Poesie latine di Jean Racine 9788862275545, 9788862275552


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Italian Pages 136 [129] Year 2013

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Table of contents :
SOMMARIO
Ringraziamenti e sigle
Epitafio di Jean Racine
Trascrizione dell’Epitafio. Testo
Traduzione
Critica testuale e rappresentazione letteraria
Formazione classica a Port-Royal
Cronologia delle poesie latine
Bibliografia
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Poesie latine di Jean Racine
 9788862275545, 9788862275552

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GIAMPIETRO MARCONI · POESIE LATINE DI JEAN RACINE

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PO ESIE LAT IN E D I JEAN R AC IN E G I AMP I E T RO MARCO NI

_________________________________________________________________________________

________________________________________________________________

s c r i p t or e s l a t i n i · 2 6 .

PIS A · ROM A F A BR I Z I O S E R R A E D I T O R E MMX I I I

S CR I P T O RE S L AT IN I collan a di scrittor i in l i n g ua l a t i n a fon data da an ton io t r a g l i a e diretta da g iamp ietr o ma r con i 2 6.

P O ES IE LAT IN E D I JEAN RAC IN E GIAM PIETRO MARCO NI

P I S A · RO M A F A B RI Z I O SERRA E D I T O R E MMXI I I

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta degli Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2013 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net i s b n 97 8- 88- 6227- 554- 5 brossu ra i s b n 97 8- 88- 6227 - 555- 2 elettron ico i s s n 00 8 0 - 8 39 3

a e l io ne reo d al sol e il nome e la forza d al mare l a b ellezza

SOMMARIO Ringraziamenti e sigle

11

Epitafio di Jean Racine Trascrizione dell’Epitafio. Testo Traduzione Critica testuale e rappresentazione letteraria Formazione classica a Port-Royal Cronologia delle poesie latine

12 14 15 19 23 33

i. Ad Christum A Cristo

34 35

Struttura Allitterazioni Fonosimbolismo Commento

36 39 40 42

ii. Joannes Racine cognato suo carissimo Vitart Jean Racine al suo carissimo cugino Vitart

56 57

Allitterazioni Fonosimbolismo Struttura compositiva e stilistica Commento

58 58 59 61

iii. Laus hiemis Elogio dell ’ inverno

70 71

Allitterazioni Fonosimbolismo Sviluppo composizionale Commento

72 72 73 75

iv. In avaritiam Contro l’ avarizia e/o avidità Allitterazioni Fonosimbolismo Enjambements Struttura Commento

84 85 86 87 87 88 92

10

sommario v. In Avarum Contro avari e/o avidi

100 101

Allitterazioni Struttura Commento

102 102 104

vi. De morte Henrici Montmorancii Per la morte di Enrico di Montmorency

110 111

Commento

112

vii. Urbis et ruris differentia Campagna-città : differenze

114 115

Allitterazioni Fonosimbolismo Analisi della struttura Commento

116 116 117 118

Bibliografia Testi Studi

129 129 129

  

R

ingrazio Nico De Mico per aver letto e discusso alcuni punti, e Romain Jalabert per avermi procurato la foto dell’epigrafe. Sigle R. = J. Racine r. = raciniano LR = Louis Racine Necr. = Necrologio P.- R. = Port-Royal

Epitafio di Jean Racine

R

iporto l’immagine dell’epitafio fatto incidere sulla pietra della tomba di J. R. nella chiesa di P.-R. L’aggiunta fatta nel 1818 segna un punto importante per la storia e dei resti mortali del poeta e dell’epitafio. Segnalo anche le varianti che LR per la fretta o per sciatteria ha lasciato cadere nel trascrivere l’epitafio in appendice ai suoi Mémoires (G. Forestier, pp. 1204-1205). Da parte mia riferisco dal codice LR Rés Ln.27 la variante relativa agli anni di vita del poeta, dati sbrigativamente per lx quando invece R. era ancora dentro il lix : dicembre 1663-aprile 1669.  

Trascrizione dell’Epitafio Testo DOM

Hic jacet nobilis vir Joannes Racine, Franciae Thesauris praefectus Regi a secretis atque a cubiculo, necnon unus e quadraginta Gallicanae Academiae Viris : qui postquam profana tragediarum argumenta diu cum ingenti hominum admiratione tractasset, Musas tandem suas uni Deo consecravit, omnemque ingenii vim in eo laudando contulit, qui solus laude dignus. Cum eum vitae negotiorumque rationes multis nominibus aulae tenerent addictum, tamen in frequenti hominum consortio omnia pietatis ac religionis officia coluit. A Cristianissimo rege Ludovico Magno selectus, una cum familiari ipsius amico fuerat, qui res, eo regnante, praeclare ac mirabiliter gestas perscriberet, huic intentus operi repente in gravem aeque et diuturnum morbum implicitus est : tandemque ab hac sede miseriarum, in melius domicilium translatus, anno aetatis suae lix. Qui mortem longiori adhuc intervallo remotam valde horruerat, eiusdem praesentis aspectum placida fronte sustinuit, obiitque, spe multo magis et pia in Deum fiducia erectus, quam fractus metu. Ea jactura omnes illius amicos, e quibus nonnulli inter regni primores eminebant, acerbissimo dolore perculit. Manavit etiam ad ipsum Regem tanti viri desiderium. Fecit modestia eius singularis, et praecipua in hanc Portus Regij domum benevolentia ut in isto caemeterio pie magis quam magnifice sepeliri vellet, adeoque testamento cavit, ut corpus suum juxta piorum hominum, qui hic jacent corpora humaretur. Tu vero quicumque es, quem in hanc domum pietas Adducit, tuae ipse mortalitatis ad hunc aspectum Recordare, et clarissimam tanti viri memoriam Precibus potius quam elogijs prosequere..  

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10 15 20 25 30 35



1 vir nobilis LR ; Iohannes Necr.   2 Regis LR   4 profana omittit Necr.   9 dignus est LR   10 nobilibus LR   11 commercio LR   12 Christiano LR   16 atque Necr. ; aeque ac LR   19 LX LR Rés Ln27 1687 ; longo LR   22 multo omittit Necr. ; et adiecta videtur   24 quorum LR   30 ut in ea sepeliri voluerit LR ; ideoque LR   32 sunt LR   33 hunc falso epitaphium   34 ipsius Necr.  









Traduzione A D(io) O(ttimo) M(assimo) Qui giace il Gentiluomo Jean Racine, Prefetto al Tesoro di Francia ; per il Re segretario e (Gentiluomo) di camera ; inoltre uno dei quaranta illustri dell’Accademia di Francia. Egli dopo aver trattato argomenti profani nelle tragedie a lungo con enorme ammirazione universale, alla fine la sua Musa unicamente a Dio consacrò, e tutta la forza del suo ingegno concentrò nel lodare Lui che è il solo degno di lode. Sebbene ragioni di vita e di affari a vari titoli lo tenessero obbligato alla Corte, tuttavia pur nella frequenza dei contatti pubblici coltivò tutti i doveri di pietas e di affetto. Dal cristianissimo Re Luigi il Grande veniva scelto insieme con il suo amico intimo per scrivere dettagliatamente le imprese compiute durante il suo regno, magnifiche e mirabili ; a quest’opera tutto teso all’improvviso in una grave e parimenti abbastanza lunga malattia fu coinvolto ; alla fine da questa valle di miserie a miglior dimora si diportò a 59 anni di età. Eppure egli che della morte quand’era ancor lontana di una lunga distanza aveva mostrato grande orrore, al suo presentarsi ne sostenne la vista con placida fronte ; morì con la speranza e con la pia fiducia in Dio molto più sollevato che abbattuto dalla paura. Questa perdita tutti i suoi amici, fra i quali alcuni eminenti fra i primi del regno, colpì con struggentissimo dolore. Arrivò fino allo stesso re di tanto uomo il rimpianto. La sua discrezione singolare e la particolare propensione per il ritiro di Port-Royal fece sì che in questo cimitero piamente più che pomposamente secondo la sua volontà fosse seppellito ; per giunta nel testamento mise la clausola che il suo corpo fosse inumato presso i corpi dei Pii che qui giacciono. Tu, chiunque tu sia, che la pietas attrae a questo ritiro, della tua mortalità tu a questa vista ricordati, e la memoria chiarissima di sì grande uomo con le preghiere più che con elogi onora.  











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giampietro marconi Epitaphium quod Nicolaus Boileau, ad amici memoriam recolendam, monumento eius in Portus Regii ecclesia inscripserat ex illarum aedium ruderibus, anno mdcccviii, effossum, G. J. G. comes Chabrol de Volvic praefectus urbi, heic ubi summi viri reliquiae denuo depositae sunt, instauratum transferri et locari curavit. A. R. S. mdcccxviii

poesie latine di jean racine Epitafio che Nicola Boileau, per onorare ancora la memoria dell’amico, sulla sua tomba nella chiesa di Port-Royal aveva fatto incidere, dalle macerie di quelle casette nell’anno 1808 scavato, G. J. G. il conte Chabrol de Volvic prefetto di Parigi, qui dove del grandissimo uomo i resti per la seconda volta sono stati depositati, l’ordine che fosse trasferito e collocato curò che fosse eseguito. A. R. S. 1818

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Critica testuale e rappresentazione letteraria

N

el nuovo (dopo quello del 1685) e ultimo testamento del 10.10.1698 R. pose una precisa clausola : « Fecit ... ut in isto caemeterio pie magis quam magnifice sepeliri vellet, adeoque testamento cavit ut corpus suum juxta piorum hominum, qui hic jacent corpora humaretur », ai piedi della fossa di M. Hamon. Luigi XIV pur con tutta la sua avversione per P.-R. e i portoroialisti 1 quale centro del fior fiore degli intellettuali e degli aristocratici che così sfuggivano al suo controllo e che attiravano più carrozze di quante non si fermassero a Versailles, concedeva il suo assenso. In fondo si trattava del suo storiografo ufficiale che lo aveva seguito nelle campagne che erano finite con la presa di Gand (1678), Strasburgo (1681), Namur (1692). Al momento della distruzione sin dalle fondamenta del monastero e dell’annesso cimitero con dispersione al vento e ai cani dei resti mortali degli ospiti ivi sepolti, per effetto dell’ordine emanato il 22.1.1710 ed eseguito nel dicembre 1711, le spoglie di R. hanno il privilegio di essere trasferite nella chiesa allora parrocchiale dei R., di Saint-Etienne-du-Mont (2.12.1711) e custodite in un avello dietro l’altare maggiore vicino alla tomba di Pascal. La pietra tombale con l’epitafio viene anch’essa rovinata, spezzata in almeno quattro frammenti (come è ben visibile dalla foto) e sotterrata lì a P.-R., tanto che LR scrivendo i suoi Mémoires nel 1747 constatava : « l’Épitaphe Latine, que Boileau avait faite et qui avait été placée dans le cimetière de Port-Royal ne subsistant plus » (G. Forestier, i, p. 1203). Solo nel 1808 viene « effossa » dalle macerie delle casette e delle costruzioni rase al suolo, e trasferita « ubi summi viri reliquiae denuo depositae sunt » sotto la supervisione del prefetto di Parigi. Il dettato latino dell’epitafio rivela la penna di uno stilista che padroneggia raffinatamente la lingua e lo stile latino, come si evidenzia in alcuni tratti. Alla riga 2, « Regi (a secretis) » è certamente giro raffinato in quanto il dativo implica una certa attenzione da parte del lettore e una certa precisione espressiva, rispetto al giro « Regis (a secretis) » di LR in cui il genitivo offre una facile comprensione. La lezione « multis nominibus (aulae tenerent addictum) » al verso 10 ‘a vari titoli lo tenevano obbligato alla Corte’ trova esatta corrispondenza nelle vicende di R. – quindi ne è garantita – a Corte, di poeta sensibile al gusto imperante, di tragediografo profano e sacro officiante ad una Poetica rispondente ai gusti tipici dell’élite, di storiografo ufficiale, per non parlare delle cariche ‘esterne’. Non è assolutamente accettabile un’indicazione del tipo « multis Nobilibus (aulae tenerent addictum) » ossia ‘schiavo a molti nobili’ come vor 





































1 Fra le tante, dure aggressioni basta ricordare l’ordine emanato il 20.3.1656 di dispersione della comunità e perfino degli scolari ; solo a R. in quanto orfanello (le ‘petit’ com’era chiamato) è permesso di restare, ma confinato nelle Granges. Il 10.3.1660 piombava un altro ordine di chiusura totale e questo segnava l’inizio della fine di P.-R. (Sainte-Beuve, 4.1. p. 425).  

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rebbe LR, dato il favore di cui R. godeva presso il Re e la familiarità – con la conseguente protezione – con Mme Montespan e con Mme Maintenon sposa segreta di Louis XIV dal 1684. « Longiori (intervallo) » alla riga 19 è forma fonetica garantita dall’usus scribendi invalso nel Medioevo, continuatosi presso gli Umanisti e conservatosi nella tradizione liturgica cristiana. Alla riga 24 il giro « e quibus (nonnulli) » è preferibile rispetto al nesso « quorum (nonnulli) » piatta modulazione gradita a L. come abbiamo visto alla riga 2 « Regis (a secretis) ». Così appare elegante il sintagma « tuae ipse (mortalitatis ... recordare) » (34) rispetto alla omologazione al genitivo di tutto il nesso, « tuae ipsius mortalitatis ». La qualità dello stile, specie al confronto con il testo dell’aggiunta del 1818, sembra confermare che l’autore sia un perfetto classicista e allora il pensiero vola a Boileau. Ma sul ruolo di Boileau nella composizione dell’epitafio si addensano delle perplessità. Una notizia del tipo « (a Cristianissimo rege Ludovico Magno) selectus, una cum familiari ipsius amico fuerat, (qui res, eo regnante, ... perscriberet) » sembra inserita a forza nel brevissimo cenno biografico tutto rivolto al singolare a R. : e chi poteva avere maggiore interesse a valorizzare un ruolo paritario per Boileau se non lo stesso Boileau ? Nel 1710 quando Boileau faceva il racconto a L., che nato nel 1692 alla morte del padre (1699) aveva solo sette anni e quindi non era stato testimone delle vicende della vita del padre, forse metteva troppa enfasi nel rilevare il suo ruolo. Questa interferenza gonfiata di Boileau deve aver infastidito L. che nei Mémoires dopo aver scritto « L’Épitaphe Latine que Boileau avait faite et » (G. Forestier, i, p. 1203) depenna l’intera frase nelle annotazioni (G. Forestier, p. 1776). Rimane così solo il riconoscimento della « traduction Française faite par le même Boileau ». Solo contenimento del ruolo enfatizzato da Boileau ? L’epitafio è importante perché come documento esposto al pubblico era soggetto alla lettura e alla verifica di una grande folla, anche variamente disposta. L’autore sentiva il dovere di attenersi ad una rappresentazione equilibrata, appunto nella consapevolezza dell’immancabile controllo. Ogni enfatizzazione è prodroma d’uno sberleffo. Ma nella misuratezza del documento pubblico ogni tocco, ogni anche sottile vibrazione dovrà essere recepita e assunta come un’informazione da mettere in rilievo. In questo epitafio la prima caratterizzazione, dopo i cenni biografici ‘esterni’ (tesoriere, segretario del re, gentiluomo di camera, accademico) è la presentazione di R. come tragediografo ‘profano’ : « profana tragediarum argumenta diu cum ingenti hominum admiratione tractasset ». Tratti fatti balenare quasi sotto traccia : « diu » mette in rilievo i 14 anni di attività teatrale, svolta evidentemente con passione : Thébaïde 1663, Alexandre le Grand 1665, Andromaque 1667, Britannicus 1669, Bérénice 1670, Bajazet 1672, Mithridate 1672, Iphigénie 1674, Phèdre et Ippolyte 1677. L’annotazione sull’ingente succeso riscosso va nella direzione di sottolineare la perfetta consonanza di gusto, di problematiche, di sensibilità che R. aveva incarnato e riflesso sull’am 























































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biente della Corte attraverso le sue tragedie. I titoli evocano una ricostruzione del mondo greco e romano, anche quando un nome farebbe pensare all’Oriente come nel caso di Mithridate. L’evidenziazione della poesia tragica a tema profano-classico è tanto più importante in quanto è fatta in netto contrasto con P.-R. la cui ideologia era orientata per una condanna della poesia vista come fonte di deviazione, e con tanta durezza tale da arrivare a istaurare una polemica e a provocare una rottura con R. per lungo tempo. È sintomatico di questo indirizzo il fatto che il Necrologio ometta la parola « profana ». Illuminante è ancora il ricordo di Sainte-Beuve che riferisce un gustoso equivoco proprio ad inizio del capitolo 6,10 di Port-Royal (p. 535) : « M. Racine poëte, solitaire de Port-Royal : ainsi est-il désigné dans l’un de nos Nécrologes, et les seuls ouvrages mentionnés de lui sont Esther, Athalie, les Cantiques spirituals, et l’Abrégé de l’Histoire de Port-Royal : le reste demeure soigneusement oublié. Cependant on y ajoutait quelquefois, par quiproquo, la Thébaïde : « La solitude qu’il y trouva (à Port-Royal des Champs), lit-on dans le grand Nécrologe, lui fit produire la Thébaïde, qui lui acquit une très-grande réputation dans un âge peu avancé ». Le bon rédacteur, qui n’avait pas lu son Racine, ne supposait pas qu’il pût y avoir d’autre Thébaïde au monde que la Thébaïde sainte ». Il secondo tratto della rappresentazione letteraria di R. è dato dalla indicazione « Musas tandem suas uni Deo consecravit, omnemque ingenii vim in eo laudando contulit, qui solus laude dignus ». Viene qui con forza attribuita una profonda religiosità a R. Innanzitutto dal giro sintattico del periodo che stringe l’attività pagano-classica dentro la parentesi d’una proposizione subordinata « postquam ... tractasset », quasi a dire ‘dopoché si fu liberato’, e sposta il baricentro informativo sui verbi principali « consecravit – contulit » che evidenziano la nuova attività poetica di gusto e di tematiche religiose. Il « tandem » ‘finalmente’ poi più che una successione cronologica sta ad indicare una maturazione poetica (significativa la vicinanza « Musas tandem ») in senso religioso. « Consecravit » verbo molto forte nella liturgia cristiana (si pensi alla consacrazione del pane e del vino nell’Eucarestia) conferisce l’apposizione all’attività poetica di R. di un sigillo divino. L’aggettivo « omnem » afferma l’ormai totale dedizione del poeta al cantare le lodi di Dio in un empito religioso che diventa la nuova natura : ingenium vale infatti ‘disposizione naturale’. L’aggiuntina finale, ellittica del verbo, « est », integrato invece da Louis, nell’affermare con forza il diritto esclusivo del Dio cristiano ad essere oggetto di poesia, « solus laude dignus », in negativo comporta sotto traccia la sconfessione della poesia pagano-classica. È il velleitario, tardivo tentativo di adombrare pour cause tutta l’attività poetica di R. sotto il segno religioso. 1 Il terzo elemento della rappresentazione letteraria di R. è quello relativo ai suoi rapporti col Potere : « multis nominibus aulae addictus ... a Cristianissimo rege Ludovico Magno selectus ... qui res, eo regnante, praeclare ac mirabiliter  































































1  È invece proprio su questi due aspetti, classico e religioso, che insiste Sainte-Beuve come caratterizzanti gli indirizzi pedagogici perseguiti a P.-R. : Port-Royal, 4,1 pp. 417-445 (spirito dell’educazione) e 4,2 pp. 445-472 (insegnamento del latino e del greco).  

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gestas perscriberet ». Molti sono stati invero gli incarichi che R. ha ricoperto a Corte, fra i quali saranno da annoverare anche le realizzazioni dei gentili inviti a fare certi tipi di poesia. Ma su tutto è ricordata la sua attività di storiografo, dalla quale l’autore dell’Epitafio fa dipendere addirittura la causa della morte : « huic intentus operi, repente in gravem aeque et diuturnum morbum implicitus est ». E questo tratto, come giustamente è sembrato ad un critico, sembra l’aureola che si vuole apporre a coronamento d’una leggenda in via di creazione.  







Formazione classica a Port-Royal

R

acine battezzato 1 il 22 dicembre 1639 perde presto la madre, nel gennaio 1641 ; viene accudito dalla zia Agnès Racine fino al 1642 quando ella entra come postulante a P.-R. des Champs. Perde presto anche il padre (ventisettenne) nel febbraio 1643 ; viene accolto dai nonni paterni Jean Racine e Marie Desmoulins che rimasta vedova nel settembre 1649 si ritira pochissimo tempo dopo a P.-R. portando con sé, probabilmente, il nipotino. 2 Dal 1649 al 1653 il giovinetto è educato a P.-R. 3 alle Petites Écoles da quelli che i Gesuiti chiameranno ‘la setta degli Ellenisti’ ; 4 riceve difatti la più solida cultura greca e latina che allora si potesse avere. Qui R. fa le tre classi di grammatica e la prima di lettere, corrispondenti a quelle che poi si chiameranno la sesta, la quinta, la quarta e la terza. Completa il secondo ciclo di lettere e l’anno di retorica al Collège di Beauvais dal 1653 al 1655. Nel 1655 finisce il corso di retorica alle Granges di P.-R. Nel 1656 quando il 20 marzo arriva l’ordine del Re di dispersione totale degli ospiti di P.-R. R. o in quanto orfanello (‘le petit’) ottiene il permesso di restare, magari confinato alle Granges o trova ospitalità nel castello di Vaumurier dove studia sotto le guide di Lancelot, Nicole, Le Maître, Hamon. Ha come condiscepolo il futuro duca di Chevreuse, più giovane di sette anni, al quale dedicherà il Britannicus, e grande protettore di P.-R. Siamo negli anni 1656-1657 quando « à dix-sept ou dix-huit ans il était rempli des Auteurs Grecs, Latins, Italiens, Espagnols ». 5 È il tempo anche della composizione delle poesie latine. Nell’ottobre 1657 è inviato a Parigi al Collège d’Harcourt (l’attuale Saint 



















1  La data di nascita è sconosciuta. L. Vaunois che, discendente da Marie Racine, sorella del poeta, ha scritto la più appassionata e documentata biografia di R. giovane (L’enfance et la jeunesse de Racine) a partire dagli antenati all’altezza del 1499, avvicina la data di nascita a quella del battesimo sulla base della disposizione del Concilio di Trento che prescriveva che il battesimo fosse somministrato ‘quamprimum’ ; disposizione che Vaunois dimostra essere stata rispettata nei casi di moltissimi illustri contemporanei (pp. 36-38). Per una biografia completa cfr. I. Siciliano, Racine : la vita e le opere, Padova, Cedam 1950 ; sulla relazione nascita-battesimo cfr. p. 7. Utili osservazioni sugli anni giovanili in J. Lemaitre, pp. 1-31 ; Ch. Baudouin, pp. 17-36. Sul rapporto con l’ambiente del duca di Luynes, nel cui hôtel R. entra in contatto con la società aristocratica fino ad essere proiettato verso Colbert, insiste Ph. Butler, pp. 89-105. 2  Sainte-Beuve, 4,1 p. 1108 n. 8. 3  Di P.-R. la prima storia è, verosimilmente, proprio l’Abrégé de l’Histoire de Port-Royal che R. compose negli ultimi anni della sua vita senza riuscire nemmeno a portarla a termine, tanto che si ha ragione di pensare che sia l’ultimissimo suo scritto. Il ms. sparì, al punto che Louis confessa di non averne trovato traccia (J. Racine, i, p. 1200). La prima parte fu editata nel 1742, la seconda, di cui esiste il ms. autografo conservato alla BNF, apparve nel 1767. Più che una storia è una violenta requisitoria contro i Gesuiti che timorosi di perdere il controllo dell’educazione dei giovani, scatenavano in continuazione ogni sorta di persecuzione contro P.-R. R. lancia contro di loro l’accusa che « ils n’étaient pas moins criminels envers le Roi et envers l’État », J. Racine, ii, p. 124. 4  La definizione risale al gesuita Philippe Labbe, autore del libello Les Étymologies de plusieurs mots françois, contre les abus de la Secte des Hellénistes du Port-Royal, 1661, scritto contro Le Jardin des Racines grecques di Cl. Lancelot, 1657 ; e ancora : Contre les abus de la secte des Hellénistes du Port-Royal, 16611 5  Louis, Mémoires in J. Racine, i, p. 1115. e 16642.  















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Louis) per farvi due anni di filosofia. R. concepisce il progetto di un poema dal titolo eloquente : Les amours d’Ovide, che sogna di far rappresentare addirittura all’Hôtel de Bourgogne. 1 È chiaro che per ricostruire la formazione classica di R. si profila della massima importanza esaminare la biblioteca di cui P.-R. disponeva per l’insegnamento, e contestualmente analizzare i metodi pedagogici. Qui ci soccorre ampiamente Sainte-Beuve che rimane fondamentale nel fornirci notizie complete sui due aspetti in Port-Royal 4,2 pp. 447-450. 2 Testi d’uso : Cl. Lancelot, Nouvelle Méthode pour apprendre facilement la Langue grecque, 1655, e il relativo Abrégé uscito lo stesso anno ; Cl. Lancelot, Nouvelle Méthode pour apprendre facilement et en peu de temps la Langue latine (Morfologia, Sintassi, Metrica) dedicata al Re, 1644, e il relativo Abrégé uscito nel 1655 ; Cl. Lancelot, Quatre Traités de Poésies latine, françoise, italienne et espagnole, 1663 ; Cl. Lancelot, Le Jardin des Racines grecques, con la collaborazione e la versificazione a cura di de Saci, 1657. Ad integrazione pedagogica e per cogliere le modulazioni linguistiche del latino e per ben tradurre, sono approntate le seguenti edizioni di autori latini : de Saci, Les Fables de Phèdre (testo e traduzione), 1647 ; de Saci, Comédies de Térence (testo e traduzione dell’Andria, Adelphoe, Phormio), 1647 ; Th. Guyot, Nouvelle Traduction des Captives de Plaute (con note), 1666 ; Th. Guyot, Lettres morales et politiques de Cicéron à son ami Attique, 1666 ; Th. Guyot, Nouvelle Traduction d’un nouveau Recueil des plus belles Lettres que Cicéron a écrit à ses amis, 1666 ; Th. Guyot, Billets que Cicéron a écrit à ses amis communs qu’à Attique son ami particulier, 1668 ; Th. Guyot, Lettre politique de Cicéron à son frère Quintus et le Songe de Scipion, 1670 ; Th. Guyot, Nouvelle Traduction des Bucoliques de Virgile (con note), 1666 ; Th. Guyot, Nouvelle Traduction des Géorgiques de Virgile (con note), 1678 ; Th. Guyot, Les Fleurs morales et épigrammatiques tant des anciens que des nouveaux Auteurs (testi e traduzioni per il Delfino), 1669 ; d’Andilly (attribuita), Traduction des quatrième et sixième Livres de l’Énéide de Virgile, 1666 ; de Brienne (attribuita), Énéide, livres 1-4, 1666 ; de Saci, Traduction des Paradoxes de Cicéron, 1666 ; Nicole, Lancelot, de Saci, Epigrammatum Delectus (Marziale, Catullo, Ausonio), 1659.  









































1  La passione per Ovidio spingerà il poeta a scrivere biglietti galanti all’attrice comica M.lle de Beauchâteau, in perfetto stile ovidiano, facendo quasi un’altra delle Heroides. 2  Qualche cenno ai libri disponibili a P.-R. anche nell’Abrégé de l’Histoire de Port-Royal di R., cfr. J. Racine, ii, p. 66.

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È significativo che i volumi di teoria e i testi d’uso, che P.-R. metteva a disposizione degli alunni, siano approntati dagli stessi insegnanti ivi operanti. Ne discende una chiara attestazione della sensibile e totale attenzione che veniva riservata agli studi dei classici greci e latini, sia dal punto di vista d’una rinnovata ricerca teorica di tecniche pedagogiche, sia dal lato della pratica confezione di edizioni appositamente in quelle prospettive indirizzate. Se poi queste appaiono, ad eccezione delle due Nouvelles Méthodes e dei due volumi di Fedro e di Terenzio, datate posteriormente al 1556, ciò non inficia l’orientamento classicheggiante perseguito nella pedagogia di P.-R. ; anzi ne risulta una forte attestazione perché, come è pratica costante, i libri presuppongono che i relativi contenuti siano stati oggetto d’insegnamento orale per diverso tempo prima della fissazione scritta. È evidente che con questo ricco apparato bibliografico e con questi fermenti di ricerca, P-R. si ponga come centrale nella formazione classica di R. 1 Con lucido equilibrio Sainte-Beuve (4, 5, p. 519) afferma : « celui qui s’écarta avec le plus d’éclat est Racine ; ... Racine est le plus cité des élèves de Port-Royal, comme gloire ; mais ces Messieurs ne parlèrent jamais de lui que depuis sa conversion ... et puis il a trop de génie naturel, il a trop d’art ; il en a eu sans Port-Royal, et malgré Port-Royal ». La disponibilità libraria è molto, ma molto di più efficace se è accompagnata da Méthodes che contestualmente dispiegate mettano a frutto i contenuti dei testi in un progressivo approfondimento. Per ricostruire les Méthodes vigenti a P.-R. bisogna ricorrere a vari accenni ricavabili da varie fonti. Indubbiamente le linee generali della pratica pedagogica dovevano essere quelle che il grande teologo e filosofo ‘le Grand Arnauld’ fissava nel Règlement des Études dans les Lettres humaines che seppur composto più tardi, tuttavia doveva essere la riproduzione del tipo d’insegnamento svolto nei periodi d’attività nelle Petites Écoles. Per quanto riguarda la didattica del latino è noto che i Gesuiti avevano come regola quella di far apprendere il latino con il latino, ossia con tutte le regole scritte in latino, anche in versi facilmente memorizzabili. Così – è facile critica – è un procedere per ignota ad ignota. Al contrario a P.-R. il metodo adottato è quello di partire dal francese per arrivare al latino. Sainte-Beuve ci rappresenta lucidamente questi due indirizzi : « à Port-Royal on trouvait que c’était une faute très-grande de commencer, comme on faisait d’ordinaire, à montrer à lire aux enfants, par le latin, et non par le français ... Comme si d’apprendre à lire n’était pas en soi une chose assez ingrate pour des enfants, on s’obstinait ... à les faire épeler sur du latin, sur une langue qu’ils ne con 



















1  Tanto più che a P.-R. R. è legato anche da vincoli familiari : vi è introdotto, ripeto, dalla nonna paterna Marie Desmoulins quando rimasta vedova nel settembre 1649 vi si ritira subito dopo. Ma c’è nel monastero anche una zia, sorella di suo padre, Agnès de Sainte Thécle Racine, che più tardi sarà badessa. Sainte-Beuve 4, 1, p. 1108 n. 8. Giustamente perciò L. Vaunois afferma : « minimiser l’influence de Port-Royal sur Racine, c’est refuser de s’incliner devant les faits et s’interdire de comprendre Racine » (p. 139). Sul rapporto di R. con P.-R. utili osservazioni in L. Goldmann, pp. 7-47. Netta l’affermazione di Sainte-Beuve (6, 6, 10) : « par sa naissance et son enfance, Racine tenait à Port-Royal de tous les côtés ».  













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naissaient aucunement » (Port-Royal 4,2, p. 453). I tratti in corsivo rappresentano le due scelte pedagogiche contrapposte dei Gesuiti e dei Port-Royalisti. Per procedere dal francese al latino era naturalmente della massima utilità servirsi di traduzioni di autori latini dallo stile semplice e dal contenuto accattivante. Così si usava « faire lire les Fables de Phèdre traduites, le Térence, et le Plaute traduits, les petits Billets de Cicéron en français. Par ce moyen … on les (sc. les enfants) familiarise avec les matières qu’ils auront à étudier plus tard dans les livres latins ... La traduction, et la traduction vivante, animée et nuancée ... la traduction parlée plutôt qu’ écrite, telle est la méthode » di P.-R. (Sainte-Beuve, Port-Royal 4, 2 p. 456). 1 Per l’apprendimento del greco Lancelot nella preparazione alla sua Méthode invita ad abbordare il greco direttamente sui testi greci ; non, come si faceva quasi sempre, attraverso le traduzioni latine, anche perché, come sostenevano eccellenti ellenisti quale H. Étienne, i giri sintattici del greco sembravano essere tanto lontani dal latino, quanto vicini allo stile francese. E R. effettivamente avvicina il greco direttamente sui poeti greci, come ci attesta Louis : « je vous (Louis si rivolge al figlio) ai montré des livres tout Grecs, dont les marges sont couvertes de ses apostilles, lorsqu’il n’avait que quinze ans » (Mémoires, J. Racine I p.1116). E ancora, con maggior precisione Louis ci informa che « il les (sc. auteurs grecs) lisait dans les éditions faites à Bâle sans traduction latine. J’ai hérité de son Platon et de son Plutarque, dont les marges chargées de ses apostilles, sont la preuve de l’attention avec laquelle il les lisait (Mémoires, Racine I p. 1119). Leggere scrittori greci direttamente sui testi originali senza alcun ausilio di traduzioni neppure latine come invece s’usava allora (e come si userà per lungo tempo, ad es., nelle edizioni Nisard per il Delfino), implica una forte passione che certo sviluppa poi un alto grado di conoscenza della lingua greca e, soprattutto, permette di scoprire e assorbire le più intime movenze di stile e le più fini modulazioni dei contenuti. Con questo metodo perciò R. si pone in grado di introiettare anche le minime sfumature e di memorizzarle per ogni riuso. Nel riempire i margini dei libri di postille pare di intravedere un dialogo di R., costante e profondo, che scende a scrutare l’intima ideazione creativa dell’autore. Giustamente Louis può concludere che « Platon, Plutarque, et les Lettres de Cicéron, n’apprennent point à faire des Tragédies ; mais un esprit formé par de pareilles lectures devient capable de tout » (Mémoires, J. Racine, i, p. 1117). Per quanto riguarda les Méthodes vigenti a P.-R. sulle letture attive rimangono fondamentali le prescrizioni che il grande Arnauld dà nei suoi Reglements : « le régent doit avoir soin de faire marquer, d’une marque différente, 2 les sentences et les belles pensées, et généralement tout ce qu’il y aura de considérable dans les auteurs, et d’en faire ensuite la revue, après que la lecture aura été faite ». 3 Dunque un testo classico dovrà essere segmentato di modo che facilmente « le  



































1  Quale, possibile, ausilio al poetare in latino vorrei aggiungere l’Invantaire des deus langues, françoise et latine, di Philibert Monet, uscito presso Cl. Rigaud, Lyon 1635 (ristampa Slatkine, Genève 1973). 2  R. appone ai tratti che ritiene interessanti il segno Na. 3  Cito da R. Picard, presso J. Racine, ii, p. 653.

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morceau est assimilé, quand on lui a donné un titre qui le résume, le fasse rentrer dans un concept donné, et permette de le retrouver aisément : « Galanterie de Socrate » ». (J. Racine, ii, p. 653). Dagli autori latini pare per la verità che R. sia stato poco ispirato, soprattutto in confronto con gli autori greci, in particolare con Plutarco, Sofocle e Omero. Ci troviamo di fronte a trascrizioni letterali di gusto scolastico, o a postille, o a titoletti apposti a versi o a composizioni nel loro insieme. Ad esempio, sull’edizione di Orazio curata da Heinsius, 1653, sono apposte seccamente queste annotazioni : a c. 2,16, 33-40 « Les richesses ne donnent point le repos » ; a c. 2,18, 1-2 « Il est content de ce qu’il a » ; serm. 1,2, 1-6 « Prodigue et avare ». Debolissime di valore critico, sono però preziose testimonianze della vastità delle letture e della tenace volontà di approfondimento. L’importante è focalizzare l’attenzione sul fatto che molte di queste annotazioni sono anteriori al 1655 (J. Racine ii, p. 1141 n. 1 per p. 971) : sono cioè anteriori all’epoca della composizione delle poesie latine. Come attestazioni dell’ampiezza degli interessi e del metodo di assorbimento del mondo latino possiamo ricordare le Taciti sententiae illustriores excerptae anno 1656, l’anno stesso delle composizioni latine ; occupano 238 pagine nel ms. fr. 12888 della BNF ; e gli estratti di Quintiliano, Quintiliani sententiae illustriores excerptae anno 1656, che riempiono 244 pagine nello stesso ms. Le note a Virgilio, Orazio, Plinio il vecchio, Cicerone trovano largo spazio nel ms. fr. 12890 della BNF. Per farsene un’idea si possono vedere alcuni esempi molto sinteticamente raccolti da R. Picard nella rubrica Livres latins in J. Racine, ii, pp. 973-987. Possiamo aggiungere altri autori latini a cominciare da Ovidio e Seneca. Sulla profonda e costante frequentazione di Ovidio c’è la precisa attestazione dello stesso R. in una lettera a L’Abbé Le Vasseur del giugno 1661 : « j’ai lu (sc. Ovidio) et marqué tous les ouvrages de mon héros, et j’ai commencé même quelques vers » (J. Racine, ii p. 397). �������������������������������������������� Se ne deve dedurre che la conoscenza di Ovidio ha influito anche attivamente su R. al punto che, in virtù della formidabile capacità mnemonica che gli permetteva di memorizzare facilmente migliaia di versi, l’ha spinto ad una imitazione creativa di poesia latina. M. Fubini avverte che le imitazioni ovidiane trascinano manifestazioni di poetica sensuale e leggera (p. 18). Per le riprese da tutte le opere ovidiane cfr. G. May, pp. 24-95. Circa l’influsso di Seneca sulla drammaturgia r. M. Fubini ha calcolato che « le imitazioni di passi di Seneca sono numericamente più frequenti delle imitazioni virgiliane » (p. 29). I. Lappe rimane dubbioso su questo influsso come si evince dal titolo Racine est- il sénèquien ?, pp. 127-138. Sarà infine utile rilevare nella corrispondenza alcune citazioni di altri autori latini che seppure sono ricordati negli anni successivi alla composizione delle poesie latine, dal 1661 in poi, e quindi forse non vi hanno influito, tuttavia sono una spia del gusto e della frequentazione in progress della letteratura latina. Di Petronio, ad esempio, autore sicuramente sgradito a P.-R., vengono citati e l’esametro Nam (Sed nell’originale) contemptus amor vires habet (108,14) nella lettera del 24 novembre [1661] ; (p. 407) e Ne fastidias hominem peregrinum inter cultores ‘tuos’(assente nell’originale) admittere : invenies religiosum, si te adorari  















































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permiseris (127,3 ; 24 novembre [1661] ; p. 408). Di Terenzio, autore presente a P.-R. sono citati e erubuit puer, salva res est, (Adelph 643 ; 17 janvier [1662] ; p. 418), e Hui ! vereor ne quid Andria apportet mali (Andria 73 ; 24 août [1687] ; p. 492). Per completezza ricordo le citazioni, sempre nella corrispondenza, di Orazio, Ovidio e Virgilio. Di Orazio è richiamata l’ars poet. ‘Pulchre, bene, recte’ (428 ; 30 avril 1662 ; p. 428). Di Ovidio sono riportati : Ipse mihi videor jam dedidicisse latine / Nam didici getice sarmaticeque loqui (trist. 5, 12, 57-58 ; 26 décembre 1661 ; p. 410) ; Nec vos, Pierides, nec stirps Latonia, vestro / Docta sacerdoti turba tulistis opem (trist. 3, 2, 2-3 ; 26 décembre 1661 ; p. 411) ; Comere sed solas digna, Cypassi, deas (amores 2, 8, 2 ; 26 mars 1662 ; p. 424) rifatto da R. in « solas pectere digna Deas ». Più frequenti e in costanza le riprese di Virgilio : « ipsa ante alias pulcherrima Dido » rifacimento r. su ante alias o alios e p. Dido ricorrenti a 1,496 e 4,60 (26 décembre 1661 ; p. 412) ; mens immota manet (Aen. 4, 449 ; 17 janvier [1662] ; p. 418) ; Amor non talia curat (ecl. 10,28 ; 3 février 1662 ; p. 422) ; « Mutuo conspectu mutui crescebant amores », verso creato da R. che così sintetizza l’innamoramento di Didone, cfr. ardescit tuendo ( 1,713 ; 3 février 1662 ; p. 422) ; et Veneris violavi volnere dextram (Aen. 11, 277 ; rifatto in « et Veneris violata est vulnere dextra » ; 3 février 1662 ; p. 423) ; Ille horridus alter / Desidia latamque trahens inglorius alvom (geo. 4,9394 ; 3 février 1662 ; p. 423) ; numero deus impare gaudet (ecl. 8,75 ; 17 août [1687] ; p. 488) ; urbem quam statuo, vestra est (Aen. 1,573 ; 30 avril 1662 ; p. 430). Gli autori preferiti rimangono Virgilio e Orazio come attesta lo stesso R., « je passe tout le temps avec mon oncle, avec saint Thomas et avec Virgile » da Uzès (17 janvier [1662] ; p. 418) dove era stato invitato nell’obiettivo di poter avere una prebenda ecclesiastica ; e come raccomanda nella lettera « Pour mon fils » (14 octobre [1693] ; p. 540) ; « je voudrais seulement qu’aux jours que vous n’allez point au collège, vous pussiez relire de votre Cicéron, et vous rafraîchir la mémoire des plus beaux endroits ou d’Horace, ou de Virgile, ces auteurs étant fort propres à vous accoutumer à penser et à écrire avec justesse et avec netteté » Degli autori greci (per alcuni esempi cfr. J. Racine, ii, Livres grecs, pp. 711-970) quello che più di tutti ha colpito R. è stato il Plutarco delle Vite parallele. Le annotazioni sono datate dallo stesso R. al 1655 (un anno prima delle poesie latine), al tempo in cui egli era alle Petites Écoles di P.-R. 1 Molto significativa questa scelta sproporzionata in favore delle Vite rispetto agli opuscoli morali, filosofici e vari : rivela il precoce interesse per la delineazione di personaggi concreti, da riprendere, ricostruire e rappresentare all’occasione in una raffigurazione storica o sulla scena tragica. Questa preferenza trova una corrispondenza nell’interesse mostrato per l’epistolario ciceroniano : si tratta in ambedue i casi di cogliere il sapore interno dei personaggi storici, auscultarne le intime pulsazioni, per trasferirle poi nelle creazioni poetiche. Naturalmente un alunno di P.-R. nell’intimo dell’uomo non può non trovare un aspetto religioso, anche in una estensione anacronistica. Ecco qualche esempio : alla frase Qeou` çumparovnto~ kai; çunepeuquvnonto~ ajrcav~ megavlwn pragmavtwn, aJptovmeno~ uJponoiva/ (Romolo  































































































































1  R. Picard, J. Racine ii, p. 1139 note 1 e 2 per p. 934.

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7,5) R. appone la nota « Grâce » (J. Racine, ii, p. 934) ; anche nell’affermazione di Solone ”Ellhçin … prov~ te ta\lla metrivw~ e[cein e[dwken oJ Qeov~ (Solone 27,8) vede anticipato un influsso della « Grâce ». Nel to; mhde;n paqei`n par’ajxivan (M. Catone 29,5) R. vede ancora un’azione della « Grâce suffisante ». È il periodo, il 1655, della gestazione delle Provinciali di Pascal la cui prima Lettre vede la luce il 22 gennaio 1656 ; le seguenti diciassette si rincorrono d’ora in poi fino alla primavera del 1657. Circostanza non trascurabile è il fatto che Nicolas Vitart a cui nel 1656 è indirizzata una poesia latina, la ii, prende parte attiva alla diffusione delle Provinciali. 1 Bisogna anche tener conto che intorno alla Grazia era in atto una furibonda polemica fra i Gesuiti che sostenevano che l’azione di essa fosse estesa a tutti, e i Port-Royalisti che invece pensavano che essa fosse riservata ai predestinati. La Grazia sufficiente era il nodo centrale della battaglia. Così vediamo che sin dal 1655 Classicismo e Religiosità si sviluppano intrecciati nel pensiero e nella sensibilità del giovane R. Proseguendo l’analisi di alcune annotazioni, appare della massima importanza che in Coriolano 32,6 ta; me;n eijkovta kai; çunhvqh kai; kata; lovgon perainovmena tw/` ejf’hJmi`n ajpodivdwçi (sc. Omero) R. sovrapponga una prefigurazione addirittura « de libero arbitrio » ; 2 mentre la osservazione seguente su ejn de; tai`~ ajtovpoi~ kaiv parabovloi~ pravxeçi … oujk ajnairou`nta poiei` (sc. Omero) to;n Qeovn, alla; kinou`nta th;n proaivreçin (32,7) batte sull’audace accostamento, « cela est semi-pélagien ». Gli appressamenti prefigurativi e sempre molto sforzati si susseguono, si ampliano nel seguito delle letture. In kateçcevqhçan oi|on ejpipnoiva/ pro;~ to; kalovn (Agide 7,4) R. sente una specie d’intervento ispiratore della « Grâce » ; nella hJ ta; mevgiçta tw`n pragmavtwn krivnouça tw`/ para; mikro;n tuvch (Cleomene 27,8) vede nella tuvch un esempio di « Providence ». Nel tratto peri; pa`çan me;n ajreth;n w{çper ejpipnoiva/ tini; katavçceto~ gegonwvç (Catone il giovane 4,2) R. crede di poter avvertire un intervento della « Grâce » traducendo in una postilla : « Caton aimait tellement la vertu qu’il semblait y être poussé par une inspiration divine » = ejpivpnoia. Nella notizia oJ  

















































Qeo;~ ejxagagei`n kai; metaçth`çai to;n movnon ejmpodw;n o[nta tw`/ kratei`n dunamevnw/ boulovmeno~ (Brutus 47,7) vede ancora in azione la « Providence de Dieu ». 3 E sempre la Provvidenza vede prefigurata nel daivmwn che proteggeva Timoleonte : tw`/ fulavttonti daivmoni to;n Timolevonta pavqo~ e[crhçen divkaion (Timoleonte  







16,11) dato che anche qui annota « Providence ». Anche per le azioni belliche di Filopemene R. parla d’una « Grâce suffisante » per essere il condottiero greco oJ  







de; muriva~ mavca~ katorqwvça~ oujdemivan ajmfiçbhvthçin th`/ tuvch/ pro;~ th;n ejpiçthvmhn ajpolevloipen (Flaminino 23,1). La « Puissance de Dieu » sembra all’alunno  



1  Acutamente K. Vossler osserva che sono stati Cartesio e Pascal a scuotere potentemente le coscienze circoscritte dalla Chiesa e a far sì che lo sguardo fosse rivolto verso l’intimo dell’uomo : così l’Io è diventato meraviglioso e miserabile (p. 198). 2  Curiosamente trovo che R. Flacelière – E. Chambry nell’ed. delle Belles Lettres (Paris 1990, p. 209) traducono « Homère ... attribue à notre libre arbitre les actes naturels, habituels et qui s’accomplissent logiquement ». 3  È utile notare che nelle frasi greche citate il qeovç greco è sempre trascritto da R. con la maiuscola, Qeovç, come qui « Dieu », ovviamente per effetto già di una sovrapposizione mentale del Cristianesimo sul Paganesimo.  









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di P.-R. d’intravedere, ovviamente in prefigurazione, anche nell’osservazione oujde;n a[ra dunato;n genevçqai a[konto~ Qeou` (Marcello 30,4). Nell’espressione to; me;n ejrevçqai to;n Pomphvion h\n uJpe;r th``~ pronoiva~ (Pompeo 75,5) riesce facile parlare di « Providence » per essere l’esatta traduzione di provnoia. 1 Anche dopo il 1656, ossia dopo la composizione delle poesie latine, ma tanto per dare un quadro più completo, sorprendiamo R. a leggere negli autori classici anticipazioni cristiane. Nel periodo di Uzès arriva a riempire di note due grossi quaderni (alla BNF), il primo sulle Olimpiche di Pindaro, il secondo sui primi dieci libri dell’Odissea (ms. fr. 12891) datato dai critici al 1662. 2 Le apposizioni lemmatiche diventano ora qualcosa di più : si rimane incerti se R. intenda sviluppare una Cristianizzazione dell’Antichità o una Paganizzazione del Cristianesimo. A Odissea 7, 196-198 rimane perplesso sull’interpretazione : « l’on dirait qu’ Homère a pris ce beau sentiment dans les livres de Moïse, que les Dieux prennent quelquefois la figure des voyageurs pour éprouver l’hospitalité de ceux qui les servent, et qui sont favorisés d’eux, comme on voit par l’histoire d’Abraham » (J. Racine, II, p. 776). Qui, più che mettere sullo stesso piano la mitologia pagana che è semplice finzione dei poeti e la Bibbia che è la parola di Dio, R. opera una Cristianizzazione di Omero. Nei versi di Odissea 10, 25-27 crede che « ce passage se peut appliquer aux mauvais chrétiens, à qui Dieu donne des grâces pour les conduire au salut ; mais ils périssent par leurs propres fautes » (J. Racine, II, p. 797). Omero è così percepito come autore esprimente insegnamenti validi per i Cristiani, quasi fosse stato toccato dalla Rivelazione, inavvertitamente. Indirizzo inverso nell’annotazione a Iliade 3 18,207-213 « Comparaison. – Per diem in columna nubis, et per noctem in columna ignis. Exod. » : qui più che pensare ad un accostamento letterario si può « déjà considérer la Bible comme une oeuvre profane dont on pourrait critiquer librement les mérites stylistiques » (J. Racine, II, p. 721 e p. 1124 n. 1). Le sovrapposizioni cristiane s’infittiscono col procedere delle letture del tragico preferito, Sofocle. 4 Si conoscono quattro esemplari con sicurezza annotati da R. : il primo è l’edizione aldina (Venezia 1502), poi le edizioni di Paul Estienne (1603) e H. Estienne (1568). Importante è anche il modo in cui R. leggeva Sofo 





































1  R. Flacelière – E. Chambry nell’ed. Belles ������������������������������������������������������������� Lettres (Paris 1973, p. 255) pur avvertendo che la loro è traduzione congetturale per la presenza d’un testo corrotto, scrivono proprio « Pompée posait des questions sur la Providence ». K. Vossler osserva che le annotazioni a Plutarco : « Grâce – Grâce suffisante – De libero arbitrio – Cela est semipélagien – Providence – Puissance de Dieu – qeoVò meVn aijtivan fuvei brotoi’ò ecc », dimostrano quanto in R. quindicenne fosse forte il pensiero della predestinazione e del peccato (p. 203). L’uomo r. vive e soffre nel mondo (p. 247). Sotto questo aspetto R. doveva sentire più vicino Euripide di Sofocle, al quale però lo attraeva il senso del bello, che sarà poi la scoperta degli Umanisti. 2  Sulle remarques alle Olimpiche di Pindaro, sull’Odissea, sull’Iliade, su Eschilo, Euripide, Sofocle, cfr. M. Bonfantini, pp. 15-22 ; e R. – C. Knight, pp. 167-224. 3  Le note all’Iliade sembrano collocarsi all’inizio del periodo teatrale, 1663-1666 (J. Racine, ii, p. 1124 n. 3 per p. 716). 4  Di Eschilo R. ha annotato solo l’inizio delle Coefore, 1-151. Interessante a Coefore 325 puro;ç hJ malera; gnavqoç l’apposizione « sicut devorat stipulam lingua ignis. – Isaïe, cap. 5 (versetto 24) » (J. Racine, ii, p. 845).  















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cle : « son – dice Louis nei Mémoires (J. Racine, i, p. 1120) – plus grand plaisir était de s’aller enfoncer dans les bois de l’Abbaye avec Sophocle ». È superata la fase delle annotazioni giustapposte ; con Sofocle viene istaurato un dialogo per cui il poeta moderno rivive il poeta antico nel panico della natura, in transfert. 1 Ma la più profonda Cristianizzazione è operata su Platone : nelle parole di Socrate eij~ to;n Tavrtaron, o{qen ou[pote ejkbaivnouçin (Fedone 113e ; J. Racine, ii, p. 901) R. vede l’« Infernus. Unde nullus redit impiorum » sotto l’invitante suggerimento del testo platonico che si traduce in un’acuta penetrazione, anche perché questo passo del Fedone in accordo con Gorgia 525c e Repubblica 10, 615e descrive le pene eterne dei più terribili delinquenti (ladri sacrileghi, omicidi ...) ossia degli irrimediabili assassini, oi} d’a]n dovxwçin ajniavtw~ e[cein dia; ta; megevqh tw`n aJmarthmavtwn, senza possibilità alcuna di riscatto ; mentre nel tardivo Fedro si ammette che anche i più grandi criminali possono dopo un’appropriata espiazione, passare ad altro destino (248e). Così pure sotto la suggestione invero assai vicina all’elaborazione cristiana : kaqairovmenoi tw`n te ajdikhmavtwn didovnte~ divka~ ajpoluvontai ei[ tiv~ ti hjdivkhken (Fedone 113 d) R. non solo opera un accostamento ma si slancia in una etimologizzazione che rasenta una traduzione : « Purgatorium. Qui mediam veluti vitam duxerunt purgantur a peccatis, deinde pro meritis remunerantur ». E per completare l’immaginazione cristiana, nelle parole eij~ th;n kaqara;n oi[khçin ajfiknouvmenoi sente una prefigurazione del « Paradisus » (114c). Su queste sovrapposizioni arriva a far sua e a riproporre un’interrogativa retorico-positiva di Numenio d’Apamea : tiv gavr ejsti Plavtwn h] Mwçh`~ ajttikivzwn; (J. Racine, ii, p. 909) : evidentemente R.-Numenio legge Platone come una Bibbia profana. Da questo esame analitico risultano chiaramente e l’educazione classica impartita a P.-R. anche in una certa abbondanza di testi, con metodi appropriati ; e la passione con cui il giovane cercava di impadronirsi degli autori antichi riempiendo i bordi delle edizioni (scelte fra le migliori) di note, postille, osservazioni, spingendosi fino al tentativo di interpretare alcuni tratti come prefigurazioni di verità cristiane ; ma Saint-Évremond nelle ultime parole della prima lettera a M.me Bourneau, dall’esilio, dopo la lettura dell’Alexandre le Grand, muove a R. la più terribile accusa : « n’a pas le goût de l’Antiquité » (Racine I, p. 183), ossia il senso profondo dell’Antichità, come dire : R. sarà pure padrone di molti mattoni, ma non arriva a sentirli in un’architettura. E allora R., piccato, nella Prefazione all’Alexandre al momento della pubblicazione avvenuta il 13.1.1666 (poco dopo la rappresentazione del 4.12.1665) assestava un duro colpo ai detrattori : « Je ne représente point à ces Critiques le goût de l’Antiquité. Je vois bien qu’ils le connaissent médiocrement » (Racine I, p. 127). Non contento di questa feroce bordata, nella tragedia successiva, l’Andromaque, al momento della pubblicazione nel 1668, elimina la prefazione per sbandierare all’inizio i versi dell’Eneide 3, 292-293, 301, 303-305, 320-328, 330-332, che contengono le più  





















































1  Sui rapporti Sofocle-Racine, cfr. John A. Stone, Sophocles and Racine, Genève, Presses de Savoie 1964.

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struggenti note dell’episodio di Andromaca a Butroto, con la attestazione di autenticità nella riproduzione sulla sua scena tragica : « voilà en peu de Vers tout le sujet de cette Tragédie ... mes Personnages sont si fameux dans l’Antiquité, que pour peu qu’on la connaisse, on verra fort bien que je les ai rendus tels que les anciens Poètes nous les ont donnés » (J. Racine, i, pp. 196-197). È chiaramente un’altra bordata contro quei critici che lo accusavano di mancare del « goût de l’Antiquité », con la ripresa, a sottolineare l’identità del bersaglio, anche delle parole fondamentali per un contrattacco mirato, « la connaisse – le connaissent ». Nell’affermare poi che egli ha riprodotto nelle sue tragedie con esattezza i caratteri, le modulazioni che i personaggi avevano negli antichi poeti, mette in rilievo che egli ha un sensibile, profondo assorbimento « de la saveur » della poesia classica e dell’antichità in generale. Basterebbe del resto la icastica definizione di Tacito come « le plus grand Peintre de l’Antiquité » per riconoscere che effettivamente egli sa penetrare nelle intime sfumature della poesia e dell’anima antiche. A rinforzo riporto l’affermazione in contigua successione, nel Britannicus pubblicato nel gennaio 1670, nella cui Préface (apposta nelle edd. 1675, 1687, 1697) : « j’avais copié mes Personnages d’après le plus grand Peintre de l’Antiquité, je veux dire d’après Tacite. Et j’étais alors si rempli de la lecture de cet excellent Historien, qu’il n’y a presque pas un trait éclatant dans ma Tragédie dont il ne m’ait donné l’idée » (J. Racine, i, p. 443).  



























Cronologia delle poesie latine

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iverse indicazioni convergono nel designare il 1656 come l’anno di composizione delle poesie latine. R. nel corso del 1656 fino a dicembre, ha 16 anni compiuti. Una testimonianza dei Mémoires ricorda anche una composizione oggi perduta : « il était à cet âge, plus heureux dans la versification Latine que dans la Française ; il composa quelques pièces en Vers Latins qui sont pleines de feu et d’harmonie. Je ne rapporterai pas une Élégie sur la mort d’un gros Chien qui gardait la cour de Port-Royal, à la fin de laquelle il promet par ses Vers l’immortalité à ce chien, qu’il nomme Rabotin.  





Semper honor, Rabotine, tuus, laudesque manebunt ; Carminibus vives tempus in omne meis.  

On jugera mieux de ses Vers Latins par la pièce suivante, 1 que je ne donne pas entière, quoique dans l’ouvrage d’un Poète de 14 ans, tout soit excusable » (J. Racine, i, p. 1121). Ma successivamente in una annotazione posta in basso alla pagina seguente Louis aggiunge dopo « suivante » « qu’il fit apparemment à l’occasion des troubles arrivés à Port-Royal en 1656 » (J. Racine, i, p. 1773, variante a per p. 1121). Una volta apportata questa precisazione Louis deve fare una correzione circa l’età di suo padre : depenna la cifra 14 e la rimpiazza al margine con « 15 ou 16 ». È corretto che R. nato nel dicembre 1639, avesse al 20 marzo 1656, data dei « troubles », 16 anni compiuti. Un’altra testimonianza ci è offerta da un concatenato scambio di poesie, la prima che Joannes Racine cognato suo carissimo Vitart dedica (la [ii] nella presente raccolta) ; la seconda di Vitart in Réponse aux vers précédents in latino (J. Racine, i, pp. 31-32) ; la terza è un altro biglietto che R. indirizza al cugino Vitart, in francese (J. Racine, i, pp. 34-35) : orbene quest’ultima composizione contiene tre precisi rimandi a tre fatti avvenuti nel 1656. « Les combats du roi polonais / Contre le prince suédois » (19-20) sono quelli della guerra della Svezia contro la Polonia, svoltasi negli anni 1655-1656 ; « la censure |...| Des pauvres Augustiniens / Sous le nom de Janséniens » (21 e 23-24) è l’esatto ricordo della censura pronunciata sotto la spinta dei Gesuiti alla Sorbona contro Antoine Arnauld l’1.2.1656 ; « l’histoire et le journal / Des miracles de Port-Royal » (27-28) è la precisa menzione del miracolo della Sainte-Épine, cioè della spina creduta reliquia della corona di spine posta sul capo di Gesù, che guarì in modo scientificamente inspiegato in vari controlli, la nipote di Pascal nel marzo 1656 e che provocò una tale ondata di fervore religioso da annullare temporaneamente le persecuzioni contro P.-R., sede del miracolo. Se dunque l’ultimo scambio epistolare contiene fatti che furono di eccezionale risonanza nel 1656, si dovrà concludere che la poesia latina di R., la prima delle tre, sia stata scritta antecedentemente, nei primi mesi del 1656, quando effettivamente il poeta aveva 16 anni compiuti.  









































1  È l’ad Christum di cui Louis cita i vv. 5-6, 9-18, 25-28, 33-42.



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giampietro marconi [i] Ad Christum O qui perpetuo moderaris sidera motu, Fulmine qui terras imperioque regis, Summe Deus, magnum rebus solamen in arctis, Una salus famulis praesidiumque tuis, 5 Sancte parens, facilem praebe implorantibus aurem, Atque humiles placida suscipe mente preces ; Huc adsis tantum, et propius res adspice nostras, Leniaque afflictis lumina mitte locis. Hanc tutare domum, quae per discrimina mille, 10 Mille per insidias vix superesse potest. Aspice ut infandis jacet objectata periclis, Ut timet hostiles irrequieta manus. Nulla dies terrore caret, finemque timoris Innovat infenso major ab hoste metus. 15 Undique crudelem conspiravere ruinam, Et miseranda parant vertere tecta solo. Tu spes sola, Deus, miserae. Tibi vota precesque Fundit in immensis nocte dieque malis. Quem dabis aeterno finem, Rex magne, labori ? 20 Quis dabitur bellis invidiaeque modus ? Nullane post longos requies speranda tumultus ? Gaudia sedato nulla dolore manent ? Sicne adeo pietas vitiis vexatur inultis ? Debita virtuti praemia crimen habet. 25 Aspice virgineum castis penetralibus agmen, Aspice devotos, sponse benigne, choros. Hic sacra illaesi servantes jura pudoris, Te veniente die, te fugiente vocant ; Hic nemora, hic nullis quondam loca cognita muris, 30 Hic horrenda tuis laudibus antra replent. Huc tua dilectas deduxit Gratia turmas, Hinc ne unquam stygii moverit ira Noti. Coelestem liceat sponsum superare precando : Fas sentire tui numina magna Patris. 35 Huc quoque nos quondam tot tempestatibus actos Abripuit flammis Gratia sancta suis ; Ast eadem insequitur moestis fortuna periclis ; Ast ipso in portu saeva procella furit. Pacem, summe Deus, pacem te poscimus omnes : 40 Succedant longis paxque quiesque malis. Te duce disruptas pertransiit Israel undas ; Hos habitet portus, te duce, vera salus.  























A Cristo O tu che regoli gli astri nel loro infinito movimento, Che col fulmine e con potestà reggi la terra, Sommo Dio, grande sollievo nelle afflizioni, Unica salvezza e protezione per i tuoi servi, Santo padre, benevolo orecchio offri a quelli che t’implorano, E le preghiere umili con benigna mente ascolta ; Sol che qua tu ti renda presente, più da vicino guarda la nostra situazione, E un indulgente occhio rivolgi ai nostri luoghi d’afflizione. Questa casa proteggi che fra mille pericoli, Fra mille insidie a stento riesce a sopravvivere. Guarda : come a indicibili pericoli si trova esposta, Come è in un’angoscia sconvolgente a fronte di bande di nemici. Non c’è giorno senza terrore, e la fine di un’angoscia È rinnovata da una sempre più forte paura da parte d’un accanito nemico. D’ogni parte hanno cospirato per una crudele rovina, E i commiserandi tetti si preparano a radere al suolo. Tu sola speranza, Dio, per una infelice (casa). A te voti e preghiere Versa notte e giorno nell’immensità dei mali. Quale fine darai, Grande Re, all’eterno travaglio ? Quale moderazione sarà data alle guerre e al rancore ? Nessuna pace c’è da sperare dopo le lunghe turbolenze ? Di gioie nessuna rimane dopo il sedato dolore ? È così che la pietas viene a tal punto vessata da vizi impuniti ? I premi dovuti alla virtù sono stravolti in accuse. Guarda delle vergini le schiere dentro le caste clausure, Guarda i devoti, o sposo benevolo, cori. Qui il sacro vincolo conservando d’un illeso pudore, Te al fare del giorno, te al fuggire del giorno, invocano ; Qui i boschi, qui i luoghi una volta non toccati da nessun muro, Qui le caverne piene d’orrore, delle tue lodi riempiono. Qua la tua Grazia le dilette schiere ha trasportato, di qui mai neppure l’ira dell’infernale Noto le potrebbe smuovere. Il celeste sposo sia lor lecito vincere col pregare : Sia lor sacro diritto avvertire la potente divinità di tuo Padre. Qua anche me da tempo da tante tempeste sconvolto Ha rapito la santa Grazia con le fiamme sue ; Ma sempre la stessa sfortuna m’insegue con luttuosi pericoli, Ma perfino nel Porto una spietata tempesta furoreggia. È la pace, sommo Dio, è la pace che a te chiediamo tutti : Ai lunghi mali sottentrino e pace e riposo. Sotto la tua guida le onde divisesi Israel ha attraversato ; In questi Porti abiti, sotto la tua guida, la vera salvezza.  























Struttura – Titolo. Da Mesnard, dalla sua monumentale edizione delle Oeuvres (1865) di R. abbiamo una utile informazione (iv p. 208) : Geoffroy pubblicò questa composizione per intero dalla copia manoscritta che gli era stata comunicata da Jacobé de Naurois, col titolo Pro Portus Regii salute votum. Louis nei Mémoires (1747) citava solo i vv. 5-6, 9-18, 25-28, 33-42, di proposito solo i versi che contengono le più fervide invocazioni di aiuto e le più toccanti pitture delle persecuzioni contro P.-R. : conseguentemente poneva il titolo ad Christum. Mesnard pur utilizzando la stessa copia offerta da Naurois trovata fra le carte di Louis pubblicava la poesia col titolo ad Christum (iv, pp. 208-210) che è ancora nella edizione della Pléiade curata da G. Forestier (1999). Molto più coerente sembra però il primitivo titolo sia perché esplicita in lucida traduzione il luogo delle persecuzioni sia perché propone sin da ora lo struggente desiderio della sua salvezza, ossia il votum. Questo votum, ‘preghiera, desiderio’ è indirizzato a un Dio, chiamato « Summe Deus » (3), titolo che sa più del pantheon pagano che della teologia cristiana che non ammette certo un Dio più grande di altri dei. Ma il votum è rivolto anche ad un « Rex magne », che certo nella titolatura corrente rimanda a Louis (XIV) le Grand, ma che non esclude un riferimento al Dio cristiano in un’allusione elusiva qualora s’intenda « Summe » non in senso relativo come ‘il più grande di tutti’, ma come superlativo assoluto ‘massimo’. I toni risultano di una forte intensità emotiva e nel pregare per un intervento salvifico e nel deprecare le violenze distruttive. L’imput doveva certo essere lacerante nell’animo di R. nella feroce realtà dell’ordine del Re che nel marzo 1656 imponeva la dispersione dei Messieurs e perfino degli scolari da P.-R. des Champs. Ne seguirono dei « troubles » (parola di Louis) latinamente voltati in « tumultus » in questa poesia (21), a causa dei quali il poeta riportava una ferita all’arcata sopraccigliare sinistra che gli lasciava una cicatrice per sempre. Non è chiaro se nel seguito degli eventi, a R. in quanto orfanello sia stato concesso di rimanere nel monastero, magari confinato alle Granges, o se sia stato ospitato nel castello di Vaumurier. Il riflesso di questa situazione doveva essere rovente sulla sensibilità del giovane poeta per la minacciata, ingiustificata, distruzione completa di uomini e di edifici (cfr. « vertere tecta solo », 16) di P.-R., al quale i Racine, oltretutto, dovevano sentirsi particolarmente legati se avevano scelto di ritirarvisi e la zia paterna Agnès (figlia di Jean R. e di Marie Desmoulins) che aveva avuto cura del petit R. alla morte della madre, nel 1642 come postulante, diventando poi professa nel 1648 e badessa dal 1690 al 1700 ; e la nonna Marie Desmoulins che si accontentava di prestare servizi come donna di fatica. La poesia ad Christum è quindi condotta su una linea di forte emotività religiosa quale votum, appunto ‘preghiera’ per una immancabile risoluzione pacifi 





























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ca ; e su una strutturazione linguistica fortemente classicheggiante nella continua ripresa di moduli da ipotesti latini, specie virgiliani. – Classicismo – Cristianesimo. Vapore classico emana già il primo distico « O qui perpetuo moderaris sidera motu, / fulmine qui terras imperioque regis » per il marcato ricalco su Virgilio, e in coerenza di situazioni sul votum che Venere rivolge al padre Giove per la salvezza del figlio Enea travolto in tanti errores, sinonimi di tumultus ‘torbidi’ : O qui res hominumque deumque / aeternis regis imperiis et fulmine terres (Aen. 1, 229-230). A rendere più intrigante il riverbero virgiliano concorre anche la variazione del terres eneidico nel « terras » r., gioco intertestuale che sa di preziosismo alessandrino. Tanto più che nella memoria virgiliana è condensato un tratto oraziano dall’ode romana 3, 4, 42ss. : scimus ut ... fulmine sustulerit caduco, / qui terram inertem, qui mare temperat ... / imperio regit unus aequo. I seguenti incipit esametrici « Summe Deus ... Sancte parens » introducono un riferimento religioso al Dio cristiano ma anche una modulazione classica, perché se « Deus » con la maiuscola fa pensare al Dio cristiano, l’attributo « Summe » senza riscontri nella teologia cristiana, ci riporta pienamente nel pantheon pagano nel quale Giove è relativamente il summus deus. Così pure se « Sancte » trova pieno diritto nella liturgia cristiana, « parens » pare richiamare piuttosto la mentalità pagana del Giove ‘padre’ e ‘progenitore’. Così le movenze invocative dei primi esametri se da una parte si possono agevolmente collocare nelle litanie in voga in tanta parte della liturgia cristiana, a pari ragione possono rimandare alle pratiche religiose pagane di invocare la divinità con quanti più eponimi era possibile per significare l’estensione del potere d’un dio e la diffusione geografica del suo culto al fine di propiziarsene con una captatio benevolentiae l’aiuto invocato. Si può anche arrivare a dire che le suddette espressioni condensino ambivalentemente e il sapore classico e uno spirito religioso per il fatto che trovano corrispondenza, « Summe Deus » nell’inizio della preghiera di Arunte ad Apollo di cui si vanta sacerdote (Aen. 11, 785), « Sancte parens » nelle parole iniziali di Enea che in veste di sacerdote celebra l’ufficio funebre in onore del padre nell’anniversario della morte (Aen. 5, 80). Quest’ultimo epiteto ricorre anche in Orazio che lo riferisce a Giove, parentis ... qui mare ac terras, / temperat (c. 1, 12, 13 e 2, 19, 21). I canti inneggianti al Dio cristiano a P.-R. sono presentati dissolventisi in forte riverberazione sul circostante scenario silvicolo, situazione che sa di pratiche dionisiache : « Hic nemora, ... / Hic horrenda tuis laudibus antra replent » (29-30), anche per quel tocco sugli antri numinosi. – Sviluppo composizionale. La struttura della poesia si muove su cinque quadri come una tragedia in cinque atti, di otto versi ciascuno, delimitati dal punto fermo, con una finale epigrafe di un distico, per cui si sommano 5 × 8 + 2 = 42 versi. Il distico iniziale che è segnato da una profonda infusione classica trova una contrapposizione nel distico finale di forte sapore biblico nel ricordo del passaggio del Mar Rosso da parte degli Ebrei liberatisi dalla schiavitù in Egitto. Parallela a questa contrapposizione ne scorre un’altra fra la irenica situazione cosmica prospettata dai due tratti « moderaris sidera – terras regis » opposta al violento sconvolgimento della natura per le, pur miracolose, « disruptas un 





















































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das ». S’inserisce contestualmente alle contrapposizioni un parallelismo simmetrico fra gli iniziali « solamen – salus – praesidium » e la parola finale « salus » che sta a rappresentare lo sviluppo che sarebbe compiuto come desiderato dalla preghiera. Dentro questa cornice si muove il primo blocco che inneggia alla potenza divina, « moderaris - regis » con l’effusione delle titolature « Summe Deus – Sancte parens » per poi chiederne a riprova un intervento sollecitato con forza con gli imperativi (sul modello della preghiera archetipica del Pater noster, da nobis ...) « praebe – suscipe – adsis – adspice – mitte ». Il secondo gruppo, 9-16, indugia nel dipingere a forti tinte la situazione di panico in cui versano gli ospiti di P.-R. : basta ripercorrere la sequenza dei termini violentemente negativi : « per discrimina mille – mille per insidias – objectata periclis – timet hostiles manus – terrore – timoris – ab hoste metus – crudelem ruinam – vertere tecta solo ». Il terzo blocco, 17-24, è strutturato in contrappunto al precedente, introducendo motivi di speranza tanto desiderata quanto altrettanto incerta, come sta ad indicare la sequenza di ben cinque interrogative in soli quattro distici : dall’affermazione della « spes » riposta solo in Dio, all’angosciata domanda sul quando si avrà la « aeterno finem labori », alla richiesta del quando si realizzerà un « bellis invidiaeque modus », o si avvererà una « requies speranda » o si concretizzeranno stabili « gaudia », fino alla rivendicazione di un giusto riconoscimento della « pietas » con i conseguenti « Debita virtuti praemia ». Il quarto blocco, 25-32, prospetta l’insieme dei meriti che si sarebbero dovuti riconoscere agli ospiti di P.-R. per la loro condotta perfettamente in linea con la più rigorosa disciplina cristiana, come, in primo luogo, la osservanza degli « illaesi jura pudoris » da parte di tutte le ospiti anche delle più aristocratiche. L’altro grande merito consiste nel pregare continuamente per molte ore del giorno e della notte, come danno l’idea i due nessi « Te / vocant » in un rivolgersi affettuosamente col tutoyer ; e « antra replent », il diffondersi in lenta riverberazione del ritmato orare lungo tutta l’abbazia e per i boschi circostanti. Ultimo epperò più possente merito è quello derivante dall’azione della Grazia di pura ascendenza agostiniana senza ombre giansenistiche. Queste dignità, acquisite o donate, sono arre presso la Potenza Divina per un intervento che rechi finalmente pace per tutti : « Pacem, summe Deus, pacem te poscimus omnes » (39). La preghiera assume la più forte valenza umana, tale da poter addirittura piegare la volontà divina, « Coelestem liceat sponsum superare precando » (33). Contestualmente concorre la Grazia che di per sé può « abripere flammis suis ». Il concretizzarsi del nuovo stato è prospettato con una serie di parole positive collocate vicino a quelle abitualmente ricorrenti in opposizione polare come « in portu – saeva procella » (38), « pax quiesque – malis » (40), « Te duce – vera salus » (41-42). E la « vera salus » dovrebbe verificarsi come l’antica salvezza biblica del passaggio del Mar Rosso, episodio che è ricordato a pegno d’un simile, nuovo intervento. – Stile. Quale preghiera l’ad Christum presenta lo stile caratteristico in uso in queste tipologie di scrittura : tramatura semplice, elementare, nella formulazione del messaggio che così avrà più chances d’essere recepito con esattezza dall’invocato e d’essere soddisfatto nella pienezza secondo il desiderio dell’in 









































































































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vocante. La formulazione linguistica più opportuna sarà quella dell’articolazione in frasi brevi, preferibilmente con soggetto, verbo e complemento (SVO) racchiusi nel giro d’un solo verso : e così è strutturata questa composizione in cui ogni verso contiene un periodo talché metrica e sintassi combaciano. Trentasei sono le forme verbali di modo finito su 42 versi : questo rapporto dà la misura del ritmo conciso, compatto e compiuto in breve giro. È significativo il costrutto di « Aspice ut » + due indicativi, « jacet – timet » (11-12), scelto ovviamente per mantenere la sequenza paratattica in allineamento alle altre formulazioni dai verbi di modo indicativo. – Risorse retoriche. Solo di tre ritrovati retorici si avvale R. in questa poesia, l’allitterazione, l’anafora e il fonosimbolismo. Di allitterazioni se ne contano 20 su 42 versi, quindi con una frequenza del 48% che è molto alta. L’allitterazione ricorre frequente perché è funzionale nello snodarsi d’una preghiera dato che nella sua essenza di suono martella le espressioni emotive e le particolari pulsioni di richieste intensive. Allo stesso scopo tendono le anafore, che risultano particolarmente espressive quando ricorrono in un seguito di incipit, come l’avverbio « Hic » ai vv. 27, 29, 29, 30, variato in « Huc » a 7, 31, 35 e in « Hinc » 32 per tacere della forma epidittica « Hanc » incipitaria al v. 9. È chiaro che queste forme epidittiche tendono a marcare il luogo, l’abbazia di P.-R., per la cui salvezza è invocato un intervento miracoloso. Del fonosimbolismo R. si serve raramente ma con efficacia nel mettere in rilievo particolari connessioni. È consequenziale che una strutturazione a versi sintatticamente completi rifiuti l’enjambement, che difatti nell’ad Christum non ricorre mai.  



























Allitterazioni Dal punto di vista numerico è da riconoscere che le allitterazioni nell’ad Christum ricorrono frequenti : 20, che su 42 versi s’attestano su una percentuale del 48% che è certo alta, una presenza quasi a versi alterni. Trascurando quelle poco significative perché formate da nessi usuali, un’analisi che vuol riuscire dimostrativa delle scelte stilistiche di R. deve soffermarsi su un campione di 6 casi in cui chiaramente appaiono ricercate per un potenziamento delle valenze espressive. Il modulo « moderaris x motu » che si completa racchiudendo l’oggetto all’interno, « sidera » parola che amplia l’orizzonte ad una dimensione cosmica, ricorrendo nel primo verso, si propone a manifesto della composizione : evidenzia la visione del Potere Cosmico esercitato dalla Divinità assoluta alla quale viene rivolta la preghiera per un intervento assoluto, liberatorio dalle persecuzioni dei poteri ecclesiastici e temporali, con la certezza della Sua Capacità sovrana e la sottesa fiducia di un benevolo aiuto. A riscontro a distanza, verso la fine, la sequenza « Pacem, summe Deus, pacem te poscimus omnes » (39) con la ribattuta sulla parola ‘pace’ richiamata ai versi successivi da « pax » (40) e da « portus », questo col valore sinonimico di una totale salvezza, sembra anticipare la festante gioia dell’avvenuta intercessione, con un senso di gratitudine verso quel Sommo la cui citazione è collocata efficacemente fra l’anafora di « Pacem ». Ancora a studiata simmetria si deve riconoscere che al centro della  



























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composizione ricorrono due significative sequenze allitteranti. Al v. 14 l’incontro « Innovat infenso » sottolinea l’aspetto peggiore dei nemici di P.-R., quale l’accanimento persecutorio fino alla morte, ché « infenso » da *fendo si collega col gr. fovnoç ‘assassinio’, sempre sul punto di essere messo in atto da parte dei nemici di P.-R. ; o per lo meno l’intento di provocare lacerazioni psicologiche permanenti in uno stato endemico di « metus ». Al v. 27 le due coppie di allitterazioni intrecciate, « sacra illaesi servantes jura », mettono in forte rilievo la sacralità del vincolo di castità elevato da dovere sempre rispettato da tutte le ospiti del monastero, ad un diritto meritevole di universale rispetto, onore e ammirazione. Un modello allargato di allitterazione è presente al v. 5 « parens x praebe implorantibus » che ha una anticipazione al verso precedente in « praesidium » e un richiamo al pentametro seguente, « placida x x preces » : qui il reticolo connettivo tende a prospettare l’accoglimento del votum da parte del Dio come dovuto ai figli da parte del padre ‘generatore’ = « parens » da pario ‘generare’, sotto la garanzia della preghiera quale atto di sottomissione, naturalmente con vincolo di reciprocità. Sul diritto dell’accoglimento dei desiderata da parte del Sommo batte la rima leonina « facilem – aurem ». Interessante anche la tramatura del v. 8 a parole allitteranti interposte « Leniaque x lumina x locis » che dispiegano tutta l’umiltà degli invocanti che pur si trovano in una situazione lacerante, umiltà sottolineata anche dalla presenza della liquida l che dà l’idea di un lento scorrere. Sulla base di questo campione di esempi si può dire che R., lontano da un uso orpellativo dell’allitterazione, la adopera per una valorizzazione espressiva, mostrando così di possedere una selettiva padronanza di una figura retorica che ha avuto una notevole importanza nella poesia latina classica. 1  













































Fonosimbolismo 2  

Non mostra certo particolare simpatia R. per il ritrovato fonosimbolico : solo 14 presenze che su 42 versi rappresentano una percentuale del 33%, equivalente a una presenza ogni quattro versi. Rimane però significativo ch’egli abbia scelto di servirsene in snodi fondamentali della composizione, all’inizio, alla fine in correlazione con l’inizio, e al centro. Nel secondo esametro « Summe Deus, magnum rebus solamen in arctis » (3) le otto nasali stanno a sottolineare la connessione, auspicata intimamente come flebili di suono sono le nasali, e funzionante fra la Somma Potestà Divina e una conseguente Volontà d’intervento a sollievo di coloro che si dibattono in una situazione d’estrema difficoltà. Nella sequenza delle nasali al v. 5 « Sancte parens, facilem praebe implorantibus aurem » è facile scorgere il sottile invito, in umiltà di preghiera, a un intervento, in fondo naturale al limite d’un dovere da parte d’un padre = genitore = « parens » < pario ‘generare’, di ascoltare e di  













1  Cfr. A. Cordier, L’allitération Latine. Le procédé dans l’Énéide de Virgile, J. Vrin, París 1939. 2  Per la teoria del fonosimbolismo cfr. M. G. Riccobono, Dai suoni al simbolo : fonosimbolismo come teoria e come applicazione, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali 2002.  

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esaudire con benevolenza le preghiere dei generati. Simmetricamente a quello che fa con le allitterazioni, alla tramatura fonosimbolica iniziale R. oppone un riscontro che si estende anche ai concetti, nel finale. In « Fas sentire tui numina magna Patris » (34) il collegamento operato dalle nasali sembra prospettare l’intervento del Cristo come atto opportuno a rivelare la Potenza del Padre, la menzione dell’essenza numinosa del quale è racchiusa dentro la citazione a cornice appunto del Padre. Ancora in « Pacem, summe Deus, pacem te poscimus omnes » (39) il fonosimbolismo ibridandosi con l’allitterazione fa pre-sentire in un clima di anticipata gioia la richiesta di pace come già esaudita. In cadenza simmetrica con l’allitterazione ricorrono al momento centrale della composizione diversi esempi di fonosimbolismo, « Innovat infenso major ab hoste metus » (14) e « Fundit in immensis nocte dieque malis » (18). Il primo esempio mette in rilievo il rinnovarsi degli attacchi a P.-R. in un continuo crescendo (« major ») da parte, non di un avversario interno (inimicus), ma di un vero e proprio nemico esterno, « ab hoste », attacchi portati poi con virulenza tale da ingenerare uno stato di perpetua paura. La difesa degli ospiti di P.-R. è commisurata alla immensità dei mali nella contrapposizione ad essi di un costante ricorso alle preghiere elevate notte e giorno. Questa continuità del pregare conferisce spessore alla paura provocata non sull’onda d’un sia pur cavilloso diritto, ma solo da una brutalità aggressiva. Le nasali si rivelano così quanto mai opportune a rendere i subdoli intenti che sono alla base degli attacchi furiosi. Al forte timbro delle dentali è invece affidata la messa in rilievo degli avvenimenti più violenti. Emblematico esempio è questo « Et miseranda parant vertere tecta solo » (16) in cui R. sulla proiezione degli avvenimenti del 1656 paventava che sarebbe potuto accadere di nuovo, come difatti avverrà nel 1711 : P.-R. raso al suolo negli edifici esterni, interni, nelle mura abbaziali fino al disseppellimento dal cimitero degli scheletri, dispersi al vento. Le serpentine trame contro la comunità abaziale sono rilevate efficacemente dal fonosimbolismo creato con le sibilanti, « Mille per insidias, vix superesse potest » (10). Nella rappresentazione del pregare a cui tutte le ospiti di P.- R. affidano la loro, unica, speranza di riuscire a salvare il monastero e la comunità, le dentali rivelano lo slancio quasi gridato con cui viene innalzata l’invocazione, « Te veniente die, te fugiente vocant » (28). In parallelo con le allitterazioni verso la fine R. ritorna a impiegare il fonosimbolismo ai vv. 31, 35, 41. Al v. 35 ben sei dentali sono scelte nel solo secondo emistichio « tot tempestatibus actos », chiaramente per dare l’idea di un fragoroso travolgimento. In questo caso risulta più che fondata l’accurata ricerca dell’effetto fonosimbolico dato che l’ipotesto eneidico, pur esso della misura d’un emistichio, tot casibus actos (Aen. 1, 240) presenta solo tre dentali. La volontarietà del cambio stilistico è evidenziata anche dalla strutturazione metrica che al trisillabo casibus sostituisce « tempestatibus » che è un pentasillabo, forma di sesquipedalia verba condannati dalla poetica oraziana (97), ma che ha il vantaggio di offrire da solo tre dentali. Nella indicazione dell’azione salvifica della  













































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Grazia « Huc tua dilectas deduxit Gratia turmas » (31) le dentali sono state scelte da R. per sottolineare il flusso dei beneficati, quasi un esercito (e turma è termine tecnico militare 1) in marcia rumorosa per quanti sono. Nell’espressione « Te duce disruptas pertransiit Israel undas » (41) le dentali sembrano riproporre i gridi di vittoria per il superamento dell’ostacolo prima temuto come insormontabile. Anche dall’analisi dei fonosimbolismi si può dire, come per le allitterazioni, che R., pur non usandoli molto, tuttavia in un numero sufficiente di esempi mostra di avere la consapevolezza della valenza espressiva del mezzo, e una maturità critica nell’usarli selettivamente per valorizzare tratti salienti.  









Commento 1-5 O qui perpetuo moderaris sidera motu, Fulmine qui terras imperioque regis, Summe Deus, magnum rebus solamen in arctis, Una salus famulis praesidiumque tuis, Sancte parens,

Ad incipit della poesia, il primo distico R. l’ha così pesantemente ricalcato su espressioni virgiliane soprattutto, ma anche oraziane, evidentemente per lanciare coscientemente, o forse gli tornavano alla mente moduli di cui era profondamente imbevuto per una persistente memorizzazione, un manifesto di scelta classica, con in ambivalenza semantico-immaginativa suggestioni riportabili di primo acchito al Cristianesimo com’è naturale in un votum indirizzato ad Christum. Ad un lettore colto non può non risuonare nella mente al sentire questi versi, il discorso famoso nella sua importanza fondamentale per lo snodarsi del poema eneidico, di Venere a Giove all’inizio anch’esso dell’Eneide, O qui res hominumque deumque / aeternis regis imperiis et fulmine terres (1,229-230). Questo riscontro permette di cogliere in atto il lavorio di tessitura con cui R. costruisce la sua poesia : conserva inalterato l’incipit O qui come spia dell’ipotesto utilizzato e come indicazione della scelta di porre la sua poesia nel solco della più forte tradizione letteraria ; rimodula l’endiadi imperiis et fulmine variandola nell’ordo verborum in modo da far schizzare ad incipit del pentametro l’immagine del fulmine che ha il più forte impatto emotivo e di conseguenza espressivo ; sostituisce al generale aeternis l’analitico « perpetuo » che indica una ripetizione in ogni momento in costanza, in una variatio puramente lessicale, semanticamente equipollente ; adopera un « terras » per creare una allusione suggestiva all’omofono terres in un gioco elusivo da preziosismo alessandrino. Ma R. non voleva fare solo un lavoro stilistico da letterato umanista, nutriva l’ambizioso obiettivo di porre, nel riciclare lo snodo fondamentale dell’azione  















1  Primitivamente turma indicava un distaccamento di cavalleria composto da trenta uomini e tre ufficiali, poi ampliava l’ambito semantico a ‘squadroni’, per generalizzarsi alla fine nell’indicare una ‘folla’. Cfr. E.-M. s.v. turma.

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eneidica, le sventure di P.-R. sotto i mitici labores ed errores di Enea, nel segreto vagheggiamento che come da quelle sventure e da quella tenacia era nata Roma, così dalle persecuzioni e dalle forti resistenze potesse maturare una nuova, grande centrale di cultura. Questa conclusione trova conferma nel fatto che del discorso eneidico R. tornerà a interessarsi ancora ai vv. 19-20, segno questo che trovava in quell’ipotesto e un picco di poesia e un alto significato di ideologia storicizzata. Nella rimodulazione non poteva immaginare e di raggiungere un alto livello di realizzazione poetica e di dedurre dal fantasma di Roma una garanzia per P.-R. ? Nella memoria virgiliana poi R. fonde una movenza oraziana, anch’essa di grande rilievo in quanto ripresa da un’ode del cosiddetto ‘ciclo romano’, la 3, 4, 42 ss., scimus ut inpios / Titanas immanemque turbam / fulmine sustulerit caduco, / qui terram inertem, qui mare temperat ventosum / ... mortalesque turmas / imperio regit unus aequo. Anche sul testo oraziano R. lavora allo stesso modo : conserva tutto il lessico con cui formare il pentametro, variando però le sedi metriche ; sostituisce a temperat l’equipollente « moderaris » ; asciuga l’ipotesto riducendolo ai dati di fatto senza le coloriture aggettivali. Anche nella secca formulazione R. fa occhieggiare il vagheggiamento che, come nell’antichità Giove signore della terra e del mare, distrusse i trucidi nemici del dio supremo e la disumana banda, così nel presente il Dio cristiano onnipotente possa distruggere i nemici del Re-Sole e la spietata banda gesuitica. Anche questo ipotesto R. mostra di aver tenacemente memorizzato se lo tiene presente ancora ai vv. 11-12 rielaborandolo in « Aspice ut infandis jacet ... / ut timet hostiles irrequieta manus », con una forte variazione sintattica nel sostituire all’usuale costrutto al congiuntivo (sustulerit) due indicativi correlati ad « Aspice ut ». Non si può tacere poi che quanto al nesso immanem turbam (turbam lezione del ramo X della tradizione ms. ; turmam dell’altro ramo, Y, con ripresa poi in turmas al v. 47 dove è concorde lez. di X e Y) R. collegandolo con « Gratia » opportunamente lo modifichi in « dilectas (turmas) » : anche della banda gesuitica è da credere che sotto l’azione della « Gratia » da immanis si tramuterà in « dilectas turmas » ? Una pesante impiallacciatura classica alla fine R. stende su questo testo con la ripresa della clausola « sidera motu » che ricorre frequente : Lucano 1, 643 ; Avieno Arat. 1, 225, 503, 1363 ; Claudiano dr. 3, 66 ; Rut. Nam. 1, 81 ; Anth. Lat. 389, 4, 55. L’intreccio Classicismo-Cristianesimo trova una forte condensazione nell’invocazione « Summe Deus » che di primo acchito farebbe pensare al Dio cristiano, ma che nel riscontro completo con l’epiclesi virgiliana Summe deum, sancte custos Soractis Apollo (Aen. 11, 785) rimanda al pantheon pagano, come obbliga a credere anche una riflessione sull’ideazione religiosa degli antichi per cui nell’assetto politeistico è facile trovare un dio più grande di tutti gli altri (qui Apollo per Arunte suo adoratore) ; rimane escluso, per il rovescio della riflessione, ogni riferimento o anche suggestione al Dio cristiano dato che il monoteismo ammette un solo Sommo. Eppure il senso generale della composizione ad Christum e la grafia maiuscola di « Deus » suggerirebbero di pensare al Dio cristiano. Il Classicismo pagano riempie anche l’altra epiclesi « Sancte parens »,  





































































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che riproduce Virgilio, Aen. 5, 80 in cui è obbligato il riferimento da parte del figlio Enea al padre Anchise nella celebrazione dell’ufficio funebre nell’anniversario della morte ; e più ormeggia Orazio che presenta una più corrispondente formulazione : quid prius dicam solitis parentis / laudibus, qui res hominum ac deorum, / qui mare ac terras variisque mundum / temperat horis (c. 1, 12, 13ss.) e un altro cenno all’aggressione dei giganti, cum parentis regna per arduum / cohors gigantum scanderet inpia (c. 2, 19, 21). Parens anche da solo riecheggia Giove per effetto di due epiclesi virgiliane che suonano hominum sator atque deorum (Aen. 1, 254 ; 11, 725), e sator < sero ‘seminare’ è sinonimo di parens < pario ‘generare’. Del Cristianesimo due suggestioni : « solamen » qui detto del « Summe deus » è attributo che doveva risultare incongruo nella mentalità degli antichi a riferirlo agli dei e in generale sembra parola poco usata se è assente in Orazio e solo tre volte presente in Virgilio ; e « famulus » che ben rientra nella sensibilità dei Cristiani che possono proclamarsi servi servorum Dei. Che R. abbia inteso affidare ai primi due distici fondamentali messaggi di scelta del Classicismo con trasparenti suggestioni di Cristianesimo, è dimostrato dal lavorio con cui da orafo li ha costruiti : con l’utilizzazione delle allitterazioni ; con l’uso del fonosimbolismo ; con la ricerca delle rime leonine « famulis – tuis ; facilem aurem », e delle rime che legano i vv. 2, 3, 4 « regis – arctis – tuis ».  





































5-8 Sancte parens, facilem praebe implorantibus aurem, Atque humiles placida suscipe mente preces ; Huc adsis tantum, et propius res adspice nostras, Leniaque afflictis lumina mitte locis.  

Dopo aver riconosciuto nei primi due distici, alla Divinità una sua Potenza infinita e sul cielo e sulla terra con attributi terrificanti quali la signoria del fulmine e il possesso dell’« imperium », ma anche un’Immagine di Benevolenza felice di accordare un « praesidium » a chi è suo devoto che ne può ricevere anche « solamen » e « salus », ora in questi due distici R. con una movenza dell’antico rapporto di do ut des, chiede al Sanctus parens di rendersi conto della situazione di P.-R., cosa che quegli attributi fanno ritenere di facile attuazione. Il passaggio concettuale ricorda quello formulato da Orazio nell’ode romana 3, 5 (1-4) Caelo tonantem credidimus Iovem / regnare : praesens divus habebitur / Augustus adiectis Britannis / imperio, gravibusque Persis. Se cioè sono gli effetti a far riconoscere la verità a monte, nella presente situazione sarà necessario che si verifichi un intervento risolutore per rendere credibile e accettabile quella titolatura. Il passaggio dalla proposizione della situazione all’invito d’un intervento è segnato stilisticamente dal cambio delle forme verbali, indicativi nell’esposizione, imperativi per gli inviti : « praebe – suscipe – adsis – adspice – mitte ». Lo squilibrato rapporto delle forme sta a rivelare quanto sia appassionata la richiesta di intervento. Non si chiede però, ancora, un intervento fattuale, ma solo una presa di coscienza, e con una certa gradualità : dapprima si chiede alla Divinità di disporsi favorevolmente « facilem praebe aurem » ; poi di ascoltare le preghiere, « suscipe preces » ; poi di prestare uno sguardo più ravvicinato, « propius adspice » ; infine di fare  











































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luce sulle nascoste trame, « lumina mitte ». Ma al contrario delle tre precedenti espressioni d’invito che scorrono su modulazioni formulari, praebere aurem, suscipere preces, res adspicere, quest’ultima « lumina mitte » è fuori dell’uso corrente nel quale per ‘volgere lo sguardo’ è usuale la formula conicere oculos in o i semplici verbi aspicere o inspicere che oltretutto si troverebbero in linea col precedente « adspice » : la rottura dell’aspressione corrente sta a indicare la particolare attenzione e forza che R. voleva annettere col nesso innovato alla richiesta di una attenta ispezione, quasi uno ‘spedire gli occhi per una supervisione’ in loco. Continua in questi distici la stessa tecnica di riusare in prima battuta Virgilio da cui è tratto pari pari l’emistichio « et propius res adspice nostras » (Aen. 1, 526) e di con-fondervi una suggestione oraziana in un prezioso gioco di assonanze omofoniche, « lumina mitte locis » < mittes / fulmina lucis (c. 1, 12, 59).  





















9-12 Hanc tutare domum, quae per discrimina mille, Mille per insidias vix superesse potest. Aspice ut infandis jacet objectata periclis, Ut timet hostiles irrequieta manus. 1  

« Domum » è la parola chiave non solo di questo gruppo di versi, il secondo, ma di tutta la composizione, nella sua precisa indicazione di P.-R., nelle due dimensioni, quella comunitaria degli ospiti e quella materiale degli edifici. Correttamente Ernout-Meillet (s. v. domus) sostengono che domus “comme le grec oi\koç, désigne la maison en tant que symbole de la famille : domus te nostra tota salutat, Cic. Att. 4, 12, et aussi ‘l’école, la secte”. Non si può però nemmeno escludere il collegamento etimologico con devmw ‘costruire’ (cfr. oijkodovmo~ ‘architetto’) tanto più che nel presente contesto s’immagina un’aggressione volta a « vertere tecta solo » (16) e tectum vale “casa coperta”, mentre aedes si è specializzato nell’indicazione dei molti locali d’una abitazione, anche se la connessione etimologica con greco ai[qw ‘fiammeggiare’ e latino aestus ‘bruciore’ e aestas ‘estate’ fa ritenere che il valore primitivo doveva essere quello di ‘focolare domestico’. Continuano gli imperativi, due, che invocano, ora, un intervento fattuale : « tutare » lancia ora una forte richiesta di protezione totale ; « Aspice » nella sua collocazione in rilievo ad incipit e nella forza per la ribattuta dal v. 7, riafferma la necessità d’una ispezione che metta in evidenza e risolva lo stato di pericolo estremo in cui versa P.-R. e conseguentemente sottende un atto di liberazione. La descrizione delle intraviste aggressioni a cui è esposto P.-R. si colora di tratti classici e di modulazioni tipiche delle preghiere. « Aspice » + indicativo, qui doppio, « jacet – timet » è costrutto che trova riscontro con sicurezza in due luoghi virgiliani : nell’ecl. 5, 6-7 aspice ut antrum / silvestris raris sparsit labrusca racemis, e in uno degli episodi più impegnati dell’Eneide, aspice ut insignis spoliis Marcellus opimis / ingreditur victorque viros supereminet omnis (6, 856-857). In ecl. 4, 52 aspice venturo laetentur ut omnia saeclo, il congiuntivo è sì accolto da Geymonat che però nell’apparato avverte che il cod. cosiddetto Romano, Vat. Lat. 3867, ri 































1  Questi due distici sono citati da Sainte-Beuve, 6, 10, p. 540.

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porta laetantur. Di gusto classico certo ma d’impiego anche nelle preghiere, sono le anafore, qui dell’epidittico « Hanc » relazionato al precedente avv. « Huc », ambedue in posizione incipitaria ; poi del numerale mille, « per discrimina mille, / Mille per insidias » che è anche collocato in bella mostra in posizione chiastica. Ricorre una triplice allitterazione, « infandis jacet objectata », che è figura molto usata nella letteratura latina, ma anche presente nell’oralità delle preghiere a sottolineare i tratti salienti. Altro ritrovato di gusto classico e d’utilità innografica è il fonosimbolismo che qui ricorre due volte, formato da sette sibilanti al v. 10 e da cinque dentali al v. 12 « Ut timet hostiles irrequieta ». « Superesse » + bisillabo qui nel pentametro sa di ripresa ovidiana dove ricorre con un trisillabo nella clausola di un esametro, fast. 5, 695 ; 6, 379 ; met. 11, 354, 703 ; da cui devono aver ereditato anche i Disticha Catonis 4, 36, 2. La clausola « o¯bjecta¯ta¬ pe¬riclis » è ripresa leggermente variata della virgiliana o¯bjecta¯re¬ pe¬riclis (Aen. 2, 751).  



































13-16 Nulla dies terrore caret, finemque timoris Innovat infenso major ab hoste metus. Undique crudelem conspiravere ruinam Et miseranda parant vertere tecta solo.

Con questi due distici R. completa la rappresentazione del clima di terrore che si respirava a P.-R. : è un quadro a colori colanti. Rispetto alle rappresentazioni dei due precedenti distici che in fondo configuravano o potenziali avversità : « discrimina – insidias » o generici pericoli : « periclis – hostiles », adesso fioccano termini più precisi e più devastanti in un crescendo continuo. Si inizia con il forte, avvolgente « terrore », per passare a « timoris » e « metus », per finire con gli specifici « crudelem ruinam » e il « vertere tecta solo », cioè con una sempre più lucida coscienza che le continue aggressioni finiranno per fare piazza pulita di P.-R. e nella sua comunità umana e nella sua esistenza materiale. Sembra che si evochino le più truci tragedie dell’Antichità, come le distruzioni di Sagunto, Corinto e Cartagine, tanto più che la « ruina » di P.-R. è rappresentata come fatta « ab hoste », termine rafforzato in ribattuta dopo la menzione delle « hostiles manus » ‘bande di nemici esterni’ quindi di particolare pericolosità. Hostis è infatti il ‘nemico esterno’, mentre l’avversario interno è l’inimicus, il contrario dell’amicus. Sono tre pennellate a rendere più fosco questo aggressore : innanzitutto si tratta di un nemico non inquadrato né disciplinato in un exercitus, ma sregolatamente aggregatosi in bande violente ; di conseguenza è strutturalmente portato a colpire, infensus < *fendo ‘colpire’ ; e con accanimento rinnovato, « Innovat », sì da provocare uno stato di « metus » che introiettato diventa sempre « major ». Sotto il « conspiravere » è facile scorgere i mandanti dell’attacco : il Re Sole che non poteva tollerare che a breve distanza da Versailles si costituisse un fascinoso, autonomo centro d’attrazione per la presenza di aristocratiche o di intellettuali d’alto livello (Arnauld) in aperta collisione con la sua visione assolutistica ; e i Gesuiti gelosi custodi del monopolio esercitato sull’educazione dei giovani. Sotto i loro convergenti interessi iniziava un processo contro P.-R. il 14.1.1656 che si concludeva l’1.2.1656 con esecuzione immediata condotta perfino con l’invio di reparti di arcieri.  







































































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Le allitterazioni mettono in rilievo i tratti fondamentali di questa situazione : « Innovat infenso major x metus » duplice, pesante allitterazione a sottolineare la pericolosità degli attacchi, il loro ripetersi, il conseguente crescere della paura ; « crudelem conspiravere » affonda l’analisi sui mandanti. Il fonosimbolismo nell’ultimo verso « Et miseranda parant vertere tecta » prospetta con le dentali la fragorosa distruzione del tutto, ridotto a deserto, com’è effettivamente rimasto senza neppure un nome.  















17-22 Tu spes sola, Deus, miserae. Tibi vota precesque Fundit in immensis nocte dieque malis. Quem dabis aeterno finem, Rex magne, labori ? Quis dabitur bellis invidiaeque modus ? Nullane post longos requies speranda tumultus ? Gaudia sedato nulla dolore manent ?  







Questo quadro scorre in contrapposizione al precedente (9-16) : lì tutte le indicazioni del terrore con la consapevolezza dell’avvicinarsi della distruzione totale, qui il barlume di una « spes » e tante angosciate domande equivalenti ad altrettanti inviti al ripristino di una normalità fatta di « requies » e di « Gaudia ». Con efficacia stilistica R. cura l’ordo verborum per cui colloca i due elementi di forza nella prima e nella terza posizione metrica : « Tu » che è rituale nel tutoyer delle preghiere per l’effetto di legare l’orante a Dio in una stretta comunione ; e « Deus » che è, anche stilisticamente, prospettato come il motore fondamentale, collocato com’è al centro dell’esametro in tritemimere, in rilievo nell’isolamento fra due virgole, con ribattuta nello stesso esametro in variazione « Tu – Tibi ». Così la « spes » sembra garantita essendo all’interno della cornice creata da « Tu » e da « Deus » ; esattamente come « miserae » ossia la triste situazione sembra inclinare in posizione di riscatto per la collocazione dentro la coppia divina, « Deus, miserae. Tibi ». Il « Rex magne » condensa tre possibili interpretazioni : venendo la sua invocazione subito dopo quella rivolta al « Deus » che ovviamente è quello cristiano anche per la movenza « Tu spes sola », la suggestione spingerebbe a interpretarlo come il Dio cristiano in costanza di riferimento. Le due memorie virgiliane che sono molto vicine, « quem das finem, rex magne, laborum ? » (Aen. 1, 241), lamentosa domanda che Venere rivolge a Giove nello stesso contesto da cui R. ha attinto la movenza iniziale, O qui … / aeternis regis imperiis et fulmine terres (1, 229-230) ; e o passi graviora, dabit deus his quoque finem (Aen. 1, 199), discorso d’incoraggiamento di Enea ai suoi stanchi dopo tanti errores e divisi dal naufragio, impongono d’interpretare « Rex magne » come Giove che è il referente nei due ipotesti. La titolatura « Rex magne » obbliga a pensare a Louis le Grand, in esatta traduzione. Questa interpretazione è suggestiva perché svela il sottile intento di R. di suggerire come colpevole della miseria di P.-R. proprio Luigi XIV che poi viene coinvolto sotto traccia nel verso seguente in cui viene svelato il motivo delle persecuzioni, la invidia ‘ostilità inveteratasi in rancore’ dovuta all’invidia per le capacità affascinanti e per l’autonomia della comunità di P.-R. Quasi : motivo e mandante. Ponendo poi l’invidia in endiadi con « bellis » R. intenderebbe scaricare tutta la colpa dei torbidi su chi è mosso  























































































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da sensi di risentimento per una presunta lesa maestà. Significativamente R. qui adopera « bellis » per coerenza con il precedente termine « (ab) hoste » (14) detto del nemico di P.-R. La clausola « vota precesque » è ripresa da Silio It. 12, 327.  











23-24 Sicne adeo pietas vitiis vexatur inultis ? Debita virtuti praemia crimen habet.  

I due versi costituiscono il bilancio a cui arriva il terzo blocco incentrato sulle prospettive di pace, invero sperata solo da Dio, « Tu spes sola, Deus », invece interrogativamente, quindi dubbiosamente attesa da un intervento del « Rex magne ». La valutazione (cfr. « Sic ») si profila con nettezza : un’ultima interrogativa retorica, di senso dolorosamente positivo pone la domanda se la situazione sia arrivata a tal punto (« adeo ») da presentare ribaltato il valore della pietas a fronte dei vitia angarianti (presumibilmente l’invidia, il rancore e la gelosia di potere) ; la successiva proposizione positiva articola in una progressione più fosca l’assurdità del capovolgimento per cui la virtus invece di ricevere i riconoscimenti dovuti, « praemia », subisce accuse : questa sembra essere l’epigrafe tombale sul rapporto pietas – vitia / virtus – crimen. In questo squilibrato gioco di ribaltamenti assumono una grande importanza le risorse retoriche nel mettere in rilievo le pieghe delle valutazioni. Cominciando dall’ordo verborum, appare di notevole efficacia espressiva la collocazione di « pietas » vicino a « vitiis », come dire : gli ospiti di P.-R. che vivono un’intensa esperienza religioso-culturale subiscono la prepotenza viziosa del Potere, collocati in un rapporto che si tramuta a favore dei vitia che rimangono impuniti mentre la pietas è angustiata. In una china peggiore è prospettata la relazione nella successiva rappresentazione ravvicinata « virtuti praemia crimen » che rende più stridente il contrasto fra quello che la virtus merita e quello che invece riceve. Sembra quasi che il premio alla virtus sia solo un crimen, cioè un’ ‘accusa’ o una ‘falsa accusa delittuosa’ perché crimen della stessa radice di cernere ‘sceverare’ (cfr. cribrum ‘setaccio’) da ‘decisione, giudizio’ nella lingua del diritto si specializza nel valore di ‘decisione giudiziaria’ quindi di ‘accusa’ e con facile passaggio ‘delitto’. Anche l’allitterazione gioca un ruolo importante : l’accostamento « vitiis vexatur » rende ancor più sordido l’attacco del male a quello che è uno dei più alti valori, la pietas, l’ ‘amore disponibile’ verso tutti. La clausola « crimen habet » è ripresa da Ovidio che la usa tre volte ugualmente in pentametri, ars a. 1, 584 ; 2, 634 ; her. 18, 142. Nasconde una punta maliziosa questo richiamo, dato che anche Ovidio fu colpito per un crimen da parte del Potere, crimen rimasto sempre oscuro ?  























































25-28 Aspice virgineum castis penetralibus agmen, Aspice devotos, sponse benigne, choros. Hic sacra illaesi servantes jura pudoris, Te veniente die, te fugiente vocant ;  

« Aspice » in anafora e ad incipit in ambedue i versi suona come un pressante invito ad una ispezione che certifichi la condotta delle ospiti di P.-R., com’è or 



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dinata nei regolamenti e com’è vissuta nella disciplina quotidiana : nell’elenco delle virtuosità vibra sottesa la sicurezza d’un esito pienamente positivo e dunque d’una trionfale, definitiva vittoria su tutte le insidiose aggressioni. Nella rassegna dei pregi, a cui è dedicato questo blocco di versi, 25-32, spicca come prima virtù quella di aver costituito da parte delle ospiti un « virgineum agmen ». Agmen suggerisce una coesione che comporta un costante, volenteroso impegno da parte di tutte, delle molte persone di provenienza, cultura, stato sociale differenti : è quindi questo un merito raggiunto solo in virtù di un forte amore cristiano. Ma indica anche una libertà partecipata e consapevole, perché agmen è tecnicamente l‘ ‘esercito in marcia’, quindi il muoversi (cfr. agmen < agere ‘spingere in avanti’) di molti con una certa libertà : caratteristiche queste ben lontane dall’inquadramento in un esercito in cui vigono l’obbligo di esercizi tecnici collettivamente omologanti, l’imposizione di una disciplina rigida e l’obbedienza schiacciante alla gerarchia. A rendere più gentile – quindi più degno di rispetto sacrale – l’immagine delle donne di P.-R. concorrono alcuni tratti significativi : innanzitutto la loro qualificazione come « (agmen) virgineum », enfaticamente detto, da intendere ribassato a ‘casto’ anche di lunga durata ; l’indicazione precisa dell’ambito di azione delimitata da « penetralibus », ossia dalla ‘clausura’, il che suggerisce che le ospiti vivono senza interferire sull’esterno e senza essere interferite dall’esterno, limitandosi ad una solitudine che ha come referente solo Dio in un contatto quotidiano attraverso le preghiere. La riservatezza è evidenziata stilisticamente dalla parola « penetralibus », uno di quei sesquipedalia verba sconsigliati dalla poetica oraziana (98) e pertanto, quando vengono usati, caricati di un valore aggiunto. D’altronde tutto il v. 25 riceve un’aura di sacralità dall’ipotesto eneidico, 2, 297 in cui è rappresentata l’apparizione di Ettore in veste sacerdotale che invita Enea a fuggire e aeternumque adytis effert penetralibus ignem : di qui R. trae la parola penetralibus e la riproduzione per omofonia di ignem con « agmen » in un contesto vaporoso di sacralità. Un’altra sublime virtù delle ospiti di P.-R. è individuata nel fatto che tutte si sentono spose di Gesù, invocato col titolo di « sponse benigne ». Questa unione spirituale sublima la posizione delle donne sì da far pensare a P.-R. come ad un Paradiso in terra, allietato continuamente da cori, c’è da immaginare similangelici. Fiocca una terza virtù, la castità (« pudoris ») sempre rispettata (« illaesi servantes ») ed elevata a dovere sacro posto sotto un vincolo giuridico (« sacra iura »), in un infrangibile nodo coniugale di celeste ascendenza. A rafforzare l’indicazione di questo sublime comportamento concorre un’allitterazione forte nella sua modulazione intrecciata « sacra illaesi servantes jura ». Altra virtù proclamata è quella del continuo pregare, che si sviluppa più che sulle ripetizioni delle formule preconfezionate, sulle invocazioni (« vocant ») che sanno molto di appassionate partecipazioni personali in un’immedesimazione collettiva. L’anafora « Te veniente (die), te fugiente » ripropone il ritmo delle cadenze litanianti degli inni cantati. Qui la forte devozione è evidenziata  



























































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dal fonosimbolismo che dal suono delle dentali suggerisce lo slancio vibrante con cui vengono innalzate le invocazioni. 1 Da tutte queste virtù stabilite per regole condivise e pertanto rispettate con cura, risulta chiaramente che quegli « Aspice », che sono un invito all’ispezione della condotta, suonino come segni di una presentita vittoria nel necessario ribaltarsi della pelosa verifica in autenticazione di una vita vissuta con fervore religioso, degna d’ogni rispetto. Sul brano aleggia un ricordo ovidiano, ille locus casti damna pudoris habet (ars a. 1, 100) : anche se in controtendenza contenutistica, mostra chiaramente il metodo dell’officina poetica che sbriciola l’originale in più tratti : utilizza habet al v. 24, casti al v. 25 variandolo in « castis », pudoris al v. 27, conservando al v. 24 la struttura della clausola : pudoris habet < « crimen habet ».  



















29-32 Hic nemora, hic nullis quondam loca cognita muris, Hic horrenda tuis laudibus antra replent. Huc tua dilectas deduxit Gratia turmas, Hinc ne unquam stygii moverit ira Noti.

I cinque avverbi di luogo, « hic » in triplice anafora, quattro ad incipit, sono stati cercati evidentemente per segnare aspetti fondamentali : la primitiva topografia del luogo in cui poi sorgerà P.-R. ; l’attuale sodalizio nella pienezza di una vita religiosa ; la fascinosa influenza che ha attratto folle su vasta scala ; la ferrea volontà degli ospiti dell’abazia di rimanere lì irremovibilmente. I quadri sono efficacemente contrapposti a due a due, non su base cronologica, ma sul valore delle situazioni. Il luogo era all’inizio silvestre, « hic nemora », tutto naturale al punto da non sorgervi nessun manufatto, « nullis quondam loca cognita muris », ovviamente il centro abaziale, le casette ecc. 2 Questo tocco paesaggistico è molto importante dal versante religioso perché un luogo isolato è il più adatto alla meditazione spirituale e ad una elevazione dell’animo a Dio nel silenzio d’uno spazio libero, tanto che parecchie comunità religiose sono sorte in luoghi romiti, isole, deserti (cfr. S. Girolamo), qui fra i boschi. Dal versante personale nei « nemora » io vedo adombrato il gusto di R. di ritirarsi fra gli alberi di P.-R. per leggervi i tragici greci. In contrapposizione al primitivo ambiente naturale viene delineata l’attuale vita spirituale degli ospiti di P.-R. nel festoso levare gli inni con una riverberazione sugli antri pieni di orrore numinoso, « antra replent ». L’altro distico mette a confronto due aspetti polarmente contrastanti : l’affluire di folle a P.-R. e la paventata cacciata di lì (« moverit ») respinta con forza.  



































1  Corrisponde alla realtà abaziale questo lungo e intenso impegno dedicato alle preghiere, dal mattino presto (ore 5, 30) alla sera tardi (ore 22), cfr. la testimonianza di R. Jasinski (i, pp. 5-7), che è stato alunno a P.-R. 2  La caratterizzazione dello stato primitivo del luogo fatta per mezzo dell’indicazione « nullis quondam loca cognita muris » mi sembra modulata allusivamente per adombrare al contrario i « multis nunc loca cognita muris », ossia la bonifica della valle, l’elevazione del perimetrale muro abaziale di recinzione, e la costruzione di tante casette via via che vi si ritiravano i Messieurs, finacché si ebbe un imponente complesso residenziale. Per la pianta di P.-R. nel momento del massimo splendore cfr. la figura in Sainte-Beuve, 6, 3 p. 253, qui riprodotta a p. 69.  







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Il nesso « Huc deduxit » rispecchia il confluire delle Dame e dei Messieurs in « turmas », quasi squadroni di cavalleria, in questa comunità, sotto la protezione salvifica della Grazia. All’affluire è opposto subito dopo il movimento di partenza, « Huc – Hinc ». « Hinc » con il collegamento al classico Stige assicura sulla ferrea volontà degli ospiti di non volersi mai allontanare dal fervido cenacolo. E questo trova corrispondenza nella realtà storica : rimase sempre tale l’attaccamento di tutti a P.-R. che nonostante le forti e continue intimidazioni ufficiali, peraltro sempre validamente contrastate con raffinate controdeduzioni a fil di diritto, si rese necessario a Luigi XIV ricorrere all’esercito spedendolo lì in assetto di guerra, con gli arcieri, per ottenere lo sgombero totale. Con efficacia le due situazioni sono poste sotto segni ideologici forti, con l’aggiunta di sottolineature retoriche : il confluire avviene sotto il segno della Grazia, e con la forza d’un fonosimbolismo tramato su otto dentali, « Huc tua dilectas deduxit Gratia turmas » ; l’adombrato allontanamento è posto sotto il richiamo del classico, infernale Stige che gonfia d’ira furiosa il Noto. Il distico disegna dunque in un dittico il contrasto delle azioni del Bene e del Male. L’espressione « dilectas deduxit Gratia » merita un approfondimento semantico-ideologico : la si può interpretare nel senso corrente di ‘amate schiere’, ma anche nel significato di ‘scelte schiere’ e in questo valore è toccato un punto fondamentale della controversia Gesuiti-Giansenismo. Dilectus da diligo < lego è attestato col valore di ‘scelto’ : lectissimi viri atque ornatissimi (Cic. Verr. 2, 1, 6, 15), dilecti ‘favoriti’ (Suet. Aug. 98, 6), dilecti ‘soldati scelti’ (Vegezio 3, 10). Giansenio (1585-1638) nell’Augustinus, pubblicato segretamente e postumo nel 1640 (una quindicina di anni prima dell’ad Christum) dava l’impressione di sostenere, senza affermarlo espressamente, che la Grazia non fosse concessa a tutti gli uomini, ma solo ad un certo numero di ‘eletti’ dato che la volontà di Dio non può essere soggetta a vincoli, ma è libera di scegliere quelli che vuole salvare. Dunque interpretando « dilectas » come ‘scelte’ si può pensare ad una adesione di R. alla teoria giansenista magari in modo sfumato e sotto un’ambivalenza semantica. I Gesuiti però fiutavano le sfumature e facevano condannare le cinque proposizioni che attribuivano a Giansenio, dal papa Innocenzo X con la bolla Cum occasione. La controversia veniva dibattuta anche alla Sorbona dove A. Arnauld membro influente, sosteneva nella Lettre à un duc et pari (sc. de Luines) del 10.7.1655 la distinzione fra ‘diritto’ nel quale l’autorità del papa era riconosciuta come infallibile e il ‘fatto’ se cioè quella teoria fosse effettivamemnte contenuta nell’opera di Giansenio. Arnauld veniva colpito dalla censura il 14.1.1656 con l’espulsione dalla Sorbona l’1.2.1656. La battaglia si spostava allora tutta su P.-R. dove un folto gruppo di professe guidate dalla mère Angelique, sorella di Arnauld, e da Jacqueline Pascal si rifiutavano di sottoscrivere il Formulario che ammetteva che le proposizioni si trovassero effettivamente nell’opera di Giansenio e che le condannava come eretiche. Sotto Clemente IX, papa nel 1667, molte ospiti di P.-R. su consiglio di Arnauld firmavano il Formulario, ma con l’eccezione di un riserbo intimo in rispettoso silenzio. Si tornava alla carica volendo che le professe firmassero senza alcun riserbo ; al loro rifiuto si pro 







































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cedeva alla loro dispersione in vari conventi e alla distruzione di P.-R. sin dalle fondamenta. 33-34 Coelestem liceat sponsum superare precando : Fas sentire tui numina magna Patris.  

In questi due versi sono rappresentate e la suprema aspirazione degli ospiti di P.-R. e l’alto grado di religiosità raggiunto col pregare e col meditare. Col pregare le gentildonne lanciano il collegamento più stretto che si possa immaginare con lo sposo divino ; instaurano in uno slancio sovrumano una gara in cui aspirano a riuscire vincenti sullo stesso sposo divino per effetto della totale offerta di sé quasi in una transustanziazione. Un’altra aspirazione è quella di riuscire ad avvertire operante lo spirito della divinità, la numinosa presenza del Padre del Cristo, in un mistico transfert. Le due aspirazioni sono sottolineate con forza, la prima dall’allitterazione che collega le parole fondamentali dell’ascetico incontro, « sponsum superare », la seconda dalla sequenza fonosimbolica delle nasali, sei. A questo punto è chiaro che la religiosità si è impennata in uno sfrenato misticismo che ricorda più che i rituali cristiani, quelli pagani, orfici, dionisiaci, nei quali, ad es. nei baccanali, si operava concretamente l’unione dell’uomo col dio nell’avvolgersi dentro la pelle dell’animale sacro a Dioniso, ucciso e scuoiato. Ad un’aura pagana ci riportano del resto due termini, fas e numen. Fas indica un ‘permesso o ordine degli dei’, quindi estensivamente il ‘diritto divino’ in opposizione al ‘diritto umano’ = ius (E.-M. s. v. fas) secondo la lucida distinzione che fa Servio (ad geo. 1, 269) : fas et iura sinunt : id est divina humanaque iura permittunt. nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent. Numen collegato a *nuere ‘fare un cenno con la testa’ come manifestazione d’un ordine o d’una volontà divina, è termine di potente significazione religiosa passato ad indicare la ‘potenza divina’ da cui diviene corrente nell’epoca imperiale il significato di ‘divinità’. Varrone ne offre l’etimo e l’estensione semantica : numen dicunt esse imperium, dictum ab nutu, omnia sunt, eius imperium maximum esse videatur (lL 7, 85). Una sfumatura classica è avvertibile da Stazio (silv. 3, 3, 183-184) modo numina magni / praesidis che R. ha ritoccato conservando l’ordo verborum di numina magni, variandone però il riferimento sintattico, e sostituendo a praesidis l’omofonico « Patris ».  















35-38 Huc quoque nos quondam tot tempestatibus actos 1 Abripuit flammis Gratia sancta suis ; Ast eadem insequitur moestis fortuna periclis ; Ast ipso in portu saeva procella furit.  





In questi quattro versi R. inserisce le sue vicende in quelle di P.-R. con « quoque nos » in cui « nos » è un plurale maiestatis di ascendenza retorica o di trascinamento dall’ipotesto eneidico ; « quoque » ‘anche’ iscrive le vicissitudini del poeta  













1  Questo verso senza il dattilo iniziale, è citato da Sainte-Beuve, 6, 10, p. 540.

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con una forte interferenza sull’oggettività del racconto, nelle esperienze degli ospiti dell’abbazia. P.-R. sarà chiaramente evocato nel verso finale con « in portu ». Le due entità sono presentate sotto l’omologo segno della sventura per cui a « nos tot tempestatibus actos » corrisponde « in portu saeva procella furit ». Le disgrazie personali vengono dilatate nel tempo dal poeta con l’avv. « quondam » che qui non sta a segnare una delimitazione chiusa nel passato senza riverberi sul presente, del tipo ‘una volta, ora non più’, ma rappresenta lo stato di sofferenza in cui si trova R. ‘da lungo tempo’. Questo valore è garantito dall’ipotesto eneidico ricalcato molto da vicino, che reca eadem fortuna (l’ ‘identica sfortuna’) che Servio spiega lucidamente : nunc eadem similis qualis ab initio fuit, ut ostendat nec longitudinem temporis prodesse Troianis (ad Aen. 1, 240) in concordanza con Donato : non tantum, inquit, bona promissa non veniunt verum etiam mala perdurant. È significativo della volontà di presentare enfaticamente le proprie disgrazie 1 il fatto che R. collochi il riferimento personale dentro le due parole a cornice legate dall’allitterazione, « quoque nos quondam » che connettono le sue vicende a quelle della comunità e che allungano i tempi della sofferenza. Nella situazione di disagio, centrale per R. e per gli altri risulta l’azione della Grazia a sollievo spirituale, di quella « Gratia » che mi pare avvolta da un sapore giansenistico, per tre tocchi. La qualifica di « sancta » può essere tradizionalisticamente vuota, ma può indicare una Grazia perfettamente ‘agente in proprio’ senza obblighi derivanti da meriti umani. Questa libertà d’azione è rafforzata dal tocco « flammis suis » che esprimono una infiammata capacità d’azione. E questa forza attrattiva e salvifica è sottolineata dall’allitterazione che lega le due parole « sancta suis » ; ma soprattutto si esplica nell’immagine prospettata dal verbo abripio che vale ‘strappare violentemente con forza’ in senso fisico e/o morale. Ancor più evidente risulta lo sforzo di caricare la presente espressione « Abripuit flammis suis » quando la si paragoni a quella precedente che è di similare indicazione, « deduxit », in neutra narrazione. Una sfumatura di valore è ravvisabile anche nella ripresa dell’avv. « Huc » che al v. 31 fissava in una forte distinzione contenutistica rispetto agli altri cinque avverbi coradicali « Hic » (27, 29, 29, 30), « Hinc » (32), il confluire delle nobildonne e dei Messieurs nell’abbazia : la vicenda personale del poeta viene così a porsi in perfetta consonanza con quelle di tutti gli ospiti di P.-R. nell’atto consociativo, momento preferenziale rispetto al permanere e all’improbabile allontanamento.  

































































1  Le disgrazie che hanno segnato più gravemente R. si possono facilmente ravvisare nella perdita della madre il 24.1.1641, quando aveva poco più d’un anno (dicembre 1639) ; nella perdita del padre ventisettenne nel febbraio 1643, a poco più di tre anni ; nell’abbandono della nonna paterna entrata (con lui ?) a P.-R. nel settembre 1649, a nove anni ; per non parlare della aggressione subita nell’abbazia nel 1656, ricevendone una ferita. E fors’anche qualche cicatrice poteva esser rimasta dagli sconvolgimenti provocati dalla Fronda che negli anni 1648-1649 toccò pesantemente La Ferté- Milon. All’inizio del 1649 l’armata di Condé assedia Parigi : la popolazione della capitale e dei dintorni per sfuggire agli orrori dei soldati cerca un rifugio nei monasteri, fra cui naturalmente P.-R. di Parigi. La corte con Luigi XIV fugge da Parigi nella notte 5-6 gennaio 1649. Le distruzioni belliche provocano la perdita della raccolta del grano. In successione si abbattono su La Ferté-Milon freddo, fame, dissenterie e morti per denutrizione. Si arriva al punto che gli affamati dopo gli stracci si mangiano le mani e le braccia. Cfr. L. Vaunois, pp. 81-83.  









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Particolare valore assume la ripresa del verso eneidico nunc eadem fortuna viros tot casibus actos / insequitur (1,240s.), con la sostituzione di nunc con « quondam », di viros con « nos », con la dislocazione di eadem fortuna ... / insequitur due versi dopo, con leggera variazione nell’ordo verborum, « eadem insequitur ... fortuna ». L’espressione tot casibus actos è caricata d’una forte espressività nella rimodulazione « tot tempestatibus actos » : al generico casibus R. infatti preferisce il pentasillabo « tempestatibus » ossia uno di quei sesquipedalia verba sconsigliati dalla poetica oraziana (97), che però offre tre dentali che con le altre quattro vengono a fornire una tessitura fonosimbolica al verso rilevandolo così con stacco dall’ipotesto che presenta solo quattro dentali. Perché con tanta cura conferire tanto rilievo al nuovo verso ? per suggerire una sovrapposizione delle sventure del poeta sui labores e sugli errores di Enea ? R. che si sovrappone ad Enea in un contesto intriso profondamente di religiosità, dimostra di avere profonde e inestricabilmente intrecciate due anime : Classicismo e Religiosità. E allora – viene da pensare – non sarà che l’azione del tentato e poi riuscito salvataggio di Enea da parte di Venere prefiguri l’azione della Grazia in favore della salvezza di R. ? La particolare durezza delle disgrazie e la salvezza trovata a P.-R. trovano un’efficace rappresentazione nel pentametro « ipso in portu saeva procella furit ». La condizione negativa è resa con forza dal verbo furere ‘essere folle’ con l’idea accessoria d’una agitazione violenta, estensibile dall’uomo alle cose, specie al mare (E.-M. s.v. furo), e dal sostantivo « procella » termine raro specie in epoca imperiale, quindi di forte valenza espressiva. L’aspetto positivo è offerto dal nesso « in portu » che ricorre in nessi proverbiali proprio per indicare l’‘essere al sicuro’ : in portu esse (Cic. ad fam. 9, 6, 4), nunc huius periclo fit, ego in portu navigo (Ter. Andr. 480) traduzioni del proverbio greco ejn limevni plevw.  











































39-40 Pacem, summe Deus, pacem te poscimus omnes : Succedant longis paxque quiesque malis. 1  



Dopoché si è avvertito che la « saeva procella furit », la soluzione auspicata non può essere che la conquista della pax, parola che ricorre tre volte in un distico, variata per giunta in « quies » termine che è legato a « pax » con l’enclitica -que in un modulo tipicamente epico « paxque quiesque ». La clausola « pacem poscimus omnes » suona chiaramente come una richiesta universalmente condivisa dagli ospiti di P.-R., nobildonne e Messieurs, e dallo stesso R. che pure poc’anzi aveva piegato la narrazione solo su di sé « quoque nos / Abripuit Gratia » (35) travalicando da quella che era stata poc’anzi un’indicazione aperta, « Huc ... deduxit Gratia turmas » (31). Le parole « Pacem ... pacem » racchiudono all’interno il nome del destinatario della richiesta, « summe Deus » : qui il riferimento non può essere inteso che al Dio cristiano, mentre al v. 3 la stessa espressione inclinava a significare Giove, l’unico che poteva essere definito ‘il più grande fra gli dei’ ovviamente  





































1  Questi due versi sono citati da Sainte-Beuve, 6, 10, p. 540.

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in un pantheon pagano. Qui il contesto, dopo la preghiera di far sentire a tutti operante il Pater di Gesù (34) e dopo la constatazione della azione salvifica della Grazia su tutti (31) e su lo stesso poeta (36), impone un riferimento diritto all’interno del mondo cristiano. L’invocazione della pace è resa forte e dall’allitterazione che innerva tutto il v. 39, « Pacem x x pacem x poscimus » e dal compresente fonosimbolismo che si articola su sette nasali. In questo finale di composizione si sorprende un riecheggiamento di Eneide 11, 362 nulla salus bello, pacem te poscimus omnes : il secondo emistichio è ripreso alla lettera nel presente v. 39 ; salus è dislocata all’ultima posizione della composizione a sintesi del senso globale dell’invocazione ad Christum per la salvezza di P.-R. ; « bello » dopo essere stato usato al v. 20 può benissimo aver suggerito qui una determinata « saeva procella » e i generici « longis malis ». La frase eneidica fa parte del discorso del pacifista Drance (proiezione di Cicerone ?) che è rappresentato in netta opposizione alla violentia Turni (Aen. 11, 376) che incita alla guerra : che l’uomo toccato dalla Grazia voglia colorarsi di un antecedente classico, pacifista a tutti i costi e nemico d’ogni violenza ? A testimonianza finale R. presenta intrecciate le sue due idee-forza : Classicismo e Religiosità.  





























41-42 Te duce disruptas pertransiit Israel undas ; Hos habitet portus, te duce, vera salus.  

Il riferimento biblico al miracoloso passaggio del Mar Rosso da parte degli Ebrei liberatisi dalla schiavitù in Egitto e ora in marcia verso la libertà nella terra dei padri, funge da arra di un’analoga liberazione degli ospiti di P.-R. tormentati da Poteri dispotici, da tutte le aggressioni di cui la composizione via via offre un colorito elenco : « discrimina, insidias, periclis, hostiles manus, terrore, ab hoste metus, ruinam, labori, bellis invidiaeque, tumultus, dolore, vitiis, crimen », e riassuntivamente « longis malis ». Gli squilli di questo sognato affrancamento vibrano nell’effetto fonosimbolico creato da sette dentali al v. 41. L’allitterazione poi collega il titolo della guida-liberatrice, « te duce », con l’effetto miracoloso, « disruptas pertransiit undas ». La clausola finale « vera salus » fissa l’obiettivo a cui mirava l’invocazione ad Christum, la ‘salvezza’ che sicuramente potrà essere raggiunta sotto la protezione di quel Dio di cui nei primi versi si celebrava la potenza cosmica, « moderaris sidera – terras regis », l’Onnipotente, di cui naturalmente ci si aspetta una verifica dalla realizzazione di un intervento risolutivo. C’è un abbozzo di Ringkomposition, non formale, ma concettuale : come dire, un Onnipotente non può non intervenire a salvezza di perseguitati, faute di quel titolo. Un ultimo cenno a P.-R. in quell’« habitat portus » : la discrasia dell’ ‘abitare un porto’ è cercata per una forte localizzazione dell’azione divina in favore di P.-R. alluso attraverso la latinizzazione « portus ».  





































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giampietro marconi [ii] Joannes Racine cognato suo carissimo Vitart

Quem, precor, inter nos habitura silentia finem ? Cur tandem inceptum Musa relinquit opus ? Tertia fraterno lustrat jam lumine terras Luna, sed e vestro littera nulla solo. 5 Quin age, nunc crebro festinet epistola cursu ; Nunc reddant solitas carmina nostra vices. Ne pudeat longos interrupisse labores, Doctaque nobilibus fundere verba modis. Jam silvas lusisse sat est : majora loquamur ; 10 Non Phoebum semper rura nemusque juvant. Me modo detinuit divini Musa Maronis, Quae magni Aeneae tristia bella canit. O quantum cunctos visus superasse poetas ! Quantum in Pieriis eminuisse choris ! 15 Quem tanto conferre viro aut componere possis ? Quod tandem in terris clarius exstat opus ? Si quaeras artem et numeros, ubi copia fandi Largior, aut pariter verba rotunda fluunt ? Hic, fateor, summus, qui jucundo utile miscet : 20 Pulchrius an quisquam recta Marone docet ? Undique figmentis sublimia dulcibus ornat Carmina, queis veri lux veneranda latet. Exquisito alii celebrentur acumine mentis, Hic lingua, ingenio judicioque potens. 25 Ambitiosa suum frustra miratur Homerum Graecia, Lucanum Corduba magna suum : Cedant Virgilio Graii, cedantque Latini ; Unum Fama omni nomen in orbe canat. Sed quid ego haec autem toties memorata revolvo ? 30 Desinat ascripto littera nostra vale.  





























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poesie latine di jean racine

Jean Racine al suo carissimo cugino Vitart Quando, di grazia, avranno i silenzi fra noi fine ? Perchè l’operazione che finalmente era iniziata la Musa abbandona ? È ormai la terza, ad illuminare col fraterno raggio la terra, Luna, ma dal tuo paese lettere, nessuna. Su, forza, ora s’affrettino le lettere con un correre senza sosta ; Ora riprendano i versi fra noi il solito avvicendarsi. Non intervenga l’imbarazzo d’aver interrotto lunghi sforzi, E dotte parole di versare in nobili ritmi. Ormai delle selve abbiamo cantato abbastanza : di temi più alti parliamo ; Ad Apollo non sempre tornano graditi campi e boschi. Io poco fa sono stato invasato dalla Musa del divino Marone, Quella che del grande Enea le luttuose guerre canta. Oh ! quanto egli mi è apparso aver superato tutti i poeti ! Quanto nei cori delle Pieridi aver sovrastato ! Chi a tanto poeta paragonare potresti o accostare ? Quale, alla fine, sulla terra più luminoso capolavoro si trova ? Se cerchi arte e ritmi, dove ricchezza di stile Più abbondante, o un pari fluire di parole melodiose ? Quegli, lo confesso, è sommo che al piacevole l’utile mescola : Più ornatamente di Marone c’è mai qualcuno che sappia insegnare la morale ? Con finzioni d’ogni tipo piacevolmente orna i sublimi Versi, ai quali della verità la santa luce è sottesa. Per la raffinata acutezza del pensiero siano pur celebrati altri, Questi per la potenza dello stile, dell’ideazione e del gusto. Il suo Omero invano ammira l’ambiziosa Grecia, il suo Lucano la grande Cordova : Cedano a fronte di Virgilio i Greci, cedano i Latini ; Un sol nome in tutto il mondo la Fama canti. Ma perché poi io queste cose tante volte ricordate ripeto ? Fine della presente lettera aggiunti i Saluti.  































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giampietro marconi Allitterazioni

Risulta evidente in questa composizione la scarsa propensione di avvalersi delle potenzialità espressive delle allitterazioni da parte di R. che forse le riteneva, quali figure di suono, poco appropriate all’argomento familiare d’un invito affettuoso rivolto al caro cugino Vitart a riprendere lo scambio epistolare. Già numericamente gli undici casi distribuiti sui trenta versi danno la modesta percentuale del 37%, inferiore a quella del 48% dell’ad Christum, tanto più che quasi sempre gli incontri allitteranti sembrano attenere più alla casualità del parlare corrente che ad una ricerca mirata. Due solo sono le sequenze efficaci, costruite a rinforzo dei valori semantici. D’effetto è la sequenza ai vv. 3-4 in cui l’allitterazione in liquida « lustrat x lumine » anticipa la menzione della sorgente luminosa, la « Luna » dislocata ad incipit al verso successivo in cui ricorre una forte presenza di liquide nel secondo emistichio, « littera nulla solo ». Così la misura del tempo « Tertia – Luna » data dalle due parole incipitarie si pone in forte contrasto con l’oggetto da misurare, « littera nulla ». Di forte spessore espressivo sono le tre allitterazioni che si rincorrono al v. 11 « Me modo detinuit divini Musa Maronis » : risulta evidente la volontà di indicare in Virgilio il modello stilistico, a cui si riferiscono i successivi giudizi su « artem et numeros » (17) e sui « verba rotunda » (18) facendone il sommo fra tutti i poeti ; l’autore del poema più luminoso ; e soprattutto il profeta di verità allora nascoste (22). È indicativo nella esibita dichiarazione del modello, che Virgilio è ricordato non col nomen, ma con l’adnomen Maronis, chiaramente per ottenere l’incontro in allitterazione con Musa. Le tre allitterazioni scandiscono così tre motivi : il modello poetico nell’identificazione Musa = poesia = Virgilio ; un’infusione, o forse di più, una consacrazione poetica di R. come seguace di quel modello, « detinuit divini », in un alone enniano alluso dalla movenza « visus superesse » (13) ; una tipologia di poesia realizzata già da poco, « modo ».  























































Fonosimbolismo E poco interesse dimostra R. anche per il fonosimbolismo, credo sempre nell’ottica della poca opportunità di usare un ritrovato dagli effetti sonori in un indirizzo affettuosamente familiare rivolto ad un caro cugino. Si individuano solo otto esempi che su trenta versi danno la modesta media del 27%, più debole di quella registrata nell’ad Christum che era del 33%. Che il motivo della poca opportunità sia giusto è dimostrato dal ricorso al fonosimbolismo costruito con le nasali che sono deboli di suono, in tre casi : « Quem, precor, inter nos habitura silentia finem ? » e questo è il primo verso e come tale ha, come spesso, un suggerimento di manifesto programmatico ; « Non Phoebum semper rura nemusque juvant » (10) ; « Unum Fama omni nomen in orbe canat » (28). Ovviamente le nasali producono un effetto soffocato e risultano più avvertibili all’occhio che non dall’orecchio. In un uso così ristretto assumono un significato particolare le due sequenze  



















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in sibilante, riferibili a Virgilio : « Jam silvas lusisse sat est : majora loquamur » (9) è la dichiarazione impegnativa dell’abbandono della poetica delle ecloghe, di un gusto silvipastorale, con ribattuta al v. seguente, in favore della scelta di una poetica d’alto livello, come recitava anche Virgilio ad incipit della 4 ecloga : Sicelides Musae, paulo maiora canamus per significare l’abbandono del modello teocriteo per una poetica di un po’ più alto respiro sempre però nello stesso genus, come è confermato due versi dopo, si canimus silvas, silvae sint consule dignae. Anche la stessa ripresa della 4 ecloga è densa di sottesi significati perché R. sapeva che quella composizione contiene, per molti interpreti, un profetico messaggio in senso cristiano. Ancora in sibilante si snoda il fonosimbolismo nella modulazione del giudizio d’una assoluta preminenza di Virgilio, « O quantum cunctos visus superasse poetas » (13). Con le dentali è tramato il verso che sembra suonare la sveglia al cugino e invitarlo a riprendere lo scambio epistolare, « Tertia fraterno lustrat jam lumine terras » (3).  

















Struttura compositiva e stilistica Come manifesto programmatico di una poetica il primo verso propone a modello Virgilio, col ricalcare strettamente perfino nella forma interrogativa una battuta dell’episodio che è alla base di tutto lo sviluppo dell’azione dell’Eneide, l’allocuzione di Venere a Giove sul futuro del figlio per ora molto in pericolo, quasi una sovrapposizione della situazione di R. su quella di Enea : quem das finem, rex magne, laborum ? (1, 241). E di Virgilio sono poi ricordate nella successione cronologica e con giudizi estetici le tre opere. Al v. 9 sono richiamate molto da vicino due dichiarazioni programmatiche della famosa ecloga 4 : « Jam silvas lusisse sat est » è allusione all’affermazione si canimus silvas, silvae sint consule dignae (3) per la ripresa di quelle silvae che sono la parola-chiave e il luogo topico della poesia pastorale, e per l’equivalenza semantica di ludere ‘fare poesia leggera’ con canere. Più ancora il secondo emistichio nell’affermazione « majora loquamur » rivela il calco su maiora canamus, indicazione incipitaria dell’ecloga 4. Alle Georgiche alludono i « rura » e il « nemus » del v. 10 « Non Phoebum semper rura nemusque juvant » in cui pare che R. voglia annunciare una svolta di poetica abbandonando la poesia umile dei campi per quella ‘alta’ di cui è fatta menzione al verso successivo. Ma tra le dichiarazioni di Virgilio e quelle di R. corre una fondamentale differenza, sottesa sottilmente. Il Mantovano intende prospettare giudizi relativi, ossia di una migliore poesia ma sempre dello stesso ambito e ciò è evidente nell’espressione silvae sint consule dignae, e maiora canamus è l’esortazione a fare poesia all’altezza del grande evento (la nascita del figlio di Pollione) sempre rimanendo nel genus letterario dell’ecloga, quindi ‘un po’ più in alto’ rispetto alle composizioni già fatte, senza alcuna fuoruscita dalla tipologia seguita, il che avrebbe escluso il paulo (maiora) e forzosamente introdotto un plane o prorsus maiora canamus, ‘del tutto superiori’. R. invece volge le asserzioni in giudizi di valore assoluto, quindi di abbandono dei genera  

























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bucolico e georgico. Decisivo per cogliere la differenza fra i due poeti è il verso 2 della 4 ecloga, non omnis arbusta iuvant humilesque myricae incrociato col primo verso paulo maiora canamus, dunque poesia più elaborata ma sempre all’interno del genus bucolico. Con le similari espressioni « Jam silvas lusisse sat est » e « Non Phoebum semper rura nemusque juvant » R. invece esorta il cugino ad usare alla ripresa dello scambio epistolare uno stile alto. R. cioè ha volto in giudizi di valutazioni graduative di poetiche quelle che Virgilio intendeva come semplici perfezionamenti interni ai genera da lui coltivati come significativamente indicano e il bilancio tracciato alla fine delle Georgiche, Haec super arvorum cultu pecorumque canebam / et super arboribus ... carmina qui lusi pastorum (geo. 4, 569) e nella (creduta autentica da molti) quartina iniziale dell’Eneide, Ille ego qui quondam gracili modulatus avena / carmen et egressus silvis ... gratum opus agricolis : at nunc horrentia Martis (sc. arma) / ... cano. Il cambio di poetica R. lo prospetta come attuato con adesione totale e come avvenuto di recente, « modo » ‘poc’anzi’, creando un contrasto fra « modo » e « detinuit » che perciò dovrà essere inteso in senso aoristico ‘mi ha preso e continua a tenermi’. L’espressione « divini Musa Maronis / Quae magni Aeneae tristia bella canit » lancia un chiaro riferimento all’Eneide e una chiara identificazione della Poesia o Musa con Virgilio, il Poeta in assoluto. E del Mantovano viene subito infatti affermata la sovranità su tutti : « cunctos superasse poetas – Quantum eminuisse », come all’Eneide viene riconosciuto di essere il poema « in terris clarius ». E non sono questi giudizi stereotipati, quindi sonori e vuoti, perché subito dopo trovano la motivazione in osservazioni specifiche e penetranti : la tecnica, ovviamente di versificazione e di costruzione del fantasma poetico, « artem » ; il ritmo stilistico fluidamente passante in musicalità, « numeros » ; la ricchezza lessicale che com’è noto, spazia da modulazioni enniane a quelle catulliane e lucreziane, « copia fandi ». Non manca nemmeno com’è comprensibile per un alunno di P.-R. un’interpretazione di Virgilio come profeta di verità allusivamente cristiane, « veri lux veneranda ». La tecnica compositiva risulta molto semplice, articolata su quattro quadri, con un bilancio finale sintetizzato in due versi. L’inizio, 1-8, prospetta la situazione attuale di silenzio perdurante da tre mesi, di cui ci si augura la fine per la quale sono indicate tre possibili soluzioni con tre congiuntivi esortativi, « festinet – reddant – ne pudeat ». Con cura attenta vengono successivamente fissate le due tipologie poetiche da evitare, i genera bucolici e georgici, « silvas – rura nemusque » (9-10). La forma poetica per eccellenza non può che essere quella dell’Eneide nella elaborazione artistica, nella musicalità del verso, nella ricchezza lessicale ecc. (11-22). Conseguentemente c’è una ribattuta sul valore assoluto di Virgilio al quale tutti, Greci e Latini, debbono inchinarsi, « Cedant Virgilio Grai, cedantque Latini » (23-28). Il finale rende attestazione della assoluta condivisione di R. di questi giudizi, già espressi in tempi non sospetti ed ora ripetuti. L’ultima parola è la topica formula di commiato in uso alla fine delle lettere, « Vale » ‘saluti’.  









































































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Commento 1-4 Quem, precor, inter nos habitura silentia finem ? Cur tandem inceptum Musa relinquit opus ? Tertia fraterno lustrat jam lumine terras Luna, sed e vestro littera nulla solo. 1  





I primi due distici pongono, apertamente il tema situazionale, sottesamente il problema dello stile con cui modulare le lettere facendone filtrare exempla quali le metafore (« Musa » = ispirazione), l’enjambement (« Luna ») e un certo sapore epico delle immagini del tipo « Tertia ... lustrat lumine terras / Luna »). La clausola « silentia finem » fotografa la situazione di stallo della corrispondenza epistolare che pure era iniziata con passione, « tandem inceptum », ma che ora è interrotta da tre mesi. Le altre tre clausole toccano note delicate : « relinquit opus » esterna il rincrescimento per la perdita, più che del commercio di notizie, dell’offerta di versi quasi in un’affettuosa gara di esaltazione poetica ; « lumine terras » colora la relazione con una pennellata d’intimità in un invito a porsi reciprocamente sotto un cono di luce ; « nulla solo » affonda un buffetto al cugino flemmatico per aver interrotto la comunicazione, rinchiuso pigramente nel suo paese. Questi tratti dolci-amari si possono meglio comprendere quando si tengano presenti i reali rapporti nel triangolo, R., Nicolas Vitart, P.-R. Nel 1638, un anno prima della nascita del poeta, sotto l’ordine reale di dispersione da P.-R., tre Messieurs, Antoine Le Maître, Simon Le Maître e Cl. Lancelot si rifugiano a La Ferté–Milon, il paese di R., presso i Vitart e qui rimangono per più di un anno. Sembra così normale che si siano stabiliti stretti rapporti d’amicizia fra i Solitari, i Vitart e i Racine. Fra quest’ultimi due gruppi c’è anzi la sicurezza, dato che il poeta all’uscita dal Collège parigino di Harcourt trova ospitalità proprio presso Nicolas Vitart all’hôtel del duca di Luynes, di cui il cugino era intendente e uomo di fiducia. Più dolente doveva quindi riuscire il silenzio fra parenti legati in un giro di rapporti molto stretti. Di questa situazione d’intima sofferenza ne è prova sottile l’ordo verborum per cui sono posti contigui « Tertia fraterno », il vincolo affettivo e la durata del silenzio. Un altro tratto dolente è racchiuso in quella menzione della « Luna », la quale sarà pure funzionale alla tempistica, ma che comunque conferisce sempre un segno d’intimità, tanto più che la citazione è rilevata dalla posizione in enjambement, uno dei soli quattro (18, 22, 26) in questa composizione, i quali poi sono meno marcati per avere un riferimento vicino, mentre per « Luna » il riferimento è distanziato, ricorrente ad incipit al verso antecedente. Vista la cura con cui R. ha costruito il primo verso, con la serie di sei nasali che conferiscono un effetto fonosimbolico di soffio, è legittimo pensare ch’egli non vi profondesse solo una realizzazione di poesia, ma che intendesse anche  

















































1  Per quanto riguarda il testo ricordo che Mesnard (iv p. 215) informa che questa poesia come la Laus hiemis, l’In Avaritiam, l’In Avarum, la De Morte Henrici Montmorancii, egli l’ha trascritta da una copia ms. di Auguste de Maurois.

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caricarlo di un valore programmatico di scelta di poetica. Attraverso la ripresa di una movenza da un episodio eneidico famosissimo e fondamentale nell’economia del poema, quindi di tenace memorizzazione, R. propone come reciproco modello l’Eneide da cui proviene quem das finem, rex magne, laborum ? (1, 241) riprodotto persino nella forma interrogativa in « Quem ... habitura silentia finem ? ». 1 Anche al terzo verso, anch’esso ricco di effetti fonosimbolici per la presenza di sei liquide e sei dentali, la clausola « lumine terras », che pure ricorre in Lucrezio 2,144 e in Cicerone nel fr. poetico 67,2 e negli Aratea 1,473, è all’Eneide però che ci riporta direttamente per l’esservi quasi formula per l’indicazione dell’inizio di un giorno di formidabili ajriçteivai : et iam prima novo spargebat lumine terras / Tithoni Croceum linquens Aurora cubile, 4,584 = 9,459.  















5-8 Quin age, nunc crebro festinet epistola cursu ; Nunc reddant solitas carmina nostra vices. Ne pudeat longos interrupisse labores, Doctaque nobilibus fundere verba modis.  

L’invito a riprendere lo scambio è articolato su tre congiuntivi esortativi, quindi in un tono morbido, che però non tralascia d’indicare certe condizioni abilmente inserite col porle, non dirette, ma come riempitivi dei periodi. « Festinet » sottolinea l’urgenza di una ripresa a breve, scherzosamente con l’interiezione ad incipit « Quin age » ‘Orsù presto’. Il secondo congiuntivo prospetta l’utilità reciproca della relazione, « reddant ». « Ne pudeat » mira a togliere di mezzo ogni ritegno del cugino a riprendere lo scambio interrotto. Nel figurare la nuova situazione R. introduce en passant le condizioni : innanzitutto la frequenza « crebro cursu », espressa all’ablativo quindi in subordine rispetto al soggetto « epistola ». L’obiettivo è che le notizie non siano superate dalla vox publica che le renderebbe inutili e che gli affetti non illanguidiscano nelle lunghe interruzioni. La corrispondenza avverrà in versi e questo tratto è posto in rilievo dalla collocazione di « carmina » al nominativo : l’obiettivo è quello di arrivare a raggiungere una corrispondenza fra stile ‘alto’ e altezza di pensieri, « docta nobilibus verba modis ». In quest’ottica non ci si dovrà sentire paralizzati dall’imbarazzo di aver interrotto lo scambio epistolare e dal conseguente ritegno a riprenderlo. I modelli per la versificazione e per lo stile sono resi evidenti dalle riprese testuali. Da Virgilio proviene il nesso sintattico Ne pudeat + infinito, geo. 1,80 dove ricorre anche la parola labor naturalmente intesa nel senso agricolo di ‘fatica’. « Nostra » in clausola è così frequente da riempire tre colonne del De fine versus di Mastrandrea. Più corrispondenze offre Ovidio al quale rimanda epistola sempre in clausola in ex Ponto 1, 2, 5 ; 3, 5, 1 ; 4, 11, 9. Anche verba in clausola proviene da Ovidio ex Ponto 4, 13, 20. Del tutto naturali sembrano queste riprese dalle Epistulae ex Ponto per la consonanza di situazioni : Ovidio vuole uscire dall’esilio, R. vuole uscire da un isolamento ; comune è il tono delicatamente doloro 















































1  È dal discorso di Venere a Giove che R. ama attingere anche nella composizione ad Christum, v. 1 < Aen. 229-230 ; v. 37 < Aen. 1, 240 ; e v. 19 in cui è riprodotto il presente verso 1, 241.  



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so. È stato osservato che la separazione dei due amanti nella Bérénice apparenta la coppia Tito-Berenice a quella antica Enea-Didone, ma vi corre una grossa differenza perché, essendoci fra Tito e Berenice un amore puro, la tragedia non si scatena su un personaggio, ma verte sul generale ‘dolore della separazione’. Questo tipo d’afflizione in sostanza fa sentire la voce di Ovidio le cui eroine nelle Heroides sono inquiete, sofferenti, delicatamente lamentose. È così che al tragico si sostituisce l’elegiaco. 9-10 Jam silvas lusisse sat est : majora loquamur ; Non Phoebum semper rura nemusque juvant.  



R. ha costruito questi due versi con tramature fonosimboliche, con sibilanti, sette, al primo ; con nasali, sette, al secondo, ovviamente nell’intento di rendere forte il messaggio di poetica di cui intendeva caricarli. In uno squarcio di metapoietica R. qui prospetta un cambiamento che deve essere inteso come abbandono del genere bucolico e georgico per un nuovo livello di poesia all’altezza della nuova circostanza : « Jam » respinge quei due genera in blocco ; « Non » individua il rifiuto con particolare precisione : « silvas » alludono al genere bucolico, « rura » denotano la poesia georgica. E ancor più : curiosamente il rigetto della poesia bucolica è fatto con la ripresa d’un emistichio da una delle più famose composizioni virgiliane, la ecloga 4 ritenuta anche profetica, e proprio dal suo incipit, « majora loquamur » < maiora canamus. La sostituzione di canere con loqui è quanto mai indovinata perché loqui può significare ambivalentemente e un ‘parlare in tono moderato’ come si richiede in una conversazione amicale e un ‘tuonare gonfio’ come si evince da Quintiliano omisso ... tumore in quibusdam causis loquendum est (12, 6, 5).  





























11-12 Me modo detinuit divini Musa Maronis, Quae magni Aeneae tristia bella canit.

Ecco ora l’esplicitazione del modello da seguire : il Virgilio epico ibridato con Ovidio. A riprova si può addurre l’uso, come pure nelle altre composizioni latine, del distico, che è tipico dell’elegia ; una scelta dell’esametro sticometrico avrebbe portato decisamente nella direzione epica. Che R. intendesse affidare forti significati soprattutto a questo primo verso risulta evidente dalla strutturazione, pesante e unica, dell’esametro con tre gruppi allitteranti in successione. Il gruppo iniziale « Me modo » pone in rilievo lo scrivente quasi a sfidare il cugino a seguire le sue orme ; « modo » fissa l’epoca del cambiamento che per un diciassettenne non può che essere avvenuto poco prima. « Detinuit » lancia due mesaggi, l’uno temporale che rimanda il cambiamento al passato in allineamento col precedente « modo » ; l’altro valutativo di una maturazione poetica nel senso che R. ha avuto una ‘completa occupazione’ da parte di Virgilio dato che il perfetto ha come valore fondamentale il compimento totale del fatto, tale che poi gli effetti ne rimangono stabili. Così « detinuit » vale ‘poc’anzi mi ha totalmente invasato’ Virgilio talché ne rimango ‘ancora invasato’. È chiaramente prospettato quello che poeti antichi e moderni hanno raffigurato topicamente come ‘divino invasamento’ da parte delle  



























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Muse o di Apollo sull’Elicona e in altri luoghi sacri alle divinità della poesia. Lo sforzo di superdotare questo verso è evidente nella scelta dell’adnomen del poeta antico, « Maro », per creare l’allitterazione con « Musa », in una suggestione identificativa Virgilio = Musa = Poesia, scelta fatta con forte decisione 1 quando lo stesso Virgilio nella chiusa delle Georgiche adopera il suo nomen : Illo Virgilium me tempore dulcis alebat / Parthenope (4, 563). All’Eneide rimanda il nesso tristia bella (7, 325) che s’incrocia con moduli ovidiani, bella cano (am. 2, 18, 12), bella canunt (trist. 2, 1, 360).  











13-18 O quantum cunctos visus superasse poetas ! Quantum in Pieriis eminuisse choris ! Quem tanto conferre viro aut componere possis ? Quod tandem in terris clarius exstat opus ? Si quaeras artem et numeros, ubi copia fandi Largior, aut pariter verba rotunda fluunt ?  









In questo secondo squarcio di metapoietica R. allinea le motivazioni dirette che spingono in favore della scelta di Virgilio a modello, e un indiretto suggerimento in favore di Ovidio. Il susseguirsi di due esclamative e di tre interrogative retoriche tradisce un coinvolgimento appassionato di R. in un alone enfatico. Il « visus » ellittico di forme di esse + infinito richiama alla mente la descrizione iniziale negli Annales dell’effetto della metempsicosi per cui Ennio si sente la reincarnazione di Omero, « visus Homerus adesse poeta » (6 v.2). Sembra di poter immaginare che anche R. suggerisca di voler essere considerato la reincarnazione e il continuatore di Virgilio ed anche di autoproclamarsi poeta ‘alto’. Il v. 13 è impreziosito d’una sequenza fonosimbolica di sette sibilanti proprio perché risultasse al livello d’essere caricato di tanta significazione. L’accenno ai cori delle Pieridi rinforza il quadro della messa in scena d’una consacrazione poetica descritta tanto appassionatamente da indurre a pensare ad un desiderio d’estensione autoreferenziale. Le Muse infatti già con Ennio erano entrate a far parte del rituale della consacrazione a poeta. E le Muse o Pieridi (identificazione sottolineata da Cic., Musae quas Pieridas et Pierias solent poetae appellare, de nat. deor. 3,54) saranno evocate come creatrici di poeti nella chiusa cerimoniosa della lettera a L’Abbé Le Vasseur [Uzès, novembre 1661] : « Incipe, si quid habes : et te fecere poetam / Pierides » (J. Racine, ii, p. 406), esametro che è la ripresa pari pari di ecl. 9, 32-33 con la necessaria sostituzione dell’originale me con « te » per il riferimento all’interlocutore. La ripresa del testo virgiliano potrebbe, per una maliziosa induzione, richiamare il seguito che si prospetta autoreferenziale : sunt et mihi carmina ; me quoque dicunt / Vatem pastores (33-34). Seguono enfatiche considerazioni sulla grandezza di Virgilio al quale non si può paragonare e nemmeno accostare alcuno, e sulla bellezza dell’Eneide, ‘luminoso capolavoro’. È sintomatico che la menzione dell’Eneide sia fatta con  























1  Avrà R. tenuto conto del Cupido cruciatus del poeta gallico Ausonio, virgilianista al limite dell’antivirgilianismo, in cui ricorre il nesso Musa Maronis al primo verso ?  

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un pentametro ovidiano, quo nullum Latio clarius exstat opus (ars am. 3, 338), marcatamente riprodotto con la ripresa integrale del secondo emistichio, con la variazione del relativo quo in « quod » mantenuto ad incipit, e la sostituzione di Latio con l’enfatico « in terris ». Questa citazione del capolavoro virgiliano attraverso la mediazione ovidiana è la chiara prova della scelta di un secondo modello integrabile al chiaro fine di attenuare la forza epica delle riprese eneidiche attraverso la mediazione ovidiana, e di inclinare verso toni elegiaci, armoniosi. La tendenza risulta evidente dal taglio che R. ha fatto dell’espressione ovidiana tratta dall’ars a. 337-338 et profugum Aenean, altae primordia Romae / quo nullum Latio clarius exstat opus eliminando le menzioni altamente epiche degli errores di Enea e delle conseguenti origini di Roma e perfino sostituendo a Latio, luogo della battaglia fondante di Roma, un generico « in terris ». Non può essere casuale che spesso una ripresa eneidica o virgiliana si trovi accoppiata a una ripresa ovidiana. In questa composizione al v. 7 l’attacco « Ne pudeat » virgiliano (geo. 1, 80) è connesso con « verba modis » in clausola come si trova in Ovidio ex. P. 4, 13, 20 ; così al v. 12 i tristia bella (canit) eneidici (7, 325) subiscono la sovrapposizione di nessi ovidiani del tipo bella cano (am. 2, 18, 12) o bella canunt (tris. 2, 1, 360), tratti da due opere di sapore personale intimistico. Al v. 29 l’esametro quasi interamente virgiliano sed quid ego haec autem (nequiquam ingrata) revolvo (Aen. 2, 101) trova il seguito nella memoria ovidiana « Desinat ascripto littera nostra vale » leggera modificazione di quid restat ? ut adscribat littera nostra ‘vale’, proveniente da quelle heroides (21, 248) che rappresentano proprio l’esatto tono sofferente, inquieto, delicatamente accusatore. A iv 31 – per recare attestazioni dalle altre composizioni r. – la clausola virgiliana pignus amoris (Aen. 5, 538 e 572) trova una sovrapposizione da Ovidio met. 3, 283 e 8, 92. A v 3 la memoria virgiliana numen adoras (Aen. 3, 437) sembra svanire sotto l’insistito uso che ne ha fatto Ovidio, met. 11, 540 ; trist. 3, 8, 13 ; ex P. 2, 2, 109 ; 3, 1, 163. A vii 4 ugualmente la clausola moenibus urbis di Aen. 12, 116 è sopraffatta dalla compiaciuta insistenza ovidiana, met. 7, 553 ; 8, 298 ; 11, 526 ; 13, 261 ; 15, 586 ; fast. 5, 135. È importante sottolineare che il giovinetto R. già nelle prime composizioni mostri un’inclinazione per la sentimentalità epidermica, elegiaca che poi troverà l’apice nelle tragedie, specie nella Bérénice. Già dalle due prime rappresentazioni della Bérénice Villars (La critique de Bérénice, 1670 ; riprodotta da Forestier, J. Racine, i, p. 516) notava che R. « a trouvé à propos pour s’éloigner du genre d’écrire de Corneille, de faire une pièce de théâtre, qui depuis le commencement jusq’à la fin, n’est qu’ un tissu galant de Madrigaux et d’Élégies ». Dei giudizi sull’Eneide : ars è parola della critica indicando la ‘tecnica’ del comporre e del narrare ; numeri è un tecnicismo indicante il ritmo metrico che rende gli esametri musicali ; copia fandi vale sì ‘ricchezza di stile’, ma nasconde un abile gioco intertestuale perché è la ripresa volta in senso positivo dell’espressione che nell’Eneide è prettamente negativa, gettata in faccia violentemente (cfr. exarsit violentia Turni, 11, 376) a Drance bollato come chiacchierone per la larga quidem, Drance, semper tibi copia fandi (11, 378) con  























































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il successivo rinforzo quae (sc. verba) tuto tibi magna volant. 1 Anche larga è ripreso da R. e rinforzato nella forma comparativa, che è posta ad incipit e in enjambement.  

19-22 Hic, fateor, summus, qui jucundo utile miscet : Pulchrius an quisquam recta Marone docet ? Undique figmentis sublimia dulcibus ornat Carmina, queis veri lux veneranda latet.  



Un puntuale giudizio critico che nella sostanza è diretto su Virgilio, espresso, possiamo meglio dire, mediato attraverso l’ars poetica di Orazio : omne tulit punctum qui miscuit utile dulci (343). È riprodotto il verbo miscere che indica la delicata operazione di introdurre i due elementi in proporzioni bilanciate in modo da ottenere il massimo d’una coesa elaborazione poetica. R. introduce una variante « iucundo » in sostituzione di dulci : sfumatura appena percepibile ad una lettura cursoria, ma di un certo peso differenziale. Iucundus nel trasparente collegamento etimologico con iuvare, vale ‘aiutante’ e ‘gradito’ come scriveva Cicerone che nel de finibus 2, 4, 14 glossava : iuvare in utroque (sc. corpore et animo) dicitur, ex eoque iucundum, e nell’epistola ad Atticum 16, 16 F, 17 scio quam sis amicis iucundus, nemo nos in hac causa plus iuvare potest quam tu, giocava sull’etimo usando prima iucundus nel valore di riuscire ‘gradito’ agli amici poi lemmando iucundus con iuvare che perciò ora vale ‘essere d’aiuto’. A fil d’etimo quindi R. con iucundus recupera sì il senso oraziano di dulci, ma allarga l’indicazione semantica verso il ‘giovevole’, facendo una tautologia ‘mescola l’utile a quello che è d’aiuto’. Questo spostamento verso il lato vantaggioso è dovuto al fatto che ora R. tratteggia il Virgilio mago, il profeta sotto traccia del Cristianesimo, aderendo insomma a quella leggenda che ha attraversato tutto il Medioevo e che ha trovato la consacrazione in Dante che lo ha eletto a sua guida. Il ‘giovevole’ trova una prima esplicitazione in « recta docet » mentre a « Pulchrius » è affidata una generica allusione al ‘piacevole’ ; e un secondo sviluppo in « veri lux veneranda latet » naturalmente nei versi virgiliani. Sul verso 22 che suggerisce un senso cristiano latente di Virgilio, R. ha profuso grande cura stilistica : l’enjambement in « Carmina » ; l’uso di un quadrisillabo nel secondo emistichio, proprio quell’aggettivo che qualifica la « veri lux » = Cristianesimo ; l’arcaismo « queis » dat.- ablativo plurale dal tema *Kuo-, forma eliminata da quibus dal tema *Kui, e un arcaismo è parola di pregio nell’epica che ha la tendenza a prospettare nel passato tutto il meglio. « Queis » trova un riscontro in una esclamazione dalla movenza tipica nella poesia eroica : terque quaterque beati / quis ante ora patrum Troiae sub moenibus altis / contigit oppetere (Aen. 1, 94ss.). Nella figura così prospettata di Virgilio si fondono le due grandi componenti dell’ideazione poetica di R., il Classicismo e la Religione.  















































1  Da questo contesto, fondamentale nell’economia della azione, l’ultima assemblea dei Latini, quindi facilmente memorizzabile, tanto più per la probabile allusione a Cicerone, credo che R. abbia tratto l’espressione, più che da 11, 248 dove data copia fandi indica la concessione della parola agli ambasciatori.

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poesie latine di jean racine 23-28 Exquisito alii celebrentur acumine mentis, Hic lingua, ingenio judicioque potens. Ambitiosa suum frustra miratur Homerum Graecia, Lucanum Corduba magna suum : Cedant Virgilio Graii, cedantque Latini ; Unum Fama omni nomen in orbe canat.  



Dopo le enfatiche esaltazioni di Virgilio, ecco ora il confronto, la çuvgkriçiç, topica nella mentalità antica sia nella critica letteraria che nella storiografia, fra il Mantovano e i poeti latini, in particolare Lucano, e il sommo Omero. La çuvgkriçiç è modulata su due schemi, l’uno di stampo virgiliano, l’altro di sapore ciceroniano. « Exquisito alii celebrentur » è chiaramente ricalcato nell’ambito delle riflessioni che fa Anchise, sulla indicazione conclusiva della missione del popolo romano, Excudent alii spirantia mollius aera / ... vivos ducent de marmore voltus / orabunt causas melius ... / describent … dicent / tu regere imperio populos, Romane, memento (Aen. 6, 848 ss.). Con cura R. ha rimodulato l’ipotesto : riprende pari pari alii in seconda posizione a formare le due brevi del secondo dattilo e la lunga del terzo dattilo ; a excudent fa corrispondere un composto ugualmente in -ex, « Exquisito » ; varia nel gusto di un grammatico antico con un congiuntivo concessivo « celebrentur » i futuri virgiliani, con un passaggio invero facile data la vicinanza espressiva fra queste due forme verbali come attestano le simiglianti desinenze fra futuri e congiuntivi presenti nella terza e quarta coniugazione. Alla fine in perfetto parallelismo con la missione del popolo romano vaticinata da Virgilio, R. lancia un augurio di eterna fama per Virgilio, « Unum ... omni nomen in urbe canat ». Dunque da Virgilio con Virgilio. Lo schema ciceroniano derivato dal famoso slogan cedant arma togae, viene duplicato in « Cedant Virgilio Graii, cedantque Latini ». Così la letteratura greca nel suo picco, Omero, e la letteratura latina nel suo vice-picco Lucano vengono posposte a Virgilio, ovviamente con un pizzico d’enfasi. Sulla « Fama » R. gioca abilmente in quanto la volta in senso positivo presentandola come la dea che diffonderà il nome di Virgilio in tutto il mondo, mentre Virgilio le impone costantemente una connotazione fortemente negativa, a cominciare dal pauroso ritratto che ne fa al primo apparire sulla scena epica, al conseguente sconvolgimento che provoca col diffondere magnas per urbis la notizia del coniugium di Enea con Didone per cui le viene affi bbiata la definizione : Fama malum, quo non aliud velocius ullum (Aen. 4, 173-197), pienamente giustificata dalla situazione di estremo pericolo in cui getta la regina nei confronti del potente vicino Iarba. Svelerà poi il segreto allestimento della flotta da parte di Enea, causando così la pazzia e il suicidio di Didone (Aen. 4, 298-303). Annuncerà per prima la morte di Pallante e il suo trasporto in patria su un feretro (Aen. 10, 505-510) causando grande scompiglio (Aen. 11, 139-181). Naturalmente un verso così caricato di significati R. lo rende forte di ritrovati retorici, qui il fonosimbolismo su 10 nasali.  































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giampietro marconi 29-30

Sed quid ego haec autem toties memorata revolvo ? Desinat ascripto littera nostra vale.  

È il sigillo finale sui giudizi precedentemente espressi, specie quelli su Virgilio che occupano larga parte della composizione. L’indicazione « haec toties memorata revolvo » fa pensare che per R., avendo egli espresso in continuazione questi giudizi su riprese virgiliane, Virgilio è stato, è e sarà sempre il modello stilistico per ars + numeri + copia fandi tanto più che il verso trova una ben visibile corrispondenza con le parole di Sinone che in una calcolata ajpoçiwvphçi~ domanda retoricamente sed quid ego haec autem / (nequiquam ingrata) revolvo ? (2, 101) per accrescere la curiosità infiammata dei Troiani, ormai inclinati a credere. È significativo che l’ultimo verso sia una ripresa da Ovidio, quid restat ? ut adscribat littera nostra ‘vale’ (her. 21, 248). Di nuovo e da ultimo risaltano i due più forti ispiratori classici, Virgilio e Ovidio.  







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giampietro marconi [iii] Laus hiemis

Tandem importuni procul hinc cessere calores ; Invisi tandem praeteriere dies. Jam non pestiferis damnosa canicula flammis Aestuat ; haud rapido Phoebus ab axe furit. Jam non perpetuis fervens micat ignibus aether ; Non jam fulminibus nubila scissa fremunt. Non funesta lues misero spatiatur in orbe ; Morborum haud terris incubat atra cohors. Libera non laxis ludit lascivia fraenis ; Non movet infandos turba profana choros. Non obscura truces nemorum tegit umbra latrones ; Non omnem insidiis detinuere viam. Non jam vastatis miles dominatur in arvis ; Non miseranda urbes obsidione premit. Non tristes furibunda ciet discordia pugnas ; Non dira insanus saevit in arma furor. Immensis non rura jacent mutata sepulcris, Flumina nec pratis sanguinolenta fluunt. Sed pax pulsa redit tandem, gladiosque recondit, Et dulces cornu divite fundit opes. Arva colonus habet ; felix requiescit arator ; Nec suaves somnos classica pulsa fugant. Nunc duri optato clauduntur fine labores ; Et rigidum posito vomere cessat opus. Quam juvat immites recubantem audire susurros Ventorum, et somnos, imbre juvante, sequi ! Nunc remeat ludis studiosa caterva relictis, Et gestit Phoebum sollicitare suum. Musarum nunc tecta patent, foribusque reclusis Reddunt jucundos templa diserta sonos. Nunc divina sacris fumant altaria donis : Gaudet communi relligione Deus. Autumni verisque alios, aestusque voluptas Decipiat ; sed nos unica ducit hiems. Haec verum pacis regnum placidaeque quietis ; Haec summi adventu nobilitata Dei.  



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poesie latine di jean racine [iii] Elogio dell’inverno Finalmente lontano di qui si son ritirati i fastidiosi calori ; Gli odiosi giorni finalmente son passati via. Non più con le sue pestifere fiamme la rovinosa canicola Riarde ; dal suo rapido carro Febo non furoreggia. Non più dardeggia con fuoco continuo l’etere fiammeggiante. Non più nubi squarciate dai fulmini rimbombano. Nessuna funesta peste si propaga per il mondo sofferente ; Delle malattie non incombe sulla terra la lugubre schiera. Libera, non impazza la dissolutezza per i freni allentati ; Non celebra le sue danze indicibili la folla empia. Non protegge l’oscura ombra dei boschi i feroci banditi ; Non ogni via tengono sotto insidia. Non più un soldataccio spadroneggia per i devastati campi ; Non opprime le città con un miserevole assedio. Non eccita la furibonda discordia luttuosi combattimenti ; Non furoreggia nelle funeste armi un’insana pazzia. In immensi sepolcri non si trovano ad essere mutate le campagne, Né per i prati scorrono fiumi arrossati di sangue. Ma la pace esiliata ritorna finalmente, e le spade ripone, E dolci dalla ricca cornucopia versa risorse. I campi il colono possiede ; felice riposa l’aratore ; Né i soavi sonni le trombe squillanti scacciano. Ora nella fine desiderata si chiudono le dure fatiche E deposto il vomere termina il rude lavoro. Quanto è piacevole ascoltare sdraiato gl’impetuosi sussurri Dei venti, e con la pioggia conciliante, abbandonarsi al sonno ! Ora ritorna l’esercito dei fans abbandonati i giochi, E si scatena a sollecitare il suo Febo. Delle Muse ora sono aperte le case, e dalle porte schiuse Risuonano i templi eloquenti di dolci armonie. Ora i divini altari fumano dei sacri doni : Gode di una universalmente accolta religione Dio. Dell’autunno e della primavera e dell’estate il piacere altri Inganni, noi invece solo l’inverno affascina. Questo è il vero regno della pace e d’un placido riposo ; Questo è nobilitato dall’Avvento del sommo Dio.  























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giampietro marconi Allitterazioni

Dell’allitterazione R. non crede utile l’impiego in questa composizione che costruisce con gusto pittorico, per quadretti tirati via alla svelta quasi sticometricamente, in serrate sequenze. Landscapes dai colori forti quasi in aloni tragici nella parte relativa all’estate, affreschi che confinano col prezioso nelle descrizioni delle situazioni invernali. In questa ricerca cromatica le allitterazioni in effetti non potevano offrire valore aggiunto ; sono infatti solo 12 che su 36 versi si fermano ad una media del 33%, debole a fronte di quelle registrate nelle altre composizioni che presentano percentuali superiori del 40% fino al 63% nell’In avarum. Quattro esempi però meritano un’analisi per l’efficacia espressiva. Al primo verso, quindi in rilievo, due serie allitteranti, l’una a trama intrecciata, « importuni hinc procul » fra i e hi e p nel composto « importuni » e « procul », l’altra a sequenza contigua nella clausola « cessere calores », sono funzionali a comunicare tutto l’empito festante per la sparizione della calura estiva, con la specificazione del luogo (« hinc »), della distanza dell’allontanamento (« procul »), della gioia per la sparizione completa (cfr. il perfetto, la forma verbale dell’azione compiuta) dei fastidi connessi con la canicola, gl’ « importuni calores » che racchiudono a cornice tutto il verso. Un quadro differente, alla J. Bosh, magari solo abbozzato, dipinge l’allitterazione che al v. 9 legando quattro parole « Libere x laxis ludit lascivia » vuol ritrarre lo scatenarsi delle passioni (« lascivia ») senza alcun pudore (« Libera ») in un impazzare (« ludit ») di piaceri sfrenati (« laxis »). L’estate è odiosa come le altre due stagioni « Autumni verisque alios, aestusque » al più potrà ingannare (« decipiat » in enjambement al verso successivo) altri, detto con sprezzo, dopo tutte le lodi tributate all’inverno (33). Una di queste è accennata con una modulazione elegiaca, tipicamente tibulliana, « somnos imbre juvante sequi » (26). Questi esempi, pochi, ma efficacemente espressivi dimostrano che R. costruisce la sua poesia non con la retorica in supplenza di contenuti mancanti, ma con quella misura che è segno di padronanza dei mezzi espressivi, al livello d’una certa maturità poetica.  





























































Fonosimbolismo Anche al fonosimbolismo R. ricorre poco, dato che su 36 versi ne offre solo 11 esempi, nella modesta media del 30%. Però in alcuni casi con un variato uso fonosimbolico raggiunge un notevole accrescimento del livello espressivo. Così con una sequenza di otto nasali, « Jam non pestiferis damnosa canicula flammis » (3) sembra voler comunicare una sensazione di afflosciamento sotto le vampe brucianti delle fiamme che distruggono tutto. Un’altra immagine drammatica dell’estate riesce a creare con « Jam non perpetuis fervens micat ignibus aether » (5) in cui con sei nasali rafforza lo scenario d’un paesaggio soffocato dal solleone. Certo con le dentali unite alla canina littera r R. moltiplica facilmente gli effetti nella pittura di un covo di banditi nascosti nel  







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folto d’un bosco, « Non obscura truces nemorum tegit umbra latrones » (11) : i nessi tru – te – it – tro danno l’impressione di riprodurre onomatopeicamente le devastazioni del fogliame fatto a pezzi per creare invisibili nascondigli, in una perfetta sintonia fra l’ombra naturale e il nero, trucido atteggiamento dei fuorilegge. Nella rappresentazione degli scenari estivi, con le dentali R. sottolinea l’allegria d’una vita rumorosamente felice in piena libertà. In « Reddunt jucundos templa diserta sonos » (30) con la sequenza di sette dentali dà l’idea del riverbero sonoro dei canti, delle preghiere corali, dei sermoni dentro e in libera effusione fuori dei templi. Ad un effetto ‘impressionistico’ sembra mirare la rappresentazione della folla di sportivi all’uscita dalle palestre a giochi finiti, « Nunc remeat ludis studiosa caterva relictis » (27) : qui le dentali sembrano riprodurre il chiasso dei fans vincitori inneggianti e le invettive rabbiose di quelli che hanno perso. Rende più forte il contrasto fra un’immagine di pace goduta con voluttà e un fracasso di guerra la modulazione « Nec suaves somnos classica pulsa fugant » (22) : la sequenza delle sibilanti, sette, accosta il quadro di felice abbandono allo stridulo suono delle trombe che danno segnali di combattimento.  





















Sviluppo composizionale Con rigida (scolastica ?) razionalità R. sviluppa l’elogio dell’inverno sotto due aspetti in perfetta equivalenza di versi e spesso in opposizione speculare : diciotto versi per mettere in rilievo i fenomeni che sono cessati, di conseguenza con espressioni formalmente negative che se private della negazione si risolverebbero in caratterizzazioni dell’estate ; e diciotto versi per schizzare quadretti invernali in positivo. Le rappresentazioni formalmente negative si rendono evidenti anche graficamente dalla negazione posta ad incipit di molti versi, in una lunga serie : Jam non ‘non più’ 3 Non 12 Jam non 5 Non jam 13 Non jam 6 Non 14 Non 7 Non 15 Non 10 Non 16 Non 11 Se a queste ricorrenze incipitarie si aggiungono le negazioni nel corpo dei versi, « non » ai vv. 9, 17 ; « haud » 4, 8 ; « nec » 18, si sommano sedici giri di diniego che su diciotto versi rivelano un ampio e insistito sfogo liberatorio dagli inconvenienti lamentati nella stagione estiva. Significativo in questo senso si presenta il distico iniziale che reca due « tandem », il primo ad inizio della composizione : evocano il sospiro di sollievo o il grido di gioia per la cessazione dei fastidi climatici e per il ritrovato benessere. Della duplice valenza si può cogliere una spia nella seconda parola della composizione, in quell’« importuni » che nel secondo elemento componente, portus, suggerisce una tranquilla sicurezza come traspare dall’espressione metaforica in portu esse equivalente alla greca ejn limevni plevw. Il primo elemento componente però, in- ribalta in negativo  

































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la sensazione positiva alla quale pure recano appoggio i due avverbi « procul » e « hinc » che segnano la assoluta fine delle sofferenze, scacciate via e lontano dall’inverno. L’opposta serie dei vantaggi invernali è introdotta da « Sed » ad incipit del v. 19. La prima parola della serie è « pax », quel benessere fisico e psicologico che riesce tanto più gradito in quanto era stato cacciato via, « pax pulsa », nesso rafforzato dall’allitterazione, ma che ora « redit » accolto con alti gridi di gioia esplicitati da un terzo « tandem ». I quadri invernali sono spesso annunciati da un « Nunc », ad incipit ai vv. 23, 27, 31 e nel corpo dell’esametro al v. 29, per non parlare degli epidittici « Haec » dei vv. 35 e 36 che rimandano ad una situazione sotto gli occhi. C’è poi una serie di quadri invernali in contrapposizione a quelli estivi : al « dira insanus saevit in arma furor » (16) si oppone la « pax » che « gladios recondit / Et dulces cornu divite fundit opes » (19-20). Alle devastazioni provocate dalle guerre che si scatenano d’estate subentra nell’inverno la cura dei campi, cosicché al « vastatis miles dominatur in arvis » (13) si oppone il « Arva colonus habet » (21). Alla desolante visione dei « rura jacent mutata sepulcris » (17) si sostituisce la riposante immagine del « felix requiescit arator » (21). Elegiaco è il morbido godimento nel « recubantem audire susurros / Ventorum, et somnos, imbre juvante, sequi ! » (25-26), esattamente all’opposto dell’incubo per cui « Morborum terris incubat atra cohors » (8). Alla sfrenatezza estiva della gioventù la cui « Libera laxis ludit lascivia fraenis » (9) che arriva perfino a cantare « infandos choros », ora si contrappone il desiderio di fare poesia « gestit Phoebum sollicitare suum » (28). A fronte degli allettamenti della primavera, autunno, estate, dei quali ci si augura che « alios voluptas decipiat » (33), l’inverno vanta la più alta solennità, la nascita di Gesù, per cui la stagione rimane « adventu nobilitata Dei » (36). 1 Come spesso altrove, s’impone anche qui il riconoscimento che il centro ideativo di R. è un intreccio di Classicismo e di Religione. Già proprio sulla base di questa poesia lo aveva notato Mesnard (IV p. 218 n. 1), che cioè R. pur parlando di Apollo, delle Muse, alla fine si riporta ad un grande evento cristiano quale il Natale. Per la componente classica, a rinforzo, si deve ricordare che lo stesso tema dell’inverno è stato molto gradito ai poeti latini che nella hiems hanno individuato una ricca polisemia. Su questo aspetto ha indagato a fondo Pierre-Jacques Dehon con due monografie : Hiems Latina. Études sur l’hiver dans la poésie latine, des origines à l’époque de Néron, Bruxelles, Latomus 1993 ; Hiems  





































































































1  Da questa serie di quadri invernali ed estivi si percepisce che è già operante quella scelta di poetica basata sull’imagination visuelle che avrà poi ampio campo d’azione nella drammaturgia. Nel verso del foglio 442 delle Quintiliani sententiae illustriores excerptae anno 1656, dunque nello stesso anno di composizione delle poesie latine, R. pone la nota « avoir devant les yeux et dans le coeur même tout ce qu’on veut dire ». Vaunois commenta : « toute la technique de composition dramatique sortira de lá : nous insisterons ... sur le mot voir que R. prodigue dès ses premières Odes, et sur la primauté de l’imagination visuelle pour le poète, surtout pour l’écrivain de théâtre. De plus R. retient ici non seulement le rôle des yeux, mais aussi celui du coeur : ... pour représenter, il faut se figurer les choses ... dans le domaine de la sympathie » (p. 154).  













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nascens. Premières répresentations de l’hiver chez les poètes latins de la République, Ed. Ateneo, Roma 2002. Dehon mette in rilievo, nel quadro della sensibilità dei poeti latini per la natura, le differenti rappresentazioni dell’inverno, le estensioni semantiche metaforiche (vecchiaia dell’uomo, idea di morte, colore bianco, periodo di riposo, mare clausum, sterilità ecc.), lo statuto dell’inverno in relazione al fatto che i Romani, ad eccezione dei Pitagorici che sono stati gli inventori della divisione quadripartita dell’anno, sentivano solo una stagione calda e una fredda. L’inverno ha continuato ad eccitare la sensibilità degli artisti ancora nel Medioevo se nel Battistero di Parma, ad es., fra le 12 stele ad altorilievo, opera dell’Antelami, rappresentanti i lavori dei mesi, spiccano quelle relative all’inverno. In terra francese merita una menzione una poesia sulle stagioni di Sainte-Beuve, in latino, Quam magis arridet. 1  

Commento 1-4 Tandem importuni procul hinc cessere calores ; Invisi tandem praeteriere dies. Jam non pestiferis damnosa canicula flammis Aestuat ; haud rapido Phoebus ab axe furit.  



I primi due distici R. li costruisce con ricchezza di figure retoriche e di movenze stilistiche tale da proporli indubbiamente come manifesto programmatico della composizione. Il primo esametro è strutturato su tre sequenze allitteranti : due in « importuni procul hinc » per la possibilità di considerare im-portuni nella forma corrente unita o nella composizione etimologica : la prima allitterazione racchiude a cornice la seconda. E « importuni » riceve un rinforzo espressivo dai collegati « procul » e « hinc » che indicano la fine della canicola, scomparsa da quel luogo e dileguatasi lontano. Il terzo gruppo allitterante collega i due trisillabi in clausola, « cessere calores ». Questo primo esametro si connette strettamente al pentametro con la rima fra « calores » e « dies », e la rima finale ricorrendo rarissimamente nella letteratura latina risulta d’una notevole forza espressiva, quasi a significare che ogni giorno d’estate è infestato dal caldo soffocante. Tra i due versi poi corre la ribattuta « Tandem – tandem » ‘finalmente’ ripetuti a riprodurre il reiterato gridare per la liberazione dalle sofferenze canicolari. Ripetizione in parallelo questa, variazioni per ottenere un accrescimento espressivo quelle di « invisi » più forte di « importuni », e di « praeteriere » di forte effetto visivo rispetto a « cessere » che inclina verso una sensazione epidermica. È da notare anche dal punto di vista stilistico-contenutistico che, più debolmente in questo distico più esplicitamente nel seguito, la laus hiemis è data da un ribaltamento della raffigurazione dell’estate, in una damnatio aestus operata dal prefisso in- in « importuni » e in « invisi » ; se però si tolgono le negazioni ne risulta una descrizione dell’estate. Giochi raffinati racchiusi nella misura d’un  



























































1  Cfr. G. Marconi1, pp. 36-61.



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distico, così come tutta la composizione procederà per distici completi delimitati dal punto fermo : 5-6 temporali estivi ; 7-8 epidemie ; 9-10 sregolatezze estive ; 11-12 insidie dei briganti ; 13-14 distruzioni delle campagne e assedi delle città ; 15-16 furori bellici ; 17-18 sepolcri e sangue. Spunta a chiusura del primo distico una ripresa da Ovidio fasti 2,34 praeteriere dies. Sul furoreggiare della canicola insiste il secondo distico che reca nell’esametro termini ‘impressionistici’ quali « pestiferis – damnosa – flammis » e un fonosimbolismo che su otto nasali produce l’effetto d’un afflosciamento per combustione totale. Il pentametro ha « Aestuat » ad incipit e in enjambement e « furit » alla fine ; in mezzo la citazione di Apollo col termine di « Phoebus » che etimologicamente vale ‘splendente’, un raggio di luce, che preso a sé avrebbe un valore positivo, ma che risulta voltato in negativo dai due verbi che racchiudono a cornice il verso.  































5-8 Jam non perpetuis fervens micat ignibus aether ; Non jam fulminibus nubila scissa fremunt. Non funesta lues misero spatiatur in orbe ; Morborum haud terris incubat atra cohors.  



I versi 5 e 6 sono i più ‘rumorosi’ del componimento come quelli funzionalizzati a riprodurre uno scenario rimbombante di fulmini fiammeggianti e di tuoni spaccanti le nubi ; a rinforzo contribuisce il fonosimbolismo creato con le f in « fervens – fulminibus – fremunt – funesta ». Sembra che i fulmini si quadruplichino per effetto delle f, la consonante che produce l’effetto di uno sfregamento quale quello che produce un fulmine quando s’abbatte su un oggetto. Il secondo distico è il più ‘orroroso’ per l’indicazione delle epidemie che incombono a schiere sulla terra. Qui R. trama il verso con la canina littera, ben nove, per dare un’idea dello stridulo gridare dei morenti. Questa ricerca degli effetti fonosimbolici rivela che R. ha fatto un’accurata lettura e una stabile memorizzazione della descrizione virgiliana della tempesta che colpisce Enea di fronte alla costa africana. Sono una cinquantina di versi tutti tramati sugli effetti fonosimbolici creati con la r o con i nessi tr o pr. Basta citare un paio di versi : insequitur clamorque virum stridorque rudentum (87) ; terram inter fluctus aperit, furit aestus arenis (107, si noti il nesso furit aestus che è ripreso da R. al v. 4 con Aestuat e furit) ; e il conclusivo interea magno misceri murmure pontum. Oltre a queste imitazioni per scelta fonica, è da segnalare la ripresa di ponto nox incubat atra (1, 89) con la opportuna modifica di ponto in « terris » che è mantenuto nello stesso caso di ablativo di luogo senza preposizione. È utilizzato anche crebris micat ignibus aether (1, 90) in « perpetuis fervens micat ignibus aether » (5) con un gusto fosco evidente nella sostituzione di crebris col più forte « perpetuis » e l’aggiunta nella stessa direzione d’una visione spaventosa, « fervens ». Veramente la semplice clausola ignibus aether ricorre frequentemente, in Ovidio met. 1, 254 ; 11, 520 ; fast. 1, 75 ; 2, 495 ; Germ. Arat 3, 5 ; Man. astr. 1, 876 ; ma credo che l’ipotesto sia da ritenere quello di Virgilio perché sua è la formulazione più estesamente ormeggiata. Rimodulazioni possono ritenersi i « nubila »  











































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da nubes (1, 88) e « fremunt » da intonuere (1, 90) perché provengono dallo stesso segmento eneidico ampiamente saccheggiato.  



9-12 Libera non laxis ludit lascivia fraenis ; Non movet infandos turba profana choros. Non obscura truces nemorum tegit umbra latrones ; Non omnem insidiis detinuere viam.  



Una panoramica estiva e un tratto fosco ‘ad effetto’ per rappresentare i due pericoli che minacciano la comunità umana d’estate : la dissolutezza del popolo che si abbandona ai divertimenti perfino a canti corali licenziosi e gli assalti dei banditi pronti dal folto del bosco a lanciarsi in grassazioni. Un parallelismo di tal fatta, fra la sfrenatezza di cittadini e le rapine lungo le strade, non poteva essere istituito che da un alunno educato nell’umbratile e rassicurante abbazia di P.-R. Del popolo festante R. dà una rappresentazione negativa col ricorrere all’allitterazione che sulla l di « lascivia » ‘dissolutezza’, la parola-chiave, lega tutto il verso « Libera x laxis ludit lascivia x », e ad un abile ordo verborum per cui ad incipit colloca « Libera » che già connota dubbiosamente il comportamento della gente che – sembra di capire – dovrebbe invece essere soggetta a ‘regole’, quelle esplicitate a fine verso con « fraenis », parola accostata a « lascivia ». L’onda negativa si allunga al pentametro in cui il popolo è denotato con « turba », termine designante originariamente il ‘disordine’ come il connesso gr. tuvrbh ‘confusione, tumulto’, passato poi ad indicare una ‘folla rumorosa e disordinata’ ma differenziandosi da rixa che si dice di due o tre persone, come fissa il Digesto 47, 8, 4 turbam multitudinis hominum esse turbationem et coetum, rixam etiam duorum (E.-M. s.v. turba). Sa di negativo anche il connesso aggettivo « profana » che nella opposizione a sacer (profanum quod non est sacrum, Festo 257L) indica chi sta fuori del fanum ‘tempio’, quindi ‘non iniziato’ e perfino ‘empio’. Riuscirà chiaro il pensiero di R. se si ricostruisce à rebours la proposizione esattamente oppositiva che suonerebbe così : ‘un ordine (opposto a « luxuria ») raffrenato da regole (« fraenis ») rigide (« laxis ») che si interiorizza (« ludit ») in riflessioni sacre (« profana ») e personali (« choros ») sì che invece d’una rumorosa folla si avrà una singola persona costumata’ (« turba »). Per tratteggiare con forza le imprese banditesche R. ricorre invece al fonosimbolismo su dentali o r anche in nesso : « obscura truces nemorum tegit umbra latrones » : si sorprende il gusto di riprodurre lo strepito d’un assalto violento, l’urlare dei banditi per terrorizzare, lo sferragliare delle armi. In « tegit umbra » si potrebbe vedere un’allusione all’etimo di latrones facilmente ravvisabile in latere come già sapevano gli antichi : latrones dicti ab latere ... quod latent ad insidias faciendas (Varr. lL. 7, 52) ; latronis ‘insidiatoris’, a latendo ... sic etiam dicti qui circa vias sunt ... quod latent ad insidias faciendas (Serv. ad Aen. 12, 7).  











































































13-16 Non jam vastatis miles dominatur in arvis ; Non miseranda urbes obsidione premit. Non tristes furibunda ciet discordia pugnas ; Non dira insanus saevit in arma furor.  



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Due distici risuonanti di guerre aperte e di torbidi politico-sociali. La guerra è connotata da quattro parole specifiche, una per verso : « miles, obsidione, pugnas, arma ». Rimanendo con l’immaginazione completamente nel mondo antico in cui le guerre iniziavano a primavera (cfr. il nome Martius ‘sacro a Marte’ e la festa del Quinquatrus o della ‘purificazione delle armi’ al 19 marzo) e cessavano nell’autunno (con l’Armilustrium o della ‘purificazione delle armi’ nel riporle al 19 ottobre) doveva risultare chiaro ad uno dedito appassionatamente agli studi e di sentimenti fortemente cristiani, che l’inverno trascorrendo senza guerre apparisse degno di laus. E all’antico ci riportano tre riprese : « miles dominatur in arvis » è chiaro ricalco sul virgiliano Danai dominantur in urbe (Aen. 2, 327), verso di forte impatto e per la violenza di quello ‘spadroneggiare’ che sottintende distruzioni, saccheggi e stupri e per il riferimento all’annientamento di Troia, quindi verso destinato a imprimersi tenacemente nella memoria. Ancor più strettamente è richiamato ancora dall’Eneide urbem obsidione premebat (8, 647) in « urbes obsidione premit ». Di Lucano risente la clausola « in arma furor » da in arma furentem (1, 68). A torbidi politico-sociali fanno riferimento discordia e furor. Discordia appartiene essenzialmente al lessico politico indicando il contrasto di opinioni politiche con sbocco in torbidi definiti nelle formule discordia civium, d. civitatis, d. civilis. 1 Cicerone traccia lucidamente il processo per cui ha origine e si sviluppa la discordia addossandone la colpa a quelli qui parti civium consulunt, partem neglegunt, rem perniciosissimam in civitatem inducunt, seditionem atque discordiam, ex quo evenit ut alii populares, alii studiosi optimi cuiusque videntur, pauci universorum (de off. 1, 85). La discordia è resa più pesante da R. con l’aggettivo « furibunda » che anticipa il « furor » del verso successivo. Anche furor appartiene al lessico politico 2 come termine tecnico indicante le seditiones dell’ignobile vulgus. Un forte quadro del furor è dipinto da Virgilio : ac veluti magno in populo cum saepe coorta est / seditio, saevitque animis ignobile vulgus / iamque faces et saxa volant, furor arma ministrat (Aen. 1, 148-150). E da questo quadro R. ha tratto saevit, furor, arma per ricomporli in « saevit in arma furor » in una urlante vicinanza. Significativamente Cicerone dipinge il tribuno della plebe Saturnino come un tribunicium furorem che vorrebbe abbattere la consularem auctoritatem (pro R. perd. reo 22 ). Ma più d’ogni altro il furor richiama alla mente l’epodo settimo nel quale Orazio dopo aver sconsolatamente rimproverato i suoi concittadini Quo, quo scelesti ruitis ? domanda furorne caecus an rapit vis acrior ? (13). È opportuno ricordare che questo epodo è puntato contro la guerra civile. R. rende più forte il contrasto tra un comportamento normale e quello furioso con l’allitterazione che stringe « in-sanus saevit ». Questo intreccio di furor e di arma può essere stato imposto dolorosamente alla riflessione di R. dallo spettacolo delle guerre di religione delle quali la più vicina era quella contro gli Ugonotti. Questi con l’editto di Nantes (1598) ave 











































1  J. Hellegouarc’h, pp. 131, 134, 538.

2  J. Hellegouarc ’h, pp. 136, 530, 558.



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vano ottenuto il riconoscimento dei diritti civili, della libertà di culto, e del possesso di alcune fortezze quali places de sûreté fra le quali quella di La Rochelle, piazzaforte che aveva il controllo della costa atlantica. Richelieu, deciso ad affermare i diritti assoluti del trono, giudicava necessario eliminare ogni diverso potere e guidava personalmente quale ammiraglio l’assedio a La Rochelle dal mare nel 1627, chiamando in aiuto anche la flotta inglese. « Miseranda » potrebbe bollare questo invito ad una potenza straniera tradizionalmente poco amica. In questo caso anche le « urbes » troverebbero un riferimento alle fortezze di terra che venivano cedute tutte dopo l’assedio nel 1628 al momento della capitolazione degli Ugonotti che riuscivano a conservare solo la libertà di culto ratificata nell’editto di Nîmes del 1629. Così, contestualmente alla riprovazione generale delle guerre, specie di quelle civili, l’alunno di P.-R. colpisce e Richelieu, il tenace nemico dell’abbazia, e i Borboni (a cui appartiene l’altro nemico di P.-R., il Re-Sole) che nella lotta contro i Guisa per la successione al trono, in otto riprese per 36 anni avevano desolato la Francia dal 1562 al 1598.  







17-18 Immensis non rura jacent mutata sepulcris, Flumina nec pratis sanguinolenta fluunt.

Due versi che chiudono la prima parte e che si pongono in particolare sintonia con i due distici precedenti (13-16) che parlavano di guerre e di rivoluzioni. Due immagini che sono d’una truculenza unica : le campagne fatte sepolcri, i fiumi fatti di sangue. Notevole quest’ultimo quadro dai colori colanti, rilevato dall’evidenziazione etimologica : « Flumina » della stessa radice di fluere trova una ripresa in clausola, in « fluunt », verbo che chiaramente rimanda al suo sostantivo posto ad incipit. Se l’etimo dà la naturalezza dei fiumi quali ‘correnti’ < fluere ‘scorrere’ quasi che la natura dei flumina consista nello scorrere (alla lettera : ‘le correnti scorrono’), « sanguinolenta » stravolge la vita dell’acqua nel suo allettante fluire, in una macchia di sangue, impressionante segno di morte. « Sanguinolenta », un pentasillabo sconsigliato dalla poetica oraziana (97) e pertanto già di per sé efficace per la rarità, occupando quasi tutto il secondo emistichio del pentametro è il sigillo rosso posto sulla sceneggiatura degli avvenimenti estivi. La snaturazione prodottasi nei fiumi investe anche i rura ‘lo spazio rurale’ allo stato naturale in opposizione a urbs, i quali invece di disporsi in arva ‘campi adatti all’aratura’ e diventare sata ‘campi seminati’ sono snaturati in sepolcri. E al mondo dei morti si sintonizza il verbo « jacent » usato frequentemente nelle epigrafi tombali moderne.  

























19-22 Sed pax pulsa redit tandem gladiosque recondit, Et dulces cornu divite fundit opes. Arva colonus habet ; felix requiescit arator ; Nec suaves somnos classica pulsa fugant.  



L’avversativa « Sed » segna il punto di svolta delle descrizioni, ora in positivo, dei graditi avvenimenti invernali, degni veramente di laudes. Le piacevolezze che offre l’inverno si sorprendono spesso come ricercate per creare una contrapposizione (come ho messo in rilievo nell’analisi dello Sviluppo composizionale) alle  



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sofferenze provocate dall’estate, e così sbalzate in maggior rilievo. Come a queste erano introduttive le negative « iam non, non, haud, nec », a queste positive è d’annuncio l’avverbio temporale « nunc », ad incipit ai vv. 23, 27, 31, nel corpo dell’esametro al v. 29, come a prospettare la presente, immediata godibilità delle felici evocazioni. Altro segno di opposizione è il « tandem » che riprende con variazione il « tandem » incipitario che valeva ‘finalmente sono finiti’, e che ora in una estensione semantica imposta dal contesto vale ‘finalmente incomincia’. E all’interno stesso del v. 19 fa capolino una simile contrapposizione nel nesso « (pax) pulsa redit », la pace esiliata d’estate ora ritorna d’inverno. In parallelo come struttura compositiva, ma concettualmente in contrapposizione talvolta netta alle immagini della prima parte, segue la serie di quadri, ognuno racchiuso in un distico, con un significato completo, sempre delimitato dal punto fermo : 19-20 la pace con una ricca cornucopia ; 21-22 riposo sonnolento dell’aratore ; 23-24 fine dei lavori agricoli ; 25-26 sonno favorito dalla musica del vento ; 27-28 culto della poesia da parte degli sportivi inattivi ; 29-30 funzioni religiose ; 31-32 rituali cristiani ; 33-34 superiore fascino dell’inverno ; 3536 Natale nobilitante l’inverno. La prima parola della serie positiva è « pax » : la posizione è indicativa della scala dei valori che R. costruisce da studioso e da uomo di fede. Nel nesso « pax pulsa redit » c’è il grido di gioia, reso più forte dall’allitterazione. Contenutisticamente poi « pax » a questo punto sembra esorcizzare l’ultimo sbocco delle sofferenze estive, quel rosso dei fiumi sanguinolenti dipinti al verso precedente e indirettamente ora rievocati in « gladios recondit ». Della pace è subito messo in rilievo il più grosso frutto, quella ricchezza che trabocca dalla cornucopia, fonte a sua volta di felicità : due conseguenze evidenziate dall’allitterazione « dulces cornu divite ». Il distico successivo stende la scenografia di una campagna su cui regna la pace, evidentemente nell’ottica contrappositiva al « vastatis miles dominatur in arvis » al quale rimanda anche il sostantivo « arva ». È bene notare la cura con cui R. sceglie i termini agricoli : gli arva sono i ‘campi idonei all’aratura’ e di questi fa scempio il « miles », degli stessi ha cura « habet » il colono che al completamento dell’aratura si sente felice. « Arva » è collocato all’inizio dell’esametro, alla fine ricorre « arator » : i due termini si corrispondono etimologicamente nella comune derivazione da arare. Cfr. al v. 18 un simile gioco etimologizzante « Flumina – fluunt ». Non sono più in gioco i « rura » del v. 17 ‘gli spazi rurali’ senza una particolare accezione se non quella differenziante dalla urbs ; né sono chiamati in scena i sata ‘campi seminati’ né i pascua ‘campi pascolativi’. Sul « requiescit arator » si stende un vapore elegiaco anche per la provenienza da Tibullo requiescat arator 2, 1, 5 più che dallo pseud-Virg. in Maec. 1, 99. Da Tibullo R. riprende quasi tutto il pentametro somnos classica pulsa fugant (1, 1, 4), rafforzandolo con altre due sibilanti « Nec suaves » e creando l’allitterazione « suaves somnos ». Si direbbe che gli effetti fonosimbolici e quelli di suono danno il senso della profondità di un sonno russante. Interessanti i due « pulsa » che introducono dissoni squilli di guerra, il primo valendo ‘(pace) esiliata’, il secon 



















































































































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do ‘(trombe di guerra) suonate’, sensi negativi che sono poi ribaltati da « redit » il primo, dalla negazione il secondo.  



23-26 Nunc duri optato clauduntur fine labores ; Et rigidum posito vomere cessat opus. Quam juvat immites recubantem audire susurros Ventorum, et somnos, imbre juvante, sequi !  



L’avverbio di tempo « Nunc » prospetta come disponibili ad essere godute subito le gioie che caratterizzano l’inverno come degno di laudes. La fine delle dure fatiche nei campi, in particolare l’aratura, 1 è rappresentata con una ripresa dalle geo, fine laborum (4, 116) o dai trist. ovidiani, posito fine laborum (4, 8, 5) in una sovrapposizione Ovidio – Virgilio che è apparsa anche altrove. Proprio questa fusione deve aver reso preziosa la clausola che poi sarà ripresa da Silio It. 9, 150 fine laborum e da Sid. Apoll. c. 5, 523 fine labori. L’atmosfera che è creata da quelle parole sa di georgico-elegiaco. Nello stesso clima si muovono la rappresentazione del contadino che finita l’aratura si mette in riposo, sdraiato, gratificato di ascoltare la pioggia, quasi musica dai toni alti, « immites ». Il distico 25-26 è compiaciutamente esemplato su due versi di Tibullo, un esametro, Quam iuvat immites ventos audire cubantem (1, 45) e il seguente pentametro Securum somnos imbre iuvante sequi (1, 48). Da questi due versi R. ha ripreso letteralmente, il primo emistichio del primo verso, « Quam iuvat immites » ; quasi tutto il secondo verso, « somnos imbre juvante, sequi ! » nel secondo verso. In una esuberanza combinatoria vi ha poi mescolato la clausola « audire susurros » da Properzio (1, 11, 13) e ha virgilianizzato il cubantem tibulliano in « recubantem » che richiama chiaramente il primo verso delle Ecloghe, Tityre, tu patulae recubans. Ne risulta una forte impronta elegiaca che è la compensazione alle immagini violente della prima parte. In questa direzione elegiaca si muovono anche i due spostamenti dell’ordo verborum : « susurros » posto alla fine, e « Ventorum » collocato in rilievo con l’enjambement. La ventilazione sembra assurgere a musica che accompagna la situazione di riposo e di godimento. Dal lavorio profuso nella costruzione poetica dell’immagine deve esser risultato un distico particolarmente caro a R. s’egli diversi anni dopo in una lettera a L’Abbé Le Vasseur del 26 janvier [1661], a proposito del vento che faceva persino tremare il castello di Chevreuse, citava i versi con leggera modificazione :  









































O quam jucundum est recubantem audire susurros Ventorum, et somnos, imbre juvante sequi ! (J. Racine, ii, p. 387).  

Forse era una citazione a memoria ; comunque si muove nello stesso ordine di sensazioni perché iucundus deriva etimologicamente da iuvo, quale antico par 

1  Per designare il ‘lavoro’ la lingua latina adopera due parole : opus come risultato, opera come attività. Labor in origine aveva il significato di ‘carico’ sotto il quale si barcolla : di qui il collegamento con labo, a¯re ‘cadere’ e labor e¬ris ‘scivolare’. Come indicazione secondaria presenta l’accezione di ‘pena, sofferenza’ : nella lingua rustica poteva passare facilmente ad assumere il valore tecnico di ‘arare’ come la fatica che dà più sofferenza, e con tale significato si è conservato nelle lingue romanze (E.-M. s.v. labor ; M-Luªbke, REW s.v. laborare).  







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ticipio passivo in -ndus. L’elemento importante è che questa citazione appare introdotta a forza, in controsenso rispetto alla realtà in cui si trovava allora R., sovrintendente ai lavori al castello di Chevreuse. È dunque evidente un forte compiacimento per la citazione. 27-30 Nunc remeat ludis studiosa caterva relictis, Et gestit Phoebum sollicitare suum. Musarum nunc tecta patent, foribusque reclusis Reddunt jucundos templa diserta sonos.

I due « nunc » sono funzionalizzati a porre sotto gli occhi del lettore, con efficacia, le rappresentazioni delle situazioni che tornano di laudes alla stagione invernale, in un’ottica secondaria poi a contrapporle a quelle negative introdotte da « iam non, non » e simili nella prima parte. Già « remeat » prospetta un ‘ritorno indietro e contrario’ alle lasciviae estive, alle quali si contrappone la secca indicazione « ludis relictis » direttamente antitetico alla « laxis ludit lascivia fraenis » (9). Alla « turba » ‘folla disordinata e rumorosa’ (10) si oppone ora la « caterva » che seppure non presenta il carattere d’un rigoroso inquadramento militare romano, 1 pur tuttavia implica sempre una certa disciplina. Due sono le eccellenze situazionali che l’umbratile alunno educato nell’abbazia di P.-R. considera laudes di alto profilo, il culto della poesia esercitato da ognuno secondo il suo gusto e trasporto interiore, « gestit Phoebum suum – Musarum tecta » ovvero le ‘case della poesia’, e l’ascolto di eloquenti sermoni (« templa diserta ») e delle musiche sacre, i quali sacralizzano anche gli esterni dei templi, « Reddunt jucundos sonos », del tutto all’opposto della « turba profana » che appunto rimaneva fuori dai fana, indifferente per lo meno. Sono tali questi due desideri, di poesia e di religione, che R. ama immaginare una folla in impetuoso confluire verso le case della poesia e le chiese con tale rumore quale può essere immaginato da un effetto fonosimbolico ottenuto con sei dentali al v. 27 e ancora con sei dentali al v. 30. La clausola « foribusque reclusis » è ricalcata su Ovidio met. 7, 647, da cui l’aveva imitata anche Claudiano drP. 3, 153.  

















































31-34 Nunc divina sacris fumant altaria donis : Gaudet communi relligione 2 Deus. Autumni verisque alios, aestusque voluptas Decipiat ; sed nos unica ducit hiems.  





Venendo alla çuvgkriçiç come è topico nella storiografia classica specie biografica e nella critica letteraria, R. prospetta questo bilancio : le altre stagioni fanno brillare agli altri voluptates ingannevoli, per sé invece solo l’inverno, « unica hiems », offre la possibilità di godere di una vita religiosa piena. Sotto la sug 





1  Da Vegezio infatti apprendiamo che Galli atque Celtiberi pluresque barbarae nationes ‘catervis’ utebantur in proelio ... Romani ‘legiones’ habebant (2, 1, 2). 2  Già Mesnard (p. 218) scriveva « relligione », come si trova nei poeti dattilici per ottenere la prima, lunga.  



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gestione degli « altaria » e del Natale, « adventu Dei », si può ritenere che la religione e il Dio siano quelli del Cristianesimo. Ma come nell’ad Christum il Dio cristiano era prospettato in moduli classici, così qui i tratti liturgici ricorrono in formulazioni pagane. L’immagine « sacris fumant altaria donis » può anche essere tirata ad un riferimento agli altari cristiani avvolti dal fumo dell’incenso bruciato che si leva dai turiboli, come anche i sacri doni potrebbero essere intesi allusivi all’Eucarestia ; ma con maggiore evidenza s’impone un rimando al mondo pagano nel quale era rituale bruciare le viscere degli animali sacrificati alla divinità che s’invocava, e frequente ricorre l’osservazione sulla qualità della ‘grassezza’ del fumo quasi più accetta fosse l’offerta fatta con animali vigorosi. Il riferimento ai « sacris donis » obbliga a pensare a offerte provenienti dai fedeli, specie ai suovetaurilia, i solenni sacrifici di un porco, una pecora e un toro in occasione delle lustrazioni, e tante volte rappresentati in sequenza con i sacerdoti nelle sculture ai fianchi delle arae. Per giunta la clausola « altaria donis » rimanda decisamente al mondo pagano per il suo frequente ricorrere negli autori classici : Lucrezio 4, 1237 ; 6, 752 ; Virg. Aen. 5, 54 ; 11, 50 ; Anth. Lat. 1, 16, 101 ; 719, 68 ; 2, 903, 3. « Communi » indica la diffusione generalizzata a tutto il popolo della religione, il che può essere inteso dei pagani come dei cristiani. Un cenno merita l’abile ordo verborum, con « Decipiat » in rilievo per l’enjambement, « ducit hiems » in clausola. « Ducit hiems » è clausola modellata su Virg. geo. 4, 207 ducitur aestas ; Ovidio, ex Ponto 4, 10, 1 ducitur aestas ; Sil. It. 3, 383 ducitur aestas, nei quali il nesso ricorre in funzione d’indicazione cronologica.  























































35-36 Haec verum pacis regnum placidaeque quietis ; Haec summi adventu nobilitata Dei.  

Nei due versi della chiusa della composizione è di nuovo evocata la ‘pace’, che viene anche estesa a regno universale, quella « pax » con cui iniziava al v. 19 la parte delle laudes dell’inverno. Il « regnum » può trovare un parallelo nell’« imperium » che viene riconosciuto a Gesù nell’ad Christum (2), ma la più chiara citazione del mondo cristiano viene subito dopo in quell’« adventu Dei » che non può alludere ad altro che alla Natività di Gesù, cui rimanda anche il solo « adventu » che trova un preciso riscontro nel periodo liturgico dell’ ‘Avvento’. È però presente nel nesso « summi Dei » un pizzico di paganesimo perché summus preso in senso relativo come ‘il più grande’ non può che indicare Giove, appunto ‘il più grande fra gli dei’. La clausola « placidaeque quietis » R. l’ha elaborata da Tibullo 2, 4, 49 placideque quiescas che vale come saluto di commiato, Et ‘bene’ discedens dicet placideque quiescas.  



























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giampietro marconi [iv] In avaritiam

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Quid juvat ingentes ima tellure recondi Thesauros ? Segni nullus in aere color. Abdita quid prosunt argenti aurique talenta ? Non animo requiem plurima gaza parit. Non vacuat curis mentem cumulata metallis Arca, nec immensi jugera magna soli. Quid mare, quid terras omni ditione tenere, Cunctaque sub leges mittere regna juvat, Cum te omnes terrent casus, sonus excitat omnis, Continuusque premit tristia corda pavor, Dum trepidare metu exanimis noctesque diesque Cogeris, et lucris invigilare tuis ? Infelix sequitur crescentes cura laborque Divitias ; major pectore crescit amor. Nequicquam ingentes arenti gutture lymphas Hausit hydrops : nullo flumine pulsa sitis. Acrior incensas depascit flamma medullas, Ni fugiat toto corpore dira lues. Jam sileat nitidis sublimia tecta columnis, Jam non immensas jactet avarus opes : Nam neque divitibus contingunt gaudia solis, Nec miser aut pejus divite vivit inops. Nescia fortunae virtus, nil indiga nummi, Ignota tentans astra subire via, Huic uni regnum defert diademaque tutum Quem non saevus opum flectere possit amor, Qui non ventosae plebis suffragia captat, Cui pia paupertas haeret amica comes, Qui natus moriensque omnes decepit, et orbi Ignotus, solum novit amare Deum. Pauperis exiguum, sed veri pignus amoris Accipe, pars animae, care Vitarde, meae : Splendida sincerum non dona fatentur amicum, Parvaque non refugit munera magnus amor.  













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Contro l’avarizia e/o avidità A che giova che nelle profondità della terra vengano nascosti ingenti Tesori ? sul bronzo non circolante nessun colore. Nascosti, a che servono talenti d’argento e d’oro ? Non un riposo all’animo un pur infinito tesoro produce. Non sgombra la mente dalle preoccupazioni una trabordante di metalli Cassaforte, e nemmeno grandi iugeri di sconfinata campagna. A che il mare, a che terre giova tenere sotto dominio assoluto, E tutti i regni ridurre sotto la tua legge, Quando tutti ti atterriscono gli eventi, ogni suono ti sveglia, E una continua angoscia ti opprime il cuore rattristandolo, Mentre ad affannarti morto di paura notte e giorno Sei costretto e pure a vegliare sui tuoi guadagni ? Una sterile preoccupazione e un affanno seguono il crescere delle Ricchezze ; maggiore nell’animo cresce la filargiria. Invano ingenti quantità d’acqua nell’arida gola Tracannò un idropico : da nessun fiume è stata scacciata la sua sete. Più ardente di prima la fiamma divora le incendiate midolla, Se non fugga da tutto il corpo la funesta peste. Ormai taccia dei sublimi palazzi dalle lucenti colonne Non più si vanti l’avaro delle immense sontuosità : Ché non ai soli ricchi toccano gioie, Né peggio del ricco vive il bisognoso o il povero. Ignara della fortuna è la virtù, per nulla bisognosa di denaro, Per ignota via tentando di salire agli astri, Un regno e un diadema sicuro conferisce a quest’unico Che uno spietato amore di ricchezze non riesce a piegare Che della ventosa plebe i voti non cerca, Al quale una pia povertà rimane fedele compagna, Che nel nascere e nel morire è sfuggito a tutti, al mondo Ignoto, ha conosciuto solo amore per Dio. D’un povero, piccolo, ma di vero affetto, questo pegno Accogli, parte dell’anima mia, caro Vitart : Splendidi doni non sono testimoni di sincera amicizia, Dai piccoli presenti invece non è assente un grande amore.  













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giampietro marconi Allitterazioni

Il fatto che in questa composizione R. usi discretamente le allitterazioni fa pensare che stia scoprendo le potenzialità espressive del mezzo, tanto più che vi ricorre in snodi strategici. Le 15 occorrenze danno sui 34 versi una media del 44%, vicina a quella registrata nell’ad Christum (48%), più alta di quelle riscontrate nella lettera a Vitart (37%) e nella Laus hiemis (33%). Sono frequenti nei primi versi, specie nel primo e nel terzo, a evidenziare la tematica critica della contraddittorietà del comportamento di ammassare e far sparire le ricchezze, fuori d’ogni godimento personale e della circolazione monetaria che è il motore del progresso sociale. In « juvat ingentes ima » (1) la triplice sequenza lega le parole-chiave della satira : l’accumulo spropositato di ricchezze (« ingentes ») è accostato alla mania di far sparire l’oro nelle profondità della terra (« ima ») per cui risulta annullato il piacere di possedere e annullato anche lo sforzo fatto per acquistare (« juvat »). Su questa anormalità comportamentale batte anche l’effetto fonico della ribattuta della sillaba -refinale in « tellure » e iniziale in « recondi » : sembrerebbe di sentire il rumore dello scavo e la rabbia nevrastenica dell’infossatore. Al v. 3 la satira si allarga a domandare retoricamente, quindi in negativo, il senso dell’abdere l’oro e l’argento, « Abdita argenti aurique », dal momento che questa operazione è di evidente danno personale e sociale. Sull’aspetto personale insistono le allitterazioni del v. 5, « Non vacuat curis mentem cumulata metallis / Arca » : l’intreccio collega strettamente l’accumulo e l’effetto che esso produce sull’ammassatore e infossatore : invece di dargli una maggiore sicurezza di vita felice, lo mantiene nello stesso stato di ansietà in cui era precedentemente. Anche in questo caso all’espressività dell’allitterazione si aggiunge l’efficacia fonica creata dalla ripetizione della sillaba -cu-, « vacuat curis cumulata ». Ancora peggio, il crescere delle ricchezze provoca un parallelo crescere delle preoccupazioni come sottolinea l’allitterazione in « sequitur crescentes cura laborque / Divitias (13). In questo processo a doppia crescita parallelamente antitetica rientra anche l’estendere le proprietà terriere, l’impadronirsi di feudi, gli « immensi jugera magna soli » in cui « im-mensi » concentra su di sé l’immagine dell’estensione della proprietà fondiaria, potendosi collegare col vicino « jugera » e nella forma scomposta col successivo « magna ». La progressiva acquisizione di feudi dimostra a tutti che l’operare dell’avaro-avido-infossatore, che nel caso della ricchezza mobile rimaneva nascosto e poteva sembrare irreale tanto è contraddittorio, nell’estensione del limite proprietario risulta visibile e del tutto reale. A queste bordate satiriche sulla determinazione a possedere ossessivamente e sull’avidità ad avere sempre di più, ché avaritia vale duplicemente il ‘tenere stretto per sé’ e lo ‘strappare da tutti’, è opposto nel finale della poesia il positivo controaltare ideologico della « pia paupertas » (28) che oltre a far rimanere fuori del circuito accumulo-preoccupazione, introduce il valore di un religioso rispetto della comunità nel non rapinarla, e contestualmente una forte coscien 

































































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za personale di affettività e di sicurezza perché la « pia paupertas » si fa sentire come stabile forza amica, « haeret amica comes ».  







Fonosimbolismo Un ridotto ricorso al fonosimbolismo sta a dimostrare che R. vuol mantenere la sua poesia più su una riflessione di costume che su un’urlata satira puntata con scherno sprezzante. Solo 8 ricorrenze che su 34 versi danno una media del 23%, modesta rispetto a quelle che si riscontrano nelle altre composizioni, anche nella intimistica lettera a Vitart (27%). Il v. 3 oltre all’allitterazione è caricato di un fonosimbolismo di sette dentali « Abdita quid prosunt argenti aurique talenta ? » nell’ovvia funzione di rendere ben evidente il tema programmatico. Che le dentali siano state scelte per rendere fonicamente un effetto di simil-tintinnio delle monete ? Al v. 7 « Quid mare, quid terras omni ditione tenere » le dentali battono sull’ossessione di acquistare e di tenere stretto per sé persino il mare. La domanda ripetuta poi riproduce l’affanno dell’avere tutto. Alla rappresentazione negativa dell’avaro-avido è opposto nel finale della poesia il modello ideologico positivo, identificato con un’espressione che risente d’una massima (stoica ?) secondo cui nell’uomo-symbol agisce solo la « Nescia fortunae virtus, nil indiga nummi » (23) : le nasali qui contribuiscono a dare un’idea della misura parsimoniosa dell’uomo virtuoso che s’avvia ad un vero trionfo perché la paupertas « Huic uni regnum defert diademaque tutum » al contrario dell’« opum amor ». È per caso la fotografia dell’ospite di P.-R. ?  





























Enjambements Nella rigida pianificazione di far coincidere una completa misura metrica con un periodo sintattico, delimitando il tutto con un punto fermo o con due punti o con una virgola o con un punto interrogativo, è ovvio che il ricorso all’enjambement ne rimane ridotto. Solo sette casi, tutti ad inizio di pentametro, vv. 2, 6, 12, 14, 16, 30, 32. Recano però un notevole valore aggiunto come si può rilevare al solo scorrere le parole in arcata, che martellano o sulle ricchezze come « Thesauros, Arca, Divitias » sottolineando l’uso contrario che l’avaro ne fa rispetto alla normale circolazione monetaria ; o sulle operazioni di acquisizioni smodate (avarus è semanticamente ambivalente potendo indicare e il ‘tirchio del proprio’ e l’‘avido dell’altrui’) cfr. « Cogeris – Hausit ». Solo in due casi le parole in enjambement sono di valore positivo, « Ignotus, Accipe ». I « Thesauros » (2) mettono l’accento sul ribaltamento situazionale per cui la ricchezza che dovrebbe costituire il godimento del proprietario, diventa il centro negativamente attrattivo che determina l’agire dell’infossatore che così da soggetto passa a schiavo del suo possesso. L’« Arca » (6) ‘cassaforte’ fa balenare il diagramma per cui la crescita delle ricchezze invece di far diminuire le preoccupazioni accresce gli affanni in perfetto parallelismo. Nell’« Arca » in realtà con la custodia dell’oro c’è la prigione del ricco perché essa illude e incarcera come esplicita il successivo « Cogeris » (12), lo stato di auto-degrado. Batte ancora sul  





























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simmetrico crescere antitetico della ricchezza e degli affanni la citazione delle « Divitias » (14) alle quali corrispondono significativamente ad incipit al verso precedente « Infelix » e al verso seguente « Nequicquam ». Di brutale efficacia è carica la similitudine dell’idropico che « Hausit » acqua senza fine rimanendo sempre con la gola arida : l’avaro dunque è affetto da una malattia strutturale, dunque inguaribile. Come altrove R. riserva al finale la parte positiva, qui nel disegnare l’uomomodello, che passa « (orbi) Ignotus » (30) ed è invitato ad accogliere un pegno, piccolo ma sincero d’amore, « Accipe » (32). Collegando queste parole in enjambement con la incipitaria « pauperis » del verso di mezzo (31) si ha di nuovo l’impressione che R. voglia proporci come uomo-modello l’ospite di P.-R. che appunto ha scelto di vivere ignoto al mondo, contento della povertà, felice di godere di calde amicizie.  





























Struttura – Ideazione. Due composizioni sullo stesso argomento, In Avaritiam – In Avarum : come mai tanta insistenza ? perché su questo tema convergono e lo spirito evangelico, e l’insegnamento di P.-R., e una forte tradizione classica, specie nella modulazione oraziana. Matteo fissava il principio della alienazione patrimoniale in favore dei poveri come un’equivalente acquisizione di tesoro in cielo : vade, vende quae habes et da pauperibus et habebis thesaurum in caelo (19, 21) in concordanza letterale con Marco : vade quaecumque habes vende et da pauperibus et habebis thesaurum in caelo (10, 21). Specularmente questi si scaglia pesantemente contro i ricchi avari : quam difficile qui pecunias habent in regnum Dei introibunt (10, 23) e ancora : facilius est camelum per foramen acus transire quam divitem intrare in regnum Dei (10, 25). P.-R. aveva fatto del distacco dalle ricchezze un principio fondamentale, tanto più importante in quanto le Dame e i Messieurs ospiti erano personaggi di primo piano, qualcuno persino vicino alla casa reale, molti ai più alti gradi sociali. Questa l’attestazione di Sainte-Beuve (3, 17, p. 298) : « on se bornait à y recommander la non-propriété ... c’est-à-dire, la pauvreté, ou mieux encore, l’esprit de pauvreté. Être pauvre, être surtout détaché, n’user que des meubles les plus indispensables et les plus simples, fussent-ils déplaisants à la vue ; avoir le costume le plus invariable et le plus uni ; vivre de peu ; se mortifier sans se détruire ; se servir soi-même le plus possible ; vaquer, ne fût-ce que quelque quart d’heure matin et soir, à un travail des mains, qui rappelle utilement l’homme à ses origines, à sa peine et à sa misère, à celle de ses frères souffrants, et qui prévient ou rabat à propos chez les plus saints l’orgueil si inflammable de l’esprit : on a là en abrégé le pur régime de Port-Royal ». Coerente la direttiva per cui « on y enseignait moins encore la pauvreté extérieure que l’amour de la pauvreté, celle du coeur et de l’esprit, cette vraie soeur jumelle de la charité » (3, 17, p. 299). L’amore per la povertà comporta un disvalore per la ricchezza, e conseguentemente una satira contro chi ha una passione esagerata per il suo e il desiderio dell’altrui, avarizia e avidità.  

































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Nel mondo classico si può trovare una corrente favorevole alla ricchezza, alla filargiria, nell’ottica però di usarla utilmente come base economica per realizzare il bello e come incentivo alle opere di civilizzazione, come osserva SainteBeuve : « Les Anciens aimaient la richesse ; ils l’aimaient comme ils aimaient toute chose, en la rehaussant par une idée de grandeur morale et de beauté. On n’a qu’ à lire là-dessus l’admirable Olympique de Pindare sur la richesse ornée de talents ... La richesse ainsi comprise, c’est l’astre éclatant qui luit aux mortels et qui les guide à la vérité. ���������������������������������������������������� Mais il en ressort trop clairement que, chez les Anciens, le pauvre n’avait pas la faculté de s’instruire de ces hautes doctrines ... Le Christianisme, au contraire, tourna tout d’abord sa vue intime et son horizon du côté de la pauvreté (3, 17, pp. 300-301). Certo per promuovere la società la ricchezza è indiscutibilmente necessaria ; la negatività sta proprio nel sequestro della ricchezza espulsa fuori dalla circolazione dallo psicotico culto del tenere per sé e dell’avere sempre di più : la filarguriva e la pleonexiva ». 1 Più che la firma, è il sigillo di P.-R. che viene posto sulla esaltazione del tipo di vita quale si conduceva nell’abbazia : in povertà, distaccati dal mondo al punto da rendere ignota la vita e la morte, a tutti, solo uniti in un mistico contatto con Dio : cfr. le espressioni « pia paupertas ... amica comes – natus moriensque omnes decepit – orbi ignotus, solum novit amare Deum » (28-30). L’ispirazione classica veniva individuata già da Mesnard (iv p. 219 n. 1) per gran parte nel carme oraziano 2, 2 debolmente da lui parafrasato a confronto, da rimpolpare – aggiungo io – con riprese da altre composizioni del Venosino. Sembra utile riportare a riscontro i luoghi oraziani, per mostrare anche un altro aspetto interessante, come R. conduceva il lavoro su un testo classico. Già con il riprendere all’inizio della poesia con « tellure ... / nullus in aere color / Abdita » (1-3) l’inizio di 2, 2 Nullus argento color ... / abdito terris (1-2), mette una sicura çfragivç e sul significato e sulla modulazione stilistica in una netta direzione oraziana. Sul color Orazio gioca due indicazioni : quando parla di nullus color intende la moneta sotterrata quindi non lucidata dai passaggi manuali ; quando invece la  





























1  Avaritia e avarus in Orazio e in R. come in tutta la latinità valgono e ‘tirchieria / tirchio’ e ‘avidità / avido’ : cfr. Tacito, pecuniae ... suae parcus, publicae avarus ‘del suo parco, del pubblico denaro avido’ (hist. 1, 49, 5), sino ad usi molto estesi come in Virgilio che con litus avarum (Aen. 3, 44) bolla l’avido Polimnestore che auro / vi potitur del giovane Polidoro arrivando ad ucciderlo. Del resto avaritia e avarus si collegano ad aveo ‘desidero ardentemente’ mettendo quindi l’accento sull’avidus, altra formazione di aveo. Del resto lo stesso R. adopera avare anche nel senso di ‘avido’, in questa forte affermazione di Oreste nell’Andromaque : « ces Peuples barbares / De mon sang prodigué sont devenus avares » (493-494). Si tratta degli « Scythes » nominati poco dopo (503) e pesantemente bollati come « Peuples cruels / Qui n’apaisaient leurs Dieux que du sang des Mortels » (491-492), presso i quali Oreste deve recarsi per ordine di Apollo per l’espiazione del matricidio, sulla falsariga dell’Ifigenia in Tauride di Euripide. G. Forestier (J. Racine, i, p. 1356) ricorda che Subligny ne La Folle Querelle (iii 6, p. 289) trovava una contraddizione tra l’ ‘avare d’un sang’ e l’espressione ‘n’a pas été prodigué’. R. però non ha mai modificato il verso, ritenendo evidentemente molto efficace l’antitesi ‘prodigué-avare’. La spiegazione più semplice risiede nell’avvertire un latinismo semantico in ‘avare’ = avarus = ‘avido’. Con questo valore il passo scorre chiaro ed efficace : un popolo tradizionalmente bollato come barbaro, crudele, e dedito comunemente ai sacrifici umani, poteva ben essere ‘avido’ anche del sangue d’un eroe ‘prodigo’ del proprio sangue per un’espiazione.  

















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rappresenta lucente = splendeat usu (4, per una circolazione moderata ché un uso troppo frequente la farebbe piuttosto apparire ‘consumata’) fa pensare ad una sua circolazione, prospettando così le due eventualità in cui può venire a trovarsi la ricchezza, nascosta sotto terra o circolante di mano in mano. R. si limita a raffigurare solo il primo aspetto col secco « segni in aere » ‘circolazione stagnante’ proprio per concentrare tutte le bordate satiriche solo sulla negatività del fuori-circolazione. Però nell’ambito di questo restringimento selettivo duplica l’annotazione oraziana abdito terris dapprima nella più forte immagine dell’« ima tellure recondi » al primo verso, poi riprendendo l’espressiva parola abdito variandola leggermente in « Abdita ». Il livello di intelligenza del testo classico e la capacità di ispirarvisi nelle più sottili movenze senza riprodurlo alla lettera, da parte di R., si rivela in pieno nell’aver introdotto per indicare il massimo della ricchezza, la parola « gaza », assente in Orazio, di origine persiana, tecnicismo che indicava proprio il Tesoro del re della Persia. 1 Un caso di elaborato ampliamento : la semplice affermazione oraziana Latius regnes (9) viene sviluppata in forti immagini, con ribattute e in modulazione retorica, « Quid mare, quid terras omni ditione tenere, / Cunctaque sub leges mittere regna juvat » (7-8) in cui « regna » ha la funzione di spia della ripresa di regnes variato con sfoggio d’abilità. Anche le semplici citazioni geografiche non disponibili ad essere retoricizzate, si Libyam remotis / Gadibus iungas sono amplificate da R. nelle indicazioni generali « mare – terras – regna ». Il paragone dell’avaro insaziabilmente avido con l’idropico sempre desideroso di bere, correva come topico, utilizzato da diverse scuole filosofiche e da vari poeti, Ovid. fast. 1, 215 ; Sen. cons. ad Helv. 11, 3 ; e perfino da Polibio 13, 2, 2. Tuttavia la formulazione stilistica oraziana, c. 2, 2, 13 crescit indulgens sibi dirus hydrops / nec sitim pellit, nisi causa morbi / fugerit venis et aquosus albo / corpore languor appare sbriciolata da R. in diversi frammenti : anticipa « crescit » due versi prima (14) della menzione dell’idropico ; sostituisce le annotazioni patologiche dell’aquosus languor con un eccessivo « flumine » ; dell’anormale biancore del corpo, albo corpore, con « toto corpore lues » ; della malattia che corre per le vene, causa morbi / fugerit venis, con l’immagine molto violenta « incensas depascit flamma medullas ». Conserva con esattezza il dato patologico fondamentale, specifico della malattia, nec sitim pellit, con « (nullo flumine) pulsa sitis ». Avverte l’importanza che ha nel testo oraziano dirus nella combinazione indulgens sibi dirus hydrops in quanto l’idropico indulgendo nel bere si provoca la morte da sé, diventando così dirus a se stesso : invece R. col creare il nesso dira lues sposta la causa della morte dalla colpa soggettiva del malato alla oggettiva realtà patologica. Infine non tralascia neppure la possibilità di una guarigione presentata ugualmente con un congiuntivo di possibilità : nisi causa morbi / fugerit venis > « Ni fugiat toto corpore dira lues ». È avvertibile tutto un ampio lavorio di oreficeria stilistica e lessicale ; altre volte invece R. si mantiene vicino ad Orazio come al v. 25  









































































1  Cfr. Q. Curzio 3, 13, 5 pecunia regia quam gazam Persae vocant. Metricamente ga¯za è attestato dai poeti frequentemente : Lucr. 2, 37 ; Virg. 1, 119 ; 2, 763 ; 5, 40 ; Sen. Medea 485 ; e da Quicherat come unica quantità (p. 498).  











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« Huic uni regnum defert diademaque tutum » che è ripreso alla lettera da 2, 2122, regnum et diadema tutum / deferens uni. E ancora : il verso successivo « Quem non saevus opum flectere possit amor » (26) R. l’ha costruito sui versi oraziani successivi 23-24, quisquis ingentis oculo inretorto / spectat acervos in cui inretorto vale ‘che non si volge a guardare indietro’ e ha ispirato « flectere ». L’immagine del fuoco che metaforicamente brucia le midolla dell’avido, « Acrior incensas depascit flamma medullas » (17), con la particolare insistenza sulla fiamma potenziata dal comparativo « Acrior » ‘più ardente di prima’ e resa udibile dall’effetto fonico creato dalla sequenza – mma – me – in un gioco onomatopeico mirato a riprodurre il crepitare del fuoco, è stata suggerita dalla forte raffigurazione mitologica terret ambustus Phaethon avaras / spes (4, 11, 25) che rappresenta visivamente la fine d’un avido che pretendeva di avere di più, l’impossibile, guidare la quadriga del Sole. Forte di una vigorosa memorizzazione R. attinge l’ispirazione oltreché da c. 2, 2, da vari altri luoghi oraziani, come sta a dimostrare il v. 12 « Cogeris, et lucris invigilare tuis ? » che chiaramente ha costruito su serm. 1, 1, 70-72 (la satira sull’incontentabilità umana), congestis undique saccis / indormis inhians et tamquam parcere sacris / cogeris ; riprendendo cogeris e mantenendolo ugualmente in enjambement, e creando la glossa invigilare + dativo da quell’indormis che è stato oggetto di svariate interpretazioni, da ‘non ci dormi’ per effetto dell’in negativo, a ‘rimani intontito’ = torpes (Ronconi), a ‘lungo disteso addosso ai sacchi’ (Sabbadini), a ‘stai sdraiato sopra’ = incubas (La Penna). Qui R. ha interpretato Orazio con Orazio che a serm. 2, 3, 111 usa in un contesto simile il verbo vigilare, si quis ad ingentem frumenti semper acervum / porrectus vigilet cum longo fuste : R. rinforza vigilare con in- sotto la suggestione di indormis e di inhians. La tenace memorizzazione permetteva a R. di mettere a frutto spunti, segmenti, ecc. da tutta l’opera oraziana. Così l’affermazione aristocratica « Qui non ventosae plebis suffragia captat » (27) è una ripresa da non ego ventosae plebis suffragia venor (epist. 1, 19, 37) con la conservazione del giro negativo, la sostituzione di ego che personalizzava la situazione con un relativo che rende la frase quasi una massima, e la trasformazione del contenutisticamente forte venor ‘vado a caccia’ con l’intensivo « captat ». D’altronde Orazio ha diffusamente parlato nelle sue composizioni di avaritia e di avarus, dei quali il Lexicon Horatianum di Bo registra rispettivamente 3 e 21 ricorrenze. In conclusione, emerge chiaro che alla costruzione di questa satira come di quella In Avarum convergono i due motori ideativi di R., il Cristianesimo enfatizzato dall’esperienza di P.-R., e il Classicismo specie nella formulazione oraziana. – Struttura compositiva. Forse alla compiaciuta, eccessiva introiezione di queste due forze ispirative si deve una certa disarmonia compositiva contro il gusto della pianificazione che presiede alle altre poesie : 5 gruppi di 8 versi + 2 versi di clausola finale nell’ad Christum ; 4 quadri + 2 versi di saluti nella lettera a Vitart ; due rappresentazioni di 18 versi per l’estate, 18 versi per l’inverno con sviluppo in contrapposizione speculare nella Laus hiemis. Qui In Avaritiam invece è evidente una certa disarmonia compositiva per impetuose  













































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insorgenze passionali che trovano rinforzo nei classici. I primi tre versi contengono la proposizione del tema che viene sviluppato in 19 versi illustranti la negatività del procedere dell’avaro e/o avido ; una seconda parte contiene la raffigurazione positiva dell’uomo esente da avaritia per 8 versi ; gli ultimi 4 sono di congedo. Sotto il segno della definizione oraziana quid avarus ? / stultus et insanus (serm. 2, 3, 158) è posto il tema programmatico che sarà sviluppato mettendo in luce le contraddizioni dell’« ima tellure recondi / Thesauros ». La risposta sembra che R. l’abbia anticipata nelle prime due parole della composizione, « Quid juvat ? ». La prima contraddizione è rilevata nel progressivo accumulare ingenti ricchezze epperò nel restare attanagliati dalle preoccupazioni come prima, « Non vacuat curis mentem » quasi ‘non ti svuota la testa’. La seconda contraddizione è individuata nella simmetria del crescere del tesoro e del crescere delle preoccupazioni, che invece dovrebbero sparire progressivamente all’accumularsi dell’oro che dovrebbe provocare uno stato di liberazione, « sequitur crescentes cura laborque / Divitias » (13). L’avaro ha dunque messo in moto un meccanismo perverso, contrario a quello che lui pensava di attivare in suo favore. Anzi peggio, perché il terzo movimento contraddittorio si verifica automaticamente sfuggendo ad un cosciente auto-controllo perché è la stessa natura dell’avaro che ha creato una seconda struttura psichica differenziata per la quale chi più ha, più desidera ardentemente di avere di più. Questa struttura psichica è comparabile alla struttura fisica dell’idropico che più beve più ha sete finendo così per autodistruggersi totalmente. Lineare e ferreamente logica la conclusione : nelle sue sontuose ville fra cumuli d’oro e d’argento « Nec pejus divite vivit inops » (22). La raffigurazione positiva del virtuoso anti-avaro inizia con la proposizione di sapore stoico, « Nescia fortunae virtus, nil indiga nummi » (23), dalla quale derivano le caratteristiche fondanti del virtuoso : il disinteresse per il denaro ; la moderazione nel desiderare ; l’inattaccabilità dalla filarguriva ; la non schiavizzazione alla plebe ventosa ; la costante compagnia della povertà avvertita come amica. Infine due tratti a completare la figura, l’essere « orbi / Ignotus » e il crescere con un solo amore, quello verso Dio : e qui risalta più che mai in trasparenza il Solitario di P.-R. Nella chiusa (31-34) ricorre la dedica al cugino Vitart come « pignus amoris » che è sostanziato delle virtù esaltate prima per cui coerentemente si afferma : « Parva munera = magnus amor ».  



























































Commento 1-3 Quid juvat ingentes ima tellure recondi Thesauros ? Segni nullus in aere color. Abdita quid prosunt argenti aurique talenta ?  



I tre versi iniziali come squilli di una solenne dichiarazione pongono il tema, i cui termini sono sintetizzabili nelle due parole in rilievo, l’una in clausola, « recondi », l’altra in enjambement, « Thesauros ». Parlo di squilli perché il primo verso presenta cinque dentali e il terzo sette : a livello onomatopeico le sequenze delle dentali fanno immaginare il tintinnio delle monete o il rumore delle  









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barre d’argento e d’oro ; ad un livello stilistico anticipano il martellamento con cui saranno condotte le bordate della satira sui comportamenti contraddittori, la sua vis pungendi. La domanda posta a fondamento e di costume e di ideologia economica verte sull’aberrazione di sotterrare e quindi porre fuori del godimento personale e dell’utilità sociale le ricchezze (« recondi »), e contestualmente sullo sforzo di accumulare addirittura « Thesauros », proprio per nulla. La risposta R. l’ha anticipata all’inizio della stessa domanda, « Quid juvat » ‘non dà piacere’ né al privato che pure si è rovinato di fatiche per accumulare quanto più è possibile né alla società che è privata del motore dello sviluppo. Questa conclusione è rafforzata dal gruppo lessicale legato dall’allitterazione « juvat ingentes ima » in cui gli « ingentes » sono collocati vicino all’indicazione dell’assotterramento alla massima profondità, « ima ». Imus infatti col suffisso –mocaratterizzante il superlativo indica il punto più profondo possibile. Ingens alla grandezza aggiunge un valore enfatico (E.-M. s.v.). Abile avvicinamento di due aggettivi che indicano proprio il massimo esattamente nelle direzioni opposte. Ho già notato (nell’analisi della Struttura) che questo inizio della composizione è una ripresa molto marcata dall’inizio del c. oraziano 2, 2, 1-4 Nullus argento color est avaris / abdito terris… / ... nisi temperato / splendeat usu con la conservazione pari pari di Nullus color, con la leggera variazione di Abdito in « Abdita » e con la selezione nella contrapposizione oraziana : mancanza di colore = metalli sotterrati, splendore degli stessi = circolazione, del primo aspetto. La forma interrogativa, l’iniziale movenza « Quid juvat » e la coppia « argenti aurique » rimandano a serm. 1, 1, 41-42 quid iuvat immensum te argenti et auri / furtim defossa timidum deponere terra ? e questa attenzione ai sermones è importante perché s’inquadra nella tendenza generale che ha la letteratura francese a partire dal xvii secolo quando proprio « la tradizione dei sermones lievitò la poesia francese : le satire del Régnier e del Voiture suscitarono il gusto per quelle oraziane, finché Boileau, il legiferatore dell’indirizzo classicista alla corte di Luigi XIV portò questa tendenza al culmine, componendo, a imitazione del Venosino, le sue Satire, le sue Epistole e soprattutto la sua arte poetica ». 1 Comunque tutta la produzione oraziana era assunta a imitazione e a garanzia segnando così l’apice dell’empito emulativo che il classicismo francese instaura con i modelli classici, sull’onda letteraria definita da L. De Nardis, « filologia affettiva ».  



















































4-6



Non animo requiem plurima gaza parit. Non vacuat curis mentem cumulata metallis Arca, nec immensi jugera magna soli.

Ecco la prima bordata anti-avarizia incentrata sulla contraddizione fra le ricchezze e i riflessi da esse esercitati sulla situazione umana : grandi le prime, sempre degradata l’altra come prima dell’arricchimento. Questa perfetta asimmetria R. l’ha resa con finezza stilistica nella ricercata collocazione delle parole nel corpo del verso. All’inizio colloca le negazioni « Non – Non – nec », quest’ultima in seconda posizione solo per effetto dell’enjambement di « Arca », ma ad  







1  E. Paratore, Storia della letteratura latina, Sansoni, Firenze 1951, p. 436.



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inizio del suo segmento di periodo. La contraddittorietà del processo rende ancor più inutile l’accumulo, anzi tanto più negativo quanto più l’accumulo risulti maggiore. I termini della ricchezza invece li ordina in fine di verso, « gaza – metallis – soli ». Negazioni e ricchezze sono dunque poste in bella evidenza, in speculare contrapposizione. E a rendere il contrasto più sensibile R. con puntigliosità specifica tre tipi di ricchezze : quello aureo, « gaza », denominazione che getta una suggestione esotica e un abbagliante lampo per essere la gaza il Tesoro del re di Persia, il primo accumulo mondiale di ricchezza, poi passato a Roma e in seguito a Venezia, Olanda, Francia, Inghilterra e ora USA nel movimento rotatorio del Capitale da Est verso Ovest. « Metallis » a rigore dovrebbe indicare metalli preziosi non coniati ; « soli » la tradizionale proprietà terriera, magari feudale vigente nel xvii secolo. Le dimensioni di queste ricchezze sono enfatizzate dai relativi qualificativi : a « gaza » si connette il superlativo « plurima » ; vicino a « metallis » ricorre l’aggettivo « cumulata » ; e per « soli » c’e un gioco di sinestesia per cui sintatticamente è collegato con « immensi » composto dal prefisso negativo in- e metiri, dunque ‘non misurabile’, ma vicino si trova l’aggettivo « magna » che sintatticamente è riferito a « jugera » ma che non può collegarsi correttamente ad essi perché una misura non può essere né grande né piccola e che quindi dovrà riferirsi contenutisticamente a « soli » ‘grande campagna = feudo’. Il contrasto fra le negatività e gli accumuli, fra le parole iniziali e le finali rinforzate dalle raffinate qualificazioni, acquista anche una perfetta evidenza grafica, a totale dispregio per quelle ricchezze che non migliorano, come ci si aspetterebbe, la situazione umana alla cui menzione è riservato il centro-verso, « requiem – vacuat curis mentem ». In particolare evidenza è posto « Arca », quella cassaforte che è l’icona degli avari.  





































































7-12 Quid mare, quid terras omni ditione tenere, Cunctaque sub leges mittere regna juvat, Cum te omnes terrent casus, sonus excitat omnis, Continuusque premit tristia corda pavor, Dum trepidare metu exanimis noctesque diesque Cogeris, et lucris invigilare tuis ?  

In questo periodo dal punto fermo al punto interrogativo è illustrata la contraddittorietà fra il Potere, anche il più assoluto e l’Avarizia/Avidità che gli infligge pesanti degradi : ne risulta un quadro patologico di paure. Mentre nei tre versi precedenti (4-6) era ventilato un danno passivo, il non-godimento personale e sociale dell’accumulo di ricchezze, adesso si prospettano danni psicofisici che le ricchezze attivamente provocano nel ricco avaro/avido. Il Potere viene dipinto dapprima (7) in una estensione universale, enfaticamente, « mare, terras omni ditione tenere » ‘tenere mare, terre sotto la propria giurisdizione’ quindi in forma assolutistica, con un rilancio stilistico portato dal fonosimbolismo strutturato su sei dentali. Poi al verso successivo è rappresentato sotto la forma concreta della conquista di regni ; e qui la finzione poetica si sostanzia della politica della Francia lanciata in conquiste espansio 







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nistiche territoriali d’ogni tipo sotto la direzione di Richelieu, morto nel 1642, sotto quella aggressiva di Mazzarino (1642-1653), attraverso la repressione della Fronda (1648-1653) sotto i primi slanci dell’assolutismo di Luigi XIV dichiarato maggiorenne nel 1651, consacrato a Reims nel 1654 e che già nel 1655 impone i suoi editti, lit de justice, a quel parlamento che pure il 13 maggio 1648 aveva promulgato un Arrêt limitante le prerogative regie. A fronte di tanto Potere ecco le sofferenze inflitte dalla ricchezza : un quadro di effetti patologici che trovano il culmine in quel « Cogeris » messo di proposito in bella mostra per enjambement. Il Potere dunque non è più capace, non cogit più, ma cogitur, da soggetto attivo è ridotto dalla ricchezza a oggetto soggiacente, beffato dall’accumulo. Su questa contraddizione insiste un parallelismo nettamente contrappositivo per cui le prerogative del Potere sono qualificate con « omni ditione tenere » e con « Cuncta », l’erosione della ricchezza vi si contrappone con « omnes (casus) » e con « (sonus) omnis ». Simmetria specularmente contrappositiva che si spinge fino a suggerire di intendere « casus » < cadere nel senso etimologico di una ‘caduta, disfatta’, e a soffermarsi sull’effetto di paura che fra tante indicazioni grandiose di possessi su mare, terre, regni, può esercitare un semplice « sonus » ‘sibilo’. Anche fra i sostantivi è strutturata una simmetrica contrapposizione per cui a « ditione » e « regna » conquistati si sovrappongono, inflitti dall’accumulo di tesori, « casus, pavor, metus, exanimis ». Particolarmente significativo il modulo « noctesque diesque » di sapore epico e d’alta provenienza, da Ennio 334 V2 e da Virgilio 6, 556 ex somnis servat noctesque diesque. Un tocco epico in una satira acquista il significato di una feroce ironia, naturalmente tutta puntata contro il Potere analiticamente presentato in costanti interferenze di paure. Del resto già Orazio aveva operato il ribaltamento nel sermo 1, 1, 76 an vigilare metu exanimem noctesque diesque rispetto al quale R. ha sostituito an con « Dum » trasformando un’interrogativa in un’asseverativa temporale e variando con « trepidare », sempre un quadrisillabo, il vigilare oraziano salvo poi a riprenderlo al verso successivo nella forma composta « invigilare » che deve risentire di serm. 1, 1, 70 congestis saccis / invigilare (per il quale cfr. l’analisi della Struttura). In quest’ottica possiamo rilevare altri due casi : « Cum te omnes terrent casus, sonus excitat omnis » è memoria virgiliana, nunc omnes terrent aurae, sonus excitat omnis (Aen. 2, 728) con la semplice sostituzione di nunc con « Cum » che unito all’indicativo indica la precisa contestualità dei due processi, la devastazione psichica consumantesi con l’accumulo delle ricchezze. Da Virgilio proviene anche la clausola corda pavor (geo. 3, 106), nesso di pregio volto a dura contrapposizione, l’intimo (« corda ») devastato dalla paura, invece di essere rallegrato per la conseguita ricchezza.  





































































13-18 Infelix sequitur crescentes cura laborque Divitias ; major pectore crescit amor. Nequicquam ingentes arenti gutture lymphas Hausit hydrops : nullo flumine pulsa sitis. Acrior incensas depascit flamma medullas, Ni fugiat toto corpore dira lues.  





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Terza bordata satirica in climax ascendente d’accresciuta critica mordace contro l’avaritia ora intesa piuttosto dal versante dell’avidità : si susseguono parole e nessi che contestualizzano il crescere delle ricchezze e il crescere delle devastazioni psico-fisiche fino a suggerire attraverso l’immagine dell’idropico, inserita – si noti – significativamente non come similitudine introdotta con le particelle comparative ‘come, così’ ma in continuità diretta quale normale progressione narrativa, che anche l’avarizia/avidità è una malattia, e anche fisica. Le parole-chiave di questo processo contradditorio battono sulle indicazioni di ‘crescita’ : « (sequitur) crescentes cura / Divitias », « major crescit amor », e lo stato di maggiore ricchezza che dovrebbe produrre come logica conseguenza uno stato di maggiori gioie e godimenti, genera invece, illogicamente, la rabbia (« amor ») di avere sempre di più. L’inverso processo psicologico è reso più contraddittorio da R. con le sottolineature messe in atto attraverso vari ritrovati retorici : l’allitterazione lega « crescentes cura » rendendo quasi visivo lo scontro simmetricamente antitetico. « Divitias », il valore di riferimento, è evidenziato dalla posizione in enjambement. Se poi l’inserimento di una memoria ‘alta’ in un contesto satirico ha l’effetto di provocare una feroce ironia, ebbene qui abbiamo cinque riprese classiche ‘nobili’. La clausola « cura laborque » è ricordo di Lucano Phars. 9, 621 che presenta anche la variante cura laboris 7, 209 ; e anche di Stazio Theb. 5, 273 cura labori, per non parlare di Avieno de. o. terr. 1, 1237. I vv. 13-14 sembrano costruiti su Orazio c. 3, 16, 17 crescentem sequitur cura pecuniam / maiorumque fames con la facile sostituzione di pecuniam in « Divitias ». E ancora ad Orazio rimanda la clausola « pulsa sitis » che trova il suggerimento in sitim pellit di c. 2, 2, 14. La clausola seguente « flamma medullas » è nobilitata dalla ricorrenza in Virgilio Aen. 4, 66 e in geo. 3, 271 variata in flamma medullis, e ancor prima in Catullo 100, 7 per non parlare di Manilio 1, 881 e Petronio 121, 106. Infine il giro « Ni fugiat toto corpore dira lues » è costruito su nisi causa morbi / fugerit venis et aquosus albo / corpore languor (Orazio c. 2, 2, 14). Da questo contesto R. deriva anche l’immagine dell’idropico (12-13) trasferendo il qualificativo dirus dall’idropico, dirus hydrops, com’è in Orazio, alla malattia, « dira lues » evidentemente per renderla più devastante, mentre Orazio puntava ad accentuare l’autodistruzione del malato (§ 29 Struttura). Dirus come senso primario vale ‘di cattivo augurio’, significato reso più forte per la coesistenza con il sostantivato Dirae ‘le Furie’. Lues sulla scia del coradicale luvw vale ‘dissolvimento’ come attesta perfino Festo 107L lues est diluens usque ad nihil, tractum a Graeco luvein. Perciò da « dira lues » rimbalza l’immagine di un avido come di un ammalato che è sotto un cattivo presagio di dissolvimento, ossia di una distruzione senza lasciare traccia.  























































19-22 Jam sileat nitidis sublimia tecta columnis, Jam non immensas jactet avarus opes : Nam neque divitibus contingunt gaudia solis, Nec miser aut pejus divite vivit inops.  

R. assesta ora all’avaro due dure frecciate accompagnate da due suggerimenti

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di moderazione (« sileat – non jactet ») e da due riflessioni, una introdotta con l’argomentativo « Nam ». Con raffinatezza compositiva R. riutilizza le parole-base usate nella prima parte della satira come per far discendere la moderazione dalla insostenibile contraddittorietà messa ben in evidenza. « Immensas opes » (20) richiama gli « immensi jugera soli » (6) e sprigiona l’« inops » del v. 22 ; « divitibus » (21) riprende le « Divitias » in enjambement al v. 14 con uno slittamento dallo stato dei fatti alla personalizzazione in conto ai ricchi dei quali poi è evocato collettivamente un singolo « divite ». Sembra però che il tono dei suggerimenti suoni ambiguo : troppo solenne per essere rivolto per un moderato comportamento, troppo prezioso per non apparire intriso di criptica ironia in costante coerenza con i precedenti contesti satirici. Tanto più che le formulazioni richiamano ipotesti epici, e l’epico introdotto nella satira equivale a feroce ironia. L’emistichio « sublimia tecta columnis » è infatti memoria virgiliana, tectum augustum, ingens centum sublime columnis / ... horrendum silvis et religione parentum (Aen. 7,170ss.) da cui R. ha tratto, al plurale, i « sublimia tecta » e soprattutto quella altezza epico-arcaica e quella sacralità numinosa quali s’addicevano alla descrizione della reggia del capostipite Pico nella quale erano inglobate allusioni anche troppo scoperte in augustum e in religione parentum al Palatium di Augusto sul Palatino e all’annesso tempio di Apollo (Heine). La preziosità sublime di simili palazzi (cfr. anche Ausonio, Mosella 336) ha attirato con facilità le frecce dei satirici, fra tutti cfr. Marziale, centum pendentia tecta columnis (2, 14, 9) con riferimento ad un parassita che nil linquit inausum ; at tua centenis incumbunt tecta columnis / et libertinas arca flagellat opes (5, 13, 5) in un aspro affronto personale del poeta col riccone : sum, fateor, semperque fui, Callistrate, pauper ; et tibi centenis stat porticus alta columnis (12, 50, 3) detto a proposito d’un riccone per il quale tuo sub pede lucet onyx e atria longa patent, però nec somno locus est. Quam bene non habitas ! Se poi i consigli sembrano indirizzarsi nel senso d’un amichevole richiamo ad un comportamento moderato (cfr. « sileat, non jactet »), il coinvolgimento dell’epico nella satira si rivela funzionale a portare una più feroce bordata. Ne fa fede il fatto che il verso « nam neque divitibus contingunt gaudia solis » è una ripresa pari pari del v. 9 epistola oraziana 1, 17, quella dei consigli a chi vuol trattare coi potenti.  



























































23-28 Nescia fortunae virtus, nil indiga nummi, Ignota tentans astra subire via, Huic uni regnum defert diademaque tutum Quem non saevus opum flectere possit amor, Qui non ventosae plebis suffragia captat, Cui pia paupertas haeret amica comes.

Dopo i quadri delle varie negatività insite nei processi contraddittori, ora come in un dittico R. dipinge il vir bonus anti-avarizia e anti-avidità. Del modello viene data una definizione, non calata sulla figura d’un singolo virtuoso evocato con un nome, ma calibrata astrattamente su una formula, quindi di valore universale nel tempo e nello spazio, condensata sulla virtus, quasi ad epigrafe,

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in un primo momento al v. 23, poi in una serie di modelli tipologici astratti introdotti dai relativi « Quem – Qui – Cui – Qui ». La definizione ha i caratteri di una massima per l’asciuttezza stilistica, per l’uso del poetismo « indiga », per il riecheggiamento di famose movenze ‘alte’, e soprattutto per la coloritura filosofica, di sapore stoico. La prima qualità di cui si sostanzia la virtus è l’inalterabilità del vir bonus di fronte alla fortuna : siccome fortuna in latino è ambivalente comprendendo sia quella secunda che quella adversa, bisognerà intendere che il vir bonus non si lascerà abbattere dalla cattiva sorte come non si lascerà attrarre dalle lusinghe della favorevole, rimanendo sempre sotto la guida della ratio, la dea degli Stoici. La proposizione è resa compatta dal fonosimbolismo tramato su sette nasali. Inoltre la modulazione « Nescia fortunae virtus » risente chiaramente di formule oraziane del tipo nescius aurae fallacis (c. 1, 5, 11) o meglio di virtus repulsae nescia (c. 3, 2, 17) che presenta ugualmente al centro il genitivo d’un trisillabo, e agli estremi il sostantivo-base e il connesso aggettivo, magari in ordine rovesciato in R. La seconda concretizzazione della virtus consiste nel disprezzo della ricchezza : « nil indiga nummi ». Questo emistichio è esemplato sul lucreziano nil indiga nostri (2, 650). L’aggettivo indigus è d’uso poetico (Lucr. Virg. Luc. Tac.) e di sapore arcaico per la formazione *endo – ego – s con la conservazione del prefisso *end- > *ind- che appartiene alla lingua arcaica (cfr. indigitamenta). La terza concretizzazione della virtus è nella soddisfazione di condurre una vita conforme alla generale normalità, senza maniacali progetti stellari. Così concepita la virtus appare la superiore entità capace di rimodellare il mondo, di elevare il vir bonus al rango di re, dandogli regno e diadema : « Huic uni regnum defert diademaque tutum ». Anche questa formulazione è una memoria classica, sempre dal c. 2, 2, 21 virtus ... / regnum et diadema tutum deferens uni, di cui R. ha conservato anche il fonosimbolismo su sei dentali. La sostanza modellatrice sarà l’amore che è l’antitesi dell’egoismo, supporto dell’avarizia e dell’avidità : in questi versi e nei seguenti si rincorrono i termini coradicali vertenti sull’amore : « amor » al 26, « amica » al 28, « amare » al 30, per penetrare alla fine nella sfera privata con « amoris » al 31, « amicum » al 33, « amor » al 34.  





















































29-30 Qui natus moriensque omnes decepit, et orbi Ignotus, solum novit amare Deum.

« Orbi Ignotus » è come il tatuaggio che ogni ospite di P.-R. idealmente si portava impresso quale regola teorica e quale pratica quotidiana. « Ignotus » era l’aspirazione suprema, e la posizione in enjambement ne dà adeguato rilievo. Sullo stesso concetto di vita insiste anche la precedente frase « omnes decepit » che io rendo con « è sfuggito » ma che propriamente vale ‘ingannò, sorprese’. È indicazione importante perché a P.-R. si trovavano in ritiro ermeticamente chiusi Messieurs e Dames di notevole formazione intellettuale e di alta posizione sociale, con qualche imparentamento con la famiglia reale dei Borboni. Ritirarsi dall’alta società, fuori dal mondo, in una landa paludosa a poco a poco da loro stessi bonificata, chiusi entro poderose mura di recinzioni, col pensiero rivolto solo e sempre alle pratiche e alle riflessioni religiose, appariva effettiva 















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poesie latine di jean racine

mente un ‘ingannare tutti’ nella scelta di un tenace anonimato comportante anche la rinuncia agli alti incarichi di diritto per nascita. Questo modello virtuoso era costruito proprio in antitesi alla vita brillante condotta nei superbi palazzi aristocratici. In questi termini contrappositivi diventa comprensibile il « natus decepit », cioè con riferimento non al ‘nato’ in sé, ma alle feste che solevano ritualmente accompagnare tale evento ; altrimenti rimane incomprensibile come l’appena nato possa nascondere a tutti la sua nascita. In questa versione di Cristianesimo portoroialista abbiamo l’ultima e più alta concretizzazione della virtus : dallo Stoicismo della « Nescia fortunae virtus » il vir bonus passa alla perfezione nel « solum amare Deum ». Così realizzatosi il cristiano portoroialista è nella più forte contrapposizione all’avaro / avido che è sempre in fi brillazione per il Dio-Denaro.  















31-34 Pauperis exiguum, sed veri pignus amoris Accipe, pars animae, care Vitarde, meae : Splendida sincerum non dona fatentur amicum, Parvaque non refugit munera magnus amor.  

Due distici come dedica della poesia al cugino Vitart al quale R. era particolarmente legato come attesta la poesia latina II intestata « cognato suo carissimo ». Un atto di generosità e un pegno d’amore. Con queste caratteristiche il congedo si lega strettamente in opposizione alle negatività individuate nell’avaro/ avido, dato che la generosità è l’esatto contrario della tirchieria e l’amore è l’antitesi dell’avidità di avere l’altrui. Significativamente si susseguono in quattro versi tre coradicali parole d’amore : « amoris » 31, « amicum » 33, « amor » 34, per tacere di quel « (pars animae) meae » allineata in clausola con le tre. E sulla base dell’amore si profilano tre serie di contrapposizioni : « Pauperis – sed veri (amoris) », « Splendida – non amicum », « Parva – amor ». La volontà di porre in rilievo l’amore è rivelata dal fatto che le tre parole coradicali sono collocate all’ultima sede. Un ulteriore rafforzamento deriva dalla presenza virgiliana in « pignus amoris », Aen. 5, 538 e 572. Se anche questa clausola è molto usata : Ovidio met. 3, 283 ; 8, 92 ; Laus P. 213 ; Sil. It. 17, 364 ; Staz. Theb. 9, 62 ; silv. 3, 2, 81 ; Claud. 17, 25 ; Sid. Ap. c. 7, 484, però il fatto che anche un altro segmento « munera magnus » derivi dal verso eneidico precedente, 5, 537, fa propendere a ritenere che l’ipotesto sia quello virgiliano.  



























































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giampietro marconi [v] In Avarum

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Quis furor, o demens, quae te vesania turbat ? Quaeque auri torquet turpia corda fames ? Qui caecae infandum Fortunae numen adoras, Mendacique colis munera lata manu. Heu ! quid sollicito tantum indulgere labori, Quid tantum lucris invigilare juvat, Immensam si nulla sitim tibi copia pellat, Atque opibus magnis immoriaris inops ? Nequicquam ingentes ima tellure recondis Thesauros, tectis plurima gemma micat ; Nequicquam auratis surgunt tibi nixa columnis Atria, et augusto culmine celsa nitent ; Nequicquam tibi mille rates super aequora currunt, Fecundique virent jugera vasta soli : Nam requiem non gaza parit, miserosque tumultus Mentis non auri pondera fossa fugant ; Aeratas nec cura timet conscendere naves, Nec refugit nitidae lumina magna domus. Sed quo majores congesserit atra cupido Divitias, major vexat ubique metus. O quaestus furiosa fames ! o turpis egestas ! Quot nobis pestes quantaque damna creas ! Tu potes unanimes in bella accendere gentes, Tu summa immiti vertere regna manu. Impietas tibi certa comes, fraudesque dolique ; Per te nunc toto regnat in orbe scelus. Hic nimium felix, cui quod non desit habenti Nullus corda pavor curaque nulla premit ; Quem sors nulla movet, sed casu immotus ab omni Fallaces firmo pectore spernit opes.  

























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poesie latine di jean racine [v] Contro avaro e/o avido

Quale pazzia, o demente, quale insania ti stravolge ? Quale fame dell’oro ti tormenta l’animo fino alle turpitudini ? Tu che della cieca Fortuna l’esecrabile divinità adori, E i doni dalla sua menzognera mano portati veneri, Ohimé ! a che tanto applicarti ad affannosi sforzi, A che tanto vegliare sui guadagni, ti serve, Se l’immensa sete nessuna abbondanza te la potrà estinguere, E se pur fra immense ricchezze morirai povero ? Invano nelle profondità della terra ingenti nascondi Tesori, e nei tuoi palazzi brillano pietre preziose in quantità ; Invano ti si innalzano sostenute da dorate colonne Regge, e con maestosi pinnacoli alte brillano ; Invano per te mille navi sopra i mari corrono, E di fertile terra una infinità di iugeri verdeggiano : Ché riposo non producono i tesori, e le estenuanti tempeste Della mente non vale a fugare nessuna quantità d’oro estratto ; Neppure sulle navi foderate di bronzo l’angoscia esita a salire, E neppure di fronte a magnifici splendori di brillanti palazzi si tira indietro. Anzi, quanto maggiori abbia ammassato la nera brama Ricchezze, maggiore paura ti tormenta ovunque. Oh del guadagnare denaro pazza fame ! o turpe angoscia ! Quante pestilenze e quanti danni ci crei ! Tu puoi infiammare alla guerra popoli compattamente Tu puoi regni potenti sovvertire con crudele mano. L’empietà ti è compagna sicura, e le frodi e gli inganni ; Per opera tua ora in tutto il mondo regna il delitto. Troppo felice è quegli al quale avendo ciò che non deve mancare Nessuna paura l’animo suo, nessuna angoscia opprime ; Quegli che nessuna sorte smuove, ma irremovibile ad ogni evento Le fallaci ricchezze con saldo animo spregia.  

























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giampietro marconi Allitterazioni

Anche ad una lettura cursoria colpisce la frequenza delle formazioni allitteranti, ben 19 che su 30 versi raggiungono una media del 63%, alta già di per sé e notevole se comparata con quella registrata nella composizione d’argomento simile, in Avaritiam nella quale si individuano 15 esempi che su 34 versi danno la media del 44%. Ma a tanta frequenza non corrisponde la freschezza della creatività perché alcune allitterazioni sono d’uso corrente, altre appaiono stanche ripetizioni di quelle già realizzate nell’in Avaritiam. Esempio vistoso è la forma « ingentes ima tellure recondis » (9) che R. ha ripreso dal primo esametro dell’in Avaritiam « juvat ingentes ima tellure recondi », frettolosamente decurtandolo d’un elemento, mancanza resa più visibile dal fatto che il secondo emistichio corre identico in ambedue i testi. L’allitterazione « Thesauros tectis » (10) sembra una variazione aggiustata da « tellure x / Thesauros » (1) dell’in Avaritiam dove « Thesauros » trovava una sua forza espressiva dall’essere in enjambement e per essere collocato vicino a quel termine che indica l’affossamento delle ricchezze. Anche l’allitterazione « virent jugera vasta soli » (14) non sfugge all’impressione che sia una frettolosa ripresa di « immensi jugera magna soli » (6) dell’in Avaritiam con la perdita della sinestesia « jugera magna immensi soli » (cfr. comm. al verso). Solo in due casi le allitterazioni riescono a dare un valore aggiunto : nella sequenza « Mendacique colis munera lata manu » (4) in cui la triplice allitterazione con l’aggiunta di sei nasali colora di falsità e i doni della Fortuna e la stessa mano offerente. Nella rappresentazione dei palazzi dalle lunghe file di atri e dagli svettanti pinnacoli la doppia allitterazione « Atria et augusto culmine celsa » (12), conferisce una particolare forza anche per l’allusione al palatium di Augusto e per la ribattuta che si ha fra i due termini coradicali, « culmine » e « celsa », ambedue da *cello.  

















































Struttura Ho spiegato nell’analisi della struttura dell’in Avaritiam (§ 29) che la doppia composizione sullo stesso tema è dovuta all’importanza dell’argomento sul quale convergono tradizione classica, forti pulsioni evangeliche e lo spirito di P.-R. 1 Posso aggiungere che l’argomento doveva essere particolarmente senti 

1 Una diversa spiegazione, tutta interna alla poetica, potrebbe dedursi da K. Vossler quand’egli formula il giudizio che « nessuno dei sommi abitatori del Parnaso ha edificato come lui tanto in basso la sua dimora nella vallata della vita quotidiana e prosaica » (p. 49). A questa tematica ‘povera’ corrisponde un vocabolario estremamente povero, proprio perché il lessico di R. appartiene al mondo delle passioni che è il meno rinnovabile. Il cuore umano resta sempre simile a se stesso nell’infinita diversità dei tempi e dei luoghi : I.-G. Cahen, p. 22. A questo accentramento psicologico ‘basso’ nella drammaturgia r. porta un rinforzo statistico Maria G. Pittaluga che nell’esaminare le presenze della parola nature nota che è poco frequente nel teatro r. ricorrendovi solo 21 volte (compresa una variante). Cfr. Ch. Bernet, pp. 352-359. Non è dunque parola-chiave, statisticamente. Nature più che all’universo sensibile, esteriore, rimanda alla natura umana, com’è naturale in un  





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poesie latine di jean racine

to se Fouquet nominato sovrintendente generale alle finanze il 7 febbraio 1653, applicando una dura tassazione, e quindi facendo sparire dalla circolazione grosse quantità di denaro, riusciva a reperire ricchezze per lo stato, ma molte di più per sé, il che finì per provocare grossi malumori e addirittura una rivolta dei calzolai nel 1658. Colbert lo osteggiò fino a farlo cadere in disgrazia presso Luigi XIV che lo fece arrestare e condannare al carcere a vita nella fortezza di Pinerolo dove morì nel 1665. Soprattutto però da cristiano in versione portoroialista R. doveva sentire un’epidermica avversione all’avarizia, come si avverte dai primi due versi che pongono il tema correndo su un tono altamente aggressivo, ricalcati come sono sull’epodo oraziano settimo che doveva lanciare un grido di deplorazione contro il rinnovarsi delle guerre civili : furorne caecus an rapit vis acrior / an culpa ? Responsum date (13-14). Su questa modulazione R. costruisce una serie di domande introdotte da « Quis, quae (1), Quae (2), Qui (3), quid (5), Quid (6) ». Ma di responsa all’uno o all’altro quesito non v’è traccia. La prima bordata satirica (3-8) rileva la contraddittorietà per cui al « sollicito tantum indulgere labori » per accumulare ricchezze non corrisponde una sicurezza, un godimento adeguato, anzi ne è risvegliata una continua sete insaziabile di avere sempre più dovizie di beni. Così nell’avido dell’altrui si verificherà un degrado psichico per cui, pur fornito « opibus magnis », morirà « inops ». Un flash ai vv. 9-12 sull’inutilità di esibire palazzi maestosi come regge, svettanti al cielo con una selva di pinnacoli, e spesso di pinnacoli dorati. Una suggestione enfatizzata dai castelli della Loira ? Sono certo uno spettacolo di bellezza, ma non apportano nessun giovamento per procurarsi una vita sicura e felice. Ai vv. 13-18 viene dipinto un rapporto rovesciato fra la potenza economica simboleggiata dalle mille navi che corrono sui mari e le curae che simmetricamente, invece di diminuire fino a sparire del tutto, aumentano progressivamente fino a rompere ogni difesa, persino le bronzee corazze delle navi. Su questa contraddittorietà insiste ancora (19-22) R. col fissare in forma epigrafica il processo per cui alle « majores divitiae » corrisponde un degradante « major metus ». Addirittura si scatena una « furiosa fames » che ricorda la auri sacra fames di Virgilio. Lo sbocco di queste contraddizioni non possono che essere guerre, sovvertimenti di stati, empietà e inganni fino a provocare un regno universale del crimine, « scelus » (23-26). La chiusa è invece rassicurante con la delineazione dell’uomo felix, senza curae, inalterabile ai colpi della sorte, spregiatore delle ricchezze (27-30). Ritorna a prevalere la figura dello Stoico su quella del Cristiano, in inversione rispetto a ciò che veniva suggerito nell’in Avaritiam in cui dalla « Nescia fortunae virtus », alla fine si passava all’uomo che esclusivamente si dedica « solum amare Deum » (31).  













































teatro tutto volto allo studio dei sentimenti e delle passioni, come sostiene decisamente la Pittaluga (pp. 63-79). « Per Racine – osserva Leo Spitzer (p. 134) – quel che importa nell’azione non è il fattore ‘attivo’, ‘drammatico’, ma quello psichico. Si avverte una rinuncia agli effetti ‘drastici’, di portata universale, e un rifugiarsi nell’intimo del proprio animo ».  



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Commento 1-2 Quis furor, o demens, quae te vesania turbat ? Quaeque auri torquet turpia corda fames ?  



Si susseguono tre termini dello stesso bacino semantico a rafforzare la raffigurazione dello stravolgimento psichico. Già solamente « furor » sarebbe stato all’altezza di identificare la condizione di frenesia arrivata al massimo grado : basta ricordare il titolo della tragedia senecana Hercules furens per avere sotto gli occhi tutta una serie di sviluppi orrorosi. « Demens » con il de- privativo nega il ‘principio pensante’ indicato dal radicale *men, oppositivo di *Krp- > corpus. « Vesania » con il ve- prefisso peggiorativo e sanus individua con esattezza la degenerazione dello stato mentale ora ben lontano dalla sanitas. Queste tre parole pongono al primo verso della composizione a traccia dello sviluppo, l’equazione di avarus con furens, demens, vesanus. Raffigurazione sulla linea di Orazio che alla domanda quid avarus ? si rispondeva, stultus et insanus (serm. 2, 3, 158). Il secondo verso aggiunge molto alla delineazione dell’avaro/avido con quella « fames » che richiama per stratificata memoria l’auri sacra fames dell’episodio toccante di Polidoro (Aen. 3, 19-68) del cui auro / vi potitur Polimnestore che arriva fino all’omicidio del giovane che avrebbe dovuto accogliere in ospitalità. Anche il nesso « torquet turpia corda » così in rilievo e per l’allitterazione e per il valore conclusivo di « turpia » ‘fino a farli diventare turpi’, richiama l’esclamazione angosciata di Virgilio, quid non mortalia pectora ( :« corda ») cogis ! Richiamare il doloroso episodio di Polidoro implementa la narrazione di un sentimento di compartecipato dolore e di conseguenza provoca una più forte condanna dell’avido. Ne è prova il diretto rivolgersi del poeta all’avaro con l’epiteto « ‘o demens’ » che è di forte negatività certo, ma che anche – cosa più importante – provoca la rottura della narrazione oggettiva con un’interferenza soggettiva. Anche Virgilio quando si sente fortemente coinvolto nel fatto narrato esplode in un intervento personale rompendo l’oggettività narrativa, come nel caso dell’episodio di Eurialo e Niso ai quali il poeta indirizza l’augurio Fortunati ambo ! si quid mea carmina possunt, / nulla dies umquam memori vos eximet aevo (Aen. 9, 446-447). Anche Orazio all’inizio dell’epodo settimo si rivolge direttamente ai facinorosi che corrono alla guerra civile scaricando su di loro uno sdegnato biasimo : quo, quo scelesti ruitis ? : da questo ipotesto R. trae e la doppia interrogativa, e l’anafora del relativo-interrogativo con leggera variazione « quis, quae, quae », e la scelta di un aggettivo sostantivato, « demens » < scelesti, e il diretto « te » in sostituzione del sottinteso vos presupposto da ruitis. Ricalcare così da vicino un testo di respiro sociale, vale a rendere peggiore la figura dell’avaro, da pazzo personale a nemico sociale. Tanto lavorio sta a dimostrare che a questi due versi R. vuol affidare un messaggio forte, tanto più che lo ha rafforzato con il fonosimbolismo di otto dentali.  























































3-8 Qui caecae infandum Fortunae numen adoras, Mendacique colis munera lata manu.





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poesie latine di jean racine Heu ! quid sollicito tantum indulgere labori, Quid tantum lucris invigilare juvat, Immensam si nulla sitim tibi copia pellat, Atque opibus magnis immoriaris inops ?  



Nello sviluppare il tema proposto, l’avaro come pazzo, R. indica a riprova nei tre distici tre comportamenti contraddittori che appunto possono essere solo d’un demente : adorare la dea Fortuna e i suoi doni falsi ; ammazzarsi di fatica per avere sempre più sete di maggiori ricchezze ; sotterrare le « opes » rendendole così inutilizzabili al punto di morire « inops ». Esempla il v. 3 su un verso eneidico che appartiene ad un contesto ‘alto’ come il congedo del vecchio Evandro dal figlio Pallante in partenza con l’alleato Enea per la guerra ; « sin aliquem infandum casum, Fortuna, minaris » (8, 578) : di questo esametro mantiene l’indicazione della dea « Fortuna » anche col collegamento allitterante con « infandum », ma gli affi bbia, a cornice, l’appellativo « infandum numen » sì da renderla una divinità infernale e così stravolge il gesto religioso di adorazione in un rito fosco. Sostituisce all’ipotetico sin minaris il sarcastico « adoras ». Aggiunge rispetto all’ipotesto il fonosimbolismo su sette nasali e a rendere poi più tetro il quadro in cui si muove l’avaro qualifica la neutra « Fortuna » con l’aggettivo « caecae » che ha la funzione di rendere stupida l’azione di adorazione in quanto non generosa di benefici per il devoto. La clausola « numen adoras » nella frequenza delle ricorrenze, Aen. 3, 437 ; Ovidio met. 11, 540 ; trist. 3, 8, 13 ; ex P. 2, 2, 111 ; 3, 1, 163, quindi in un’ampia stratificazione mnemonica, contribuisce a rendere più largamente ricevibile il messaggio. Al v. 4 l’allitterazione lega le tre parole « Mendaci – munera – manu » che configurano i doni della Fortuna come decisamente falsi, ma non così avvertiti dall’avaro, che anzi continua ad avere un atteggiamento di culto, « colis » verso la mendace divinità. L’esclamazione « Heu ! » al v. 5 sa di sberleffo, proprio nell’introdurre la considerazione sulla stupidità dell’avaro che non si accorge che al suo febbrile lavoro non corrisponde poi un adeguato miglioramento delle sue condizioni di vita. L’anafora di « quid » ad incipit ai vv. 5 e 6 evoca visivamente la tenacia d’una riflessione che viene sbattuta in faccia all’avaro che non riesce a rendersi conto di quello che fa. Su due contesti ‘alti’, quid tantum insano iuvat indulgere dolori (2, 776), l’invito dolorosamente lirico dell’imago di Creusa scomparsa, ad Enea nella notte dell’incendio di Troia, e su insano iuvat indulgere labori (6, 135), avvertimento preliminare alla discesa nell’Averno, R. esempla il v. 5 sostituendo a insano, « sollicito » e trasferendo quid tantum e iuvat al v. seguente. Elementi epici e di tale altezza inseriti in un contesto satirico valgono da sarcasmo devastante. Per l’espressione « lucris invigilare » esemplata su Oraz. serm. 1, 1, 70 rimando alla discussione che ho fatto in Avaritiam 12. L’immagine della sete (7) che nell’in Avaritiam (15-16) era reale perché collegata alla rappresentazione di un idropico, qui è solo metafora ad indicare la rabbiosa ricerca di avere sempre di più : l’ipotesto è Oraz. epist. 2, 2, 146 si tibi  





















































































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nulla sitim finiret copia lymphae che rappresenta una finestra sulla successiva conclusione quanto plura parasti, / tanto plura cupis (147). L’ultimo colpo contro l’avaro è nella constatazione che fra tante « opes », egli muore « inops » (8). La contraddittorietà di questa situazione era stata già rilevata da Orazio nel c. 3, 16, 28 magnas inter opes inops con un ordo verborum efficacissimo per la collocazione dei due termini contrappositivi in contiguità. Anche la punta velenosa dell’immori nell’indicare un ‘ammazzarsi di fatiche per...’ deriva da Orazio che rappresenta uno che fattosi per amore di lucro contadino immoritur studiis (‘lavori agricoli’) et amore senescit habendi (ep. 1, 7, 85).  







9-12 Nequicquam ingentes ima tellure recondis Thesauros, tectis plurima gemma micat ; Nequicquam auratis surgunt tibi nixa columnis Atria, et augusto culmine celsa nitent ;  



Il v. 9 è un’autocitazione dall’in Avaritiam, proprio del primo verso, con anche « Thesauros » in enjambement al verso successivo. L’espressione sta a dimostrare l’assurdità dell’accumulare ricchezze e di farle sparire sotto terra senza alcun godimento personale e con danno alla società per la sottrazione di ricchezze dalla circolazione. La ripresa di un’affermazione sarcastica mostra che R. era ben sensibile a questo problema sotto ambedue gli aspetti. In questa composizione è richiamato un altro argomento, introdotto dai « Nequicquam » incipitari : il lusso sfrenato dei palazzi luccicanti di marmi preziosi (« plurima gemma ») con fughe di colonnati e ambienti, e una selva di pinnacoli. Ci poteva essere nulla di più contrastante con la sobrietà al limite della povertà degli edifici e degli arredi di P.-R. ? Di qui lo sdegno di R. che sviluppa il tema delle ricchezze inutilizzate o per sotterramento o per costruzioni puramente esibizionistiche : sono parimenti sottrazioni dalla circolazione di capitali che invece avrebbero potuto assicurare benessere. Anche il v. 11 è un’autocitazione dall’in Avaritiam, « nitidis sublimia tecta columnis » (19) con la sostituzione di « nitidis » per il forte « auratis » per rendere più negativamente eclatante lo sfarzo inutile.  





























13-18 Nequicquam tibi mille rates super aequora currunt, Fecundique virent jugera vasta soli : Nam requiem non gaza parit, miserosque tumultus Mentis non auri pondera fossa fugant ; Aeratas nec cura timet conscendere naves, Nec refugit nitidae lumina magna domus.  



R. punta ad evidenziare il rapporto che intercorre fra ricchezze mobili e immobiliari anche in accumuli leggendari, e la tranquillità fisica e mentale : risultato, negativo. 1  



1  In questo contrasto ricchezze/tranquillità psico-fisica risolto in senso sfavorevole, può vedersi il nocciolo di quello che sarà nella drammaturgia su un livello ‘alto’ il contrasto fra ‘vivere’ e ‘regnare’, anch’esso risolto negativamente : cfr. il grido disperato di Tito : « Mais il ne s’agit plus de vivre, il faut régner » (Bérénice 1102), con l’immediata risposta repulsiva di Berenice : « Hé bien régnez, cruel,  











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Sono citati a campione tre tipi di ricchi : l’armatore (13), il proprietario fondiario (14), il banchiere (15). L’immagine ariosa delle infinite navi che corrono sopra la piatta distesa (« aequora ») del mare deriva da Virgilio, in aequora currunt (12, 524) che la usa in similitudine riferita ai due duellanti finali, Enea e Turno, simili a fiumi che spumeggianti e fragorosi scendono dai monti in mare. R. utilizza dunque un contesto di facile memorizzazione, lo rende plastico con « super », lo rafforza con il fonosimbolismo arricchito di altre due r « rates super ». « Gaza » indicando tecnicamente il tesoro del Gran Re di Persia sta ad indicare il più famoso degli accumuli aurei dell’antichità (cfr. il commento a § 30, v. 4). Con procedimento combinatorio costruisce il modulo « miserosque tumultus / Mentis » dal virgiliano miseroque tumultu (Aen. 2, 486) detto della situazione in cui versa la reggia di Priamo al momento dell’assalto di Pirro, dunque in un contesto a tenace memorizzazione, e dall’oraziano non gazae neque consularis submovet lictor miseros tumultus / mentis (c. 2, 16, 9) da dove è ripreso l’enjambement di « mentis ».  

























19-22 Sed quo majores congesserit atra cupido Divitias, major vexat ubique metus. O quaestus furiosa fames ! o turpis egestas ! Quot nobis pestes quantaque damna creas !  





Un’insistenza sull’analisi del rapporto intercorrente fra accumulo di ricchezze e stato psicologico dell’accumulatore : risultato, inverso a quello che ci si poteva aspettare a fil di logica corrente, espresso con due comparativi, grammaticalmente simmetrici, ma contenutisticamente antitetici : « majores divitias – major metus ». L’allitterazione « congesserit cupido » sottolinea l’avidità di ammassare ricchezze ; l’enjambement mette in rilievo la montagna di oro ; l’ordo verborum per cui « Divitias » è contiguo a « major » qualificativo di « metus » rafforza la contraddittorietà del processo di arricchimento e di impaurimento. Il nesso « quaestus furiosa fames » è sicuro calco del virgiliano auri sacra fames come invita a ritenere la formulazione al v. 2 « auri – turpia – fames », qui ripresa con elaborazione. R. infatti apporta due significative variazioni : ad « auri » la ricchezza in sé sostituisce « quaestus » che batte sulla ‘ricerca di guadagno, di arricchimento’, in aderenza allo sviluppo argomentativo per cui ‘maggiore sforzo per avere = maggiore paura’. Al posto del virgiliano sacra che vale ‘consacrato agli dei infernali’ R. adopera « furiosa » che riporta il biasimo nell’ambito umano, nel quale questa parola come tutte quelle coradicali indicano una pazzia con un senso accessorio di agitazione violenta, che trova corrispondenza nella fi brillazione con cui si muove l’avido. Ritorna così l’idea prospettata al primo verso, della corsa al denaro come ‘furor – dementia – vesania’ : evidentemente R. si sente molto coinvolto in questo sdegno contro l’arricchimento ad ogni costo, tanto da esplodere – e questa ne è la dimostrazione – in tre esclamazioni in due versi e l’esclamazione è lo sbocco violento  



















































contentez votre Gloire », e la cruda alternativa imposta da Rossana a Bajazet : « Pour la dernie¯re fois veux-tu vivre et régner ? » (Bajazet 1540).  









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d’un sentimento irrefrenabile. « Egestas » non può valere ‘povertà’ come d’ordinario, perché la povertà è considerata, dall’alunno di P.-R. un bene tanto da definirla « pia » nell’ad Avaritiam 28 e quindi non potrebbe mai esser definita « turpis ». « Egestas » trova una precisa spiegazione nella psicologia dell’avido nella cui mente è sempre attivo un processo per cui quando non sente di arricchirsi in progress, si sente in povertà, gli subentra ‘l’angoscia d’un bisogno, di una mancanza’. Con « egestas » la satira raggiunge il sarcasmo. Getta un lampo su questa interpretazione la rima che collega « egestas » e « creas » : l’accostamento suggerisce di intendere che la « egestas » non è reale, ma è solo una ‘creazione della mente malata’ d’un avido-pazzo desideroso di accumulare in ogni momento sempre di più.  

































23-26 Tu potes unanimes in bella accendere gentes, Tu summa immiti vertere regna manu. Impietas tibi certa comes, fraudesque dolique ; Per te nunc toto regnat in orbe scelus.  

Il rapporto ricchezze / stato psicologico perversamente ribaltato nella situazione individuale, ora viene trasferito su un contesto mondiale per verificarne anche qui l’effetto : risultato, l’impero dello « scelus ». A questo si arriva però gradualmente e R. con cura ne individua i passaggi. L’avidità di avere di più spinge nel quadro mondiale a guerre di depredazione. R. doveva aver chiaro dalla storia antica fino a quella recente che uno dei mezzi di produzione era il saccheggio dopo la vittoria, la praeda. La guerra si chiude sempre con la devastazione del regno soccombente : nella distruzione d’una ordinata società entra in circolo l’« Impietas » sì che il nuovo regno si baserà sullo « scelus ». L’ alunno di P.-R. la cui comunità si reggeva sull’esercizio della pietas, prova orrore a pensare allo scatenarsi di simili processi di sovversione : la prova è nel passaggio da una oggettività narrativa al tutoyer con i due « Tu » ad incipit ai vv. 23-24, « tibi » al 25, « per te » al 26, quasi per un impulso psicologico ad afferrare con mano e fermare fattori così negativi. Significativa è la semplificazione apportata nella ripresa del v. 28 dell’in Avaritiam « Cui pia paupertas haeret amica comes » : la « paupertas » sembrava incorporata nel virtuoso stoico al quale la « Nescia fortunae virtus » conferisce regno e diadema, ed anche nel devoto cristiano il quale « solum novit amare Deum » ; ora invece la « Impietas » col suo corteo di « fraudesque dolique » diventa la nuova « comes » anche « certa » nel processo psicologico di chi vive solo per avere l’altrui. Le enclitiche -que -que richiamano un modulo epico, il quale in un contesto ‘basso’ si profila con più forza disgregante, tanto più che l’inusuale espressione « in bella accendere » richiama Aen. 12, 804, infandum accendere bellum, le alte parole, con cui Giove rimprovera Giunone di aver scatenato tante guerre e tanti morti per ribaltare ciò che era stabilito.  





































































27-30 Hic nimium felix, cui quod non desit habenti Nullus corda pavor curaque nulla premit ; Quem sors nulla movet, sed casu immotus ab omni Fallaces firmo pectore spernit opes.  

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La chiusa, com’è nel gusto di R., è rassicurante, come del resto doveva esserlo per ogni cristiano, soprattutto di formazione portoroialista, convinto del messaggio evangelico specie nell’apprezzamento della povertà. In contrapposizione all’avaro e all’avido in processi di arricchimento e di impaurimento, R. ora delinea à rebours il ritratto del felix con queste caratteristiche : possiede quello che gli è necessario, non di più, né dell’altrui ; non è afflitto da curae e tanto meno dal « pavor » perché non si immette nella spirale dell’arricchirsi e del temere ; non si sente mai colpito dalla Fortuna perché ripone tutto il suo nella virtus, non sulle riserve auree sulle quali l’avaro si sente obbligato a dormire disteso per sentirne il contatto fisico e per vigilare contro ogni sottrazione ; non si esalta per fortunose evenienze né si abbatte per le avversità ; impavido come lo stoico che Orazio dipinge impavidum ferient ruinae anche nel caso che fractus inlabatur orbis (c. 3, 3, 8) ; disprezza le ricchezze con salda determinazione nella convinzione che sono cose esterne e fallaci. Molte di queste qualità potrebbero essere trovate nella raffigurazione del modello dello Stoico ; io ne cito tre dal senecano de constantia sapientis ‘la coerenza dello Stoico’ : sapiens ... omnia in se reposuit, nihil fortunae credit, bona sua in solido habet contentus virtute (5, 4) ; sapiens ... nescit nec in spem nec in metum vivere (9, 2) ; omnium extrinsecus adfluentium lubrica et incerta possessio est (5, 7). È significativo però che la modulazione con cui R. tratteggia la rappresentazione del felix antiavaro la riprenda da Virgilio, e proprio dalle parole con cui Virgilio cita Lucrezio : felix qui potuit rerum cognoscere causas / atque metus omnis (cfr. « pavor curaque ») et inexorabile fatum (cfr. « sors ») subiecit pedibus (cfr. « firmo pectore spernit ») strepitumque Acherontis avari (avido di esseri umani). Ed è apoftegma che ricalca espressioni lucreziane, 1, 78-79 ; 146 ; 3, 16.  









































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giampietro marconi [vi] De morte Henrici Montmorancii Ante patris statuam, nati implacabilis ira Occubui, indigna morte manuque cadens. Illorum ingemuit neuter mea fata videndo : Ora patris, nati pectora, marmor erant.  

poesie latine di jean racine

Per la morte di Enrico di Montmorency Davanti alla statua del padre, per l’ira del figlio implacabile Soccombetti, d’indegna morte e per indegna mano cadendo. Di loro nessuno gemette al vedere il mio destino : Il volto del padre, del figlio il cuore marmo erano.  

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giampietro marconi Commento

Mesnard (iv p. 222) informa che nella copia ms. de Augusto de Naurois che aveva fra le mani e da cui traeva il testo della poesia, era scritto a margine « Obiit ann. 1632 aet. 38 ». In effetti Henri de Montmorency fu decapitato il 30 ottobre 1632 a 38 anni d’età a Tolosa all’interno dell’Hôtel de ville, davanti alla statua del re Enrico IV. Mesnard si domanda se R. sia l’autore dei due distici o semplicemente il trascrittore dei versi che poi avrebbe lasciato fra le sue carte. L’argomento che Mesnard adduce è d’ordine stilistico : gli altri versi latini sono lontani da questa maniera. Sono d’accordo che i due distici non sono di R. per tre motivi : a) lo sdegno che vi traspare non per la morte inflittagli ma per le modalità della morte, la decapitazione, che un nobile ritiene indegna tant’è che non viene neppure allusa, rientra in una mentalità aristocratica lontana da quella di R. ; ‘indegna morte, indegna la mano’ d’un boia invece della mano d’un nobile che avrebbe usato la spada. Poi lo squallore della scena dell’esecuzione : neppure un gemito o esclamazione compassionevole come pure vengono strappati dalle scene-clou di una tragedia al solo annuncio di una morte che invece qui è rappresentata in atto, ma uno squallido algore marmoreo, di totale indifferenza. La motivazione della condanna stravolta in uno squallido impulso d’ira implacabile, non in un’accusa ‘alta’, magari di alto tradimento come doveva essere nella realtà. La forte disapprovazione dell’evento che traspare chiaramente, ci obbliga a ritenere che l’epigrafe sia stata scritta sotto l’onda del fatto, in un ambiente profondamente imbevuto di etichetta aristocratica. Tanto passionale disgusto non poteva esplodere 24 anni dopo, 1632-1656, tanto più che l’esecuzione avvenne a Tolosa, dunque lontano da Parigi e da La Ferté Milon (Valois) quindi oltre il raggio delle onde che si trasformano in leggende. b) stilisticamente, rispetto alle modulazioni latine riscontrabili nelle altre poesie latine, vi è un eccesso di ritrovati retorici dai quali rifugge il dettato r. L’allitterazione di cui poco si serve R., qui fa registrare una media del 100%, con quattro allitterazioni su quattro versi ; mentre la media generale è del 40%, esattamente del 48% nell’ad Christum, del 33% nella lettera a Vitart, del 28% nella Laus hiemis, del 44% nell’in Avaritiam, del 60% nell’in Avarum, del 45% nell’Urbis et ruris differentia. Vi è poi un enjambement in « Occubui » ; e l’uso, cosa rara e da evitare, di un pentasillabo, « implacabilis », per qualificare, bollandola, la motivazione della condanna ; la strutturazione dell’ultimo verso in cinque bisillabi, quasi i funebri rullii dei tamburi nella marcia al palco ; i plurali poetico-epici pro singulari, « Ora » ‘volto’, « pectora » ‘cuore’. Anche il gerundio « videndo » ‘al vedere’ suona estraneo allo stile così classicheggiante di R. c) la vis polemica non può trovare paternità nel diciassettenne R. che vive separato dal mondo nella umbratile atmosfera di un’abbazia sotto gli affettuosi sguardi di una nonna e di una zia. Troppo incongrue risultano anche alcune qualificazioni come « (nati) implacabilis ira », « marmor erant », e il nesso « indi 

















































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gna morte manuque » che non contesta né la morte né la motivazione, ma il modo di esecuzione offensivo per essere del tutto contrario al galateo aristocratico. 1 La fonte è sicuramente da individuare in un ambiente anti-borbonico, presumibilmente orleanista, per i due stravolgimenti storici, inaccettabili : Enrico di Montmorency fu condannato a morte per alto tradimento, dato che aveva guidato una rivolta contro Luigi XIII da governatore della Linguadoca. Tra l’altro in quell’anno Luigi XIII era stretto anche da un’altra rivolta, capeggiata dal fratello Gastone d’Orléans, era quindi nella necessità politica di adottare una linea rigorosa. Rivelatore è il dato del particolare « ante patris statuam » che è messo in rilievo ad incipit ; non è un atto di rivalsa per l’uccisione del padre Enrico IV assassinato da Ravaillac il 14.5.1610 come pure tende a insinuare con « implacabilis » l’estensore dell’epigrafe ; è un’esigenza politica di primaria importanza perché Luigi XIII intende proclamare visivamente la stabile continuità dinastica dei Borboni sul trono di Francia, da Enrico IV, il fondatore della dinastia. Mi pare che il ribaltamento della condanna a morte per alto tradimento in atto d’ira implacabile, e il rovesciamento dell’esecuzione piena di significato dinastico davanti alla statua del primo re Borbone, in fatto d’empietà, siano due forti spie sulla provenienza dell’epigrafe. Manca solo l’aureola del martirio : vi supplisce « Occubui », in prima persona, quasi un soffio di un’ombra dall’Averno. Occumbere è il termine ‘alto’ per le grandi morti : con esso si esprime dolorosamente Enea, mene Iliacis occumbere campis / non potuisse (1, 97) e stizzosamente Giunone che vorrebbe morti i sempre attivi Troiani, num Sigeis occumbere campis ... potuere ? (7, 294). Le sole quattro ricorrenze di occumbere nell’Eneide costituiscono l’attestazione della preziosità del verbo. Come per gli eroi antichi morire per mano d’Achille o di Ettore non è negativo per la gloria, data la indiscussa imparità di potenza, così per Montmorency morire sotto due re non avrebbe dovuto essere del tutto negativo, ma l’epigrafista vuole attutire anche questo dato materiale correggendolo con il semplice « cadens » posto alla fine dello stesso verso.  





























1  Per altre considerazioni anti-autenticità cfr. L. Vaunois, p. 181.



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giampietro marconi [vii] Urbis et ruris differentia

Quamquam Parisiae celebrentur ab omnibus artes, Et quisque in lato carcere clausus ovet, Nescio quid nostris arridet gratius arvis, Quod non in tantae moenibus urbis habes. 5 Illic assurgunt trabibus subnixa superbis Atria, et aurato culmine fulget apex. Sed mihi dulcius est silvas habitare remotas, Tectaque quae sicco stramine canna tegit. Illic ultrices posuere sedilia curae, 10 Illic insidiae, crimina, furta latent ; Hic requies, fidum pietas hic inclyta portum Invenit ; his lucet sanctior aura locis. Illic saeva fames laudum, hic contemptus honorum ; Illic paupertas, hic fugiuntur opes. 15 Urbicolae ruri, nil rusticus invidet urbi. Oppida plena dolis, ruraque fraude carent. Quam miserum sacris viduas virtutibus urbes, quam miserum stygiis praeda manere lupis ! Sed quid non urbes habitent quoque numina, quaeris ? 20 Non habitat foedos Gratia pura locos. Arcet fumus apes, expellunt crimina Christum ; Mors vitam, clarum nox fugat atra diem. Hic blandum invitant tranquilla silentia somnum ; Illic assiduo murmure rupta quies. 25 Nempe micant, inquis, diversis floribus horti, Et laetos cantus plurima fundit avis. Ergo dissimulas quam dulces ruris amoeni Deliciae, ruris cui levis umbra placet. Hic vos securis, Musae, regnatis in oris ; 30 Hic vobis virtus jungitur alma comes. Oppida non fugiunt, fateor, non arma Camenae : Loricam Pallas induit atque togam. At laxis vitium frenis grassatur in urbe, Atque illic Musae crimina sola docent. 35 Nequicquam pavidos circumdant moenia reges ; Frustra haeret lateri, nocte dieque, manus. Non vera his, sed falsa quies ; miserosque tumultus Mentis non lictor, non domus ampla movet. Quisquis amas strepitus, per me licet, urbe potire ; 40 Me tamen ipsa magis rura nemusque juvant.  























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poesie latine di jean racine [vii] Campagna-città : differenze  

Di Parigi le raffinatezze sebbene siano famose in tutto il mondo E ciascuno in un grande carcere pur chiuso si sente di trionfare, Un non so che di più attraente sorride alle nostre campagne, Che dentro le mura di una grande città non hai. Là s’innalzano sostenuti su travature superbe Palazzi, e di dorati pinnacoli rifulgon le cupole. Ma per me è più gradevole selve abitare remote, e capanne che con secca paglia canne ricoprono. Là han posto dimora le preoccupazioni vendicatrici, Là sono in agguato le insidie, i delitti, i furti ; Qui riposo ; un fidato porto qui la luminosa pietas Trova ; riluce in questi luoghi un’aura di grande sacralità. Là una feroce fame di gloria, qui disprezzo delle cariche ; Là dalla povertà, qui si rifugge dalle ricchezze. Gli urbicoli guardano di mal’occhio la campagna ; per nulla ha invidia il campagnolo della città. Le città di astuzie son piene, le campagne di frodi son prive. Che miseria le città di virtù sacre vuote, Che miseria rimanere preda di lupi infernali ! Ma perché non abitino le città anche le divinità, mi chiedi ? Non abita luoghi sporchi la Grazia pura. Il fumo allontana le api, i delitti bandiscono Cristo ; La morte scaccia la vita, la notte nera il chiaro giorno. Qui al blando sonno invitano i tranquilli silenzi ; Là da un continuo frastuono è rotto il riposo. Sì, certo, brillano, tu dici, di vari fiori i giardini E rallegranti canti effondono stormi di uccelli. Così dissimuli quanto dolci siano dell’amena campagna Le delizie, tu che ami le lievi ombre della campagna. Qui voi, o Muse, in luoghi tranquilli avete il vostro regno ; Qui a voi s’unisce la reintegrante virtù a compagna. Le città non rifuggono, lo confesso, e neppure le armi, le Camene : Della lorica si cinge Pallade come della toga. Ma per i rilassati freni fa rapine il vizio per le città, E là le Muse insegnano a cantare solo i delitti. Invano le mura circondano impauriti re, Invano sta loro attaccata al fianco, notte e giorno, la guardia. Non è vero per loro, ma falso il riposo ; e le devastanti angosce Della mente, non un littore, non un’ampia reggia vale a rimuovere. Chiunque tu sia ad amare il frastuono, per me impadronisciti pure della città ; Me invece rendono più lieto la campagne di per sé e i boschi.  

























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giampietro marconi Allitterazioni

Le allitterazioni con 18 ricorrenze su 40 versi raggiungono una percentuale del 45%, nella media modesta di tutte le altre composizioni, quale ritrovato rimasto costantemente poco gradito a R. Di significativi si notano due casi in relazione alla vita del cittadino e due esempi relativi alla vita in campagna. La sequenza « carcere clausus » (2) riferita al cittadino, lo rappresenta come schiacciato dalle dimensioni della metropoli, specie di quella Parigi nominata al verso precedente. Subito dopo (3) una doppia sequenza ci offre quel-non-so-che di attraente che esiste nella oggettiva bellezza della campagna, la quale, personificata, « arridet » : « Nescio quid nostris arridet x arvis ». Sembra di leggere la differenza fra Parigi e gli orti di Port-Royal des Champs. Le città possono pure crescere in bellezze architettoniche, in una selva di palazzi superbamente alti, dai grandi spazi, e con ornamenti aurei perfino nei pinnacoli, « assurgunt trabibus subnixa superbis » (5), ma non sembra che il cittadino ne ricavi giovamento, tanto che non è neppure nominato in questa rappresentazione. Invece il contadino alla fine acquista coscienza della atmosfera irenica di chiaro sapore elegiaco che lo circonda, « Hic (sc. in campagna) x invitant x silentia somnum » (23) : si chiude il sipario su una scena che nel legamento allitterante della clausola sa di favola. Interessante è la sequenza allitterante « crimina Christum » per l’accostamento dei due poli fra i quali si dibatte, non solo la differenza città-campagna, ma piuttosto l’immaginata (dall’acceso e ingenuo neofita portoroialista) lotta fra Cristo in persona e la corruzione che sembra sinonimo del mondo esterno. Le dimensioni di questa lotta sono rese concrete da un’immagine molto campagnola, « Arcet fumus apes », attraverso la quale si suggerisce che il contadino abbia piena coscienza del Male che imperversa nelle città.  































Fonosimbolismo Del fonosimbolismo è significativo il fatto che R. vi ricorra almeno quattro volte per sottolineare le piacevolezze della campagna, di contro alla sola volta riferita al vivere cittadino, per giunta in direzione satirica : scarto indicante con sicurezza la preferenza per il rus. In « Nescio quid nostris arridet gratius arvis » (3) le cinque r martellano la dichiarazione del superiore godimento che si può avere dalla campagna. Pochi versi dopo il piacere viene prospettato in una situazione particolare dall’affermazione « Sed mihi dulcius est silvas habitare remotas » (7) nella quale le sei sibilanti segnano il luogo preferito in un ampliamento sonoro dalle s di silvas. Con « Tectaque quae sicco stramine canna tegit » (8) R. pone un compiaciuto accento direi sul ‘buon selvaggio’ che sogna una capanna di canne e paglia : le cinque dentali sottolineano la rumorosa costruzione nell’uso di elementi facilmente friabili, su cui punta anche la ricercata corrispondenza fra i due coradicali « tecta – tegit » posti ad inizio e a fine verso. « Tecta » arriva a significare ‘casa’ in quanto ‘coperta’ e soprattutto ‘protetta’ per la stessa estensione semantica  























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che si verifica in tegula e toga : così tecta conferisce anche un accessorio senso di affettuosità ‘riparata’. La rappresentazione della capanna è poi resa vivida anche dall’allitterazione che lega i due elementi costruttivi, « sicco stramine ». Un tocco elegiaco conferiscono le nove nasali in « Hic blandum invitant tranquilla silentia somnum » (23) : non si sente riprodotto onomatopeicamente il fruscio d’un sonno dolcemente russante ? Del frenetico ansimare dell’avido si incaricano di dare conto le undici nasali distribuite in un verso e mezzo, « miserosque tumultus / Mentis non lictor, non domus ampla movet » (37-38).  

















Analisi della struttura Questa composizione è stata pubblicata da Granet-Desmolets, p. 124 con un forte apprezzamento dal lato poetico, ma con una riserva sulla paternità espressa nella Table de matières dei tomi iii e iv in questi termini : « Racine. Vers latins qu’on lui attribue (faussement) ». In favore dell’autenticità Mesnard (iv p. 211) cita il fatto che nella Reponse aux vers précédents (naturalmente di R.) Vitart gioca proprio sul nome, latinizzandolo, di R. come autore delle lettere in versi speditegli, « Saepe datos spernens nescit habere novos. / Angustas ne finge moras ; tantum impiger aude, / Cum sterilis Radix nesciat esse sibi. » (26-28) ‘Spesso a furia di disprezzare i versi già donati non sa più averne di nuovi. / Non inventare impedimenti ritardanti ; soltanto sii attivo e ardito ; dal momento che un Radix (corsivo dell’autore) non sa proporsi sterile (autore)’. Mesnard va ancora più avanti (iv p. 212 n. 1) e dalla citazione del luogo dove la pietas trova « fidum portum » (11) conclude che i versi sono stati scritti a P.-R. = Portus Regius. Io, fra le diverse espressioni che rimandano chiaramente alla vita condotta in quell’abbazia come « his lucet sanctior aura locis », citerei anche il dato personale legato all’ambiente latamente monasteriale, « mihi dulcius est silvas habitare remotas » (7). Da Louis sappiamo che « son (di Jean R.) plus grand plaisir était de s’aller enfoncer dans les bois de l’Abbaye avec Sophocle et Euripide, qu’il savait presque par coeur » (Forestier i, p. 1120). 1 Circa la struttura osservo – e il dato può aver influenza sul riconoscimento della paternità – che lo sviluppo compositivo è molto vicino a quello d’una tragedia di cui ha : a) l’argumentum posto all’inizio (1-4) ; b) lo svolgimento antagonistico per blocchi di due distici, uno assegnato alla rappresentazione della città, l’altro all’elogio della campagna (5-8, 9-12, 25-28, 29-32) ; c) il congedo (39-40) ; d) la rappresentazione della città introdotta da « Illic » ‘Là’, quella della campagna contraddistinta da « Hic », 2 quasi le sigle di due personaggi ; e) la presenza di battute della misura d’un emistichio contro un emistichio (13-16) ; f ) tirate tutte puntate contro le città (17-22 ; 35-38) ; g) contrasti sticometrici (23-24). L’ambito  



























































1  Sulla base di questa e di altre attestazioni i critici hanno discusso se R. si sentisse il continuatore ideale dei grandi tragici greci o l’ammiratore-postillatore di quei modelli. Sulla familiarità e sull’influenza della tragedia greca su R. cfr. A. Stegmann, p. 43 n. 2  Anche quest’avverbio « Hic » può essere indicativo di P.- R., come è nella natura epidittica del dimostrativo, ‘questo qui’.  



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delle argomentazioni è riccamente variato, spaziando dalle pitture d’ambiente, a scorci cittadini contrapposti a Landscapes di struggente nostalgia (5-8), spaccati sociologici a sfondo criminogeno delle città, tratti tonificanti delle campagne sulla base della pietas solidaristica (9-12) ; differenziazioni ideologiche : fame di carriera nelle città per cui s’invera la massima homo homini lupus, nelle campagne l’età dell’oro continua piena sotto molti aspetti (13-16), naturalmente sostenuta dalla Grazia cristiana (17-22). La qualità della vita cittadina rotta dal frastuono appare degradata e degradante rispetto al tenore condotto in campagna nel silenzio (23-24). Ed ora il poeta immagina un dialogo diretto con lo spettatore, « inquis » (25-28). Non poteva mancare un affondo metapoietico : la poesia cittadina si nutre e teorizza (« Musae docent ») il canto di fatti delittuosi e di uomini delittuosi, capaci perfino di regicidi ; nelle campagne l’ispirazione si trova ancora congiunta con l’esaltazione della virtus (29-34). Perciò anche la salute mentale dei cittadini è sconvolta (35-38). La conclusione è mesta, autoconsolatoria, non tanto rassicurante come altrove in R. : ‘la città a chi la vuole, al poeta la poesia pastorale e georgica’ : « rura nemusque iuvant ». Però è degna di nota la virile accettazione, sia pur dolente, della situazione contemporanea, dell’inevitabilità del ripiego dopo la nascita degli agglomerati urbani con tutto il carico di spinte disgregazionistiche, lungi da velleitarie rivolte nel nostalgico culto di un passato dipingibile come dorato, ma realisticamente irriproducibile.  























Commento 1-4 Quamquam Parisiae celebrentur ab omnibus artes, Et quisque in lato carcere clausus ovet, Nescio quid nostris arridet gratius arvis, Quod non in tantae moenibus urbis habes.

Come in una fabula l’argumentum informa sul contenuto che sarà sviluppato nell’azione in atto : qui è annunziato che sarà trattato il tema del contrasto fra le « Parisiae artes » ‘le raffinatezze’ di una delle più raffinate città e ciò che « arridet arvis » ‘il paradiso delle campagne’. I due poli sono posti in rilievo con vari ritrovati per rendere il contrasto più stridente. Per ‘parigino’ R. aveva a disposizione Pa¬rı¯sı˘a¬cu¯˜s che presenta una misura prosodica opportuna a entrare nella metrica dattilica presentando una breve iniziale, un dattilo completo e una desinenza che a seconda della flessione può essere considerata lunga, breve, elidibile. Invece R. crea la forma « Pa¬rı¯sı˘u¬s » che pure potrebbe andar bene a seconda della flessione, ma che egli colloca male, in seconda posizione dove deve subire l’allungamento della prima breve per arrivare a formare uno spondeo, eppoi la declina peggio, al femminile plurale in cui si viene a creare un cretico, Pa¬rı¯sı˘ae inammissibile nella metrica dattilica. Perché tanto pasticcio ? Eppure in tutte le composizioni latine R. non ha una sola volta forzato la prosodia. L’unica spiegazione credo sia da cercare nella volontà di avere un aggettivo che ricordasse da vicino il nome proprio, ParisiiParisius, rispettivamente nome proprio e aggettivo, magari con la sottesa scusante di aggiustamenti metri causa giustificati dalla necessità di introdurre nomi  















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propri. « Artes » nell’esatto valore di indicazione d’ogni abilità conseguita con un lungo esercizio, portano l’accento sulle raffinate lavorazioni richieste dallo sfarzo della corte ; il plurale potrebbe essere funzionale a suggerire le varietà tipologiche dei prodotti. « Omnibus » come Omnia, formando un dattilo perfetto sono parole ricercate per le clausole al punto da avere tante ricorrenze da riempire 10 pagine del De fine versus. La clausola « omnibus artes » richiama Ovid. met. 1, 524 e Val. Fl. Arg. 6, 152. Anche « carcere clausus » proviene da Val. Fl. 1, 602 o anche da Lucano 1, 294 carcere clauso. L’allitterazione rende più pesante l’idea del soffocamento in cui versa il cittadino nella megalopoli. Sui due versi di elogio della campagna corre il fonosimbolismo di cinque r nel v. 3 e di sei nasali al v. 4 : segno di un’accurata elaborazione, insistita nella ripetizione e variata nella struttura. Anche i richiami classici fioccano frequenti : « moenibus urbis » è frequentemente presente, in Virgilio 12, 116 ; Ovid. met. 7, 553 ; 8, 298 ; 11, 526 ; 13, 261 ; 15, 586 ; fast. 5, 135 ; Lucano 7, 369 ; 10, 18 e 439. Le contrapposizioni sono ricercate con finezza : le « artes » parigine si contrappongono agli « arvis », ugualmente in clausola, i quali nel loro dispiegarsi allo stato naturale offrono una ridente e riposante piacevolezza come suggerisce l’allitterazione che collega « arridet arvis ». Così si viene a creare un parallelismo anche fra i gruppi allitteranti, « carcere clausus » nella rappresentazione negativa delle città, « arridet arvis » nell’elogio del godimento offerto dalla campagna. È notevole lo scalare dei soggetti : dalle oggettive « Parisiae artes » al primo verso, al singolare impersonale « quisque » al secondo verso, al personale « nostris » che unisce poeti e campagnoli nel terzo verso, al tu presupposto da « habes » all’ultimo verso : come un avvicinamento diretto al contadino per un’esplosione di  



















































































çumpavqeia.

5-8 Illic assurgunt trabibus subnixa superbis Atria, et aurato culmine fulget apex. Sed mihi dulcius est silvas habitare remotas, Tectaque quae sicco stramine canna tegit.

Entrano in azione i due quasi-personaggi, l’uno sotto la sigla « Illic », l’altro che è poi lo stesso poeta (cfr. « mihi ») che gli si oppone, è introdotto dall’avversativa « Sed ». Il contrasto è sceneggiato sotto il profilo delle abitazioni, che però si rivelano presto per essere le proiezioni nel concreto visivo delle spiritualità, schiacciate dal lusso delle regge, liberate nel contatto con la natura. Si profila tutto uno studiato parallelismo di contrapposizioni. Alle altezze rilevate da « Assurgunt trabibus superbis » si oppone efficacemente la « canna tegit » : la prima indicazione sa di superbia regale, senza contatti con l’uomo ; la seconda nasconde i tratti di una copertura con sensi d’affetto intimistico. Ai comignoli dorati, segno evidente di trufhv, si oppone la paglia secca, « sicco stramine », un tocco da ‘buon selvaggio’. Agli interni spaziosi, « Atria », che danno sì libertà al muoversi ma pur sempre dentro luoghi circoscritti, fanno da contraltare i semplici « Tecta » che indicano la casa sotto il profilo della copertura protettiva. È un dittico dipinto a colori differenti, dorati e incrostati per la prima tavola, gialli consunti dal sole per la seconda tavola. Alla prima rappresentazione conferisce  



































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rilievo la triplice allitterazione « as-surgunt x subnixa superbis », alla seconda aggiunge forza il fonosimbolismo fatto di sei sibilanti al v. 7 e di cinque dentali al v. 8. Un enjambement dà spicco ai saloni, « Atria » ; una posizione ad incipit fa risaltare i « Tecta » che sono solo fatti di paglia. Sembra un diverbium fra attori che si contendono la scena nel rappresentare due opzioni opposte. Le memorie classiche illuminano paritariamente ambedue le raffigurazioni : « trabibus subnixa » ricorda solio alte subnixa resedit (Aen. 1, 506) detto della regina Didone quindi con un alone aggiuntivo di regalità. « Silvas habitare remotas » introduce, più che un tocco bucolico se si ricorda silvas habitare di ecl. 6, 2, un numinoso arcaico quando uomini, dei e natura erano tutt’uno come recita l’affermazione habitarunt di quoque silvas (ecl. 2, 60). Rimane un tic di R. o meglio l’esplodere di un conflitto in via di bruciarsi, questo dell’ammirazione delle regge. Nell’in Avaritiam già portava a cattivo esempio dell’agire degli avidi i « nitidis sublimia tecta columnis » (19), rinforzava i toni nell’in Avarum « tectis plurima gemma micat / ... auratis surgunt tibi nixa columnis / Atria, et augusto culmine celsa nitent » (10-12). Queste fughe di saloni, questo svettare di regge, questa selva di pinnacoli e cupole trascinano sotto traccia psichica le forme dei castelli della Loira (visti direttamente o in incisioni) quasi tutti completati entro il 1500 per l’impulso diretto o indiretto di Francesco I che dei castelli-fortezze medievali fece regge allietate di musiche e balli : Chambord, Amboise, Blois, Chenonceaux, Chinon, ecc. Immagini anche psichiche che confliggono con le dimensioni e la vita di P.-R.  

































9-12 Illic ultrices posuere sedilia curae, Illic insidiae, crimina, furta latent ; Hic requies, fidum pietas hic inclyta portum Invenit ; his lucet sanctior aura locis.  



È come un diverbium in cui gli attori che possiamo ipotizzare sotto i due « Illic » per la parte cittadina e i due « Hic » per la parte campagnola, dipingono ognuno la relativa situazione e le relative condizioni di vivibilità. Ne risulta un dittico che si articola su un esatto parallelismo dai tratti in opposizioni polari. Sulle città incombe il Buio, « latent », che è gravido di tutte le insidie e i delinquenti possibili ; sulle campagne splende la Luce, « lucet », nella quale brilla un corteo di virtù. Corifee dei Mali sono le « curae » che nelle megalopoli si sono attestate da tempo come sta ad indicare il perfetto « posuere (cubilia) » che rimanda l’insediamento ad un tempo molto lontano con a tutt’ora uno stabile possesso. Nelle campagne invece trova posto solo il riposo, « requies », in sicurezza. Il corteo dei Mali si compone di « insidiae crimina furta », cioè di tutto quello che insidia le persone fisiche e le proprietà ; in campagna gli spiriti del Bene sono capaci di produrre « sanctior aura ». In favore dei rura c’è un tratto importante, il suggerimento che qui la pietas « fidum portum / Invenit », che è come dire che il massimo della vivibilità campagnola si trova a P.-R. 1 È significativo  













































1  Mesnard (IV p. 212 n. 1) avanza l’ipotesi che dall’immagine dipinta ai vv. 11-12, la poesia sia stata scritta a P.-R. che trova una precisa citazione in « portum ».  



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anche che di questo paradiso si dice « Inve¬nit » cioè al presente come sempre disponibile. Comunque questo dittico non sfugge all’impressione che sia tirato su di maniera, non sia troppo convincente, come dimostrano le assenze di figure retoriche e di riprese classiche.  



13-16 Illic saeva fames laudum, hic contemptus honorum ; Illic paupertas, hic fugiuntur opes. Urbicolae ruri, nil rusticus invidet urbi. Oppida plena dolis, ruraque fraude carent.  

Nel diverbium il contrasto diventa concitato : i rivali immaginabili sotto « Illic » e « hic » si danno sulla voce, il cittadino pronunciando il primo emistichio, il campagnolo sopraffacendolo con il secondo emistichio. Sono sbandierati due mondi differenti e due stili di vita agli antipodi. L’impeto del contraddittorio è reso con accurata scelta delle parole. L’espressione « saeva fames laudum » è ricalcata sulla famosa esclamazione virgiliana auri sacra fames, da cui R. riprende fames ; sostituisce sacra ‘consacrata agli dei infernali’ con « saeva », bisillabo, omofonico e di valenza laica rispetto al religioso sacra ; interpreta auri con « laudum » ‘gloria’ data la usuale circolarità nel mondo romano fra carriera = honores, gloria, e ricchezza = aurum. Dalla ripresa di un tanto famoso apoftegma di Virgilio R. si ripromette naturalmente di ricavare un valore aggiunto di espressività. È molto significativo che già altre due volte abbia utilizzato la stessa esclamazione virgiliana. Nell’in Avarum 2 « Quaeque auri torquet turpia corda fames ? » riproduce l’ipotesto in parte, ma lo amplia con l’aggiunta d’un verbo e dell’oggetto, « torquet corda » ; qualifica l’oggetto con un aggettivo portato semanticamente al valore conclusivo, « tristia » ‘riducendo i cuori fino alle turpitudini più tristi’ ; collega verbo e aggettivo con l’allitterazione, « torquet turpia » ; e il tutto modula in un’interrogativa. Nell’in Avarum 21 « O quaestus furiosa fames ! » riproduce il giro esclamativo e lo rafforza con l’interiezione « O » ; rende più pesante il nesso con l’allitterazione « furiosa fames » ; sostituisce ad auri, il risultato, l’arricchimento in progress, « quaestus » che propriamente vale ‘la ricerca (quaero) di guadagno’. Da queste modulazioni e rimodulazioni emerge chiaro il metodo di lavorio di R. sui classici : tenace memorizzazione, gusto per le variazioni mantenute dentro una linea allusiva, ampliamenti limitati, sostituzioni omofoniche : si può parlare per la poesia di R. di ‘imitazione creativa’. Alla gloria il rivale oppone il « contemptus honorum » colpendo il cursus honorum a cui il « contemptus » corrisponde per allitterazione, poi l’arricchimento = opes. Al primo colpo d’occhio si rimane perplessi da quella « paupertas » evocata dal rivale cittadino, esposta così sola, separata dalla virgola dal seguito ; solo dopo aver richiamato il verbo dal secondo emistichio « fugiuntur > fugitur » si realizza il senso corretto. Alla « paupertas » il rivale oppone non le Divitiae o l’aurum, ma le « opes », con finezza, ché ops « appartenait d’abord au parler rustique (sabin) » (E.-M. s.v. ops) ; all’appropriazione da parte del rivale cittadino di un  











































































































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termine, « paupertas », che avrebbe dovuto essere riservato a sé, l’attore campagnolo risponde con un termine appropriato al suo mondo campagnolo, come a dire : ‘ognuno ai suoi termini topici dell’ambiente’ ! Sembra che il contrasto si avvii a svilupparsi serratamente con affermazioni e controaffermazioni. Infatti adesso il cittadino con fine abilità si attiene al lessico cittadino creando un composto su urbs : urbicola, che però nella formazione etimologica nasconde uno sberleffo al rivale campagnolo perché urbicola è creazione ricalcata su agricola, ossia sul termine fondamentale dell’ambito lessicale proprio del campagnolo. E urbicola ha un notevole peso perché è rimasto hapax nonostante su urbs siano stati creati molti composti : urbicapus ‘conquistatore di città’ (Plaut. Mil. 1055), urbicus (Svetonio Iul. 49, 2 ; Aug. 18, 2 ; 46, 1 ; N. 23, 2 ; D. 8, 3 ; Gellio 15, 1, 3), urbicremus (Prud. Per. 2, 570 ; Ham. 727), urbicarius (Cod. Iust. 11, 23, 2 ; 11, 23, 3, 1). Il rivale contadino rinuncia ad usare il perfettamente oppositivo ruricola forse perché logorato dall’uso e ripiega su « rusticus » col quale anche Cic. forma un’opposizione, omnes urbani, rustici omnes (de fin. 2, 77). L’alterco tocca l’apice quando i due contendenti vengono ad usare lo stesso verbo nella stessa forma, « invidet » (magari esatta per il « rusticus », da sottintendere al plurale per gli « Urbicolae »), ma con significati differenti, ognuno con quello che ritiene più efficace per frastornare e così vincere l’avversario. Il cittadino con « Urbicolae ruri (invident) » intende che i cittadini ‘guardano di mal’occhio’ la campagna : invideo infatti è glossato baçkaivnw ‘gettare il malocchio’ (CGL ii 256, 29). Il campagnolo con « nil rusticus invidet urbi » usando il verbo invidere nell’accezione più diffusa di ‘invidiare’ intende dire che ‘il rustico non prova nessuna invidia per la città’. Sono contendenti linguisti e il dibattito diventa stizzoso e sleale accentrandosi sui valori semantici antichi o moderni d’un verbo. Evidentemente il cittadino usa invidere in un senso antiquato, poco frequente per mettere in difficoltà l’avversario, il quale se fosse stato poco esperto di semantica storica avrebbe potuto capire che il cittadino si fosse convertito al suo pensiero fino a riconoscere che gli « Urbicolae » ‘invidiano’ la campagna. Su questa linea di vincere il dibattito con l’indurre il contendente in errore, il cittadino insiste ancora con la successiva battuta « Oppida plena dolis » in cui egli intende « dolis » come ‘astuzie’ in senso buono quale era il significato arcaico come attesta Festo : Doli vocabulum nunc tantum in malis utimur, apud antiquos autem etiam in bonis rebus utebatur. Unde adhuc dicimus sine dolo malo, nimirum quia solebat dici et bonus (60, 29L). Il campagnolo anche da questa parola avrebbe potuto essere indotto a cadere nell’errore di intendere ‘le città sono piene d’inganni’ in una inattesa quanto strabiliante confessione di una totale negatività urbana e di conseguenza sarebbe stato portato a ritenere chiuso e vinto il dibattito. Invece forte di cognizioni linguistiche si contrappone glossando « dolis » con « fraude », termine nettamente oppositivo che smaschera il senso di « dolis » volgendolo a ‘astuzie cattive’.  













































































17-22 Quam miserum sacris viduas virtutibus urbes, quam miserum stygiis praeda manere lupis ! Sed quid non urbes habitent quoque numina, quaeris ?  



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poesie latine di jean racine Non habitat foedos Gratia pura locos. Arcet fumus apes, expellunt crimina Christum ; Mors vitam, clarum nox fugat atra diem.  

Si rivela qui l’imput sotteso alle varie contrapposizioni città-campagna : nelle città l’uomo regredisce allo stato primordiale dell’homo homini lupus, cioè riporta sulla terra l’Inferno ; nelle campagne pure abita la Grazia che vi stabilisce il regno del Paradiso. Anche qui R. manifesta le sue due componenti fondamentali, Classicismo e Cristianesimo. Il Classicismo è presente con due dati, lo Stige e i lupi, che hanno anche da soli un riscontro classico come simboli di ferocia, cfr. lupi raptores (Aen. 2, 355) ma che qui sono da intendere, quali Stigii, piuttosto con riferimento a Cerbero, il custode dell’ingresso dell’Averno. Del Cristianesimo reca un vivace soffio polemico quella « Gratia pura » in cui « pura » se non è epiteto esornativo ci trascina nelle polemiche gesuitiche-giansenistiche sulla Grazia : toccante tutti o solo gli eletti ?, in cui veniva coinvolto P.-R. strumentalmente per poterlo dichiarare fomite d’eresia e distruggerlo. La « Gratia pura » è quella che discende netta da S. Agostino ; allora i « foedos locos » sarebbero la centrale parigina dei Gesuiti, la Sorbona, l’arcivescovado di Parigi. Se si accede a questa inclinazione polemica allora i « crimina » assumono pregnanza di enormi significati : saranno sì anche i ‘delitti’ frequenti nella megalopoli, ma andranno intesi piuttosto nel primitivo senso di ‘accuse’ (< *crino < cerno) e in tal caso saranno allusivi alle ‘false accuse’ lanciate dalle suddette centrali contro P.-R. e le ‘false accuse’ sono veramennnte quelle che lanciate proprio da religiosi e per giunta dai proclamantisi custodi d’una fede incorrotta, espellono Cristo dalle città. A questo aspetto tenebroso e violento mi sembra che si accordino bene le tre similitudini che per non essere introdotte dai rituali ita, ut ecc., sembrano destinate a inserirsi in continuità nella fluidità narrativa : il fumo ha del fosco e del violento contro le api tanto da disperderle com’è pratica antica, cfr. inclusas ut quum latebroso in pumice pastor / vestigavit apes fumoque implevit amaro (Aen. 12, 587) ; la morte che distrugge la vita è il massimo della violenza, ha una rappresentazione allusiva nella notte buia e infernale (cfr. le espressioni virgiliane dell’atra nox avvolgente l’incendio di Troia, 2, 360 e l’ombra di Marcello nell’Averno, 2, 867) che elimina la luce del giorno, « diem ». Mesnard (iv p. 212 n. 2) annota che al v. 18 « Quam miserum praeda manere » sarebbe stato preferibile praedam.  











































23-24 Hic blandum invitant tranquilla silentia somnum ; Illic assiduo murmure rupta quies.  

Sotto il segno della « Gratia pura » e nell’assenza di « crimina » si dispiega un perfetto confort di vita ; la poesia acquista ora tratti di sapore elegiaco. Il quadro appare così fascinoso che il campagnolo osa – e ci riesce solo questa volta – passare in primo piano per bandirlo, per cui « Hic » ora parla prima di « Illic ». Il modulo con cui è proclamato il confort è percorso da un fonosimbolismo che si snoda su nove nasali, altrettanti sospiri di soddisfazione. L’allitterazione è funzionalizzata a collegare i due termini che più di tutti evidenziano il livello  

















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di confort, il silenzio e il sonno. Sembra di respirare l’umbratile atmosfera dei monasteri, all’ingresso dei quali è spesso scritto in caratteri cubitali silentium. E questa è la condizione necessaria per concentrarsi sulle riflessioni o nella preghiera. Il contrario, ossia il rumore continuo segna la rottura d’ogni riposo e d’ogni pensiero nella megalopoli. Le due rappresentazioni sono impreziosite da forti memorie classiche : la clausola « silentia somnum » richiama Ovid. fast. 4, 549 placidi silentia somni, anche Claudiano 18, 418 silentia somno. Il modello forse è Virgilio che nell’offrire la raffigurazione dell’oracolo di Fauno dato per incubazione, sub nocte silenti / ... somnosque petivit (7, 87), accosta i due termini creando un tratto di numinoso arcaico e di religiosamente esotico, pitture che si prestano ad un facile ricordo. Il nesso « assiduo murmure » è una variazione di tratti virgiliani che insistono però piuttosto sul ‘grande’ : magno misceri murmure pontum (1, 124) detto della tempesta che disperde la flotta di Enea sulla costa africana ; magno misceri murmure caelum (4, 160) con riferimento allo scoppio di temporale che spinge Enea e Didone nella grotta dove avviene il coniugium : due contesti che non solo sono fondamentali per lo snodarsi dell’azione, ma che sono tra le più forti pitture antiche di avvenimenti della natura la quale da causa esterna entra poi di riflesso nella psicologia degli eroi provocando paura ad Enea, travolgente passione a Enea e Didone. Sono quindi contesti che si prestano ad una tenace memorizzazione.  















25-28 Nempe micant, inquis, diversis floribus horti, Et laetos cantus plurima fundit avis. Ergo dissimulas quam dulces ruris amoeni Deliciae, ruris cui levis umbra placet.

Da sotto gli « Illic » e gli « Hic » facilmente identificabili come segna-personaggi, ora spuntano fuori le figure, proprio il poeta e un supponibile interlocutore avversario che è poi sempre lo stesso poeta travestitosi da campagnolo. Con « inquis » in inciso il poeta-contadino vuol riferire le ragioni del rivale con esattezza, come di regola comporta l’uso delle forme di inquit che riportano in diretta il discorso dell’interlocutore con le sue stesse parole. Questi esalta le città per i giardini colmi di fiori (già le villes fleuries) d’ogni varietà e per la presenza di tanti uccelli canterini che dovranno essere immaginati racchiusi nelle uccelliere, altrimenti non si capirebbe perché nelle città del tempo sarebbero dovuti essere plurimi rispetto alla campagna, il loro naturale habitat. « Micant » sembra dare una definizione del brillare dei fiori colti nel loro aprirsi di giorno e nel chiudersi di notte, secondo il valore primitivo di micare che si dice d’un oggetto che si chiude restringendosi e dopo si apre dilatandosi, per es. degli occhi, delle stelle ecc. (E.-M. s.v. mico). Il collettivo « plurima avis » fa apparire gli uccelli come un tutt’uno e in un unico canto immaginabile di potenza e risonanza notevoli. La clausola « floribus horti » deriva da geo. 4, 109 ; quindi nel colore georgico potrebbe nascondere una sottintesa punta ironica nell’essere ora piegata ad indicare le piacevolezze delle città. Tanto più che « Nempe » ha spesso valore ironico ‘sì, certo’.  





























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La punta ironica si rivela poi chiara nella modulazione che il poeta-contadino imprime alle sue parole per controbattere. « Ergo¯ », composto di e¯- e un sostantivo deverbativo di rego all’ablativo, del tipo *e¯-ro˘go con l’assorbimento della vocale breve interna vicina alla r, vale esattamente ‘a partire da...’ naturalmente qui, ‘dalla tua rappresentazione’, giro che già sembra indizio di ribattuta polemica. Gli elementi di contrasto sono resi evidenti da un forte consonantismo in sibilanti e dentali, « dissimulas ... dulces ruris / Deliciae », quest’ultimo in enjambement, ma tutti uniti da un filo allitterante. La cura con cui è formulata la risposta è attestata dalla scansione « Ergo¯ » che conserva la quantità originaria rispettata fino a Marziale che invece adopera ergo˘, poi affermatosi. La variazione era nota agli antichi dato che Festo annota : ergo correptum significat idem quod apud Graecos oujkou`n ; producte idem quod cavrin, hoc est gratia, cum scilicet gratia intelligitur pro causa (73L) e documentata da L. Quicherat, p. 407 : fortunate senex, ergo¯ tu¬a¬ rura manebunt (ecl. 1, 46) ; ergo¯ non satis est risu diducere rictum ? (Oraz. serm. 1, 10, 7) ; accipere omnino. Quid solet e¯rgo˘ da¬re (Marz. 2, 56, 4).  























29-34 Hic vos securis, Musae, regnatis in oris ; Hic vobis virtus jungitur alma comes. Oppida non fugiunt, fateor, non arma Camenae : Loricam Pallas induit atque togam. At laxis vitium frenis grassatur in urbe, Atque illic Musae crimina sola docent.  



Una volta che il poeta-campagnolo è venuto allo scoperto pesantemente col rubare le battute che avrebbero dovuto essere pronunciate dal poeta-cittadino (25-26), facendosi esatto portavoce con « inquis » e controbattendo dal proprio canto con l’ironico « Dissimulas », non può non portare l’approfondimento sul contrasto città-campagna nella stessa ideazione metapoietica : ne sono prove le citazioni delle dee della poesia, Muse e Camene, e di Atena. La campagna è dunque il luogo sacro per l’ispirazione poetica al punto che qui le Muse hanno posto la loro sede abituale e ne hanno fatto il loro regno, « Hic vos Musae regnatis » : imput ispirativo e produzione poetica. Il contenuto di questa poesia verte sulla virtus che viene addirittura a connaturarsi con le Musae come suggerisce l’allitterazione « vobis virtus ». Prima di questa poesia ‘virtuosa’ c’era un’altra poesia, l’epica, di cui sono evocate le ispiratrici antiche, precedenti alle Muse, cioè le Camene : nel ricordo delle Muse e delle Camene io penso che R. profili una successione cronologica sulla base della suggestione che promana dal verso enniano : Musas quas memorant nosce nos esse Camenas (2 V2), ‘quelle che sono ricordate oggi come Muse, una volta erano le Camene’, che egli poteva leggere nel de lingua Latina di Varrone 7, 26. Alla scansione cronologica 1 è associata una differenziazione di tipologia poetica, l’epica  

























1 Forse R. ha intuito da questo verso che Ennio intendeva fissare una successione cronologica con l’assegnare al periodo più arcaico le Camene con il vates ‘poeta ispirato’ e i carmina ‘formule magiche’ e col riservare alle Muse tutta la serie delle innovazioni grecizzanti di poeta < poihthvç, poesis < poivhçiç ecc. Sulla questione cfr. il mio articolo, Marconi2, pp. 23-60.

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prodotta sotto le Camene, la poesia morale sotto le Muse. Anche se poi nelle città « vitium grassatur » ossia regna il ‘brigantaggio’ : grassari infatti intensivo di gradior indica un ‘procedere con ostilità’ e negativamente sull’onda di grassator ‘brigante’ passa al senso di ‘briganteggiare’. Di conseguenza le Muse nelle città si nutrono solo di delitti e docent, ossia nel senso tecnico teatrale in cui docere fabulas vale ‘rappresentare una opera teatrale’, ‘mettono in scena’ solo fatti delittuosi. A rendere con più forza l’idea della poesia ‘criminale’ R. ricorre ad un’autocitazione, « laxis frenis » riduzione affrettata di « laxis ludit lascivia fraenis » 1 (Laus hiemis 9). Come una affrettata riduzione si coglie in « alma comes » rispetto a « haeret amica comes » nell’in Avaritiam 28.  























35-38 Nequicquam pavidos circumdant moenia reges ; Frustra haeret lateri, nocte dieque, manus. Non vera his, sed falsa quies ; miserosque tumultus Mentis non lictor, non domus ampla movet.  



Il poeta campagnolo ora si dilunga nel dipingere a tutto nero le situazioni delle città : dopo la constatazione « vitium grassatur in urbe » e dopoché le « Musae crimina sola docent », ecco il picco : il vizio arriva a impaurire perfino i più potenti, i re, che invece di contrastare ogni negatività, ne sono resi pavidi. A questa situazione dei re concorrono anche le memorie eneidiche, moenia regis 7, 153 e moenia regem 12, 585 nelle quali è rappresentato il re Latino in un alone denso di paura e di rovina. Eppure a difesa dei re ci sono, oltre ai moenia, la « manus » o ‘guardia del corpo’ e una reggia talmente « ampla » da essere deterrente di ogni attentato. Ma il vizio corrode dall’interno e « Frustra » è il grido della resa totale. Aggrava lo sfacelo un fonosimbolismo pesante costruito su gruppi di dentali + r come -tra, -ret, -ter-, -te, die. Altro tocco apporta la clausola « miserosque tumultus » che nella formulazione originale, Aen. 2, 486 miseroque tumultu indica il trambusto nel crollo della reggia di Priamo. In questi casi le riprese non sono solo un fatto stilistico, ma nell’evocazione dell’originale tendono a dare un valore aggiunto. 2 Fine è l’enjambement di « Mentis » perché l’espressione nel verso precedente sembrava alludere ad un fatto esterno, « miserosque tumultus », « Mentis » invece torce l’espressione ad interiorizzare quegli sconvolgimenti sui quali peraltro pesa il fonosimbolismo in nasali, nove nel v. 38, che sembrano riprodurre gli ansiti psicologici senza sbocchi. La citazione del « lictor » è fatta allo scopo di rendere più evidente la catastrofe data la potenza dei « lictores » che ricoprivano la funzione di allontanare la folla dal magistrato, sorvegliavano  

















































1  La grafia fraenum dittongata, ingiustificatamente, nella derivazione da frendo già segnalata da Servio : frendere ... Varro frenos hinc putat dictos (ad Aen. 8, 230), può far pensare ad una cronologia compositiva di Laus hiemis anteriore a Urbis et ruris differentia, in cui compare la grafia corretta ? 2  Similmente nella direzione psicologica spinge la formulazione originale ugualmente con l’enjambement di « Mentis » : neque consularis / submovet lictor miseros tumultus / mentis, Oraz. c. 2, 16, 10-11. È significativo difatti che per indicare negatività e sconvolgimenti R. attinga alla narrazione della distruzione di Troia : cfr. a Vitart 29 < Aen. 2, 101 ; Laus hiemis 13 < 2, 327 ; in Avarum 5 < 2, 776 ; Urbis et r. d. 18 < 2, 355 ; 22 < 2, 360, infine questo nesso « miseros tumultus » usato anche in Avarum 15 < 2, 486.  























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che gli fosse reso l’onore dovuto e soprattutto, come simboleggiavano i fasces delle verghe con la scure, eseguivano le frustazioni o addirittura le decapitazioni : ma qui ora nelle megalopoli con tutta la loro potenza sono impotenti. La metropoli ribolle del vizio al punto che ritoccando una frase dello stesso R., in Avarum 26, si può apporre sulle rovine cittadine l’epigrafe « toto regnat in orbe scelus ». Una maliziosa rima collega « manus » a « tumultus » : un accostamento che genera, invece di sicurezza, sensi di ribellione con la vittoria su « manus » dei « tumultus » che nel senso originario valevano ‘torbidi, guerre civili’.  























39-40 Quisquis amas strepitus, per me licet, urbe potire ; Me tamen ipsa magis rura nemusque juvant.  

La conclusione del dibattito pro-città e pro-campagna, è questa volta meno rassicurante, vagamente consolatoria : tu « urbe potire », « Me juvant ». C’è un ritirarsi dal piano delle riflessioni oggettive al piano delle scelte soggettive, personali : Me = poeta-campagnolo, e un generico « Quisquis » che è poi un allargamento del tu sottinteso in « potiri » riferito al poeta-cittadino. Serpeggia una delusione nel poeta-campagnolo per non essere riuscito a convincere delle sue buone ragioni campagnole l’avversario cittadino, per cui l’unica soluzione possibile è che ognuno vada per la sua strada. « Per me licet » suona infatti come la disponibilità ad una offerta di scelta, magari con un sottofondo sprezzante : ‘arriva pure a impadronirti della città’, sottinteso : avrai le curae che io ho denunciato essere stabilmente in tutte le metropoli. Per sé il poeta-campagnolo rivendica di potersi godere una vita bucolico-georgica, già prospettata nella lettera al cugino « Non Phoebum semper rura nemusque juvant » (10) che però adesso debbono essere volte al positivo. Sembra anche di poter cogliere un restringimento ad uno stile di vita, senza più quelle considerazioni metapoietiche che nella città ravvisavano la deterministica produzione di una poesia ‘criminale’, e invece nelle campagne l’impulso ad un poetare incentrato sulla virtus. In questo declinare delle idee in un piatto sopravvivere è rispecchiato il fallimento dell’esperienza di P.-R., fallimento però avvenuto non per consunzione interna, ma per la sopraffazione portata dalla società cittadina che si sentiva minacciata proprio da questo tentativo realizzatosi autonomo, aperto, sorretto da una base ideologica e su una conseguente pratica di vita, capace pertanto di costituire un’alternativa per ora fascinosa sul piano delle idee. Sotto questo profilo del fallimento provocato, non potrebbe esserci, per salvare il salvabile, l’offerta di un modus vivendi, bipartito, lasciando ai filo-cittadini la città e riservando i Champs ai portoroialisti ?  

































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giampietro marconi

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c o mp osto in car atter e dan t e m on ot y p e d a l l a fabr izio serr a editor e , p i s a · r oma . stamp ato e rileg at o n e l l a t ipog r afia di ag n an o, ag n a n o p i s a n o ( p i s a ) .

* Febbraio 2013 (cz 2 · fg 3)