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Urbano Giorgi Scelta di poesie nell’incendio del Vesuvio a cura di Antonio Perrone e Carolina Borrelli
Le ricerche alla base di questo studio sono state condotte nel quadro del progetto DisComPoSE, finanziato dall’European Research Council (ERC) nell’ambito del programma dell’Unione Europea Horizon 2020 per l’innovazione e la ricerca (grant agreement no. 759829).
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Introduzione*
Pubblicata a Roma, ma idealmente concepita a Napoli per storia e tematica, l’antologia curata da Urbano Giorgi testimonia l’importanza che l’eruzione del 1631 ha ricoperto per la letteratura barocca. L’evento si rivela infatti un’occasione di organizzazione “nazionale” di scrittori e poeti, ed è alla base di una copiosa attività editoriale di poesie dedicate ai disastri1. Le 32 voci che compongono la raccolta provengono da ogni parte d’Italia, con prevalenza di autori centro-meridionali. Tra queste compaiono i più famosi poeti del XVII secolo, come Antonio Bruni2, Giambattista Basile, Claudio Achillini3. Tale dato risulta tra gli elementi principali per la valutazione di un prodotto che, nonostante i veloci tempi di stampa, non fu di tipo amatoriale. * Questa prima sezione teorica, compresa la Bibliografia (pp. 5-18), è curata da Antonio Perrone; per quanto riguarda la parte filologica (pp. 19-23), l’approfondimento è a cura di Carolina Borrelli. 1 Per il primo dato, si rimanda ad A. Quondam, La parola nel labirinto: società e scrittura del Manierismo a Napoli, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 317, e R. D’Agostino, Prospezioni in territorio barocco napoletano, Onofrio Riccio tra Maccaronea e i Carmina, Phoebus, Casalnuovo 2012, pp. 44-49. Per un prospetto della poesia catastrofica, cfr. G. Alfano, M. Barbato, A. Mazzucchi (a cura di), Tre catastrofi. Eruzione, rivolta e peste nelle poesie del Seicento napoletano, Cronopio, Napoli 2000. 2 Nato a Manduria nel 1593, Antonio Bruni si trasferì giovanissimo a Napoli, entrando a far parte della cerchia culturale di Giambattista Manso. Si distinse molto presto come poeta con La selva di Parnaso, stampata a Venezia nel 1616. La sua raccolta che più merita attenzione è la matura Le tre Grazie, apparsa a Roma nel 1630, a cinque anni dalla morte dell’autore. 3 Sarebbe riduttivo concentrare in una nota l’attività letteraria di Giambattista Basile e Claudio Achillini, per cui si rimanda ad altri studi. Per il primo, si consulti M. Rak, La maschera della fortuna. Letture del Basile ‘toscano’, Liguori, Napoli 1975, e L. Molinaro del Chiaro, Giambattista Basile, Archivio di letteratura popolare, voll. 3, Forni, Bologna 1979 [1883]. Per Claudio Achillini, si rimanda all’edizione anastatica delle Poesie (1632), a cura di A. Colombo, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2010.
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La prima parte dell’opera consta di 25 componimenti dedicati al cardinale Antonio Barberini, divisi in 8 testi in latino, misti tra elegie ed epigrammi, e 17 sonetti in volgare. L’ultimo di questi, anonimo, funge da componimento introduttivo al cuore della raccolta (Il Vesuvio). Un’apostrofe ai lettori, inserita nelle terzine di chiusura del testo, avverte che da questo momento essi “vedranno” il fertil giogo divenir di Vulcan funesto scherno e di Flora, e Pomona orribil rogo. La sezione sul Vesuvio si apre con una canzone di Antonio Bruni, poeta marinista vicino agli Oziosi, e rappresentante di un “asse NapoliSalento” che risulta fondamentale per la ricostruzione dei rapporti tra Accademie e circolazione della cultura nel Meridione4. Il testo è strutturato sul motivo della trasformazione del monte da locus amoenus a locus horridus, e conferma la “promessa” di quanto d’ora in poi sarà un immaginario prevalentemente infernale. Alla canzone seguono un sonetto di Felice Sassone, e tre di Andrea Santa Maria5. Essi descrivono sia l’eruzione sia il terremoto ad essa succeduto, e inquadrano il disastro nella “cornice” di un evento causato dall’«ira di Dio» nei confronti dell’uomo, un’interpretazione su cui influisce chiaramente la cultura gesuitica6 del tempo. L’ingerenza dell’ambiente ecclesiastico si manifesta attraverso una “manipolazione” delle immagini del disastro, volta a suscitare un sentimento di “paura” nell’uomo barocco. L’intento è quello di portare alla redenzione un’intera comunità, e poiché la presente è una raccolta che 4 L’importanza della cultura accademica nel XVII secolo è un fatto assodato. In Italia nel 1632 si contano più di 50 accademie e di istituti culturali all’attivo. È soprattutto qui che la cultura barocca si forma e si diffonde, tramite gli «assi» che i poeti creano attraverso frequenti viaggi nella penisola (lo stesso Urbano Giorgi risulta in continuo movimento tra Napoli e Roma). Cfr. F. Croce, Tre momenti del Barocco letterario, Sansoni, Firenze 1966, pp. 40-42, e V. Giannantonio, Le aree regionali del barocco, Loffredo, Napoli 2011, p. 146. 5 Accademico Ozioso e Umorista, Andrea Santa Maria nacque a Napoli, probabilmente alla fine del XVI secolo. Fu autore nel 1620 de Il concerto poetico, raccolta di liriche stampata per i tipi di Longo (cfr. P.G. Riga, La poesia lirica a Napoli nel pieno e tardo Seicento, in «Studi secenteschi», LVII, 2016, pp. 3-30). Ad oggi non risulta uno studio monografico sull’autore. 6 Cfr. G. Alfano, M. Barbato, A. Mazzucchi (a cura di), Tre catastrofi, cit., Introduzione.
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“gravita” intorno alla curia di Roma7, tale elemento risulta una delle chiavi di lettura dell’intera antologia. I successivi sonetti di Bartolomeo Tortoletti e di Giambattista Basile continuano su questa linea – ad eccezione di un divertissement del secondo dedicato alla sua donna –, e come quello di Santa Maria presentano una commistione di personaggi del mito con figure religiose: in questi testi Satana riesce a “convivere” con Tifeo, il gigante intrappolato nell’abisso del Vesuvio, e le Parche diventano raffigurazione del destino al pari di Dio. Tale particolare caratteristica della poesia disastrosa è presente anche nei sonetti di Clemente Tosi, Decio Mazzei, Diego Busca, Domenico Benigni8, dove un’ambientazione “pagana” si intreccia con l’immaginario cristiano nel delineare un Inferno situato nelle viscere del monte. Tra le numerose figure di questo mélange la più frequente è quella di San Gennaro. Il santo patrono di Napoli viene introdotto nel testo di Flaminio Razzanti e ritorna nei sonetti di Giulio Gavazza e di Ottavio Sanbiasi, nonché in molti testi in latino, tra cui un particolare elogium di Francesco Antonio Manforte, in chiusura del volume. Il Sacro pastor è “ritratto” nel compimento del celebre miracolo, ovvero nell’atto di estinguere «le fiamme co ’l fervido […] sangue», e di “fiaccare” così l’orgoglio dell’angue infernale. I successivi sonetti formanti il centro della raccolta sono di Francesco Benetti, Ottavio Tronsarelli, Francesco Paoli, Vincenzo Martinozzi, Girolamo Bittini, Giacomo Filippo Camola, Giuseppe Trombetti, Giuseppe Civitano, Niccolò Strozzi, Massimiliano Palombara, Severo Piazzai e Simone Antici. Su di essi tuttavia non interverremo singolarmente9, dal momento che non aggiungono informazioni al delineamento qui esposto. L’antologia risulta dunque legata a una sorta di «mecenatismo papale». Essa, infatti, non solo è dedicata al nipote dell’allora papa Urbano VIII, ma contiene al suo interno autori che, in quanto abati e cardinali, appartengono all’ambiente ecclesiastico. Per un approfondimento sull’influenza della cultura gesuitica nei confronti della lirica barocca, si rimanda a G. Alfano, G. Frasca (a cura di), Giacomo Lubrano, In tante trasparenze, Cronopio, Napoli 2002. Ulteriore bibliografia viene fornita nelle note successive. 8 Domenico Benigni (Napoli, 1596-Roma, 1653) fu accademico Gelato e Umorista, e conosciuto nei salotti letterari soprattutto come poeta per musica. Segretario dell’abate napoletano Perretti, fu autore di una famosa lettera su La strage del Vesuvio (Longo, Napoli 1632), indirizzata allo stesso abate. Cfr. N. Toppi, Bibliotheca Napolitana, Bulifon, Napoli 1678, e N. Amendola, Domenico Benigni poeta per musica vocale da camera, in «Fonti musicali italiane», XXI, 2016, pp. 29-100. 9 Riteniamo in questo caso utile presentare un profilo di soli tre autori: Filippo Camola, Niccolò Strozzi e Massimiliano Palombara. Il primo fu accademico Umorista, e autore di una biografia di Marino inserita nel poema La strage degli innocenti, stampato a Roma 7
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Sia sufficiente soltanto indicare che la “sezione vesuviana” dell’opera è divisa in 35 sonetti e 2 canzoni che aprono e chiudono la parte dei testi in volgare. Essi sono seguiti da 16 testi in latino10, che presentano in ordine sparso componimenti dedicati al Vesuvio e componimenti celebrativi ad Antonio Barberini. Il volume rivela in questo modo una struttura ciclica, nonché una evidente coerenza interna, sia nei contenuti, sia nella strutturazione dell’oggetto libro, in cui la sequenza dei testi segue un iter preciso: esso va dal disfacimento dell’ordine naturale fino al “lamento” del fiume Sebeto, che con flebil mormorio piange la distruzione della sua città.
nel 1633. Niccolò Strozzi (Firenze 1590-1655) fu membro di diverse Accademie, come gli Alterati, gli Svogliati, gli Umoristi e l’Accademia della Crusca. Un elenco delle sue poesie, conservate in forma manoscritta, è consultabile nell’Istoria degli scrittori fiorentini di Giulio Negri, pubblicata a Ferrara nel 1722 per i tipi di Pomatelli (cfr. F. Martelli, Niccolò Strozzi, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, Roma 2019, vol. 94). Il marchese Palombara fu famoso scienziato, nonché poeta prolifico, come dimostra M. Gabriele, Il giardino di Hermes. Massimiliano Palombara alchimista e rosacroce nella Roma del Seicento. Con la prima edizione del codice autografo della Bugia - 1656, Ianua, Roma 1986. La sua produzione in versi è però ad oggi ancora interamente manoscritta. 10 La sezione in latino, oltre ai nomi elencati, contiene: Prospero Cristiano, Geronimo Brivio, Lelio Guidiccioni, Antonio Sauli, Francesco Camponeschi, Giovanni Antonio Nicolini. Tra questi è utile intervenire in maniera cursoria solo su Lelio Guidiccioni, che orbitò intorno alla famiglia Barberini per tutta la durata della sua attività letteraria. Guidiccioni (Lucca 1582-1643) fu accademico Umorista, e autore di un volume di Rime pubblicato a Roma nel 1637. La raccolta è dedicata al cardinale Barberini, nipote di Urbano VIII, della cui cerchia culturale il poeta entra a far parte dagli anni ’20 (risalgono al 1624 l’elegia De Urbano VIII ad summum pontificatum evecto, e al ’33 il carme Ara maxima Vaticana a summo pontefice Urbano VIII magnificentissime instructa).
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La cultura barocca degli anni ’30 e l’eruzione vesuviana
La Scelta di poesie di Urbano Giorgi rientra in un’operazione editoriale che, dal Regno di Napoli fino alla Repubblica di Venezia, ha riguardato tutti i poeti viventi al tempo dell’eruzione vesuviana. Si pensi ad esempio alla quasi coeva raccolta di Rime d’illustri ingegni napoletani, curata da Giandomenico Agresta per la tipografia del Ciera (1633). Pur se non dichiaratamente un’antologia sull’eruzione del Vesuvio, anch’essa è composta in larga parte da testi dedicati al disastro del ’31. Il “terribile evento”, a cui vengono altresì dedicati numerosi poemi, poemetti e centoni1, si pone come fattore di aggregazione di un movimento culturale compatto, che inizia a muoversi dal Viceregno spagnolo di Napoli2. Come si evince dal catalogo stilato da Friedrich Furchheim, le opere in versi dedicate al Vesuvio in poco meno di 50 anni sono infatti numerosissime, e si aggirano intorno alle 30 edizioni3. Quanto c’è ora da chiedersi è perché l’eruzione riscuota tanta importanza, e come si giustifichi un così grande interesse dei poeti nel celebrare gli effetti dell’evento catastrofico. Per rispondere a queste domande è necessario attraversare la storia della “costruzione” letteraria del vulcano napoletano. Si pensi a G.B. Bergazzano, Il Vesuvio fulminante, Francesco Savio, Napoli 1632; A. Abati, Il forno, Francesco Savio, Napoli 1632; O. Beltrano, Il Vesuvio, Ottavio Beltrano, Napoli 1632. 2 Cfr. A. Quondam, Dal Barocco all’Arcadia nella letteratura napoletana, in Aa.Vv., Storia di Napoli, VI, 1, Società editrice storia di Napoli, Napoli 1970, pp. 811-1094; G. Galasso, Alla periferia dell’‘impero’. Il regno di Napoli nel periodo spagnolo (XVI-XVII secolo), Einaudi, Torino 1994. 3 Sfuggono ovviamente al conteggio le liriche contenute in testi in prosa come relazioni o trattati, quelle raccolte su fogli volanti, in carteggi privati o in canzonieri di vario argomento. Cfr. F. Furchheim, Bibliografia del Vesuvio, compilata e corredata di note critiche, Cambridge University Press, Cambridge 2011. 1
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Per quanto riguarda il semplice dato eruttivo, è utile ricordare che il Vesuvio esplose il 16 dicembre 16314, con prodromi come terremoti e deformazioni del terreno databili al 10 dello stesso mese. La sua eruzione durò fino ai primi di gennaio dell’anno successivo, con ulteriori terremoti avvertiti fino a marzo, come riportato in numerose relazioni e avvisi a stampa5. La spiegazione di una così grande attenzione al fenomeno naturale non fu data però dalla sua capacità distruttiva, dal momento che il disastro si riversò quasi esclusivamente sulle campagne, quanto piuttosto dal fatto che esso fosse inaspettato. Il lettore moderno potrebbe stupirsi nello scoprire che l’uomo del XVII secolo non avesse consapevolezza dell’attività del vulcano, e che il suo ricordo risalisse alla descrizione di Plinio del 79 d.C.6, dunque a un evento datato più di cinque secoli prima. La ricostruzione storica si confondeva con la testimonianza letteraria, e la comprensione dell’evento da parte della società barocca restava limitata alla sua evenemenzialità, senza nessuna possibilità di spiegazione del “perché” esso si fosse manifestato. Anche le numerose relazioni “scientifiche”, mosse cioè dall’indagine empirica e strutturate su una attenta ricostruzione dei fatti, fornivano spiegazioni al disastro che trovano nella religione e nella punizione divina la sua unica giustificazione. Molte di queste si rivelano altresì ottime testimonianze dei rituali e delle processioni7 che accompagnarono la vita comunitaria nelle fasi successive all’incendio. 4 G.C. Braccini, Dell’incendio fattosi nel Vesuvio a XVI di dicembre M.DC.XXXI. e delle sue cause ed effetti, con la narrazione di quanto è seguito in esso per tutto marzo 1632, e con la storia di tutti gli altri incendij nel medesimo monte avvenuti, Secondino Roncagliolo, Napoli 1632. Cfr. A. Tortora, Un’eruzione a due voci, Il 1631 tra Plinio e Braccini, Osservatorio vesuviano, Napoli 1989. 5 V. Bove, Nuove osservationi fatte sopra gli effetti dell’incendio del Monte Vesuvio, Dal 16 di Decembre 1631 fino ai 16 di Gennaro 1632, Aggiunte alla decima relazione. Di nuovo rivista e ristampata per Vincenzo Bove, Lazzaro Scoriggio, Napoli 1632; G. Amodio, Breve trattato nel terremoto del Vesuvio, Lazzaro Scoriggio, Napoli 1632. 6 G. Alfano, The Portrait of Catastrophe: The Image of the City in Seventeenth-century Neapolitan Culture, in D. Cecere, C. De Caprio, L. Gianfrancesco, P. Palmieri (a cura di), Disaster Narratives in Early Modern Naples, Viella, Roma 2018, pp. 147-161. 7 Si consulti ancora C. Braccini, Dell’incendio fattosi nel Vesuvio a XVI di dicembre M.DC.XXXI, cit., pp. 4-7: «Notabile fra l’altre fù una squadra di 30. Donne di mal talento, compunte per la presente occasione: le quali essendo uscite tutte malamente vestite a piè nudi, e con li capelli tagliati, e appesi a un Crocefisso […] scalza avanti all’altre portava
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La società si organizzava, in breve, nei modi che credeva potessero gestire e controllare il disastro, e la stessa operazione veniva compiuta a livello letterario. La presenza costante del mito, infatti, insieme a forme di rappresentazione religiosa, non è altro che il modo in cui la cultura del XVII secolo “riduce” il disastro alle categorie del “noto” e della tradizione, al fine di poterlo comprendere. Ma ciò non esaurisce il discorso. La catastrofe vesuviana è anche l’occasione per i poeti di confrontarsi con un argomento nuovo, che sfugge alle categorie della Retorica, e in cui nessuno si era mai cimentato. Come testimonia Girolamo Fontanella nella lettera prefatoria che accompagna uno dei suoi testi più famosi, l’Ode al Vesuvio per l’incendio rinovato: Il Vesuvio […] ha voluto coi suoi furori frenetici resuscitare ne gli animi i furori poetici, ha cagionato con le sue fiamme nocevoli gl’incendii delle fatiche giovevoli, ha dato a gli scrittori moderni fama con i suoi fumi, et acquisti di glorie con le sue perdite, sollevandosi dalla terra ha dato occasione a gl’ingegni da sollevarsi da l’ozio. Con le pietre delle sue rovine gli ha fabbricate tempii d’onori, coll’oscurità delle sue nuvole gli ha rischiarati nelle memorie de gli uomini, con le sue ceneri gli ha difesi dalle ceneri della morte, con le sue furie gli ha riparati dalle furie del tempo, e finalmente coi globi dei suoi volumi gli ha prestato materia da far volumi8.
Il Vesuvio ha “resuscitato” i furori poetici, risollevandoli dall’ozio e fornendo loro fama e glorie, tempii d’onori, immortalità letteraria. Il 1631 si pone così come data di inizio di una tendenza della lirica che occuperà l’intero XVII secolo: la rappresentazione di eventi catastrofici.
[…] e dando lode a Dio. […] Sebbene ne anco questo suppliva al fervore del popolo: onde alcuni si confessavano pubblicamente, ò dir meglio pubblicavano i loro peccati». 8 G. Fontanella, Al Vesuvio per l’incendio rinovato, Ottavio Beltrano, Napoli 1632. La lettera prefatoria fu inviata a monsignor Herrera, ed è datata 10 febbraio 1632.
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Un attraversamento dei testi
Formalmente concepiti entro la cornice barocca di Rime (amorose, celebrative e religiose), i testi raccolti rientrano nel tipico stile della prima metà del Seicento. Le antitesi, le iperboli, gli adynata, in breve i meccanismi figurali più utilizzati dall’ala sperimentale della poesia secentesca1, trovano nella descrizione del disastro la loro migliore applicazione2. Se il disastro rappresenta infatti una rottura dell’ordine del mondo conosciuto – si leggano il testo di Bartolomeo Tortoletti sul Tremuoto e quello di Clemente Tosi sull’Incendio –, allora quanto si è spesso definito il “gusto dell’orrido” della lirica barocca trova un senso diverso, nonché più profondo, in questa tipologia di poesia. Essa presenta un particolare equilibro tra occasione compositiva “reale”3 e repertorio culturale immaginifico che spezza le vecchie categorie di interpretazione sul Barocco letterario. In breve, qui non ci troviamo di fronte all’idea di una scrittura intesa come “puro artificio”, ma affrontiamo una poesia con una forte funzione estetica, la quale funge soprattutto da strumento di «presa sulla realtà»4. Cfr. P. Frare, Preliminari ad una lettura del Cannocchiale, in «Testo», XVII, 1989, pp. 32-64, e Id., Contro la metafora. Antitesi e metafora nella prassi e nella teoria letteraria del Seicento, in «Studi secenteschi», XXXIII, 1992, pp. 3-20. 2 Si rimanda, in ordine di apparizione, alle chiuse dei sonetti di Giacomo Filippo Camola («e per oppor le fiamme a l’arme ardenti, / onde cadeste fulminati a terra, / il foco a monti, a monti in Ciel s’avventi»), Francesco Paoli da Pesaro («Maggiore in ciò di mia pressura è il vanto; / ch’ivi perdesi un fiume, ed io disciolto / serbo in mezo a l’incendio un mar di pianto»), Massimiliano Palombara («ove restar del foco eredi i fumi, / renderò co i sospiri, e i pianti io solo / l’estinto foco, a i travïati fiumi»). 3 Sulla definizione di realismo della poesia barocca, è utile rimandare a R. Gigliucci, Realismo barocco, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2016. 4 Si fa riferimento alla categoria di «presa estetica sulla realtà» di Algirdas Greimas (De l’imperfection, Fanlac, Perigueux 1987), e al modo in cui essa viene relazionata alle catastrofi, in V. Idone Cassone, B. Surace, M. Thibault (a cura di), I discorsi della fine, Catastrofi, disastri, apocalissi, Aracne, Roma 2018, pp. 57-58. La presa estetica sulla realtà 1
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A livello contenutistico, la Scelta di poesie nell’incendio del Vesuvio si struttura su un vero e proprio tòpos della «horreur merveilleuse»5, ovvero la rappresentazione in canoni artistici di un evento orrorifico. Per il lettore più attento non sarà infatti difficile rinvenire la presenza di sequenze narrative fisse dell’immaginario catastrofico, e un’organizzazione del materiale poetico costante e reiterata. Sul piano formale questa operazione comporta un preciso schema di ripartizione del testo: 1) descrizione dell’evento, o descriptio (l’esposizione del “fatto”), con riferimenti al mito o alla religione; 2) graduale iperbolizzazione del disastro; 3) chiusa morale o “gnomica” che riassume il senso del componimento. Tale struttura, che è tipica della poesia secentista6, mira alla pointe, ovvero alla «acutezza» del testo, ciò che «punge» e dunque stimola «l’ingegno»7 del singolo. Essa risulta così uno dei meccanismi mediali tramite cui la cultura del XVII secolo organizza la trasmissione dell’informazione sul disastro. I presenti testi mirano all’ottenimento di un effetto a sorpresa (la cosiddetta meraviglia), spesso attraverso il meccanismo epigrammatico del fulmen in clausula. Il “finale inatteso” doveva infatti colpire il lettore del tempo e, con l’ausilio di immagini finemente elaborate, letteralmente “scuoterlo” fino a portarlo a «una serie di shock visivo-emotivi»8. In base a questo è la riduzione di un evento incomprensibile – com’è l’eruzione del 1631 – ai paradigmi conoscitivi del singolo. Questi paradigmi, che sono di tipo soggettivo, ma di «valore culturale e collettivo», rappresentano un momento di «riorganizzazione dei modelli culturali semiotici», i quali si rivelano inadeguati a cogliere l’esperienza del soggetto. Essa infatti risulta «intesa» ma al contempo «ineffabile», e svincola, nel nostro caso, i testi da categorie che in un volume di poesia sarebbero esclusivamente di tipo retorico. 5 F. Lavocat, Pestes, incendies, naufrages: écritures du désastre au dix-septième siècle, Brepols, Turnhout 2011, e Id., Un «nuovo, e meraviglioso et horribile soggetto». Le volcan dans l’opéra-ballet et le théâtre à machines, in M.-F. Bosquet, F. Sylvos, L’imaginaire du volcan, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2005, pp. 73-95. 6 Cfr. M. Blanco-Morel, Les Rhétoriques de la pointe: Baltasar Gracián et le conceptisme en Europe, A.N.R.T, Lille 1990. Sulla definizione di Secentismo come fase sperimentale del Barocco letterario, si rimanda a G. Toffanin, Idee poche ma chiare sulle origini del secentismo, in «La cultura», III, 1924, pp. 481-488, nonché a B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Laterza, Bari 1911. 7 E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, o sia Idea dell’Arguta et Ingeniosa Elocutione che serve à tutta l’Arte Oratoria, Lapidaria, et Simbolica esaminata co’ Principij del divino Aristotile, Sinibaldo, Torino 1654, pp. 4 e 122. Edizione anastatica di riferimento Aa.Vv., Emanuele Tesauro, Il Cannocchiale aristotelico, Editrice Artistica Piemontese, Savigliano 2000. 8 S. D’Alessio, Contagi, La rivolta napoletana del 1647-’48: linguaggio e potere politico, CET, Firenze 2003, p. 6. È doveroso segnalare che la citazione fa riferimento ai testi sulla
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ragionamento si può anche comprendere l’inserimento in queste poesie di emblemi9 ben noti all’uomo barocco, i quali utilizzano la tradizione letteraria come strumento di interpretazione del presente, come si nota nel sonetto sul Vesuvio di Urbano Giorgi. L’utilizzo di tali immagini è strutturato sulla tecnica “visiva” della enargheia, ovvero tramite un particolare utilizzo dei dispositivi retorici che permette la concretizzazione delle immagini “davanti agli occhi”10. Ecco che allora la lava è il parto viperin del monte (rappresentazione del suo scorrere lungo le pendici), l’eruzione inonda di solfurei atri torrenti la Partenopea misera polve (quasi essa fosse un fiume in piena), il cratere generatosi è una nera bocca intenta a vomitar faville, e così via. Il lettore che vorrà attraversare l’intera raccolta (tali meccanismi sono presenti anche nei testi in lingua latina) potrà facilmente rendersi conto del livello qualitativo dell’intero oggetto libro. La poesia sul Vesuvio, nonché la poesia dei disastri tout court, è uno dei prodotti culturali più alti del XVII secolo, e la sua valorizzazione è un passo importante per la riconsiderazione della storia del versante lirico della letteratura barocca.
rivoluzione napoletana del 1647. Tuttavia, poiché anche questi rientrano nella produzione letteraria di quella che è una vera e propria “cultura del disastro”, il ragionamento della studiosa risulta applicabile anche alle poesie sul Vesuvio. 9 Per uno studio sugli emblemi e sul loro inserimento nei testi poetici si rimanda a M. Praz, Studi sul Concettismo, Abscondita, Milano 1946. L’opera seleziona un campionario di immagini provenienti soprattutto dagli Emblemata di Andrea Alciato (Augsburg 1531 e Padova 1621), la cui conoscenza possiamo dare come sicura per tutti i poeti presenti nell’antologia di Urbano Giorgi. 10 Per un inquadramento dell’enargheia, come teorizzata nel Seicento dalla retorica gesuitica, è utile rimandare a W. de Boer, K.A.E. Enenkel, W.S. Melion (a cura di), Jesuit Image Theory, Brill, Leiden-Boston 2016. Ancora, può essere utile rimandare alla definizione del dispositivo immaginifico che fornisce la Rhetorica ad Herennium (IV-LIV, 68), dove lo stesso è chiamato demonstratio: «Demonstratio est cum ita verbis res exprimitur ut geri negotium et res ante oculos esse videatur. Id fieri poterit si quae ante et post et in ipsa re facta erunt comprehendemus, aut a rebus consequentibus aut circum instantibus non recedemus […]».
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Bibliografia
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Descrizione del volume
SCELTA DI POESIE | Nell’incendio del Vesuuio | FATTA DAL SIG. VRBANO GIORGI | Segretario | dell’Ecc.mo G. Conte di Conuersano | All’Eminentiss. e Reuerendiss. Prencipe | IL SIG. CARDINAL’ANTONIO | BARBERINO [Un’aquila con folgori tra gli artigli fissa il sole in una cornice figurata sovrastando il motto della tipografia: Amica numinis et luminis] ROMAE, | Ex Typographia Francisci Corbelletti. | MDCXXXII. | SVPERIORVM PERMISSV. Segn.: π4, A-M4, cc. 104. Paginazione: [8], 94, [2], 4o. Esemplari consultati: Cagliari, Biblioteca universitaria di Cagliari (C); Napoli, Osservatorio Vesuviano (N); Perugia, Biblioteca comunale Augusta (P); Viterbo, Centro Diocesano di Documentazione per la storia e la cultura religiosa (V). Frontespizio; A1r-A1v: dedicatoria di Urbano Giorgi al cardinale Antonio Barberini; A2r-B2r: sezione di elegie ed epigrammi latini AD EMINENTISS. PRINCIPEM | ANTONIVM BARBERINVM; B2v-D2v: sezione di quindici sonetti e un madrigale dedicata all’EM.mo E REV.mo PRENCIPE | SIG. CARD. ANTONIO BARBERINO, e un sonetto a c. C4r dedicato ALLA CITTA DI PESARO | Patria del medesimo ritornata al dominio di Santa | Chiesa sotto il felicissimo pontificato di PAPA | VRBANO VIII. per la legatione; D3r-K2r: sezione chiusa e aperta da due canzoni e costituita da trentacinque sonetti dal titolo IL VESVVIO; K2vM3v: sezione latina incentrata sul Vesuvio; M4r: colophon.
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Note al testo
Norme grafiche La Scelta di poesie nell’incendio del Vesuvio è restituita al lettore in una veste grafica quanto più fedele ai quattro esemplari che qui si considerano dell’editio princeps del 1632, conservati presso la Biblioteca universitaria di Cagliari (stampa indicata con la sigla C), presso l’Osservatorio Vesuviano di Napoli (indicata con N), presso la Biblioteca comunale di Perugia (indicata con P), presso il Centro Diocesano di Documentazione per la storia e la cultura religiosa di Viterbo (indicata con V). Vengono introdotti segni diacritici e punteggiatura secondo l’uso moderno. Per le preposizioni articolate si mantengono le oscillazioni tra forme analitiche e sintetiche. Si normalizza l’uso delle maiuscole e delle minuscole, optando per il maiuscoletto per i nomi che nella stampa antica si presentano in tutte lettere maiuscole, nel rispetto di un accorgimento tipografico dietro al quale si ipotizza una specifica volontà. Si scioglie il titulus nella consonante nasale appropriata al contesto. Ulteriori modernizzazioni riguardano: la distinzione del grafema u da v; l’eliminazione delle h etimologiche o paretimologiche; la riduzione della congiunzione et e del logotipo & a e davanti a consonante, a ed davanti a vocale (& = et nei testi in latino); si sostituisce all’occorrenza il grafema ÿ con ii o i; viene reso con -zi- il nesso -ti- che precede vocale; fia diventa in ogni sua occorrenza sia; si mantengono raddoppiamenti dialettali o scempiamenti ipercorretti; si sciolgono le abbreviazioni associate a cariche ed espressioni elogiative dei personaggi citati, quali Sig. = Signore, V. Em. = Vostra Eminenza, D. = Don (Dominus nei testi in latino), Card. = Cardinale. Di seguito, accompagnate dalla indicazione tra parentesi quadre della localizzazione all’interno dei testimoni di riferimento e dalla pagina corrispondente nell’edizione moderna, si riportano le varianti di stato (si utilizza la dicitura omnes nei casi di concordanza tra gli esemplari), 21
le correzioni apportate al testo nel caso di errori palesi, e l’esistenza di elementi paratestuali considerati interessanti per la ricostruzione della storia esterna. Note critiche Il frontespizio è un omaggio al destinatario della raccolta, il cardinale Antonio Barberini (Roma, 1608 - Nemi, 1671). Sono inseriti in una corona d’alloro retta da dieci putti alati il titolo e i nomi dell’antologista (Urbano Giorgi), del suo protettore Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona (Conversano, 1600 - Barcellona, 1665), conte di Conversano e duca di Nardò, e quello del cardinale Barberini. La corona è sovrastata dallo stemma con tre api della casata Barberini. Altre otto api si dispongono simmetricamente sullo sfondo. In basso a sinistra si legge «Lucas Ciamberlanus Urbinas scolpivit»; in basso a destra «Augustinus Tassi Invenit». L’incisore Luca Ciamberlano (Urbino, 1570/1580 - Roma, 1641), fu particolarmente attivo a Roma nel periodo della stampa della Scelta di poesie. Agostino Tassi (Perugia, 1566 - Roma, 1644) è l’ideatore del frontespizio. I suoi ultimi anni di attività lo videro a contatto con la casata Barberini, come dimostrano le due tele incentrate sulla figura del fratello di Antonio, Taddeo, l’unico membro della famiglia a non essere stato destinato al cardinalato. Nell’esemplare P, sul fondo della carta del frontespizio, con inchiostro si legge «Collegii Penisini Societatis Jesu Bibliothecae Catalogo inscriptus». Il frontespizio risulta monco in N, dove la firma dei suoi realizzatori non è leggibile per un taglio della carta. Negli esemplari di Cagliari e di Perugia il frontespizio è seguito da due carte, mancanti in N e in V, che riportano una dedica in latino, posta al centro pagina e contornata da una cornice conchiliacea in stile architettonico barocco – lo stesso che ispira l’intero apparato illustrativo della raccolta –, e il ritratto del cardinale Antonio Barberini. [B2r], p. 38: le macchie di umidità di C compromettono l’interezza del testo a stampa nella zona della legatura e rendono illeggibili parti dell’esemplare. Nella carta considerata risulta sbiadita la ‘s’ di ‘honos’ (v. 6). [B3v], p. 41: registro: ACHILLINI ] ACCHILLINI omnes. [C2v], p. 47: v. 1: spegne P ] spenge CNV. [C4v], p. 51: registro: VINCENZO ] VINCBNZO CNV, P corregge a mano. [F4r], p. 74: il fondo carta di C presenta una nota a inchiostro non ricostruibile. 22
[G2r], p. 78: registro: MEDESIMO ] MEDSIMO omnes. [G3r], p. 80: v. 4: stellante ] stelllante omnes. [G3v], p. 81: v. 4: cadeste ] cadaste omnes. [H4r], p. 90: registro: attestato in tutte le altre occorrenze come marchese Palombara, senza l’utilizzo del genitivo. Il richiamo della carta in tutti gli esemplari è SO-, ma [H4v] inizia con la RISPOSTA/DEL SIG. MARCHESE PALOMBARA. [I1r], p. 92: La carta di guardia che precede il frontespizio nella stampa conservata presso il Centro Diocesano di Viterbo riporta la scritta a mano “Severo Piazzai da Marciano”. Questa indica la presenza di correzioni a mano del sonetto del poeta Severo Piazzai, impresso nella carta considerata: v. 3: Contumace d’Inferno, ch’indi a poco; v. 5: Horrende alpi di fumo hor atro, e denso; v. 11: Contra ’l Ciel, contra Dio pugni, e contrasti; v. 13: Ma poi sentir su’ altere voglie, e i fasti. [I3v], p. 97: riporta il richiamo SO-, utilizzato per i sonetti, sebbene il testo successivo sia una canzone. [M3r], p. 118: v. 3: Princeps ] Princes omnes.
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SCELTA DI POESIE Nell’incendio del Vesuvio fatta dal signor urbano giorgi
Segretario Dell’eccellentissimo Giangirolamo Conte di Conversano All’eminentissimo e reverendissimo Prencipe
il signor cardinale antonio barberino
Divinitatis instar o quantum foret si ut ora, mentem Principis imago haec daret orbi intuendam? Antonii hic vultum adspicis cupis videre spiritum? Urbanum vide.
Eminentissimo e Reverendissimo Prencipe Signor Padron mio Colendissimo
Se mai furono vedute in un solo soggetto accoppiate con unione tanto più bella, quanto men solita, due qualità fra di loro repugnanti, come sono altezza di grado e benignità di costumi, amendue queste doti in Vostra Eminenza indissolubilmente congiunte si ammirano. Non pur da Roma, Soglio delle sue grandezze, ma dal Mondo tutto, Teatro delle sue glorie. Imparai ciò io prima dalla fama, che dalla prova, mentre dal Conte di Conversano, mio Signore, mi sono state più volte in Napoli espresse al vivo le meraviglie della generosa natura di Vostra Eminenza, ed appresi dal Padrone ad inchinar da lontano nell’Altezza della sua Dignità la sovranità delle sue virtù. Fu anco il mio concetto riverente raffermato (benché senza bisogno) dal Signor Don Francesco Acquaviva di felice memoria, il quale mentre visse, si gloriava bene spesso meco della venturosa servitù, che professava con Vostra Eminenza, e riputava, che questa ancora accrescesse ornamento particolare alla condizione de’ suoi natali. Io medesimo per ultimo ho avuto tanto favorevole il Cielo, che pur sono stato introdotto a riguardare l’eccesso di quel bene, che con sì giuste ragioni da gli altri lodatomi, m’aveva acceso d’un impaziente desiderio di riverirlo di presenza. La fama, che suol’essere d’altrui creditrice per accumulare le lodi sopra i meriti, a Vostra Eminenza è di molto debitrice, avendo sempre delle sue eroiche virtù ridetto assai meno di quel che la verità m’ha dimostrato. Mosso pertanto da tutte queste cagioni, volendo provedere ad alcuni miei poveri parti di patrocinio, non doveva io altrove appoggiarli, che alla suprema autorità di Vostra Eminenza, sicuro, che non meno benigna si compiacerà, che la trovino i figli di quello, che sopra ogni merito l’ha ritrovata il padre. Mi sono bene ingegnato di ricoprir la povertà, e nudità de’ miei rozzi componimenti con l’aggiunta d’altre Poesie di pellegrini spirti, che tra i fumi del Visuvio hanno saputo far luminose le lor penne a i lampi sempre ardenti delle glorie di Vostra Eminenza, quale supplico a ricever in grado, che per mezo di quegli abbia desiderato anch’io d’illuminare l’oscurità del mio 29
nome: mentre pregandole dal Cielo il compimento d’ogni suo magnanimo desiderio resto inchinandomi all’Eminenza Vostra con ogni umiltà. Roma, li 20 Agosto 1632 Di Vostra Eminenza Umilissimo ed obbligatissimo Servitore Urbano Giorgi1
Urbano Giorgi rivolge la dedica ad Antonio Barberini. Alle attività di governo che videro il cardinale impegnato a Roma, nel 1629 si aggiunsero le trattative di pace tra i belligeranti della seconda guerra del Monferrato (1628-1631). Pur fallendo il tentativo di ottenere la tregua, l’evento fu per il cardinale propizio per ampliare l’orizzonte politico sugli Stati italiani, sulla Spagna, sull’Impero e sulla Francia, rendendo il Mondo tutto così, nell’ottica di Giorgi, Teatro delle sue glorie. 1
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ad eminentissimum principem antonium berberinum cardinalem de latere legatum auctoris incerti elogium antonius cardinalis barberinus urbani viii p.o.m. Fratris Filius potestate Legatus virtute simillimus a Vaticano Coelo profectus ad Regum animos conciliandos divinus interpres Mercurio tanto felicior quanto verior caduceo non anguibus venenato sed apibus mellito ab Hispano Hespero serenam pacis auroram excitavit caesareae aquilae fulmina festos in ignes placide dissipavit annuo legationis cursu Solis conversionem aemulatus Italia ingentibus beneficiis lustrata regales controversias in Librae sydere aequissime composuit aetatis virore, purpurae rubore, splendore nobilitatis caelesti sapientiae colore iridem optati foederis obsidem in nube pluvio sanguine rorulenta decoravit in Oceano cruoris irarum tempestatibus commoto amoris alcedonia stabilivit. Populares ad Eridanum lacrymas in gaudiorum electra mutavit sublatis feliciter armis ferreum seculum removit profuso liberaliter auro auream aetatem invexit Nestor in iuventa Achilles in toga prudentia et magnanimitate quam felix tam gratus debellator 31
principum victorias vicit de regum triumphis triumphavit.
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ad eundem eminentissimum principem
Urbinatem Ditionem ingressum
domini bartholomaei tortoletti Epigramma
antoni; Aeneadum Magnum decus, altaque Romae spes tibi perpetuum gloria stravit iter; scilicet, et pacis studio longinqua peragras, et demandata est publica vita tibi. Nunc rege Metauri populos, tua maxima virtus flagret; in angusto vim magis ignis habet. Sic sterilem quercum faecundior excipit ales. Arida nidificet; qui super arva Deo. Umbria transisti, ad toedas, quam rite secundas; hae ductum e Coelo Numen, et omen habent.
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ad eundem eminentissimum principem domini clementis tosii Elegia
Dum Sol aethereus Phaetonti tradit habenas gemmiferi currus, quo premat astra poli, heu nimium audacem puerum vis Solis equorum raptavit coelo, decubuitque solo; et dum unum praebere diem vult, perdidit orbem, igniferasque patris sparsit ubique rotas; occubuitque gravi perculsus fulminis ictu, exceptus lymphis, Eridanique sinu; quem dum moerentes effuso crine sorores flent, tepido fluvio fluminis arva rigant. Lucidior Phoebus nitidum tibi tradidit axem antoni, ac dium credidit ipse iubar, ut Coelo Hesperio Martis formidine foedo infandi belli nubila discuteres; non ipsum terret tua tunc intonsa iuventus, aut fulgens tenero primus in ore rubor, cernit, te magnos molli sub pectore sensus induere, et canos sub radiante coma. Haud spes decepit, tenebrae, noctisque profundae diffugiunt belli, deficiuntque metus, dum radios Pacis vibras, dum tramite certo sidereos currus tu moderator agis; adventuque tuo submittit Daedala tellus frondes, et verno flore colorat agros; ipse, ipse Eridanus vitrea caput extulit unda frondiferum, et laetus talia verba dedit: aspicio Phaetonta novum discrimine magno, ille mihi noctem detulit, iste diem.
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ad eundem eminentissimum principem
Ad Latinam Poesim Se convertentem.
domini hieronymi brivii
Hactenus hetrusco libuit tibi carmine, Princeps, flexanimas tractare lyras, et Appoline dextro ire per externas peregrino pollice chordas. Nunc sacra desuetam vocat ad penetralia mentem Musarum chorus Ausonidum latiumque nepotem Romano iubet ore loqui, dudumque iacenti regia dardania circumdare tempora lauro. Sic tibi sideream parat immortalis ad arcem antoni, geminum famulatrix gloria currum quo volet interea geminum tua fama per axem par levibus iaculis, rapidisque citatior Euris. Scilicet, et duplicem tua fortis dextera palmam postulat; imperio populis, quae nata regendis et bello pacique sagax imponere morem Romanae virtutis adhuc superesse fatetur semina, quae latias a te diffusa per urbes antiquos reparent Heroas, et acta triumphis Romula venturis transmittant nomina fastis.
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ad eumdem eminentissimum principem dum urbinum proficisceretur domini laelii guidiccionii Epigramma
O ingens animis, agitas qui grandia, seu te Ausoniae fines, seu tua Roma tenet. Auspiciis pacata tuis viget Itala tellus, permulcent rigidos dum tua mella Duces. Pone sequax tibi Fama, comes Sors, praevia Virtus: perge, tibi quercus qua nova mella fluunt. francisco sub fratre abeunt dira omnia; per vos redditur ingeniis gloria, cultus agris. Fortunati ambo; fortunatissimus at qui Alciden geminum Coelifer urget atlas.
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ad eumdem eminentissimum principem marci antonii saulii Epigramma
Italiae ut pacem reddas, tu proelia tentas arma fugare optas, et tamen arma moves: pugnat lingua potens, felix prudentia pugnat, his evicta armis Regia corda cadunt, Italia ambigua est, quid amet magis; an tua Bella; an Pacem, pugnans, quam tua lingua parit.
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ad eumdem eminentissimum principem urbani georgei Epigramma
Miraris quis quis fulgentia lumina spectas antoni, et gazas, puniceumque decus. Desine mirari, haec multis communia, quaeque tempus edax rerum denique dente terit1; mireris potius cordis, mentisque nitorem, quo merito est urbis dictus, et orbis honos.
Il poeta riprende il tòpos ovidiano dello scorrere inesorabile del tempo. Ovidio Metamorfosi, XV, vv. 234-236: «Tempus edax rerum, tuque, invidiosa Vetustas, / omnia destruitis, vitiataque dentibus aevi / paulatim lenta consumitis omnia morte». 1
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sonetto all’eminentissimo e reverendissimo prencipe signor cardinale antonio barberino Nella sua promozione al Cardinalato
del signor antonio bruni Di Marte il ferro, onde il bel fianco adorni siasi il brando di Paolo oggi in tua mano; perch’al culto verace omai ritorni l’Anglo ribelle, e ’l perfido Germano. Quel segno onde n’ha Stige oltraggi, e scorni, ch’a te pende su ’l petto, eroe sovrano, a te segni fra gli ostri illustri giorni, per te penda in trofeo su ’l Vaticano. E s’altrui vide a sacro monte in cima, Signor, quel legno riverito, e santo porporeggiar di sacro sangue in prima. In te candido or spiega il proprio vanto; perché mentre i tuoi merti il Ciel sublima il purpureo color dona al tuo manto.
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sonetto al medesimo prencipe del signor bartolomeo tortoletti
A troncar l’Idra, o redivivo Alcide, là sotto l’Alpi ancor fanciullo andasti, né clava tu, né fiaccola vibrasti contra l’orride sue fauci omicide. Ma con quel ciglio sol, ch’i mostri ancide maestoso terrore in lei spirasti; caddero tosto le cervici, e i vasti furori, ond’ella i popoli conquide. Ahi, discordia crudel, come prostrata avea la bella Italia; or questa è dritto, che a te sol viva, al tuo valor rinata. Ti fu principio al trionfal tragitto, Signor, l’Occaso; a l’Orïente or guata e corre incontra ’l sol l’Asia, e l’Egitto.
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sonetto al medesimo prencipe del signor claudio achillini l’invita a stabilir la pace sotto Mantoa
Api, voi, che de i cigni in su ’l Caistro coi susurri vincete il bel concerto, venite ove d’estinti, è il suol coperto a far il mel su i timpani de l’Istro. Vieni del Grand’urban sangue, e ministro, apri l’Inferno, e ’l Cielo, e mostra aperto il castigo a la colpa, il premio al merto, destro a l’oppresso, a l’oppressor sinistro, vieni, che il tuo venire anelo, e bramo; bramol di glorie, e di trionfi carco, e più co ’l cor, che con l’ingegno il chiamo. Io qui t’attendo, o mia colomba al varco, e, s’avrai de l’uliva in bocca il ramo, vo fabricarne a la mia cetra un arco.
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sonetto al medesimo prencipe del padre don clemente tosi
Non ricopriva ancor fiorito Maggio la molle guancia al giovane Pelleo, ch’al feroce destrier l’ira cadeo al balenar del maestoso raggio. Al’or di gran valor diè chiaro saggio che d’angusto confine a un semideo era un sol mondo; e il Persa, ed il Caldeo non potevan por meta al suo viaggio. Né d’oro ancora il prezioso nembo spargeva le tue gote, a l’or che Marte cadde prostrato al tuo purpureo lembo. Dica dunque ciascun: se il Ciel comparte tanto valore a giovanetto grembo, che un sol mondo per te sia poca parte.
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sonetto al medesimo prencipe del signor francesco benetti
Qual ne gli Assiri campi arco di pace comparve Araldo di fidato sdegno, dopo di sparso aver d’Aquario il segno, di ritenuti umor l’onda fugace. Così ’l ciglio d’Amor, serena face, apportò de l’insubria al fosco Regno per vessilli di morte: ampio sostegno fu d’Esperia cadente ostro vivace. Chi tra funesto duol scena di morte pianto meschiò di ruggiadosi lumi or’al gaudio del cor apre le porte. Né già colmi di sangue andare i fiumi si veggon più; ma con felice sorte, sorger del Secol d’or primi costumi.
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madrigale al medesimo prencipe del signor girolamo brivio Iustitia, et Pax osculatae sunt.
Se nel foro Romano d’Astrea le lancie immote sostenesti, Signor, con salda mano, al regio suon di tue feconde note, or, ch’il foco guerrier d’acceso Marte, con aureo fiume d’efficaci detti, a spegner vai ne gl’infiammati petti, s’abbracciaranno con amor verace la Giustizia, e la Pace.
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sonetto al medesimo prencipe doppo due legazioni,
una per la pace, e l’altra del possesso di Urbino.
del signor lelio guidiccioni Già saggio, e forte, e temperato, e giusto, il magnanimo antonio a noi risplende, e d’opre illustri in bel desio s’accende, già su ’l fiorir, di doppie palme onusto. Se nuovo scettro al gran Pastore augusto offre il Metauro, egli in sua vece il prende. Se Pace grida Italia, in man discende la pace a lui, che vince in merti Augusto. E ben l’esprime, in sollevar gl’ingegni, ne l’usar dolci detti, alteri gesti; ma s’un regnò, l’altro è maggior de i regni. Ed a glorie sì salde ha i pensier desti, che d’apparir non sia ch’il mondo sdegni in mano a quegli, e sotto il piede a questi.
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sonetto al medesimo prencipe del signor ottavio tronsarelli
Ove l’Alpe le rupi erger si mira, spaventi de le Stelle, e di Natura, a disperder il mondo in un congiura di Marte l’odio, e de la Morte l’ira. Ma tu, cui Palla alto valore ispira, tra crudi ferri, e tra sulfurea arsura a frenar i perigli, alma hai sicura, e Bellona a’ tuoi cenni ancella gira. E, dove a’ danni suoi trema la terra dilatar calli di furor vorace, la tua ferma virtù gli aditi serra. Per te de l’Afro Eroe la fama tace. Ei l’Alpi aperse, a seminar la guerra; e tu le chiudi a coltivar la pace.
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sonetto al medesimo prencipe del medesimo
L’odio spegne per te l’ardente face ne gli alti flutti del profondo oblio; non più rota il flagello orrida Enio, e d’ondeggianti insegne il fremer tace. L’orgoglio de la sorte imbelle giace, scordasi di sue stragi il Tracio Dio, né di rigide palme ha fier desio, poich’è maggior d’ogni trofeo la Pace. Perché Italia al colpir vinta non moia, già schive del furor cangian le trombe in dolce canto, strepitosa noia. Per chiuder il furor s’apron le tombe, vola con piume d’elmi aurea la gioia, e gli usberghi son nidi a le colombe.
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sonetto al medesimo prencipe del signor cavalier pier francesco paoli da Pesaro
Di par tra gli ostri, e le virtudi avvampi, antonio, e sciorre in van la lingua io tento; che dir non so se abbarbagliar mi sento o più de gli ostri, o de l’ingegno a i lampi. Porti porpore, e lauri ovunque stampi orme famose, a vere glorie intento: indiviso han per te doppio ornamento di Roma i troni, e d’Elicona i campi. Quinci fai, che ’l tuo nome il mondo inchine, che sa co i manti ancor di gemme, e d’oro la tua mente vestir pompe più fine. E tra chiare fatiche alto ristoro ben prende urban nel rimirarti il crine su la porpora sacra, il sacro alloro.
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sonetto al medesimo prencipe del medesimo
Cibo soave a le tue voglie altere, Signor, son di Minerva i chiari studi, pur ami il suon di marzïali incudi, e l’ondeggiar di belliche bandiere. Pronto a mostrar vincendo armate schiere come vera virtude agghiacci, e sudi, e con pregio novel tra ferri ignudi fansi, per te, le porpore guerriere. Già con lacero manto a’ tuoi splendori volgesi Italia, e da te solo attende sereno eterno, a i tempestosi orrori. Così del Sole i rai mentr’egli ascende, vinte da cieca notte, ombre, e furori, le primiere bellezze il Ciel riprende.
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sonetto alla città di pesaro
Patria del medesimo ritornata al dominio di Santa Chiesa sotto il felicissimo Pontificato di papa urbano viii
per la legazione
del medesimo prencipe Già dal pesar de l’oro il nome altero in voi prendeste, o mie paterne arene; ma vivea chi mandollo in triste pene nel Campidoglio al’or stuol prigioniero. Il ricco or cresce in voi fasto primiero per pompa d’or di più felici vene, e la man, che l’invia robusta tiene non pur di Roma, in Ciel anco l’Impero. Ecco di volatrici api dorate per novello seren schiera in voi scesa, che vi porta su ’l dorso aurea l’etate. S’inchini ogni alma ad adorarla intesa, ceda pur l’or de le memorie andate ad oro, che s’adora, e non si pesa.
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sonetto al medesimo prencipe del signor vincenzo martinozzi
Ministro di Camera dell’Eminentissimo Signor Cardinale
antonio barberino
I fiumi d’eloquenza, onde facondo ammollite a i più fieri il core, e il seno sono noti al Metauro, al Tago, al Reno, al Mar vermiglio, a l’Ocean profondo. Sì che chiamato a parte al sacro pondo del Gran zio, che del Cielo apre il sereno, spero in brieve veder l’empio veneno d’Italia estinto, e scatenato il mondo. Dunque non taccian mai penne, ed inchiostri i sublimi pensier, che sono in voi e lo splendor, che ravvivate a gli ostri. E dichin come entro i confini suoi i nemici del Ciel barbari mostri gelino al Sol de’ barberini eroi.
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sonetto al medesimo prencipe del signor urbano giorgi
Vittorïosi a l’Oceano in seno volan di bianche croci armati legni co ’l tuo gran nome in fronte, e i Traci Regni rendono tributari al Mar Tirreno. La luna d’Ottomano in ciel sereno tinta d’atro pallor dà chiari segni de l’acerbe punture, e de gli sdegni de l’api tue sì care al Tago, e al Reno. Onde la bella Italia oppressi al fondo spera vedere i barbari tiranni, ed abbattuti i più superbi, e gonfi. Spera veder l’età de l’oro il Mondo, d’eterne primavere adorni gli anni, Rodo la libertà, Roma i Trionfi.
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sonetto al medesimo prencipe del medesimo
L’italiche ruine, e ’l grave sdegno, l’ire del Franco, e del possente Ibero, l’aquile eccelse del Germano impero, cui popolo rubello insidia il Regno danno del tuo valore inclito segno, o magnanimo antonio, e il Belga fiero teme il girar del tuo gran ciglio altero, e vacilla del Trace il crudo ingegno. Poi che da gli aurei fior l’api guerriere il puro mele al gran Leone Ispano entro le fauci han dolcemente accolto, quinci l’inorridite afflitte schiere ristoro avran da la tua sacra mano, riposo avran dal tuo sereno volto.
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sonetto al medesimo prencipe nel ritorno a roma dalla legazione a i Prencipi d’Italia
d’incerto Discese in Voi da lo stellato chiostro l’alta virtù, che di splendor celeste adorna più, che di purpurea veste, o Magnanimo antonio, il petto vostro. Onde per Voi tanto valor fu mostro là dove s’accendean guerre funeste, che sol col pronto, e saggio dir faceste ceder l’arme a la toga, e ’l sangue a l’ostro. Se là non era il vostro piè rivolto, quel sanguigno terren nel seno immondo più d’un estinto regno avria sepolto. Voi di ragione il favellar facondo armando avete, o Sacro Eroe, ritolto a la tomba d’Italia il morto mondo.
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sonetto al medesimo prencipe
Per l’incendio del Vesuvio
del medesimo
A l’or fu di Verona il saggio figlio A veder poco, a morir meno accorto, che de l’acceso Monte il gran periglio vide, incontrollo, e restò cieco, e morto. Quel, che di forte cor sembrò consiglio, follia mostrossi; ond’egli essendo absorto dal foco in mar, fu dal rapace artiglio tratto di Morte a naufragar nel Porto. Ma Voi, che qui vedrete il fertil giogo divenir di Vulcan funesto scherno, e di Flora, e Pomona orribil rogo, franco, e mesto direte: «ah, tal’io scerno incendio uscir da sì felice luogo, che veggio in Paradiso arder l’Inferno».
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Il Vesuvio
canzone nell’incendio del vesuvio del signor antonio bruni
Or, che tanto fra voi garrir, cetre canore, perché sgorghi il Vesuvio i fonti suoi del procelloso umore? Perché disperga i fiumi de le fiamme, e de’ fumi? Qual vi fa stranio oggetto, e meraviglia e forza a l’arco, ed inarcar le ciglia?1 Forse l’ingegno in rime voi flebili stemprate perché, se caro al Cielo, al Ciel due cime, di lauro inghirlandate, contro Borea nimico aprì vago, erse amico, onde un ritratto ei fu del bel Parnaso, arso è poi divenuto, ermo rimaso? O piangete, e stupite, perché, dove l’Aurora già vagheggiò l’ambizïosa lite tra Pomona, e tra Flora, e vide anco nel Verno Il poeta riprende un sintagma frequente della lirica del XVII secolo. La poesia barocca del primo Seicento – soprattutto quella “disastrosa” – è volta al conseguimento della meraviglia, ovvero allo stupore da suscitare nel lettore. Fu lo stesso Marino, amico e maestro di Bruni, a impartire questo monito ai suoi seguaci: «È del poeta il fin la meraviglia: / […] chi non sa far stupir, vada alla striglia!». G.B. Marino, Versi satirici, in B. Croce (a cura di), Marino Poesie varie, Laterza, Bari 1913. 1
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il fiore, e ’l frutto eterno, le falde incenerì, distrusse i campi montagna di caligine, e di lampi? Ma che? Nel bel d’un volto, di molle sen nel latte, pur ride Aprile a lascivir rivolto, pur son le poma intatte, ne l’umiltà superbe, mature, ancorché acerbe, e pur senza stupor veggon gli Amori ivi secche le poma, ed arsi i fiori. D’Amor è vanto usato, che sgorghi un core amante inanzi al vago oggetto, al viso amato con turbine sonante di tepidi sospiri, figli de’ suoi martiri, d’amarissime lacrime funeste, mari lugubri, e torbide tempeste. Non più nel foglio vostro dunque i danni futuri, chiaro ne’ vaticini, oscuro inchiostro da quei successi auguri: più con istudio, ed arte non susurrin le carte, perché nascan colà rapidi i fonti; perché nascon i fiumi anco da’ monti. Pompa de la natura, di Bacco onor primiero, de gli onori d’April diletto, e cura, ergeva il capo altero già temerario, e folle, lungo Anfitrite il colle, cui per far sue bellezze altrui più chiare eran teatro i prati, e specchio il mare. 60
Vide le stelle in Cielo rotare i raggi d’oro, e di perle stillar tenero gelo, prezïoso tesoro; e vide infra le stelle più luminose, e belle errar, ma senza errori, e mormorio in letto di zaffir di latte un rio. Quinci de l’alte sfere emulator non vile finse ne’ propri fior le stelle altere, quasi in vanti d’Aprile, e tra vaghi arboscelli figurò ne’ ruscelli, ch’inaffiavano a lui l’erboso grembo, pur di latte il ruscel, di perle il nembo. Se rigido ed acerbo da le Scitiche soglie quinci giungea tal or vento superbo, sempre verdi le foglie, che gli ornavan la fronte, spiegava altero il Monte; se in Ciel Sirio latrava, egli co’ prati disprezzava di Sirio ivi i latrati. Spiacque al Ciel tanto orgoglio e quinci armato ei d’ira, che fa di selce un core, un sen di scoglio forse torvo il rimira; quinci fulmineo lampo ruina il colle, e ’l campo forse, e fa, che ’l lor pregio illustre, e degno sia pompa di furor, trofeo di sdegno. I fulmini tonanti altri pur animoso trattò, per involar celesti vanti; ma perch’egli orgoglioso 61
sovra ponte d’acciaro tonò di Giove al paro, fulminato da Giove, a terra oppresso, giacque, e l’orgoglio suo nocque a se stesso. Perché con spirti audaci già Prometeo d’Astrea sprezzò le leggi eterne, ed a le faci de la rota Febea ordì primiero oltraggio, involandone il raggio, esposto a i ghiacci, in orrida pendice provò de l’ira altrui la fiamma ultrice. Così del fasto altrui il precipizio è fine: se qual Alba de’ fiori, i pregi sui spiega, ricca di brine, la Rosa imporporata, e d’oro incoronata, perché vanta superbe, ed auree fasce, l’occaso ha ne l’albor, more, ove nasce. Procellosa e fugace onda, cui nebbia involve, sembra fastoso orgoglio, onor fallace; fiamma, che si risolve, in fumo, e fumo lieve, che d’aria ancor non greve al soffio più leggier nulla diviene, onde tranquillo è ’l Ciel, l’aure serene.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor antonio felice sassone
Mentre miri cader torre e palaggi, e da l’acque sgorgar vedi l’ardore, vorrai tu dunque, o mio selvaggio core, viver tra’ lussi, insuperbir ne gli aggi? Mentre del Sol caliginosi i raggi scorgi, e la terra in subitaneo orrore, tu solo immerso nel tuo proprio errore non ascolti del Ciel gli alti messaggi? Or, che vedi ne l’onde acceso il foco e che fassi a tuo pro la terra avara, de la sferza di Dio pur ti fai gioco? Deh, le macchie co ’l pianto omai rischiara, e, se al tuo male il lagrimar è poco, a dar fiamme d’amor dal Monte impara.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor andrea santa maria1
Ne la scola de’ Monti, o alpestre core, impara esser con Dio men aspro, e duro; ed or che sei di viver men sicuro, disponti a vita, che già mai non more. Ecco incende Vesuvio, e del suo ardore materia è ’l viver tuo malvaggio, e impuro: vieni, che a l’ombra di quel fumo oscuro legger puoi ben ogni tuo folle errore. Questi atterrar, quegli atterrir s’ingegna; e perché tarda a castigarti il Cielo novo Tifeo ver lui s’adira, e sdegna: scopre l’Inferno al’or, che d’atro velo ricopre il Ciel, così a ben far s’insegna Sol con lingua di foco un cor di gelo.
Il sonetto è raccolto anche in G. Amodio, Breve trattato del terremoto scritto in occasione dell’Incendio successo nel Monte Vesuvio nel giorno 16, Lazzaro Scoriggio, Napoli 1632. 1
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sonetto nel medesimo soggetto Per lo Tremuoto
del medesimo
D’un aereo vapor chiuso, e ristretto, grave è la terra, e soffre pena, e stento nascendo il parto viperin, ch’è intento a squarciar de la madre il fianco e ’l petto. Visto è ’l Ciel da l’abisso, ogni alto tetto vacilla, e china il capo al fondamento; or, s’abbatte la terra un soffio, un vento, dove fondar le mie speranze aspetto? Perde il timor la fuga, il mal sì ratto m’assal’, ch’esclude ogni altra medicina, e ’l cader, e ’l morir tutto è in un tratto. Così il rifugio co ’l mio mal confina, nel porto stesso a naufragar son tratto, e nel proprio sostegno ho la ruina.
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sonetto nel medesimo soggetto del medesimo
Si volge a Dio nel tempo dello istesso Tremuoto
Trema e naufraga il mondo, io temo, ahi sorte, nel suo cader la mia mortal ruina; giusto è ’l timor, giusta è l’ira divina, ch’irrita il viver mio degno di morte. Tua pietà Dio n’aiuti, e riconforte, s’egual danno la terra or ne destina, e sia la fè che ne i martir s’affina, ne l’instabilità stabile, e forte. L’ancora de la speme, e de l’amore fermi il legno de l’alma, ond’ora io gelo, sì che immerso non resti in tal furore. Ma se già scosso il mondo dal tuo telo convien, che io resti absorto in tal orrore, qual s’apre a me la terra, aprasi il cielo.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor bartolomeo tortoletti
Che prodigi son questi? E che portenti? Di qual cenere, e polve il Ciel s’involve? Torna forse il Caos? E si dissolve il concerto natio de gli elementi? Ahi, ch’opra è del Vesuvio; ei le cocenti fiamme del fondo incontra il Ciel rivolve; e la Partenopea misera polve inonda di solfurei atri torrenti. Se da tal foce rinovar presume temerario Satan la prima guerra; né langue per supplicio il reo costume. O come indarno il suo furor si sferra: tempra nove arme in questi fochi il Nume, ond’ei sia spinto a maggior duol sotterra.
67
sonetto nel medesimo soggetto del signor cavalier battista basile
Mentre d’ampia voragine tonante fervido miri uscir parto mal nato, piover le pietre, e grandinar le piante spinte al furor d’impetüoso fiato: e i verdi campi già sì lieti avante coprir manto di cenere infocato, e ’l volgo saettar mesto, e tremante solfurea Parca, incendïoso Fato. Ahi, con lingua di foco ei par che gridi, arde il tutto, e sei pur’alma di gelo, tu nel peccar t’avanzi, e il mar s’arretra? Non tremi, e crollar senti i colli, e i lidi? Non cangi stato, e cangia aspetto il Cielo? Disfassi un monte, e più il tuo cor s’impetra?
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sonetto del medesimo1 Bella Donna fuggita dall’incendio del Vesuvio
Bella Donna real, che al viso porte le fiamme a incenerirne accese, e pronte; fiamme, che rinovar già di Fetonte mille volte ne’ cor l’acerba morte. Fiamme, onde fassi, e più possente, e forte opre a mostrarne amor leggiadre, e conte del vasto ardor, che dal sen versa un monte, movi tremante il piè, le guance smorte. Ah, dove? Ove ne vai? Che tu non spiri foco maggior da l’amorose luci a far de l’alme altrui dolente gioco. Ogni parte è Vesuvio, ove t’aggiri; temi tu le ruine, e ’l rischio adduci; l’incendio fuggi, e teco traggi il foco.
Il sonetto è raccolto anche in Giandomenico Agresta, Rime d’illustri ingegni napoletani, Pietro Ciera, Venezia 1633. 1
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sonetto nel medesimo soggetto del padre don clemente tosi
Primavera de’ prati, oimè, pur vinta ti veggio, e scorgo in cenere sepolta l’odorosa famiglia, e da la folta caligine la rosa aspersa, e tinta. E tu bella Giunon d’intorno cinta d’oscure fiamme abbandonata, e incolta miri la Terra, e nel suo seno avolta l’acqua fugace da gli ardori estinta. Han dunque rotte le stagion sue leggi? E gli elementi aspra tenzone atterra? Né più natura il corso lor correggi? Ah, temo, oimè, ch’in sanguinosa guerra non cada il mondo da’ suoi propri seggi, e s’armi in un aria, acqua, foco, e terra.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor decio mazzei
O tu, ch’ebro di lusso il terren fendi dal centro alzando al Ciel ricche magioni, che mentre in saldi marmi il piè riponi, quasi d’eternità co ’l Ciel contendi. Or da quel monte il saggio avviso apprendi, che insania è quel, che industre orni, e disponi, e quanto al dorso de la Terra imponi, tanto al capel de l’inconstanza appendi. Felici si appellar nidi, e paesi quei, ch’ora spiagge inanimate, e vote giacciono eguali al pian battuti, e stesi. Forse perché soffrir tanti non pote del fasto uman la terra avari pesi, e sdegnosa da sé li getta, e scote.
71
sonetto nel medesimo soggetto del medesimo
Deh, perché dir più nostra madre antica questa del sangue de’ suoi parti immonda, strage di quanto il bel Tirren circonda, che il pensarlo è terror, dirlo è fatica? Non più d’uva purpurea, e d’aurea spica con grata vece il verde crin feconda, ma fiamme, e sassi avventa, e fervid’onda di nodrice conversa in rea nemica. Né pur co ’l pianto, arme d’afflitti, almeno può ’l miser germe umano a così stolto Omicida furor por meta, o freno. Che di mirar l’uom di miseria involto schiva quest’empia, e co’ vapor del seno di cieco, e denso vel si copre il volto.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor diego busca
Ministro di Camera dell’Eminentissimo
signor cardinal roma
Da nera bocca, e da profondo seno d’orrido Monte, vomitar faville, che per l’aria disperse a mille, a mille turban del Cielo il lucido sereno: partorir fumo, e con torrente pieno1 di vorace elemento arder le ville, non che ridurre in ceneri, e scintille il verdeggiante bosco, e ’l prato ameno: sassi rotare in disusato stile, qual suol di Marte il bellicoso ordegno: il mondo spaventar da Battro, a Tile; queste son opre del tuo giusto sdegno, santo Nume del Ciel, per fare umile il superbo de l’uom perfido ingegno.
L’immagine del parto del Vesuvio, presente anche nei sonetti di Santa Maria e di Benigni, è uno degli elementi alla base della visione unitaria delle catastrofi del Viceregno di Napoli. Dalla rivoluzione del 1647 all’epidemia di peste del 1656 i “disastri meridionali” saranno infatti collegati all’evento eruttivo, in quanto effetti del suo “parto”. Il vulcano napoletano fungerà da vero e proprio tòpos di catastrofi terminali fin oltre il 1690, inglobando anche le esondazioni dei fiumi, le tempeste, i terremoti e così via. Cfr. N. Pasquale, A’ posteri della peste di Napoli, Luca Antonio di Fusco, Napoli 1668. 1
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sonetto nel medesimo soggetto del signor domenico benigni
Gravido il sen d’accese fiamme ignote s’apre Vesuvio, e la sua fronte estolle; a spavento sì novo il piano, il colle da le radici sue trema, e si scote. Arresta in Orïente al Sol le rote nembo di fumo, che gorgoglia, e bolle: tuona sdegnato il monte, e ferro molle vibra contra le stelle, e ’l suol percote. Fulmin, che da le sfere altri spaventa tra le nubi del Ciel non ha più loco, da gli abissi d’Inferno ira l’avventa. E tu carco di colpe, a scherzo, a gioco prendi mio cor, gl’incendi? Ah, ti rammenta che son voci di Dio lingue di foco.
74
sonetto nel medesimo soggetto del medesimo
E che pensi mio cor? Quel, che dal seno partorisce terrore orrido monte, per vendicar del Ciel gli oltraggi e l’onte, con diluvio di fiamme arde il Tirreno. Forse così sciolto a le furie il freno disdegnoso Cocito, ed Acheronte d’ira giusta su rei sparge dal fonte vampe vendicatrici atro veleno. Nube, ch’esce d’Inferno il Cielo oscura, si scote fatto il suol tremula canna, fuggon spirti più grandi aurate mura. O come fasto uman se stesso inganna? D’uno albergo regale è più sicura contro l’ira del Ciel fragil capanna.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor domenico benigni
Or, che dal grembo suo con nube oscura orgoglioso Vesuvio altri minaccia, e tra lampi di foco al suol la faccia copre d’atro terror cenere impura. Ne’ portenti novelli alma sicura de le fiamme gli abbissi apre, e rintraccia e svela poi quanto secreta abbraccia ne le viscere sue cauta Natura. Ma che folle vaneggi? A le tue voglie, deh, sia tra tanto orror meta più chiara quella, che su ’l tuo crin cener s’accoglie. Come cieca fortuna, e morte avara in fredda polve il tuo mortal discioglie, ne le scuole del Ciel più saggio impara.
76
sonetto a san gennaro che liberò napoli dall’Incendio
del signor flaminio razzanti Tesoriero della Marca
Favola fu, che Alcide, e ’l prode Enea con vivo piede, e con felice ardire l’Inferno osasser pria già d’assalire, cedendo lor l’ultrice fiamma, e rea. Ma ben fu ver, che dove il foco ardea nel rogo babilonico, si mire i tre fanciulli quindi illesi uscire, mostrando Dio, quanto ne’ suoi potea. Tal per uso Gennaro entrar si vede innocente nel foco, in cui si mira farsi più fino l’or de la sua fede. Al foco di pietà, che in lui s’ammira quel di Vesuvio riverente or cede, e l’inchina da lunge, e si ritira.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor francesco benetti
Non più serban fra lor l’eterna fede or ne’ contrari moti ampi elementi, mentre miro di foco i fiumi ardenti, e fender pingue suol l’acceso piede. Lascian liquide fiamme antica sede, né più d’arsi volumi alti ardimenti coronan di Vesuvio i crini spenti, or tiranno de l’acque il foco siede. Ben tra solfureo umor gorgoglia e bolle, e le stelle ferir si mira l’onda, fatta di sé maggior al Ciel s’estolle: né più brama calcar nativa sponda l’acqua, che insuperbita ergesi al colle, e fra le nubi sembra il capo asconda.
78
sonetto nel medesimo soggetto del medesimo
Or Partenope sembra orrida scena, erge globi di foco arida terra, le biade liete inaridisce, e atterra, piovon nembi di polve, e stilla arena. Cangia in dogliosi lai vaga sirena il suo dolce cantar; né più diserra lingua note gentil, ch’irata guerra fra ribellanti sensi amica affrena. Spoglia serico manto, e ratto prende nera clamide, qual le spine ordiro, né più d’Indiche perle il crin risplende. Luce d’intorno al suo ceruleo giro con rugiadoso nembo umor, ch’accende l’alma a soffrir constante ogni martiro.
79
sonetto nel medesimo soggetto del medesimo
Già di novo le fiamme arso Gigante ministre di furor al Ciel avventa, fuor d’uso suo di vacillar paventa la sospesa del Ciel mole stellante. Già gl’infocati stral l’alto Tonante parmi, che folli a disfidar io senta, e con ardente spada al Cielo intenta, veggio morti scagliar l’irato Atlante. Alma, che ne i piacer cieca vaneggi, e ne l’ombra d’error stupida l’ali verdi Sïon per sormontar non reggi? Mira l’ombre discior faci immortali, solo intendi serbar divine leggi, ch’additan de gli ardor lingue fatali.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor giacomo filippo camola
O figli, o mia potenza, o voi Giganti, voi, che le stelle a debellar moveste, e tra le fiamme, e i folgori tonanti, vinti dal foco, nel mio sen cadeste: se tolse a Voi vantaggio d’arme i vanti, che già nel gran conflitto altrui cedeste; vibrate da le rupi arse e fumanti monti di foco a la magion celeste. Seguite il Figlio omai, che già si sferra, e turbando la fè de gli elementi, s’arma di foco orribilmente in guerra: e per oppor le fiamme a l’arme ardenti, onde cadeste fulminati a terra, il foco a’ monti, a’ monti in Ciel s’avventi.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor girolamo bittini
Fero co’ i monti al Ciel superbe scale con forsennato error gli empi Giganti, poggiate de l’ardir sovra de l’ale sdegnaro posseder frali sembianti. De l’eccelsa magion torre immortale tentaro al suol depor campioni erranti, fulminaro de l’odio audace strale de le lor ferree menti acciar sonanti. Indi gemono avvinti entro gli orrori gli Enceladi orgogliosi, e i fier tiranni, sfavillando dal volto accesi ardori. Tal termin ha, chi di superbia i vanni s’impenna ver de i baldanzosi errori, e prova de l’orgoglio eterni i danni.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor gioseppe trombetti Maggiorduomo dell’Eccellentissimo
signor conte di conversano
Pugna il monte co ’l Cielo, e fulminato dal Ciel più volte, contro il Ciel, sì fiero muge sdegnoso sì, che d’ira altero oscura il foco, e il mar co l’empio fiato. Scuote, e squarcia la terra, e torvo armato scaglia sassi, e metalli: ahi crudo arciero, contra di Flora, e del suo vago impero, e contra di Pomona il fertil lato? Dunque tant’osi? E co l’immonde labbia tiranneggiando di Sebeteo il seno, solfo rutti, e bitume al Ciel fumante? Spargerai dunque intorno infernal sabia? Né ti rammenta, che sì bel terreno dal Ciel vagheggia il suo più vero atlante.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor giulio gavazza1
Uscita dal Vesuvio a’ nostri danni nube gigante al Ciel guerra movea, che gravida di foco indi piovea cener, che scorse a gli ultimi Brittanni. Era giunta a provar gli estremi affanni Napoli, il cui terren forte fremea, ch’aprirsi in tomba, ad or ad or parea e la stragge innovar già de’ primi anni. Quand’ecco il protettor Gennaro invitto ch’altre volte affrontò libero il foco apparve, e raffrenò l’ira del Monte. Quindi il suol, come a lui già fu prescritto, riverente tornò subito al loco, e lieto il Ciel rasserenò la fronte.
1 Il sonetto è raccolto anche su foglio volante. Il foglio, di 20 cm, è oggi conservato presso la biblioteca del’University College of London, con indicazioni sulla data (1632) e sul luogo (Napoli), ma privo di informazioni sullo stampatore. Come si legge dalla descrizione del catalogo dell’Università, il testo fu riscoperto nel 1914 con l’acquisto della biblioteca del vulcanologo Henry James. La sigla della catalogazione è UCL0002791.
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sonetto nel medesimo soggetto del signor giuseppe civitano
Io, che pur dianzi il biforcuto corno alzai superbo al Ciel felice monte; io, che resi il Tirren più volte adorno de l’imagine mia nel suo bel fonte; io, che coverto il sen di faggio, e d’orno del caldo non curai l’offese, e l’onte; io, ch’a molti donai lieto soggiorno nel poggio amen de la mia verde fronte. Umile, incenerito, arso, e distrutto giaccio freddo cadavero, languente spettacolo crudele, al mondo tutto. Sterpo non v’è, né fronde, né cocente selce, che del mio bel perduto frutto non pianga il caso misero, e dolente.
85
sonetto nel medesimo soggetto del signor nicoló strozzi
D’antica arsura non temea lo scherno l’alto Vesuvio in più sublimi onori, Bacco l’uve gli diede, e Flora i fiori, e Cerere, e Pomona il pregio eterno. Oggi da la voragine d’Averno pallidi mostri vomitan gli ardori, e tra nembi di sdegni, e di furori su la cima del monte apron l’Inferno. S’ergon nubi di fumo, or dense, or rade; cadon precipitose acque bollenti; corre l’incendio per oblique strade. Arso more il pastor, muoion gli armenti, ogni casa, ogni selva a terra cade, si conturbano i poli, e gli elementi.
86
sonetto nel medesimo soggetto del signor ottavio tronsarelli
Non più minaccin con irsute fronti le rupi a i regni del seren stellanti; che, quai di Flegra rigidi Giganti, si fan sepolcri a se medesmi i monti. E, se già saldi, or nel suo mal son pronti sorgon a i danni: e più tra globi erranti. Che, sotto i pondi lor fatti anelanti di cenere, e d’incendi han gorghi, e fonti. Ah, taccia omai con meraviglia altera, poiché fra noi Natura instabil erra, di fallace Liceo lingua non vera. Non più solo il torrente onde riserra; né più su l’aria è de l’ardor la sfera; la vampa ha fiumi, e regna il foco in terra.
87
sonetto nel medesimo soggetto del signor ottavio sanbiasi
Gentil’uomo dell’Eccellentissimo
signor conte di conversano Da quel vago giardin d’erbe, e di fiori sgorga Vesuvio, ed onde, e fumo, e foco da l’ampio seno, e da l’immenso loco; oscura il Cielo, e vomita bollori. Scuote, tuona, balena, e manda fuori alte Torri, arse pietre, acceso gioco; atterra, incenerisce, e a poco a poco abrugia, svelle, ed avvilisce i cori. Sacro Pastor co ’l fervido tuo sangue le fiamme estingui; e mentre bolle l’onda, fiacca l’orgoglio a sì pestifer angue. E tu alma di gelo, omai feconda di lacrime le luci; e al cor, che langue impetra co ’l pentirti aura seconda.
88
sonetto nel medesimo soggetto del signor cavalier francesco paoli da pesaro
Mostra colà nel portentoso orrore la terra or le sue viscere tremanti, e intimorito ad un bel volto innanti, qui senza mai posar trema il mio core. Miransi là da un monte a l’aure fuore d’atro incendio esalar globi tonanti, ed uscir dal mio sen miran gli amanti d’eterne fiamme impetüoso ardore. Colà tutti al cader di nuvol folto mostrano i campi incenerito il manto, ed io qui mostro incenerito il volto. Maggiore in ciò di mia pressura è il vanto; ch’ivi perdesi un fiume, ed io disciolto serbo in mezo a l’incendio un mar di pianto.
89
sonetto per l’andata al vesuvio del signor marchese di palombara del medesimo
Tu, ch’al dolce spirar d’aure serene miri di Pindo in fra i beati orrori a la tua melodia correr gli allori, e ’l suo corso arrestar muto Ippocrene. Or che a mirar te n’vai su nude arene estinto un monte entro a suoi vivi ardori, smarrir un fiume i suoi correnti umori, e farsi i vaghi poggi orride scene. T’oda a cantar l’impoverito suolo, là dove ardono ancor solfi, e bitumi su l’aurea cetra, onde t’inalzi a volo. Che spento il foco, e dileguati i fumi, Orfeo riparator potrai tu solo render l’erbe a le piagge, e l’onde a i fiumi.
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risposta del signor marchese palombara
Sian de’ poggi Febei l’aure serene Austri frementi in solitari orrori, siano in fausti cipressi i lieti allori: già con Lete cangiar bramo Ippocrene. Poiché lasciar co’ le paterne arene debbo il mio cor, non già gl’intensi ardori, quest’occhi immersi in lacrimosi umori s’apprestino a mirar tragiche scene. Scatenato il Gigante, ove il bel suolo tutto involse di cenere, e bitumi, contumace d’Amor, là spiego il volo; ove restar del foco eredi i fumi, renderò co i sospiri, e i pianti io solo l’estinto foco, a i travïati fiumi.
91
sonetto nel medesimo soggetto del signor severo piazzai
Nel carcere del sen vasto, ed immenso chiudea Vesuvio in duri ceppi il foco contumace d’Inferno, ed indi a poco si fea d’ombre omicida il lume accenso. Ecco or alpi di fumo oscuro, e denso vibra verso le stelle, e a poco a poco prova novo perillo in mortal gioco de’ parti suoi l’empio furore intenso. Alma che fai? Che pensi? A i desir vasti frena l’ardir, che temeraria in vano contro il Ciel, contro Dio pugni, e contrasti. Arse cieco Tifeo d’orgoglio insano, ma ben sentir su’ altere voglie, e i fasti come tuoni di Dio l’irata mano.
92
sonetto nel medesimo soggetto del medesimo
Nel giorno che s’aprì il Vesuvio si celebrava la festa de’ tre Fanciulli, che uscirono illesi dalle fiamme di Babilonia Occhi piangete, accompagnate il core, palesando mia pena aspra infinita, a la cetra il mio duol dia spirto, e vita, e materia a lo stil presti l’orrore. Verace rito, or per camin d’ardore a la luce del Ciel ne scorge, e invita, mentre de’ tre Caldei la via n’addita che da le fiamme illesi usciron fuore. Dunque s’in celebrar le gesta il mondo de’ tre fanciulli, oggi Vesuvio ha scarco di fumo, e foco il suo tartareo fondo. Dritto è, ch’anch’io di colpe il grave incarco omai deponga, ed al mio duol profondo apra per gli occhi, e per la bocca il varco.
93
sonetto nel medesimo soggetto del signor simone antici
Maestoso il Vesuvio al Cielo ergea altier tra colli la superba fronte, a cui smeraldi il prato, e perle il fonte, e ’l Ciel le grazie sue largo porgea. Quindi al merigge al gran Tirren stendea verdeggianti le piaggie, e verso il ponte del bel Sebeto le sue glorie conte alla vaga Partenope facea. Ecco si vidde balenar sovente cenerei globi alle superne sfere, ridur in sabia il mare, il Tutto in Niente. «Ogni gusto mortal’è ’ncerto, e pere.» «Ogni gloria mortal cade repente.» «Sì son del mondo le disgrazie vere.»
94
sonetto nel medesimo soggetto del signor vincenzo martinozzi
Ministro di Camera dell’Eminentissimo Signor Cardinale
antonio barberino
Mentre solfuree vene, apre, ed ardenti Encelado superbo a l’aria irato, e tra le fiamme di fierezza armato, sfida il Cielo a tenzon, minaccia i venti. Funebre insegne, ed orridi portenti spiega a danno d’altrui per ogni lato, sprezza forza mortal, pugna co ’l Fato, teatro è il mondo a le perdute genti. Il Dio di Cinto impallidendo il viso, sotto povero Ciel, colmo d’orrore de le nostre miserie è chiaro avviso. Ardi di Santo Amor gelato core, pugnando co l’Inferno il Paradiso: smorza a foco infernal, celeste ardore.
95
sonetto nel medesimo soggetto
Si allude all’Eminentissimo Signor Cardinale
antonio barberino
del signor urbano giorgi Dunque d’Ausonia il più fiorito seno da funesto furor macchiato, e tinto vedrà la vè spuntò rosa, o giacinto verdeggiar sovra l’erbe aspro veneno? Dunque il felice, e placido Tirreno girà di spume Acherontee dipinto? E sarà il giorno a l’improviso estinto, del Sole ad onta, in Ciel chiaro, e sereno? Ah, non sia vero, a te sacrato Duce riserba il Cielo il faticoso pondo, e già benigno a le tue glorie arride: deh, fuga tu co la porpurea luce l’orribil fera, e ti conosca il mondo del sacro atlante glorïoso alcide1.
1 Si rimandi all’emblema 137 della raccolta di Praz (Studi sul Concettismo, cit.). Antonio Barberini è qui inquadrato nell’ottica del dux clemens, il condottiero virtuoso raffigurato da Eracle (l’Alcide). L’inserimento di figure politiche mitizzate ad eroi del passato è frequente nella poesia dei disastri, e serve soprattutto a una funzione di rivalutazione di una struttura sociale che non è riuscita a far fronte alla catastrofe.
96
sonetto nel medesimo soggetto del medesimo
Tuona, e lampeggia il Ciel, tu tuoni, e avvampi; fulmini ei vibra, e tu saetti, e occidi; grandina quel, tu da solfurei nidi vomiti scogli adusti in mezo a i campi. Da i tempestosi suoi rapidi lampi ciascun può trarsi a più sicuri lidi; ma quando tu precipitoso stridi strage nel mare, e in Ciel colori, e stampi. Monarca eterno, al cui sovrano impero trema Cocito, e al balenar de’ rai crollano i monti, e le città dal fondo, rintuzza tu del forsennato Arciero l’impeto, e l’ira; e si riveggia omai sovra i cardini suoi posato il mondo.
97
il sebeto che piange canzone d’incerto
Corre lento nel mare con flebil mormorio, quel Sebeto famoso, in livide onde: non più vezzoso appare, né più disciolto in rio di molle gel bagna l’erbose sponde; geme nel corso, e ne l’algoso seno, ove del mar Tirreno ogni ninfa s’accoglie, or gemendo si doglie; di tenebroso velo vede ammantato il Cielo, e da tepidi fiati inaridirsi i prati, e con livida fronte or bacia il piede a l’infiammato monte. Piangono i cigni, e l’aure, né più ridono i fiori, ma lugubre n’appare il cielo, e terra: come de l’onde Maure con i venti gli ardori escon dal sen, che cupo incendio serra; così al bel fiume intorno or fan l’esequie al giorno; tremano i colli, e ’l monte, e si vendica l’onte Vulcan de la sua Dea, qui dove più solea spaziar fra le rose al bel Sebeto, quando vezzoso, e lieto 98
gli baciava le piante, e brillava d’amor già fatto amante. Non più cantan le Muse, ma con funesti accenti son tutte volte in un commune orrore; e discordi, e confuse col lamentar de’ venti veggon pallido andar lento ogni umore: e quel, che più adolora, non più vezzosa Aurora apre del Ciel l’azure porte al Sole; or par, che siano fole le vaghezze del giorno, parte, ne fa ritorno. Langue l’eterno lume imitando il bel fiume, che mormorando geme, e la ruina sua co’ gli altri teme. Quasi funesta scena si copre il Ciel di bruno ove vindice appare, e foco, e fumo a vendicar del Cielo l’offesa, che già mena quasi a morire ognuno, il Sol non ha de’ prati suoi più zelo di tenebre sepolta la Terra appare avvolta fra gli nembi di fumo intorno misti in modi vari, e tristi, che con falde di foco atterrano ogni loco; tragico fin si aspetta de la Terra, e del Ciel aspra vendetta. Qual fio, che la magione de’ Cigni, e de le Muse abbia a cader nel fiore de le grandezze sue de gli suoi onori; che ristretta in prigione d’oscurità, diffuse gli piovi il Ciel non grazie, anziché ardori: 99
e di tetro vapore ingombrata la Terra, e con funesta guerra ogni cosa mortal minaccia Giove; ah, con qual forme nove veggio mutarsi il tutto in lagrimoso lutto, come già ne l’esterno ov’era Paradiso, è fatto Inferno. L’orridezza si vanta; ogn’un sospira, e geme, e la sua morte teme, già che s’è volto a’ nostri danni il Fato. Quale scampo, o speranza contro l’ira, che freme, che avanza d’Etna ogni più nero fiato: si vedova la terra de’ tesori, che serra, e de’ suoi parti ancor piange la morte: con qual più fiera sorte il fiume che la bagna ancor s’imbruna, e lagna, e piange, e vede poi pianger la Terra, e il Cielo i danni suoi. Parmi già lasso Atlante, che regger possa il mondo, e di stanchezza crolli, e con esso cader si vede ogn’uno, e non è più zelante il sol di far giocondo ciò ch’egli mira a inghirlandare i colli, ma tenebroso, e bruno ne vieta anch’egli il giorno, e per tutto d’intorno ogn’uno intento mira del Ciel l’orgoglio, e l’ira: gli elementi tiranni son volti a nostri danni; ma che? Fuggir val poco l’ira del Cielo, e de la Terra il foco. 100
Ciò, che ’l Fato destina, o Sebete famoso, piangi ancor tu pietoso con livido pallor la tua ruina.
101
ad divum ianuarium anagramma purum
Divus Ianuarius Martir, atque ecclesiae Beneventanae Episcopus. Ecce ut tu sat praeservas Neapolim ab incendiis ruinaque Vesevi.
102
ad divum ianuarium neapolis patronum elogium
Fortissimo, Vigilantissimo Ianitori ingruentibus flammarum, saxorumque globis Neapolitanas Ianuas obseranti, saluti, et incolumitati reseranti. Hospes memineris intestinis Vesevi flammis conflagrasse olim Italiam, estuasse Graeciam cineribus obrutam, ardere mox Ionium, remotioresque Regni Provincias; Neapolim tamen exitio proximam ad saevi Vesevi radices, ad Mulciberis fauces manere incolumen, tranquilliori perfrui pace: quid ni? Ad apertas in Urbes, patentia in loca grassantur ignes, furunt Saxa; inobseratam invicto Ianitore Neapolim, neutiquam. Divo inquam Ianuario Neapolitano inclyto patriae tutelari patrono suo pientissimo ociosorum Academia graviores inter aerumnas Iucundiori sedens in ocio solemnem hanc diem dicat, sacratque pridie ut Magi Deo liberatori, postridie sic Sophi Divo sospitatori munera persolventes.
103
ad divum ianuarium aliud elogium
Divi Ianuarii Patriae, ut Coeli Ianitoris, duodenae tutelaris turbae Principis fausto nomini, festo Numini. Quod orante, et exorante populo, iam pridem pestiferam luem, Vesuvianam conflagrationem procul abesse, etiam num viventem sanguinem, veri palladii caput cominus adesse dignetur, hospitem sacellum tanti beneficii praeconem elinguem patritius, et popularis ordo ex voto posuit.
104
ad divum ianuarium domini francisci antonii manfortis aliud elogium
Divo Ianuario Episcopo Martyri Protectori Maxime cui non satisfuit bis Vesuvi flammas compescere, quin et lethalibus amotis cineribus ab Urbe Patria ad Byzantium usque proiectis, Parthenopemque continuo motu labantem substulisse; his eandem praestantiae suae optatissima, et opportuna maiestate collustrando, colliquatum sanguinem coelitus intuendo, perpetuo patrocinio benedictione sanctificaret. Ordo, et Populus Neapolitanus Amoris ergo ad votum, et nutum Eminentissimi et Reverendissimi Domini Francisci Boncompagni Cardinalis Archiepiscopi indefessi defensoris vestigia sectantis, exiguum pro meritis Templum Domini. a.d. m.dc.xxxii
105
Elogium
In obscuro atramento atrae Vesuvii flammae clarescant. Vesevus Mons, sed potius vae Saevus commutavit nomen fallacis instar vulpis, quae pilos mutat, non mores. Aureus Mons prae feracitate. aureos montes pollicebatur cinereos daturus. Fertilis et ferax fuit diu, sterilis, et feralis futurus ad diem. Pretiosas lacrimas bibendas ori producebat amaras oculis ut daret. Generosum quoque Vinum Graecum cognominatum; nec ab re, vel quia ne Monti producenti, et saepe proditori; vel quia ne vino saepissime fallenti crederetur. Nam Graeca Fides, cui nota non est? In Monte Neapolitanorum Principum delitiae, et divitiae Si fuit dator, fuit eversor delitiarum, divitiarum. Quia biceps, ideo dictus Parnassus, ut tragicis musis materiam praeberet. Radices Montis maris abluuntur, et irrigantur aquis. Quid miramur ex amaris radicibus, amaros fructus? Admirabimur potius Ex aquosis radicibus igneos fructus. Et tamen Celebris Mons, 106
quia celeberrimi viri Plinii celebrat insaniam. Oh celebritatem ab hominum memoria delendam tot hominum memorias delentem. Et tamen clarus quia furvo fumo tenebricosam saepe reddit lucem. Oh claritatem obtenebrandam lucis claritatem obtenebrantem, atroque signandam lapillo. Haec de semper timendo, ac nuper tumendo Vesevo timenti adhuc corde, trementi hucusque manu dixit, scripsit Neapoli Nicolaus Latorellus Senogalliensis Ne in urbanum iubentem esset inurbanus.
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ad eminentissimum principem cardinalem antonium barberinum de incendio vesevi domini clementis tosii
Procuratoris generalis Monachorum Silvestrinorum
ode Ignes Vesevi, flammivomi iugi, exaestuantes Tartareo specu moestas reposcunt nunc Camoenas, et lachrymas repetunt perennes. Heu quis remulcet pectora tristia? Heu quis coercet collachrymabiles multas querelas ditis orae Parthenopes, trepidasque curas? Defige qua vis lumina, se explicat agmen malorum, ac Eumenidum cohors insultat ardens, et patescit Taenarii Populi theatrum. Si contueris sidereas plagas, en densus ignis terrificus globus aufert diem, multusque fumus inficit astrigeros pyropos. Converte vultum ad prata virentia, caesum videbis floriferum genus, agrosque pictos obruentem et cinerem, et nitidam favillam. Perdunt decorem purpureae rosae, perdunt nitorem Lilia candida, languent Hyacinthi, languet Iris Punicea, et niveum Ligustrum. At quis virorum sanguineas neces narrabit? Et quis marcida corpora, artusque diffusos per arva tabifica sanie fluentes? 108
Invadet horror, dum attonitus vides Arces superbas, Templaque Numinum, Urbesque claras, et frequentes gurgite sub stygio sepultas. Eheu furores quis cohibet feri coecos Vesevi? nubibus igneis pulsis Averni quis serenat aethera iam revehens secundum? Quis excitabit moenia diruta? Quonam recessu flante Favonio Pomona certans cum sorore laeta dies referet benignos? Qua devolabit Bellerophon potens Glauco creatus? Quique cacuminis flammas Chimaerae exaestuantis obstruat ingeniosus ora? Spes o labantis fulgida seculi, Princeps corusco vertice nobilis, Tu antoni ades sidus renidens, Tu columen Populi dolentis dispellat umbras Pax, Pietas, Fides, mentisque candor, candidus et Pudor, felix cohors, qua tu per alta astra meas propiore cursu. Puri resurgent sospite te dies, velut patronum te populi colent, Te laetus orbis barberinum bellerophonta suum vocabit.
109
de vesevo monte domini francisci camponeschi epigramma
Celsus mons, Crista, plantis, flammisque superbus, heu, iacet acephalus, squalidus, ac gelidus; quosque ferox alerat, ditarat messe opulenta, ecce ferox lacerat, obruit in cineres. Discite mortales rebus non credere fluxis, cum mons vos fallat, quid fuerit stabile?
110
de vesevo monte ioannis antonii nicolai epigramma
Per iuga Vulcanus cernit faecunda Vesevi cum Baccho Venerem saepe movere choros: et dum prisca timet redeant ne tempora Martis, neve sua rursus coniuge laesus eat; irruit in Montem, socios qui continet ambos, delicioque Diis otia blanda parat: inde furens animis, occlusos suscitat ignes; et subito in cineres gloria Montis abit.
111
de vesevo monte domini laelii guidiccionii epigramma
Nascitur Neapoli puer mirandae proceritatis, Gigas vulgo dictus paulo post Vesuvius ardet
Quae renovat veterum tellus effoeta Gigantum semina, alit flammas, et cinefacta gemit. Sensit Phlegra Iovem: Encelado dedit, atque Tiphoeo, huic bustum Aetna ingens, huic dedit Inarime. Ipse gigantaea trepidans nunc prole Vesevus, aestuat, et fuso viscere, anhelus hiat. Parce (ait) ira Iovis; neu me, dum Tartarus urit Inferne, ah lacerent desuper arma Deum.
112
de vesevo monte eiusdem epigramma
Neapolis inter Pausilypum Montem, et Vesuvium sita
Nox lucem insequitur, mors vitam; Floribus aestas torrida, atrox pomis dulcibus instat hyems. Eheu, mixta malis sunt gaudia, testis utrinque est Naturae artificis gloria, Parthenope. Pausilypum haec media aspiciens hinc, inde Vesevum, dat mihi (ait) Coelum dextra, sinistra Herebum.
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de vesevo monte ad eamdem urbem eiusdem epigramma
Parthenope dulcis, rerum pulcherrima; dum tu imperioque vales, deliciisque fluis: ecce fluunt ignes iuxta, praesensque minantur excidium, atque atro fles cinere aucta super et flammis tenebrosa, ipsis es clara tenebris; terrarumque oculos ad tua damna rapis. Gestieras nimio Charitumque, et Martis honore; Vulcano furias nunc iaculante, tremis. Occideras, nisi te casuram sponte moneres, visa olim humanas transiluisse vices. Quae te operit cinere, et caput altum inflectere cogit, crede mihi, est Coeli, non Herebi, illa manus.
114
de vesevo monte prosperi christiani epigramma
Hactenus e Coelo demissa tonitrua Terris; nunc vero e Terris sidera ad usque volant. Hactenus ex alto lapides cecidere frementes; at nunc ex imo celsa per astra rotant. Hactenus extolli potuit vix turbine pulvis; quem nunc Terra vomit, depluit ecce cinis: iam Coelo graviora parat sua proelia tellus; mittit enim cineres, fulmina, saxa, faces. Monte quid o triplici (si vera est fama) Gigantum saeva cohors pugnat, dum movet arma Iovi? Unus fert ardens (et vera est fama) Vesevus tam fera bella solo, quam fera bella polo.
115
de vesevo monte eiusdem epigramma
Nox medio ruit atra die, totoque nigrescit aethere; pro optato iam cinis imbre pluit Christe quid haec portenta notant? Quae damna minantur aspera? Praemostrant quod grave supplicium? Creverunt errata, satis, peccavimus in te; maiora his, fateor, crimina nostra merent. At quia magna tua est pietas, mihi credere fas est, quod levis extincto decidat igne cinis.
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de vesevo monte urbani georgei elegia
Aspicis ut torvus se tollat ad astra Vesevus, ut Tauro similis, cornuabina gerat; illius ut colerent, miror, fera colla Coloni, ille ferire suum, ferret aratra latus. En furit; et lapides, cineres, et ab ore favillas evomit, et pulsans ungula quassat humum. Oppida, veh, tacito nimium confisa Vesevo nunc excussa iugis, aequa iacetis humo. Mons, ubi Parthenopes mugitu verberat aures Pastorem lachrymis excitat illa suum. Extulit ille caput, vindex caput ante coruscat sanguis; et averti visus ab Urbe furor. Prima refers praesul, spectacula tangere quando te nec flamma potis, nec potuere Ferae. Et nova quo visus cornu Mons bella movere, creditur aspectu deposuisse tuo.
117
de vesevo monte ad eminentissimum principem cardinalem antonium barberinum incerti auctoris epigramma Ardores, Veseve, tuos non percipit is, qui se putat ardores dicere posse tuos. Nec bene te novit, Princeps Amplissime, culmen ausus inaccessum laudis adire tuae. Sed tamen infernos describimus, ut licet, ignes: laudis, et offerimus munera grata Deo.
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pompeii bittini seminarii recinetensis alumni urbano georgeo avunculo elegia
Navita continuis pelagi iactatus ab undis nocte timet rapidis pandere vela notis; ast ubi vectus equis Titan radiantibus, orbem lustrat, et auricomum provehit axe diem: turgida dat Zephiro gaudens sua carbasa leni, aequoreasque parat vi superare minas. Tu quoque Castalidum cultor reboante Vesevo fulgura, et horribiles cum rapido amne faces, terrarum motu, variisque agitate periclis aequora ne timeas verrere vasta rate. En iubar extollit radiis insigne coruscis, et novus effulgens lumine Apollo micat; quem decorat tyrius vertex antonius hic est, ac nitidum roseo spargit odore diem: sol orbis lux, hic Urbis decus, ille coruscat, hic quoque virtutum lumina mille gerit. Ergo hilaris cytharam sumas, coniunge Camoenas, doctaque Apollineo carmina more cane: et barberinum nomen reverenter honora, aeterno dignum semper honore coli.
119
Indice
Introduzione 5 La cultura barocca degli anni ’30 e l’eruzione vesuviana Un attraversamento dei testi
9 13
Bibliografia 17 Descrizione del volume
19
Note al testo
21 Scelta di poesie Nell’incendio del Vesuvio
Eminentissimo e Reverendissimo Prencipe Signor Padron mio Colendissimo
29
Ad Eminentissimum Principem Antonium Berberinum Cardinalem de Latere Legatum Auctoris Incerti Elogium Antonius Cardinalis Barberinus Urbani VIII P.O.M. 31 Ad Eundem Eminentissimum Principem Urbinatem Ditionem Ingressum Domini Bartholomaei Tortoletti Epigramma 33
Ad Eundem Eminentissimum Principem Domini Clementis Tosii Elegia
34
Ad Eundem Eminentissimum Principem Ad Latinam Poesim Se convertentem. Domini Hieronymi Brivii
35
Ad Eumdem Eminentissimum Principem Dum Urbinum Proficisceretur Domini Laelii Guidiccionii Epigramma
36
Ad Eumdem Eminentissimum Principem Marci Antonii Saulii Epigramma
37
Ad Eumdem Eminentissimum Principem Urbani Georgei Epigramma 38 Sonetto all’Eminentissimo e Reverendissimo Prencipe Signor Cardinale Antonio Barberino Nella sua promozione al Cardinalato del Signor Antonio Bruni
39
Sonetto al Medesimo Prencipe del Signor Bartolomeo Tortoletti 40 Sonetto al Medesimo Prencipe del Signor Claudio Achillini l’invita a stabilir la pace sotto Mantoa
41
Sonetto al Medesimo Prencipe del Padre Don Clemente Tosi
42
Sonetto al Medesimo Prencipe del Signor Francesco Benetti
43
Madrigale al Medesimo Prencipe del Signor Girolamo Brivio Iustitia, et Pax osculatae sunt
44
Sonetto al Medesimo Prencipe doppo due Legazioni, una per la pace, e l’altra del possesso di Urbino Del Signor Lelio Guidiccioni
45
Sonetto al Medesimo Prencipe del Signor Ottavio Tronsarelli
46
Sonetto al Medesimo Prencipe del Medesimo
47
Sonetto al Medesimo Prencipe del Signor Cavalier Pier Francesco Paoli da Pesaro
48
Sonetto al Medesimo Prencipe del Medesimo
49
Sonetto alla Città di Pesaro Patria del medesimo ritornata al dominio di Santa Chiesa sotto il felicissimo Pontificato di Papa Urbano VIII per la legazione del Medesimo Prencipe
50
Sonetto al Medesimo Prencipe del Signor Vincenzo Martinozzi Ministro di Camera dell’Eminentissimo Signor Cardinale Antonio Barberino
51
Sonetto al Medesimo Prencipe del Signor Urbano Giorgi
52
Sonetto al Medesimo Prencipe del Medesimo
53
Sonetto al Medesimo Prencipe nel Ritorno a Roma dalla Legazione a i Prencipi d’Italia d’Incerto
54
Sonetto al Medesimo Prencipe Per l’incendio del Vesuvio del Medesimo
55
Il Vesuvio Canzone nell’incendio del Vesuvio del Signor Antonio Bruni
59
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Antonio Felice Sassone
63
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Andrea Santa Maria
64
Sonetto nel Medesimo Soggetto Per lo Tremuoto del Medesimo
65
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Medesimo Si volge a Dio nel tempo dello istesso Tremuoto
66
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Bartolomeo Tortoletti
67
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Cavalier Battista Basile
68
Sonetto del Medesimo Bella Donna fuggita dall’incendio del Vesuvio
69
Sonetto nel Medesimo Soggetto Del Padre Don Clemente Tosi
70
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Decio Mazzei
71
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Medesimo
72
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Diego Busca Ministro di Camera dell’Eminentissimo Signor Cardinal Roma
73
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Domenico Benigni
74
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Medesimo
75
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Domenico Benigni
76
Sonetto a San Gennaro che liberò Napoli dall’Incendio del Signor Flaminio Razzanti Tesoriero della Marca
77
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Francesco Benetti
78
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Medesimo
79
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Medesimo
80
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Giacomo Filippo Camola
81
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Girolamo Bittini
82
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Gioseppe Trombetti Maggiorduomo dell’Eccellentissimo Signor Conte di Conversano
83
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Giulio Gavazza
84
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Giuseppe Civitano
85
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Nicoló Strozzi
86
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Ottavio Tronsarelli
87
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Ottavio Sanbiasi Gentil’uomo dell’Eccellentissimo Signor Conte di Conversano
88
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Cavalier Francesco Paoli da Pesaro
89
Sonetto per l’andata al Vesuvio del Signor Marchese di Palombara del Medesimo
90
Risposta del Signor Marchese Palombara
91
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Severo Piazzai
92
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Medesimo Nel giorno che s’aprì il Vesuvio si celebrava la festa de’ tre Fanciulli, che uscirono illesi dalle fiamme di Babilonia
93
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Simone Antici
94
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Signor Vincenzo Martinozzi Ministro di Camera dell’Eminentissimo Signor Cardinale Antonio Barberino
95
Sonetto nel Medesimo Soggetto Si allude all’Eminentissimo Signor Cardinale Antonio Barberino del Signor Urbano Giorgi
96
Sonetto nel Medesimo Soggetto del Medesimo
97
Il Sebeto che piange Canzone d’Incerto
98
Ad Divum Ianuarium Anagramma Purum
102
Ad Divum Ianuarium Neapolis Patronum Elogium
103
Ad Divum Ianuarium Aliud Elogium
104
Ad Divum Ianuarium Domini Francisci Antonii Manfortis Aliud Elogium
105
Elogium 106 Ad Eminentissimum Principem Cardinalem Antonium Barberinum de Incendio Vesevi Domini Clementis Tosii Procuratoris Generalis Monachorum Silvestrinorum
108
De Vesevo Monte Domini Francisci Camponeschi Epigramma 110 De Vesevo Monte Ioannis Antonii Nicolai Epigramma 111
De Vesevo Monte Domini Laelii Guidiccionii Epigramma Nascitur Neapoli puer mirandae proceritatis, Gigas vulgo dictus paulo post Vesuvius ardet
112
De Vesevo Monte Eiusdem Epigramma Neapolis inter Pausilypum Montem, et Vesuvium sita
113
De Vesevo Monte ad Eamdem Urbem Eiusdem Epigramma
114
De Vesevo Monte Prosperi Christiani Epigramma
115
De Vesevo Monte Eiusdem Epigramma
116
De Vesevo Monte Urbani Georgei Elegia
117
De Vesevo Monte ad Eminentissimum Principem Cardinalem Antonium Barberinum Incerti Auctoris Epigramma
118
Pompeii Bittini Seminarii Recinetensis Alumni Urbano Georgeo Avunculo Elegia
119
Stampato in Italia nel mese di maggio 2021 da Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rubbettinoprint.it