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Italian Pages 168 Year 2018
DISCI
DIPARTIMENTO storia culture civiltà
Medievistica
Collana DiSCi Il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, attivo dal mese di ottobre 2012, si è costituito con l’aggregazione dei Dipartimenti di Archeologia, Storia Antica, Paleografia e Medievistica, Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche e di parte del Dipartimento di Studi Linguistici e Orientali. In considerazione delle sue dimensioni e della sua complessità culturale il Dipartimento si è articolato in Sezioni allo scopo di comunicare con maggiore completezza ed efficacia le molte attività di ricerca e di didattica che si svolgono al suo interno. Le Sezioni sono: 1) Archeologia; 2) Geografia; 3) Medievistica; 4) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico; 5) Storia antica; 6) Studi antropologici, orientali, storico-religiosi. Il Dipartimento ha inoltre deciso di procedere ad una riorganizzazione unitaria di tutta la sua editoria scientifica attraverso l’istituzione di una Collana di Dipartimento per opere monografiche e volumi miscellanei, intesa come Collana unitaria nella numerazione e nella linea grafica, ma con la possibilità di una distinzione interna che attraverso il colore consenta di identificare con immediatezza le Sezioni. Nella nuova Collana del Dipartimento troveranno posto i lavori dei colleghi, ma anche e soprattutto i lavori dei più giovani che si spera possano vedere in questo strumento una concreta occasione di crescita e di maturazione scientifica. Direttore della Collana Francesca Sofia (Direttore del Dipartimento) Codirettori Paolo Capuzzo, Lucia Criscuolo, Laura Federzoni, Elisabetta Govi, Saverio Marchignoli, Anna Laura Trombetti (Responsabili di Sezione) Comitato Scientifico Archeologia Mauro Menichetti (Università degli Studi di Salerno) Timothy Harrison (University of Toronto) Geografia Michael Buzzelli (University of Western Ontario) Dino Gavinelli (Università degli Studi di Milano) Medievistica Chris Wickham (All Souls College, University of Oxford) Giuseppe Sergi (Università degli Studi di Torino) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico Silvio Pons (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”) Paula Findlen (Stanford University) Storia Antica Arnaldo Marcone (Università degli Studi Roma Tre) Denis Rousset (École Pratique des Hautes Études, Paris) Studi antropologici, orientali, storico-religiosi Nazenie Garibian (“Matenadaran”, Scientific Research Institute of Ancient Manuscripts – Yerevan, Armenia) Ruba Salih (School of Oriental and African Studies, University of London)
Donne del Medioevo Studi di Bruno Andreolli a cura di Rossella Rinaldi con la collaborazione di Massimo Montanari
Bononia University Press
Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7 40123 Bologna tel. (+39) 051 232882 fax (+39) 051 221019 © 2018 Bononia University Press ISSN 2385-0973 ISBN 978-88-6923-315-9 ISBN online 978-88-6923-546-7 www.buponline.com [email protected] I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. In copertina: Pinturicchio, Ritorno di Ulisse, 1508-1509, part., London, National Gallery. Impaginazione: DoppioClickArt – San Lazzaro (BO) Prima edizione: marzo 2018
Sommario
Per Bruno 7 Massimo Montanari Le donne di Bruno. Note di lettura 9 Rossella Rinaldi Il tempo delle donne 17 Identità femminili e assetti socio-economici Il dono del mattino. Forza e debolezza della donna altomedievale 83 Tra podere e gineceo. Il lavoro delle donne nelle grandi aziende agrarie dell’alto Medioevo 99 Nonantola 10 novembre 896. Uno stage femminile del secolo nono 109 Ritratti La contadina
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Matilde di Canossa. Quando il potere è donna 117 Caterina Pico 133 Fra storia e rappresentazione Il sogno di Ippolita (dramma storico in un atto e quattro scene)
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In piacevole compagnia delle streghe 151 Lo scaldaletto della Principessa. Per una morfologia della cronachistica pichense 155 La chiave 161
I saggi raccolti e qui ripubblicati nella loro edizione originaria: Il dono del mattino. Forza e debolezza della donna altomedievale, in Uomini nel Medioevo. Studi sulla società lucchese dei secoli VIII-XI, Bologna, Pàtron, 1983, pp. 113-133. Tra podere e gineceo. Il lavoro delle donne nelle grandi aziende agrarie dell’alto Mediovo, in Donne e lavoro nell’Italia medievale, a cura di M.G. Muzzarelli, P. Galetti, B. Andreolli, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 29-40. Nonantola 10 novembre 896. Uno stage femminile del secolo nono, in Studi sul Medioevo per Andrea Castagnetti, a cura di M. Bassetti, A. Ciaralli, M. Montanari, G.M. Varanini, Bologna, CLUEB, 2011, pp. 19-22. La contadina, in Uomini & tempo medievale, a cura di R. Barbieri, Milano, Jaca Book, 1986 [1987], p. 137 Quando il potere è donna (Speciale Matilde di Canossa), in «Medioevo: un passato da riscoprire», IV, n. 4/39, ed. De Agostini-Rizzoli periodici, Milano, aprile 2000, pp. 93-113. Pico, Caterina, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 83, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 2015, pp. 257-258. Prefazione. “In piacevole compagnia delle streghe”, in R. Omicciolo Valentini, Le erbe delle streghe nel medioevo, prefazione di B. Andreolli, Tuscania (VT), Edizioni Penne e Papiri, 2009, pp. 9-11. Lo scaldaletto della Principessa. Per una morfologia della cronachistica pichense, in Cronaca della Mirandola di Giovan Francesco Piccinini (1682-1720). La fine di un ducato nelle memorie del chirurgo di corte, a cura di G.L. Tusini, San Felice sul Panaro (MO), Gruppo Studi Bassa Modenese, 2010, pp. 25-29. La chiave, in Trilogia della sequenza. Storie d’amore e di dottrina dal Medioevo a oggi, Reggio Emilia, Diabasis, 2010, pp. 87-96.
Per Bruno
Questo libro è una testimonianza d’affetto per l’amico Bruno Andreolli, col quale abbiamo condiviso anni e anni di lavoro comune. La sua improvvisa scomparsa ha lasciato un grande vuoto fra quanti gli hanno voluto bene, e continuamente ci capita di pensare a lui, al suo carattere dolce e affabile, spiritoso e ironico, di cui sentiamo molto la mancanza. Assieme ai suoi concittadini di Mirandola (e, istituzionalmente, al Centro internazionale di cultura “Giovanni Pico della Mirandola”) abbiamo pensato di dare corpo – almeno parzialmente – a uno dei progetti che egli avrebbe voluto portare a termine, e di cui ogni tanto ci parlava: un volume sull’identità femminile nel Medioevo, che Bruno avrebbe coniugato (in che modo esattamente, a lui solo era chiaro) con altri due temi ricorrenti nel suo lavoro, quelli della società contadina e del mondo animale, in particolare di una figura, l’orso, a cui aveva prestato grande attenzione. La donna è sempre stata un leit-motiv degli interessi di Bruno, sia sul piano intellettuale e storiografico, sia sul piano esistenziale ed emotivo. Fra i materiali che egli non ebbe tempo di completare, i più corposi ed elaborati sono quelli dedicati alla realtà e all’immagine femminile in un arco di tempo che si concentra ma non si esaurisce nel periodo medievale. Perciò abbiamo deciso di puntare su questo tema per un libro postumo di Bruno da ospitare, in segno di omaggio all’amico scomparso, nella collana del Dipartimento di Storia Culture Civiltà. La vedova di Bruno, Anna, ha desiderato consegnare a Rossella Rinaldi i materiali che Bruno non aveva avuto il tempo di completare. Sono percorsi di ricerca originali, ricchi di suggestioni, e sebbene incompleti – né aggiornati storiograficamente – non ci è parso opportuno forzarli e modificarli. Con pazienza e competenza, Rossella si è limitata a sistemarli. Al materiale inedito abbiamo pensato di affiancare i lavori pubblicati da Bruno su
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Per Bruno
vari aspetti del tema femminile, per rendere conto in maniera esaustiva di quanto aveva prodotto sull’argomento. Il risultato, al di là dello stesso contenuto del volume, è uno spaccato della personalità di Bruno e del carattere davvero multiforme – e talvolta imprevedibile – della sua attività di studioso. Molto ampia è la cronologia dei materiali, che coprono un arco di oltre trent’anni, dal 1983 al 2015 (al luglio di quest’anno, due mesi prima della scomparsa, è datato l’ultimo file registrato sul PC di Bruno). Diversi sono i registri narrativi, ora rigorosamente scientifici, ora rivolti a un pubblico più largo, ora decisamente divulgativi: tutto ciò interessava Bruno, e anche le pagine più semplici sono utili a ricostruirne la personalità. In parallelo alla trattazione storica, poi, si fa strada il desiderio di raccontare in modalità più propriamente letteraria, trasformando la storia in racconto o in rappresentazione teatrale. Anche le fonti sono le più varie, dalla classica documentazione d’archivio ai testi narrativi, dalla giurisprudenza alla poesia, dal mito alla linguistica. Né ci si ferma al Medioevo: la curiosità di Bruno non può arrestarsi alle date convenzionali che spezzano la storia in tronconi predisposti. Né si tratta di sola storia o letteratura: filosofi e musicisti fanno capolino tra un documento e l’altro, testimoni di un intelletto vivace e onnivoro, tanto preciso e filologico quanto libero e “aperto”. Sicché Darwin e Wagner, Hegel e Carducci si inseguono in questi lavori, incrociandosi alle leggi longobarde e agli inventari carolingi, alla comicità dei fabliaux medievali e alla profondità del mito classico. Un’immagine di Bruno in tutti i suoi aspetti: questo finisce per essere il volume che gli dedichiamo, con leggerezza e serenità. Massimo Montanari
LE DONNE DI BRUNO. NOTE DI LETTURA
Rossella Rinaldi
La raccolta di saggi dedicati da Bruno Andreolli nell’arco di oltre un trentennio alle donne si compone di studi e ricerche differenti sia per impostazione sia per proposte tematiche. Due gli inediti: il saggio d’apertura, che nelle intenzioni avrebbe dovuto costituire la sezione di un volume, in cantiere da tempo, centrato sull’accostamento donna, contadino e orso per esplorare «simmetrie e asimmetrie medievali»1; il testo teatrale focalizzato sulla figura di Ippolita Pico e su dinamiche relazionali e politico-istituzionali della prestigiosa corte padana della Mirandola2. Alla sua particolare propensione per la più larga diffusione della conoscenza storica, con la mediazione di registri testuali in grado di intrattenere con “lievità” quanti più lettori possibile pur affrontando temi cogenti, si rivolge la scelta di avvicinare combinandoli insieme saggi decisamente difformi, ordinati in tre distinte sezioni. Unica eccezione il testo d’esordio, su cui si tornerà. Nella prima parte sono stati raccolti studi su identità femminili osservate nel vivo degli assetti socio-economici dell’alto Medioevo, donne che lavorano e producono, particolarmente nel settore del tessile, e al tempo stesso nutrono ed esprimono emozioni intense, tutte declinate, appunto, al femminile: Riprendo fedelmente con queste parole la bozza del titolo – direi quasi definitivo – elaborato da Bruno insieme a qualche pagina di riflessioni metodologiche storiografiche tutt’ora inedite. 2 Il dramma Il sogno di Ippolita è stato rappresentato in una prima occasione nel giugno del 2002, per cura dell’Accademia del Sarmento, e nell’interpretazione di Paolo Pirani e Maria Rosa MilaniPezzoli, presso la corte antica di Palazzo Piccolomini, a Montemarciano (AN). Una seconda rappresentazione è avvenuta successivamente, il 14 e 15 ottobre 2007, a cura del Gruppo Teatrale “La Zattera”, presso l’Auditorium del Castello dei Pico, a Mirandola (MO). 1
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Rossella RInaldi
ci è stato possibile illustrare – è Bruno che parla – due importanti aspetti di tale complessa problematica (il riferimento è al ruolo femminile nelle transazioni fondiarie dell’alto Medioevo): in primo luogo, la sostanziale autonomia negoziale della donna in contratti che riguardano la totalità o porzioni del proprio dono maritale; in secondo luogo, l’affiorare qua e là, nei documenti in esame, di elementi che ci permettono in qualche misura di individuare alcuni frammenti di sensibilità femminile così come ancor oggi viene comunemente intesa3.
La sezione seguente si compone di alcuni ritratti femminili per così dire di punta, profili coerenti di personalità energiche e di potere, ai vertici politico-istituzionali del loro tempo: Matilde di Canossa e Caterina Pico. A loro si è avvicinata la contadina, figura esemplare, quasi simbolica di donna che lavora e produce nel quadro economico-sociale dell’Europa preindustriale. Attraverso i testi della parte conclusiva Andreolli racconta le donne, intrecciando l’ordito narrativo con una rigorosa adesione alle fonti documentarie. Ne è prova eccellente il romanzo Trilogia della sequenza. Storie d’amore e di dottrina dal Medioevo a oggi, dal quale si è estrapolato un episodio, La chiave, apparso più di altri eloquente. La chiave stessa, per l’apertura di uno scrigno di segreti, è l’oggetto che districa la trama, e permette alle vicende di chiarirsi giungendo a conclusione. Il paesaggio è tra i protagonisti, una natura prorompente e pure carica di umanità e autentica, appunto, nei suoi caratteri più vitali, segnati dal lavoro faticoso delle comunità, fatte da uomini e da donne. Importante la presenza delle istituzioni, qui soprattutto l’abbazia di Nonantola, all’orizzonte l’Impero carolingio e la capillare organizzazione periferica dello Stato. Qualche preciso dato storico fattuale è introdotto con leggerezza sapiente. A tratti, avvertiamo lo sguardo divertito con punte ironiche di chi osserva con curiosità e sagacia le esperienze umane. E tocchiamo la crudezza dell’atto sessuale violento, compiuto da un uomo avvezzo a usurpare dignità e diritti, un passaggio espresso in forma genuina e al tempo stesso grottesca, ricorrendo a un lessico decisamente e coerentemente osceno. La chiave racchiude in sé – come altri episodi, del resto – l’esplorazione profonda dell’emotività femminile, legata principalmente alla maternità; si tratta di una maternità non biologica partecipata con trepidazione, che è tema sottile tra gli altri del romanzo. La madre è Adelburga, protagonista del romanzo accanto al giovane monaco Notkerio e ai luoghi della bassa Modenese che, filtrati dalla sensibilità dell’autore, accompagnano e anzi partecipano delle emozioni di uomini e donne. Ebbene, l’identità di Adelburga è rievocata sul modello dell’omonima contessa franca vissuta in pieno secolo IX. Adelburga ha lasciato le proprie tracce in un piccolo manipolo di contratti che la vedono dapprima accanto al marito, poi vedova operare con autonomia e fermezza La citazione è tratta dal saggio qui riproposto Il dono del mattino. Forza e debolezza della donna altomedievale, in Uomini nel Medioevo. Studi sulla società lucchese dei secoli VIII-XI, Bologna, Pàtron, 1983, p. 125.
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Le donne di Bruno. Note di lettura
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nella gestione del patrimonio fondiario già condiviso col consorte, il conte Autramno. Infine la morte: quella di Adelburga, avanti negli anni ma ancora bella; quella del brutale violentatore, ad opera inconsapevole del figlio, che rende così giustizia dell’oltraggio subito dalla propria madre naturale. Le personalità di Ippolita Pico, al centro del testo teatrale a lei dedicato, e della nutrice racchiudono tratti identitari simili: donne forti e di comando, pur nei loro rispettivi ruoli afferenti una politica domestica correlata strettamente alle intricate dinamiche della politica italiana con ampie aperture interregionali. Ippolita, qui evocata in morte e in vita, è figlia di Ludovico II Pico e Renata d’Este. In avanzato secolo XVI, il suo sogno è quello difficile, per certi assunti fin’anche scabroso della pace. I precari equilibri della politica e delle istituzioni ne fanno un obiettivo lontano in ogni senso, vagheggiato nell’arco di una vita solcata da unioni matrimoniali strategiche per ingrossare poteri e ricchezze, denaro soprattutto. Accoppiamenti improponibili per una donna-bambina, Ippolita, quattordicenne, promessa a un principe Colonna, poi destinata al duca Alfonso Piccolomini: l’unione avrebbe garantito relazioni stabili con Roma e rinnovati, propizi contatti con l’imperatore. Manovre orchestrate sempre da uomini, a volte crudeli come lo stesso Piccolomini che, desiderando un figlio maschio, non mostrò di gradire la nascita di Vittoria; a lei il destino avrebbe riservato un’esistenza complicata da un’incerta identità di genere, quantomeno a livello comportamentale, segnata infine da una morte prematura. Nei loro caratteri di fondo le identità cui s’è ora accennato sono riproposte nel saggio postumo – Il tempo delle donne – centrato sulla storicizzazione di condizioni e ruoli femminili, segnatamente tra Antichità e Medioevo4. E il Medioevo viene prospettato come “osservatorio privilegiato” straordinariamente ricco per via dell’incrocio e della mescolanza coesa di culture differenti. Non mancano puntualizzazioni incisive sulla storiografia ottocentesca, la prima a carattere scientifico sulla donna: a quel tempo «con lo sviluppo dei moderni stati burocratici … si sente la necessità di trovare una giustificazione laica e naturale del ruolo di ogni individuo nella storia della società … avallato dalla ricerca storica, intesa come legittimazione di determinate situazioni e classificazioni»5. Del progetto iniziale, a cui rinvia la declinazione al singolare del titolo originario del saggio – La donna – ammiccante a una “categoria donna”, s’è detto. Vanno Anna e Alessandro Andreolli hanno ritrovato diversi files con il testo di questo saggio, files ai quali Bruno ha lavorato sino al luglio 2015 con l’obiettivo di rifinire e chiudere in fine il volume di cui riporto per intero il titolo formulato dal nostro, con una sola incertezza: La donna, il contadino e l’orso. Mondi femminili, società rurali e presenze animali nello specchio (lente) del Medioevo. La parte sulla donna, tra l’altro, è apparsa come il saggio più compiuto, pur con lacune nell’apparato note e relativamente a elementi bibliografici che ho sistemato personalmente. Stando alla cronologia registrata dai files, il saggio più risalente, probabilmente d’avvio del volume, parrebbe proprio quello sulla donna, approntato nella stesura iniziale nella primavera 2007. 5 Questa e la più parte delle citazioni seguenti sono tratte dal saggio raccolto in questo volume. 4
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segnalate però alcune avvertenze metodologiche e insieme deontologiche con cui Bruno si confronta, rivolgendosi al lettore e introducendo il volume in fieri La donna, il contadino e l’orso: è stato fatto largo uso del metodo comparativo, che in questo tipo di ricerche consente collegamenti, richiami, simmetrie non altrimenti accertabili. Non mi riferisco beninteso al comparativismo di ambito sociologico … né mi riferisco alla comparazione di tipo antropologico culturale … Mi riferisco alla peculiarità del metodo comparativo in storia, tramite il quale da paradigmi comuni si ricavano specifiche declinazioni come prima e meglio di altri ha sostenuto Marc Bloch a proposito di molteplici aspetti della società medievale … È quello che ho tentato di fare in questa sede – ossia «una comparazione che sia insieme sincronica e diacronica, sociale» – sulla base di una lettura che vuole avere la presunzione di prestare attenzione non ad un singolo corpo sociale, ma all’intera fascia delle isoipse sulle quali si muovono altre realtà in grado di essere seriamente e proficuamente confrontate tra loro. In questa prospettiva, non c’è pedigree che tenga: i diritti acquisiti si possono perdere, le posizioni conquistate annullare, i ruoli stravolgere; ed è quello che mi pare essere veramente avvenuto tra alto e basso Medioevo6.
Fatti questi necessari chiarimenti, interessa per ora soffermarsi su Il tempo delle donne per coglierne il denso spessore alla luce di ricerche e considerazioni critiche sviluppate nel tempo lungo, tra letture classiche e moderne, studi filosofici, aggiornamenti e novità talvolta insolite, storiografici e più ampiamente culturali. L’assetto e la chiarezza di metodo, per chi non ha mai separato la ricerca dall’insegnamento, costituiscono il perno saldo di un saggio pensato anche come proposta didattica, appunto. In tal senso le pagine d’esordio, convergenti sulla discussione di luoghi comuni conosciuti della storiografia, mette a fuoco da un canto l’idea di evoluzione o progresso riferito alla condizione femminile, dall’altro quello snodo concettuale di “soggezione femminile” insistentemente riproposto, appunto, in sede storiografica. Ebbene, è nei suoi intenti, rimarcata criticamente l’attribuzione ai «processi storici … di un carattere sostanzialmente teleologico», indagare e «illustrare quante e quali furono le occasioni che allora consentirono quell’innalzamento della condizione femminile, che solo col basso Medioevo e poi durante l’Età Moderna venne progressivamente eroso, ridimensionato, impoverendo la donna di tutti quei diritti e ruoli da lei accumulati in precedenza». Da questa angolatura, egli coglie nel passato «una sua autonomia, una sua specificità rispetto al presente» sulle quali fa leva la dialettica con le questioni odierne: un passato che costituisce «punto di osservazione utile per confrontare nella alterità la nostra attuale esperienza, bisognosa di conferme e di appoggi». Ecco dunque che anche per «la condizione femminile è sempre più difficile oggi proporre interpretazioni in chiave di evoluzione verso il meglio, cioè di progresso»; e, ancora, pur in pre Ricordo che il volume è inedito.
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Le donne di Bruno. Note di lettura
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senza di un’incontestabile supremazia maschile, «parlare di soggezione sic et simpliciter, astraendo dalle singole situazioni, è a mio avviso sviante e nel contempo tautologico: come a dire inutile». Si tratta di considerazioni sempre attualissime, inattaccabili. In diversi passaggi le riflessioni si addentrano nel groviglio delle fonti dell’Antichità greca e romana e fra le scritture della più remota cristianità, soprattutto di Paolo e Agostino, e tra gli Atti degli Apostoli, per rintracciare qualche significativa assegnazione di ruoli socio-istituzionali distinti, che vedono comunque la progressiva vittoria maschile, anzi l’affermarsi del dominio maschile: un percorso che non di rado comportò l’uso della violenza. Una componente, questa, delle relazioni umane, e tra gli opposti, che a Bruno non sfugge: sia la cultura, sia la pratica quotidiana – ci avverte – affrontano il problema scottante del rapporto uomo-donna recependone sempre la drammatica misteriosità; al di là degli interessi, dei rapporti di forza, delle tensioni che animano i due poli del rapporto, è l’irrisolto mistero della vita, della sessualità e dell’amore che nutre, consolidandoli, pregiudizi, sopraffazioni, sentimenti di possesso e talora di violenza.
Appare nella fattispecie centrale nelle riflessioni e negli studi su temi e personalità femminili la condizione di donne esposte alla violenza degli uomini: donne pur energiche e coraggiose, al tempo stesso giuridicamente sottomesse alla protezione degli uomini – che è il controllo sulle donne e sulla famiglia. Il motivo della violenza, peraltro, è toccato nel racconto della vita di Adelburga, con marcata crudezza nell’episodio dell’unione carnale di cui resta vittima la giovane serva Fatima. Da quella terribile vicenda sarebbe nato Ansfrit destinato a essere cresciuto dalla contessa e, adottato come figlio, a darle modo di vivere appieno l’esperienza della maternità, appena tracciata sia nell’amicizia con il giovane monaco Notkerio, sia nel legame con Fatima. Una maternità – lo si diceva – emotiva e psichica, non biologica ma non per questo meno profonda e autentica. Una condizione, ancora, che rende compiuta l’identità femminile. Tra idee e precetti che il primo Cristianesimo affidava alla cultura e alla mentalità medievali, e seguendo l’estromissione delle donne da dignità ecclesiastiche autorevoli e rappresentative, Andreolli insegue il processo di graduale esclusione delle stesse da ruoli e funzioni della società, maturato lungo i secoli centrali e conclusivi del Medioevo, e di lì in poi: un processo lunghissimo, incessante, non ancora terminato – è quasi scontato rimarcarlo. Le evidenze apicali appartengono al contesto del lavoro, in casa riservato alle donne, fuori casa agli uomini. Anzi, sono i ruoli professionali e specialistici che via via, come era stato per cariche ecclesiastiche e funzioni pastorali, respingono le donne. Sempre più declinata al maschile, la società col trascorrere dei secoli finisce per non riconoscere loro, appunto, né professionalità né competenze qualificate all’esterno della domus e della famiglia.
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Rossella RInaldi
Una realtà amara e peraltro inconfutabile nella quale Bruno si muove con la curiosità e la sicurezza dell’analisi sociologica. Evelyne Sullerot ne aveva parlato e discusso in forma pionieristica negli anni ’60 del secolo trascorso. Si ripropongono a questo punto le categorie e le dinamiche sempre attualissime, di fatto senza tempo, del Dentro e del Fuori, del Sopra e del Sotto, relativamente al lavoro di donne e di uomini, e al valore che la società e la cultura attribuisce al lavoro medesimo, distintamente. All’interno del nucleo domestico l’impegno della donna s’impone su quello dell’uomo; la condizione si inverte uscendo all’esterno, e la dinamica nell’intersecarsi delle quattro categorie assume una marcata configurazione gerarchica. Si tratta di teorizzazioni poco o punto frequentate dalla storiografia italiana, alle quali Bruno si accosta anche esplorandone le origini, raggiungendo addirittura Senofonte poiché questi due tipi di occupazioni, quelle che si svolgono dentro e quelle che si svolgono fuori, hanno bisogno di lavoro e di impegno, il dio … dispose subito, come mi sembra, la natura della donna per i lavori e le incombenze di dentro, quella dell’uomo invece per i lavori e le incombenze di fuori…
Si sono riproposti alcuni snodi focali, propri di una questione argomentata con esempi e interpretazioni eloquenti su cui il lettore avrà modo di riflettere. Il saggio si arresta un po’ bruscamente sul capitolo lavoro-rappresentatività sociale-istituzionale, mentre restano sullo sfondo deduzioni ed esiti stringenti di genere che l’autore preferisce lasciare sottesi: pur esplicitando la sua piena adesione al principio secondo cui alla nascita il sesso dell’individuo – prodotto di natura, quantomeno ritenuto tale – viene rapidamente catturato dalla cultura e dalle sue manipolazioni portando alla costruzione e alla definizione del genere. Alla graduale “maschilizzazione” della società, che è percorso fondante del saggio come dato di genere compiutamente incardinato nella storia e nella sua fattualità, egli si accosta toccando anche il tema della sessualità e dei comportamenti espressi in tal senso da uomini e da donne. Sulla questione la letteratura anglo-americana e più ampiamente europea degli ultimi decenni ha lavorato e dibattuto parecchio. Assai più contenuti e per dir così sorvegliati i contributi della storiografia italiana, dalla quale sembra separarsi proponendo una riflessione critica di fondo stringente e di fatto libera da pregiudizi. Alla luce di scelte e atteggiamenti che coinvolgono la sessualità, appunto, e il corpo senza veli nella sua più compiuta integrità, si confronta con la relazione uomo-donna individuando «una sorta di “attrazione armata” che promana da un profondo senso di conflittuale incompletezza», rifacendosi espressamente alla condizione di potenziale bisessualità comune a tutti esseri umani. In altri passaggi affronta più esplicitamente la materia, principalmente rileggendo le testimonianze dell’Antichità alle quali attribuisce un forte valore archetipico per le culture della sessualità maturate in Europa, rispettivamente, nel Medioevo e nell’Età Moderna.
Le donne di Bruno. Note di lettura
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Il tempo delle donne, benché incompiuto, avrebbe potuto chiudere questa raccolta di scritti, e come punto d’arrivo tracciare in modo esemplare «un percorso di studi durato oltre 35 anni: letture e scritture sapienti, speculative, complesse e variegate, domande scaturite da riflessioni profonde che hanno accompagnato Bruno sino ai primi mesi dell’estate 2015»7.
Traggo l’osservazione dal recentissimo Per Bruno Andreolli, Atti dell’Incontro di studi (Mirandola, 2-3 settembre 2016), a cura di P. Golinelli, Centro Internazionale di Cultura Giovanni Pico della Mirandola, Mirandola (MO), 2017, p. 37.
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IL TEMPO DELLE DONNE
Stereotipi e luoghi comuni Il richiamo al Medioevo è solitamente impiegato per designare vicende e situazioni attuali giudicate o da giudicare negativamente, nell’intento diffuso di proiettare in epoche lontane responsabilità che ad esse non appartengono: si può pertanto ragionevolmente sostenere che gli storici maggiormente autorizzati a parlare dei luoghi comuni siano senz’altro i medievisti, studiosi di un periodo che di luoghi comuni nel corso del tempo ne ha messi insieme una nutrita raccolta. All’interno di questo disinvolto quanto improprio utilizzo una sua posizione non secondaria occupa anche la donna, la cui condizione in quel lungo e complesso periodo viene generalmente letta in chiave di cupa desolazione, secondo una rievocazione mitologica insostenibile sul piano del metodo e, tuttavia, dura a morire, stante la seduzione della sua semplice perentorietà: una sorta di alibi, cui ci si aggrappa con ostinazione, da un lato, per pigrizia intellettuale, dall’altro per scongiurare le pesanti responsabilità di colpe che in molti casi non sono ascrivibili al Medioevo. Radicalmente diverso il mio convincimento, nel ritenere che il Medioevo, segnatamente per quanto riguarda i secoli anteriori al Mille, abbia rappresentato per la donna un momento di grandi opportunità e di notevole rappresentatività sotto vari profili, tant’è che vi è stato chi, in riferimento a taluni contesti domestici, ha parlato di matriarcato occulto1. Intenzione di questo capitolo è appunto quella di illustrare quante e quali furono le occasioni che allora consentirono quell’innalzamento della condizione femmini1 R. Fossier, Gente del Medioevo, traduzione di M. Guerra, Introduzione di G. Sergi, Roma, Donzelli, 2007, p. 72.
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Bruno Andreolli
le, che solo col basso Medioevo e poi durante l’Età Moderna venne progressivamente eroso, ridimensionato, impoverendo la donna di tutti quei diritti e ruoli da lei accumulati in precedenza. In gran parte, si tratta di considerazioni note, delle quali si fornisce qui una sorta di sommario con l’aggiunta di dati nuovi o nuovamente interpretati. Per interpretare correttamente le testimonianze disponibili, lo studioso deve guardarsi, preliminarmente, da alcuni pregiudizi piuttosto diffusi, che non riguardano esclusivamente il tema della condizione femminile, ma che comunque in tale materia assumono un significato di particolare rilievo. Se è abbastanza diffusa la contrapposizione tra chi ritiene che i processi storici abbiano un carattere sostanzialmente teleologico, qualificandosi come una sostanziale linea evolutiva verso il presente, di cui il passato rappresenterebbe una prefigurazione parziale, incompiuta, non ben riuscita, e chi, al contrario, intende il divenire storico in termini involutivi, sottolineando gli aspetti di decadenza, di perdita valoriale rispetto a presunte situazioni originarie, che ognuno colloca dove gli pare, tengo subito a precisare che una contrapposizione così chiaroscurale tra progressisti e catastrofisti non mi soddisfa né mi seduce, convinto come sono che ogni epoca ha i suoi punti forti e i suoi scompensi, raggiungendo determinati equilibri, che nascono dal trionfo di certe forze ma anche dal regresso di altre, vittime di quanto ha finito per prevalere. Il passato possiede quindi una sua autonomia, una sua specificità rispetto al presente ed è questa specificità che dobbiamo cercare di conoscere per confrontarla criticamente con i problemi dell’oggi. L’attualità di determinati personaggi o di determinate istituzioni del passato non va interpretata in termini di marcata e quindi rimarchevole prossimità alla situazione attuale, ma nel senso di un riferimento forte rispetto ai nostri stessi problemi, un punto di osservazione utile per confrontare nella alterità la nostra attuale esperienza, bisognosa di conferme e di appoggi. Come per ogni altro problema storico, anche per quello, complesso e articolato, della condizione femminile, è sempre più difficile oggi proporre interpretazioni in chiave di evoluzione verso il meglio, cioè di progresso. Pur tuttavia, persistono posizioni tese ad insistere sulle costanti di una soggezione difficilmente contestabile, ma della quale bisognerebbe di volta in volta valutare il peso, definire gli specifici contesti2. Parlare di soggezione sic et simpliciter, astraendo dalle singole situazioni, è a mio avviso sviante e nel contempo tautologico: come a dire inutile.
In questo contesto sembra muoversi Maria Consiglia De Matteis, la cui antologizzazione esprime tuttavia un quadro più articolato e complesso: Idee sulla donna: fonti e aspetti giuridici, antropologici, religiosi, sociali e letterari della condizione femminile, Antologia di scritti a cura di M.C. De Matteis, Bologna, Pàtron, 1981; Donna nel Medioevo: aspetti culturali e di vita quotidiana, Antologia di scritti a cura di M.C. De Matteis, Bologna, Pàtron, 1986.
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Alla ricerca di un ruolo Per studi propriamente storici sulla donna bisogna attendere l’età moderna: in particolare, l’Ottocento. L’antichità greco-romana non ci ha tramandato opere storiche sulla donna e anche quelle dedicate agli uomini, come le Vite Parallele di Plutarco o le Vite dei dodici Cesari di Svetonio sono opere piuttosto apologetiche che storiche: passerelle entrambe di tipi ideali piuttosto che ricostruzioni fedeli, per quanto possibile, degli uomini che quei tipi ideali hanno incarnato. D’altro canto, nel Catalogo delle donne di Esiodo l’attenzione appare tutta incentrata sull’accoppiamento tra particolari donne e gli dei, circostanza che avrebbe dato origine alla stirpe degli eroi: testo di cosmogonia, pertanto, non di storia. Pur nell’ambito circoscritto di una campionatura di profili biografici esemplari da proporre all’ammirazione e all’imitazione, l’età antica non fu particolarmente interessata alla storia delle donne. Su questa traccia, gli autori medievali innestano l’esigenza nuova di vedere nelle figure femminili figurazioni e prefigurazioni della storia sacra, come accade per le coppie Lia-Rachele/Marta-Maria, nel dibattito esegetico sul rapporto tra vita attiva e vita contemplativa, cui ha dedicato alcune splendide, penetranti pagine Gregorio Magno nel commento al Libro di Ezechiele, o come si riscontra nella serie AgarSara-Elisabetta-Maria, i cui dati biografici Gioachino da Fiore piega all’interpretazione allegorica delle tre chiese e delle tre età3. La prima opera espressamente dedicata a storie di donne è quindi senz’altro da considerare – con l’avallo dell’autore – il De claris mulieribus di G. Boccaccio, scritto tra il 1361 e il 1362. Ma anch’egli, nel comporre i suoi medaglioni biografici, non manifesta uno specifico interesse per la vicenda umana del personaggio concreto; sulla scia del genere biografico tradizionale, ciò che gli interessa è il tipo ideale illustrato da ogni singolo personaggio, perché il fine unico della sua opera è quello edificatorio e moraleggiante sulla base di materiali tratti dalla Bibbia, dalla mitologia e dalla storia. Il criterio della esemplarità porta alla ricerca di modelli: modelli positivi da imitare; modelli negativi da respingere. Ne deriva che il bios prevale sulla biografia, selezionando ed enfatizzando tutto quanto concorre ad esaltare gli aspetti di una vita letta in chiave squisitamente apologetica4. Come è risaputo, il testo di Boccaccio godette di una fortuna straordinaria5. Fra gli imitatori più significativi è possibile citare Geoffrey Chaucer (1340/45-1400), cui si deve La leggenda delle donne virtuose, stesa verso il 1386. Ioachim Abbas Florensis, Sermones, ed. V. De Fraja, Roma, 2004 (Istituto storico italiano per il Medio Evo. Fonti per la Storia dell’Italia Medievale), pp. 26-33. 4 R. Gregoire, Manuale di agiologia: introduzione alla letteratura agiografica, 2 ed. riveduta e ampliata, Fabriano, Monastero di S. Silvestro abate, 1996. S. Boesch Gajano, La santità, Roma-Bari, Laterza, 1999. 5 V. Zaccaria, La fortuna del De mulieribus claribus del Boccaccio nel secolo XV: Giovanni Sabbadino degli Arienti, Iacopo Filippo Foresti e le loro biografie femminili (1490-1497), in AA.VV., Il 3
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In Italia, si rifanno a questo genere, ampliandolo, Sabbadino degli Arienti (1445 ca-1510), autore di una fortunata Gynevra delle clare donne6, e Jacobus Philippus Bergomensis, alias Fra’ Giacomo Filippo Foresti da Bergamo, cronista e teologo eremitano di S. Agostino (1433-1520), autore di un Liber de claris scelestisque mulieribus, nel quale, stando all’indice, vengono trattate ben 184 esemplari biografie femminili (in realtà i medaglioni effettivamente trattati sono 186), in larga misura desunte dall’autore delle Porrettane7. Sul versante dei trattati in favore del sesso femminile, accanto alla più celebre Christine de Pizan (1364 ca-1430 ca), cui si deve La città delle donne8, steso tra il 1404 e il 1405, si può menzionare un non meglio identificato Vicenzo Sigonio, ferrarese, autore di un Trattato in difesa delle donne9, che, ancora nella seconda metà del secolo XVI, cita abbondantemente sia il Boccaccio sia il Foresti. Più o meno nello stesso periodo, Agnolo Firenzuola scrive una Epistola in difesa delle donne, che, al di là degli scontati conformismi e schematismi, racchiude osservazioni interessanti10. Opera del secolo XV è La Defensione delle donne di autore anonimo, che sembra operare in ambiente mantovano, dove il protagonismo femminile figura piuttosto evidente e dove elogiarne le benemerenze doveva essere consueto e ben visto11. Tutte testimonianze di un genere letterario che dal Boccaccio in poi tende non solo a crescere di peso, ma ad esporsi, ad esprimere valutazioni che andavano al di là delle tradizionali quanto comode tipizzazioni. L’impegno antidogmatico di queste opere, se non riesce a smantellarlo, è in grado tuttavia di scalfire il rassicurante e ripetitivo dossier dei luoghi comuni di antica Boccaccio nelle culture e letterature nazionali. Atti del Congresso internazionale (Firenze-Certaldo, 22-25 maggio 1975), Firenze, Leo S. Olschki, 1978, pp. 519-545. 6 G. Fasoli, «Gynevra delle clare donne»: frivolezze, austerità ed altro, in Memorial per Gina Fasoli. Bibliografia ed alcuni inediti, a cura di F. Bocchi, Bologna, Grafis, 1993, pp. 103-108. 7 B. Collina, Illustri in vita. Biografie di donne contemporanee nelle collettanee del XV secolo, in «MEFRM», 113, 2001, 1, pp. 69-90. 8 Christine de Pizan, La città delle Dame, a cura di P. Caraffi, Roma, Carocci, 2004. Per un recente profilo, cfr. E. Carrara, Christine de Pizan. Biografia di una donna di lettere del XV secolo, in «Quaderni Medievali», 29, 1990; valutazioni ulteriori in M.G. Muzzarelli, L’utopia di Christine de Pizan, in Il destino della famiglia nell’utopia, Bari, Dedalo, 1991; ora da integrare con M.G. Muzzarelli, Un’italiana alla corte di Francia. Christine de Pizan, intellettuale e donna, Bologna, Il Mulino, 2007. 9 Vicenzo Sigonio, La difesa per le donne, ed. critica a cura di F. Marri, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1978 (Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XIX in app. alla Collezione di Opere inedite o rare, CCLXX). 10 Cfr. Firenzuola, Agnolo, a cura di F. Pignatti, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 48, Roma 1997, pp. 216-219. 11 La defensione delle donne. Scrittura ined. del sec. XV, a cura di F. Zambrini, Bologna, Forni, 1968 (rist. anast. dell’edizione di Gaetano Romagnoli, Bologna, 1876), p. 38: «Del resto, al tutto sono le donne una medema specie con l’uomo di umana natura razionale; una medema carne, una imagine di Dio, una celeste ereditade et una comune possessione».
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tradizione misogina, introducendo argomentazioni in parte nuove, come accade nel De nobilitate et praecelentia foeminei sexus (1529) di Heinrich Cornelis Agrippa, dedicato a Margherita d’Asburgo, zia del futuro imperatore Carlo V, opera nella quale si sostiene che il nome stesso della prima donna, Eva, significa “vita”, mentre Adamo significa “terra”, etimologia tesa a mettere in evidenza una superiorità dovuta anche al fatto che Eva, essendo stata creata in un secondo momento, esprime in questo modo la sua maggiore perfezione rispetto ad Adamo12. Può essere interessante osservare che in alcuni di questi autori viene affrontato di petto il tema della decadenza politica della donna all’interno delle famiglie nobiliari, sottolineandone al contrario le attitudini al comando13. Il Sigonio, ad esempio, dedica un intero capitolo della sua difesa alla dimostrazione «che le donne non sono timide né paurose, anzi sono animose e anco atte all’armi e alla guerra», utilizzando ampiamente esempi e argomentazioni tratti dall’opera di Fra’ Filippo da Bergamo14. Già Franco Sacchetti, dal canto suo, utilizzando il genere letterario del contrasto, aveva esaltato l’attitudine guerriera delle donne ne La battaglia delle belle donne di Firenze contro le vecchie (testo datato attorno al 1354), ove l’ostentazione delle armi (in ossequio a moduli dichiaratamente tardogotici) si fonde e si confonde con la raffinata seduzione degli ornamenti15. Un contributo originale circa il rapporto tra i due sessi offre Isotta Nogarola, nella seconda metà del Quattrocento, col suo trattato De pari aut impari Evae atque Adae peccato dialogus: vecchio tema sul quale l’autrice, sulla base delle stesse argomentazione dei detrattori, difende l’assunto di una minore responsabilità di Eva nei confronti del peccato d’origine16. Accanto a questo filone, che si rifà a Boccaccio, se ne sviluppa un secondo, più tardo, ma ugualmente autorevole, rappresentato dai vari trattati sul carattere, i costumi e la sensibilità delle donne, composti soprattutto in Francia a partire dal Seicento e fortemente influenzati dal Sensismo e dallo Psicologismo. Già Mario Equicola (1470-1525), nel suo trattato sulle donne, si discostava dal modello biografico per insistere sui vari aspetti della sensibilità femminile17. Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, Della nobiltà ed eccellenza delle donne (1529), a cura di M. Ricagno, Torino, Aragno, 2007. 13 Ampia discussione del tema in M.S. Mazzi, Come rose d’inverno. Le signore della corte estense nel ’400, Ferrara, Comunicarte, 2004. 14 Sigonio, La difesa per le donne, cit., pp. 144-160. 15 F. Sacchetti, La battaglia delle belle donne di Firenze, a cura di S. Esposito, Roma, Zauli, 1996: per osservazioni sull’argomento, pp. 13-16. 16 Nogarola, Isotta, a cura di L. Carpenè, Dizionario Biografico degli Italiani, 78, Roma, 2013, pp. 680-683. 17 Mario Equicola, De mulieribus, Delle donne, a cura di G. Lucchesini e P. Totano, Pisa-Roma, Ist. edit. poligrafico internaz., 2004. 12
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Si fanno strada al contempo altri modelli letterari, che prestano particolare attenzione alle testimonianze muliebri, come nel caso delle Lettere di molte valorose donne, nelle quali chiaramente appare non essere né di eloquentia né di dottrina alli huomini inferiori18. Se Le vite delle dame galanti scritte nella seconda metà del Cinquecento da Pietro di Bourdeille, signore di Brentôme, sono espressione di uno psicologismo, talora acuto, ma più spesso dozzinale e salottiero19, e se I Caratteri di Jean de La Bruyere (1645-1696)20 conservano ancora una impostazione pesantemente moralistica, l’Essai sur le caractère, les mœurs et l’esprit des femmes dans les différents siècles, pubblicato da Antoine-Léonard Thomas (1732-1785) nel 1772, mostra una più spiccata capacità di introspezione, che riesce a coniugare carattere, costume e sensibilità femminili all’interno di una contestualizzazione storica troppo schematica e chiaroscurale21. Ad una educazione naturale piacevole e ferma, improntata ad un giusto dosaggio tra libertà e autorità, si raccomanda il quietista François Fénelon de Solignac de la Mothe (1651-1715), autore del più noto Avventure di Telemaco (1699), nel trattato sulla educazione delle fanciulle, pubblicato nel 1687, in forte anticipo sulle teorie pedagogiche del secolo successivo, nonostante le riserve manifestate nei confronti di forme educative troppo proclivi allo sfoggio della cultura e all’insegnamento in materie che non si confanno all’indole femminile22. Perentorio l’ammonimento, in base al quale bisogna stare attenti a non farne delle saccenti ridicole. Le donne hanno per lo più la mente ancor più debole e più mobile che gli uomini; per questo non è conveniente impegnarle in istudi dei quali potrebbero farsi una specie di mania. Esse non debbono né governare lo stato, né fare la guerra, né dedicarsi al sacro ministero; quindi possono fare a meno di certe ampie conoscenze in materia di politica, di arte militare, di giurisprudenza, di filosofia e di teologia. Anche la maggior parte delle arti meccaniche a loro non si confà: esse son fatte per un esercizio moderato; il loro corpo, del pari che il loro spirito, è meno forte e meno robusto di quello degli uomini; in compenso, la natura ha dato loro le doti dell’operosità, dell’ordine dell’economia, per occuparle tranquillamente nelle loro case23. Ortensio Landi, Lettere di molte valorose donne …, in Vinegia, appresso Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1549. 19 Le vite delle dame galanti del Signore di Brentôme, traduzione di S. Montanelli, Milano, Longanesi & C., 1968. 20 J. De-La Bruyère, I Caratteri, introduzione di B. Craveri, traduzione di F. Giani Cecchini, Milano, 1988, pp. 53-76. 21 A.-L. Thomas, Essai sur le caractère, les moeurs…, Paris chez Moutard, 1772. 22 L’educazione delle fanciulle, studio introduttivo, traduzione e note di L. Nutrimento, Treviso, Libreria Editrice Canova, 1954, p. 38: «Se tante anticipazioni danno all’opera del Fénelon un indiscutibile carattere di modernità, non è tuttavia il caso di eccedere fino a vederne altrettanta nella sua concezione dei rapporti fra autorità e libertà». 23 Ibid., p. 52. 18
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Tutto ciò, nonostante il fatto che il manuale sia indirizzato alla formazione di giovanissime e giovani dame, dalle quali ci si attendeva una certa spregiudicata disinvoltura anche linguistica (e perfino fonetica) nelle strette delle relazioni sociali così rilevanti nei salotti dell’aristocrazia. Evidenti i passi fatti indietro rispetto alle “sanguinarie” regine e principesse di qualche secolo prima, quando la trattatistica amava mettere in passerella donne battagliere e pronte a tutto per difendere i diritti dei loro parentadi. E donne preparate nell’esercizio del potere, dell’amministrazione e delle armi, quando si pensi ad una donna, che molti vogliono pia, quale fu Matilde di Canossa, di cui sono note le marce massacranti, le battaglie, la sagacia nel comando e la conoscenza delle lingue, come assicura, con una punto d’orgoglio, il monaco-poeta Donizione24. Il punto più alto di questa tendenza ad affrontare in chiave psicologica il problema della collocazione femminile nel corpo sociale è rappresentato dall’Emilio (1762) di Jean Jacques Rousseau, che inquadra la questione in un’ottica ormai pienamente pedagogica: l’intero libro quinto di questo celebre trattato è impostato sull’assunto che «in tutto ciò che non è in rapporto col sesso la donna è uomo» mentre «in tutto ciò che concerne il sesso, la donna e l’uomo hanno dappertutto rapporti e dappertutto differenze», in cui «la sola cosa che sappiamo con certezza è che tutto ciò che essi hanno in comune è proprio della specie, tutto ciò che hanno di differente è proprio del sesso»25. Ne deriva necessariamente un’educazione diversa e una diversità di comportamento tra un sesso e l’altro, ma poco spazio è lasciato alla storicizzazione di questo rapporto. A parte talune premesse del filone moraleggiante e di quello psicologico, una storiografia veramente scientifica sulla donna fiorisce solo nell’Ottocento, con lo sviluppo dei moderni stati burocratici, ove si sente la necessità di trovare una giustificazione laica e naturale del ruolo di ogni individuo nella storia della società. Ciò che nell’età precedenti era stato definito in base a ragioni teologiche, morali o psicologiche, ora deve essere individuato e avallato dalla ricerca storica, intesa come legittimazione di determinate situazioni e classificazioni. Si muovono in questa direzione soprattutto gli storici del diritto e gli etnologi, ma il problema è avvertito da tutta la società, per cui travalica lo sforzo degli addetti ai lavori. Si accumulano opere divulgative, dizionari, enciclopedie, repertori delle donne più o meno celebri, opere di vario impianto e interesse, ma tutte alla ricerca di un ruolo. Fra le tante, per i lavori femminili, è possibile segnalare Cendrillon, Revue encyclopédique de tous les travaux des dames. Tricot, crochet, frivolité, lacet, filet,
Donizone. Vita di Matilde di Canossa, a cura di P. Golinelli, con Introduzione di V. Fumagalli, Milano-Zurigo, Jaca Book, 1984, pp. 116-118. 25 J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, ed. integrale a cura di E. Nardi, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp. 435-600 (V capitolo). 24
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tapisserie, broderies de tous genres, modes, recettes, hygiène, etc., la cui XVIa edizione ammontava a 8 volumi26. In Italia è da segnalare la rivista Cordelia. Rivista mensile per le giovanette italiane, fondata nel 1881 dal comparatista storico delle religioni e delle tradizioni popolari A. De Gubernatis, che la diresse fino al 188427. Nel campo della ritrattistica, si raccomanda per accuratezza la Galerie Française de femmes célèbres di Lante Louis Marie28, mentre il gusto erudito della tradizione positivistica rasenta il ridicolo nelle Novemila novecento novantanove malizie delle donne, colle quali si tratta gl’inganni, astuzie, falsità, tradimenti, furberie, assassinii, belletti, solimati, unguenti, impiastri, ed altre cose che usano far le male donne, per gabbare i giovani che di loro s’innamorano29. Alla ricerca di un pubblico femminile interessato alle problematiche culturali e segnatamente letterarie dedica un suo progetto l’editore bolognese Antonio Fortunato Stella con la “Biblioteca amena e istruttiva per le donne gentili”, dove nel 1825 apparve un volume antologico di Niccolò Tommaseo intitolato I tre galatei, e al quale prestò un suo contributo lo stesso Giacomo Leopardi30. Né si possono dimenticare le grandi eroine del pieno Ottocento, cui dedicarono romanzi tra i più riusciti e duraturi gli autori de La dama delle camelie (1848), di Madame Bovary (1857) e di Anna Karenina (1873-1878). Il tema viene ripreso anche dalla speculazione filosofica, che propone modelli molto diversi, accomunati tuttavia da una solidale condivisione rispetto al ruolo subalterno della donna nelle società del passato, del presente e dell’avvenire. Esemplari, a questo riguardo le considerazioni sistematiche proposte da Hegel ne La Filosofia del diritto e le provocazioni di Friedrich Nietzsche contenute nell’opera Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire (1886), la cui parte settima è interamente dedicata al problema femminile. Gli stessi musicisti entrano nel dibattito, come illustra il caso di Richard Wagner, che nel 1883, anno della morte, scrive Il femminino nell’umano, sintesi del carattere androgino di tutta la sua opera31.
Cendrillon, Revue encyclopedique de tous les travaux del dames … Paris, Adelphe Goubaud et C., 1851-[1858]. 27 De Gubernatis, Angelo, a cura di L. Strappini, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 36, Roma 1988, pp. 227-235. 28 Lante Louis Marie, Galerie française de femmes celèbres par leur talens, leur rang ou leur beauté. Portraits en pied, dessinés par M. Lanté, la plupart d’après des originaux inédits; graves par M. Gatine, et coloriés; avec des notices biographiques et des remarques sur les habillements, Paris, de L’imprimerie de Crapelet, 1827. 29 Novemila novecento novantanove malizie delle donne…, Napoli, presso Avallone, 1849. 30 Sull’argomento, acute osservazioni di U. Casari, Il pubblico delle lettrici e altri studi leopardiani, Verona, Edizioni Fiorini, 2011. 31 J.-J. Nattiez, Wagner androgino. Saggio sull’interpretazione, Torino, Einaudi, 1997 (orig. Paris 1990). 26
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Pur con tutte le doverose contestualizzazioni biografiche, a questo genere letterario credo si possa ricondurre anche l’Eterno femminino regale, lungo articolo pubblicato da Giosuè Carducci nel 1882, nel quale la regina Margherita, cui nel 1878 aveva dedicato una delle Odi Barbare, viene assunta come icona nella galleria femminile delle eziologie generatrici e fondative della storia dei popoli32. Sul versante negativo, è da segnalare l’immancabile Cesare Lombroso, il quale osservava che le prostitute erano portatrici di un comportamento deviante biologicamente determinato33. Al tema si appassionano anche i padri fondatori dell’economia politica, come Karl Bücher (1847-1930), cui si deve una monografia sul problema della donna nel Medioevo, dove la questione di fondo si risolve nella designazione di quelli che sono i suoi compiti soprattutto nel campo della tessitura34. Ad un politico militante quale è Marco Minghetti si deve una serie di saggi dedicati alle donne, alla Maddalena e alle madonne in ambito artistico, dove «l’intento pedagogico e la passione politica – per usare le parole di Gabriella Zarri – prendono spesso il sopravvento sul pur attento lavoro filologico e informativo»35. A Tommaseo si deve invece un poemetto dedicato a Matilde di Canossa e ai suoi presunti rapporti con il pontefice Gregorio VII36. Tutte testimonianze, alte o basse esse siano, enciclopediche o trattatistiche, divulgative o specialistiche, che rendono ragione di uno sforzo diffuso nella ricerca di un ruolo, i cui presupposti si volevano cercare non più nella religione o nella fisiologia, come era accaduto in passato, ma piuttosto nel divenire delle civiltà storiche. C’era, tuttavia, chi ancora si attardava inseguendo classificazioni di basso profilo, scagliandosi contro i costumi delle donne “moderne”37. Gli autori che hanno gettato le basi dei moderni studi sulla condizione femminile nella storia, veri pionieri di questo tipo di ricerche, si possono considerare lo storico del diritto J. Bachofen (1815-1887) con il suo monumentale Das Mutterrecht (Il diritto matriarcale) 1861, Lewis Henry Morgan (1818-1881) e John Ferguson Mc G. Carducci, Eterno femminino regale, Roma, A. Sommaruga e C., 1884. Per il componimento, intitolato Alla Regina d’Italia e datato 16-17 novembre: Id., Tutte le poesie, a cura di P. Gibellini, Note di M. Salvini, Roma, Newton Compton, 1998, pp. 486-488. 33 M. Gybson, Tollerare o reprimere? Un dilemma contemporaneo, in La storia della prostituzione, a cura di G. Ruggiero («Storia e Dossier», inserto redazionale allegato al n. 25, gennaio 1989). 34 K. Bücher, Die Frauenfrage im Mittelate, Tübingen, Laupp’schen, 1882. 35 Le donne, la Maddalena, le Madonne. Scritti sull’arte moderna di Marco Minghetti, a cura di R. Gherardi, Bologna, CLUEB, 2010: per la citazione di G. Zarri, Tra storia e rappresentazione: donne, Madonne e sante, pp. 19-30, alle pp. 19-20. 36 N. Tommaseo, La contessa Matilde, Rut, Una serva, edizione critica e commento a cura di P. Pozzobon, Firenze, Vallecchi, 1990. 37 Il riferimento, tutt’altro che rapsodico, è ad Antonio Campi (1725-1801) in Biografie mirandolesi, I, pp. 111-114: autore di un opuscolo Contro i costumi delle donne moderne. Cicalata poetica e di una Istruzione ai Genitori per l’educazione dei figli, non stampata. 32
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Lennan (1827-1881). Tutti e tre gli autori estendono alla ricerca storico-etnografica le tesi evoluzionistiche illustrate, prima da Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829)38, poi da Charles Darwin (1809-1882). Di qui l’interpretazione in chiave progressiva del passaggio dalla fase del matriarcato a quella del patriarcato, per Bachofen e Morgan; dall’esogamia al matriarcato e al patriarcato, secondo un processo che per Mc Lennan è da intendere come passaggio dal selvaggio al barbaro e infine al civile. Il metodo seguito dai tre grandi studiosi ottocenteschi è stato opportunamente sottoposto ad una severa revisione critica da parte di Uwe Wesel39, che ha parlato di un uso poco sorvegliato di fonti scarse e tutt’altro che cristalline, ma già talune ricerche etnografiche ed antropologiche avevano dimostrato l’infondatezza di uno schema evoluzionistico così rigido. Eppure le tesi di Bachofen e compagni ebbero notevole successo, soprattutto per la divulgazione che ne fu fatta nelle opere più importanti del pensiero socialista: in particolare, da parte di F. Engels, nel noto saggio sulle origini della famiglia e dello stato (1884), e da parte di August Friedrich Bebel, il cui La donna e il socialismo (1879) ebbe una diffusione vastissima40. È lo stesso Bebel ad ammettere: «Il velo che avvolgeva la storia più remota dello sviluppo della nostra razza, fu squarciato dalle ricerche che i signori Morgan e Bachofen esposero nelle loro opere, e si fece la luce su fatti e risultati, che furono poi coordinati, sistemati e storicamente provati da Federico Engels». Anche l’Italia fu partecipe della fortuna di questo testo. Oggi comunque le tesi sul matriarcato inteso come fase della storia umana, in cui vi sarebbe stato un netto predominio della donna sull’uomo, non vengono più accettate e di questo istituto si dà comunemente una definizione molto più prudente, identificandolo tout court con la discendenza matrilineare o intendendolo come tratto caratterizzante di società in cui la donna gode di particolari diritti e favori. In ogni caso, non esistono, per quel che se ne sa, società che si possano definire pienamente patriarcali o matriarcali, ma soltanto società caratterizzate da rapporti tra i due sessi, che possono essere favorevoli ora all’uno ora all’altro: il problema storico ed etnologico fondamentale è allora quello di mettere a fuoco questi rapporti, che nascono sempre dalla definizione dei ruoli, costantemente diversi tra uomini e donne, come ha sottolineato Margaret Mead41. Cfr. A.S. Packard, Lamarck the founder of evolution, his life and work, New York, London, Bombay, Longmans Green and Co., 1901; L. Roule, Lamarck et l’interprétation de la nature, Paris, Ernest Flammarion, 1927. 39 U. Wesel, Il mito del matriarcato: la donna nelle società primitive, Milano, Il Saggiatore, 1985 (ed. orig. 1980). 40 A. Bebel, La donna e il socialismo. La donna nel passato, nel presente e nell’avvenire, traduz. di V. Olivieri sull’XI ed., Milano, s.a., pp. 19-20; ulteriori riferimenti in A. Michel, Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino, 1973 (orig. 1972), pp. 31-39. 41 M. Mead, Maschio e femmina, Milano, Mondadori, 1991 (ed. orig. 1949); cfr. anche A. Michel, Sociologia cit., pp. 80-82, dove, sulla base delle teorie sociologiche di Talcott Parsons, si parla di ruolo strumentale maschile e di ruolo espressivo femminile. 38
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In questo contesto non è necessario arrivare alle posizioni estreme di T. Laqueur, secondo il quale, «il sesso è una categoria sociologica e non ontologica»42; basterà tenere conto della constatazione più ragionevole di Christiane Klapisch-Zuber, per la quale «nascere uomo o donna non è in nessuna società un dato biologico neutro … il genere è il prodotto di una rielaborazione culturale che la società opera su questa sedicente natura»43. La definizione dei ruoli non può quindi essere mortificata da una rigida interpretazione evoluzionistica a senso unico, ma figura espressa dalle singole esperienze, le quali vanno studiate all’interno delle loro specifiche caratteristiche e dinamiche, in una logica che non è quella del superamento, ma quella della trasformazione mediante progressive forme di adattamento. Una trasformazione che parte da determinate premesse e influenze, le quali alimentano i processi di modificazione, senza tuttavia plasmarli geneticamente, per cui i risultati di quei processi non possono essere misurati in termini di maggiore o minore presenza dei prestiti anteriori, ad esempio con bilance romanistiche o germanistiche, come si sforzarono di fare i pandettisti del secolo XIX, col rischio di perdere i tratti specifici e in larga misura nuovi della realtà medievale. Precisato ciò, si deve tuttavia sottolineare che nel lungo e articolato percorso qui sommariamente illustrato, si riscontrano alcuni comuni denominatori in relazione stretta tra loro: agli studiosi non stavano tanto a cuore i ruoli, già dati per acquisiti, ma i metodi per dare ad essi un fondamento “scientifico”; dati i ruoli, il problema è quello della loro permeabilità, per cui si riscontrano momenti e settori di maggiore apertura rispetto ad altri caratterizzati da maggiori rigidezze e impermeabilità; anche nelle situazioni di maggiore apertura tra ruolo e ruolo, i filtri inclusivi sono sempre tendenzialmente tesi a sottolineare la subalternità e le asimmetrie del dentro e del sotto rispetto al fuori e al sopra: modello sul quale s’imperniano le categorie su cui si tornerà. Un osservatorio privilegiato Se, dunque, il tema non è quello della omologazione e confusione dei ruoli, bensì quello della loro conservazione o ridefinizione, sulla base delle esigenze poste dalla società in divenire, allora, anche sotto questo profilo, il Medioevo si pone come una buona opportunità di confronto, data la sua natura di crogiolo tra popolazioni, religioni, lingue, culture, tradizioni. Schematizzando oltre ogni decenza, possiamo affermare che nel Medioevo europeo confluiscono, mescolandosi, tre grandi civiltà: quella antica, quella giudaico T. Laqueur, Making sex. Body and gender from the Greeks to Freud, Cambridge and London, Harvard University Press, 1990, p. 142. 43 G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne. Il Medioevo, a cura di Ch. Klapisch-Zuber, Roma-Bari, Laterza, 1990, Introduzione, pp. 5-6. 42
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cristiana e quella germanica, cui si può aggiungere, in talune zone dell’Italia rimaste sotto il controllo dell’Impero d’Oriente, la permanenza delle tradizioni bizantine, mentre in altre, in primis la Spagna e la Sicilia, una notevole influenza venne esercitata anche dalla cultura araba o arabo-islamica44. Da non sottovalutare l’influenza tanto nell’Europa orientale quanto nell’Italia adriatica della civiltà slava, di cui in questa sede non si potrà dire che sommariamente45. La domanda è scontata: che peso hanno esercitato queste civiltà al fine di un innalzamento della condizione femminile nella società, nella famiglia, nel lavoro, nella cultura ? Il peso della civiltà greco-romana a mio avviso è stato piuttosto modesto. Il carattere fortemente misogino della cultura greca, con la conseguente, arcinota contrapposizione tra i due sessi, ha rappresentato un freno allo sviluppo del protagonismo della donna nella polis greca46. Ne è derivato un forte sviluppo della omosessualità, sia maschile sia femminile, accompagnato dalla concezione sostanzialmente neutra, se non positiva, delle pratiche corrispondenti: con alcuni distinguo, tuttavia. Sembra fuori discussione la superiorità della omosessualità maschile rispetto a quella femminile, se non altro perché la pedofilia veniva intesa come pratica educativa, con gentilezze di gusto già sottolineate da G. Pascoli nella sua tesi di laurea su Alceo47 e ora accreditate dalla più recente letteratura sull’argomento48. Eva Cantarella ritiene peraltro con buoni argomenti che la pederastia di età antica sia da interpretare come una forma di eterosessualità, tant’è che sarebbe stato disdicevole invertire i ruoli codificati tra uomo maturo e giovane compagno49. Duplicità comportamentale cui fa cenno con la consueta sobrietà Cornelio Nepote, in riferimento ad Alcibiade, «di gran lunga il più bello di tutti nel suo tempo», il quale «all’inizio dell’adolescenza fu amato da molti – com’è costume dei Greci –, e fra essi da Socrate … Poi che divenne più virilmente robusto, anch’egli amò giovinetti, e nell’amarli, finché gli fu lecito, compì atti riprovevoli, ma anche molti raffinati e giocosi»50. Data la più assoluta incompetenza da parte dell’autore in materia, di questo ultimo aspetto non si dirà più che nulla. D’obbligo comunque il rinvio a R. Arnaldez, Statut juridique et sociologique de la femme en Islam, in La femme dans les civilisations des Xe-XIIIe siècles. Actes du colloque tenu a Poitiers le 23-25 sept. 1976, Université de Poitier, Centre d’Etudes Superieures de Civilisation Médiévale, Poitiers, 1977, pp. [131] 41-[143] 53; G. Stasolla, Raffinatezza e amor cortese nel Kitab Al-Muwassa, in «Quaderni di Studi Arabi», 7, 1989, pp. 105-123. 45 Assai informato sugli aspetti della condizione femminile nel mondo slavo figura essere F. Conte, Gli Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, Torino, Einaudi, 2006 (orig. Paris 1986), pp. 159-216. 46 N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Roma-Bari, Laterza, 1991. 47 G. Pascoli, Alceo, a cura di G. Caputo, Bologna, Clueb, 1988, p. 44. 48 L. Stone, La sessualità nella storia, Roma-Bari, Laterza, 1995 (ed. orig. 1987), segnatamente pp. 34-36. 49 E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Roma, Editori Riuniti, 1992 (2a ed.). 50 Cornelio Nepote, Gli uomini illustri, a cura di L. Canali, Mondadori, Milano, 2002, pp. 452-455. 44
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Il carattere positivo dell’omosessualità maschile viene confermato dal fatto che essa conosce esempi anche a livello divino: il mito di Giacinto, di cui si innamorarono sia Apollo che Borea, e quello di Ganimede, rapito da Zeus e condotto sul monte Olimpo, dove sarebbe divenuto coppiere degli dei, ne sono un valido esempio; mentre non si danno casi analoghi, che io sappia, in campo femminile. Del discredito di cui godeva in Grecia l’omosessualità femminile, soprattutto quella tesa ad imitare pratiche caratteristiche della pederastia, è testimonianza colorita in uno dei dialoghi che Luciano dedica alle etere (per altri traduttori, più brutalmente, meretrici), nel quale si mette in evidenza l’imbarazzo e perfino la vergogna di una cortigiana costretta a svelare un suo rapporto con una amica, alla quale era particolarmente gradito svolgere le funzioni del maschio51. L’omosessualità maschile non è comunque una pratica esclusiva dei Greci, dal momento che Diodoro Siculo (seconda metà del I secolo a.C.) ne parla a proposito dei Galli e scrive: Anche se le donne sono belle, le trascurano, e preferiscono la lussuria stravagante degli amori maschili. È loro abitudine dormire per terra sulla pelle di animali e rotolarsi con al fianco due cinedi. Ma quello che sorprende di più è che non sentono alcuna preoccupazione per la loro dignità personale, ma prostituiscono senza alcun rimorso il fiore dei loro corpi; e questo non è considerato una cosa vergognosa, ma anzi, se qualcuno di loro ha avuto una proposta di questo genere e si rifiuta di accettare il favore, questo allora è considerato vergognoso52.
In realtà, il regime bisessuale, al di là della pederastia che è altra cosa, era, in tutto il mondo antico, una sorta di costume che legava trasversalmente tutti i ceti sociali, come illustrano efficacemente, per l’età romana, i graffiti latini, in primis, naturalmente, quelli di carattere licenzioso e osceno53. I ménages di tipo bisessuale erano peraltro ancora molto diffusi nel Medioevo, soprattutto nelle classi nobiliari né erano scherniti come segno di imbelle effeminatezza, come illustra il caso molto noto e per nulla isolato del re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone, protagonista della terza Crociata (1187-1192)54. Anche il prode e bellicoso Guglielmo il Rosso pare fosse omosessuale, ma ciò è probabilmente da collegare col fatto che non si sia sposato e non abbia avuto figli. Solo nel corso del basso Medioevo, 51 Luciano di Samosata, Dialoghi. Dialoghi dei morti, Dialoghi marini, Dialoghi degli dèi, Dialoghi delle meretrici, Introduzione di R. Guarini, cura e traduzione di G. Caccia e U. Montanari, Roma, Newton Compton, 1995, pp. 293-297. 52 Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, II, a cura di G. Cordiano e M. Zorat, Milano, Rizzoli, 2014 (Classici greci e latini): V. 32, pp. 356-357. La traduzione italiana fornita da Bruno è tratta da altra edizione, non precisata; sul piano dei contenuti le due versioni coincidono. 53 Graffiti latini, a cura di L. Canali e G. Cavallo, Rizzoli, Milano, 1998. 54 J. Flori, La cavalleria medievale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 72-73, 113-125, per l’inquadramento complessivo.
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per intraprendenza della Chiesa in favore all’amore coniugale all’interno del matrimonio, si impose veramente una decisa predilezione per l’eterosessualità. Il mondo greco è talmente misogino da attribuire a una donna, Pandora, l’origine di tutti i mali del mondo. Menandro (342/341-292 a.C.) concorda: «Tutte le sventure accadono a causa delle donne»55. La raccolta godette di notevole fortuna anche nel Medioevo, tant’è che nel secolo IX ne fu fatta una traduzione in arabo, mentre nel XII ne uscì una traduzione in lingua slava. Ma si va più in là, sottraendo alle donne perfino la loro funzione naturale più specifica, come quella procreativa. Le parole che nelle Eumenidi Eschilo mette in bocca ad Apollo sono molto chiare a riguardo: «Non è la madre a generare quello che chiamiamo suo figlio: ella è solo la nutrice del seme gettatole nel ventre. La donna, straniera depositaria del germe, lo riceve e se piace agli dei lo conserva». Come ha osservato opportunamente Simone de Beauvoir in una sua celeberrima opera, «è evidente che queste affermazioni non sono il risultato di una scoperta scientifica: sono una professione di fede»56. In un saggio assai bene argomentato e documentato, la Pomata ha messo in rilievo il fatto che nella società antica la consanguineità veniva computata in riferimento al padre, non alla madre, e ciò anche sulla base di ragioni mediche tese a sostenere che il liquido seminale era la forma più perfetta di sangue, unico responsabile dell’atto generativo, mentre alla madre con il latte, altra forma meno perfetta di sangue, veniva affidato il compito di nutrire il nato dal seme del maschio. Concezione che naturalmente aveva effetti giuridici di notevole portata incidendo sul controllo delle discendenze, in quanto solo i maschi erano in grado di determinare rapporti di agnazione. Solo nelle Novellae di Giustiniano comincia ad essere contemplato e assecondato il principio operativo della doppia consanguineità maschile e femminile57. Anche la semplice masturbazione femminile viene ridicolizzata da alcuni intellettuali Greci, come il solito, irriducibile Aristofane, che nella Lisistrata, mette in bocca alla protagonista questo disappunto: «E poi, da quando ci han traditi i Milesi, neppure ho più veduto quel trastullo di cuoio d’otto dita, che ci dava ristoro»58. Nelle Sentenze di Menandro diventa un fastidioso refrain la necessaria disgrazia di dover prendere moglie: Lontano dal matrimonio trascorrerai senza preoccupazioni la via; Meglio per l’uomo, se non prende moglie; Menandro, Sentenze, introduzione, traduzione e note di G. Pompella, Milano, Rizzoli, 1997, 203. S. de Beauvoir, Il secondo sesso con Prefazione di Julia Kristeva, Milano, Il Saggiatore, 2008 (ed. orig. Paris 1961). 57 G. Pomata, Legami di sangue, legami di seme. Consanguineità e agnazione nel diritto romano, in «Quaderni Storici», n. s., 86, 1994, pp. 299-334 58 Più esplicita e più precisa la traduzione curata dal Paduano: «E da quando i Milesi ci hanno tradito non si vede più nemmeno l’olisbo lungo otto dita, il nostro sollievo di cuoio» v. Aristofane, Lisistrata, a cura di G. Paduano, Rizzoli, Milano, 1981, p. 75. 55
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Si condanna a vivere in ristrettezze che prende moglie; Vivrai ottimamente, se non prenderai moglie; La donna, meglio seppellirla che prenderla in moglie; Non prendere mai moglie, e non ti scaverai la fossa; Chi non prende moglie non va incontro a disavventure; Niente di peggio di una moglie, quand’anche bella; La moglie per il marito è come una tempesta in casa59.
Eppure il mondo greco, con Aristotele, ha voluto fornire anche una spiegazione scientifica alla estraneità della donna al momento procreativo, attribuendo al maschio la funzione attiva, mentre la donna svolgerebbe semplicemente un ruolo passivo, qualificandosi come un banale contenitore: in questo senso la donna diventa un mas occasionatus, un maschio imperfetto, un corpo maschile rovesciato capace solamente di introiettare e preservare il vigore generativo del partner. Che si tratti di una presa di posizione spudoratamente ideologica viene confermato dal fatto che, come ha sottolineato Margaret Mead, pochissime società umane sono state capaci di minimizzare il ruolo della madre nel concepimento. Le eccezioni sono tutto sommato rare: gli abitanti dell’isola di Rossel ritengono che il padre deponga un uovo nella femmina considerata come ricettacolo puramente passivo, mentre è stato rilevato che i Montenegrini negano la parentela fra madre e figlio60. Ma, a parte queste sporadiche eccezioni, risulta molto più naturale (anche se non immediato) collegare il figlio alla madre piuttosto che al padre, tant’è che alcune società “arcaiche” non conoscono il rapporto preciso tra atto sessuale e concepimento61. Il pragmatico mondo romano non arrivò mai agli eccessi speculativi della cultura greca, ma dal punto di vista pratico le cose non migliorarono di molto. Anche presso i Romani la donna continua ad essere una figura relegata all’interno delle pareti domestiche; i suoi pregi più apprezzati sono la frugalità, la modestia, l’operosità e soprattutto il silenzio. Già i Greci avevano sottolineato con forza quest’ultimo aspetto. Nell’Odissea, Telemaco, rivolgendosi alla madre Penelope, le ricorda che «la parola è affare da uomini», mentre Sofocle nell’Aiace afferma che «il silenzio reca decoro alla donna». Euripide, dal canto suo, che «tutti i colori conosce del cuore femminile»62, ammonisce: «Una donna, sia innocente o colpevole, s’espone alla maldicenza per il solo fatto che resta poco in casa». Nelle Troiane Andromaca si compiace del suo comportamento nell’affermare che «per prima cosa, mentre – ci sia o non ci sia reale motivo di biasimo per le don Per le citazioni: Menandro, Sentenze, cit., rispettivamente 72, 90, 117, 118. 151, 502, 591, 609, 823 M. Mead, Maschio e femmina, Milano, Mondadori, 1991 (ed. orig. 1949), pp. 37-38. 61 M. Esther Harding, I misteri della donna, traduzione italiana di A. Giuliani, Roma, Astrolabio, 1973 (ed. orig. 1971), p. 34. 62 Cit. anche in R. Vecchioni, Il mercante di luce, Torino, Einaudi, 2014, p. 36. 59
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ne – già di per sé questo comporta motivo una cattiva fama, se una donna esce di casa, di questo io tralasciavo il desiderio e restavo dentro casa»63. Aristofane nella Lisistrata approva: «Non si trova d’Euripide poeta più profondo / non c’è bestia impudente più delle donne al mondo»64. Quello del silenzio non è sentito come dovere attivo, ma anche passivo. Nelle Storie di Tucidide (II, 45), Pericle si rivolge alle vedove con queste parole: «Il non essere più deboli di quanto comporta la vostra natura sarà un grande vanto per voi; e sarà una gloria se di voi si parlerà pochissimo tra gli uomini, in lode o in biasimo». Esiodo ne Le Opere e i Giorni aveva avvertito: «La tua mente non resti ingannata da una donna col sedere adornato che ciarla seducente; costei il tuo granaio ricerca»65. Il pregiudizio in base al quale una brava donna deve tacere e starsene in casa è divenuto nel corso del tempo un luogo comune, fissandosi in proverbi e detti popolari molto diffusi. «Le donne dabbene – afferma un proverbio bolognese – non dovrebbero avere né occhi, né orecchie, né lingua»66. L’insopportabile Nietzsche, insistendo sul carattere irrazionale della sensibilità femminile, approva il decreto ecclesiastico: «Mulier taceat in ecclesia»; condivide la risposta data da Napoleone a M.me de Stäel: «Mulier taceat in politicis»; e rincara la dose, vietando alla donna di parlare di se stessa, del proprio ruolo, dei propri compiti: «Mulier taceat de muliere». È in base a questo principio, assunto più che dimostrato, che la donna, secondo il filosofo, potrà al massimo essere una sguattera, mai una cuoca67. Ma i Romani sui pericoli delle chiacchiere femminili elaborarono perfino il mito di Lara, una ninfa chiacchierona, come dice il nome stesso (che deriva dal verbo greco “laleo”), trasformata da Giove in una dea degli inferi, col nome significativo di Tacita Muta68. Di qui l’attenzione che il mondo antico presta al bere vino da parte delle donne: se Aristofane infatti non va oltre la derisione, il mondo romano, più attento agli aspetti pratici del problema, interviene con precise norme proibizionistiche, proprio perché il vino scioglie la lingua. Nell’accingersi a chiudere la sua rassegna sui vini, nel libro quattordicesimo della Storia Naturale, Plinio il Vecchio assicura ed esemplifica: A Roma era proibito alle donne di berne. Tra i vari esempi troviamo che la moglie di Egnazio Metennio, per aver bevuto del vino da una botte, fu uccisa a colpi di bastone 63 Euripide, Troiane, introduzione di V. Di Benedetto, traduzione di E. Cerbo, note di E. Cerbo e V. Di Benedetto, Milano, Rizzoli, 2007 (VI ed.), p. 195. 64 Aristofane, Lisistrata, cit., p. 661. 65 Opere di Esiodo, a cura di A. Colonna, Torino, UTET, 1977, pp. 270-271. 66 G. Ungarelli, I proverbi bolognesi sulla donna, Bologna, 1890 (rist. anast. Arnaldo Forni Editore, 1990), p. 16. 67 Si veda anche: M.G. Muzzarelli, Nelle mani delle donne. Nutrire, guarire, avvelenare dal Medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2013. 68 E. Cantarella, Tacita Muta. La donna nella città antica, Roma, Editori Riuniti, 1985.
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dal marito, che Romolo poi assolse dall’imputazione d’assassinio. Nei suoi annali Fabio Pittore ha scritto che una matrona, per aver aperto la cassetta contenente le chiavi della cantina, fu costretta dai suoi parenti a morire d’inedia. Per questo motivo secondo Catone i parenti davano un bacio alle donne, cioè per verificare se sapessero di temetum; questo è l’antico nome del vino, donde deriva il termine temulentia (ubriachezza). Il giudice Gneo Domizio sentenziò che una donna aveva verisimilmente bevuto, all’insaputa del marito, più di quanto richiedessero le sue esigenze di salute e la condannò all’ammenda della sua dote69.
Si tratta di una preoccupazione che il mondo greco aveva esteso all’intero simposio, da cui sono assenti le donne, cui viene vietato il consumo comunitario del vino, mentre nel mondo italico, anche dopo la colonizzazione della Magna Grecia, è contemplata la partecipazione delle donne ai riti della convivialità70. Su un altro versante si muove Nicole Loraux, la quale in base alla lettura degli epitaffi ricava la convinzione che la donna non fosse in grado neppure di appropriarsi della propria morte e precisa che «la morte della sposa chiude semplicemente una vita di abnegazione e di affetto, di bonomia e riserbo, una morte di cui il marito saprà infine, indubbiamente, “parlare molto bene”»71. Naturalmente, le testimonianze letterarie e dottrinali confliggono con la realtà pratica quotidiana, che dovette essere assai più articolata, come vanno dimostrando le ricerche degli antichisti, segnatamente quelle condotte e promosse da Francesca Cenerini72, mentre la percezione e la valutazione estetica del corpo nella società tardoantica e cristiana si presentano più ricche e più interattive di quanto prima si supponesse, come argomenta Valerio Neri, sulla base di una solida e articolata documentazione73. Una lettura al femminile della documentazione numismatica ha consentito ad Anna Lina Morelli di precisare meglio il ruolo delle sovrane di età imperiale come strumento propagandistico di modelli comportamentali da imitare74. Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, 5 voll., Torino, Einaudi, 1982-1988, III*, p. 235. D. Elia, Il consumo del vino alla frontiera tra Greci e indigeni: diffusione e uso del cratere in Italia meridionale e in Sicilia tra VI e IV secolo a.C., in Les Frontières alimentaires, sous la direction de M. Montanari et J.R. Pitte, Paris, CNRS Editions, pp. 39-63, pp. 52-54. 71 N. Loraux, Come uccidere tragicamente una donna, Roma-Bari, Laterza, 1988 (ed. orig. Paris 1985), p. 5. 72 F. Cenerini, La donna romana. Modelli e realtà, Bologna, Il Mulino, 2002; Donna e lavoro nella documentazione epigrafica. Atti del 1. Seminario sulla condizione femminile nella documentazione epigrafica (Bologna, 21 novembre 2002), a cura di A. Buonopane e F. Cenerini, Faenza, F.lli Lega, 2003; per l’analisi di un campione documentato sotto il profilo epigrafico, cfr. F. Cenerini, Donne emiliane (e romagnole) in età romana, in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna», n.s., vol. LII, 2001, pp. 99-113. Cfr. anche N. Criniti, Imbecillus sexus. Le donne nell’Italia antica, Grafo, Brescia, 1999. 73 V. Neri, La bellezza del corpo nella società tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica e cristianesimo, Bologna, Pàtron Editore, 2004. 74 A.L. Morelli, Madri di uomini e di dèi. La rappresentazione della maternità attraverso la documentazione numismatica di epoca romana, Bologna, Ante Quem, 2009. 69 70
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Da segnalare l’affollato manipolo di facoltose e colte matrone che prestarono aiuto a san Gerolamo nel suo apostolato e perfino nell’imponente progetto editoriale di traduzione della Bibbia: ad esse lo zelante scrittore dedica alcune delle significative lettere del suo ricco epistolario75. La letteratura di età tardo antica ci consegna peraltro matrone di grande polso, scolpite con notevole efficacia nei carmi di Sidonio Apollinare76 e negli epitaffi di Venanzio Fortunato. Tra le figure di spicco di questo autore cristiano, imbevuto di cultura classica, merita menzione la principessa di Turingia Radegonda, figlia di Bertario, ritiratasi in un monastero da lei fondato e retto dalla figlia Agnese. Pur tuttavia, sembra evidente che con questi presupposti il mondo greco-latino non fosse in grado di consegnare al Medioevo un apporto significativo ai fini di un qualche innalzamento della condizione femminile. Con la precisazione tuttavia, tutt’altro che secondaria, che la cultura classica consegnò a quella medievale il grande lascito della cura del corpo, intesa non solo come presidio contro la malattia, ma anche come esaltazione della bellezza e del fascino: tanto maschili quanto femminili. Nella Lisistrata di Aristofane è la stessa protagonista ad affermare: «Noi stiamo in casa tutte agghindate, nude sotto le tuniche di Amorgo, depilate»77. Che si trattasse di depilazione anche nelle parti intime è ancora Lisistrata a confermarlo, nel punto in cui Cleonice della bella beota Lampitò osserva: «Già … ha un bel terreno coltivabile»; e Mirrina precisa: «E già raso dalle erbe, a puntino». Ancora nella Lisistrata la corifea delle vecchie minaccia il corifeo dei vecchi di prenderlo a pedate, al punto che quest’ultimo risponde: «Così ti si vede la topa». Pronta la risposta: Ma non la vedrai con i peli, perché pur essendo già vecchia mi son depilata per bene, bruciandoli con la lucerna78.
Della depilazione maschile praticata nei bagni pubblici del suo tempo riferisce Seneca in una nota lettera a Lucilio, dove a proposito del depilatore osserva che «emette continuamente una voce esile ed acuta, perché più facilmente venga percepita, e sta solo zitto mentre strappa i peli delle ascelle e costringe un altro a strillare in vece sua»79. A proposito di questo passo Boella osserva che «la depilazione, che comin Utile antologia in San Gerolamo, Lettere, introduzione e note di C. Moreschini, traduzione di R. Palla, Milano, Rizzoli, III ed., 2009. 76 Sidoine Apollinaire, Poèmes, texte établi et traduit par A. Loyen, Paris, CUF, 1960. 77 Aristofane, Lisistrata, a cura di M.P. Funaioli, Siena, Lorenzo Barbera Editore, 2009, p. 79. 78 Ibid., p. 81. 79 Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di U. Boella, Torino, Utet, 1969, p. 307: Libro VI, Lettera 56. 75
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ciava dalle ascelle e poi si estendeva alla altre parti del corpo, era una delle tante manifestazioni di lusso e di raffinatezza proprie del tempo e del costume corrotto»80. Come esige il genere epigrammatico, Marziale è più licenzioso: Cresto ha coglioni depilati, fava Come il collo di un condor, testa liscia Come le natiche di un travestito. Sulle sue gambe non c’è un pelo, i baffi Li strappa filo a filo dalle labbra Pallide …81.
Tutte queste attenzioni nel corso del Medioevo non andarono perdute. La medichessa bizantina Metrodora (V-VI secolo) dedica largo spazio alle ricette per la cura del viso, dei capelli, del naso, degli occhi, della bocca, del seno, delle parti intime, non dimenticando perfino di fornire ben due ricette per rifarsi la verginità. Analogamente, la medichessa salernitana Trotula de Ruggiero, che presta continua attenzione a questi aspetti. A proposito dell’erotismo “pruriginoso” di Teodora, moglie di Giustiniano, è stato giustamente sottolineato che quelle pratiche che Procopio vuole presentarci come indecenti in realtà facevano parte degli spettacoli circensi e delle mosse da avanspettacolo, nelle quali la ballerina era consumata maestra82. I poemi cavallereschi abbondano di passi in cui viene messa in risalto la bellezza del corpo, il fascino della seduzione, con riferimenti espliciti quanto disincantati agli organi sessuali, ai rapporti amorosi, alla seduzione dei profumi e della biancheria, il che avviene anche nei testi più profondamente segnati dall’intento mistico e religioso. Ma se il corpo femminile occupa una posizione centrale e schiettamente positiva nella letteratura tecnica e nella letteratura patinata dei poemi cavallereschi, non meno presente appare il suo ruolo in altro tipo di fonti. Efficace la descrizione che nella Historia Langobardorum Paolo Diacono fa della bella Teodote, che viene presentata a re Cuniperto dalla stessa moglie Ermelinda: Questa, avendo vista al bagno Teodote, una fanciulla nata di nobilissima stirpe romana, di corpo assai leggiadro e ornata quasi fino ai piedi di lunghi capelli biondi, ne lodò la bellezza con suo marito, il re Cuniperto. Egli, dissimulando il piacere che provava ad ascoltare la moglie, si infiammò di grande amore per la fanciulla83. Ibid., p. 306, nota 8. Marco Valerio Marziale, Epigrammi, a cura di G. Norcio, Utet, Torino 1980, pp. 562-563; la traduzione italiana fornita da Bruno risulta sfumata sul piano lessicale. 82 P. Cesaretti, Teodora. Ascesa di una imperatrice, Milano, Mondadori, 2003, pp. 60-70. 83 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Milano, Mondadori, 1992, L. V. 37, p. 284. 80 81
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Questo episodio, che rinvia ad un noto passo veterotestamentario in cui re David si invaghisce della moglie del suo generale Uria, introduce il tema dei bagni e della loro frequentazione durante il Medioevo. Se stiamo agli studi di Vigarello, tale frequentazione figura ampiamente attestata al punto da considerarsi una vera e propria pratica sociale, che venne progressivamente meno solo a partire dal tardo Medioevo, quando la paura della peste e la diffusione di malattie endemiche, come la sifilide, portarono alla chiusura di bagni e terme e all’imporsi di pratiche igieniche basate sulle lavature a secco84. Ma la frequentazione dei bagni come la particolare cura estrema quanto maniacale del corpo sono pratiche largamente esercitate dalla cultura arabo-islamica, che ne irradia le seduzioni nel bacino del Mediterraneo prima e dopo il periodo delle Crociate. Nel Libro degli amplessi lo scrittore giordano Aš-Šaīzarī, che scrive nel XIV secolo, propone un saggio di precettistica erotica, i cui esempi spaziano dalla Spagna alla Turchia e nel quale la depilazione intima delle donne viene riferita come pratica quotidiana, tant’è che il barbiere la svolge con estrema naturalezza, richiedendone il dovuto compenso85. Il piacere del corpo non perde dunque le sue ragioni e non cessa di essere proclamato anche nei momenti più drammatici e in contesti nei quali ad esserne protagoniste agguerrite sono le donne del mondo rurale. Ce ne riferisce Liutprando da Cremona in un passo movimentato dell’Antapodosis. Contro Tebaldo, marchese di Spoleto e Camerino, che, avendo sconfitto i Greci nel territorio di Benvento, aveva dato ordine di evirare tutti prigionieri, giunse sul campo una donna graffiandosi il volto e gridando davanti alla tenda di Tebaldo, che uscì chiedendo le ragioni di tanto strepito. Lei lo aggredisce furibonda: Questa è una azione nuova e inaudita, o guerrieri, portar guerra alle donne che non ve la fanno. Nessuna di noi trae origine dal sangue delle Amazzoni; infatti, dedite soltanto alle opere di Minerva, siamo del tutto ignare di armi … Quale guerra di grazia, di grazia, più crudele potete portare alle donne, o che cosa di più grave potete portare via ad esse, del fatto che andiate a gara a tagliare i testicoli agli uomini loro, nei quali c’è il ristoro del nostro corpo e, cosa più importante di tutte, v’è la speranza della prole nascitura? Mentre li castrate, togliete non ciò che è loro, ma ciò che è nostro …86
G. Vigarello, Histoire de la beauté. Le corps et l’art d’embellir de la Renaissance à nos jours, Paris, Éditions du Seuil, 2004. 85 AŠ-Šaizari, Il libro degli amplessi, a cura di Younis Tawfik e Roberto Rossi Testa, Parma, Ugo Guanda, 1994, pp. 35-36. 86 Traduzione seguita: Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno Mille. Liutprando di Cremona, a cura di M. Oldoni, P. Ariatta, Novara, Europìa, 1998, pp. 144-145. 84
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Tebaldo riconosce compiaciuto la bontà delle sue argomentazione, riconsegnandole integro il marito e il bestiame sottrattole, chiedendole tuttavia come avrebbe dovuto comportarsi se il marito fosse tornato a combattere contro di lui. Anche in questo caso la risposta è pronta e consequenziale: Lui ha occhi, disse, e mani e piedi. Se farà ciò, gli porti via quel che è suo; però quel che è mio, cioè della sua devota ancella, lo lasci stare.
Così nel “feroce”, “barbarico” secolo X: per bocca di uno dei più accesi misogini del tempo. Più determinante fu invece l’apporto dato dal pensiero cristiano, che sotto questo profilo opera una cesura rispetto a certe prese di posizione del giudaismo, la cui misoginia è particolarmente evidente nei libri sapienziali, in particolare nei Proverbi, dove però – è opportuno ricordarlo – è forte l’influenza ellenistico-alessandrina. Il Cristianesimo, al contrario, dal punto di vista operativo svolse un’importante opera di rivalutazione della donna in quanto coniuge e madre. Nelle lettere di san Paolo, i cui interlocutori immediati erano prevalentemente di lingua e cultura greca, la tradizionale subordinazione della donna rispetto all’uomo viene accettata, ma nel contempo mitigata dal rapporto di rispetto e d’amore del marito87. Nella prima lettera ai Corinzi, sono frequenti i rinvii al tema di una asimmetrica reciprocità comportamentale: È bene per un uomo non toccare donna; tuttavia a motivo della dissolutezza ogni uomo abbia la propria donna, e ogni donna il proprio uomo. Alla donna l’uomo renda quanto le deve, e così pure la donna all’uomo. La donna non ha potere sul proprio corpo, bensì l’uomo; così pure l’uomo non ha potere sul proprio corpo, bensì la donna. Non sottraetevi l’uno all’altro, se non d’accordo e temporaneamente, per attendere alla preghiera; poi ricongiungetevi, perché il Satana non vi metta alla prova per la vostra incontinenza (7, 1-6).
Su ulteriori aspetti specifici di tale subalternità l’Apostolo precisa: Voglio sappiate che il Cristo è il capo di ogni uomo, e il capo della donna è l’uomo, e il capo del Cristo è Dio. Qualunque uomo preghi o profetizzi a capo coperto, fa vergogna al proprio capo. Qualunque donna preghi o profetizzi senza il capo velato, fa vergogna al proprio capo … L’uomo infatti non deve velarsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio, mentre la donna è gloria dell’uomo. L’uomo infatti non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo, e l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo (11, 3-10). 87 Le citazioni paoline sono tratte da San Paolo, Le Lettere, a cura di C. Carena, Torino, Einaudi, 1999.
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Sul silenzio delle donne Paolo non ha dubbi, mutuando forse intransigenza e rigore dalla cultura greca, di cui è imbevuto e nel cui contesto si esprime: Le donne nelle vostre assemblee tacciano, perché non è loro permesso di parlare; stiano invece sottomesse, come dice la Legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro mariti a casa, perché è turpe per una donna parlare in assemblea (1,14, 34).
Il rapporto di subalternità e di reciprocità viene ribadito nella Lettera agli Efesini, dove si trova il passo più noto sull’argomento. Le donne siano sottomesse ai propri mariti come al Signore, poiché l’uomo è capo della donna come il Cristo è capo della chiesa, Lui, il salvatore del corpo. Ma come la chiesa è sottomessa al Cristo, così anche le donne agli uomini, in tutto. Voi mariti amate le vostre donne come anche il Cristo amò la chiesa e si consegnò per essa … Così anche i mariti devono amare le loro donne, come i loro corpi. Chi ama la propria donna ama se stesso (5, 22-29).
Nella Lettera ai Colossesi, a proposito dei doveri tra coniugi si ribadisce: «Donne, siate sottomesse ai vostri mariti, come conviene nel Signore. Mariti, amate le vostre donne e non inaspritevi con loro» (3, 18-19). Si integri con Timoteo: Voglio dunque che in qualsiasi luogo gli uomini preghino con le mani piamente levate, senza ira né ragionamenti. Altrettanto le donne, ordinate negli indumenti, si adornino con assennato pudore, non di trecce e d’oro e perle e vesti preziose, ma, come conviene a donne che hanno promesso riverenza a Dio, mediante opere buone. La donna impari, rimanendo quieta, totalmente sottomessa; alla donna non permetto l’insegnamento e nemmeno il sopravvento sull’uomo; rimanga invece quieta. Infatti Adamo fu foggiato per primo, Eva dopo; e non Adamo si lasciò ingannare, bensì la donna cadde nell’inganno e nella trasgressione (I, 2, 9-12).
Tutti i passi citati rinviano quindi ad una sostanziale, perfino faticosa ambivalenza: da sottolineare, tuttavia, non come escamotage opportunistico, ma come superamento della tradizione nel contesto di una sua accettazione di partenza, non di arrivo. Paolo sa bene che non può prescindere dalle coordinate ideologiche e culturali degli interlocutori cui si rivolge: ne accetta pertanto alcuni presupposti irrinunciabili per poi arricchirli di nuovi contenuti e di nuove prospettive. Tant’è che nella prima lettera ai Corinzi si sente di sbilanciarsi e osserva come s’è visto: «Alla donna l’uomo renda quanto le deve, e così pure la donna all’uomo. La donna non ha potere sul proprio corpo, bensì l’uomo; così pure l’uomo non ha potere sul proprio corpo, bensì la donna». Anche la figura positiva di Maria rispetto a quella negativa di Eva dovette giocare un ruolo chiave nella elevazione spirituale della donna, al punto tale che
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nei primi secoli della Chiesa per le donne era prevista la possibilità di accedere agli ordini maggiori, eccettuato il sacerdozio: il titolo di diaconessa e suddiaconessa pare infatti fare riferimento a un ordine effettivo, mentre sappiamo che presbitera ed episcopissa erano soltanto titoli onorifici dati alle mogli dei preti e dei vescovi88. Circa il dibattito attuale su questo tema, è da citare il pensiero di Cettina Militello: Non so davvero se le donne possano e debbano iscriversi in una ministerialità (non ordinata) propriamente “femminile”. Mi pare si tratti di una battaglia insignificante e preferirei che si lasciasse cadere la cosa. Mi ferisce l’idea di una ministerialità in qualche modo “inferiore”. Temo, soprattutto, che risulterebbe niente affatto credibile. Sono certa invece che le donne possano e debbano tradurre secondo la loro costitutiva femminilità il carisma-ministero di cui, per grazia, sono portatrici. Inoltre, le donne oggi nella Chiesa hanno uno spazio immensamente più cospicuo e rilevante di quello avuto a suo tempo dalle diaconesse, fossero o no ordinate89.
Espressione non condivisibile alla luce delle testimonianze storiche e comunque da verificare e dosare meglio, precisando in primis che quelle opportunità, a prescindere dalle forme in cui sono state raggiunte, ottenute ed effettivamente esercitate, nel corso del Medioevo sono state progressivamente perdute. Quella delle donne è fin dall’inizio della storia della Chiesa una presenza, imbarazzante, ingombrante e perfino inquietante. Vi è perfino chi ha parlato di “invadenza femminile”, che avrebbe determinato una reazione maschile nel senso di un loro sostanziale ridimensionamento all’interno delle chiese primitive90. La figura di Maria, madre di Dio per opera dello spirito santo, vergine, immacolata, assunta in cielo condensa in sé un accumulo tale di titoli da costringere i mariologi più favorevoli alle interpretazioni più fantasiose. A proposito della verginità, si argomentava che «come il sole passa attraverso la finestra senza romperla, così rimanesti vergine integra quando Dio che scese dai R. Metz, Recherches sur le statut de la femme en droit canonique: bilan historique et perspectives d’avenir. Problèmes de méthode, in «L’année canonique. Recueil d’ Etudes et d’Information», 12, 1968, pp. 99-112, traduzione parziale in Né Eva né Maria. Condizione femminile e immagine della donna nel Medioevo, a cura di M. Pereira, Zanichelli, Bologna, 1981, pp. 63-71. A.G. Martimort, Les Diaconisses. Essai historique, Roma, 1982. Abel Oughlukian, The deaconess in the Armeniana Church: a brief survey, translated from the Armenian by S. Peter Cowe, New Rochelle, New York, St. Nersess Armeniana Seminary, 1994. 89 C. Militello, Donne e partecipazione alla vita ecclesiale in età contemporanea, in Le donne nella Chiesa e in Italia. Atti del 14 Convegno di studio dell’Associazione italiana dei professori di Storia della Chiesa (Roma, 12-15 settembre 2006), a cura di L. Mezzadri e M. Tagliaferri, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, pp. 286-324, p. 306. 90 Registra il dibattito A. Scattigno, L’esperienza religiosa. Discussioni e ricerche, in Donne sante, sante donne. Esperienza religiosa e sto ria di genere, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, pp. 11-36, p. 14.
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cieli ti fece sua madre e signora». Altri suggerivano che la conceptio avesse potuto verificarsi «per aures»91. Più complesso fu sostenere il dogma dell’Immacolata Concezione, proclamato dalla Chiesa solo nel 1854, perché messo in discussione da autorevoli mariologi come san Bernardo di Chiaravalle e sant’Anselmo d’Aosta92, entrambi cantori della Madonna, ma contrari alla festa dell’Immacolata Concezione: «La stessa Vergine fu concepita dalla madre nel male e nel peccato, e nacque col peccato originale, perché anche lei peccò in Adamo in cui tutti peccammo»93. Anselmo d’Aosta nel De conteptu virginali et de originale peccato, pur sostenendo il principio che la Madonna, dopo Dio, è l’essere più santo, non accetta tuttavia il concetto dell’Immacolata Concezione. La stessa vita di Gesù presentava parecchi problemi, dal momento che le sue frequentazioni femminili potevano mettere in imbarazzo i suoi stessi discepoli. Segnatamente la Maddalena, che, sulla base del Vangelo apocrifo di Maria94, si vociferava fosse stata la sua amica prediletta e forse la sua amante, complice l’autorevole reductio ad unum di Gregorio Magno, che tende ad essere intesa come epitome riassuntiva delle tre Marie, per cui a lei si attribuiscono presenze che possono declinare una sensibilità porosa rispetto a testimonianze e carismi riconducibili a una medesima figura. Liberata dai sette demoni, da peccatrice diventa discepola di Gesù; da identificare con l’adultera perdonata, la troviamo a profumarne i piedi e ad asciugarli con i suoi capelli, provocando l’indignazione dei bigotti discepoli; sul calvario, ai piedi della croce, assiste alla sepoltura del Maestro, è la prima ad accorrere al sepolcro e a cui compare nell’orto risorto di fresco, annunciandone trafelata la resurrezione agli Apostoli increduli. Ha le patenti in regola pertanto per divenire nel corso del basso Medioevo protettrice delle prostitute, dei profumieri e dei giardinieri. Già questo orizzonte dominato dal protagonismo femminile e che esce con forza in quello che ci rimane del vangelo di Maria di Magdala (sec. II) sarebbe decisivo per capire determinate reazioni, ma sono le fonti stesse, benché rapsodiche ma comunque sempre più numerose col procedere della ricerca storica, a sottolineare che la forza della presenza femminile era tale da non lasciarsi facilmente soggiogare o irreggimentare, per cui il percorso di omologazione alla subalternità fu tutt’altro che univoco, omogeneo, rettilineo e subitaneo. M. Warner, Sola fra le donne: mito e culto di Maria Vergine, Palermo, Sellerio, 1999 (ed. or. London 1976), pp. 85, 80-81. 92 Anselmo d’Aosta, santo, a cura di T. Gregory e F. Schmitt, Dizionario Biografico degli Italiani, 3, Roma, 1961, pp. 387-399. 93 Anselmo d’Aosta, Cur Deus homo, 2, 16, cit. Warner, Sola fra le donne, cit., p. 310. 94 I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo, a cura di L. Moraldi, Milano, Adelphi, 1993, pp. 21-26. 91
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Più in generale sembra fuori discussione il ruolo di primo piano svolto dalle donne durante la predicazione di Gesù e degli Apostoli, soprattutto nei momenti di difficoltà o di tensione. A questo proposito tra i passi meno citati si può menzionare l’episodio in cui, in seguito al successo della predicazione di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia, si ebbe la reazione della comunità giudaica locale, che istigò le donne religiose di rango al fine di cacciare i due ospiti indesiderati (Atti degli Apostoli, 13, 50). Naturalmente per portare l’attenzione a questo tema non è necessario parlare di ordini, perché l’espressione del prestigio e dell’autorevolezza femminili si manifesta in molteplici forme, ma il tema del diaconato resta comunque questione dirimente rispetto ad un riconoscimento che va ben al di là dei protagonismi e delle eccellenze individuali. Non parliamo delle episcopissae e delle presbiterae, termini entrambi che non rinviano all’ordine corrispondente, ma più semplicemente indicano le mogli dei vescovi e dei presbiteri95. Al contrario, la questione si presenta più complessa se ci si riferisce al discusso tema del diaconato femminile. Rispetto a questo problema si nota infatti una sproporzione reattiva che è stata notata e sottolineata da Dinora Corsi, la quale ha commentato: Il ministero sacerdotale sarà negato alle donne, è una funzione che non hanno mai avuto: in questo senso si esprimono i numerosi interventi di scrittori, controversisti, teologi, vescovi e padri della chiesa. Ma la cura con cui si cerca di dimostrare l’infondatezza scritturale, e quindi la totale improponibilità delle ambizioni delle donne al sacerdozio, è sospetta: non è comprensibile lo zelo profuso nel negare qualcosa che non ha ragione di esistere, né di essere rivendicato. Questi scritti, loro malgrado, lasciano intravedere che le prime comunità cristiane concedevano alle donne ruoli e funzioni, nell’evangelizzazione e nel culto, impensabili un tempo nel mondo ebraico e improponibili poi nel nuovo organismo dogmatico in cui la chiesa gradatamente si costituiva96.
Qualche testimonianza residuale tuttavia può essere segnalata. Sullo sfondo restano i dati forniti dagli Atti degli Apostoli, che parlano esclusivamente di diaconato maschile (6-7), mentre registrano il soggiorno di Paolo a Cesarèa, nella casa di Filippo l’Evangelista, il quale aveva quattro figlie vergini: profetesse, ma non diaconesse (21). Anche Paolo parla esclusivamente di vescovi e diaconi (Filippesi 1, 1), mentre nella prima lettera a Timoteo (1, 3) tratta dei requisiti per essere diaconi e diaconesse, identificate, queste, come le loro donne. Nella Lettera ai Romani parla D. Corsi, «Se il Salvatore l’ha resa degna, che sei tu che la respingi?». L’eredità della Parola dalle apostole alle eretiche medievali, in Donne sante, cit., pp. 119-159, p. 144. 96 Ibid., p. 122. 95
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di Febe come diacono, al maschile, della chiesa di Cencre, uno dei due porti di Corinto (16, 1)97. Nei secoli successivi il quadro tuttavia dovette progressivamente mutare, come confermano le numerose testimonianze che, in modo esplicito, parlano di diaconato, presbiteriato e perfino di episcopato femminile. Nell’agiografia occidentale del primo Medioevo da segnalare è la Vita della santa irlandese Brigida, che riceve l’ordine episcopale per errore di procedura: un fatto che si considerava, tuttavia, ispirato dallo Spirito Santo, per cui le badesse che succedettero a Brigida godettero dei privilegi vescovili98. In un corpus epistolare attribuito erroneamente a Ignazio d’Antiochia, una proselita di nome Maria fa riferimento al problema delle ordinazioni sacerdotali femminili, il che fa sospettare almeno che il tema fosse all’ordine del giorno99. Epifanio racconta che nel Montanismo le donne venivano consacrate vescovi e sacerdoti, notizia ripetuta anche da Agostino e Giovanni Damasceno100. Ancora Epifanio ricorda che presso gli eretici Colliridiani vi erano donne che usurpavano il ministero sacerdotale, adoravano Maria e le offrivano un piccolo pane, del quale si comunicavano101. Anche presso i Valentiniani troviamo donne che svolgevano il ruolo di maestre, di predicatrici e di presbiterae102. È noto che queste opportunità di accesso all’ordine sacerdotale passarono nelle eresie successive, come nel Bogomilismo103, arrivando in taluni casi fino al secolo XVIII a testimoniare il riaffiorare in taluni ambienti carsici di un insopprimibile desiderio di sacerdozio. Desiderio che anima gli scritti della stessa santa Teresa di Lisieux, a proposito della quale è stato detto autorevolmente che «Quando Thérèse dice che vuole essere prete, questo significa che vuole essereprete-per-dire-la-messa; non c’è nessuna ambiguità nel suo spirito, è indubbiamente al “sacerdozio ordinato”, secondo l’espressione teologica corrente attuale, che ella aspira»104. Nella Didascalia degli Apostoli, scritta in Siria nel III secolo, il vescovo è immagine del Padre, il diacono è immagine del Figlio, mentre la diaconessa deve essere onorata come figura dello Spirito Santo105. San Paolo, Le Lettere, cit., pp. 46-47. Cfr. A. Hamman, Vie Liturgique et vie sociale, Paris-Tournai-Roma-New York, Desclée, 1968 (Bibliothèque de Théologie: Théologie biblique, 10), pp. 140 ss. 98 J.J.Ó. Ríordáin, I primi santi d’Irlanda. Vite e spiritualità, Milano, Jaca Book, 2005, p. 21. 99 G. Lanata, Legislazione e natura nelle Novelle giustinianee, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984, pp. 62-63. 100 D. Corsi, «Se il Salvatore l’ha resa degna, che sei tu che la respingi?», cit., p. 151, nota 21. 101 Ibid., p. 130. 102 Ibid., p. 125. 103 Ibid., p. 133. 104 D. Corsi, Forme del ministero sacro femminile, in Donne cristiane e sacerdozio: dalle origini all’età contemporanea, a cura di D. Corsi, Roma, Viella, 2004, p. xix. 105 D. Corsi, «Se il Salvatore l’ha resa degna, che sei tu che la respingi?», cit., p. 137. 97
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Nel concilio di Nimes del 394 si trova il seguente passo: «Contro l’ordinamento apostolico, qualcuno ha introdotto l’usanza che anche le donne, in un luogo a me sconosciuto, sono adibite al servizio sacerdotale; la disciplina ecclesiastica non lo permette quia indecens est»106. Martino da Braga, verso la metà del secolo VI, si sente in dovere di recuperare il canone 44 del Concilio di Laodicea circa il decreto per le donne di entrare nel sacrario «quod non oportet mulierem ad altare ingredi»107. Motivi di decoro e di precauzione adduce anche il Concilio di Parigi dell’829, secondo il quale le donne devono stare lontano dagli altari per non suscitare «carnalia desideria et illicitae actiones»108. Si tratta di argomentazioni evidentemente deboli, perché allora il divieto al servizio liturgico avrebbe dovuto essere completo: il che, nonostante le numerose voci di dissenso, non avvenne mai e la preparazione degli altari, la vestizione, la distribuzione dell’eucarestia, in molti ambiti venne consentita o comunque tollerata. L’accesso all’insegnamento, alla distribuzione dell’eucarestia e la possibilità di impartire il battesimo non sono naturalmente da confondere con l’ordine del diaconato109, ma servono ad alimentare il sospetto che quello della decenza fosse falso problema. Basti pensare al ruolo decisivo delle profetesse. Nell’Apocalisse, resta una traccia importante di questa preoccupazione, nel passo in cui l’autore, rivolgendosi alla chiesa di Tiatira, in Asia Minore, la ammonisce: Tu lasci che Gezabele, questa donna che si dice profetessa, insegni e seduca i miei servi, sino a farli fornicare e mangiare le carni immolate agli idoli. Le ho dato tempo perché si ravveda, ma non vuole pentirsi del suo duplice peccato110.
È evidente che Olimpiade, in stretto contatto con Giovanni Grisostomo (349407), fu ordinata diaconessa dal vescovo di Costantinopoli Nettario in deroga alla disposizione imperiale, secondo indirizzi già in atto da parte vescovile e che culmineranno nel canone 15 del Concilio di Calcedonia, che abbassò l’età da 60 (Teodosio, a. 390) a 40 anni111. Analoghe considerazioni si possono fare per sant’Agata (metà III secolo), che a Catania svolgeva il suo ministero di diaconessa presumibilmente poco oltre i 20 anni di età. Egeria, nelle note del suo pellegrinaggio in Terra Santa ascrivibile alla Ibid., p. 154, cit. nota 58. Ibid., p. 154, cit. nota 56. 108 Cit. Ibid., p. 133. 109 Ibid., pp. 124, 131-132. 110 Ibid., p. 123. 111 R. Teja, Olimpiade. La Diaconessa (c. 395-408), con la collaborazione di Mar Marcos, Milano, Jaca Book, 1997, p. 40. 106 107
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fine del IV secolo, rileva che nei pressi del Santuario di santa Tecla non vi erano altro che innumerevoli monasteri di uomini e di donne, e precisa: In quel luogo trovai una mia carissima amica, a cui tutti in Oriente rendevano testimonianza per la sua vita: la santa diaconessa Martana, che avevo conosciuto a Gerusalemme … essa aveva la responsabilità di apotattiche (continenti) o vergini112.
La notevole importanza che ebbe il diaconato femminile in Armenia forse fu favorita dal fatto che le donne armene erano escluse dall’asse ereditario, per cui l’esercizio del diaconato da parte di vedove poneva meno problemi di dispersione dei patrimoni famigliari. In base alla Novella del 23 luglio 535, per usare le parole di Giuliana Lanata, «Giustiniano formulava una condanna dell’usanza “barbarica e tracotante” degli Armeni di escludere dalla successione paterna le figlie femmine»113. Non si tratta di un provvedimento di clemenza, bensì di omologazione, che, favorendo le donne, obbediva al principio che ogni rafforzamento dei singoli, anche in termini di genere, rappresentava un ridimensionamento del potere detenuto dai clan. Di Sergio, quarantesimo vescovo della diocesi di Ravenna (seconda metà del secolo VIII), il Liber Pontificalis di Agnello registra che «quando ebbe assunto il governo della chiesa, consacrò come diaconessa la sua sposa Eufimia e rimase nella medesima condizione». Il richiamo alla consacrazione sembra rinviare ad un vero ordine piuttosto che a un semplice titolo, che nel caso specifico avrebbe peraltro dovuto essere quello di episcopissa114. In una donazione lucchese del 724 accanto al prete Romualdo troviamo operare sua moglie Ratperga, cui il notaio assegna la qualifica di presbytera115. Assai più tardi, nel 1144, ancora in ambito lucchese, è nominata Porpora, vedova del fu Stefano, «diaconessa et Deo devota per manum Octi Dei Gratia Lucensis Episcopi»116. Proprio sulla base di questo documento Domenico Barsocchini ne deduce: «conservato l’uso in Italia anche verso la metà del secolo XII delle Diaconesse, e conservata pure la prescrizione dei canoni che la ordinazione di esse fosse fatta dai vescovi»117. D. Corsi, «Se il Salvatore l’ha resa degna, che sei tu che la respingi?», cit., p. 124. G. Lanata, Legislazione, cit., p. 38. 114 Il libro di Agnello Istorico. Le vicende di Ravenna antica fra storia e realtà, traduzione e note di M. Pierpaoli, Ravenna, 1988, p. 170. Ma si veda ora: Agnello Ravennatis Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatensis, cura et studio Deborah Mauskopf Deliyannis, Turnhout, Brepols, 2006 (Corpus Christianorum. Continuatio Madiaevalis, 199), p. 331. 115 B. Andreolli, Uomini nel Medioevo. Studi sulla società lucchese dei secoli VIII-XI, Bologna, Pàtron, 1983, p. 124. 116 D. Bertini, Dissertazioni sopra la storia ecclesiastica lucchese, in Memorie e Documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, IV/2, Lucca, 1836, CXXV, pp. 176-177. 117 D. Barsocchini, Raccolta di documenti per servire alla Storia Ecclesiastica lucchese, in Memorie e Documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, V/3, Lucca 1841, p. 457. 112 113
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Come ha sostenuto Angelo Campanelli, «le Diaconesse durarono per molti secoli nella Chiesa ed in qualche luogo fino al secolo XVI». Lo stesso autore ricorda come Plinio il Giovane in una lettera informi l’imperatore Traiano di aver fatto mettere alla tortura due cristiane che definisce «ministrae»118. Ma il declino, il tracollo sono evidenti: mentre restano le mistiche e le profetesse, le diaconesse vengono risucchiate e respinte da un cursus ordinato che diviene progressivamente ed esclusivamente maschile. E in questo processo che allontana la donna dal sacerdozio e dai servizi all’altare, non è possibile sorvolare sul fatto che sincronicamente si fa strada per divenire norma il principio del celibato ecclesiastico, in base al quale la “moglie” del chierico viene declassata a concubina: con tutti i drammi che questo nuovo ordinamento dovette comportare. Ne fornisce una nutrita quanto dolorosa rassegna Francesco Quaranta in una monografia sui preti sposati e sul dibattito dottrinale che ne scaturì119. Il sentimento amoroso, inteso come dono di Dio dispensato a tutti gli uomini di ogni ordine e grado, veniva negato a chi avrebbe voluto avere una compagna, formarsi una famiglia, avere dei figli legittimi (e non bastardi), come era accaduto nei secoli precedenti. Il divieto non venne vissuto serenamente né serenamente accettato, proprio perché andava contro il volere divino, come illustra in modo pedantemente scolastico il De Amore di Andrea Cappellano: un bestseller dell’età che giustamente è stata definita ovidiana. Anche se, a proposito del celebre testo di Andrea Cappellano, si è parlato di immoderata cogitatio120, a sottolineare la precipuità nel rapporto amoroso di tutto quanto riguarda l’approccio, le cui valenze sensuali ed erotiche si esprimono nella forma del gioco e segnatamente nel gioco delle parti121, resta il fatto che il repertorio del partenariato a cui il trattato si riferisce esprime un mondo di relazioni, aspirazioni e lusinghe estremamente aperto. Che poi la dimensione amorosa passi necessariamente attraverso le seduzioni della parola, prima di Andrea Cappellano era stato sostenuto già nel Fedro di Platone, né si può negare che l’epistolario di Eloisa e Abelardo (che l’abbiano scritto loro o che sia stato redatto da chi di queste cose doveva comunque intendersene) altro non è che una torrenziale cascata sillogistica attorno a questo tema. Ancora più audace e comunque comprensibile rispetto ad un dibattito perduto in partenza, visto il calibro dei celibatari e delle disposizioni romane, è la presa di posizione dell’Arcipreste de Hita, il quale si faceva sostenitore di una sorta di accomodamento che ammetteva, considerandoli leciti e legittimi, i gradi d’amore che A. Campanelli, La donna nei tempi antichi ovvero Eva antica madre e maestra, Bologna, AGAI Arti Graf. L’Avvenire d’Italia, 1950, p. 185. 119 F. Quaranta, Preti sposati nel Medioevo. Cinque apologie, Torino, Claudiana Editrice, 2000. 120 Manuale di italianistica, a cura di V. Roda, Bologna, Bononia University Press, 2005. 121 Cfr. A. Bisanti, Quattro studi sulla poesia d’amore mediolatina, Spoleto, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2011, pp. 105-156 (Il “Contrasto” fra la monaca e il chierico). 118
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non presentassero l’esito finale della procreazione, per cui i non uxorati potevano accedere al piacere assicurato dai preliminari visum, allocutio, tactus, osculum sive suavium, coitus, sulla base del paradigma “tactum, non factum”, da intendere come un compromesso clericale122. Il ruolo delle diaconesse e delle mogli di vescovi e preti pone naturalmente il tema spinoso dei beni, dei quali esse potevano legittimamente disporre e, trattandosi di donne di rango, si trattava spesso di beni cospicui, la cui gestione veniva di frequente esercitata in forma autonoma. Si ritiene anche che il regime di compartecipazione dei beni fra coniugi sia entrato nella dottrina e nella pratica dell’alto Medioevo per l’influenza progressiva del pensiero cristiano, ma sull’argomento non esistono a tutt’oggi dati sicuri. A questo proposito, uno specialista della materia come Giulio Vismara assicura: «È una pratica rispondente allo spirito di una comunità che osa proclamare di fronte ai pagani: voi non avete nulla in comune tranne le donne; noi abbiamo tutto in comune, tranne le donne»123. E precisa: Il processo di equiparazione della donazione nuziale alla dote e, a maggior ragione, la pratica della comunione tra coniugi non sono altro che la proiezione nel campo dei rapporti patrimoniali di una concezione dell’uguaglianza dei coniugi accolta dall’ordinamento giuridico, il quale conserva il principio dell’autorità maritale, ma la ritiene giustificabile solo in quanto necessaria per il mantenimento dell’unità della famiglia e per l’esercizio di quegli obblighi di assistenza, ai quali il marito è tenuto nei confronti della moglie124.
Per la Sicilia in particolare, Federico Ciccaglione ritiene che l’origine della comunione dei beni fra coniugi sia invece da ascrivere all’influenza del diritto bizantino125. Alla rivalutazione morale, alla comprensione non corrispose però una vera e propria rivalutazione ideologica, impedita soprattutto da tre motivi di fondo. In primo luogo vi era l’autorità del testo biblico, che insisteva sulla colpa di Eva e sulla sua creazione da una costola di Adamo, mentre gli animali figurano creati a coppie. Su questo secondo argomento si sviluppa una corrente intransigente espressa da Filone d’Alessandria, Gregorio di Nissa, Tertulliano, Gerolamo, e una più moderata, cui danno il loro contributo, parecchi secoli dopo, intellettuali come Ildegarde di 122 Citazioni e contestualizzazioni che ricavo da D. Polloni, Amour e clergie. Un percorso testuale da Andrea Cappellano all’Arciprete de Hita, Bologna, Pàtron, 1995. 123 G. Vismara, I rapporti patrimoniali fra coniugi nell’alto Medioevo, in Il matrimonio nella società alto medievale, 2 voll., Spoleto, 1977 (XXIV Settimana di Studio del Centro Studi sull’alto Medioevo), II, pp. 633-691, p. 633. 124 Ibid., p. 636. Da integrare con M. Roberti, Le origini romano cristiane della comunione dei beni tra coniugi, Torino, Bocca, 1919; M. Bellomo, Ricerche sui rapporti patrimoniali tra coniugi. Contributo alla storia della famiglia medievale, Milano, Giuffrè, 1961. 125 F. Ciccaglione, Origine e sviluppo della comunione dei beni fra coniugi in Sicilia, estratto da «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», a. III, fasc. I, Catania, 1906.
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Bingen, Abelardo, Ugo da San Vittore. La prima corrente, che è anche la più rappresentata e la più risalente, interpretava tale forma di creazione differenziata come indice di una piena subalternità della donna rispetto all’uomo, mentre i sostenitori della seconda si facevano promotori di un ragionamento più articolato: la donna non era né domina né serva dell’uomo, in quanto non era stata creata né dalla testa né dai piedi; il fatto che fosse stata creata dalla costola ne faceva una compagna, una socia dell’uomo. Accanto alle argomentazioni veterotestamentarie, un ruolo importante giocarono le riflessioni antropologiche sviluppate soprattutto da Agostino126. Parlando dell’uomo, egli distingueva il piano dell’informatio da quello della conformatio: per quanto concerne l’informatio non si dava alcuna differenza tra maschio e femmina, appartenendo entrambi alla categoria generale dell’homo, mentre la differenza scattava nell’ambito della conformatio, che distingueva sessualmente l’homo in vir e foemina, determinando rapporti diversi tra natura razionale e natura sensoriale. Mentre cioè nel maschio vi sarebbe un rapporto di armonia tra umanità e virilità, contrassegnate entrambe dallo spirito razionale, nella femmina tale armonia verrebbe meno, perché la razionalità della categoria generale sarebbe in contrasto con la natura sensoriale e passionale dell’anima femminile. Il che avrebbe una notevole incidenza anche sul concetto relativo all’uomo come immagine di Dio, per cui il vir viene paragonato allo specchio lucido, che riflette nitidamente l’immagine divina, mentre la foemina come lo specchio opaco la rifletterebbe in modo approssimativo. Da ultimo non giocava in favore della donna neppure l’interpretazione fisiologica corrente: il naturalismo aristotelico mutuato da san Tommaso tramite il maestro Alberto Magno, non faceva altro che addurre ulteriori esempi alla già citata impostazione dello Stagirita. Alberto Magno portava l’esempio del formaggio, argomentando che la donna era il latte cagliato, mentre l’uomo corrispondeva ai principi attivi, agli enzimi che determinano la trasformazione. Tommaso, più elegantemente, faceva l’esempio dell’artigiano, che si serve della donna come materiale per dare forma e consistenza alla nuova vita. Non mancano voci dissonanti, ma nella sostanza il piano resta sempre quello di una diffusa misoginia, che si avvale da un lato dell’autorità della Bibbia, dall’altro di dimostrazioni antropologiche pseudoscientifiche, mutuate dalla speculazione antica o dalla teologia cristiana. Ne deriva l’esaltazione della verginità, di cui Paolo sottolinea la supremazia rispetto alla vita matrimoniale, sulla base di un’ossessione nei confronti della sessualità già sviluppatasi in ambiente pagano. In questa direzione portava lo sviluppo del platonismo, che stabiliva uno scarto profondo tra mondo delle idee e mondo fisico, giungendo con Plotino alla prospettiva di un mondo gerarchizzato alla cui base sta la corporeità e al cui vertice si colloca la spiritualità. K.E. Børresen, Subordination and Equivalence: the Nature and Role of Women in Augustin and Thomas Aquinas, Washington, University Press of America, 1981.
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In questa direzione andava pure la componente spiritualistica della filosofia giudaico-alessandrina, il cui esponente di spicco, Filone di Alessandria (ca. 30 a.C.), sosteneva che l’anima, nella sua naturale aspirazione a Dio, deve necessariamente affrancarsi da tutto ciò che la distacca e tiene lontana da lui: il corpo, la sensazione, il pensiero discorsivo e soprattutto la propria individualità. A questa corrente di pensiero si ricollegheranno in seguito alcuni Padri della Chiesa, come Gregorio di Nissa (335 ca.-394) e Girolamo (347-420), e in questo contesto va intesa la propensione per i Padri della Chiesa verso un’esegesi del Cantico dei Cantici in chiave teologica e spiritualistica127. È stato poi dimostrato, soprattutto attraverso i trattati medici di età imperiale (Sorano di Efeso, sec. metà II sec.; Rufo di Efeso, 100 d.C. circa; Galeno, 130-200 d.C.; Oribasio, fine IV sec.), che alla generale sessuofobia dell’età tardo-antica non contribuì solo l’ascetismo cristiano, ma anche teorie mediche di derivazione stoicoepicurea, secondo le quali lo sperma era la più pregiata forma di sangue, per cui un esercizio smodato della sessualità portava a un progressivo indebolimento del corpo, avvicinandolo alla morte128. Ma la Chiesa su questa base innesta un discorso ancora più radicale; non si limita ad un discorso ontologico, gnoseologico o meramente medico; privilegiando il piano morale, introduce il senso del peccato. La verginità si configura di conseguenza come valore positivo e come scelta non dettata dalla paura, qualificandosi come situazione mentale piuttosto che fisica. E poiché la diffusione della verginità, in un momento di grave crisi demografica129, avrebbe potuto diventare una condizione pericolosa, la Chiesa introduce la soluzione della frigidità, tramite l’elaborazione di tecniche particolari per disgiungere l’atto sessuale, necessario per la procreazione, dal piacere che da esso poteva derivare130. Più avanti, Pier Damiani assicurerà che chi è vergine solo nella carne, ma non nell’anima non potrà aspirare al premio della verginità: «Virgo carne, non anima, virginitatis premio non potitur»131. G. Ravasi, Cantico dei Cantici, Milano, Edizioni Paoline, 1985; Id., Il Cantico dei Cantici: commento e attualizzazione, Bologna, EDB, 1992; Cantico dei Cantici, introduzione di A.S. Byatt, Torino. Einaudi, 1990; Il poema biblico dell’amore tra uomo e donna. Il Cantico dei Cantici, introduzione, nuova versione dall’ebraico e note di D. Garrone, commento di H. Gollwitzer, Torino, Calaudiana, 2a edizione, 2004. 128 A. Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età cristiana, Roma-Bari, Laterza, 1985; cfr. anche P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e sistema sessuale nei primi secoli cristiani, Torino, Einaudi, 1992. 129 Sulla crisi demografica tra età tardo-antica dovuta anche al diffondersi delle pratiche abortive cfr. J.M. Riddle, Contraception and abortion from the ancient world to the Renaissance, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1994. 130 J.A. Brundage, Law, Sex, and Christian Society in Medieval Europe, Chicago and London, University of Chicago Press, 1987, pp. 109-110, pp. 150-152. 131 Cfr. J. Chélini, Les femmes dans la société médiévale au temps de la comtesse Mathilde à travers l’œuvre de Pierre Damien, in Studi Matildici (Atti e Memorie del II Convegno di Studi Matildici), 127
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Siamo, naturalmente, ben lontani da pratiche aberranti e crudeli come quella dell’infibulazione, ma il fine è il medesimo: negare alla donna il piacere sessuale, perfino nei rapporti legittimi, onde evitare che sia indotta a cercarlo in quelli illegittimi. Non credo trattarsi di dettagli. Per la cultura antica il corpo è una splendida costruzione per la vita: vi è un vuoto da riempire e che attende di essere riempito, l’erezione è in rapporto con la penetrazione, che porta alla eiaculazione. In tutto questo non c’è nulla di morboso o di impuro. I nudi antichi, sia maschili sia femminili, non sono né erotici né tantomeno pornografici: sono solo belli, di quella bellezza serena così tipica della classicità (non del classicismo), pulsante di armonia e vitalità creatrice, come nella natura delle cose di Lucrezio. Non a caso, a proposito degli intellettuali del Medioevo, è stato detto “peccato che non leggessero Lucrezio”, poeta e filosofo troppo scomodo, troppo rischioso, troppo espressivo rispetto ad un naturalismo esuberante, che a proposito dei dardi amorosi gli fa esclamare: «siano essi scagliati dalle femminee membra di un fanciullo, o da donna che irradi amore da tutto il corpo»132. Con il discorso della montagna e con il primato della coscienza rispetto alla fattualità, per cui chi ha desiderato ha già peccato in cuor suo, il riscatto tende a trasformarsi in ricatto, per cui, come ha osservato opportunamente Giulia Sissa, «il matrimonio è un bene; la verginità è meglio; il sesso però è sempre fuori posto, sia fuori che dentro lo spazio coniugale»133. Ma è il piacere in quanto tale, di cui la donna con la sua attrazione è il più pericoloso veicolo, ad essere messo sotto accusa, come dimostra la prima lettera di Paolo ai Corinzi (6, 13-2): Il corpo poi non è per la dissolutezza ma per il Signore e il Signore per il corpo … Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo per farne le membra di una donna dissoluta? Non sia mai… Rifuggite dalla dissolutezza. Ogni peccato compiuto dall’uomo è fuori dal suo corpo, mentre il dissoluto pecca verso il suo corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo che è in voi, avuto da Dio, e che non siete di voi stessi? Infatti siete stati comperati ad un prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo134.
A questo proposito va precisato che anche in campo maschile si giunse a pratiche aberranti, come l’autoevirazione, modello di riferimento proprio Filone d’AlessanModena, 1971, pp. 295-305, p. 299, che, tuttavia, inserisce l’affermazione in un contesto più ricco e meno banale. 132 Tito Lucrezio Caro, La natura delle cose, introduzione di G.B. Conte, traduzione di L. Canali, testo e commento a cura di I. Dionigi, Milano, Rizzoli, 1994, p. 407 (IV, 1052-1053). Sull’argomento cfr. R.D. Brown, Lucretius on Love and Sex. A Commentary on De Rerum Natura IV, 1030-1287 with Prolegomena, Text and Translation, by R.D.B., Leiden-New York-København-Köln, 1987. 133 G. Sissa, Eros tiranno. Sessualità e sensualità nel mondo antico, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 238. 134 San Paolo, Le lettere cit., pp. 69, 71.
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dria, il cui radicale comportamento provocò non pochi imitatori, se si dovette vietare per legge il diffondersi di tale pratica135. Nel Primo Concilio di Nicea (325), si stabiliva che, se qualcuno, a causa di una malattia, era stato mutilato, o avesse subito tale menomazione da parte dei barbari, poteva ancora far parte del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si era castrato da sé, decadeva dallo stato ecclesiastico né poteva accedervi. È il piacere, quindi, che preoccupa, tant’è che nella regola attribuita ad Antonio Abate, uno dei grandi fondatori del monachesimo anacoretico orientale, il pericolo della seduzione femminile figura meno avvertito di quello dei giovani maschi e dei confratelli, cui sono dedicati ben cinque capitoli, mentre uno solo si preoccupa dell’attrazione da parte delle donne. In questo contesto, particolare attenzione si dedica alla possibilità che un monaco si corichi assieme ad un giovane: «Non dormire sulla stessa stuoia con uno più giovane di te»136. D’altro canto, in ambienti frequentati quasi esclusivamente da maschi, la presenza di baldi giovani e freschi fanciulli dovette apparire fin da subito piuttosto pericolosa e destabilizzante. La Regola di Pacomio a riguardo si presenta particolarmente rigorosa: Se uno dei fratelli sarà sorpreso a ridere volentieri coi ragazzi e a giocare e ad avere amicizie con ragazzi di tenera età, sarà ammonito tre volte affinché desista da tale familiarità e sia memore dell’onestà e del timor di Dio. Se non desiste, lo puniranno, come ne è degno, con un severissimo castigo137.
Nell’XI secolo, nel bel mezzo della riforma ecclesiastica, Pier Damiani, cui si deve il neologismo, osservava che il cancro dell’infezione sodomitica si sta a tal punto insinuando nell’ordine ecclesiastico, anzi sta infuriando come una bestia sanguinaria nel recinto dell’ovile di Cristo con l’audacia di una libertà così grande, che per la salvezza dell’anima di molti sarebbe meglio essere oppressi sotto il giogo di una vita passata nel mondo, piuttosto che asservirsi volontariamente alla legge ferrea della tirannide del demonio, col pretesto della vita religiosa138.
Solo successivamente, e in particolare con il moralismo moderato di san Tommaso, si giunge all’accettazione della iusta delectatio tra coniugi, anche se questa non viene Origene, I Principi, a cura di M. Simonetti, Torino, UTET, 1989, p. 94, testo e nota 3, dove il curatore sottolinea «eccessi di zelo religioso di questo genere abbastanza frequenti nell’epoca: si pensi alla condanna sanzionata da Adriano contro coloro che si castrassero volontariamente». 136 Atanasio, Vita di Antonio con le lettere e la Regola, a cura di S. Di Meglio, Milano, Mondadori, 1997; si tratta dei capitoli 4, 5, 15, 16, 80; solo il cap. 10 è centrato sulle donne. 137 Regole monastiche antiche, a cura di G. Turbessi, Roma, Studium, 1974, p. 128. 138 San Pier Damiani, Liber Gomorrhianus, a cura di E. D’Angelo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, p. 113. 135
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intesa come godimento autonomo, ma come incentivo all’atto procreativo. A tale proposito, l’Aquinate precisa che il fine dell’uso degli organi genitali è la generazione e l’educazione della prole, e perciò ogni uso dei predetti organi che non è proporzionato alla generazione della prole e alla dovuta sua educazione è in sé disordinato139.
Ma anche nella più autorevole trattatistica laica (ammesso sia possibile utilizzare questa distinzione), trovo che Brunetto Latini ammette che l’uso corretto del piacere carnale si dà solo in presenza di cinque ragioni: La prima, che l’accoppiamento sia di uomo con donna; la seconda, che non siano parenti; la terza, che siano uniti in legale matrimonio; la quarta, che l’atto sia compiuto per generare; la quinta, che sia svolto secondo la natura umana140.
Il Cristianesimo quindi, se ha proceduto nella direzione di una vigile rivalutazione operativa del ruolo della donna all’interno della famiglia e della società, sul piano della valutazione ideologica è rimasto bloccato da alcune preclusioni di fondo, dedotte da interpretazioni teologiche e filosofiche di matrice misogina e da cautele morali che vedevano nella donna il pericolo della lussuria e del piacere incontrollato. In questa chiave di estrema sorveglianza credo debba essere interpretata anche l’esclusione della donna dal canto liturgico, «un tormentone della musica sacra cattolica», come ha osservato Valentino Donella, adducendo le argomentazioni autorevoli di chi sosteneva che «la voce femminile da sola facilmente ecciterà gli animi degli uomini e dei giovani presenti in chiesa non già alle cose celesti, ma piuttosto alle terrene e fors’anche alle carnali»141. D’altro canto, il vecchio Codice di diritto canonico definiva la musica sacra come canto corale riservato ai chierici o per lo meno a cori esclusivamente maschili, almeno per quanto concerneva brani tratti dai libri liturgici approvati142. Il contributo germanico all’innalzamento della condizione femminile prescinde in larga misura dalle prospettive delle culture e ideologie appena esaminate, partendo da presupposti profondamente originali e densi di conseguenze sulla condizione della donna in età altomedievale. Tommaso d’Aquino, I vizi capitali, introduzione, traduzione note di U. Galeazzi, Milano, Rizzoli, 2001, p. 581. 140 Brunetto Latini, Tresor, a cura di P.G. Beltrami, P. Squillacioti, P. Torri e S. Vatteroni, Torino, Einaudi, 2007, p. 509. 141 V. Donella, Dal Pruno al Melarancio. Musica in Chiesa dal 1903 al 1963, Bergamo, Edizioni Carrara, 1999, pp. 87-94: per le citazioni, pp. 87 e 88. 142 E. Jaschinski, Breve storia della musica sacra, Brescia, Editrice Queriniana, 2006, p. 8. 139
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Anche le culture barbariche prendevano le mosse da concezioni tutt’altro che benevole nei confronti della donna, avvertita come essere debole, immondo e traditore: la debolezza fisica, da un lato, e il tabù del sangue, dall’altro, aggravato dall’allarmante incapacità di definire il ciclo mestruale, esponevano la donna a valutazioni poco lusinghiere; motivo di preoccupazioni ulteriori era la sua abilità nel preparare e somministrare pozioni, infusi, tisane, decotti, che le servivano per curare, ma anche per uccidere. Pratiche abortive, assassini perpetrati mediante bevande avvelenate trasformavano la donna herbaria, signora delle erbe, in strega subdola e menzognera, mentre l’eroe germanico appare valoroso e ingenuo, come Sigfrido: diametralmente opposto a Ulisse, punito da Dante non in quanto ricercatore della verità, ma perché fraudolento. Ma la cultura germanica non misconosce né minimizza la peculiarità procreativa e quindi potenzialmente patrimoniale della donna, per cui il matrimonio è visto come Weibkaufen (acquisto di donna), un vero e proprio investimento, mentre lo stupro e il ratto non si configurano come reati contro la persona, ma come reati contro la proprietà. Il riconoscimento di questa specificità generativa di prole e di ricchezza introduce nella valutazione della donna elementi innovativi, che portano alla istituzionalizzazione di numerose garanzie femminili all’interno della famiglia e della società medievale. L’importanza della donna come elemento di differenziazione sociale viene messo in evidenza dalla leggenda delle tre nozze di Odino, che per dare origine alle tre classi sociali in cui si articola la società germanica, servi, liberi e nobili, si accoppia con tre donne diverse143. Analogamente, nella mitologia vichinga, a Rig, il dio viaggiatore, occorrono tre accoppiamenti diversi per dare origine e legittimazione eziologica ai tre strati sociali che caratterizzano le antiche popolazioni scandinave144. Anche se non mi sento di condividere le tesi estreme di chi sostiene che solo la donna nobilita, non si può disconoscere che nella tradizione germanica arcaica la capacità generativa della donna si esprime perfino come marcatore della condizione giuridica. Ildegarda di Bingen (1098-1179), che nelle opere mediche figura intrisa di cultura nordica, nel trattato Causae et curae vi aggiunge del suo: «Tutto, invero, è regolato dalla luna, che è madre di ogni tempo; e così come i figli vengono considerati in relazione alla madre, ogni tempo è determinato dalla luna»145. Singolare, nella sua ingenua delicatezza, la teoria di Ildegarda sul sesso e perfino sul carattere del nascituro, determinati entrambi dalla forza del seme e dal grado di P.M. Arcari, Idee e sentimenti politici nell’alto Medioevo, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 502-504; ma si veda ampiamente Ivi, pp. 379-670 (= cap. V “Dalla società della foresta al mundeburdio regio”). 144 G. Jones, I Vichinghi, Roma, Newton Compton, 1977 (orig. Oxford University Press, 1968), pp. 120-121. 145 Ildegarda di Bingen, Cause e cure delle infermità, a cura di P. Calef, Palermo, Sellerio, 1997, p. 55. 143
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amore reciproco all’atto dell’accoppiamento. Il passo, benché lungo, è da riportare per intero: Ora, quando un uomo sparge il suo seme forte nel giusto amore che nutre per la donna, e le si avvicina, nel momento in cui pure lei nutre il giusto amore per lui, concepirà un figlio maschio, perché così fu stabilito da Dio … E quel maschio sarà assennato e virtuoso, essendo stato concepito con un seme forte e nel reciproco e giusto amore dell’uomo e della donna. Se, però, nella donna mancasse questo amore verso l’uomo, e solo l’uomo nutrisse il giusto amore per la donna, ma non la donna per l’uomo, e se il seme fosse sempre forte, verrebbe concepito comunque un maschio, perché l’amore dell’uomo prevale. Ma quel maschio sarebbe debole e non virtuoso, perché nella donna è mancato l’amore per l’uomo. Invece, se il seme dell’uomo è debole, ma egli nutre amore per la donna e lei nutre lo stesso amore per l’uomo, verrà procreata una femmina virtuosa. Se, invero, nell’uomo vi è amore per la donna, ma non nella donna per l’uomo, o se vi è amore nella donna per l’uomo, ma non nell’uomo per la donna, e il seme dell’uomo nell’ora del concepimento è debole, allora, a causa della debolezza del seme, nascerà una femmina. Ma se il seme dell’uomo è forte, e tuttavia non c’è amore nell’uomo per la donna, né nella donna per l’uomo, verrà procreato un maschio, perché nonostante tutto il seme era forte; ma egli avrà un’indole amara, a causa dell’amarezza dei suoi genitori; e se il seme dell’uomo è debole e nessuno dei due prova amore per l’altro nell’ora del concepimento, nascerà una femmina di amara complessione. Invece, il calore delle donne dalla natura florida supera il seme dell’uomo, e il bambino si formerà secondo le loro fattezze. Le donne dalla natura magra, invece, generano bambini simili al padre146.
Ne deriva l’importanza della donna come tramite di conservazione del sangue e della stirpe, secondo prospettive assai lontane dalle interpretazioni di Aristotele e dei suoi imitatori. Se la donna è responsabile del sangue e della purezza della stirpe, non sorprende che nei suoi confronti venga esercitata una costante protezione, il cosiddetto mundio, una forma di tutela della donna e dei suoi diritti patrimoniali che non sembra mai degenerare in forme di palese prevaricazione147. Mundualdi, cioè protettori della donna, prima del matrimonio, sono il padre o i fratelli; le nozze prevedono in genere, ma non sempre, il passaggio del mundio al marito, poi, in caso di vedovanza ai figli; in assenza di mundualdi parentali, la protezione viene assicurata 146 Ibid., pp. 78-79. Cfr. M. Pereira, Maternità e sessualità femminile in Ildegarda di Bingen: proposte di lettura, in «Quaderni Storici», 44, 1980, pp. 564-579. Per l’opportuna contestualizzazione: Hildegarde de Bingen, a cura di M. Schrader, in Dictionnaire de Spiritualité, VII, p. III, Paris, 1969, pp. 505-521; P. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo: scrittrici medievali dal II al XIV secolo, Milano, Il Saggiatore, 1986. 147 Su questo istituto, l’approfondimento più completo resta quello di E. Cortese, Per la storia del mundio in Italia, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», s. III, 8, 1955-56, pp. 323-474. Per un campione ben documentato cfr. B. Andreolli, Uomini nel Medioevo, cit., pp. 113-133. Inoltre: D. Bellacosa, Il «mundio» sulle donne in terra di Bari. Dall’anno 900 al 1500, Napoli, 1906 (rist. anast. Sala Bolognese, 1984).
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d’ufficio dal re. La donna non è mai in grado, istituzionalmente, di essere protettrice di se stessa: non è mai “selpmundia”. A sottolineare ulteriormente il rilievo della protezione istituzionale nei confronti delle donne, si può segnalare che in Rotari 161 si prevede che il premio assicurativo da essa derivante spetti non solo ai figli legittimi, ma anche a quelli naturali: rispettivamente due terzi e un terzo148. L’istituto in questione rivela l’importanza della donna non in quanto tale, ma come rappresentante del gruppo parentale da cui proviene e come titolo di garanzia rispetto alla famiglia cui è destinata: poiché il matrimonio sancisce e suggella un’alleanza politico-patrimoniale tra due clan, e poiché la donna rappresenta l’elemento più delicato di questo accordo paritetico, ne deriva che su di lei si riversa una precisa sorveglianza che significativamente in qualche caso resta alla famiglia d’origine anche dopo il matrimonio. Tant’è che il guidrigildo, cioè il prezzo del sangue, previsto nei confronti di chi accusa una fanciulla di prostituzione o di stregoneria, ma non è in grado di provarlo, in Rotari 198 viene computato sulla base del clan cui la donna appartiene149. Altro istituto importante per capire il rilievo centrale assunto dalla donna nella famiglia altomedievale è quello del morgengap (da non confondere con la quarta delle leggi giustinianee), il dono del mattino consegnato dal marito alla moglie dopo la prima notte di nozze: un quarto dei beni mobili ed immobili presso i Longobardi. Non tragga in inganno il termine, in quanto si trattava di un donativo obbligatorio, che nella società longobarda doveva aver assunto proporzioni preoccupanti, se re Liutprando decise di fissarne la quota ad un quarto e, infatti, da allora il morgengap venne chiamato anche quarta, imponendosi come quota parte standard nella Penisola. Si tratta ovviamente di un istituto normato e formalizzato dalle clausole notarili, ma non mancano documenti in cui la terminologia si espone ad esprimere sentimenti personali da parte dell’uomo, come accade in uno splendido morgengap piacentino150. Se il marito intendeva ottenere anche il mundio, cioè la protezione sulla donna, doveva acquistarlo tramite la consegna della meta o mephio, mentre il padre della sposa si impegnava a consegnare il faderfio e la scherpa, composti in genere da oggetti muliebri o piccoli doni di uso quotidiano: i cosiddetti beni parafernali o extradotali. Ma l’importanza della donna all’interno della famiglia viene messa in evidenza anche dal sistema onomastico che si impose a partire dall’alto Medioevo. Diversa Le leggi del Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara e S. Gasparri, Milano 1992, pp. 44-45. 149 Ibid., pp. 56-59. 150 Chartae Latinae Antiquiores, Facsimile-Edition of the Latin Charters, 2 s. ninth century, ed. G. Cavallo, G. Nicolaj, part. XLIV, Italy XXXVI, Piacenza I, publ. by C. Mantegna, Urs Graf Verlag-Dietikon-Zürich, 2003, 12, p. 54. 148
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mente dall’onomastica romana, incentrata sulla triade nome personale-gentiliziosoprannome – dove è da notare la centralità del gentilizio –, quella medievale si ferma alla identificazione del solo nome seguito dal patronimico o dal matronimico. Quello che qui interessa osservare è però che il nome del figlio viene spesso coniato incrociando una parte del nome del padre e una parte del nome della madre. Gli esempi più interessanti a riguardo vengono forniti dal cosiddetto polittico di Irminone, un corposo inventario di terre, coloni e redditi del monastero parigino di Saint-Germain des Près, fatto compilare agli inizi del secolo IX, dove i nomi dei figli frequentemente vengono coniati secondo il criterio dell’onomastica incrociata (utilizzando cioè alcune sillabe del nome dei genitori o di altri parenti)151, e dove non mancano casi interessanti di prevalenza del nome della madre rispetto a quello del padre. Anche a livello aristocratico Georges Duby assicura che i nomi dei figli erano scelti attingendo a quelli degli avi di entrambi i rami152. In una famiglia allargata di tipo cognatico è comprensibile che l’asse materno e quello paterno tendessero ad essere di pari grado, di pari dignità. A sorvegliare questo delicato equilibrio erano proposti per lo più gli zii, per cui, ad esempio nella società longobarda il barbane, cioè lo zio, ricopre un ruolo importante. Di qui anche la diffusione dell’istituto dell’avuncolato, legame finalizzato alla protezione, istruzione ed educazione dei nipoti. Nelle strutture famigliari di tipo tradizionale, comprese quelle patrilineari, si attribuisce comunque un ruolo speciale al fratello della madre153. Sulla base delle testimonianze e delle considerazioni addotte, è possibile quindi affermare che la donna dell’alto Medioevo è importante all’interno della famiglia e nella società, ma, si badi, non come portatrice di valori di genere o individuali, ciò che valeva peraltro anche per i maschi, bensì come garante degli interessi del clan da cui deriva. Tra VII e VIII secolo, il Venerabile Beda nella Storia ecclesiastica degli Angli assicura che presso la popolazione dei Pitti per la trasmissione del potere regio si utilizzava comunemente la discendenza femminile154. D’altro canto nelle società nomadiche la figura del re aveva spesso carattere transitorio, per cui Ammiano Marcellino (330 ca - 395 ca), asserisce che gli Unni «non riconoscono l’autorità di un re, ma si lasciano guidare dai capi che hanno eletto»155. 151 J. Bessmerny, Les structures de la famille paysanne dans le villages de la Francia au IXe siècle. Analyse anthroponymique du polyptyque de l’abbaye de Saint-Germain-des-Prés, in «Le Moyen Age. Revue d’Hstoire et de Philologie», n. 2, tome XC (4 s., t. XXXIX), 1984, pp. 165-193, p. 166. 152 G. Duby, Il cavaliere, la donna, il prete. Il matrimonio nella Francia feudale, Milano, Mondadori, 1992 (orig. 1981), p. 38. 153 J. Goody, La famiglia nella storia europea, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 85. 154 Storia ecclesiastica degli Angli. Venerabile Beda, a cura di G. Simonetti Abbolito, Introduzione di B. Luiselli, Roma, Città Nuova, p. 40. 155 Ammiano Marcellino, Istorie, 4, a cura di A. Resta Barrile, Bologna, Zanichelli, 1976 (Prosatori di Roma), XXXI. II pp. 140-141. Ritengo ottimistico il giudizio che di questo autore dà Edward
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Ed è lo stesso autore a precisare che quasi tutti i Galli sono molto alti di statura, bianchi di carnagione e biondi di capelli, torvi nello sguardo, rissosi e superbamente insolenti. Ad uno di essi, che fosse assistito dalla moglie, glauca e molto più forte del marito, non potrebbero tener testa parecchi stranieri: soprattutto quando ella gonfiando il collo e digrignando i denti, agita le bianche braccia muscolose e lancia pugni e calci, come catapulte che vibrino colpi da corde intrecciate156.
Prima di lui, Diodoro Siculo (ca. 30 a.C.) assicurava che le donne dei Galli «rassomigliano agli uomini non solo come corporatura, ma anche nel coraggio»157. All’epoca della romanizzazione, varie donne di rango avevano assunto un ruolo decisivo, militando su opposti fronti, per cui Cartimandua regina dei Briganti, in aperto dissenso dal marito, aveva optato per una politica filoromana, mentre Boudicca, vedova di Prasutago re degli Iceni, leggendaria figura di gigantesca e mascolina virago, dalla voce tonante e dalle lunghe chiome bionde, si era posta a capo della rivolta contro gli invasori158. Di lei lo storico greco Cassio Dione Casseiano asserisce: Era una donna molto alta e dall’aspetto terrificante. Aveva gli occhi feroci e la voce aspra. Le chiome fulve le ricadevano in gran massa sui fianchi. Quanto all’abbigliamento, indossava invariabilmente una collana e una tunica variopinta. Il tutto era ricoperto da un spesso mantello fermato da una spilla. Mentre parlava, teneva stretta una lancia che contribuiva a suscitare terrore in chiunque la guardava159.
La cultura germanica esprime nella coppia Brunilde-Crimilde dei Nibelunghi la forza fisica e persuasiva delle guerriere arcaiche assunte come originarie: donne che si destreggiano con efficacia maggiore dei maschi nei duelli, nelle prove fisiche e militari, nell’abilità del comando, come esemplarmente si profila Brunilde, gelosa della collega, di cui non accetta i comportamenti di ostentata parità nei suoi confronti, e Gibbon, quando osserva che la sua opera rappresenta «una guida esatta e degna di fede, che ha scritto la storia del suo tempo senza indulgere nei pregiudizi e nelle passioni che affliggono solitamente la mente di un contemporaneo»: E. Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, IV, London, Henry G. Bohn, 1854, cap. XXVI, p. 55. 156 Ammiano Marcellino, Istorie, 1, Bologna, Zanichelli, 1973 (Prosatori di Roma), XV. XII, pp. 150-151. 157 Per l’ed., si è seguito: Diodorus of Sicily, transl. by C.H. Oldfather, London, W. Heinemann and Harvard University Press, 1961, v. III: V. 32, pp. 180-181. Inoltre: L. Canfora, Il copista come autore, Palermo, Sellerio, 2002. 158 M.M. Rossi, Storia d’Inghilterra, 4 voll., Firenze, 1948-1966, I, pp. 71-87; cfr. anche F.M. Stenton, Anglo-Saxon England, Oxford, Oxford University Press, 1989 (3a ed.) pp. 46-47, pp. 161-162. 159 Cassio Dione Casseiano, Storia Romana, 62. 2. Inoltre: V. Collingridge, Boudica, London, 2005.
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determinata nel sostenere le sue ragioni nei confronti della rivale, non esita a minacciare il consorte re Gunther di appenderlo a un chiodo della parete. La forzatura è evidente, ma conferma la sostanza di un deciso contributo delle donne celtiche nelle imprese belliche delle loro tribù, non differentemente da quanto avveniva in ambito germanico. Della Germania di Tacito possiamo in qualche misura anche dubitare, trattandosi, come è noto, di un reportage fortemente ideologizzato in chiave filobarbarica, ma la persistenza di donne guerriere o comunque implicate nelle imprese belliche è un dato incontrovertibile che dall’età delle prime invasioni giunge al Medioevo. Noto è il caso di Gambara, madre dei capi longobardi Ibor ed Aione: «donna di ingegno acuto e provvida consigliera – assicura Paolo Diacono – per le situazioni dubbie essi facevano molto affidamento sulla sua saggezza». Il mito di Gambara è talmente presente alla memoria dei Longobardi da scandire eziologicamente i testi base della tradizione storica e normativa di questo popolo160. Di questa importanza politica delle donne longobarde, favorita, credo, anche dalle esigenze della fase migratoria, troviamo testimonianze efficaci ancora all’epoca dello stanziamento definitivo in Italia, tant’è che nei documenti dell’epoca abbiamo qualche caso in cui le donne si fregiano del titolo di vir honestus o di arimannus, qualifica tipica dei liberi guerrieri. Nel secolo XI, Beatrice di Lorena, vedova di Bonifacio di Canossa, non si firma soltanto col titolo di ducatrix o di ducarissa, ma con quello di dux, significativamente ostentato al maschile. Questo, della prestanza fisica delle donne e dell’attitudine femminile al comando, di regine che mettono in seria difficoltà i loro consorti, come Crimilde, una delle protagoniste dei Nibelunghi, che la prima notte di nozze appende alla parete l’irruento e sgarbato Gunther, è un elemento su cui la storiografia ha insistito nel caratterizzare negativamente i secoli più oscuri del Medioevo; ed è il caso del secolo X, “il secolo di ferro”. Da questo punto di vista, anzi, la laica misoginia borghese dell’Ottocento si è trovata a condividere le perplessità espresse a riguardo dalla misoginia chiericale dell’alto Medioevo. La regina ha la pienezza dei poteri regi e quindi la possibilità di trasmetterli, come è stato dimostrato utilizzando l’immagine persuasiva del filo a piombo, in grado di disciplinare, in base alle opportunità del momento, le esigenze di armonizzazione tra i vari lignaggi nella scalata verso i vertici del potere. L’accanimento con cui il re d’Italia Berengario II insegue, nel tentativo di sposarla, Adelaide, vedova dell’imperatore Lotario e poi moglie dell’imperatore Ottone I di Sassonia, esprime un’esigenza di legittimazione che all’epoca dovette essere largamente condivisa161. La stessa cosa accade negli altri gradi della nobiltà. Berta di Toscana (863-925), la S. Gasparri, La cultura tradizionale dei Longobardi. Struttura tribale e resistenze pagane, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 1983; Le leggi dei Longobardi, cit., passim. 161 E. Colonna, Figure femminili in Liutprando di Cremona, in «Quaderni Medievali», 14, 1982, pp. 29-60; P. Golinelli, Adelaide. Regina Santa d’Europa, Milano, Jaca Book, 2000. 160
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contessa Adelaide, Alberada (1033-1122), moglie di Roberto il Guiscardo, Marozia, Beatrice di Lorena, Matilde di Canossa, non sono dei mostri, come voleva Cesare Balbo, ma rientrano nella norma. Una rassegna ancora più nutrita di reggenti, regine e basilisse si potrebbe proporre per l’alto Medioevo bizantino: rappresentanti tutt’altro che sprovvedute di un potere personale e istituzionale del quale si facevano strenue portavoce alla stregua dei loro colleghi maschi, contro la greve misoginia di taluni agguerriti esponenti dell’alto clero162. E non è corretto, come pure si è tentato, motivare questo potere col fascino della bellezza fisica e del sesso muliebre, perché le ragioni della ingerenza e non di rado della preminenza politica delle donne sono in primo luogo di natura istituzionale: se si aggiunge la seduzione, tanto meglio. Quando J.N. Sutherland afferma che «Ermengard, Berta, Theodora, Marozia, and Willa used sex to serve their political ambitions or used politics to achieve sexual ambitions»163, non propone una valutazione di tipo generale, ma sta semplicemente riassumendo il pensiero del misogino Liutprando da Cremona, che peraltro aveva le sue (buone o non buone) ragioni per gettare fango sulle protagoniste di un progetto politico che aveva messo in forse la politica restauratrice del suo protettore. L’attitudine alla guerra delle donne di rango, le capacità diplomatiche, la conoscenza dell’amministrazione, l’esercizio del potere sono per le donne del tempo, non rappresentano pertanto una aberrazione, ma l’espressione di un ruolo che la società e la cultura dell’epoca loro riconosce. E che parte da lontano. Ne rimane traccia perfino nei titoli funzionariali che spesso vengono declinati al femminile, come ha esemplificato K.F. Werner164. Nell’Inghilterra britannica Tacito segnala il caso della regina Baudicca che resiste all’invasione romana, mentre Cartimandua è schierata dalla parte degli invasori165. Nel suo ruolo di donna guerriera si distingue pure Etelfleda, figlia di Alfredo e moglie di Etelredo, per questo definita nuova Baudicca166. Esemplare, sotto questo profilo, l’esaltazione delle gesta di Aldruda (11201173), contessa di Bertinoro, nella difesa di Ancona dall’assedio delle truppe impe-
A. Carile, Donne, sessualità e potere a Bisanzio, in Comportamenti e immaginario della sessualità nell’alto Medioevo, Spoleto, 2006, pp. 481-533; per un esempio ben documentato cfr. Id., Chiesa e potere nel IV-V secolo a Costantinopoli: San Giovanni Crisostomo e la corte, in XI Simposio Paolino. Paolo tra Tarso e Antiochia. Archeologia/Storia/Religione, a cura di L. Padovese, Roma, Pontificia Università Antonianum, 2008, pp. 219-234. 163 J.N. Sutherland, Liudprand of Cremona, bishop, diplomat, historian. Studies of the man an his Age, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo, 1988, p. 17. 164 K.F. Werner, Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élite politiche in Europa, Torino, Einaudi, 2000 (ed. orig. 1998), pp. 33 ss. 165 M.M. Rossi, Storia d’Inghilterra, I, Firenze, Sansoni, 1948, pp. 84-85; 87, 79. 166 Ibid., pp. 310 ss. 162
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riali, il cui coraggio e il cui valore vengono riconosciuti e descritti con ammirazione dai panegiristi e cronisti del tempo, come ha messo bene in rilievo Paolo Lamma167. L’unico periodo in cui il Caucaso, con a capo il regno di Georgia, godette di una costituzione autonoma e indipendente fu durante il governo della regina Tamara (1184-1212), statista e guerriera, che amava fregiarsi del titolo di re (Tamar Mepe)168. Anche la santità femminile assume nel Medioevo le caratteristiche del comando e della forza. Santa Genoveffa, patrona di Parigi, difende e organizza il suo popolo di fronte all’invasione di Attila ed esercita grande influenza sui re Childerico e Clodoveo169. Analogamente la regina Radegonda si muove con determinata abilità nei confronti del marito170. La seconda Crociata, bandita da papa Eugenio III, in seguito all’accesa predicazione di Bernardo da Chiaravalle, da evento militare si trasforma in una vera e propria passerella femminile, cui partecipano la regina Eleonora d’Aquitana, con il suo seguito, Sibilla di Fiandra, Fiorina di Borgogna, Faydide di Tolosa, Isabella di Blois, Mamille di Roucy, Tourquery di Buglione: al punto che si è parlato di Crociata delle donne171. Dal canto suo, Eleonora si era proclamata la nuova Pentesilea alla guida delle sue dame, battezzate per l’occasione nuove Amazzoni. Ma già nello svolgimento della prima crociata, le donne ebbero un ruolo determinante nel corso della battaglia di Dorileo, quando furono viste prestare aiuto ai combattenti, mentre nell’assedio di Acri si gettarono nel fitto della battaglia armate di tutto punto172. Christine de Pizan, nel costruire la sua città delle donne, la popola di regine potenti e influenti, guerriere strenue e coraggiose, amazzoni, eroine, sante combattive, costruttrici di città, fortezze, roccheforti. Tra le protagoniste del Medioevo cita diffusamente la regina dei Franchi Fredegonda, di cui esalta il coraggio e le capacità militari. A proposito di Didone precisa: Il suo governo fu notevole e di grande prudenza, al punto che la sua fama si diffuse dappertutto, e non si parlava che di lei. Il suo coraggio fuori del comune, l’audacia, la P. Lamma, Aldruda, contessa di Bertinoro, in un panegirico di Eustazio di Tessalonica, in Studi Storici in memoria di L. Simeoni pubblicati dalla Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna, vol. I, Bologna, 1953, pp. 57-72. 168 G. Ostrogorski, Storia dell’impero bizantino, traduzione di P. Leone, Torino, Einaudi, 1968 (ed. orig. 1963), p. 391. 169 J. Dubois, L. Beaumont-Maillet, Sainte Geneviève de Paris, Paris, Beauchesne, 1982. 170 F. Ela Consolino, Due agiografie per una regina: Radegonda di Turingia fra Fortunato e Baudonivia, in «Studi Storici», n. 1, pp. 143-159. 171 P.F. Gasparetto, La Crociata delle donne, Casale Monferrato, Piemme, 2002. Cfr. anche: P. Riché, San Bernardo. Una vita in breve, Torino, Edizioni San Paolo, 1992 (ed. orig. Paris, 1989). 172 F. Cognasso, Storia delle crociate, Milano, Dall’Oglio, 1967, p. 587. 167
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bella impresa che aveva compiuto e la grande saggezza nel governare, le trasformarono il nome: venne chiamata “Didone”, che sarebbe l’equivalente di “virago” in latino, cioè colei che ha il coraggio e la forza di un uomo173.
Le stesse mistiche battagliere del Medioevo sono assai diverse per temperamento e formazione da talune loro consorelle languide ed estenuate dell’età controriformistica: mi riferisco in particolare alla grande badessa renana Ildegarda di Bingen, il cui profondo misticismo non le impediva di interessarsi anche di problemi concreti e quotidiani, come quando, di fronte alle critiche mossele sul fatto che desiderava che le sue suore si vestissero elegantemente, portassero serti di fiori e si profumassero, rispondeva che erano spose di Cristo e che pertanto non potevano sottrarsi all’obbligo coniugale di curare la loro bellezza174. Né mancano altri esempi per i secoli immediatamente successivi175. La reazione maschile A partire dal XII secolo le cose iniziano a cambiare e per le donne comincia a mettersi male. L’erosione dei loro diritti è difficilmente contestabile e tocca tutti o quasi gli aspetti del loro precedente protagonismo. Si ha una lenta, ma progressiva agnatizzazione delle strutture famigliari tramite l’introduzione del diritto di primogenitura maschile e l’estromissione dei figli cadetti e delle donne, che si liquidano con la concessione della sola dote. I secoli centrali del Medioevo sono dominati da un diffuso mutamento, che rappresenta un problema enorme per generazioni di giovani in cerca di reddito e di fortuna. Bande di juvenes scorazzano per l’Europa, combattendo, saccheggiando, giostrando con la speranza di trovare un potente sovrano con cui condividere il pane, divenendone compagno de macinata (masnada), oppure una ricca ereditiera con la quale accasarsi: le stesse crociate rappresentano una valvola di sfogo a questa febbrile ricerca di sistemazione176. Anche la Chiesa favorisce con forza il processo verso l’agnatizzazione delle famiglie, nonostante la resistenza dei clan nobiliari, determinati nella difesa a oltran Christine de Pizan, La città delle dame, a cura di P. Caraffi, Edizione di Eearl Jeffrey Ricards, Roma, Carocci, 2004, p. 211 (Libro I, XLVI). 174 Cfr. A. Guiducci, Medioevo inquieto. Storia delle donne dall’VIII al XV secolo d.C., Firenze, Sansoni, 1990, pp. 111-112. 175 Per una eloquente rassegna: Temi e problemi nella mistica femminile trecentesca, Todi, presso l’Accademia Tudertina, 1983 (Convegni del Centro di Studi sulla spiritualità medievale, Università degli Studi di Perugia, XX); segnatamente: A. Benvenuti Papi, Frati mendicanti e pinzochere in Toscana: dalla marginalità sociale a modello di santità, Ivi, pp. 107-135; E. Menestò, La mistica di Margherita da Cortona, ivi, pp. 181-206. 176 Tema còlto con acutezza e descritto con efficacia da G. Duby, Terra e nobiltà nel Medioevo, Torino, Società Editrice Internazionale, 1974. 173
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za del loro tradizionale controllo sulle strategie matrimoniali. Essa esige che non si possa contrarre matrimonio tra consanguinei fino al settimo grado, poi ridotto al quinto nel Concilio Lateranense del 1215, favorendo in questo modo una poderosa spinta verso l’esogamia e verso la piena formazione del sacramento matrimoniale, che però si realizzerà di fatto solo dopo il Concilio di Trento177. Un percorso pertanto tutto in salita, delle cui difficoltà si trova ricezione nella lettera di papa Niccolò I ai Bulgari, dove si sosteneva anacronisticamente che, per la piena legittimità di una unione matrimoniale, fosse necessario e prioritario il consenso dei nubendi178. La non osservanza dell’impedimento di consanguineità è pratica diffusa e tollerata, per non parlare delle facili quanto frequenti dispense179. Ne deriva che, indebolito il potere del clan, si rafforza la famiglia nucleare, ma nel contempo si indebolisce la forza della donna, in quanto rappresentante del clan da cui proviene. Un riflesso di questa decadenza del ruolo femminile all’interno della famiglia è rinvenibile nella lirica cortese e trobadorica, dove la donna viene sì innalzata, ma fuori della famiglia, perché quello cortese non è amore maritale, ma amore adulterino o comunque extraconiugale. Il fatto che, a parte il volo d’ala di Chrétien de Troyes, il quale, contro il determinismo di Andrea Cappellano, le cui argomentazioni vengono portate alle estreme conseguenze, sostiene la realizzazione dell’amore anche all’interno della coppia coniugale, la letteratura cortese esalti amori di tipo adulterino, infecondi e segreti, sta a dimostrare che si tratta di prospettive non strutturate e quindi innocue rispetto a un progetto sociale teso a un controllo sempre più rigido dei ruoli femminili all’interno del matrimonio. È da condividere pertanto il pensiero di Georges Duby, quando sostiene che quella del ciclo arturiano è letteratura di tipo maschilista180; ed è da sottoscrivere il convincimento di Eileen Power, la quale rileva la contraddittorietà delle «idee … sulle donne espresse durante il Medioevo e lasciate come un legato alle generazioni future»181. È la logica in cui si muove Andrea Cappellano nel De Amore – un tratta L. Ferrante, Gli sposi contesi. Una vicenda bolognese di metà Cinquecento, in Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, Bologna, Il Mulino, 2001, (I processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani, II), pp. 329-362 (Istituto trentino di cultura. Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, Quaderni, 54). 178 Nicolò I, santo, a cura di F. Bougard, Enciclopedia dei papi, I, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 1-22. Sul tema specifico: A.E. Laiou, «Consensus facit nuptias – Et non»: Pope Nicholas I’s Responsa to the Bulgarians as a Source for Bysantine Marriage Customs, in «Rechtshistorisches Journal», 4, 1985, pp. 189-201, ora in Ead., Gender, Society and Economic Life in Byzantium, London, Variorum, 1992, cap. IV. 179 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Torino, Società Editrice Internazionale, p. 155. 180 G. Duby, Medioevo maschio. Amore e matrimonio, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 38-40. 181 E. Power, Donne del Medioevo, ed. postuma a cura di M.M. Postan, Milano, Jaca Book, 1978 (ed. orig. Cambridge University Press, 1975), p. 28, ma v. tutto il capitolo pp. 9-29. 177
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to di grande successo in quella che viene chiamata Età ovidiana – perché interprete e teorico di una cultura che distingueva nettamente rapporti matrimoniali e rapporti amorosi. Solo Chretien de Troyes si muove in aperta controtendenza, quando, portando alle estreme conseguenze le teorie del De Amore, esalta l’amore coniugale come una fattispecie dell’amore cortese. E sempre in questa logica di separazione si muovono altri trattati meno noti, ma largamente condivisi che consentivano ai chierici i vari gradi di piacere carnale, escluso naturalmente quello del coito, la cui esplicazione procreativa apparteneva esclusivamente all’ordo degli uxorati182. “Tactum non factum” è la parola d’ordine cui si ispirano questi codici comportamentali ben presto oscurati dal pensiero ufficiale. E, senza fare dell’epistolario tra Eloisa e Abelardo un manifesto della cultura cortese183, non vi è dubbio che alcuni passaggi di esso rinviano a questo convincimento diffuso, per cui il chierico-intellettuale è legittimato a provare i piaceri della carne, senza necessariamente essere costretto agli obblighi maritali che ne derivano184. Alla fine del XIII secolo, Jean de Meun, nella seconda parte del Romanzo della rosa, parla della donna come “distrazione” dell’intellettuale185. Anche il filone della donna bugiarda e menzognera, già ampiamente illustrato nelle bugie di Isotta, che sono ricondotte alla spregiudicatezza del linguaggio nelle forme estreme illustrate dalla dottrina di Abelardo186, esprime il disagio dei maschi nei confronti delle seduzioni femminili e l’esigenza di ridimensionarne il peso destabilizzante. Ma al di là della poesia e della trattatistica, sono ora i diritti patrimoniali e civili della donna ad essere messi in forte discussione: si sviluppa l’odium quartae, l’avversione cioè nei confronti del morgengap, avvertito come fortemente lesivo dei patrimoni famigliari; non si hanno più tracce della meta e del faderfio; si ritorna alla esclusività del sistema dotale romano con casi di appropriazione da parte del coniuge anche delle assegnazioni dotali e in taluni casi perfino di quelle extradotali o parafernali. Anche se il sistema dotale di tradizione romana in talune zone non era D. Polloni, Amour e clergie, cit., pp. 147-164. Circa l’acceso dibattito rispetto a questo tema, suggerisco R. Morghen, Civiltà medioevale al tramonto, Roma-Bari, Laterza, 1973: II. Il dramma di Abelardo ed Eloisa nella spiritualità del secolo XII (a proposito di un libro famoso), pp. 25-41, che prende spunto ovviamente da E. Gilson, Eloisa e Abelardo, Torino, Einaudi, 1950. 184 M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Eloisa. L’intellettuale, in F. Bertini, F. Cardini, C. Leonardi, M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Medioevo al femminile, a cura di F. Bertini, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 121-144. 185 Ch. De Pizan, G. Col, J. De Montreuil, J. Gerson, P. Col, Il dibattito sul Romanzo della rosa, trad. e cura di B. Garavelli, Milano, Medusa, 2006, p. 7. 186 M.T. Beonio Brocchieri Fumagalli, Le bugie di Isotta. Immagini della mente medievale, Roma-Bari, Laterza, 1987. 182 183
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mai stato veramente abbandonato, nel secondo Medioevo si assiste a un massiccio ritorno ad esso187. Si aggiunga il recupero di istituti giuridici caduti in desuetudine o aboliti dal diritto giustinianeo, come la Lex Voconia, il Senatus Consultum Velleianum, la Lex Falcidia, provvedimenti tramite i quali il controllo delle possibilità operative delle donne si faceva più stringente, soprattutto nel limitarne la presenza negli impegni nei confronti di terzi188. Scompare definitivamente l’istituto del Consors Regni, nell’accezione specifica di contitolare del regno, sostituito dal più rassicurante principio della reggenza, mentre dopo la guerra dei Cent’anni in Francia si ha il trionfo della successione salica, che escludeva le donne dal diritto successorio, dove sarà interessante osservare che l’introduzione del divieto è frutto non di un interpretazione del testo originario, ma di una vera e propria interpolazione, caldeggiata per ovvi motivi dai Valois189. Sul piano patrimoniale non mancano attacchi generalizzati per erodere le disponibilità muliebri perfino sul piano dei beni parafernali, come illustrano esaurientemente gli strumenti di controllo sulle assegnazioni dotali e, da un altro punto di vista, le cosiddette leggi suntuarie190, le cui disposizioni capillarmente diffuse e reiterate testimoniano forme di elusione e reazione da parte delle donne, al punto che la bella, ricca e colta Nicolosa, moglie di Nicolò Sanuti, conte della Porretta, non esitò a criticare aspramente un bando vessatorio sul lusso delle donne emanato a Bologna nel 1453 dal legato pontificio cardinal Bessarione191. Ma già nel Duecento, le nobildonne di Bologna si erano ribellate al cardinale legato Latino, che proibiva loro di portare il regolio, considerato ornamento di pompa e vanagloria192. F. Ercole, La dote romana negli Statuti di Parma, in «Archivio Storico per le Provincie Parmensi», n.s., vol. VIII, 1908, pp. 15-146. 188 H. Ankun, La femme mariée et la loi Falcidia, in «Labeo», 29, 1983, 2, pp. 28-70. G. Costamagna, Bologna e il ritorno del diritto romano nella documentazione notarile (secoli XII-XIV), in Studio bolognese e formazione del notariato. Atti del Convegno (Bologna, maggio 1989), Milano, Giuffrè, 1992, pp. 11-21. 189 R. Cazelles, Société politique, noblesse et couronne sous Jean Le Bon et Charles V, Genève-Paris, Librairie Droz, 1982 (Mémoires et Documents publiés par la Société de l’Ecole des Chartes, XXVIII), pp. 580-581; E. Viennot, La France, les femmes et le pouvoir. L’invention de la loi salique (Ve-XVIe siècle), Paris, Perrin, 2006. 190 Per una campionatura regionale: La legislazione suntuaria secoli XIII-XVI – Emilia-Romagna, a cura di M.G. Muzzarelli, Roma, 2002 (Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, XLI). Analisi circostanziate su singoli territori in N. Fantuzzi Guarrasi, La donna negli statuti delle antiche Comunità reggiane (secc. XIII-XVIII), estratto da «Bollettino Storico Reggiano», a. X, aprile 1977, fasc. n. 33; E. Insabato, La donna slava negli strumenti dotali delle marche bassomedievali, in «Proposte e ricerche», 9, Urbino, 1982, pp. 73-89. 191 E. Zanoli, Nicolosa bella, splendida nynpha e coraggiosa contessa, Sasso Marconi (Bologna), 2005 (ricerca di E. Zanoli, G. Dalle Donne). 192 Salimbene de Adam, Cronica, ed. critica a cura di G. Scalia, Bari, Laterza, 1966 (Scrittori d’Italia, 232), I, p. 632. 187
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Si tratta ovviamente di un processo lento e tutt’altro che omogeneo, tant’è che ancora in pieno Cinquecento troviamo donne che sostengono energicamente la piena legittimità del loro potere: è il caso della contessa Ludovica Torello a Guastalla, «intrepida, et coragiosa nel manegiar il tutto»193, o di Ricciarda Malaspina, che per conservare il ducato di Massa e Carrara e trasmetterlo al figlio illegittimo Alberico non esitò a far giustiziare il primogenito Giulio194. La tendenza generale, tuttavia, preferisce vederle come delle first ladies sulla via del tramonto, “come rose d’inverno” in un giardino ormai quasi interamente declinato al maschile195. Si osservano perfino cali di importanza nei settori produttivi che tradizionalmente erano appannaggio della donna. Come ha osservato Evelyne Sullerot, nel corso del secolo XVI la distilleria della birra passò nelle mani degli uomini, mentre in Francia l’industrializzazione della lavorazione delle sete favorì progressivamente il lavoro maschile. Se nei ginecei di età carolingia erano le donne a controllare l’intero ciclo produttivo nella produzione dei tessuti, comprese la raccolta del lino e la tosatura delle pecore196, negli atelier signorili del tardo Medioevo, come nel caso delle ricamatrici ferraresi, alle donne vengono affidate mansioni specifiche di scarso rilievo197. A proposito del cucito, un editto del 1675 imponeva alle sarte di occuparsi solo di lavori di piccola importanza, escludendo i vestiti che dovevano essere fatti dai sarti198. Questa decadenza è peraltro recepita dalla letteratura: i secoli centrali di questo mutamento sembrano essere il Due-Trecento, periodo nel quale matura il passaggio dalla dissimulazione cortese all’attacco frontale e parallelamente si ha la doppia redazione del Romanzo della Rosa: la prima parte, composta verso il 1230 da Guillaume de Lorris, presenta la donna in termini positivi, secondo i moduli tipici della poesia cortese, mentre la seconda, scritta da Jean de Meun attorno al 1270, ne sottolinea i caratteri negativi: la donna meschina, intrigante, ruffiana, chiacchierona, avida, secondo i caratteri tipici nella commedia cinquecentesca199. È noto il dibattito suscitato dalla doppia redazione di questo fluviale poema allegorico e la critica che ne derivò circa il passaggio dalla donna cortese della prima parte alla donna menzognera e pericolosa della seconda: preoccupazione del tutto A. Zagni, La contessa di Guastalla, Reggiolo (Reggio Emilia), 1987, p. 75. AA.VV., Ricciarda Malaspina Cibo marchesa di Massa e signora di Carrara (1497-1553), Modena, Aedes Muratoriana, 2007; segnatamente A.M. Zandri, Ricciarda e Giulio. La madre, il figlio, ivi, pp. 73-95, con spunti interessanti accanto a giudizi morali irricevibili in sede di valutazione storica. 195 M.S. Mazzi, Come rose d’inverno, cit., passim. 196 B. Andreolli, Tra podere e gineceo. Il lavoro delle donne nelle grandi aziende agrarie dell’alto Medioevo, in Donne e lavoro nell’Italia medievale, a cura di M.G. Muzzarelli, P. Galetti, B. Andreolli, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 29-40. 197 A. Ghinato, Le ricamatrici: un esempio ferrarese, Ivi, pp. 83-91. 198 G. Conti Odorisio, Storia dell’idea femminista in Italia, Torino, ERI, p. 85 199 Guillaume de Lorris, Jean de Meun, Le Roman de la rose, éd. A. Strubel, Paris, Librairie générale française, Le Livre de Poche (Lettres Gothiques), 1992. 193 194
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incomprensibile, se non come testimonianza delle trasformazioni determinate dal venir meno dei precedenti protagonismi femminili200. E non è un caso se l’interprete più accesa e determinata all’interno di questo dibattito sia Christine de Pizan, cui si deve un trattato come la Cité des dames (1404-1405), nel quale si pone mano alla fabbricazione di uno spazio urbano riservato alle donne e in cui le donne vedono riconfermati gli antichi ruoli di potere e di gestione della cosa pubblica201. Al 1315 risale la stesura del Doligamus di Adolfo di Vienna, exemplum in versi nel quale tramite nove racconti (fabulae) si descrivono gli inganni delle donne, «de quarum fraude nemo cavere potest»202. Nel caso illuminante del Boccaccio si nota una sorta di ambivalenza tra le opere della maturità e quelle della senilità, per cui se nel Decameron, nell’Elogio di Madonna Fiammetta (1343-1344) e nel De claris mulieribus il giudizio si presenta largamente positivo, nel Corbaccio o Laberinto d’amore (per alcuni critici, 1355; per altri, 1366) il giudizio diviene fortemente negativo203 e perfino in un’opera erudita e asettica, quale dovrebbe essere il De montibus, silvis, fontibus (completata tra il 1371 e il 1374), lo scrittore si lascia sfuggire una considerazione di rimpianto verso i tempi andati, lamentandosi del fatto che “molto spesso anche le femmine, lasciato il lavoro della tessitura, con molto ardimento si mettono a scrivere”204. Iacopone da Todi non è da meno e nella satira diciassettesima stravolge completamente la poetica del Dolce stil novo: la donna non è più elemento di elevazione spirituale, ma strumento di perdizione; essa viene paragonata al basilisco, che secondo le leggende medievali aveva il potere di uccidere con lo sguardo. Questa satira godette di larga fortuna e fra i copisti ci fu chi decise di aggiungervi altre strofe, che rincarassero la dose. Nei Proverbia quae dicuntur super natura feminarum si insiste particolarmente sul pericolo dello sguardo femminile, lussurioso specchio del demonio e strumento di perdizione: Lo basalisco en li ogli si porta lo veneno: col vardar alcì li omini, de questo non è meno. E l’oclo de la femena è de luxuria pleno: vardando l’om, confondelo e ’l secca como feno. Questo q’eu ora contove vero dico, no pecco: li ocli de la femena del demonio è spleco; Ch. de Pizan et alii, Il Dibattito sul Romanzo, cit. Ch. de Pizan, La città delle dame, a cura di P. Caraffi, Edizione di Earl Jeffrey Richards, Roma, 1997. 202 Adolfo di Vienna, Doligamus. Gli inganni delle donne, a cura di P. Casali, SISMEL, Firenze 1997 (Per verba, 7). 203 G. Padoan, L’ultima opera di Giovanni Boccaccio. Le Esposizioni sopra Dante, Olschki, Firenze, 1959. 204 Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, II, a cura di V. Branca, V. Zaccaria, M. Pastore Stocchi, Milano, Mondadori, 1998. 200 201
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no troce hom sì santisemo, né latino ni greco, se speso entro vardàse, q’ lo non faça fleco205.
Anche la devozione mariana cambia progressivamente registro, passando dalle ieratiche madonne regine, così care all’iconografia bizantina, alle protettive e materne madonne dell’umiltà e del latte, che si diffondono a partire dal Trecento206, prima della Peste Nera, mentre esplode il culto nei confronti della Maddalena207, la santa peccatrice e profumiera, che unge di preziosissimi balsami i piedi di Cristo per asciugarli con i suoi capelli: la si trova spesso invocata perfino come protettrice delle prostitute. Splendida la rievocazione che di questa spregiudicata seduttrice, poi diventata santa, fa un brano dei Carmina Burana: qui Maddalena chiede al mercante i profumi più inebrianti e i belletti più raffinati, per accrescere il suo fascino. Questa femminilizzazione della santità, segnalata dal Vauchez, che tende a ricondurla a fenomeni di isteria, deriva, almeno in parte, dalla chiusura della famiglia, della società, della religione nei confronti delle donne, che all’emarginazione reagiscono in forme abnormi, disperate, violente. La prostituzione, largamente tollerata nei secoli precedenti, viene progressivamente regolamentata e ghettizzata, tenendola ben separata dal mondo delle cortigiane, cui venne assicurato un codice morale diverso208. Si istituzionalizza la distinzione netta tra la donna “consueta ponere cornua marito” e la prostituta di professione: punita con legittima violenza la prima; schedata, marchiata e nei limiti del possibile reclusa la seconda209. Ma la disciplina dei comportamenti femminili nel corso del basso Medioevo si apre a ventaglio su una serie impressionante di contesti, che arrivano fino al gioiello, al vestito e al copricapo: secondo una casistica solo apparentemente schizofrenica, perché in realtà è espressione di una tendenza generale che vuole intervenire minuziosamente anche nei confronti dei casi più minuti, il che non vuol dire insignificanti: tutt’altro210. Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, Duecento, Torino, Einaudi, 1999, pp. 172-173. 206 M. Baxandall, Pitture ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, a cura di M.P. e P. Dragone, Torino, Einaudi, 1978. 207 V. Saxer, Le culte de Marie Madeleine en Occident des origines à la fin du Moyen-Age, Auxerre-Paris, Clavreuil, 1959; per l’iconografia: La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, a cura di M. Mosco, Firenze, La Casa Usher, Milano, Mondadori, 1986. 208 J. Rossiaud, La prostituzione nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1986; per un campione ben documentato cfr. R. Rinaldi, Mulieres publicae. Testimonianze e note sulla prostituzione tra pieno e tardo Medioevo, in Donne e lavoro, cit., pp. 105-125. 209 Citazione e problematiche in R. Comba, «Apetitus libidinis coherceatur». Strutture demografiche, reati sessuali e disciplina dei comportamenti nel Piemonte tardomedievale, in «Studi Storici», n. 3, 1986, pp. 529-576. 210 Da segnalare, in proposito, M.G. Muzzarelli, Ma cosa avevano in testa? Copricapi femminili proibiti e consentiti fra Medioevo ed Età Moderna, in Un bazar di storie, a Giuseppe Olmi nel sessantesimo genetliaco, a cura di C. Pancino e R.G. Mazzolini, Trento, Università degli studi, 2006, pp. 13-28. 205
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Con il Trecento si chiude un’epoca e se ne apre un’altra, scandita dal crescente utilizzo di pratiche repressive: i processi alle streghe; da Giovanna d’Arco fino ai diavoli di Loudon, nel giro di alcuni secoli la donna vedrà sfuggirle dalle mani tutto quanto aveva accumulato durante un millennio circa. Nel 1460 viene dato alle stampe il Laminarium sive striarum opusculum del domenicano Girolamo Visconti, opera nel quale la stregoneria viene declinata al femminile. Il 5 dicembre 1484 papa Innocenzo VIII emana la celebre bolla Summis desiderantes affectibus, che inaugura la caccia sistematica alle streghe. Nel 1486-1487 si ha la prima edizione del Malleus Maleficarum (Il Martello delle streghe) a opera di Heinrich Institor (Kramer) e Jacob Sprenger. Una seconda edizione di questo manuale si ebbe a Spira nel 1487, e poi fino al 1669 se ne contano ben 34 edizioni, a testimonianza della fortuna di cui godette211. Visti gli effetti pratici, si può legittimamente pensare che non si trattò di una fortuna meramente editoriale. Nel solo anno 1510 a Brescia vengono bruciate 70 donne; nel 1515 a Ginevra vengono arse circa 500 streghe; nel 1518 l’Inquisizione manda sul rogo 70 streghe nella Val Camonica. Circa lo stretto rapporto di responsabilità nella repressione tra istituzioni laiche ed ecclesiastiche, un caso da manuale mi pare quello di Mirandola, dove perfino amichevole diviene la collaborazione tra l’inquisitore domenicano Leandro Alberti e il signore Giovan Francesco Pico, nipote del celebre filosofo, nonché autore di un trattato dedicato alla strega, opera senz’altro speculativa, ma anche funzionale rispetto ai roghi effettivamente avvenuti e dei quali Albano Biondi ha dimostrato la matrice politica prima ancora che religiosa212. Si tratta, ovviamente, solo di un esempio dei tanti altri che si potrebbero fare e che tutti, a vario titolo, confermano, una stretta collaborazione tra processo inquisitoriale e braccio secolare. Anche se riguarda un periodo decisamente più tardo, è possibile estendere all’età tardomedievale il pensiero di Silvia Mantini, secondo la quale «il fatto che le magistrature laiche si facessero promotrici di queste condanne sembra indicare un’esigenza del potere politico di esercitare con energia il proprio controllo, di farsi sentire come autorità garante di un ordine richiesto dalla società nel suo complesso»213. Ne deriva che il controllo della figlia, della moglie e della madre, la ghettizzazione della prostituta, l’emarginazione o, meglio ancora, se possibile, l’eliminazione Malleus Maleficarum, I ed. Strasburgo 1486. Per la traduzione italiana: H. Institor (Kramer), J. Sprengler, Il Martello delle streghe. La sessualità femminile nel transfert degli inquisitori, con introd. di A. Verdiglione, Venezia, Marsilio, 1995. 212 Libro detto strega, o Delle illusioni del demonio del signore Giovanfrancesco Pico dalla Mirandola nel volgarizzamento di Leandro Alberti, a cura di A. Biondi, Venezia, Marsilio, 1989. A. Biondi, Umanisti, eretici, streghe: saggi di storia moderna, a cura di M. Donattini, intr. di A. Prosperi, Modena, Archivio storico del Comune, Assessorato alla Cultura, 2008. 213 S. Mantini, «…et chi vi andava una volta vi sarebbe tornata sempre». Una storia di streghe, in Gostanza, la strega di San Miniato, a cura di F. Cardini, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 5-25, p. 17. 211
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fisica della strega non sono da considerate episodi estremi di una barbarie perpetuatasi nei secoli, ma il punto di arrivo di una repressione nuova, recente, nata paradossalmente quando la millantata oscurità del Medioevo cominciava a diradarsi. Dentro-Fuori/Sotto-Sopra Nel 1968, in un libro che meritò subito vasta diffusione, Evelyne Sullerot proponeva due categorie fondamentali per interpretare la lunga, articolata evoluzione del lavoro femminile nella storia dell’Occidente. Tali categorie vi figurano espresse dalla giustapposizione di due coppie di termini: Dentro-Fuori/Sotto-Sopra. Il significato di questi concetti-guida sembra facilmente intuibile, ma forse è opportuno esplicitarlo meglio. Alla donna apparterrebbero tutti quei lavori che si possono svolgere in casa o nelle immediate adiacenze, mentre le attività extradomestiche sarebbero di pertinenza dei maschi. A questa sorta di specializzazione di carattere prossemico si aggiungerebbe poi una seconda specializzazione di natura gerarchica, in base alla quale determinate mansioni che la donna svolge abitualmente in ambito domestico diventano appannaggio dei maschi nel momento in cui vengono riprodotte altrove, qualificandosi come lavori di prestigio intellettuale e sociale. Quello che nella prima coppia sembrerebbe quindi una semplice giustapposizione di ruoli fra loro integrati, nella seconda si presenta come un vero e proprio processo di espropriazione. Così nella preparazione del cibo notiamo che esso si configura come un compito prettamente femminile in ambito domestico; maschile nelle cucine delle residenze signorili e delle corti: ivi non troviamo più cuoche, ma cuochi, come testimoniano fonti di tipo diverso. In un gustoso dramma della poetessa benedettina Rosvita di Gandersheim (sec. X), il governatore pagano Dulcizio, accecato dall’amore per tre fanciulle cristiane, entra in cucina e scambia padelle, pentole e marmitte per gli oggetti della sua passione: tutta la cucina figura animata da effusioni amorose, giocate sulla sineddoche che identifica la donna con gli strumenti abituali del mansionario domestico femminile214. Fuori della dimensione domestica il quadro cambia. Eginardo parla del cuoco di Carlomagno, i Nibelunghi menzionano il capocuoco Rumold, scelto guerriero alla corte di Worms; analogamente, la Cronaca della Novalesa alla corte di re Guntario menziona la presenza di un cuoco215; è il cuoco del rivale che uccide il fratello Magnus nella lotta di successione fra i due fratelli; tra i servi divisi nel 761 fra il vescovo di Lucca Peredeo e suo nipote Sunderado figura il cuoco Guadaldo. F. Bertini, Il «teatro» di Rosvita, Genova, Tilgher, 1979. Per le traduzioni in italiano cfr.: Tutto il teatro: Gallicano, Dulcizio, Callimaco, Abramo, Pannunzio, Sapienza. Rosvita, trad. di C. Cremonesi, Milano, Rizzoli, 1952; Dialoghi drammatici, a cura di F. Bertini, Milano, Garzanti, 1986. 215 Cronaca di Novalesa, a cura di G.C. Alessio, Torino, Einaudi, 1982, pp. 92-93. 214
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Nell’Erec e Enide di Chrétien de Troyes, si dice di un valvassore che «non aveva né cameriera né serva, ma solo un sergente che stava preparando carne e uccelli per il desinare: era un cuoco abile e veloce, e presto seppe approntare carne bollita e arrostita»216. Il quadro non cambia se ci si sposta nel mondo islamico, giacché sono cuochi, non già cuoche a preparare il cibo per sultani e califfi, taluni dei quali figurano essere esperti in prima persona di gastronomia e dietetica217. Né mancano attestazioni ancora più risalenti, come attestato dalla tavoletta bronzea di Falerii (città etrusca che corrisponde all’attuale Civita Castellana, in provincia di Viterbo) posteriore al 238 a.C., che accompagnava un ex voto inviato a Roma da un collegio di cuochi falisci, trasferitosi in Sardegna e ben consapevoli delle loro abilità culinarie218. Un protagonista minore dello Pseudolus di Plauto è un loquace cuoco spaccone, che osa perfino proclamarsi “salvatore di uomini”, mentre l’Aulularia del medesimo commediografo latino è letteralmente popolata di intraprendenti cuochi219. Anche la riflessione dottrinale sulla gastronomia, la dietetica e la nutrizione sembrano essere state sempre affari da uomini: da Apicio a Maestro Martino da Como, da Bartolomeo Platina a Messisbugo, allo Scappi, al Pisanelli giù giù fino all’Artusi la riflessione su questi argomenti resta in mano ai maschi fino agli inizi del secolo XX, quando fa la sua comparsa il celebre Talisamano della felicità, autrice Ada Boni. Le ragioni che di questa esclusione fornisce un filosofo così poco conformista come Friedrich Nietzsche sono peraltro di un desolante e fastidioso conformismo, che la dice lunga sulla secolare vitalità di tanti luoghi comuni nati attorno alla irrazionalità delle donne: La donna non capisce che cosa significhino i cibi: e vuole essere cuoca! Se la donna fosse un essere pensante, avrebbe dovuto compiere, in quanto cuoca, da millenni, le massime scoperte fisiologiche, come pure avrebbe dovuto far sua l’arte medica! A causa della totale mancanza di raziocinio nella cucina, l’evoluzione dell’uomo è stata rallentata per moltissimo tempo e seriamente compromessa220.
In questa affermazione gretta e paradossale si avverte la mistificazione di una società che caratterizza negativamente un tradizionalismo femminile inteso e difeso come uno dei capisaldi irrinunciabili della famiglia. Nella riformulazione da epoca ad epo I romanzi cortesi. Chrétien de Troyes, a cura di G. Agrati e M.L. Magini, 5 voll., Milano, Mondadori, 1983, II, p. 9. 217 Esempi interessanti in L. Zaouali, L’Islam a Tavola. Dal Medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2004. 218 V. Pisani, Testi latini arcaici e volgari con commento glottologico, Torino, Rosenberg & Sellier, 2a ed. 1960, pp. 17-18. 219 Plauto, Le commedie, a cura di C. Carena, Torino, Einaudi, 1975, p. 836 e pp. 122-126. 220 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, nota intr. di G. Colli, versione di F. Masini, Milano, Adelphi, 1977, p. 144 (234). 216
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ca, in forme diverse, delle categorie del Dentro e del Sotto era la salvaguardia della tradizione a rappresentare il punto di forza. Come suggerisce la stessa affermazione di Nietzsche, analogo processo di espropriazione si verifica nel campo della medicina, perché in casa è alla donna che tocca curare ferite e malattie, preparare infusi, tisane e decotti per lenire il dolore, a lei spetta l’igiene e la cura del corpo, ma quando si esce dalle pareti domestiche e si passa alle scuole, laiche ed ecclesiastiche, alle professioni, all’università, allora la medicina passa sotto il controllo dei maschi. La pratica sociale dello spidocchiamento rimase per secoli affare da donne: fossero madri, mogli, amanti o fidanzate, a loro spettava questa intimità, che naturalmente esprimeva un rapporto di servizievole subalternità. Il caso di Salerno, con la medichessa Trotula e compagne, divenne famoso proprio in ragione della sua singolarità, né mancò chi volle fare di Trotula un medico maschio221. Anche là dove le donne giunsero ad occupare posti di rilievo in ambito accademico si trattò pur sempre di ruoli subalterni. Noto è il caso di Bologna, con le presenza del medico-chirurgo Mondino de Liuzzi (1270?-1326), assistito nel suo lavoro dalla giovane assistente Alessandra Giliani o Zilliani da Persiceto, abilissima nella pratica settoria222. Dal momento che recentemente vi è chi ha sostenuto, con buoni argomenti, trattarsi con tutta probabilità di una leggenda223, si può chiosare che si tratta di una leggenda bene architettata, perché risponde al cliché tradizionale della donna che anche in settori di prestigio e di qualificata professionalità figura pur sempre in funzione subalterna rispetto all’uomo. Le categorie così lucidamente delineate dalla Sullerot non rappresentano quindi una novità, bensì la sistemazione in termini sociologici di un concetto antichissimo, già espresso nell’Economico di Senofonte (V-IV sec. a.C.). Il biasimo delle donne da parte del poeta arcaico greco Semonide (VII sec. a.C.), sgradevole rassegna nella quale il poeta propone una serie di confronti tra attitudini Trotula de Ruggiero, Sulle malattie delle donne, a cura di P. Cavallo Boggi, testo critico, traduzione e glossario di P. Cantalupo, Palermo, La Luna, 1994. Inoltre: F. Bertini, Trotula. Il Medico, in F. Bertini, F. Cardini, M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, C. Leonardi, Medioevo al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 97-119. Trotula, Un compendio medievale di medicina delle donne, a cura di M.H. Green, trad. di V. Brancone, Firenze, SISMEL ed. del Galluzzo, 2009. 222 V. Ottani, G. Giuliani-Piccari, L’opera di Anna Morandi Manzolini nella ceroplastica anatomica bolognese, in Alma Mater Studiorum. La presenza femminile dal XVIII al XX secolo. Ricerche sul rapporto donna/cultura nell’Ateneo Bolognese, Bologna, CLUEB, 1988, pp. 81-93, p. 81: «Questa giovanissima settrice pare fosse particolarmente abile nello scolpire i vasi sanguigni, preventivamente iniettati con sostanze coloranti, evidenziandone in tal modo il decorso fino alle più sottili ramificazioni»; cfr. anche la figura a p. 84. 223 W. Horn, Alessandra Giliani, anatomista del ’300, da San Giovanni in Persiceto, realtà o invenzione?, in «Strada maestra: quaderni della Biblioteca comunale G. C. Croce di San Giovanni in Persiceto», 57, 2004, pp. 207-216. 221
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muliebri e mondo animale, dopo il confronto eziologico con la scrofa, la volpe, la cagna, l’asina, la dònnola, la cavalla e la scimmia, lo squallido elenco si conclude con il paragone con l’ape, dove il registro positivo trae spunto dall’operosità domestica, unica attitudine accettabile per una donna di quel periodo: Una viene dall’ape: fortunato chi se la prende. É immune da censure lei sola; è fonte di prosperità; invecchia col marito in un amore mutuo; è madre di figli illustri e belli. E si distingue fra tutte le donne, circonfusa d’un fascino divino. Non le piace di stare con le amiche Se l’argomento dei discorsi è il sesso. Fra le donne che Dio largisce agli uomini ecco qui le più sagge, le migliori224
Nel descrivere i compiti dei coniugi all’interno della famiglia, Senofonte distingueva con lucidità: … il modo di vita degli uomini non è come quello delle bestie, a cielo aperto, ma ha bisogno chiaramente di luoghi al chiuso. Gli uomini, se vogliono avere qualche cosa da introdurre al chiuso, hanno bisogno di chi svolge le attività a cielo aperto. E infatti dissodare, seminare, piantare, portare al pascolo, sono tutti lavori che si svolgono a cielo aperto: da questi si ricava il necessario. D’altra parte, una volta che ciò è introdotto al chiuso, c’è bisogno anche di chi lo conservi e svolga quei lavori che hanno bisogno di luoghi al chiuso. Di luoghi al chiuso ha bisogno l’allevamento dei neonati, di luoghi al chiuso ha bisogno la preparazione degli alimenti tratti dal raccolto e allo stesso modo anche la confezione delle vesti di lana. Poiché questi due tipi di occupazioni, quelle che si svolgono dentro e quelle che si svolgono fuori, hanno bisogno di lavoro e di impegno, il dio … dispose subito, come mi sembra, la natura della donna per i lavori e le incombenze di dentro, quella dell’uomo invece per i lavori e le incombenze di fuori225.
I lirici greci. Età arcaica, traduzione di F.M. Pontani, Torino, 1975, p. 147. Senofonte, Economico, introduzione, traduzione e note di F. Roscalla, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 129-131.
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Nei Carmi Ptocoprodromici, testi satirici scritti all’epoca degli imperatori Comneni Giovanni II (1118-1143) e Manuele I (1143-1180), contro l’inettitudine del marito una nobile Mazucine esplode: Io governo la casa tua, mi occupo dei tuoi servi, sto dietro ai tuoi figli, come la miglior nutrice, faccio economia, corro, fatico, mi affanno, mi cucio da me qualche straccio di lino e cotone, per vestirmi; io sono l’amministratrice, io la tuttofare. Lavoro la lana e la intesso, lavoro il lino; faccio mutande e camicette, sfiocco il cotone. Faccio il tuo chierico e il tuo sacrestano, il tuo capo coro, e il tuo gestore, e tu stai lì, seduto, come un uccellaccio, a bocca aperta, per mangiare, e tutto il giorno aspetti che io ti serva qualcosa226.
La sfera del domestico, del ritirato, dell’umile come ambito operativo privilegiato della donna resta un pilastro portante della cultura europea, riaffiorando con forza in testi che su altri aspetti sono stati accreditati come rivoluzionari o fortemente innovativi. Ma, al di là del costante riemergere di una esigenza sempre viva e preoccupata, è nei momenti di svolta che la teorizzazione si fa più stringente, più esplicita e motivata, con richiami non espliciti ma evidenti alla tradizione del luogo comune. Cosi Campanella immagina una città del sole che, per quanto attiene il ruolo della donna, presenta non poche analogie con il paradigma proposto da Senofonte: Poi son l’arti communi agli uomini e donne, le speculative e meccaniche; con questa distinzione, che quelle dove ci va fatica grande e viaggio, le fan gli uomini, come arare, seminare, cogliere i frutti, pascer le pecore, operar nell’aia, nella vendemmia. Ma nel formar il cascio e mungere si soleno le donne mandare, e nell’orti vicini alla città per erbe e servizi facili. Universalmente, le arti che si fanno sedendo e stando, per lo più son delle donne, come tessere, cuscire, tagliar i capelli e le barbe, la speziaria, fare tutte sorte di vestimenti; altro che l’arte del ferraro e delle armi…227
Prima di lui, Erasmo da Rotterdam, pur non attardandosi in esemplificazioni, a riguardo era stato piuttosto categorico, mettendo in bocca alla sua elogiata stoltezza queste parole: La satira bizantina dei secoli XI-XV, a cura di R. Romano, Torino, UTET, 1999, pp. 351, 353. La testimonianza assume particolare significato, perché inserita in un testo satirico, genere letterario di antica tradizione, ma che nel XII secolo tornò ad avere una ragguardevole fioritura (ivi, p. 17). 227 Tommaso Campanella, La città del sole, a cura di A. Seroni, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 43. 226
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Senonché all’uomo, nato per amministrare affari, era necessario dare un tantino di più di quella mezz’oncia di ragione, e Giove, per provvedere anche a questo convenientemente, si consultò, come sempre, con me. Tosto io gli diedi un consiglio degon di me, lo esortai cioè a dar moglie all’uomo, perché la donna è un animale senza dubbio stolto ed inetto, ma dolce e divertente, e nella convivenza domestica può con la sua stoltezza temperare e mitigare l’umor triste dell’uomo228.
Nella trilogia femminile di Molière, di cui fanno parte Les Prècieuses ridicules del 1659, L’école des femmes del 1662 e Les femmes savantes del 1672, a proposito di queste ultime si raccomanda: Decoroso non è, per cause molte Che tante cose studii e tante sappia Una donna. Lo spirito dei figli Ai bei costumi indirizzar, la casa Ben governar, badare alla sua gente E far da donna economa la spesa. Questo il suo studio, la sua scienza è questa229.
Nei Lineamenti di filosofia del diritto, G.W. Friedrich Hegel non si attarda a esemplificare e riconduce perentoriamente questa contrapposizione all’eticità della famiglia: L’uomo ha perciò la sua reale vita sostanziale nello stato, nella scienza e simili, e altrimenti nella lotta e nel lavoro con il mondo esterno e con se stesso, così ch’egli soltanto movendo dalla sua scissione consegue combattendo l’autonoma unitezza con sé, la cui tranquilla intuizione e l’eticità soggettiva vivente nel sentimento egli ha nella famiglia, nella quale la donna ha la sua destinazione sostanziale e in questa pietà la sua disposizione d’animo etica230.
Nella conferenza dedicata alla donna nel Risorgimento nazionale, stampata nel 1893, Giulia Cavallari Cantalamessa usava a questo proposito un’immagine inconsueta, ma particolarmente efficace: L’opera della donna, in un campo assai più elevato, è simile a quella del baco da seta. Perdonatemi signore gentili, la similitudine che non è certo bella né attraente, ma corrisponde al mio concetto: infatti questo modesto animaletto fila silenzioso e Erasmo da Rotterdam, Elogio della stoltezza, a cura di C. Baseggio, Milano, TEA, 1988, p. 29. Molière, Teatro, vol. II, Firenze, Sansoni, 1956, p. 832. 230 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Roma-Bari, 1991, p. 145.
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si asconde ignorato entro il bozzolo offrendo materia e vita all’uomo, affinché Egli possa compiere opere meravigliose e artistiche231.
Vola più alto il poeta acmeista Osip Mandel’Štam (1891-1938) in una poesia del 1918: Ma così sia: giace in un terso piatto d’argilla una traslucida figura, come una pelle stesa di scoiattolo, e a scrutare la cera una ragazza è curva. Non sta a noi trarre auspici sul greco Erebo: la cera è per le donne ciò ch’è il bronzo per l’uomo. Noi sfidiamo la sorte da guerrieri; destino è ch’esse traendo auspici muoiano232.
Il Medioevo occidentale non ha mai proposto, che io sappia, elaborazioni sociali così rigidamente tassonomiche e al lavoro femminile semmai si attaglia quel correttivo all’interpretazione generale che la Sullerot ha chiamato opportunamente «un dentro leggermente aperto». Le fonti medievali individuano infatti una donna che, dalla soglia della casa, esce spesso a controllare l’aia, l’orto, il frutteto, gli alveari; che si inoltra nelle campagne dove in particolari momenti dell’anno agricolo presta aiuto nelle operazioni di mietitura, fienagione, vendemmia, che in assenza del marito gestisce il podere, accollandosi lavori non di rado pesanti come la raccolta della legna nel bosco o il trasporto di pesanti sacchi al mulino signorile233. Negli anni Trenta del secolo X Oddone di Cluny racconta che Geraldo D’Aurillac aveva incontrato una donna impegnata nel condurre l’aratro e il santo l’aveva interpellata sui motivi per cui era costretta a compiere lavori da uomini (opus virile). La contadina aveva risposto che il marito era ammalato, che si avvicinava la stagione delle semine e che non aveva trovato nessuno che l’aiutasse, per cui Gerardo provvede con una somma di denari che consente alla poveretta il pagamento di agricoltori in grado di svolgere attività così pesanti234. Ma si tratta di lavori avvertiti dalla storiografia come interstiziali, mansioni di raccordo, di appoggio all’attività maschile, per cui la cornice interpretativa resta G. Cavallari Cantalamessa, La donna nel Risorgimento nazionale, Bologna, Zanichelli, 1893, p. 7. 232 O. Mandel’Štam, Cinquanta poesie (1908-1937), trad. di R. Faccani, Torino, Einaudi, 1998, pp. 49, 51. 233 B. Andreolli, Contadini pendolari nella Lucchesia e nella Garfagnana dell’alto Medioevo, in Viabilità, traffici, commercio, mercati e fiere in Garfagnana dall’antichità all’unità d’Italia. Atti del Convegno: Castelnuovo di Garfagnana, 10-11 settembre 2005, Modena, Aedes Muratoriana, 2006, pp. 5-11. 234 Sancti Odonis, De Vita sancti Geraldi Auriliacensis comitis libri quatuor, Patrologia latina, ed. J.P. Migne, t. CXXXIII, Paris 1853, coll. 639-702. 231
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quella tradizionale, pur non approdando a contrapposizioni rigide che erano le esigenze stesse della realtà quotidiana a respingere. I progenitori fissati nella miniatura dell’Hortus deliciarum di Herrade di Landsberg (fine sec. XII)235, con Adamo intento a zappare la terra ed Eva impegnata alla conocchia, non escludono i progenitori scolpiti sulla facciata del duomo di Modena, entrambi intenti a curare la vigna236. Resta comunque la cornice tradizionale, di cui bisognerà individuare le ragioni, dal momento che la complementarietà non sembra argomento decisivo né sufficiente a stabilire un mansionario così spesso contraddetto dalla realtà operativa. In qualche caso, avranno contato la pesantezza oppure la pericolosità di certi lavori, come accade ad esempio per i muratori parigini237, ma la raccomandazione assume non di rado una forma riassuntiva perentoria, dominata dalla scarsa preoccupazione per l’istruzione femminile (anche questo dato in contraddizione spesso con la realtà), per cui si raccomanda: «E s’ella è fanciulla femina, polla a cuscire e nonne a leggere, ché non istà troppo bene a una femina sapere leggere, se già no la volessi fare monaca… E insegnale tutti i fatti della masserizia di casa»238. La proiezione verso l’esterno viene avvertita e segnalata come pericolosa: per i lessici più in auge dell’epoca il gineceo è senz’altro un luogo in cui si tesse (textrinum), ma è anche un bordello (lupanar), mentre per il domenicano Giovanni Balbi, la tabernaria è nel contempo la moglie dell’oste, ma anche meretrix239. Non mancano casi in cui le donne sono incoraggiate a recarsi in luoghi lontani da quello della residenza abituale al fine di perfezionare le proprie attitudini nel campo della tessitura, come segnala un documento nonantolano de 10 novembre 896, nel quale si prescrive che dodici serve del monastero trascorrano un periodo di perfezionamento in territorio fiorentino al fine di lavorare la lana240. Ma al di là di una valutazione evolutiva in un senso o nell’altro della condizione femminile, mi pare che l’esemplificazione addotta ponga e sottolinei soprattutto un fatto: sia la cultura, sia la pratica quotidiana affrontano il problema scottante del Herrad of Hohenbourg, Hortus Deliciarum, ed. R. Green, M. Evans, C. Bischoff, M. Curschmann, 2 voll., London-Lerden, E.J. Brill, 1979 (Studies of the Warburg Institut, 36); cfr. anche M.R. Will, Le climat religieux de l’«Hortus deliciarum» d’Herrade de Landsberg, in «Revue d’histoire et de philosophie religieuse», XVII, 1937, pp. 522-566. 236 C. Frugoni, Wiligelmo, Le sculture del Duomo di Modena, Modena, Panini, 1996. 237 B. Geremek, Salariati e artigiani nella Parigi medievale, Firenze, Sansoni, 1975 (ed. orig. Varsavia 1962), p. 73: «Nei conti parigini dell’edilizia non si incontrano donne». 238 G. Fasoli, La vita quotidiana nel Medioevo italiano, in Nuove Questioni di Storia Medioevale, Milano, Marzorati, 1984, pp. 463-500, p. 484. 239 B. Andreolli, La terminologia del viaggio nei lessici latini dell’Italia medievale, in La norma e la memoria. Studi per Augusto Vasina, a cura di T. Lazzari, L. Mascanzoni, R. Rinaldi, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 2004, pp. 139-157, p. 145. 240 B. Andreolli, Nonantola 10 novembre 896. Uno stage femminile del secolo nono, in Studi sul Medioevo per Andrea Castagnetti, a cura di M. Bassetti, A. Ciaralli, M. Montanari, G.M. Varanini, Bologna, Clueb, 2011, pp. 19-22. 235
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rapporto uomo-donna recependone sempre la drammatica misteriosità; al di là degli interessi, dei rapporti di forza, delle tensioni che animano i due poli del rapporto, è l’irrisolto mistero della vita, della sessualità e dell’amore che nutre, consolidandoli, pregiudizi, sopraffazioni, sentimenti di possesso e talora di violenza. C’è sempre fra i due una sorta di “attrazione armata”, che promana da un profondo senso di conflittuale incompletezza perché, come ricorda M. Esther Harding, «nessun individuo è completamente maschio o completamente femmina»241. Italo Calvino, in una intervista del 17 novembre 1980, conferma: «Nella mia vita ho incontrato donne di grande forza. Non potrei vivere senza una donna al mio fianco. Son solo un pezzo di un essere bicefalo e bisessuato, che è il vero organismo biologico e pensante»242. Una sentenza di Menandro recita: «È uguale a quella della leonessa la ferocia della donna»; una seconda dosa meglio: «Meglio avere a che fare con una leonessa che con una donna»243. Sulla base dello schema interpretativo suggerito dalla Sullerot, è possibile dunque stabilire che in tutte le epoche, anche se con sfumature diverse, l’ideologia prevalente tende a distinguere i compiti della donna e dell’uomo secondo una logica che mette in correlazione gli aspetti prossemici e quelli gerarchici: unico correttivo al quadro generale è che, in qualche misura, la sfera d’azione femminile nel Medioevo si configura come un dentro leggermente aperto; sfumatura importante, ma che conferma il dato generale di riferimento. Come abbiamo avuto modo di esemplificare, quando la preparazione del cibo resta un affare domestico, è di competenza femminile; ma se si passa alle cucine di corte o ai banchetti del principe, allora troverete a dirigerli cuochi, non cuoche: la gastronomia scritta, scientifica, la gastronomia che conta figura firmata da autori maschi. Altro lavoro domestico di competenza femminile è quello di fattrice, levatrice, ostetrica, balia, con tutto il ricco corollario delle competenze nella cura del corpo, nell’igiene e nella profilassi; le donne sono abilissime nell’uso delle erbe, nel preparare pozioni, infusi, decotti, tisane, unguenti, pomate: anche veleni, se occorre. Pulci e pidocchi sono di loro specifica competenza; alle donne tocca la pratica dello spidocchiamento, che si tratti della moglie del vecchio Menager, delle contadine di Montaillou o delle popolane del Ruzante. Pratica sociale diffusa, perfino esibita, quella dello spidocchiamento, cui Emmanuel Le Roy Ladurie ha voluto dedicare un capitolo della sua magistrale indagine sulla comunità occitanica di Montaillou, mentre al feudalesimo non ha riservato che pochi accenni244. M. Esther Harding, I misteri della donna. Un’interpretazione psicologica del principio femminile come è raffigurato nel mito, nella storia e nei sogni, trad. italiana di A. Giuliani, Roma, Astrolabio, 1973 (ed. orig. 1971), p. 47. 242 I. Calvino, Sulla fiaba, Milano, Mondadori, 1996, p. XXVII. 243 Menandro, Sentenze cit., 374, 453. 244 E. Le Roy Ladurie, Storia di un paese: Montaillou. Un villaggio occitanico durante l’Inquisizione (1294-1324), Milano, Rizzoli, 1977, pp. 153-155. 241
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Eppure, la conoscenza e l’insegnamento della fisiologia e dell’anatomia, la carriera di medico e di speziale figurano saldamente in mano maschile. Le donne presiedono alla cura dell’orto, del pollaio, del porcile, delle arnie; la moglie di Menager doveva essere esperta di giardinaggio e doveva sapere coltivare il frutteto. Ma i prodotti sono i loro mariti a portarli in città e a venderli al mercato. Nelle famiglie contadine i lavori extrapoderali delle donne figurano di norma sotto il controllo del marito o del padre, che, se affittuario, deve darne segnalazione aggiornata al proprietario, signore o padrone che sia245. L’educazione primaria dei figli è affidata alle madri e alle nutrici, come dimostra il manuale di Dhuoda (sec. IX) oppure Le livre de trois vertus, scritto da Christine de Pizan verso il 1406; pur tuttavia, quando il figlio diventa grandicello passa sotto il controllo dei maschi, dai quali apprende a lavorare in bottega, ad esercitarsi nell’arte formativa della caccia, a imparare i primi rudimenti delle arti liberali o meccaniche, a fare proprio lo stile di vita impostogli dalla propria condizione sociale. Tommaso d’Aquino, circa l’educazione dei figli, non ha dubbi ed è categorico: «Ciò spetta ancor più ai padri che alle madri, perché l’educazione spettante alle madri riguarda l’età infantile, ma successivamente spetta al padre educare il figlio, istruirlo e accumulare per lui per tutta la vita»246. Il Medioevo, da questo punto di vista, è stato letto come età degli adulti, dalla quale sono esclusi i bambini, intesi come uomini in miniatura in cammino verso la maturità: l’infantia infatti viene vista come incapacità di parlare, mentre, per usare le parole della Giallongo,«la caratteristica della psicologia dell’infanzia di questo pensiero pedagogico rese infatti degni di interesse solo coloro che da piccoli manifestavano comportamenti adulti e quelli che come cera si piegavano alla volontà dei maestri e degli educatori»247. Le fasciature costrittive, superate progressivamente nel corso del basso Medioevo, rispondevano a questa esigenza primaria di rigorosa plasmazione del corpo248. Agostino viene considerato uno dei responsabili di una valutazione “in negativo” dell’infanzia, trattandosi di un’età in cui l’individuo è incompiuto e mancante di equilibrio249. In casa, ancora, la donna lavora la lana e il lino, confeziona tovaglie e coperte, biancheria, vestiti, calze e mantelli, ma a palazzo le sartorie, dove si fabbricano i ve245 Ancora la legge ottocentesca sui contratti mezzadrili stabiliva (art. 2142) che la composizione della famiglia colonica non poteva essere volontariamente modificata senza il consenso del concedente: A. De Feo, La donna nella impresa contadina, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 82. 246 I vizi capitali. Dalle Questioni disputate sul Male di Tomaso d’Aquino, introduzione, traduzione e note di U. Galeazzi, Milano, Rizzoli, 2001, p. 583. 247 A. Giallongo, Il bambino medievale. Educazione e infanzia nel Medioevo, Bari, Dedalo, 1990, p. 68. 248 Ibid., p. 128. 249 Ibid., pp. 42-48.
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stiti di lusso, le botteghe che producono tappeti e arazzi figurano sotto il controllo dei maschi. Ne consegue che, in ogni epoca, compresa quella medievale, ad onta della sua indiscutibile diffusione e pesantezza, il lavoro femminile è poco rappresentativo: importante, ma scarsamente registrato e contabilizzato, per cui sfugge alla documentazione: constatazione che, sia pure in gradi diversi, interessa tutto il corpo sociale femminile dal mondo servile fino al ceto aristocratico. Con l’aggravante che, nel momento in cui una mansione tradizionalmente femminile diviene rappresentativa, trasformandosi in una attività di prestigio, state pur certi che la troviamo in mano ai maschi, appannaggio dei maschi. Ne deriva il legittimo interrogativo se all’interno di questo filo rosso, che condanna le donne alla protezione, al silenzio e perfino all’afasia, scattino pur sempre le stratificazioni che caratterizzano l’intero corpo sociale nel suo insieme. Vediamo ancora la leggenda delle tre nozze di Odino: in essa, come si è già visto, comuni appaiono alla donna l’atto generativo, la tavola e il cibo, ma sulla base di stratificazioni sociali che non lasciano adito a dubbi: dalla donna nobile che imbandisce una ricca tavola scaturisce il ceto dei nobili; dalla donna libera, che prepara una bella tavola con tovaglie di lino deriva la classe dei liberi; dalla schiava, che allestisce una povera e rozza mensa, deriva la classe dei servi250. Proviamo a riprendere, brevemente, qualche spunto dai tre aspetti fondamentali dell’identità femminile: corpo, cibo, vestito. Se c’è un lavoro che accomuna le donne di tutte le società e in tutte le epoche in una sorta di comun denominatore che corre il rischio di qualificarsi come archetipico mi sembra che sia quello della tessitura ancor più di quello della preparazione del cibo. Nel senso che l’arte del tessere non tiene conto delle categorie sociali, passando dai gradini più alti ai più umili della gerarchia sociale, accomunando apparentemente le donne nel loro insieme. A conferma della trasversalità del lavoro tessile, è opportuno segnalare che ancora oggi in Inghilterra per indicare il ramo femminile della famiglia si parla di ramo della conocchia (“distaff side”) e che in inglese la parola “spinser” (da “spin” = fuso) significa sia donna nubile sia tessitrice251. Sul piano aneddotico, possiamo aggiungere che ai nobili che non avevano accolto l’invito a partecipare alla seconda crociata furono inviati per scherno dei ferri da calza252. Detto e precisato ciò, bisognerà tuttavia ribadire che esistono sostanziali diversità tra il gineceo nobiliare, quello monastico e quello aziendale. A fare la differenza V. supra, nota 143. A. Geijer, A history of textile art, London, Pasold Research Fund in association with Sotheby Parke Bernet, 1979. 252 P.F. Gasparetto, La Crociata delle donne, Casale Monferrato (AL), Edizioni Piemme, 2002, p. 26. 250 251
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sono la tipologia, la preziosità, la destinazione dei tessuti, ma anche la condizione di vita delle lavoratrici. E poiché la distinzione sociale si realizza in base a opzioni radicali che riguardano lo stile di vita nella sua peculiare interezza, analoghe differenziazioni potremo agevolmente trovare in altri settori, come quello, decisivo, dell’alimentazione, per il quale rimandiamo senz’altro agli studi specialistici in materia253. Negli atelier aristocratici si fabbricano, di norma, prodotti di lusso, destinati alle corti e alle chiese piuttosto che al mercato, nella logica non dello scambio, ma del dono e del controdono. Nell’ambasceria inviata nel 906 da Berta di Toscana, figlia di Lotario, re dei Franchi, al califfo abbaside Al-Muktafi sono elencati, tra gli altri, venti vesti tessute d’oro, un padiglione di seta con tutto il suo apparato, venti vesti di una lana prodotta da una conchiglia estratta dal fondo del mare dai colori cangianti come l’arcobaleno. Balderico di Bourgueil (1078/1082-1130), monaco, priore, abate e poi vescovo, insiste affinché la contessa Adele gli mandi finalmente il mantello promesso, ricordandole il suo dovere «di provvedere all’ornamento dei ministri del culto», precisando in chiusura: «e bada che al mantello non manchi la sua frangia»254. Ma le dodici serve che annualmente vengono inviate dal monastero di Nonantola a una dipendenza in Firenze per specializzarsi nella tessitura, portano con sé della semplice lana locale, non dei tessuti preziosi255. Nell’episodio Castello della Pessima Avventura l’Ivano di Chrétien de Troyes guarda attraverso la palizzata e scorge fino a trecento pulzelle intente a diversi lavori. Tessevano stoffe con fili d’oro e di seta, e ognuna lavorava come meglio poteva; ma la loro miseria era ben grande. Erano così povere che molte erano discinte e senza cintura. Avevano tuniche lacere sulle mammelle e ai gomiti, camicie sudicie sul dorso, colli scarni e visi pallidi per la fame e gli stenti256.
Tessono dunque la contadina, la monaca, la castellana e la regina, ma la prima tesse per motivi prevalentemente economici e la sua attività è inquadrata nel ciclo produttivo del gineceo o del Verlagssystem, soprattutto nel settore manifatturiero di base e di qualità medio-bassa257, non sottraendosi peraltro ai lavori agricoli quando M. Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1988. Balderico di Bourgueil, Marbodo di Rennes, Ildeberto di Lavardin, Lettere amorose e galanti, a cura di M. Sanson, Introduzione di C. Cremonini, con una premessa di F. Zambon, Roma, Carocci, 2005, pp. 44-47. 255 M.S. Zoboli, Il monastero di San Silvestro di Nonantola all’epoca dell’abbaziato di Pietro (804824/825), tesi di laurea rel. B. Andreolli, Università degli Studi di Bologna, a.a. 1995-1996. B. Andreolli, Nonantola 10 novembre 896, cit. 256 E. Melli, Commercio, mercanti, prefigurazione di organizzazione industriale, nei romanzi di Chrétien de Troyes, in «Quaderni di Filologia Romanza della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna», Linguistica e Letteratura. Problemi e Studi, 2, Bologna, Pàtron, 1981, pp. 55-80. 257 B. Andreolli, Tra podere e gineceo, cit.; J.-P. Devroey, Femmes au miroir des polyptyques: une approche des rapports du couple dans l’exploitation rurale dépendante entre Seine et Rhin au IXe siècle, 253 254
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il marito è impegnato ad espletare le prestazioni d’opera sulle terre signorili o deve recarsi in città per le incombenze necessarie alla buona conduzione del podere o dei poderi di sua pertinenza258. La castellana tesse invece per diletto o per obbligo legato al suo rango, fornendo un prodotto medio-alto, spesso indirizzato alle esigenze dell’ospitalità e della generosità nobiliare, nel qual caso il contesto non è più quello economico, ma quello promozionale e cerimoniale della reciproca, generosa, ritualizzata ospitalità o della munificenza nei confronti di chiese, sovrani, monasteri, diplomatici, ambasciatori, vassalli. La monaca è in grado di realizzare prodotti raffinati, ma, non di rado, umilmente sceglie per sé il prodotto semplice. In tal senso, la rinuncia a volte è radicale e coinvolge altri fondamentali aspetti del mansionario femminile. È quanto accade a Maria Egiziaca (sec. V), che si rifugia nel deserto e per molti anni si nutre di solo pane, datteri e bacche selvatiche, mentre i suoi vestiti si logorano a tal punto che solo i lunghi capelli riescono a coprirne il corpo ignudo. Fatte queste precisazioni, va sottolineato che nel passaggio dall’alto al basso Medioevo si verifica una trasformazione radicale, per cui mentre nei ginecei altomedievali le donne hanno il controllo di tutto l’arco produttivo successivamente il sistema della bottega, della corporazione e del Verlagssystem le confina a specializzazioni settoriali e subalterne.
in Femmes et pouvoirs des femmes à Byzance et en Occident (VIe-XIe siècles), edd. S. Lebecq, A. Dierkens, R. Le Jean, J.-M. Sansterre, Colloque international organisé les 28, 29 et 30 1996 à Bruxelles et Villeneuve d’Ascq, Centre des Recherches sur l’Histoire de l’Europe du Nord-Ouest, Université Charles de Gaulle, Lille 3, 1999, pp. 227-249. 258 Aspetto sottolineato da B. Andreolli, Contadini pendolari, cit.
Identità femminili e assetti socio-economici
IL DONO DEL MATTINO. FORZA E DEBOLEZZA DELLA DONNA ALTOMEDIEVALE
Forse in nessun caso come per una ricerca sulla condizione della donna nel Medioevo il problema che si pone in prima istanza all’attenzione dello storico appare essere quello delle fonti: non è senza significato se nella ricca bibliografia riguardante il tema in questione un posto di rilievo occupa un importante lavoro di J. Verdon dedicato appunto alle fonti per una storia della donna in Occidente nei secoli X-XIII1. Come ha infatti osservato la Power, «la condizione della donna … è una cosa in teoria, un’altra secondo l’ordinamento giuridico, un’altra ancora nella vita di ogni giorno»2. Senonché le ricerche finora condotte hanno in genere privilegiato i primi due aspetti, come si può notare scorrendo, ad esempio, la bibliografia approntata nel 1975 da C. Erickson e K. Casey3. Oggetto specifico della nostra indagine sarà invece la condizione della donna così come essa ci appare nella documentazione privata. J. Verdon, Les sources de l’histoire de la femme en Occident aux Xe-XIIIe siècles, in «Cahiers de civilisation médiévale», XX, 1977, 2/3, pp. 219-250, ora tradotto quasi totalmente in lingua italiana in M.C. De Matteis, Idee sulla donna nel Medioevo: fonti e aspetti giuridici, antropologici, religiosi, sociali e letterari della condizione femminile, Bologna, 1981, pp. 119-176. 2 E. Power, Donne del Medioevo, a cura di M.M. Postan, Milano, 1978 (orig. Cambridge, 1975: op. postuma), p. 9. 3 C. Erickson, K. Casey, Women in the Middle Ages: a working bibliography, in «Mediaeval Studies», XXXVII, 1975, pp. 340-359, i cui dati vanno ora integrati con M. Pereira, Le donne nel Medioevo, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», 7, 1981, pp. 138-139, e Id., Né Eva né Maria. Condizione femminile e immagine della donna nel Medioevo, Bologna, 1981, pp. 147-151 (nota bibliografica). 1
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Si può allora osservare preliminarmente che la presenza delle donne negli atti di donazione, nei testamenti, nelle permute, nei contratti agrari e in altri documenti consimili dei secoli VIII-XI a Lucca non figura affatto avere carattere di episodicità. Si prendano, ad esempio, i testamenti e le donazioni e si noterà che accanto all’uomo compare molto spesso la donna, senza contare i non pochi casi in cui quest’ultima opera la transazione economica in prima persona. E non conta in questo caso osservare, come fa il Tamassia (ma si tratta di una delle tante voci della nutrita e autorevole schiera degli storici del diritto), che «la vita della donna segna un continuo passaggio di mundio dal paterno al maritale; da questo a quello dei figli e dei parenti; od in mancanza di essi, all’alta protezione regia. Ed è il mundio la ragione giuridica della soggezione della donna al mundualdo, e quindi il rapporto d’onde scaturisce il diritto di dare il consenso agli atti della donna, di integrarne la volontà, di succedere ad essa»4. Non conta, perché tale realtà, che fa della donna un soggetto minoris iuris, sempre giuridicamente legato ad un protettore (il mundualdo, appunto), non le impedisce quasi mai in concreto di esercitare la propria volontà negoziale in perfetta autonomia: schematizzando, si può infatti serenamente affermare che, mentre il mundualdo deve protezione alla donna, questa non deve a lui obbedienza5. Nell’ambito della grande aristocrazia gli esempi non mancano. Basti pensare al peso rilevante occupato dalla donna nel contesto dell’istituto del “consors regni”, ampiamente studiato da Thilo Vogelsang nel suo «Die Frau als Herrscherin im hohen Mittelalter»6 e, per l’Italia in particolare, illustrato dalle ricerche del Mor e del Delogu7. Tale ricorrente collaborazione della regina nelle faccende politico-istituzionali del consorte è ritrovabile soprattutto in numerosissimi diplomi regi dei secoli VIIIXl, ove essa compare ad intercedere donazioni ed esenzioni in favore di chiese e monasteri. Da questo punto di vista non sorprende quindi il contenuto della rubrica sedicesima di un noto corpo di leggi come il Capitulare de Villis, ove come norma 4 N. Tamassia, Il testamento del marito. Studio di storia giuridica italiana, in Id., Scritti di storia giuridica, III, Padova, 1969, pp. 379-422 (il lavoro è del 1905), p. 400. 5 All’istituto del mundio ha dedicato un’ampia ricerca E. Cortese, Per la storia del mundio in Italia, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», III, sez. III (1955-56), pp. 323-474; su questo argomento cfr. anche M. Bellomo, La condizione giuridica della donna in Italia, Vicende antiche e moderne, Roma, 1970, pp. 25 ss., che, tuttavia, a nostro avviso, accentua il carattere coercitivo della protezione del mundualdo sulla donna. 6 T. Vogelsang, Die Frau als Herrscherin im hohen Mittelalter. Studien zur «consors regni» Formel, Göttingen-Frankfurt-Berlin, 1954: per l’Italia in particolare alle pp. 17-21. 7 C.G. Mor, «Consors regni»: la regina nel diritto pubblico italiano dei secc. IX-X, in «Archivio Giuridico», CXXXV, 1948, pp. 7-32; P. Delogu, «Consors regni»: un problema carolingio, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 76, 1964, pp. 47-98; ma cfr. pure la documentazione prodotta da Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis, Köln, 1968, pp. 155 e 427.
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generale si prescrive che i vari ministeriali regi devono ottemperare scrupolosamente ad ogni ordine impartito dal re o dalla regina8. Donne come Berta di Toscana, che tra il 905 e il 906 intrecciò rapporti epistolari di carattere diplomatico perfino con il califfo di Baghdad Muktafì9, o Willa, figlia del marchese di Tuscia Bosone e poi moglie di Berengario II, della quale Liutprando da Cremona, nel III libro della sua Antapodosis, scriveva che «ob inmensitatem tyrannidis secunda Iezabel … proprio apellatur vocabulo»10, non possono quindi essere considerate delle eccezioni, talvolta mostruose, come è stato sostenuto da tutto un filone storiografico che rimonta alle note invettive del Balbo11. Tutt’altro: si tratta, infatti, di esempi di un contesto culturale e politico, nel quale la donna era spesso vista come abile collaboratrice, come utile consigliera. Allo stesso modo, negli strati più bassi della società non sono affatto rari i casi di donazioni in cui compaiono come attori del negozio giuridico entrambi i coniugi, o contratti di locazione nei quali un posto di rilievo è assicurato anche alla donna12. Così in un contratto di livello stipulato nell’827 dal monastero di S. Salvatore di Montamiata il colono tiene a chiarire che, se alla sua morte la moglie vorrà abbandonare il podere, avrà la possibilità di portare con sé la metà dei beni mobili accumulati durante la conduzione del fondo13. Allo stesso modo, in un contratto con non col Capitularia Regum Francorum, in M.G.H., Legum sectio II, ed. A. Boretius, Hannover, 1881, I, n. 32, pp. 82-91, p. 84. Sulla norma in questione cfr. anche B. Fois Ennas, Il «Capitulare de Villis», Milano, 1981, pp. 82-87, in particolare a p. 83, ove si forniscono ulteriori riferimenti per illustrare l’importanza della regina nell’ambito delle attività di palazzo, come si evince ad esempio da Hincmarus, De ordine palatii, M.G.H., Fontes luris Germanici antiqui in usum scholarum separatim editi, ed. T. Gross, R. Schieffer, Hannover, 1980, pp. 72-75. Sulla importanza delle intercessioni nei diplomi regi di questo periodo cfr. V. Fumagalli, Vescovi e conti nell’Emilia occidentale da Berengario I a Ottone I, Spoleto, 1973, pp. 151, 156-157. 9 G. Levi Della Vida, La corrispondenza di Berta di Toscana col califfo Muktafì, in «Rivista Storica Italiana», LXVI, 1954, pp. 21-38; ma cfr. anche Mor, Berta di Toscana, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 9, Roma, 1967, pp. 431-434, in particolare a p. 434. 10 Liutprando Da Cremona, Antapodosis, in Liudprandi, Opera, M.G.H., Scriptores Rerum Germanicarum in usum scholarum, ed. J. Becker, Hannover-Lepzig, 1915, pp. 1-158, p. 73; sulle donne descritte da Liutprando nelle sue opere, cfr. E. Colonna, Figure femminili in Liutprando di Cremona, in «Quaderni Medievali», 14, 1982, pp. 29-60. 11 Su ciò cfr. G. Tabacco, La dissoluzione medievale dello stato nella recente storiografia, Spoleto 1979, pp. 398-399; ma si veda pure C. Balbo, Sommario della storia d’Italia, Firenze, 1856, ove, parlando del secolo X, egli scrive: «Or qui peggio che mai si sporca la storia nostra. Non bastavano conti, marchesi, duchi scellerati, non vescovi e papi tanto peggiori di quanto è più santo l’ufficio loro; sorsero donne, pessime di tutti, corruttrici di tutto, quando lasciano il dolce e pio ufficio loro di consolare colla virtù domestica dalle pubbliche corruzioni, e si fan furie virili. Allora, avvilito l’amore, avvilita la famiglia, s’avvilisce il più gran motore che sia a far risorgere una patria» (p. 130). Per una corretta impostazione della questione inerente il potere esercitato dalle regine in questo periodo cfr. P. Delogu, «Consors regni», cit., pp. 47-48. 12 In proposito cfr. E. Power, Donne del Medioevo, cit., p. 65: «Anche se si scende nella scala sociale non si trova però che il ruolo della donna perda d’importanza». 13 W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus, l, Tubingen, 1974, n. 99, pp. 206-208. 8
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tivatore del 915, col quale il vescovo di Lucca Pietro allivella a certo Witterado una casa posta nel castello di S. Maria a Monte, il locatario precisa che, se egli morrà, sua moglie avrà il diritto di rimanere nella casa in questione «diebus vite sue14. Si tratta di esempi, che cominciano a determinare in noi il sospetto che non si discosti molto dalla verità la Power, quando sostiene che nella realtà concreta la condizione della donna «non era né di superiorità né di inferiorità, ma di semplice uguaglianza»15. Ciò non è ovviamente in contraddizione con il fatto che alla donna venisse allora attribuito un ruolo che si risolveva di norma nell’esplicazione di quattro funzioni fondamentali: quella di sposa, di madre, di vedova e di monaca. Non v’è dubbio infatti che le donne dei secoli VIII-IX non possiedono più i tratti di quelle che troviamo descritte in alcuni noti passi della Germania di Tacito. Dei numerosi ragguagli forniti da questa importante monografia storico-etnografica dell’Antichità in riferimento alla condizione della donna presso i popoli germanici, acquistano particolare rilievo per la nostra indagine quelli relativi alla posizione della donna nei confronti del marito e della famiglia. Lo storico romano, infatti, osserva che «non la moglie al marito, ma il marito porta la dote alla moglie. Genitori e parenti intervengono al contratto nuziale e fanno la stima dei doni: non doni scelti a soddisfare la vanità femminile e ornare la novella sposa, ma una coppia di buoi, un cavallo bardato e uno scudo con lancia e spada. In cambio di tali donativi si acquista la sposa, la quale offre a sua volta qualche arma al marito: questo scambio è per essi massimo vincolo, rito religioso e protezione divina. Perché la moglie non creda di essere estranea a pensieri di ardimento e ai casi della guerra, dagli stessi riti iniziali del matrimonio è avvertita che sarà compagna al marito nelle fatiche e nei pericoli e insieme a lui sopporterà ed oserà ogni cosa: questo simboleggiano i buoi aggiogati, il cavallo bardato e il dono delle armi»16. E precedentemente Tacito aveva precisato: «Credono anzi che le donne abbiano in sé qualche cosa di venerabile e di profetico, né disprezzano i loro consigli o ne trascurano i responsi»17. Se noi, d’altro canto, leggiamo attentamente le pagine iniziali dell’Origo gentis Langobardorum o della storia dei Longobardi scritta da Paolo Diacono, scopriamo che all’origine di una vera e propria presa di coscienza dell’identità etnica del popolo longobardo si collocano l’astuzia e l’intraprendenza di due donne: Frea, moglie del dio Wotan, e Gambara, madre di Ibor e di Aione18. Anzi, parlando di questi 14 D. Barsocchini, Raccolta di documenti per servire alla Storia Ecclesiastica lucchese, in Memorie e Documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, Lucca V/1, 1844, V/2, 1837, V/3, 1841: V/3, n. MCLX, pp. 82-83. 15 E. Power, Donne del Medioevo, cit., p. 38. 16 Tacito, La Germania, La Vita di Agricola, Dialogo sull’eloquenza, a cura di A. Resta Barrile, Bologna, 1964, cap. XVIII. 17 Ibid., cap. VIII. 18 Origo Gentis Langobardorum, in M.G.H., Scriptores rerum langobardicarum et italicarum. Saec. VIIX, ed. G. Waitz, Hannover, 1878, pp. 2-3; Paolo Diacono, Historia Langobardorum, in M.G.H., Scriptores rerum langobardicarum, cit., I, 8, p. 52; così, per il popolo dei Franchi, R. Pernoud, La
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ultimi, Paolo Diacono non si dimentica di precisare che «con essi era Gambara, madre dei due condottieri, una donna di ingegno acuto e provvida consigliera. Per le situazioni dubbie essi facevano molto affidamento sulla sua saggezza»19. Dalle fonti che, in qualche misura, ci informano sulla condizione della donna presso le antiche popolazioni germaniche possiamo quindi arguire che essa ricopriva un ruolo centrale, al quale non erano estranee né l’esperienza politica né quella più propriamente militare. Nel lungo periodo intercorso dall’epoca in cui Tacito stilava il suo sintetico reportage o da quella a cui si riferivano i passi sopra citati di Paolo Diacono, fino al secolo VI, quando cioè cominciamo a disporre di documenti che ci illuminino sulla condizione femminile nei regni romano-barbarici, la posizione della donna dovette, però, mutare radicalmente per ragioni che in gran parte purtroppo ci rimangono ignote. Si può tuttavia ragionevolmente sospettare che tale trasformazione sia da collegare col passaggio dalla fase nomade dei popoli germanici (l’epoca di Gambara fu, infatti, epoca di migrazione, come informa esplicitamente lo stesso Paolo Diacono20) a quella più propriamente sedentaria: come in epoche successive (penso qui ai pionieri americani della seconda metà dell’Ottocento), il passaggio dalla tenda e dal carro alla dimora stabile significò forse una progressiva emarginazione della donna verso l’interno delle pareti domestiche. Qualche tratto delle consuetudini arcaiche rimase certamente e ne abbiamo frequenti testimonianze nella passione che nutrivano per la caccia numerose nobildonne e badesse del Medioevo21; pur tuttavia, non c’è alcuna ragione per non ritenere che dal secolo VI in poi il ruolo della donna si organizzò definitivamente attorno a determinate funzioni della molteplice potenzialità femminile: la sessualità, la fedeltà al marito, le capacità procreative, la dedizione alla casa e alle faccende domestiche rappresentano i valori di fondo di questa nuova emergente identità femminile, alla cui definizione contributi non marginali furono probabilmente dati dalla Chiesa e dal suo programma di cristianizzazione dei popoli invasori. Si pensi alla legge degli Alamanni (tardo secolo VII - prima metà dell’VIII) ove la donna figura giurare «per pectus suum»22, cioè sul simbolo stesso della sua maternità; oppure al titolo XXI della Lex Romana Burgundionum, promulgata agli femme au temps des cathédrales, Paris, 1980, parlando di Clotilde, moglie di Clodoveo, afferma che «c’est avec l’arrivée d’une femme que notre histoire devient l’histoire de France» (p. 13). 19 Paolo Diacono, Historia Langobardorum, cit., I, 3, p. 49. 20 Ibid., I, 2-3. 21 Cfr. E. Power, Donne del Medioevo, cit., pp. 96-97, ove si fa riferimento ai trattati di Robert de Blois e di Jacques d’Amiens (sec. XIII). 22 Lex Alamannorum, in M.G.H., Leges nationum germanicarum, V/1, ed. K. Lehmann, Hannover, 1888, LIV (LVI), p. 114. Per la datazione delle leggi germaniche in questione cfr. E.L. Hallgren, The legal status of women in the leges Barbarorum, University of Colorado at Boulder, Ph. D., 1977 (University Microfilms International, Ann Arbor, Michigan, U.S.A., London, England, 1980), tav. I, pp. 6-7; sul Pactus e la Lex Alamannorum, alle pp. 12-13.
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inizi del secolo VI, sotto re Gundobado, nella quale, dopo aver sancito la legittimità del divorzio in caso di consenso di entrambe le parti, il legislatore precisa che il ripudio della donna, contro la sua volontà, è possibile solo in caso di adulterio, veneficio e ruffianeria, mentre il ripudio dell’uomo è permesso solo in caso di omicidio, violazione di sepolcro e veneficio23. Non può dunque sfuggire che in entrambi i complessi legislativi, benché relativamente a contesti giuridici diversi, il paradigma dei comportamenti femminili, normali o eccezionali, leciti o illeciti essi siano, tende a connotarsi come insieme di azioni intimamente legate all’esplicazione della sessualità o quantomeno della femminilità come in genere la si intende ancor oggi. E per venire ad una documentazione cronologicamente e spazialmente più vicina all’ambito della nostra ricerca, basterà ricordare la lunga donazione con la quale il gastaldo di Siena Warnefredo nel 730 dota di numerosi beni il monastero cittadino di S. Eugenio: il funzionario longobardo offre terre, animali, mobilio, attrezzi di vario tipo e perfino armi, ma la moglie offre invece i suoi ornamenti24. Non si tratta ovviamente solo di simboli o di atteggiamenti, giacché la fissazione delle funzioni femminili nel quadro di cui si è detto sopra è definita con assoluto rigore a livello della normativa e della prassi longobarda in proposito. Particolarmente illuminante per la definizione di quanto si è detto sopra appare allora la quinta delle leggi promulgate da Astolfo nell’anno 755. Si tratta di una norma la cui perentorietà è trasparente: la vedova non avrà alcun diritto all’eredità del marito, se convolerà a seconde nozze25. Questa legge sembra esser particolarmente cara ai Longobardi e spesso, in maniera più o meno esplicita, essa fa capolino in documenti lucchesi anche successivi alla conquista del Regno di Pavia da parte di Carlo Magno. Nell’aprile del 773, ad esempio, in un atto di donazione, un tale di nome Serbulo esclude dal lascito alcune sostanze, che vengono concesse in usufrutto alla moglie, «si lectum meum costodierit et de mea fidem maritalis obseruauerit»26. Ancor più interessante in proposito un testamento dell’anno 776, nel quale un certo Gairipaldo di tutti i beni concessi a un ente ecclesiastico di Lucca riserva l’usufrutto alla madre e alla sorella, a patto però che entrambe non si sposino27. Il riferimento alla norma di Astolfo sopra citata diviene esplicito in un documento del dicembre del medesimo anno, nel quale Gheripaldo di Monaciatico, frazione Lex Romana Burgundionum, in M.G.H., Leges nationum germanicarum, II/I, cit., XXI, 1-3, pp. 143-144. 24 L. Schiaparelli, Codice Diplomatico Longobardo (d’ora innanzi C.D.L.), 2 voll., Roma, 19291933 (Fonti per la Storia d’Italia), I, n. 50, pp. 163-171. 25 Edictus ceteraeque Langobardorum leges, in M.G.H., Fontes Iuris Germanici Antiqui in usum scholarum, ed. F. Bluhme, Hannover, 1868, 14. V., p. 167. 26 L. Schiaparelli, C.D.L., cit., II, n. 281, pp. 401-403, a p. 402. 27 D. Barsocchini, cit., V/2, n. CLXII, p. 93. 23
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di Antraccoli, lascia in usufrutto alla moglie Ermelinda la metà delle sue sostanze e una serva; tutto ciò a condizione che essa conservi la fede e il letto maritale28. In un contesto culturale e giuridico che tendeva a fissare le potenzialità della donna nel quadro di una sua dedizione totale alla famiglia, è innegabile d’altro canto che essa manteneva una sostanziale autonomia nell’ambito delle decisioni relative ad ogni tipo di transazione economica. Se cioè da un lato i popoli invasori non ebbero difficoltà ad accogliere la definizione di Ulpiano, secondo cui «mulier familiae suae et caput et finis est»29, dall’altro non sentirono immediatamente come proprio il principio della totale sottomissione della donna all’uomo, sostenuto fortemente da Seneca, ad esempio, nella introduzione al De Constantia Sapientis30. Non ci si riferisce qui alla formula ricorrente, con la quale la donna, in apertura di contratto, proclama la sua libertà decisionale nonché la totale assenza di pressioni esterne, ma a documenti precisi, dai quali si ricava che la presenza maschile non infirma affatto la procedura che vede autonome le decisioni della donna. Si prenda, ad esempio, in considerazione un interessante documento dell’anno 915, nel quale le monache di S. Michele Arcangelo figurano eleggere la nuova badessa del monastero: l’elezione viene fatta davanti a un gruppo di più di trenta persone, tra laici ed ecclesiastici, i quali tuttavia non intervengono minimamente nell’elezione, che «pari consensum» vede sorteggiata Atruilda, figlia dello scabino Benedetto31. Ancor più interessante in proposito si presenta l’elezione del 960, relativa al monastero femminile di S. Salvatore in Prisciano. Il vescovo di Lucca Corrado aveva trovato il cenobio in stato di grande desolazione. Fatte riunire allora le monache, chiese ragione della cosa alla badessa, la quale rispose: «Finché mi è stato possibile, ho governato questo monastero. Ma poi sono giunta all’età della vecchiaia, della quasi totale cecità e della malattia, per cui non sono più in grado di amministrare e di reggere l’ente. Pertanto vi prego di mettere al mio posto una badessa che sia in grado di governare, perché io non riesco più ad assolvere tale compito. Voglio anche, d’accordo con tutte le monache di questo monastero, che voi ordiniate badessa di questo venerabile luogo mia nipote Grimma, che dall’infanzia fu allevata in questa casa». Sentito il parere delle altre monache e constatato che la loro volontà collimava con quella della vecchia badessa, il presule procedette all’investitura della nuova Ibid., V /2, n. CLXIII, p. 94. Corpus Iuris Civilis, Digestum, ed. Mommsen-Krueger, L, 16, 195/5. Su ciò v. C. Calisse, La condizione giuridica della donna negli scrittori di diritto comune, in Studi in memoria di Francesco Ferrara, I, Milano, 1943, pp. 87-105, in particolare a p. 91. 30 Seneca, De Constantia Sapientis, I: «Tantum inter Stoicos, Serene, et ceteros sapientiam professos interesse quantum inter feminas et mares non immerito dixerim, cum utraque turba ad vitae societatem tantundem conferat, sed altera pars ad obsequendum, altera imperio nata sit». 31 D. Barsocchini, cit., V/3, n. MCLVIII, pp. 80-81. 28 29
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badessa. L’importante atto, sottoscritto da ben 30 persone, tra cui, nell’ordine, oltre al vescovo, 20 ecclesiastici, 6 monache e 3 giudici imperiali, rivela un assoluto rispetto delle decisioni prese dalla badessa e dalle sue monache: non risultano pressioni di qualsivoglia tipo, né formale, né sostanziale32. La medesima procedura si osserva in un consimile documento del 1002, anch’esso relativo al monastero di S. Salvatore in Prisciano: la cerimonia si svolge infatti di fronte a un nutrito gruppo di ecclesiastici (l’atto è sottoscritto da ben quaranta persone, tra le quali le monache figurano all’ultimo posto), ma l’elezione avviene nell’assoluto rispetto della decisione espressa dalle monache33. In tale contesto di autonomia negoziale le monache non si possono considerare come delle appartenenti ad una condizione privilegiata, poiché fuori delle mura del monastero le cose non andavano diversamente. Nell’anno 788, ad esempio, le sorelle Gherlinda, moglie di Uffiperto, Gheriosa, moglie di Filicauso e la monaca Ropperga vendono alcuni loro beni al vescovo di Lucca Giovanni, per il prezzo di 30 soldi d’oro: l’atto mette certamente in rilievo l’assistenza dei coniugi delle prime due donne nonché la presenza di un certo numero di parenti, senza tuttavia far presumere costrizioni di sorta nei confronti delle tre donne34. Allo stesso modo, non si ravvisano pressioni né limitazioni in una vendita dell’anno 942, nella quale Alsinda figura assistita da ben due mundualdi, che in questo caso sono suoi figli35. Non mancano, d’altro canto, casi nei quali la donna opera la transazione economica senza aiuto né protezione di chicchessia. È il caso della vendita operata nel 782 dal chierico Magniprando in favore della monaca Adeltruda, figlia di Adelwaldo «qui fuit rex Saxonum ultramarinos», la quale acquista, in perfetta autonomia, una chiesa in Lucca per il prezzo di ben 700 soldi d’oro36. E nel maggio del 977, troviamo una certa Albisinda, appartenente a un ceto sociale indubbiamente più umile di quello di Adeltruda, che, senza protezione alcuna, acquista dei beni a Saltocchio per il prezzo di 20 soldi37 Il fatto che l’assenza del mundualdo si riscontri esclusivamente negli atti di acquisto porta a ritenere che la protezione maschile fosse esplicitamente richiesta solo nei casi in cui la debolezza effettiva della donna poteva involontariamente mettere a repentaglio o assottigliare il patrimonio della famiglia alla quale essa apparteneva: Ibid., V/3, n. MCCCLXXXVI, pp. 280-281. D. Bertini, Dissertazioni sopra la storia ecclesiastica lucchese, in Memorie e Documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, 1836, IV/2, n. LXXXII, pp. 114-117. 34 Ibid., IV/I, n. CV, pp. 163-164. 35 D. Barsocchini, cit., V/3, n. MCCLXXXIX, pp. 192-193. 36 Ibid., V/2, n. CLXXXVI, pp. 107-108. 37 Ibid., V /3, n. MCCCCLXXXVI, pp. 369-370. 32 33
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questo è il motivo per cui la tutela maschile non manca quasi mai né nelle vendite, né nelle permute, né nelle donazioni. Non si peccherà allora di presunzione nel sottolineare la sostanziale inesattezza di un giudizio come quello formulato nel 1914 dal Chiappelli, il quale, relativamente alla condizione giuridica della donna altomedievale in una zona prossima a quella qui presa in considerazione, perentoriamente osserva: «Dalle scarse reliquie della vita di quel tempo remoto, si può argomentare con sicurezza che la donna in Pistoia, come del resto anche altrove, teneva nella famiglia l’ultimo posto, e che nei rapporti giuridici era considerata come incapace, se la sua personalità non fosse integrata da quella del mundualdo, il quale talvolta poteva essere lo stesso suo figlio. In queste età primitive, nelle quali dominava la rozzezza e la forza delle armi, la vita della donna si limitava ad una sfera d’azione estremamente angusta»38. Noi, da parte nostra, ci sentiamo invece di affermare che è proprio nella rozza età arcaica che la donna conserva alcune caratteristiche del ruolo che essa, accanto all’uomo, aveva esercitato a lungo, fuori dalle pareti domestiche, nel campo delle attività politiche e militari. A tal punto che in due significativi documenti lucchesi del secolo VIII essa figura mutuare titoli (non uffici, si badi) che sembrerebbero ormai esclusivo appannaggio del sesso maschile: così, in una donazione del 724, accanto a un certo Romualdo prete, troviamo operare sua moglie Ratperga che il notaio non esita a definire col nome di presbitera39; e tra le sottoscrizioni di un atto di vendita L. Chiappelli, La donna pistoiese del tempo antico, Pistoia, 1914, pp. 3-4. L. Schiaparelli, C.D.L., cit., I, n. 34, pp. 122-124, a p. 123. A quanto ci è dato di sapere, non si tratta di un apax, ma di una persistenza di usi arcaici. I termini episcopa, presbytera, diaconissa e subdiaconissa sono attestati infatti con una certa frequenza nei canoni conciliari dei secoli VI, VII, VIII e primi decenni del IX: cfr., ad esempio, Concilia Aevi Merovingici, in M.G.H., Legum sectio III. Concilia, I, ed. F. Maassen, Hannover, 1893, Concilium Epaonense (a. 517), c. 21, p. 24 Concilium Aurelianense (a. 533), c. 18, p. 63; Ibid., II/1, ed. A. Werminghoff, Hannover-Leipzig, 1904, Concilium Romanum (a. 743), c. V, pp. 13-14, c. V, p. 31; Ibid., Il/2, ed. Werminghoff, HannoverLeipzig, 1908, Concilium Romanum (a. 826), c. VIII, p. 557; Mordek, Kirchenrecht und Reform im Frankenreich. Die collectio Vetus Gallica, die älteste systematische Kanonenssammlung des Fränkischen Gallien. Studien und Edition, Berlin-New York, 1975, p. 582; Migne, P.L., LXVII, cit., XV, col. 174. Sul significato da attribuire ai termini in esame cfr. R. Metz, Recherches sur le statut de la femme en droit canonique: bilan historique et perspectives d’avenir. Problèmes de méthode, in «L’Année canonique. Recueil d’Etudes et d’Informations», 12, 1968, pp. 99-112, ora parzialmente tradotto in M. Pereira, Né Eva né Maria. Condizione femminile e immagine della donna nel Medioevo, Bologna, 1981, pp. 6371, ove si afferma che, mentre la maggior parte dei canonisti e dei teologi del Medioevo riteneva che i termini episcopa e presbytera indicassero semplicemente la moglie del vescovo e del prete, più dibattuta si presentava la questione relativa alle diaconesse, perché certi autori ritenevano che tale qualifica corrispondesse, nella chiesa primitiva, ad un ordine vero e proprio (p. 70); dello stesso Autore v. anche Recherches sur la condition de la femme selon Gratien, in «Studia Gratiana», 12, 1967, pp. 377-396; su questo problema e con riferimenti specifici alla documentazione lucchese cfr. anche G. Rossetti, Il matrimonio del clero, in Il Matrimonio nella società altomedievale. Atti della XXIV Settimana di Studi del Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo (Spoleto, 22-28 aprile 1976), Spoleto, 1977, pp. 510-511. 38 39
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del 744-745, dopo il signum manus di Ermitanco, vir honestus, troviamo quello della di lui moglie Teufrada «viro onesta venditricis et tradetricis»40. Non mancano, d’altro canto, ulteriori elementi per dimostrare la superficialità e il frettoloso schematismo del giudizio del Chiappelli, la cui assunzione qui è peraltro esemplare e alla cui base sta una concezione della storia che è per definizione solo progressiva: in particolare, un contributo non indifferente ad illustrare alcuni dei dati precedentemente sottolineati può essere offerto dall’analisi dell’istituto del morgengap, il dono del mattino, che il marito, secondo la tradizione germanica, consegnava alla moglie dopo la prima notte di nozze, a suggello dell’avvenuta unione tra i due coniugi: si trattava di una cospicua porzione di tutti i beni mobili ed immobili dell’uomo, perché presso i Longobardi dell’Italia centro-settentrionale essa ammontava ad un quarto, mentre presso i Franchi equivaleva ad un terzo41. L’analisi delle numerose menzioni di morgengap presenti nella documentazione dei secoli in questione ci permette di verificare l’esattezza di alcune delle considerazioni precedentemente fatte, dandoci nel contempo la possibilità di concretizzare ulteriormente il discorso relativo alla posizione della donna nelle transazioni economiche dell’alto Medioevo. Nella fattispecie, ci è stato possibile illustrare due importanti aspetti di tale complessa problematica: in primo luogo, la sostanziale autonomia negoziale della donna in contratti che riguardano la totalità o porzioni del proprio dono maritale; in secondo luogo, l’affiorare qua e là, nei documenti in esame, di elementi che ci permettono in qualche misura di individuare alcuni frammenti di sensibilità femminile così come ancor oggi viene comunemente intesa. Innanzitutto, bisogna notare l’estrema diffusione della pratica che vede le donne vendere, donare, permutare la totalità o porzioni del proprio morgengap. Nell’ottobre del 738, la monaca Anstrualda dona ad una chiesa da lei fondata dopo la morte del marito una casa che faceva parte del suo morgengap: il documento avverte che la transazione avviene «cum licentia et auturitatem filii sui Gumprandi», ma tra le sottoscrizioni spicca al primo posto il signum manus di Anstrualda «religiose Deo copolate offeretricis et auctricis»42. La funzione di semplice controllore esercita dal mundualdo è ancor meglio evidenziata in un documento del 794, nel quale Sindruda vende una parte del proprio L. Schiaparelli, C.D.L., cit., I, n. 84, pp. 248-250, p. 250; ma cfr. anche i nn. 33 e 52, dove la donna negoziatrice è indicata col titolo di «honesta femina» (pp. 63 e 103); va segnalato inoltre che in C. BrÜhl, C.D.L., III, Roma, 1973, n. 44 (a. 772), pp. 251-260, a p. 259, e in Ratchis 6 (Edictus ceteraeque Langobardorum leges, cit., p. 156) si parla di donne qualificandole col titolo di arimanne. 41 Su ciò v. Vaccari, Morgengabe, in Novissimo Digesto Italiano, vol. X, Torino, 1968, pp. 921-922; sulla presenza dell’istituto nelle leggi germaniche cfr. E.L. Hallgren, The legal status of women, cit., pp. 68-70. 42 L. Schiaparelli, C.D.L. cit., I, n. 67, pp. 208-211. 40
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morgengap col consenso del marito e alla presenza di tre dei suoi più prossimi parenti, «qui non vidunt me nulla violentia passa esse»43. Si tratta di due esempi opportunamente scelti nel folto gruppo di attestazioni consimili perché dotati di elementi che si sottraggono alla ripetitività formulare che caratterizza invece la quasi totalità dei documenti in questione e perché, proprio nel dato di novità, evidenziano il carattere protettivo, non limitativo né costrittivo, della funzione del mundualdo nei confronti della donna negoziatrice: e ciò è attestato, non solo dal collegamento formulare tra il consenso maschile e la constatazione di assenza di pressioni o violenze di ogni tipo nei confronti della donna che opera la transazione, bensì anche dall’utilizzazione, diffusa soprattutto nei casi in cui oggetto del mundio è la moglie o la figlia, di aggettivi come dolce, diletta, amabile e relativi superlativi: si tratta di termini che non si troverebbero facilmente negli aridi atti notarili dei nostri giorni. Queste considerazioni ci conducono direttamente ad una seconda constatazione, perché la caratterizzazione della donna come essere debole, al quale si deve dolcezza e protezione, fornisce indubbiamente alcuni elementi per un abbozzo almeno del carattere e della sensibilità femminile nei secoli in questione. A questo proposito, torna di estrema utilità prestare una certa attenzione a due attestazioni di morgengap non poco interessanti. Nel primo caso si tratta di un memoratorium di morgengap stilato nel 739 da un certo Orso di Lucca. Nell’elenco, accanto ad alcuni servi e ad una casa, vengono segnalati nell’ordine: un letto di dieci soldi, una tunica di dieci soldi, un manto di dieci soldi, degli orecchini (se è giusta la felice intuizione della Fasoli in merito al termine nauri usato dalla carta) di trecento soldi, un cavallo bardato di cento soldi44. Si tratta evidentemente di un documento antico, nel quale sono compresenti realtà arcaiche ed elementi di indubbia novità: ed è per questo che, accanto al caballum stratum di tacitiana memoria, trovi oggetti tipicamente muliebri come la tunica, il manto e gli orecchini. Bisogna aspettare più di due secoli per incontrare un secondo frammento di questa sensibilità femminile emergente che cerchiamo in qualche modo di descrivere, ma che troverà il suo definitivo completamento solo nella raffinatissima società dei secoli XII e XIII. Si tratta questa volta di una vera e propria carta di donazione nuziale, che il lucchese Lamberto, nell’agosto del 986 alla presenza di parenti ed amici, fa alla sua diletta ed amabile sposa Imilla. Oggetto del dono maritale è, come sempre, la quarta parte di tutti i beni mobili ed immobili del consorte, ma il morgengap in questo caso è corredato da una lunga formula pertinenziale (l’elenco cioè delle pertinenze D. Barsocchini, cit., V/2, n. CCXLVI, p. 144. L. Schiaparelli, C.D.L., cit., I, n. 70, pp. 214-215. Per l’interpretazione del termine nauri cfr. G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell’Italia del secolo VII, in Caratteri del secolo VII in Occidente. Atti della V settimana di studio del Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo, Spoleto, 1957, Spoleto, 1958, I, pp. 103-159, p. 147. 43 44
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riguardanti i beni concessi), che presenta elementi di assoluta novità per documenti quali quelli che stiamo analizzando. Lamberto, infatti, dona ad Imilla ben sei case dotate di beni e dislocate in vari luoghi del territorio lucchese, precisando poco sotto che i beni concessi passano totalmente in proprietà alla moglie, con tutte le loro pertinenze e cioè «cum fundamentis omnem edeficiis vel universis fabricis suis, seo de curtis, ortalia, terris, vineis, olivetis, castanietis, quercietis, silvis, virghareis, pratis, pascuis, cultis rebus vel incultis, montibus alpibus rupinis declinis laqueis puteis vel fontaneis, seo usibus aquarum quam de cursibus molendinis, piscareis, salectis, sationi, divisum et indivisum, tam de auro quamque de arigentum, seo de gemmis adque de vestas, seo pretiosissimis margharitis» e così via45. Benché non sia legittimo formulare considerazioni sicure su dati così scarni, non si peccherà di presunzione nell’indicare come probabile nel passaggio dall’alto al pieno Medioevo una evoluzione della sensibilità della donna verso gusti ed atteggiamenti che ancor oggi vengono considerati più vicini e più consoni al carattere femminile: ma su questo qualche dato ulteriore si fornirà più avanti. Rimane, infine, da affrontare un’ultima questione, che riguarda più direttamente l’individuazione di un mutamento della condizione della donna all’interno del periodo qui esaminato nonché la proiezione di tale trasformazione nei secoli immediatamente successivi. Se a tale scopo noi misuriamo allora, anche grossolanamente, le frequenze di attestazioni relative a morgengap o, più generalmente, riguardanti transazioni operate in prima persona da donne, notiamo che anche da questo punto di vista il secolo IX si evidenzia come periodo in gran parte diverso dall’età immediatamente precedente e da quella immediatamente successiva: sul piano quantitativo, almeno, la presenza delle donne nell’ambito dei negozi giuridici, notevole in età longobarda, tende ad assottigliarsi, per poi riassumere rilievo ed incrementare di importanza nell’età più propriamente feudale. Tale constatazione non ci sorprende, perché in linea con le considerazioni fatte nei capitoli precedenti sul polivalente sviluppo in età carolingia di un programma di graduale razionalizzazione delle realtà culturali, politiche, sociali ed economiche. In questo contesto, non deve meravigliare che l’importanza della donna in ambito negoziale si trovi, per così dire, compressa all’interno di un sistema di rapporti giuridico-istituzionali che, almeno in linea di tendenza, vedono e vogliono privilegiata la presenza maschile. Questo non perché i Franchi considerassero la donna in maniera diversa dai Longobardi (si è già visto che la quota parte riguardante il morgengap nella tradizione franca era più alta di quella usata in Italia), ma perché all’interno del grande sforzo organizzativo operato in Europa dai Carolingi, basato su un apparato di potere D. Barsocchini, cit., V/3, n. MDCIV, pp. 498-499.
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fortemente ramificato, composto di funzionari, che in larga misura dovevano essere dei militari, l’elemento privilegiato, sia a livello amministrativo che patrimoniale, non poteva essere che quello maschile. Quanto sopra osservato è in linea peraltro con due importanti indagini di David Herlihy la più recente delle quali è stato condotta proprio sulla documentazione da noi stessi esaminata. Tale autore, studiando la posizione della donna (all’interno della documentazione altomedievale dell’Europa mediterranea, nel 1962, e di quella lucchese in particolare, nel 1973)46 ne ha quantificato l’importanza tramite l’analisi delle frequenze dei matronimici, delle presenze femminili nell’elenco delle confinazioni e dei negozi giuridici stipulati direttamente da donne. Tale metodo, che ha suscitato da parte di Pierre Toubert47 qualche obiezione, a nostro avviso ingiustificata, perché la strada seguita dallo storico americano appare nella sostanza metodologicamente corretta e non dimostra solo che in quei secoli vi era un gran numero di vedove, ha permesso all’Herlihy di mettere in evidenza il crescere, nel corso del secolo X dell’importanza della donna. Ma se si analizzano con attenzione i grafici forniti dallo studioso in entrambi gli studi, non può sfuggire che la curva delle frequenze presenta un apice anche nel secolo VIII, benché ovviamente attestato su valori più bassi di quelli del X, per poi cadere a livelli minimi agli inizi del IX e mantenere un andamento rettilineo fin verso la fine del secolo. Fatte queste necessarie precisazioni, non si può che convenire sulla coincidenza pressoché totale dei dati offerti da questo nostro breve contributo con i risultati delle ricerche statistiche dell’Herlihy e, in particolare, sull’importanza ricoperta dalla donna nelle transazioni economiche dell’alto Medioevo. L’eclissarsi di tale importanza sappiamo che cominciò successivamente, a partire dai secoli posteriori al Mille, quando prese il via per irrobustirsi progressivamente quel generale processo di agnatizzazione delle discendenze familiari e di erezione in casate di gran parte della grande, media e piccola nobiltà europea: si tratta di un fenomeno assai noto e studiato, alla cui definizione hanno fornito ragguardevoli contributi tanto gli storici del diritto quanto quelli della cultura, della società e dell’economia. D. Herlihy, Land, Family and Women in Continental Europe, 701-1200, in «Traditio», 18, 1962, pp. 89-120; poi in AA.VV., Women in Medieval Society, a cura di S. Mosher Stuard, University of Pennsylvania, 1976, pp. 13-45; infine in D. Herlihy, The Social History of Italy and Western Europe, 700-1500, London, 1978, VI; ora in traduzione quasi completa in M. Pereira, Né Eva né Maria, cit., pp. 23-37, la quale, tuttavia, sbaglia vistosamente laddove afferma che «le ricerche di D. Herlihy … concernono le donne dell’aristocrazia terriera» (Ibid., p. 9); D. Herlihy, L’economia della città e del distretto di Lucca secondo le carte private nell’alto Medioevo, in Atti del 5° Congresso internazionale di Studi sull’alto Medioevo (Lucca 3-7 ottobre 1971), Spoleto, 1973, pp. 378-380. 47 P. Toubert, Les Structures du Latium Médiéval. Le Latium méridional et Sabine du IXe à la fin du XIIe siècle, Roma, 1973, I, p. 735, nota 2. 46
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Il Bellomo, ad esempio, in un suo documentatissimo saggio del 1961 sui rapporti patrimoniali tra coniugi in età pienomedievale, dopo aver sottolineato la straordinaria persistenza e diffusione dei donativi maritali nell’Italia centro-settentrionale del secolo XI, constata altresì che «all’aprirsi dell’epoca nuova, al costituirsi dei primi comuni, cominciavano a sembrare eccessivi i diritti di cui la moglie godeva a titolo di morgengabe, e si tentavano pertanto, e con successo, le prime misure per troncarli». Lo studioso collega molto opportunamente lo sviluppo e la diffusione dell’odium quartae (l’avversione cioè nei confronti del morgengap) soprattutto con la riorganizzazione familiare di numerosi gruppi parentali interessati a definire il loro potere come emanazione di una casata ben definita e ristretta48. Muovendosi su un versante di storia più propriamente sociale, le importanti ricerche della scuola francese e, in particolare di Marc Bloch e di Georges Duby, hanno da parte loro ampiamente descritto e confermato l’idea di un sostanziale peggioramento della condizione della donna nel passaggio dall’alto al pieno Medioevo. Male interpreta, infatti, a mio avviso, Ida Magli, quando in un suo noto lavoro del 1974 afferma che «secondo M. Bloch, fino al XII secolo la donna è la creatura inferiore alla quale l’uomo non domanda altro che il soddisfacimento dei suoi bisogni carnali e l’ingresso in qualche potente lignaggio»49. Troppo legata all’esemplificazione addotta da Bloch, laddove egli parla della realtà concreta della vita famigliare, la Magli non mostra di curare le considerazioni fatte subito dopo dall’illustre storico francese sulla struttura del lignaggio definita, ancor prima di addurne le prove, prevalentemente di carattere onomastico, come «un sistema in cui i vincoli di parentela dal lato femminile avevano un’importanza press’a poco simile a quelli della consanguineità paterna»50. In linea con gli studi di Bloch, ove tuttavia il giudizio sulla decadenza dell’importanza della donna nel processo di crescente agnatizzazione della famiglia dei secoli XII e XIII rimaneva pur sempre inespresso, il Duby ha messo in rilievo a più riprese, utilizzando, oltre che sue ricerche personali, ampie indagini della storiografia tedesca e di quella belga, come dal Mille in poi la persistente importanza della donna venga sempre più strumentalizzata per incrementare la forza e il potere della famiglia in cui essa entra con il matrimonio51. M. Bellomo, Ricerche sui rapporti patrimoniali tra coniugi. Contributo alla storia della famiglia. medievale, Milano, 1961: sulla persistenza della pratica del morgengap nell’Italia settentrionale del secolo XI, pp. 1-5; per la citazione, p. 5; ma si veda tutto il cap. I, pp. 1 ss.; cfr. inoltre P. Cammarosano, Aspetti delle strutture familiari nelle città dell’Italia comunale: secoli XII-XIV, in Famiglia e parentela nell’Italia medievale, a cura di G. Duby e J. Le Goff, Bologna, 1985, pp. 109-123. 49 I. Magli, La donna: un problema aperto, Firenze, 1974, p. 93 con riferimento esplicito a M. Bloch, La società feudale, Torino, 1949 (orig. Paris, 1940), pp. 159-162; la Magli sembra persistere in una lettura frettolosa del capolavoro di M. Bloch anche nella prefazione da lei fatta a G. Duby, Matrimonio Medievale. Due modelli nella Francia del dodicesimo secolo, Milano, 1981 (orig. 1978), pp. 7-17, alle pp. 11-12. 50 M. Bloch, La società feudale, cit., p. 162. 51 G. Duby, Una ricerca che deve essere continuata: la nobiltà nella Francia medievale, in Id., Terra e nobiltà nel Medioevo, Torino, 1971, pp. 113-134 (trad. it. di Une enquete à pursuivre: la noblesse 48
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Ed è ancora in questo periodo che si assiste «a una più netta differenziazione tra abbigliamento maschile e femminile» nonché a una divaricazione nei modelli di comportamento dei due sessi: «si addiceva ai ragazzi essere aggressivi – precisa il Duby, sulla scorta di Andrea Cappellano –, ma le ragazze dovevano essere prudenti e schive»52. Dopo tali precisazioni, può apparire in parte condivisibile, nonostante la sua rigidità, il pesante giudizio espresso dalla Power, secondo la quale il codice cortese «ricorreva alla poesia per coprire l’assunto della inferiorità della donna»53. Pur nella diversità delle prospettive nonché degli ambiti d’indagine, una larga fetta della più accreditata storiografia di questo secolo54 ha dunque dimostrato l’assoluta falsità di uno dei più vieti luoghi comuni di una consuetudine di pensiero ancor viva ed attuale: che la storia della condizione femminile nella società di questi due ultimi millenni è stata in fondo caratterizzata da una lunga serie di progressivi quanto inconfutabili miglioramenti.
dans la France médiévale, in «Revue Historique», 459, 1961, pp. 1-22), pp. 120-123; Id., Nella Francia Nord-Occidentale del XII secolo: i «Giovani» nella società aristocratica, in Id., Terra e nobiltà, cit., pp. 135-148 (traduz. it. di Dans la France du Nord-Ouest au XIIe siècle: les «jeunes» dans la société aristocratique, in «Annales», E.S.C., XIX, 1964, pp. 835-846), pp. 143-144; Id., Strutture di parentela e nobiltà. Francia del Nord, XI-XII secolo, in Id., Terra e nobiltà, cit., pp. 163-181 (traduz. it. di Stucture de parenté et noblesse. France du Nord, XIe-XIIe siècle, in Miscellanea mediaevalia in memoriam J.F. Niermeyer, Groningen, 1967, pp. 149-165), pp. 171-181. 52 Id., Matrimonio Medievale, cit., p. 34. Sul problema del differenziarsi nei secoli XI-XII dell’abbigliamento maschile e femminile cfr. H. Platelle, Le problème du scandole: les nouvelles modes masculines au Xl et XII siècles, in «Revue Beige de Philologie et d’Histoire», 53, 1975, pp. 1071-1096. 53 E. Power, Donne del Medioevo, cit., p. 12. 54 L’assunto di uno sviluppo per nulla rettilineo della condizione femminile dal Medioevo ad oggi si va, tuttavia, imponendo anche in opere di carattere dichiaratamente divulgativo, come, ad esempio, in S. Castaldi, L. Caruso, L’altra faccia della storia (quella femminile), Messina-Firenze, 1975, ove si sottolinea a più riprese il peggioramento della posizione della donna nel passaggio dal Medioevo all’età moderna (pp. 13-14, 34-37, 66). Detto ciò, va però precisato che, nonostante la notevole importanza della donna nella società altomedievale, si deve assolutamente escludere la presenza in tale periodo di funzioni femminili che rimandino in qualche misura a forme sociali di tipo matriarcale. Se è da respingere l’uso, ancora persistente, del termine matriarcato nella formulazione originaria di predominio della donna sull’uomo, così come è stato postulato da J.J. Bachofen, Das Mutterecht, Basilea, 1861, che per primo ha proposto l’utilizzazione di questa categoria sociologica così ambigua e discussa, da guardare con sospetto – per la zona qui considerata, almeno – è anche la posizione di R. Fossier, La femme dans les sociétés occidentales, in «Chaiers de Civilisation Médiévale», 20, 1977, pp. 93-102, che ha sostenuto la presenza nella Francia pienomedievale di un «matriarcato occulto». Forse per alcune zone (non per la nostra) si può semmai parlare, con le dovute cautele, di matriarcato, solo se con tale termine si intende, come intende oggi comunemente la moderna ricerca antropologica ed etnografica, una condizione sociale in cui la discendenza viene computata prevalentemente secondo la linea materna e ove la donna gode di ragguardevoli diritti in campo patrimoniale e sociale (cfr. I. Magli, Matriarcato e potere delle donne, Milano, 1978; Id., La donna: un problema aperto, Firenze, 1974, in particolare alle pp. 25-33 e 106-108).
TRA PODERE E GINECEO. IL LAVORO DELLE DONNE NELLE GRANDI AZIENDE AGRARIE DELL’ALTO MEDIOEVO
L’estrema laconicità della documentazione utile rispetto al tema del lavoro femminile nelle grandi aziende signorili dell’alto Medioevo impone necessariamente l’utilizzo di fonti diversificate; ciò nonostante, l’attenzione prevalente sarà rivolta da un. lato agli inventari di terre, coloni e redditi, soprattutto laddove descrivono la disponibilità di manodopera e le mansioni di quella femminile in particolare, dall’altro ai provvedimenti legislativi (in primo luogo i capitolari carolingi), nei punti in cui essi tentano di regolamentare e in qualche misura di programmare il lavoro e la produzione dei grandi patrimoni signorili in testa quelli regi. Dall’uso miscelato di entrambe le tipologie documentarie si ricava innanzitutto la constatazione di un grande scrupolo nella definizione giuridica del colonato dipendente: ciò che preme è stabilire con sicurezza la natura ciel vincolo di dipendenza che lega il signore, laico od ecclesiastico, ai suoi sottoposti, siano essi liberi o servi; e socco questo profilo la condizione giuridica della donna appare costantemente segnalata sia nei provvedimenti legislativi, sia negli inventari: nel definire lo status di una persona era infatti allora spesso decisivo il riferimento a quello della madre ed anche di qui deriva probabilmente la grande importanza che essa deteneva in campo onomastico1. La prassi è nota: il nome dei figli in numerosissimi casi veniva costruito mescolando una parte di quello dei due genitori o mutuando una porzione del nome di uno di essi. Esempi significativi di questo metodo sono rinvenibili nel noto polittico di Saint Germain des Prés, con casi sorprendenti di famiglie numerose in cui il Sull’onomastica incrociata cfr. in particolare M. Bloch, La società feudale, Torino, Einaudi, 1949 (orig. Paris, 1940), pp. 162-163: più scettico in generale F.-L. Ganshof, Le statut de la femme dans la monarchie franque (Recueils de la Société Jean Bodin pour l’Histoire Comparative des institutions, XII), Bruxelles, 1962, II, pp. 5-58, che però attinge prevalentemente alle fonti giuridiche. 1
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nome della madre appare più decisamente rappresentato di quello del padre2. Senza accedere alla tesi estrema del Verriest3, il quale vuole la trasmissione del sangue esclusivamente per via femminile, con argomentazioni peraltro che riguardano il mondo nobiliare e sulle quali sono state manifestate serie e circostanziate riserve4, si può tuttavia ammettere che la famiglia altomedievale osserva in genere strutture di tipo cognatico, orizzontale e allargato, mentre processi verso l’agnatizzazione sono riscontrabili solo a partire dai secoli posteriori al Mille5. L’equipollenza tra moglie e marito rispetto all’onomastica dei figli inducono a sospettare che, anche a livello di colonato dipendente, la donna disponesse allora di margini di manovra abbastanza ampi e avesse compiti in larga misura analoghi a quelli dell’uomo: nel senso che anche il lavoro dei campi vedeva spesso coinvolti entrambi i coniugi. Le conferme non mancano. Nel polittico di Saint Germain de Prés, ad esempio, se il marito viene indicato col termine di colonus, non si omette mai di specificare che sua moglie è una colona né sono rari i casi in cui la donna figura gestire da sola il fondo6. Allo stesso modo, nel Codice Bavaro, un lungo inventario di contratti stilati a Ravenna nella seconda metà del secolo X e così chiamato per la sua attuale collocazione alla Staats Bibliothek di Monaco di Baviera, sia le enfiteusi che i livelli regestati figurano stipulati con gli iugales considerati cumulativamente e non solo con il marito7. Nell’inventario dell’abbazia di Prüm, a proposito di un fondo ubicato nel territorio di Puzieux, si precisa: «Sunt ibi femine V, facit unaquaque in messe diem I, 2 B. Guérard, Polyptique de l’Abbé Irminon, 2 voll., Paris, 1844, II, n. 16, pp. 247-248: un nucleo famigliare di 9 figli, i cui nomi in 4 casi derivano da quello della madre, in 2 casi da quello del padre, in un caso da quello di entrambi, in 2 casi da nessuno dei due. 3 L. Verriest, Noblesse, chevalery, lignages, Bruxelles, 1959. 4 Sui problemi posti dalla tesi del Verriest cfr. ad esempio K. Leyser, Maternal Kin in early medieval Germany. A reply, in «Past and Present», 49 (Novembre 1970), pp. 126-134; ma la presa d’atto più completa e persuasiva sull’argomento resta a mio avviso la riflessione storiografica proposta da G. Duby, Una ricerca che deve essere continuata: la nobiltà nella Francia medievale, in Id., Terra e nobiltà nel Medioevo, Torino, SEI, 1971, pp. 113-134 (traduz. it. di Une enquête à poursuivre: la noblesse dans la France Médiévale, in «Revue Hiscorique», 459, 1961, pp. 1-22); ulteriori ragguagli in J. Heers, Il clan familiare nel Medioevo, Napoli, Liguori, 1976 (orig. Paris, 1974), a pp. 33-37. 5 Per la struttura e l’evoluzione della famiglia medievale, con particolare riferimento all’Italia, basti il rinvio a E. Besta, La famiglia nella storia del diritto italiano, ed. postuma, Milano, Giuffrè, 1962; J. Heers, Il clan familiare nel Medioevo, cit.; G. Duby e J. Le Goff (a cura di), Famiglia e parentela nell’Italia medievale, Bologna, Il Mulino, 1981. Sulla famiglia contadina si raccomandano: per la Francia, J. Bessmerny, Les structures de la famille paysanne dans les villages de la France au IXe siècle. Analyse anthroponymique du polyptique de l’abbaye de Saint-Germain-des-Prés, in «Le Moyen Age. Revue d’Histoire et de Philologie», 4a serie, t. XXXIX, 1984, 2, pp. 165-193; per l’Italia, M. Montanari, Contadini e città fra “Langobardia” e “Romania”, Firenze, Salimbeni, 1988, pp. 67-77. 6 B. Guérard, Polyptique de l’Abbé Irminon, cit., II, passim. 7 Breviarium Ecclesiae Ravennatis (Codice Bavaro). Secoli VII-X, a cura di G. Rabotti, Roma, 1985 (Fonti per la Storia d’Italia, n. 110).
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in pratum alium»8. In un altro punto, nell’indicare la razione giornaliera di pane da distribuire nella zona di Mehring in occasione della fienagione e della mietitura, si distingue: «Ad fenum secandum, prius detur ei quartarium de pane et aliquid ex carne et bibere et postea panis I et porcio I, et quando fenum ducit panem I; femine ad fenum panem dimidium. Ad messem colligendum similiter»9. Il riferimento viene confermato in un successivo passo dell’inventario, dove a proposito dei beni siti a Gemmerich si sottolinea: «Femine autem aut camsilem aut denarios XII sive duos dies ad messem et ad fenum»10. In un livello lucchese del 915, il locatario ottiene dal vescovo Pietro la promessa che alla sua morte la moglie Teutberga abbia il diritto, se lo vuole, di rimanere sul fondo dato in concessione11. Ma la presenza della donna nelle operazioni agricole non deve ingenerare il sospetto analogico che le mansioni domestiche ed in particolare quelle della tessitura e della preparazione dei cibi fossero distribuite in egual misura tra i coniugi. La donna lavora nei campi, certamente in misura minore del marito, ma poi ha sulle spalle il governo della casa. Il mansionario è espresso in forma sintetica, ma efficacissima in un passo del capitolare carolingio che propone i modelli da seguire nel descrivere i patrimoni ecclesiastici e fiscali (Brevium exempla ad describendas res ecclesiasticas et fiscales): «Uxor vero illius facit camisilem I et sarcilem I; conficit bracem et corquit panem»12. In un passo non meno significativo dell’inventario germanopratense, in riferimento ad una serva che gestisce un appezzamento di terra, si precisa: «Facit camsilem de lino dominico; pascit pastas VI; et aliud servicium quod ei injungitur»13. Siamo, come si può constatare, in piena aderenza con la topica tradizionale della donna massaia, che in alcune efficacissime rappresentazioni iconografiche viene raffigurata nell’atto di brandire il fuso come un arma contro l’inerme marito14. Urkundenbuch zur Geschichte der … mittelrheinischen Territorien, hrsg. H. Beyer, Koblenz, 1860 (rise. anast., Hildesheim-New York, 1974), p. 165; ma per una lettura corretta del testo cfr. L Kuchenbuch, Bäuerliche Gesellschaft und Klosterherrschaft im 9. Jahrhundert. Studien zur Sozialstruktur del Familia der Abtei Prüm, Wiesbaden (Vierteljahrschrift für sozial- und Wirtschaftsgeschichte, Beihefte n. 66), 1978, p. 261. 9 Urkundenbuch, cit., p. 157. 10 Ibid., p. 192. 11 D. Barsocchini, Raccolta di documenti per servire alla Storia Ecclesiastica lucchese, in Memorie e Documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, V/3, Lucca, 1841, n. MCLX, pp. 82-83; per considerazioni ulteriori sull’importanza patrimoniale della donna nella Lucchesia altomedievale cfr. B. Andreolli, Uomini nel Medioevo. Studi sulla società lucchese dei secoli VIII-Xl, Bologna, Pàtron, 1983, pp. 113-133. 12 Capitularia Regum Francorum, edd. A. Borerius, V. Krause, M.G.H., Leges, J, Hannover, pp. 250256, p. 252. 13 B. Guérard, Polyptique de l’Abbé Irminon, cit., p. 213, n. 38. 14 C. Fell, Women in Anglo-Saxon England, Oxford-New York, Basil Blackwell, 1984, p. 188, fig. 72 (da una mininatura del Salterio di Luttrell). 8
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Il modello femminile che ci viene sottoposto coniuga in questo caso la tradizione romana trasmessaci ad esempio dall’ampio materiale epigrafico e dalla letteratura agronomica15 con la tradizione germanica ben enucleata nella leggenda delle tre nozze di Odino16. In entrambi i filoni la cura della casa si esprime nella lavorazione dei tessuti e nella preparazione della tavola. Ma se questa seconda mansione si esaurisce per lo più nell’ambito della gestione domestica, tutto quanto attiene al settore della tessitura assume sui grandi patrimoni signorili del tempo aspetti e dimensioni di carattere decisamente imprenditoriale. In taluni complessi patrimoniali, come quelli prumiacensi e germanopratensi, lo stock complessivo delle rendite in panni sembra essere sufficientemente alto da ritenere plausibile l’ipotesi di uno smercio che andasse al di là degli abituali smistamenti aziendali ed interaziendali, come suggeriscono le recenti, circostanziate indagini condotte sull’argomento dalla Doehared, dal Lebecq e dal Devroey, che individuano nella Frisia uno degli epicentri di questo mercato17. A riguardo, non mi pare senza significato la constatazione che tra i patrimoni dell’abbazia di Fulda siano proprio quelli ubicati in Frisia a corrispondere i maggiori quantitativi di pannilino e pannilana18. Il fatto poi che negli inventari italiani del tempo siano pressoché assenti menzioni di ginecei non deve condurre a conclusioni affrettate su un minore dina Sull’argomento basti il rinvio a E. Cantarella, Tacita Muta. La donna nella città antica, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 51-52, dove si osserva: «Nella città, la paideia femminile è articolata esclusivamente attorno all’apprendimento di attività come il lanificium, e di virtù che sono il naturale completamento di una donna dedita a questa attività: la castità, la riservatezza; la modestia, la frugalità, la pietà. Lanifica casta pia frugi domiseda: così continuano a descriverla le epigrafi di un’età in cui ormai queste virtù, nella maggior parte dei casi, sono solo un ricordo». Analoghi riferimenti nella letteratura agronomica, per cui cfr. in particolare M.P. Catone, De Agri Cultura Liber, CXLIII. 16 P.M. Arcari, Idee e sentimenti politici dell’alto Medioevo, Milano, 1968, Giuffrè, pp. 502-504. 17 R. Doehard, Au temps de Charlemagne et des Normands. Ce qu’on vendait et comment on le vendait dans le Bassin parisien, in «Annnlcs. E.S.C.», 3, 1947, pp. 268-280; Ead., Economia e società dell’alto Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1983 (orig. Paris, 1971), pp. 13 l-139; S. Lebecq, Marchands et navigateurs frison du haut Moyen Age, Lille, 1983; J.P. Devroey, Un monastère dans l’économie d’échange: les services de transport à l’abbaye Saint-Germain-des-Prés au IXe siècle, in «Annales E.S.C.», 3, 1984, pp. 571-589; Id., Réflexions sur l’économie des premiers temps carolingiens(768-877): grands domaines et action politique entre Seine et Rhin, in «Francia», 13, 1985, pp. 475-488; ma la paternità della tesi generale è da assegnare a A. Dopsch, Economia naturale ed economia monetaria, Firenze, Sansoni, 1967 (orig. Vienna, 1930), pp. 121-154. Inspiegabilmente sottovaluta il settore M. Bloch, Signoria francese e maniero inglese. Lezioni sulla proprietà fondiaria in Francia e in Inghilterra, Milano, Feltrinelli, 1980 (orig. Paris 1960), p. 103, dove osserva: «Alcune famiglie di contadini devono al signore dei manufatti: per esempio, le donne con il lino fornito dal padrone tessono delle camicie. Interessanti in sé, per la luce che gettano sulla struttura economica dell’impresa signorile, questi servizi non sono né i più frequentemente annotati né i più importanti». 18 E.F.J. Dronke, Traditiones et Antiquitates Fuldenses, Osnabrück, 1966 (Neudruck der Ausgabe 1844), p. 45. 15
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mismo della Penisola in questo specifico settore; semmai si può sospettare che la trasformazione dei filati qui si svolgesse in parte sui singoli poderi, il che evidenzierebbe ancora una volta come il sistema curtense italiano vede nel massaricio piuttosto che nel dominico il settore trainante della produzione19. Né si deve dimenticare il contributo dato al settore dall’artigianato urbano; altrimenti non si spiegherebbero le frequenti attestazioni di corresponsioni in lino, che – si badi – figurano particolarmente abbondanti relativamente ai patrimoni vescovili, come illustrano esemplarmente i casi di Verona, Ravenna e Lucca20. Per quest’ultima città in particolare, si può ricordare che nel secolo X le passamanerie lucchesi erano assai apprezzare in Germania, come assicura l’autore del Ruodlieb21. Tornando al problema generale, va sottolineato che non si tratta tanto e solo di consistenza quantitativa delle menzioni relative alla corresponsione di fibre tessili, tele e panni, ma della presenza diffusa di una struttura permanente che assicura continuità e funzionalità alla produzione di tessuti: mi riferisco ovviamente al gineceo. L’etimologia proposta da Isidoro di Siviglia e poi ripetuta tralitiziamente nel corso dell’alto Medioevo non ammette dubbi circa il lavoro che vi si praticava: «Gynaeceum graece dictum eo quod ibi conventus feminarum ad opus lanificii exercendum conveniat»22. Come si svolgesse lo descrive in forma più articolata il capitolo XLIII del Capitulare de Villis: ai nostri ginecei – raccomanda Carlo Magno – si provveda ad inviare in tempo utile i materiali necessari, cioè il lino, la lana, il guado, la cocciniglia, la robbia, i pettini, i cardi, il sapone, il grasso e quant’altro può servire23. Il ciclo di lavorazione era completo: le fibre ricavate dalla lana e dal lino venivano lavate, cardate, ammorbidite, filate, ordite, tessute, colorate. B. Andreolli, M. Montanari, L’azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-XI, Bologna, CLUEB, 1983, in particolare a pp. 147-160; P. Toubert, Il sistema curtense: la produzione e lo scambio interno in Italia nei secoli VIII, IX e X, in Storia d’Italia (Einaudi), Annali 6, Economia naturale, economia monetaria, Torino, 1983, pp. 3-63, a pp. 36-37. 20 Per Verona, A. Castagnetti, La pieve rurale nell’Italia padana. Territorio, organizzazione patrimoniale e vicende della pieve veronese di San Pietro di “Tillida” dall’alto Medioevo al secolo XIII, Roma, Herder, 1976, p. 80; per Ravenna, M. Montanari, Il paesaggio rurale della Pentapoli nell’alto Medioevo. Osservazioni suggerite dal “Breviarium” e dalla documentazione coeva, in Ricerche e studi sul “Breviarium Ecclesiae Ravennatis”(Codice Bavaro), Roma, 1985 (Istituto Storico Italiano per il Mediò Evo, Studi Storici, fasc. 148-149), pp. 145-162, a p. 160; per Lucca, C. Sardi, Le contrattazioni agrarie nel Medio Evo studiate nei documenti lucchesi, Lucca, Giusti, 1914, pp. 103-104, da integrare con B. Andreolli, Contratti agrari e patti colonici nella Lucchesia dei secoli VIII e IX, in «Studi Medievali, 3a serie, XIX, l978, 1, pp. 69-158, tavola X. 21 E. Lazzareschi, F. Pardi, Lucca nella storia, nell’arte e nell’industria, Lucca, Unione Fascista degli Industriali della Provincia di Lucca, 1941, p. 152. 22 Isidori Hispalensis Episcopi, Etymologiarum sive originum libri XX, ed. W.M. Lindsay, 2 voll., Oxford, 1911, XV,6,3. 23 Capitularia Regum Francorum, cit., I, pp. 82-91, a p. 87. 19
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Per quanto riguarda i coloranti, si usavano prevalentemente il guado e la robbia, che erano di origine vegetale, e la cocciniglia, che si ricavava invece dalla pestatura dell’omonimo insetto24. La pettinatura veniva praticata, oltre che con il pettine, con il cosiddetto cardo dei lanaioli, un cardo particolarmente robusto e ruvido, il Dipsacus sativus o fullonum, adatto appunto per la cardatura; c’è chi sospetta trattarsi di attrezzi metallici25 ma è noto che l’impiego dei capi essiccati di cardo in questo tipo di operazioni era molto diffuso, tant’è che in seguito furono fatti tentativi di applicarli anche alle macchine26. Che questa della tessitura fosse allora considerata una mansione prevalentemente femminile si desume con chiarezza da vari cesti ed in particolare dalle norme carolinge riguardami il divieto del lavoro manuale nei giorni festivi. Nei Miracula Sancti Bertini, redatti nel secolo X, si parla di un miracolato cresciuto nella casa di un signore «atque in genaecio ipsius nendi, cusandi (scil. consuendi), texendi omnique artificio muliebris operis edoctus»27. In una divisione di 95 servi fatta nel 761 tra il vescovo di Lucca Peredeo e suo nipote Sunderado, l’unica serva di cui si specifichi la mansione è Alipergula «cornisiana», termine che significa con tutta probabilità “addetta all’opificio”; i servi maschi, dal canto loro, figurano tutti investiti di qualifiche professionali relative ad altri ambiti produttivi: due porcari, un vaccaro, un capraro, un calzolaio, un fornaio, un guardarobiere, uno stalliere, un cuoco28. Nel Capitulare Aquisgranense, ascritto agli anni 801-813, si insiste affinché «femine nostre, quae ad opus nostrum sunt servientes, habeant ex partibus nostris lanam et linum, et faciant sarciles et camisiles, et perveniant ad cameram nostram per rationem per vilicis aut a missis eius a se transmissis»29. Nei Capitula Ecclesiastica, emanati probabilmente tra l’810 e l’813, si stabilisce che i sacerdoti «per parrochias suas feminis praedicent, ut linteamina altaribus praeparent»30. Sui coloranti menzionati dal celebre capitolare, preziose considerazioni in B. Fois Ennas, Il Capitulare de villis, Milano, Giuffrè, 1981, pp. 143-146; ora da integrare con R. Delort, Fibres textiles et plantes tinctoriales, in L’ambiente vegetale nell’alto Medioevo (Atti della XXXVII Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo), Spoleto, 1990, II, pp. 821-861; sulla loro utilizzazione ben oltre il Medioevo cfr. G. Gorini, Manuale del tintore e cavamacchie, Milano, Barbini, 1875, a pp. 40-63. 25 R. Delort, Fibres textiles et plantes tinctoriales, cit., p. 822. 26 S. Battaglia, Dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1962, p. 756. 27 Acta Sanctorum Ordinis S. Benedicti, III/1, p. 131. 28 L. Schiaparelli, Codice Diplomatico Longobardo, Roma, 1933, n. 154, pp. 73-76. Che il termine: “cornisiana” possa indicare, come suggerisce in nota lo stesso Schiapparelli, la provenienza dalla Val di Cornia mi sembra un’ipotesi non condivisibile, in quanto nel documento tutte le indicazioni di provenienza sono date per esteso e non in forma aggettivale. 29 Capitularia Regum Francorum, cit., I, 81, 7, p. 172; traggo la segnalazione da E. Lesne, Histoire de la propriété ecclésiastique, III, Lille (Mémoires et travaux publiés par des professeurs des Facultés Catholiques de Lille), 1936, p. 241. 30 Capitularia Regum Francorum, cit., I, p. 81, p. 178. 24
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Nella Admonitio Generalis del 789, Carlo Magno, integrando i provvedimenti già presi dal Concilium Vernense del 755, insiste che le donne «opera textilia non faciant nec capulent vestitos nec consuent vel acupictile faciant; nec lanam carpere nec linum battere nec in publico vestimenta lavare nec berbices tundere habeant licitum, ut omnimodis honor et requies diei dominicae servetur»31 Questo provvedimento, ripreso poi testualmente nel concilio di Magonza dell’85232, nella sua articolata precisione, non informa soltanto sulla caratterizzazione tutta femminile dei lavori di tessitura, ma anche sul fatto che alla donna competeva spesso la responsabilità dell’intero ciclo produttivo e non solo della sua parte finale. Le operazioni di vera e propria sartoria, ivi compreso il ricamo, erano precedute dunque da tutti i passaggi necessari alla preparazione e alla trasformazione delle materie prime33. Nel caso specifico viene prevista la tosatura delle pecore, ma altri dati aprono ulteriormente il ventaglio delle mansioni femminili a riguardo. In un punto del già citato inventario di Prüm si precisa: «Ille femine que camsilis faciunt, colligunt linum et trahunt de aqua et parant»34; e poco più avanti: «Ille femine que camsiles faciunt tondant verveces et lavant»35; ancora più avanti i due tipi di operazione tornano ad essere menzionati cumulativamente: «Linum debet colligere et componere, verveces lavare et tondere»36. Un tipo di prodotto finito che usciva dagli ateliers signorili e dalle case coloniche era composto soprattutto da corredo di base: camice, biancheria, tovaglie e tovaglioli. La materia prima era rappresentata quasi esclusivamente dal lino e dalla lana. Vi è anche qualche rara attestazione relativa alle misure: a Prüm si parla di tovaglie per cui è prescritta la lunghezza di 12 cubiti e la larghezza di 237, mentre nell’inventario germanopratense si fa riferimento a tele da camicie di 8 alne, equivalenti a 9 metri e mezzo circa di superficie38. Per quanto concerne il numero standard delle donne componenti un gineceo sembra lo si possa stabilire attorno alle 20-25. Nel capitolare che fissa i Brevium Exempla ad describendas res ecclesiasticas et fiscales si legge: «Est ibi genitium, in quo sunt femine XXIV; in quo repperimus sarciles V, cum fasciolis IV, et camisiles V»39. Nel polittico di S. Giulia di Brescia, ascrivibile ai primi decenni del secolo X, a proposito della corte di Nuvolera, nel Bresciano, si precisa: «Et in supra nominata curte est genitium in quo sunt feminas Ibid., p. 61; per il Concilium Vernense, p. 36. Ibid., p. 190. 33 A. Guiducci, Medioevo inquieto. Storie di donne dall’VIII al XV secolo, Firenze, Sansoni, 1990, p. 7. 34 Urkundenbuch, cit., p. 150. 35 Ibid., p. 153. 36 Ibid., p. 155. 37 Urkundenbuch, cit., p. 170. 38 B. Guérard, Polyptique de l’Abbé Irminon, cit., II, p. 150, secondo il Guerard, op. cit., I, p. 16 I, l’ulna equivaleva a m 0,4444. 39 Capitularia Regum Francorum, cit., I, p. 252. 31 32
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XX»40. Da qualche scarno riferimento pare di arguire che il gruppo di lavoranti fosse presieduto e diretto da una donna più anziana e presumibilmente più esperta delle altre. In una corte del monastero di Fulda ad esempio viene segnalata «una femina (che) cum puellis debet operari opus lineum fuldensi monasterio»41. Si tratta, a quanto sembra, di numeri piuttosto contenuti, per cui non sorprende se in talune aziende si supplisse tramite l’affidamento di lavoro a gruppi di ancelle esterne al gineceo. È il caso di una corte del monastero di Saint Germain de Prés, quella di Neully-le-Bisson, dove si fa riferimento a 4 ancelle che «pascunt pastas, et faciunt drappos, si lanificium eis datur»42. Ulteriori dati riguardano la corte di Boissy-en-Drouais, dove è segnalato un gruppo di 14 ancelle le quali, «si datur eis linifìcium, faciunt camsilos»43; mentre di un gruppo di 19 lidae si precisa che «omnes iste aut faciunt camsilos de octo alnis, aut solvunt denarios IIIIor»44. Nell’inventario dell’abbazia renana di Prüm, datato 893, non vi è testimonianza esplicita della presenza di ginecei, per cui sembra che la produzione si svolgesse per lo più a domicilio. A proposito dei lavori che competono un titolare di manso servile si precisa: «Femina sua debet suere femoralia»; deve cioè tessere le fasce che si avvolgevano attorno alle cosce soprattutto in occasione di viaggi45. Di altri servi accasati non si omette di ricordare che «mulieres eorum femoralia debent suere»46. Anche sulle terre dell’abbazia belga di Saint-Bertin le mogli dei concessionari erano tenute a tessere camicie per il monastero47, mentre dai massarici dell’abbazia di Fulda provenivano enormi quantitativi di lana, lino e tela trasformati perlopiù in tovaglie, tovaglioli e biancheria48. Ma gli inventari fuldensi suggeriscono un’ulreriore specializzazione dal momento che i camisiles corrisposti dalle mogli di numerosi affittuari del grande monastero tedesco venivano confezionati «ex lino dominico», mentre per gli altri panni veniva usato il lino prodotto o comunque disponibile sul podere49. Non vi è dubbio che nei ginecei la presenza maschile era vista con sospetto: problemi di moralità non disgiunti probabilmente dalle esigenze di buon rendimento imponevano un certo isolamento delle troupes di ancelle addette a questo settore produttivo. 40 Inventari altomedievali di terre coloni e redditi, a cura di A. Castagnetti, M. Luzzati, G. Pasquali, A. Vasina, Roma, 1979 (Fonti per la Storia d’Italia, n. 104), p. 66 (l’inventario giuliano è edito a cura di G. Pasquali). 41 E.F.J. Dronke, Traditiones et Antiquitates Fuldenses, cit., pp. 127-128. 42 B. Guerard, Polyptique de l’Abbé Irminon, cit., II, p. 121. 43 Ibid., p. 150. 44 Ibid. 45 Urkundenbuch, cit., p. 145. 46 Ibid., p. 147. 47 M. Gyseling, A.C.F. Koch, Diplomata Belgica ante annum millesimum scripta, Bruxelles, 1950, pp. 5 7-64; traggo la citazione da R. Doehaerd, Economia e società, cit., p. 135. 48 E.F.J. Dronke, Traditiones et Antiquitates Fuldenses, cit., pp. 45 ss., cap. 7. 49 Ibid., cap. 43, nn. 13, 14, 16, 17, 18, 20, 23, 25, 26, 33, 34, 42 (pp. 117-121).
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Noto e significativo è un passo dell’Historia Langobardomm di Paolo Diacono, dove si riporta l’episodio in cui l’imperatrice Sofia, invidiosa e preoccupata delle gesta militari del generale bizantino Narsete, gli avrebbe mandato a dire che, siccome era un eunuco, gli avrebbe fatto dipanare le matasse di lana insieme alle donne del gineceo. Al che Narsete avrebbe risposto: «le ordirò una tela che l’imperatrice non saprà dipanarla in tutta la sua vita»50. Ma di questa preoccupazione esistono testimonianze più puntuali e meno fantasiose. Nella rubrica 221 dell’Editto di Rotari si stabilisce che «se un servo avrà osato unire a sé in matrimonio una donna o una ragazza libera, sia punito con la morte e i parenti di colei che fu consenziente al servo abbiano il diritto di ucciderla o di venderla come schiava fuori del regno e facciano quello che vogliono dei beni della donna stessa. Se i parenti trascureranno di fare quanto sopra, allora possa il gastaldo regio o lo sculdascio condurla in una corte del re e metterla negli appartamenti delle schiave»51. Per la precisione la norma rotariana non parla di gineceo, ma di pisele, termine che però, almeno in ambito italiano, sembra sinonimo dell’altro, come suggerirebbe un documento veronese dell’813, in cui si riferisce «de vestimentis quae de Pisile veniunt vel Ginicyo»52. In ogni caso il provvedimento rotariano dovette avere qualche effetto non desiderato, se Lotario decise di emendarlo, stabilendo che, se una donna, mutato il vestito, fosse stata scoperta a fare la prostituta, non venisse condotta nel gineceo, come era accaduto in passato, onde impedire che potesse continuare a farlo con più facilità di prima53. Le occasioni infatti non dovevano mancare, dal momento che già la legge degli Alamanni aveva contemplato il caso di violenza carnale nei confronti di una schiava addetta al gineceo54. Carlo Magno dal canto suo nel Capitulare de Villis insiste che i ginecei regi siano ben protetti da siepi ed abbiano porte solide55. Ma gli sbarramenti invocati dal palazzo imperiale non impedirono che sui genitia si sviluppasse una letteratura che tendeva a farne dei luoghi moralmente pericolosi, in qualche caso ad identificarli senz’altro con i postriboli. Se nell’XI secolo Reginone di Prüm in un passo del De Ecclesiasticis Disciplinis segnala semplicemente il caso di colui che «in sua domo consentit cum propris ancillis vel geneciariis suts adulterium perpetrare»56, tra XII e XIII secolo lessicografi insigni come Uguccione Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II, 5. Cito con qualche modifica da G. Barni, I Longobardi in Italia, Novara, De Agostini, 1987 (orig. Paris, 1974), p. 421. 52 F. Ughelli, Italia Sacra, V, Venetiis, apud Sebastianum Coleti, MDCCXX, coll. 707-708. 53 Leges Langobardorum, ed. G.H. Pertz, M.G.H., Legum Tomus IIII, Hannoverae, 1868, Liber Pnpiensis, cap. 91 (88), p. 556. 54 Leges Alamannorum, ed. K. Lehmann, M.G.H., Leges Nationum Germanicarum, V/1, Hannover, 1888, 80, pp. 139-140. 55 Capitularia Regum Francorum, cit., p. 87 (cap. 49): «Ut genitia nostra bene sint ordinatam … et sepes bonas in circuitu habeant et portas formas qualiter opera nostra bene peragere valeant». 56 Reginonis Prumiensis Abbatis, De Ecclesiasticis Disciplinis et Religione Christiana Libri Duo, P.L. 132: II, V, 37 (col. 283). 50 51
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da Pisa e Giovanni Balbi da Genova sono più radicali nel definire il gineceo «lupanar vel textrinum, quod ibi conventus feminarum ad meretricandum vel opus lanifici exercendum conveniant»57. Ma quest’ultima testimonianza rappresenta senz’altro una estremizzazione del problema in un tempo in cui la funzione del gineceo era entrata ormai in crisi soppiantata da altre forme di organizzazione del lavoro tessile58. Quel che conta osservare, come conclusione generale di questa ricerca, è come anche nell’alto Medioevo, in un periodo cioè nel quale per ragioni economico-sociali di carattere più generale ci sarebbe stato da aspettarsi (e di fatto si ebbe) un maggiore mescolamento dei ruoli, la documentazione nel suo complesso riafferma il modello culturale e operativo della donna amministratrice della casa, insistendo soprattutto sulle sue capacità o predisposizioni nella confezione dei tessuti e nella preparazione dei cibi. Con buona pace di F. Nietzsche, che, nel sostenere ad oltranza il carattere pienamente irrazionale della natura femminile, ne deduceva che «la donna non capisce che cosa significhino i cibi: e vuole essere cuoca! Se la donna fosse un essere pensante, avrebbe dovuto compiere, in quanto cuoca, da millenni, le massime scoperte fisiologiche, come pure avrebbe dovuto far sua l’arte medica! A causa delle cattive cuoche – a causa della totale mancanza di raziocinio nella cucina, l’evoluzione dell’uomo è stata rallentata per moltissimo tempo e seriamente compromessa»59. Al radicalismo di una considerazione storicamente così infondata ci sembra opportuno contrapporre il buon senso di un detto medievale: «Sunt tria damna domus: imber, mala femina, fumus»60.
Joannes Balbus, Catholicon, Mainz, 1460 (rist. anast. Gregg International Publishers Limited, 1971); sul Balbi, che in questo caso segue Uguccione, cfr. A. Pratesi, voce Balbi, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, V, 1963, pp. 369-370; per i dati essenziali su Uguccione si vedono almeno C. Leonardi, La vita e le opere di Uguccione da Pisa decretista, in «Studia Gratiana», IV, 1956-57, e G. Cremascoli, Uguccione da Pisa: saggio bibliografico, in «Aevum», XLII, 1968. 58 Sul progressivo calo di importanza della donna nell’ambito dell’industrio tessile, esclusa ovviamente la produzione: domestica, cfr. E. Sullerot, La donna e il lavoro, Milano, Bompiani, 1969, pp. 58-74; ulteriori dati fornisce K. Kasey, Donne, lavoro e potere, in M. Pereira (a cura di), Né Eva né Maria. Condizione femminile e immagine della donna nel Medioevo, Bologna, Zanichelli, 1981, pp. 46-55; ma la constatazione, in forma piuttosto semplificata, è presente anche in testi non specialistici e datati come G.M. Beliat, Tessitura, Milano, Vallardi, s.a., p. 3, dove si osserva: «La tessitura esercitata in sulle prime dalle donne passò agli uomini allorché crebbe la popolazione e si fondarono le città». 59 La citazione è tratta da F.W Nietzsche, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, introduzione di F. Masini, traduzione di S. Bortoli Cappelletto, Roma, Newton, 1988, p. 161 (parte settima, 234). 60 Cito da W. Rösener, I contadini nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1989 (orig. München, 1985), p. 105, il quale a sua volta rinvia a M. Heyne, Fünf Bücher deutscher Hausaltertümer von den ältesten geschichtlichen Zeiten bis zum 16. Jh., 3 voll., 1899. 1901, 1903, I, p. 121. 57
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È pigra consuetudine, anche da parte di taluni storici di professione, considerare quelli anteriore al Mille come secoli di stagnazione, di autoreferenzialità, di immobilismo perfino fisico degli uomini: segnatamente quelli appartenenti ai ceti cosiddetti subalterni, contadini liberi o servi, affittuari dipendenti o piccoli proprietari essi fossero. Al contrario, come numerosi studiosi hanno potuto dimostrare1 ed io stesso ho inteso sottolineare rispetto a un campione sufficientemente documentato2, era la stessa struttura dei rapporti di produzione signorile, allora fortemente, benché non esclusivamente segnata dal dirigismo delle aziende curtensi, a costringere gli uomini che ad essa facevano riferimento a continui e periodici spostamenti tramite l’onere delle corresponsioni d’opera sul dominico, i lavori di trasporto di canoni e derrate, la consegna in città delle cosiddette onoranze. 1 Tra le più recenti “riabilitazioni” si raccomanda N. Mancassola, L’azienda curtense tra Langobardia e Romania. Rapporti di lavoro e patti colonici dall’età carolingia al Mille, Bologna 2008; da integrare con Id., L’azienda curtense, in Il Medioevo di Vito Fumagalli, a cura di B. Andreolli, P. Galetti, T. Lazzari e M. Montanari, Spoleto 2010, pp. 67-99. Ulteriore conferma per una zona chiave dell’Impero carolingio e postcarolingio fornisce J.-P. Devroey, Une société en expansion? Entre Seine et Rhin à la lumière des polyptyques carolingiens (780-920), in Movimientos migratorios, asentamientos y expansión (siglos VIIIXI). En el centenario del Profesor José Marìa Lacarra (1907-2007), Pamplona 2008, pp. 231-261. Ottima rassegna storiografica in S. Carocci, Signoria rurale e mutazione feudale. Una discussione, in «Storica», III, 8, 1997, pp. 49-91. 2 B. Andreolli, Contadini pendolari nella Lucchesia e nella Garfagnana dell’alto Medioevo, in Viabilità, traffici, commercio, mercati e fiere in Garfagnana dall’Antichità all’Unità d’Italia, Modena 2006, pp. 5-11. Ulteriori prospettive in J.-P. Devroy, M. Montanari, Città, campagna, sistema curtense (secoli IX-X), in Città e campagna nei secoli altomedievali, 2 voll., Spoleto 2009 (Atti delle Settimane, LVI), II, pp. 777-813.
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Mi si presenta qui l’occasione di illustrare ulteriormente la validità di questa lettura in controtendenza dell’economia e della società altomedievale tramite l’analisi di un documento redatto nel monastero di S. Silvestro di Nonantola il 10 novembre 8963. In realtà nella trascrizione fattane da Girolamo Tiraboschi, a tutt’oggi il più autorevole studioso del potente cenobio modenese, la data di redazione veniva assegnata al 10 novembre 8954, ma nella recente edizione paleografica delle Chartae Latinae Antiquiores, sulla base di una più attenta lettura della clausola, si è opportunamente optato per l’anno successivo5. Va precisato altresì che il documento in questione è senza dubbio un originale: il che non significa necessariamente che il dispositivo dell’atto si sia veramente attualizzato in toto o solo in parte, ma conferma ad ogni buon conto che operazioni del genere facevano parte delle aspettative almeno dei grandi enti monastici dell’epoca e venivano pertanto avvertite come realizzabile o da realizzarsi. In esso l’abate Leopardo ricorda che in passato un certo Poto, di buona memoria, aveva eretto nella città di Firenze, su terre di sua proprietà, una «aula horatorio» in onore del beato arcangelo Michele successivamente affidato mediante testamento ad una badessa e a delle monache, stabilendo contestualmente nel medesimo atto che il bene passasse in proprietà al monastero di Nonantola. In base ai diritti connessi a tale transazione, l’abate conferma la badessa Alda, figlia del fu Marino, nella direzione del cenobio in oggetto, alla guida di un gruppo di sei monache che dovranno gestire al meglio l’immobile, condecorandone l’annessa chiesa «in censum, luminaria et oracione», nonché servirsi di un prete di fiducia per cantare la messa. Con l’obbligo per le monache residenti di volta in volta nel monastero di confezionare ogni anno con la lana inviata da Nonantola, cinque buone camicie («stamineas quinque bone»), che verranno ritirate nel mese di agosto (non si dimentichi che la tosatura delle pecore in queste zone ha inizio per lo più in maggio), e di ospitare dodici serve (ancillas) provenienti dal monastero maggiore «ad opera nostra faciendum de lana & lino quem nos atque successoribus nostris illorum transmiserimus». Con la precisazione che se Nonantola non invierà la lana e il lino prescritti, la badessa provvederà a dare disposizioni circa il loro lavoro. L’atto, redatto nel monastero di Nonantola, figura sottoscritto dall’abate Leopardo, dal vescovo di Firenze Zenobio, dal prete Vitale, dall’avvocato Upaldo. Si sottoscrivono anche in qualità di testimoni, nell’ordine: Lanprandus, Petrus notario Ho già richiamato l’attenzione su questo singolare documento in Terre monastiche. Evoluzione della patrimonialità nonantolana tra alto e basso Medioevo, in Il monachesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana (secc. VIII-X), Atti del VII Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Nonantola, 10-13 settembre 2003), a cura di G. Spinelli OSB, Cesena 2006, pp. 737-777, a p. 749. 4 G. Tiraboschi, Storia dell’Augusta Badia di S. Silvestro di Nonantola, 2 tomi, 1784-178 5, II, LIII, pp. 69-71: discussione circa la datazione alla nota 1. 5 Charte Latinae Antiquiores, edd. G. Cavallo, G. Nicolaj, part. LXXXIX, Italy LXI, Nonantola II, a cura di G. Feo, L. Iannacci e M. Modesti, Dietikon-Zürich 2009, n. 30, pp. [134]-[137]. 3
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et scabino, Aimo, il notaio Adelberto. Chiude l’elenco col segno di croce il testimone Mauringo. Pertanto 8 su 9 dei sottoscrittori figurano in grado di scrivere, a testimoniare l’importanza e la delicatezza del documento. Allo scopo stabilito nel dispositivo la fondazione cittadina viene dotata di quattro blocchi patrimoniali, chiamati col nome di cortes, con le relative dipendenze, ubicati nel circostante territorio fiorentino6. La prima figura situata a Pretorio, sulla cui ubicazione il Tiraboschi non prende posizione, ma che si può azzardare essere il Petroio, frazione di Viesca, nel Valdarno Superiore nel punto in cui il torrente Resco confluisce nell’Arno7. La seconda è ubicata a Sofencianum, da identificare forse con Solicciano, in val di Greve, poco distante dall’Arno e dal Greve. La terza è situata nella località di Monteminianu, attendibilmente l’attuale Montemignaio, nei pressi di Battifolle. La quarta dotazione figura ubicata a Ruffignano, nel Valdarno Fiorentino (periferia collinare a nord di Firenze, alle pendici del Monte Morello) dove è presente una chiesa dedicata a san Silvestro, che in documenti di controversia risalenti ai secoli XI-XII risulta ancora attestata come dipendenza dell’abbazia di Nonantola8. Le opzioni topografiche degli insediamenti, come spesso accade in questo tipo di documentazione, non sono certe, ma altamente verosimili. Il fatto che a Ruffignano sia attestata una chiesa dedicata a san Silvestro e che il Petroio sia detto Monacoro (da intendere come un genitivo plurale e quindi da interpretare come Petroio dei monaci)9 rende maggiormente attendibile la relazione di queste due località con il monastero maggiore. Il fatto poi che nei pressi di Montemignaio (toponimo che attendibilmente rinvia alla presenza in loco di mulini e mugnai)10 si trovino località quali Battifolle e Cardeto corrobora il sospetto che in quelle zone fosse largamente diffusa e praticata l’arte della lana, assicurata dalla presenza di corsi d’acqua, di folli e di cardi selvatici, fondamentali per la cardatura della lana. Il follo o il follone infatti era una macchina per eseguire la follatura dei tessuti di lana e mi sento di concordare con chi assicura che il significato prevalente di battifolle inteso come macchina da guerra sia da mettere in relazione con quello Per l’identificazione delle località indicate nel documento ci siamo avvalsi di E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana …, 6 voll., Firenze, 1833, 1835, 1839, 1841, 1843, 1846 (rist. anast. Roma 1969), da integrare con Id., Dizionario corografico della Toscana …, Milano 1855 (rist. anast. Firenze 1977). 7 Sull’importanza del territorio sia dal punto di vista viario, sia sotto il profilo delle risorse economiche, rinvio a S. Tognetti, Da Figline a Firenze. Ascesa economica e politica della famiglia Serristori (secoli XIV-XVI), Firenze 2003. Per il significato dei toponimi ci siamo serviti di S. Pieri, Toponomastica della Valle dell’Arno, Bologna 2008 (rist. anast. dell’edizione di Roma 1919). 8 Tiraboschi, Storia dell’Augusta Badia di S. Silvestro di Nonantola, cit., II, CCLXXX (1147), p. 262; CCCCLXII. I. (1254), pp. 379-380; commento e contestualizzazione ivi, I, pp. 373-374, 378. 9 S. Pieri, Toponomastica, cit., pp. 349-350. 10 Ivi, p. 380. 6
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originario di “gualchiera”11, mentre il cardo dei lanaioli (Dipsacus fullonum) è pianta delle Dipsacacee spontanea o coltivata, i cui capi spinosi, adeguatamente seccati, furono usati a lungo e ben oltre il Medioevo per cardare la lana e pettinare i tessuti12. A prescindere dalla precisa ubicazione delle specifiche pertinenze, il documento sommariamente esaminato mi pare mettere in evidenza almeno tre aspetti di rilievo rispetto alla storia generale dell’alto Medioevo. Innanzitutto si tratta di una testimonianza singolare, che arricchisce il già ricco dossier delle testimonianze scritte che comprovano il carattere interregionale della patrimonialità monastica di questo periodo, che si muove e, quel che conta ancor di più, è in grado di muoversi verso orizzonti sempre più vasti rispetto all’originale nucleo centrale13. In secondo luogo, è da sottolineare il carattere imprenditoriale dell’intraprendenza monastica volta alla promozione di alcuni settori di spicco del suo sistema produttivo e quindi teso alla formazione di solide professionalità in ambiti, come quello della tessitura, che probabilmente necessitavano di adeguati aggiornamenti e che in questo periodo figura assegnato in prevalenza alla manodopera femminile14. Ne deriva il corollario (terzo aspetto) che già nell’alto Medioevo quello fiorentino doveva essere percepito come un territorio tecnologicamente all’avanguardia nella lavorazione della lana15 e quindi da utilizzare come sede privilegiata per innalzare la qualità dei prodotti locali. Dedico volentieri queste brevi note all’amico Andrea Castagnetti, da sempre assiduo e competente frequentatore dell’Archivio Abbaziale di Nonantola16. 11 S. Battaglia, Dizionario della Lingua Italiana, II, Torino 1962, p. 119; G. Devoto, Avviamento all’etimologia italiana, Milano 1979, p. 44; altri riferimenti ed esiti toponomastici vengono segnalati da S. Pieri, Toponomastica, cit., p. 230. 12 S. Battaglia, Dizionario, cit., p. 756. Ulteriori indizi in G. Caneva, Il mondo di Cerere nella loggia di Psiche, Roma 1992 (rist. 1998), pp. 155-156. 13 Per Nonantola in particolare cfr. B. Andreolli, La patrimonialità del monastero di S. Silvestro di Nonantola tra alto e basso Medioevo (con alcuni spunti sulla sua presenza nell’Italia centrale e nelle Marche), in Atti del XXXIX Convegno di Studi Maceratesi (Abbadia di Fiastra, Tolentino, 22-23 novembre 2003), Pollenza 2005 (Studi maceratesi, 39), pp. 407-448. Per l’area padana cfr. V. Carrara, Proprietà e giurisdizioni di S. Silvestro di Nonantola a Nogara (VR), secoli X-XIII, Bologna 1992; Id., Reti monastiche nell’Italia padana. Le chiese di San Silvestro di Nonantola tra Pavia, Piacenza e Cremona, secc. IX-XIII, Modena 1998. Utile anche il catalogo della mostra Nonantola, Europa. Luoghi, chiese, monasteri legati all’Augusta Badia, a cura di A. Desco, Modena 2003. 14 B. Andreolli, Tra podere e gineceo. Il lavoro delle donne nelle grandi aziende agrarie dell’alto Medioevo, in Donne e lavoro nell1talia medievale, a cura di M.G. Muzzarelli, P. Gaietti e B. Andreolli, Torino 1991, pp. 29-40. 15 Cfr. H. Hoshino, L’arte della lana in Firenze nel Basso Medioevo. Il commercio della lana e il mercato dei panni fiorentini nei secoli XIII-XV, Firenze 1980, p. 33: «Le attività per la fabbricazione dei tessuti di lana in Firenze sono sempre esistite in tutta la sua epoca storica». 16 Tra i numerosi risultati di queste frequentazioni, si raccomanda il più recente Il conte Anselmo I: l’invenzione di un conte carolingio, in «Studi Storici Luigi Simeoni», LVI, 2006, pp. 9-60.
Ritratti
LA CONTADINA
La contadina del Medioevo era ben lungi dall’essere esclusivamente una casalinga. Anch’essa, come il marito, passava gran parte della sua giornata a curare l’orto, a coltivare i campi, ad accudire gli animali; in più teneva dietro alle faccende domestiche, tesseva il lino e la canapa. Se moglie di un affittuario, era in genere, in tutto e per tutto, una contitolare del fondo avuto in concessione; se era sposata ad un piccolo proprietario, col matrimonio diveniva legittima proprietaria di una quota consistente, – un quarto nell’Italia centro-settentrionale –, dei beni mobili e immobili del consorte. È vero che col passare del tempo questa consuetudine viene considerata sempre di più come un uso superato, perché intaccava il già magro patrimonio familiare, ma la pratica persisteva e con essa persisteva l’autorità della donna all’interno della famiglia. Maschi e femmine conducevano, perciò, una vita notevolmente integrata, e non era infrequente il caso che le donne si sottoponessero a lavori pesantissimi o che, in caso di assenza o scomparsa del marito, si assumessero la conduzione del fondo di proprietà o avuto in concessione; anche perché la famiglia del tempo, nonostante i legami di parentela fossero allora molto profondi, era generalmente unicellulare e i figli, stante l’alta incidenza della mortalità infantile, non superavano che raramente le 2-3 unità; in età da lavoro, poi, preferivano abbandonare la casa d’origine e farsi una vita propria: quella in cui erano nati era in genere una piccola casa di campagna, nella quale difficilmente potevano convivere più nuclei familiari; siamo ancora ben lontani dalle grandi famiglie allargate che nel tardo medioevo e nell’età moderna si troveranno installate sul podere mezzadrile. Anche la vita della donna, come quella dell’uomo, era allora assai breve. Spesso restava vedova anzitempo e in tal caso, in virtù della legge del tempo, cadeva sotto la protezione giuridica (mundio) dei figli o dei fratelli, ma le restava non di rado l’indipendenza economica assicuratele dalla propria dotazione personale e dall’eredità, nonché l’autorità che le derivava dal diritto di tutela dei figli minori.
MATILDE DI CANOSSA. QUANDO IL POTERE È DONNA
La forza del destino Come accade sovente per gli uomini del Medioevo, anche di Matilde si conosce con precisione la data di morte (1115), non quella della nascita. Poiché, tuttavia, Donizone, il cantore delle gesta canusine, assicura che visse sessantanove anni, la contessa dovette nascere tra il 1045-1046, con maggiore probabilità durante il 1046. Nacque, forse a Mantova, da Bonifacio di Canossa e da Beatrice di Lorena: Canossa era un castello dell’Appennino reggiano; la Lorena, un grande ducato posto ai confini tra la Francia e la Germania. Ai vertici del potere Quando venne alla luce Matilde, la sua famiglia aveva già raggiunto l’apice della potenza; dalle oscure origini lucchesi dell’avo Sigefredo, nel giro di un secolo la stirpe degli Attonidi, così chiamata dal nome del figlio di Sigefredo, Adalberto Atto, il vero fondatore delle fortune della famiglia, aveva raggiunto i vertici del potere politico: da grandi signori fondiari a conti, da conti a marchesi, da marchesi a duchi. Era allora papa Clemente Il, di nobile famiglia sassone, collaboratore fedele dell’imperatore Enrico III, che nel 1040 lo aveva creato vescovo di Bamberga. Nel 1046, dopo la forzata abdicazione di Gregorio VI, fu lo stesso sovrano a caldeggiarne la successione, dando inizio a una intensa collaborazione tesa alla riforma della Chiesa; l’anno dopo, però, il pontefice moriva, mentre era in partenza per Gerusalemme. L’Impero invece era retto da Enrico III, il sovrano che aveva messo sotto il suo pieno controllo la nomina del pontefice e che perseguiva una politica di rigido
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coordinamento della irrequieta feudalità italica, tra cui spiccava per potere e intraprendenza il marchese Bonifacio di Canossa. In questa fase, nonostante la presenza di pontefici autorevoli, la bilancia sembra pendere dalla parte dei sovrani tedeschi, per cui numerosi vescovi e abati, molti dei quali ricoprono importanti cariche pubbliche civili oltre che religiose, sono schierati tra i sostenitori dell’Impero, dando il loro contributo al regno nella lotta per la riforma della Chiesa e per il controllo delle investiture ecclesiastiche. Tale stato di cose non cambia fino al Concilio Lateranense del 1059, nel quale si decise che il papa sarebbe stato eletto non più dal clero e dal popolo di Roma, con l’approvazione dell’imperatore, ma da un collegio di cardinali. Fino a Matilde, la famiglia era stata fedele partigiana dell’imperatore. L’ascesa della stirpe era stata resa possibile proprio dall’appoggio fornito ai sovrani transalpini, che scendevano nella Penisola per essere incoronati re d’Italia, titolo allora imprescindibile per diventare imperatori. Partigiani dell’Impero Sigefredo, ricco e potente signore del contado lucchese, aveva seguito le sorti del re Ugo di Provenza. con l’appoggio del quale aveva cercato fortuna oltreappennino, nel territorio di Parma. Il figlio Adalberto Atto aveva proseguito sulle orme del padre, appoggiando prima il figlio di Ugo, Lotario, poi Ottone di Sassonia, che sarebbe in seguito diventato imperatore. Nel contesto di questa fedeltà si colloca il celebre episodio che vede Adalberto difendere Adelaide, la vedova di Lotario, contro le mire di Berengario, che avrebbe voluto sposarla per ottenere legittimamente il Regno d’Italia. Tale scelta di campo si sarebbe rivelata vincente, perché Adelaide divenne poi sposa di Ottone; conte senza ulteriori specificazioni in documenti del 958 e 961, in un diploma imperiale del 962 Adalberto viene definito conte di Reggio e Modena; nel 977 lo è anche di Mantova, mentre la sua influenza si espandeva sul territorio di Brescia. Il figlio Tedaldo non si discostò da questo orientamento, dando il suo appoggio a Enrico II, ma avvicinandosi anche alla Chiesa e al papa: si deve a lui la costruzione del monastero di S. Benedetto Polirone, nell’Oltrepo mantovano, e l’acquisizione della contea di Ferrara. Come sottolinea Donizone: «Dopo la morte di Attone, ne serbò intatto l’onore,/ ampliando i possessi, sempre ricco restando./ Fu caro e molto vicino ai sovrani;/ il papa di Roma, che tanto l’amava,/ gli diede in potere Ferrara». Suo figlio Bonifacio, oltre a rafforzare le basi patrimoniali del suo potere, ampliò ulteriormente i domini della dinastia, perché nel 1027 riuscì a ottenere da Corrado II il Salico la Marca di Toscana, dopo la deposizione del marchese Ranieri. Per tutti questi motivi, il governo dei Canossa e di Matilde è quello di grandi funzionari laici al servizio dell’imperatore, cui Bonifacio e la figlia erano legati perfino da rapporti di parentela: con buona ragione, dunque, Donizone li definisce stirpe dei più grandi del mondo e dedica il suo poema ai principi di Canossa.
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Falchi e colombe In realtà Matilde, sempre in linea materna, era anche nipote del papa Stefano IX, che pontificò dal 1057 al 1058, al secolo Federico dei duchi di Lorena, abate di Montecassino, cardinale, infine pontefice espresso dall’ala dura della riforma, che ebbe tra i suoi collaboratori Pier Damiani, Anselmo da Baggio e lo stesso Ildebrando di Soana. Motivi di attrito con l’imperatore dovettero insorgere già con Bonifacio, la cui potenza aveva cominciato a preoccupare seriamente Corrado Il, al quale il feudatario aveva perfino osato ribellarsi nel 1047, appoggiando il papa Benedetto IX, deposto dal sovrano che aveva fatto eleggere Damaso Il. Non è senza ragione, quindi, se da parte di qualche studioso si è attribuita all’imperatore una qualche responsabilità nella morte dello scomodo feudatario, perito il 6 maggio 1052 durante una battuta di caccia a San Martino all’Argine, vicino a Mantova. Le tensioni dovettero continuare anche con Beatrice, madre di Matilde, sposa in seconde nozze di Goffredo il Barbuto, cui l’imperatore Enrico III sottrasse il ducato, riconsegnato alla dinastia da Enrico IV. Ma l’alleanza piena con il Papato maturò sulla base di motivazioni che andavano al di là delle ragioni meramente parentali. Legata agli ambienti più intransigenti dell’ala riformatrice, nella quale militavano i monaci cluniacensi, quali Ildebrando di Soana, futuro Gregorio VII, e Oddone di Lagery, futuro Urbano II, con l’appoggio dei vescovi più radicali (i “falchi”), tra i quali Anselmo, vescovo da Lucca, e il vallombrosano Bernardo degli Uberti, vescovo di Parma, Matilde tentò, tuttavia, finché lo poté, di conciliare i contrasti, come illustra esemplarmente il caso di Canossa. Acclamato papa nel 1073, secondo una procedura in contrasto con il Concilio Lateranense del 1059, Gregorio VII portò alle estreme conseguenze il programma riformatore, sostenendo con forza che la sua giurisdizione non si limitava all’ambito ecclesiastico, ma era estesa anche a quello temporale, per cui egli aveva la facoltà di deporre non solo i vescovi, ma perfino l’imperatore. La reazione di Enrico IV fu immediata: un sinodo di vescovi tedeschi convocati a Worms dichiarò deposto Gregorio, il quale, a sua volta, scomunicò e depose il rivale, sciogliendo i sudditi dal vincolo di obbedienza. L’incontro di Canossa A questo punto, Matilde dovette rendersi conto che, per sanare il contrasto, occorreva la mediazione di un interlocutore: si sobbarcò quindi ella stessa questo delicato compito, favorendo l’incontro delle due massime autorità nella rocca di Canossa, nel gennaio del 1077. Al di là dell’umiliazione, enfatizzata dalle fonti filopapali al punto tale che “venire a Canossa” divenne espressione idiomatica di soggezione del potere laico a quello religioso, al di là della drammatizzazione imposta dall’importanza
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dell’episodio, in realtà l’incontro nella rocca matildica delle due massime autorità, rendendo possibile il perdono del pontefice, rilanciò i margini di manovra del sovrano, che nel 1080, nel concilio di Bressanone, fece deporre Gregorio ed eleggere lo scomunicato arcivescovo di Ravenna Guiberto col nome di Clemente III. Di lì a poco Enrico fu in grado di tornare in Italia, mettere a ferro e fuoco la Pianura Padana, occupare Mantova, mettere in scacco la cugina, costringendola a rifugiarsi sugli Appennini. Né la lotta terminò con la morte di Enrico IV (1106), perché il figlio Enrico V proseguì sulle orme del padre, costringendo Matilde agli accordi di Bianello (1111), anche perché il nuovo papa Pasquale II aveva intrapreso una politica di mediazione, che porterà al Concordato di Worms (1122). Alla fine avrebbero prevalso le tesi delle colombe, quelle più accomodanti dell’episcopato rispetto a quelle più intransigenti del monachesimo cluniacense. Ma nel 1122 Matilde era già morta da tempo e il suo corpo riposava nella chiesa del monastero prediletto, S. Benedetto Polirone, tra le nebbie, i boschi e le paludi, dove aveva scelto di vivere gli ultimi anni della sua vita. Longobardi di origine L’onomastica è la scienza che studia i nomi e i cognomi di persona, non solo per spiegarne il significato, ma anche per conoscere i sistemi, le tradizioni, le mode che li hanno determinati. I nomi dei Canossa sono quasi tutti di origine germanica, essendo questa famiglia di ascendenza longobarda, e il loro significato appartiene alla sfera della nobiltà, del coraggio, del valore militare. Sigefredo si collega al più noto Sigfrido, composto dalle due parole tedesche: Sieg, vittoria, e Fried, pace. Adalberto deriva dalle parole Adel, nobiltà, e Berth, illustre. Tedaldo, con tutta probabilità è composto dalle parole Theuda, che vuol dire popolo, e Wald, che significa forte, potente. Bonifacio è invece nome latino, di tipo augurale, come a dire “che faccia il bene”; in analogia con Bonfiglio (“che sia un buon figlio”) o Bonfante (“che sia un buon ragazzo”): augurio che il marchese seppe interpretare alla lettera, dato che fece assai bene anche il male. Matilde è invece nome germanico, che deriva da Machtild, Mechtild (da Macht, forza, e Hild, battaglia). Nella scelta di esso dovette essere decisivo il parere della madre Beatrice, che in questo rinnovava il nome della propria madre, figlia del duca di Svevia Ermanno II, in analogia con quanto aveva fatto per il figlio Federico, cui aveva dato il nome di suo padre, duca dell’Alta Lorena, stirpe di livello regio e quindi preminente nei confronti di Bonifacio. Il nome di Matilde fu popolarissimo nell’Italia del Basso Medioevo, proprio in ricordo della Gran Contessa, al punto che anche il suo titolo finì per essere usato come nome personale, producendo i nomi Contessa, Tessa, e i cognomi Contessa, Contessi, Tessi.
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Contessa per scelta La storia dei Canossa è scandita da una progressiva crescita politica, che viene bene evidenziata dai titoli che, di generazione in generazione, vanno assumendo i membri della famiglia. Sigefredo non ricopre nessuna carica, per cui non viene insignito di alcun titolo: quello di principe preclaro che gli attribuisce Donizione nel suo poema è solo un titolo onorifico dettato da ragioni poetiche piuttosto che da cariche effettivamente esercitate. Il figlio Adalberto, dopo la scalata al potere favorita dalla scelta vincente di campo dalla patte dell’imperatore Ottone I di Sassonia, può invece fregiarsi del titolo di conte, in quanto vero titolare di varie contee. Tedaldo viene insignito di altre contee, per cui tale accumulo gli consente di ottenere il titolo di marchese, funzione che viene esercitata anche dal figlio Bonifacio, il quale, però, dopo l’attribuzione della Marca di Toscana diviene a pieno titolo anche duca, carica rafforzata ulteriormente tramite il matrimonio con Beatrice di Lorena, appartenente a una famiglia di livello ducale. Conti, marchesi, duchi: questa la parabola degli Attonidi tra X e XI secolo. Perché allora, Matilde, figlia di un duca e di una duchessa, anch’ella duchessa in quanto titolare di varie contee e della Marca di Toscana, si ostina a chiamarsi contessa, utilizzando la carica più bassa delle sue funzioni? Non mancano casi in cui si utilizza anche il termine ducatrix (duchessa) o marchionissa (marchesa), ma l’uso del titolo di contessa prevale di gran lunga sugli altri. Penso si possano azzardare due interpretazioni: quando Matilde, dopo la morte del padre (1052), assume il potere assieme alla madre Beatrice ha appena sei anni e probabilmente veniva chiamata contessa per distinguerla dalla madre, consuetudine che poi dovette fissarsi e diventare tanto usuale da essere assunta dalla stessa documentazione ufficiale. A questa ragione anagrafica si può poi aggiungere che tale titolo fu scelto anche come testimonianza di umiltà, cosa che traspare anche dal noto monogramma di Matilde. Nella consapevolezza del proprio potere, già Tedaldo, il nonno, e Bonifacio, il padre, avevano introdotto nella documentazione ufficiale l’uso di sottoscriversi tramite una grafia più grande, l’uso delle maiuscole, un tratto più evidente dei segni e delle lettere (oggi diremmo, in grassetto). Matilde non abbandona questa tradizione, anzi la porta a compimento mediante un monogramma che è al contempo simbolo del suo alto potere e segno della sua umiltà davanti a Dio: Mathildis Dei gratia, si quid est; Matilde se è qualcosa, lo è per grazia di Dio.
Coraggio da vendere Allora si governava a cavallo: lunghe, estenuanti, continue marce quelle della contessa e dei suoi vassalli. Dal Lazio settentrionale ai laghi prealpini, il territorio non solo era vasto, ma eterogeneo, sotto il profilo climatico, economico, sociale, politico, culturale: città, monasteri, castelli, comunità rurali lo punteggiavano, intersecando le più diverse sfere di influenza. I paesaggi cambiavano; con essi, le parlate e le tradizioni.
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Tenere insieme tutto ciò significava essere presenti un po’ dovunque, soprattutto per esercitare la giustizia, per garantirsi l’appoggio politico mediante donazioni, conferme di antichi privilegi, ecc. Muoversi in questo intreccio di forze fra loro contrastanti non era facile: bisognava tenersi buone le città, dove da antica data risiedevano i vescovi, gelosi del proprio prestigio e dei poteri loro assegnati da papi e imperatori; bisognava andare cauti anche con le numerose comunità rurali che presidiavano il territorio, assicurando rendite necessarie e punti di riferimento imprescindibili negli spostamenti della contessa; non mancavano potenti abbazie, come quella di S. Silvestro di Nonantola, detentrici di patrimoni immensi, di antichi privilegi, di indiscusso prestigio. Un territorio difficile E ancora, non era facile controllare le insidie delle strade e delle vie d’acqua in un territorio dominato dall’esuberanza della natura e dai pericoli delle aggressioni. La fondazione dell’abbazia di Frassinoro, nel 1071, da parte della madre Beatrice, si inserisce in questa esigenza di avere in mano settori importanti del sistema viario che dall’Italia padana conduceva verso la Toscana e il cuore della Penisola: in questo caso sul tracciato della via Bibulca che portava ai passi delle Radici e di S. Pellegrino dell’Alpe, dal quale si scendeva nella valle del Serchio e si giungeva a Lucca, indiscussa capitale della Marca di Toscana, all’incrocio della via Francigena con le arterie che conducevano a Pisa, Pistoia e Firenze. Anche l’importante arteria fluviale del Po venne presidiata da una potente flotta creata per arginare il pericolo dei pirati, come ricorda Donizone. Restavano tuttavia molti punti deboli nel governo di un territorio così vasto ed eterogeneo. In primo luogo le città, che da lunga data avevano goduto di larga autonomia rispetto al potere dei funzionari regi. Il prestigio dei vescovi, cui gli imperatori avevano concesso già a partire dall’età carolingia ampi diritti di immunità, limitava fortemente le possibilità di intervento da parte di Matilde, costringendola a una politica fortemente disomogenea: con Modena, ad esempio, i rapporti furono sostanzialmente buoni, mentre con Mantova si rivelarono decisamente più difficili, al punto che questa le si ribellò; analogamente in Toscana, più efficace si presenta la sua presenza a Lucca e a Pisa, mentre Firenze e Arezzo restarono fuori dal suo raggio di azione. Di fronte a tali problemi, le strutture di governo rimanevano profondamente inadeguate. È vero che Matilde disponeva di una potente vassalleria, la quale però poteva rappresentare un pericolo in momenti di particolare difficoltà, come durante la lunga guerra contro Enrico IV, quando non mancarono malumori e defezioni. È vero anche che la contessa disponeva di una cancelleria e di esperti giuristi di chiara fama, e che lei stessa era donna colta e preparata, come assicura Donizone: «È lei a dettare le lettere: ben conosce il linguaggio dei Teutoni/ e sa anche parlare la garrula lingua dei Franchi; amministra i Longobardi, li governa e
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li fa grandi»; tutte competenze che non impedivano tuttavia le insubordinazioni di un territorio fortemente frammentato. Il prezzo del consenso Un bell’esempio di quanta abilità occorresse per muoversi efficacemente nella forbice ineludibile delle esigenze del comando e della ricerca del consenso è dato dall’atteggiamento che la contessa tenne nei confronti della comunità di Massa Finalese, antico villaggio della bassa pianura modenese. Il 1° marzo del 1107, alcuni rappresentanti della comunità, guidati dal vescovo di Modena, Dodone, si presentano a Matilde, che si trovava presso il monastero di S. Benedetto Polirone, per pregarla di essere esonerati dall’onere dell’albergaria, il dovere cioè di fornire, in caso di bisogno, vitto e alloggio al signore e al suo seguito. A motivo della richiesta adducevano il fatto che né essi né i loro genitori avevano mai fatto nulla di simile. La contessa tergiversa, prende tempo, e tira fuori la scusa
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che è venuta nel suo monastero prediletto per passare la Quaresima in raccoglimento ma, in seguito alle immediate rimostranze degli interessati, promette loro di riceverli più avanti. Quando la delegazione si ripresenta, la contessa ha già fatto i suoi calcoli: su due piedi viene stilato e consegnato il documento di esenzione, col quale Matilde rinunciava all’albergaria. Troppo preziosa le doveva essere parsa la collaborazione col vescovo di Modena e con la potente comunità rurale, in un momento in cui Enrico V, da poco subentrato al padre, pareva ben intenzionato a usare le maniere forti per combattere i suoi oppositori in Germania e in Italia. Si tratta solo di un esempio, ma testimonianze del genere si potrebbero ripetere con facilità, a evidenziare come le esigenze della negoziazione fossero all’ordine del giorno: in alcuni momenti di crisi, di guerra, di insicurezza diventavano uno stillicidio. Corridoio d’Italia Non è, questa, della frammentarietà ed eterogeneità, una caratteristica esclusiva dei domini canossani e matildici: si ritrovano problemi analoghi negli altri principati territoriali nati dalla disgregazione dell’Impero carolingio. In Borgogna, posta al crocevia tra diverse sfere d’influenza (Impero, Francia, Regno d’Italia), fece fatica a imporsi una dinastia stabile, soprattutto a causa della divisione tra alta e bassa Borgogna. Analogamente in Lorena, la cui configurazione era stata definita già in età carolingia con l’istituzione della Lotaringia (il regno assegnato a Lotario}, si arrivò ben presto alla divisione in due ducati (Alta e Bassa Lorena), giungendo a una precaria unità soltanto sotto il dominio di Gozelone (10331044): già con suo figlio Goffredo il Barbuto, sposo anche di Beatrice, vedova di Bonifacio di Canossa, si ebbero decurtazioni territoriali e divisioni, fino all’incorporazione nel ducato di Borgogna. Anche la Navarra, dopo gli sforzi unitari perseguiti nell’XI secolo da Sancio III il Grande, dal figlio Ferdinando e dal nipote Garcia IV, subì le frammentazioni imposte dai problemi di successione, per cui l’unità fu sempre difficile da raggiungere. Se queste difficoltà si ebbero in realtà territoriali fortemente caratterizzate sotto il profilo etnico (Burgundi in Borgogna, popolazioni basche nel regno di Andorra) e in posizioni chiave dal punto di vista politico, perché ubicate in zone di confine o di frontiera, non può sorprendere di ritrovarle anche in quest’area dell’Italia padana, corridoio di penetrazione nel cuore della Penisola, terra tradizionalmente legata all’Impero, irta di particolarismi locali, pervicacemente difesi dalle città e dai monasteri. Una realtà nuova Si aggiunga che lo Stato dei Canossa, sotto il profilo istituzionale, rappresentava una realtà nuova, senza precedenti: solo la Marca di Toscana poggiava su una tradizione
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consolidata, mentre a nord il potere della famiglia venne costruito capillarmente sulla base di possessi allodiali e diritti feudali fortemente frammentati. Va anche precisato che questo difficile radicamento funziona, quando funziona, in campagna più che nelle città. Saranno però queste ultime, con il loro prestigio e con il loro dinamismo, a creare le basi dello Stato regionale e le grandi dinastie feudali riusciranno a guidare questa evoluzione solo partendo dalle città, dalle quali prende il via la progressiva riconquista del contado. Il carattere profondamente rurale del potere canossano impedì a questa famiglia di scaltri e intraprendenti parvenus di fare il salto di qualità tramite la creazione di forti legami tra città e campagna: una fragilità di struttura, dunque, cui diede man forte l’infelice destino di un sangue generoso, ma sterile. Tre santi in paradiso La santità si configura come un elemento imprescindibile per comprendere il potere nel Medioevo e oltre. Il bisogno del sacro viene avvertito come naturale in quella società, in cui tutti hanno bisogno di protezione, anche i più potenti; nel contempo, la presenza di santi protettori è funzionale a un potere mobile e frazionato, bisognoso di punti di riferimento ben posizionati sulle strade, nei luoghi di passaggio e di transito, nelle corti, nei monasteri, negli ospizi, in città come in campagna. Anche i Canossa appartengono a questo mondo, in cui la santità è strumento di salvezza e insieme di governo: nei luoghi chiave della loro presenza la santità vi figura fortemente caratterizzata. La rocca di Canossa, da cui ebbe origine la fortuna della famiglia, è protetta da un santo vescovo, Apollonio, come a significare che il castello aveva pari dignità rispetto alle città. E Donizone insiste su questo fatto, sottolineando che Adalberto Atto non solo trasformò la rupe in fortezza munita di mura, ma la volle protetta da una chiesa, cui fu prodigo di donazioni e in cui vennero trasferite le reliquie di un santo vescovo, provenienti da Brescia, dove era vescovo il figlio Gotifredo. Altro santo vescovo, Genesio, viene per così dire sponsorizzato a Brescello, l’antico municipio romano decaduto in età longobarda, ma ancora luogo strategico in un passaggio obbligato sul fiume Po. Da ultimo, Simeone, santo pellegrino, viaggiatore, navigatore, che elegge il monastero di S. Benedetto di Polimne come sosta definitiva delle sue peregrinazioni dalla nativa Armenia a Santiago di Compostella, in Galizia. Questi tre santi esprimono quindi altrettante esigenze fondamentali della parabola politica canossana: Apollonio rappresenta il santo del radicamento locale, nel quale il potere episcopale è garanzia di forte e legittimo potere territoriale che dalla rocca di Canossa si irradia verso le città della Pianura Padana; il culto di san Genesio, anch’egli vescovo, delinea la penetrazione definitiva nella valle del Po, quale arteria irrinunciabile al fine di coordinare il potere della famiglia al di qua e al di là del grande fiume, non lontano dalla città di Mantova, ubicata nel cuore della pianura, luogo militarmente decisivo, quale resterà fino alle guerre risorgimentali; infine, san Simeone, che suggella il collegamento col monachesimo e introduce forse il sospetto di un mutamento di campo: da una
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santità episcopale fortemente funzionale alla tradizionale alleanza e collaborazione con l’imperatore, a una santità monastica che rivelava un più deciso appoggio alla Chiesa: in questo contesto, non è senza significato il fatto che Bonifacio abbia ottenuto con tanta sollecitudine da papa Benedetto VIII la canonizzazione di Simeone, molto da poco nel monastero di S. Benedetto di Polirone.
Un duello nelle terre di Matilde Abbiamo già visto come fosse difficile amministrare un territorio così vasto ed eterogeneo come quello governato dai Canossa: troppe erano le diversità, i particolarismi e gli interessi in gioco, che determinavano non di rado conflitti di ardua risoluzione. È quanto accadde nel 1098, quando ci si trovò a dover risolvere alcuni contrasti insorti per il possesso di una porzione dell’antica curtis di Nasseta, una grande azienda di montagna, ubicata nell’attuale territorio di Cerreto dei Monti. Verso la metà dell’XI secolo essa figura contesa al monastero di S. Prospero di Reggio dal marchese Alberto Azzo d’Este, che lascia cadere le sue pretese solo in seguito all’intervento dell’imperatore Enrico III. Il possesso di questo importante blocco patrimoniale continuò tuttavia a restare cosa tutt’altro che pacifica, finché nel 1098 si venne allo scontro più drammatico. L’abate di S. Prospero col suo avvocato si presenta a Ubaldo, giudice di Carpineti, località nell’Appennino reggiano, accusando gli uomini detti “della valle” di avere occupato abusivamente alcune terre di pertinenza della corte. Si svolge un’inchiesta, al termine della quale viene emanato un verdetto favorevole ai monaci. A questo punto i valligiani ricorrono a Matilde, lagnandosi di essere stati ingiustamente spogliati dei loro diritti, e la contessa invia sul posto il giudice di Nonantola, Bono, mettendolo in guardia circa la complessità della questione. Nonostante i documenti impugnati dall’abate, la controversia non trovava soluzione di sorta, per cui si rese necessario procedere al duello. Venuto il giorno stabilito, quando i due campioni erano pronti, i rappresentanti del monastero si dissero disposti a cedere, purché non si arrivasse al combattimento; ma ormai ne andava dell’onore: gli avversari rifiutarono. Anzi, quando i due campioni si trovarono di fronte, quello degli abitanti della valle gettò in faccia al rivale un guanto da donna multicolore, cosa vietata da tutte le leggi. I due vennero alle mani, ma nessuno riusciva a prevalere sull’altro, cosicché un nutrito gruppo di sostenitori dei valligiani pensò bene di fare irruzione sul campo, buttandosi sul campione del monastero e mettendolo ben presto fuori combattimento. Allora i sostenitori del monastero, nonostante fossero in numero assai esiguo, si fecero avanti per ottenere vendetta, ma ne presero di santa ragione, tanto che riuscirono a malapena a uscire vivi dalla zuffa. Ne derivò un tafferuglio indescrivibile: gli uomini della valle sostenevano di aver vinto, gli avversari affermavano di non aver perso, mentre il campione del monastero, tornato improvvisamente in forze, andava in giro dicendo che lui non era stato affatto battuto e che anzi era pronto a proseguire il combattimento. Visto come si mettevano le cose, il giudice, assieme ai suoi colleghi, per togliersi d’imbarazzo optò per un verdetto opportunisticamente salomonico: la tenzone non aveva dato esiti sicuri, per cui la controversia rimaneva nel dubbio, essendo impossibile emettere una sentenza.
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Fine di una dinastia Fino a Bonifacio la famiglia era stata prolifica: i successori non erano mancati, semmai si era posto il problema di come indirizzare le carriere dei vari pretendenti. Cosicché dei figli di Adalberto Atto, Tedaldo, Rodolfo e Gotifredo, il terzo ebbe la cattedra vescovile prima di Brescia, poi forse di Luni. Analogamente dei tre figli di Tedaldo, Bonifacio, Corrado e Tedaldo, quest’ultimo divenne vescovo. La trasmissione del potere si venne a inceppare proprio con Bonifacio: colui che aveva portato la famiglia al massimo della sua potenza, ironia della sorte, ebbe un solo figlio maschio, Federico, che morì in età minore nel 1053, a un anno dalla scomparsa del padre. Estintasi la dinastia in linea maschile, il potere passò in mano alle donne: essendo deceduta in giovane età anche Beatrice, l’altra figlia di Bonifacio, assunsero le redini del comando Beatrice di Lorena e la figlia Matilde. Moglie per forza Ma anche con Matilde le cose non andarono per il verso giusto: entrambi i suoi due matrimoni fallirono miseramente e, con essi, si estinse la dinastia. Il primo matrimonio fu celebrato nel 1069 con il fratellastro Goffredo il Gobbo, figlio di Goffredo il Barbuto, duca di Lorena, e della madre Beatrice. Il secondo, nel 1089, la vide andare in sposa a Guelfo V – figlio del duca di Baviera, Guelfo IV – ragazzo di 17 anni, quando Matilde ne aveva 43. Una politica matrimoniale, dunque, di alto livello, con famiglie di rango ducale e per di più imparentate con la dinastia imperiale. Ma si trattò di unioni infelici e prive di prole, se si esclude, come sembra accertato, una figlia che Matilde ebbe con il Gobbo e che morì in fasce nel 1071. Forse già in quegli anni maturò in lei la volontà di votarsi a Dio, come assicura il vescovo di Lucca Rangerio, nella Vita metrica di Sant’Anselmo: «Non appena conobbe le gioie malvagie della misera carne,/ ne ebbe orrore e subito se ne vergognò./ Non poté conservarsi al primo marito come avrebbe voluto/ e al suo uomo ancora fanciulla si sottomise./ Le parole materne, la potenza di una stirpe importante/ la trattennero dal suo pio volere./ Ma quando il Signore la sciolse dalla madre e dall’uomo,/ dispose ella sola al solo Dio di votarsi». Come a dire che si sposò per assecondare il volere della madre e per amore della sua stirpe, cui avrebbe dovuto dare dei successori, che non vennero o non sopravvissero. Restava l’escamotage dell’adozione, per la quale fu scelto il vassallo prediletto Guido Guerra, ma anche questa soluzione era destinata a fallire. Il giovane figura col titolo di figlio adottivo in un documento del 12 novembre 1099, ma l’operazione non dovette avere il successo desiderato: si sospetta che il ritorno in forza dell’imperatore Enrico V abbia determinato l’annullamento dell’adozione, tant’è che alla morte della contessa il sovrano ne rivendicò i beni, in quanto suo più stretto parente. In questo contesto di fallimento politico, familiare e personale, va in-
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quadrato il ripiegamento spirituale, forse assecondato da una sensibilità religiosa che si era acuita col tempo. Marta e Maria È lo stesso Donizone a riferirci di questo dilemma: «Lasciò dunque la parte del re e, pia, ospitò per tre mesi il papa Gregorio, a cui come Marta servì; sempre attenta, coglieva, con l’udito della sua mente, ogni discorso del papa, al par di Maria le parole di Cristo». Coglieva il poeta, con l’immagine tradizionale, la doppia vocazione di Matilde: vita attiva, Marta; vita contemplativa, Maria. Due vocazioni allora inconciliabili, perché Matilde era stata chiamata a essere donna di potere, destinata al comando, non alla professione religiosa. Il momento era drammatico: Matilde e la madre Beatrice avevano inviato una lettera a Gregorio VII per chiedere di rinunciare a tutto e poter entrare in monastero. La risposta fu dura: era necessario che restassero al proprio posto per difendere la Chiesa oppressa. Come sul piano politico, anche sul piano religioso le scelte di Matilde sono ripiegate sul passato, piuttosto che proiettate verso il futuro; e il passato voleva che ognuno restasse nel posto che gli era stato assegnato; l’appartenenza all’Ordine dei cavalieri, dei sacerdoti o dei contadini non ammetteva deroghe; l’ideologia trifunzionale, nell’esaltare una società che Dio voleva rigidamente tripartita, non prevedeva di norma forme di supplenza. Benché influenzata da movimenti di rinnovamento morale e spirituale come la Pataria milanese, Matilde resta legata a modelli cristallizzati, che non vedevano di buon occhio pericolosi mescolamenti tra stato religioso e condizione laicale. È ancora Gregorio VII ad ammonire severamente l’abate di Cluny per aver accolto la richiesta di monacazione di Ugo duca di Borgogna, privando in questo modo la cristianità di un buon difensore della Chiesa. Non si trattava di casi isolati: le prese di posizione del papa nascevano da una preoccupazione diffusa. Chi deteneva il potere faceva spesso fatica a identificarsi nel ruolo che ricopriva, ma il fenomeno interessò soprattutto il mondo femminile, più esposto di quello maschile all’orrore per la violenza e per la guerra. Una donna in crisi Tutto l’XI e XlI secolo sono punteggiati di donne eccezionali: in vari campi. In politica, oltre a Matilde, si distinguono Alderada e Sichelgaita, mogli di Roberto il Guiscardo, l’irrequieta Eleonora d’Aquitania, moglie del re di Francia Luigi VII e poi di Enrico II Plantageneto, Giuditta di Evreux e Adelaide del Vasto, mogli del conte Ruggero d’Altavilla. In ambito culturale, la poetessa Rosvita, delicata autrice di drammi in versi, ed Eloisa, la colta e infelice compagna di Abelardo. In campo religioso, la più nota è la grande badessa renana Ildegarda di Bingen, mentre in quello medico quasi leggendaria è la figura di Trotula de Ruggero, celebre medichessa della Scuola Salernitana.
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Si tratta di picchi, che testimoniano un’età di crisi, di passaggio, di cui Matilde è una protagonista di prim’ordine. Per lunghi anni era stata al suo posto, combattendo, esercitando la giustizia, promuovendo l’arte e la cultura, costruendo chiese, ospizi, oratori. Nella fase finale della sua vita, ormai stanca e malata, si rifugiò in una modesta casa di campagna, a Bondanazzo di Reggiolo, nella bassa pianura reggiana, dove in preghiera davanti alla cappelletta di S. Giacomo trascorse gli ultimi mesi prima di morire, nella notte del 24 luglio 1115. Così entrò nel mito I grandi personaggi, come è noto, tendono a essere mitizzati. Da che cosa nasce questa esigenza? Vi è innanzitutto un bisogno di comprenderli, per cui attorno a essi si costruiscono subito cliché, luoghi comuni, che li rendono facilmente identificabili. Il personaggio, per essere tale, ha bisogno di contorni precisi, sicuri, condivisi dai più. Tutto ciò porta a collocare sullo sfondo le complessità, le contraddizioni, le molteplici sfaccettature di una vicenda in favore di una immagine agiografica, fortemente sbalzata, che punta a mettere in risalto i segni distintivi di una esistenza irripetibile. È, questa, una tradizione antica, che fonda il genere biografico sulla base degli stereotipi. Autorità indiscussa in questo percorso è il Plutarco delle Vite parallele, come pure lo Svetonio autore delle Vite dei dodici cesari, preso a modello da Eginardo per la sua biografia di Carlomagno. Per i santi si distingue l’antologizzazione predisposta da Jacopo da Varazze nella sua Legenda Aurea, mentre per le donne si impose, anche per la fama del suo autore, il De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio, dove le donne celebri non sono portatrici di valori personali, ma divengono l’immagine esemplare di una virtù (o di un vizio). Tutte opere che diventarono dei best sellers. L’agiografia di Matilde viene fondata naturalmente dal poema del suo grande ammiratore Donizone, ma quasi subito la sua figura trovò l’ambiente adatto per una progressiva mitizzazione. In questo processo, si possono mettere in evidenza tre momenti, tre stratificazioni di maggiore e di più consapevole efficacia. Innanzitutto la fase comunale, quando tra XII-XIII e XIV secolo, la pubblicistica dei Comuni italiani la consacrò come paladina della libertà italiana contro il potere degli imperatori tedeschi. Poco contava riflettere sul fatto che il dominio degli Svevi in Italia era legittimo e che la risposta dei Comuni a esso fu tutt’altro che omogenea, definendo alleanze anti, ma anche filoimperiali; poco contava ricordare la fitta articolazione dei mutevoli coordinamenti guelfi e ghibellini; poco contava riflettere sull’ambiguità della posizione assunta dalla Chiesa, all’interno della quale non pochi vescovi, non poche potenti abbazie videro nel sovrano il tradizionale legittimo interlocutore dei loro poteri locali. A onta di tutto ciò, la rievocazione
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prevalente fu che Matilde aveva combattuto contro Enrico IV per difendere l’Italia, la Chiesa, il Papato dal furore tedesco. A imporsi fu quindi la rievocazione del monaco Donizone, segnatamente nei versi in cui accusa Mantova di avere tradito la propria naturale signora: «Popolata da gente cattolica, eri solita, prima,/ celebrare la Pasqua di Cristo con la splendente Matilde:/ la tua corte era colma di vivande e di doni,/ veramente all’altezza della corte di un re./ Ora celebri la Pasqua con i falsi signori,/ che i Tedeschi ti imposer: gran bevitori, che bruciano per la lussuria;/ non conosci le loro favelle né il perché delle facili risse». Cattolicesimo, spirito patrio, moderazione sono i capisaldi di questa perorazione, che innalza Matilde al rango di presidio contro gli insulti di una cultura altra, di cui non si capiscono né la lingua né gli scomposti comportamenti. Figlia di Pietro Per quanto concerne il concreto e decisivo appoggio dato alle città italiane, vanno segnalati i molteplici riferimenti che troviamo nella relazione stilata agli inizi del XII secolo, all’indomani della riedificazione del duomo di Modena. La contessa non solo si rallegrò della decisione, ma la sostenne in tutti i modi: con doni, con la prestigiosa presenza, con il suo illuminato consiglio; dell’importante iniziativa, insomma, Matilde fu, come diremmo oggi, uno dei maggiori sponsor e certamente il più autorevole testimonial. Analoga dovizia di testimonianze circa l’attaccamento alla Chiesa e alle chiese. Bonizone da Sutri nel Liber ad amicum raccomanda agli aristocratici del tempo di prendere ad esempio la grandissima contessa Matilde, figlia di San Pietro, la quale, virilmente e in dispregio di tutti i beni terreni, è pronta a morire piuttosto che infrangere la legge di Dio. Nel Duecento, il cronista Ricordano Malaspini asserisce che Enrico IV «si tornò di Toscana in Lombardia, e là ebbe gran guerra con la contessa Matelda, la quale era divota di Santa Chiesa, e sconfisselo». Il cronista Giovanni Villani, che non è certo tenero nei confronti di Matilde, afferma: «Attendendo a opere di pietà, molte chiese e monisteri e spedali edificò e dotò, e due volte con grande oste in servigio della Chiesa e in suo soccorso potentemente venne». Dal canto suo, Pietro di Dante, nel commento alla Commedia, precisa che fu donna di grande onestà, cui si deve l’erezione di numerosissime chiese. Anche se si è esagerato ad attribuire la fondazione di chiese direttamente a Matilde, è acclarato che la signora favorì costantemente la diffusione di quei modelli architettonici, di quella koiné culturale, artistica e liturgica che va sotto il nome di romanico padano. La spada e il melograno La seconda fase di promozione matildica la si riscontra dopo il Concilio di Trento, come uno dei tanti tasselli della lotta tra Controriforma cattolica e Riforma protestante.
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È in questo contesto di continua e aggiornata strumentalizzazione matildica in chiave antitedesca che si attua la traslazione del corpo della contessa dal monastero di S. Benedetto di Polirone. Per volontà del pontefice Urbano VIII, e con la complicità dell’abate Ippolito Andreasi, nel 1632 il corpo di Matilde fu trafugato e portato a Roma. La prima sistemazione della salma si ebbe a Castel Sant’Angelo, nella stanza dei Triregno, dove poté vederla e descriverla il Contelorio: «lo veddi il corpo e nella testa vi erano li capelli biondi che tiravano al rosso, li denti grandi et uguali, li piedi anche con la carne». L’8 marzo 1644 fu trasferita in S. Pietro, all’ombra di un fastoso altare eretto per l’occasione da Lorenzo Bernini: nella statua che la ritrae, Matilde reca nella mano destra lo scettro del potere, nella sinistra regge il triregno, a indicare il sostegno recato alla Chiesa, mentre in alto, sopra il capo, il frutto del melograno simboleggia la prosperità derivante da una saggia amministrazione. In questa fase si fa leva sulle sue capacità guerriere, in linea con i tratti delle eroine della Gerusalemme liberata del Tasso, che rievoca la contessa proprio nei suoi tratti militari. Non diversamente, la tela di Orazio Farinati (sec. XVI), la ritrae a cavallo, con nella mano destra il frutto del melograno. Con l’elmo, la spada e lo scudo la fissa il monumento di autore anonimo (fine sec. XVII) collocato sulla sommità del palazzo degli abati, a San Benedetto Po. Appartiene a quel periodo e a quella temperie culturale un libro dal titolo assai significativo: Maraviglie Heroiche del sesso donnesco memorabili nella duchessa Matilda ... narrationi del Marchese Giulio dal Pozzo K., stampato a Verona, Per Gio: Battista Merlo, nell’anno 1678. Si giunge così all’Ottocento e al patriottismo risorgimentale, che rilancia la figura della Gran Contessa quale primo e fulgido esempio delle guerre contro l’usurpatore straniero. La signora del buon governo Ma ora il quadro interpretativo si fa più complesso. Da un lato, il neoguelfismo tende a esaltare il ruolo svolto da Matilde a sostegno del primato papale, cui spetterebbe il compito di guida nella liberazione e unificazione dell’Italia; dall’altro, i neoghibellini si trovano costretti a ridimensionare il rilievo “patriottico” dell’alleata dei papi, per cui preferiscono insistere sui suoi drammi più intimi. Così il benedettino cassinese L. Tosti, sostenitore del neoguelfismo teorizzato da Vincenzo Gioberti, nel 1859 scrive La contessa Matilde e i romani pontefici, evidente sottolineatura di una scelta di campo in favore del primato di Pietro; sull’altro versante si colloca il poemetto La contessa Matilde di Niccolò Tommaseo, dove si insiste sul dramma della donna, cui vennero negate le gioie del matrimonio d’amore. Lontana ormai dalle strumentalizzazioni eroiche dei Comuni medievali, della Controriforma e dei patriottismi ottocenteschi, la figura di Matilde cala oggi nel mercato folclorico dei campanilismi locali: ella che tutto fu, meno che campanilista;
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consapevole del suo ruolo di grande funzionario del Regno, tramite autorevole del grande conflitto, ancora insanabile, tra regno e sacerdozio, tra le ragioni della politica e quelle della religione. In questo ritorno alle suggestioni della storia si distinguono il Premio Matilde di Canossa, voluto dall’amministrazione Provinciale di Reggio Emilia, e il Corteo Storico promosso dal Comune di Quattro Castella. La bionda guerriera longobardo-lorenese è divenuta così l’emblema della promozione femminile e il simbolo del buon governo, lei che aveva ereditato uno Stato, difficile e frammentario fin che si voglia, ma a tutti gli effetti un vero Stato interregionale nel cuore dell’Italia. Accanto alla banalizzazione dei premi e dei cortei storici, si fa strada il ricordo forte di una vicenda che aveva fatto di Canossa la seconda Roma, come azzardava Donizone, e delle terre canossane uno dei punti chiave dell’Europa, in un momento in cui si profilavano mutamenti gravidi di conseguenze, che Matilde aveva solo in parte avvertito, ma alle quali aveva pur dato il suo generoso contributo.
CATERINA PICO
Primogenita di Giovan Francesco I Pico e Giulia Boiardo, nacque nel 1454. Nulla si sa della sua infanzia e della sua formazione. Nell’anno 1473 andò in moglie a Leonello Pio di Carpi, recando in dote la somma ragguardevole di 4000 ducati. Rimase vedova nel 1477 con i figli ancora in tenera età: Alberto (futuro signore di Carpi [Alberto III], e celebre umanista) e Lionello II, poi andato in sposo alla nobile bresciana Maria Martinengo. In questi difficili frangenti fu aiutata da Mario Correggi, funzionario di solida esperienza politica e amministrativa, già podestà di Mirandola (1463), Concordia (1468) e Carpi (1476) e in seguito (anni 1490-97) segnalato tra i collaboratori di Alberto III. Successivamente Caterina affidò la tutela dei propri figli a Francesco Artioli, con l’incarico di difendere le ragioni della sua famiglia contro le ingerenze di Marco, cugino del marito, che alla morte di Leonello era rimasto unico signore del feudo di Carpi, con l’intenzione di affidare al figlio Giberto la successione al dominio su Carpi. Nel 1484 sposò in seconde nozze Rodolfo Gonzaga, signore di Luzzara, figlio del marchese di Mantova Ludovico II, e di Barbara di Brandeburgo: un matrimonio che lasciò un segno importante nella storia della cittadina in provincia di Reggio Emilia. «Il Palazzo della Macina, la dimora principesca edificata da Rodolfo Gonzaga su progetto di Luca Fancelli, si fregia ancora dei capitelli con gli stemmi accostati dei Pico e dei Gonzaga di Luzzara, a testimonianza di quella prestigiosa unione maritale» (Martinelli Braglia, 2000, p. 133); il teatro gonzaghesco di Luzzara fu costruito nel 1488 anch’esso su disegno di Luca Fancelli, commissionato in occasione delle nozze di Rodolfo Gonzaga con Caterina. Costei fu anche benefattrice del locale convento degli agostiniani e della chiesa dell’Annunziata, entrambi riedificati verso la fine del XV secolo. Rodolfo Gonzaga morì il 6 luglio 1495 nella battaglia di Fornovo, lasciando Caterina nuovamente vedova, questa volta con sei figli: Giovan Francesco, che alla morte della madre ottenne il feudo di Luzzara e fu capostipite dell’omonimo ramo
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Gonzaga; Luigi Alessandro, che divenne principe di Castelgoffredo, Castiglione e Solferino. Dal matrimonio con Rodolfo Gonzaga nacquero anche quattro femmine, Paola, Lucrezia, Barbara e Giulia, la prima delle quali andò sposa a Giovan Niccolò Trivulzio, figlio di Gian Giacomo: matrimonio che rafforzò ulteriormente i legami dei Pico con la potente casata lombarda e con la Francia. Tratto significativo della figura di Caterina è la sua notevole preparazione culturale, come si evince dal corredo nuziale del primo matrimonio e da altri documenti, nei quali oltre a gioielli, tappeti, biancheria, vestiti, suppellettile, argenterie, avori di grande valore sono segnalati codici miniati e testi di autori classici, tra cui le opere di Virgilio e le epistole di Cicerone. Da segnalare anche la circostanza che nel 1477 Lionello nel suo testamento avesse destinato la somma ragguardevole di 400 ducati d’oro per la costituzione di una biblioteca pubblica, affidandone il funzionamento al convento di S. Nicolò e assegnandone la realizzazione alla moglie. Dietro consiglio del fratello Giovanni, filosofo, volle Aldo Manuzio come precettore dei figli di primo letto, e fu esaltata, oltre che dal grande stampatore, anche dall’Ariosto, dal Landino e dal Poliziano. Morì il 5 dicembre 1501, avvelenata da una sua damigella di nome Diambra, morbosamente innamorata di lei, perché ne aveva respinto le attenzioni; ma sulle motivazioni del delitto qualche studioso avanza dubbi. L’episodio è riferito anche da Ariosto, che di Caterina tesse le lodi in un lungo epicedio consolatorio dedicato ad Alberto Pio. Fonti e Bibl.: F. Ceretti, Intorno al P. Francesco Ignazio Papotti ed ai suoi Annali della Mirandola, prefazione a P[adre]. F.I. Papotti, Annali o memorie storiche della Mirandola, I (dal 1500 al 1673), Mirandola 1876, pp. V-XXXV; G. Silingardi, C. P. Cenni storici, Modena 1876; F. Ceretti, Dei podestà, dei luogotenenti, degli auditori e dei governatori dell’Antico Ducato della Mirandola. Cataloghi cronologici, Mirandola 1898, pp. 8 s.; A. Morselli, Notizie e documenti sulla vita di Alberto I, in «Memorie storiche e documenti della commissione municipale di storia patria di Carpi», XI, 1, Carpi 1932; Id., C. P. della Mirandola, in «Studi e documenti della R. Deputazione di storia patria per l’Emilia e la Romagna», III (1939), pp. 73-81; Id., Il corredo nuziale di C. P. (1474), in «Atti e memorie della deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi», s. 8, VIII (1956), pp. 3-46; L. Ariosto, Opere, III, a cura di M. Santoro, Torino 1989, pp. 96-105 (per l’epicedio); G. Martinelli Braglia, I Pico e i Gonzaga. Arte e cultura, Mirandola 2000, p. 133; E. Svalduz, Da castello a “città”: Carpi e Alberto Pio: 1472-1530, Roma 2001 (per gli aspetti artistici). Per gli aspetti dinastici: B. Arrighi, Storia di Castiglione delle Stiviere sotto il dominio dei Gonzaga, Mantova 1853; G. Coniglio, I Gonzaga, Varese 1967; A. Garuti, Presenza dei Pio in Carpi. 1327-1525, Carpi 1978; M. Marocchi, I Gonzaga di Castiglione delle Stiviere, vicende pubbliche e private del casato di San Luigi, Verona 1990; L. Ventura, I Gonzaga delle nebbie. Storia di una dinastia cadetta nelle terre tra Oglio e Po, Cinisello Balsamo 2008.
Fra storia e rappresentazione
IL SOGNO DI IPPOLITA
Dramma storico in un atto e quattro scene
Personaggi (I) Ippolita Pico (A) Alfonso Piccolomini, suo sposo (V) Vittoria Piccolomini; loro figlia (N) Nutrice di Ippolita (M) Medico di corte (S) Segretario di corte Comparse Frate con chierichetto Arciprete del Duomo con chierichetto Reverenda Madre Superiora con ragazzina al seguito
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I scena: Ippolita (Sulla scena, al buio, il catafalco funebre di Ippolita. La morta indossa un ampio mantello di broccato nero: al collo una collana di perle. Davanti alla testata, in evidenza, due grandi stemmi: uno dei Pico, l’altro dei Piccolomini. Al buio: in sottofondo il Miserere di Allegri oppure, meglio, la marcia funebre di Henry Purcell) S. Reca l’estremo saluto alla defunta il molto reverendo padre priore del convento di S. Francesco (Entra un frate accompagnato da un chierichetto, accende i quattro candelieri e incensa il feretro. Nella penombra compare il medico di corte, seduto allo scrittoio, con penna e calamaio, scrive e recita a voce alta. Dall’altra parte, è seduta la vecchia nutrice: ascolta, come assorta). M. «Oggi, mercoledì 4 agosto, anno del Signore 1610, è morta nel castello avito dei Pico della Mirandola, la contessa Ippolita, moglie del fu illustrissimo Signor Alfonso Piccolomini, già conte di Montemarciano. Primogenita di Ludovico II Pico e di Renata d’Este, prese l’augusto nome dal nonno, il cardinale Ippolito, del quale la madre era figlia naturale. Vide la luce il 9 agosto 1554 e fu battezzata il 16 luglio dell’anno successivo, avendo come padrino il Duca di Ferrara Ercole, e come Madrina l’illustrissima regina di Francia. Quale onore… N. (rimanendo seduta, come parlasse con se stessa) Quale onore? Che ne sanno medici e notai… Quale onore! Già il nascere femmina era allora, come ora, motivo di imbarazzo, di inquietudine e la madre già il giorno successivo al parto si affrettava a darne notizia ufficiale alla duchessa di Mantova. S. Illustrissima et Eccellentissima mia Signora la Duchessa di Mantova. Se bene pari che non s’usi di dare conto nel primo parto che de’ figliuoli maschi, avendo io non di meno partorito heri alle XXI hore una figliuola femina, della quale Dio Gratia mi sono scaricata in breve, non ho voluto mancare di farlo sapere a Vostra Eccellenza, parendomi per la grande amorevolezza ch’Ella degna tuttavia d’usare a questa casa et per molte servitù et riverenza ch’el conte et io portiamo a lei, che errore sarebbe stato a non dargliene aviso, sapendo che sua mercede havra almeno pieno piacere ch’el parto sia successo con salvezza mia». N. Bell’onore: avete sentito: quasi si vergogna la madre di comunicare all’amica il parto di una femmina piuttosto che di un maschio e né la ragguaglia per dirle che tutto è andato bene, soprattutto, senza suo pericolo.
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Che ne sanno medici e notai? Rogiti e salassi: solo questo san fare. Del resto, di quello che conta: nulla, meno di nulla. A me, la nutrice, che sono vissuta accanto a lei fin da quando era piccola, nulla fu nascosto: quante ne ha passate la poveretta io so meglio del padre e della madre, del marito, dei fratelli e perfino del nonno cardinale, così premuroso, ma così lontano: tutti indaffarati nelle cose che contano veramente. Che cosa le è servito nascere da famiglia principesca, primogenita, l’essere bella, colta; che cosa il sapere di greco e di latino, di belle maniere; l’aver appreso la danza, la musica, il ricamo…? Il destino si è subito accanito su di lei. Ad appena tredici anni, numero infausto il tredici, le moriva la madre di squinanzìa. M. Gran brutta malattia la squinanzìa: l’infiammazione della gola provoca tossi canine violentissime e ripetute, che portano al decesso per soffocamento. N. Il padre si affrettò a rimaritarsi con la contessa Fulvia da Correggio. S. Ottima scelta, ottimo partito. Donna celebrata da poeti e sovrani: il Tasso la teneva per coltissima; degna del titolo di regina la stimava il re di Francia Enrico. Arricchì la città di chiese, strade e palazzi; protesse le arti e la cultura; ricondusse Mirandola alla fedeltà verso l’Impero. Fu anche per suo merito se la Mirandola ottenne dall’imperatore Rodolfo l’ambito titolo di città. N. Ma donna energica, dura: una matrigna insomma per la mia Ippolita, che avrebbe avuto bisogno di una madre attenta e premurosa. Altre sciagure non si fecero attendere: non aveva compiuto i quattordici anni che perdeva anche il padre quarantenne. Le lasciava diecimila scudi d’oro per il matrimonio imminente con Don Marzio Colonna di nobile famiglia romana. Vi sembra che basti ? Per nulla. Quattro anni dopo, altra sciagura: la morte del cardinale Ippolito, nonno materno: premuroso e perennemente lontano. Anche il progettato matrimonio con il Colonna fallì, non so per quale ragione: ho sempre sospettato che a Roma non vedessero di buon occhio l’alleanza di una famiglia curiale e papalina con una corte così piccola e così vicina alla Francia. E poi questi benedetti Pico erano sempre stati dei guastafeste, dei piantagrane: tutti ricordavano che un secolo prima il conte Galeotto era riuscito perfino a farsi scomunicare, per cui la Mirandola aveva dovuto subire l’interdetto papale. Perfino il giovane conte-filosofo Giovanni aveva osato mettersi contro la Chiesa con quelle sue incomprensibili Novecento Tesi che voleva venissero discusse a Roma davanti ai cardinali di Santa Romana Chiesa: pensare che alcune di esse erano state giudicate eretiche, costringendo lo sconsiderato principe alla fuga. Dicono fosse coltissimo, affascinante: quindi invidiato.
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S. Come fu splendido il suo matrimonio. Celebrato a Pesaro il 19 febbraio 1578, ultima domenica di Carnevale, presenti i parenti della sposa, Scipione Piccolomini, zio dello sposo, presente il duca d’Urbino, Francesco Maria della Rovere: lei aveva ventiquattro anni, lui diciotto. Preparato da tempo per mettere radici nelle terre della Chiesa, alleata sempre preziosa nelle crisi dinastiche e nelle guerre. Averla nemica rappresentava un pericoloso rischio, come si era visto nei tremendi assedi di Papa Giulio II e di papa Giulio III. Dopo un lungo periodo di alleanza con la Francia, la famiglia dei Pico, anche per merito della matrigna Fulvia, era tornata alla fedeltà verso l’impero e ossequiosa verso la Chiesa. Il matrimonio di Ippolita era stato progettato per rinsaldare questi legami. Le trattative con i Colonna erano fallite, ma i Piccolomini restavano pur sempre un buon partito. Alfonso era figlio di Giacomo, duca di Montemarciano, potente castello della Marca d’Ancona. La madre Isabella Orsini, figlia di Nicolò, conte di Pitigliano, proveniva da un’altra potente e influente famiglia romana. N. Splendido il matrimonio, sfarzoso… La sposa era raggiante. Anch’io mi commossi fino alle lacrime. Ma restava pur sempre un affare. Ricordo le credenziali del duca Alfonso: non vi si parla altro che di soldi, di soldi e ancora di soldi. S. Io Alfonso Piccolomini, per la presente sottoscritta di mia mano e sigillata col mio solito sigillo, prometto e mi obbligo di accettare la signora Ippolita Pica per mia legittima consorte ogni volta che mi si adempiranno per loro parte le infrascritte condizioni, cioè: Che mi si diano trentanove mila scudi d’oro che li signori Colonnesi sonosi obbligati alla detta signora, de’ quali si dice esser matura la prima paga di scudi duemila cinquecento, et scudi tredicimila che monsignor illustrissimo cardinale d’Este è obbligato pagare alla detta signora. Accetto il debito della signora contessa della Mirandola per la somma di seimila scudi, da pagarmisi in sei anni, cioè mille l’anno et che detta signora contessa sia obbligata di dare sicurtà idonea o in Roma o in Bologna. Accetto le gioie che la signora contessa ha in Roma, impegnate dai signori Colonnesi per la somma di cinquemila scudi con la condizione si habbino a stimare nel tempo di cinque anni et se fossero stimate manco di cinquemila scudi, la detta signora contessa sia obbligata di dare altre gioie o danari fino alla detta somma di cinquemila scudi. Accetto e voglio mi si dieno scudi tremila contanti in Pesaro o in Roma, et prometto di assicurare sopra tutti i miei beni ogni somma et quantità di denaro e gioie che perverranno in mia mano appartenenti alle dette ragioni et dote et che l’instrumento dotale si faccia secondo gli Statuti e consuetudini della città di Siena, ed in caso di restituzione (che Dio ne guardi), voglio potere restituire li medesimi crediti che mi si darano quando da me medesimo fossero stati riscossi, in fede di che ho fatto fare il presente scritto. Io Alfonso Piccolomini mi obbligo a quanto del presente scritto di mia mano propria, questo dì 29 settembre 1577 in Pienza.
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N. In uno strumento dotale di che cosa volete si parli, se non di scudi d’oro, di obbligazioni, di tratte. Neanche un accenno alle onoratissime qualità della mia signora, alla educazione ricevuta dalla sua illustrissima casa, alla sua pietà e alla sua bellezza. S. In un foglio separato che reca la data del 10 febbraio 1578, l’illustrissimo Signor Alfonso prometteva di dare alla signora Ippolita sua sposa per il vestiario e per quello della servitù seicento scudi d’oro l’anno, esclusi i salari della servitù, i quali dovevano far carico al signor Alfonso; tutto ciò a decorrere dal dì che avria sposata Ippolita, la quale non sarà tenuta a rendere conto del modo nel quale erogherà questo assegno. N. In uno strumento dotale di che cosa volete che si parli? Ma anche dopo le nozze le cose non cambiarono. Alfonso, lo sposo, so che faceva pressioni sui Colonna, che chiudessero le pendenze con la moglie, restituendo almeno in parte la dote, con la quale avrebbe potuto comprare dal duca di Urbino alcuni castelli vicini a Montemarciano. E il duca di Urbino, che tanto si era impegnato per la celebrazione di quel matrimonio, aveva i suoi buoni motivi. Era a corto di denaro e sarebbe stato ben lieto di infeudare ad Alfonso quei castelli difficili da difendere contro le pressioni di Roma… (si avvicina al catafalco e accarezza la fronte della defunta). E poi parlano delle gioie del matrimonio, delle nozze d’amore… La tenerezza i nostri mariti non sapevano neanche dove stesse di casa. Anche i migliori ci montavano senza garbo, come fossimo delle giumente: con la furia e la fretta degli animali. Lui, poi, il Piccolomini, col carattere e coi problemi che aveva… sempre sgarbato e di fretta. Per non parlare di quando tornava a casa ubriaco, cosa che col procedere degli anni accadeva sempre più spesso. Con l’occhio torvo e stralunato, la prendeva dove gli capitava, senza ritegno, quel maiale… facendola soffrire, come poi lei mi confidava con imbarazzo tra le lacrime. (Ippolita si alza e scende lentamente dal catafalco: si aggira sul palco, come se non vedesse nessuno)
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II scena: Alfonso (La scena torna a farsi più cupa; dall’esterno rumore di passi concitati: sulla scena irrompe scarmigliato e sanguinante Alfonso, con in mano la spada e con la corda al collo). A. Dove sono spariti i miei castelli, non vedo più le torri e le fortezze, il palazzo e le stanze sonore di bizzarri cavalli. Nebbie e miasmi palustri mi circondano: non respiro più le brezze marine, che vengono su dal mare. Roma, ridammi ciò che mi hai sottratto, ciò che mi spetta. I. Come vi trovo adirato, adorato sposo. Perché tanto affanno, dove correte così lacero? A. Perché mi tediate, sposa ? Non vedete voi stessa? Cerco il mio castello, il mio borgo di Montemarciano, con le sue belle piazze, le chiese, le torri e, intorno, le selve ricche di cervi, caprioli e cinghiali, i sentieri e le strade che portano al mare. Mi hanno tolto tutto, tutto: quei preti maledetti. I. Avete combattuto con coraggio e con onore la vostra guerra, sposo, e avete perduto. Non vi resta che rassegnarvi. A. Rassegnarmi? Non doveva andare così. Sono stato tradito, calunniato, umiliato. I papi e i cardinali, con tutti i loro maledetti figli, con i loro stramaledetti nipoti, e pronipoti pieni di boria e di pretese, mi hanno privato dei miei castelli, delle mie terre, dello stesso mio onore. I. Ho cercato di difendervi, sposo, ho scritto lettere a persone qualificate: al Cardinale d’Este, che mi ha assicurato protezione e per voi la grazia: diceva che era già pronta, d’accordo il cardinale Sforza, che si era impegnato a firmarla. A. Proprio dei cardinali di Santa Romana Chiesa vi siete andata a fidare. Del cardinale Sforza, poi: buona lenza, quello. Ho saputo da fonte sicura che fu proprio lui a consigliare ai Colonna di tergiversare, di rallentare al massimo la restituzione della dote, per mettermi in difficoltà. Non parliamo poi della grazia che vi venne assicurata. Foste raggirata, cara sposa. Non se ne fece nulla, perché non se ne voleva far nulla. E io mi trovai costretto a correre in ogni dove per cercare aiuto. Perfino alla Mirandola mi sono portato – più di una volta – per trovare giovani che mi seguissero e molti di loro, memori dei grandi assedi papali e dell’alterigia di quelle truppe mercenarie, mi hanno seguito: quante volte, la sera, attorno al fuoco, nelle radure dei boschi di Lombardia, nelle paludi di Romagna, sulle colline della Marca, quante volte ho ascoltato i loro racconti e come
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si commuovevano ricordando la strenua resistenza della contessa Francesca Trivulzio, mai doma, neppure di fronte al papa vincitore (pausa). Luccicavano gli occhi / nelle notti di luna (scandire i due settenari). Per dare discredito alla vostra casata, si mise in giro perfino la notizia che al mio seguito militasse un vostro fratello morto in battaglia presso le paludi di Collefiorito. Ma non era vero. I. Vedete, dunque, che molti vi erano amici; capivano le ragioni della vostra causa; ma l’avversario era più forte, troppo forte. A. Proprio per questo vagavo disperato, come un bandito e un fuorilegge: mi dovevo spostare rapidamente, di notte, a piccoli drappelli; mi ero procurato perfino dei sosia, portavo barbe di vari colori, oppure mi coprivo il volto con la pece, che, scampato il pericolo, toglievo con l’aceto e la calce, tanto che mi sono rovinato il viso. Perfino Venezia, così tollerante coi nemici dei nemici, pose su di me il bando; anche la Spagna, che mi proteggeva, mi ha abbandonato. Mi hanno messo contro la mia stessa famiglia, dando l’incarico di catturarmi a un parente del marito della mia amata sorella. Imprigionato dai Medici a Firenze, sono stato messo all’asta come un volgare furfante, io che volevo difendere i miei giusti diritti. I. Ma nel fare questo vi siete circondato di briganti e malfattori; i loro nomi sono tristemente famosi e mettono paura solo a pronunciarli: Marco Sciarra, Francesco da Urbino detto il Salvatico, il Marianaccio, un ex frate di Bolognola, Cristofano il Marchigiano; tutti elementi poco raccomandabili; pendagli da forca, come lo Scapigliato, Castagnaccio da Jesi, Pesce de Smerillo e il Mancino di Toledo. A. Come avrei potuto fare, benedetta la mia sposa? Ero in guerra, non a una festa da ballo, non in un torneo o in una battuta di caccia. Avevo bisogno di denaro, cavalli, soldati, spade, lance, balestre, archibugi, viveri, foraggio, spie: tutte queste cose costano, cara la mia Ippolita; bisognava procurarsele con le buone o con le cattive: e con le cattive si fa prima. I. So per certo, caro sposo, che non avete fatto solo razzia di cavalli, vitelli, maiali, vino, denaro; avete perfino osato prendere d’assalto i pellegrini sulla strada del santuario di Loreto. A. Tutti facevano così allora per non perdere il loro potere; non avevano forse bande di briganti anche i Colonna, gli Orsini, i Carafa, i Savelli? Ci si difendeva tutti, come si poteva, dagli attacchi di Roma e del Papa.
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I. Ma voi vi siete macchiato di atroci nefandezze. Tutta Italia ha parlato dell’eccidio e della strage di Montalboddo. Avete massacrato la famiglia rivale dei Gabuzi e perfino fatto danzare le loro donne, madri e figlie, davanti ai cadaveri dei loro congiunti, sulla piazza del borgo e poi le avete fatte tagliare a pezzi. A. Calunnie infami, infamanti menzogne. Roma, la curia, il papa sono consumati maestri in quest’arte: con la scusa della religione, combattono i nemici con le armi degli altri, loro vi aggiungono le armi del tradimento e della persecuzione. Sono stato accusato di delitti che non ho mai commesso. Per difendere i miei giusti diritti ho fatto l’impossibile: regali, doni, promesse, ho comperato amici e alleati, alla ricerca di appoggi e protettori; ho bussato anche alle porte della vostra famiglia, da Parigi a Mirandola; furibondo contro papa Sisto ho fatto perfino abbattere a pistolettate le mandrie della sorella del papa: quella intrigante, altezzosa Camilla Peretti. Ma quella delle donne dei Gabuzi è una calunnia bella e buona: una infame calunnia. I. Anch’io ho tanto sofferto. Mentre voi eravate lontano, la vostra sposa è caduta nella più completa miseria. Il Papa ci sequestrò Montemarciano; Il Granduca le tenute in Toscana. Con una bambina di dieci anni. Ho dovuto svendere perfino i miei gioielli: altri sono stati impegnati al Monte di Pietà. Perfino la collana d’oro con quattro diamanti, tre rubini e sedici perle, dono della duchessa Gioiosa, perfino lo specchio d’oro donatomi dal duca di Urbino. Pellicce, mantelli, bracciali, tessuti: di tutto ho dovuto fare l’inventario. Onde evitare il peggio, mi si dovette perfino nascondere nel convento delle monache del Paradiso in Siena. S. Il lungo inventario dei beni impegnati concludeva che Ippolita e la figlia mancavano di denaro perfino per il vitto e per le spese ordinarie. A. Alla fine fui catturato a Cesenatico, condotto a Firenze come un brigante: il 16 marzo 1591 mi impiccarono al gancio del palazzo del podestà. Di sabato: affinché tutti potessero vedere… S. Reca l’estremo saluto alla salma il reverendissimo Monsignor Arciprete della perinsigne chiesa collegiata della Mirandola… (Entra l’arciprete con la cotta e il turibolo, accompagnato dal chierichetto con l’incensiera, e incensa la salma) A. Mi impiccarono come un volgare traditore o assassino io nobile soldato e uomo d’onore, io Alfonso Piccolomini di Aragona e Castiglia, patrizio senese e conte palatino, vicario temporale di Montemarciano, signore di Camposervoli, feudatario
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dei castelli di Tomba Ripa e Monterado, discendente di un papa (si ferma e si irrigidisce)… Oddio, sento odore di incenso. Sempre mi perseguitano i preti; sono dappertutto, quelli, anche all’Inferno. Via, via. Ho fretta: devo continuare a cercare i miei castelli, i soldati, i cavalli, le selve. Non l’incenso… voglio respirare l’aria forte del mare, il balsamo delle mie amate foreste. (esce concitato come era entrato)
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III scena: Vittoria I. Sempre in affanno, sposo sventurato. Io avrei desiderato un poco di pace sulle dolci colline marchigiane, in vista del mare fino al golfo di Ancona e in lontananza la sagoma scura del Conero. Lui sempre agitato, incontenibile nelle sue ire e nelle sue tenerezze, nelle sue passioni e nelle sue fragilità. Ne hanno fatto un mostro, un bandito; era invece un ribelle, come la nostra Vittoria. (Entra Vittoria dal fondo a passo di danza, piena di reti e di conchiglie, coi capelli arruffati… mima un motivo di danza… poi si arresta) V. Dove mi trovo? Mi sono persa ancora; mi perdo sempre, come al porto del Mandracchio, dietro i cesti pieni di pesci che mi guardavano dagli occhi di vetro; come era buono l’odore dei granchi, delle vongole e delle cozze; era un gusto toccare le seppie e i calamari, dietro i mucchi di reti, sartie e gomene, a guardare le barche che venivano su dai canali e dal mare. Come era bello tutto quel chiasso, quella confusione. Giocavo coi gatti e coi cani spaventati dalle mie grida, dalle mie corse improvvise. Giocavo coi figli scalzi e muscolosi dei pescatori, di cui invidiavo i trofei: come erano belli i loro cavallucci, i ricci, le sonore conchiglie, dove muggiva il mare. Mi sono persa ancora una volta; mi staranno cercando e poi mi sgrideranno tutte e due: la mamma e la nutrice. I. Ti ho sempre cercata, bimba mia. Tutta tuo padre, che ti ha voluta chiamare col nome vittorioso di Vittoria. N. Ma avrebbe desiderato un maschio, il Piccolomini; e come poteva essere diversamente? Non dimentico, come potrei? la lettera che fu inviata al Cardinale d’Este, poco dopo la nascita della bimba: S. «Il 28 settembre mia moglie partorì una putta dal qual parto, grazia di Dio, ne uscì libera assieme con la creatura, la quale si bene è piaciuto a sua divina Maestà darmela femina, l’ho nondimeno veduta volontieri come cosa datami da chi dispone sempre ogni cosa per il meglio». N. La creatura, sempre curiosa, ci scappava quasi ogni giorno. Al Mandracchio poi era un problema: in mezzo a tutto quel trambusto; quanti pericoli: le corde, gli arpioni, il grasso, i chiodi… e tutta quell’acqua: verde, scura, limacciosa. V. Mi sono persa ancora. Come sulla marina, dietro alle pecore e agli agnelli che pascolavano sui prati erbosi; tra le dune di sabbia, in mezzo agli scogli a cercare granchi e conchiglie. Come era buono l’odore acre, salmastro del mare, come era bello
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veder rotolare i sassi, il luccichio di perla delle conchiglie, i pesci che ti lambivano i polpacci. I. Era sempre introvabile la mia bimba. Quanti batticuori. Anche nelle lunghe passeggiate alla marina: il balsamo del mare la riempiva di incontenibile euforia e non la si trovava più. N. Si intrufolava dappertutto: in mezzo ai cespugli, dentro ai capanni, nelle buche scavate dai fortunali, tra i canneti, dentro gli anfratti degli scogli. Sempre col cuore in gola eravamo: sua madre ed io. V. (come stizzita) Mi perdo sempre: Lo sai che dopo ti sgridano. Si è fatto buio e comincio a sentire freddo: riposerò un poco su questo grande letto e aspetterò che mi trovino (sale sul catafalco e si distende; poi continua) Quante corse in mezzo alle vigne e ai frutteti della Palombara: la mamma ricamava e chiacchierava in casa con le amiche e le serve. Io, fuori: a buttar sassi nelle peschiere e negli stagni: e mi sgridavano; a mangiar ciliegie, fichi, nespole, tutto quello che maturava sugli alberi; e mi sgridavano. Con le ginocchia sempre sbucciate. Il maschio che mio padre avrebbe desiderato. I. Dove sei Vittoria? N. Torna in casa, Vittoria. I. Ma dove s’è cacciata quella benedetta: non la si trova mai. Il maschio che suo padre avrebbe sempre desiderato, disgraziata come lui. N. Più di lui… dopo aver peregrinato con la madre per mezza Italia in cerca di aiuto e di protezione, private entrambe dei loro diritti, ridotte in povertà da un destino avverso e da uomini senza scrupoli, la mia Vittoria riusciva finalmente a sposarsi con un giovane gentiluomo romano della famiglia dei Conti, ma durò poco; all’età di ventisei anni ci lasciò: la notte di Natale, giorno di vita e di gioia per gli altri, non per noi, la giovane sposa morì: meglio sarebbe dire che passò a miglior vita. La madre rimase a lungo stordita e sopraffatta dal dolore.
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IV scena: Ippolita I. Ho vissuto perennemente in esilio: lontano dalla mia casa e negli affanni. Sono tornata a morire nella mia Mirandola, nel palazzo dove sono nata. Il sogno di mettere radici nelle terre della Chiesa, di creare una solidale alleanza tra le fertili pianure del Po e le verdeggianti colline marchigiane si è infranto. Roma, la Spagna e la Francia, L’Impero, la Serenissima, i Medici non amano borghi e castelli troppo forti; si guardano bene dall’assecondare le pretese delle antiche famiglie. Di burocrati hanno bisogno, non di nobili soldati; di cortigiani adulatori, non di uomini d’arme e d’onore; di abili ministri, non di coraggiosi cavalieri. Amano i palazzi e le piazze delle loro città, non i campi, i prati, i boschi delle nostre belle campagne: non sopportano le nostre selve, ricettacolo –dicono- di malfattori e banditi. Scendono le ombre sulle effigi dei miei antenati, nell’antica galleria del castello. Cala la nebbia sulle mura, sul fossato, sul torrione, che incombe. Sento il freddo di una infinita stanchezza, che mi avvolge e mi ruba il respiro. Che sarà di me? Spero almeno di essere ricordata. Non certo come la grande Francesca Trivulzio, tremenda guerriera sugli spalti della Mirandola contro le truppe di Papa Giulio, Giuliano della Rovere. Non certo come la mia matrigna Fulvia da Correggio, che tutte le sue cure materne volle dedicare non ai suoi figli, ma alla dinastia e alla città, che abbellì di strade e splendidi palazzi. Mi basterà un piccolo posto vicino alle urne degli avi. Mi basterà una epigrafe scolpita su umile pietra: «Qui giacciono le spoglie mortali di Ippolita, figlia di Ludovico Pico e di Renata d’Este, infelice sposa e vedova del duca Alfonso Piccolomini, morta a Mirandola all’età di cinquantacinque anni». Sono stanca. Tanto stanca… Mi riposerò un poco qui, accanto a questa bambina. Ho freddo e paura in mezzo a queste ombre. Mi sembra di essermi perduta. Attenderò che qualcuno venga a cercarmi. Spero che qualcuno si ricordi che manco. (Ippolita si corica sul catafalco) S. Reca l’estremo saluto alla salma la reverendissima madre superiora del convento di S. Agostino. (Finale dall’Enea e Didone di H. Purcell) N. (si avvicina alla defunta, la accarezza sulla fronte, poi recita, come stesse pregando) Venite Angeli dalle lunghe ali. Riempite la sua tomba di fresche rose Tenere e nobili come il suo cuore… Venite angeli dalle lunghe ali. Vegliate, vi prego, sul suo meritato riposo.
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M. Il lavoro è terminato. Domattina consegnerò il testo all’epigrafista di corte per la lapide sepolcrale. Poi spetterà al lapicida scolpirlo sulla pietra a perenne ricordo della poveretta. (Il medico si fa un segno di croce ed esce; lo segue la nutrice dopo aver baciato la defunta; restano soli sulla scena Ippolita, Vittoria e il Segretario di Corte) (Tutti escono: Ippolita e la sua bambina sono supine sul letto) (Finita la musica, il Segretario di corte sale sul palco e si mette ai piedi del catafalco fra i due stemmi di famiglia) poi recita lentamente: S. Nessuna lapide / fu posta mai sul suo tumulo; / di lei nella patria / non esiste un ricordo /, né si trova il ritratto / di così bella, infelice, virtuosa principessa.
IN PIACEVOLE COMPAGNIA DELLE STREGHE
«Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle» François-Marie Arouet (Voltaire)
Dalla pubblicazione nel 1862 della Sourcière di Jules Michelet e soprattutto all’indomani della rivalutazione di questo studioso”anomalo”, che conobbe una lunga fase di oscuramento in età positivista, ci si è spogliati, benché faticosamente e peraltro non del tutto, dallo stereotipo che vedeva la strega come una figura inquietante e ingombrante, dedita a pratiche malefiche, strumento del demonio. In realtà, come aveva argomentato il grande storico francese, questo stereotipo andava storicizzato, perché, è solo a partire dal basso Medioevo che si abbattono su di lei le reazioni ben note di una società che si sta incamminando verso una medicina ufficiale, accademicamente arroccata nei quadri istituzionali del potere e del sapere. Una scienza ufficiale che vede nella strega la concorrenza e quindi procede ad una sua progressiva criminalizzazione, demonizzazione e, in ambito folklorico, ridicolizzazione. Al di là dei roghi e pur con le anticipazioni piuttosto sfilacciate dei secoli precedenti, la lotta diventa dura e senza quartiere soprattutto a partire dal Quattrocento, quando la Chiesa si trova posta sotto assedio su molteplici fronti. Le tappe più note di questo processo sono note e vanno dalla bolla “Summis desiderantes affectibus”, promulgata da papa Innocenzo VIII nel 1484, al Malleus maleficarum (manuale rigorosamente declinato al femminile) degli inquisitori domenicani Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, dato alle stampe nel 1486 e divenuto ben presto un best-seller, alla Strix di Giovan Francesco II Pico, fino all’aspro dibat-
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tito sulle “lamie” che vide contrapposti in Italia, alla metà del Settecento, il nobile erudito veronese Scipione Maffei e lo studioso roveretano Girolamo Tartarotti. Dibattito che, al di là delle rispettive posizioni, testimoniava ancora una volta come la dotta ignoranza del secolo dei Lumi intendesse proiettare questo problema nel campo delle anticaglie: banalizzandolo. Con il risultato che da allora in poi, sempre più frequentemente, il mondo delle streghe si verrà popolando di befane e fattucchiere, scope e pentoloni, sortilegi e abracadàbra e tutto l’armamentario che siamo solitamente abituati a ricollegare ad un luogo comune di cui sembra sempre più difficile disfarsi: tra gli antidoti da consigliare potrei suggerire una attenta lettura del romanzo storico La Chimera di Sebastiano Vassalli, del quale mi permetto di segnalare in bibliografia una edizione commentata ad uso delle scuole. Si perdeva così nelle secche dell’appiattimento storico e storiografico l’immagine positiva della strega altomedievale: la strega domestica, dedita alla cura del corpo, alla preparazione di infusi, decotti e medicamenti di vario tipo, fondamentali in una società che non conosceva ancora le farmacie e gli ospedali, né tantomeno le facoltà di medicina. Non è un caso allora se nella riabilitazione di questa figura al primo posto emerge lo studio delle erbe, che sono patrimonio dell’universo femminile, ma in particolare delle streghe, con le quali le donne sono state spesso identificate, se non altro perché dal peccato della mela in poi hanno detenuto il patrimonio domestico del cibo e della cura del corpo, dall’atto del concepimento all’ultimo addio. Ne è derivato, anche se non di rado distorto e dozzinale, il successo editoriale che in tempi recenti hanno avuto e continuano a detenere le opere della medichessa bizantina Metrodora, della magistra salernitana Trotula de Ruggiero, della profetessa renana Ildegarde di Bingen: tutte protese ad una gioiosa rivalutazione del corpo, sia maschile che femminile. Si tratta di un potere strategico ed immenso che ha creato tra uomo e donna una sorta di “attrazione armata”, tra i cui risultati più drammatici va appunto annoverata la caccia alle streghe, che però non deve far dimenticare la delicata quanto robusta quotidianità di gesti, attenzioni, saperi, che, attraverso la preparazione di cibi, decotti, tisane, creme, aromi e profumi, consolidano il riconoscimento di una sensibilità e di un protagonismo femminile che non cessa mai di stupire i maschi: perfino i più rozzi. Su questo percorso si è cimentata l’autrice di questo volume che da un lato traccia la storia di una peculiare e plurisecolare riaffermazione delle abilità e delle seduzioni femminili in questo campo, dall’altro fornisce una ricca antologia ragionata di piante, erbe, radici attraverso la cui abile manipolazione la donna si trasforma in strega, nel senso più nobile del termine: curatrice e incantatrice al contempo. E fra le tante erbe buone e le tante ricette citate, mi piace concludere con la malva, di cui la studiosa ricorda che questa omnimorbia, come la definivano i Romani, richiama l’amore materno, perché come una madre cura tutte le ferite e addolcisce la vita.
In piacevole compagnia delle streghe
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Bibliografia minima I.-M. Carré, Michelet et son temps (avec de nombreux documents inédits), troisième édition, Paris 1926. D. Gatti, Curatrici e streghe nell’Europa dell’alto Medioevo, in Donne e lavoro nell’Italia medievale, a cura di G. Muzzarelli, P. Gaietti, B. Andreolli, Torino 1991, pp. 127-140. C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, vol. 1: I caratteri originali, Torino 1972, pp. 601-676. E. Menestò (a cura di), Le tenebre e i lumi. Il Medioevo tra Illuminismo e Rivoluzione, Atti del Convegno di Studio svoltosi in occasione della terza edizione del «Premio internazionale Ascoli Piceno», Ascoli Piceno, 9-11 giugno 1989, Spoleto 1990. J. Michelet, La strega, traduzione di M.V. Malvano, con un saggio introduttivo di R. Barthes, Torino 1980. P. Petrone (a cura di), Maghe, streghe e filtri d’amore. Piccola antologia ( forse esoterica) ad uso dei creduloni e dei miscredenti con 20 ricette di pozioni “magiche” desunte da antichi manoscritti, Napoli 2007. Libro detto Strega o delle illusioni del demonio del Signore Giovanfrancesco Pico della Mirandola nel volgarizzamento di Leandro Alberti, a cura di A. Biondi, Venezia 1989. S. Vassalli, La Chimera, a cura di V. Viola, Torino 2005.
LO SCALDALETTO DELLA PRINCIPESSA. PER UNA MORFOLOGIA DELLA CRONACHISTICA PICHENSE
Non è facile, almeno per i cosiddetti centri minori, riscontrare un dispiegamento di fonti narrative quale possiede l’antica città dei Pico, che ne vanta un dossier di tutto rispetto: cronologicamente e tipologicamente assai significativo. La cronaca più nota e più antica è quella redatta, presumibilmente nella seconda metà del Trecento, dal giureconsulto carpigiano o modenese Ingrano Bratti, legato alla famiglia dei Pio di Carpi e profondo conoscitore della documentazione modenese. A lui si deve l’invenzione di quella bella leggenda sulle origini dei Figli di Manfredo, discendenti da Manfredo, cubiculario dell’imperatore Costanzo, ed Euride, figlia del sovrano, costretti a fuggire in Italia per realizzare il loro impossibile sogno d’amore: giunti nel Mirandolese, affascinati dalla bucolica bellezza agropastorale della Valnemorosa avrebbero finalmente deciso di stanziarvisi, dando alla luce ben quaranta figli, da cui deriverebbe il toponimo Quarantola. Ma a parte questo mito eziologico aggiuntavi la delirante derivazione toponomastica, che mette ancora una volta in rilievo il ruolo decisivo della donna (se possibile, e oltre il possibile, fertile) nei matrimoni nobiliari del Medioevo, il Bratti, nel prosieguo, si mostra autore informato ed equilibrato nei giudizi come nel mettere in rilievo fasti, ma anche nefasti dell’affollata, irrequieta consorteria. Continuatore della cronaca per i secoli successivi fu Giovanni Papazzoni, che sembra rispettare il registro narrativo del suo predecessore, collocandosi anch’egli nell’alveo di una narrazione encomiastica non stucchevole o eccessivamente cortigiana. Nella stessa logica si muoveva la Cronaca di autore anonimo e altre consimili, come quella di Giovanni Manfredi, che aveva tuttavia il pregio di dare spazio alla diaspora di un ramo della famiglia in terra di Romagna.
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Dopo la fase fondativa della signoria che occupa gli ultimi tre secoli del Medioevo, e nell’avvio di una più solida ed accertabile dinastizzazione, si fa strada un nuovo genere di carattere più squisitamente annalistico come illustra esemplarmente il caso degli Annali di Padre Francesco Ignazio Papotti. Va precisato che anche le cronache seriori (intendi: Bratti, Papazzoni, Anonimo; Manfredi) si servivano della griglia cronologica, ma in forma più rapsodica e a maglie larghe, mentre nel Papotti la narrazione assume una cadenza più squisitamente calendariale, che offre spunti informativi non solo sui signori, di cui peraltro esplora le vicende quotidiane, ma anche sulle famiglie egemoni, i funzionari, la comunità, dando largo spazio anche agli eventi climatici, all’aneddotica, secondo un registro meno aulico e di conseguenza più ampio e curioso. Ma accanto all’annalistica vera e propria si dipanano resoconti più circostanziati quali le Memorie di un cuoco di casa Pico e la Cronaca del chirurgo di corte Piccinini (qui pubblicato e commentato), cui si deve anche il diario della partecipazione del duca Alessandro II alla guerra promossa e guidata da Venezia contro l’isola di Candia (oggi più comunemente Creta). Entrambe le opere erano note agli studiosi locali, in primis a Giuseppe Vaccari, autore di una Istoria della Mirandola, nella quale di esse si servì ampiamente, facendone buon uso, visto lo spessore informativo assicurato dalla memorialistica. Con la consueta ruvida pennellata, Giovanni Veronesi assicura essere quella dell’archiatra «opera di nessun studio, di poca curiosità, ma di molta schiettezza, come il lettore si sarà accorto dalle nostre spesse citazioni». Questo tipo di narrazioni si àncora ad alcune specifiche professionalità (un cuoco e un chirurgo, per l’appunto) assiduamente vicine alla vita di corte e pertanto in grado di interpretare le vicende maggiori sulla traccia delle ostentazioni, fragilità e miserie quotidiane del principe e della sua famiglia. Da questo punto di vista la convivialità e la salute, il cibo e la medicina, la ricetta gastronomica e farmaceutica rappresentano un ottimo punto di osservazione per raccontare la grande storia attraverso filtri particolari, che esprimono il giudizio e la valutazione complessiva senza esporsi o sovraesporsi: soprattutto in una fase delicata quale fu quella segnata dal dubbio dell’avvelenamento, di cui le cucine e le erboristerie dovettero allora paventare più che un sospetto di complicità. Di quanto si è già detto a proposito delle Memorie di un cuoco, quelle del Piccinini sono ulteriore conferma, perché in questo genere letterario, per usare una terminologia cara alla linguistica, la parole diventa anche langue: così come per l’anonimo chef il banchetto non è mai solo un banchetto, anche per il Piccinini un funerale è ben di più di un funerale: espressioni entrambi di quella cultura barocca che, per usare le calzanti espressioni coniate da Ezio Raimondi, predilige il colore eloquente e lo spettacolo quotidiano dell’esistenza. Sbalzati dai fondi neri così cari alla Controriforma, i protagonisti si affacciano allo spettatore del tempo come allo studioso di oggi alla stregua di manichini: una passerella ben congegnata di icone da venerare prima che conoscere. Anche nei vestiti
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delle austere principesse prevalente sembra essere stata la sontuosa presenza del nero, come annota scrupolosamente il registro di guardaroba di Isabella Savoia d’Este. Ma in questo diario, come nelle memorie del cuoco, incombe soprattutto lo spettro della fine: il vero grande funerale è quello della signoria, che naturalmente Piccinini recupera attraverso la segnalazione di malattie, avvelenamenti, torture; tutti gli ingredienti necessari a preparare l’epitome funeraria finale che è quella della dinastia. Non a caso il diario si apre e si chiude su due disgrazie che incorniciano una vicenda luttuosa in cui i mirandolesi, nonostante la graziosa quanto interessata e tutta esteriore generosità dei nuovi principi, mostrano in ogni occasione la loro amarezza e il loro attaccamento alla signoria caduta in disgrazia. Non sfugge ancora la simmetria tra disgrazia individuale e disgrazia collettiva. La letale scottatura causata dallo scaldaletto della principessa Maria, invano medicata; il decesso a Padova il 22 gennaio 1720 della reggente Brigida Pico: suggellano un testo che rappresenta, se così posso esprimermi, la radiografia di un trapasso determinato o almeno favorito dalla incapacità locale e dalle macchinazioni internazionali. Con la precisazione doverosa di quanto contino le donne in tutte queste faccende: come a dire “per il bene della famiglia” ovvero il ruolo delle first ladies. Una lacerazione lucidamente avvertita almeno dal personale di corte, al punto tale che lo iato è storico e al contempo storiografico: dell’ultimo duca, esule a Venezia, si perdono ben presto le tracce (anche l’agguerrito e scrupoloso Ceretti non è in grado di inseguirlo), tant’è che solo in tempi recentissimi una valorosa ricercatrice di origini mirandolesi emigrata a Madrid è riuscita a ricostruirne nel dettaglio (e pertanto nella sostanza) le ultime vicende alla corte di Spagna. È ancora il Veronesi a segnalare che «dal 1711 al 1720 il Piccinini pone per intercalare del suo Diario che “nella Mirandola non vi è novità alcuna se non che vi continuano contribuzioni grandissime e gravissime con gran clamore di popolo”». Naturalmente si tratta di una forzatura, ma le bruciature provocate da uno scaldaletto maldestramente preparato si possono assumere come metafora della crisi di una corte: dal palazzo del principe all’intera signoria, che secondo alcuni era durata anche troppo. Anche se non si ebbe mai l’assalto alla diligenza da parte degli studiosi di quella temperie pre e postunitaria, successivamente la storiografia mirandolese prenderà altre strade: dalla erudizione epistolare di Pompilio Pozzetti, così selettivo nel distinguere le fasi chiaroscurali di vicende ormai lontane, anche se non del tutto dimenticate del giusnaturalismo settecentesco, che però guardava con maggiore attenzione alle prospettive preunitarie così mirabilmente delineate nelle Antiquitates di L. A. Muratori, al patriottismo risorgimentale di Giovanni Veronesi, che nel Quadro storico della Mirandola e della Concordia declinava una grande storia “romantica” attraverso i suoi più accreditati protagonisti tramite giudizi non sempre del tutto azzeccati: tutti peraltro efficacissimi nel tratto perentorio della icastica sua vis polemica; per giungere infine alla erudizione positivistica di don Felice Ceretti,
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ultimo testimone di una storiografia pichense e mirandolese dotta, ma ripiegata sul passato antologizzato tra Ottocento e Novecento nei 25 volumi delle Memorie Storiche Mirandolesi: una autentica impresa editoriale, che si apriva non a caso con l’edizione delle cronache seriori, proseguiva con l’edizione volgarizzata degli Statuti e di altro materiale normativo più contingente (bandi, gride), ricostruiva la macchina dello stato attraverso i suoi funzionari e le sue istituzioni, metteva nel giusto risalto per medaglioni alfabetici non di rado corredati da appendici documentarie, i meriti della famiglia Pico e delle famiglie, dando opportuno riscontro al dialetto locale e fornendo un dovuto quanto modesto contributo a Giovanni Pico, figura troppo lontana dalle prospettive municipalistiche di quella operosa storiografia, che rappresenta a tutt’oggi un sicuro, in larga misura affidabile, trait-d’union tra il futuro costruito da un passato nostalgico, benché non passatista, e il futuro prefigurato da un presente generoso, che andrebbe meglio assecondato e valorizzato. Bibliografia B. Andreolli, Signori e contadini nelle terre dei Pico. Potere e società rurale a Mirandola tra Medioevo ed Età Moderna, Modena, Aedes Muratoriana, 1988. B. Andreolli, I Pico della Mirandola. Una signoria longeva, in «Modena Storia», n. 7, anno II, settembre 1994, pp. 25-30. B. Andreolli, Le «Memorie Storiche Mirandolesi» e il Fondo Antico della Biblioteca Comunale di Mirandola: fonti e studi per la storia della signoria pichense, in «Quaderni della Bassa Modenese. Storia, tradizione, ambiente», 34, anno XII, numero 2, Dicembre 1998, pp. 95-102. B. Andreolli, Mirandola e i Pico di fronte a Modena e agli Estensi, in Lo stato di Modena. Una capitale, una dinastia, una civiltà nella storia d’Europa, 2 voll., a cura di A. Spaggiari e G. Trenti, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2001, I, pp. 617-633. F. Ceretti, Biografie Mirandolesi, tomo quarto, S.-Z., Mirandola, 1905 (Memorie Storiche della Città e dell’Antico Ducato della Mirandola, vol. XVI): lemma Vaccari Giuseppe, pp. 129-136. Don Felice Ceretti storico di Mirandola e dei Pico, a cura di M. Calzolari, U. Casari e C. Frison, Mirandola, 1998. C. Cotti, El duque de la Mirandola. Francesco Maria Pico alla Corte di Madrid (1715-1747), Presentazione di Bruno Andreolli, Mirandola, 2005. G. Martinelli Braglia, I Pico e i Gonzaga. Arte e cultura, Cassa di Risparmio di Mirandola, 2000. Memorie di un cuoco di casa Pico. Banchetti, cerimoniali e ospitalità di una corte al suo tramonto, edizione e commento a cura di B. Andreolli e G.L. Tusini, Mirandola, 2002.
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F.I. Papotti, Annali o Memorie Storiche della Mirandola, 2 tomi, Mirandola, 18761877 (Memorie Storiche della Città e dell’Antico Ducato della Mirandola, III-IV). P. Pozzetti, Lettere Mirandolesi, Verona, 1985 (orig. Reggio Emilia 1835). E. Raimondi, Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna, il Mulino, 1995. Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola (secc. IX-XV), a cura di B. Andreolli et alii, Roma, 1991 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Nuovi Studi Storici 11), lemma Bratti Ingrano, a cura di B. A., pp. 222-225. G. B. Spaccini, Il registro di guardaroba dell’Infante Isabella Savoia d’Este (16171630), a cura di G. Biondi, Archivio Storico-Comune di Modena-Assessorato alla Cultura e Beni Culturali. G. Veronesi, Quadro storico della Mirandola e della Concordia, a cura di G. Mantovani, M. Toro, presentazione di B. Andreolli, Mirandola, 1990 (orig. Modena, 1847-1848- 1849).
LA CHIAVE
A Metrodora, Trotula ed Eloisa: altre protagoniste di un Medioevo civile.
In una afosa sera di agosto dell’anno novecentocinque, il giovane Ansfrit tornava a Marzaglia da un breve viaggio fatto nella pianura verso Crevalcore, Persiceto e Bologna. La contessa Adelburga, ormai avanti negli anni, vedendolo crescere, sosteneva che bisognava prepararsi per l’avvenire del ragazzo; la vecchia corte andava rimessa in funzione, dopo gli anni di crisi e di abbandono che avevano segnato il terribile momento dell’invasione da parte degli Ungari. Terre da bonificare, coltivazioni da rinnovare, steccati, attrezzi, magazzini da riparare, animali da accudire e allevare, coloni e servi da controllare: il lavoro davvero non mancava. Secondo chi si intendeva di queste cose, il modello da prendere in considerazione erano le proprietà del monastero di Nonantola, che proprio in quegli anni difficili era riuscito a risalire la china, risanando aziende e creandone perfino di nuove. La rapidità con cui, dopo l’attacco degli Ungari, erano stati ricostruiti, in pochi anni, chiesa e monastero aveva stupito tutti e lo stesso papa Sergio si era affrettato a inviare a San Silvestro una bolla, con la quale raccomandava che gli edifici fossero benedetti e consacrati al più presto, affidandone l’incarico a ben tre vescovi: Giovanni di Pavia, Guido di Piacenza, Elbunco di Parma. Piove sempre sul bagnato, avrebbero commentato i contadini della zona e forse anche di altre. Si menzionava con ammirazione la grande corte del Secco, nell’agro persicetano, una corte che attraverso il frequentatissimo porto del Lupo, sul Panaro, alimentava
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quotidianamente i mercati cittadini di Modena e Bologna, arricchendo gli abitanti del luogo e i monaci. Si faceva un gran parlare dell’azienda di Pontelongo, nata di recente. Facesse una scappata da quelle parti con il suo fedele scudiero: vedesse come si lavorava e ne facesse tesoro. Se si fosse trovato in difficoltà, poteva sempre rivolgersi allo scabino Ermenaldo, che risiedeva da quelle parti, uomo esperto di diritto e leale, vecchio amico di famiglia: uno dei pochi rimasti, ormai. Il viaggio era durato una settimana e il giovane non aveva fatto fatica a rendersi conto che la madre aveva ragione. Pontelungo poi era stata veramente una scoperta: un villaggio ben ordinato, belle case di legno allineate una accanto all’altra, tutte prospicienti a una spaziosa piazza, adatta per le riunioni della piccola comunità. In ognuna, il piano terra era adibito al lavoro, mentre sul ballatoio erano installati i telai per la tessitura del lino e della lana accanto alle stuoie e ai pagliericci per la notte. Il borgo era protetto da un canale, che lo circondava quasi completamente e che immetteva in un fiume: le barche in questo modo avevano la possibilità di essere caricate agevolmente e altrettanto agevolmente raggiungere il corso d’acqua per gli smistamenti quotidiani. Sui panciuti sandoni a chiglia piatta si potevano trasportare abbondanti quantitativi di grano, anfore di vino, pesce, sale, balle di tessuti, vetro e, naturalmente, uomini; ma per questi ultimi si preferiva la soluzione decisamente più confortevole del burchiello. Al centro di una motta, poco discosto dall’abitato, si alzava, a protezione del villaggio, una torre di avvistamento sorvegliata giorno e notte da squadre di soldati del monastero. Tutt’intorno, al di là del canale, decine e decine di poderi ben coltivati recintati: con la casa, l’aia, il forno, il pozzo, i bassi comodi, il pollaio, l’orto, la vigna; tra l’uno e l’altro, lembi di bosco per l’allevamento dei porci e per la legna; in mezzo ai campi si notava la sagoma lussureggiante di olmi e aceri, che recavano i pesanti festoni delle viti cariche di grappoli, che mettevano il primo colore. Era stato un viaggio faticoso, ma istruttivo, che gli aveva fatto ricordare quello, compiuto qualche anno prima, con la madre, a Ostiglia, sul Po, dove aveva osservato con ammirazione le squadre di contadini che abbattevano gli ontani, le querce e gli abeti della selva di sponda al fine di ricavarvi poderi da coltivare. Adelburga si era fatta premura di dirgli che quelle terre appartenevano tutte al monastero di Nonantola e che le opere di dissodamento erano cominciate molto tempo addietro, all’epoca dell’abate Ansfrit, di cui portava il nome. Poi avevano risalito in barca il Mincio fino al lago di Garda per ammirare gli oliveti del monastero di San Colombano di Bobbio e le numerose peschiere che assicuravano ogni giorno ai monaci abbondanti quantitativi di prelibate trote e gustose anguille. Dopo l’istruttiva visita a Pontelungo, il giovane non si era lasciato sfuggire l’occasione di fare una scappata a Bologna, dove era arrivato quando ormai era buio e
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aveva potuto ammirare di lontano il luccichio delle mura di selenite. Il giorno dopo, aveva visitato le chiese del Monte Santo, di cui aveva spesso sentito parlare, ma ciò che lo aveva maggiormente affascinato erano stati i numerosi canali che attraversavano tutta la città, alimentando rogge e mulini, e il mercato delle erbe, dove tutte le mattine arrivavano dal contado bestie da soma e carrette stracariche di frutta, verdura, pollame, latte, formaggio. Sulla via del ritorno, Ansfrit pensava a come avrebbe potuto realizzare nelle sue terre quello che aveva visto. Le idee non mancavano; a mancare, invece, erano i mezzi e le persone, quelle fidate, soprattutto: ne erano disponibili sempre di meno. Tutto sommato, la scelta migliore sembrava quella di mettersi al servizio del potente monastero di Nonantola, che lo avrebbe senz’altro aiutato nel risanare i suoi patrimoni dissestati. Quando il giovane si trovò all’ingresso della corte di Marzaglia, si era già fatto buio: le fiaccole erano state accese all’imbocco del viale d’accesso e ai lati dell’edificio centrale. Contento di essere tornato a casa, aveva fretta di salire ad abbracciare la madre, ma, come gli avevano insegnato, prima bisognava asciugare per bene il cavallo, cui poi lo stalliere avrebbe dovuto dare il foraggio. A dire il vero, tale incombenza spettava solitamente allo scudiero, che, però, aveva dovuto fermarsi in un villaggio vicino per rendere visita alla vecchia madre inferma. Trovò Adelburga ancora alzata. Avrebbe voluto raccontarle tutto, ma la vide stanca, pallida più del solito. Era ancora bella sua madre: il volto regolare, gli occhi vivi, anche se un poco malinconici, i lunghi capelli grigi raccolti in bell’ordine nella reticella di seta, mani e unghie curate. Fu lei stessa a servirgli la cena, perché la cuoca aveva chiesto di potersi ritirare, vista l’ora tarda: né si sapeva se e quando il giovane fosse tornato. Vistolo a tavola, gli si sedette vicino, informandosi se il viaggio era andato bene. Aspettò che avesse terminato e poi si congedò, accarezzandogli i capelli neri arruffati: le avrebbe raccontato tutto il giorno dopo; anche lui, dopo tutto, era provato. Si voltò un’ultima volta e gli occhi le brillarono di complice, femminile furbizia, nel comunicargli che durante i giorni della sua assenza Alda aveva chiesto spesso di lui e di quando sarebbe tornato. Poi, soddisfatta, si ritirò per davvero. Anche il giovane, poco dopo, guadagnò la sua stanza da letto, ma, prima di coricarsi, non dimenticò di recitare le preghiere di ringraziamento e della buona notte. Benché stanco, non riusciva a prendere sonno; tutto quello che aveva visto in quelle giornate gli affollava la testa, mettendolo in agitazione; dando sfogo alla sua fantasia. Era irrequieto, né contribuiva a tranquillizzarlo il ricordo di Alda, che, stivaletti rossi ai piedi, corpetto brunito ai fianchi e al seno, floridi entrambi, gli danzava flessuosamente davanti: come di marmo rosa colonna tortile.
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E poi faceva un gran caldo, che non accennava a scemare, e il sudore gli dava fastidio. Decise di alzarsi per rinfrescarsi al pozzo e fare due passi nel brolo dietro la casa. Non dimenticò di agganciarsi alla cintola la spada: non si sapeva mai. Qualche ladro, qualche malcapitato; e poi c’erano sempre quei maledetti lupi, che ogni tanto arrivavano fin dentro le fattorie a far razzia di agnelli. Quando fu sull’uscio, rimase incantato: il prato tagliato e i campi mietuti, i fossati e le cavedagne, tutto intorno brillava di fiammelle, come sotto un prezioso e finissimo velo di sottilissimi fili d’oro. Non aveva mai visto tante lucciole in vita sua: lo spettacolo gli ricordò il formicolio di persone e animali che aveva notato a Pontelungo, ben diverso dalla solitudine della quieta, pigra, silenziosa corte di Marzaglia. Scese sull’aia, si rinfrescò al secchio del pozzo e poi si diresse verso il giardino, alla ricerca di refrigerio fra le piante. Giunto nel mezzo, notò che il piccolo ridotto per gli attrezzi era fiocamente illuminato dall’interno e che dal frondoso salice sbucavano le zampe di un cavallo. Si insospettì. Che ci faceva lì, a quell’ora, un cavallo? Quando fu vicino alla finestrella, sentì che dall’interno uscivano degli strani gemiti, come se qualcuno ansimasse o soffrisse. Trattenne il respiro e si avvicinò con cautela all’imbocco della finestra, la mano pronta sull’elsa, premunendosi di rimanere nell’ombra, nascosto. Sbirciò dentro e subito una naturale ritrosia lo fece ritrarre, ma la cosa era troppo strana, per cui, vinto il ritegno, si impose di seguire la scena. La serva delle cucine, completamente nuda, con le pesanti mammelle che pendevano su una vecchia stuoia stesa sul pavimento, gemeva tutta rossa e sudata sotto i colpi di un omone grande e corpulento, che si dimenava dietro di lei, agitandosi. Doveva essere quello che chiamavano il Guercio, di cui aveva sentito spesso parlare, una specie di bandito con l’occhio sinistro bendato, divenuto signore del borgo di Redù e celebre per le sue bravate. Aveva occupato il castello all’epoca delle invasioni, con la scusa di difenderlo, ma poi non l’aveva più restituito ai monaci di Nonantola: vane erano state le proteste dell’abate e del priore; borgo e castello erano suoi, per diritto di conquista; provassero a riprenderli, se vi riuscivano. Li aveva entrambi davanti e sentiva il loro ansimare; sentiva perfino gli insulti che il Guercio inviava sempre più frequenti all’indirizzo della donna, che sembrava gradirli. Ogni tanto si portava alla bocca il boccale di vino, e ad ogni sorso canticchiava un motivetto da taverna, per niente fine e galante: Qui si beve e qui si chiava, questa troia è troppo brava.
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E nel mezzo di tali e altri apprezzamenti, sentiva delle strane frasi che non capiva: questo per la zuppa di ieri, questo per la pozione di oggi, questo per la tisana di domani. Ma, nonostante l’impegno, l’uomo faticava a venire al dunque, per cui la donna dovette darsi da fare con le mani e con la bocca, finché non le esplose copiosamente sul seno. Dopo una breve pausa, lui cominciò a ricomporsi in fretta, mentre la donna, resa ardita dal servigio appena prestato, gli si aggrappava al collo, piagnucolando che la portasse via di lì; che non ne poteva più; che voleva andare a vivere con lui nel suo castello, dove lo avrebbe servito devotamente, amministrando le cucine e il gineceo, come le aveva promesso, e non facendogli mancare quei bei lavoretti che lui conosceva così bene. Con l’occhio stralunato dalla fatica e dal vino, il Guercio bevve avidamente l’ultimo sorso e la liquidò bruscamente: se aveva fretta, dipendeva solo da lei; che affrettasse quello che doveva fare; che aumentasse le dosi. Quando fu sull’uscio, Ansfrit era davanti a lui con la spada in mano: che ci faceva il Guercio in casa sua? Si senti rispondere che lui lì era di casa da prima che lui venisse al mondo e che, il figliuolo, facesse il piacere di farsi da parte e di non rompere le palle. Irritato, Ansfrit si mise e lo mise in guardia. L’occhio coperto, la pinguedine e la statura conferivano all’arrogante intruso una sua malferma dignità, ma lo seccava il fatto che lo chiamasse in continuazione, come per scherno, figlio mio. Si capiva che non era lucido: dopo il furore del vino e della lussuria, la fatica si faceva sentire. Scrutava l’occhio a mezz’asta sulle gambe malferme e non impiegò molto tempo né fece fatica a vibrargli il colpo che voleva: lo spada del rivale volò e cadde inerme sul prato, illuminata dai raggi della luna. Gli fu addosso, ma, nel vederlo disarmato, gli mancò il coraggio di ferirlo, soggiogato dallo sguardo di un uomo che avrebbe potuto essere suo padre. Lo colpì di piatto, tra la spalla e la gola, facendolo vacillare e stramazzare al suolo. Noncurante del pericolo, fiducioso della lealtà dell’avversario, come gli era stato insegnato dalla madre e dal fedele scudiero, si girò per allontanarsi. Fu per puro caso, e per sua fortuna, che dalla lama della spada sguainata, al chiarore della notte serena, intuì il Guercio avventarglisi contro da dietro, vile stiletto da sicario in pugno. Questa volta non esitò e il colpo al collo fu preciso e micidiale, ma, ancora una volta, non mortale. Il malcapitato rotolò a terra stordito e il volto stralunato andò a sbattere pesantemente sul terreno. Montato in furia, che gli raddoppiava, triplicava la forza, lo prese per il colletto e lo trascinò di peso fino al bordo della peschiera. Ti passerà pure la sbornia, vecchio porco; ti passerà pure la boria, tirannello da strapazzo.
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E giù la faccia paonazza nell’acqua. Avrebbe voluto solo spaventarlo, ma non calcolò bene i tempi né la resistenza del rivale: a un certo punto, la mano del Guercio si aprì, lasciando allo stagno il pugnale e il corpo: inerti entrambi. La serva, terrorizzata, fu d’un balzo sul cavallo, che, spronato, volò via, subito inghiottito dal buio della notte. Ansfrit, frastornato da quanto era accaduto, tornò di corsa verso casa e, cuore in gola, salì precipitosamente le scale: aveva visto che la camera della madre era ancora illuminata. Giunto alla porta, la chiamò sottovoce, ma dall’interno non arrivava cenno di risposta. Richiamò, bussò, ribussò: nulla. Alla fine si decise. Aprì lentamente, mise dentro la testa con discrezione e la vide sul letto, appoggiata mollemente al cuscino, gli occhi fissi, spalancati verso la parete, la testa leggermente reclinata. Il vecchio gatto, Chilperico, una sfinge, la osservava immobile dalla seggiola, fermo sul cuscino di seta azzurra come la veste della donna, sul grembo della quale poggiava lo scrigno d’argento, che egli ben conosceva, ma del quale non aveva mai potuto vedere né conoscere il contenuto. Si avvicinò, il cuore in tumulto, ma sapeva già che era morta: la accarezzò sulla fronte e la baciò a lungo, raccontandole sottovoce tutto il suo amore, la gratitudine, la disperazione per l’inatteso distacco e la solitudine. Stette a lungo abbracciato alla madre, singhiozzando come un bambino. Le chiuse gli occhi e le ricompose le belle braccia irrigidite dal freddo della falce messoria. Solo allora notò che la mano destra era serrata a pugno, come se stringesse un prezioso segreto. La aprì a fatica: al lume della candela, brillò una piccola chiave d’argento.
Collana DiSCi Medievistica
1. Antonella Campanini e Rossella Rinaldi, a cura di, Le cose del quotidiano. Testimonianze su usi e consumi (Bologna, secolo XIV), 2014 2. Francesca Pucci Donati, Il mercato del pane. Politiche alimentari e consumi cerea licoli a Bologna fra Due e Trecento, 2014 3. Mila Bondi, Proprietà e spazi monastici tra VIII e XIII secolo. Il caso di Ravenna e Classe, 2017
Finito di stampare nel mese di marzo 2018 per i tipi di Bononia University Press