ait du sel. Or, devroit bien suffire cette misere: – viendront ces paillars qui chergeront tout… tout sera prins, et happé; et querez qui paye.”15 Jean Jouvenel, il vescovo di Beauvais, ricorda, con amare parole, la miseria del popolo agli Stati Generali di Blois nel 1433, e a quelli di Orléans nel 1439.16 Insieme alle lamentele degli altri ceti per le loro difficoltà, espresse sotto forma di disputa, il tema della miseria del popolo compare nel Quadriloge invectif17 di Alain Chartier, opera alla quale si è ispirato Robert Gaguin con il suo Debat du laboureur, du prestre et du gendarme.18 I cronisti non possono fare a meno, vista la materia trattata, di tornare ogni volta su questo argomento.19 Molinet scrive una Resource du petit peuple in versi,20 il serio Meschinot continua a più riprese ad avvertire che il popolo è negletto: O Dieu, voyez du commun l’indigence, Pourvoyez-y à toute diligence: Las! par faim, froid, paour et misere tremble. S’il a peché ou commis negligence, Encontre vous, il demande indulgence. N’est-ce pitié des biens que l’on lui emble? Il n’a plus bled pour porter au molin, On lui oste draps de laine et de lin, L’eaue, sans plus, lui demeure pour boire.21 In un cahier, presentato al re in occasione della riunione degli Stati Generali a Tours nel 1484, il lamento assume immediatamente il carattere di una discussione politica.22 Ri93
mane tuttavia una compassione del tutto stereotipa e negativa, molto lontana da un qualsiasi programma. Non c’è ancora alcuna traccia di una ben ponderata idea di riforma sociale, e quel tema viene trattato da La Bruyère e da Fénelon, fino in pieno XVIII secolo, perché anche i lamenti di Mirabeau il vecchio, “l’ami des hommes”, non sono poi molto diversi, anche se in essi risuona la voce della prossima ribellione. I sostenitori dell’ideale cavalleresco tardomedioevale approvano d’altra parte queste manifestazioni di pietà nei confronti del popolo: del resto lo stesso dovere cavalleresco di proteggere i deboli lo esigeva. Altrettanto tipica dell’ideale cavalleresco, e altrettanto stereotipa e teorica, è la concezione che la vera nobiltà sia fondata soltanto sulla virtù, e che in fondo tutti gli uomini siano uguali. Il significato storicoculturale di questi due sentimenti viene talvolta sopravvalutato. Si considera l’identificazione della vera nobiltà con la nobiltà d’animo come un trionfo del Rinascimento, e si cita al riguardo il pensiero espresso dal Poggio nel suo De Nobilitate. Si vuol trovare quel sentimento egualitaristico per la prima volta nella voce rivoluzionaria di John Ball: “When Adam delved and Eve span, where was then the gentleman?”,23 e ci si immagina che quel testo facesse tremare la nobiltà. In realtà entrambe le idee erano, già da tempo, luoghi comuni nella stessa letteratura di corte, come lo furono poi nei salotti dell’ancien régime. L’immagine “che la nobiltà nasce da un cuore puro”24 era già diffusa nel XII secolo, sia nella poesia latina sia in quella dei trovatori. Rimase sempre una considerazione di stampo morale e priva di qualsiasi effetto sociale. 94
Dont vient a tous souveraine noblesce? Du gentil cuer, paré de nobles mours. …Nulz n’est villains se du cuer ne lui muet.25 I Padri della Chiesa avevano già tratto l’idea dell’uguaglianza da Cicerone e da Seneca. Gregorio Magno aveva già dato al nascente Medioevo il suo “Omnes namque homines natura aequales sumus”. Ciò era stato ribadito in tutti i modi e con enfasi, senza però una vera intenzione di diminuire la disuguaglianza, perché, per l’uomo medioevale, l’essenza di quell’idea riguardava l’imminente uguaglianza nella morte e non un’irraggiungibile uguaglianza nella vita. In Eustache Deschamps la incontriamo direttamente connessa all’immagine della Danza macabra, nella quale il tardo Medioevo doveva trovare la consolazione per l’ingiustizia del mondo. È lo stesso Adamo che si rivolge alla sua progenie: Enfans, enfans, de moy, Adam, venuz, Qui après Dieu suis peres premerain Créé de lui, tous estes descenduz Naturelment de ma coste et d’Evain; Vo mere fut. Comment est l’un villain Et l’autre prant le nom de gentillesce De vous, frères? dont vient tele noblesce? Je ne le sçay, se ce n’est des vertus, Et les villains de tout vice qui blesce: Vous estes tous d’une pel revestus. Quant Dieu me fist de la boe ou je fus, Homme mortel, faible, pesant et vain, Eve de moy, il nous crea tous nuz, Mais l’esperit nous inspira a plain 95
Perpetuel, puis eusmes soif et faim, Labour, doleur, et enfans en tristesce; Pour noz pechiez enfantent a destresce Toutes femmes; vilment estes conçuz. Dont vient ce nom: villain, qui les cuers blesce? Vous estes tous d’une pel revestuz. Les roys puissans, les contes et les dus, Li gouverneur du peuple et souverain, Quant ilz naissent, de quoy sont ilz vestuz? D’on orde pel …Prince, pensez, sanz avoir en desdain Les povres genz, que la mort tient le frain.26 Si conformano a questo modo di pensare gli entusiasti sostenitori dell’ideale cavalleresco che talvolta, consapevolmente, ricordano le gesta di contadini eroici, per insegnare alla nobiltà “che alle volte quelli che essa ritiene villani sono animati dal massimo coraggio”.27 Perché la premessa a tutte queste idee è questa: la nobiltà è chiamata, adempiendo l’ideale cavalleresco, a sostenere e purificare il mondo. La retta vita e la virtù dei nobili sono il rimedio ai mali del mondo; da esse dipendono il benessere e la pace della Chiesa e del regno, il rispetto della giustizia.28 La guerra è entrata nel mondo con Caino e Abele, e da allora si è diffusa tra i buoni e i cattivi; cominciarla non è bene. Perciò è stato istituito il nobilissimo ed eccellentissimo ordine dei cavalieri, per proteggere, difendere e tranquillizzare il popolo, che di solito è sempre il più provato dai mali della guerra.29 Come risulta dalla vita di Boucicaut, uno dei rappresentanti più puri dell’ideale cavalleresco tardomedioeva96
le, due cose sono state poste dalla volontà divina nel mondo come due colonne, per sostenere l’ordine delle leggi divine e umane, e senza le quali il mondo non sarebbe che confusione; queste due colonne sono la cavalleria e la scienza, “chevalerie et science, qui moult bien conviennent ensemble”.30 “Science, Foy et Chevalerie” sono i tre gigli de Le Chapel des fleurs de lis di Philippe de Vitri; essi rappresentano i tre stati; la cavalleria è chiamata a custodire e a proteggere gli altri due.31 L’attribuzione della stessa dignità alla cavalleria e alla scienza, evidenziata anche dalla tendenza a riconoscere al titolo di dottore e al titolo di cavaliere gli stessi diritti,32 testimonia l’alto contenuto etico dell’ideale cavalleresco. Si onora una forma superiore di volontà e di coraggio accanto a una forma superiore di sapere e di potere; c’è l’esigenza di elevare l’uomo a una sfera più alta, che cerca di esprimersi nella precisa forma di due consacrazioni, di pari dignità, a compiti superiori. Ma, dei due, l’ideale cavalleresco aveva un’efficacia molto più forte e generale, poiché in esso agli elementi etici si univano tanti elementi estetici accessibili a ogni mente.
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4. L’idea di cavalleria
Il pensiero medioevale, in generale, è attraversato e arricchito in tutti i suoi elementi da concezioni religiose. Allo stesso modo, le idee di quel gruppo più ristretto che vive nella sfera della corte e della nobiltà sono imbevute dell’ideale cavalleresco. Persino le concezioni religiose vengono a loro volta inglobate dall’idea di cavalleria: le gesta dell’arcangelo Michele sono “la première milicie et prouesse chevaleureuse qui oncques fut mis en exploict”; la cavalleria lo assume a suo capostipite; come “milicie terrienne et chevalerie humaine” essa è l’immagine sulla terra delle schiere di angeli intorno al trono di Dio.1 Lo stretto legame tra la consacrazione a cavaliere e le idee religiose emerge in modo molto chiaro dalla storia del battesimo cavalleresco di Rienzo.2 Il poeta spagnolo Juan Manuel lo definisce una specie di sacramento, che paragona al battesimo e al matrimonio.3 Le grandi speranze che si riponevano nel senso del dovere della nobiltà, ci permettono forse di definire meglio le idee politiche relative ai suoi compiti? Sì, e cioè l’aspirazione alla pace universale, fondata sulla concordia tra i re, la conquista di Gerusalemme e la cacciata dei turchi. Philippe de Mézières, instancabile nel fare progetti per l’avvenire e che so98
gnava un ordine cavalleresco che potesse superare l’antica forza dei Templari e degli Ospitalieri, ha elaborato nel suo Songe du vieil pelerin un piano che sembrava garantire la salvezza del mondo in un prossimo futuro. Il giovane re di Francia – il lavoro è stato scritto verso il 1388, quando sull’infelice Carlo VI erano riposte ancora tante speranze – non avrà difficoltà a siglare la pace con Riccardo d’Inghilterra, giovane come lui e altrettanto innocente riguardo alle antiche contese. Devono però discutere di persona di questa pace, raccontarsi le straordinarie rivelazioni che l’hanno annunciata, rinunciare a tutti i piccoli interessi che potrebbero creare degli ostacoli se le trattative fossero affidate a ecclesiastici, giuristi o generali. Il re di Francia può certo rinunciare a qualche città di frontiera e a qualche castello. Subito dopo la pace si dovrà preparare la crociata. Dappertutto saranno composte le liti e le controversie, il governo tirannico dei paesi sarà riformato; se la predicazione non dovesse bastare, un concilio generale esorterà i principi della Cristianità a scendere in guerra per convertire i tartari, i turchi, gli ebrei e i saraceni.4 Non è improbabile che questi progetti di così ampio respiro fossero ancora discussi da Mézières nelle sue amichevoli conversazioni col giovane Luigi d’Orléans, nel convento dei celestini a Parigi. Anche l’Orléans, benché più incline a una politica pratica e utilitaristica, viveva tra quei sogni di pace e di crociata.5 Quell’immagine di una società guidata dall’ideale cavalleresco dà una tinta sorprendente al mondo, ma non resiste a lungo. Chiunque si prenda in considerazione tra i noti cronisti francesi del XIV e XV secolo: l’acuto Froissart, gli aridi Monstrelet e d’Escouchy, il solenne Chastellain, l’aulico Olivier de la Marche, l’ampolloso Molinet, tutti, a eccezione di 99
Commines e Thomas Basin, dichiarano pomposamente di scrivere per esaltare la virtù cavalleresca e le più illustri gesta.6 Ma nessuno può mantenere la parola, meno di tutti Chastellain. Mentre Froissart, autore di una imitazione iperromantica dell’epica cavalleresca, Méliador, è estasiato da “prouesse” e “grans apertises d’armes”, la sua penna di giornalista scrive continuamente di tradimenti e crudeltà, di astuta avidità e di soprusi, di azioni di guerra diventate ormai solo occasioni di guadagno. Molinet dimentica sempre il suo proposito cavalleresco e racconta gli avvenimenti, se tralasciamo il suo linguaggio e il suo stile, con chiarezza e semplicità, e solo di tanto in tanto si ricorda dell’entusiasmo originario. Ancora più apparente è la vocazione cavalleresca nel Monstrelet. È come se lo spirito di questi scrittori, uno spirito superficiale a dire il vero, adoperasse la funzione cavalleresca per correggere gli aspetti incomprensibili della loro epoca, come se fosse l’unica forma attraverso la quale dar loro un significato. Nella realtà sia le guerre sia la politica dei loro tempi erano estremamente informi e apparentemente incoerenti. La guerra era per lo più un processo cronico di scorrerie isolate su un grande territorio, la diplomazia uno strumento molto complicato e difettoso, dominata in parte da idee tradizionali molto generiche e in parte da un complesso inestricabile di piccole, singole questioni giuridiche. Incapace di rintracciare in questo le cause dovute a un reale sviluppo della società, la storiografia si servì della finzione dell’ideale cavalleresco per ridurre tutto a un bel quadro fatto di onore principesco e virtù cavalleresca, un bel gioco di nobili regole, e creò l’illusione dell’ordine. In confronto alla concezione di uno storico come Tucidide, questo criterio storiografico 100
esprime un punto di vista particolarmente modesto. La storia si riduce a una relazione di fatti d’arme belli, o apparentemente belli, e cerimonie politiche solenni. Secondo questo punto di vista, chi sono allora i veri testimoni della storia? Gli araldi e i re d’arme, secondo Froissart; d’altro canto, sono loro ad assistere a quelle nobili azioni e sono tenuti ufficialmente a giudicarle; sono loro gli esperti in materia di gloria e di onore, e la gloria e l’onore sono l’oggetto della storiografia.7 Gli statuti del Toson d’Oro prescrivevano l’annotazione dei fatti d’arme cavallereschi; Lefèvre de Saint Remy, detto Toison d’or, o l’araldo Berry possono essere citati come esempi del re d’armi-storiografo. In quanto ideale di vita nobile, il pensiero cavalleresco si configura in modo molto singolare. È, nella sua essenza, un ideale estetico, formato da una fantasia variopinta e da un’emozione edificante. Ma vuole essere un ideale etico: la mentalità medioevale poteva dare un ruolo nobile a un ideale di vita solamente ponendolo in relazione con la pietà e la virtù. Riguardo a questa funzione etica la cavalleria fallisce sempre; la sua origine peccaminosa la sminuisce. Perché il nocciolo dell’ideale resta l’orgoglio elevato a bellezza. Chastellain l’ha compreso perfettamente, quando dice: “La gloire des princes pend en orguel et en haut péril emprendre; toutes principales puissances conviengnent en un point estroit qui se dit orgueil”.8 Stilizzato ed esaltato dall’orgoglio, è nato l’onore, polo della vita nobiliare. Mentre nelle relazioni sociali dei ceti medi e inferiori la molla principale, secondo Taine,9 è l’interesse, il grande movente dell’aristocrazia è l’orgoglio: “or, parmi les sentiments profonds de l’homme, il n’en est pas qui soit plus propre à se transfor101
mer en probité, patriotisme et conscience, car l’homme fier a besoin de son propre respect, et, pour l’obtenir, il est tenté de le mériter”. Taine ha indubbiamente la tendenza a idealizzare l’aristocrazia. La vera storia delle aristocrazie offre dovunque un’immagine in cui l’orgoglio è associato a un egoismo senza limiti. Ciononostante le parole di Taine, come descrizione dell’ideale di vita aristocratico, conservano la loro efficacia. Sono simili alla definizione che Burckhardt fa del senso dell’onore rinascimentale: “Es ist die rätselhafte Mischung aus Gewissen und Selbstsucht, welche dem modernen Menschen noch übrig bleibt, auch wenn er durch oder ohne seine Schuld alles übrige, Glauben, Liebe und Hoffnung eingebüsst hat. Dieses Ehrgefühl verträgt sich mit vielem Egoismus und grossen Lastern und ist ungeheurer Täuschungen fähig; aber auch alles Edle, das in einer Persönlichkeit übrig geblieben, kann sich daran anschliessen und aus diesem Quell neue Kräfte schöpfen”.10 Ambizione personale e desiderio di gloria, che sembrano talvolta manifestazioni di un alto senso dell’onore, talvolta al contrario il prodotto di un orgoglio ignobile, sono stati raffigurati da Burckhardt come le peculiarità dell’uomo del Rinascimento.11 Egli contrappone all’onore e all’orgoglio di classe, che ancora animavano la società medioevale fuori d’Italia, un universale e umano sentimento di onore e gloria, al quale tende lo spirito italiano da Dante in poi, sotto la forte influenza del mondo classico. Mi sembra che questo sia uno dei casi in cui Burckhardt ha reputato troppo grande la distanza che separa il Medioevo dal Rinascimento, l’Europa occidentale dall’Italia. Quel desiderio rinascimentale di gloria e di onore è sostanzialmente simile all’ambizione cavalleresca di un tempo, di origine francese, è l’onore di classe do102
tato di una valenza molto più ampia, spogliato dell’elemento feudale e fecondato dal pensiero antico. Il desiderio appassionato di essere lodato dai posteri non è estraneo al cavaliere di corte del XII secolo o alla rozza soldataglia francese o tedesca del XIV, nella stessa misura in cui non lo è per l’animo nobile del Quattrocento. Alla conclusione dell’accordo per il Combat des trente (27 marzo 1351), stipulato tra messere Robert de Beaumanoir e il capitano inglese Robert Bamborough, Froissart fa dire a quest’ultimo: “E faremo in modo che se ne parlerà in avvenire, nelle sale e nei palazzi, sulle piazze e negli altri luoghi della terra”.12 Chastellain, ancora totalmente medioevale nel suo culto dell’ideale cavalleresco, esprime tuttavia già pienamente lo spirito del Rinascimento, quando dice: Honneur semont toute noble nature D’aimer tout ce qui noble est en son estre. Noblesse aussi y adjoint sa droiture.13 Altrove dice che tra gli ebrei e i pagani l’onore era più caro e rispettato, poiché esso veniva osservato in quanto tale e con la speranza di lodi terrene, mentre i cristiani hanno ricevuto l’onore dalla fede e dalla luce, con la speranza di una ricompensa celeste.14 Già Froissart raccomanda il coraggio senza alcun motivo religioso o morale, unicamente in nome della gloria e dell’onore, e, enfant terrible com’è, della carriera.15 La ricerca cavalleresca di gloria e di onore è connessa in modo inseparabile a un culto degli eroi in cui confluiscono elementi medioevali e rinascimentali. La vita cavalleresca è un’imitazione, sia che si tratti degli eroi del ciclo bretone sia di quelli dell’antichità. D’altro canto, all’epoca della fioritura del romanzo cavalleresco, Alessandro era già stato com103
pletamente assunto nella sfera delle idee della cavalleria. Il mondo antico non era ancora distinto, nella fantasia, da quello della Tavola Rotonda. In una poesia Re Renato descrive, in una variopinta miscellanea, le tombe di Lancillotto, Cesare, Davide, Ercole, Paride e Troilo l’una accanto all’altra alla rinfusa, tutte ornate dei loro blasoni.16 La stessa cavalleria era considerata di origine romana. “Et bien entretenoit,” si diceva di Enrico V d’Inghilterra, “la discipline de chevalerie, comme jadis faisoient les Rommains.”17 Lo studio dei classici, man mano che cresce, definisce con più chiarezza l’idea che si ha del mondo antico. Il nobile portoghese Vasco de Lucena, che traduce Quinto Curzio per Carlo il Temerario, dichiara, come aveva già fatto Maerlant un secolo e mezzo prima, di offrirgli con il suo lavoro un Alessandro autentico, liberato dalle bugie con cui tutte le storie correnti abbellivano la sua biografia.18 Tuttavia più forte che mai è il suo intento di offrire al principe un esempio da imitare, e in pochi principi il desiderio di emulare gli eroi dell’antichità con grandi e magnifiche gesta era tanto cosciente come in Carlo il Temerario. Fin da ragazzo si era fatto leggere le gesta eroiche di Gauvain e di Lancillotto; più tardi preferì gli eroi dell’antichità. Prima di andare a dormire dedicava abitualmente un paio d’ore alla lettura di “les haultes histoires de Romme”.19 Gli erano particolarmente cari Cesare, Annibale e Alessandro, “lesquelz il vouloit ensuyre et contrefaire”.20 Tutti i contemporanei hanno attribuito grande importanza a questa consapevole imitazione come impulso alle sue azioni. “Il désiroit grand gloire,” dice Commines, “qui estoit ce qui plus le mettoit en ses guerres que nulle autre chose; et eust bien voulu ressembler à ces anciens princes dont il a esté tant parlé après leur mort.”21 Chastellain lo vide quando 104
mise in pratica, per la prima volta, quel suo desiderio di emulare grandi azioni e bei gesti antichi. Fu in occasione del suo primo ingresso come duca a Malines, nel 1467. Doveva punire una ribellione; la causa fu esaminata e giudicata secondo tutte le regole, uno dei capi fu condannato a morte, altri all’esilio perpetuo. Si innalza il patibolo sul mercato, il duca siede proprio di fronte; il colpevole è già in ginocchio e il boia snuda la spada quando Carlo, che fino ad allora aveva nascosto la sua intenzione, esclama: “Ferma! Togligli la benda e fallo alzare”. “Et me parçus de lors,” dice Chastellain, “que le coeur luy estoit en haut singulier propos pour le temps à venir, et pour acquérir gloire et renommée en singulière oeuvre.”22 Proprio l’esempio di Carlo il Temerario mette in luce come la radice dello spirito del Rinascimento, quell’aspirazione a una vita nobile sul modello dell’antica, sia senz’altro l’ideale cavalleresco. Se lo si paragona a un virtuoso italiano, si nota solo una differenza di erudizione e di gusto. Carlo leggeva i suoi classici ancora in traduzioni, e la sua forma di vita è ancora tipica del gotico fiammeggiante. La stessa inseparabilità degli elementi cavallereschi e rinascimentali si ritrova nel culto dei nove prodi, “les neuf preux”. Quel gruppo di nove eroi, tre pagani, tre ebrei, tre cristiani, deriva dal mondo delle imprese cavalleresche; lo si incontra per la prima volta nei Voeux du paon di Jacques de Longuyon scritto intorno al 1312.23 La scelta degli eroi tradisce lo stretto rapporto con i cicli cavallereschi: Ettore, Cesare, Alessandro – Giosuè, Davide, Giuda Maccabeo – Artù, Carlo Magno e Goffredo di Buglione. Eustache Deschamps riprende il tema dal suo maestro Guillaume de Machaut, dedicandogli molte poesie.24 Probabilmente è stato lui a soddi105
sfare quel bisogno di simmetria, peculiare dello spirito tardomedioevale, aggiungendo ai nove preux nove preuses. A tale scopo raccolse, da Giustino e da altre fonti letterarie, alcune figure classiche, in parte davvero singolari: Pentesilea, Tomiride, Semiramide, e storpiò in malo modo la maggior parte dei nomi. Ciò non impedì al tema di affermarsi, e così si ritrovano preux e preuses in scritti posteriori, come Le Jouvencel. Questi personaggi sono raffigurati sugli arazzi, e si inventano per loro dei blasoni; all’ingresso di Enrico VI d’Inghilterra a Parigi nel 1431 tutti e diciotto lo precedono.25 Quanto sia rimasta viva questa immagine durante il XV secolo e anche più tardi, lo prova il fatto che se ne facevano parodie: Molinet si diverte scrivendo su nove “preux de gourmandise”,26 e ancora Francesco i si vestiva di tanto in tanto “à l’antique”, per rappresentare uno dei preux.27 Deschamps ha ampliato il tema anche in un’altra maniera, oltre all’aggiunta di pendant femminili. Egli collegò quel culto dell’antica virtù eroica al presente, lo introdusse nella sfera del nascente patriottismo militare francese aggiungendo ai nove, come decimo preux, un contemporaneo e connazionale: Bertrand du Guesclin.28 Anche quell’idea ebbe successo: Luigi d’Orléans fece sistemare nella sala di Coucy la statua del valoroso conestabile come decimo preux.29 Fu con ragione che l’Orléans si prese cura in modo particolare della memoria di du Guesclin; egli stesso era stato tenuto a battesimo dal conestabile, e questi in quell’occasione gli aveva messo in mano una spada. Come decima donna della serie ci si aspetterebbe Giovanna d’Arco, che in effetti, nel XV secolo, è stata idealmente elevata a quel rango. Louis de Laval, la cui nonna Giovanna aveva sposato in seconde nozze du 106
Guesclin, e fratello dei compagni di lotta di Giovanna d’Arco, incaricò il suo cappellano Sébastien Mamerot di scrivere una storia dei nove eroi e delle nove eroine, che diventano dieci con du Guesclin e Giovanna d’Arco. Però nell’opera di Mamerot, rimasta manoscritta, mancano entrambi i nomi,30 e niente indica che l’idea, in merito a Giovanna d’Arco, abbia avuto successo. Il culto nazional-militare degli eroi, che si fa strada in Francia nel XV secolo, si rivolge soprattutto alla figura del coraggioso e scaltro guerriero bretone. Un gruppo eterogeneo di generali, che aveva combattuto accanto o contro Giovanna, occupa nell’immaginario dei contemporanei un posto molto più elevato che non la contadinella di Domrémy. Molti parlano di lei senza commozione o venerazione, più che altro come di una curiosità. Chastellain, che all’occasione sapeva mettere stranamente da parte i suoi sentimenti borgognoni per far posto a un patetico lealismo francese, compone un “mystère” sulla morte di Carlo VII, nel quale tutti i capitani che hanno combattuto al servizio del re contro gli inglesi, come in una ideale galleria di valorosi, recitano una strofa che descrive le loro gesta: ci sono Dunois, Jean de Bueil, Xaintrailles, La Hire e molti altri meno noti.31 Sembra quasi una serie di generali di Napoleone, ma manca la Pulzella. I principi borgognoni serbavano, nel loro tesoro, un gran numero di reliquie eroiche di natura sentimentale: una spada di San Giorgio adorna del suo stemma, una spada appartenuta a “messire Bertran de Claiquin” (du Guesclin), un dente del cinghiale selvatico di Garin le Loherain, il salterio32 su cui San Luigi aveva studiato nella sua infanzia.33 Come coincidono qui il mondo fantastico cavalleresco e quello religioso! Un altro passo, e ci troviamo di fronte al107
l’omero di Livio, che venne solennemente accolto da papa Leone X, come una reliquia.34 Il culto tardomedioevale degli eroi trova la sua espressione letteraria nella biografia del cavaliere perfetto. Talvolta si tratta di figure diventate già leggendarie, come quella di Gilles de Trazegnies; le più importanti però sono quelle di contemporanei come Boucicaut, Jean de Bueil, Jacques de Lalaing. Jean le Meingre, comunemente detto “le maréchal Boucicaut”, aveva servito il suo paese in momenti terribili. Con Giovanni senza Paura era stato a Nicopoli nel 1396, dove la cavalleria francese, partita tranquillamente per scacciare di nuovo il Turco dall’Europa, fu distrutta dal sultano Bayazid. Fu fatto nuovamente prigioniero ad Azincourt nel 1415, e morì in prigionia sei anni dopo. Un suo ammiratore, mentre era ancora vivo, ha descritto le sue gesta sulla base di informazioni e documenti molto precisi,35 non tanto per tramandare un frammento di storia, quanto l’immagine del cavaliere ideale. Gli aspetti reali di questa vita movimentata scompaiono dietro la bella finzione dell’immagine cavalleresca. Ne Le Livre des faicts, la terribile catastrofe di Nicopoli ha solo un colore sbiadito. Boucicaut viene dipinto come il tipo del cavaliere serio, pio e nello stesso tempo cortese e colto. Il disprezzo delle ricchezze, che deve contraddistinguere il vero cavaliere, è espresso dalle parole del padre di Boucicaut, che non aveva voluto né aumentare né diminuire il suo patrimonio, quando dice che se i suoi figli si dimostreranno onesti e coraggiosi, avranno abbastanza; se non varranno niente, sarebbe un peccato lasciar loro così tanto.36 La religiosità di Boucicaut ha un carattere puritano. Si alza presto, e rimane ben tre ore a pregare; per quanto abbia fretta o sia 108
occupato, ascolta ogni giorno in ginocchio due messe. Il venerdì si veste di nero; la domenica e i giorni festivi fa a piedi un pellegrinaggio o si fa leggere le vite dei santi, o le storie “des vaillans trespassez, soit Romains ou autres”, oppure parla di cose devote. È misurato e sobrio, parla poco e per lo più di Dio, dei santi, della virtù o della cavalleria. Ha abituato anche tutti i suoi servitori alla devozione e alla temperanza, e ha fatto loro perdere l’abitudine alle bestemmie.37 È uno zelante sostenitore della nobile, casta esaltazione dell’amata da parte del cavaliere poeta; fonda l’ordine “de l’écu verd à la dame blanche”, in difesa delle donne, ciò che gli procurò le lodi di Christine de Pisan.38 A Genova, dove venne nel 1401 ad assumere il comando in nome di Carlo VI, rispose una volta cortesemente agli inchini di due dame, che aveva incontrato. “Monseigneur,” disse il suo scudiero, “qui sont ces deux femmes à qui vous avez si grans reverences faictes?”; “Huguenin,” dit-il, “je ne sçay.” Lors luy dist: “Monseigneur, elles sont filles communes”. “Filles communes,” dist-il, “Huguenin, j’ayme trop mieulx faire reverence à dix filles communes que avoir failly à une femme de bien.”39 Il suo motto è: “Ce que vous vouldrez”, volutamente misterioso, come si addice a un motto. Intende con questo il suo atto di sottomissione alla dama alla quale ha giurato fedeltà, o vi si esprime una rassegnazione generale nei confronti della vita, concepibile soltanto in un’epoca molto più tarda? Con tali colori di pietà, di modestia, di sobrietà e di fedeltà si dipingeva il bel ritratto del cavaliere ideale. Il fatto che il vero Boucicaut non si sia sempre adeguato a esso non meraviglia nessuno. La violenza e l’avarizia, così diffuse nella sua classe, non sono estranee neppure a questa nobile figura.40 109
Il cavaliere modello viene visto però anche sotto una sfumatura completamente diversa. Il romanzo biografico su Jean de Bueil, Le Jouvencel, fu scritto circa mezzo secolo dopo la vita di Boucicaut, e ciò spiega in parte la diversa concezione che vi si esprime. Jean de Bueil era un capitano che aveva combattuto sotto la bandiera di Giovanna d’Arco, e in seguito aveva preso parte alla rivolta della Praguerie e alla guerra “du bien public”. Morì nel 1477. Caduto in disgrazia presso il re, aveva dettato a tre dei suoi servitori, verso il 1465, una storia della sua vita, intitolata Le Jouvencel.41 Contrariamente alla vita di Boucicaut, nella quale la forma storica nasconde un’anima romantica, Le Jouvencel mostra, sebbene espressi in forma poetica, marcati tratti realistici, per lo meno nella prima parte, e il lavoro finisce per scadere in un romanticismo sdolcinato forse soltanto perché scritto da più autori. La terribile incursione delle bande francesi in territorio svizzero nel 1444, e la battaglia di Sankt Jacob an der Birs, dove i contadini di Basilea trovarono le loro Termopili, vi sono descritte con i toni melensi di un banale amore pastorale. In forte contrasto con tutto questo la prima parte di Le Jouvencel dà un quadro della guerra di allora che, per sobrietà e autenticità, trova poco riscontro altrove. Del resto anche questi autori non parlano di Giovanna d’Arco, sebbene il loro maestro fosse stato suo fratello d’armi; sono le sue gesta eroiche che vengono esaltate, e come deve essere stato bravo costui a raccontarle. In quest’opera comincia a emergere lo spirito della Francia militarista, che creerà più tardi le figure del mousquetaire, del grognard e del poilu. L’intento cavalleresco traspare solo nell’esordio, dove si esortano i giovani a imparare la vita dell’uomo d’armi da questo scrit110
to, che li mette in guardia dall’orgoglio, dall’invidia e dall’avidità. Sia l’elemento pio, sia quello amoroso, presenti nel Boucicaut, mancano nella prima parte de Le Jouvencel. Ciò che incontriamo è la miseria della guerra, le sue privazioni e i suoi disagi e il coraggio necessario per sopportare la miseria e affrontare i pericoli. Un castellano riunisce la sua guarnigione e conta solo quindici cavalli, bestie magre e quasi tutte sferrate. Mette due uomini su ogni cavallo, ma anche tra questi molti sono orbi da un occhio e storpi. Per poter rammendare i vestiti del capitano si va a razziare la biancheria del nemico. Una mucca rubata viene cortesemente restituita al capitano nemico su sua richiesta. Leggendo la descrizione di una marcia notturna attraverso i campi si sentono l’aria e il silenzio della notte.42 In Le Jouvencel avvertiamo il passaggio dal tipo del cavaliere a quello del militare nazionale: l’eroe del libro libera i poveri prigionieri, a condizione che diventino buoni francesi. Raggiunti i più alti onori, vorrebbe tornare a quella vita avventurosa e libera. Un tipo di cavaliere così realistico (che pure, come si è detto, non riesce a rimanere coerente fino alla fine della narrazione) non poteva ancora essere creato dalla letteratura borgognona, molto più arcaica, solenne e frenata dalle forme feudali di quella francese. Jacques de Lalaing è, accanto a Le Jouvencel, una curiosità antiquata, scritta sul cliché degli antichi cavalieri erranti come Gilles de Trazegnies. Il libro delle gesta di questo venerato eroe dei borgognoni parla infatti più di romantiche giostre che di vera guerra.43 La psicologia del coraggio guerriero forse non è mai stata espressa, né prima né dopo, con tanta semplicità ed efficacia come nelle seguenti parole de Le Jouvencel44: “C’est joyeuse chose que la guerre… On s’entr’ayme tant à la guerre. Quant 111
on voit sa querelle bonne et son sang bien combatre, la larme en vient à l’ueil. Il vient une doulceur au cueur de loyaulté et de pitié de veoir son amy, qui si vaillamment expose son corps pour faire et acomplir le commandement de nostre createur. Et puis on se dispose d’aller mourir ou vivre avec luy, et pour amour ne l’abandonner point. En cela vient une délectation telle que, qui ne l’a essaiié, il n’est homme qui sceust dire quel bien c’est. Pensez-vous que homme qui face cela craingne la mort? Nennil; car il est tant reconforté, il est si ravi, qu’il ne scet où il est. Vraiement il n’a paour de rien”. Queste parole potrebbero essere pronunciate da un soldato moderno come da un cavaliere del XV secolo. Non hanno nulla a che fare con l’ideale cavalleresco in quanto tale. Mostrano la spinta emotiva dell’autentico animo guerriero: il palpitante abbandono del gretto egoismo nella concitazione del pericolo, la profonda commozione davanti al valore del compagno, l’ebbrezza della fedeltà e del sacrificio. Questa emozione ascetica primitiva è la base dalla quale l’ideale cavalleresco si eleva a una nobile idea di perfezione virile, affine alla kalokagathia greca, un’intensa aspirazione a una vita bella, l’energia che percorre molti secoli… e anche la maschera, dietro la quale si poté nascondere un mondo di egoismo e di violenza.
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5. Il sogno di gesta eroiche e d’amore
Dovunque si professi con coerenza l’ideale cavalleresco, si accentua il suo elemento ascetico. Al suo primo fiorire, negli ordini cavallereschi religiosi dell’età delle crociate, si associò spontaneamente, anzi inevitabilmente, all’ideale monastico. Man mano che la realtà smentì quell’ideale, questo si ritirò sempre di più nelle sfere della fantasia, per conservarvi l’aspetto di una nobile ascesi, raramente riscontrabile nella società. Il cavaliere errante, al pari del Templare, è povero e libero da legami terreni. L’ideale del nobile combattente senza beni, dice William James, domina ancora oggi “sentimentally if not practically, the military and aristocratic view of life. We glorify the soldier as the man absolutely unencumbered. Owning nothing but his bare life, and willing to toss that up at any moment when the case commands him, he is the representative of unhampered freedom in ideal directions”.1 La compassione, la giustizia, la fedeltà, legami tra l’ideale cavalleresco e alti elementi della coscienza religiosa non sono dunque affatto artificiali o superficiali, tuttavia non sono questi a fare della cavalleria la forma di vita bella per eccellenza. E neanche le sue profonde radici nell’animo combattivo dell’uomo avrebbero potuto innalzarla così, se l’amore 113
per la donna non fosse stato la fiamma ardente che recò a quel complesso di sentimenti e di idee il calore della vita. Il profondo tratto ascetico, il coraggioso spirito di sacrificio, propri dell’ideale cavalleresco, sono strettamente legati alla matrice erotica di questo modo di vivere, e forse sono solamente la rielaborazione in chiave etica di desideri insoddisfatti. Non è certamente soltanto nella letteratura e nelle arti figurative che il desiderio d’amore trova la sua espressione e la sua stilizzazione. L’esigenza di dare una forma e uno stile nobili all’amore trova un campo fertile per svilupparsi anche nello stesso modo di vivere, nelle abitudini cortesi, nei giochi di società, negli scherzi e nello sport, dove diventa continuamente sublime e romantico; in ciò la vita imita la letteratura, ma questa alla fine trae tutti i suoi modelli dalla vita stessa. L’aspetto cavalleresco dell’amore è nato, in fondo, non nella letteratura ma nella vita, dove il tema del cavaliere e dell’amata era già presente. Il cavaliere e l’amata, l’eroe per amore, è il motivo primario, immutabile e romantico, che spunta e spunterà sempre dappertutto. È la trasfigurazione più immediata della passione sensuale in una abnegazione etica o quasi. Essa scaturisce direttamente dal bisogno di mostrare il proprio coraggio al cospetto della donna, di correre dei pericoli e di mostrarsi forti, di soffrire e di spargere sangue, un’aspirazione che ogni ragazzo di sedici anni conosce. La manifestazione e la realizzazione del desiderio, che sembrano irraggiungibili, vengono sostituiti dall’azione eroica compiuta per amore. Con ciò la morte si pone subito come alternativa alla piena soddisfazione, e l’appagamento è assicurato in ambedue i casi. Ma il sogno del gesto eroico per amore, che ora colma e 114
inebria il cuore appassionato, cresce e prospera come una pianta rigogliosa. Presto però il primo, semplice tema si esaurisce; lo spirito esige nuove variazioni sullo stesso tema, e la passione stessa impone colori più forti al sogno di sofferenza e di rinuncia. Il gesto eroico deve consistere nella liberazione o nel salvataggio della donna stessa dal pericolo imminente. Con ciò un tratto più veemente è aggiunto al motivo originale. Prima è lo stesso protagonista che vuol soffrire per la donna; ma presto a questo si associa il desiderio di salvare dalle pene proprio la donna desiderata. Forse il tema del salvataggio va sempre ricondotto alla salvaguardia della verginità, quindi all’allontanamento dell’altro, per preservare la donna per sé? In ogni caso compare qui il motivo erotico-cavalleresco per eccellenza: il giovane eroe che libera la vergine. Anche se l’insidiatore è un innocente drago, il momento sessuale è sempre presente. Com’è ingenuo e sincero, per esempio, il messaggio del famoso quadro di Burne Jones, dove la figura femminile moderna della ragazza, proprio per la castità della rappresentazione, tradisce immediatamente l’ispirazione sensuale. La liberazione della vergine è il motivo romantico più antico e sempre presente. Come è possibile che una interpretazione mitologica ormai superata vi abbia potuto scorgere la riproduzione di un fenomeno naturale, quando l’immediatezza dell’idea può essere sperimentata quotidianamente da ognuno di noi! Alle volte tale motivo scompare per qualche tempo dalla letteratura, a causa della sua ripetitività, ma poi ritorna ogni volta in forme nuove, per esempio nel romanticismo cinematografico del cowboy, e nell’idea d’amore al di fuori della letteratura conserva indubbiamente sempre la sua intensità. 115
È difficile stabilire in che misura si manifestino, nella rappresentazione dell’eroe-amante, l’idea maschile e quella femminile dell’amore. L’immagine di colui che soffre per amore è quella che l’uomo vuole avere di se stesso o è la donna che vuole che lui si mostri così? È molto più probabile il primo caso. In generale, nella raffigurazione dell’amore come forma culturale, si esprime quasi esclusivamente la concezione maschile, per lo meno fino a poco tempo fa. La visione che la donna ha dell’amore rimane sempre velata e nascosta; è un segreto più delicato e profondo, e non ha bisogno della sublimazione romantica nell’eroico, perché grazie al suo carattere di dedizione e al suo legame indissolubile con la maternità si innalza comunque sopra il livello erotico-egoistico, senza dover fantasticare su eroismi e sacrifici. Non è soltanto perché la letteratura è stata prodotta da uomini che in essa manca in gran parte l’espressione femminile dell’amore, ma anche perché per la donna, nell’amore, l’elemento letterario è molto meno indispensabile. La figura del nobile salvatore, che deve soffrire per l’amata, esprime in primo luogo l’idea che l’uomo vuole avere di sé. La tensione del suo sogno di liberatore è accresciuta dal suo agire in incognito e dal riconoscimento che avviene solamente dopo il gesto eroico. In questo conservare l’incognito c’è in verità anche un motivo romantico che deriva dalla visione femminile dell’amore. In tutta l’apoteosi della forza e del coraggio virili, raffigurati dal guerriero a cavallo, confluiscono il bisogno femminile di venerare la forza e l’orgoglio fisico maschile. La società medioevale ha coltivato questi motivi romantici primitivi con un ardore giovanile. Mentre nelle forme letterarie più nobili questo tema è diventato più etereo, misurato 116
e spirituale o espressione ancora più viva di desiderio, il romanzo cavalleresco continua a rinnovarsi, e mantiene, con le sue infinite rielaborazioni della vicenda romantica, un fascino per noi quasi incomprensibile. Noi siamo portati a considerare il XIV secolo già avulso da fantasie infantili, e il Méliador di Froissart o il Perceforest tarde fioriture dei racconti d’avventura cavallereschi, anacronismi, ma in realtà non lo sono, così come non lo è il romanzo scandalistico al giorno d’oggi; è solo che tutto ciò non è letteratura pura ma, per così dire, arte applicata. È il bisogno di modelli per la fantasia erotica, che continua a vivificare e rinnovare questa letteratura. In pieno Rinascimento essi rivivono, d’altro canto, nei romanzi di Amadigi. E se, ancora nella seconda metà del XVI secolo, de La Noue ci assicura che i romanzi di Amadigi provocano un “esprit de vertige” nella generazione che pure era stata temprata dal Rinascimento e dall’Umanesimo, figuriamoci quale doveva essere la sensibilità romantica della generazione del 1400 ancora così poco raffinata. L’estasi del sentimentalismo amoroso non andava ricercata solo nella letteratura ma anche recitata e contemplata. Questo spettacolo può avvenire in due modi: la rappresentazione drammatica e lo sport. Nel Medioevo quest’ultimo è di gran lunga il più importante. Il dramma era ancora per lo più a carattere religioso; eccezionalmente trattava vicende sentimentali. Lo sport medioevale, al contrario, e in primo luogo il torneo, era di per sé altamente drammatico e nello stesso tempo decisamente erotico. Lo sport conserva, in qualsiasi periodo, un tale elemento drammatico ed erotico: un incontro di calcio o una regata dei nostri giorni sottende i valori sentimentali di un torneo medioevale, molto più di quanto forse possano immaginare gli atleti e gli stessi spetta117
tori. Ma mentre lo sport moderno è tornato a una semplicità naturale, quasi ellenica, il torneo medioevale, per lo meno quello tardomedioevale, è uno sport sovraccarico di ornamenti e pesanti drappi, in cui l’elemento drammatico e romantico è stato sviluppato volutamente in un modo tale da adempiere direttamente la funzione stessa del dramma. Il tardo Medioevo è uno di quei periodi finali nei quali la vita culturale delle classi superiori si è trasformata quasi completamente in un gioco di società. Poiché la realtà è impetuosa, dura e crudele, la si riconduce al bel sogno dell’ideale cavalleresco e su questo si costruisce il gioco della vita. Si recita con la maschera di Lancillotto; è un’illusione gigantesca, ma la sua lampante falsità si può sopportare, poiché un tono scherzoso rende meno grave la bugia. In tutta la cultura cavalleresca del XV secolo c’è un equilibrio labile tra la serietà sentimentale e lo scherno garbato. Ogni concetto cavalleresco di onore, fedeltà e nobile amore viene trattato con la massima serietà, tuttavia di quando in quando quel fare compassato si lascia andare a una risata. Doveva essere l’Italia il paese dove questo accordo profondo si muta per la prima volta in parodia consapevole: nel Morgante di Pulci e nell’Orlando Innamorato di Boiardo. Ma anche allora il sentimento romantico-cavalleresco riprende talvolta il sopravvento, quando nell’Ariosto la derisione aperta cede il posto a quel mirabile superamento dello scherzo o della serietà, in cui la fantasia cavalleresca trova la sua espressione classica. Come si potrebbe allora dubitare della serietà dell’ideale cavalleresco nella società francese intorno al 1400? Nel nobile Boucicaut, tipo letterario del cavaliere modello, il fondo romantico della vita cavalleresca ideale è ancora più forte che in chiunque altro. È l’amore, egli dice, che più di ogni 118
altra cosa fa nascere nei giovani cuori il desiderio di una combattività nobile e cavalleresca. Egli stesso serve la sua dama nelle classiche forme cortesi: “toutes servoit, toutes honnoroit pour l’amour d’une. Son parler estoit gracieux, courtois et craintif devant sa dame”.2 C’è un contrasto per noi quasi inconcepibile tra l’atteggiamento letterario di un uomo come Boucicaut e l’amara realtà della sua carriera. Egli fu sempre una figura di primo piano nella spietata realtà politica del suo tempo. Nel 1388 compie un primo viaggio politico in Oriente, durante il quale inganna il tempo componendo, insieme a due o tre fratelli d’arme, Filippo d’Artois, il siniscalco di costui e un certo Cresecque, una difesa poetica dell’amore nobile e fedele, che si addice al cavaliere perfetto: Le livre des cent ballades.3 E questo va bene. Ma di lì a sette anni, dopo aver partecipato come mentore del giovane conte di Nevers (il futuro Giovanni senza Paura) alla sconsiderata avventura cavalleresca della spedizione militare contro il sultano Bayazid, dopo aver assistito alla terribile catastrofe di Nicopoli, dove tutti e tre i suoi compagni “poeti” persero la vita, dopo aver visto trucidare i giovani francesi fatti prigionieri, non si potrebbe immaginare che quel gioco cortese e quell’illusione cavalleresca si fossero affievoliti in un austero uomo d’armi? Avrebbe dovuto imparare, a nostro avviso, a smettere di guardare il mondo attraverso quella lente deformante, e invece continua a dedicarsi al culto antiquato della cavalleria, come testimonia l’ordine “de l’escu verd à la dame blanche” da lui fondato in difesa delle donne oppresse, col quale intervenne nel bel mezzo della disputa letteraria tra l’ideale severo e quello frivolo dell’amore, che dal 1400 appassionava i circoli di corte francesi. 119
Questa nobilitazione dell’amore nella letteratura e nella vita di società ci sembra spesso intollerabilmente fatua e decisamente ridicola. È il destino di ogni forma romantica logorarsi come strumento della passione. Nel lavoro di molti autori, nei versi artificiosi, nelle descrizioni dei magnifici tornei, la passione non risuona più; risuona ancora solamente nella voce di pochissimi poeti veri. Ci si può rendere conto dell’importanza che ha avuto tutto quel lavoro, letteratura o arte inferiore, come ornamento della vita, come espressione del sentimento, solo infondendovi nuovamente la stessa viva passione. A che cosa serve, quando si leggono le poesie d’amore e le descrizioni dei tornei, tutta la conoscenza e la rappresentazione veritiera dei dettagli storici se non riusciamo a vedere gli occhi, chiari o scuri, sotto l’arco delle sopracciglia e delle strette fronti, ormai polvere da secoli e che un tempo furono più importanti di tutta la letteratura, che rimane un mucchio di macerie? Oggi, soltanto un barlume casuale può farci rivedere chiaramente per un attimo il significato appassionato di quelle forme culturali. Nella poesia La voeu du Héron Jan van Beaumont, esortato a fare il voto di battaglia cavalleresco, parla così: Quant sommes ès tavernes, de ces fors vins buvant, Et ces dames delès qui nous vont regardant, A ces gorgues polies, ces coliés tirant, Chil oeil vair resplendissent de biauté souriant, Nature nous semont d’avoir coeur désirant, …Adonc conquerons-nous Yaumont et Agoulant4 Et li autre conquierrent Olivier et Rollant. 120
Mais, quant sommes as camps sus nos destriers courans, Nous escus à no col et nos lansses bais(s)ans, Et le froidure grande nous va tout engelant, Li membres nous effondrent, et derrière et devant, Et nos ennemis sont envers nous approchant, Adonc vorrièmes estre en un chélier si grant Que jamais ne fussions veu tant ne quant.5 “Hélas,” scrive Philippe de Croy dal campo di Carlo il Temerario davanti a Neuss, “où sont dames pour nous entretenir, pour nous amonester de bien faire, ne pour nous enchargier emprinses, devises, volets ne guimpes!”6 Nel portare il velo o l’abito della donna amata, che emana il profumo dei suoi capelli e del suo corpo, si manifesta con la massima immediatezza il momento erotico del torneo cavalleresco. Nell’eccitazione del combattimento le donne regalano, l’uno dopo l’altro, i loro ornamenti: quando la gara è finita restano a capo scoperto e senza maniche.7 Ciò è stato trasformato in un simpatico motivo in un detto della seconda metà del XIII secolo: Van de drie ridders en het hemd.8 Una dama, il cui marito non è portato alla lotta ma è però pieno di nobile liberalità, manda ai tre cavalieri, che la servono per amore, la sua camicia, perché la portino, come cotta d’arme, senza corazza o altra protezione oltre all’elmo e alle gambiere, nella giostra che darà suo marito. Il primo e il secondo cavaliere si rifiutano spaventati. Il terzo, che è povero, prende durante la notte la camicia nelle sue braccia e la bacia con passione. Alla giostra si presenta senza corazza con la camicia, che viene lacerata e macchiata del suo sangue, come 121
cotta d’arme; egli viene gravemente ferito. Si riconosce il suo valore straordinario e lo si premia: la dama gli dona il suo cuore. Ora l’amante esige la ricompensa: le restituisce la camicia insanguinata, affinché la indossi così com’è sulle sue vesti al banchetto che conclude il torneo. Ella l’abbraccia teneramente e indossa l’indumento insanguinato; i più la biasimano, il marito è imbarazzato e il narratore domanda: quale dei due amanti ha fatto di più per l’altro? I motivi passionali, gli unici a dare significato al torneo, spiegano pure la decisione con cui la Chiesa da tempo ne combatteva l’usanza. Il fatto che essi fossero effettivamente occasione di clamorosi adulteri, è testimoniato per esempio dal monaco di Saint Denis a proposito di un torneo del 1389 e, sulla sua autorità, da Jean Juvenal des Ursins.9 Il diritto canonico li aveva proibiti da tempo: istituiti inizialmente come allenamento per il combattimento, così si diceva, erano diventati, a causa degli abusi, intollerabili.10 Anche i re intervennero con i loro divieti. I moralisti li criticavano.11 Petrarca chiese pedante: dove si legge che Cicerone e Scipione abbiano tenuto dei tornei? E il Borghese si strinse nelle spalle: “prindrent par ne sçay quelle folle entreprinse champ de bataille” dice il Borghese di Parigi di un famoso torneo.12 Il mondo nobiliare, al contrario, prende tutto ciò che è torneo e gara cavalleresca con una serietà che non trova eguali in nessuna attività sportiva moderna. Era un uso antichissimo collocare una lapide commemorativa nel luogo dove era stato combattuto un celebre duello. Adam van Bremen ne ricorda una sul confine tra Holstein e Vagria, dove una volta un guerriero tedesco aveva ucciso il campione dei Vendi.13 Il XV secolo erigeva ancora simili monumenti in ricordo di famosi duelli cavallereschi. Nei pressi di Saint 122
Omer “la Croix Pélerine” ricordava il combattimento tra Hautbourdin, bastardo di Saint Pol, e un cavaliere spagnolo durante il famoso Pas d’armes de la Pélerine. Ancora cinquant’anni dopo, prima di un torneo, Baiardo andò in pellegrinaggio a visitare quella croce.14 Le decorazioni e i costumi che erano serviti al Pas d’armes de la Fontaine des pleurs furono, dopo le feste, solennemente consacrati a Notre-Dame di Boulogne e appesi nella chiesa.15 Gli sport guerreschi medioevali si differenziano, come abbiamo già accennato, da quelli greci e dall’atletica moderna per la loro limitata naturalezza. Per aumentare la tensione dello scontro ci si avvale dell’orgoglio e dell’onore aristocratico, dell’erotismo romantico e dello sfarzo ricercato. Esso è sovraccarico di fasto e di ornamenti, pieno di una splendida fantasia di colori. È, oltre che gioco ed esercizio fisico, anche letteratura applicata. I desideri e i sogni poetici cercano una rappresentazione drammatica, un appagamento teatrale nella vita stessa. La realtà non era affatto bella, era dura, crudele e falsa; nella carriera militare e in quella di corte c’era poco spazio per sentimenti di coraggio appassionato, ma l’anima ne è piena, si cerca di suscitarli e di creare una vita migliore con giochi raffinati. Il vero coraggio non ha certamente minore importanza nel torneo cavalleresco che nel pentathlon. Proprio lo spiccato carattere erotico esigeva una violenza sanguinosa. Nei suoi motivi principali il torneo è affine alle contese dell’antico epos indiano; anche nel Mahâbhârata la lotta per la donna è il pensiero centrale. La fantasia con cui si dava un diverso aspetto alla tenzone era quella dei romanzi di Artù, ovvero l’infantile immaginazione della fiaba: l’avventura fantastica con giganti e nani
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sproporzionati, intrecciata al sentimentalismo dell’amore cortese. Per un Pas d’armes del XV secolo si costruisce con arte una vicenda romantica fittizia. Il centro è costituito da uno scenario romanzesco dal nome adatto: la Fontaine des pleurs, l’arbre Charlemagne. La fontana è costruita per l’occasione.16 Per un anno intero, il primo giorno di ogni mese, un cavaliere sconosciuto pianterà davanti alla fontana una tenda, nella quale è seduta una dama (si tratta di un’effigie), che tiene un unicorno con tre scudi. Ogni cavaliere che tocca uno degli scudi o lo fa toccare dal suo araldo, si impegna a sostenere un determinato duello, le cui condizioni sono descritte nei minimi particolari nei minuziosi “chapitres”, che sono nello stesso tempo bando e regolamento della gara.17 Gli scudi vanno toccati stando a cavallo, e i cavalieri troveranno sempre, a tale scopo, dei cavalli disponibili. Oppure: nell’Emprise du dragon quattro cavalieri si fermano a un crocevia; nessuna dama può passare per quel crocevia senza che un cavaliere rompa per lei due lance, altrimenti deve pagare un pegno.18 Infatti il gioco dei pegni dei bambini non è altro che una derivazione dallo stesso antichissimo gioco di guerra e d’amore. L’affinità è chiaramente confermata da un articolo dei Chapitres de la Fontaine des pleurs che prescrive che chi viene gettato a terra durante il duello, deve portare per un anno intero un braccialetto d’oro con una serratura, finché non trova la dama che ne possiede la chiavetta e può liberarlo se egli le offre i suoi servigi. Altrove la vicenda prende spunto da un gigante fatto prigioniero da un nano, un albero d’oro e una “dame de l’isle celée”, o da un “noble chevalier esclave et serviteur à la belle géande à la blonde perruque, la plus grande du monde”.19 Il motivo del 124
cavaliere sconosciuto è ricorrente; egli si chiama “le blanc chevalier”, “le chevalier mesconnu”, “le chevalier à la pélerine”, oppure entra in scena come un eroe dei romanzi e si chiama il cavaliere del Cigno, oppure porta il blasone di Lancillotto, di Tristano o di Palamede.20 Di solito la vicenda assume un carattere malinconico: la Fontaine des pleurs lo dice già col nome; gli scudi sono bianchi, violetti e neri, tutti disseminati di lacrime bianche; si toccano per pietà della “Dame de pleurs”. Nell’Emprise du dragon Re Renato arriva con abiti da lutto (e a ragione) per prendere commiato da sua figlia Margherita, divenuta regina d’Inghilterra. Il cavallo è nero, bardato a lutto, la lancia è nera, lo scudo è nero con lacrime d’argento. Anche nell’Arbre Charlemagne gli scudi sono neri e viola con lacrime nere e d’oro.21 Non sempre però i toni sono così tetri: in un’altra occasione l’incontentabile esteta Re Renato tiene la Joyeuse garde presso Saumur. Per quaranta giorni fa festa nel castello di legno “de la joyeuse garde” con consorte e figlia e con Jeanne de Laval, che sarebbe diventata la sua seconda moglie. Per lei è stata preparata, segretamente, la festa. Il castello è stato costruito, dipinto e tappezzato per l’occasione, tutto è rosso e bianco. Al suo Pas d’armes de la bergère tutto è addobbato in stile pastorale, i cavalieri e le dame, tutti in grigio con sfumature d’oro e d’argento,22 sono travestiti da pastori e da pastorelle col bastone e la cornamusa.
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6. Ordini e voti cavallereschi
Il grande gioco della vita bella come un sogno di nobile coraggio e fedeltà non disponeva solo della forma di gara cavalleresca. C’è una seconda forma, altrettanto importante: gli ordini cavallereschi. Anche se non è facile provare un legame diretto, nessuno che abbia qualche dimestichezza con gli usi dei popoli primitivi può dubitare che sia gli ordini cavallereschi sia i tornei e la stessa collata affondavano le loro radici nei riti sacri della preistoria. La collata è un rito puberale che ha acquisito un valore etico e sociale, la consegna delle armi al giovane guerriero. Lo scontro di per sé è antichissimo, e aveva, un tempo, un significato religioso. L’ordine cavalleresco non può essere distinto dalle classi maschili dei popoli primitivi. Qui possiamo solamente presupporre questo nesso come una tesi non provata; non si tratta di confermare un’ipotesi etnologica, ma di illustrare i valori ideali della cavalleria nel pieno del suo sviluppo; e chi negherà che in quei valori sia presente qualcosa degli elementi primitivi? Certamente, nella mentalità cavalleresca, l’elemento cristiano è così forte, che anche un’interpretazione esclusivamente religiosa e politica, strettamente medioevale, potreb126
be essere convincente, se non si sapesse che esistono paralleli primitivi universalmente diffusi. I primi ordini cavallereschi, i tre grandi ordini della Terra Santa e i tre Spagnoli, erano stati generati, come un’incarnazione purissima dello spirito medioevale, dall’unione degli ideali cavallereschi e monastici, in un’epoca in cui la lotta contro l’Islam era diventata una realtà meravigliosa. Si erano sviluppati come grandi istituzioni politiche ed economiche, enormi complessi patrimoniali e potenze finanziarie. La loro utilità politica aveva messo in secondo piano sia il loro carattere religioso sia l’elemento-torneo, e il loro arricchimento rese nulla a sua volta la loro utilità politica. Finché i Templari e i Giovanniti fiorirono e operarono nella Terra Santa, la cavalleria svolse una reale funzione politica, e gli ordini furono, per così dire, organizzazioni di classe di grande importanza. Però, nel XIV e nel XV secolo, la cavalleria non era più che una forma di vita superiore, e così era riapparso negli ordini cavallereschi successivi l’elemento del nobile gioco, che era alla base della loro esistenza. Non che fossero diventati semplicemente un gioco. Idealmente sono ancora pervasi da alte aspirazioni etiche e politiche. Ma si tratta di illusione e sogno, di vani progetti. Un curioso idealista, Philippe de Mézières, vede il rimedio ai mali del tempo in un nuovo ordine cavalleresco, che ha chiamato Ordre de la passion,1 in cui vuole accogliere tutte le classi. Del resto anche i grandi ordini cavallereschi del periodo delle crociate si erano già avvalsi della partecipazione di non appartenenti alla nobiltà. La nobiltà fornirà il gran maestro e i cavalieri, il clero il patriarca e i suoi suffraganei, i borghesi saranno i fratelli e i contadini e gli artigiani i serventi. Così l’ordine sarà un solido aggregato 127
di classi per il grande fine della lotta contro i turchi. Ci saranno quattro voti. Due sono i vecchi voti, comuni a monaci e cavalieri di ispirazione religiosa, della povertà e dell’ubbidienza. Ma al posto del celibato assoluto, Philippe de Mézières pone la castità coniugale; egli voleva consentire il matrimonio per due ragioni pratiche: il clima orientale lo richiedeva e l’ordine sarebbe diventato più ambito. Il quarto voto, sconosciuto agli ordini del passato, è quello della summa perfectio, la suprema perfezione individuale. Così confluivano in questa immagine eterogenea di un ordine cavalleresco tutti gli ideali, dal progetto politico all’aspirazione alla redenzione. Nella parola “Ordre” c’erano, in modo confuso, una quantità di significati, dalla santità più elevata alla coscienza di classe più prosaica. Significava tanto ceto sociale quanto consacrazione sacerdotale, ordine monastico e ordine cavalleresco. Che in effetti il termine ordre, nel significato di ordine cavalleresco, racchiudesse ancora una valenza religiosa, risulta dal fatto che si adoperava anche la parola religion, che si potrebbe credere riservata agli ordini monastici. Chastellain chiama il Toson d’Oro “une religion” come fa con un ordine monastico, e lo considera sempre alla stregua di un mistero sacro.2 Olivier de la Marche parla di un portoghese come di un “chevalier de la religion de Avys”.3 E non solo i timori reverenziali di quel pomposo Polonio che è Chastellain testimoniano il carattere devoto del Toson d’Oro; nell’intero rituale dell’ordine l’andare in chiesa e la messa occupano un posto preminente, i cavalieri siedono negli scanni del coro dei canonici, e l’austero culto dei membri defunti si svolge interamente secondo lo stile ecclesiastico. 128
Nessuna meraviglia quindi se l’appartenenza a un ordine cavalleresco viene sentita come un legame forte e sacro. I cavalieri dell’Ordine della Stella di re Giovanni II sono obbligati a dimettersi, se possibile, da altri ordini ai quali eventualmente appartengono.4 Il duca di Bedford vuole imporre l’Ordine della Giarrettiera al giovane Filippo di Borgogna per legarlo in questo modo più strettamente all’Inghilterra, ma il borgognone comprende che si legherebbe allora per sempre al re inglese e sa declinare cortesemente l’onore.5 Quando, in seguito, anche Carlo il Temerario accetta e porta la Giarrettiera, Luigi XI considera questo gesto una violazione del trattato di Péronne, che proibiva al duca di concludere un’alleanza con l’Inghilterra senza il permesso del re.6 La consuetudine inglese di non accettare ordini esteri può essere considerata un retaggio della tradizionale convinzione che l’ordine impegni alla fedeltà nei confronti del principe che lo conferisce. Nonostante quell’alone di passione, nei circoli principeschi del XIV e XV secolo si ha però la convinzione che tutte quelle ben studiate forme siano considerate da molti un futile divertimento. A che scopo altrimenti quelle esplicite e continue assicurazioni che tutto ciò tendeva a scopi alti e di grande importanza? Filippo di Borgogna, il nobile duca, ha fondato il suo Toison d’or, dice il rimatore Michault Taillevent: Non point pour jeu ne pour esbatement Mais à la fin que soit attribuée Loenge à Dieu trestout premièrement Et aux bons gloire et haulte renommée.7 Anche Guillaume Fillastre, nell’esordio del suo lavoro sul Toson d’Oro, intende spiegarne il significato, affinché si ca129
pisca che l’ordine non è vanità né cosa di poco conto. Vostro padre, dice a Carlo il Temerario, “n’a pas, comme dit est, en vain instituée ycelle ordre”.8 Era necessario accentuare gli alti propositi, se il Toson d’Oro voleva conquistare il posto preminente desiderato dall’orgoglio di Filippo. Perché la fondazione di ordini cavallereschi era diventata, dalla metà del XIV secolo in poi, una vera moda. Ogni principe doveva avere il suo ordine, persino i nobili più importanti non volevano essere da meno. Ecco Boucicaut con il suo Ordre de la Dame blanche à l’escu verd, in difesa dell’amore cortese e delle donne oppresse. Ecco re Giovanni coi suoi Chevaliers Nostre Dame de la Noble Maison (1351), chiamato di solito, dalla loro insegna, l’Ordine della Stella. Nella Nobile Casa di Saint Ouen presso Saint Denis loro avevano una “table d’oneur”, alla quale, nelle grandi occasioni, dovevano prendere posto i tre principi più valorosi, i tre banderesi più valorosi (bannerets) e i tre cavalieri più valorosi (bachelers). Ecco Pierre de Lusignan con l’Ordine della Spada, che esigeva dai suoi membri una vita pura e metteva loro addosso, simbolo significativo, una catena d’oro in cui ogni anello formava la lettera S, che significava “Silence”. Ecco Amedeo di Savoia con l’Annunziata, Luigi di Borbone con lo Scudo d’Oro e il Cardo, Enguerrand de Coucy, che aveva sperato in una corona imperiale, con la Corona Capovolta, Luigi d’Orléans con il Porcospino, i duchi bavaresi di Olanda-Horinaut con il loro Ordine di Sant’Antonio, con la croce a forma di T e la campanella, che si può notare in molti ritratti.9 La natura di club prestigiosi, propria degli ordini cavallereschi, risulta dal racconto di viaggi del cavaliere svevo Jörg von Ehingen. Tutti i principi e i signori dei paesi che egli vi130
sita gli danno i loro “gesellschaft, ritterliche gesellschaft, ordensgesellschaft”, come chiama gli ordini.10 Talvolta gli ordini venivano fondati per celebrare un avvenimento importante, come accadde per il ritorno di Luigi di Borbone dalla prigionia inglese, altre volte con un secondo fine di matrice politica, come il Porc-epic dell’Orléans, che volgeva i suoi aculei contro la Borgogna; talvolta prevale il carattere devoto, che viene tenuto sempre molto presente come nella fondazione di un Ordine di San Giorgio nella Franca Contea, quando Philibert de Miolans tornò dall’Oriente con le reliquie di quel santo; raramente l’ordine non è molto più di una semplice società di mutuo soccorso, come quello del Veltro, fondato nel 1416 dai nobili del ducato di Bar. La ragione per cui il Toson d’Oro ha superato in fama tutti gli altri ordini è evidente. Fu la ricchezza dei borgognoni a sostenerlo. Forse vi contribuì anche lo sfarzo straordinario che dava lustro all’ordine e la scelta felice del simbolo. In un primo tempo si era pensato soltanto al Tosone della Colchide. Tutti conoscevano il mito di Giasone: Froissart lo fa narrare, in una Pastourelle, da un pastore.11 Ma Giasone, come eroe, era ambiguo: non aveva mantenuto la parola data, e questo tema si prestava ad allusioni non gradite alla politica dei borgognoni nei confronti della Francia. Alain Chartier cantava: A Dieu et aux gens detestable, Est menterie et trahison, Pour ce n’est point mis à la table Des preux l’image de Jason, Qui pour emporter la toison 131
De Colcos se veult parjurer. Larrecin ne se peult celer.12 Poi Jean Germain, il dotto vescovo di Chalon e cancelliere dell’ordine, richiamò l’attenzione di Filippo sul tosone steso da Gedeone e sul quale cadde la rugiada del cielo.13 L’idea era particolarmente felice, perché il tosone di Gedeone era uno dei simboli più efficaci della fecondazione del grembo di Maria. Così l’eroe biblico fu sostituito al pagano come patrono del Toson d’Oro, tanto che Jacques du Clercq poté persino affermare che Filippo di proposito non aveva scelto Giasone, poiché questi non aveva mantenuto la parola data.14 “Gedeonis signa”, così un panegirista di Carlo il Temerario chiama l’ordine,15 ma altri, come il cronista Theodericus Pauli, continuano a parlare di “Vellus Jasonis”. Il successore di Jean Germain a cancelliere dell’ordine, il vescovo Guillaume Fillastre, superò il suo predecessore e scoprì nella Sacra Scrittura altri quattro tosoni: quello di Giacobbe, di re Mesa di Moab, di Giobbe e di Davide.16 A ognuno di essi fece rappresentare una virtù, e a ognuno dei sei si proponeva di dedicare un libro. Ciò era senza dubbio “overdoing it”; Fillastre fece addirittura figurare le pecore maculate di Giacobbe come simbolo di giustizia17; egli aveva semplicemente preso tutti i passi della Vulgata dove si trovava la parola “vellus”, esempio notevole della duttilità dell’allegoria. Non sembra che l’idea abbia avuto un successo duraturo. Merita una menzione per lo meno un aspetto degli usi dell’ordine, poiché testimonia il carattere di un gioco primitivo e sacro. Oltre ai cavalieri l’ordine ha i suoi ufficiali: il cancelliere, il tesoriere, l’attuario, e poi il re d’armi col suo stato maggiore di araldi e poursuivants. Quest’ultimo grup132
po, incaricato in particolare del servizio dei nobili tornei, porta nomi simbolici. Nel Toson d’Oro lo stesso re d’armi si chiama Toison d’or, come Jean Lefèvre de Saint Remy e ancora Nicolas de Hames, noto per la Lega dei Grandi del 1565. Gli araldi portano, in generale, i nomi dei diversi paesi dei loro signori: Charolais, Zélande, Berry, Sicile, Austria. Il primo dei poursuivants si chiama Fusil, per via della pietra focaia inserita nella catena dell’ordine, emblema di Filippo il Buono. Gli altri portano nomi dal suono romantico come Montreal, o di Virtù come Persévérance, o nomi presi dalle allegorie del Roman de la Rose, come Humble Requeste, Doulce Pensée, Léal Poursuite. L’Inghilterra moderna ha ancora i suoi re d’armi Garter, Norroy, un poursuivant Rouge dragon, e la Scozia il suo re d’armi Lyon, il poursuivant Unicorn etc. Alle grandi feste tali poursuivantes vengono solennemente aspersi di vino e battezzati con quei nomi dal gran maestro dell’ordine, oppure egli cambia i loro nomi innalzandoli a un rango superiore.18 I voti che impone l’ordine cavalleresco sono solamente una forma fissa e collettiva del proposito individuale di compiere qualche impresa eroica. Questo è forse il punto dove si possono scorgere meglio e in modo coerente le fondamenta dell’ideale cavalleresco. Chi fosse portato a considerare peregrino il nesso fra collata, torneo e ordine cavalleresco e le usanze primitive, troverebbe nel voto cavalleresco un carattere barbarico così evidente che non ci potrebbe più essere alcun dubbio. Sono veri survivals, che hanno paralleli nel vratam dell’antica India, nel Nazireismo degli ebrei, e ancor più, forse, nelle consuetudini dei Normanni dell’epoca delle loro saghe. Anche qui però non ci interessa la problematica etnologica, ma la questione del valore che avevano quei voti nella vi133
ta spirituale tardomedioevale. I valori possibili sono tre. Il voto cavalleresco può avere un significato etico-religioso, che lo pone sullo stesso piano dei voti religiosi; il suo contenuto e il suo significato possono anche essere di natura romantico-erotica, e, infine, il voto può ridursi a un gioco cortese, che ha senso solo come divertimento. Infatti questi tre valori qui si presentano indistinti; la concezione del voto oscilla tra la suprema consacrazione della vita al servizio dell’ideale più importante e la derisione più vana del prezioso gioco di società, che si diletta con il coraggio, l’amore e gli interessi di stato. L’elemento del gioco è predominante; i voti sono diventati, in gran parte, un abbellimento delle feste di corte, anche se vengono sempre collegati alle più importanti imprese belliche: l’invasione di Enrico III in Francia, il progetto di crociata di Filippo il Buono. Qui vale lo stesso discorso fatto per i tornei: tanto ci sembrava insulso e antiquato il romanticismo artefatto dei pas d’armes, quanto ci sembrano vani e ingannevoli i voti “del fagiano”, “del pavone” o “dell’airone”. A meno che non ci si renda conto, anche in questo caso, del sentimento che permeava tutto ciò. È il sogno di una vita bella, lo stesso sogno che c’era nelle feste e nelle forme della vita fiorentina di un Cosimo, di un Lorenzo e di un Giuliano. In Italia il sogno si è illuminato di bellezza eterna, qui il suo incanto è svanito insieme agli uomini che lo sognarono. L’unione di ascetismo e di erotismo, che è alla base della favola dell’eroe che libera la vergine o versa sangue per lei, motivo essenziale del romanticismo del torneo, si mostra in una forma diversa e più immediata nel voto cavalleresco. Il cavaliere de La Tour, nei precetti indirizzati alle figlie, parla di uno strano ordine d’amore di nobili e dame, che era esi134
stito, nella sua gioventù, nel Pitou e altrove. Si facevano chiamare Galois e Galoises,19 e si attenevano a “une ordonnance moult sauvaige”, il cui precetto più importante era che d’estate si dovevano vestire di pellicce e di cappucci foderati, e accendere il fuoco nel camino, mentre d’inverno non potevano portare altro che sopravvesti senza pelliccia, niente mantelli né altre protezioni dal freddo, né cappelli, né guanti né manicotti, neanche quando gelava. In inverno spargevano foglie verdi al suolo e nascondevano il camino dietro rami verdi, e sul loro letto poteva esserci solamente una coperta leggera. In questa singolare deviazione – così strana che è poco probabile che lo scrittore l’abbia inventata – non è difficile scorgere una evoluzione ascetica dello stimolo dell’amore. Anche se la storia non è del tutto chiara e probabilmente molto esagerata, solo uno spirito completamente estraneo a ogni nozione etnologica la potrà interpretare come una favola inventata da un vecchio chiacchierone.20 Il carattere primitivo dei Galois e delle Galoises viene ulteriormente accentuato dalla loro regola secondo la quale un marito doveva cedere al Galois che era suo ospite l’intera casa e la moglie, per andare egli stesso dalla sua Galoise; se non lo faceva si disonorava. Secondo il cavaliere de La Tour, molti membri dell’ordine erano morti di freddo: “Si doubte moult que ces Galois et Galoises qui mourrurent en cest estat en cestes amouretes furent martirs d’amour”.21 Si possono citare altri esempi che tradiscono i caratteri primitivi del voto cavalleresco. Così il poema che descrive i voti che Roberto di Artois fece contrarre, con lusinghe, al re d’Inghilterra, Edoardo III e ai suoi nobili, al fine di cominciare la guerra contro la Francia: Le voeu du Héron. È un racconto di scarso valore storico, ma lo spirito di violenza bar135
barica che esprime è sicuramente adatto a far capire l’essenza del voto cavalleresco. Durante un banchetto, il conte di Salisbury siede ai piedi della sua dama. Quando tocca a lui fare un voto, prega l’amata di mettergli un dito sull’occhio destro. Anche due, risponde lei, e chiude con due dita l’occhio destro del cavaliere. “Belle, est-il bien clos?” domanda lui. “Oyl, certainement.” “Ebbene,” dice Salisbury, “allora prometto a Dio onnipotente e alla sua dolce Madre di non riaprire quest’occhio, qualunque dolore o tormento possa provare, prima che io abbia incendiato la Francia, la terra del nemico, e combattuto gli uomini di re Filippo”: Or aviegne qu’aviegne, car il n’est autrement. – Adonc osta son doit la puchelle au cors gent. Et li iex clos demeure, si que virent la gent.22 Froissart ci fa capire come la realtà rispecchi questo motivo letterario; raccontava infatti di aver visto dei signori inglesi che si coprivano un occhio con una benda, per mantenere il voto di vedere con un occhio solo finché non avessero compiuto gesta eroiche in Francia.23 La rozzezza primitiva si manifesta, nel Voeu du Héron, con il voto di Jehan de Faukemont; egli non risparmierà né conventi né altari, né donne incinte né bambini, né amici né parenti per servire re Edoardo. Infine anche la regina, Filippa di Horinaut, chiede al marito di poter fare un voto. Adonc, dist la roine, je sai bien, que piecha Que sui grosse d’enfant, que mon corps senti l’a. Encore n’a il gaires, qu’en mon corps se tourna. Et je voue at prometh a Dieu qui me créa… Que ja li fruits de moi de mon corps n’istera, 136
Si m’en arès menée ou païs per de-la Pour avanchier le veu que vo corps voué a; Et s’il en voelh isir, quant besoins n’en sera, D’un grant coutel d’achier li miens corps s’ochira: Serai m’asme perdue et li fruis perira!24 Un silenzio raccapricciante accoglie il voto sacrilego. Questo è il breve commento del poeta: Et quant li rois l’entent, moult forment l’en pensa, Et dist: certainement, nuls plus ne voeura.25 Nei voti del tardo Medioevo capelli e barba, depositari da sempre di un potere magico, hanno ancora un significato particolare. Benedetto XIII, il papa di Avignone, dove era prigioniero, per esprimere il suo dolore, giura di non farsi radere la barba finché non gli sia resa la libertà.26 Quando Lumey fa lo stesso voto, per vendicare Egmond, ci troviamo di fronte a una tardiva espressione di un costume che, in tempi remoti, aveva avuto un significato sacro. Il senso del voto va cercato nel fatto che di solito ci si impone una privazione come stimolo per sollecitare il compimento dell’azione promessa. Spesso la privazione riguarda il cibo. Il primo cavaliere ammesso da Philippe de Mézières nella sua Chevalerie de la Passion era un polacco, che per nove anni non si era seduto né per mangiare né per bere.27 Bertrand du Guesclin è sempre pronto a tali voti. Sfidato da un guerriero inglese, Bertrand dice, in nome della Santa Trinità, che mangerà solamente tre zuppe col vino finché non avrà affrontato lo sfidante. Un’altra volta dichiara che non mangerà carne e non si spoglierà prima di aver preso Mont-
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contour. E persino che non mangerà nulla prima dello scontro con gli inglesi.28 Naturalmente, un nobile del XIV secolo non era più consapevole del valore magico che è alla base di un tale digiuno. Per noi quel sostrato di magia si esprime nell’uso frequente delle catene come segno di voto. Il 1° gennaio 1415 il duca Giovanni di Borbone, “désirant eschiver oisiveté, pensant y acquérir bonne renommée et la grâce de la trèsbelle de qui nous sommes serviteurs”, con altri sedici cavalieri e scudieri, fa il voto di portare, ogni domenica, per due anni, una catena al piede sinistro come i prigionieri, d’oro per i cavalieri, d’argento per gli scudieri, finché non avrà trovato sedici cavalieri disposti a battersi contro di loro in un combattimento a piedi “à outrance”.29 Jacques de Lalaing incontra ad Anversa, nel 1445, un cavaliere siciliano, Giovanni di Bonifacio, giunto dalla corte di Aragona in qualità di “chevalier aventureux”. Costui porta un ferro al piede sinistro, come gli schiavi, appeso a una catena d’oro, una “emprise” per mostrare la sua combattività.30 Nel romanzo Petit Jehan de Saintré il cavaliere Loiselench porterà a un braccio e a un piede una catena d’oro con un anello d’oro, finché non troverà un cavaliere che lo “liberi” dalla sua emprise.31 Perché si tratta proprio di “délivrer”; si tocca il segno se è “pour chevalerie”; lo si strappa se ne va della vita. Già La Curne de Sainte Palaye ha notato che, secondo Tacito, presso gli antichi Catti si incontra proprio la stessa usanza.32 Anche le catene portate dai penitenti nel loro pellegrinaggio, o quelle che si mettevano gli asceti per devozione non sono diverse dalle emprises dei cavalieri tardomedioevali. Ciò che i famosi voti solenni del XV secolo, in particolare i Voex du Faisan, fatti alla festa di corte di Filippo il Buono a 138
Lilla nel 1454 per preparare la crociata, possono mostrarci che tutto questo non è molto più di una bella forma aulica. Non che l’abitudine spontanea di fare un voto in un momento di bisogno o di forte emozione fosse andata scemando. Essa ha radici psicologiche così profonde da non essere legata né alla cultura né alla fede. Tuttavia il voto cavalleresco come forma culturale, come costume elevato a ornamento della vita, vive la sua ultima fase nella magnifica esuberanza della corte borgognona. Il tema dell’azione è ancora, inequivocabilmente, quello arcaico. I voti si fanno al banchetto, si giura su un uccello che viene servito a tavola e più tardi mangiato. Anche i Normanni conoscono i voti fatti brindando, in occasione di festini e banchetti legati a sacrifici ed eredità; uno dei modi di fare un voto è quello di toccare un cinghiale che viene portato ancora vivo prima di essere servito a tavola.33 Perfino questa forma si è conservata fino all’epoca borgognona: è un fagiano vivo quello usato nella celebre festa di Lilla.34 I voti vengono fatti a Dio e alla Madonna, alle dame e all’uccello. Non sembra azzardato supporre che la divinità in questo caso non sia il destinatario originario dei voti: infatti molti si rivolgono solamente alle dame e all’uccello.35 Nelle privazioni che ci si impone c’è poca varietà. Esse riguardano, di solito, il mangiare e il dormire. Un cavaliere, prima di aver combattuto con un saraceno, il sabato non dormirà in un letto, né soggiornerà quindici giorni di seguito nella stessa città. Un altro, prima di aver strappato la bandiera del Gran Turco, non si nutrirà il venerdì di cibo animale. Un altro ancora accumula numerose privazioni; non porterà alcuna corazza, non berrà vino il sabato, non dormirà in un letto, non siederà a tavola, e indosserà il cilicio. 139
Il modo in cui l’azione eroica promessa verrà eseguita è descritto sempre molto accuratamente.36 Cosa c’è di serio in questo? Quando messer Philippe Pot fa il voto di lasciar il braccio destro disarmato nella spedizione contro i turchi, il duca fa annotare sotto il voto (registrato per iscritto): “Ce n’est pas le plaisir de mon très redoubté seigneur, que messire Phelippe Pot voise en sa compaignie ou saint voyage qu’il a voué, le bras désarmé; mais il est content qu’il voist aveuc lui armé bien et soufisamment, ainsy qu’il appartient”.37 Evidentemente vi si vedeva ancora qualcosa di serio e di pericoloso. Il voto dello stesso duca suscita una commozione generale.38 Alcuni, prudentemente, fanno dei voti con qualche riserva, a riprova nello stesso tempo di un serio proposito e di un accontentarsi delle buone apparenze.39 Talvolta i voti si avvicinano alla “philippine”, che ne è un pallido riflesso.40 Un elemento ironico non manca neanche nel terribile Voeu du Héron: Roberto di Artois offre al re, qui descritto meno guerrafondaio, l’airone, il più pauroso degli uccelli. Quando Edoardo ha fatto il suo voto, scoppiano tutti a ridere. Jan van Beaumont, al quale il Voeu du Héron mette in bocca le parole già citate,41 che mostrano con una fine ironia il carattere passionale dei voti, fatti bevendo vino e al cospetto delle donne, secondo un altro racconto, fece sull’airone il voto cinico di servire quel padrone da cui ci si potesse aspettare di più in denaro e terre. Al che i signori inglesi scoppiarono a ridere.42 Quale deve essere stata l’atmosfera a tavola, nonostante tutta quella ostentazione che accompagnò i Voeux du faisan, se Jennet de Rebreviettes poté fare il voto, se non avesse ottenuto i favori della sua dama prima della spedizione militare, di sposare al suo ritorno dall’Oriente la prima 140
donna o ragazza che possedesse ventimila corone… “se elle veult”.43 Tuttavia quello stesso Rebreviettes va per il mondo in cerca di avventure da “povre escuier”, e combatte a Ceuta e a Granada contro i Mori. Così la stanca aristocrazia deride il proprio ideale. Dopo aver abbellito, colorato e reso in forma plastica con tutti i mezzi della fantasia, del talento e della ricchezza il suo sogno appassionato di una vita bella, essa considerò che in fondo la vita non era tanto bella, e rise.
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7. Il significato dell’ideale cavalleresco in guerra e in politica
Vane follie, dunque, la cavalleria, la moda, le cerimonie, un gioco bello e illusorio! La vera storia del tardo Medioevo, dice lo storico che cerca nei documenti lo sviluppo dello stato e dell’economia, ha poco a che fare con quel falso Rinascimento cavalleresco; era una vecchia patina che già si distaccava. Gli uomini che fecero quella storia non erano certo dei sognatori, bensì uomini di stato e mercanti freddi e calcolatori, fossero essi principi, nobili, prelati o borghesi. Lo erano di sicuro. Ma la storia della civiltà ha a che fare con i sogni di bellezza e l’illusione di una vita nobile come con i dati sulla popolazione e sulle imposte. Uno studioso che analizzasse la nostra società sulla base dell’aumento delle banche e del traffico, dei conflitti politici e militari, potrebbe dire al termine dei suoi studi che non si è quasi accorto della musica, e che quindi, a quanto pare, questa ha significato poco per la civiltà. Accade più o meno la stessa cosa quando ci viene descritta la storia del Medioevo sulla base di documenti politici ed economici. Inoltre può anche darsi che l’ideale cavalleresco, artificioso e logoro com’era, abbia comunque esercitato sul142
la storia politica del tardo Medioevo un’influenza più forte di quanto comunemente si immagini. Il fascino emanato dalla vita dei nobili era così grande che anche i borghesi quando possono la abbracciano. Noi ci immaginiamo gli Artevelde come veri rappresentanti del terzo stato, fieri del loro carattere borghese e della loro semplicità. Al contrario, il modo di vivere di Filippo di Artevelde era principesco: ogni giorno egli faceva suonare i musicanti davanti al suo palazzo, quando si metteva a tavola si faceva servire in vasellame d’argento, come se fosse il conte di Fiandra, si vestiva di scarlatto e di “menu vair” come un duca di Brabante o un conte di Hainaut, usciva a cavallo come un principe, preceduto dalla banderuola spiegata col suo blasone di zibellino con tre cappelli d’argento.1 Chi ci appare più moderno di Jacques Coeur, magnate del XV secolo ed eccellente finanziere di Carlo VII? Però se si deve prestar fede alla biografia di Jacques de Lalaing, il grande banchiere ha molto interesse per l’antiquato cavaliere errante che è l’eroe dell’Hainaut.2 Tutte le forme superiori della vita borghese nei tempi moderni si fondano sull’imitazione di forme di vita aristocratiche. Come il panino nella salvietta e la stessa parola “serviette” hanno la loro origine nella corte medioevale,3 così pure gli intrattenimenti nuziali più borghesi derivano dai grandiosi “entremets” di Lilla. Per comprendere appieno il significato storico-culturale dell’ideale cavalleresco, dovremmo seguirlo attraverso l’epoca di Shakespeare e Molière fino al gentleman moderno. Qui però vogliamo soltanto accennare all’effetto di quell’ideale sulla realtà dello stesso tardo Medioevo. La politica e la strategia bellica erano davvero dominate in qualche mo143
do da concezioni cavalleresche? Indubbiamente, se non nei loro pregi, almeno nei loro difetti. Così come i tragici errori dell’epoca moderna scaturiscono dall’illusione del nazionalismo e dall’arroganza culturale, quelli del Medioevo scaturivano spesse volte dall’ideale cavalleresco. La creazione del nuovo stato borgognone, l’errore più grande che la Francia potesse commettere, non va fatta risalire forse a un motivo cavalleresco? Re Giovanni, il cavaliere confusionario, nel 1363 dona il ducato al figlio minore, che lo aveva sostenuto a Poitiers, mentre il maggiore era fuggito. Allo stesso modo, l’idea che agli occhi dei contemporanei deve giustificare la politica antifrancese dei borgognoni è la vendetta per Montereau, la difesa dell’onore cavalleresco. So bene che tutto questo si può spiegare anche con una politica calcolatrice e persino lungimirante, ma ciò non toglie che l’avvenimento del 1363 assumesse per i contemporanei il significato di coraggio cavalleresco ricompensato principescamente. Lo stato borgognone, nel suo rapido sviluppo, è un edificio di incontri politici e calcoli fruttuosi. Ma ciò che si potrebbe chiamare “l’idea borgognona” si riveste sempre delle forme dell’ideale cavalleresco. I soprannomi dei duchi: il Sans peur, le Hardi, il Qui qu’en hongne, che nel caso di Filippo fu soppiantato da le Bon, sono tutti delle trovate volute dai letterati di corte per presentare il principe alla luce di questo ideale.4 Vi era un grande obiettivo politico legato indissolubilmente all’ideale cavalleresco: la crociata, Gerusalemme! Perché Gerusalemme era pur sempre la più alta idea politica professata da tutti i principi europei, un’idea che li spingeva continuamente all’azione. C’era in questo caso un contrasto singolare tra l’idea politica e i reali interessi in campo. Per la 144
Cristianità del XIV e del XV secolo esisteva una questione orientale della massima urgenza: la difesa dai turchi, che avevano già preso Adrianopoli (1378) e distrutto il regno serbo (1389). Il pericolo veniva dai Balcani. Tuttavia questa prima e urgente politica europea non riusciva ancora a liberarsi dell’idea della crociata e inquadrava la questione turca solamente nel grande sacro compito che gli avi non erano riusciti ad assolvere: la liberazione di Gerusalemme. In tale concezione l’ideale cavalleresco era posto in primo piano, qui poteva e doveva esercitare un’influenza particolarmente forte. Del resto la componente religiosa dell’ideale cavalleresco trovava qui la sua promessa più alta, e la liberazione di Gerusalemme non poteva essere che il compito santo e nobile della cavalleria. E proprio il fatto che l’ideale religioso-cavalleresco abbia determinato in maniera così decisiva la politica orientale può spiegare, fino a un certo punto, lo scarso successo della lotta contro i turchi. Le spedizioni, che esigevano innanzitutto un calcolo preciso e una preparazione paziente, furono progettate e preparate in uno stato di grande tensione, che non portava a una riflessione equilibrata sugli scopi da raggiungere, ma a dar vita a progetti romantici, che potevano essere vani o addirittura fatali. La catastrofe di Nicopoli nel 1396 aveva dimostrato quanto fosse pericoloso organizzare una spedizione efficace contro un nemico molto combattivo come se si trattasse di un viaggio cavalleresco in Prussia o in Lituania, per uccidere qualche povero pagano. Chi sono quelli che organizzano le crociate? Sognatori come Philippe de Mézières, che vi dedicò la sua vita, e politici visionari come Filippo il Buono, che pure era un astuto calcolatore. 145
Per tutti i sovrani la liberazione di Gerusalemme era ancora il compito, obbligato, della loro vita. Nel 1422 Enrico V d’Inghilterra sta morendo. Il giovane conquistatore di Rouen e Parigi viene colto dalla morte nel mezzo della sua opera, che aveva mandato in rovina la Francia. I medici lo avvertono che non ha più di due ore di vita; compaiono il confessore e altri religiosi, si leggono i sette salmi penitenziali. Quando risuonano le parole “Benigne fac, Domine, in bona voluntate tua Sion, ut aedificentur muri Jerusalem”5 il re impone il silenzio e dice ad alta voce che era stata sua intenzione, dopo il ristabilimento della pace in Francia, andare a conquistare Gerusalemme, “se ce eust esté le plaisir de Dieu son créateur de le laisser vivre son aage”.6 Quindi fa completare la lettura dei salmi penitenziali e muore poco dopo.7 La crociata era diventata da molto tempo un pretesto per riscuotere proventi straordinari; anche Filippo il Buono ne ha ampiamente approfittato. Tuttavia il suo progetto non sarà certo dovuto solo a ipocrisia a scopo di lucro.8 Sembra esserci una commistione tra seri scopi e il proposito di assicurarsi, con questo progetto particolarmente utile e insieme cavalleresco, come salvatore della Cristianità, una gloria maggiore di quella dei re di Francia e d’Inghilterra, superiori a lui per rango. Le voyage de Turquie rimase un atout non giocato. Chastellain cerca in tutti i modi di sottolineare la serietà del duca, ma i problemi da affrontare erano tanti: i tempi non erano ancora maturi, le persone autorevoli scuotevano il capo al pensiero che il principe, alla sua età, potesse intraprendere una spedizione così pericolosa; le terre e la dinastia sarebbero state in pericolo. Mentre il papa inviava lo stendardo della crociata, accolto con riverenza da Filippo all’Aja e spiegato in una solenne processione, mentre sia alla 146
festa di Lilla che dopo si raccoglievano i voti per il viaggio, mentre Joffroy de Toisy esplorava i porti siriani, mentre Jean Chevrot, vescovo di Tournai, organizzava le collette e l’equipaggiamento di Guillaume Fillastre era già pronto ed erano già state requisite le navi per la spedizione, regnava però la vaga sensazione che la spedizione non si sarebbe fatta.9 D’altra parte il voto del duca a Lilla pareva fortemente condizionato: sarebbe partito a patto che nelle terre che Dio gli aveva affidato ci fossero state pace e sicurezza.10 Spedizioni militari preparate meticolosamente e propagandate ai quattro venti, che si risolvono in niente o in molto poco, anche prescindendo dall’ideale della crociata, sembrano essere state del resto molto in voga in questa epoca come una forma di megalomania politica: così la crociata inglese contro le Fiandre nel 1383; la spedizione di Filippo l’Ardito contro l’Inghilterra nel 1387, per la quale era pronta a far vela, nel porto di Sluis, una splendida flotta; quella di Carlo VI contro l’Italia nel 1391. Una forma molto particolare di finzione cavalleresca a scopo di propaganda politica era il duello tra principi, sempre annunciato e mai effettuato. Ho già esposto altrove come i contrasti tra gli stati del XV secolo fossero ancora concepiti come una lotta di parte, una “querelle” personale.11 Si serve “la querelle des Bourguignons”. Che cosa c’era di più naturale del combattimento decisivo tra gli stessi principi, come viene ancora auspicato nei discorsi da bettola? In effetti questa soluzione, che soddisfaceva sia un primitivo senso di giustizia sia la fantasia cavalleresca, era sempre all’ordine del giorno. Leggendo gli accurati preparativi fatti per quei duelli tra principi, ci si domanda se tutto quanto sia stato solamente un bel gioco ipocrita, di nuovo l’aspirazione a 147
una vita bella, oppure se i principeschi campioni volessero veramente combattere. Certo è che i cronisti dell’epoca li prendono seriamente, altrettanto quanto gli stessi battaglieri principi. A Bordeaux nel 1283 tutto era pronto per la sfida tra Carlo d’Angiò e Pietro d’Aragona. Nel 1383 Riccardo II incarica suo zio, Giovanni di Lancaster, di trattare la pace col re di Francia, e di proporre, per raggiungere nel modo più equo tale scopo, un duello tra i due re oppure tra Riccardo coi suoi tre zii e Carlo con i suoi.12 Monstrelet, all’inizio della sua cronaca, dedica ampio spazio alla sfida lanciata a Enrico IV d’Inghilterra da Luigi d’Orléans.13 Nel 1425, Humphrey di Gloucester viene sfidato da Filippo il Buono, che era certo decisamente disposto a celebrare quest’occasione mondana con tutti i mezzi fornitigli dalla sua ricchezza e dal suo amore per lo sfarzo. Nella sfida è chiaramente indicato il motivo: “pour éviter effusion de sang chrestien et la destruction de peuple, dont en mon cuer ay compacion”,“que par mon corps sans plus ceste querelle soit menée à fin, sans y aler avant par voies de guerres, dont il convendroit mains gentilz hommes et aultres, tant de vostre ost comme du mien, finer leurs jours piteusement”.14 Il combattimento fu preparato con cura: la preziosa corazza e i magnifici vestiti che avrebbe indossato il duca erano stati approntati, si lavorava alle tende, agli stendardi e alle bandiere, alle cotte d’armi degli araldi e dei poursuivants, il tutto veniva costellato dei blasoni dei paesi del duca, con la pietra focaia e la croce di Sant’Andrea. Filippo si allenava: “tant en abstinence de sa bouche comme en prenant painne pour luy mettre en alainne”.15 Nel suo parco di Hesdin esercitava giornalmente il corpo alla lotta sotto la guida di esperti maestri.16 Nei registri dei conti sono annotati i costi di tutto questo, e nel 1460 si poteva ancora 148
vedere a Lilla la preziosa tenda approntata per questa occasione.17 Ma del duello non se ne fece nulla. Ciò non impedì che, in seguito, nella lite con il duca di Sassonia per il Lussemburgo, egli sfidasse costui a duello, e che alla festa di Lilla, quasi sessantenne, nel suo voto per la crociata, si dichiarasse pronto e battersi corps à corps col Gran Turco, se questi lo desiderava.18 Ritroviamo l’eco del tenace spirito battagliero di Filippo il Buono in una novelletta del Bandello, che racconta come egli una volta fosse trattenuto a fatica dallo scendere in lizza contro un nobile incaricato di ucciderlo.19 Questa forma si mantiene ancora in pieno Rinascimento italiano. Francesco Gonzaga sfida a duello Cesare Borgia: con la spada e il pugnale vuol liberare l’Italia da quest’uomo tanto temuto e odiato. La mediazione del re di Francia, Luigi XII, impedisce il duello, e una commovente riconciliazione chiude il caso.20 Persino Carlo v cercò in tutti i modi, per ben due volte, di risolvere la contesa con Francesco i mediante un duello, la prima volta dopo che, tornato dalla prigionia, Francesco, secondo l’imperatore, mancò di parola e di nuovo nel 1536.21 La sfida che, nel 1674, Carlo Ludovico del Palatinato mandò non a Luigi XIV stesso ma a Turenne chiude degnamente la serie.22 Un vero duello, molto simile a quello tra principi ebbe luogo a Bourg en Bresse nel 1397. Vi cadde, per mano del cavaliere Gérard d’Estavayer, il famoso cavaliere e poeta Ottone di Grandson, gran signore dell’epoca, accusato di complicità nell’assassinio del “conte rosso” Amedeo VII di Savoia. Estavayer combatté come campione delle città del Pays de Vaud. La vicenda fece molto scalpore.23 Il duello giudiziario, così come quello spontaneo, nei ter149
ritori borgognoni e nella rissosa Francia del Nord, era ancora profondamente radicato nei costumi e nella mentalità. Era rispettato sia dai nobili che dai poveri come la decisione per eccellenza. Con l’ideale cavalleresco questa concezione aveva di per sé poco a che fare, in quanto molto più antica. La civiltà cavalleresca conferì dignità al duello che si onora anche fuori dai circoli aristocratici. Quando non sono i nobili a combattere, la rozzezza dei tempi si manifesta in tutta la sua interezza e gli stessi cavalieri si godono lo spettacolo doppiamente se il loro codice d’onore ne rimane fuori. Non c’è niente di più significativo, al riguardo, del sorprendente interesse manifestato dai nobili e dagli storici per un duello giudiziario che ebbe luogo tra due borghesi a Valenciennes nel 1455.24 Era un caso molto raro; da cento anni non accadeva niente di simile. La gente di Valenciennes voleva che il duello si svolgesse a ogni costo, perché si trattava per loro di mantenere un vecchio privilegio; ma il conte di Charolais, che regnava durante la permanenza di Filippo in Germania, non lo voleva e rimandava l’effettuazione di mese in mese, mentre i due contendenti, Jacotin Plouvier e Mahuot, erano sorvegliati come preziosi galli da combattimento. Appena il vecchio duca fu tornato dal suo viaggio, si decise che il combattimento avrebbe avuto luogo. Filippo stesso volle a tutti i costi assistervi: solo per questo, andando da Bruges a Lovanio, scelse di passare per Valenciennes. Se spiriti cavallereschi come Chastellain e La Marche, descrivendo i Pas d’armes festosi dei cavalieri e dei nobili, malgrado tutti gli sforzi della loro immaginazione non riescono neanche una volta a ben rappresentare la realtà, in questo caso invece ne danno un’immagine messa a fuoco con grande maestria. Si manifesta qui, sotto la splendida houppelande d’oro e ros150
so granata, quel rozzo fiammingo che era Chastellain. Nessun particolare della “moult belle serimonie” gli sfugge; egli descrive minuziosamente la lizza e le panche tutt’intorno. Le povere vittime hanno con sé i loro maestri d’arme. Jacotin, in qualità di querelante, entra per primo, con la testa scoperta e i capelli corti: è molto pallido, ed è interamente cucito in un abito di cuoio cordovano, in un solo pezzo, e non porta niente sotto. Dopo alcune pie genuflessioni e il saluto al duca, che è seduto dietro una grata, i campioni, seduti l’uno di fronte all’altro su due sedie rivestite di nero, attendono il via. I signori tutt’intorno fanno a bassa voce i loro pronostici; viene notato tutto: Mahuot diventa cinereo quando bacia il Vangelo! Poi arrivano due valletti che ungono di grasso i campioni dal collo fino alle caviglie. Nel caso di Jacotin il grasso penetra subito nel cuoio, cosa che non accade a Mahuot: a chi sarà favorevole quel presagio? I campioni si sfregano le mani con la cenere e prendono dello zucchero; poi si portano loro le mazze e gli scudi, sui quali sono dipinte figure sacre che essi baciano. Gli scudi sono tenuti con la punta in alto e nella mano è stretta “une bannerolle de devocion”, una striscia con un motto devoto. Mahuot, che era piccolo, inizia il combattimento raccogliendo un po’ di sabbia con la punta dello scudo e gettandola negli occhi di Jacotin. Segue una furibonda lotta con le mazze, che termina con la caduta di Mahuot; l’altro si getta su di lui e gli stropiccia la bocca e gli occhi con la sabbia, ma Mahout riesce ad addentargli un dito. Jacotin, per liberarsi, gli ficca il pollice nell’orbita e, nonostante le sue implorazioni per ottenere la grazia, gli torce le braccia e gli salta sulla schiena per spezzargliela. Mahuot, morente, invoca invano la confessione e poi esclama: “O monseigneur de Bourgonge, 151
je vous ay si bien servi en vostre guerre de Gand! O monseigneur, pour Dieu, je vous prie mercy, sauvez-moi la vie!”.25 Qui si interrompe il racconto di Chastellain; mancano alcuni fogli, ma da altre fonti sappiamo che Mahuot fu impiccato, in fin di vita, dal boia. È possibile che Chastellain, dopo aver raccontato queste miserabili atrocità, abbia concluso il racconto con qualche nobile e cavalleresca riflessione? La Marche l’ha fatto: egli ci racconta della vergogna che s’impadronì dei nobili per aver assistito a tutto ciò. E perciò, dice l’incorreggibile poeta di corte, Dio fece seguire a questo un duello cavalleresco che si concluse senza danni. Il conflitto tra spirito cavalleresco e realtà si manifesta molto chiaramente là dove l’ideale cavalleresco cerca di farsi valere in mezzo a una terribile guerra, perché per quanto possa aver dato forma e vigore al coraggio guerriero, di solito ostacolava la condotta di guerra, anziché favorirla, in quanto sacrificava le esigenze della strategia a quelle della bellezza. Sovente i migliori condottieri e persino i re, si espongono ai pericoli di un’avventura guerresca intrapresa con spirito romantico. Edoardo II rischia la vita in un pericoloso attacco a un convoglio di navi spagnole.26 I cavalieri dell’Ordine della Stella di re Giovanni devono giurare che in battaglia non fuggiranno mai più di quattro “arpents”, altrimenti devono morire o arrendersi; una regola singolare che, secondo Froissart, costò subito la vita a ben novanta cavalieri.27 Quando nel 1415 Enrico v d’Inghilterra va incontro ai francesi prima della battaglia di Azincourt, una sera oltrepassa per sbaglio il villaggio che i suoi furieri gli avevano indicato per trascorrere la notte. Proprio allora il re “comme celuy qui gardoit le plus les cérimonies d’honneur très loable” 152
aveva ordinato che i cavalieri che andavano in perlustrazione dovessero deporre le loro cotte d’armi, per non essere costretti, indietreggiando, alla vergogna di ritirarsi in tenuta da battaglia. Ora, essendosi egli stesso spinto troppo avanti in cotta d’armi, non poté indietreggiare, e così pernottò nel luogo dove era giunto, e di conseguenza fece avanzare l’avanguardia.28 Nei consigli di guerra, durante la grande invasione francese delle Fiandre, nel 1382, la logica cavalleresca si scontra continuamente con la strategia. “Se nous querons autres chemins que le droit”, si replica alle proposta di Clisson e Coucy di penetrare a sorpresa per vie traverse, “nous ne monsterons pas que nous soions droites gens d’armes.”29 Lo stesso accade durante un’incursione dei francesi sulla costa inglese presso Dartmouth, nel 1404. Uno dei comandanti, Guillaume du Châtel, vuole attaccare di fianco gli inglesi, poiché questi si sono trincerati in un fossato a ridosso della spiaggia. Ma il sire di Jaille chiama i difensori una massa di villani; sarebbe vergognoso evitare tali avversari; egli incita gli altri a non temere. Questa parola punge du Châtel sul vivo: “Sia lontano dal nobile cuore di un bretone l’aver paura; ora, sebbene preveda la morte più che il successo, tenterò la fortuna”. Vi aggiunge il voto di non chiedere quartiere, quindi attacca e cade, mentre la sua truppa viene annientata.30 Durante la spedizione di Fiandra tutti desiderano far parte dell’avanguardia; un cavaliere incaricato di occuparsi della retroguardia protesta con veemenza.31 L’applicazione più autentica dell’ideale cavalleresco alla guerra si ebbe nelle aristie, combattimenti concordati tra due combattenti o tra due gruppi di eguale numero. Il famoso Combat des Trente, che ebbe luogo nel 1351 nei pressi di 153
Ploërmel in Bretagna fra trenta francesi guidati da Beaumanoir e un gruppo di inglesi, tedeschi e bretoni, ne è l’esempio. Froissart lo trovò straordinariamente bello, ma nota, tuttavia, alla fine: “Li aucun le tenoient à proèce, et li aucun à outrage et grant outrecuidance”.32 Nel 1386 un duello tra Guy de la Trémoïlle e il nobile inglese Pierre de Courtenay, che doveva provare la superiorità degli inglesi sui francesi, viene proibito dai reggenti francesi di Borgogna e di Berry e, all’ultimo momento, impedito.33 La condanna di questa inutile forma di dimostrazione di coraggio viene condivisa anche da Le Jouvencel, dove, e lo abbiamo già rilevato, il cavaliere cede il posto al capitano. Quando il duca di Bedford propone una sfida di dodici contro dodici, l’autore di Le Jouvencel fa rispondere al comandante francese che c’è una massima che dice che non si deve fare niente per istigazione del nemico; noi siamo qui per scacciarvi dalle vostre posizioni, e quindi abbiamo già abbastanza da fare. E la sfida viene respinta. Altrove, nel suo Le Jouvencel, egli fa rifiutare a uno dei suoi ufficiali un duello simile con la dichiarazione (sulla quale alla fine si ricrede) che non avrebbe mai dato il suo permesso per una cosa del genere. Sono cose proibite. Chi desidera un duello di questo tipo vuole togliere qualcosa a un altro, cioè il suo onore, per attribuirsi una gloria effimera e di poco conto, mentre nel frattempo trascura il servizio del suo re e della causa pubblica.34 Sembra di sentire una voce moderna. Non di meno l’abitudine a quei duelli tra due fronti si mantenne fin dopo il Medioevo. Delle guerre d’Italia è nota la “Disfida di Barletta”, la lotta tra Bayard e Sotomayor nel 1501; della guerra degli Ottant’anni il combattimento tra Bréauté e Lekkerbeetje nella brughiera di Vught nel 1600 e quello di Lodewijk 154
van de Kethulle contro un grande cavalleggero albanese davanti a Deventer nel 1591. La strategia e la tattica di solito facevano passare in secondo piano le concezioni cavalleresche. L’idea che la stessa battaglia non sia altro che un combattimento, concertato in modo leale per il diritto, affiora di continuo, ma, di fronte alle esigenze strategiche, trova raramente ascolto. Enrico di Trastamara vuole a ogni costo combattere il nemico in aperta campagna. Abbandona volontariamente la sua posizione favorevole e perde la battaglia di Najera (o Navarrete, 1367). Un esercito inglese, nel 1333, propone agli scozzesi di scendere dalla loro posizione favorevole per poter combattere. Quando il re di Francia non riesce a trovare accessi per liberare Calais, propone cortesemente agli inglesi di scegliere da qualche parte un campo di battaglia. Carlo d’Angiò fa sapere al cattolico Guglielmo d’Olanda: che egli stesso e i suoi uomini direttamente ad Assen sulla brughiera avrebbero aspettato tre giorni.35 Guglielmo di Hainaut va ancora più in là; propone al re di Francia una tregua di tre giorni, al fine di costruire un ponte sul quale i due eserciti possano incontrarsi per dare battaglia.36 In tutti questi casi l’offerta cavalleresca viene respinta; l’interesse strategico mantiene il sopravvento anche in Filippo il Buono, allorché ebbe a sostenere una grande lotta con il suo senso dell’onore cavalleresco, poiché per tre volte nello stesso giorno gli fu offerta battaglia ed egli non la accettò.37 Anche se l’ideale cavalleresco doveva piegarsi agli interessi concreti, rimanevano ancora sufficienti occasioni per dare 155
una parvenza di bellezza alla guerra. Quale ebbrezza d’orgoglio doveva scaturire dalle stesse decorazioni belliche così variopinte e ostentate! Nella notte che precede la battaglia di Azincourt i due eserciti, accampati l’uno di fronte all’altro nell’oscurità, si fanno coraggio suonando le trombe e i tromboni, e si deplora il fatto che i francesi non ne abbiano avuti abbastanza “pour eulx resjouyr” e siano perciò demoralizzati.38 Verso la fine del XV secolo arrivano i lanzichenecchi coi grandi tamburi, un uso preso in prestito dall’Oriente.39 Il tamburo, con la sua immediata azione ipnotica, non musicale, indica chiaramente il passaggio dall’epoca cavalleresca a quella militare moderna; è uno degli elementi della meccanizzazione della guerra. Intorno al 1400 è ancora in auge la bella e giocosa suggestione della gara che ciascuno affronta per la gloria e l’onore: con i cimieri e i blasoni, le bandiere e le grida di guerra la lotta conserva un carattere individuale e un elemento sportivo. Tutto il giorno risuonano le grida dei diversi signori in una gara di orgoglio.40 Prima e dopo il combattimento le collate e le promozioni suggellano il gioco: i cavalieri diventano alfieri mediante il taglio del gagliardetto.41 Il celebre campo di Carlo il Temerario davanti a Neuss è stato approntato con tutta la pompa fastosa di una corte: alcuni hanno fatto innalzare la loro tenda “per plaisance” a forma di castello, con gallerie e giardini tutt’intorno.42 Le descrizioni delle imprese belliche dovevano essere inserite nel quadro delle concezioni cavalleresche. Era necessario distinguere, per ragioni tecniche, tra battaglia e scontro, perché ogni combattimento doveva avere il suo posto e il suo nome negli annali della gloria. Così Monstrelet dice: “Si fut de ce jour en avant ceste besongne appellée la rencon156
tre de Mons en Vimeu. Et ne fu déclairée à estre bataille, pour ce que les parties rencontrèrent l’un l’autre aventureusement, et qu’il n’y avoit comme nulles bannières desploiées”.43 Enrico V d’Inghilterra battezza solennemente la sua grande vittoria, “pour tant que toutes batailles doivent porter le nom de la prochaine forteresse où elles sont faictes”, battaglia d’Azincourt.44 Passare la notte sul campo di battaglia era ritenuto il segno riconosciuto della vittoria.45 Nel coraggio del principe in battaglia talvolta si sospetta un carattere artificioso. Froissart descrive un combattimento tra Edoardo III e un nobile francese, avvenuto a Calais, con termini che farebbero supporre che non sia poi una cosa così seria. “Là se combati li rois à monsigneur Ustasse moult longuement et messires Ustasse à lui et tant que il les faisoit moult plaisant veoir.” Finalmente il Francese si arrende e la vicenda termina con una cena offerta dal re al suo prigioniero.46 Nel combattimento di Saint Richier Filippo di Borgogna, a causa del pericolo, fa indossare la sua magnifica armatura a un altro, ma si dice che lo fa per mettersi meglio alla prova, come semplice guerriero.47 Quando i giovani duchi di Berry e di Bretagna seguono Carlo il Temerario nella sua guerre du bien public, a quanto racconta Commines, indossano false corazze di raso con chiodini dorati.48 Dappertutto, dai buchi dell’abito di gala cavalleresco, trapela la finzione. La realtà smentisce continuamente l’ideale, che rimane sempre più circoscritto nella sfera della letteratura, della festa e del gioco; soltanto qui si poteva mantenere l’illusione della bella vita cavalleresca; solo nella stretta cerchia di cui si fa parte tutti quei sentimenti hanno ancora valore. Sorprendentemente, lo spirito cavalleresco viene meno 157
proprio quando si dovrebbe mostrare nei confronti dei non appartenenti alla stessa classe. Non appena si tratta delle classi inferiori, scompare ogni richiamo alla nobiltà cavalleresca. Il nobile Chastellain non ha la minima comprensione per l’ostinato senso dell’onore borghese del ricco birraio che non vuole dare in sposa sua figlia al soldato del duca, e che per questo rischia la vita e gli averi.49 Froissart racconta, senz’ombra di rispetto, che Carlo VI volle vedere il cadavere di Filippo d’Artevelde. “Quand on l’eust regardé une espasse on le osta de là et fu pendus à un arbre. Velà le darraine fin de che Philippe d’Artevelle.”50 Il re, addirittura, non si sarebbe trattenuto dal dare un calcio al cadavere, “en le traitant de vilain”.51 Nella guerra del 1382 le più orribili atrocità compiute contro i cittadini di Gand dai nobili, che rimandarono in città quaranta barcaioli, che trasportavano grano, mutilati e accecati, non raffreddarono affatto l’entusiasmo di Froissart per la cavalleria.52 Chastellain, che va in estasi per le gesta eroiche di Jacques de Lalaing e dei suoi simili, menziona senza alcuna simpatia quelle di un ignoto scudiero di Gand, che assalì da solo Lalaing.53 La Marche, a proposito delle azioni eroiche compiute da un popolano di Gand, dice, in modo ingenuo, che sarebbe stato importante se fosse stato “un homme de bien”.54 In tutti i modi, del resto, la realtà imponeva agli spiriti la negazione dell’ideale cavalleresco. L’arte della strategia aveva abbandonato ormai da tempo le regole del torneo; la guerra del XIV e del XV secolo era una guerra di attacchi a sorpresa, di scorrerie e di raid. Gli inglesi per primi presero a far smontare da cavallo i cavalieri in battaglia, uso ripreso poi dai francesi.55 Eustache Deschamps dice con sarcasmo 158
che ciò serve a impedire la fuga.56 Froissart aggiunge che è spaventoso combattere in mare, perché non si può indietreggiare e fuggire.57 Risulta decisamente ingenuo il passo sulla insufficienza delle concezioni cavalleresche come principio militare nel Débat des hérauts d’armes de France et d’Angleterre, un trattato scritto verso il 1455, in cui, sotto forma di dialogo, si discute sulla supremazia della Francia o dell’Inghilterra. L’araldo inglese ha chiesto al francese perché il suo re non mantenga una grande flotta, come fa quello d’Inghilterra. L’araldo francese risponde che non ne ha bisogno, inoltre che la nobiltà francese preferisce la guerra terrestre a quella navale, per diverse ragioni: “Car il y a danger et perdicion de vie, et Dieu scet quelle pitié quant il fait une tourmente, et si est la malladie de la mer forte à endurer à plusieurs gens. Item, et la dure vie dont il fault vivre, qui n’est pas bien consonante à noblesse.”58 Anche se con risultati ancora marginali, il cannone annunciava già futuri cambiamenti della guerra. Quasi per ironia del destino la quintessenza dei cavalieri erranti “à la mode de Bourgogne”, Jacques de Lalaing, fu ucciso da un colpo di cannone.59 C’era nella carriera militare dei nobili un aspetto economico che spesso viene riconosciuto con grande franchezza. Ogni pagina della storia militare del tardo Medioevo fa intendere quanto fosse importante prendere prigionieri dei maggiorenti, in vista del riscatto. Froissart non trascura di menzionare quanto ha guadagnato l’autore di un colpo di mano riuscito.60 Ma, oltre ai profitti immediati della guerra, avevano un posto di rilievo nella vita del cavaliere anche le pensioni, le rendite e i posti di governatore. La carriera è apertamente accettata come scopo. “Je sui uns povres homs qui desire mon avancement”, dice Eustache de Ribeumont. 159
Froissart racconta le sue infinite avventure cavalleresche anche per dare esempi ai coraggiosi “qui se désirent à avanchier par armes”.61 Deschamps scrive una ballata nella quale i cavalieri, gli scudieri e i sergenti della corte di Borgogna attendono con impazienza il giorno della paga, e che ha come refrain: Et quant venra le tresorier?62 Chastellain trova ovvio e conveniente che chi ambisce alla gloria terrena sia avaro e calcolatore, “fort veillant et entendant à grand somme de deniers, soit en pensions, soit en rentes, soit en gouvernemens ou en pratiques”.63 E persino il nobile Boucicaut, proposto a modello a tutti i cavalieri, non sembra essere stato privo di una particolare avarizia.64 Il misurato Commines valuta un nobile secondo il suo salario come “ung gentilhomme de vingt escuz”.65 Tra tutte le esaltazioni della vita e della guerra cavalleresca risuona di tanto in tanto la cosciente negazione dell’ideale cavalleresco: con toni talvolta realistici, talvolta di scherno. Anche gli stessi nobili, talvolta, scorgevano la miseria dorata e la falsità di quella vita fatta di guerre e di tornei.66 Non c’è da stupirsi che due spiriti sarcastici, Luigi XI e Philippe de Commines, che per la cavalleria non avevano che ironia e disprezzo, siano diventati amici. La descrizione che Commines fa della battaglia di Montlhéry, nel suo misurato realismo, è decisamente moderna. Qui non ci sono belle azioni eroiche, né un immaginario svolgimento drammatico, ma solamente la relazione, lievemente sarcastica, di un continuo andirivieni, di dubbi e paure. Egli sembra provare piacere nel raccontare una fuga disonorevole e un coraggio che ritorna una volta che il pericolo è passato. Usa raramente la parola “honneur” e tratta 160
l’onore quasi come un male necessario. “Mon advis est que s’il eust voulu s’en aller ceste nuyt, il eust bien faict… Mais sans doubte, là où il avoit de l’honneur, il n’eust point voulu estre reprins de couardise.” Invano cerchiamo la terminologia cavalleresca persino laddove racconta scontri sanguinosi: egli ignora le parole coraggio e cavalleria.67 Forse Commines aveva ereditato quel suo spirito prosaico dalla madre, la zelandese Margaretha van Arnemuiden? Pare infatti che in Olanda, nonostante Guglielmo IV di Hainaut, vanitoso avventuriero, lo spirito cavalleresco stesse prematuramente declinando, mentre proprio lo Hainaut, col quale era unita, è sempre stato il paese della nobiltà cavalleresca. Nel Combat des Trente il migliore tra gli inglesi fu un certo Crokart, a suo tempo al servizio dei signori di Arkel. Aveva accumulato, in guerra, una ingente fortuna: ben 60.000 corone e una scuderia di trenta cavalli; inoltre si era procurato una grande fama di valoroso, cosicché il re di Francia gli promise un titolo nobiliare e un ottimo matrimonio, se avesse voluto diventare francese. Crokart tornò in Olanda con la sua gloria e le sue ricchezze e vi visse da nababbo; ma i signori olandesi sapevano bene chi fosse e lo evitarono, tanto che egli tornò nel paese dove la fama cavalleresca era più apprezzata.68 Quando Giovanni di Nevers si prepara a intraprendere il viaggio in Turchia, dove avrebbe trovato la morte a Nicopoli, Froissart fa dire dal duca Alberto di Baviera, conte d’Olanda, Zelanda e Hainaut, a suo figlio Guglielmo: “Guillemme, puisque tu as la voulenté de voyager et aler en Honguerie et en Turquie et quérir les armes sur gens et pays qui oncques riens ne nous fourfirent, ne nul article de raison tu n’y as d’y aler fors que pour la vayne gloire de ce monde, laisse Jean de 161
Bourgoigne et nos cousins de France faire leurs emprises, et fay la tienne à par toy, et t’en va en Frise et conquiers nostre héritage”.69 Di tutti i paesi borgognoni, la nobiltà di Olanda, tra i voti per la crociata alla festa di Lilla, era di gran lunga la meno rappresentata. Quando, dopo la festa, si raccolsero per iscritto altri voti nei diversi paesi, ne arrivarono ancora 27 dall’Artois, 54 dalle Fiandre, 27 dallo Hainaut, ma dall’Olanda solo 4 e per di più con toni che esprimevano delle riserve e prudenza. I Brederode e i Montfoort promisero dei sostituti comuni.70 La cavalleria non sarebbe stata l’ideale di vita per più secoli se non avesse contenuto dei valori importanti per lo sviluppo della società e se non fosse stata necessaria sia socialmente che eticamente ed esteticamente. Un tempo era la stessa magnifica esagerazione a dare forza a questo ideale. È come se lo spirito medioevale, con la sua passionalità sanguigna, potesse essere guidato solamente da ideali elevati: così fece la Chiesa, così fece il pensiero cavalleresco. “Without this violence of direction, which men and women have, without a spice of bigot and fanatic, no excitement, no efficiency. We aim above the mark to hit the mark. Every act hath some falsehood of exaggeration in it.”71 Tuttavia quanto più un ideale culturale necessita di virtù supreme, tanto maggiore è il divario tra modello di vita e realtà. L’ideale cavalleresco, con il suo contenuto ancora semireligioso, poteva essere professato solamente in un’epoca che sapeva ancora chiudere gli occhi davanti a realtà troppo crude, che era propensa all’illusione assoluta. Quando una civiltà si rinnova preme affinché vengano abbandonate le aspirazioni troppo alte delle vecchie forme di vita. Il cavalie162
re si trasforma nel gentilhomme francese del XVII secolo, che certo conserva ancora tutta una serie di concetti di classe e d’onore, ma non si fa più passare per un campione della fede, un difensore dei deboli e degli oppressi. Al tipo francese di gentiluomo subentra il gentleman, che deriva direttamente dall’antico cavaliere, però è più misurato e raffinato. A ogni successiva trasformazione dell’ideale si stacca una parte della scorza esterna, divenuta ormai menzogna.
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8. La stilizzazione dell’amore
Da quando i trovatori provenzali del XII secolo avevano intonato, per primi, la melodia del desiderio inappagato, i violini avevano suonato sempre più forte i canti d’amore, finché il solo Dante riuscì a suonare lo strumento con più purezza. Una delle svolte più importanti dello spirito medioevale fu l’aver sviluppato, per la prima volta, un ideale d’amore su basi negative. Certamente anche nell’antichità venivano cantati i sospiri e i tormenti dell’amore; ma i sospiri non erano forse considerati come un rinvio e uno stimolo in vista del sicuro appagamento? E nel finale tragico del racconto d’amore il momento culminan e non era il desiderio frustrato, ma la crudele separazione degli amanti a opera della morte, come in Cefalo e Procride, Piramo e Tisbe. Il dolore non nasceva dall’insoddisfazione erotica, ma dall’amaro destino. Soltanto nell’amore cortese dei trovatori è la stessa insoddisfazione a costituire il tema centrale. Si creò pertanto una forma di erotismo capace di assimilare un gran numero di contenuti etici, senza per questo rinunciare mai completamente al nesso con l’amore naturale per la donna. Dallo stesso amore sensuale scaturì il nobile culto della donna che 164
non pretende di essere esaudito, e l’amore divenne il campo nel quale si fece fiorire ogni perfezione estetica e morale. Il nobile amante, secondo la teoria dell’amore cortese, grazie al suo amore diventa virtuoso e puro; l’elemento spirituale prende sempre più il sopravvento; infine l’amore porta a uno stato di conoscenza e devozione sante: è la vita nuova. A questo punto doveva esserci una svolta. Con il dolce stil nuovo, Dante e i suoi contemporanei avevano toccato l’estremo, Petrarca oscilla di nuovo tra la spiritualità dell’amore cortese e l’ispirazione nuovamente tratta dall’antichità. E da Petrarca fino a Lorenzo de’ Medici il canto d’amore, in Italia, ripercorre la strada della sensualità naturale, che compenetrava anche i modelli antichi tanto ammirati. Il tema dell’amore cortese, elaborato con così grande arte, era stato nuovamente abbandonato. In Francia, e nei paesi che subirono l’influsso dello spirito francese, la svolta era avvenuta in modo diverso. Lo sviluppo dell’idea erotica, fin dalla massima fioritura della lirica cortese, è meno semplice. Le forme del sistema conservano la loro validità, ma acquistano un altro spirito. Lì, prima ancora che la Vita nuova avesse trovato l’armonia eterna in una passione tutta spirituale, il Roman de la Rose aveva infuso nuovo contenuto alle forme dell’amore cortese. Per circa due secoli l’opera di Guillaume de Lorris e di Jean Clopinel (o Chopinel)1 de Meung, iniziata prima del 1240 e portata a termine prima del 1280, non solo ha completamente dominato le forme dell’amore aristocratico, ma ha fornito altresì, con la sua ricchezza enciclopedica di digressioni in tutti i campi possibili del sapere, il tesoro al quale i laici colti hanno attinto la parte più viva della loro educazione intellettuale. 165
Non si potrà mai valutare secondo la sua reale importanza il fatto che la classe dominante di un intero periodo ha acquisito la sua conoscenza della vita e la sua erudizione attraverso una sorta di ars amandi. In nessun’altra epoca l’ideale della cultura mondana si è amalgamato a tal punto con quello dell’amore per la donna come in quella che va dal XII al XV secolo. Tutte le virtù cristiane e sociali, tutte le forme più alte di vita erano inserite, mediante questo sistema, nel quadro dell’amore fedele. La concezione erotica della vita, sia nella sua antica forma di amor cortese, sia come viene espressa nel Roman de la Rose, può essere posta sullo stesso piano della scolastica contemporanea. Entrambe esprimono un grandioso tentativo dello spirito medioevale di comprendere sotto un unico punto di vista tutto ciò che è vita. Nella variopinta rappresentazione delle forme dell’amore si concentrava tutta l’aspirazione a una vita bella. Chi cercava la bellezza nell’onore e nel rango, chi voleva abbellire la sua vita con fasto e magnificenza, chi insomma la cercava nell’orgoglio, si ritrovava continuamente a fare i conti con la vanità di quelle cose. Ma per coloro che non si erano congedati da ogni felicità terrena il godimento della bellezza sembrò essere, in sé, lo scopo e l’essenza dell’amore. Non si trattava allora di creare una vita bella da nobili forme per accompagnare natali illustri, qui abitavano la bellezza più profonda e la felicità suprema, che attendevano solamente di essere adornate con colore e stile. Ogni cosa bella, ogni fiore e ogni suono, poteva servire a delineare gli aspetti dell’amore. Il desiderio di stilizzare l’amore era più che un gioco vano. Era la violenza stessa della passione a spingere questa veemente società tardomedioevale a elevare la vita amorosa 166
a un bel gioco con nobili regole. Soprattutto era necessario, pena la barbarie, inquadrare le emozioni in forme fisse. Il compito di porre un freno alla sregolatezza dei ceti più bassi era affidato alla Chiesa, che lo svolgeva come può svolgerlo una Chiesa. L’aristocrazia, che si sentiva più indipendente dalla Chiesa, in quanto detentrice di una cultura parzialmente laica, pose da sé un freno alla licenziosità, dando all’erotismo aspetti raffinati; letteratura, moda e buone maniere esercitarono un’influenza moderatrice sulla vita amorosa. O, per lo meno, crearono una bella apparenza secondo la quale ci si illuse di vivere. Perché, in fondo, la vita amorosa rimase particolarmente volgare, anche tra le classi superiori. Nei costumi quotidiani c’era poi un’aperta sfacciataggine, che le epoche successive hanno perso. Il duca di Borgogna fa riordinare i bagni pubblici per la legazione inglese che egli attende a Valenciennes, “pour eux et pour quiconque avoient de famille, voire bains estorés de tout ce qu’il faut au mestier de Vénus, à prendre par choix et par élection ce que on désiroit mieux, et tout aux frais du duc”.2 La riservatezza di Carlo il Temerario, suo figlio, viene rimproverata da molti come sconveniente a un principe.3 Tra i divertimenti meccanici del parco di Hesdin, i conti menzionano “ung engien pour moullier les dames en marchant par dessoubz”.4 Tuttavia la rozzezza non implica solamente un venir meno dell’ideale, e anche la sregolatezza, come l’amore nobilitato, ha uno stile proprio, e molto antico, che può essere definito lo stile epitalamico. In materia di fantasie amorose una società raffinata, come quella del tardo Medioevo, eredita un tal numero di motivi antichissimi che gli stili erotici vi fanno a gara tra loro o vi si fondono. Radici molto più antiche e altrettanto vitali dell’amor cortese aveva la forma primitiva 167
di erotismo che esalta la stessa relazione sessuale, e che, sebbene la cultura cristiana l’avesse privata della sua dignità di mistero sacro, rimaneva sempre molto viva. L’intero apparato epitalamico, con il suo riso spudorato e il suo simbolismo fallico aveva fatto parte, un tempo, degli stessi riti sacri delle nozze. La celebrazione del matrimonio e le feste nuziali erano state un unico grande mistero che aveva il suo fulcro nell’accoppiamento. Poi era subentrata la Chiesa riservandosi gli aspetti sacri e il mistero, trasferendoli nel sacramento dell’unione matrimoniale. Gli accessori del mistero, il corteo e il canto e le grida di giubilo li aveva lasciati ai festeggiamenti nuziali, dove, spogliati del loro carattere sacrale, essi permanevano con maggior dissolutezza, e la Chiesa era impotente a reprimerli. Nessuna pudicizia ecclesiastica poté smorzare il grido della vita: Hymen o Hymenaee! Nessuna convinzione puritana ha fatto sparire dai costumi l’indecente pubblicità della prima notte di nozze, del resto ancora in auge nel nostro XVII secolo. Solamente l’individualismo moderno, che volle avvolgere nel silenzio e nell’oscurità ciò che riguardava due soli, ha infranto questo costume. Se si pensa che ancora nel 1641, alle nozze del giovane principe d’Orange con Maria d’Inghilterra, non mancarono i practical jokes, per impedire quasi allo sposo, ancora ragazzo, di consumare il matrimonio, allora non ci si stupisce della sfacciata baldoria che soleva accompagnare i matrimoni dei principi e dei nobili verso il 1400. Il ghigno osceno con cui Froissart racconta le nozze di Carlo VI con Isabella di Baviera, o l’epitalamio che Deschamps dedicò ad Antonio di Borgogna, possono servire di esempio.5 Le Cent nouvelles nouvelles raccontano con la massima naturalezza di una cop168
pia che sposatasi alla prima messa, dopo un pasto leggero va subito a letto.6 Tutti gli scherzi che riguardavano le nozze e la vita amorosa in genere venivano ritenuti convenienti anche alle dame. Le Cent nouvelles nouvelles si presentano, sia pure con un po’ d’ironia, come “glorieuse et édifiant euvre”, come racconti “moult plaisants à raconter en toute bonne compagnie”. Il “noble homme Jean Régnier”, un poeta serio, compone una ballata lasciva su richiesta di Madama di Borgogna e di tutte le dame e damigelle della sua corte.7 È chiaro che tutto questo non è sentito come una violazione dell’alto e rigoroso ideale dell’onore e del decoro. Esiste qui un contrasto che non può essere chiarito considerando semplicemente un’ipocrisia le forme nobili e il grande senso del pudore che il Medioevo mostra in altri campi, né, tanto meno, l’indecenza è una dissolutezza saturnale. Sarebbe ancora più erroneo considerare le oscenità epitalamiche un segno di decadenza e di affettazione aristocratica, come è accaduto nei confronti del nostro XVII secolo.8 I doppi sensi, i giochi di parole osceni, le omissioni lascive sono di casa nello stile epitalamico, vi sono da sempre; diventano comprensibili quando, alla luce del loro retroterra etnologico, li si considera come resti, ridotti a forme di convivenza sociale, del simbolismo fallico della cultura primitiva, quindi come un mistero svuotato. Ciò che una volta, quando la cultura non aveva ancora tracciato il confine tra gioco e serietà, aveva unito la sacralità del rituale all’entusiasmo della gioia di vivere, poteva rimanere vivo, in una società cristiana, solo sotto forma di arguzie e scherno. In netta opposizione alla pietà e allo spirito cortese, negli usi nuziali le fantasie sessuali si mantenevano in tutta la loro esuberanza. Si può, volendo, considerare tutto il genere comicoeroti169
co, il racconto, la farsa, la canzone, come una serie di germogli selvaggi nati dal tronco dell’epitalamio. Tuttavia il nesso con tale possibile origine si è perso da tempo e si è sviluppato un genere letterario a sé, il cui unico scopo è diventato l’effetto comico. Solamente la natura della comicità è ancora la stessa dell’epitalamio: essa si basa, in genere, su allusioni simboliche a cose sessuali, o sul travestimento dell’amore sensuale in concetti propri di qualche professione. Quasi ogni lavoro o mestiere offriva, allora come sempre, la sua terminologia all’allegoria erotica. Nel XIV e nel XV secolo furono soprattutto il torneo, la caccia e la musica a fornire la materia.9 Le vicende amorose trattate in forma di processo, come gli Arrestz d’amour, non rientrano, in realtà, nella categoria dei travestimenti. Esisteva però un altro campo da cui spesso si traeva spunto per dare nuova veste agli elementi erotici, ovvero quello religioso. Nel Medioevo si esprimeva in termini religiosi la vita sessuale con una naturalezza straordinaria. Nelle Cent nouvelles nouvelles solamente parole come bénir o confesser vengono usate in senso osceno, oppure il gioco di parole tra saints e seins, che fu ripetuto all’infinito. Tuttavia, in una concezione più raffinata, l’allegoria religioso-erotica si trasforma in una forma letteraria a sé. È la cerchia di poeti del sensibile Carlo d’Orléans, che immagina l’amore sotto le sembianze dell’ascesi conventuale, della liturgia e del martirio. Si fanno chiamare Les amoreux de l’observance, alludendo ai francescani, obbligati da una recente riforma a costumi più severi. È come un pendant ironico dell’austera serietà del dolce stil nuovo. La tendenza sacrilega viene parzialmente compensata dall’intimità del sentimento amoroso. Ce sont ici les dix commandemens, 170
Vray Dieu d’amours… Così egli profana i dieci comandamenti. Oppure il giuramento fatto sul Vangelo: Lors m’appella, et me fist les mains mettre Sur ung livre, en me faisant promettre Que feroye loyaument mon devoir Des points d’amour…10 Di un amante morto dice: Et j’ay espoir que brief ou paradis Des amoreux sera moult hault assis, Comme martir et très honnoré saint. E della propria amata defunta: J’ay fait l’obseque de ma dame Dedens le moustier amoureux, Et le service pour son ame A chanté Penser doloreux. Mains sierges de soupirs piteux Ont esté en son luminaire, Aussi j’ay fait la tombe faire De regrets…11 Ne L’amant rendu cordelier de l’observance d’amour, vera poesia che descrive nei minimi particolari il ricovero di un amante sconsolato nel convento dei martiri dell’amore, l’effetto vagamente comico, assicurato dal travestimento ecclesiastico, è preparato ormai con cura. È come se l’erotismo dovesse continuamente cercare, persino in maniera perversa, il contatto con l’elemento sacro che aveva perduto da molto tempo. 171
Per diventare cultura, l’erotismo doveva cercare a tutti i costi uno stile, una forma che lo racchiudesse e un’espressione che lo coprisse. E anche quando disdegnò tale forma e scese dall’allegoria scabrosa all’esposizione diretta e senza veli della vita sessuale, rimase suo malgrado stilizzato. L’intero genere, che uno spirito grossolano può facilmente ritenere un naturalismo erotico, in cui gli uomini sono instancabili e le donne sempre disponibili, è, al pari dell’amore cortese più elevato, una finzione romantica. Che altro è, se non romanticismo, l’abbandonare pavidamente tutte le complicazioni naturali e sociali dell’amore, dare al lato falso, egoistico e tragico della vita sessuale la bella apparenza di una gioia indisturbata? Anche qui si manifesta un grande impulso culturale: l’aspirazione alla vita bella, il bisogno di sognare una vita migliore di quella reale, e quindi forzare la vita amorosa dentro la forma di un desiderio fantastico, ma questa volta l’esagerazione implica l’animalità. Anche qui un ideale di vita: l’ideale della lussuria. La realtà, in tutte le epoche, è sempre stata peggiore e più brutale di come la vedeva il raffinato ideale letterario dell’amore; ma anche più pura e più castigata di come la raffigurava lo scialbo erotismo, che passa generalmente per naturalismo. Eustache Deschamps, poeta di mestiere, ha l’abitudine, in un gran numero di ballate comiche nelle quali prende la parola, di abbassarsi a dire le volgarità più licenziose. Ma non è lui il vero eroe di quelle vicende oscene, in mezzo alle quali si trova una poesiola delicata, in cui ricorda a sua figlia le grandi doti della madre morta.12 Come fonte di letteratura e di cultura l’intero genere epitalamico, con tutte le sue propaggini e diramazioni, doveva rimanere sempre in secondo piano; suo tema principale è 172
l’estremo e completo appagamento dei sensi, è erotismo immediato. C’è però un erotismo mediato che può servire a dar forma e ornamento alla vita e ha come tema la possibilità dell’appagamento, la promessa, il desiderio, la rinuncia, l’approssimarsi della felicità. Qui l’appagamento supremo è trasferito nell’inespresso, avvolto da tutti i lievi veli dell’attesa. L’erotismo mediato ha, così, un respiro molto più ampio e copre un campo d’azione molto più vasto, perché non solo conosce l’amore en majeur o con una maschera ilare, ma è anche capace di trasformare i tormenti amorosi in bellezza, e ha perciò un valore vitale infinitamente più alto. Può assimilare gli elementi etici della fedeltà, del coraggio, della nobile dolcezza, e così facendo unirsi ad altri aneliti che non siano solo quelli dell’ideale d’amore. In perfetto accordo con la mentalità del basso Medioevo, che voleva raffigurare e ordinare in sistema tutto il pensiero fin nei minimi particolari, il Roman de la Rose aveva dato all’intera cultura erotica una forma così variopinta, così definita e così ricca, da divenire come un tesoro di liturgia, dottrina e leggenda profane. Ed è proprio il carattere ambiguo del Roman de la Rose, frutto di due poeti di natura e idee completamente diverse, a renderlo più accessibile come bibbia della cultura erotica, in quanto vi si trovavano testi utilizzabili per scopi diversi. Guillaume de Lorris, il primo poeta, coltivava ancora l’antico ideale cortese. Erano suoi l’affascinante disegno e la gioiosa, soave fantasia dell’argomento. È il tema ricorrente del sogno. Egli immagina di uscire presto di casa, una mattina di maggio, per ascoltare il canto dell’usignolo e dell’allodola. Il suo sentiero lo porta lungo un fiume fino al muro del misterioso giardino dell’amore, sul quale vede dipinte le 173
immagini dell’Odio, del Tradimento, della Villania, dell’Avidità, dell’Avarizia, dell’Invidia, della Malinconia, della Vecchiaia, del Bigottismo (Papelardie) e della Povertà, qualità anticortesi. Ma Dame Oiseuse (l’Ozio), l’amica di Déduit (il Piacere), gli apre la porta. Lì dentro Liesse (l’Allegria) conduce la danza. Il Dio dell’Amore balla la ridda con la Bellezza, insieme alla Ricchezza, alla Liberalità, alla Franchezza (Franchise), alla Cortesia (Courtoisie) e alla Giovinezza. Mentre il poeta, alla fontana di Narciso, si estasia nell’ammirare il bocciolo di rosa che vi scorge, il Dio dell’Amore lo colpisce con le sue frecce: Beauté, Simplesse, Courtoisie, Compagnie e Beau-Semblant. Il poeta si dichiara vassallo (homme lige) d’Amore, Amore gli chiude il cuore con una chiave e gli rivela i suoi comandamenti, i suoi mali (maux) e i suoi beni (biens). Questi ultimi si chiamano Esperance, Doux-Penser, Doux-Parler, Doux-Regard. Bel-Accueil, figlio di Courtoisie, lo invita ad avvicinarsi alla rosa, ma poi arrivano i custodi: Danger, Male-Bouche, Peur e Honte, e lo scacciano. Adesso cominciano le difficoltà. Raison scende dalla sua alta torre per persuadere l’amante. Ami lo consola. Venus tende i suoi tranelli contro Chasteté; Franchise e Pitié lo riconducono da Bel-Accueil, che gli permette di baciare la rosa. Ma Male-Bouche lo racconta, Jalousie accorre e allora si costruisce un solido muro intorno alla rosa. Bel-Accueil viene rinchiuso in una torre. Danger e i suoi compagni sorvegliano le porte. Con un lamento dell’amante termina l’opera di Guillaume de Lorris. Poi, probabilmente molto tempo dopo, è venuto Jean de Meung, e ha proseguito il lavoro con un seguito molto più esteso dandogli una conclusione. Gli sviluppi dell’azione, l’attacco e la conquista del castello delle rose da parte di 174
Amour e dei suoi alleati, le virtù cortesi, ma anche Bien Celer e Faux-Semblant, tutto è sommerso da una marea di digressioni, considerazioni, racconti, con i quali il secondo poeta ha reso l’opera una vera enciclopedia. Ma ciò che è davvero importante è che egli si mostrò uno spirito così disinvolto, così freddamente scettico e crudelmente cinico, quale il Medioevo raramente produsse, e oltretutto maneggiò la lingua francese come pochi. L’idealismo ingenuo e leggero di Guillaume de Lorris fu oscurato dallo spirito negativo di Jean de Meung, che non credeva ai fantasmi e ai maghi e neanche all’amore fedele e alla virtù femminile, che guardava ai problemi patologici, che metteva in bocca a Venus, Nature e Genius la difesa più audace dell’impeto sensuale. Temendo di essere sconfitto con tutto il suo esercito, Amour manda Franchise e Doux-Regard da Venus, sua madre, che dà ascolto all’appello e accorre in suo aiuto sul suo carro tirato da colombe. Quando Amour la mette al corrente della situazione, ella giura di non accettare mai più la castità in nessuna donna e incita Amour a fare lo stesso giuramento riguardo agli uomini, e l’intero esercito giura con lui. Nel frattempo, nella sua fucina, Nature è alle prese con la conservazione delle specie, la sua lotta secolare contro la Morte, e si lamenta amaramente del fatto che di tutte le creature solamente l’uomo trasgredisca i suoi comandamenti e si astenga dal procreare. Per ordine suo Genius, suo sacerdote, dopo la lunga confessione nella quale Nature gli rivela le sue opere, si reca presso l’esercito di Amour, per scagliare l’anatema di Nature contro coloro che disubbidiscono ai suoi comandamenti. Amour adorna Genius con una casula, un anello, un pastorale e una mitra; Venus, ridendo a crepa175
pelle, gli mette in mano una candela accesa, “qui ne fu pas de cire vierge”. La scomunica viene introdotta dalla condanna della verginità con un simbolismo ardito, che si risolve in un misticismo singolare. Per coloro che non seguono i comandamenti della natura e dell’amore, c’è l’inferno, per gli altri un prato fiorito dove il Figlio della Vergine sorveglia le sue bianche pecore, che brucano con delizia infinita i fiori e l’erba che lì fioriscono incorruttibili. Dopo che Genius ha lanciato nella fortezza la candela la cui fiamma incendia il mondo intero, comincia la lotta finale intorno alla torre. Anche Venus scaglia la sua fiaccola; poi Honte e Peur fuggono, e Bel-Accueil permette all’amante di cogliere la rosa. Qui, dunque, il motivo sessuale era tornato a essere, consapevolmente, il fulcro del racconto, ed era rivestito da un tale, ingegnoso mistero, anzi da una sacralità così grande, che non era possibile una sfida maggiore all’ideale di vita religioso. Per la sua ispirazione decisamente pagana il Roman de la Rose può essere considerato un passo verso il Rinascimento e solo nella sua forma esteriore appare tipicamente medioevale. Del resto, che cosa c’è di più medioevale della personificazione, portata all’estremo, delle emozioni e delle situazioni dell’amore? Le figure del Roman de la Rose: BelAccueil, Doux-Regard, Faux-Semblant, MaleBouche, Danger, Honte, Peur stanno sullo stesso piano delle raffigurazioni tipicamente medioevali delle virtù e dei peccati sotto sembianze umane: allegorie o qualcosa di più, mitologemi non del tutto creduti. Dov’è però il confine tra queste rappresentazioni e le ninfe, i satiri e gli spiriti nuovamente tornati in vita nel Rinascimento? Sono tolte da un’altra sfera, ma il lo176
ro significato è identico, e l’abbigliamento dei personaggi della Rose fa pensare spesso alle figure del Botticelli splendidamente adorne di fiori. Il sogno d’amore era qui raffigurato in una forma insieme artificiosa e appassionata. L’allegoria minuziosa appagava tutte le esigenze della fantasia medioevale. Senza personificazioni lo spirito non avrebbe potuto esprimere e condividere i moti dell’animo. Tutto il colore e l’eleganza di quell’incomparabile spettacolo di marionette erano necessari per formare un sistema teorico, comprensibile, dell’amore. Si maneggiavano le figure Danger, Nouvel-Penser, Male-Bouche come i termini correnti di una psicologia scientifica. Il tema centrale manteneva vivo l’interesse, perché al posto del pallido omaggio a una dama sposata, che i trovatori avevano posto in alto come oggetto irraggiungibile della loro languida adorazione, compariva nuovamente il motivo erotico più naturale: il fascino intenso del segreto della verginità, simboleggiata dalla rosa, da vincere con arte e tenacia. In teoria, l’amore del Roman de la Rose è rimasto cortese e nobile. Il giardino delle delizie è solo per gli eletti, e accessibile solo in virtù dell’amore. Chi vuole accedervi deve essere libero dall’odio, dalla slealtà, dalla villania, dall’avidità, dall’avarizia, dall’invidia, dalla vecchiaia, dall’ipocrisia. Tuttavia, le virtù positive che egli deve contrapporre a tutto questo dimostrano che l’ideale non è più etico, come nell’amore cortese, ma solamente aristocratico. Esse sono: l’indifferenza, l’attitudine per il piacere, l’allegria, l’amore, la bellezza, la ricchezza, la liberalità, la franchezza (franchise) e la cortesia, ovvero non più altrettante possibilità di migliorare attraverso la luce che irradia dall’amata, ma mezzi efficaci per conquistarla. E non è più l’adorazione, sia pur falsa, del177
la donna ad animare l’opera, bensì, per lo meno nel secondo poeta, Jean Clopinel, l’amaro disprezzo per la sua debolezza, disprezzo che ha la sua origine nello stesso carattere sensuale di questo amore. Malgrado la sua grande influenza sugli spiriti, il Roman de la Rose non riuscì a soppiantare del tutto la più antica concezione dell’amore. Accanto all’esaltazione del flirt resisteva anche l’idea dell’amore puro, fedele e capace di sacrifici, elemento essenziale dell’ideale di vita cavalleresco. Nella cerchia variopinta della lussuosa vita aristocratica intorno al re di Francia e ai suoi zii di Berry e di Borgogna, era nata una disputa su quale concezione dell’amore si addicesse di più al vero gentiluomo: quella dell’amor cortese con la sua languida fedeltà e il suo onesto servizio verso una sola dama, o quella del Roman de la Rose, dove la fedeltà era soltanto un mezzo per raggiungere la donna. Il nobile cavaliere Boucicaut, in un viaggio in Oriente nel 1388, aveva fatto di sé e dei suoi compagni di viaggio i difensori della fedeltà cavalleresca, e ingannato il tempo componendo il Livre des cent ballades, dove la decisione tra flirt e fedeltà è rimessa al giudizio dei beaux-esprits della corte. Le parole con le quali, qualche anno dopo, Christine de Pisan si avventurò nel dibattito, nascevano da una serietà più profonda. Questa coraggiosa paladina dell’onore e dei diritti delle donne fece parlare il dio dell’amore in un’epistola che conteneva i lamenti delle donne per la perfidia e le calunnie degli uomini.13 Ella respingeva sdegnata la dottrina del Roman de la Rose. Alcuni la sostennero, ma il lavoro di Jean de Meung poteva sempre contare su una schiera di ammiratori e difensori appassionati. Ne seguì una disputa letteraria, nella quale 178
presero la parola numerosi sostenitori e denigratori. E certo non erano uomini insignificanti quelli che parteggiavano per la Rose: molti uomini intelligenti, sapienti, coltissimi, così assicurava Jean de Montreuil, prevosto di Lilla, ammiravano il Roman de la Rose in modo tale da dedicargli quasi un culto (paene ut colerent), e avrebbero preferito fare a meno della camicia piuttosto che del libro.14 Per noi non è facile comprendere l’atmosfera intellettuale ed emotiva dalla quale scaturiva questa difesa, perché non erano affatto frivoli gentiluomini di corte a perpetrarla, ma austeri alti funzionari, talvolta persino religiosi, come il citato prevosto di Lilla, Jean de Montreuil, segretario del Delfino e in seguito del duca di Borgogna, che, sull’argomento, fu in corrispondenza epistolare, in latino, con i suoi amici Gontier e Pierre Col, e incoraggiò altri ad assumere la difesa di Jean de Meung. La cosa più singolare è che questo circolo, che si dichiarava difensore di quell’opera medioevale frivola e variopinta, è lo stesso che coltivò i primi germi dell’Umanesimo francese. Jean de Montreuil è l’autore di un gran numero di epistole ciceroniane, piene di locuzioni, di retorica e di vanità umanistiche. Insieme ai suoi amici Gontier e Pierre Col è in corrispondenza con il severo teologo, di idee riformatrici, Nicolas de Clemanges.15 Jean de Montreuil prendeva certamente sul serio le proprie opinioni letterarie. Scrive a un ignoto giurista che aveva attaccato il Romanzo: “Più approfondisco l’importanza dei misteri e i misteri dell’importanza di quell’opera profonda e celebre di maestro Jean de Meung, più mi stupisco della sua disapprovazione”. Lo difenderà fino all’ultimo respiro, e
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molti, come lui, serviranno quella causa con la penna, la parola e i fatti.16 Per provare che la disputa sul Roman de la Rose era comunque qualcosa di più che una parte del grande gioco di società della vita di corte, prese infine la parola Jean Gerson, celebre teologo e cancelliere dell’Università di Parigi, un uomo che parlava solamente per amore della più alta moralità e della dottrina più pura. Dal suo studio, la sera del 18 maggio 1402, datò un trattato contro il Roman de la Rose.17 Era una risposta all’accusa che Pierre Col aveva rivolto a uno scritto precedente del Gerson,18 e anche questo non era il primo scritto che Gerson dedicava al romanzo; il libro gli sembrava la peste più pericolosa, la fonte di ogni immoralità; voleva osteggiarlo in ogni occasione. A più riprese egli scende in campo contro l’influenza dannosa “du vicieux romant de la rose”,19 e afferma che se ne avesse una copia, l’unica esistente e del valore di mille sterline, preferirebbe bruciarla piuttosto che venderla e farla pubblicare. Gerson prese a prestito la forma della sua argomentazione dallo stesso avversario: una visione allegorica. Un mattino, al risveglio, sente che il cuore gli sfugge, “moyennant les plumes et les eles de diverses pensees, d’un lieu en autre jusques a la court saincte de crestiente”. Lì esso incontra Justice, Conscience e Sapience, e ascolta come Chasteté accusi il Fol amoureux, cioè Jean de Meung, di averla esiliata dalla terra con tutti i suoi seguaci. Le sue “bonnes gardes” sono proprio le figure cattive del romanzo: “Honte, Paour et Dangier le bon portier, qui ne oseroit ne daigneroit ottroyer neïs un vilain baisier ou dissolu regart ou ris attraiant ou parole legiere”. Castità scaglia una serie di rimproveri contro il Fol amoureux. “Il gette partout feu plus ardant et plus puant que 180
feu gregeois ou de souffre.” Egli fa insegnare dalla vecchia maledetta “comment toutes jeunes filles doivent vendre leurs corps tost et chierement sans paour et sans vergoigne, et qu’elles ne tiengnent compte de decevoir ou parjurer”.20 Egli deride il matrimonio e la vita monastica; volge tutta la fantasia ai piaceri carnali, e, ciò che è peggio, fa mescolare da Venus e persino da Dame Raison le idee del paradiso e dei misteri cristiani con quelle del godimento sensuale. Il pericolo stava proprio nel fatto che la grande opera con il suo miscuglio di sensualità, cinismo beffardo e simbolismo elegante risvegliava negli spiriti un misticismo sensuale che doveva apparire all’austero teologo un abisso di peccato. Che cosa non aveva poi osato affermare Pierre Col, avversario di Gerson! 21 Solo il Fol amoureux può giudicare il valore di quella insana passione; chi non la conosce la vede soltanto come in uno specchio, enigmatica. Egli aveva dunque adoperato per l’amore terreno la sacra parola di San Paolo nell’epistola ai Corinzi, per parlare di esso come il mistico fa per la sua estasi! Ebbe il coraggio di dichiarare che il Cantico dei Cantici di Salomone era stato composto in lode della figlia del Faraone, e che coloro che avevano disprezzato il libro della Rose avevano piegato le ginocchia davanti a Baal. La Natura non vuole che un solo uomo basti a una sola donna, e il Genio della Natura è Dio. Osò poi utilizzare lo stesso Vangelo secondo Luca II 23, per provare che un tempo gli organi genitali femminili, la rosa del romanzo, erano stati sacri. E, pieno di fiducia in tutte quelle idee blasfeme, fece appello ai difensori dell’opera, una turba di testimoni, e predisse a Gerson che egli stesso si sarebbe trovato preso in un amore folle, come era accaduto ad altri teologi prima di lui. L’autorità del Roman de la Rose non è stata scalfita dal181
l’attacco di Gerson. Nel 1444 un canonico di Lisieux, Estienne Legris, offre a Jean Lebègue, cancelliere della Corte dei Conti di Parigi, un Répertoire du roman de la rose, scritto di sua mano.22 Ancora alla fine del xv secolo Jean Molinet può dichiarare che le massime contenute nella Rose erano diventate proverbiali,23 e fornisce un commento moraleggiante dell’intero romanzo, dove la fonte all’inizio del poema diventa il simbolo del battesimo, l’usignolo che chiama all’amore la voce dei predicatori e dei teologi, e la rosa Gesù stesso. Clément Marot ha scritto una versione moderna dell’opera, e persino Ronsard si serve ancora delle figure allegoriche Belacueil, Fausdanger e così via.24 Mentre letterati insigni combattevano la loro battaglia attraverso gli scritti, l’aristocrazia trovava in quella disputa un’ottima occasione per conversazioni allegre e divertimenti pomposi. Boucicaut, lodato da Christine de Pisan per aver tenuto alto l’antico ideale della fedeltà cavalleresca in amore, probabilmente colse in quelle parole lo spunto per fondare il suo Ordre de l’écu verd à la dame blanche in difesa delle donne oppresse. Ma non poté competere con il duca di Borgogna, e il suo ordine fu subito messo in ombra dalla grandiosa Cour d’amours, istituita il 14 febbraio 1401 nel palazzo d’Artois a Parigi, che era uno splendido salotto letterario. Filippo l’Ardito, duca di Borgogna, vecchio statista calcolatore che non avremmo mai immaginato coinvolto in queste faccende, insieme con Luigi di Borbone, aveva pregato il re di istituire una corte d’amore per avere un po’ di distrazione durante l’epidemia di peste che imperversava a Parigi, “pour passer partie du tempz plus gracieusement et affin de trouver esveil de nouvelle joye”.25 La corte d’amore era fondata sulle virtù dell’umiltà e della fedeltà, “à l’onneur, loenge et recomman182
dation et service de toutes dames et damoiselles”. I numerosi membri erano insigniti dei titoli più altisonanti: i due fondatori e Carlo VI erano Grands conservateurs; tra i Conservateurs c’erano Giovanni senza Paura, suo fratello Antonio di Brabante, il suo giovane figlio Filippo. C’è un Prince d’amour: Pierre de Hauteville, che veniva dallo Hainaut; ci sono Ministres, Auditeurs, Chevaliers d’honneur, Conseillers, Chevaliers trésoriers, Grands Veneurs, Ecuyers d’amour, Maîtres des requêtes, Secrétaires; insomma vi è riprodotto l’intero apparato di corte e di governo. Accanto a principi e prelati, troviamo anche borghesi e membri del basso clero. Le attività e il cerimoniale erano organizzati con molta cura, e ricordavano molto una comune camera di retorica. Ai membri venivano assegnati dei refrain da svolgere in tutte le abituali forme poetiche: “ballades couronnées ou chapelées”, chansons, sirventois, complaintes, rondeaux, lais, virelais etc. Si dovevano tenere dei dibattiti “en forme d’amoureux procès, pour différentes opinions soustenir”. Le dame dovevano distribuire i premi ed era proibito comporre versi che potessero ledere l’onore femminile. Come sono splendidamente borgognoni quell’atteggiamento pomposo e solenne, quelle forme austere per un grazioso divertimento! È sorprendente, anche se spiegabile, che la corte professasse il severo ideale della nobile fedeltà. Tuttavia l’asserire che dopo i circa quindici anni di vita della società, i settecento membri noti siano stati tutti sinceri partigiani di Christine de Pisan e quindi nemici del Roman de la Rose come Boucicaut, contraddice i fatti. Tutto quello che sappiamo dei costumi di Antonio di Brabante e di altri gran signori li rende poco adatti al ruolo di difensori dell’onore femminile. Uno di loro, Regnault d’Azincourt, ordisce il rat183
to, fallito, della giovane vedova di un mercante, in grande stile, con venti cavalli e un prete.26 Un altro, il conte di Tonnerre, è colpevole di un simile misfatto. E, a dimostrazione inconfutabile che tutto era solamente un bel gioco di società, ritroviamo tra i membri della Corte Jean de Montreuil, Gontier e Pierre Col,27 ovvero gli stessi avversari di Christine de Pisan nella tenzone letteraria sul Roman de la Rose.
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9. Le convenzioni dell’amore
Tramite la letteratura conosciamo le forme in cui l’amore viene espresso in una data epoca e che poi dobbiamo immaginare nella vita stessa. Esisteva un vero e proprio sistema di forme convenzionali per riempire la vita di un giovane aristocratico. Tanti simboli, tante figure dell’amore sono state abbandonate a poco a poco nei secoli seguenti. In luogo di Amore c’era l’intera bizzarra mitologia del Roman de la Rose. Senza dubbio Bel-Accueil, Doux-Penser, FauxSemblant e gli altri sono vissuti nell’immaginario, oltre che nei prodotti letterari. C’era poi il significato sottile dei colori dei vestiti, dei fiori e dei gioielli. Il simbolismo dei colori, che ancora oggi non è stato completamente dimenticato, aveva un posto importante nella vita amorosa del Medioevo. Chi non lo conosceva a sufficienza, trovava una guida ne Le blason des couleurs, scritto verso il 1458 dall’araldo Sicile,1 tradotto in versi nel xv secolo e deriso da Rabelais, non tanto per disprezzo nei confronti della materia trattata, quanto forse perché egli stesso aveva pensato di scrivere qualcosa sull’argomento.2 Quando Guillaume de Machaut vede per la prima volta la sua amata, va in estasi perché, sopra una veste bianca, ella 185
porta un cappuccio di stoffa azzurra con dei pappagalli verdi: il verde è il colore dell’amor nuovo e l’azzurro della fedeltà. In seguito, trascorsa la stagione felice del suo amore poetico, egli sogna la dama che, distesa sul suo letto, volge altrove il viso, ed è tutta vestita di verde, “qui nouvelleté signifie”. Egli la rimprovera in una ballata: En lieu de bleu, dame, vous vestez vert.3 Gli anelli, i veli, tutti i gioielli e i regali dell’amore avevano la loro funzione particolare, con i loro motti ed emblemi misteriosi che degeneravano spesso nei rebus più artificiosi. Nel 1414, il Delfino va in guerra con uno stendardo che aveva, in oro, un K, un cigno (cygne) e una L; ciò indicava il nome di una dama di corte di sua madre Isabeau, chiamata “la Cassinelle”.4 Un secolo dopo, Rabelais deride ancora i “glorieux de court et transporteurs de noms”, che nei loro motti indicano “espoir” con una “sphere”, “peine” con “pennes d’oiseaux”, “melancholie” con un’aquilegia (ancholie).5 C’erano poi gli indovinelli amorosi, come Le Roi qui ne ment, Le chastel d’amours, Ventes d’amour, Jeux à vendre. La fanciulla nomina un fiore o qualcos’altro; il giovane deve trovare una rima con un complimento: Je vous vens la passerose. – Belle, dire ne vous ose Comment Amours vers vous me tire. Si l’apercevez tout sanz dire.6 Lo Chastel d’amours era uno di questi giochi fatti di domande e risposte, basato sulle figure del Roman de la Rose: Du chastel d’Amours vous demant: Dites le premier fondement! 186
– Amer loyaument. Or me nommez le mestre mur Qui joli le font, fort et seur! – Celer sagement. Dites moy qui sont li crenel, Les fenestres et li carrel! – Regart atraiant. Amis, nommez moy le portier! – Dangier mauparlant. Qui est la clef qui le puet deffermer? – Prier courtoisement.7 Un ruolo importante nelle conversazioni a corte era svolto, sin dai tempi dei trovatori, dalla casistica dell’amore. Era, per così dire, l’elevazione della curiosità e della calunnia a forma letteraria. Oltre che da “beaulx livres, dits, ballades”, il pranzo alla corte di Luigi d’Orléans viene rallegrato da “demandes gracieuses”.8 Per la decisione ci si affida soprattutto al poeta. Una comitiva di dame e di signori si reca da Machaut con una serie di “partures d’amours et de ses aventures”.9 Nel suo Jugement d’amour egli aveva difeso la tesi che la dama che perde l’amante a causa della morte sia meno da compiangere dell’amante di una donna infedele. Ogni caso amoroso veniva esaminato in quel modo, secondo norme rigorose. “Bel sire, che cosa preferireste: che si parlasse male della vostra amata e voi trovaste in lei del bene, o che si parlasse bene di lei e voi trovaste in lei del male?” Al che, in ossequio all’alto concetto formale di onore e al solenne dovere dell’amante di vegliare sul buon nome dell’amata, la risposta non poteva che essere: “Dame, j’aroie plus chier que j’en oïsse bien dire et y trouvasse mal”. Se una dama è trascu187
rata dal suo primo amante, agisce in malafede prendendone un altro più sincero? Un cavaliere, che ha perduto ogni speranza di vedere la sua dama, perché un marito geloso la tiene rinchiusa, può rivolgersi finalmente a un nuovo amore? Quando un cavaliere lascia la sua amata per una donna altolocata e poi, respinto, le chiede nuovamente perdono, l’onore di lei le permette di perdonarlo?10 Da questa casistica all’esposizione delle questioni d’amore in forma di processo, come ha fatto Martial d’Auvergne nel suo Arrestz d’amour, il passo è breve. Conosciamo tutte queste convenzioni amorose solamente grazie alle loro ripercussioni letterarie, ma esse facevano parte della vita reale. Quel codice di concetti, regole e forme cortesi non serviva esclusivamente a verseggiare, ma anche a metterle in pratica, se non proprio nella vita, almeno nella conversazione aristocratica. Però è molto difficile scorgere la vita dell’epoca tra i veli della poesia, perché anche la descrizione più minuziosa possibile di un amore reale è comunque falsata dall’ideale vigente, con l’apparato tecnico delle concezioni amorose correnti e lo stile del genere letterario. Così è per la narrazione, troppo lunga, di un amore poetico tra un vecchio poeta e una Marianna trecentesca, Le livre du Voir-Dit (cioè Vera storia) di Guillaume de Machaut.11 Egli deve aver avuto all’incirca sessant’anni, quando la diciottenne Peronnelle d’Armentières,12 di una illustre famiglia della Champagne, gli mandò nel 1362 il suo primo rondeau, nel quale ella offriva il suo cuore al celebre poeta, che non aveva mai incontrato, pregandolo di iniziare con lei una corrispondenza amorosa in versi. Il povero poeta, malato, orbo da un occhio, tormentato dalla gotta, s’infiamma subito. Risponde al rondeau e inizia uno scambio di lettere e di poesie. Peron188
nelle è fiera del suo legame letterario; all’inizio non lo tiene segreto. Vuole che egli racconti fedelmente tutto il loro amore, comprese le loro lettere e poesie. Egli assolve quel compito con gioia; “je feray, à vostre gloire et loenge, chose dont il sera bon memoire”.13 “Et, mon très-dour cuer,” le scrive, “vous estes courrecié de ce que nous avons si tart commencié? (come avrebbe potuto, lei, cominciare prima?) par Dieu aussi suis-je (a maggior ragione); mais ves-cy le remede: menons si bonne vie que nous porrons, en lieu et en temps, que nous recompensons le temps que nous avons perdu; et qu’on parle de nos amours jusques à cent ans cy après, en tout bien et en toute honneur; car s’il y avoit mal, vous le celeriés à Dieu, se vous poviés.”14 Che cosa fosse compatibile con un amore onesto lo insegna il racconto nel quale Machaut inserisce le lettere. Egli riceve, dopo averne fatto richiesta, il suo ritratto che onora come Dio in terra. Si avvia al primo incontro angosciato dai suoi difetti e la sua felicità è all’apice quando si accorge che il suo aspetto non spaventa la giovane amata. Lei si mette a dormire, o fa finta, sotto un ciliegio sul suo grembo, e gli concede anche favori maggiori. Un pellegrinaggio a Saint Denis e alla Foire du Lendit offre l’occasione di trascorrere qualche giorno insieme. Un pomeriggio la comitiva è stremata dalla confusione e dall’afa, essendo la metà di giugno. Nella città stracolma di gente, trovano alloggio presso un uomo che cede una camera con due letti. Su uno dei due letti, nella stanza buia, si corica per un riposino pomeridiano la cognata di Peronnelle, sull’altro lei stessa con la sua cameriera. Lei esorta il timido poeta a mettersi tra loro due; egli rimane immobile per paura di disturbarla e quando lei si sveglia gli ordina di baciarla. Quando si avvicina la fine del bre189
ve viaggio, e lei si accorge della sua tristezza, gli permette di andare a svegliarla per congedarsi. E sebbene anche in questa occasione egli continui a parlare di “onneur” e di “onnesté”, non si comprende molto bene, dal suo racconto abbastanza esplicito, che cosa lei abbia potuto ancora negargli. Lei gli dà la piccola chiave d’oro del suo onore, affinché protegga con cura il suo tesoro, o ciò che era rimasto da salvaguardare, ossia la sua onorabilità.15 A questo punto la buona sorte abbandona il poeta, che, in mancanza di altre vicende, riempie la seconda metà del suo libro con interminabili racconti mitologici. Infine lei gli fa sapere che la loro relazione deve finire, a quanto pare a causa del suo matrimonio. Ma lui decide che l’amerà e l’onorerà per sempre e, dopo la loro morte, che il suo spirito chiederà a Dio di poter continuare ancora a chiamare, nella gloria eterna, l’anima di lei Toute-belle.16 Sia sui costumi che sui sentimenti, Le Voir-Dit ci dice di più della maggior parte della letteratura amorosa del tempo. Innanzitutto la straordinaria libertà che si poteva permettere questa giovane senza dare scandalo. Poi l’ingenua indifferenza che fa sì che tutto, persino il momento più intimo, si svolga in presenza di altri, siano essi la cognata, la cameriera o il segretario. Mentre i due si intrattengono sotto il ciliegio, quest’ultimo inventa persino un grazioso stratagemma: mentre lei sonnecchia mette una foglia sulla bocca di Peronnelle e dice a Machaut che deve baciare la foglia. Quando questi finalmente ci prova il segretario toglie la foglia cosicché lui sfiora la bocca di lei.17 Ugualmente significativa è l’armonia esistente tra doveri amorosi e doveri religiosi. Il fatto che Machaut, canonico della chiesa di Reims, appartenga al clero non va preso trop190
po sul serio. Gli ordini minori, sufficienti per il canonicato, all’epoca, non comportavano assolutamente l’obbligo del celibato. Anche Petrarca era canonico. Che si scelga un pellegrinaggio per incontrarsi non è inconsueto. I pellegrinaggi erano molto in voga per le avventure amorose. Ciononostante vi si partecipa con serietà, “très dévotement”.18 Durante un convegno precedente i due ascoltano insieme la messa, lui è seduto dietro di lei: …Quant on dist: Agnus Dei, Foy que je doy à Saint Crepais, Doucement me donna la pais, Entre deux pilers du moustier, Et j’en avoie bien mestier, Car mes cuers amoureus estoit Troublés, quant si tost se partoit.19 La paix era il piattino che girava per essere baciato, al posto del bacio di pace sulla bocca.20 Questo significa naturalmente che Peronnelle gli offrì le labbra. Un’altra volta lui la attende in un giardino, recitando il breviario. All’inizio di una novena (un ciclo di preghiere della durata di nove giorni), entrando in chiesa, sussurra il voto di comporre, in ognuno di quei nove giorni, una nuova poesia sull’amata, il che non gli impedisce di parlare della grande devozione con la quale pregava.21 Tutto ciò non deve far pensare a un’intenzione frivola o profana; Guillaume de Machaut è in fin dei conti un poeta serio e di nobili sentimenti. È solo la disinvoltura, per noi quasi incomprensibile, con cui, prima di Trento, le pratiche religiose e la vita quotidiana si intrecciavano. Ne parleremo di nuovo tra poco. 191
Il sentimento che emerge dalle lettere e dalla descrizione di questo caso d’amore è debole, sdolcinato e un po’ morboso. L’espressione dei sentimenti rimane avviluppata in dissertazioni precedute da lunghi preamboli e rivestita di immagini allegoriche e di sogni. C’è qualcosa di commovente nell’intimità del canuto poeta che, descrivendo la sua meravigliosa felicità e l’eccellenza di Toute-belle, non si rende conto che in realtà lei ha giocato con lui e con i suoi sentimenti. Pressappoco della stessa epoca del Voir-Dit è un’altra opera di Machaut che potrebbe, in un certo senso, esserne un riscontro: Le livre du chevalier de la Tour-Landry pour l’enseignement de ses filles.22 Il milieu di questo scritto è quello dei nobili, così come nel romanzo di Machaut e Peronnelle d’Armentières; ma mentre quest’ultimo si svolgeva nella Champagne e a Parigi e dintorni, il cavaliere de La Tour ci trasporta nell’Angiò e nel Poitou. Tuttavia stavolta non si tratta di un vecchio poeta che ama, ma di un padre piuttosto prosaico che canta ricordi della sua gioventù, aneddoti e racconti “pour mes filles aprandre à roumancier”. Noi diremmo: per insegnar loro le debite forme negli affari di cuore. Però quell’insegnamento non è affatto romantico. Gli esempi e gli ammonimenti che il coscienzioso gentiluomo offre alle figlie mirano piuttosto ad avvertirle dei pericoli del flirt romantico. Guardatevi da coloro che sono facondi, sempre pronti a “faulx regars longs et pensifs et petits soupirs et de merveilleuses contenances affectées et ont plus de paroles à main que autres genz”.23 Non siate troppo compiacenti. Una volta, da ragazzo, egli fu condotto in un castello da suo padre, che sperava in un fidanzamento, per conoscere una giovane donna. La ragazza l’aveva accolto con molta cordia192
lità. Per metterla alla prova egli parlò con lei di tutto. La conversazione cadde sui prigionieri, e il giovane nobile fece un complimento signorile: “Ma demoiselle, il vaudroit mieulx cheoir à estre vostre prisonnier que à tout plain d’autres, et pense que vostre prison ne seroit pas si dure comme celle des Angloys”. “Si me respondit qu’elle avoyt vue nagaires cel qu’elle vouldroit bien qu’il feust son prisonnier. Et lors je luy demanday se elle luy feroit male prison, et elle me dit que nennil et qu’elle le tandroit ainsi chier comme son propre corps, et je lui dis que celui estoit bien eureux d’avoir si doulce et si noble prison. Que vous dirai-je? Elle avoit assez de langaige et lui sambloit bien, selon ses parolles, qu’elle savoit assez, et si avoit l’ueil bien vif et legier.”24 Congedandolo lo pregò due o tre volte di tornare presto, come se lo conoscesse già da molto tempo. “Et quant nous fumes partis, mon seigneur de père me dist: ‘Que te samble de celle que tu as veue. Dy m’en ton avis’.” Ma il suo incoraggiamento troppo sollecito gli aveva tolto la voglia di approfondire la conoscenza. “Mon seigneur, elle me samble belle e bonne, maiz je ne luy seray jà plus de près que je suis, si vous plaist.” Del fidanzamento non se ne fece più niente, e, naturalmente, il cavaliere in seguito non ebbe motivo di pentirsene.25 Simili scenette del vissuto personale, che ci fanno vedere come i costumi si adeguassero all’ideale, sono purtroppo estremamente rare nei secoli in questione. Peccato che il cavaliere de La Tour Landry non ci abbia raccontato qualcosa di più della propria vita. Anch’egli ci dà per lo più considerazioni di natura generale. Egli pensa soprattutto a un buon matrimonio per le figlie, e il matrimonio aveva poco a che fare con l’amore. Riporta anche un lungo “debat” avuto con la moglie su ciò che è lecito in amore, “le fait d’amer par amours”, e dice che 193
una ragazza può, in certi casi, amare con decoro, per esempio “en esperance de mariage”, mentre per sua moglie, al contrario, una ragazza non dovrebbe innamorarsi affatto, neanche del suo fidanzato. Ciò non fa che allontanarla dalla vera pietà. “Car j’ay ouy dire à plusieurs, qui avoient esté amoureuses en leur juenesce, que, quant elles estoient à l’église, que la pensée et la merencolie26 leur faisoit plus souvent penser à ces estrois pensiers et deliz de leurs amours que ou (au) service de Dieu,27 et est l’art d’amours de telle nature que quant l’en (on) est plus au divin office, c’est tant comme le prestre tient nostre seigneur sur l’autel, lors leur venoit plus de menus pensiers.”28 Machaut e Peronnelle avrebbero potuto confermare questa acuta osservazione psicologica. Ma che differenza tra la concezione del poeta e quella del cavaliere! E come conciliare con questa austerità il fatto che il padre racconti sovente, per istruire le figlie, storielle che, per il loro contenuto scabroso, non avrebbero sfigurato nel Cent nouvelles nouvelles? Proprio il sottile legame delle belle forme dell’ideale dell’amore cortese con la realtà del fidanzamento e del matrimonio faceva sì che l’elemento del gioco, della conversazione, del divertimento letterario potesse estrinsecarsi più liberamente in tutto quello che riguardava la raffinata vita amorosa. L’ideale dell’amore, la bella finzione della fedeltà e del sacrificio non trovavano posto nelle considerazioni materiali che portavano al matrimonio, soprattutto al matrimonio tra nobili. Esso poteva essere vissuto solo sotto le sembianze di un gioco affascinante e edificante. Il torneo dava a quel gioco dell’amore romantico una forma eroica. L’idea pastorale forniva la forma idilliaca.
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10. La visione idilliaca della vita
La forma di vita cavalleresca era troppo carica di ideali di bellezza, di virtù e di bontà. Considerandola con spassionato senso della realtà, come faceva per esempio Commines, tutta questa decantata cavalleria appare inutile e falsa, una rappresentazione artefatta, un anacronismo ridicolo: le passioni vere, quelle che facevano agire gli uomini e determinavano il destino di stati e comunità, ne erano escluse. Se l’utilità sociale dell’ideale cavalleresco era diventata estremamente esigua, ancora più debole era il lato etico, ovvero la realizzazione della virtù cui l’ideale cavalleresco ambiva. Vista da un lato veramente spirituale, tutta quella nobile vita era unicamente peccato e vanità. Ma persino da un punto di vista puramente estetico l’ideale falliva; e la bellezza di quella forma di vita poteva essere negata in tutti i sensi. Anche se la vita cavalleresca alle volte sembrava desiderabile ai borghesi, tra la nobiltà stessa aleggiava una grande stanchezza e insoddisfazione . Quel bel gioco della vita di corte era così variopinto, così falso, così opprimente, da far desiderare la fuga da quell’arte di vivere, pur costruita così faticosamente, verso una semplicità sicura e la quiete. Due vie si allontanavano dall’ideale cavalleresco: quella 195
che conduceva alla vita reale e attiva e al moderno spirito di ricerca, e quella che conduceva alla fuga dal mondo. Quest’ultima via si biforcava come la Y di Pitagora: la linea principale era quella della vera vita spirituale, la linea laterale si teneva ai margini del mondo con i suoi piaceri. L’aspirazione a una vita bella era così forte che, anche là dove si erano affermate la vanità e la scellerataggine della vita di corte e d’armi, pareva ancora possibile una via d’uscita: quella della bellezza terrena, di un sogno ancora più soave e luminoso. L’antica illusione della vita pastorale rifulgeva ancora come una promessa di felicità naturale, con tutto lo splendore che aveva diffuso dai tempi di Teocrito. Una grande possibilità di appagamento sembrò possibile senza lotta, con una fuga dalla competizione satura di odio e di invidia per l’onore e per il rango, dal lusso e dal fasto opprimente e sovraccarico, e dalla guerra crudele e pericolosa. L’elogio della vita semplice era un tema che la letteratura medioevale aveva già ereditato dall’antichità. Non è identico al tema pastorale; si ha a che fare piuttosto con un’espressione positiva e una negativa del medesimo sentimento. Nel genere pastorale si descrive il contrasto positivo con la vita di corte; l’aspetto negativo è la fuga dalla corte, l’elogio dell’aurea mediocritas, il ripudio dell’ideale di vita aristocratico, per rifugiarsi chi nello studio, chi nella quiete solitaria, chi nel lavoro. Però i due motivi confluiscono continuamente. Sul tema della miseria della vita di corte già nel XII secolo Giovanni di Salisbury e Walter Mapes avevano scritto i loro trattati De nugis curialium. Nella Francia del Trecento il tema aveva trovato la sua espressione classica in un poema di Philippe de Vitri, vescovo di Meaux, musicista e poeta, loda-
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to dal Petrarca: Le Dit de Franc Gontier.1 Qui la fusione con il genere pastorale è completa. Soubz feuille vert, sur herbe delitable Lez ru bruiant et prez clere fontaine Trouvay fichee une borde portable, Ilec mengeoit Gontier o dame Helayne Fromage frais, laict, burre fromaigee, Craime, matton, pomme, nois, prune, poire, Aulx et oignons, escaillongne froyee Sur crouste bise, au gros sel, pour mieulx boire.2 Dopo il pranzo si baciano “et bouche et nez, polie et bien barbue”3; poi Gontier va nel bosco per abbattere un albero, mentre dame Helayne si mette a lavare. J’oy Gontier en abatant son arbre Dieu mercier de sa vie seüre: “Ne sçay – dit-il – que sont pilliers de marbre, Pommeaux luisans, murs vestus de paincture; Je n’ay paour de traïson tissue Soubz beau semblant, ne qu’empoisonné soye En vaisseau d’or. Je n’ay la teste nue Devant thirant, ne genoil qui s’i ploye. Verge d’ussier jamais ne me deboute, Car jusques la ne m’esprent convoitise, Ambicion, ne lescherie gloute. Labour me paist en joieuse franchise; Moult j’ame Helayne et elle moy sans faille, Et c’est assez. De tombel n’avons cure”. Lors je dy: “Las! serf de court ne vault maille, 197
Mais Franc Gontier vault en or jame pure”.4 Questa rimase, per le generazioni seguenti, l’espressione classica dell’ideale della vita semplice, con la sua sicurezza e indipendenza, con i piaceri della sobrietà, della salute, del lavoro e dell’amore coniugale naturale e disinvolto. Eustache Deschamps cantò a sua volta l’elogio della vita semplice e l’avversione per la corte in numerose ballate. Egli offre, tra l’altro, una fedele imitazione del Franc Gontier: En retournant d’une court souveraine Ou j’avoie longuement sejourné, En un bosquet, dessus une fontaine Trouvay Robin le franc, enchapelé, Chapeauls de flours avoit cilz afublé Dessus son chief et Marion sa drue…5 Egli amplia il tema schernendo la vita del guerriero e la cavalleria. Con grande serietà deplora la miseria e la crudeltà della guerra: non c’è condizione peggiore di quella del guerriero; i sette peccati capitali del suo lavoro quotidiano, la cupidigia e la vanagloria sono l’essenza della guerra. …Je vueil mener d’or en avant Estat moien, c’est mon oppinion, Guerre laissier et vivre en labourant: Guerre mener n’est que dampnacion.6 O maledice scherzando colui che vorrebbe sfidarlo a duello, o si fa apertamente proibire dalla sua dama il duello che vogliono imporgli a causa sua.7 Però di solito si tratta del tema dell’aurea mediocritas in sé. …Je ne requier à Dieu fors qu’il me doint En ce monde lui servir et loer, 198
Vivre pour moy, cote entiere ou pourpoint, Aucun cheval pour mon labour porter, Et que je puisse mon estat gouverner Moiennement, en grace, sanz envie, Sanz trop avoir et sanz pain demander, Car au jour d’ui est la plus seure vie.8 Sete di gloria e avidità non portano che miseria, il povero è contento e felice, e vive indisturbato e a lungo: …Un ouvrier et uns povres chartons Va mauvestuz, deschirez et deschaulx, Mais en ouvrant prant en gré ses travaulx Et liement fait son euvre fenir. Par nuit dort bien; pour ce uns telz cueurs loiaulx Voit quatre roys et leur regne fenir.9 L’idea che il semplice lavoratore sopravvive a quattro re piacque talmente al poeta che egli la riprese frequentemente.10 L’editore dell’opera poetica di Deschamps, Gaston Raynaud, ritiene che tutte le poesie in cui emerge questa tendenza,11 spesso tra le migliori di Deschamps, vadano attribuite al suo ultimo periodo, quando, destituito dalle sue cariche, abbandonato e deluso, avrebbe compreso la vanità della vita di corte.12 Si tratterebbe quindi di un ravvedimento. Ma non potrebbe essere stata piuttosto una reazione, un sintomo di stanchezza? Immagino che la stessa nobiltà, nel bel mezzo della sua vita di passioni dissolute e di eccessi, abbia desiderato e apprezzato queste produzioni del suo poeta, che aveva prostituito le sue doti per soddisfarne la grossolana voglia di ridere. 199
Verso il 1400, la cerchia nella quale il tema della condanna della vita di corte viene coltivato è quella del primo Umanesimo francese, strettamente legato al partito riformatore dei grandi concili. Lo stesso Pierre d’Ailly, grande teologo ed esperto di politica religiosa, tratteggia come pendant del Franc Gontier l’immagine del tiranno e della sua vita da schiavo piena di paure.13 Altri, di idee affini, adoperano allo stesso scopo la rifiorita forma epistolare latina: così Nicolas de Clemanges,14 così il suo corrispondente Jean de Montreuil.15 A quella cerchia apparteneva anche il milanese Ambrogio de Miliis, segretario del duca d’Orléans, che scrisse a Gontier Col un’epistola in cui un cortigiano mette in guardia un suo amico dall’entrare nel servizio di corte.16 Questa lettera, caduta nell’oblio, fu tradotta da Alain Chartier, famoso poeta aulico, o, per lo meno, apparve tradotta tra le sue opere con il titolo Le Curial.17 Le Curial fu poi ritradotto in latino dall’umanista Robert Gaguin.18 Un certo Charles de Rochefort trattò il tema in forma di poema allegorico, alla maniera del Roman de la Rose. Il suo L’abuzé en court fu attribuito a Re Renato.19 Jean Meschinot canta come tutti i suoi predecessori: La cour est une mer, dont sourt Vagues d’orgueil, d’envie orages… Ire esmeut debats et outrages, Qui les nefs jettent souvent bas; Traison y fait son personnage. Nage aultre part pour tes ebats.20 Nel XVI secolo il vecchio tema non aveva ancora perduto il suo fascino.21 Sicurezza, quiete e indipendenza sono le cose buone per 200
cui si vuol fuggire la corte per condurre una vita semplice, laboriosa e frugale in mezzo alla natura. Questo è il lato negativo dell’ideale. Il lato positivo non è però costituito tanto dalla gioia del lavoro e della semplicità, quanto dal piacere dell’amore naturale. La pastorale è, fondamentalmente, qualcosa di più di un genere letterario. Non si tratta di descrivere la vita dei pastori con i suoi piaceri semplici e naturali, ma di riviverla. È una imitatio. Si voleva credere che nella vita pastorale si fosse realizzato l’amore nella sua indisturbata naturalezza, e lì ci si voleva rifugiare, se non nella realtà, per lo meno in sogno. Ogni volta l’ideale pastorale è servito da rimedio per liberare gli spiriti dagli spasmi di un amore troppo dogmatico e stilizzato, per dare sfogo al desiderio di liberarsi non solo degli insopportabili concetti della fedeltà e della cortesia cavalleresche, del variopinto apparato delle allegorie, ma anche della grossolanità, dell’egoismo e dei peccati sociali della vita amorosa reale. Un amore semplice, facilmente appagabile, in mezzo ai piaceri innocenti della natura. Tale appariva la sorte di Robin e Marion, di Gontier e Helayne. Erano loro i felici, gli invidiabili; il tanto diffamato villano diviene a sua volta un ideale. Il tardo Medioevo è, però, ancora così autenticamente aristocratico e così inerme di fronte a una bella illusione, che l’entusiasmo per la vita a contatto con la natura non può ancora condurre a un forte realismo, ma rimane limitato, in pratica, a un abbellimento artificioso dei costumi di corte. Quando la nobiltà del XV secolo gioca al pastore e alla pastorella, non si può ancora parlare di vero culto della natura e di ammirazione per la semplicità e il lavoro. Quando Maria Antonietta, tre secoli dopo, munge e fa il burro a Trianon, 201
l’ideale è già pregno di tutta la serietà dei fisiocrati: natura e lavoro sono già diventate le grandi divinità dormienti dell’epoca; ma la cultura aristocratica le considera ancora un gioco. Ma quando, intorno al 1870, i giovani intellettuali russi si uniscono al popolo, per vivere da contadini per i contadini, l’ideale è diventato dolorosamente serio. E anche allora la realizzazione si rivelò un’illusione. C’è una sola forma poetica che rappresenta la transizione tra la vera pastorale e la realtà, ossia la Pastourelle, il poemetto che canta la facile avventura del cavaliere con la forosetta. L’erotismo diretto vi trova una forma elegante e fresca, che lo eleva al di sopra della volgarità, conservando però il fascino del sentimento naturale, paragonabile ad alcuni schizzi di Guy de Maupassant. Il sentimento, tuttavia, diventa davvero pastorale solo quando anche l’amante stesso si crede un pastore. In tal modo scompare ogni contatto con la realtà. Tutti gli elementi della concezione cortese dell’amore vengono semplicemente trasferiti in quello pastorale; un soleggiato paese dei sogni avvolge il desiderio in un velo di suoni di flauto e canti di uccelli. È un suono lieto; anche le tristezze dell’amore, i sospiri e i lamenti, il dolore di chi viene abbandonato, assumono quel tono dolce. Nella pastorale l’erotismo ritrova sempre il contatto con i piaceri della natura, che gli è indispensabile. Così la pastorale diventa il genere nel quale si sviluppa l’espressione letteraria del sentimento della natura. In un primo tempo essa non intende descrivere la bellezza della natura, ma il piacere immediato del sole e dell’estate, dell’ombra e dell’acqua fresca, dei fiori e degli uccelli. L’osservazione della natura e il quadro che se ne fa sono in secondo piano; lo scopo principale rimane il sogno d’amore; tutto 202
quel grazioso realismo offerto dalla poesia bucolica è solo un accessorio. L’affresco della vita rurale in una poesia come Le dit de la pastoure di Christine de Pisan inaugura un genere. Una volta divenuta un ideale aulico, la vita pastorale assume il carattere di una mascherata. Ogni cosa viene travestita alla moda bucolica. I mondi fantastici della pastorale e del romanticismo cavalleresco si confondono. Si allestisce un torneo come se fosse un dramma pastorale. Re Renato tiene il suo “Pas d’armes de la bergère”. Pare comunque che i contemporanei abbiano davvero visto in questa rappresentazione qualcosa di autentico: Chastellain assegna alla vita pastorale del Re Renato un posto tra le “Merveilles du monde”: J’ai un roi de Cécille Vu devenir berger Et sa femme gentille De ce mesme mestier, Portant la pannetière, La houlette et chappeau, Logeans sur la bruyère Auprès de leur trouppeau.22 Un’altra volta la pastorale serve a dare una veste poetica alla satira politica più offensiva. Non c’è opera più bizzarra del lungo poema bucolico Le Pastoralet.23 Un partigiano dei borgognoni ha trattato, in questa veste aggraziata, l’assassinio di Luigi d’Orléans, per scagionare Giovanni senza Paura e sfogare l’odio del partito borgognone. Léonet è il nome bucolico di Giovanni, Tristifer quello dell’Orléans; la descrizione della danza e degli addobbi floreali è condotta in mo203
do mirabile; perfino la battaglia di Azincourt è descritta in chiave pastorale.24 Nelle feste di corte non manca mai l’elemento pastorale. Si prestava infatti a meraviglia per le mascherate, che, come “entremets” conferivano splendore ai banchetti, ed era inoltre particolarmente adatto all’allegoria politica. L’immagine del principe come pastore e del popolo come gregge era già entrata per un altro verso negli animi: i Padri della Chiesa avevano insegnato che lo stato traeva origine dalla condizione pastorale. I patriarchi avevano vissuto da pastori; la vera autorità, quella secolare come quella spirituale, non dominava ma custodiva. Seigneur, tu es de Dieu bergier; Gardes ses bestes loyaument, Mets les en champ ou en vergier, Mais ne les perds aucunement, Pour ta peine auras bon paiement En bien le gardant, et se non, A male heure reçus ce nom.25 In questi versi delle Lunettes des princes di Jean Meschinot non c’è traccia di una vera rappresentazione pastorale. Ma non appena si andò a rappresentare qualcosa di simile, la confluenza fu spontanea. Un “entremets” per le nozze di Bruges nel 1468 celebrò le principesse del passato come “nobles bergieres qui par cy devant ont esté pastoures et gardes des brebis de pardeça”.26 Uno spettacolo dato a Valenciennes per il ritorno di Margherita d’Austria dalla Francia nel 1493 mostrava la ripresa del paese dopo le devastazioni “le tout en bergerie”.27 Noi troviamo la pastorale politica so-
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lo nei Leeuwendalers. L’immagine del principe come pastore risuona anche nel Wilhelmus: …Addio mio povere pecorelle Che siete in grandi ristrettezze, Il vostro pastore non dormirà, Tutte voi ora siete disperse.28 Persino in piena guerra si gioca con la fantasia pastorale. Le bombarde di Carlo il Temerario davanti a Granson si chiamano “le berger et la bergère”. Quando i francesi dicono per scherno che i fiamminghi non sono che pastori ignari dell’arte della guerra, Filippo di Ravenstein scende in campo con ventiquattro nobili, indossando il costume da pastore, con verga e panierino.29 Nella rappresentazione dei pastori di Betlemme fatta nei misteri confluivano quasi spontaneamente motivi pastorali, solo che in questo caso la sacralità dell’argomento vietava qualsiasi accenno all’amore, e i pastori dovevano entrare in scena senza pastorelle.30 Come il fedele amore cavalleresco contrapposto alle concezioni del Roman de la Rose aveva offerto materia a un’elegante tenzone, così anche l’ideale bucolico divenne oggetto di una disputa del genere. Anche qui si avvertiva una falsità che andava derisa. Come somigliava poco la vita aristocratica tardomedioevale, iperbolicamente artificiosa e troppo variopinta, all’ideale di semplicità, libertà e amore fedele e spensierato in mezzo alla natura! Sul tema del Franc Gontier di Philippe de Vitri, sulla semplicità dell’età dell’oro, le variazioni erano state infinite. Tutti dichiaravano di bramare il pasto di Franc Gontier, sull’erba, all’ombra, con dame Helayne, il suo menu a base di formaggio, burro, panna, mele, 205
cipolle e pane nero, e il suo gaio lavoro di spaccalegna, il suo senso della libertà e la sua spensieratezza: Mon pain est bon; ne faut que nulz me veste; L’eaue est saine qu’à boire sui enclin, Je ne doubte ne tirant ne venin.31 Talvolta si dimenticava la parte per un attimo. Lo stesso Eustache Deschamps, che canta più volte la vita di Robin e di Marion e fa l’elogio della semplicità della natura e della vita laboriosa, deplora il fatto che la corte balli al suono della cornamusa, “cet instrument des hommes bestiaulx”.32 Ma ci voleva la sensibilità molto più profonda e l’acuto scetticismo di un François Villon per scorgere tutta la falsità di quel bel sogno. C’è uno scherno spietato nella ballata Les contrediz Franc Gontier. Cinicamente Villon oppone alla serenità di quel villano ideale con il suo pasto di cipolle “qui causent fort alaine” e al suo amore sotto le rose, le comodità del grasso canonico che si gode la serenità e l’amore in una stanza ben tappezzata accanto al camino, con un buon vino e un soffice letto. Il pane nero e l’acqua di Franc Gontier? “Tous les oyseaulx d’ici en Babiloine” non avrebbero potuto trattenere Villon neanche una mattinata con un tale nutrimento.33 Come era già capitato al bel sogno del coraggio cavalleresco, anche le forme in cui la vita amorosa voleva diventare cultura finirono per essere rinnegate come false e bugiarde. Né l’entusiasmante ideale della nobile e casta fedeltà cavalleresca, né la voluttà crudelmente raffinata del Roman de la Rose, né la dolce, facile fantasia della pastorale potevano resistere alla tempesta della vita stessa. Quella tempesta si sollevava da ogni parte. Dal mondo religioso si diffonde la condanna di tutto ciò che è amore, come peccato che corrompe il mondo. Nello splendido calice del Roman de la Rose il 206
moralista scopre tutto l’amaro sedimento. “Donde,” esclama Gerson, “donde vengono i bastardi, donde gli infanticidi, gli aborti, donde l’odio e l’avvelenamento di coniugi?”34 Da parte delle stesse donne viene un’altra accusa: tutte quelle forme convenzionali dell’amore sono opera degli uomini. Anche laddove esse hanno assunto forme idealizzate, l’intera cultura erotica resta comunque il prodotto dell’egoismo maschile. Che altro è la continua denigrazione del matrimonio e delle debolezze della donna, della sua infedeltà e della sua vanità, se non il manto dell’egoismo maschile? A tutto quel mare di calunnie, dice Christine de Pisan, rispondo soltanto: non sono le donne che hanno scritto i libri.35 E, infatti, né nella letteratura erotica, né in quella devota del Medioevo troviamo molte tracce di vera simpatia per la donna, per la sua debolezza e i pericoli e i dolori che l’amore le prepara. La compassione si era stilizzata nell’artificioso ideale cavalleresco della liberazione della vergine, che altro non era poi che eccitazione e autocompiacimento. L’autore delle Quinze joyes de mariage, dopo che ha enumerato tutte le debolezze femminili, in una satira a tinte smorzate e delicate, si propone di descrivere anche i maltrattamenti che le donne subiscono,36 ma non lo fa. Per trovare un accordo profondo, tenero e femminile bisogna rivolgersi alla stessa Christine, che inizia così una poesia: Doulce chose est que mariage, Je le puis bien par moy prouver…37 Però com’è debole la voce di una sola donna rispetto al coro di scherno nel quale la volgare dissolutezza si associa alla predica morale. Perché tra il disprezzo omiletico delle donne e la negazione brutale dell’amore ideale da parte del-
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la sensualità prosaica e della saggezza da taverna il passo è breve. Il bel gioco dell’amore come forma di vita continuò alla maniera cavalleresca, pastorale e secondo l’ingegnoso scenario dell’allegoria della rosa, e anche se da ogni parte risonava il ripudio di tutte quelle convenzioni, quelle forme conservarono comunque la loro valenza nella vita e nella cultura per molto tempo, sopravvivendo al Medioevo. Perché le forme di cui l’ideale dell’amore deve pur sempre cingersi sono poche ed eterne.
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11. L’immagine della morte
Nessun’epoca ha inculcato l’idea della morte con tanta enfasi quanto il XV secolo. Senza sosta risuona, lungo tutta l’esistenza, il grido del memento mori. Nel suo Directorium vitae nobilium, Dionigi il Certosino ammonisce: “E quando egli si mette a letto, si ricordi che come ora si corica da sé, presto il suo corpo sarà deposto da altri nella tomba”.1 La fede aveva impresso anche prima negli animi, con serietà, il costante pensiero della morte, ma i devoti trattati del primo Medioevo raggiungevano solamente coloro che si erano comunque già separati dal mondo. Soltanto quando, con il fiorire degli ordini mendicanti, si affermò la predicazione popolare, quell’ammonimento crebbe fino a diventare un coro minaccioso che risuonò per il mondo con l’intensità di una “fuga”. Verso la fine del Medioevo alla parola del predicatore si aggiunge una nuova forma di illustrazione. La xilografia si fece strada in tutti gli ambienti. Questi due mezzi di espressione di massa, la predicazione e la stampa, potevano rendere l’idea della morte solamente con una rappresentazione molto semplice, immediata e vivace, aspra e violenta. Tutte le meditazioni sulla morte del monaco dei tempi passati venivano ora condensa209
te in un’immagine della morte estremamente primitiva, popolare e lapidaria, e sotto quella sembianza l’idea viene presentata, a parole e con figure, alla folla. Quell’immagine ha potuto accogliere, del grande complesso di idee intessuto intorno alla morte, in realtà solo un elemento: la nozione della caducità. Tre erano i temi che fornivano la melodia all’interminabile lamento sulla fine di ogni gloria terrena. Innanzitutto c’era il motivo: dove sono ora tutti coloro che una volta riempirono il mondo del loro splendore? Poi c’era il motivo dello spettacolo raccapricciante della putrefazione di tutto ciò che una volta era stato bellezza umana. Infine il motivo della Danza macabra, della morte che trascina con sé uomini di ogni condizione e di ogni età. Paragonato ai due ultimi motivi con il loro orrore insopportabile, il primo motivo (dove è andata a finire tutta la gloria passata?) non era che un lieve, elegiaco sospiro. È antichissimo e diffuso in tutto il mondo della Cristianità e dell’Islam. È presente già nel paganesimo greco; i Padri della Chiesa lo conoscono; lo si trova in Hafiz; Byron ancora lo usa.2 Nel tardo Medioevo, tuttavia, esso gode di una particolare popolarità. Lo troviamo accennato nei pesanti esametri rimati del monaco cluniacense Bernardo di Morlay intorno al 1140: Est ubi gloria nunc Babylonia? nunc ubi dirus Nabugodonosor, et Darii vigor, illeque Cyrus? Qualiter orbita viribus incita praeterierunt, Fama relinquitur, iliaque figitur, hi putruerunt. Nunc ubi curia, pompaque Julia? Caesar abisti! Te truculentior, orbe potentior ipse fuisti. 210
… Nunc ubi Marius atque Fabricius inscius auri? Mors ubi nobilis et memorabilis actio Pauli? Diva phillippica vox ubi coelica nunc Ciceronis? Pax ubi civibus atque rebellibus ira Catonis? Nunc ubi Regulus? aut ubi Romulus, aut ubi Remus? Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.3 Risuona ancora, meno scolastico, in versi che malgrado la loro struttura più breve serbano comunque ancora la risonanza dell’esametro rimato, nella poesia francescana del XIII secolo. Jacopone da Todi, lo “joculator Domini”, è con ogni probabilità l’autore delle strofe che, sotto il titolo Cur mundus militat sub vana gloria, contengono questi versi: Dic ubi Salomon, olim tam nobilis Vel Sampson ubi est, dux invincibilis, Et pulcher Absalon, vultu mirabilis, Aut dulcis Jonathas, multum amabilis? Quo Cesar abiit, celsus imperio? Quo Dives splendidus totus in prandio? Dic ubi Tullius, clarus eloquio, Vel Aristoteles, summus ingenio?4 Deschamps ha rimato lo stesso tema diverse volte; Gerson ne fa uso in una predica, Dionigi il Certosino nel trattato sui Novissimi. Chastellain tratta l’argomento in modo ampio in una lunga poesia, Le Miroir de mort, per tacere degli altri.5 Villon sa infondervi un nuovo accento: quello di una dolce
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malinconia, nella Ballade des dames du temps jadis con il refrain: Mais où sont les neiges d’antan?6 E in seguito lo spruzza d’ironia nella ballata dei signori, dove, tra i re, i papi e i principi del suo tempo, gli viene in mente di scrivere: Helas! et le bon roy d’Espaigne Duquel je ne sçay pas le nom?7 Cosa che il buon cortigiano Olivier de la Marche non si sarebbe mai permesso, lui che nel suo Parement et triumphe des dames compiange, avvalendosi del solito tema, tutte le principesse scomparse della sua epoca. Che cosa rimane di tutte quelle bellezze e glorie umane? Ricordi, un nome. Ma la malinconia di quel pensiero non basta a soddisfare il bisogno di inorridire davanti alla morte. Perciò quell’epoca fa in modo di specchiarsi in un orrore più visibile, la fugacità a breve termine: la decomposizione del cadavere. Lo spirito dell’asceta medioevale si era sempre soffermato volentieri sulla polvere e i vermi: nei trattati ecclesiastici sul disprezzo del mondo erano già stati evocati gli orrori del disfacimento. Ma l’elaborazione dei dettagli di quella rappresentazione viene più tardi. Dapprima, verso la fine del XIV secolo, le arti figurative si impadroniscono di questo motivo8; occorreva un certo grado di espressività realistica, per renderlo in modo efficace nella scultura e nella pittura, espressività raggiunta verso il 1400. Nello stesso tempo il motivo si diffonde dalla letteratura ecclesiastica a quella del popolo. Fino al XVI secolo inoltrato le tombe mostrano, con variazioni terribili, la figura del cadavere nudo, in decompo212
sizione o raggrinzito, con piedi e mani in preda a spasmi e con la bocca spalancata, con i vermi che si attorcigliano intorno agli intestini. Il pensiero vuole sempre soffermarsi su quegli orrori. Non è strano che non osi mai fare un passo avanti, per vedere come anche quella putrefazione si decomponga a sua volta e diventi terra e fiori? È davvero un pensiero pio quello che si lascia irretire dalla ripugnanza per l’aspetto terreno della morte? O è piuttosto la reazione di una sensualità troppo impetuosa, che soltanto così può destarsi dalla sua ebbrezza? È la paura di vivere che pervade quell’epoca, l’accordo profondo di delusione e scoraggiamento, che vuole tendere alla vera dedizione di chi ha resistito e ha vinto, ma che è ancora così vicino a tutto ciò che è passione terrena? Tutti questi stati d’animo, in questa espressione dell’idea della morte, si confondono. Paura di vivere: il rifiuto della bellezza e della felicità, in quanto legate a calamità e dolore. C’è una somiglianza straordinaria tra l’antica espressione indiana, in particolare buddistica, di questo sentimento e quella cristiano-medioevale. Lo stesso ribrezzo per la vecchiaia, la malattia e la morte, le stesse forti tinte della putrefazione. Il monaco credeva di aver fatto del suo meglio, quando aveva mostrato la superficialità della bellezza corporea. “La bellezza del corpo si limita alla pelle. Perché se gli uomini vedessero cosa c’è sotto la pelle, così come la lince in Beozia può vedere, si dice, dentro, rabbrividirebbero alla vista delle donne. Tutta quella grazia consiste di mucose e sangue, umori e bile. Se uno pensasse a ciò che si nasconde nelle narici, e nella gola e nel ventre, troverebbe sempre porcheria. E se ci ripugna persino toccare il muco o lo sterco con la punta delle dita, come
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potremmo mai desiderare di abbracciare proprio la sacca di sterco?”9 Lo sconsolato refrain del disprezzo del mondo era stato già fissato da tempo in più di un trattato, ma soprattutto in quello di Innocenzo III, De contemptu mundi, il quale sembra avere avuto la sua maggior diffusione solo verso la fine del Medioevo. Strano questo uomo di stato, il più potente e prospero sul seggio di Pietro, coinvolto e preso da così tanti affari e interessi terreni, e nel contempo autore, da giovane, di questo dileggio della vita. “Concipit mulier cum immunditia et fetore, parit cum tristitia et dolore, nutrit cum angustia et labore, custodit cum instantia et timore.”10 “La donna concepisce con immondezza e fetore, partorisce con tristezza e dolore, nutre con angustia e dolore, alleva con trepidazione e timore.” Le gioie della maternità non avevano forse alcun valore? “Quis unquam vel unicam diem totam duxit in sua delectatione jucundam… quem denique visus vel auditus vel aliquis ictus non offenderit?” “Chi ha mai trascorso un solo giorno interamente piacevole… senza essere offeso da una vista, un suono o un colpo?”11 Era sapienza cristiana o il broncio di un bambino viziato? Senza dubbio in tutto questo predomina il materialismo, che non poteva sopportare l’idea della caducità della bellezza senza disperare della bellezza stessa. E si noti bene che (per lo meno in letteratura, non tanto nelle arti figurative) si rimpiange soprattutto la bellezza femminile. Qui è tenue il confine tra l’ammonimento religioso a pensare alla morte e alla fugacità delle cose terrene e il lamento della vecchia amante sulla decadenza della bellezza, che ella non può più donare. Ecco un caso in cui l’ammonimento edificante è ancora in 214
primo piano. Nel convento dei celestini ad Avignone si trovava, prima della Rivoluzione, un dipinto che la tradizione attribuiva allo stesso artista fondatore, Renato. Raffigurava una donna ritta, con una graziosa acconciatura, avvolta nel suo lenzuolo funebre; i vermi divoravano il corpo. Le prime strofe dell’iscrizione dicevano: Une fois sur toute femme belle Mais par la mort suis devenue telle. Ma chair estoit très belle, fraische et tendre, Or est-elle toute tournée en cendre. Mon corps estoit très plaisant et très gent, Je me souloye souvent vestir de soye, Or en droict fault que toute nue je soye. Fourrée estois de gris et de menu vair, En grand palais me logeois à mon vueil, Or suis logiée en ce petit cercueil. Ma chambre estoit de beaux tapis ornée, Or est d’aragnes ma fosse environnée.12 Che tali ammonimenti fossero efficaci lo prova la leggenda tessuta al riguardo, che racconta come lo stesso re artista, l’amante della vita e della bellezza per eccellenza, abbia visto la sua amata nella tomba tre giorni dopo la sepoltura, e l’abbia poi dipinta. Lo stato d’animo tende già un po’ verso la sensualità mondana, quando si ammonisce contro la caducità non mostrando il cadavere orribile di un altro, ma additando ai viventi il proprio corpo, ancora bello, presto in pasto ai vermi. Olivier de la Marche conclude il suo edificante poema allegorico
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sull’abbigliamento femminile Le parement et triumphe des dames con la morte, che fa specchiare ogni bellezza e vanità: Ces doulx regards, ces yeulx faiz pour plaisance, Pensez y bien, ils perdront leur clarté, Nez et sourcilz, la bouche d’eloquence Se pourriront…13 Tuttavia questo è ancora un onesto memento mori. Ma esso si trasforma impercettibilmente in un lamento rammaricato, mondano ed egoista sui malanni della vecchiaia: Se vous vivez le droit cours de nature Dont lX ans est pour ung bien grant nombre, Vostre beaulté changera en laydure, Vostre santé en maladie obscure, Et ne ferez en ce monde que encombre. Se fille avez, vous luy serez ung umbre, Celle sera requise et demandée, Et de chascun la mère habandonnée.14 Siamo lontani da ogni intento devoto e edificante quando Villon compone la ballata nella quale “la belle heaulmière”, un tempo famosa cortigiana parigina, confronta il suo irresistibile fascino giovanile con la triste decadenza del suo corpo invecchiato. Qu’est devenu ce front poly, Ces cheveulx blons, sourcils voultiz, Grant entroeil, le regart joly, Dont prenoie les plus soubtilz; Ce beau nez droit, grant ne petiz, Ces petites joinctes oreilles, 216
Menton fourchu, cler vis traictiz Et ces belles lèvres vermeilles? … Le front ridé, les cheveux gris, Les sourcilz cheuz, les yeuls estains…15 Al violento ribrezzo della dissoluzione del corpo terreno si contrappone la grande importanza che si attribuisce all’incorruttibilità delle spoglie di alcuni santi, come Santa Rosa da Viterbo. È considerato una delle glorie più preziose di Maria il fatto che l’Assunzione abbia risparmiato al suo corpo la dissoluzione in terra.16 Ciò che qui si esprime è, in fondo, uno spirito materialistico, che non poteva distaccarsi dall’idea del corpo. È lo stesso spirito che si manifesta nella cura speciale con cui si trattavano alcune salme. C’era l’abitudine di comporre, subito dopo la morte, il viso di un illustre defunto, affinché non fossero visibili tracce di decomposizione prima dei funerali.17 Il cadavere di un predicatore della setta eretica dei Turlupins, che era morto a Parigi in prigione prima della sentenza, viene conservato per quattordici giorni in una botte con della calce, per poterlo bruciare insieme a un’eretica viva.18 È stato un uso molto diffuso quello di tagliare a pezzi e bollire i cadaveri dei maggiorenti, che erano morti lontani dalla loro dimora, finché la carne si staccava dalle ossa; queste poi venivano pulite e spedite in un baule per essere solennemente seppellite, mentre le viscere e la carne venivano inumate sul posto. Nel XII e XIII secolo quest’uso è molto in voga, tanto per i vescovi quanto per molti re.19 Nel 1299, e di nuovo nel 1300, viene proibito severamente da papa Bonifacio VIII in quanto “detestandae feritatis abusus, quem ex quodam more horribili nonnulli fideles improvide prosequuntur”.20 Ciononostante, ancora nel XIV se217
colo, si concedeva talvolta una dispensa papale dal divieto, e l’uso è ancora in auge, nel xv secolo, tra gli inglesi in Francia. I cadaveri di Edoardo di York e Michael de la Pole, conte di Suffolk, i caduti inglesi più illustri ad Azincourt, vengono trattati in questo modo,21 così come quelli dello stesso Enrico V, di William Glasdale, che annega durante la liberazione di Orléans da parte di Giovanna d’Arco, e di un nipote di Sir John , che cade nel 1435 nel corso dell’assedio posto a Saint Denis.22 La figura stessa della Morte aveva assunto da secoli, nelle rappresentazioni plastiche e letterarie, più di una sembianza: cavaliere apocalittico che galoppa sopra un mucchio di gente stesa a terra, megera che scende con ali di pipistrello, come nel Camposanto di Pisa, scheletro con la falce, o con arco e frecce, talvolta su un carro tirato da buoi, o anche proprio a cavallo di un bue o di una mucca.23 Però la personificazione della Morte non soddisfaceva ancora la fantasia. Nel XIV secolo compare la sorprendente parola macabre, o, come si diceva in origine, Macabré. “Je fis de Macabré la dance,” dice il poeta Jean Le Fèvre nel 1376. È un nome proprio, qualunque sia l’etimologia della parola, molto discussa.24 Solo molto più tardi è stato estrapolato da La Danse macabre l’aggettivo, che ha assunto per noi un significato così definito e peculiare, che con la parola “macabro” possiamo designare l’intera visione tardomedioevale della morte. La concezione macabra della morte oggi si può ancora trovare soprattutto nei cimiteri di campagna, dove se ne sente l’eco nelle iscrizioni e nelle figure. Alla fine del Medioevo essa è stata una grande idea. Era sopraggiunto, nella rappresentazione della Morte, un nuovo, toccante, fantastico elemento, un brivido che sorgeva dalla coscienza, dalla 218
zona dell’agghiacciante terrore degli spettri e del sudore freddo. L’idea religiosa, che dominava su tutto, la trasformò subito in morale, la ricondusse al memento mori, servendosi però volentieri della raccapricciante suggestione che il carattere spettrale della rappresentazione racchiudeva. Intorno alla Danza macabra si raggruppano alcune rappresentazioni affini legate alla morte, parimenti adatte a incutere paura e a servire di monito. Il “Detto dei tre morti e dei tre vivi” precede la Danza macabra.25 Appare già nel XIII secolo nella letteratura francese: tre giovani nobili si imbattono in tre spaventosi morti, che additano loro la propria grandezza terrena di un tempo e la prossima fine che attende loro, i vivi. Le toccanti figure del Camposanto di Pisa costituiscono la più antica rappresentazione del tema nella grande arte: le sculture del portale della chiesa degli Innocenti a Parigi, dove il duca di Berry, nel 1408, fece raffigurare il soggetto, sono andate perdute. Ma la miniatura e la xilografia, nel XV secolo, lo divulgarono, e anche come affresco è molto diffuso. La rappresentazione dei tre morti e dei tre vivi forma l’anello di congiunzione tra la spaventosa immagine della putrefazione e l’idea, raffigurata dalla Danza macabra, che davanti alla morte sono tutti uguali. Vorrei solo accennare allo sviluppo di questa idea dal punto di vista della storia dell’arte. La Francia sembra essere il paese d’origine anche della Danza macabra. Ma come è nata? Come rappresentazione realmente recitata o come raffigurazione pittorica? È noto che la tesi di Émile Mâle, secondo la quale l’elaborazione dei motivi nelle arti figurative del XV secolo era influenzata, di regola, dalle rappresentazioni drammatiche, si è rivelata, nella sua generalizzazione, poco convincente. Ma nei 219
confronti della Danza macabra forse bisognerebbe fare un’eccezione; supporre cioè che in questo caso la rappresentazione abbia preceduto la raffigurazione. Comunque, prima o dopo, la Danza macabra fu tanto recitata quanto dipinta o incisa. Il duca di Borgogna la fa rappresentare nel 1449 nel suo palazzo di Bruges.26 Se potessimo avere un’idea di come fu allestito un tale spettacolo, dei colori, dei movimenti, del gioco delle luci e delle ombre sui danzatori, potremmo comprendere il terrore che la Danza macabra suscitava negli animi ancora meglio che dalle xilografie di Guyot Marchant e di Holbein. Le xilografie di cui lo stampatore parigino Guyot Marchant ornò, nel 1485, la prima edizione della Danse macabre, erano quasi certamente attinte alla più celebre di tutte le Danze macabre, a quella che nell’anno 1424 era stata affrescata sulle pareti del portico del cimitero degli Innocenti, a Parigi, mentre i versi sotto quella pittura murale, conservati nelle edizioni del 1485, si basano forse sul poema perduto di Jean Le Fèvre, il quale, a sua volta, ha seguito probabilmente un originale latino. Comunque sia, la Danza macabra del cimitero degli Innocenti, scomparsa nel XVII secolo con la demolizione del portico, è stata la raffigurazione della morte più popolare che il Medioevo abbia conosciuto. Giorno dopo giorno, in quello strano e macabro luogo di ritrovo che era il cimitero degli Innocenti, a migliaia hanno contemplato le semplici figure e letto i comprensibili versi, di cui ogni strofa terminava con un noto proverbio, consolati dall’uguaglianza davanti alla morte e atterriti dalla fine. A nessun altro luogo si confaceva così bene quella morte scimmiesca, che, sogghignando, col passo rigido di un vecchio maestro di ballo, esorta il papa, l’imperatore, il nobile, il bracciante, 220
il monaco, il bambino, il buffone e tutti gli altri mestieri e ceti sociali a seguirla. Le xilografie del 1485 non rendono, probabilmente, che in minima parte l’impressione suscitata dal famoso affresco: già le vesti delle figure dimostrano che esse non sono state copie fedeli del lavoro del 1424. Per avere un’idea dell’effetto della Danza macabra degli Innocenti bisognerà piuttosto guardare quella della chiesa di La Chaise-Dieu,27 dove l’aspetto spettrale è accresciuto ancor più dallo stato incompleto della pittura. Il cadavere, che torna quaranta volte per portare via i vivi, in realtà non è ancora la Morte, ma il morto. I versi chiamano la figura Le mort (nella Danza macabra delle donne La morte); è una danse des morts, non de la Mort.28 Anche qui non è uno scheletro, bensì un corpo non del tutto scarnificato con il ventre spaccato e vuoto. Solamente verso il 1500 la figura del grande danzatore diventa uno scheletro, come lo conosciamo in Holbein. Nel frattempo anche l’immagine di un vago sosia morto dell’uomo vivo è condensata in quella della Morte come essere attivo e personale che pone fine alla vita. “Yo so la Muerte cierta à todas criaturas”, così inizia l’impressionante Danza macabra spagnola della fine del xv secolo.29 Nella vecchia Danza macabra l’instancabile danzatore è ancora il vivo, quale sarà nel prossimo futuro, un orribile sdoppiamento della sua persona, l’immagine che egli vede nello specchio; non, come vogliono alcuni, un defunto di pari rango o dignità. Proprio il “siete voi stesso” dava alla Danza macabra la sua forza più raccapricciante. Anche nell’affresco che ornava il baldacchino a volta del monumento funebre di Re Renato e della sua consorte Isabella, nella cattedrale di Angers, era ancora, di fatto, il re stesso che era stato raffigurato. Vi si vedeva uno scheletro (o 221
sarà stato piuttosto un cadavere?) con un lungo mantello, seduto su un trono d’oro, che allontana a calci mitre, corone, il globo terrestre e libri. La testa poggiava sulla mano rinsecchita che cercava di sostenere una corona vacillante.30 In origine la Danza macabra mostrava soltanto uomini. L’intento di associare all’ammonimento sulla fugacità e la vanità delle cose terrene la lezione dell’uguaglianza sociale mise naturalmente in primo piano gli uomini, poiché incarnavano le professioni e le dignità. La Danza macabra non era solamente un’esortazione pia, ma anche una satira sociale, e nei versi che l’accompagnano c’è un pizzico d’ironia. Lo stesso Guyot Marchant pubblicò, come seguito della sua edizione, una Danza macabra delle donne, per la quale Martial d’Auvergne compose i versi. L’anonimo xilografo non fu all’altezza del modello fornito dalla precedente edizione: egli inventò solamente l’orrenda figura dello scheletro che ha un cranio intorno al quale svolazzano ancora radi capelli di donna. Nel testo della Danza macabra delle donne fa subito la sua apparizione l’elemento sensuale, che pervadeva anche il tema del lamento sulla bellezza che si putrefà. Come può essere diversamente? Non c’erano quaranta mestieri e dignità da enumerare; dopo le classi principali, regina, gentildonna etc., qualche funzione o stato religioso come badessa, monaca e un paio di professioni come mercantessa, levatrice etc. la provvista era esaurita. Per completare il quadro non si poteva far altro che considerare i diversi stati della stessa vita della donna: vergine, amata, sposa, sposa novella, incinta. E così anche qui il lamento sulla gioia e la bellezza, svanite o mai godute, rende più stridente il suono del memento mori. Mancava ancora un’immagine nella terrificante raffigurazione del morire: quella dell’ora della morte. Il terrore di 222
quel momento non poteva essere impresso negli spiriti in modo più acuto che ricordando Lazzaro: questi, si diceva, dopo la resurrezione non aveva conosciuto che un miserabile ribrezzo della morte, che aveva già subito una volta. E se il giusto doveva temerla tanto, quanto doveva temerla allora il peccatore? 31 La rappresentazione dell’agonia era la prima dei Novissimi, Quattuor hominum novissima, sui quali l’umanità avrebbe dovuto meditare costantemente: la morte, il giudizio finale, l’inferno e il paradiso. Come tale essa rientra nel campo delle rappresentazioni dell’aldilà. Qui, per adesso, parleremo soltanto della rappresentazione della morte fisica. Strettamente connessa al tema delle “Quattro cose ultime” è l’Ars moriendi, creazione del XV secolo, che, al pari della Danza macabra, mediante la stampa e le xilografie esercitò un’influenza maggiore di qualunque precedente idea sacra. Essa tratta delle tentazioni, cinque di numero, con le quali il diavolo insidia il moribondo: il dubbio sulla fede, la disperazione per i suoi peccati, l’attaccamento ai suoi beni terreni, la costernazione per le proprie sofferenze e infine l’orgoglio per le proprie virtù. Ogni volta arriva un angelo a scacciare con il suo conforto le insidie di Satana. La descrizione dell’agonia era un vecchio soggetto della letteratura religiosa; vi si rintraccia sempre lo stesso modello.32 Chastellain, nel suo Miroir de mort,33 ha riassunto tutti i motivi che abbiamo esaminato. Egli inizia con un racconto commovente che, malgrado la violenta prolissità tipica di questo scrittore, non manca di produrre il suo effetto; l’amata, in punto di morte, lo ha chiamato a sé e gli ha detto con voce commossa: Mon amy, regardez ma face. Voyez que fait dolante mort 223
Et ne l’oubliez désormais; C’est celle qu’aimiez si fort; Et ce corps vostre, vil et ort, Vous perderez pour un jamais; Ce sera puant entremais A la terre et à la vermine: Dure mort toute beauté fine.34 Ciò offre al poeta lo spunto per uno Specchio della morte. Dapprima svolge il tema: “Dove sono ora i grandi della terra?”; si dilunga troppo ed è alquanto pedante, molto lontano dalla lieve malinconia di Villon. Segue poi una sorta di primo abbozzo di Danza macabra, privo però di forza e fantasia. Infine egli rima l’Ars moriendi. Ecco la sua descrizione dell’agonia: Il n’a membre ne facture Qui ne sente sa pourreture, Avant que l’esperit soit hors, Le coeur qui veult crevier au corps Haulce et souliève la poitrine Qui se veult joindre à son eschine. La face est tainte et apalie, Et les yeux treilliés en la teste. La parolle luy est faillie, Car la langue au palais se lie. Le poulx tressault et sy halette. … Les os desjoindent à tous lez; Il n’a nerf qu’au rompre ne tende.35 224
Villon racchiude tutto questo in una mezza strofa, molto più toccante.36 Tuttavia si riconosce l’esempio comune. La mort le fait fremir, pallir, Le nez courber, les vaines tendre, Le col enfler, la chair mollir, Joinctes et nerfs croistre et estendre.37 E poi di nuovo quel pensiero sensuale, che attraversa sempre tutte queste rappresentazioni del terrore: Corps femenin, qui tant est tendre, Poly, souef si precieux, Te fauldra il ces maulx attendre? Oy, ou tout vif aller es cieulx.38 In nessun luogo tutto quello che evocava l’immagine della morte era riunito in modo così efficace come nel cimitero degli Innocenti a Parigi. Là lo spirito poteva godere pienamente il brivido del macabro. Ogni cosa contribuiva a conferire a quel luogo la santità tetra e l’orrore multiforme tanto desiderati dal tardo Medioevo. Già i santi ai quali erano consacrati la chiesa e il cimitero, i ragazzi innocenti sgozzati al posto di Cristo, provocavano con il loro compassionevole martirio quella crudele commozione e quella sanguigna tenerezza per le quali, a quei tempi, si andava in estasi. Proprio in questo secolo si diffuse largamente la venerazione per gli Innocenti. Si possedevano molte reliquie dei bambini di Betlemme: Luigi XI donò alla chiesa di Parigi loro consacrata “un Innocent entier”, racchiuso in un grande scrigno di cristallo.39 Quel camposanto era il preferito. Un vescovo di Parigi fece mettere un po’ di terra del cimitero degli Innocenti nella sua tomba, giacché non poteva esservi seppellito.40 Poveri e ricchi vi giacevano alla rinfusa, e non 225
per molto, perché il camposanto era così frequentato, ben venti parrocchie vi avevano diritto di sepoltura, che dopo un certo periodo le ossa venivano dissotterrate e le pietre tombali vendute. Si diceva che in quella terra un cadavere si decomponesse, fino alle ossa, in nove giorni.41 I teschi e le ossa venivano poi ammucchiati negli ossari sopra il colonnato che circondava da tre lati il cimitero: a migliaia giacevano lì in bella vista, e predicavano l’uguaglianza.42 Sotto le arcate, nella raffigurazione e nei versi della Danza macabra, si poteva vedere e leggere la stessa esortazione. Tra gli altri anche il nobile Boucicaut aveva dato del denaro per la costruzione di “beaux charniers”.43 Sul portale della chiesa il duca di Berry, che voleva essere sepolto lì, aveva fatto scolpire la rappresentazione dei tre morti e dei tre vivi. Più tardi, nel XVI secolo, sorgeva ancora su quel cimitero la grande Morte, che ora al Louvre, solitaria, è tutto ciò che resta di quello che si trovava lì. Quel luogo, per i parigini del XV secolo, era, in un certo senso, la versione lugubre del Palais Royal del 1789. Lì, tra continue inumazioni ed esumazioni, si passeggiava e ci si incontrava. Presso gli ossari c’erano dei piccoli negozi e sotto le arcate sostavano donne di facili costumi. Non mancava una romita, murata in un lato della chiesa. Alle volte un frate mendicante veniva a predicare nel luogo che, di per sé, era una predica in stile medioevale. Alle volte vi si riuniva una processione di bambini: in numero di 12.500, dice il Borghese di Parigi, tutti con candele, portarono un Innocent a Notre-Dame e poi lo ricondussero al cimitero. Vi venivano date persino delle feste.44 A tal punto ci si era abituati al raccapricciante. Nella smania di una raffigurazione immediata della morte, 226
che portava all’abbandono di tutto ciò che non si poteva raffigurare, furono impressi nelle coscienze solamente gli aspetti grossolani della morte. Nella visione macabra della morte manca quasi del tutto il delicato, l’elegiaco. E in fondo è un quadro molto terreno ed egoistico. Non si tratta del lutto per la perdita dei cari, bensì del rammarico per la propria imminente morte, vista solo come disastro e orrore. Non vi è alcuna idea della morte come consolatrice, fine della sofferenza, agognato riposo, compito portato a termine o interrotto, nessun tenero ricordo, nessuna rassegnazione. Niente della “divine depth of sorrow”. Solamente una volta risuona un accento più delicato. Nella Danza macabra il defunto dice al bracciante: Laboureur qui en soing et painne Avez vescu tout vostre temps, Morir fault, c’est chose certainne, Reculler n’y vault ne contens. De mort devez estre contens Car de grant soussy vous delivre…45 Il bracciante però rimpiange la vita, di cui così spesso ha invocato la fine. Martial d’Auvergne, nella sua Danza macabra delle donne, fa gridare da una bambina alla madre: bada alla mia bambola, ai miei astragali e al mio bel vestitino. Gli accenti commoventi dell’infanzia sono, nella letteratura del tardo Medioevo, estremamente rari; non trovavano posto nell’austero rigore del grande stile. Né la letteratura religiosa né quella profana conoscono, in realtà, il bambino. Quando Antoine de la Salle, ne Le Reconfort,46 vuol consolare una gentildonna della perdita del suo figlioletto, non trova di 227
meglio che raccontarle la storia di un fanciullo che, ucciso come ostaggio, perse la vita in modo ancor più crudele. Per vincere il dolore non sa offrirle altro che l’esortazione a non legarsi alle cose terrene. Ma poi fa seguire la nota fiaba popolare del camice: il bambino morto che torna dalla mamma per pregarla di non piangere più, affinché il suo camicino possa asciugarsi. E improvvisamente il suono diventa molto più intimo di quello del memento mori cantato da mille voci. Che le fiabe e i canti popolari abbiano conservato, in quei secoli, i sentimenti più disparati che la letteratura a malapena conosce? Il pensiero religioso del tardo Medioevo conosce solamente i due estremi: il lamento per la fugacità, per la fine della potenza, dell’onore e del piacere, per lo svanire della bellezza, e il giubilo per l’anima salvata nella sua beatitudine. Tutto il resto rimane inespresso. In una simile raffigurazione della Danza macabra e del terrificante scheletro l’emozione si pietrifica.
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12. La raffigurazione del sacro
La rappresentazione della morte può servire come esempio della vita intellettuale tardomedioevale: è come se tutto il pensiero confluisse e si insabbiasse in quell’immagine. L’intero contenuto della vita del pensiero ha bisogno di esprimersi in molteplici figure: tutto l’oro viene coniato in monete piccole e sottili. C’è un enorme bisogno di raffigurare il sacro, di dare una forma compiuta a ogni rappresentazione di carattere religioso, per far sì che essa si imprima come un’immagine nitida nel cervello. In questa tendenza figurativa tutto ciò che è sacro è continuamente esposto al rischio di assumere una forma rigida ed esteriore. L’intero processo di sviluppo dei modi in cui la devozione popolare si esterna nel tardo Medioevo è stato ben espresso, e in modo conciso, nelle Weltgeschichtliche Betrachtungen di Jacob Burckhardt. “Eine mächtige Religion entfaltet sich in alle Dinge des Lebens hinein und färbt auf jede Regung des Geistes, auf jedes Element der Kultur ab. Freilich reagieren dann diese Dinge mit der Zeit wieder auf die Religion; ja deren eigentlicher Kern kann erstickt werden von den Vorstellungs und Bilderkreisen, die sie einst in ihren Bereich gezogen hat. Das ‘Heiligen aller Lebensbeziehungen’ hat seine schick229
salsvolle Seite.” E più oltre: “Nun ist aber keine Religion jemals ganz unabhängig von der Kultur der betreffenden Völker und Zeiten gewesen. Gerade, wenn sie sehr souverän mit Hilfe buchstäblich gefasster heiliger Urkunden herrscht und scheinbar Alles sich nach ihr richtet, wenn sie sich ‘mit dem ganzen Leben verflicht’, wird dieses Leben am unfehlbarsten auch auf sie einwirken, sich auch mit ihr verflechten. Sie hat dann später an solchen innigen Verflechtungen mit der Kultur keinen Nutzen mehr, sondern lauter Gefahren; aber gleichwohl wird eine Religion immer so handeln, so lange sie wirklich lebenskräftig ist”.1 La vita della Cristianità medioevale è pervasa e satura di rappresentazioni religiose in tutti i suoi aspetti. Non c’è cosa né azione che non sia continuamente messa in relazione con Cristo e con la fede. Tutto è orientato verso una concezione religiosa onnicomprensiva, ed è pervaso da un’impressionante manifestazione di intima fede. Ma in quella atmosfera satura la tensione religiosa, l’effettiva trascendenza, l’uscita dal qui e questo non può essere sempre presente. Se quella tensione manca, allora tutto ciò che era destinato a tener desta la coscienza di Dio si assopisce e diventa un’empietà spaventosa e banale, un sorprendente al di qua in forme che non sono né qui né qua. Persino in un santo sublime come Enrico Suso, nel quale la tensione religiosa non venne meno neanche per un istante, la distanza tra il sublime e il ridicolo diventa comunque breve, per la nostra sensibilità non più medioevale. Egli è eccelso quando, come fece il cavaliere Boucicaut per amore di una mortale, rende onore a tutte le donne in segno di riverenza verso Maria, e quando si infanga per lasciar passare una povera. Segue le usanze dell’amor profano e celebra a 230
capodanno e a calendimaggio il suo amore per la Sapienza, sua sposa, con una corona e una canzone. Se sente una canzone d’amore la rivolge subito alla sua Sapienza. Ma che dobbiamo pensare di quanto segue? A tavola Suso, quando mangiava una mela, soleva tagliarla in quattro pezzi: tre ne mangiava in nome della Trinità e il quarto “in der minne, als diu himelsch muter irem zarten kindlein Jesus ein epfelli gab zu essen”,2 e perciò lo mangiava con la buccia come fanno i bambini. Pochi giorni dopo Natale, forse perché il bambin Gesù era ancora troppo piccolo per mangiare mele, non mangiava il quarto pezzo, ma lo offriva a Maria affinché lo desse a suo figlio. Beveva in cinque sorsi, in memoria delle cinque piaghe del Signore, ma poiché dal fianco di Cristo scorrevano sangue e acqua, ripeteva il quinto sorso.3 Ecco la “Heiligen aller Lebensbeziehungen” portata alle estreme conseguenze. Prescindendo, per adesso, dalla profondità del sentimento, e considerando solamente le sue espressioni religiose, ci sono nella devozione del tardo Medioevo moltissimi aspetti che fanno pensare a una degenerazione della vita religiosa, purché questo concetto non venga interpretato secondo un punto di vista protestante-dogmatico. A parte i cambiamenti qualitativi che essa aveva introdotto, si era verificato nella Chiesa un aumento quantitativo di usi e di concetti che riempiva di sgomento gli austeri teologi. Non è tanto contro l’empietà o la superstizione presenti nelle nuove pratiche, quanto contro gli eccessi della fede di per sé che lo spirito riformatore del XV secolo si rivolta. I segni della sempre indulgente grazia divina erano in continuo aumento; accanto ai sacramenti fiorivano da tutte le parti le benedizioni; dalle reliquie si passava agli amuleti; la forza della preghiera si sti231
lizzava nei rosari, la galleria multiforme dei santi diveniva sempre più colorita e vivace. E anche se la teologia tentava in ogni modo di fare una netta distinzione tra sacramenti e sacramentali, con quale mezzo si poteva impedire al popolo di riporre speranza e fede in quell’ambito magico e multiforme? Gerson aveva incontrato ad Auxerre un tale che affermava che la Festa dei Folli, con la quale nelle chiese e nei conventi si celebrava il mese invernale, fosse sacra quanto quella della Concezione di Maria Vergine.4 Nicolas de Clemanges scrisse un trattato contro l’istituzione e la celebrazione di nuove feste, dichiarando che in alcune delle nuove praticamente l’intera liturgia era di natura apocrifa, e manifestando il proprio consenso al vescovo di Auxerre che aveva soppresso la maggior parte delle festività.5 Nel suo scritto De reformatione,6 Pierre d’Ailly insorge contro il continuo moltiplicarsi di chiese, feste, santi, giorni di riposo, contro la profusione di immagini e dipinti, le lungaggini delle funzioni, l’adozione di testi apocrifi nella liturgia delle feste, contro l’introduzione di nuovi inni e preghiere o altre innovazioni arbitrarie, contro l’aumento troppo severo di vigilie, preghiere, digiuni e astinenze. C’era la tendenza ad associare a ogni momento della venerazione della Madre di Dio un ufficio speciale. C’erano messe speciali, abolite in seguito dalla Chiesa, per la pietà di Maria, per i suoi sette dolori, per tutte le feste mariane, per le sue sorelle Maria Jacobi e Maria Salomè, per l’angelo Gabriele, per tutti i santi che formavano l’albero genealogico del Signore.7 L’adorazione della Via Crucis, delle Cinque Piaghe, il suono dell’Angelus alla mattina e alla sera derivano tutti dagli ultimi decenni del Medioevo. Inoltre, dice Ailly, vi sono troppi ordini monastici e ciò conduce alla diversità di usi, all’isolamento e all’orgoglio, al232
la vana esaltazione di uno stato ecclesiastico sull’altro. Egli vuole ridurre soprattutto gli ordini mendicanti, la cui presenza danneggia i lebbrosari e gli ospedali e gli altri veri poveri e bisognosi, ai quali spetta a giusto titolo il diritto di mendicare.8 Vuole bandire dalla Chiesa i venditori di indulgenze, che la infangano e la rendono ridicola con le loro menzogne.9 Dove si andrà a finire con la continua fondazione di conventi femminili privi di mezzi sufficienti? Si vede che Pierre d’Ailly scende in campo più contro il lato quantitativo che contro quello qualitativo del male. Fatta eccezione per la predicazione delle indulgenze, egli non mette apertamente in dubbio la devozione e la santità di tutte quelle pratiche; lo preoccupa solo la loro proliferazione; vede la Chiesa soffocare sotto quel carico di particolarismi. Quando Alanus de Rupe diffuse la sua nuova Confraternita del rosario, l’opposizione che incontrò era anch’essa diretta più contro l’innovazione in sé che contro il progetto che stava alla base. Confidando nell’efficacia di una così imponente comunità di preghiera, come l’immaginava Alanus, il popolo, sostenevano gli avversari, avrebbe trascurato le penitenze prescritte e il clero i libri canonici. Le chiese parrocchiali si sarebbero svuotate se la confraternita si fosse riunita solamente nelle chiese dei francescani e dei domenicani. Dalle riunioni sarebbero facilmente scaturite lotte di fazioni e congiure. E infine gli si addebita anche questo: ciò che la confraternita spaccia per grandi e straordinarie rivelazioni non sono che illusioni, fantasie e chiacchiere.10 La venerazione settimanale degli Innocenti costituisce un esempio caratteristico del modo quasi meccanico in cui gli usi sacri tendevano a moltiplicarsi, qualora non fosse intervenuta a limitarli una severa autorità. Nella commemorazio233
ne della strage degli Innocenti del 28 dicembre, alla commozione patetica per l’orrore di quel martirio fu associata ogni sorta di superstizione semipagana di mezzo inverno; il giorno era considerato nefasto. Molti, poi, solevano ritenere nefasto il giorno della settimana in cui era caduta l’ultima ricorrenza degli Innocenti. In quel giorno non si poteva né iniziare un lavoro né intraprendere un viaggio; il giorno si chiamava semplicemente “les Innocents”, come la festa stessa. Luigi XI osservava scrupolosamente questo uso. L’incoronazione di Edoardo IV fu ripetuta perché la prima volta era avvenuta in quel giorno nefasto. Renato di Lorena dovette rinunciare a un combattimento, poiché i suoi lanzichenecchi si rifiutarono di combattere il giorno degli Innocenti.11 Johannes Gerson trae spunto da questa usanza per scrivere un trattato contro la superstizione in generale e questa in particolare.12 Egli è stato tra quelli che hanno visto chiaramente il pericolo di quella degenerazione delle idee religiose per la vita della Chiesa. Il suo spirito acuto e alquanto spassionato riesce anche a scorgere, in parte, il retroterra psicologico di tutte quelle idee. Esse nascono “ex sola hominum phantasiatione et melacholica imaginatione”: è una corruzione dell’immaginazione provocata da una lesione cerebrale interna, che deriva, a sua volta, da un inganno diabolico. Così anche il diavolo vi ha la sua parte. È un processo di continue riduzioni dall’infinito al finito, una disintegrazione del mistero in atomi. Su tutti i misteri più sacri si forma un’escrescenza di elementi religiosi esteriori e profani come una crosta di conchiglie su una nave. L’enorme capacità di penetrazione del mistero dell’Eucaristia assume in superficie i toni della superstizione più fredda e materiale; per esempio nella credenza che il giorno che si va 234
a messa non si possa diventare ciechi o essere colti da apoplessia, e che assistendo alla messa non si invecchi.13 La Chiesa deve vigilare costantemente affinché Dio non scenda troppo in basso. Dichiara eretica l’asserzione che Pietro, Giovanni e Giacomo abbiano visto, al momento della Trasfigurazione di Cristo, l’essere divino con la chiarezza con cui ora lo vedono in cielo.14 Considera una bestemmia affermare, come fa una seguace di Giovanna d’Arco, di aver visto Dio vestito di una lunga veste bianca con una cotta rossa.15 Però cosa poteva farci il popolo se non sapeva fare le sottili distinzioni prescritte dalla teologia, laddove la Chiesa offriva una materia così multiforme all’immaginazione? Lo stesso Gerson non si salvò dal male che combatteva. Leva la sua voce contro la vana curiosità,16 e con ciò intende lo spirito di ricerca che vuol conoscere i segreti più riposti della natura. Ma egli stesso fruga con sfacciata curiosità nei più piccoli particolari esteriori delle cose sacre. Egli si prodiga in tutti i modi per la festa di San Giuseppe, per il quale ha una venerazione speciale, che lo rende curioso di sapere tutto ciò che riguarda il santo. Approfondisce tutti i dettagli riguardanti il suo matrimonio con Maria, la loro vita insieme, la sua continenza, come venne a sapere della gravidanza. Gerson non ne vuole sapere della caricatura che l’arte minacciava di fare di Giuseppe, del povero vecchio affaticato, che Deschamps compiangeva e Broederlam dipingeva: Giuseppe non aveva ancora compiuto cinquant’anni, dichiara.17 Altrove si permette di speculare sulla costituzione fisica di Giovanni Battista: “semen igitur materiale ex qua corpus compaginandum erat, nec durum nimis nec rursus fluidum abundantius fuit”.18 Il celebre predicatore popolare Olivier Maillard, dopo l’introduzione, soleva intrattenere il suo udi235
torio con “une belle question théologale”, per esempio se la Vergine avesse collaborato così attivamente alla concezione di Cristo da potersi chiamare davvero Madre di Dio; o se il corpo di Cristo sarebbe diventato cenere, qualora non fosse intervenuta la resurrezione.19 La controversia sull’Immacolata Concezione di Maria, nella quale i domenicani formavano il partito d’opposizione al crescente bisogno popolare di vedere la Vergine libera dal peccato originale fin dal concepimento, provocò un insieme di speculazioni teologiche ed embriologiche, che a noi pare poco edificante. E i seri teologi erano così fermamente convinti dell’importanza delle loro argomentazioni, che non esitavano a trattare la disputa nelle prediche, davanti a un grande pubblico.20 Se gli spiriti più seri erano orientati in questo modo, le cose sacre, diffondendosi in una sfera più vasta, come potevano non risolversi proprio per la loro continua minuziosità, in una banalità da cui solo di rado ci si elevava all’adorazione del mistero? La familiarità con cui si trattava Dio nella vita quotidiana va considerata secondo due ottiche. Da un lato essa esprime l’assoluta fermezza e l’immediatezza della fede; dall’altro però, laddove è ormai radicata nei costumi, esiste il pericolo che non solo i miscredenti (che ci sono sempre) ma anche i credenti, in momenti di debole tensione religiosa, profanino continuamente la fede, più o meno consapevolmente e intenzionalmente. Proprio il mistero più intimo, l’Eucaristia, è esposto a questo pericolo. Non c’è, nella fede cattolica, commozione più forte e più intensa della consapevolezza della reale presenza di Dio nell’ostia consacrata. Nel Medioevo, come ai nostri tempi, questa è l’emozione religiosa più grande. Ma, nel Medioevo, l’ingenua immoralità dei discorsi familiari sulle cose più sacre induce a un linguaggio che talvol236
ta può sembrare profano. Un viaggiatore smonta da cavallo ed entra nella chiesa di un villaggio “pour veoir Dieu en passant”. Di un sacerdote che passa su un asino portando l’ostia si dice: “un Dieu sur un asne”.21 Di una donna sul letto di morte viene detto: “Sy cuidoit transir de la mort, et se fist apporter beau sire Dieux”.22 “Veoir Dieu” era il termine corrente usato al momento dell’elevazione.23 In tutti questi casi il linguaggio non è di per sé profano, ma lo diventa quando l’intenzione è empia, o quando è usato distrattamente, in altre parole non appena il senso del mistero viene meno. Che profanazione portava con sé un tale linguaggio! E allora diventa breve il passo che porta alle distratte confidenze del proverbio “Laissez faire à Dieu, qui est homme d’aage”,24 o alle parole di Froissart “et li prie à mains jointes, pour si hault homme que Dieu est”.25 Un caso che dimostra chiaramente come il termine “Dieu” per indicare l’ostia potesse contaminare la stessa fede in Dio è quello che segue. Il vescovo di Coutances celebra una messa nella chiesa di Saint Denis. Al momento dell’elevazione del Corpo di Cristo si esorta Hugues Aubriot, prevosto di Parigi, che si aggirava nella cappella dove veniva celebrata la messa, a fare atto di venerazione. Ma Hugues, noto “esprit fort”, risponde bestemmiando di non credere nel Dio di un vescovo che risiede a corte.26 Anche senza la minima intenzione ironica, la familiarità con ogni cosa sacra e il desiderio di raffigurarla conducono a forme che possono sembrarci irriverenti. Esistevano delle statuette della Madonna che costituivano una variazione dell’antico servizio di bicchieri olandese chiamato Hansje in de kelder.27 Si trattava di piccole statuette d’oro, riccamente ornate di pietre preziose, il cui ventre apribile mostrava la Tri237
nità. Nel tesoro dei duchi di Borgogna ce n’era una28; Gerson ne vide un’altra presso i carmelitani a Parigi. Egli disapprova simili statuette, non a causa dell’empietà di una tale grossolana rappresentazione del mistero, bensì perché rappresentare l’intera Trinità come il frutto del ventre di Maria è un’eresia.29 Tutta la vita era così pervasa dal sentimento religioso che la distanza fra il profano e il sacro rischiava di svanire a ogni istante. Se, da un lato, tutto ciò che fa parte del normale svolgersi della vita viene innalzato, nei momenti solenni, a un’atmosfera di sacralità, dall’altro il sacro viene continuamente banalizzato dalla sua indissolubile commistione con la vita quotidiana. Abbiamo già parlato del cimitero degli Innocenti a Parigi, quella orribile fiera della morte con l’ossame ammucchiato ed esibito. Si può pensare a qualcosa di più terribile della vita della romita murata nel muro della chiesa in quel luogo dell’orrore? Ma vediamo come ne parlano i contemporanei: le recluse abitavano in una graziosa casetta nuova, venivano murate ascoltando una bella predica, ricevevano dal re uno stipendio di otto sterline all’anno in otto rate.30 Tutto come se fossero semplici beghine. Dove è andato a finire il pathos religioso? Dov’è, quando un’indulgenza viene collegata alle più comuni faccende domestiche: accendere il forno, mungere una vacca, lucidare una pentola?31 In una lotteria a Bergenop-Zoom, nel 1518, accanto a “premi preziosi”, si potevano vincere indulgenze.32 Durante le entrate trionfali dei principi, agli angoli delle strade, alternati a rappresentazioni simboliche di nudità spesso pagane, si faceva sfoggio dei preziosi reliquiari della città, collocati su altari, offerti dai prelati e dal principe per il bacio devoto.33 238
L’inseparabilità della sfera religiosa e di quella profana viene bene espressa dal noto fatto che della melodia profana, così com’è, ci si può sempre servire nel canto religioso e viceversa. Guillaume Dufay compone le sue messe su temi di canzoni profane quali Tant je me déduis, Se la face ay pale, L’omme armé. Vi è uno scambio continuo tra la terminologia religiosa e quella profana. Senza destare alcuno scandalo si adoperano termini religiosi per cose terrene e viceversa. Sull’ingresso della Corte dei Conti a Lilla faceva bella mostra di sé un verso che ricordava a ognuno che avrebbe dovuto rendere conto a Dio dei suoi doni celesti: Lors ouvrira, au son de buysine Sa générale et grant chambre des comptes.34 Viceversa, nel solenne invito a un torneo, si diceva come se fosse una solennità con indulgenza: Oez, oez, l’oneur et la louenge Et des armes grantdisime pardon.35 Era un caso che nella parola “mistère” fossero confluite mysterium e ministerium, ma questa omonimia non poteva che accentuare l’indebolimento del concetto del mistero nel linguaggio di tutti i giorni: tutto si chiamava mistère, persino l’unicorno, gli scudi e il fantoccio che erano stati usati nel Pas d’armes de la fontaine des pleurs.36 Al simbolismo religioso, all’uso di indicare tutte le cose e la storia terrene come simbolo e prefigurazione del divino, si contrappone l’omaggio al principe tradotto in metafora religiosa. Non appena il rispetto per la maestà terrena pervade l’uomo del Medioevo, questo si serve del linguaggio della sacra adorazione per esprimere i suoi sentimenti. 239
I cortigiani del XV secolo non indietreggiano davanti a nessuna profanazione. Nell’arringa per l’assassinio di Luigi d’Orléans il difensore così fa parlare lo spirito del duca ucciso a suo figlio: osserva le mie ferite, ce n’erano cinque particolarmente crudeli e mortali.37 Egli considera dunque la vittima simile a Cristo. Il vescovo di Chalon non esita a sua volta a paragonare Giovanni senza Paura, che cadde per mano dei vendicatori dell’Orléans, all’Agnello di Dio.38 Molinet paragona l’imperatore Federico, che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, a Dio padre, che manda il Figlio in terra, e non risparmia espressioni devote per descrivere il caso. Quando, più tardi, Federico e Massimiliano entrano a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, Molinet fa dire ai brussellesi in lacrime: “Véez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fils et Saincte Esprit”. Ovvero egli offre la sua corona di fiori a Maria di Borgogna come degna immagine della Madonna, “a parte la verginità”.39 “Non che io voglia deificare i principi,” dice questo cortigiano convinto.40 Forse è davvero una frase retorica, più che un’adulazione veramente sentita, ma dimostra comunque ugualmente che l’uso quotidiano di termini sacri finiva per togliere loro valore. Del resto cosa si potrebbe rimproverare a un poetastro di corte, se lo stesso Gerson attribuisce all’uditorio principesco delle sue prediche angeli custodi speciali, più elevati in gerarchia e carica di quelli degli altri uomini?41 L’applicazione dei termini religiosi all’amore, di cui abbiamo già parlato, implica naturalmente qualcosa di ben diverso. Qui c’è un elemento di vera empietà e derisione, che non era presente nell’uso linguistico descritto prima; le due cose sono affini solo in quanto derivano dalla grande fami240
liarità con il sacro. L’autore de Les Quinze joyes de mariage sceglie quel titolo sull’esempio delle gioie di Maria.42 Della rappresentazione dell’amore come un’osservanza devota si è già parlato. Di maggior rilievo è il fatto che il difensore del Roman de la Rose indichi con termini sacri “partes corporis inhonestas et peccata immunda atque turpia”.43 Qui ormai il sentimento religioso e quello erotico si avvicinano pericolosamente, in una forma molto temuta dalla Chiesa. Niente, forse, può rendere meglio questa commistione della Madonna di Anversa, attribuita a Fouquet, che anticamente si trovava nel coro della chiesa di Notre-Dame a Melun e faceva parte di un dittico, di cui l’altra tavola che ora è a Berlino raffigura il donatore Etienne Chevalier, tesoriere del re, vicino a Santo Stefano. Una vecchia tradizione, annotata nel XVII secolo dall’archeologo Denis Godefroy, vuole che nella Madonna sia raffigurata Agnès Sorel, l’amante del re, per la quale Chevalier non nascondeva la sua passione. Ciò che notiamo, in effetti, malgrado le grandi qualità del dipinto, è una figura alla moda, con la fronte gonfia e ben rasata, i seni rotondi e molto distanti tra loro, la vita alta e sottile. La bizzarria dell’espressione ermetica del viso, i rigidi angeli rossi e azzurri che la circondano, tutto concorre a dare al quadro un alone di empietà decadente, in singolare contrasto con la rappresentazione vigorosa e sobria del fondatore e del suo santo sull’altra tavola. Godefroy vide sul velluto blu di una larga cornice alcune iniziali, delle E in perle unite da lacci d’amore (lacs d’amour) di fili d’oro e d’argento.44 Non c’è in tutto l’insieme un’impudenza blasfema che non sarà superata neppure nel Rinascimento? L’irriverenza nella vita religiosa quotidiana era quasi senza limiti. La forma musicale del mottetto, basata sul princi241
pio dell’intreccio di diversi testi cantati, degenerò a tal punto che non si evitarono le combinazioni più strambe e che, durante l’ufficio, si cantavano, frammiste al testo liturgico, le parole delle canzoni profane che avevano servito da tema, come: baisez-moi, rouges nez.45 Davide di Borgogna, bastardo di Filippo il Buono, fa il suo ingresso come vescovo di Utrecht in mezzo a un corteo militare con il quale suo fratello, il bastardo di Borgogna, è venuto a prenderlo da Amersfoort. Il nuovo vescovo indossa una corazza, “comme seroit un conquéreur de païs, prince séculier”, dice Chastellain con palese biasimo; così cavalca verso il duomo, e vi entra, con una processione di stendardi e di croci, per pregare davanti all’altare maggiore.46 Accanto a questa ostentazione del borgognone c’è la bonaria sfrontatezza del padre di Rodolfo Agricola, parroco di Baflo, che, ricevuta la notizia che la sua concubina gli aveva dato un figlio nello stesso giorno in cui era stato eletto abate di Selwert, disse: “Oggi sono diventato padre due volte: che Dio ci benedica”.47 I contemporanei consideravano la crescente irriverenza nei confronti della Chiesa una decadenza dei costumi di data recente. On souloit estre ou temps passé En l’église benignement A genoux en humilité Delez l’autel moult closement, Tou nu le chief piteusement, Maiz au jour d’uy, si corne beste, On vient à l’autel bien souvent Chaperon et chapel en teste.48 Nei giorni festivi, si lamenta Nicolas de Clemanges, solo 242
in pochi vanno a messa, non rimangono fino alla fine e si accontentano di sfiorare l’acqua santa, di salutare con genuflessioni la Madonna, o di baciare la statua di un santo. Se hanno visto l’elevazione dell’ostia se ne vantano come di un grande beneficio reso a Cristo. Il sacerdote, di solito, legge il mattutino e il vespro da solo con il suo accolito.49 Il signore del villaggio e patrono della chiesa fa tranquillamente attendere il prete, che può concludere la messa solo dopo che egli e sua moglie si sono alzati e vestiti.50 Le feste sacre, la stessa notte di Natale, si trascorrono in modo dissoluto, tra giochi di carte, bestemmie e turpiloqui; il popolo, se ammonito, si appella al fatto che i signoroni, gli scrivani e i prelati lo fanno senza essere puniti.51 La vigilia dei giorni di festa si balla nelle stesse chiese al canto di canzoni licenziose; i preti danno l’esempio, trascorrendo quelle veglie fra dadi e bestemmie.52 Sono tutte testimonianze di moralisti, portati forse a vedere tutto troppo nero. Però i documenti confermano più di una volta quel fosco quadro. Il Consiglio di Strasburgo faceva distribuire ogni anno 1100 litri di vino a chi trascorreva nella cattedrale, “in veglia e in preghiera”, la notte di Sant’Adolfo.53 Un magistrato si lamenta con Dionigi il Certosino per la processione annuale, svolta nella sua città con una sacra reliquia, che forniva spesso occasione di indecenza e ubriachezza. Come porvi fine? Lo stesso magistrato non si sarebbe lasciato convincere facilmente, perché la processione recava profitto alla città richiamandovi molta gente che doveva pernottare, mangiare e bere. Ormai, poi, ci si era abituati. Dionigi conosceva il male; sapeva bene come, durante le processioni, la gente chiacchierasse, ridesse e si guardasse intorno con sfacciataggine, avida di bevande e di rozzi divertimenti.54 Le sue lamentele 243
descrivono a meraviglia quanto avveniva nella processione dei cittadini di Gand alla volta della fiera di Houthem con lo scrigno di San Livino. Un tempo, dice Chastellain, i notabili solevano portare il sacro corpo “en grande et haute solemnité et révérence” ma adesso a farlo è “une multitude de respaille et de garçonnaille mauvaise”; lo portano gridando e strillando, cantando e ballando, tra mille pagliacciate, e sono tutti ubriachi; inoltre sono armati e per strada si permettono le peggiori intemperanze; quel giorno, col pretesto di questo sacro incarico, tutto sembra loro lecito.55 Andare a messa è un elemento importante nella vita di società. Ci si va per sfoggiare l’abbigliamento più elegante, per gareggiare in rango e in distinzione, in cortesia e in affabilità. Si è già detto come il bacio della “tabula pacis”, “la paix”, provocasse sempre fastidiosissime gare di cortesia. Se entra un giovane nobile, la signora si alza e lo bacia sulla bocca, mentre il sacerdote consacra l’ostia e il popolo prega in ginocchio.56 Parlare e passeggiare durante la messa devono essere state cose molto comuni.57 L’uso della chiesa come luogo di convegno, dove i ragazzi vengono a guardare le ragazze, è così diffuso che solo i moralisti ancora se ne scandalizzano. I giovani vengono di rado in chiesa, esclama Nicolas de Clemanges,58 e se lo fanno è solo per vedere le donne che ci vengono a esibire le loro capigliature sontuose e i loro décolleté. La rispettabile Christine de Pisan scrive senza problemi: Se souvent vais ou moustier, C’est tout pour veoir la belle Fresche com rose nouvelle.59 Non ci si limita alle piccole attenzioni, di cui la messa offriva occasione all’innamorato, come dare l’acqua benedetta 244
all’amata, porgerle la “paix”, accenderle una candela e inginocchiarsi accanto a lei, né ai segni e agli sguardi furtivi.60 Pure le prostitute vengono a cercare clienti in chiesa.61 Nelle stesse chiese, nei giorni festivi, si vendono immagini oscene che corrompono la gioventù, e le prediche non riescono a combattere il male.62 Più di una volta la chiesa e l’altare vengono insozzati da atti osceni.63 Anche i pellegrinaggi, così come l’andare in chiesa, offrivano opportunità di divertimenti di ogni tipo e soprattutto di convegni amorosi, e, in letteratura vengono spesso descritti come normali viaggi di piacere. Il cavaliere de La Tour-Landry, che prende sul serio l’istruzione delle figlie nelle buone e virtuose maniere, parla di dame che si divertono, che amano assistere ai tornei e recarsi in pellegrinaggio, e cita, a guisa di ammonimento, esempi di donne che ne intrapresero uno come pretesto per potersi incontrare con l’amato. “Et pour ce a cy bon exemple comment l’on ne doit pas aler aux sains voiaiges pour nulle folle plaisance.”64 Nicolas de Clemanges la pensa allo stesso modo: nei giorni di festa si va in pellegrinaggio in chiese molto lontane, non tanto per sciogliere un voto quanto per peccare più liberamente. Da ciò scaturisce ogni male, perché in quei santi luoghi si trovano sempre odiose ruffiane che adescano le ragazze.65 È normale un caso come quello delle Quinze joyes de mariage: la giovane donna vuole distrarsi un po’ e fa credere al marito che il bambino è malato perché lei non ha ancora compiuto il pellegrinaggio che aveva promesso di fare durante il puerperio.66 I preparativi delle nozze di Carlo VI con Isabella di Baviera iniziano con un pellegrinaggio.67 Nessuna meraviglia che gli austeri uomini della Devotio Moderna vedano poca utilità nei pellegrinaggi. Coloro che fanno molti pellegrinag245
gi, dice Tommaso da Kempis, raramente diventano santi, e Frederik van Heilo dedica alla questione un trattato speciale, Contra peregrinantes.68 Tutte queste profanazioni della fede dovute all’impudente legame con la vita peccaminosa nascono più da una ingenua familiarità con la religione che da vera e propria empietà. Solamente una società pervasa dalla religione, che accetta la fede come qualcosa di evidente, conosce tali eccessi e degenerazioni. Le stesse persone che seguivano il tran tran quotidiano di una pratica religiosa semicorrotta, trascinate dalle parole infiammate della predica di un frate mendicante, erano soggette a improvvisi scoppi di pie commozioni. Persino un peccato stupido come la bestemmia non può che derivare da una forte fede, perché in origine, come giuramento cosciente, la bestemmia è il segno di una consapevolezza della presenza del divino anche nelle cose più insignificanti. Solo l’idea di provocare davvero il cielo dà alla bestemmia il suo fascino peccaminoso, e, quando la coscienza del giuramento e il timore che la bestemmia possa realizzarsi cessano, questa si riduce alla monotona grossolanità successiva. Alla fine del Medioevo essa ha ancora quell’impulso sfacciato e orgoglioso che ne fa uno sport aristocratico. Dice il nobile al contadino: “Cosa vendi l’anima al diavolo e rinneghi Dio, se non sei nobile?”.69 Deschamps constata che la bestemmia si è già diffusa tra la gente di poco conto: Si chetif n’y a qui ne die: Je renie Dieu et sa mère.70 Si gareggia nell’inventare bestemmie nuove e spiritose; chi sa bestemmiare nel modo più licenzioso è onorato come maestro.71 Un tempo, dice Deschamps, in tutta la Francia si 246
bestemmiava alla guascone e all’inglese, poi alla bretone e ora alla borgognona. Egli mette insieme due ballate con le bestemmie abituali, per dar loro alla fine un significato devoto. E la bestemmia borgognona: “Je renie Dieu”,72 la peggiore di tutte, viene addolcita: “Je renie de bottes”. I borgognoni avevano fama di gran bestemmiatori; del resto la Francia in generale, si lamenta Gerson, cristiana com’è, soffre più di ogni altro paese di questo orribile peccato, che è causa di pestilenze, guerre e carestie.73 Perfino i monaci fanno la loro parte con bestemmie storpiate e addolcite.74 Egli vuole che tutte le autorità e le classi sociali concorrano a estirpare il male, con ordinanze severe e pene lievi che siano realmente applicabili. E, infatti, nel 1397, fu emanata un’ordinanza reale che ripristinò quelle più vecchie emanate contro la bestemmia nel 1269 e nel 1347; però non sono minacciate pene lievi e facilmente applicabili, ma quelle più antiche del taglio delle labbra e della lingua, che esprimevano la santa indignazione per il sacrilegio. Nel registro che contiene l’ordinanza troviamo annotato in margine: “Tutte queste bestemmie sono oggigiorno, nel 1411, molto diffuse in tutto il regno, e impunite”.75 Al Concilio di Costanza76 Pierre d’Ailly torna a sollecitare dei rimedi contro il male. Gerson conosce i due estremi tra i quali oscilla il peccato della bestemmia. Grazie alla sua esperienza come confessore, sa di giovani puri, semplici e casti, che vengono tormentati da una forte tentazione di pronunciare espressioni eretiche e blasfeme. Egli ordina loro di non darsi totalmente alla contemplazione di Dio e dei suoi santi; non sono pronti per affrontarla.77 Sa pure di bestemmiatori abituali, come i borgognoni, il cui atto, per quanto riprovevole, non implica la
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colpa dello spergiuro, poiché non c’è alcuna intenzione di giurare.78 Non è possibile definire il momento in cui l’abitudine di trattare con leggerezza le cose della fede si trasforma in irreligiosità consapevole. Senza dubbio, alla fine del Medioevo c’è una spiccata tendenza a deridere la devozione e i devoti, e a farsi passare per esprit fort e scherzare sulla fede.79 I novellieri si atteggiano a frivoli e indifferenti, come nel racconto delle Cent nouvelles nouvelles, dove il parroco seppellisce il suo cane in terra consacrata e gli dice: “mon bon chien, à qui Dieu pardoint”. Il cane va poi pure “tout droit au paradis des chiens”.80 Esiste una grande avversione per la devozione ipocrita o frivola: la parola “papelard” viene usata anche troppo spesso. Il notissimo proverbio: “De jeune angelot vieux diable”, oppure in bel latino scolastico: “Angelicus juvenis senibus sathanizat in annis” è una spina nel cuore per Gerson. Così, dice, si corrompe la gioventù: si loda nei ragazzi la sfrontatezza, il linguaggio sconcio e la bestemmia, la lascivia degli sguardi e dei gesti. Ma, aggiunge, io non vedo che cosa si possa sperare dalla vecchiaia di chi, da giovane, gioca a fare il diavolo.81 Tra gli stessi religiosi e teologi Gerson distingue un gruppo di chiacchieroni ignoranti e rissosi, per i quali ogni discorso sulla religione è un peso e una favola, e che respingono con grandi risate e sdegno tutto ciò che viene loro riferito di visioni e rivelazioni. Altri, cadendo nell’estremo opposto, giudicano rivelazioni tutte le fantasie di gente delirante, tutti i sogni e le fantasticherie di malati e di pazzi.82 Il popolo non riesce a serbare il giusto mezzo tra quegli estremi: crede a tutto ciò che visionari e indovini profetizzano, ma se capita che un religioso serio, che ha avuto spesso rivelazioni auten248
tiche, sia in errore, allora insulta tutti gli uomini di chiesa, lo chiama impostore e “papelard”, e non vuole più ascoltare i religiosi, ritenendoli ipocriti malvagi.83 Di solito in questi casi di così deplorata empietà si ha a che fare con l’improvvisa caduta della tensione religiosa in una vita spirituale satura di contenuto e forme religiose. Durante tutto il Medioevo si trovano numerosi casi di miscredenza spontanea,84 che non vanno considerati un distacco dalla dottrina della Chiesa sulla base di speculazioni teologiche, ma unicamente una reazione immediata. Non significa molto il fatto che poeti e cronisti, di fronte agli enormi peccati del loro tempo, abbiano esclamato: non si crede più nel cielo e nell’inferno,85 perché in più d’uno l’ateismo latente era diventato così consapevole e saldo da essere risaputo e dichiarato. “Beaux seigneurs,” dice ai suoi compagni il capitano Bétisac,86 “je ay regardé à mes besonges et en ma conscience je tiens grandement Dieu avoir courrouchié, car jà de long temps j’ay erré contre la foy, et ne puis croire qu’il soit riens de la Trinité, ne que le Fils de Dieu se daignast tant abaissier que il venist des chieulx descendre en corps humain de femme, et croy et dy que, quant nous morons, que il n’est riens de âme… J’ay tenu celle oppinion depuis que j’eus congnoissance, et la tenray jusques à la fin.” Hugues Aubriot, prevosto di Parigi, è un accanito mangiapreti; non crede nel sacramento dell’altare, ci scherza sopra, non osserva la Pasqua, non si confessa.87 Jacques du Clercq racconta diversi casi di nobili che si mostravano increduli e, in piena coscienza, rifiutavano l’estrema unzione.88 Jean de Montreuil, prevosto di Lilla, scrive a uno dei suoi amici dotti, più nello stile arioso di un umanista illuminato che in quello di un vero devoto: “Voi conoscete il nostro 249
amico Ambrogio de Miliis; voi avete spesso udito quel che egli pensava della religione, della fede, della Sacra Scrittura e di tutti i precetti della Chiesa, e tanto che lo stesso Epicuro, al confronto, era un cattolico. Ebbene, quest’uomo ora è completamente convertito”. Però, anche prima, egli era stato tollerato in quella cerchia di preumanisti pieni di devozione.89 Se da una parte, accanto a questi casi spontanei di miscredenza, è presente il paganesimo letterario del Rinascimento e l’Epicureismo colto e cauto, che già nel XIII secolo, sotto il nome di Averroè, era fiorito in ambienti molto vasti, dall’altra c’è la negazione appassionata degli eretici poveri e ignoranti, i quali, si chiamassero Turlupini o Fratelli del libero spirito, avevano tutti oltrepassato il confine che separa il sentimento religioso dal panteismo. Tuttavia questi fenomeni dovranno essere esaminati in un altro contesto. Per il momento dobbiamo rimanere nella sfera delle raffigurazioni religiose, delle forme e degli usi esteriori. Per la coscienza delle masse la presenza di un’immagine visibile rendeva del tutto superflua la dimostrazione intellettuale della verità della cosa raffigurata. Davanti alle figure e alle forme che si vedevano, le persone della Trinità, le fiamme dell’inferno, gli innumerevoli santi, e la relativa credenza non c’era posto per chiedersi se tutto fosse vero. Tutte quelle rappresentazioni si trasformavano subito in raffigurazioni della fede e venivano ben impresse nelle menti, con contorni definiti e colori vivaci, e con tutta la precisione che la Chiesa poteva pretendere dalla fede, e anche qualcosa di più. Però laddove la fede poggia direttamente su una rappresentazione figurata, a malapena può fare distinzioni qualitative tra la natura e il grado di santità dei diversi elementi re250
ligiosi. Un’immagine è reale e rispettabile quanto un’altra, e la figura in sé non dice che Dio va adorato e i santi solo onorati, se la Chiesa non ammonisce continuamente in tal senso con il suo insegnamento. In nessun altro campo la minaccia della sopraffazione del pensiero religioso da parte della fervida immaginazione era così continua e così forte come in quello del culto dei santi. Il rigido punto di vista della Chiesa era puro e alto quanto basta. Accettata l’idea della sopravvivenza personale, il culto dei santi era naturale e non sospetto. È lecito attribuire loro lode e onore “per imitationem et reductionem ad Deum”. Allo stesso modo si possono venerare immagini, reliquie, luoghi santi e cose consacrate a Dio, nella misura in cui tutto questo conduce, infine, alla venerazione di Dio stesso.90 Anche la distinzione tecnica tra il santo e il comune beato e l’ordinamento dell’Istituto della santità mediante la canonizzazione ufficiale, sebbene fossero una pericolosa formalizzazione, non erano però assolutamente in contrasto con lo spirito del Cristianesimo. La Chiesa rimaneva cosciente dell’originaria equivalenza di santità e beatitudine, e dell’insufficienza della canonizzazione. “Si deve credere,” dice Gerson, “che i santi morti e che muoiono ogni giorno siano in numero infinitamente maggiore di quelli che sono canonizzati.”91 Malgrado le esplicite parole del secondo comandamento, la liceità delle stesse immagini veniva dimostrata appellandosi al fatto che prima dell’incarnazione di Cristo il divieto era stato necessario, poiché Dio allora era solo spirito, ma che Cristo aveva annullato l’antica legge con la venuta sulla terra. Al resto del secondo comandamento: “Non adorabis ea neque coles”, la Chiesa voleva attenersi pienamente. “Noi 251
non adoriamo le immagini, ma portiamo onore e adorazione a ciò che è raffigurato nell’immagine, ossia a Dio, o al suo santo.”92 Le immagini hanno solo lo scopo di mostrare ai semplici, che non conoscono la Scrittura, ciò in cui devono credere,93 sono i libri degli ignoranti94; troviamo questo pensiero nella preghiera a Maria che Villon compose per sua madre: Femme je suis pourette et ancienne, Qui riens ne sçai; oncques lettre ne leuz; Au moustier voy dont suis paroissienne Paradis paint, où sont harpes et luz, Et ung enfer où dampnez sont boulluz: L’ung me fait paour, l’autre joye et liesse…95 Il fatto che i libri contenenti immagini multiformi offrissero allo spirito inquieto altrettanta materia per allontanarsi dalla dottrina, quanta ne poteva portare con sé l’interpretazione soggettiva delle Scritture, non ha mai preoccupato la Chiesa, che ha sempre giudicato con indulgenza il peccato di coloro che per ignoranza e semplicità si riducevano a adorare le immagini. Per questo è già sufficiente, dice Gerson, avere l’intenzione di comportarsi come la Chiesa onorando le immagini.96 Possiamo tralasciare qui la questione puramente dogmatica, cioè fino a che punto la Chiesa abbia saputo mantenere sempre puro il suo divieto di adorare e persino di riverire direttamente i santi come artefici della grazia implorata e non come intercessori. La questione storico-culturale che si pone è la seguente: fino a che punto essa è riuscita a trattenere il popolo, in altre parole quale realtà, quale valenza figurativa avevano i santi nella coscienza popolare tardome252
dioevale? E qui c’è una sola risposta: i santi erano figure così reali, così materiali e così familiari nella vita religiosa comune, che a loro si associavano tutti gli impulsi religiosi più superficiali e istintivi. Mentre i più intimi moti dell’animo erano diretti a Cristo e Maria, si cristallizzava nel culto dei santi tutto un tesoro di vita religiosa bonaria, primitiva e banale. Tutto concorreva a conferire ai santi popolari una concretezza che li poneva continuamente in mezzo alla vita. L’immaginario popolare se ne è impadronito: essi hanno sembianze note e attributi propri, si conoscono il loro agghiacciante martirio e i loro stupefacenti miracoli. Sono vestiti e ornati come il popolo stesso. Si potevano incontrare ogni giorno messere San Rocco o San Giacomo, tra gli appestati o i pellegrini. Sarebbe interessante cercare di scoprire fino a quando l’abbigliamento dei santi ha partecipato della moda di quei tempi. Certamente di quella dell’intero XV secolo. Ma quando è che l’arte sacra li sottrae all’immaginario popolare, avvolgendoli in drappeggi retorici? Non è solamente una questione di sensibilità rinascimentale per il costume storico; è che l’immaginario popolare stesso comincia ad allontanarsene, o per lo meno non riesce più a farsi valere nell’arte sacra. Durante la Controriforma i santi sono saliti di molti gradini, come voleva la Chiesa: basta con il contatto con la vita del popolo. La corporeità già acquisita dai santi nelle raffigurazioni era enormemente accresciuta dal fatto che la Chiesa, da tempo immemorabile, aveva permesso e incoraggiato il culto delle loro spoglie mortali. Quell’attaccarsi a cose materiali doveva avere, inevitabilmente, un’influenza sulla fede, che portava talvolta a degli estremi sorprendenti. Quando si tratta di reliquie la forte fede del Medioevo non teme né delu253
sioni né profanazioni. I montanari umbri, intorno all’anno mille, volevano ammazzare l’eremita San Romualdo per non perdere le sue ossa. I monaci di Fossanova, dove era morto Tommaso d’Aquino, per paura di farsi sfuggire la preziosa reliquia, avevano letteralmente messo in conserva il cadavere del nobile maestro: l’avevano decapitato, bollito e preparato.97 Quando Santa Elisabetta di Turingia non era ancora stata sotterrata, un nugolo di devoti venne non solo a tagliare o a strappare pezzi dei panni che avvolgevano il suo viso, ma anche a tagliare i capelli, le unghie e persino pezzi di orecchie e i capezzoli.98 In occasione di una solenne festività, Carlo VI distribuisce alcune costole del suo avo San Luigi a Pierre d’Ailly, ai suoi zii di Berry e di Borgogna, e ai prelati dona una gamba perché se la dividano, cosa che essi fanno dopo il pasto.99 Per quanto la rappresentazione dei santi fosse viva e corposa, questi tuttavia compaiono relativamente poco nella sfera delle esperienze soprannaturali. L’intero ambito delle visioni, dei segni, delle apparizioni e degli spettri è, in larga parte, separato dalla sfera fantastica del culto dei santi. Ci sono ovviamente delle eccezioni, come nell’esempio meglio documentato di una visione di santi: l’arcangelo Michele, Santa Caterina e Santa Margherita appaiono e danno consigli a Giovanna d’Arco, e sembra che l’interpretazione che ella dà della sua esperienza si sia gradualmente fatta luce nella sua mente, forse addirittura durante gli interrogatori del suo processo. Dapprima ella parla solo del suo “Conseil”, senza dargli un nome; soltanto in un secondo tempo lo indica con le note figure dei santi.100 Quando i santi decidono di mostrarsi si ha a che fare, di regola, con visioni interpretate o concepite secondo schemi 254
letterari. Quando nel 1446, al giovane pastore di Frankenthal, presso Bamberg, appaiono i quattordici Santi Ausiliatori, che pure erano figure di spicco nell’iconografia del tempo, egli non li vede muniti dei loro attributi, ma come quattordici angioletti, del tutto simili tra loro, che dicono di essere i quattordici Ausiliatori. La fantasmagoria delle credenze popolari spontanee è piena di angeli e di diavoli, di spiriti defunti e di silfidi, ma non di santi. Solo in alcune eccezioni il santo gioca un ruolo nella superstizione autentica, non caricata di significati letterari o teologici. È il caso di San Bertolfo a Gand. Quando sta per succedere qualcosa di serio, egli batte contro la sua cassa nell’abbazia di San Pietro “moult dru et moult fort”; talvolta provoca un lieve terremoto, e spaventa in tal modo la città che cerca di allontanare l’ignoto disastro con grandi processioni.101 In generale però si provava un gelido terrore per le figure effigiate in modo piuttosto vago e che erano scolpite o dipinte nelle chiese non con attributi fissi, sembianze note e belle vesti variopinte, e che si aggiravano come terribili fantasmi avvolti dalla nebbia, o si mostravano come puro splendore celeste, o affioravano come mostruose, pallide deformità dai meandri del cervello. Ciò non deve stupire. Proprio l’aver assunto una forma così esatta, attirando e cristallizzando intorno a sé tanta materia fantastica, toglieva al santo quel raccapricciante alone di mistero. La paura del soprannaturale è dovuta all’indefinitezza della rappresentazione, all’attesa della possibile, improvvisa manifestazione di un nuovo, inaudito orrore. Non appena la rappresentazione assume contorni ben definiti nasce un senso di sicurezza e di familiarità. I santi con le loro figure ben note producevano lo stesso effetto rassicurante 255
che produce un poliziotto in una grande città straniera. Il culto dei santi e soprattutto la loro raffigurazione crearono, per così dire, una zona neutra di fede bonaria e tranquilla tra le estasi della contemplazione di Dio e i dolci brividi dell’amore per Cristo da una parte, e gli spaventosi fantasmi della paura del demonio e della credenza nelle streghe. Si potrebbe azzardare l’ipotesi che il culto dei santi, attribuendo e riconducendo molti rapimenti mistici e molti timori a immagini familiari, abbia temperato, in modo assai salutare, lo spirito selvaggiamente esuberante del Medioevo. A causa di quella raffigurazione completa il culto dei santi si colloca ai margini della vita religiosa. Esso segue la corrente del pensiero comune, perdendo così talvolta in dignità. Caratteristico, sotto questo aspetto, è il culto tardomedioevale di San Giuseppe. Può essere considerato una conseguenza del commosso culto di Maria. L’interesse indiscreto per il padre adottivo fa riscontro, per così dire, a tutto l’amore e a tutta l’esaltazione rivolti alla Vergine Madre. Più Maria saliva in alto, più Giuseppe diventava una caricatura. Le arti figurative lo avevano già tratteggiato secondo una tipologia che si avvicinava troppo a quella del contadino goffo e deriso. Così egli appare nel dittico di Melchior Broederlam a Digione. Però il massimo di profanazione non si ebbe nelle arti figurative. Quanto ingenuo distacco mostra l’idea che ha di Giuseppe Eustache Deschamps, da non considerarsi in questo caso empio e beffardo. Giuseppe, che poteva servire la Madre di Dio ed educare suo Figlio, sarebbe stato toccato dalla grazia come nessun altro mortale. Deschamps preferisce vedere in lui il tipico padre di famiglia affannato e patetico: Vous qui servez a femme et a enfans 256
Aiez Joseph toudis en remembrance; Femme servit toujours tristes, dolans, Et Jhesu Crist garda en son enfance; A piè trotoit, son fardel sur sa lance; En plusieurs lieux est figuré ainsi, Lez un mulet, pour leur faire plaisance, Et si n’ot oncq feste en ce monde ci.102 Se si trattasse di consolare padri di famiglia preoccupati con un nobile esempio, malgrado il calo di dignità della rappresentazione, potrebbe ancora passare, ma Deschamps, proprio attraverso Giuseppe, intende rivolgere un monito a non mettere su famiglia: Qu’ot Joseph de povreté De durté, De maleurté, Quant Dieux nasqui? Maintefois l’a comporté Et monté Par bonté Avec sa mère autressi, Sur sa mule les ravi: Je le vi Paint ainsi; En Egipte en est alé. Le bonhomme est painturé Tout lassé, Et troussé, D’une cote et d’un barry: 257
Un baston au coul posé, Vieil, usé Et rusé. Feste n’a en ce monde cy, Mais de lui Va le cri: C’est Joseph le rassoté.103 Qui si può vedere come da una rappresentazione familiare si sviluppasse una concezione familiare che profanava ogni sacralità. Giuseppe rimase, nell’immaginario popolare, una figura quasi comica; ancora il dottor Johann Eck dovette insistere per non farlo rappresentare affatto, se non nella Natività, o per lo meno in modo più dignitoso, e per non fargli cucinare la pappa, “ne ecclesia Dei irrideatur”.104 Contro queste degenerazioni indegne per un culto appropriato di Giuseppe si era volto il movimento di Gerson, che portò alla sua introduzione nella liturgia con preminenza su tutti gli altri santi.105 Abbiamo però già visto come lo stesso Gerson, malgrado il suo impegno, non fosse esente da quella indiscreta curiositas che sembrava quasi inevitabilmente legata all’argomento del matrimonio di Giuseppe. Uno spirito distaccato (e Gerson, nonostante la sua predilezione per la mistica, era sotto molti aspetti uno spirito distaccato) faceva sempre considerazioni di natura molto profana sul matrimonio di Maria. Il cavaliere de La Tour-Landry, anche lui espressione della fede distaccata e sempre bendisposto, vede il caso sotto questa luce. “Dieux voulst que elle espousast le saint homme Joseph qui estoit vieulx et preudomme; car Dieu voulst naistre soubz umbre de mariage pour obéir à la loi qui lors couroit, pour eschever les paroles du monde.”106 258
Un’opera inedita del XV secolo raffigura le nozze mistiche dell’anima con lo sposo celeste nei termini di un amoreggiamento borghese. Gesù, lo sposo, dice a Dio Padre: “S’il te plaist, je me mariray et auray grant foueson d’enfans et de famille”.107 Il Padre solleva obiezioni, perché la scelta del Figlio è caduta su una etiope nera; qui si allude alle parole del Cantico dei Cantici: “Nigra sum sed formosa”. Sarebbe una mésalliance e un disonore per la famiglia. Un angelo, che agisce come mezzano, intercede per la sposa. “Combien que ceste fille soit noire, neanmoins elle est gracieuse, et a belle composicion de corps et de membres, et est bien habile pour porter fouezon d’enfans.” Il Padre risponde: “Mon cher fils m’a dit qu’elle est noire et brunete. Certes je vueil que son espouse soit jeune, courtoise, jolye, gracieuse et belle et qu’elle ait beaux membres”. Allora l’angelo loda il suo volto e le sue membra, cioè le virtù dell’anima. Il Padre si dà per vinto e si rivolge così al Figlio: Prens la, car elle est plaisant Pour bien amer son doulx amant; Or prens de nos biens largement, Et luy en donne habondamment.108 Non si può dubitare neanche un istante della serietà e dell’intento edificante di questo lavoro, che prova a quale rappresentazione triviale potesse condurre la fantasia sbrigliata. Ogni figura di santo aveva, grazie alla sua immagine ben definita ed eloquente, un carattere individuale,109 al contrario degli angeli che, a eccezione dei tre arcangeli, non furono affatto raffigurati. L’individualità dei santi spiccava ancora di più in virtù della funzione speciale che si attribuiva a molti di loro: si invocava un certo santo in un determinato caso di bisogno, un altro per guarire da una determinata ma259
lattia. Spesso era un tratto della leggenda o un attributo dell’immagine che offriva lo spunto per quella specializzazione, come nel caso di Sant’Apollonia, invocata contro il mal di denti, perché durante il martirio le erano stati strappati i denti. Una volta definito in questo modo il benefico compito dei santi, non poteva non fare automaticamente la sua comparsa nel loro culto un altro elemento. Visto che la guarigione dalla peste apparteneva alla competenza di San Rocco, l’azione del santo era concepita, quasi inevitabilmente, come un intervento diretto, la qual cosa mise in pericolo l’intero principio dottrinale, asserito dalla Chiesa, che il santo operasse la guarigione intercedendo presso Dio. Ciò accadeva soprattutto nel culto dei quattordici (talvolta anche cinque, otto, dieci e quindici) Santi Ausiliatori, figure di primissimo piano verso la fine del Medioevo. Santa Barbara e San Cristoforo, i più raffigurati di tutti, ne fanno parte. A questi quattordici, secondo la credenza popolare, Dio aveva concesso la facoltà di salvare chiunque li invocasse in caso d’immediato pericolo. Ilz sont cinq sains, en la genealogie, Et cinq sainctes, a qui Dieux octria Benignement a la fin de leur vie, Que quiconques de cuer les requerra En tous perilz, que Dieux essaucera Leurs prieres, pour quelconque mesaise. Saiges est donc qui ces cinq servira, Jorges, Denis, Christofle, Gille et Blaise.110 Per il giudizio popolare, in virtù di questa delega dell’onnipotenza e dell’immediatezza dell’effetto, ogni idea sulla funzione di mera intercessione dei santi non aveva più 260
motivo di esistere: i Santi Ausiliatori erano diventati i procuratori della divinità. Diversi messali della fine del Medioevo, contenenti l’ufficio dei quattordici Ausiliatori, esprimono chiaramente il carattere vincolante del loro intervento: “Deus qui electos sanctos tuos Georgium etc. etc. specialibus privilegiis prae cunctis aliis decorasti, ut omnes, qui in necessitatibus suis eorum implorant auxilium, secundum promissionem tuae gratiae petitionis suae salutarem consequantur effectum.”111 Per questo la Chiesa, dopo Trento, ha proibito proprio la messa dei quattordici Ausiliatori, a causa del pericolo che la fede vi si attaccasse come a un talismano.112 E infatti la sola contemplazione quotidiana di un Cristoforo dipinto o scolpito era considerata una protezione sufficiente contro la cattiva sorte.113 Se ci si chiede perché proprio quei quattordici abbiano formato una tale compagnia della salvezza, allora ci si accorge che tutti avevano, nella loro effigie, qualcosa di sensazionale che stimolava la fantasia. Si vede Acacio con una corona di spine, Egidio con una cerva, Giorgio con un drago, Biagio in una tana con degli animali selvaggi, Cristoforo come un gigante, Ciriaco con un diavolo incatenato, Dionigi con la propria testa sotto il braccio, Erasmo, durante il suo martirio, con un argano, Eustachio con un cervo che porta la croce, Pantaleone come medico, con un leone, Vito in una caldaia, Santa Barbara con una torre, Caterina con una ruota e una spada, Margherita con un drago.114 Non è da escludere che la particolare considerazione di cui godevano i quattordici fosse dovuta all’efficacia della loro immagine. Numerosi nomi di santi erano associati a determinate malattie; così quello di Sant’Antonio a diverse infiammazioni della pelle, di San Mauro alla gotta, di San Sebastiano, San 261
Rocco, Sant’Egidio, San Cristoforo, San Valentino e Sant’Adriano alla peste. Qui si celava un altro pericolo per la degenerazione della credenza popolare. Si chiamava il male con il nome del santo: il fuoco di Sant’Antonio, il “mal de Saint Maur” e tanti altri. Quindi, pensando alla malattia, il pensiero andava fin dall’inizio al santo e si caricava di emozioni violente, di paura e ribrezzo, soprattutto quando si trattava della peste. Nel XV secolo i santi della peste godevano di grande venerazione: uffici nelle chiese, processioni, confraternite, un’assicurazione spirituale, per così dire, contro le malattie. Era molto facile, a questo punto, convincersi che l’epidemia andasse attribuita al santo, e non più all’ira di Dio. Non è la giustizia imperscrutabile di Dio che ha causato la malattia, ma è l’ira del santo che la manda e che deve essere placata. Se è lui che la guarisce, perché non dovrebbe anche causarla? Così si era compiuto un passaggio di tipo pagano della fede dalla sfera religiosoetica a quella magica, e la Chiesa poteva esserne ritenuta responsabile solamente in quanto non teneva nella dovuta considerazione il fatto che la sua pura dottrina poteva intorbidarsi negli spiriti ignoranti. Le testimonianze relative alla presenza di questa concezione tra il popolo sono sufficienti a escludere ogni dubbio: tra gli ignoranti i santi talvolta sono considerati veramente come la causa della malattia. “Que Saint Antoine me arde” è un’imprecazione comune: “Saint Antoine arde le tripot, Saint Antoine arde le monture!”,115 maledizioni in cui il santo funge da maligno demone del fuoco. Saint Anthoine me vent trop chier Son mal, le feu ou corps me boute, fa dire Deschamps al mendicante tormentato da malattie
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della pelle, e apostrofa il gottoso: se non puoi camminare tanto meglio, risparmi il pedaggio: Saint Mor ne te fera fremir.116 Robert Gaguin, decisamente non avverso al culto dei santi in sé, in un poema satirico, De validorum per Franciam mendicantium varia astucia, così descrive i mendicanti: “Questo cade a terra, sputando saliva puzzolente, e farnetica che ciò è opera miracolosa di San Giovanni. Altri vengono tormentati da San Fiacrio eremita con delle pustole; voi, Damiano, impedite l’orinazione. Sant’Antonio brucia le loro articolazioni con un fuoco dolorosissimo, San Pio li rende storpi e paralitici”.117 Su questa stessa credenza popolare scherza Erasmo quando, alla domanda di Philecous se i santi siano più cattivi in cielo che sulla terra, fa rispondere da Theotimus: “Sì, i santi che regnano in cielo non vogliono essere offesi. Chi fu più gentile di Cornelio, chi più mite di Antonio, chi più paziente di Giovanni Battista quando erano vivi? Ma ora, che terribili malattie mandano, se non sono onorati a dovere!”.118 Rabelais afferma che gli stessi predicatori popolari presentavano ai credenti San Sebastiano come colui che causa la peste, e Sant’Eutropio (per via dell’assonanza con “ydropique”) come quello che causa l’idropisia.119 Anche Henri Estienne menziona tale credenza.120 Il contenuto emotivo e ideologico del culto dei santi era talmente fissato nei colori e nelle forme delle immagini, che questo immediato aspetto estetico minacciava continuamente di scalzare il pensiero religioso. La contemplazione dello splendore dell’oro, della riproduzione scrupolosa delle stoffe dell’abbigliamento, dell’espressione devota degli occhi e della rappresentazione così vivida del santo, faceva sì che 263
nella coscienza non ci fosse quasi più posto per riflettere sulla venerazione sentita che la Chiesa permetteva o proibiva di offrire a quelle magnifiche creature. Nella mente del popolo i santi vivevano come divinità. Non ci sorprende che la cerchia rigorosamente ortodossa di Windesheim tema questo pericolo per la devozione popolare. È significativo invece vedere spuntare a un tratto quel pensiero in uno spirito come Eustache Deschamps, poeta di corte superficiale e banale, che proprio per i suoi limiti è uno specchio eccellente della vita spirituale dei suoi tempi: Ne faictes pas les dieux d’argent, D’or, de fust, de pierre ou d’arain, Qui font ydolatrer la gent… Car l’ouvrage est forme plaisant; Leur painture dont je me plain, La beauté de l’or reluisant, Font croire à maint peuple incertain Que ce soient dieu pour certain, Es servent par pensées foles Telz ymages qui font caroles Es moustiers où trop en mettons; C’est tresmal fait: a brief paroles, Telz simulacres n’aourons. … Prince, un Dieu croions seulement Et aourons parfaictement Aux champs, partout, car c’est raisons, Non pas faulz dieux, fer n’ayment,
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Pierres qui n’ont entendement: Telz simulacres n’aourons.121 Non si potrebbe interpretare come una reazione inconscia al culto dei santi quel grande fervore tardomedioevale del culto dell’angelo custode? Nel culto dei santi la fede viva si era troppo cristallizzata; c’era l’esigenza di rendere più fluido il sentimento della venerazione e il senso della protezione. Congiungendosi alla figura appena delineata dell’angelo, si poteva ritornare all’immediatezza del soprannaturale. È di nuovo Gerson, lo zelante sostenitore della purezza della fede, che raccomanda ripetutamente il culto dell’angelo custode.122 Però anche qui si avverte minacciosa la mania dei particolari, che può solo nuocere alla componente devota del culto. La “studiositas theologorum”, dice Gerson, pone ogni tipo di domande riguardo agli angeli: se ci abbandoneranno mai, se sappiano già, sin dall’inizio, se siamo eletti o se saremo dannati, se Cristo avesse un angelo custode, se Maria o l’Anticristo ne avranno uno, se il nostro buon angelo possa parlare alla nostra anima senza le immagini di fantasmi, se essi ci spronino al bene come i diavoli al male, se vedano i nostri pensieri, quanti siano. Quella studiositas, conclude Gerson, sia lasciata ai teologi, ma ogni curiositas sia lontana da tutti coloro che devono applicarsi più alla devozione che alla speculazione sottile.123 La Riforma, un secolo dopo, trovò il culto dei santi quasi inerme, ma non mosse alcun attacco alla credenza nelle streghe e nei diavoli; e non voleva farlo, poiché ne era ancora soggiogata. La scomparsa del timore reverenziale dal culto dei santi non dipendeva forse dal fatto che questo era diventato in gran parte “caput mortuum”, e che tutto ciò che riguardava gli aspetti intellettuali del culto dei santi era stato 265
espresso così compiutamente nell’immagine, nella leggenda e nella preghiera? Il culto dei santi aveva perso le sue radici nell’inimmaginabile e nell’inesprimibile, radici che erano ancora troppo forti nella demonologia.124 E quando la Controriforma cerca di dare un carattere più puro al culto dei santi, deve prima operare sugli spiriti con il roncolo, per tagliare la vegetazione troppo lussureggiante dell’immaginario popolare.
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13. Tipi di vita religiosa
Il popolo viveva il tran tran di una religione completamente esteriorizzata con una fede molto salda, che provocava sì paure ed estasi, ma non imponeva agli incolti domande e lotte spirituali, come avrebbe fatto il Protestantesimo. L’irriverenza bonaria e la prosaicità quotidiana si alternavano al fervore di una devozione appassionata, che afferrava, ogni volta, spasmodicamente il popolo. Non si vuole comprendere quella continua altalena di cali e di impennate di tensione religiosa, se si divide il gregge in devoti e gaudenti, come se una parte del popolo vivesse continuamente nella più alta religiosità e gli altri fossero solo apparentemente devoti. La nostra visione del pietismo tardomedioevale dei Paesi Bassi settentrionali e della Bassa Germania potrebbe trarci facilmente in inganno. Nella “devotio moderna” delle case dei Fratelli della vita comune e del monastero di Windesheim, in effetti, alcune cerchie pietistiche si erano separate dal mondo; tra loro era normale una tensione religiosa permanente; in quanto devoti per eccellenza, essi formavano un contrasto con la grande massa. Però la Francia e i Paesi Bassi meridionali hanno conosciuto appena questo fenomeno nella forma di un movimento organizzato. Tuttavia tanto 267
lì, quanto nel tranquillo paese dell’Ijssel, gli accordi profondi che erano alla base della “devotio moderna” hanno prodotto lo stesso effetto. Ma nel Sud non si giunse a una tale separazione; l’alta devozione continuò a far parte della vita religiosa generale, manifestandosi di tanto in tanto, in momenti più intensi e brevi. È la differenza che ancora oggi distingue i popoli latini da quelli nordici: i meridionali non se la prendono troppo per una contraddizione, avvertono meno l’esigenza di tirare tutte le conseguenze, possono conciliare più facilmente l’atteggiamento ironico quotidiano con l’alta esaltazione dello stato di grazia. Il disprezzo per il clero, una corrente che attraversa l’intera cultura medioevale accanto alla grande riverenza per lo stato sacerdotale, si spiega in parte con la secolarizzazione dell’alto clero e l’eccessivo declassamento del basso, e in parte con vecchi istinti pagani. L’animo del popolo, non completamente cristianizzato, non si era mai liberato del tutto dall’avversione verso l’uomo che non poteva combattere e doveva vivere castamente. L’orgoglio cavalleresco, che aveva le sue radici nel coraggio e nell’amore, respingeva, al pari della grossolana coscienza popolare, l’ideale religioso. La degenerazione dei religiosi stessi fece il resto, e così, già da secoli, ceti alti e bassi si erano divertiti con le figure del monaco libertino e del papista grasso e ghiotto. Un odio latente contro il clero era sempre presente. I predicatori che inveivano con più veemenza contro i peccati del loro stato erano i preferiti dal popolo.1 Non appena il predicatore, dice Bernardino da Siena, scende in campo contro i religiosi, l’uditorio dimentica il resto; non c’è mezzo migliore per tener viva l’attenzione, se il popolo comincia a sonnecchiare o a sentire caldo o freddo. Subito tutti si destano e diventano di buon 268
umore.2 Mentre, da un lato, il grande fervore religioso suscitato dai predicatori popolari girovaghi nei secoli XIV e XV ha origine nella rinascita degli ordini mendicanti, dall’altro sono proprio i frati mendicanti a diventare, con la loro corruzione, l’oggetto abituale dello scherno e del disprezzo. L’indegno sacerdote della novellistica, che dice la messa per tre grossi come un miserabile lavorante a ore, o il confessore presso il quale ci si abbona “pour absoudre de tout”, suole essere un frate mendicante.3 Il Molinet, in genere molto devoto, esprime il vilipendio corrente degli Ordini mendicanti in un augurio di Capodanno: Prions Dieu que les Jacobins Puissent manger les Augustins, Et les Carmes soient pendus Des cordes des Frères Menus.4 Il concetto dogmatico della povertà, così come era incarnato negli Ordini mendicanti, non soddisfaceva più lo spirito. In contrapposizione alla Povertà simbolico-formale come idea spirituale si cominciò a vedere la miseria sociale e reale. È in Inghilterra, paese sensibile, prima di altri, all’aspetto economico delle cose, che si manifesta chiaramente verso la fine del XIV secolo quella nuova visione, che si era già annunciata, del resto, da molto tempo. Il poeta della strana, sognante e nebulosa poesia The Vision concerning Piers the Plowman ha visto per primo le moltitudini che sfacchinano e sgobbano, e, pieno di odio verso i frati mendicanti, i pigri, gli spendaccioni e i finti infermi, “validi mendicantes”, la piaga del Medioevo, ha lodato la santità del lavoro. Però anche nelle cerchie dell’alta teologia un uomo come Pierre d’Ailly non esita a contrapporre i “vere pauperes”, i veri poveri, ai mendicanti, e non è un caso che, con l’acce269
ntuazione del carattere austero della fede, la “devotio moderna” si ponesse in sicuro contrasto con gli Ordini mendicanti. Tutto ciò che si apprende della vita religiosa quotidiana di quei tempi rivela una continua alternanza di estremi pressoché contrastanti. La derisione e l’odio nei confronti dei preti e frati sono però solo l’altra faccia di un affetto e di una venerazione generali e profondi. Parimenti, nella concezione dei doveri religiosi, una ingenua esteriorità si alterna a un eccesso di intimità. Nel 1437, dopo il ritorno del re di Francia nella sua capitale, si celebra un servizio funebre molto solenne per l’anima del conte d’Armagnac, la vittima, il cui assassinio aveva innescato i torbidi degli ultimi anni. Il popolo vi affluisce numeroso, ma è molto deluso quando non viene distribuito denaro. Perché vi accorsero non meno di quattromila persone, dice candidamente il Borghese di Parigi, che non ci sarebbero andate se non avessero pensato di ricevere qualcosa. “Et le maudirent qui avant prièrent pour lui.”5 Tuttavia questo è lo stesso popolo di Parigi che assiste con un fiume di lacrime alle numerose processioni e si strugge per le parole di un predicatore girovago. Ghillebert de Lannoy vide sedare una sommossa a Rotterdam da un sacerdote che elevò il Corpus Domini.6 Il grande contrasto e i notevoli cambiamenti di tensione si manifestano nella vita religiosa dell’individuo colto quasi come in quella della massa ignorante. È sempre con un tuono che arriva l’illuminazione religiosa, è sempre la debole ripetizione di ciò che provò Francesco, quando udì improvvisamente, come un comando immediato, le parole del Vangelo. Un cavaliere ode leggere la formula del battesimo, che forse ha già udito venti volte; ma a un tratto penetra la santità e la 270
mirabile efficacia di quelle parole e si propone di scacciare, d’ora in poi, il diavolo con il solo ricordo del battesimo, senza fare il segno della croce.7 Le Jouvencel assisterà a un duello; i contendenti sono pronti a giurare sull’ostia il loro buon diritto. Improvvisamente il cavaliere comprende che uno dei due giuramenti deve essere falso, che uno dei due sta per dannarsi, e dice: “Non giurate, combattete solo per una posta di cinquecento scudi, senza fare un giuramento”.8 La devozione dei maggiorenti, con la sua pesante zavorra di fasto ampolloso e di piaceri veementi ha sovente, proprio per questo, quegli spasimi che caratterizzano anche la devozione popolare. Carlo V di Francia abbandona spesso la caccia nel momento più eccitante per andare a messa.9 La giovane Anna di Borgogna, consorte del Bedford, reggente inglese nella Francia conquistata, scandalizza i borghesi parigini quando, cavalcando impetuosamente, imbratta di fango una processione; ma un’altra volta, a mezzanotte, lascia l’ebbrezza di una festa di corte per andare a sentire il mattutino dai celestini. E la triste morte la coglie in seguito alla malattia contratta nel visitare i poveri ammalati dell’Hôtel Dieu.10 Il contrasto tra devozione e peccato raggiunge estremi enigmatici nella figura di Luigi d’Orléans, il gaudente più passionale fra tutti i grandi servitori della lussuria e del piacere. Egli si dà persino alle arti magiche, e rifiuta di rinnegarle.11 Lo stesso Orléans è, ciononostante, così devoto da avere la propria cella nel dormitorio comune dei celestini; partecipa alla vita del convento, ascolta il mattutino a mezzanotte e talvolta cinque o sei messe al giorno.12 Orribile è la combinazione di religiosità e crimine in Gilles de Rais che, mentre fa strage di bambini a Machecoul, fonda un ufficio 271
in onore degli Innocenti, per la salvezza della sua anima, e si sorprende quando i suoi giudici gli rimproverano di essere un eretico. Anche se in altre figure la devozione è accompagnata da peccati meno sanguinosi, il tipo del gaudente devoto compare comunque spesso: il barbaro Gaston Phébus, conte di Foix, il frivolo Re Renato, il raffinato Carlo d’Orléans. Giovanni di Baviera, uomo duro e dispotico, va, travestito, a parlare con Lidwina van Schiedam dello stato della sua anima.13 Jean Coustain, l’infedele servitore di Filippo il Buono, un empio che non andava quasi mai a messa e non faceva mai elemosine, quando è nelle mani del carnefice si rivolge a Dio, nel suo rude dialetto borgognone, con una invocazione commossa.14 Lo stesso Filippo il Buono è uno degli esempi più significativi di quella combinazione di devozione e mondanità. L’uomo famoso per le feste sontuose e per i numerosi bastardi, per l’astuto calcolo politico, per l’orgoglio e per l’ira smisurati, è seriamente devoto. Suole rimanere a lungo, dopo la messa, nel suo oratorio. Digiuna quattro giorni a settimana a pane e acqua e, inoltre, tutte le vigilie della Madonna e degli Apostoli. Talvolta, alle quattro del pomeriggio, non ha ancora mangiato nulla. Fa molte elemosine, e in segreto; inoltre, sempre di nascosto, fa dire una messa da requiem per ognuno dei suoi uomini, a prezzo fisso: da 400 a 500 per un barone, 300 per un cavaliere, 200 per un nobile, 100 per un “varlet”.15 Dopo l’attacco di sorpresa in Lussemburgo segue la messa immerso nel suo breviario e poi in speciali preghiere di ringraziamento per così lungo tempo che il suo seguito, che l’aspetta a cavallo perché il combattimento non è ancora finito, diviene impaziente: il duca farebbe meglio a rimandare a un’altra volta tutti quei paternostri. Lo si 272
avverte che un ulteriore indugio è pericoloso. Ma Filippo risponde soltanto: “Si Dieu m’a donné victoire, il la me gardera”.16 Non si deve cercare in tutto questo dell’ipocrisia o del vano bigottismo, bensì una tensione tra due poli spirituali, appena ipotizzabile per lo spirito moderno. È il netto dualismo di una concezione del mondo peccaminoso opposto al regno di Dio, che ammette questa possibilità. Per lo spirito medioevale tutti i sentimenti più puri e più elevati sono assorbiti dalla religione, mentre gli istinti naturali e sensuali, consapevolmente respinti, devono sprofondare al livello di una mondanità ritenuta peccaminosa. Nella coscienza medioevale si formano, per così dire, due concezioni di vita, l’una accanto all’altra: la concezione devota e ascetica ha attirato a sé tutti i sentimenti morali; la mondanità, abbandonata ormai al diavolo, si vendica tanto più sfrenatamente. Se una delle due predomina, si vede il santo o il peccatore dissoluto; ma di regola esse si mantengono in un equilibrio instabile, con ampie oscillazioni, e si vedono gli individui passionali, i cui peccati rosso sangue, alle volte, fanno esplodere ancora più intensamente la loro traboccante devozione. Quando vediamo un poeta medioevale comporre gli inni più devoti accanto a ogni sorta di profanazione e oscenità, come fanno moltissimi – Deschamps, Antoine de la Salle, Jean Molinet – allora non c’è motivo, ancor meno che per un poeta moderno, di dividere quelle produzioni tra ipotetici periodi di mondanità e raccoglimento. La contraddizione, per noi quasi incomprensibile, va accettata. Si verificano, in quest’epoca, strane mescolanze di bizzarro amore del lusso e di austera devozione. Non è solo sovraccaricando la fede di pittura, oreficeria e scultura che si 273
esprime l’incontenibile bisogno di adornare con brio e di raffigurare ogni cosa della vita e del pensiero. Quella bramosia di colore e di splendore penetra, talvolta, nelle forme della vita spirituale stessa. Frate Tommaso inveisce con veemenza contro il lusso e l’eccesso, ma il palco dal quale parla è stato tappezzato dal popolo con gli arazzi più ricchi che ci siano.17 Philippe de Mézières è il tipo perfetto di quella devozione sfarzosa. Per l’Ordine della Passione, che voleva fondare, ha stabilito minuziosamente tutti i particolari dell’abbigliamento. È una specie di festa di colori quella che sogna. I cavalieri dovranno, a seconda del loro rango, andar vestiti di rosso, di verde, di scarlatto o di celeste; il gran maestro di bianco; bianchi saranno pure gli abiti di gala. La croce sarà rossa, le cinture di cuoio o di seta con fibbie di corno e ornamenti di rame dorato. Gli stivali saranno neri e il cappuccio rosso. Anche l’abito dei fratelli, dei serventi, degli scrivani, delle donne è descritto accuratamente.18 Di quell’ordine non se ne fece niente; Philippe de Mézières restò, per tutta la vita, un grande fantasticatore e ideatore di crociate. Ma a Parigi, nel convento dei celestini, trovò il posto adatto: l’ordine era tanto severo quanto risplendenti d’oro e di pietre preziose erano la chiesa e il convento, un mausoleo di principi e principesse.19 Secondo Christine de Pisan la chiesa aveva una bellezza perfetta. Mézières vi si trattenne come frate laico, partecipò alla vita austera dei monaci e rimase comunque in contatto con i grandi signori e con i begli spiriti dei suoi giorni, una specie di Geert Groote mondano-artistico. Qui attirò anche il suo amico Luigi d’Orléans, che lì riuscì ad appartarsi dalla vita dissoluta e trovò anche la sua prematura tomba. Non è certo un caso che due amanti del lusso, Luigi d’Orléans e suo zio Filippo 274
l’Ardito di Borgogna, abbiano scelto entrambi, per potersi dedicare all’arte, i conventi degli ordini più severi, dove il contrasto con la vita dei monaci faceva risaltare ancora di più lo splendore: l’Orléans dai celestini, il borgognone dai certosini di Champmol, presso Digione. Il vecchio Re Renato scoprì durante una caccia nei pressi di Angers un eremita: un prete che aveva abbandonato la sua prebenda e viveva di pane nero e di frutti di bosco. Il re fu colpito dalla sua severa virtù e fece costruire per lui un eremitaggio e una piccola cappella. Per sé vi aggiunse un giardino e una modesta casa di campagna, che fece abbellire con pitture e allegorie. Spesso vi si recava a piedi, per conversare nel “son cher ermitage de Reculée” con i suoi artisti e i suoi letterati.20 È una situazione medioevale, del Rinascimento, o piuttosto settecentesca? Un duca di Savoia diventa, con sei cavalieri del suo Ordine di San Maurizio, un eremita con cintura dorata, berretto rosso, croce d’oro e buon vino.21 Un solo passo separa quella devozione fastosa dalle manifestazioni di umiltà iperbolica, a sua volta piene di magnificenza. Olivier de la Marche ricordava di aver assistito, da ragazzo, all’entrata di Giacomo di Borbone re di Napoli che, esortato da Santa Colette, aveva detto addio al mondo. Il re, vestito miseramente, si fece portare in una cassa da letame, “telle sans aultre difference que les civieres en quoy l’on porte les fiens et les ordures communement”. Lo seguiva un impeccable corteo. “Et ouys racompter et dire,” dice La Marche pieno di ammirazione, “que en toutes les villes où il venoit, il faisoit semblables entrées par humilité.”22 Di una umiltà non così pittoresca sono le prescrizioni raccomandate da molti santi esempi per un funerale, che deve 275
raffigurare efficacemente tutta la nullità del defunto. Il santo Pietro Thomas, amico del cuore e maestro spirituale di Philippe de Mézières, quando sente avvicinarsi la morte si fa avvolgere in un sacco, mettere una corda intorno al collo e distendere a terra. Egli riprende, così facendo, l’esempio di San Francesco, che aveva anch’egli voluto morire steso a terra. “Seppellitemi,” dice Pietro Thomas, “all’ingresso del coro, cosicché tutti calpestino il mio cadavere, sì, pure le capre e i cani, se è possibile.”23 Mézières, l’allievo pieno d’ammirazione, vuole superare il maestro in fantasiosa umiltà. Gli si metterà intorno al collo, nell’ora fatale, una pesante catena di ferro. Appena spirato dovranno trascinarlo per i piedi, nudo, fino al coro; là giacerà finché sarà tumulato, le braccia stese a forma di croce, legato con tre corde a una tavola, che prende il posto della cassa riccamente ornata su cui forse avrebbe dipinto il suo vano stemma mondano “se Dieu l’eust tant hay qu’il fust mors ès cours des princes de ce monde”.24 La tavola, coperta da due braccia di canovaccio o ruvida tela nera, sarà trascinata allo stesso modo fino alla fossa, dove sarà gettata così com’è, nuda, “la carogna del povero pellegrino”. Sarà eretto un piccolo monumento sepolcrale. Nessuno deve essere avvertito fuorché il suo buon amico in Dio, Martin, e gli esecutori delle sue ultime volontà. È quasi naturale che questo spirito tutto protocollo e cerimonia, questo progettista che cura i dettagli, abbia fatto anche molti testamenti. Negli ultimi non si parla più di questa disposizione del 1392, e quando Mézières morì, nel 1405, ebbe un funerale normale nell’abito dei suoi amati celestini, e due epitaffi, forse di propria mano.25 Nell’ideale di santità o, si potrebbe quasi dire, nel roman276
ticismo della santità, il XV secolo non ha ancora recato nulla che preannunci i nuovi tempi. Lo stesso Rinascimento non ha modificato l’ideale della santità. In disparte dalle grandi correnti, che incanalano la civiltà verso nuove direzioni, l’ideale di santità rimane, prima e dopo la grande crisi, ciò che era sempre stato. Il santo è senza tempo, come il mistico. I tipi di santi della Controriforma sono i medesimi del basso Medioevo, e questi non differiscono in nessun tratto essenziale da quelli dell’alto Medioevo. Nell’una come nell’altra epoca ci sono i grandi santi dalla parola infuocata e dall’azione preparata con ardore: qua Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Carlo Borromeo, là Bernardino da Siena, Vincente Ferrer, Giovanni da Capistrano. Lì accanto coloro che si estasiano beati nell’amore di Dio, e che si avvicinano al tipo di santo islamico e buddista, come Aloisio Gonzaga nel XVI secolo, Francesco da Paola, Colette, Pietro di Lussemburgo nel XV e XVI. Fra i due tipi si collocano le figure che hanno qualcosa di ambedue gli estremi, e talvolta riuniscono addirittura in sé, all’ennesima potenza, le qualità di entrambi. Il romanticismo della santità si potrebbe porre sullo stesso piano del romanticismo della cavalleria, vista l’esigenza di vedere realizzate in un uomo o di creare in letteratura certe immagini ideali di una determinata forma di vita. È degno di nota il fatto che questo romanticismo della santità si compiaccia, in tutti i tempi, molto di più dei fantasiosi, stimolanti estremi dell’umiltà e dell’astinenza, che delle grandi gesta che innalzano la cultura religiosa. Si diventa santi non per meriti ecclesiastico-sociali, per quanto grandi, ma per una devozione miracolosa. I grandi maestri di energia raggiungono la fama della santità solamente quando le loro imprese si 277
impregnano di apparenze soprannaturali; non Nicola da Cusa, ma il suo sostenitore Dionigi il Certosino.26 Qui, in primo luogo, è importante notare l’atteggiamento assunto di fronte all’ideale della santità dalle cerchie della raffinata cultura dello sfarzo, le stesse che continuarono a onorare e coltivare l’ideale cavalleresco fin oltre il limite del Medioevo. I loro contatti con esso non sono naturalmente molto frequenti, ma non mancano. Ancora alcune volte gli stessi ambienti principeschi, in quest’epoca, hanno fornito dei santi. Uno di questi è Carlo di Blois, zio del nostro Jan van Blois di Gouda e Schoonhoven. Proveniva, per parte di madre, dalla casa di Valois, e dopo il suo matrimonio con l’erede di Bretagna, Giovanna di Penthièvre, si trovò alle prese con una guerra di successione che riempì la parte migliore della sua vita. Una clausola matrimoniale gli imponeva di assumere le armi e il grido di guerra del ducato. Si trova di fronte un altro pretendente, Giovanni di Montfort, e la lotta per la Bretagna coincide con l’inizio della guerra dei Cento Anni; la difesa delle rivendicazioni del Montfort è una delle difficoltà che portano Edoardo III in Francia. Il conte di Blois accetta la lotta cavallerescamente, e combatte come i migliori condottieri della sua epoca. Preso prigioniero nel 1347, poco prima dell’assedio di Calais, rimane in Inghilterra fino al 1356. Solamente nel 1362 può riprendere la lotta per il ducato, per trovarvi la morte nel 1364 presso Aurai, combattendo valorosamente accanto a Bertrand du Guesclin e Beaumanoir. Questo eroe guerriero, la cui carriera, apparentemente, non differisce in nulla da quella di molti pretendenti e condottieri di quei tempi, aveva condotto, fin dalla giovinezza, una vita severamente ascetica. Da fanciullo il padre lo tiene 278
lontano dai libri edificanti, che non sembravano adatti a uno con il suo futuro. Dorme per terra, sulla paglia, accanto al letto della consorte. Dopo la morte in battaglia gli trovano, sotto l’armatura, il cilicio. Si confessa ogni sera prima di andare a letto, dicendo che nessun cristiano deve addormentarsi nel peccato. Durante la sua prigionia a Londra suole andare nei cimiteri, per recitarvi in ginocchio il De profundis. Lo scudiero bretone al quale chiede di recitare i responsori si rifiuta: “No,” dice, “là giacciono quelli che hanno ucciso i miei genitori e i miei amici e bruciato le loro case”. Dopo la sua liberazione vuole andare a piedi nudi, in mezzo alla neve, da La Roche-Derrien, dove era stato fatto prigioniero, allo scrigno di Sant’Ivo, il patrono venerato della Bretagna, del quale aveva descritto la vita durante la prigionia, a Tréguier. Il popolo lo viene a sapere e sparge paglia e coperte lungo il percorso, ma il conte di Blois sceglie un’altra strada e si piaga i piedi, così da non poter camminare per quindici settimane.27 Subito dopo la sua morte i suoi congiunti, fra cui suo genero Luigi d’Angiò, propongono la sua canonizzazione. Ad Angers, nel 1371, ha luogo il processo che porta alla sua beatificazione. Questo Carlo di Blois, se si può dar credito al Froissart, avrebbe avuto un bastardo. “Là fu occis en bon couvenant li dis messires Charles de Blois, le viaire sus ses ennemis, et uns siens filz bastars qui s’appeloit messires Jehans de Blois, et pluiseur aultre chevalier et escuier de Bretagne.”28 Strano, poiché Carlo di Blois non era un convertito, ma un entusiasta della penitenza sin da giovane. Si può ritenere che Froissart si sia sbagliato, oppure che il XIV secolo ammettesse delle contraddizioni che noi saremmo portati a escludere. Non ci pone questioni del genere la vita di un altro santo 279
altolocato di quei tempi, Pietro di Lussemburgo. Questo rampollo della stirpe dei conti di Lussemburgo, che nel XIV secolo svolse un ruolo così importante sia nell’impero tedesco sia presso le corti di Francia e di Borgogna, è un esempio efficace di ciò che William James chiama “the under-witted saint”29: lo spirito angusto, che può vivere solamente in un piccolo mondo gelosamente chiuso di pensieri devoti. Era nato nel 1369, dunque non molto tempo prima che suo padre Guy cadesse nei pressi di Baesweiler, nel 1371, nella lotta tra il Brabante e la Gheldria. La sua vicenda spirituale ci riporta nel convento dei celestini a Parigi, dove già a otto anni frequenta Philippe de Mézières. Fin da ragazzo accumula dignità ecclesiastiche: prima diversi canonicati, poi, all’età di quindici anni, il vescovado di Metz, e in seguito il cardinalato. Muore nel 1387, non ancora diciottenne, e subito, ad Avignone, ci si adopera per la sua canonizzazione. Si prodigano le più alte autorità: il re di Francia fa la richiesta ed è sostenuto dal capitolo della cattedrale di Parigi e dall’Università. Al processo, che ha luogo nel 1389, compaiono come testimoni i più grandi signori di Francia: il fratello di Pietro, Andrea di Lussemburgo, Luigi di Borbone, Enguerrand di Coucy. A causa della negligenza del papa d’Avignone la canonizzazione non ci fu (nel 1527 ebbe luogo la beatificazione), ma il culto, che poteva legittimare la richiesta, era riconosciuto da tempo e continuò indisturbato. Ad Avignone, nel luogo dove era sepolto il corpo di Pietro di Lussemburgo, e da dove venivano segnalati giornalmente grandi miracoli, il re fondò un convento di celestini, sull’esempio di quello parigino, che in quei giorni era il santuario prediletto della corte. I duchi di Orléans, di Berry e di Borgogna vennero a porre, davanti al re, la prima pietra.30 Pierre Salmon 280
racconta di aver ascoltato, qualche anno dopo, la messa nella cappella del santo.31 Il ritratto di questo principe asceta prematuramente scomparso delineato dai testimoni nel processo di canonizzazione ha qualcosa di compassionevole. Pietro di Lussemburgo è un ragazzo cresciuto troppo in fretta, tisico, che fin da bambino non conosce altro che la serietà di una fede severa e piena di scrupoli. Rimprovera il suo fratellino che ride, perché sta scritto che Nostro Signore ha pianto, ma non che abbia mai riso. “Douls, courtois e debonnaire” – lo chiama Froissart – “vierge de son corps, moult large aumosnier. Le plus du jour et de la nuit il estoit en oroisons. En toute sa vye il n’y ot fors humilité.”32 All’inizio, nel suo nobile ambiente, si cerca di distoglierlo dal suo proposito di rinunciare al mondo. Quando parla di andare in giro a predicare si sente rispondere: sei troppo alto, tutti ti riconoscerebbero subito. E non potresti sopportare il freddo. E predicare la crociata, come faresti allora? Per un istante riusciamo quasi a scorgere il fulcro di quel piccolo, inflessibile spirito. “Je vois bien,” dice Pietro, “qu’on me veut faire venir de bonne voye à la malvaise: certes, certes, si je m’y mets, je feray tant que tout le monde parlera de moy.”33 “Signore,” risponde maestro Jean de Marche, il suo confessore, “non c’è nessuno che vuole che voi facciate il male, solo il bene.” Chiaramente i nobili parenti, quando le tendenze ascetiche del fanciullo si rivelarono inestirpabili, cominciarono a provare ammirazione e orgoglio per la vicenda. Un santo, e che giovane santo proprio in mezzo a loro! Vediamo il povero, malaticcio ragazzo sotto il peso della sua alta dignità ecclesiastica, circondato dal fasto sfrenato e dalla superbia delle corti di Berry e di Borgogna, lui, impresentabile con lo 281
sporco e i pidocchi, sempre alle prese con i suoi miseri peccatucci. La stessa confessione era diventata per lui una cattiva abitudine. Ogni giorno compilava una piccola lista dei suoi peccati, e se quando era in viaggio non poteva farlo, recuperava poi scrivendo per delle ore. Lo si vedeva scrivere la notte o leggere le sue piccole liste a lume di candela. Poi si alzava in piena notte per andare a confessarsi presso uno dei suoi cappellani. Talvolta bussava invano alle loro camere da letto; facevano i sordi. Se trovava ascolto leggeva loro le sue piccole liste dei peccati. Da due o tre volte alla settimana, passò, nei suoi ultimi giorni, a due volte al giorno; il padre confessore non poteva più allontanarsi dal suo fianco. E quando infine morì di tisi, dopo aver chiesto di essere seppellito da povero, si trovò un’intera cassa piena delle listarelle sulle quali erano stati scarabocchiati giorno per giorno i peccati di quella piccola vita.34 Il desiderio di avere un santo nella casa reale stessa, tra gli avi vicini, spinse nel 1518 Luisa di Savoia, la madre di Francesco i, a muovere il vescovo di Angoulême a fare delle ricerche, nel tentativo di ottenere la beatificazione di Giovanni d’Angoulême. Giovanni d’Orléans, o d’Angoulême, era il fratello minore di Carlo, il poeta, e il nonno di Francesco i. Era vissuto prigioniero degli inglesi dall’età di dodici anni a quella di quarantacinque, e dopo, fino alla sua morte nel 1467, aveva condotto una vita pia e ritirata nel suo castello di Cognac. Non ha soltanto collezionato libri, come altri principi, li ha anche letti; compilò per sé un indice dei Canterbury Tales di Chaucer, compose poesie devote, trascrisse ricette, e sembra aver avuto una devozione alquanto distaccata. Di lui si sa con certezza che ha avuto il suo bastardo d’Angoulême, perché è conservata la lettera di legittimazio282
ne. I tentativi di arrivare alla beatificazione continuarono fino al XVII secolo, però senza esito.35 C’è ancora un caso che ci fa comprendere in qualche modo il rapporto tra le cerchie della corte e la santità: il soggiorno di San Francesco da Paola alla corte di Luigi XI. Il singolare tipo di devozione del re è così noto, che non c’è bisogno qui di descriverlo in modo particolareggiato. Luigi, “qui achetois la grace de Dieu et de la Vierge Marie à plus grans deniers que oncques ne fist roy”,36 mostra tutte le qualità del feticismo più immediato e più arido. Nel suo culto delle reliquie, nella sua passione per i pellegrinaggi e le processioni sembra che manchi ogni superiore solennità, ogni ombra di rispettoso riserbo. Egli gioca con gli oggetti sacri come fossero solamente costosi rimedi casalinghi. Fa venire apposta la croce di Saint Laud da Angers a Nantes, per farvi fare un giuramento,37 perché un giuramento sulla croce di Saint Laud valeva, per Luigi, più di ogni altro. Quando il conestabile di Saint Pol, chiamato alla presenza del re, lo prega di giurargli la sua protezione sulla croce di Saint Laud, il re risponde: qualunque giuramento, ma questo no.38 All’avvicinarsi della morte, da lui così disperatamente temuta, gli vengono mandate da ogni dove le reliquie più preziose: il papa gli manda, tra l’altro, proprio il corporale di San Pietro; persino il Gran Turco offre una collezione di reliquie, che erano ancora a Costantinopoli. Sul buffet accanto al letto del re si trova la Santa Ampolla stessa, presa da Reims, che non aveva mai lasciato; alcuni dicevano che il re volesse provarne gli effetti miracolosi facendosi ungere tutto il corpo col sacro unguento.39 Sono i tratti religiosi che si trovano nei re merovingi. Riesce difficile scorgere il confine, nel collezionismo ma283
niacale di Luigi, dove si tratta di animali strani, come renne e alci, e dove si tratta di reliquie preziose. È in corrispondenza con Lorenzo de’ Medici per l’anello di San Zanobi, un santo locale fiorentino, e per un “agnus Dei”, ossia il vegetale chiamato anche “agnus scythicus”, che veniva considerato una rarità miracolosa.40 Nello stravagante castello Plessis lès Tours, negli ultimi giorni di Luigi, si incontrava un’accozzaglia di devoti in preghiera e musicanti. “Oudit temps le roy fist venir grant nombre et grand quantité de joueurs de bas et doulx instrumens, qu’il fist loger à SaintCosme près Tours, où illec ilz se assemblerent jusques au nombre de six vingtz, entre lesquelz y vint pluseurs bergiers du pays de Poictou. Qui souvent jouerent devant le logis du roy, mais ilz ne le veoyent pas, affin que ausdiz instrumens le roy y prensist plaisir et passetemps et pour le garder de dormir. Et d’un autre costé y fist aussy venir grant nombre de bigotz, bigottes et gens de devocion comme hermites et sainctes créatures, pour sans cesser prier à Dieu qu’il permist qu’il ne mourust point et qu’il le laissast encores vivre.”41 Anche San Francesco da Paola, l’eremita calabrese che superò l’umiltà dei frati minori fondando l’Ordine dei Minimi, è, letteralmente, oggetto del collezionismo maniacale di Luigi. Era con il proposito dichiarato di far sì che il santo, con la sua intercessione, prolungasse la vita del re che questi, nella sua ultima malattia, ne chiese la presenza.42 Dopo l’insuccesso di diverse ambasciate presso il re di Napoli, il re riesce ad assicurarsi, grazie a una azione diplomatica presso il papa, la venuta del taumaturgo, contro la volontà di quest’ultimo. Una scorta aristocratica andò a prenderlo in Italia.43 Una volta arrivato Luigi non si sente ancora sicuro, “poiché era 284
già stato raggirato da molti sotto l’ombra della santità”, e, istigato dal suo medico personale, fa spiare l’uomo di Dio e mettere alla prova la sua virtù in ogni modo.44 Il santo sostiene egregiamente tutte quelle prove. La sua ascesi è della specie più barbara, e ricorda quella dei suoi connazionali del X secolo, San Nilo e San Romualdo. Scappa quando vede una donna. Fin dall’adolescenza non aveva mai toccato una moneta. Dorme di solito in piedi o appoggiato a qualcosa, non si taglia mai né i capelli né la barba. Non mangia mai del cibo animale e si nutre solo di radici.45 Anche negli ultimi mesi di vita il re scrive personalmente per procurarsi il vitto adatto al suo singolare santo: “Monsieur de Genas, je vous prie de m’envoyer des citrons et des oranges douces et des poires muscadelles et des pastenargues, et c’est pour le saint homme qui ne mange ny chair ny poisson; et vous me ferés ung fort grant plaisir”.46 Non lo nomina mai altrimenti che “le saint homme”, cosicché persino Commines, che vide il santo più volte, non ha mai saputo, a quanto sembra, il suo nome.47 Ma lo chiamavano “saint homme” anche coloro che scherzavano sulla venuta di questo singolare ospite, o che non si fidavano della sua santità, come il medico del re, Jacques Coitier. Le comunicazioni di Commines rivelano un cauto riserbo. “Il est encores vif,” conclude, “par quoy se pourroit bien changer ou en myeulx ou en pis, par quoy me tays, pour ce que plusieurs se mocquoient de la venue de ce hermite, qu’ilz appelloient, ‘sainct homme’.”48 Però lo stesso Commines dichiara di non aver mai visto nessuno “de si saincte vie, ne où il semblast myeulx que le Sainct Esprit parlast par sa bouche”.49 E i dotti teologi di Parigi, Jean Standonck e Jean Quentin, inviati per parlare con il sant’uomo in occasione della richiesta di fondare un convento dei Mini285
mi a Parigi, sono profondamente colpiti dalla sua persona, e tornano guariti dalla loro obiezione.50 L’interesse dei duchi di Borgogna per i santi dei loro giorni è di natura meno egoistica di quello di Luigi XI per San Francesco da Paola. È degno di nota il fatto che più di uno dei grandi visionari ed esaltati asceti compaia regolarmente come mediatore e consigliere in affari politici. È il caso di Santa Colette e del beato Dionigi di Ryckel o il Certosino. Colette fu trattata con molta distinzione dalla casa di Borgogna; Filippo il Buono e sua madre Margherita di Baviera la conoscevano personalmente, e ne chiedevano i consigli. Offre la sua mediazione nelle difficoltà sorte tra le case di Francia, Savoia e Borgogna. Sono Carlo il Temerario, Maria, Massimiliano e Margherita d’Austria che continuano a insistere per la sua santificazione.51 Ancora più importante è il ruolo che ha giocato Dionigi il Certosino nella vita pubblica del suo tempo. Anche lui ha rapporti frequenti con la casa di Borgogna, e funge da consigliere di Filippo il Buono. Insieme al cardinale Nicola da Cusa, che egli accompagna e affianca nel suo celebre viaggio attraverso l’impero tedesco, viene ricevuto, nel 1451, dal duca a Bruxelles. Dionigi, sempre oppresso dalla sensazione che le cose vadano male per la Chiesa e per la Cristianità e che siano prossime grandi sventure, domanda in una visione: “Signore, verranno i turchi a Roma?”. Egli sprona il duca alla crociata.52 L’“inclytus devotus ac optimus princeps et dux”, al quale dedica il suo trattato sulla vita e sul governo dei principi, non può essere altri che Filippo. Carlo il Temerario collaborò con Dionigi alla fondazione della Certosa di Bosco Ducale, in onore di Santa Sofia di Costantinopoli, ritenuta non inspiegabilmente santa dal duca, poiché era infatti l’Eterna Sapienza.53 Il duca Ar286
nold van Gelre chiede consiglio a Dionigi nel suo conflitto col figlio Adolf.54 Non solo principi, ma anche numerosi nobili, religiosi e borghesi assediano ininterrottamente la sua cella a Roermond per consultarlo; egli risolve continuamente problemi, dubbi e casi di coscienza. Dionigi il Certosino è il tipo di potente entusiasta religioso più completo che il tardo Medioevo abbia prodotto. È una vita incredibilmente energica la sua; egli unisce i trasporti dei grandi mistici, l’ascesi più selvaggia, le continue visioni e rivelazioni del visionario con un’attività teologica quasi sconfinata come scrittore e una pratica come consigliere spirituale. È vicino tanto ai grandi mistici quanto ai pratici devoti di Windesheim, a Brugman, per il quale scrive la sua famosa guida per la vita cristiana,55 a Nicola da Cusa, ai persecutori delle streghe,56 agli entusiasti della purificazione della Chiesa. La sua capacità lavorativa deve essere stata formidabile. I suoi scritti riempiono 45 volumi in quarto. È come se l’intera teologia medioevale rivivesse ancora una volta in lui. “Qui Dionysium legit, nihil non legit,” si diceva tra i teologi del XVI secolo. Tratta le più profonde questioni di natura filosofica, ma scrive anche, su richiesta di un vecchio frate laico, Guglielmo, sul riconoscimento reciproco delle anime nell’aldilà. Parlerà nella maniera più semplice possibile, promette, e fra Guglielmo potrà farlo tradurre in nederlandese.57 In una marea sconfinata di pensieri, espressi in modo semplice, egli riporta tutto ciò che i suoi grandi predecessori hanno pensato. È una vera opera tarda, che riassume, conclude, non crea niente di nuovo. Le citazioni da Bernardo di Chiaravalle o da Ugo di San Vittore brillano come gioielli sul vestito uniforme della prosa di Dionigi. Egli scris287
se, rivide, corresse, rubricò e miniò personalmente tutte le sue opere, finché al termine della vita, dopo matura riflessione, smette di scrivere: “Ad securae taciturnitatis portum me transferre intendo”, ora intendo recarmi nel porto di un silenzio sicuro.58 Non conosce riposo. Ogni giorno recita quasi tutto il salterio; almeno la metà è necessaria, dichiara. Qualsiasi faccenda sbrighi, quando si veste e quando si spoglia, egli prega. Dopo il mattutino, quando gli altri vanno di nuovo a riposare, resta sveglio. È grande e forte, e può chiedere ogni cosa al suo fisico: “Ho una testa di ferro,” dice, “e uno stomaco di rame”. Senza disgusto, anzi di buon grado, mangia cibi guasti: burro con i vermi, ciliegie bacate; questa specie di vermi, dice, non contiene affatto veleno mortale e si può mangiare tranquillamente. Le aringhe troppo salate le appende, finché non marciscono: preferisco mangiare cose puzzolenti piuttosto che salate.59 Tutto il lavoro intellettuale, di speculazione e definizione teologica molto profonda, lo compie non in una vita da studioso impassibile ed equilibrata, ma tra le continue scosse di uno spirito aperto a ogni intensa emozione del soprannaturale. Da ragazzo si alza di notte al chiaro di luna, credendo che sia l’ora di andare a scuola.60 Balbetta; “Tartaglione,” gli grida contro un diavolo che egli vuole esorcizzare. Vede la camera della morente signora di Vlodrop piena di diavoli che gli strappano il bastone dalle mani. Nessuno ha subito, come lui, la terribile oppressione dei “novissimi”; l’assalto violento dei diavoli in punto di morte è un soggetto ricorrente nelle sue prediche. Comunica costantemente con i defunti. Un frate gli domanda se gli spiriti dei defunti gli appaiono spesso. Oh, centinaia e centinaia di volte, risponde lui. 288
Riconosce suo padre nel purgatorio e ottiene la sua liberazione. Apparizioni, rivelazioni e visioni lo impegnano senza sosta, ma ne parla solo controvoglia. Si vergogna delle estasi che gli vengono provocate da ogni genere di circostanze esteriori: soprattutto dalla musica, alle volte in mezzo a una compagnia di nobili, che ascoltano le sue parole sagge e i suoi ammonimenti. Tra i soprannomi onorifici dei grandi teologi il suo è quello di “Doctor ecstaticus”. Non si creda che una grande figura come quella di Dionigi il Certosino sia sfuggita al sospetto e allo scherno che colpirono lo strano taumaturgo di Luigi XI; anche lui è continuamente alle prese con la calunnia e il vilipendio del mondo. Lo spirito del XV secolo ha un atteggiamento ambiguo nei confronti delle somme manifestazioni della fede medioevale.
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14. Emozione religiosa e immaginario religioso
Dal XII secolo, epoca in cui il dolce misticismo lirico di Bernardo di Chiaravalle aveva fatto scaturire una fervida tenerezza per la Passione di Cristo, lo spirito era pervaso in misura sempre crescente da una soave emozione per la Passione; era permeato e saturo di Cristo e della Croce. Nella prima infanzia l’immagine del Crocifisso veniva inculcata nei fragili animi così grande e fosca da adombrare con la sua severità tutte le emozioni. Quando Jean Gerson era ancora bambino, suo padre una volta si mise contro un muro con le braccia stese dicendo: “Vedi, ragazzo mio, così è stato crocifisso ed è morto il tuo Dio, che ti ha creato e liberato. Quest’immagine rimase impressa nel fanciullo fino alla vecchiaia, crescendo col passare degli anni, e per questo egli benediceva ancora quel pio padre, che era morto proprio nel giorno dell’Elevazione della Croce”.1 Colette, all’età di quattro anni, udiva la madre piangere e gemere ogni giorno recitando le preghiere della Passione, rivivendo il dolore per le calunnie, le percosse e i supplizi. Quel ricordo si annidò nel suo animo ipersensibile con tanta intensità, che ogni giorno, per tutta la vita, continuò a sentire, nell’ora della crocifissione, una terribile angoscia e fitte al cuore, e, leggendo scritti sulla 290
Passione, più dolore di una donna che ha le doglie.2 Un predicatore rimaneva talvolta davanti al suo uditorio per un quarto d’ora in silenzio con le braccia in croce.3 Così pieno di Cristo era lo spirito che l’analogia più remota di un’azione o di un pensiero con la vita o con la Passione del Signore ne faceva immediatamente vibrare la voce. Una povera suora, che porta legna per la cucina, si immagina di portare la croce: la sola idea di portare il legno è sufficiente a impregnare l’azione del fulgore del supremo atto d’amore. La donnina cieca che fa il bucato prende la tinozza e il lavatoio per la mangiatoia e la stalla.4 Un altro effetto di quell’eccesso di contenuto religioso è la grande frequenza con la quale l’omaggio ai principi profana l’immaginario religioso, come il paragone tra Luigi XI e Gesù, tra l’imperatore, suo figlio e suo nipote e la Trinità.5 Il XV secolo mostra la sua forte sensibilità religiosa in duplice forma. Essa si manifesta da una parte nei profondi turbamenti che di tanto in tanto prendevano il popolo, quando un predicatore girovago infiammava con la sua parola tutte le energie spirituali, come fossero fasci di legna. Questa è la manifestazione spasmodica, passionale e violenta, che però si esaurisce presto. Dall’altra, la sensibilità è avviata, da alcuni, in un alveo calmo, normalizzata in una nuova forma di vita, quella dell’intimità. È il circolo pietistico formato da coloro che, consapevoli di essere dei rinnovatori, si dicono devoti moderni. Come movimento organizzato la “devotio moderna” si limita ai Paesi Bassi settentrionali e al territorio basso-tedesco, però il suo spirito informatore è presente anche in Francia. Della considerevole influenza della predicazione solo pochi elementi duraturi sono passati nella cultura spirituale. 291
Sappiamo quale enorme impressione facessero i predicatori,6 ma non ci è dato di rivivere la commozione che emanava da loro. Non ci viene dalla tradizione scritta delle prediche, e come potrebbe? Già ai contemporanei la predica scritta non diceva più niente. Molti che udirono Vincente Ferrer e che ora leggono le sue prediche assicurano di ritrovarvi solo una pallida ombra di ciò che tuonava la sua bocca, dice il suo biografo.7 Nessuna meraviglia. Ciò che ravvisiamo nei sermoni stampati di Vincente Ferrer o Olivier Maillard8 è poco più dell’oggetto della loro eloquenza, spogliato di tutto l’ardore oratorio e freddamente diviso, in apparenza, nella prima, seconda etc. Sappiamo che ciò che turbava il popolo è sempre stato il quadro impressionante dei castighi infernali, la tonante minaccia della punizione del peccato, tutte le effusioni liriche sulla Passione e l’amore divino, e conosciamo quali mezzi usavano i predicatori: nessun effetto era troppo grossolano, nessun salto dal riso al pianto troppo improvviso, nessun crescendo smoderato della voce troppo brusco.9 Ma in realtà possiamo intuire gli shock che provocavano dal racconto sempre uguale di come le città si contendessero la promessa di una predicazione, di come i magistrati e il popolo andassero incontro ai predicatori con grande pompa, come per un principe, di come il predicatore talvolta dovesse interrompersi a causa dei pianti e delle grida della folla. Durante una predica di Vincente Ferrer passarono due condannati a morte, un uomo e una donna, che venivano condotti al supplizio. Vincente chiese di rimandare l’esecuzione, mise al sicuro le vittime sotto il pulpito e predicò sui loro peccati. Alla fine della predica i due non c’erano più, e al loro posto c’erano solo un po’ di ossa, cosicché il
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popolo credette nientedimeno che la parola del sant’uomo avesse bruciato e nello stesso tempo salvato i peccatori.10 L’emozione spasmodica delle masse, provocata dalla parola del predicatore, è sempre svanita senza potersi fissare nella tradizione scritta. Molto meglio conosciamo il “fervore” dei “devoti moderni”. Come in ogni cerchia pietistica, anche qui la religione forniva non solo la forma della vita individuale, ma anche la forma di quella sociale: la cordiale comunione spirituale, in tranquilla intimità, di uomini e donne semplici, un minuscolo mondo sotto la volta del grande cielo, non raggiunto da tutto il frastuono dell’epoca. Gli amici ammiravano in Tommaso da Kempis la sua ignoranza delle cose terrene; un priore di Windesheim portava il soprannome onorifico di Giovanni Io-non-so. Non sanno vivere che in un mondo semplificato, e lo purificano escludendone il male.11 Entro la loro ristretta cerchia vivono nella gioia di un reciproco affetto: lo sguardo dell’uno è fissato continuamente sull’altro, per scorgere tutti i segni della grazia; farsi visita l’un l’altro è il loro divertimento.12 Donde la loro predilezione per la biografia, alla quale dobbiamo la precisa conoscenza di questo stato religioso. Nella forma assunta nei Paesi Bassi la “devotio moderna” aveva creato delle norme convenzionali e fisse di vita devota. I devoti si riconoscevano dai loro movimenti lenti e misurati, dalla loro andatura curva, taluni dal volto atteggiato a un sorriso o dai vestiti nuovi rattoppati a bella posta.13 E, non certo in misura inferiore, dalle loro copiose lacrime. “Devotio est quaedam cordis teneritudo, qua quis in pias faciliter resolvitur lacrimas” (La devozione è una certa tenerezza del cuore, che fa sciogliere facilmente in pie lacrime). Si deve pregare Dio per “il battesimo quotidiano delle lacrime”, che 293
sono le ali della preghiera, o, per dirla con San Bernardo, il vino degli angeli. Ci si deve abbandonare alla grazia delle lacrime lodevoli, prepararvisi e agognarle, per tutto l’anno, ma soprattutto durante la Quaresima, così da poter dire con il salmista: “Fuerunt mihi lacrimae meae panes die ac nocte”. Talvolta le lacrime vengono così facilmente che si prega singhiozzando e piangendo “ita ut suspiriose ac cum rugitu oremus”; quando però non vengono spontaneamente non bisogna spremerle per forza, ma accontentarsi delle lacrime del cuore. In presenza di altri, poi, si devono evitare il più possibile i segni di una straordinaria devozione spirituale.14 Vincente Ferrer, ogni volta che consacrava l’ostia, versava tante lacrime da far piangere quasi tutti gli astanti, e alle volte ne nasceva come un lamento funebre. Il pianto gli era così dolce che a malincuore si asciugava le lacrime.15 In Francia mancano delle determinate forme di organizzazione della nuova devozione come le Case dei Fratelli della vita comune dei Paesi Bassi e la Congregazione di Windesheim. In Francia gli spiriti che vi si ispiravano rimasero completamente nel mondo oppure entrarono negli ordini esistenti, nei quali poi la nuova devozione introduce un’osservanza più severa. Ma il fenomeno non si riscontra come atteggiamento generale di più larghe cerchie borghesi. Forse contribuì a questo il fatto che la devozione francese aveva un carattere più passionale e spasmodico di quella olandese, degenerava più facilmente in forme esasperate e più facilmente si affievoliva. Verso la fine del Medioevo i visitatori che arrivano nei Paesi Bassi settentrionali dalle regioni più meridionali sono spesso colpiti dalla devozione austera e diffusa, che risalta come qualcosa di speciale.16 I devoti olandesi, in generale, avevano abbandonato i con294
tatti con l’intenso misticismo, dai cui stadi preparatori era fiorita la loro forma di vita. Con ciò avevano anche scongiurato in gran parte il pericolo di cadere in aberrazioni fantastiche fino all’eresia. La “devotio moderna” dei Paesi Bassi era ubbidiente e ortodossa, aveva una moralità pratica e talvolta anche distaccata. Il devoto francese tipico, al contrario, sembra aver avuto uno slancio molto maggiore: tocca ogni volta fenomeni religiosi stravaganti. Quando Mattheus Grabow, domenicano di Groninga, si recò al Concilio di Costanza, per esporre tutte le lagnanze degli ordini mendicanti contro i nuovi Fratelli della vita comune, e cercare così di ottenere la loro condanna,17 fu nel grande leader della politica ecclesiastica in persona, Gerson, che i minacciati seguaci di Geert Groote trovarono il loro difensore. Sotto ogni aspetto, Gerson era competente a giudicare se in questo caso si avesse a che fare con una manifestazione di autentica devozione e una forma lecita di organizzazione. Perché la distinzione tra autentica devozione e fanatismo è uno degli argomenti che hanno occupato continuamente il suo spirito. Gerson era uno spirito accademico prudente, coscienzioso, onesto, puro e sincero, con una cura alquanto scrupolosa della buona forma che, in uno spirito fine, passato da condizioni modeste a una posizione veramente aristocratica, spesso ancora ne tradisce l’origine. Egli era inoltre uno psicologo e aveva stile. Ora stile e ortodossia sono molto affini. Nessuna meraviglia quindi che le manifestazioni della vita religiosa dei suoi tempi destassero sovente in lui sospetto e preoccupazione. È singolare invece come le forme di devozione che egli biasima perché esagerate e pericolose ci ricordino molto i devoti moderni che egli aveva difeso. Però questo si spiega facilmente. Alle sue pecorelle 295
francesi mancava l’ovile sicuro, la disciplina e l’organizzazione, che teneva le teste calde entro i limiti di ciò che la Chiesa poteva tollerare. Gerson vede dappertutto i pericoli della devozione popolare. Trova sbagliato che la mistica sia portata in piazza.18 Il mondo, dice, è, in questo periodo che precede la sua fine, come un vecchio delirante, in preda a ogni sorta di fantasie, visioni e illusioni che distolgono più d’uno dalla verità.19 Molti, privi di una buona guida, si abbandonano a digiuni troppo severi, a veglie troppo prolungate, a lacrime troppo abbondanti, annebbiando la loro mente. Non ascoltano le esortazioni alla moderazione. Stiano in guardia, perché possono cadere facilmente nei tranelli del diavolo. Poco tempo prima, ad Arras aveva visitato una madre che, contro la volontà del marito, digiunava completamente per due, tre o quattro giorni consecutivi, suscitando l’ammirazione di molti. Aveva parlato con lei, l’aveva esaminata attentamente e si era accorto che la sua astinenza era solamente caparbietà orgogliosa e vana, perché dopo un tale digiuno lei mangiava con una voracità insaziabile; come motivo della sua mortificazione non seppe dare altro che quello di essere indegna di mangiare del pane. Il suo aspetto già tradiva l’imminente follia.20 Un’altra donnetta, un’epilettica che era avvertita da una fitta di dolore ai calli ogni volta che un’anima scendeva all’inferno, che leggeva i peccati sulla fronte e affermava di salvare tre anime al giorno, confessò, sotto la minaccia della tortura, di comportarsi in quel modo per guadagnarsi il pane.21 Gerson non dava molta importanza alle visioni e alle rivelazioni dei tempi recenti, di cui si parlava dappertutto. Sconfessa persino quelle di sante famose come Brigida di Svezia e 296
Caterina da Siena.22 Ne aveva sentite talmente tante da perdere la fiducia. Molti dichiaravano che era stato loro rivelato che sarebbero divenuti papi; un dotto l’aveva addirittura scritto di propria mano e lo sosteneva con delle prove. Un altro prima era convinto che sarebbe diventato papa, dopo che sarebbe stato l’Anticristo o per lo meno il suo precursore, e, per non recare una tale sciagura alla Cristianità, meditava di togliersi la vita.23 Quando i poveri devoti sentono dire che l’animo di Maria gioiva con Dio, allora anche loro cercano di gioire, immaginano ogni sorta di cose, ora con amore, ora con timore, e alla fine ogni genere di immagini, che non possono distinguere dalla verità e che ritengono miracoli e prove della loro esemplare devozione.24 Ma era proprio quello che raccomandava la “devotio moderna”. “Così chiunque, in questo articolo, voglia somigliare intimamente al Nostro Signore e conformarsi ai suoi dolori con il cuore e con tutte le sue forze, dovrà sforzarsi di diventare triste e afflitto. E se ora è alle prese con qualche avversità, dovrà unirla all’afflizione di Cristo e desiderare dividerla con lui.”25 La vita contemplativa presenta grandi pericoli, dice Gerson; in molti ha causato malinconia o pazzia.26 Egli sa quanto facilmente un digiuno troppo persistente possa portare alla follia e alle allucinazioni; sa anche quale ruolo giochi il digiuno nelle pratiche della magia.27 Quest’uomo, che sapeva scorgere con tale acutezza l’aspetto psicologico nelle manifestazioni di fede, dove poteva fissare il limite tra ciò che era sacro e lecito e ciò che andava rigettato? Egli stesso sentiva che la sua ortodossia in questo caso non gli bastava; era abbastanza facile condannare, da dotto teologo, tutti i casi in cui le deviazioni dal dogma erano palesi; ma esistevano poi molti casi in cui erano il suo giudizio etico sulle manife297
stazioni della devozione, il suo senso della misura e il suo buon gusto a dovergli suggerire la sentenza. Non c’è virtù, dice Gerson, che in questi sciagurati tempi dello scisma venga più trascurata della “Discretio”.28 Se già per Jean Gerson l’unico criterio decisivo per la distinzione tra devozione vera e falsa non era più quello dogmatico, a maggior ragione per noi i tipi di emozione religiosa non corrispondono più alle linee della loro ortodossia o eresia, ma alla loro natura psicologica. Anche la stessa gente dell’epoca non distingueva le linee dogmatiche. Ascoltava con la stessa edificazione l’eretico fra Tommaso e San Vincente Ferrer, ingiuriava Santa Colette e i suoi seguaci, chiamandoli begardi e ipocriti.29 Colette presenta tutte le caratteristiche di quel che James chiama la condizione teopatica,30 radicata in un fondo di penosissima ipersensibilità. Non può vedere il fuoco né sopportarne il calore, a eccezione delle candele. Ha una paura tremenda delle mosche, delle lumache, delle formiche, della puzza e dell’impurità. Ha la stessa rabida ripugnanza per la sessualità che più tardi mostrerà San Luigi Gonzaga, e che la porta a volere solo vergini nella sua congregazione, a non amare i santi sposati e a deplorare che sua madre si sia sposata con suo padre in seconde nozze.31 Questa passione per la più pura verginità veniva ancor sempre lodata dalla Chiesa come edificante e degna di essere imitata. Era innocua, fintanto che veniva professata nella forma di ribrezzo personale del sesso. Però quello stesso sentimento, sotto un altro aspetto, diventava pericoloso per la Chiesa, e di conseguenza per la persona che lo professava, quando quest’ultima non si limitava a ritirare le corna nel guscio come la chiocciola, per rinchiudersi al sicuro nella propria sfera di purezza, ma voleva anche ve298
dere applicato quell’ideale di castità nella vita ecclesiastica e sociale degli altri. Ogni qualvolta quell’aspirazione alla purezza ha assunto forme rivoluzionarie e si è espressa in attacchi veementi contro l’immoralità dei preti e la dissolutezza dei monaci, la Chiesa medioevale ha dovuto rinnegarla, poiché sapeva di non essere ancora in grado di ovviare al male. Giovanni di Varennes scontò la sua coerenza nel tetro carcere in cui l’aveva fatto rinchiudere l’arcivescovo di Reims. Questo Giovanni di Varennes era un dotto teologo e un famoso predicatore che, cappellano del giovane cardinale di Lussemburgo alla corte papale di Avignone, sembrava destinato a una mitra o a un cappello cardinalizio, quando improvvisamente, a eccezione di un canonicato di Notre-Dame a Reims, rinunciò a tutti i benefici e al suo stato e da Avignone tornò al suo paese d’origine, Saint Lié, dove cominciò a condurre una santa vita e a predicare. “Et avoit moult grant hantise de poeuple qui le venoient veir de tous pays pour la simple vie très-noble et moult honneste que il menoit.”32 Lo trovavano degno di divenire papa e lo chiamavano “le saint homme de S. Lié”; molti cercavano di toccare la sua mano o la sua veste per il suo potere taumaturgico; alcuni lo ritenevano un messo di Dio o un essere divino. Tutta la Francia per qualche tempo non parlò d’altro.33 Ma non tutti credevano alla sincerità delle sue intenzioni: c’era anche qualcuno che parlava di “le fou de Saint Lié” o sospettava che egli volesse raggiungere, attraverso tutto questo clamore, le alte dignità ecclesiastiche che gli erano sfuggite. Ora, in questo Giovanni di Varennes, al pari di molti altri prima di lui, vediamo come l’esaltazione della purezza sessuale assuma un carattere rivoluzionario. Egli riduce, per così dire, tutte le lagnanze sulla degenerazione della Chiesa a 299
quell’unico male, la lussuria, e predica, con un’indignazione focosa, la resistenza e la rivolta contro le autorità ecclesiastiche, in primo luogo contro l’arcivescovo di Reims. “Au loup, au loup,” gridava alla folla, che comprendeva sin troppo bene chi fosse il lupo e ripeteva volentieri: “Hahay, aus leus, mes bones genz, aus leus”. Giovanni di Varennes, a quanto sembra, non ebbe il coraggio di portare fino in fondo la sua convinzione: in carcere si difese dicendo che non si era mai riferito all’arcivescovo, e che soleva solo citare il proverbio: “qui est tigneus, il ne doit pas oster son chaperon” (chi è tignoso non si tolga il cappuccio).34 Comunque stiano le cose, l’uditorio apprese dalle sue prediche la vecchia dottrina che aveva minacciato così spesso di minare la vita della Chiesa: i sacramenti di un sacerdote lussurioso non sono validi, l’ostia che egli consacra non è altro che pane, il battesimo e l’assoluzione impartiti da lui non hanno valore. Per Giovanni di Varennes questo non era che una parte di un radicale programma di castità: i preti non possono abitare neanche con una sorella o con una vecchia; al matrimonio sono legati 22 o 23 peccati; bisognava punire gli adulteri secondo la dottrina del Vecchio Testamento; Cristo stesso, se fosse stato sicuro della sua colpa, avrebbe fatto lapidare l’adultera; nessuna donna in Francia era casta; nessun bastardo poteva combinare qualcosa di buono o aspirare alla beatitudine.35 La Chiesa è stata sempre costretta a difendersi contro questa intransigente forma di avversione per la lussuria, per istinto di conservazione; se si fosse ammesso il dubbio sulla validità dei sacramenti amministrati da preti indegni, avrebbe vacillato l’intera struttura ecclesiastica. Gerson pone Giovanni di Varennes accanto a Jan Hus, come uomo che, mal-
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grado le buone intenzioni, sia stato messo sulla cattiva strada dal troppo zelo.36 D’altro canto la Chiesa è, di solito, estremamente indulgente in un altro campo: nel tollerare le sensualissime raffigurazioni dell’amore di Dio. Il coscienzioso cancelliere dell’Università di Parigi però ha avvertito anche qui il pericolo e ha pronunciato il relativo monito. Conosceva il pericolo per la sua lunga esperienza psicologica, lo conosceva nei suoi diversi aspetti, dogmatico e morale. “Non mi basterebbe un giorno, dice, se volessi enumerare le innumerevoli pazzie degli amanti, anzi degli stolti: amantium, immo et amentium.”37 Lo sapeva, per esperienza; “Amor spiritualis facile labitur in nudum carnalem amorem”.38 L’amore spirituale decade facilmente a nudo amore carnale. Perché non è altri che lui stesso l’uomo di sua conoscenza che, per lodevole devozione, aveva coltivato una comune amicizia nel Signore con una religiosa: “Dapprima mancava il fuoco della carnalità, ma a poco a poco si sviluppò, stando regolarmente insieme, un amore che non era più completamente in Dio, cosicché egli non poteva più fare a meno di visitarla, o, in sua assenza, di pensare a lei. Ancora non sospettava niente di peccaminoso, nessun inganno diabolico, finché una lontananza più lunga gli fece comprendere il pericolo, che Dio proprio al momento opportuno aveva allontanato da lui”.39 Da allora egli fu “un homme averti” e ne trasse profitto. Tutto il suo trattato De diversis diaboli tentationibus,40 è un’acuta analisi dello stato mentale proprio anche dei devoti moderni olandesi. È soprattutto della “dulcedo Dei”, della “zueticheit”41 dei devoti di Windesheim che diffida Gerson. Il diavolo, dice, ispira alle volte agli uomini una dolcezza (dulcedo) infinita e meravigliosa, molto simile 301
alla devozione, affinché l’uomo cerchi nel godimento di quella dolcezza (suavitas) l’unico suo scopo, e voglia amare e seguire Dio solamente per ottenere quel godimento.42 E altrove,43 a proposito della stessa dulcedo Dei, afferma che l’aver troppo coltivato tale sentimento ha tratto in inganno molti, che hanno accolto le follie del cuore come se fossero percezioni di Dio ed errato miseramente. Ciò conduce a ogni sorta di aspirazione: taluni cercarono di raggiungere uno stato di completa insensibilità o passività per divenire solo uno strumento di Dio, o una conoscenza mistica e un’unione con Dio, nella quale Egli non è più concepito come un concetto dell’essere, del vero e del bene. Sono queste le obiezioni mosse da Gerson a Ruusbroec, alla cui semplicità non crede; egli deplora la tesi del suo Chierheit der gheesteliker brulocht,44 cioè che l’anima perfetta, quando contempla Dio, non Lo vede soltanto in virtù della chiarezza, che è l’essenza divina, ma che essa stessa è la totale chiarezza divina.45 La sensazione dell’annientamento totale dell’individualità, assaporata dai mistici di tutti i tempi, non poteva essere tollerata da un sostenitore di una mistica bernardina moderata e antiquata come Gerson. Una veggente gli aveva raccontato che il suo spirito nel contemplare Dio aveva subito una vera distruzione e poi conosciuto una nuova creazione. “Come lo sapete?” le aveva chiesto. L’aveva provato, fu la sua risposta. L’assurdità logica di questa dichiarazione è, per il colto cancelliere, la prova lampante di quanto sia condannabile un simile sentimento.46 Era pericoloso esprimere tali sensazioni con un pensiero; la Chiesa poteva tollerarle solamente in forma figurata: il cuore di Caterina da Siena si era trasformato nel cuore di Cristo. Ma Marguerite Porete da Henegouwen, 302
dei Fratelli del libero spirito, che credeva, anch’essa, che la sua anima si dissolvesse in Dio, fu arsa viva a Parigi nel 1310.47 Il grande pericolo del sentimento di autodistruzione consisteva nella conclusione, tratta tanto dai mistici indiani quanto da taluni mistici cristiani, che l’anima perfettamente contemplante e amante non potesse più peccare. Del resto, assorbita in Dio, non ha più alcuna volontà, rimane soltanto il volere divino, e anche laddove essa segua le passioni carnali non c’è più peccato.48 Numerosi poveri e ignoranti erano indotti da tali teorie a una vita di terribile dissolutezza, come fecero vedere le sette dei Begardi, dei Fratelli del libero spirito, dei Turlupini. Ogni volta che Gerson parla dei pericoli di uno smodato amore di Dio, gli viene in mente l’esempio ammonitore di quelle sette.49 Eppure ci riferiamo sempre alle cerchie dei devoti. Hendrik van Herp, un devoto di Windesheim, accusa i propri correligionari di adulterio spirituale.50 C’erano, in questi ambienti, delle trappole diaboliche che facevano cadere nella più perversa empietà. Gerson racconta di un uomo illustre, che aveva confessato a un certosino che un peccato mortale, e nominava in particolare la lussuria, non gli impediva di amare Dio, ma al contrario lo incitava a lodare e a desiderare ancor più ardentemente la dolcezza divina.51 La Chiesa diveniva vigile non appena le struggenti emozioni della mistica si mutavano in convinzioni ben formulate o in applicazioni nella vita sociale. Finché ci si limitava a raffigurazioni appassionate di natura simbolica essa tollerava qualunque esuberanza. Johannes Brugman poteva accostare impunemente l’incarnazione di Gesù a tutte le caratteristiche di un ubriaco, che dimentica se stesso, non vede alcun 303
pericolo, non si adira se viene preso in giro, dà via tutto: “O non era forse ebbro quando l’amore lo spinse a discendere dalla sommità del cielo in questa umilissima valle terrena?”. Nel cielo Egli va in giro “versando copiosamente da bere” ai profeti, “che bevono fino a scoppiare, e poi Davide salta davanti alla tavola con la sua arpa, proprio come se fosse il buffone di Nostro Signore”.52 Non solo il grottesco Brugman, ma anche il puro Ruusbroec si compiace di rappresentare l’amore di Dio mediante l’immagine dell’ebbrezza, accanto alla quale sta l’immagine della fame. Forse ambedue trassero lo spunto dalla parola della Bibbia: “qui edunt me, adhuc esurient, et qui bibunt me, adhuc sitient”,53 ciò che, detto dalla Sapienza, venne interpretato come parola del Signore. Si rappresentava così l’immagine dello spirito umano, travagliato da un’eterna fame di Dio. “Qui comincia una fame eterna, che non viene mai saziata, che è un’avidità interiore e una brama della forza che ama e dello spirito creato di un bene increato… Questi sono i più poveri tra i viventi; perché sono avidi e golosi e hanno una fame insaziabile. Per quanto mangino e bevano non riusciranno mai a saziarsi in questo modo, perché questa fame è eterna… E anche se Dio desse a costoro tutti i doni che hanno i santi… a eccezione di se stesso, quella enorme bramosia dello spirito rimarrebbe comunque una fame insaziata.” Però anche l’immagine della fame, come quella dell’ebbrezza, può essere facilmente ribaltata: “La sua (di Cristo) fame è smisuratamente grande; ci consuma tutti fino in fondo, perché Egli è un ghiottone avido e ha una fame insaziabile; divora il midollo delle nostre ossa. Tuttavia glielo concediamo volentieri, e più volentieri glielo concediamo quanto più gli procuriamo piacere. E per quanto ci divori 304
non può saziarsi perché la sua fame non conosce limiti: e anche se siamo poveri, egli non se ne cura, perché non ci vuol lasciare. Innanzitutto Egli prepara il suo cibo e brucia nell’amore tutti i nostri peccati e difetti. E quando siamo purificati e arrostiti nell’amore, spalanca la bocca come un essere vorace che vuole inghiottire tutto… Se potessimo vedere la bramosia che Cristo ha della nostra salute, non potremmo trattenerci dal volargli in gola. Ma se Gesù ci consuma, ci dà in compenso se stesso, e ci dà la fame e la sete spirituali di Lui da assaporare in eterno. Egli ci dà la fame spirituale e offre in pasto il suo corpo al nostro fervido amore. E quando noi lo mangiamo e consumiamo con fervida devozione, allora scorre dal suo corpo il suo glorioso, caldo sangue nella nostra natura e in tutte le nostre vene… Vedete, così noi sempre mangeremo e saremo mangiati, e con l’amore morremo e risorgeremo, e questa è la nostra vita per l’eternità”.54 Basta un piccolo passo per scendere da questi sublimi trasporti della mistica a un piatto simbolismo. “Vous le mangerés,” dice dell’Eucaristia Le livre de crainte amoreuse di Jean Berthelemy, “rôti au feu, bien cuit, non points ars ou brulé. Car ainsi l’aigneau de Pasques entre deux feux de bois ou de charbon estoit cuit convenablement et roty, ainsi le doulx Jésus, le jour de Vendredi sacré, fut en la broche de la digne croix mis, attachié, et lié entre les deux feux de trés angoisseuse mort et passion, et de tres ardentes charité et amour qu’il avoit à nos ames at à nostre salut, il fut comme roty et langoureusement cuit pour nous saulver.”55 Le immagini dell’ebbrezza e della fame sono già di per sé una confutazione dell’opinione che ogni sentimento di beatitudine religiosa debba essere interpretato in chiave erotica.56 L’influsso divino viene sentito come un qualcosa di simile al 305
bere o a un bagno. Una devota di Diepenveen si sente tutta inondata dal sangue di Cristo e sviene.57 La fantasia del sangue, tenuta viva e stimolata continuamente dalla credenza nella transustanziazione, si manifesta in inebrianti eccessi dai rossi riverberi. Le ferite di Gesù, dice Bonaventura, sono i fiori sanguigni del nostro dolce e fiorito paradiso, sui quali l’anima deve librarsi come una farfalla, bevendo ora a questo ora a quello. Attraverso la ferita del costato essa deve penetrare fino al cuore. Nel contempo il sangue scorre nei ruscelli del paradiso. Tutto il sangue caldo e rosso di tutte le ferite è fluito dalla bocca di Suso nel suo cuore e nella sua anima.58 Caterina da Siena è una delle sante che hanno bevuto alla ferita del costato di Cristo, così come ad altri toccò in sorte di provare il latte dal seno di Maria: San Bernardo, Enrico Suso, Alain de la Roche. Alain de la Roche, in latino Alanus de Rupe, chiamato dai suoi amici olandesi Van der Klip, può essere considerato uno dei tipi più caratteristici della devozione francese più fantasiosa, e dell’immaginario religioso ultraconcreto del tardo Medioevo. Nato verso il 1428 in Bretagna, operò come domenicano prevalentemente nel Nord della Francia e nei Paesi Bassi. Morì nel 1475 a Zwolle, presso i Fratelli della vita comune, con i quali aveva avuto rapporti intensi. Fu soprattutto un grande sostenitore dell’uso del rosario, e a tale scopo fondò una confraternita sparsa in tutto il mondo, alla quale prescrisse sistemi fissi di preghiere, ossia Avemarie alternate a Paternostri. Nell’opera di questo visionario, composta soprattutto di prediche e descrizioni delle sue visioni,59 colpisce la forte componente sessuale delle sue fantasie, e, nel contempo, la mancanza di quel tono di passione ardente che poteva giustificare la raffigurazione sessuale del 306
sacro. L’espressione sensuale del soave amore di Dio è diventata qui mera formalità. Non c’è niente del fervore traboccante che nobilita le idee fantastiche sulla fame, la sete, il sangue e l’amore dei grandi mistici. Nelle meditazioni, da lui raccomandate su ogni parte del corpo di Maria, nella descrizione minuziosa del suo frequente ristoro nel latte di Maria, nella sistematicità simbolica con cui chiama ognuna delle parole del Paternoster il letto nuziale di una delle virtù, si rivela uno spirito in declino, la colorita devozione tardomedioevale decaduta a forma sfiorita. Anche nelle sue fantasie sui diavoli trova posto l’elemento sessuale: Alain de la Roche vede le bestie del peccato dotate di orribili genitali, dai quali si sprigiona un diluvio di fuoco e zolfo, che con il suo fumo oscura la terra; vede la “meretrix apostasiae” che divora gli apostati, li vomita e li espelle di nuovo, li divora un’altra volta, li bacia e culla come una madre, li partorisce continuamente dal suo grembo.60 Quello era l’altro aspetto della “dolcezza” dei devoti. Come complemento inevitabile della dolce fantasia celeste, lo spirito nascondeva un abisso di rappresentazioni infernali, che trovavano altresì la loro espressione nel linguaggio focoso della sensualità terrena. Non è poi tanto strano che siano intercorsi dei rapporti tra la tranquilla cerchia di Windesheim e ciò che di più fosco ha prodotto il tardo Medioevo, ovvero la credenza nelle streghe, cresciuta allora fino a diventare quel sistema compiuto e fatale di zelo teologale e severità giudiziaria. Alanus de Rupe è un tale anello di congiunzione. Lui, ospite gradito dei Fratelli di Zwolle, fu anche il precettore del suo confratello Jacob Sprenger, che non solo ha scritto con Henricus Institoris il Malleus Malefica-
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rum, ma è stato altresì lo zelante promotore, in Germania, della Confraternita del rosario di Alano.
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15. Il simbolismo sfiorito
La fede commossa di quel tempo voleva tradursi immediatamente in una raffigurazione variopinta e ardente. Lo spirito credeva di comprendere il miracolo vedendolo. Il bisogno di adorare sotto segni visibili l’inesprimibile creava figure sempre nuove. Nel XIV secolo la croce e l’agnello non sono più sufficienti a fornire un oggetto visibile al traboccante amore per Gesù: vi si aggiunge il culto del nome di Gesù, che minaccia persino, in alcuni, di offuscare il culto della croce. Enrico Suso si tatua il nome di Gesù nella regione del cuore, e si paragona all’effige dell’amata che l’amante porta cucita nella veste. Egli manda ai suoi figli spirituali fazzoletti con il dolce nome ricamato.1 Bernardino da Siena, dopo aver concluso una violenta predica, accende due candele e mostra una tavola lunga un braccio, con il nome di Gesù in azzurro e oro in mezzo ai raggi: “Il popolo che riempie la chiesa si inginocchia, piangendo e gridando di dolce commozione e di tenero amore per Gesù”.2 Molti altri francescani e anche predicatori di altri ordini lo imitarono: Dionigi il Certosino è raffigurato mentre tiene levata in alto con le mani una simile targa. I raggi del sole come un cimiero sullo stemma di Ginevra si fanno risalire a questo culto.3 309
Esso apparve sospetto alle autorità ecclesiastiche: si parlò di superstizione e di idolatria, nacquero dei tumulti a favore e contro l’uso. Bernardino fu citato davanti alla curia, e papa Martino V proibì l’usanza.4 Però il bisogno di adorare il Signore in modo visibile riuscì a realizzarsi ben presto, in un’altra forma, in modo legittimo; l’ostensorio esponeva all’adorazione l’ostia consacrata stessa. In luogo della forma di torre, che aveva nel XIV secolo, quando fu introdotto quest’uso, l’ostensorio ebbe ben presto quella del sole raggiante, simbolo dell’amore divino. Anche qui la Chiesa aveva nutrito dapprima dei sospetti; l’uso dell’ostensorio era stato consentito soltanto durante la settimana della festa del Corpus Domini. L’eccesso di raffigurazioni in cui il pensiero medioevale declinante dissolveva quasi tutto, sarebbe stato unicamente una selvaggia fantasmagoria se quasi ogni figura, ogni immagine non avesse avuto il suo posto nel sistema vasto e onnicomprensivo del simbolismo. Di nessuna grande verità lo spirito medioevale era tanto certo quanto delle parole ai Corinzi: “Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem”; “Perché noi vediamo ora attraverso uno specchio per enigmi, ma dopo a faccia a faccia”. Non hanno mai dimenticato che ogni cosa sarebbe assurda se il suo significato si limitasse alla sua funzione immediata e alla sua forma fenomenica, che un gran tratto di tutte le cose raggiunge l’altro mondo. Quel sapere è familiare anche a noi, come sensazione indefinita, ogni volta che il rumore della pioggia sulle foglie o la luce della lampada sul tavolo ci fa penetrare una percezione più profonda di quella del pensiero e dell’azione pratici. Esso si può manifestare come un’oppressione morbosa che fa sembrare le cose 310
gravide di una minaccia personale o di un enigma che si deve e non si può conoscere. Può anche, e lo farà spesso, riempirci della certezza tranquilla e confortante che anche la nostra vita partecipa del senso segreto del mondo. E quanto più quella sensazione si condensa in un raccapriccio per l’Uno, dal quale derivano tutte le cose, tanto più facilmente dalla certezza di alcuni istanti di chiarezza si passerà a una concezione della vita permanente o addirittura a una convinzione manifesta. “By cultivating the continuous sense of our connection with the power that made things as they are, we are tempered more towardly for their reception. The outward face of nature need not alter, but the expressions of meaning in it alter. It was dead and is alive again. It is like the difference between looking on a person without love, or upon the same person with love… When we see all things in God, and refer all things to him, we read in common matters superior expressions of meaning.”5 Da questo sostrato di sentimenti si sviluppa il simbolismo. In Dio non esiste nulla che sia vuoto o senza significato: “nihil vacuum neque sine signo apud Deum”.6 Dal momento che Dio era stato raffigurato, tutto ciò che proveniva da Lui e che in Lui aveva senso doveva pure coagularsi o cristallizzarsi in pensieri manifesti. E così nasce quella grandiosa e nobile raffigurazione del mondo come di un grande insieme di simboli, una cattedrale di idee, la più ricca espressione ritmica e polifonica di tutto il concepibile. L’ordine d’idee simbolistico si affianca, autonomo e in sé di pari valore, al genetico. Quest’ultimo, ossia il concepire il mondo come un’evoluzione, non era così estraneo al Medioevo come si immagina abitualmente. Però la derivazione 311
di una cosa dall’altra veniva ancora vista unicamente sotto l’ingenua figura di una procreazione diretta o di una ramificazione, ed era ancora applicata alle cose dello spirito solamente secondo deduzioni logiche. Queste venivano viste volentieri come sintagmi di una genealogia o di alberi con ramificazioni: un “arbor de origine juris et legum” ordinava tutto ciò che riguardava il diritto nell’immagine di un grande albero. Applicato in modo puramente deduttivo il pensiero evolutivo conservava qualcosa di schematico, di arbitrario e di sterile. Il simbolismo, considerato dal punto di vista dell’idea di causalità, è come un corto circuito spirituale. Il pensiero non cerca il legame tra le due cose seguendo le spirali nascoste della loro connessione causale, ma lo trova all’improvviso con un salto, non come un rapporto di causa ed effetto, ma di significato e scopo. La convinzione dell’esistenza di un siffatto rapporto si può acquisire non appena due cose abbiano in comune una proprietà essenziale, che va riferita a qualcosa di valore generale. In altre parole: ogni associazione basata su qualche somiglianza si può trasformare immediatamente nella coscienza di un rapporto essenziale e mistico. Questa, da un punto di vista psicologico, può apparire una funzione mentale ben misera. E da un punto di vista etnologico la si potrebbe definire inoltre una funzione mentale molto primitiva. Il pensiero primitivo è caratterizzato da una debolezza nel percepire i confini d’identità tra le cose; incorpora nella rappresentazione di una determinata cosa tutto ciò che con essa ha un qualche rapporto di somiglianza o di appartenenza. La funzione simboleggiante vi è strettamente connessa. Il simbolismo perde tuttavia quell’apparenza di arbitrarie312
tà e di incompiutezza non appena ci si rende conto che esso è indissolubilmente legato a quella concezione dell’esistente che nel Medioevo si chiamò realismo e che noi, in fondo con minore esattezza, chiamiamo idealismo platonico. Però l’analogia simbolica basata su caratteristiche comuni ha senso solamente quando quelle caratteristiche sono essenziali per le cose, quando le proprietà che hanno in comune il simbolo e il simboleggiato vengono considerate davvero come essenze. Rose bianche e rosse fioriscono tra le spine. Lo spirito medioevale scorge subito un significato simbolico: vergini e martiri splendono gloriosamente tra i persecutori. Come si giunge all’analogia? Per il fatto che le qualità sono identiche: la bellezza, la delicatezza, la purezza, il colore rosso delle rose sono anche le qualità delle vergini e dei martiri. Ma questo legame è veramente sensato e pieno di significato mistico solamente quando nel termine di congiunzione, cioè nella qualità, è racchiusa l’essenza di ambedue i termini del simbolismo, in altre parole quando il rosso e il bianco non valgono solamente come mere denominazioni di differenze fisiche su base quantitativa, ma vengono visti come cose reali, essenzialità. Anche il nostro pensiero è in grado di vederli così in qualsiasi momento,7 se solo torna per un attimo alla sapienza del selvaggio, del bambino, del poeta e del mistico, per i quali lo stato naturale delle cose è racchiuso nella loro qualità generale. La qualità è la loro quiddità, il nucleo del loro essere. La bellezza, la delicatezza, il biancore, essendo essenze, sono unità: tutto ciò che è bello, delicato, bianco deve avere un’essenza comune, ha la stessa ragion d’essere, lo stesso significato davanti a Dio. Così c’è un legame indissolubile tra il simbolismo e il realismo (nel senso medioevale). 313
Qui però non si deve pensare troppo alla disputa sugli universali. Certo, il realismo che sosteneva gli “universalia ante res”, che attribuiva esistenza e preesistenza ai concetti generali, non è stato il dominatore assoluto, nel campo del pensiero medioevale. Ci sono stati anche dei nominalisti: anche gli “universalia post rem” hanno avuto i loro sostenitori. Però non è troppo azzardato affermare che il nominalismo radicale non sia mai stato altro che una controcorrente, una reazione e opposizione, e che il nominalismo moderato e più recente abbia tenuto conto solo di certe obiezioni filosofiche contro un realismo estremo, senza ostacolare l’indirizzo inerente-realistico dell’intera civiltà spirituale medioevale. Inerente all’intera civiltà. Perché non è tanto la disputa di acuti teologi ciò che conta, quanto le rappresentazioni che dominano tutta la vita del pensiero e dell’immaginazione, quale si manifesta nell’arte, nella morale, nella vita quotidiana. Queste sono estremamente realistiche, non in quanto l’alta teologia si era formata a una lunga scuola di neoplatonismo, ma poiché il realismo, indipendentemente da ogni filosofia, è il modo di pensare primitivo. Per lo spirito primitivo tutto ciò che è nominabile diventa subito un essere, si tratti di qualità, di concetti o di qualsiasi altra cosa. Essi si proiettano immediatamente e automaticamente sul cielo. Il loro essere può quasi sempre (non sempre necessariamente) venire concepito come un essere personale; in ogni istante può avere inizio la ridda di concetti antropomorfi. Ogni realismo, in senso medioevale, è in fondo antropomorfismo. Quando il pensiero, che ha attribuito all’idea un’esistenza indipendente, vuole apparire, non può che ricorrere alla personificazione. Questo è il trapasso dal simbolismo e dal realismo all’alle314
goria. L’allegoria è il simbolismo proiettato verso l’immaginazione superficiale, l’elaborazione intenzionale, e con ciò anche lo svuotamento, di un simbolo, la riduzione di un grido appassionato a una frase grammaticalmente corretta. Goehte descrive così il contrasto: “Die Allegorie verwandelt die Erscheinung in einen Begriff, den Begriff in ein Bild, doch so, dass der Begriff im Bilde immer noch begrenzt und vollständig zu halten und zu heben und an demselben auszusprechen sei. Die Symbolik verwandelt die Erscheinung in Idee, die Idee in ein Bild, und so, dass die Idee im Bild immer unendlich wirksam und unerreichbar bleibt und selbst in allen Sprachen ausgesprochen doch unaussprechlich bleibe”.8 L’allegoria ha dunque già in se stessa il carattere della normalizzazione scolastica, e nello stesso tempo quello di un’assimilazione, un dissolvimento del pensiero nell’immagine. Il modo in cui essa era entrata nel pensiero medioevale, come retaggio letterario della tarda antichità nei prodotti allegorici di Marziano Capella e di Prudenzio, accresceva il carattere scolastico e antiquato. E tuttavia non si creda che l’allegoria e la personificazione medioevali mancassero di autenticità e di vitalità. Del resto, se non avessero posseduto queste qualità, come avrebbe potuto la civiltà medioevale coltivarle con tanta perseveranza e con tanto favore? Nel complesso questi tre modi di pensare, il realismo, il simbolismo e la personificazione hanno illuminato lo spirito medioevale come un flusso di luce. La psicologia potrebbe voler liquidare l’intero simbolismo con il termine associazione d’idee. Ma la storia della civiltà spirituale deve considerare questa forma di pensiero con maggior rispetto. Il valore che l’interpretazione simbolica dell’esistente aveva per la vita era incalcolabile. Il simbolismo creò una concezione del 315
mondo contraddistinta da una unità più rigorosa e da un legame più intimo rispetto al pensiero causale-naturalistico. Abbracciava con forza tutta la natura e tutta la storia, creandovi un ordine impeccabile, un segmento architettonico, una subordinazione gerarchica. Perché in ogni rapporto simbolico ci devono essere un termine inferiore e uno superiore: due cose di uguale valore non possono essere simbolo l’una dell’altra, ma solo rimandare entrambe a una terza, che è superiore. Nel pensiero simbolico c’è spazio per una smisurata molteplicità di rapporti tra le cose. Perché ogni cosa può, con le sue diverse qualità, essere il simbolo di molte altre, e può anche significare con la stessa qualità diverse cose; e le cose supreme hanno simboli di mille specie. Niente è troppo umile da non poter configurare e glorificare il supremo. La noce significa Cristo: il dolce gheriglio è la natura divina, il carnoso mallo quella umana, il guscio tra i due è la croce. Tutte le cose sostengono il pensiero nella sua elevazione all’eterno; tutte si sollevano a vicenda di gradino in gradino verso l’alto. Il pensiero simbolico fornisce un’incessante trasfusione del sentimento della maestà e dell’eternità di Dio in tutto il percepibile e il pensabile. Tiene sempre acceso il sentimento mistico della vita. Pervade la rappresentazione di ogni cosa di un più alto valore estetico ed etico. Quale godimento, se ogni pietra preziosa brilla con tutti i bagliori dei suoi valori simbolici, se l’identificazione di rose e verginità è più che affettazione poetica, se indica l’essenza di ambedue. È una vera polifonia del pensiero. In un simbolismo equilibrato risuona, in ogni rappresentazione, un accordo armonioso di simboli. Il simbolismo procura quell’ebbrezza del pensiero, quel dileguamento preintellettuale
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dei confini dell’identità tra le cose, quell’attenuazione del pensiero cerebrale che solleva al massimo il senso della vita. Un legame armonico unisce continuamente tutti i campi del pensiero. I fatti dell’Antico Testamento significano, prefigurano quelli del Nuovo, che si rispecchiano anche in quelli della storia profana. Ogni idea, come in un caleidoscopio, fa sì che la massa disordinata di particelle formi una figura bella e simmetrica. Ogni simbolo riceve un valore superiore, un grado molto maggiore di realtà, in quanto sono tutti schierati, in fin dei conti, intorno al miracolo centrale dell’Eucaristia, e qui la corrispondenza non è più simbolica, bensì identità: l’ostia è Cristo. E il sacerdote che la inghiotte diventa il sepolcro del Signore; il simbolo dedotto partecipa della realtà del supremo mistero, ogni prefigurazione diventa un mistico essere-uno.9 Il simbolismo rese possibile apprezzare e godere comunque il mondo, che pure era in sé abietto, e anche nobilitare le occupazioni terrene. Perché ogni mestiere aveva una relazione simbolica con il supremo e il più sacro. Il lavoro dell’artigiano è l’eterna generazione e incarnazione del Verbo e il vincolo tra Dio e l’anima.10 Persino l’amor profano e il sacro sono uniti dai fili di un contatto simbolico. Il forte individualismo religioso, ossia l’educazione della propria anima alla virtù e alla beatitudine, trovava il suo salutare contrappeso nel realismo e nel simbolismo, che separavano il dolore e la virtù individuali dalla particolarità del personale e li innalzavano alla sfera dell’universale. Il valore morale della mentalità simbolica è inseparabile dalla sua inventiva. L’immaginazione simbolica è come la musica sul testo dei dogmi formulati logicamente, che senza quella musica risuonerebbero troppo duri e aridi. “En ce 317
temps où la spéculation est encore toute scolaire, les concepts définis sont facilement en désaccord avec les intuitions profondes.”11 Grazie al simbolismo l’arte ebbe accesso all’intero immaginario religioso, e poté esprimerlo in forme piene di suoni e di colori, e tuttavia vaghe ed eteree, di modo che le intuizioni più profonde poterono propagarsi nella coscienza dell’ineffabile. Il Medioevo declinante mostra tutto questo mondo d’idee nella sua ultima fioritura. Il mondo era completamente spiegato in quel simboleggiamento universale e i simboli diventavano dei fiori pietrificati. Da tempo, del resto, il simbolismo aveva posseduto la tendenza a diventare puramente meccanico. Una volta dato come principio, non trae origine solo dalla fantasia e dal trasporto poetico, ma si aggrappa come una pianta parassita al pensiero, e degenera in puro vezzo e morbosità. In particolare quando il contatto simbolico deriva unicamente da un’uguaglianza numerica, nascono intere prospettive di dipendenze ideali. Diventano giochetti aritmetici. I dodici mesi significheranno i dodici apostoli, le quattro stagioni gli evangelisti, e l’intero anno deve essere Cristo.12 Si conglomerano interi sistemi sul numero sette. Alle sette virtù cardinali corrispondono le sette preghiere del Paternostro, i sette doni dello Spirito Santo, le sette beatitudini e i sette salmi penitenziali. Esse rimandano poi ai sette momenti della Passione e ai sette sacramenti. Ogni numero di ogni gruppo di sette corrisponde a sua volta, come contrasto o rimedio, ai sette peccati mortali, che a loro volta vengono raffigurati da sette animali e seguiti da sette malattie.13 Per un padre spirituale e un moralista come Gerson, dal quale abbiamo preso questi esempi, è predominante il valore morale e pratico del rapporto simbolico. In un visio318
nario come Alain de la Roche prevale l’elemento estetico.14 Egli deve avere un sistema con i numeri quindici e dieci, perché il ciclo di preghiere della Confraternita del rosario, da lui sostenuta, comprende 150 Avemarie alternate a 15 Paternostri. I quindici Paternostri sono le quindici stazioni della Passione, le 150 Avemarie sono i salmi. Sono ancora molto di più. Moltiplicando le undici sfere celesti più i quattro elementi per le dieci categorie, “substantia, qualitas, quantitas” etc., si ottengono 150 “habitudines naturales”, e parimenti 150 “habitudines morales” moltiplicando i dieci comandamenti con quindici virtù: le tre teologali, le quattro cardinali e le sette capitali fanno quattordici; “restant duae: religio et poenitentia”, adesso ce n’è una di troppo, ma “temperantia”, la cardinale, equivale ad “abstinentia”,15 la capitale, e ne restano quindici. Ognuna delle quindici virtù è una regina che ha il suo letto nuziale in una delle parti del Paternostro. Ogni parola dell’Avemaria significa una delle quindici perfezioni di Maria, e nel contempo una pietra preziosa della “rupis angelica” che ella è; ogni parola scaccia un peccato o l’animale che lo raffigura. Esse sono inoltre i rami di un albero pieno di frutti, sul quale siedono tutti i beati, e i gradini di una scala. Così, per esempio, la parola Ave significa l’innocenza di Maria, e il diamante, e scaccia l’orgoglio, che ha il leone per animale. La parola Maria è la sua sapienza e il carbonchio e scaccia l’invidia, un cane nerissimo. Alanus vede nelle sue visioni le orrende sembianze degli animali del peccato e gli smaglianti colori delle pietre preziose, il cui ben noto potere miracoloso risveglia nuove associazioni simboliche. Il sardonico è nero, rosso e bianco, così come Maria era nera nell’umiltà, rossa nelle sue sofferenze e bianca nella gloria e nella grazia. Usato come sigillo non si 319
attacca alla cera e in tal modo significa la virtù dell’onestà, scaccia la lascivia e rende rispettabili e casti. La perla è la parola “gratia” e anche la grazia di Maria; essa nasce nella conchiglia di mare da una rugiada del cielo “sine admixtione cuiuscunque seminis propagationis”.16 Maria stessa è la conchiglia; qui il simbolismo si discosta leggermente dalla serie delle altre parole, perché ci si aspetterebbe che Maria fosse la perla. Qui si rivela in pieno il carattere caleidoscopico del simbolismo: con le parole “da una rugiada del cielo generata” viene subito evocato, implicitamente, l’altro tropo della nascita verginale: il tosone, sul quale Gedeone implorò il segno celeste. La forma di pensiero simboleggiante era ormai logora. Cercare simboli e allegorie era diventato un gioco vano, un fantasticare superficiale su una singola analogia. Il simbolo conserva la sua valenza emotiva solo in virtù della santità delle cose che rappresenta: nel momento in cui il simbolismo passa dal terreno puramente religioso a quello esclusivamente morale, si manifesta la sua irrimediabile deformazione. Froissart in una lunga poesia, Li orloge amoureus, riesce a paragonare tutte le qualità dell’amore ai vari meccanismi di un orologio.17 Chastellain e Molinet fanno a gara in simbolismi politici: nei tre stati sono figurate le qualità di Maria; i sette principi elettori, tre ecclesiastici e quattro secolari, significano le tre virtù teologali e le quattro cardinali; le cinque città di Saint-Omer, Aire, Lilla, Douai e Valenciennes, che nel 1477 rimangono fedeli alla Borgogna, diventano le cinque vergini sagge.18 In realtà qui siamo in presenza di un simbolismo capovolto in cui non è il più basso a designare il più alto, ma è il più alto che designa il più basso. Perché nello spirito dello scrittore le cose terrene, che egli vuole 320
esaltare con un tocco celeste, vengono al primo posto. Il Donatus moralisatus seu per allegoriam traductus, che è stato attribuito al Gerson, insegnava la grammatica latina mescolandola al simbolismo teologico: il “nomen” è l’uomo, il “pronomen” significa che egli è un peccatore. Sul gradino più basso della simbolizzazione si trova una poesia di Olivier de la Marche, Le parement et triumphe des dames, in cui l’intera toilette femminile viene paragonata a virtù e pregi, una bella predica morale del vecchio cortigiano, con qualche furtivo ammiccamento. La pantofola significa l’umiltà: De la pantouffle ne nous vient que santé Et tout prouffit sans griefve maladie, Pour luy donner tiltre d’auctorité Je luy donne le nom d’humilité.19 Allo stesso modo le scarpe diventano la cura e la diligenza, le calze la perseveranza, la giarrettiera la risolutezza, la camicia l’onestà e il busto la castità.20 Ovviamente, però, persino nelle loro manifestazioni più insipide, il simbolismo e l’allegoria hanno avuto una valenza emotiva molto più forte di quanto immaginiamo. La funzione del simboleggiamento e della personificazione era così sviluppata, che ogni pensiero, quasi da sé, poteva trasformarsi in un “personnage”, una recita. Ogni idea, del resto, era considerata un ente, ogni qualità una sostanza, e come ente viene subito investita dall’immaginazione di una forma personale. Nelle sue rivelazioni Dionigi il Certosino vede la Chiesa in modo personale e teatrale proprio come veniva rappresentata alla festa di corte di Lilla. In una delle sue rivelazioni vede la futura “reformatio”, ambita dai padri del concilio e da Nicola da Cusa, di idee affini a quelle di Dionigi: cioè la Chiesa nella sua futura purezza. Vede la purezza 321
spirituale di questa Chiesa purificata come una veste stupenda e preziosissima, di indescrivibile bellezza nella magistrale commistione di colori e di figure. Un’altra volta vede la Chiesa oppressa: brutta, rude ed esangue, povera, debilitata e calpestata. Il Signore dice: “Ascolta tua Madre, mia sposa, la Santa Chiesa” e poi Dionigi sente la voce interiore come se venisse dalla figura della Chiesa: “quasi ex persona Ecclesiae”.21 Qui il passaggio del pensiero alla forma figurata è così immediato che si avverte a malapena la necessità di ricondurre l’immagine al pensiero, di spiegare l’allegoria nei suoi particolari, è sufficiente accennare il tema. La veste variopinta è perfettamente adeguata alla rappresentazione della perfezione spirituale: il pensiero qui si risolve nell’immagine, così come, in modo a noi familiare, il pensiero si risolve in musica. Si torni col pensiero alle figure allegoriche del Roman de la Rose. Solo a fatica Bel-Accueil, Doulce-Mercy, HumbleRequest riescono a comunicarci qualcosa. Ma per i contemporanei hanno avuto una concretezza rivestita di forma vivida e colorata di passione, che li pone proprio sullo stesso piano delle immagini divine romane prodotte da astrazioni, come “Pavor”, “Pallor”, “Concordia” etc. Ciò che dice Usener di queste si può applicare quasi interamente ai personaggi allegorici medioevali. “Die Vorstellung trat mit sinnlicher Kraft vor die Seele und übte eine solche Macht aus, dass das Wort, das sie sich schuf, trotz der adjectivische Beweglichkeit, die ihm verblieb, dennoch ein göttliches Einzelwesen bezeichnen konnte.”22 Altrimenti il Roman de la Rose sarebbe stato illeggibile. Doux-Penser, Honte, Souvenirs e gli altri hanno avuto negli spiriti tardomedioevali una vita quasi divina. Una delle figure conobbe persino una concretizzazione della rappre322
sentazione: Danger, in origine il pericolo che minaccia l’amante nel suo corteggiamento o anche il riserbo della dama, finì per significare nel gergo amoroso lo stesso marito che doveva essere ingannato. Sovente vediamo come, per esprimere un pensiero particolarmente importante, si ricorra all’allegoria. Quando il vescovo di Chalon vuol ammonire severamente Filippo il Buono per la sua linea politica, esprime in forma allegorica la “remonstrance” che presenta al duca, alla duchessa e al loro seguito nel castello di Hesdin, nel 1437, nel giorno di Sant’ Andrea. Egli trova Haultesse de Signourie, che prima ha abitato nell’impero, poi alla corte francese, infine a quella di Borgogna, che siede sconsolata e si lamenta di essere insidiata anche lì dalla Spensieratezza dei principi, dalla Fiacchezza dei consiglieri, dall’Invidia dei servitori, dalla Vessazione dei sudditi. Egli vi contrappone altri personaggi, come la Vigilanza dei principi etc., che devono scacciare gli infedeli cortigiani.23 Ogni qualità acquista qui sostanza e personificazione, e a quanto pare era questa la maniera migliore per impressionare, il che diventa comprensibile solamente se ci si rende conto che l’allegoria aveva ancora una funzione molto attiva nel pensiero di quei tempi. Il Borghese di Parigi è un uomo prosaico, che raramente si compiace di svolazzi stilistici e di artifici intellettuali. Ma, giunto alle descrizioni più terribili, le stragi dei borgognoni, che dettero alla Parigi del giugno 1418 l’odore del sangue che avrà nel settembre 1792, si avvale dell’allegoria. “Lors se leva la deesse de Discorde, qui estoit en la tour de Mau-conseil, et esveilla Ire la forcenée et Convoitise et Enragerie et Vengence, et prindrent armes de toutes manières et bouterent hors d’avec eulx Raison, Justice, Memoire de Dieu et Atrempance 323
moult honteusement.” Continua così, alternando alla descrizione diretta dell’orrore: “Et en mains que on yroit cent pas de terre depuis que mors estoient, ne leur demouroit que leurs brayes, et estoient en tas comme porcs ou millieu de la boe…”24; gli acquazzoni lavarono le loro ferite. A che scopo proprio qui l’allegoria? Poiché lo scrittore si vuole innalzare a un livello intellettuale superiore a quello degli avvenimenti comuni che il suo diario descrive di solito. Sente l’esigenza di vedere quegli avvenimenti terribili come se fossero stati orditi da qualcosa di superiore agli uomini, e l’allegoria gli serve per esprimere il sentimento tragico. L’importanza vitale della funzione del personificare e dell’allegorizzare, alla fine del Medioevo, si rivela proprio laddove per noi stona maggiormente. Possiamo ancora in qualche modo gustare l’allegoria di un tableau-vivant, le figure convenzionali addobbate con improbabili drappeggi, che dice a tutti che è solo uno scherzo. Però il XV secolo può far andare in giro le figure allegoriche, così come i santi, nei vestiti dell’epoca. E può creare a ogni istante nuove personificazioni per ogni mistero che vuole esprimere. Quando Charles de Rochefort vuol narrare, ne l’Abuzé en court, la moralità del ragazzo sventato che viene traviato dalla vita di corte, tira fuori tutta una serie di nuove allegorie sulla falsariga del Roman de la Rose; e tutti quegli esseri che a noi sembrano così pallidi: Fol cuidir, Fol bombance, fino alla fine, quando Pauvreté e Maladie portano il ragazzo in ospedale, compaiono nelle miniature che illustrano il poema come gentiluomini del tempo; persino le Temps non ha bisogno di barba né di falce, ma arriva in farsetto e calzoni stretti al ginocchio. Per noi le illustrazioni, con la loro ingenua rigidezza, rendono la rappresentazione di tutto ciò anche troppo primitiva; è 324
svanito quanto di delicato e di vivo l’epoca stessa sentiva in quelle concezioni. Proprio la loro ordinarietà testimonia la loro vitalità. Per Olivier de la Marche non vi è nulla di strano che le dodici virtù, che eseguono un entremets alla festa di corte di Lilla nel 1454, dopo che è stata recitata la loro poesia, si mettano a ballare “en guise de mommerie et à faire bonne chiere, pour la feste plus joyeusement parfournier”.25 Una rappresentazione antropomorfa associata a virtù ed emozioni è ancora in un certo qual modo involontaria, ma anche nei casi in cui ci pare che il concetto non abbia niente di antropomorfo lo spirito medioevale non esita a farne una persona. La Quaresima come personaggio che scende in campo contro l’armata del Martedì Grasso, non è una creazione del cervello impazzito di Breughel; il poema Bataille de karesme et de charnage, in cui il formaggio combatte contro la segala, e la salsiccia contro l’anguilla data già dalla fine del XIII secolo e fu imitato già intorno al 1330 dal poeta spagnolo Juan Ruiz.26 Anche il proverbio la conosce così: “Quaresme fait ses flans la nuit de Pasques”. La notte di Pasqua la Quaresima cuoce le sue frittelle. Altrove il processo di raffigurazione si spinge persino oltre: in alcune città della Germania settentrionale si sospendeva sul coro della Chiesa una bambola, chiamata Quaresima; questa “hungerdock” veniva staccata, durante la messa, il mercoledì prima di Pasqua.27 Qual è stata la differenza nel grado di realtà tra la rappresentazione dei santi e quella delle figure puramente simboliche? I primi avevano dalla loro l’autorità della Chiesa, il loro carattere storico, le loro statue in legno e in pietra. Ma le altre avevano punti di contatto con la propria vita psicologica e con la libera fantasia. Si può dubitare sul serio se Fortune e Faux-Semblant non siano stati vivi quanto Santa Barbara e 325
San Cristoforo. Non dimentichiamo che c’è una figura emersa dalla libera fantasia al di là di ogni sanzione dogmatica che ha acquistato una realtà maggiore di qualsiasi santo ed è sopravvissuta a tutti: la Morte. Non c’è, in realtà, un effettivo contrasto tra l’allegoria del Medioevo e la mitologia del Rinascimento. Intanto le figure mitologiche accompagnano la libera allegoria già per un bel tratto del Medioevo: Venere gioca il suo ruolo nelle poesie più autenticamente medioevali che siano state composte. D’altro canto la libera allegoria è ancora in voga nel XVI secolo inoltrato e oltre. Nel secolo XIV comincia, per così dire, una gara tra allegoria e mitologia. Nelle poesie di Froissart compare, accanto a Doux-Semblant, Jonece, Plaisance, Refus, Dangier, Escondit, Franchise una singolare serie di mitologemi, talvolta storpiati in modo tale da non essere più riconoscibili: Atropos, Cloto, Lachesis, Telephus, Ydrophus, Neptisphoras! Gli dèi e le dee, quanto a plasticità, ancora non reggono il confronto con i personaggi del Roman de la Rose; restano vuoti e spettrali. O diventano, se dominano indisturbati, estremamente barocchi e si allontanano di molto dal classico, come nell’Epistre d’Othéa à Hector di Christine de Pisan. L’avvento del Rinascimento capovolge quel rapporto. A poco a poco gli dèi dell’Olimpo e le ninfe prendono il sopravvento sulla Rose e i “Sinnekens”.28 Dai tesori dell’antichità affluisce in loro una pienezza di stile e di sentimento, una bellezza poetica, e soprattutto un senso della natura così forte da far impallidire e scomparire l’allegoria, una volta così vivida. Il simbolismo con la sua ancella, l’allegoria, era diventato un passatempo cerebrale; il sensato divenne insensato. La mentalità simbolistica ostacolava lo sviluppo del pensiero 326
causale-genetico. Non che questo venisse escluso dal simbolismo; il rapporto causale-genetico delle cose aveva il suo posto accanto a quello simbolico, ma rimase irrilevante, finché l’interesse non si spostò dal simbolismo allo sviluppo naturale. Un esempio chiarificatore: per indicare la relazione tra l’autorità spirituale e quella temporale, nel Medioevo si ricorreva a due similitudini simboliche fisse: sono i due corpi celesti che Dio ha collocato, al momento della creazione, l’uno sopra l’altro, e sono le due spade che i discepoli avevano con loro quando Cristo fu fatto prigioniero. Ora per il pensiero medioevale questi simboli non sono affatto soltanto una sottile similitudine; essi rivelano il fondamento del rapporto di forze che non si può sottrarre a quel legame mistico; hanno lo stesso valore rappresentativo di Pietro come pietra della Chiesa. La violenza del simbolo intralcia l’indagine sullo sviluppo storico di entrambi i poteri. Quando Dante riconosce la necessità e il carattere decisivo di quest’ultima deve, nella sua Monarchia, prima fiaccare la forza del simbolo contestando la sua applicabilità, per aprire la strada alla ricerca storica. Lutero si esprime contro i mali dell’allegoria arbitraria e frivola nella teologia. Si riferisce ai grandi maestri della teologia medioevale, Dionigi il Certosino, Guilielmus Durandus, Fautore del Rationale divinorum officiorum, Bonaventura e Gerson, quando esclama: “Quegli studi allegorici sono opera di gente nullafacente. O credete che mi sarebbe difficile giocare con l’allegoria su ogni cosa creata? Chi è così povero di spirito da non potersi cimentare con le allegorie?”.29 Il simbolismo non riuscì a esprimere adeguatamente delle 327
connessioni sentite come certe, come quelle di cui talvolta siamo coscienti ascoltando della musica. “Videmus nunc per speculum in aenigmate.” Si sapeva di guardare in un enigma e tuttavia si cercava di distinguere le immagini nello specchio, si spiegavano delle immagini con altre immagini, e si mettevano specchi contro specchi. L’intero mondo era rappresentato con figure autonome: fu una stagione di maturazione eccessiva e di sfioritura. Il pensiero dipendeva ormai troppo dalla raffigurazione; la tendenza visiva, così peculiare della fine del Medioevo, era diventata preponderante. Tutto ciò che poteva essere pensato era diventato plastico e pittorico. La concezione del mondo aveva raggiunto la pace di una cattedrale al chiaro di luna, in cui il pensiero poteva mettersi a dormire.
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16. Il realismo e la capitolazione della raffigurazione nella mistica
Il simbolismo era, per così dire, l’afflato vitale del pensiero medioevale. L’abitudine di dare un senso a tutte le cose e di porle in relazione con l’eterno teneva vivo, nel mondo delle idee, lo splendore di colori sbiaditi, e l’avvicendamento di confini sfumati. Quando la funzione simboleggiante viene a mancare o è diventata puramente meccanica, allora il grandioso edificio delle derivazioni voluto da Dio si trasforma in una necropoli. Un idealismo sistematico, che pone dappertutto delle relazioni tra le cose, in virtù della loro qualità generale considerata come essenziale, conduce facilmente alla rigidezza e a una sterile classificazione. La divisione e la suddivisione dei concetti, eseguita solamente in modo deduttivo, è così comoda; le idee si lasciano disporre così docilmente nella volta del sistema cosmico. All’infuori delle regole della logica astratta non c’è alcun correttivo che possa indicare un errore nella classificazione, e in tal modo lo spirito è tratto in inganno circa il valore del suo lavoro intellettuale, e la solidità del sistema viene sopravvalutata. Ogni nozione, ogni concetto sta immobile come una stella nel firmamento. Per conoscere l’essenza di una cosa non si cerca né la sua 329
struttura interna né la lunga ombra che ha lasciato la storia, ma si alza lo sguardo al cielo, dove essa splende come idea. L’abitudine di prolungare sempre le cose con una linea ausiliaria verso l’idea ritorna ogni volta nell’approccio medioevale a ogni questione politica, sociale o morale. Anche le cose più insignificanti e banali non possono che essere considerate parte di un contesto universale. È in corso, per esempio, all’Università di Parigi una controversia, se si debba esigere un pagamento per il grado di licenziato. Lo stesso Pierre d’Ailly prende la parola, per combattere la richiesta, in opposizione al cancelliere dell’Università. Invece della verifica dei fondamenti storici della richiesta o dell’analisi della sua validità nel diritto positivo, l’argomento segue un’impostazione strettamente scolastica: partendo dal testo “radix omnium malorum cupiditas”, d’Ailly propone una triplice dimostrazione: che il richiedere quel diritto è simonia, che è in contrasto con il diritto naturale e divino, e che è eresia.1 Per biasimare certe licenziosità che deturpano una determinata processione, Dionigi il Certosino raccoglie tutto ciò che riguarda le processioni dalle origini: quello che accadeva sotto la legge antica etc.,2 senza occuparsi però del fatto in sé. È questo ciò che rende così faticose e deludenti tutte le argomentazioni medioevali: rimandano subito al cielo e fin dall’inizio si perdono in vicende bibliche e in luoghi comuni morali. L’idealismo elaborato si manifesta dappertutto. Per ogni forma di vita, per ogni stato sociale, per ogni mestiere si delinea un ideale etico-religioso, al quale ciascuno deve uniformarsi secondo le esigenze del suo mestiere, per servire degnamente il Signore.3 Si è voluto vedere qualcosa dei tempi nuovi, qualcosa che annuncia la Riforma, nell’enfasi con cui 330
Dionigi il Certosino sottolinea la santità del “mestiere” terreno. Nei suoi trattati De vita et regimine nobilium etc., che riassunse infine per il suo amico Brugman in due libri, De doctrina et regulis vitae christianorum, ha ricordato a ogni mestiere l’ideale dell’adempimento del dovere santificante: vescovo, prelato, arcidiacono, canonico, curato, scolaro, principe, nobile, cavalieri, mercanti, sposi, vedove, vergini, monaci.4 Però proprio in questa rigida qualificazione di ogni stato come qualcosa di indipendente c’è qualcosa di schiettamente medioevale, e l’elaborazione di questa dottrina dei doveri ha quel carattere astratto e generale che non ci introduce mai alla reale sfera del mestiere in questione. È questa riduzione di ogni cosa al generale che il Lamprecht, sotto il nome di tipismo, ritiene prerogativa per antonomasia dello spirito medioevale. Essa è, tuttavia, piuttosto una conseguenza di quel bisogno dello spirito di subordinare che trae origine dall’idealismo radicato. Non è tanto la facoltà di vedere lo specifico nelle cose, quanto la volontà cosciente di indicare dovunque il senso delle cose nella loro relazione con il supremo, nella loro idealità morale, nel loro significato generale. Si cerca in ogni cosa proprio l’impersonale, il valore esemplare, la norma. La mancanza di una concezione individuale è, fino a un certo punto, intenzionale ed è più un effetto dell’abito mentale universalistico e dominante che non un sintomo di scarso sviluppo spirituale. L’attività per eccellenza dello spirito medioevale consisteva nello scomporre l’intero mondo e l’intera vita in idee indipendenti e nell’ordinare quelle idee in grandi e numerosi rapporti di sudditanza nell’ambito di gerarchie di pensieri. Questo spiega quell’inclinazione dello spirito medioevale a separare ogni qualità, nella sua sostanza essenziale, dal com331
plesso di un caso. Quando il vescovo Fulco di Tolosa viene sospettato di aver dato un’elemosina a una albigese risponde: “Non do all’eretica, ma alla povera”.5 E la regina di Francia, Margherita di Scozia, che bacia sulla bocca il poeta Alain Chartier mentre dorme, si giustifica così: “Je n’ay pas baisé l’homme mais la précieuse bouche de laquelle sont yssuz et sortis tant de bons mots et vertueuses paroles”.6 Un proverbio diceva: “Haereticare potero, sed haereticus non ero”.7 Tutto ciò non è forse nel campo del pensiero comune quello che, nelle somme speculazioni della teologia, era una distinzione tra la “voluntas antecedens” di Dio, in virtù della quale Egli vuole che tutti siano beati, e la “voluntas consequens” che vale solamente per gli eletti?8 Ne risulta un’instancabile meditazione su tutte le cose, senza la limitazione del rapporto causale effettivamente percepito, un’analisi quasi automatica, che finisce con il diventare una numerazione perpetua. Nessun campo invitava a quella elaborazione quanto quello delle virtù e dei peccati. Ogni peccato ha il suo numero fisso di cause, di specie, di figlie, di effetti dannosi. Dodici follie, dice Dionigi, traviano il peccatore: egli acceca se stesso, si lascia irretire dal diavolo, si toglie la vita, disprezza la sua ricchezza (la virtù), si vende per niente (mentre è stato riscattato con il sangue di Cristo), abbandona chi lo ama con più fedeltà, crede di resistere all’Onnipotente, serve il diavolo, si procura inquietudine, si apre l’ingresso all’inferno, sbarra la strada che lo porta in cielo, e prende quella per l’inferno. Ogni numero viene illustrato, raffigurato e definito con passi della Scrittura, immagini e dettagli, in modo da acquisire la solida certezza e la sostanza di una figura del portale di una chiesa. Subito dopo, la medesima serie viene nuovamente scandagliata più in 332
profondità. La gravità del peccato deve essere considerata da sette punti di vista: dal punto di vista di Dio, da quello del peccatore, della materia, delle circostanze, dell’intenzione, della natura del peccato stesso, e delle conseguenze. Alcuni di quei punti vengono a loro volta suddivisi in otto, in quattordici, per esempio il secondo: la gravità del peccato si misura in base al bene fatto, alla conoscenza, alla virtù precedente, all’ufficio, alla consacrazione, alla facilità di opporre resistenza, al voto, all’età. Vi sono sei debolezze dello spirito che predispongono al peccato.9 Proprio come il Buddismo: anche lì quella morale sistematica a sostegno degli esercizi della virtù. Questa anatomia del peccato potrebbe facilmente indebolire, anziché rafforzare, la coscienza del peccato deviandola sull’analisi minuziosa della classificazione, se nel contempo non venisse decisamente esasperata la fantasia del peccato e la raffigurazione del castigo. Nessuno può concepire o comprendere appieno, nella vita odierna, l’enormità del peccato.10 Tutte le idee morali, poste sempre in rapporto immediato con la maestà di Dio, vengono caricate di un peso insopportabile. Ogni peccato, anche il più insignificante, coinvolge l’universo. Come la letteratura buddistica conosce l’applauso delle creature celesti accompagnato da piogge di fiori, bagliori di luce e una lieve scossa della terra a ogni azione di un Bodhisattva, così Dionigi, di umore più tetro, ode tutti i beati e i giusti, le sfere celesti, tutti gli elementi, e persino gli esseri privi di ragione e le cose inanimate gridare vendetta sopra gli ingiusti.11 Al suo tentativo di acuire all’estremo, con descrizioni particolareggiate e raffigurazioni deliberatamente terrificanti, la paura del peccato, della morte, del giudizio e dell’inferno non manca l’effetto agghiacciante, 333
forse proprio per il suo carattere impoetico. Dante aveva descritto splendidamente le tenebre e gli orrori infernali: Farinata e Ugolino sono eroici nella loro abiezione, e Lucifero che batte le ali ci consola con la sua maestà. Però un monaco come Dionigi il Certosino, del tutto privo di poesia nonostante tutta la sua intensità mistica, rappresenta l’inferno come pura angoscia e miseria. Le sofferenze fisiche e i tormenti sono dipinti a tinte infocate. Il peccatore deve cercare, di proposito, di farsene un quadro il più vivido possibile. “Immaginiamoci,” dice Dionigi, “un forno arroventato e infocato, in cui giace un uomo nudo, che non sarà mai liberato da tale supplizio. Non ci sembrerà insopportabile quella tortura, anzi la sua sola vista? Quanto ci parrà sciagurato quell’uomo! Pensiamo a come quell’uomo si contorcerebbe in quel forno, a come strillerebbe, piangerebbe, vivrebbe, quale angoscia lo opprimerebbe, quale dolore lo assalirebbe specie al pensiero che tale insopportabile castigo non avrà mai fine.”12 Ci si domanda involontariamente: come potevano quelli che si immaginavano tali rappresentazioni di tormento infernale far bruciar vivo un uomo sulla terra? Il fuoco caldissimo, il freddo atroce, i vermi ripugnanti, il fetore, la fame e la sete, le catene e le tenebre, l’indicibile sudiciume dell’inferno, l’eco infinita dei pianti e delle urla nelle orecchie, la vista dei diavoli, tutto diviene la coltre soffocante di un incubo che si diffonde sull’anima e sui sensi del lettore. Ancora più opprimente è l’angoscia dei dolori cerebrali: il rimorso, la paura, il vuoto di una infinita mancanza e abiezione, l’inesprimibile odio per Dio e l’invidia per la beatitudine di tutti i suoi eletti; nel cervello nient’altro che confusione e oppressione, la coscienza piena di errori e di false idee, ottenebrata 334
e fuorviata. E la cognizione che sarà sempre così, per l’eternità, viene enfatizzata con paragoni artificiosi che culminano in una vertigine di orrore.13 Non occorre dimostrare né spiegare che la paura del tormento eterno, sia che irrompa come una improvvisa “angoscia divina”, sia che roda come una lunga malattia e oppressione, viene presentata ogni volta come motivo di conversione e di pietà.14 Tutto mirava a questo. Un trattato sui Novissimi: morte, giudizio universale, inferno e vita eterna, forse una traduzione di quello di Dionigi, era la lettura abituale degli ospiti del convento di Windesheim durante i pasti.15 Un amaro condimento! Ma mezzi così drastici erano uno sprone continuo alla perfezione morale. L’uomo del Medioevo è come un malato assuefatto a medicine troppo forti. Reagisce soltanto agli stimoli più potenti. Per fare brillare una virtù in tutto il suo splendore agli occhi dell’uomo del Medioevo ci si può avvalere solamente di quegli esempi estremi, in cui una coscienza morale meno esasperata vedrebbe già una caricatura della virtù. Per la pazienza c’è l’esempio di Sant’Egidio che, ferito da una freccia, pregò Dio di non far guarire mai la sua ferita. Per la temperanza dei santi che mescolavano della cenere ai loro cibi, per la castità di quelli che si portavano a letto una donna per mettere alla prova la loro fermezza, o delle pietose fantasie delle vergini che, per sfuggire agli insidiatori della loro virtù, riuscivano ad avere la barba o a divenire irsute. Oppure lo stimolo viene trovato nell’esorbitanza dell’esempio, in relazione con l’età degli esemplari: San Nicola rifiutava il latte materno nelle festività più solenni; Gerson raccomandava come modello di perseveranza San Quirico, un piccolo martire di
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tre anni o addirittura di nove mesi, che non volle essere consolato dal prefetto e fu gettato nel burrone.16 L’esigenza di godere l’eccellenza della virtù a dosi così forti è a sua volta in relazione con l’idealismo dominante. Considerare la virtù un’idea sottraeva, per così dire, alla sua considerazione il fondamento della vita reale; la sua bellezza veniva vista nella sua essenza autonoma come estrema perfezione, non nella sua faticosa pratica quotidiana, tra alti e bassi. Il realismo medioevale (ossia un iperidealismo) va considerato, malgrado la sua impronta di neoplatonismo cristianizzato, un atteggiamento spirituale primitivo. Anche se la filosofia aveva sublimato, chiarificato e rarefatto il realismo come atteggiamento spirituale, esso rimase il modo di vivere dell’uomo primitivo, che attribuisce essenza e sostanza a tutte le cose astratte. Se si può ritenere il culto iperbolico della virtù, nella sua forma più ideale, un pensiero altamente religioso, il suo rovescio, il disprezzo del mondo, ci fa vedere chiaramente l’anello che ancora congiunge il pensiero medioevale alle forme di pensiero di tempi molto remoti. Mi riferisco al fatto che i trattati “de contemptu mundi” non riescono a non addossare un peso eccessivo alla malvagità del corporale. Niente per loro ha maggior peso, come motivo per disprezzare il mondo, della ripugnanza dei bisogni corporali, in particolare dell’escrezione e della riproduzione. È la parte più povera dell’etica medioevale: quel ribrezzo dell’uomo “formatus de spurcissimo spermate, conceptus in pruritu carnis”.17 Potrebbe essere una sensualità trasformatasi nel suo opposto; è certamente una propaggine di quella primitiva forma di realismo, che fa temere al selvaggio sostanze e poteri magici negli escrementi e in tutto ciò che accompa336
gna la concezione e la nascita. Un filo diritto e non molto lungo unisce il timore magico che fa sì che i popoli primitivi si tengano lontani dalla donna nei momenti delle sue funzioni più femminili alla misoginia ascetica, che aveva deturpato la letteratura cristiana da Tertulliano e Girolamo in poi. Tutto è pensato in chiave materiale. Ciò è chiaro soprattutto nella dottrina del “thesaurus ecclesiae”, il tesoro delle opere supererogatorie (operum supererogationum) di Cristo e di tutti i santi. Sebbene la nozione di un tale tesoro e l’idea che ogni credente, in quanto membro del “corpus mysticum Christi”, la Chiesa, sia partecipe di quel tesoro siano antichissime, la dottrina che queste buone opere costituiscano una riserva inesauribile, che può essere spacciata dalla Chiesa, in particolare dal papa, fa la sua comparsa solamente nel XIII secolo. Alessandro di Hales è il primo che usa “thesaurus” nel senso tecnico che la parola ha conservato da allora.18 La teoria si affermò non senza opposizioni, per trovare la sua perfetta enunciazione e definizione nella bolla Unigenitus di Clemente VI, nel 1343. In essa il tesoro è concepito come un capitale, affidato da Cristo a San Pietro e ai suoi discepoli, e che aumenta giorno per giorno; del resto più persone sono condotte sulla retta via dall’impiego di quei mezzi e più queste stesse opere si accumulano.19 Se le opere buone venivano concepite in modo così sostanziale, allora questa concezione doveva valere anche, forse in misura maggiore, per il peccato. È vero che la Chiesa sottolineava il fatto che il peccato non è né un’essenza né una cosa,20 ma la sua tecnica della remissione dei peccati, insieme alla variopinta raffigurazione e alla complessa sistematicità del peccato, non poteva che imprimere, nell’animo ignorante, il convincimento che il peccato fosse una sostanza 337
(così come viene considerato nell’Atharvaveda). Anche se Dionigi intende solo fare dei confronti, come deve essere alimentata la concezione sostanziale del peccato, come virus, quando egli la paragona a una febbre, a un umore freddo, corrotto e inutile!21 Il diritto, che non era così preoccupato della purezza dogmatica, rispecchia una simile concezione quando i giuristi inglesi operano con l’idea che nella fellonia sia presente una corruzione del sangue.22 Questa concezione ipersostanziale trova la sua manifestazione più forte e anche più intima riguardo al sangue del Redentore: è una materia reale, una goccia sarebbe stata sufficiente a redimere il mondo, ma fu profuso, dice San Bernardo.23 San Tommaso espone questa concezione in uno dei suoi inni: Pie Pelicane, Jesu domine, Me immundum munda tuo sanguine, Cuius una stilla salvum facere, Totum mundum quit ab omni scelere. E questo basta a farci riflettere sul fatto che il nostro giudizio circa il carattere primitivo del pensiero non vada considerato l’ultima parola. In Dionigi il Certosino vediamo lo sforzo disperato di esprimere le idee della vita eterna in termini di estensione spaziale. La vita eterna ha una dignità incommensurabile; godere Dio in se stessi è una perfezione infinita; nel Redentore erano necessarie una dignità e una efficacia infinite; il peccato è di una enormità infinita, poiché è un abuso contrario alla incommensurabile santità; perciò occorre un salvatore di capacità incommensurabile.24 L’aggettivo spaziale negativo deve rendere continuamente concepibili l’importanza e la potenza del sacro.
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Per infondere l’idea dell’eternità Dionigi si avvale di un’immagine: figuratevi una montagna di sabbia grande come l’universo; ogni dieci o centomila anni viene tolto un granello da quella montagna. Quella montagna si esaurirà. Ma dopo un periodo di tempo così inconcepibile le pene infernali non saranno ancora attenuate, né più vicine alla loro fine rispetto a quando il primo granello fu tolto dalla montagna. E tuttavia se i dannati sapessero di essere liberati quando la montagna fosse scomparsa ne ricaverebbero un grande conforto.25 Se sono le gioie celesti, o la maestà di Dio, che si vogliono esprimere, si hanno solamente grida parossistiche del pensiero. L’espressione della gioia celeste resta sempre estremamente primitiva. Il linguaggio umano non può fornire una visione della felicità veemente come quella del terrore. Per inasprire ulteriormente la misura del brutto e del miserabile bastava inoltrarsi nelle spelonche dell’umanità, ma per descrivere la suprema beatitudine bisognava prendersi il torcicollo guardando il cielo. Dionigi si abbandona a superlativi disperati, ed è solo un rafforzamento meramente matematico della rappresentazione, che non la chiarisce e non la approfondisce26: “Trinitas supersubstantialis, superadoranda et superbona… dirige nos ad superlucidam tui ipsius contemplationem”. Il Signore è “supermisericordissimus, superdignissimus, superamabilissimus, supersplendidissimus, superomnipotens et supersapiens, supergloriosissimus”.27 Ma a che serviva ammucchiare superlativi assoluti, rappresentazioni di altezza, ampiezza, incommensurabilità e inesauribilità? Restavano pur sempre delle immagini, riduzioni dell’infinito a rappresentazioni della finitezza, e di conseguenza un indebolimento e un’esteriorizzazione del con339
cetto di infinito. L’eternità non era un tempo incommensurabile. Ogni sensazione, una volta espressa, perdeva la sua immediatezza; ogni qualità che si attribuiva a Dio gli toglieva qualcosa della sua immensità. Ora ha inizio lo sforzo formidabile di salire con lo spirito fino all’assoluta mancanza di immagini della Divinità. Non è legato a nessuna cultura e a nessuna epoca, è identico dappertutto e sempre. “There is about mystical utterances an eternal unanimity which ought to make a critic stop and think, and which brings it about that the mystical classics have, as has been said, neither birthday nor native land.”28 Ma il sostegno dell’immaginazione non può essere abbandonato lì per lì. Poco per volta si percepisce l’insufficienza dell’espressione. Le prime a cadere sono le personificazioni concrete dell’idea e le vesti multicolori del simbolismo; poi non si parla più di sangue e di salvezza, di Eucarista, di Padre, Figlio e Spirito Santo. Nella mistica di Eckhart Cristo non viene quasi più nominato e neppure la Chiesa e i sacramenti. Però l’espressione della contemplazione mistica dell’Essere, della Verità, della Divinità rimane sempre legata a rappresentazioni naturali: a quelle della luce e dell’estensione. Poi queste si trasformano in negativo: silenzio, vuoto, oscurità. Quindi anche di questi concetti privi di forma e di contenuto si percepisce l’insufficienza, e si cerca di porvi rimedio abbinandoli continuamente ai loro contrari. Alla fine non resta altro che la pura negazione; la Divinità, che non si percepisce in nessuna delle cose esistenti, poiché supera tutto, viene chiamata Nulla dal mistico. Così Scoto Eriugena,29 così Angelo Silesio, quando poeta: Gott ist ein lauter Nichts, ihn rührt kein Nun noch Hier; 340
Je mehr du nach ihm greifst, je mehr entwird er dir.30 Questo progresso della contemplazione spirituale fino alla rinuncia a ogni raffigurazione in realtà non è naturalmente avvenuto in questo modo così lineare. La maggior parte delle manifestazioni mistiche mostra tutte quelle fasi contemporaneamente e confusamente. Sono presenti tra gli indiani, già completamente sviluppate dallo Pseudo-Dionigi Areopagita, la fonte di tutta la mistica cristiana, riprese nella mistica tedesca del XIV secolo.31 Ecco un esempio dalle rivelazioni di Dionigi il Certosino.32 Egli parla con Dio, che è irato. “A questa risposta il frate, assorto in profondi pensieri, si vide trasportato in una sfera di luce infinita, e soavemente, in una quiete sovrumana, chiamò con voce misteriosa che non risuonava all’esterno il Dio misteriosissimo e realmente arcano, incomprensibile: ‘O Dio amatissimo, tu stesso sei la luce e la sfera della luce, nella quale i tuoi eletti vanno dolcemente a riposare, si rilassano, si assopiscono e si addormentano. Tu sei come un deserto vastissimo, perfettamente piano e sconfinato, in cui lo spirito veramente pio, completamente purificato dall’amore particolare, illuminato dall’alto e pieno di ardore, erra senza smarrirsi, soccombe beato e guarisce senz’altro’.” Qui c’è prima la raffigurazione, ancora positiva, della luce, poi quella del sonno, quindi quella del deserto (la rappresentazione della vastità in due dimensioni), infine i contrari che si annullano. L’immagine del deserto, la rappresentazione spaziale orizzontale, si alterna a quella dell’abisso, la rappresentazione spaziale verticale. Quest’ultima fu una grande trovata dell’immaginazione mistica. L’espressione dell’assenza di quali341
tà della divinità nelle parole di Eckhart, “l’abisso senza modo e senza forma della silenziosa, deserta divinità”, fornì al concetto di infinità anche il momento sensitivo di una vertigine. Si dice che Pascal vedesse continuamente accanto a sé un abisso: una simile sensazione qui è, per così dire, ricondotta a un termine mistico fisso. Con queste immagini dell’abisso e del silenzio si raggiunge l’espressione più vivida dell’indescrivibile esperienza mistica. “Wol uf dar, herz und sin und muot,” esulta Suso, “in daz grundlos abgrund aller lieplichen dingen!”33 Maestro Eckhart nella sua profonda tensione: “La scintilla (dell’anima, il nucleo mistico dell’individuo) non si appaga del Padre, né del Figlio, né dello Spirito Santo, né delle tre persone, nella misura in cui ognuna di queste consiste nella sua qualità. Io dico, in verità, che questa luce non si appaga dell’unicità del carattere fecondo della natura divina. Voglio aggiungere qualcosa che suona ancora più strana: io dico in buona verità che questa luce non si appaga del semplice, immobile essere divino, che non dà e non prende; di più: vuole sapere donde viene questo essere, vuole il semplice fondo, nel deserto silenzioso, dove non si poté scorgere mai diversità, né Padre, né Figlio, né Spirito Santo, nell’intimo, dove nessuno è a casa, là quella luce si appaga, e là essa è più che in se stessa, perché questo fondo è un silenzio semplice che è immobile in sé”. Solo così l’anima raggiunge la completa beatitudine, “poiché si getta nella divinità deserta, dove non vi è né opera né immagine, e lì si perde e sprofonda nel deserto”.34 E Tauler: “In questa sprofonda lo spirito purificato e chiarificato, nella tenebra divina, in un silenzio muto e in un’unione incomprensibile e ineffabile, e in questo inabissamento va perduta ogni uguaglianza e ogni disuguaglianza, e 342
in questo abisso lo spirito perde se stesso e non conosce Dio né se stesso, né l’uguale, né il disuguale, né alcuna cosa, perché è sprofondato nell’unicità di Dio e ha perso tutte le differenze”.35 In Ruusbroec tutti i mezzi atti a esprimere l’esperienza mistica vengono adoperati in modo ancora più plastico rispetto ai tedeschi. Gridate tutti aprendo i cuori: O magnifico baratro! Anche senza parola, Guidaci nel tuo abisso; E facci conoscere il tuo amore. Il godimento della beatitudine nell’unione con Dio “è selvaggio e deserto come uno smarrimento; perché lì non vi è né modo, né strada, né sentiero, né seme, né misura”. “Là noi saremo privati di altezza, profondità, larghezza e lunghezza (soppressione di ogni rappresentazione spaziale) in uno smarrimento perpetuo senza ritorno.”36 II godimento della beatitudine è tanto “che Dio e tutti i santi e questi alti uomini (che la provano) vi sono immersi come in una irrealtà, cioè in un non sapere e in uno smarrimento perpetuo”.37 Dio profonde a tutti, ugualmente, la beatitudine, “ma quelli che la ricevono sono disuguali: tuttavia a tutti resta qualcosa, dopo aver usufruito dell’unione”, cioè essi non possono, riguardo al godimento della beatitudine nell’unione con Dio, consumare tutta la profusione che viene donata loro. “Ma dopo lo smarrimento nell’oscurità del deserto non resta più nulla: perché lì non c’è né dare né prendere, ma soltanto un semplice essere. Là vi è Dio e tutti coloro che si sono uni-
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ti, immersi e perduti, e giammai lo troveranno in questo essere inesistente.”38 Tutte le negazioni sono riunite nel seguente passo. “Poi segue la settima scala (dell’amore), la cosa più nobile e più alta che si possa vivere nel tempo e nell’eternità. È quando, sopra ogni conoscenza e sapienza, troviamo in noi stessi un non sapere illimitato; quando, al di là di tutti i nomi che diamo a Dio e alle creature, ci mortifichiamo e moriamo in un eterno anonimato poiché ci perdiamo: e quando, al di là di ogni pratica di virtù, vediamo e troviamo in noi un vuoto eterno, in cui nessuno può agire; e sopra ogni spirito beato una beatitudine senza fondo, poiché tutti siamo uno e quello stesso uno che è la beatitudine stessa, nella sua identità: e quando contempliamo tutti gli spiriti beati, veramente sprofondati, svaniti e perduti, esseri soprannaturali, in una inesistente, ignota oscurità.”39 Nella semplice, informe beatitudine sparisce ogni differenza tra le creature: “Lì esse cadono spontaneamente in uno smarrimento e in un’ignoranza senza fondo; lì ogni chiarezza è ridotta a oscurità, lì le tre persone cedono il passo all’unità essenziale”.40 È sempre il vano tentativo di rinunciare alle immagini, per esprimere “il nostro stato vuoto, quella nuda irrappresentabilità” che solo Dio può dare. “Egli ci spoglia di tutte le immagini, e ci porta al nostro principio: là non troviamo altro che una nudità selvaggia, deserta e irrappresentabile, che corrisponde continuamente all’eternità.”41 In queste citazioni di Ruusbroec sono già stati esauriti anche i due ultimi mezzi descrittivi: la luce che si muta in oscurità, e la pura negazione, la rinuncia a ogni sapere. Già lo Pseudo-Areopagita aveva chiamato l’essere più intimo e segreto di Dio la sua oscurità. E il suo omonimo, am344
miratore e commentatore, il Certosino, sviluppa quel termine. “E la stessa pienezza eccellentissima, incommensurabile e invisibile della Tua eterna luce viene chiamata l’oscurità divina, in cui si dice che Tu abiti, Tu che hai scelto come rifugio l’oscurità.”42 “E le tenebre divine stesse sono riparate da ogni luce e nascoste a ogni sguardo, a causa dell’indescrivibile e impenetrabile splendore della loro chiarezza.” L’oscurità è il non sapere, la fine di ogni nozione: “Più lo spirito si avvicina alla Tua luminosissima luce divina, più gli appaiono evidenti la Tua inaccessibilità e imperscrutabilità, e quando è entrato nell’oscurità subito ogni nome e ogni cognizione soccombono (omne mox nomen omnisque cognitio prorsus deficient). Ma ciò sarà lo spirito, vederTi: vedere che sei affatto invisibile; e più chiaramente esso lo vede, più nitidamente Ti contempla. Diventare questa oscurità così piena di luce è la nostra preghiera, o Trinità benedetta, e vederTi e conoscerTi mercè l’invisibilità e l’ignoranza, Tu che superi ogni visione e conoscenza. Ti riveli solamente a coloro che, dopo aver superato e abbandonato tutto il percepibile e il comprensibile, e pure tutto il creato e quindi se stessi, entrano nell’oscurità dove Tu realmente sei”.43 Così come la luce si muta in oscurità, così la più alta vita si muta nella morte. Quando l’anima ha capito, dice Eckhart, che nessuna creatura può raggiungere il regno di Dio, allora l’anima va per la sua strada e non cerca più Dio. “Und allhie so stirbet si iren hohsten tot. In disem tot verleuset di sele alle begerung und alle bild und alle verstentnüzz und alle form und wirt beraubt aller wesen. Und daz seit sicher als got lebt: als wenik als ein tot mensch der leiblich tot ist, sich selber bewegen mag, als wenik mak di sele, di also geistlich tot ist, einik weis oder einik bild vorgetragen einigen menschen. 345
Wann diser geist ist tot und ist begraben in der gotheit.” Anima, se non anneghi in questo mare senza fondo della divinità, non potrai riconoscere questa morte divina.44 È più perfetto, dice Dionigi altrove, contemplare Dio mediante negazioni che mediante affermazioni. “Perché quando io dico: “Dio è bontà, essenza (essentia), vita, sembro indicare ciò che Dio è, come se ciò che Egli è avesse qualcosa in comune o una qualche somiglianza con il creato, mentre è certo che Egli è imperscrutabile e ignoto, impenetrabile e ineffabile, ed è separato da tutto ciò che plasma da una incommensurabile e del tutto incomparabile diversità ed eccellenza”.45 La sapienza unitiva (sapientia unitiva) è chiamata “irragionevole, insensata e folle”.46 Era stata vinta l’immaginazione? Senza immagine e senza metafora non può essere espresso alcun pensiero, e quando si parla dell’essenza inconoscibile delle cose ogni parola è immagine. Poter parlare esclusivamente per negazioni della cosa più alta e più fervidamente desiderata non appaga l’animo, e laddove il saggio non ha altro da dire deve intervenire il poeta. L’animo soavemente lirico di Suso trovava sempre la via del ritorno dalle cime nevose della contemplazione alle fantasie fiorite dell’antica mistica bernardina. In mezzo all’estasi della suprema contemplazione già ritornano il colore e la forma dell’allegoria. Suso vede l’eterna Sapienza, la sua fidanzata: “Si swepte hoh ob ime in einem gewülkten throne (cielo): sie luhte als der morgensterne, und schein als diu spilndiu sunne; ire krone waz ewikeit, ire wat waz selikeit, ire wort süzzekeit, ire umbfang alles lustes gnuhsamkeit: si waz verr und nahe, hoh und nider; si waz gegenwürtig und doch verborgen; si liess mit ir umbgan, und moht si doch nieman begriffen”.47 346
C’erano anche altre strade che scendevano dalle altezze solitarie della mistica individuale, priva di forme e di immagini. Quelle altezze si raggiungevano soltanto passando attraverso il diletto del mistero liturgico-sacramentale: solo l’aver sentito appieno il miracolo simbolico-estetico dei dogmi e dei sacramenti rendeva in grado di respingere tutte le forme figurate e di salire fino alla contemplazione, priva di concetti, dell’Uno-Tutto. Ma lo spirito non poteva godere quella chiarezza quando voleva; non erano che rari e brevi momenti di grazia; e poi giù c’era pur sempre la Chiesa in attesa, con il suo saggio e parsimonioso sistema di misteri. D’altro canto la Chiesa aveva condensato e intensificato, nella sua liturgia, il contatto dello spirito con il divino nell’esperienza di determinati istanti, dando forma e colore al mistero. Per questo è sempre sopravvissuta alla mistica esasperata: risparmiava energie. La Chiesa tollerava serenamente i trasporti più fioriti della mistica estetica, ma temeva la mistica vera, impetuosa, che incendiava e consumava tutto ciò su cui essa era stata edificata: il suo simbolismo armonico, i suoi dogmi e i suoi sacramenti. “La sapienza unitiva è irragionevole, insensata e folle.” Il sentiero del mistico conduce all’infinito e all’incoscienza. Negando ogni consustanzialità tra la divinità e tutte le cose singole e nominabili si sopprime ogni vera trascendenza; il ponte che riporta alla vita è stato tagliato. “Alle crêatûre sint ein lûter niht. Ich sprihe niht, daz sie kleine sîn: sie sind ein lûter niht. Swaz niht wesens hât, daz ist niht. Alle crêatûre hânt kein wesen, wan ir wesen swebet an der gegenwertikeit gotes.”48 La mistica intensiva significa il ritorno a una vita spirituale preintellettuale. Tutto ciò che è civiltà vi si perde, viene 347
sconfitto, diventa superfluo. Se però la mistica reca ricchi frutti per la cultura, ciò è dovuto al fatto che essa sale passando attraverso stati preparatori, e rigetta solo gradualmente ogni forma di vita e di cultura. Essa reca i suoi frutti per la civiltà nei suoi gradi iniziali, al di sotto del limite della vegetazione arborea. Lì fiorisce il giardino della perfezione morale, richiesta come preparazione a ogni vita contemplativa: la pace e la mitezza, l’attenuazione del desiderio, la semplicità, la temperanza, la laboriosità, la serietà e il fervore. Così è stato in India e così è qui: il primo effetto della mistica è morale e pratico. Essa è soprattutto esercizio di carità operosa. Tutti i grandi mistici hanno apprezzato moltissimo questa attività pratica: maestro Eckhart non ha forse posto Marta più in alto di Maria e detto che si doveva rinunciare persino all’estasi di Paolo se si poteva offrire un piatto di minestra a un povero? Da lui, passando per il suo discepolo Taulero, la linea della mistica tende sempre più all’elogio dell’elemento pratico: anche Ruusbroec loda il lavoro tranquillo e umile, e Dionigi il Certosino riunisce in sé, alla perfezione, il senso pratico della vita religiosa e l’intenso misticismo individuale. Nei Paesi Bassi i fenomeni concomitanti della mistica, il moralismo, il pietismo, la carità e l’operosità diventano essenziali; lì dalla mistica intensiva per il momento di rapimento di pochi si sviluppa la mistica estensiva per ogni giorno di molti: il fervore collettivo permanente dei devoti moderni al posto dell’estasi solitaria e rara. La mistica prosaica, se mi è concessa la parola. Nelle case dei Fratelli della vita comune e nei conventi della Congregazione di Windesheim si spande sul tranquillo lavoro quotidiano lo splendore di un fervore religioso tenuto sempre vivo nelle coscienze. L’intenso lirismo e lo slancio 348
impetuoso verso l’alto sono stati abbandonati e di conseguenza è anche cessato il pericolo dell’eresia; i fratelli e le sorelle sono del tutto ortodossi e conservatori. Era una mistica al dettaglio: si riceveva solo “un colpo”, “una piccola scintilla”, e, nella severa, quieta e umile cerchia, si viveva il trasporto in un’atmosfera di familiarità spirituale, nella corrispondenza epistolare e nell’autocontemplazione. La vita emotiva e la vita interiore si coltivavano come una pianta di serra; predominavano il piccolo puritanesimo, l’addestramento spirituale, la repressione del riso e i sani istinti, molta ottusità pietistica. Tuttavia da quella cerchia è uscito il lavoro più confortante dell’epoca, la Imitatio Christi. Ecco l’uomo che non era né un teologo né un umanista, né un filosofo né un poeta, e in fondo nemmeno un mistico, e che scrisse il libro che sarebbe stato il conforto di secoli. Tommaso da Kempis, silenzioso, riservato, pieno di tenerezza per il mistero della messa e con le concezioni più anguste sul governo divino, non conosceva affatto il veemente sdegno nei confronti del consiglio ecclesiastico o della vita mondana che animava i predicatori, né l’ideale universale di Gerson, Dionigi o Nicola da Cusa, né la fantasia breugheliana di Johannes Brugman o il variopinto simbolismo di Alain de la Roche. Cercava solamente la pace in ogni cosa, e la trovava “in angello cum libello”. “O quam salubre quam iucundum et suave est sedere in solitudine et tacere et loqui cum Deo!” “Oh, com’è salubre, piacevole e soave sedere in solitudine e tacere e parlare con Dio!”49 E il suo libro di semplice saggezza, sulla vita e sulla morte, per l’animo abbattuto divenne un libro per tutti i tempi. Qui era stata nuovamente accantonata tutta la mistica neoplatonica e, come fondamento, c’era solo l’accordo profondo del349
l’amato maestro Bernardo di Chiaravalle. Non c’è alcuno sviluppo filosofico di pensieri ma solamente un certo numero di pensieri estremamente semplici in forma di sentenza, raggruppato intorno a un punto centrale, ognuno racchiuso in una frase breve; non c’è alcuna subordinazione e a malapena una correlazione di pensieri. Non c’è nulla del fremito lirico di Enrico Suso o della folgorazione serrata di Ruusbroec. Con il suo tintinnio di frasi parallele e di assonanze smorte l’Imitatio sarebbe doppiamente prosa, se proprio quel ritmo monotono non la rendesse simile al mare di una molle serata piovosa o al sospiro del vento autunnale. L’Imitatio comunica qualcosa di sorprendente: questo scrittore non vi afferra con la sua forza o il suo slancio, come Agostino, con la sua parola fiorita, come San Bernardo, non con la profondità o la ricchezza del pensiero; tutto è piano e sommesso, tutto in tono minore: vi è solo pace, riposo, tranquilla, rassegnata attesa e consolazione. “Taedet me vitae temporalis”, “mi tedia la vita terrena”, dice Tommaso altrove.50 Eppure la parola di quest’uomo fuggito seppe infondere forza come nessun’altra. Una sola cosa questo libro per gli stanchi di tutti i secoli ha in comune con le produzioni della mistica intensa. Anche qui l’immaginazione, fin dove era possibile, era stata superata, la veste smagliante di simboli sfolgoranti era stata deposta. Perciò l’Imitatio non è legata alla cultura di un’epoca; così come le contemplazioni estatiche dell’UnoTutto essa si allontana da ogni cultura. Non appartiene a nessuna civiltà in particolare. Questo spiega sia le sue duemila edizioni sia il fatto che i dubbi circa l’autore e la data di nascita abbiano coinvolto tre secoli. Tommaso non aveva detto invano “Ama nesciri”. 350
17. Le forme di pensiero nella vita pratica
Per comprendere lo spirito medioevale nella sua interezza, bisogna studiare le forme fondamentali del suo pensiero non solo come sono presenti nelle concezioni della fede e della speculazione più profonda, ma anche nella saggezza quotidiana e nella banale vita pratica. Perché sono le stesse grandi correnti di pensiero che dirigono le sue manifestazioni superiori e inferiori. Mentre nel campo della fede e della speculazione ci si continua a chiedere in che misura le forme di pensiero siano il risultato e il riflesso di una lunga tradizione scritta, che ha origini greche ed ebraiche, e persino egiziane e babilonesi, nella vita comune noi le vediamo agire in modo ingenuo e spontaneo, liberate dal peso del neoplatonismo e di altre correnti. L’uomo del Medioevo, nella vita di tutti i giorni e nella sua teologia, pensa nelle stesse forme. Nell’uno e nell’altro caso, il fondamento è quell’idealismo architettonico che la Scolastica chiamava realismo: l’esigenza di isolare tutte le nozioni e di dare loro forma come un’entità, collocandole in un contesto gerarchico, costruendo su di esse templi e cattedrali, come un bambino che gioca con le costruzioni. Tutto ciò che acquista un posto fisso nella vita, che diven351
ta forma di vita, rientra in un disegno universale divino, i costumi e gli usi più comuni non meno che le cose più alte. Ciò si manifesta molto chiaramente, per esempio, nella concezione delle regole dell’etichetta di corte così come viene descritta da Olivier de la Marche e Aliénor de Poitiers. La vecchia dama considera quelle regole leggi sagge, istituite anticamente nelle corti dei re con discernimento, da tenere in considerazione per tutti i tempi a venire. Ne parla come fossero la saggezza dei secoli: “et alors j’ouy dire aux anciens qui sçavoient…”. E però vede i tempi in grande decadenza: da una decina d’anni alcune dame delle Fiandre mettono il letto della puerpera davanti al fuoco, “de quoy l’on s’est bien mocqué”; prima non si faceva mai; dove si andrà a finire? “Mais un chacun fait à cette heure à sa guise: par quoy est à doubter que tout ira mal.”1 La Marche pone a se stesso e al lettore quesiti seri circa la logica di tutte quelle cose solenni: perché il “fruitier” ha tra i suoi compiti anche quello dell’illuminazione, “le mestier de la cire”? La risposta è la seguente: poiché la cera viene succhiata dalle api dai fiori, i quali danno anche i frutti: “pourquoy on a ordonné très bien ceste chose”.2 La spiccata tendenza medioevale a creare un organo per ogni funzione non è che una conseguenza della mentalità che attribuiva sostanza a ogni qualità, considerandola un’idea. Il re d’Inghilterra, tra la sua “magna sergenteria”, aveva un dignitario che aveva il compito di sostenere la testa del re, quando egli attraversava la Manica e soffriva il mal di mare; ricoperta nel 1442 da un certo John Baker, passò in eredità alle sue due figlie.3 Sotto la stessa luce va considerata l’abitudine di dare nomi a tutte le cose, anche a quelle inanimate. E un tratto, seppure sbiadito, dell’antropomorfismo primitivo, è ancora og352
gi l’uso nella vita militare, che sotto certi aspetti esprime un ritorno a un modo di vivere primitivo, di dare un nome ai cannoni. Nel Medioevo quel tratto è molto più forte: come le spade nel romanzo cavalleresco, così anche le bombarde, nelle guerre del XIV e del XV secolo, hanno i loro nomi: “Le Chien d’Orléans, la Gringade, la Bourgeoise, la Dulle Griete”. Ancora oggi alcuni famosi diamanti portano i loro nomi come fossero cimeli. Diversi gioielli di Carlo il Temerario avevano un nome: “le sancy, les trois frères, la hote, la balle de Flandres”.4 Se ai nostri tempi le navi hanno conservato il loro nome, mentre le case e le campane, salvo alcune eccezioni, non più, ciò è dovuto non solo al fatto che la nave cambia di posto e deve poter essere identificata in qualsiasi momento, ma anche perché la nave ha conservato qualcosa di più personale della casa, come è confermato anche dall’uso linguistico inglese di “she”.5 Certo, nel Medioevo, questa concezione personale delle cose inanimate era molto più forte di oggi: allora a ogni cosa si dava un nome, tanto alle segrete delle carceri quanto a ogni casa e a ogni campana. In ogni cosa si cerca “la moralità”, come si diceva nel Medioevo, ossia la lezione che vi è racchiusa, il significato morale, l’aspetto più essenziale. Ogni vicenda storica o letteraria tende a cristallizzarsi in una parabola, in un esempio morale, in una prova; ogni espressione in una sentenza, in un testo, in una massima. Nascono rapporti morali, simili ai sacri rapporti simbolici esistenti tra il Nuovo e l’Antico Testamento, che consentono a ogni caso della vita di rispecchiarsi immediatamente in un modello, un tipo tratto dalla Scrittura, dalla storia o dalla letteratura. Per spingere qualcuno al perdono si elencano casi biblici di perdono. Per mettere in guardia contro il matrimonio si enumerano tutti i matrimoni 353
infelici tramandati dall’antichità. Giovanni senza Paura, per giustificare l’assassinio dell’Orléans, paragona se stesso a Gioab e la sua vittima ad Assalonne, e si ritiene superiore a Gioab, perché il re non aveva proibito espressamente l’omicidio. “Ainssy avoit le bon duc Jehan attrait ce fait à moralité.”6 È, per così dire, un’applicazione ampia e ingenua del concetto di giurisprudenza, che d’altro canto, nella vita giuridica dei nostri giorni, comincia a diventare un residuo di forme di pensiero antiquate. Ogni argomentazione seria si fonda volentieri su un testo, come punto di riferimento e di partenza: le dodici proposizioni pro e contro il rifiuto di obbedienza al papa di Avignone, con le quali viene sostenuta la causa dello scisma al Concilio nazionale di Parigi del 1406, traggono tutte origine da un passo della Bibbia.7 Anche un oratore profano, non meno di un predicatore, sceglie i suoi passi.8 Non c’è esempio più chiaro, a proposito di tutti questi tratti, della famosa arringa con cui maestro Jean Petit cercò di giustificare il duca di Borgogna per l’assassinio di Luigi d’Orléans. Erano passati più di tre mesi dalla sera in cui il fratello del re era stato pugnalato dai sicari che Giovanni senza Paura aveva precedentemente alloggiato in una casa della Rue Vieille du Temple. Dapprima il borgognone aveva ostentato, alle esequie, un grande dolore, poi, quando vide che l’indagine si sarebbe estesa fino al suo palazzo d’Artois, dove teneva nascosti gli assassini, prese da parte suo zio, duca di Berry, per avere un consiglio e gli rivelò di essere stato, su istigazione del diavolo, il mandante dell’omicidio. Dopo di che era fuggito da Parigi nelle Fiandre. A Gand aveva già fatto pronunciare una prima difesa del suo misfatto; tornava quin354
di a Parigi, fidando nell’odio che aveva sempre circondato l’Orléans e nella propria popolarità presso il popolo parigino, che difatti lo accolse ancora una volta con gioia. Ad Amiens il duca si era consultato con due uomini che, al Concilio di Parigi del 1406, si erano distinti come oratori: maestro Jean Petit e Pierre aux Boeufs. Costoro furono incaricati di elaborare l’arringa tenuta da Simon de Saulx a Gand, per esporla a Parigi, davanti ai principi e ai signori, in modo da suscitare grande impressione. Così maestro Jean Petit, teologo, predicatore e poeta, si presentò l’8 marzo 1408 all’Hotel de Saint Pol, a Parigi, davanti a un illustre uditorio, che comprendeva tra l’altro il Delfino, il re di Napoli, i duchi di Berry e di Bretagna. Egli cominciò con opportuna umiltà: lui, pover’uomo, non era né teologo né giurista, “une très grande paour me fiert au cuer, voire si grande, que mon engin et ma mémoire s’en fuit, et ce peu de sens que je cuidoie avoir, m’a jà du tout laissé”.9 Quindi sviluppa il capolavoro di bassezza politica che il suo spirito, con stile rigoroso, aveva costruito sul testo: Radix omnium malorum cupiditas. Il tutto è disposto con maestria, secondo uno schema di distinzioni scolastiche e di testi secondari, illustrato con esempi tratti dalla Scrittura e dalla storia, e acquista un brio diabolico e una tensione romantica in virtù dei particolari coloriti con cui il difensore descrive l’infamia dell’ucciso. Comincia con l’enumerazione dei dodici obblighi, che impegnavano il duca di Borgogna a onorare, amare e vendicare il re di Francia. Poi, prima di iniziare l’argomentazione vera e propria, che si divide in maggiore, minore e conclusione, egli invoca l’aiuto di Dio, della Vergine e di San Giovanni Evangelista. A questo punto introduce il suo testo: Radix omnium malorum cupiditas. Da esso dedu355
ce due conseguenze: l’avidità rende apostati e traditori. Questi delitti di apostasia e di tradimento vengono divisi e suddivisi e quindi dimostrati con tre esempi. Lucifero, Assalonne e Atalia sorgono davanti all’immaginazione dell’uditorio come archetipi del traditore. Poi segue l’elenco di otto verità che giustificano il tirannicidio: chi cospira contro il re merita morte e dannazione; tanto più quanto più è altolocato; ognuno ha il diritto di ucciderlo. “Je prouve ceste vérité par douze raisons en l’honneur des douze apostres”: tre sentenze di dottori, tre di filosofi, tre di giuristi e tre della Scrittura. Così prosegue, finché le otto verità sono al completo: una citazione dal De casibus virorum illustrium del “philosophe moral Boccace” serve a provare che è lecito assalire il tiranno in una imboscata. Dalle otto verità sono ricavati otto “corollari” con un nono supplementare, in cui si allude a tutti i misteriosi avvenimenti nei quali il sospetto e la calunnia avevano attribuito un ruolo macabro all’Orléans. Tutte le vecchie insinuazioni che avevano perseguitato il principe sin da giovane furono rinfocolate: nel 1392 egli avrebbe organizzato quel “bal des ardents” nel quale suo fratello, il giovane re, era sfuggito a malapena alla miseranda morte dei suoi compagni, travestiti da selvaggi, tra le fiamme di una torcia maneggiata con imprudenza. Le conversazioni dell’Orléans, nel convento dei celestini, con il “mago” Philippe de Mézières fornirono materia a ogni sorta di allusioni a progetti di assassinio e di avvelenamento. La sua risaputa predilezione per le arti magiche offrì lo spunto per i racconti dell’orrore più vividi: l’Orléans, una domenica mattina, si sarebbe recato a la Tour Montjay sulla Marna, con un monaco apostata, un cavaliere, uno scudiero e un domestico; lì il monaco avrebbe fatto apparire due diavoli, vestiti di verde scuro e chiamati 356
Heremas ed Estramain, che avrebbero provveduto a una consacrazione infernale di una spada, di un pugnale e di un anello, dopodiché la compagnia sarebbe andata a staccare un impiccato dalla forca di Montfaucon etc. Persino al delirio di un re folle maestro Jean riuscì ad attribuire un significato sinistro. Dopo che il giudizio è stato portato con queste argomentazioni al livello morale generale, e la questione è stata esaminata alla luce di modelli scritti e di sentenze morali, e, in seguito, è stato creato un clima di terrore e raccapriccio, s’inizia la “minore”, che segue passo per passo tutti i termini della “maggiore”, il fiume delle accuse dirette. L’impetuoso odio di parte assale la memoria dell’ucciso con tutta la veemenza di cui era capace quello spirito sfrenato. Jean Petit tenne la parola per quattro ore e, quando ebbe terminato, il suo mandante, il duca di Borgogna, disse: “Je vous avoue”.10 Sulla giustificazione dell’omicidio si stamparono quattro preziosi libretti, rilegati in cuoio pressato, illustrati con miniature e dorature, per il duca e i suoi parenti più stretti. Un esemplare è conservato a Vienna. Lo scritto fu anche messo in vendita.11 L’esigenza di rappresentare ogni caso della vita come un esempio morale e di estrapolare da ogni giudizio una sentenza, per farne qualcosa di sostanziale e di intangibile, ovvero il processo di cristallizzazione del pensiero, trova la sua manifestazione più generale e naturale nel proverbio. Il proverbio ha, nel pensiero medioevale, una precisa funzione. Ne circolano a centinaia ogni giorno, quasi tutti pungenti e calzanti. La saggezza che emana dal proverbio è talvolta spicciola, talvolta benevola e profonda; il tenore del proverbio è 357
spesso ironico, l’accento per lo più bonario e sempre rassegnato. Il proverbio non predica mai l’opposizione, ma sempre la rassegnazione. Con un sorriso o con un sospiro fa trionfare gli egoisti e assolve gli ipocriti. “Les grans poissons mangent les plus petis.” “Les mal vestus assiet on dos ou vent.” “Nul n’est chaste si ne besogne.” Talvolta è un po’ cinico: “L’homme est bon tant qu’il craint sa peau”. “Au besoing on s’aide du diable.” Ma in fondo c’è un’indulgenza che non vuole condannare. “Il n’est si ferré qui ne glice” (nessuno è così ben ferrato da non scivolare mai).12 Al lamento dei moralisti sulla natura peccaminosa e sulla depravazione degli uomini la saggezza popolare contrappone la sua comprensione bonaria. Il proverbio condensa in un’unica immagine la saggezza e la morale di tutti i tempi e di tutte le sfere. Talvolta la tendenza del proverbio è quasi evangelica, talvolta ingenuamente pagana. Un popolo che ricorre spesso ai proverbi lascia i ragionamenti, le motivazioni e le argomentazioni ai teologi e ai filosofi, e risolve ogni vicenda rimandando a un giudizio ben chiaro. Si astiene dal vaneggiare e si mette al riparo dall’oscurità. Il proverbio risolve continuamente i problemi; se il proverbio è adatto la faccenda è sistemata. Per la civiltà la tendenza a rendere sostanziali i pensieri ha vantaggi davvero essenziali. È sorprendente la quantità di proverbi in uso nel tardo Medioevo.13 Nella loro banalità sono così vicini alle idee della letteratura, che i poeti dell’epoca se ne avvalgono frequentemente. Molto in voga, ad esempio, è la poesia le cui strofe terminano con un proverbio. Un anonimo utilizza quella forma in un libello dedicato all’odiato prevosto di Parigi, Hugues Aubriot, in occasione della sua umiliante caduta.14 Poi viene Alain Chartier con la sua Ballade de Fougères,15 358
Jean Régnier con i suoi lamenti sulla prigionia,16 Molinet con diversi brani dei suoi Faictz et Dictz, Coquillart con la sua Complaincte de Eco, Villon con la ballata costruita interamente sui proverbi. Anche Le passe temps d’oysiveté di Robert Gaguin17 ne fa parte; le 171 strofe terminano, salvo alcune eccezioni, con un proverbio calzante. Queste sentenze morali in forma di proverbi (di cui ne ritrovo solo poche nelle raccolte di proverbi a me note) sono davvero opera dei poeti? In tal caso ciò sarebbe un’ulteriore conferma della precisa funzione, nel pensiero medioevale, del proverbio, cioè del giudizio bell’e fatto, stereotipato, comprensibile a tutti, se qui, immediatamente associato a una poesia, lo vediamo nascere dallo spirito di un poeta. Persino la predica non disdegna, accanto ai testi sacri, il proverbio, largamente usato nelle serie discussioni delle assemblee nazionali e dei concili. Gerson, Giovanni di Varennes, Jean Petit, Guillaume Fillastre, Olivier Maillard inseriscono nelle loro prediche e orazioni i proverbi più comuni per dar forza alle loro argomentazioni: “Qui de tout se tait, de tout a paix, Chef bien peigné porte mal bacinet, D’aultrui cuir large courroye, Selon seigneur mesnie duite, De tel juge tel jugement, Qui commun sert, nul ne l’en paye, Qui est tigneux, il ne doit pas oster son chaperon”.18 C’è perfino un legame tra il proverbio e la Imitatio, che d’altro canto, per quel che riguarda la forma, si rifà alle raccolte di sentenze o “rapiaria”, in cui si soleva riunire saggezza di ogni genere e provenienza. Ci sono, nel tardo Medioevo, numerosi scrittori la cui capacità di giudizio non si eleva, in realtà, al di sopra del proverbio, al quale infatti ricorrono in continuazione. Un cronista dell’inizio del XIV secolo, Geffroy de Paris, infarcisce il 359
suo racconto in rima di proverbi che racchiudono la morale dell’accaduto,19 e in ciò è più saggio di Froissart e di Le Jouvencel, le cui sentenze originali somigliano spesso a proverbi strambi: “Enssi aviennent li fait d’armes: ont piert (perd) une fois et l’autre fois gaagn’on”. “Or n’est-il riens dont on ne se tanne.” “On dit, et vray est, que il n’est chose plus certaine que la mort.”20 Simile al proverbio, come forma cristallizzata del pensiero, è il motto, coltivato con una spiccata predilezione nel tardo Medioevo. Non si tratta, come nel proverbio, di una saggezza di portata generale, ma di una esortazione o massima personale, innalzata a livello di simbolo, che, con lettere d’oro, entra a far parte della vita di colui che l’adotta; una massima che, ripetutamente stilizzata, ritorna puntuale su ogni pezzo del vestiario e dell’armatura, e deve ispirare e sostenere lui e gli altri. Il tenore dei motti è per lo più rassegnato, come nel caso dei proverbi, fiducioso, talvolta abbinato a un elemento nascosto che ha lo scopo di renderli misteriosi: “Quand sera ce? Tost ou tard vienne, Va oultre, Autre fois mieulx, Plus dueil que joye”. La stragrande maggioranza si riferisce all’amore: “Aultre naray, Vostre plaisir, Souvienne vous, Plus que toutes”. Sono motti cavallereschi, applicati sulla gualdrappa e sull’armatura. Sugli anelli erano incisi quelli più intimi: “Mon cuer avez, Je le desire, Pour tousjours, Tout pour vous”. Al motto sono legati gli emblemi, che lo illustrano visivamente o ne riflettono liberamente il senso, come il bastone nodoso con “Je l’envie” e il porcospino con “Cominus et eminus” di Luigi d’Orléans, la pialla con “Ic houd” del suo nemico Giovanni senza Paura, la pietra focaia di Filippo il Buono.21 Il motto e l’emblema appartengono alla sfera delle 360
idee araldiche. Il blasone, per l’uomo medioevale, è qualcosa di più di un passatempo genealogico. La figura araldica assume, nel suo significato, un valore molto vicino a quello di un totem.22 I leoni, i gigli, le croci diventano simboli nei quali si esprime con immagini tutto un complesso di orgoglio e ambizione, attaccamento e solidarietà, sentito come una cosa indipendente e indivisibile. L’esigenza di isolare ogni vicenda come una cosa a sé stante, di considerarla un’idea, si manifesta nel Medioevo in una forte tendenza alla casistica. Anche questa deriva da un idealismo di ampia portata. Ogni eventuale quesito deve avere la sua soluzione ideale, che si ottiene non appena si riconosce il giusto rapporto tra il caso contingente e le verità eterne, e quel rapporto si ricava dall’applicazione di regole formali ai fatti. In questo modo non solo si risolvono quesiti di natura morale e giuridica, ma il principio casistico domina anche tutti gli altri campi. Dovunque stile e forme siano essenziali, dove l’elemento ludico di una forma culturale sia in primo piano, trionfa la casistica. Ciò vale in primo luogo per tutto quello che riguarda il cerimoniale e l’etichetta. Qui il principio casistico è perfettamente al suo posto; qui esso, come forma di pensiero, è adeguato ai quesiti posti, e del resto non si tratta che di una serie di casi, determinati da precedenti rispettabili e da regole formali. Lo stesso vale per il torneo e per la caccia. Come abbiamo già detto, anche l’idea dell’amore come bel gioco di società, con forme e con regole piene di stile, crea il bisogno di una casistica dettagliata.23 Infine ogni tipo di casistica si applica agli usi militari. La grande influenza dell’idea cavalleresca sulla concezione della guerra dava anche a questa un elemento ludico. I casi relativi al diritto di preda, al diritto di attacco, alla fede alla paro361
la data facevano parte delle regole del gioco che vigevano anche per il torneo e il divertimento della caccia. Il desiderio di introdurre diritto e regole in azioni violente non proveniva tanto da un senso istintivo del diritto internazionale, quanto da una concezione cavalleresca dell’onore e dello stile di vita. Soltanto una casistica meticolosa e severe regole formali permettevano di armonizzare, in qualche modo, gli usi di guerra con l’onore e lo spirito di corpo cavalleresco. Così troviamo mescolati i rudimenti del diritto internazionale con le regole dell’addestramento alle armi. Geoffroy de Charny, nel 1352, propone una serie di quesiti casistici al re Giovanni II di Francia, in quanto gran maestro dell’Ordine della Stella, da lui fondato: venti riguardano la “jouste”, ventuno il torneo e novantatré la guerra.24 Un quarto di secolo dopo Honoré Bonet, priore di Selonnet in Provenza e dottore in diritto canonico, dedica al giovane Carlo VI il suo Arbre des batailles, un trattato sul diritto di guerra, al quale ancora nel XVI secolo era attribuito valore pratico, come si può vedere dalle numerose edizioni che ha avuto.25 Qui troviamo riuniti alla rinfusa problemi della massima importanza per il diritto internazionale e questioni sciocche che trattano più che altro delle regole del gioco. È lecito muovere guerra, senza necessità, contro gli infedeli? Bonet risponde esplicitamente: no, neanche per convertirli. Può un principe rifiutare a un altro il passaggio sul suo territorio? Il privilegio (tante volte violato) che salva l’aratore e il suo bove dalle violenze della guerra si deve estendere anche all’asino e al garzone?26 Un religioso deve aiutare suo padre o il suo vescovo? Quando si perde in battaglia un’armatura avuta in prestito si è tenuti a restituirla? Si può dar battaglia nei giorni di festa? È meglio dar battaglia a digiuno o dopo il pasto?27 Per tutto ciò il 362
priore consulta passi biblici, il diritto canonico e dei glossari.28 Uno dei punti più importanti negli usi di guerra di quei tempi era tutto quello che concerneva la cattura di prigionieri. Il riscatto per un prigioniero illustre era una delle promesse più allettanti del combattimento, sia per il nobile che per il mercenario. Qui il numero di casi contemplati dalle regole era illimitato. Anche qui diritto internazionale e “point d’honneur” cavalleresco si confondono. È lecito ai francesi, a causa della guerra con l’Inghilterra, far prigionieri i poveri mercanti, contadini e pastori sul territorio inglese e togliere loro i beni? In quali casi è ammessa la fuga dalla prigione? Qual è il valore di un salvacondotto?29 Nel romanzo biografico Le Jouvencel si trattano questi casi pratici. Si porta davanti al comandante la disputa di due capitani su un prigioniero. “Sono stato io,” dice l’uno “ad afferrarlo per primo per il braccio e la mano destra e a strappargli il guanto.” “Ma a me,” dice l’altro, “egli ha dato per prima la mano destra e la sua parola.” Ambedue i fatti davano diritto al prezioso possesso, ma il secondo è riconosciuto superiore. Di chi è il prigioniero che fugge e viene ripreso? Se il caso avviene in zona di guerra allora appartiene a quello che lo ha ripreso, altrimenti all’altro. Un prigioniero che ha dato la sua parola può fuggire se chi lo ha preso lo incatena? O se ci si è dimenticati di chiedergli la parola?30 La tendenza medioevale a sopravvalutare il valore autonomo di una cosa o di una vicenda ha un’altra conseguenza. Conosciamo Le Testament di François Villon, il grande poema satirico nel quale egli lascia tutti i suoi averi ai suoi amici e nemici. Di tali testamenti poetici ce ne sono altri, come quello del mulo di Barbeau di Henri Baude.31 Si tratta di un 363
genere letterario abituale che, tuttavia, può essere compreso solamente tenendo presente che nel Medioevo la gente aveva effettivamente l’abitudine di disporre separatamente e minuziosamente per testamento anche degli averi più insignificanti. Una povera donna lascia l’abito festivo e il cappuccio alla sua parrocchia, il letto al figlioccio, una pelliccia all’infermiera, la gonna di tutti i giorni a una povera e quattro lire tornesi, che costituivano il suo patrimonio, insieme a un altro abito e a un cappuccio ai frati minori.32 Non è anche questa una manifestazione molto banale della stessa corrente di pensiero che faceva di ogni caso di virtù un esempio eterno e di ogni consuetudine un’istituzione divina? È quell’attaccamento dello spirito alla particolarità e al valore della singola cosa che domina morbosamente il collezionista e l’avaro. Tutti questi aspetti possono essere ricondotti al concetto di formalismo. L’idea innata della realtà trascendentale delle cose implica che ogni rappresentazione sia ben definita e circoscritta entro limiti, isolata in una forma plastica, ed è questa forma a dominare. I peccati mortali vanno distinti da quelli veniali secondo regole fisse. Il senso giuridico è saldo più che mai, non conosce dubbi: l’atto giudica l’uomo, diceva una vecchia sentenza. Nel giudicare un atto è sempre essenziale il suo contenuto formale. Un tempo, nel diritto primitivo degli antichi germani, quel formalismo era stato così accentuato che la giustizia non tenne in alcun conto la premeditazione: l’atto era l’atto e, come tale, implicava la punizione, mentre un atto non compiuto, un tentato misfatto, rimaneva impunito.33 A lungo resiste la regola che uno sbaglio involontario nel formulare un giuramento significa la perdita del proprio diritto: il giuramento è il giuramento ed è sacro. 364
L’interesse economico ha posto fine a questo formalismo: il mercante straniero che non era padrone della lingua di un paese non poteva essere sottoposto a tale regola, che avrebbe ostacolato il commercio, e così nei diritti municipali il Vare, il pericolo di perdere il proprio diritto in un simile modo, viene abolito, dapprima a titolo di privilegio. Le tracce di un eccessivo formalismo nei processi sono ancora molto evidenti nel tardo Medioevo. La particolare sensibilità per le forme esteriori dell’onore è un fenomeno basato sulla mentalità formalistica. A Middelburg, nel 1445, un certo Jan van Domburg, dopo aver commesso un omicidio, si era rifugiato in una chiesa per avvalersi del diritto d’asilo. Fu bloccato nel suo rifugio, secondo la consuetudine. Allora più volte sua sorella, una monaca, venne a sollecitarlo a farsi uccidere combattendo piuttosto che disonorare la famiglia cadendo tra le mani del boia. E quando ciò finalmente accade, la donna acquista il corpo di Domburg per seppellirlo degnamente.34 Durante un torneo la gualdrappa del cavallo di un nobile è ornata del suo stemma. Ciò è molto sconveniente, trova Olivier de la Marche, perché se il cavallo, “une beste irraisonnable”, dovesse inciampare trascinando lo stemma nella sabbia, questo fatto comprometterebbe l’intera famiglia.35 Poco dopo una visita del duca di Borgogna, a Chastel en Porcien un gentiluomo impazzito tenta il suicidio. Lo sconcerto è indescrivibile, “et n’en savoit-on comment porter la honte après si grant joye démenée”. Sebbene si sapesse che si era trattato di pazzia l’infelice, una volta guarito, è esiliato dal castello, “et ehonty à tousjours”.36 Un esempio efficace del modo con cui si soddisfaceva il bisogno di recuperare l’onore oltraggiato è fornito dal se365
guente caso. A Parigi, nel 1478, un certo Laurent Guernier fu impiccato per sbaglio. La pena infatti gli era stata condonata ma il condono non gli era stato comunicato in tempo. Il fatto si venne a sapere dopo un anno e allora, su richiesta del fratello, il cadavere fu sepolto con tutti gli onori. Davanti alla bara c’erano quattro banditori comunali con le loro raganelle e lo stemma del morto sul petto; intorno alla bara quattro ceri e otto torcieri vestiti a lutto con lo stesso stemma. In questo modo attraversarono Parigi dalla Porta Saint Denis alla Porta Saint Antoine, da dove cominciò il viaggio, fino al luogo di nascita dell’uomo, Provins. Uno dei banditori gridava continuamente: “Bonnes gens, dictes voz paternostres pour l’âme de feu Laurent Guernier, en son vivant demourant à Provins, qu’on a nouvellement trouvé mort soubz ung chesne”.37 La grande diffusione del principio della vendetta di sangue, che prosperò rigogliosa proprio in contrade così fiorenti e civili come la Francia del Nord e i Paesi Bassi meridionali,38 è altresì legata a questo atteggiamento mentale formalistico. Pure quella sete di vendetta ha qualcosa di formale. Spesse volte non è una collera tremenda o un odio implacabile che spinge al gesto, ma il dovere di riparare l’onore della famiglia offesa spargendo del sangue: talvolta si arriva alla decisione di non uccidere qualcuno, che così viene solo ferito alle gambe, alle braccia e al volto; si prendono delle precauzioni per non assumersi la responsabilità dello stato di peccato in cui morirebbe la vittima: du Clercq racconta il caso di alcuni individui che, andando ad ammazzare la loro cognata, portano con sé, a bella posta, un prete.39 Il carattere formale dell’espiazione e della vendetta implica poi la riparazione del torto mediante pene o penitenze 366
simboliche. In tutte le grandi riconciliazioni politiche del XV secolo si attribuisce grande importanza a quell’elemento simbolico: si demoliscono case che ricordano il misfatto, si erigono croci commemorative, si murano porte, per tacere, poi, delle cerimonie espiatorie pubbliche, delle messe celebrate per i defunti e della fondazione di cappelle. Così si fece in occasione della rivendicazione degli Orléans nei confronti di Giovanni senza Paura, della pace di Arras del 1435, dell’espiazione della ribelle Bruges nel 1437, e, nel 1453, dell’espiazione più severa della sovversiva Gand, dove il lungo corteo, tutto vestito di nero, senza cinture, a capo scoperto e a piedi nudi, con in testa i principali colpevoli in camicia, si mette in marcia sotto una pioggia dirotta per andare, tutti insieme, a invocare il perdono del duca.40 Nel 1469, dopo la riconciliazione con il fratello, Luigi XI per prima cosa chiede l’anello con cui il vescovo di Lisieux ha unito il principe alla Normandia col titolo di duca, e lo fa rompere su un’incudine a Rouen, alla presenza dei notabili.41 Questo formalismo generalizzato è anche alla base della fede nell’efficacia della lingua parlata, che si manifesta in tutta la sua pienezza nella cultura primitiva, e si mantiene ancora nel tardo Medioevo nelle benedizioni, nelle formule magiche e nelle arringhe. Una richiesta solenne ha ancora qualcosa di maestoso, qualcosa di simile al carattere vincolante del desiderio fiabesco. Quando tutte le suppliche per ottenere la grazia di un condannato non riescono a smuovere Filippo il Buono, si affida la richiesta a Isabella di Borbone, la sua adorata nuora, nella speranza che egli non possa rifiutargliela, perché lei dice di non avergli finora mai domandato qualcosa di importante.42 E lo scopo viene raggiunto. Sotto la stessa luce va visto lo stupore di Gerson, quando 367
vede che i costumi, nonostante tutte le prediche, non sono migliorati: non so che dire, si predica in continuazione, ma sempre invano.43 Direttamente dal formalismo scaturiscono quelle caratteristiche che danno così spesso allo spirito del tardo Medioevo un carattere vuoto e superficiale. Innanzitutto l’incredibile semplicismo delle sue motivazioni. Dato l’ordine gerarchico proprio del sistema di concetti, considerata la plastica autonomia di ogni idea e l’esigenza di spiegare ogni rapporto con verità di valore generale, la mente funziona come una centrale telefonica: si possono realizzare tutti i tipi di collegamento ma solamente di due numeri per volta. Di ogni situazione, di ogni connessione si vedono solo alcuni aspetti, per di più esagerati e coloriti; l’immagine di un avvenimento ha sempre le poche, profonde linee di una xilografia primitiva. Un solo motivo è sufficiente come spiegazione, ed è preferibilmente il più generale, il più immediato o il più grossolano. Per i borgognoni non può esserci che un solo motivo per l’assassinio del duca d’Orléans: il re ha pregato il duca di Borgogna di vendicare l’adulterio della regina con l’Orléans.44 Nel giudizio dei contemporanei la grande rivolta di Gand è stata causata da una semplice questione formale relativa a un formulario epistolare.45 Lo spirito medioevale è portato a generalizzare. Olivier de la Marche, da un solo caso di imparzialità da parte inglese, trae la conclusione che gli inglesi di quei tempi erano virtuosi e per questa ragione avevano potuto conquistare la Francia.46 La palese esagerazione che scaturisce immediatamente da questo modo di vedere i fatti così variopinti e autonomi, è ulteriormente rafforzata dal fatto che per ogni caso è subito pronto un parallelo tratto dalla Storia Sacra, che innalza il 368
caso in una sfera superiore. Per esempio, quando nel 1404 una processione di studenti parigini viene disturbata, due studenti feriti e la veste di un altro strappata, per l’indignato cancelliere dell’Università il suono di queste delicate parole, “les enfants, le jolis escoliers comme agneaux innocens” è sufficiente a paragonare il caso alla strage degli innocenti di Betlemme!47 Quando per ogni caso si accetta così facilmente una spiegazione alla quale poi si presta credito così saldamente, allora impera una straordinaria leggerezza nel formulare falsi giudizi. Se ammettiamo, con Nietzsche, che “der Verzicht auf falsche Urteile das Leben unmöglich machen würde”,48 allora proprio a essi può essere attribuita, in parte, quella vita attiva che ci colpisce nelle epoche passate. In ogni epoca che richieda una tensione straordinaria di tutte le energie il falso giudizio è ancor più chiamato a sostenere i nervi. Gli uomini del Medioevo, in realtà, vivevano continuamente in una tale crisi spirituale; non potevano fare a meno neanche un istante dei falsi giudizi, anche i più grossolani, che raggiungevano, spinti dalla faziosità, un grado insuperabile di cattiveria. L’intero atteggiamento dei borgognoni a proposito della loro grande faida con gli Orléans ne è una testimonianza. La sproporzione delle cifre dei caduti tra i vincitori tocca il ridicolo: Chastellain, nella battaglia di Gavre, fa cadere cinque nobili del principe contro i venti o trentamila ribelli di Gand.49 Uno dei tratti moderni del Commines è l’astenersi da queste esagerazioni.50 Come va interpretata, infine, quella curiosa leggerezza, che si rivela di continuo nella superficialità, inesattezza e credulità della gente del basso Medioevo? Si ha l’impressione, spesso, che non sentisse minimamente il bisogno di veri 369
pensieri, che una fantasmagoria di vane illusioni fosse nutrimento sufficiente per il suo spirito: descrizioni superficiali di fatti esteriori, questo contraddistingue scrittori come Froissart e Monstrelet. Come era possibile appassionarsi agli interminabili e incerti combattimenti e agli assedi sui quali Froissart sprecò il suo ingegno? Accanto a impetuosi uomini di partito ci sono, tra i cronisti, alcuni di cui non si riescono a stabilire le simpatie politiche, come Froissart e Pierre de Fenin, tanto il loro spirito si esaurisce nel racconto degli avvenimenti esterni, senza distinguere fra ciò che è importante e ciò che è insignificante. Monstrelet ha assistito al colloquio tra il duca di Borgogna e Giovanna d’Arco prigioniera, ma non ricorda quello che è stato detto.51 L’imprecisione, persino riguardo ad avvenimenti importanti in cui loro stessi erano coinvolti, non ha limiti. Thomas Basin, che diresse il processo di riabilitazione di Giovanna d’Arco, nella sua cronaca la fa nascere a Vaucouleurs, la fa portare a Tours dallo stesso Baudricourt, che lui chiama signore della città invece di capitano, e si sbaglia di tre mesi a proposito del suo primo incontro con il Delfino.52 Olivier de la Marche, il fior fiore dei cortigiani, si sbaglia continuamente sulle genealogie e sulle parentele della famiglia ducale, e arriva a porre il matrimonio di Carlo il Temerario con Margherita di York, di cui nel 1468 aveva descritto le feste nuziali alle quali aveva assistito, dopo l’assedio di Neuss, avvenuto nel 1475.53 Persino Commines non sfugge a simili confusioni: aggiunge più volte due anni alle date e racconta per tre volte la morte di Adolf van Gelre.54 La mancanza di senso critico e la credulità sono così evidenti in ogni pagina della letteratura medioevale che è superfluo citare gli esempi. Naturalmente ci sono grandi diffe370
renze a seconda del grado di cultura della persona. Tra le popolazioni borgognone regnava ancora, nei confronti di Carlo il Temerario, quella singolare forma di credulità barbarica che impediva di credere alla morte di un così grande sovrano, cosicché dieci anni dopo la battaglia di Nancy ancora si contraevano prestiti da rimborsare al ritorno del duca. Basin la considera pura idiozia e Molinet fa altrettanto; egli ne parla nel suo Merveilles du monde: J’ay veu chose incongneue: Ung mort ressusciter, Et sur sa revenue Par milliers achapter. L’un dit: il est en vie, L’autre: ce n’est que vent. Tous bons cueurs sans envie Le regrettent souvent.55 Però, sotto l’influenza della forte passione e della pronta immaginazione, tutti sono portati a credere facilmente nella realtà delle cose immaginate. Con un’attitudine mentale in cui le immagini autonome sono così accentuate, la sola presenza di un’idea nello spirito fa presupporre la sua credibilità. Non appena un’immagine si aggira nel cervello con un nome e una forma viene, per così dire, inglobata nel sistema delle figure morali e religiose e partecipa spontaneamente della loro credibilità. Ora, mentre da un lato i concetti, per via della loro precisa definizione, del loro ordinamento gerarchico e del loro ricorrente carattere antropomorfo sono particolarmente fissi e immobili, dall’altro c’è il pericolo che proprio in quella vivida forma del concetto si smarrisca il contenuto. Eustache 371
Deschamps dedica un lungo poema didattico, allegorico e satirico, Le miroir de mariage,56 agli inconvenienti del matrimonio; come personaggio principale compare “Franc Vouloir”, incoraggiato a sposarsi da “Folie” e “Désir”, dissuaso da “Repertoire de Science”. Che cosa significa adesso per il poeta l’astrazione Franc Vouloir? In prima istanza l’allegra libertà dello scapolo, ma in altri passi il libero arbitrio in senso filosofico. La rappresentazione del poeta è talmente assorbita dalla personificazione di Franc Vouloir, da non avvertire il bisogno di definirne chiaramente il concetto, lasciandolo oscillare tra quegli estremi. Lo stesso poema spiega anche sotto un altro aspetto come, in quella elaborata raffigurazione, il pensiero continuasse a tentennare o si volatilizzasse. Il tono del poema è quello della nota diffamazione della donna di stampo piccolo borghese: lo scherno per la sua debolezza, la diffidenza verso il suo onore, che hanno fatto divertire per tutto il Medioevo. Per la nostra sensibilità c’è una dissonanza evidente tra questo tono e il pio elogio del matrimonio spirituale e della vita contemplativa che “Repertoire de Science” espone al suo amico “Franc Vouloir” nell’ultima parte del poema.57 Altrettanto strano, per noi, è che il poeta faccia dimostrare talvolta a “Folie” e “Désir” alte verità, che ci aspetteremmo dall’avversario.58 Come tanto spesso davanti a manifestazioni medioevali, sorge qui la domanda: gli elogi del poeta erano seri? Ci si potrebbe anche chiedere: Jean Petit e i suoi protettori borgognoni hanno creduto in tutti quegli orrori con cui hanno infangato la memoria dell’Orléans? Oppure: i principi e i nobili prendevano sul serio tutte le bizzarre fantasie e rap372
presentazioni con cui adornavano i loro piani militari e i loro voti cavallereschi? È estremamente difficile, riguardo al pensiero medioevale, fare una chiara distinzione fra la serietà e il gioco, tra la convinzione sincera e quell’atteggiamento del bambino che gioca, presente anche nella cultura primitiva59 e che non viene espresso compiutamente né dalla finzione né dall’affettazione. Una fusione di serietà e gioco caratterizza i costumi in tutti i campi. Soprattutto in guerra si introduce volentieri un elemento comico: gli assediati che prendono in giro il nemico e spesso devono pagarne il fio col sangue. Quelli di Meaux, per deridere Enrico V d’Inghilterra, portano un asino sul muro; quelli di Condé dichiarano di non potersi ancora arrendere, essendo occupati a friggere le frittelle di Pasqua; a Montereau i cittadini, in piedi sulle mura, spolverano i loro cappucci dopo che il cannone degli assedianti ha sparato.60 È lo stesso ordine di idee che fa disporre il campo di Carlo il Temerario davanti a Neuss come una grande fiera: i nobili fanno alzare le loro tende “par plaisance” a forma di castelli, con gallerie e giardini; c’è ogni sorta di divertimento.61 C’è un ambito in cui quell’intromissione della beffa nelle cose serie appare particolarmente bislacca: la tetra sfera della credenza nei diavoli e nelle streghe. Anche se questa superstizione era radicata direttamente in una grande, profonda angoscia e da essa alimentata di continuo, tuttavia anche qui l’ingenua immaginazione rendeva le figure così puerilmente variopinte e così familiari, da far perdere loro talvolta l’aspetto pauroso. Non è solo in letteratura che il diavolo compare come una figura comica; anche nella terribile serietà dei processi per stregoneria la compagnia di Satana entra 373
in scena alla maniera di Hieronymus Bosch, e l’infernale odore di zolfo si confonde con le loffe della farsa. I diavoli che portano lo scompiglio in un convento di monache, guidati dai loro capitani Tahu e Gorgias, portano nomi “assez consonnans aux noms de mondains habits, instruments et jeux du temps présent, comme Pantoufle, Courtaulx et Mornifle”.62 Il XV secolo è stato per eccellenza il secolo della persecuzione delle streghe. Nell’epoca in cui siamo soliti far terminare il Medioevo e che salutiamo con gioia per il fiorente Umanesimo, la sistematica elaborazione della credenza nelle streghe, atroce aberrazione del pensiero medioevale, viene suggellata dal Malleus maleficarum e dalla bolla Summis desiderantes (1487 e 1484). Né l’Umanesimo né la Riforma possono impedire quella follia: l’umanista Jean Bodin, ancora nella seconda metà del XVI secolo, con la sua Démonomanie, non alimenta forse con forza e dotte argomentazioni la mania di persecuzione? I nuovi tempi e il nuovo sapere non hanno respinto l’orrore della persecuzione delle streghe. Viceversa concezioni più indulgenti sulla stregoneria, come quelle proclamate alla fine del XVI secolo dal medico della Gheldria Johannes Wier, sono già largamente diffuse nel XV. L’atteggiamento dello spirito tardomedioevale nei confronti della superstizione, in particolare delle streghe e della magia, è molto vario e poco stabile. Quell’epoca non è così disperatamente abbandonata agli spettri e alla follia, come la generale credulità e la mancanza di senso critico farebbero supporre. Vi sono numerose manifestazioni di dubbio e di razionalità. Nascono sempre nuovi focolai di demonomania, dai quali il male si diffonde, e resiste talvolta a lungo. C’erano paesi di maghi e streghe per antonomasia, per lo più re374
gioni di montagna: la Savoia, la Svizzera, la Lorena, la Scozia. Però anche altrove si segnalano delle epidemie. Intorno al 1400 la stessa corte francese era un focolaio di magia. Un predicatore ammonì la nobiltà di corte a non mutare l’espressione “vieilles sorcières” in “nobles sorciers”.63 Aleggiava, specialmente intorno a Luigi d’Orléans, un’atmosfera di negromanzia; le accuse e le insinuazioni di Jean Petit non erano, sotto questo aspetto, del tutto infondate. L’amico e consigliere dell’Orléans, il vecchio Philippe de Mézières, che tra i borgognoni era ritenuto il misterioso istigatore di tutti i suoi misfatti, racconta di aver imparato, a suo tempo, l’arte magica da uno spagnolo, e di aver assai faticato a dimenticare poi quella nefasta disciplina. Dieci o dodici anni dopo la sua partenza dalla Spagna, “à sa volenté ne povoit pas bien extirper de son cuer les dessusdits signes et l’effect d’iceulx contre Dieu”, finché finalmente, confessandosi e resistendo, fu liberato mercé la bontà di Dio “de ceste grant folie, qui est à l’âme crestienne anemie”.64 I maestri dell’arte magica si preferiva cercarli in zone selvagge: una persona che vorrebbe parlare con il diavolo e non riesce a trovare nessuno che gli insegni quell’arte viene indirizzata alla “Ecosse la sauvage”.65 L’Orléans aveva i suoi maghi e negromanti. Fece ardere uno di loro, non contento della sua arte.66 Spinto a chiedere il parere dei teologi sulla liceità delle sue pratiche superstiziose rispose: “Perché dovrei interrogarli? So già che me lo sconsiglierebbero, e tuttavia sono fermamente deciso ad agire e a credere in questo modo e non smetterò”.67 Gerson scorge un legame tra l’improvvisa morte dell’Orléans e quella sua peccaminosa ostinazione; disapprova anche i tentativi
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di guarire il re divenuto pazzo con la magia, il cui fallimento era già stato scontato da più di uno con il rogo.68 Una pratica occulta, in particolare, viene ripetutamente menzionata nelle corti dei principi: quella che era chiamata in latino “invultare” e in francese “envoûtement”, ovvero il sortilegio, usato in tutto il mondo per rovinare un nemico, sciogliendo o trafiggendo una statuetta di cera o un’altra figura, prima maledetta, in suo nome. Filippo VI di Francia avrebbe gettato sul fuoco una simile statuetta, che gli era capitata tra le mani, con queste parole: “Vedremo se è più potente il diavolo che vuole la mia perdizione o Dio che vuole la mia salvezza”.69 Anche i duchi di Borgogna vengono perseguitati così. “N’ay-je devers moy,” si lamenta amaramente il conte di Charolais, “les bouts de cire baptisés dyaboliquement et pleins d’abominables mystères contre moy et autres?”70 Filippo il Buono, che rispetto a suo nipote il re, incarna sotto così tanti aspetti la concezione più conservatrice, con il suo senso della cavalleria e del fasto, con i suoi progetti di crociate, con la sua protezione per le forme letterarie più antiquate, sembra aver avuto, in fatto di superstizione, opinioni più illuminate di quelle della corte francese, in particolare di quelle di Luigi XI. Filippo non dà importanza al giorno infausto degli Innocenti, che ricorre ogni settimana; non va in cerca di astrologi e indovini per farsi predire il futuro, “car en toutes choses se monstra homme de léalle entière foy envers Dieu, sans enquérir riens de ses secrets”, dice Chastellain, che condivide quel punto di vista.71 È il duca che, nel 1461, pone fine con il suo intervento alle orribili persecuzioni di streghe e fattucchieri ad Arras, una delle peggiori epidemie di caccia alle streghe. L’incredibile esaltazione che accompagnava le campagne 376
contro le streghe derivava in parte dal fatto che si confondevano i concetti di magia e di eresia. In generale nel concetto di eresia si esprimeva tutto il ribrezzo, l’angoscia e l’odio verso i misfatti inauditi, anche fuori dell’ambito vero e proprio della fede. Monstrelet, per esempio, chiama i delitti sadici di Gilles de Rais semplicemente “hérésie”.72 La parola comunemente usata per magia, nella Francia del XV secolo, era “vauderie”, che aveva perso il suo legame originario con i valdesi. Nella grande “Vauderie d’Arras” si può scorgere sia la tremenda, morbosa mania che avrebbe generato il Malleus maleficarum, sia il dubbio, diffuso tanto tra il popolo quanto tra le autorità, sulla verità dei misfatti scoperti. Uno degli inquisitori afferma che un terzo della Cristianità è contaminato dalla vauderie. La sua fiducia in Dio lo conduce all’agghiacciante conclusione che chiunque sia accusato di magia dev’essere colpevole. Dio non permetterebbe che qualcuno che non è mago ne venga accusato. “Et quand on arguoit contre lui, fuissent clercqs ou aultres, disoit qu’on debvroit prendre iceulx comme suspects d’estre vauldois.”73 Chi sostiene che alcuni fenomeni sono prodotti dell’immaginazione è a sua volta sospettato. Anzi, questo inquisitore credeva di poter giudicare a prima vista se qualcuno fosse coinvolto o meno nella vauderie. Quest’uomo in seguito impazzì, ma intanto streghe e fattucchiere erano finite sul rogo. La città di Arras, per via delle persecuzioni, si compromise in tal modo che nessuno voleva più ospitare i suoi mercanti o far loro credito, per timore di poter essere accusato di magia e di veder confiscati i propri beni. Nondimeno, dice Jacques du Clercq, non uno su mille, fuori di Arras, credeva che tutto ciò fosse vero: “oncques on n’avoit veu es marches de par decha tels cas advenu”.74 Quando le vittime, du377
rante il supplizio, sono costrette a ritrattare i loro delitti, lo stesso popolo di Arras è colto dal dubbio. Una poesia piena di odio per i persecutori li accusa di aver montato tutto ciò per avidità; lo stesso vescovo la definisce una macchinazione, “une chose controuvée par aulcunes mauvaises personnes”.75 Il duca di Borgogna chiede il parere della facoltà di Lovanio, che, sentita la maggioranza, dichiara che la vauderie non esiste e che si tratta solo di fantasie. Allora Filippo manda il suo re d’armi Toison d’or in città. Da quel momento non viene fatta nessun’altra vittima, e quelli che sono ancora sotto accusa vengono trattati con più clemenza. Finalmente vengono annullati tutti i processi contro le streghe di Arras, e la città festeggia il fatto con un’allegra festa e rappresentazioni teatrali allegoriche e edificanti.76 La stessa credenza nelle streghe, nelle loro cavalcate nel cielo e nelle orge sabbatiche, non è che un parto dell’immaginazione; già nel xv secolo questo era il punto di vista condiviso da diverse persone. Con ciò, però, ancora non si cancella il ruolo del diavolo, perché è lui che genera la fatale illusione; è un errore, ma viene dal diavolo. Questo è ancora il punto di vista di Johannes Wier nel XVI secolo. In Martin Lefranc, prevosto della chiesa di Losanna, autore del grande poema Le Champion des Dames, che dedicò nel 1440 a Filippo il Buono, troviamo la seguente, illuminata rappresentazione della credenza nelle streghe. Il n’est vieille tant estou(r)dye, Qui fist de ces choses la mendre, Mais pour la faire ou ardre ou pendre, L’ennemy de nature humaine, Qui trop de faulx engins scet tendre, 378
Les sens faussement lui demaine. Il n’est ne baston ne bastonne Sur quoy puist personne voler, Mais quant le diable leur estonne La teste, elles cuident aller En quelque place pour galer Et accomplir leur volonté. De Romme on les orra parler, Et sy n’y auront jà esté. … Les dyables sont tous en abisme, – Dist Franc-Vouloir – enchaienniez Et n’auront turquoise ni lime Dont soient jà desprisonez. Comment dont aux cristiennez Viennent ilz faire tant de ruzes Et tant de cas désordonnez? Entendre ne sçay tes babuzes. E altrove nello stesso poema: Je ne croiray tant que je vive Que femme corporellement Voit par l’air comme merle ou grive – Dit le Champion prestement. – Saint Augustin dit plainement C’est illusion et fantosme; Et ne le croient aultrement Gregoire, Ambroise ne Jherosme. 379
Quant la pourelle est en sa couche, Pour y dormir et reposer, L’ennemi qui point ne se couche, Se vient encoste elle poser. Lors illusions composer Lui scet sy tres soubtillement, Qu’elle croit faire ou proposer Ce qu’elle songe seulement. Force la vielle songera Que sur un chat ou sur un chien A l’assemblée s’en ira; Mais certes il n’en sera rien: Et sy n’est baston ne mesrien Qui le peut ung pas enlever.77 … Anche Froissart ritiene un “erreur” il caso del gentiluomo guascone con il suo genio Horton, che egli descrive così magistralmente.78 Gerson ha la tendenza a fare un passo avanti nel giudicare le illusioni diaboliche e a cercare una spiegazione naturale per ogni sorta di fenomeno superstizioso. Molti di essi, dice, provengono semplicemente dall’immaginazione degli uomini e da allucinazioni malinconiche, che consistono, in migliaia di casi, in qualche guasto della facoltà immaginativa, per esempio in una lesione cerebrale. Una simile opinione, professata anche dal cardinale Nicola da Cusa,79 sembra abbastanza illuminata, così come quella che nella superstizione scorge un importante contributo di retaggi pagani e di invenzioni poetiche, ma sebbene Gerson ammetta che molte ipotetiche diavolerie siano da attribuire a cause 380
naturali, alla fine ne concede l’onore al diavolo: quelle lesioni cerebrali, a loro volta, derivano da illusioni diaboliche.80 Al di fuori della terribile caccia alle streghe, la Chiesa combatteva la superstizione con mezzi proficui e adeguati. Il predicatore fra Riccardo si fa portare, per bruciarle, le “madagoires” (mandragole), “que maintes sotes gens gardoient en lieux repos, et avoient si grant foy en celle ordure, que pour vray ilz creoient fermement que tant comme ilz l’avoient, mais qu’il fust bien nettement en beaux drapeaulx de soie ou de lin enveloppé, que jamais jour de leur vie ne seroient pouvres”.81 I borghesi che si sono fatti leggere la mano da una banda di zingari vengono scomunicati, e si tiene una processione per scongiurare la catastrofe che potrebbe scaturire da quella empietà.82 Un trattato di Dionigi il Certosino mostra chiaramente dov’è la linea di demarcazione tra fede e superstizione, su quale fondamento la dottrina della Chiesa rigettava in parte e in parte cercava di purificare le idee mediante un vero contenuto religioso. Amuleti, convegni, benedizioni etc., dice Dionigi, non hanno di per sé il potere di produrre un effetto. In questo si distinguono dalle parole sacramentali, che, se pronunciate con un giusto intento, posseggono un’indubbia efficacia, poiché Dio, per così dire, vi infonde la sua potenza. Le benedizioni però devono essere considerate semplicemente umili suppliche, vanno pronunciate con parole pie e appropriate e vanno fondate solamente sulla speranza in Dio. Se, di solito, sortiscono un effetto, ciò è dovuto al fatto che, se eseguite correttamente, Dio le rende efficaci; ma se, sebbene eseguite malamente, per esempio non facendo il segno della croce diritto, sortiscono ugualmente effetto, ciò è opera del diavolo. Le opere del diavolo non sono 381
miracoli, perché i diavoli conoscono le forze segrete della natura; l’effetto dunque è naturale, così come il comportamento di uccelli o di altri animali può assumere, unicamente per cause naturali, il significato di un presagio. Dionigi riconosce che la consuetudine popolare attribuisce chiaramente a tutte quelle benedizioni, amuleti etc. un valore proprio che egli nega, ritenendo che il clero farebbe meglio a proibire tutte quelle pratiche.83 In generale si può riassumere l’atteggiamento nei confronti di quanto sembrasse soprannaturale come un tentennamento tra una spiegazione razionale e naturale e un’accettazione spontanea e pia e dei sospetti di stratagemmi diabolici. Il detto, confermato dall’autorità di Agostino e Tommaso d’Aquino: “omnia quae visibiliter fiunt in hoc mundo, possunt fieri per daemones”, tutto ciò che accade in modo visibile in questo mondo può essere causato dai diavoli, lasciava il credente di buona volontà in una grande incertezza, e non furono rari i casi in cui una povera isterica portò scompiglio nella devozione di un’intera città, per essere alla fine smascherata.84
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18. L’arte nella vita
Conosciamo la cultura franco-borgognona del tardo Medioevo soprattutto grazie alle sue arti figurative, e in particolar modo alla sua pittura. I fratelli Van Eyck, Rogier van der Weyden e Memlinc dominano, insieme a Sluter, lo scultore, il quadro che abbiamo di quell’epoca. Non è stato sempre così. Circa cento anni fa, quando si scriveva ancora Hemlinc invece di Memlinc, il profano colto conosceva quei tempi in primo luogo mediante la storia, a dire il vero di regola non attraverso Monstrelet e Chastellain stessi, ma attraverso l’Histoire des ducs de Bourgogne del De Barante, che si basava su di loro. E non sarà stato forse, accanto e meglio di De Barante, soprattutto Notre-Dame de Paris di Victor Hugo a rappresentare per i più quell’epoca? Il quadro che emerge è violento e oscuro. Negli stessi cronisti e nell’interpretazione del loro materiale da parte del romanticismo ottocentesco si rivela soprattutto l’elemento tetro e orribile del tardo Medioevo: la crudeltà sanguinaria, la passione e l’avidità, la superbia tronfia, la sete di vendetta e la miseria cupa. Le note più chiare sono aggiunte dalla vanità variopinta e ampollosa delle celebri feste di corte, con il loro scintillio di trite allegorie e insopportabile lusso. 383
E oggi? Oggi per noi su quei tempi si irradiano l’alta e dignitosa serietà e la profonda pace di Van Eyck e Memlinc; quel mondo di cinque secoli fa ci sembra pervaso da un fulgore di semplice letizia, da un tesoro di intimità. L’immagine che ne abbiamo da feroce e buia è diventata pacifica e serena. Perché tutto ciò che conosciamo, oltre alle arti figurative, delle altre manifestazioni di quell’epoca è espressione di bellezza e di tranquilla saggezza: la musica di Dufay e dei suoi allievi, la parola di Ruusbroec e Tommaso da Kempis. Perfino laddove ancora risuonano la crudeltà e la miseria dei tempi, nella storia di Giovanna d’Arco e nella poesia di Villon, quelle figure emanano solamente edificazione e tenerezza. A cosa è dovuta quella profonda differenza tra l’immagine tramandata dall’arte e quella tramandata dalla storia e dalla letteratura? È forse caratteristica peculiare di quell’epoca una grande sproporzione tra i diversi campi e forme d’espressione? L’ambiente in cui germogliò l’arte pura e intima dei pittori era forse diverso e migliore di quello dei principi, dei nobili e dei letterati? Per caso appartengono, insieme a Ruusbroec, ai devoti di Windesheim e alla canzone popolare, a un pacifico limbo ai margini di quell’inferno multiforme? Oppure è un fenomeno normale, nel senso che le arti figurative lasciano sempre, di un’epoca, un’immagine più luminosa rispetto alla parola dei poeti e degli storici? A quest’ultima domanda si può rispondere senz’altro in modo affermativo. Infatti l’immagine che abbiamo di tutte le civiltà del passato è diventata più serena da quando ci siamo abituati a guardare di più e leggere di meno, rendendo la nostra sensibilità storica sempre più visiva. Perché le arti figurative, dalle quali attingiamo soprattutto la visione del 384
passato, non si lamentano. In esse svanisce prontamente l’amarezza delle sofferenze del tempo che le ha prodotte. Ma il lamento su tutto il dolore del mondo, espresso nella parola, conserva sempre il suo accento di immediata tribolazione e afflizione, ci comunica sempre tristezza e pietà, mentre il dolore, così come lo esprimono le arti figurative, trapassa subito nella sfera dell’elegia e della profonda quiete. Se ora si crede di poter ricavare, con la contemplazione dell’arte, un quadro completo di un’epoca nella sua realtà, si continua a commettere un errore di fondo nella visione storica. Nei confronti dell’epoca borgognona in particolare sussiste inoltre il pericolo di un certo errore di ottica: di non scorgere cioè il giusto rapporto tra le arti figurative e l’espressione culturale letteraria. In questo sbaglio incorre l’osservatore se non si rende conto che già lo stato del materiale tramandato lo pone in una posizione molto diversa davanti all’arte e alla letteratura. La letteratura del tardo Medioevo, salvo qualche eccezione, ci è nota quasi completamente. La conosciamo nelle sue manifestazioni più alte e più basse, in tutti i suoi generi, dal più elevato al più banale, dal più devoto al più lascivo, dal più astruso al più attuale. La letteratura riflette ed esprime la vita del tempo. E la tradizione scritta non si esaurisce con la letteratura; ci sono poi tutti gli atti e i documenti, che completano la nostra conoscenza. Delle arti figurative invece, che già per la loro stessa natura esprimono in modo meno diretto ed esauriente la vita del tempo, non possediamo che un frammento speciale. Fatta eccezione per l’arte sacra, si tratta di pochi, minimi resti. L’arte figurativa profana e l’arte applicata mancano quasi del tutto: proprio quelle forme in cui si manifestava il nesso tra produzione artistica e vita so385
ciale ci sono note in modo incompleto. Il nostro piccolo tesoro di pale d’altare e di monumenti sepolcrali è decisamente lacunoso al riguardo: l’immagine dell’arte resta separata dalle nostre conoscenze sulla variopinta vita dell’epoca. Per comprendere la funzione delle arti figurative nella società franco-borgognona e il rapporto tra arte e vita non è sufficiente la contemplazione ammirata dei capolavori conservati; anche ciò che è andato perduto chiede la nostra attenzione. L’arte di quei tempi è ancora completamente pervasa dalla vita, che è regolata da norme rigide. Essa viene scandita dai sacramenti della Chiesa, dalle feste dell’anno e dalle ore canoniche. Le opere e le gioie della vita hanno la loro forma fissa: religione, cavalleria e amore cortese forniscono le forme più importanti. Il compito dell’arte è quello di adornare di bellezza le forme che accompagnano la vita. Ciò che si cerca non è l’arte in sé, bensì la vita bella. Non si evade, come in epoche successive, dal tran tran più o meno solito per godersi, in solitaria contemplazione, il conforto e l’elevazione dell’arte; l’arte diventa un elemento che conferisce più splendore alla vita stessa. È destinata ad accompagnare i trasporti della vita, sia lo slancio sublime della pietà sia il godimento vanaglorioso della mondanità. Nel Medioevo ancora non si comprende la bellezza intrinseca dell’arte. In grandissima parte è arte applicata, anche nei prodotti che noi di solito giudichiamo opere d’arte autonome; ossia il motivo che la fa desiderare è il suo scopo, la sua posizione subalterna nei confronti di una qualche forma di vita; l’ideale di bellezza pura può anche, ciononostante, guidare la mano dell’artista, ma ciò accade quasi inconsciamente. I primi germi di un amore per l’arte in se stessa fan386
no la loro comparsa come degenerazioni della produzione artistica: i principi e i nobili diventano collezionisti accumulando oggetti d’arte, che diventano allora inutili e vengono goduti come curiosità lussuosa, come parti preziose del tesoro del principe, ed è così che all’inizio si coltiva il senso artistico vero e proprio, il quale si sviluppa poi nel Rinascimento. Nelle grandi opere d’arte del XV secolo, in particolare nelle pale d’altare e nell’arte sepolcrale, l’importanza del soggetto e il suo scopo erano di gran lunga più apprezzati, dal contemporaneo, della sua bellezza. Le opere dovevano essere belle, visto che il soggetto era sacro o il fine elevato. Fine che è sempre più o meno pratico. La pala d’altare ha un duplice scopo: viene solennemente mostrata nelle grandi feste, per ravvivare la devota partecipazione delle masse, e tiene desto il ricordo dei devoti donatori, la cui preghiera continua a levarsi dalla loro effigie genuflessa. È noto che l’Adorazione dell’Agnello di Hubert e Jan van Eyck si apriva solo raramente. Quando i magistrati delle città dei Paesi Bassi commissionavano, per adornare la sala del tribunale, scene di celebri giudizi o processi, come il Giudizio di Cambise di Gerard David a Bruges, o quello dell’imperatore Ottone a Lovanio, o anche i quadri andati perduti di Rogier van der Weyden a Bruxelles, lo facevano per dare un solenne e amaro ammonimento ai giudici e richiamarli al loro dovere. L’esempio seguente mostra fino a che punto si fosse sensibili ai soggetti che facevano bella mostra di sé sulle pareti. Nel 1384 si svolse a Lelinghem un incontro che doveva condurre a una tregua tra Francia e Inghilterra. L’organizzatore, il duca di Berry, amante del fasto, ha fatto addobbare le nude pareti della vecchia cappella, dove si devono incontrare i prin387
cipi per negoziare, di arazzi raffiguranti battaglie dell’antichità. Ma il duca di Lancaster, Giovanni di Gaunt, non appena le vede, vuole che quelle scene di guerra vengano tolte; quelli che aspirano alla pace non devono avere davanti agli occhi guerra e distruzione. E vengono appesi altri arazzi, che raffigurano gli strumenti della Passione del Signore.1 L’antico significato dell’opera d’arte, per cui il suo scopo sta nel soggetto, si è mantenuto in gran parte nel ritratto. I sentimenti ai quali il ritratto obbedisce, l’amore dei genitori e l’orgoglio del proprio casato, a cui si sono aggiunti successivamente il culto degli eroi e il culto di sé, sono ancora vivi, mentre lo spirito sul quale agiva come monito la scena di giustizia è logoro. Il ritratto, inoltre, serviva spesso a conoscersi in caso di fidanzamento. Della legazione che Filippo il Buono, nel 1428, invia in Portogallo per chiedere la mano di una donna fa parte anche Jan van Eyck che deve effigiare la figlia del re. Talvolta si finge di credere che il principe si sia innamorato della sconosciuta principessa alla sola vista del suo ritratto, come nel caso di Riccardo II d’Inghilterra che chiede in sposa Isabella di Francia, che ha sei anni.2 Qualche volta si parla addirittura di una scelta fatta confrontando i ritratti. Quando il giovane Carlo VI di Francia deve avere una moglie, e tentenna tra le figlie dei duchi di Baviera, Austria e Lorena, si spedisce un pittore di talento per fare il ritratto delle tre. Questi vengono presentati al re, che sceglie la quattordicenne Isabella di Baviera, che gli pare di gran lunga la più bella.3 In nessuna opera d’arte il fine pratico è così predominante come nel monumento sepolcrale, l’attività di gran lunga più importante della scultura di quell’epoca. E non solo della scultura: il bisogno pressante di avere un’immagine visibi388
le del defunto doveva essere appagato già durante i funerali. Alle volte un vivo rappresentava il morto; alle esequie di Bertrand du Guesclin a Saint Denis quattro cavalieri con corazza e cavallo apparvero in chiesa, “representans la personne du mort quand il vivoit”.4 Un disegno del 1375 illustra un funerale nella casa dei Polignac: “cinq sols à Blaise pour avoir fait le chevalier mort à la sepulture”.5 Durante i funerali del re si tratta per lo più di un fantoccio di cuoio, in abiti principeschi, somigliante il più possibile al defunto.6 Talvolta, a quanto pare, ce n’è più di uno nel corteo. La commozione del popolo si concentra sulla vista di simili immagini.7 La maschera mortuaria, che si diffonde nel XV secolo in Francia, forse trae origine dalla fabbricazione di questi fantocci funebri.8 La commissione di un’opera d’arte avviene quasi sempre con uno scopo legato alla vita, con un fine pratico. In tal modo la linea di demarcazione tra le libere arti figurative e l’artigianato viene di fatto cancellata, o meglio non è ancora stata tracciata. Anche per quel che riguarda le persone degli artisti quella linea ancora non esiste. La schiera di grandi maestri al servizio delle corti delle Fiandre, di Berry e di Borgogna non solo alterna la pittura di scene a sé stanti con la miniatura di manoscritti e la policromia di statue, ma si dedica pure alla pittura di scudi e di bandiere, e alla progettazione di costumi per tornei e cerimonie. Melchior Broederlam, prima pittore del conte fiammingo Luigi di Mâle, poi di suo genero, il primo duca di Borgogna, decora cinque sedie scolpite per il palazzo del conte. Restaura e dipinge le rarità meccaniche del castello di Hesdin, con cui si innaffiavano o impolveravano gli ospiti. Lavora a una carrozza da viaggio della duchessa. Dirige la decorazione esagerata della 389
flotta che il duca di Borgogna aveva radunato nel 1387 nel porto di Sluis, per una spedizione contro l’Inghilterra che non ebbe mai luogo. I pittori di corte sono chiamati in causa per le nozze e i funerali dei principi. Nella bottega di Jan van Eyck si dipingevano delle statue, ed egli stesso realizzò per il duca Filippo una specie di mappamondo, sul quale si potevano vedere città e paesi dipinti con finezza e nitidezza mirabili. Hugo van der Goes dipinge un certo numero di scudi con lo stemma papale, che devono essere fissati alle porte della città di Gand durante un’indulgenza.9 Di Gerard David si racconta che dovette decorare, a Bruges, le inferriate e le imposte della stanza in cui, nel 1488, era rinchiuso Massimiliano, per rendere un po’ più piacevole il soggiorno del prigioniero regale.10 Di tutto il lavoro scaturito dalle mani degli artisti maggiori e minori non ci resta che un frammento di natura abbastanza particolare. Si tratta essenzialmente di monumenti sepolcrali, pale d’altare, ritratti e miniature. Della pittura profana, fatta eccezione per i ritratti, è rimasto pochissimo. Dell’arte decorativa e di quella applicata abbiamo alcuni, determinati generi: arredi e paramenti sacri, qualche mobile. Come migliorerebbe la nostra conoscenza del carattere dell’arte quattrocentesca se potessimo collocare, accanto alle molte Pietà e Madonne,11 i bagni e le scene di caccia di Jan van Eyck o Rogier. Di interi campi dell’arte applicata abbiamo appena un’idea. Accanto ai paramenti sacri dovremmo poter mettere gli abiti di gala della corte, tempestati di gioielli e di campanellini. Dovremmo poter vedere le navi, decorate con quel fasto di cui le miniature non ci danno che un’immagine molto lacunosa e schematica. Poche cose hanno colpito Froissart con la loro bellezza come le navi.12 Le 390
fiamme, riccamente ornate di stemmi, che sventolavano in testa d’albero, erano alle volte così lunghe da rasentare l’acqua. Sui paesaggi con navi di Pieter Breughel ancora si vedono queste fiamme esageratamente lunghe e larghe. La nave di Filippo l’Ardito, a cui lavorò Melchior Broederlam nel 1387 a Sluis, era coperta di azzurro e d’oro; grandi scudi ornavano il padiglione sul cassero; le vele erano cosparse di margherite e delle iniziali del duca e della duchessa con il loro motto Il me tarde. I nobili facevano a gara nel decorare fastosamente la propria nave per quella spedizione fallita contro l’Inghilterra. I pittori se la passavano bene, dice Froissart13; guadagnavano quel che volevano, e non se ne trovavano abbastanza. Egli afferma che molti fecero indorare gli alberi, da cima a fondo, con oro in foglia. Soprattutto Guy de la Trémoïlle non badò a spese, e dilapidò più di 2000 sterline. “L’on ne se povoit de chose adviser pour luy jolyer, ne deviser, que le seigneur de la Trimouille ne le feist faire en ses nefs. Et tout ce paioient les povres gens parmy France…”14 Il tratto che ci avrebbe colpito maggiormente in tutta quell’arte decorativa andata perduta sarebbe stato indubbiamente l’esorbitanza, la splendida stravaganza; tratto tipico anche delle opere d’arte conservate, ma poiché non apprezziamo affatto quella qualità in questa arte non lo notiamo. Cerchiamo solamente di goderne la profonda bellezza. Tutto ciò che è sfarzo e pompa non ci interessa più, ma per i contemporanei era invece della massima importanza. Nella cultura franco-borgognona del tardo Medioevo il fasto tenta di spodestare la bellezza. L’arte tardomedioevale rispecchia fedelmente lo spirito dell’epoca, uno spirito ormai alla fine del suo cammino. Ciò che sopra abbiamo consi391
derato una delle caratteristiche principali del pensiero tardomedioevale, la rappresentazione di tutto il pensabile con tutte le sue conseguenze, lo spirito colmo di un infinito sistema di raffigurazioni formali, è anche l’essenza dell’arte di quei tempi, che tenta di non lasciare niente senza forma, senza figura e senza ornamento. Il gotico fiammeggiante è come un infinito postludio, decompone tutte le forme, tesse una trama per ogni dettaglio, una controlinea per ogni linea. È un moltiplicarsi incontrollato della forma sull’idea; il dettaglio decorato tocca tutti i piani e tutte le linee. Regna, in quest’arte, un horror vacui che forse è un sintomo di periodi spirituali declinanti. Tutto ciò significa che i confini tra fasto e bellezza svaniscono. La decorazione non serve più a esaltare la bellezza naturale, ma la aggredisce e minaccia di soffocarla. Più ci si allontana dall’arte figurativa pura, più quella degenerazione degli elementi decorativi formali sul contenuto è sfrenata. La scultura, finché si limita a creare figure isolate, non presta il fianco alla degenerazione formale; le statue della fontana di Mosè e i “plourants” delle tombe gareggiano con Donatello in severa e sobria naturalezza. Ma non appena la scultura assume un ruolo decorativo, o entra nel dominio della pittura e, legandosi alle dimensioni ridotte del rilievo, riproduce intere scene, eccede anch’essa in inquieta sovrabbondanza. Chi vede, sul tabernacolo di Digione, gli intagli di Jacques de Baerze accanto alla pittura di Broederlam, rimane colpito da una disarmonia. Nella pittura, puramente raffigurativa, regnano semplicità e quiete; negli intagli che, decorativi per natura, trattano anche le immagini di figure in modo ornamentale, vediamo un affollamento di forme che contrasta con la pace del dipinto. Della stessa natura è la dif392
ferenza tra il quadro e l’arazzo. L’arte della tessitura, per via della sua tecnica obbligata, anche quando si propone la pura raffigurazione continua a essere più vicina all’arte decorativa, e non può sottrarsi all’esasperata esigenza ornamentale; gli arazzi sono sovraccarichi di figure e di colori e conservano forme arcaiche.15 Se ci si allontana ancora di più dall’arte figurativa pura si arriva all’abbigliamento. Anch’esso è indubbiamente arte. Ma qui, già come intento, il fasto e l’ornamento prevalgono sulla bellezza pura, e inoltre la Superbia attira l’arte dell’abbigliamento nella sfera passionale e sensuale, dove le qualità che costituiscono l’essenza della grande arte, la misura e l’armonia, scompaiono. La bizzarria mostrata dall’abbigliamento tra il 1350 e il 1480 non si è più vista nella moda delle epoche successive, per lo meno non in una forma così diffusa e costante. Anche in seguito ci sono state mode stravaganti, come il vestito dei lanzichenecchi intorno al 1520 e il costume della nobiltà francese verso il 1660, ma quell’esorbitanza e sovrabbondanza che caratterizza per un secolo l’abbigliamento franco-borgognone non ha eguali. Qui vediamo ciò che produsse il senso estetico di quei tempi, abbandonato al suo istinto. Un vestito di corte viene cosparso di centinaia di pietre preziose. Tutte le dimensioni sono esasperate fino al ridicolo. L’acconciatura femminile prende la forma di pan di zucchero dell’“hennin”; si radono o si nascondono i capelli sulle tempie e sopra la fronte, per mostrare le fronti curiosamente bombate, considerate belle; il décolleté compare all’improvviso. Ma nell’abbigliamento maschile le stravaganze sono ancora più numerose. Troviamo le lunghe punte delle scarpe o “poulaines”, che i cavalieri, a Nicopoli, dovettero tagliare per poter fuggire, le vite strette, le maniche gonfiate a pal393
loncino rialzate sulle spalle, le pellande che scendono fino ai piedi e le giubbe così corte che lasciano scoperte le natiche; gli alti berretti e cappelli a punta o a cilindro, i cappucci drappeggiati in modo strambo intorno alla testa, a mo’ di cresta di gallo o di fiamma. Più solennità equivale a più stravaganza; perché tutte queste bellezze significano fasto, “estat”.16 L’abito da lutto di Filippo il Buono, quando riceve il re d’Inghilterra a Troyes, dopo l’assassinio di suo padre, è così lungo che, anche quando lui è a cavallo del suo alto destriero, tocca il suolo.17 L’esorbitante sfarzo culmina nelle feste di corte. Tutti ricordano le descrizioni delle feste di corte borgognone, come il banchetto di Lilla del 1454, in cui gli ospiti, quando fu servito il fagiano, fecero il loro voto di andare in crociata contro il Turco, o la festa nuziale di Carlo il Temerario e Margherita di York a Bruges nel 1468.18 Non possiamo concepire niente di più lontano dalla quieta solennità degli altari di Gand o Lovanio di queste barbare manifestazioni di lusso principesco. Dalla descrizione di quegli “entremets” con i loro pasticci, con musicanti che suonano, navi e castelli addobbati, scimmie, balene, giganti e nani, con tutta quella trita allegoria di rito, emerge un quadro di rappresentazioni di un cattivo gusto incredibile. Tuttavia siamo portati qui a ingrandire, in diversi casi, l’abisso tra i due estremi dell’arte: quella sacra e quella delle feste di corte. Innanzitutto bisogna rendersi conto della funzione che aveva la festa in quella società. La festa conservava ancora qualcosa della funzione che ha tra i popoli primitivi, quella cioè di manifestazione sovrana della cultura, di forma in cui si esprime in comune la gioia di vivere e si raffigura il senso di solidarietà. In tempi di grande rinnovamento della 394
società, come durante la Rivoluzione francese, la festa talvolta recupera quella importante funzione sociale ed estetica. L’uomo moderno, in qualsiasi momento di calma e di rilassamento, è libero di cercare individualmente, secondo le sue convinzioni, il più puro godimento della sua gioia di vivere. Un’epoca in cui i piaceri dello spirito sono ancora poco diffusi e accessibili necessita a tale scopo di un’azione comune: la festa. E più è stridente il contrasto con la miseria della vita quotidiana, più è indispensabile la festa e più urge il bisogno di dimenticare la cupa realtà della vita con l’ebbrezza della bellezza e del godimento. Ora il XV secolo è un’epoca di terribile depressione e di radicato pessimismo. Abbiamo già parlato dell’ingiustizia e della violenza, dell’inferno e del giudizio universale, della peste, degli incendi e della fame, del diavolo e delle streghe che opprimono quel secolo. La povera umanità non aveva bisogno solo della quotidiana promessa della salvezza e della provvidenza e bontà di Dio; di tanto in tanto occorreva anche una solenne, collettiva e gloriosa affermazione della bellezza della vita. Il piacere di vivere nelle sue forme primarie – il gioco, l’amore, il vino, la danza e il canto – non è sufficiente; deve essere nobilitato dalla bellezza, stilizzato in un atto di gioia collettiva. Perché non era ancora possibile trovare un appagamento individuale nei libri, ascoltando musica, contemplando l’arte, immergendosi nella natura; i libri erano troppo costosi, la natura troppo pericolosa e l’arte faceva appunto parte della festa. La festa popolare aveva le sue originali fonti di bellezza solamente nella canzone e nella danza. Per la bellezza dei colori e delle forme essa si riallacciava alla festa religiosa, che ne aveva in abbondanza. L’emancipazione della festa bor395
ghese dalla forma religiosa, con il suo peculiare fasto, viene completata proprio nel XV secolo dalle camere di retorica. Fino ad allora solamente la corte era stata in grado di conferire splendore e magnificenza artistica a una festa puramente profana. Ma magnificenza e splendore non bastano per la festa; niente è tanto indispensabile quanto lo stile. La festa religiosa aveva quello stile in virtù della liturgia stessa, in cui era sempre presente l’impressionante raffigurazione di una idea sublime in un bel gesto collettivo. La sacra dignità e l’andatura solenne non venivano interrotte neanche dalle peggiori degenerazioni, talvolta burlesche, dei dettagli della festa. Ma la festa di corte dove prendeva il suo stile? A quale idea si rifaceva? Non poteva che essere l’ideale cavalleresco, perché l’intera vita di corte vi si atteneva. All’ideale cavalleresco era legato uno stile proprio, una liturgia per così dire? Certamente, tutto ciò che riguardava la collata, le regole degli ordini, i tornei, la “préséance”, l’omaggio e il servizio, l’intero gioco dei re d’armi, degli araldi, dei blasoni costituiva quello stile. In quanto basata su questi elementi, la festa di corte aveva indubbiamente per i contemporanei un grande, rispettabile stile. Ancora adesso persino coloro che non hanno sentimenti monarchici o aristocratici, osservando un qualsiasi corteo, rimangono profondamente impressionati da una simile liturgia, puramente profana. Che effetto devono aver avuto, sugli infatuati di quell’ideale cavalleresco, le lunghe, pompose vesti dai colori smaglianti! Ma la festa di corte pretendeva di più; voleva raffigurare fino in fondo il sogno della vita eroica. Qui lo stile veniva meno. Tutto quell’apparato di fantasia e pompa cavalleresca non era più pervaso di vera vita. Tutto era divenuto troppo letterario, una reminiscenza evanescente e una convenzione 396
vana. La profusione di pompa e di etichetta doveva coprire la decadenza interiore della forma di vita. Il pensiero cavalleresco del XV secolo si compiace di un romanticismo ormai vuoto e logoro. Questa era la fonte dalla quale la festa di corte avrebbe dovuto trarre lo spunto fantastico per le sue rappresentazioni e raffigurazioni. Come avrebbe potuto creare uno stile da una letteratura che non ne aveva affatto, slegata e sorpassata come il romanticismo cavalleresco nella sua degenerazione? Sotto questa luce va vista la valenza estetica degli “entremets”: è letteratura applicata, in cui l’unica cosa che potesse ancora rendere sopportabile quella letteratura, il suo fantasticare fugace e superficiale su tutte le sue variopinte sembianze, fa posto alla invadente rappresentazione materiale. La serietà pesante e barbarica che si diffonde da tutto questo è appropriata alla corte borgognona, che sembra aver perduto, dopo il suo contatto con il Nord, la leggerezza e l’armonia dello spirito francese. Intorno a tutto quel magnifico sfoggio c’era un’atmosfera solenne e importante. La grande festa del duca a Lilla fu la conclusione e il coronamento di una serie di banchetti che la nobiltà di corte offriva gareggiando in magnificenza. Si era cominciato con semplicità e sobrietà, e poi era aumentato il numero degli ospiti, il lusso delle vivande e degli intermezzi; offrendo una corona l’anfitrione cedeva il testimone a un altro; così si passava dai cavalieri ai gran signori, e dai signori ai principi, con cerimonie e ostentazione sempre crescenti, finché finalmente fu la volta del duca stesso. Per Filippo doveva essere qualcosa di più di una splendida festa; in quell’occasione sarebbero stati pronunciati i voti per la crociata contro i turchi, per riconquistare Costantinopoli, caduta l’anno prima; l’ideale di 397
vita dichiarato del duca. Come prima cosa egli nominò una commissione presieduta dal cavaliere del Toson d’oro Jean de Lannoy. Ne faceva parte anche Olivier de la Marche. Quando costui, nelle sue memorie, giunge a questo punto, è ancora pervaso di solennità. “Pour ce que grandes et honnorables oeuvres desirent loingtaine renommée et perpétuelle mémoire”, così egli comincia a ricordare quelle grandi cose.19 I più fidati consiglieri del duca parteciparono spesso alle sessioni: lo stesso cancelliere Nicolas Rolin e il primo ciambellano Antoine de Croy furono chiamati, prima di accordarsi su come si dovevano svolgere “les cérimonies et les mistères”. La descrizione di tutti quegli splendori è così nota che non c’è bisogno di ripeterla. Arrivarono perfino via mare per vedere lo spettacolo. C’erano, oltre agli ospiti, innumerevoli nobili, i più mascherati. Prima si andò in giro ad ammirare i gruppi scultorei più belli; poi seguirono le rappresentazioni e i tableaux-vivants. Lo stesso Olivier interpretò il ruolo del protagonista, Sainte Eglise, nel brano più importante, entrando in scena in una torre sul dorso di un elefante, condotto da un gigante turco. Sui tavoli facevano bella mostra di sé splendide decorazioni; una caracca equipaggiata e addobbata, un prato ornato di alberi, una fontana, delle rocce e una statua di Sant’Andrea, il castello di Lusignano con la fata Melusina, un mulino a vento, dove si tirava agli uccelli, un bosco con bestie feroci in movimento e infine la chiesa con organo e cantori, la cui musica si alternava a quella dell’orchestra di ventotto persone sedute in un pasticcio. Qui ci interessa il gusto, o il cattivo gusto, di queste manifestazioni. Nella materia stessa non riusciamo a scorgere, in fondo, altro che un’accozzaglia di figure mitologiche, allego398
riche e moraleggianti. Ma com’era l’esecuzione? Senza dubbio si badava soprattutto a creare un effetto stravagante. La torre di Gorkum, l’attrazione del tavolo della festa nuziale del 1468, era alta 46 piedi.20 Di una balena, adoperata nella stessa occasione, Marche dice: “et certes ce fut un moult bel entremectz, car il y avoit dedans plus de quarante personnes”.21 A proposito del largo uso delle meraviglie della meccanica non riusciamo a trovarvi alcun legame con l’arte: uccelli vivi che volano via dalle fauci di un drago che lotta con Ercole e altre sorprese del genere. L’elemento comico presente è di bassa lega: dalla torre di Gorkum dei cinghiali suonano la tromba; delle capre eseguono un mottetto, dei lupi suonano il flauto, quattro grandi asini intervengono come cantori, tutto questo davanti a Carlo il Temerario, che era un fine intenditore di musica. Tuttavia non vi è dubbio che, nelle feste, tra tutta quella roba, in particolare tra i gruppi fissi, accanto a molto sfarzo smodato e imbecille, vi sia stata più di un’opera d’arte. Non dimentichiamo che gli uomini che si compiacevano di questo sfoggio gargantuesco dedicandovi le loro energie sono stati i committenti di Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Si trattava del duca stesso, di Rolin, il donatore degli altari di Beaune e Autun, di Jean Chevrot, quello dei Sette sacramenti di Rogier, dei Lannoy. E quel che più conta: erano gli stessi pittori che realizzavano siffatte bellezze. Non sappiamo niente a proposito di Jan o Rogier, ma sappiamo di altri che collaborano alle feste: Colard Marmion, Simon Marmion, Jacques Daret. Per la festa del 1468 a Bruges, che dovette essere improvvisamente anticipata, fu mobilitata, per fare in tempo, l’intera corporazione dei pittori, che furo399
no convocati in tutta fretta da Gand, Bruxelles, Lovanio, Tirlemont, Mons, Quesnoy, Valenciennes, Douai, Cambrai, Arras, Lilla, Ypres, Courtrai e Audenarde.22 Quelle mani non possono aver prodotto solo del brutto. Per le trenta navi addobbate del banchetto del 1468, con gli stemmi dei domini del duca, le sessanta donnine nei costumi dei loro paesi,23 con cestini di frutta e gabbie di uccelli, quei mulini a vento con il tiro agli uccelli, daremmo volentieri più di un mediocre dipinto religioso. Si potrebbe perfino, a rischio di commettere un sacrilegio, andare più in là e affermare che, per poter comprendere davvero Claes Sluter24 e i suoi, dobbiamo cercare di figurarci quest’arte dell’imbandire la tavola sparita senza lasciar tracce. Vediamo il passaggio dalla scultura nobile ai magnifici esemplari di queste sfarzose feste in ex voto come quello raffigurante Carlo VI in ginocchio, che quest’ultimo ricevette il primo gennaio 1404 dalla sua consorte Isabella di Baviera,25 o nel San Giorgio con il duca di Borgogna, che Carlo il Temerario offrì in dono alla chiesa di San Paolo a Liegi per farsi perdonare la distruzione del 1468. Fa rabbia vedere sprecata tanta perfetta maestria per un fasto così grossolano. Tra tutte le arti la scultura sepolcrale è la più strumentale. Il compito degli scultori che dovevano costruire i monumenti funerari dei duchi di Borgogna non era una libera creazione di bellezza, bensì l’esaltazione della grandezza del duca. Questo compito è stabilito molto più rigorosamente e prescritto molto più meticolosamente di quello dei pittori. Questi, eseguendo una commissione, possono liberare molto più facilmente la loro creatività dipingendo quel che vogliono. Lo scultore di quell’epoca ha poca libertà di movimento; i 400
motivi che deve elaborare sono quantitativamente limitati e legati a una tradizione rigorosa. Il duca lo controlla molto più dei pittori. I due grandi olandesi che il richiamo della vita artistica francese tolse per sempre al loro paese, furono monopolizzati dal duca di Borgogna. Sluter abitava a Digione in una casa che il duca aveva assegnato a lui e fatto arredare per l’occasione26; ci viveva da gran signore, ma nel contempo da servitore di corte. Il rango di “varlet de chambre de monseigneur le duc de Bourgogne” che Sluter e suo nipote Claes van de Werve dividevano con Jan van Eyck, aveva, nel caso degli scultori, un significato ben più reale. Claes van de Werve, che continuò l’opera di Sluter, fu una tragica vittima del servizio a corte dell’arte: trattenuto di anno in anno a Digione, per completare la tomba di Giovanni senza Paura, per la quale non c’erano mai i fondi, consumò in un’attesa senza scopo una carriera artistica cominciata brillantemente, e morì senza poter portare a termine il suo incarico. Riguardo a questa sudditanza dello scultore va d’altro canto anche detto che è tipico della scultura, proprio per l’esiguità dei suoi mezzi, del suo materiale e del suo soggetto, avvicinarsi sempre a un certo optimum di semplicità e libertà, che chiamiamo classico, non appena uno dei grandi, in qualsiasi epoca o ambiente, maneggi lo scalpello. Per quanto il gusto dell’epoca cerchi di imporsi alla scultura, la figura umana e le sue vesti permettono, in legno o in pietra, poche variazioni, e le differenze tra i busti dell’epoca imperiale romana, quelli di Goujon e di Colombe nel XVI secolo e quelli di Houdon e Pajou nel XVIII sono minime rispetto a quel che avverrebbe in qualsiasi altra arte. Di questa eterna identità della scultura partecipa anche l’arte di Sluter e dei suoi. Però… non vediamo le opere di 401
Sluter come erano e come sono state concepite. Non appena pensiamo al pozzo di Mosè, a come esso entusiasmava i contemporanei, quando il legato pontificio decise di concedere un’indulgenza a chiunque venisse a vederlo con spirito devoto, si comprende perché abbiamo osato paragonare l’arte di Sluter a quella degli “entremets”. Del pozzo di Mosè, come è noto, resta solo un frammento. Era un Calvario, con cui il primo duca di Borgogna ha voluto vedere, e ha visto, coronato il pozzo nel cortile dei certosini della sua amata Champmol. Il Cristo, con Maria, Giovanni e Maddalena ai piedi della croce, formava la parte principale dell’opera, già in gran parte sparita prima della Rivoluzione, che danneggiò in modo irreparabile Champmol. Nella parte inferiore, intorno al pilastro, la cui piattaforma è sostenuta da angeli, ci sono le sei figure del Vecchio Testamento, che hanno preannunciato la morte del Messia: Mosè, Davide, Isaia, Geremia, Daniele e Zaccaria, ognuno con un filatterio che contiene il testo profetico. L’intera rappresentazione ha un carattere decisamente scenico, non tanto per il fatto stesso che anche nei tableauxvivants o “personnages”, eseguiti durante gli ingressi solenni e i banchetti, si ricorre sovente a simili figure con filatteri, e che i soggetti di tali recite erano forniti in gran parte dalle profezie dell’Antico Testamento, quanto per la straordinaria efficacia espressiva della rappresentazione. Le parole delle iscrizioni assumono in questo gruppo un’importanza fondamentale. Si arriva a comprendere l’opera soltanto compenetrandosi della sacralità di quei testi.27 “Immolabit eum universa multitudo filiorum Israel ad vesperam” dice la sentenza di Mosè. “Foderunt manus meas et pedes meos, dinumeraverunt omnia ossa mea”, è il salmo di Davide. “Sicut ovis ad occisionem ducetur 402
et quasi agnus coram tondente se obmutescet et non aperiet os suum”, Isaia. “O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus”, Geremia. “Post hebdomades sexaginta duas occidetur Christus”, Daniele. “Appenderunt mercedem meam triginta argenteos”, Zaccaria. Questo è il lamento a sei voci che si leva dal pilastro verso la croce, il momento essenziale dell’opera. E adesso il nesso tra le figure e i testi è così accentuato, così impellente nel gesto dell’uno, nell’espressione dell’altro, che l’insieme rischia quasi di perdere quell’atarassia che è il privilegio di tutta la grande scultura. Essa si rivolge, per così dire, troppo direttamente allo spettatore. Sluter ha saputo raffigurare come pochi la santità del soggetto, però proprio la grave santità del soggetto determina una sproporzione, dal punto di vista dell’arte pura. Rispetto alle figure sepolcrali di Michelangelo, i profeti di Sluter sono troppo espressivi, troppo personali. Forse valuteremmo ciò un doppio merito, se avessimo della rappresentazione centrale qualcosa in più del capo e del torso del Cristo nella sua rigida maestà. Ora vediamo solamente come gli angeli spostino in alto l’attenzione, dai profeti a quello che è su, quegli angeli meravigliosamente poetici, infinitamente più angelici, nella loro ingenua grazia, di quelli di Van Eyck. Il carattere fortemente rappresentativo del Calvario di Champmol dipendeva anche da altre qualità, oltre a quelle della stessa scultura, ossia dalla fastosità delle sue decorazioni. Bisogna immaginarsi l’opera nella sua policromia,28 così come era stata dipinta da Jean Maelweel e dorata da Herman de Cologne. Non si fece economia di effetti forti e vividi. Sui loro piedistalli verdi stavano i profeti in mantelli dorati, Mosè e Zaccaria in talari rossi, con il mantello foderato 403
d’azzurro; Davide in azzurro con stelle d’oro, Geremia in turchino, Isaia, il più afflitto di tutti, in broccato. Soli e iniziali d’oro riempivano gli spazi vuoti. E da non dimenticare gli stemmi. I superbi stemmi dei paesi del duca facevano bella mostra di sé: non solo sul fusto del pilastro, tra i profeti, ma anche sulle estremità dei bracci della stessa grande croce, a forma di capitello, erano stati collocati gli stemmi di Borgogna e delle Fiandre! Lo spirito con il quale fu commissionata questa grande opera d’arte ducale si rivela qui ancora più chiaramente, rispetto alle lenti di rame dorato che Hannequin de Hacht fornì per il naso di Geremia. La mancanza di libertà di quest’arte, vincolata dal committente principesco, è a un tempo tragica e edificante, edificante per la grandezza con cui l’artista si sottraeva alle limitazioni imposte dall’incarico. La rappresentazione dei “plourants” intorno al sarcofago era già da tempo un passaggio obbligato nell’arte sepolcrale borgognona.29 Non era affatto una libera espressione del dolore in tutte le sue manifestazioni, bensì una sobria, realistica raffigurazione di una parte del corteo che aveva accompagnato il morto alla tomba, in cui tutti i dignitari dovevano essere chiaramente riconoscibili. E che cosa sono riusciti a trarre da questo motivo i discepoli di Sluter! L’espressione più profonda e più degna del lutto, una marcia funebre in pietra. Forse però, ammettendo una simile disarmonia tra committente e artista, andiamo già troppo oltre. Non è poi tanto sicuro che lo stesso Sluter non considerasse le lenti di Geremia una trovata felice. In quei giorni i concetti di buon gusto e cattivo gusto sono ancora un po’ confusi: il senso dell’arte, il piacere del lusso e delle curiosità non si sono ancora separati. L’ingenua fantasia può ancora godersi indisturbata 404
il bizzarro come se fosse bellezza. Il senso dello stile non era proprio come pretendono i moderni cultori del Medioevo. Nessun effetto realistico era troppo grossolano, c’erano immagini mobili “aux sourcilz et yeulx branlans”,30 recitando la Creazione si portavano in scena animali vivi, persino dei pesci.31 Capolavori e costosa spazzatura erano bonariamente mischiati ed egualmente ammirati. Una raccolta come quella del Grüne Gewölbe a Dresda mostra, separato, il caput mortuum della collezione principesca, con cui una volta formava un tutto unico. Nel castello di Hesdin, a un tempo tesoro di opere d’arte e luogo di piaceri, pieno di quei divertimenti meccanici, “engins d’esbatement”, che fecero parte così a lungo dei luoghi di piacere principeschi, Caxton vide una sala adornata di quadri che rappresentavano la storia di Giasone, l’eroe del Toson d’oro. C’erano poi congegni a effetto, che producevano fulmini, tuoni, neve e pioggia, per imitare gli incantesimi di Medea.32 Anche nelle rappresentazioni, nei “personnages”, eretti agli angoli delle strade in occasione delle entrate trionfali dei principi, si dava libero sfogo alla fantasia. Accanto a scene sacre nel 1389 a Parigi, quando Isabella di Baviera fece il suo ingresso come consorte di Carlo VI, si vide un cervo bianco dalle corna dorate con una corona intorno al collo; era sdraiato su un “lit de justice” e muoveva occhi, corna e zampe, per brandire infine una spada. Nella stessa occasione un angelo scese “par engins bien faits” dalle torri di NotreDame, attraversò, proprio al passaggio della regina, il rivestimento di taffetà blu con gigli d’oro, che copriva l’intero ponte, le mise una corona sulla testa e sparì così com’era venuto, “comme s’il s’en fust retourné de soy-mesmes au ciel”.33 Tali discese erano un numero molto amato negli ingressi 405
trionfali e nelle rappresentazioni,34 non solo a nord delle Alpi: anche Brunelleschi progettò un simile ingegno. Nel XV secolo non si trovava affatto ridicolo, a quanto pare, un cavallo di cartapesta con un uomo dentro, per lo meno Lefèvre de Saint Remy racconta senza ombra di scherno di una rappresentazione con quattro trombettieri e dodici gentiluomini “sur chevaulx de artifice”, “saillance et poursaillans tellement que belle chose estoit à veoir”.35 La distinzione, richiesta dal nostro senso artistico, che l’opera distruttrice del tempo ci ha aiutato a fare, tra tutti quei bizzarri fronzoli, scomparsi senza lasciar traccia, e i pochi capolavori ancora conservati, quasi non esisteva per i contemporanei. La vita artistica dell’epoca borgognona era ancora tutta racchiusa nelle forme della vita di società. L’arte serviva. Aveva in primo luogo una funzione sociale, che consisteva soprattutto nell’ostentare la magnificenza e nell’accentuare l’importanza personale non dell’artista, ma del donatore. Il fatto che nell’arte sacra la magnificenza abbia lo scopo di innalzare pensieri sacri e che il donatore si metta in mostra spinto dalla devozione non cambia la sostanza. D’altro canto la natura della pittura profana non è sempre quella così esageratamente superba che si addice alla tronfia vita di corte. La nostra conoscenza dell’arte è troppo frammentaria e sappiamo troppo poco dell’ambiente in cui l’arte era inserita per capire davvero l’unione e la fusione tra arte e vita. Corte e Chiesa insieme ancora non sono la vita di quei tempi. Perciò le poche opere d’arte nelle quali si manifesta qualcosa della vita all’infuori di queste due sfere sono così importanti per noi. Una eccelle, ineguagliabile, tra le altre: il ritratto dei coniugi Arnolfini. Qui abbiamo l’arte del XV se406
colo nella sua forma più pura; qui ci accostiamo più che mai all’enigmatica personalità dell’autore, Jan van Eyck. Questa volta egli non doveva esprimere la splendida maestà del divino, né servire l’alterigia dei grandi signori; erano i suoi amici che dipingeva, in occasione del loro matrimonio. È veramente Jean Arnoulphin, come era chiamato nelle Fiandre, il mercante di Lucca? Questo viso, dipinto due volte da Van Eyck,36 è quanto di meno italiano si possa immaginare. Tuttavia questa descrizione del quadro, “Hernoul le fin avec sa femme dedens une chambre”, nell’inventario dei quadri di Margherita d’Austria del 1516, resta un argomento molto forte per l’identificazione dell’Arnolfini. In questo caso però non andrebbe considerato un “ritratto borghese”. Perché Arnolfini era un gran signore, più volte consigliere del governo ducale in affari importanti. Comunque sia, l’uomo qui ritratto era un amico di Jan van Eyck. Lo dimostra il modo delicato e ingegnoso con cui il pittore ha firmato la sua opera, l’iscrizione posta sopra lo specchio: “Johannes de Eyck fuit hic, 1434”.37 Poco fa, si potrebbe pensare. Nel silenzio ovattato di quella camera si ode ancora il suono della sua voce. L’intima tenerezza e la profonda pace che solo Rembrandt saprà rendere di nuovo così sono racchiuse in questo dipinto come se esso fosse il cuore stesso di Jan. Qui ritorna improvviso quel tramonto del Medioevo che conosciamo e che tuttavia cerchiamo così spesso invano nella letteratura, nella storia e nella vita religiosa di quei tempi: il felice, nobile, sereno e semplice Medioevo dei canti popolari e della musica sacra. Quanto siamo lontani adesso dal riso fragoroso e dalla passione sfrenata! E allora la nostra fantasia forse scorge un Jan van Eyck al 407
di fuori della vita veemente e variopinta del suo tempo, un semplice, un sognatore, che a capo chino e lo sguardo rivolto a se stesso se ne stava in disparte. Occorre fare attenzione ed evitare una novella della storia dell’arte: quella del “varlet de chambre” che serviva con riluttanza i grandi signori, dei suoi compagni che dovevano rinnegare con molta sofferenza la loro grande arte per collaborare alle feste di corte ed equipaggiare una flotta. Non c’è niente che giustifichi una simile concezione. L’arte dei Van Eyck che noi ammiriamo nasceva proprio all’interno di quella vita di corte che ci irrita. Il poco che sappiamo della vita di quei pittori ce li mostra come uomini di mondo. Il duca di Berry è in ottimi rapporti con i suoi pittori di corte. Froissart lo incontrò mentre conversava familiarmente con André Beauneveu nel suo castello magico di Mehun sur Yevre.38 I tre fratelli Van Limburg, i grandi miniatori, rallegrano il duca a Capodanno con una sorpresa: un nuovo manoscritto miniato, che si rivela “un livre contrefait”, “d’une pièce de bois blanc paincte en semblance d’un livre, où il n’a nulz feuillets ne riens escript”.39 Jan van Eyck senza dubbio si è mosso nell’ambito della vita di corte. Per le missioni diplomatiche segrete, di cui Filippo il Buono lo incaricò, occorreva un uomo di mondo. Tra i contemporanei godeva fama di letterato, che leggeva i classici e studiava geometria. In modo alquanto bizzarro ha mascherato il suo modesto motto “Als ik kan” (Se posso) con caratteri greci. Se non fossimo ammoniti da episodi come questo saremmo portati ad assegnare all’arte dei Van Eyck un posto sbagliato nella vita del XV secolo. In quel tempo il nostro sguardo individua due sfere nettamente distinte. Da una parte la 408
cultura della corte, della nobiltà e della ricca borghesia, millantatrice, ambiziosa, avida, sgargiante, ardentemente passionale. Dall’altra la sfera tranquilla, monotona e grigia della devotio moderna, gli uomini seri e le docili mogliettine borghesi che cercavano conforto nelle Case dei Fratelli e dei devoti di Windesheim, la sfera anche di Ruusbroec e di Santa Colette. Questa è la sfera alla quale, per la nostra sensibilità, si addice l’arte dei Van Eyck, con il suo quieto, devoto misticismo. E invece il suo posto è piuttosto nell’altra. I devoti moderni erano ostili alla grande arte che si sviluppava ai loro tempi. Si opponevano alla musica polifonica e perfino agli organi.40 I protettori della musica del tempo sono i borgognoni amanti del lusso, il vescovo Davide di Utrecht, lo stesso Carlo il Temerario, che hanno nelle loro cappelle i primi maestri: Obrecht a Utrecht, Busnois presso il duca, che lo prende con sé persino nel campo davanti a Neuss. L’ordinario di Windesheim vietò qualsiasi abbellimento del canto, e Tommaso da Kempis dice: “Se non potete cantare come l’allodola e l’usignolo, cantate allora come i corvi e le rane nello stagno, che cantano come Dio ha concesso loro di cantare”.41 Sulla pittura, naturalmente, non si sono pronunciati; ma volevano i libri semplici e senza illustrazioni artistiche.42 Molto probabilmente avrebbero ritenuto persino un’opera come l’Adorazione dell’Agnello puro orgoglio. Del resto la separazione tra le due sfere è stata davvero così netta come la vediamo noi? Ne abbiamo già parlato. Ci sono molti punti di contatto tra gli ambienti di corte e quelli della severa regola religiosa. Santa Colette e Dionigi il Certosino frequentano i duchi; Margherita di York, seconda moglie di Carlo il Temerario, ha un vivo interesse per i conventi “riformati” del Belgio. Beatrice di Ravenstein, una delle più illu409
stri nella corte borgognona, porta sotto le vesti di gala il cilicio. “Vestue de drap d’or et de royaux atournements à luy duisans, et feignant estre la plus mondaine des autres, livrant ascout à toutes paroles perdues, comme maintes font, et monstrant de dehors de pareil usages avecques les lascives et huiseuses, portoit journellement le haire sur sa chair nue, jeunoit en pain et en eau mainte journée par fiction couverte, et son mary absent couchoit en la paille de son lit mainte nuyt.”43 Il raccoglimento, che era diventato una forma di vita permanente per i devoti moderni, è conosciuto anche dai grandi e superbi signori, ma solamente a sprazzi, come reazione all’eccesso. Quando Filippo il Buono, dopo la grande festa di Lilla, è ormai partito per Ratisbona per parlare con l’imperatore, diversi nobili e dame di corte si dedicano all’osservanza “qui menèrent moult belle e saincte vie”.44 I cronisti, che descrivono minuziosamente, e con tanta solennità, tutto quel fastoso cerimoniale, non tralasciano di manifestare più volte la loro avversione per “pompes et beubans”. Persino Olivier de la Marche, dopo la festa di Lilla, medita su “les oultraigeux excès et la grant despense qui pour la cause de ces banquets ons esté faictz”, e non vi trova alcun “entendement de vertu”, fatta eccezione per lo spettacolo nel quale compariva la Chiesa; tuttavia un altro letterato di corte gli spiega perché tutto ciò doveva svolgersi a quel modo.45 Luigi XI aveva serbato, dal suo soggiorno alla corte di Borgogna, un odio contro tutto quello che era lusso.46 L’ambiente nel quale e per il quale lavoravano gli artisti era completamente diverso da quello della devotio moderna. Anche se la fioritura della pittura, al pari di quella della fede, ha le sue radici nel tessuto urbano, l’arte dei Van Eyck e dei loro seguaci non può più essere definita borghese. La 410
corte e la nobiltà l’avevano tratta a sé. L’arte della miniatura si era innalzata a quelle vette di raffinatezza artistica che contraddistinguono l’opera dei fratelli Van Limburg e le Heures de Turin grazie soprattutto al mecenatismo dei principi. E anche la ricca borghesia delle grandi città del Belgio ambiva a una forma di vita nobiliare. La differenza tra l’arte dei Paesi Bassi meridionali e della Francia da una parte e il poco che si può considerare prodotto dai Paesi Bassi settentrionali nel XV secolo dall’altra può essere benissimo interpretata come differenza di milieu: lì la vita progredita e lussuosa di Bruges, Gand, Bruxelles, in continuo contatto con la corte; qui una cittadina isolata come Haarlem, in tutto molto più simile alle tranquille cittadine dell’Ijssel della devotio moderna. Se possiamo considerare l’arte di Dirk Bouts come arte di Haarlem (ciò che possediamo di lui è stato realizzato nel Sud, che aveva attirato anche lui), allora la semplicità, la tensione e la modestia tipiche del suo lavoro sono la genuina espressione borghese che si oppone all’allure aristocratica, all’eleganza pomposa, al fasto e allo splendore dei maestri meridionali. La scuola di Haarlem, infatti, è più vicina alla sfera della serietà borghese. I committenti della grande pittura, per quel che ne sappiamo, sono stati, quasi senza eccezione, i rappresentanti del grande capitalismo di quei giorni. Sono i principi stessi, i grandi signori della corte e i parvenu, di cui abbonda l’epoca borgognona, e che come gli altri gravitano intorno alla corte. La potenza borgognona si fonda del resto proprio sui servizi delle potenze economiche e sulla creazione, che essa favoriva, di una nuova nobiltà del denaro. La forma di vita di quegli ambienti è quella dell’elegante ideale cavalleresco, 411
esaltato nella pompa del Toson d’oro e nello sfarzo delle feste e dei tornei. Sull’intimo e devoto dipinto I Sette sacramenti del museo di Anversa uno stemma indica come probabile donatore il vescovo di Tournai, Jean Chevrot. Costui era, accanto a Rolin, il consigliere più intimo del duca,47 servitore zelante negli affari del Toson d’oro e dei grandi progetti per la crociata. Il tipo del grande capitalista di quei giorni è Pieter Bladelyn, la cui austera figura ci è nota dal trittico che ornava l’altare della chiesa nella sua cittadina di Middelburg, nelle Fiandre. Da esattore di Bruges, sua città natale, era salito fino al posto di tesoriere generale del duca. Contenendo le spese e aumentando il controllo migliorò le finanze. Divenne tesoriere del Toson d’oro e cavaliere; fece parte dell’importante missione diplomatica del 1440, per riscattare Carlo d’Orléans dalla prigionia inglese; avrebbe dovuto accompagnare il duca nella crociata contro i turchi per amministrare i fondi. Egli impiegò le sue ricchezze, che sbalordivano i contemporanei, per opere di arginatura – il polder di Bladelijn tra Sluis e Zuidzande porta ancora il suo nome – e per fondare una nuova città: Middelburg nelle Fiandre.48 Jodocus Vydt, che fa mostra di sé come donatore sulla pala d’altare di Gand, e il canonico Van de Paele appartengono altresì ai grandi ricchi dell’epoca; i Croy e i Lannoy sono nuovi ricchi nobiliari. Fu l’ascesa di Nicolas Rolin che colpì maggiormente i contemporanei, il cancelliere “venu de petit lieu” e chiamato a servire ai massimi livelli come giurista, finanziere e diplomatico. I grandi trattati dei duchi di Borgogna dal 1419 al 1435 sono opera sua. “Soloit tout gouverner tout seul à part luy manier et porter tout, fust de guerre, fust de paix, fust en fait des finances.”49 Aveva accumulato, con 412
mezzi non al di sopra di ogni sospetto, immense ricchezze, che impiegò per numerose fondazioni. Tuttavia si parlava con odio della sua avidità e del suo orgoglio, perché non si credeva che egli fosse spinto a quelle fondazioni dal fervore religioso. Questo Rolin, che vediamo inginocchiato così devotamente nel quadro di Jan van Eyck al Louvre, che egli fece dipingere per la sua città natale di Autun, e ancora una volta in quello di Rogier van der Weyden per il suo ospedale di Beaune, passava per un uomo dedito soltanto alle cose terrene. “Egli raccoglieva sempre in terra,” dice Chastellain, “come se la terra fosse eterna per lui di modo che il suo intelletto si traviò, quando non volle porre limiti a ciò di cui la sua età avanzata gli metteva davanti agli occhi la prossima fine.” E Jacques du Clercq dice: “Le dit chancellier fust reputé ung des sages hommes du royaume à parler temporellement; car au regard de l’espirituel, je m’en tais”.50 Dovremo cercare ora nel volto del donatore de La vierge au chancelier Rolin un essere ipocrita? Abbiamo già parlato dell’enigmatica combinazione di peccati mondani come l’orgoglio, l’avidità e la lussuria e di devozione austera e fede salda in figure come Filippo di Borgogna e Luigi d’Orléans. Alla schiera di quel tipo etico del tempo dovremo forse aggiungere anche Rolin. Non è facile scandagliare l’essenza di queste nature di un secolo svanito. La pittura del XV secolo opera nella sfera in cui gli estremi del misticismo e del grossolano materialismo si toccano. La fede che essa esprime è talmente immediata che nessuna raffigurazione terrena è troppo sensuale o pesante per essa. Van Eyck può drappeggiare i suoi angeli e le sue figure divine con la pesante magnificenza di vesti rigide, traboccanti d’oro e di pietre preziose; per indicare l’alto non ha ancora 413
bisogno delle falde che svolazzano e delle gambe che si dimenano del barocco. Però anche se quella fede è molto immediata e salda non è per questo primitiva. La denominazione di primitivi per i pittori del XV secolo racchiude il pericolo di un equivoco. Primitivo in questo caso può avere solamente il significato di primo in ordine di tempo, in quanto non ci è nota una pittura anteriore, un termine puramente cronologico dunque. Di solito però si è portati a supporre che lo spirito di quegli artisti fosse primitivo. E ciò è completamente sbagliato. Lo spirito di quell’arte è lo stesso che abbiamo già descritto nella vita religiosa: un’estrema elaborazione di tutto ciò che è fede mediante la raffigurazione. Una volta si vedevano le figure divine come infinitamente lontane: impassibili e rigide. Poi era venuto il pathos del fervore religioso. Con un fiume di lacrime e di canti era fiorito nella mistica del XII secolo, soprattutto in San Bernardo. Con commozione singhiozzante si andò all’assalto della divinità. Per poter partecipare meglio della passione divina si imponevano a Cristo e ai santi tutti i colori e le forme che la fantasia attingeva dalla vita terrena. Un torrente di ricca immaginazione umana scorreva attraverso tutti i cieli defluendo poi in innumerevoli piccole ramificazioni. A poco a poco l’elaborazione era riuscita a ricondurre all’immagine tutto il sacro fin nei minimi particolari. Le braccia supplichevoli dell’uomo avevano tirato giù il cielo. In un primo tempo la parola era stata a lungo superiore alla creazione plastica e pittorica in forza espressiva. In un periodo in cui la scultura conservava ancora molto della schematicità della rappresentazione più antica, limitata dai suoi mezzi materiali e dal suo ambito, la letteratura già co414
minciava a descrivere, minuziosamente, tutte le posizioni fisiche e tutte le emozioni del dramma della Croce. Le Meditationes vitae Christi, attribuite già verso il 1400 a Bonaventura,51 divennero il modello di questo naturalismo patetico in cui le scene della nascita, dell’infanzia, della deposizione e del compianto avevano i loro vividi colori, in cui si sapeva come Giuseppe di Arimatea fosse salito sulla scala e come avesse dovuto premere sulla mano del Signore per estrarne il chiodo. Nel frattempo però pure la tecnica della pittura fa progressi; l’arte figurativa recupera il terreno perduto spingendosi anche oltre. Con l’arte dei Van Eyck la raffigurazione pittorica delle cose sacre ha raggiunto un grado di precisione e di naturalezza che forse nell’ambito della storia dell’arte può essere considerato un principio, ma per la storia della cultura rappresenta una conclusione. Qui era stata raggiunta l’estrema tensione nella raffigurazione terrena del divino; il contenuto mistico di questa raffigurazione era sul punto di svanire da quelle immagini per lasciarsi dietro solamente il piacere di una forma variopinta. Così il naturalismo dei Van Eyck, che gli storici dell’arte interpretano di solito come un elemento che annuncia il Rinascimento, va piuttosto considerato l’ultima forma dello sviluppo dello spirito tardomedioevale. È quella stessa naturalistica raffigurazione del sacro percepibile in tutto ciò che si riferisce al culto dei santi, nei sermoni di Johannes Brugman, nelle elaborate speculazioni di Gerson e nelle descrizioni delle pene infernali di Dionigi il Certosino. È sempre la forma che minaccia di infestare il contenuto e gli impedisce di rinnovarsi. Nell’arte dei Van Eyck il contenuto è ancora interamente medioevale. Essa non esprime 415
idee nuove, è il punto culminante, finale. Il sistema concettuale medioevale nella sua compiutezza arrivava fino al cielo; non restava che vivacizzarlo e abbellirlo. Nella sua ammirazione per la grande pittura il contemporaneo dei Van Eyck si rendeva conto di due cose: dell’efficace rappresentazione del soggetto e dell’inconcepibile abilità, della mirabile perfezione dei dettagli, dell’imitazione fedele della natura. Da un lato un apprezzamento che riguarda più la sfera della devozione che quella dell’emozione estetica, dall’altro l’ingenuo stupore che, secondo le nostre concezioni, non si addice all’emozione estetica. Un letterato genovese della metà del quindicesimo secolo, Bartolomeo Fazio, è il primo di cui si conoscano considerazioni critiche sulle opere di Jan van Eyck, in parte andate perdute. Egli celebra la bellezza e la purezza di una Madonna, i capelli dell’angelo Gabriele “che superano i capelli veri”, la sacra austerità dell’ascesi che emana dal volto del Battista, la maniera in cui “vive” un Girolamo. Inoltre ammira la prospettiva dello studio di Girolamo, il raggio di sole che penetra attraverso una fessura, l’immagine di una bagnante riflessa nello specchio, le gocce di sudore sul corpo di un’altra, la lampada che arde, il paesaggio con viandanti e montagne, boschi, villaggi e castelli, le lontananze infinite dell’orizzonte e ancora una volta lo specchio.52 I termini adoperati tradiscono soltanto curiosità e stupore. Egli si lascia trascinare allegramente dalla fantasia e non si interroga sulla bellezza dell’insieme. Questo è l’apprezzamento ancor tutto medioevale dell’opera medioevale. Quando, un secolo dopo, si sono affermate le concezioni estetiche del Rinascimento, si condanna nell’arte fiamminga come difetto capitale proprio quell’elaborazione eccessiva 416
del singolo dettaglio. Se Francesco de Holanda, il pittore portoghese che fa passare le sue meditazioni sull’arte come conversazioni con Michelangelo, ha reso fedelmente l’opinione del grande maestro, questi avrebbe parlato così: “La pittura fiamminga piace a tutti i devoti più dell’italiana. Questa non fa mai versar lacrime, quella ne fa scorrere in abbondanza, e ciò non è affatto la conseguenza della forza e dei meriti di quell’arte, ma si deve solamente alla grande sensibilità dei devoti. La pittura fiamminga incontra il gusto delle donne, soprattutto delle anziane e delle giovanissime, così come quello dei monaci, delle suore e di tutte le illustri persone che non recepiscono la vera armonia. Nelle Fiandre si dipinge soprattutto per riprodurre ingannevolmente l’aspetto esteriore delle cose, e preferibilmente soggetti che colpiscano o che siano irreprensibili, come santi e profeti. Di regola dipingono ciò che si suole chiamare un paesaggio e lo riempiono di figure. Sebbene ciò sia piacevole da vedere, in realtà non c’è né arte né ragione; non vi è né simmetria né proporzione, né scelta né grandezza, in una parola: quest’arte è senza forza e magnificenza, vuole raffigurare alla perfezione molte cose contemporaneamente, una sola delle quali sarebbe sufficiente per impegnare tutte le forze. I devoti sono qui gli uomini medioevali di spirito. Per questo l’antica bellezza è diventata un affare per umili e deboli. Non tutti la pensavano così. Per Dürer e Quinten Metsys, e per Jan van Scorel, che si dice abbia baciato l’Adorazione dell’Agnello, l’arte antica non era affatto morta. Ma è Michelangelo che rappresenta qui in senso assoluto il Rinascimento. Ciò che egli rifiuta dell’arte fiamminga sono giusto i tratti essenziali dello spirito tardomedioevale; l’intensa sentimentalità, il considerare ogni particolare come cosa a sé 417
stante, ogni qualità osservata qualcosa di reale, il consumarsi nella molteplicità e nella varietà delle cose viste. A ciò si oppone la nuova visione dell’arte e della vita rinascimentale che, come sempre, si impone in virtù di una momentanea cecità nei confronti della bellezza o della verità che l’hanno preceduta.
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19. Il senso estetico
La consapevolezza di un piacere estetico e la sua espressione verbale sono maturate tardi. L’uomo del XV secolo dispone, per esprimere la sua ammirazione per l’arte, di termini che ci attenderemmo da un borghese stupito. Ancora non conosce il concetto della bellezza artistica! Se la bellezza che irradia l’arte lo contagia egli trasforma immediatamente questo fremito in un senso di comunione con Dio o in gioia di vivere. Dionigi il Certosino scrisse il trattato De venustate mundi et pulchritudine Dei.1 Già il titolo dunque attribuisce la vera bellezza unicamente a Dio; il mondo può essere solamente “venustus”, leggiadro, bello. Le bellezze del creato, dice lui, non sono che rivoletti della bellezza suprema; una creatura è chiamata bella nella misura in cui partecipa della bellezza della natura divina e quindi vi si uniforma in qualche modo.2 Questa estetica ampia e sublime, con cui Dionigi si richiama allo Pseudo-Areopagita, ad Agostino, a Ugo di San Vittore e ad Alessandro di Hales,3 sarebbe dovuta essere il punto di partenza per l’analisi di ogni bellezza. Però lo spirito del XV secolo non era affatto all’altezza del compito. Dionigi riprende continuamente dai suoi predecessori persino gli 419
esempi di bellezza terrena, una foglia, il mare dal colore cangiante, il mare burrascoso, in particolare dai due acuti spiriti del dodicesimo secolo del convento di San Vittore: Riccardo e Ugo. Quando poi si decide ad analizzare la bellezza rimane estremamente superficiale. Le erbe sono belle poiché sono verdi, le pietre poiché brillano, il corpo umano, il dromedario e il cammello poiché sono funzionali. La terra è bella poiché è lunga e larga, i corpi celesti poiché sono rotondi e chiari. Delle montagne ammiriamo la grandezza, dei fiumi la lunghezza del loro corso, dei campi e dei boschi l’estensione, della terra stessa l’incalcolabile massa. Il pensiero medioevale riconduceva sempre il concetto di bellezza a concetti di perfezione, proporzione e splendore. “Nam ad pulchritudinem,” dice Tommaso d’Aquino, “tria requiruntur. Primo quidem integritas sive perfectio: quae enim diminuta sunt, hoc ipso turpia sunt. Et debita proportio sive consonantia. Et iterum claritas: unde quae habent colorem nitidum, pulchra esse dicuntur.”4 Sono di tal fatta i criteri che cercò di applicare Dionigi. Il risultato è goffo: l’estetica applicata è sempre una cosa avventata. Non c’è da stupirsi che, con un’idea di bellezza così cerebrale, lo spirito non possa soffermarsi sulla bellezza terrena: ogni volta che vuol descrivere il bello Dionigi divaga subito sul bello invisibile: sulla bellezza degli angeli e dell’empireo; oppure lo cerca nelle cose astratte: la bellezza della vita è la stessa condotta di vita secondo i dettami della legge divina, libera dalla bruttura del peccato. Della bellezza dell’arte non parla, neanche di quella che avrebbe dovuto colpire più di ogni altra con il suo carattere specifico: la musica. Questo stesso Dionigi, entrato una volta nella chiesa di San Giovanni a Bosco Ducale mentre suonava l’organo, fu 420
subito rapito dalla soave melodia e avvinto da un’estasi prolungata.5 L’emozione estetica si trasformò immediatamente in religione. Non avrà pensato che nella bellezza della musica o della raffigurazione si può ammirare qualcosa di diverso dal divino stesso. Dionigi fu tra coloro che disapprovarono l’adozione della musica moderna, polifonica, nella chiesa. La voce rotta (fractio vocis), così scrive riecheggiando un autore più antico, sembra il sintomo di un’anima infranta; può essere paragonata ai capelli arricciati in un uomo o ai vestiti pieghettati in una donna, pura vanità. Taluni, che avevano praticato un tale canto a più voci, gli avevano confidato che in esso vi erano un certo orgoglio e una certa lascivia dell’animo (“lascivia animi”). Egli riconosce che ci sono dei devoti che dalle melodie vengono spinti alla contemplazione e alla devozione, ed è per questo che la Chiesa tollera gli organi. Ma quando la musica artistica ha lo scopo di allietare l’udito e di dilettare i presenti, soprattutto le donne, allora deve essere senz’altro respinta.6 Qui vediamo come lo spirito medioevale, nel descrivere l’essenza dell’emozione musicale, ancora non trovi altri termini che quelli delle inquietudini peccaminose: l’orgoglio e una certa lascivia d’animo. Si scriveva molto e di continuo sull’estetica musicale. Ci si fondava ancora, di regola, sulle ormai incomprensibili teorie musicali dell’antichità. Ma sul modo in cui si godeva davvero la bellezza musicale, quei trattati in fondo non ci dicono molto. Quando si trattava di esprimere che cosa si trovava veramente di bello nella musica, ci si limitava a termini generici, che sono per la loro natura decisamente affini a quelli che esprimono l’ammirazione per la pittura. La musica desta 421
da una parte il piacere della gioia celestiale, dall’altra l’ammirazione per l’efficace imitazione. Tutto contribuiva a far apparire l’emozione musicale affine alla beatitudine celeste; non si trattava qui di raffigurare cose sacre, come nella pittura, bensì di adombrare la stessa gioia celeste. Quando il bravo Molinet, che a quanto pare amava molto la musica, racconta come Carlo il Temerario, anche lui un grande appassionato di musica, si dedicasse, nel suo accampamento davanti a Neuss, alla letteratura e soprattutto alla musica, la sua anima di retorico esulta: “Car musique est la résonnance des cieux, la voix des anges, la joie de paradis, l’espoir de l’air, l’organe de l’Eglise, le chant des oyselets, la récréacion de tous cueurs tristes et désolés, la persécution et enchassement des diables”.7 Si era ovviamente ben consapevoli dell’elemento estatico del piacere musicale. “La forza delle armonie,” dice Pierre d’Ailly, “rapisce talmente l’anima umana da sottrarla non solo alle altre passioni e preoccupazioni, ma anche a se stessa.”8 Se nella pittura si ammirava la riuscita imitazione degli oggetti della natura, nella musica il pericolo che si cercasse la bellezza nell’imitazione era ancora maggiore. Perché la musica aveva già fatto da tempo largo uso dei suoi mezzi espressivi. La caccia (in inglese catch designa ancora un canone), che in origine si ispirava a una vera caccia, ne è l’esempio più noto. Olivier de la Marche racconta di essere stato trasportato da una di queste in un bosco e di aver sentito i cagnolini guaire e i mastini abbaiare e uno squillo di trombe.9 All’inizio del XVI secolo le Inventions di Janequin, allievo di Josquin de Prés, rendono in forma musicale diverse cacce, il tumulto della battaglia di Marignano, lo schia-
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mazzo del mercato di Parigi, “le caquet des femmes” e il canto degli uccelli. L’analisi teoretica del bello è dunque lacunosa, l’espressione dell’ammirazione è superficiale. Dapprima, per spiegare la bellezza, non si fa che sostituire a essa le nozioni di misura, eleganza, ordine, grandezza ed efficacia. E soprattutto quella di splendore, di luce. Per spiegare la bellezza delle cose dello spirito Dionigi le riconduce alla luce: l’intelletto è una luce, la saggezza, la scienza, la maestria non sono altro che bagliori luminosi, che illuminano lo spirito con la loro chiarezza.10 Se cerchiamo il senso estetico di quei tempi non nelle loro definizioni del concetto di bellezza, né in quel che dicono delle emozioni destate dalla pittura e dalla musica, ma nelle loro manifestazioni spontanee di entusiasmo per la bellezza restiamo colpiti dal fatto che quelle manifestazioni riguardano quasi sempre sensazioni di splendore o di movimento vivace. Froissart viene impressionato di rado dalla bellezza; era troppo impegnato con i suoi interminabili racconti; ma c’è uno spettacolo che gli strappa sempre parole entusiaste: le navi in acqua con bandiere e fiamme che sventolano, i cui blasoni variopinti scintillano al sole. Oppure il gioco dei raggi del sole sugli elmi, le corazze, le punte delle lance, gli stendardi e i vessilli dei cavalieri in marcia.11 Eustache Deschamps ammira la bellezza dei mulini che girano, e del sole in una goccia di rugiada; La Marche nota come sia bello il sole che illumina i biondi capelli di una brigata di cavalieri tedeschi e boemi.12 A quest’ammirazione per ciò che splende si collega il fasto dell’abbigliamento, che nel XV secolo raggiungeva ancora il culmine nella profusione di pietre pre423
ziose. Solo in un secondo tempo queste sono sostituite da nastri e fiocchi. Per aggiungere un tintinnio a quello scintillio si portano campanellini o monete. La Hire porta un mantello rosso tutto coperto di grandi campanacci d’argento. Nel 1465 il capitano Salazar, in un ingresso solenne, compare insieme a venti cavalieri corazzati, i cui cavalli sono coperti da grandi campane d’argento; sulla gualdrappa del suo cavallo a ognuna delle figure di cui è cosparsa è attaccato un campanello d’argento dorato. Durante l’entrata di Luigi XI a Parigi, nel 1461, i cavalli di Charolais, Croy, Saint Pol e di altri portano sulle gualdrappe numerose grandi campane; quello di Charolais ne porta una sul dorso sospesa tra quattro pilastrini. Un duca di Cleve, che tornò a casa con questa moda della corte borgognona, deve a ciò il suo soprannome “Johenneken mit den bellen”, Giovannino dalle campane. Carlo il Temerario appare a un torneo in abito di gala coperto di fiorini del Reno sonanti; gentiluomini inglesi portano abiti tempestati di nobili d’oro.13 Alla festa nuziale del conte di Ginevra a Chambéry nel 1434 un gruppo di signori e di dame, tutti vestiti di bianco e coperti di “or clinquant”, esegue una danza; i signori poi con larghe cinture piene di campanellini.14 Lo stesso ingenuo piacere per ciò che attira subito l’attenzione si può notare anche nel senso del colore dell’epoca. Per determinarlo con precisione sarebbe necessaria una vasta indagine statistica, che prendesse in considerazione sia la gamma di colori dell’arte figurativa sia quella dell’abbigliamento e dell’arte decorativa: in quanto all’abbigliamento bisognerebbe desumerla più dalle numerose descrizioni che dai pochi resti di stoffe che ci rimangono. Alcuni dati preziosi ce li fornisce l’araldo Sicilia nel suo già citato Blason 424
des couleurs. Inoltre nelle cronache si trovano descrizioni dettagliate dei costumi dei tornei e delle entrate trionfali. In questi fastosi vestiti di gala domina naturalmente una tonalità diversa rispetto all’abbigliamento quotidiano. Un capitolo, ingenuo, dell’araldo Sicilia parla della bellezza dei colori. Il rosso è il colore più bello, il marrone quello più brutto. Però quello che lo affascina di più è il verde, il colore della natura. Tra le combinazioni di colori loda quelle di giallo pallido e blu, di arancione e bianco, di arancione e rosa, di rosa e bianco, di nero e bianco e molte altre ancora. Blu-verde e verde-rosso sono frequenti, ma non belle. I mezzi linguistici che usa per designare i colori sono ancora limitati. Cerca di distinguere le varie sfumature di grigio e marrone chiamandole marrone biancastro e marrone violetto. I vestiti abituali fanno già molto uso del grigio, del nero e del viola.15 “Il nero,” dice Sicilia, “è oggigiorno più in auge per l’abbigliamento, per la sua semplicità. Ma tutti ne abusano.” Il costume maschile ideale, da lui creato, propone una giubba nera, calzamaglia grigia, scarpe nere, guanti gialli, dunque quasi una combinazione decisamente moderna. Sono ricercate, per l’abbigliamento, anche stoffe grigie, violette e diverse tonalità di marrone. I contadini e gli inglesi portano il blu, che si addice pure alle ragazze, al pari del rosa. Il bianco conviene ai bambini fino a sette anni e agli scemi! Il giallo è portato principalmente da gente d’armi, paggi e servi; se non è accompagnato da altri colori non piace. “E quando verrà il mese di maggio, non vedrete portare altro colore all’infuori del verde.”16 Nei vestiti di gala colpisce la preponderanza del rosso. Nessuno d’altro canto si attenderebbe altro da questa epoca rossa. Gli ingressi solenni sono spesso un trionfo del rosso.17 425
Anche il bianco ha la sua importanza come colore ufficiale delle feste. È ammessa ogni combinazione di colori: si trovano rosso e blu e blu e violetto. In una rappresentazione, descritta da La Marche, appare una ragazza in seta viola su una chinea con una gualdrappa di seta blu, condotta da tre uomini in seta vermiglia con cappucci di seta verde. I cavalieri dell’Ordine del Porcospino di Luigi d’Orléans indossavano una tunica di drappo viola e un mantello di velluto azzurro foderato di raso cremisi.18 Non si può negare una predilezione per accostamenti di colori cupi e accesi e opachi e vivaci. Il nero, usato soprattutto per il velluto, rappresenta innegabilmente il fasto superbo e cupo amato dall’epoca, l’orgoglioso distacco dalla multicolore allegria dell’insieme. Filippo il Buono, divenuto adulto, indossa sempre il nero e lo fa anche portare al suo seguito e ai suoi cavalli.19 Re Renato, che viveva cercando con un’insistenza ancora maggiore la distinzione e la raffinatezza, usa i colori grigio, bianco e nero.20 Lo scarso rilievo dato al blu e al verde forse non va spiegato solo come una conseguenza del senso del colore. Tra tutti i colori il blu e il verde avevano un’importanza simbolica particolare, e quel significato era così peculiare da renderli quasi inutilizzabili come colori per abiti. Infatti ambedue erano i colori dell’amore: il verde simboleggiava la passione amorosa, il blu la fedeltà.21 O, per meglio dire, erano i colori dell’amore per eccellenza, perché il simbolismo amoroso poteva avvalersi anche degli altri colori. Deschamps dice degli amanti: Li uns se vest pour li de vert, L’autre de bleu, l’autre de blanc, L’autre s’en vest vermeil com sanc, 426
Et cilz qui plus la veult avoir Pour son grant dueil s’en vest de noir.22 Però il verde restava pur sempre soprattutto il colore dell’amore giovane e pieno di speranza: Il te fauldra de vert vestir, C’est la livrée aux amoureulx.23 Per la stessa ragione anche il cavaliere errante deve essere vestito di verde.24 Indossando il blu l’amante dimostra la sua fedeltà; perciò Christine de Pisan fa rispondere dalla dama all’innamorato che accenna alla sua veste blu: Au bleu vestir ne tient mie le fait, N’à devises porter, d’amer sa dame, Mais au servir de loyal cuer parfait Elle sans plus, et la garder de blasme …Là gist l’amour, non pas au bleu porter, Mais puet estre que plusieurs le meffait De faulseté cuident couvrir soubz lame Par bleu porter…25 Probabilmente questo spiega immediatamente perché il colore blu, subdolamente, passò a indicare anche l’infedeltà, e con un curioso capovolgimento indicava non solo l’infedele ma anche l’ingannato. La cuffia blu indica in nederlandese l’adultera, e la “cote bleue” è il vestito dell’ingannato: Que cils qui m’a de cote bleue armé Et fait monster au doy, soit occis.26 La domanda se ciò spieghi il significato del blu come colore della pazzia in generale, del resto “blauwe scute” indica il veicolo dei folli, resti in sospeso. Quando il giallo e il marrone rimangono in secondo piano 427
allora l’avversione a questi colori per la loro qualità cromatica, quindi il senso immediato del colore, sarà strettamente connessa, con un rapporto di causalità, a un significato simbolico negativo: in altre parole il giallo e il marrone non piacevano perché erano considerati brutti e si attribuì loro un significato infausto proprio poiché non piacevano. La mal maritata dice: Sur toute couleur j’ayme la tennée Pour ce que je l’ayme m’en suys habillée, Et toutes les aultres ay mis en obly. Hellas! mes amours ne sont ycy. O in un’altra canzone: Gris et tannée puis bien porter Car ennuyé suis d’espérance.27 Il grigio, al contrario del bruno, è molto usato nei vestiti di gala; era un colore di tristezza come il marrone ma probabilmente aveva una sfumatura più elegiaca. Il giallo aveva già il significato di ostilità. Enrico di Wurtemberg passa davanti al duca di Borgogna con tutto il suo seguito vestito di giallo, “et fut le duc adverty que c’estoit contre luy”.28 Dopo la metà del XV secolo sembra (si tratta tuttavia di un’impressione fugace, che andrebbe confermata) che ci sia una temporanea diminuzione del bianco e del nero a favore del blu e del giallo. Nel XVI secolo le combinazioni di colori particolarmente audaci di cui abbiamo parlato sono in gran parte scomparse dall’abbigliamento, e nello stesso tempo anche l’arte cerca di evitare gli ingenui contrasti dei colori primari. Non è dall’Italia che gli artisti dei paesi borgognoni attingono il senso dell’armonia dei colori. Già Gerard Davi428
d, formalmente il diretto continuatore della vecchia scuola, mostra, rispetto ai suoi predecessori, un senso del colore più raffinato, che testimonia che questo, nel suo sviluppo, è connesso alla crescita generale dello spirito. Questo è un campo in cui l’indagine storico-artistica e quella storico-culturale possono ancora imparare molto l’una dall’altra.
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20. L’immagine e la parola
Ogniqualvolta si è cercato di separare nettamente Medioevo e Rinascimento è come se ci si fosse trovati davanti a dei confini mobili. Nel lontano Medioevo si sono trovate forme e movimenti che sembravano già recare l’impronta del Rinascimento, e il concetto di Rinascimento, per poter comprendere anche quei fenomeni, è stato dilatato fino a perdere ogni elasticità.1 Però è anche vero il contrario: chi studia senza preconcetti lo spirito del Rinascimento vi scopre un carattere molto più “medioevale” di quanto la teoria ammetta. Ariosto, Rabelais, Margherita di Navarra, Castiglione, nonché tutta l’arte figurativa, sono pieni di elementi medioevali in quanto a forma e contenuto. E tuttavia noi non possiamo fare a meno del contrasto: il Medioevo e il Rinascimento sono diventati per noi dei termini in cui percepiamo subito l’essenza di due epoche palesemente diverse, con la stessa immediatezza con la quale distinguiamo una mela da una fragola, mentre poi è quasi impossibile definire questa differenza. È necessario però ricondurre il concetto di Rinascimento (che non contiene in sé, come quello di Medioevo, un limite cronologico vincolante) il più possibile al suo significato ori430
ginario. Dobbiamo senz’altro rifiutare di considerare Sluter e Van Eyck rinascimentali, come fanno Fierens Gevaert e altri,2 in quanto sanno di Medioevo, e sono medioevali per forma e per contenuto. Per contenuto perché la loro arte riguardo al soggetto, all’idea e alla destinazione non ha ripudiato nulla dell’antico e non ha assimilato nulla del nuovo. Per forma perché proprio il loro scrupoloso realismo e la loro aspirazione a rendere tutto in immagini il più possibile corporee rappresenta il frutto maturo del vero spirito medioevale. Così, del resto, lo abbiamo visto emergere dappertutto, nel pensiero religioso e nell’immaginazione, nelle forme di pensiero della vita quotidiana. Quel realismo minuzioso è un tratto che il Rinascimento abbandona solo all’apice del suo sviluppo, nel Cinquecento italiano, mentre il Quattrocento lo ha ancora in comune con il Nord. L’arte figurativa e la letteratura del xv secolo in Francia e nei territori borgognoni, pur creando una nuova bellezza, non riescono ancora a esprimere il nuovo spirito. Esse servono uno spirito declinante e hanno il loro posto nel compiuto sistema del pensiero medioevale; il loro compito consiste praticamente nel raffigurare e rendere al meglio idee lungamente meditate. Il pensiero sembra esaurito, lo spirito attende una nuova fecondazione. In periodi nei quali la creazione artistica si limita semplicemente a parafrasare un patrimonio di idee assorbito ed elaborato da tempo, l’arte figurativa assume un valore superiore a quello della letteratura. Ciò non vale per i contemporanei. Per loro il pensiero, anche se non fiorisce più, è ancora così efficace e importante, che è proprio quando la letteratura gli conferisce una forma elegante che essi la amano e ammirano. Tutte quelle poesie, per noi così irrimediabil431
mente monotone e superficiali, nelle quali risuona il canto del xv secolo, sono state esaltate dai contemporanei più di qualsiasi quadro. Non si sono ancora resi conto della valenza emotiva dell’arte figurativa, per lo meno non al punto di riconoscerla. Il fatto che una grandissima parte di quella letteratura abbia perduto, per noi, ogni fascino e ogni splendore, mentre l’arte ci tocca più profondamente di quanto possa aver colpito i contemporanei, si può spiegare con la differenza fondamentale tra l’effetto dell’arte e quello della parola. Del resto sarebbe sin troppo facile e astruso cercarne il motivo nella qualità dei talenti, reputando i poeti, eccetto Villon e Charles d’Orléans, solo delle teste vuote e convenzionali e i pittori dei geni. Lo stesso principio formale conduce nell’arte figurativa e in letteratura a effetti molto diversi. Se il pittore si limita a riprodurre la realtà esterna con linee e colori, aggiunge comunque sempre a quella imitazione puramente formale l’inespresso e l’inesprimibile. Il poeta, al contrario, se non mira a qualcosa di più alto dell’espressione verbale di una realtà visibile o già ponderata, allora esaurisce nella parola il tesoro dell’inespresso. Può accadere che ritmo e suono conferiscano una nuova, inespressa bellezza; ma se anche questi elementi sono deboli l’effetto della poesia dura fin quando non è lo stesso contenuto ad avvincere chi ascolta. I contemporanei reagiscono ancora alla parola del poeta con una profusione di associazioni vive, perché il senso è ancora intrecciato con la loro vita e appare nuovo e fiorente nella bella veste della nuova parola. Tuttavia se il contenuto non interessa più, la poesia può mantenere la sua vitalità solo con la forma. La forma ha 432
un’importanza assoluta e può essere così nuova e così viva da far passare in secondo piano il contenuto. Una nuova bellezza formale nasce già nella letteratura del Quattrocento, ma si tratta per lo più ancora di una vecchia forma, e le qualità ritmiche e sonore sono modeste. Poi, senza nuove idee e senza nuove forme, non resta che un interminabile postludio su temi scontati. Per questi poeti non c’è futuro. Il periodo spirituale della pittura viene solamente in un secondo tempo; perché il pittore vive del tesoro dell’inespresso, ed è la ricchezza di quel tesoro che determina l’effetto più profondo e durevole di ogni arte. Guardate i ritratti di Jan van Eyck. Qui il viso spigoloso e immusonito di sua moglie. Lì la testa aristocratica rigida e malinconica di Baudouin de Lannoy. E poi i tratti sinistri e cupi del canonico Van de Paele, la sofferta rassegnazione dell’Arnolfini berlinese, l’alone enigmatico di Leal souvenir. In tutti c’è il miracolo del carattere analizzato fino in fondo. Il profilo dei caratteri ha raggiunto la massima profondità possibile: si vede ciò che non è stato espresso. Anche se Jan van Eyck fosse stato il più grande poeta del suo secolo non avrebbe potuto sfiorare con le parole il mistero che egli rivelò con le immagini. È questa la ragione profonda per la quale non possiamo aspettarci una corrispondenza tra arte e letteratura nel XV secolo, malgrado l’identità di atteggiamento e di spirito. Una volta ammessa questa differenza però, confrontando l’espressione letteraria e quella pittorica sulla base di determinati esempi e particolari, l’affinità risulta molto maggiore di quanto potesse sembrare in un primo momento. Se, da un lato, prendiamo l’opera dei Van Eyck e dei loro seguaci come l’espressione artistica più rappresentativa, qua433
li prodotti letterari potranno sostenere un simile confronto? Certo non quelli che trattano gli stessi soggetti, bensì quelli che scaturiscono dalle medesime fonti, dallo stesso mondo, già mostrato sopra, della sontuosa corte e della ricca e boriosa borghesia. La letteratura che può essere raffrontata all’arte dei Van Eyck è la letteratura cortese, o almeno aristocratica, scritta in francese, letta e ammirata dai circoli che commissionavano lavori ai grandi pittori. A quanto pare qui c’è un contrasto che rende quasi impossibile ogni paragone: la materia della pittura è prevalentemente religiosa, quella della letteratura franco-borgognona prevalentemente profana. Però, in ambedue i casi, la nostra visione è imperfetta: l’elemento profano ha occupato un tempo un posto molto più importante nell’arte figurativa di quanto ciò che ci è rimasto faccia supporre, e in letteratura siamo di solito troppo attratti dai generi profani. La poesia amorosa, le propaggini del Roman de la Rose, le imitazioni del romanzo cavalleresco, la nascente novella, la satira, la storiografia, sono queste le manifestazioni di cui principalmente si occupa la storia della letteratura. La pittura è per noi soprattutto la profonda serietà della pala d’altare e del ritratto; la letteratura è innanzitutto il sorriso lascivo della satira erotica e i monotoni orrori della cronaca. In un certo senso, è come se quel secolo avesse dipinto le sue virtù e descritto i suoi peccati; ma si tratta solo di un’illusione ottica. Ricominciamo dalla grande difformità dell’effetto che l’arte e la letteratura del XV secolo suscitano in noi. A eccezione di alcuni poeti la letteratura ci stanca e annoia. Interminabili esposizioni di allegorie, in cui non compare alcuna figura nuova o originale, e il cui contenuto non è altro che la stantia sapienza dei secoli passati ormai priva di valore. Sem434
pre gli stessi temi formali: il dormiente nel frutteto, al quale appare una dama emblematica, la passeggiata mattutina al principio di maggio, la tenzone fra la dama e l’amante, o tra due amiche o qualsiasi altra coppia, su un punto di casistica amorosa. Una superficialità desolante, svolazzi stilistici pieni d’orpelli, un romanticismo melenso, una fantasia logora, un moralismo arido ci fanno continuamente sospirare: ma sono questi i contemporanei di Jan van Eyck? Egli avrà ammirato tutto ciò? È più che probabile. Non è più strano che vedere Bach accontentarsi dei poetastri piccolo borghesi e della loro reumatica fede nella dottrina della Chiesa. Il contemporaneo che vede nascere le opere d’arte le accoglie tutte ugualmente nel suo sogno. Non le apprezza per la loro obiettiva perfezione estetica, ma per la pienezza della risonanza che esse suscitano grazie alla santità o all’appassionata vivacità della loro materia. Quando, con il tempo, il vecchio sogno svanisce e la santità e la passione si sono dileguate come il profumo di una rosa, solo allora l’opera d’arte comincia ad agire come arte pura, ossia con i suoi mezzi espressivi, il suo stile, la sua costruzione, la sua armonia. Questi, nell’arte figurativa e nella letteratura, possono di fatto essere identici e tuttavia generare valori artistici del tutto diversi. Letteratura e arte nel XV secolo partecipano ambedue di quella qualità generale di cui si è già parlato come di una delle più essenziali del pensiero tardomedioevale: l’approfondita elaborazione di tutti i particolari, la smania di non lasciare alcuna idea o rappresentazione impellente senza sviluppo e di raffigurare ogni cosa in modo nitido, evidente e ponderato. Erasmo racconta di aver sentito predicare una volta, a Parigi, un religioso per quaranta giorni di seguito 435
sulla parabola del Figliuol Prodigo, ovvero per l’intera Quaresima; questi raccontò il viaggio di andata e di ritorno, come egli pranzasse in un’osteria con del pasticcio di lingua, passasse davanti a un mulino ad acqua, giocasse ai dadi e scendesse in una bettola; e riuscì a tirare fuori dalle parole dei profeti e degli evangelisti una corrispondenza con le sue fandonie. “E in tal modo appariva simile a un Dio agli occhi della folla ignorante e dei grandi, grassi signori.”3 Cerchiamo ora una conferma di questa frenetica elaborazione nell’analisi di due quadri di Jan van Eyck, cominciando dalla Madonna del cancelliere Rolin che si trova al Louvre. La meticolosità con cui sono trattati la stoffa delle vesti, il marmo delle lastre e delle colonne, il luccichio dei vetri, il messale del cancelliere, ci farebbe definire ogni altro pittore che non fosse Van Eyck come pedante. C’è persino un dettaglio che, per l’eccessiva accuratezza, effettivamente infastidisce: gli ornamenti dei capitelli, sui quali in un angolo, come fra parentesi, sono raffigurati la cacciata dal paradiso, il sacrificio di Caino e Abele, l’uscita dall’Arca di Noè e il peccato di Cam. Però solo fuori dell’atrio aperto, che circonda le figure principali, il gusto del dettaglio minuzioso raggiunge l’apice. Lì attraverso le arcate si spiega davanti a noi il panorama più meraviglioso che Van Eyck abbia mai dipinto. Per la descrizione ci si può richiamare a Durand-Gréville. “Si, attiré par la curiosité, on a l’imprudence de rapprocher d’un peu trop près, c’est fini, on est pris pour tout le temps que peut durer l’effort d’une attention soutenue; on s’extasie devant la finesse du détail; on regarde, fleuron à fleuron, la couronne de la Vierge, une orfèvrerie de rêve; figure à figure, les groupes qui remplissent, sans les alourdir, les chapiteaux 436
des piliers; fleur à fleur, feuille à feuille, les richesses du parterre; l’oeil stupéfait découvre, entre la tête de l’enfant divin et l’épaule de la Vierge, dans une ville pleine de pignons et d’élégants clochers, une grande église aux nombreux contreforts, une vaste place coupée en deux dans toute sa largeur par un escalier où vont, viennent, courent d’innombrables petits coups de pinceau qui sont autant de figures vivantes; il est attiré par un pont en dos d’âne chargé de groupes qui se pressent et s’entrecroisent; il suit les méandres d’un fleuve sillonné de barques minuscules, au milieu duquel, dans une île plus petite que l’ongle d’un doigt d’enfant, se dresse, entouré d’arbres, un château seigneurial aux nombreux clochetons; il parcourt, sur la gauche, un quai planté d’arbres, peuplé de promeneurs; il va toujours plus loin, franchit une à une les croupes de collines verdoyantes; se repose un moment sur une ligne lointaine de montagnes neigeuses, pour se perdre ensuite dans l’infini d’un ciel à peine bleu, où s’estompent de flottantes nuées.” E ora il miracolo: in tutto ciò, contrariamente a quanto affermava il discepolo di Michelangelo, l’unità e l’armonia non vanno perdute. “Et quand le jour tombe, une minute avant que la voix des gardiens ne vienne mettre fin à votre contemplation, voyez comme le chef d’œuvre se transfigure dans la douceur du crépuscule; comme son ciel devient encore plus profond; comme la scène principale, dont les couleurs se sont évanouies, se plonge dans l’infini mystère de l’Harmonie et de l’Unité…”4 Un altro dipinto che si presta bene all’esame dell’illimitata minuziosità con cui vengono dipinti i particolari è l’Annunciazione dell’Ermitage di San Pietroburgo, attualmente di proprietà americana. Se il trittico, di cui questo quadro forma lo scomparto destro, è mai esistito nel suo insieme, che 437
meravigliosa creazione deve essere stata! È come se Van Eyck avesse voluto dimostrare in esso la virtuosità del maestro che non teme difficoltà, che può e osa tutto. È nello stesso tempo la sua opera più primitiva, più ieratica e più raffinata. Il messaggio dell’Angelo non viene portato nell’intimità della camera (la scena che ha dato origine a tutta la pittura d’interni), ma in una chiesa, così come aveva prescritto il codice formale dell’arte più antica. Nell’atteggiamento e nell’espressione del viso ambedue le figure mancano della soave delicatezza dell’Annunciazione del lato esterno dell’Agnello. L’Angelo saluta Maria con un inchino cerimonioso e non reca in mano, come là, un ramo di giglio, né ha la testa cinta di un sottile diadema, bensì porta uno scettro e una ricca corona e ha sul viso un sorriso rigido ed eginetico. Per lo splendore acceso dei colori e lo sfolgorio delle perle, dell’oro e delle pietre preziose egli supera tutte le figure angeliche dipinte da Van Eyck. Verde e oro la veste, rosso scuro e oro il mantello di broccato, tempestate di piume di pavone le ali. Il libro davanti a Maria, il cuscino sul panchetto sono rifiniti poi con estrema accuratezza. I dettagli della chiesa sono stati eseguiti con una minuziosità aneddotica. Le pietre del pavimento mostrano, oltre ai segni dello zodiaco di cui se ne vedono cinque, tre scene della storia di Sansone e una di quella di Davide. La parete di fondo della chiesa è ornata, tra gli archi, dalle immagini di Isacco e Giacobbe racchiuse in medaglioni, in una vetrata molto in alto vediamo Cristo sul globo con due serafini, e accanto, come pitture murali, Mosè salvato dalle acque e la consegna delle Tavole della Legge, il tutto spiegato con iscrizioni leggibili. Solo nei pannelli del soffitto in legno la decorazione, sebbene delineata, diventa indistinta. 438
E poi ecco di nuovo il miracolo: come nella Madonna del cancelliere Rolin, neanche in questo insieme di particolari viene meno l’unità di tono e di accordo profondo. Lì era la letizia di una chiara luce del giorno a condurre lo sguardo, dalla rappresentazione centrale, a spaziare in lontananza; qui l’oscurità misteriosa dell’alta chiesa conferisce al tutto un alone di serietà e di mistero, sicché quasi a fatica l’occhio riesce a scorgere i dettagli aneddotici. Ecco l’effetto della “frenetica elaborazione” nella pittura. Il pittore, per lo meno questo pittore, poté dare libero corso al suo sfrenato piacere del particolare (o forse non fece che eseguire i gravosi incarichi di un devoto incompetente) entro uno spazio di appena mezzo metro quadro, senza stancarci più di quanto ci stanca uno sguardo sul vivace brulichio della realtà. Poiché restava solo uno sguardo; il vincolo delle dimensioni imponeva dei limiti, e noi riusciamo a cogliere senza grande sforzo mentale la bellezza e la particolarità di tutto ciò che è raffigurato: spesso neanche notiamo questa cura dei particolari, che talvolta scompaiono subito dalla coscienza e producono solamente un effetto coloristico o prospettico. Se attribuiamo questa caratteristica della “illimitata elaborazione dei particolari” anche alla letteratura del XV secolo (beninteso, alla letteratura artistica, perché qui non parliamo della canzone popolare) allora il senso cambia. Non c’è il naturalismo tenue di una ragnatela di dettagli, che si compiace della descrizione minuziosa dell’aspetto esteriore delle cose, perché ancora non si trova in questa letteratura. La descrizione della natura e dei personaggi si avvale ancora dei semplici mezzi della poesia medioevale: i singoli oggetti che contribuiscono a creare l’accordo profondo del poeta sono solo 439
menzionati, non descritti; il sostantivo prevale sull’aggettivo; solo le qualità principali degli oggetti, per esempio i colori o il suono, vengono constatate. L’illimitata elaborazione dei particolari è, nell’immaginazione letteraria, più quantitativa che qualitativa; consiste più nell’enumerazione di moltissimi oggetti che nell’analisi delle qualità dei singoli oggetti. Il poeta non comprende l’arte dell’omissione, non conosce lo spazio vuoto, non ha l’organo che produce il silenzio. Questo vale tanto per i pensieri che egli esprime, quanto per le immagini che evoca. Anche i pensieri suscitati dal soggetto, di solito molto semplici, vengono elencati con estrema cura. L’intera composizione poetica è sovraccarica di dettagli, al pari del quadro. Come mai, allora, quella sovrabbondanza risulta tanto meno armoniosa? Fino a un certo punto ciò si spiega con il fatto che in poesia il rapporto tra il soggetto principale e quelli secondari è esattamente l’opposto di quello che è in pittura. Nel quadro la differenza tra l’essenziale (ossia l’adeguata espressione del soggetto) e il complementare è esigua, tutto è essenziale. Un solo dettaglio può darci la perfetta armonia dell’opera. Nella pittura del XV secolo ammiriamo forse, in primo luogo, la profonda devozione e quindi l’adeguata espressione del soggetto? Prendiamo l’altare di Gand. Quanto poco attirano l’attenzione le grandi figure di Dio, Maria e Giovanni Battista! Nella scena principale il nostro sguardo si allontana sempre più dall’Agnello, la rappresentazione centrale, il fulcro dell’opera, verso i lati, verso la processione degli adoratori e, sullo sfondo, verso il paesaggio; e poi ancora più in là, verso l’orlo, verso Adamo ed Eva e i ritratti dei donatori. Persino nella scena dell’Annunciazione, dove l’incanto intimo e solenne sta nelle figure dell’Angelo e della Vergine, 440
quindi nell’espressione della pietà, ci rallegra quasi di più il paiolino e la vista della strada soleggiata. Sono i dettagli, che per l’autore erano irrilevanti, a far emergere qui, nel suo quieto splendore, il mistero del quotidiano, la commozione immediata per il miracolo delle cose e della loro raffigurazione. Non vi è alcuna differenza, a meno di non attenersi a una valutazione fondamentalmente religiosa dell’Agnello, tra l’emozione estetica che proviamo davanti alla sacra rappresentazione dell’adorazione dell’Eucaristia e quella che proviamo davanti alla bancarella del pesce di Emanuel de Witte nel Museo Boymans. È proprio nei confronti del dettaglio che il pittore è assolutamente libero. Per quel che concerne il tema principale, la rappresentazione del soggetto sacro, gli è stata imposta una rigida convenzione; ogni scena religiosa ha il suo codice iconografico, che non tollera deviazioni. Ma egli conserva un campo illimitato per sviluppare liberamente la sua creatività. Nelle vesti, negli accessori, nello sfondo, senza alcun impedimento o problema, egli può fare il pittore, cioè dipingere, emancipato da ogni convenzione, rendere ciò che vede e come lo vede. La costruzione salda e rigida della scena sacra porta la ricchezza dei dettagli come un tesoro luminoso, come una donna porta dei fiori sui suoi vestiti. Nella poesia del XV secolo il rapporto è, in un certo senso, capovolto. Nei confronti del soggetto principale il poeta è libero; egli può esprimere un pensiero nuovo, se ci riesce, mentre proprio il dettaglio, lo sfondo vengono regolati in gran parte dalla convenzione. Per quasi tutti i particolari esiste una norma espressiva, un modello al quale malvolentieri si rinuncia. Fiori, amore per la natura, dolori e gioie hanno
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le loro forme espressive convenzionali, che il poeta può abbellire e colorire, non rinnovare. Egli abbellisce e colorisce all’infinito, perché gli manca il salutare limite imposto al pittore dalla superficie da riempire; la superficie del poeta è sempre illimitata. Egli è libero dal vincolo dei mezzi materiali, e proprio per questa libertà deve avere, in proporzione, uno spirito più grande di quello del pittore, per poter produrre qualcosa di buono. Anche i pittori mediocri continuano a essere una gioia per i posteri, ma il poeta mediocre cade nell’oblio. Per illustrare l’effetto della “frenetica elaborazione” in un’opera poetica del XV secolo bisognerebbe, in realtà, seguirne una passo per passo in tutta la sua lunghezza (e sono lunghe!). Visto che questo non è possibile ci accontenteremo di qualche esempio. Alain Chartier passava, ai suoi tempi, come uno dei maggiori poeti; è stato paragonato a Petrarca; Clément Marot lo annovera ancora tra i migliori. L’aneddoto già riferito testimonia la popolarità di cui godette.5 Quindi, secondo lo spirito della sua epoca, possiamo porlo accanto a uno dei più grandi pittori. L’inizio del suo poema Le livre des quatre dames, una conversazione tra quattro gentildonne, i cui amanti hanno combattuto ad Azincourt, descrive come al solito il paesaggio, sfondo del quadro. Si paragoni questo paesaggio a quello ben noto dell’altare di Gand: il meraviglioso prato fiorito con la sua vegetazione eseguita minuziosamente, con i campanili dietro le vette ombrose delle colline, vero esempio di frenetica elaborazione. In un mattino di primavera, per scacciare la sua persistente malinconia, il poeta si mette in cammino. Pour oublier melencolie, 442
Et pour faire chière plus lie, Ung doulx matin aux champs issy, Au premier jour qu’amours ralie Les cueurs en la saison jolie… Tutto ciò è puramente convenzionale e nessuna bellezza di ritmo o sonorità lo innalza sopra la piatta mediocrità. Viene poi la descrizione del mattino di primavera. Tout autour oiseaulx voletoient, Et si très-doulcement chantoient, Qu’il n’est cueur qui n’en fust joyeulx. Et en chantant en l’air montoient Et puis l’un l’autre surmontoient A l’estrivée à qui mieulx mieulx. Le temps n’estoit mie nueux, De bleu estoient vestuz les cieux, Et le beau soleil cler luisoit. La semplice menzione delle delizie del tempo e del luogo sarebbe stata qui molto efficace, se il poeta si fosse saputo contenere. C’è un certo fascino nella grande semplicità di questa poesia della natura, ma manca una vera forma. L’enumerazione procede al piccolo trotto; a un’ulteriore descrizione del canto degli uccelli segue: Les arbres regarday flourir, Et lièvres et coninns courir. Du printemps tout s’esjouyssoit. Là sembloit amour seignourir. Nul n’y peult vieillir ne mourir, Ce me semble, tant qu’il y soit. 443
Des erbes ung flair doulx issoit, Que l’air sery adoulcissoit, Et en bruiant par la valée Ung petit ruisselet passoit, Qui les pays amoitissoit, Dont l’eaue n’estoit pas salée. Là buvoient les oysillons, Apres ce que des grisillons, Des mouschettes et papillons Ilz avoient pris leur pasture. Lasniers, aoutours, esmerillons Vy, et mouches aux aguillons, Qui de beau miel paveillons Firent aux arbres par mesure. De l’autre part fut la closture D’ung pré gracieux, où nature Sema les fleurs sur la verdure, Blanches, jaunes, rouges et perses. D’arbres flouriz fut la ceinture, Aussi blancs que se neige pure Les couvroit, ce sembloit paincture, Tant y eut de couleurs diverses.6 Un ruscello mormora sui ciottoli; vi nuotano dentro dei pesci, un boschetto spiega i suoi rami sulla riva come verdi tendaggi. E segue di nuovo un elenco di uccelli: lì nidificano anatre, piccioni, aironi e fagiani. Qual è l’effetto della cura dei particolari nella descrizione della natura in una poesia, rispetto a un quadro, ovvero co444
me si esprime una stessa ispirazione con mezzi diversi? Il pittore è costretto dalla natura della sua arte a una semplice imitazione, mentre il poeta si perde in una informe superficialità e nell’enumerazione di motivi convenzionali. Sotto questo aspetto la prosa è più vicina alla pittura che non la poesia, essendo meno legata a certi motivi. Spesso, e in modo più evidente, essa ci dà una precisa riproduzione di una realtà osservata potendola eseguire con mezzi più liberi. In questo modo la prosa, meglio della poesia, rivela la profonda affinità tra letteratura e arte. Il tratto fondamentale dello spirito tardomedioevale è la predominanza del carattere visivo, strettamente connesso all’atrofia del pensiero. Si ragiona per rappresentazioni visive. Tutto ciò che si vuol esprimere viene inserito in un’immagine visibile. La grande povertà di concetti nelle rappresentazioni o nelle poesie allegoriche si poteva sopportare perché l’appagamento risiedeva tutto nella visione. La tendenza a riprodurre immediatamente l’aspetto esteriore trovò una manifestazione più valida e completa nei mezzi pittorici che in quelli letterari. E, tra questi, una manifestazione più valida nei mezzi della prosa piuttosto che in quelli della poesia. Perciò la prosa del secolo XV, sotto molti aspetti, si trova in una posizione intermedia tra la pittura e la poesia. Tutte e tre hanno in comune la sfrenata elaborazione dei particolari, che porta nella pittura e nella prosa a un realismo immediato, ignorato dalla poesia che non riesce a sostituirlo con qualcosa di meglio. C’è soprattutto uno scrittore nelle cui opere ci colpisce quella stessa cristallina visione dell’aspetto esteriore delle cose propria di Van Eyck, Georges Chastellain, un fiammingo del paese di Alost. Sebbene dica di essere “léal François”, 445
“François de naissance”, sembra però che il nederlandese sia stato la sua madrelingua. La Marche lo chiama “natif Flameng, toutesfois mettant par escript en langaige franchois”. Egli stesso rende note, con modesto compiacimento, le sue qualità fiamminghe, la sua grossolana rusticità; parla della “sa brute langue”, si dichiara “homme flandrin, homme de palus bestiaux, ygnorant, bloisant de langue, gras de bouche et de palat et tout enfangié d’autres povretés corporelles à la nature de la terre”.7 A quel carattere etnico egli deve l’andatura coturnata della sua prosa fiorita, quella solenne “grandiloquence” che lo rende più o meno ostico ai lettori francesi. Il suo stile sontuoso ha una certa goffaggine elefantesca; un contemporaneo lo chiama a ragione “cette grosse cloche si haut sonnant”.8 Ma alla sua indole fiamminga deve probabilmente anche lo sguardo penetrante e il colorito gustoso che spesso ricordano gli scrittori belgi moderni. Tra Chastellain e Jan van Eyck l’affinità è innegabile, sebbene su piani diversi. Il peggior Van Eyck equivale al migliore Chastellain, ed è già qualcosa uguagliare il Van Eyck delle cose minori. Penso per esempio agli angeli che cantano sulla pala d’altare di Gand. Quelle vesti pesanti, piene di rosso cupo e oro e di pietre luccicanti, quelle smorfie troppo esplicite, quella decorazione alquanto frivola del leggio, tutto ciò è l’equivalente pittorico dell’ostentata grandiloquenza dello stile letterario della corte borgognona. Però mentre in pittura questo elemento retorico occupa un posto subordinato, nella prosa di Chastellain è fondamentale. Le sue acute osservazioni e il suo vivace realismo affogano sovente nella marea delle frasi troppo fiorite e delle parole ampollose. Tuttavia non appena Chastellain descrive un avvenimento che avvince il suo spirito fiammingo, a tutta quella solennità 446
si accompagna un’immaginazione pronta e vibrante che rende il racconto estremamente efficace. Il suo pensiero non è più ricco di quello dei suoi contemporanei; è la moneta spicciola, da tempo in circolazione, delle convenzioni religiose, morali e cavalleresche che funge in lui da pensiero. La narrazione scorre tutta in superficie. Però la raffigurazione è acuta e vivida. Il suo ritratto di Filippo il Buono ha quasi l’immediatezza di un Van Eyck.9 Con la facilità di un cronista, che ha un animo da novelliere, ha scritto un racconto particolarmente dettagliato di un dissidio tra il duca e suo figlio Carlo all’inizio dell’anno 1457. In nessun’altra parte risalta come qui la sua percezione fortemente visiva delle cose; tutte le circostanze esteriori di questo avvenimento sono rese con una nitidezza assoluta. Occorrerà citare alcuni passi alquanto lunghi. La disputa riguardava una carica nella corte del giovane conte di Charolais. Il vecchio duca, rinnegando una precedente promessa, voleva accordare il posto a uno dei Croy, suo favorito. Carlo, che lo vedeva di mal occhio, si oppose. “Le duc donques par un lundy qui estoit le jour Saint-Anthoine,10 après sa messe, aiant bien désir que sa maison demorast paisible et sans discention entre ses serviteurs, et que son fils aussi fist par son conseil et plaisir, après que jà avoit dit une grant part de ses heures et que la cappelle estoit vuide de gens, il appela son fils à venir vers luy et lui dist doucement: ‘Charles, de l’estrif qui est entre les sires de Sempy et de Hémeries pour le lieu de chambrelen, je vueil que vous y mettez cès et que le sire de Sempy obtiengne le lieu vacant’. Adont dist le conte: ‘Monseigneur, vous m’avez baillié une fois vostre ordonnance en laquelle le sire de Sempy n’est point, et monsei447
gneur, s’il vous plaist, je vous prie que ceste-là je la puisse garder’. ‘Déa, ce dit le duc lors, ne vous chailliez des ordonnances, c’est à moi à croistre et à diminuer, je vueil que le sire de Sempy y soit mis.’ ‘Hahan! ce dist le conte (car ainsi jurait tousjours), monseigneur, je vous prie, pardonnez-moy, car je ne le pourroye faire, je me tiens à ce que vous m’avez ordonné. Cea fait le seigneur de Croy qui m’a brassé cecy, je le vois bien.’ ‘Comment, ce dist le duc, me désobéyrez-vous? ne ferezvous pas ce que je vueil?’ ‘Monseigneur, je vous obéyray volentiers, mais je ne feray point cela.’ Et le duc, à ces mots, enfelly de ire, respondit: ‘Hà garsson, désobéyras-tu à ma volenté? va hors de mes yeux’, et le sang, avecques les paroles, lui tira à coeur, et devint pâle et puis à coup enflambé et si espoentable en son vis, comme je l’oys recorder au clerc de la chapelle qui seul estoit emprès luy, que hideur estoit à le regarder…”11 Sentite la forza? L’inizio tranquillo, l’accendersi dell’ira durante il breve alterco, il linguaggio a scatti del figlio, nel quale già riconosciamo tutto Carlo il Temerario. Lo sguardo che il duca getta a suo figlio spaventa talmente la duchessa (la cui presenza non era ancora stata annunciata) che si affretta a spingere il figlio davanti a sé, in silenzio, fuori della cappella, per sottrarlo all’ira del marito. Ma per arrivare alla porta dovevano girare diversi angoli, e un chierico aveva la chiave. “Caron,12 ouvre-nous,” dice la duchessa, ma il chierico cade ai suoi piedi implorandola di esortare suo figlio a chiedere perdono al padre, prima di lasciare la cappella: lei si rivolge a Carlo con un’esortazione supplichevole, ma questi risponde altero, ad alta voce: “Dèa, madame, monseigneur m’a deffendu ses yeux et est indigné sur moy, par quoy, après avoir eu celle deffense, je ne m’y re448
tourneray point si tost, ains m’en yray à la garde de Dieu, je ne sçay où”. Allora risuona, a un tratto, la voce del duca che, rauco per la rabbia, era rimasto sull’inginocchiatoio… e la duchessa, terrorizzata, dice al chierico: “Mon amy, tost, tost ouvrez-nous, il nous convient partir ou nous sommes morts”. Il sangue caldo dei Valois frastorna il vecchio duca Filippo che, tornato nelle sue stanze, cade in una specie di pazzia infantile. Verso sera, solo e poco vestito, abbandona a cavallo, di nascosto, Bruxelles. “Les jours pour celle heurre d’alors estoient courts, et estoit jà basse vesprée quant ce prince droitcy monta à cheval, et ne demandoit riens autre fors estre emmy les champs seul et à par luy. Sy porta ainsy l’aventure que ce propre jour-là, après un long et âpre gel, il faisoit un releng, et par une longue épaisse bruyne qui avoit couru tout ce jour là, vesprée tourna en pluie bien menue, mais très-mouillant et laquelle destrempoit les terres et rompoit glasces avecques vent qui s’y entrebouta.” Poi segue la descrizione della folle cavalcata notturna attraverso i campi e i boschi, in cui un naturalismo vivacissimo si mescola curiosamente a una retorica singolarmente sussiegosa e moraleggiante. Stanco e affamato il duca continua a errare; nessuno risponde alle sue grida. Un fiume, che gli sembra una strada, lo attira; il cavallo indietreggia giusto in tempo. Cade con il cavallo e si ferisce. Invano tende l’orecchio per ascoltare il canto di un gallo o il latrato di un cane, che gli indichino delle abitazioni. Finalmente vede una luce lontana e cerca di avvicinarvisi; la perde, la ritrova e alla fine la raggiunge. “Mais plus l’approchoit, plus sambloit hideuse chose et espoentable, car feu partoit d’une mote d’en plus de mille lieux, avecques grosse fumière, dont nul ne pensast à celle heure fors que ce fust ou purgatoire d’aucune âme ou autre 449
illusion de l’ennemy…”13 Improvvisamente egli si ferma. Ma poi, d’un tratto, si ricorda che i carbonai sogliono accendere le loro carbonaie nel fitto del bosco. È una di quelle cataste. Però non ci sono case o capanne lì vicino. Solo dopo aver errato ancora a lungo il latrato di un cane lo conduce presso la capanna di un povero, dove trova riposo e cibo. Altri notevoli brani dell’opera di Chastellain sono la descrizione del duello tra due borghesi di Valenciennes, la lite notturna all’Aja tra la legazione frisona e i nobili borgognoni, questi ultimi disturbati nel sonno dai primi che giocano a rincorrersi con gli zoccoli nella stanza di sopra, il tumulto di Gand del 1467, quando la prima visita di Carlo come duca coincide con la fiera di Houthem, donde il popolo torna con lo scrigno di San Livino.14 Dei particolari spontanei dimostrano di continuo con quanta intensità lo scrittore vedesse le cose esteriori. Il duca, che affronta la sommossa popolare, ha davanti a sé una “multitude de faces en bacinets enrouillés et dont les dedans estoient grignans barbes de vilain, mordans lèvres”. Le grida vanno dal basso in alto. L’individuo che si fa largo alla finestra accanto al duca porta un guanto di ferro verniciato di nero, con il quale batte sul davanzale per imporre il silenzio.15 Questa descrizione delle cose esattamente e direttamente osservate, fatta con parole semplici ed essenziali, corrisponde, da un punto di vista letterario, alla magnifica nitidezza visiva che permetteva a Van Eyck, in pittura, la perfezione espressiva. Nella letteratura quel naturalismo è spesso disturbato e ostacolato da forme convenzionali, e resta un’eccezione in mezzo a un cumulo di arida retorica, mentre nella pittura brilla come i fiori di un melo. 450
La pittura è qui, in quanto a mezzi espressivi, di gran lunga superiore alla letteratura. Essa dispone già di una sorprendente virtuosità nel rendere gli effetti luminosi. Sono soprattutto i miniaturisti che cercano di fissare la luce di un istante. In pittura questa facoltà compare per la prima volta pienamente sviluppata nella Natività di Geertgen tot Sint Jans. Già molto tempo prima i miniatori avevano tentato di rendere il gioco della luce delle fiaccole sulle armature, nella scena della cattura di Cristo. Un radioso sorgere del sole era già riuscito al maestro che illustrò il Cuer d’amours espris di Re Renato. Quello delle Heures d’Ailly aveva già osato cimentarsi con la ricomparsa del sole dopo una tempesta.16 La letteratura invece dispone di mezzi ancora troppo primitivi per rendere gli effetti luminosi. C’è, è vero, una grande sensibilità per lo splendore della luce; anzi, come abbiamo dimostrato sopra, si concepisce la bellezza in primo luogo come luminosità e splendore. Tutti gli scrittori e i poeti del XV secolo si soffermano volentieri sullo splendore della luce del sole, sul lume delle candele e delle torce, sui riverberi sugli elmi e sulle armi. Però ci si limita a una semplice menzione, non esiste ancora alcun procedimento letterario per tali descrizioni. L’equivalente letterario dell’effetto luminoso in pittura va cercato piuttosto in un altro campo. L’impressione del momento viene fissata soprattutto mediante un agile uso del discorso diretto. È difficile trovare un’altra letteratura così tesa a rendere sempre l’immediatezza del dialogo. Ciò degenera in un abuso fastidioso: persino l’esposizione di una situazione politica viene presentata da Froissart e dai suoi in forma di domanda e risposta. Gli eterni dialoghi dalla cadenza solenne e dalle parole vuote aumentano talvolta la monoto451
nia invece di romperla. Tuttavia spesso fa capolino, in modo sorprendente, l’illusione dell’immediatezza e dell’istantaneità. Froissart è il vero maestro di questo vivace scambio di opinioni. “Lors il entendi les nouvelles que leur ville estoit prise. (È un dialogo fatto di grida). ‘Et de quel gens?’ demande il. Respondirent ceulx qui à luy parloient: ‘Ce sont Bretons!’ – ‘Ha, dist il, Bretons sont mal gent, ils pilleront et ardront la ville et puis partiront.’ (E di nuovo gridando): ‘Et que cry crientils?’ dist le chevalier. – ‘Certe, sire, ils crient La Trimouille!’ ” Per vivacizzare un simile dialogo Froissart si servì del solito trucco di far ripetere con sorpresa da uno degli interlocutori l’ultima parola dell’altro. “‘Monseigneur, Gaston est mort.’ – ‘Mort?’ dist le conte. – ‘Certes, mort est-il pour vray, monseigneur.’ ” Altrove: “‘Si luy demanda, en cause d’amours et de lignaige, conseil’. – ‘Conseil,’ respondi l’archevesque, ‘certes, beaux nieps, c’est trop tard. Vous voulés clore l’estable quant le cheval est perdu.’ ”17 Anche la poesia applica in larga misura questo mezzo stilistico. In un breve verso si alternano talvolta per ben due volte domanda e risposta: Mort, je me plaing. – De qui? – De toy. – Que t’ay je fait? – Ma dame as pris. – C’est vérité. – Dy moy pour quoy. – Il me plaisoit. – Tu as mespris.18 Qui la continua interruzione del dialogo non è più un mezzo, bensì uno scopo, un virtuosismo. Il poeta Jean Meschinot ha saputo portare quell’abilità al suo limite estremo. In una ballata, in cui la povera Francia rinfaccia al suo re (Luigi XI) la sua colpa, il discorso passa dall’una all’altro tre 452
o quattro volte in ognuno dei trenta versi. E bisogna dire che questa forma singolare non nuoce all’effetto della satira politica. Ecco la prima strofa: Sire… – Que veux? – Entendez… – Quoy? – Mon cas. – Or dy. – Je suys… – Qui? – La destruicte France! – Par qui? – Par vous. – Comment? – En tous estats. – Tu mens. – Non fais. – Qui le dit? – Ma souffrance. – Que souffres tu? – Meschief. – Quel? – A oultrance. – Je n’en croy rien. – Bien y pert. – N’en dy plus! – Las! si feray. – Tu perds temps. – Quelz abus! – Qu’ay-je mal fait? – Contre paix.19 – Es comment? – Guerroyant… – Qui? – Vos amys et congnus. – Parle plus beau. – Je ne puis, bonnement.20 Un’altra manifestazione di questo superficiale naturalismo nella letteratura dell’epoca è la seguente. Sebbene Froissart tenda a descrivere eroiche gesta cavalleresche, tuttavia egli narra, si direbbe suo malgrado, per lo più la prosaica realtà della guerra. Al pari di Commines, che se ne infischia della cavalleria, Froissart descrive particolarmente bene proprio la fatica, i vani inseguimenti, i movimenti senza costrutto, le inquietudini di un campo notturno. Sa descrivere con maestria gli indugi e le attese.21 Nel racconto sobrio e preciso delle circostanze esterne di un avvenimento raggiunge alle volte una forza quasi tragica, 453
come in quello della morte del giovane Gaston Phébus, trafitto dal padre accecato dall’ira.22 Lavora in modo così fotografico che si può riconoscere, dalle sue parole, la qualità dei numerosi narratori che gli riferirono i suoi infiniti faits divers. Per esempio tutto ciò che egli deve al suo compagno di viaggio, il cavaliere Espaing du Lyon, è raccontato in modo superbo. Ogniqualvolta la letteratura agisce come semplice osservatrice, senza l’ostacolo delle convenzioni, è paragonabile alla pittura, anche se non la uguaglia. Questa osservazione obiettiva non appartiene alla descrizione che la letteratura ha della natura. La letteratura quattrocentesca non mira a descrivere la natura. La sua osservazione riguarda dei fatti che suscitano interesse, e descrive le circostanze esteriori come farebbe una lastra fotografica sensibile. Non c’è alcun procedimento letterario consapevole. Il paesaggio, invece, che in pittura funge da accessorio, ed è quindi imparziale, in letteratura è un mezzo stilistico consapevole, legato a forme convenzionali, e non dominato dall’esigenza dell’imitazione. In pittura la raffigurazione della natura era meramente secondaria e per questo poteva mantenersi pura e sobria. Proprio poiché le vedute non si riferivano al soggetto, non partecipavano dello stile ieratico, i pittori del Quattrocento potevano infondere ai loro paesaggi un’armoniosa naturalezza, che le rigide regole del loro tema ancora negavano alla scena principale. L’arte egiziana mostra un fenomeno parallelo: nel modellare una figura di schiavo, che non è rilevante, essa rinuncia al codice formale, che di solito deforma la figura umana, cosicché talvolta i personaggi secondari possiedono quella medesima incomparabile sobria fedeltà delle figure di animali. Meno il paesaggio è in relazione con la rappresentazione 454
centrale, e più, chiuso in se stesso, diviene armonico e naturale. Dietro l’agitata, bizzarra, pomposa adorazione dei Re Magi nelle Très-riches heures de Chantilly23 emerge la veduta di Bourges in una dolcezza trasognata, perfetta nell’atmosfera e nel ritmo. In letteratura la descrizione della natura è ancora completamente avvolta nella forma della pastorale. Abbiamo già parlato della disputa cortese pro e contro la vita semplice all’aria aperta. Come al tempo in cui furoreggiava Rousseau, anche allora andava di moda professarsi stanchi della futile vita di corte e vagheggiare una saggia fuga da essa per accontentarsi del pane nero e dell’amore spensierato di Robin e Marion. Era una reazione emotiva al fasto pletorico e all’egoismo orgoglioso della realtà, che, sebbene non del tutto falsa, era però più che altro un atteggiamento letterario. A questo atteggiamento appartiene anche l’amore per la natura. La sua espressione poetica è del tutto convenzionale. La natura era un elemento ricercato nel grande gioco di società della cultura erotico-cortese. L’espressione della bellezza dei fiori e del canto degli uccelli veniva coltivata a bella posta nelle forme convenzionali, comprese da tutti i giocatori. Di conseguenza l’imitazione della natura in letteratura sta a un livello del tutto diverso da quello della pittura. Al di fuori della poesia bucolica e del motivo obbligato del mattino di primavera come esordio, quasi non si avverte l’esigenza di descrivere la natura. Anche se talvolta nel racconto si accenna a un paesaggio, come quando Chastellain descrive l’inizio del disgelo (e proprio il paesaggio involontario è in genere di gran lunga il più suggestivo), è nella poesia pastorale che si deve continuare a rintracciare l’origine di un sentimento letterario della natura. Accanto alle pagine di 455
Alain Chartier, prima citate per illustrare l’effetto dell’elaborazione dei dettagli in generale, possiamo addurre come esempio la poesia Regnault et Jehanneton, nella quale il pastore, Re Renato, camuffa il suo amore per Jeanne de Laval. Anche qui non c’è una visione coerente di un angolo di natura, non c’è quell’unità che il pittore sapeva infondere al suo paesaggio con il colore e la luce, ma un’approssimativa serie di particolari. Gli uccelli che cantano, uno per uno, gli insetti, le rane, poi i contadini che arano: Et d’autre part, les paisans au labour Si chantent hault, voire sans nul séjour, Resjoyssant Leurs beufs lesquel vont tout-bel-charruant La terre grasse, qui le bon froment rent; Et en ce point ilz les vont rescriant, Selon leur nom: A l’un Fauveau et l’autre Grison, Brunet, Blanchet, Blondeau ou Compaignon; Puis les touchent tel foiz de l’aiguillon Pour avancer.24 Tutto ciò denota una certa freschezza e un tono lieto, ma com’è povero in confronto alle figurazioni dei mesi dei breviari. Re Renato ci dà gli ingredienti per una descrizione della natura, una tavolozza con un paio di colori, niente di più. Più oltre, dove è descritto il calar della sera, il tentativo di esprimere un accordo profondo è innegabile. Gli altri uccelli tacciono, ma la quaglia ancora chiama, le pernici frullano verso i loro giacigli, i cervi e i conigli fanno capolino. Il sole illumina ancora, per un attimo, la guglia di una torre, poi
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l’aria diventa fresca, gufi e pipistrelli cominciano a volteggiare, e la campanella della cappella suona l’Avemaria. I fogli del calendario delle Très-riches heures ci permettono di confrontare lo stesso motivo nella pittura e nella letteratura. Sono noti i gloriosi castelli che, nell’opera dei fratelli van Limburg, riempiono lo sfondo delle figurazioni dei mesi. Essi trovano il loro riscontro letterario nell’opera poetica di Eustache Deschamps. In sette brevi poesie costui canta le lodi di diversi castelli della Francia settentrionale: Beauté, che avrebbe ospitato in seguito Agnès Sorel, Bièvre, Cachan, Clermont, Nieppe, Noroy e Coucy.25 Deschamps avrebbe dovuto essere un poeta di respiro ben più ampio per poter raggiungere qui ciò che i fratelli van Limburg seppero esprimere in queste delicatissime e finissime creazioni dell’arte della miniatura. Sul foglio di settembre, dietro alla vendemmia, emerge come da un sogno il castello di Saumur: le guglie delle torri con le alte banderuole, i pinnacoli, i merli ornati di gigli, i venti snelli comignoli, tutto fiorisce come un’aiuola di alti fiori bianchi nell’aria blu scura.26 Poi, sul foglio di marzo, la maestosa, solenne austerità del principesco castello di Lusignano; quindi le tetre torri di Vincennes che sovrastano minacciose le foglie secche del bosco dicembrino.27 Il poeta, per lo meno questo poeta, aveva mezzi equivalenti per evocare tali visioni? Naturalmente no. La descrizione delle forme architettoniche del castello, nella poesia su Bièvre, non poteva produrre alcun effetto. Tutto quello che egli sa dare è, in realtà, solo un elenco dei piaceri che offre il castello. Ovviamente il pittore guarda il castello dal di fuori, il poeta dal di dentro. Son filz ainsné, daulphin de Viennois, 457
Donna le nom à ce lieu de Beauté. Et c’est bien drois, car moult est délectables: L’en y oit bien le rossignol chanter; Marne l’ensaint, les haulz bois profitables Du noble parc puet l’en veoir branler… Les prez sont pres, les jardins deduisables, Les beaus preaulx, fontenis bel et cler, Vignes aussi et les terres arables, Moulins tournans, beaus plains à regarder.28 Che differenza rispetto all’effetto prodotto dalla miniatura! Tuttavia la riproduzione pittorica e la poesia qui hanno in comune sia il procedimento sia la materia: enumerano il visibile (e la poesia anche l’udibile). Ma lo sguardo del pittore è rivolto a un complesso determinato e limitato: enumerando, egli deve conferire unità, limite e coesione. Paul van Limburg può raccogliere, nella scena del mese di febbraio, tutte le cose invernali, i contadini che si riscaldano al fuoco, il bucato che sta asciugando, le cornacchie variopinte sulla neve, l’ovile, le arnie, i barili e il carro, e l’intera prospettiva invernale col tranquillo villaggio e la solitaria masseria sulla collina. La quieta unità dell’immagine continua a essere perfetta. Lo sguardo del poeta, invece, vaga senza trovare un punto di appoggio; non conosce limiti e non rende l’unità. La forma precede il contenuto. In letteratura forma e contenuto sono entrambi vecchi, in pittura il contenuto è vecchio ma la forma è nuova. In pittura la forma garantisce una ricchezza d’espressione molto maggiore che in letteratura. Il pittore può racchiudere nella forma tutta la saggezza inespressa: l’idea, lo stato d’animo, la psicologia, può dire tutto senza tormentarsi per trovare il linguaggio adeguato. L’epo458
ca è orientata prevalentemente nel campo visivo. Questo spiega la superiorità dell’espressione pittorica nei confronti di quella letteraria: una letteratura dominata dall’osservazione visiva è inadeguata. La poesia del XV secolo sembra vivere quasi senza nuovi contenuti. C’è un’incapacità diffusa di inventare qualcosa; ci si limita a rielaborare e modernizzare la vecchia materia. C’è una pausa del pensiero; lo spirito ha completato l’edificio medioevale e indugia stanco. Ci sono vuoto e aridità. Si dispera del mondo; tutto peggiora, c’è una profonda crisi morale. Deschamps sospira: Helas! on dit que je ne fais mès rien, Qui jadis fis mainte chose nouvelle; La raison est que je n’ay pas merrien Dont je fisse chose bonne ne belle.29 Nulla sembra testimoniare meglio questa paralisi e questa decadenza quanto la riduzione dei vecchi romanzi cavallereschi e di altri poemi in una prosa prolissa e uniforme. Però quel “dérimage” del XV secolo indica il passaggio a un nuovo spirito. È il distacco dalla poesia come mezzo di espressione primario, il distacco dallo stile dello spirito medioevale. Ancora nel XIII secolo si potevano mettere in versi persino la medicina e la storia naturale, al pari dell’antica letteratura indiana che aveva messo in rima tutta la scienza. La forma poetica indica che il mezzo di comunicazione che ci si prefigge è la recitazione. Non quella espressiva, piena di sentimento, personale, bensì una recitazione meccanica, perché in epoche letterarie più primitive il verso viene come cantato su un’aria fissa. Il nuovo bisogno di prosa indica l’aspirazi459
one a esprimersi diversamente, l’avvento della lettura moderna che sostituisce la vecchia recitazione. A ciò si collega anche l’uso, che si diffonde nel XV secolo, di dividere la materia in piccoli capitoli preceduti da sommari; mentre prima le opere erano di solito molto poco articolate. Alla prosa si pongono esigenze relativamente maggiori rispetto alla poesia: nella vecchia forma rimata si tollera ancora tutto; la prosa, al contrario, è la forma artistica per eccellenza. Però l’alta qualità generale della prosa dipende dai suoi elementi formali; non è, come la poesia, pervasa da idee nuove. Froissart incarna alla perfezione lo spirito che non pensa, ma semplicemente racconta. Ha a malapena dei pensieri, si limita a rappresentare i fatti. Conosce solamente alcuni motivi e sentimenti morali: fedeltà, onore, avidità, coraggio, e unicamente nelle loro forme più elementari. Non si serve della teologia, né dell’allegoria o della mitologia, appena di un po’ di morale; non fa che raccontare, correttamente, senza fatica, in modo calzante, tuttavia senza comunicare e senza colpire, con l’esteriorità meccanica con cui il cinematografo riproduce la realtà. Le sue considerazioni sono di una banalità impareggiabile: tutto annoia, niente è più certo della morte, talvolta si perde e talvolta si vince. Alcune descrizioni sono automaticamente accompagnate da giudizi stereotipati: così tutte le volte che parla dei tedeschi dice che trattano male i loro prigionieri e che sono particolarmente avidi.30 Persino i detti di Froissart, solitamente citati come acuti, perdono spesso molto della loro forza, se calati in un preciso contesto. Ad esempio, questa definizione di Froissart sembra inquadrare una caratteristica spiccata del primo duca di Borgogna, il calcolatore e tenace Filippo l’Ardito: “sage, 460
froid et imaginatif, et qui sur ses besognes veoit au loin”. Ma Froissart dice questo di tutti!31 Anche il suo famoso “Ainsi ot messire Jehan de Blois femme et guerre qui trop luy cousta”32 non ha nel contesto, tutto sommato, l’acutezza che gli si riconosce. A Froissart manca un elemento: quello retorico. Era appunto la retorica che in letteratura compensava i contemporanei per la mancanza di un nuovo contenuto. Si va in estasi per la magnificenza di uno stile ricercato; le idee sembrano nuove nella loro veste pomposa. Esse indossano tutte rigide vesti di broccato. I concetti dell’onore e del dovere indossano il variopinto costume dell’illusione cavalleresca. Il senso della natura veste i panni della pastorale e l’amore i più stretti di tutti, quelli dell’allegoria del Roman de la Rose. Nessun pensiero è nudo e libero. Non possono quasi più camminare se non con un incedere tranquillo, in cortei interminabili. Questo elemento retorico-ornamentale non manca, del resto, neanche nell’arte figurativa. Un gran numero di opere potrebbe essere definito retorica dipinta. Tale è, per esempio, nella Madonna del canonico Van de Paele di Van Eyck il San Giorgio che raccomanda il donatore alla Vergine. È chiaro che l’artista ha voluto dipingere secondo i modelli antichi la corazza dorata e l’elmo sfarzoso; come è retorico, e trito, il gesto del santo! L’arcangelo Michele del piccolo trittico di Dresda è abbellito con lo stesso eccesso. Anche l’opera di Paul van Limburg, nel fasto bizzarro ed esagerato che accompagna i tre Re Magi, mostra la consapevolezza dell’elemento retorico, l’innegabile ricerca di un’espressione teatrale ed esotica. La poesia del XV secolo dà il meglio di sé quando non ten461
ta di esprimere pensieri importanti ed è sollevata dall’incarico di farlo con grazia; quando evoca solo un volto, uno stato d’animo. Il suo effetto si basa sui suoi elementi formali: l’immagine, il tono, il ritmo. Perciò essa riesce male nelle opere di tono elevato e di largo respiro, dove le qualità ritmiche e tonali sono poco importanti, ma può essere fresca nei generi in cui la forma esteriore è essenziale, per esempio il rondò e la ballata, che sono costruiti generalmente su un’idea esile e attingono la loro forza dalla visione, dal tono e dal ritmo. Sono le qualità semplici e immediatamente figurative della canzone popolare; laddove la canzone d’arte si avvicina di più alla canzone popolare l’incanto diviene più forte. Nel XIV secolo avviene una svolta nel rapporto tra poesia lirica e musica. Nel periodo precedente la poesia, e non solo quella lirica, era indissolubilmente legata all’accompagnamento musicale; si ritiene infatti che persino le chansons de geste venissero cantate, ogni verso di dieci o dodici sillabe sulla stessa melodia. Il tipo comune del poeta lirico medioevale è colui che compone la musica insieme alla poesia, come nel XIV secolo fa ancora Guillaume de Machaut, che fissa le forme liriche più diffuse ai suoi tempi: le ballate, il rondò etc. e inventa pure la nuova forma del “débat”, il contrasto. I rondò e le ballate di Machaut sono caratterizzati da grande uniformità, poco colore, idee ancor meno; e ciò era ammissibile, in quanto essi costituivano solo la metà dell’opera del poeta: la canzonetta in musica ci guadagna se non è troppo espressiva e troppo colorita, come ad esempio questo semplice rondello: Au departir de vous mon cuer vous lais Et je m’en vois dolans et esplourés. 462
Pour vous servir, sans retraire jamais, Au departir de vous mon cuer vous lais. Et par m’ame, je n’arai bien ne pais Jusqu’au retour, einsi desconfortés. Au departir de vous mon cuer vous lais Et je m’en vois dolans et esplourés.33 Deschamps non compone più la musica per le sue ballate, ed è perciò molto più colorito e vivace di Machaut, quindi spesso più interessante, sebbene il suo stile poetico sia più debole. Naturalmente la poesia eterea, lieve, quasi inconsistente, destinata a essere musicata non scompare quando non sono più i poeti stessi a comporre musica. Il rondello, come questo di Jean Meschinot, conserva quello stile: M’aimerez-vous bien, Dictes, par vostre ame? Mais que je vous ame Plus que nulle rien, M’aimerez-vous bien? Dieu mit tant de bien En vous, que c’est basme; Pour ce je me clame Vostre. Mais combien M’aimerez-vous bien?34 Il talento puro e semplice di Christine de Pisan si prestava benissimo a questi fugaci effetti. Lei ha scritto versi con la stessa facilità dei suoi contemporanei, con poche variazioni formali e tematiche, con uno stile uniforme e poco mosso, calmo e sereno, venato di una lieve malinconia spirituale. Sono delle vere e proprie poesie letterarie, perfettamente 463
cortesi per intonazione e contenuto. Fanno pensare a quelle tavolette d’avorio trecentesche che raffigurano in modo puramente convenzionale sempre gli stessi motivi: una scena di caccia, un episodio del Tristan et Yseult o del Roman de la Rose, graziosi, distaccati e affascinanti. Quando Christine aggiunge alla sua dolcezza cortese anche l’accento della canzone popolare, nasce talvolta qualcosa di veramente puro. Un incontro: Tu soies le très bien venu, M’amour, or m’embrace et me baise, Et comment t’es tu maintenu Puis ton depart? Sain et bien aise As tu esté tousjours? Ça vien Coste moy, te sié et me conte Comment t’a esté, mal ou bien, Car de ce vueil savoir le compte. – Ma dame, a qui je suis tenu Plus que aultre, a nul n’en desplaise, Sachés que désir m’a tenu Si court qu’oncques n’oz tel mesaise, Ne plaisir ne prenoie en rien Loings de vous. Amours, qui cuers dompte, Me disoit: “Loyauté me tien, Car de ce vueil savoir le compte”. – Dont m’as tu ton serment tenu, Bon gré t’en sçay, par saint Nicaise; Et puis que sain es revenu Joye arons assez; or t’apaise 464
Et me dis se scez de combien Le mal qu’en as eu a plus monte Que cil qu’a souffert le cuer mien, Car de ce vueil savoir le compte. – Plus mal que vous, si com retien, Ay eu, mais dites sanz mesconte, Quans baisiers en aray je bien? Car de ce vueil savoir le compte.35 Una perdita: Il a au jour d’ui un mois Que mon ami s’en ala. Mon cuer remaint morne et cois, Il a au jour d’ui un mois. “A Dieu, me dit, je m’en vois”; Ne puis a moy ne parla, Il a au jour d’ui un mois.36 La dedizione: Mon ami, ne plourez plus; Car tant me faittes pitié Que mon cuer se rent conclus A vostre doulce amistié. Reprenez autre maniere; Pour Dieu, plus ne vous doulez, Et me faittes bonne chiere: Je vueil quanque vous voulez.37 La delicata, spontanea femminilità di queste poesiole, scevra della speculazione maschile grave e fantasiosa e dei fronzoli variopinti delle figure del Roman de la Rose, ce le rende 465
godibili. Ci viene offerta una sensazione appena percepita. Il tema ha risuonato per un attimo nel cuore ed è stato subito raffigurato, senza l’intervento del pensiero. Perciò anche questa poesia mostra così spesso quella qualità che caratterizza la musica e la poesia di tutte le epoche in cui l’ispirazione si basa esclusivamente sulla semplice visione dell’attimo: il tema è puro e forte; la canzone inizia con un suono chiaro e fermo, come il canto del merlo, ma già dopo la prima strofa la vena del poeta o del compositore è esaurita; l’accordo profondo viene meno e si scade in una debole retorica. È l’eterna delusione che ci propinano quasi tutti i poeti del XV secolo. Eccone un esempio tratto dalle ballate di Christine: Quant chacun s’en revient de l’ost Pour quoy demeures tu derriere? Et si scez que m’amour entiere Tay baillée en garde et depost.38 Ci si aspetterebbe una fine ballata medioevale francese di Leonora. Ma la poetessa, oltre questo inizio, non aveva altro da dire e dopo altre due brevi, insignificanti strofe conclude. Com’è fresco l’esordio di Le debat dou cheval et dou levrier di Froissart: Froissart d’Escoce revenoit Sus un cheval qui gris estoit, Un blanc levrier menoit en lasse. “Las,” dist le levrier, “je me lasse, Grisel, quant nous reposerons? Il est heure que nous mengons.”39 Però questa intonazione non viene mantenuta, la poesia si 466
affloscia subito. Il tema è solo visto, non elaborato in un pensiero. I temi, delle volte, sono mirabilmente suggestivi. Nella Danse aux Aveugles di Pierre Michault si vede l’eterno ballo dell’umanità intorno ai troni dell’Amore, della Fortuna e della Morte.40 Ma lo sviluppo rimane, sin dall’inizio, al di sotto della mediocrità. Un’anonima Exclamacion des os Sainct Innocent comincia con l’urlo delle ossa negli ossari del famoso cimitero: Les os sommes des povres trespassez, Cy amassez par monceaulx compassez, Rompus, cassez, sans reigle ne compas…41 Un ottimo esordio per il cupo lamento dei morti, ma quel che segue non è altro che un comunissimo memento mori. Sono tutti temi puramente visivi. Per il pittore una simile, singola visione racchiude in sé la materia per un’esecuzione compiuta, ma per il poeta non è sufficiente.
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21. La parola e l’immagine
La pittura del XV secolo è dunque, quanto a capacità espressiva, senz’altro superiore alla letteratura? No. Ci sono sempre dei campi nei quali la letteratura dispone di mezzi espressivi più ricchi e più diretti che l’arte figurativa. Un simile campo è soprattutto quello della beffa. L’arte figurativa, quando si abbassa alla caricatura, può esprimere solo in misura esigua il comico. Il comico, raffigurato solo visivamente, ha la tendenza a convertirsi nuovamente nel serio. Solo laddove l’intromissione dell’elemento comico nella raffigurazione della vita è molto limitata, un semplice condimento che non può alterare il sapore della portata, la rappresentazione può andare di pari passo con l’espressione verbale. La pittura di genere può essere considerata una simile comicità ai minimi termini. Qui l’arte figurativa è ancora completamente a suo agio. L’illimitata elaborazione dei dettagli, che sopra abbiamo attribuito alla pittura quattrocentesca, si trasforma insensibilmente nella piacevole arte di raccontare piccolezze, in genere. Col maestro di Flémalle il gusto della minuzia diventa puro “genere”. Il suo falegname Giuseppe se ne sta seduto a fare trappole per topi.1 468
Tutti i suoi dettagli denotano il genere: tra il modo in cui Van Eyck lascia aperta una persiana, dipinge una credenzina o un camino, e quello di Robert Campin, c’è il passaggio dalla visione puramente pittorica al genere. Però, già in questo campo, la parola assume a un tratto una dimensione in più rispetto alla raffigurazione; è in grado di rendere esplicitamente lo stato d’animo. Si pensi ancora una volta alle descrizioni della bellezza dei castelli in Deschamps. Esse, in fondo, erano malriuscite e infinitamente inferiori a quanto sapeva creare l’arte della miniatura. Ma confrontiamo ora il tutto con la ballata in cui Deschamps descrive una scena di genere, se stesso malato nel suo misero castelluccio di Fismes. I gufi, gli storni, i corvi, i passeri, che nidificano nella sua torre, non lo fanno dormire: C’est une estrange melodie Qui ne semble pas grand deduit A gens qui sont en maladie. Premier les corbes font sçavoir Pour certain si tost qu’il est jour: De fort crier font leur pouoir, Le gros, le gresle, sanz sejour; Mieulx vauldroit le son d’un tabour Que telz cris de divers oyseaulx, Puis vient la proie; vaches, veaulx, Crians, muyans, et tout ce nuit, Quant on a le cervel trop vuit. Joint du moustier la sonnerie, Qui tout l’entendement destruit A gens qui sont en maladie. 469
La sera arrivano i gufi e spaventano l’ammalato con il loro grido lamentoso che evoca pensieri di morte: C’est froit hostel et mal reduit A gens qui sont en maladie.2 Appena penetra un accenno comico, o anche solo ameno, il procedimento dell’enumerazione pignola non affatica più. Vividi quadri dei costumi borghesi, lunghe e gradevoli descrizioni della toilette femminile rompono la monotonia. Nella sua lunga poesia allegorica L’espinette amoureuse Froissart improvvisamente vi rallegra elencando una sessantina di giochi che soleva fare, da bambino, a Valenciennes.3 Il diavolo della ghiottoneria ha già fatto il suo esordio letterario. I pranzi succulenti di Zola, Huysmans, Anatole France hanno i loro prototipi già nel Medioevo. Come sprizzano ghiottoneria Deschamps e Villon quando appetiscono le tenere coscette! Con quanto gusto Froissart descrive i “bonvivants” di Bruxelles, che circondano il grasso duca Venceslao nella battaglia di Baesweiler; hanno con sé i loro servitori, con grandi bottiglie di vino sul pomo della sella, pane e formaggio, pasticci di salmone, trote e anguille, il tutto ben avvolto in piccole salviette; e così ostacolano l’ordine di battaglia.4 Con il suo talento per il genere la letteratura di quell’epoca è in grado di mettere in versi anche i fatti più prosaici. Deschamps, in una poesia, può sollecitare un pagamento senza abbassare il suo abituale livello poetico; in una serie di ballate mendica un mantello che gli era stato promesso, legna da ardere, un cavallo, lo stipendio arretrato.5 Dal genere al bizzarro, al burlesco o, se si vuole, al bruegheliano, il passo è breve. Anche in questa forma del comico la pittura ancora compete con la letteratura. L’elemento 470
bruegheliano, intorno al 1400, è già senz’altro presente nell’arte. Lo si trova nel Giuseppe della Fuga in Egitto di Broederlam a Digione, e nei soldati addormentati de Le Tre Marie al Sepolcro, già attribuito a Hubert van Eyck.6 Nessuno è bravo come Paul van Limburg nell’effetto burlesco. Uno spettatore della Purificazione di Maria porta un berretto da mago, curvo e altissimo, con maniche a tese lunghe. Burlesco è anche il fonte battesimale, che reca tre maschere mostruose con la lingua di fuori, e la cornice di Maria ed Elisabetta, dove un eroe combatte da una torre contro una lumaca, e un altro uomo spinge su una carriola un maiale che suona la cornamusa.7 Quasi ogni pagina della letteratura del XV secolo è bizzarra; lo dimostrano lo stile ricercato e la veste singolare e fantastica delle sue allegorie. I motivi con i quali Breughel avrebbe dato libero sfogo alla sua sbrigliata fantasia, come la lotta fra la Quaresima e il Carnevale e la lotta tra la Carne e il Pesce, sono già molto in voga nella letteratura del XV secolo. Sembra degna del miglior Breughel un’acuta visione di Deschamps, in cui la guardia vede le truppe che si radunano a Sluis per la spedizione contro l’Inghilterra come un’armata di ratti e di topi: Avant, avant! tirez vous ça. Je voy merveille, ce me semble. – Et quoy, guette, que vois-tu là? Je voy dix mille rats ensemble Et mainte souris qui s’assemble Dessus la rive de la mer… Un’altra volta siede, triste e distratto, a un pranzo di corte; a un tratto vede come mangiano i cortigiani: l’uno masti471
ca come un maiale, l’altro rosicchia come un topolino, il terzo usa i denti come una sega, questo fa delle smorfie, quello alza e abbassa la barba, “mangiando sembravano dei diavoli”.8 Non appena la letteratura ritrae la vita popolare, scade inevitabilmente in quel realismo succulento, condito di umorismo, che si sarebbe sviluppato in modo così fiorente, di lì a poco, nell’arte figurativa. La descrizione, fornita da Chastellain, del povero contadino che dà rifugio al duca di Borgogna smarrito può competere con un quadro di Breughel.9 La Pastorale, quando ritrae i pastori che mangiano, ballano e fanno l’amore, devia continuamente dal suo tema fondamentale, sentimentale e romantico, incanalandosi verso un fresco naturalismo di effetto lievemente comico. I contadini al lavoro erano, come motivo vagamente grottesco, apprezzati negli arazzi dall’arte di corte borgognona.10 In questo ambito si situa anche l’interesse per lo straccione, che comincia già a manifestarsi sia nella letteratura sia nell’arte figurativa del XV secolo. Le miniature dei calendari notano compiaciute i calzoni logori dei mietitori tra il grano, e la pittura gli stracci dei mendicanti che trovano misericordia. Qui comincia la linea che, passando per le acqueforti di Rembrandt e i fanciulli mendicanti di Murillo, conduce ai tipi di strada di Steinlen. Anche qui però salta subito agli occhi la grande differenza tra la concezione pittorica e quella letteraria. Mentre l’arte figurativa già scorge il pittoresco del mendicante, quindi il fascino della forma, la letteratura è ancora pervasa solo dal significato del mendicante, sia che lo commiseri, lo lodi o lo maledica. Ora i prototipi del realismo letterario del ritratto della miseria si trovano per l’appunto in quelle maledizioni. 472
I mendicanti erano diventati, alla fine del Medioevo, una terribile piaga. A frotte infestavano le chiese con i loro lamenti, impedendo la funzione con le loro grida e i loro schiamazzi; tra loro c’era molta gente malvagia, “validi mendicantes”. Il capitolo di Notre-Dame a Parigi cerca invano, nel 1428, di respingerli verso le porte della chiesa e solo più tardi riesce ad allontanarli almeno dal coro, mandandoli verso la navata.11 Deschamps non si stanca mai di sfogare il suo odio contro quei miserabili; li considera tutti ipocriti impostori: cacciateli a bastonate dalla chiesa, impiccateli, bruciateli!12 Da qui al moderno ritratto letterario della miseria la strada pare ben più lunga di quella che doveva percorrere l’arte figurativa. In pittura l’immagine si riempiva di un nuovo sentimento, in letteratura un nuovo, maturo senso sociale doveva crearsi forme di espressione completamente nuove. Laddove l’elemento comico, più debole o più forte, più grossolano o più fine, era sottinteso nella visione esteriore di una vicenda, come nel genere e nel burlesco, l’arte figurativa poteva mettersi al passo con la parola. Ma c’erano anche altre sfere di comicità del tutto inaccessibili all’espressione pittorica, dove né il colore né la linea riuscivano a districarsi. Dovunque il comico deve suscitare il riso positivamente la letteratura dominava incontrastata, quindi nel lussureggiante territorio della risata fragorosa, nei diversi tipi di farsa, chiamati “klucht”, “sotternie”, “boerde”, “fabliaux”, insomma in tutte le forme del comico grossolano. Da questo ricco tesoro della letteratura tardomedioevale parla uno spirito particolare. La letteratura domina anche nel campo del sorriso abbozzato, laddove lo scherno tocca i suoi toni più elevati e si effonde sugli aspetti più seri della vita, l’amore e il proprio do473
lore. Le forme ricercate, raffinate e logore della poesia amorosa furono ripulite e purificate dall’intervento dell’ironia. Al di fuori dell’erotismo l’ironia è ancora goffa e ingenua. Un francese del 1400 di tanto in tanto si dà cura, sollecitudine rara in un olandese del 1900, di avvertire quando parla ironicamente. Deschamps loda il buon tempo presente; tutto va per il meglio, dappertutto regnano pace e giustizia: L’en me demande chascun jour Qu’il me semble du temps que voy, Et je respons: c’est tout honour, Loyauté, vérité et foy, Largesce, prouesce et arroy, Charité et biens qui s’advance Pour le commun; mais, par ma loy, Je ne dis pas quanque je pence. O altrove, alla fine di una ballata dello stesso tenore: “Tous ces poins a rebours retien”13; e in una terza con il ritornello: “C’est grant pechiez d’ainsy blasmer le monde”; Prince, s’il est par tout generalment Comme je say, toute vertu habonde; Mais tel m’orroit qui diroit: “Il se ment”…14 Un bello spirito della seconda metà del XV secolo arriva a intitolare un epigramma: “Soubz une meschante paincture faicte de mauvaises couleurs et du plus meschant peinctre du monde, par manière d’yronnie par maître Jehan Robertet”.15 Come può essere fine, invece, l’ironia non appena tocca l’amore. Allora essa si mescola alla soave malinconia, alla languida tenerezza, che trasformano la poesia amorosa del XV secolo nelle vecchie forme in qualcosa di nuovo. Il cuore 474
arido si scioglie in un singhiozzo. Risuona un motivo che non era ancora stato udito nell’amore profano: il De profundis. Risuona nella commovente autoderisione di Villon, nella figura de “l’amant remis et renié”,16 che egli assume, nelle piccole e languide canzoni della disillusione cantate da Carlo d’Orléans. È il riso in lacrime. “Je riz en pleurs” non è stata un’invenzione di Villon. Un vecchio luogo comune biblico: “risus dolore miscebitur et extrema gaudii luctus occupat”17 riviveva con un nuovo sentimento, una raffinata, amara valenza emotiva. Alain Chartier, il compito poeta di corte, condivide questo motivo con Ottone di Granson, il cavaliere, e con Villon, il vagabondo. Je n’ay bouche qui puisse rire, Que les yeulx ne la desmentissent: Car le cueur l’en vouldroit desdire Par les lermes qui des yeulx issent. O, in forma più elaborata, di un innamorato afflitto: De faire chiere s’efforçoit Et menoit une joye fainte, Et à chanter son cueur forçoit Non pas pour plaisir, mais pour crainte, Car tousjours ung relaiz de plainte S’enlassoit au ton de sa voix, Et revenoit à son attainte Comme l’oysel au chant du bois.18 Alla fine di una poesia il poeta sconfessa il suo dolore, alla maniera della canzone dei chierici vaganti: Cest livret voult dicter et faire escripre 475
Pour passer temps sans courage villain Ung simple clerc que l’en appelle Alain, Qui parle ainsi d’amours pour oyr dire.19 Re Renato chiude con lo stesso tono l’interminabile Cuer d’amours espris, ma in chiave fantastica: il ciambellano viene, con una candela in mano, a vedere se il cuore del poeta non sia scomparso; ma non riesce a scoprire dei buchi nel fianco: Sy me dist tout soubzriant Que je dormisse seulement Et que n’avoye nullement Pour ce mal garde de morir.20 Il nuovo sentimento infondeva una nuova freschezza nelle vecchie forme convenzionali. Nessuno come Carlo d’Orléans si è spinto così avanti con l’abituale personificazione dei sentimenti. Egli vede il suo cuore come un essere a sé stante: Je suys celluy au cueur vesta de noir…21 Nella lirica più antica, persino nel dolce stil novo, quelle personificazioni erano state prese molto sul serio. Ma nell’Orléans non si possono più tracciare confini tra serietà e scherno: egli esaspera la personificazione, senza smarrire quel fine sentimento: Qui en secret à moy parloit, Et en parlant lui demandoye Se point d’espargne fait avoit D’aucuns biens quant Amours servoit: Il me dist que très voulentiers La verité m’en compteroit, Mais qu’eust visité ses papiers. Quant ce m’eut dit, il print sa voye 476
Et d’avecques moy se partoit. Après entrer je le véoye En ung comptouer qu’il avoit: Là, de ça et de là quéroit, En cherchant plusieurs vieulx caïers Car le vray monstrer me vouloit, Mais qu’eust visitez ses papiers…22 Qui prevale l’elemento comico, nel seguente invece quello serio: Ne hurtez plus à l’uis de ma pensée, Soing et Soucy, sans tant vous travailler; Car elle dort et ne veult s’esveiller, Toute la nuit en peine a despensée. En dangier est, s’elle n’est bien pansée; Cessez, cessez, laissez la sommeiller; Ne hurtez plus à l’uis de ma pensée, Soing et Soucy, sans tant vous travailler…23 La poesia d’amore, con il suo tono di molle tristezza, assumeva per l’uomo del Quattrocento un sapore ancora più forte con l’aggiunta di un elemento di profanazione. Il travestimento dell’elemento amoroso in forme religiose non è solamente uno strumento dell’oscena metafora e della grossolana irriverenza, come nelle Cent nouvelles nouvelles. Esso fornisce anche la forma alla poesia d’amore più delicata, quasi elegiaca, che abbia prodotto il XV secolo: L’amant rendu cordelier à l’observance d’amours. Il motivo degli innamorati come osservanti di un ordine religioso aveva già fatto nascere, nella cerchia di Carlo d’Orléans, una confraternita poetica, che si faceva chiamare 477
“les amoureux de l’observance”. A questo ordine deve aver appartenuto l’anonimo poeta che scrisse L’amant rendu cordelier, che non fu Martial d’Auvergne, come si è pensato in precedenza.24 Il povero amante deluso viene a rinunciare al mondo nel meraviglioso convento che accoglie solo gli innamorati infelici, “les amoureux martyrs”. Conversando tranquillamente con il Priore egli narra il soave racconto del suo amore rifiutato, e viene esortato a dimenticarlo. Sotto la veste medioevale-satirica già si avverte l’accordo profondo di Watteau e il culto di Pierrot: manca soltanto il chiaro di luna. “Non aveva lei l’abitudine, chiede il Priore, di gettarvi uno sguardo dolce o di dire, passando, ‘Dieu gart’?” Non sono mai arrivato a tanto, risponde l’innamorato: ma di notte stavo per ben tre ore davanti alla sua porta, alzando gli occhi alla gronda: Et puis, quant je oyoye les verrières De la maison qui cliquetoient, Lors me sembloit que mes prières Exaussées d’elle sy estoient. “Eravate sicuro che lei vi notasse?” domanda il Priore. Se m’aist Dieu, j’estoye tant ravis, Que ne savoye mon sens ne estre, Car, sans parler, m’estoit advis Que le vent ventoit25 sa fenestre Et que m’avoit bien peu congnoistre, En disant bas: “Doint bonne nuyt,” Et Dieu scet se j’estoye grant maistre Après cela toute la nuyt. 478
Quella beatitudine lo fece dormire saporitamente: Tellement estoie restauré Que, sans tourner ne travailler, Je faisoie un somme doré, Sans point la nuyt me resveiller, Et puis, avant que m’abiller, Pour en rendre à Amours louanges, Baisoie troys fois mon orillier, En riant à par moy aux anges. Quando viene solennemente ammesso all’ordine la dama che lo aveva rifiutato sviene, e un cuoricino d’oro smaltato di lacrime, che lui le aveva donato, cade dal suo vestito. Les aultres, pour leur mal couvrir A force leurs cueurs retenoient, Passans temps a clorre et rouvrir Les heures qu’en leurs mains tenoient, Dont souvent les feuillès tournoient En signe de devocion; Mais les deulz et pleurs que menoient Monstroient bien leur affection. Allorché il Priore, infine, gli enumera i suoi doveri e gli raccomanda di non ascoltare mai il canto dell’usignolo, di non dormire sotto “eglantier et aubespines” e soprattutto di non guardare mai una donna negli occhi, il poeta sfoga il dolore sul tema “Doux yeulx” con un’interminabile melodia di strofe, variazioni continue: Doux yeulx qui tousjours vont et viennent; Doulx yeulx eschauffans le plisson, 479
De ceulx qui amoureux deviennent… Doux yeulx a cler esperlissans, Qui dient: C’est fait quant tu vouldras, A ceulx qui’ils sentent bien puissans…26 Quel soave, languido tono di rassegnata malinconia pervade, in modo impercettibile, la letteratura amorosa cinquecentesca, e improvvisamente un nuovissimo, raffinato accordo profondo penetra la vecchia satira e il suo cinico disprezzo delle donne: nelle Quinze joyes de marriage la precedente ottusa denigrazione della donna è temperata da una nota di tranquilla disillusione e depressione, che le conferisce la desolazione di una moderna storia matrimoniale: i pensieri sono sottili e sfuggenti; i dialoghi troppo delicati per l’intento malizioso. Tutto quello che riguardava l’espressione amorosa aveva una tradizione secolare alle spalle, con maestri dallo spirito assai diverso, come Platone e Ovidio, i trovatori e i chierici vaganti, Dante e Jean de Meung. L’arte figurativa, al contrario, in questo campo era ancora estremamente primitiva, e lo è stata ancora a lungo. Solamente nel XVIII secolo la raffigurazione pittorica dell’amore raggiunge la finezza e la pienezza espressiva della descrizione letteraria. La pittura del XV secolo non poteva ancora essere frivola o sentimentale. Essa ancora ignora l’espressione scaltra. Su un pannello di un maestro ignoto, anteriore al 1430, è rappresentata la nobildonna Lysbet van Duvenvoorde: una figura di così severa dignità da essere ritenuta la donatrice di una pala d’altare. Però sulla banderuola che lei tiene in mano c’è scritto: “Sono stanca di aspettare a lungo, chi è colui che tiene aperto il suo cuore?”. Quest’arte conosce la castità e l’oscenità: non riesce ancora a esprimere le gradazioni intermedie. Dice poco sulla vita amorosa, e quel poco in forme 480
ingenue e innocenti. Qui bisogna tuttavia rammentare che la maggior parte delle opere di questo genere sono andate perdute. Sarebbe straordinariamente interessante poter paragonare il nudo delle Donne al bagno di Van Eyck o quello di Rogier, con due giovani che guardano ridendo attraverso una fessura (Facio descrive ambedue i quadri), alle figure di Adamo ed Eva sull’altare di Gand. In quest’ultimo l’elemento erotico non è del tutto assente: l’artista, del resto, ha certamente seguito il codice convenzionale della bellezza muliebre, nei seni piccoli e troppo alti, nelle braccia lunghe e snelle, nel ventre prominente. Con quanta ingenuità egli ha fatto tutto ciò, senza il minimo desiderio o la minima capacità di sedurre. La seduzione deve essere l’elemento essenziale del piccolo Incantesimo d’amore, attribuito alla “scuola di Jan van Eyck”,27 una stanza dove una ragazza, nuda, come si addice a un incantesimo, costringe, con delle pratiche magiche, l’amato a mostrarsi. Qui il nudo ha quella lascivia discreta che si ritrova poi nei nudi di Cranach. Se la raffigurazione mirava così di rado alla seduzione sensuale non era certo per pudicizia. Il tardo Medioevo mostra un singolare contrasto tra un radicato senso del pudore e una sorprendente licenziosità. Per quest’ultima è superfluo citare degli esempi: si rivela in ogni pagina. Il pudore si manifesta, ad esempio, nel seguente modo: nei peggiori massacri e saccheggi si lasciano alle vittime la camicia o le mutande; nulla sdegna tanto il Borghese di Parigi quanto la violazione di quella regola: “Et ne volut pas convoitise que on leur laissast neis leurs brayes, pour tant qu’ilz vaulsissent 4 deniers, qui estoit un des plus grans cruaultés et inhumanité chrestienne à aultre de quoy on peut parler”.28 Considerato il comune senso del pudore dell’epoca è doppiamente strano che 481
il nudo femminile, ancora così poco coltivato nell’arte, sia così diffuso nel tableau vivant. Non c’era entrata solenne senza rappresentazioni (“personnages”) di dee o ninfe ignude, come quelle viste da Dürer in occasione dell’ingresso di Carlo V ad Anversa nel 1520.29 Queste rappresentazioni erano collocate su dei palchi in determinati luoghi, talvolta persino nell’acqua, come le sirene che nuotavano presso il ponte della Lys, “toutes nues et échevelées ainsi comme on les peint”, all’entrata di Filippo il Buono in Gand nel 1457.30 Il giudizio di Paride era il soggetto più frequente in queste rappresentazioni. Ma non si cerchi in ciò né il senso greco della bellezza né una piatta irriverenza, bensì una sensualità ingenua e popolare. Jean de Roye descrive con queste parole le sirene che, all’ingresso di Luigi XI a Parigi nel 1461, erano poste non lontano da un Crocifisso tra i due ladroni: “Et si y avoit encores trois bien belles filles, faisans personnages de seraines toutes nues, et leur veoit on le beau tetin droit, separé, rond et dur, qui estoit chose bien plaisant, et disoient de petiz motetz et bergeretes; et près d’eulx jouoient plusieurs bas instrumens qui rendoient de grandes melodies”.31 Molinet racconta con quanto piacere il popolo guardasse il giudizio di Paride, all’ingresso di Filippo il Bello in Anversa nel 1494: “Mais le hourd où les gens donnoient le plus affectueux regard fut sur l’histoire des trois déesses, que l’on véoit au nud et de femmes vives”.32 Come è lontana dal puro senso estetico la parodia di quel tema messa in scena a Lilla, nel 1468, per l’entrata di Carlo il Temerario, con una Venere corpulenta, una Giunone magra e una Minerva gobba, con corone d’oro sulla testa!33 Fino al XVI secolo inoltrato si continuò a rappresentare il nudo: a Rennes, nel 1532, all’ingresso del duca di Bretagna, si videro Cerere e Bacco nudi,34 e persino Gugliel482
mo d’Orange, quando fece il suo ingresso a Bruxelles il 18 settembre 1578, fu accolto da una Andromeda, “una giovane vergine, incatenata, nuda come era nata dal ventre materno; si sarebbe potuto dire che fosse una statua di marmo”, così racconta Johan Baptista Houwaert, che aveva allestito i tableaux.35 Il ritardo delle capacità espressive pittoriche, in confronto alla letteratura, non si limita, del resto, ai campi che abbiamo trattato finora: il comico, il sentimentale, l’erotico. Quella capacità trova i suoi limiti non appena viene a mancare il sostegno dell’attitudine prevalentemente visiva, alla quale abbiamo fatto risalire la superiorità, in genere, della pittura d’allora sulla letteratura. Appena occorre qualcosa di più della semplice visione penetrante e immediata del naturale, la pittura perde a poco a poco quella superiorità, e si vede a un tratto la fondatezza della critica di Michelangelo: quest’arte vuole raffigurare alla perfezione molte cose contemporaneamente, una sola delle quali sarebbe sufficiente per impegnare tutte le forze. Si consideri ancora una volta una scena di Jan van Eyck. Insuperata rimane la sua arte finché opera da vicino, al microscopio, per così dire: nei tratti del volto, nelle stoffe delle vesti, nei gioielli. L’osservazione penetrante in quel caso è sufficiente. Ma non appena la realtà osservata deve essere, in qualche modo, rielaborata, come già nel caso della rappresentazione di edifici e di paesaggi, affiorano, malgrado l’intimo fascino della prima prospettiva, delle debolezze: una certa incoerenza, una composizione alquanto lacunosa. Più il soggetto della rappresentazione esige un impianto solido e una forma liberamente creata, più chiara è la caduta. Nessuno vorrà negare che nei breviari miniati i fogli del 483
calendario superano in bellezza quelli sui quali è raffigurata la Storia Sacra. Lì bastavano l’osservazione diretta e la riproduzione in chiave narrativa. Ma per comporre un’azione importante, una rappresentazione movimentata, con molte persone, era necessario soprattutto il senso della costruzione ritmica e dell’unità, già posseduto da Giotto e più tardi padroneggiato anche da Michelangelo. Ora l’essenza dell’arte quattrocentesca era la varietà. Solo laddove la stessa varietà diveniva unità si raggiungeva un effetto di superiore armonia, come nell’Adorazione dell’Agnello. In essa c’è infatti un ritmo, un ritmo incomparabilmente forte, il ritmo trionfante di tutte quelle schiere che avanzano verso il centro. Tuttavia esso è stato ottenuto, per così dire, con una disposizione puramente aritmetica, dalla stessa varietà. Van Eyck evita le difficoltà della composizione creando solo gruppi in completo riposo; egli raggiunge un’armonia statica, non dinamica. Qui sta, soprattutto, la grande differenza tra Rogier van der Weyden e Van Eyck. Rogier si limita a trovare il ritmo; non ci riesce sempre, ma ci prova. Ora esisteva, per i soggetti principali della Storia Sacra, un’antica e rigorosa iconografia. Il pittore non era più costretto a inventare la disposizione della sua scena.36 In alcuni di quei soggetti la composizione ritmica prendeva forma quasi da sé. In un Compianto, una Deposizione, un’Adorazione dei pastori il ritmo era spontaneo. Si pensi alla Pietà di Rogier van der Weyden a Madrid, a quelle della scuola di Avignone al Louvre e a Bruxelles, di Petrus Christus, di Geertgen tot Sint Jans, delle “Belles heures d’Ailly”.37 Se però la scena diviene più movimentata, come nella derisione, nel Cristo che porta la croce, nell’Adorazione dei Re 484
Magi, allora aumentano le difficoltà della composizione, e ne consegue per lo più una certa agitazione, un’insufficiente unità della rappresentazione. E quando l’artista rinuncia del tutto alla norma iconografica della Chiesa è quasi impotente. Già le scene delle Giustizie di Dirk Bouts e Gerard David, caratterizzate ancora da una certa disposizione maestosa, presentano una composizione piuttosto debole. Questa diventa maldestra e goffa nel Martirio di Sant’Erasmo a Lovanio, “l’avvolgintestino”, e nel Martirio di Sant’Ippolito, squartato dai cavalli, a Bruges, e le sue lacune cominciano a infastidire. Quando devono essere raffigurate fantasie mai viste l’arte quattrocentesca cade nel ridicolo. La severità dei soggetti salvava la grande pittura da ciò, ma la miniatura non poteva sottrarsi alla raffigurazione di tutte le fantasie mitologiche e allegoriche apportate dalla letteratura. Un buon esempio, al riguardo, è l’illustrazione dell’Épître d’Othéa à Hector,38 una ben congegnata fantasia mitologica di Christine de Pisan, che è quanto di più sgraziato si possa immaginare. Gli dèi greci portano grandi ali dietro i loro mantelli d’ermellino o pellande borgognone; l’impianto e l’espressione sono completamente sbagliati: Minosse, Saturno che divora i suoi figli, Mida che distribuisce il premio, hanno tutti la stessa aria buffa. Ma non appena il miniatore può divertirsi a mettere un pastorello con delle pecorelle sullo sfondo, o una collinetta con la forca e la ruota, rivela la consueta abilità.39 Qui siamo al limite della potenza immaginativa di questi artisti che, quando creano liberamente, incontrano più o meno le stesse difficoltà dei poeti. La raffigurazione allegorica aveva condotto la fantasia in un’impasse. L’allegoria stringe l’una all’altra l’immagine e 485
l’idea. L’immagine può essere creata liberamente, poiché deve focalizzare bene l’idea, e l’idea è trattenuta nel suo volo dall’immagine. La fantasia si è abituata a tradurre l’idea in immagine nel modo più oggettivo possibile, senza alcun senso dello stile. La “Temperantia” porta sulla testa un orologio che indica la sua natura. Il miniatore dell’Épître d’Othéa non faceva altro che usare, a tale scopo, il piccolo pendolo che metteva anche sul muro nel ritratto di Filippo il Buono.40 Quando uno spirito come Chastellain, acuto osservatore, inventa e disegna figure allegoriche, appare piuttosto artificioso. Per esempio, nella sua giustificazione a proposito del suo audace poema politico Le dit de vérité41 egli presenta quattro dame che lo accusano. I loro nomi sono Indignation, Réprobation, Accusation, Vindication. Ecco come lui descrive la seconda: “Ceste dame droit-cy se monstroit avoir les conditions seures, raisons moult aguës et mordantes; grignoit les dens et machoit ses lèvres; niquoit de la teste souvent; et monstrant signe d’estre arguëresse, sauteloit sur ses pieds et tournoit l’un costé puis çà, l’autre costé puis là; portoit manière d’impatience et de contradiction; le droit oeil avoit clos et l’autre ouvert; avoit un sacq plein de livres devant lui, dont les uns mit en son escours comme chéris, les autres jetta au loin par despit; deschira papiers et feuilles; quayers jetta au feu félonnement; rioit sur les uns et les baisoit; sur les autres cracha par vilennie et les foula des pieds; avoit une plume en sa main, pleine d’encre, de laquelle roioit maintes ecriture notables…; d’une esponge aussy noircissoit aucunes ymages, autres esgratinoit aux ongles… et les tierces rasoit toutes au net et les planoit comme pour les mettre hors de mémoire; et se monstroit dure et felle ennemie à beaucoup de gens de bien, plus volontairement que par raison”.42 Altrove descrive “Da486
me Paix” che stende e solleva il suo mantello e poi si trasforma in quattro nuove dame: “Paix de coeur, Paix de bouche, Paix de semblant, Paix de vray effet”.43 In un’altra ancora delle sue allegorie compaiono figure femminili che si chiamano “Pesanteur de tes pays, Diverse condition et qualité de tes divers peuples, L’envie et haine des François et des voisines nations”, come se un articolo di fondo politico si facesse allegorizzare.44 Che tutte quelle figure non siano state viste ma inventate risulta in modo palese dal fatto che portano i loro nomi su banderuole; egli non le attinge direttamente dalla sua vivida fantasia, ma se le immagina in un quadro o in uno spettacolo teatrale. Ne La mort du duc Philippe, mystère par manière de lamentation egli vede il suo duca raffigurato come una fiala piena di un unguento prezioso, sospesa al cielo con un filo; la terra ha allattato quella fiala con il suo seno.45 Molinet vede Cristo come un pellicano (un tropo comune), che non solo nutre i piccoli con il suo sangue, ma lava anche con esso lo specchio della morte.46 Qui è svanita l’ispirazione estetica; si tratta del passatempo sottile e ricercato di uno spirito esausto, che attende una nuova fecondazione. Nel motivo ricorrente del sogno che racchiude un’azione appaiono di rado gli elementi propri del sogno, come accade, in modo esemplare, in Dante e in Shakespeare. Il poeta, spesso, non riesce neppure a sostenere l’illusione di aver avuto una visione: Chastellain si definisce “l’inventeur ou le fantasieur de ceste vision”.47 Solo lo scherno può far rifiorire il campo ormai arido della raffigurazione allegorica. Appena la si butta sul comico l’allegoria riprende vigore. Deschamps domanda al medico come se la passano le virtù e il diritto: 487
Phisicien, comment fait Droit? – Sur m’ame, il est en petit point… – Que fait Raison? – – Perdu a son entendement, Elle parle mais faiblement, Et Justice est toute ydiote…48 Le diverse sfere della fantasia si confondono senza stile. Non c’è prodotto più bizzarro del libello politico in veste di pastorale. L’ignoto poeta che si fa chiamare Bucarius ha ritratto in Le Pastoralet, con il tono della poesia pastorale, tutte le calunnie della casa di Borgogna contro gli Orléans: l’Orléans, Giovanni senza Paura e tutto il loro superbo e feroce seguito travestiti da miti pastori, strani abitanti di Leeuwendal! I loro mantelli da pastori sono dipinti a fiordalisi o leoni rampanti; ci sono “bergiers à long jupel” che rappresentano il clero.49 Tristifer, cioè l’Orléans, toglie agli altri il pane e il formaggio, le mele e le noci, e gli zufoli e alle pecore le campanelle; minaccia con la sua grossa verga quelli che resistono, finché non viene ucciso proprio con una verga. Talvolta il poeta dimentica i suoi sinistri propositi e si abbandona alla pastorale più dolce, ma poi interrompe nuovamente la fantasia pastorale per far posto all’oltraggiosa invettiva politica.50 Siamo ancora lontani dalla misura e dal gusto del Rinascimento. Gli espedienti con i quali Molinet si procurò, presso i suoi contemporanei, fama di ingegnoso “rhétoriquer” e poeta ci sembrano l’ultima degenerazione di una forma espressiva ormai vicina alla sua fine. Si compiace dei più insulsi giochetti di parole: “Et ainsi demoura l’Escluse en paix qui lui fut incluse, car la guerre fut d’elle excluse plus solitaire que 488
rencluse”.51 Nell’introduzione alla sua moralizzante riduzione in prosa del Roman de la Rose gioca con il suo nome, Molinet. “Et affin que je ne perde le froment de ma labeur, et que la farine que en sera molue puisse avoir fleur salutaire, j’ay intencion, se Dieu m’en donne la grace, de tourner et convertir soubz mes rudes meulles le vicieux au vertueux, le corporel en l’espirituel, la mondanité en divinité, et souverainement de la moraliser. Et par ainsi nous tirerons le miel hors de la dure pierre, et la rose vermeille hors des poignans espines, où nous trouverons grain et graine, fruict, fleur et feuille, très souefve odeur, odorant verdure, verdoyant floriture, florissat nourriture, nourissant fruit et fructifiant pasture.”52 Com’è decadente e logoro tutto ciò! Tuttavia il contemporaneo ammirava proprio questo come un qualcosa di nuovo; la poesia medioevale ignorava in realtà quei giochi con le parole, giocava più con le immagini. Come ad esempio Olivier de la Marche, affine a Molinet e suo ammiratore: Là prins fièvre de souvenance Et catherre de desplaisir, Une migraine de souffrance, Colicque d’une impascience, Mal de dens non à soustenir. Mon cueur ne porroit plus souffrir Les regretz de ma destinée Par douleur non accoustumée.53 Meschinot è ancora schiavo della fiacca allegoria quanto La Marche; nelle sue Lunettes des Princes le lenti sono Prudence e Justice, Force la montatura, Temperance il chiodo che unisce il tutto. Raison offre quegli occhiali al poeta con le istruzioni per l’uso; inviata dal cielo, Raison penetra nel 489
suo spirito e vuole prepararvi il suo banchetto, ma trova tutto guastato da Desespoir, cosicché non c’è nulla “pour disner bonnement”.54 Tutto pare degenerazione e decadenza. E però è questa l’epoca in cui il nuovo spirito del Rinascimento già spira liberamente. Dove sono la grande, giovane ispirazione e la nuova, pura forma?
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22. L’avvento della nuova forma
Il rapporto tra il nascente Umanesimo e il declinante spirito del Medioevo è molto meno semplice di quanto siamo portati a credere. A noi, che vediamo i due complessi culturali come nettamente separati, sembra che la sensibilità per l’eterna giovinezza degli antichi e il ripudio di tutto il logoro apparato con cui il Medioevo esprimeva i suoi pensieri debbano essersi manifestati come una rivelazione. Come se gli spiriti, mortalmente stanchi delle allegorie e dello stile flamboyant, avessero improvvisamente compreso: no, non quello, ma questo! Come se dall’aurea armonia dei classici a un tratto venisse la liberazione, come se essi avessero abbracciato l’antichità con il trasporto di chi ha trovato la sua salvezza. Ma non è così. Nel giardino del pensiero medioevale, tra la vecchia vegetazione ancora rigogliosa, il classicismo è cresciuto a poco a poco. Dapprima è soltanto un elemento fantastico formale. Solo più tardi diventa una grande, nuova ispirazione, e nemmeno allora lo spirito e le forme espressive che siamo soliti considerare come vecchi e medioevali scompaiono del tutto. Per capire a fondo tutto ciò sarebbe utile esaminare in 491
modo ancora più approfondito l’avvento del Rinascimento, non in Italia, ma nel paese che era stato il terreno più fertile per tutto quello che aveva costituito la magnifica ricchezza della vera cultura medioevale: in Francia. Se si considera il Quattrocento italiano nel suo glorioso contrasto con la vita del basso Medioevo in altri luoghi, ne ricaviamo un’impressione diffusa di simmetria, di gioia e di libertà, di serenità e di sonorità. Queste qualità, nel loro insieme, sono riconosciute come rinascimentali, come il segno dei nuovi tempi. Nel frattempo abbiamo dimenticato, con quell’inevitabile parzialità senza la quale non si può formulare alcun giudizio storico, che anche nell’Italia quattrocentesca il solido fondamento della vita culturale era rimasto ancora decisamente medioevale, che, anzi, negli stessi spiriti del Rinascimento i tratti medioevali sono molto più radicati di quanto non si voglia ammettere. Nella nostra immagine domina la nota rinascimentale. Se, al contrario, abbracciamo con un solo sguardo il mondo franco-borgognone del XV secolo, ricaviamo soprattutto l’impressione di un’atmosfera dominante cupa, di un fasto barbarico, di forme bizzarre e sovraccariche, di una fantasia logora, tutte caratteristiche dello spirito del Medioevo nella sua ultima fase. Questa volta si dimentica che anche qui il Rinascimento si fa strada dappertutto, ma ancora non domina, non ha ancora trasformato l’accordo profondo. Stranamente il nuovo si fa largo come forma esteriore, prima di divenire veramente nuovo spirito. Nel bel mezzo delle vecchie concezioni e condizioni di vita si affermano le nuove forme ispirate ai classici. Una cerchia colta che si dedicasse un po’ più del solito al latino puro e alla sintassi classica era sufficiente a dare inizio all’Uma492
nesimo. Una tale cerchia fiorisce in Francia intorno al 1400; è composta da alcuni religiosi e magistrati: Jean de Monstreuil, canonico di Lilla e segretario del re, Nicola de Clemanges, famoso portavoce del clero riformatore, Gontier Col, Ambrosius de Miliis, anche essi segretari privati di principi. Costoro si scambiano belle ed eleganti epistole di stampo umanistico, in nulla inferiori ai prodotti posteriori dello stesso genere, né nella vuota generalità del pensiero, né nell’affettazione, né nella sintassi obbligata e nell’espressione oscura, e neanche nel compiacimento per le frivolezze erudite. Jean de Montreuil si preoccupa dell’ortografia di “orreolum” e “scedula”, se vanno con o senza h, e dell’uso della lettera k nei vocabolari latini. “Se voi non venite in mio aiuto, caro maestro e fratello,” scrive a Clemanges,1 “perderò il mio buon nome e meriterò la morte. Mi sono appena accorto che nella mia ultima lettera al mio signore e padre, il vescovo di Cambrai, invece del comparativo ‘proprior’, tanto la penna è precipitosa e trascurata, ho messo ‘proximior’! Correggetelo, altrimenti i nostri sofisti ci scriveranno sopra dei libelli.”2 Come si vede, le lettere sono colte esercitazioni letterarie destinate alla divulgazione. Profondamente umanistica è anche la sua discussione con l’amico Ambrosius, che aveva accusato Cicerone di cadere in contraddizione e poneva Ovidio al di sopra di Virgilio.3 In una delle epistole egli dà una piacevole descrizione del convento di Charlieu presso Senlis, e curiosamente, quando non fa che raccontare quello che aveva visto, alla maniera medioevale, diventa a un tratto molto più leggibile. Narra come i passeri vengano a mangiare, nel refettorio, insieme ai frati, al punto che ci si domanda se il re abbia istituito la prebenda per questi o per gli uccelli, come uno scricciolo si 493
dia un’aria da abate, come l’asino del giardiniere preghi l’autore di non dimenticarlo nella sua epistola; tutto ciò è fresco e grazioso, ma non specificamente umanistico.4 Ricordiamoci che Jean de Montreuil e Gontier Col sono gli stessi che abbiamo imparato a conoscere come appassionati ammiratori del Roman de la Rose, e come membri della “Cours d’amours” del 1401. Non è evidente che questo primo Umanesimo era soltanto un elemento esteriore della vita? In realtà non è altro che l’effetto amplificato dell’erudizione scolastica medioevale, non molto diverso dalle rinascite della latinità classica che ritroviamo in Alcuino e nei suoi, ai tempi di Carlo Magno, e ancora nelle scuole francesi del XII secolo. Sebbene questo primo Umanesimo francese, che non trova continuatori immediati, si estingua con la piccola cerchia di uomini che l’avevano coltivato, esso però è già legato al grande movimento spirituale internazionale. Petrarca è già l’esempio illustre per Jean de Montreuil e i suoi. Anche Coluccio Salutati, il cancelliere fiorentino che, dopo la metà del XIV secolo, aveva introdotto la nuova retorica latina nel linguaggio della cancelleria è da lui citato più volte.5 Però in Francia Petrarca, se così si può dire, è stato ancora colto nello spirito medioevale. Egli era stato amico degli spiriti che avevano guidato la generazione precedente: il poeta Philippe de Vitri, il filosofo e politico Nicolas Oresme, che aveva educato il Delfino (Carlo V); sembra che anche Philippe de Mézières abbia conosciuto Petrarca. Ora questi uomini, anche se il pensiero di Oresme racchiude molte novità, non sono affatto umanisti. Se è vero, come supponeva Paulin Paris,6 che la Peronne d’Armentières di Machaut, nel suo desiderio di una relazione amorosa con un poeta, era presa non solo dall’esempio di Eloisa, ma già anche da quello di 494
Laura, allora Le Voir-Dit offre una significativa testimonianza di come l’ispirazione ricavata da un’opera, nella quale noi vediamo soprattutto l’avvento del pensiero moderno, potesse tuttavia nuovamente produrre una creazione puramente medioevale. Del resto, non siamo di solito portati a guardare Petrarca e Boccaccio esclusivamente sotto una luce moderna? Li consideriamo come i primi tra i rinnovatori, e a ragione. Però saremmo in errore se credessimo che loro, in quanto primi umanisti, non si sentissero più a loro agio nel XIV secolo. Con tutta la loro opera, per quanto pervasa da un soffio di rinnovamento, esprimono in pieno la civiltà della loro epoca. Inoltre Petrarca e Boccaccio erano famosi fuori d’Italia, alla fine del Medioevo, non tanto per i loro scritti in volgare, che avrebbero loro garantito l’immortalità, quanto per le loro opere latine. Petrarca, per i suoi contemporanei, era stato soprattutto un Erasmo avant la lettre, uno scrittore versatile ed elegante di trattati sulla morale e sulla vita, un grande epistolografo, il romantico dell’antichità con i suoi De viris illustribus e Rerum memorandarum libri. I temi che trattava erano ancora in sintonia con il pensiero medioevale: De contemptu mundi, De otio religiosorum, De vita solitaria. La sua esaltazione dell’eroismo antico è molto più vicina al culto dei nove “Preux”7 di quanto si potrebbe pensare. Non è affatto strano che siano esistiti dei rapporti tra Petrarca e Geert Groote, o che Giovanni di Varennes, il fanatico di Saint Lié,8 invochi l’autorità del Petrarca per difendersi dal sospetto di eresia,9 e che prenda dal Petrarca il testo per una nuova preghiera: “Tota caeca christianitas”. Ciò che Petrarca è stato per il suo secolo è espresso dalle parole di Jean de Montreuil: “devotissimus, catholicus ac celeberrimus philoso495
phus moralis”.10 Persino in un lamento per la perdita del Santo Sepolcro, un soggetto davvero medioevale, Dionigi il Certosino poteva rifarsi al Petrarca; “ma poiché lo stile di Francesco è retorico e difficile, citerò piuttosto il senso che non la forma delle sue parole”.11 Alle esercitazioni letterarie classiche dei sopraccitati primi umanisti francesi, Petrarca aveva dato un particolare impulso con la sua invettiva contro la mancanza di oratori e di poeti fuori d’Italia. I begli spiriti in Francia ovviamente replicarono. Nicolas de Clemanges e Jean de Montreuil protestarono vivacemente contro quella affermazione.12 Boccaccio esercitò un’influenza simile a quella del Petrarca, in un ambito però più ristretto. Lo si onorava non come l’autore del Decamerone, ma come “le docteur de patience en adversité”, l’autore del De casibus virorum illustrium e del De claris mulieribus. Boccaccio, con queste singolari compilazioni sull’incostanza della sorte umana, si era eretto, per così dire, a impresario della Fortuna. Ed è così che Chastellain intende e segue “messire Jehan Bocace”.13 Egli intitola Le Temple de Bocace un trattato molto bizzarro su ogni sorta di destini tragici del suo tempo, in cui viene evocato lo spirito del “noble historien”, per porgere conforto nelle sue avversità a Margherita d’Inghilterra. Non è affatto vero che Boccaccio sia stato capito poco o male da quei borgognoni del XV secolo, ancora tanto medioevali. Coglievano in lui l’aspetto prettamente medioevale, che noi corriamo il rischio di dimenticare. Ciò che separa il nascente Umanesimo in Francia da quello in Italia non è tanto una differenza di aspirazioni o di accordo profondo, quanto di gusto e di erudizione. A quei francesi l’imitazione degli antichi non riesce così facile come 496
a coloro che erano nati sotto il cielo della Toscana o all’ombra del Colosseo. Certo gli autori dotti padroneggiarono presto lo stile epistolare latino classico con abilità impeccabile. Però gli autori profani sono ancora inesperti delle finezze della mitologia e della storia. Machaut, che nonostante la sua dignità ecclesiastica non va considerato un dotto ma un poeta profano, storpia i nomi dei sette savi nella maniera più inconsulta. Chastellain confonde Peleo e Pelias, La Marche Proteo e Piritoo. Il poeta de Le Pastoralet parla del “bon roy Scypion d’Afrique”, gli autori de Le Jouvencel fanno derivare “politique” da πολúς e da un supposto vocabolo greco “icos, gardien, qui est à dire gardien de pluralité”.14 Tuttavia anche nel bel mezzo della forma allegorica medioevale cerca di irrompere, di tanto in tanto, la visione classica. Il poeta del travisato poema pastorale Le Pastoralet, in una descrizione del dio Silvano e in una preghiera a Pan, fa balenare per un istante lo splendore del Quattrocento, per poi riprendere il suo cammino stentato sulle logore tracce del suo vecchio sentiero.15 Come Jan van Eyck introduce talvolta, nelle sue scene dalla visione puramente medioevale, forme architettoniche classicistiche, così gli scrittori, in modo ancora esclusivamente formale e a guisa di ornamento, tentano di elaborare motivi antichi. I cronisti saggiano le loro forze in discorsi politici e bellici, contiones, alla maniera di Livio, o menzionano dei prodigi, prodigia, perché lo faceva anche Livio.16 Più sono goffi nella rielaborazione delle forme classiche, più a fondo comprendiamo il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Il vescovo di Chalon, Jean Germain, cerca di descrivere il congresso della pace di Arras nel 1435 con lo stile serrato e marcato dei Romani. Con locuzioni brevi, chiare e vivide cerca, palesemente, di ottenere effet497
ti liviani; però il risultato è una riuscitissima caricatura della prosa antica, non meno manierata che ingenua, disegnata come le figurine di un foglio di calendario di un breviario, ma malriuscita nello stile.17 La visione dell’antichità è ancora particolarmente bizzarra. A Nancy, ai funerali di Carlo il Temerario, il suo vincitore, il giovane duca di Lorena, viene a rendere onore alla salma del nemico vestito a lutto “à l’antique”, ossia con una lunga barba d’oro che gli scende fino alla cintura, con cui egli rappresenta uno dei nove “preux” e celebra la propria vittoria. Travestito a quel modo prega per un quarto d’ora.18 Gli spiriti in Francia, intorno al 1400, identificano l’antico con i concetti di “rhétorique, orateur, poésie”. Colgono l’invidiabile perfezione degli antichi soprattutto in una forma preziosa. Tutti questi poeti del XV secolo e anche prima, quando fanno parlare il cuore e hanno delle emozioni da comunicare, compongono poesie scorrevoli e semplici, spesso pungenti e talvolta delicate. Ma quando cercano il bello con la b maiuscola si avvalgono della mitologia e di affettati termini latineggianti, e si sentono “rhétoricien”. Christine de Pisan distingue espressamente una poesia mitologica, che chiama “balade poétique”, dalla sua opera abituale.19 Quando Eustache Deschamps manda le sue opere al suo collega e ammiratore Geoffrey Chaucer, gli propina un insopportabile calderone pseudoclassico: O Socrates plains de philosophie, Seneque en meurs et Anglux en pratique, Ovides grans en ta poeterie, Bries en parler, saiges en rethorique Aigles très haulz, qui par ta théorique
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Enlumines le regne d’Eneas, L’Isle aux Geans, ceuls de Bruth, et qui as Semé les fleurs et planté le rosier, Aux ignorans de la langue Pandras,20 Grant translateur, noble Geffroy Chaucier! … A toy pour ce de la fontaine Helye Requier avoir un buvraige autentique, Dont la doys est du tout en ta baillie, Pour rafrener d’elle ma soif ethique, Qui en Gaule seray paralitique Jusques a ce que tu m’abuveras.21 Questo è l’inizio di ciò che ben presto diventa una ridicola latinizzazione della nobile lingua francese, sulla quale si sarebbe riversato lo scherno di Villon e Rabelais.22 Ritroviamo puntualmente questo stile nella corrispondenza poetica, nelle dediche e nelle orazioni, in altre parole dove si cerca il bello. Allora Chastellain parla della “vostre trèshumble et obéissante serve et ancelle, la ville de Gand”, “la viscérale intime douleur et tribulation”, La Marche della “nostre francigène locution et langue vernacule”, Molinet di “abreuvé de la doulce et milliflue liqueur procedant de la fontaine caballine”, “ce vertueux duc scipionique”, “gens de mulièbre courage”.23 Questi ideali di una “rhétorique” raffinata non riguardano solamente l’espressione letteraria, ma sono nel contempo e in misura maggiore ideali di più elevati rapporti letterari. L’intero Umanesimo, al pari della poesia dei trovatori, è un gioco di società, una forma di conversazione, un anelito a 499
una forma superiore di vita. Neppure la corrispondenza tra letterati del XVI e del XVII secolo ha rinnegato quell’elemento. Ora, sotto questo aspetto, la Francia occupa una posizione intermedia tra l’Italia e i Paesi Bassi. In Italia, dove linguaggio e pensiero si erano meno allontanati dai veri e puri modelli, le forme umanistiche trovavano facilmente la loro collocazione nello sviluppo naturale degli aspetti più elevati della vita del popolo. L’accentuazione delle espressioni latine corruppe a malapena la lingua italiana. Lo spirito dei circoli umanistici era congeniale ai costumi della società. L’umanista italiano rappresenta la crescita graduale della civiltà italiana e quindi il primo tipo dell’uomo moderno. Nei paesi borgognoni, al contrario, lo spirito e la forma della società erano ancora così medioevali che il desiderio di un’espressione rinnovata e purificata poté prendere corpo, in un primo tempo, solo in una forma decisamente antiquata: la camera di retorica. Come associazione essa non è che la continuazione della confraternita medioevale, e il suo spirito esprime un rinnovamento esclusivamente formale ed esteriore. Soltanto l’Umanesimo biblico di Erasmo inaugura la civiltà moderna. La Francia, tranne le sue provincie settentrionali, ignora l’apparato antiquato delle camere di retorica, ma neanche i suoi “nobles rhétoriciens” somigliano agli umanisti italiani. Conservano ancora troppo dello spirito e delle forme medioevali. Chi sono, nella letteratura francese del XV secolo, gli esponenti delle nuove idee? Non i pomposi portavoce del ricercato ideale borgognone: Chastellain, La Marche, Molinet. Ora, si badi, proprio costoro rendono omaggio all’oratoria con l’allegoria e al latinismo con lo stile elevato. 500
Solo quando si liberano del loro ideale di virtuosismo, e scrivono ciò che gli detta il cuore, diventano leggibili e nel contempo più moderni. La promessa del futuro non stava nel classicismo, ma nella spregiudicatezza. L’aspirazione latineggiante e classicistica è stata un freno, non uno stimolo. Moderni erano i semplici, nello spirito e nella forma, anche se ancora seguivano proprio gli schemi medioevali. Sono Villon, Coquillart, Henri Baude, Charles d’Orléans e il poeta de L’amant rendu cordelier. L’ammirazione per il pomposo stile borgognone non era affatto limitata alla cerchia degli stessi duchi. Jean Robertet (1420-1490), segretario di tre duchi di Borbone e di tre re francesi, vedeva in George Chastellain, il fiammingo-borgognone, l’apice della nobile arte poetica. Da quella ammirazione scaturì una corrispondenza letteraria che può illustrare quanto abbiamo appena affermato. Per fare la conoscenza di Chastellain, Robertet si serve della mediazione di un certo Montferrant che, in qualità di precettore di un giovane Borbone, educato alla corte dello zio duca di Borgogna, viveva a Bruges. Tramite Chastellain gli inviò due lettere, una in latino e una in francese, nonché un ampolloso panegirico in lode del vecchio cronista e poeta di corte. Poiché questi non aderì subito alla pressante richiesta di una corrispondenza letteraria, Montferrant compose una prolissa esortazione secondo la vecchia formula. Gli erano apparse “Les Douze Dames de Rhétorique”, chiamate “Science, Eloquence, Gravité de Sens, Profondité” etc. Chastellain cedette a quel richiamo, e intorno alle “Douze Dames de Rhétorique” si raggruppano ora le lettere del terzetto24; ben presto però Chastellain ne ebbe abbastanza e troncò la corrispondenza. In Robertet troviamo la versione più blanda della latinità 501
pseudomoderna. “J’ay esté en aucun temps en la case nostre en repos, durant une partie de la brumale froidure,” così dice a proposito di un raffreddore.25 Altrettanto insulsi sono i termini iperbolici con cui esprime la sua ammirazione. Quando finalmente ottiene un’epistola poetica da Chastellain (in effetti molto superiore alla sua poesia) scrive a Montferrant: Frappé en l’oeil d’une clarté terrible Attaint au coeur d’eloquence incrédible, A humain sens difficile à produire, Tout offusquié de lumière incendible Outre perçant de ray presqu’impossible Sur obscur corps qui jamais ne peut luire, Ravi, abstrait me trouve en mon déduire, En extase corps gisant à la terre, Foible esperit perplex à voye enquerre Pour trouver lieu et oportune yssue Du pas estroit où je suis mis en serre, Pris à la rets qu’amour vraye a tissue. E continuando in prosa: “Où est l’oeil capable de tel objet visible, l’oreille pur ouyr le haut son argentin et tintinabule d’or?”. Che ne dice Montferrant, “amy des dieux immortels et chéri des hommes, haut pis Ulixien, plein de melliflue faconde”? “N’est-ce replendeur équale au curre Phoebus?”. Non è più della lira di Orfeo, “la tube d’Amphion, la Mercuriale fleute qui endormyt Argus”? etc. etc.26 Va di pari passo con l’estrema ampollosità la profonda umiltà con cui questi poeti rimangono fedeli al precetto medioevale. E non sono i soli; tutti i loro contemporanei rendo502
no ancora omaggio a quella forma. La Marche si augura che i suoi Mémoires possano servire come modesti fiorellini di una corona, e paragona il suo lavoro alla ruminazione di un cervo. Molinet prega tutti gli “orateurs” di eliminare il superfluo dalla sua opera. Commines si augura che l’arcivescovo di Vienne, per il quale scrisse la sua opera, possa accogliere il suo lavoro in uno scritto latino.27 Nella corrispondenza poetica tra Robertet, Chastellain e Montferrant vediamo come la doratura del nuovo classicismo sia solo attaccata a un’immagine genuinamente medioevale. E, si badi, questo Robertet è stato in Italia, “en Ytalie, sur qui les respections du ciel influent aorné parler, et vers qui tyrent toutes douceurs élémentaires pour là fondre harmonie”.28 Ma non si può certo dire che egli avesse fatto sua quell’armonia del Quattrocento. L’eccellenza dell’Italia consisteva, per questi spiriti, solamente nell’“aorné parler”, nell’esercitazione esteriore di uno stile artificioso. L’unica cosa che renda in qualche modo incerta quell’impressione di eccessivo arcaismo è un’ombra d’ironia talvolta innegabile in queste esagerate effusioni. Il vostro Robertet, dicono le “Dames de Rhétorique” a Montferrant, “il est exemple de Tullian art, es forme de subtilité Térenciennes… qui succié a de nos seins notre plus intéroire substance par faveur; qui, outre la grâce donnée en propre terroir, se est allé rendre en pays gourmant pour réfection nouvelle (l’Italia), là où enfans parlent en aubes à leurs mères, frians d’escole en doctrine sur permission de eage”.29 Chastellain interrompe la corrispondenza, poiché ne ha abbastanza: la porta è rimasta spalancata troppo a lungo a “Dame Vanité”; ora egli la spranga. “Robertet m’a surfondu de sa nuée, et dont les perles, qui en celle se congréent comme grésil, me font resplendir 503
mes vestements; mais qu’en est mieux au corps obscur dessoubs, lorsque ma robe deçoit les voyans?”30 Se Robertet continuerà su questo tono egli butterà nel fuoco le sue lettere senza leggerle. Se invece intende parlare semplicemente, come conviene tra amici, allora potrà ancora contare sull’affetto di George. Il fatto che sotto la veste classica alberghi ancora uno spirito medioevale è meno evidente se l’umanista si serve solo del latino. Allora il concetto imperfetto del vero spirito dell’antichità non è tradito da un adattamento maldestro; il letterato può senz’altro imitare, e imitare creando una perfetta illusione. Un umanista come Robert Gaguin (14331501) nelle sue lettere e nelle sue orazioni ci appare moderno quasi quanto Erasmo, che deve a lui la sua prima celebrità, in quanto Gaguin aveva pubblicato, in appendice al suo Compendio della storia francese, la prima opera storiografica scientifica in Francia (1495), una lettera di Erasmo, che così fu stampato per la prima volta.31 Il fatto che Gaguin conoscesse il greco ancora tanto poco quanto Petrarca,32 non sminuisce la sua opera di umanista. Nel contempo vediamo che anche in lui continua a vivere il vecchio spirito. Egli dedica ancora la sua eloquenza latina ai vecchi temi medioevali, come la diatriba contro il matrimonio33 o il disprezzo della vita di corte, ritraducendo in latino il Curial di Alain Chartier. Oppure tratta, in una poesia francese, il valore sociale degli stati, nella diffusa forma del contrasto: Le Debat du Laboureur, du Prestre et du Gendarme. Nelle sue poesie francesi però Gaguin, che padroneggiava alla perfezione lo stile latino, non utilizza affatto fronzoli retorici; non ci sono né forme latinizzate, né locuzioni iperboliche, né mitologia; come poeta francese egli è tra coloro che conservano, nella loro 504
forma medioevale, la naturalezza e di conseguenza la leggibilità. La forma umanistica è ancora poco più che una veste che egli indossa e che gli sta bene, ma senza questo mantello si muove molto più liberamente. Per lo spirito francese del XV secolo il Rinascimento è ancora ben poca cosa. Si è spesso abituati a ritenere come criterio sicuro dell’avvento del Rinascimento la comparsa di manifestazioni che sembrano pagane. Ogni conoscitore della letteratura medioevale sa che questo paganesimo letterario non si limita affatto alla sfera del Rinascimento. Quando gli umanisti chiamano Dio “princeps superum” e Maria “genitrix tonantis” non dicono niente di inaudito. L’attribuire in maniera del tutto esteriore denominazioni della mitologia pagana alle persone della fede cristiana è molto antico e significa poco o niente per il contenuto del sentimento religioso. Già l’Archipoeta del secolo XII rima disinvoltamente, nella sua spiritosa confessione: Vita vetus displicet, mores placent novi; Homo videt faciem, sed cor patet Iovi?34 Quando Deschamps parla di “Jupiter venu de Paradis”,35 non intendeva in alcun modo essere empio, e neanche Villon, quando, nella commovente ballata composta per la madre, pregando la Madonna la chiama “haulte Déesse”.36 Una certa vena pagana si avvertiva anche nella poesia pastorale; vi si facevano comparire, senza problemi, degli dèi. Ne Le Pastoralet il convento dei celestini a Parigi è detto “temple au hault bois pour les dieux prier”.37 Un simile, innocente paganesimo non fece vittime. E per giunta il poeta dichiara: “Se pour estrangier ma Muse je parle des dieux des païens, sy sont les pastours crestiens et moy”.38 Parimenti Molinet, quanto fa comparire in una visione Marte e Minerva, 505
addossa la responsabilità a “Raison et Entendement”, che gli hanno detto: “Tu le dois faire non pas pour adjouter foy aux dieux et déesses, mais pour ce que Nostre Seigneur seul inspire les gens ainsi qu’il lui plaist, et souventes fois par divers inspirations”.39 Molto del paganesimo letterario del pieno Rinascimento non va preso più sul serio di queste espressioni. È più rilevante, per la penetrazione del nuovo spirito, la manifestazione di un riconoscimento del valore della fede pagana in quanto tale, specialmente del sacrificio pagano. Questa consapevolezza può manifestarsi anche in coloro che, come Chastellain, sono ancora saldamente radicati alle forme di pensiero medioevali. Des dieux jadis les nations gentiles Quirent l’amour par humbles sacrifices, Lesquels, posé que ne fussent utiles, Furent nientmoins rendables et fertiles De maint grant fruit et de haulx bénéfices, Monstrans par fait que d’amour les offices Et d’honneur humble, impartis où qu’ils soient Pour percer ciel et enfer suffisoient.40 Talvolta, nel bel mezzo della vita medioevale, risuona a un tratto l’eco del Rinascimento. In un “pas d’armes” ad Arras, nel 1446, Philippe de Ternant appare senza portare, come è consuetudine, una “bannerole de devocion”, un nastro con una massima o una figura pia. “Laquelle chose je ne prise point,” dice La Marche di tanta sfrontatezza. Ma ancora più sfrontata è la divisa che porta Ternant: “Je souhaite que avoir puisse de mes desirs assouvissance et jamais aultre bien
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n’eusse”.41 Potrebbe essere il motto del più ardito libertino del XVI secolo. Gli spiriti non erano costretti a cercare questo effettivo paganesimo nella letteratura classica, lo potevano trovare nel proprio tesoro medioevale, nel Roman de la Rose. Il vero paganesimo stava nelle forme della cultura erotica. Lì, da tempo immemorabile, Venere e il dio dell’Amore avevano avuto il loro rifugio, e godevano di un culto che non era solamente retorico. Jean de Meung era stato il grande pagano. E non perché confondeva i nomi delle antiche divinità con quelli di Gesù e di Maria, ma per le sue lodi insolenti del piacere terreno accanto alle rappresentazioni della beatitudine cristiana, per innumerevoli lettori dal XIII secolo in poi era stato un maestro di paganesimo. Non c’era maggiore blasfemia di quella dei versi in cui egli mette in bocca a Nature, che agisce come demiurgo, capovolgendone il significato, le parole della Genesi: allora il Signore si pentì di aver creato l’uomo; Nature si pente di aver creato gli uomini, poiché costoro trascurano il suo comandamento di procreare: Si m’aïst Diex li crucefis, Moult me repens dont homme fis.42 Resta sorprendente il fatto che la Chiesa, che vigilava così scrupolosamente e reprimeva così severamente le più lievi deviazioni dogmatiche di carattere strettamente speculativo, abbia lasciato che le dottrine di questo breviario dell’aristocrazia si propagassero impunemente negli spiriti. La nuova forma e il nuovo spirito non coincidono. Come le idee della nuova epoca si manifestavano in una veste medioevale, così le idee più medioevali furono espresse in metri saffici, con un lungo corteo di figure mitologiche. Il classicismo e lo spirito moderno sono due cose completamente di507
verse. Il classicismo letterario è un bambino nato vecchio. Per il rinnovamento delle belle lettere l’antichità ha avuto a malapena più importanza delle frecce di Filottete. Diverso è il discorso per le arti figurative e per il pensiero scientifico: qui l’antica purezza della raffigurazione e dell’espressione, l’antica vastità dell’interesse, l’antica padronanza della vita e la comprensione dell’uomo sono state molto più che un semplice punto di appoggio. Nell’arte figurativa il superamento del superfluo, dell’eccessivo, del contorto, dello sberleffo e dello svolazzo fiammeggiante è stato tutto opera dell’antichità. E nel dominio del pensiero essa è stata ancora più indispensabile e feconda. In campo letterario, al contrario, la semplicità e la purezza hanno attecchito al di fuori del classicismo, anzi malgrado il classicismo. Nella Francia del XV secolo, i pochi che adottano forme umanistiche ancora non annunciano il Rinascimento. Perché il loro accordo profondo, il loro orientamento è ancora medioevale. Il Rinascimento giunge solo quando cambia il tono della vita, quando varia il flusso della mortifera negazione della vita e si leva un vento forte e fresco; quando matura la lieta consapevolezza che era possibile riconquistare tutti gli splendori dell’antichità, in cui da così lungo tempo ci si era specchiati.
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Note al testo
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1. La veemenza della vita
1 GEORGES CHASTELLAIN, Oeuvres, a cura di Kervyn de Lettenhove, 8 voll., III,
Bruxelles 186366, p. 44. 2 Antwerpen’s OnzeLieveVrouwToren, edito dallo Stadsbestuur van Antwer-
pen 1927, XI, p. 23. 3 CHASTELLAIN, II, p. 267; OLIVIER DE LA MARCHE, Mémoires, a cura di Beaune
et d’Arbaumont (Soc. de l’hist. de France), 4 voll., II, 188388, p. 248. 4 Journal d’un bourgeois de Paris, a cura di A. Tuetey (Publ. de la Soc. de l’hist-
oire de Paris, Doc. n. III), 1881, pp. 5, 56. 5 “Le più pietose processioni che fossero mai state viste dai tempi dell’umanità”, e più avanti: “In gran pianto, in grandi lacrime, in gran devozione”. [N.d.T.] 6 Journal d’un bourgeois, pp. 2024; cfr. Journal de Jean de Roye, dite Chronique
scandaleuse, a cura di B. de Mandrot (Soc. de l’hist. de France), 2 voll., I, 189496, p. 330. 7 CHASTELLAIN, III, p. 461, cfr. V, p. 403. [“E fece intenerire i cuori in tal modo
che tutti si scioglievano in lacrime di compassione” – “E la sua fine fu ritenuta la più bella che si fosse mai veduta.” N.d.T.] 8 JEAN JUVENAL DES URSINS, 1412, a cura di Michaud et Poujoulat, Nouvelle
Collections des mémoires, II, Paris 1850, p. 474. [“C’era una gran moltitudine di popolo, e quasi tutti piangevano a calde lacrime.” N.d.T.] 9 “Al pane di dolore e all’acqua d’angoscia” – “Secondo la moda dei consiglieri
di Parlamento” [N.d.T.]. Journal d’un bourgeois, pp. 6, 70; JEAN MOLINET, Chronique, a cura di Buchon, Coll. de chron. nat., 5 voll, II, 1827-28, p. 23; LUIGI XI, Lettres, a cura di Vaesen, Charavay, de Mandrot (Soc. de l’hist. de France), 18831909, II vol., 20 aprile 1477, VI, p. 158; Chronique scandaleuse, II, p. 47, Id. Interpolations, II, p. 364. 10 “Grandi e piccoli piangevano così pietosamente e così profondamente, come
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se vedessero seppellire i loro migliori amici, e anche lui faceva altrettanto.” [N.d.T.] 11 Journal d’un bourgeois, pp. 234247. 12
“Gridando e lamentando fortemente la sua partenza.” [N.d.T.], Chron. scand., II, pp. 70, 72. 13 M.M. GORCE, Saint Vincent Ferrier, Paris 1924, p. 175. 14 Vita auct. Petro Ranzano O.P. (1455), Acta sanctorum Apr. t. I, pp. 494 sgg. 15 J. SOYER, “Notes pour servir à l’histoire littéraire. Du succès de la prédication
de frère Olivier Maillard à Orléans en 1485”, in Bulletin de la société archéologique et historique de l’Orléanais, t. XVIII, 1919, menzionato nella Revue historique, t. 131, p. 351. 16 ENGUERRAND DE MONSTRELET, Chronique, a cura di Douet d’Arcq (Soc. de
l’hist. de France), 6 voll., IV, 185763, pp. 302306. [“Ma come la lumaca che ritira dentro le sue corna quando le si passa vicino, e le ricaccia fuori quando non sente più niente, così fecero quelle. Perché poco dopo che il detto predicatore era partito dal paese, loro ricominciarono come prima, e dimenticarono il suo insegnamento, e ripresero a poco a poco il loro vecchio sfoggio, ugualmente, grande o ancora più grande di quello che erano abituate a portare.” N.d.T.] 17 WADDING, Annales Minorum, X, p. 72; K. HEFELE, Der Bernhardin van Siena
und die franziskanische Wanderpredigt in Italien, Freiburg 1912, pp. 47, 80. 18 “Vestiti d’angoscioso lutto, che li faceva apparire molto afflitti, e in tutta la
città si piangeva e ci si lamentava molto per la grande tristezza e dolore che si vedeva loro portare per la morte del loro signore” – “E Dio seppe il doloroso e pietoso lutto che loro facevano per il sunnominato signore.” [N.d.T.] 19 Chron. scand., I, p. 22, 1461; JEAN CHARTIER, Hist. de Charles VII, a cura di D.
Godefroy, 1661, p. 320. 20 CHASTELLAIN, III, pp. 36, 98, 124, 125, 210, 238, 239, 247, 474; JAQUES DU CLERCQ, Mémoires, 14481457), a cura di de Reiffenberg, 4 voll., IV, p. 40, II, pp. 280, 355, III, p. 100, Bruxelles 1823; JUVENAL DES URSINS, pp. 405, 407, 420; MOLINET, III, pp. 36, 314. 21 JEAN GERMAIN, Liber de virtutibus Philippi ducis Burgundiae, a cura di Ker-
vyn de Lettenhove, Chron. rel. à l’hist. de la Belg. sous la dom. des ducs de Bourg. (Coll. des chron. belges), II, 1876, p. 50. 22 LA MARCHE, I, p. 61. [“E che il più saggio vi perde la pazienza.” N.d.T.] 23 CHASTELLAIN, IV, pp. 333 sgg. [“Allora si udì levare la voce, spandere lacrime
e lanciar grida di comune accordo: Noi tutti, noi tutti, Nostro Signore, vivremo e morremo con voi” – “Or vivete dunque e soffrite, e io soffrirò per voi, prima che voi abbiate colpa” – “Dicendo l’uno: io ho mille, l’altro: diecimila, l’altro: io ho
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questo, io ho quello da mettere per voi e per provvedere al vostro avvenire.” N.d.T.] 24 CHASTELLAIN, III, p. 92. 25 JEAN FROISSART, Chroniques, a cura di S. Luce et G. Raynaud (Soc. de l’hist.
de France), II voll. (non dopo il 1385), IV, pp. 8993, 18691899. 26 CHASTELLAIN, III, pp. 85 sgg. 27 CHASTELLAIN, III, p. 279. [“Buongiorno mio signore, buongiorno, che cos’è
ciò? Siete voi ora re Artù o messere Lancillotto?” N.d.T.] 28 LA MARCHE, II, p. 421. 29 JUVENAL DES URSINS, p. 379. 30 MARTIN LE FRANC, “Le champion des dames”, in G. Doutrepont, La littérat-
ure française à la cour des ducs de Bourgogne (Bibl. du XVe siècle, t. VIII), Champion, Paris 1909, p. 304. 31 Acta sanctorum Apr. t. I, p. 496; A. RENAUDET, Préréforme et humanisme à Pa-
ris, 14941517, Champion, Paris 1916, p. 163. 32 “Il quale quasi a stento e di malavoglia le tirò fuori un grosso di Scozia dalla
sua borsa e glielo prestò.” [N.d.T.] 33 CHASTELLAIN, IV, pp. 300 sgg.; VII, p. 73; cfr. THOMAS BASIN, De rebus gestis Caroli VII et Lud. XI historiarum libri XII, a cura di Quicherat (Soc. de l’hist. de France), 4 voll., I, 18551859, p. 158. 34 “Un qualche piccolo trattato intorno alla fortuna che prendeva spunto dalla
sua incostanza e dalla sua natura ingannatrice.” [N.d.T.] 35 Journal d’un bourgeois, p. 220. [“Un duca e un conte e dieci uomini tutti a
cavallo” – “Per arte magica o in altro modo.” N.d.T.] 36 CHASTELLAIN, III, p. 30 – “Il Pathos del Dominio”. [“Poiché i principi sono
uomini e i loro affari sono grandi e rischiosi, e la loro natura è soggetta a molte passioni come all’odio e all’invidia, e i loro cuori sono un vero ricettacolo di quelle a causa della loro ambizione nel regnare.” N.d.T.] 37 LA MARCHE, I, p. 89. [“Colui che per vendicare l’oltraggio fatto alla persona
del duca Giovanni sostenne la guerra per sedici anni.” N.d.T.] 38 “Con livore criminale e mortale avrebbe cercato di vendicarsi del morto, sin
dove Dio glielo volesse concedere; e vi avrebbe messo anima e corpo, averi e paesi tutto all’avventura e a disposizione della fortuna, reputando opera più meritevole e accetta a Dio insistere che tralasciare.” [N.d.T.] 39 CHASTELLAIN, I, pp. 82, 79; MONSTRELET, III, p. 361. 40 LA MARCHE, I, p. 201. 41 II trattato fra gli altri in LA MARCHE, I, p. 207. 42 CHASTELLAIN, I, p. 196.
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43 BASIN, III, p. 74. 44 Il fatto che una concezione come la mia non escluda affatto il riconoscimento
dei fattori economici, certamente non è stata formulata come una protesta contro l’interpretazione della storia da un punto di vista economico, può essere dimostrato dalla seguente citazione di Jaurès: “Mais il n’y a pas seulement dans l’histoire des luttes de classes, il y a aussi des luttes de partis. J’entends qu’en dehors des affinités ou des antagonismes économiques il se forme des groupements de passions, des intérêts d’orgueil, de domination, qui se disputent la surface de l’histoire et qui déterminent de très vastes ébranlements”. Histoire de la révolution française, IV, p. 1458. [“Ma non vi sono nella storia solamente delle lotte di classe, vi sono anche lotte di partito. Intendo dire che all’infuori delle affinità o degli antagonismi economici si formano dei gruppi di passioni, degli interessi di orgoglio, di dominio, che si contendono la superficie della storia e che determinano vasti spostamenti.” N.d.T.] 45 CHASTELLAIN, IV, p. 201. Cfr. il mio studio “Uit de voorgeschiedenis van ons
nationaal besef”, in De Nederlandse Natie, Haarlem 1960 [Verzamelde Werken, II, pp. 97 sgg.]. 46 “Suo malgrado” [N.d.T.] – Journal d’un bourgeois, p. 242; cfr. MONSTRELET, IV, p. 341. 47 JAN VAN DIXMUDE, a cura di Lambin, Ypres 1839, p. 783. 48 FROISSART, a cura di Luce, XI, p. 52. 49 Mémoires de Pierre le Fruictier dit Salmon, Buchon, 3e suppl. de Froissart, XV, p. 22. [“Poiché loro dicevano che io ero scismatico e che credevo in Benedet-
to l’antipapa.” N.d.T. ] 50 Chronique du Religieux de Saint Denis, a cura di Bellaguet (Coll. des docu-
ments inédits), 6 voll., I, 183952, p. 34; JUVENAL DES URSINS, pp. 342, 467471; Journal d’un bourgeois, pp. 12, 31, 44. 51 MOLINET, III, p. 487. [“Di cui il popolo fosse più contento che se un nuovo
corpo santo fosse resuscitato.” N.d.T.] 52 MOLINET, III, pp. 226, 241, 283287; LA MARCHE, III, pp. 289, 302. 53 Clementis V constitutiones, lib. Vit. 9 c. I; JOANNIS GERSONII, Opera omnia, a
cura di L. Ellies Dupin, ed. II, Hagae Comitis, 5 voll., 1728, II, p. 427; Ordonnances des rois de France, t. VIII, p. 122; N. JORGA, Philippe de Mézières et la croisade au XIVe siècle (Bibl. de l’école des hautes études, fasc. 110), 1896, p. 438; Religieux de S. Denis, II, p. 533. 54 Journal d’un bourgeois, pp. 223, 229. 55 JACQUES DU CLERCQ, IV, p. 265; PETIT-DUTAILLIS, Documents nouveau sur les
moeurs populaires et le droit de vengeance dans les Pays Bas au XVe siècle (Bibl. du XVe siècle), Champion, Paris 1908, pp. 7, 21. 56 PIERRE DE FENIN, Michaud et Poujoulat, Nouvelle coll. de mémoires, Ie s., II,
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p. 593; cfr. il suo racconto del buffone ammazzato, p. 619, nella ed. M.lle Dupont, Soc. de l’hist. de France, pp. 87, 202. [“E si facevano grandi risate, perché era tutta gente di povere condizioni.” N.d.T.] 57 “Esbatement” = rappresentazione comica tipica delle camere di retorica dei
Paesi Bassi [N.d.T.]; Journal d’un bourgeois, p. 204. 58 JEAN LEFÈVRE DE SAINT REMY, Chronique, a cura di F. Morand (Soc. de l’hist.
de France), 2 voll., II, 1876, p. 168; LABORDE, Les ducs de Bourgogne, Etudes sur les lettres, les arts et l’industrie pendant le XVe siècle, 3 voll., II, Paris 184953, p. 208. 59 LA MARCHE, III, p. 133; LABORDE, II, p. 325. 60 LABORDE, III, pp. 355, 398; “Le moyenâge”, XX, 1907, pp. 194201. [“Al pa-
dre di Belon la folle, che era venuto a vedere sua figlia…” – “Per legare Belon la folle e l’altro da mettere al collo della scimmia di Madame la Duchessa.” N.d.T.] 61 JUVENAL DES URSINS, pp. 438, 1405; cfr. però Rel. de S. Denis, III, p. 349. 62 PIAGET, Romania, XX, p. 417 e XXXI (1902), pp. 597603. 63 Journal d’un bourgeois, p. 95. [“Come se fosse lavata con acqua di rose.”
N.d.T.] 64 JAQUES DU CLERCQ, III, p. 262. 65 JAQUES DU CLERCQ, III, passim; PETIT DUTAILLIS, Documents, cit., p. 131. 66 UGO DA SAN VITTORE, De fructibus carnis et spiritus, Migne, CLXXVI, p. 997. 67 TOBIA, 4, 13. 68 TIMOTEO, 6, 10. 69 PETRUS DAMIANI, Epist, lib. I, 15, Migne CXLIV, p. 233; id., Contra philargy-
riam ib. CXLV, p. 533; PSEUDO-BERNARDUS, Liber de modo bene vivendi, § 44, 45, Migne CLXXXIV, p. 1266. 70 “Un uomo molto pomposo, avido, più mondano di quanto lo consentissero
le sue condizioni.” [N.d.T.] 71 Journal d’un bourgeois, pp. 325, 343, 357 e, nella nota, i dati dei registri del
Parlamento [“Uomo poco pietoso verso gli altri, se non riceveva denaro o qualche dono che lo valeva, e in verità si diceva che egli avesse più di cinquanta processi in Parlamento, poiché da lui non si otteneva niente senza processo.” N.d.T.] 72 L. MIROT, Les d’Orgemont, leur origine, leur fortune, etc. (Bibl. du XVe siècle),
Champion, Paris 1913; P. CHAMPION, François Villon, sa vie et son temps, Champion, id. Paris 1913, II, pp. 230 sgg. 73 MATHIEU D’ESCOUCHY, Chronique, a cura di G. du Fresne de Beaucourt (Soc. de l’hist. de France), 3 voll., I, 183364, pp. IV-XXXIII. 74 “Come ladro e assassino.” [N.d.T.] 75 P. CHAMPION, François Villon, sa vie et son temps (Bibl. du XVe siècle), 2 voll.,
514
Paris 1913. 76 Ed. Ch. Bruneau, La Chronique de Philippe de Vigneulles, 4 voll., Metz
19271933 (Société d’Histoire et d’Archéologie de la Lorraine).
515
2. L’aspirazione a una vita migliore
1 ALLEN, n. 451, Anversa, 26 febbraio 1517; cfr. II. 542, n. 566, n. 862, n. 967. 2 Germanae, che qui può significare “tedesche”. 3 EUSTACHE DESCHAMPS, Oeuvres complètes, a cura di De Queux de Saint Hi-
laire et G. Raynaud (Soc. des anciens textes français), II voll., n. 31 (I, p. 113), 18781903, cfr. nn. 85, 126, 152, 162, 176, 248, 366, 375, 386, 400, 933, 936, 1195, 1196, 1207, 1213, 1239, 1240, etc. [“Tempo di dolore e di tentazione / età di pianto, d’invidia e di tormento / tempo di languore e di dannazione / età che conduce alla fine / tempo pieno d’orrore che falsa ogni cosa / età ingannatrice / piena d’orgoglio e di invidia / tempo senza onore e senza vero giudizio / età in tristezza che abbrevia la vita.” N.d.T.] CHASTELLAIN, I, pp. 9, 27, IV, 206, 208, 219, 295; ALAIN CHARTIER, Oeuvres, a cura di A. Duchesne, Paris 1617, pp. 262; ALANUS DE RUPE, Sermo, II, p. 313 (B. Alanus redivivus, a cura di J.A. Coppenstein, Napoli 1642). 4 DESCHAMPS, n. 562 (IV, p. 18). [“Ogni letizia svanisce, tutti i cuori sono presi d’assalto da tristezza e malinconia.” N.d.T.] 5 “O miserabile e dolentissima vita!… / La guerra abbiamo, mortalità, fame; / Il
freddo, il caldo, ci minano giorno e notte; / Pulci, acari e tanti altri insetti / Ci attaccano. / In breve, abbi pietà signore / Dei nostri miseri corpi, la cui vita è molto breve.” [N.d.T.] 6 A. DE LA BORDERIE, Jean Meschinot sa vie et ses oeuvres (Bibl. de l’École des
chartes, lvi, 1895, pp. 277, 280, 305, 312, 622 etc.). [“E io, il povero scrittore / Col cuore triste, debole e vano, / Vedendo di ciascuno il dolore, / L’affanno mi tiene nelle sue mani; / Sempre con le lacrime agli occhi, / Nulla voglio fuorché morire.” N.d.T.] 7 CHASTELLAIN, I, 10. Prologue, cfr. Complainte de fortune, VIII, p. 334. [“Io uo-
mo afflitto, nato in un’eclissi di tenebre in uno spesso scroscio di lamenti.” N.d.T.] 8 “Tanto ha sofferto La Marche.” [N.d.T.]
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9 LA MARCHE, I, p. 186, IV, p. LXXXIX; H. STEIN, “Etude sur Olivier de la Mar-
che, historien, poète et diplomate”, in Mém. couronnés etc. de l’Acad. royale de Belg., t. XLIX, Bruxelles 1888, frontespizio. 10 MONSTRELET, IV, p. 430. 11 FROISSART, a cura di Luce, X, p. 275; DESCHAMPS, n. 810 (IV, p. 327); cfr. Les
Quinze joyes de mariage (Marpon et Flammarion, Paris), p. 54 (quinte joye); “Le livre de messire Geoffroy de Charny”, in Romania, XXVI, 1897, p. 399. [“Quando egli si fu immalinconito un po’, pensò di riscrivere ai commissari del re di Francia.” N.d.T.] 12 “Joannis de Varennis responsiones ad capitula accusationum” etc., § 17, in
Gerson, Opera, I, p. 920. 13 DESCHAMPS, n. 95 (I, p. 203). [“Ora è fiacco, misero e rammollito, / Vecchio, avido e malizioso: / Io non vedo che matti e matte… / La fine s’avvicina, in verità… / tutto va male…”. N.d.T.] 14 DESCHAMPS, Le miroir de mariage, IX, pp. 25, 69, 81, n. 1004 (V, p. 259), poi II, pp. 8, 1837; III, pp. 39, 373; VII, p. 3; DC, p. 209 etc. 15 Convivio, lib. IV, capp. 27, 28. 16 “Discours de l’excellence de virginité”, in Gerson, Opera, III, p. 382; cfr. DIONIGI IL CERTOSINO, De vanitale mundi, Opera omnia, cura et labore monacho-
rum sacr. Ord. Cart., MonstroliiTornaci, 18961913, 41 voll., XXXIX, p. 472. 17 CHASTELLAIN, V, p. 364. 18 LA MARCHE, IV, p. CXIV. L’antica traduzione olandese del suo “Estat de la
maison du duc Charles de Bourgogne”, in Matthaus, Analecta, I, pp. 357494. 19 CHRISTINE DE PISAN, “Oeuvres poétiques”, a cura di M. Roy, in Soc. des anciens textes français, 3 voll., I, 18861896, p. 251 n. 38; “Leo von Rozmital’s Reise”, a cura di Schmeller, in Bibl. des lit. Vereins zu Stuttgart, t. VII, 1844, pp. 24, 149. 20 LA MARCHE, IV, pp. 4 sgg.; CHASTELLAIN, V, p. 370. 21 CHASTELLAIN, V, p. 868. [“Dedicava, con serietà, una parte del giorno a cura-
re le sue maniere e, in mezzo a giochi e risa, si dilettava nel linguaggio forbito e nell’esortare i suoi nobili alla virtù, come un oratore. E, con quello scopo, più di una volta lo trovarono assiso su un seggio alto e addobbato, e i suoi nobili davanti a lui, mentre egli faceva loro diverse perorazioni secondo i diversi tempi e cause. E sempre fu, come principe e capo sopra tutti, riccamente e magnificamente vestito sopra tutti gli altri.” N.d.T.] 22 “Alta magnificenza di cuore per essere visto e notato in cose particolari.”
[N.d.T.] 23 LA MARCHE, IV, Estat de la maison, pp. 34 sgg. [“Per dargli gloria.”afflitto,
nato in un’eclissi di tenebreN.d.T.] 24 A quanto pare una svista di Huizinga (si osservi la data!). Nella fonte si parla
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di un pasto magro, “un repas maigre” che forse Huizinga ha voluto rendere con pasto di quaresima (come appellativo). [Nota del comitato di redazione delle opere complete di Huizinga. N.d.T.] 25 “Nouvelles envoyées de la conté de Ferette par ceulx qui en sont esté pren-
dre la possession pour monseigneur de Bourgogne”, a cura di E. Droz, in Mélanges de philologie et d’histoire offerts à M. Antoine Thomas, Paris 1927, p. 145. 26 LA MARCHE, I, p. 277. 27 LA MARCHE, IV, Estat de la maison, pp. 34, 51, 20, 31. 28 FROISSART, a cura di Luce, III, p. 172. 29 Journal d’un bourgeois, § 218, p. 105. 30 Chronique scandaleuse, I, p. 53. [“Che non era l’uso consueto di quelli che
facevano la ronda.” N.d.T.] 31 MOLINET, I, p. 184; BASIN, II, p. 376. 32 ALIÉNOR DE POITIERS, “Les honneurs de la cour”, a cura di La Curne de
Sainte Palaye, in Mémoires sur l’ancienne chevalerie, II, 1781, p. 201. 33 CHASTELLAIN, III, pp. 196212, 290, 292, 308; IV, 41214, 428; ALIÉNOR DE POITIERS, pp. 209, 212. [“Così meschina gente.” N.d.T.] 34 “Colui che si umilia davanti al suo maggiore, accresce e moltiplica il suo ono-
re verso se stesso, e la bontà di ciò risplende e si manifesta sul suo volto.” [N.d.T.] 35 ALIÉNOR DE POITIERS, p. 210; CHASTELLAIN, IV, p. 312; JUVENAL DES URSINS,
p. 405; LA MARCHE, I, p. 278; FROISSART, I, pp. 16, 22, etc. 36 MOLINET, V, pp. 194, 192. 37 ALIÉNOR DE POITIERS, p. 190; DESCHAMPS, IX, p. 190. 38 CHASTELLAIN, V, pp. 2733. 39 “Non c’è alcun segno esteriore di Cortesia che non abbia una profonda ra-
gione morale” ed Emerson… la cortesia “virtù maturata.” [N.d.T.] 40 DESCHAMPS, IX, Le miroir de mariage, pp. 100110. [“Passate. – Non lo farò. –
Suvvia! / Voi lo farete, cugina / Non lo farò. Chiamate la vostra vicina / Perché lei deve ancora offrire per prima / Voi non lo permetterete / Dice la vicina: non m’appartiene, offrite voi, perché dipende da lei / se il prete non prosegue.” N.d.T.] 41 Diversi esemplari di tali “paix” in LABORDE, II, nn. 43, 45, 75, 126, 140, 5293. 42 DESCHAMPS, ib., p. 300, cfr. VIII, p. 156 ballade n. 1462; MOLINET, V, p. 195;
Les cent nouvelles nouvelles, a cura di Th. Wright, II, p. 123; cfr. Les Quinze joyes de mariage, p. 185. [“Rispondere deve la giovane donna: / Prendetelo, io non lo prenderò, signora. / – Ma sì, prendetelo, dolce amica. / – No, non lo prenderò; / Mi prenderebbero per una stupida. / – Datelo alla signorina Marote. / – No, io no, Gesù Cristo me ne guardi! / Portatelo alla signora Ermagart. / – Signora,
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prendetelo, Santa Maria, / Portate la pace alla signora del balivo / – No, piuttosto alla governatoressa.” N.d.T.] 43 Processo di canonizzazione a Tours, Acta Sanctorum Apr., t. I, p. 152. 44 Su tali dispute relative al rango tra la nobiltà olandese si veda W. MOLL, Kerk-
geschiedenis van Nederland vóór de hervorming, II, 3, Utrecht 186469, p. 2842; e, per avere maggiori dettagli, H. OBREN, Bijdragen v. Vad. Gesch. en Oudhk. 4X, p. 308; così, per la Bretagna: H. DU HALGOUET, Mémoires de la Société d’histoire et d’Archeologie de Bretagne, IV, 1923. 45 DESCHAMPS, IX, pp. 111114. 46 JEAN DE STAVELOT, Chronique, a cura di Borgnet (Coll. des chron. belges),
1861, p. 96. [“Cosicché molti si meravigliarono della sua gran liberalità.” N.d.T.] 47 PIERRE DE FENIN, p. 607; Journal d’un bourgeois, p. 9. 48 Così JUVENAL DES URSINS, p. 543, e THOMAS BASIN, I, p. 31. Il Journal d’un
bourgeois, p. 110, dà un’altra spiegazione della pena capitale, così come Le livre des trahisons, a cura di Kervyn de Lettenhove (Chron. rel. à l’hist. de Belg. sous les ducs de Bourg.), II, 1381. 49 “Decano dei pari.” [N.d.T.] 50 Rel. de S. Denis, I, p. 30; JUVENAL DES URSINS, p. 341. 51 PIERRE DE FENIN, p. 606; MONSTRELET, VI, p. 9. 52 PIERRE DE FENIN, p. 604. 53 CHRISTINE DE PISAN, I, p. 251 n. 38; CHASTELLAIN, V, pp. 364 sgg.; Rozmital’s
Reise, pp. 24, 149. 54 DESCHAMPS, I, nn. 80, 114, 118; II n. 256; IV nn. 800, 803; V nn. 1018, 1024,
1029; VII n. 253; X nn. 13, 14. 55 Notizia anonima del quindicesimo secolo, nel Journal de l’inst., hist., IV, p.
353; cfr. JUVENAL DES URSINS, p. 569; Religieux de S. Denis, VI, p. 492. [“E il corpo fu sotterrato.” N.d.T.] 56 JEAN CHARTIER, Hist. de Charles VII, a cura di D. Godefroy, 1661, p. 318. 57 Ingresso del Delfino come duca di Bretagna a Rennes nel 1532, in Th. Gode-
froy, Le cérémonial françois, 1649, p. 619. 58 Rel. de S. Denis, I, p. 32. 59 Journal d’un bourgeois, p. 277. [“Ma quando riuscivano a farne alzare uno o
due, se ne mettevano a sedere sei o otto dall’altro lato.” N.d.T.] 60 THOMAS BASIN, II, p. 9. 61 A. RENAUDET, Préréforme et humanisme a Paris, p. 11, secondo gli atti proces-
suali. [“Senza dirgli una parola gli si avvicinarono; Lhuillier gli dette una gomitata allo stomaco, gli altri gli ruppero il cappello sacerdotale e i cordoni” – “Dicendo molte ingiurie, e mettendogli le dita sul viso e afferrando il suo braccio tanto che
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gli cadde il suo rocchetto, e se non si fosse riparato con le mani, l’avrebbe colpito al viso.” N.d.T.] 62 LABORDE, Les ducs de Bourgogne, I, pp. 172, 177. 63 Livre des trahisons, p. 156. 64 CHASTELLAIN, I, p. 188. 65 ALIÉNOR DE POITIERS, Les honneurs de la cour, p. 254. 66 Rel. de S. Denis, II, p. 114. 67 CHASTELLAIN, I, p. 49; V, p. 240; cfr. LA MARCHE, I, p. 201; MONSTRELET, III,
p. 358; LEFÈVRE DE S. REMY, I, p. 380. 68 CHASTELLAIN, V, p. 228; cfr. IV, p. 210. [“E non aveva regola né misura, così
che fece meravigliare ciascuno del suo smisurato dolore” – “Era commovente udire tanta diversità di gente gridare e piangere e lamentarsi e disperarsi.” N.d.T.] 69 CHASTELLAIN, III, p. 296; IV, pp. 213216. [“Aveva un po’ fiutato il vento di
quella morte” – “Frottole!” N.d.T.] 70 Chronique scandaleuse, interpol., II, p. 332. 71 LUIGI XI, Lettres, p. 110. [“Signor Cancelliere, io vi ringrazio delle lettere
etc., ma vi prego di non mandarmene più tramite colui che me le ha portate, perché gli ho trovato il viso terribilmente cambiato da quando non l’ho più visto, e vi dico sulla mia fede che mi ha fatto una gran paura, addio.” N.d.T.] 72 Una specie di velo funebre che veniva fissato intorno al mento. 73 ALIÉNOR DE POITIERS, Les honneurs de la cour, pp. 254256. 74 LEFÈVRE DE S. REMY, II, p. 11; PIERRE DE FENIN, pp. 599, 605; MONSTRELET, III, p. 347; THEOD. PAULI, De rebus actis sub ducibus Burgundiae compendium, a
cura di Kervyn de Lettenhove (Chron. rel. à l’hist. de Belg. sous la dom. des ducs de Bourg., t. III), p. 267. 75 “Quando Madame stava nei suoi appartamenti, ella non stava sempre a letto
né in una stanza.” [N.d.T.] 76 Cfr. F.M. GRAVES, Deux inventaires de la Maison d’Orléans, Bibl. du XVe siècle
n. 31), 1926, p. 26; A. WARBURG, Gesammelte Schriften, I, Leipzig 1932, p. 225. 77 ALIÉNOR DE POITIERS, pp. 217245; LABORDE, II, p. 267, Inventario del 1420. 78 CONTINUATEUR DE MONSTRELET, 1449 (CHASTELLAIN, V, p. 367). [“Contrizi-
one molto bella dei suoi peccati.” N.d.T.] 79 Cfr. PETIT DUTAILLIS, Documents nouveaux sur les moeurs populaires, etc., p.
14; LA CURNE DE S. PALAYE, Mémoires sur l’ancienne chevalerie, I, p. 272. 80 CHASTELLAIN, Le Pas de la Mort, VI, p. 61: “Se non hai dama né mignone”. 81 HEFELE, Der h. Bernhardin v. Siena, etc., p. 42. Sulle persecuzioni della sodo-
mia in Francia, JACQUES DU CLERCQ, II, pp. 272, 282, 337, 338, 350, III, p. 15. 82 THOMAS WALSINGHAM, Historia Anglicana, II, p. 148 (Rolls series a cura di
520
H.T. Riley, 1864). Nel caso di Enrico III di Francia non si può dubitare del carattere colpevole dei mignons, ma ciò appartiene alla fine del XVI secolo. 83 PHILIPPE DE COMMINES, Mémoires, a cura di B. de Mandrot (Coll. de textes
pour servir à l’enseignement de l’histoire), 2 voll., I, 190103, p. 316. 84 LA MARCHE, II, p. 425; MOLINET, II, pp. 29, 280; CHASTELLAIN, IV, p. 41. 85 Les cent nouvelles nouvelles, II, p. 16; FROISSART, a cura di Kervyn, XI, p. 93. 86 FROISSART, ib., XIV, p. 318; Le livre des faits de Jacques de Lalaing, pp. 29, 242
(CHASTELLAIN, VIII); LA MARCHE, I, p. 268; L’hystoire du petit Jehan de Saintré, c. 47. 87 CHASTELLAIN, IV, p. 237.
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3. La concezione gerarchica della società
1 DESCHAMPS, II, p. 226; A. POLLARD, The Evolution of Parliament, London
1920, pp. 5880. 2 CHASTELLAIN, Le miroir des nobles hommes en France, VI, p. 204; Exposition
sur vérité mal prise, VI, p. 416; L’entré du roy Loys en nouveau règne, VII, p. 10. 3 FROISSART, a cura di Kervyn, XIII, p. 22; JEAN GERMAIN, Liber de virtutibus du-
cis Burg., p. 108; MOLINET, I, p. 83; III, p. 100. 4 MONSTRELET, II, p. 241. 5 CHASTELLAIN, VII, pp. 1316. [“Per venire al terzo membro che completa il re-
gno, è lo stato delle floride città, dei mercanti e degli operai, sul quale non conviene fare così lunga esposizione, poiché in sé non è capace di alte attribuzioni, trovandosi al grado servile.” N.d.T.] 6 CHASTELLAIN, III, p. 82; IV, p. 170; V, pp. 279, 309. 7 JAQUES DU CLERCQ, II, p. 245; cfr. p. 339. 8 CHASTELLAIN, VII, p. 13. 9 CHASTELLAIN, III, pp. 8289. [“Questo ribelle birraio rustico”, “E ancora sì mi-
serevole villano.” N.d.T.] 10 CHASTELLAIN, VII, pp. 90 sgg. 11 CHASTELLAIN, II, p. 345. 12 DESCHAMPS, n. 113, t. I, p. 230. [“Così devono morire di fame gli innocenti /
Di cui ogni giorno si riempiono il ventre i grassi lupi / Che ammassano a migliaia e a centinaia / I falsi tesori: è il grano, la biada / Il sangue, le ossa che hanno arato la terra / Della povera gente, e di ciò il loro spirito grida / Vendetta a Dio, guai alla signoria…” N.d.T.] 13
[“Il principe non ne sa niente”, “Povere pecore, povero folle popolo.” N.d.T.] 14 N. DE CLEMANGES, Opera, a cura di Lydius, Leida 1613, p. 48, cap. IX.
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15 Nella traduzione latina GERSON, Opera, IV, 583622; il testo francese è stato
pubblicato nel 1824; le parole citate in D.H. Carnahan, “The Ad Deum vadit of Jean Gerson”, in University of Illinois studies in language and literature, 1917, III, n. I, p. 13; vedi DENIFLE e CHATELAIN, Chartularum Univ. Paris, IV, n. 1819. [“Il poveruomo non avrà pane da mangiare, se non per avventura un po’ di segala o d’orzo; la sua povera donna farà figli e avranno quattro o sei ragazzi al focolare o al forno che per avventura sarà caldo: domanderanno del pane, grideranno con la rabbia della fame. La povera madre non avrà da mettere loro in bocca che un po’ di pane con del sale. Ora, dovrebbe ben bastare tale miseria: verranno quei furfanti che caricheranno tutto… tutto sarà preso e afferrato, e cercate chi paghi.” N.d.T.] 16 H. DENIFLE, La désolation des églises etc. en France, Paris, 2 voll., I, 189799,
pp. 497513. 17 ALAIN CHARTIER, Oeuvres, a cura di Duchesne, p. 402. 18 ROB. GAGUIN, “Epistolae et orationes”, a cura di L. Thuasne, in Bibl. litt. de
la Renaissance, t. II, voll., II, Paris 1903, pp. 321, 350. 19 FROISSART a cura di Kervyn, XII, p. 4: Le livre des trahisons, pp. 19-26; CHASTELLAIN, I, p. XXX; III, p. 325; V, pp. 260, 275, 325; VII, pp. 466480; THOMAS BASIN, passim, soprattutto I, pp. 44, 56, 59, 115; cfr. La complainte du povre commun et des povres laboureurs de France (MONSTRELET, VI, pp. 176190). 20 Les Faictz et Dictz de messire Jehan Molinet, f. 87 V., Jehan Petit, Paris 1537. 21 “Ballade” 19, in A. De La Borderie, “Jean Meschinot, sa vie et ses oeuvres”,
in Bibl. de l’école des chartes, LVI, 1895, p. 296; cfr. Les Lunettes des princes, ib., pp. 607, 613. [“O Dio, guarda la miseria della plebe / Provvedi senza indugio. / Ahimè, egli trema per la fame, il freddo, la paura e la miseria. / Se egli ha peccato o commesso negligenza / Contro di te, domanda indulgenza. / Non c’è pietà per i beni che gli portano via? / Egli non ha più grano da portare ai mulini. / Gli levano di dosso drappi di lana e di lino / L’acqua, nient’altro, gli rimane da bere.” N.d.T.] 22 MASSELIN, Journal des Etats Généraux de France tenus à Tours en 1484, a cu-
ra di A. Bernier (Coll. des documents inédits), p. 672. 23 “Dov’era il nobile quando Adamo vangava ed Eva filava?” [N.d.T.]. 24 MAERLANT, I, Martijn 43. Cfr. W. FRIEDRICH, Der lateinische Hintergrund zu
Maerlants “Disputacie”, Leipzig 1934, pp. 52 sgg. 25 DESCHAMPS, VI, n. 1176, p. 124. Il collegamento tra l’idea dell’uguaglianza e quella della nobiltà di cuore è espresso efficacemente nelle parole di Ghismonda al padre Tancredi, nella prima novella della quarta giornata del Decamerone di Boccaccio. [“Da dove viene, in tutti, la vera nobiltà? / Da cuor gentile, adorno di nobili costumi. / …Nessuno è villano se non gli viene dal cuore.” N.d.T.] 26 DESCHAMPS, VI, p. 124, n. 1176. [“O figli, figli nati da me, Adamo, / Che do-
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po Dio sono primo padre, / Da lui creato, voi tutti siete discesi / Naturalmente dalla mia costola e da Eva; Ella fu vostra madre. Come mai l’uno è villano / E l’altro prende il nome di gentiluomo / Tra voi, che siete fratelli? Da dove viene tale nobiltà? Io non lo so, se non dalla virtù, / E i villani da ogni vizio che offende: / Voi siete rivestiti tutti della stessa pelle / / / Quando Dio mi fece col fango ove io fui / Uomo mortale, debole, pesante e vano, / Ed Eva da me, Egli ci creò tutti nudi, / Ma ci infuse a piene mani / Lo spirito eterno; poi avemmo sete e fame, / Lavoro, dolore, e figli in tristezza; / Per il nostro peccato partoriscono con dolore / Tutte le donne; in modo vile siete concepiti. / Da dove viene questo nome: villano, che offende i cuori? / Voi siete rivestiti tutti della stessa pelle. / / / I potenti re, i conti e i duchi, / I governatori di popoli e i sovrani, / Quando nascono, di che cosa sono vestiti? / Di una sudicia pelle /… Pensate, o principi, senza avere in disdegno / La povera gente, che la morte tiene le redini.” N.d.T.] 27 MOLINET, II, pp. 104107; JEAN LE MAIRE DE BELGES, Les chansons de Namur,
1507. 28 CHASTELLAIN, Le miroir des nobles hommes de France, VI, pp. 203, 211, 214. 29 LE JOUVENCEL, a cura di C. Favre et L. Lecestre (Soc. de l’hist. de France), 2
voll., I, 188789, p. 13. 30 Livres des faicts du marechal de Boucicaut, Petitot (Coll. de mém., VI), p. 375. 31 PHILIPPE DE VITRI, “Le chapel des fleurs de lis” (1335), a cura di A. Piaget, in
Romania, XXVII, 1898, pp. 80 sgg. 32 V. LA CURNE DE SAINTE PALAYE, Mémoires sur l’ancienne chevalerie, II, 1781,
pp. 9496.
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4. L’idea di cavalleria
1 MOLINET, I, pp. 1617. 2 Cfr. KONRAD BURDACH, Briefwechsel des Cola di Rienzo, passim. 3 “El libro del cavallero et del escudero” (inizio XIV secolo), a cura di Gräfenb-
erg, in Romanische Forschungen, VII, 1893, p. 453. 4 N. JORGA, Philippe de Mézières, p. 469. 5 Ivi, p. 506. 6 FROISSART, a cura di Luce, I, pp. 23; MONSTRELET, I, p. 2; D’ESCOUCHY, I, p. 1; CHASTELLAIN, prologue, II, p. 116; VI, p. 266; LA MARCHE, I, p. 187; MOLINET, I, p.
17; II, p. 54. 7 LEFÈVRE DE S. REMY, II, p. 249; FROISSART, a cura di Luce, I, p. 1; cfr. Le débat
des hérauts d’armes de France et d’Angleterre, a cura di L. Pannier et P. Meyer (Soc. des anciens textes français), 1887, p. 1. 8 CHASTELLAIN, V, p. 443. [“La gloria dei principi consiste nell’orgoglio e nel-
l’affrontare grandi pericoli. La maggior parte dei potentati converge tutta verso un unico punto che si dice orgoglio.” N.d.T.] 9 Les origines de la France contemporaine. La Révolution, I, p. 190. 10 Die Kultur der Renaissance in Italien, II, p. 155. “È la misteriosa mescolanza
di coscienza morale e di egoismo che sopravvive nell’uomo moderno anche quando ha perduto, con o senza sua colpa, tutto il resto: fede, amore e speranza. Questo senso d’onore è compatibile con molto egoismo e con grandi vizi e lascia adito a enormi illusioni; ma anche tutto ciò che di nobile è rimasto in una persona vi si può associare e a quella sorgente attingere nuove forze.” 11 Ivi, I, pp. 152165. 12 FROISSART, a cura di Luce, p. 112, dove Bamborough, chiamato anche Bem-
bro o Brembo, è storpiato in Brandebourch. 13 CHASTELLAIN, VI, Le dit de vérité, p. 221. [“Onore conforta ogni nobile natu-
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ra / Ad amare tutto ciò che è nobile nel suo essere. / Nobiltà vi aggiunge la sua dirittura.” N.d.T.] 14 CHASTELLAIN, VII, Le livre de la paix, p. 362. 15 FROISSART, a cura di Luce, I, p. 3. 16 RE RENATO, Le cuer d’amours épris, in Oeuvres, a cura di De Quatrebarbes, 4
voll., t. III, Angers, 1845, p. 112. 17 LEFÈVRE DE S. REMY, II, p. 68. [“E ben si manteneva la disciplina di cavalleria, come già facevano i Romani.” N.d.T.] 18 DOUTREPONT, p. 183. 19 LA MARCHE, II, pp. 216, 334. 20 PH. WIELANT, Antiquités de Flandre, a cura di De Smet (Corp. Chron. Flan-
driae, IV), p. 56. [“I quali egli voleva seguire ed imitare.” N.d.T.] 21 COMMINES, I, p. 390; cfr. l’aneddoto in DOUTREPONT, p. 185. [“Egli deside-
rava una grande gloria, ciò che più di ogni altra cosa lo trascinava nelle sue guerre; egli avrebbe voluto somigliare volentieri a quegli antichi principi di cui tanto s’è parlato dopo la loro morte.” N.d.T.] 22 CHASTELLAIN, V, pp. 316319. [“E mi parve da allora che egli avesse il cuore
ad un’alta e singolare impresa per l’avvenire, e per acquistar gloria e fama con opere singolari.” N.d.T.] 23 P. MEYER, Bull, de la Soc. des anc. textes français, 1883, pp. 4555; sulla poesia ora anche Histoire littéraire de France, XXXVI, 1927. 24 DESCHAMPS, I, nn. 12, 93, 207, 239, 362, 403, 432, 652, pp. 86, 199; II, pp. 29,
69; X, pp. XXXV, LXXVI sgg. 25 Journal d’un bourgeois, p. 274. Una poesia di nove strofe sui nove prodi in
diversi manoscritti dei decreti della città di Haarlem del quindicesimo secolo; vedi le mie Rechtsbronnen van Haarlem, pp. XLVI sgg. Cervantes li chiama “todos los nueve de la fama”, Don Quijote, I, c. 5. In Inghilterra sono noti come “the nine worthies” fino nel XVII secolo: cfr. JOHN COKE, The debate between the Heraldes, a cura di L. Pannier e P. Meyer, Le débate des hérauts d’armes, p. 108 § 171; R. BURTON, The Anatomy of Melancholy, III, p. 173 (ed. London 1886). THOMAS HEYWOOD scrisse: “The exemplary lives and memorable acts of the Nine most worthy woman of the world”; la regina Elisabetta chiude la serie. 26 MOLINET, Faictz et dictz, f. 151 V. 27 LA CURNE DE SAINTE PALAYE, II, p. 88. 28 DESCHAMPS, nn. 206, 239, II, pp. 27, 69, n. 312, II, p. 324, Le lay du très bon
connestable B. du Guesclin. 29 S. LUCE, La France pendant la guerre de cent ans, p. 231; Du Guesclin, di-
xième preux.
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30 M. LECOURT, Romania, t. XXXVII, 1908, pp. 529539. 31 CHASTELLAIN, VI, La mort du roy Charles VII, p. 440. 32 Il salterio, durante la guerra di successione spagnola, fu acquistato da Joan
van den Berg, commissario degli Stati Generali in Belgio, ed è conservato ora nella biblioteca dell’Università di Leida. Spade di Tristano, di Ogier il Danese e di Wieland il fabbro si trovano in Francia, Inghilterra e Italia; vedi H. JENKINSON, “The jewel s l ost in the Wash”, in History, VIII, 1923, p. 161; J. LOTH, “L’épée de Tristan”, in Comptes rendus de l’Acad. des Inscr. et Belles lettres, 1923, p. 117; G. ROTONDI, in Archivio Storico Lombardo, XLIX, 1922. 33 LABORDE, II, p. 242, n. 4091; p. 138, n. 242, id. p. 146, n. 3343, p. 260, n.
4220, p. 266, n. 4255. 34 BURCKHARDT, Kultur der Ren., I10, p. 246. 35 Le livre des faicts du marechal Boucicaut, a cura di Petiot (Coll. de Mémoires Ire série, t. VI, VII). 36 Ivi, VI, p. 379. 37 Ivi, VII, pp. 214, 185, 200201. 38 CHR. DE PISAN, Le débat des deux amants, in Oeuvres poétiques, II, p. 96. 39 ANTOINE DE LA SALLE, La salade, cap. 3, fol. 4 v., M. Le Noir, Paris 1521.
[“Monsignore, chi sono quelle due donne alle quali avete fatto sì grandi riverenze?” – “Huguenin,” disse quello, “non lo so.” Allora gli disse: “Monsignore, sono ragazze comuni” – “Ragazze comuni,” disse quello, “Huguenin, preferisco fare riverenze a dieci ragazze comuni che a una sola donna perbene.” N.d.T.] 40 Les livres des cent ballades, a cura di G. Raynaud (Soc. des anciens textes français), p. Lv. 41 A cura di C. Favre et Lecestre, Soc. de l’hist. de France, 188789. 42 Le Jouvencel, I, p. 25. 43 CHASTELLAIN, Le livre des faicts du bon chevalier messier Jacques de Lalaing, a
cura di Kervyn de Lettenhove, in Oeuvres, VIII. 44 II, p. 20. [“Che cosa gioiosa è la guerra… Ci si ama tanto durante la guerra.
Quando si sa che la propria causa è buona e si vede ben combattere il proprio sangue, vengono le lacrime agli occhi. Al cuore viene una dolcezza di lealtà e di pietoso desiderio al vedere l’amico che così valorosamente espone il suo corpo per adempiere il comandamento del nostro creatore. E poi ci si dispone d’andare a morire o a vivere con lui e di non abbandonarlo per amore. Da ciò viene un diletto tale che, chi non l’ha provato, non c’è uomo che possa dire che bene sia. Pensate forse voi che un uomo che fa ciò tema la morte? Niente affatto, poiché egli è così confortato, così entusiasta che non sa dove sia. Veramente egli non ha paura di nulla.” N.d.T.]
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5. Il sogno di gesta eroiche e d’amore
1 W. JAMES, The varieties of religious experience, Gifford lectures, 190102, Lon-
dra 1903, p. 318. [“Sentimentalmente, se non praticamente, la concezione militare aristocratica della vita. Noi esaltiamo il soldato come l’uomo assolutamente libero da vincoli. Non avendo altro che la sola vita, e volendo metterla in gioco in qualsiasi momento, se la causa lo richiede, egli è il rappresentante della libertà incondizionata secondo direzioni ideali.” N.d.T.] 2 Le livre de faicts, p. 398. [“Serviva tutte, onorava tutte per l’amore di una sola.
Il suo parlare era grazioso, cortese e timoroso davanti alla sua dama.” N.d.T.] 3 A cura di Raynaud, Société des anciens textes français, 1905. 4 Due pagani del romanzo di Aspremont. 5 Le Voeu du Héron, vv. 354371 (a cura di Soc. des bibliophiles de Mons, n. 8),
1839. [“Quando siamo nelle taverne, a bere di quei forti vini, / e le dame accanto a noi ci guardano / con quei colli levigati, quei corpetti attillati / quegli occhi magnifici che risplendono di sorridente bellezza, / La natura ci ammonisce ad avere un cuore ardito /… Allora conquistiamo Yaumont e Agoulant / E gli altri conquistano Oliviero e Rolando / Ma quando noi siamo per i campi sui nostri destrieri veloci / Con gli scudi al collo e le lance abbassate / E il freddo intenso ci fa gelare dappertutto / Le membra ci si spezzano, dietro e davanti / E i nostri nemici si avvicinano / Allora vorremmo essere in una cantina così grande / Che giammai potessimo essere visti né tanto né quanto.” N.d.T.] 6 Lettera del conte di Chimay a CHASTELLAIN, Oeuvres, VIII, p. 266; cfr. anche COMMINES (a cura di Calmette, I, 1924, p. 59). [“Ohimè! Dove sono le dame per
intrattenerci, per incitarci a fare bene, o per caricarci di imprese, divise, fazzoletti o colletti!” N.d.T.] 7 RE RENATO, “Perceforest”, in Oeuvres, a cura di Quatrebarbes, II, p. XCIV. 8 “Des trois chevaliers et del chainse”, in JAKES DE BAISIEUX, a cura di Scheler,
Trouvères belges, I, 1876, p. 162. 9 Rel. de S. Denis, I, pp. 594 sgg.; JUVENAL DES URSINS, p. 379.
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10 Fra l’altro proibiti dal Concilio Lateranense del 1215; di nuovo da papa Ni-
colò III nel 1279; V. RAYNALDUS, Annales ecclesiastici, III (= BARONIUS, XXII), XVIXX, 1279; DIONIGI IL CERTOSINO, Opera, t. XXXVI, p. 206. A quelli che vengono colpiti mortalmente nel torneo è tolta persino l’assistenza della Chiesa, che a quanto pare sentiva ancora nel torneo l’origine pagana. 11 DESCHAMPS, I, n. 108, p. 222; I, n. 109, p. 223. 12 Journal d’un bourgeois de Paris, pp. 59, 56. [“Presero per non so quale folle
impresa campo di battaglia.” N.d.T.] 13 ADAMO DI BREMA, Gesta Hammaburg eccl. pontificum, lib. II, cap. I. 14 LA MARCHE, II, pp. 119, 144; D’ESCOUCHY, I, pp. 2451, 2473; MOLINET, III, p.
460. 15 CHASTELLAIN,VII, p. 238. 16 LA MARCHE, I, p. 292. 17 CHASTELLAIN, VIII, Le livres des faicts de Jacques de Lalaing, pp. 188 sgg. 18 RE RENATO, Oeuvres, I, p. LXXV. 19 LA MARCHE, III, p. 123; MOLINET, V, p. 18. [“Dama dell’isola nascosta” –
“Nobile cavaliere schiavo e servitore della bella gigantessa dalla bionda parrucca, la più grande del mondo.” N.d.T.] 20 LA MARCHE, II, pp. 118, 121, 122, 133, 341; CHASTELLAIN, I, p. 256, VIII, pp. 217246. 21 LA MARCHE, II, p. 173, I, p. 285; RE RENATO, Oeuvres, I, p. LXXV. 22 RE RENATO, Oeuvres, I, p. LXXXVI, II, p. 57.
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6. Ordini e voti cavallereschi
1 N. JORGA, Philippe de Mézières, p. 348. 2 CHASTELLAIN, II, p. 7; IV, p. 233, cfr. V, 269, p. 154. 3 LA MARCHE, I, p. 109. 4 LUC DACHERY, “Statuti dell’Ordine”, in Spicilegium, III, p. 730. 5 CHASTELLAIN, II, p. 10. 6 Chronique scandaleuse, I, p. 236. 7 DOUTREPONT, “Le songe de la toison d’or”, p. 154. [“Non per gioco né per
divertimento / Ma infine perché sia data / Lode a Dio, prima di tutto / E ai buoni gloria e alta fama.” N.d.T.] 8 FILLASTRE, Le premier volume de la toison d’or, Paris 1515, fol. 2. [“Non ha,
come è stato detto, istituito invano questo ordine.” N.d.T.] 9 BOUCICAUT, I, p. 504; JORGA, Ph. deMézières, pp. 83, 4638; Romania, XXVI,
pp. 395, 306; DESCHAMPS, XI, p. 28; RE RENATO, Oeuvres, I, p. XI; MONSTRELET, V, p. 449. 10 Des Schwäbischen Ritters Georg von Ehingen Reisen nach der Ritterschaft, Bi-
bl. des lit. Vereins Stuttgart, 1842, pp. 1, 15, 27, 28. [“Ordine, ordine cavalleresco, congregazione.” N.d.T.] 11 FROISSART, Poésies, a cura di A. Scheler (Acad. royale de Belgique), 3 voll., II,
187072, p. 341. 12 ALAIN CHARTIER, La ballade de Fougères, p. 718. [“A Dio e agli uomini / È detestabile menzogna e tradimento / Perciò non è messa al tavolo / Dei prodi l’immagine di Giasone, / Che per rapire il vello / Da Colcos si fece spergiuro. / Il furto non si può celare.” N.d.T.] 13 Giudici, 6, 37. 14 LA MARCHE, IV, p. 164; JACQUES DU CLERCQ, II, p. 6, cfr. già MICHAULT TAILLEVENT, Le songe de la toison d’or.
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15 “Liber Karoleidos”, vv. 88, in Chron. rel. à l’hist. de la Belg. sous la dom. des
ducs de Bourg., III. 16 Gen. 30,32; Reg. (2)3,4; Giobbe 31,20; Salmi 71 (trad. ufficiale 72,6: “nigras”,
dove Vulg. ha “vellus”). 17 GUILLAUME FILLASTRE, Le second volume de la toison d’or, Franc. Regnault,
Paris 1516, fol. 1,2. 18 LA MARCHE, III, p. 201; IV, p. 67; LEFÉVRE DE S. REMY, II, p. 292; il cerimoniale
di un simile battesimo in NICOLAS UPTON, araldo di Humphrey di Glocester, De officio militari, a cura di E. Bysshe (Biassaeus), Londra 1654, lib. I, c. XI, p. 19. Cfr. F.P. BARNARD, The essential portions of Nicholas Upton’s De studio militari, Oxford 1931. 19 Da gale = réjouissance, galer = s’amuser, quindi buontemponi. [“Allegria”, “Divertirsi”. N.d.T.]. 20 Probabilmente si riferisce a quest’ordine anche DESCHAMPS, nell’Envoi della
sua ballata sull’ordine d’amore della Foglia (in contrapposizione a quello del Fiore), n. 767, IV, p. 262, cfr. 763: “Royne sur fleurs en vertu demourant, Galoys, Dannoy, Mornay, Pierre ensement De Tremoille… vont loant… vostre bien qui est grant etc”. 21 Le livre du chevalier de la Tour Landry, a cura di A. de Montaiglon (Bibl. el-
zevirienne), Paris 1854, pp. 241 sgg. [“Così dubito molto che questi Galois e Galoises che morirono in tale stato e in tali amoreggiamenti furono martiri d’amore.” N.d.T.] 22 Voeu du Héron, ed. Soc. des bibl. de Mons, p. 17. [“Ora avvenga quel che
avvenga, poiché non è diversamente / – Allora toglie il suo dito la fanciulla dalle belle membra, / E l’occhio rimane chiuso, sì che la gente può vedere.” N.d.T.] 23 FROISSART, a cura di Luce, I, p. 124. 24 “Dunque, disse la regina, io so bene che da qualche tempo / Sono incinta di
un bambino, che il mio corpo ha già sentito. / Proprio poco fa egli si è girato nel mio corpo / E io faccio voto e prometto a Dio che mi creò… / Che il mio frutto non uscirà dal mio corpo, / Se non mi avrete portata al paese di là / Per mantenere il voto che voi avete fatto; / E se egli ne volesse uscire prima del tempo / Con un gran coltello d’acciaio io mi ucciderò: / La mia anima sarà perduta e il frutto perirà.” [N.d.T.] 25 “E quando il re sentì ciò, rifletté a lungo / E disse: ‘Certamente, nessuno farà più voti’.” [N.d.T.] 26 Rel. de S. Denis, III, p. 72. Harald Harfagri promette di non farsi radere i ca-
pelli prima di aver conquistato tutta la Norvegia, Haraldarsaga Harfraga, cap. 4; cfr. Voluspa 33. 27 JORGA, Ph. de Mézières, p. 76.
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28 CLAUDE MENARD, Hist. de Bertrand du Guesclin, pp. 39, 55, 410, 488; LA CURNE, I, p. 240. 29 DOUET D’ARCQ, Choix de pièces inédites rel. au règne de Charles IV (Soc. de
l’hist. de France 1863), I, p. 370. [“Desiderando evitare la vita oziosa, pensando di acquistarvi buona rinomanza e la grazia della bellissima di cui noi siamo servitori.” N.d.T.] 30 CHASTELLAIN, VIII, Le livre des faicts de Jacques de Lalaing, capp. XVI sgg., p.
70. 31 Petit Jehan de Saintré, cap. 48. 32 Germania, cap. 31; LA CURNE, I, p. 236. 33 HEIMSKRINGLA, Olafssaga Tryggvasonar, cap. 35; WEINHOLD, Altnordischer
Lehen, p. 462; cfr. J. DE VRIES, Studiën over germaansche mythologie, VIII, Tschr. V. Ned. Taalen Letterk. 53, p. 263. 34 LA MARCHE, II, p. 366. 35 Ivi, pp. 381387. 36 Ibidem; D’ESCHOUCY, II, pp. 166, 218. 37 D’ESCHOUCY, II, p. 189. [“Non piace al mio molto rispettato signore che mes-
ser Philippe Pot vada in sua compagnia al santo viaggio, per cui ha fatto voto, col braccio disarmato; ma sarebbe contento che egli andasse con lui armato e bene e sufficientemente come si conviene.” N.d.T.] 38 DOUTREPONT, p. 513. 39 Ivi, pp. 110, 112. 40 CHASTELLAIN, III, p. 376. 41 Vedi la nota 5 del capitolo quinto. 42 Chronique de Berne (MOLINIER, n. 3103); FROISSART, a cura di Kervyn de
Lettenhove, 26 voll., vol. II, Bruxelles 18691877, p. 351. 43 D’ESCHOUCY, II, p. 220.
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7. Il significato dell’ideale cavalleresco in guerra e in politica
1 FROISSART, a cura di Luce, X, pp. 240243. 2 CHASTELLAIN, VIII, Le livre des faits de Jacques de Lalaing, pp. 158161. 3 LA MARCHE, IV, Estat de la maison, pp. 34, 47. 4 Vedi il mio articolo “Uit de voorgeschiedenis van ons nationaal besef”, in De
Nederlandse Natie, Haarlem 1960 (Verzamelde Werken, II, pp. 97 sgg.). 5 Salmi, 50, 19 (51, 20). 6 “Se fosse piaciuto a Dio, il suo Creatore, di lasciargli vivere la sua vita.”
[N.d.T.] 7 MONSTRELET, IV, p. 112; PIERRE DE FENIN, p. 363; LEFÈVRE DE SAINT REMY, II,
p. 63; CHASTELLAIN, I, p. 331. 8 Cfr. J.D. HINTZEN, De Kruistochtplannen van Philips den Goede, 1918. 9 CHASTELLAIN, III, pp. 6, 10, 34, 77, 118, 119, 178, 334; IV, pp. 71, 125, 128,
431, 437, 451, 470; V, p. 49. 10 LA MARCHE, II, p. 382. 11 “Uit de voorgeschiedenis van ons nationaal besef”, in De Nederlandse Natie,
Haarlem 1960 (Verz. Werken, II, pp. 97 sgg.). 12 RYMER, Fœdera, III, pars. 3, p. 158; VII, p. 407. 13 MONSTRELET, I, pp. 43 sgg. 14 MONSTRELET, IV, p. 219. [“Per evitare spargimento di sangue cristiano e la
distruzione del popolo, di cui nel mio cuore ho compassione”, “Che per la mia persona senz’altro a questa contesa si ponga fine, senza andare avanti con la guerra, a causa della quale molti gentiluomini ed altri, tanto dei vostri come dei nostri, dovranno finire i loro giorni pietosamente.” N.d.T.] 15 PIERRE DE FENIN, pp. 626627; MONSTRELET, V, p. 244; Liber de virtutibus, p.
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27. [“Tanto con l’astinenza della sua bocca quanto esercitandosi per infondergli lena.” N.d.T.] 16 LEFÈVRE DE SAINT REMY, II, p. 107. 17 LABORDE, I, pp. 201 sgg. 18 LA MARCHE, II, pp. 27, 382. 19 BANDELLO, I, nov. 39: “Filippo duca di Borgogna si mette fuor di proposito a
grandissimo periglio”. 20 F. VON BEZOLD, Aus dem Briefwechsel der Markgräfin Isabella von Este-Gon-
zaga, Archiv. f. Kulturgesch., VIII, p. 396. 21 Papiers de Granvelle, I, pp. 360 sgg.; BAUMGARTEN, Geschichte Karls V, II, p.
641; FUETER, Gesch. des europ. Staatensysteems, 14921559, p. 307. Cfr. anche Erasmo a Nicola Beraldus, 25 maggio 1522, dedica della De ratione conscribendi epistolas, Allen, n. 1284. 22 ERDMANNSDÖRFFER, Deutsche Geschichte 1648-1740, I, p. 595. 23 A. PIAGET, “Oton de Granson et ses poésies”, in Romania, XIX, 1890. 24 CHASTELLAIN, III, pp. 3849; LA MARCHE, II, pp. 400 sgg.; D’ESCOUCHY, II, pp.
300 sgg.; Corp chron. Flandr., III, p. 525; PETIT DUTAILLIS, Documents nouveaux, pp. 113, 137. Su una, a quanto pare, innocua forma di duello giudiziario v. DESCHAMPS, IX, p. 21. 25 “O Signore di Borgogna, vi ho così ben servito nella vostra guerra di Gand! O signore, in nome di Dio, vi chiedo grazia, salvatemi la vita.” [N.d.T.] 26 FROISSART, a cura di Luce, IV, pp. 89, 94. 27 FROISSART, IV, pp. 127128. 28 LEFÈVRE DE S. REMY, I, p. 241. 29 FROISSART, XI, p. 3. [“Se noi cerchiamo altre strade invece della diritta, noi
non mostreremo di essere gente d’arme diritta.” N.d.T.] 30 Rel. de S. Denis, III, p. 175. 31 FROISSART, XI, pp. 24 sgg.; VI, p. 156. 32
Ivi, IV, pp. 110115. Altri combattimenti di quel genere per esempio in Sources, IV, n. 3707; MOLINET, IV, p. 294. [“Alcuni ritennero ciò un’impresa eroica, altri un oltraggio e una grande tracotanza.” N.d.T.] MOLINIER,
33 Rel. de S. Denis, I, p. 392. 34 Le Jouvencel, I, p. 209; II, pp. 99, 103. 35 STOKE, III, vs. 1387 sgg. (il testo è in nederlandese trecentesco, N.d.T.). Altri
esempi relativi agli accordi raggiunti sul luogo e l’ora delle battaglie in W. ERBEN, Kriegsgeschichte des Mittelalters (Beiheft 16 der Hist. Zschr.), 1929, pp. 92 sgg. Un’eco dell’antica consuetudine norvegese di recintare con cavicchi e rami di noc-
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ciolo la lizza si sente ancora nell’espressione inglese “a pitched battle”, una battaglia campale. 36 FROISSART, I, p. 65; IV, p. 49; II, p. 32. 37 CHASTELLAIN, II, p. 140. 38 MONSTRELET, III, p. 101; LEFÈVRE DE S. REMY, I, p. 247. 39 MOLINET, II, pp. 36, 48; III, pp. 98, 453; IV, p. 372. 40 FROISSART, III, p. 187; XI, p. 22. 41 CHASTELLAIN, II, p. 374. 42 MOLINET, I, p. 65. 43 MONSTRELET, IV, p. 65. [“E da quel giorno in poi questo episodio fu chiama-
to lo scontro di Mons e Vimeu. E non fu dichiarato battaglia perché le due parti si scontrarono per caso e senza le bandiere spiegate.” N.d.T.] 44 Ivi, III, p. 111; LEFÈVRE DE S. REMY, I, p. 259. [“Perché tutte le battaglie devo-
no portare il nome della fortezza vicina al luogo dove si sono svolte.” N.d.T.] 45 BASIN, III, p. 57. 46 FROISSART, IV, p. 80. [“Là il re combatté per lungo tempo con messer Ustasse
e messer Ustasse con lui, tanto che lo spettacolo era molto piacevole.” N.d.T.] 47 CHASTELLAIN, I, p. 260; LA MARCHE, I, p. 89. 48 COMMINES, I, p. 55. 49 CHASTELLAIN, III, pp. 82 sgg. 50 FROISSART, IX, p. 58. [“Quando l’ebbero riguardato per un po’, fu portato via
da là e fu appeso a un albero. Ecco l’estrema fine di quel Filippo d’Artevelde.” N.d.T.] 51 “Ms. Chronique d’Audenarde”, in Rel. de S. Denis, I, p. 229. 52 FROISSART, IX, p. 220; XI, p. 202. 53 CHASTELLAIN, II, p. 259. 54 LA MARCHE, II, p. 324. 55 CHASTELLAIN, I, p. 28; COMMINES, I, p. 31; cfr. PETIT DUTAILLIS in LAVISSE,
Histoire de France, IV2, p. 33. 56 DESCHAMPS, IX, p. 80, cfr. vs. 2228, 2295; XI, p. 173. 57 FROISSART, II, p. 37. 58 Le Débat des hérauts d’armes, § 86, 87, p. 33. [“Poiché vi è pericolo e perdita
di vita, e Dio sa che miseria quando c’è la burrasca, e poi c’è il mal di mare che molta gente mal sopporta. E inoltre la dura vita che bisogna vivere, che non è consona alla nobiltà.” N.d.T.] 59 CHASTELLAIN, VIII, “Livre des faits”, pp. 2522 e XIX. 60 FROISSART, a cura di Kervyn, XI, p. 24.
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61 FROISSART, IV, p. 83, a cura di Kervyn, XI, p. 4. 62 DESCHAMPS, IV, n. 785, p. 289. 63 CHASTELLAIN, V, p. 217. [“Vigile e interessato a grandi somme di denaro, sia
pensioni, sia rendite, sia governatorati e proventi.” N.d.T.] 64 RAYNAUD, “La songe véritable”, Mém. de la Soc. de l’hist. de Paris, t. XVII, p.
325, in Les cent ballades, p. LV. 65 COMMINES, I, p. 295. 66 “Livre messire Geoffroy de Charny”, in Romania, XXVI. 67 COMMINES, I, pp. 3642, 86164. 68 FROISSART, IV, pp. 70, 302; cfr. a cura di Kervyn de Lettenhove, 26 voll., V,
Bruxelles 18151877, p. 512. 69 FROISSART, a cura di Kervyn, XV, p. 227. [“Guglielmo, poiché tu vuoi viag-
giare e andare in Ungheria e prendere le armi contro genti e paesi che non ci hanno fatto alcun male, e non hai altro motivo ragionevole per andarvi che quello della vanagloria di questo mondo, lascia che Giovanni di Borgogna e i nostri cugini di Francia facciano le loro imprese, e tu fai la tua parte, e vai in Frisia e conquista la nostra eredità.” N.d.T.] 70 DOUTREPONT, “Ordonnance du banquet de Lille”, in Notices et extraits des
mss de la Bibliothèque nationale t. XLI, I, 1923. 71 EMERSON, Nature, ed. Routledge, 1881, pp. 230231. [“Senza questa violenza finalizzata che hanno uomini e donne, senza un pizzico di bigottismo e di fanatismo, non c’è eccitazione né efficienza. Miriamo più in alto del bersaglio per colpire il bersaglio. Ogni azione ha in sé una certa falsità di esagerazione.” N.d.T.]
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8. La stilizzazione dell’amore
1 Secondo il più recente editore del Roman de la Rose, E. Langlois. 2 CHASTELLAIN, IV, p. 165. [“Per loro e per tutti quelli del loro seguito, bagni
forniti di tutto ciò che occorre al mestiere di Venere, per prendere a scelta e a piacere ciò che più si desidera, e tutto a spese del duca.” N.d.T.] 3 BASIN, II, p. 224. 4 LA MARCHE, II, p. 3502. [“Un congegno per bagnare le signore che passano di
sotto.” N.d.T.] 5 FROISSART, IX, pp. 223236; DESCHAMPS, VII, n. 1282. 6 Cent nouvelles nouvelles, a cura di Wright, II, p. 15; cfr. I, p. 277; II, pp. 20,
168 etc. e Quinze joyes de mariage, passim. 7 PIERRE CHAMPION,
Histoire poétique du quinzième siècle, I, p. 262; cfr.
DESCHAMPS, VIII, p. 43. 8 M.F. WIRTH, Der Untergang des niederländischen Volksliedes, Haag, 1911. 9 DESCHAMPS, VI, n. 1196, p. 112, La leçon de musique. 10 CHARLES D’ORLÉANS,
Poésies complètes, 2 voll., I, Paris 1874, pp. 1242. [“Questi qui sono i dieci comandamenti / Vero Dio dell’amore…” – “Allora mi chiamò, e mi fece mettere le mani / Su un libro, e mi fece promettere / di fare fedelmente il mio dovere / Sui punti dell’amore.” N.d.T.] 11 Ivi., p. 88. [“E spero che presto nel paradiso / Degli amanti molto in alto sie-
derà / Come martire e santo molto onorato” – “Io ho celebrato le esequie della mia dama / Dentro il tempio dell’amore, / E l’ufficio per la sua anima / L’ha cantato Pensiero doloroso. / Molte candele di pietosi sospiri / Sono state accese per lei / Ho fatto fare anche la tomba / Di rimpianti…” N.d.T.] 12 DESCHAMPS, IV, p. 82, n. 1151; cfr. V, n. 926, p. 132; IX, n. 31, p. 94; VI, n. 1184, p. 138; XI, n. 1438, p. 18; XI, pp. 269, 286. 13 CHRISTINE DE PISAN, Epistre au dieux d’amours, in Oeuvres poétiques, a cura
di M. Roy, II, p. 1. Su di lei
MARIE JOSEPHE PINET,
537
“Christine de Pisan”,
13641430, in Étude biographique littéraire, Champion, Paris 1927, che dedica un capitolo alla “Querelle du Roman de la Rose”. 14 I quindici scritti pro e contro, eccetto il trattato del Gerson, sono stati pub-
blicati da CH.F. WARD, The Epistles on the Romance of the Rose and other Documents in the Debate, University of Chicago, 1911. 15 Su questo circolo A. COVILLE, Gontier et Pierre Col et l’Humanisme en France
au temps de Charles VI, Droz, Paris 1934. 16 JOH. DE MONASTERIOLO, Epistolae; MARTENE ET DURAND, Ampl. Coll., II, pp.
1409, 14211422. 17 II testo francese originale del “Traictié Maistre Jehan Gerson contre le Roumant de la Rose” è stato pubblicato da E. Langlois, in Romania, t. 45, 1918, p. 23; la traduzione latina in GERSON, Opera, a cura di Dupin III, pp. 293309, risale alla fine del xv secolo. 18 PIAGET, Etudes Romanes dédiées à Gaston Paris, p. 119. 19 GERSON, Opera, III, p. 507; id., Considérations sur St. Joseph., III, p. 866; Ser-
mo contra luxuriam, III, pp. 923, 925, 930, 968. 20 “Con le piume e le ali di diversi pensieri, da un luogo ad un altro, fino alla
corte santa della Cristianità” – “Onta, Paura e Pericolo il buon portiere, che non oserebbe né permetterebbe accordare nemmeno un villano bacio né un dissoluto sguardo né un sorriso attraente né una parola leggera” – “Getta dappertutto fuoco più ardente e puzzolente del fuoco greco o dello zolfo” – “Come tutte le giovani ragazze debbano vendere il loro corpo prima del tempo a caro prezzo senza paura e senza vergogna, e non debbano tener conto dell’inganno o dello spergiuro.” [N.d.T.] 21 Secondo Gerson. La lettera di Pierre Col è conservata in un manoscritto del-
la Bibl. Nationale, ms. français 1563, f. 183. 22 Bibl. de l’École des Chartes, IX, 1899, p. 569. 23 E. LANGLOIS, Le Roman de la Rose (Société des anciens textes français), t. I,
1914, Intr., p. 36. 24 RONSARD, Amours, n. CLXI. 25 A. PIAGET, “La cour amoureuse dite de Charles VI”, in Romania, XX, p. 417; XXXI, p. 599; DOUTREPONT, p. 367. [“Per passare un po’ di tempo in modo più
piacevole e per ravvivare gli spiriti.” N.d.T.] 26 LEROUX DE LINCY, Tentative de rapt, etc. en 1405, Bibl. de l’ècole des chartes, e 2 séries, III, 1846, p. 316. 27 PIAGET, Romania, XX, p. 447.
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9. Le convenzioni dell’amore
1 Pubblicato nel Trésor des pièces rares ou inédites, 1860, da H. Cocheris che,
però, ha male interpretato il rapporto tra l’opera originale del Sicile e un’aggiunta posteriore. 2 RABELAIS, Oeuvres, a cura di Abel Lefranc c.s., I, Gargantua, cap. 9, p. 96. 3 GUILLAUME DE MACHAUT, Le livre du Voir-Dit, a cura di P. Paris, (Société des
bibliophiles françois, 1875), pp. 82, 213214, 240, 299, 309, 313, 347, 351. 4 JUVENAL DES URSINS, p. 496. 5 RABELAIS, Gargantua, cap. 9. 6 CHRISTINE DE PISAN, I, pp. 187 sgg. [“Io vi vendo l’altea / – Bella, io non oso
dirvi / Come Amore mi attiri verso di voi. / Ve ne accorgerete senza che io parli.” N.d.T.] 7 E. HOEPFFNER, “Frage und Antwortspiele in der franz. Literatur des 14. Jah-
rh.”, in Zeitschr. f. roman. Philologie, XXXIII, 1909, pp. 695, 703. [“Del castello d’Amore io vi domando / Dite il primo fondamento! / – Amare lealmente / Ora ditemi il muro maestro che lo rende bello, forte e sano! / – Celare saggiamente / Ditemi quali sono i merli, / Le finestre e le pietre! / – Sguardo attraente. / Amico, ditemi il portiere! / – Pericolo malparlante / – Qual è la chiave che lo può aprire? / – Pregare cortesemente.” N.d.T.] 8 CHRISTINE DE PISAN, “Le dit de la rose”, vs. 73, in Oeuvres poétiques, II, p. 31. 9 MACHAUT, Remède de fortune, vs. 3879 sgg.; Oeuvres, a cura di Hoepfnner
(Soc. des anciens textes français), 2 voll., II, 190811, p. 142. [“Questioni d’amore e delle sue avventure.” N.d.T.] 10 CHRISTINE DE PISAN, “Le livre des trois jugements”, in Oeuvres poétiques, II,
p. 111. 11 Le livre du Voir-Dit, a cura di P. Paris, Société des bibliophiles françois,
1875. L’ipotesi che l’opera di Machaut non fosse basata su una vera storia d’amore (così HANF, Zeitschr. f. Rom. Phil. XXII, p. 145) è infondata.
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12 Un castello nei pressi di Château Thierry. 13 Voir-Dit, p. 20. [“Io farò in vostra gloria e lode qualcosa di cui rimarrà buona
memoria.” N.d.T.] 14 Voir-Dit, lett. XXVII, p. 203. [“E, mio dolcissimo cuore, siete corrucciato per-
ché abbiamo cominciato così tardi? Per Dio, lo sono anch’io; ma ecco il rimedio: conduciamo la miglior vita possibile, a tempo e luogo, in modo da ricompensare il tempo che abbiamo perduto; e che si parli dei nostri amori per altri cento anni con tutta onestà ed onore; poiché se ci fosse del male, voi lo celereste a Dio, se poteste.” N.d.T.] 15 Voir-Dit, pp. 20, 96, 146, 154, 162. 16 Ivi, p. 371. 17
Il bacio con una foglia come isolante è frequente: vedi Le grand garde derrière, str. 6; W.G.C. BIJVANCK, Un poète inconnu de la société de François Villon, Champion, Paris 1891, p. 27. [Confronta il nostro modo di dire: “hij neemt geen blad voor de mond”. (“Parlare con estrema sincerità”, letteralmente “non avere foglie sulla bocca.”) N.d.T.] 18 Ivi, pp. 143, 144. 19 Ivi, p. 110. [“Quando si disse l’Agnus Dei, / Per la fede che debbo a San Cri-
spino, / Dolcemente ella mi diede la pace / Tra due pilastri della chiesa, / E io ne avevo certo bisogno, / Perché il mio cuore innamorato era / Turbato, quando si allontanava così presto.” N.d.T.] 20 Cfr. p. 64 (vedi il II capitolo). 21 Ivi, pp. 98, 70. 22 Le livre du chevalier de La Tour Landry, a cura di A. de Montaiglon (Bibl. el-
zévirienne), 1854. 23 Cfr. p. 245. [“Sguardi falsi, lunghi e pensierosi, e piccoli sospiri ed espressio-
ni meravigliose e commosse e che hanno più parole sotto mano di altra gente.” N.d.T.] 24 “‘Madamigella, sarebbe meglio diventare vostro prigioniero che di molti al-
tri, e penso che la vostra prigione non sarebbe così dura come quella degli Inglesi.’ E mi rispose che ella aveva visto poco prima colui che avrebbe voluto come suo prigioniero. E allora io le chiesi se ella gli preparerebbe una cattiva prigionia, ed ella mi disse di no e che lo avrebbe tenuto così caro come se stessa e io le dissi che colui sarebbe stato ben felice di avere una prigione sì dolce e nobile. Che dire? Ella sapeva certo parlare e parve, secondo le sue parole, sapere assai, e avere l’occhio ben vivo e leggero.” [N.d.T.] 25 “E quando fummo partiti, il mio signor padre mi disse: ‘Che te ne sembra di
quella che hai veduto? Dimmi il tuo parere’. ‘Mio signore, ella mi sembra bella e
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buona, ma io non le starò mai più vicino di quanto lo sia adesso, se a voi piace.’” [N.d.T.] 26 Vedi l’inizio del II capitolo. 27 La frase è del tutto illogica (pensée… fait penser… à pensiers) e non fila; si-
gnifica: in nessun luogo così spesso come in chiesa. 28 “Poiché io ho sentito dire da molte che erano state innamorate nella loro gio-
vinezza che, quando esse erano in chiesa, il pensiero e la malinconia le faceva pensare sovente più a quegli intimi pensieri e delizie dei loro amori che all’ufficio divino, ed è l’arte d’amare di tale natura che quando si è al culmine dell’ufficio divino, quando il prete tiene il nostro signore sull’altare, allora venivano loro la maggior parte di questi piccoli pensieri.” [N.d.T]
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10. La visione idilliaca della vita
1 A. PIAGET, Romania, XXVII, 1898, p. 63. 2 “Sotto foglia verde, sotto erba delicata / Presso sussurrante ruscello e chiara
fontana / Trovai fissata una capanna mobile, / Lì mangiava Gontier con dama Helayne / Formaggio fresco, latte, ricotta, / Crema, panna, mele, noci, prugne, pere, / Agli e cipolle, scalogna spalmata / Sopra una crosta scura, con sale grosso, per meglio bere.” [N.d.T.] 3 “E bocca e naso, il liscio e l’irsuto.” [N.d.T.] 4 “Io udii Gontier, abbattendo il suo albero, / Ringraziare Dio della sua vita si-
cura: / ‘Io non so,’ egli dice, ‘che cosa sono pilastri di marmo, / Pomi lucenti, muri rivestiti di pitture; / Io non ho paura del tradimento ordito / Sotto belle sembianze, né di essere avvelenato / In vassoi d’oro. Io non ho la testa nuda / Davanti al tiranno, né mi genufletto. / Verga di portiere giammai mi respinge, / Poiché là non mi spinge desiderio / Ambizione né avida ingordigia. / Il lavoro mi nutre in gioiosa libertà; / Molto io amo Helayne ed ella me senza inganno, / E ciò basta. Della tomba non ci preoccupiamo’. / Allora io dico: ‘Ahimè, un servo di corte non vale un quattrino, e Franc Gontier vale una pura gemma in oro’.” [N.d.T.] 5 DESCHAMPS, n. 315, III, p. 1. [“E ritornando da una corte sovrana / Dove avevo a lungo soggiornato, / In un boschetto, presso una fontana / Trovai Robin, il franco, incappellato, / Cappelli di fiori si era messo / Sopra il capo, e Marion la sua amata…” N.d.T.] 6 DESCHAMPS, I, p. 161, n. 65; cfr. I, p. 78, n. 7, p. 175, n. 75. [“Io voglio d’ora
in avanti / Vivere nelle condizioni del ceto di mezzo, questa è la mia opinione, / Lasciare la guerra e vivere lavorando: / Fare la guerra non è che dannazione.” N.d.T.] 7 DESCHAMPS, VII, nn. 1287, 1288, 1289, p. 33; cfr. I, n. 178, p. 313. 8 DESCHAMPS, II, n. 240, p. 71; cfr. II, n. 196, p. 15. [“Io non chiedo a Dio altro
che mi conceda / In questo mondo di servirlo e onorarlo, / Di vivere per me stesso, in tunica intera o in farsetto, / Di portare un cavallo per il mio lavoro / E che
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io possa mantenere il mio stato / Mediocremente, in grazia, senza invidia / Senza avere troppo e senza chiedere pane, / Poiché al giorno d’oggi è la vita più sicura.” N.d.T.] 9 DESCHAMPS, I, n. 184, p. 320. [“…Un operaio e un povero carrettiere / Va
malvestito, lacero e scalzo, / Ma lavorando accetta di buon grado le sue fatiche / E con letizia porta a fine il suo lavoro. / La notte dorme bene; perciò un tale cuore leale / Vede quattro re e il loro regno finire.” N.d.T.] 10 DESCHAMPS, VI, n. 1124, n. 307, p. 41, II, p. 213, Lai de franchise. 11 Cfr. inoltre DESCHAMPS, nn. 199201, 258, 291, 970, 973, 1017, 1018, 1021,
1201, 1258. 12 DESCHAMPS, XI, p. 94. 13 Romania, XXVII, 1898, p. 64. 14 N. DE CLEMANGES, Opera, ed. 1613, Epistolae, n. 14, p. 57, n. 18, p. 72, n.
104, p. 296. 15 JOH. DE MONASTERIOLO, Epistolae; MARTENE ET DURAND, Ampl. Collectio, II,
c. 1398. 16 Ivi, c. 1459. 17 ALAIN CHARTIER, Oeuvres, a cura di Duchesne, 1617, p. 391. 18 Cfr. THUASNE, I, p. 37; II, p. 202. 19 RE RENATO, Oeuvres, a cura di Quatrebarbes, IV, p. 73; cfr. THUASNE, II, p.
204. 20 MESCHINOT, ed. 1522, f. 94, La Borderie, Bibl. de l’Ec. des Chartes, LVI, 1895,
p. 313. [“La corte è un mare dal quale sorgono / Onde d’orgoglio, tempeste d’invidia… / Ira eccita contese e oltraggi, / Che spesso fanno sprofondare le navi; / Tradimenti vi fa la sua parte. / Nuota altrove per i tuoi divertimenti.” N.d.T.] 21 Cfr. THUASNE, op. cit., p. 205. 22 CHASTELLAIN, Recollection des merveilles, VII, p. 200; cfr. la descrizione delle
Joutes de Saint Inglevert in una poesia menzionata da Froissart, a cura di Kervyn, XIV, p. 406. [“Io vidi un re di Sicilia / Diventare pastore / E la sua nobile donna / Del medesimo mestiere / Portando il trascapane, / La verga e il cappello, / Abitando nella brughiera / Presso il loro gregge.” N.d.T.] 23 Le Pastoralet, a cura di Kervyn de Lettenhove, in Chron. rel. à l’ist. de Belg.
sous la dom. des ducs de Bourg., II, p. 573. In questo miscuglio di forma pastorale e di intento politico il poeta de Le Pastoralet ha il suo parallelo nientedimeno che in Ariosto, che dedica la sua unica composizione pastorale alla difesa del suo protettore, il cardinale Ippolito d’Este, in relazione alla congiura di Albertino Boschetti (1506). La causa del cardinale non era poi molto migliore di quella di Giovanni senza Paura, e l’atteggiamento dell’Ariosto non era molto più simpatico di quello
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dell’ignoto borgognone. Vedi G. BERTONI, L’Orlando Furioso e la rinascenza a Ferrara, Modena 1919, pp. 42, 247. 24 A p. 2151. 25 MESCHINOT, “Les lunettes des princes”, in La Borderie, op. cit., p. 606.
[“Signore, tu sei pastore di Dio; / Custodisci lealmente le sue bestie, / Mettile nel campo o nel verziere, / Ma non perderne alcuna, / Per la tua fatica sarai ben ricompensato / Se avrai fatto buona guardia, e se no, / Indebitamente ricevi questo nome.” N.d.T.] 26 LA MARCHE, III, pp. 135, 137; cfr. MOLINET, Recollection des merveilles sulla
prigionia di Massimiliano a Bruges: “Les moutons detenterent En son parc le bergier”, Faictz et dictz, f. 208 v. [“Nobili pastorelle che prima sono state pastorelle e guardiane delle pecore di qui.” N.d.T.] 27 MOLINET, IV, p. 389. [“Tutto in stile pastorale.” N.d.T.] 28 L’antico inno olandese. [N.d.T.] 29 MOLINET, I, pp. 190, 194; III, p. 138; cfr. JUVENAL DES URSINS, p. 382. 30 Vedi CHAMPION, Histoire poétique du xve siècle, II, p. 173. 31 DESCHAMPS, II, p. 213, Lay de franchise; cfr. CHR. DE PISAN, Le dit de la Pa-
stoure, Le Pastoralet, Roi René, Regnault et Jehanneton, Martial d’Auvergne, Vigilles du roi Charles VII, etc. [“Il mio pane è buono; non ho bisogno di nessuno per vestirmi / L’acqua che sono propenso a bere è pura, / Io non temo né tiranno né veleno.” N.d.T.] 32 DESCHAMPS, II, 923; cfr. XI, p. 322. 33 VILLON, a cura di Longnon, p. 83. 34 GERSON, Opera, III, p. 302. 35 L’epistre au dieu d’Amours, II, p. 14. 36 Quinze joyes de mariage, p. 222. 37 Oeuvres poétiques, I, p. 237, n. 26. [“Dolce cosa è il matrimonio, / Io stessa lo
posso dimostrare.” N.d.T.]
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11. L’immagine della morte
1 DIONIGI IL CERTOSINO, Directorium vitae nobilium, Opera, t. XXXVII, p. 550; t. XXXVIII, p. 358. 2 Don Juan, c. II, pp. 7680; C.H. BECKER, “Ubi sunt qui ante nos in mundo fue-
re”, in Aufsätze Ernst Kuhn gewidment, II, 7, 1916, pp. 87105; cfr. Beiblatt z. Anglia, XXVIII, 1917, p. 362 e E. GILSON, Essais d’art et de philosophie, 1932. 3 BERNARDO DI MORLAY, “De contemptu mundi”, a cura di Th. Wright, in The
Anglo-latin satirical poets and epigrammatists of the twelfth century (Rerum Britannicarum medii aevi scriptores), 2 voll., II, London 1872, p. 37. Nel terzo verso l’edizione ha “orbita viribus inscita”, che non ha senso. Leggendo “incita” il metro e la frase sono logici. La correzione mi è stata suggerita dal Dr. Hans Paret di Berlino. [“Dov’è adesso la tua gloria, Babilonia, dov’è / Il terribile Nabucodonosor, e il vigore di Dario e di quel Ciro? / Come una ruota messa in movimento con violenza sono passati / La fama rimane; e si consolida; loro sono putrefatti. / Dove sono ora la curia e la pompa di Giulia? / Cesare, scomparisti. / Tu stesso sei stato più truculento e più potente del mondo. / Dove sono ora Mario e Fabrizio ignaro dell’oro? / Dove sono la morte onorevole e le gesta memorabili di Paolo? / Dove sono la filippica divina e la voce celestiale di Cicerone? / Dove sono la pace di Catone per i cittadini e l’ira per i ribelli? / Dov’è ora Regolo? o dove Romolo? o dove Remo? / La rosa di ieri esiste come nome, nomi crudi conserviamo.” N.d.T.] 4 Prima attribuito a Bernardo di Chiaravalle, da alcuni ritenuto il lavoro di Wal-
ter Mapes; cfr. H.L. DANIEL, Thesaurus hymnologicus, IV, Lipsiae 18411856, p. 288. [“Di’, dov’è Salomone, un tempo così nobile / o Sansone l’invincibile condottiero, dov’è? / E il bello Assalonne, dal volto meraviglioso, / o il dolce Gionata, molto amabile? / Dov’è andato Cesare, dal potere supremo? / Dove il Ricco che si consuma completamente nel pranzo? / Dì, dov’è Cicerone, famoso per l’eloquenza / O Aristotele, sommo ingegno?” N.d.T.]. Qui forse ci si riferisce al ricco della parabola di Lazzaro o forse a Crasso. 5 DESCHAMPS, III, nn. 330, 345, 368, 399. GERSON, Sermo in de defunctis, Opera, III, p. 1568; DIONIGI IL CERTOSINO, De quattuor hominum novissimis, Opera, t.
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XLI, p. 511; CHASTELLAIN, VI, p. 52, sotto il titolo Le Pas de la Mort, mentre nel
testo si chiama “Miroir de Mort”. Un Pas de la Mort in PIERRE MICHAULT (a cura di Jules Petit, Soc. des Bibliophiles de Belgique, 1869); qui si tratta di un Pas d’armes presso la Fontaine des plours, dove si trattiene “Dame Mort”. 6 VILLON, a cura di Longnon, p. 33. [“Che rimane del bel tempo che fu?”
N.d.T.] 7 Ivi, p. 34. [“Ahimè! E il buon re di Spagna, del quale non so il nome?”
N.d.T.] 8 ÉMILE MÂLE, L’art religieux à la fin du moyen âge, Paris 1908, p. 376. Cfr. in
generale E. DOERING-HIRSCH, “Tod und Jenseits in Spätmittelalter”, in Studien z. Wirtsch. u. Geisteskultur, herausg. von R. Häpke, Berlin 1927. 9 ODDONE DI CLUNY, Collationum lib. III, MIGNE, CXXXIII, p. 566. Il motivo e il suo sviluppo si basano sempre su S. Giovarmi Crisostomo: sulle donne e la bellezza (Opera, a cura di B. de Montfaucon, t. XII, Paris 1735, p. 523). 10 INNOCENZO III, De contemptu mundi sive de miseria conditionis humanae libri
tres, MIGNE, t. CCXVII, p. 702. 11 Ivi, p. 713. 12 RE RENATO, Oeuvres, a cura di Quatrebarbes, I, p. CL. Dopo i versi 5 e 8 pare
che manchi un verso; probabilmente con “menu vair” rimava “mangé desvers” o qualcosa del genere. “Menu vair” è una pelliccia di scoiattolo pezzata. [“Una volta su tutte le donne bella / Ma a causa della morte sono divenuta tale. / La mia carne era bellissima, fresca e tenera, / Ora è tornata tutta in cenere. / Il mio corpo era attraente e grazioso, / Io solevo vestirmi sovente di seta. / Ora devo essere, come è giusto, completamente nuda. / Ero coperta di vaio e altre pelli grigie. / Abitavo, come desideravo, in un grande palazzo. / Ora sono alloggiata in questa piccola bara. / La mia camera era ornata di bei tappeti, / Ora la mia fossa è circondata da ragnatele.” N.d.T.] 13 OLIVIER DE LA MARCHE, Le Parement et triumphe des dames, Michel le Noir,
Paris 1520, fine. [“Questi dolci sguardi, questi occhi fatti per piacere, / Riflettete, perderanno il loro splendore, / Naso e sopracciglia, la bocca eloquente / Marciranno.” N.d.T.] 14 Ibidem. [“Se voi vivete il dritto corso di natura / Per il quale LX anni per uno
sono certo un gran numero / La vostra bellezza si muterà in bruttezza; / La vostra salute in malattia oscura / E non farete, in questo mondo, che ingombro. / Se avete una figlia, voi sarete per lei un’ombra, / Ella sarà cercata e richiesta, / E da ciascuno la madre sarà abbandonata.” N.d.T.] 15 VILLON, Testament, vv. 453 sgg., a cura di Longnon, p. 39. [“Che cosa sono diventati quella fronte liscia, / Quei capelli biondi, le sopracciglia arcuate, / L’ampio spazio fra gli occhi, lo sguardo dolce, / Con il quale prendevo i più astuti; Quel bel naso dritto, né grande né piccolo; / Quelle piccole orecchie ben unite, /
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Il mento forcuto, il chiaro viso ovale / E queste belle labbra vermiglie? /… / La fronte rugosa, i capelli grigi, / Le sopracciglia cadute, gli occhi spenti…” N.d.T.] 16 MOLINET, Facitz et dictz, f. 4, f. 42 V. 17 Processo di canonizzazione di Pietro di Lussemburgo, 1390, Acta Sanctorum
Julii I, p. 562. 18 Les grandes chroniques de France, a cura di Paulin Paris, 6 voll., VI, Paris
183638, p. 334. 19 Vedi il particolareggiato studio di DIETRICH SCHÄFER, Mittelalterlicher Brauch bei der Ueberführung von Leichen, Sitzungsberichte der preussischen Akademie der Wissenschaften, 1920, pp. 478498. 20 “Un abuso di barbarie abominevole, praticato da alcuni fedeli in modo orri-
bile e sconsiderato.” [N.d.T.] 21 LEFÈVRE DE S. REMY, I, p. 260, dove si deve leggere Suffolk invece di Oxford. 22 JUVENAL DES URSINS, p. 567; Journal d’un bourgeois, pp. 237, 307, 671. 23 Vedi al riguardo KONRAD BURDACH, “Der Ackermann aus Böhmen”, pp.
243249, in Vom Mittelalter zur Reformation, III, I, 1917. A torto A. DE LABORDE, Origine de la représentation de la Mort chevauchant un boeuf (Comptes rendus de l’Acad. des inscr. et belles lettres, 1923, pp. 100113) fa risalire questa rappresentazione al poema di PIERRE MICHAULT, Le dance des aveugles, poiché essa già compare nel Missale di Amiens del 1323 (Koninklijke Bibliotheek dell’Aja) e anche nell’Ackermann, verso il 1400. 24 Sull’argomento c’è una ricchissima letteratura, vedi per esempio G. HUET,
“Notes d’histoire littéraire”, III, in Le Moyen Age, XX, 1918, p. 148, e W. STAMMLER, Die Totentänze, Leipzig 1922. 25 Su tutto ciò si consulti É. MÂLE, L’art religieux à la fin du moyen-âge, II, 2, La Mort. 26 LABORDE, Ducs de Bourgogne, II, I, 393. 27 Alcune riproduzioni in MALE, op. cit., e in Gazette des beaux arts, 1918, p.
167. 28 Dalle ricerche di HUET, op. cit., risulta probabile l’ipotesi che una danza dei
morti sia stata il motivo originale al quale Goethe inconsciamente torna nel suo Totentanz. 29
In passato considerata a torto molto più antica (verso il 1350); cfr. G.
TICKNOR, Geschichte der schönen Literatur in Spanien (originale inglese), I, p. 77; II, p. 598; Gröber’s Grundiss, II1, p. 1802, p. 428. 30 RE RENATO, Oeuvres, I, p. CLII. 31 CHASTELLAIN, Le pas de la mort, VI, p. 59. 32 Cfr. INNOCENZO III, De contemptu mundi, II, c. 42; DIONIGI IL CERTOSINO,
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De IV hominum novissimis, t. XLI, 496. 33 Oeuvres, VI, p. 49, vedi l’inizio di questo capitolo. 34 “Amico mio, guardate il mio viso. / Vedete cosa fa la dolente morte / E non
dimenticatelo mai, / È quella che amavate tanto; / E questo vostro corpo, meschino e lurido / Voi lo perderete per sempre; / Esso sarà fetido pasto / Alla terra e ai vermi. / La dura morte pone fine a ogni bellezza.” [N.d.T.] 35 Oeuvres, VI, p. 60. [“Egli non ha membro né forma / Che non senta la sua
putrefazione, / Prima che lo spirito sia uscito, / Il cuore che vuole scoppiare nel corpo / Alza e solleva il petto / Che vuole riunirsi alla schiena. / Il volto è scolorito e pallido, / E gli occhi incavati nella testa. / La parola gli è venuta meno, / Perché la lingua si attacca al palato. / Il polso trema e palpita. /… / Le ossa si disuniscono da tutti i lati, / Non c’è nervo che non si tenda fino a spezzarsi.” N.d.T.] 36 VILLON, Testament, XLI, vs. 321328, a cura di Longnon, p. 33. 37 “La morte fa fremere, impallidire, / Incurvare il naso, tendere le vene, /
Gonfiare il collo, afflosciare la carne, / Crescere ed allargare giunture e nervi.” [N.d.T.] 38 “Corpo femminile, tanto delicato, / Levigato, soave, così prezioso, / Devi
dunque aspettare questi mali? / Sì, a meno di non salire al cielo ancora vivo.” [N.d.T.] 39 CHAMPION, Villon, I, p. 303. 40 MÂLE, op. cit., p. 389. 41 LEROUX DE LINCY, Livre des légendes, p. 95. 42 Una simile galleria piena di teschi e di femori si può ancora vedere in una co-
struzione del XVII secolo annessa alla chiesa di Trégastel in Bretagna. 43 Le livre des faits, etc., II, p. 184. 44 Journal d’un bourgeois, I, pp. 233234, 392, 276. V. anche CHAMPION, Villon, I, p. 306. 45 “Voi che avete lavorato con fatica e affanno, / Avete vissuto tutto il vostro
tempo, / Bisogna morire, è cosa certa, / Tornare indietro non vale né si può. / Della morte dovete essere contenti / Perché da grande affanno vi libera…” [N.d.T.] 46 A. DE LA SALLE, Le Reconfort de Madame du Fresne, a cura di J. Néve, Paris
1903.
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12. La raffigurazione del sacro
1 J. BURCKHARDT, Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1905, pp. 99, 147. [“Una
potente religione penetra in tutte le cose della vita e colora ogni Moto dello Spirito, ogni Elemento della Cultura. Indubbiamente queste Cose reagiscono col Tempo sulla Religione; sì, il vero nucleo di essa può essere soffocato dall’insieme di Rappresentazioni e di Immagini, che prima aveva attirato nella sua sfera. La ‘Santificazione di tutti gli Aspetti della vita’ aveva il suo Lato fatale.” – “Nessuna Religione è mai stata completamente indipendente dalla Cultura dei relativi Popoli e Tempi. Proprio quando essa regna sovrana, con l’Aiuto di sacri scritti accettati alla lettera e, apparentemente, regola ogni Cosa, quando si ‘unisce all’intera Vita’, questa Vita certamente agirà su di essa e si intreccerà con essa. Viene quindi un tempo in cui la religione non trae più alcuna utilità da tali profonde connessioni con la Cultura, ma solo Pericoli; tuttavia una Religione agirà sempre in tal modo, finché sarà veramente viva.” N.d.T.] 2 “Per l’amore con il quale la madre celeste dette da mangiare una mela al suo
dolce bambino Gesù.” [N.d.T.] 3 HEINRICH SEUSE, Leben, a cura di Bihlmeyer, Deutsche Schriften, 1907, pp.
2425. Vedi, sull’argomento, il caso di John Tiptoft, conte di Worcester, il sanguinario complice di Edoardo IV, e nello stesso tempo uno dei primi umanisti che chiede al boia, in onore della Santissima Trinità, di decapitarlo con tre colpi. C. SCOFIELD, Edward IV, I, p. 547. 4 GERSON, Opera, III, p. 309. 5 NIC. DE CLEMANGES, De novis festivitatibus non instituendis, Opera, a cura di
Lydius, Lugd. Bat. 1613, pp. 151, 159. 6 v. GERSON, Opera, II, p. 911. 7 Acta Sanctorum Apr. t. III, p. 149. 8 “Ac aliis vere pauperibus et miserabilibus, quibus convenit jus et verus titulus
mendicanti.” 9 “Qui ecclesiam suis mendaciis maculant et earn irrisibilem reddunt.”
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10 Alanus redivivus, a cura di J. Coppenstein, 1642, p. 77. 11 COMMINES, I, p. 310; CHASTELLAIN, V, p. 27; Le Jouvencel, I, p. 82; JEAN LUD,
in Deutsche Geschichtsblätter, XV, p. 248; Journal d’un bourgeois, p. 384; PASTON, Letters, II, p. 18; J.H. RAMSAY, Lancaster and York, II, p. 275; Play of sir John Oldcastle, II, p. 2, etc. Vedi il mio saggio “Onnoozele kinderen als ongeluksdag”, in Verzamelde Werken, IV, pp. 212 sgg. 12 GERSON, “Contra superstitionem praesertim Innocentum”, in Opera, I, p.
203. Cfr. su Gerson JAMES L. CONNOLLY, “John Gerson Reformer and Mystic”, in Recueil de travaux publiés par les membres des conférences d’hist. et de phil. de l’Université de Louvain, 2e série fasc. 12, 1928. 13 GERSON, “Quaedam argumentatio adversus eos qui publice volunt dogmati-
zare” etc., in Opera, III, pp. 521522. 14 GERSON, “Johannis de Varennis responsiones” etc., Opera, I, p. 909. 15
Journal d’un bourgeois, p. 259. Il testo dà “une hucque vermeille par dessoubz”; deve essere “par dessus”. 16 “Contra vanam curiositatem”, in Opera, I, p. 86. 17 “Considérations sur Saint Joseph”, in Opera, III, pp. 842862; Josephina, IV, p.
753; Sermo de natalitate beatae Mariae Virginis, III, p. 1351; inoltre IV, pp. 729, 731732, 735736. 18 GERSON, “De distinctione verarum visionum a falsis”, in Opera, I, p. 50. [“Il
seme materiale perciò, con il quale doveva essere costruito il corpo, non era né troppo duro né eccessivamente fluido.” N.d.T.] 19 C. SCHMIDT, “Der Prediger Olivier Maillard”, in Zeitschr. f. hist. Theologie,
1856, p. 501. 20 v. THUASNE, Rob. Gaguini Ep. et or., I, pp. 72 sgg. 21 Les cent nouvelles nouvelles, a cura di Wright, II, pp. 75 sgg.; 122 sgg. 22 Le livre du chevalier de la Tour-Landry, a cura di de Montaiglon, p. 56.
[“Credeva di morire e si fece portare il bel signore Iddio.” N.d.T.] 23 Op. cit., p. 257: “Se elles ouyssent sonner la messe ou à veoir Dieu”. 24 LEROUX DE LINCY, Le livre des proverbes français, 2 voll., I, Paris 1859, p. 21. 25 FROISSART, a cura di Luce, V, p. 24. 26 Rel. de S. Denis, I, p. 102. “Cum juramento asseruit non credere in Deum
dicti episcopi.” 27 Letteralmente “Giannino in cantina”: indica una specie di coppa dalla quale
spunta una bambolina se viene riempita di vino [N.d.T.]. 28 LABORDE, II, p. 264, n. 4238, Inventario del 1420; ib., II, p. 10, n. 77, Inventa-
rio di Carlo il Temerario, dove si parla probabilmente dello stesso esemplare. La Biblioteca Comunale di Amiens possiede una statuetta della Madonna di Legno,
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lavoro spagnolo della fine del XVI secolo, con una nicchia rettangolare in cui si trova il Bambin Gesù in avorio. Vedi G.H. LUQUET, “Répresentation par transparence de la grossesse dans l’art chrétien”, in Revue archéologique, t. XIX, 1924, p. 143. 29 GERSON, Opera, III, p. 947. Le sue parole di biasimo si trovano nel testo fran-
cese, in una predica, in DIDRON, Iconographie chrétienne, 1843, p. 582, che testimonia, nel contempo, l’effettiva propagazione di questa eresia. Si cita una preghiera mariana: “Quant pour les pécheurs se voust en vous herbergier le Père, le Filz et le Seint-Esprit… par quoy vous estes la chambre de toute la Trinité”. 30 Journal d’un bourgeois, p. 3662. 31 Una lettera d’indulgenza olandese del sec. XIV, a cura di J. Verdam, in Ned.
Archief voor Kerkgeschiedenis, 1900, pp. 117122. 32 A. EEKHOF, De questierders van den aflaat in de Noordelijke Nederl., L’Aja 1909, p. 12. 33 CHASTELLAIN, I, pp. 187189: entrata di Enrico V e di Filippo di Borgogna a
Parigi nel 1420; II, p. 16: entrata di Filippo a Gand nel 1430. 34 DOUTREPONT, p. 379. [“Allora egli aprirà, al suono della tromba / la sua ge-
nerale e grande camera dei conti.” N.d.T.] 35 DESCHAMPS, III, p. 89, n. 357; RE RENATO, Traicté de la forme et devise d’un
tournoy, Oeuvres, II, p. 9. [“Udite, udite, l’onore e la lode / E dalle armi la grandissima indulgenza.” N.d.T.] 36 OLIVIER DE LA MARCHE, II, p. 202. 37 MONSTRELET, I, p. 285; cfr. 306. 38 “Liber de virtutibus Philippi ducis Burgundiae”, pp. 13, 16, in Chron. rel. à
l’hist. de la Belgique sous la dom. de ducs de Bourg., II. 39 MOLINET, II, pp. 8494; III, p. 98, Faictz et Dictz, f. 47; cfr. I, p. 240, e anche CHASTELLAIN, III, pp. 209260; IV, p. 48; V, p. 301; VII, p. 155. [“Guardate l’imma-
gine della Trinità, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.” N.d.T.] 40 MOLINET, III, p. 109. 41 GERSON, “Oratio ad regem Franciae”, in Opera, IV, p. 662. Del resto Gerson
qui si trova in sintonia con il fondamento della dottrina di San Tommaso sugli angeli; ogni angelo forma ciò che sulla terra si chiamerebbe una specie; cfr. E. GILSON, Le Thomisme, p. 158. 42 Quinze joyes de Mariage, p. XIII. 43 GERSON, Opera, III, p. 299. 44 FRIEDLÄNDER, Jahrb. d. K. Preuss. Kunstsammlungen, XVII, 1896, p. 206. 45 K.J. BERNET,
“Kempers”, in De Muziek, 1927, p. 350; cfr. WETZER und
WELTE, Kirchenlexikon, s.v. Musik, col. 2040.
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46 CHASTELLAIN, III, p. 155. 47 H. VAN DEN VELDEN, Rod. Agricola, een Nederlandsch humanist der vijftiende
eeuw, 1a parte, Leida 1911, p. 44. 48 DESCHAMPS, X, p. 33, p. XLI (nel penultimo verso “l’ostel”, il che naturalmen-
te non ha senso). [“Si soleva stare nel tempo passato / In chiesa devotamente / In ginocchio con umiltà / Vicino all’altare con raccoglimento, / A capo nudo rispettosamente, / Ma al giorno d’oggi, come bestie, / Si va all’altare sovente / Col cappuccio e cappello in testa.” N.d.T.] 49 NIC. DE CLEMANGES, De novis celebritatibus non instituendis, Opera, a cura di
Lydius, 1613, p. 143. 50 Le livre du chevalier de la Tour-Landry, pp. 6667. 51 GERSON, “Sermo de nativitate Domini”, in Opera, III, pp. 946947. 52 NIC. DE CLEMANGES, op. cit., p. 147. 53 O. WINCKELMANN, “Zur Kulturgesch. des Strassburger Münsters”, in Zeitsch.
f. d. Gesch. des Oberrheins, NF. XXII, 2. 54 DIONIGI IL CERTOSINO, “De modo agendi processiones”, in Opera, XXXVI,
pp. 198 sgg. 55 CHASTELLAIN, V, pp. 253 sgg. [“Con grande e profonda solennità e reveren-
za” – “Una moltitudine di violenti e di ragazzi malvagi.” N.d.T.] 56 MICHEL MENOT, Sermones f. 144 v.; CHAMPION, Villon, I, p. 202. 57 Le livre du chevalier de la Tour-Landry, p. 65; OLIVIER DE LA MARCHE, II, p.
89; L’Amant rendu cordelier, p. 25, ottava 68; Rel. de S. Denis, I, p. 102. 58 Op. cit., p. 144. 59 cHRISTINE DE PISAN, Oeuvres poétiques, I, p. 172; cfr. p. 60, L’Epistre au dieu
d’Amours, II, 3; DESCHAMPS, V, p. 51, n. 871; II, p. 185, vs. 75. [“Se vado sovente in chiesa, / È solo per vedere la mia bella / Fresca come rosa novella.” N.d.T.] 60 L’amant rendu cordelier, op. cit. 61 MENOT, op. cit. 62 GERSON, “Expostulatio… adversus corruptionem juventutis per lascivas ima-
gines et alia hujusmodi”, in Opera, III, p. 290; cfr. “De parvulis ad Christum trahendis”, ib., p. 281; “Contra tentationem blasphemiae”, ib., p. 246. 63 Le livre du chevalier de la Tour-Landry, pp. 8081 ; cfr. MACHAUT, Livre du Voir-Dit, pp. 143 sgg. 64 Le livre du chevalier de la Tour-Landry, pp. 55, 63, 73, 79. [“E perciò questo
è buon esempio come non si debba andare ai santi viaggi per qualche folle diletto.” N.d.T.] 65 NIC. DE CLEManges, op. cit., p. 145. 66 Quinze, etc., p. 127; cfr. pp. 19, 29, 124.
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67 FROISSART, a cura di Luce e Raynaud, XI, pp. 255 sgg. 68 Chron. Montis S. Agnetis, p. 341; J.C. POOL, Frederik v. Heilo en zijne schrif-
ten, Amsterdam 1866, p. 126; cfr. Hendrik Mande in W. MOLL, Joh. Brugman en het godsd. leven onzer vaderen in de 15e eeuw, 2 voll., I, 1854, p. 264. 69 GERSON, “Centilogium de impulsibus”, in Opera, III, p. 154. 70 DESCHAMPS, IV, p. 322, n. 807; cfr. I, p. 272, n. 146: “Si n’y a Si meschant qui
encor ne die Je regni Dieu…”. [“Non c’è miserabile che non dica: io rinnego Dio e sua madre.” N.d.T.] 71 GERSON, “Adversus lascivas imagines”, in Opera, III, p. 292; Sermo de nativitate Domini, III, p. 946. 72 DESCHAMPS, I, pp. 271 sgg., nn. 145, 146; p. 217, n. 105; cfr. II, p. LVI e GERSON, III, p. 85. 73 GERSON, “Considérations sur le péché de blasphème”, in Opera, III, p. 889. 74 “Regulae morales”, ib., III, p. 85. 75 Ordonnances des rois de France, t. VIII, p. 130; Rel. de S. Denis, II, p. 533. 76 P. D’AILLY, De reformatione, cap. 6; GERSON, “De reform. laicorum”, in Ope-
ra, II, p. 914. 77 GERSON, “Contra foedam tentationem blasphemiae”, Opera, III, p. 343. 78 GERSON, “Regulae morales”, Opera, III, p. 85. 79 GERSON, “Contra foedam tentationem blasphemiae”, Opera, III, p. 246; “hi
qui audacter contra fidem loquuntur in forma joci”, etc. 80 Cent nouvelles nouvelles, II, p. 205. 81 GERSON, “Sermo de S. Nicolao”, in Opera, III, p. 1577; “De parvulis ad Chri-
stum trahendis”, ib., p. 279. Contro lo stesso proverbio anche DIONIGI IL CERTOSINO, “Inter Jesum et puerum dialogus”, art. 2, in Opera, t. XXXVIII, p. 190. 82 GERSON, “De distinctione verarum visionimi a falsis”, in Opera, I, p. 45. 83 Ivi, p. 58. 84 PETRUS DAMIANI, op. cit., XII, 29, p. 283; cfr. per i secoli XII e XIII, HAUCK,
Kirchengeschichte Deutschlands, IV, pp. 81, 898. 85 DESCHAMPS, VI, p. 109, n. 1167; id. n. 1222; COMMINES, I, p. 449. 86 FROISSART, a cura di Kervyn, XIV, p. 67. [“Nobili signori, io ho pensato ai
miei bisogni e in coscienza ritengo di aver gravemente offeso Dio, poiché da lungo tempo ho errato contro la fede, e non posso credere che ci sia qualcosa della Trinità, né che il figlio di Dio si degnasse tanto di abbassarsi da discendere dal cielo in un corpo umano di donna, e credo che quando moriamo non c’è nulla dell’anima. Io ho avuto questa opinione da quando ho conoscenza delle cose, e la manterrò fino alla fine.” N.d.T.] 87 Rel. de S. Denis, I, pp. 102, 104; JEAN JUVENAL DES URSINS, p. 346.
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88 JACQUES DU CLERCQ, II, pp. 277, 340; IV, p. 59; cfr. MOLINET, IV, p. 390, Rel.
De S. Denis, I, p. 643. 89 JOH. DE MONASTERIOLO, Epistolae, MARTENE ET DURAND, Ampl. Coll., II, p.
1415; cfr. ep. 75, 76, p. 1456, di Ambr. de Miliis a Gontier Col, in cui egli si lamenta di Jean de Montreuil. 90 GERSON, “Sermo III in die Sancti Ludovici”, in Opera, III, p. 1451. 91 GERSON, “Contra impugnantes ordinem Carthusiensium”, in Opera, II, p.
713. 92 GERSON, “De decem praeceptis”, in Opera, I, p. 245. 93 GERSON, “Sermo de nativ. Domini”, in Opera, III, p. 947. 94 NIC. DE CLEMANGES, De novis celebr. etc., p. 151. 95 VILLON, Testament, vv. 893 sgg., a cura di Longnon, p. 57. [“Donna sono,
povera e vecchia, / che non sa nulla; / Mai lessi lettera; / Vedo nella chiesa della parrocchia / un paradiso dipinto, dove sono arpe e luci, / E un inferno dove i dannati sono bolliti: / L’uno mi fa paura, l’altro gioia e letizia…” N.d.T.] 96 GERSON, “Sermo de nativitate Domini”, in Opera, III, p. 947, “Regulae mora-
les”, ib., p. 86; “Liber de vita spirituali animae”, ib., p. 66. 97 Hist. translationis corporis sanctissimi ecclesiae doctoris divi Thom. de Aq.,
1368, auct. fr. RAYMUNDO HUGONIS O.P., Acta Sanctorum Martii, I, p. 725. 98 Rapporto dei commissari papali, il vescovo Corrado di Hildesheim e l’abate Ermanno di Georgenthal sulle testimonianze relative a Santa Elisabetta a Marburgo nel gennaio 1235, pubblicato nel Historische Jahrbuch der Görres-Gesellschaft, XXVIII, p. 887. 99 Rel. de S. Denis, II, p. 37. 100 QUICHERAT, Procès, I, p. 295; III, pp. 99, 2191; P. CHAMPION, Procès de con-
damnation de Jeanne dArc, II, Paris 1921, p. 184; cfr. il mio articolo: “Bernard Shaw’s Heilige” in Verzamelde Werken, III, pp. 546547 sgg. 101 CHASTELLAIN, III, p. 407; IV, p. 216. 102 DESCHAMPS, n. 150, p. 277. [“Voi che servite donna e fanciulli / Ricordatevi
sempre di Giuseppe; / Egli servì donna sempre triste, dolente / E custodì Gesù Cristo nella sua infanzia; / A piedi trottava, col fardello sul bastone; / In molti luoghi è raffigurato così, / Accanto a un muletto, per far loro piacere, / E non fu mai festa per lui in questo mondo.” N.d.T.] 103 Ivi, II, n. 314, p. 348. [“Quanta povertà / Avversità / Disgrazia / Ebbe Giu-
seppe quando nacque Dio? / Molte volte le sopportò / E montato / Per bontà / Con sua madre al fianco / Sul muletto, li portò via / Io l’ho visto così dipinto; / In Egitto se n’è andato. / Il buon uomo è raffigurato / Esausto / E coperto / Di una tunica e di un ‘barry’(?). / Un bastone sul collo posato / Vecchio, usato / E consu-
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mato. Festa non ha in questo mondo, / Ma di lui / Va il grido: / ‘È Giuseppe il mattacchione’.” N.d.T.] 104 JOHANN ECK, “Pfarrbuch für U.L. Frau in Ingolstadt”, citato in Archiv f.
Kulturgesch., VIII, p. 103. 105 JOSEPH SEITZ, Die Verehrung des hl. Joseph in ihrer geschichtl. Entwicklung,
Herder, Freiburg 1908. 106 Le livre du chevalier de la Tour-Landry, p. 212. [“Dio volle che ella sposasse
il sant’uomo Giuseppe, che era vecchio e savio; poiché Dio volle nascere all’ombra del matrimonio per obbedire alla legge che allora vigeva, per evitare le maldicenze del mondo.” N.d.T.] 107 “Se a te piace, mi sposerò e avrò molti figli e una grande famiglia.” [N.d.T.] 108 Bibl. Nat. de Paris, Ms. fr. 1875, in CH. OULMONT, Le Verger, le Temple et la
Cellule, essai sur la sensualité dans les œuvres de mystique religieuse, Paris 1912, pp. 284 sgg. [“Quantunque questa giovane sia nera, nondimeno ella è graziosa e ben fatta di corpo e di membra, ed è adatta a portare molti figli” – “Il mio caro figlio mi ha detto che ella è nera e abbronzata. Certamente io voglio che la sua sposa sia giovane, cortese, leggiadra, graziosa e bella, e che abbia belle membra.” – “Prendila, poiché ella è piacevole / Per amare bene il suo dolce amante; / Or prendi da noi molto largamente / E a lei dona abbondantemente.” N.d.T.] 109 Sulle figure dei santi vedi soprattutto É. MÂLE, L’art religieux à la fin du
moyen âge, cap. IV. 110 DESCHAMPS, I, n. 32, p. 114; VI, n. 1237, p. 243. [“Sono cinque i santi, nella
genealogia, / E cinque le sante, a cui Dio concesse / Benignamente alla fine della loro vita, / Che chiunque ricorrerà loro di cuore / In tutti i pericoli, Dio esaudirà / Le loro preghiere, / Per qualunque disgrazia. / Saggio è dunque chi servirà questi cinque, / Giorgio, Dionigi, Cristoforo, Egidio e Biagio.” N.d.T.] 111 Messale di Bamberga del 1490; v. UHRIG, “Die 14 hl. Nothelfer (XIV Auxi-
liatores”, in Theol. Quartalschrift, LXX, 1888, p. 72; cfr. Messale di Utrecht del 1514 e Messale Domenicano del 1550; Acta Sanctorum Aprilis, t. III, p. 149. [“Dio, che hai onorato i tuoi eletti santi Giorgio etc. etc. con privilegi speciali sopra tutti gli altri, cosicché tutti coloro che in condizioni di bisogno implorano il loro aiuto, secondo la promessa della tua grazia, ottengono il salutare effetto della loro richiesta.” N.d.T.] 112 Ibidem. 113 ERASMUS, Ratio seu methodus compendio perveniendi ad veram theologiam,
ed. Basilea 1520, p. 171. 114 Nella ballata di Deschamps appena citata c’è anche Marta, che distrusse la
Tarasque di Tarascon. 115 COQUILLART, Oeuvres, a cura di Ch. d’Héricault (Bibl. elzévirienne), II,
555
1857, p. 281. [“Sant’Antonio bruci il bordello” – “Sant’Antonio bruci la bestia.” N.d.T.] 116 DESCHAMPS, VI, n. 1230, p. 232. [“Sant’Antonio mi vende troppo caro / Il
suo male, il fuoco addosso mi butta” – “San Mauro non ti farà tremare.” N.d.T.] 117 ROB. GAGUIN, Epistolae et Orationes, a cura di Thuasne, II, p. 176. In un vil-
laggio del Brabante Settentrionale, intorno al 1900, un certo zoppo era conosciuto con il nome di “colla zampa di Dio”. 118 Colloquia, Exequiae Seraphicae, ed. Elzev. 1636, p. 620. 119 Gargantua, ch. 45. 120 Apologie pour Hérodote, e. 38, a cura di Ristelhuber, II, 1879, p. 324. 121 DESCHAMPS, VIII, n. 1489, p. 201. [“Non fate dèi d’argento, / D’oro, di le-
gno, di pietra o di bronzo / Che rendono idolatra la gente… / Poiché l’immagine ha una bella forma; / Il dipinto che io deploro, / La bellezza dell’oro rilucente / Fanno credere a molti popoli incerti / Che essi siano Dio per certo / E servono a pensare follemente / Tali immagini che fanno carole / Nelle chiese dove troppe ne mettiamo, / È un fatto molto grave: in poche parole, / Non adoriamo tali simulacri… / Principe, crediamo in un solo Dio / E adoriamolo perfettamente / Nei campi, dappertutto, perché è ragionevole / Non già falsi dèi, ferro né calamita, / Non pietre senza coscienza: / Tali simulacri non adoriamo.” N.d.T.] 122 GERSON, “De Angelis”, in Opera, III, p. 1481, “De praeceptis decalogi”, I, p.
431, “Oratio ad bonum angelum suum”, III, p. 511, “Tractatus VIII, super Magnificat”, IV, p. 370; cfr. III, pp. 137, 553, 739. 123 Opera, IV, p. 389. 124 Si vedano al riguardo le annotazioni autobiografiche del singolare OPICINUS DE CANISTRIS, a cura di R. Salomon, “Das Weltbild eines avignonesischen Kleri-
kers”, in Vorträge der Bibliothek Warburg, 192627, 1930.
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13. Tipi di vita religiosa
1 MONSTRELET, IV, p. 304. 2 BERNARDINO DA SIENA, Opere, I, p. 100 in Hefele, op. cit., p. 36. 3 Les cent nouvelles nouvelles, II, p. 157: Les Quinze joyes de mariage, pp. 111,
215. 4 MOLINET, Faicts et dictz, f. 188 v. [“Preghiamo Dio affinché i Giacomiti / Pos-
sano mangiare gli agostiniani, / E i carmelitani siano impiccati / Con i cordigli dei frati minori.” N.d.T.]. 5 Journal d’un bourgeois, p. 336; cfr. n. 514, p. 242. 6 GHILLEBERT DE LANNOY, Oeuvres, a cura di Ch. Potvin, Louvain 1878, p.
163. La stessa notizia di un tumulto ad Haarlem, nel 1444, tra Hoeken e Kabeljauwen, v. RENIER SNOY, Rerum belgicorum Annales, a cura di Swertius, Antwerpen 1620, p. 149. 7 Les cent nouvelles nouvelles, II, p. 101. 8 Le Jouvencel, II, p. 107. 9 JORGA, “Songe du viel pelerin”, in Phil, de Mézières, p. 423. 10 Journal d’un bourgeois, pp. 214, 289. 11 GERSON, Opera, I, p. 206. 12 JORGA, Phil de Mézières, p. 506. 13 w. MOLL, Johannes Brugman, II, p. 125. 14 CHASTELLAIN, pp. 263265. 15 CHASTELLAIN, II, p. 300; VII, p. 222; JEAN GERMAIN, Liber de Virtutibus, p. 10
(i digiuni meno severi qui menzionati si possono riferire a un’altra epoca); JEAN JOUFFROY, “De Philippo duce oratio”, in Chron. rel. à l’hist. de Belg. sous la dom. des ducs de Bourg., III, p. 118; G. FILLASTRE, Le premier livre de la thoison dor, fol. 131. Sulla devozione di Filippo si veda il mio scritto: “La physionomie morale de
557
Philippe le Bon”, in Annales de Bourgogne, Verzamelde Werken, II, 1932, pp. 216 sgg. 16 LA MARCHE, II, p. 40. [“Se Dio mi ha donato la vittoria, me la custodirà.”
N.d.T.] 17 MONSTRELET, IV, p. 302. 18 JORGA, Phil. de Mézières, p. 350. 19 Cfr. JORGA, op. cit., p. 444; CHAMPION, Villon, I, p. 17. 20 RE RENATO, Oeuvres, a cura di Quatrebarbes, I, p. CX. 21 L’eremo principesco del castello Ripaille (nei pressi di Thonon, sul lago di
Ginevra) destò già all’epoca molto clamore, e fornì lo spunto per voci incredibili, che alla fine si trasformarono nelle idee più calunniose. Il duca era Amedeo VIII, il futuro antipapa Felice V, senza dubbio molto serio nel suo abbandono del mondo. MAX BRUCHET, Le château de Ripaille, Paris 1907, mostra che “faire ripaille” non ha niente a che fare con il nome del castello, però si spinge troppo in là quando rifiuta come diffamatoria persino l’asettica menzione del MONSTRELET, V, p. 112. 22 LA MARCHE, I, p. 194 [Giacomo di Borbone, conte di La Marche, aveva spo-
sato nel 1415 Giovanna II regina di Napoli], [“Tale, senz’altra differenza, come i recipienti dove comunemente si portano il letame e le immondizie” – “E udii raccontare e dire che in tutte le città dove andava faceva un simile ingresso per umiltà.” N.d.T.] 23 Acta Sanctorum Jan., t. II, p. 1018. 24 “Se Dio l’avesse odiato tanto da farlo morire nelle corti dei principi di questo
mondo.” [N.d.T.] 25 JORGA, op. cit., pp. 509, 512. 26 In questo ambito non importa se la Chiesa abbia santificato o soltanto beati-
ficato le persone in questione. 27 ANDRÈ DU CHESNE, Hist. de la maison de Chastillon sur Marne, Preuves, Paris
1621, pp. 126131; Extraict de l’enqueste faite pour la canonization de Charles de Blois, pp. 223234. Anche in Monuments du procès de la canonisation du C. Charles de Blois, duc de Bretagne, S. Brieuc 1921, e Revue des questions historique, CV, 1926, p. 108. La beatificazione si concluse solo nel 1904. 28 FROISSART, a cura di Luce, VI, p. 168. [“Là fu ucciso, in modo degno, il detto
messer Carlo di Blois, col volto di fronte ai nemici, e un suo figlio bastardo che si chiamava messer Giovanni di Blois, e diversi altri cavalieri e scudieri di Bretagna.” N.d.T.] 29 W. JAMES, The varieties of religious experience, pp. 370 sgg. 30 Ordonnances des rois de France, t. VIII, p. 398, nov. 1400, 426, 18 mars 1401. 31 PIERRE SALMON, Mémoires, a cura di Buchon (Coll. de chron. nationale, 3e
Supplément de FROISSART, t. XV, p. 49).
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32 FROISSART, a cura di Kervyn, XII, p. 40. [“Dolce, cortese, bonario, vergine,
molto caritatevole. Passava la maggior parte del giorno e della notte in preghiera. In tutta la sua vita egli non ebbe altro che umiltà.” N.d.T.] 33 “Io vedo bene che mi si vuol portare dalla buona alla cattiva strada: certo,
certo, se mi ci metto, tanto farò che tutto il mondo parlerà di me.” [N.d.T.] 34 Acta Sanctorum Julii, t. I, pp. 486628. Il Prof. Wensinck mi ha fatto notare
che questa abitudine di scrivere ogni giorno i peccati era stata santificata da una tradizione antichissima, che fu descritta già da JOHANNES CLIMACUS (ca. 600), Scala Paradisi, a cura di Raderus, Paris 1633, p. 65, che è nota anche nell’Islam, in Ghazâlî, e che viene ancora raccomandata da S. Ignazio di Loyola negli Exercitia spiritualia. 35 G. DUPONT RENIER, “Jean d’Orl éans, comt e d’Angoul ême d’apr ès sa bi-
bliothèque”, in Luchaire, Mélanges d’histoire du Moyen Age, III, 1897, pp. 3988; id. “La captivité de Jean d’Orléans, comte d’Angoulême”, in Revue historique, t. LXII, 1896, pp. 4274. 36 LA MARCHE, I, p. 180. [“Che comprò la grazia di Dio e della Vergine Maria per più denaro di qualsiasi altro re.” N.d.T.] 37 LUIGI XI, Lettres, t. VI, p. 514; cfr. V, p. 86; X, p. 65. 38 COMMINES, I, p. 291. 39 COMMINES, II, pp. 6768. 40 COMMINES, II, p. 57; Lettres, X, p. 16; IX, p. 260. C’era a suo tempo un simile
“agnus scythicus” nel Koloniaal Museum di Haarlem. 41 Chron. scand., ii, p. 122. [“In quel tempo il re fece venire un gran numero e
una gran quantità di suonatori di strumenti gravi e dolci, che egli fece alloggiare a SaintCosme presso Tours, dove si riunirono in numero di centoventi, tra i quali molti pastori del Poitou. Che spesso suonavano davanti al palazzo del re, senza vederlo, affinché quegli strumenti divertissero e distraessero il re ed egli potesse resistere al sonno. E dall’altra parte fece venire un gran numero di bigotti e bigotte, e di gente devota, come eremiti e sante creature, affinché pregassero incessantemente Dio che gli consentisse di non morire e che lo lasciasse vivere ancora.” N.d.T.] 42 COMMINES, II, pp. 55, 77. 43 Acta Sanctorum Apr., t. I, p. 115; LUIGI XI, Lettres, t. X, pp. 76, 90. 44 “Sed volens caute atque astute agere, propterea quod a pluribus fuisset sub um-
bra sanctitatis deceptus, decrevit variis modis experiri virtutem servi Dei”, Acta Sanctorum, op. cit. 45 Acta Sanctorum, op. cit., p. 108; COMMINES, II, p. 55. 46 “Lettres, X, p. 124, 29 giugno 1483. Visto che “pastinache” è qualcosa di mol-
to comune, si può supporre che il re abbia voluto dire “pasteques”, cocomeri.
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47 Lettres, X, p. 4, etc.; COMMINES, II, p. 54. 48 COMMINES, II, p. 56; Acta Sanctorum, op. cit., p. 115. [“Egli è ancora vivo, co-
sì che potrebbe ben cambiarsi o in meglio o in peggio, e perciò taccio, perché molti ridevano della venuta di questo eremita, che chiamavano ‘sant’uomo’.” N.d.T.] 49 “Di sì santa vita da sembrare piuttosto che lo Spirito Santo parlasse per la
sua bocca.” [N.d.T.] 50 A. RENAUDET, Préréforme et Humanisme à Paris, p. 172. 51 DOUTREPONT, p. 226. 52 Vita Dionysii auct. THEOD. LOER; DION., Opera, I, pp. XLII sgg.; id., De vita et
regimine principum, t. XXXVII, p. 497. 53 Opera, I, XLI, p. 621; D.A. MOUGEL, Denys le Chartreux, sa vie, Montreuil,
1896, p. 63. 54 Opera, t. XLI, p. 617; Vita, I, p. XXXI; MOUGEL, p. 51; Bijdr. en mededeel v.h.
hist. gen. de Utrecht, XVIII, p. 331. 55 Opera, t. XXXIX, p. 496; MOUGEL, p. 54; MOLL, Johannes Brugman, I, p. 74;
Kerkgesch, II, p. 124; K. KROGH-TONNING, Der letzte Scholastiker. Eine apologie, Freiburg 1904, p. 175. 56 MOUGEL, p. 58. 57 Opera, t. XXXVI, p. 178; De mutua cognitione. 58 “Vita”, in Opera, t. I, pp. XXIV, XXXVIII. 59 Ivi, p. XXVI. 60 “De munificentia et beneficiis Dei”, in Opera, t. XXXIV, art. 26, p. 319.
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14. Emozione religiosa e immaginario religioso
1 GERSON, “Tractatis VIII super Magnificat”, in Opera, IV, p. 386. 2 Acta Sanctorum Martii, t. I, p. 561, cfr. 540, 601. 3 K. HEFELE, Der hl. Bernhardin von Siena und die franziskanische Wanderpre-
digt in Italien während des XV. Jahrhunderts, Freiburg 1912, p. 79. 4 W. MOLL, Johannes Brugman, II, pp. 74, 86. 5 Vedi la nota 39 del XII capitolo. 6 Vedi l’inizio del I capitolo. 7 Acta Sanctorum Aprilis, t. I, p. 195. Il quadro che Hefele dà della predicazione
in Italia può valere anche per i paesi di lingua francese. 8 La Biblioteca dell’Ateneo di Deventer possiede Opus quadragesimale Sancti
Vincentii, 1482 (Catal. degli incunaboli, 1917, n. 274) e OLIVERII MAILLARDI, Sermones dominicales, etc., Jean Petit, Paris 1515. Su S. Vincente Ferrer si veda M.M. GORCE, Saint Vincent Ferrier, Paris 1924; S. BRETTLE, San Vincente Ferrer und sein literarischer Nachlass, Münster 1924 (Vorreform. Forschungen, t. X); E. BRUNEL, Un plan de sermon de S. Vincent Ferrier, Bibl. de l’École des chartes LXXXV, 1924, p. 113. 9 “Vita di S. Petrus Thomasius, Carmelitano”, di Philippe de Mézières, Acta
Sanctorum Jan., t. II, p. 997; DIONIGI IL CERTOSINO, sul modo di predicare di Brugman: De vita etc. christ. 10 Acta Sanctorum Apr., t. I, p. 513. 11 JAMES, op. cit., p. 348. [“Poiché la sensibilità e le ristrettezze, quando si uni-
scono, come capita spesso, richiedono soprattutto un mondo semplificato per viverci.” N.d.T.]; cfr. p. 3531. 12 MOLL, Brugman, I, p. 52. 13 Quest’ultima usanza esiste ancora, a quanto mi comunica il signor W.P.A.
Smit, tra i contadini battisti di Giethoorn. 14 DIONIGI IL CERTOSINO, De quotidiano baptismate lacrimarum, t. XXIX, p. 84;
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De oratione, t. XLI, pp. 3155; Expositio hymni “Audi benigne conditor”, t. XXXV, p. 34. 15 Acta Sanctorum Apr., t. I, pp. 485, 494. 16 CHASTELLAIN, III, p. 119; L. PASTOR, Die Reise des Kardinals Luigi d’Aragona,
Freiburg 1905, pp. 51, 52; POLYDORUS VERGILIUS, Anglicae historiae libri XXVI, Basilea 1546, p. 15. 17 Cfr. D. DE MAN, “Vervolgingen”, etc., in Bijdr. Vad. Gesch. en Oudheidk., 6a
serie, IV, 283. 18 GERSON, “Epistola contra libellum Johannis de Schonhavia”, in Opera, I, p. 79. 19 GERSON, “De distinctione verarum visionum a falsis”, in Opera, I, p. 44. 20 Ivi, p. 48. 21 GERSON, “De examinatione doctrinarum”, in Opera, I, p. 19. 22 Ivi, pp. 1617. 23 GERSON, “De distinctione” etc., I, p. 44. Gli stessi dubbi nutre OPICINUS DE CANISTRIS, op. cit., p. 165. 24 GERSON, “Tractatus II super Magnificat”, in Opera, IV, p. 248. 25 “65 nutte artikelen van der passien ons Heren”, MOLL, Brugman, II, p. 75. 26 GERSON, “De monte contemplationis”, in Opera, III, p. 562. 27 GERSON, “De distinctione”, etc., in Opera, I, p. 49. 28 Ibidem. 29 Acta Sanctorum Martii, t. I, p. 562. 30 JAMES, op. cit., p. 343. 31 Acta Sanctorum, op. cit., pp. 552 sgg. 32 “E c’era un grande afflusso di gente che lo veniva a vedere da tutti i paesi per
la semplice vita, molto nobile e molto onesta che conduceva.” [N.d.T.] 33 FROISSART, a cura di Kervyn, XV, p. 132; Rel. de Saint Denis, II, p. 124; “Joha-
nnis de Varennis responsiones ad capita accusationum”, in Gerson, Opera, I, pp. 925926. 34 Responsiones, op. cit., p. 936. 35 Ivi, pp. 910 sgg. 36 GERSON, “De probatione spirituum”, in Opera, I, p. 41. 37 GERSON, “Epistola contra libellum Joh. de Schonhavia”, in Opera, I, p. 82. 38 GERSON, “Sermo contra luxuriam”, in Opera, III, p. 924. 39 GERSON, “De distinctione” etc., Opera, I, p. 55. 40 Opera, III, pp. 589 sgg.
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41 “Dolcezza” [N.d.T.] 42 Ivi, p. 593. 43 GERSON, “De consolatione theologiae”, in Opera, I, p. 174. 44 L’ornamento delle nozze spirituali. [N.d.T.]. 45 GERSON, “Epistola… super tertia parte libri Johannis Ruusbroec De ornatu
nupt. spir.”, in Opera, I, pp. 59, 67, etc. 46 GERSON, “Epistola contra defensionem Joh. de Schonhavia” (polemica su
Ruusbroec), in Opera, I, p. 82. 47 Lo stesso sentimento in un moderno: “I committed myself to Him in the pro-
foundest belief that my individuality was going to be destroyed, that he would take all from me, and I was willing”, JAMES, op. cit., p. 223. 48 GERSON, “De distinctione” etc., I, p. 55; “De libris caute legendis”, I, p. 114. 49 GERSON, “De examinatione doctrinarum”, in Opera, I, p. 19; “De distinctio-
ne”, I, p. 56; “De libris caute legendis”, I, p. 114; “Epistola super Joh. Ruusbroec De ornatu”, I, p. 62; “De consolatione theologiae”, I, p. 174; “De susceptione humanitatis Christi”, I, p. 455; “De nuptiis Christi et ecclesiae”, II, p. 370; “De triplici theologia”, III, p. 869. 50 MOLL, Johannes Brugman, I, p. 57. 51 GERSON, “De distinctione”, etc., I, p. 55. 52 MOLL, Brugman, I, pp. 234314. 53 Ecclesiastico, 24, 29; cfr. MAESTRO ECKHART, Predigten, n. 43, p. 146. 54 RUUSBROEC, Die spieghel der ewigher salicheit, cap. 7; Die chierheit gheestelc-
ker brulocht, l. II, c. 53, Werken, a cura di Davide en Snellaert (Maatsch. der Vlaemsche bibliophilen) 18602, 1868, III, pp. 156159; VI, p. 132. Cfr. MELLINE D’ASBECK, La mystique de R. l’Admirable, un écho du néoplatonisme au XIVe siècle, Paris 1930. 55 Secondo il ms. in OULMONT, op. cit., p. 277. [“Lo mangerete arrostito al fuo-
co, ben cotto, non bruciacchiato. Poiché come l’agnello di Pasqua era cotto e arrostito convenientemente tra due fuochi di legna o di carbone, così il dolce Gesù, il Venerdì Santo, fu messo allo spiedo della veneranda croce tra i due fuochi della angosciosa morte e passione, e dell’ardente amore e carità, che aveva per le nostre anime e per la nostra salute, fu come arrostito e cotto a fuoco lento per la nostra salvezza.” N.d.T.] 56 Cfr. la confutazione di questa opinione in JAMES, op. cit., pp. 10, 191, 276. 57 MOLL, Brugman, II, p. 84. 58 OULMONT, op. cit., pp. 204210. 59 B. Alanus redivivus, a cura di J.A. Coppenstein, Napoli, pp. 29, 31, 105, 108,
116 etc.
563
60 Alanus redivivus, pp. 209, 218.
564
15. Il simbolismo sfiorito
1 SEUSE, Leben, capp. 4, 45, a cura di K. Bihlmeyer, Deutsche Schriften, Stutt-
gart 1907, pp. 15, 154; Acta Sanctorum Jan., t. II, p. 656. 2 HEFELE, op. cit., p. 167; cfr. a p. 259, la difesa di Bernardino dell’uso del no-
me di Gesù. 3 EUG. DEMOLE, “Le soleil comme cimier des armes de Genève”, menzionato in
Revue historique, CXXIII, p. 450. 4 ROD. HOSPINIANUS, De templis, etc., ed. IIa, Tiguri, 1603, p. 213. 5 JAMES, Varieties of religious experience, pp. 474, 475. [“Coltivando il senso
permanente del nostro legame con il potere che fece le cose come sono, siamo più disposti a riceverlo. Non occorre che la faccia esteriore della natura cambi, le espressioni del suo significato cambiano. Era morta e ora è di nuovo viva. È come la differenza che passa tra il guardare una persona senza amore e guardare la stessa persona con amore… Quando vediamo tutte le cose in Dio e attribuiamo ogni cosa a Lui, noi leggiamo nelle cose comuni espressioni di significato superiore.” N.d.T.] 6 IRENAEUS, Adversus haereses libri V, l. IV, c. 21. 7 Sulla necessità di tale realismo JAMES, op. cit., p. 56. 8 GOETHE, Sprüche in Prosa, nn. 742743. [“L’Allegoria trasforma il Fenomeno
in un Concetto, il Concetto in un’Immagine, ma in modo tale che il Concetto nell’Immagine sia sempre definito, completo ed esprimibile. Il Simbolismo trasforma il fenomeno in Idea, l’Idea in un’Immagine in modo tale che l’Idea nell’Immagine rimanga sempre infinitamente attiva e irraggiungibile e, per quanto espressa in tutte le lingue, inesprimibile.” N.d.T.] 9 S. BERNARDO, “Libellus ad quendam sacerdotem”, in DIONIGI IL CERTOSINO,
De vita et regimine curatorum, t. XXXVII, p. 222. 10 BONAVENTURA, “De reductione artium ad theologiam”, in Opera, ed. Paris
1871, t. VII, p. 502.
565
11 P. ROUSSELOT, “Pour l ’histoire du pr obl ème de l ’amour ”, in Bäumker e
Von Hertling, Beitr. zur Gesch. der Philosophie im Mittelalter, VI, 6, Münster 1908. 12 SICARD, Ministrale sive de officiis ecclesiasticis summa, MIGNE, t. CCXIII, c.
232. 13 GERSON, “Compendium Theologiae”, in Opera, I, pp. 234303, 325; “Medita-
tio super septimo psalmo poenitentiali”, IV, p. 26. 14 Alanus redivivus, passim. 15
A pag. 12 a “abstinentia” equivale “fortitudo”, ma a pagina 201 “temperantia”, che manca nella serie, di proposito. Ci sono anche altre discordanze. 16 “Senza aggiunta di alcun seme di procreazione” [N.d.T.]. 17 FROISSART, Poésies, a cura di Scheler, I, p. 53. 18 CHASTELLAIN, “Traité par forme d’allégorie mystique sur l’entrée de roy
Loys en nouveau régne”, in Oeuvres, VII, p. 1; MOLINET, II, p. 71; III, p. 112. 19 “Dalla pantofola non ci viene che salute / E ogni profitto senza grave malat-
tia, / Per darle un titolo d’autorità / Io le do il nome d’umiltà.” [N.d.T.] 20 Cfr. COQUILLART, Les droits nouveaux, a cura di d’Héricault, I, p. 72. 21 Opera, I, p. XLIV, sgg. 22 H. USENER, Götternamen, Versuch zu einer Lehre von der religiösen Begriff-
sbildung, Bonn 1896, p. 73. [“La rappresentazione si presentava all’anima con una Forza sensibile ed esercitava un tale Potere che la Parola, che essa si creava, nonostante la Vivacità aggettivale, che le rimaneva, poteva ugualmente designare un singolo essere divino.” N.d.T.] 23 J. MANGEART, Catalogue des mss. de la bibl. de Valenciennes, 1860, p. 687. 24 Journal d’un bourgeois, p. 96. [“Allora si levò la dea della Discordia, che era
nella Torre di Malconsiglio e svegliò Ira la forsennata e Ambizione e Rabbia e Vendetta, e presero armi di tutti i tipi e con esse buttarono fuori con molta onta Ragione, Giustizia, Memoria di Dio e Temperanza” – “E poco tempo dopo la loro morte (meno di quanto ne occorre per fare cento passi) non gli rimanevano che le brache ed erano ammucchiati come porci in mezzo al fango.” N.d.T.] 25 LA MARCHe, II, p. 378. [“In guisa di mascherata e per divertimento, per ren-
dere la festa più allegra.” N.d.T.] 26 Histoire littéraire de la France (XIVe siècle); t. XXIV, 1862, p. 541; Gröber’s
Grundriss, II, 1, p. 877; II, 2, p. 406; cfr. Les cent nouvelles nouvelles, II, p. 183; RABELAIS, Pantagruel, libro IV, c. 29. 27 H. GROTEFEND, Korrespondenzblatt des Gesamtvereins, etc., LXVII, 1919, p.
124. [“Dock” = bambola, “Hungerdock” = bambola della fame. N.d.T.]
566
28 Personaggi allegorici del teatro medioevale dei Paesi Bassi [N.d.T.]. 29 De captivitate babylonica ecclesiae praeludium. Werke, ed. Weimar, VI, p. 562.
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16. Il realismo e la capitolazione della raffigurazione nella mistica
1 PETRI DE ALLIACO, “Tractatus I adversus Cancellarium Parisiensem”, in Ger-
son, Opera, I, p. 723. 2 DIONIGI IL CERTOSINO, Opera, t. XXXVI, p. 200. 3 DIONIGI IL CERTOSINO, Revelatio II, Opera, I, p. XLV. 4 DIONIGI IL CERTOSINO, Opera, t. XXXVII, XXXVIII, XXXIX. 5 Anectodes historiques etc. d’Etienne de Bourbon, a cura di A. Lecoy de la Mar-
che, Soc. d’hist. de France, 1877, p. 24. 6 ALAIN CHARTIER, Oeuvres, p. XI. L’aneddoto ha valore solo come testimonian-
za del pensiero dell’epoca; Alain Chartier morì nel 1429, e Margherita venne in Francia soltanto nel 1435, undicenne; vedi P. CHAMPION, Hist. poétique du XV siècle, I, p. 131. [“Non ho baciato l’uomo ma la bocca preziosa dalla quale sono usciti tanti buoni motti e virtuose parole.” N.d.T.] 7 GERSON, Opera, I, p. 17. 8 DIONIGI IL CERTOSINO, Opera, t. XVIII, p. 433. 9 Ivi, t. XXXIX, p. 18 sgg.; De vitiis et virtutibus, p. 363; De gravitate et enormita-
te peccati, ib., t. XXIX, p. 50. 10 Op. cit., XXXIX, p. 37. 11 Ivi, XXXIX, p. 56. 12 DIONIGI IL CERTOSINO, De quatuor hominum novissimis, Opera, t. XLI, p.
545. 13 Ivi, t. XLI, p. 489. 14 MOLL, Brugman, I, pp. 20, 23, 28. 15 Op. cit., p. 320. 16 Gli esempi dei SS. Egidio, Germano e Quirico si trovano in GERSON, De via
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imitativa, III, p. 777; cfr. Contra gulam sermo, ib., p. 909; OLIVIER MAILLARD, Serm. de Sanctis, fol. 8a. 17 INNOCENZO III, De contemptu mundi, l. I, c. I; MIGNE, CCXVII, pp. 702 sgg. 18 WETZE UND WELTER, Kirchenlexikon, XI, p. 1601. 19 Extravag. commun., lib. V, tit. IX, cap. 2: “Quanto plures ex eius applicatione
trahuntur ad iustitiam, tanto magis accrescit ipsorum cumulus meritorum”. 20 BONAVENTURA, In secundum librum sententiarum, dist. 41, art. I, qu. 2; ib. 30, 2, I, 34; In quart. lib. sent., d. 34, a. I, qu. 2; Breviloquii pars II, Opera, ed. Paris 1871, t. III, pp. 557a, 335, 438; VI, p. 327b; VII, p. 271 ab. 21 DIONIGI IL CERTOSINO, De vitiis et virtutibus, Opera, t. XXXIX, p. 20. 22 MAC KECHNIE, Magna Carta, p. 401. 23
Lo stesso pensiero si trova nella bolla Unigenitus, appena citata. Cfr.
MARLOWE, Faustus: “See, where Christ’s blood streams in the firmament! One drop
of blood will save me”. 24 DIONIGI IL CERTOSINO, Dialogion de fide cath., Opera, t. XVIII, p. 366. 25 Opera, t. XLI, p. 489. 26 L’uso dei superlativi lo riprende da Dionigi Areopagita. 27 DIONIGI IL CERTOSINO, De laudibus sanctae et individuae trìnitatis, t. XXXV,
p. 137; De laud. glor. Virg. Mariae, passim. 28 JAMES, Varieties of rel. exp., p. 419. [“C’è nelle dichiarazioni mistiche un’ete-
rna unanimità, che dovrebbe imporre una pausa e una riflessione critica, e che fa sì che i mistici classici non abbiano, come è stato detto, né nascita né patria.” N.d.T.] 29 JOHANNIS SCOTI, De divisione naturae, l. III, c. 19, MIGNE, CXXII, p. 681. 30 Cherubinischer Wandersmann, I, 25. [“Dio è puro Nulla, non lo tocca né
l’Ora né il Qui; più cerchi di afferrarlo più ti sfugge.” N.d.T.] 31 M. van Asbeck ritiene, come risulta già dal suo titolo (vedi cap. XIV, nota 54),
l’elemento neoplatonico nella mistica tedesca e in Ruusbroec molto più alto rispetto a quel che si soleva pensare dopo la scoperta dei fondamenti tomistici di quella mistica. 32 Opera, I, p. XLIV. 33 SEUSE, Leben, cap. 3, a cura di K. Bihlmeyer, Deutsche Schriften, Stuttgart
1907, p. 14. Cfr. cap. 5, p. 21, l. 3. [“Gettatevi, cuore e senso e animo, nell’abisso senza fondo di tutte le cose deliziose.” N.d.T.] 34 MAESTRO ECKHART, Predigten, nn. 60 e 76, a cura di F. Pfeiffer, Deutsche My-
stiker des XIV Jh., II, Lipsia 1857, p. 193, l. 34 sgg.; p. 242, l. 2 sgg. 35 TAULER, Predigten, n. 28, a cura di F. Vetter (Deutsche Texte des Mittelalter-
s, XI), Berlin 1910, p. 117, l. 30 sgg.
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36 RUUSBROEC, Dat boec van seven sloten, cap. 19, Werken, a cura di David, IV,
pp. 106108. 37 Op. cit., cap. 43, a cura di David, IV, p. 264. 38 Ivi, cap. 35, p. 246. 39 RUUSBROEC, Van seven trappen in den graet der gheesteliker minnen, cap. 14,
a cura di David, IV, p. 53. Invece di “ontfonken” io leggo “ontsonken”. 40 RUUSBROEC, Boec van der hoechster waerheit, a cura di David, p. 263; cfr. Spieghel der ewigher salicheit, cap. 25, p. 231. 41 Spieghel der ewigher salicheit, cap. 19, p. 144, cap. 23, p. 227. 42 II Par. 6, I: “Dominus pollicitus est, ut habitaret in caligine. Ps. 17, 13: Et po-
suit tenebras latibulum suum”. 43 DIONIGI IL CERTOSINO, De laudibus sanctae et individuae trinitatis per modum
horarum, Opera, t. XXXV, pp. 137138; id., XLI, p. 263, etc.; cfr. De passione domini salvatoris dialogus, t. XXXV, p. 274: “ingrediendo caliginem, hoc est ad supersplendidissimae ac prorsus incomprehensibilis Deitatis praefatam notitiam pertingendo per omnem negationem ab ea”. 44 JOSTES, Meister Eckhart und seine Jünger, 1895, p. 95. [“E allora muore della
sua suprema morte. In questa morte l’anima perde ogni desiderio e ogni immagine e ogni comprensione e ogni forma e viene privata di ogni essere. E questo è sicuro come è vero che Dio vive: come uno che è morto fisicamente non si può muovere, così l’anima che è morta anche spiritualmente non può sapere né rappresentare. Poiché questo spirito è morto e sepolto nella divinità.” N.d.T.] 45 DIONIGI IL CERTOSINO, De contemplatione, lib. III, art. 5, Opera, t. XLI, p.
259. 46 DIONIGI IL CERTOSINO, De contemplatione, t. XLI, p. 269, seguendo Dion.
Areop. 47 SEUSE, Leben, cap. 4, a cura di Bihlmeyer, Deutsche Schriften, 1907, p. 14.
[“Essa si librava sopra di lui in un cielo di nuvole: brillava come la stella del mattino, e splendeva come il sole radioso; la sua corona era eternità, la sua veste era beatitudine, la sua parola dolcezza, il suo abbraccio soddisfazione di ogni desiderio: era lontana e vicina, alta e bassa, presente e tuttavia nascosta, si lasciava avvicinare e tuttavia nessuno la comprendeva.” N.d.T.] 48 MAESTRO ECKHART, Predigten, n. 40, p. 136. [“Tutte le creature sono un me-
ro nulla. Non dico che sono piccole: sono un mero nulla. Ciò che non ha entità, non è. Tutte le creature non hanno entità quando la loro entità si accosta alla presenza di Dio.” N.d.T.] 49 TOMMASO DA KEMPIS, Soliloquium animae, Opera omnia, a cura di M.J. Pohl,
7 voll., I, Freiburg 190210, p. 230. 50 Ivi., p. 222.
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17. Le forme di pensiero nella vita pratica
1 ALIÉNOR DE POITIERS, Les honneurs de la cour, pp. 184, 189, 242, 266. 2 OLIVIER DE LA MARCHE, L’estat de la maison, etc., t. IV, p. 56. Cfr. su simili do-
mande la nota 27 del II capitolo. 3 J.H. ROUND, The king’s serjeants and officers of state with their coronation servi-
ces, London 1911, p. 41. 4 Cfr. R.F. BURCKHARDT, Anzeiger für Schweiz, Altertumskunde, 1931, p. 247
sgg., con una illustrazione de “les trois frères”. 5 Quest’uso, curiosamente, si è esteso alla locomotiva, all’automobile e (per lo meno in America) all’ascensore. 6 Le livre des trahisons, p. 27. [“Così il buon duca Giovanni aveva ricondotto
quel gesto a una moralità.” N.d.T.] 7 Rel. de S. Denis, III, p. 4645; JUVENAL DES URSINS, p. 440; NOËL VALOIS, La
France et le grand schisme d’occident, Paris 18961902, 4 voll., III, p. 433. 8 JUVENAL DES URSINS, p. 342. 9 “Una grandissima paura mi prende il cuore, sì grande, che il mio intelletto e la
mia memoria si sono dileguati, e quel po’ di senso che io credevo di avere mi ha completamente abbandonato.” [N.d.T.] 10 “Io confermo le Vostre parole.” [N.d.T.] 11 MONSTRELET, I, pp. 277, 342; COVILLE, Le véritable texte de la justification du
duc de Bourgogne par Jean Petit, Bibliothèque de l’École des chartes, 1911, p. 57. Sul progetto di una seconda giustificazione con cui Petit avrebbe risposto alla controdimostrazione fatta l’8 settembre 1408, dall’abate Tommaso da Cerisi, cfr. o. CARTELLIERI, “Beiträge zur Geschichte der Herzöge von Burgund V”, in Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, 1914; WOLFGANG SEIFERTH, Der Tyrannenmord von 1407, Leipziger Dissertation, 1922. Su tutto quello che riguarda Jean Petit: COVILLE, Jean Petit, la Question du tyrannicide au commencement du XVe siècle, Paris 1932.
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12 “Il pesce grosso mangia il piccolo” – “Gli stracci vanno sempre all’aria” –
“Nessuno è casto se non gli bisogna” – “Si è buoni per timore della pelle” – “Nel bisogno si chiede aiuto al diavolo.” [N.d.T.] 13 LEROUX DE LINCY, Le proverbe français; cfr. E. LANGLOIS, Bibl. de l’École des
chartes LX, 1899, p. 569; J. ULRICH, Zeitschr. f. franz. Sprache u. Lit, XXIV, 1902, p. 191. 14 Secondo Les Grandes chroniques de la France, ed. P. Paris, IV, p. 478. 15 ALAIN CHARTIER, a cura di Duchesne, p. 717. 16 Les fortunes et adversités de feu noble homme Johan Régnier, v.P. CHAMPION,
Histoire poétique du XVe siècle, I, pp. 229 sgg.; JEAN MOLINET, Faictz et dictz, ed. Paris 1537, ff. 80, 119, 152, 161, 170, 194; COQUILLART, Oeuvres, I, p. 6; VILLON, a cura di Longnon, p. 134. 17 ROBERT GAGUINI, Ep. et or., a cura di Thuasne, II, p. 366. 18 GERSON, Opera, IV, p. 657; ib., I, p. 936; CARNAHAN, The Ad Deum vadit of
Jean Gerson, pp. 61, 71; cfr. LEROUX DE LINCY, Le proverbe français, I, p. LII. [“Chi di tutto tace di tutto ha pace” – “A testa ben pettinata non conviene il cappello” – “Del cuoio altrui larga correggia” – “Secondo il signore conveniente servitù” – “Tale il giudice, tale il giudizio” – “Chi serve la comunità non è pagato da nessuno” – “Chi ha la tigna non si tolga il cappuccio.” N.d.T.] 19 GEOFFREY DE PARIS, a cura di de Wailly et Delisle, in Bouquet, Recueil des
Historiens des Gaules et de la France, XXII, p. 87, v. “Index rerum et personarum s.v.”, Proverbia, p. 926. 20 FROISSART, a cura di Luce, XI, p. 119; a cura di Kervyn, XIII, p. 41; XIV, p. 33; XV, p. 10; Jouvencel, I, pp. 60, 6263, 74, 78, 93. [“Così accade nei fatti d’arme: una
volta si perde e l’altra si vince” – “Non c’è niente che non venga a noia” – “Si dice, ed è vero, che non c’è cosa più certa della morte.” N.d.T.] 21 Je l’envie è un gioco di parole che significa: io invito, sfido; ic houd (io man-
tengo, N.d.T.) è la risposta: accetto; cominus et eminus un’allusione alla credenza che il porcospino potesse anche lanciare le sue spine. 22 Vedi il mio “Uit de voorgeschiedenis van ons nationaal besef”, in De Nederlandse Natie, II, Haarlem 1960, Verz. Werk., pp. 97 sgg. 23 Vedi l’inizio del IX capitolo. 24 A. PIAGET, “Le livre Messire Geoffroy de Charny”, in Romania, XXVI, 1897,
p. 396. 25 L’arbre des batailles, Paris, Michel le Noir, 1515. Su Bonet vedi MOLINIER,
Sources de l’histoire de France, n. 3861. 26 Capp. 35, 85 bis (i numeri 8090 sono stampati due volte nell’edizione del
1515), 1246. 27 Capp. 56, 60, 84, 132. G.W. COOPLAND, “The tree of battles and some of its
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sources”, in Tydschrift voor rechtsgeschiedenis, v, 1923, p. 173, dimostra che Bonet dipende molto da Giovanni da Legnano, morto nel 1382. Ma le parti, che qui sono considerate, sembra che appartengano al contributo più originale di Bonet. Su G. da Legnano v.G. ERMINI, “I trattati dellaguerra e della pace di G. da Legnano”, in Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna, t. VIII, 1924. 28 Nel romanzo cavalleresco spagnolo Tirante el Blanco l’eremita dà allo scudie-
ro L’arbre des batailles come manuale di cavalleria. 29 Capp. 82, 89, 80 bis e sgg. 30 Le Jouvencel, I, p. 222; II, pp. 8, 93, 96, 133, 214. 31 Les vers de maître Henri Baude, poète du XV siècle, a cura di Quicherat (Trés-
or des pièces rares ou inédites), 1856, pp. 2025. 32 CHAMPION, Villon, II, p. 182. 33 Questo formalismo è ancora più forte nelle tribù sudamericane, dove uno
che si ferisce accidentalmente deve pagare il prezzo del sangue al suo clan, poiché ha versato il sangue del clan. L. FARRAND, “Basis of American history”, p. 198, in The American nation, A history, vol. II. 34 LA MARCHE, II, p. 80. 35 Op. cit., II, p. 168. 36 CHASTELLAIN, IV, p. 169. 37 Chron. scand., II, p. 83. [“Buona gente, dite i vostri Paternostri per l’anima
del fu Laurent Guernier, che in vita dimorava a Provins, che è stato trovato recentemente morto sotto una quercia.” N.d.T.] 38 PETIT-DUTAILLIS, Documents nouveaux sur les moeurs populaires etc.; cfr. CHASTELLAIN, V, p. 399 e JACQUES DU CLERCQ, passim. 39 DU CLERCQ, IV, p. 264; cfr. III, pp. 180, 184, 206, 209. 40 MONSTRELET, I, p. 342, v, p. 333; CHASTELLAIN, II, p. 389; LA MARCHE, II, pp.
284, 331; Le livre des trahisons, pp. 34, 226. 41 QUICHERAT, Th. Basin, I, p. XLIV. 42 CHASTELLAIN, III, p. 106. 43 GERSON, “Sermo de nativ. domini”, in Opera, III, p. 947. 44 Le Pastoralet, vs. 2043. 45 JEAN JOUFFROY, Oratio, I, p. 188. 46 LA MARCHE, I, p. 63. 47 GERSON, “Querela nomine Universitatis”, etc., in Opera, IV, p. 574; cfr. Rel.
de S. Denis, III, p. 185. 48 “Rinunciare a falsi Giudizi renderebbe la vita impossibile.” [N.d.T.] 49 CHASTELLAIN, II, p. 375, cfr. 307.
573
50 COMMINES, I, pp. 111, 363. 51 MONSTRELET, IV, p. 388. 52 BASIN, I, p. 66. 53 LA MARCHE, I, pp. 60, 63, 83, 88, 91, 94, 134; III, p. 101. 54 COMMINES, I, pp. 170, 262, 391, 413, 460. 55 BASIN, II, pp. 417, 419; MOLINET, Faictz et Dictz, f. 205. Nel terzo verso leggo
“sa” invece di “la”. [“Ho visto cosa sconosciuta: / Un morto resuscitato, / E sul suo ritorno / Acquisti a migliaia /. L’uno dice: egli è in vita / L’altro: non è che vento. / Tutti i cuori buoni senza invidia / Lo rimpiangono sovente.” N.d.T.] 56 DESCHAMPS, Oeuvres, t. IX. 57 Op. cit., pp. 219 sgg. 58 Op. cit., pp. 293 sgg. 59 Cfr. MARETT, The threshold of religion, passim. 60 MONSTRELET, IV, p. 93; Livre des trahisons, p. 157; MOLINET, II, p. 129; cfr. DU CLERCQ, IV, pp. 203, 273; TH. PAULI, p. 278. 61 MOLINET, I, p. 65. 62 MOLINET, IV, p. 417. Courtaulx è uno strumento musicale, Mornifle un gioco
di carte. [“Quasi conformi ai nomi di abiti mondani, strumenti e giochi del tempo presente come Pantoufle, Courtaulx e Mornifle.” N.d.T.] 63 GERSON, Opera, I, p. 205. 64 “Le songe du vieil pélerin”, in Jorga, Phil de Mézières, p. 69. [“Non poteva,
secondo la sua volontà, estirpare a fondo dal suo cuore i suddetti segni e il loro effetto contro Dio” – “Da questa grande follia, che è nemica dell’anima cristiana.” N.d.T.] 65 JUVENAL DES URSINS, p. 425. 66 Op. cit., p. 415. 67 GERSON, Opera, I, p. 216. 68 GERSON, “Sermo coram rege Franciae”, in Opera, IV, p. 620; JUVENAL DES URSINS, pp. 415, 423. 69 GERSON, Opera, I, p. 216. 70 “Non ho io accanto a me i pezzetti di cera battezzati diabolicamente e pieni
di abominevoli misteri contro di me e gli altri?” [N.d.T.], CHASTELLAIN, IV, pp. 314, 323324; cfr. DU CLERCQ, III, p. 326. 71 CHASTELLAIN, II, p. 376; III, pp. 446448; IV, p. 213; V, p. 32. [“Perché in tutte
le cose si dimostrò uomo di fede integra e leale verso Dio, senza ricercare i suoi segreti.” N.d.T.] 72 MONSTRELET, V, p. 425.
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73 “E quando si argomentava contro di lui, fossero chierici o altri, diceva che
costoro dovevano essere presi come sospetti valdesi.” [N.d.T.] 74 “Mai si erano visti in quei territori simili casi.” [N.d.T.] 75 “Chronique de Pierre le Prêtre”, in Bourquelot, La vauderie d’Arras, Biblio-
thèque de l’école des chartes, 2e série, III, p. 109. [“Una cosa inventata da alcune persone malvagie.” N.d.T.] 76 JACQUES DU CLERCQ, III, passim; MATTHIEU D’ESCOUCHY, II, pp. 416 sgg. 77 [“Non c’è vecchia tanto dissennata, / Che faccia la più piccola di queste cose,
/ Ma per farla ardere o impiccare, / Il nemico della natura umana, / Che troppi falsi inganni sa tendere, / I sensi falsamente domina. / Non c’è bastone né bastoncino / Su cui persona possa volare, / Ma quando il diavolo confonde loro / La testa, loro credono di andare / In qualche posto per diletto / E per fare la loro volontà. / Le si sentirà parlare di Roma / E però non vi saranno mai state… / I diavoli sono tutti nell’abisso, / Disse FrancoVolere, incatenati / E non hanno tenaglia né lima / Con cui potersi liberare. / Come possono allora arrecare tanti danni ai cristiani / E tante oscenità? / Non riesco a comprendere le tue stupidaggini / – /Non crederò, finché vivo / Che una donna col suo corpo / Possa andare in aria come merlo o grifo / Dice il Campione pronto. / Sant’Agostino dice chiaramente / Che è illusione e fantasia / E non credono altrimenti / Gregorio, Ambrogio e Girolamo / Quando la poverella è nel suo letto / Per dormire e riposare / Il nemico che non si corica mai / Si posa accanto a lei. / Allora lui sa creare illusioni / Così subdolamente / Che ella crede fare o progettare / Ciò che ella sogna solamente. / Forse la vecchia sognerà / Di andare all’assemblea / Su di un gatto o un cane / Ma certo non se ne farà nulla. / Così non c’è né bastone né trave / Che possa trasportarla di un solo passo.” N.d.T.], MARTIN LE FRANC, “Le Champion des dames”, in Bourquelot, op. cit., p. 86; THUASNE, Gaguin, II, p. 174. 78 FROISSART, a cura di Kervyn, XI, p. 193. 79 Cfr. R. STADELMANN, Vom Geist des ausgehenden Mittelalters, Halle 1929, p.
462. 80 GERSON, “Contra superstitionem praesertim Innocentum”, in Op., I, p. 205;
“De erroribus circa artem magicam”, I, p. 211; “De falsis prophetis”, I, p. 455; “De passionibus animae”, III, p. 142. 81 Journal d’un bourgeois, p. 236. [“Che molte genti sciocche custodivano in un
luogo riposto, e credevano talmente in quell’immondizia che erano fermamente convinte che, finché l’avessero, purché fosse ben avvolta in lindi drappi di seta o di lino, non sarebbero state povere neanche un giorno della loro vita.” N.d.T.] 82 Ivi, p. 220. 83 DIONIGI IL CERTOSINO, “Contra vitia superstitionum quibus circa cultum veri
Dei erratur”, in Opera, t. XXXVI, pp. 211 sgg..; cfr. A. FRANZ, Die Kirchlichen Benediktionen im Mittelalter, 2 voll., Freiburg 1909.
575
84 Per esempio JACQUES DU CLERCQ, III, pp. 104107.
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18. L’arte nella vita
1 Rel. de S. Denis, II, p. 78. 2 Ivi, p. 413. 3 Op. cit., I, p. 358. 4 Rel. de S. Denis, I, p. 600; JUVENAL DES URSINS, p. 379. 5. LA CURNE DE SAINTE PALAYE, I, p. 388; Journal d’un bourgeois de Paris, p. 67. 6
Journal d’un bourgeois, p. 179 (Carlo VI); 309 (Isabella di Baviera); CHASTELLAIN, IV, p. 42 (Carlo VII), I, p. 332 (Enrico v); LEFÈVRE DE S. REMY, II, p. 65; M. D’ESCOUCHY, II, pp. 424, 432; Chron. scand., I, p. 21; JEAN CHARTIER, p. 319 (Carlo VII); RE RENATO, Oeuvres, a cura di Quatrebarbes, I, p. 129; GAGUIN, Compendium super Francorum gestis, ed. Paris 1500, esequie di Carlo VIII, f. 164. 7 MARTIAL D’AUVERGNE, Vigilles de Charles VII; les poésies de Martial de Paris,
dit d’Auvergne, voll. 2, II, Paris 1724, p. 170. 8 Com’è noto nell’Abbazia di Westminster sono ancora conservate le statue di
cera usate un tempo per i funerali dei re: quella di Carlo II è la più antica. Cfr. l’abitudine dei fiorentini altolocati di far trasportare, in vita, la loro effigie, di grandezza naturale, nella Santissima Annunziata, sulla quale tante curiosità riferisce A. WARBURG, Gesamm. Schriften, I, pp. 99, 346, 350. 9 P. FREDERICQ, Codex docum. sacr. indulg. neerland., R.P.G., piccola serie 21,
1922, p. 252. 10 Un papa rinascimentale come Pio II ha, sotto questo aspetto, pensieri simili
sulla dignità dell’artista; egli fa realizzare al suo scultore prediletto, Paolo Romano, due busti di Sigismondo Malatesta, per poterli poi bruciare solennemente! Il papa, nei suoi Commentarii, VII, p. 185, loda la loro somiglianza. Vedi E. MÜNTZ, Les arts à la cour des papes, etc., 1878, p. 248. 11 Un insolito arricchimento del nostro materiale lo fornisce la scena di caccia
della Corte borgognona, di cui l’originale bruciò nel castello del Pardo presso Madrid; la copia è conservata nel castello di Versailles, e su questa vedi PAUL POST,
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“Ein verschollenes Tagdbild Jan van Eycks”, in Jahrbuch der Prussischen Kunstsammlungen, 1931, pp. 120 sgg. 12 FROISSART, a cura di Luce, VIII, p. 43. 13 FROISSART, a cura di Kervyn, XI, p. 367. Una variante legge “proviseurs” per
“peintres”, ma il contesto rende più probabile quest’ultima. 14 “Non si poteva consigliare né immaginare cosa per abbellirle che il signor
Trimouille non facesse fare alle sue navi. E la povera gente in Francia pagava tutto ciò.” [N.d.T.] 15 BETTY KURTH, “Die Blütezeit der Bildwirkerkunst zu Journay und der Burgundische Hof”, in Jahrbuch der Kunstsammlungen des Kaiser hauses, XXXIV, 1917, 3. 16 PIERRE DE FENIN, p. 624, di Bonne d’Artois: “Et avec ce ne portoit point d’est-
at sur son chief comment autres dames à elle pareilles”. 17 Le livre des trahisons, p. 156. 18 CHASTELLAIN, III, p. 375; LA MARCHE, II, p. 340; III, p. 165; D’ESCOUCHY, II, p.
116; vedi MOÜNIER, Les sources de l’hist. de France, nn. 3645, 3661, 3663, 5030; Inv. des arch, du Nord, IV, p. 195. 19 LA MARCHE, II, pp. 340 sgg. [“Perché grandi e onorevoli opere desiderano
durevole fama e perpetua memoria.” N.d.T.] 20 LABORDE, II, p. 326. 21 LA MARCHE, III, p. 197. [“E certamente fu un intermezzo molto bello, perché
dentro c’erano più di quaranta persone.” N.d.T.] 22 LABORDE, II, p. 375, n. 4880. 23 LABORDE, II, pp. 322, 329. 24 Sebbene il dato più autentico, il sigillo del maestro, riporti chiaramente Claus
Sluter, è difficile supporre che la forma Claus, poco olandese, sia quella originale del suo nome di battesimo. La provenienza da Haarlem di Sluter è, come si sa, ormai certa dopo il ritrovamento del suo nome nel registro di una corporazione di Bruxelles del 1380 circa. 25 Già nel 1405 fu dato in pegno a suo fratello il duca Luigi, e andò presto a fi-
nire in Baviera, dove è conservato nella chiesa di Altötting con il nome “das goldene Rössl”. 26 A. KLEINCLAUSZ, “Un atelier de sculpture au XVe siècle”, in Gazette des beaux
arts, t. 29, I, 1903. 27 Exod., 12.6; Ps., 21, 18; Is., 53, 7; Thren. 1, 22; Dan. 9, 26; Zach. 11, 12. 28 I colori scomparsi sono descritti minuziosamente in un rapporto redatto nel
1832. 29 A. KLEINCLAUSZ, “L’art funéraire de la Bourgogne au moyen âge”, in Gazette
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des beaux arts, t. 27, 1902. 30 v. ETIENNE BOILEAU, Le livre des métiers, a cura di de Lespinasse et Bonnar-
dot, Histoire générale de Paris, 1879 III2, p. XI. 31 G. COHEN, “Le livre de conduite du régisseur et le compte des dépenses pour
le mystère de la passion joué à Mons en 1501” in Publ. fac. des lettres de Strasbourg, fasc. 23, 1925. 32 CHASTELLAIN, V, p. 26; DOUTREPONT, p. 156. 33 JUVENAL DES URSINS, p. 378. 34 JACQUES DU CLERCQ, II, p. 280; Foulquart in D’HÉRICAULT, Oeuvres de Co-
quillart, I, p. 23. 35 LEFÈVRE DE S. REMY, II, p. 291. [“Saltando e salterellando in un modo bello a
vedersi.” N.d.T.] 36 Londra, National Gallery; Berlino, Kaiser Friedrich Museum. 37 Anche se vorremmo poter tradurre: “Jan van Eyck fu qui”, e vedere nel per-
sonaggio raffigurato lo stesso pittore, al riguardo gli argomenti pro e contro ripresi poco tempo fa (vedi “Revue de l’art”, 36, 1932, p. 187; “Gaz. des beaux arts”, 74, 1932, p. 42; “Burlington Magazin”, 1934, marzo, settembre, ottobre, dicembre) ancora non consentono, a mio avviso, una revisione dell’opinione corrente. 38 FROISSART, a cura di Kervyn, XI, p. 197. 39 P. DURRIEU, Les très riches heures de Jean de France, duc de Berry (Heures de
Chantilly), Paris 1904, p. 81. [“Un libro contraffatto, di un pezzo di legno bianco, dipinto come un libro, dove non ci sono fogli né scritti.” N.d.T.] 40 MOLL., Kerkgesch., II, pp. 313 sgg.; J.G.R. ACQUOY, Het klooster van Winde-
sheim en zijn invloed, 3 voll., II, Utrecht 187580, p. 249. 41 TOMMASO DA KEMPIS, Sermones ad novitios, n. 28, Opera, a cura di Pohl, t. VI, p. 287. 42 MOLL, op. cit., II, p. 321; ACQUOY, op. cit., p. 222. 43 CHASTELLAIN, IV, p. 218. [“Vestita di drappi d’oro e di ornamenti regali che
le si addicevano, e fingendo di essere la più mondana delle altre, prestando ascolto a tutte le parole di perdizione, come molte facevano, e mostrando esteriormente le stesse usanze delle dissolute e delle lascive, portava tutti i giorni il cilicio sulla sua pelle nuda, digiunava a pane e acqua molti giorni in segreto, e molte notti, quando suo marito era assente, dormiva sulla paglia del suo letto.” N.d.T.] 44 LA MARCHE, II, p. 398. 45 iVI, p. 369. [“Gli oltraggiosi eccessi e le spese fatti a causa di questi banchet-
ti” – “Aspirazione alla virtù.” N.d.T.] 46 CHASTELLAIN, IV, pp. 136, 275, 359, 361; v, p. 225; DU CLERCQ, IV, p. 7. 47 CHASTELLAIN, III, p. 332; DU CLERCQ, III, p. 56.
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48 CHASTELLAIN, V, p. 44; II, p. 281; LA MARCHE, II, p. 85; DU CLERCQ, III, p. 56. 49 CHASTELLAIN, III, p. 330. [“Soleva governare tutto da solo e trattare e con-
durre separatamente ogni cosa, sia di guerra, sia di pace, sia di finanza.” N.d.T.] 50 DU CLERCQ, III, p. 203. [“Il detto cancelliere fu reputato uno dei sapienti del
regno per la parte temporale; perché riguardo la spirituale taccio.” N.d.T.] 51 Gli editori di Bonaventura, a Quaracchi, danno come autore Giovanni de
Caulibus, un francescano di San Gimignano, morto nel 1376. 52 FACIUS, Liber de viris illustribus, a cura di L. Mehus, Firenze, 1745, p. 46; anche WEALE, Huber and John van Eyck, p. LXXIII.
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19. Il senso estetico
1 DIONIGI IL CERTOSINO, Opera, t. XXXIV, p. 223. 2 Op. cit., pp. 247, 230. 3 o. ZÖCKLER, “Dionys des Kartäuses Schrift De venustate mundi, Beitrag zur
Vorgeschichte der Aesthetik”, in Theol. Studien und Kritiken, 1881, p. 651; cfr. E. ANITCHKOFF, “L’est hétique au moyen âge”, in Le Moyen âge, XX, 1918, p. 271; M. GRABMANN, “Des Ul rich Engel berti von Strassburg O. Pr. Abhandlung De Pulchro”, in Sitzungsb. d. Bayer. Akademie, Phil. hist. kl. 1925; w. SEIFERTH, “Dantes Kunstl ehre”, in Archiv f. Kulturgeschichte, XVII, XVIII, 1927, 1928. 4 Summa theologiae, pars. Ia. q. XXXIX, art. 8. [“Poiché occorrono tre cose per
la bellezza. Per prima l’integrità o la perfezione, perché ciò che è incompleto è già di per sé brutto. Una debita proporzione o consonanza. E ancora una volta la chiarezza: perciò ciò che ha un colore nitido è chiamato bello.” N.d.T.] 5 DIONIGI IL CERTOSINO, Opera, I, Vita, p. XXXVI. 6 DIONIGI IL CERTOSINO, “De vita canonicorum”, art. 20, in Opera, t. XXXVII, p.
197; An discantus in divino obsequio sit commendabilis; cfr. S. TOMMASO, Summa theologiae, IIa, IIae, q. 91, art. 2: Ultrum cantus sint assumendi ad laudem divinam. 7 MOLINET, I, p. 73; fr. 67. [“Perché la musica è la risonanza dei cieli, la voce
degli angeli, la gioia del paradiso, la speranza dell’aere, l’organo della Chiesa, il canto degli uccellini, la ricreazione di tutti i cuori tristi e desolati, la persecuzione e la cacciata dei diavoli.” N.d.T.] 8 PETRI ALLIACI, “De falsis prophetis”, in Gerson, Opera, I, p. 358. 9 LA MARCHE, II, p. 361. 10 De venustate etc., t. XXXV, p. 242. 11 FROISSART, a cura di Luce, IV, p. 90; VIII, pp. 43, 58; XI, pp. 53, 129; a cura di
Kervyn, XI, pp. 340, 360; XIII, p. 150; XIV, pp. 157, 215. 12 DESCHAMPS, I, p. 153; II, p. 211; II, n. 307, p. 208; LA MARCHE, I, p. 274. 13 Livre des trahisons, pp. 150, 156; LA MARCHE, II, pp. 12, 347; III, pp. 127, 89;
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CHASTELLAIN, IV, p. 44; Chron. scand., I, pp. 26, 127. 14 LEFÈVRE DE S. REMY, II, pp. 294, 296. 15 COUDERC, “Les comptes d’un grand couturier parisien au XVe siècle”, in Bul-
letin de la Soc. de l’hist. de Paris, XXXVIII, 1911, pp. 125 sgg. 16 Blason des couleurs, a cura di Cocheris, pp. 83, 8788, 90, 97, 99, 108, 110,
113. 17 Per esempio MONSTRELET, V, p. 2; DU CLERCQ, I, p. 348. 18 LA MARCHE, II, p. 343; F.M. GRAVES, Deux inventaires de la maison d’Orléans,
p. 28. 19 CHASTELLAIN, VIII, p. 233; LA MARCHE, I, p. 276; II, pp. 11, 68, 345; DU CLERCQ, II, p. 197; JEAN GERMAIN, Liber de virtutibus, p. 11; JOUFFROY, Oratio, p.
173. 20 D’ESCOUCHY, I, p. 234. 21 Vedi l’inizio del nono capitolo. 22 Le miroir de mariage, XVII, vs. 1650; DESCHAMPS, Oeuvres, IX, p. 57. [“L’uno
si veste per lei di verde / L’altro di blu, l’altro di bianco, / L’altro si veste di rosso come sangue, / E quello che più la vuole avere / Per il suo gran dolore si veste di nero.” N.d.T.] 23 Chansons françaises du quinzième siècle, a cura di G. Paris (Soc. des anciens textes français), n. XL, 1875, p. 50; cfr. DESCHAMPS, IV, n. 415, p. 217, n. 419, ib., p. 223, ib., p. 227, n. 481, ib., p. 302, n. 728, p. 199; L’amant rendu cordelier, n. 62, p. 23; MOLINET, Faictz et Dictz, fol. 176. [“Dovrai vestirti di verde / È la livrea degli innamorati.” N.d.T.] 24 Blason des couleurs, p. 110. Sul simbolismo dei colori in Italia v. BERTONI,
l’Orlando Furioso, pp. 221 sgg. 25 Cent balades d’amant et de dame, n. 92; CHRISTINE DE PISAN, Oeuvres poétiq-
ues, III, p. 299. Cfr. DESCHAMPS, X, n. 52; L’histoire et plaisante cronicque du petit Jehan de Saintré, a cura di G. Hellény, Paris 1890, p. 415. [“Né dal vestir blu, né dal portar divise / Dipende il fatto di amare la propria dama, / Ma dal servir con cuore perfettamente leale / Lei sola, e difenderla dal biasimo. / …In questo consiste l’amore, non nel portare il blu, / Ma può essere che molti credano / Di poter coprire il male della falsità / Portando il blu.” N.d.T.] 26 Le Pastoralet, vs. 2054, p. 636; cfr. Les cent nouvelles nouvelles, II, p. 118:
“Craindroit très fort estre du rang des bleux vestuz, qu’on appelle communément noz amis”. [“Che colui che mi ha armato di cotta blu / E fatto mostrare a dito, sia ucciso.” N.d.T.] 27 Chansons du xve siècle, n. 5, p. 5, n. 87, p. 85. [“Sopra tutti i colori io amo il
tanè / Perché io l’amo e me ne sono abbigliata / E tutti gli altri ho messo in oblio /
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Ohimè! I miei amori non sono qui” – “Grigio e tanè posso ben portare / Perché sono tediato da speranza.” N.d.T.] 28 LA MARCHE, II, p. 207. [“E il duca fu avvertito che era contro di lui.” N.d.T.]
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20. L’immagine e la parola
1 Su questo punto vedi il mio Het probleem der Renaissance, in Verzamelde
Werken, IV, pp. 231 sgg. 2 La Renaissance septentrionale et les premiers maîtres des Flandres, Bruxelles
1905. 3 ERASMUS, Ratio seu methodus compendio perveniendi ad veram theologiam, ed.
Basilea 1520, p. 146. 4 E. DURAND-GRÉVILLE, Hubert et Jean van Eyck, Bruxelles 1910, p. 119. [“Se,
attirati dalla curiosità e imprudenti, ci avviciniamo un po’ troppo è finita, rimarremo presi per tutto il tempo che può durare lo sforzo di un’attenzione continuata; estasiati davanti alla finezza del dettaglio; si osservano, uno per uno, i fiori della corona della Vergine, un’oreficeria di sogno; figura per figura, i gruppi che riempiono, senza appesantirli, i capitelli dei pilastri; fiore per fiore, foglia per foglia, le ricchezze dell’aiuola; l’occhio stupefatto scopre, tra la testa del divin Bambino e la spalla della Vergine, in una città piena di comignoli e di campanili eleganti, una grande chiesa dai numerosi contrafforti, un’ampia piazza tagliata in due per tutta la sua larghezza da una scala dove vanno e vengono e corrono innumerevoli piccoli colpi di pennello che sono altrettante figure vive; è attirato da un ponte a schiena d’asino carico di gente che si affretta e si incrocia; segue i meandri di un fiume solcato da minuscole barche, in mezzo al quale, su un’isola più piccola dell’unghia di un bambino, si innalza, cinto d’alberi, un castello signorile dai numerosi torrioni; percorre, a sinistra, una banchina alberata e popolata di gente a passeggio; va sempre più lontano; oltrepassa una a una le creste delle colline verdeggianti; si riposa un momento su una linea lontana di monti nevosi, per perdersi finalmente nell’infinito di un cielo appena blu, dove sfumano nuvole fluttuanti” – “E quando il giorno declina, un minuto prima che la voce dei guardiani venga a mettere fine alla vostra contemplazione, vedete come il capolavoro si trasfiguri nella dolcezza del crepuscolo; come il suo cielo diventi ancora più profondo; come la scena principale, i cui colori sono svaniti, si immerga nell’infinito mistero dell’Armonia e dell’Unità.” N.d.T.]
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5 Vedi l’inizio del XVI capitolo. 6 ALAIN CHARTIER, Oeuvres, a cura di Duchesne, p. 594. [“Per dimenticare ma-
linconia, / E per farmi più allegro, / Un dolce mattino uscii per i campi / Sul far del giorno quando amore riunisce / I cuori nella stagione graziosa…” – “Tutt’intorno gli uccelli volavano, / E sì dolcemente cantavano, / Che ogni cuore ne era lieto. / E cantando si levavano in aria / E poi l’uno sormontava l’altro / Gareggiando fra loro. / Il tempo non era nuvoloso, / Di blu era vestito il cielo, / E il bel sole chiaro risplendeva” – “Guardavo gli alberi fiorire, / E lepri e conigli correre. / Della primavera ogni cosa gioiva; / Là amore sembrava signoreggiare. / Nessuno vi può invecchiare né morire, / Così mi pare, finché vi stia. / Dalle erbe un dolce profumo veniva, / Che l’aria serena addolciva / E mormorando per la vallata / Un piccolo ruscello passava / Che i paesi bagnava / E la sua acqua non era salata / Lì bevevano gli uccelletti / Dopo aver fatto il loro pasto / Di grilli, moscerini e farfalle. / Falchi, avvoltoi, merigli / Vidi, mosche con pungiglioni (sic) / Che di bel miele / Fecero un padiglione negli alberi su misura. / Dall’altra parte c’era un recinto / Di un prato grazioso, dove natura / Seminò i fiori sul verde, / Bianchi, gialli, rossi e persi. / D’alberi fioriti cinto, bianchi come se pura neve / Li coprisse, e sembrava una pittura / Tanti vari colori c’erano.” N.d.T.] 7 “Uomo fiammingo, uomo di paludi bestiali, ignorante, balbuziente, grossola-
no di bocca e di palato e tutto infangato di altre miserie corporali secondo la natura della terra” [N.d.T.]. CHASTELLAIN, I, pp. 1112; IV, pp. 21, 393; VII, p. 160; LA MARCHE, I, p. 14; MOLINET, I, p. 23. 8 JEAN ROBERTET, in Chastellain, VII, p. 182. [“Quella grossa campana altiso-
nante.” N.d.T.] 9 CHASTELLAIN, VII, p. 219. 10 Il 17 gennaio. 11 CHASTELLAIN, III, pp. 231 sgg. [“Il duca dunque, un lunedì che era il giorno
di Sant’Antonio, dopo la messa, desiderando che la sua casa restasse pacifica e senza dissensi fra i suoi servitori, e che anche suo figlio agisse secondo il suo parere e piacere, dopo aver detto gran parte dell’uffizio delle ore canoniche e che la cappella si era vuotata di gente, fece venire suo figlio e gli disse dolcemente: ‘Carlo, a proposito della gara che c’è tra il sire di Sempy e il sire di Hémeries per il posto di ciambellano, io voglio che voi ci mettiate fine e che il sire di Sempy ottenga il posto vacante’. Allora il conte disse: ‘Monsignore, voi mi avete affidato una volta il vostro ordine nel quale il sire di Sempy non c’entra, e, monsignore, se non vi dispiace, vi prego che io possa conservarlo’ ‘Via,’ disse allora il duca, ‘lasciate stare gli ordini, spetta a me aumentare e diminuire, io voglio che il sire di Sempy vi sia messo.’ – ‘Ah! Ah!,’ disse il conte (perché imprecava sempre così), ‘monsignore, io ve ne prego, perdonatemi, poiché io non potrei farlo, mi attengo a ciò che mi avete ordinato. È stato il signor di Croy a tramare questo, lo vedo bene.’ ‘Come,’ disse il duca, ‘voi mi disubbidirete? Non farete ciò che voglio io?’ ‘Monsi-
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gnore, io vi ubbidirò volentieri, ma non lo farò.’ E il duca, a queste parole, furibondo rispose: ‘Ah! giovanotto, disubbidiresti alla mia volontà? Via dal mio sguardo’ e il sangue, con le parole, gli si strinse al cuore, e divenne pallido e poi, di colpo, infuocato e così spaventevole nel viso, come l’udii raccontare dal chierico della cappella che solo era presso di lui, che era orribile a guardarlo…” N.d.T.] 12 Questo “clerc de la chapelle” Caron appare come uno dei narratori delle Cent
nouvelles nouvelles. 13 CHASTELLAIN, III, p. 46; III, p. 104; v, p. 259. [“Eh, signora, monsignore mi
ha proibito di comparire davanti ai suoi occhi ed è indignato con me, cosicché, dopo un tale divieto, non ci ritornerò tanto presto, anzi me ne andrò sotto la guida di Dio, non so dove.” – “Amico mio, presto, presto apriteci, bisogna partire o siamo morti.” – “I giorni di quella stagione erano corti ed era già notte fonda quando il principe montò direttamente a cavallo, e non chiese altro che di rimanere solo in mezzo ai campi. E il caso volle che proprio quel giorno, dopo un lungo e aspro gelo, ci fu il disgelo, e una spessa brina che era caduta tutto il giorno si mutò verso sera in una pioggia fine, che però bagnava bene e inzuppava i campi e rompeva il ghiaccio col vento che s’intrometteva.” – “Ma più si avvicinava, più sembrava cosa orrida e spaventosa, poiché il fuoco partiva da una collinetta da più di mille luoghi, con grande fumo; e nessuno a quell’ora poteva pensare se non che fosse o il purgatorio di qualche anima o altra illusione del nemico…”. N.d.T.] 14 CHASTELLAIN, V, pp. 269, 271, 273. 15 “Moltitudine di facce in elmi arrugginiti, che racchiudevano barbe digri-
gnanti, con labbra serrate.” [N.d.T.] 16 Vedi le riproduzioni in A. MICHEL, Histoire de l’art, etc., IV, 2, Paris 1907, p.
711 e P. DURIEU, “Le belles heures du duc de Berry”, in Gazette des beaux arts, t. XXXV, 1906, p. 283. 17 FROISSART, a cura di Kervyn, XIII, p. 50; XI, p. 99; XIII, p. 4. [“Quando egli
intese la notizia che la loro città era stata presa – ‘E da quale gente?’ – domandò. Risposero quelli che gli parlavano: ‘Sono bretoni!’ – ‘Ah,’ fece, ‘i bretoni sono mala gente, saccheggeranno e bruceranno la città e poi partiranno.’ ‘E qual era il loro grido di guerra?’ disse il cavaliere: ‘Certo, signore, gridavano La Trimouille!’ / ‘Monsignore, Gastone è morto.’ ‘Morto?’ disse il conte. – ‘Certamente, egli è morto davvero, monsignore.’ / Così gli domandò, in nome dell’affetto e della parentela, consiglio – ‘Consiglio,’ rispose l’Arcivescovo, ‘certo, nipoti cari, è troppo tardi. Voi volete chiudere la stalla quando il cavallo è perduto.’” N.d.T.] 18 Autore anonimo stampato in Deschamps, Oeuvres, X, n. 18; cfr. VILLON, Le
débat du cuer et du corps, e anche CHARLES D’ORLÉANS, Rondeau 192. [“Morte, io mi lamento. – Di che? – Dite. / Che cosa ti ho fatto? – La mia donna hai preso. / È vero – Dimmi perché. / Mi piaceva. – Hai fatto male.” N.d.T.] 19 Variante: “Monstre paix”.
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20 “Sire… – Che vuoi? – Ascoltate… – Che cosa? – Il mio caso. / – Or di’. – Io
sono… – Chi? – La distrutta Francia! / – Da chi? – Da voi. – Come? – In tutti gli stati. / – Tu menti. – No. – Chi lo dice? – La mia sofferenza. / – Che soffri tu? – Disgrazia. – Quale? – A oltranza. / – Non ci credo. – È evidente – Non parlar più! / Ohimè! Lo farò. – Tu perdi tempo. – Quale abuso! – Che cosa ho fatto di male? – Contro la pace. – E come? – / – Guerreggiando… – Chi? – I vostri amici e conoscenti. / – Di’ qualcosa di più bello. – Non posso, veramente.” [N.d.T.]. Ed. del 1522, fol. 101, in A. DE LABORDERIE, Jean Meschinot, etc., Bibl. de l’école des chartes, LVI, 1895, p. 301. Cfr. le ballate di HENRY BAUDE, a cura di Quicherat (Trésor des pièces rares ou inédites, Paris 1856), pp. 26, 37, 55, 79. 21 FROISSART, a cura di Luce, I, pp. 56, 66, 71; XI, p. 13, a cura di Kervyn, XII,
pp. 2, 23; cfr. anche DESCHAMPS, III, p. 42. 22 FROISSART, a cura di Kervyn, XI, p. 89. 23 P. DURRIEU, Les très-riches heures de Jean de France duc de Berry, 1904, fig.
38. 24 RE RENATO, Oeuvres, a cura di Quatrebarbes, II, p. 105. [“E d’altra parte, i
contadini al lavoro / Cantano a voce alta, senza soste / Rallegrando / I loro bovi, i quali svegli vanno arando / La terra grassa, che dà il buon frumento. / E quindi li vanno chiamando / Ognuno col suo nome: / L’uno Rossiccio e l’altro Grigio, / Brunetto, Bianchetto, Biondiccio o Compagnone. / Poi li toccano talvolta col pungiglione / Per farli avanzare.” N.d.T.] 25 DESCHAMPS, I, nn. 61, 144; III, nn. 454, 483, 524; IV, nn. 617, 636. 26 Re Renato dice, fantasticando di un castello, “le Chastel de Plaisance”, che
esso era proprio come quello di Saumur. Oeuvres, III, p. 146. 27 DURRIEU, op. cit., pp. 3, 9, 12. 28 “Il suo figlio maggiore, il Delfino di Vienna / Diede a questo luogo il nome
di Bellezza / E a buon diritto, poiché è molto dilettevole: / Vi si ode chiaramente l’usignolo cantare; / La Marna lo circonda, gli alti e ricchi boschi / Del nobile parco si possono veder dondolare… / I prati sono vicini, i giardini ameni, / I bei cortili, fontane belle e chiare, / Vigne e terre da arare, / Mulini che girano, pianure belle da vedere.” [N.d.T.] 29 DESCHAMPS, VI, n. 1204, p. 191. [“Ohimè! Si dice che io non faccio più nulla,
/ Io che già feci molte cose nuove; / La ragione è che non ho più materia / Da cui possa trarre cosa buona o bella.” N.d.T.] 30 FROISSART, a cura di Luce, V, p. 64; VIII, pp. 5, 48; XI, p. 110, a cura di Kervyn, XIII, pp. 14, 21, 84, 102, 264. 31 FROISSART, a cura di Kervyn, XV, pp. 54, 109, 184; XVI, pp. 23, 52, a cura di
Luce, I, p. 394. [“Saggio, freddo e ingegnoso, e lungimirante nei propri affari.” N.d.T.]
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32 FROISSART, XIII, p. 13. [“Così messer Giovanni di Blois ebbe una donna e una
guerra che troppo gli costarono.” N.d.T.] 33 G. DE MACHAUT, Poésies lyriques, a cura di Chichmaref (Zapinski ist. fil. fa-
kulteta imp. S. Peterb. universiteta XCII, 1909), n. 60, I, p. 74. [“Allontanandomi da voi il mio cuore vi lascio / E me ne vo dolente e piangente. / Per servirvi, senza ritrarmi mai, / Allontanandomi da voi il mio cuore vi lascio. / E per la mia anima, io non avrò né bene né pace / Fino al ritorno, così sconfortato / Allontanandomi da voi il mio cuore vi lascio / E me ne vo dolente e piangente.” N.d.T.] 34 LA BORDERIE, op. cit., p. 618. [“Mi amerete veramente, / Dite, sulla vostra
anima? / Poiché io vi amo / Più di ogni altra cosa. / Mi amerete veramente? / Dio pose tanto bene / In voi, che è balsamo. / Perciò io mi dico / Vostro. Ma quanto / Mi amerete voi veramente?”. N.d.T.] 35 CHRISTINE DE PISAN, Oeuvres poétiques, I, p. 276. [“Tu sia il benvenuto /
Amor mio, ora abbracciami e baciami, / Come sei stato / Dopo la tua partenza? Sano e contento / Sei stato sempre? Vieni qui, / Accanto a me, siediti e raccontami / Come sei stato, male o bene / Perché di ciò voglio aver conto. / / / Mia dama, a cui io sono legato / Più che ad altra, a nessuno dispiaccia, / Sappiate che il desiderio m’ha tenuto / Così male che giammai io ebbi tale sofferenza / Né piacere potevo provare in qualcosa / Lontano da voi. Amore, che domina i cuori, / Mi diceva: Lealtà mi tiene, / perché di ciò voglio aver conto. / / / Poiché hai mantenuto il tuo giuramento, / Ti ringrazio per San Nicosio; / E poiché sei tornato sano / Gioiremo insieme; ora calmati / E dimmi se sai di quanto / Il male che hai avuto sia superiore / A quello che ha sofferto il mio cuore, / Poiché di ciò voglio aver conto.” N.d.T.] 36 Ivi, I, n. 30, p. 164. [“Oggi è un mese / Che il mio amico se ne è andato / Il mio cuore rimane triste e dolente; oggi è un mese. / ‘Addio, mi disse, io me ne vado’; Né altro mi disse, / Oggi è un mese.” N.d.T.] 37 Ivi, I, n. 5, p. 275. [“Amico mio, non piangete più; / Perché tanta pietà mi
fate / Che il mio cuore si abbandona rassegnato / Alla vostra dolce amicizia. / Assumete fare diverso; / Per Dio, non vi lamentate / E mostratemi una buona cera; / Voglio ciò che volete voi.” N.d.T.] 38 Ivi, I, n. 5, p. 275. [“Quando ognuno ritorna dall’esercito / Perché tu resti
indietro? / E sai che tutto il mio amore / T’ho affidato in custodia e in deposito.” N.d.T.] 39 FROISSART, Poésies, a cura di Schéler, II, 216. [“Froissart dalla Scozia ritorna-
va / Su un cavallo che era grigio, / Un bianco levriero portava al laccio. / ‘O, disse il levriero, io sono stanco, / Grigetto, quando ci riposeremo? / È ora di mangiare.’” N.d.T.] 40 P. MICHAULT, La dance aux aveugles etc., Lille 1748. 41 Recueil de poésies françoises des XVe et XVIe siècles, a cura di de Montaiglon
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(Bibl. elzévirienne), t. IX, p. 59. [“Le ossa siamo dei poveri trapassati, / Qui ammassati in mucchi ben ordinati, / Rotti, spezzati, senza regolo né compasso.” N.d.T.]
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21. La parola e l’immagine
1 La trappola per topi tra l’altro potrebbe essere interpretata in chiave simboli-
ca. Pietro Lombardo, Sententiae lib. in dist. 19, menziona un detto: Dio fece una trappola per topi per il diavolo, in cui l’esca era la carne umana di Cristo. 2 DESCHAMPS, VI, n. 1202, p. 188. [“È una strana melodia / Che non sembra un
gran divertimento / Per gente che sta male. / Prima i corvi fanno sapere / Con certezza quando inizia il giorno; / Gridano forte quanto possono, / Il grande e il piccolo, senza sosta; / Meglio sarebbe il suono di un tamburo / Che quelle grida di diversi uccelli. / Poi arriva il bestiame; vacche, vitelli, / Che gridano, mugghiano tutta la notte, / Quando si ha il cervello troppo vuoto. / Giunge dalla chiesa il suono / Che ogni intendimento distrugge / A gente che sta male – È un ostello freddo e malridotto / Per gente che sta male.” N.d.T.] 3 FROISSART, Poésies, I, p. 91. “Espinette” qui indica una gabbia di vimini in cui
viene ingrassato un uccello. 4 FROISSART, a cura di Kervyn, XIII, p. 22. 5 DESCHAMPS, I, p. 196, n. 90, p. 192, n. 87; IV, p. 294, n. 788; V, nn. 903, 905,
919; VII, n. 1375, p. 220, cfr. II, p. 86, n. 250, n. 247. 6 FRIEDLÄNDER, Die Altniederländische Malerei, I, S. 77, lo colloca tra i pezzi
“im frühen Eyck-stil”. Il quadro appartenne a Philippe de Commines. 7 DURRIEU, Les très riches heures, figg. 2728, 3839, 60. 8 DESCHAMPS, V, n. 1060, p. 351; V, n. 844, p. 15. [“Avanti, avanti! Avvicinatevi
qui. / Vedo una meraviglia, così mi pare. / – E, guardia, che cosa vedi lì? / – Vedo diecimila ratti insieme / E molti topi che si riuniscono / Sopra la riva del mare…” N.d.T.] 9 CHASTELLAIN, III, pp. 256 sgg. 10 Vedi l’importante saggio di A. WARBURG, “Arbeitende Bauern auf burgundi-
schen Teppichen”, in Gesamm. Schriften, I, p. 221. 11 Journal d’un bourgeois, p. 3252.
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12 DESCHAMPS, VI, nn. 1229, 1230, 1233, 1259, 1299, 1300, 1477, pp. 230, 232,
237, 279; VII, pp. 52, 54; VIII, p. 182; cfr. GAGUIN, De validorum mendicantium astucia, THUASNE, II, pp. 169 sgg. 13 DESCHAMPS, II, n. 219, p. 44; I, n. 2, p. 71. [“Mi si domanda ogni giorno /
Che me ne sembra del tempo che vedo / E io rispondo: è tutto onore, / Lealtà, verità e fede, / Larghezza, prodezza / buon ordine / Carità e bene che progredisce / Per il bene comune: ma, in fede / Non dico tutto quello che penso” – “Tutti questi punti intendili a rovescio.” N.d.T.] 14 Ivi, IV, n. 786, p. 291. [“È un grande peccato biasimare così il mondo” –
“Principe, se è dappertutto generalmente / Come io dico, ogni virtù abbonda / Ma chi mi ascolta direbbe: Egli mente…” N.d.T.] 15 Bibliothèque de l’école des chartes 2e série, III, 1846, p. 70. [“Sotto una pittura
meschina fatta con colori cattivi e dal pittore più meschino del mondo, in modo ironico, dal maestro Jehan Robertet.” N.d.T.] 16 “L’amante abbandonato e respinto.” [N.d.T.] 17 Proverbia, 14, 13. 18 ALAIN CHARTIER, La belle dame sans mercy, pp. 503505; cfr. Le débat du re-
veille-matin, p. 498; Chansons du XVe siècle, n. 73, p. 71; L’amant rendu cordelier à l’observance d’amours, vs. 371; MOLINET, Faictz et dictz, ed. 1537, f. 172. [“Non ho bocca che possa ridere, / Che gli occhi non la smentiscono: / Poiché il cuore la vorrebbe disdire / Con le lacrime che escono dagli occhi.” – “Di far buon viso si sforzava / E mostrava una gioia finta, / E a cantare il suo cuore forzava / Non per piacere, ma per timore, / Poiché sempre un residuo di pianto / Si univa al tono della sua voce / E ritornava al suo proposito / Come l’uccello al canto del bosco.” N.d.T.] 19 ALAIN CHARTIER, Le débat des deux fortunes d’amours, p. 581. [“Questo li-
bretto vuole dettare e far scrivere / Per passare il tempo senza animo vile / Un semplice chierico che si chiama Alain / Che parla così d’amore per sentito dire.” N.d.T.] 20 RE RENATO, Oeuvres, a cura di Quatrebarbes, III, p. 194. [“E mi disse tutto
sorridente / Di dormire solamente / E di non avere alcuna paura / Di morire per quel male.” N.d.T.] 21 CHARLES D’ORLÉANS, Poésies complètes, p. 68. [“Io sono colui che ha il cuore
vestito di nero…” N.d.T.] 22 Op. cit., ballata n. 19, p. 88. [“Un giorno parlavo al mio cuore / Che in seguito mi rispondeva, / E parlando gli domandavo / Se avesse messo da parte / Qualche bene quando serviva Amore: / Mi rispose che molto volentieri / Mi avrebbe raccontato la verità / Dopo aver esaminato le sue carte. / Quando mi ebbe detto ciò, prese la sua via / E da me partì. / Poi lo vidi entrare / In un ufficio di
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conti che aveva: / Di qua e di là cercava, / Sfogliando vecchi quaderni / Poiché il vero mi voleva mostrare, / Dopo aver esaminato le sue carte…” N.d.T.] 23 Op. cit., chanson, n. 62. [“Non bussate più all’uscio del mio pensiero, / Cura
e affanno, senza affaticarvi tanto; / Poiché esso dorme e non vuole svegliarsi, / Tutta la notte in pena ha consumato. / È in pericolo, se non è ben curato; / Smettete, smettete, lasciatelo dormire; / Non bussate più all’uscio del mio pensiero, / Cura e affanno, senza affaticarvi tanto…” N.d.T.] 24 Ai dubbi che ho espresso nelle precedenti edizioni, basati su ragioni di quali-
tà, ora sostituisco la certezza, appellandomi al giudizio di P. CHAMPION, Histoire poétique du xve siècle, I, p. 365. 25 Da leggere “boutoit”? Cfr. ALAIN CHARTIER, p. 459: “Ou se le vent une fene-
stre boute Dont il cuide que sa dame l’escoute S’en va coucher joyeulx…”. 26 Ottave 51, 53, 57, 167, 188, 192, a cura di de Montaiglon (Soc. des anc. textes français), 1881. [“E poi, quando udivo le vetrate / Della casa tintinnare, / Allora mi sembrava che le mie preghiere / Fossero state esaudite da lei” / / / / “Così, Dio mi aiuti, io ero tanto rapito, / Che non sapevo dei miei sensi né del mio essere, / Poiché, senza parlare, mi pareva / Che il vento aprisse la sua finestra / E che mi avesse certamente riconosciuto; / Dicendomi sottovoce: – Buona notte! – / E Dio sa se io ero un gran signore, / Dopo, tutta la notte.” / / / “Ero talmente ristorato, / Che, senza rivoltarmi né affaticarmi, / Facevo un sonno dorato, / Senza punto risvegliarmi la notte, / E poi, prima di vestirmi, / Per rendere lode ad Amore, / Baciavo tre volte il mio guanciale, / E ridendo nel mio intimo agli angeli” / / / “Gli altri, per nascondere il loro male / A forza trattenevano i loro cuori, / Passando il tempo a chiudere e aprire / Il libro delle ore che avevano in mano, / Di cui spesso rivoltavano i fogli, / In segno di devozione; / Ma i lamenti e i pianti che menavano / Mostravano bene i loro affanni” / / / “Dolci occhi che sempre vanno e vengono; / Dolci occhi che infiammano la pelle / Di coloro che si innamorano… / Dolci occhi rilucenti come perle, / Che dicono: È fatto quanto tu vorrai, / A coloro che sentono ben potenti…” N.d.T.] 27 Museo di Lipsia, n. 509. 28 “E la cupidigia non volle lasciar loro nemmeno le brache, malgrado valessero
4 denari; e fu una delle più grandi crudeltà e disumanità cristiane di cui si possa parlare.” [N.d.T.] Il Prof. Hesseling mi fece notare che qui, oltre il senso del pudore, entra probabilmente in gioco anche un altro concetto, ossia quello che il morto non potrà presentarsi al Giudizio Universale senza camice, e mi indicò un passo greco del VII secolo (Johannes Moschus c. 78, MIGNE, Patrol. graeca, t. LXXXVII, p. 2933 D), che forse potrebbe trovare dei riscontri in paralleli occidentali. D’altro canto va detto che nelle rappresentazioni della Resurrezione, nelle miniature e in pittura, i corpi resuscitano sempre nudi dai sepolcri. Teologia e arte avevano pareri discordanti sulla questione della nudità durante il Giudizio Universale, vedi G.G. COULTON,
592
Art and the Reformation, Oxford 1925, pp. 255258. Sul portale del Duomo di Basilea si vedono i risorti intenti appunto a vestirsi per il Giudizio. 29 J. VETH e S. MULLER Fz., A Dürer’s Niederländische Reise, BerlinUtrecht, 2
voll., I, 1918, p. 13. 30 CHASTELLAIN, III, p. 44. [“Tutte nude e scapigliate come le dipingono.”
N.d.T.] 31 Chron. scand., I, p. 27. [“E c’erano poi tre bellissime figlie che rappresentava-
no delle sirene, completamente nude, e si vedevano i loro bei seni dritti, separati, tondi e turgidi, che era cosa molto piacevole, e recitavano piccoli mottetti e pastorelle; e vicino a loro suonavano degli strumenti bassi che rendevano grandi melodie.” N.d.T.] 32 MOLINET, V, p. 15. [“Ma il palco che la gente guardava con più piacere era quello della storia delle tre dee, rappresentate nude da donne viventi.” N.d.T.] 33 LEFÈVRE, Théâtre de Lille, p. 54; in Doutrepont, p. 354. 34 TH. GODEFROY, Le cérémonial françois, 1649, p. 617. 35 J.B. HOUWAERT, Declaratie van die triumphante Incompost van den… Prince
van Oraingnien, etc., Plantijn, Antwerpen 1579, p. 39. 36 Qui lasciamo da parte la tesi di Émile Mâle riguardo all’influenza delle rap-
presentazioni teatrali sulla pittura. 37 P. DURRIEU, Gazette des beaux arts, t. XXXV, 1906, p. 275. 38 CHRISTINE DE PISAN, Épître d’Othéa à Hector, Ms. 9392 de Jean Miélot, a cura
di J. van den Gheyn, Bruxelles 1913. 39 Op. cit., figg. 5, 8, 2426. 40 VAN DEN GHEYN, Épître d’Othéa, ed. cit., figg. 1 e 3; MICHEL, Histoire de
l’art; IV, 2, p. 603; Michel Colombe, monumento tombale nella cattedrale di Nantes, e, a p. 616, figura della “Temperantia” sul monumento sepolcrale dei cardinali di Amboise nella cattedrale di Rouen. 41 Cfr. il mio articolo “Uit de voorgeschiedenis van ons nationaal besef”, in De
Nederlandse Natie, Haarlem 1960 [Verzamelde Werken]. 42 CHASTELLAIN, VI, Exposition sur vérité mal prise, p. 249. [“Questa dama mo-
strava di avere condizioni decise, ragioni molto acute e mordenti; digrignava i denti e si mordeva le labbra: faceva sovente cenni con la testa; e, mostrando di essere abile nell’argomentare, saltellava sui piedi e si girava, ora da un lato ora dall’altro; il suo atteggiamento era impaziente e contraddittorio; aveva l’occhio destro chiuso e l’altro aperto; aveva davanti a sé un sacco pieno di libri, alcuni dei quali li mise nella sua cintura come cari, altri li gettò via per dispetto: strappò carte e fogli; gettò quaderni al fuoco in modo inconsulto; rideva sui primi e li baciava; sugli altri sputava villanamente e li calpestava coi piedi; aveva in mano una penna, piena d’inchiostro, con la quale cancellava molte scritture importanti…; con una spu-
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gna inoltre imbrattava alcune immagini, altre le scrostava con le unghie,… e altre le tagliava di netto e le appianava come per cancellarle dalla memoria; e si mostrava dura e implacabile nemica verso molta gente perbene, più per volontà che per ragione.” N.d.T.] 43 Le livre de paix, CHASTELLAIN, VII, p. 375. 44 Advertissement au duc Charles, CHASTELLAIN, VII, pp. 304 sgg. 45 CHASTELLAIN, VII, pp. 237 sgg. 46 MOLINET, Le miroir de la mort, frammento in Chastellain, VI, p. 460. 47 CHASTELLAIN, VII, p. 419. 48 DESCHAMPS, I, p. 170. [“Dottore, come sta il Diritto? / – Sulla mia anima, è
malridotto… / – E Ragione che fa? / – Ha perso il senno, / Parla, ma flebilmente, / E Giustizia è completamente idiota…”. N.d.T.] 49 Le Pastoralet, vs. 501, 7240, 5768. 50 Cfr. per la commistione di pastorale e di politica DESCHAMPS, III, p. 62, n.
344, p. 93, n. 359. 51 MOLINET, Chronique, IV, p. 307. [“E così Sluis rimase nella pace in essa rac-
chiusa, perché da essa la guerra fu esclusa più solitaria di una reclusa.” N.d.T.] 52 Citato da E. LANGLOIS, Le roman de la Rose (Soc. des anc. textes), I, 1914, p. 33. [“E affinché io non perda il frumento del mio lavoro e la farina che viene macinata possa avere il fiore salutare, io ho intenzione, se Dio mi concederà la sua grazia, di girare e convertire sotto le mie rudi macine il vizioso in virtuoso, il corporale in spirituale, la mondanità in divinità e soprattutto di moralizzarla. E così noi estrarremo il miele dalla dura pietra, e la rosa vermiglia dalle pungenti spine, dove troveremo grano e seme, frutto, fiore e foglia, soavissimo odore, odorosa verdura, verdeggiante fioritura, fiorente nutrimento, nutriente frutto e fruttifera pastura.” N.d.T.] 53 Recueil de Chanson, etc. (Soc. des Bibliophiles belges), III, p. 31. [“Là presi
febbre di ricordo / E catarro di dispiacere, / Una emicrania di sofferenza, / Colica di un’impazienza, / Mal di denti insopportabile, / Il mio cuore non può più sopportare / Il rimpianto del mio destino / Per l’insolito dolore.” N.d.T.] 54 LA BORDERIE, op. cit., pp. 603, 632.
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22. L’avvento della nuova forma
1 N. DE CLEMANGES,
Opera, a cura di Lydius, Lugd. Bat., 1613; JOH. DE
MONASTERIOLO, Epistolae, Martène et Durand, Amplissima Collectio, II, col. 1310. 2 Ep. 69, col. 1447, ep. 15, col. 1338. 3 Ep. 59, col. 1426, 58, col. 1423. 4 Ep. 40, col. 1388, 1396. 5 Ep. 59, 67, col. 1427, 1435. 6 Le livre du Voir-Dit, p. XVIII. 7 Cfr. il IV capitolo. 8 Cfr. il XIV capitolo. 9 GERSON, Opera, I, p. 922. 10 Ep. 38, col. 1385. 11 DIONIGI IL CERTOSINO, t. XXXVII, p. 495. 12 PETRARCA, Opera, ed. Basilea 1581, p. 847; CLEMANGES, Opera, Ep. 5, p. 24; J. DE MONTR., Ep. 50, col. 1428. 13 CHASTELLAIN, VII, pp. 75143; cfr. V, pp. 3840; VI, p. 80; VIII, p. 385, Le livre
des trahisons, p. 145. 14 MACHAUT, Le Voir-Dit, p. 230; CHASTELLAIN, VI, p. 194; LA MARCHE, III, p.
166; Le Pastoralet, vs. 2806; Le Jouvencel, I, p. 16. 15 Le Pastoralet, vs. 541, 4512. 16 CHASTELLAIN, III, pp. 173, 117, 359, etc.; MOLINET, II, p. 207. 17 J. GERMAIN, “Liber de virtutibus Philippi ducis Burgundiae”, in Chron. rel. à
l’hist. de Belg. sous la dom. de ducs de Bourg., III. 18 Chronique scandaleuse, II, p. 42. 19 CHRISTINE DE PISAN, Oeuvres poétiques, I, n. 90, p. 90. 20 Pandaro fa appunto l’intermediario nel racconto di Troilo e Cressida di
595
Chaucer e ha un ruolo importante; il vocabolo inglese pander (mezzano) sembra risalire a questo nome. 21 DESCHAMPS, II, n. 285, p. 138. [“O Socrate pieno di filosofia / Seneca di co-
stumi e Anglico di condotta, / Ovidio grande nella tua poesia / Breve nel parlare, saggio in retorica, / Aquila altissima, che con la tua teoria / Illumini il regno d’Enea, / L’Isola dei Giganti, quelli di Bruto, e che hai / Seminato i fiori e piantato il rosaio, / Per gli ignoranti della lingua un Pandaro, / Grande traduttore, nobile Geoffrey Chaucer! /… / A te della fonte d’Elicona / Chiedo di avere un beveraggio autentico, / Il cui condotto è tutto in tua balia, / Per placare la mia sete etica / Io che in Gallia sarò paralitico / Finché tu mi abbevererai.” N.d.T.] 22 VILLON, a cura di Longnon, ottave 3638, p. 51; RABELAIS, Pantagruel, op. cit.,
c. 6. 23 CHASTELLAIN, V, pp. 292 sgg.; LA MARCHE, Parement et triumphe des dames,
Prologue; MOLINET, Faictz et Dictz, Prologue; id., Chronique, I, pp. 27, 10, 54. 24 Estratti in CHASTELLAIN, Oeuvres, a cura di Kervyn de Lettenhove, VII, pp. 145186; vedi P. DURRIEU, “Un barbier de nom français à Bruges”, in Académie des inscriptions et belles lettres, Comptes rendus, 1917, pp. 542-558. 25 CHASTELLAIN, VII, p. 146. [“Mi sono riposato per un po’ di tempo nella no-
stra casa, durante una partita del freddo nebbioso.” N.d.T.] 26 Ivi, p. 180. [“Colpito agli occhi da uno splendore terribile / Toccato al cuore
da eloquenza incredibile, / Che il senso umano difficilmente può produrre, / Tutto offuscato da luce fiammeggiante / Che con raggi penetranti fino all’impossibile / Nel corpo oscuro che giammai può rilucere, / Rapito, astratto mi trovo nella mia gioia / In estasi con il corpo giacente in terra, / Flebile spirito intento a ricercare / La via per trovare il luogo e l’opportuna uscita / Dello stretto passo in cui mi sono serrato, / Preso nella rete che il vero amore ha tessuto” / / / “Non c’è splendore uguale al carro di Febo?” / / / “la tuba di Anfione, il flauto di Mercurio che fece addormentare Argo.” N.d.T.] 27 LA MARCHE, I, pp. 15, 184186; MOLINET, I, p. 14; III, p. 99; CHASTELLAIN, VI,
Exposition sur vérité mal prise; VII, pp. 76, 29, 142, 422; COMMINES, I, p. 3; cfr. DOUTREPONT, p. 24. 28 CHASTELLAIN, VII, p. 159. [“In Italia, dove il cielo influenza il parlare ornato,
e verso la quale si dirigono tutte le dolcezze degli elementi per fondarvi l’armonia.” N.d.T.] 29 CHASTELLAIN, VII, p. 159. [“È esempio di arte Tulliana, e forma di sottigliez-
za Terenziana… che come favore ha succhiato dal nostro seno la nostra sostanza più intima; che, oltre la grazia a lui donata nella propria terra, se n’è andato, desideroso di nuovo ristoro, nel paese dove i bambini parlano in albe alle loro madri, avidi di sapere in dottrina più di quanto non lo permetta l’età.” N.d.T.]. 30 “Robertet mi ha cosparso del suo nembo, le cui perle che in esso si congela-
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no come brina fanno risplendere i miei vestiti; ma che vantaggio ne ha il corpo oscuro di sotto, quando la mia veste illude chi mi guarda?” [N.d.T.] 31 THUASNE, I, p. 126. 32 THUASNE, I, p. 20. 33 THUASNE, I, p. 178; II, p. 509. 34 “La vecchia vita dispiace, nuovi costumi piacciono; L’uomo vede il volto, ma
il cuore appare a Giove.” [N.d.T.] 35 DESCHAMPS, I, n. 63, p. 158. 36 VILLON, Testament, vs. 899, a cura di Longnon, p. 58. 37 Le Pastoralet, vs. 2094 [“Tempio in mezzo al bosco per pregare gli dèi.”
N.d.T.] 38 Ivi, vs. 30, p. 574. [“Se io per rendere più strana la mia musa parlo degli dèi
pagani, i pastori e io stesso siamo però cristiani.” N.d.T.] 39 MOLINET, V, p. 21. [“Devi farlo, non per prestar fede agli dèi e alle dee, ma
perché solo Nostro Signore ispira le genti come gli aggrada, e sovente con diverse ispirazioni.” N.d.T.] 40 CHASTELLAIN, Le dit de vérité, VI, p. 221; cfr. Exposition sur vérité mal prise, ib., pp. 270, 310. [“Un tempo le nazioni gentili / Chiesero l’amore degli dèi con umili sacrifici, / I quali, posto che non fossero utili, / Furono nondimeno redditizi e fertili / Di molti grandi frutti e alti benefici, / Mostrando con i fatti che gli uffici d’amore / E di umile onore, impartiti dove che sia, / Erano sufficienti per penetrare cielo e inferno.” N.d.T.] 41 LA MARCHE, II, p. 68. [“Mi auguro che tutti i miei desideri possano essere
soddisfatti e di non avere giammai altro bene.” N.d.T.] 42 Roman de la Rose, vs. 20141. [“Mi aiuti Dio che fu crocifisso, molto mi pento
d’aver fatto l’uomo.” N.d.T.]
597
Postfazione di Franco Paris
Percepire la storia Nel 1907 il trentacinquenne Johan Huizinga, storico della cultura, ha una visione nei pressi del Damsterdiep, un canale di Groninga, dove da due anni è professore ordinario di Storia generale: Nelle ore pomeridiane, mentre mia moglie era tutta presa dalla cura dei bambini piccoli, solevo fare lunghe passeggiate solitarie fuori città […]. Durante una simile passeggiata, lungo o intorno al Damsterdiep, una domenica, mi pare, sorse in me un’intuizione: il tardo Medioevo non in quanto annuncio di ciò sarebbe venuto, ma come crepuscolo di ciò che stava scomparendo. Quest’illuminazione, da lui stesso definita addirittura “evento spirituale” o “scintilla”, passerà poi alla storia come la historische sensatie, la sensazione storica, la pietra angolare del suo pensiero. Il fatto che, in questa sensazione che congiunge passato e presente, si ponga l’accento sul momento “prerazionale” aperto all’immaginazione non implica affatto la rinuncia a un metodo critico e scientifico, né tanto 598
meno una deriva mistica, bensì una funzione mediatrice dell’immaginazione e dello stile evocativo tra i sensi e la ragione. Huizinga prende le mosse da tale illuminazione per scrivere il libro che uscirà nel 1919 e che gode tuttora di fama mondiale tra studiosi e lettori di tutto il mondo, L’Autunno del Medioevo. Criticato, avversato, osannato, tradotto (e ritradotto) in più di venti lingue, mai uscito fuori stampa. Il volume, concepito originariamente con l’intento di collocare la pittura dei fratelli Jan e Hubert van Eyck nel contesto della loro epoca, con particolare attenzione alla mentalità delle corti e della nobiltà, finisce col diventare un monumentale e memorabile affresco della società borgognona del XIV e del XV secolo, che comprendeva all’apice della sua espansione gran parte dell’attuale territorio belga e olandese e si estendeva dal Massiccio del Giura fino al Mare del Nord. Il periodo preso in esame viene considerato per la prima volta, in maniera rivoluzionaria, come espressione di una civiltà nel suo ultimo respiro, paragonata a un albero dai frutti troppo maturi, pronto a spogliarsi per dar vita a qualcosa di diverso, in una continuità di eventi che esclude la cesura netta comunemente postulata fino al quel momento tra Medioevo e Rinascimento. All’epoca anche gli studi storici si ricollegavano ai metodi delle scienze naturali, concentrandosi sullo studio di fonti di tipo economico, quantificabili e concernenti in prevalenza gruppi, comunità e ceti sociali, laddove Huizinga era fermamente deciso a inserire, nel “suo” metodo, una maggiore attenzione per i sentimenti individuali e per le espressioni artistiche: Che rappresentazione potremmo mai avere del tredicesimo secolo se ci limitassimo a leggere i regesti dei pontefici senza conoscere il Dies Irae? 599
[…]. Mi sono reso conto che l’osservazione della storia trova la sua migliore espressione in un’evocazione di immagini. La sua mente tendeva a trascurare le questioni di carattere teorico e a privilegiare il contatto con “la rigogliosa e variopinta particolarità del passato”, con il lato drammatico e perfino epico dell’esistenza umana. Da ciò scaturisce una relazione quasi personale, soggettiva, con le figure e gli eventi storici descritti. Le “verità” vanno cercate in quella dimensione interiore che una civiltà attiva mediante il gioco (al centro anche del suo fondamentale Homo Ludens del 1938) e l’immaginazione: è geest, “spirito”, la parola più ricorrente nel libro, riferita a un individuo, a un popolo, al tempo. Attitudine altamente improbabile per uno storico, oggi come allora. All’inizio dell’opera Huizinga ci ragguaglia sui “pericoli” delle fonti tradizionali: La storia scientifica moderna del Medioevo, che a causa della scarsa attendibilità delle cronache attinge notizie preferibilmente dai documenti ufficiali, talvolta cade per questo in un pericoloso errore. I documenti ci fanno comprendere poco la differenza tra il nostro tono di vita e quello di allora. Essi ci fanno dimenticare il veemente pathos della vita medioevale. Tale approccio, se da un lato è il suo modo peculiare e inimitabile per superare il sempre più pressante problema della possibilità, e della legittimità, di comprendere e giudicare modi di vita estranei secondo criteri oggettivi, dall’altro ripropone la questione del condizionamento della cultura alla quale appartiene lo storico. Desta infatti nel contempo perplessità e fascino constatare il continuo richiamo di Hui600
zinga, nel suo Autunno, a scrittori contemporanei per illustrare meglio determinati aspetti di quella cultura borgognona che andava delineando. Nel primo capitolo, per esprimere la veemenza delle forme esteriori e dell’“eco fastosa e crudele delle cose della vita”, afferma: Un tabarro di pelliccia, un bel caminetto acceso, un bicchiere, una battuta e un letto morbido offrivano ancora quella grande fonte di piacere che forse il romanzo inglese, con la descrizione della gioia di vivere, ha evocato più a lungo e con maggior brio. In seguito, a proposito del netto contrasto tra crudeltà e pietà, conclude: Da un lato la disumanità più spietata verso i bisognosi e i disabili, dall’altro un’infinita tenerezza, un profondo sentimento di fraternità per i malati, i poveri e i matti, unito alla crudeltà, che troviamo anche nella letteratura russa. Più avanti invoca tra gli altri due scrittori francesi della seconda metà dell’Ottocento, Maupassant e Zola, al momento di descrivere rispettivamente la “forma elegante e fresca dell’erotismo diretto” che conserva “però il fascino dell’elemento naturale” e “il diavolo della ghiottoneria”. L’intento di far “vedere” e “percepire” il veemente pathos del Medioevo al lettore si persegue anche mediante l’accento su concetti e parole chiave, come stemming, che qui ha un’altra accezione rispetto alla traduzione letterale di “atmosfera”, “stato d’animo”. Si tratta di un “accordo profondo”, ossia della nuova unione che scaturisce dalla risoluzione dei contrasti, in una fusione che collega tra loro tutti gli aspetti dell’esistenza. Per descrivere l’elaborazione culturale dell’osse601
ssione della morte, rappresentata senza lesinare dettagli macabri, Huizinga afferma: È davvero un pensiero pio quello che si lascia irretire dalla ripugnanza per l’aspetto terreno della morte? O è piuttosto la reazione di una sensualità violentissima, che soltanto così può destarsi dalla sua ebbrezza? È la paura di vivere che pervade quell’epoca, l’accordo profondo di delusione e scoraggiamento che vuole tendere alla vera dedizione di chi ha resistito e ha vinto, ma che è ancora così vicino a tutto ciò che è dedizione terrena? Tutti questi stati d’animo, in questa espressione dell’idea della morte, si confondono. Un tale affresco della sensibilità, oltre che della mentalità, del tardo Medioevo implica pertanto il ricorso a fonti decisamente inconsuete per uno storico, come appunto testi letterari e opere d’arte. Nell’includere tra le fonti, di fatto, ogni forma espressa da una cultura consapevole di se stessa si concepisce di nuovo un approccio radicalmente nuovo alla storia. L’utilizzo di tali molteplici fonti viene applicato a una dettagliata analisi della vita quotidiana dei singoli individui e della coscienza collettiva, nonché delle fasi antecedenti alle espressioni artistiche e letterarie: dagli usi sociali alle istituzioni etiche e giuridiche, dagli ideali di vita alle dottrine religiose e filosofiche. Innovativa e controcorrente è soprattutto, come si è accennato, la definizione di Rinascimento, un concetto chiave per l’identità culturale europea, assai fluido e mutevole soprattutto per quel che concerne i termini cronologici e le sue origini geografiche. Nel suo magistrale Civiltà del Rinascimento in Italia (1860), opera peraltro assai ammirata da Huizinga, J. Burc602
khardt aveva nettamente separato il vecchio del Medioevo dal nuovo del Rinascimento. Nell’analisi dello storico svizzero il Rinascimento, con la sua nozione di individuo in senso moderno, nasce nelle città-stato italiane nella seconda metà del XIV secolo, grazie a una nuova mentalità che squarcia, a suo dire, il velo “tessuto di fede, d’ignoranza infantile, di vane illusioni”. Si afferma una nuova concezione che si protrae fino ai tempi moderni impregnando di sé anche quel tardo Medioevo che Huizinga, al contrario, descrive come una sorta di sfaldamento, una civiltà disgregata, in drammatica crisi. Si rende meno drastico il passaggio tra Medioevo e Rinascimento e si identificano, anche in quest’ultima epoca di solito considerata colma di rinnovamento e di una modernità di stampo individuale, aspetti che rimandano a una mentalità prettamente medioevale, come l’ideale cavalleresco. Nella concezione dominante dei primi del Novecento l’altro elemento chiave per individuare la nascita della visione rinascimentale della vita, oltre al risveglio della personalità, era considerato l’irruzione del realismo. La resa accuratissima dei dettagli, la raffigurazione maniacale, ossessiva e quasi dolorosa della realtà, seppur ancora pervasa da una forte carica simbolica d’impronta medioevale, portò altri studiosi a individuare tratti di grande novità nella pittura di Jan van Eyck (1390 ca.-1441) e degli altri primitivi fiamminghi e a collocare pertanto l’inizio del Rinascimento non in Italia ma nel Nord Europa. Per lo studioso olandese il realismo di tali pittori andava visto invece soprattutto nell’ottica di una conquista tecnica perché, quanto a temi, la forte carica simbolica delle cose reali li collocava appieno nel loro tempo: Con l’arte dei Van Eyck la raffigurazione pitto603
rica delle cose sacre ha raggiunto un grado di precisione e di naturalezza che forse nell’ambito della storia dell’arte può essere considerato un principio, ma per la storia della cultura rappresenta una conclusione. […] Così il naturalismo dei Van Eyck, che gli storici dell’arte interpretano di solito come un elemento che annuncia il Rinascimento, va piuttosto considerato l’ultima forma dello sviluppo dello spirito tardomedioevale […]. Il contenuto è ancora interamente medioevale […]. Il sistema medioevale nella sua compiutezza arrivava fino al cielo; non restava che vivacizzarlo e abbellirlo. Non vi è un netto contrasto tra Medioevo e Rinascimento per Huizinga, giacché caratteristiche come individualità, richiamo ai classici, vena pagana, realismo si erano manifestate già nella Borgogna trecentesca: A noi, che vediamo i due complessi culturali come nettamente separati, sembra che la sensibilità per l’eterna giovinezza degli antichi e il ripudio di tutto il logoro apparato con cui il Medioevo esprimeva i suoi pensieri debbano essersi manifestati come una rivelazione. La vera differenza era di tipo formale, “stranamente il nuovo si fa largo come forma esteriore, prima di divenire veramente nuovo spirito”. Non vi era alcuna coincidenza tra nuova forma e nuovo spirito, le idee della nuova epoca continuavano a manifestarsi in una veste medioevale e concezioni tipicamente medioevali venivano espresse in metri classici: Il classicismo e lo spirito moderno sono due co-
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se completamente diverse. Il classicismo letterario è un bambino nato vecchio. La veemenza e gli ideali rifugio Huizinga, in anni dominati da una storiografia legata non di rado ai divampanti nazionalismi, è attirato dall’immagine di questo Medioevo tanto plastico e intenso e decide di scrivere un’opera per un pubblico il più ampio possibile. Il libro ruota intorno ad antinomie e contrasti: immaginazione e ragione, dolore e piacere, oscurità e luce, miseria e aspirazione a una vita migliore, scetticismo ed energia, malinconia e gioia di vivere, forme primitive e forme iperraffinate. È una lettura avvincente ma complessa quanto il periodo storico che Huizinga si propone di descrivere, il tramonto di una cultura che aveva raggiunto il culmine della vitalità e dell’energia nel XII e XIII secolo, ricchi di fioritura culturale e di figure straordinarie come Dante e Tommaso d’Aquino. Osservazioni critiche sono state espresse sul carattere elitario delle fonti e sull’eccessiva enfasi posta sugli aspetti più mondani e ludici: a una dettagliata analisi dello sfarzo della corte borgognona, resa con uno sguardo quasi antropologico analizzando oltre a cronache e manoscritti anche poesie e dipinti, non si contrappone una altrettanto dettagliata analisi delle vicende militari. È stata altresì evidenziata l’esiguità delle fonti scritte in nederlandese medio, malgrado il fatto che circa metà della popolazione dei Paesi Bassi storici borgognoni lo parlasse. Stupisce in effetti che lo storico citi pochissimi autori nella sua lingua, e quando lo fa siamo in ambito religioso, come nel caso del mistico Jan van Ruusbroec e dei devoti di Windesheim. Al capolavoro assoluto della 605
letteratura teatrale in nederlandese, Mariken van Nieumeghen (anonimo, 1495 circa), storia di una ragazza che vende l’anima al diavolo per sete di sapere, dedica solo un cenno in riferimento alla faziosità politica e non ai temi della religione o del male: per indicare quanto fossero intensi i sentimenti di fedeltà a una fede politica, si menziona un episodio del dramma, il suicidio della malvagia zia della protagonista, furibonda per la liberazione di un duca rivale del suo amato principe. Le fonti scritte citate sono infatti prevalentemente francesi, e riguardano autori come Eustache Deschamps e Georges Chastellain. Altre valutazioni negative, nel corso dei decenni, sono state espresse nei confronti di un’impostazione che sarebbe troppo sociologica, al concetto di nozione di cultura come un complesso coerente e all’incessante ricerca di costanti culturali, ma anche i critici più accaniti non hanno potuto fare a meno di ammirare la grandiosità e il fascino dell’impianto del volume, che si percepisce già a una prima lettura dei titoli dei capitoli, la potenza complessiva dell’affresco e la personalità di uno studioso che va avanti per la sua strada senza compromessi, con il coraggio di esprimere di continuo giudizi di valore, senza sfumature, e con una visione spesso sorprendente e stimolante di questo periodo storico, in cui egli individuava valori europei condivisi e lezioni morali da cogliere. Una visione, come si diceva, che marginalizza le analisi di tipo politico ed economico: basti pensare, per fare un esempio, che riguardo ai rapporti commerciali non si sottolineano dei dati precisi bensì gli aspetti morali legati a comportamenti più o meno peccaminosi. Ci si sofferma sulla mentalità, sugli stati d’animo, sugli “accordi profondi”, e si procede 606
per opposizioni. Nei primi quattordici capitoli emerge quella tra il sogno e una realtà veemente, dura, aspra, una delle intuizioni più felici dell’intero libro. Tre sono le possibili vie di fuga: l’ideale cavalleresco o cortese, la vita religiosa o monastica e la bellezza: È vero, ogni epoca lascia nella tradizione più tracce della sua sofferenza che della sua felicità, e sono le calamità che diventano storia. Un’istintiva convinzione ci dice che la somma di tutta la felicità, gioia serena e pace beata che è mai stata concessa agli uomini non può variare molto da un periodo a un altro. D’altra parte lo splendore della felicità tardomedioevale non si è poi spento del tutto: rivive ancora nella canzone popolare, nella musica, nelle quiete prospettive dei paesaggi e nei gravi volti dei ritratti. Nella seconda parte del libro emergono altri dualismi cruciali, quelli tra arte e vita, tra forma e contenuto e tra immagine e parola. Quest’ultimo tema era particolarmente caro a Huizinga, che considerava l’aspetto visivo la caratteristica più rilevante e qualificante della civiltà olandese. Per lui la dimensione visiva inoltre era destinata ad assumere, riguardo alla nostra relazione con il passato, una posizione dominante. In un’opera sui fratelli Van Eyck, scritta pochi anni prima della stesura del libro, afferma: Noi vogliamo immagini trasognate, dai contorni poco definiti, in cui abbia libero gioco l’interpretazione soggettiva del nostro animo, e a questa esigenza un’appercezione visiva dell’elemento storico concede uno spazio molto maggiore rispetto a una intellettuale. 607
In una delle pagine più memorabili e illuminanti del suo Autunno, nel ventesimo capitolo, paragona l’uso degli effetti luminosi nei dipinti al discorso diretto nei poeti: La pittura […] dispone già di una sorprendente virtuosità nel rendere gli effetti luminosi. […] La letteratura invece dispone di mezzi ancora troppo primitivi per rendere gli effetti luminosi. C’è, è vero, una grande sensibilità per lo splendore della luce, anzi, come abbiamo dimostrato sopra, si concepisce la bellezza in primo luogo come luminosità e splendore. Tutti gli scrittori e i poeti del XV secolo si soffermano volentieri sullo splendore della luce e del sole, sul lume delle candele e delle torce, sui riverberi sugli elmi e sulle armi. […] L’equivalente letterario dell’effetto luminoso in pittura va cercato piuttosto in un altro campo. L’impressione del momento viene fissata soprattutto mediante un agile uso del discorso diretto. Ciò che colpisce da sempre il lettore però è soprattutto la straordinaria capacità evocativa, come in questa descrizione del famoso Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) di Jan van Eyck: Nel silenzio ovattato di quella camera si ode ancora il suono della sua voce. L’intima tenerezza e la profonda pace che solo Rembrandt saprà rendere di nuovo così sono racchiuse in questo dipinto come se esso fosse il cuore stesso di Jan. Qui ritorna improvviso quel tramonto del Medioevo che conosciamo e che tuttavia cerchiamo così spesso invano nella letteratura, nella storia e nella vita religiosa di quei tempi: il felice, nobile, sereno e sem608
plice Medioevo dei canti popolari e della musica sacra. Quanto siamo lontani adesso dal riso fragoroso e dalla passione sfrenata! E allora la nostra fantasia forse scorge un Jan van Eyck al di fuori della vita veemente e variopinta del suo tempo, un semplice, un sognatore, che a capo chino e lo sguardo rivolto a se stesso se ne stava in disparte. Huizinga è uno storico con l’animo di un poeta, il passato gli si presenta come un grande poema, spesso leggendo il libro si ha la sensazione che egli proceda più con l’intuizione che con l’analisi, e che le sue categorie spirituali ed estetizzanti releghino talvolta ai margini le figure e gli eventi storici, ma è probabilmente questa la ragione che gli permette di penetrare così a fondo nel pensiero simbolico medioevale e di coglierne l’essenza. Nella concezione simbolica Huizinga individuava il senso profondo del tardo Medioevo. L’esistenza era un’interrelazione densa di significato che riconduceva a un unico grande significante, ossia Dio. All’inizio del sedicesimo capitolo, Il realismo e la capitolazione della raffigurazione nella mistica, si legge: Il simbolismo era, per così dire, l’afflato vitale del pensiero medioevale. L’abitudine di dare un senso a tutte le cose e di porle in relazione con l’eterno teneva vivo, nel mondo delle idee, lo splendore di colori sbiaditi, e l’avvicendamento di confini sfumati. Quando la funzione simboleggiante viene a mancare o è diventata puramente meccanica, allora il grandioso edificio delle derivazioni voluto da Dio si trasforma in una necropoli. È il momento del passaggio dalla dimensione religiosa a
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quella morale del simbolo, il momento in cui calano le tenebre, i fiori appassiscono, il simbolismo diventa formalismo. La storia è letteratura con altri mezzi Negli anni in cui elabora L’Autunno del Medioevo, lo storico olandese sembra prendere le distanze dai tragici avvenimenti del suo tempo, dalla guerra che incombe. Sembra un Huizinga ben diverso da quello che, circa vent’anni dopo, nell’imminenza del secondo conflitto mondiale, scriverà una cupa diagnosi sul disagio spirituale del proprio tempo, prigioniero del degrado culturale della società di massa e dei totalitarismi (Nelle ombre del domani, 1935), ben diverso da quello che negli anni trenta metterà in guardia dagli “ipernazionalismi” (anche durante una conferenza tenuta a Roma nel 1934) e ben diverso da quello che nel 1942 verrà arrestato e quindi costretto a un triste esilio nella provincia olandese per essersi opposto alle ingerenze naziste nella gestione della sua università a Leida. Nel 1914 Huizinga comunica al fratello di non aver alcuna voglia di scrivere a proposito della guerra, aggiungendo tuttavia di provare profondo disgusto e dolore per le continue vittorie dei tedeschi e “augurandosi” che i Paesi Bassi ne restino comunque fuori fino alla fine: “Preferisco pensare alla mia grande perdita personale piuttosto che a tale miseria,” dichiara, riferendosi alla recente, tragica scomparsa della moglie, che lo aveva lasciato solo con cinque figli. È un fatto comunque che, durante la stesura del testo, è molto più preso da questo passato che smette di esistere che dal mondo che lo circonda. Emerge qui, prepotente, la forte influenza del simbolismo ottocentesco francese, con la sua predilezione/ossessione 610
per il Medioevo e la decadenza, nonché dei movimenti letterari, artistici e culturali olandesi contemporanei, influenza praticamente sconosciuta al pubblico italiano ma senz’altro degna di menzione. Negli anni dei suoi studi, Huizinga si dichiarò un “adepto fervente” del movimento degli Ottantisti, un gruppo di scrittori e di artisti orientato verso il simbolismo, che propugnava il rinnovamento della letteratura e una lingua che si avvicinasse il più possibile alla percezione diretta del mondo. Colpito inizialmente dal forte impulso antirazionalistico e dalla critica estetizzante della scienza portata avanti dal movimento, Huizinga tuttavia in un secondo momento se ne distaccò non approvando l’eccessivo individualismo e impressionismo e la scarsa attenzione prestata ai bisogni della società. Era arrivato il momento, scrisse anni dopo (1927) ripensando agli ultimi anni del secolo, di ricollegare le parole agli spiriti costruttivi, di anelare a una “scienza amante dell’arte”. Si gettarono in tal modo le basi per l’Autunno del Medioevo: il rigore scientifico e la forza dell’immaginazione avrebbero cooperato in perfetta armonia per evocare e descrivere il passato, “l’elemento estetico delle rappresentazioni storiche”: ogni rappresentazione di un avvenimento storico poteva essere descritta come “uno sguardo sul”. Che cosa resta oggi dello sguardo sulla civiltà borgognona, della storia come “letteratura con altri mezzi”, qual è il messaggio di un linguista e sanscritista che diventa storico, che è un po’ socialista e un po’ liberale, un individualista fermamente convinto dell’importanza della responsabilità individuale nei confronti della società? Che cosa resta dello studioso che passa dalla ricerca dell’espressione della luce e del
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suono a un concetto fluido e rivoluzionario di Rinascimento? In un certo senso, Huizinga è il prototipo dello storico interdisciplinare, sa essere di volta in volta biografo, antropologo, storico dell’arte, storico, letterato, critico della cultura. È il prototipo dei saggisti odierni che scrivono sulle emozioni nella storia con un coinvolgimento personale, di quella saggistica d’autore oggi tanto in voga nella letteratura internazionale che descrive eventi storici collettivi e individuali ricorrendo agli strumenti del romanziere. Scienza e letteratura vanno di pari passo, ma entrambe al servizio di un interesse, di un ideale più alto, quello della Cultura. Huizinga stesso definisce un classico, semplicemente, un libro che continua a essere letto. Il suo Autunno del Medioevo un secolo dopo continua a essere letto con interesse e passione, e rimane inimitabile nella capacità di coniugare onestà intellettuale e piacere della lettura. La storia che narra è ancora viva, stimolante, palpitante. Possiamo vederla e sentirla.
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Tavola cronologica
1302 Papa Bonifacio VIII rivendica ancora una volta, nella Bolla Unam Sanctam, l’assoluta supremazia del potere papale su quello secolare. Filippo IV, re di Francia, convoca gli stati del suo regno per opporsi alle pretese papali. L’esercito di Filippo IV è sconfitto dai cittadini delle Fiandre nella “Battaglia degli Speroni d’oro” presso Kortrijk. 1303 Morte di Bonifacio VIII, poco dopo la sua umiliazione di Anagni. 1308 Papa Clemente V (1305-1314) trasferisce la sede della curia da Roma ad Avignone. 1311 Concilio di Vienna. Prime manifestazioni di tentativi di riforma della Chiesa, da parte dell’alto clero. 1314 Soppressione dell’Ordine dei Templari. Morte di Filippo IV il Bello, re di Francia. 1315 ca. 613
Morte di Jean Chopinel o Clopinel, o de Meung, il secondo poeta del Roman de la Rose. 1319 Pace tra Francia e Fiandre, che perdono la loro parte vallona (Lilla, Douai, Béthune), ma mantengono la loro indipendenza nei confronti della corona di Francia. 1321 Morte di Dante. 1327 Morte di maestro Eckhart. 1328 Si estingue il ramo più antico della Casa dei Capetingi in Francia. Succede la Casa dei Valois con Filippo VI il Lungo. Filippo VI di Francia aiuta il conte delle Fiandre, Ludovico di Nevers, a reprimere la rivolta della borghesia fiamminga. 1336-37 Edoardo III d’Inghilterra si assicura l’appoggio dell’imperatore Ludovico di Baviera, nonché dei principi del Basso Reno e delle città fiamminghe, contro la Francia. Inizio della guerra dei Cent’Anni tra la Francia e l’Inghilterra. 1337 Morte di Giotto. 1338 Gand e altre città fiamminghe si schierano, sotto il comando di Jacob van Artevelde, con gli inglesi. 1341-64 Lotta per il ducato di Bretagna tra Carlo di Blois e Gio614
vanni di Montfort. 1346 Edoardo III sconfigge l’esercito francese a Crécy. 1347 Edoardo III conquista Calais. Armistizio tra Inghilterra e Francia. 1348 Grande epidemia di peste in Europa, “la Morte Nera”. 1351 “Combat des Trente” a Ploërmel in Bretagna. 1353 I turchi osmanici si impadroniscono di una prima fortezza in Europa. 1356 L’assemblea degli stati a Parigi cerca di partecipare, con delle riforme, al governo regio. Battaglia di Maupertuis o Poitiers; re Giovanni ii il Buono, col figlio minore Filippo, prigioniero in Inghilterra. 1358 Jacquerie dei contadini di Francia. Vittoria della nobiltà. 1360 Pace di Brétigny tra Francia e Inghilterra. Gli inglesi ottengono la Guascogna, la Guyenne, il Poitou, Calais etc. Edoardo III rinuncia alla corona francese. Soggiorno inglese del cronista e poeta Jean Froissart (1337-dopo il 1400), originario dello Hainaut. 1361 Morte del mistico tedesco Giovanni Taulero (n. 1300 ca.). 1362-65 615
Il re di Cipro, Pietro i di Lusignano, visita, con Pierre Thomas e Philippe de Mézières, le corti italiane, francesi, tedesche e inglesi, per esortarle a una crociata. Una flotta cristiana prende Alessandria. 1363 Re Giovanni di Francia dà in pegno al suo figlio minore Filippo il ducato di Borgogna (dove si è estinto il vecchio ramo collaterale dei Capetingi come stirpe ducale). 1364-80 Carlo V, il Saggio, re di Francia. In Bretagna scoppia di nuovo la lotta con gli inglesi, guidata da Bertrand du Guesclin (dal 1370 connestabile di Francia). 1364 Carlo di Blois cade nella battaglia di Aurai. 1365 Morte del mistico tedesco Enrico Suso (n. 1300). 1366 I francesi, sotto la guida di Du Guesclin, aiutano il pretendente alla corona di Castiglia, Enrico di Trastamara, a scacciare re Pedro il Crudele. 1367 Papa Urbano v torna da Avignone a Roma, contro il volere dei cardinali e del consiglio di Carlo V di Francia. L’erede al trono inglese, “il Principe Nero”, viene in aiuto di re Pedro di Castiglia, e vince la battaglia di Najera (o Navarrete), dove Du Guesclin è fatto prigioniero. 1368 L’imperatore tedesco, Carlo IV (casa di Lussemburgo), scende per la seconda volta a Roma. 616
1369 Morte di Pedro il Crudele. Enrico di Trastamara ottiene il trono di Castiglia. L’alleanza tra Castiglia e Francia minaccia la sicurezza marittima inglese. Gli stati della Guyenne si rivoltano contro la dominazione inglese. Nuova guerra aperta tra Francia e Inghilterra. Filippo i, l’Ardito, duca di Borgogna, sposa Margherita di Mâle, ereditiera delle Fiandre, dell’Artois, della Franca Contea di Borgogna, Nevers e Rethel. Froissart presso il duca Venceslao di Brabante. 1370 Papa Urbano V ritorna da Roma ad Avignone. 1374 Morte di Francesco Petrarca. 1375 Morte di Giovanni Boccaccio. 1376 Papa Gregorio XI ritorna a Roma a causa della minacciosa situazione dello Stato Pontificio. 1377 Morte del poeta Guillaume de Machaut (n.1300 ca.). 1378 Grande scisma d’Occidente. Una parte dei cardinali elegge papa l’arcivescovo di Bari, che rimane a Roma come Urbano VI (13781389), gli altri eleggono il cardinale Roberto di Ginevra, Clemente VII, che va ad Avignone. Urbano VI viene riconosciuto nell’impero, nelle Fiandre, nella maggior parte dell’Italia, in Inghilterra, Ungheria, Polonia, Danimarca, 617
Svezia e Norvegia. Sostengono Clemente la Francia, la Savoia, la Scozia, alcuni territori tedeschi, Napoli, la Sicilia, la Sardegna, in seguito anche i regni spagnoli. I turchi conquistano Adrianopoli. 1380 Carlo VI, re di Francia, sotto la tutela e la reggenza dei suoi zii, i duchi Ludovico d’Angiò, Filippo di Borgogna e Giovanni di Berry. Morte di Bertrand du Guesclin. 1381 Rivolta dei contadini in Inghilterra (Wat Tyler). Morte di Jan van Ruusbroec. 1381-1409 Il pittore Melchior Broederlam di Yperen lavora per Ludovico di Mâle, conte delle Fiandre, e per il duca Filippo l’Ardito di Borgogna. 1382 Gand e altre città fiamminghe, sotto la guida di Filippo di Artevelde, si sollevano contro il conte. Filippo di Borgogna, genero del conte, persuade il re di Francia a intervenire militarmente contro i fiamminghi, che vengono sconfitti a Rosebeke, dove Artevelde cade in battaglia. 1383 Il vescovo di Norwich, Henry Despenser, organizza una “crociata” per aiutare le città delle Fiandre fedeli a Urbano contro il loro conte “scismatico”, che però non porta altro che saccheggi e distruzione. 1384 Morte di Ludovico di Mâle. Filippo e Margherita di Borgogna ereditano le Fiandre etc. 618
Morte di Geert Groote, di Deventer (n. 1340), fondatore della Confraternita della Vita Comune. Morte di John Wiclef. 1385 Giovanni di Nevers, detto in seguito Giovanni senza Paura, figlio di Filippo l’Ardito, sposa Margherita di Baviera, figlia del duca Alberto, conte di Hainaut, Olanda e Zelanda, mentre suo figlio Guglielmo di Oostervant sposa la figlia di Filippo, Margherita di Borgogna. Re Carlo VI di Francia sposa Isabella di Baviera, figlia del duca Stefano III di Baviera-Landshut. 1385 ca. I tentativi di riformare la Chiesa e di comporre lo scisma cominciano a dare risultati, promossi dai leader dell’Università di Parigi, Pierre d’Ailly, vescovo di Cambrai, Jean Gerson, cancelliere dell’Università, Nicolas de Clemanges. 1386 Filippo l’Ardito di Borgogna arma, con l’aiuto del re francese, una flotta nel porto di Sluis per invadere l’Inghilterra. La flotta non salpa. 1386-87 Seguaci di Geert Groote e Florens Radewijns fondano l’opera canonica agostiniana di Windesheim, che dirige la Congregazione di Windesheim e diviene il centro della devotio moderna nei Paesi Bassi e nella Germania settentrionale. 1387 Morte del beato Pietro di Lussemburgo (n. 1369). 1389 I turchi distruggono il regno serbo nella battaglia del 619
Campo dei Merli. 1392 Re Carlo VI di Francia per la prima volta demente. I duchi di Borgogna e di Berry di nuovo al potere. Il fratello di Carlo, Ludovico d’Orléans, contesta la loro autorità. 1393 Il sultano Bajazet sottomette i bulgari. L’Ungheria in pericolo. 1394-95 Papa Bonifacio IX (Roma), su richiesta di re Sigismondo di Ungheria, fa predicare la crociata contro i turchi. 1396 Un esercito di cavalieri francesi, guidato da Giovanni di Nevers, si unisce a Ofen a truppe tedesche, ungheresi e polacche. Questi crociati vengono sconfitti dai turchi a Nicopoli. Giovanni di Nevers in prigionia. L’armistizio tra Francia e Inghilterra prolungato per venti anni. Re Riccardo II d’Inghilterra sposa Isabella di Francia. 1397 Il poeta Othe de Grandson viene ucciso, a Bourg en Bresse, in un duello dal suo accusatore Gerard d’Estavayer. 1399 Riccardo II d’Inghilterra destituito dal Parlamento (muore poco dopo). La casa di Lancaster ottiene il trono con Enrico IV (13981413). 1400 Venceslao, re dei Romani, destituito dagli elettori e dai principi dell’impero. Elezione di Roberto del Palatinato. Morte di Geoffrey Chaucer (n. 1340 ca.). 620
1400 ca. I fratelli Van Limburg, miniaturisti, sono attivi presso la corte di Giovanni di Berry. 1401-02 Istituzione di una “Cours d’amours” alla corte di Parigi. Disputa letteraria sul Roman de la Rose. 1402 L’invasione dei mongoli con Timur Lenk diminuisce il pericolo turco per l’Europa, con la battaglia di Angora. 1404 Morte di Filippo l’Ardito di Borgogna. Suo figlio Giovanni di Nevers eredita la Borgogna (ducato e contea), le Fiandre, Artois etc. Morte di Claus Sluter. 1405 Morte del poeta e pubblicista Philippe de Mézières (n. 1311). 1406 Il Brabante alla casa di Borgogna, nella persona di Antonio, figlio minore di Filippo l’Ardito. 1407 Giovanni di Borgogna fa uccidere il duca Ludovico d’Orléans e ripara nelle Fiandre. 1408 Egli ritorna a Parigi e fa difendere, a corte, il suo gesto da maestro Jean Petit. Il re lo perdona. Giovanni di Borgogna sconfigge la città di Liegi e viene soprannominato Giovanni senza Paura. L’Università di Parigi dichiara decaduto il papa avignone-
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se Benedetto XIII (Pietro di Luna). Il re conferma, per la Francia, il rifiuto dell’obbedienza al papa di Avignone. 1409 Concilio di Pisa, convocato dai cardinali di ambedue le obbedienze. Destituzione di Benedetto XIII (Avignone) e Gregorio XII (Roma), ed elezione dell’arcivescovo di Milano (Alessandro V, 1409-10), senza con ciò porre fine allo scisma. 1410 I nobili più importanti, sotto la guida di Bernardo di Armagnac, formano un partito che contrasta il potere borgognone a Parigi, che si appoggia sul popolo. Guerra civile. Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa), eletto dal Concilio, succede ad Alessandro V. 1411 Sigismondo re d’Ungheria (della casa di Lussemburgo, fratello di Venceslao) viene eletto re di Roma. 1412 Gli armagnacchi si rivolgono a Enrico IV d’Inghilterra per chiedere aiuto contro i borgognoni. 1413 Pace fittizia tra borgognoni e armagnacchi. Questi ultimi occupano Parigi. Enrico V re d’Inghilterra. 1414 Giovanni di Borgogna si allea con l’Inghilterra. 1414-18 Concilio di Costanza, alla presenza di re Sigismondo, per ristabilire l’unità della Chiesa, combattere l’eresia e attuare
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riforme generali, a tutti i livelli. Processo e condanna al rogo di Jan Hus (1415). 1415 Enrico V d’Inghilterra invade la Francia. Egli sconfigge l’esercito francese presso Azincourt (Antonio di BorgognaBrabante soccombe, il giovane Carlo d’Orléans è fatto prigioniero). Enrico v ritorna in Inghilterra. 1416 Re Sigismondo si reca in Francia e in Inghilterra, come mediatore di pace. Fallisce e si allea con l’Inghilterra. Morte del duca Giovanni di Berry, grande mecenate. 1417 Morte di Guglielmo di Baviera, conte di Hainaut (IV), Olanda e Zelanda (VI). Gli succede Jacopa di Baviera, sua figlia. Enrico V invade nuovamente la Normandia. Il Concilio di Costanza, dopo che Giovanni XXIII e Gregorio XII hanno rinunciato alla loro dignità, e Benedetto XIII è stato rinnegato dai paesi della sua ubbidienza, elegge papa il cardinale Ottone Colonna, Martino V (1417-1431). Fine del grande scisma. 1418 Il Concilio di Costanza si scioglie senza essere riuscito ad attuare la riforma generale. Enrico V assedia Rouen. Regime di terrore dei borgognoni a Parigi. Il conte di Armagnac e molti altri uccisi. Viene diviso il governo della Francia: Giovanni di Borgogna con la regina a Parigi, il Delfino a Bourges. Morte di Jean de Montreuil, principale esponente del primo Umanesimo in Francia (n. 1361 ca.)
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Jacopa di Baviera sposa suo cugino Giovanni IV di Brabante. 1419 Rouen conquistata dagli inglesi. Giovanni di Borgogna cerca di accordarsi con il Delfino, per poter scacciare insieme gli inglesi. Egli viene ucciso, sul ponte di Montereau, durante l’incontro, dai seguaci del Delfino. Morte di San Vincente Ferrer, predicatore domenicano (n. 1350 ca.). Lo zio di Jacopa, Giovanni di Baviera, già eletto di Liegi, conquista il potere in Olanda. 1420 Incontro di Troyes con Enrico v, la regina Isabella di Francia e il duca Filippo di Borgogna (il Buono). Enrico v sposa Caterina di Francia, è riconosciuto erede al trono, e fa il suo ingresso a Parigi insieme al suocero, il demente Carlo VI. 1420-60 ca. Attività del pittore Robert Campin, detto il maestro di Flémalle. 1421 Morte di Jean le Meingre, maresciallo di Boucicaut, guerriero, diplomatico e letterato. 1422 Morte di Enrico V d’Inghilterra. Morte di Carlo VI di Francia. Il giovane Enrico VI (n. nel 1421) viene proclamato re di Francia. Suo zio Giovanni, duca di Bedford, assume la reggenza. La maggioranza del popolo francese si schiera con Carlo VII, “le roi de Bourges”. Jan van Eyck al servizio del duca Giovanni di Baviera, conte d’Olanda, all’Aja. Morte del poeta Eustache Deschamps (stagione migliore intorno al 1380 ca.). 624
1424 Jacopa di Baviera sposa Humphrey di Gloucester. 1425 Morte di Giovanni di Baviera. Jan van Eyck al servizio del duca Filippo il Buono di Borgogna, a Bruxelles e nelle Fiandre. 1426 Filippo il Buono sconfigge i seguaci di Jacopa nella battaglia presso Brouwershaven. Morte di Hubert van Eyck (n. 1370 ca.). 1428 Riconciliazione di Delft. Filippo il Buono ottiene lo Hainaut, l’Olanda e la Zelanda come candidato e amministratore. Gli inglesi assediano Orléans. Jan van Eyck va in Portogallo per fare il ritratto alla sposa di Filippo. 1429 Giovanna d’Arco si reca alla corte di Carlo vii a Chinon; libera Orléans e conduce il Delfino a Reims, per la consacrazione e l’incoronazione. Morte di Jean Gerson, detto “Le Chalier” (n. 1363). Morte della poetessa Christine de Pisan (n. 1363 ca.). Morte del poeta Alain Chartier (n. 1368). 1430 Filippo il Buono sposa (in terze nozze) Isabella di Portogallo. Egli fonda l’Ordine del Toson d’oro. Giovanna d’Arco viene fatta prigioniera, presso Compiègne, dalle truppe borgognone e consegnata agli inglesi. 625
Filippo il Buono eredita il Brabante e il Limburgo (Giovanni iv muore nel 1427, Filippo di Saint Pol muore nel 1430). 1431 Giovanna d’Arco viene arsa a Rouen. Enrico VI è incoronato re di Francia. Concilio di Basilea, papa Eugenio IV (1431-1447) tenta subito di scioglierlo, ma il Concilio resiste, opponendosi al papa, guidato da ecclesiastici inferiori. 1432 Jan van Eyck completa la pala di Gand, l’Adorazione dell’Agnello, cominciata insieme a Hubert. 1433 Papa Eugenio IV riconosce il Concilio di Basilea, che persiste nel suo spirito di ribellione e di radicalismo religioso. 1435 Conferenza di pace ad Arras. Fallimento dei tentativi di pace tra Francia e Inghilterra, però Filippo il Buono si riconcilia con Carlo VII, che gli dà in pegno le città lungo la Somme etc., e lo libera da ogni vassallaggio. 1436 Parigi nuovamente nelle mani di Carlo VII. 1436-38 Rivolta di Bruges. 1438 Papa Eugenio IV trasferisce il Concilio di Basilea a Ferrara, affinché possa dedicarsi all’unione con la Chiesa greca. I rapporti tra la curia e la Francia sono regolati dalla Prammatica Sanzione di Bourges. 1439 626
I membri del Concilio rimasti a Basilea dichiarano deposto Eugenio IV ed eleggono un antipapa (Amedeo VIII di Savoia, Felice V). Il movimento di conciliazione perde terreno. 1440 “La Praguerie”, una fronda, contro Carlo VII, dei grandi nobili, tra i quali il Delfino di Luigi. Carlo d’Orléans, riscattato dalla prigionia inglese, con l’aiuto di Filippo il Buono. 1441 Morte di Jan van Eyck (n. 1390 ca.). 1444 Il Delfino Luigi guida bande di armati, chiamate “Ecorcheurs” o “armagnacchi”, nel territorio di Basilea. Battaglia di Sankt Jakob an der Birs. Egli rinuncia ai suoi piani. 1444-50 Agnès Sorel, influente favorita di Carlo VII, alla corte francese. 1445 Enrico VI d’Inghilterra sposa Margherita d’Angiò, figlia di Renato, re titolare di Gerusalemme e Sicilia. 1446 Morte della Santa Colette Boellet (n. 1380). 1446-48 I rapporti tra la curia e l’imperatore, nonché la posizione dei territori tedeschi, sono regolati dai concordati di Francoforte e dal concordato di Vienna. 1447 Filippo il Buono, duca di Borgogna, e signore della mag-
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gior parte dei Paesi Bassi, tratta con l’imperatore Federico iii la sua elevazione a re. 1448-53 Gli inglesi perdono a poco a poco le loro ultime fortezze in Francia. 1449 Il Concilio di Basilea si conclude a Losanna. La curia, i prelati e i sovrani del paese di nuovo sotto la guida della Chiesa. 1450-52 Il cardinale Nicola da Cusa (1401-1464) attraversa, come legato pontificio, la Germania e i Paesi Bassi, per predicare l’indulgenza, in occasione del giubileo, e la crociata contro i turchi, e per riformare il clero e gli ordini. 1450-80 ca. Il poeta e cronista Olivier de la Marche è attivo presso la corte borgognona. 1453 Fine della guerra dei Cent’Anni. Solo Calais resta inglese (fino al 1558). Il sultano Maometto ii conquista Costantinopoli. Jacques Coeur, da Bourges, finanziere di Carlo VII e amministratore del paese, viene allontanato dal consiglio del re. Filippo il Buono reprime la grande rivolta di Gand nella battaglia presso Gavere. Morte di Jacques de Lalaing, cavaliere errante ed eroe dei tornei. Morte del cronista Enguerrand de Monstrelet (n. 1390). 1454 628
Filippo il Buono, durante la grande festa di corte di Lilla, fa prestare giuramento per la crociata contro i turchi, “le voeu du faisan”. 1455-56 Processo di riabilitazione di Giovanna d’Arco a Bourges. 1456 Filippo il Buono assedia Deventer, come primo passo per la conquista della Frisia. Insedia il suo bastardo Davide di Borgogna nel vescovato di Utrecht. Il Delfino Luigi fugge dall’ira di suo padre, Carlo VII, riparando presso la corte di Filippo il Buono a Bruxelles. 1458-64 Papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini). 1460 Inizio delle guerre tra la rosa bianca e la rosa rossa, York e Lancaster, in Inghilterra. 1461 Morte di Carlo VII di Francia. Filippo il Buono riconduce Luigi XI in Francia. Enrico VI (Lancaster) deposto; Edoardo IV (York) re d’Inghilterra. “Vauderie d’Arras”, grande persecuzione delle streghe ad Arras; i processi vengono infine annullati. 1462 Morte di Nicolas Rolin (n. 1376), cancelliere di Filippo il Buono. 1463 Luigi XI libera le città della Somme dalla servitù borgognona. Margherita d’Angiò, moglie del detronizzato Enrico VI d’Inghilterra, fugge dalla Scozia nei Paesi Bassi, e da lì in Francia. 1464 629
Morte di Cosimo de’ Medici. Morte di Rogier van der Weyden (n. 1399 ca.). 1465 Carlo, conte di Charolais, il futuro Carlo il Temerario, unito ad altri principi francesi nella Ligue du bien public, muove guerra a Luigi XI. Battaglia presso Montlhéry. Trattati di Conflans e St. Maur. Morte del duca poeta Carlo d’Orléans (n. 1391). 1466 Nascita di Erasmo da Rotterdam (secondo alcuni solo nel 1469). 1467 Morte di Filippo il Buono. Carlo il Temerario duca di Borgogna etc., fino al 1477. Sommossa a Gand durante la sua prima visita. 1468 Carlo il Temerario reprime la rivolta di Liegi, e costringe Luigi XI al trattato di Péronne. Egli sposa (in terze nozze) Margherita di York, sorella di Edoardo IV d’Inghilterra. 1469 Carlo il Temerario ottiene l’Alsazia cum annexis in pegno da Sigismondo del Tirolo. 1470 Edoardo IV, costretto dal conte di Warwick a fuggire oltremare, si trattiene nei Paesi Bassi. Enrico VI riottiene il trono. 1471 Edoardo IV torna in Inghilterra con l’aiuto dei borgognoni. Warwick cade in battaglia. Il partito dei Lancaster è defi630
nitivamente sconfitto presso Tewkesbury, la regina Margherita fatta prigioniera, suo figlio ucciso, come pure suo marito Enrico VI. Morte di Tommaso da Kempis (n. 1380). Morte di Dionigi il Certosino (o van Ryckel), chiamato l’ultimo degli scolastici, a Roermond. 1472 Philippe de Commines lascia il servizio di Carlo il Temerario e passa a quello di Luigi XI. 1473 Carlo il Temerario si impadronisce del ducato di Gelre (lotta tra i duchi Arnold e Adolf). Inutile incontro a Treviri tra l’imperatore Federico III e Carlo il Temerario. Le città dell’impero in Alsazia e i vescovi dell’alto Reno concludono un’alleanza per difendere la loro libertà contro la Borgogna. 1474 Gli svizzeri fanno pace con l’Austria. Carlo rifiuta di accettare il riscatto dell’Alsazia dalla servitù. Il suo luogotenente Peter van Hagenbach è assassinato dagli alsaziani. Guerra della Borgogna contro gli svizzeri e i loro alleati. Morte di Guillaume Dufay, massimo esponente della cosiddetta scuola musicale olandese (n. 1420). 1475 Carlo il Temerario assedia invano Neuss. Luigi xi stringe un’alleanza con gli svizzeri. Carlo riceve l’aiuto di Edoardo IV d’Inghilterra. L’imperatore si unisce ai nemici della Borgogna, ma Carlo persuade lui e Luigi XI a essere neutrali. Il connestabile Luigi di Lussemburgo, conte di Saint Pol, decapitato a Parigi per alto tradimento.
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Morte di Georges Chastellain, storiografo della corte borgognona e poeta (n. 1404). Morte di Dirk Bouts (n. 1410). Morte di Alain de la Roche, domenicano (n. 1428). 1476 Carlo il Temerario conquista la Lorena e muove contro gli svizzeri; viene sconfitto presso Grandson e Murten. Assedia Nancy. 1477 Carlo il Temerario cade nella battaglia presso Nancy contro il duca Renato II di Lorena. Luigi XI riacquista il ducato della Borgogna alla corona e spedisce le sue truppe nella Franca Contea, Piccardia, Artois e Hainaut. Maria di Borgogna sposa il figlio dell’imperatore Massimiliano d’Austria. Gli stati dei territori dei Paesi Bassi la costringono a un accordo che prevede, per le questioni vitali, l’approvazione degli stati. 1480 Morte di Renato d’Angiò, re titolare della Sicilia. La corona francese acquista la Provenza. 1480-1500 ca. Il cronista e poeta Jean Molinet (n. 1453) è attivo presso la corte borgognona nei Paesi Bassi. 1482 Morte di Maria di Borgogna. Massimiliano tutore e reggente nei Paesi Bassi per conto del figlio Filippo (detto più tardi il Bello). Pace con la Francia. Luigi XI fa venire a corte Francesco da Paola. 1483 632
Morte di Luigi XI. Carlo VIII re di Francia (1483-98). Morte di Edoardo IV. 1484 Papa Innocenzo VIII emana la Bolla Summis desiderantes, contro la magia e la stregoneria. Morte di François Villon (n. 1431 ca). 1485 Fine della Guerra delle rose in Inghilterra. Riccardo III (York) cade presso Bosworth. Enrico Tudor, come Enrico VII (14851509), concilia le pretese dei Lancaster e degli York. 1486 Massimiliano eletto re Romano. 1487 Appare il Malleus maleficarum (Martello delle streghe) di Henricus Institoris e Jacob Sprenger. 1488 Massimiliano tenuto prigioniero dai cittadini ribelli di Bruges, che lo rilasciano quando l’imperatore muove contro Bruges con l’esercito imperiale. 1491 Carlo VIII di Francia sposa Anna di Bretagna (che ha ricevuto la dispensa dal suo matrimonio per procura con Massimiliano). La Bretagna diventa parte della corona francese. Scoppia di nuovo la guerra tra la Francia e Massimiliano. Morte del poeta Jean Meschinot (n. 1420). 1492 Morte di Lorenzo de’ Medici, il Magnifico. Granada, l’ultima città spagnola ancora sotto l’occupazi633
one dei Mori, è conquistata da Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia. Scoperta dell’America. 1493 Pace di Senlis tra la Francia e Massimiliano come reggente dell’eredità borgognona. Sua figlia Margherita d’Austria, fidanzata dal 1482 con Carlo VIII , ritorna dalla Francia. Morte dell’imperatore Federico III. Gli succede Massimiliano, che sposa Bianca Maria Sforza. Papa Alessandro VI (Borgia) emana una bolla per la divisione dei paesi d’oltremare tra Spagna e Portogallo. 1494 Carlo VIII di Francia conquista Napoli. Una coalizione che comprende papa Alessandro VI, l’imperatore Massimiliano, Ferdinando d’Aragona, il duca di Milano e la Repubblica di Venezia lo costringe ad abbandonarla. 1496 I francesi sono scacciati da Napoli. L’arciduca Filippo il Bello, principe dei territori borgognoni, sposa l’infanta Giovanna d’Aragona. 1498 Morte di Carlo VIII di Francia. Gli succede il ramo ValoisOrléans, con Luigi XII (1498-1515). Savonarola bruciato a Firenze. 1499 Luigi XII di Francia conquista Milano. 1500 Nascita di Carlo V a Gand. Inizio delle guerre per l’Italia tra la Francia e gli Asburgo.
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Bibliografia minima
J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1996. L. Hanssen, Huizinga en de troost van de geschiedenis: verbeelding en rede, Balans, Amsterdam 1996. J. Huizinga, Homo ludens, trad. di A. Vita, Einaudi, Torino 2002. Id., Erasmo, trad. di A. Vita, Einaudi, Torino 2002. Id., La civiltà olandese del Seicento, trad. di P.B. Marzolla, Einaudi, Torino 2008. Id., (a cura di A. van der Lem), Scritti autobiografici. La mia via alla storia & preghiere, trad. di Gerrit Van Oord, Apeiron, Sant’Oreste RM 2018. Id., Nelle ombre del domani, trad. di J. van der Loj, Aragno, Torino 2019. W. Krul, Historicus tegen de tijd. Opstellen over leven en werk van J. Huizinga, Historische Uitgeverij, Groningen 1990. W. Otterspeer, De kleine Huizinga, Atlas Contact, Amsterdam/ Antwerpen 2019. F. Paris, Scrosci di modernità, Albalibri, Rosignano Marittimo 2008. 635
Rereading Huizinga. Autumn of the Middle Ages, a Century Later, edited by P. Arnade, M. Howell and A. van der Lem, Amsterdam University Press 2019.
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INDICE L’Autunno del Medioevo Prefazione 1. La veemenza della vita 2. L’aspirazione a una vita migliore 3. La concezione gerarchica della società 4. L’idea di cavalleria 5. Il sogno di gesta eroiche e d’amore 6. Ordini e voti cavallereschi 7. Il significato dell’ideale cavalleresco in guerra e in politica 8. La stilizzazione dell’amore 9. Le convenzioni dell’amore 10. La visione idilliaca della vita 11. L’immagine della morte 12. La raffigurazione del sacro 13. Tipi di vita religiosa 14. Emozione religiosa e immaginario religioso 15. Il simbolismo sfiorito 16. Il realismo e la capitolazione della raffigurazione nella mistica 17. Le forme di pensiero nella vita pratica 18. L’arte nella vita 19. Il senso estetico 20. L’immagine e la parola 637
4 5 8 46 86 98 113 126 142 164 185 195 209 229 267 290 309 329 351 383 419 430
21. La parola e l’immagine 22. L’avvento della nuova forma Note al testo
Postfazione di Franco Paris Tavola cronologica Bibliografia minima
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468 491 509
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