La scienza incerta. Vico nel Novecento 8898694105, 9788898694105

"La Scienza nuova è una scienza incerta, informe, oscura". Il grande metodo cartesiano di rifondazione del sap

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La scienza incerta. Vico nel Novecento
 8898694105, 9788898694105

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Francesco Valagussa

La scienza incerta Vico nel Novecento

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 1 - Proposte

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Francesco Valagussa

La scienza incerta Vico nel Novecento

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2015, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 1 - aprile 2015 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694105 ISBN – E-book: 9788898694808 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Paul Klee - Senecio 1922

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LE TENEBRE NEL FONDO DELLA DIPINTURA sono la materia di questa Scienza incerta, informe, oscura. (Spiegazione della dipintura)

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Nota editoriale Il terzo capitolo di questo libro, dal titolo La metafora fa il maggior corpo delle lingue, è comparso sulla rivista “Aisthesis”, VII, 2014/2, pp. 127-142. Il quinto capitolo, dal titolo Magis amicus Plautus, è comparso, in forma ampiamente rielaborata, con il titolo La commedia e il negativo, sulla rivista “aut aut”, 364, 2014/4, pp. 47-61.

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Il tuono e la legge Vico e Levi-Strauss: certum e incesto

«L’orrore dell’incesto (qualcosa di empio) è basato sul fatto che, formando una comunità sessuale (anche in epoca infantile), i membri di una famiglia rimarrebbero permanentemente uniti e incapaci di legarsi a estranei»1.

«Alzarono gli occhi e avvertirono il cielo»2. Qui Vico si figura il passaggio tra natura e cultura3. Dall’uno ai molti. Da qui prendono avvio tutte le “finzioni” mediante cui il genere umano cominciò a fantasticare la terra: si finsero Giove un gran corpo animato, come se «col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse dir loro qualche cosa»4, ma il messaggio non venne inteso a priori, come se si potessero dare per scontate la nascita e la presenza dei significati presso quei primi bestioni. 1 S. Freud, Minute teoriche per Wilhelm Fliess (1892-97), in Opere, a cura di C.L. Musatti, Torino 1968, vol. II, p. 66. 2 G. Vico, Principj di Scienza nuova [1744], in La scienza nuova. Le tre versioni, a cura di M. Sanna e V. Vitiello, Milano 2012, p. 918. Si indicherà tra parentesi quadra l’anno dell’edizione della Scienza nuova [SN]. 3 C. Sini, Passare il segno, Milano 1981, p. 113: «i bestioni si accorgono per la prima volta che sopra il loro capo si dispiega l’aperto». 4 G. Vico, SN [1744], p. 918.

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Il “significato” viene raggiunto letteralmente ex post: quel timore che il tuono incusse nelle robustissime fantasie, questo terribile spavento che scosse e per così dire destò la loro “natura”, fece sì che costoro si nascondessero nelle grotte, si fermassero in certi luoghi, con certe donne, da cui ebbero certi figliuoli e così fondarono le famiglie5. Soltanto in seguito Giove verrà detto “Padre degli dèi e degli uomini”, proprio perché il tuono non è immediatamente intelligibile, ma genera piuttosto paura, e un insieme di gesti, raccolti poi in un comportamento complessivo, e da ultimo compresi alla luce di un unico atteggiamento, quello della divinità che suscita le nozze6. Il risultato finale sarà significato. Prima di questo gran colpo che squarcia il cielo e scuote le passioni vi era qualcosa che «ci è naturalmente niegato di poter formare»7, ossia quella che Vico chiama la vasta immagine di cotal Donna, che dicono la Natura Simpatetica; che mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in lor mente; perocchè la lor mente è dentro il falso, ch’è nulla; né sono soccorsi dalla Fantasia a poterne formare una falsa vastissima immagine8.

La vasta immagine è soltanto il miglior modo con cui la nostra fantasia possa approssimarsi a quell’inimmaginabile che pure provarono i primissimi uomini, privi di qualsiasi principio di spiritualità, le cui nature erano «tutte seppellite ne’ corpi»9.

5 La formula è presente in tutte le edizioni della Scienza nuova. Cfr. SN [1725], pp. 44, 85, 89, 111, 267, 283; SN [1730], pp. 370 e 762; infine SN [1744], pp. 793 e 1256. 6 Tale ruolo viene assegnato a Giunone, mentre Giove, suo consorte, rimane il dio degli auspici. 7 Ivi, p. 919. 8 Ibidem. 9 Ibidem.

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Vico si riferisce all’uso della Venere bestiale10, il nefas civile per eccellenza: ciò che Bachofen nel suo Das Mutterrecht chiamava “principio eterico dell’asiatica Afrodite”11 contro cui riporta la prima vittoria proprio il principio matrimoniale di Era. Bachofen ricorda a tal proposito la συμπάϑεια (da qui l’affinità elettiva con la “Natura simpatetica” citata dal Vico) e la φιλοξενία12 che ancora regnava presso le civiltà dedite alla Madre Terra Demetra13 – in particolare presso i Cari. Questa “simpatia” è per Vico il “niente-in-mente” o meglio il “niente-della-mente”, nel senso che un tale principio comportava «l’esplicita avversione contro ogni sorta di restrizioni»14: invece che rimarcare la distinzione, si viveva “al di qua” rispet-

10 Cfr. ivi, pp. 897 e 1256. 11 J.J. Bachofen, Das Mutterecht, [1861], a cura di H.-J. Heinrichs, Frankfurt a.M. 1978, pp. 37-47. Tr. it. Il matriarcato, a cura di G. Schiavoni, Torino 1988, Tomo I, pp. 35-45. 12 Cfr. ivi, p. 14. Tr. it. p. 16. 13 Bachofen sviluppa una sorta di visione tripartita della storia della civiltà: a una prima fase eterica caratterizzata da quell’Afrodite asiatica, che è esattamente la Venere bestiale di Vico, segue una seconda fase, quella ginecocratica, detta anche “demetrica”; a questa seguirà quella patriarcale, o apollinea. Già il matrimonio nella civiltà demetrica fu avvertito come una prima lesione di un principio opposto più originario (cfr. ivi, p. 30. Tr. it. p. 30); a maggior ragione la struttura patriarcale irrigidì ulteriormente la struttura su cui si articolava la dimensione civile dei popoli. Le tre fasi prospettano una complessità superiore rispetto alla “dualità vichiana”: Bachofen chiarisce che la guerra di Troia – nata dall’oltraggio del talamo coniugale – costituisce la prima sconfitta del principio eterico asiatico, cui seguirà una seconda sconfitta nel corso della seconda guerra punica, dove si affermerà la matronale Giunone (cfr. ivi, p. 36. Tr. it. p. 35). Roma, con il suo imperium, e la sua rigorosa struttura patriarcale, contribuì in maniera decisiva all’instaurazione e al consolidamento del principio paterno (ivi, p. 57. Tr. it. p. 52), nel quale si deve ravvisare la definitiva – letteralmente catastrofica – supremazia del principio virile-spirituale su quello materno-naturale. 14 Ivi, p. 14. Tr. it. p. 16.

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to a qualsiasi partizione. Vico lo chiama più semplicemente il falso, intendendolo come ciò che (solo dal punto di vista del principio di distinzione che verrà) si contrappone alla “norma sui et falsi”. Nella Scienza nuova questa condizione viene anche definita “Cao”, «confusione de’ semi umani nello Stato dell’infame comunione delle donne»15. Di questa “condizione” verosimilmente ci parla anche Platone in almeno tre occasioni. 1. Nel grande mito del Politico, si narra che nella prima età del mondo «non c’erano società politiche, né possesso di donne e figli: infatti tutti rinascevano dalla terra, senza ricordarsi nulla della vita precedente»16. 2. Nel grande racconto aristofaneo presente nel Simposio si legge: «del resto non generavano né partorivano l’uno nell’altro bensì in terra, come le cicale»17. Qui sembra di poter intendere entrambi i passi come la rievocazione dell’antica condizione in cui non si era ancora connesso il concepimento alla generazione: è l’età ferina del Vico. 3. Non si può dimenticare che alle cicale sopracitate Platone si riferisce anche nel mito del Fedro: «si dice che le cicale un tempo fossero uomini, di quelli che vissero prima che nascessero le Muse»18. Oltre alla presenza delle Muse non si può fare a meno di ricordare che questo racconto è citato proprio nello stesso dialogo in cui Platone narra anche la nascita della scrittura.

15 G. Vico, SN [1744], cit., p. 1093. Cfr. anche p. 1106. 16 Plat. Pol. 271 e – 272 a. Tr. it. Politico, a cura di M. Migliori, Milano 1996 p. 109. 17 Id.. Simp. 191b-c. Tr. it. Simposio, a cura di F. Ferrari, Milano 199711, p. 145. 18 Plat. Phaedr. 259 b. Tr. it. Fedro, a cura di G. Reale, Milano 1993, p. 121.

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Incastro e cerniera: Vico e Lévi-Strauss Il tuonare del cielo e il comportamento che ne seguirà, contraddistinto da certe mogli e dunque certi figli, ovvero quello dell’unione matrimoniale, dev’essere inteso come inizio della civiltà, e superamento della “Venere bestiale”19: Dumézil nota come Venus sarebbe l’unico esempio di un sostantivo neutro, del tipo genus-generis passato al femminile senza altra modifica se non un accusativo Venerem20. Venere, da principio, è un neutro. Vichianamente è il neutro della variante del mito di Penelope: se la prima versione vuole che Odisseo tornando uccida i pretendenti (chiaro riferimento all’instaurazione della linea patrilineare), nella Scienza nuova Vico ricorda una seconda versione del mito ove Penelope «si prostituisce a’ Proci; communica i connubj alla plebe: e ne nasce Pane, mostro di due discordanti nature, umana, e bestiale»21. Ad aver prevalso è il mito di Odisseo, ma in questi passi risuona l’origine “altra”, una différance che nel suo cancellarsi istituisce l’orizzonte di ciò che si chiama civiltà e cultura. Il principio eterico risiedeva in quella “neutralità” che si spezza e rende Venus un femminile di contro a un maschile. Tornando al problema del tuono come superamento del principio eterico, qualcosa di analogo sul piano degli studi antro19 Riguardo all’espressione “Venere bestiale” Alfred Kallir mostra l’associazione tra Venere e la caccia (venari). Cfr. A. Kallir, Sign and Design. The Psychogenetic Source of the Alphabet, London 1961. Tr. it. Segno e disegno. Psicogenesi dell’alfabeto, a cura di F. Urbani Ferrario, Milano 1994, p. 496. 20 Cfr. G. Dumézil, Idées romaines, Paris 1969. Tr. it. Idee romane, a cura di M. Gabellini Baiardi, Genova 1987, p. 231. Sulla radice etimologica di “Venus” e il suo legame con “venari” cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Bern-München 1959, vol. III, p. 1146. 21 L’episodio, con minime variazioni, viene riportato in tutte le versioni della Scienza nuova. Cfr. G. Vico, La scienza nuova. Le tre edizioni, cit., pp. 302, 619, 1078.

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pologici, in prima approssimazione, è offerto dalla “regola” della proibizione dell’incesto, così come viene tematizzata in molti testi di Lévi-Strauss, in particolare in Strutture elementari della parentela. La domanda con cui si apre il testo è la seguente: «dove finisce la natura? dove comincia la cultura?»22. La proibizione dell’incesto rappresenta l’autentico “scandalo”: «essa costituisce una regola, ma è una regola che, unica tra tutte le regole sociali, possiede contemporaneamente un carattere di universalità»23. Spiegazioni semplicistiche, come quelle legate a teorie di eugenetica24 o all’orrore istintivo per le relazioni incestuose25, o combinazioni varie delle due (avanzate da Frazer, Durkheim, Spencer, Lubbock e altri) vengono smentite puntualmente dall’autore. Lévi-Strauss presenta la proibizione dell’incesto – proprio a motivo della sua universalità – come «il processo attraverso il quale la natura supera se stessa»26, formando una struttura di tipo nuovo, l’avvento di un nuovo ordine. In questo senso, al22 C. Lévi-Strauss, Les structure elementaires de la parenté, Paris 1947. Tr. it. Le strutture elementari della parentela, a cura di A. M. Cirese, Milano 1972, p. 40. 23 Ivi, p. 47. 24 A partire dagli articoli di Dahlberg, Lévi-Strauss rileva come l’idea di un indebolimento degli individui nati da rapporti endogamici venga smentita dal fatto che «l’umanità primitiva si trovava in una situazione demografica tale da non consentirle neppure la rilevazione dei dati» (ivi, p. 56); i “primitivi” cominciarono a selezionare le specie allevate e domestiche mediante processi di riproduzione endogamica che portano a una stabilizzazione del patrimonio genetico e quindi a un grado crescente di perfezione. 25 La tesi, sostenuta da Westermarck e Havelock Ellis, viene smentita dagli studi psicanalitici: le relazioni incestuose non generano ripugnanza, anzi costituiscono un fattore di seduzione, che però a sua volta dipende dall’atmosfera culturale. 26 Ivi, p. 67.

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cune eccezioni pur presenti rispetto al divieto27 – identificabili in alcune figure di sovrani o capitribù – non costituiscono una smentita dell’universalità della proibizione; le eccezioni più che confermare istituiscono la regola. Lévi-Strauss è perfettamente consapevole della “portata trascendentale” di un passaggio dalla dimensione naturale della consanguineità al fatto culturale dell’affinità28: la stessa distinzione tra consanguinei e affini si pone solo a partire dall’instaurarsi del nuovo ordine. La caratura della svolta trova la sua formulazione più efficace in Antropologia strutturale: un sistema di parentela non consiste nei legami oggettivi di filiazione o di consanguineità dati tra gli individui; esiste solo nella coscienza degli uomini, è un sistema arbitrario di rappresentazioni, non lo sviluppo di una situazione di fatto29.

Che vi sia qualcosa d’altro, oltre alla natura, ossia che la natura oltrepassi se stessa, è proprio quel “naturalmente impossibile” che chiamiamo “cultura”. Secondo Vico «il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione»30. Se decliniamo il tema in chiave civile allora otteniamo che «la di lei [scil. della poesia] propia materia è l’impossibile credibile, quanto egli è impossibile, ch’ i corpi sieno menti, e fu creduto, che ’l Cielo tonante si fusse Giove»31. Vico scrive «che l’uomo caduto nella disperazione di tutti i soccorsi della Natura, disidera una cosa superiore, che lo salvasse: ma cosa superiore alla Natura è Iddio»32. La struttura che si

27 Eccezioni peraltro note a Lévi-Strauss. 28 Cfr. p. 72. 29 Id., Anthropologie structurale, Paris 1958. Tr. it. Antropologia strutturale, a cura di P. Caruso, Milano 19808, p. 65. 30 Ivi, p. 869. 31 Ivi, p. 921. 32 G. Vico, SN [1744], p. 899.

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crea per mezzo della proibizione dell’incesto è letteralmente quel comportamento (che solo in epoca successiva si chiamerà “nozze”) da cui poi si sono fantasticate le divinità. Pur dovendosi per così dire inchinare di fronte ai “meccanismi biologici”, la cultura «impotente davanti alla filiazione – scrive Lévi-Strauss – prende coscienza dei suoi diritti, e contemporaneamente di se stessa»33. La cultura non può alterare quelle che lei stessa ha individuato ed espresso come “regole biologiche” dell’accoppiamento: la cultura è però la scoperta e la presa di consapevolezza che sull’accoppiamento «la natura non ha ancora detto tutto»34. Ecco il dialogo teatrale, inscenato su un palcoscenico trascendentale da parte di Lèvi-Strauss: La cultura può affermare “prima io”. E proclamare alla natura “tu non andrai oltre”35.

L’accoppiamento – il paragone è sempre di Lévi-Strauss – è l’incastro fornito dalla natura in cui la cultura può fissare la cerniera: «la cultura ha riempito questa forma vuota»36; il riempimento è la Regola che sostituisce l’organizzazione al caso-naturale: in materia di relazioni tra sessi «non si può più fare qualsiasi cosa»37. Il demiurgo del Timeo persuade la necessità e costituisce il cosmo38. Lévi-Strauss non legge l’incesto come proibizione sic et simpliciter, ma svolge il tema in forma positiva. Non è proibizione, bensì rinuncia collettiva che dà luogo alla possibilità di uno scambio generalizzato e dunque di un’alleanza estesa39 dalla 33 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari, cit., p. 73. 34 Ibidem. 35 Ivi, p. 74. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 88. 38 Plat. Tim, 48 a 2-3. Tr. it. Timeo, a cura di G. Reale, Milano 2000, p. 139. 39 Teoria già presente in S. Freud, Totem und Tabu, in Gesammelte Werke,

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quale sorge l’idea stessa di comunità: «l’esogamia è lo sforzo permanente verso una più grande coesione»40. Al termine della sua ricognizione sulle strutture parentali Lévi-Strauss arriva a questo momento di sintesi: l’ambiente sociale non è mai cornice vuota, ma un campo gravitazionale di forze e distanze tra le cose41. Non si può leggere il matrimonio alla luce della singola unità familiare: il matrimonio si regge sullo scambio generalizzato; ognuno rinuncia a madre, sorella e figlia a patto che tutti gli altri rinuncino rispettivamente alle proprie. Lèvi-Strauss s’inventa un dialogo immaginario tra un etnologo e alcuni indigeni. Dinnanzi alle domande insistenti sulla ragione del divieto dell’incesto, gli interrogati verosimilmente risponderebbero: Ma che ti prende? Non vuoi avere un cognato? Non capisci che se tu sposi la sorella di un altro, e un altro sposa tua sorella, avrai almeno due cognati, e se invece sposi tua sorella non ne avrai nemmeno uno? E con chi andrai a caccia? Con chi farai le coltivazioni? Chi andrai a visitare?42.

Il rapporto tra incastro e cerniera è il seguente: «Per perpetuare la specie e quindi la colleganza sociale, si deve cedere alla natura, occorre almeno che la si smentisca mentre le si

Frankfurt a.M. 1954, vol. IX. Tr. it. Totem e Tabù, a cura di S. Daniele, Milano 20132, p. 138, che riprende la tesi del “cooperative magic” presente in J. Frazer, Totemism and Exogamy, London 1910, vol. I, p. 117. 40 Ivi, p. 615. 41 Cfr. ivi, p. 617. Cfr. J. Lacan, Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse, in Écrits, Paris 1966. Tr. it. Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti, a cura di G. Contri, Torino 1974, p. 278: «già un Lévi-Strauss, suggerendo l’implicazione delle strutture del linguaggio e di quella parte delle leggi sociali che regola l’alleanza e la parentela, conquista già il terreno stesso in cui Freud situa l’inconscio». 42 Ivi, p. 621. Corsivo nostro.

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cede, e che al gesto che si compie verso di lei se ne accompagni uno che la limiti»43. Ora presentiamo il passo centrale: E poiché si presentano due casi, uno in cui bisogna introdurre la natura perché la società può tutto, e l’altro in cui la natura deve essere esclusa poiché questa volta è lei a regnare, il compromesso tra natura e cultura si stabilisce in due modi: nei confronti della filiazione affermando il principio unilineare, e nei confronti del matrimonio instaurando i gradi proibiti44.

Il problema si divide in due questioni. Innanzitutto l’umanità – nella promiscuità naturale – potrebbe riprodursi nel modo più vario. Si pensi a una figliata di gatti: in poco tempo si avrà una confusione inestricabile sui rapporti di parentela45. A priori l’umanità potrebbe seguire qualsiasi regola o nessuna (appunto, “può tutto”): la natura introduce il principio unilineare – qui è del tutto indifferente che si opti per una linea matrilineare o per una linea patrilineare. In secondo luogo, però, la natura dev’essere al contempo esclusa perché – stando a quanto essa concede – si rischierebbe, nuovamente, ma per opposte ragioni, una confusione totale: la biologia non impedisce rapporti con consanguinei. Qui allora si insinua la cultura che instaura i gradi proibiti, ovvero l’interdizione dell’incesto. Per un verso la società è onnipotente e viene limita mediante la natura, per l’altro verso quest’ultima appare onnipotente e trova in una regola sociale la propria limitazione: così la si smentisce proprio nell’istante in cui le si cede. L’unilinearità sembra una concessione fatta alla natura, in realtà è piuttosto 43 Ivi, p. 627. 44 Ibidem. 45 Cfr. R. Girard, La Violence et le sacré, Paris 1972. Tr. it. La violenza e il sacro, a cura di O. Fatica e E. Czerkl, Milano 20119, p. 309.

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la più solenne smentita del ventaglio delle possibilità naturali mediante la proibizione dell’incesto. Scrive Vico sui bestioni atterriti dal tuono: diedero principio a’ matrimonj; per gli quali con certe mogli fecero certi figliuoli46.

Il matrimonio è stabilito nel modo seguente: con certe mogli (ovverosia non con tutte, poiché ci sono delle proibizioni) fecero certi figliuoli (ossia figli che non sono di chiunque, ma propri di una certa coppia). Queste sono esattamente le due questioni individuate da Lévi-Strauss: “certe mogli” indicano la proibizione dell’incesto; “certi figli” l’unilinearità. Vico ha concentrato in un unico termine unilinearità e proibizione, ossia quella resa alla natura che è insieme la sua smentita. Il “certum” si pone così come passaggio dalla natura alla cultura. «E ne divennero certi padri; e sì fondarono le Famiglie»47. Nel “certo” si concentrano due significati: da un lato l’univocità, ossia un certo figlio significa “figlio di una certa coppia non confondibile con un’altra coppia”; dall’altro però “con certe mogli” significa “non tutte le donne possibili, ma solo alcune” e tale regola vale soltanto in virtù di un principio di reciprocità. Più precisamente, adoperando l’esempio di LéviStrauss: A cede una figlia o una sorella a B, che ne cede una a C, che, a sua volta, ne cederà una ad A (questo è il modello più semplice). Bisogna confidare che “una donna ricevuta verrà a compensare la donna inizialmente ceduta”48. Fiducia e fede fondano e aprono il credito. In ultima analisi tutto il sistema esiste solo perché il gruppo che l’adotta è pronto a speculare nel senso più lato del termine49. 46 G. Vico, SN [1744], p. 1256. 47 Ibidem. 48 Cfr. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari, cit., p. 360. 49 Ibidem.

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“Ogni membro è disposto a speculare”: ciascuno cede donne a motivo dell’aspettativa di riceverne. Le mogli sono “certe” e non altre perché diventano per così dire “speculari”: ognuno rinuncia alle proprie consanguinee per avere accesso alle affini; ma le affini, di per sé, sono tutte equivalenti. Il “certo” dunque tiene insieme univocità e specularità. Questa “ambivalenza” può risultare significativa se connessa a un recente studio di M. Varvano, dal titolo Storia del certum, dove si avanza la tesi per cui il vocabolo “certum” sarebbe strettamente legato alle nozioni di pondus, numerus e mensura50: tale termine si sarebbe formato e consolidato all’interno di una economia premonetaria dove vi era l’esigenza di stabilire l’esatto peso di metallo impiegato come mezzo di scambio per un oggetto51. Dunque “certum” sarebbe una quantità determinata di lega metallica equivalente appunto a una certa merce: ma questa quantità univoca di metallo è ora “speculare” a quella certa quantità di merce, ossia “vale” quella merce, ma in generale. Quella certa quantità di merce varrà sempre e ovunque quella certa quantità di metallo52. Rendere univoco significa trovare la misura fungibile: univocità è insieme reciprocità. Torniamo solo per un istante a Lévi-Strauss e all’idea che la cultura riempie i vuoti lasciati dalla natura strutturandoli e organizzandoli, smentendola nel momento in cui le si cede. Nei termini di Lévi-Strauss, più esattamente, «la proibizione

50 Per le occorrenze di “certum” legate a questi tre elementi cfr. M. Varvano, Storia del certum, Torino 2008, pp. 32-33. 51 Cfr. ivi, pp. 305-307. 52 Questa ambivalenza di univocità e fungibilità del certum costituisce anche la chiave di volta del dramma ne Il mercante di Venezia di Shakespeare. La legge relativa alla libbra di carne viene giocata in una drammatica ambivalenza.

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dell’incesto costituisce una forma d’intervento. […] essa più esattamente è l’intervento»53. L’instaurazione della cultura è quel certo intervento che instaura la misura della civiltà. Legge e supplemento: Vico e Derrida Nel suo Della grammatologia Derrida riprende alcune tesi di Lévi-Strauss sullo scandalo costituito dall’incesto e traccia tuttavia una ricerca più ampia che arriva a coinvolgere l’Emilio di Rousseau. Quello che Lévi-Strauss chiama “l’intervento” per Derrida equivale esattamente all’inizio della cultura in quanto fono-logo-centrismo, segno che si instaura al posto della cosa, “prima” come supporto/supplemento, ma “insieme” come suo sostituto. Andando dal supplemento all’accecamento, «il cieco non può vedere, alla sua origine, proprio ciò che egli produce per supplire alla propria vista. L’accecamento al supplemento è la legge»54. La ragione non vede la duplice effrazione – che vi sia mancanza nella natura e che vi si sia aggiunto qualcosa55 – ossia «la ragione è impotente a pensare questo; essa è costituita da questa impotenza. Essa è il principio di identità. È il pensiero dell’identità a sé dell’essere naturale»56. Il luogo centrale è l’Emilio di Rousseau: «non sostituite mai il segno alla cosa se non quando vi è impossibile mostrarla; poiché il segno assorbe l’attenzione del fanciullo e gli fa dimenticare la cosa rappresentata»57. Tralasciando per un istante l’in-

53 Ivi, p. 75. 54 Cfr. J. Derrida, De la grammatologie, Paris 1967. Tr. it. Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Milano, 20122, p. 207. 55 Cfr. ibidem. 56 Ibidem. 57 J. J. Rousseau, Emilio, cit., p. 460. Cfr. Della grammatologia, cit., p. 254.

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tima affinità con un passo dell’Autobiografia vichiana – dove si dice che il metodo algebrico «affligge l’ingegno, perché non vede se non quel che li sta innanzi i piedi; sbalordisce la memoria, perché, ritruovato il secondo segno, non bada più al primo»58 – il punto focale dell’Emilio riguarda la sostituzione della cosa per mezzo del segno, in questo frangente Derrida riconosce appunto la “supplementarietà” che, avviando la sostituzione del significato mediante un significante, fa sorgere la cultura stessa. Questa cosa impossibile a mostrarsi, secondo Derrida, è la donna naturale, che infatti appare già da sempre sostituita con la “natura”, la “madre” o la “sorella”. Accade qui uno spostamento originario del rapporto con la madre: tale spostamento è il movimento stesso della supplementarietà che nel suo essere si sottrae e può esser esibito soltanto mediante significanti. C’è un punto nel sistema in cui il significante non può più essere sostituito dal suo significato, dal che consegue che nessun significante possa essere tale, puramente e semplicemente. Poiché il punto di non sostituzione è anche il punto di orientamento di tutto il sistema di significazione. […] è al tempo stesso detto e interdetto da tutti i segni59.

Derrida riprende quasi alla lettera il tema vichiano della immagine di Donna che ci è affatto negato formare con la fantasia: «la vasta immagine di cotal Donna, che dicono la Natura Simpatetica; che mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in lor mente; perocchè la lor mente è dentro il falso, ch’è nulla; né sono soccorsi dalla Fantasia a poterne formare una falsa vastissima immagine»60. Essa è nulla. Può esser detta, senza 58 G. Vico, Autobiografia, in Opere, a cura di F. Nicolini, Milano 1953, p. 18. 59 J. Derrida, Della grammatologia, cit., pp. 354-355. 60 G. Vico, SN [1744], p. 919.

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però che il suo significante trovi corrispondenza in un significato. Da questa sostituzione nasce la cultura e perciò «affatto immaginar non si può come pensassero i Primi uomini»61: la discesa verso le menti balorde trova in tale istante il proprio punto d’arresto. Questo momento di sostituzione finisce per orientare l’intero sistema proprio perché «ciò che inaugura il movimento della significazione – scrive Derrida – è ciò che rende impossibile l’interruzione. La cosa stessa è un segno»62. L’impossibilità dell’interruzione coincide con l’impossibilità di recuperare il significato alle spalle del significante: ciò accade nella sostituzione della donna naturale, dando un’organizzazione alla cieca necessità – si cede-smentendo. Il movimento della significazione è l’interdetto simultaneo alla trasgressione: «ciò che av(viene) sempre e (tuttavia) non ha propriamente mai luogo. È sempre come se avessi commesso un incesto»63. Questo è il cuore della grammatologia: «la differenza produce ciò che interdice, rende possibile proprio ciò che rende impossibile»64. Lacan nota come Lévi-Strauss, indagando le leggi sociali che regolano l’alleanza e la parentela, conquista lo stesso terreno in cui Freud situa l’inconscio65: che cos’è l’incesto? La traccia di una “singolarità” che si cancella accedendo all’universale come sistema delle parentele, delle alleanze, dei significati. Con l’avvento di una comunità universale i limiti della soggettività sono «ciò che il soggetto può conoscere della sua partecipazione inconscia al movimento delle strutture complesse

61 Ibidem. 62 J. Derrida, Della grammatologia, cit., pp. 75-76. 63 Ivi, p. 355. 64 Ivi, p. 200. 65 Cfr. J. Lacan, Funzione e campo, cit., p. 278.

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dell’alleanza, verificando nella sua esistenza particolare gli effetti simbolici del movimento tangenziale verso l’incesto»66. Affinché il “regno della cultura” possa sovrapporsi al “regno della natura”, l’haecceitas di questo individuo, il suo scarto singolare, dovrà essere assorbito nella comunità universale; al contempo la cieca necessità dell’accoppiamento – rispetto a cui ogni “singolo” appare in-differente – dovrà assumere un verso, un orientamento. La legge primordiale è dunque quella che regolando l’alleanza sovrappone il regno della cultura al regno della natura, in balia della legge dell’accoppiamento. La proibizione dell’incesto non ne è quindi che il cardine soggettivo, messo a nudo dalla tendenza moderna a ridurre alla madre e alla sorella gli oggetti proibiti alle scelte del soggetto, senza che del resto si dia licenza aldilà67.

La legge dell’incesto è differenza costituente: è luogo in cui la soggettività sorge nel suo scomparire. Tale “proibizione” istituisce quel logicamente inafferrabile che è l’individuum proprio nell’atto in cui lo innesta nel dispositivo dell’universale, «rende possibile proprio ciò che rende impossibile»68. L’incesto è punto di sutura69, in cui accade il gesto dell’archiscrittura: «pensare l’unico nel sistema, iscrivervelo»70. Lo spostamento del rapporto con la madre71 è il luogo in cui nessun significante può più essere sostituito dal suo significato. Ecco il cardine soggettivo: il singolo viene incardinato nel sistema.

66 Ivi, p. 270. 67 Ibidem. Corsivo nostro. 68 Ivi, p. 200. 69 J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 152. 70 Ivi, p. 161. 71 Ivi, p. 354.

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Il significante “madre” non indica soltanto quella donna determinata che è la “madre” di un “unico” che la nomina: nel significante “madre”, come supplemento, si nomina infinitamente di più, ossia la natura, la cosa stessa ormai differita nel sistema di significazione. Questo è il significato fondamentale che si cancella nel gioco della cultura: quella vasta immagine di cotal Donna, direbbe Vico, «che mentre con la bocca dicono, non hanno nulla in lor mente»72. Non è frutto di mera coincidenza il fatto che Lévi-Strauss dedichi le ultimissime pagine del suo studio sulle parentele all’analogia tra donna e segno: «le donne stesse sono trattate come segni dei quali si abusa quando non se ne fa l’impiego spettante ai segni, che è quello di essere comunicati»73. LéviStrauss finisce per accostare linguaggio ed esogamia come due soluzioni al medesimo problema: l’inaugurazione della società è il suo differirsi. Le parole sono univoche solo se vengono scambiate; solo all’interno di questa reciprocità sono certe. Per dirla con Lacan: «la vita dei gruppi naturali che costituiscono la comunità è sottomessa alle regole dell’alleanza, che ordina il senso nel quale si opera lo scambio delle donne, e alle prestazioni reciproche che l’alleanza determina»74. Edipo “cancelliere” della differenza L’esatta controparte dello spostamento originario della madre naturale in cui consiste la nascita della civiltà come sostituzione della cosa mediante il segno, del significato mediante il significante, è presente negli studi di René Girard sulla violenza mimetica e sul capro espiatorio quali dinamiche di ri-

72 G. Vico, SN [1744], p. 919. 73 C. LéviStrauss, Le strutture elementari, cit., pp. 634-635. 74 J. Lacan, Funzione e campo, cit., p. 269.

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generazione della coesione civile. Se agli occhi di Derrida la madre naturale viene “spostata” mediante l’instaurarsi della proibizione dell’incesto, che rende possibile proprio ciò che rende impossibile, nell’ottica di Girard Edipo (parricida e incestuoso) rappresenta l’escluso a partire dal quale la comunità può tornare a edificarsi e a consolidarsi. Forse il punto di partenza migliore per indicare il metodo di Girard è il timore dei gemelli all’interno delle società antiche75: la presenza di questo doppio sulla stessa “casella sociale” costituiva un problema nell’articolazione parentale che opera per differenziazioni. Specularità è reciprocità, ma la perfetta specularità conduce all’indifferenziazione76: dove le “ragioni” si equivalgono non è più possibile alcuna “bilancia di giustizia”, dunque si apre il campo della “violenza senza ragione”77. Il mito tragico sarebbe proprio una «non-differenza rappresentata»78 che finisce appunto per apparire come «la differenza per eccellenza, quella che definisce il mostruoso»79. Edipo è il caso emblematico: lungo l’intero arco della tragedia intreccia una violenza mimetica con Tiresia da un lato e con Creonte dall’altro, sino a quando Edipo, in virtù di parricidio e incesto, «ci appare come un’eccezione mostruosa; non assomiglia a nessuno e nessuno somiglia a lui»80. Ora scatta la dinamica del capro espiatorio: Edipo trasgredisce esattamente il principio unilineare (parricidio) e il grado proibito (incesto). Chiosa Girard: «il colpevole trasgredisce la differenza più fon-

75 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 87. 76 Accade come se nei gemelli la cieca necessità tornasse a emergere rispetto all’organizzazione demiurgica. 77 Cfr. ivi, p. 72. 78 Ivi, p. 97. 79 Ibidem. 80 Ivi, p. 108.

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damentale, più elementare e più imprescindibile. Diventa, letteralmente, l’assassino della differenza»81. Sarebbe bello incrociare queste tesi di Girard con alcuni rilievi di Vernant attorno a Edipo: l’eroe risponde all’enigma della Sfinge mediante l’universale “uomo”, mentre l’autentica risposta all’enigma è proprio legata alla sua singolarissima individualità. Edipo, l’adulto a due piedi, è infatti identico a suo padre, il vecchio, i cui passi si aiutano con un bastone, questo “tre piedi” di cui ha preso il posto alla testa di Tebe fino nel letto di Giocasta – identico anche ai suoi bambini che camminano a quattro zampe e che sono simultaneamente suoi figli e suoi fratelli82.

La risposta di Edipo all’enigma della Sfinge è già “spostata” direbbe Derrida: è il significante che aggiunge e alla fine sostituisce il segno alla cosa. Edipo parla già per “significanti” perché lui stesso custodisce il significato e lo differisce: si tratta di quella “differenza cancellata” da cui prende avvio la civiltà dei segni come rimando infinito. Edipo «espone la comunità allo stesso pericolo dei gemelli»83. Sdoppiando quel posto che nel sistema segnico della comunità dovrebbe essere destinato a un unico individuo, i gemelli ricordano esattamente quella “differenza” rispetto a cui la ragione si trova accecata. Nei gemelli, sacri al matriarcato, la natura affiora “contestando” con la sovrabbondanza della fecondità lo schema parentale costruito dalla legge universalmente determinante84.

81 Ivi, p. 111. 82 J.-P. Vernant, Mythe et tragédie deux, Paris 1986. Tr. it. Mito e tragedia II. Da Edipo a Dioniso, a cura di C. Pavanello e A. Fo, Torino 1991, p. 41. 83 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 112. 84 Cfr. E. Zolla, Lo stupore infantile, Milano 20085, p. 123.

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Allo stesso modo Edipo risponde con l’universale “uomo” all’enigma della Sfinge (egizia, simbolo dunque del principio eterico): adopera tale linguaggio risolutore perché Edipo è il “cancellatore della differenza”, anzi, diciamo così, il suo “cancelliere”, nel senso che vi legifera e insieme però la custodisce in sé. Edipo si rivela come identità mostruosa che minaccia di far crollare l’intera struttura parentale su cui si fonda la comunità – nel mito lo sgretolamento viene simboleggiato dalla peste che colpisce Tebe. Nell’interpretazione offerta da Girard, i delitti di Edipo, la cui mostruosità dovrebbe riguardare tutti o nessuno, «diventano l’affare di uno solo»85, di quell’individuo sul quale si trasferisce l’intera violenza della comunità. Nessuno più è affine a Edipo: il diverso, in quanto privo di legami che perpetuerebbero una violenza mimetica all’interno della comunità, può essere cacciato senza che qualche membro ne tragga il pretesto per vendicarlo e per proseguire la spirale della violenza. Anzi, il diverso è cacciato all’unanimità: la violenza mitica si placa. La città diviene improvvisamente unanime nel cacciare Edipo: è Edipo stesso ad aver emanato il decreto che lo condanna. Il transfert collettivo, l’unanimità violenta, è «il peggiore dei misconoscimenti»86 e priva gli uomini di un sapere: «la violenza collettiva fa subentrare l’ignoranza più completa. Essa cancella d’un sol tratto i ricordi del passato»87. Per conoscere si deve negare la cosa, entrare nell’ignoranza della cosa: è la disgrazia del pensare. La vittima espiatoria come perno della violenza mitica non “simboleggia” il passaggio, lo è. La traccia88 deve proprio scom-

85 Ivi, p. 113. 86 Ivi, p. 121. 87 Ibidem. 88 Cfr. ivi, p. 124.

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parire affinché la comunità torni a funzionare … è la traccia di una differenza tra cosa e segno, tra significato e significante, incarnata da Edipo. In Edipo si concentra – e insieme si sopprime – la differenza tra l’ “uomo” e quell’individualissimum che rimane indicibile e che tuttavia vien sempre ri(con)dotto a “uomo”. Edipo blocca la spirale della violenza mimetica: il rilievo di Girard incontra l’osservazione di Lévi-Strauss circa l’incesto come «il “limite” della reciprocità, e cioè il punto in cui essa si annulla»89. Edipo è il punto che sostituisce e cancella la traccia della sostituzione: è colui che si esclude affinché la comunità possa continuare a sussistere sulla base dello scambio generalizzato. Questa lettura riguarda tanto il sistema parentale quanto il sistema dei segni; anzi, a rigore, il sistema parentale è soltanto un caso di linguaggio, in quanto instaurazione della cultura che va oltre la pura e semplice natura mediante il supplemento che assume funzione vicaria a tutti gli effetti. Divennero certi padri Certi padri fondano le famiglie. Qualsiasi simmetria di genere cede il passo all’asimmetria da cui sorge la struttura di parentela a base patriarcale. Per usare una formula celebre, Vico ha in destino di essere innamorato dell’antichissima sapienza degli Italici, celebrata anche nella Scienza nuova: i Romani “caminarono nella Storia” con «giusto passo»90, rispetto ai Greci che affrettarono “lo natural corso” con la loro filosofia91. Queste remotissime origini italiche – rivendicate da Vico con l’intento esplicito di emancipare la tradizione latina dalla no-

89 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari, cit., p. 586. 90 G. Vico, SN [1744], p. 863. 91 Cfr. ibidem.

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mea di pedissequa imitazione della cultura greca – troveranno un’inaspettata conferma in alcuni studi di linguistica della seconda metà del Novecento: nel suo vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Benveniste fa notare come «il nome rappresentato da “rex” appare solo alle due estremità del mondo indoeuropeo e manca nella parte centrale»92. Da una parte – nella zona più occidentale – si trova “rex” in latino, l’irlandese “ri” e il gallico “rix” (da cui per esempio Vercingeto-rix): si tratta del tema nominale “*reg-”93 da cui discendono rex, regere (da cui regio), ma anche rectus, regula, e il tedesco Recht. All’altro capo del panorama indoeuropeo troviamo la stessa radice “rāj-(an)” in sanscrito, da cui il composto “sam-rāj”, “re comune a tutti”. La regalità ellenica, invece, si esprime nei termini “βασιλεύς” e “wánaks” che nulla hanno in comune con il tema “*reg-”: «la concezione “più moderna”, più “democratica”, che si manifesta nella società greca e germanica – conclude Benveniste – ha dovuto realizzarsi in modo indipendente. […] mentre l’India e Roma sono sotto questo aspetto profondamente conservatrici»94. Almeno sul piano prettamente linguistico e sociologico, l’intuizione di Vico parrebbe dunque confermata: Roma può vantare un’origine tanto arcaica quanto il resto dell’orizzonte indoeuropeo, mentre a costituire “un’eccezione innovativa” sarebbe la cultura greca. Vico si dedica allo studio di questa nazione dal giusto passo, cui anche Bachofen riconoscerà un ruolo imprescindibile nell’a-

92 E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris 1969. Tr. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, a cura di M. Liborio, Torino 2001, vol. II, p. 291. 93 Cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. III, pp. 854855: dalla radice “reg” derivano sia “rájas” sia “rex”; riguardo alla lingua greca si cita il verbo “ὀρέγω”, cui non corrisponde alcuna forma sostantivata. 94 Ivi, p. 306.

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ver consolidato il principio patrilineare, soprattutto grazie a quelle idee romane della civitas e dell’imperium, entrambe connesse a una forma giuridica rigorosa95. Come si vedrà, il “giusto passo” romano – che Vico contrappone al corso affrettato della filosofia greca – è dettato dal diritto96: dal diritto sorge quell’urbs che raccoglierà il mondo sotto un’unica lex. Le due asimmetrie su cui si vorrebbe qui insistere sono state tematizzate da Benveniste. a. La prima riguarda lo scarto esistente tra pater e mater in riferimento ai loro derivati aggettivali: Benveniste cita l’assenza di “*matrius” rispetto all’aggettivo “patrius”97. È appena il caso di notare che da pater deriva sia il termine latino “patria” sia la nozione giuridica tipicamente romana di “patria potestas”. Dalla parte di mater l’aggettivo derivato è “maternus”, che dapprima fa coppia con “patrius”98; in seguito sorgerà per creazione analogica anche l’aggettivo “paternus”, che progressivamente soppianterà “patrius”; quest’ultimo resterà soltanto in espressioni consacrate – come appunto “patria potestas”. A proposito di tale formula, dall’identica radice “pa”/“po”99 derivano per un verso “potis”, “posse”, “potestas”, ma anche “des-pótēs”, e per l’altro “pa-ter”100, dal momento che “ter” dev’essere considerato suffisso di parentela per eccellenza: si pensi a *pəter, *mātēr, *dhugh(ə)ter, *bhrāter101.

95 Cfr. J.J. Bachofen, Das Mutterrecht, cit., p. 57. Tr. it. vol. I, p. 52. 96 Cfr. P. Piovani, Ex legislazione philosophia, in «Filosofia», XI, 2, 1960, pp. 229-260. 97 Sul rapporto “pater”-“mater” cfr. E. Benveniste, Il vocabolario, cit., vol. I, in particolare p. 167. 98 Cfr. ivi, p. 206-209. A p. 207 Benveniste cita la formula latina “non patrio sed materno nomine”. 99 Cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. III, p. 842. 100 Ibidem, p. 829. 101 Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario, cit., p. 194.

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b. La seconda asimmetria riguarda il diverso campo semantico determinato dai termini “patri-monium” e “matri-monium”, che intuitivamente dovrebbero mostrare una certa simmetricità. I termini derivati in “monium” sono tutti termini giuridici (si pensi a testimonium, mercimonium, vadimonium)102. Matrimonio quindi significherebbe “condizione legale di mater”: è la condizione a cui la fanciulla accede. Dunque, sottolinea Benveniste: «matrimonio significa per lei non un atto, ma un destino»103. Le espressioni latine “dare filiam in matrimonium”, “alicuius filiam ducere in matrimonium” riguardano il padre; per la figlia è riservata la formula “ire in matrimonium”. Qui si constata anche la differenza rispetto al “patrimonium”: solo il padre può possedere, e ciò spiega anche perché non si trovi l’aggettivo “*matrius”, ma soltanto “maternus”. Questo breve preambolo filologico consente di porre nel giusto rilievo il lampo vichiano costituito dall’aforisma «e ne divennero certi padri; e sì fondarono le Famiglie»104. Vico ha senza dubbio in mente l’antico adagio latino “mater certa, pater incertus”. Qui si colloca l’autentica nascita del diritto civile in contrapposizione a ciò che l’immediatezza della natura potrebbe suggerire: catastroficamente il pater diventa certus! Su questa “certezza artificiale” si fonda la famiglia. Qui sorge – anche secondo Otto Rank105 – l’asimmetria fondamentale: siccome la provenienza materna (certissima) è considerata 102 Cfr. ivi, pp. 186-187. 103 Ivi, p. 186. 104 G. Vico, SN [1744], p. 1256. 105 Cfr. O. Rank, Der Mythus von der Geburt des Helden. Versuch einer psychologischen Mythendeutung, Wien-Leipzig 1909. Tr. it. Il mito della nascita dell’eroe, a cura di F. Marchioro, Milano 1978, pp. 80-81. Inoltre cfr. Id., Das Inzest-Motiv in Dichtung und Sage, Wien-Leipzig 1912. Tr. it. Il tema dell’incesto. Fondamenti psicologici della creazione poetica, a cura di F. Marchioro, Milano 1994.

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ormai immutabile e ineludibile, l’attenzione si concentra sul padre. Costui agli occhi del bimbo diventerà dapprima fonte dell’autorità e in un secondo tempo baluardo da abbattere per conquistare la propria autonomia. Alla certezza biologico-naturale della madre deve associarsi una certezza per così dire “culturale”: è la dinamica dello “smentire cedendo”, descritta da Lévi-Strauss. «La famiglia elementare non è cellula costituente – chiosa Girard – ma il risultato dei sistemi di parentela»106. È chiaro che nessun sistema potrà essere tanto arbitrario da contraddire la “verità biologica”, ma tale “verità” può apparire soltanto in quanto già inscritta all’interno di un contesto culturale. Hegel condensava quasi aforisticamente la questione nelle pagine della Scienza della logica: «e il sorpassare l’immediato è l’imbattersi in esso»107. La verità biologica costituisce a sua volta un risultato: non è da sempre saputa, è stato possibile raggiungerla perché siamo inseriti in un certo movimento-storico e dunque in una certa struttura-culturale. Nel linguaggio vichiano – si tratta del IX degli “Elementi” – il tema trova una sua formulazione nei termini seguenti:

106 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 311. Secondo Girard, non bisogna ammettere la dimensione biologica come verità del sistema: essa non corrisponde alla natura, ma appartiene interamente alla cultura (cfr. ivi, pp. 311-312); non c’è verità che non appaia già mediata (cfr. ivi, p. 313). Qui l’argomento di Girard tende a far risaltare come – data per scontata l’arbitrarietà di qualsiasi sistema parentale – la concezione della famiglia elementare, riducendo al minimo il divieto necessario e sufficiente sotto il profilo biologico, arrivi a coincidere con il principio esogamico ridotto ai minimi termini. 107 G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik II [1816], in Werke, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Frankfurt a.M. 1970, vol. VI, pp. 27-28. Tr. it. Scienza della logica, a cura di A. Moni (riv. da C. Cesa), Roma-Bari 20048, vol. II, p. 447.

34 Gli uomini, che non sanno il vero delle cose, procurano di attenersi al certo; perchè non potendo soddisfare l’intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza108.

Il certum come individuazione/reciprocazione che pone in essere qualsiasi linguaggio, anche quello parentale, è l’emblema della civiltà, è paradigma della sua “inaugurazione” come squilibrio, come “asimmetria di rapporti” senza cui non vi sarebbe letteralmente quello spazio-culturale. Qui prende corpo la tesi di Lévi-Strauss, già citata in precedenza, secondo cui l’ambiente sociale non è mai cornice vuota, bensì un campo gravitazionale di forze e distanze tra le cose109. Scrive Bachofen, per la verità citando a sua volta Cuiacio: «madre è vocabolo del diritto naturale e non civile, mentre adozione è del diritto civile»110. E ancora, si parla unicamente di pater adoptivus: «nessuno è di madre adottiva»111. Sull’importanza della patria potestas si deve citare uno studio significativo condotto da Lobrano, secondo cui il concetto di potestas, appunto, «precede logicamente (e, secondo il suggerimento del Devoto112, anche cronologicamente) quello di familia»113 poiché la famiglia viene concepita come pluralità di persone “sub unius potestatis aut natura aut iure subiectae”114 – secondo la formula di Ulpiano, dove la “unius potestas” non

108 G. Vico, SN [1744], p. 860. 109 Cfr. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari, cit., p. 617. 110 J.J. Bachofen, Das Mutterrecht, cit., p. 77. Tr. it. vol. I, p. 71. Cfr. Cuiacio, Opera, Napoli 1722, vol. V, p. 157. 111 J.J. Bachofen, Das Mutterrecht, cit., p. 77. Tr. it. p. 71. Cfr. Paolo, Digestorum libri 48, tomo IV, 5.7. 112 Cfr. G. Devoto, Origini indoeuropee, Firenze 1962, p. 226. 113 C. Lobrano, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria potestas, Milano 1984, pp. 28-29. 114 Cfr. Ulp. D., L, 16, 195, 2. Cfr. Lobrano, Pater et filius, cit., p. 29.

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è conseguibile per “natura”, ma soltanto “di diritto”. L’alternativa aut natura aut iure, in realtà è già tutta sbilanciata sul secondo lato. Ancora più significativa è un’altra formula – che dà il titolo all’intero saggio – tratta dal Codex Iustinianus: «cum et natura et pater et filius eadem persona paene intelleguntur»115, ossia “anche per natura, padre e figlio si intendono quasi come una stessa persona”. Sul piano naturale il figlio potrà essere identificato di per sé con la madre (mater certa): che vi sia un’identificazione con il padre è proprio il sigillo del supplemento culturale mediante cui si individua il singolo: «il filius – precisa Lobrano – non è impedito ad avere una propria persona a causa della patria potestas ma, al contrario, la realizza precisamente in quella medesima potestas che costituisce la “essenza” del pater e della sua persona»116. La “certezza” paterna è dunque il supplemento culturale che consente di stabilire l’ordinamento delle generazioni: ciò trova corrispondenza nell’antica radice accadica da cui discenderebbe il termine “certum”, ossia “karātu”117, che significa “stabilire”, “porre fermamente”, da cui il latino “cerno”, che genera tanto “decretum” quanto “discrimen” – medesima radice indoeuropea “skerī – skrēi”: da qui anche il greco “κρίνω” e “κρίσις”118. Insieme il participio “cretum” farebbe pensare a un’altra probabile derivazione, ossia da “cresco”: la verità delle cose dipende da questa “crescita” in cui consiste appunto lo sviluppo storico di una civiltà.

115 CI. 6, 26, 11. Cfr. Lobrano, Pater et filius, cit., p. 31. 116 Ivi, p. 36. 117 G. Semeraro, Le origini della cultura europea. Dizionario etimologico, Firenze 20082, vol. II, tomo II, p. 366. 118 Cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. III, p. 946.

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La cultura si fonda “naturalmente” su queste sfasature, su queste diversificazioni di ruoli che danno luogo a gerarchizzazioni implicite. Dove “naturalmente” dev’essere inteso secondo rigorosi termini vichiani: «Natura di cose altro non è, che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise; le quali sempre, che sono tali, indi tali, e non altre nascon le cose»119. Nel pensiero vichiano la “natura di cose” coincide con la storia. Dire “naturalmente” equivale a dire “storicamente”. “Attenersi al certo” è il primo diritto naturale delle genti – dove “naturale” non reca più in se stesso alcunché dell’immediatezza originaria: indica piuttosto quel certo superamento. Così sorge l’equità civile che scrupolosissima custodisce le parole: la scrupolosità costituisce l’emblema della “constantia”, caratteristica principe della iuris-prudentia120. Qui si apre – con tragica consapevolezza – la concezione vichiana della civiltà come clinamen che prende le mosse dall’equità civile – scrupolosissima121 – e che drammaticamente si avvia verso l’equità naturale, la perfetta parità e totale simmetria di rapporti civili che determina la crisi di ogni cultura, detta anche barbarie della riflessione. L’altro rispetto a ogni civiltà saputa.

119 G. Vico, SN [1744], p. 861. 120 Cfr. G. Giarrizzo, Vico. La politica e la storia, Napoli 1981, pp. 101 e ssg; E. Nuzzo, Vico e la ragion di stato, in AA.VV., Prudenza civile, bene comune, guerra giusta, Napoli 1999, pp. 328-348; sempre di E. Nuzzo, Tra ordine della storia e storicità. Saggi sui saperi della storia in Vico, Roma 2001, pp. 57-108. 121 Cfr. G. Vico, SN [1744], pp. 811, 893, 1179, 1181, 1188, 1202, 1206.

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Variazioni su Idantura I molti luoghi delle parole reali «La creazione primigenia è data nella parola; questa collega il mondo muto, invisibile, che si agita nella profondità inconscia della mia coscienza personale con il mondo muto, insensato, che si agita fuori della mia personalità»1.

Nel libro IV delle Storie di Erodoto si legge: «e i re degli Sciti, venuti a conoscenza della cosa, mandarono un araldo a portargli in dono un uccello, un topo, una rana e cinque frecce»2. L’episodio viene menzionato a più riprese nelle opere vichiane, in particolar modo nelle tre versioni della Scienza nuova. A inviare il messaggio sarebbero stati i tre re degli Sciti, Scopasi, Idantirso – che comunque regnava sulla parte più grande della Scizia – e Texaci3, mentre Vico riporta sempre e soltanto il nome di uno dei tre, traslitterato come “Idantura”. Al di là di questo dettaglio, è il seguito del racconto di Erodoto a illuminare l’importanza dell’aneddoto. Dinnanzi a quella strana ambasceria, i Persiani chiesero: «τὸν νόον τῶν διδομένων»4, che si traduce “il significato di quei presenti”, ma in realtà “νόος” – o “νοῦς” nella sua versione contratta – è propriamente “mente”, nel senso di quella “intelligenza

1 A. Belyj, Il colore della parola, a cura di R. Platone, Napoli 1986, p. 260. 2 Her, IV, 131. Tr. it. Storie, a cura di L. Annibaletto, Milano 2000, p. 765. 3 Cfr. ivi, IV, 120. Tr. it. p. 755. 4 Ivi, p. 765.

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cosmica” che è anche “saggezza” e solo per traslato diviene “senso” e “significato”. Nell’analisi offerta da Carlo Diano, il “νοῦς” anassagoreo, principio dell’historie ionica5, cui appartiene Erodoto, è «la specularità stessa dell’essere»6, in virtù del capitale frammento B 127: l’intelligenza è sola, non mescolata, ha perfetta conoscenza (γνώμη) di tutto, domina tutte le cose (πάντων νοῦς κρατεῖ) e tutte le dispone (διεκόσμησε). Il frammento decisivo resta il B 21 a: «vista delle cose invisibili [sono] le visibili»8. Questa “vista” – ὄψις – è lo squarcio che il “νοῦς” apre nell’essere: l’intelligenza lacera l’essere e apre la vista sui fenomeni; è luogo del loro dividersi e dunque del rinviare a ciò che non si vede. I significati sono ciò che non si vede in queste quattro cose visibili inviate ai Persiani, che infatti ne domandano il senso. I Persiani si riuniscono a consiglio e qui fioriscono le “speculazioni”, ossia le congetture che il “νοῦς” come specchio dell’essere formula attorno a quelle cose. Dario le interpreta come segno di sottomissione; ma Gobria, il padre di Mardonio, propende per la tesi opposta. E noi vediamo i Persiani intenti a congetturare (εἰκάζειν) sui doni. Quelle cose rinviavano, infatti, a qualcosa di nascosto, a un significato disposto/nascosto dal “νοῦς”. Il “primo” Idantura Il “primo” Idantura non appartiene alla Scienza nuova: lo si trova nel De constantia iurisprudentis. Il passo riprende l’am-

5 Cfr. C. Diano, Studi e saggi di filosofia antica, Padova 1973, pp. 50-51. 6 Ivi, p. 55. 7 Cfr. Anaxag. B 12. Tr. it. I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano 20063, p. 1077. 8 Cfr. id. B 21 a. Tr. it. p. 1085.

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basceria a Dario, in cui “pro literis”9 furono inviati murem, ranam, avem, iaculum aratrumque; l’aratro, in verità, non si trova nell’originale erodoteo, ma Vico lo inserirà costantemente nel racconto. Alla vicenda viene affiancata, per analogia, una pagina di Livio10, in cui si narra come Tarquinio il Superbo rispose all’ambasceria del figlio che lo consultava circa l’atteggiamento da tenere nei confronti dei Gabi. Anche questo accostamento è uno stilema che Vico tornerà a frequentare nella Scienza nuova: il re «con una bacchetta tronca cime di papaveri che sovrastano ad altre umili erbette»11, nel senso di uccidere i “principali” della città. Nell’edizione del ’25 il paragrafo inizia citando il “natural costume degli antichi sciti”, degli illetterati spartani e appunto de’ barbari latini. Caratteri magici dei Caldei, favole greche e geroglifici egiziani vengono accomunati anche nel De constantia iurisprudentis in virtù dell’idea di una “lingua patria”, una lingua natia, una lingua – se è concesso il paradosso – quasi naturale. Sempre nell’edizione del ’25, la “risposta figurata” di Tarquinio il Superbo di fronte alla rivolta dei Gabi ci riporta a una Roma che parlava ancora con caratteri eroici, assecondando la ragion poetica: «che la favola e l’espressione siano una cosa stessa, cioè una metafora comune a’ poeti e a’ pittori, sicché un mutolo senza l’espressione possa dipignerla»12. Favola ed espressione sono una cosa sola nel momento in cui la speculazione del “νοῦς” non è ancora compiuta, ma sta per balenare 9 Cfr. G. Vico, De constantia iurisprudentis, II, XIII, in Opere giuridiche. Il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1974, p. 473: «anziché dei messaggi». 10 Liv. Ab Urbe condita, I, 54, 15-20: «ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse». Tr. it. Storia di Roma dalla sua fondazione, a cura di P. Scandola, Milano 201318, vol. I, p. 353. 11 G. Vico, SN [1725], Libro III, Capo XXVII, p. 232. 12 Ibidem.

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nell’atto di trasportare fuori, di metaforizzare, aprendo la vista sull’essere, distinguendo e disponendo tutte le cose. “Espressione” comporta “interpretazione”, altrimenti non avrebbe senso il paragone tra poeta e pittore: anche il pittore esprime, ma Vico intende sottolineare che la cosa-espressa non è articolata in una lingua pistolare, secondo concetti. Mutolo è chi appunto favoleggia-cose: la complessa trama etimologica vichiana connette λόγος, favola, favella, μῦϑος e mutus13. Il favellare dei tempi mutoli è dunque l’impresa di fantasticare la terra, la prima infusione di anima alle cose, quell’avvertire del “νοῦς” che è “animadvertere” latino: l’accorgersi dell’essere delle cose, da cui le cose sono animate14. I mutoli dicevanocose con quei caratteri che erano geroglifici/favole/imprese, prima delle lettere volgari: i Greci «trasportarono poi tai forme geometriche alle forme de’ suoni articolati diversi»15. Le varianti dell’edizione del ’25 Nella prima versione dei suoi Principj di una Scienza nuova Vico torna sul tema in quattro occasioni, confermando la posizione espressa nel De constantia iurisprudentis. a. «Perché Idantura, re della Scizia, non arebbe per geroglifici risposto a Dario il maggiore, quando questi mandò ad intimargli la guerra»16. Vico sta parlando delle “medaglie de’ primi 13 Cfr. Id, SN [1744], p. 930. 14 Questo “favoleggiar le cose” si riproporrà nella cosa che “coseggia” (dingt) e nel mondo che “mondeggia” (weltet). Cfr. M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1991, pp. 119-121. Inoltre Id., Der Ursprung des Kunstwerkes [1936], in Holzwege, Frankfurt a.M. 1972, p. 37. Tr. it. L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze 1984, p. 34: «il mondo si fonda sulla terra, e la terra sorge attraverso il mondo». 15 G. Vico, SN [1744], p. 953. 16 Id., SN [1725], Libro II, Capo XI, p. 107.

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popoli”, dei geroglifici egizi, di quegli stessi caratteri magici de’ Caldei già menzionati nel De constantia iurisprudentis, ma precisa che si tratta di frantumi di antichità, «caratteri di corpi scolpiti»17. Le prime nazioni si spiegarono «co’ corpi che devono essere stati prima saldi, poi scolpiti e dipinti»18, dove per “saldi” s’intende “naturali”, “reali”. b. «Imperciocché nella Scizia il di lui re Idantura a Dario il maggiore […], manda in risposta una ranocchia, un topo, un uccello, un aratro ed un arco, volendo per tutte queste cose dire che Dario contro la ragione delle genti gliel’arebbe portata»19. Al di là delle imprecisioni, dell’aratro, dell’arco arbitrariamente inserito al posto dei dardi, qui Vico tende a interpretare il messaggio, perdendo per un attimo la forza della sua intuizione, ripresa subito dopo, all’insegna del «parlare muto per atti o segni corporei»20. Ritorna il parallelo con gli illetterati Spartani, «proibiti saper di lettera»21. Da una citazione di Tucidide – «assalendo città senza mura»22 – Vico trae l’idea che «son le mura di Sparta i petti nostri»23, vedendo in queste mura l’impresa eroica, i cittadini come vere armerie; il sentimento di “parlari dipinti” è il senso della patria «vestito di parole»24. Questo vestito è però ancora indivisibile dalla cosa stessa: «un farsi intendere senza parlare»25.

17 Ivi, p. 106. 18 Ibidem. 19 Ivi, pp. 229-230. 20 Ivi, p. 231. 21 Ibidem. 22 Tuc. I, 5, 1. Tr. it. La guerra del Peoloponneso, a cura di F. Ferrari, Milano 20008, vol. I, p. 87. 23 G. Vico, SN [1725], p. 231. 24 Ibidem. 25 Ibidem.

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c. «La lingua delle armi, con cui spiegano i manifesti, co’ quali rispondono Idantura a Dario, Tearco a Cambise»26. La lingua priva di lettera, dove i parlari ammutoliscono, è «una certa lingua armata»27. Il “parlare araldico” è la prima lingua del diritto naturale delle genti, quello delle guerre, che Vico chiama “Fas gentium”28. L’intuizione vichiana sarebbe stata ripresa e documentata sia da Benveniste sia da Dumézil. Nel suo “vocabolario”, Benveniste distingue tra ius e fas, allo stesso modo in cui si deve distinguere tra δίκη e ϑέμις, ossia tra diritto umano e diritto divino29. Il termine latino “fas” non sarebbe imparentato a “fastus” e dunque alla “festa”: più probabile il suo legame con “fari” e con “*for”, che significa “parlare”, il cui neutro è “fatum”, il destino. Da qui discende l’accostamento con “fabula”, “fabulari”, “fabulatio”30: tutte derivazioni che confermerebbero la tesi vichiana, poiché i tempi mutoli – con riferimento a μῦϑος – sono i tempi della “fabula”. La fabula è il “detto”, o fatum, che trova piena corrispondenza in μῦϑος anche sul piano linguistico: l’accadico “amātu” e “awātu”, così come l’assiro “abūtu”31, indicano “parola”, “espressione”, “rumore” in cui si esprime l’oracolo (“amūtu”). Dalla stessa radice “fabula” dipende anche “famosus” e “fama” aggiunge Benveniste32: ciò ben si accompagna al tema delle imprese eroiche, poiché la favella affabula e dà fama. Del bambino, precisa Benveniste, si dice “iam fatur”: il parla26 Ivi, p. 233. 27 Ibidem. 28 Cfr., ivi, p. 232. 29 Cfr, E. Benveniste, Il vocabolario, cit., p. 367: «Díkē designa, in rapporto a thémis, il diritto umano opposto al diritto divino, e allo stesso modo il ius si oppone a quello che i Latini chiamano fas». 30 Id., p. 386. 31 G. Semeraro, Le origini della cultura europea, cit., vol. II, tomo I, p. 188. 32 Ibidem.

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re non viene concepito come proprietà dell’individuo, bensì come facoltà impersonale, comune a tutti33. La “fama” è manifestazione umana, collettiva, non è mai discorso individuale. La fabula per Benveniste è “messa in parole”: «Racconto, favola o testo teatrale, si considera solo la tecnica stessa di questa trasposizione in parole. Di qui viene il fatto che fabula indica ciò che è solo parola, che non ha realtà»34. Fabula sembrerebbe inconciliabile con il tentativo vichiano di tenere insieme cosa ed espressione: appare la scissione tra parola e cosa. D’altronde l’esser “solo parola” fa della parola una “cosa reale”, un’altra realtà. Ciò non è attestato soltanto linguisticamente, dove il greco φῆμις/φάτις (imparentati con “fas”) può esser fatto risalire all’armeno “bay”, ossia “parola”, che dipende da “*bati” a sua volta legato a “ban” che allude a “parola”, “cosa”, mentre “bayati” significa raccontare. L’equivalente accadico “pâ-” (simile all’assiro “pā’um”) deriva dall’antico accadico “pû(m)” che significa “bocca”, ma anche “parola”, mentre “pâm” designerebbe l’ordine divino35. Il “favellare dei mutoli” designa quella parola tanto forte da ricreare la realtà, animandola, speculando sull’essere e traendo dalle cose visibili quelle invisibili, ossia i significati nascosti. Diviene decisivo il rilievo aristotelico sull’impossibile credibile: «Si debbono preferire cose impossibili ma verosimili a cose possibili ma incredibili»36. Essenziale è la chiosa di Pareyson:

33 Ivi, p. 387. 34 Ivi, 387. 35 G. Semeraro, Le origini della cultura europea, cit., vol. II, tomo I, p. 188. Cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, vol. I, p. 105: dalla radice “bha” dipendono sia φῆμις sia fama, fatum e fabula. 36 Aristot. Poët., 1460 a 27. Tr. it. Poetica, a cura di D. Pesce, Milano 1995, p. 131.

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«La verosimiglianza interna o coerenza svincola la poesia dal riferimento estrinseco alla storia, e la pone come autonoma»37. A integrare, forse a complicare, questo intreccio è l’analisi del rapporto tra fas e ius che Dumézil presenta in Idee romane: «fās è propriamente il fondamento mistico, nel mondo invisibile, senza il quale tutti i comportamenti imposti o autorizzati dallo iūs, e in senso più generale tutti i comportamenti umani, sono incerti, pericolosi, cioè fatali»38. Questa precisazione consente di riprendere l’intera argomentazione alla luce dell’aforisma di Anassagora citato in precedenza: «vista delle cose invisibili [sono] le visibili»39. Lo ius è l’insieme delle formule che dispone le cose in certi rapporti: questa “disposizione” articola opportunamente lo spazio per l’agire. In occasione di imprese romane fuori dal territorio consueto, «Roma si avventura nell’incerto, mette a rischio la sua impresa, forse il suo avvenire» e allora occorre che essa dia «una nuova base mistica alla sua iniziativa: i fētiales»40. Il diritto (ius) come strutturazione che accerta le cose visibili dipende da una “vista” che apre lo sguardo sui “fenomeni”: tale è la condizione di possibilità dell’agire tra i visibili; ciò richiama la scissione tra visibile e invisibile. Ogni δίκη non potrà che essere pallida imitazione del ϑέμις, un “modo di dire”, di indicare quella giustizia mistica che è l’autentica “cosa invisibile” da cui tutto dipende.

37 L. Pareyson, Il verisimile nella poesia di Aristotele, in L’esperienza artistica. Saggi di storia dell’estetica, Milano 1974, p. 19. 38 G. Dumézil, Idées romaines, Paris 1969. Tr. it. Idee romane, a cura di M. Gabellini Baiardi, Genova 1987, p. 61. 39 Cfr. Anaxag. B 21 a. Tr. it. I Presocratici, cit., p. 1085. 40 G. Dumézil, Idee romane, cit., p. 68.

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Il termine ϑέμις, oltre a rivelare una sua profonda affinità con τίϑημι, richiama proprio la più antica radice “dhā/dhē” (“porre”, “mettere”, “stabilire”), a sua volta associata all’avestico “dā-mi” che significa “creazione”, e all’accadico “tēmu”, che equivale a “giudizio”, “discernimento”, “legge”41. “Fas” è dunque il richiamo alla speculazione-creatrice che distingue tra visibile e invisibile e dischiude il mondo: è il racconto che propizia, la cosa stessa, il favellare che dà senso e sulla base del quale è possibile ogni ulteriore articolazione giuridica tra i fenomeni. d. «Idantura, re della Scizia, con cinque corpi, ovvero cinque parole eroiche, rispose a Dario il maggiore, che gli aveva intimata la guerra»42. La guerra è il primo diritto delle genti, il “diritto naturale delle nazioni” dal momento che, facendo avventurare i popoli in un ordine incerto, rievoca il fondamento mistico, la cosa reale, la specularità che infrange l’essere, la fabula che raccoglie e anima, rendendo per la prima volta possibile ogni successiva interpretazione, ogni iuris-dictio posteriore. L’episodio di Idantura, perciò, non riesce effettivamente ad attingere all’origine, ma mediante il messaggio reale accenna alla condizione dei corpi prima che su di essi si speculi con le parole della lingua pistolare. Il corpo è oggetto-di-guerra.

41 Per tutte queste derivazioni si veda G. Semeraro, Le origini della cultura europea, cit., vol. II, tomo I, p. 115. Il termine accadico “tēmu” viene presentato come equivalente ai vocaboli tedeschi “Verstand”, “Einsicht” e “Befehl”. 42 G. Vico, SN [1725], libro III, capo XXXII, cit., p. 241. Il grande merito di Vico è la comprensione dell’uomo dei primordi. Cfr. F. Tessitore, Su Auerbach e Vico, in «BCSV», II, 1972, p. 84: «vinto il senso di “orrore” di fronte alle “nefandezze” dell’uomo primitivo», Vico pensa una Provvidenza che agisca dall’interno della storia.

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Le sette occorrenze presenti nell’edizione del ’30 La seconda versione della Scienza nuova proietta già verso quello che sarà lo sviluppo conclusivo nell’edizione del ’44, arricchendo la trama del rapporto tra cosa e parola. a. «Ma così i Chinesi si sono truovati scrivere per geroglifici, come gli Egizj, e gli Sciti, il Re de’ quali Idantura più, che per geroglifici, con cinque voci reali di cinque corpi risponde a Dario il Maggiore, che gli aveva intimato la guerra»43. Comincia a comparire la dicitura “voci reali” (che non risulta perfettamente sovrapponibile a quella dei geroglifici): in quanto voci reali di cinque corpi, il messaggio cosale di Idantura si contrappone esattamente alla “voce astratta”44 di cui si parla nell’edizione del ’30. L’esempio è “puppis”, o anche “vela”, che stanno per “nave”, oppure “mucro” per “spada”. “Mucromucronis” – l’esempio è preso da Quintiliano45 – significa “punta”, che come in «un genere comprende elze, taglio e punta»46. Questa astrattezza è già “nastro di sineddoche” che col trasporto s’innalza dai particolari agli universali. La questione centrale non è la presenza di una voce nei tempi mutoli, bensì la “voce reale” in quanto non ancora astratta. b. «Il quale a Dario il maggiore, che gli aveva intimata la guerra, risponde con cinque parole reali, le quali […] i primi popoli dovettero usare prima, che le parole dipinte; le quali parole reali furono una ranocchia, un topo, un’uccello, un dente di aratro, ed un’arco da saettare»47. Ancor più emblematico appare il riferimento alle “cinque parole reali”, espressione

43 G. Vico, SN [1730], p. 416. 44 Ivi, p. 517. 45 Cfr. Quint., VIII, 6, 20. 46 G. Vico, SN [1730], p. 517. 47 Ivi, p. 437.

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tanto più ossimorica quanto più efficace per accennare ai tempi mutoli. Rispetto a queste parole reali, ogni interpretazione rimane “ridevole”48: i significati comportano sempre una spiegazione, un “dispiegamento della mente” che è già articolazione successiva. Queste parole vennero usate prima delle parole dipinte, quasi per vantare un’antecedenza persino rispetto ai geroglifici egiziani e agli ideogrammi cinesi, accusati da Vico che «non sanno ancora dar l’ombre nella dipintura»49, giudicando loro stessi rozzi e la loro pittura rozzissima. In realtà il “non saper” dare l’ombra si rivela un “non voler” dar l’ombra. Nel suo celebre saggio Livšic scrive che «il tocco è già il rilievo: non a caso i cinesi, facendo di tutto per evitare il rilievo, facevano penetrare, strofinando contro, la pittura nella tela!»50. Il “cinese” si sforza nella pittura di non concedere spazio all’ombra, di “dipingere cose reali”, senza margine di interpretazioni. Non è pittura goffa: è pittura prima che si dischiuda il campo della speculazione sull’essere. c. «Idantura, Rè degli Sciti […] posta la loro sformata antichità, nella quale vinsero essi Egizj, che si vantavano gli antichissimi di tutte le nazioni, con geroglifici reali risponde a Dario il maggiore, che vuol portargli la guerra»51. Il passo prosegue riportando l’aneddoto di Tarquinio il Superbo. Il riferimento alla boria delle nazioni affiora costantemente all’interno di tutte le edizioni della Scienza nuova, a proposito del confronto tra Cinesi, Sciti ed Egizi, con le loro sterminate – o sformate – antichità. Vico esclude che le prime lingue dei popoli siano

48 Ibidem. 49 Ibidem. 50 B. Livšic, L’arciere da un occhio e mezzo, a cura di R. Franceschi, Firenze 1989, p. 223. Cfr. Jakulov, Il sole blu [Goluoe Solnce], in «Alcione», 1914. 51 G. Vico, SN [1730], p. 527.

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state depositarie di una “sapienza riposta” o che una nazione sia la fiduciaria e la custode dell’autentica dottrina delle nazioni. I geroglifici sono reali perché al di qua di ogni significazione. Quelle “voci reali di cinque corpi” vengono chiamate “geroglifici reali”: l’accento vichiano cade sulla dimensione “cosale”, per distinguerla da quella astratta del linguaggio già significante. d. «Nel settentrione della Francia vi fu un parlar geroglifico, detto rebus de Picardie, che dovett’esser’un parlar con le cose, cioè co’ geroglifici d’Idantura»52. Nella regione di Piccardia si poteva constatare l’usanza, durante il carnevale, di leggere libretti satirici relativi a episodi o eventi accaduti in città, cui si abbinava il gioco di indovinare o ricostruire una parola o una frase a partire da una serie di figure. Per Vico sussiste un vero e proprio “parlar geroglifico”: ciò esclude che i tempi mutoli siano tempi “privi di voce”, l’epoca dei muggiti e degli ululati ancora disarticolati. La lingua di questi tempi viene detta non articolata nel senso di “non concettuale”, non univocamente significante: la “Borea de’ Dotti” viene smascherata. “Parlare con le cose”: non attraverso significati riposti o reconditi, bensì prima che si potesse avere “l’intelligenza delle scritture”. e. «Della qual sorta di medaglie dovett’esser l’ale, ch’i Greci nelle loro Favole attaccarono a tutti i corpi significanti ragioni d’Eroi, fondate negli auspicj; com’Idantura tra gli geroglifici reali, co’ quali rispose a Dario, mandò un’uccello»53. Le “voci reali” tornano a essere geroglifici reali, in analogia con gli auspicj, l’arte di “leggere” il volo degli uccelli, assai praticata dagli antichi. Le parabole descritte in cielo venivano considerate una “scrittura degli dei”, una cosa-reale su cui speculare, aprendo la vista sui fenomeni in virtù di una intelligenza dei segni che dava senso all’insensato. Dalla lettura delle traiet52 Ivi, p. 528. 53 Ivi, p. 547.

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torie disegnate in cielo si traevano le “ragioni” eroiche, ben distinte da quelle che saranno prodotte nella lingua pistolare. Vico inserisce l’arte degli auguri come stratagemma dei nobili per vincere le contese. L’affinità tra queste ali e le ragioni dei nobili torna in almeno due casi all’interno della Scienza nuova del ’30: «ond’ il Pegaso vola per Parnaso, ch’è armato d’ale, perch’è in ragione de’ nobili»54; e inoltre «Le serpi unite nel Teschio di Medusa, caricato d’ale nelle tempia sono i dominj de’ campi famigliari de’ padri, ch’ andaron’ a comporre il dominio eminente civile»55. L’influenza del Cratilo appare evidente: è Platone a suggerire che l’eroe (ἥρως) possa derivare da amore (ἔρως) in quanto semidio frutto dell’amore tra una divinità e un essere mortale; i semidei tengono in contatto i due mondi; per la stessa ragione l’eroe (ἥρως) è capace di interrogare (ἐρωτᾶν), ossia di parlare, per cui la stirpe eroica è una «genia di retori e sofisti»56. Se si unisce questo precipitato del “furore etimologico” tipicamente cratileo all’assonanza rilevata questa volta nel Fedro tra ἔρως e πτερόν, ossia tra “amore” e “ali”, per cui i mortali lo chiamano eros alato, mentre gli immortali lo chiamano Pteros perché fa crescere le ali57, otteniamo la sinossi del Vico: gli eroi sono “armati d’ale” in quanto capaci di leggere la scrittura che nei cieli tracciano gli dèi; gli eroi sul piano civile sono i patres che connettono la plebe alla divinità. Gli auguri interpretando il volo inaugurano l’età degli eroi: un geroglifico reale, un momento emblematico delle imprese eroiche su cui si fondano le prime nazioni gentili. 54 Ivi, p. 568. 55 Ivi, p. 604. 56 Cfr. Plat. Crat., 398 c-e. Tr. it. Cratilo, a cura di C. Lucciardi, Milano 20004, pp. 121-123. 57 Cfr. Plat. Phaedr. 252 b. Tr. it. Fedro, a cura di G. Reale, Milano 1993, p. 103.

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f. «Nelle contese eroiche con le plebi sostenevano le loro ragioni eroiche con gli auspicj divini; e ne’ tempi muti le significavano con l’uccello d’Idantura, con le ali delle Favole Greche, con lingua articolata, finalmente i Patrizj Romani dicendo, auspicia esse sua, e co’ pennacchi dell’Insegne nobili de’ tempi barbari ritornati: perocchè gli auspicj de’ fulmini avevan’ atterrati i Primi Giganti»58. Poche righe dopo Vico ripete l’argomento degli auspicj, ribadendo l’idea della “lettura del volo” come ragione eroica, “parola reale de’ tempi mutoli”. L’auspicio si connette ora al fulmine che atterra i giganti e li rende – così si legge nel prosieguo del passo – «signori di quei fondi delle Terre»59. Tale auspicio, la lettura della parola-reale in cui consistono il fulmine e il tuono, fu letteralmente la loro Fortuna: qui nasce l’auctoritas. La vicenda di Idantura è l’ultima vestigia dell’epoca in cui si parlava coi corpi, si leggeva una scrittura cosale, una grafia reale, rispetto a cui ogni successiva “segnatura a supporto” è già sostituzione della cosa con il segno stesso, come chiarirà poi nel Novecento la “grammatologia” di Derrida60. Idantura invia l’ultimo messaggio reale prima che il supplemento del segno si aggiunga per sostituirlo. g. «Talchè dall’uccello d’Idantura, col quale voleva dir’ a Dario, che esso era il sovrano Signor della Scizia, per gli auspicj, che vi aveva; i Greci ne spiccarono l’ali, per significare ragioni eroiche; e finalmente con lingua articolata i Romani in astratto dissero, auspicia esse sua; per gli quali volevano dimostrare

58 G. Vico, SN [1730], p. 548. 59 Ibidem. 60 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 201.

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alla plebe, ch’erano propie loro tutte le civili eroiche ragioni, e diritti»61. Il tema di Idantura appare così pienamente “dispiegato”, sino ai suoi esiti ultimi nella lingua pistolare: l’uccello è ancora parola-reale, scrittura di corpi rispetto a cui gli auspici che se ne traggono sono già una speculazione, un’interpretazione adoperata per costruire le “ragioni eroiche” con cui i patres si avvantaggiarono nelle contese civili, sino a quando essi si tramutarono in veri e propri “astratti” con cui si dimostrava alla plebe il diritto acquisito. Il passaggio dal “fas” allo “ius” è transito dalla cosa reale che appartiene alla lingua degli dèi, alla scrittura del diritto tipica dell’età degli uomini. Idantura nella Scienza nuova del ’44 Il tracciato è stato delineato nell’edizione del ’30. a. «Perciò gli Egizj furon’ in ciò somiglianti a’ Chinesi, i quali crebbero in tanto gran nazione chiusi a tutte le nazioni straniere, come gli Egizj lo erano stati fin’ a Psammetico e gli Sciti fin ad Idantura; da quali è volgar tradizione, che furono vinti gli Egizj in pregio d’Antichità»62. Il passo ribadisce la dissennata boria delle nazioni che attanaglia Chinesi, Egizj e Sciti. Il nome di Idantura viene soltanto citato, l’episodio viene ripreso, invece, nella pagina successiva. b. «Fin’a’ tempi di Dario detto Maggiore; il qual’ intimò al di lei Re Idantura la guerra; il qual si truova cotanto barbaro a’ tempi dell’umanissima Persia, che gli risponde con cinque parole reali di cinque corpi, che non seppe nemmeno scrivere per geroglifici»63. Si tratta forse della formulazione più inten61 G. Vico, SN [1730], p. 600. 62 G. Vico, SN [1744], p. 828. 63 Ivi, p. 829.

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sa, che contrassegna per antonomasia l’aneddoto di Idantura: “cinque parole reali di cinque corpi”, anteriori ai geroglifici, inaugurano la stagione dei segni che si aggiungono, suppliscono e si sostituiscono alla cosa stessa. Nel geroglifico Vico scorge l’incipit di quella che si può definire la de-signazione: il “de” latino non indica intensificazione, bensì indebolimento, come del resto è facilmente verificabile in de-bilitas, decessio, de-clinatio, de-color, de-cresco, de-cursus, de-decus. La scrittura di cinque parole reali, di cinque corpi, è lingua muta nel senso di non ancora articolata: si colloca un attimo prima della de-cisione che dà luogo ai de-signati; parole reali che precedono l’atto del re Dario e del suo consigliere Gobria, quel de-cernere, da cui sorge il de-cretum che de-termina univocamente il significato. c. «Il quale a Dario il Maggiore, che gli aveva intimato la guerra, risponde con cinque parole reali, le quali, come dentro si mostrerà, i primi popoli dovettero usare prima, che le vocali, e finalmente le scritte: le quali parole reali furono una ranocchia, un topo, un’ uccello, un dente d’aratro, ed un’ arco da saettare. Dentro con tutta naturalezza, e propietà se ne spiegheranno i significati»64. Vico aggiunge una sequenza che rischia di scardinare nuovamente l’intera ermeneutica di Idantura: prima “parole reali”, poi “vocali”, infine “scritte”. Si apre palesemente un’aporetica rispetto ad altri passi dell’ultima versione della Scienza nuova: «tutte le Nazioni – così scrive Vico – prima parlarono scrivendo, come quelle, che furon dapprima mutole»65. E inoltre: «L’infelice cagione di tal’ effetto si osserverà, ch’ i Filologi han creduto nelle nazioni esser nate prima le Lingue, dappoi le Lettere; quando, com’ abbiamo qui leggiermente accennato, e pienamente si pruoverà in questi Libri, nacquero esse gemelle, e caminarono 64 Ivi, pp. 847-848. 65 Ivi, p. 943.

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del pari in tutte e tre le loro spezie le lettere con le lingue»66. Alla luce di questi due luoghi il compito di una ricostruzione della sematologia vichiana si complica: non si potrà giungere a una visione lineare, quanto piuttosto a una sinottica tra cosa, gesto e segno. Non soltanto il parlare-scrivendo è tipico “de’ tempi mutoli”, ma questo parto gemellare di lingua e scrittura riguarda – hic Rhodus, hic saltus – tutte e tre le “spezie” o età: degli dèi, degli eroi, degli uomini. L’ultima postilla vichiana più che sbarrare la strada, apre il campo della discussione, offrendo un margine di manovra: se la gemellarità riguarda tutte le epoche, allora in tutte si è “parlato/scritto”; l’età degli dèi non è costituita da meri gesti o da balbuzie; allo stesso modo l’età degli uomini non è l’unica provvista di scrittura. A questo parlare/scrivere proprio di tutte e tre le età si dovrà sovrapporre l’altra scansione: “parole reali”, “vocali”, “scritte”. Ammettiamo l’unità di cosa/parola che nel corso dell’età degli dèi prende corpo nel gesto-geroglifico. Ammettiamo pure l’età degli uomini come l’epoca del logocentrismo ormai affermato, dove la scrittura è sede di quell’articolazione dei significati che si distacca a tal punto dalle cose da sostituirle: secondo Derrida, tale sostituzione risulta così “totalizzante” da rendere non più necessario (anzi impossibile) la riconversione del segno in una cosa; l’usurpazione da parte del segno è tale da differire all’infinito la sostituibilità del segno con la cosa. Al limite, si parla di ciò che non esiste: ciò di cui si parla non è una cosa. “Scritte” sono quelle ultime parole in cui si attesta la sparizione di un’origine differita, o – direbbe Vico – articolata. Nell’età degli eroi le parole “vocali” danno inizio al fono-logocentrismo: questa è l’impresa eroica. Vocale è il medium tra 66 Ivi, p. 809. Sull’accostamento di questi passi cfr. J. Trabant, Neue Wissenschaft von alten Zeichen: Vicos Sematologie, Frankfurt a.M. 1994. Tr. it. La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, a cura di D. Di Cesare, Roma-Bari 1996, pp. 119-138.

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cosale e scritturale: voce in quanto voce astratta «com’un genere filosofico comprendente il corpo»67, ad esempio “capo” per denominare l’intero uomo nella boscaglia. La voce è medio che s’aggiunge e sostituisce la cosa. d. «Talché Idantura dovett’ essere un degli Re Chinesi, che fin a pochi secoli fa chiusi a tutto il rimanente del Mondo vantano vanamente un’Antichità maggiore di quella del Mondo; e ’n tanta lunghezza di tempi si sono truovati scrivere ancora per geroglifici»68. Scrivere per geroglifici è scrivere attraverso geroglifici: Idantura è l’ultimo residuo di un mondo nel quale si parlava e si scriveva con le cose stesse. Nell’ambasceria fatta di parole reali, di “cose-che-parlano”, si può intravedere un mondo ancora fatto di cose, si può scorgere e quasi soltanto “indovinare” un mondo di “cose scritte”, un contesto di “cose parlate”, dove il segno/voce non era ancora astratto dalla cosa, non era ancora il vicario del reale. e. «Gli Etiopi, i quali si servirono per geroglifici degli strumenti di tutte l’arti fabbrili: nell’Oriente lo stesso dovett’ essere de’ Caratteri Magici de’ Caldei: nel Settentrione dell’Asia abbiamo sopra veduto, che Idantura Re degli Sciti ne’ tempi assai tardi, posta la loro sformata Antichità, nella quale avevano vinto essi Egizj, che si vantavano essere gli antichissimi di tutte le Nazioni, con cinque parole reali risponde a Dario il Maggiore, che gli aveva intimato la guerra; che furono una ranocchia, un topo, un’ uccello, un dente d’aratro, ed un’ arco da saettare»69. Geroglifici, caratteri magici e parole reali sono “naturale comune necessità” delle prime nazioni, le quali parlano e scrivono con tali ritrovati: ogni sapienza riposta nei geroglifici stessi è esclusa.

67 G. Vico, SN [1744], p. 517. 68 Ivi, p. 848. 69 Ivi, p. 948.

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L’avversione contro la boria de’ Dotti si rivela inscindibile da quella nutrita contro la boria delle Nazioni: ove vi fosse un contenuto nascosto, una nazione potrebbe vantare la primogenitura dei significati riposti e, viceversa, nell’istante in cui una nazione rivendicasse una priorità di origine, quest’ultima starebbe surrettiziamente suggerendo di essere l’autentica depositaria di un sapere rimasto occultato nei segni. I geroglifici non possiedono alcun senso ancestrale né alcuna dottrina celata nei segni, sono la cosa stessa: l’intento di Vico è accennare a quel mondo – che «or’ intender’ appena si può, affatto immaginar non si può»70 – in cui non vi era ancora il segno come rimando, come rinvio ad altro, come differire continuo dei significati che non fanno mai (e non faranno più) ritorno alla cosa. f. «Nel Settentrione della Francia vi fu un parlar geroglifico detto rebus de Picardie che dovett’ essere, come nella Germania, un parlar con le cose, cioè co’ geroglifici d’ Idantura»71. I geroglifici di Idantura costituiscono un esempio del “parlar con le cose”: i tempi mutoli sono tempi del “fantasticare per favole”, tempi in cui la favella era già presente nel “fabulare il mondo”. Geroglifico è già da sempre un “parlar-geroglifico”, una cosa che parla senza interposizione di segni, una parolareale: anzi, a rigore, soltanto nel geroglifico reale di Idantura si vede all’opera e si può cercare d’intendere il parlare scrivendo che caratterizza tutte le prime Nazioni gentili. g. «Della qual sorta di medaglie dovetter’ esser l’ ale, ch’ i Greci nelle loro Favole attaccarono a tutti i corpi significanti ragioni d’Eroi fondate negli auspicj; come Idantura tra gli geroglifici reali, co’ quali rispose a Dario, mandò un uccello»72.

70 Ivi, p. 1099. 71 Ivi, p. 949. 72 Ivi, p. 977.

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Siamo nei “corollari d’intorno all’origine della locuzion poetica”: mediante l’intreccio tra Cratilo e Fedro si chiarisce il nesso che Vico instaura tra ali e ragioni eroiche. I geroglifici reali di Idantura sono “corpi significanti”, corpi immediatamente significanti, privi dell’aggiunta del segno che finisce per subentrare alla cosa stessa, prima che il “capo” come voce astratta sostituisca l’intero corpo dell’uomo. h. «E gli Eroi nelle contese eroiche con le plebi sostenevano le loro ragioni eroiche con gli auspicj divini; e ne’ tempi muti le significavano con l’uccello d’Idantura, con le ale delle Greche favole»73. Le ragioni eroiche sono ancora tutte immerse nelle cose: prima che il λόγος astratto chieda il “perché”, le cose mostrano la loro ragione, anzi sono e incarnano la loro ragione; la ragione delle cose, una ragione che è nelle cose in quanto è soltanto il “che” delle cose. “Che” uno vinca la contesa, è già ragione eroica. Nel corollario “De’ Duelli e delle Ripresaglie” si legge: «I duelli contenevano giudizj reali, che, perocchè si facevano in re presenti, non avevano bisogno della dinonzia»74. Il duello è giudizio reale la cui “ragione” è che uno vinca: ecco il primo diritto naturale delle genti efferatissime. La vittoria era “giustitia in re”: il fatto della vittoria coincide con il vero, con la ragione; dal duello emerge il giudizio-di-fatto che viene inteso come ragione-di-fatto, di quel certo fatto particolarissimo e preciso che è la vittoria di un contendente sull’altro. I Duelli sono pensati da Vico come «spezie di giudizj divini»75, o meglio ancora “purgazione” divina76, poiché i «vincitori credevano, che i vinti non avessero Dio»77. Vincere è ragione: il

73 Ivi, pp. 978-979. 74 Ivi, p. 1186. 75 Cfr. ivi, p. 1185. 76 Cfr. ivi, p. 805. 77 Ivi, p. 1234.

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vincitore “ragiona” sulla vittoria, se ne finge una ragione, vede la “cosa della vittoria” come legittimazione in re. Il vincitore dà senso al fatto di aver vinto, se ne fa una ragione. «In sì fatti giudizi armati estimarono la ragione dalla fortuna della vittoria»78. Prende corpo il significato originario degli auspicj: la vittoria nello scontro armato. Idantura ricorre a un linguaggio cosale a motivo della guerra che si profila contro Dario: Idantura sta già parlando, nella sua ambasceria, con il linguaggio delle armi, con parole reali. i. «Talchè dall’uccello d’Idantura, col quale voleva dir’ a Dario, ch’ esso era sovrano Signor della Scizia, per gli auspicj, che v’ aveva; i Greci ne spiccarono l’ali, per significare ragioni eroiche; e finalmente con lingua articolata i Romani in astratto dissero, AUSPICIA ESSE SUA; per gli quali volevano dimostrar’ alla plebe, ch’ erano propie loro tutte le civili eroiche ragioni, e diritti»79. L’uccello di Idantura si contrappone alla successiva astrazione/articolazione romana. Di per sé il fatto che i tempi mutoli non siano “articolati” pare incomprensibile: anche le “parole reali”, i geroglifici egizi, i caratteri magici dei Caldei apparivano già provvisti di articolazione, trattandosi di una sequenza di cose, di un complesso di elementi. “Articolato” equivale ad astratto, tipico della voce e della scrittura successive all’età degli dèi, che cominciano a prendere piede nell’età eroica, per poi imporsi nell’età degli uomini. Si può intendere questa dimensione “inarticolata” dei tempi mutoli a partire da Derrida per cui «ciò che inaugura il movimento della significazione è ciò che ne rende impossibile l’interruzione. La cosa stessa è un segno»80. L’articolazione è

78 Ivi, p. 1187. 79 Ivi, p. 1050. 80 J. Derrida, Della grammatologia, cit., pp. 75-76.

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la “catena grafica” o la “catena parlata” in cui consiste la differenza stessa fra l’apparente e l’apparire, fra il mondo e il vissuto81. Articolare coincide con l’astrarre: è il “gesto della differenza”, di un differire nel quale sparisce l’origine stessa; l’origine diventa una differenza82, poiché vive nell’assenza del firmatario e del referente83. Tutto questo si trova in Vico: «forza è astratto, mano è sensibile»84. Ecco il nesso tra il vero e il certo: «gli uomini sono naturalmente portati al conseguimento del Vero, per lo cui affetto, ove non possono conseguirlo, s’attengono al Certo»85. La mano è sensibile, e si tratta sempre di una certa mano, che diventa vera nel senso di una vera forza, idealizzando il sensibile nel termine astratto. “Forza” è sic et simpliciter “vera” e non è più “una certa mano”, bensì la mano di questo o di quello. La forza astratta non ha più né un certo firmatario, né un certo referente. l. «Per le quali ragioni quindi dovett’ essere pur Scita Abari, che si dice avere scritto gli Oracoli Scitici, che non poteron’ esser’ altri, che gli detti testè d’Anacarsi; e gli scrisse nella Scizia, nella quale Idantura molto tempo venuto dopo scriveva con esse cose»86. Idantura scriveva ancora con quegli stessi “Oracoli Scitici” usati dalle primissime genti: l’ambasceria degli Sciti si conferma ultima eco, ultimo pertugio dal quale l’occhio dell’ingegno di Vico fantastica come pensassero quelle menti balorde ancora tutte immerse e ficcate nei corpi, che parlavano ancora per geroglifici sacri, segreti, mutoli.

81 Cfr. ivi, p. 97. 82 Ivi, p. 60. 83 Cfr. ivi, p. 65. 84 G. Vico, SN [1744], p. 1221. 85 Ivi, p. 860. 86 Ivi, p. 1122.

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La metafora fa il maggior corpo delle lingue Menare fuori le forme dalla materia

«alle cose insensate e brutte dànno moto, senso e ragione, che sono i lavori più luminosi della poesia»1.

Il ruolo riservato alla metafora all’interno del pensiero vichiano si evince provando a leggere sinotticamente due passi della Scienza nuova del ‘44: «XXXVII. Il più sublime lavoro della Poesia è, alle cose insensate dare senso, e passione»2.

«la Metafora, ch’allora è vieppiù lodata, quando alle cose insensate ella dà senso, e passione»3.

Non s’intende suggerire una semplice equivalenza tra “poesia” e metafora, né si può ridurre la metafora a frammento dell’arte poetica, quasi si trattasse di una figura retorica tra le

1 G. Vico, SN [1725], p. 193. Sulla questione della metafora nel cfr. due studi apparsi sul n. 40 degli Studi vichiani. M. Danesi, La metafora come traccia della sapienza poetica, e inoltre S. Gensini, Su Vico, le metafore e la linguistica cognitiva, in Il sapere poetico e gli universali fantastici, a cura di G. Cacciatore, V.G. Kurotschka, E. Nuzzo e M. Sanna, Napoli 2004, rispettivamente pp. 27-54 e 55-72. 2 G. Vico, SN [1744], p. 869. 3 Ivi, p. 932.

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altre: la metafora custodisce il nucleo più intimo e più originario della poesia4. La chiave di volta della grandiosa architettonica della storia che prende il nome di Scienza nuova è la “discoverta” della natura poetica dei primi popoli della Gentilità: costoro parlavano per Caratteri poetici5, e furon detti “poeti” nel senso di “criatori” del nascente genere umano6. Metafora è il nocciolo generativo della poesia: è la protagonista, “colei che agisce per prima” all’interno di quell’ “agone” di passioni che costituisce la sostanza della corpolentissima fantasia dei bestioni. L’impossibile credibile La metafora educa: «il menar fuori le forme dalla materia»7 è la prima attestazione del fatto che «la mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi fuori nel corpo; e con molta difficultà per mezzo della riflessione ad intender sè medesima»8. Metafora significa “trasferimento”: il primo trasporto in assoluto è quello che conduce fuori alcune forme da quella materia (ὕλη) – in latino sylva9 – da cui sorge la civiltà. Trarre forme dall’informe – tale è il sublime lavoro del metaforizzare – coincide con il ridurre le selve a coltura: la cultura è generazione di forme a partire dall’ingens sylva10.

4 Cfr. M. Danesi, Lingua, metafora, concetto. Vico e la linguistica cognitiva, Modugno 2001. 5 Cfr. G. Vico, SN [1744], p. 809. Cfr. M. Lollini, Le muse, le maschere e il sublime. G.B. Vico e la poesia nell’età della “ragione spiegata”, Napoli 1994. 6 Cfr. G. Vico, SN [1744], p. 917. 7 Ivi, p. 995. 8 Ivi, p. 876. 9 Cfr. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, n. 1276, a cura di F. Flora, Milano 19534, vol. I, p. 860. 10 Cfr. E. Paci, Ingens Sylva [1949], Milano 1994.

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La metafora è strettamente intrecciata con quella naturale inclinazione che ha la mente umana di “affacciarsi fuori nel corpo”: la portata trascendentale di questo passo racchiude in sé le condizioni di possibilità dell’apparire, come orizzonte entro cui si dischiude la distinzione soggetto/oggetto o corpo/mente. Si tratta di connettere questo primo tema con l’ “eterna propietà” della Poesia, la cui materia è l’impossibile credibile11. Citiamo il passo per esteso: parlando dell’arte poetica Aristotele afferma che «si debbono preferire cose impossibili ma verosimili (ἀδύνατα εἰκότα) a cose possibili ma incredibili (δυνατὰ ἀπίϑανα)». Questo “impossibile credibile” – commenta Vico – «è quanto egli è impossibile ch’i corpi sieno menti, e fu creduto, che ’l Cielo tonante si fusse Giove»12. Solo così cogliamo il senso dell’apertura trascendentale, senza ridurla a mera contrapposizione corpo-mente: che il corpo sia mente, che il corpo possa cominciare a intendere se medesimo, dando senso a ciò che in prima battuta è assoluta mancanza di senso, questo è il senso dell’educere. Educare significa trarre dalla selva le forme mediante cui configurare l’insensato della selva. La metafora si presenta come apertura trascendentale del linguaggio medesimo13: ex-pressione è mente che si sforza di tirarsi fuori dal corpo. Anzi, è il corpo che si profonde nello sforzo di uscire da sé e nel farsi mente. Lavoro del poeta è proprio «nascondere l’irrazionale rendendolo piacevole (ἀφανίζει ἡδύνων τὸ ἄτοπον)»14. Il criterio del 11 Cfr. G. Vico, SN [1744], p. 921. Cfr. Aristot. Poët. 1460 a 27. Tr. it. Poetica, cit., p. 131. 12 G. Vico, SN [1744], p. 921. 13 Cfr. D. Di Cesare, Sul concetto di metafora in G. B. Vico, in «BCSV», 1986, XVI, p. 326. 14 Aristot, Poet. 1460 b 2. Tr. it. p. 131.

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poetico come “criazione delle nazioni civili” non concerne il binomio “possibile/impossibile”, bensì il “credibile/incredibile”. La creazione poetica deve poter essere creduta: ciò che si presenta “ἀπίϑανα” non verrebbe preso in considerazione anche qualora risultasse possibile. Dal verbo greco πείϑω dipende πίστις, che equivale al latino “fides”, per intercessione della comune radice indoeuropea “*bheidh-”15. La poesia conferisce alle cose insensate un senso che possa essere creduto, in cui sia possibile confidare. L’educazione della metafora si rivela un impossibile: che dal corpo sorga la mente, che le cose possano essere intese, è impossibile – eppure appare credibile. L’intendimento accade come finzione in virtù della quale il corpo si fa mente: esprimendosi fuori di sé, menando fuori le forme dalla selva, il corpo riflette su di sé e si rende mente, si fa mentale. Tale è l’opera della fantasia che «altera e contrafà»16 l’irrazionale aristotelico (l’insensato vichiano), fingendolo credibile. L’equivalente greco del latino “fingo” è ϑιγγάνω (la radice indoeuropea è “*dheigh-”17), verbo che presenta una forma aoristica laconica σιγεῖν, che Semeraro accosta, mediante l’accadico Šiknum18, al latino “signum”. Metafora sarebbe quel “menare fuori una forma” che, alterando l’irrazionalità dell’insensato che ci circonda, riesca a designarlo in maniera “significativa”, cancellando – direbbe Derrida – mediante il segno (un segno che è in realtà è piuttosto un gesto) la differenza che pure sussiste tra segno “mentale” e cosa “corporea”19, tra l’inteso e l’insensato. 15 J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. I, p. 117. 16 G. Vico, SN [1744], p. 1151. 17 J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. I, p. 244: di qui “figura”, “fictio” e “effigies”. 18 G. Semeraro, Le origini della cultura europea, cit., vol. II, pp. 117-118. 19 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., pp. 201-207.

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Metafora: contro il primato della logica La metafora è il vero e proprio evento accecante che istituisce il “principio di identità”, cardine della ragione, sulla base di un subliminale e surrettizio occultamento della differenza. Tra metafora e similitudine risiede una distanza abissale: la metafora non si presenta nella forma del paragone; non dice “l’uomo è come un lupo”, bensì “quell’uomo è un lupo”. Nel primo caso la similitudine marca una differenza tra i due; nel secondo la metafora sopprime ogni distanza tra uomo e lupo20. La contraffazione resa possibile dalla dinamica metaforica conferisce una discrezionalità quasi sfrenata alla cosiddetta fantasia vichiana. La Metafisica fantasticata vanta un margine di “poeticità” esagerato rispetto a qualsiasi vano tentativo, da parte della Metafisica ragionata, di ricondurre le predicazioni all’interno di una ordinata classificazione categoriale21. Heidegger22 commenta l’immaginazione trascendentale kantiana parlando di quella «sensibilità che realizza (realisiert) l’intelletto»23. Di fronte a questo abisso, chiede Heidegger, «il primato della logica può forse cadere?»24. Il sentiero mai battuto25, di cui parla Kant riguardo alla sintesi dell’appren20 Cfr. S. Glucksberg, Understanding figurative Language. From Metaphors to Idioms, New York 2001, pp. 7-8. 21 Cfr. H. Blumenberg, Begriffe in Geschichten, Frankfurt a.M. 1998. Tr. it. Concetti in storie, a cura di M. Doni, Milano 2004. 22 Cfr. L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, in Nastri vichiani, Pisa 1997, pp. 97-122. 23 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 187 / A 148, in Werke, a cura di W. Weischedel, Darmstadt 1983, vol. III, p. 194. Tr. it Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Milano 20013, p. 226. 24 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Frankfurt a.M. 1973. Tr. it. Kant e il problema della metafisica, a cura di V. Verra, Roma 20044, p. 145. 25 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 98, cit., p. 162. Tr. it. p. 158.

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sione, era già stato frequentato una cinquantina d’anni prima proprio da Vico. Quando Kant designa gli schemi come «vere e uniche condizioni per procurare a tali concetti una relazione con oggetti, e quindi un significato»26 parla dell’esigenza di connotare l’oggetto mediante un concetto. Tale connotazione dipende dallo schema medesimo. Lo schema – che Kant definisce poche pagine prima come «regola per la determinazione dell’intuizione conformemente a un certo concetto universale»27 – è regola che riconduce a unità il molteplice presente in ogni intuizione empirica ancora indeterminata: è la regola che l’immaginazione si dà, nella sua eautonomia28, per comprehendere in una figura il molteplice dell’apprehensio29. Provando a compiere un innesto a partire dalla terza critica, la comprehensio è la violenza che agisce sul senso interno30 (il tempo) raccogliendo il molteplice, configurandolo e assegnandogli un “significato”. La violenza dell’immaginazione che si autoregola coincide con il dischiudersi di ciò che Heidegger chiama «l’orizzonte di ogni possibile “riandare posteriore” [Nachgehen] in generale, il passato, e “forma” così questo post retro-cedente in quanto tale»31. Il passato non è il “posto reale” cui l’immaginazione può fare ritorno per sintetizzare in un

26 Ivi, B 185 / A 146, p. 193. Tr. it. p. 224. 27 Ivi, B 180 / A 141, p. 190. Tr. it. p. 221. 28 L’immaginazione avverte la facoltà di autoregolarsi, aprendo la vista sul regno dei fini e dischiudendo quello spiraglio per un passaggio tra i due regni. 29 Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, § 27, A 98-99, in Werke, cit., vol. VIII, p. 346. Tr. it. Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, Milano 2004, p. 295. 30 Cfr. ibidem. 31 M. Heidegger, Kant und das Problem, cit., p. 166. Tr. it. p. 157.

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istante ciò che ha appreso nel corso del tempo, è bensì il luogo interamente creato/contraffatto da questo riandare. Come la sintesi trascendentale non è un rifarsi al passato già esistente, ma la produzione di un passato che altrimenti non sarebbe nemmeno concepibile (comprehensio), così la fantasia vichiana “altera e contrafà” menando fuori le forme che rendono possibile alla mente inchinarsi e vedersi nel corpo, dando senso all’insensato. La “regola” di questa contraffazione non si trova nel concetto finale esibito dalla predicazione, bensì nella fantasia che riesce a scorgere una somiglianza, per esempio tra un certo uomo e il lupo. L’attività metaforica appare accecante perché metamorfosa l’indistinto nel sensato, l’intrico del molteplice dell’apprehensio in una figura compresa. Dicendo “quell’uomo è un lupo”, la fantasia “altera e contrafà” ciò che ha appreso nel tempo dando a tale sequenza un certo significato, una certa prospettiva di comprensione. Nella predicazione un’intera serie di apprensioni del molteplice è compresa in una figura: la fantasia dà immagine al passato; il passato è letteralmente “poietato” – ossia creato – dalla fantasia. Memoria «da’ Latini fu detta per fantasia»32 e «fantasia altro non è, che risalto di riminiscenze»33: conferendo risalto a ciò che si ricorda, la fantasia lo altera e così lo costituisce proprio in quanto ricordo. Memoria34 è un altro nome per fantasia. «Dal corpo è nato il tempo. […] E quindi, dal corpo, la misura possibile della ragione»35. Così viene a cadere il primato del λόγος. 32 G. Vico, SN [1744], p. 1098. 33 Ibidem. 34 Cfr. S. Otto, L’opzione vichiana: Memoria e ingegno, in S. Otto e V. Vitiello, Vico – Hegel. La memoria e il sacro, Napoli 2001, pp. 11-32. Cfr. V. Vitiello, Memoria e natura, ivi, pp. 133-157. 35 B. De Giovanni, “Corpo” e “ragione” in Spinoza e Vico, in B. De Gio-

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Saper scorgere il simile Chi “lega insieme” – chi raccoglie per la prima volta – non è l’intelletto, bensì la fantasia. Il fantasticare si occupa di quell’intelligere che secondo l’etimo proposto da Vico non deriva da intus-legere, bensì dall’inter-legere36. Il “vedere” che tiene insieme – emblematicamente raffigurato nella dipintura allegorica dalla statua di Omero che raccoglie con lo sguardo gli antichissimi rottami infranti e dispersi appartenenti all’umanità gentile – è l’intendere che trasforma il corpo in mente: è corpo che, riflesso su di sé, si trova naturalmente inchinato a guardar-si e dunque a sforzarsi di comprendersi, che equivale a “intendersi”. Che cos’è l’intendere generato dalla metafora? Come il corpo darebbe luogo al suo Esser-Mente che costituisce l’impossibile credibile? Metafora – da Aristotele in poi – significa «saper scorgere il simile»37. Questa dicitura tradizionale giunge fino a Vico anche per il tramite di Coluccio Salutati38: nel suo incompiuto De laboribus Herculis, è proprio Erato – la musa della memoria39 – a consentire di realizzare il passaggio dal simile al simile («de similibus in similia se transferre»40) e la visione

vanni, R. Esposito e G. Zarone, Divenire della ragione moderna. Cartesio, Spinoza, Vico, Napoli 1981, p. 147. 36 Cfr. G. Vico, SN [1744], p. 908. 37 Aristot. Poët., 1459 a 8. Tr. it. p. 123. 38 Cfr. E. Grassi, La metafora inaudita, a cura di M. Marassi, Palermo 1990, pp. 18-22. 39 Da Salutati, passando anche da Vico, si giunge sino a Ungaretti. Cfr. G. Ungaretti, Influenza di Vico sulle teorie estetiche d’oggi [1937], in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, Milano 1974, pp. 344-362: «tutto, tutto, tutto è memoria» (p. 345). 40 C. Salutati, De Laboribus Herculis, I, 9, 12, ed. B. L. Ullman, Turici 1951.

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delle similitudines sarà resa possibile dall’ingenii altitudo del poeta. Già in Salutati troviamo radunate le tre facoltà – fantasia, memoria e ingegno – che Vico erediterà dalla tradizione umanistica italiana. Tre facoltà che «appartengono egli è vero alla mente; ma mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo»41, quasi tre modi differenti per designare la stessa attitudine. Chiamando la fantasia «occhio dell’ingegno»42 e distinguendola dal giudizio che è “occhio dell’intelletto”, Vico anticipa la distinzione tra Topica e Critica presente nella Scienza nuova43. Prima del giudicare si deve imparare l’arte del “ritruovare”, prerogativa dell’ingegno44. La capacità dell’ingegno di scorgere il simile è il talento di “ritruovare i luoghi”, disegnando una Topica sensibile che consenta di conoscere tutto quanto vi è nella cosa45, per poterla bene, ossia tutta conoscere. La cosa si conosce in virtù delle somiglianze che si instaurano, dei “luoghi” che la caratterizzano: la metafora è momento generativo di nuove conoscenze proprio per la facoltà di creare somiglianze46. Ponendo l’accento sulla dimensione creativa

41 G. Vico, SN [1744], pp. 1150-1151. 42 Id., De antiquissima Italorum sapientia, a cura di M. Sanna, Roma 2005, p. 135. Cfr. M. Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno, Napoli 2001. 43 Cfr. Id. SN [1744], pp. 981 e 1098. Cfr. O. Pöggeler, Vico e l’idea di Topica, Napoli 1982. Sulla tolopologia cfr. V. Vitiello, Vico e la topologia, Napoli 2000. Per il “Mosaico dei luoghi d’oro” cfr. S. Sini, Figure vichiane. Retorica e topica della Scienza nuova, Milano 2005. 44 Cfr. G. Vico, SN [1744], p. 981. Cfr. L. Pareyson, La dottrina vichiana dell’ingegno, cit., pp. 39-75. Inoltre cfr. F. Botturi, Tempo, linguaggio e azione. Le strutture vichiane della “Storia ideale eterna”, Napoli 1996, p. 31: «l’ingegno da una parte costituisce il cardine dell’esperienza del tempo, dall’altra comunica con la profondità metafisica dell’accadere storico». 45 G. Vico, SN [1744], p. 980. 46 Cfr. G. Gentile, Studi vichiani [1914], Firenze 1968, p. 121: «Di guisa

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di quel ritruovare, che somiglia a un re-invenire nel senso di un autentico inventare, Vico assorbe in sé l’intero patrimonio dell’umanesimo italiano. Nell’ignoranza dei rapporti che legano tra loro le cose «egli si fa regola dell’Universo»47: «col non intendere, egli di sé fa esse cose, e col transformandovisi lo diventa»48. Portando fuori di sé le forme nelle cose, il corpo si riflette e diventa mente. Nello scorgere le somiglianze l’uomo di Vico sperimenta l’ignoranza che è foriera di nuove regole, di nuove “similarità” tra le cose, di nuove comprensioni, da cui sorgeranno nuove prospettive, nuove formule e nuove predicazioni. L’ultima radice della regola risiede proprio nell’invenzione fantastica. Vico non si discosta da questa tradizione, anzi ne intensifica alcuni tratti, quando scrive che «la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate son fatte con trasporti del corpo umano, e delle sue parti, e degli umani sensi, e dell’umane passioni»49 e a conferma riempie un’intera pagina di “somiglianze” tratte dal corpo: il capo è la cima, il labbro è l’orlo del vaso, il dente d’aratro, la lingua di mare, la fauce del fiume, il piede di pagina, e ancora il Cielo ride, il mare fischia, le onde mormorano, le piante vanno in amore, e la calamita è innamorata del ferro … Nella metafora prende corpo la Metafisica fantasticata, antesignana della Metafisica ragionata50: homo non intelligendo fit che l’ingegno è la forza dello scopritore di regioni per l’innanzi inesplorate nel dominio della natura, ma è anche la forza del poeta nella sua originale creazione, e dello scienziato che scopre rapporti ideali non più veduti: onde la dottrina vichiana dell’ingegno supera il concetto dell’intuizione kantiana e accenna alla dottrina del genio dei romantici tedeschi». 47 G. Vico, SN [1744], p. 933. 48 Ibidem. 49 Ivi, p. 932. 50 Cfr. ivi, p. 933.

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omnia, poiché l’intelligere è il risultato della dinamica per cui il corpo “contrafà” le cose, immaginandole con potentissima fantasia. L’intendere presupporrebbe già la presenza di una mente facitrice del mondo: al contrario, è il corpo ancora tutto ficcato nei sensi, tutto sepolto nella corpolentissima fantasia, a trasportarsi nelle cose. Il “non intendere” è la radice di un “fare le cose” che è propriamente poiesi, nel senso di una poesia creatrice: po(i)etico è il trasformarsi dell’uomo nelle cose, diventandole: «fare sé regola dell’Universo»51. Un tale operare è totaliter ignorante. Com’è che la mente prende corpo? Come accade quel trasportarsi nelle cose che genera l’intendimento delle cose? La somiglianza non è soltanto ravvisata ex post come fosse già presente nelle cose: la somiglianza è generata e resa possibile dal “trasporto de’ corpi” nelle cose. In virtù di questo “trasferimento”, il corpo si ritrova al di fuori di se medesimo in altre cose, che ora somigliano al corpo. Scorgere queste affinità è già interlegere, vedere-insieme: in greco si direbbe συνεῖδον, ma in latino è “cum-scio” o con-scio, da cui coscienza. La nascita della mente come riflessione è radicata nel corpo che si trasferisce nelle cose e in questo trasferirsi si vede in altro da sé: scorge sé e l’altro, e così diviene conscio. Coscienza è consapevolezza di una somiglianza (più in generale di un rapporto) tra sé e altro. Ecco in quale senso il “ritruovare” i luoghi coincide con la loro invenzione: il corpo che rinviene è coscienza. Dalla “picciola favoletta” al Carattere poetico Per un verso la metafora infrange l’indistinto della selva: il mero tuonare del cielo52. Nel suo Arbor humanae linguae, 51 Ibidem. 52 Cfr. S. Beckett, Dante … Bruno . Vico .. Joyce [1929], in Our Examination Round His Factification for Incamination of Work in Progress, London 1961, p. 5.

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Papini precisa che «mentre il senso ripete infinitamente la corpulenza della sua unica, poderosa, divina immagine, la fantasia spezza questa unità moltiplicando una serie di prospettive, ognuna delle quali è caricata di forte visualità e di intenso potere emotivo»53. In termini kantiani, la comprehensio è già di per sé “contraffazione” della materia greggia, rifrazione che avvia la specularità trascendentale: l’esser “con-scio” deve poter accompagnare tutte le (mie) rappresentazioni54. Per l’altro verso la metafora assomiglia i diversi e proprio così conferisce loro senso. Di qui l’idea vichiana della “picciola favoletta”55: la somiglianza costituisce una sorta di affinità – di compatibilità – tra diversi che ora si prestano a esser dettiinsieme in una favola. L’espressione “viscere della Terra” è narratio minima, una favola ridotta al minimo: un rapporto di soli due termini. Il minimo che si possa dire alla luce del trascendentale, come unità dell’appercezione “sensata”. Sensata perché ri(con)duce pochi o molti elementi a una somiglianza che li raccolga in un’unica favoletta. Da principio i termini del discorso possono essere anche soltanto due: qui si gioca il ruolo potentissimo della metafora quale prima somiglianza rinvenuta/inventata nelle cose, più che non semplicemente riscontrata. Attorno a questo primo nucleo generativo si verranno ad associare ulteriori componenti che alimenteranno la “picciola favoletta”, dispiegandola in una vera e propria fiaba. Senza ripercorrere l’intera linea dello “sviluppo delle menti lungo il corso delle nazioni”, è chiaro che a partire dalla metafora la narrazione cresce su se stessa, associando via via altri “dissimili” recuperandoli entro l’alveo di una somiglianza. Si verrà formando il celebre carattere poetico vichiano, che si

53 M. Papini, Arbor humanae linguae, Bologna 1984, p. 261. 54 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 131, cit., p. 136. Tr. it. p. 155. 55 G. Vico, SN [1744], p. 932.

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costituisce «assorbendo in sé ciò che è affine»56: l’universale fantastico «brucia le differenze in direzione di una lampeggiante identità»57. La sostituzione del segno alla cosa è “concretizzazione ultima” della metafora, che sopprime la traccia della differenza inaugurando il principio di identità in cui consiste la ragione. Dicendo “lingua di mare”, la metafora sopprime nella dicitura la differenza inequivocabile che sussiste tra “mare” e “lingua”: la loro identificazione costituisce un primo modo di dire, la condizione di possibilità di ogni predicazione inerente al mare. Al limite estremo di questo processo compare il carattere poetico capace di assorbire tutto il “simile” che lo circonda e di esporlo “caratteristicamente”: χάραξ in greco significa “palo”, “parte acuminata”, un elemento sporgente che stabilisce una salienza, una discontinuità marcata rispetto a ciò che lo attornia58. Al contempo il termine χάραγμα significa segno impresso nel senso di marchio, conio, incisione, stampo. Il “carattere” è ciò che contrassegna e costituisce uno stampo, una sorta di calco sul quale i “diversi” possano modellarsi, ossia forgiarsi attorno a un certo marchio, venendo coniati in modo affine. Così si costituiscono quelle figure che prendono il nome di Omero, Mosè, Orfeo, ma anche gli stessi Caratteri eroici quali Achille, Odisseo, Eracle. Essi sorgono dalle affinità riscontrate tra singoli episodi, aneddoti, vicende, di per sé eterogenei tra loro, ma nei quali si finisce per scorgere una certa somiglianza che consente di accomunarli all’interno di un unico racconto. La metafora come “picciola favoletta” viene individuata come

56 Cfr. Papini, Arbor humanae linguae, cit., p. 250. 57 Ibidem. 58 Cfr. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 43-45. Sulla radice indoeuropea “gher” cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. II, p. 441.

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cellula generativa a partire dalla quale si articola l’intera architettura delle grandi narrazioni: le prime genti delle nazioni gentili fantasticarono la terra e animarono il proprio mondo. Delineando in tale direzione il passaggio progressivo dalle prime metafore sino alla composizione dei caratteri poetici, si può rendere ancora più consistente il ruolo “cognitivo” assegnato alla metafora: nelle pagine della Scienza nuova si sottolinea come questa “dimensione cognitiva” non possa mai essere sganciata da una “prospettiva genetica”. La metafora non è mai puro strumento di cognizione del mondo: in essa prende avvio una vera e propria spiritualizzazione del mondo. Non si tratta solo di uno strumento per affinare una conoscenza: è piuttosto l’apertura dell’orizzonte nel quale tutte le altre “figure” della poesia divengono per la prima volta possibili. La capacità di creare-conoscenza rende la metafora una costante “fantasticazione” sul mondo, una possibilità di elaborazione spirituale della terra, oltre che una riserva inesauribile di nuove cognizioni. Abbandoniamo ora il carattere poetico come esito della facoltà metaforica, per soffermarci sull’altro aspetto della metafora, quello per così dire “genetico”. La metafora tra natura e cultura La metafora, in quanto apertura dell’orizzonte trascendentale, si rivela al contempo un nucleo generativo di espressioni, una falda inesauribile di creatività linguistica. Il segno – scrive Šklovskij, in profonda sintonia con una certa atmosfera vichiana – «è un tratto che sottolinea la perdita dell’originale integrità, è il contenuto principale della nuova comunicazione»59. L’integrità può essere intesa come l’equivalente di quell’in-

59 V. Šklovskij, Simile e dissimile. Saggi di poetica, a cura di E. Klein, Milano 1970, p. 10.

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sensato vichiano che ha luogo prima di ogni “designazione di senso”: la metafora squarcia il campo dell’informe e “mena fuori le forme”; educa la sensibilità umana. La forma così “designata” è abbandono dell’integrità: nella metafora la natura umana prende congedo da quella confusa e assoluta omogeneità in cui consiste per un verso la corpulenza dei bestioni, per l’altro la matericità dell’ingens sylva. Nella selva tutto è informe e insieme tutto è dissimile: le menti cortissime dei primi individui «erano di menti così singolari, e precise, ch’ ad ogni nuov’ aria di faccia, ne stimavano un’ altra nuova, com’ abbiam osservato nella Favola di Proteo»60. La metafora è anche il primo fattore d’orientamento nella selva delle disuguaglianze: assomigliare le cose per via dei “trasporti de’ corpi” significa stabilire i primi punti di riferimento, rinvenire i primi luoghi, inventare i primi tropi. L’associazione che la metafora crea tra il capo e la vetta di un monte, tra la fauce e lo sbocco del fiume (anche “delta” costituisce una metafora), consente alle prime menti di appropriarsi del mondo, di accasarsi e di ambientarsi designando. Scoprire un luogo di somiglianze coincide con il diventarne consci: non soltanto alle origini, ma anche lungo il corso delle nazioni, i tropi (la cui genesi dipende dalla dinamica metaforica) manterranno questa ineludibile capacità di destare la coscienza. «Il tropo, uso insolito di una parola, – precisa Šklovskij – non annulla il significato comune, corrente, della parola-segno: il tropo è una nuova coscienza della somiglianza del dissimile, rilevata in ciò che è solito»61. Se da un lato il segno è perdita dell’integrità originaria, dall’altro quello stesso segno, nell’atto d’identificare due termini per sé differenti e disomogenei, sconquassa le correlazioni 60 G. Vico, SN [1744], cit., p. 1099. 61 V. Šklovskij, Simile e dissimile, cit., p. 11.

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abitudinarie e suscita un risveglio della mente. Dinnanzi alla correlazione insolita, la mente riscopre e riprende coscienza della propria origine come facoltà di vedersi fuori nei corpi e di essere artefice in ultima istanza di ogni correlazione tra gli enti. Il segno della metafora è il gesto originario del corpo che si fa mente, o per meglio dire che fa sé regola dell’universo (storico). La metafora è indice di un radicale anticartesianesimo di Vico62: è il corpo che pensa, è il corpo che si fa mente. Perciò «ut Deus sit naturae artifex, homo artificiorum Deus?»63 – si domanda l’autore nel De antiquissima Italorum sapientia. L’uomo diviene Dio delle cose forgiate dall’arte. Nella metafora che identifica il dissimile la mente torna alla propria origine, al suo ruolo creatore – come se fosse il Dio del suo peculiare universo che è la storia. Riguardo al “miracolo” della rappresentazione mentale del mondo, Šklovskij scrive: «in tal modo, il mondo abituale, che esiste realmente e genera tutte le nostre conoscenze, nel fatto stesso della conoscenza genera qualcos’altro, cioè il fattore sorpresa, una certa superiorità della propria natura sulla nostra conoscenza»64. Si deve riuscire a declinare questa constatazione al livello d’intensità richiesto dalla questione della metafora, intesa quale apice e insieme volano della dinamica rappresentativa e conoscitiva. Nel gesto primigenio mediante cui le forme vengono menate fuori per la prima volta dalla materia, la metafora si rivela la forza propulsiva di ogni raffi-

62 Cfr. G. Gentile, Studi vichiani, cit., p. 36: «[Vico] trovò tutta Napoli cartesiana». Si veda inoltre E. Nuzzo, Il congedo dalla saggezza moderna, in «BCSV», XVII, 1987. 63 G. Vico, De antiquissima Italorum sapientia, a cura di M. Sanna, Roma 2005, p. 119. 64 V. Šklovskij, Simile e dissimile, cit., p. 15.

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gurazione e più in generale di ogni spiritualizzazione del mondo. Tornando al “fattore sorpresa” di Šklovskij, nel conferire senso e passione all’insensato, la metafora costituisce “vichianamente” lo scarto tra natura e cultura. Ogni singola metafora sarà influenzata dalla cultura in cui si trova a operare, ma non sarà possibile ridurre interamente questo gesto alle condizioni e alle dinamiche sociali o antropologiche che pure caratterizzano una certa civiltà in un certo periodo del suo sviluppo storico. Se la metafora fosse perfettamente riconducibile all’ambiente in cui sorge, non genererebbe alcun effetto sorpresa: la metafora invece opera il miracolo di un incremento conoscitivo proprio perché accosta ciò che quella cultura aveva sempre inteso come eterogeneo. Nel rischio che ogni metafora intraprende associando il dissimile è custodito il germe di una nuova organizzazione del mondo. Per tacere dell’enorme “effetto di sorpresa” che dovettero generare le prime metafore: una meraviglia – un primo destarsi della mente – che «or’a stento intender si può, affatto immaginar non si può»65. Senza bisogno di risalire a quei gesti originari, a quelle imprese letteralmente eroiche che furono le prime forme “menate fuori dalla materia”, la dinamica suscitata anche solo attualmente dalla metafora è sufficiente a suggerire una certa superiorità della propria natura sulla nostra conoscenza. Quando si dà vita a una metafora, si attinge sempre a una sorta di sostrato indipendente rispetto a ogni condizionamento culturale o cognitivo: l’intero patrimonio di una civiltà non è sufficiente a spiegare la “ragione” di una metafora, proprio perché la metafora, al contrario, costituisce l’origine del dispiegamento della ragione stessa.

65 G. Vico, SN [1744], p. 919.

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Nell’attività metaforica accade come se si risalisse a una natura primigenia rispetto a ogni cultura66: Vico si sforza di nominare una “quasi-natura”, mediante l’espressione «senso comune umano, senza alcuna riflessione»67. Una sorta di natura antichissima, prepotente rispetto a ogni potenza civile, tanto da incombere in ogni istante sulle diverse articolazioni del mondo organizzate dalle varie culture: questa prepotenza irrompe e crea scompiglio nelle strutture abitudinarie68. In tal senso la metafora è letteralmente viva69, la brace ardente che cova sotto alla cenere inerte delle configurazioni quotidiane offerte dal linguaggio. Il maggior corpo delle lingue appo tutte le Nazioni La metafora incarna l’elemento vivente irriducibile a quella rete di correlazioni mediante cui la lingua si organizza e articola il proprio mondo. Appartiene all’intimo nucleo di memoria, fantasia e ingegno questa capacità di generare uno scarto non previsto, tale da costringere l’intero sistema linguistico a riconfigurarsi tenendo conto di quell’incremento (anche sul piano cognitivo). Dal momento che in nessun modo quell’eccedenza può essere riassorbita nell’architettonica preesistente, essa induce a formulare aggiustamenti in itinere che rendono la lingua stessa un organismo piuttosto che un meccanismo.

66 Cfr. V. Vitiello, La scrittura del corpo, in Vico. Storia linguaggio natura, Roma 2008, pp. 75-96. 67 G. Vico, SN [1744], p. 890. Cfr. L. Amoroso, Vico, Kant e il senso comune, in Nastri vichiani, cit., pp. 71-95. 68 Cfr. H. Cohen, Strutture del linguaggio poetico, a cura di M. Pazzagli, Bologna 1974, p. 145. 69 P. Ricoeur, La métaphore vive, Paris 1975. Tr. it. La metafora viva, a cura di G. Grampa, Milano 20013, pp. 229-284.

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Quando Vico afferma che «la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le Nazioni»70 non intende sottolineare soltanto la cospicua presenza delle metafore in ogni idioma: si tratta di una peculiarità riscontrabile soprattutto nella “prima giovinezza delle lingue”; la metafora costituisce un supporto irrinunciabile all’articolazione stessa e al dispiegamento delle possibilità linguistiche. “Fa il maggior corpo” significa che la metafora mostra il residuo ineliminabile della “corpolentissima fantasia”71, la quale non risponde agli “schemi” di una lingua “tutta spiegata”. L’intera Scienza nuova mostra il dispiegamento della mente umana, dall’età degli dèi sino all’età degli uomini e in particolare dalle lingue geroglifiche sino alla lingua pistolare. Sappiamo da Vico che «Natura di cose altro non è, che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise; le quali sempre, che sono tali, indi tali, e non altre nascon le cose»72. Se la formula vale anche per la lingua, questo processo di sviluppo del linguaggio, che tende a una progressiva astrazione e a una sempre crescente specializzazione e sofisticazione dei termini, appare ineludibile e “destinale”: dalle parole reali di Idantura la lingua si “pistolarizza” necessariamente. Il linguaggio «dovette, deve e dovrà»73 assumere quella direzione: ciò rappresenta l’esatto correlato del dispiegamento stesso della civiltà. La metafora fa il corpo di una lingua perché è la sede in cui la lingua stessa attinge nuovamente al suo originario: da mente “tutta spiegata” ritorna a essere “corpo che si fa mente”, uomo che nella sua robusta ignoranza fa sé regola dell’universo. La

70 G. Vico, SN [1744], p. 956. 71 Cfr. Id., SN [1730], p. 503. Inoltre Id., SN [1744], p. 917. Sulle varianti cfr. G. Vico SN [1744], pp. 863, 869, 917, 955, 1100, 1150, 1161, 1170. 72 Ivi, p. 861. 73 Cfr. ivi, p. 904.

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metafora costringe a riconoscere che il dire nella sua genesi è innanzitutto un gesto: nell’atto della metafora si mostra come l’articolazione della lingua non sia un’operazione tutta interna alla mente, bensì un gesto mediante cui il corpo stesso si rende conscio di sé. Nell’istante metaforico la lingua scardina l’ordine del tempo – il “tempo pistolare” in cui inevitabilmente si trova – e torna a quella prima “Ananke”, per usare le parole di Gottfried Benn, che è il corpo74.

74 G. Benn, Zur Problematik des Dichterischen [1930], in Gesammelte Werke, a cura di D. Wellershoff, Limes, Wiesbaden, 1968, vol. III, p. 644. Tr. it. Intorno alla natura della poesia, in Saggi, a cura di L. Zagari, Milano 1963, p. 35.

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Due “Gemme etimologiche” del Vico Vico, Benveniste, Dumézil

In un articolo del 1959 Antonino Pagliaro conclude la sua rinuncia a una revisione sistematica degli etimi vichiani con questa ammissione: «anche se, fra tante scorie, baleni qua e là più di una gemma»1. Andare alla ricerca di alcune tra queste gemme significa ammettere che il ventaglio delle congetture è talmente vasto e il novero di congerie è tanto intricato da impedire qualsiasi strutturazione coerente dell’intero materiale. Inestimabile rimane invece il graffio di Vico, l’intuizione, il suo lampo di genio – capaci di trovare qua e là conferme anche negli studi contemporanei di mitologia, etimologia e religioni comparate. ERCOLE GLORIA DI GIUNONE Il carattere eroico dei matrimoni Nella fascia dello zodiaco, quella che cinge il “globo mondano” «compariscono in maestà o, come dicono, in prospettiva i soli due segni di lione e di vergine»2. A significare che la Scien-

1 A. Pagliaro, La dottrina linguistica di G. B. Vico, in Atti della Accademia nazionale dei Lincei, 1959, serie VIII, vol. VIII, p. 467. 2 G. Vico, SN [1744], p. 786.

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za nuova “contempla primieramente” Ercole: è immediato il collegamento con il Leone, ossia con la Selva Nemea incendiata. Blumenberg nota che l’Eracle soggiogatore di mostri viene assunto da Vico a emblema dell’edificazione di una vita civile, molto più del Prometeo portatore del fuoco3. Il fuoco è adoperato da Eracle per “ridurre a coltura”. La Vergine è assunta invece come simbolo della prima età del Mondo, in cui inizia la coltivazione dei campi, che viene narrata dai Poeti come l’Età dell’oro dei Greci – oro è il grano che sorge dalla “coltura” dopo aver disboscato la selva. Tuttavia Ercole assume anche un altro significato determinante nell’Iconomica della Scienza nuova: non sfugge a Vico che Ἡρακλῆς è “quasi Ἡρακλείς”, ossia gloria di Giunone4. Vico attribuisce all’oscurarsi delle severe significazioni il fatto che poi Ercole debba affrontare le sue fatiche favorito da Giove «e dispetto di Giunone superando»5. Secondo alcuni studi di mitologia, all’origine Ercole sarebbe addirittura “principe consorte di Giunone” e il matrimonio di quest’ultima con Giove sarebbe da attribuire a un sincretismo posteriore6. Dire “gloria di Giunone” è come dire “gloria dei connubj”. «Ella è Giunone detta giogale da quel giogo, ond’ il matrimonio solenne fu detto conjugium, e conjuges il marito, e la moglie»7.

3 Cfr. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos [1979], Frankfurt a.M. 2006, p. 412. 4 G. Vico, SN [1744], p. 989. Giunone è l’equivalente latino di “Era”. 5 Ibidem. 6 Cfr. A.-B. Cook, Zeus: A Study in Ancient Religion, Cambridge 1941, vol. III, pp. 1025-1065. Vico parla di Ercole come “bastardo figlio di Giove” (cfr. Vico, SN [1744], p. 989): non gli era sfuggito il rapporto ambiguo che Eracle greco intrattiene con Era. 7 Ivi, p. 988.

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In tal senso Ercole non è soltanto un eroe, ma quasi l’eroe per eccellenza, l’emblema dell’eroe – appunto l’Ἔρως / Ἥρως, l’eros che diventa eponimo di “eroe”, secondo l’ardita etimologia platonica che Vico non si stanca di ripercorrere e di ricalcare8. Si tratta di capire quale sia il carattere eroico di Ercole, tale da renderlo “gloria di Giunone giogale”9, senza dimenticare che da questo eros-eroe Vico fa derivare anche heri ed hereditas. In una delle sue più grandi fatiche, Ercole ruba i Pomi alle Esperidi. Commenta Vico: «Da tal fatiga, che fu la più grande, e più gloriosa di tutte, spiccò altamente il carattere d’Ercole, che ne fa tanta gloria a Giunone, che comandolla, per nutrir le Famiglie»10. Le pome d’oro sono intese da Vico come il frumento – l’oro per eccellenza della prima età del Mondo – ma è significativo che tale frumento sia stato procurato come nutrimento per le Famiglie: se è vero che questa impresa è stata voluta da Giunone, dea dei connubj, allora l’impresa assume valore in ambito “matrimoniale”. Riguardo alla figura di Ercole come carattere eroico si dice «ch’egli andò per lo Mondo spegnendo mostri, uomini nell’aspetto, e bestie ne’ lor costumi»11. Questa descrizione di mostri, metà bestie e metà uomini, è la stessa che caratterizza i “mostri civili”, ossia i centauri, nati da matrimoni misti tra Patrizi e Plebei. Più di ogni ulteriore argomentazione valgono le parole di Vico: «la vanità de’ matrimonj naturali: onde da tal

8 Cfr. ivi, p. 991. Sull’etimologia di “eroe”, dalla radice “ser”, da cui il legame sia con la dea greca “Era”, sia col verbo latino “servare” – per cui gli eroi sarebbero i custodi delle proprie terre – cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. III, p. 910. 9 Cfr. J. Hillman, Era, la dea del matrimonio, in Figure del mito, a cura di A. Bottini, Milano 2014, pp. 221-235. 10 Ivi, pp. 1007 e 1022. 11 Ivi, p. 1023.

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nube, si dissero nati i centauri; cioè a dire i plebei, i quali sono i mostri di discordanti nature, che dice Livio»12. I mostri che Ercole “fatica di debellare” sono le unioni ancora ferine con la Venere bestiale: non è casuale, probabilmente, il fatto che – disboscate le selve e annientate le mostruosità precedenti l’instaurazione della dimensione civile – i primi campi coltivati a frumento avranno per segno la vergine (affiancata a Ercole sul globo mondano). Ercole è la forza che impone i matrimoni con certe donne, di modo che ne escano certi figli e dunque certi Patres fondino le Famiglie. Nel sesto capitolo dei Matrimoni indoeuropei Dumézil si concentra sulle figure di Eracle e di Sigourðr (Sigfrido). Dopo aver enucleato le tre modalità principali con cui le donne entravano nella manus del marito, ossia per usus, per confarreatio e per coemptio13, s’indagano le connessioni tra queste tradizioni romane e tradizioni analoghe presenti nella cultura indiana. Quello che si scopre non è soltanto una vaga analogia, ma non è nemmeno un vero e proprio isomorfismo: se brāhma è il matrimonio nella sfera sacrale, inteso come dono religioso e gratuito della ragazza fatto dal padre (corrispondente alla romana confarreatio), āsura è il termine che designa l’interesse materiale (e sembrerebbe prossimo alla coemptio). Ciò consente di riscontrare una piena corrispondenza per quanto riguarda la prima e la terza funzione dell’indoeuropeo, fondate rispettivamente sul sacro e sull’economico. Le cose si compli-

12 Ivi, p. 1076. 13 G. Dumézil, Mariages indo-européens, Paris 1979. Tr. it. Matrimoni indoeuropei, a cura di G. Cardona, Milano 19952, p. 61. La medesima suddivisione, ripresa nelle Institutiones di Gaio (cfr. Gai, 1,110), si ritrova in B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, p. 294: «trinomio tecnico: usu, farreo, coemptione».

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cano se aggiungiamo che in India si trova anche il rākṣasa, un matrimonio basato su antichi demoni rapitori che rubano la fanciulla con la forza. Nessun dubbio nell’identificare il terzo matrimonio come appartenente alla seconda funzione, quella guerriera: ma non vi sono corrispondenti nella cultura romana (l’usus non può essere annoverato sotto tale dicitura). L’intreccio analogico si complica ulteriormente per la presenza di un quarto matrimonio indiano, detto gāndharva, quello del consenso reciproco tra contraenti. Secondo Dumézil si potrebbero interpretare rākṣasa e gāndharva come associati al diritto della funzione guerriera, nella sua duplice veste (forza da un lato e libertà dall’altra)14. Il matrimonio per usus rimane comunque estraneo a qualsiasi ricostruzione: Dumézil ricorda però che oltre ai matrimoni che conferivano la manus direttamente (confarreatio e coemptio), esisteva a Roma anche un matrimonio sine manu15 che corrispondeva maggiormente al matrimonio tra liberi contraenti. Dumézil congettura che l’intrusione della forma di matrimonio legata all’usus abbia alterato la forma sine manu: «innestandosi su nozze già celebrate, l’usus – che assicura una proprietà incontestabile dopo un anno di pratica – è venuto a limitare la libertà della donna e ha creato un effetto acquisitivo non voluto dalle parti»16. Al di là di un precoce differenziarsi delle pratiche romane rispetto agli stilemi indoeuropei, che pure Dumézil tende a rimarcare, confarreatio, sine manu (poi scalzato dall’usus) e coemptio costituiscono il “modo” romano di assecondare la tripartizione tipicamente indoeuropea. Alla luce di questa ricostruzione, la figura di Ercole (e successivamente quella di Sigourðr) aprirebbe un’importante retro14 Cfr. ivi, p. 78. 15 Cfr. ivi, p. 74. 16 Ivi, p. 75.

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scena sulla Scienza nuova. L’intuizione “vichiana” di Dumézil è la seguente: «uno stesso uomo, di vocazione guerriera, per esempio, poteva, secondo le circostanze, vedersi dare una donna gratuitamente e solennemente dal padre di lei, acquistarne un’altra mediante un indennizzo al padre in beni o servigi, conquistarne un’altra con la violenza, e infine, nel corso della sua vita, unirsi a un’altra donna ancora, o a molte altre, per reciproco assenso»17. Se nella figura di Eracle si concentrasse proprio la narrazione di tutte le possibili modalità di matrimonio? Qui non possiamo seguire l’intero percorso prospettato da Dumézil: Ercole riceve in dono Megara, figlia di Creonte, per i servigi prestati a Tebe, che poi ripudierà al termine delle dodici fatiche imposte da Euristeo. Eurito rifiuta di concedere a Eracle la mano di Iole. In seguito Eracle sposerà Deanira, figlia del re Eneo, sconfiggendo il pretendente Acheloo. Poi radunerà un esercito, assalterà la città di Eurito e si impadronirà di Iole. Per gelosia Deianira ricorre al filtro fatale di Nesso: Eracle indossa la tunica e muore tra dolori atroci; ammesso nell’Olimpo, Eracle riceve in sposa da parte degli dèi Ebe e i due convolano a libere nozze18. Le corrispondenze rispetto alle forme dei matrimoni indoeuropee sono facilmente identificabili a partire dal racconto19.

17 Ivi, pp. 58-59. 18 Cfr. la ricostruzione della saga di Ercole, ivi, pp. 79-81. 19 Cfr. ivi, pp. 81-83: l’unione con Megara è matrimonio brāhma laicizzato; il matrimonio con Deianira apparterrebbe a un caso aulico di matrimonio per acquisto, dove il kalym (ossia il prezzo della sposa, cfr. ivi, p. 169, nota 16) sarebbe il valore e la forza di Eracle con cui libera la futura sposa da Acheloo e garantisce prosperità al regno; il ratto di Iole si può ricondurre al matrimonio rākṣasa (un caso classico di ratto della fanciulla dopo l’uccisione del padre). Le numerose unioni, gli amplessi, di cui è costellata la vita di Eracle, sono matrimoni gāndharva, tra di essi vi sono le nozze con Ebe.

85 Sembrerebbe – scrive Dumézil – che gli autori delle gesta abbiano voluto far passare l’eroe panellenico attraverso tutte le forme di matrimonio riunite in un sistema da una teoria ancestrale20.

Osservazione rafforzata dal fatto che Eracle muore per il sangue avvelenato di Nesso, da Vico interpretato quale simbolo dei matrimoni misti che portavano al cosiddetto “cao civile”. Dumézil nota che «alla stessa esigenza obbedirà, assai più tardi, uno dei personaggi più famosi dell’epopea del mondo germanico»21: è il caso di Sigourðr-Sigfrido. Dumézil ricostruisce per sommi capi la saga di Sigfrido – affidando a lavori altrui ricognizioni più approfondite che verifichino nello specifico le corrispondenze – ed enuclea tre episodi. 1. La relazione tra Sigfrida e Sigfrido, tra la valchiria e l’eroe, tiene insieme tre diverse tipologie di unione: Sigfrido sorprende nel sonno l’amante (paiśāca22); la disarma e la minaccia con la spada (rākùasa); la valchiria si sveglia e si promette liberamente e volontariamente (gāndharva). 2. Sigfrido si invaghisce di Brynhildr/Brunilde e chiede al re Heimir di comprarla in sposa. Si accorda con il re e poi parte per tornare in seguito a prendere la donna. Si tratta di un chiaro caso di āsura o coemptio. 3. Sigfrido è ospitato dal re Gjuki, la cui moglie – la regina Grimhildr – fa dimenticare all’eroe con un filtro magico la promessa sposa Brunilde, in modo da destinargli la figlia Gudrun. La donna viene donata d’autorità a Sigfrido, al modo brāhma. Da qui comincia la trama di vicende nota come ciclo dei Nibelunghi. 20 Ivi, p. 83. 21 Ivi, pp. 83-84. 22 Cfr. si tratta della pratica più abominevole e peccaminosa tra quelle annoverate nel Mānavadharmaśāstra. Cfr. ivi, pp. 39-43. Dumézil discute del paiśāca ivi, pp. 42-43.

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Data l’analogia tra le saghe di Eracle e di Sigourðr, Dumézil intravede un “tipo indoeuropeo” ancestrale che raccoglieva tutte le tipologie di matrimonio in un unico racconto. Il mito qui è letteralmente una pratica: nelle loro epopee Eracle e di Sigourðr sono il “prendere in moglie”. Nelle loro varianti, i due eroi fanno questa cosa: “le nozze”, l’opera dello sposarsi. Il mito è un gesto. Se si afferma che Omero è «un’Idea, ovvero un Carattere Eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano, cantando le loro storie»23, allora Ercole è l’idea di uomini greci, in quanto essi contraevano le nozze. Eracle è il ventaglio delle nozze: figura le nozze-possibili. A proposito della Ragione poetica Vico scrive «che ’l vero Capitano di guerra, per esemplo, è ’l Goffredo, che finge Torquato Tasso; e tutti i Capitani, che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri Capitani di guerra»24. Eracle e Sigfrido sono Caratteri Eroici che raccolgono i vari tipi delle nozze, affinché ciascuno tragga da essi il proprio modo. Il progressivo passaggio dalle menti particolarissime e precise dei primi bestioni verso l’Universale ragionato passa attraverso quel che Vico chiama l’Universale fantastico: ogni episodio, nella saga di Eracle, è una figura, un esempio, un modello per contrarre le unioni. Quasi per assorbimento i modelli confluiscono in un unico carattere: i vari tipi di relazioni convergono nell’universale “nozze”. Quello delle nozze rappresenta un caso emblematico: se però si pensa alle strutture ricorsive individuate da Otto Rank25, relative ai racconti delle varie civiltà sulla nascita dell’eroe26,

23 G. Vico, SN [1744], p. 1158. 24 Ivi, p. 872. 25 O. Rank, Il mito della nascita dell’eroe, cit., pp. 75-78. 26 Rank mostra le analogie tra Sargon, Mosè, Karna, Edipo, Paride, Telefo,

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si potrebbe rintracciarvi un altro “universale fantastico” che incontra trasversalmente diverse culture. QUIRINUS, ovvero CO-UIRI-NO Tra le gemme vichiane spicca il complesso di tesi attorno a Quirino. Il passo più significativo, tratto dalla Scienza nuova del ’44, si trova al termine della discussione degli “Dei delle genti minori”: «Dei consegrati appresso da i popoli, come Romolo, il qual morto il popolo Romano appellò Dio Quirino»27. L’intuizione vichiana trova conferma nel più ampio studio di Dumézil La religione romana arcaica, dove si precisa che già «per i poeti del secolo di Augusto Quirino è Romolo divinizzato dopo la morte»28. All’interno di quella “grande triade arcaica” che Dumézil individua come una costante indoeuropea (funzione magicoreligiosa, funzione guerriera, funzione agricola29) a queste tre funzioni corrispondono le divinità Jupiter, Mars e Quirinus/ Vofonius, da cui prendono nome anche i corrispettivi flamini, ossia Flamen dialis (da Dium, connesso a Jupiter), Flamen Martialis e Flamen Quirinalis30. La medesima tripartizione si ritrova in ambito indiano (la società “ārya” risulta suddivisa in: sacerdoti brāhmana, guerrieri rājanya/kṣatriya, allevatori-

Perseo, Gilgamesh, Ciro, Romolo, Eracle, Gesù, Sigfrido, Lohengrin per rintracciavi una sorta di «leggenda mediana» (ivi, p. 75). Tutti i miti della nascita dell’eroe mostrano l’esigenza del distacco dai genitori – da principio unica autorità e fonte di ogni fede – affinché dall’opposizione generazionale tragga alimento la società (cfr. ivi, p. 78). 27 G. Vico, SN [1744], p. 892. 28 G. Dumézil, La religion romaine archaïque, Paris 1974. Tr. it. La religione romana arcaica, a cura di F. Jesi, Milano 20113, p. 225. 29 Id., La preistoria dei Flamini maggiori, in Idee romane, cit., pp. 151-161. 30 Cfr. ivi, pp. 155-156.

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agricoltori vaiśya31). Persino la società greca si presenta isomorfa rispetto a questa articolazione: si pensi alla tripartizione in filosofi, guerrieri, agricoltori presente nella Repubblica platonica. L’antico mondo celtico si divide a sua volta in druidi, equites e allevatori. Tale tripartizione classica permane emblematicamente in molte bandiere di nazioni europee, quelle bandiere dei tempi barbari ritornati che Vico chiama stemmata o insegne gentilizie32. Quirino non è soltanto Romolo. Una variante significativa, riportata da Dumézil, vuole Quirino «attribuito a Tito Tazio sia per un gioco di parole sul nome della città di Cures, sia perché Tazio e i Sabini avevano assunto nella leggenda la parte di “componente della terza funzione”»33, vale a dire ricchezza rurale, fecondità, massa – equivalente a quella rappresentata da Quirino. Anche questa possibile associazione Quirino-Cures non era sfuggita a Vico: vi sono almeno quattro passi34 nella sola edizione del ’44 in cui si associa Quirino-Quirites-Cureti. Già nell’edizione del ’25 si fa derivare “cureti”/“quiriti” da “quir”35 – che Vico dice significare “asta” in latino – e la cosa si ripete nelle edizioni successive, per esempio in quella del ’44 dove da “quir” si deduce l’assonanza con il greco “χείρ” che significa “mano” e che indica la potestas36. A sua volta questo “χείρ” risulterebbe affine a “κυρία”, che in greco significa “si31 Le analogie tra India e Roma non sono esaurite, si pensi al nesso tra la funzione regia e il primo ordine sacerdotale: come al “flamen dialis” spesso è associata la figura del “rex”, così il nome vedico del re “rāj (rājan)” è in simbiosi con il sacerdote “brahman-”. Si tratta del “sacro sdoppiamento del re” in due lingue (cfr. ivi, p. 153). 32 G. Vico, SN [1744], p. 1003. 33 G. Dumézil, La religione romana, cit., p. 228. 34 Cfr. G. Vico, SN [1744], pp. 801, 1042, 1060, 1061. 35 Id., SN [1725], p. 268. 36 Cfr. Id., SN [1744], p. 1060.

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gnoria”: perciò i Cureti/Quiriti sarebbero la versione latina dei “Sacerdoti armati d’aste” che fondano il dominio bonitario37, quello dei Quiriti intesi come gli ottimati. Da questa associazione tra Cureti e aste Vico deduce una triade di divinità armate: «appo i Latini da quiris, asta Giunone detta Quirina, e Quirino Marte; e Romolo, perchè valse vivo coll’asta, morto fu appellato Quirino»38. A patto di sostituire Giunone con Giove (le due divinità sono associate in vincolo matrimoniale39) Vico ha fondamentalmente intravisto quella funzione triadica che verrà poi canonizzata negli studi di Dumézil. Riguardo al nesso vichiano Romolo-Quirino: tutte le volte che nella Scienza nuova del ’44 Vico adopera il termine “Ragunanza”, lo connette allo “Jus Quiritium”40. È un dettaglio non secondario: Dumézil nota come i nomi delle prime due divinità cui sono consacrati i flamen siano tutti sostantivi come “Jou-” e “Mart-”, mentre il terzo dio è sempre designato con un aggettivo, un derivato in “-no-”41. Dumézil trae questa constatazione dagli studi di Benveniste42: in “Quirinus” il suffisso “-no-” si spiega come attributo tipico della divinità, come ac-

37 Sul nesso tra dominio quiritario e bonitario cfr. ivi, pp. 1045, 1049, 1059, 1072, 1195-1096, 1240, 1257. A p. 1195 si trova l’intera sequenza «dominio bonitario, quiritario, ottimo». 38 Ivi, p. 1024. 39 Secondo A.-B. Cook, tale hieròs gámos deriva dalla normalizzazione di una vicenda mitologica più complessa. Da una parte vi sarebbero stati Zeus e una compagna dal nome Diṓnē, dall’altra Era è una divinità sovrana, accanto alla quale vi sarebbe un “principe consorte”, verosimilmente di nome Eracle. Da qui la fusione in un’unica coppia Zeus-Era. Cfr. A.-B. Cook, Zeus: A Study in Ancient Religion, Cambridge 1941, vol. III, pp. 1025-1065. 40 Cfr. G. Vico, SN [1744], pp. 801, 1048, 1061, 1172, 1245. Costituisce un’eccezione la sola occorrenza di “Ragunanza” presente a p. 1214, dove Vico cita il termine in relazione ai Littori, e non ai Quiriti. 41 Cfr. G. Dumézil, La religione romana, cit., p. 144. 42 Cfr. E. Benveniste, La doctrine médicale des Indo-Européennes, in «Re-

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cade in “Neptunus”, “Vulcanus”, lo stesso “Vofonius” associato a “Quirinus”. “Quirinus” dunque sarebbe “*Co-uirī-no-”. “Quirinus” è la divinità che raccoglie i Romani, Quirino – Cumviri – «sono i Romani negli affari della pace, in opposizione ai milites di Marte»43. Vico avverte il tema presente in “Quirinus”, al punto di tenere sempre insieme lo “Jus Quiritium” e la “Ragunanza”. Anzi, “Quirinus”, è proprio un universale fantastico in ambito latino. Se Omero è stato «un Carattere Eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano, cantando le loro storie»44, “Quirinus” è il carattere eroico dei Romani quando essi si radunavano in pace, pronunciando certe formule. Anche l’etimologia di “Vofonio” può essere spiegata in maniera analoga. Pisani e Benveniste45 hanno mostrato come accanto a Giove e Marte si nomini Vofonio, «il dio protettore di qualche cosa che è etimologicamente identico al tedesco “die Leute” (uofio- < *leudhyo-)»46. Nel suo vocabolario delle istituzioni indoeuropee Benveniste precisa che il termine latino “cūria” «non ha corrispondenti in greco né in altre lingue»47: è piuttosto l’equivalente del greco

vue de l’Histoire des Religions», CXXIX, 1945, in particolare pp. 15-16. Le stesse tematiche sono riprese in Id., Il vocabolario, cit., vol. I, pp. 197-198. 43 G. Dumézil, L’uomo: ner e uiro, in Idee romane, cit., p. 220. 44 G. Vico, SN [1744], p. 1158. 45 Cfr. V. Pisani, Mytho-Etymologica, in «Revue des Éuropéennes», I, 1938, pp. 230-233. Cfr. E. Benveniste, Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques, in «Revue de l’Histoire des Religions», CXXIX, 1945, pp. 7-9. 46 G. Dumézil, L’uomo: ner e uiro, in Idee romane, cit., p. 220. Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario, cit., vol. I, pp. 247-248, sul rapporto tra “Leute”, “Liber” e “liberi”. Sulla derivazione dalla radice indoeuropea “*leudh” cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. II, p. 684. 47 Ivi, vol. I, p. 197.

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“φρατρία”. Il furore etimologico vichiano, che pretendeva di collegare tra loro “Quirinus” / “Cureti” / “χείρ”/ “κυρία” si rivela fallace: riesce a cogliere però un punto essenziale. Benveniste afferma che «si può spiegare all’interno stesso dell’italico la forma cūria con *co-uiria “insieme di uiri” appoggiandosi al volsco covehriu, che ha lo stesso senso»48. L’intuizione vichiana di associare “Quirinus” a “cūria”, scorgendo al di sotto di entrambi il medesimo significato della “ragunanza degli uomini”, trova dunque conferma.

48 E. Benveniste, Il vocabolario, cit., vol. I, p. 197.

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Magis amicus Plautus Diritto romano e commedia latina «Vico ci appare così, leopardianamente, il padre di ogni moderna ricerca critica di storia romana»1.

L’Antica Giurisprudenza tutta fu Poetica; la quale fingeva i fatti non fatti, i non fatti fatti, nati gli non nati ancora, morti i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredità: introdusse tante maschere vane senza subbjetti, che si dissero jura imaginaria, ragioni favoleggiate da fantasia2.

Sulle “ragioni favoleggiate” si gioca l’incipit del diritto, da cui deriva l’intera architettonica non solo della giurisprudenza, bensì dell’intera filosofia – ricordando il processo di derivazione suggerito da Piovani: ex legislatione philosophia3. Se lì si scavava attorno all’alleanza tra legge e pensiero, ciò dipendeva dalla constatazione che l’intreccio tra i due pare essersi definitivamente dissolto: «la legge particolarizzata non ha più ragione di sentirsi gemella del Pensiero»4. A sua volta, è il pensiero stesso a disperare della propria pretesa universalità, non meno di quanto la legge disperi della propria autorità: l’universale ci ha abituato a una “condizione di latitanza”. 1 S. Mazzarino, Vico e Roma, in Vico, l’annalistica e il diritto, «BCSV», V, 1971, p. 96. 2 G. Vico, SN [1744], p. 1224. 3 Cfr. P. Piovani, Ex legislatione philosophia, in «Filosofia», XII, 1960, 2, pp. 229-260. 4 Ivi, p. 233.

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Di fronte al collasso di questo secolare connubio, un autentico “ἱερός γάμος” della civiltà occidentale, non resta che tornare a un’alleanza più antica, quella tra legislazione e poesia5. Alleanza ancestrale, inquietante. Non erano proprio i poeti, gli ospiti illustri cacciati – con tutti gli onori, ma cacciati – dalla rocca della filosofia6? Se i poeti sono “compari” del diritto e d’altronde ex legislazione philosophia, com’è possibile che l’ultimogenita spezzi “l’antica alleanza”? Siamo alla ricerca della nascita dell’universale: con gesto analogo a quello schmittiano per lo Stato, ci si chiede come funzioni l’universale proprio nel momento in cui si constata che quest’ultimo «sta per essere detronizzato»7. L’universale nella sua efficacia-reale – nella sua Wirklichkeit – è già tramontato e perciò urge risalire a monte: prima del nesso legislazionepensiero, verso il plesso legislazione-poesia. Le menti singolari e precise La nascita della norma La presenza e la costruzione dell’universale coincidono con la strategia mediante cui la metafisica occidentale supera la “morte del sensibile”, o meglio il sensibile come particolarità incapace di reagire alla violenza del tempo. L’immaginazione esercita violenza sul senso interno per dar luogo al tempo come rammemorato, come interiorizzato. Kantianamente, tale violenza è forza che istituisce un Ordnung opponendosi a un’altra e più originaria violenza, al tempo come puro Ablauf, 5 Cfr. ivi, p. 239. 6 Plat. Leg., 817 a-c. Tr. it. Le leggi, a cura di F. Ferrari e S. Poli, Milano 2005, p. 651. 7 Cfr. C. Schmitt, Begriff des Politischen, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», LVIII, 1932. Tr. it. Il concetto di Politico, in Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna 1972, p. 90.

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mero scorrere8. “Scorrere” non può nemmeno essere il susseguirsi degli eventi: l’Ablauf dev’essere inteso come il “tempo della selva”; se fosse anche solo uno fluire lineare, sarebbe già in qualche modo “ordinato”, per lo meno secondo il prima e il poi. “Sensibile” e “Particolare” sono ciò che «a stento intender si può, affatto immaginar non si può»9: è l’inesistenza dell’ordine, l’individuum di cui non datur scientia. Quel “Caos e Notte”10 che Aristotele, nella sua Metafisica, tenta costantemente di allontanare in quanto nemico giurato della “medesimezza”; si tratta di quel “quarto” invitato che non si presenta al banchetto del Timeo11. Il singolare, prima che sia comparso il minimo bagliore di universalità, è l’assolutamente eterogeneo, il totalmente dissimile che è anche totalmente identico a se stesso: l’indiscernibile. Il lavoro della metafora è produzione della somiglianza, che rende il discernimento tra le cose, e le cose stesse, per la prima volta possibili. La nostra mente è «naturalmente portata a dilettarsi dell’uniforme»12: nell’indistinta congerie della selva, assomigliando cose tra loro, si creano “zone di uniformità”, primo momento di orientamento per quella corpolentissima fantasia che si fa regola dell’universo e dunque mente. Al termine del percorso la scienza si rivela come la nostra passione13. Fin dall’inizio si avverte un “dilettarsi naturale” nello

8 Cfr. KrV, B 248 / A 203, p. 236. Tr. it. p. 276. 9 G. Vico, SN [1744], p. 919. 10 Aristot. Metaph., 1072 a 8. Tr. it. Metafisica, a cura di G. Reale, Milano 20023, p. 561. 11 Plat. Tim., 17 a. Tr. it. Timeo, cit., p. 47. 12 G. Vico, SN [1744], p. 871. 13 Cfr. M. Heidegger, Was ist Metaphysik? [1929], Frankfurt a.M. 1976. Tr. it. Che cos’è la metafisica?, a cura di F. Volpi, Milano 20064, p. 38.

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scoprire affinità, nel connettere tra loro le cose inducendo in esse la somiglianza. Scorgere l’affinità è il primo passo verso quelle categorizzazioni da cui nascerà l’universale. Ma come sorge l’universale? Non certo per “aggregazione progressiva”: all’inizio tutto è dissimile da tutto; nulla è distinguibile poiché nulla è mai nemmeno stato ri-conosciuto. Andiamo alle primissime menti balorde, le cui dinamiche è affatto impedito di immaginare: Erano di menti così singolari e precise, ch’ad ogni nuov’aria di faccia, ne stimavano un’altra nuova, com’abbiam osservato nella Favola di Proteo; ad ogni nuova passione stimavano un altro cuore, un altro petto, un altr’animo14.

A partire da tale condizione, non è possibile giungere – non si dice all’universale – ma anche soltanto a un qualche minimo riconoscimento: una sfuriata collerica e rabbiosa faceva di quello letteralmente un altro; quello che noi chiameremmo “lo stesso individuo” veniva scambiato per un’altra cosa e dunque nemmeno vi era l’individuo, soltanto “arie di faccia”. Menti così precise che ogni “cosa” per loro era un diverso. Ogni “aria di faccia”, ogni passione risultava nuova: tutto accadeva una volta soltanto e dunque nulla poteva diventare segno. Soltanto fantasticando quelle menti avviarono l’idealizzazione, il significato come universale15 (dapprima solo fantastico). Dalla certezza del particolare si prese la strada dell’universale. Il Certo delle Leggi è un’ oscurezza della Ragione unicamente sostenuta dall’Autorità, che le ci fa sperimentare dure nel praticarle; e siamo necessitati praticarle per lo di lor Certo, che in buon latino significa particolarizzato, o come le Scuole

14 G. Vico, SN [1744], p. 1099. 15 Qui si sconta la potenza della logica hegeliana: l’immediatezza inattingibile è già superata e inserita nella cornice dell’universale.

97 dicono individuato, nel qual senso certum, e commune con troppa latina eleganza son’ opposti tra loro16.

Anche facendo proprio l’argomento vichiano della contrapposizione tra certum e commune e della tendenza ad “impropiare le parole”17, non è chiaro quando la progressione dell’impropiare sfoci nell’universale: solo da questo momento in avanti, non prima, è lecito parlare di “segno” come rimando e come stabilizzazione delle “arie di faccia” riferite, aristotelicamente, a un unico sostrato cui tutto rinvia. Qui è in gioco l’apertura trascendentale del significato, non un progressivo affastellarsi di “impropietà”18. Se si prescinde dal segno/significato ogni “diverso” nasce e muore senza poter mai essere identificato o riconosciuto. Un esempio classico della tendenza a “impropiare le parole” è offerto da un brano di Cicerone. Partendo da un passo del De officiis19 – in cui si parla della Respublica romana come comunità politica garante della conservazione dei beni del cittadino – Mario Bretone mostra come in Cicerone il termine res venga scambiato con bona. Bona sono dette le cose in quanto deriverebbero dai boni: solo i buoni cittadini sono possessori cui spetta il diritto di proprietà – cosa notata da Vico20. Il pro-

16 Ivi, p. 892. 17 Id., SN [1725], p. 67. 18 In quale luogo dovrebbero confluire le “impropietà” per generare l’universale? Quale luogo di raccolta delle diverse arie di faccia si potrebbe mai ipotizzare se non il meccanismo della significazione come segno che “rimanda a”? 19 Cfr. Cic., Off., 2,22, 77-79. Tr. it. De officiis, a cura di G. Picone e R. R. Marchese, Torino 2012, pp. 203-205. 20 La Scienza nuova insiste sulla progressiva condivisione del “dominio bonitario” dei campi offerta dai Patrizi ai Plebei. Cfr. G. Vico, SN [1744], pp. 851, 882, 939, 1043, 1050, 1054, 1059, 1072, 1077, 1128, 1130, 1240, 1257.

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blema è solo spostato: chi sono i buoni cittadini? «Il significato della parola non rimane fermo, come si sa, nella polemica di cui Cicerone è il massimo testimone: un concetto più ampio, e diverso, prende il posto di quello tradizionale»21. Il vincolo tra virtù e ricchezza verrà messo sempre più in questione. Si tratta di un evidente caso di allargamento del campo semantico designato da una parola, ma ciò non spiega ancora la nascita dell’universale in quanto tale. Stiamo ancora valutando il problema con le lenti dell’universale: il significato delle parole viene progressivamente slargato dal certum al commune; ma così non si spiega come quel certum, quella selva di “arie di faccia” sia confluita in un commune, che poi sarebbe diventato l’universale. Anzi, le stesse arie di faccia non erano ancora “certe”, bensì del tutto incerte, se si prescinde dalla loro designazione. Erano “cose certissime e precise”, impossibilitate a tramutarsi in segni significanti. Jura imaginaria: il sipario dell’universale Il problema è come si giunge a costruire l’universale. L’universale uccide il sensibile: l’astratto nega il particolare; tale morte irrecuperabile viene “detta” nel linguaggio dell’universale. Bataille si sarebbe espresso in questi termini: «Nel sacrificio, il sacrificante si identifica con l’animale messo a morte. In questo modo egli muore vedendosi morire, e anzi in una certa maniera, per sua volontà, all’unisono con l’arma del sacrificio. Ma è una commedia»22. L’uomo è l’animale che si illude: si mette in gioco nella commedia, fino alla morte. «È necessario, ad ogni costo, che l’uo21 M. Bretone, I fondamenti del diritto romano, Roma-Bari 2001, p. 63. 22 G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio [1955], in Al di là del serio e altri saggi, a cura di F. Papparo, Napoli 2000, p. 159.

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mo viva nel momento in cui muore veramente, o che viva con l’impressione di morire veramente»23. L’universale è la strategia mediante cui la metafisica occidentale intende superare la morte del sensibile. La morte apre la scena: dischiude la teoria/teatro in cui è possibile parlare di quella morte. “Dire la morte” è già finzione: l’autentica morte rimane ineffabile; viene rappresentata una morte ficta, raffigurata sulla scena. La scena teatrale si apre a delitto già compiuto: mostra quella morte, la dice, la inventa sulla scena; la differenza tra realtà e rappresentazione è già da sempre cancellata direbbe Derrida, e da ciò nasce il linguaggio come congerie di significati universali. «La possibilità del segno è questo rapporto con la morte»24. La metafisica nasce come “rapporto dissimulato” con la morte: la scena teatrale è il luogo che consente la ripetizione del segno. Segno è ciò che accade non una volta soltanto25: una volta accade soltanto la “morte vera” che si rivela momento infungibile, evento non sostituibile26; nessuno può assumersi il morire di un altro27. Ciò è possibile sulla scena: nascita del significato innanzitutto come ripetibilità28. Sulla scena il significato diventa ripetibile, imbocca la strada dell’universale e la morte diventa sostituibile: non si parla più di questo o quel sensibile,

23 Ivi, p. 160. 24 J. Derrida, La voix et le phénomène, Paris 1967. Tr. it. La voce e il fenomeno, a cura di G. Dalmasso, Milano 20105, p. 88. 25 Cfr. Id., Le théâtre de la cruauté et la clôture de la représentation, in L’écriture et la différence, Paris 1967. Tr. it. Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione, in La scrittura e la differenza, a cura di G. Pozzi, Torino 20023, p. 318. 26 Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit [1927], Frankfurt a.M. 1977, p. 319. Tr. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Milano 200216, p. 294. 27 Ibidem. 28 J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 136.

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bensì dell’astratto. “Una volta sola” è l’esclusività della morte, “tante volte” è prerogativa del logos universale. “Tante volte” equivale già a “infinite volte”: inaugurare la significazione coincide con l’impossibilità di interrompere la catena dei rimandi, di risalire alla prima volta. «La cosa stessa è segno»29. Chi aveva già colto, prima di Bataille, prima di Derrida – e prima dello stesso Hegel – il ruolo dell’immaginazione come rapporto con la morte, dunque come auto-affezione che è «luogo di estensione della misura»30, è Vico, nei suoi jura imaginaria. Non c’erano forme astratte, ma si cominciò a ravvisare il diritto come indivisibile. «Se non intesero, sentirono rozzamente almeno, ch’i diritti fussero indivisibili»31. Si prenda un passo dell’edizione del ’44: «perché l’antichissime leggi si osservano concepute comandando, o vietando ad un solo, le quali poi correvan per tutti appresso; tanto che i primi popoli eran’incapaci di universali»32. Lo stesso Vico poteva a stento intendere la finzione, senza poter affatto immaginarsela. Come se quella legge concepita per uno, al limite per una sola aria di faccia, all’improvviso – ἐξαίφνης – cominciasse a valere per tutte le arie di tutte le facce. La legge si anima, prende forma e si espande su tutti. Costringendo a sostanzializzare quelle arie di faccia in individui, i diritti iniziarono ad apparire indivisibili. L’indivisibilità del diritto e il “correr per tutti appresso” nascono a un parto. Ora rileggiamo il passo chiave di Vico per intendere gli jura imaginaria. l’Antica Giurisprudenza tutta fu Poetica; la quale fingeva i fatti non fatti, i non fatti fatti, nati gli non nati ancora, morti

29 Cfr. ivi, p. 76. 30 Ivi, p. 255. 31 G. Vico, SN [1744], p. 1224. 32 Ivi, p. 982.

101 i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredità: introdusse tante maschere vane senza subbjetti, che si dissero jura imaginaria, ragioni favoleggiate da fantasia33.

Verità astratte in quanto mascherate, diritti universali perché fantasticati: nell’eterogeneità del sensibile, nulla vieta che ci sia un “non fatto” che – parlando già ex post, nell’ottica dell’universale – costituirebbe l’eccezione e dunque sfuggirebbe alla norma. Il “non fatto” viene reso fatto, viene mascherato da fatto, viene fantasticato non affinché rientri nella norma, bensì affinché la norma sia per la prima volta possibile. Di modo che nasca l’universale, senza eccezioni. A esser fictae, a morire per finzione, sono quelle che agli occhi della norma sarebbero le eccezioni capaci di smentirla. E che cos’erano le eccezioni prima della norma se non il consueto stesso? E come le eccezioni fossero il consueto … affatto immaginar non si può! Come si crea la norma che ha portata universale? Esiste il caso in cui qualcuno froda o uccide un compare senza esser punito: la giurisprudenza poetica finge che quel fatto sia non fatto, che non sia esistito, e che dunque tutti vengano puniti, cancella l’eccezione. Tutti puniti significa: norma universale. Che cosa si cancella? Non ci si può affatto immaginare la singolarità dell’eccezione ancor prima che la regola fosse stabilita, quando tutto era eccezione, nella forma dell’una volta soltanto. Il segno ha cancellato la traccia della differenza. Alla ragione, accecata dalla legge, dal principio di identità, è affatto negato pensare al tempo in cui vi erano solo eccezioni, senza norma alcuna. La giurisprudenza finge anche nati “gli non nati ancora”: passo essenziale per la formazione del concetto di hereditas. Nel suo I fondamenti del diritto romano, Mario Bretone ha ben mostrato la finzione giuridica sottesa all’istituto dell’heredi33 Ivi, p. 1224.

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tas. Possiamo dedurre, da alcuni passi di Gaio e di Ulpiano34, come in età repubblicana la qualifica di erede venisse applicata anche ai figli postumi: la nascita di un figlio dava luogo alla “rottura” del testamento. L’espediente per non far crollare l’istituto della hereditas fu il seguente: «Bastava far ricorso a una “similitudine” (o a una finzione). Così si ammise che il postumo fosse istituito o diseredato in anticipo, come se fosse già nato, e si derogò in qualche modo alla regola che esclude l’istituzione di una persona incerta»35. Il figlio postumo è letteralmente incerto, al pari dell’omicida che sfugge al diritto: queste incertezze vengono cancellate; la loro peculiare incertezza muore a vantaggio del fantasma della norma. A prescindere dal gesto poietico non si giunge all’universale. L’Aristotele dei Topici era già consapevole che dalla somiglianza non si genera l’universale: «siamo convinti di suscitare l’universale attraverso l’induzione fondata su casi singoli, che risultano simili: non è invero facile indurre, quando non si conoscono le somiglianze degli oggetti»36. Si tratta di risalire, sulle orme di Piovani, dal nesso legislazione-pensiero a quello legislazione-poesia. La presenza di Plauto Questa formula vichiana “i non patti patti …” è una citazione dall’Aulularia di Plauto, v. 260. In particolare si tratta dell’episodio in cui Euclione promette in sposa la figlia a Megadoro. La frase “incriminata” è la seguente:

34 Sulla hereditas cfr. M. Bretone, I fondamenti del diritto romano, cit., pp. 29-32. 35 Ivi, p. 31. 36 Cfr. Aristot. Top., 108 b 10-12. Tr. it. Topici, in Organon, a cura di G. Colli, Milano 2003, p. 433.

103 pactum non pactum est, non factum factum est, quod vobis lubet37.

Nella commedia Vico ritrova la formula chiave che attesta la poeticità originaria della Giurisprudenza come linguaggio universale: dalla finzione nasce la norma astratta. Vico provvede infatti a fantasticare a sua volta sulla citazione. Nella Scienza nuova la fantasia «altera e contrafà»38. I “patti non patti” e “i non fatti fatti” diventano “nati gli non nati ancora”39: variazione sul tema che mira a superare ogni possibile eccezione alla norma. A questo proposito Orestano chiarisce come «le forme del diritto partecipavano ancora del meccanismo segreto delle forme del culto, sicché ciò che continuava ad avere rilievo non era tanto l’esistenza della norma, quanto il procedimento religioso mediante il quale si riconosceva, ancora caso per caso, se il singolo atto da compiere fosse in concreto lecito oppure no»40. La “gemmazione del diritto” direttamente dall’ambito del rituale non è sfuggita a Vico e trova conferma nello studio della formula ius iurandum proposto da Benveniste41. L’analisi caso per caso diventa legislazione universale soltanto in quel processo di generalizzazione che Vico concepisce come passaggio dal certum al commune. Il verso 260 dell’Aulularia risulta centrale in Vico, ma non riscuote successo presso la critica: in una delle più esaustive analisi delle commedie plautine come

37 Pl. Aul., v. 260. Tr. it. Aulularia, in Le commedie, a cura di G. Augello, Torino 1972, tomo I, p. 338. 38 G. Vico, SN [1744], p. 1151. 39 Formula che spiegherebbe l’istituzione dell’hereditas, oltre alla sua evoluzione in ambito storico-giuridico. 40 R. Orestano, I fatti di formazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, p. 9. 41 E. Benveniste, Il vocabolario, cit., vol. II, p. 369.

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fonte del diritto romano, il volume di E. Costa dal titolo Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto42, il verso non viene nemmeno citato43. Al di là del dibattito storiografico sui diversi influssi, oggi appare comunque innegabile che Plauto costituisca una miniera alla quale attingere anche per approfondire i meccanismi del diritto romano44: questa intuizione, relativa all’importanza dei testi plautini per il diritto romano, potrebbe essere annoverata, a tutti gli effetti, tra le “gemme del Vico”. Già Costa oltre un secolo fa riteneva che «se Plauto è pittore genuino di cose romane, ognuno intende quanto preziosa debba riescir l’opera d’un tal pittore per un tempo di cui quasi ci manca ogni altra fonte diretta»45. L’abilità del Plauto “pittore di cose romane” risalta alla luce di un estratto dalla Topica ciceroniana (5, 27). Dovendo caratterizzare la nozione di definitio, Cicerone sostiene: dico che non sono, quelle cose che non si possono né toccare né mostrare, ma si possono vedere con la mente e intendere, come accade quando definiamo l’usucapione, la tutela, la

42 Cfr. E. Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto, Roma 1968 [rist. anast. dell’edizione Torino 1890], ove si esaminano tutte le occorrenze dei principali termini giuridici (dictator, preator, testis, arbiter) oltre che i passi sulle istituzioni giuridiche (Familia, ius gentium, patria potestas, hereditas) nelle commedie plautine. 43 Persino uno dei grandi detrattori del Costa, cfr. U.E. Paoli, Comici latini e diritto attico, Milano 1962, pur riconoscendo in Plauto un patrimonio prezioso attorno alla formazione e all’evoluzione del diritto romano, non prende in considerazione il verso. 44 Cfr. G. Lotito, Usi e funzioni del diritto. Qualche osservazione su Plauto e la Commedia Nuova, in AA.VV., Per la storia del pensiero giuridico romano, a cura di D. Mantovani, Torino 1996, pp. 185-208; P. Leitner, Die plautinischen Kömodien als Quellen des römischen Rechts, in AA.VV., Diritto e teatro in Grecia e a Roma, a cura di E. Cantarella, Milano 2007, pp. 69-93. 45 Cfr. E. Costa, Il diritto privato romano, cit., p. 33.

105 “gente”, la parentela agnatizia. Non c’è nessun “corpo” alla base di queste cose; c’è tuttavia una figura o una forma rappresentativa che si imprime e disegna nel nostro intelletto (est tamen quaedam conformatio insignita et impressa intelligentia): io la chiamo “nozione”.

La philosophia sembra trovare la propria origine, quasi il proprio laboratorio sperimentale ex legislatione46: dalla legislazione sorge l’esigenza di pensare cose senza corpo, cose che in effetti nemmeno si vedono, cui sia comunque connessa una qualche “forma mentale” (conformatio). Nella feccia di Romolo, in quel rituale che si dispiega nel diritto, il corpo diviene mente. Questo impossibile credibile è la grande mascherata del diritto prima e della metafisica poi. L’individualità della persona47, legata alla maschera, nasce a teatro e da lì assume sostanza giuridica: la maschera individuava Edipo sulla scena lungo l’intero arco della tragedia. Non era scontato, per quelle menti corte e precise, che quell’aria di faccia che risolse l’enigma della Sfinge fosse connessa all’aria di faccia che avrebbe poi assunto la guida di Tebe e che quest’ultima fosse legata all’ “aria” assunta dal parricida incestuoso. Volendo trasferire l’episodio nel teatro plautino, la cosa si farebbe ancor più clamorosa nel dialogo tra Sosia e Mercurio, che Vico commenta ravvisandovi una trattazione anticipata dell’ego cogito cartesiano48. L’episodio di Sosia 46 Cfr. M. Bretone, I fondamenti del diritto, cit., pp. 71-121, dove si discutono sul piano giuridico le varie opzioni (materia, forma, sostanza) per procedere all’identificazione della “cosa” nel suo mutare. 47 Cfr. R. Orestano, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano, Torino 1968, 2 voll. Al di là dell’attribuzione del concetto di finzione giuridica in epoca moderna ora a Hobbes ora a Savigny, il tema è il carattere fantastico concesso al particolare: si tratta dell’apertura trascendentale verso significati universali. 48 Cfr. G. Vico, De antiquissima, cit., pp. 31-33: «invero anche il Sosia di Plauto, non diversamente dal genio ingannatore di Cartesio o dal sogno

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beffato da Mercurio mostra come il “corpo” non offra alcun appiglio per discernere i due: nemmeno il passato potrebbe giovare a distinguerli, perché Mercurio dimostra di saper ricostruire perfettamente le imprese di Sosia. Resta la mente, la ciceroniana quaedam conformatio insignita et impressa intelligentia, una mente che si fa una “rappresentazione” di ciò che di per sé non è. Quella mentale è una pura nozione, una configurazione di ciò che non ha corpo. La maschera del diritto supera le menti corte e precise in direzione dell’universale. Quella stessa “incertezza”, che è emersa come tratto dell’ingens sylva, viene oltrepassata da ciò che si può chiamare l’istituzione del certum. Nel certo già si dischiude l’orizzonte della determinatezza e della reciprocità che inevitabilmente è incipit dell’universale come “stile” della significazione.

dello stoico mandato dagli dei, spinto a dubitare della propria esistenza da Mercurio, che aveva preso le sue sembianze, a furia di meditarci su si era fermato su questo primo vero: […] Sed quod cogito, equidem certo sum, ac semper fuit». Cfr. Pl. Amph., v. 447. Tr. it. Anfitrione, in Le commedie, cit., p. 105: «se ci penso, io sono quello che son sempre stato». Sull’Amphitruo plautino, cfr. G. Chiarini, Compresenza e conflittualità dei generi nel teatro latino arcaico (per una rilettura dell’Amphitruo), in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», V, 1980, p. 105, ove si cita il prologo della Poiesis di Antifane (fr. 191 K): «Fortunata la tragedia (e cioè fortunati i tragici), sotto ogni rispetto. […] Basta buttare lì un Edipo e già tutto il resto è noto. […] Noi comici, invece, dobbiamo inventare tutto di sana pianta: nuovi nomi, nuovi fatti, nuove parole, gli eventi passati e i presenti, l’idea iniziale e lo scioglimento». Quest’obbligo d’inventare ex novo mostra quanto la commedia debba alla creazione fantastica. Cfr. W. Steidle, Plautus Amphitruo und sein griechisches Original, in «Rheinisches Museum für Philologie», 1979, pp. 34-48, dove si riporta (p. 35) uno schema analitico degli intrecci che determinano la struttura dell’opera.

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Contese agrarie come Anerkennung. Vico Hegel Nietzsche In relazione allo stile, si deve riprendere un passaggio del primo capitolo de La via delle maschere di Lévi-Strauss: «non diversamente dai miti, le maschere non possono essere interpretate autonomamente e singolarmente come oggetti separati. Visto sotto l’aspetto semantico, un mito non acquista senso se non quando venga inserito nell’insieme delle sue trasformazioni»49. La stessa cosa vale per le maschere: un certo tipo di maschera si contrappone ad altri tipi, e soltanto così assume una “individualità”. Affinché quest’ultima si opponga a quella di un’altra maschera, è necessario e sufficiente che sussista un medesimo rapporto fra il messaggio che la prima maschera deve trasmettere o connotare, e il messaggio che, nella stessa cultura o in una cultura vicina, l’altra maschera ha il compito di tramandare50.

La maschera istituisce le funzioni sociali: a partire dalla trasformazione della plastica, della grafica e del colore le maschere genereranno la differenziazione sociale per tipi. Ciascuno di questi, soltanto nella propria determinatezza e nell’esclusione reciproca di altri tipi, si identifica come tale e come una certa costante, una certa dimensione invariante del complesso sociale. Le maschere del diritto stabilizzano le “arie di faccia” creando quella articolazione (già incontrata nelle strutture elementari della parentela) in cui si consolida il passaggio dalla natura alla cultura.

49 C. Lèvi-Strauss, La voie des masques, Paris 1979. Tr. it. La via delle maschere, a cura di P. Levi, Torino 1985, p. 10. 50 Ivi, pp. 10-11. Il tema ricorre al termine della ricognizione empirica sulle tipologie di maschere. Cfr. ivi, pp. 160-161.

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In che cosa consiste quest’idea di un diritto “stabilizzatore” dei rapporti umani? La possibilità di astrarre tipi, ordini e funzioni sociali dal turbine e dai vortici della selva costituisce già il gesto essenziale dell’Occidente. La morte sensibile è la cosa soppressa nel segno: di essa si cancellano tutte le tracce e al suo posto sorge la cosa astratta, parimenti “morta”, ma in quanto significato istituito – separato da quel flusso in cui le cose mutano e anche muoiono.

Hegel riproporrà l’atmosfera in cui agiscono queste “maschere vane” nella dialettica del riconoscimento. La lotta si instaura sulla “scena”. «Questa presentazione è un fare duplicato: fare dell’altro e fare da se stesso»51. Nella lotta tra autocoscienze vince chi mostra di non tenere alla vita, vince chi sa astrarre dalla morte: in realtà nessuno dei due muore. Il signore non uccide il servo, ma ne rappresenta la morte: la mediazione che si instaura «rimuove come coscienza in modo da conservare e mantenere il rimosso, e con ciò quest’ultimo sopravvive al proprio venire-rimosso»52. È il finger la morte di cui parla Bataille: la morte è mantenuta nel suo essere-rimossa, è soltanto figurata. “Figurata”, ossia fantasticata, che è la vera traduzione italiana o – per meglio dire – vichiana, di aufgehoben. Quel rimuovere che è mantenere, Hegel stesso lo chiama Zauberkraft des Negativen, la potenza magica del negativo. Il sotterfugio del negativo. Riproponendo il passaggio sostanza-soggetto, il vero non è più un contenuto da comprendere, bensì da tollerare, da sorreggere – meglio, che si tollera e si sorregge perché è altrettanto bene soggetto. Con il teatro ci si 51 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Werke, cit., vol. III, p. 148. Tr. it. Fenomenologia dello spirito, a cura di V. Cicero, Milano 2001, p. 281. 52 Ivi, p. 149. Tr. it. p. 283.

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allontana dalla natura: il supplemento rompe con la natura53 e avvia la cultura. Signore e servo sono il risultato della lotta tra due autocoscienze, tra due (pretese di) totalità. La contraddizione non è risolta, ma negata e conservata; un’autocoscienza non ha annichilito l’altra. Non vi è piena sovranità da parte del signore, si instaura bensì un rapporto di mediazione tra i due, una signoria: «il signore domina su questo essere, e questo essere è a sua volta la potenza che domina sull’altro, cioè sul servo»54. Il dominio è mediato: c’è signoria, non sovranità. Questa differenza, scrive Derrida, è «la differenza del senso, l’intervallo unico che separa il senso da un certo non-senso. La signoria ha un senso»55. Il signore domina su questo essere: “questo” è il regno del significato, del senso, cui si ha accesso mediante la morte ficta del servo. La dialettica del riconoscimento parla di quell’origine inconoscibile, fantasticandola in maschere vane: è una giurisprudenza poetica. Soltanto mediante tale signoria si accede al senso: il signore si rivela capace dell’astrazione che supera la morte; si è fatto parola, instaura il linguaggio universale attraverso cui può mediare con il servo. Mediazione infinita, da cui non usciranno più né il signore, né il servo. Il linguaggio è l’estraniazione che enuncia l’Io, l’unica estrinsecazione56 in cui esista l’Io puro. È l’Io che, nel movimento del logos universale, fa la verità e la verità si sorregge in tale movimento: la proposizione spe-

53 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 210. 54 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 149. Tr. it. p. 285. 55 J. Derrida, De l’économie restreinte à l’économie générale, in L’écriture et la différence, Seuil, Paris, 1967. Tr. it. Dall’economia ristretta all’economia generale, in La scrittura e la differenza, cit., p. 330. 56 Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 376. Tr. it. p. 683: «Oltre al linguaggio, non c’è altro luogo in cui l’Io esista come Io puro».

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culativa è il contraltare di quella che Vico chiama “maschera senza subbjetti”. Dove i “subbjetti” di Vico sono i soggetti in carne e ossa, quelli sensibili, che vengono fantasticati in jura immaginaria: «nuda jura, diritti nudi di corpolenza, dissero in intellectu iuris consistere»57. In questo movimento idealizzante il segno è “vicario” sia della cosa detta, sia del soggetto che lo pronuncia. Il significato si costituisce speculativamente sostituendo sia la cosa sia il soggetto: è l’idea hegeliana; è il diritto vichiano. L’andamento dell’Anerkennung era già stato frequentato dalle contese agrarie di Vico, nella lotta tra patrizi e plebei. E sarà visitato anche in seguito, dal Nietzsche di Così parlò Zarathustra, nel passo seguente. Così anche ciò che è più grande dà se stesso e, per amore della potenza, mette a repentaglio la vita. Questa è la dedizione del più grande: temerarietà e pericolo, e un giuoco di dadi con la morte. E dove sono abnegazione e servigi e occhiate amorose: anche là è la volontà di essere padrone. Per vie traverse, il debole si insinua nella roccaforte e nel cuore del potente – e vi ruba. E la vita stessa mi ha confidato questo segreto. “Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa”58.

Se il significato nasce da una drammatizzazione, da una finzione, questo fantasticare – questo Aufheben – è altrettanto bene gioco dei significati e catastrofe dell’insignificanza. Al di qua del fantasticare gioca la finzione, tutt’attorno imperversa la catastrofe del senso. La commedia sta sul crinale, perde la forma della rappresentazione, e induce «un benessere e un sen-

57 G. Vico, SN [1744], p. 1225. 58 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, in Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, München 2000, vol. IV, p. 148. Tr. it. Così parlò Zarathustra, a cura di M. Montinari, Milano 200324, p. 131.

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tirsi bene della coscienza, come più non se ne trova al di fuori di questa commedia»59. Da lì si padroneggiano tutti i sensi, in quanto forgiati per comœdiam, e attorno a “questo essere”, a questa signoria, si scatena la danza dell’insignificanza, secondo la formula “una volta soltanto”. Quel che nel regime dei significati era “solo” signoria dell’essere, ora si amplia in piena sovranità: da ciò deriva il benessere che si avverte nella commedia, una vera e propria pienezza d’essere (Wohl-sein), non soltanto di quell’essere su cui regna la signoria del segno e del senso. Da quel crinale passa la differenza tra l’economia ristretta dei significati, ossia la Fenomenologia dello spirito, e l’economia generale60. Il benessere della commedia oltrepassa l’accecamento dovuto all’instaurazione del segno come senso. Nella commedia la ragione sconta la propria impotenza: si accorge che non c’è un senso da trovare, da comprendere, già da sempre assicurato dal principio di identità che cancella l’origine: c’è soltanto da sopportare la finzione; il senso è un prodotto, una contraffazione dell’immaginazione. Commedia: l’altro senso dei segni Di questo “disincanto”, di questa “sovversione del senso”, Hegel parla nelle ultime pagine della sua Estetica: sul palcoscenico si svolge la commedia, «i servi sono padroni e i padroni sono servi»61, anche se Hegel qui usa Herren e Diener, non Herr e Knecht, come nella dialettica del riconoscimento. La

59 Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 544. Tr. it. vol. II, p. 252. 60 Cfr. J. Derrida, Dall’economia ristretta all’economia generale, cit., p. 330. 61 G.W.F. Hegel, Ästhetik, in Werke, cit., vol. XV, p. 571. Tr. it. Estetica, a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Torino 1997, vol. II, p. 1379.

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differenza tra signore e servo da cui nasce ogni possibilità di senso ora si trova a essere invertita. Quella differenza, quella spaziatura direbbe Derrida, che assicura al linguaggio una struttura orientata e una polarizzazione62, trova qui la propria impasse. Nella commedia vale anche l’altro senso. La linearità dei rapporti che istituiscono un certo senso può essere percorsa anche in senso inverso. Il senso inverso è quello del servo che inganna il padrone: da ciò sorge la consapevolezza che il risultato di questi inganni e controinganni, mosse e contromosse, giri e rigiri, è il dissolversi di ogni scopo, come scrive Hegel. Così scrisse anche Vico riguardo alle repubbliche che degenerano nell’anarchia della sfrenata libertà. Gli scopi si dissolvono comicamente e la soggettività sopporta tale dissoluzione, perché proprio nella disfatta di ogni scopo, di ogni senso, avverte il proprio benessere: ogni cosa ridotta a utilità nella sua identità con l’Io, è soltanto – direbbe l’Hegel della Fenomenologia – “utile verso l’Io”63. A una simile inversione si assiste, già nella Fenomenologia dello spirito, dove il servo scopre di essere la verità del rapporto di signoria instaurato dal signore: è il servo che lavora, e lavorando rimuove il suo attaccamento al naturale. Quel che il signore aveva fatto d’un colpo, rivelandosi capace di non temere la morte, il servo lo “recupera” nel corso del proprio lavoro: rimuove l’immediatezza sensibile. L’instaurazione del senso da parte del signore è l’operazione di rottura con la natura, la stessa che verrà faticosamente perseguita anche dal servo64. 62 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 293. 63 Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 577. Tr. it. vol. I, p. 290. 64 Si tratta del compendio della successione tra forme di governo: dalla custodia scrupolosa delle prime sentenze, tipica del diritto eroico-aristocra-

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Tale cammino corre in parallelo e forse coincide con quello dell’arte: l’arte manifesta in ogni sua fase il grado storico dell’emancipazione dalla natura. L’arte supera storicamente la natura poiché ciò che trova altrettanto bene lo inventa65: è rimozione progressiva di ogni datità. Tale cammino si compie quando il servo diviene cosciente di tale verità, come assoluta negatività che rimuove ogni immediatezza: nella commedia il Sé ha rimosso tutte le contraddizioni della cosa. Come dire che l’intera civiltà, l’intera storia della cultura, nasce dal superamento della contraddizione tra signore e servo, o tra patrizi e plebei: il lavoro è questa grande commedia; «è il risultato che incessantemente diviene del lavoro e del fare di tutti, che poi si risolve a sua volta nel godimento di tutti»66; la cosa è lavorata e rielaborata sino a ridursi al Sé medesimo, a pura utilità. Il compimento del senso al contempo dischiude lo sguardo sulla propria catastrofe. Ciò verrà constatato dalla Scuola di Francoforte, negli studi di Adorno, dove si mostra come alla fine della divisione del lavoro, quando il processo di mediazione si è dispiegato in tutta la propria potenza nell’articolazione sociale, si piombi nell’irrazionale. Ciò che la grande filosofia chiamava sintesi si atrofizza. Suo erede è la sua parodia, la relazione allucinatoria67. tico, quello dei Patrizi, si passa al riconoscimento dei diritti per la plebe. I primi segni fantasticati sono le sentenze arcaiche, che poi verranno razionalizzati. 65 G.W.F. Hegel, Ästhetik, in Werke, cit., vol. XIII, p. 453. Tr. it. vol. I, p. 397. Il risveglio dello spirito artistico, nel simbolico è «la necessità di dare all’interno un’apparenza non più solo data (vorgefundene), ma anche (ebensosehr) inventata (erfundene) in base allo spirito». 66 Cfr. Id., Phänomenologie des Geistes, cit., p. 369. Tr. it. vol. II, p. 52. 67 Th.W. Adorno, Aberglaube aus zweiter Hand, in Soziologische Schriften I, in Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt

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La mediazione per eccellenza tra autocoscienze, il lavoro, sfocia nella parodia: l’articolazione della società che nasce come “mascherata” si risolve nel grande gioco dei significati. Appare la dissoluzione comica della signoria sull’essere: «la cultura in generale è fallita»68; la trasformazione destinale dalla cultura alla razionalizzazione coincide con la perdita di consapevolezza del carattere fittizio di ogni processo di universalizzazione. Nell’epoca di massima razionalizzazione, l’universale mostra i propri limiti. La standardizzazione delle procedure amministrative si chiude in se stessa, si autonomizza, esclude sistemicamente l’individuale69: «ogni razionalizzazione particolare torna a vantaggio di questa irrazionalità in quanto rafforza la pressione che un cieco e inconciliato universale esercita sul particolare»70. La discrasia tra amministrazione astratta e singoli individui sfocia nell’irrazionale. Il singolo coglie la natura fittizia dell’universale e ciò provoca riflessi comici: «quell’irrazionalità che viene a espressione nell’autonomizzazione dell’amministrazione nei confronti della società è il rifugio di ciò che nella stessa cultura non quadra»71. Nella commedia Hegel annuncia la fine di ogni sistema: siamo all’altro capo degli jura imaginaria di Vico; la finzione dei “non fatti fatti” è svelata. Precisamente così l’intende già Plauto: nell’Aulularia il padre costretto a maritare la figlia lamenta il fatto che gli altolocati fanno e disfano gli accordi come voglioa.M., 1972, vol. VIII, p. 175. Tr. it. Superstizione di seconda mano, in Scritti sociologici, a cura di A.M. Solmi, Torino, 19763, p. 168. 68 Id., Kultur und Verwaltung, in Soziologische Schriften I, vol. VIII, p. 140. Tr. it. Cultura e amministrazione, in Scritti sociologici, cit., p. 134. 69 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 207: «l’accecamento al supplemento è la legge». Da sempre il supplemento ha fatto dimenticare il suo vicariato: si è già nel regno dell’universale. 70 Th. W. Adorno, Kultur und Verwaltung, cit., p. 141. Tr. it. p. 135. 71 Ivi, p. 145. Tr. it. p. 139.

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no. Il genio di Vico intuisce che la formula poteva esser letta anche alla rovescia e si mette a fantasticare che non fosse la denuncia della relatività di ogni accordo, bensì il modo con cui gli accordi sono stati resi per la prima volta possibili. La ragione si abitua all’identità solo fittizia tra “non fatti” e “fatti”, al punto da non scorgere più la differenza tra i due: la ripetibilità cancella la differenza. La poesia drammatica è l’ultimo istante in cui balena la differenza: la tragedia è movimento della sparizione della differenza. Nel suo teatro alchemico Artaud parlava dell’annullamento del dissidio tra astratto e concreto, tra materia e spirito, come l’equivalente teatrale dell’oro72: la pietra filosofale del teatro alchemico è il luogo in cui si mostra l’identità tra il sensibile e l’universale, tra l’individuum e la sua rappresentazione. Il dramma di questo individuo qui, Edipo, viene rappresentato sulla scena. È singolare, è proprio lui, ma rappresentato: è oro! Lì si assiste a ciò che Benn chiama lo stile, presentandolo come una guerra al particolare e ostilità all’impressione, senza mai dimenticare che si tratta di una maschera73: «lo stile è superiore alla verità, lo stile porta in sé la prova dell’esistenza»74. Stile è l’esito del fantasticare: una creazione, un nuovo equilibrio. Una delle grandi mascherate della metafisica si chiama schematismo trascendentale. Nello stile la differenza sparisce, si instaura il principio di identità, la signoria su questo essere. 72 Cfr. A. Artaud, Le Théâtre alchimique, in Le Théâtre et son double, Paris 1964. Tr. it. Il teatro alchemico, in Il teatro e il suo doppio, a cura di G.R. Morteo e G. Neri, Torino, 20002, p. 169. 73 Cfr. G. Benn, Brief an Oelze (2. I. 1943), in Das Gottfried Benn Brevier, a cura di J. P. Wallmann, Stuttgart, 1979. Tr. it. Lettera a Oelze, in Pietra, verso, flauto, a cura di G. Forti, Milano 1990, p. 98. 74 Cfr. Id., Doppelleben, in Gesammelte Werke, vol. VIII, p. 2025. Tr. it. La crisi dei fondamenti, in Pietra verso flauto, cit., p. 20.

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L’equità naturale di Plauto Al termine della via delle maschere Da quel momento prende avvio l’età della commedia, l’età della filosofia, l’età di Platone che caccia i poeti tragici: la compiuta teatralizzazione vuole che la finzione stessa sparisca in quanto finzione. Nasce così quello che Nietzsche ha chiamato «il dominio degli astratti: il “ciò significa”»75. Oggi ci troviamo all’altro capo rispetto a quella creazione. La linearità padrone-servo, la signoria orientata che si impone come senso, mostra la corda. E la mostra nel suo compimento: la realizzazione della metafisica coincide con il suo tramonto. Il fine raggiunto è insieme la fine che si approssima: la cosa è Io. Piena fusione, l’essere ridotto a utilità. Il processo di logicizzazione non trova più resistenze, è davvero totalizzante. Qui scoppia il comico: nessun concetto afferra più la cosa perché la cosa coincide già col movimento del pensiero, non vi è più objectum da afferrare, non vi è più un’esteriorità da interiorizzare. Il linguaggio logico che dà un senso si esprime secondo una processualità, una linearità: ora tale linearità è l’intero, è la direzione assoluta … che proprio perciò cessa di essere direzione; non vi è più il carattere orientante del linguaggio. In termini hegeliani, è la fine della storia in quanto fine della capacità di pensare. È la fine dell’azione come negazione: lo Zauberkraft vince e tramonta in un unico gesto. Ecco allora l’annuncio di Hegel, nelle pagine conclusive sulla commedia: tornerà Aristofane76! Uno degli “Aristofani ritorna-

75 F. Nietzsche, Nachlaß 1887-1889, 14 [49], in Kritische Studienausgabe, cit., vol. XIII, p. 242. Tr. it. Frammenti postumi 1888-1889, a cura di S. Giametta, Milano 1974, p. 33. 76 G.W.F. Hegel, Ästhetik, in Werke, cit., vol. XV, p. 572. Tr. it. vol. II, p. 1380.

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ti” è sicuramente il Plauto di Vico. La sua espressione “fingere i non patti patti” è l’autentico smascheramento della civiltà. È l’equità naturale77 degli uomini dopo la rigidissima equità civile dei tempi eroici, per cui le cose si aggiustano in virtù di un’equità che oltrepassa il diritto stretto osservato nei primi tempi per “oscurezza di Ragione”. Che cos’è questa equità cui Vico, tramite di Plauto, si appella? In Usi e funzioni del diritto, Gianfranco Lotito rileva come nelle commedie plautine si trovi l’idea di un’intrinseca debolezza della giurisdizione, che dovrebbe essere integrata da una giustizia, in qualche senso, “ulteriore”78. L’ordito del diritto comincia a mostrare le prime smagliature: nell’età tutta spiegata le parole e le formule giuridiche tradiscono il timbro della mascherata. La compiutezza dell’età del concetto non riesce più ad afferrare con le proprie finzioni la vita stessa. Non è il meccanismo della costrizione giuridica ad assicurare l’ordinamento: anzi, il diritto complica, equivoca. «Il pubblico, che conosce la verità fin dall’inizio, segue con apprensione il complicarsi terribilmente irragionevole della vicenda»79. Proprio i vincoli impediscono che la situazione si sciolga: spesso accade che un evento casuale «sposti e rimoduli istantaneamente la configurazione giuridica rispettiva dei personaggi e, rimescolando completamente il gioco scenico, sciolga il blocco della situazione»80. Di fronte al crollo dell’architettonica giuridica dell’equità civile, sorge l’equità naturale: «e non solamente non isperimentano alcun’ azione di dolo; ma altro rimborsa al doloso 77 Cfr. G. Vico, SN [1744], p. 1189. 78 Cfr. G. Lotito, Usi e funzioni del diritto, cit., p. 192. 79 Ivi, p. 199. Lotito si riferisce alla Samia di Plauto, ma si potrebbe ampliare il discorso all’intera produzione plautina. 80 Ivi, pp. 197-198.

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Giovane il prezzo della schiava venduta: altro priega l’altro, che si contenti della mettà della pena, alla qual’ era tenuto di furto non manifesto: altro si fugge dalla città, per timore d’ esser convinto d’ aver corrotto lo schiavo altrui»81. L’accordo finale viene trovato per equità naturale, e da lì poi potrà anche essere formalizzato a livello giuridico. Lotito ne desume che «il matrimonio, anche come atto giuridico in grado di risolvere compiutamente la vicenda, sembra sempre più acquisire, dietro la spinta dei fraintendimenti, i caratteri di un miraggio del desiderio. Quando perciò l’atto giuridico si realizza, è già investito del crisma di un valore assoluto»82. Il matrimonio è un caso emblematico, non l’unico: il crisma dell’atto giuridico è segno che non viene prodotto nel gioco dei segni, bensì nonostante il gioco dei segni fallisca; soltanto per un evento casuale le cose “si sistemano”. Vico scova in Plauto l’equità naturale. Il Wohlsein della commedia è l’eticità dello Stato hegeliano come risultato della vita: il benessere dello Stato come saggezza particolare, che non coincide con la Provvidenza universale83, corre in parallelo con l’autodeterminazione astratta non deducibile della decisione, che interrompe la ponderazione e inizia ogni azione e realtà84. “Neppure a un dio - scrive Aristotele è concesso rendere non fatto il fatto”85

81 G. Vico, SN [1744], p. 1189. 82 G. Lotito, Usi e funzioni del diritto, cit., p. 199. 83 G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 337, in Werke, cit., vol. VII, p. 501. Tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Milano 1998, p. 559. 84 Cfr. ivi, § 279, pp. 444-445. Tr. it. pp. 475-477. 85 Aristot. EN, VI, 2, 1139b, 10-11. Tr. it. Etica a Nicomaco, a cura di M. Zanatta, Milano 19965, vol. II, p. 591.]

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Bestiario vichiano Come si fa selve delle città «L’Europeo ha la fortuna o il potere di essere europeo e tutt’altra cosa nello stesso tempo»1.

Un “bestiario vichiano”. La barbarie della riflessione strizza l’occhio alla fine della metafisica. I bestioni animavano la selva prima che s’inaugurasse la storia, ma quali istinti bestiali ne segneranno il tramonto? L’umanità diventa troppo fiera per coltivare con scrupolosità le leggi: si avvia l’oltrepassamento della iuris-prudentia, là dove una “somma solitudine di animi e di voleri” fa risorgere bestie immani, dedite all’anarchia, che faranno selve delle città. Al termine della metafisica ritorna l’animale. Il programma vichiano di scendere «da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani»2 dovrà essere letto alla rovescia: non come sguardo sul passato, piuttosto come profezia sul futuro che ci attende. “Bestiario” non

1 J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 301. 2 G. Vico, SN [1744], cit., pp. 899.

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come curiosità archeologia nel senso di una velleitaria paleontologia, bensì in vista dell’avvenire. Questa caduta ci attende. Com’è che si disfa il nodo erculeo della civiltà? Tra σοφία ed ἐπιστήμη: gustare e conoscere Selve, poi campi, colture, tuguri, picciole case, ville, città e finalmente accademie: il natural corso – per la verità “tutto storico” – di Vico nulla ci dice della quarta età, che sempre incombe e mai si presenta. Di fronte a questa “incombenza” restiamo del tutto ignari – che vale per ingenui: “γιγνώσκω” (ossia “conoscere” da cui “gnosco” e “gnarus” latini) e “γίγνομαι” (che significa “nascere/diventare” da cui “gigno” e “genitus” latini) derivano dalla stessa radice indoeuropea “gen/genǝ/ gnē/gnō”3 e quindi dall’accadico “kânu”4. Nessun sapere potrà renderci avvertiti di questa incombenza, né potrà redimerci da essa: esattamente come la sapienza che Edipo acquisisce al termine del dramma non cancella, anzi significa la colpa. Quella di Edipo non è conoscenza che risolve, ma sapienza cieca – nel senso del sápere latino – del gustare: anche Nietzsche in un suo frammento distingue tra σοφία ed ἐπιστήμη, tra sapienza e conoscenza5. Alla tesi severiniana della ἐπι-στήμη come “sapere che sta saldo sopra l’essere”6 si

3 Cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. II, pp. 373376. 4 G. Semeraro, Le origini della cultura europea, vol. II, tomo I, p. 62. 5 F. Nietzsche, Nachlass 1869-1874, 19 [86], in Kritische Studienausgabe, cit., vol. VII, p. 448. Tr. it. Frammenti postumi. Estate 1872-Autunno 1873, a cura di M. Carpitella, Milano 2005, vol. III, p. 50: «La σοφία ha in sé l’elemento atto a scegliere, che ha gusto: mentre la scienza, senza questa finezza di gusto, si getta su tutto quanto è degno di essere conosciuto». 6 Cfr. la fondamentale ricostruzione dell’etimo di ἐπιστήμη presente in E. Severino, Destino della necessità, Milano 19992, pp. 45-53.

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affianca quella di Santillana per cui ἐπιστήμη significherebbe, invece, “far fronte”7, da cui il furor mensurandi che fa dell’uomo uno “straniero al mondo”8. Rispetto all’incombere della selva vichiana, al disfarsi del nodo erculeo, l’ “ἐπί” di ἐπιστήμη smette i panni di “sopra” e torna a vestire quelli del più modesto – e forse più originario – “contro”: l’ἐπιστήμη è dapprima un “fronteggiare” e solo in seguito un “sovrastare”. Prima del sovrastare, prima ancora del fronteggiare, c’è l’avvertire di Vico. “Ad-vertere” come “volgersi a” come “tensione verso”, come primo, originario e originalissimo “in-tendere”, che non è ancora comprensione o conoscenza, solo apertura. Come apertura verso il tuono di Ζεύς-πατήρ – o di Ju-piter come dicevano i latini9 – l’avvertire è più che altro un puro e semplice “essere-in-ascolto”. Da qui prende corpo l’ob-audire10, l’ascoltare che accade in chi sottostà alla folgore e al tuono nell’istante in cui per la prima volta viene infranta la continuità del cielo11. Al “restare in ascolto” che comporta un “prestare obbedienza” si connette anche un altro tema costituito dall’endiadi “sottostare-inten7 G. de Santillana, Reflections on Men and Ideas, Cambridge 1968. Tr. it. Fato antico e fato moderno, a cura di A. Passi e R. Mastromattei, Milano 19933, p. 33. Cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, Bern-München 1959, vol. I, p. 323: dalla radice comune “epi-opi” deriverebbe sia la proposizione greca “ἐπί” sia quella latina “ob”, che non significa solo “sopra”, ma anche “contro”. 8 Ibidem. 9 Cfr. J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches, cit., vol. I, p. 183. 10 Cfr. J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale [1976], a cura di L. Sosio, Milano 20022, p. 126. Il nesso tra “udire” e “obbedienza” si ritrova in greco, latino, ebraico, italiano, inglese, francese, tedesco e russo. 11 Come ricorda Benveniste lo slavo “cĕlŭ” significa “sano”, “intero” ed è connesso al gallese “coel”, che significa “presagio” e all’alto bretone “coel” che equivale a “interprete dei presagi”. Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario, cit., vol. II, p. 425.

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dere” che si evince da under-stand12: la “sottomissione interpretante” trasforma il suono in comando: sospendiamo la nostra identità. Quel breve istante di ozio della nostra identità è la natura della comprensione del linguaggio; e se quel linguaggio è un ordine, l’identificazione della comprensione diventa l’obbedienza. Udire è in realtà una sorta di obbedienza13.

La sospensione dell’identità è piuttosto l’accecamento al supplemento che costituisce la ragione come impotenza a pensare la differenza, ossia come “principio di identità” tra supplemento e natura14. Il sápere di σοφία è apertura, un gustare che ancora non è conoscere, lo “schiudersi dell’ascolto” che non è ancora obaudire da cui sorge ogni successiva interpretazione/obbedienza determinata: né un sovrastare, né un fronteggiare, ma un primigenio intendere che è piuttosto un sottostare (VerstandVorstand come ricordava anche Schelling15). È ormai nota e quasi universalmente accettata la derivazione di σοφία dalla radice “saph”16 da cui non soltanto “sapere” latino, ma anche il ben più denso e ancestrale σαφής, che significa “chiaro”, “distinto”, “manifesto”, e per traslato “evidenza”, ossia “verità” scevra di dubbi. Letta vichianamente, la “cosa

12 J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale, cit., p. 245. 13 Ivi, p. 126. 14 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 207. 15 F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung, in Sämtliche Werke, a cura di F.K.A. Schelling, Stuttgart-Ausburg 1856-1861, Abt. 2, vol. III, p. 296. Tr. it. Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Milano 2002, pp. 495-497. Schelling sfrutta l’analogia semantica per mostrare il ruolo primigenio dell’intelletto come Urstand, come Prius (quod præest), e dunque come soggetto dell’intero processo. 16 G. Semeraro, Le origini della cultura europea, cit., vol. II, tomo I, p. 257.

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evidente”, chiara e distinta, non è il pensiero cartesianamente inteso: la luce dell’intelletto, il lume dell’ego cogito cartesiano, non è per Vico l’evidenza massima. Nel De antiquissima Italorum sapientia leggiamo: «la mente umana, quanto conosce distintamente una cosa, la vede come di notte alla luce di una lanterna: mentre vede quelle cose, esclude dalla sua vista gli oggetti che la circondano»17. Nel primo “avvertire”, non vi è né la brillantezza del concetto, né la dimensione cristallina della comprensione: Infatti provo dolore, ma non riconosco alcuna forma del dolore; non riconosco i confini del malessere dell’anima. Una conoscenza indefinita, e proprio perché indefinita degna dell’uomo. Vivida è l’idea del dolore e luminosa più di ogni altra18.

Ecco la consapevolezza tragica del pensiero di Vico: “vivida doloris idea est, et illustris, ut nihil magis”. Tale è la sapienza, il gusto dello stare al mondo. A questo dolore ci opponiamo: dall’ob-audire, al fare fronte tipico dell’ἐπιστήμη, fino all’objectum, l’oggetto che mi sta di contro. Nessuna oggettivazione riuscirà a sopprimere il sapore dello stare al mondo, nessuna ἐπιστήμη potrà comprehendere tutte le cose19 e concepire il dolore a cui la σοφία ci desta. Come l’origine non si configura nei termini dell’ἐπιστήμη, così la “chiusura” si sottrae al processo conoscitivo, al movimento di pensiero che afferra e concettualizza: la furia della quantificazione calcolante è fedele compagna del dissolvimento ineludibile del “nodo della civiltà”.

17 G. Vico, De antiquissima, cit., p. 79. 18 Ibidem. 19 Cfr. ibidem: la mente umana «può andare raccogliendo, ma non già raccoglierle tutte».

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Ius iurare: formula certa e severa Torniamo alla “scrupolosità di parole”, alla prudenza degli antichi: la formula “ius iurare”, lo “ius iurandum” che equivale a “sacramento”, ci avverte che, originariamente, “giusta” è la ripetizione di certe formule; «non è il fare ma sempre il pronunciare che è costitutivo del “diritto”»20. A riprova di ciò, da “ius-dicere”/“iu-dex”, deriva poi il nostro giudice. “Iurare” non è altro che «il fatto di ripetere la formula pronunciata»21. Il supplemento/sostituto agisce come prestazione esonerante che «spezza il cerchio dell’immediatezza»22 e costruisce un’organizzazione simbolica che scinde la cosa dalla sua rappresentazione. Un certa formula è dunque “esigenza simbolica” che contiene in sé un principio d’esonero (Entlastung)23. Il diritto si configura come un dire che fa: il dire esonera dalla reazione istintiva e apre il ventaglio del fare; l’uomo è capace anche di rappresentare in absentia, «fa saltare completamente i limiti della situazione»24. Qui termina la pura e semplice bestialità. Una certa formula è supporto per “fronteggiare giustamente” il mondo: una certa sequenza di suoni e di simboli, non un’altra. La scrupolosità di parole è dettata dalla prudenza e dalla cura verso la ripetizione del medesimo. Nella lingua vichiana: «Natura di cose altro non è, che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise; le quali sempre, che sono tali, indi

20 E. Benveniste, Il vocabolario, cit., vol. II, p. 369. 21 Ivi, p. 373. 22 A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Wiesbaden 1978. Tr. it. L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, a cura di C. Mainoldi, Milano 1990, p. 73. 23 Ivi, p. 63. Data la sovrastimolazione che l’ambiente produce in un animale privo di istinto, al posto della selezione subentra l’esonero mediante il simbolo, capace di concentrare in un unico segno un intero contesto. 24 Ivi, p. 77.

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tali, e non altre nascon le cose»25. Procurando di attenersi al certo, la ripetizione letteralmente accerta e l’accertamento a sua volta verifica, ossia rende-vera la formula medesima. “Certe formule” fissano i canoni di una civiltà: perpetuare “certi segni” e “certe voci” è veicolo di costruzione e perpetuazione della cultura, coltivando gli stessi segni. L’inversione vichiana rispetto alla prospettiva aristotelica non potrebbe essere più netta: proprio perché un tempo ci furono caos e notte è necessario ripetere sempre le stesse cose26; la certezza della formula assicura quella ripetizione del medesimo che cerca di non naufragare nella notte della civiltà, nelle tenebre dell’ingens sylva. Dunque “ταὐτὰ ἀεὶ”, sempre le stesse cose … ma non “per natura”, bensì natural-mente, dove natura è nascimento con certe guise, è storia. E perciò «νόμῳ, οὐ φύσει»: per legge, non per natura. Tale è la serietà cui obbligano i costumi degli antichi. La Scienza nuova martella sulla severità dei costumi: “sé-verus” è il mos maiorum perché si verifica perpetuandosi; trova in sé stesso il vero in quanto tutti lo seguono scrupolosamente, se ne accertano e così lo “avverano”. Tale certezza è l’auctoritas: l’auctor che fa aumentare (augeo), nel senso che fa crescere (cresco, il cui participio cretum per metatesi diviene certum). Il certum è ciò che cresce in virtù dell’auctoritas che si “verifica”, si rende vera, in quanto sé-vera. Il diritto degli albori è questa auctoritas, questo certum, in attesa che si costituisca la ratio e il verum27.

Nei primissimi tempi delle nazioni gentili il certum è “vicario provvidenziale”, di fronte all’assenza del verum: l’auctoritas è supplemento/sostituto della ratio che poi si manifesterà e si dissolverà nella “equità naturale”. Ai primordi regna la legge

25 G. Vico, SN [1744], p. 861. 26 Cfr. Aristot. Metaph., 1072 a 8. Tr. it. p. 561. 27 Cfr. G. Giarrizzo, Vico. La politica e la storia, cit., p. 101.

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dura e severa, tipica di una “Ragion stretta”: a proposito di questa legge rigorosissima Vico si permette di storpiare Ulpiano. Non si dica “lex dura est, sed scripta est”28, bensì “lex dura est, sed certa est”29. Quella determinata sequenza “scritta di certo” è la legge dura, ristretta, severa. “Impropiare le parole”: certum opposto a communis Il clinamen che dall’equità civile conduce inesorabilmente all’equità naturale si trova tutto concentrato nell’Elemento CXI della Scienza nuova del ’44: Il Certo delle Leggi è un’ oscurezza della Ragione unicamente sostenuta dall’Autorità, che le ci fa sperimentare dure nel praticarle; e siamo necessitati a praticarle per lo di lor Certo, che in buon latino significa particolarizzato, o come le Scuole dicono individuato, nel qual senso certum, e commune con troppa latina eleganza son’ opposti tra loro30.

Certo è il precisissimo, individuato così e non altrimenti, rispetto a cui il parlare astratto e pistolare si pone come parlare per “generi comuni”. Il progressivo dispiegamento in cui consiste lo sviluppo della mente – si legge nell’edizione del ’25 – ha luogo «con supplirne le mancanze, impropiando le parole della lor legge e, con ammendarne i rigori, dando loro sensi tuttavia più benigni»31. L’universalizzazione dei termini nel linguaggio pistolare equivale ad annacquarne la certezza

28 Ulp. D., XL, 9, 12, 1. 29 Cfr. G. Vico, SN [1744], p. 892. 30 Ivi, p. 892. 31 Id., SN [1725], p. 67.

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(nel senso della precisione) mediante la creazione di generi astratti comuni a molte cose e dunque incapaci di riportare esattamente per ciascuna di esse la “particolare natura”. “Impropiare” vale per “accomunare”: nel gesto di accomunare, le sentenze – dapprincipio così dure – si stemperano in leggi. Nel momento in cui si parla per universali, le formule smarriscono la propria essenziale oscurità: l’aura viene meno, il loro senso è tutto spiegato concettualmente. Ma quell’oscurità, quell’incapacità di capire fino in fondo il loro significato costituiva la componente centrale della loro stessa auctoritas: proprio perché le menti dei primissimi uomini non intendevano ancora il vero «proccuravano di attenersi al certo»32, e con grande scrupolosità. Ora che il vero è saputo e tutto spiegato, nulla può vantare “autorità” se non la ragione stessa. È un processo ineludibile: il diritto provoca l’universale. La ripetizione dei segni (ius iurare) induce la loro universalizzabilità perché consente di familiarizzare progressivamente con essi e di intravederne le possibilità di profanazione e i margini di violabilità. L’espressione viene profanata includendo in sé cose tra loro differenti. Il passaggio dall’auctoritas alla ratio coincide col passaggio dal “che” al “perché”, dal nascimento in certe guise alla conoscenza di quelle guise. L’intrapresa del segno si trasforma progressivamente nell’intraprendenza dei segni, in una eccessiva disinvoltura nella manipolazione delle connessioni. Il segno comincia a essere “impropiato”: adoperato per significare cose che dovrebbero essere precisa-mente distinte; l’uso di un certo termine comincia a diventare incostante, rendendo più benigna quella che nacque come pratica costante di prudenza, la iuris-prudentia. Il diritto civile è già frutto di una “capacità d’astrazione”: una certa formula si ripete sempre medesima-mente anche se in 32 Id., SN [1744], p. 860.

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relazione a casi, eventi e occorrenze tra loro inevitabilmente diversi. Questa ripetizione cui “ci si procura di attenersi” nell’età del certo è già veicolo di “accomunamento dei diversi”, di dispiegamento del vero: certum pars veri. Una selva di segni La progressiva “sofisticazione” dei rapporti all’insegna della pura uguaglianza algebrica che assidera l’ingegno tenderà a intorpidire un “segno di dote congenita”: per Aristotele si trattava di «saper scorgere il simile»33; Vico lo definiva «innata proprietà della mente umana di dilettarsi dell’uniforme»34; e Kant parlava di «quel cosiddetto ingegno naturale la cui mancanza non può trovare rimedio nella scuola»35. La “misura” che consente il fra-intendersi, il gioco delle somiglianze e degli equivoci, è sfondo ineludibile di ogni dialogo comunitario. La questione non era sfuggita al Kant della terza critica, che parla dell’esigenza di accordare parte colta e parte rozza di una popolazione mediante una “giusta misura”, un termine medio. Difficilmente un’epoca successiva potrà fare a meno di quei modelli, perché sarà sempre meno vicino alla natura36.

Siamo sulla soglia della barbarie della riflessione: la capacità di astrazione si è impadronita dell’umanità; l’effetto di differimento della cosa per mezzo del segno si traduce in una totale

33 Aristot. Poët., 1459 a 8. Tr. it. p. 123. 34 G. Vico, SN [1744], p. 1173. 35 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 172 / A 133, in Werke, cit., vol. III, p. 184. Tr. it. p. 215. 36 Id., Kritik der Urteilskraft, § 60, B 263 / A 259-A 260, in Werke, cit., vol. VIII, p. 464. Tr. it. vol. I, p. 555.

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impraticabilità delle cose; i segni diventano la nostra stessa natura. Pratichiamo solo universali, ci sfugge il “modo di pensare” di quelle menti balorde, cortissime, ma proprio perciò precise. Sempre più “uguaglianza” astratta e sempre meno auctoritas, sempre più “verità universali” e sempre meno “se-verità”, sempre più teoremi e sempre meno capacità di giudizio: questo pare il ritmo cui la civiltà è destinata, dall’equità civile all’equità naturale. Il regime dei segni seppellisce il regno delle cose «fino al punto che questo non è più la traduzione “scritta” di un linguaggio, il trasporto di un significato che nella sua integrità potrebbe rimanere parlato»37. Una barbarie peggiore della barbarie dei sensi: la selva che ci attende è una foresta inestricabile di segni senza più traduzione, di significati senza senso. Viene a mancare la capacità di giudizio come autonomia, autentica auctoritas, capace di tenere insieme i differenti in un racconto, in una favola, assomigliandoli tra loro secondo “unità-di-senso”. Uno degli animali del bestiario vichiano è Josef K, che muore come un cane38 a seguito di un processo basato su «codici che non si possono vedere»39. L’oscurità delle norme arcaiche e lo specialismo tecnico contemporaneo trovano nell’indecifrabilità il loro termine di congiunzione. Nel suo saggio sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica Benjamin discute il valore cultuale dell’arte contrap-

37 J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 28. 38 Cfr. F. Kafka, Der Proceß, in Gesammelte Werke, a cura di H.-G. Koch, Frankfurt a.M 1990, vol. III, p. 241. Tr. it. Il processo, in Romanzi, a cura di E. Pocar, Milano 1969, p. 532. 39 W. Benjamin, Franz Kafka, in Gesammelte Werke, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1990, vol. II, 2, p. 412. Tr. it. Franz Kafka, in Angelus novus, a cura di R. Solmi, Torino 1995, p. 278.

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posto al suo valore di esponibilità. La prima tecnica è sorta a partire dall’arte come istanza magico-rituale che consentiva un primo momento di orientamento nella natura elementare: scopo della prima tecnica era il dominio della natura. Oggi, quella che Benjamin chiama la seconda tecnica ha di mira il dissociarsi dalla natura: Questa tecnica emancipata sta però di contro alla società attuale come una seconda natura, e precisamente, come dimostrano crisi economiche e guerre, come una natura non meno elementare di quella che fu concessa alla società primitiva40.

La selva di puri segni è una foresta tanto elementare e indecifrabile quanto l’ingens sylva dei bestioni. Il disboscamento è cominciato con segni sporadici d’orientamento; in seguito certi segni auratici, carichi di autorità magico-rituale, si sono ripetuti e così hanno incrementato la cifra della propria esponibilità, perdendo in autorità; le segnature si sono accumulate, accavallate, sovrapposte sino a ricoprire nuovamente la terra. Un vero e proprio “inselvatichirsi” mediante codificazione: la creazione di un immane terreno artificiale41. Tale selva è il ripresentarsi dell’elementare, il “ricorso” dell’incomprensibile al termine del cammino della civiltà42: guerra e crisi economica – è un Benjamin che scrive dopo il crollo del ’29 – si attestano come l’indominabile. La seconda tecnica, che si emancipa dalla natura e insieme dal controllo dell’uo-

40 W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter ihrer Reproduzierbarkeit – Dritte Fassung, in Gesammelte Schriften, cit., vol. I, 2, p. 444. Tr. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Valagussa, Torino 2011, p. 47. 41 Cfr. A. Labriola, Del materialismo storico, in Tutti gli scritti, a cura di L. Basile e L. Steardo, Milano 2014, p. 1287. 42 Cfr. C. Sini, Passare il segno, cit., p. 248: «la terra e il cielo sono ridotti alla insensata catena dei “fatti”; il cosmo è spogliato di “significato”; il corpo è spogliato dell’anima».

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mo, mostra come l’apparato, nel dispiegamento del proprio dispositivo, non sia più adoperabile né concepibile a livello di mero strumento nelle mani dell’uomo. L’apparato ingloba l’uomo: tale coinvolgimento avviene come «armonizzazione di uomo e natura in un gioco»43, per usare i termini di Benjamin, oppure sino a impiegare l’uomo “come fondo”44 al pari del resto della natura, secondo la prospettiva di Heidegger? È Benjamin a mostrare la sintomatologia di questa nuova “selva della riflessione”: l’aumento del grado di ripetibilità a tutto discapito dell’aura produce un nuovo atteggiamento dinnanzi all’opera-segno. Un tempo la concentrazione sprofondava nel dipinto – si pensi al monaco nella sua celletta, al cinese che entra nella propria opera a lavoro ultimato – in una sorta di stato di contemplazione. All’attenzione si sostituisce la distrazione che sorvola sui segni: rispetto al dipinto che consente e favorisce una libera associazione di pensieri, nel cinema il flusso delle immagini prende il posto del flusso del pensiero. È la massa-matrice: dall’attenzione del singolo alla distrazione dei molti. All’ottico il cinema sostituisce il tattile: ma il tattile è fruizione che mira allo choc, non lascia spazio alla contemplazione. Forse il sintomo più espressamente “vichiano” del tramonto dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica è la confusione tra pubblico e autori: chiunque ormai, nota Benjamin, può vedere pubblicato un proprio articolo nella rubrica delle “lettere al direttore”. Gli attuali mezzi di comunicazione rendono ancor più indecifrabile la distanza tra autori e pubblico poiché viene meno l’ultimo residuo di auctoritas: il supporto materia43 W. Benjamin, Das Kunstwerk, cit., p. 445. Tr. it. p. 48. 44 M. Heidegger, Die Frage nach der Technik [1953], in Vorträge und Aufsätze, Frankfurt a.M. 2000, p. 19. Tr. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1976, p. 13: «l’uomo non diventa mai puro fondo».

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le costituito dalla carta stampata. Compiuta disintegrazione di quel minimo di aura che il rettangolo di carta costituito dal giornale ancora simboleggiava in quanto certa sedes dell’apparire di una notizia. La codificazione45 come selva di segni genera l’indistinguibilità tra autore e pubblico. La prima ricaduta della barbarie sul piano politico si esprime nel progressivo instaurarsi delle repubbliche popolari, a tutto discapito dell’antica sapienza eroica. Col volgersi degli anni e il dispiegamento delle menti, le plebi «intesero esser’ essi d’ugual natura umana co’ Nobili; onde vollero anch’essi entrare negli Ordini Civili delle Città»46: lì si produsse quel totale disordine che è l’Anarchia, «la sfrenata libertà de’ popoli liberi»47. È dal popolo stesso che sorge l’attacco alle mura della città48: sono le plebi a spezzare il nodo erculeo – e Benjamin qualche secolo dopo scorge nella massa una matrice capace di rielaborare e trasformare l’aura che sostanzia l’auctoritas. Mentre Vico è portato a considerare l’instaurazione di una “Tirannide perfetta” – ad esempio quella augustea – come rimedio della provvidenza a tale disordine civile, Benjamin analizza la presenza del fascismo come “fattore d’espressione delle masse”, vale a dire come capacità di «organizzare le recenti masse»49. La soppressione di un certo numero di elementi tradizionali, scrive Benjamin riferendosi ai concetti di “creatività”, di

45 Sulla codificazione si veda J. Baudrillard, L’échange simbolique et la mort, Paris 1976. Tr. it. Lo scambio simbolico e la morte, a cura di G. Mancuso, 19803, pp. 17-28. 46 G. Vico, SN [1744], p. 1258. 47 Ivi, p. 1259. 48 Cfr. M. Cacciari, Dialettica del negativo e metropoli, in Metropolis, Roma 1973, pp. 35 e ssg. 49 W. Benjamin, Das Kunstwerk, cit., I, 2, p. 506. Tr. it. p. 36.

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“valore eterno” e di “mistero”, «induce a un’elaborazione in senso fascista del materiale concreto»50. Come dire che l’anarchia repubblicana, in cui si trova immersa la Roma del primo secolo avanti Cristo, costituisce terreno fertile per una svolta tirannica. La distruzione della ragione: “per farne ordine, ne vollero fare potenza” Il quinto libro della Scienza nuova è “contemporaneo” a quella grandiosa Entsagung che risponde al nome di Nietzsche. La stessa Vernichtung lukácsiana può esser letta “cambiandola di segno”51, riportandola entro l’alveo di questa tragedia. La morte di Dio è prefigurata in quella “perdita della religione ne’ popoli” per cui non resta loro né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reggano52, né – soprattutto – forma. «Chi è forte forma e non ha più nulla di estraneo attorno a sé»53: è il principio della formazione delle civiltà. “Forma” non è sostantivo, bensì azione: dare-forma, formare. Qui compare il “doppio verso” del tramonto del Diosostanza configurato dal pensiero nietzscheano. Da un lato gli “eterni” tradiscono il loro essere mere strutturazioni dello spazio e non ragioni fondate capaci di motivare una certa articolazione: è il dramma vichiano! Il dispiegamento della mente non conduce a una dimostrazione del certo, quanto piuttosto ad una “impropiatura” di certe formule: l’oscurezza di Ragione su cui si basa l’autorità del certo, una volta

50 Ivi, p. 473. Tr. it. p. 4. 51 Cfr. M. Cacciari, Dialettica del negativo e metropoli, cit., p. 80. 52 Cfr. Vico, SN [1744], p. 1263. 53 F. Nietzsche, Der Wille zur Macht, § 941, Stuttgart 1930, p. 630. Tr. it. La volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano 20014, p. 508.

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illuminata dalla luce dell’intelletto, frana nella sua stessa autorevolezza, poiché se ne scopre il mero valore “organizzativostrutturale” che prescinde totalmente dalla verità dell’articolazione. La verità di una certa formula è il suo funzionamento, la sua capacità di gestire lo spazio dei rapporti. Nessuna ragione-sostanziale, nessuna sintesi del divenire. Volere è ciò che resta dopo la distruzione degli eterni, dopo la disillusione rispetto a una sintesi che non si dà, o che per lo meno non è dato cogliere. Dall’altro lato tale volontà, ultimo residuo che distrugge ogni metafisica pretesa di ulteriorità rispetto alla fisica, si scopre impotente. «Per farne ordine, ne vollero fare potenza»54. L’ordine si svela come potenza non supportata da ragione. La potenza non crea la ragione dell’ordine: è volontà d’imporre una forma, dà luogo a un certo ordine. Mera potenza sottoposta al gioco delle potenze. Al fondo del “criterio di verità” Nietzsche scopre non la “ragione delle cose”, ma piuttosto vede annidarsi la constatazione del superamento di una resistenza55: la prestazione superiore è lotta che vince una resistenza e si afferma come vera. Musil noterà come la matematica si sia rivelata un castello di fantasmi: «i matematici guardarono giù al fondo e videro che tutto l’edificio è sospeso in aria»56. Decisiva è la prosecuzione del testo musiliano: «Eppure le macchine funzionano!»57. In quell’ “Aber”, che fa da pronao al tempio della tecnica “die Machi-

54 G. Vico, SN [1744], p. 1259. 55 Cfr. F. Nietzsche, Der Wille zur Macht, §§ 533-534, cit., p. 367. Tr. it. p. 296. 56 R. Musil, Der mathematische Mensch, in Gesammelte Werke, a cura di A. Frisé, Hamburg 1978, vol. VIII, p. 1006. Tr. it. L’uomo matematico, in Sulla stupidità e altri scritti, a cura di A. Casalegno, Milano 1986, p. 47. 57 Ibidem.

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nen liefen”58, si raccoglie e si concentra tutto il tema della volontà di potenza. Volontà come reazione alla constatazione che il sistema ci manca: si può soltanto volere. “Volere” che è l’indiffinita natura dell’Arbitrio umano, inteso da Vico come il fabbro delle nazioni civili. La distruzione della ragione è dunque genitivo soggettivo: la distruzione del certo da parte della ragione, ovvero la ragione che distrugge l’auctoritas. Auctoritas è quel “di più” di potenza che non ha ragione; quel di più che dà vita a una struttura, che articola lo spazio senza che se ne possa dare la ragione. L’auctoritas non è ragionata, è soltanto saputa: si gusta, non si fonda. VSVS auctoritas fundo biennium esto Nelle più antiche testimonianze del diritto romano troviamo alcuni riscontri testuali. Questa formula presente nelle XII Tavole tanto care al Vico è oggetto di studio in un saggio di Michel Humbert59. Il testo completo (Tab. 6.3) recita: «VSVS auctoritas fundi biennium esto; ceterarum rerum annuus VSVS esto». Nella densa ermeneutica giuridica sottesa al saggio, si può enuclearne una tesi di fondo relativamente al significato di “auctoritas” in questa antichissima formula. Il frammento intende regolare le controversie che possano eventualmente sorgere dalla vendita di un fondo. L’uso non è di per sé il diritto sulla cosa, bensì l’esercizio del diritto di proprietà su una cosa. L’uso è espressione materiale concreta del diritto di proprietà. Il versetto non può essere inteso nel senso

58 Ibidem. 59 Cfr. M. Humbert, Il valore semantico e giuridico di VSVS nelle Dodici Tavole, in AA.VV., Le dodici tavole. Dai decemviri agli umanisti, a cura di M. Humbert, Pavia 2005, pp. 377-400.

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che per due anni l’auctoritas sul fondo sarebbe rimasta al venditore e che si sarebbe trasferita all’effettivo proprietario – che intanto fa uso del fondo – soltanto dopo due anni. Humbert non intende auctoritas e usus come antinomici. «Auctoritas è l’obbligo che incombe al disponente di recare assistenza nell’azione di rivendicazione eventualmente esercitata da un terzo»60. Trascorsi due anni, sarà sufficiente addurre la prova dell’uso da parte dell’acquirente per prevalere su ogni possibile avversario: ma per i primi due anni il vecchio proprietario dovrà assistere l’acquirente in caso di rivendicazioni illegittime … aumentando il peso e il valore del titolo giuridico esibito dall’attuale possessore. Tale interpretazione consentirebbe di intendere anche un’altra formula del diritto romano arcaico: «adversos hostem, æterna auctoritas esto»61 (Tab. 6.4); qui però interessa la dinamica giuridica innescata dall’auctoritas. Il contratto di acquisto stipulato tra i due contraenti pare insufficiente a garantire l’acquirente: come se la ragione contrattuale dovesse essere in qualche modo aumentata e accresciuta da un certo altro sostegno. A rigore, l’auctoritas può essere esercitata soltanto da colui che ne disponeva in passato e che avesse ceduto tale proprietà: nella misura in cui un fondo è ancora proprietà del dispo60 Ivi, p. 385. 61 Per quanto riguarda l’ermeneutica di questo verso delle XII Tavole cfr. ivi, pp. 394-395: il frammento regola i commerci bilaterali tra un cives romanus e uno straniero. Se un cittadino romano vende un oggetto o un fondo a uno straniero, in che modo Roma lo garantirà rispetto alle rivendicazioni avanzate da un terzo? Siccome le disposizioni dello ius civile locale non possono essere note a priori, Roma garantisce un’auctoritas æterna, cioè indefinita e illimitata nel tempo: il cives romanus porterà sempre soccorso all’acquirente contro illecite rivendicazioni. Dunque il senso è il seguente: “a favore dello straniero, l’auctoritas romana è perpetua”.

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nente, costui non esercita auctoritas, ma soltanto usus – e quell’usus è sufficiente a legittimare il possesso. Quando il disponente alienerà quel fondo, allora la sua figura – in presenza della rivendicazione di un terzo – assumerà i tratti dell’auctoritas. L’alienante incarnerà per così dire l’intero titolo di possesso della cosa in questione, accrescendo dunque il diritto dell’effettivo proprietario a discapito di terzi. Non c’è nessuna “ragione” per cui qualcuno risulti in possesso di una cosa e possa cederla o venderla a un altro: ma quel certo dislivello tra possesso legittimo e rivendicazione illegittima diviene centrale per rafforzare la posizione dell’acquirente. Il “fatto del possesso” è superiore al diritto che si può vantare in ragione del contratto: tanto che il precedente proprietario è chiamato ad aumentare (auctoritas) quel titolo di possesso. Aumento che non è in alcun modo “razionale”: non si può ridurre l’auctoritas a conoscenza; è piuttosto una sapienza. Il dislivello gerarchizzante che dà vita alla suddivisione e alla strutturazione dello spazio non è razionalmente deducibile, non deriva da un orizzonte sistematico di norme fondate sulla conoscenza razionale: è sapienza del divario, è il gusto della distanza. L’auctoritas come facoltà di incrementare il diritto è una facoltà che nessuna potestas potrà mai rivendicare. È l’aggiunta che finge un’altra istanza rispetto alla mera potenza, sapendo che la potenza sarebbe impotente a legittimarsi in modo compiuto. In tal senso auctoritas è il gusto di un divario: la finzione di un ordinamento.

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Vico-Klee: dialogo presocratico Sul tramonto del significato «Per penetrare la gran folta selva; e senza alcun timore di Dèi, di Padri, di Maestri»1.

Vico, «un gigantesco presocratico»2, così lo definisce Mario Papini nel suo Arbor humanae linguae. Nel saggio La morte dell’opera – in prefazione alla Teoria della forma e della figurazione – Marcello Barison si sofferma sulla concezione del divenire del «“presocratico” Klee»3. Il confronto Vico-Klee assume il timbro di un … dialogo tra presocratici. Discende Vico. Come il raggio che si “risparge”4 dal petto della Metafisica verso la statua di Omero, «discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere, ed immani»5 è la “molesta fatiga”, quella costata al Vico vent’anni di Ricerca. La stessa fatica che è richiesta ai “Curiosi di questa Scienza”: «cuoprire d’obblio le loro fantasie, e le loro memo1 G. Vico, SN [1730], p. 500. 2 M. Papini, Arbor humanae linguae, cit., p. 377. 3 M. Barison, La morte dell’opera, in P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, a cura di M. Barison, Milano 2011, p. XIV. 4 Id., SN [1744], p. 788. 5 Id., SN [1730], p. 486.

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rie, e lasciar libero il luogo al solo intendimento»6. Solo così ci si potrà accostare alle Origini di tante cose. Se «la Metafisica astrae la mente da’ sensi; la Facultà Poetica dev’immergere tutta la mente ne’ sensi»7. Discende Klee. «Qualità è per lui – scrive Argan – il prodotto ultimo dell’esperienza unica e irripetibile dell’individuo; la si conquista discendendo nel profondo e progressivamente chiarendo i motivi reconditi dell’agire, i miti e le memorie che, dall’inconscio, influenzano potentemente la coscienza e l’azione»8. Giungere sino alla prefigurazione. «Il mondo che ci si lascia alle spalle in questa discesa è il mondo delle quantità, il mondo spento delle forme già attuate, il mondo della logica, della scienza positiva»9. Già nei suoi Diari, Klee dichiarava «Krieg dem Intellekt! – guerra all’intelletto»10. L’urlo viene dopo un altro grido di guerra, che risuona nelle Lettere sull’educazione estetica di Schiller, ove l’artista deve «portare guerra alla materia nei suoi propri confini»11. Per Schiller – e per Hegel12 dopo di lui – si

6 Ibidem. 7 Id., SN [1744], p. 1151. 8 G.C. Argan, Klee: la teoria della forma e della figurazione, in Salvezza e caduta nell’arte moderna, Milano 19774, p. 159. 9 Ibidem. 10 P. Klee, Tagebücher. 1898-1918, § 611, a cura di F. Klee, Köln 1957, p. 182. Tr. it. Diari 1898-1918, a cura di A. Foelker, Milano 1960, p. 177. 11 F. Schiller, Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen, XXIII, in Gesammelte Werke, a cura di R. Netolitzky, Gütersloh 1955, vol. III, p. 793. Tr. it. Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, XXIV, a cura di G. Boffi, Milano 1998, p. 199. 12 Cfr. G.W.F. Hegel, Ästhetik, in Werke, cit., vol. XIII, pp. 89-90. Tr. it. Estetica, cit, vol. II, pp. 72-74. Si veda M. Heidegger, Übungen für Anfänger. Schillers Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen. Wintersemester 1936-37 (Seminar-Mitschrift von W. Hallwachs), a cura di U. von

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trattava di «cancellare (vertilgen) la materia con la forma»13. Lo stesso “tilgen” risuonerà poi nella Fenomenologia, quando lo spirito al termine del proprio cammino non toglie il tempo nel senso dell’Aufhebung, bensì lo cancella, lo sopprime14. Qui davvero – hegelianamente – «si chiudono i conti con il principio dell’imitazione della natura nell’arte»15. Klee dopo Hegel. Il suo maestro dichiarato è Cézanne16, quello che «non introduce la frattura tra i “sensi” e “l’intelligenza”, ma tra l’ordine spontaneo delle cose percepite e l’ordine umano delle idee e delle scienze»17. Bernard parlava del “suicidio di Cézanne”: «ha di mira la realtà e si vieta gli strumenti per raggiungerla»18. Dopo la vittoria del logos ottenuta dalla dialettica hegeliana, è la materia a reclamare la propria originarietà: vietarsi gli strumenti significa fare a meno dell’intelletto, in maniera tale che astrarre dall’astrarre … non sia ancora un astrarre.

Bulow, Marbach a.N. 2005. Tr. it. Introduzione all’estetica, a cura di A. Ardovino, Roma 2008, p. 131. Heidegger si riferisce all’espressione schilleriana «la bellezza che cerchiamo è già alle nostre spalle». Cfr. Schiller, Briefe, XXV, p. 799. Tr. it. p. 215. 13 Ivi, XXII, p. 788. Tr. it. p. 187. 14 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Werke, cit., vol. III, p. 584. Tr. it. p. 1053. 15 Id., Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften III [1830], § 558, in Werke, cit., vol. X p. 368. Tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a cura di V. Cicero, Milano 2000, p. 901. 16 Cfr. P. Klee, Tagebücher, § 857, p. 248. Tr. it. p. 244. 17 M. Merleau-Ponty, Le doute de Cézanne, in Sens et non-sens, Paris 1948. Tr. it. Il dubbio di Cézanne, in Senso e non senso, a cura di P. Caruso, Milano 1962, p. 32. 18 Ivi, p. 31.

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Il Novecento tenta un impossibile gesto presocratico. Si tratta, per dirla con il Sedlmayr ermeneuta di Cézanne, di «eliminare una quantità di cose sapute ancora presenti nei nostri occhi»19, di cogliere quel momento in cui «solo l’occhio è sveglio, mentre l’intelletto riposa ancora. […] Gli oggetti che ci sono familiari stanno dietro questo tessuto colorato in attesa, si può dire, di nascere e prendere forma»20. Klee s’incammina su una strada analoga, avanzando oltre questo «sudicio, ordinatissimo stato di cose»: altrimenti «la cosa diventa troppo pacificata»21. Procedere (Vor-stoß), dopo il contraccolpo (Gegen-stoß)22 della logica di Hegel, significa tornare all’inizio, alla mano materna della natura: «comincio logicamente dal caos, com’è naturale»23. Le parole di Merleau-Ponty su Cézanne coinvolgono anche Klee: «l’artista lancia la sua opera come un uomo ha lanciato la prima parola, senza sapere se essa sarà qualcosa d’altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso di vita dell’individuale in cui nasce»24.

Si dipinge come urla il primo bestione. Si lancia un “grido senza sapere”, senza poter prevedere se quel grido darà vita a una nuova civiltà. Non si tratta di fare un quadro, bensì di «tentare un pezzo di natura»25: oltre Hegel ma non senza Hegel: qui

19 H. Sedlmayr, Verlust der Mitte, Salzburg 1948. Tr. it. Perdita del centro, a cura di M. Guarducci, Roma 1983, p. 163. 20 Ivi, p. 164. 21 P. Klee, Tagebücher, § 611, p. 182. Tr. it. p. 177. 22 G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Werke, cit., vol. VI, p. 27. Tr. it. vol. II, p. 447. 23 P. Klee, Tagebücher, § 633, p. 186. Tr. it. p. 181. 24 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cezanne, cit., p. 31. 25 Ivi, pp. 30-31.

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ogni principio di imitazione viene effettivamente bandito. Un atteggiamento “primordiale” perché carico dell’intera cultura: «Poi avvicinatevi alla natura. Tentate – scriveva Rilke – come un primo uomo al mondo di dire quello che vedete e vivete e amate e perdete»26.

“Essere-caos”, un vuoto di cultura, pervenire al figurativo puro che non sia figura-di, che non sia rappresentazione-di un pezzo di mondo. La raffigurazione rende il mondo familiare e proietta la cosa secondo un’immagine pacificata. Tale pacificazione dipende da (e coincide con) l’universale: rappresentare significa avere già identificato la cosa come quel tipo di cosa, un “tavolo”, un “paesaggio”, una “mela” e riprodurla secondo il modello prestabilito. Klee – e il suo maestro Cézanne – mirano alla pura oggettività, un’oggettività maggiore di quanto la logica possa garantire. Cose “soltanto viste”, prima che s’aggiunga il carico di “soggettività” dell’universale. Klee prima di Socrate. È ora di avanzare senza concetti nella «terra incognita»27, in quelle tenebre che incombono nel fondo della dipintura e che costituiscono «la materia di questa Scienza incerta, informe, oscura»28. Alla scienza Vico attribuisce proprio gli stessi tratti della materia: la materia si fa scienza, come l’uomo fece sé regola dell’universo. «Vogliamo non già la forma, ma la funzione»29, scrive Klee nel suo Il pensiero immaginale. Non vogliamo le forme culturali già sedimentate nella civiltà, bensì l’originario «menar fuori le forme dalla

26 R.M. Rilke, Briefe an einem jungen Dichter, Frankfurt a.M. 1929. Tr. it. Lettere a un giovane poeta, a cura di L. Traverso, Milano 201220, p. 15. 27 P. Klee, Tagebücher, § 611, p. 182. Tr. it. p. 177. 28 G. Vico, SN [1744], p. 814. 29 P. Klee, Das bildnerische Denken, a cura di J. Spiller, Basel 19905, p. 59. Tr. it. Il pensiero immaginale, in Teoria e forma della figurazione, cit., vol. I, p. 59.

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materia»30 che è il “bildnerische” di Klee: seguendo una più recente e azzardata traduzione lo rendiamo con “immaginale”. L’immaginale è menare fuori dalla materia, è l’istante in cui la materia diviene mente: la materia si fa scienza. «Noi desideriamo essere esatti pur senza limitazioni»31: un’individuazione qualitativa che non dipenda dal calcolo quantitativo, ma lo preceda – o lo segua. Su questo “istante” si erano già soffermati Kandinskij, arrivando ad affermare che non esiste una questione della forma32, e Malevič, che si trasforma nel punto zero delle forme33, ma forse nessuno ne coglie la profondità quanto Klee: «L’arte non ripete cose visibili, ma rende visibile»34. Si potrebbe presocraticamente accostare il “Render-visibile” di Klee al “menare fuori le forme” di Vico. Non si discute dell’apparire di questa o di quella forma, bensì dell’apertura dell’orizzonte dell’apparire in quanto tale. «Chi mai non vorrebbe dimorare là, dove l’organo centrale d’ogni moto temporale e spaziale – si chiami cervello o cuore della creazione – determina tutte le funzioni? Nel grembo della natura, nel fondo primordiale della creazione, dove è custodita la chiave segreta del tutto?»35.

30 G. Vico, SN [1744], p. 995. 31 P. Klee, Das bildnerische Denken, cit. 59. Tr. it. p. 59. 32 W. Kandinskij, Über die Formfrage, in Essays über Kunst und Künstler, a cura di M. Bill, Freiburg 1955, p. 36. Tr. it. Sulla questione della forma, in Tutti gli scritti, a cura di P. Sers, Milano 1973, vol. I, p. 127: «non ci sono errori, né forme che siano di per sé scorretti». Cfr. ivi, p. 45. Tr. it. p. 130: «Le forme oggi proibite o disprezzate, che in apparenza rimangono fuori dalla grande corrente, attendono solo il loro maestro». 33 K. Malevič, Dal cubismo e dal futurismo al suprematismo. Il nuovo realismo della pittura, in Scritti, a cura di A.B. Nakov, Milano 1977, p. 176. 34 P. Klee, Das bildnerische Denken, cit., p. 76. Tr. it. p. 76. 35 Ivi, p. 59. Tr. it. p. 59.

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Di fronte a questo abisso in cui soggetto e oggetto si elidono, ove l’essere non è ancora passato nel nulla, né il nulla nell’essere – per citare l’incipit della Scienza della logica – ha luogo il più radicale Hingebung: «abbandonarsi interamente a ciò che si viene via via dipingendo»36. Non si può domandare che cosa si vada dipingendo, e per converso nemmeno chi vada dipingendo … si viene dipingendo. Sempre nei Diari si trovano alcune precisazioni su questo fondo primordiale della creazione cui il pittore avrebbe accesso, cessando di esser se stesso. «Le mie opere sembrano nascere da sole, le composizioni grafiche cadono come frutti maturi, la mano è strumento di una volontà che non sembra la mia. È come se mi aiutassero forze amiche, splendenti o oscure, tutte valide»37.

La mano, “strumento di una volontà che non sembra la propria”, era già stata incontrata da Malte Laurids Brigge: «riconoscevo la mia mano, con le dita aperte, che da sola, un poco come animale acquatico, si muoveva lì sotto e frugava il fondo. La guardavo, ricordo, quasi con curiosità; mi pareva che sapesse cose che non le avevo insegnato, poiché lì sotto di propria volontà si aggirava tastando con movimenti che non le avevo mai visto»38. “Esperienze” – quelle di Klee e di Rilke – che alludono a una presenza “altra” da quella classica dell’avere sottomano (vorhanden). Qui non si afferra ciò che si trova a portata di mano, non si tratta di un’operare logico, di una manipolazione dell’ente; accade bensì un agire “senza padrone”, un’operare privo di un referente, un gesto “presocratico”.

36 Id., Tagebücher, § 857, p. 257. Tr. it. p. 244: «dem werdenden Teil der zu malenden Stelle sich ganz hingeben». 37 Ivi, § 1104, p. 395. Tr. it. p. 392. 38 R.M. Rilke, Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge [1910], in Sämtliche Werke, a cura di E. Zinn, Frankfurt a.M. 1955, vol. XI, p. 795. Tr. it. I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Milano 201317, p. 72.

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Le opere nascono da sole – wie von selber. È il laboratorio del grembo della natura – non di Klee. Lì si scorgono «alcuni tratti di quell’Io primordiale che precede il formarsi della coscienza»39. Insomma «deve pur esistere una regione nella quale quei fatti arrivano come fatti, ancora avvolti nello spazio e nel tempo dell’esistenza, e dove, via via, si spogliano di questa veste di spazio e di tempo, come in una catarsi preventiva, allo stesso modo che le esperienze di cultura depongono le loro ragioni storiche ed entrano nella dimensione dei valori puri, delle qualità»40. Sembra di leggere le Idee di Husserl: nel § 49, dedicato alla “coscienza assoluta come residuo dell’annientamento del mondo”, si vede un abisso spalancarsi tra la coscienza e la realtà. E l’uno (il mondo) senza l’altra (l’io) si riduce a un nulla41. «Metter fuori circuito il mondo intero»42 – se si intende mettere fuori circuito anche l’io puro, la logica pura come mathesis universalis43 e le discipline eidetico-materiali – conduce a un puro riferimento a sé da parte della fenomenologia pura: «la “finzione” costituisce l’elemento vitale della fenomenologia, come di tutte le scienze eidetiche, la finzione è la sorgente da cui trae nutrimento la conoscenza delle “verità eterne”»44. Del resto, già nelle Meditazioni cartesiane, Husserl era arrivato a sostenere che «come l’io ridotto non è un pezzo di mondo, 39 G.C. Argan, Introduzione ai diari di Paul Klee, cit., p. 147. 40 Ivi, p. 145. 41 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie [1913], a cura di K. Schuhmann, Den Haag 1976, vol. III/1, p. 93. Tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di F. Costa, Torino 2002, vol. I, pp. 122-123. Cfr. ivi E. Franzini, Introduzione, pp. XXIII-XXVII. 42 Ivi, p. 94. Tr. it. p. 124. 43 Ivi, p. 111-113. Tr. it. pp. 145-147. 44 Ivi, p. 132. Tr. it. p. 170.

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così al contrario il mondo e ogni oggetto del mondo non sono un pezzo del mio io»45. Proprio questa riduzione conduce a opere che sembrano nascere da sole: a una mano che agisce prima dell’intenzionalità: «ov’è da osservare, che artus è detto da ars, ch’ agli antichi Latini significò la forza del corpo»46. Ars è forza del corpo. In quel grembo di natura la forza non è di qualcuno: è pura forza. In quel fondo primordiale della creazione la forza non rappresenta qualche cosa, non è figura-di, semplicemente diviene. Si potrebbe azzardare che l’arte è forza che forma, il divenir forma del corpo che è un darsi forma. «Ma la si è mai constatata, una forza? – chiede Nietzsche – No, solo effetti, tradotti in una lingua completamente estranea. Ma la regolarità delle successioni ci ha talmente viziati che noi non ci meravigliamo del miracolo»47.

Non ci meravigliamo dell’ars che mena fuori le forme. Ci accontentiamo, direbbe Klee, delle varie Forme che già sono, non giungiamo sino alla Formung, alla figurazione in cui la cosa non è, ma diviene. La pura forza costantemente si sottrae, ne scorgiamo soltanto gli effetti, pacificati nel vizio dell’abitudine: la forza è l’unica autentica “Ding” che “è” prima di ogni altra “Sache”, di ogni altro “Gegenstand”. La forza è “Reale” che pulsa alle spalle di ogni “Wirklichkeit”48. Husserl adopera una formulazione precisa per distinguere la “cosa della perce45 Id., Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge [1929], a cura di S. Strasser, Dordrecht-Boston-London 19632, § 11, p. 65. Tr. it. Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Milano 1960, p. 70. 46 G. Vico, SN [1744], p. 1096. 47 F. Nietzsche, Der Wille zur Macht, § 620, p. 421. Tr. it. p. 340. 48 Su queste “sfasature” e in particolare su quella che si potrebbe definire l’antecedenza kantiana rispetto alla concezione hegeliana cfr. M. Heidegger, Kants These über das Sein [1961], in Wegmarken, Frankfurt a.M. 1976. Tr. it. La tesi di Kant sull’essere, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano 19943, pp. 393-427.

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zione” da ciò che chiama la cosa: «“La” cosa è propriamente ciò che nessuno ha visto realmente, perché è continuamente in movimento, continuamente e per chiunque»49. Qui forse si comprende il cruccio che anima i Diari di Klee: la questione di Dio. «Io sono Dio»50, «sopra le stelle voglio cercare il mio Dio»51, «Sono Dio?»52, «Da questo riconosco che non sono ancora un dio»53. Questo martellare incalzante dei Diari sulla questione di Dio appare chiaro alla luce del primo capitolo di Giovanni: «Dio nessuno l’ha mai visto»54. Dio è “la” cosa di Husserl, quella che Klee non può cercare, non può voler-essere. Qui vi è soltanto abbandono – Hingebung. Nessuno l’ha mai vista perché è in movimento: il dio corre tra le cose – come il sole, la luna, le stelle, che tutti vedevano correre – così vuole l’etimologia platonica del Cratilo. “Θεοὶ” da “ϑεῖν”55, che significa “correre”. Voler-essere questo divenire sarebbe ancora volontà di potenza: affatto immaginar non si può come pensassero i primi bestioni. Il presocratico Vico trasgredisce ogni Metafisica ragionata in virtù della sua Metafisica fantasticata; il presocratico Klee viola la tecnica razionalizzata dell’industria, tema centrale del Bauhaus di Walter Gropius e Theo van Doesburg, «inventando tante altre tecniche, e tutte rigorose, dell’immaginazione, 49 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie [1936], Den Haag 1976. Tr. it. La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, a cura di E. Filippini, Milano 2002, p. 191. 50 P. Klee, Tagebücher, § 155, p. 64. Tr. it. p. 52. 51 Ivi, § 176, p. 69. Tr. it. p. 57. 52 Ivi, § 690, p. 196. Tr. it. p. 192. 53 Ivi, § 929, p. 317. Tr. it. p. 312. 54 Gv 1,18. 55 Plat. Crat. 397 d. Tr. it. p. 119.

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del sogno e della memoria»56. Altre, rispetto all’orizzonte della quantificabilità, della riduzione a calcolo e a parametrizzazione: «Klee aveva sentito, prima di ogni altro, che il problema della qualità aveva profonde implicazioni psicologiche e morali, né mai poteva ridursi alla determinazione di un coefficiente qualitativo nella serie quantitativa della produzione»57. Ciò coincide con la messa al bando di qualsiasi universale come modello. «Dal modello, all’archetipo»58. Detto altrimenti, così del resto prosegue Argan: «Klee ha capito che la qualità non può che essere individuazione»59. Che cos’è l’individuale per Klee? «Veramente individuale, nel senso superiore della parola, diviene la suddivisione minore se il carattere delle sue parti trascende il ritmico»60. L’organizzazione è un nesso che supera la sommatoria delle parti in vista della sintesi integrale: la figurazione è artistica là dove «insorgono delle complicazioni»61. È la complicazione del momento, quella che accade così una volta soltanto, che dev’essere affrontata qualitativamente mediante l’individuazione irripetibile: nessun supporto universale, nessun rifugio si può trovare nei concetti. Quando nella cosa pacificata insorgono complicazioni, allora si tratta di formare, come fosse per la prima volta, di rendere visibile qualcosa che altrimenti non verrebbe alla luce. «La formazione (Formung) determina la

56 G.C. Argan, Salvezza e caduta nell’arte moderna, cit., p. 155. Non si tratta di una poetica del sogno, bensì della verifica dell’esperienza nel suo attuarsi. Cfr. ivi, p. 162. 57 Id., Architettura e forma non-figurativa, in Progetto e destino, Milano 1965, p. 165. 58 P. Klee, Das bildnerische Denken, cit., p. 93. Tr. it. p. 93. 59 G.C. Argan, Architettura e forma non-figurativa, in Progetto e destino, cit., p. 165. 60 P. Klee, Das bildnerische Denken, cit., p. 249. Tr. it. p. 249. 61 Ivi, p. 454. Tr. it. p. 454.

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forma (Form) e pertanto la trascende. La forma non è quindi mai e poi mai da considerarsi conclusione, risultato, fine, bensì genesi, divenire, essenza. La forma come apparenza è però un maligno, pericoloso fantasma»62. Per misurare la distanza tra Form e Formung, per intendere quale sia la “cifra” di quel suffisso “ung”, ci si potrebbe riferire a un passo goethiano tratto dai Quaderni di morfologia: «Per il complesso dell’esistenza di un essere reale noi tedeschi abbiamo la parola “Forma” (Form). Pronunciandola, astraiamo da ciò che può muoversi, supponiamo che sia stata stabilita e conclusa nel suo carattere. Se però prendiamo in considerazione tutte le forme, in particolare quelle organiche, troviamo che mai ha luogo un che di saldo, immobile, concluso, ma che piuttosto tutto oscilla in un incessante movimento. Perciò la nostra lingua suole usare con sufficiente pertinenza la parola “formazione” (Bildung) sia per ciò che è stato prodotto sia per ciò che è in procinto di esserlo»63.

Il discrimine segnato dal “suffisso dinamico” vale come contrassegno di una frattura insanabile sul piano metafisico: dall’essere al divenire, dalla priorità dell’atto all’apertura sul possibile64. La teoria dell’opera avanzata da Klee contraddice la celebre teoria aristotelica: «le composizioni di Klee non possono affatto essere definite ἔργα»65: nessuna pacificazione,

62 P. Klee, Das bildnerische Denken, cit., p. 169. Tr. it. p. 169. Stessa formulazione in Id., Unendliche Naturgeschichte, cit., p. 269. Tr. it. Storia naturale infinita, in Teoria della forma e della figurazione, cit., vol. II, p. 269. 63 J.W. Goethe, Die Absicht eingeleitet, in Zur Morphologie [1817], in Werke, a cura di D. Kuhn e R. Wankmüller, München 2000, vol. XIII, p. 55. 64 Sulla “morfologia goethiana” e le dinamiche artistiche contemporanee a Klee, da intendere all’insegna della “rinuncia al vecchio ordine”, cfr. M. Cacciari, Ur-pflanze goethiana, in Krisis, Milano 19772, pp. 125-135. 65 M. Barison, La morte dell’opera, cit., p. XIV. In generale per il confronto Aristotele-Klee cfr. pp. XIV-XVIII.

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nessuna forma in quanto configurazione statica; il processo di configurazione (Formung) trascende la forma (Form). «Buona è la forma come movimento, come fare»66. Qui la priorità dell’atto sulla potenza67 viene scalzata: «non forma come manifestazione ultima ma come forma in divenire, come genesi»68. Se sul fronte aristotelico «non ci furono per un tempo infinito Caos e Notte, ma ci furono sempre le stesse cose»69, Klee parla invece della “storia naturale infinita”, tornando a contatto con l’ἄπειρον che Aristotele aveva eliminato affinché la trama degli universali funzionasse e controllasse l’intero mondo delle predicazioni. Klee pensa alla «possibilità di porsi intuitivamente al di là di un inizio»70, possibilità indicata dal concetto di infinito che Aristotele elimina insieme a Caos e Notte. Risalire intuitivamente oltre l’inizio è il destarsi del bestione nell’istante del fulmine71: anche per Klee si tratta di «apprendere la preistoria del visibile»72, dove «l’opera diviene, così come il mondo prima di essere divenne»73. Vico accenna alla folgore che squarcia il cielo, per tornare alla preistoria del visibile, prima che si instaurassero quelle (stesse) cose, quando le cose ancora non esistevano. La folgore coincide con il Fulmine fisiognomico di Klee, acquarello dipinto nel 1927, di cui l’autore ci offre l’ermeneutica: «la lotta dell’aggressiva retta con il cerchio riposante in se stesso e la sconfitta della retta fintanto che rimane nel pericoloso ambito 66 P. Klee, Unendliche Naturgeschichte, p. 269. Tr. it. p. 269. 67 Cfr. Aristot. Metaph, 1072 a 9. Tr. it. p. 561. 68 P. Klee, Unendliche Naturgeschichte, p. 43. Tr. it. p. 43. 69 Aristot. Metaph, 1072 a 7-8. Tr. it. p. 561. 70 P. Klee, Unendliche Naturgeschichte, cit., p. 255. Tr. it. p. 255. 71 G. Vico, SN [1744], p. 918. 72 P. Klee, Das bildnerische Denken, cit., p. 69. Tr. it. p. 69. 73 Ivi, p. 355. Tr. it. p. 355.

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dell’avversario: è la retta che fa le spese dello scontro, è la vittoria del carattere fluido sul solido»74. Secondo Pierre Boulez il Fulmine fisiognomico costituisce il simbolo del pensiero di Klee75: è la retta a essere riassorbita, ma cruciale è il movimento che essa immette nell’opera, come avvio della reciproca modificazione tra cerchio e retta. Qui opera la Formung: l’immaginazione è questo grembo della natura che si occupa di tutto. «L’immaginazione, questa facoltà meravigliosa, se è lasciata senza controllo, non potrà far altro che appoggiarsi alla memoria»76. Commento a Klee in cui risuona una profonda eco vichiana: «onde la memoria è la stessa che la fantasia; la quale perciò memoria dicesi da’ Latini»77. E soltanto grazie a Vico si può evitare che questo appoggiarsi alla memoria non sia inteso come un ritorno all’istanza aristotelica: attraverso la memoria, si potrebbe pensare, ritorna la formula ταὐτὰ ἀεὶ – sempre le stesse cose. Invece memoria-fantasia costituisce il passaggio attivo, la Formung, che si frappone tra il “Caos e Notte” e l’ordine che ne seguirà. Tra terra e mondo78: «nella lotta viene conquistata l’unità di Mondo e Terra»79. Fantasia-memoria è la decisione assolta, la misur-azione: «fantasia l’altera e contrafà»80 scrive Vico. Questo contro-fare è esattamente Urstreit. 74 Ivi, p. 331. Tr. it. p. 331. 75 P. Boulez, Le pays fertile. Paul Klee, Paris 1989. Tr. it. Il paese fertile, a cura di P. Thévenin, Milano 2004, p. 98. 76 Ivi, p. 108. 77 G. Vico, SN [1744], p. 1151. 78 M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerks, cit., p. 51. Tr. it. p. 47: «La verità deve essere disposta nell’opera come lotta tra Mondo e Terra». Sul rapporto Heidegger-Klee cfr. O. Pöggeler, Bild und Technik. Heidegger, Klee und die moderne Kunst, München 2002. 79 Ibidem. 80 G. Vico, SN [1744], p. 1151.

153 «tutti questi ricordi che sembrano risalire spontaneamente, senza sforzo, alla memoria, danno l’impressione di possedere una fertile immaginazione»81.

Quel che si apre nell’Urstreit è il paese fertile in cui la terra si fa un mondo. Paese fertile è la corpolentissima fantasia dei bestioni.

81 P. Boulez, Il paese fertile, cit., p. 109.

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Indice

1. Il tuono e la legge Vico e Levi-Strauss: certum e incesto

p. 9

2. Variazioni su idantura I molti luoghi delle parole reali

p. 37

3. La metafora fa il maggior corpo delle lingue Menare fuori le forme dalla materia

p. 59

4. Due “gemme etimologiche” del Vico Vico, Benveniste, Dumézil

p. 79

5. Magis amicus Plautus Diritto romano e commedia

p. 93

6. Bestiario vichiano Come si fa selve delle città

p. 119

7. Vico-Klee: dialogo presocratico Sul tramonto del significato

p. 139

Bibliografia

p. 155

170

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 1 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788898694808

«La Scienza nuova è una scienza incerta, informe, oscura». Il grande metodo cartesiano di rifondazione del sapere consente un’indagine matematica rigorosa della natura. Vico vuole portare il metodo sul terreno della storia: si tratta di risalire alle origini, di scendere nelle menti fiere ed immani dei primi uomini, di rinunciare alle nostre strutture razionali per sforzarci di intendere, a stento, come pensassero i bestioni con la loro corpolentissima fantasia. La luminosità dell’ego cogito si trasforma nel fioco barlume di una lanterna che mentre illumina alcuni oggetti, esclude dalla propria vista quelli circostanti. Il progetto di un sapere unitario, compiuto e sistematico s’infrange: Vico coglie l’occasione per sondare in anteprima un terreno accidentato che verrà percorso nel Novecento dalla filologia, dalla linguistica e dall’antropologia. Francesco Valagussa è ricercatore di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, dove insegna “Metafisica delle prassi”, “Estetica e forme del fare” e “Filosofia dell’arte”. Ha curato: I. Kant, Prima introduzione alla Critica del giudizio, Mimesis 2012; G.W.F. Hegel, Estetica, Bompiani 2013; G.W.F. Hegel, Chi pensa astrattamente?, ETS 2014; R. Musil, L’uomo tedesco come sintomo, Pendragon 2014. Tra le sue pubblicazioni recenti: L’età della morte dell’arte, Il Mulino 2013; Vico. Gesto e poesia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013.

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