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Italian Pages 293 p) [279] Year 2002
concetti e dottrine nella storia della politica
Gli autorii, i di battiti, le dicraiar.azio@i
cura
Maria [aura Lanzi Ilo
Introduzione
La vicenda della tolleranza nel pensiero politico moderno e contemporaneo Percorsi per una riflessione
«Il borghese è tollerante. Il suo amore per la gente com’è nasce per l’odio dell’uomo come dovrebbe essere»1. Chiunque di noi oggi sfogli un giornale, assista ad un dibattito pubblico, entri in una libreria, necessariamente incontrerà parole quali multiculturalismo, differenza culturale, razza e etnia, cittadinanza e globalizzazione, identità e appartenenza; tutti termini che vengono declinati, più o meno esplicitamente, alla luce di un concetto che si può considerare classico all’interno del lessico politico occidentale: tolleranza. La tolleranza oggi va di moda; anzi, nelle odierne democrazie occidentali il proclamarsi «tolleranti» identifica coloro che nei film western degli anni Cinquanta erano i «nostri», coloro che affermano (affermavano) di stare dalla parte del «giusto». Gli altri, gli «indiani», coloro che non condividono la «virtù della tolleranza» (che in tal modo si trasforma in un valore morale e politico anche per alcuni dei teorici della politica più avvertiti e cosiddetti progressisti2), automaticamente sono bollati come intolleranti, diventano «nemici», e dunque esclusi dallo spazio democratico. E se, richiamando la lezione di Tom Paine del 17913, dietro l’odierna ripresa della discussione sulla tolleranza si nascondessero invece i rischi di nuove forme di intolleranza?
1 T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), Torino, Einaudi, 19883, aforisma 4, p. 16. 2 Cfr. ultra, sez. VI. 3 Cfr. ultra, sez. V, § 3.
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A partire dagli anni Novanta del XX secolo la tolleranza è ritornata al centro della riflessione politica, riportando in auge un concetto certamente centrale nell’ambito della storia delle dottrine politiche in età moderna, ma rispetto a cui, se usiamo una metafora del lessico sportivo, si può sostenere a ragione che la partita sembrava essere stata chiusa – almeno in linea teorica – con la Rivoluzione francese, che sulle proprie bandiere portava scritte le parole libertà, eguaglianza, fraternità, e non certo tolleranza. Le costituzioni liberali e, poi, liberal-democratiche che ne seguirono avrebbero, infatti, riconosciuto non la concessione della tolleranza (che indica un atteggiamento di sopportazione nei confronti di chi non riconosciamo uguale a noi e che paternalisticamente accettiamo di sopportare, ovviamente senza che ciò implichi il riconoscimento di alcun diritto), ma la libertà – religiosa e di parola, di stampa, ecc. – come diritto pubblico soggettivo di ogni individuo. E invece, nella nostra epoca, in quella che era stata proclamata come l’«età dei diritti», sanciti dalla Dichiarazione universale della Carta di San Francisco del 1948, nell’epoca che oggi definiamo della globalizzazione, diventa sempre più evidente che più che di diritti si fa ancora questione di tolleranza, che dei diritti – come vedremo – è l’opposto teorico e, anche, pratico. 1. Di fronte a tale constatazione, l’antologia che qui presentiamo si propone, attraverso la lettura – necessariamente selettiva – non solo di brani tratti dalle opere di quegli autori della storia delle dottrine politiche che più hanno riflettuto su questo termine, ma anche dei documenti giuridici che ne accompagnano l’affermazione, di sondare la vicenda della tolleranza, al fine di ricostruire la genealogia del concetto4. Si vedrà che la riflessione sulla tolleranza, che attraversa tutta l’età moderna fino all’evento rivoluzionario del 1789, non è solo una vicenda intellettuale, ma diventa vera e propria forma di lotta funzionale ad una determinata pratica di organizzazione politica dello spazio, realizzatasi concretamente nell’immagine europea dello Stato. La piena asserzione del potere sovrano, con la fine del sistema di potere d’ancien 4
Uso il termine concetto nel senso che ad esso viene attribuito dalla metodologia della storia dei concetti. Per una prima puntualizzazione cfr. S. Chignola, Tra storia delle dottrine e filosofia politica. Di alcune modalità della ricezione italiana della Begriffsgeschichte, in «Il Pensiero politico», 2000, n. 2, pp. 242-264, e Id., History of Political Thought and the History of Political Concepts. Koselleck’s Proposal and Italian Research, in «History of Political Thought», 2002, n. 3, pp. 517-541.
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régime, rende obsoleta nella teoria e nella pratica la questione della tolleranza, che non trova più spazio nei testi politici del XIX secolo e di buona parte del XX se non come riferimento polemico, con forte connotazione negativa. Come prima riflessione, si può affermare che la tolleranza è uno dei concetti-cardine della modernità politica, sorta di carattere paradigmatico di quel precipuo progetto di un ordine politico che si proclamò nuovo, perché fondato su una nuova declinazione del rapporto politico, che non fu più pensato come ‘naturale’, ma costruito (coattivamente) sul comando del potere sovrano, di cui l’istituzione Stato ha rappresentato la piena manifestazione storica5. Un progetto, quello della modernità politica, rivoluzionario e radicale nella sua origine teorica (da Bodin a Hobbes al giusnaturalismo razionalista), ma anche complesso, contraddittorio nella sua costituzione, continuamente innestato su, e intrecciato con, quello stesso ordine (l’ordine aristotelicotomistico della Respublica christiana) a cui voleva sostituirsi. Di questa continua tensione tra teoria e prassi, tra utopia e riforma, tra conservazione e innovazione che anima tutta la storia della modernità il concetto di tolleranza è senza dubbio punto di osservazione privilegiato, perché ne mostra sia l’origine di crisi (la percezione tragica della mancanza, o della perdita, di un ordine naturale o trascendente dato, rivelata dalla rottura prodotta nell’universo cristiano dalla Riforma protestante) sia il tentativo di occultare quella lacerazione, quell’origine tragica, quell’assenza di sostanza che sta a fondamento della moderna teoria politica e delle sue istituzioni storiche. La tolleranza, lo si vedrà attraversando i testi che compongono questa antologia, viene infatti teorizzata a partire dal XVI secolo e fino a tutto il XVIII secolo come arma per evitare la soluzione rivoluzionaria della crisi stessa, come funzione neutralizzante il conflitto innescato dalla Riforma luterana e dal successivo diffondersi del movimento settario, come strumento per ricomporre i rapporti fra il potere politico e gli individui. E tuttavia, la lotta moderna per la tolleranza culmina, lo si è già detto, nella rivoluzione del 1789, che spazzò via ogni rivendicazione di tolleranza affermando radicalmente e violentemente i diritti dell’uomo e del cittadino, così da rendere esplicita, da una parte, la valen-
5 Per una prima ricostruzione della vicenda della moderna invenzione del concetto di potere si rimanda a Il potere, a c. di G. Duso, Roma, Carocci, 1999.
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za ordinativa che la tolleranza conteneva e che ne aveva fatto un’arma della strategia della neutralizzazione sovrana, e palesare, dall’altra, l’ambiguità concettuale su cui questa si fondava (e si fonda). Una duplice anima della tolleranza si potrebbe allora sostenere, che la rende un concetto oscillante tra un’idea di sopportazione e una domanda di riconoscimento di un diritto, segnale di carenza, di mancanza, ma anche argine al disordine e al conflitto6. 2. La questione della tolleranza nasce nei secoli XVI e XVII dalla distinzione fra lo spazio interno dello Stato e quello esterno abitato dagli Stati, dalla necessità di avere ordine all’interno per garantire la pace civile fra i cittadini e di instaurare all’esterno una regolata convivenza fra Stati. Si sente, pertanto, il bisogno di distinguere gli scopi dello Stato da quelli della religione, distinzione che, sancendo il riconoscimento del pluralismo delle confessioni, previa neutralizzazione del loro potenziale conflittuale, sulla base dell’idea pragmatica del massimo vantaggio (storicamente, la necessità della fine delle guerre civili di religione), determinerà in seguito il riconoscimento dei diritti civili e politici di tutti gli individui che formano la società (sanciti dalle costituzioni della Rivoluzione francese), rivendicati non più solo in nome della tolleranza da parte del principe, ma in nome della libertà religiosa quale diritto subiettivo inalienabile7. All’interno della moderna storia della tolleranza si intrecciano, tuttavia, strategie concettuali distinte, fondate su principi teoretici divergenti (e, a volte, opposti), che però concorrono a costruire il nuovo rapporto tra potere e soggetto, tra autorità e libertà, proprio della modernità politica. In una prima schematizzazione e inevitabile semplificazione di quella che fu invece una vicenda controversa e contraddittoria, resa complessa anche dalle diverse soluzioni a cui la tolleranza diede luogo a seconda dei paesi in cui se ne discusse (tanto che si potrebbe parlare di una storia inglese della tolleranza come di una storia francese, di una storia olandese come di una storia tedesca), si possono individuare almeno tre percorsi di tale concetto.
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Per una più ampia analisi e discussione del problema teorico che il concetto di tolleranza solleva mi permetto di rimandare al mio Tolleranza, Bologna, Il Mulino, 2001. 7 Su ciò cfr. F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo (1924), Bologna, Il Mulino, 19912.
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2.1. Un primo percorso è quello in cui ritroviamo tutti quegli autori che pensano la tolleranza come neutralità religiosa operata dal comando sovrano; in quest’ottica la tolleranza si afferma come azione pubblica, poiché viene a determinare un dovere giuridico che deve essere fatto osservare dallo Stato. All’interno di questo itinerario possiamo ulteriormente distinguere tra la proposta di coloro, come i Politiques e Bodin, e poi, più tardi, Montesquieu e Lessing, che teorizzano la tolleranza come argomento di prudenza politica, male necessario che il principe deve accettare per l’interesse dello Stato, e l’idea sulla quale si fonda la pace di Augusta del 1555, la regola cioè del cuius regio, eius et religio, ulteriormente sistematizzata nella pace di Westfalia (1648) col riconoscimento della legittimità anche della religione calvinista. La regola di Augusta è uno dei primi momenti storici di realizzazione della strategia di neutralizzazione sovrana – pienamente teorizzata successivamente da Thomas Hobbes nel Leviatano8 –, una pratica in prima battuta intollerante, poiché con un atto di autorità è il sovrano che decide quale religione i propri sudditi debbano professare, ma che, di fatto, produce la fine delle differenze politiche e religiose fra tutti coloro che abitano uno stesso territorio, il conformismo esteriore e la privatizzazione delle credenze. E anche ciò permetterà dopo più di un secolo, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, il riemergere della libertà religiosa, ormai neutralizzata del proprio potenziale conflittuale e risolta in diritti giuridicamente garantiti dallo Stato. La strategia di neutralizzazione religiosa ha quindi un percorso carsico, contraddittorio, almeno all’apparenza, della pratica e della teoria della tolleranza, e tuttavia fecondo per il moderno nascere e svilupparsi delle istituzioni e dei diritti dello Stato liberale europeo. Uno degli esempi più clamorosi di questo fenomeno è la vicenda della tolleranza o, meglio, dell’intolleranza in Francia fra XVI e XVII secolo, che dalla strage degli ugonotti della notte di S. Bartolomeno (il 24 agosto 1572) attraverso l’Editto di Nantes concesso da Enrico IV nel 1598 raggiunge il proprio apice con l’Editto di Fontainebleau (1685), revoca dell’Editto di Nantes emanata da Luigi XIV quale dimostrazione del proprio potere assoluto, in realtà sintomo della crisi dell’assolutismo d’an-
8 Cfr. T. Hobbes, Leviatano (1651), Firenze, La Nuova Italia, 1976. La neutralizzazione politica della religione operata dal sovrano leviatanico ha espressione nella frase «Gesù è il Cristo» (cap. XLII, p. 495), che diventa la forma trascendentale dell’obbedienza dovuta da tutti i sudditi al sovrano.
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cien régime, che culminerà nella Rivoluzione francese, al cui scoppiare nemmeno il tardivo Editto di tolleranza, emanato da Luigi XVI nel 1787, riuscirà a porre un argine. 2.2. Ma la strategia dell’affermarsi della tolleranza segue anche un altro percorso, differente ed ugualmente ad esso intrecciato. È questa la posizione che, ispirandosi alla teoria erasmiana del libero arbitrio, argomenta la tolleranza religiosa a partire dal riconoscimento dell’incapacità della ragione umana di distinguere chiaramente la Verità – vale a dire dal riconoscimento della possibilità per l’uomo di errare, di ingannarsi, nella scelta della giusta via per la salvezza –, e, al tempo stesso, la fonda sul motivo razionale della capacità di scelta e di determinazione propria del singolo. È questo un percorso che riflette sulla tolleranza più che come motivo per garantire l’ordine pubblico e la pacificazione dello spazio interno dello Stato, come motivo di condotta personale del singolo individuo, capace di comprendere razionalmente la via per garantire a sé e ai suoi simili una pacifica convivenza. Elaborato in tal modo è il concetto di tolleranza che si ritrova nelle rivendicazioni di alcune sette protestanti continentali (in particolare dei sociniani, setta per lo più diffusasi in territorio polacco, ma di origine italiana9); che viene ripreso dai libertini francesi e da Pierre Bayle; che ha piena teorizzazione in Inghilterra con la pubblicazione degli scritti sulla tolleranza di John Locke, le cui riflessioni influenzano profondamente la proposta, avanzata dai deisti inglesi, della credenza nella religione naturale; e che, infine, incrociando la tradizione liberale della rivendicazione dei diritti, intreccia la vicenda della tolleranza con la moderna storia dell’affermazione dei diritti dell’uomo, determinando conseguentemente il compimento – almeno in linea teorica – della lotta per la tolleranza10. Sarà perciò evidente che anche questo secondo percorso rivela una precisa strategia politica e si inserisce in quel processo, tipicamente moderno, di laicizzazione e di secolarizzazione che pone tra i propri scopi quello di interpretare il comportamento etico 9 Come primo riferimento sulla rivendicazione della tolleranza propria dei sociniani cfr. F. De Michelis Pintacuda, Socinianesimo e tolleranza nell’età del razionalismo, Firenze, La Nuova Italia, 1975. 10 Cfr., come primo riferimento, la ricostruzione del progressivo riconoscimento dei diritti umani in Occidente compiuta in G. Oestreich, Geschichte der Menschenrechte and Grundfreiheiten im Umriß, Berlin, Duncker & Humblot, 1978, tr. it. Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a c. di G. Gozzi, Roma-Bari, Laterza, 2001; cfr. inoltre P. Costa, Diritti, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a c. di M. Fioravanti, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 37-58.
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all’interno del reale matematico svelato dalla scienza moderna e che fu funzionale all’affermazione del soggetto protagonista del nuovo sistema di potere che si stava costruendo, l’individuo borghese proprietario. 2.3. Emblematica di quanto questi che abbiamo definito percorsi si fondino e si sovrappongano nella discussione che si svolge in epoca moderna attorno al concetto di tolleranza è l’esperienza propria del movimento francese dei Lumi e in particolare di colui che fu considerato il capo del parti philosophique, François-Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire. Da un lato, negli scritti di Voltaire troviamo affermato il tema del latitudinarismo, che gli permette di dimostrare che la sola soluzione possibile alle guerre e ai disordini generati dall’intolleranza è il mantenimento di un ampio assetto pluralistico delle credenze, dal momento che tutte trovano il proprio fondamento su un nucleo comune di natura che rende gli uomini uguali fra di loro. D’altro lato, la tolleranza non è teorizzata solo con accenti deistici, come rivendicazione di un diritto proprio della sfera personale dell’individuo, ma come cuore di una concezione moderna della politica, fondata anche sulla necessità di dirimere i rapporti fra Stato e Chiesa in nome della salvaguardia dell’ordine sociale e politico. La posizione di Voltaire fonde pertanto in modo originale i due percorsi che abbiamo individuato nella moderna lotta per la tolleranza, quello individuale, veicolato da Erasmo attraverso le sette e il movimento libertino fino a Locke e il movimento deista, e quello statuale che da Bodin giunge a Montesquieu. Proprio questa oscillazione, questa duplicità di argomentazione che si vedrà emergere dai testi voltairiani qui presentati ci permette di sostenere che la tolleranza di Voltaire può essere assunta a paradigma del concetto stesso di tolleranza determinatosi nell’ambito della modernità, il quale oscilla fra tolleranza in nome dell’ordine pubblico e tolleranza in nome dei diritti individuali dell’uomo11. Paradigma proprio perché di quel concetto sconta anche tutte le contraddizioni. Entrambi i percorsi si fondano sullo stesso atteggiamento di negazione di ciò che appare assolutamente distinto, di ciò che si pone come differenza, che risultano esclusi dall’artificio statuale, autorappresentantesi quale opera che rende gli individui omogenei e risolti nell’obbedienza agli ordini del sovrano. La strenua lotta combattuta dai philosophes, e da Voltaire in primo luogo, in nome anche
11 Per una più ampia analisi della teoria voltairiana della tolleranza mi sia consentito rinviare al mio Voltaire. La politica della tolleranza, Roma-Bari, Laterza, 2000.
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della tolleranza, simbolo delle lumières contro l’oscurantismo, risulterà esemplare di tale atteggiamento. La proposta di tolleranza degli illuministi avviene a partire dalla convinzione, fondata sulla secolare storia della tolleranza europea, che vanno tollerate quelle religioni e quelle civiltà che appaiono primitive, perché sono pensate ancora in cammino verso il raggiungimento della piena padronanza della ragione discorsiva, che è immaginata come unica e universale. La battaglia dei philosophes in nome delle riforme e della tolleranza conferma che in epoca moderna il discutere di tolleranza risultò funzionale – parallelamente alle dinamiche di disciplinamento sociale, ai processi di positivizzazione del diritto nella forma della legge e alla nascente organizzazione della produzione e del lavoro nella forma capitalistica – alla ricerca e alla costruzione di un nuovo orizzonte, teorico e pratico, che pretese di pensarsi unitario e «civilizzatore» attraverso la pratica di riduzione della diversità, in tutte le sue forme, all’uguaglianza. Ciò determinò una nuova rappresentazione del mondo che di fatto fu fondata su una radicale intolleranza di tutto ciò che appariva da un lato come infâme (l’appellativo con cui Voltaire indicava la Chiesa di Roma, le religioni confessionali e l’oscurantismo del sistema politico e giuridico, un nome collettivo che indicava il nemico assoluto della ragione umana), escluso da ogni forma di tolleranza poiché intollerante, dall’altra come «diverso», escluso perché non assimilabile nella logica universalistica della ragione illuminista12. 2.4. In ultimo, si può evidenziare, all’interno della vicenda che stiamo rapidamente ripercorrendo, un ulteriore percorso del nostro concetto, un percorso che scorre parallelamente e contemporaneamente ai due precedenti e che propone una concezione non normativa della tolleranza; dunque, una visione della tolleranza non come fattore di spoliticizzazione dello spazio pubblico, ma come piena rivendicazione della capacità di azione (e quindi anche di azione politica) che l’appartenenza alla comunità determina nel singolo. È questa la posizione dei gruppi più radicali del protestantesimo calvinista europeo che propongono un’idea di religione non quale questione del singolo, un’espressione di libertà soggettiva, ma, all’opposto, intendono la religione come vicenda comunitaria, evento potente, assolutamente non spoliticizzabile, ma che, al contrario, identifica la comunità. La richiesta politica di riconoscimento di questi 12
Cfr. ivi, in part. capp. III e IV.
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gruppi non si pone, inoltre, come una richiesta diretta allo Stato (di cui non si riconosce l’autorità in materia di religione), ma con una decisa valenza rivoluzionaria, eversiva dell’ordine costituito, che si concretizzò, per esempio, nella rivoluzione tedesca di Thomas Müntzer (1525) o nella prima rivoluzione inglese (1640-1650). Pur declinate con accenti diversi e con presupposti teorici differenti, nell’ambito di questo percorso si incontrano sia le argomentazioni di Castellione contro ogni forma di persecuzione, sia la rivendicazione della libertà religiosa propria del radicalismo del puritanesimo inglese, sia sempre in Inghilterra l’argomento fallibilista (secondo il quale l’intelletto umano, benché con ogni probabilità incapace di giungere alla piena comprensione delle verità ultime, non è impotente ed è perciò in grado, attraverso l’uso degli strumenti della razionalità se adoperati in una libera discussione, di riuscire ad aumentare le proprie conoscenze) teorizzato in nome delle libertà e dei diritti da Goodwin e Milton. Il costo, insostenibile per la nascente sovranità statuale, del disordine che tali rivendicazioni avrebbero comportato, produsse dai primi decenni del XVII secolo in poi la fuoriuscita delle sette più radicali dall’Europa verso il Nord America. Così nel continente europeo, a partire dalla promulgazione del Toleration Act, approvato dal Parlamento inglese nel 1689 – atto con il quale si riducevano le pene verso tutti coloro che non facevano parte della Chiesa d’Inghilterra e si promulgava un’idea di tolleranza limitata (da essa erano esclusi gli atei, i non cristiani, i cattolici e i sociniani), la quale necessitava, in ogni caso, dell’autorizzazione statale per l’esercizio del culto –, iniziò a risultare vincente un’idea di tolleranza, che, parallelamente all’idea della sovranità, contribuì a creare un sistema politico, quello dello Stato, che si fonda, fin dall’origine, su di una logica di limiti, confini, separazione tra particolare e universale in nome dell’ordine e della pace. Nel Nuovo Mondo, invece, l’importante presenza da un lato degli anabattisti, dall’altro dei puritani produsse una lotta non più per la tolleranza, un atto di concessione da parte del potere, bensì per la libertà religiosa, per il diritto del singolo di affermare pubblicamente il proprio credo13. Queste rivendicazioni confluirono, poi, nella lotta per l’indipendenza dall’Inghilterra, lotta che die-
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Cfr. M. Walzer, The Revolution of the Saints: a study in the origins of radical politics, Cambridge, Harvard University Press, 1965, tr. it. La rivoluzione dei santi, Torino, Claudiana, 1996.
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de luogo – diversamente che in Europa – non a una laicizzazione della vita pubblica, ma a una difesa e un’affermazione della spiritualità religiosa. Il diverso percorso che il concetto di tolleranza compì in Nord America emerge con evidenza dai principali documenti giuridici che il nuovo popolo americano, autocostituitosi attraverso la Dichiarazione di indipendenza del 1776, redasse per affermare i propri diritti e, in particolare, dal I Emendamento (1791) alla Costituzione degli Stati Uniti d’America che, sancendo l’assoluta separazione fra Stato e chiese, afferma il principio della libertà religiosa, principio che viene inteso non in un’ottica di relativismo religioso o di laicismo – come in Europa –, ma come difesa della religione individuale. 3. La questione della tolleranza perde centralità politica nel momento in cui il modello originario dello Stato moderno – fondato sulla totale rappresentanza dei cittadini, individuati quali singoli nell’unità della sovranità, che in cambio di obbedienza concede tolleranza per le diversità (diversità che devono rimanere però private) – si complica nel XIX secolo con l’introduzione sulla scena politica dell’elemento della società civile, da un lato, e l’affermarsi sempre maggiore delle rivendicazioni democratiche, dall’altro. Esempio paradigmatico dei nuovi motivi che lo Stato di diritto presenta al pensiero politico può essere considerato, tra gli altri, il saggio Sulla libertà (1858) di John Stuart Mill, che non discute più di tolleranza, ma propone alla riflessione politica il tema della necessità della libertà civile, fondata anche sul riconoscimento del pluralismo delle opinioni che la lotta per la tolleranza ha contribuito ad affermare. La tolleranza, quindi, si dà solo in un preciso contesto teorico e storico, l’Europa moderna dei secoli XVI-XVIII, e appare come strettamente funzionale al progetto dello Stato, poiché è anche dalla lotta per la tolleranza che scoppia la Rivoluzione francese, l’evento che rende possibile nella pratica, oltre che nella riflessione teorica, la costruzione dell’ordine sovrano dello Stato. Nel nuovo spazio aperto dalla Rivoluzione, lo spazio degli Stati, i soggetti da tollerare si trasformano in cittadini, soggetti politici consapevoli e portatori di una serie di diritti naturali inalienabili (secondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) che ne definiscono l’appartenenza alla società civile e che determinano il conflitto fecondo fra diritti di cittadinanza (alla vita, alla libertà di espressione e di scelta, alla proprietà, alla ricerca della felicità, ecc.) e comandi coattivi dello Stato (nella forma di leggi formulate secondo criteri razionali e universali).
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In definitiva, ciò che emerge con evidenza dalla ricostruzione genealogica del concetto di tolleranza, che abbiamo condotto fino a questo punto, è che la tolleranza fu affermata come una teoria e una pratica di difesa: anche se da un punto di vista storico-politico contribuì alla preparazione dell’evento rivoluzionario, nei secoli della prima modernità la tolleranza fu sostenuta quale tentativo di arginare la crisi di un intero paradigma ermeneutico-ordinativo, quello dell’universalità medievale; fu intesa, cioè, come necessaria pratica riformatrice di un ordine politico che però non si voleva abbattere, ma solo riorganizzare. Questa conclusione, inoltre, conferma ulteriormente la valenza concettuale del termine tolleranza. Se il valore ermeneutico racchiuso nel termine tolleranza si rivela nel suo essere un concetto negativo, il segnale di una crisi a cui si risponde con una strategia di difesa, allora a chi studia la storia delle dottrine politiche il ripresentarsi oggi nel dibattito politico, filosofico e sociologico del tema della tolleranza appare come indice della crisi di un altro universalismo, quello dello Stato sovrano e dell’ideologia dei diritti, universali e particolaristici al tempo stesso, ad esso connessa. E inevitabilmente oggi, come nel XVIII secolo, quando ci si addentra nelle dinamiche che regolano tale concetto, si ripropone la difficile domanda, che già era di Locke e di Voltaire, dei limiti della tolleranza: «si possono tollerare gli intolleranti?»14. 4. Abbiamo visto che la lotta moderna per la tolleranza contribuisce alla costruzione di un universale politico inteso come spazio del diritto, cioè dello Stato. Resta, tuttavia, aperto il problema del rapporto fra la pluralità degli Stati, che si relazionano fra di loro in quanto universali particolari. I principi espressi dalle dichiarazioni universali dei diritti benché rivolti a tutti gli individui in quanto tali, indipendentemente dall’appartenenza politica e sociale, dal punto di vista della loro applicazione rimangono ancora mediati dal riconoscimento della loro validità da parte delle diverse sovranità statuali. Momento che ribadisce, all’interno della concettualità politica moderna, la differenza fra logiche politiche rivolte allo spazio interno della sovranità e logiche politiche rivolte allo spazio esterno15; fra ciò che è al di qua e ciò che è
14 M. Walzer, On Toleration, New Haven-London, Yale University Press, 1997, tr. it. Sulla tolleranza, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 91. 15 Sul concetto di spazialità politica cfr. C. Galli, Spazi Politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001.
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al di là del confine: alle spalle dei diritti riemerge l’ombra delle pratiche di tolleranza che si fondano sul nesso dentro-fuori, inclusioneesclusione che, appunto, regola la logica dei confini. La questione della tolleranza si ripropone nel XX secolo nelle più diverse accezioni: non solo tolleranza religiosa, ma anche razziale, di stile di vita, nei confronti di ogni diversità; sempre, però, emerge lo status precipuo di questo concetto, il suo essere cioè un concetto di «crisi». E tale status è confermato dalla constatazione che, anche se, a rigor di logica, tolleranza e diritti, tolleranza e giustizia sono coppie concettuali oppositive, il dibattito odierno sulle teorie della tolleranza si incrocia spesso con quello sulle teorie della giustizia. Nel dibattito occidentale contemporaneo le nuove teorie della tolleranza vengono proposte come risposta alla questione della giustizia data la complessità e la molteplicità che abitano le società occidentali, che, lungi dall’essere omogenee secondo l’ideologia dello Stato-nazione, appaiono sempre più diversificate al proprio interno. All’interno del dibattito contemporaneo sulla tolleranza si possono sinteticamente distinguere due posizioni: da una parte si trovano quegli autori, come Rawls, Gray, Mendus o, in Italia, Veca, La Torre, Galeotti16, che propongono la tolleranza quale sistema prudenziale per incrementare i diritti e che perciò continuano a considerare la tolleranza come necessaria strategia di omogeneizzazione e unificazione dello spazio politico attorno a quello che viene riconosciuto come principio fondante le odierne democrazie, il pluralismo dei valori17. La tolleranza sembra, allora, trasformarsi da concetto che segnala la crisi, da segno di una carenza (come era stata in epoca moderna) in una virtù razionale, fondata sulla possibilità della discussione pubblica, sulla consapevolezza delle molte varietà delle sue ragioni, sulla percezione della sua artificialità e precarietà, caratteristiche che le nuove sfide della nostra epoca rivelano ancora una volta e a cui tuttavia ora assegnano un segno positivo. Dall’altra, vi sono autori, in particolare quegli autori nordamericani che si riconoscono nelle posizioni della teoria comunitaria come, tra gli altri, Taylor, Kymlicka e, in parte, Walzer18, che intendono la tolleranza
16 Per i primi riferimenti bibliografici relativi a questi autori cfr. ultra la bibliografia finale. 17 Cfr., da ultimo, per un’utile ricognizione delle teorie liberali sulla tolleranza A.E. Galeotti, Toleration as Recognition, Cambridge, Cambridge University Press, 2002. 18 Anche per le opere più significative di questi autori in merito all’odierno dibat-
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non come processo di neutralizzazione in un’ottica proceduralista quale quella liberale, ma come strategia necessaria per ottenere un riconoscimento attivo delle diversità, vale a dire delle presunte differenti identità che costituirebbero le molteplici comunità che abitano lo spazio delle società contemporanee. In questo secondo caso il dibattito sulla tolleranza si intreccia, oltre che con le questioni di giustizia, con quello sul multiculturalismo. La ricognizione del recente dibattito sulla tolleranza mostra che l’interrogarsi sulla tolleranza è sollecitato in prima battuta da questioni ancora una volta di convivenza religiosa e sociale fra credenze diverse19, riproposte all’attenzione delle società occidentali dai nuovi flussi migratori che si spostano per lo più lungo l’asse Nord-Sud del mondo. E tuttavia, se investigato in profondità, questo dibattito rivela, oggi come nei secoli passati, che la questione della tolleranza è questione non solamente etica, ma anche eminentemente politica, poiché viene affermata da attori pubblici (governi, istituzioni, organizzazioni internazionali) come modalità per dirimere i conflitti fra individui, gruppi, comunità e, dunque, investe alcuni fra i concetti politici principali su cui si fonda l’ordine internazionale degli Stati20. Ricominciare oggi a discutere sulla tolleranza impone, di conseguenza, un profondo ripensamento di tutte quelle strutture categoriali che abbiamo visto prodursi anche dalla lotta moderna per la tolleranza: sovranità, cittadinanza, diritti, rappresentanza, democrazia21.
tito sulla tolleranza cfr. ultra la bibliografia finale. Per una più ampia discussione delle posizioni espresse sia dagli autori liberali sia dai comunitari, che per motivi di spazio non è possibile sostenere in questa sede, si rimanda ai miei Tolleranza, cit., in part. pp. 133 ss. e Ridefinire la tolleranza nell’epoca della globalizzazione?, in Politica, consenso, legittimazione. Trasformazioni e prospettive, a c. di R. Gherardi, Roma, Carocci, 2002, pp. 107-120. 19 Sulla questione dell’odierna convivenza fra religioni cfr. L.R. Kurtz, Gods in the Global Village. The World’s Religions in Sociological Perspective, Thousand Oaks (Calif.), Pine Forge Press, 1995, tr. it. Le religioni nell’era della globalizzazione. Una prospettiva sociologica, Bologna, Il Mulino, 2000. 20 Sulle conseguenze e le contraddizioni dell’applicazione del lessico della tolleranza allo spazio della democrazia cfr. G. Cotturri, Libertà è (una) parola, in Motivi della libertà, a c. di I. Dominijanni, Milano, FrancoAngeli, 2001, pp. 112-123, che sottolinea che all’interno dell’orizzonte democratico tra tolleranti e tollerati non può più darsi un rapporto asimmetrico (dall’alto verso il basso), ma si deve presupporre una condizione di parità e reciprocità che però contraddice la logica stessa che sostiene la tolleranza. 21 Cfr. L. Ornaghi, Modus vivendi o pubblica virtù? La tolleranza nelle società della
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Un ruolo centrale nell’odierno dibattito lo ottiene quell’insieme di fenomeni che spesso, in modo sbrigativo, viene indicato con il termine di «cultura» che prende il posto che era stato della religione nella battaglia moderna per la tolleranza. L’uso generico e indeterminato del termine cultura nasconde la ncessità di pensare i soggetti che dovrebbero combattere quella guerra che viene chiamata «conflitto culturale» come collocati e definiti a priori senza mai problematizzare né l’una né gli altri22. Strategia che appare funzionale alla costruzione di un nuovo universale omogeneo, necessario per sostituire i vecchi e consunti universali della modernità, che non sono più in grado di rispondere efficacemente alle sfide che la nostra epoca impone, al fine di conservare quel concetto di potere e quella costruzione dell’ordine politico che quegli universali veicolavano. La tolleranza, in ultima analisi, si declina oggi come nei secoli della piena modernità come una pratica di organizzazione politica dello spazio, che implica un rapporto spaziale fra gli attori che lo abitano. Il riaffacciarsi alla discussione politica del concetto di tolleranza è effetto dell’emergere di nuovi attori sulla scena politica che determinano la necessità di una nuova e concreta ridefinizione dello spazio politico. Necessità che viene evidenziata da tutti gli odierni teorici della tolleranza, i quali però, proprio perché propongono la «virtù» della tolleranza come soluzione, non possono che continuare a pensarla a partire da un atto di esclusione su cui viene fondato il processo di riconosci-
poliarchia, in Etica, economia, principi di giustizia, a c. di G. Mazzocchi – A. Villani, Milano, FrancoAngeli, 2001, pp. 190-200. 22 Contro la visione della cultura come fattore identitario fissato e immutabile cfr., per esempio, J.-L. Amselle, Branchements. Anthropologie de l’universalité des cultures, Paris, Flammarion, 2001, tr. it. Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, che interpreta l’identità culturale come fattore in continuo movimento determinato da costanti relazioni con le altre culture. Il tema, che Amselle declina in questo testo come tendenza all’universalità, all’interculturalità e, di fatto, all’indifferenza, era già stato affrontato dall’autore dal punto di vista della questione del meticciato in Logiche meticce (1990), Torino, Bollati Boringhieri, 1999, saggio in cui si sviluppava l’idea dell’origine delle culture non come entità separate, ma come «catene di società» in continuo scambio culturale fra di loro. Sempre su questo tema cfr. almeno E.W. Said, Orientalismo (1978, 19952), Milano, Feltrinelli, 19992; J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX (1988), Torino, Bollati Boringhieri, 19992; A. Appadurai, Modernity at large. Cultural Dimension of Globalization, Minneapolis-London, University of Minnesota Press, 1996, tr. it. Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001.
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mento di chi è dentro rispetto a chi è fuori dalla società, di chi è cittadino rispetto a chi non lo è, che è l’azione originaria su cui si fonda il potere così come è stato elaborato nel corso della modernità23. Il nesso tolleranza-riconoscimento, proposto in prima battuta dai multiculturalisti e che oggi è al centro anche della riflessione liberale sulla tolleranza24, in particolare di quegli autori che propongono una concezione pluralista della tolleranza25, viene articolato sui principi della giustizia liberale, vale a dire sulla non-discriminazione, sull’identico rispetto, sul riconoscimento di una sempre maggiore inclusione. E, tuttavia, la tolleranza pluralista, come già la tolleranza liberale o la tolleranza dei multiculturalisti, risulta sempre una pratica di concessione (un atto di tolleranza, appunto) da parte di quel gruppo che si definisce «società liberale e democratica», «società plurale», «società aperta» o «società giusta» nei confronti di chi è percepito non farne parte. La disponibilità a concedere tolleranza da parte delle società pluraliste è ancora determinata dalla necessità che colui che viene tollerato (l’immigrato, il profugo, chi appare diverso per razza, genere, opinione, religione, stile di vita) venga incluso, si riconosca in quelli che si considerano essere la «nostra» società e i «nostri» diritti; dal riconoscimento cioè dell’influenza che il tollerante ha sul tollerato. Dunque, anche l’elaborazione del nesso tolleranza-riconoscimento finisce per negare, sia da un punto di vista teorico sia da un punto di vista di prassi politica, l’uguaglianza universale degli individui affermata nelle dichiarazioni universali dei diritti, da quella del 1789 a quella di S. Francisco alla nuova Carta europea, fondamento delle costituzioni delle democrazie contemporanee. Ma se assumiamo come punto di vista sul presente le conclusioni a cui siamo giunti nella ricostruzione della genealogia del concetto di tolleranza condotta nelle pagine precedenti, allora diventa evidente che rispondere alla necessità del presente, che ci mostra – come ha scritto l’antropologo indiano Arjun Appadurai – una realtà fatta di 23 Cfr. ancora G. Cotturri, Libertà è (una) parola, in Motivi della libertà, cit., che fa notare che in Walzer non si fa mai questione di convivenza, ma solo di coesistenza (pp. 116ss). 24 Cfr. innanzitutto J. Habermas – C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998. 25 In Italia ha riflettutto in particolare sul significato della tolleranza pluralista Anna Elisabetta Galeotti. Cfr., tra gli altri, Id., La tolleranza. Una proposta pluralista, Napoli, Liguori, 1994, e Id., Toleration as Recognition, cit.
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«immagini in movimento che incrociano spettatori deterritorializzati»26, con politiche di tolleranza significa rimanere all’interno delle logiche di inclusione-esclusione, che affrontano la questione delle nuove soggettività connotandole, ghettizzandole come «‘estranei’, persone che non sono ‘come noi’»27. Insomma, nemmeno le riflessioni più avvertite sulla questione della tolleranza, come quelle che propongono la tolleranza pluralista, riescono a sfuggire a questa logica verticale di potere e confinamento. Le giustificazioni che il liberalismo offre oggi a sostegno di nuove politiche di tolleranza, fondate sulle argomentazioni epistemologiche dello scetticismo, su politiche della neutralità dei valori per quanto riguarda l’intervento legislativo dello Stato, sull’affermazione della garanzia dell’autonomia morale di tutti gli individui, rivelano – in modo apparentemente paradossale e tuttavia perfettamente consequenziale alle logiche della tolleranza stessa – che il liberalismo giunge a giustificare la tolleranza solo come valore strumentale a logiche politiche di potere e di dominio ben precise e solo all’interno di ben determinati limiti. Come ha lucidamente osservato Susan Mendus, «il liberalismo moderno è molto meno tollerante nella pratica di quanto i suoi difensori intendano farci credere»28 (d’altra parte, la questione dell’intolleranza che sottostà ad ogni teoria della tolleranza era già di uno dei padri del liberalismo moderno, John Locke, che escludeva dalla tolleranza del magistrato civile atei e cattolici29). E lo stesso paradosso e, dunque, la stessa logica si ritrova all’interno delle argomentazioni dei multiculturalisti. Nonostante il tentativo di queste teorie di andare oltre la logica escludente del riconoscimento liberale, anche il paradigma comunitario del riconoscimento di fatto propone una strategia forte di esclusione di chi non fa parte della comunità, poiché questa richiede il riconoscimento, appunto, della propria esclusività. 5. «Data una forte politica democratica e una società più egualitaria, vi assicuro che gli immigranti musulmani (e buddisti e indù) si adatte26
A. Appadurai, Modernità in polvere, cit., p. 17. G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, Rizzoli, 2000, p. 10. 28 Cfr. S. Mendus, Toleration and the Limits of Liberalism, Basingstoke-London, McMillan, 1989; tr. it. La tolleranza e i limiti del liberalismo, pres. di L. Gianformaggio e F. Margiotta Broglio, Milano, Giuffrè, 2002, p. 133. 29 Cfr. ultra, sez. IV, pp. 138 ss. 27
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ranno alla democrazia e alla partecipazione civile altrettanto in fretta di quanto fecero gli immigranti cattolici cento anni fa»30: questa affermazione di Michael Walzer, certamente oggi uno dei più importanti protagonisti del dibattito sulla tolleranza, credo evidenzi bene qual è la logica che opera all’interno del concetto che abbiamo fin qui considerato. «Gli Altri, come elemento costitutivo, sono il complemento speculare del soggetto della modernità. Parliamo delle donne, dell’alterità etnica o definita in base alla razza, e dell’ambiente naturale, compresi gli animali, le piante o le foreste»31: riuscire a pensare radicalmente l’Altro e ad uscire da una relazione con l’Altro fondata sull’assimilazione o sull’esclusione è la nuova sfida che la nostra dimensione storica pone al pensiero politico. Fuor di metafora, per liberarsi dai vecchi e nuovi confini della tolleranza, per superare le odierne retoriche sia del pluralismo liberale sia del multiculturalismo di matrice nordamericana, bisognerebbe riprendere a parlare di universalismo, di diritti, di democrazia, parole che certamente appartengono a un’epoca che può sembrare datata e forse persino tramontata, ma che possono di nuovo essere assunte in maniera problematica, per ricostruire un nuovo spazio comune, senza confini, attraversato non più dall’ideologia universalistica dei soggetti uniformi, i cittadini che hanno abitato lo spazio degli Stati, ma da quelle che oggi appaiono quali nuove e reali, e quindi anche complesse e contraddittorie, domande di politicità. Oltre la tolleranza, la questione che ci si pone è quella dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri, un’uguaglianza che sia non solo normativa (come l’ha pensata la modernità), ma anche relazionale, non necessariamente simmetrica, ma eccedente lo schema coattivo dell’ordine politico32. 30 M. Walzer, Noi, l’Islam, la Lega, il Cardinale Biffi e Sartori, intervista di Michael Walzer con Giancarlo Bosetti, in «Reset on line», n. 105, 27.10.2000, www.caffeeuropa.it (corsivo mio). Walzer in questa intervista interviene a proposito delle posizioni sostenute da Giovanni Sartori in Pluralismo, multiculturalismo e estranei, cit. In questo saggio Sartori affronta la questione della possibilità del pluralismo in una società multietnica. Contro le teorie multiculturaliste e l’affermazione dell’identità, Sartori, riprendendo le posizioni di Popper sulla società aperta, affronta il problema dell’immigrazione nelle società contemporanee, giungendo a proporre di subordinare la possibilità di immigrare in un determinato paese alla disponibilità dell’immigrato stesso ad integrarsi e ad accettare i valori della convivenza propri del paese ospitante. 31 R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi. Transizioni e identità postnazionaliste, Roma, Luca Sossella editore, 2002, p. 171. 32 Su questo tema della relazione fra i diritti e «ciò che dobbiamo» cfr. il bel sag-
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Un’uguaglianza che si fondi, più che sul riconoscimento della propria autorealizzazione (secondo l’ideologia che sottintende il progetto moderno di costruzione dell’individuo-cittadino), sulla considerazione della complessità culturale, del continuo movimento; che si ponga l’obiettivo di riconoscere l’altro in quanto soggetto non più negato della propria realtà e rappresentato uniforme e identico, ma «collocato» nella propria realtà di classe, genere, età, stile di vita e «collocato» accanto agli altri che sono a loro volta altri perché soggetti collocati, in un processo mai fissato e costantemente in movimento, che diventa un processo di giustizia sociale e che non può che essere anche un processo di ridistribuzione della ricchezza e dei diritti. MARIA LAURA LANZILLO Fratta Terme (Forlì), agosto 2002
gio di D. Sartori, Dei diritti e dei rovesci. Una lettura della Dichiarazione dei Diritti del 1789, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Napoli, Liguori, 2002, pp. 71-106.
Nota ai testi
I testi presentati nelle pagine dell’antologia sono stati tratti dalle seguenti edizioni: SEZIONE I: La Sacra Bibbia, versione ufficiale CEI; N. Cusano, Congetture di pace, a c. di M. Merlo, Pisa, Edizioni del Cerro (in corso di pubblicazione); Erasmo, Il libero arbitrio, a c. di R. Jouvenal, Torino, Claudiana, 19732. SEZIONE II: S. Castellione, La persecuzione degli eretici, a c. di S. Visentin, Torino, La Rosa, 1997; J. Milton, Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa, a c. di G. Giorello, Roma-Bari, Laterza, 1987; I puritani. I soldati della Bibbia, a c. di U. Bonanate, Torino, Einaudi, 1975. SEZIONE III: M. de l’Hôpital, Pace religiosa e ordine politico, a c. di L. Gambino, Pisa, Edizioni del Cerro, 1995; J. Bodin, Antologia di scritti politici, a c. di V.I. Comparato, Bologna, Il Mulino, 1981; C.-L. de Montesquieu, Lettere persiane, a c. di C. Agostini, Milano, Feltrinelli, 1981; C.-L. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a c. di R. Derathé, Milano, Rizzoli, 1989, vol. II; G.E. Lessing, Nathan il Saggio, Milano, Garzanti, 2000. SEZIONE IV: B. Spinoza, Trattato teologico-politico, a c. di E. Giancotti Boscherini, Torino, Einaudi, 1972; P. Bayle, Pensieri sulla cometa, a c. di G. Cantelli, Roma-Bari, Laterza, 1995; J. Locke, Lettera sulla tolleranza, a c. di C.A. Viano, Roma-Bari, Laterza, 1994; D. Hume, Storia naturale della religione, Roma-Bari, Laterza, 1994; D. Hume,
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Dialoghi sulla religione naturale, a c. di A. Attanasio, Torino, Einaudi, 1997. La traduzione del brano del Commentario di P. Bayle è a cura di M.L. Lanzillo ed è stata condotta sulle pagine di P. Bayle, De la tolérance. Commentaire philosophique sur ces paroles de Jésus-Christ «Contrains-les-d’entrer», préf. et commentaire de J.M. Gros, Paris, Presses Pocket, 1992. SEZIONE V: Voltaire, Scritti politici, a c. di R. Fubini, Torino, Utet, 1964; Voltaire, Scritti filosofici, a c. di P. Serini, Bari, Laterza, 1962, vol. I; Voltaire, Facezie, a c. di I. Cappiello, Macerata, Liberilibri, 1994; Voltaire, Trattato sulla tolleranza, a c. di P. Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 19942; Voltaire, Dizionario filosofico, a c. di M. Bonfantini, Torino, Einaudi, 1980; Enciclopedia, o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, Bari, Laterza, 1968; T. Paine, I diritti dell’uomo e altri scritti politici, a c. di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1978; J. Stuart Mill, Sulla libertà, Milano, Bompiani, 2000. SEZIONE VI: F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Milano, Feltrinelli, 1991; R.P. Wolff – B. Moore jr. – H. Marcuse, Critica della tolleranza, Torino, Einaudi, 1968; J. Rawls, Liberalismo politico, a c. di S. Veca, Torino, Edizioni di Comunità, 1994; M. Walzer, Sulla tolleranza, Roma-Bari, Laterza, 1998. SEZIONE VII: Chiesa e Stato attraverso i secoli, Milano, Vita e Pensiero, 1958. Quando non diversamente indicato, tutte le note a piè di pagina sono della curatrice.
Presentazione Se, come si è visto nell’Introduzione, il concetto di tolleranza è concetto proprio dell’epoca moderna, è tuttavia possibile ritrovare le radici della lotta fra tolleranza e intolleranza fin nei primi secoli dell’era cristiana. Due date sono da ricordare: nel 313 l’imperatore Costantino emana l’Editto di Milano con cui riconosce la religione cristiana ponendo fine alle persecuzioni; nel 390 l’imperatore Teodosio emana il decreto che riconosce il cristianesimo quale unica religione ufficiale dell’impero e disconosce altre forme di religione. Gli editti del 313 e del 390 mutano radicalmente il rapporto fra chi tollera e chi è tollerato, che a partire dal IV secolo e poi, con più evidenza, nei secoli successivi con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e il sostituirsi dell’autorità papale a quella imperiale, diventa centrale nelle relazioni politiche e sociali fra i cristiani e chi cristiano non è. La religione di Cristo non è più una delle tante possibili come nei primi secoli dell’impero, ma è l’unica vera, poiché in essa si manifesta la Verità, la parola di Dio rivelata. In seguito, con l’istituzione del Sacro Romano Impero la notte di Natale dell’800 si sancirà in modo definitivo la salda alleanza politico-religiosa fra Chiesa e Impero, base per una radicale intolleranza nei confronti di ogni dottrina diversa da quella della Chiesa di Roma e di cui l’istituzione del Tribunale della Santa Inquisizione sarà uno dei fenomeni più emblematici. In questa sezione si presentano due parabole evangeliche, quella del grano e della zizzania del Vangelo di Matteo e quella della cena del Vangelo di Luca. Due testi che da Agostino fino a Voltaire nei dibattiti teologici e, poi, in epoca moderna, teologico-politici che discutono il nesso tolleranza-intolleranza furono costantemente letti, commentati, interpretati e reinterpretati per giustificare la costrizione alla fede da
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parte della Chiesa (e quindi le pratiche intolleranti contro tutti coloro che venivano giudicati eretici) o, al contrario, per rivendicare la necessità della tolleranza. Seguono il brano iniziale e quello finale di La pace della fede, composto da Nicola Cusano nel 1453 sotto l’impressione della conquista turca e della caduta di Costantinopoli. Si è scelta questa opera come esemplare di quella riflessione specificamente italiana – che da Cusano attraverso l’Orazione sulla dignità umana di Pico della Mirandola giunge fino a Giordano Bruno –, che provò ad elaborare, pur rimanendo all’interno dell’universo della Respublica christiana – di cui comprese la crisi, ma non intuì ancora la fine –, una nuova idea di pace universale nella fede e per la fede. L’irenismo e l’universalismo che connotano questa idea porta allora Cusano a proporre non la tolleranza come soluzione al conflitto fra le diverse religioni, quanto una visione di pax concordans fondata non sull’indifferenza davanti ai contenuti delle religioni, ma, al contrario, sul riconoscimento della ricchezza che deriva dalla pluralità generata dalle forme di religiosità e che fonda l’esistenza stessa della comunità ecclesiastica, in quanto convergenza dei distinti nell’unità della pace. Da ultimo, vengono presentati alcuni brani tratti da Il libero arbitrio, l’opera con cui Erasmo da Rotterdam rispose nel 1525 a Il servo arbitrio di Martin Lutero. Contro la teoria luterana della servitù dell’arbitrio umano, pienamente sottoposto al volere della provvidenza divina, Erasmo sostiene la razionalità e la libertà del volere umano. Ciò non significa negare la prescienza divina, perché nella lettura erasmiana piano umano e piano divino sono sì separati (come per Lutero) e tuttavia in comunicazione grazie alla possibilità, determinata dalla fiducia nella potenza della ragione umana (fiducia che a Erasmo deriva dalla tradizione rinascimentale italiana), che l’uomo ha di cogliere le essenze universali. La risposta di Erasmo alla crisi epistemologica e politica che attraversa il mondo cristiano è allora la rivendicazione dell’uso della razionalità come strumento necessario per agire nel mondo, il riconoscimento cioè della libertà della volontà dell’uomo. Dalle pagine di Erasmo emerge la necessità di una riforma cristiana, dominata dal sogno della pace universale e che rivendica la tolleranza nei confronti degli altri e la libertà religiosa del soggetto come spazio necessario per l’agire responsabile dell’individuo.
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VANGELO SECONDO MATTEO Il buon grano e la zizzania (13, 24-30) – 24Un’altra parabola espose loro così: «Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26 Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? 28Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? 29No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al tempo della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio». Spiegazione della parabola della zizzania (13, 36-43) – 36Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa: i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». 37Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo». 38Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, 39e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda!
VANGELO SECONDO LUCA Parabola del convito (14, 15-24) – 15Uno dei commensali, avendo udito ciò, gli disse: «Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!». 16 Gesù rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti.
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All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: Venite, è pronto. 18Ma tutti, all’unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato. 19Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato. 20Un altro disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire. 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi. 22Il servo disse: Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto. 23Il padrone allora disse al servo: Esci per le strade e lungo le siepi, spingili a entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché vi dico: Nessuno di quegli uomini che era stato invitato assaggerà la mia cena».
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NICOLA CUSANO, La pace nella fede (1453)
A seguito della divulgazione delle recenti atrocità compiute dal re dei Turchi a Costantinopoli, un uomo1 – che aveva visto un tempo i luoghi di quelle regioni – fu a tal punto acceso di zelo divino che pregò tra molti lamenti il creatore dell’universo di alleviare con la sua pietà la persecuzione che più del solito infuriava a causa dei diversi riti religiosi. Accadde che, dopo alcuni giorni, forse per la continua meditazione quotidiana, si manifestasse a quest’uomo pieno di zelo una visione, dalla quale concluse che era possibile, grazie alle conoscenze di pochi sapienti esperti di tutte le diversità osservabili nelle religioni del mondo, trovare una certa concordanza fattibile [facilem], grazie alla quale costituire una pace perpetua nella religione, stabilita in un mezzo conveniente e conforme a verità. Perciò, affinché questa visione venisse un giorno a conoscenza di coloro che presiedono a queste cose di massima rilevanza, la trascrisse qui di seguito, per quanto la memoria gli permetteva di ricordare. Egli fu rapito sino a una certa altezza intellettuale, dove, tra coloro che avevano abbandonato la vita, nel concilio degli eccelsi, presieduto dall’Onnipotente, si esaminò la questione. Diceva infatti il Re del cielo e della terra che tristi nunzi gli avevano portato dal regno di questo mondo i gemiti degli oppressi: a causa della religione, molti si facevano guerra l’un l’altro, e con il loro potere costringevano gli uomini a rinnegare la religione [secta] a lungo osservata o infliggevano loro la morte. E furono moltissimi i portatori di questi lamenti da tutta la terra, e il Re comandò che fossero ammessi nell’assemblea plenaria dei santi. Tutti i messaggeri sembravano conosciuti agli abitanti del cielo, poiché erano stati istituiti sin dall’inizio dallo stesso Re dell’universo sopra singole province e religioni [sectas] del mondo; dal loro aspetto infatti sembravano non uomini ma potenze intellettive [intellectuales virtutes]2. Uno solo parlò per primo in rappresentanza di tutti questi messi: «O Signore, Re dell’universo, che cos’ha ogni creatura che non le abbia dato tu? Tu hai voluto infondere il tuo spirito razionale nel corpo
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Si tratta dello stesso Cusano. Le potenze intellettuali sono gli angeli, pure sostanze spirituali.
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dell’uomo, formato dal fango della terra, perché in esso risplendesse l’immagine della tua ineffabile potenza [virtus]. Da un solo uomo si è moltiplicato un popolo molteplice, che occupa la superficie della terra. Sebbene questo spirito intellettuale, seminato in terra e circondato dall’ombra, non veda la luce e l’inizio della propria origine, tuttavia tu hai creato insieme con lui tutte quelle cose attraverso le quali egli, mosso dall’ammirazione di ciò che attinge con i sensi, possa talvolta sollevare gli occhi della mente a te, creatore di tutto, e riunirsi con te nel più alto amore e così finalmente ritornare carico di frutti alla propria origine. Ma tu sai, Signore, che una grande moltitudine non può esistere senza molta diversità, che quasi tutti sono costretti a condurre una vita travagliata, piena d’affanno e di miserie e a sottostare con soggezione servile ai re che li dominano. Perciò è accaduto che solo pochi tra tutti hanno sufficiente agio per poter giungere alla conoscenza di sé, usando della libertà del proprio arbitrio. Infatti essi sono tratti lontano da te a causa delle molte cure del corpo e dei servizi, e così non possono cercare te, che sei il Dio nascosto. Per questo motivo hai posto a capo del tuo popolo diversi re e veggenti, chiamati profeti, e molti di loro, esercitando il tuo mandato, hanno istituito in tuo nome culti e leggi per istruire il rozzo popolo. E hanno accettato queste leggi come se tu stesso, Re dei re, avessi parlato loro faccia a faccia, e hanno creduto di ascoltare non quegli uomini ma te in loro. Alle diverse nazioni hai certamente inviato diversi profeti e maestri, alcuni in un’epoca, altri in un’altra. Questa condizione umana terrena ha tuttavia questo di proprio, che una consuetudine inveterata, che si ritiene sia diventata natura, venga difesa come fosse la verità. E così sorgono non pochi dissensi, quando una qualche comunità antepone la propria fede a un’altra. Vieni in nostro soccorso, allora: tu solo lo puoi. È per causa tua che sorge questa contesa, perché te solo venerano in tutto ciò che sembrano adorare. Nessuno desidera infatti, in tutto ciò che sembra desiderare, se non il bene che tu sei; e nessuno in ogni discorso intellettuale cerca qualcos’altro dalla verità, che tu sei. Cosa cerca il vivente, se non il vivere? Che cosa cerca l’esistente se non l’esistere? Quindi sei tu, datore della vita e dell’essere, quello che in diversi riti sembra essere cercato in modi diversi e nominato in nomi diversi, poiché tu, così come sei, resti a tutti sconosciuto e ineffabile. Infatti tu, che sei infinita potenza, non sei nulla delle cose che hai creato, né la creatura può comprendere il concetto della tua infinità, poiché non vi è proporzio-
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ne tra il finito e l’infinito. Tu però, Dio onnipotente, puoi, anche se invisibile a ogni mente, mostrarti visibile a chi vuoi, in un modo in cui puoi essere compreso. Non celarti più a lungo, allora, Signore; ma sii benevolo e mostra il tuo volto, e saranno salvi tutti i popoli che non possono più a lungo abbandonare la fonte della vita e la sua dolcezza, per quanto poco pregustata. Nessuno infatti si allontana da te, se non perché ti ignora. Se ti degnerai di fare così, cesserà la spada, il livore dell’odio e ogni male; e tutti sapranno che vi è una sola religione nella varietà dei riti. Se però non sarà possibile togliere questa differenza nei riti, o non sarà conveniente perché questa diversità può accrescere la devozione, se una qualche regione dedicherà uno sforzo più attento alle proprie cerimonie credendole più gradite a te che sei il Re, che almeno una sola sia la religione e uno solo il culto di latria, così come tu sei uno. Sii quindi clemente, Signore, perché l’ira tua è pietà e la tua giustizia misericordia. Risparmia la tua debole creatura. Così noi, tuoi commissari, noi che hai inviato come custodi per il tuo popolo e che qui vedi, supplichiamo umilmente la tua maestà, con tutte le forme di preghiera che ci sono possibili». […] Dopo che si discussero queste cose con i sapienti delle nazioni, furono presentati molti libri di coloro che avevano scritto sulle osservanze degli antichi, e alcuni eccellenti in ogni lingua, come presso i Latini Marco Varrone e presso i Greci Eusebio, che raccolse informazioni sulla diversità delle religioni, e parecchi altri autori. Dopo averli presi in esame, si scoprì che ogni diversità era stata più nei riti che nel culto dell’unico Dio; raccogliendo tutti gli scritti risultava che tutti sin dall’inizio avevano sempre presupposto e adorato in tutti i culti un unico Dio, sebbene la semplicità del popolo spesso non avvertisse che cosa faceva perché sviata dal potere avverso del principe delle tenebre. E in questo modo si concluse pertanto nel cielo della ragione la concordia delle religioni. E il Re dei re comandò ai sapienti di ritornare sulla terra e di indurre le nazioni all’unità del vero culto, e agli spiriti che reggono le nazioni [administratorii spiritus] di guidarli e assisterli; comandò infine che, con i pieni poteri di tutti, essi si riunissero a Gerusalemme quale centro comune, e accettassero a nome di tutti una sola fede e su questa fondassero una pace perpetua, affinché in pace fosse lodato il creatore di tutto, benedetto nei secoli. AMEN.
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ERASMO DA ROTTERDAM, Il libero arbitrio (1525) B 10 – II mio libro sarebbe già per metà finito se io avessi convinto il mio lettore del punto di vista da me sin qui sostenuto, vale a dire che sarebbe meglio non discutere troppo minuziosamente di questi argomenti; soprattutto davanti alla folla. In questo caso la dimostrazione alla quale mi accingo diventerebbe superflua. Mi auguro tuttavia che la verità esca trionfante e non dubito affatto che essa scaturisca dal confronto delle Scritture come la scintilla dallo sfregamento delle pietre. Innanzi tutto non si può negare che esistano nelle Sacre Scritture numerosi passi che sembrano stabilire in modo definitivo la dottrina del libero arbitrio e qualche altro passo, invece, che sembra negarla totalmente. Ora, è evidente che la Scrittura non può entrare in contraddizione con se stessa, dato che essa tutta intera proviene dal medesimo Spirito. Cominceremo dunque dall’analizzare i testi che confermano la nostra opinione, poi cercheremo di spiegare quelli che ci sembrano contrari. E per far ciò noi qui definiremo il libero arbitrio come un potere della volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene. […] 15 – Se Lutero sembra essersi compiaciuto di questo genere d’esagerazioni per opporsi alle esagerazioni contrarie, ha – come si suol dire – soltanto sostituito ad un cattivo appiglio un cattivo nodo. Bisogna riconoscere che si era giunti ad un punto veramente impudente di temerarietà da parte di certa gente che non solo vendeva i propri meriti ma vendeva pure quelli di tutti i santi. E quali erano poi questi meriti? Canti, recitazioni di salmi, digiuni, litanie... Ma Lutero non fece che scacciare un chiodo conficcandovi al posto un altro chiodo, affermando che non ci sono meriti di santi e che tutte le opere di non importa quale uomo dabbene altro non sono che peccati meritevoli di eterna condanna senza il soccorso della fede e della misericordia divina. E mentre il partito dei sostenitori delle opere si ingrassava considerevolmente mediante le confessioni e le riparazioni, delle quali avevano largamente caricato le coscienze sostenendo alcune tesi paradossali sul purgatorio, l’altro partito replicava sostenendo che la confessione è una invenzione di Satana (vi sono alcuni che, modestamente, dichia-
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rano che non la si dovrebbe neppure pretendere), che non c’è bisogno di dare alcuna soddisfazione a Dio per il peccato commesso perché Cristo ha pagato il prezzo del riscatto per tutte le nostre colpe, ed infine che non vi è purgatorio. Parimenti il primo partito afferma che qualunque decisione di non importa qual piccolo priore ha forza vincolante per le coscienze pena l’inferno e parimenti non esita a promettere la vita eterna a quelli che vi si sottomettono. Il partito opposto combatte invece questi eccessi e dichiara che tutti i decreti dei papi, dei concili e dei vescovi sono eretici ed anticristiani. Mentre gli uni esaltano la potenza della Santa Sede oltre ogni misura, gli altri parlano del Sommo Pontefice in termini che non oserei mai riportare. Parimenti gli uni dicono che i voti dei monaci e dei preti obbligano l’uomo pena l’inferno e per l’eternità, mentre gli altri dicono che voti del genere sono empi, che non bisogna pronunciarli e che se sono stati fatti si possono trasgredire. 16 – È dallo scontro di esagerazioni di tal genere che nascono i tuoni ed i fulmini che oggi scuotono il mondo. E se ogni partito continua a difendere rabbiosamente le sue esagerazioni, prevedo che ci sarà tra le parti una lotta simile alla rivalità tra Achille ed Ettore che, per essere stati assai accaniti l’uno contro l’altro, poteron essere separati solo dalla morte. Si ha un bel dire comunemente che per raddrizzare un bastone ricurvo bisogna forzarlo nel senso opposto, ciò può essere vero quando si tratta di riforme di costumi, ma non mi azzarderei a dire che ciò sia a consigliare quando si tratta di definire dei dogmi. Sia che si esortino gli uomini, sia che si voglia frenarli, sempre vedo che si esagera. Così per dar fiducia al timido capiterà di dire: «Non abbiate timore, è Dio che parlerà e che farà tutte le cose in voi». Se si tratterà invece di mortificare uno spirito empio di autosufficienza, si dirà forse opportunamente che l’uomo non è che peccato; e contro quelli che pretendono mettere il loro insegnamento sullo stesso piano delle Scritture canoniche senza dubbio si avrà ragione di affermare che l’uomo non è altro che un cumulo di menzogne. Ma quando nella ricerca del vero si propongono assiomi io non penso che si possano usare paradossi tali da sembrare enigmi e, per parte mia, preferisco dar prova di misura. Senza dubbio Pelagio è stato troppo largo nei confronti del libero arbitrio e Scoto ancor più, ma Lutero ha cominciato col mutilarlo amputandogli il braccio destro, poi non contento di questo risultato lo
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ha sgozzato e interamente annullato. In quanto a me, preferisco la dottrina di quelli che concedono qualche cosa al libero arbitrio pur riconoscendo il potere più grande alla grazia. Non era quindi necessario evitare lo scoglio di Scilla dell’orgoglio per cadere nello scoglio di Cariddi della disperazione o della vigliaccheria; non era conveniente curare un arto lussato girandolo da tutte le parti ma rimettendolo a posto, e non si doveva impegnarsi a fondo contro il nemico che si aveva di fronte se c’era rischio di ricevere a sorpresa una ferita nella schiena. Teniamoci dunque alla soluzione di mezzo: ci son pur opere buone, ancorché imperfette, e delle quali l’uomo non può valersi senza farsene un titolo per insuperbire: c’è pur qualche merito, ma bisogna riconoscere che se lo si è conquistato lo si deve a Dio. Chi sa fare un esame di coscienza non potrà non deporre subito ogni pretesa di arroganza accorgendosi di quanto la vita dei mortali sia fin troppo piena di debolezze, vizi e misfatti: ma non ci spingeremo fino al punto di dire che l’uomo, anche se giustificato, non è altro che un cumulo di peccato quando il Cristo stesso ci parla di una nuova nascita e Paolo di una nuova creatura3. Ma perché, ci si potrebbe dire, accordare un posto al libero arbitrio? Per avere qualche cosa da imputare giustamente agli empi che si sono volontariamente sottratti nascondendosi alla grazia divina, per allontanare da Dio ogni rimprovero calunnioso di crudeltà o d’ingiustizia, per cacciar lontano da noi la disperazione o la presunzione, per spingerci tutti all’impegno ed allo sforzo. Queste sono le ragioni che hanno condotto quasi tutti gli autori ad ammettere il libero arbitrio; ma il libero arbitrio resterebbe inefficace senza l’aiuto continuo della grazia di Dio, il che è appunto ciò che ci impedisce ogni forma di orgoglio. Ma si potrà ancora dire: a che serve il libero arbitrio se non può far nulla da solo? Mi limiterò a rispondere: e a che cosa servirebbe l’uomo tutto intero se Dio agisse con lui come il vasaio con l’argilla o se Dio agisse su di lui come potrebbe agire su una pietruzza? 17 – Per conseguenza, se si è dimostrato a sufficienza che questa materia è una di quelle che non conviene, per un sentimento di pietà, di analizzare troppo davanti alle anime semplici; se abbiamo stabilito che la nostra opinione è suffragata dalle testimonianze della Scrittura, 3
II Cor. V, 17.
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più numerose e probanti di quelle di parte avversa; se per altro appare che, nella più gran parte dei testi esaminati, il senso della Sacra Scrittura è oscurato da similitudini che, a prima vista, paion piene di contraddizioni, e che in queste condizioni si è bene costretti qui o là di lasciare il senso letterale per una più misurata interpretazione; se la soppressione del libero arbitrio ha esposto la dottrina ad un mucchio di inconvenienti per non dire di assurdità; e se infine si rende noto che, accettando questa conclusione, non si reca alcun torto a tutto ciò che Lutero ha potuto scrivere di pio e di cristiano sull’immensità della grazia di Dio, sulla necessità di lasciar da parte ogni sentimento di presunzione fondato sui nostri meriti, sulle nostre opere e sulle nostre facoltà, e si può trasferire interamente la nostra fiducia in Dio e nelle sue promesse... Ora che il lettore s’è fatta la sua opinione su tutti questi punti, io gli domando se è giusto condannare una opinione che è quella dell’immensa maggioranza dei dottori, che ha dalla sua il consenso quasi universale dei secoli e delle nazioni, per ammettere qualche paradosso, i quali poi conducono il mondo cristiano al caos. Se essi fossero fondati, io sarei il primo a riconoscere la lentezza del mio spirito, dato che non li capisco. Certamente io non resisto coscientemente alla verità e sostengo di tutto cuore la libertà veramente evangelica e detesto tutto ciò che si oppone all’Evangelo.
Presentazione Nell’ottobre del 1517 il monaco francescano Martin Lutero appendeva alla porta della cattedrale di Wittenberg le 95 tesi: aveva inizio in tal modo quella rivoluzione spirituale, sociale e politica che viene indicata con il nome di Riforma protestante. La predicazione di Lutero contro la corruzione della Chiesa di Roma e la conseguente scomunica che gli comminò papa Leone X nel 1520 provocarono una radicale rottura dell’universo cristiano medievale. Lo stesso movimento riformato, che si diffuse rapidamente in tutta l’Europa settentrionale dall’Inghilterra alla Polonia, non fu un movimento unitario, ma si presentò in modo complesso, frammentato e potentemente conflittuale. Innanzitutto, i Riformati erano divisi fra la chiesa luterana, che rivendicava il riconoscimento della spiritualità assoluta del soggetto, e, dunque, della sua assoluta libertà interiore, libertà che politicamente si declinò però come assoluta ubbidienza al principe (manifestazione emblematica di tale posizione fu la pace di Augusta che pose fine nel 1555 alla guerra civile tra cattolici e luterani in Germania – cfr. ultra, sez. VII, pp. 244-250), e la chiesa calvinista, i cui dogmi furono delineati da Giovanni Calvino nell’Institutio religionis christianae (1536). Dal punto di vista politico Calvino propugnava la visione di uno Stato teocratico – la cui realizzazione fu tentata nella repubblica di Ginevra –, nel quale i cittadini erano al tempo stesso i membri della Chiesa calvinista, guidata da una ristretta oligarchia di pastori, che, sulla scorta della dottrina della predestinazione, ‘eleggevano’ gli individui a cittadini-santi attraverso un rigido disciplinamento dei comportamenti sia pubblici sia privati, teoria che di fatto diede luogo ad una delle più rigide forme di intolleranza all’interno del mondo protestante. Ma l’esperimento di Ginevra, con la sua rigorosa struttura ecclesia-
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stico-istituzionale, accese più decisamente il dibattito in ambito protestante sia in materia di tolleranza sia in materia di libertà religiosa. Benché nata da un’esigenza di profondo rinnovamento spirituale, qual era quella che spinse Lutero nella sua predicazione, la Riforma assunse immediatamente un carattere politico, poiché ponendo in questione il magistero della Chiesa di Roma, di fatto andava a incrinare la struttura di potere che quel magistero sosteneva e su cui si reggevano tutto l’ordinamento istituzionale medievale e i rapporti fra papato, impero e monarchie nazionali. Così la rottura provocata dalla Riforma non investì soltanto l’ordinamento spirituale, ma anche l’ordine politico europeo. Il problema della tolleranza divenne allora uno dei problemi centrali nelle rivendicazioni dei Riformati, ai quali la tolleranza apparve un mezzo per ottenere riconoscimento come soggetti politici. Inoltre, la domanda che proveniva dai movimenti settari, sviluppatisi in reazione al dogmatismo ginevrino e espressione della frammentazione che subì la dottrina calvinista durante la sua diffusione in tutta Europa, fu esclusivamente una domanda di libertà, una domanda politica per ottenere un diritto. In questa sezione si presentano alcuni testi paradigmatici delle argomentazioni sviluppate dai movimenti settari più radicali e rivoluzionari, che, nonostante la sconfitta politica subita nel corso delle rivoluzioni scoppiate durante i secoli XVI e XVII (la rivolta tedesca capeggiata da Thomas Müntzer, la rivolta dei Paesi Bassi, la rivoluzione scozzese di Knox, la prima rivoluzione inglese), svolgeranno un ruolo centrale nella successiva elaborazione concettuale di una sfera di libertà dell’individuo, che sarà costituita da quelli che verranno poi definiti i diritti umani, intangibile anche dal potere sovrano. Il brano di Castellione fa parte di Riguardo agli eretici, se essi debbano essere perseguitati (1554), opera composta in reazione a Calvino e all’ortodossia intransigente calvinista. In essa Castellione riprendeva la distinzione erasmiana tra i principi essenziali e quelli non essenziali del cristianesimo, affermando in opposizione alla persecuzione la necessità della tolleranza. Costruita come una sorta di antologia per dimostrare l’assurdità e l’inutilità della persecuzione intollerante (con testi che vanno dagli scritti dei Padri della Chiesa ai contemporanei di Castellione), il De Haereticis intendeva dimostrare la necessità di una religione universale da un lato, e l’affermazione della libertà dell’individuo nella scelta per il peccato dall’altro. Circa a metà del XVII secolo in Inghilterra nell’ambito del movimento calvinista, che diede vita alla prima rivoluzione inglese, si scon-
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trarono due diverse visioni della libertà religiosa. Da una parte i puritani, o «santi» come essi stessi si appellarono, usciti vincitori dalla prima rivoluzione inglese e definitivamente affermatisi durante la Gloriosa Rivoluzione, che affermarono un preciso modello politico, fondato sulla neutralizzazione del conflitto religioso, e la possibilità di esercitare un controllo sul ‘dissenso’. Come emerge dai due brani di Henry Robinson e John Brinsley che qui presentiamo, l’ideologia puritana si fece fautrice di una politica della tolleranza intesa come strumento utile alla convivenza fra gli individui, la cui legittimazione era fondata sopra quel covenant (patto) che Dio aveva stretto con l’Inghilterra. Dall’altra parte si trovano le teorie dei dissenters o separatisti, sostenitori, contro l’idea di uno Stato garante della pace interna, del valore delle singole comunità locali. Manifesto del fallibilismo, la dottrina religiosa e politica che sosteneva le posizioni dei dissenters e che venne definitivamente sconfitta con la promulgazione nel 1689 del Toleration Act, è Areopagitica, opera composta da John Milton nel 1643 in difesa della libertà di stampa. Milton vi affermava la piena libertà dell’uomo in quanto liberamente creato da Dio, libertà che rimane tale anche nell’errare della Caduta; pertanto, si rivendicava un’idea di tolleranza costruita non più sulla sopportazione dell’errore (secondo la visione tradizionale che sottostà al concetto di tolleranza), ma sul valore dell’errore stesso.
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SÉBASTIEN CASTELLION, Riguardo agli eretici, se essi debbano essere perseguitati (1554) Martinus Bellius al Duca Cristoforo di Württemberg1 Se tu, Principe illustrissimo, avessi detto in precedenza ai tuoi sudditi che saresti venuto da loro un tal giorno, non meglio definito, ed avessi dato ordine di preparare tutti le vesti bianche, e di venirti incontro sulla strada, il giorno in cui tu saresti giunto, vestiti di bianco, che cosa faresti se, al tuo arrivo, scoprissi che essi non si sono affatto preoccupati delle vesti bianche, ma che stanno soltanto discutendo tra loro, alcuni dicendo che tu sei in Gallia, altri che sei partito per la Spagna; chi sostenendo che tu saresti arrivato a cavallo, chi in carrozza; chi in pompa magna, chi senza alcun seguito? Gradiresti un simile comportamento? E se poi per tali motivi essi litigassero non solo a parole, ma anche con i pugni e con le armi, e gli uni e gli altri ferissero ed uccidessero coloro che sono in disaccordo con loro? «Verrà a cavallo», direbbe uno; «no, in carrozza», replicherebbe un altro. «Tu menti!» «No, sei tu che menti, quindi eccoti un bei pugno!» «E tu allora prenditi questa coltellata nello stomaco!»; potresti mai approvare simili cittadini? E se qualora pochi di loro cercassero di procurarsi un vestito bianco (come tu avevi ordinato), e proprio per questo gli altri li perseguitassero e li uccidessero, non condanneresti i malvagi? E se, per di più, gli assassini affermassero di agire per ordine tuo e in tuo nome, mentre tu hai assolutamente vietato tali azioni, non riterresti che un simile comportamento, veramente abominevole, andrebbe punito senza alcuna misericordia? Ti prego di seguire benevolmente, Principe, la ragione per la quale faccio queste affermazioni. Cristo è il principe del mondo: Egli, abbandonando la terra, predisse agli uomini che sarebbe tornato in un tempo non precisato; raccomandò di preparare per la sua venuta delle vesti candide, cioè di vivere cristianamente e in amicizia, senza contese, e di amarsi l’un l’altro. Valutiamo ora, di grazia, in che bel modo noi adempiamo a questo dovere. Quanti sono solleciti nel procurarsi la veste candida? Chi si adopera con ogni attenzione a vivere santamente e secondo giustizia e pietà cristiana in quest’epoca, nell’attesa della venuta di Dio beato? 1
Uno dei principi luterani tedeschi.
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Nulla è meno tenuto in considerazione, e la vera pietà e la carità giacciono inerti: la nostra vita scorre tra i litigi ed ogni genere di vizio. Non si discute della via da seguire per giungere a Cristo, di come emendare la nostra vita, ma della condizione e della funzione di Cristo stesso, dove mai Egli sia ora, che cosa stia facendo, come possa sedere alla destra del Padre e come sia tutt’uno con Lui; ed anche della trinità, della predestinazione, del libero arbitrio, di Dio, degli angeli, della condizione delle anime dopo questa vita, e di tutti gli altri argomenti di tal genere, la conoscenza dei quali non è necessaria a raggiungere la salvezza per fede (poiché senza di essa sono stati salvati pubblicani e meretrici), né essi possono venire conosciuti prima che il nostro cuore sia puro (poiché vedere tali verità significa vedere Dio stesso, il quale non può essere scorto senza avere il cuore puro, secondo quel passo biblico: «beati i puri di cuore, perché vedranno Dio»), né, qualora si conoscano, rendono migliore l’uomo, poiché Paolo disse: «se sono a conoscenza di tutti i misteri, e non possiedo la carità, io sono un niente». Questo modo pervertito di prendersi cura degli uomini non solo è vizioso in sé, ma conduce anche ad altri e più gravi mali; infatti gli uomini, inorgogliti da questa scienza, o piuttosto da questa supposizione di scienza, guardano con disprezzo e superbia gli altri che si trovano dinanzi, ed alla superbia seguono poi la ferocia e la persecuzione, di modo che ormai quasi nessuno riesce più a tollerare chi abbia un’opinione diversa dalla sua su qualsivoglia argomento. E benché al giorno d’oggi il numero degli uomini e quello delle opinioni quasi si equivalgano, tuttavia non esiste pressoché setta che non condanni tutte le altre, rivendicando solo per se stessa il regno dei Cieli. Da questa situazione derivano l’esilio, il carcere, oppure il rogo e la crocifissione e miserevoli spettacoli di supplizi quotidiani, a causa di opinioni non gradite ai potenti su problemi tuttora ignoti e da tanti secoli dibattuti tra gli uomini, senza che comunque si sia giunti a conclusioni certe. Se poi, nel frattempo, vi è qualcuno che cerca di procurarsi la veste bianca, ovvero di vivere nell’innocenza, qualora egli dissenta dagli altri su qualche argomento, tutti come un solo uomo lo attaccano, accusandolo e giudicandolo eretico senza alcuna esitazione, quasi che egli volesse essere giustificato per le sue opere, e gli gettano addosso falsamente le accuse di orrendi crimini mai concepiti, e lo denigrano ponendolo calunniosamente in cattiva luce presso il volgo, a tal punto che gli uomini ritengono un delitto ascoltarlo. E da qui sorge quella ferocia più che bestiale di infierire sui condannati, a causa della quale può accadere che alcuni, eccitati da simili calunnie, si infurino nel ve-
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dere qualcuno strangolato anziché bruciato vivo a fuoco lento. E sebbene questi siano peccati assolutamente smisurati, vi si aggiunge quello più grave di tutti, ossia che costoro li coprono con la veste di Cristo, dichiarando di servire in tal modo la Sua volontà, mentre neppure Satana in persona potrebbe trovare qualcosa che ripugni di più alla natura ed alla volontà di Cristo. Intanto quelli che sono così ostili agli eretici (come li chiamano), proprio loro si guardano bene dall’avere in odio i malvagi, a tal punto da non esitare a vivere amabilmente con gli avari, a favorire gli adulatori, a tollerare gli invidiosi, a dare credito ai calunniatori, a ridere insieme agli ubriaconi, ai crapuloni ed agli adulteri, a gozzovigliare allegramente con impostori e parassiti e con nemici di Dio di tal fatta, e a trascorrere a fianco di costoro l’esistenza quotidiana; stando così le cose, chi potrebbe dubitare del fatto che essi odiano non i vizi, bensì le virtù? Infatti è proprio di chi ama il male anche odiare il bene: e quindi, se vedi che a qualcuno sono graditi i malvagi, non potrai aver dubbi che allo stesso tempo gli siano odiosi i buoni. Ora io ti chiedo, Principe illustrissimo, come pensi che agirà Cristo, quando verrà sulla terra? Credi che loderà tali comportamenti, ritenendoli conformi al Suo mandato? Prova ad esaminare la cosa in questo modo: immagina che a Tubinga qualcuno venga accusato da altri di aver fatto le seguenti affermazioni su di te: «io credo che Cristoforo sia il mio principe, e voglio obbedirgli in tutto. Ma voi dite che egli arriverà in carrozza, ed io non lo credo, ma penso invece che venga a cavallo. Ugualmente, voi dite che è vestito di rosso, e neanche a questo io credo, ma ritengo invece che sia vestito di bianco; e riguardo al fatto che egli ci ordinò di lavarci in questo corso d’acqua, io credo che lo si debba fare di pomeriggio, voi di mattina. Se pensassi che lui volesse che io mi lavassi di mattina, lo farei: ma temo di offenderlo; perciò voglio agire secondo la mia coscienza». Ti chiedo, Principe, vorresti condannare un tuo cittadino di questo genere? Penso di no; e se tu fossi presente, loderesti la semplicità e l’obbedienza dell’uomo, piuttosto che condannarne l’ignoranza; e se altri lo uccidessero, prenderesti immediatamente provvedimenti contro costoro. Giudica ora la questione allo stesso modo: vi è un cittadino di Cristo, che parla di Lui in questa maniera: «io credo in Dio Padre, e in Gesù Cristo Suo figlio, e desidero vivere secondo i Suoi precetti, che sono nelle Sacre Scritture, Ma, per quanto concerne il Suo comandamento di cibarsi del Suo corpo e del Suo sangue, io credo che ciò debba essere fatto sotto entrambe le specie. Oppure, per quanto riguarda il comanda-
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mento di venire battezzati, io penso che debba essere compiuto l’ottavo giorno dalla nascita, perché così si faceva con la circoncisione». Credi allora che un tale uomo debba essere ucciso per questi motivi? Io no. E se dicesse: «credo che l’uomo non debba venire battezzato, se prima non sia in grado di dare ragione della sua fede: ma se la pensassi diversamente, allora farei in altro modo, poiché non mi sarebbe più difficile battezzare un neonato piuttosto che un bambino o un adolescente. Ma non oso fare violenza alla mia coscienza per paura di offendere Cristo, che attraverso il Suo servo Paolo mi vietò di fare alcunché della cui giustezza io dubitassi. Bisogna infatti che io mi salvi grazie alla mia fede, non a quella di altri». Ti chiedo dunque, se Cristo in persona si presentasse come giudice, darebbe ordine di uccidere quest’uomo? Non penso, se si considerano con attenzione la vita e la natura di Cristo: poiché Egli non diede mai ordini di tal genere, né agì in modo simile, ma sempre esattamente al contrario. E se Cristo stesso non agirebbe così, non devono agire in tal modo neppure coloro che ricevono da Lui il potere, affinché alla fine non si rimproveri loro a buon diritto quanto si dice nel proverbio: sei un servo del diavolo, perché hai fatto più di quanto ti è stato ordinato: o, piuttosto, hai fatto il contrario. Se infatti Dio punì tanto severamente Saul perché non aveva ucciso chi Dio gli aveva comandato di uccidere, quanto più severamente Egli punirà coloro che uccideranno chi Dio ha vietato di uccidere? Tanto più che Egli stesso è, sotto molti aspetti, più incline alla misericordia che all’ira. Quanto ho affermato a proposito del battesimo voglio che sia inteso ugualmente per gli altri punti di controversia religiosa, a proposito dei quali chi crede in Dio e in Cristo Suo figlio, e Lo serve secondo la sua coscienza, sbaglia per ignoranza, o sembra a noi che sbagli. In realtà, se considero la condotta di vita e l’insegnamento di Cristo, il quale, pur essendo innocente, perdonò sempre i colpevoli, e insegnò di perdonare settanta volte sette, non riesco a comprendere come noi possiamo mantenere il nome di Cristiani, se non imitiamo la Sua capacità di perdonare. Infatti, se fossimo innocenti, dovremmo ugualmente imitarlo: ma quanto a maggior ragione dobbiamo farlo, dal momento che siamo coperti di peccati? E certo, se io analizzo me stesso, mi accorgo che i miei peccati sono tanto numerosi e così gravi da pensare di non potere chiedere perdono a Dio, qualora fossi proclive a condannare gli altri. Ciascuno analizzi dunque se stesso, esamini minuziosamente e a fondo la propria coscienza, soppesi con attenzione ogni suo pensiero, ogni sua parola ed azione: scoprirà di essere fatto in modo tale da
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comprendere facilmente di non poter togliere la pagliuzza dall’occhio di suo fratello, se non ha prima tolto la trave dal suo. Perciò sarebbe una giusta decisione se, in mezzo ad un così grande numero di peccati che avvolgono ognuno di noi, ciascuno si ripiegasse su se stesso, e si desse da fare per correggere i propri vizi, non per condannare quelli degli altri. Questo desiderio irragionevole di pronunciare sentenze che al giorno d’oggi avanza ricoprendo ogni cosa di sangue, mi ha indotto, Principe illustrissimo, a tentare di fermare questo sangue con le forze di cui dispongo: soprattutto per quanto riguarda quel sangue spargendo il quale si può peccare, cioè quello di coloro che vengono definiti eretici, nome che oggi è diventato così infamante, così detestabile, così funesto che, se qualcuno vuole uccidere un suo nemico, la via più spedita è senz’altro quella di accusarlo di eresia. Infatti, non appena gli uomini abbiano sentito un tale nome, per ciò stesso essi hanno in odio quell’individuo, a tal punto che, chiuse le orecchie alle parole in sua difesa, perseguitano con ferocia sfrenata non soltanto lui, ma anche tutti coloro che osino aprire bocca per scagionarlo. A causa di una simile furia accade che molti vengano tolti di mezzo prima ancora che la loro posizione giudiziale sia veramente nota. Né, in verità, io faccio simili affermazioni perché sono ben disposto nei confronti degli eretici. Io odio gli eretici, ma scorgo in tale questione due grandissimi pericoli. Primo, che si ritenga eretico chi non lo è: ed il fatto che sia già accaduto fino ad ora (infatti perfino Cristo ed i Suoi discepoli furono uccisi perché considerati eretici), non è un motivo da poco per temere che in questa nostra epoca (che certo non è affatto più santa di allora, per non dire che è più scellerata) non accada di nuovo, tanto più che Cristo disse: «non sono venuto a portare la pace, ma la spada; sono venuto infatti a portare la divisione tra padre e figlio, tra madre e figlie, ecc.». Vedi allora come è facile per i calunniatori, affermare di un Cristiano: «costui è un sedizioso, mette divisione tra padre e figlio, minacciando la pubblica concordia». Perciò bisogna fare molta attenzione nel distinguere i veri sediziosi dai Cristiani, dal momento che entrambi (se si guarda solo all’esteriorità) agiscono allo stesso modo, e coloro che non comprendono ciò sono soliti accusarli del medesimo crimine, a tal punto che Cristo viene crocifisso tra due ladroni. L’altro pericolo è che, qualora si abbia a che fare con un vero eretico, lo si punisca più severamente, o in modo diverso, da come prevede l’insegnamento cristiano. Per queste ragioni ho raccolto in questo libro le opinioni di molti
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che scrissero di queste cose, affinché, soppesate le loro argomentazioni, in futuro si pecchi di meno nel giudicare. Dapprima ho raccolto le riflessioni di alcuni scrittori più recenti, sia perché essi citano quelle di autori più antichi, cosicché in molti loro passi è possibile disporre di entrambi, sia perché loro hanno trattato questo argomento più diffusamente e con maggiore attenzione, e hanno scritto cose più appropriate per la nostra epoca, resi esperti come sono dalle persecuzioni che hanno conosciuto. Gli antichi, infatti, scrivevano di preferenza contro i gentili, in quanto essi venivano perseguitati quasi esclusivamente da costoro; infatti a quel tempo era ancora diffusa l’imitazione di Cristo e degli apostoli, i quali non perseguitarono mai nessuno, ma piuttosto subirono la persecuzione da parte di tutti. Ma in seguito, aumentando i peccati, ed avendo i gentili cessato di perseguitare i Cristiani, furono gli stessi Cristiani ad usare violenza contro altri Cristiani, soprattutto nel caso in cui venisse trovato un difensore un po’ troppo rigido della verità, e del quale non si potessero criticare i costumi, ma la cui dottrina (sulla quale il volgo non è in grado di dare giudizi, come invece sulla condotta di vita) poteva senz’altro essere interpretata falsamente grazie a qualche artificio. In questo modo infatti accade che tutti i veri Cristiani subiscano la persecuzione, anche se non tutti coloro che vengono perseguitati sono veri Cristiani. Si può senz’altro essere convinti che sempre le persecuzioni accompagnarono la vera religione; e che, cessando quest’ultima, cessarono anche le persecuzioni; infatti la Chiesa antica fu soggetta alle persecuzioni fintantoché conservò la vera religione, ma quella che la seguì, nella quale tutti, essendo sottomessi all’arbitrio di un unico tiranno, servivano senza opporsi il diavolo, non subì persecuzioni. Cosicché, se nella nostra epoca non fossero esistiti dei veri Cristiani, non vi sarebbero state persecuzioni. Perché infatti Satana dovrebbe perseguitare i suoi servi? Ma, una volta apparsi i veri Cristiani, apparvero anche coloro che li tormentano; la qual cosa aguzzò l’ingegno dei primi, facendo sì che essi, che a causa della vessazione raggiunsero una maggiore comprensione delle cose, abbiano scritto contro la persecuzione molte cose adatte e vere. Se poi, d’altra parte, anche alcuni di quelli che io citerò qui, in altri luoghi o tempi, scrissero o fecero cose diverse, oppure le scriveranno o le faranno, noi comunque manteniamoci alla prima opinione, che fu scritta in un’epoca di sofferenza (epoca in cui accade con la massima frequenza che si scrivano cose vere), e che si accorda pienamente con la bontà di Cristo. Se qualcuno predicherà un altro Vangelo, ed anche se lo facciamo noi stessi, oppure un angelo dal cielo, sia considerato
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anatema. Accade infatti per lo più che gli uomini, quando dapprima volgono la mente al Vangelo, perseguitati ed infelici, colgano la verità delle cose, poiché la condizione infelice è adattissima a comprendere la verità dell’infelicità di Cristo. Ma poi quegli stessi, innalzati dal favore della sorte e divenuti potenti, degenerano, e se prima difendevano Cristo, ora difendono Marte, trasformando la vera religione in violenza. Perciò su nessuno è più sicuro fare affidamento in questo campo quanto sugli sventurati e su coloro che hanno a malapena un luogo dove posare il capo. Di conseguenza, ho raccolto le opinioni di molti autori di questo genere, anche se non di tutti, e sono stato indotto ad inviarle a te, Principe Cristoforo, da molte ragioni: innanzitutto perché sono a conoscenza del fatto che tu hai sempre sostenuto il Vangelo, ed anche in mezzo alle sventure (che di solito mettono alla prova più di ogni altra cosa l’animo umano e ne manifestano la natura) hai perseverato in esso. Lo testimonia la tua confessione di fede che, unico tra i principi tedeschi, mandasti all’ultimo Concilio: gesto con il quale mostrasti che tu sei uno che non rifugge dalla luce, ma che al contrario vuoi che la tua fede e la tua religiosità siano note a tutto il mondo. In secondo luogo, perché è opportuno che tu, uomo potente e di grandissima autorità, sia tra i primi a conoscere questi argomenti, affinché tu possa governare i tuoi secondo giustizia e senza alcuna iniquità, e perché tu persuada gli altri principi confinanti, e in particolare il re di Francia2, a fare lo stesso, se è possibile che ciò avvenga in qualche modo, per mezzo del quale si possa ricondurre la situazione della comunità cristiana (che ormai da tanti anni è tristemente lacerata) ad uno stato di maggiore armonia, richiamando i popoli a correggere la loro vita, se soltanto Dio voglia distogliere da noi la Sua ira (che lo ha infiammato contro il genere umano) per illuminarci con la luce del Suo volto. L’ultimo motivo è che tra queste autorità vi è anche l’opinione del tuo dottore Johannes Brenz, non appena fu pubblicata la quale diminuì notevolmente (così sento dire) la crudeltà delle persecuzioni, e diminuì successivamente di molto il numero degli uccisi: tanta forza ebbe l’opinione di un solo uomo dal retto sentire, anche in un’epoca di così grande ingiustizia. Bravo, Johannes Brenz, continua e progredisci, come conviene ad un Cristiano, in questa bontà cristiana; con un libretto di così esigue dimensioni hai impedito lo spargimento del sangue di molti: con questa azione, non avresti potu2
Enrico II.
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to fare nulla di più gradito a Cristo né di più sgradito a Satana. Magari gli altri avessero agito allo stesso modo, e si fossero affaticati non tanto per spargere il sangue, quanto per arrestarlo! Non ci sarebbe toccato vedere così tanti roghi e tante spade grondanti sangue innocente, né ora mangeremmo pesci ingrassati con il sangue di coloro per i quali Cristo versò il Suo. Principi, aprite gli occhi, e non tenete in così poco conto il sangue umano, al punto da spargerlo con tanta facilità, soprattutto adducendo la religione come motivo: a chi infatti avrà pronunciato una sentenza senza usare misericordia, verrà applicato il medesimo criterio di giudizio. Del resto, poiché queste opinioni dimostrano non che cosa sia l’eretico (la qual cosa, tuttavia, deve essere conosciuta prima di ogni altra), ma come egli debba essere trattato, io spiegherò brevemente, traendolo dalle Sacre Scritture, che cosa sia l’eretico, di modo che sia possibile comprendere meglio di che genere di uomini ci si stia occupando in questa sede. Non credo infatti che siano eretici tutti coloro che eretici vengono chiamati: è noto che questo nome al tempo di Paolo non era tanto infame, al punto che gli eretici fossero ritenuti peggiori degli avari, o degli ipocriti, o dei parassiti, o degli adulatori: invece al giorno d’oggi nessuno viene ucciso a causa della sua avarizia, o dell’ipocrisia, o della pigrizia o della piaggeria (vizi dei quali è spesso facile giudicare); al contrario, per eresia (dare un giudizio sulla quale non è altrettanto agevole) così tanti vengono uccisi. Quanto a me, pur essendomi spesso chiesto che cosa sia l’eretico, non ho scoperto niente altro se non che è ritenuto eretico chiunque la pensi diversamente da noi; il che risulta chiaro da questo, che tra tutte le sette (che oggi sono innumerevoli) non ve ne è pressoché nessuna che non ritenga gli altri eretici, cosicché se in questa città o regione tu sei un ortodosso, in quella vicina sarai considerato eretico. E quindi, se al giorno d’oggi si vuole sopravvivere, occorre avere tante fedi e religioni, quasi quante sono le città, o le sette. Allo stesso modo, chi viaggia deve cambiare ripetutamente moneta, poiché quella che vale qui non ha corso in un altro luogo, a meno che non sia d’oro; quest’ultima infatti, ha valore di qualunque conio sia. Nella religione dobbiamo possedere allora una qualche moneta aurea che abbia corso ovunque, a prescindere dal suo aspetto esteriore. Credere in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, ed accettare gli insegnamenti della vera religione presenti nelle Sacre Scritture, questa è la moneta d’oro, più eccellente e più sicura dello stesso oro. Ma finora questa moneta reca immagini diverse, poiché gli uomini sono in disaccordo tra loro riguardo la comunione, il battesimo e
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tutte le altre cose di questo genere. Tolleriamoci dunque reciprocamente, e non condanniamo immediatamente la fede di altri, se è fondata in Cristo. E, per venire infine alla questione, non giudichiamo l’eretico dall’opinione popolare, bensì dalle Sacre Scritture: solo così scopriremo che cosa sia l’eretico. [...] Basilius Montfort3 Confutazione di quegli argomenti che vengono solitamente avanzati in difesa della persecuzione degli eretici [...] Infine, se gli uomini potessero venire costretti a professare una fede, Cristo stesso l’avrebbe fatto, o avrebbe insegnato a costringerli; invece Egli disse: «quante volte io avrei voluto radunare i tuoi pulcini, e tu non hai voluto?»4. Nemmeno Cristo potè salvare Gerusalemme, senza che essa lo volesse: e noi supereremo Cristo? Ma – potrebbero obiettarci – è scritto anche: «chiunque voi incontrerete, costringetelo ad entrare»5. È vero, ma con le armi dello spirito, dal momento che le nozze sono spirituali: cioè con le parole divine, che sono forti e vive, poiché con la parola è stata creata ogni cosa visibile, e vengono create quelle invisibili; mentre voler creare una creatura nuova con mezzi diversi dalla parola di Dio non significa altro che sovvertire la creazione del mondo. Eppure – dicono i persecutori – Cristo forzò Paolo ad abbracciare il Vangelo punendolo corporalmente, e allo stesso modo occorre che noi veniamo costretti da Cristo a dire: «Signore, cosa vuoi che io faccia?»6; ma attribuire al magistrato questo potere di coazione significa far scendere il cielo sulla terra. Ancora, essi osano affermare che gli apostoli non richiedettero alcun aiuto dal magistrato per difendere la religione dai suoi nemici, ma che si comportarono così perché i magistrati non erano Cristiani. Vedano un po’ loro come stiano le cose; ma si ricordino che Cristo stesso nega che il suo regno sia di questo mondo, giacché, se lo fosse stato, i suoi ministri avrebbero combattuto perché Egli non venisse consegnato a Pilato. Senz’altro il magistrato deve difendere i buoni dalla violenza e dall’ingiustizia, ma non può ugualmente co3
Pseudonimo di Castellione. Mt 23, 37; Lc 13, 34. 5 Cfr. supra, sezione I, p. 36. 6 Gv 18, 36. 4
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stringere qualcuno con la forza ad essere buono, né può occuparsi della religione per mezzo della spada, altrimenti si deduce che né Cristo si armò a sufficienza, né armò abbastanza i Suoi apostoli; e tuttavia essi, pur avversati da tutti i principi della terra, poveri e lasciati a loro stessi, crearono di più di quanto noi, che con l’appoggio di quei principi siamo divenuti potenti e violenti, riuscimmo a salvare; e non c’è da stupirsi, poiché essi edificavano il tabernacolo grazie ai doni del popolo volontariamente offerti, noi invece usiamo a tale scopo doni estorti e forzati (se sono ancora doni quelli che non vengono offerti spontaneamente). Perciò non dobbiamo neppure meravigliarci se ci accadrà quello che succede ad alcuni tiranni, che costringono i soldati a prestare giuramento, ma in seguito, quando si è giunti alla battaglia, questi ultimi li abbandonano o li tradiscono, oppure fuggono vergognosamente di fronte allo scontro, o ancora sono fatti prigionieri dal nemico. «Le armi del nostro esercito – dice Paolo – non sono carnali, ma ricevono da Dio la potenza per distruggere le fortezze; con queste armi noi distruggiamo tutti i piani ed ogni altezza che si erge contro la conoscenza di Dio, e conduciamo prigioniero ogni pensiero costringendolo ad obbedire a Cristo»7. Se la spada riesce a fare prigionieri i pensieri degli uomini, e se Paolo ne fece uso, allora usiamola pure; ma se no, accontentiamoci di quelle armi che Cristo affidò ai Suoi apostoli, visto soprattutto che noi ripetiamo di continuo che le Sacre Scritture sono perfette, e che non vi è niente da aggiungervi o da togliervi: non trasformiamo il Suo esercito celeste in uno terrestre, né costruiamo la casa del Signore con materiale privo di valore e con cattivi strumenti. Questi sono gli argomenti che, anche dopo gli scritti di Lutero e di Brenz, altri sono soliti addurre a difesa della persecuzione per motivi religiosi, e ad essi risposero in generale già a sufficienza i due autori sopra citati. Ma poiché ho notato che alcuni vengono ancora colpiti dall’autorità di altri scrittori, ho ritenuto opportuno esaminare l’argomento ancora più minuziosamente, per prendermi cura, nella misura in cui ciò è possibile, della salvezza degli uomini, ed impedire lo spargimento di sangue. Certo io non lo faccio per allontanare i principi ed i popoli dall’insegnamento dei pastori e dei maestri, ma perché, essendo i pastori di due specie differenti, io sostengo che si debba obbedire ai migliori.
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II Cor 10, 4-5.
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JOHN MILTON, Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa (1643) Guardate, ora, questa vasta città: una città di rifugio, magione della libertà, circondata dalla divina protezione. Guardate, e vedrete che le incudini e i martelli che lavoran giorno e notte nei suoi arsenali a battere armi e armature, onde la Giustizia armata possa difendere l’assediata Verità, non sono più numerosi delle penne e delle menti che lì, al lume della loro assidua lucerna, meditano ed indagano, volgendo e rivolgendo le nuove idee ed i nuovi concetti che s’apprestano ad offrire, come loro fedele omaggio, alla veniente Riforma; – non più numerosi dei molti altri che s’adoperano a leggere ed a provare ogni cosa, lasciandosi guidare dalla forza convincente della ragione. Che cosa si può voler di più da una nazione così docile e così incline allo studio ed al sapere? Di che cos’altro c’è bisogno, per un suolo così fertile e obbediente, se non di saggi e fedeli lavoratori che, d’un popolo intelligente, facciano una nazione di profeti, di saggi e di eccellentissimi uomini? Noi diciamo che ci vogliono più di cinque mesi, perché venga il tempo della mietitura; – ma sol che noi levassimo gli occhi per vedere, diremmo che bastan cinque settimane, che le contrade già son bianche da mietere. Dove vivo è il desiderio d’apprendere, lì molto sarà, necessariamente, il discutere, molto lo scrivere, molte le opinioni; perché l’opinione, negli uomini buoni, non è altro che la conoscenza stessa che si vien formando. In preda a questi fantastici terrori di sètte e di scismi, noi facciamo torto alla sincera e ardente sete di sapere e di vero che Iddio ha suscitata in questa nostra città. Di quello, che alcuni deplorano, noi dovremmo invece gioire; dovremmo piuttosto lodare questa pia premura, ch’è negli uomini, di riprendere nelle proprie mani la mal deputata cura della propria religione. Un po’ di generosa prudenza, un po’ di tolleranza reciproca, e qualche grano di carità, potrebbero riuscire a far convergere e ad unire gli sforzi di tutti questi diligenti indagatori in un’unica e fraterna ricerca della Verità, sol che sapessimo rinunciare a codesta tradizione episcopale di comprimere le libere coscienze e le libertà cristiane in alcuni precetti e canoni umani. Io son sicuro che se venisse fra noi qualche degno ed eminente straniero, esperto nel capire il carattere e la tempra d’un popolo e nell’indovinare quale forma di governo gli si confaccia di più, – osservan-
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do i nostri propositi e le nostre alte speranze, e la diligente alacrità con cui ci spingiamo col pensiero e col ragionamento nella ricerca del vero e della libertà – indubbiamente esclamerebbe come esclamò una volta Pirro, nell’ammirare la disciplina ed il coraggio dei Romani: «Se i miei Epiroti fossero come costoro, non dispererei di realizzare i disegni più arditi che si possan mai concepire per il benessere d’una Chiesa o d’un Impero!». Eppure, questi son gli uomini che vengono proclamati scismatici e settari; come se non fosse assurdo il pensare che, mentre si va costruendo il Tempio del Signore, e tutti vi lavorano, chi cavando il marmo, e chi squadrandolo, e chi tagliando i cedri, si possa fare a meno di produrre molti scismi nella cava e molte scissioni nel legno, prima che la casa di Dio possa esser compiuta. Ed anche quando tutte le pietre saranno state bravamente messe insieme, non certo per questo formeranno un tutto continuo, – perché in questo mondo non si trova che il contiguo soltanto; né c’è da aspettarsi che tutti i pezzi dell’edificio siano di un’unica forma; anzi il contrario, perché la perfezione consiste piuttosto in questo: che da una grande varietà di opinioni, sostenute con debita moderazione, e da molte fraterne differenze, nasca la bellezza, la grazia e la simmetria dell’intera struttura e di tutto l’edifizio. Or dunque, procuriamo d’esser dei muratori un po’ più considerati, più saggi nell’architettura dello spirito, visto che siamo vicini ad una grande riforma. Poiché adesso pare giunto il tempo in cui il gran profeta Mosè, nell’alto cielo ove siede, può rallegrarsi nel vedere che quel suo memorabile e glorioso desiderio si è alfine avverato, e che non i nostri settanta Anziani soltanto, ma tutto il popolo del Signore è diventato profeta. Non faccia meraviglia, poi, se certi uomini (e alcuni son fors’anche buoni, ma giovani nella loro bontà, com’era allora Giosuè) invidino al popolo questo dono profetico. Essi smaniano, e la loro propria debolezza li mette in una vera agonia, per tema che quelle divisioni e suddivisioni diventin la nostra rovina. Gli avversari gioiscon di nuovo, ed aspettando la loro ora, dicono: «Quando costoro si saranno indeboliti, dividendosi in tanti rami e partiti, allora sarà il tempo della nostra riscossa». Stolti che sono: che non vedon da quale salda radice nasciamo noi tutti, anche se poi ci dividiamo in rami! E così essi non si metteranno in guardia, se non quando vedranno i nostri piccoli e divisi manipoli sfondare ogni lato della loro male unita, grave e tarda brigata! Che noi possiamo sperare migliori frutti da tutte queste nostre supposte sètte e da tutti questi scismi, e fare a meno della sollecitudine, one-
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sta forse, ma eccessivamente pavida, di quelli che si angustiano per queste cose, – e che rideremo, alla fine, di quelli che dispettosamente godono delle nostre divergenze, – io ne sono pienamente convinto; e per le ragioni che verrò qui sotto esponendo. In primo luogo, il fatto che tutto, o quasi tutto il popolo d’una città assediata, e, per così dire, bloccata, – col suo fiume navigabile infestato da navi nemiche, coi confini esposti a continue incursioni, e sempre in allarme per le spesse voci che corrono di eserciti avanzanti fin sotto le mura e le trincee suburbane – continui ad occuparsi, anche più che in altri tempi, nello studio dei più alti e importanti problemi della sua riforma sociale e politica, e a discutere, a ragionare, a leggere e ad esporre nuove concezioni, con raro e veramente ammirevole acume, – questo è certamente prova, Lord e Comuni d’Inghilterra, della buona volontà di quel popolo e della sua piena soddisfazione e fiducia nel vostro previdente e sicuro governo. Ed è in questa fiducia che la nazione ritrova la sua prodezza, e il suo ben fondato disprezzo pel nemico. Onde oggi fra noi non sono pochi gli uomini che potrebbero gareggiare in magnanimità con quel cittadino romano che, quando Annibale era già alle porte di Roma, osò comprare a non vil prezzo il suolo stesso su cui egli s’era accampato. Secondariamente, queste discussioni, sono un lieto e incoraggiante presagio del nostro felice successo e della nostra vittoria. Infatti, come in un organismo umano la freschezza del sangue, la purezza e il vigore degli spiriti e la conseguente sanità delle facoltà, non solo fisiche, ma razionali – e delle più agili, sottili ed acute fra queste – ci assicurano che la costituzione e lo stato di quel corpo son perfetti; similmente nel caso d’un popolo, il fatto che la sua serena vitalità è così ricca da permettergli di pensare, oltre che alla salvaguardia della sua libertà ed alla sua sicurezza, anche allo studio di nuovi concetti e alle controversie sulle più sublimi e profonde questioni, è una sicura prova che esso non è degenerato e non è condannato ad una fatale rovina, ma che invece sta mutando la sua decrepita e grinzosa spoglia di corruzione, per uscirne, sopravvivendo ai suoi spasimi, ringiovanito, e mettersi sul cammino della Verità e della prospera virtù, – destinato a diventare nelle future età grande ed illustre. A me par di vedere, in pensier mio, una potente e nobile nazione, destarsi, come si desta un uomo forte dal suo sonno, scuotendo le invincibili ciocche del suo capo; a me pare di vederla come un’aquila che rinnovi la sua possente giovinezza, e accenda il suo indomito occhio all’abbagliante raggio meridiano, purificando e schiarendo la tanto in-
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gannata sua vista alla sorgente stessa del celeste splendore, – mentre d’attorno sale lo schiamazzo delle timorose turbe di volanti, che, insieme cogli altri uccelli amanti del crepuscolo, svolazzan qua e là attoniti, e si domandan che cosa ella intenda fare, e pronosticano nel loro invido vocìo una mala annata di scismi e di sètte. Che dovreste voi fare, dunque? dovreste forse sopprimere tutta questa ricca messe di studi, e spegner la luce novellamente accesa e che vieppiù s’accende ogni giorno in questa nostra città? dovreste voi sottometter quegli studi a un’oligarchia di venti monopolisti, che affamino un’altra volta i nostri spiriti, e non ci facciano apprendere che quel po’ che può entrare nelle loro scarse misure? Lord e Comuni, credetemi! Coloro che vi consigliano siffatte soppressioni, è come se vi consigliassero di sopprimer voi stessi. Ed io vi dimostrerò presto in che modo. Se vogliamo sapere la ragione immediata della gran libertà che oggi si gode nello scrivere e nel discutere, non possiamo ricercarla altrove che nella mitezza, nella libertà e nell’umanità del vostro stesso libero governo. È la libertà, Lord e Comuni, che voi stessi ci avete procacciata col vostro coraggioso e felice consiglio, – quella libertà che è nutrice a tutti i grandi intelletti, – lei è, che ha raffinato e illuminato i nostri spiriti, operando su essi come un’influenza celeste, – lei, che ha affrancato, allargato le nostre menti, innalzandole di tanto sul loro passato livello. Voi non potete ora diminuire le nostre capacità, il nostro sapere, il nostro ardore nella ricerca della verità, a meno che voi stessi, che ci faceste quel che noi ora siamo, non diminuiate prima il vostro proprio amore per questa nostra vera libertà che voi creaste. Noi possiam bene abbrutirci di nuovo e ridiventare ignoranti, schiavi delle forme e delle tradizioni, come ci trovaste voi; ma prima voi dovete diventare quello che non potete essere: prepotenti, arbitrari, tirannici, come eran quelli dai quali ci avete salvati. Se i nostri cuori sono ora più grandi che non fossero prima, e le nostre menti più bramose di raggiungere le mete più eccelse del pensiero, questo lo dobbiamo alla vostra propria virtù, che voi ci avete comunicata; e voi non potete sopprimerlo a meno che non rimettiate in vigore quella spietata ed antiquata legge che permetteva al padre di uccidere i suoi figli. Ed allora, chi è che vi rimarrà al fianco nell’ora del bisogno e farà animo agli altri? Non certo quelli che prendono le armi solo per resistere al pagamento delle tasse militari e navali. E con questo non intendo biasimare la difesa dei giusti privilegi, ma voglio dire piuttosto che se si trattasse di questi soltanto, non vorrei per essi perdere la mia pace, che mi
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sta anche più a cuore. La libertà ch’io cerco è quella di apprendere, di parlare e di discutere, liberamente e secondo coscienza; questa, più di tutte le altre libertà. Quali misure si debban prendere, una volta ammesso che è ingiusto e dannoso il sopprimere la libertà delle opinioni solo perché queste son nuove o contrarie a quelle comuni, – questo non tocca a me dirlo. Io ripeterò soltanto quello che ho appreso da un membro della vostra onorevole Assemblea, un devoto e nobilissimo Lord, che noi ora piangiamo, e di cui sentiamo la mancanza, poiché, se egli non avesse sacrificato e i beni e la vita per la Chiesa e lo Stato, sarebbe stato un degno e sicuro patrocinatore della causa da me difesa. Voi sapete di chi parlo, ne son sicuro; pure, per fargli onore – e possa egli essere sempre onorato da noi – io pronuncerò il suo nome: Lord Brooke. Nel suo libro sull’Episcopato, in quel punto in cui tratta delle sètte e degli scismi, egli vi ha lasciato il suo voto, o meglio, v’ha lasciato la sua estrema consegna; ed io son sicuro che quelle sue ultime parole saranno sempre ricordate con affetto e reverenza da voi, essendo così piene di dolcezza e carità che, dopo quelle di Colui che nel suo ultimo testamento lasciò ai suoi discepoli pace ed amore, non ricordo d’averne mai lette o sentite altre spiranti maggior pace e mitezza. Là egli ci esorta ad ascoltare con pazienza ed umiltà quelli che desiderano vivere puramente – qualunque sia il nome ingiurioso con cui vengan chiamati dagli altri; che desiderano seguire i comandi divini secondo i dettami della loro propria coscienza; ci esorta a tollerarli, anche se non li troviamo completamente d’accordo con noi. E nel suo libro possiamo trovare più ampie ragioni, che esso fu pubblicato per tutti e dedicato al Parlamento; ed il suo autore, così per la sua vita come per la sua morte, merita che i consigli da lui lasciati non siano messi da canto senza la debita considerazione. E questo è più che mai il tempo di godere il privilegio di scrivere e dire qualunque cosa possa far avanzare i problemi in discussione. Il tempio di Giano bifronte potrebbe ora, non senza significato, aprire le sue porte. E ancorché tutti i venti della dottrina dovessero essere messi in libertà e correre liberi sulla terra, finché la Verità è sul campo di battaglia, noi le facciamo torto a ricorrere alla censura e ai divieti, poiché così mettiamo in dubbio la sua forza. Lasciamo pure che Lei e la Falsità lottino corpo a corpo! Quando mai s’è sentito che la Verità abbia avuto la peggio in una aperta e libera tenzone? Le sue confutazioni sono il migliore e più sicuro mezzo di soppressione. Chiunque, sentendo le preghiere che s’alzano fra noi per domanda-
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re dall’alto nuova luce e più chiara visione, penserebbe che noi miriamo ad altri e nuovi oggetti oltre che alla dottrina di Ginevra, che noi ricevemmo già bell’e compiuta in tutta la sua struttura. Pure, quando la luce ch’abbiamo invocata splende su di noi, ci sono di quelli che diventano subito invidiosi ed ostili se quella luce non batte prima alle loro finestre. Ma che inganno è mai questo, per cui, mentre il saggio ci esorta ad esser diligenti e a cercare la sapienza, continuamente, come si cercan dei tesori nascosti, un altro ordine, poi, c’ingiunge di non conoscer nient’altro fuorché quello ch’è stabilito per statuto? Quando un uomo ha durato le più dure fatiche nelle profonde miniere del sapere umano; quand’egli ha armato di tutto punto le sue scoperte ed ha schierato le sue ragioni a guisa d’un esercito in ordine di battaglia; quando ha sbaragliato e sconfitto tutte le obbiezioni che ha trovato sul suo cammino; – chiama egli allora il suo avversario e, offertogli il vantaggio del sole e del vento, lo invita a scendere in campo ed a provare di decidere la loro contesa a forza di ragioni. E se mai l’avversario dovesse svignarsela, per andare a tendere agguati, o per piantarsi su qualche stretto ponte censorio ad aspettare che vi passi colui che lo sfidò, per quanto siffatte cose possano esser tenute per atti di valore nella guerra comune, nelle guerre della Verità esse non sono che segni di debolezza e di vigliaccheria. Perché chi è che non sappia che, in quanto a forza, la Verità non è seconda che a Dio? Ella non ha bisogno d’artifizi, strattagemmi, o censure, che le diano la vittoria; queste sono le risorse dell’Errore contro il potere di lei. Fatele semplicemente spazio e non la legate mentre dorme: poiché ella non è come Proteo, che poteva dare gli oracoli solo quando era afferrato e legato: al contrario, se voi la legate, essa assumerà tutte le forme immaginabili, fuorché la propria; e aggiusterà forse la sua voce secondo quella dei tempi, – come fece Mica innanzi ad Achab – finché non venga poi scongiurata di riprender quella sua vera. D’altra parte, non è forse possibile ch’essa possegga più di un aspetto? Come spiegarci, se no, il gran numero di cose indifferenti, per le quali la Verità può trovarsi dall’un lato o dall’altro senza cessare d’esser sempre la stessa? Se non avesse che un aspetto solo, che altro sarebbe se non una vana ombra l’abolizione di quegli ordinamenti, di quella obbligazione confitta nella croce? che grande acquisto sarebbe mai questa libertà cristiana, di cui Paolo mena vanto sì spesso? La sua dottrina è che: mangi, un uomo, o non mangi un certo cibo, stimi o non stimi un certo giorno, – egli può servire egualmente bene il Signore. Quante altre cose potrebbero esser tollerate in pace e affidate,
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alla coscienza, solo che usassimo della carità e riuscissimo ad abbattere quella rocca della nostra ipocrisia, ch’è l’abitudine di giudicarci a vicenda! Io temo, però, che questo giogo ferreo della conformità esteriore abbia lasciato sui nostri colli il marchio della schiavitù, e che ancora ci perseguiti il fantasma della falsa decenza d’una bianca sopravveste. Noi ancora titubiamo, e c’impazientiamo per le minime differenze che posson dividere una nostra congregazione dall’altra, anche se esse non riguardano le questioni fondamentali; e per via della nostra prontezza nel sopprimere, e della nostra lentezza nello strappare ogni possibile brano di verità alla tirannica stretta della consuetudine, non facciamo caso al fatto che teniam separata l’una verità dall’altra, generando così una rottura, una disunione, ch’è la più crudele di tutte. Non ci accorgiamo che, se continuiamo ad insistere su un rigido formalismo esteriore, finiremo col ricadere in una ottusa stupida conformità, in una morta, inerte e gelida massa di «legno e fieno e stoppia», pigiati insieme e agghiacciati; – uno stato che conduce alla immediata degenerazione d’una Chiesa meglio che non facciano tutte le suddivisioni di meschinissimi scismi. Non è ch’io possa approvare ogni minima separazione, né credere che tutto debba esser perfetto in una Chiesa, tutto oro, argento e pietre preziose. L’uomo non può sceverare le zizzanie dal grano8, il pesce buono dal cattivo; gli è un compito, questo, che spetta agli Angeli, quando verrà la fine d’ogni cosa mortale9. Pure, se non possiamo pensare tutti allo stesso modo (e chi mai s’aspetta tanto?) ci è bene un consiglio, sicuramente più sano, più saggio e più cristiano; quello di tollerare molti, piuttosto che costringere tutti. E con questo voglio dire, non che sia tollerato il Papismo10 colla sua evidente superstizione, perché esso, cercando d’estirpare ogni altra religione o autorità politica, dovrebbe essere esso stesso estirpato, – dopo che si sia cercato, però, con ogni mezzo pietoso e caritatevole, di persuadere e redimere i deboli e gli sviati; né voglio dire che una legge, a meno che non miri alla propria distruzione, possa tollerare quello che è empio, o assolutamente funesto alla fede o alla morale; ma intendo parlare di quelle sottili differenze, o direi quasi, indifferenze, sia in materia di dottrina, sia di disciplina, le quali, per quanto possano essere numerose, non è peraltro necessario che rompano l’unità dello spirito, solo che possiamo 8
Cfr. supra, sezione I, p. 35. Cfr. ibidem. 10 Così veniva appellato il cattolicesimo in Inghilterra. 9
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trovare fra noi il legame della pace. Nel frattempo se qualcuno, a cui la Verità abbia parlato prima che agli altri, o pare almeno che gli parli, vuole pubblicare le sue idee e coadiuvare così in questa lenta opera della Riforma, per la quale tanto ci affatichiamo, – chi mai ci ha ingesuiti fino a tal punto da indurci a molestarlo e a pretendere che egli chieda licenza per compiere una sì degna azione? e non da farci invece riflettere che, quando ci si mette sulla via delle proibizioni, non c’è niente di più facile che si finisca col proibire la stessa Verità? Tanto più che questa, quando appare per la prima volta ai nostri occhi guasti e annebbiati dal pregiudizio e dall’abitudine, ha un’apparenza più riprovevole e più spiacevole che non molti errori; proprio come accade cogli uomini, che sovente son grandi di spirito e deboli e dispregevoli nella persona. E cosa mai vengono a raccontarci costoro contro le nuove opinioni, se questa loro stessissima opinione – che non si debba stare a sentire se non quelli che piacciono a loro – è la peggiore e la più nuova di tutte? ed è la vera ragione per cui le sètte e gli scismi sono in tanta abbondanza ed il vero sapere si tiene lungi da noi? E poi, c’è ancora un più grave pericolo da temere. Infatti, quando il Signore scrolla una nazione, affinché in quel suo forte e sano rivolgimento si riformi tutta, se da un canto è pur vero che molti settari e falsi maestri si dan da fare per sedurre il prossimo, ancor più vero è che, in tali occorrenze, Iddio innalza al suo proprio lavoro uomini di rara abilità e di non comune energia, uomini che non si volgono soltanto indietro a guardare il passato e a rivedere quel che si è insegnato in altri tempi, ma che sanno anche avanzare e sollevarsi d’un altro gradino su per la luminosa scala della Verità. Perché è così che Iddio illumina la sua Chiesa, dispensando e ripartendo a poco a poco la sua luce, in modo che la nostra vista terrena possa meglio avvezzarsi al suo fulgore. Né d’altra parte Iddio, eleggendo quelli che devon parlare per primi, è in alcun senso limitato circa il dove e il donde la loro voce abbia a sentirsi; perché Egli non vede come vede l’uomo, e non sceglie come l’uomo sceglie, dacché non vuole che noi ci votiamo un’altra volta ad assemblee o a luoghi determinati, o a cerimonie esteriori di uomini, piantando la nostra fede ora nella vecchia sala del Capitolo, ora nella cappella di Westminster. No: tutta la fede e la religione che sarà disciplinata e canonizzata in quella cappella, se non sarà accompagnata da una sincera convinzione e da quella carità che sgorga da un paziente insegnamento, non basterà a lenire un solo rimorso di coscienza, o a edificare il più umile cristiano che voglia servire in ispirito, – e non nella lettura e sotto l’altrui guida; e non vi basterà tutto il
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coro di voci che di colà s’innalza al cielo; no! anche se Enrico VII stesso, e tutti gli altri grandi che lì lo circondano, dovessero unire le loro voci d’oltretomba alle altre di quel coro. Ammesso, poi, che quelli che sembrano essere i principali scismatici siano in errore, che cosa c’impedisce di avvicinarli, se non la nostra stessa ignavia e la nostra ostinazione? Non è forse la nostra poca fede per la causa giusta quella che ci frena dal trattenerci con loro amichevolmente, e dal discutere insieme sovente e liberamente sui punti controversi? Dovremmo fare così, se non per il loro bene, almeno per il nostro, perché non c’è uomo, che abbia qualche esperienza negli studi, che non ammetta che si può trarre gran vantaggio dall’ascoltare quelli che, non contenti delle vecchie ricette, son capaci di mantenere ed esporre nuove vedute al mondo. E quand’anche questi innovatori non fossero che polvere e cenere dei nostri piedi, finché possono, come tali, aiutarci ad aggiungere nuovo lustro all’armatura della Verità, almeno per questo non dovremmo sprezzantemente respingerli. Guai a noi, poi, se essi dovessero essere proprio di quelli a cui Dio ha concesso ampie ed eminenti doti per uso speciale di questi nostri tempi – doti che forse non hanno né i nostri Preti né i nostri Farisei; perché in tal caso, se, nella fretta d’un inconsiderato zelo, dovessimo decidere di chiuder loro la bocca, senza far distinzioni, solo perché abbiam paura ch’essi avanzino nuove e pericolose opinioni – condannandoli così anticipatamente, com’è il nostro solito, prima ancora d’averli compresi – noi commetteremmo allora un errore fatale, palesandoci dei persecutori nel momento stesso in cui ci crediamo dei difensori del Vangelo.
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HENRY ROBINSON, Libertà di coscienza ovvero il solo modo di ottenere pace e verità (1643) Il problema se la religione sia la causa effettiva, o solo pretesa, di molte guerre all’interno del mondo cristiano, si riduce a nulla dinanzi a quello di cui devo ora trattare, e che consiste nel dimostrare, con l’aiuto di Dio, che nessun uomo può essere perseguitato per motivi che hanno a che fare con scelte della sua coscienza. Ciò risulterà dal contrasto con i princípi esposti in numerosi passi della Sacra Scrittura, che, una volta accettati e messi in pratica, apriranno la strada al cammino del Vangelo e porranno fine alle rivalità e ai timori che tormentano principi, nazioni, popoli, allorché credono, o anche solo paventano, di scorgere qualcosa che faccia correre pericoli alla loro religione. Quello che proponiamo è perciò il modo più sicuro di portare tutte le nazioni cristiane alla pace e all’amicizia tra di loro. San Paolo afferma: «Siete stati riscattati mediante il pagamento di un prezzo, non siate dunque servi degli uomini»11; questa frase deve essere applicata a ciò che riguarda le cose o di questo mondo o di quello futuro, si riferisce alla sottomissione dell’uomo in campo politico, o alla sottomissione dell’anima in campo spirituale; ma non può riguardare problemi materiali, o di questo mondo, in quanto contraddirebbe altri passi della Scrittura che impongono «di essere sottoposti al potere, i servi al loro padrone, le mogli ai mariti»12 e così via. Risulta dunque, anche per coerenza con le parole citate prima, che il significato, necessariamente, è che non possiamo essere sottoposti ad alcuna autorità in tutto quanto concerne la confessione religiosa, problemi e scelte di coscienza, la nostra anima: non dobbiamo abbracciare questa o quella religione perché ce lo impongono il re o lo stato, giacché, anche se fosse la vera religione, se la professiamo per costrizione, non ci sarà di alcun vantaggio, poiché Dio accetta soltanto un’adesione volontaria, quella cioè che manifestiamo con la nostra libera scelta, senza alcun intervento autoritario esterno. Non ha poi alcun valore l’obiezione secondo cui un uomo che venga in un primo tempo costretto ad abbracciare la vera religione senza una sua reale convinzione, in seguito giungerà ad accettarla e farla 11 12
I Cor. 6, 20. Rom. 13, 1.
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propria, tanto da non poter più consentire ad abbandonarla – la qual cosa sarà certamente ben accetta a Dio. Infatti, obbligare un uomo ad accettare qualcosa contro la sua coscienza, specialmente in ambito religioso, è un’azione cattiva che Dio proibisce, anche se compiuta a fin di bene. Perciò non possiamo pensare che un mezzo così cattivo possa produrre un effetto tanto buono, che cioè coloro che vengono costretti ad abbracciare la vera religione si rivelino in seguito credenti sinceri e convinti per merito di strumenti coercitivi illegittimi e peccaminosi. E se queste persone, dapprima costrette, perseverano nella vera religione, bisogna pensare all’intervento di qualche altro motivo, che li ha convinti della sua verità, o alla chiamata misteriosa da parte di Dio, che al momento opportuno sarebbe intervenuta per portarli a far parte del suo gregge, anche senza l’aiuto di un potere tirannico. Ciò è tanto più evidente se consideriamo quanti sono i popoli e le nazioni che vivono e muoiono osservando la religione nella quale sono nati, accettandola con una convinzione e una dedizione totali, quali che siano – e quanto diversi – i loro dogmi. Lo stesso avviene per coloro che si trovano a seguire la vera religione solo perché sono nati in essa: anche se è quella vera, e se non sarebbero disposti a cambiarla, per lo più non sanno motivare la loro fede con ragioni diverse da quelle di coloro che seguono religioni false. Essi infatti non hanno scelto tale religione a ragion veduta, dopo averla messa a prova, non perseverano in essa in base a un giudizio meditato, non hanno sottoposto le Sacre Scritture a un esame – come pure ci è prescritto. E in realtà possono ben dire «a qual fine dovremmo esaminarci – come dice san Paolo – per sapere se possediamo o no la vera fede?»13. A quale scopo «dovremmo indagare sui nostri spiriti per sapere se appartengono o no a Dio?». E perché esaminare le Scritture per vedere se la dottrina che ci viene impartita ora è identica a quella che vollero gli apostoli? Tutto ciò non presenta alcuna utilità quando non ci è permesso di professare la religione che riteniamo essere giusta, e siamo invece costretti ad abbracciare quella che lo stato ci impone, e quindi a considerarla giusta. San Paolo afferma invece: «Provate lo spirito per sapere se appartiene a Dio o no», e sostiene chiaramente che «se un uomo pensa di essere qualcosa, allora non è nulla, si è ingannato, ogni uomo esamini il proprio operato, allora avrà motivo di vanto per se stesso e non per gli altri, poiché ognuno dovrà portare il suo fardello», Galati 6, 3-5. E ai 13
II Cor. 13, 5.
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Tessalonicesi scrive, «Provate ogni cosa e ritenete solo quanto è buono», I Tessalonicesi 5, 21. Non sforzate questi testi scritturali, e non resistete a essi: in realtà è meglio abbracciare a caso una religione senza sottoporla a esame, che, dopo averne esaminata una e averla trovata anticristiana ed erronea, accettarla lo stesso. È chiaro che tutto ciò, a un attento esame, apparirà non tanto un semplice «togliere o aggiungere alla parola divina», ma un rifiuto radicale di essa, ritenerla menzogna, per così dire, e un giudizio ancora più tremendo – se fosse possibile – di quello annunciato nella rivelazione divina stessa si prepara per chi pensa in tal modo. Ma se il principe e i pari del regno mutano religione, possono essere sottoposti a persecuzione? Io non so come potranno essere protetti fino a quando rimarranno in vigore le leggi attuali, giacché, per quel che riguarda i problemi religiosi, nella misura in cui possono obbligare, esse sono quelle che hanno un potere maggiore. Ma se il re e il Parlamento dovessero revocare tutte le disposizioni già votate contro i papisti14, e votarne altre non meno severe contro i protestanti, dovremmo diventare tutti papisti? Se deve essere accettata e imposta alla coscienza di tutti la religione che è ritenuta vera dalla maggior parte dei cittadini, non vedo altra possibile conseguenza, se non quella di essere costretti a mutare religione con la stessa frequenza che ai tempi di Enrico VIII, Edoardo VI, Maria ed Elisabetta. Il mio umile desiderio è dunque che non si ritardi ulteriormente il ricorso a provvedimenti che possano impedire una simile sventura, la più grande che ci possa toccare: non basta la fiducia in coloro che attualmente governano né le certezze che possono provenirci dalla prudenza e dalla saggezza umane. Un esempio può essere fornito dai vescovi, i quali, nonostante le sofferenze che imposero a molti, nello spazio di neanche cinque anni hanno trovato tanti difensori quanti nessun tipo di governo ecclesiastico potrà mai più sperare di avere. È dunque necessario fondarsi su basi ben sicure, e far votare una legge che vieti la persecuzione religiosa: tale legge non solo sarà in perfetta armonia con la Scrittura, ma susciterà una tale approvazione da parte di tutti i cittadini, che, dopo averne provato i vantaggi, non tollereranno di esserne nuovamente privati. Una legge siffatta costituirà il fondamento più sicuro per la pace dello Stato, e farà sì che tutti i cittadini siano più facilmente disposti a riconoscere l’autorità del potere 14
I cattolici.
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civile, pronti ad affrontare rischi per difendere i loro beni, se saranno certi di poter godere della libertà di coscienza. Ma allora «non dobbiamo più essere sottomessi agli uomini»? (Cfr. I Corinzi 7, 2). Quale che ne sia il significato, dobbiamo essere sottomessi a Cristo, poiché il suo giogo è lieve. Se non possiamo vivere senza legge, come più ci aggrada, il giogo che la persecuzione impone alla coscienza è più grave di quello che qualsiasi principe o tiranno possa imporre al corpo dei suoi sudditi. Per quanto ognuno debba riconoscere l’autorità del potere civile, è pur vero che esistono gradi di sottomissione in uno Stato, per cui al cittadino si richiede maggiore o minore ubbidienza, rispetto e onore, secondo le leggi che regolano quello Stato e la posizione nella quale egli si trova. Nella maggior parte degli Stati i cittadini di tutti i ceti sociali godono di un certo grado di libertà e possono affrancarsi da una penosa situazione di servitù per mezzo delle proprie capacità e dei propri beni. La legge, invece, che pretende di imporre dettami alle coscienze, possiede un uguale potere nei confronti di tutti i cittadini, ma coloro che sentono maggiormente le esigenze della coscienza sono quelli che soffrono di più: e tuttavia finché una tale legge rimane in vigore, una coscienza retta non può liberarsene o non rispettarla. La prova di quanto sia inutile cercare di imporre agli uomini una religione che essi non vogliono, è fornita dallo scarso successo che hanno avuto le leggi che riguardano i cattolici qui in Inghilterra. Molti tra loro frequentavano sì i servizi religiosi, se sottoposti a stretta sorveglianza, ma poi si turavano le orecchie con la lana per non sentire quanto veniva detto, oppure ascoltavano con il fermo proponimento di credere a tutt’altro. Analogamente, i commercianti protestanti e i viaggiatori che si recano in Italia e in Spagna di solito vanno a messa e ai vespri per non dar nell’occhio all’inquisizione, ma poi, non potendo partecipare con convinzione ai riti che si svolgono, di proposito lasciano vagare i loro occhi alla ricerca di begli spettacoli, mentre molti – troppi – si comportano con un’eccessiva libertà, come se l’occhio non potesse peccare in un senso se lo spirito non vi consente in un altro, o, piuttosto, come se Dio potesse perdonare il peccato dell’occhio a condizione di non essere papisti nell’intimo. [...] Suppongo che nessun protestante rifiuterà di ammettere che dobbiamo cercare di convertire papisti, ebrei, turchi, pagani, eretici, infedeli e miscredenti alla sola vera fede salvifica in Gesù Cristo. Questo dovere, che è ora così poco praticato, e sul quale si riflette tanto poco, graverà un giorno pesantemente su tutti i cristiani, che non sono me-
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no obbligati a esso, ciascuno nel proprio Stato, di quanto l’apostolo fosse tenuto a predicare il vangelo a tutte le nazioni. Ma come è detto nella parabola di Marco 3, 27, «prima di poter entrare nella casa di un uomo forte bisogna legarlo», allo stesso modo, prima di convincere un turco o un papista a convertirsi alla vera religione, bisogna convincerlo degli errori che la sua contiene, per mezzo delle prove che fornisce la sacra scrittura e con l’aiuto dello Spirito Santo. Questo può essere fatto per mezzo della parola parlata o scritta, o di ambedue, come sembra meglio. In primo luogo, con la parola parlata, giacché gli apostoli comandarono esplicitamente di andare a insegnare a tutte le nazioni, il che necessariamente comporta la presenza fisica; in secondo luogo con la parola scritta, in modo che possa diffondersi maggiormente e possa essere più facilmente accolta in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni circostanza, e inoltre perché i problemi e gli argomenti complessi sono trattati meglio, e con più agio, per iscritto che a voce. Il poeta disse «Qui volet ingenio cedere rarus erit». Ma ancora più raro è trovare chi sia disposto ad ammettere di aver torto nella scelta della religione, giacché ognuno è convinto che quella che professa è la vera. Questo duello va dunque combattuto sullo stesso terreno, usando le stesse armi, una parte non deve pretendere di godere di maggior libertà di parola o di stampa dell’altra. Si potrà obiettare che la concessione di una simile tolleranza farà sì che la nazione sia ridotta in uno stato di confusione peggiore di quello di Babele. Ma io posso rispondere in questo modo: la confusione non sarà quale si immagina e si teme, per quanto essa possa sembrare a prima vista maggiore di quanto non sarà poi, allorché ciascuno farà parte con coloro che la pensano come lui. Vorrei chiedervi se non è causa di maggior confusione, tanto nei confronti di Dio che degli uomini, e di più pericolose conseguenze, il fatto che un migliaio di uomini e di donne, appartenenti a dieci religioni diverse, si raccolgano insieme ogni domenica, in chiesa, per timore della prigione, delle multe, delle confische dei beni o peggio, piuttosto che lo stesso migliaio di uomini e donne abbiano l’autorizzazione di incontrarsi tranquillamente tra loro in dieci posti diversi, secondo le loro rispettive convinzioni religiose. Si potrà obiettare che questo migliaio di uomini e donne erano buoni protestanti prima che fosse concessa loro la libertà di essere quel che preferiscono. Ma rispondo che essi non potevano in alcun modo essere buoni protestanti; al contrario, erano o ipocriti pronti ad adattarsi ai mutamenti, o persone che per caso, o, piuttosto, seguendo la religione prevalente nello Stato, si erano adattati a una pura professione formale della religione protestante; dei suoi
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fondamenti non sarebbero stati in grado di dare alcuna spiegazione, se ne fossero stati richiesti, e, per quanto avessero continuato a presentarsi come membri della vera chiesa protestante e avessero partecipato alle sue cerimonie, le loro azioni non sarebbero state per questo più accette al Signore, né loro stessi giudicati più favorevolmente il giorno del giudizio finale. In secondo luogo, se anche questa confusione fosse ancor peggiore di quanto si teme, vorrei sapere come è possibile evitarla senza incorrere in danni anche più gravi, giacché non trovo espresso chiaramente in nessun luogo – e se non è espresso chiaramente non serve a nulla – il permesso di privare l’uomo della possibilità di praticare la propria religione, il che avrebbe la conseguenza di costringerlo a peccare contro la propria coscienza: e ciò equivarrebbe a «compiere un male, affinché ne venga un bene», Romani 3, 8. Inoltre, il comando di andare a insegnare a tutte le nazioni si rivela di realizzazione impossibile, a meno che uno vada a vivere stabilmente presso di esse. Ma non si può ragionevolmente neanche immaginare che popolazioni di religione e tradizione disparate permettano a chiunque abbia idee diverse dalle loro di risiedere nella loro terra. Infatti, una volta convertito un numero rilevante di persone, si dovrebbe poi cercare, grazie alla forza ottenuta, di imporre la nuova religione con la violenza, obbligando tutti quanti ad abbracciarla. A maggior ragione è difficile pensare che siano loro a venirvi a cercare, giacché voi non permetterete certo a coloro che sono sotto la vostra autorità di professare la religione che preferiscono, che, per quanto li riguarda, non è inferiore alla vostra. E comunque, anche se potrebbero essere disposti a stare ad ascoltare (e non perché nutrano dubbi sulla loro religione, ma al contrario con la speranza di convenirvi, o per il desiderio di mostrarsi ben disposti nei vostri confronti, giacché anche voi rivelate tanto interesse per la loro salvezza) quel che direte loro sui motivi per cui dovrebbero diventare buoni protestanti, non potete aspettarvi, né tanto meno pretendere, che essi non godano di una libertà in tutto e per tutto uguale alla vostra, di esprimere il loro pensiero oralmente e per iscritto.
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JOHN BRINSLEY, Il solenne patto dei santi con il loro Dio (1644) Il popolo del Signore è costituito di persone che hanno stipulato un patto con Dio. Tali erano i membri della chiesa giudaica, e tali sono i veri membri delle chiese cristiane. Questa è una verità che non ha bisogno di dimostrazione; essa contiene tanto l’esse quanto il distinguere, in quanto fa sì che un popolo sia popolo di Dio, e lo distingue da tutti gli altri, appunto grazie al patto che ha stretto con Dio. Fu questo patto a distinguere la stirpe di Abramo e il popolo ebraico da tutti gli altri popoli del mondo, rendendolo il popolo di Dio, grazie sempre al patto tra Dio e quel popolo; il segno e il sigillo di questo patto era da loro portato nella carne, il sigillo della circoncisione, che viene perciò definito «il patto». «Il mio patto è nella vostra carne» (Genesi 17, 13): questo è il segno del patto. È lo stesso che contraddistingue la vera chiesa di Cristo e i suoi veri membri da tutti gli altri: il patto tra Dio e loro. I segni e i sigilli sono i due sacramenti del Nuovo Testamento, il Battesimo e la Cena del Signore, ambedue segni del patto, l’uno dell’entrata dell’uomo in un patto con Dio, l’altro della sua perseveranza in esso. Ma in cosa consiste il patto tra Dio e il suo popolo? Il profeta Geremia risponde con poche parole: «Questo è il patto che stipulerò con la casa di Israele ecc.» (Geremia 31, 33). «Io sarò il suo Dio ed esso sarà il mio popolo»: questo è il patto che Dio stipula, e da questo possiamo facilmente capire in che cosa consiste il patto che il popolo stringe con Dio, giacché l’uno non è che la controparte dell’altro, cioè «Egli sarà il suo Dio, ed esso sarà il suo popolo». Carattere del patto è di essere reciproco; tale è anche il patto di Dio col suo popolo, costituito dunque di due parti, quella di Dio e quella del popolo. Per quel che riguarda Dio, significa che egli sarà il Dio di quel popolo, mentre il popolo sarà considerato suo popolo. Così era il patto che Dio strinse con Abramo, «Io sarò il tuo Dio e il Dio della tua discendenza». Tale è il patto concluso da Dio con la sua chiesa e gli uomini di tutti i tempi (giacché si tratta sempre, in sostanza, di un unico e solo patto), e cioè che egli sarà il loro Dio. Che cosa vuol dire ciò? Anzi, che cosa non è? Il loro padre, il loro re, il loro salvatore, il loro liberatore, il loro tutto, un Dio assolutamente autosufficiente, quale egli è in se stesso e quale si mostrerà a tutti coloro che hanno stretto il patto con lui. «Essi saranno il suo popolo», che egli «riconoscerà come tale», «al quale mostrerà il “suo” favore»; egli perdonerà i loro peccati, curerà le loro infermità, li soccorrerà nelle loro esigenze, santificherà la
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loro natura, colmandoli di tutti i beni di cui abbisognano. In questo consiste la parte di Dio nel patto. Ma in cosa consiste la parte degli uomini? È questo il patto di cui dobbiamo trattare in modo particolare, cioè il patto per mezzo del quale il popolo di Dio si lega a lui. Ora, questo non è che un’eco, una riformulazione dell’altro. Quando i cuori degli uomini giungono a essere tanto prossimi a Dio da accettarlo per loro Dio, e da offrirsi a lui per essere il suo popolo, allora («Io sarò il tuo Dio e tu sarai il mio popolo») i loro cuori echeggiano le sue parole («Signore, tu sarai il nostro Dio e noi saremo il tuo popolo»). In questo modo viene stipulato il patto. Che cosa vuol dire che un popolo prende Dio per suo Dio? Significa che si impegna con un voto solenne, con un proponimento e con una risoluzione del cuore a considerarlo Dio, a porlo come tale nel proprio cuore e nella propria vita, prestandogli tutto l’onore che deve essere prestato a Dio, cioè amandolo sopra ogni cosa, temendolo più di ogni cosa, confidando in lui più che in qualsiasi altra cosa, prestandogli il culto che egli prescrive, procedendo al suo cospetto nello sforzo consapevole di prestargli una ubbidienza assoluta. Questo vuol dire, per un popolo, prendere Dio per il proprio Dio. [...] Suppongo che nessuno di coloro che sono qui presenti metterà in dubbio che gli esempi che sono stati portati abbiano un riscontro anche nella nostra nazione. Anzi, vi sono prove anche troppo chiare tanto delle nostre disgrazie attuali, quanto delle nostre defezioni in passato: l’una segue, di solito, all’altra, la sventura dopo la defezione, esattamente come è possibile vedere da tutti i passi che si sono prima citati. Così, noi (o, almeno, molti nostri fratelli) che viviamo in questa nazione siamo costretti a constatarlo, facendone una ben triste esperienza. La nostra defezione – e quale defezione – è ormai un fatto. Il tempio di Dio – che Dio sia benedetto – è abbandonato, le sue porte non furono chiuse; dobbiamo riconoscere che è stato sconsacrato e che le innovazioni umane ne hanno allontanato i precetti divini. Le lampade che vi ardevano o sono spente o sono ridotte a una piccola fiamma, per mancanza di olio o di materia da bruciare. Quante sono ormai le lampade che bruciano e che illuminano? Il culto di Dio si è trasformato quasi dovunque in un atto esclusivamente esteriore e noi siamo diventati anche troppo simili all’Israele di cui si parlava. Quasi dappertutto non si vede che uno skeleton15, i resti di un culto freddo ed este15
Scheletro.
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riore; il cuore della religione si è consumato e ben poco del suo potere è rimasto nel cuore e nella vita della maggior parte degli uomini. Un numero infinito di portatori di scandali si aggira dovunque, e pur costoro continuano a essere membri della chiesa. Bestemmiatori, ubriaconi, impuri, empi, che rivelano l’odio che portano alla Riforma, e pure vanno cianciando del patto di Dio – il sigillo del suo patto –, vanificando i santi precetti divini col loro ignobile comportamento. Per il resto, la maggior parte si comporta o del tutto formalmente o tiepidamente. Da nessuna parte si vede il calore, la vita, la forza della pietà. Certo, la nostra defezione e le nostre malvagità sono state enormi: e le sventure che ci hanno colto sembrano la giusta risposta. La nostra situazione attuale è molto simile a quella di Israele ai tempi del re Asa: cosa possiamo fare ora? Ma certo: uniamoci al Signore, in un patto eterno. Nessun patto fu mai più opportuno, più necessario per un popolo, di quanto non lo sia ora per l’Inghilterra. Stringiamo un patto con il Signore nostro Iddio, un patto eterno. Altri patti sono stati conclusi, ma, ahimè, sono stati tutti temporanei, limitati nel tempo, presto dimenticati. Uniamoci al Signore in un patto eterno che non possa mai essere dimenticato. Non vi è altro modo per placare l’ira che si è scatenata, che ci avvolge con il suo fumo, che brucia in mezzo a noi, per porre fine alle nostre sventure, per allontanare i mali che ci affliggono, per prevenire il giudizio che temiamo, per ottenere la misericordia di cui abbiamo urgenza, per continuare a gioire della misericordia che imploriamo, perché il nostro Dio stia in mezzo a noi. Potrete dire: è vero, ma se questo patto consistesse soltanto nell’unione con Dio potremmo sperare nel successo. Ma purtroppo vediamo bene che il patto che ci viene proposto è di tutt’altra natura, che contiene clausole impervie, oltre ad alcune difficilmente accettabili. So che si richiede ora qualche precisazione. Permettetemi di spiegarvi nel modo più rapido e più soddisfacente che mi sarà possibile, «liberare animam», cioè per scaricare le coscienze tanto vostre che mia, risolvendo gli scrupoli che si presentano come i più naturali e – secondo me – di maggior peso. Per quanto non sia l’unico elemento del patto, quello che io considero di maggior peso (e vorrei che tutti i qui presenti concordassero con me) consiste nell’unione nostra e della nostra nazione con Dio. Cos’altro significa il meraviglioso piano di una radicale riforma, una riforma personale e nazionale – personale, dei nostri cuori, delle nostre vite, delle nostre famiglie; nazionale, di tutto il regno d’Inghilterra, dei tre regni anzi? Noi promettiamo di effettuare la prima, ci impegnamo a realizzare la seconda con tutti i mezzi le-
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citi, dovunque, in ogni circostanza. E cos’è tutto ciò se non unirci a Dio per mezzo di un patto? Ammetto che si potranno trovare particolari che, a prima vista, sembreranno estranei, o fuori luogo, altri ancora puramente politici; ma a un esame più approfondito vedremo che la maggior parte, se non tutti, convergono e tendono a quell’unico grande fine (come tanti piccoli corsi d’acqua che, pur con le anse e le deviazioni che compiono, alla fine vanno tutti a finire e a riversarsi in uno stesso canale). Tutti quanti tendono direttamente o indirettamente a promuovere la tanto desiderata Riforma. Primo. A questo fine tende il primo punto del primo articolo che promettiamo di rispettare, e cioè la conservazione della religione riformata nella chiesa di Scozia contro il comune nemico. Una siffatta clausola sembra riguardare gli altri reami, ma, tuttavia, ha un immediato riferimento anche a noi, perché il loro bene riguarda anche noi, se essi godono della pace anche noi possiamo sperare nella pace, se essi sono in rovina non possiamo sperare di sopravvivere a lungo. I rapporti reciproci delle monarchie sono così stretti che con ogni probabilità cadono o resistono insieme, affondano o galleggiano insieme. Analogo è l’altro punto dello stesso articolo in cui promettiamo di ottenere la più stretta unione delle chiese dei tre regni, nonché l’unità della religione, del governo ecc. Un programma molto significativo, giacché niente potrebbe essere più efficace al fine di rafforzare il vero culto di Dio nelle tre nazioni. Secondo. A un fine analogo risponde il secondo articolo, che sollecita l’impegno a eliminare la religione papista e sradicare tutte le altre piante cattive che possono mettere in pericolo la crescita della religione. Terzo. A uno stesso fine (e altrettanto efficacemente, anche se non immediatamente) si riferisce l’impegno, di cui si parla nel terzo articolo, al reciproco aiuto nel mantenimento dei diritti e delle prerogative del Parlamento e della libertà dei tre regni, nonché alla difesa della persona di Sua Maestà e della sua autorità. Non occorre che stia a dirvi l’importanza di questi punti rispetto al fine di stabilire e conservare la vera religione. Le leggi, le libertà di cui si gode in una nazione sono il prodotto della religione di quello Stato. Se esse subiscono attentati o assalti non ci si può attendere che la religione sopravviva a lungo. Dunque, non solo è conveniente, ma necessario, che sia attribuita loro la stessa importanza che alla religione. Il re e il Parlamento sono i custodi e i difensori di tali leggi e libertà: la ragione richiede perciò che
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sia portato un rispetto del tutto particolare a coloro dai quali, dopo Dio, dipendiamo in maniera così diretta, per il nostro bene o per il nostro male. [...] Caratteristica delle leggi divine è di non degenerare mai, di non rivelarsi mai inutili, o peggio, negative per le persone alle quali erano state date, e che le osservano. Ma le leggi e le costituzioni umane possono degenerare, e quando ciò avviene non vi è motivo perché gli uomini debbano considerarsi irrimediabilmente vincolati a esse, al punto da non poter cercare di mutarle per il meglio con mezzi legittimi.
Presentazione Durante il XVI secolo l’idea di tolleranza si afferma, dapprima in Francia e poi nel resto d’Europa, come problema eminentemente politico. L’analisi dei documenti dell’epoca e dell’uso che in essi si fa di questo termine permette di rilevare che la lotta per la tolleranza nasce inizialmente come lotta politica. Solo attraverso le vicende storiche e politiche del XVII e XVIII secolo, e la riflessione filosofica che esse determinano, la tolleranza assumerà una connotazione anche di esigenza morale e individuale (su cui cfr. sezione successiva). L’uso politico del concetto di tolleranza emerge con evidenza negli scritti di quegli autori, come Michel de l’Hôpital o Jean Bodin, che appartennero al gruppo dei politiques, teorici politici, ma anche uomini politici che nella seconda metà del XVI secolo si impegnarono per riportare la pace nella Francia insanguinata e divisa dalle guerre fra cattolici e ugonotti (come venivano chiamati i calvinisti francesi). Esito dell’opera dei politiques può essere considerato l’Editto di Nantes promulgato da Enrico IV nel 1598 (su cui cfr. ultra, sez. VII, pp. 250254). L’Editto realizzava infatti l’idea del cancelliere della regina, Michel de l’Hôpital, che rivolgendosi nel 1561 agli Stati Generali aveva affermato con chiarezza la necessità di separare pienamente i due ambiti, quello politico e quello religioso. La stessa concezione si trova nel Colloquio dei sette giorni di Bodin, pubblicato nel 1593, un colloquio sulla religione che l’autore immagina avvenuto a Venezia tra un cattolico, un luterano, un calvinista, un ebreo, un musulmano, un deista e un ateo. In queste pagine Bodin afferma la necessità della formazione di una società pacificata dalle lotte fra i rappresentanti delle diverse religioni e credenze, al fine di permettere a ognuno di conservare nel cuore la fede nella propria religione. Con gli scritti dei politiques si
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può dunque parlare della nascita di una nuova idea della politica che al posto dell’unità religiosa e dell’alleanza fra trono e altare, su cui in Francia si fondava il sistema d’ancien régime, afferma la tolleranza quale necessario strumento per consolidare e stabilizzare il potere sovrano. La medesima questione, la distinzione tra potere ecclesiastico e potere secolare, presente anche nel capitolo XLII del Leviatano di Hobbes, ritorna nella prima metà del XVIII secolo negli scritti di CharlesLouis de Montesquieu. Nelle pagine che seguono si presentano alcuni brani tratti dalle Lettere persiane, il romanzo filosofico epistolare del 1721, e dall’opera maggiore di Montesquieu, Lo spirito delle leggi (1748), opere nelle quali Montesquieu riconosce la necessità della tolleranza a partire da un’analisi della religione intesa come uno degli elementi determinanti il corso dell’evoluzione storica degli ordinamenti politici. La tolleranza appare interesse del principe, poiché la coesistenza del pluralismo delle sette religiose aumenta l’utilità sociale della religione nel suo complesso. Presente nella teoria montesquiviana della tolleranza è, inoltre, l’elemento del latitudinarismo, che deriva al pensiero moderno (lo si riconosce, per esempio, già in Bodin e, poi, in Locke e in Voltaire) da Ockham e si ritrova nella Novella dei tre anelli del Decamerone (giornata I, novella III) di Boccaccio, novella che verrà ripresa da Lessing nel dramma teatrale Nathan il Saggio (1779), di cui qui si presentano alcune scene. In quest’opera, sottoposta al divieto della censura, intento principale di Lessing è dimostrare l’umanità di tutti gli uomini al di là delle diverse fedi, ceti e nazioni. Nel quadro di un conflitto privato, il delicato rapporto tra un padre, l’ebreo Nathan, e la figlia adottiva, Recha, di nascita cristiana, nucleo centrale del dramma è la parabola dell’anello: si narra di un re che in punto di morte lascia un anello a ognuno dei suoi tre figli, assicurando a ciascuno che egli sarà l’unico erede del prezioso bene. Dopo la morte del padre, poiché ognuno rivendica di essere il reale possessore dell’unico anello, i tre figli combattono l’uno contro l’altro credendo ciascuno che gli altri due siano dei falsari, finché non riconoscono la comune origine dal medesimo padre di tutti e tre gli anelli. Nella rappresentazione teatrale, gli anelli sono raffigurazione delle tre religioni monoteistiche (cristianesimo, ebraismo, islamismo) e l’intento di Lessing è quello di dimostrare, in nome dei principi della tolleranza e della fratellanza universali, l’assurdità della lotta intollerante che le religioni conducono l’una contro l’altra e la necessità, teorica oltre che storica, che si giunga ad un reciproco riconoscimento delle religioni come espressioni ugualmente legittime di una sola volontà divina.
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MICHEL DE L’HÔPITAL, Discorso pronunciato il 26 agosto 1561 all’assemblea degli stati generali riuniti a Saint-Germain-en-Laye Signori, l’inizio della diversità di religione si colloca nell’anno 1517 o 1518, in un periodo, dal tempo delle crociate, più corrotto di quanto mai fosse stato nel passato; e Dio, non volendo abbandonarci, bussò alla porta per invitarci ad una correzione. La quale non essendo venuta, la diversità di religione è cresciuta di tempo in tempo e di regno in regno fino ad oggi, malgrado le sia stata opposta resistenza col fuoco o con la spada; ma queste non sono armi da dover usare in tali circostanze: piuttosto si deve procedere con l’emendare la condotta, con la residenza e la predicazione, e con la sollecitudine dei curati sul loro gregge. E perciò, Dio non essendo soddisfatto né placato, non ci si deve meravigliare se le cose vanno di male in peggio: considerato che nei confronti delle antiche eresie i gravi, degni e virtuosi vescovi hanno resistito più che hanno potuto e ai nostri giorni si vede quanta differenza vi sia tra questi e coloro che occupano i loro posti, dal momento che ciascuno vuole compiacersi del suo peccato e non lasciarsi indurre ad una sola correzione e riforma di vita. Quelli della nuova religione hanno preso maggior ardire di manifestarsi di quanto non avessero fatto prima, dall’inizio del regno del Re presente, a causa della sua tenera età. Cosa che Dio ha permesso per travagliarci sempre più, poiché non abbiamo fatto nulla di ciò che Egli vuole da noi per nostra correzione; correzione alla quale ci deve condurre tutto ciò che vediamo di calamità e divisioni, se non siamo del tutto accecati. Coloro che consigliano al Re di schierarsi da una sola parte, fanno come se gli dicessero di prendere le armi per far combattere le membra dalle membra, per la rovina del corpo; e vorrei proprio sapere quali sono i capitani, i soldati, gli uomini di guerra che si vorrebbe impiegare per una tale esecuzione, e quale sicurezza di riuscita ci si potrebbe attendere. Oltre che non c’è persona la quale non ammetta che la vittoria non potrebbe essere se non dannosa, qualunque delle parti essa dovesse favorire. Colui che è imparziale tra le due fazioni, comportandosi senza passione è quello che si propone e segue il cammino migliore ed è quello che non impedisce che si puniscano i malfattori. Signori, il Re nostro sovrano signore vi ha fatto chiamare per avere il vostro consiglio e parere sui disordini e divisioni che si manifestano in
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MICHEL DE L’HÔPITAL, Discorso pronunciato il 26 agosto 1561 all’assemblea degli stati generali riuniti a Saint-Germain-en-Laye Signori, l’inizio della diversità di religione si colloca nell’anno 1517 o 1518, in un periodo, dal tempo delle crociate, più corrotto di quanto mai fosse stato nel passato; e Dio, non volendo abbandonarci, bussò alla porta per invitarci ad una correzione. La quale non essendo venuta, la diversità di religione è cresciuta di tempo in tempo e di regno in regno fino ad oggi, malgrado le sia stata opposta resistenza col fuoco o con la spada; ma queste non sono armi da dover usare in tali circostanze: piuttosto si deve procedere con l’emendare la condotta, con la residenza e la predicazione, e con la sollecitudine dei curati sul loro gregge. E perciò, Dio non essendo soddisfatto né placato, non ci si deve meravigliare se le cose vanno di male in peggio: considerato che nei confronti delle antiche eresie i gravi, degni e virtuosi vescovi hanno resistito più che hanno potuto e ai nostri giorni si vede quanta differenza vi sia tra questi e coloro che occupano i loro posti, dal momento che ciascuno vuole compiacersi del suo peccato e non lasciarsi indurre ad una sola correzione e riforma di vita. Quelli della nuova religione hanno preso maggior ardire di manifestarsi di quanto non avessero fatto prima, dall’inizio del regno del Re presente, a causa della sua tenera età. Cosa che Dio ha permesso per travagliarci sempre più, poiché non abbiamo fatto nulla di ciò che Egli vuole da noi per nostra correzione; correzione alla quale ci deve condurre tutto ciò che vediamo di calamità e divisioni, se non siamo del tutto accecati. Coloro che consigliano al Re di schierarsi da una sola parte, fanno come se gli dicessero di prendere le armi per far combattere le membra dalle membra, per la rovina del corpo; e vorrei proprio sapere quali sono i capitani, i soldati, gli uomini di guerra che si vorrebbe impiegare per una tale esecuzione, e quale sicurezza di riuscita ci si potrebbe attendere. Oltre che non c’è persona la quale non ammetta che la vittoria non potrebbe essere se non dannosa, qualunque delle parti essa dovesse favorire. Colui che è imparziale tra le due fazioni, comportandosi senza passione è quello che si propone e segue il cammino migliore ed è quello che non impedisce che si puniscano i malfattori. Signori, il Re nostro sovrano signore vi ha fatto chiamare per avere il vostro consiglio e parere sui disordini e divisioni che si manifestano in
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questo regno e che vi sono molto ben noti. Dio vi faccia la grazia di dargli consiglio non secondo la prudenza umana, ma secondo la saggezza di Dio, perché è scritto: dissipat Deus consilia gentium, vale a dire che Egli sconvolge il consiglio di coloro che non sono guidati e condotti dal Suo timore e dalla Sua verità, ma soprattutto portati dal discorso di ragione umana. Dio faccia anche la grazia al Re di poter sapere scegliere ciò che sarà per il meglio, dal momento che Deus iudicium regi dat. Il Re vi ha scelti da tutte le sue Corti di parlamento e potete dire che siete stati eletti tra gli eletti; provvedete a corrispondere all’aspettativa che il Re ha riposto in voi, al grado che avete e alla dignità di questa assemblea, ispirando i vostri pareri alla parola di Dio, e a ratificarli saggiandoli con la reverenza dovuta a Nostro Signore Gesù Cristo. Altrimenti non offenderete solamente il Re, ma anche voi, signori, dal momento che malum consilium est consultori pessimum. Ora, per venire in argomento, vi parlerò del passato – il presente lo conoscete – e prendendo le mosse da lì potrete meglio deliberare per provvedere all’avvenire. Voi siete a conoscenza delle discordie che agitano tutti, di ogni sesso, uomini e donne, giovani e vecchi, nobili e plebei, ricchi e poveri, e non solo in ogni luogo del regno, ma anche in una stessa città, in una stessa casa, in uno stesso letto. [...] Sappiamo che quando cominciò questa controversia – correva l’anno millecinquecentodiciassette o diciotto – si era in un periodo più corrotto e depravato che fosse possibile: Roma piena di vizi, questo regno sotto un Re giovane1, il quale poi è stato un grandissimo principe, e tutti i diletti e i piaceri. Il Re Enrico d’Inghilterra2, allora nella sua prima giovinezza, non si comportava meglio. Tuttavia, invece di correggerci e castigarci ci siamo sempre più ostinati, e così abbiamo visto che questa controversia della religione si è sempre accresciuta; perché, essendo iniziata al tempo del Re Francesco tra un piccolo numero di persone, come Barquin ed altri, è aumentata al tempo del Re Enrico e si è ulteriormente accresciuta al tempo dell’ultimo Re Francesco, e attualmente si è tanto avanzata che di più non è possibile. So bene che mi si dirà che la condiscendenza di cui si fa uso ne è la causa. Veramente ai nostri giorni, per la giovinezza del nostro Re, molti che si celerebbero e si manterrebbero nascosti sono più pronti a 1 2
Francesco I. È Enrico VIII.
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manifestarsi; ma Dio, che ha permesso queste divisioni, a nostro castigo ha imposto un fanciullo per nostro Re. Ci sono di quelli che dicono che il Re dovrebbe render palese di essere da una parte o dall’altra, e che in tal modo si potrebbe comporre la divisione; ciò è quanto dire, a mio giudizio, che il Re, essendosi dichiarato per una parte, dovrebbe riunire un esercito per distruggere l’altra: cosa che è ripugnante non solo al nome di cristiani, che noi portiamo, ma alla stessa umanità. Di più: cosa possiamo prevedere dell’esito della vittoria, che è nelle mani di Dio? E ancora, con quali uomini di guerra formeremo il nostro esercito? Quelli che crederemo essere dalla nostra parte, tanto capitani che soldati, saranno forse del partito contrario. E ancorché fossero della nostra stessa religione, non so come li si potrebbe far combattere quando vedranno dall’altra parte o i loro padri, o i loro figli, o i loro fratelli, o le loro mogli, o i loro parenti più prossimi. E inoltre la vittoria, di qualunque parte fosse, non potrebbe essere che dannosa tanto ai vincitori che ai vinti, così come se le parti del corpo si distruggessero l’un l’altra. In ipotesi ciò potrebbe aver luogo in una repubblica; ma in un regno, che consiste nell’obbedienza ad uno solo, non possiamo tollerare queste parzialità. Non è dunque il lenitivo quello che cerchiamo: ma è necessario emendare le nostre vite e cercare di soddisfare a Dio. Guardiamo come e con quali personaggi Dio ha difeso la Sua Chiesa contro le antiche eresie ariane e altre; troveremo che ciò è avvenuto con un sant’Ambrogio, con un san Crisostomo, con un sant’Ilario, e paragonando costoro con i vescovi del nostro tempo comprenderemo quanto la nostra Chiesa sia mal difesa. Non ignoro che mi si opporrà che voglio di nuovo mettere in discussione ciò che è stato già proposto e deciso tanto nell’assemblea dei vescovi fatta a Poissy, che nel parere della ‘Corte di parlamento nella quale erano il Re di Navarra, principi e altri. A questo rispondo che non voglio discutere sulle controversie religiose, il giudizio relativo alle quali spetta ai detti ecclesiastici ed è stato trattato a Poissy; ma solamente su ciò che riguarda la police, per mantenere il popolo in riposo e tranquillità. Quanto all’editto fatto in conformità del parere della Corte di parlamento di Parigi3, bisogna tener presente che vi sono due generi di
3 L’Editto del 13 luglio 1561 che dichiarava illecito esercitare in Francia la religione riformata.
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leggi. Alle une non si può derogare senza andare contro gli ordinamenti di Dio: e queste restano inviolabili, altrimenti sarebbe come relegare Dio in disparte per un certo tempo e non si sa se Egli vorrebbe tornare quando lo si ricercasse. Tutti gli Stati e le repubbliche sono mantenute e conservate dall’osservanza delle leggi: il disprezzo e la violazione di esse porta alla rovina gli Stati stessi. I quali si perdono o tutto di un colpo, o a poco a poco, in un lungo periodo. Tutto di un colpo si è perduto il regno di Ungheria per l’invasione del Turco; a poco a poco gli Stati si rovinano quando si disprezza oggi una legge, domani un’altra: di modo che, alla fine, lo Stato si trova senza leggi, che ne costituiscono il fondamento. E come quando si toglie ora una tegola, ora un’altra, alla fine la casa rovina; così il continuato disprezzo della legge comporta eversione dello Stato. Esistono delle altre leggi le quali sono per così dire indifferenti e dipendono dalla grazia e dal benvolere del principe: queste possono essere disapplicate senza pericolo. D’altronde sovente le leggi si abrogano con un tacito consenso, come questa che è stata [concordemente] respinta, sicché mai è stata applicata. Di più: affermo che in sé essa era giusta e ragionevole, ma l’esperienza ha mostrato che era impossibile. E a questo punto discolperei i giudici di quanto prima avevo loro addebitato. Non si deve considerare soltanto se la legge è giusta in sé, ma se è adeguata ai tempi e agli uomini per i quali è fatta. Mi ricordo che Cicerone rimproverava a Catone che, vivendo in un’età così corrotta, era tuttavia nelle sue opinioni così retto e rigido quasi fosse vissuto nella Repubblica di Platone. Bisogna sempre preoccuparsi che la legge sia proporzionata alle persone come la scarpa al piede. Parimenti questo editto in sé è buono, ma l’esperienza ha mostrato che era impossibile. Come le navi che Demetrio aveva fatte costruire: erano belle a vedersi e si accorreva ad ammirarle, ma erano poco adatte alla navigazione. Qualcuno insinuerà che si è messa in deliberazione più volte una stessa cosa per ottenere, alla fine, ciò che si desiderava; ma non’è così. Anzi, come il malato cerca tutti i tipi di rimedio per ovviare ai propri mali, chiarisco questo perché molti mi potrebbero calunniare, come fanno. Risponderò loro come rispose un buon vescovo (del cui nome non mi sovviene) che come me aveva i capelli e la barba bianchi, ad alcuni che parlavano male di lui: egli disse, toccandosi la barba: cum haec liquefacta fuerit, lutum fiet; vale a dire che quando essi avessero cambiato, avrebbero avuto forse di peggio.
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E non pensiamo che sia difficile trovar rimedio: oserei dire che mai siamo stati in migliore congiuntura. Grazie a Dio, siamo in pace con i nostri vicini, e abbiamo Dio accanto a noi: perché Egli si avvicina a chi è afflitto e, travagliandoci così, mostra di aver cura della nostra salvezza. Quante persone pensate che dopo questi disordini si sono emendate e corrette della loro cattiva condotta? Io ne conosco parecchie. Ci sono ecclesiastici i quali, udendo che ci si lamentava delle loro grandi ricchezze, hanno compreso il pericolo in cui si trovavano; o udendo che ci si lamentava della loro condotta, hanno lasciato le loro concubine, come è scritto: Dedit eos Deus in derisionem gentium, ut converterentur et salvi fiant. A causa di ciò il Re vuole che gli diate parere sul punto che egli permetta o no le assemblee. Il Re non vuole affatto che voi discutiate su quale opinione è la migliore: perché qui non è questione de constituenda religione, sed de constituenda republica; e molti possono essere cives, qui non erunt christiani: anche lo scomunicato non cessa di essere cittadino. E si può vivere in pace con quelli che sono di opinioni diverse, come vediamo avvenire in una famiglia nella quale quelli che appartengono alla religione dei Cattolici non smettono di vivere in pace e amare quelli della nuova religione: si dice infatti che vitia uxoris aut sunt tollenda, aut toleranda. Se c’è anche qualche cosa di particolare che riguarda le province alle quali appartenete, potete sottoporla al Re, ed esporre ogni altro modo che ritenete idoneo a portar quiete nella religione. Ma, considerando gli affari del Re che è impegnato altrove, vi prego, signori, di non dire nulla che non sia a proposito, e procurare di dire bene piuttosto che a lungo e con eleganza.
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JEAN BODIN, Colloquio di sette saggi sui misteri delle cose sublimi (1593) [Venezia asilo di libertà] AN.T. Ciò che mi chiedi nella tua lettera, cioè di darti notizie del mio viaggio, sarebbe già avvenuto, secondo il desiderio del mio animo, se avessi potuto abbracciarti, e non avrei tollerato, allora, di essere più allontanato da te. Dopo una difficile navigazione abbiamo percorso le rive del mare Adriatico e siamo arrivati a Venezia, porto comune di quasi tutte le genti, o per meglio dire di tutto il mondo, non solo perché i Veneziani vedono e danno volentieri ospitalità agli stranieri, ma perché vi si può vivere con la massima libertà. Mentre le altre città e paesi sono afflitti da guerre civili, dalla paura di tiranni, da pesanti gabelle, da moleste inquisizioni sugli studi, questa città, mi pare, è la sola ad essere immune e libera da questo tipo di schiavitù. Perciò vi confluiscono da tutte le parti coloro che hanno scelto di condurre una vita libera e pacifica, sia che si dedichino al commercio, o all’artigianato o a quelle attività intellettuali degne di un uomo libero. Mentre andavo cercando uomini letterati e virtuosi, ho avuto la fortuna di incontrare Paolo Coroneo, il quale andava studiando in ogni angolo della città i monumenti letterari e antiquari e si era legato in maniera strettissima con uomini di grande sapere, tanto che la sua casa poteva essere considerata un sacrario delle Muse e delle virtù. Essendo di corpo esile e piuttosto debole, né potendo perciò affrontare il mare agitato e i lunghi viaggi, per conoscere lingue, studi, ingegni, costumi e virtù dei vari popoli, di cui aveva grande desiderio, aveva accolto nella sua casa gli stranieri Federico Podamico, Gerolamo Senamo, Diego Toralba, Antonio Curzio, Salomone Barcassio, Ottavio Fagnola4, i quali, benché fossero espertissimi in tutte le buone arti, era tuttavia ciascuno superiore agli altri in una scienza particolare. Abitando insieme nella casa di Coroneo, riuscivano facilmente ad ottenere notizie su quanto di nuovo e di interessante fosse accaduto in quasi tutte le parti del mondo, attraverso le lettere di amici che si trovavano a Roma, Costantinopoli, Augusta, Siviglia, Anversa, Parigi. Non avevano solo in comune 4
Sono tutti rappresentanti di religioni diverse.
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la civiltà del linguaggio e delle abitudini, ma anche una tale innocenza ed integrità di vita che ciascuno rassomigliava agli altri come a se stesso. Non essendo animati da alcuno spirito di controversia né desiderio di prevalere, ma solo dalla ricerca del sapere, dedicavano tutti i loro studi e i loro pensieri alla verità e all’onore. [...] Federico: Spesso mi chiedo come sia potuta esistere una concordia civile, in presenza di tanta varietà di sette, quanta ne ricordano Epifanie e Tertulliano, cioè più di 120 (benché Temistio parli di più di 250), dal momento che nel nostro tempo la sola diversità tra due confessioni cristiane ha prodotto tante guerre e rovine di stati. Curzio: Non c’è nulla di più pericoloso in uno stato che la divisione dei cittadini in due fazioni, sia che il conflitto riguardi le leggi, o le cariche, o la religione, ma se le fazioni sono molte non c’è da temere la guerra civile, perché, quasi interponendosi voci intermedie, si conserva uno stabile concerto e armonia civile. Toralba: La ragione di ciò può essere egregiamente desunta dalle modulazioni musicali. Quella naturale è più sottile, poiché per natura solo una cosa e non molte può essere contraria ad un’altra. Ottavio: Per questo, credo, i re dei Turchi e dei Persiani ammettono nei loro stati ogni genere di religione e riconciliano in ammirevole concordia i cittadini di diverse opinioni religiose tra di loro e con lo stato. Federico: Per i grandi stati credo che non vi sia nulla di più desiderabile della unità dei cittadini negli stessi riti e nel culto di uno stesso Dio. La cosa più lodevole che fece Arato fu quella di abituare la società Achea, che era composta di più di trecento città, alle stesse leggi, istituzioni, religioni, allo stesso culto, alla stessa giurisdizione, agli stessi pesi e misure, per cui non restava altro che cingerla con le stesse mura. Questo è, credo, lo stabile fondamento dell’amicizia, che Tullio ripose nel generale consenso sulle cose umane e divine. Ottavio: Come sarebbe stato possibile, Federico, che potessero convenire in una sola religione gli Achei che veneravano 36.000 dèi? Come potevano andare d’accordo i Baccanali e i misteri Eleusini? Coroneo: Non possiamo sperare che vi sia l’unione tra i cittadini, un consenso universale dei mortali sulle cose divine, una sola vera religione, ma piuttosto desiderarlo e pregarne Dio immortale. [...] Curzio: Mi sembra che la verità di una religione si debba provare per mezzo dell’autorità della chiesa, della verità della Sacra Scrittura, dell’antichità, dei messaggi divini, dei miracoli e dell’evidenza della ragione. Salomone: Rabbi Mosè Rambam [Maimonide] ridusse a tre i
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motivi di fede, cioè dimostrazione, senso e profezie: il restante, dice, può essere oggetto di fede, ma non necessariamente. Senamo: Se si crede agli oracoli, c’è un antico oracolo di Apollo, il quale, richiesto quale fosse, tra tante, la migliore religione, rispose con una sola parola: la più antica. E interrogato ancora su quale fosse la più antica, rispose: la migliore. Toralba: Io sono convinto, anche senza la testimonianza degli oracoli, che la migliore religione sia quella più antica. L’antichità merita tanta fiducia che si può reggere con la sua sola autorità. Invece, le nuove religioni, i nuovi sacrifici, i nuovi sacramenti, i nuovi riti, le nuove leggi, i nuovi progetti, le nuove chiese, i nuovi decreti, i nuovi costumi hanno rovesciato dalle fondamenta fiorentissimi stati. Coroneo: È questo il giudizio severo che si può dare per la Chiesa cattolica romana contro i riformatori religiosi. Tuttavia vediamo di stabilire, se volete, quale sia la religione più antica; vedremo così anche quale sia la migliore: conosciuta una cosa si saprà anche l’altra. [...] Toralba: Se la vera religione consiste nel puro culto di Dio eterno, ritengo che la legge di natura basti alla salvezza dell’uomo. Gli antichi principi e padri del genere umano, che lasciarono ai posteri la memoria di un’età dell’oro, non ebbero una religione diversa. Essi non erano ammaestrati, ma plasmati, non istruiti, ma ispirati dalla stessa natura, da cui attinsero ed espressero le sorgenti della pietà, della religione, dell’integrità e di tutte le virtù. Ciò è provato dal parere di tutti i filosofi, e confermato dagli oracoli, se si può credere agli oracoli. Infatti a Tullio che chiedeva quale indirizzo di vita dovesse seguire fu risposto: occorre seguire la natura. E Paolo, scrivendo ai Romani, dice la stessa cosa non in maniera oscura ed ambigua, ma chiaramente: i popoli che sono senza Legge, vivono legittimamente secondo la natura, e benché non abbiano le tavole delle leggi, portano con sé norme sigillate nelle loro menti e rispondono alla propria coscienza. Con queste parole egli insegna che alla salvezza degli uomini basta la retta ragione e la legge di natura. Stando cosi le cose, che bisogno c’era di tanti riti cui sono costretti gli Ebrei, i Cristiani, gli Arabi, i Pagani? Sono certo che questa è la religione più antica e migliore di tutte. Dopo questo breve intervento di Toralba ci fu silenzio e nessuno manifestava il proprio parere sulle religioni, tranne Salomone, il quale, forte dell’autorità di cui godeva presso tutti, ruppe il silenzio dicendo: Sono d’accordo con te, Toralba, che tutto ciò che è necessario alla salvezza è già compreso nelle leggi di natura. Secondo queste leggi hanno vissuto Abele, Enoc, Noè, Abramo, Giobbe, Isacco, Giacobbe: uomini che per testimonianza dello stesso Dio immortale, di cui non vi può es-
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sere nulla di più alto e più certo, ebbero il massimo merito della pietà e dell’integrità. Neppure la circoncisione, che fu data ad Abramo e alla sua posterità come segno del patto, è necessaria alla salvezza, ma è solo un mezzo voluto da Dio per distinguerci e separarci dagli altri popoli. Dio stesso ha voluto indicare questa legge di natura dicendo: saranno benedette tutte le genti nel seme di Abramo, se obbediranno alla mia voce e non violeranno i miei comandamenti e le mie leggi. Mosè non emanò nessuna legge se non dopo 430 anni. Con la rovina del Tempio e la caduta dello stato ebraico le vecchie norme rituali e giudiziarie sono cadute in desuetudine. Infatti ci sarebbe proibito espressamente di ammazzare il bestiame se non nel luogo preciso da Dio designato. Oggi pratichiamo solo il Decalogo, la circoncisione e il rito pasquale dell’agnello a memoria eterna dei benefici ricevuti. Sono però convinto che nessuna religione può sussistere senza riti e cerimonie, e credo che un segreto della lunga durata della religione cattolica risieda nel numero e nella varietà dei riti e delle cerimonie, nella dolcezza dei canti e del suono degli organi, nella pompa delle vesti e delle suppellettili sacre, che tengono il popolo come sospeso dinanzi ad un mirabile spettacolo. [...] A questo punto Senamo, che aveva esitato alquanto, propose di parlare e disse: Tutte le religioni di tutti gli uomini, sia quella naturale che abbraccia Toralba, sia quella di Giove o degli dèi pagani che gli Indi orientali e i Tartari adorano, sia quelle di Mosè, di Cristo o di Maometto, quando sono osservate secondo i loro riti con mente pura e non per affettata simulazione non sono sgradite a Dio e confido che Egli giustifichi i loro errori, benché quella a Lui più grata sia certo la migliore. Per questo ho sempre frequentato volentieri templi, santuari, sacelli in ogni parte della terra, sia per non essere giudicato ateo e dare così il cattivo esempio, sia per incutere negli altri il timore dell’Essere divino. Confido che questa mia intenzione possa essere approvata da tutti i buoni, tanto per le cose sopra dette, quanto e soprattutto perché mi sembra che sia sempre Dio eterno, dispensatore dei premi, a distribuire tra i popoli più religiosi, per quanto immersi nella credenza dei loro dèi d’argilla, virtù, potenza, dominio, ricchezze. Quei popoli, invece, che hanno abbandonato il culto della propria religione, dei propri dèi anche inutili, ai quali comunque attribuivano una natura divina, sempre sono stati afflitti da guerre, malattie straordinarie, carestie, scarsità di bestiame e guerre civili, e ciò è provato dal consenso di tutti gli storici. Toralba: Se la vera religione è naturale ed è evidente per ragioni dimostrative, come ammettono sia Ottavio sia Salomone, che bisogno c’è di Giove, di Cristo, di Maometto, degli dèi mortali,
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dei feticci? Meglio di tutti i teologi è stato Giobbe a mostrare la maestà, la potenza, la bontà, la sapienza, gli ammirevoli giudizi e infine la cura di Dio verso tutte le cose. Chi ha meglio spiegato allegoricamente tanti misteri delle cose umane e divine? Chi, tra i mortali, ha adorato l’eterno Dio con più puro spirito? Arabs, che fu più antico di Mosè, visse secondo la legge di natura, la legge di Abele: e Dio, che è il giudice più equo dell’integrità e della pietà, dette a lui quanto a nessun altro mortale la lode della giustizia, della religione, della purezza. Egli non sperava né profetizzava la venuta di Cristo, che sarebbe nato dopo duemila anni, e tanto meno quella di Maometto. Comprendendo, invece, la mirabile grandezza, altezza e rapidità del sole e delle stelle disse: sarei perduto se guardando Io splendore e la bellezza del sole e delle stelle fossi caduto in loro adorazione, poiché sarebbe stata colpa mortale aver rinnegato l’Eccelso. [...] Senamo: Io non voglio né affermare né negare con leggerezza quanto è oggetto di controversia tra i teologi, e ritengo sia meglio seguire il detto di Paolo: mi sono fatto Giudeo tra i Giudei, Gentile fra i Gentili, sono stato come senza legge tra coloro che non hanno la legge. Mi sono fatto tutto con tutti per guadagnare tutti. Perciò ho sempre apprezzato moltissimo la concordia dei cittadini di Gerusalemme, dove vi sono otto sette cristiane (Latini, Greci, Giacobiti, Armeni, Gregoriani, Copti, Abissini, Nestoriani) e in più gli Ebrei e i Maomettani, e ciascuna setta celebra i propri riti e cerimonie distinti e separati in ciascun luogo sacro e per universale consenso serbano la pubblica tranquillità. Io entro nei templi dei Cristiani, dei Maomettani e degli Ebrei, dove mi è consentito, e anche in quelli dei Luterani e degli Zwingliani, per non recare offesa a nessuno, come se fossi ateo, né turbare l’ordine dello stato. Ritengo che tutto sia accetto al grande principe degli dèi. Niente vieta che indirizziamo preghiere comuni al comune autore e padre di tutta la natura, affinché ci conduca tutti alla conoscenza della vera religione. [...] Salomone: Non c’è cosa più grave che irridere alla religiosità che abbia radici profonde: da ciò nascono tremendi mutamenti e rovine degli stati, che sarebbe troppo lungo ricordare. Faccio un esempio per molti: mentre nella città di Gerusalemme gli Ebrei celebravano un rito sacro in un giorno festivo, un soldato del presidio si scoprì le terga nel tempio e profanò con parole ingiuriose il santissimo rito. Il popolo lo condusse a morte, ma non prima che circa ventimila uomini fossero uccisi. La maggioranza dei principi simula empiamente la devozione religiosa
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per rapinare i beni degli innocenti, come Ludovico re d’Ungheria, Dagoberto e Filippo Augusto re di Francia, Ferdinando d’Aragona, che proscrissero gli Ebrei accusandoli falsamente e dove mancò loro il pretesto per calunniarli, impiegarono apertamente la violenza. A Cracovia, ricordano i padri, tutti gli Ebrei furono uccisi, tranne i bambini, che furono educati nella religione cristiana; le case degli uccisi furono incendiate e in quest’incendio arse tutta Cracovia. Ottavio: Ferdinando d’Aragona, con l’iniquo pretesto della devozione, ma in realtà per inestinguibile sete di denaro, dopo aver espulso gli Ebrei, e aver spogliato quelli che si erano fatti battezzare per timore di perdere i propri beni come simulatori, costrinse i Mori di Granata, di religione islamica, a rinnegare Maometto. Ma non ci riuscì se non dopo aver costretto al battesimo, con il carcere e la tortura prolungata, il capo religioso dei Mori Alsagnino. Fece anche bruciare 5.000 libri che i mussulmani consideravano sacri. Poi, cambiata la religione, fu offerta ai delatori l’occasione per proscriverli, dicendo simulavano la religione cristiana. Tutto ciò fu fatto par istigazione del cardinale Jiménez, che, quando era arcivescovo di Toledo, aveva ben ammonito, per mezzo di un decreto del concilio di Toledo, che si badasse a che nessuno fosse costretto a professare la religione cristiana contro la sua volontà. Fe-derico: La sentenza di Teodorico, imperatore dei Romani e dei Goti, è degna di essere scritta a lettere d’oro dinanzi alle porte dei principi. Essendo stato ammonito dal senato romano a ricondurre con la forza gli Ariani alla fede cattolica, così scrisse: non possiamo imporre una religione, poiché nessuno può essere costretto a credere, se non vuole. Curilo: Bene ha fatto Teodorico, ma meglio ancora l’imperatore Gioviano, che emanò un editto di unione chiamato Enotico, che spinse alla concordia Pagani, Cristiani, Ariani, Manichei, Ebrei e quasi duecento sette religiose; esortava spesso gli oratori alla moderazione, affinché non turbassero il popolo con discorsi sediziosi e mettessero in pericolo la stabilità dello stato, ma invitassero invece alla pietà, all’integrità, all’amore reciproco. Tutti approvarono e Coroneo allora mi ordinò di chiamare i fanciulli a cui porse il cantico Ecco quanto è bello e dolce che i fratelli vivano insieme, composto non secondo la volgare scala diatonica e cromatica, ma secondo la più divina modulazione armonica. Dopo aver ricevuto dal canto soavissimo diletto ed essersi abbracciati affettuosamente se ne andarono. In seguito continuarono con ammirevole accordo a coltivare la pietà e l’integrità della loro vita negli studi e nella convivenza comune, e non parlarono mai più di religione, benché ciascuno osservasse la propria con la massima santità di vita.
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CHARLES-LOUIS DE MONTESQUIEU, Lettere persiane (1721) 29. Rica a Ibben, a Smirne Il papa è il capo dei cristiani. È un vecchio idolo che viene incensato per abitudine. Una volta incuteva paura persino ai principi; li deponeva infatti così facilmente come i nostri magnifici sultani depongono i re d’Irimetto e di Georgia. Ma ora non lo si teme più. Egli si dice successore di uno dei primi cristiani, che si chiama San Pietro; ed è certo una ricca successione perché ha dei tesori immensi ed un grande paese sotto il suo dominio. I vescovi sono degli uomini di legge a lui subordinati e, sotto la sua autorità, hanno due funzioni ben distinte. Quando sono riuniti fanno, come lui, degli articoli di fede. Singolarmente non hanno altra funzione che quella di dispensare dall’adempimento della legge. Saprai infatti che la religione cristiana è oberata da un’infinità di pratiche difficilissime, e siccome si è pensato che è meno facile adempiere ai propri doveri che avere dei vescovi che ne dispensino, si è scelto quest’ultimo partito per pubblica utilità. Di modo che, se non si vuol fare il Rahmazan5, se non ci si vuol sottomettere alla formalità del matrimonio, se si vogliono rompere i voti, se ci si vuol sposare nonostante il divieto della legge, qualche volta persino se si vuol ritirare il proprio giuramento, si va dal vescovo o dal papa che dà subito la dispensa. I vescovi non fanno degli articoli di fede di loro propria iniziativa. C’è un numero infinito di dottori, in maggioranza dervisci, che tra di loro sollevano mille nuove questioni sulla religione; li si lascia discutere a lungo e la guerra dura finché una decisione viene a porvi termine. E così posso assicurarti che non vi è mai stato regno in cui ci siano state tante guerre civili come nel regno di Cristo. Quelli che tirano fuori qualche nuova proposizione dapprima sono chiamati eretici. Ogni eresia ha il suo nome che, per quelli che vi sono impegnati, è come la parola d’ordine. Ma bisogna farlo apposta per essere eretici: non c’è che da dividere il contrasto per metà e fornire una distinzione a quelli che accusano di eresia, e, qualunque sia la distinzione, intelligibile o no, essa rende un uomo bianco come la neve, ed egli può farsi chiamare ortodosso. 5
La Quaresima.
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Quel che ti dico, vale per la Francia e la Germania, perché ho sentito dire che in Spagna e in Portogallo ci sono certi dervisci che non sentono ragione e che fanno bruciare un uomo come se fosse paglia. Quando si cade tra le mani di quella gente, felice colui che ha sempre pregato Iddio con dei piccoli grani di legno6, che ha portato sempre su di sé due pezzetti di stoffa appesi a nastri e che è stato qualche volta in una provincia che si chiama Galizia! Senza questo, un povero diavolo si trova in un bell’impiccio. Quand’anche giurasse come un pagano che è ortodosso, si potrebbe non essere d’accordo sulle sue qualità e bruciarlo come eretico; avrebbe un bel fornire la sua distinzione. Nessuna distinzione: sarebbe in cenere prima che si fosse pensato di ascoltarlo. Gli altri giudici presumono che un accusato sia innocente, questi presumono sempre che sia colpevole. Nel dubbio si attengono alla regola di decidere secondo rigore: in apparenza perché credono gli uomini malvagi; ma, d’altra parte, ne hanno un’opinione così buona che non li giudicano mai capaci di mentire: infatti accolgono le testimonianze di nemici mortali, di donne di malaffare, di quelli che esercitano una professione infame. Nelle loro sentenze fanno qualche complimento a quelli che sono vestiti di una camicia di zolfo e dicono loro che sono molto spiacenti di averli vestiti così male, che essi sono dolci, che aborrono dal sangue, e che non si danno pace di averli condannati; ma per consolarli confiscano a loro profitto tutti i beni di quei disgraziati. Felice la terra che è abitata dai figli dei profeti! Questi tristi spettacoli vi sono sconosciuti. La santa religione che gli angeli vi hanno portata si difende con la sua stessa verità: non ha bisogno di questi mezzi violenti per mantenersi salda. Da Parigi, il 4 della luna di Chalval, 1712
46. Ushek a Redi, a Venezia Qui vedo della gente che discute a non più finire sulla religione, ma sembra che nello stesso tempo faccia a chi l’osserverà di meno. Non solo non sono migliori cristiani, ma nemmeno migliori cittadini; ed è ciò che mi colpisce, perché in qualsiasi religione si viva, l’os6
La corona del rosario.
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servanza delle leggi, l’amore per gli uomini, la pietà verso i genitori sono sempre i primi atti della religione. Infatti, il primo scopo di un uomo religioso non dev’essere di piacere alla divinità che ha fondato la religione che egli professa? Ma il mezzo più sicuro per riuscirvi è senza dubbio quello di osservare le regole della società e i doveri dell’umanità. Perché, in qualsiasi religione si viva, posto che se ne ammetta una, bisogna pure ammettere che Dio ama gli uomini, visto che fonda una religione per renderli felici; che, se egli ama gli uomini, si è sicuri di piacergli amandoli a nostra volta, cioè esercitando verso tutti i doveri della carità e dell’umanità e non violando le leggi sotto le quali essi vivono. Con ciò si è ben più sicuri di piacere a Dio che osservando questa o quella cerimonia: perché le cerimonie in sé non hanno alcun grado di bontà; esse non sono buone che considerando e supponendo che le abbia ordinate Dio; ma questo è argomento di grande discussione: ci si può facilmente sbagliare, perché bisogna scegliere le cerimonie di una religione fra quelle di duemila. Un uomo faceva ogni giorno a Dio questa preghiera: «Signore, io non capisco nulla delle dispute che si fanno continuamente intorno a voi; vorrei servirvi secondo la vostra volontà; ma tutti quelli cui chiedo consiglio vogliono che vi serva secondo la loro. Quando vi faccio la mia preghiera non so in che lingua vi devo parlare. Non so neanche in che posizione devo mettermi; uno dice che vi devo pregare in piedi; un altro vuole che stia seduto; un altro ancora che il mio corpo poggi sulle ginocchia. Non basta: c’è chi pretende che ogni mattina mi devo lavare con l’acqua fredda; altri sostengono che voi mi guardate inorridendo se non mi faccio tagliare un piccolo pezzo di carne. L’altro giorno in una trattoria mi capitò di mangiare del coniglio: tre uomini che erano lì vicino mi fecero tremare: tutti e tre mi sostennero che vi avevo offeso gravemente; uno perché quell’animale è impuro; l’altro perché era stato strangolato; l’altro infine perché non era un pesce. Un bramino che passava di là e che io presi per giudice, mi disse: ‘Hanno torto, perché pare che non siate stato voi ad uccidere quest’animale’. ‘Sì’, io, gli dissi. ‘Ah, avete commesso un’azione abominevole, e che Dio non vi perdonerà mai’, mi disse con voce severa: ‘che ne sapete se l’anima di vostro padre non era passata in questa bestia?’. Tutto ciò, signore, mi getta in un incredibile imbarazzo; non posso muovere il capo senza che mi facciano temere di offendervi; tuttavia vorrei piacervi e dedicare a questo la vita che mi avete donata voi. Non so se mi sbaglio, ma credo che il miglior modo per riuscirvi è di vivere da buon
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cittadino nella società in cui mi avete fatto nascere, e da buon padre nella famiglia che mi avete data». Da Parigi, l’8 della luna di Chahban, 1713
85. Usbek a Mirza, a Isphan Tu sai, Mirza, che alcuni ministri dello scià Solimano avevano progettato di obbligare tutti gli Armeni della Persia a lasciare il regno o a farsi maomettani, ritenendo che il nostro impero sarebbe stato contaminato finché mantenesse nel proprio seno quegli infedeli. Era finita per la grandezza persiana se in tale occasione la devozione cieca fosse stata ascoltata. Non si sa come, la cosa finì in nulla. Né coloro che fecero la proposta né coloro che la respinsero ne conobbero le conseguenze; il caso tenne luogo della ragione e della politica e salvò l’impero da un pericolo maggiore di quelli che avrebbe potuto correre in seguito alla sconfitta in una battaglia o alla perdita di due città. Proscrivendo gli Armeni si pensò di distruggere in un sol giorno tutti i negozianti e quasi tutti gli artigiani del regno. Sono sicuro che il grande scià Abbas avrebbe preferito farsi tagliare le due braccia piuttosto che firmare un ordine simile e che, mandando al Mogol e ai re delle Indie i propri sudditi più attivi, avrebbe creduto di regalar loro la metà dei suoi stati. Le persecuzioni dei nostri zelanti maomettani contro i Gauri li hanno obbligati a passare in massa nelle Indie e hanno privato la Persia di quel popolo laborioso, così dedito all’agricoltura che solo col suo lavoro era in grado di aver ragione della sterilità della nostra terra. Ai devoti non restava che un altro colpo da fare; rovinare l’industria, col qual mezzo l’impero sarebbe caduto da sé, e con esso, come inevitabile conseguenza, quella religione che si voleva render così fiorente. Se si deve ragionare senza prevenzioni, io non so, Mirza, se non sia un bene che in uno Stato vi siano parecchie religioni. Si nota che coloro che professano una religione tollerata si rendono di solito più utili alla loro patria di coloro che professano una religione dominante, perché, esclusi dagli onori, non potendo distinguersi che per la loro opulenza e le loro ricchezze, sono spinti a procacciarsele col proprio lavoro e ad accettare le attività più faticose della società.
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D’altra parte, siccome tutte le religioni contengono dei precetti utili alla società, è bene che siano osservate con zelo. Ora, cosa c’è che possa suscitare questo zelo più che la loro molteplicità? Sono delle rivali che non si risparmiano alcun colpo. La gelosia scende fino ai singoli: ciascuno sta sulle sue e teme di far cose che disonorerebbero la sua parte e l’esporrebbero al disprezzo e alle censure implacabili della parte avversa. Pertanto si è sempre osservato che l’introduzione di una setta nuova in uno Stato era il mezzo più sicuro per correggere tutti gli abusi dell’antica. Si ha un bel dire che non è nell’interesse del principe tollerare parecchie religioni nel suo Stato. Quand’anche tutte le sette del mondo vi si radunassero, ciò non gli porterebbe pregiudizio alcuno, perché non ce n’è nessuna che non prescriva l’obbedienza e non predichi la sottomissione. È vero che le storie sono piene di guerre di religione ma occorre star bene attenti: non è la molteplicità delle religioni che ha prodotto le guerre, è lo spirito d’intolleranza che animava quella che si credeva dominante. È quello spirito di proselitismo che gli Ebrei hanno preso dagli Egiziani, e che da loro è passato, come una malattia, epidemica e popolare, ai maomettani e ai cristiani. È, infine, quella vertigine i cui progressi non possono che esser considerati come un’eclissi totale della ragione umana. Perché, insomma, se anche non ci fosse dell’inumanità nell’affliggere la coscienza altrui, se non ne risultasse alcuno dei pessimi effetti che ne germogliano a migliaia, bisognerebbe esser dei pazzi per accettarla. Colui che vuol farmi cangiar religione, lo fa senza dubbio soltanto perché non cambierebbe la propria, se vi fosse forzato; egli trova dunque strano che io non faccia una cosa che lui, forse, non farebbe nemmeno per il dominio del mondo. Da Parigi, il 26 della luna di Gemmadi I, 1715
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CHARLES-LOUIS DE MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi (1748) LIBRO XXIV – DELLE LEGGI NEL RAPPORTO CHE HANNO CON LA RELIGIONE STABILITA IN OGNI PAESE, CONSIDERATA NELLE SUE FORME DI CULTO E IN SE STESSA CAPITOLO PRIMO – Delle religioni in generale
Come si può giudicare fra le tenebre quelle che sono le meno fitte, e fra gli abissi quelli che sono i meno profondi, così si può cercare fra le religioni false quelle che sono le più conformi al bene della società; quelle che, per quanto non abbiano lo scopo di condurre gli uomini alla felicità nell’altra vita, possono contribuire di più a renderli contenti nella presente. Esaminerò quindi le varie religioni del mondo soltanto in rapporto al bene che se ne trae nello Stato civile; sia che parli di quella che ha le sue radici nel cielo, sia di quelle che hanno le loro sulla terra. Siccome in quest’opera non mi occupo di teologia ma di scienza politica, potrebbero esservi qui cose vere soltanto da un punto di vista umano, non essendo state considerate in rapporto alle verità sublimi. Riguardo alla vera religione, basterà un minimo di equità per vedere che non ho mai preteso di sottoporre i suoi interessi agli interessi politici, bensì di unirli; ora, per unirli, bisogna conoscerli. La religione cristiana, che ordina agli uomini di amarsi, vuole senza dubbio che ogni popolo abbia le migliori leggi politiche e le migliori leggi civili, perché queste sono, dopo di lei, il maggior bene che gli uomini possano dare e ricevere. LIBRO XXV – DELLE LEGGI NEL RAPPORTO CHE HANNO CON L’ISTITUZIONE DELLA RELIGIONE DI OGNI PAESE E CON LA SUA ORGANIZZAZIONE ESTERA CAPITOLO NONO – Della tolleranza in fatto di religione
Noi siamo qui in veste di uomini politici, non di teologi; e perfino per i teologi c’è molta differenza fra tollerare una religione e approvarla. Quando le leggi di uno Stato hanno creduto di dover sopportare parecchie religioni, devono anche obbligarle a sopportarsi a vicenda. È
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un principio che qualunque religione un tempo repressa diventa a sua volta repressiva: infatti non appena, per un caso qualsiasi, può uscire dall’oppressione, attacca la religione che l’ha conculcata, non come una religione, ma come una tirannide. È dunque utile che le leggi esigano da queste diverse religioni, non soltanto che non disturbino lo Stato, ma altresì che non si disturbino a vicenda. Un cittadino non soddisfa il proprio dovere verso le leggi accontentandosi di non provocare agitazioni nello Stato; bisogna altresì che non disturbi nessun altro cittadino, chiunque esso sia. CAPITOLO X – Continuazione dello stesso argomento
Siccome non vi sono che le religioni intolleranti che abbiano grande zelo a stabilirsi altrove, dato che una religione che può tollerarne un’altra non pensa affatto alla propria diffusione, sarebbe un’ottima legge civile, allorché lo Stato è soddisfatto della religione stabilita, non tollerare lo stabilirsi di un’altra. Ecco dunque il principio fondamentale delle leggi politiche in fatto di religione. Quando si è padroni di accogliere in uno Stato una nuova religione, o di non accoglierla, non bisogna stabilirvela; quando vi è stabilita, bisogna tollerarla. CAPITOLO XIII – Umilissima rimostranza agli inquisitori di Spagna e
di Portogallo Una Ebrea di diciotto anni, bruciata viva a Lisbona nell’ultimo auto-da-fè, diede occasione a un piccolo scritto; e credo sia il più inutile che sia stato mai redatto. Quando si tratta di provare cose tanto evidenti, si è sicuri di non convincere. L’autore dichiara che, pur essendo Ebreo, rispetta la religione cristiana, e l’ama abbastanza da togliere ai prìncipi che non sono cristiani un pretesto plausibile di perseguitarla. «Voi vi lamentate» dice agli inquisitori «per il fatto che l’imperatore del Giappone fa ardere a fuoco lento tutti i cristiani che stanno nei suoi Stati; ma egli vi risponderà: ‘Noi trattiamo voi che non credete come noi, allo stesso modo con cui voi stessi trattate chi non crede come voi: non potete lamentarvi che della vostra debolezza, la quale v’impedisce di sterminarci, e fa sì che vi sterminiamo noi’.
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«Bisogna riconoscere però che voi siete molto più crudeli di quell’imperatore. Fate morire noi, che non crediamo se non quello che voi credete, perché non crediamo tutto quello che voi credete. Noi seguiamo una religione che, lo sapete voi stessi, un tempo è stata cara a Dio: riteniamo che Dio l’ami, ancora, e voi ritenete che non l’ami più; e perché giudicate così, condannate al ferro e al fuoco chi si trova in questo errore tanto perdonabile, di credere che Dio ami ancora quello che ha amato». «Se voi siete crudeli a nostro riguardo, lo siete ancora di più riguardo ai nostri figlioli; li mandate al rogo perché seguono le ispirazioni trasmesse da quelli che le leggi naturali e le leggi di tutti i popoli insegnano a rispettare come dèi. «Voi vi private del vantaggio che vi ha dato sui maomettani la maniera in cui è stabilita la loro religione. Allorché quelli si vantano del numero dei loro fedeli, voi ribattete che glieli ha acquistati la forza, e che hanno esteso la loro religione col ferro: perché dunque stabilite la vostra col fuoco? «Quando volete farci venire a voi, noi vi obiettiamo una fonte donde vi gloriate discendere. Voi rispondete che la vostra religione è nuova, ma che è divina; e lo provate col fatto che si è affermata con la persecuzione da parte dei pagani e col sangue dei vostri martiri; ma oggi prendete la parte dei Diocleziani e ci fate prendere la vostra di allora. «Noi vi scongiuriamo, non per il Dio onnipotente che serviamo, noi e voi, ma per il Cristo che ci dite aver preso la condizione umana onde proporvi degli esempi che possiate seguire; vi scongiuriamo di agire verso di noi come agirebbe lui stesso se fosse ancora sulla terra. Volete che noi siamo cristiani, e voi non volete esserlo. «Ma se non volete essere cristiani, almeno siate uomini: trattateci come fareste se, avendo soltanto quei deboli lumi di giustizia che ci dà la natura, non aveste una religione per condurvi e una rivelazione per illuminarvi. «Se il cielo vi ha tanto amati da farvi vedere la verità, vi ha fatto una grande grazia; ma è degno dei figli che hanno ricevuto l’eredità del loro padre, odiare coloro che non l’hanno ricevuta? «Se voi possedete questa verità, non vogliate nascondercela con la maniera in cui ce la proponete. La caratteristica della verità è di trionfare sui cuori e sugli spiriti, e non questa impotenza che confessate quando volete farla accettare con i supplizi. «Se siete ragionevoli, non dovete farci morire perché non vi vogliamo ingannare. Se il vostro Cristo è il figlio di Dio, speriamo che ci
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ringrazierà di non aver voluto profanare i suoi misteri; e crediamo che il Dio che serviamo, noi e voi, non ci punirà per aver sofferto la morte, a causa di una religione che Egli ci ha dato in altri tempi, perché crediamo che ce l’abbia data ancora. «Voi vivete in un secolo in cui il lume naturale è più vivido di quanto non sia stato mai, in cui la filosofia ha illuminato gli spiriti, in cui la morale del vostro Vangelo è stata più conosciuta, in cui i rispettivi diritti degli uomini gli uni sugli altri, il dominio che una coscienza ha su un’altra coscienza, sono meglio stabiliti. Se dunque non vi ricredete dei vostri antichi pregiudìzi, i quali, se non vi fate attenzione, sono le vostre passioni, bisogna riconoscere che siete incorreggibili, incapaci di qualunque lume e di qualunque istruzione; e ben infelice è la nazione che conferisce autorità a uomini come voi. «Volete che vi diciamo schiettamente il nostro parere? Voi ci considerate piuttosto come nemici vostri che come nemici della vostra religione; perché, se amaste la vostra religione, non la lascereste corrompere da una grossolana ignoranza. «Dobbiamo avvertirvi di una cosa: cioè che se qualcuno dei posteri oserà mai dire che nel secolo in cui viviamo i popoli d’Europa erano civili, vi si citerà per dimostrare che erano barbari, e l’idea che si avrà di voi sarà tale da coprire d’infamia il vostro secolo, e gettare l’odio su tutti i vostri contemporanei».
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GOTTHOLD EPHRAIM LESSING, Nathan il Saggio (1779) Atto III, scena 5 NATHAN
Ordina, sultano. SALADINO
Ciò per cui chiedo il tuo insegnamento è ben altro, ben altro. – Tu che sei così saggio dimmi, una volta per tutte – qual è la fede, qual è per te la legge più convincente di ogni altra? NATHAN
Sultano, io sono ebreo. SALADINO
E io sono musulmano. E fra noi c’è il cristiano. – Ma di queste tre religioni una sola può esser vera. – Un uomo come te non resta immobile dove l’ha messo il caso della nascita: o, se vi resta, lo fa a ragion veduta, per dei motivi, perché ha scelto il meglio. Allora di’ anche a me le tue ragioni! Fammi conoscere i motivi sui quali io non ho avuto il tempo di riflettere. […] Atto III, scena 7 Saladino e Nathan. SALADINO
(Adesso il campo è libero). – Ritorno forse troppo presto? Il tempo per riflettere è agli sgoccioli, ormai. – Parla, dunque! Nessuno ci ascolta. NATHAN
Che ci ascolti pure il mondo intero. SALADINO
Fino a tal punto Nathan è sicuro del fatto suo? Ah, questo chiamo essere saggio! Mai nascondere la verità.
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Mettere in gioco ogni cosa per essa. La libertà e la vita, i beni e il sangue. NATHAN
Sì. Se è necessario e utile. SALADINO
D’ora in poi io spero di portare a buon diritto il mio nome di Riformatore del mondo e della legge. NATHAN
Un bel nome! Ma, prima di confidarmi interamente, mi consenti, sultano, di narrarti una piccola storia? SALADINO
Perché no? Io ho sempre amato le storie raccontate bene. NATHAN
Raccontare bene non è il mio forte. SALADINO
Ancora così modesto e orgoglioso? – Avanti, su, racconta! NATHAN
Molti anni or sono un uomo, in Oriente, possedeva un anello inestimabile, un caro dono. La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, ha un potere segreto: rende grato a Dio e agli uomini chiunque la porti con fiducia. Può stupire se non se lo toglieva mai dal dito, e se dispose in modo che restasse per sempre in casa sua? Egli lasciò l’anello al suo figlio più amato; e lasciò scritto che a sua volta quel figlio lo lasciasse al suo figlio più amato; e che ogni volta il più amato dei figli diventasse, senza tenere conto della nascita ma soltanto per forza dell’anello,
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il capo e il signore del casato. – Tu mi segui, sultano? SALADINO
Ti seguo. Vai avanti. NATHAN
E l’anello così, di figlio in figlio, giunse alla fine a un padre di tre figli. Tutti e tre gli ubbidivano ugualmente ed egli, non poteva farne a meno, li amava tutti nello stesso modo. Solo di tanto in tanto l’uno o l’altro gli sembrava il più degno dell’anello – quando era con lui solo, e nessun altro divideva l’affetto del suo cuore. Così, con affettuosa debolezza, egli promise l’anello a tutti e tre. Andò avanti così finché poté. – Ma, vicino alla morte, quel buon padre si trova in imbarazzo. Offendere così due figli, fiduciosi nella sua parola, lo rattrista. – Che cosa deve fare? – Egli chiama in segreto un gioielliere, e gli ordina due anelli in tutto uguali al suo; e con lui si raccomanda che non risparmi né soldi né fatica perché siano perfettamente uguali. L’artista ci riesce. Quando glieli porta, nemmeno il padre è in grado di distinguere l’anello vero. Felice, chiama i figli uno per uno, impartisce a tutti e tre la sua benedizione, a tutti e tre dona l’anello – e muore. – Tu mi ascolti, sultano? SALADINO (il quale, colpito, aveva girato il viso) Ascolto, ascolto. Ma finisci presto la tua favola. – Ci sei? NATHAN
Ho già finito. Quel che segue si capisce da sé. – Morto il padre, ogni figlio si fa avanti con il suo anello, ogni figlio vuol essere il signore del casato. Si litiga, si indaga,
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si accusa. Invano. Impossibile provare quale sia l’anello vero – (dopo una pausa, durante la quale egli attende la risposta del sultano) quasi come per noi provare quale sia – la vera fede. SALADINO
Come? Questa è la tua risposta alla domanda?... NATHAN
Valga soltanto a scusarmi, se non oso cercare di distinguere gli anelli che il padre fece fare appunto al fine che fosse impossibile distinguerli. SALADINO
Gli anelli! – Non burlarti di me! – Le religioni che ti ho nominato si possono distinguere persino nelle vesti, nei cibi, nelle bevande! NATHAN
E tuttavia non nei fondamenti. – Non si fondano tutte sulla storia, scritta o tramandata? E la storia solo per fede e per fedeltà dev’essere accettata, non è vero? – E di quale fede e fedeltà dubiteremo meno che di ogni altra? Quella dei nostri avi, sangue del nostro sangue, quella di coloro che dall’infanzia ci diedero prova del loro amore, e che mai ci ingannarono, se l’inganno per noi non era salutare? – Posso io credere ai miei padri meno che tu ai tuoi? O viceversa? – Posso forse pretendere che tu, per non contraddire i miei padri, accusi i tuoi di menzogna? O viceversa? E la stessa cosa vale per i cristiani, non è vero? – SALADINO
(Per il Dio vivente! Ha ragione. Io devo ammutolire). NATHAN
Ma torniamo ai nostri anelli. Come dicevo, i figli si accusarono in giudizio. E ciascuno
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giurò al giudice di avere ricevuto l’anello dalla mano del padre (ed era vero), e molto tempo prima la promessa dei privilegi concessi dall’anello (ed era vero anche questo). – Il padre, ognuno se ne diceva certo, non poteva averlo ingannato; prima di sospettare questo, diceva, di un padre tanto buono, non poteva che accusare dell’inganno i suoi fratelli, di cui pure era sempre stato pronto a pensare tutto il bene; e si diceva sicuro di scoprire i traditori e pronto a vendicarsi. SALADINO
E il giudice? – Sono ansioso di ascoltare che cosa farai dire al giudice. Parla! NATHAN
Il giudice disse: Portate subito qui vostro padre, o vi scaccerò dal mio cospetto. Pensate che stia qui a risolvere enigmi? O volete restare finché l’anello vero parlerà? – Ma... aspettate! Voi dite che l’anello vero ha il magico potere di rendere amati, grati a Dio e agli uomini. Sia questo a decidere! Gli anelli falsi non potranno. Su, ditemi: chi di voi è il più amato dagli altri due? – Avanti! Voi tacete? L’effetto degli anelli è solo riflessivo, non transitivo? Ciascuno di voi ama solo se stesso? Allora tutti e tre siete truffatori truffati! I vostri anelli sono falsi tutti e tre. Probabilmente l’anello vero si perse, e vostro padre ne fece fare tre per celarne la perdita e per sostituirlo. SALADINO
Magnifico! Magnifico! NATHAN
Se non volete, proseguì il giudice, il mio consiglio e non una sentenza,
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andatevene! – Ma il mio consiglio è questo: accettate le cose come stanno. Ognuno ebbe l’anello da suo padre: ognuno sia sicuro che esso è autentico. – Vostro padre, forse, non era più disposto a tollerare ancora in casa sua la tirannia di un solo anello. E certo vi amò ugualmente tutti e tre. Non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno. – Orsù! Sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra nel suo anello. E aiuti la sua virtù con la dolcezza, con indomita pazienza e carità, e con profonda devozione a Dio. Quando le virtù degli anelli appariranno nei nipoti, e nei nipoti dei nipoti, io li invito a tornare in tribunale, fra mille e mille anni. Sul mio seggio siederà un uomo più saggio di me; e parlerà. Andate! – Così disse quel giudice modesto. SALADINO
Dio! Dio! NATHAN
Saladino, se tu senti di essere quel saggio che il giudice promise... SALADINO (precipitandosi verso di lui e afferrandogli la mano, che non lascerà più fino alla fine) Io polvere? Io nulla? O Dio! NATHAN
Che fai, sultano? SALADINO
Nathan, caro Nathan! – I mille e mille anni del tuo giudice non sono ancora passati. – Il suo seggio non è il mio. – Va’! – Ma sii mio amico.
Presentazione A partire dal XVII secolo si afferma un’ulteriore declinazione del concetto che, riprendendo alcuni motivi della riflessione erasmiana, in particolare la distinzione tra dogmi fondamentali (e dunque, non discutibili) e dogmi non essenziali del cristianesimo, rivendica la tolleranza sia sul piano politico, in nome della netta distinzione dei fini della Chiesa da quelli dello Stato, sia sul piano etico, giustificandola sulla constatazione che l’utilizzo della costrizione in materia religiosa è contrario al fine stesso della religione, che, qualunque sia il credo, rimane la salvezza dell’anima, questione che non è fra i compiti del magistrato civile. Pur con accenti diversi questo è il motivo che lega i testi di Spinoza, Bayle e Locke composti circa negli stessi anni. Nel Trattato teologico-politico (1670) l’ebreo scomunicato Spinoza da un lato riconosce all’individuo la libertas philosophandi, cioè l’incondizionata affermazione della libertà di pensiero e di parola, il diritto naturale dell’uomo, che perciò non può essere sottoposta a nessuna forma di coazione da parte del potere sovrano. D’altro lato, Spinoza riconosce anche che i modi dell’espressione del credo religioso diventano una questione di ordine pubblico ed entrano a far parte dell’opera del sovrano intesa ad eliminare dallo Stato il conflitto. E tuttavia, il sovrano di Spinoza può intervenire solo su quelle azioni del cittadino che sono di pubblico diritto per garantire la pace e la sicurezza. Più che una politica della tolleranza la visione di Spinoza sembra allora anticipare un’idea di diritti. La figura di Pierre Bayle è sicuramente uno degli emblemi della moderna lotta per la tolleranza. Il motivo della coscienza «errante», centrale nei suoi scritti, assume una duplice valenza: indica sia la personale vicenda dell’autore (calvinista francese fu costretto a rifugiarsi
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in Olanda con l’aggravarsi delle persecuzioni dei protestanti) che diventa figura di tutti i perseguitati per motivi di intolleranza, sia come diritto dell’individuo alla libertà di coscienza, e quindi anche all’errore, nella ricerca della via della salvezza. Sia nei Pensieri sulla cometa (1683) sia nel Commentario (1688) si afferma la necessità del rispetto delle regole morali. Rovesciando radicalmente l’interpretazione di tradizione agostiniana della parabola evangelica della cena (cfr. supra, sez. I, pp. 35-36), secondo la quale l’errore era una conseguenza del peccato, la religione diventa una questione della libertà di coscienza del singolo che è libertà anche dell’errore. D’altra parte, Bayle riconosce la valenza politica della tolleranza: solo uno Stato che sappia essere tollerante, e dunque accettare e mediare posizioni diverse, evita il pericolo di guerre. Bayle coniuga, pertanto, nel proprio pensiero due istanze caratteristiche del razionalismo moderno: il valore dell’autonomia individuale e la necessità della pace sociale, istanze che vanno nella direzione di una visione laica dello Stato, della distinzione tra pubblico e privato, della critica a ogni forma di fanatismo. Sistematizzazione alle discussioni teologiche e politiche sulla tolleranza, che nell’Inghilterra della seconda metà del XVII secolo si intrecciavano con quelle costituzionali, viene fornita da John Locke prima nel Saggio sulla tolleranza (1667) e poi nella più famosa Lettera sulla tolleranza (1685). Locke propone una visione della tolleranza come segno distintivo della vera Chiesa cristiana e come limite al potere politico. Egli ricerca un nucleo comune a tutte le religioni per determinare la «vera religione», l’unica che lo Stato possa professare, e il rifiuto dell’ingerenza delle religioni storico-confessionali nell’ambito politico e, viceversa, dello Stato in materia di religione. Se con gli scritti di Bayle e Locke risulta evidente che il concetto di tolleranza contribuisce a disegnare i rapporti fra potere e individuo nell’ordine politico della modernità, emerge anche il problema dei limiti della tolleranza: il tollerante Locke esclude dalla tolleranza cattolici e atei, due gruppi che non entrano a far parte della cittadinanza, poiché negano il puntello, l’ideale, sul quale la costruzione politica artificiale si regge, l’obbedienza assoluta al magistrato e il riconoscimento del patto, confermando ancora una volta la valenza ordinativa intrinseca ad ogni politica della tolleranza. Infine, in questa sezione si presentano due brani tratti dalla Storia naturale della religione (1751) e dai Dialoghi sulla religione naturale (1779) di David Hume significativi del diverso atteggiamento che alla metà del XVIII secolo, e per lo meno in Inghilterra, si assume nei
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confronti del fenomeno religioso, che non appare più come un problema drammatico e urgente, qual era per i teorici seicenteschi della tolleranza, ma, in un clima ormai pacificato, diventa uno degli oggetti dell’analisi scientifica e sociale. L’analisi humeana della religione, intesa da una parte quale forma di superstizione dall’altra come fenomeno sociale, persegue la strategia, anch’essa propria del pensiero moderno, di privare il fenomeno religioso di quello status privilegiato, riconosciutogli nel corso della storia dell’uomo. Dio, nelle scettiche pagine di Hume, rimane silente e lascia l’uomo liberamente signore di se stesso, abitante di un mondo disincantato.
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BARUCH SPINOZA, Trattato teologico-politico (1670) in cui sono contenute alcune dissertazioni con le quali si mostra come la libertà di filosofare non soltanto può essere concessa salve restando la pietà e la pace dello Stato, ma piuttosto non può essere negata se non distruggendo insieme la pietà e la pace dello Stato.
PREFAZIONE
Se invece in base al diritto dello Stato fossero perseguibili soltanto le azioni, e le parole rimanessero impunite, simili conflitti [i conflitti di religione] non potrebbero in alcun modo assumere aspetto giuridico, né le dispute stesse si convertirebbero in conflitti. Poiché dunque è toccato a noi questo raro privilegio, di vivere in una Repubblica in cui è consentita a ognuno piena libertà di giudizio e la facoltà di onorare Dio secondo il proprio criterio, e dove nulla è stimato più caro e prezioso della libertà, ho ritenuto di non far cosa ingrata o inutile dimostrando che questa libertà non soltanto è compatibile con la pietà e con la pace dello Stato, ma anzi non può essere soppressa senza pregiudizio della stessa pietà e della stessa pace dello Stato: la dimostrazione di questo principio costituisce il principale intento del presente trattato. Onde fu necessario in primo luogo indicare i principali pregiudizi in materia religiosa, e cioè le tracce dell’antica schiavitù; e poi anche i pregiudizi intorno al diritto delle somme potestà, che molti con ardita spregiudicatezza vorrebbero in gran parte usurpare e, col pretesto della religione, allontanare dalle supreme autorità l’animo delle masse tuttora inclini alla superstizione pagana, in modo da far precipitare di nuovo tutto nella schiavitù. Esporrò in poche parole l’ordine della trattazione; ma prima rendo noti i motivi che mi hanno indotto a scrivere. Mi sono spesso meravigliato che uomini, i quali si vantano di professare la religione cristiana, e cioè l’amore, la gioia, la pace, la moderazione e la lealtà con tutti, contendessero tra di loro con tanto astiosa irruenza e si odiassero a vicenda con sì feroce e costante accanimento, da far capire da ciò, piuttosto che dall’esercizio di quelle virtù, la specie di fede da ciascuno professata; le cose sono ormai arrivate al punto, che quasi non si può più distinguere di chi si tratti, se di un Cristiano, cioè, o di un Turco o di un Ebreo o di un Pagano, se non dalla veste esteriore di ognuno e dal culto o dalla Chiesa che frequenta o dall’opinione che segue o dal maestro sulla cui parola suole giurare. Per il re-
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sto conducono tutti la stessa vita. Cercando io dunque la causa di questo male, la ravvisai senza dubbio nel fatto che per il volgo ebbero valore di religione il considerare il ministero ecclesiastico come una dignità e i doveri ad esso connessi come un beneficio e il rendere i massimi onori ai pastori. Infatti, non appena incominciò nella Chiesa questo abuso, tosto si accese nei peggiori una gran voglia di accedere all’amministrazione dei sacri uffici, e lo zelo della propaganda religiosa degenerò in vergognosa avidità e ambizione, trasformando il tempio stesso in un teatro, dove presero la parola, non dottori della Chiesa, ma oratori, il cui proposito non era di istruire il popolo, bensì di imporsi alla sua ammirazione, di criticare pubblicamente gli avversari e di insegnare soltanto novità sensazionali, che suscitassero soprattutto la meraviglia del volgo; di qui un cumulo di contrasti, di invidie, di odi, che il passar del tempo non riuscì a sedare. Non c’è da stupirsi, dunque, se dell’antica religione non sia rimasto altro che il culto esterno (col quale il volgo sembra adulare Dio più che adorarlo), e che la fede non sia ormai altro che un complesso di credulità e di pregiudizi: pregiudizi, che trasformano gli uomini da esseri razionali in bestie, in quanto li inducono nell’assoluta impossibilità di usare la propria facoltà di giudizio e di distinguere il vero dal falso, escogitati come sembrano allo scopo di estinguere del tutto il lume dell’intelletto. Pietà e religione sono fatte consistere, oh Dio immortale, in arcane assurdità, e coloro che disprezzano del tutto la ragione e che respingono e avversano l’intelletto come naturalmente corrotto, proprio questi, per colmo di ingiustizia, sono creduti in possesso del lume divino. In verità, se una scintilla almeno di quella luce divina li illuminasse non sarebbero vittime della loro superba insania, ma imparerebbero a onorare Dio con maggiore saggezza e, invece che la caratteristica dell’odio, quella dell’amore li distinguerebbe dagli altri; e non perseguiterebbero con tanta ostilità quelli che da loro dissentono, ma piuttosto avrebbero pietà di essi, se davvero si preoccupassero più della loro salvezza che del proprio successo. Inoltre, se avessero qualche lume divino, questo risulterebbe almeno dalla dottrina; bisogna riconoscere invece che con tutta la loro ammirazione per i profondissimi misteri della Scrittura, nulla hanno saputo insegnare all’infuori di quanto era contenuto nelle speculazioni degli Aristotelici e dei Platonici; e a queste, per non aver l’aria di seguire i pagani, adattarono la Scrittura. Non bastò loro di perdersi dietro ai Greci, ma pretesero che vi si fossero smarriti anche i profeti: il che dimostra chiaramente che essi non hanno la più pallida idea della divinità della Scrittura e che quanto più si ostinano a con-
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templarne i misteri, tanto più chiaramente mostrano come essa sia per loro oggetto di infatuazione, più che di fede; e ciò si vede anche dal fatto che, per lo più, ad intendere là Scrittura nel suo vero significato, essi partono dal presupposto che essa sia veritiera e ispirata da Dio in tutte, le sue parti: cosa che dovrebbe risultare soltanto dalla intelligenza e da un severo esame di essa; sicché essi stabiliscono come regola preliminare della sua interpretazione ciò che essa stessa è in grado di insegnarci assai meglio, senza bisogno di umani artifici. Riflettendo dunque su queste cose, e cioè che il lume naturale è da molti non soltanto disprezzato, ma condannato come fonte di empietà; che l’interpretazione umana è tenuta in conto di rivelazione divina; che la credulità ha preso il posto della fede e che le controverse opinioni dei filosofi sono discusse con estrema passione nelle chiese e nelle curie, donde odi e contrasti fierissimi, che si convertono facilmente in lotte, e molte altre conseguenze, che sarebbe troppo lungo enumerare, venni nella deliberazione di istituire un nuovo, completo e libero esame della Scrittura, con il proposito di non affermare nulla intorno ad essa e di non ammettere come sua dottrina nulla che in essa non risultasse chiarissimamente contenuto. Seguendo questo criterio ho elaborato un metodo di interpretazione dei Sacri Volumi, sulla scorta del quale ho incominciato anzitutto a chiedermi che cosa dovesse intendersi per profezia, in qual modo Dio si fosse rivelato ai profeti e perché questi gli fossero accetti: se, cioè, perché possedessero sublimi concetti intorno a Dio e alla natura o soltanto per la loro pietà. Conosciuto questo, ho potuto facilmente stabilire che l’autorità dei profeti vale soltanto in ciò che concerne la pratica della vita e della vera virtù, mentre nel resto le loro opinioni ci interessano poco. Dopo di che, mi sono chiesto perché gli Ebrei siano stati chiamati gli eletti di Dio; e non avendo trovato altro motivo, se non che Dio aveva assegnato loro una determinata parte del mondo dove potessero vivere in comodità e sicurezza, di qui ho appreso che le Leggi rivelate da Dio a Mosè non furono altro che i diritti particolari dello Stato ebraico; che per ciò essi non erano estensibili ad altri popoli, e anzi che nemmeno il popolo ebreo era tenuto ad osservarli se non per la durata del loro Stato. Per sapere, poi, se dalla Scrittura si potesse concludere che l’intelletto umano sia naturalmente corrotto, ho indagato se la religione cattolica, e cioè la legge divina rivelata all’intero genere umano per mezzo dei profeti e degli apostoli, fosse diversa da quella che anche il lume naturale insegna; e quindi se abbiano avuto luogo miracoli contrari all’ordine della natura, dai quali si potesse dimostrare l’esistenza e la provvi-
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denza di Dio con maggior certezza e chiarezza che dalle cose che noi apprendiamo chiaramente e distintamente mediante le loro cause prime. Ma non avendo trovato nulla, in quello che è l’insegnamento esplicito della Scrittura, che non concordasse con l’intelletto o che fosse ad esso ripugnante, e trovando inoltre che i profeti non insegnarono se non principi così semplici che chiunque avrebbe potuto facilmente comprenderli, e li espressero in uno stile e li corredarono di argomenti maggiormente idonei a muovere l’animo delle masse alla devozione verso Dio, acquistai la ferma convinzione che la Scrittura lascia la ragione assolutamente libera e che non ha nulla in comune con la filosofia, ma che questa, come quella, ha un suo proprio fondamento. E per fornire di tutto ciò una dimostrazione apodittica, che abbracci l’intera materia, mostrò quale sia la via da seguirsi nell’interpretazione della Scrittura, e come l’intera conoscenza di essa e delle cose spirituali debba ricavarsi da essa sola, e non dalle nozioni che noi possediamo per lume naturale. Passo quindi ad esaminare i pregiudizi nati dal fatto che il volgo, incline alla superstizione e alla venerazione delle reliquie del tempo più che dell’eterna verità, adora i libri della Scrittura al di sopra della parola stessa di Dio. Dimostro poi che la rivelazione divina non è racchiusa in un determinato numero di libri, ma è un semplice concetto della mente divina rivelatasi ai profeti, consistente nella prescrizione di una totale obbedienza a Dio nel culto della giustizia e della carità. E faccio vedere come ciò sia insegnato nella Scrittura in maniera conforme alle capacità di comprensione e alle opinioni di coloro ai quali i profeti e gli apostoli solevano predicare questa parola di Dio, per poter essere da essi compresi interamente e senza difficoltà. Esposti quindi i principi fondamentali della fede, concludo infine che l’oggetto della conoscenza rivelata non è che l’obbedienza, e che essa si distingue perciò assolutamente, nell’oggetto, nel fondamento e nel metodo, dalla cognizione naturale, con la quale non ha nulla in comune, occupando ciascuna di esse un proprio dominio, senza mutua ripugnanza né motivo di reciproca subordinazione. Siccome, poi, l’indole degli uomini è così varia, che chi si acqueta a questa chi a quella opinione, onde la medesima cosa suscita nell’uno il sentimento religioso e muove l’altro al riso, dalle cose sopra dette concludo doversi lasciare a ciascuno la libertà di giudizio e la facoltà di interpretare a suo modo il fondamento della fede, giudicando esclusivamente dalle opere se questa sia santa o empia. Così tutti potranno obbedire a Dio in piena e perfetta libertà, e soltanto la giustizia e la carità saranno da tutti tenute in pregio. Dimostrata così la libertà che la
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legge divina rivelata riconosce a ciascuno, passo all’altra parte della questione: che, cioè, questa stessa libertà può, anzi deve essere concessa senza pregiudizio della pace della Repubblica e del diritto delle supreme autorità, e che non può essere tolta senza grave pericolo della pace e senza grave danno di tutta la Repubblica: e per dimostrare ciò prendo le mosse dal diritto naturale individuale, il quale si estende fin là dove si estende la cupidigia e il potere di ciascuno, nessuno essendo costretto per diritto di natura a vivere secondo la volontà altrui, ma essendo invece ciascuno padrone della propria libertà. Dimostro in seguito che nessuno decade da questo diritto, a meno che non deferisca ad altri la facoltà di difenderlo, nel qual caso questo diritto che ciascuno ha di vivere a modo suo, congiuntamente con il potere di difendersi, viene necessariamente esercitato in modo assoluto dalla persona in cui è trasferito; e quindi dimostro che coloro i quali detengono il sommo potere hanno diritto a tutto ciò che rientra nel loro potere e che essi soli sono i custodi del diritto e della libertà, mentre tutti gli altri non possono agire se non in conformità dei loro decreti. Tuttavia, poiché nessuno può privarsi della facoltà di difendersi fino al punto da cessare di essere uomo, ne segue che nessuno può privarsi in modo assoluto del proprio naturale diritto e che i sudditi mantengono quasi per diritto naturale alcune prerogative che non possono essere loro tolte senza grave pericolo dello Stato e che sono loro tacitamente riconosciute o da loro espressamente stipulate con i detentori del sommo potere. Dopo queste considerazioni passo alla Repubblica ebraica, per studiare in qual modo e per deliberazione di chi la religione ha incominciato ad avervi forza giuridica e per trattare incidentalmente abbastanza a lungo anche di altre questioni degne di rilievo. In seguito dimostro che coloro i quali detengono il sommo potere sono tutori e interpreti, non soltanto del diritto civile, ma anche dell’ecclesiastico, e che essi soli hanno il diritto di decidere che cosa sia giusto e che cosa ingiusto, che cosa sia e che cosa non sia conforme alla pietà; e concludo infine che essi possono mantenere appieno questo diritto, e conservare intatto il potere a patto che sia consentito a ciascuno di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa. Questo, o lettore filosofo, è quanto io sottopongo al tuo esame e che confido non ti riuscirà sgradito, data l’importanza e l’utilità che l’argomento presenta sia nel complesso sia nei singoli capitoli dell’opera. Della quale direi di più, se non temessi di veder crescere in volume questa prefazione, soprattutto perché ritengo che le cose essenziali sono già più che sufficientemente note ai filosofi; quanto agli altri, non
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insisto troppo nel raccomandar loro questo trattato, giacché non v’è nulla in esso che io possa sperare possa riuscir loro di qualche gradimento; so infatti con quanta tenacia le menti aderiscano a quei pregiudizi che l’animo ha accolto sotto forma di religiosità; e so anche che è altrettanto impossibile sottrarre le masse alla superstizione e alla paura; e so infine che per il volgo è perseveranza l’ostinazione, e che non è guidato dalla ragione, ma dalla passione è trascinato ora alla lode, ora al vituperio. Il volgo, dunque, e tutti coloro che ne condividono le passioni non sono da me invitati alla lettura di questo libro; preferirei anzi che lo trascurassero del tutto, piuttosto che interpretarlo, come fanno sempre, tendenziosamente allo scopo di creare difficoltà e far sì che, come loro, non ne traggano profitto nemmeno quelli che si dedicherebbero alla filosofia con maggior libertà, se non urtassero nell’unico ostacolo, di credere che la ragione debba fare da ancella alla teologia; a costoro, infatti, io confido che il presente lavoro possa riuscire di grandissima utilità. Peraltro, poiché a molti non basterà né il tempo né l’animo di seguir la lettura fino in fondo, credo opportuno di ripetere qui l’avvertenza posta alla conclusione del Trattato, che nulla io ho scritto che non sia dispostissimo a sottoporre all’esame e all’approvazione dell’autorità del mio paese; e se essa giudicherà che qualcuna delle cose da me dette sia contraria alle patrie leggi o nociva al comune benessere, è mia intenzione che si abbia per non detta. So di essere un uomo e di aver potuto sbagliare; ma per non cadere in errore ho curato attentamente e soprattutto di scrivere cose del tutto conformi alle leggi, alla religione e ai buoni costumi. CAPITOLO XX
Si dimostra che in una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa. Se fosse altrettanto facile comandare alla coscienza quanto alla lingua, ognuno regnerebbe in piena sicurezza e nessun governo degenererebbe nella violenza, perché ognuno vivrebbe secondo le intenzioni dei governanti e soltanto in conformità alle loro prescrizioni giudicherebbe del vero e del falso, del bene e del male, dell’equo e dell’iniquo. Ma, questo, come già abbiamo notato al principio del capitolo xVII, non può avvenire, essendo impossibile che la coscienza soggiaccia as-
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solutamente all’altrui diritto. Nessuno, infatti, può, né può essere costretto a trasferire ad altri il proprio naturale diritto, e cioè la propria facoltà di ragionare, liberamente e di esprimere il proprio giudizio intorno a qualunque cosa. Ne viene di conseguenza che si giudica violento quel potere che si esercita sulle coscienze, e che la suprema maestà fa violenza ai sudditi e sembra usurpare il loro diritto quando pretenda di prescrivere a ciascuno che cosa debba accettare come vero e che cosa respingere come falso, e da quali opinioni l’animo di ciascuno debba essere mosso nell’esercizio dei suoi doveri verso Dio. Tutto questo, infatti, rientra nell’ambito del diritto individuale, al quale nessuno, anche se lo voglia, può rinunciare. […] Per ottenere, dunque, che non il vile servilismo, ma la fede sia tenuta in onore, e affinché la somma potestà possa tenere nel miglior modo il governo, e non sia costretta a cedere a uomini sediziosi, è necessario permettere la libertà di giudizio e governare gli uomini in modo che, per quanto diverse e contrastanti possano essere le loro opinioni, possano tuttavia pacificamente convivere. E non v’è dubbio che questo criterio di governo sia il migliore e che presenti gli inconvenienti meno rilevanti, essendo esso il più conforme all’umana natura. Abbiamo infatti dimostrato che in un ordinamento democratico (che è il più vicino allo stato naturale) tutti si impegnano bensì ad agire in conformità ad un ordine comune, ma non a giudicare e a ragionare nello stesso modo. Poiché è impossibile che tutti professino ugualmente le stesse opinioni, gli uomini convennero che avesse vigore di legge quella che avesse raccolto la maggioranza dei suffragi, conservando tuttavia l’autorità di abrogarla, qualora ne riconoscessero altre migliori; e perciò, quanto meno si concede agli uomini la libertà di giudizio, tanto più ci si allontana dallo stato più prossimo al naturale e ci si avvicina, di conseguenza, al governo più dispotico. A dimostrare, d’altra parte, come da questa libertà non derivino inconvenienti tali che non possano essere eliminati dalla sola autorità della somma potestà, e come da questa gli uomini, sebbene professino opinioni palesemente contrarie, siano facilmente trattenuti dal ledersi a vicenda non mancano gli esempi. E non ho bisogno di andare troppo lontano per trovarli. Ne offre uno la città di Amsterdam, la quale sta sperimentando, con suo grande vantaggio e con l’ammirazione di tutte le nazioni, i frutti di questa libertà. In questa floridissima Repubblica e nobilissima città, infatti, convivono in perfetta concordia uomini di tutte le nazionalità e di tutte le religioni; e per affidare i propri beni a qualcuno i cittadini di questo Stato si preoccupano soltanto di sapere se co-
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stui sia ricco o povero, e se sia solito agire in buona o in mala fede. La religione o la setta cui egli appartiene non li interessa affatto, perché ciò non contribuisce per nulla a far loro vincere o perdere la causa dinnanzi al giudice. E non vi è alcuna setta così odiata, i cui seguaci (quando non rechino danno ad alcuno, rendano a ciascuno il suo e vivano onestamente) non siano protetti e tutelati dall’autorità dei pubblici magistrati. Per contro, quando, in passato, la controversia religiosa sorta tra i Rimostranti e i Controrimostranti incominciò ad essere discussa dai politici e dagli Ordini provinciali, finì per degenerare in uno scisma; molti esempi dimostrarono allora come le leggi promulgate allo scopo di dirimere le controversie religiose servano più ad esasperare che a correggere i cittadini, alcuni dei quali ne traggono argomento ad infiniti soprusi, e come gli scismi non derivino da un grande amore della verità (che è invece sorgente di cortesia e di mansuetudine), ma da uno smoderato desiderio di dominio. Onde risulta più chiaro della luce del sole come siano scismatici coloro che condannano gli scritti altrui e che con argomenti sediziosi aizzano il volgo petulante contro i loro autori, piuttosto che gli stessi scrittori, i quali scrivono per lo più soltanto per i dotti e si appellano alla sola ragione; e come, inoltre, i veri perturbatori dell’ordine pubblico siano coloro che in una libera Repubblica pretendono di sopprimere quella libertà di pensiero che non può essere repressa. Con ciò abbiamo dimostrato che: i) è impossibile togliere agli uomini la libertà di dire quello che pensano. ii) Questa libertà, salvi il diritto e l’autorità del sommo potere, può essere concessa a tutti, e ciascuno può esercitarla, salvo sempre quel diritto, finché non ne assuma licenza per introdurre qualcosa come diritto nella Repubblica o per agire contro le leggi costituite. iii) Questa stessa libertà può essere da tutti esercitata senza pregiudizio della pace dello Stato e senza che ne sorgano inconvenienti che non si possano facilmente eliminare. iv) Ognuno può esercitarla salva restando anche la religione. v) Le leggi promulgate intorno alle questioni speculative sono completamente inutili. vi) Questa libertà, infine, non soltanto può essere consentita senza pericoli per lo Stato, per la religione e per il diritto delle supreme potestà, ma deve, anzi, essere concessa affinché tutto ciò sia conservato; giacché, quando invece si fa di tutto per sopprimerla e si discutono nei tribunali le opinioni dei dissidenti, anziché le loro intenzioni, che sole possono essere delittuose, allora si prendono contro onesti cittadini tali provvedimenti, che lungi dal servire d’esempio, appaiono piuttosto come martirii ed esasperano gli altri, accendendo
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in essi sentimenti di commiserazione, se non di vendetta, piuttosto che intimorirli. Le buone arti e la fede, inoltre, si corrompono; si favorisce l’adulazione e la perfidia, e i nemici dello Stato trionfano, perché i governanti hanno ceduto alla loro passione e ne hanno seguito la dottrina, della quale, anzi, sono considerati gli interpreti, fomentando così nei nemici dello Stato l’ardire di calpestarne l’autorità e il diritto, e di proclamare sfacciatamente che essi sono stati eletti direttamente da Dio e che i loro decreti sono divini, mentre quelli delle somme potestà sono semplicemente umani e subordinati, perciò, ai divini, e cioè ai loro stessi decreti. E quanto tutto ciò sia contrario al benessere dello Stato, nessuno può ignorare. Concludiamo pertanto qui, come già abbiamo concluso nel capitolo XVIII, che non vi è nulla di più sicuro per lo Stato quanto il fatto che la pietà e la religione consistano esclusivamente nell’esercizio della giustizia e della carità e che il diritto delle supreme potestà, sia in materia religiosa sia in materia civile, venga limitato alle azioni e che per altro sia consentito ad ogni cittadino, non solo di pensare quello che vuole, ma anche di dire quello che pensa. E così ho assolto al compito che in questo Trattato mi ero proposto. Non mi resta che dichiarare espressamente di non avere in esso scritto nulla ch’io non sia disposto a sottoporre senza riserve all’esame e al giudizio dell’autorità del mio paese: che, se qualcosa di ciò che ho detto, sarà da essa giudicato contrario alle patrie leggi o nocivo al bene comune, voglio che si abbia per non detto. So di essere uomo e di aver potuto sbagliare; ma ho fatto tutto il possibile per non cadere in errore e perché, soprattutto, quanto scrivevo fosse in tutto conforme alle leggi del mio paese, alla religione e alla morale.
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PIERRE BAYLE, Pensieri sulla cometa (1683) 87. Della tendenza, che gli uomini hanno, di appartenere alla religione dominante e del danno che ne viene alla vera Chiesa A proposito di Caterina dei Medici, Mézeray racconta un aneddoto che mi sembra degno di considerazione. Nella battaglia di Dreux il partito del re ebbe all’inizio la peggio; alcuni fuggiaschi, giunti a Parigi, annunziarono che tutto era perduto. Caterina dei Medici allora, senza dar segno alcuno di emozione, si limitò a dire: «Bene, bisognerà dunque pregare Dio in francese», e cominciò subito a blandire gli amici del principe di Condé e i seguaci delle nuove opinioni. È evidente che era già rassegnata alla rovina della religione cattolica nel regno, ed era pronta a sacrificarla ai seguaci della nuova religione, se fossero divenuti i più forti. E non sarebbe stato difficile neppure convincere a pregare in francese la schiera delle sue damigelle di compagnia, da lei utilizzate perché le procurassero uomini ligi al suo volere, se il principe di Condé, vittorioso, le avesse vantaggiosamente maritate ai signori ugonotti; e così chi più chi meno, seguendo l’esempio della regina madre, tutti si sarebbero adattati alla nuova religione per conservare le proprie cariche o per ottenerne qualcuna per interessamento del principe. Si dovette quindi soltanto a una battaglia vinta dai realisti, se la religione dominante non divenne la religione tollerata, caduta in disgrazia e da tutti abbandonata per motivi di carriera. La stessa cosa sarebbe avvenuta trent’anni dopo, se Enrico IV fosse riuscito a vincere in battaglia la Lega. In tal caso vi assicuro che non ci sarebbe stata la conferenza di Sureine né la promessa di farsi istruire: il re vittorioso non avrebbe avuto dubbi sulla sua religione; l’avrebbe innalzata con sé sul trono, e per i cattolici sarebbe stata una bella fortuna ottenere un editto di Nantes, per essere almeno tollerati; sarebbero stati messi alla briglia, e poiché a quel tempo fra gli ugonotti erano numerosi quegli ardenti relatori, che muovono mari e monti pur di fare proseliti, così come oggi, per grazia di Dio e del re, ce ne sono tanti fra noi, non si sarebbe sentito parlare d’altro che di conversioni. Tutti gli intendenti di provincia sarebbero stati dei Marillac, e non so che cosa avremmo potuto essere oggi voi e io, mio povero signore. Mi sembra molto probabile che vostro nonno, che aveva una bella carica e tanti figli, si sarebbe fatto ugonotto pur di conservarla e pur di mandare avanti la famiglia; a quest’ora, signore, potreste essere ministro di Parigi, perché
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vostro padre, vedendo la vostra grande vocazione per le Lettere e la vostra naturale devozione, vi avrebbe sicuramente destinato alla Chiesa. Per quanto riguarda i miei antenati, credo francamente che si sarebbero comportati come ho visto fare a certi ugonotti di mia conoscenza che, pur di liberarsi una volta per tutte dell’assillante zelo religioso dei curati e dei frati e pur di procurarsi i promessi vantaggi del cielo e della terra, liberi da tutte le umiliazioni e da tutte le ingiustizie riversate su di loro da uno smodato fanatismo (cose queste che certo non direi in pubblico), fanno finta di convertirsi al cattolicesimo. Non c’è dunque alcun dubbio che anche quelle ipotetiche conversioni dei nostri antenati non avrebbero impedito loro di onorare segretamente la Madonna, i Santi, le Reliquie, lo Scapolare ecc., né avrebbero strappato dal loro cuore la pia credenza, ispirata loro fin dalla culla, nei miracoli, nel purgatorio e così via. Noi stessi, voi, io e altri a noi simili, nonostante tutto il nostro calvinismo, ne conserveremmo ancora qualche traccia. Ho detto tutto ciò perché sappiate che quando si entra in una religione solo per ragioni politiche, ci si entra con tutti i propri pregiudizi: e così fecero moltissimi pagani, quando abbracciarono il cristianesimo. 108. Anche la politica poteva impedirlo1 II. Ma oltre al fatto che gli uomini, già per loro natura, sono estremamente inclini a praticare gli atti esteriori di devozione, ogni volta che si ritengono minacciati dai prodigi del cielo, bisogna considerare che anche la politica dei magistrati preposti agli affari civili e religiosi poneva particolare cura a mantenere gli uomini in soggezione, ricorrendo al freno del timore verso gli dèi. È stato riconosciuto in ogni tempo che la religione è uno dei legami della società e che i sudditi si dimostrano tanto più ubbidienti quanto più si riesce a far intervenire, al momento opportuno, gli dèi; il mezzo migliore per incoraggiare i popoli alla difesa della patria è sempre stato quello di legarne il cuore a certe devozioni celebrate fastosamente in certi templi, sotto la protezione tante volte sperimentata di certe divinità, e di far loro credere che i presagi delle vittime minacciavano terribili castighi per i nemici che avessero voluto profanare quei santi luoghi. Ma per fare agire tutte
1 Il sorgere dell’ateismo. Questo pensiero è la continuazione di quello precedente (n. 107).
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queste molle, non solo era necessario che ci fosse una religione autorizzata dal magistrato, ma che anche i sudditi fossero pieni di timore, di venerazione e di rispetto per tutti i riti e le cerimonie di quella religione. Ecco perché la politica esigeva che venisse minuziosamente regolato tutto ciò che serviva a fomentare negli animi lo zelo religioso e a ispirarvi un profondo rispetto anche per le più trascurabili cerimonie. Giudicate ora, signore, se c’era davvero da temere che i popoli cadessero nell’ateismo. 119. Quinta prova. L’idolatria più ancora dell’ateismo rende difficile la conversione degli uomini La quinta ragione è che nulla più dell’idolatria rende difficile la conversione degli uomini alla vera religione; infatti quantunque ci siano esempi di idolatri e di superstiziosi che, una volta convertiti, dimostrano uno zelo maggiore per la buona causa di altri che si convertono dopo essere stati tiepidi nella loro falsa religione, è purtuttavia vero, generalmente parlando, che lo zelo di un idolatra è una disposizione del cuore molto più pericolosa dell’indifferenza, perché, sempre generalmente parlando, un uomo bigotto e pervicacemente attaccato ai suoi falsi princìpi è più difficile che riconosca la verità di un uomo che non sa a che cosa credere. Per questo mi sembra preferibile essere atei anziché immersi nelle abominevoli idolatrie dei gentili. Credo infatti che se i predicatori del Vangelo volessero spiegare i nostri misteri ricorrendo anche a numerosi, splendidi miracoli, riuscirebbero più agevolmente ad aprire gli occhi a persone ancora indecise sul partito da prendere, cioè a persone senza religione, che non a gente infatuata dell’antichità delle sue cerimonie e radicata nella fede e nel culto dei suoi idoli.
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PIERRE BAYLE, Commentario filosofico su queste parole di Gesù Cristo, costringili a entrare (1688); nel quale si dimostra, attraverso diverse prove argomentative, che non esiste nulla di più abominevole che ottenere una conversione con la costrizione; e dove si rifiuta ogni sofisma addotto dai convertitori che agiscono con la costrizione, e l’Apologia che S. Agostino ha fatto delle persecuzioni2.
DISCORSO preliminare che contiene osservazioni diverse e distinte da quelle del «Commentario»
[…] Poiché i Romani concedevano piena libertà di coscienza a tutte le sette del paganesimo e spesso adottavano anche i culti degli altri popoli, si presupponeva che chi non trovasse il proprio credo all’interno di un culto così libero e vasto e perciò cercasse di innovarlo, avesse in realtà per fine quello di farsi capo di un partito e di cospirare in materia politica, con il pretesto del servizio agli dei. Ma questo non si può presumere così facilmente per quanto riguarda un cristiano, sia perché egli è persuaso che Gesù Cristo ci ha lasciato una regola precisa che bisogna seguire alla lettera, sia perché la Chiesa di Roma impone la necessità di credere tutto ciò che essa decide; per questo motivo un uomo che non è convinto che essa abbia ragione, deve nell’intimo della propria coscienza, e per evitare l’ipocrisia, uscire dal suo seno. Per mostrare con evidenza l’assurdità di coloro che accusano la tolleranza di causare conflitti fra gli Stati, bisogna appellarsi all’esperienza. [Il paganesimo prova che la tolleranza non nuoce in nulla alle società.] Il paganesimo era diviso in una infinità di sette, e rendeva alle proprie divinità culti molto differenti fra di loro, e nemmeno le divinità principali di un paese erano identiche a quelle di un altro paese. Nonostante ciò, non ricordo di aver mai letto che ci siano state guerre di religione fra i pagani, se non contro quelle popolazioni, che, per esempio, avevano saccheggiato il tempio di Delfi. Ma non vedo menzione fra gli autori antichi di guerre condotte con lo scopo di costringere un popolo a abbandonare la propria religione per abbracciarne un’altra. Solo Giovenale parla di due città dell’Egitto che si odiavano a morte,
2 Il frontespizio dell’originale reca la segnatura «tradotto dall’inglese del Signor Jean Fox de Bruggos da M.J.F., Cantorbery, presso Thomas Litwel, 1686».
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poiché ognuna sostenenva che solo i propri erano dei erano realmente tali. Altrove regnava ovunque una grande calma e una grande tranquillità. E per quale motivo? Perché gli uni tolleravano i riti degli altri. Dunque è vero, come io stesso dimostro nel mio Commentario, che è l’intolleranza che causa tutti quei disordini che falsamente si imputano alla tolleranza. Le diverse scuole dei filosofi non hanno mai turbato la tranquillità pubblica degli Ateniesi; ognuno sosteneva il proprio argomento e rifiutava quello degli altri; e non erano d’accordo su parecchi argomenti; addirittura discutevano sulla Provvidenza o sul bene sovrano. E tuttavia, poiché i magistrati permettevano a tutti di insegnare le proprie dottrine, e poiché essi non costringevano gli uni ad assimilarsi controvoglia agli altri, l’ordinamento politico non subiva alcun danno da questa diversità di dottrine. Se, invece, si fosse usata la costrizione, tutto l’ordinamento politico sarebbe entrato in combustione. Dunque, la tolleranza è la fonte della pace e l’intolleranza è invece origine di confusione e scompiglio. […] [Di tutti i crimini autorizzati nel nostro secolo.] Il nostro secolo, e credo che i precedenti non gli debbano nulla in ciò, è pieno di spiriti forti e di deisti. Ci si stupisce di ciò; e io invece mi stupisco che non ve ne siano di più, vista la rovina che la religione sta producendo nel mondo e di cui conseguenza pressoché inevitabile è la scomparsa di ogni virtù, dal momento che la religione, per garantirsi prosperità temporale, autorizza oggi ogni tipo di crimine immaginabile, l’omicidio, il brigantaggio, l’esilio, il rapimento, ecc., che producono ulteriormente un’infinità di altre aberrazioni, quali l’ipocrisia, la profanazione sacrilega dei sacramenti, ecc. Ma lascio alle parole del mio Commentario il compito di occuparsi di questa materia.
COMMENTARIO FILOSOFICO SU QUESTE PAROLE DEL VANGELO SECONDO S. LUCA (14, 23):
«Il padrone allora disse al servo: esci per le strade e per i campi, E COSTRINGILI A ENTRARE, perché la mia casa si riempia». SECONDA PARTE che contiene la risposta alle obiezioni che ci possono rivolgere contro ciò che è stato sostenuto nelle pagine precedenti.
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CAPITOLO VI
Sesta obiezione. L’opinione della tolleranza non può che gettare lo Stato in ogni sorta di disordine, e produrre una varietà orribile di sette che sfigurerebbero il cristianesimo. Risposta a questo pensiero; che cosa significa che i principi debbano essere i sostentatori della Chiesa. […] [Oscurità delle nostre conoscenze.] Non si può negare che la condizione dell’uomo sia limitata, oltre che da molte altre infermità, anche da questa; e cioè dal fatto che egli non conosce la verità se non in modo imperfetto. Se è vero che egli può provare una cosa attraverso ragioni a priori, chiare e distinte, improvvisamente, come se arrivasse un guastafeste, si vede prostrato da conseguenze assurde, o per lo meno molto difficili da sostenere, che si pretende derivino da ciò che egli ha creduto di dimostrare. E se ha la fortuna di non essere distrutto dal principio della reductio ad absurdum, voglio dire dalle assurdità che risultano dalla sua dottrina, subisce certamente lo smarrimento di avere solo idee confuse e deboli prove di ciò che argomenta. Per esempio, coloro che sostengono o la divisibilità della materia all’infinito, o gli atomi di Epicuro, saprebbero dirci molto a proposito di ciò. Sono abbastanza in buona fede per riconoscere che se la mia dottrina3 ha qualche debolezza è dal lato delle conseguenze. Le prove dirette che la sostengono sono meravigliose; le conseguenze della dottrina opposta4 sono mostruose. Fino a questo punto del ragionamento tutto fila liscio: ma quando ci si concentra sulle conseguenze della mia ipotesi, le cose non vanno così bene. Si dirà che per umiliare il nostro spirito, Dio non vuole che la mia ipotesi trovi con facilità dove appoggiare saldamente il piede per sostenersi e, dovunque essa si rivolga, Dio la costringe a imbattersi solo in trabocchetti. E nondimeno ho dalla mia parte il vantaggio che tutte le conseguenze che possono turbare, si possono anche risolvere. Vediamo come. [Se la diversità di religione causa qualche male politico, ciò è dovuto all’intolleranza.] Si dice che non vi sia pestilenza più pericolosa che l’esistenza di uno Stato connotato dalla molteplicità delle religioni, poiché ciò causa il conflitto del vicino con il vicino, del padre con i figli, dei mariti con le mogli, del principe con i sudditi. Io rispondo invece che questo è un argomento talmente sbagliato da non poter 3 4
Quella sulla tolleranza. La dottrina che sostiene la neceessità dell’intolleranza.
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essere usato contro le mie parole poiché risulta, al contrario, una delle prove più importanti a favore della tolleranza. Se la molteplicità delle religioni nuoce a uno Stato, è solo perché l’una non vuole tollerare l’altro, ma vuole inghiottirlo attraverso la strategia della persecuzione. Hinc prima mali labes, è solo qui l’origine del male. Se ciascuno praticasse quella tolleranza che io sostengo, vi sarebbe la medesima concordia all’interno di uno Stato diviso fra dieci religioni di quella che esiste in una città nella quale le diverse categorie di artigiani collaborano vicendevolmente. Tutto ciò che potrebbe accadere non sarebbe che un’onorevole emulazione nei confronti di colui che più si segnalasse per pietà, costumi onesti e scienza; ciascuno si farebbe un punto d’onore di dimostrare la più forte amicizia di Dio, testimoniando un saldo attaccamento alla pratica delle opere buone; e le religioni si ostinerebbero ancora di più a dimostrare l’attaccamento alla patria, se il sovrano le protegesse tutte quante, e le tenesse in equilibrio fra di loro con la sua equità. Ora, è evidente che un’emulazione così praticata sarebbe causa di un’infinità di beni; e di conseguenza la tolleranza è fra le cose del mondo quella che è più vicina a riprodurre l’età dell’oro, e a rendere voci, strumenti, note e tonalità diverse un concerto e un’armonia dolce per lo meno quanto lo è l’uniformità del canto di una voce sola. Ma allora cosa impedisce questo splendido concerto di voci e toni così differenti l’uno dall’altro? Il problema è che una5 delle due religioni pretende di esercitare una crudele tirannia sulle anime e costringere gli altri a sacrificarle le coscienze; d’altra parte anche i re fomentano questa ingiusta parzialità e consacrano il braccio secolare ai desideri furiosi e tumultuosi di una plebaglia di monaci e chierici: per dirla in una parola, tutti i disordini provengono non dalla tolleranza, ma dall’intolleranza. In questo modo rispondo al luogo comune più volte ribadito dagli ignoranti, e cioè che il cambiamento di religione porti con sé il cambiamento di governo, e che perciò bisogna con ogni cura impedire che vi siano innovazioni. Io non starò a indagare se ciò è capitato tanto spesso come sostengono; mi limiterò, senza essere informato più di tanto del fatto in discussione, e prendendolo per come ce lo raccontano, a dimostrare che ciò è causato solo dall’intolleranza. Se la nuova setta che inizia a diffondersi fosse imbevuta dei princìpi che io sostengo, essa non agirebbe mai con violenza contro coloro che volessero 5
La religione cattolica.
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conservare la vecchia dottrina; si limiterebbe a proporre le proprie ragioni e a insegnare in modo caritatevole. Se allo stesso modo la vecchia religione fosse imbevuta delle medesime massime, non violenterebbe la nuova, ma si accontenterebbe di combatterla con ragionamenti miti e caritatevoli. In questo modo il sovrano conserverebbe sempre la propria autorità intatta, ogni singolo coltiverebbe in pace il proprio campo e la propria vigna, pregherebbe Dio alla propria maniera, e lascerebbe gli altri pregarlo e servirlo secondo la loro. In questo modo, nella concordia di opinioni diametralmente opposte, si vedrebbe compiuta la profezia del Profeta: «il lupo dimorerà con l’agnello, e la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme, e un fanciullo li guiderà»6, ecc. Chiunque usi la propria ragione comprende chiaramente che tutti i disordini che accompagnano le innovazioni religiose provengono dal fatto che ci si oppone con il ferro e con il fuoco agli innovatori e che si rifiuta loro la libertà di coscienza, ma anche dal fatto che la nuova setta, guidata da uno zelo sconsiderato, vuole distruggere con la forza la religione che trova già istituita. Solo la tolleranza risparmierebbe al mondo tutto questo male; lo spirito persecutore invece lo porta. […] L’esperienza ci insegna che ci sono state novità in materia di religione che sono state buone e sante; noi sappiamo anche che ciò può capitare tutti i giorni, nei paesi infedeli, introducendo il calvinismo; ma sappiamo anche che ci sono novità utili solo come pretesto per i sediziosi. [Doveri di un sovrano quando si presentano degli innovatori.] Dunque, che cosa dovrebbe fare un sovrano venendo a sapere che nel suo territorio si aggira un nuovo predicatore? Bisogna fin dall’inizio incarcerare lui e tutti coloro che lo seguono? Nient’affatto. Bisogna aspettare per vedere se è un individuo fazioso che punta a diventare potente con le guerre civii. In questo caso non merita alcuna tolleranza: bisogna sterminarlo, almeno nel caso in cui dimostri di essere convinto che ciò che insegna è divino. Io non sto perorando la causa di personaggi di tal fatta, poiché essi sono guidati da disegni condannabili e la religione che predicano, se ne hanno una, è persecutrice e di conseguenza provoca alla lettera quella sventura che io rifiuto. Ma se questo nuovo predicatore non pensa per nulla di scatenare sedizioni, se ha come unico scopo quello di diffondere le proprie opinioni che ritiene sane e veritiere, e di stabilirle solo con l’insegnamento e la ragione, 6
Isaia, 1, 6.
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allora è giusto seguirlo, se si crede che abbia la ragione dalla propria parte; e se invece non ci convince, bisogna permettere a coloro che convince di servire Dio secondo i precetti che egli predica. […] [In che modo il sovrano deve essere il sostentatore della Chiesa.] A questo punto rispondo a un’argomentazione speciosa di cui si servono i nostri avversari. Essi sostengono che fra le benedizioni che Dio promette alla sua Chiesa, quella di donarle dei principi che ne siano sostentatori è fra le principali. Ne convengo; non vi è nulla di più vantaggioso per la Chiesa che principi che la proteggano e la mantengano; che ordinino che sia servita da pastori saggi e illuminati, e che per questo motivo istituiscano collegi e accademie dotate di una buona rendita; che non risparmino le spese necessarie ai suoi bisogni; che abbiano cura di punire gli scandali e i costumi corrotti degli ecclesiastici, affinché gli altri mantengano l’integrità che la loro professione richiede; che con la loro condotta onesta e con le leggi spingano tutti i sudditi a praticare la virtù, e infine che siano sempre pronti a punire severamente tutti coloro che osino provare a opprimere la libertà della Chiesa. Infatti approvo fortemente, e credo sia il dovere indispensabile dei principi, che se nascono sette che vogliono insultare i ministri della religione dominante e impiegare anche la più piccola forza contro coloro che vogliono perseverare nella religione dominante, allora è necessario punire questi settari con tutti mezzi dovuti e ragionevoli e giungere persino al supplizio estremo, se il caso lo richiede, perché in questo caso essi sarebbero dei chiari persecutori, che si servirebbero delle vie di fatto e stravolgerebbero le leggi politiche. Ecco che cosa significa che i principi devono essere i sostentatori della Chiesa, e certamente sarebbe un flagello per la Chiesa se i principi lasciassero i pastori esposti agli insulti dei laici, se li abbandonassero alle loro cupidigie, senza porre loro un freno con saggi regolamenti, se chiudessero i cordoni della borsa davanti ad ogni necessità: ecco che cosa significa che Dio promette come una singolare benedizione l’amicizia e la protezione dei sovrani terreni. [Come i principi non portino la spada senza motivo.] Ma, si aggiunge, ciò non basta. I principi non hanno la spada senza motivo: l’hanno ricevuta da Dio per punire i malvagi, e i peggiori malvagi sono gli eretici. Perché questi ultimi se la prendono con la sovranità di Dio, calpestano le sue verità, avvelenano l’anima che è ciò che costituisce la vera nostra vita, mille volte più preziosa di quella del corpo. Sono dunque molto più pericolosi degli avvelenatori e dei briganti di strada, che uccidono solo il corpo, e quindi devono essere puniti più duramente. Bona verbo quaeso! Se si prende questa strada, si arriverà presto a giu-
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stificare i persecutori dei primi cristiani […] o si armeranno i Cinesi contro tutti i missionari; i principi protestanti contro i loro sudditi cattolici, e in generale ogni sovrano contro le religioni differenti dalla propria; poiché ognuno sosterrà, secondo le sue ragioni, che Dio gli ordina di punire i malfattori, e che non c’è nulla di peggio di coloro che combattono la vera religione. È infatti in questo modo che ognuno giudica la propria religione. Dunque alla base di queste affermazioni c’è un cattivo sofisma: bisogna svelarlo. I nostri avversari non distinguono il diritto che i principi hanno ricevuto di punire con la spada coloro che usano violenza nei confronti del prossimo e che violano la sicurezza pubblica, lo spazio dove ognuno deve essere sottoposto solo alla sovranità della legge. Sto dicendo che essi non distinguono questo diritto da quello che essi, sbagliando, attribuiscono sempre agli stessi principi sulle coscienze. Ma da parte mia, io non confondo affatto le due cose. È certamente vero che i principi hanno ricevuto da Dio una potente autorità di fare impiccare, frustare, imprigionare e punire con pene di vario tipo tutti coloro che maltrattano più o meno violentemente il loro prossimo o nel corpo, o nei suoi beni, o nel suo onore. E ciò è ancora più giusto per il fatto che coloro che compiono queste violenze dimenticano che le commettono non solo contro le leggi dello Stato, ma anche contro la propria coscienza e contro i precetti della loro religione, e che perciò il loro è un atto malvagio compiuto volontariamente. Non credo che ci siano esempi che mostrino che un bandito di strada o un ladro di case, che un avvelenatore, che un duellante, che un falso testimone, che un assassino, condannato a morte da un giudice, abbia sostenuto che aveva seguito i precetti della coscienza e i comandamenti di Dio, mentre compiva i crmini per i quali viene condannato all’impiccagione. Egli pecca consapevolmente e con malvagità e violenta il suo prossimo in dispregio del suo Dio e del suo re. […] [L’eterogeneità delle sette è un male minore della carneficina che i cattolici hanno fatto dei riformati.] Per quanto riguarda il fatto che si pretende che la tolleranza nasca dalla grande varietà di sette che sfigurerebbero la religione, dico che la tolleranza è un male minore e meno vergognoso per il cristianesimo dei massacri, delle forche, delle dragonate7 e di tutte le crudeli esecuzioni, per mezzo delle quali la Chiesa di Roma ha cercato di conservare l’unità, senza peraltro riuscirvi. Chiun7 Le persecuzioni compiute contro i calvinisti francesi dai dragoni dell’esercito di Luigi XIV.
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que sia in sé e usi la propria ragione rimarrà più sconvolto dal leggere nella storia del cristianesimo questa lunga scia di omicidi e violenze, di quanto non lo sarebbe nel vederlo diviso in mille sette. Infatti egli considererebbe che è umanamente inevitabile che uomini vissuti in diverse epoche e in diversi paesi considerino la religione in maniera diversa e che interpretino l’uno in un modo l’altro in un altro ciò che è suscettibile di avere sensi diversi. Bisogna perciò essere meno stupiti di ciò che di vedere che un uomo voglia sottoporre al supplizio delle tenaglie e torturare un altro fintanto che quest’ultimo confessi che crede ciò in cui l’altro crede, e se non lo confessa, lo si brucia sul rogo. Quando si arriva a comprendere che non siamo padroni delle nostre idee e che una legge eterna ci difende dal tradire la nostra coscienza, non si può che provare orrore per coloro che dilaniano il corpo di un uomo, solo perché ha sostenuto idee di un tipo piuttosto che di un altro, e vuole seguire solo l’illuminazione della propria coscienza. In questo modo i nostri convertitori per celare uno scandalo sopra il cristianesimo, ne creano uno ancora più grande. Non voglio assolutamente avvalermi del paragone con un principe, il cui vasto impero contenga parecchie nazioni differenti fra di loro per leggi, usi, costumi e lingua, le quali sappiano onorare il proprio signore secondo l’uso e le abitudini del proprio paese: una tale situazione indicherebbe in quell’impero una grandezza maggiore che se ovuque fosse applicato il medesimo metodo di rispetto. Lo ribadisco, non voglio servirmi di questo esempio per dimostrare che tutte le religioni della terra, per quanto siano bizzarre e diversificate, si confanno in ogni modo alla grandezza infinita dell’Essere sovranamente perfetto, che ha voluto che in materia di diversità tutta quanta la natura lo pregasse con l’appellativo di infinito. No, ciò che voglio dire è che sarebbe già una bella conquista raggiungere l’accordo sulla professione di fede fra tutti gli uomini, o almeno fra tutti i cristiani. Ma poiché un tale avvenimento è una cosa più da augurarsi che da sperare, poiché la diversità di opinioni sembra essere un appannaggio inseparabile dell’uomo, mentre allo stesso tempo egli ha il cuore limitato e senza regole, bisogna almeno ridurre questo male al più piccolo disordine possibile. E l’unica soluzione allora è quella di tollerarsi gli uni gli altri, o nella medesima comunione, se la qualità dell’errore lo sopporta, o almeno nella medesima città. Un bello spirito dell’antichità8 ha detto 8
Terenzio.
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chiaramente che la vita umana è niente altro che un gioco d’azzardo e che bisogna vivere in questo mondo come se si giocasse a dadi. Se gettandoli non succede ciò che domandiamo, bisogna correggere con le nostre capacità ciò che ci è capitato per caso. Dovremmo augurarci che tutti gli uomini avessero la stessa religione; ma poiché ciò non accade, la cosa migliore che si possa fare è arrivare a tollerarci gli uni gli altri. Uno sostiene che non bisogna invocare i santi, l’altro sostiene che bisogna farlo. Poiché ciascuno crede che l’altro si sbagli, allora bisogna cercare di portarlo a correggersi e a ragionare nel modo migliore in cui sarà capace. Ma dopo aver spossato i suoi lumi senza persuaderlo, bisognerà lasciarlo stare, pregare Dio per lui e vivere insieme a lui nell’unione che vi deve essere fra le genti oneste e fra i buoni concittadini. Se così accadesse, la diversità di credenze, chiese e culti non creerebbe disordini all’interno delle città e delle società più che la molteplicità di bancarelle in una fiera, dove ogni onesto mercante vende la propria merce senza intralciare i commerci di un altro. [...] [La tolleranza delle novità può convivere con la quiete pubblica.] Dimenticavo l’obiezione di alcuni che battendo in ritirata potrebbero sostenere che, a dir la verità, se tutti fossero di spirito tollerante, la diversità di religione non sarebbe di alcun danno per lo Stato. Ma, vista la condizione umana che fa sì che uno zelo sconsiderato guidi la maggiorparte degli individui, e soprattutto gli uomini della Chiesa, la prudenza politica non può più consentire che un principe tolleri le sette. Infatti, tollerandole egli scontenta i sudditi che appartengono alla sua stessa religione, si aliena il cuore del proprio clero, capace di rovesciarlo dal trono, bollandolo come empio o come fautore di eresie, e causa migliaia di odi e risentimenti negli spiriti. [Che cosa bisogna fare in questa situazione.] A tutto ciò rispondo che in verità bisognerebbe temere di tutto da coloro che sono posseduti dallo spirito del clero romano, se non si mettesse ordine fin dall’inizio. Ma se un principe sapesse regnare, egli saprebbe mettersi al riparo da questo pericolo. Non dovrebbe infatti far altro che emanare un editto in tutti i suoi territori, in cui si dicesse che non tollererà più le sette, fintanto che tutto quanto il clero della religione dominante non condurrà una vita conforme ai consigli e ai precetti di Gesù Cristo, e non scandalizzerà più il prossimo con la sua mondanità, cupidità, il suo orgoglio e la sua impazienza. Questa condizione piacerebbe senza dubbio ai laici, che non domanderebbero di meglio che vedere una grande purezza di costumi nel clero. Ma dal momento che gli ecclesiastici preferirebbero di certo continuare a vivere nella loro mollezza e la condizione richiesta dal
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principe non si realizzerebbe, allora il re sarebbe dispensato dal dovere di perseguitare le sette; e il popolo si prenderebbe gioco del clero che finirebbe avvelenato da una tolleranza che proprio grazie al vivere in pace lo porterebbe a scomparire. Al di là di ciò, bisognerà poi che il principe scelga un certo numero di uomini onesti, pacifici e moderati, e dia ad alcuni le cariche principali ricoperte dal clero e invii altri a predicare nelle provincie che l’unico modo di combattere le sette è attraverso la condotta di una buona vita e saggi ammaestramenti. In questo modo si porrà il popolo nella condizione di avere opinioni di equità. In ultima analisi, un principe che si vedrà sollecitato a estirpare una religione e che risponderà a coloro che lo sollecitano, che innanzitutto si dovrebbero convincere i settari del loro errore e che solo nel momento in cui essi se ne fossero convinti, egli li caccerà qualora non volessero ricongiungersi alla Chiesa, ebbene un principe di tal fatta provocherebbe un forte imbarazzo nei persecutori. Essi infatti avrebbero la sfrontatezza di dirgli che non è necessario mostrare ai settari che si sbagliano per avere il diritto di punirli, se questi9 sapessero che il principe manderebbe contro di loro arcivescovi di grande autorevolezza e capaci di provare loro con facilità il contrario di quanto sostengono, basandosi sull’autorità dei Padri, della Scrittura e della ragione. Si comprende, dunque, che se la persecuzione delle sette potesse essere mai un male necessario, lo sarebbe o per colpa dei sovrani che si consegnano alla mercé di tutta quanta la consorteria dei monaci e del clero, o per mancanza del lume della ragione, o per motivi malvagi.
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I settari.
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JOHN LOCKE, Lettera sulla tolleranza (1685) Illustrissimo Signore, poiché mi chiede che cosa pensi della reciproca tolleranza tra cristiani, le rispondo in breve che essa mi sembra il più importante segno di riconoscimento di una vera Chiesa. Gli uni possono vantarsi dell’antichità dei loro luoghi di culto e dei nomi di cui si fregiano o dello splendore del culto, altri di una dottrina riformata, tutti infine dell’ortodossia della loro fede (che ciascuno è ortodosso per se stesso); ebbene tutte queste cose, e altre del genere, possono essere segni che gli uomini si disputano il potere e l’autorità, più che segni della Chiesa di Cristo. Chi possiede tutte queste cose, ma è privo di carità, di mansuetudine, di benevolenza verso tutti gli uomini indistintamente, non solo se si professano cristiani, non è ancora un cristiano. Il nostro Salvatore dice ai suoi discepoli «I re pagani dominano su di loro, non voi» (Luca, XXII). Altro è l’interesse della vera religione, che è nata non in vista dello sfarzo esteriore, non per esercitare il dominio ecclesiastico, non infine per usare la forza, ma per regolare la vita umana con rettitudine e pietà. Chi vuole militare nella Chiesa di Cristo deve innanzitutto dichiarare guerra ai propri vizi, alla propria superbia e al proprio piacere; perché invano pretende il nome di cristiano chi non pratica la santità della vita, la castità dei costumi, la benignità e la mansuetudine dell’animo. Nostro Signore disse a Pietro: «Tu che ti sei convertito rafforza i tuoi fratelli» (Luca, XXII). Chi trascura la propria salvezza difficilmente potrà dar a credere di essere eccezionalmente sollecito di quella altrui: non può dedicarsi con tutte le proprie forze al compito di condurre gli altri al cristianesimo, chi non ha ancora veramente accolto nel suo animo la religione di Cristo. Se infatti dobbiamo dar retta al Vangelo e agli apostoli, nessuno può essere cristiano senza carità e senza la fede che opera attraverso l’amore, non con la forza. [...] La tolleranza di quelli che hanno opinioni religiose diverse è così consona al Vangelo e alla ragione, che sembra mostruoso che gli uomini siano ciechi in una luce così chiara. Non voglio qui accusare la superbia e l’ambizione di alcuni, la smoderatezza e il fanatismo, privo di carità e di mansuetudine, di altri. Questi sono vizi forse ineliminabili dalle faccende umane, e tuttavia tali, che nessuno ammette di esserne apertamente accusato; e non c’è quasi nessuno che, traviato da questi vizi, non cerchi tuttavia approvazione, coprendoli con qualche posticcia apparenza di onestà. Ma perché nessuno invochi la sollecitudine per
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lo Stato e l’osservanza delle leggi come pretesto per una persecuzione e una crudeltà poco cristiana e, reciprocamente, altri non pretendano, sotto il pretesto della religione, di poter praticare costumi licenziosi o che sia loro concessa l’impunità dei delitti, perché nessuno, dico, come suddito fedele del principe o come sincero credente, inganni sé o gli altri, io penso che prima di tutto si debba distinguere l’interesse della società civile e quello della religione, e che si debbano stabilire i giusti confini tra la Chiesa e lo Stato. Se non si fa questo, non si può risolvere nessun conflitto tra coloro che hanno effettivamente a cuore, o fanno finta di avere a cuore, la salvezza dell’anima o quella dello Stato. Mi sembra che lo Stato sia una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne, come la terra, il denaro, le suppellettili ecc. È compito del magistrato civile conservare in buono stato a tutto il popolo, preso collettivamente, e a ciascuno, preso singolarmente, la giusta proprietà di queste cose, che concernono questa vita, con leggi imposte a tutti nello stesso modo. Se qualcuno volesse violare queste leggi, contravvenendo a ciò che è giusto e lecito, la sua audacia dovrebbe essere frenata dal timore della pena. La pena consiste nella sottrazione o nell’eliminazione di quei beni, di cui altrimenti il colpevole potrebbe e dovrebbe godere. Ma poiché nessuno si punisce spontaneamente privandosi neppure di una parte dei propri beni, tanto meno della libertà o della vita, il magistrato, per infliggere una pena a coloro che violano il diritto altrui, è armato con la forza, anzi con tutta la potenza dei suoi sudditi. Quanto diremo dimostrerà, mi pare, che tutta la giurisdizione del magistrato concerne soltanto questi beni civili, e che tutto il diritto e la sovranità del potere civile sono limitati e circoscritti alla cura e promozione di questi soli beni; e che essi non devono né possono in alcun modo estendersi alla salvezza delle anime. […] Ora, vediamo che cosa sia una Chiesa. Mi sembra che una Chiesa sia una libera società di uomini che si riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente Dio nel modo che credono sarà accetto alla divinità, per ottenere la salvezza dell’anima. Dico che è una società libera e volontaria. Nessuno nasce membro di una Chiesa, altrimenti la religione del padre e degli avi perverrebbe a ogni uomo per diritto ereditario, insieme con le proprietà, e ciascuno
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dovrebbe la propria fede ai propri natali: non si può pensare nulla più assurdo di questo. Le cose pertanto stanno a questo modo. L’uomo, che per natura non è costretto a far parte di alcuna Chiesa, né legato ad alcuna setta, entra spontaneamente nella società nella quale crede di aver trovato la vera religione e il culto gradito a Dio. La speranza di salvezza che vi trova, come è l’unica ragione per entrare nella Chiesa, così è anche il criterio per rimanervi. Se scoprirà qualcosa di erroneo nella dottrina o di incongruo nel culto, dovrà sempre essergli aperta la possibilità di uscire dalla Chiesa, con la stessa libertà con cui vi era entrato. Infatti, oltre a quelli che sono congiunti con una certa attesa della vita eterna, nessun altro vincolo può essere indissolubile. Una Chiesa pertanto è costituita da membri uniti spontaneamente per questo fine. Dobbiamo ora indagare quale sia il suo potere e a quali leggi sia sottoposta. Poiché nessuna società, per libera che sia o costituita per una ragione di poco conto, si tratti di una società di uomini di studio avente per fine il sapere, o di mercanti avente per fine gli affari, o di uomini senza impegni di lavoro avente per fine la conversazione e la coltivazione dello spirito, può sussistere senza dissolversi immediatamente, se è priva di qualsiasi legge, è necessario che anche la Chiesa abbia le sue leggi, per stabilire i tempi e i luoghi delle riunioni, le condizioni di accettazione e di esclusione e infine la differenza delle cariche, l’ordine delle cose e così via. Poiché essa è una riunione spontanea (come è stato dimostrato), libera da ogni forza di costrizione, segue necessariamente che il diritto di fare le leggi non può risiedere in nessun altro se non nella società stessa o in quelli (ma è la stessa cosa) che la società con il suo assenso ha autorizzato. […] Ciò posto, è facile comprendere lo scopo in relazione al quale deve regolarsi il potere legislativo del magistrato: il bene pubblico, terreno o mondano, che è l’unica ragione, valida per tutti, per entrare a far parte della società ed è l’unico fine dello Stato, una volta che esso si è costituito. È anche facile comprendere quale libertà resti ai privati, nelle cose che concernono la vita futura: qui ciascuno fa ciò che crede che piaccia a Dio, dal cui beneplacito dipende la salvezza degli uomini. Prima infatti si deve obbedienza a Dio, poi alle leggi. Ma si osserverà: che cosa accade se il magistrato con una legge comanda ciò che alla coscienza privata sembra illecito? Osservo che, se lo Stato è amministrato lealmente e gli intendimenti del magistrato sono veramente diretti al bene comune, un fenomeno di questo genere accadrà raramente. Se si verificasse, allora, secondo me, il privato dovrebbe astenersi dall’azione che, in base al
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responso della sua coscienza, è illecita, ma dovrebbe sottostare alla pena che non è illecito sopportare. Infatti il giudizio privato di un qualsiasi cittadino non elimina l’obbligatorietà di una legge promulgata per il bene pubblico e, in materia politica, ne merita tolleranza. Ma se la legge concerne cose poste fuori della giurisdizione del magistrato, p. es. costringe il popolo o una parte di esso ad abbracciare una religione diversa da quella che pratica e ad accettare altri riti diversi dai propri, allora da questa legge non sono obbligati quelli che la pensano in un altro modo. Infatti la società politica è stata fondata soltanto per conservare a ciascun privato la proprietà dei beni di questa vita, e per nessun altro fine: a ciascun privato è mantenuta e riservata la cura della propria anima e delle cose celesti, che non appartiene alla società e che a questa non può essere sottoposta. Compito della società civile è pertanto la tutela della vita e delle cose che servono alla vita; dovere del magistrato è la loro conservazione ai loro proprietari. Le cose terrene non possono, ad arbitrio del magistrato, esser tolte a questo e date a quello, né il magistrato può, neppure con una legge, permutare le proprietà private dei concittadini per una causa che non riguarda affatto la convivenza civile, cioè per la religione, la cui verità o falsità non fa nessun torto agli altri cittadini nelle cose di questo mondo, che sono le sole sottoposte allo Stato. E se il magistrato crede di far questo per il bene pubblico? Come il giudizio privato di ciascun cittadino, se è falso, non lo esime affatto dall’obbligo di obbedire alle leggi, così il giudizio, per così dire, privato del magistrato non gli conferisce alcun nuovo diritto legislativo sui sudditi, che non gli sia stato conferito e che non potesse essergli conferito nella costituzione dello Stato; tanto meno se il magistrato si comporta così per arricchire e render floridi i suoi seguaci, i membri della setta cui egli appartiene, a danno degli altri. Si chiederà ancora: che cosa accadrà se il magistrato crede che ciò che comanda sia in suo potere e sia utile allo Stato, e i sudditi no? Chi sarà giudice tra loro? Solo Dio, perché tra il legislatore e il popolo non c’è sulla terra nessun giudice. In questo caso Dio solo è arbitro, Dio che nell’ultimo giudizio peserà pene e premi in relazione ai meriti di ciascuno, in base a quello che ciascuno avrà fatto per provvedere sinceramente, secondo quel che doveva e poteva, al bene pubblico, alla pace e alla pietà. E nel frattempo? Bisogna avere innanzi tutto cura della propria anima e bisogna adoperarsi il più possibile per la pace, sebbene siano pochi quelli che credono che ci sia la pace dove vedono che si è fatto il deserto. I conflitti tra gli uomini possono essere risolti con due criteri, o con il diritto o con la forza. Si tratta di due criteri tali che, dove vien meno
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uno, incomincia l’altro. Non spetta a me cercare fin dove si estendano, presso i singoli popoli, i diritti del magistrato; io so solo ciò che accade quando nasce una controversia e manca il giudice per risolverla. Ma allora il magistrato, che è il più forte, farà ciò che crederà essergli utile? Tu dici come vanno le cose; ma qui si cerca la norma del retto comportamento e non come di fatto accadono le cose dubbie. Ma scendiamo nei particolari. 1. Il magistrato non deve tollerare nessuna credenza avversa e contraria alla società umana e ai buoni costumi necessari per conservare la società civile. Ma ci sono rari esempi di credenze di questo genere in qualsiasi Chiesa. Nessuna setta suole arrivare a un grado di pazzia tale, da insegnare come dogmi religiosi quelle cose che minano evidentemente i fondamenti della società e, perciò, sono oggetto di condanna unanime da parte del genere umano, e che mettono in pericolo i beni, la pace e la reputazione dei propri membri. 2. Un male certamente più nascosto, ma anche più pericoloso per lo Stato, è costituito da coloro che riservano per sé e per i membri della propria setta una qualche prerogativa contraria al diritto civile, celata con opportuni involucri di parole, destinate a gettar fumo negli occhi. Forse non si troverà in nessun luogo qualcuno che insegni francamente e apertamente che non si deve mantenere la promessa data, che il sovrano può essere cacciato dal trono da una qualsiasi setta, che solo i membri di quella setta hanno il dominio su tutte le cose. Queste cose, dette apertamente e senza fronzoli, risveglierebbero subito l’attenzione del magistrato, e attirerebbero su di sé gli occhi e i provvedimenti dello Stato, diretti ad evitare che un male di questo genere continui a insinuarsi nascostamente nel seno della società. Ma si trovano persone che con altre parole dicono le stesse cose. Che cos’altro intendono quelli che insegnano che non si deve rispettare la parola data agli eretici? Questo vogliono dire: che ad essi è concesso il privilegio di rompere la fede data, perché condannano come eretici tutti coloro che non appartengono alla loro comunità religiosa, o almeno possono pronunciare una condanna di questo genere al momento opportuno. Il diritto di cacciare dal trono i re scomunicati a che altro tende se non ad arrogarsi il potere di scacciare i re dal loro regno, dal momento che rivendicano esclusivamente alla loro gerarchia il diritto di scomunica? Che il potere è fondato sulla grazia è una proposizione che attribuisce la proprietà di tutti i beni ai suoi sostenitori, i quali non saranno così sciocchi da non voler credere o professare di essere essi veramente pii e fedeli. Dunque costoro e i loro simili, che attribuiscono ai fedeli, alle persone religiose, agli ortodossi, cioè a se stes-
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si, un qualche privilegio sugli altri mortali o qualche potere nelle cose civili, che con il pretesto della religione rivendicano un qualche dominio sugli uomini estranei alla loro comunità ecclesiastica, o in qualche modo separati da essi, costoro, dico, non possono avere alcun diritto a essere tollerati dal magistrato; e, insieme a questi, anche quelli che si rifiutano di insegnare che pure gli altri, che dissentono da loro in fatto di religione, devono essere tollerati. Infatti che cos’altro insegnano essi e tutti i loro simili, se non che in qualsiasi occasione è loro concesso di violare i diritti dello Stato e la libertà e i beni dei cittadini, e che cos’altro chiedono al magistrato, se non indulgenza e libertà, fino a quando avranno forze ed armi sufficienti per osare di realizzare i loro programmi? 3. Non può avere diritto alla tolleranza una Chiesa nella quale, chiunque vi entri, per il solo fatto che vi entra, passa al servizio e all’obbedienza di un altro sovrano. Se la tollerasse, il magistrato offrirebbe lo spazio per una giurisdizione straniera nei propri territori e città, e permetterebbe che tra i suoi cittadini fossero arruolati i soldati per combattere contro il proprio Stato. Nessun rimedio a questo male arreca la distinzione, non seria e ingannevole, tra corte e Chiesa, quando l’una e l’altra sono ugualmente sottoposte al potere assoluto della medesima persona, che può suggerire, o anzi ingiungere, alla sua Chiesa tutto ciò che vuole, o in quanto è spirituale o in quanto si riferisce a ciò che è spirituale, sotto pena del fuoco eterno. E inutile professarsi maomettano solo di religione, e per il resto dirsi suddito fedele del magistrato cristiano, se si riconosce poi di dovere cieca obbedienza al Muftì di Costantinopoli, che a sua volta è obbedientissimo all’imperatore ottomano e a suo talento manipola gli oracoli della sua religione. Tuttavia ancora più apertamente ripudierebbe lo Stato cristiano un turco che, vivendo tra cristiani, riconoscesse che il capo della sua Chiesa e chi detiene il potere sovrano sono la medesima persona. 4. Non devono essere assolutamente tollerati quelli che negano che ci sia una divinità. Infatti né una promessa, né un patto, né un giuramento, tutte cose che costituiscono i legami della società, se provengono da un ateo, possono costituire qualcosa di stabile o di sacro; eliminato Dio, anche solo con il pensiero, tutte queste cose si dissolvono. Inoltre non può invocare nessun diritto alla tolleranza in nome della religione chi, con l’ateismo, elimina completamente ogni religione. Quanto alle altre credenze pratiche, anche se non sono scevre da ogni errore, tuttavia se attraverso di esse non si cerca di ottenere predominio e impunità civile, non si può dare nessuna ragione per cui non debbano essere tollerate le Chiese nelle quali si insegnano.
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DAVID HUME, Storia naturale della religione (1751) Dato che ogni indagine riguardante la religione è della massima importanza, due problemi si impongono soprattutto alla nostra attenzione: il primo è quello dei suoi fondamenti razionali, l’altro concerne le sue origini nella natura umana. Per fortuna il primo – che è il più importante – può essere risolto nel modo più ovvio o almeno più chiaro. L’intera costituzione della natura rivela un autore intelligente; e nessuno che indaghi secondo ragione può, dopo seria riflessione, sospendere sia pure per un momento la sua credenza nei primi princìpi dello schietto teismo e della religione. Ma il problema dell’origine della religione nella natura umana va incontro a difficoltà maggiori. La credenza in un potere invisibile ed intelligente è stata sempre diffusa largamente nella razza umana, in tutti i luoghi e in tutte le età, ma non è mai stata così universale da non ammettere eccezioni, né ha suggerito idee affatto uniformi. Si è scoperto qualche popolo privo di sentimenti religiosi, se c’è da credere a quel che dicono i viaggiatori e gli storici; ma non esistono due popoli, e neppure due uomini qualsiasi, che siano perfettamente convinti della medesima opinione. Sembra, dunque, che questi preconcetti non sorgano da un istinto o da un impulso spontaneo della natura, come quello donde nascono l’amor proprio, l’affezione fra i due sessi, l’amore dei figli, la gratitudine, il risentimento: giacché ogni istinto di questo genere risulta per esperienza assolutamente universale in tutti i popoli ed in tutte le età, ed ha sempre un oggetto preciso e determinato che persegue inflessibilmente. I primi princìpi religiosi debbono essere secondari; poiché varie cause ed accidenti possono pervertirli, ed anche i loro effetti, in alcuni casi – per un concorso straordinario di circostanze – possono essere totalmente pervertiti. Quali siano i princìpi che danno luogo alla credenza originaria, e quali le cause e gli accidenti che ne guidano le manifestazioni, sarà argomento di questa nostra indagine. CAP. XI – Paragone fra queste religioni per quanto riguarda la persecuzione e la tolleranza Il politeismo, o culto idolatrico interamente fondato sulla tradizione popolare, ha un grande inconveniente: può autorizzare qualsiasi pratica o opinione, per quanto barbara o corrotta. I furfanti hanno
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mano libera nel frodare i credenti, fino a escludere ogni moralità e umanità del sistema religioso. D’altra parte l’idolatria ha un vantaggio evidente: limitando i poteri e le funzioni delle sue divinità, ammette naturalmente gli dèi delle altre sette e degli altri popoli a godersi una porzione di divinità, e li concilia tutti, come fa anche con i riti, le cerimonie o le tradizioni. Il teismo è proprio l’opposto, sia nei suoi vantaggi sia nei suoi svantaggi. Poiché questo sistema suppone un solo dio – perfetto per razionalità e bontà – deve, se rettamente inteso, bandire ogni cosa frivola, irragionevole o inumana dalle credenze religiose, ed offrire agli uomini, come esempio, i più seducenti modelli di giustizia e benevolenza. Tuttavia questi enormi vantaggi non sono sopraffatti (ciò sarebbe impossibile), ma sminuiti alquanto dagli ostacoli dovuti ai vizi ed ai pregiudizi degli uomini. Quando venga riconosciuto un solo oggetto di devozione, il culto di altre divinità è considerato assurdo ed empio. Inoltre questa unità di oggetto esige naturalmente unità di fede e di cerimonie, ed offre ai malvagi la possibilità di additare i loro avversari come empi e meritevoli della vendetta non solo divina, ma anche umana. E poiché ogni setta è convinta che la sua fede e il suo culto sono proprio quelli graditi alla divinità, e non sa rendersi conto di come lo stesso essere possa compiacersi di riti e princìpi diversi e magari opposti, le singole sette entrano fatalmente in conflitto tra loro, e scaricano l’una sull’altra rancore e sacro zelo, le passioni umane più furiose ed implacabili. Lo spirito tollerante degli idolatri antichi e moderni è evidente per chi pratichi scritti di storici o di viaggiatori. Quali sono – si chiese all’oracolo di Delfo – i riti o i culti più accetti agli dèi? Quelli legalmente vigenti in ogni città, rispose l’oracolo. Pare che a quei tempi i preti fossero in grado di garantire la salute eterna anche a persone di confessioni diverse dalla loro. Di solito i romani adottavano gli dèi dei popoli conquistati, né ponevano in questione gli attributi delle divinità locali e nazionali nel cui territorio risiedevano. Tuttavia le guerre e le persecuzioni degli idolatri egiziani sono eccezioni a questa regola, ma gli antichi autori le spiegano con ragioni singolari e notevoli. Le divinità delle diverse sette egizie erano animali di diverse specie, e poiché erano in guerra continua tra loro, anche i loro devoti scendevano in lizza. Gli adoratori dei cani non potevano rimanere a lungo in pace con quelli dei gatti o dei lupi. Ma ove non sorgesse qualche dissidio del genere, le superstizioni egiziane non furono intolleranti come comunemente si crede; così, apprendiamo da Erodoto che Amasis contribuì largamente alla ricostruzione del tempio di Delfo.
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L’intolleranza di quasi tutte le religioni che tengono fede all’unità di Dio è caratteristica quanto la tolleranza dei politeisti. Lo spirito implacabilmente fanatico degli ebrei è ben noto. Il maomettismo sorse con princìpi ancor più sanguinari, ed ancor oggi condanna, anche se non con il fuoco e il rogo, tutte le altre sette. E se, fra i cristiani, gli inglesi e gli olandesi hanno abbracciato princìpi di tolleranza, l’eccezione si deve alla fermezza del magistrato civile contro le pressioni continue dei preti e dei bigotti. I discepoli di Zoroastro chiusero le porte del cielo a tutti, tranne ai magi. Nulla potè ostacolare l’avanzata dei persiani in Grecia più del furioso zelo di questo popolo contro i templi e le immagini dei greci. E dopo la disfatta dell’Impero, troviamo Alessandro, politeista, dedito a ristabilire immediatamente il culto dei babilonesi, che i loro primi principi monoteisti avevano estirpato con cura. Anzi, l’attaccamento cieco e devoto alle superstizioni dei greci non gli impedì di sacrificare secondo i riti e le cerimonie babilonesi. Il politeismo è così socievole che se anche incontra, in una religione avversa, ostilità e ferocia, difficilmente se ne sdegna o se ne tiene lontano. Augusto lodò moltissimo la riservatezza di suo nipote Gaio Cesare, allorché questo principe, passando per Gerusalemme, non si degnò di sacrificare secondo la legge giudaica. Ma perché l’imperatore romano approvò tanto questa condotta? Solo perché la religione ebraica era considerata dai pagani ignobile e barbara. Mi azzarderò ad affermare che di rado la corruzione del politeismo o dell’idolatria è più perniciosa alla società di quella di un teismo spinto ad eccessi fanatici. I sacrifici umani dei cartaginesi, dei messicani e di altri popoli barbari eccedono di poco l’Inquisizione e le persecuzioni di Roma e di Madrid. Perché, a parte il fatto che lo spargimento di sangue non fu certo così grande nel primo caso come nell’ultimo: a parte questo, dico, le vittime umane, scelte a sorte o in base a segni esteriori, non avevano molta importanza per il resto della società. Invece virtù, conoscenza, amore per la libertà, erano le qualità che attraevano sul capo di chi le aveva le vendette degli inquisitori; e una volta tolte di mezzo, il consorzio umano piombava nella ignoranza, nella corruzione e nella schiavitù più vergognosa. L’assassinio illegale di un sol uomo, consumato da un tiranno, è più pernicioso della morte di mille per pestilenza, carestia, o altra cieca calamità. Nel tempio di Diana all’Ariccia, vicino a Roma, chiunque assassinava il prete in carica era nominato suo legittimo successore. Che singolare istituzione! Infatti, per quanto barbariche e sanguinose appaia-
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no ai laici, le superstizioni volgari danno sempre luogo a vantaggi per il clero nel suo insieme. CAP. XV – Corollario generale Sebbene l’imbecillità degli uomini, barbari e ignoranti, sia tale da renderli incapaci di riconoscere un autore sovrano nelle comuni opere della natura cui sono più avvezzi, tuttavia non sembra possibile che una persona di retto intendimento possa respingerne l’idea, se le è suggerita. Una finalità, un piano, un disegno, sono evidenti in tutte le cose; e quando la nostra mente si leva a contemplare la prima origine del sistema, dobbiamo accogliere con salda convinzione l’idea di un suo autore o di una sua causa intelligente. Inoltre l’ordine regolare predominante nella struttura dell’universo ci indurrà naturalmente – se non necessariamente – a concepire quest’intelligenza come unica e individua, salvo che i pregiudizi dell’educazione non si oppongano ad una teoria così ragionevole. Anche i contrasti della natura, rivelandosi ovunque, dimostrano la presenza di un piano e rinviano ad un fine unitario, anche se inesplicabile ed incomprensibile. Bene e male sono ovunque mescolati e confusi: felicità e miseria, saggezza e follia, virtù e vizio. Nulla è puro e compatto. Ogni vantaggio va unito a uno svantaggio. Una legge universale di compensazione domina tutte le condizioni dell’essere e della esistenza. Noi non possiamo, nemmeno con le fantasie più chimeriche, formarci l’idea di una condizione del tutto desiderabile. La bevanda della vita – come dice il poeta – ci è versata dalle due anfore che Giove tiene a destra e a sinistra. Se ci viene offerta una coppa del tutto pura, proviene certamente – dice lo stesso poeta – dal vaso di sinistra. Quanto più squisito è il bene che ci viene offerto tanto più violento è il male; è difficile trovare eccezioni a questa legge uniforme della natura. Lo spirito più geniale è prossimo alla follia; le maggiori effusioni di gioia producono la più cupa malinconia; i piaceri più allettanti vanno uniti alla stanchezza e al disgusto più crudele; le speranze più seducenti cedono alle più cocenti delusioni. In generale non c’è vita così sicura (perché la felicità non bisogna nemmeno sognarla) come quella temperante e moderata, quella che mantiene per quanto possibile in tutte le cose la mediocrità e una sorta di insensibilità. Poiché soltanto nei princìpi genuini del teismo si trova tutto ciò che è buono, grande, sublime, esaltante, per analogia con quanto av-
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viene in natura dobbiamo attenderci di scoprire nelle finzioni e chimere religiose ciò che è volgare, assurdo, puerile, orrido. La tendenza universale a credere in un potere invisibile ed intelligente, se non è un istinto originario, è almeno qualcosa di generalmente connesso alla natura umana, e lo si può considerare una sorta di marchio con cui l’artefice ha contrassegnato la propria opera; e non c’è cosa che possa fare più onore all’uomo del fatto di distinguersi così dalle altre parti della creazione e di recare in sé l’impronta del creatore universale. Ma osservate come tale immagine si presenta nelle religioni popolari di tutto il mondo: come viene sfigurata la divinità nelle nostre rappresentazioni! Quanti capricci, quante assurdità e immoralità le vengono attribuite! Come è degradata, anche al di sotto dell’indole degli uomini ai quali di solito, nella vita comune, attribuiamo buon senso e virtù! Quale nobile privilegio della specie umana è quello di poter attingere la conoscenza dell’essere supremo e di inferire dalle opere visibili della natura la sublime idea della creazione! Ma rovesciate la medaglia. Percorrete varie età e vari popoli. Esaminate i princìpi religiosi che sono prevalsi di fatto. Non vi potrete persuadere che siano qualcosa di più che morbosi sogni dell’uomo. O forse li crederete immaginazioni capricciose di scimmie travestite, non asserzioni serie, positive e dogmatiche di esseri che si fregiano dell’attributo di ragionevoli. Ascoltate le proteste di tutti gli uomini: nulla è più saldo della loro religione. Esaminate la loro vita: non riuscirete a persuadervi che abbiano la benché minima fede in tale religione. Lo zelo più grande ed autentico non ci salva dall’ipocrisia. La più aperta empietà va congiunta al terrore segreto e alla compunzione. Non esistono madornali assurdità teologiche che non siano state accolte, a volte, anche dalle persone più intelligenti e colte. Non ci sono precetti rigorosi che non siano stati adottati dagli uomini più voluttuosi e scapestrati. L’ignoranza è madre della devozione: è una massima proverbiale, che l’esperienza generale conferma. Ma cercate un popolo interamente privo di religione. Se lo troverete, siate certi che vi apparirà di poco superiore ai bruti. C’è cosa più pura di certe massime morali, incluse in certi sistemi teologici? C’è cosa più turpe delle pratiche che codesti sistemi comportano? Le confortanti prospettive suggeriteci dalla certezza di una vita futura sono seducenti e piacevoli. Ma come si dissolvono rapidamente
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dinanzi ai connessi terrori, che s’impadroniscono dell’animo umano in modo ben più saldo e durevole! Tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio appaiono l’unico risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la fragilità della ragione umana, e tale il contagio irresistibile delle opinioni, che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica, se non guardando più lontano e opponendo superstizione a superstizione, in singolar tenzone; intanto, mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille.
DAVID HUME, Dialoghi sulla religione naturale (1779) PARTE DODICESIMA
Confesso, replicò CLEANTE, di propendere per la direzione opposta. La religione, comunque corrotta, è tuttavia meglio di nessuna religione. La dottrina di una condizione futura rappresenta una sicurezza tanto forte e necessaria per la morale che non dovremmo mai abbandonarla o trascurarla. Perché, se ricompense e punizioni, finite e temporali, hanno un effetto tanto grande, come possiamo vedere quotidianamente, tanto maggiore sarà l’effetto che ci si deve attendere da quelle che sono infinite e eterne. Se la volgare superstizione è cosi salutare alla società, come mai allora, disse FILONE, tutta la storia abbonda di tanti resoconti dei suoi effetti rovinosi sugli affari pubblici? Fazioni, guerre civili, persecuzioni, sovvertimenti di governi, oppressioni, schiavitù, sono le conseguenze disastrose che sempre accompagnano il suo prevalere nelle menti degli uomini. Se mai si fa menzione dello spirito religioso in qualche narrazione storica, siamo sicuri di imbatterci, subito dopo, nella esposizione delle disgrazie che ne seguono. Nessun periodo storico può essere più felice o più prospero di quello in cui non si tiene affatto conto o non si sente mai parlare dello spirito religioso. La ragione di questa osservazione, replicò CLEANTE, è ovvia. L’ufficio proprio della religione è quello di regolare il cuore degli uomini, umanizzare la loro condotta, infondere lo spirito della temperanza,
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dinanzi ai connessi terrori, che s’impadroniscono dell’animo umano in modo ben più saldo e durevole! Tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio appaiono l’unico risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la fragilità della ragione umana, e tale il contagio irresistibile delle opinioni, che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica, se non guardando più lontano e opponendo superstizione a superstizione, in singolar tenzone; intanto, mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille.
DAVID HUME, Dialoghi sulla religione naturale (1779) PARTE DODICESIMA
Confesso, replicò CLEANTE, di propendere per la direzione opposta. La religione, comunque corrotta, è tuttavia meglio di nessuna religione. La dottrina di una condizione futura rappresenta una sicurezza tanto forte e necessaria per la morale che non dovremmo mai abbandonarla o trascurarla. Perché, se ricompense e punizioni, finite e temporali, hanno un effetto tanto grande, come possiamo vedere quotidianamente, tanto maggiore sarà l’effetto che ci si deve attendere da quelle che sono infinite e eterne. Se la volgare superstizione è cosi salutare alla società, come mai allora, disse FILONE, tutta la storia abbonda di tanti resoconti dei suoi effetti rovinosi sugli affari pubblici? Fazioni, guerre civili, persecuzioni, sovvertimenti di governi, oppressioni, schiavitù, sono le conseguenze disastrose che sempre accompagnano il suo prevalere nelle menti degli uomini. Se mai si fa menzione dello spirito religioso in qualche narrazione storica, siamo sicuri di imbatterci, subito dopo, nella esposizione delle disgrazie che ne seguono. Nessun periodo storico può essere più felice o più prospero di quello in cui non si tiene affatto conto o non si sente mai parlare dello spirito religioso. La ragione di questa osservazione, replicò CLEANTE, è ovvia. L’ufficio proprio della religione è quello di regolare il cuore degli uomini, umanizzare la loro condotta, infondere lo spirito della temperanza,
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dell’ordine, dell’obbedienza, e poiché la sua azione è silenziosa e tende solo a rafforzare le motivazioni della moralità e della giustizia, corre perciò il pericolo di passare inosservata e di essere confusa con queste altre motivazioni. Quando se ne distingue e agisce sugli uomini come principio separato, allora si allontana dalla propria sfera e diventa solo una copertura per fazioni e ambizioni. Ed è questo che succede in ogni religione, disse FILONE, esclusa quella di tipo filosofico e razionale. Si può sfuggire più facilmente ai vostri ragionamenti che non ai miei fatti. Poiché ricompense e punizioni finite e temporali hanno una grande influenza, non è corretto inferire che quelle infinite e eterne debbano averne una più grande. Considerate, vi prego, l’attaccamento che abbiamo per le cose presenti, e il poco interesse che manifestiamo per gli oggetti più lontani e incerti. Quando gli ecclesiastici predicano contro il comportamento comune e la condotta del mondo, presentano sempre questo principio come il più forte che si possa immaginare (e in verità lo è), e descrivono il genere umano quasi tutto sottoposto alla sua influenza e sprofondato nel letargo e nella indifferenza più profondi verso gli interessi religiosi. Tuttavia, questi stessi ecclesiastici, quando confutano i loro avversari sul piano teorico, suppongono che le motivazioni religiose siano così potenti che, senza di esse, non sarebbe possibile alcuna sopravvivenza della società civile, e non provano neanche vergogna di tanta palese contraddizione. L’esperienza ci dimostra con certezza che il più piccolo granello di onestà e benevolenza naturali ha più effetto sulla condotta degli uomini, che non le visioni più pompose suggerite da teorie e sistemi teologici. L’inclinazione naturale dell’uomo opera su di lui incessantemente, è sempre presente alla sua mente, si fonde con ogni sua opinione e considerazione, al contrario le motivazioni religiose, se mai agiscono, operano solo a tratti e in modo saltuario, ed è raro che possano diventare completamente abituali per la mente. La forza di gravità più grande, dicono i filosofi, è infinitamente piccola a confronto della forza del minimo impulso, tuttavia è certo che la più piccola gravità prevarrà alla fine su un forte impulso, perché colpi e spinte non possono mai ripetersi con la stessa costanza dell’attrazione e della gravitazione. Altro vantaggio dell’inclinazione naturale è che essa attira su di sé tutta l’arguzia e l’ingegno della mente e infatti, se posta in contrasto con i principì religiosi, cerca di aggirarli con ogni mezzo e artificio, e quasi sempre con successo. Chi può spiegare il cuore umano o dare
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conto di quegli strani espedienti e scuse con cui la gente appaga se stessa, quando segue le sue inclinazioni in contrasto con i suoi doveri religiosi? Tutto ciò è ben noto al mondo, e nessuno, se non i folli, accorda minore fiducia a un uomo perché ha sentito dire che lo studio e la filosofia lo hanno portato a nutrire dubbi di natura teorica nei riguardi delle materie teologiche. Mentre, quando abbiamo a che fare con un uomo che fa grande professione di religione e devozione, l’effetto su coloro che passano per prudenti non è forse quello di metterli in guardia per non essere truffati e ingannati da lui? Inoltre, dobbiamo considerare che i filosofi, coltivando la ragione e la riflessione, si trovano ad avere meno bisogno di simili motivazioni per rispettare il vincolo morale, mentre la gente comune, unica ad averne bisogno, è del tutto incapace di sentire una religione tanto pura da rappresentare una Divinità che non si compiace di nulla se non della virtù del comportamento umano. Le raccomandazioni alla Divinità vengono generalmente considerate o come osservanze frivole, o come rapimenti estatici, o come credulità bigotte. Non abbiamo bisogno di riandare all’antichità, o vagare per regioni lontane, per trovare esempi di questa degenerazione. Anche in mezzo a noi alcuni si sono macchiati di atrocità, sconosciute alle superstizioni di egiziani e greci, col predicare esplicitamente contro la moralità, e rappresentare la minima considerazione o fiducia nella moralità come sicura perdita del favore divino. Ma anche se superstizione o entusiasmo non dovessero porsi in diretta opposizione con la moralità, il solo fatto di distogliere l’attenzione dalla moralità, di far nascere nuove e frivole specie di merito, di fare una classificazione assurda di ciò che è lodevole o biasimevole, deve avere conseguenze massimamente rovinose, e deve indebolire estremamente l’attaccamento degli uomini alle motivazioni naturali di giustizia e di umanità. Un simile principio di azione, non essendo fra le motivazioni proprie della condotta umana, agisce sul carattere solo a intervalli, e, perché il pio fanatico possa essere soddisfatto della propria condotta e adempiere la sua missione di devoto, quel principio deve essere risvegliato con sforzi continui. Molti esercizi religiosi vengono intrapresi con apparente fervore, mentre in quel momento il cuore è freddo e indifferente. Una abitudine alla finzione viene gradualmente contratta, e frode e falsità diventano il principio dominante. Da qui la ragione di quella osservazione comune, secondo la quale il più alto grado di zelo religioso e la più profonda ipocrisia, lungi dall’essere in contraddizio-
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ne, sono spesso o comunemente uniti nel carattere dello stesso individuo. Gli effetti dannosi di tali abitudini, anche nella vita comune, sono facilmente immaginabili. Ma, quando poi vengono toccati gli interessi della religione, non c’è moralità che possa essere abbastanza convincente da costringere il fanatico entusiasta. La sacralità della causa santifica ogni mezzo che possa essere usato per promuoverla. L’attenzione costante a un così importante interesse, come quello della salvezza eterna, è capace da sola di estinguere le affezioni benevole e generare un meschino e gretto egoismo. E quando un tale temperamento viene incoraggiato, è facile eludere tutti i precetti generali di carità e benevolenza. Quindi le motivazioni della volgare superstizione non hanno grande influenza sulla condotta generale, e nei casi in cui sono predominanti, la loro influenza non è affatto favorevole alla moralità. C’è forse qualche massima in politica più certa e infallibile di quella che dice che il numero e l’autorità dei preti devono essere confinati entro limiti molto ristretti, e che il magistrato civile deve sempre tenere i suoi fasci e le sue verghe lontani da mani tanto pericolose? Se lo spirito di religione popolare fosse così salutare alla società, dovrebbe al contrario prevalere una massima contraria. Più è grande il numero dei preti, più è grande la loro autorità e ricchezza, e più aumenterà lo spirito religioso. E sebbene i preti abbiano la guida di questo spirito, perché non dovremmo aspettarci una santità di vita superiore, e una più grande benevolenza e moderazione, da parte di persone che si votano alla religione, che continuamente la inculcano negli altri, e che devono essi stessi esserne in gran parte imbevuti? Come mai avviene, allora, che nei fatti il massimo che un saggio magistrato possa proporsi nei riguardi delle religioni popolari è farne, per quanto possibile, un gioco sicuro e prevenirne le conseguenze rovinose sulla società? Ogni espediente che viene tentato per un fine così modesto dà luogo a inconvenienti. Se ammette una sola religione fra i suoi governati, deve sacrificare ogni considerazione per la libertà pubblica, la scienza, la ragione, l’operosità, e perfino per l’indipendenza, a fronte di una incerta prospettiva di tranquillità. Se accetta diverse sette, che è la linea di condotta più saggia, deve conservare un accentuato distacco filosofico nei confronti di ognuna di loro, e limitare attentamente le pretese della setta prevalente. In caso contrario non deve aspettarsi altro che una serie infinita di dispute, controversie, fazioni, persecuzioni e rivolte civili.
Presentazione Se in Inghilterra il Toleration Act del 1689 aveva sancito la pacificazione almeno fra le sette protestanti ufficialmente riconosciute, il legame fra potere monarchico e religione in Francia rimase forte per tutto il XVIII secolo, segnale della persistenza del sistema assolutista di ancien régime realizzato da Luigi XIV, il cui potere si fondava anche sulla solida alleanza con la Chiesa. La storia francese del XVIII secolo può perciò essere letta come storia di persecuzioni e atti intolleranti di cui sono vittime tutti coloro che non riconoscono (o sono accusati di non riconoscere) i dogmi assolutistici della religione cattolica. Contro questo sistema sociale e di potere e in nome di un riformismo «illuminato» dalla ragione fu combattuta dai philosophes francesi la lotta contro ogni forma di assolutismo. La polemica viene condotta nei confronti di tutte le religioni confessionali che impongono i propri dogmi oscurando la ragione degli individui; in particolare, si attacca la Chiesa cattolica e l’alleanza fra trono e altare. Una delle parole d’ordine di questa lotta fu tolleranza, intesa quale «misura» – come la definisce Romilli figlio, redattore per l’Enciclopedia della voce Tolleranza che qui pubblichiamo – necessaria per dirimere i conflitti umani che sono solo frutto della debolezza della ragione umana. Principale attore di questa lotta fu Voltaire, l’Homme aux Calas, come l’appellarono nel 1778 i parigini al suo rientro trionfale nella capitale francese, ricordando in tal modo la sua strenua battaglia politica e giuridica combattuta tra il 1762 e il 1765 per riabilitare il nome di Jean Calas, il protestante di Tolosa condannato al supplizio e dalla cui vicenda Voltaire aveva preso inizio nel comporre il Trattato sulla tolleranza. I passi voltairiani che si presentano nelle prossime pagine sono tratti da opere diverse e intendono tracciare – seppure sommariamente
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– l’arco della riflessione voltariana sul concetto di tolleranza che attraversa tutta la sua vasta produzione. Dalle Lettere filosofiche, composte nel 1732 al ritorno dall’esilio inglese, fino agli scritti degli anni sessanta del XVIII secolo (il Trattato sulla tolleranza, il Dizionario filosofico o i pamphlets satirici Riflessioni per gli sciocchi e la Pace perpetua), composti durante la battaglia contro l’infâme, la tolleranza appare il cuore del pensiero politico di Voltaire. La tolleranza voltariana, benché acquisita dalla riflessione deista sulla religione naturale, assume rapidamente una connotazione più politica che etica (come era invece per i deisti inglesi), rientrando in un più ampio progetto di riforma, che ne fa un compiuto concetto politico, proprio perché orientato dalla prassi e al tempo stesso ad essa indirizzato. Sintomo e al tempo stesso tentativo di soluzione della crisi d’ancien régime, la tolleranza di Voltaire, pensata al fine sia di legittimare uno Stato fondato sulle leggi sia di garantire la libertà privata dell’individuo, contribuisce ad aprire uno spazio politico nuovo, quello dello Stato sovrano fondato sulla garanzia costituzionale dei diritti dell’uomo e del cittadino, che verrà affermato storicamente per la prima volta durante la Rivoluzione francese. L’evento rivoluzionario determina una trasformazione concettuale nelle domande che i soggetti rivolgono all’istituzione politica: non più tolleranza, ma diritti, di cui la libertà religiosa è uno dei principali. Il nuovo ordine politico, lo Stato, è in grado di rispondere a questa domanda, proprio perché si legittima, tra l’altro, come garante dei diritti dell’uomo, esito teorico e pratico anche della moderna lotta per la tolleranza. A differenza della tolleranza, tuttavia, i diritti non vengono più concessi (come avveniva in antico regime), ma riconosciuti. Il radicale mutamento di paradigma filosofico-politico, ma anche di pratica politica, che la catastrofe rivoluzionaria provoca in Europa, emerge con evidenza nel saggio di Tom Paine I diritti dell’uomo (1791). Nelle pagine che presentiamo l’Autore si serve, riprendendolo dalla Costituzione francese del 1791 e dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, del nuovo lessico dei diritti, che viene usato polemicamente contro ogni forma di politica di tolleranza, simbolo ormai della vecchia e repressiva politica dell’ancien régime. Nella nuova situazione politica la parola tolleranza perde la sua valenza positiva di arma di lotta politica e assume con evidenza il suo originario concetto negativo. Se dal punto di vista della storia del concetto politico di tolleranza il testo simbolico del XVIII secolo è senza dubbio il Trattato voltariano, paradigmatico della riflessione sulla libertà – declinata in tutte le
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sue forme e dunque anche come libertà religiosa – che il XIX secolo sviluppa è il saggio Sulla libertà di John Stuart Mill, di cui alla fine di questa sezione, dedicata al passaggio dalla tolleranza al diritto di libertà religiosa, presentiamo alcuni brani. Il pensiero politico europeo nel 1858, l’anno di pubblicazione del saggio milliano, non discute più di tolleranza, ma propone alla riflessione politica il tema della necessità della libertà civile, fondata anche sul riconoscimento del pluralismo delle opinioni che la lotta per la tolleranza ha contribuito ad affermare.
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VOLTAIRE, Lettere filosofiche (1732) Lettera Quinta – Sulla religione anglicana È questo il paese delle sette. Un Inglese, da uomo libero, va in cielo per la strada che gli piace. Tuttavia, benché ognuno possa qui servire Dio a suo talento, la loro vera religione, quella con la quale si fa fortuna, è la setta degli episcopali, chiamata chiesa anglicana o la Chiesa per eccellenza. Non si può ottenere un impiego né in Inghilterra né in Irlanda senza essere nel numero dei fedeli anglicani; questo fatto, che è una valida prova, ha convertito tanti non-conformisti che oggi soltanto la ventesima parte della nazione è fuori del grembo della chiesa dominante. Il clero anglicano ha conservato molti usi cattolici e soprattutto quello di riscuotere le decime con cura molto scrupolosa. Hanno così la pia ambizione di far da padroni. Anzi fomentano finché possono nelle loro pecorelle un santo zelo contro i non-conformisti. Tale zelo era assai vivo sotto il governo dei tories negli ultimi anni della regina Anna; ma si limitava a rompere, a volte, i vetri delle cappelle degli eretici, perché la furia delle sette si è esaurita in Inghilterra con le guerre civili, e sotto la regina Anna non era più che il rumore sordo d’un mare ancora a lungo agitato dopo la tempesta. Quando i whìgs e i tories dilaniarono il loro paese come in altri tempi i guelfi e i ghibellini, accadde che la religione entrò nei partiti. I tories erano per l’episcopato; i whìgs lo volevano abolire, ma si sono contentati di moderarlo, quando sono diventati i padroni. Al tempo in cui il conte Harley di Oxford e lord Bolingbroke offrivano da bere alla salute dei tories, la chiesa anglicana li considerava i difensori dei suoi tanti privilegi. L’assemblea del basso clero, che è una specie di camera dei Comuni composta di ecclesiastici, aveva allora qualche credito; godeva almeno della libertà di riunirsi in assemblea, di discutere sulle controversie e di far bruciare, di tempo in tempo, qualche libro empio, cioè scritto contro di essa. Il governo che oggi è whig, non solo non permette a quei signori di tenere le loro riunioni, ma essi sono ridotti, nell’oscurità della loro parrocchia, al triste ufficio di pregare Dio per il governo, che sarebbero lieti di contrastare. Quanto ai vescovi, che sono in tutto ventisei, siedono alla Camera alta a dispetto dei whìgs, poiché sussiste ancora il vecchio abuso di considerarli baroni; ma non hanno nella Camera più potere di quanto ne abbiano duchi e pari nel Parlamento di Parigi. Vi
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è una clausola nel giuramento che si presta allo Stato, la quale mette a dura prova la pazienza cristiana di quei signori. Vi si promette di essere della Chiesa, quale essa è stabilita dalla legge. Non c’è vescovo, decano o arciprete che non pensi di esserlo per diritto divino; è motivo di grande mortificazione essere costretti a riconoscere che dipendono in tutto da una miserabile legge fatta da laici profani. Un religioso (il P. Courayer) ha scritto or non è molto un libro per dimostrare la validità e la successione delle ordinazioni anglicane. L’opera è stata proscritta in Francia; ma credete che sia piaciuta al governo d’Inghilterra? Affatto. Quei maledetti whigs si preoccupano pochissimo del fatto che la successione episcopale sia o non sia stata interrotta da loro, e che il vescovo Parker sia stato consacrato in una taverna (come si racconta) o in una chiesa; preferiscono che i vescovi ricevano la loro autorità dal parlamento piuttosto che dagli apostoli. Lord B.1 dice che l’idea del diritto divino serve soltanto a creare dei tiranni in camice e rocchetto, mentre la legge crea dei cittadini. Riguardo ai costumi, il clero inglese è più moderato di quello francese, ed eccone la ragione: tutti gli ecclesiastici sono educati nell’università di Oxford o in quella di Cambridge, lontano dalla corruzione della capitale; sono chiamati alle dignità della Chiesa soltanto molto tardi e in un’età in cui gli uomini non hanno altre passioni se non l’avarizia, allorché la loro ambizione è priva d’incitamento. Qui gli impieghi rappresentano una ricompensa per il lungo servizio prestato nella Chiesa oppure nell’esercito; non si vedono giovanotti vescovi o colonnelli, appena usciti di collegio. Anzi quasi tutti i preti sono sposati; la malagrazia contratta all’università e gli scarsi rapporti che qui si hanno con le donne, fanno sì che comunemente un vescovo si deve contentare della sua. Qualche volta i preti vanno all’osteria, perché l’uso glielo permette, e se si ubriacano lo fanno con serietà e senza scandalo. Quell’essere indefinibile che non è né ecclesiastico né laico, insomma colui che si chiama abate, è una specie sconosciuta in Inghilterra; gli ecclesiastici qui sono tutti riservati e quasi tutti pedanti. Quando sanno che in Francia alcuni giovanotti, noti per le loro gozzoviglie e divenuti prelati per intrighi di donne, fanno l’amore pubblicamente, 1 Si tratta di Lord Bolingbroke, pubblicista e studioso di storia e filosofia, capo del partito tory. Voltaire lo conobbe in Francia negli anni Venti del XVIII secolo e poi ne frequentò il circolo durante l’esilio inglese. Nelle opere di Voltaire lord Bolingbroke diventa una sorta di simbolo dell’anticlericalismo e del laicismo del philosophe.
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si ricreano componendo dolci canzoni, offrono ogni giorno lunghi e raffinati pranzi, e d’altro canto implorano la luce dello Spirito Santo e si proclamano sfacciatamente i successori degli apostoli, ringraziano Dio di essere protestanti. Ma sono indegni eretici, da bruciare nell’inferno, come dice maître François Rabelais; per questo non mi occupo dei loro affari. Lettera Sesta – Sui presbiteriani La religione anglicana è diffusa soltanto in Inghilterra e in Irlanda. Il presbiterianesimo è la religione dominante in Scozia. Il presbiterianesimo non è diverso dal calvinismo delle origini, così come si era diffuso in Francia e com’è a Ginevra. Poiché i preti di questa setta ricevono dalle loro chiese paghe molto modeste, e per questo non possono vivere in un lusso simile a quello dei vescovi, essi hanno preso naturalmente la risoluzione di gridare contro quegli onori che non possono conseguire. Figuratevi l’orgoglioso Diogene che calpestava l’orgoglio di Fiatone: i presbiteriani della Scozia assomigliano non poco a quel fiero e miserabile ragionatore. Trattarono il re Carlo II con molto meno rispetto di quanto Diogene avesse trattato Alessandro. Perché, quando presero le armi in sua difesa contro Cromwell che li aveva ingannati, fecero sorbire a quel povero re quattro prediche al giorno; gli proibivano di giocare; gli davano una penitenza, cosicché Carlo si stancò presto di essere re di tali pedanti e sfuggì loro dalle mani come uno scolaro che se la svigna da un collegio. In confronto a un giovane e vivace baccelliere francese che il mattino strilla nelle scuole di teologia e la sera canta con le dame, un teologo anglicano è un Catone; ma un tal Catone appare un don Giovanni in confronto a un presbiteriano scozzese. Quest’ultimo ostenta un portamento grave, un’aria corrucciata, porta un ampio cappello, un lungo mantello sopra un abito corto, predica con voce nasale e chiama prostituta di Babilonia ogni chiesa in cui alcuni ecclesiastici sono tanto fortunati da avere cinquantamila lire di rendita, e in cui il popolo è tanto buono da tollerarli e da chiamarli monsignore, vostra eccellenza, vostra eminenza. Quei signori, che hanno alcune chiese anche in Inghilterra, hanno introdotto nel paese la moda degli atteggiamenti gravi e severi. Si deve a loro la santificazione della domenica nei tre regni. È proibito in tal giorno lavorare e divertirsi, il che rappresenta il doppio della severità delle chiese cattoliche; niente opera, niente teatro di prosa, niente
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concerti a Londra la domenica; anche il gioco delle carte è così espressamente proibito che vi sono soltanto le persone di rango e i gentiluomini che giocano in quel giorno. Il resto della nazione va alla predica, all’osteria e dalle donnine allegre. Benché la setta episcopale e la presbiteriana siano le due sette dominanti in Inghilterra, tutte le altre vi sono bene accette e convivono benissimo, mentre la maggior parte dei loro predicatori si detestano reciprocamente quasi con la stessa cordialità con cui un giansenista maledice un gesuita. Entrate nella Borsa di Londra, un luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti per la comune utilità i rappresentanti di tutti i popoli. Là l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’un con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che sono falliti; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano accetta l’assicurazione del quacchero. All’uscita di tali pacifiche e libere assemblee, gli uni vanno alla sinagoga, gli altri vanno a bere; uno va a farsi battezzare in una gran tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; un altro fa incidere il prepuzio di suo figlio e fa borbottare sul fanciullo parole ebraiche che non capisce affatto; altri vanno nella loro chiesa ad attendere l’ispirazione di Dio con il cappello in testa, e tutti sono contenti. Se ci fosse in Inghilterra una sola religione, si dovrebbe temere il dispotismo; se ve ne fossero due si taglierebbero la gola; ma ve n’è una trentina e vivono in pace e felicemente.
VOLTAIRE, Sul deismo (1742) Il deismo è una religione diffusa in tutte le religioni; è un metallo che fa lega con tutti gli altri e le cui vene si protendono nel sottosuolo sino ai quattro angoli del mondo. Questa miniera si trova più allo scoperto, ed è più attivamente lavorata, nella Cina; altrove, è dappertutto nascosta, e il segreto è unicamente nelle mani degli adepti. Non c’è paese che conti maggior numero di adepti dell’Inghilterra. In quel paese, nel secolo scorso, c’erano molti atei, come in Francia e in Italia. Si avverava alla lettera quel che aveva detto il cancelliere Bacone: che poca filosofia rende atei e che molta conduce alla conoscenza di Dio. Quando si credeva, con Epicuro, che tutto dipenda dal caso
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concerti a Londra la domenica; anche il gioco delle carte è così espressamente proibito che vi sono soltanto le persone di rango e i gentiluomini che giocano in quel giorno. Il resto della nazione va alla predica, all’osteria e dalle donnine allegre. Benché la setta episcopale e la presbiteriana siano le due sette dominanti in Inghilterra, tutte le altre vi sono bene accette e convivono benissimo, mentre la maggior parte dei loro predicatori si detestano reciprocamente quasi con la stessa cordialità con cui un giansenista maledice un gesuita. Entrate nella Borsa di Londra, un luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti per la comune utilità i rappresentanti di tutti i popoli. Là l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’un con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che sono falliti; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano accetta l’assicurazione del quacchero. All’uscita di tali pacifiche e libere assemblee, gli uni vanno alla sinagoga, gli altri vanno a bere; uno va a farsi battezzare in una gran tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; un altro fa incidere il prepuzio di suo figlio e fa borbottare sul fanciullo parole ebraiche che non capisce affatto; altri vanno nella loro chiesa ad attendere l’ispirazione di Dio con il cappello in testa, e tutti sono contenti. Se ci fosse in Inghilterra una sola religione, si dovrebbe temere il dispotismo; se ve ne fossero due si taglierebbero la gola; ma ve n’è una trentina e vivono in pace e felicemente.
VOLTAIRE, Sul deismo (1742) Il deismo è una religione diffusa in tutte le religioni; è un metallo che fa lega con tutti gli altri e le cui vene si protendono nel sottosuolo sino ai quattro angoli del mondo. Questa miniera si trova più allo scoperto, ed è più attivamente lavorata, nella Cina; altrove, è dappertutto nascosta, e il segreto è unicamente nelle mani degli adepti. Non c’è paese che conti maggior numero di adepti dell’Inghilterra. In quel paese, nel secolo scorso, c’erano molti atei, come in Francia e in Italia. Si avverava alla lettera quel che aveva detto il cancelliere Bacone: che poca filosofia rende atei e che molta conduce alla conoscenza di Dio. Quando si credeva, con Epicuro, che tutto dipenda dal caso
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o, con Aristotele e anche con molti antichi teologi, che nulla nasca per corruzione, e che materia e movimento bastino a far procedere da solo il mondo, si poteva non credere alla Provvidenza. Ma, da quando s’intravvede la natura, che gli antichi non vedevano affatto; e ci si è resi conto che tutto è organizzato, che tutto ha un germe; e si sa che un fungo è, come tutti i mondi, l’opera di una saggezza infinita; coloro che pensano hanno adorato, mentre i loro predecessori avevano bestemmiato. I fisici sono divenuti gli araldi della Provvidenza: un catechista annunzia Dio ai fanciulli, e un Newton lo dimostra ai saggi. Molti si domandano se il deismo, considerato a parte, e senz’alcuna cerimonia religiosa, sia veramente una religione. La risposta è facile: chi riconosce soltanto un Dio creatore, chi considera in Dio solo un essere infinitamente potente, e vede nelle sue creature solo ammirevoli macchine, non ha verso di lui un’attitudine religiosa più di quanto un Europeo che ammiri l’imperatore della Cina non è per questo suddito di quel sovrano. Ma chi pensa che Dio si degnò di stabilire un rapporto tra lui e gli uomini, che li fece liberi, capaci del bene e del male, e che dette a tutti quel buon senso che è l’istinto dell’uomo, e sul quale riposa la legge naturale, costui ha senza dubbio una religione, e una religione molto migliore di tutte le sette esistenti fuori della nostra Chiesa: perché tutte quelle sette son false, mentre la legge naturale è vera. La nostra stessa religione rivelata non è, e non poteva essere, se non quella legge naturale perfezionata. Perciò il deismo è il buon senso non ancora istruitosi intorno alla rivelazione, e le altre religioni sono il buon senso pervertito dalla superstizione. Tutte le sette differiscono l’una dall’altra, perché provengono dagli uomini; la morale è in ogni dove la medesima, perché proviene da Dio. Ci si domanda perché, su cinque o seicento sette, non ce n’è una sola che non abbia fatto versare sangue umano, mentre i deisti, che sono dappertutto tanto numerosi, non hanno mai causato il minimo tumulto? Perché sono filosofi. Ora, i filosofi posson bensì fare pessimi ragionamenti, ma non mai intrighi. Così coloro che perseguitano un filosofo, col pretesto che le sue idee possono esser pericolose per il pubblico, sono altrettanto assurdi di coloro che temessero che lo studio dell’algebra possa far rincarare il pane sul mercato. Bisogna compiangere un essere pensante che fuorvii; perseguitarlo, è insensato e orribile. Noi siamo tutti fratelli: se qualcuno dei miei fratelli, pieno di rispetto e di amor filiale, animato dalla carità più fraterna, non onora il nostro padre comune con le mie stesse cerimonie, dovrò forse sgozzarlo e strappargli il cuore?
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VOLTAIRE, Riflessioni per gli sciocchi (1760) Se la massa governata fosse composta di buoi, e di bovari il gruppo ristretto dei governanti, questo gruppo ristretto farebbe bene a mantenere nell’ignoranza la massa. Ma non è così. Parecchi popoli che a lungo hanno portato le corna ed hanno ruminato ora cominciano a pensare. Quando una buona volta è venuto il tempo di pensare, è impossibile sottrarre agli animi la forza che hanno acquisito; bisogna trattare da esseri pensanti coloro che pensano, come si trattano da bruti i bruti. Sarà impossibile ai nobili insigniti dell’Ordine della giarrettiera, riuniti nel Municipio di Londra, far credere, oggi, che il loro patrono san Giorgio, con la spada sguainata e in groppa ad un cavallo da guerra, li protegga dall’alto dei cieli. Il re Guglielmo, la regina Anna, Giorgio I, Giorgio II, non hanno guarito nessuno dalla scrofola. In altri tempi, un re che avesse rifiutato di servirsi di tale santo privilegio avrebbe fatto insorgere la nazione: oggi, un re che volesse servirsene farebbe ridere la nazione intera. Il figlio del grande Racine, in un poema intitolato La Grazia, così si esprime sull’Inghilterra: L’Inghilterra, dove una volta brillava tanta luce, Poiché oggi accoglie ogni religione, Non è più che un coacervo di folli vaneggiamenti.
Il signor Racine si sbaglia: l’Inghilterra sprofondava nell’ignoranza e nel cattivo gusto fino all’epoca del cancelliere Bacone. È stata la libertà di pensiero che ha fatto fiorire tra gli Inglesi tanti libri eccellenti, è perché gli animi sono illuminati che sono audaci, ed è perché sono audaci che hanno dato dei premi a coloro che esportavano oltremare il loro grano; è stata questa libertà che ha fatto fiorire tutte le arti e riempito l’Oceano di tante navi. Quanto ai vaneggiamenti che rinfaccia loro l’autore del poema sulla Grazia, è vero che essi si sono lasciati trascinare ad una disputa sulla grazia efficace e sufficiente e concomitante, ma, in compenso, ci hanno regalato i logaritmi, la posizione di tremila stelle, la rifrazione della luce, la conoscenza fisica di questa stessa luce, il calcolo infinitesimale, e la legge matematica per la quale tutte le sfere dell’universo gravitano l’una sull’altra. Bisogna ammettere che la Sorbona, per quanto di gran lunga superiore, non ha ancora fatto scoperte del genere.
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Questa invidia meschina, questo volersi far valere lanciando invettive contro il proprio tempo, questo voler riportare gli uomini a cibarsi di ghiande invece che di pane, ripetendo incessantemente e a sproposito spregevoli luoghi comuni, d’ora in poi non avranno più successo. È ridicolo pensare che una nazione illuminata non sia più felice di una ignorante. È vergognoso insinuare che la tolleranza sia pericolosa, quando noi vediamo accanto a noi l’Inghilterra e l’Olanda rese ricche e popolose per effetto di tale tolleranza, e regni fiorenti spopolati e decaduti per aver seguito la politica opposta. La persecuzione contro coloro che pensano liberamente non deriva dal fatto che si creda che uomini del genere siano pericolosi, perché sicuramente nessuno di essi ha sobillato quattro mascalzoni in piazza Maubert o all’assemblea. Nessun filosofo ha mai parlato a Jacques Clément, né a Barrière, né a Chastel, né a Ravaillac, né a Damiens. Nessun filosofo ha mai impedito che si pagassero le debite imposte per la difesa dello Stato, e quando in altre occasioni si portava in giro la statua di santa Genoveffa per le strade di Parigi, per impetrare la pioggia, o il bel tempo, nessun filosofo ha turbato la processione, e quando i convulsionari hanno invocato l’aiuto dei santi, nessun filosofo ha inferto loro bastonate. Quando i gesuiti hanno usato la calunnia, la confessione e gli ordini di arresto del sovrano contro tutti coloro che essi accusavano d’essere giansenisti, vale a dire d’essere loro avversari; quando i giansenisti in seguito si sono vendicati come hanno potuto delle sfacciate persecuzioni dei gesuiti, i filosofi non si sono intromessi in alcun modo nella disputa; li hanno resi spregevoli e in questo modo hanno reso un servizio eterno alla nazione. Se oramai una bolla, scritta in un pessimo latino e sigillata con l’anello episcopale, non decide più i destini di uno Stato; se un legato a latere non viene più a dare ordini ai nostri re e ad incassare decime dai nostri popoli, a chi si deve esser grati? Alle massime del cancelliere de l’Hospital, che era un filosofo; agli scritti di Gerson, anch’egli filosofo; ai lumi dell’avvocato generale Cugnières che aveva fama di filosofo, e soprattutto ai validi scritti che ai giorni nostri hanno gettato un sì enorme ridicolo sulla stoltezza dei nostri padri che è ormai impossibile ai figli essere altrettanto stolti. I veri letterati ed i veri filosofi sono benemeriti del genere umano molto più degli Orfei, degli Ercoli e dei Tesei: infatti sottrarre ai propri pregiudizi uomini civilizzati è cosa più bella e più difficile del civi-
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lizzare uomini rozzi, e riuscire a correggere è cosa più rara dell’educare. Da dove viene la rabbia di qualche borghese e di qualche modesto scrittore di secondo piano contro i cittadini più degni e più utili? Il fatto è che quei borghesi e quegli scrittori di poco conto hanno ben avvertito, nel fondo del cuore, d’essere spregevoli agli occhi degli uomini di genio; il fatto è che hanno avuto l’audacia d’essere gelosi: un uomo abituato ad essere lodato nel chiuso della sua piccola cerchia diviene furioso se è disprezzato alla luce del sole. Aman avrebbe voluto far impiccare tutti gli Ebrei perché Mardocheo non si era inchinato di fronte a lui. Acanthos vorrebbe mandare al rogo tutti i sapienti, perché un sapiente ha detto che un discorso di Acanthos non vale niente. O Acanthos! fa rilegare in marocchino le Meditazioni del reverendo padre Croiset; e se esce un buon libro corri a denunziarlo a coloro che non lo leggeranno mai; fa bruciare un libro utile, le scintille ti colpiranno al volto.
VOLTAIRE, Trattato sulla tolleranza (1763) CAPITOLO 4 – Se la tolleranza è pericolosa e presso quali popoli è permessa Alcuni hanno detto che essere indulgenti verso i nostri fratelli in errore, i quali pregano Dio in cattivo francese, sarebbe un metter loro le armi in mano; che si vedrebbero nuove battaglie di Jarnac, di Montontour, di Contras, di Dreux, di Saint-Denis, ecc. Io non lo so, perché non sono profeta; mi sembra però che non sia un ragionamento logico il dire: «Costoro sono insorti quando ho fatto loro del male: dunque insorgeranno se faccio loro del bene». Vorrei prendermi la libertà d’invitare coloro che sono alla testa del governo, e coloro che sono destinati ai posti importanti, a voler esaminare e riflettere se si debba davvero temere che la clemenza produca le stesse rivolte che ha provocate la crudeltà; se ciò che è accaduto in certe circostanze debba ripetersi in circostanze diverse; se i tempi, l’opinione, i costumi siano sempre stati gli stessi. Gli ugonotti furono senza dubbio ebbri di fanatismo e si macchia-
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lizzare uomini rozzi, e riuscire a correggere è cosa più rara dell’educare. Da dove viene la rabbia di qualche borghese e di qualche modesto scrittore di secondo piano contro i cittadini più degni e più utili? Il fatto è che quei borghesi e quegli scrittori di poco conto hanno ben avvertito, nel fondo del cuore, d’essere spregevoli agli occhi degli uomini di genio; il fatto è che hanno avuto l’audacia d’essere gelosi: un uomo abituato ad essere lodato nel chiuso della sua piccola cerchia diviene furioso se è disprezzato alla luce del sole. Aman avrebbe voluto far impiccare tutti gli Ebrei perché Mardocheo non si era inchinato di fronte a lui. Acanthos vorrebbe mandare al rogo tutti i sapienti, perché un sapiente ha detto che un discorso di Acanthos non vale niente. O Acanthos! fa rilegare in marocchino le Meditazioni del reverendo padre Croiset; e se esce un buon libro corri a denunziarlo a coloro che non lo leggeranno mai; fa bruciare un libro utile, le scintille ti colpiranno al volto.
VOLTAIRE, Trattato sulla tolleranza (1763) CAPITOLO 4 – Se la tolleranza è pericolosa e presso quali popoli è permessa Alcuni hanno detto che essere indulgenti verso i nostri fratelli in errore, i quali pregano Dio in cattivo francese, sarebbe un metter loro le armi in mano; che si vedrebbero nuove battaglie di Jarnac, di Montontour, di Contras, di Dreux, di Saint-Denis, ecc. Io non lo so, perché non sono profeta; mi sembra però che non sia un ragionamento logico il dire: «Costoro sono insorti quando ho fatto loro del male: dunque insorgeranno se faccio loro del bene». Vorrei prendermi la libertà d’invitare coloro che sono alla testa del governo, e coloro che sono destinati ai posti importanti, a voler esaminare e riflettere se si debba davvero temere che la clemenza produca le stesse rivolte che ha provocate la crudeltà; se ciò che è accaduto in certe circostanze debba ripetersi in circostanze diverse; se i tempi, l’opinione, i costumi siano sempre stati gli stessi. Gli ugonotti furono senza dubbio ebbri di fanatismo e si macchia-
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rono di sangue al pari di noi; ma è la generazione presente altrettanto barbara quanto i suoi padri? Il tempo, la ragione che genera tanto progresso, i buoni libri, la clemenza dei costumi non sono penetrati tra coloro che guidano lo spirito di questi popoli? E non ci accorgiamo noi che da circa cinquant’anni quasi tutta l’Europa ha cambiato aspetto? Il governo si è consolidato dappertutto, mentre i costumi si son fatti più miti. La polizia dello Stato, sostenuta da numerosi eserciti permanenti, non consente d’altra parte di temere il ritorno di quei tempi d’anarchia in cui contadini calvinisti combattevano contro contadini cattolici arruolati in fretta e furia tra le semine e i raccolti. Altri tempi, altre cure. Sarebbe assurdo decimare oggi la Sorbona perché in altri tempi fece istanza che fosse bruciata la Pulzella d’Orléans, perché dichiarò Enrico III decaduto dal diritto di regnare, perché lo scomunicò, perché proscrisse il grande Enrico IV. Non si molestano certo gli altri corpi del regno, i quali commisero gli stessi eccessi in quei tempi di frenesia: la cosa non sarebbe soltanto ingiusta, sarebbe una pazzia simile al voler purgare oggi tutti gli abitanti di Marsiglia perché nel 1720 hanno avuto la peste. Andremmo a saccheggiare Roma, come fecero i soldati di Carlo V, perché Sisto V, nel 1585, accordò nove anni d’indulgenza a tutti i francesi che avessero preso le armi contro il loro sovrano? Non basta forse impedire a Roma di arrivare ancora una volta a simili eccessi? Il furore che ispirano lo spirito dogmatico e gli abusi della religione cristiana male intesa, ha fatto spargere tanto sangue, ha prodotto tanti disastri in Germania, in Inghilterra, e persino in Olanda, quanti ne ha prodotti in Francia: eppure oggi la differenza di religione non è più causa di nessun torbido in questi Stati; l’ebreo, il cattolico, il greco, il luterano, il calvinista, l’anabattista, il sociniano, il memnonita, il moravo e tanti altri, vivono in quei paesi come fratelli ed egualmente contribuiscono al bene della società. Non si teme più in Olanda che le dispute di un Comar sulla predestinazione facciano tagliar la testa al grande pensionario. Non si teme più a Londra che le liti dei presbiteriani e degli episcopali, per una liturgia o per una stola, facciano scorrere il sangue d’un re sul patibolo. L’Irlanda popolosa e più ricca non vedrà più i suoi cittadini cattolici sacrificare a Dio per due mesi i suoi cittadini protestanti, seppellirli vivi, appender le madri alle forche, appender le bambine al collo delle madri per vederle spirare assieme; aprire il ventre delle donne incinte, estrarne i bambini formati a mezzo e darli in pasto ai porci e ai cani;
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mettere un pugnale nelle mani dei prigionieri garrottati e costringere il loro braccio a colpire il seno delle loro mogli, dei loro padri, delle loro madri, delle figlie, immaginandosi così di renderli tutti parricidi e dannarli tutti sterminandoli tutti. Questo è ciò che riferisce RapinThoyras, ufficiale in Irlanda, quasi contemporaneo ai fatti; questo è ciò che riferiscono tutti gli annali, tutte le storie di Inghilterra, e senza dubbio queste cose non saranno mai imitate. La filosofia, la sola filosofia, questa sorella della religione, ha disarmato le mani che la superstizione aveva così a lungo macchiate di sangue; e lo spirito umano, destatosi dalla sua ebbrezza, è rimasto stupito degli eccessi cui l’aveva tratto il fanatismo. Noi stessi abbiamo in Francia una provincia fiorente in cui il luteranesimo prevale sul cattolicesimo. L’Università d’Alsazia è nelle mani dei luterani; essi occupano ivi una parte delle cariche municipali, e mai il minimo litigio religioso ha turbato il riposo di questa provincia da quando appartiene ai nostri re. Perché? Perché nessuno vi è stato perseguitato. Non cercate di turbare i cuori, e tutti i cuori saranno vostri. Io non dico che tutti quelli che non sono della religione del principe debbano dividere i posti e gli onori di coloro che sono della religione dominante. In Inghilterra i cattolici, che si considerano legati al partito del pretendente, non hanno accesso agli impieghi; pagano il doppio d’imposta, ma per il resto godono tutti i diritti dei cittadini. Si è sospettato che alcuni vescovi francesi pensino che non s’addice né al loro onore né al loro interesse avere nella loro diocesi dei calvinisti, e che questo sia il più grande ostacolo alla tolleranza. Non lo posso credere. Il corpo dei vescovi in Francia è composto di uomini di qualità, che pensano e operano con una nobiltà degna della loro nascita. Sono caritatevoli e generosi: bisogna render loro questa giustizia. Essi devono pensare che certamente i loro diocesani riparati all’estero nei paesi stranieri non si convertiranno, e che ritornati presso i loro pastori potrebbero essere illuminati dalle loro istruzioni e toccati dai loro esempi. Il convertirli sarebbe cosa onorevole; il temporale non vi perderebbe, e quanti più fossero i cittadini, tanto più crescerebbe il reddito delle terre dei prelati. Un vescovo di Varmia, in Polonia, aveva un anabattista come fittavolo e un sociniano come esattore. Gli proposero di cacciare e perseguire l’uno perché non credeva alla consustanzialità, e l’altro perché non battezzava suo figlio che a quindici anni. Rispose che nell’altro mondo sarebbero stati dannati per l’eternità, ma che in questo mondo gli erano molto utili.
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Usciamo dalla nostra piccola sfera, ed esaminiamo il resto del nostro globo. Il Gran sultano governa in pace venti popoli di diversa religione. Duecentomila greci vivono sicuri a Costantinopoli; il muftì stesso nomina e presenta all’imperatore il patriarca greco; vi è tollerato un patriarca latino. Il sultano nomina dei vescovi latini per alcune isole della Grecia, ed ecco la formula di cui si serve: «Io gli comando di andare a risiedere come vescovo nell’isola di Chio, di seguire il vecchio costume e le vane cerimonie di quel luogo». Questo impero è pieno di giacobiti, di nestoriani, di monoteliti; vi si trovano dei copti, dei gioanniti, degli ebrei, dei ghebri, dei baniani. Gli annali turchi non fanno menzione di alcuna rivolta provocata da alcuna di queste religioni. Andate nell’India, nella Persia, nella Tartaria: vi troverete la stessa tolleranza e la stessa tranquillità. Pietro il grande ha favorito nel suo vasto impero tutti i culti: il commercio e l’agricoltura ne hanno tratto profitto e lo Stato non ne ha mai sofferto. Il governo della Cina non ha mai adottato, da più di quattromila anni che lo si conosce, che il culto dei discendenti di Noè, la semplice adorazione di un solo Dio: nonostante ciò tollera le superstizioni di Fô e una moltitudine di bonzi, che sarebbe pericolosa se la saggezza dei tribunali non li avesse sempre frenati. È vero che il grande imperatore Jung-Cing, il più saggio e il più magnanimo, forse, che la Cina abbia avuto, ha cacciato i gesuiti; ma non perché fosse intollerante, al contrario: perché i gesuiti lo erano. I gesuiti stessi riferiscono, nelle loro Lettere curiose, le parole che disse loro questo buon principe: «So che la vostra religione è intollerante; so quel che avete fatto nelle Filippine e nel Giappone; avete ingannato mio padre: non sperate di ingannare anche me». Si legga tutto il discorso che egli degnò tener loro: si troverà che egli è il più saggio e il più clemente degli uomini. Poteva egli, infatti, tenere presso di sé dei fisici europei che, sotto il pretesto di far vedere a corte dei termometri e degli eolipili, avevano già fatto insorgere un principe del sangue? E che avrebbe detto questo imperatore se avesse letto le nostre storie, e avesse conosciuto i nostri tempi della Lega e della congiura delle polveri? Era abbastanza per lui d’essere informato delle indecenti controversie tra i gesuiti, i domenicani, i cappuccini e i preti secolari spediti da un capo all’altro dei suoi Stati. Erano venuti a predicare la verità, e si coprivano a vicenda di anatemi. L’imperatore non fece dunque altro che licenziare dei perturbatori stranieri; ma con quale bontà li licen-
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ziò! Quali cure paterne ebbe di loro per il viaggio e per impedire che fossero insultati lungo il cammino! Il loro stesso bando fu un esempio di tolleranza e di umanità. I giapponesi erano i più tolleranti degli uomini. Dodici religioni pacifiche si praticavano nel loro impero; i gesuiti vennero a introdurvi la tredicesima, ma ben presto, non volendo essi sopportarne un’altra, si sa che cosa accadde: una guerra civile, non meno atroce di quella della Lega, devastò quel paese. La religione cristiana fu alfine annegata tra fiotti di sangue; i giapponesi chiusero il loro impero al resto del mondo e non ci considerarono più che come bestie feroci, simili a quelle di cui gli inglesi hanno purgato l’isola loro. Invano il ministro Colbert, sentendo il bisogno che avevamo dei giapponesi, i quali non hanno nessun bisogno di noi, tentò di avviare un commercio col loro impero: li trovò inflessibili. Così dunque il nostro continente intiero ci dimostra che non bisogna né predicare né praticare l’intolleranza. Gettiamo lo sguardo sull’altro emisfero. Vedete la Carolina, il cui legislatore fu il saggio Locke: bastano ivi sette padri di famiglia per istituire un culto politico approvato dalla legge, e questa libertà non ha fatto nascere alcun disordine. Dio ci preservi dal citare questo esempio per spingere la Francia a imitarlo! Lo riferiamo solo per far vedere che l’estremo più grande cui possa giungere la tolleranza non è stato seguito dal minimo dissenso; ma ciò che è utile e buono in una colonia nascente, non si addice a un vecchio reame. Che diremo dei primitivi, per derisione chiamati quaccheri, i quali, pur avendo usi forse ridicoli, sono stati così virtuosi e invano hanno insegnato la pace al resto degli uomini? In Pensilvania essi sono centomila; la discordia, la disputa teologica, sono ignorate nella felice patria che si son fatta, e il nome solo della loro città di Filadelfia, che ricorda loro ad ogni istante che gli uomini sono fratelli, è esempio e vergogna per i popoli che non conoscono ancora la tolleranza. Infine, la tolleranza non ha mai provocato una guerra civile; l’intolleranza ha coperto la terra di massacri. Si giudichi ora tra queste due rivali, tra la madre che vuole si sgozzi suo figlio, e la madre che lo cede purché esso viva. Non parlo qui che dell’interesse delle nazioni, e rispettando, come debbo, la teologia, non considero in questo articolo che il bene fisico e morale della società. Supplico ciascun lettore imparziale di pesare queste verità, di rettificarle, di estenderle. Dei lettori attenti, che si comunichino i loro pensieri, vanno sempre più in là che l’autore.
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CAPITOLO 5 – Come può essere ammessa la tolleranza Oso supporre che un ministro illuminato e magnanimo, un sacerdote umano e saggio, un principe il quale sappia che è suo interesse avere un maggior numero di sudditi, e sua gloria la loro felicità, degni volger lo sguardo a questo scritto informe e difettoso, ne colmi le lacune col proprio intelletto, dica a se stesso: «Che cosa arrischierei a veder la terra coltivata e resa più bella da un maggior numero di mani operose, più grande il gettito dei tributi, più florido lo Stato?». La Germania sarebbe oggi un deserto cosparso di ossa di cattolici, evangelisti, riformati, anabattisti sgozzatisi a vicenda, se la pace di Vestfalia non avesse alfine assicurato la libertà di coscienza. Abbiamo degli ebrei a Bordeaux, a Metz, in Alsazia; abbiamo dei luterani, dei molinisti, dei giansenisti: non possiamo dunque tollerare e tenere a freno dei calvinisti press’a poco alle stesse condizioni che i cattolici sono tollerati a Londra? Quante più sono le sette, tanto meno ciascuna setta è pericolosa. La molteplicità le indebolisce; tutte sono regolate da giuste leggi che vietano le assemblee tumultuose, le ingiurie, le sedizioni, e che son sempre fatte valere con la forza della coazione. Sappiamo che molti capifamiglia, i quali hanno fatto grandi fortune in paesi stranieri, sono pronti a tornare in patria. Essi non chiedono che la protezione della legge naturale, la validità dei loro matrimoni, la certezza dello stato dei loro figli; né templi pubblici, né diritto alle cariche municipali e agli onori: i cattolici non ne hanno né a Londra, né in molti altri paesi. Non si tratta più di dare immensi privilegi e posti sicuri a una fazione, ma di lasciar vivere tranquillo un popolo, di mitigare editti in altri tempi forse necessari, e che oggi non lo sono più. Non sta a noi indicare al ministero ciò che può fare; basta implorarlo per degli sventurati. Quanti mezzi per renderli utili, per impedire che siano mai pericolosi! La prudenza del ministero e del Consiglio, appoggiata dalla forza, troverà facilmente questi mezzi, che tante altre nazioni impiegano così felicemente. [...] Si può quindi considerare questo periodo di disgusto, di sazietà, o piuttosto di ragione, come epoca e pegno di tranquillità pubblica. La controversia teologica è una malattia epidemica che sta per finire; questa peste, da cui si è guariti, non esige più che un regime di mitezza. Infine, l’interesse dello Stato è che i figli espatriati ritornino con mo-
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destia nella casa del padre loro: l’umanità lo richiede, la ragione lo consiglia, e la politica non può averne timore. CAPITOLO 6 – Se l’intolleranza è di diritto naturale o di diritto umano Il diritto naturale è quello che la natura indica a tutti gli uomini. Avete allevato vostro figlio, egli vi deve rispetto perché siete suo padre, riconoscenza perché siete suo benefattore. Avete diritto ai prodotti della terra che avete coltivato con le vostre mani. Avete dato e ricevuto una promessa, questa deve essere mantenuta. Il diritto umano non può in nessun caso fondarsi che su questo diritto di natura; e il grande principio, il principio universale dell’uno e dell’altro, è su tutta la terra: «Non fare ciò che non vorresti sia fatto a te». Ebbene, non si vede come, se si segue questo principio, un uomo possa dire a un altro: «Credi quello che io credo e che tu non puoi credere, altrimenti morrai». È ciò che si dice nel Portogallo, in Spagna, a Goa. Ci si accontenta adesso, in alcuni altri paesi, di dire: «Credi, o ti aborrisco; credi, o ti farò tutto il male che potrò; mostro, tu non hai la mia religione, tu non hai dunque religione alcuna; bisogna che i tuoi vicini, la tua città, la tua provincia abbiano orrore di te!». Se questa condotta fosse conforme al diritto umano, bisognerebbe dunque che il giapponese esecrasse il cinese, che a sua volta esecrerebbe il siamese; questi perseguiterebbe i gangaridi, che si getterebbero sugli abitanti dell’Indo; un mongolo strapperebbe il cuore al primo malabaro che incontrasse; il malabaro potrebbe strozzare il persiano, il quale potrebbe massacrare il turco; e tutti insieme si precipiterebbero sui cristiani, che così a lungo si sono divorati tra di loro. Il diritto all’intolleranza è dunque assurdo e barbaro: è il diritto delle tigri; è anzi ben più orrido, perché le tigri non si fanno a pezzi che per mangiare, e noi ci siamo sterminati per dei paragrafi. [...] CAPITOLO 11 – Abuso dell’intolleranza Come! Sarà dunque permesso a ogni cittadino di non credere che alla propria ragione, e di pensare ciò che questa ragione, illuminata o ingannata, gli suggerirà? Ma senza dubbio, purché non turbi l’ordine; perché credere o non credere non dipende dall’uomo, dipende bensì
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da lui rispettare gli usi della sua patria; e se voi diceste che è un delitto non credere alla religione dominante, levereste voi stessi un’accusa contro i primi cristiani vostri padri, e giustifichereste coloro che accusate di averli mandati al supplizio. Voi rispondete che la differenza è grande, che tutte le religioni sono opera degli uomini mentre la sola Chiesa cattolica, apostolica e romana è opera di Dio. Ma in buona fede: perché la nostra religione è divina, deve essa regnare con l’odio, i furori, gli esili, il furto dei beni, le carceri, le torture, i delitti, e le grazie rese a Dio per questi delitti? Più la religione cristiana è divina, meno si addice all’uomo di imporla; se Dio l’ha fatta, Dio la sosterrà anche senza di voi. Sapete che l’intolleranza non produce che ipocriti o ribelli: quale alternativa funesta! Infine, vorreste voi sostenere con i carnefici la religione di un Dio che i carnefici hanno fatto morire e che non ha predicato che la dolcezza e la pazienza? Considerate, vi prego, le conseguenze spaventose del diritto dell’intolleranza. Se fosse permesso spogliare dei suoi beni, gettare in carcere, uccidere un cittadino che, sotto quel certo grado di latitudine, non professasse la religione ivi ammessa, quale eccezione esimerebbe dalle stesse pene i capi dello Stato? La religione lega egualmente il monarca e i mendicanti: più di cinquanta dottori o frati hanno infatti affermato questo mostruoso errore, che era permesso spogliare e uccidere i sovrani che non pensassero come la Chiesa dominante, e i parlamenti del regno non hanno cessato dal respingere queste decisioni abominevoli di abominevoli teologi. Il sangue di Enrico il grande era ancora fumante quando il parlamento di Parigi approvò una decisione che stabiliva l’indipendenza della corona come legge fondamentale. Il cardinale Duperron, che doveva la porpora a Enrico il grande, si levò, negli Stati generali del 1614, contro la decisione del parlamento e la fece annullare. Tutti i giornali dell’epoca riferiscono i termini di cui Duperron si servì nelle sue arringhe. «Se un principe si facesse ariano – egli dice – si sarebbe ben costretti a deporlo». Niente affatto, signor cardinale. Ammettiamo pure la vostra chimerica ipotesi, che uno dei nostri re, avendo letto la storia dei concili e dei padri della Chiesa, colpito d’altra parte da queste parole del vangelo: «II padre mio è più grande di me», prendendole troppo alla lettera ed esitando tra il concilio di Nicea e quello di Costantinopoli, si dichiarasse per Eusebio di Nicomedia: non per questo non obbedirei più al mio re, non mi crederei più legato dal giuramento che gli ho
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fatto; e se voi osaste insorgere contro di lui, ed io fossi uno dei vostri giudici, vi dichiarerei reo di lesa maestà. Duperron spinse più in là la discussione, ed io l’abbrevio. Non è qui il luogo di approfondire queste rivoltanti chimere; mi limiterò a dire, con tutti i cittadini, che a Enrico IV si doveva obbedire non perché fu consacrato a Chartres, ma perché l’incontestabile diritto della nascita dava la corona a questo principe, che la meritava per il suo coraggio e per la sua bontà. [...] CAPITOLO 14 – Se l’intolleranza è stata insegnata da Gesù Cristo Vediamo ora se Gesù Cristo ha introdotto leggi sanguinarie, se ha ordinato l’intolleranza, se ha fatto costruire le segrete dell’Inquisizione, se ha istituito i carnefici degli auto-da fé. Se non vado errato, vi sono pochi passi dei vangeli da cui lo spirito di persecuzione abbia potuto concludere che l’intolleranza e la costrizione sono legittime: uno è la parabola in cui il regno dei cieli è paragonato a un re che invita dei convitati alle nozze di suo figlio, e fa dir loro dai servitori: «Ho ucciso i miei buoi e i miei polli; tutto è pronto, venite alle nozze». Gli uni, senza tener conto dell’invito, si recano alle loro case di campagna, gli altri attendono ai loro affari, altri recano oltraggio ai domestici del re e li uccidono. Il re fa marciare i suoi eserciti contro questi assassini e distrugge la loro città; manda gente sulle strade a invitare al festino tutti coloro che incontrano: uno di questi, essendosi messo a tavola senza aver indossato la veste nuziale, è messo in catene e gettato nelle tenebre. E chiaro che, questa allegoria non riguardando che il regno dei cicli, certamente nessuno deve dedurne il diritto di torturare a morte e gettare in un carcere il suo vicino che sia venuto a pranzo da lui senza aver indossato un conveniente abito da nozze; né conosco nella storia alcun principe che abbia fatto impiccare un cortigiano per un motivo simile. Non vi è nemmeno da temere che quando l’imperatore, uccisi i suoi polli, manderà dei paggi ai principi dell’impero per invitarli a cena, questi principi uccidano i paggi. L’invito al festino significa la predicazione della salvezza, l’uccisione degli inviati del principe significa la persecuzione contro coloro che predicano la saggezza e la virtù. La seconda parabola è quella di un possidente che invita i suoi amici a un gran pranzo, e quando sta per mettersi a tavola, manda i
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suoi domestici ad avvertirli. L’uno si scusa per aver comprato un terreno che deve andare a visitare: la scusa non sembra valida, perché non si va di notte a visitare un terreno. Un altro dice che ha comprato cinque paia di buoi e deve metterli alla prova: ha lo stesso torto dell’altro, perché non si provano i buoi all’ora di andare a cena. Un terzo risponde che si è sposato, e certo la sua scusa è accettabilissima. Il padre di famiglia, adirato, fa venire al suo festino i ciechi e gli storpi e, vedendo che vi sono ancora posti vuoti, dice al suo servitore: «Andate per le strade aperte e lungo le siepi, e costringete la gente a entrare». E vero che non viene detto espressamente che questa parabola sia una figurazione del regno dei cicli. Si è anche troppo abusato di queste parole: Costringili a entrare; ma è evidente che un solo servitore non può costringere per forza tutti coloro che incontra a venire a cena dal suo padrone. D’altra parte, dei convitati a questo modo costretti non renderebbero il pranzo molto piacevole. Costringili a entrare non vuol dire altro, secondo i commentatori più accreditati, se non: pregate, scongiurate, insistete, ottenete. Quale rapporto, vi chiedo, tra questa preghiera e questa cena, e la persecuzione? Se si prendono le cose alla lettera bisogna dunque essere ciechi, storpi e condotti per forza per essere nel seno della Chiesa? Gesù dice nella stessa parabola: «Non invitate a pranzo né i vostri amici né i vostri parenti ricchi». Se ne è forse concluso che veramente non si deve pranzare coi propri parenti e amici se essi hanno dei beni di fortuna? Gesù Cristo, dopo la parabola del festino, dice: «Se qualcuno viene a me, e non odia suo padre, sua madre, i suoi fratelli, le sue sorelle e anche la sua stessa anima, egli non può essere mio discepolo, ecc. Perché qual è di voi, che volendo costruire una torre non calcola prima la spesa?». Vi è qualcuno così snaturato al mondo per concluderne che bisogna odiare il padre e la madre? E non si comprende agevolmente che queste parole significano: «Non esitate tra me e i vostri affetti più cari»? Si cita il passo di san Matteo: «Chi non ascolta la Chiesa sia come un pagano e un pubblicano». Ma ciò non vuole affatto dire che si debbano perseguitare i pagani e gli esattori delle imposte: costoro sono maledetti, è vero, ma non sono per niente affidati al braccio secolare. Lungi dal privare questi esattori di qualcuna delle prerogative del cittadino, si son dati loro i più grandi privilegi. È la sola professione che sia condannata nelle Scritture, ed è la più favorita dai governi. Perché dunque non avremmo per i nostri fratelli che sono in errore altrettanta indulgenza quanta è la considerazione che prodighiamo ai nostri fratelli appaltatori delle imposte?
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Un altro passo di cui si è abusato grossolanamente è quello di san Matteo e di san Marco in cui è detto che Gesù, un mattino, avendo fame, s’avvicinò a un fico che non aveva che foglie, perché non era ancora il tempo dei fichi. Maledisse il fico, e questo tosto seccò. Si danno varie e diverse spiegazioni di questo miracolo, ma ve ne è una che possa autorizzare la persecuzione? Un fico non ha potuto far frutti verso il principio di marzo: lo si è fatto seccare. È questa una ragione per far seccare di dolore i nostri fratelli in tutte le stagioni dell’anno? Rispettiamo nella Scrittura tutto ciò che può far nascere difficoltà nei nostri spiriti curiosi e vani; ma non abusiamone per essere duri e implacabili. Lo spirito di persecuzione, che abusa di tutto, cerca ancora la sua giustificazione nell’espulsione dei mercanti dal tempio, e nella legione di demoni inviati dal corpo d’un indemoniato nel corpo di duemila animali immondi. Ma chi non vede che questi due esempi non sono altro che la giustizia che Dio si degna di fare egli stesso per una contravvenzione alla legge? Cambiare il portico del tempio in una bottega di mercanti era un mancar di rispetto alla casa del Signore. Invano il sinedrio e i preti permettevano questo negozio per comodità dei loro sacrifici. Il Dio al quale si sacrificava poteva senza dubbio, benché nascosto sotto sembianza umana, distruggere questa profanazione. Allo stesso modo poteva punire coloro che introducevano nel paese branchi intieri di animali proibiti da una legge che si degnava di osservare egli stesso. Questi esempi non hanno la minima relazione con le persecuzioni a causa di un dogma. Bisogna che lo spirito d’intolleranza sia poggiato su ben cattive ragioni, perché cerchi dappertutto i più vani pretesti. Quasi tutto il resto delle parole e delle azioni di Gesù Cristo predica la dolcezza, la pazienza, l’indulgenza. È il padre di famiglia che riceve il figliuol prodigo; è l’operaio che arriva all’ultima ora ed è pagato come gli altri; è il samaritano caritatevole. Egli stesso giustifica i suoi discepoli che non digiunano; perdona alla peccatrice; si accontenta di raccomandare la fedeltà alla donna adultera; si degna persino di condiscendere alla gioia innocente dei convitati di Cana che, già scaldati dal vino, ne chiedono dell’altro: egli fa un miracolo in loro favore, cambia per essi l’acqua in vino. Non si scaglia nemmeno contro Giuda, che deve tradirlo; ordina a Pietro di non servirsi mai della spada; rimprovera i figli di Zebedeo, che secondo l’esempio di Elia volevano far discendere il fuoco dal cielo su una città che non li aveva voluti alloggiare.
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Infine, muore vittima dell’invidia. Se si può paragonare il sacro col profano, un Dio con un uomo, la sua morte, umanamente parlando, ha molto che l’avvicina a quella di Socrate. Il filosofo greco morì per l’odio dei sofisti, dei preti e dei primi tra il popolo; il legislatore dei cristiani cadde sotto l’odio degli scribi, dei farisei e dei preti. Socrate poteva evitare la morte, e non lo volle; Gesù Cristo si offrì di sua volontà. Il filosofo greco perdonò non solo ai suoi calunniatori e ai suoi giudici iniqui, ma li pregò di trattare un giorno i suoi figli come lui stesso, se fossero stati così felici da meritare il loro odio come lui: il legislatore dei cristiani, infinitamente superiore, pregò il padre suo di perdonare ai suoi nemici. [...] Io domando ora se è la tolleranza o l’intolleranza che è di diritto divino. Se volete assomigliare a Gesù Cristo, siate martiri e non carnefici. [...] CAPITOLO 20 – Se è utile mantenere il popolo nella superstizione È tale la debolezza del genere umano, tale la sua perversità, che è meglio per lui, senza dubbio, essere in preda a tutte le superstizioni possibili, purché non siano fonte di delitti, anziché vivere senza religione. L’uomo ha sempre bisogno di un freno; e per quanto fosse ridicolo sacrificare ai fauni, ai silvani, alle naiadi, era molto più ragionevole e più utile adorare queste immagini fantastiche della divinità, anziché abbandonarsi all’ateismo. Un ateo ragionatore, violento e potente, sarebbe un flagello altrettanto funesto quanto un superstizioso sanguinario. Quando gli uomini non hanno una giusta nozione della divinità, ad essa suppliscono le idee false, come nei tempi disgraziati in cui, non avendo moneta buona, si trafficava con moneta cattiva. Il pagano aveva timore di commettere un delitto, per paura di essere punito da dèi falsi; il malabaro teme di essere punito dalla sua pagoda. Dappertutto dove esiste una società stabilita, una religione è necessaria; le leggi vegliano sui delitti conosciuti, la religione sui delitti segreti. Ma quando infine gli uomini sono giunti ad abbracciare una religione pura e santa, la superstizione non solo diventa inutile, ma assai pericolosa. Non si deve cercar di nutrire di ghiande coloro che Dio degna di nutrire di pane. La superstizione sta alla religione come l’astrologia, figlia pazza di una madre saggia, sta all’astronomia. Queste due figlie hanno a lungo soggiogato tutta la terra. […]
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Più le superstizioni dei frati sono disprezzate, più i vescovi sono rispettati e i curati tenuti in considerazione. Costoro non fanno che del bene, e le superstizioni fratesche oltramontane farebbero molto male. Ma di tutte le superstizioni, la più pericolosa non è quella di odiare il prossimo per le sue opinioni? E non è evidente che sarebbe ancora più ragionevole adorare il santo ombelico, il santo prepuzio, il latte e il vestito della Vergine Maria, che detestare e perseguitare il proprio fratello? [...] CAPITOLO 23 – Preghiera a Dio Non più dunque agli uomini mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi e di tutti i tempi. Se è permesso a deboli creature, perdute nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, osar domandar qualcosa a te, a te che hai dato tutto, a te i cui decreti sono immutabili quanto eterni, degnati di guardar con misericordia gli errori legati alla nostra natura. Che questi errori non generino le nostre sventure. Tu non ci hai dato un cuore perché noi ci odiassimo, né delle mani perché ci strozziamo. Fa che ci aiutiamo l’un l’altro a sopportare il fardello d’una esistenza penosa e passeggera; che le piccole diversità tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue insufficienti, tra tutti i nostri usi ridicoli, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre condizioni ai nostri occhi così diverse l’una dall’altra, e così eguali davanti a te; che tutte le piccole sfumature che distinguono questi atomi chiamati uomini, non siano segnale di odio e di persecuzione; che coloro i quali accendono ceri in pieno mezzogiorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro i quali coprono la veste loro d’una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa portando un mantello di lana nera; che sia eguale adorarti in un gergo proveniente da una lingua morta, o in un gergo più nuovo; che coloro il cui abito è tinto di rosso o di violetto, che dominano su una piccola parte d’un piccolo mucchio del fango di questo mondo e che posseggono alcuni frammenti arrotondati di un certo metallo, godano senza orgoglio di ciò che essi chiamano grandezza e ricchezza, e che gli altri guardino a costoro senza invidia; poiché tu sai che nulla vi è in queste cose vane, né che sia da invidiare né che possa inorgoglire.
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Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Ch’essi abbiano in orrore la tirannide esercitata sugli animi, così come esecrano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell’industria pacifica! Se i flagelli della guerra sono inevitabili, non odiamoci però, non laceriamoci a vicenda quando regna la pace, e impieghiamo l’istante della nostra esistenza per benedire egualmente, in mille lingue diverse, dal Siam sino alla California, la tua bontà che questo istante ci ha dato.
VOLTAIRE, Dizionario filosofico (1760-1763) TOLLERANZA Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio dell’umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura. Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat, o di Bassora, il ghebro, il baniano, l’ebreo, il maomettano, il deicola cinese, il brahmino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero trafficano tutti insieme: non alzeranno mai il pugnale uno sull’altro per guadagnare anime alla loro religione. Perché allora noi ci siamo scannati quasi senza interruzione, a partire dal primo concilio di Nicea? Costantino cominciò col dare un editto che permetteva tutte le religioni, e finì col perseguitare. Prima di lui, ci si levò contro i cristiani solo perché cominciavano a formare un partito nello Stato. I Romani permettevano tutti i culti, persino quello degli Ebrei e quello degli Egiziani, per cui provavano tanto disprezzo. Perché Roma tollerava questi culti? Perché né gli Egiziani, né gli stessi Giudei, cercavano di distruggere l’antica religione dell’Impero, non correvano per terra e per mare allo scopo di fare proseliti; pensavano solo a guadagnare denaro. Ma è incontestabile che i cristiani volevano che la loro fosse la religione dominante. Gli Ebrei non volevano che la statua di Giove fosse a Gerusalemme; ma i cristiani non volevano che fosse in Campidoglio. San Tommaso ha la buona fede di confessare che, se i cristiani non detronizzarono gli imperatori, fu solo perché non lo pote-
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Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Ch’essi abbiano in orrore la tirannide esercitata sugli animi, così come esecrano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell’industria pacifica! Se i flagelli della guerra sono inevitabili, non odiamoci però, non laceriamoci a vicenda quando regna la pace, e impieghiamo l’istante della nostra esistenza per benedire egualmente, in mille lingue diverse, dal Siam sino alla California, la tua bontà che questo istante ci ha dato.
VOLTAIRE, Dizionario filosofico (1760-1763) TOLLERANZA Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio dell’umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura. Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat, o di Bassora, il ghebro, il baniano, l’ebreo, il maomettano, il deicola cinese, il brahmino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero trafficano tutti insieme: non alzeranno mai il pugnale uno sull’altro per guadagnare anime alla loro religione. Perché allora noi ci siamo scannati quasi senza interruzione, a partire dal primo concilio di Nicea? Costantino cominciò col dare un editto che permetteva tutte le religioni, e finì col perseguitare. Prima di lui, ci si levò contro i cristiani solo perché cominciavano a formare un partito nello Stato. I Romani permettevano tutti i culti, persino quello degli Ebrei e quello degli Egiziani, per cui provavano tanto disprezzo. Perché Roma tollerava questi culti? Perché né gli Egiziani, né gli stessi Giudei, cercavano di distruggere l’antica religione dell’Impero, non correvano per terra e per mare allo scopo di fare proseliti; pensavano solo a guadagnare denaro. Ma è incontestabile che i cristiani volevano che la loro fosse la religione dominante. Gli Ebrei non volevano che la statua di Giove fosse a Gerusalemme; ma i cristiani non volevano che fosse in Campidoglio. San Tommaso ha la buona fede di confessare che, se i cristiani non detronizzarono gli imperatori, fu solo perché non lo pote-
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rono. La loro opinione era che tutta la terra dev’essere cristiana: erano dunque necessariamente nemici di tutta la terra, finché non fosse convertita. Erano poi nemici gli uni degli altri su tutti i punti controversi della loro religione. Innanzitutto bisogna considerare Gesù Cristo come Dio? Quelli che lo negano sono anatemizzati sotto il nome di ebioniti, i quali anatemizzano gli adoratori di Gesù. Alcuni di loro vogliono che tutti i beni siano comuni, come si sostiene che fossero ai tempi degli apostoli? I loro avversari li chiamano nicolaiti, e li accusano dei delitti più infami. Altri tendono ad una devozione mistica? Vengono chiamati gnostici, e ci si leva contro di loro con furore. Marcione disputa sulla Trinità? Viene trattato da idolatra. Tertulliano, Praxea, Origene, Nevato, Novaziano, Sabellio, Donato sono tutti perseguitati dai loro fratelli prima di Costantino; e appena Costantino ha fatto trionfare la religione cristiana, gli atanasiani e gli eusebiani si fanno a pezzi; e da allora la Chiesa cristiana è inondata di sangue fino ai giorni nostri. Il popolo ebraico era, lo ammetto, un popolo assai barbaro. Esso sgozzava senza pietà tutti gli abitanti di uno sventurato piccolo paese, sul quale non aveva maggior diritto di quel che ne abbia su Parigi e su Londra. Tuttavia, quando Naaman fu guarito dalla lebbra per essersi immerso sette volte nel Giordano, e, per testimoniare la sua gratitudine a Eliseo, che gli ha insegnato quel segreto, gli dice che adorerà per riconoscenza il Dio degli Ebrei, si riserva la libertà di adorare anche il Dio del suo re; ne chiede il permesso a Eliseo, e il profeta non esita a concederglielo. Gli Ebrei adoravano il loro Dio; ma non erano mai sorpresi che ogni popolo avesse il suo. Trovavano giusto che Chamos avesse dato un certo distretto ai Moabiti, purché il loro Dio ne desse uno anche a loro. Giacobbe non esitò a sposare le figlie di un idolatra. Labano aveva il suo Dio, come Giacobbe aveva il suo. Ecco esempi di tolleranza presso il popolo più intollerante e più crudele di tutta l’antichità: noi lo abbiamo imitato nei suoi assurdi furori, e non nella sua indulgenza. È chiaro che qualunque privato che perseguita un uomo, suo fratello, perché questi non è della sua opinione, è un mostro. Questo non provoca difficoltà. Ma il governo, i magistrati, i principi, come si comporteranno verso coloro che hanno un culto diverso dal loro? Se sono stranieri potenti, è certo che un principe farà alleanza con loro. Francesco I, cristianissimo, si unirà con i musulmani contro Carlo V, cristianissimo. Francesco I darà denaro ai luterani di Germania per so-
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stenerli nella loro rivolta contro l’imperatore, ma comincerà, secondo l’uso, col far bruciare i luterani di casa sua: li paga in Sassonia per politica; li brucia per politica a Parigi. Ma che cosa succede? Le persecuzioni fanno dei proseliti; presto la Francia sarà piena di altri protestanti. Dapprima essi si lasciano impiccare; poi impiccano a loro volta. Ci saranno guerre civili, poi verrà la notte di san Bartolomeo, e questo angolo del mondo sarà peggio di tutto quello che gli antichi e i moderni hanno mai detto dell’inferno. Insensati, che non avete mai saputo adorare con purezza il Dio che vi ha creati! Sciagurati, che non avete mai saputo seguire l’esempio dei noachidi, dei Cinesi, dei Parsi, e di tutti i saggi. Mostri, che avete bisogno di superstizioni, come il ventriglio dei ceravi ha bisogno di carogne! Vi è già stato detto2, e non c’è altro da dirvi: se in casa vostra ci sono due religioni, si sgozzeranno a vicenda; se ne avete trenta, vivranno in pace. Guardate il Gran Turco: governa ghebri, baniani, cristiani greci, nestoriani, romani. Il primo che vuole suscitare tumulto, è impalato, e tutti stanno tranquilli. Fra tutte le religioni, la cristiana è senza dubbio quella che deve ispirare maggiore tolleranza, sebbene fin qui i cristiani siano stati i più intolleranti fra tutti gli uomini. Gesù essendosi degnato di nascere nella povertà e nella bassezza, come i suoi fratelli, non si degnò mai di praticare l’arte di scrivere. Gli Ebrei avevano una legge scritta nei minimi particolari, e noi non abbiamo una sola riga di mano di Gesù. Gli apostoli si divisero su parecchi punti: san Pietro e san Barnaba mangiavano carni proibite con i nuovi cristiani stranieri, e se ne astenevano con i cristiani ebrei; san Paolo rimproverava loro questa condotta, e questo stesso san Paolo, fariseo, discepolo del fariseo Gamaliele, che aveva perseguitato con furore i cristiani, e che, avendo rotto con Gamaliele, si fece a sua volta cristiano, andò poi a sacrificare nel tempio di Gerusalemme durante il suo apostolato. Osservò pubblicamente per otto giorni tutte le cerimonie della legge giudaica, alla quale aveva rinunciato; vi aggiunse, anzi, devozioni e purificazioni in sovrabbondanza; insomma, giudaizzò completamente. Il più grande apostolo dei cristiani fece per otto giorni le stesse cose per le quali si condannano gli uomini al rogo in gran parte dei popoli cristiani.
2 Voltaire qui si autocita e fa riferimeno alla VI delle Lettere filosofiche (cfr. supra, p. 161).
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Teuda, Giuda si erano detti messia prima di Gesù. Dositeo, Simone, Monandro si dissero messia dopo Gesù. Fin dal primo secolo della Chiesa, prima ancora che fosse noto il nome di cristiano, ci furono una ventina di sette in Giudea. Gli gnostici contemplativi, i dositeani, i cerintiani esistevano prima che i discepoli di Gesù avessero preso il nome di cristiani. Ci furono ben presto trenta Vangeli, ognuno dei quali apparteneva a una comunità differente; e sin dalla fine del primo secolo si possono contare trenta sette di cristiani nell’Asia minore, nella Siria, in Alessandria, e persino a Roma. Tutte queste sette, disprezzate dal governo romano e nascoste nella loro oscurità, si perseguitavano tuttavia fra di loro nei sotterranei in cui strisciavano; vale a dire che si scagliavano ingiurie; era tutto quello che potevano fare nella loro abiezione: quasi tutte erano composte da gente della feccia del popolo. Quando infine alcuni cristiani ebbero adottato i dogmi di Platone, e mescolato un po’ di filosofia alla loro religione, separandola da quella ebraica, diventarono a poco a poco più rispettabili, ma sempre divisi in varie sette, senza che ci fosse mai un solo momento in cui la Chiesa cristiana fosse unita. Essa ha avuto origine in mezzo alle divisioni degli Ebrei, dei Samaritani, dei farisei, dei sadducei, degli esseni, dei giudaiti, dei discepoli di Giovanni, dei terapeuti. È stata divisa fin dalla culla, lo è stata perfino durante le persecuzioni che soffrì talvolta sotto i primi imperatori. Spesso il martire era considerato un apostata dai suoi fratelli, e il cristiano carpocraziano spirava sotto la scure del boia romano, scomunicato dal cristiano ebionita, il quale ebionita era anatemizzato dal sabelliano. Questa orribile discordia, che dura da tanti secoli, è una sorprendente lezione che noi dobbiamo mutualmente perdonarci i nostri errori: la discordia è il peggior male del genere umano, e la tolleranza ne è il solo rimedio. Non c’è nessuno che non convenga su questa verità, sia che mediti a sangue freddo nel suo gabinetto, sia che esamini tranquillamente la questione con i suoi amici. Perché allora quegli stessi uomini che ammettono in privato l’indulgenza, la benevolenza, la giustizia, insorgono in pubblico con tanto furore contro queste virtù? Perché? Perché il loro interesse è il loro dio, perché sacrificano tutto a questo mostro che adorano. Io posseggo una dignità e una potenza, che l’ignoranza e la credulità hanno fondato; io cammino sulla testa degli uomini prosternati ai
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miei piedi: se essi si rialzano e mi guardano in faccia, sono perduto. Bisogna dunque tenerli proni a terra con catene di ferro. Così hanno ragionato uomini che secoli di fanatismo hanno reso potenti. Essi hanno altri potenti sotto di loro, e costoro ne hanno altri ancora, che tutti si arricchiscono delle spoglie del povero, si ingrassano col suo sangue, e ridono della sua imbecillità. Detestano tutti la tolleranza, come i faziosi arricchiti a spese del pubblico hanno paura di rendere i loro conti, e come i tiranni temono la parola «libertà». E per colmo, assoldano dei fanatici che gridano ad alta voce: – Rispettate le assurdità del mio padrone, tremate, pagate e tacete! Così ci si comportò a lungo in gran parte della terra. Ma oggi, che tante sette si bilanciano con i loro poteri, quale partito prendere verso di loro? Ogni setta, come si sa, è un titolo di errore: non ci sono sette di geometri, di algebrici, di matematici, perché tutte le proposizioni di geometria, di algebra e di aritmetica sono vere. In tutte le altre scienze ci si può sbagliare. Quale teologo tomista o scotista oserebbe sostenere seriamente di essere sicuro del fatto suo? Se c’è una setta che ricordi i tempi dei primi cristiani, è senza dubbio quella dei quaccheri. Niente assomigia di più agli apostoli. Gli apostoli ricevevano lo spirito e i quaccheri ricevono lo spirito. Gli apostoli e i loro discepoli parlavano a tre o quattro per volta nella loro assemblea all’ultimo piano, e i quaccheri fanno lo stesso a pianterreno. Alle donne era permesso, secondo san Paolo, di predicare, e, secondo lo stesso san Paolo, era loro proibito; le quacchero predicano in virtù del primo permesso. Gli apostoli e i discepoli giuravano semplicemente col sì o col no; i quaccheri non giurano altrimenti. Nessuna dignità, nessun abbigliamento diverso fra i discepoli e gli apostoli; i quaccheri hanno maniche senza bottoni, e sono tutti vestiti allo stesso modo. Gesù non battezzò nessuno dei suoi apostoli; i quaccheri non sono battezzati. Sarebbe facile spingere oltre questo parallelo; sarebbe ancora più facile mostrare quanto la religione cristiana di oggi differisca dalla religione che Gesù ha praticato. Gesù era ebreo, e noi non siamo ebrei; Gesù si asteneva dal maiale, perché è immondo, e dal coniglio, perché rumina e non ha l’unghia fessa; noi mangiamo allegramente maiale, perché per noi non è immondo, e mangiamo coniglio, che ha l’unghia fessa e non rumina. Gesù era circonciso, e noi conserviamo il nostro prepuzio. Gesù
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mangiava l’agnello pasquale con la lattuga, celebrava la festa dei tabernacoli, e noi non lo facciamo. Egli osservava il sabato, e noi l’abbiamo cambiato; sacrificava, e noi non sacrifichiamo più. Gesù nascose sempre il mistero della sua incarnazione e della sua dignità: non disse affatto di essere uguale a Dio, e san Paolo dice espressamente nella sua Epistola agli Ebrei che Dio ha creato Gesù inferiore agli angeli; e nonostante tutte le parole di san Paolo, Gesù è stato riconosciuto Dio al concilio di Nicea. Gesù non ha dato al papa né la marca di Ancona né il ducato di Spoleto; e tuttavia il papa li possiede per diritto divino. Gesù non ha fatto un sacramento del matrimonio, né del diaconato; e fra noi il diaconato e il matrimonio sono sacramenti. Se si presta bene attenzione, la religione cattolica, apostolica e romana è, in tutte le sue cerimonie e in tutti i suoi dogmi, l’opposto della religione di Gesù. E con questo? Dovremmo forse tutti giudaizzare, perché Gesù ha giudaizzato per tutta la vita? Se fosse permesso di ragionare coerentemente in fatto di religione, è chiaro che dovremmo farci tutti ebrei, perché Gesù Cristo nostro salvatore è nato ebreo, ha vissuto ebreo, è morto ebreo, e ha detto espressamente di essere venuto per compiere e adempiere la religione ebraica. Ma è più chiaro ancora che noi dobbiamo tollerarci mutualmente, perché siamo tutti deboli, incoerenti, soggetti all’incostanza e all’errore. Un giunco piegato dal vento nel fango dirà forse al giunco vicino, piegato in senso contrario: – Striscia come me, miserabile, o ti denuncerò perché tu sia divelto e bruciato? TEISTA Il teista è un uomo fermamente persuaso dell’esistenza di un Essere supremo tanto buono quanto potente, il quale ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti, senzienti e pensanti; perpetua la loro specie, punisce senza crudeltà i delitti e ricompensa con bontà le azioni virtuose. Il teista non sa come Dio punisca, come premi, come perdoni; perché non è tanto temerario da lusingarsi di conoscere come Dio agisca: sa che Dio agisce, e che è giusto. Le difficoltà contro la provvidenza non lo scuotono nella sua fede, perché si tratta soltanto di grandi difficoltà, e non di prove; egli è sottomesso a questa provvidenza, benché non ne scorga se non alcuni effetti e alcune apparenze; e, giudicando
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delle cose che non vede mediante quelle che vede, pensa che questa provvidenza si estenda a tutti i luoghi e a tutti i secoli. Concorde in questo principio con il resto dell’universo, non abbraccia alcuna setta, perché tutte si contraddicono. La sua religione è la più antica e la più estesa; perché la semplice adorazione di un Dio ha preceduto tutti i sistemi del mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli intendono, mentre essi non si intendono fra loro. Egli ha fratelli da Pechino alla Cajenna, e considera tutti i saggi propri fratelli. Egli crede che la religione non consista né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vani apparati, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene, ecco il suo culto; essere sottomesso a Dio, ecco la sua dottrina. Il maomettano gli grida: – Guai a te, se non fai il pellegrinaggio della Mecca! – Sventura a te – gli dice un recolletto, – se non fai un viaggio alla Madonna di Loreto! – Egli ride di Loreto e della Mecca, ma soccorre il misero e difende l’oppresso.
VOLTAIRE, Della pace perpetua del dottor Goodhearth (1769) 1. La sola pace perpetua che possa essere stabilita tra gli uomini è la tolleranza: la pace immaginata da un francese, chiamato abate di Saint Pierre, è una chimera che non sussisterà tra i prìncipi più che tra gli elefanti e i rinoceronti, tra i lupi e i cani. Gli animali carnivori si sbraneranno sempre alla prima occasione. 2. Se non è stato possibile bandire dal mondo il mostro della guerra, siamo riusciti a renderlo meno barbaro: oggi non vediamo più i Turchi scorticare un Bragadin, governatore di Famagosta, per aver ben difeso la piazza contro di loro. Se un principe cade prigioniero, non lo si carica più di catene, non lo si rinchiude in un carcere, come Filippo, detto Augusto, fece con Ferrante, conte di Fiandra, e al modo in cui, ancora più vigliaccamente, Leopoldo d’Austria trattò il nostro Riccardo Cuor di leone. I supplizi di Corradino, legittimo re di Napoli, e di suo cugino, ordinati da un vassallo tiranno, autorizzati da prete sovrano, non si ripetono più; non c’è più un Luigi XI, chiamato cristianissimo o Falaride, che faccia costruire delle segrete, che innalzi nelle piazze are espiatorie e che bagni del sangue paterno giovani prìncipi sovrani; non assistiamo più agli orrori della rosa rossa e della rosa bian-
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delle cose che non vede mediante quelle che vede, pensa che questa provvidenza si estenda a tutti i luoghi e a tutti i secoli. Concorde in questo principio con il resto dell’universo, non abbraccia alcuna setta, perché tutte si contraddicono. La sua religione è la più antica e la più estesa; perché la semplice adorazione di un Dio ha preceduto tutti i sistemi del mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli intendono, mentre essi non si intendono fra loro. Egli ha fratelli da Pechino alla Cajenna, e considera tutti i saggi propri fratelli. Egli crede che la religione non consista né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vani apparati, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene, ecco il suo culto; essere sottomesso a Dio, ecco la sua dottrina. Il maomettano gli grida: – Guai a te, se non fai il pellegrinaggio della Mecca! – Sventura a te – gli dice un recolletto, – se non fai un viaggio alla Madonna di Loreto! – Egli ride di Loreto e della Mecca, ma soccorre il misero e difende l’oppresso.
VOLTAIRE, Della pace perpetua del dottor Goodhearth (1769) 1. La sola pace perpetua che possa essere stabilita tra gli uomini è la tolleranza: la pace immaginata da un francese, chiamato abate di Saint Pierre, è una chimera che non sussisterà tra i prìncipi più che tra gli elefanti e i rinoceronti, tra i lupi e i cani. Gli animali carnivori si sbraneranno sempre alla prima occasione. 2. Se non è stato possibile bandire dal mondo il mostro della guerra, siamo riusciti a renderlo meno barbaro: oggi non vediamo più i Turchi scorticare un Bragadin, governatore di Famagosta, per aver ben difeso la piazza contro di loro. Se un principe cade prigioniero, non lo si carica più di catene, non lo si rinchiude in un carcere, come Filippo, detto Augusto, fece con Ferrante, conte di Fiandra, e al modo in cui, ancora più vigliaccamente, Leopoldo d’Austria trattò il nostro Riccardo Cuor di leone. I supplizi di Corradino, legittimo re di Napoli, e di suo cugino, ordinati da un vassallo tiranno, autorizzati da prete sovrano, non si ripetono più; non c’è più un Luigi XI, chiamato cristianissimo o Falaride, che faccia costruire delle segrete, che innalzi nelle piazze are espiatorie e che bagni del sangue paterno giovani prìncipi sovrani; non assistiamo più agli orrori della rosa rossa e della rosa bian-
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ca, né vediamo più cadere, nella nostra isola, teste coronate sotto l’ascia del boia; l’umanità sembra, infine, succedere alla ferocia dei prìncipi cristiani: essi non hanno più l’abitudine di far assassinare gli ambasciatori che sospettano ordire delle trame contro i loro interessi, così come Carlo V fece uccidere i due ministri di Francesco I, Rincon e Fregos; nessuno fa più la guerra come quel famoso bastardo del papa Alessandro VI, che si servì del veleno, del pugnale e della mano del carnefice più che della propria spada: le lettere hanno finalmente mitigato i costumi. Ci sono meno cannibali di una volta nella cristianità; questo è sempre un motivo di consolazione nell’orribile flagello della guerra, che non lascia mai respirare l’Europa vent’anni in pace. 3. Se la guerra stessa è diventata meno crudele, il governo di ogni Stato sembra divenire ugualmente meno inumano e più saggio. I buoni scritti, pubblicati da qualche anno, sono penetrati in tutta l’Europa, malgrado dei satelliti del fanatismo che controllavano tutti i passaggi. La ragione e la pietà sono penetrate fino alle porte dell’Inquisizione. Gli atti da antropofaghi che si chiamavano atti di fede, non celebrano più così spesso il Dio di misericordia alla luce dei roghi e tra i fiotti di sangue sparsi dal boia. In Spagna si incomincia a pentirsi di aver scacciato i Mori che coltivavano la terra; e se oggi si trattasse di revocare l’editto di Nantes, nessuno oserebbe proporre un’ingiustizia così funesta. 4. Se gli uomini fossero solo un’orda selvaggia che vive di rapine, un briccone ambizioso sarebbe, forse, scusabile di ingannare quest’orda per civilizzarla, e di ricorrere all’aiuto dei preti. Ma che accadrebbe? Ben presto i preti soggiogherebbero questo stesso ambizioso, e vi sarebbe un odio eterno tra essi e i discendenti di costui, a volte nascosto a volte scoperto: questo modo di civilizzare una nazione sarebbe, in poco tempo, peggiore della vita selvaggia. Chi non preferirebbe andare a caccia con gli Ottentotti o con i Cafri piuttosto che vivere sotto papi come Sergio III, Giovanni X, Giovanni XI, Giovanni XII, Sisto IV, Alessandro VI, e tanti altri mostri del genere? Quale nazione selvaggia si è mai imbrattata del sangue di centomila manichei come l’imperatrice Teodora? Quali Irochesi o quali Algonchini hanno da rimproverarsi massacri religiosi come quelli della notte di san Bartolomeo, come la guerra santa d’Irlanda, i santi assassini della crociata di Montfort, e cento simili abominevoli fatti, che hanno ridotto l’Europa cristiana a un vasto patibolo coperto di preti, di boia e di vittime? Soltanto l’intolleranza cristiana ha provocato questi orribili disastri; bisogna dunque che la tolleranza vi ponga rimedio. 5. Perché il mostro dell’intolleranza abitò nel fango delle caverne,
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abitate dai primi cristiani? Perché da queste fogne, dove trovava il suo nutrimento, passò nelle scuole di Alessandria, dove insegnavano quei mezzo-cristiani, mezzo-ebrei? Perché ben presto si insediò nelle cattedre episcopali, e infine si assise sul trono accanto ai re, che furono obbligati a fargli posto, e che spesso ne furono precipitati a terra dall’alto del loro trono? Prima che nascesse questo mostro, mai si erano avute sulla terra guerre di religione, mai nessuna polemica sul culto. Nulla vi è di più vero: e i più accaniti impostori che ancora oggi scrivono contro la tolleranza, non oserebbero contraddire questa verità. […] 28. Supplichiamo il lettore attento, saggio e uomo dabbene, di considerare la differenza infinita che c’è tra i dogmi e la virtù. È dimostrato che se un dogma non è necessario in ogni luogo e in ogni tempo, non è necessario in alcun tempo e in alcun luogo. Ora certamente i dogmi che insegnano che lo spirito procede dal padre e dal figlio, non sono stati accolti nella chiesa latina fino all’ottavo secolo, e mai nella chiesa greca. Gesù è stato dichiarato consustanziale a Dio soltanto nel 325; la discesa di Gesù all’inferno è soltanto del quinto secolo; è stato deciso solo nel sesto secolo che Gesù aveva due nature, due volontà e una persona; la transustanziazione non è stata ammessa che nel dodicesimo secolo. Ogni chiesa ha ancora oggi opinioni diverse su tutti i principali dogmi metafisici; essi non sono, dunque, assolutamente necessari all’uomo. Chi è quel mostro che oserà dire a sangue freddo che saremo eternamente bruciati per aver pensato a Mosca in modo opposto da come si pensa a Roma? Quale imbecille oserà affermare che coloro che non hanno conosciuto i nostri dogmi sedici secoli or sono saranno puniti per sempre per essere nati prima di noi? Qualcosa di ben differente è l’adorazione di un Dio, il compimento dei nostri doveri. Ecco ciò che è necessario in ogni luogo e in ogni tempo. C’è dunque una distanza infinita tra il dogma e la virtù. Un Dio adorato con il cuore e con la bocca, e tutti i doveri adempiuti, fanno dell’universo un tempio e di tutti gli uomini dei fratelli. I dogmi fanno del mondo un antro di dispute cavillose e un teatro di carneficine. I dogmi non sono se non invenzione di fanatici e di impostori: la morale discende da Dio. 29. I beni immensi che la Chiesa ha carpito alla società umana, sono il frutto della litigiosità del dogma; ogni articolo di fede è costato tesori, e per conservarli si è fatto scorrere il sangue. Il purgatorio dei morti da solo ha provocato centomila morti; che mi si mostri nella
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storia del mondo intero una sola disputa su questa professione di fede: «Io adoro Dio e devo fare del bene». 30. Tutti sentono la forza di queste verità. Bisogna, dunque, annunciarle a gran voce; bisogna ricondurre gli uomini, finché si può, alla religione primitiva; alla religione che gli stessi cristiani confessano essere stata quella del genere umano, al tempo del loro caldeo o del loro indiano Abramo; al tempo del loro preteso Noè, del quale nessuna nazione, fuorché l’ebrea, ha mai sentito parlare; al tempo del loro preteso Enoch, ancora più sconosciuto. Se in queste epoche la religione era vera, lo è dunque oggi. Dio non può cambiare; l’idea opposta è bestemmia. 31. È evidente che la religione cristiana è una pania nella quale gli imbroglioni hanno irretito gli stolti per più di diciassette secoli, e un pugnale con cui i pontefici hanno scannato i loro fratelli per più di quattordici. 32. Il solo modo per restituire la pace agli uomini, è dunque quello di distruggere tutti i dogmi che li dividono e di ristabilire la verità che li riunisce. Questa è in verità la pace perpetua. Questa pace non è una chimera; essa sussiste fra tutte le persone oneste dalla Cina fino a Québec: venti prìncipi d’Europa l’hanno abbracciata abbastanza pubblicamente; non rimangono che gli imbecilli a figurarsi di credere nei dogmi; questi imbecilli sono in gran numero, è vero; ma i pochi che pensano col tempo conducon con sé i più. Cade l’idolo e la tolleranza universale s’innalza ogni giorno sulle sue rovine: i persecutori sono in orrore presso il genere umano. Che dunque ogni persona giusta lavori, ciascuno secondo le sue capacità, a sgominare il fanatismo, e a ricondurre la pace che questo aveva bandito dai regni, dalle famiglie e dal cuore degli infelici mortali. Che ogni padre di famiglia esorti i figli a non obbedire che alle leggi e a non adorare che Dio.
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Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751-1765) TOLLERANZA, (Ordine enciclop., Teol. Morale, Polit.). La tolleranza è in generale la virtù di ogni essere debole, destinato a vivere con esseri simili a lui. L’uomo, nonostante la sua grande intelligenza, è così limitato dai suoi errori e passioni, che non è mai troppa la tolleranza e sopportazione che gli si infonde riguardo agli altri, e della quale ha tanto bisogno per se stesso, e senza la quale non vi sarebbero sulla terra che disordini e discordie. In realtà, la ragione per cui tanti secoli sono stati l’onta e la sventura dell’umanità, va ricercata nel fatto che queste dolci e concilianti virtù sono state bandite; e non possiamo neanche sperare che senza di esse sia possibile ristabilire mai fra noi la pace e la prosperità. Sono certamente molte le fonti dei nostri dissensi. Siamo anche troppo fecondi in proposito; ma dato che i pregiudizi rovinosi trionfano con maggior forza e con i più pretestuosi motivi soprattutto per ciò che riguarda le opinioni e la religione, questo articolo ha appunto lo scopo di combatterli. Anzitutto, in base ai princìpi più evidenti, dimostreremo la giustizia e la necessità della tolleranza; poi, secondo tali princìpi, tracceremo i doveri dei prìncipi e dei sovrani. Che triste compito dover dimostrare agli uomini verità tanto chiare, interessanti, tali che per non riconoscerle bisogna aver rinnegato la propria natura; ma se perfino in questo secolo v’è chi chiude gli occhi all’evidenza e il cuore all’umanità, dovremo forse osservare in quest’opera un vile e colpevole silenzio? No; qualunque sia l’esito, almeno osiamo reclamare i diritti della giustizia e dell’umanità, e tentiamo ancora una volta di strappare il pugnale al fanatico, e la benda al superstizioso. Entro in argomento con un’osservazione molto semplice e tuttavia molto favorevole alla tolleranza; che, non avendo la ragione umana una misura precisa e determinata, ciò che è evidente per l’uno è spesso oscuro per l’altro; giacché l’evidenza, come sappiamo, è una qualità relativa, che può dipendere o dalla luce sotto la quale vediamo gli oggetti, o dal rapporto che esiste fra questi e i nostri organi, o da un’altra causa qualunque, onde un certo grado di luce, sufficiente a convincere l’uno, è insufficiente per un altro, il cui spirito è meno vivo o diversamente sensibile: ne segue che nessuno ha diritto di imporre come legge il proprio pensiero, né di pretendere di assoggettare gli altri alle proprie opinioni. In realtà, volere che io creda in conformità al vostro
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giudizio sarebbe come esigere che io guardassi con i vostri occhi. È dunque chiaro che tutti noi abbiamo un nostro modo di vedere e di sentire, che dipende ben poco da noi. L’educazione, i pregiudizi, gli oggetti che ci circondano, e mille cause segrete, hanno influenza sulle nostre opinioni e le modificano all’infinito. Il mondo morale è ancor più vario di quello fisico, e gli animi si rassomigliano meno dei corpi. Abbiamo, è vero, princìpi comuni sui quali ci troviamo abbastanza d’accordo; ma tali princìpi primi sono pochissimi, le conseguenze che ne derivano diventano sempre meno chiare, a misura che se ne allontanano, come le acque che si intorbidano allontanandosi dalla sorgente. Allora le opinioni divergono e diventano tanto più arbitrarie, quanto più ognuno vi mette qualcosa di suo, e giunge a conclusioni personali. La divergenza in principio non è molto notevole; ma presto, più si cammina, più ci si smarrisce e ci si divide; mille strade conducono all’errore, una sola alla verità: fortunato chi sa riconoscerla! Ciascuno si compiace del proprio punto di vista, senza potervi convenire gli altri; ma se, in un tale conflitto di opinioni, è impossibile trovare una soluzione alle nostre contese e giungere ad un accordo su tanti punti delicati, siamo capaci almeno di avvicinarci ed unirci, grazie ai princìpi universali della tolleranza e dell’umanità, dal momento che le opinioni ci dividono e che non possiamo essere unanimi. Che cosa c’è di più naturale che sopportarci naturalmente, e dire a noi stessi con pari verità e giustizia: «Perché colui che erra dovrebbe cessare di essermi caro? Forse l’errore non è stato sempre una triste prerogativa dell’umanità? Quante volte ho creduto di scorgere il vero laddove in seguito ho riconosciuto il falso? Quanti ho condannato, adottandone in seguito le idee? Ah, certamente ho fin troppo acquisito il diritto di diffidare di me stesso, e mi guarderò dall’odiare mio fratello, perché pensa diversamente da me!». Chi dunque può osservare senza dolore e indignazione che il medesimo motivo che dovrebbe indurci all’indulgenza ed all’umanità – la pochezza dei nostri lumi e la diversità delle nostre opinioni – sia proprio quello che ci divide con più furore? Noi diventiamo accusatori e giudici dei nostri simili; li citiamo con arroganza dinanzi al nostro tribunale, ed esercitiamo sulle loro opinioni l’inquisizione più odiosa; e, quasi fossimo infallibili, l’errore non può trovare grazia ai nostri occhi. E tuttavia, che cosa c’è di più scusabile, quando esso è involontario, e ci si offre sotto l’apparenza della verità? L’omaggio che gli rendiamo non vogliamo forse rivolgerlo alla verità stessa? Un principe non è forse onorato dall’omaggio che rivolgiamo a qualcuno che abbiamo
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scambiato per lui stesso? Il nostro errore può diminuire forse ai suoi occhi il nostro merito, dal momento che vede in noi il medesimo scopo, la medesima sincerità che v’è in coloro i quali, meglio informati, si rivolgono a lui stesso? Ritengo che non esista ragionamento più valido di questo contro l’intolleranza; non si abbraccia l’errore in quanto errore; talvolta accade che si perseveri in esso volontariamente, per motivi d’interesse; in tal caso si è in colpa. Ma non capisco che cosa si possa rimproverare a colui che sbaglia in buona fede, che prende il falso per vero senza che lo si possa accusare di malizia o di negligenza; che si lascia abbagliare da un sofisma, e non intende la forza del ragionamento che lo combatte. Non ci riferiamo qui a chi manca d’intelligenza o di penetrazione; essere limitati non è una colpa, e gli errori dell’intelletto possono esserci imputati soltanto quando vi partecipa il cuore. L’essenza del delitto è la precisa intenzione di agire contro le proprie convinzioni, di fare quello che si sa che è male, di cedere a ingiuste passioni, e di turbare intenzionalmente le leggi dell’ordine che conosciamo; in breve, la morale delle nostre azioni risiede nella coscienza, nel motivo che ci fa agire. Ma, direte, tale verità è talmente evidente che non si può sfuggire ad essa senza rendersi volontariamente ciechi, e colpevoli di testardaggine o mala fede? Ma chi siete, per giudicare e condannare i vostri fratelli? Penetrate forse nell’intimo della loro anima? I suoi recessi sono forse aperti dinanzi ai vostri occhi? Condividete forse con l’Eterno l’attributo incomunicabile di scrutatore dei cuori? Quale oggetto esige maggior attenzione, prudenza e moderazione, di quello che voi giudicate con tanta leggerezza e sicurezza? È dunque tanto facile segnare con precisione i confini della verità; distinguere con esattezza il punto, spesso invisibile, dove questa finisce, e dove comincia l’errore; decidere ciò che ogni uomo deve accettare e credere, ciò che non può rifiutare senza peccare? E ancora, chi può conoscere la natura intima degli animi, tutte le modificazioni che possono subire? Vediamo tutti i giorni che non esiste verità tanto chiara, che non vada incontro a qualche contraddizione; non esiste sistema, al quale non si possono opporre obiezioni spesso tanto valide quanto le ragioni su cui esso si fonda. Ciò che è semplice ed evidente per l’uno sembra falso e incomprensibile all’altro: ciò accade non solo a causa del diverso grado di intelligenza, ma anche a causa della stessa varietà delle indoli, poiché tra i più grandi genii si trova la stessa varietà di opinioni, che certamente è maggiore fra loro che non fra gli uomini comuni. Ma senza fermarci a queste generalità, entriamo un po’ nei partico-
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lari; dato che la verità talvolta si instaura meglio per mezzo del suo contrario che non direttamente, se noi potremo dimostrare in poche parole l’inutilità, l’ingiustizia e gli effetti funesti dell’intolleranza, avremo dimostrato la giustizia e necessità della virtù che è il suo contrario. Fra tutti i mezzi che si usano per raggiungere uno scopo, la violenza è certamente il più inutile, il meno adatto per ottenere ciò che ci si ripromette: in verità, per raggiungere un qualsiasi scopo, bisogna almeno esser certi della natura e convenienza dei mezzi prescelti; è evidente, ogni causa deve avere in se stessa un rapporto necessario con l’effetto che ci si attende da essa, affinché sia possibile scorgere l’effetto nella causa, e il successo nei mezzi. Sicché, per agire sui corpi, per muoverli e dirigerli, si impiegheranno forze fisiche; ma per agire sugli animi, per piegarli, per far prendere loro decisioni, saranno necessarie forze di tipo diverso, come ragionamenti, prove, ragioni; non tenterete certo di abbattere una trincea o di far crollare una fortezza con dei sillogismi; né distruggerete gli errori o raddrizzerete le opinioni false col ferro e col fuoco. Qual è dunque lo scopo dei persecutori? Convertire coloro che tormentano; cambiare le loro idee e i loro sentimenti per ispirarne altri, opposti; in breve, dar loro un’altra coscienza, un’altra mentalità. Ma quale rapporto c’è tra le torture e le idee? Ciò che mi pareva chiaro ed evidente mi parrà forse falso tra i tormenti? Una tesi che ritengo assurda e contraddittoria diventerà forse chiara per me sul patibolo? La verità emerge e si comunica forse col ferro e col fuoco? Prove e ragionamenti possono convincermi e persuadermi; mostratemi dunque la falsità delle mie opinioni, e vi rinuncerò spontaneamente e senza sforzo; ma i vostri tormenti non otterranno mai ciò che le vostre ragioni non hanno potuto ottenere. […] Comunque, quanto più si approfondiscono i metodi degli intolleranti, tanto più ci si rende conto che sono deboli e ingiusti; avrebbero almeno qualche pretesto, se al Creatore potessero piacere omaggi forzati, che il cuore sconfessa nell’atto stesso in cui li enuncia; ma se la sola intenzione fa il pregio del sacrificio, e se il culto interiore è quello che egli soprattutto richiede, con che occhio l’Essere infinito guarderà i temerari che osano attentare ai suoi diritti, e profanare la sua opera più bella, opprimendo cuori dei quali è geloso? Nessun re sulla terra si degnerebbe di accettare un incenso offerto dalla sola mano: e non si ha vergogna di esigere per Dio un così indegno incenso? Tali sono infatti, i successi tanto vantati dai persecutori: creare ipocriti o martiri, vili e eroi; l’anima debole e pusillanime, che si sgomenta innanzi alle torture, abiura fremendo la propria fede e detesta l’autore del delitto;
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al contrario, l’anima generosa, che sa contemplare con occhio asciutto la tortura che le si prepara, resta ferma e impassibile, guarda con pietà i persecutori, e va incontro alla morte come ad un trionfo. L’esperienza è anche troppo eloquente; quando il fanatismo ha fatto scorrere fiumi di sangue sulla terra, non si son forse visti innumerevoli martiri sdegnati e tetragoni dinanzi agli ostacoli? E quanto alle conversioni forzate, non le vediamo forse rientrare insieme con il pericolo, e l’effetto cessare insieme con la causa, e colui che temporaneamente ha ceduto correre fra le braccia dei suoi non appena può; piangere con loro la propria debolezza, e riacquistare con entusiasmo la propria libertà naturale? No, non conosco bestemmia più orribile che quella di dirsi autorizzati da Dio a seguire siffatti princìpi. È dunque vero che la violenza ottiene piuttosto l’effetto di confermare i perseguitati nella loro religione, che non quello di distoglierli da essa o di destare, come si dice, la loro coscienza assopita. «Non si può certo riuscire a distogliere l’anima dalla religione, diceva un politico, col renderla piena di essa, col farle apparire imminente il momento in cui la fede acquista la massima importanza. Le leggi penali, in materia di religione, incutono paura, è vero; ma poiché la religione ha proprie leggi penali che incutono anch’esse paura, tra le due diverse paure le anime diventano feroci. Non vogliamo, voi dite, indurre un uomo a tradire la propria coscienza, ma soltanto a scuotersi di dosso i pregiudizi e a distinguere la verità dall’errore, che professa, mediante il timore o la speranza. Ma chi mai potrebbe, vi chiedo, dedicarsi alla meditazione e all’esame che proponete nei momenti critici? Per tale esame sono appena sufficienti uno stato di massima tranquillità, la più accurata attenzione, la libertà più piena; e volete che un’anima che si dibatte nell’orrore della morte, continuamente ossessionata da immagini paurose, sia più capace di riconoscere e cogliere la verità, che avrebbe misconosciuto in tempi più tranquilli? Che assurdità, che contraddizione». No, no; effetto della violenza sarà sempre quello di render più saldi nelle loro opinioni, come s’è detto, coloro che la subiscono, a causa delle sventure che procura loro; di renderli ostili, al contrario, verso le opinioni dei loro nemici, dato il modo in cui questi le presentano, ispirando loro orrore, ad un tempo, per i persecutori e per la loro religione. [...] Concludiamo che l’intolleranza universalmente instaurata armerebbe tutti gli uomini gli uni contro gli altri, e susciterebbe all’infinito guerre di opinioni; poiché, ammettendo che gli infedeli non fossero persecutori per princìpi religiosi, lo sarebbero almeno per politica e
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per interesse, e dato che i cristiani non possono tollerare coloro che non accettano le loro idee, si vedrebbero, a ragione, tutti i popoli unirsi contro di loro, e cospirare la distruzione di questi nemici del genere umano, che, con il pretesto della religione, non riterrebbero illegittimo nessun mezzo per tormentarlo ed asservirlo. In verità, mi domando, che cosa avremmo da rimproverare a un principe dell’Asia o del Nuovo mondo che facesse impiccare il primo missionario che gli inviassimo per convertirlo? Non è forse dovere più essenziale di un sovrano assicurare la pace e la tranquillità nei suoi Stati, e proscriverne con cura quegli uomini pericolosi, che dapprima nascondono la loro debolezza con ipocrita dolcezza, e poi, appena ne hanno la possibilità, non cercano altro che diffondere dogmi barbarici e sediziosi? Che i cristiani dunque se la prendano con se stessi, se gli altri popoli, venuti a conoscenza delle loro massime, non li possono soffrire, se non vedono in loro che gli assassini dell’America o i perturbatori delle Indie, e se la loro santa religione, destinata ad estendersi e a fruttificare sulla terra, a ragione ne è bandita per i loro eccessi e per i loro furori. [...] In una questione così delicata, non procederei senza autorità e nell’esposizione di alcuni princìpi generali si vedranno facilmente le conseguenze che ne derivano. I. Dunque non si giungerà mai al punto cruciale della questione, se non si distingue anzitutto lo Stato dalla Chiesa, e il prete dal magistrato. Lo Stato, o repubblica, si propone la conservazione dei suoi membri, la tutela della loro libertà, della loro vita, della loro tranquillità, dei loro possessi e dei loro privilegi; la Chiesa, al contrario, è una società che mira alla perfezione dell’uomo ed alla salvezza della sua anima. Il sovrano considera soprattutto la vita presente; la Chiesa considera soprattutto e direttamente la vita futura. Mantenere la pace nella società contro tutti coloro che vorrebbero attentarla è dovere e diritto del sovrano; ma il suo diritto finisce dove regna quello della coscienza: queste due giurisdizioni debbono rimanere sempre separate, esse non possono sovrapporsi l’una all’altra, senza che ne risultino infiniti mali. II. In effetti la salvezza delle anime non è affidata al magistrato dalla legge rivelata, né dalla legge naturale, né dal diritto politico. Dio non ha mai ordinato che i popoli piegassero la propria coscienza alla mercé dei monarchi, né alcuno può impegnarsi in buona fede a credere e pensare come esige il principe. Abbiamo già detto che nulla è più libero del pensiero; possiamo, esteriormente e a parole, adattarci alle opinioni altrui, ma ci è impossibile adattarvisi intimamente, contro i
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nostri lumi, così come ci è impossibile diventare un’altra persona. Quali sarebbero d’altronde i diritti del magistrato? La forza e l’autorità? Ma la religione nasce dalla persuasione, non dal comando. È una verità così semplice, che perfino gli apostoli dell’intolleranza non osano rinnegarla quando la passione o il feroce pregiudizio cessano di offuscare la loro ragione. Inoltre, se la forza potesse essere usata nella religione; se anche – ci sia consentita quest’ipotesi assurda – potesse persuadere, per ottenere la salvezza bisognerebbe nascere sotto un principe ortodosso, e quindi il merito del vero cristiano sarebbe un caso fortuito dovuto alla nascita; di più, bisognerebbe mutare la propria credenza per conformarla a quella dei prìncipi che si succedono via via: esser cattolici sotto Maria, protestanti sotto Elisabetta. Una volta abbandonati i princìpi, non si sa più dove può fermarsi il male. III. Spieghiamoci dunque liberamente, con il linguaggio stesso dell’autore del Contrat social, che su questo punto afferma: «Il diritto che il patto sociale dà al sovrano sui sudditi non oltrepassa i limiti della pubblica utilità; i sudditi non debbono dunque render conto al sovrano delle proprie opinioni, se non in quanto esse interessano la comunità. Ora, interessa bensì lo Stato che ciascun cittadino abbia una religione che l’induca ad amare i suoi doveri; ma i dogmi di tale religione non interessano lo Stato né i suoi membri, se non in quanto si riferiscono alla società. V’è una professione di fede puramente civile, della quale spetta al sovrano fissare le massime, non con l’esattezza di dogmi religiosi, ma come sentimenti di socievolezza, senza i quali è impossibile essere buoni cittadini e sudditi fedeli, e senza poter obbligare alcuno a crederli; può bandire dallo Stato chiunque non li creda, non come empio, ma come insocievole, incapace d’amare sinceramente le leggi della giustizia e di immolare la vita al dovere in caso di bisogno». IV. Da queste parole si possono trarre alcune legittime conseguenze. La prima è che i sovrani non debbono tollerare dogmi contrari alla società civile; non hanno, in verità, diritto di spiare le coscienze, ma debbono reprimere i discorsi temerari che potrebbero insinuare nei cuori la licenza e il rifiuto dei doveri. Gli atei, in particolare, che tolgono ai potenti l’unico freno che li trattiene, e ai deboli la loro unica speranza, che tolgono nerbo a tutte le forze umane distruggendone l’energia derivante da una sanzione divina, che lasciano tra il giusto e l’ingiusto una distinzione puramente politica e frivola, che vedono l’obbrobrio del delitto soltanto nella pena inflitta a chi l’ha compiuto; gli atei, dico, non debbono reclamare per sé la tolleranza; si cominci con l’istruirli, esortandoli con bontà; se insistono li si reprima; poi
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rompete ogni rapporto con loro e banditeli dalla società, giacché loro stessi ne hanno infranto i legami. 2° I sovrani debbono opporsi vigorosamente alle imprese di coloro che, mascherando la propria avidità sotto il pretesto della religione, vorrebbero attentare ai beni dei privati o dei prìncipi stessi. 3° Proscrivano soprattutto attentamente quelle pericolose società che sottopongono i loro membri ad una duplice autorità, costituiscono uno Stato nello Stato, infrangono l’unità politica, rilassano e dissolvono i legami della patria per concentrare nel loro corpo affetti e interessi, e così tendono a sacrificare la società generale alla loro società privata. In una parola, lo Stato sia uno, il prete sia anzitutto cittadino; sia soggetto, come ogni altro, alla potenza del sovrano e alle leggi della patria; la sua autorità puramente spirituale si limiti all’istruzione, esortazione e predicazione della virtù; apprenda dal suo divino maestro che il suo regno non è di questo mondo: tutto è perduto se lasciate un solo momento il gladio e il turibolo nella stessa mano. Regola generale. Rispettate severamente i diritti della coscienza in tutto ciò che non turba la società. Gli errori speculativi non hanno peso per lo Stato; la diversità di opinioni sussisterà sempre fra esseri imperfetti come gli uomini; la verità produce eresie come il sole impurità e macchie: non aggravate dunque un male inevitabile, usando il ferro e il fuoco per estirparlo; punite i delitti; abbiate pietà dell’errore, e non date armi alla verità, tranne la dolcezza, l’esempio, la persuasione. In fatto di conversione religiosa, le esortazioni hanno più forza delle pene; le quali non hanno mai prodotto effetti, se non recando distruzione. V. A tali princìpi saranno contrapposti gli svantaggi che risultano dalla molteplicità delle religioni, e i vantaggi di una fede uniforme in uno Stato. Anzitutto risponderemo, con l’autore dell’Esprit des Lois: «Che queste idee di uniformità… colpiscono infallibilmente gli uomini comuni, perché essi vi trovano un tipo di perfezione che è impossibile non scorgervi: gli stessi metodi nell’amministrazione della giustizia, gli stessi sistemi nel commercio, le stesse leggi nello Stato, la stessa religione in tutte le sue parti; ma tutto ciò va sempre bene, senza eccezioni? Il male di cambiare è sempre minore del male di soffrire? E forse la grandezza del genio non consiste piuttosto nell’individuare i casi nei quali è necessaria l’uniformità, e quelli nei quali è bene che vi siano differenze?». In verità perché pretendere una perfezione incompatibile con la nostra natura? La diversità di opinione sussisterà sempre fra gli uomini; la storia dello spirito umano ne è una prova perenne; e il più chimerico progetto sarebbe quello di ridurre
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gli uomini all’uniformità delle opinioni. Però, voi dite, l’interesse politico esige che tale uniformità sussista; che si proscriva accuratamente ogni opinione contraria alle opinioni correnti nello Stato, cioè che si costringa l’uomo a non essere nulla più di un automa, lo si educhi alle idee correnti, nel suo luogo di nascita, senza che osi mai esaminarle né approfondirle, lo si induca a rispettare servilmente i pregiudizi più barbarici; come quelli che noi combattiamo. Ma quanti mali e quante divisioni genera in uno Stato la molteplicità delle religioni? L’obiezione si ritorce contro di voi, poiché l’intolleranza in se stessa è fonte di tali mali; poiché se le diverse parti si accordassero un mutuo appoggio, e cercassero di combattersi soltanto mediante l’esempio, la bontà dei costumi, l’amore delle leggi e della patria; se queste fossero le uniche prove che ogni setta facesse valere in favore della sua fede, ben presto l’armonia e la pace regnerebbero nello Stato, nonostante la varietà di opinioni, come le dissonanze in musica non nuocciono all’accordo totale. Si insiste nel dire che i mutamenti di religione producono spesso rivoluzioni nel governo e nello Stato: rispondo ancora che l’intolleranza è l’unica responsabile di ciò che v’è d’odioso in questa accusa; poiché se gli innovatori fossero tollerati, o fossero combattuti soltanto con le armi del Vangelo, lo Stato non soffrirebbe di tale agitazione spirituale; ma i difensori della religione dominante si levano con furore contro i settari, armano il potere contro di loro, strappano editti sanguinosi, infondono in tutti i cuori la discordia e il fanatismo, e fanno ricadere senza pudore sulle loro vittime la colpa dei disordini che essi soli hanno provocato. Riguardo a coloro che, con il pretesto della religione, non cercano che di turbare la società, fomentare le sedizioni, e scuotere il giogo delle leggi; puniteli severamente, noi non siamo i loro apologisti; ma non confondete con codesti colpevoli coloro che vi chiedono soltanto la libertà di pensare, di professare la fede che credono migliore, e che del resto vivono da fedeli sudditi dello Stato. Ma, direte ancora, il principe è il difensore della fede; egli deve mantenerla in tutta la sua purezza, e opporsi con la forza a tutti coloro che la insidiano; se i ragionamenti e le esortazioni non bastano, non invano egli porta la spada, proprio per punire chi fa del male, per forzare i ribelli a rientrare in seno alla Chiesa. Che vuoi tu dunque, barbaro? Sgozzare il tuo fratello per salvarlo? Ma forse Dio ti ha dato quest’orribile compito? Ha forse posto nelle tue mani la cura della sua vendetta? Da che cosa arguisci che Egli voglia essere onorato come i
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demoni? Va, disgraziato, il Dio di pace ripudia i tuoi spaventosi sacrifici; essi non sono degni che di te. Non vogliamo parlare qui dei precisi limiti della tolleranza, né fare distinzione tra la caritatevole sopportazione che la ragione e l’umanità reclamano a favore di chi sbaglia, e quella colpevole indifferenza, che ci fa collocare sullo stesso piano tutte le opinioni degli uomini. Noi sosteniamo la tolleranza pratica e non quella speculativa; e ben si capisce quale differenza corre tra il tollerare una religione e l’approvarla. Rimandiamo i lettori curiosi di approfondire questo argomento al Commentario filosofico di Bayle, ove, secondo noi, quel genio ha superato se stesso. Quest’articolo è del signor Romilli figlio
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THOMAS PAINE, I diritti dell’uomo (1791) Siamo cosi giunti all’origine dell’uomo, e all’origine dei suoi diritti. Quanto al modo in cui il mondo è stato governato da allora fino ad oggi, non deve interessarci altro che per fare un buon uso degli errori e dei progressi che la storia ci mostra. Chi è vissuto cento o mille anni fa è stato a suo tempo moderno, così come noi lo siamo oggi. Anche rispetto a lui vi sono stati degli antichi, ed altri ancora ve ne furono rispetto a questi ultimi; anche noi, a nostra volta, saremo chiamati antichi. Se il semplice nome dell’antichità deve dettare legge negli affari della vita, coloro che vivranno di qui a cento o mille anni potranno assumerci come precedente, come noi facciamo di coloro che vissero cento o mille anni or sono. La verità è che questi frammenti di antichità, con il dimostrare tutto, non provano nulla. È un continuo contrapporsi di autorità ad autorità, fino a che non si risale all’origine divina dei diritti dell’uomo nella creazione. Qui le nostre ricerche trovano un punto d’arrivo, e la nostra ragione può acquietarsi. Se cento anni dopo la creazione fosse sorta una disputa sui diritti dell’uomo, ad essa si sarebbe fatto riferimento come autorità; ed è alla stessa fonte che noi oggi dobbiamo rifarci. Sebbene io non voglia sostenere nessun principio settario in materia religiosa, può però valer la pena di osservare che la genealogia di Cristo viene tracciata fino a Adamo. Perché dunque non risalire alla creazione dell’uomo, quando si tratta dei suoi diritti? Risponderò io stesso: perché vi sono stati dei governi sorti dal nulla che si sono imposti con la forza e si sono dati con presunzione a disfare l’uomo. Se mai una generazione umana possedette il diritto di stabilire il modo in cui il mondo dovesse essere governato per sempre, questa fu la prima generazione; e se questa non l’ha fatto, nessuna generazione successiva può dimostrare di averne l’autorità, ne può in alcun modo attribuirsela. Il principio divino e illuminante degli uguali diritti dell’uomo (infatti esso ha la sua origine nel Creatore) si riferisce non soltanto agli individui viventi, ma alle generazioni umane che si susseguono. Ogni generazione è uguale nei diritti a quelle che la precedettero, in virtù della stessa regola per cui ogni individuo nasce con diritti uguali a quelli dei suoi contemporanei. Tutte le storie della creazione e tutti i racconti tradizionali, sia del mondo letterato che di quello illetterato, comunque possano variare nelle opinioni o nelle credenze riguardo a certi particolari, concordano
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nello stabilire un punto, l’unità dell’uomo. Con ciò intendo che gli uomini appartengono tutti ad uno stesso ordine [degree], e di conseguenza che tutti nascono uguali, e con uguali diritti naturali, come se la specie si perpetuasse per creazione anziché per generazione, quest’ultima non essendo che il modo in cui si fa proseguire la prima; e di conseguenza bisogna pensare che ogni bambino che viene al mondo deriva la propria esistenza da Dio. Il mondo per lui è nuovo come lo fu per il primo uomo, e i suoi diritti naturali nel mondo sono dello stesso genere. La narrazione mosaica della creazione, che le si attribuisca una autorità divina o solamente storica, conferma pienamente l’unità o uguaglianza dell’uomo. Le espressioni al riguardo non ammettono controversie: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine”. A immagine di Dio lo creò; uomo e donna li creò». Non vi è il minimo accenno ad altra distinzione che quella dei sessi. Se questa non è l’autorità divina, è almeno l’autorità della storia, e mostra che l’uguaglianza dell’uomo, lungi dall’essere una dottrina moderna, è la più antica che si ricordi. Occorre inoltre osservare che tutte le religioni conosciute nel mondo si fondano, per quanto concerne l’uomo, sull’unità dell’uomo come appartenente ad un unico ordine. Così in cielo come all’inferno, o in qualsiasi condizione si pensi che l’uomo possa esistere dopo la vita, l’unica distinzione è quella tra buono e cattivo. Anzi, perfino le leggi dei governi sono costrette a riconoscere questo principio, distinguendo gli ordini [degrees] in base alle colpe, e non in base alle persone. Si tratta di una delle verità più grandi e più beneficihe che si possano sostenere. Considerando l’uomo sotto questa luce, e insegnandogli a considerarsi in questo modo, lo si pone in stretta connessione con tutti i suoi doveri, tanto verso il suo Creatore che verso il creato, di cui è parte; ed è solo quando dimentica la propria origine, o, per dirla con una frase corrente, la propria nascita e condizione, che l’uomo si degrada moralmente. Non è l’ultimo dei mali dei governi esistenti in ogni parte d’Europa il fatto che l’uomo, considerato come uomo, sia tenuto lontano dal suo Creatore, e che questo abisso artificiale sia colmato da una successione di ostacoli, come dei cancelli attraverso cui egli deve passare. Citerò qui il catalogo delle barriere che Burke ha frapposto tra l’uomo e il suo Creatore. Ponendosi nei panni di un araldo, egli dice: «Temiamo Dio, guardiamo ai re con sacro rispetto, ai parlamenti con affetto, siamo pieni di deferenza per i magistrati e i preti, e di rispetto
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per la nobiltà». Burke ha dimenticato di includere la «cavalleria», così come ha dimenticato Peter3. Il dovere dell’uomo non è costituito da una serie di cancelli che, egli debba superare pagando ogni volta un pedaggio. Esso è chiaro e semplice, e consiste soltanto di due punti. Il dovere dell’uomo verso Dio, che ognuno deve sentire; e, nei confronti del prossimo, fare ciò che vorrebbe fosse fatto a lui. Se coloro ai quali è delegato il potere agiscono correttamente, saranno rispettati, altrimenti saranno disprezzati; e quanto coloro ai quali nessun potere è delegato, ma che lo usurpano, il mondo razionale non vuole saperne nulla. Finora abbiamo parlato unicamente (e solo in parte) dei diritti naturali dell’uomo. Dobbiamo adesso considerare i suoi diritti civili, e mostrare come gli uni abbiano la loro origine negli altri. L’uomo non è entrato nella società per trovarsi in una condizione peggiore di quella in cui si trovasse prima, né per aver meno diritti di quanti ne avesse prima, ma perché essi fossero meglio protetti. I diritti naturali dell’uomo sono il fondamento di tutti i suoi diritti civili. Ma per fissare la distinzione in modo più preciso, sarà necessario determinare le diverse caratteristiche dei diritti naturali e civili. Essi si possono chiarire con poche parole. Sono diritti naturali quelli che spettano all’uomo in virtù della sua esistenza. A questo genere appartengono tutti i diritti intellettuali, o diritti della mente, e anche tutti quei diritti di agire come individuo per il proprio benessere e per la propria felicità che non siano lesivi dei diritti naturali altrui. Sono diritti civili quelli che spettano all’uomo in virtù dell’essere membro della società. Ogni diritto civile ha il suo fondamento in un diritto naturale che preesiste nell’individuo, ma per il cui godimento i poteri dell’individuo non sono sempre adeguati. A questa categoria appartengono tutti i diritti relativi alla sicurezza e alla protezione. Da questa breve descrizione sarà facile distinguere tra quella classe di diritti naturali che l’uomo conserva dopo l’ingresso nella società e quelli che come membro della società rimette nel fondo comune [common stock]. I diritti naturali che l’uomo conserva sono tutti quelli per cui il potere di porli in atto è perfetto nell’individuo altrettanto che il diritto stesso. Tra questi, come si è già detto, sono tutti i diritti intellettuali, o
3 Paine allude al personaggio del racconto di Swift, A tale of a tub. In esso Peter rappresenta la Chiesa cattolica.
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diritti della mente; di conseguenza la religione è uno di tali diritti. I diritti naturali che non vengono conservati sono tutti quelli per cui, sebbene il diritto sia perfetto nell’individuo, il potere di metterli in atto è insufficiente. Essi non rispondono ai suoi fini. Un uomo ha il diritto naturale di essere giudice nella propria causa; e per quanto concerne il diritto della mente, egli non lo abbandona mai. Ma a che gli giova giudicare, se non ha il potere di riparare? Perciò egli versa il suo diritto nel fondo comune della società, e si serve del braccio di quest’ultima, di cui è parte, in sostituzione ed in aggiunta al suo proprio. La società non gli concede nulla. Ognuno è proprietario della società, e attinge di diritto al capitale. Da queste premesse seguono due o tre conclusioni sicure: primo, ogni diritto civile nasce da un diritto naturale; o, in altre parole, è un diritto naturale scambiato; secondo, il potere civile considerato propriamente come tale è composto dall’insieme di quella classe dei diritti naturali dell’uomo, che nell’individuo diviene insufficiente sotto il rispetto del potere, e non risponde ai suoi fini, ma che, raccolta attorno ad un solo centro, diviene adeguata agli scopi di ognuno; terzo, il potere prodotto dall’insieme dei diritti naturali, nell’individuo imperfetti quanto al potere, non può essere usato per violare i diritti naturali che l’individuo conserva e per cui il potere di metterli in atto è perfetto quanto il diritto stesso. […] La Costituzione francese ha abolito e ripudiato insieme la tolleranza e l’intolleranza, ed ha istituito il diritto universale di coscienza. La tolleranza non è l’opposto dell’intolleranza, bensì il suo travestimento. Entrambe sono dei dispotismi. L’una si arroga il diritto di togliere la libertà di coscienza, e l’altra di concederla. L’una è il papa armato di torce e fascine, e l’altra è il papa che vende o concede indulgenze. La prima è Chiesa e Stato, e la seconda è Chiesa e commercio. Ma la tolleranza può essere vista sotto una luce assai più netta. L’uomo non adora se stesso, ma il suo Creatore; e la libertà di coscienza che reclama non è volta al servizio di se stesso, ma del suo Dio. In questo caso, perciò, dobbiamo necessariamente associare l’idea di due esseri: il mortale che adora, e l’essere immortale che è adorato. La tolleranza, pertanto, si colloca non tra uomo e uomo, ma tra Dio e uomo; tra l’essere che adora e l’Essere che è adorato. Così, con lo stesso atto di usurpazione con cui si tollera che un uomo segua un certo culto, ci
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si autorizza, in modo presuntuoso e blasfemo, a tollerare che l’Onnipotente accetti tale culto. Se si presentasse a qualsiasi parlamento una legge denominata Progetto di legge per tollerare e concedere all’Onnipotente la libertà di accettare l’adorazione di un ebreo o di un turco, oppure Per proibirgli di accettarla, tutti sussulterebbero allarmati e la chiamerebbero blasfema. Si avrebbe un tumulto. La presunzione della tolleranza in materia religiosa si mostrerebbe allora senza veli; ma tale presunzione non è minore perché soltanto il nome di «uomo» compare in quelle leggi, in quanto l’associazione dell’idea dell’oggetto di adorazione e di quella dell’adoratore non può essere sciolta. Chi sei tu dunque, vana polvere e cenere? Quale che sia il tuo nome, re o vescovo, Chiesa, Stato, parlamento o qualunque altro, come osi intromettere la tua insignificanza tra l’anima dell’uomo e il suo Creatore? Occupati di ciò che ti riguarda. Se qualcuno non crede come tu credi, ciò prova soltanto che tu non credi come egli crede, e non c’è alcun potere terreno che possa decidere tra di voi. Quanto alle cosiddette denominazioni di religione, se ognuno è lasciato libero di giudicare della propria religione, non esiste nessuna religione che sia errata; ma se l’uno vuole giudicare della religione dell’altro, non esiste nessuna religione che sia giusta. Così, tutti hanno ragione, oppure tutti hanno torto. Ma quanto alla religione in se stessa, senza dare importanza ai nomi, e considerandola come diretta dalla famiglia universale dell’umanità all’oggetto divino di ogni adorazione, è l’uomo che offre al suo Creatore i frutti del proprio cuore; e sebbene tali frutti possano differire gli uni dagli altri, come i frutti della terra, il tributo riconoscente di ciascuno viene accettato. Un vescovo di Durham o un vescovo di Winchester, o l’arcivescovo che è in testa a tutti i duchi, non rifiuterà un decimo del prodotto di grano perché non è un fascio di fieno, né un fascio di fieno perché non è una misura di grano; né rifiuterà un maiale perché non è né l’uno né l’altro. Ma queste stesse persone, in quanto Chiesa di Stato, non permettono al loro Creatore di ricevere i diversi prodotti della devozione umana, Uno dei ritornelli che compaiono più frequentemente nel libro di Burke è «Chiesa e Stato». Egli non allude a una Chiesa particolare, o ad un particolare Stato, ma a qualsiasi Chiesa e qualsiasi Stato; e adopera il termine come una formula generale per sostenere pubblicamente la dottrina politica di unire sempre la Chiesa con lo Stato in ogni paese, biasimando inoltre l’Assemblea nazionale per non aver fat-
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to altrettanto in Francia. Sarà bene spendere qualche considerazione a questo proposito. Tutte le religioni sono per loro natura miti e benigne, e legate a principi di moralità. Non avrebbero mai potuto iniziare a fare proseliti se avessero professato alcunché di corrotto, crudele, persecutorio o immorale. Come ogni altra cosa, esse hanno avuto il loro inizio, ed hanno proceduto mediante la persuasione, l’esortazione e l’esempio. Come avviene dunque che perdono la loro innata mitezza, e divengono altere e intolleranti? Ciò deriva proprio dall’unione che Burke raccomanda. Accoppiando la Chiesa con lo Stato si produce una sorta di ibrido, la Chiesa stabilita dalla legge, capace solo di distruggere e non di generare. Fin dalla nascita è estraneo alla madre che lo ha generato, e finisce poi per ucciderla. L’Inquisizione spagnola non nasce dalla religione professata in origine, ma da questo animale ibrido generato dall’unione di Chiesa e Stato. I roghi di Smithfield derivarono dalla medesima procreazione eterogenea; e in seguito fu la rigenerazione di questo strano animale a rinnovare in Inghilterra il rancore e l’irreligione, e a spingere i quaccheri e i dissidenti a trasferirsi in America. La persecuzione non è un tratto originario di nessuna religione; ma è sempre il carattere profondo di tutte le religioni di Stato, o religioni imposte dalla legge. Togliete l’imposizione della legge, e ogni religione recupera l’originario carattere benigno. In America un prete cattolico è un buon cittadino, un brav’uomo, e un buon vicino; lo stesso vale per un ministro episcopale; e ciò si deve, indipendentemente dalle persone, all’assenza di imposizioni legali. Anche se consideriamo questo problema secondo un’ottica mondana, possiamo vedere i danni che ne derivano per la prosperità delle nazioni. L’unione di Chiesa e Stato ha impoverito la Spagna. La revoca dell’editto di Nantes ha spostato la manifattura della seta dalla Francia in Inghilterra; e «Chiesa e Stato» sta spostando la manifattura del cotone dall’Inghilterra in America e in Francia. Burke continui pure, dunque, a predicare la sua dottrina antipolitica di «Chiesa e Stato». Essa servirà a qualcosa. L’Asssemblea nazionale non seguirà i suoi consigli, ma trarrà beneficio dalla sua follia. È stato osservando i suoi effetti deleteri in Inghilterra che l’America si è messa in guardia contro di essa; ed è per averne sperimentati gli effetti in Francia che l’Assemblea l’ha abolita e, come l’America, ha istituito il diritto universale di coscienza e il diritto universale di cittadinanza.
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JOHN STUART MILL, Sulla libertà (1858) CAPITOLO I […] L’unico caso in cui, in linea di principio, è stata assunta e mantenuta con coerenza una posizione più elevata, salvo particolari eccezioni, è il caso delle credenze religiose, che sotto molti aspetti è istruttivo perché non da ultimo costituisce l’esempio più evidente della fallibilità del cosiddetto senso morale: in un autentico bigotto, infatti, l’odium theologicum è una delle forme più inequivocabili di sentimento morale. Coloro che per primi spezzarono il giogo della chiesa che si autodefìniva Chiesa Universale, furono in generale altrettanto poco disposti a permettere differenze di opinione religiosa quanto la Chiesa stessa. Ma quando la temperatura del conflitto si abbassò senza assicurare una vittoria completa a nessuna delle parti in lotta, ogni chiesa o setta fu costretta a ridimensionare le sue aspirazioni per mantenere il possesso del terreno già occupato; le minoranze, rendendosi conto di non avere nessuna possibilità di diventare maggioranza, furono costrette a chiedere il permesso di avere opinioni diverse a coloro che non erano riuscite a convertire. Di conseguenza, è quasi solamente su questo campo di battaglia che i diritti del singolo individuo, contrapposti a quelli della società, sono stati affermati su solide basi di principio, e che è stata apertamente contrastata la pretesa della società di esercitare la propria autorità sui dissidenti. I grandi scrittori, cui il mondo deve ciò che possiede in termini di libertà religiosa, hanno per lo più fatto appello alla libertà di coscienza come a un diritto imprescrittibile, e hanno negato in assoluto che un essere umano debba dar conto agli altri delle proprie credenze religiose. L’intolleranza è tuttavia così connaturata agli uomini, in tutto ciò che conta effettivamente per loro, che la libertà religiosa quasi in nessun luogo è stata praticamente realizzata, eccetto dove l’indifferenza religiosa, che non gradisce vedere la sua pace disturbata da polemiche teologiche, ha gettato il suo peso sulla bilancia. Nelle menti di quasi tutti i credenti, persino nei paesi più tolleranti il rispetto della tolleranza è ammesso con tacite riserve. Qualcuno sopporterà il dissenso in materia di governo della chiesa, ma non in materia di dogma; qualche altro tollererà tutti, tranne i papisti o gli unitari; qualche altro ancora
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tollererà tutti coloro che credono in una religione rivelata; pochi estendono la loro benevola concessione un po’ oltre, ma non transigono sul credere in un Dio e in una vita futura. Ovunque il sentimento della maggioranza continui a essere puro e profondo, si riscontra che esso ha appena mitigato la sua pretesa di essere assecondato. […] Scopo di questo saggio è formulare un principio molto semplice che regoli pienamente i rapporti di coartazione e di controllo tra società e individui, sia che venga impiegata la forza fìsica sotto forma di sanzioni legali, sia che venga impiegata la pressione morale della pubblica opinione. Questo principio è il seguente: l’unico fine per cui gli uomini sono autorizzati, individualmente o collettivamente, a interferire con la libertà di azione di ciascuno, è l’autoprotezione; l’unico motivo per cui il potere può essere legittimamente esercitato su qualsiasi membro della comunità civilizzata, contro la sua volontà, è quello di prevenire un danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia fisico sia morale, non costituisce una giustificazione sufficiente dell’interferenza. Un individuo non può essere costretto o impedito a fare qualcosa per il fatto che ciò sarebbe meglio per lui, o perché ciò lo renderebbe più felice, oppure perché agire così, almeno secondo l’opinione degli altri, sarebbe saggio e persino giusto. Queste sono buone ragioni per fargli qualche rimostranza, per ragionare con lui cercando di persuaderlo o di scongiurarlo, ma non per costringerlo o procuragli un danno quando agisce diversamente. Interventi di questo tipo si giustificano quando la condotta da cui si intende farlo desistere è ritenuta tale da nuocere a qualcun altro. Il solo aspetto della condotta per cui si è responsabili di fronte alla società è quello che concerne gli altri. Per la parte che riguarda solo se stesso, l’indipendenza dell’individuo è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente l’individuo è sovrano. […] C’è tuttavia una sfera di azione in cui la società, in quanto distinta dall’individuo, ha tutto al più un interesse solo indiretto. Tale sfera comprende tutti quegli aspetti della vita e della condotta di un individuo che riguardano soltanto lui stesso, oppure, se riguardano anche gli altri, solo con il loro libero, volontario e consapevole consenso e partecipazione. Quando dico «soltanto lui stesso», intendo «direttamente e in primo luogo»: tutto ciò che riguarda il singolo individuo, infatti, può riguardare per suo tramite anche gli altri; e l’obiezione che può
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trovare fondamento in tale circostanza sarà presa in considerazione in seguito. Questo è dunque l’ambito specifico della libertà umana. Esso comprende, in primo luogo, la sfera inferiore della coscienza, la quale esige la libertà di coscienza nel senso più ampio; libertà di pensiero e di sentire; assoluta libertà di opinione e di sentimento su tutte le questioni pratiche, speculative, scientifiche, morali e teologiche. La libertà di esprimere e di manifestare pubblicamente opinioni può dare l’impressione di rientrare sotto un principio diverso, dato che appartiene a quella parte di condotta dell’individuo che riguarda gli altri; ma, poiché è quasi altrettanto importante della stessa libertà di pensiero e poggia in gran parte sulle medesime ragioni, è praticamente inseparabile da essa. In secondo luogo, il principio [della libertà] richiede libertà di gusti e di ricerca; libertà di progettare la nostra vita secondo la nostra indole; libertà di fare quello che ci piace, subendo tutte le conseguenze che ne possono derivare, senza essere impediti dagli altri fin quando ciò che facciamo non li danneggi, anche se la nostra condotta può sembrare loro sciocca, perversa o sbagliata. In terzo luogo, da questa libertà di ogni individuo deriva, entro gli stessi limiti, la libertà di associazione fra individui, cioè la libertà di unirsi per perseguire qualsiasi scopo che non danneggi gli altri; fermo restando che le persone che si associano siano maggiorenni, e non siano costrette con la forza né tratte in inganno. Nessuna società in cui queste libertà non siano nel loro insieme rispettate può dirsi libera, quale che sia la sua forma di governo; e nessuna è completamente libera se tali libertà non siano assolute e incondizionate. La sola libertà degna di questo nome è quella di perseguire il nostro bene a modo nostro, fino a quando non tentiamo di privare gli altri del loro o di impedire che i loro sforzi lo raggiungano. Ogni individuo è il vero custode della propria salute, sia corporea sia mentale e spirituale. L’umanità ottiene maggiori vantaggi tollerando che ciascuno viva come gli sembra meglio, anziché obbligandolo a vivere come sembra meglio agli altri. […] Il presupposto su cui si fonda tale dottrina è il seguente: “Il giuramento di un individuo che non crede in una vita futura è privo di valore”. Una tesi che rivela, in chi la sostiene, una grande ignoranza della storia (dato che è storicamente vero che una larga parte di infedeli di
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tutte le epoche è costituita da persone di specchiata integrità e onore), e che non sarebbe sostenuta da nessuno che avesse la più piccola nozione di quante persone, tenute nella massima considerazione per virtù e sapere, almeno ai loro intimi sono ben note come non credenti. Questo principio è inoltre suicida, e distrugge le sue stesse fondamenta. Con la pretesa che gli atei debbano essere mentitori, esso ammette la testimonianza di tutti gli atei disposti a mentire e respinge solamente coloro i quali, piuttosto che dichiarare il falso, sfidano l’ingiuria confessando pubblicamente un credo disprezzato. Un simile principio, che si condanna da sé all’assurdità rispetto al suo scopo dichiarato, può essere tenuto in vigore solo come simbolo di odio, una reliquia di persecuzione; e di una persecuzione per di più singolare, in quanto la condizione per subirla è quella di avere chiaramente dimostrato di non meritarla. Il principio e la teoria che essa implica sono un insulto per i credenti non meno che per i non credenti. Infatti, se chi non crede in una vita futura deve necessariamente mentire, ne deriva che i credenti evitano di mentire, se lo fanno, solo per paura dell’inferno. Agli autori e ai fautori di questa norma, non faremo il torto di supporre che la loro concezione della virtù cristiana sia modellata sulle loro coscienze. In realtà si tratta di frammenti e residui di persecuzione da intendersi non tanto come segni di una volontà persecutoria, quanto piuttosto come un esempio della ricorrente follia tipica della mentalità degli inglesi, la quale spinge questi ultimi a provare un piacere assurdo nel sostenere un principio malvagio, se non sono abbastanza cattivi da desiderare di metterlo veramente in pratica. Ma nell’animo della gente, purtroppo, non può esserci nessuna sicurezza che si protragga ancora la sospensione, in vigore da circa una generazione, delle forme peggiori di persecuzione legale. Attualmente la tranquilla superficie della routine è spesso agitata da tentativi che mirano tanto a resuscitare mali passati, quanto a introdurre nuovi elementi vantaggiosi. Ciò che ai giorni nostri viene esaltato come una rinascita della religione, per le menti anguste e rozze è sempre, almeno in pari misura, una rinascita del settarismo; e dove c’è un forte e costante fermento di intolleranza nei sentimenti di un popolo, sentimento che alberga sempre nella classe media del nostro paese, non ci vuole molto per spingere quegli uomini alla persecuzione attiva di coloro che essi non hanno mai cessato di considerare meritevoli di una giusta persecuzione. È questo infatti – vale a dire le opinioni accolte e i sentimenti nu-
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triti dagli uomini nei riguardi di coloro che rinnegano le credenze per loro importanti – che rende questo paese un luogo in cui non c’è libertà intellettuale. Da troppo tempo ormai il principale difetto delle sanzioni legali è che esse rafforzano il marchio d’infamia apposto dalla società. È questo marchio a risultare realmente efficace, così efficace che in Inghilterra la professione di opinioni condannate dalla società è molto meno diffusa di quanto non sia in tanti altri paesi l’esplicita ammissione di idee per le quali si corre il rischio di sanzioni giudiziarie. Nei confronti di tutti gli individui, tranne verso coloro la cui posizione economica li rende indipendenti dalla benevolenza altrui, l’opinione pubblica in questa materia è efficace quanto la legge: gli uomini possono essere sia imprigionati, sia privati dei mezzi per guadagnarsi da vivere. Coloro che hanno il pane assicurato, e che non desiderano nessun favore da uomini di potere, da organizzazioni sociali o dal pubblico, non hanno nulla da temere per l’aperta ammissione di qualsiasi idea, se non la critica malevola o la calunnia, per sopportare le quali non si richiede una tempra da eroi. A favore di queste persone non c’è spazio per appelli ad misericordiam. Ma, sebbene oggi non infliggiamo a coloro che la pensano diversamente da noi un male così grande come eravamo soliti fare un tempo, può darsi che con il nostro modo di trattare i dissenzienti finiamo col danneggiare noi stessi, come in passato. Socrate è stato condannato a morte, ma la sua filosofia si è levata come il sole nel cielo, e ha diffuso la sua luce sull’intero firmamento intellettuale. I cristiani furono dati in pasto ai leoni, ma la Chiesa cristiana è diventata un albero maestoso e folto, sovrastando le piante più vecchie e meno vigorose fino a soffocarle con la sua ombra. La nostra intolleranza puramente sociale, invece, non uccide nessuno né sradica opinioni, ma induce gli uomini a mascherarle o ad astenersi da qualsiasi impegno attivo per diffonderle. Presso di noi, le opinioni eretiche non guadagnano sensibilmente e neppure perdono terreno in un decennio o in una generazione; non divampano mai in lungo e in largo, ma continuano a covare nei ristretti circoli di pensatori e studiosi che le hanno concepite, senza mai illuminare le grandi vicende dell’umanità con la loro luce, vera o ingannevole che sia. In tal modo viene perpetuato uno stato di cose molto soddisfacente per alcune menti, poiché, senza quei processi spiacevoli per comminare ammende o arresti, si lasciano apparentemente indisturbate tutte le opinioni prevalenti e, al tempo stesso, non si proibisce l’uso della ragione ai dissenzienti afflitti dalla malattia del pensiero.
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Un piano adatto per assicurare la pace nel mondo intellettuale è far sì che tutto proceda più o meno come al solito. Ma il prezzo pagato per questa sorta di pacificazione intellettuale è il sacrificio di ogni forma di coraggio morale della mente umana. Questo stato di cose – in cui una parte cospicua degli intelletti più attivi e avidi di sapere trova opportuno tenere per sé i principi generali e i fondamenti delle proprie convinzioni, e cerca, quando si rivolge al pubblico, di adattare come meglio può le proprie conclusioni a premesse cui ha intimamente rinunciato – non può generare personalità aperte e coraggiose, né quegli intelletti coerenti e logici che un tempo davano lustro al mondo del pensiero. Il genere di uomini che è possibile incontrare in siffatta situazione è costituito o da semplici seguaci di luoghi comuni, oppure da opportunisti della verità, i cui argomenti su tutte le grandi questioni sono quelli concepiti in funzione del loro uditorio e non invece gli argomenti che hanno convinto loro stessi. Coloro che evitano questa alternativa, fanno in modo di circoscrivere i propri pensieri e interessi a questioni che possono essere discusse senza avventurarsi nella sfera dei principi, ovvero a questioni pratiche di poco conto che si sarebbero risolte da sole se soltanto le menti degli uomini si fossero irrobustite e ampliate, e che non saranno mai completamente risolte fino a quando si continuerà a rinunciare alla libera e audace speculazione sugli argomenti più importanti, quella che rinvigorisce e allarga la mente umana.
Presentazione Si è visto nelle sezioni precedenti che, benché da un punto di vista concettuale tolleranza e libertà religiosa si oppongano logicamente, da un punto di vista storico il concetto di tolleranza intreccia più volte il proprio cammino con quello di libertà religiosa, anche se – giova ribadirlo – la storia della tolleranza non coincide pienamente con la storia della libertà religiosa. Questa distinzione emerge chiaramente nella storia dell’idea di libertà religiosa che il giurista e storico Francesco Ruffini scrive nel 1901 e di cui nelle prossime pagine si presenta un brano. La tolleranza è concessione «graziosa» dello Stato al cittadino; la libertà è diritto del cittadino verso lo Stato. E, tuttavia, nonostante l’affermazione dello Stato di diritto nella sua forma liberal-democratica e, dunque, il riconoscimento a tutti i cittadini della libertà nella forma dei diritti, la questione della tolleranza nel XX secolo, e in particolare a partire dalla seconda metà del secolo, si propone nuovamente all’attenzione del pensiero politico. Da una parte, in autori quali gli studiosi della Scuola di Francoforte – di cui nelle prossime pagine presentiamo uno dei brani più significativi, quello sulla tolleranza repressiva pubblicato da Herbert Marcuse nel 1965 – la tolleranza appare come uno degli strumenti attraverso cui lo Stato borghese capitalistico ha costruito e difeso il proprio dominio, arma per escludere e reprimere violentemente ogni forma di dissenso al potere. Dall’altra, negli ultimi decenni del XX secolo la tolleranza è stata di nuovo compresa come virtù politica necessaria per garantire la pace delle società pluralistiche e democratiche che abitano l’Occidente. È questa la posizione sostenuta da John Rawls che in Liberalismo politico (1984) fa della tolleranza un valore in sé nell’orizzonte del pluralismo
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dei valori. Si afferma in tal modo, soprattutto nella riflessione di parte liberale, una visione della tolleranza quale forma comune di condivisione e valore transculturale, al fine di determinare una revisione della filosofia pubblica e della dialettica che regola il rapporto fra lealtà plurali e obbligazione politica. Chiudono questa sezione le pagine finali del saggio di Michael Walzer, Sulla tolleranza, pubblicato negli Stati Uniti nel 1997 e che si può considerare il testo che ha definitivamente riportato il concetto di tolleranza al centro del dibattito politico occidentale. Secondo l’opinione di Walzer, oggi tolleranza significa rendere possibile la pacifica coesistenza di gruppi o di popoli, che hanno differenti storie, culture, identità. Walzer traccia rapidamente un quadro dei diversi regimi di tolleranza che si sono alternati nel corso dei secoli, al fine di dimostrare che è lo stesso status del concetto di tolleranza che fa sì che la sua attitudine e la sua pratica possano assumere forme e modi differenti. Costruito come una sorta di Trattato sulla tolleranza del XX secolo, Walzer riconosce cinque modelli di tolleranza: la tolleranza negli imperi multinazionali (i grandi imperi dell’antichità), nella società internazionale (di cui esempio è l’organizzazione delle Nazioni Unite), nelle confederazioni (il Libano o la Svizzera), negli Stati nazionali europei, nelle società di immigrati (gli Stati Uniti). La ricostruzione dei regimi di tolleranza è funzionale alla proposta politica che Walzer presenta nelle pagine finali del suo testo: il «multiculturalismo americano», inteso quale forma di «socialismo democratico», che sembra all’autore il regime più efficiente al fine di rafforzare la vita democratica. E tuttavia il concetto universale di vita democratica viene pressoché identificato con lo specifico modo di vita democratica degli Stati Uniti, che risultano, in definitiva, modello della società di immigrati, idealtipo, nelle intenzioni dell’autore, di tutte le società del futuro, almeno di quelle occidentali. Il connotato di esclusività che segnava già la tolleranza di Locke e Voltaire si ripresenta in maniera evidente anche in queste pagine, quale nuova conferma della specificità e parzialità del concetto (come più volte si è sottolineato nel corso dell’antologia) o della sua difficile universalizzabilità.
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FRANCESCO RUFFINI, La libertà religiosa. Storia dell’idea (1901) I. Il concetto di Libertà religiosa è ancora suscettivo di più precisa determinazione; poich’esso presenta diversi stadii nella evoluzione storica e diversi aspetti nella stessa sua attuale configurazione. Nei secoli scorsi, e per molti paesi ancora fino alla seconda metà del presente1, si è fatto sempre questione, piuttosto che di vera libertà, di semplice Tolleranza. La tolleranza, oppure, per chiarire più agevolmente il nostro concetto, l’intolleranza può essere semplicemente religiosa; e consiste nel concetto esclusivistico, che una determinata religione abbia di essere la sola vera, la sola istituita dalla divinità, e perciò la sola atta a procurare l’eterna salute. Finché questa intolleranza si limita a combattere e a respingere da sé, valendosi delle armi puramente spirituali, tutto ciò e tutti coloro, che contrastino ai suoi dogmi fondamentali, essa non può dirsi ingiustificata e non può punto oppugnarsi se non del pari con armi puramente spirituali; poiché il volerla altrimenti impedire apporterebbe una grave lesione al principio appunto della libertà di coscienza. Ma accade, che il potere pubblico ponga i suoi mezzi di coercizione esteriore al servizio di cotesta religiosa intolleranza, e ne faccia sua la causa, e combatta e respinga con armi materiali tutto ciò e tutti coloro, che contrastino ai dogmi della religione, ch’esso ha sola riconosciuto. Si avrà allora una forma di intolleranza nuova, che si dovrebbe dire civile-religiosa, ma che per brevità si disse semplicemente intolleranza civile. Questa, a differenza dell’altra, lungi assai dall’avere un qualunque fondamento nel principio della libertà di coscienza, ne costituisce la più ingiustificata violazione; e contro questa appunto si sono rivolti i primi richiami alla tolleranza. Il concetto di tolleranza è per altro fra i più elastici. Si può intanto avere una pura tolleranza di fatto. La quale potrà restringersi alle sole persone dei dissidenti, in quanto essi saranno bensì ammessi a vivere nel territorio dello Stato ma non a compiervi pratiche di culto; oppure potrà estendersi anche al culto medesimo. Se non che la stessa tolleranza di fatto abbisogna, per essere stabile e perché il fanatismo dei privati intolleranti non la perturbi, di una 1
Si fa riferimento al XIX secolo.
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sanzione legale. Di qui una limitatissima e sempre a capriccio revocabile protezione governativa dei dissidenti; che però la dovettero, specie gli Israeliti, scontare per lo più con mille umiliazioni pure consegnate nelle leggi e spesso anche comprare a suon di quattrini. Ma questa prima forma rudimentale di tolleranza di diritto, che per tal modo si sostituisce a quella di fatto, col progredire dei tempi, movendo dalla semplice concessione di alcuni fra i più essenziali diritti civili e della facoltà di esercitare privatamente il culto, può assorgere gradatamente e suole di fatto assorgere lentissimamente fino al conferimento pieno di tutti i diritti civili e politici e fino al riconoscimento della facoltà di esercitare il culto con tutti i contrassegni e i privilegi della pubblicità. Giunta a questo punto la tolleranza collima di fatto con la vera libertà. E sarà anzi costretta a cederle il passo. O perché contro di essa si leverà da ogni parte la voce dei più strenui difensori della libertà. E Mirabeau protesterà nel seno dell’Assemblea nazionale: “la parola tolleranza mi pare in certo qual modo tirannica essa stessa, poiché l’autorità che tollera potrebbe anche non tollerare”; mentre lord Stanhope ammonirà la Camera alta: “vi fu un tempo in cui i dissidenti invocavano la tolleranza come una grazia, essi oggi la chiedono come un diritto, ma verrà un giorno in cui la sdegneranno come un insulto”. Oppure perché la coscienza stessa popolare istintivamente eliminerà dal commercio sociale la parola troppo gravida di luttuose memorie. E accadrà così che alla espressione culti tollerati, che dall’articolo 1 dello Statuto italiano era usata per designare gli acattolici e che fu veramente l’ultimo atto di intolleranza di un regime che, appunto con lo Statuto perdeva ogni suo nerbo, si sostituirà gradatamente, tacitamente quella dei culti ammessi, in cui lo stesso culto cattolico sarà compreso senza distinzione con gli acattolici. Ed invero la tolleranza, che è una mirabile virtù privata, ha nei rapporti pubblici un suono odioso; di cui non ultima cagione è certamente il significato tecnico, ch’essa conserva tuttodì nel diritto ecclesiastico cattolico, come di riconoscimento forzato ed opportunistico di quanto per altro non si intende assolutamente approvare. La parola tolleranza presuppone l’esistenza di uno Stato confessionistico, cioè di uno Stato, che crede necessario di fare anch’esso, come persona collettiva, professione di un determinato culto; quasi che avesse anch’esso, come le persone fisiche, un’anima da salvare. La religione da lui professata sarà detta quindi, come un tempo si diceva e il
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nostro Statuto dice ancora, la sola religione, o la religione ufficiale, o la religione dominante, o la religione stabilita, o la religione dello Stato. E questo ultimo, costretto dalla necessità ad ammettere nel suo territorio altri culti, non lo potrà fare che disapprovandoli e considerandoli con una certa avversione confessionistica; cioè li tollererà. Orbene, tutto questo non si conviene più allo Stato moderno. Il quale potrà essere rispettosissimo del sentimento religioso, ma non più professare una determinata religione. Lo Stato moderno potrà ed eventualmente dovrà piegarsi ad alcune delle esigenze di quella che sia la religione della stragrande maggioranza dei cittadini, p. e., adottandone come ufficiale il calendario festivo. Ma da ciò non deriva punto ch’esso debba considerare con minor rispetto e simpatia tutti gli altri culti della minoranza. Con piena ragione pertanto il Governo francese non volle nelle trattative del Concordato del 1801 consentire alla richiesta della Curia romana, che si scrivesse nel proemio, che la cattolica era la religione dominante ed esclusiva della Francia; ma vi scrisse invece semplicemente, che essa era quella della maggioranza dei Francesi. Ed è pure verso tale interpretazione che i pubblicisti nostri si sforzano di piegare la lettera, a dire il vero un po’ restia, dell’articolo 1 dello Statuto italiano. Per farla breve, lo Stato moderno non deve più conoscere tolleranza, ma solamente libertà: poiché quella suona concessione graziosa dello Stato al cittadino, questa invece diritto del cittadino verso lo Stato. Ora la religione è appunto un campo in cui lo Stato nulla può dare, il cittadino invece tutto pretendere. II. – La Libertà religiosa presenta ancora, dicemmo, diversi aspetti nella stessa sua configurazione attuale. 1° Si può diffatti considerare innanzi tutto in rapporto ai singoli individui e si chiamerà allora più propriamente: Libertà di coscienza, o di fede, o di confessione. La quale, se genericamente si suole definire come la facoltà dell’individuo di credere a quello che più gli piace, o di non credere, se più gli piace, a nulla, non però cade nel campo giuridico sotto questo suo aspetto di facoltà essenzialmente interna. Poiché come tale, essa potrebbe essere oggetto di pura indagine psicologica o filosofica; e sarebbe quindi altrettanto superfluo o ridicolo il sancirne nelle leggi la libertà, da quanto, siccome diceva uno scrittore francese, il proclamare la libertà della circolazione del sangue. Essa cade invece nel campo giuridico unicamente in quanto dà origine a manifestazioni esteriori quindi giuridicamente rilevanti.
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Sotto questo aspetto, sia allo scopo di rimuovere gli ostacoli secolari opposti un tempo a tali manifestazioni esteriori, sia a quello di assicurarne la ordinata libertà nel presente, fu in tutte le legislazioni civili necessario un triplice ordine di disposizioni. Negative alcune; e consistono nel toglier di mezzo ogni pena, ogni incapacità, ogni disuguaglianza di diritto per motivi di religione; così che i nomi e i concetti medesimi di eresia, di apostasia, di scisma abbiano ad apparire come destituiti ormai di ogni portata giuridica. Altre invece semplicemente indirette; e consistono nel foggiare i rapporti fra lo Stato e gli individui per modo che la vita di questi possa, secondo la rappresentativa frase del Friedberg, trascorrere dalla culla alla tomba senza che più venga loro da parte dello Stato nessun impaccio, come nessun impulso di carattere religioso. E ciò si otterrà con una serie di provvedimenti, che vanno dall’avocazione dei registri dello stato civile alle autorità governative, gradatamente fino all’aconfessionismo dell’insegnamento pubblico, all’istituzione del matrimonio civile, alla abolizione o trasformazione del giuramento politico e giudiziario, alla secolarizzazione della pubblica assistenza, e da ultimo alla creazione dei cimiteri comunali. Altre infine positive e dirette; e consistono tanto in quegli articoli di alcune costituzioni ove, a malgrado dell’inanità più sopra accennata di somiglianti proclamazioni, è sancito in modo espresso il diritto alla libertà di coscienza, quanto ancora in quelle misure affatto speciali, che le varie legislazioni hanno creduto di prendere per guarentire direttamente la manifestazione, la propaganda e l’esercizio delle convinzioni religiose, in aggiunta a quelle generiche, tutelatrici di ogni altra libertà individuale. La libertà di coscienza non può per altro patire esclusioni o limitazioni che non siano quelle poste dal diritto comune. 2° Se non che la religione è certamente il campo, in cui il carattere socievole dell’uomo si esplica più imperiosamente: onde non si avrebbe completa libertà religiosa, ove accanto alla individuale, non fosse pure concessa la facoltà di manifestazione, di propaganda e di esercizio collettivi di una credenza religiosa. E ciò, tanto se la collettività si limiti ad assumere l’aspetto transitorio e saltuario della riunione, quanto invece se si fissi in quello stabile e continuo della associazione. Ed ecco la necessità di fare un passo più in su per la scala della libertà religiosa, con il riconoscere e l’assicurare la così detta Libertà di culto, che bene il Vinet definì un giorno come la libertà di coscienza delle associazioni.
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Nessuna difficoltà di principio si avrebbe anche qui a che gli Stati si accontentassero di regolare, così per le guarentigie come per i limiti, questa libertà alla stregua del diritto comune delle riunioni o delle associazioni. Tutti invece hanno creduto praticamente necessario di assegnarle guarentigie e limiti speciali. Ma la loro applicazione ha fatto poi, che in ogni diritto si debba anzitutto determinare nettamente, che cosa si abbia ad intendere per culto in senso giuridico; poiché alle associazioni religiose storicamente, numericamente, o per altra cagione socialmente insignificanti, non sarebbe né opportuno, né forse possibile applicare cotesto diritto singolare, per tal modo formatesi, in cambio di quell’altro diritto comune, di cui dicemmo. Così, per fare un esempio, alle disposizioni penali contro gli abusi dei ministri dei culti, come d’altra parte a quelle, con cui si puniscono in modo particolarmente grave le offese e le lesioni arrecate ai ministri dei culti nell’esercizio delle loro funzioni, non potrebbero evidentemente né essere sottoposti né fare richiamo quei tre o quattro amici, che si fossero associati per fondare un nuovo culto, e che già avessero assegnata a qualcuno del loro minuscolo sodalizio la qualità di ministro. Dato per altro che anche il minuscolo sodalizio, che potremmo chiamare setta, svestendo però questa parola di tutta la sua antica odiosa significazione, godrebbe della medesima e forse anche di una maggior somma di facoltà sotto l’egida del diritto comune delle riunioni e delle associazioni, che non il culto esplicitamente riconosciuto sotto quello del diritto singolare, particolarmente protettivo, è vero, ma anche particolarmente limitativo; si potrà ancora dire che la diversa loro posizione giuridica importi una diversità di riconoscimento della libertà religiosa per rispetto ai cittadini ascritti alla setta di fronte a quelli appartenenti al culto? Ai più ciò non pare; e ben a ragione secondo noi. 3° Ma questo ci spiana la via a toccare un altro punto, anche più importante e molto più controverso; ed è quello della Uguaglianza o Parità dei culti. Le associazioni di culto possono entrare in rapporti con lo Stato non solamente in quanto questo tutela la loro libertà religiosa, ma ancora e principalmente in quanto esse, a somiglianza d’ogni altra associazione, sono organizzate e si reggono in forza di statuti, che non riguardano unicamente la fede e la disciplina, ma anche materie di natura affatto diversa e tutta quanta mondana; per esempio, l’acquisto dei beni e la loro amministrazione.
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E allora sorge la questione: perché la libertà religiosa sia veramente uguale per tutti e quindi completa in uno Stato, è proprio necessario che esso tratti tutte le associazioni di culto in modo perfettamente identico, anche per quello che si attiene al regime puramente temporale? Siccome, per altro, tale assoluta uguaglianza di trattamento non sembra – teoricamente – possibile quando lo Stato pretenda di mantenere la sua antica ingerenza nel governo delle cose ecclesiastiche, poiché non si può governare con le stesse norme un corpo imponente come la Chiesa cattolica, e uno di quei minuscoli sodalizi di amici, di cui dicemmo; e siccome, per contro, tale uguaglianza assoluta si avrà indubbiamente, quando lo Stato lasci a tutte le associazioni di culto la più illimitata facoltà di governarsi a loro posta, le ignori tutte quante massime e minime, si dichiari incompetente in confronto a tutte, in altri termini, si separi assolutamente dalla chiesa o dalle chiese; così, quella questione si cambia in quest’altra: perché vera e completa libertà religiosa vi sia in uno Stato, dovrà questo rinnegare il regime giurisdizionalistico e adottare il separatistico? La questione, così formulata, è antica da quanto il sorgere stesso dell’idea di libertà religiosa dell’Evo moderno. Vedremo infatti come i primi propugnatori della libertà, i Sociniani, fossero fautori di una larga ingerenza dello Stato nelle cose ecclesiastiche, e come per contro coloro, che la dottrina della tolleranza appresero per primi dai Sociniani, cioè gli Anabattisti con tutte le loro varie figliazioni, prendessero subito ad ostacolare nel modo più reciso tale ingerenza. È da queste ultime sette, che il principio della libertà fu trapiantato nell’America del Nord; ed è soprattutto perciò che qui essa si fece innanzi, progredì e si impose come princìpio connesso a quello del cosidetto separatismo. Si comprende quindi, che gli scrittori americani non sappiano concepire vera libertà disgiunta da esso. Cosicché libertà religiosa e separatismo sono diventati in America due termini concettualmente, storicamente e praticamente inscindibili. Tale è pure la teoria propugnata da quegli scrittori d’Europa, che presero a magnificare l’eccellenza del sistema americano del separatismo sopra il sistema europeo del giurisdizionalismo. Ma a quest’ultimo non sono mancati e non mancano tuttavia i sostenitori. I quali hanno osservato, che non pochi Stati di Europa (esempio tipico: la Prussia), pur mantenendosi prettamente giurisdizionalisti, anzi, appunto perché seppero tenere a segno le chiese più potenti e più intolleranti, sono riusciti già nei secoli scorsi ad attuare
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un regime di libertà religiosa molto più completo e largo, che non fosse allora quello degli Stati Uniti di America. Ed è stato pure constatato, che, se del regime separatistico si sono in questi ultimi anni grandemente avvantaggiate in America le Chiese, le quali hanno una organizzazione più forte e fanno una più attiva propaganda, altrettanto non può dirsi della libertà religiosa individuale, massime se essa riveste la forma di miscredenza. Poiché il razionalismo in genere e specialmente poi il libero pensiero scientifico, appunto perché difettano di una qualunque organizzazione, non solamente non profittano del separatismo, ma rimangono isolati ed indifesi di contro alle diverse associazioni religiose organizzate, le quali sotto la salvaguardia del regime separatistico hanno troppo buon gioco a spiegare il loro spirito di intolleranza. E allora a quel principio di giustizia così solennemente invocato in favore della uguaglianza ad ogni costo, fu contrapposto quest’altro principio: che il regolare in modo eguale rapporti giuridici disuguali è altrettanto ingiusto, quanto il regolare in modo disuguale rapporti giuridici uguali. Vi può quindi essere, si disse, una parità nel senso falso, che è quella dell’uguaglianza assoluta, astratta, matematica, ed una parità nel senso giusto, che è quella dell’uguaglianza relativa, concreta, giuridica; poiché, come scrive il Kahl, “il vero principio di parità non suona: a ciascuno lo stesso, ma a ciascuno il suo”. Si esalti pure la perfetta uguaglianza in America, ove essa esiste di fatto fra le varie confessioni; ma in Europa, ove secolari discrepanze storiche e immani sproporzioni sociali tuttora dividono le varie Chiese, si tenga fermo il sistema, che per ciascuna in modo proporzionale commisura l’azione regolatrice della pubblica autorità.
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HERBERT MARCUSE, La tolleranza repressiva (1965) Questo saggio esamina l’idea di tolleranza nella nostra società industriale avanzata. La conclusione raggiunta è che la realizzazione dell’obiettivo della tolleranza richiederebbe l’intolleranza verso le politiche, gli atteggiamenti, le opinioni dominanti e l’estensione della tolleranza alle politiche, agli atteggiamenti e alle opinioni che sono banditi o soppressi. In altre parole, oggi la tolleranza appare di nuovo ciò che era all’origine, all’inizio dell’età moderna: un obiettivo di parte, un’idea e una pratica sovversiva e liberante. Viceversa, ciò che oggi si proclama e si pratica come tolleranza è in molte delle sue più effettive manifestazioni al servizio della causa dell’oppressione. L’autore è pienamente consapevole che, attualmente, non esiste alcun potere, alcuna autorità, alcun governo che voglia tradurre in pratica la tolleranza liberante, ma egli crede che sia compito e dovere dell’intellettuale richiamare e preservare le possibilità storiche che sembrano esser divenute possibilità utopistiche – che sia suo compito spezzare la concretezza dell’oppressione al fine di aprire lo spazio mentale in cui questa società può esser riconosciuta per ciò che è e fa. […] Con tutti i requisiti di un’ipotesi basata su di un passato storico «aperto», sembra che la violenza che emana dalla ribellione delle classi oppresse abbia rotto il continuum storico dell’ingiustizia, della crudeltà, e del silenzio per un breve momento, breve ma sufficientemente esplosivo da conseguire un aumento nel perseguimento della libertà e giustizia, e una migliore e più equa distribuzione della miseria e dell’oppressione in un nuovo sistema sociale – in una parola: il progresso nella civiltà. Le guerre civili inglesi, la Rivoluzione francese, le Rivoluzioni cinese e cubana possono illustrare l’ipotesi. Per contro, il solo mutamento storico da un sistema sociale ad un altro, che segna l’inizio di un nuovo periodo della civiltà, che non fu acceso e condotto da un effettivo movimento «dal basso», cioè, la caduta dell’Impero romano d’Occidente, causò un lungo periodo di regressione di molti secoli, fino ad un nuovo, più alto periodo di civiltà che nacque dolorosamente nella violenza delle rivolte degli eretici del tredicesimo secolo e nelle rivolte di contadini e lavoratori del quattordicesimo secolo2. 2
Nei tempi moderni, il fascismo è stata la conseguenza del passaggio alla società industriale senza una rivoluzione. Cfr. il libro in preparazione di Barrington Moore jr., Social Origins of Dictatorship and Democracy. [nota di Marcuse]
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Riguardo alla violenza storica emanante dalle classi dominanti, sembra che non si possa ottenere una tale relazione col progresso. La lunga serie di guerre dinastiche e imperialistiche, la liquidazione di Spartaco in Germania nel 1919, il fascismo e il nazismo non spezzarono ma piuttosto tesero e diedero forma aerodinamica al continuum della repressione. Ho detto emanante «dalle classi dominanti» [from among ruling classes]: a dire il vero non esiste alcuna violenza organizzata dall’alto che non mobiliti e non attivi l’appoggio della massa dal basso; il problema decisivo è, da parte e nell’interesse di quali gruppi e istituzioni una tale violenza viene prodotta? E la risposta non è necessariamente ex post: negli esempi storici or ora menzionati, si poteva prevedere e si prevedette infatti se il movimento avrebbe servito il ricostituirsi del vecchio ordinamento o l’emergere del nuovo. La tolleranza liberatrice, allora, significherebbe l’intolleranza contro i movimenti di destra e la tolleranza dei movimenti di sinistra. Così per le prospettive di questa tolleranza e di questa intolleranza: ...si estenderebbe allo stadio dell’azione come a quello della discussione e della propaganda, dei fatti come delle parole. Il criterio tradizionale di pericolo chiaro e attuale non sembra più adeguato ad uno stadio in cui l’intera società si trova nella situazione del pubblico d’un teatro quando qualcuno grida «al fuoco». È una situazione in cui la catastrofe totale potrebbe scoppiare in ogni istante, non soltanto per un errore tecnico, ma anche per un razionale calcolo sbagliato dei rischi, o per un discorso avventato di uno dei leaders. In circostanze passate e differenti, i discorsi dei leaders fascisti e nazisti furono il prologo immediato del massacro. La distanza tra la propaganda e l’azione, tra l’organizzazione e i suoi effetti sulla gente si è fatta troppo corta. Ma la diffusione della parola avrebbe potuto esser arrestata prima che fosse troppo tardi: se la tolleranza democratica fosse stata ritirata quando i futuri capi cominciarono la loro campagna, l’umanità avrebbe avuto la possibilità di evitare Auschwitz e una guerra mondiale. Tutta l’età postfascista è un’età di chiaro e presente pericolo. Di conseguenza, la vera pacificazione richiede il ritiro della tolleranza prima dei fatti, allo stadio della comunicazione verbale, di quella tramite la stampa e il cinema. Una tale interruzione del diritto di libertà di parola e di riunione è in realtà giustificata soltanto se l’intera società è in estremo pericolo. Sostengo che la nostra società si trova in una situazione d’emergenza siffatta e che tale situazione è divenuta il normale andamento delle cose. Opinioni e «filosofie» differenti non possono più a lungo competere pacificamente nel procurarsi adesioni e nel per-
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suadere con strumenti razionali: il «mercato delle idee» è organizzato e delimitato da coloro che determinano gli interessi nazionali e quelli individuali. In questa società, per la quale gli ideologi hanno proclamato la «fine dell’ideologia», la falsa coscienza è diventata la coscienza generale – dal governo sino ai suoi ultimi oggetti. Le minoranze piccole ed impotenti che lottano contro la falsa coscienza e i suoi beneficiari devono essere aiutate: il continuamento della loro esistenza è più importante della conservazione dei diritti e delle libertà abusate che garantiscono poteri costituzionali a quelli che opprimono queste minoranze. Dovrebbe esser evidente fin d’ora che l’esercizio dei diritti civili da parte di coloro che ne sono privi presuppone il ritiro dei diritti civili a quelli che impediscono loro di esercitarli, e che la liberazione dei dannati della terra presuppone la repressione non soltanto dei vecchi ma anche dei loro nuovi padroni. Il ritiro della tolleranza verso i movimenti regressivi prima che possano divenire attivi; l’intolleranza anche verso il pensiero, le opinioni, la parola e in ultimo, l’intolleranza nella direzione opposta, cioè, verso i conservatori autodesignatisi, la destra politica – queste idee antidemocratiche corrispondono allo sviluppo attuale della società democratica che ha distrutto le basi per la tolleranza universale. Le condizioni nelle quali la tolleranza può nuovamente diventare una forza liberatrice e umanizzante devono ancora esser create. Quando la tolleranza serve principalmente a proteggere e a conservare una società repressiva, quando serve a neutralizzare l’opposizione ed a render gli uomini immuni contro forme di vita diverse e migliori, allora la tolleranza è stata corrotta. E quando questa corruzione inizia nella mente dell’individuo, nella sua coscienza, nei suoi bisogni, quando interessi eteronomi lo occupano prima che possa sperimentare la sua schiavitù, allora gli sforzi per contrastare la sua disumanizzazione devono aver inizio al posto d’entrata, là dove la falsa coscienza prende forma (o piuttosto: viene formata sistematicamente) – deve cominciare col fermare le parole e le immagini che nutrono questa coscienza. A dire il vero, questa è la censura, anzi la censura preventiva, ma diretta apertamente contro la censura più o meno nascosta che permea i mezzi liberi. Ove la falsa coscienza abbia prevalso nel comportamento nazionale e popolare, essa si trasferisce quasi immediatamente nella pratica: la distanza di sicurezza tra ideologia e realtà, pensiero repressivo e azione repressiva, tra la parola della distruzione e i fatti della distruzione si è pericolosamente accorciata. Così lo spezzare completamente la falsa coscienza può fornire il punto d’appoggio archimedeo per una più larga emancipa-
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zione, in un punto infinitamente piccolo, a dire il vero, ma è dall’allargamento di simili piccoli punti che dipende la possibilità del mutamento. Le forze dell’emancipazione non si possono identificare con nessuna classe sociale che, in virtù delle sue condizioni materiali, sia libera dalla falsa coscienza. Oggi, esse sono senza speranza disperse qua e là nella società, e le minoranze in lotta e i gruppi isolati spesso sono in contrasto coi loro stessi capi. Nella società in generale, lo spazio mentale per il rifiuto e per la riflessione deve esser ri-creato. Respinto dalla concretezza della società amministrata, lo sforzo di emancipazione diventa «astratto»; esso si è ridotto a facilitare il riconoscimento di ciò che va accadendo, a liberare il linguaggio della tirannia della sintassi e della logica orwelliana, a sviluppare i concetti che comprendono la realtà. Più che mai appare vera la proposizione che il progresso nella libertà esige il progresso nella coscienza della libertà. Dove la mente è stata resa un soggetto-oggetto dei politicanti e delle politiche, l’autonomia intellettuale, il regno del pensiero «puro» è divenuto una materia di educazione politica (o piuttosto: controeducazione). Ciò significa che gli aspetti formali dell’apprendimento e dell’insegnamento precedentemente neutrali, privi di valore, ora diventano, sul loro proprio terreno e nel loro proprio diritto, politici: imparare a conoscere i fatti, la verità per intero, e a comprendere, in ciò consiste la critica completamente radicale, la sovversione intellettuale. In un mondo in cui le capacità e i bisogni umani sono arrestati o corrotti, il pensiero autonomo piomba in un «mondo corrotto»: la contraddizione e l’immagine contraria del mondo stabilito della repressione. E questa contraddizione non è semplicemente stipulata, non è il semplice prodotto di un pensare confuso o d’una fantasia, ma lo sviluppo logico del mondo dato, del mondo esistente. Secondo il grado in cui questo sviluppo è attualmente impedito dal peso a piombo di una società repressiva e secondo la necessità di viverci, la repressione invade la stessa impresa accademica, anche prima di tutte le restrizioni alla libertà accademica. Lo svuotamento a priori della mente vizia l’imparzialità e l’obiettività: salvo che lo studente non impari a pensare nella direzione opposta, egli sarà incline a porre i fatti nella struttura predominante dei valori. La cultura, cioè l’acquisizione e la comunicazione della conoscenza, impedisce la purificazione e l’isolamento dei fatti dal contesto dell’intera verità. Una parte essenziale di quest’ultima è il riconoscere il grado spaventoso al quale la storia fu fatta e scritta dai e per i vincitori, cioè il grado al quale la storia è stata lo sviluppo del-
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l’oppressione. E quest’oppressione è nei fatti stessi che stabilisce; allora essi stessi recano un valore negativo come parte ed aspetto della loro effettività. Trattare le grandi crociate contro l’umanità (come quella contro gli albigesi) colla stessa imparzialità delle lotte disperate per l’umanità significa annullare la loro diversa funzione storica, riconciliando i boia con le loro vittime, distorcendo il passato. Tale falsa neutralità serve a riprodurre l’accettazione del dominio dei vincitori nella coscienza dell’uomo. Qui, anche, nell’educazione di quelli che non sono ancora perfettamente integrati, nella mente della gioventù, il terreno per la tolleranza liberatrice deve ancora essere creato. L’educazione offre ancora un altro esempio di tolleranza falsa, astratta sotto l’apparenza di concretezza e di verità: esso è riassunto nel concetto dell’autorealizzazione. Dalla permissibilità di ogni sorta di eccessi al bambino, al costante interesse psicologico per i problemi personali dello studente, è in cammino un movimento su larga scala contro i danni della repressione e la necessità di essere se stessi. Frequentemente ignorata è la questione di cosa debba esser represso prima che uno possa diventare un individuo [self ], un se stesso [oneself ]. L’individuo potenzialmente è dapprima un qualcosa di negativo, una porzione delle potenzialità della sua società: di aggressione, senso di colpa, ignoranza, risentimento, crudeltà che viziano i suoi istinti vitali. Se l’identità del self dev’essere qualcosa di più dell’immediata realizzazione di queste potenzialità (non desiderabili per l’individuo in quanto essere umano), allora richiede la repressione e la sublimazione, la trasformazione cosciente. Questo processo implica ad ogni stadio (per usare i termini messi in ridicolo che qui rivelano la loro concisa concretezza) la negazione della negazione, la mediazione dell’immediato, se l’identità è né più né meno questo processo. La «alienazione» è l’elemento costante ed essenziale dell’identità, il dato oggettivo del soggetto, e non, come oggi si vuol far apparire, una malattia, una condizione psicologica. Freud conosceva bene la differenza tra repressione progressiva e regressiva, repressione liberatrice e distruttiva. La pubblicità dell’autorealizzazione promuove la rimozione dell’una e dell’altra, promuove l’esistenza in questa immediatezza che, in una società repressiva, è (per usare un altro termine hegeliano) cattiva immediatezza (schlechte Unmittelbarkeit). Essa isola l’individuo dall’unica dimensione in cui potrebbe «trovare se stesso»: dalla sua esistenza politica, che sta nel cuore di tutta la sua esistenza. Invece essa incoraggia il nonconformismo e il lasciar fare in modi che lasciano interamente intatti i motori reali della repressione nella società, che anzi rafforzano questi
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motori sostituendo le soddisfazioni della ribellione privata e personale per un’opposizione più che privata e personale e perciò più autentica. La desublimazione implicata in questo tipo di autorealizzazione è essa stessa repressiva in quanto indebolisce la necessità e il potere dell’intelletto, la forza catalizzatrice di quella coscienza infelice che non trova piacere nella liberazione personale dalla frustrazione – la risurrezione senza speranze dell’Io che presto o tardi soccomberà alla razionalità onnipresente del mondo amministrato – ma che riconosce l’orrore del tutto fin nella più privata frustrazione e realizza se stessa in questo riconoscere. Ho cercato di mostrare come i mutamenti nelle società democratiche avanzate, che hanno minato le basi del liberalismo economico e politico, hanno anche alterato la funzione liberale della tolleranza. La tolleranza che fu la grande meta dell’era liberale viene ancora professata e (con dure restrizioni) praticata, mentre il processo economico e politico è soggetto ad un’amministrazione onnipresente e effettiva in accordo con gli interessi predominanti. Il risultato è una contraddizione oggettiva tra la struttura economica è quella politica da un lato, e tra la teoria e la pratica dall’altro. La struttura sociale alterata tende a indebolire l’effettività della tolleranza verso i movimenti dissenzienti e all’opposizione e a rafforzare le forze conservatrici e reazionarie. L’eguaglianza della tolleranza diventa astratta, falsa. Coll’attuale declino delle forze dissenzienti nella società, l’opposizione è isolata in piccoli gruppi di frequente in antagonismo i quali, anche dove siano tollerati entro gli stretti limiti fissati dalla struttura gerarchica della società, sono impotenti sinché rimangono entro questi limiti. Ma la tolleranza mostrata nei loro confronti è ingannevole e promuove la coordinazione. E sulle solide fondamenta di una società coordinata tutt’altro che chiusa contro il cambio qualitativo, la tolleranza stessa serve per contenere un tale cambio piuttosto che per promuoverlo. Queste stesse condizioni rendono astratta ed accademica la critica di una tolleranza siffatta, e l’asserzione che la bilancia tra la tolleranza verso la destra e quella verso la sinistra dovrebbe essere radicalmente raddrizzata ai fini di restaurare la funzione liberatrice della tolleranza diventa soltanto una speculazione irrealistica. In realtà, un tale raddrizzamento sembra essere equivalente allo stabilire un «diritto della resistenza» per il punto di sovversione. Non c’è, non può esserci alcun diritto simile per nessun gruppo od individuo che sia contro il governo costituzionale sostenuto dalla maggioranza della popolazione. Ma credo che ci sia un «diritto naturale» della resistenza per le minoranze
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oppresse e dominate di usare mezzi extralegali se quelli legali hanno mostrato d’essere inadeguati. La legge e l’ordine sono sempre e dovunque la legge e l’ordine che proteggono la gerarchia stabilita; è insensato invocare l’autorità assoluta di questa legge e di quest’ordine contro quelli che soffrono a causa sua e lottano contro di esso, non per ottenere vantaggi personali e per desiderio di vendetta, ma per la loro parte di umanità. Non c’è altro giudice sopra di essi all’infuori delle autorità costituite, della polizia, e della loro propria coscienza. Se usano violenza, non danno inizio ad una catena di violenze ma cercano di spezzare quella stabilita. Da quando verranno puniti conosceranno il rischio, e quando lo corrono volontariamente, nessuna terza persona, e ultimi di tutti l’educatore e l’intellettuale, ha il diritto di predicar loro che se ne astengano.
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JOHN RAWLS, Liberalismo politico (1993) Introduzione […] C’è anche una seconda contrapposizione, meno evidente, col mondo antico, relativa questa volta alla filosofia. Durante le guerre di religione gli uomini non avevano dubbi sulla natura del sommo bene, o sul fatto che l’obbligo morale si basasse sulla legge divina; ritenevano di conoscere tali cose con la certezza della fede, poiché in esse li guidava in tutto e per tutto la teologia morale. Il loro problema era invece come fosse anche solo possibile una società fra persone di fede diversa. Quale base concepibile poteva avere la tolleranza religiosa? Per molti non ne esisteva alcuna, perché ciò avrebbe comportato l’acquiescenza all’eresia e la calamità della frattura religiosa. Anche i primi difensori della tolleranza vedevano la divisione della cristianità come un disastro, sebbene questo disastro dovesse essere accettato perché l’alternativa era una guerra civile religiosa senza fine. L’origine storica del liberalismo politico sta dunque nella Riforma e nelle sue conseguenze, con le lunghe controversie sulla tolleranza religiosa del Sei e del Settecento. Fu allora che nacque qualcosa di simile alle libertà di coscienza e di pensiero, come le intendiamo oggi; e, come vide Hegel, la libertà religiosa venne resa possibile dal pluralismo, non certo dalle intenzioni di Lutero e di Calvino. Naturalmente ebbero un’importanza cruciale anche altre controversie, come quelle sulla limitazione dei poteri della monarchia assoluta attraverso princìpi costituzionali adeguati, che proteggessero i diritti e le libertà fondamentali. Ma per importanti che siano le altre controversie e i princìpi destinati a comporle, il fatto della divisione religiosa rimane; ed è per questo che il liberalismo politico assume il fatto del pluralismo ragionevole come pluralismo di dottrine comprensive, sia religiose sia non religiose. Tale pluralismo non è visto come un disastro, ma come l’esito naturale delle attività della ragione umana entro libere istituzioni durature; vedere il pluralismo come un disastro significa vedere come un disastro l’esercizio della ragione in condizioni di libertà. Il successo del costituzionalismo liberale ha rappresentato, in effetti, la scoperta di una nuova possibilità sociale: quella di una società pluralistica ragionevolmente armonica e stabile. Prima della pratica vittoriosa e pacifica della tolleranza in società dotate di istituzioni liberali non c’era modo
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di conoscere questa possibilità; era più naturale credere – e la secolare pratica dell’intolleranza sembrava confermarlo – che l’unità e la concordia sociali richiedessero il consenso intorno a una dottrina, religiosa, filosofica o morale, generale e comprensiva. L’intolleranza era accettata come condizione dell’ordine e della stabilità sociale, e l’indebolimento di questa credenza ha aiutato ad aprire la via alle istituzioni liberali. E forse la dottrina della libertà di fede è nata perché è difficile, se non impossibile, credere nella dannazione di coloro con i quali abbiamo collaborato a lungo, in fiducia e sicurezza, per la conservazione di una società giusta. Quindi il problema del liberalismo, come ho già detto, è: come può esistere continuativamente nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli? È un problema di giustizia politica, non un problema che riguardi il sommo bene. Per i moderni il bene era conosciuto attraverso la religione; ma, date le loro profonde divisioni, le condizioni essenziali di una società vitale e giusta non lo erano, e il problema di comprendere queste condizioni balzò in primo piano. Un aspetto di questo problema è il seguente: quali sono gli equi termini di una cooperazione sociale fra cittadini concepiti come liberi e uguali, ma divisi da profondi conflitti dottrinali? Quali sono la struttura e il contenuto della concezione politica che si richiede a questo scopo, ammesso che una simile concezione sia possibile? Non è il problema della giustizia che si poneva nel mondo antico. Quello che il mondo antico non conosceva era lo scontro fra religioni salvazionistiche, espansionistiche e dotate di un credo; tale scontro è un’esperienza storica nuova, una possibilità realizzata dalla Riforma. Col cristianesimo, naturalmente, era già possibile conquistare popoli non solo per le loro terre e ricchezze e per esercitare su di essi il potere e il dominio, ma per salvare le loro anime; la Riforma rivolse questa possibilità all’interno, verso se stessa. La novità di questo scontro sta nell’introdurre nelle concezioni che gli uomini hanno del proprio bene un elemento trascendente che non ammette compromessi e impone o un conflitto mortale, moderato solo dalle circostanze e dallo sfinimento, o una libertà di coscienza e di pensiero uguale per tutti. Nessuna concezione politica ragionevole della giustizia è possibile se non sulla base di quest’ultima opzione, saldamente fondata e pubblicamente riconosciuta. Il liberalismo politico inizia prendendo sul serio la profondità assoluta di questo inconciliabile conflitto latente.
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Per quanto riguarda la relazione fra liberalismo politico e filosofia morale dell’età moderna – anche se la seconda fu, ovviamente, molto influenzata dalla situazione religiosa entro la quale si sviluppò dopo la Riforma – nel Settecento i più importanti autori miravano già a fondare la conoscenza morale su una base indipendente dall’autorità ecclesiastica e accessibile a qualsiasi persona ragionevole e coscienziosa. [...] Il rilievo che do alla Riforma e alla lunga controversia sulla tolleranza come luoghi d’origine del liberalismo può apparire datato dal punto di vista dei problemi della vita politica contemporanea; fra i nostri problemi più fondamentali ci sono quelli di razza, etnicità e genere, che possono apparire di natura completamente diversa e bisognosi di principi di giustizia diversi, che Una teoria3 non discute. Come ho già detto, Una teoria si proponeva di fornire una concezione della giustizia politica e sociale più soddisfacente delle principali, ben note concezioni tradizionali, e a tale scopo si limitava – come risulta con chiarezza dalle questioni che vi vengono effettivamente discusse – a una famiglia di problemi classici che era stata al centro del dibattito storico sulla struttura morale e politica dello stato democratico moderno. È per questo che si occupa dei fondamenti delle libertà religiose e politiche fondamentali e dei diritti fondamentali dei cittadini nella società civile, ivi compresi la libertà di movimento, l’equa uguaglianza delle opportunità, il diritto alla proprietà personale e la protezione del governo della legge, e che discute la giustizia delle disuguaglianze economiche e sociali in una società nella quale i cittadini siano considerati liberi e uguali. Ma Una teoria trascura, per la massima parte, il problema delle rivendicazioni di democrazia nell’impresa e sul luogo dì lavoro, nonché quello della giustizia fra stati (ma io preferisco dire «fra popoli»), e accenna appena alla giustizia retributiva, alla protezione dell’ambiente e alla conservazione della natura; e vi sono omessi anche altri argomenti importanti, come la giustizia della e nella famiglia, nonostante io assuma che nella famiglia ci sia una qualche forma di giustizia. L’ipotesi che sta alla base di questa selezione è che una concezione della giustizia costruita concentrandosi su un piccolo numero di problemi, classici e di vecchia data, dovrebbe essere corretta, o almeno fornirci criteri orientativi per affrontare questioni
3 Rawls fa riferimento alla sua opera di maggiore successo Una teoria della giustizia (1974), di cui in Liberalismo politico approfondisce e modifica alcuni aspetti.
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ulteriori. Questa è la mia giustificazione per essermi concentrato su pochi problemi, classici e permanenti. […] Dunque se un regime costituzionale prende misure per rafforzare le virtù della tolleranza e della fiducia reciproca, per esempio scoraggiando (in modi compatibili con la libertà di coscienza e di parola) varie forme di discriminazione religiosa e razziale, non per questo diventa uno stato perfezionistico del tipo che troviamo in Platone o Aristotele, né impone una religione determinata, come negli stati cattolici e protestanti degli inizi dell’età moderna; prende, caso mai, misure ragionevoli per rafforzare quei modi di pensare e sentire che consolidano l’equa cooperazione sociale fra i suoi cittadini, considerati liberi e uguali. E questa è una cosa molto diversa dal promuovere a nome proprio, in quanto stato, una particolare dottrina comprensiva. § 6. La giustizia come equità è equa verso le concezioni del bene? 1. I principi di una concezione politica ragionevole devono sempre imporre restrizioni alle visioni comprensive ammissibili, e le istituzioni di base volute da tali principi incoraggiano, inevitabilmente, certi modi di vivere e ne scoraggiano altri, o addirittura li escludono completamente. Nasce perciò il problema di come la struttura di base (realizzata da una concezione politica) incoraggi o scoraggi certe dottrine comprensive e i modi di vivere a esse associati. Lo fa in modo giusto? L’esame di questo problema spiegherà in che senso lo stato, almeno per quanto riguarda gli elementi costituzionali essenziali, non debba fare niente di inteso a favorire una qualsiasi visione comprensiva particolare; e qui il contrasto fra liberalismo politico e liberalismo comprensivo diventerà chiaro e fondamentale. Le dottrine comprensive vengono incoraggiate o scoraggiate per almeno due cause: i modi di vivere a esse associati possono essere direttamente in conflitto con i principi di giustizia, oppure possono essere ammissibili ma incapaci di conquistarsi seguaci nelle condizioni sociali e politiche di un regime costituzionale giusto. Come esempio del primo caso possiamo prendere una concezione del bene che richieda di opprimere o degradare certe persone per motivi, poniamo, razziali, o etnici, o perfezionistici: è il caso della schiavitù nell’antica Atene, o nel Sud [degli Stati Uniti] prima della guerra civile. Il secondo caso può essere esemplificato da certe forme di religione. Supponiamo che
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una certa religione, e quindi la concezione del bene che le appartiene, possa sopravvivere solo se controlla la macchina dello stato ed è in grado di praticare efficacemente l’intolleranza: nella società bene ordinata del liberalismo politico questa religione cesserà di esistere. Supporremo che esistano casi del genere, e che certe altre dottrine comprensive possano sopravvivere, ma sempre in segmenti relativamente piccoli della società. 2. Il problema, allora, è questo: se entro un regime costituzionale giusto alcune concezioni si estingueranno e altre sopravvivranno a mala pena, ciò non implica già che la concezione politica di quel regime sia iniqua verso di esse? Tale concezione politica implica forse un pregiudizio arbitrario contro di esse? O meglio: è giusta o ingiusta verso le persone che hanno o potrebbero avere quelle concezioni del bene? A meno di nuove considerazioni, non sembrerebbe iniqua verso costoro: infatti, nessuna visione della giustizia politica può evitare l’esistenza di influenze sociali che favoriscono certe dottrine rispetto a certe altre. Nessuna società può accogliere in sé ogni forma di vita. È vero che possiamo deplorare, per così dire, la limitatezza dello spazio dei mondi sociali, e in particolare del nostro, e che alcuni inevitabili effetti della nostra cultura e della nostra struttura sociale possono dispiacerci. Come sostiene, da lungo tempo, Berlin (anzi questo è uno dei suoi temi fondamentali), non esiste un mondo sociale senza perdite; un mondo sociale, cioè, che non escluda modi di vita i quali realizzano, in maniera peculiare, certi valori fondamentali; che per cultura e per istituzioni non si dimostri troppo poco congeniale a tali modi di vita. Ma simile necessità sociali non devono essere scambiate con il pregiudizio arbitrario o l’ingiustizia. Così l’obiezione dovrà andare oltre fino a sostenere che la società bene ordinata del liberalismo politico non riesce a creare (in un modo permesso dalle condizioni esistenti, che comprendono il fatto del pluralismo ragionevole) una struttura di base giusta entro la quale le forme di vita ammissibili abbiano un’equa possibilità di conservarsi e di conquistarsi un seguito di generazione in generazione. Solo che se una concezione comprensiva del bene è incapace di durare in una società che garantisca le (ben note) uguali libertà fondamentali e la tolleranza reciproca, non c’è un modo di conservarla che sia compatibile con i valori democratici espressi dall’idea di società come equo sistema di cooperazione fra cittadini considerati liberi e uguali. Ciò pone (ma evidentemente non risolve) il problema se il modo di vivere corrispondente sia vitale in condizioni storiche diverse, e se sia da deplorare il suo tramonto.
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L’esperienza storica dimostra che molti modi di vivere superano la prova, durano e si conquistano seguaci per lungo tempo in una società democratica; se poi il numero non è la misura del successo – e perché dovrebbe esserlo? – molti la superano con uguale successo: gruppi diversi, con tradizioni e modi di vivere che sono soltanto loro, trovano pienamente degne della loro adesione e fedeltà dottrine comprensive diverse. Dunque, per vedere se il liberalismo politico sia o non sia arbitrariamente ostile a certe concezioni e arbitrariamente favorevole ad altre dobbiamo vedere se, dati il fatto del pluralismo ragionevole e le altre condizioni storiche del mondo moderno, la realizzazione dei suoi princìpi nelle istituzioni determini condizioni di fondo eque per l’asserzione e il perseguimento di concezioni del bene diverse e addirittura antagonistiche. Il liberalismo politico è ingiustamente ostile verso certe concezioni comprensive se, per esempio, solo quelle individualistiche possono durare in una società liberale, o vi predominano al punto che le associazioni che sostengono i valori della religione o della comunità non vi possono fiorire e inoltre le condizioni che portano a questo esito sono a loro volta ingiuste, considerate le circostanze presenti e quelle prevedibili. 3. Un esempio può forse chiarire questo punto: varie sette religiose sono ostili alla cultura del mondo moderno e cercano una vita comunitaria isolata dalla sua sgradita influenza. Qui nasce però il problema dell’educazione dei figli e dei requisiti che lo stato può imporre in proposito; i liberalismi di Kant e Mill potrebbero produrrre requisiti destinati a coltivare i valori di autonomia e individualità, intesi come ideali che devono governare gran parte della vita, se non tutta. Ma il liberalismo politico ha un fine diverso, e pretende molto di meno: chiede solo che l’educazione dei bambini comprenda la conoscenza dei loro diritti civici e costituzionali, così che sappiano, per esempio, che nella loro società esiste la libertà di coscienza e che l’apostasia, per la legge, non è un reato. Tutto questo servirà a garantire che se, diventati maggiorenni, continueranno ad appartenere alla loro comunità, non lo faranno solo per ignoranza dei loro diritti fondamentali o per paura di essere puniti per reati che non esistono. Inoltre, l’educazione dovrebbe anche prepararli a essere membri pienamente cooperativi della società e renderli autosufficienti; e dovrebbe incoraggiare le virtù politiche, così che desiderino essi stessi onorare gli equi termini della cooperazione sociale nei loro rapporti con il resto della società. Qui si può obiettare che pretendere che i bambini arrivino a intendere in questo modo la concezione politica significa, di fatto se non
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nelle intenzioni, educarli a una concezione comprensiva liberale. Fare la prima cosa può condurre alla seconda, se non altro perché, una volta acquisita l’una possiamo decidere noi stessi di passare all’altra. Si deve concedere che in alcuni casi questo può effettivamente accadere; ed esiste sicuramente una somiglianza fra i valori del liberalismo politico e quelli dei liberalismi comprensivi di Kant e Mill. Ma l’unica risposta che si può dare a questa obiezione consiste nello spiegare accuratamente le grandi differenze, sia di ambito sia di generalità, esistenti fra il liberalismo politico e quello comprensivo (come li ho definiti nel § 1.1). Può accaderci di dover accettare, spesso a malincuore, le inevitabili conseguenze di certi requisiti ragionevoli imposti all’educazione dei figli. Spero che l’esposizione del liberalismo politico data in queste lezioni sia una risposta sufficiente a tale obiezione. 4. Al di là dei requisiti già descritti, la giustizia come equità non cerca di coltivare le virtù e i valori, tipicamente liberali, dell’autonomia e dell’individualità, o quelli tipici di qualsiasi altra dottrina comprensiva; se lo facesse, cesserebbe di essere una forma di liberalismo politico. La giustizia come equità rispetta, fin dove è possibile, le pretese di coloro che, secondo quanto comanda la loro religione, desiderano isolarsi dal mondo moderno; le rispetta alla sola condizione che riconoscano i principi della concezione politica della giustizia e mostrino di apprezzare i suoi ideali politici di persona e società. È da notare che stiamo cercando di risolvere il problema dell’educazione dei bambini restando completamente all’interno della concezione politica. L’interesse della società per l’educazione riposa sul futuro ruolo di cittadini dei bambini di oggi, cioè su cose essenziali come l’acquisizione, da parte loro, della capacità di comprendere la cultura pubblica e di partecipare alle sue istituzioni, sul loro essere, per tutta la vita, membri economicamente indipendenti e autosufficienti della società, sul fatto che sviluppino le virtù politiche – e tutto questo da un punto di vista politico.
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MICHAEL WALZER, Sulla tolleranza (1997) Epilogo – Riflessioni sul multiculturalismo americano […] Queste conversazioni devono avvenire dovunque, ma, forse, in particolar modo (oltre che nei colleges e nelle università pubbliche e private) nelle scuole pubbliche: queste, infatti, almeno nei principali centri di immigrazione, possono vantare una tradizione storica di accoglienza e di integrazione. Le scuole pubbliche fanno convivere i figli di genitori appartenenti a religioni e comunità etniche diverse – e anche i figli di genitori che si sono sottratti o stanno sottraendosi a queste appartenenze. Data la loro professata neutralità nei confronti delle varie comunità e di coloro che le hanno abbandonate, le scuole devono presentare una visione benevola della storia e della filosofìa del nostro regime di tolleranza, anche se sarà loro diffìcile evitare di specificarne le particolari origini (nell’Inghilterra protestante). Devono insegnare la religione civile americana e cercare di formare dei cittadini americani; in tal modo la loro opera inevitabilmente rappresenterà una sfida per tutte le comunità culturali che non hanno familiarità con questo tipo di cittadinanza. Chiediamoci ora: le scuole pubbliche possono limitarsi a questo o devono fare di più? Rientra nei loro compiti aiutare i giovani a sottrarsi a queste comunità e stimolarli a muoversi in autonomia all’interno del mondo culturale? Devono cercare di creare più «vagabondi»? Certamente è affascinante l’idea che l’educazione democratica sia un tirocinio al pensiero critico e che gli studenti siano in grado di intraprendere una valutazione autonoma, preferibilmente scettica, di tutte le pratiche culturali e di tutti i sistemi di credenze stabiliti. I critici non sono forse i cittadini migliori? Può darsi; e in ogni caso noi abbiamo bisogno di averne molti. Tuttavia è possibile che essi non siano i concittadini più tolleranti, né rassegnati o indifferenti alle lealtà particolaristiche, e nemmeno stoicamente disposti ad accettarle. Le democrazie hanno bisogno di critici che abbiano la virtù della tolleranza – ossia, probabilmente, di critici dotati di lealtà proprie e sensibili al valore della vita associativa. Le scuole possono aiutare a soddisfare questa esigenza semplicemente riconoscendo la pluralità delle culture e facendo conoscere i vari gruppi (anche solo a livello acritico: sarà poi l’esperienza della differenza a incoraggiare lo scambio critico). Il sistema sta-
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tale, infatti, deve avere anche un secondo obiettivo, interamente compatibile con il primo: formare cittadini con identità duale, uomini e donne decisi a difendere la tolleranza nelle proprie comunità, ma nello stesso tempo orientati ad apprezzare e a riprodurre le differenze (sia pure non senza ripensamenti e revisioni). Non voglio passare per un inguaribile ottimista. A risultati del genere non giungeremo certo per caso; forse, anzi, non ci arriveremo affatto. Oggi tutto sembra più difficile: famiglia, classe sociale e comunità sono meno compatte di un tempo; governi e associazioni filantropiche dispongono di risorse più limitate; il mondo del crimine e della droga è più spaventoso; gli individui, uomini o donne che siano, sembrano andare alla deriva. C’è poi un’ulteriore difficoltà, a cui tuttavia dobbiamo guardare con favore. In passato, difatti, gruppi organizzati sono riusciti a entrare nella società americana tradizionale solo lasciando dietro di sé altri gruppi (nonché i loro stessi membri più deboli). E gli uomini e le donne abbandonati hanno di solito accettato il loro destino o almeno hanno evitato ogni clamore sul loro caso. Oggi, come ho rilevato, il grado di rassegnazione è notevolmente più modesto e il rumore che circonda questi eventi, per quanto incoerente e futile, serve nondimeno a ricordare a tutti noi che ci sono obiettivi sociali ben più importanti del nostro successo. Come ideologia il multiculturalismo è un programma di promozione dell’uguaglianza economica e sociale. In una società di immigrati pluralistica, moderna e postmoderna un regime di tolleranza non può funzionare stabilmente se non in presenza di una qualche combinazione di queste due linee di azione: difesa delle differenze di gruppo e lotta alle differenze di classe. Se vogliamo che il reciproco rafforzamento della comunità e dell’individualità serva a un interesse comune, dobbiamo studiare una linea politica che valga a metterlo in atto. Esso esige una situazione di fondo o condizioni generali che solo l’azione dello stato è in grado di porre in essere. La vita di gruppo non varrà a riscattare gli individui, uomini e donne, dalla dissociazione e dalla passività se non in presenza di una strategia politica capace di mobilitare, organizzare e, se necessario, finanziare il tipo di gruppo funzionale allo scopo. Gli individui determinati e ambiziosi non diversificheranno le loro prese di posizione né estenderanno le loro ambizioni se non a condizione che il mondo offra loro delle opportunità – in termini di impieghi, uffici e responsabilità. Le forze centrifughe della cultura e dell’individualità personale si correggeranno reciprocamente solo se la correzione sarà programmata e mirerà alla realizzazione di una condizione di equili-
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brio tra di esse. Ciò significa che non possiamo mai né atteggiarci a difensori radicali del multiculturalismo o dell’individualismo, né essere semplicemente comunitaristi o liberali, modernisti o postmodernisti; dobbiamo essere, al contrario, ora una cosa ora l’altra, a seconda delle circostanze legate alla ricerca dell’equilibrio. Mi sembra che il termine migliore per indicare il giusto equilibrio – il credo politico che difende la struttura generale di fondo, che sostiene le forme necessarie di azione statale e tutela i moderni regimi di tolleranza – sia quello del socialismo democratico. Se il multiculturalismo oggi produce più preoccupazioni che speranze, lo si deve in parte alla debolezza del socialismo democratico (cioè a quello che nel mio paese verrebbe chiamato liberalismo di sinistra). Ma questa è una storia diversa e più lunga.
Presentazione Nell’ultima sezione dell’antologia si presentano brani di alcuni dei documenti giuridici che hanno segnato la vicenda della tolleranza in epoca moderna e contemporanea e a cui più volte si è fatto riferimento nel corso del nostro discoro. La pace religiosa di Augusta così come l’Editto di Nantes e il Trattato di Osnabrueck (che contiene le clausole della pace religiosa sancite dalla pace di Westfalia che poneva fine alla sanguinosa guerra europea dei Trent’anni) sono documenti esemplificativi degli sforzi dell’ordine politico di pacificare i disordini e i conflitti che la diffusione della Riforma aveva provocato in Europa. Questi documenti possono essere considerati anche atti di tolleranza – pur con le debite differenze dovute alla particolare situazione territoriale in cui vengono emanati –, perché risultano sempre concessioni dall’alto, soluzioni temporanee a una difficoltà di fronte a cui il potere politico si trova, e mai riconoscimento di un diritto dell’individuo a esercitare la propria libertà di credo. D’altra parte, anche l’Editto di Fontainebleau, che revocava l’Editto di Nantes, si inserisce nel lungo conflitto fra tolleranza e intolleranza e conferma che la concessione da parte del re della tolleranza viene intesa come momentanea risposta a sfida. Una volta pacificato il proprio regno, Luigi XIV cerca di ristabilire l’uniformità religiosa sul proprio territorio, escludendo dal godimento dei diritti tutti coloro che non si rendono omogenei al credo cattolico professato dal re di Francia. Tuttavia, la crisi che affligge l’antico regime, lungi dall’essere risolta dalla pratica assolutista del re francese, perdura e l’Editto di Fontainebleau provocherà il riacutizzarsi del conflitto religioso in Francia e, al tempo stesso, anche un impoverimento economico della nazione
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(molti dei calvinisti francesi costretti all’esilio dall’Editto erano artigiani manifatturieri), accelerando di fatto lo sgretolamento del sistema d’antico regime che culminerà nell’evento rivoluzionario del 1789. Se ancora nel XVIII secolo la strategia dei despoti illuminati europei sarà quella di concedere la tolleranza – atto che diverrà uno dei momenti centrali della politica delle riforme dall’alto tentate in Europa e di cui esempio paradigmatico è la Patente di tolleranza concessa dall’imperatore austriaco Giuseppe II –, dagli Stati Uniti giunge in Europa l’eco della vittoria di un nuovo modo di intendere i rapporti tra potere politico e individui, attraverso il riconoscimento del diritto di libertà religiosa del singolo – diritto inalienabile del singolo e dunque non tangibile da parte del potere, ma anzi da esso garantito e tutelato –, di cui le prime affermazioni si trovano nella Costituzione dello Stato di Pennsylvania e nello Statuto della libertà religiosa riconosciuto nello Stato della Virginia e che verrà pienamente sancito dal I Emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti. La rivoluzione americana e quella francese determinano in Occidente nella pratica storica e politica la fine della vicenda della tolleranza e l’inizio dell’epoca dei diritti. Per segnalare questa forte cesura si è scelto di presentare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che venne premessa alla Costituzione francese del 24 giugno 1793, invece che la Dichiarazione francese del 1789, perché la Dichiarazione giacobina formula la questione dei diritti in chiave fortemente democratica sottolineando – come già aveva fatto Paine nel suo I diritti dell’uomo (su cui cfr. supra, sezione V, pp. 198-203) – il nesso imprescindibile fra potere costituente dei cittadini e diritti dei singoli. La tragedia dei totalitarismi, che segna la prima metà del XX secolo, costringe la comunità internazionale a affermare, di nuovo, il riconoscimento universale del valore inalienabile dei diritti dell’uomo con la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata a S. Francisco nel dicembre del 1948 dall’assemblea delle Nazioni Unite. E tuttavia, le guerre che hanno afflitto il pianeta nella seconda metà del Novecento, e che oggi sembrano costituire una volta di più il lessico quotidiano della politica, testimoniano che la storia dell’affermazione dei diritti è ancora lontana dall’essersi compiuta. Di fronte alle sfide e alle inquietudini che turbano l’universalismo dei diritti umani nuovamente ricompare non solo nella teoria politica, ma anche nelle carte giuridiche la soluzione contingente della tolleranza. Testimonianza di ciò è il fatto che quella stessa organizzazione internazionale, l’ONU, che nel 1948 aveva affermato il riconoscimento universale dei diritti umani,
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nel 1995 emana una Dichiarazione di principi sulla tolleranza, riconosciuta quale «necessità politica e giuridica», alla cui pratica viene legato, contraddittoriamente dal punto di vista teorico-politico, anche il pieno riconoscimento dei diritti umani. L’antologia si chiude con alcuni articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sottoscritta nel dicembre del 2000 a Nizza da tutti i paesi membri dell’Unione: la necessità di affermare ancora una volta negli ultimi giorni del XX secolo (il secolo che doveva essere il secolo dei diritti) il riconoscimento dei diritti fondamentali degli individui testimonia nuovamente la crisi della politica occidentale a riuscire a pensare realmente, concretamente le condizioni di un’uguaglianza che sia universale, cioè che sappia garantire la pacifica coesistenza, lo scambio e il continuo e fecondo contatto fra soggetti che hanno colori, lingue, fedi, stili di vita e opinioni differenti.
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Pace religiosa di Augusta (25 settembre 1555) Noi, Ferdinando, per grazia di Dio re dei Romani, sempre sollecito dell’accrescimento dell’Impero, re di Germania, Ungheria, Boemia, Dalmazia, Croazia e Slavonia ecc., infante di Spagna, arciduca d’Austria, duca di Burgundia, Brabante, Stiria, Carinzia, Carniola, Luetzlberg1, Alta e Bassa Slesia e di Svevia, Margravio del Sacro Romano Impero di Burgau, Moravia, Alta e Bassa Lusatia, conte-principe di Absburgo, Tirolo, Pfirt, Kiburg e di Pordenone e di Salins ecc., riconosciamo pubblicamente e rendiamo noto a tutti che Sua Maestà Romana Imperiale, il nostro amatissimo fratello e signore, ha accertato che per ragioni di forza maggiore le leggi, gli statuti e recessi del Sacro Impero e tutti gli sforzi, le attività e le opere generose, sincere e serie, che vi sono state messe in pratica dalla Sua Graziosa Maestà Imperiale, da noi stessi e dai membri di ogni rango del Sacro Impero, non hanno prodotto quei frutti e quegli effetti che le alte esigenze dell’Impero richiedevano; e che si verificano nel Sacro Impero gravi disordini e violenze. Fino a quando non si perverrà alle trattative e ad una definitiva conclusione della pace nella persistente divisione della religione, sia in materia di fede sia per le questioni profane e secolari, e fino a quando la questione (della divisione nella religione) non sarà elaborata e definita in tutti i sensi, così che ambedue le parti religiose sappiano alfine in quali rapporti vicendevoli si trovano, gli Stati ed i loro sudditi non potranno godere di una sicurezza garantita e permanente, ma dovranno stare, ciascuno per se stesso, l’un contro l’altro armati, in pericoli intollerabili; al fine di dissipare tale pericolosa incertezza e di riportare pace e fiducia reciproca negli Stati e nel cuore dei sudditi ed al fine di salvare la Nazione Tedesca, nostra amatissima patria, dalla distruzione e rovina finale, siamo addivenuti ad un accordo ed accomodamento, con i Consiglieri e i Delegati degli Elettori, con i Principi ed i Signori presenti e con gli ambasciatori e gli inviati di quelli assenti, insieme concordandolo. 1°) Noi perciò stabiliamo, ordiniamo, vogliamo ed ingiungiamo che da ora in poi nessuno, di qualsiasi dignità, rango e stato sia, per qualsiasi motivo o in alcun modo dia luogo a contestazioni, intrapren1
Antico nome medioevale del Lussemburgo.
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da guerra, depredi, invada, occupi od assedii altri, o collabori in tali imprese per conto proprio od altrui e che nessuno penetri in un castello, città, mercato, fortezza, villaggio, fattoria e frazione qualsivoglia, o si impadronisca di alcun altro luogo contro la volontà dell’altro, con violenza e temerarietà, o lo danneggi pericolosamente con fuoco od altro e che nessuno sostenga offensori di tal genere con consigli, aiuti od altri appoggi e favori, né alcuno offra loro, coscientemente e pericolosamente, rifugio, né li ammetta nelle proprie case, né li provveda di cibi o di bevande, né li sostenga od accolga, ma che tutti si rispettino l’un l’altro con sincera amicizia ed affetto cristiano e che nessun Stato o membro del Sacro Impero attenti ai diritti di un altro, trattenendo od impedendogli il libero accesso alle sue legittime risorse di approvigionamento, derrate, commercio, rendite, denaro e tasse; ma che la Sua Imperiale Maestà e noi stessi2 permettiamo agli Stati e reciprocamente gli Stati alla Sua Imperiale Maestà ed a noi di godere interamente con ogni mezzo del «Landfriede»3, decretato in occasione di questo Atto generale e religioso. 2°) Affinché questo «Landfriede» possa essere decretato, definito e mantenuto con maggior fermezza – a causa tanto dello scisma nella religione, quanto per i motivi summenzionati, come richiede l’alta necessità del Sacro Impero della Nazione Tedesca – tra la Sua Imperiale Maestà, Noi stesso4, gli Elettori, Principi e Stati del Sacro Impero della Nazione Tedesca: La Sua Imperiale Maestà, Noi stessi, gli Elettori, i Principi e gli Stati del Sacro Impero non invaderanno, danneggeranno od assaliranno alcun altro Stato dell’Impero a causa della Confessione di Augusta5, della sua dottrina, religione e fede, né lo costringeranno con la violenza od attaccandolo nelle sue terre e signorie ad abbandonare, contro la sua volontà e coscienza, la Confessione di Augusta con la sua religione, fede, riti, regole e cerimonie, così come sono stabilite ora o come lo saranno nel futuro, né gli recheranno danno o lo puniranno con mandati od in altra forma; ma gli lasceranno invece godere in pa-
2 Ferdinando, fratello dell’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo V. Ferdinando in qualità di re dei Romani amministrava la Germania. 3 Termine del lessico medioevale tedesco, che indicava la rinuncia da parte dei signori feudali a farsi guerre private fra di loro. 4 Ferdinando. 5 La confessione luterana.
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ce e tranquillità la religione, fede, riti, regole e cerimonie sue proprie, conservando le proprietà, i beni mobili ed immobili, terre, sudditi, signorie, giurisdizioni e magistrature sue particolari. Il raggiungimento di un’intesa ed accordo cristiano nelle controversie religiose non dovrà essere effettuato altrimenti, che per vie e mezzi pacifici, amichevoli e cristiani; e ciò è garantito dalle dignità Imperiale e regia, dall’onore dei Principi, dalle loro oneste promesse e dalle penalità connesse con il «Landfriede». 3°) Similmente gli Stati che seguono la Confessione di Augusta permetteranno alla Sua Romana e Imperiale Maestà, Noi stessi, gli Elettori, i Principi ed agli altri Stati del Sacro Impero, che conservano e sostengono l’antica religione6, di godere indisturbati della nostra religione, fede, riti, regole e cerimonie; ciò deve essere valido tanto per gli Stati secolari che per quelli ecclesiastici, includendo gli ultimi i loro Capitoli e gli altri ecclesiastici, indipendentemente dal luogo, in cui essi abbiano trasferito la loro residenza, ma a condizione che le loro funzioni richiedano riunioni di ministri; essi conserveranno indisturbati le loro proprietà, beni mobili ed immobili, sudditi, signorie, giurisdizioni, magistrature, rendite, tributi e decime e ne godranno ed useranno in pace e tranquillità e senza ostacoli; aiuteranno l’onesto ad ottenere i propri diritti e non sottoscriveranno alcun atto o violenza contro gli stessi; ma sempre secondo le leggi del Sacro Impero, le ordinanze, rescritti e i «Landfrieden» stabiliti, ognuno potrà appellarsi all’appropriata legge comune; tutto ciò è garantito dall’onore dei Principi, dalle loro oneste promesse e dalle pene comprese nei «Landfrieden» stabiliti. 4°) Tuttavia quanto non appartiene alle due religioni sopra menzionate non è incluso in questa Pace, ma anzi interamente escluso. 5°) E poiché durante le trattative della presente Pace fu ampiamente discusso un argomento, sul quale gli Stati di ambedue le religioni non riuscirono ad accordarsi e segnatamente sui provvedimenti da prendere nei riguardi di quegli arcivescovati, vescovati, priorati ed altri benefizii ecclesiastici il cui clero, completamente od in parte avesse abbandonato la vecchia religione, Noi7 abbiamo dichiarato e decretato, ed in tal senso agiamo ora, in virtù dei pieni poteri e delle istruzioni dateci da Sua Graziosa Romana ed Imperiale Maestà, quanto segue: 6 7
La confessione cattolica. Ferdinando.
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Qualora un arcivescovo, vescovo, prelato od altro sacerdote abbandonasse l’antica religione, egli dovrà lasciare immediatamente, senza indugio od opposizione, il suo arcivescovato, vescovato, prelatura od altro benefizio, con tutte le rendite e tasse da esso ricavate e farà ciò senza alcun detrimento della sua dignità; i Capitoli e coloro cui compete per legge ordinaria o per speciale usanza della Chiesa o del Capitolo in questione, eleggeranno una persona, che professi la vecchia religione e gli consegneranno il benefizio e l’eletto potrà godere in pace e senza opposizione della giurisdizione sopra i Capitoli e le chiese del luogo, sopra le loro donazioni, elezioni, candidature e conferme e sopra i loro beni, mobili ed immobili, senza pregiudizio di alcun amichevole e definitivo accomodamento religioso. 6°) Poiché alcuni Stati ed i loro precedenti hanno confiscato certi monasteri ed altre proprietà ecclesiastiche, trasformandole in chiese, scuole od altre istituzioni di carità, queste saranno comprese nella Pace presente e rimarranno confiscate nel caso che non appartengano agli Stati diretti dell’Impero o che non fossero in possesso del clero al tempo del Trattato di Passau o da allora; gli accordi con gli Stati rispettivi sono stati presi con la clausola che queste proprietà confiscate e da allora variamente usate, rimarranno tali, e nessun Stato potrà essere redarguito o chiamato a risponderne, né in tribunale né extragiudizialmente, allo scopo di mantenere una pace stabile e durevole. Perciò noi qui decretiamo ed ingiungiamo che in virtù di questo recesso dei Giudici di Camera della Sua Imperiale Maestà e i loro assessori, non riconoscano e non facciano procedere alcuna citazione, mandato o processo riguardante questi beni confiscati e destinati ad altro uso. 7°) Affinché i seguaci di ambedue le religioni possano essere e rimanere in pace perpetua gli uni con gli altri ed in completa sicurezza, non si dovrà esercitare ed usare la giurisdizione ecclesiastica verso la Confessione di Augusta, la sua religione, fede, accolte di ministri, liturgia, regole e cerimonie, così come sono stabilite ora e lo saranno in futuro (senza pregiudizio tuttavia, dei diritti e titoli degli Elettori ecclesiastici, Principi, Stati, Collegiate, monasteri, membri di Ordini alle rendite, tasse, tributi, decime e feudi, come stabilito sopra); ma sarà concessa libertà di professione alla religione di Augusta, fede, liturgia, regole, cerimonie ed accolte di ministri – secondo quanto stabilito in un articolo separato sotto riportato – senza danno od opposizione, ed anche, come stabilito sopra, cesserà, verrà rimossa e sospesa la giurisdizione ecclesiastica verso di essa, finché non verrà raggiunto un accordo finale nella religione. In altre materie e casi che non riguardano la
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confessione, religione, fede, liturgia, regole, cerimonie ed accolte di ministri di Augusta, la giurisdizione ecclesiastica può e deve essere esercitata ed affermata secondo l’usato e senza opposizione, dagli arcivescovi, vescovi ed altri prelati secondo l’usanza particolare di ogni luogo e come essi attualmente l’esercitano, usano e posseggono. […] 10°) Nessun Stato deve attentarsi a far abbandonare ad un altro o ai suoi sudditi la loro religione o a farne cessare la pratica, né deve proteggere o difendere con alcun mezzo i sudditi di un altro Stato contro i loro propri magistrati. Con tale clausola non si intende tuttavia diminuire l’autorità dei protettori («Schirm-und Schutzherren»), esercitata per tradizione, ed in ogni caso non vi si riferisce in tale articolo. 11°) Se tuttavia dei sudditi nostri o degli Elettori, Principi e Stati, adepti dell’antica religione o della Confessione di Augusta, desiderassero trasferirsi a motivo della loro religione con le loro mogli e figli, fuori dai nostri territorii, città e località, compresi nel Sacro Impero o da quelli degli Elettori, Principi e Stati, per stabilirsi in altro luogo, siano loro concessi libera uscita ed ingresso senza opposizione e sia anche permessa ad ognuno la vendita di beni e proprietà col pagamento di un adeguato e pur modesto compenso per il loro servaggio e delle imposte arretrate, secondo l’uso di ogni particolare località; essi non dovranno soffrire ingiuria nel loro onore e nei loro compiti; tuttavia non si dovrà sottrarre od infrangere alcuno dei diritti e dei costumi riguardanti i servi, per quanto dovesse concernere il loro rilascio o non. 12°) La risoluzione in materia di religione e fede dovrà essere ricercata per vie atte e proprie, poiché senza una pace duratura non è possibile raggiungere una decisione amichevole e cristiana della questione religiosa. È per questo che Noi, i Consiglieri degli Elettori, per conto di questi Elettori, i Principi presenti e gli inviati e ambasciatori sia secolari sia ecclesiastici dei Principi assenti, abbiamo elaborato questo accordo al fine di ritrovare la pace amatissima, di dissipare nell’Impero la pericolosa sfiducia e di impedire la finale ed altrimenti imminente distruzione di questa onorata nazione. Al fine di facilitare una risoluzione finale, cristiana ed amichevole della scissione religiosa, noi abbiamo accettato di tenere fermamente fede a questo accordo, come formulato negli articoli sopra, per sempre ed inviolabilmente, e di osservarlo fedelmente, finché non venga raggiunto un ordinamento definitivo cristiano ed amichevole della religione e della fede. Ma fino a quando tale ordinamento non arriverà nell’Impero per mezzo di un
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Concilio Generale, di una Assemblea Nazionale o di conferenze e trattative, questo trattato di pace resterà valido in ogni suo articolo e punto nell’attesa di una decisione finale in materia di religione e fede. Allora sarà conclusa e stabilita nella forma, di cui sopra, od in altra qualsiasi una pace perpetua, durevole, incondizionata ed eterna. [...] 21°) Questa sessione ed il voto in essa dato, come pure la firma di questo documento non saranno di alcun detrimento, danno o pregiudizio per alcuno dei partecipanti, per quanto concerne i loro diritti tradizionali e la loro posizione legale. 22°) Tutto questo ed ogni cosa come stabilita sopra e per quanto concerne Sua Imperiale Maestà, il nostro amatissimo fratello e signore, e Noi stessi, Noi promettiamo e ci impegnamo ad osservare, anche a nome di Sua Imperiale Maestà oltre che Nostro, ad adempiere regolarmente, fermamente, inviolabilmente e sinceramente quanto sopra, e promettiamo di uniformarci a ciò lealmente, senza esitazione o frode. A fede di tutto ciò abbiamo fatto apporre il nostro reale sigillo a questo rescritto. E Noi, i Consiglieri delegati dagli Elettori, i Principi, Prelati, Conti e Signori presenti e gli inviati, ambasciatori e plenipotenziarii delle città Libere ed Imperiali del Sacro Impero qui sotto nominate, pubblicamente riconosciamo con questo recesso che tutti i punti e gli articoli in esso contenuti sono stati concordati e conclusi secondo i nostri diritti, volontà, conoscenza e consiglio; li confermiamo tutti, in particolare e nell’insieme, qui ed in virtù di questo documento. Perciò noi promettiamo e ci impegnamo con grande e sincera lealtà ad osservarli ed adempierli sinceramente, regolarmente, fermamente, lealmente ed inviolabilmente, per quanto concerne o potrà concernere ciascuno di noi, la sua signoria o gli amici, di cui siamo delegati o plenipotenziarii e promettiamo di uniformarvici e di osservarli con tutta la nostra capacità e senza inganno. Noi siamo i sottoscritti Consiglieri degli Elettori, Principi, Prelati, Conti, Signori, e ambasciatori e plenipotenziarii degli Stati assenti, come pure delle Città Libere ed Imperiali del Sacro impero8:
8 Segue una lista di nomi comprendente più di cento Stati: inizia con gli ambasciatori dell’Arcivescovo di Magonza, Elettore e Arci-Consigliere del Sacro Romano Impero per la Germania, e termina con il Borgomastro della Libera ed Imperiale città di Augusta, della cui ospitalità godeva la Dieta.
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Dato nella città nostra e del Sacro Impero di Augusta nel venticinquesimo giorno di settembre nell’anno millecinquecentocinquantacinque dalla Natività del nostro amatissimo Signore, lei venticinquesimo anno del nostro regno nell’Impero Romano: nel ventinovesimo anno di regno sugli altri nostri dominii. FERDINANDO
Editto di Nantes (13 aprile 1598) Enrico, per grazia di Dio Re di Francia e di Navarra, a tutti i presenti e i posteri, salute. Tra le infinite grazie, che a Dio è piaciuto dispensarci, una delle più significative e notevoli è quella di averci dato la forza ed il potere di non soccombere ai terribili turbamenti, confusioni e disordini, che esistevano quando salimmo al trono di questo regno, diviso in tanti partiti e fazioni, che la più giusta di esse era in minoranza, e di averci nondimeno fortificati in tal modo contro questa afflizione, che infine la superammo ed ora abbiamo raggiunto il porto della salvezza e della quiete di questo Stato. [...] Avendo veracemente e felicemente trionfato per grazia di Dio9 ed essendo state da tutti deposte le armi e le ostilità nel regno intero, ci conforta la speranza di avere un eguale successo in tutti gli altri affari da sistemare ancora e di arrivare in tal modo al consolidamento di una buona pace e di una perfetta quiete, che è stata sempre la meta di tutti i nostri voti ed intenzioni, ed il premio che noi desideriamo per tutte le tribolazioni e le fatiche, che abbiamo sostenute nel corso della nostra vita. Delle suddette faccende, nelle quali è stato necessario portare molta pazienza, una delle più importanti sono state le lagnanze, che abbiamo raccolte da molte delle nostre province e città cattoliche, in merito al fatto che la pratica della religione cattolica non è stata ovunque ristabilita secondo gli editti, precedentemente emanati per la pacificazione delle contese. Similmente ci sono state rivolte suppliche e ri9
Nella guerra civile che si era combattuta in Francia fra cattolici e ugonotti.
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Dato nella città nostra e del Sacro Impero di Augusta nel venticinquesimo giorno di settembre nell’anno millecinquecentocinquantacinque dalla Natività del nostro amatissimo Signore, lei venticinquesimo anno del nostro regno nell’Impero Romano: nel ventinovesimo anno di regno sugli altri nostri dominii. FERDINANDO
Editto di Nantes (13 aprile 1598) Enrico, per grazia di Dio Re di Francia e di Navarra, a tutti i presenti e i posteri, salute. Tra le infinite grazie, che a Dio è piaciuto dispensarci, una delle più significative e notevoli è quella di averci dato la forza ed il potere di non soccombere ai terribili turbamenti, confusioni e disordini, che esistevano quando salimmo al trono di questo regno, diviso in tanti partiti e fazioni, che la più giusta di esse era in minoranza, e di averci nondimeno fortificati in tal modo contro questa afflizione, che infine la superammo ed ora abbiamo raggiunto il porto della salvezza e della quiete di questo Stato. [...] Avendo veracemente e felicemente trionfato per grazia di Dio9 ed essendo state da tutti deposte le armi e le ostilità nel regno intero, ci conforta la speranza di avere un eguale successo in tutti gli altri affari da sistemare ancora e di arrivare in tal modo al consolidamento di una buona pace e di una perfetta quiete, che è stata sempre la meta di tutti i nostri voti ed intenzioni, ed il premio che noi desideriamo per tutte le tribolazioni e le fatiche, che abbiamo sostenute nel corso della nostra vita. Delle suddette faccende, nelle quali è stato necessario portare molta pazienza, una delle più importanti sono state le lagnanze, che abbiamo raccolte da molte delle nostre province e città cattoliche, in merito al fatto che la pratica della religione cattolica non è stata ovunque ristabilita secondo gli editti, precedentemente emanati per la pacificazione delle contese. Similmente ci sono state rivolte suppliche e ri9
Nella guerra civile che si era combattuta in Francia fra cattolici e ugonotti.
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mostranze dai nostri sudditi della cosiddetta religione Riformata10, sia per la mancata applicazione di quanto loro garantito nei suddetti editti, che per quanto essi desiderano sia a ciò aggiunto per la pratica della religione suddetta, per la loro libertà di coscienza e per la sicurezza delle loro persone e beni; essi dichiarano di aver buoni motivi per nuovi e maggiori timori a causa dei recenti disordini e correnti, che sono sorti sul pretesto e il fondamento della loro rovina. Per non sovraccaricarci di troppi affari in una volta e poiché la violenza delle armi non è per nulla compatibile con la promulgazione di leggi, noi abbiamo sempre rimandato tale compito da un’occasione all’altra. Ma ora che a Dio piace di darci un poco più di pace, abbiamo giudicato di non poterla meglio impiegare che nell’occuparci di quanto concerne la gloria del suo Santo Nome ed il suo servizio e nell’assicurarci che Egli possa essere venerato e pregato da tutti i nostri sudditi; e se non Gli è piaciuto concedere che ciò avvenga in una sola e comune religione, avvenga almeno in un solo intendimento e con un tale accordo, che non vi siano più disordini o tumulti tra di loro. [...] Per queste ragioni, avendo ampiamente ed attentamente soppesato e considerato l’intero problema con il consiglio dei principi del sangue, di altri principi ed ufficiali della Corona, ed alla presenza di altre notabili ed insigni persone del nostro Consiglio di Stato, con questo perpetuo ed irrevocabile editto noi abbiamo proclamato, dichiarato ed ordinato e proclamiamo, dichiariamo ed ordiniamo: Art. I – In primo luogo che sia estinto e soppresso il ricordo di qualsiasi azione compiuta dalle due parti dal principio del mese di marzo 1585, sino alla nostra accessione alla Corona e durante gli altri precedenti disordini ed al loro scoppio, come se nulla fosse mai accaduto. E non sarà legale, né sarà concesso ai nostri Procuratori Generali, né ad altre persone pubbliche o private, in alcun tempo o sotto alcun pretesto, di istituire un caso, un processo od un’azione in alcuna Corte o tribunale giudiziario (in riferimento a tali azioni). Art. II – Noi proibiamo a tutti i nostri sudditi di qualsiasi rango o condizione essi siano, di rinnovare il ricordo di tali fatti, di attaccare, osteggiare, ingiuriare o provocarsi vicendevolmente a rivendicazione del passato, qualunque ne sia la ragione od il pretesto o di litigare, discutere o contendere intorno a ciò, o di oltraggiare od offendere con
10 Sono i calvinisti, che in Francia venivano indicati con il termine dispregiativo di «ugonotti».
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fatti o con parole, ma esortiamo tutti a contenersi ed a vivere in pace come fratelli, amici e concittadini, sotto pena di essere passibili di punizione come perturbatori della pace e della quiete pubblica. Art. III – Noi ordiniamo che la religione Cattolica Apostolica e Romana sia restaurata e ristabilita in tutti i luoghi ed i distretti del nostro regno e delle terre sotto il nostro dominio, nei quali la sua pratica è stata interrotta, così che vi sia professata in pace e liberamente, senza disordini od opposizione. Vietiamo espressamente a tutte le persone, di qualsiasi rango o condizione esse siano, sotto pena delle punizioni suddette, di turbare, importunare o causare molestie ai sacerdoti nella celebrazione dei riti divini, nel ricevimento e nel godimento di decime, redditi e rendite dei loro benefizii, e di tutti gli altri diritti e doveri, che ad essi competono, ed ordiniamo a tutti coloro che siano venuti in possesso, durante i disordini, di chiese, case, beni e rendite, appartenenti ai detti ecclesiastici, e che ancora li trattengono ed occupano, di restituirne il completo possesso e godimento, con tutti i diritti, privilegi e garanzie, che ad essi competevano, prima di essere sequestrati. E proibiamo pure, espressamente, a coloro della cosiddetta religione Riformata di tenere adunanze religiose od altre devozioni della suddetta religione in chiese, abitazioni e case dei suddetti ecclesiastici. [...] Art. VI – Ed al fine di eliminare ogni causa di discordie o contese tra i nostri sudditi, noi abbiamo concesso e concediamo a quelli della cosiddetta religione Riformata di vivere e risiedere in tutte le città ed i distretti del nostro regno e dei nostri dominii, senza che siano importunati, disturbati, molestati o costretti a compiere alcunché contro la loro coscienza riguardo alla religione o di essere per tal causa perseguiti nelle loro case e distretti, dove desiderano vivere, a patto che essi si conducano per il resto secondo le clausole del nostro presente editto. [...] Art. IX – Concediamo pure a quelli della suddetta religione di realizzarne e continuarne la pratica nelle città e distretti sotto il nostro dominio, in cui era stata istituita e messa in atto pubblicamente parecchie distinte volte nell’anno 1596 e nell’anno 1597, sino alla fine del mese di agosto, nonostante ogni decreto o sentenza in contrario. [...] Art. XIII – Proibiamo espressamente a tutti gli appartenenti alla suddetta religione di professarla, per quanto riguarda ministero, regola, disciplina o pubblica istruzione dei ragazzi od altro, in questo no-
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stro regno e nei nostri domimi, in materie concernenti la religione, fuori dei luoghi permessi e concessi dal presente editto. [...] Art. XXI – Non si potranno stampare e vendere al pubblico libri, che trattino della suddetta religione Riformata, eccetto che nelle città e distretti, in cui è permessa la pubblica professione di tale religione. E per quanto riguarda altri testi stampati in altre città, essi saranno sottoposti all’esame dei nostri ufficiali e teologi, come disposto dalle nostre ordinanze; specificamente vietiamo la stampa, pubblicazione e vendita di tutti i libri, opuscoli e scritti diffamatorii, sotto pena delle punizioni prescritte nelle nostre ordinanze, ingiungendo a tutti i nostri giudici ed ufficiali di applicarle rigorosamente. [...] Art. XXIII – Ordiniamo che non vi sia alcuna differenza o distinzione, a causa della suddetta religione, nell’accettazione degli studenti in Università, Collegi e scuole, o dei malati e poveri in ospedali, infermerie e pubbliche istituzioni di carità. [...] Art. XXVII – Al fine di riunire più efficacemente le volontà dei nostri sudditi, come è nostra intenzione, e di evitare ogni futura lagnanza, noi dichiariamo che tutti coloro che professeranno la suddetta religione Riformata, possono tenere ed esercitare ogni posizione pubblica, onore, carica, e servizio qualsiasi, reale, feudale, o altre cariche nelle città del nostro regno, paesi, terre e signorie a noi soggetti, nonostante ogni altro giuramento contrario, e devono esservi ammessi ed accolti senza distinzioni; sarà sufficiente per le nostri Corti di Parlamento e per gli altri giudici, indagare ed accertarsi sulla vita, le abitudini, la religione e l’onesto comportamento di coloro, che sono e saranno destinati alle cariche, sia di una religione sia dell’altra, senza esigere da essi altro giuramento che non sia quello di servire bene e fedelmente il Re nell’esercizio delle loro funzioni e nel mantenimento delle disposizioni, secondo il solito uso. Quando si rendessero vacanti le suddette posizioni, funzioni e cariche, nomineremo noi – riguardo a coloro che saranno a nostra disposizione – senza pregiudizio o discriminazione delle persone capaci, come richiede l’unione dei nostri sudditi. Dichiariamo pure che possono essere accolti ed ammessi a tutti i Consigli membri della suddetta religione Riformata, come a tutte le riunioni, assemblee ed adunanze, connesse con le cariche in questione; non potranno essere respinti né potrà esser loro impedito di godere di questi diritti a causa della suddetta religione. [...]
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Art. XCII – E per maggiore garanzia del comportamento e della condotta, che ci attendiamo in seguito a questo editto, Noi vogliamo, ordiniamo e desideriamo che tutti i Governatori ed i Luogotenenti Generali delle nostre province, i Balivi, Siniscalchi ed altri giudici ordinarii nelle città del regno suddetto, immediatamente dopo aver ricevuto questo editto, giurino di farlo mantenere ed osservare, ognuno nel suo proprio distretto; e parimente i sindaci, gli sceriffi, capitani, consoli e magistrati delle città, annuali o perpetui. Noi inoltre ingiungiamo ai nostri suddetti balivi, siniscalchi, ai loro luogotenenti ed agli altri giudici di far giurare ai più eminenti cittadini di ambedue le religioni nelle suddette città, di rispettare il presente editto, a partire immediatamente dalla sua pubblicazione. Noi poniamo tutti quelli delle dette città sotto la nostra protezione e salvaguardia, gli uni a salvaguardia degli altri e li incarichiamo rispettivamente e per mezzo di atti pubblici, di rispondere con debiti processi legali, delle contravvenzioni a questo nostro editto, compiute nelle dette città dai loro abitanti, o render noti tali contravventori affidandoli alla giustizia. Noi ordiniamo al nostro amatissimo e leale popolo, che tiene le nostre Corti di Parlamento, «Chambres des Comptes» e Corti di assistenza, che immediatamente dopo aver ricevuto il presente editto, presti obbligatoriamente, sospendendo ogni azione in corso e sotto pena di nullità per azioni altrimenti condotte, un giuramento simile a quanto sopra e faccia pubblicare e registrare questo nostro editto nelle summenzionate Corti secondo la sua propria forma e significato, puramente e semplicemente, senza introdurvi alcuna modificazione, rettifica, dichiarazione o segreta registrazione, e senza attendere ulteriori nostri ordini od ingiunzioni, ed ordiniamo ai nostri Procuratori Generali di esigere e garantire la suddetta pubblicazione immediatamente e senza indugio [...] poiché tale è il nostro volere, a testimonianza di ciò abbiamo firmato il presente decreto di nostra mano ed al fine di mantenerlo sicuro ed immutato in perpetuo, noi vi abbiamo posto ed infisso il nostro sigillo. Dato a Nantes nel mese di aprile nell’anno di grazia 1598 nono del nostro regno. Firmato ENRICO
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Trattato di Osnabrueck (24 ottobre 1648) Art. V, § 1 – L’accordo promosso a Passau nel 1552 e la pace religiosa che lo confermava nel 1555, come pure quanto convenuto ad Augusta nel 1566 e susseguentemente nelle varie assemblee generali del Sacro Romano Impero, sono stati confermati in tutti i loro particolari per unanime consenso dell’Imperatore, Elettori, Principi e Stati di ciascuna religione; devono essere considerati ratificati dalla prima all’ultima parola e devono essere osservati lealmente ed inviolabilmente. Perciò quanto è stato decretato per comune accordo da ambedue le parti circa alcuni articoli discussi dei summenzionati accordi sarà osservato in materia legale e non, finché non sarà raggiunta per grazia di Dio l’unità della religione; [tale accordo verrà applicato] nonostante le opposizioni o proteste, che potrebbero venir avanzate da qualsiasi autorità ecclesiastica o politica, entro o fuori l’Impero in qualsiasi momento; in virtù della presente disposizione tutte queste opposizioni sono considerate nulle e senza alcun valore. In tutte le altre materie verrà osservata una esatta e reciproca eguaglianza fra tutti gli Elettori, Principi e Stati di ciascuna religione, per quanto può essere conforme agli interessi del comune benessere, alle costituzioni dell’Impero ed al presente accordo, affinché ciò che è giusto per una parte, lo sia anche per l’altra e qualsiasi violenza, anche fisica, è proibita in perpetuo in queste ed altre materie, ad ambedue le parti. Art. V, § 2 – II momento, da cui si dovranno iniziare la restituzione dei possedimenti ecclesiastici e l’annullamento di ogni mutamento politico, che sia stato compiuto a tal riguardo, sarà il primo giorno di gennaio 1624. [...] Art. V, §14 – Per quanto riguarda i possedimenti ecclesiastici, siano essi arcivescovati, vescovati, prelature, abbazie, prefetture, parrocchie, commende o libere istituzioni secolari od altre con i redditi, le rendite ed ogni altra cosa simile, situate entro o fuori le città, gli Stati cattolici e quelli che seguono la confessione d’Augusta, qualunque cosa posseggano al primo giorno di gennaio 1624, la possederanno completamente, senza riserve, pacificamente e senza opposizione, finché non venga raggiunto un accordo definitivo (che sia volere di Dio raggiungere) sulle contese riguardanti la religione; e non sarà legale per alcuna delle due parti di molestare l’altra giudizialmente o con altri mezzi, né di importunarla o recare offesa. E qualora non fosse possibi-
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le accordare amichevolmente le differenze religiose (che il volere di Dio non lo permetta), il presente accordo sarà come legge permanente e la Pace avrà validità perpetua. [...] Art. V, § 34 – È stato inoltre deciso che a tutti i seguaci della confessione d’Augusta che sono sudditi di cattolici, come pure ai cattolici che sono sudditi di Stati della confessione d’Augusta, che non hanno ancor goduto alcuna volta, prima del 1624, della pubblica o privata pratica della loro religione, o che dopo la pubblicazione della tregua professeranno od abbracceranno in futuro una religione differente da quella professata dal signore delle terre in cui vivono, sarà concesso pacificamente e con libera coscienza di frequentare privatamente i luoghi del loro culto, senza essere soggetti ad inchieste o importunati, e non sarà loro impedito di partecipare alla pubblica professione della loro religione nelle loro vicinanze, dove e quante volte essi lo desidereranno, o di mandare i loro figli in scuole appartenenti alla loro religione o da precettori privati in casa. [...] Art. V, § 48 – In attesa del definitivo accordo cristiano per le diversità di religione sia tra i cattolici ed i seguaci della confessione d’Augusta come tra gli stessi Stati della confessione d’Augusta, siano sospese la legge diocesana e la giurisdizione ecclesiastica in ogni loro forma diretta contro gli Elettori, Principi, Stati (inclusa la libera nobiltà dell’Impero) e sudditi professanti la confessione d’Augusta, e tali legge diocesana e giurisdizione ecclesiastica siano limitate ai confini dei loro territorii. [...] Art. VII, §§ 1-2 – Per unanime consenso di Sua Imperiale Maestà e di tutti gli Stati dell’Impero, si è ritenuto opportuno che lo stesso diritto o privilegio che tutte le altre costituzioni Imperiali, la pace religiosa, il presente trattato pubblico e la risoluzione delle lagnanze in essi contenute, accordano agli Stati cattolici, ai sudditi ed a quelli della confessione d’Augusta, sia accordato pure a coloro che si dicono riformati, eccettuati sempre i patti, privilegi, dichiarazioni ed altri accordi, che gli Stati denominantisi protestanti hanno concordato tra loro stessi ed i sudditi per mezzo dei quali sono stati stabiliti, fino ad ora, dei regolamenti riguardanti la religione, la sua pratica ed ogni cosa ad essa connessa, per gli Stati ed i sudditi di ogni luogo, e salva pure la libertà di coscienza di ognuno. E poiché le differenze di religione tra i Protestanti non sono ancora determinate, essendo riservate ad una sistemazione definitiva, e poiché per tal ragione essi formano due partiti, è
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stato consensualmente stabilito tra le due parti relativamente alla legge della riforma, che qualora un principe o signore di terre od un patrono di qualche chiesa volesse passare alla religione dell’altra parte, o qualora avesse ricevuto od ottenuto per diritto di successione, o in virtù del presente trattato, o sotto altro titolo, un principato od una signoria, dove fosse pubblicamente professata la religione dell’altra parte in quel momento, gli sarà concesso, senza alcuna opposizione, di avere presso di sé e nella sua residenza speciali predicatori della sua religione, anche per la sua Corte; ciò tuttavia non potrà avvenire a spese o a pregiudizio dei suoi sudditi. Ma non sarà legale che muti la religione praticata ufficialmente o le leggi e costituzioni ecclesiastiche precedentemente in vigore, o che sottragga a tale religione i suoi templi, scuole, ospedali o rendite, pensioni e stipendi, per concederli ai membri della propria religione ed ancor meno che costringa i propri sudditi ad accogliere come propri ministri di altra religione, col pretesto di leggi territoriali od episcopali o di patronato o ancora con altri pretesti, o che colpisca o faccia opposizione, direttamente o indirettamente, alla religione dei suoi sudditi. Ed al fine che tale accordo sia ancor più efficacemente osservato, in caso di tali mutamenti, sarà concesso alle comunità in questione di presentare o – nel caso non ne avessero il diritto – di designare dei ministri capaci, sia per le scuole sia per la Chiesa, che saranno esaminati e nominati dall’assemblea dei ministri pubblici della località, sempre che appartengano alla medesima religione delle comunità, che li presentano o designano; in caso contrario essi saranno esaminati e nominati nel luogo scelto dalla stessa comunità e saranno definitivamente confermati dal principe o signore senza opposizione. Se tuttavia, quando sorge la questione del cambiamento, la comunità ha abbracciato la religione del proprio signore e chiede di avere a sue spese gli stessi riti, di cui il suo principe o signore gode, sarà legale per lo stesso principe o signore concedere tale privilegio a quella comunità, senza pregiudizio degli altri sudditi e senza possibilità da parte dei successori di abolirlo. Ma i Concistori, gli Ispettori per le questioni religiose e gli insegnanti di Teologia e Filosofia alle Scuole ed Università non potranno appartenere ad altra religione che a quella pubblicamente professata in quel tempo in ciascun luogo. E poiché si devono intendere queste clausole in riferimento ai mutamenti, che potrebbero verificarsi nel futuro, esse non dovranno recare alcun pregiudizio ai diritti, che in tal senso competono al principe di Anhalt o ad altri principi; ma ad eccezione della religione summenzionata nessun’altra sarà tollerata nel Sacro Romano Impero.
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[...] Art. XVII, § 3 – Contro tale Trattato od alcun suo articolo o clausola non può essere avanzata, ascoltata od ammessa alcuna obiezione, anche (se provenga dal) diritto civile o canonico, generale o particolare, da decreti conciliari, privilegi, indulti, editti, commissioni, divieti, ordini, decreti, rescritti, casi legali, sentenze emesse in qualche momento, verdetti giudiziarii, convenzioni Imperiali od altre regole od esenzioni di Ordini religiosi, dichiarazioni passate o future, opposizioni, appelli, investiture, trattati, giuramenti, rinunce, patti di ogni sorta, o dall’Editto del 1629 o dal Trattato di Praga con le sue aggiunte, dai Concordati Papali o dell’Interim del 1548, o da qualsiasi altro statuto politico o decreto, dispensa, solvimento ecclesiastico, o da ogni altra opposizione, sotto qualsiasi nome o pretesto sia avanzata, né d’ora in avanti sarà riconosciuto alcun processo od azione legale, sia per divieto, petizione o possesso, contro questo Trattato.
Revoca dell’editto di Nantes (ottobre 1685) Re Enrico il Grande11, il nostro avo di gloriosa memoria, desiderando impedire che la pace che egli aveva ottenuto per i suoi sudditi, dopo le grandi perdite che avevano sofferto durante le guerre civili e d’invasione, fosse turbata a causa della cosiddetta religione della Riforma, che si era sempre più affermata durante i regni dei re suoi predecessori, aveva stabilito con l’editto promulgato a Nantes nel mese di aprile 1598 la linea politica da adottare verso i seguaci di tale religione, i luoghi in cui poteva essere praticata ed aveva pure nominato dei giudici speciali, che amministrassero per loro la giustizia; infine egli aveva provveduto con articoli specifici ad ogni cosa, che egli riteneva necessaria per il mantenimento della pace nel suo regno e l’allentamento della tensione fra le due religioni, al fine di essere in condizione di operare, come egli aveva deciso, per la riunione con la Chiesa di coloro, che con tanta facilità se ne erano allontanati. Ma i propositi del suddetto re, nostro avo, non poterono realizzarsi a causa della sua 11
Enrico IV.
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[...] Art. XVII, § 3 – Contro tale Trattato od alcun suo articolo o clausola non può essere avanzata, ascoltata od ammessa alcuna obiezione, anche (se provenga dal) diritto civile o canonico, generale o particolare, da decreti conciliari, privilegi, indulti, editti, commissioni, divieti, ordini, decreti, rescritti, casi legali, sentenze emesse in qualche momento, verdetti giudiziarii, convenzioni Imperiali od altre regole od esenzioni di Ordini religiosi, dichiarazioni passate o future, opposizioni, appelli, investiture, trattati, giuramenti, rinunce, patti di ogni sorta, o dall’Editto del 1629 o dal Trattato di Praga con le sue aggiunte, dai Concordati Papali o dell’Interim del 1548, o da qualsiasi altro statuto politico o decreto, dispensa, solvimento ecclesiastico, o da ogni altra opposizione, sotto qualsiasi nome o pretesto sia avanzata, né d’ora in avanti sarà riconosciuto alcun processo od azione legale, sia per divieto, petizione o possesso, contro questo Trattato.
Revoca dell’editto di Nantes (ottobre 1685) Re Enrico il Grande11, il nostro avo di gloriosa memoria, desiderando impedire che la pace che egli aveva ottenuto per i suoi sudditi, dopo le grandi perdite che avevano sofferto durante le guerre civili e d’invasione, fosse turbata a causa della cosiddetta religione della Riforma, che si era sempre più affermata durante i regni dei re suoi predecessori, aveva stabilito con l’editto promulgato a Nantes nel mese di aprile 1598 la linea politica da adottare verso i seguaci di tale religione, i luoghi in cui poteva essere praticata ed aveva pure nominato dei giudici speciali, che amministrassero per loro la giustizia; infine egli aveva provveduto con articoli specifici ad ogni cosa, che egli riteneva necessaria per il mantenimento della pace nel suo regno e l’allentamento della tensione fra le due religioni, al fine di essere in condizione di operare, come egli aveva deciso, per la riunione con la Chiesa di coloro, che con tanta facilità se ne erano allontanati. Ma i propositi del suddetto re, nostro avo, non poterono realizzarsi a causa della sua 11
Enrico IV.
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morte improvvisa, e poiché l’adempimento del suddetto editto fu più tardi interrotto durante la minorità del successivo Re12 (il nostro molto riverito signore e padre, di gloriosa memoria), per i loro intrighi, i suddetti seguaci della cosiddetta religione della Riforma diedero motivo [al re] di privarli di molti dei privilegi, che erano stati loro garantiti dal suddetto editto; nondimeno il re, il summenzionato nostro padre e defunto signore, con la sua abituale clemenza concesse loro un nuovo editto a Nîmes nel mese di luglio 1629, ed essendo così stata ristabilita la pace, il suddetto re, animato dallo stesso spirito e dallo stesso zelo verso la religione del summenzionato re, nostro avo, risolse di approfittare di tale quiete, per tentare di mandare ad effetto il suo pio progetto; ma essendo sopravvenute pochi anni dopo – dal 1635 fino alla tregua conclusa nel 1684 – nuove guerre con i príncipi d’Europa ed avendo il regno ben pochi momenti di pace, non fu possibile compiere alcunché per il progresso della religione, eccetto che diminuire il numero dei luoghi di culto della cosiddetta religione della Riforma, con l’interdizione di quelli sorti in contravvenzione alle disposizioni degli editti e con la soppressione dei tribunali bipartiti, per la cui istituzione non era stata stabilita alcuna clausola. Poiché infine Dio concesse al nostro popolo di godere di una pace completa, e non essendo più noi stessi assillati dalle preoccupazioni per la sua difesa contro i nostri nemici, abbiamo potuto approfittare di tale tregua da noi agevolata, allo scopo di poter dedicare tutte le nostre cure a trovare i mezzi, per poter realizzare con successo il progetto dei re suddetti, nostri avo e padre, nel quale ci siamo impegnati fin dalla nostra salita al trono. Noi ora rileviamo con la giusta gratitudine, che noi dobbiamo a Dio, che i nostri sforzi ci hanno condotti al fine, che ci eravamo proposto, poiché la parte migliore e più numerosa dei nostri sudditti della cosiddetta religione della Riforma ha abbracciato la religione cattolica e poiché, in conseguenza di ciò, l’editto di Nantes e tutto quanto era stato promulgato in favore della cosiddetta religione della Riforma diventa inutile, abbiamo deliberato che non potremmo far nulla di meglio, per cancellare il ricordo dei disordini, della confusione e dei mali, che l’affermarsi di questa falsa religione ha causato al nostro regno e che hanno reso necessaria la promulgazione del suddetto editto e di numerosi altri, come di dichiarazioni che lo precedettero o lo seguirono, che revocare completamente il suddetto editto di Nantes e gli arti12
Luigi XIII.
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coli specifici, che ne erano stati in conseguenza concessi, e qualsiasi altra cosa sia stata fatta in favore della suddetta religione. Art. 1 – Sappiate che noi, per queste ed altre ragioni che ci spingono alla medesima azione, e con la nostra sicura conoscenza, pieno potere e reale autorità, abbiamo soppresso e revocato col presente, perpetuo ed irrevocabile editto l’editto del suddetto re nostro avo, concesso a Nantes nel mese di aprile 1598 in tutta la sua estensione; noi dichiariamo nulli e non validi gli articoli specifici, decretati il 2 del maggio successivo, e le lettere patenti, che li convalidavano, e l’editto promulgato a Nîmes nel mese di luglio 1629 e con essi tutte le concessioni, garantite per mezzo di questi ed altri editti, dichiarazioni e decreti, a quelli della cosiddetta religione della Riforma, di qualsiasi natura siano, che rimarranno egualmente privi di valore; ed in conseguenza di ciò è nostro desiderio e precisa volontà che tutti i templi degli appartenenti alla cosiddetta religione della Riforma, situati nel nostro regno, nelle terre e nei dominii a noi soggetti, vengano immediatamente demoliti. Art. 2 – Noi proibiamo ai nostri sudditti della cosiddetta religione della Riforma di riunirsi ancora per la pratica pubblica della suddetta religione in alcun luogo od in abitazioni private sotto qualsiasi pretesto e di esercitare sia l’attuale devozione sia l’autorità spirituale, anche nel caso che la medesima pratica venga mantenuta per i decreti del nostro Consiglio. Art. 3 – Noi similmente proibiamo a tutti i signori, di qualsiasi rango, di effettuare pratiche eretiche in case e feudi, di qualsiasi genere questi feudi siano, venendo comminata a tutti i sudditi, che effettuassero tali pratiche, la pena dell’imprigionamento e della confisca dei loro beni. Art. 4 – Noi ordiniamo a tutti i ministri della summenzionata e cosiddetta religione della Riforma, che non vogliono convertirsi ed abbracciare la religione cattolica, apostolica e romana, di allontanarsi dal nostro regno e dalle terre a noi soggette entro quindici giorni dalla pubblicazione del presente editto, senza possibilità di risiedervi oltre tale data né di effettuarvi, durante tale periodo di quindici giorni, alcuna predicazione, istruzione od altra funzione, sotto pena delle galere.
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Art. 5 – Noi desideriamo che quelli di tali ministri, che si convertiranno, continuino a godere per tutta la loro vita, e le loro mogli dopo la loro morte, finché rimarranno vedove, dell’esenzione dalle tasse e dall’obbligo di ospitare i militari, di cui essi godevano, quando adempivano la loro funzione di ministri ed inoltre noi pagheremo a tali ministri per tutta la loro vita una pensione, che non dovrà superare un terzo degli emolumenti, che essi ricevevano come ministri, e le loro mogli potranno godere della metà di tale pensione dopo la loro morte, fintanto che rimarranno vedove. Art. 6 – Se alcuno dei suddetti ministri desidererà divenire avvocato o dottore in legge, noi vogliamo e rendiamo noto che sarà dispensato dai tre anni di studio prescritti per nostra disposizione e che dopo aver superato gli esami prescritti, sarà accolto come dottore col pagamento di solo metà delle rette imposte a tal proposito in ogni università. […] Art. 7 – Noi vietiamo le scuole private per l’istruzione dei giovani della cosiddetta religione della Riforma e qualsiasi cosa in generale che possa favorire, qualunque essa sia, questa religione. Art. 8 – Per quanto riguarda i figli, che nasceranno a coloro della cosiddetta religione della Riforma, noi desideriamo che siano battezzati dai loro parroci. Noi ordiniamo ai padri ed alle madri di portarli nelle chiese a tal proposito, sotto pena di un’ammenda di 500 lire e più nel caso non agissero in tal modo, ed inoltre i figli verranno cresciuti nella religione cattolica, apostolica e romana; a tale proposito noi prescriviamo espressamente la supervisione da parte dei magistrati dei distretti. Art. 9 – Al fine di mostrare la nostra clemenza verso quelli dei nostri sudditi, appartenenti alla cosiddetta religione della Riforma, che hanno lasciato il nostro regno, i paesi e le terre a noi soggette, prima della promulgazione del presente editto, noi vogliamo ed ordiniamo che se essi ritorneranno entro il periodo di quattro mesi dal giorno della suddetta promvulgazione essi potranno rientrare legalmente in possesso delle loro proprietà e le potranno completamente godere, come se non se ne fossero mai allontanati. Al contrario, le proprietà di coloro che non ritorneranno entro questi quattro mesi nel nostro regno e nei paesi e terre a noi soggetti, che essi hanno abbandonato, rimarranno e saranno confiscate in virtù della nostra dichiarazione del 20 agosto scorso.
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Art. 10 – È rigorosamente e ripetutamente vietato ai nostri sudditi della cosiddetta religione della Riforma ed alle loro mogli e figli di lasciare il nostro regno ed i paesi e le terre a noi soggetti o di portarne fuori i loro beni ed effetti, sotto pena, per gli uomini della galera e per le donne della prigione e della confisca dei beni. Art. 11 – Noi vogliamo e rendiamo noto che le disposizioni contro i recidivi saranno mandate ad effetto secondo la loro forma ed il loro tenore. Per il resto i membri della cosiddetta religione della Riforma possono vivere, in attesa di essere illuminati da Dio, come gli altri nelle città e nei distretti del nostro regno, dei paesi e delle terre a noi soggette e possono continuarvi le loro occupazioni, e godere delle loro proprietà, senza che alcuno abbia la facoltà di molestarli o di interferire, col pretesto che essi appartengono alla cosiddetta religione della Riforma, a condizione però, come è stato detto, che essi non ne facciano pubblica professione, né si riuniscano per qualunque preghiera o devozione della loro religione, sotto pena delle suddette penalità per le persone ed i beni. (Dato a) Fontainebleau, ottobre 1685
La Dichiarazione dei diritti della Virginia (12 giugno 1776) In una Convenzione Generale di delegati e rappresentanti di molte contee e corporazioni della Virginia, tenuta nel Campidoglio della città di Williamsburg il lunedì 6 maggio 1776, fu redatta una Dichiarazione dei Diritti dai rappresentanti del buon popolo di Virginia, riuniti in piena e libera Convenzione, circa i diritti che competono loro ed ai loro posteri, come base e fondamento di governo: […] 16. La religione o il rispetto e l’obbedienza dovuti al nostro Creatore ed il modo di assolverli devono essere guidati dalla ragione e dalla convinzione, non dalla forza o dalla violenza, e perciò tutti gli uomini hanno egualmente diritto alla libera professione della religione secondo i dettami della coscienza, ed è mutuo dovere di tutti di esercitare la tolleranza, amore e carità cristiana, gli uni verso gli altri.
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Art. 10 – È rigorosamente e ripetutamente vietato ai nostri sudditi della cosiddetta religione della Riforma ed alle loro mogli e figli di lasciare il nostro regno ed i paesi e le terre a noi soggetti o di portarne fuori i loro beni ed effetti, sotto pena, per gli uomini della galera e per le donne della prigione e della confisca dei beni. Art. 11 – Noi vogliamo e rendiamo noto che le disposizioni contro i recidivi saranno mandate ad effetto secondo la loro forma ed il loro tenore. Per il resto i membri della cosiddetta religione della Riforma possono vivere, in attesa di essere illuminati da Dio, come gli altri nelle città e nei distretti del nostro regno, dei paesi e delle terre a noi soggette e possono continuarvi le loro occupazioni, e godere delle loro proprietà, senza che alcuno abbia la facoltà di molestarli o di interferire, col pretesto che essi appartengono alla cosiddetta religione della Riforma, a condizione però, come è stato detto, che essi non ne facciano pubblica professione, né si riuniscano per qualunque preghiera o devozione della loro religione, sotto pena delle suddette penalità per le persone ed i beni. (Dato a) Fontainebleau, ottobre 1685
La Dichiarazione dei diritti della Virginia (12 giugno 1776) In una Convenzione Generale di delegati e rappresentanti di molte contee e corporazioni della Virginia, tenuta nel Campidoglio della città di Williamsburg il lunedì 6 maggio 1776, fu redatta una Dichiarazione dei Diritti dai rappresentanti del buon popolo di Virginia, riuniti in piena e libera Convenzione, circa i diritti che competono loro ed ai loro posteri, come base e fondamento di governo: […] 16. La religione o il rispetto e l’obbedienza dovuti al nostro Creatore ed il modo di assolverli devono essere guidati dalla ragione e dalla convinzione, non dalla forza o dalla violenza, e perciò tutti gli uomini hanno egualmente diritto alla libera professione della religione secondo i dettami della coscienza, ed è mutuo dovere di tutti di esercitare la tolleranza, amore e carità cristiana, gli uni verso gli altri.
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La Costituzione di Pennsylvania (28 settembre 1776) La Costituzione del Commonwealth di Pennsylvania, come stabilita dalla Convenzione Generale eletta a tal proposito, riunitasi a Filadelfia il 15 luglio 1776 e prolungatasi per aggiornamento fino al 28 settembre 1776 deliberò tra l’altro: CAPITOLO I – Dichiarazione dei diritti degli abitanti del Commonwealth o Stato di Pennsylvania 11 – Tutti gli uomini hanno il diritto naturale ed inalienabile di venerare l’Onnipotente Iddio, secondo i dettami della loro propria coscienza ed intelletto e nessun uomo deve o può essere legalmente costretto a professare una devozione religiosa, ad erigere o sostenere alcun luogo di devozione o a mantenere alcun ministro diverso o contrario alla sua propria libera volontà e consenso; né alcun uomo, che riconosca l’esistenza di un Dio, può essere legalmente privato o diminuito di alcun diritto civile di cittadino, a causa dei suoi sentimenti religiosi o della particolare forma di devozione religiosa, e nessuna autorità può e deve assumere o essere investita di alcun qualsiasi potere, che possa in qualche caso interferire o controllare in alcun modo il diritto di coscienza nel libero esercizio della devozione religiosa. Progetto od abbozzo di governo per il Commonwealth o Stato di Pennsylvania [...] 10 – [...] Ogni membro [della Camera dei deputati], prima di prendere il proprio posto, darà e sottoscriverà la seguente dichiarazione, ossia: «Io credo in un solo Dio, il Creatore e Signore dell’universo, che ricompensa il buono e punisce il malvagio, e riconosco che le Scritture del Vecchio e del Nuovo Testamento sono state concesse per divina ispirazione». E d’ora in avanti non sarà richiesto ulteriore o differente giuramento religioso a qualsiasi ufficiale civile o magistrato di questo Stato. [...] 45 – Saranno deliberate e mantenute costantemente in vigore le leggi, per sostenere il bene e prevenire il vizio e l’immoralità, e verran-
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no promulgate disposizioni per la debita osservanza. E tutte le società religiose ed i gruppi di uomini fin qui riuniti o incorporati per il progresso della religione o del sapere, o per altri scopi pii e caritatevoli, saranno sostenuti e protetti nel godimento dei privilegi, immunità e proprietà, di cui godono abitualmente, o di cui possano aver legalmente goduto sotto le leggi e la precedente Costituzione di questo Stato.
Atto di tolleranza (13 ottobre 1781) A tutti gli Uffici imperiali e regi delle nostre Terre
Beneamati, Essendo nostra convinzione da un lato che ogni coercizione della coscienza è pregiudizievole e dall’altro che gran vantaggio traggono la religione e lo Stato da una sincera tolleranza cristiana, Noi13 siamo giunti alla decisione di permettere ai seguaci delle Religioni Elvetica e d’Augusta, ed ai Greci non-Ortodossi, di praticare il culto divino privatamente dappertutto secondo la loro fede, indipendentemente dal fatto che questa sia tradizionale, od introdotta o no (nei luoghi rispettivi). Il privilegio della pubblica pratica religiosa sarà riservato unicamente alla Religione Cattolica e Romana; alle due Religioni Protestanti come pure alla Religione Greca non-ortodossa, in quanto già esiste in alcuni luoghi, sarà concessa la devozione privata in tutte le località, in cui ciò sarà possibile in rapporto al numero della popolazione, riferito a quanto sotto stabilito, ed alle capacità degli abitanti, a meno che i non-cattolici godano già il diritto di pubblico esercizio della propria religione. Noi concediamo particolarmente quanto segue: 1 – Nei luoghi, ove vi sono 100 famiglie dei nostri sudditi non-cattolici, essi potranno costruire una propria casa-di-preghiera, come pure una scuola, anche se non vivono tutti nella località di questa casadi-preghiera o del loro ministro, vivendo una parte di essi ad una distanza di poche ore di cammino. Coloro, le cui abitazioni sono situate 13
L’imperatore austro-ungarico Giuseppe II.
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no promulgate disposizioni per la debita osservanza. E tutte le società religiose ed i gruppi di uomini fin qui riuniti o incorporati per il progresso della religione o del sapere, o per altri scopi pii e caritatevoli, saranno sostenuti e protetti nel godimento dei privilegi, immunità e proprietà, di cui godono abitualmente, o di cui possano aver legalmente goduto sotto le leggi e la precedente Costituzione di questo Stato.
Atto di tolleranza (13 ottobre 1781) A tutti gli Uffici imperiali e regi delle nostre Terre
Beneamati, Essendo nostra convinzione da un lato che ogni coercizione della coscienza è pregiudizievole e dall’altro che gran vantaggio traggono la religione e lo Stato da una sincera tolleranza cristiana, Noi13 siamo giunti alla decisione di permettere ai seguaci delle Religioni Elvetica e d’Augusta, ed ai Greci non-Ortodossi, di praticare il culto divino privatamente dappertutto secondo la loro fede, indipendentemente dal fatto che questa sia tradizionale, od introdotta o no (nei luoghi rispettivi). Il privilegio della pubblica pratica religiosa sarà riservato unicamente alla Religione Cattolica e Romana; alle due Religioni Protestanti come pure alla Religione Greca non-ortodossa, in quanto già esiste in alcuni luoghi, sarà concessa la devozione privata in tutte le località, in cui ciò sarà possibile in rapporto al numero della popolazione, riferito a quanto sotto stabilito, ed alle capacità degli abitanti, a meno che i non-cattolici godano già il diritto di pubblico esercizio della propria religione. Noi concediamo particolarmente quanto segue: 1 – Nei luoghi, ove vi sono 100 famiglie dei nostri sudditi non-cattolici, essi potranno costruire una propria casa-di-preghiera, come pure una scuola, anche se non vivono tutti nella località di questa casadi-preghiera o del loro ministro, vivendo una parte di essi ad una distanza di poche ore di cammino. Coloro, le cui abitazioni sono situate 13
L’imperatore austro-ungarico Giuseppe II.
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a distanza maggiore, possono frequentare quante volte desiderano la più vicina casa-di-preghiera, che deve trovarsi tuttavia entro i confini delle Terre Ereditarie Imperiali-Regie, ed inoltre i ministri appartenenti a queste Terre Ereditarie possono visitare i loro correligionarii ed apportare loro, come ai malati, la necessaria istruzione e conforto dei corpi e delle anime; ma essi non devono mai sotto loro rigorosissima responsabilità impedire che venga chiamato un sacerdote cattolico, richiesto da qualche malato. Per quanto riguarda l’aspetto esterno della casa-di-preghiera, noi ordiniamo espressamente che, a meno che sia già costruita in altra guisa, la casa-di-preghiera non deve avere alcun camino, campana, campanile o pubblica entrata dalla strada, che la faccia rassomigliare ad una chiesa; ma per il resto sono liberi di fabbricarla con il materiale che preferiscono. Essi saranno pure perfettamente liberi di amministrare i loro Sacramenti e di celebrare il Servizio Divino nella medesima località e di recarli agli invalidi dei luoghi da essa dipendenti e di avere funerali pubblici guidati dai loro ministri. 2 – Ed essi hanno il diritto di nominare i loro propri maestri di scuola, il cui sostentamento dovrà essere provveduto dalle loro congregazioni; ma la Nostra (competente) autorità scolastica nelle Terre rispettive controllerà tali maestri, come il metodo educativo ed il programma d’insegnamento. Similmente, Noi concediamo: 3 – che gli abitanti non-cattolici di una località, che provvedano i loro pastori dei fondi necessarii e li mantengano, possono sceglierli. Se tuttavia le locali autorità vogliono fare le riserve necessarie, essi debbono godere del «ius presentandi»; ma allora Noi ci riserviamo la conferma [dei candidati proposti] in modo che tale conferma sia compiuta dai Concistori Protestanti, se ne esistono, e dove non ne esistono, sarà data dai Concistori Protestanti di Teschen (in Slesia) o in Ungheria, finché non si renderà necessario istituire in altre Terre i loro proprii concistori. 4 – I «iura stolae» rimangono riservati, come in Slesia, ai parroci ordinari («parrochus ordinarius»). 5 – Noi abbiamo graziosamente disposto che la giurisdizione in materie concernenti la vita religiosa dei non-cattolici debba essere concessa alle Nostre autorità politiche nelle terre rispettive [ossia gli uffici governativi], dove verrebbero condotte azioni ed emesse sentenze, con la collaborazione dell’uno o dell’altro dei loro Pastori e Teologi, secondo i principii della loro religione; da questi si potrà fare ulte-
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riore ricorso alla Nostra Cancelleria Politica di Giustizia («politische Hofstelle»). 6 – Il rilascio di dichiarazioni relative ai matrimoni, che è divenuto abituale presso i non-cattolici, per quanto riguarda l’educazione dei loro figli futuri nella Religione Cattolica Romana, deve completamente cessare da questo momento, poiché nel caso di un padre cattolico tutti i suoi figli, maschi o femmine, devono essere educati nella Religione Cattolica senza alcuna formale dichiarazione; si deve considerare ciò come prerogativa della religione ufficiale. D’altra parte nel caso di un padre protestante e di una madre cattolica i figli li seguiranno secondo il loro sesso. 7 – I non-cattolici sono ammessi in futuro all’acquisto di case e proprietà immobili, ai diritti di cittadini e capi-di-commercio, ai gradi accademici ed al servizio civile per via di dispensa; ma essi non devono essere costretti ad alcuna formula di giuramento, che non sia in accordo con i loro principii religiosi, od alla partecipazione a processioni od altre funzioni della religione ufficiale, se essi stessi non lo desiderano. In tutte le elezioni o deliberazioni, concernenti impiego od avanzamenti, devono essere prese in considerazione solamente l’ammissibilità legale e la capacità del candidato, e poi la sua condotta di vita cristiana e morale, indipendentemente da alcuna differenza di religione, come avviene quotidianamente nel Nostro esercito senza alcun disordine e con grande profitto. Nelle città demaniali tali dispense per il possesso (di proprietà immobili) o per i diritti di cittadini o capi-di-commercio devono essere concesse senza difficoltà dall’Ufficio del Distretto (Kreisamt). Nel caso di città reali o tributarie verranno concesse dai Tesorieri della Terra («Landkaemmere») nelle terre in cui vi sono; invece nelle terre, in cui non esistono, verranno concesse dal Nostro ufficio governatoriale nella terra rispettiva («Landesgubernium» o «Landeshauptmannschaft»). Qualora insorgesse qualche ostacolo concernente la dispensa richiesta, che condurrebbe al suo rifiuto, deve essere sottoposto ogni volta al nostro Ufficio Governativo nella terra rispettiva un rapporto, che stabilisca i motivi del rifiuto e quindi inoltrato a Noi per la Nostra superiore sentenza. Nei casi in cui sia implicato il «ius incolatus» degli stati superiori14, verrà concessa la dispensa dalla Nostra Cancelleria di Giustizia per la
14 Il ius incolatus era il privilegio che regolava lo status personale ed i privilegi dell’aristocrazia.
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Boemia e l’Austria («Boehmisch-Oesterreichische Hofkanzlei») dopo una udienza preliminare del Nostro ufficio politico nella terra in questione. Renderete noto questo Nostro Decreto Superiore a tutti i distretti, uffici, magistrature e demanii a mezzo di circolari, stampate a tal proposito; di queste deve essere ordinata una quantità maggiore del solito, al fine di mettere in grado lo stampatore ufficiale di ogni terra di fornire tali circolari stampate a chiunque lo desideri, assicurando così l’appropriata diffusione (della conoscenza di tale decreto) anche in altre terre. Tutto ciò viene quivi reso noto ad ognuno con l’esortazione ad una obbediente osservanza. Vienna, 13 ottobre 1781
Statuto della libertà religiosa della Virginia (ottobre 1785) 1 – Poiché Dio Onnipotente ha creato lo spirito libero e tutti gli sforzi, per influenzarlo con punizioni temporali od oppressioni o con inabilitazioni civili, tendono solamente ad ingenerare abitudini di ipocrisia e bassezza e sono un allontanamento dal disegno del santo Autore della nostra religione, che pur essendo Signore del corpo e della mente, non scelse di diffonderla per coercizione su ambedue, come pure era in Suo onnipotente potere; e l’empia presunzione di legislatori e reggitori, civili come ecclesiastici, che pur essendo uomini fallibili e non ispirati, si sono avocati il dominio della fede degli altri, ponendo come le uniche vere ed infallibili le loro opinioni e forme di pensiero e adoprandosi in tal modo a imporle sugli altri, ha istituito e mantenuto religioni false nella maggior parte del mondo attraverso i tempi; e costringere un uomo a dare contributi di denaro per la propagazione di dottrine, in cui non crede, è peccato ed opera di tirannia ed anche il forzarlo ad appoggiare questo o quel maestro della sua propria religione è un privarlo della consolante libertà di dare il suo contributo a quel pastore, i cui costumi egli prenda a modello e la cui autorità egli senta come la più persuasiva alla giustizia; come pure il togliere ai ministri tali ricompense temporali, che, provenendo dalla considerazione della loro condotta personale, sono un incentivo addizionale alle fatiche incessanti e zelanti per l’istruzione del genere umano; ed i nostri diritti civili non dipendono dalle nostre convinzioni re-
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Boemia e l’Austria («Boehmisch-Oesterreichische Hofkanzlei») dopo una udienza preliminare del Nostro ufficio politico nella terra in questione. Renderete noto questo Nostro Decreto Superiore a tutti i distretti, uffici, magistrature e demanii a mezzo di circolari, stampate a tal proposito; di queste deve essere ordinata una quantità maggiore del solito, al fine di mettere in grado lo stampatore ufficiale di ogni terra di fornire tali circolari stampate a chiunque lo desideri, assicurando così l’appropriata diffusione (della conoscenza di tale decreto) anche in altre terre. Tutto ciò viene quivi reso noto ad ognuno con l’esortazione ad una obbediente osservanza. Vienna, 13 ottobre 1781
Statuto della libertà religiosa della Virginia (ottobre 1785) 1 – Poiché Dio Onnipotente ha creato lo spirito libero e tutti gli sforzi, per influenzarlo con punizioni temporali od oppressioni o con inabilitazioni civili, tendono solamente ad ingenerare abitudini di ipocrisia e bassezza e sono un allontanamento dal disegno del santo Autore della nostra religione, che pur essendo Signore del corpo e della mente, non scelse di diffonderla per coercizione su ambedue, come pure era in Suo onnipotente potere; e l’empia presunzione di legislatori e reggitori, civili come ecclesiastici, che pur essendo uomini fallibili e non ispirati, si sono avocati il dominio della fede degli altri, ponendo come le uniche vere ed infallibili le loro opinioni e forme di pensiero e adoprandosi in tal modo a imporle sugli altri, ha istituito e mantenuto religioni false nella maggior parte del mondo attraverso i tempi; e costringere un uomo a dare contributi di denaro per la propagazione di dottrine, in cui non crede, è peccato ed opera di tirannia ed anche il forzarlo ad appoggiare questo o quel maestro della sua propria religione è un privarlo della consolante libertà di dare il suo contributo a quel pastore, i cui costumi egli prenda a modello e la cui autorità egli senta come la più persuasiva alla giustizia; come pure il togliere ai ministri tali ricompense temporali, che, provenendo dalla considerazione della loro condotta personale, sono un incentivo addizionale alle fatiche incessanti e zelanti per l’istruzione del genere umano; ed i nostri diritti civili non dipendono dalle nostre convinzioni re-
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ligiose più delle nostre opinioni in fisica o geometria; e perciò il proscrivere un cittadino come indegno della fiducia pubblica, colpendolo con l’inabilitazione a cariche di fiducia ed emolumenti, a meno che non professi o ripudii questa o quella dottrina religiosa, significa privarlo ignominiosamente di quei privilegi e vantaggi, ai quali egli ha diritto naturale in comune con i suoi concittadini; e ciò tende solamente a corrompere i principii di quella religione, che si crede di incoraggiare, corrompendo con un monopolio di onori mondani ed emolumenti, coloro che la professano esteriormente e che vi si conformano; e per quanto invero siano colpevoli questi, che non sanno vincere la tentazione, pure non sono innocenti nemmeno coloro, che pongono l’esca sulla strada di quelli; e permettere ad un magistrato civile di intervenire con la sua autorità nel campo delle opinioni e reprimere la professione o la diffusione di principii unicamente sulla supposizione di una loro cattiva tendenza, è una colpa pericolosa, che annulla immediatamente ogni libertà religiosa, poiché chi giudica tale tendenza farà delle sue opinioni regola di giudizio, ed approverà o condannerà le opinioni altrui unicamente, secondo se coincideranno o differiranno dalle sue; ed è tempo opportuno per i legittimi scopi del governo civile e per i suoi ufficiali di intervenire, quando i principii rompano in atti aperti contro la pace e l’ordine; ed infine la verità è grande e prevarrà sempre, se lasciata a se stessa, poiché essa è l’appropriata e bastevole antagonista dell’errore e non ha nulla da temere da un contrasto, a meno che degli interventi umani non la privino delle sue armi naturali, libera discussione e dibattito, poiché gli errori cessano di essere pericolosi quando viene liberamente concesso di confutarli: 2 – Sia decretato dall’assemblea generale che nessuno sarà costretto a frequentare od a sostenere ogni e qualsiasi devozione religiosa, luogo o ministro, né sarà forzato, costretto, molestato od oppresso nel corpo o nei beni, né soffrirà altrimenti a causa delle sue opinioni o delle sue credenze religiose; ma tutti gli uomini saranno liberi di professare e sostenere con discussioni le loro opinioni in materia di religione, e ciò non diminuirà, innalzerà o influirà in alcun modo sulle loro prerogative civili. 3 – E per quanto noi ben sappiamo che questa assemblea, eletta dal popolo unicamente ad ordinario scopo di legislazione, non ha alcun potere di limitare gli atti delle assemblee successive, costituite con poteri pari ai nostri, e che perciò dichiarare questo atto irrevocabile non otterrebbe alcun effetto legale; pure noi siamo liberi di dichiarare,
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e qui dichiariamo, che i diritti quivi rivendicati sono diritti naturali dell’umanità e che qualsiasi atto che venga approvato ad abrogazione del presente, od a limitazione del suo effetto, sarà una violazione del diritto naturale.
Costituzione federale degli Stati Uniti – I Emendamento (1791) Il Congresso non dovrà emanare leggi concernenti l’istituzione di una religione o la proibizione del suo libero esercizio, o l’abrogazione della libertà di parola o di stampa, o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente e di richiedere al governo la riforma delle ingiustizie.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Costituzione del 24 giugno 1793 (anno I) Il popolo francese, convinto che l’oblio e il disprezzo dei diritti naturali dell’uomo sono le sole cause delle sventure del mondo, ha deciso di esporre in una dichiarazione solenne questi diritti sacri e inalienabili, affinché tutti i cittadini potendo paragonare incessantemente gli atti del Governo con il fine di ogni istituzione sociale, non si lascino opprimere ed avvilire dalla tirannia, affinché il popolo abbia sempre davanti agli occhi le basi della sua libertà e della sua felicità, il magistrato la regola dei suoi doveri, il legislatore l’oggetto della sua missione. Di conseguenza, esso proclama, al cospetto dell’Essere Supremo, la seguente DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO. Art. 1 – Lo scopo della società è la felicità comune. Il Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili. Art. 2 – Questi diritti sono l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà. Art. 3 – Tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla Legge.
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e qui dichiariamo, che i diritti quivi rivendicati sono diritti naturali dell’umanità e che qualsiasi atto che venga approvato ad abrogazione del presente, od a limitazione del suo effetto, sarà una violazione del diritto naturale.
Costituzione federale degli Stati Uniti – I Emendamento (1791) Il Congresso non dovrà emanare leggi concernenti l’istituzione di una religione o la proibizione del suo libero esercizio, o l’abrogazione della libertà di parola o di stampa, o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente e di richiedere al governo la riforma delle ingiustizie.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Costituzione del 24 giugno 1793 (anno I) Il popolo francese, convinto che l’oblio e il disprezzo dei diritti naturali dell’uomo sono le sole cause delle sventure del mondo, ha deciso di esporre in una dichiarazione solenne questi diritti sacri e inalienabili, affinché tutti i cittadini potendo paragonare incessantemente gli atti del Governo con il fine di ogni istituzione sociale, non si lascino opprimere ed avvilire dalla tirannia, affinché il popolo abbia sempre davanti agli occhi le basi della sua libertà e della sua felicità, il magistrato la regola dei suoi doveri, il legislatore l’oggetto della sua missione. Di conseguenza, esso proclama, al cospetto dell’Essere Supremo, la seguente DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO. Art. 1 – Lo scopo della società è la felicità comune. Il Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili. Art. 2 – Questi diritti sono l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà. Art. 3 – Tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla Legge.
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Art. 4 – La Legge è l’espressione libera e solenne della volontà generale; essa è la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca; può ordinare solo ciò che è giusto e utile alla società; non può vietare se non ciò che le è nocivo. Art. 5 – Tutti i cittadini sono ugualmente ammissibili agli impieghi pubblici. I popoli liberi non conoscono altri motivi di preferenza nelle loro elezioni, che le virtù e le capacità. Art. 6 – La libertà è il potere che appartiene all’uomo di fare tutto ciò che non nuoce ai diritti degli altri; essa ha per principio la natura, per regola la giustizia, per salvaguardia la Legge; il suo limite morale è in questa massima: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te». Art. 7 – Il diritto di manifestare il proprio pensiero e le proprie opinioni, sia con la stampa sia in tutt’altra maniera, il diritto di riunirsi in assemblea pacificamente, il libero esercizio dei culti, non possono essere interdetti. La necessità di enunciare questi diritti presuppone o la presenza o il ricordo recente del despotismo. Art. 8 – La sicurezza consiste nella protezione accordata dalla società ad ognuno dei suoi membri per la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e delle sue proprietà. Art. 9 – La Legge deve proteggere la libertà pubblica e individuale contro l’oppressione di quelli che governano. Art. 10 – Nessuno deve essere accusato, arrestato, né detenuto, se non nei casi determinati dalla Legge e secondo le forme da essa prescritte. Ogni cittadino citato o arrestato dall’autorità della Legge, deve ubbidire sull’istante; egli si rende colpevole con la resistenza. Art. 11 – Ogni atto esercitato contro un uomo fuori dei casi e senza le forme che la Legge determina è arbitrario e tirannico; colui contro il quale lo si volesse eseguire con la violenza, ha il diritto di respingerlo con la forza. Art. 12 – Coloro che procurano, spediscono, firmano, eseguiscono o fanno eseguire degli atti arbitrari, sono colpevoli, e devono essere puniti. Art. 13 – Ogni uomo essendo presunto innocente fino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si giudica indispensabile arrestarlo, ogni rigore che non fosse necessario per assicurarsi la sua persona deve essere severamente represso dalla Legge. Art. 14 – Nessuno deve essere giudicato e punito se non dopo essere stato ascoltato o legalmente citato, e in virtù di una legge promulgata anteriormente al delitto. La legge che punisse dei delitti commessi prima che essa esistesse, sarebbe una tirannia; l’effetto retroattivo dato alla legge sarebbe un crimine.
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Art. 15 – La Legge deve decretare solo pene strettamente ed evidentemente necessarie: le pene devono essere proporzionate al delitto e utili alla società. Art. 16 – Il diritto di proprietà è quello che appartiene ad ogni cittadino di godere e disporre a suo piacimento dei suoi beni, delle sue rendite, del frutto del suo lavoro e della sua operosità. Art. 17 – Nessun genere di lavoro, di cultura, di commercio, può essere interdetto all’operosità dei cittadini. Art. 18 – Ogni uomo può impegnare i suoi servizi, il suo tempo; ma non può vendersi, né essere venduto; la sua persona non è una proprietà alienabile. La Legge non riconosce domesticità; può esistere solo un vincolo di cure e di riconoscenza tra l’uomo che lavora e quello che lo impiega. Art. 19 – Nessuno può essere privato della benché minima parte della sua proprietà, senza il suo consenso, tranne quando la necessità pubblica legalmente constatata lo esige, e sotto la condizione di una giusta e preventiva indennità. Art. 20 – Nessun contributo può essere stabilito se non per l’utilità generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere alla determinazione dei contributi, di sorvegliarne l’impiego, e di esigerne il rendiconto. Art. 21 – I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che non sono in età di poter lavorare. Art. 22 – L’istruzione è il bisogno di tutti. La società deve favorire con tutto il suo potere i progressi della ragione pubblica, e mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini. Art. 23 – La garanzia sociale consiste nell’azione di tutti, per assicurare a ognuno il godimento e la conservazione dei suoi diritti; questa garanzia riposa sulla sovranità nazionale. Art. 24 – Essa non può esistere, se i limiti delle funzioni pubbliche non sono chiaramente determinati dalla Legge, e se la responsabilità di tutti i funzionari non è assicurata. Art. 25 – La sovranità risiede nel popolo; essa è una e indivisibile, imprescrittibile e inalienabile. Art. 26 – Nessuna parte di popolo può esercitare il potere del popolo intero; ma ogni sezione del Sovrano riunito in assemblea deve godere del diritto di esprimere la sua volontà con una completa libertà. Art. 27 – Ogni individuo che usurpa la sovranità, sia all’istante messo a morte dagli uomini liberi.
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Art. 28 – Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future. Art. 29 – Ogni cittadino ha un eguale diritto di concorrere alla formazione della Legge ed alla nomina dei suoi mandatari o dei suoi agenti. Art. 30 – Le funzioni pubbliche sono essenzialmente temporanee; esse non possono essere considerate come distinzioni né come ricompense, ma come doveri. Art. 31 – I delitti dei mandatari del popolo e dei suoi agenti non devono mai essere impuniti. Nessuno ha il diritto di considerarsi più inviolabile degli altri cittadini. Art. 32 – Il diritto di presentare delle petizioni ai depositari dell’autorità pubblica non può, in nessun caso, essere interdetto, sospeso né limitato. Art. 33 – La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo. Art. 34 – Vi è oppressione contro il corpo sociale quando uno solo dei suoi membri è oppresso. Vi è oppressione contro ogni membro quando il corpo sociale è oppresso. Art. 35 – Quando il Governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri.
Dichiarazione universale dei diritti umani (10 dicembre 1948) Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il cui testo completo è stampato nelle pagine seguenti. Dopo questa solenne deliberazione, l’Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell’Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione. Il testo ufficiale della Dichiarazione è disponibile nelle lingue ufficiali delle Nazioni Unite, cioè cinese, francese, inglese, russo e spagnolo.
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Art. 28 – Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future. Art. 29 – Ogni cittadino ha un eguale diritto di concorrere alla formazione della Legge ed alla nomina dei suoi mandatari o dei suoi agenti. Art. 30 – Le funzioni pubbliche sono essenzialmente temporanee; esse non possono essere considerate come distinzioni né come ricompense, ma come doveri. Art. 31 – I delitti dei mandatari del popolo e dei suoi agenti non devono mai essere impuniti. Nessuno ha il diritto di considerarsi più inviolabile degli altri cittadini. Art. 32 – Il diritto di presentare delle petizioni ai depositari dell’autorità pubblica non può, in nessun caso, essere interdetto, sospeso né limitato. Art. 33 – La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo. Art. 34 – Vi è oppressione contro il corpo sociale quando uno solo dei suoi membri è oppresso. Vi è oppressione contro ogni membro quando il corpo sociale è oppresso. Art. 35 – Quando il Governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri.
Dichiarazione universale dei diritti umani (10 dicembre 1948) Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il cui testo completo è stampato nelle pagine seguenti. Dopo questa solenne deliberazione, l’Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell’Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione. Il testo ufficiale della Dichiarazione è disponibile nelle lingue ufficiali delle Nazioni Unite, cioè cinese, francese, inglese, russo e spagnolo.
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PREAMBOLO Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo; Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione; Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni; Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà; Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali; Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni; L’ASSEMBLEA GENERALE PROCLAMA
la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine
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che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione. Articolo 1 – Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Articolo 2 – Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità. Articolo 3 – Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. Articolo 4 – Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma. Articolo 5 – Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti. Articolo 6 – Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica. Articolo 7 – Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione. Articolo 8 – Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge. Articolo 9 – Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato. Articolo 10 – Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena
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uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. Articolo 11 – 1. Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa. 2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Articolo 12 – Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni. Articolo 13 – 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese. Articolo 14 – 1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. 2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite. Articolo 15 – 1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza. Articolo 16 – 1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento. 2.Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi. 3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato. Articolo 17 – 1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà. Articolo 18 – Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di re-
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ligione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti. Articolo 19 – Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere. Articolo 20 – 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica. 2. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione. Articolo 21 – 1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti. 2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese. 3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione. Articolo 22 – Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità. Articolo 23 – 1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. 4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi. Articolo 24 – Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite. Articolo 25 – 1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e
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alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. 2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale. Articolo 26 – 1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito. 2. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace. 3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli. Articolo 27 – 1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici. 2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore. Articolo 28 – Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati. Articolo 29 – 1. Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità. 2. Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica. 3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite. Articolo 30 – Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati.
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Dichiarazione di principî sulla tolleranza (16 novembre 1995) PREAMBOLO Gli Stati Membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, riuniti a Parigi dal 25 ottobre al 16 novembre 1995, per la XXVIII sessione della Conferenza Generale, Considerando che nella Carta delle Nazioni Unite è detto: «Noi, popolo delle Nazioni Unite, determinati a preservare le generazioni future dal flagello della guerra, [...] a riaffermare la nostra fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, [...] e a questi fini a praticare la tolleranza e a vivere in pace l’uno con l’altro nello spirito del buon vicinato», Ricordando che il Preambolo della Costituzione dell’UNESCO, adottato il 16 novembre 1945, dichiara che la pace «deve essere stabilita sul fondamento della solidarietà intellettuale e morale dell’umanità», Ricordando altresì che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo afferma che «Ognuno ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 18), d’opinione e d’espressione» (art. 19) e che l’educazione «deve favorire la comprensione, la tolleranza e l’amicizia tra tutte le nazioni e tutti i gruppi razziali o religiosi» (art. 26), Prendendo nota degli strumenti internazionali pertinenti, e in particolare: l’Accordo Internazionale sui diritti civili e politici; l’Accordo Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali; la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale; la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio; la Convenzione per i diritti del bambino; la Convenzione del 1951 relativa allo statuto dei rifugiati, il suo protocollo del 1967 e gli strumenti regionali pertinenti; la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne; la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti; la Dichiarazione per l’eliminazione di ogni forma di intolleranza e di discriminazione fondate su religione o credo; la Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche; la Dichiarazione circa le misure volte all’eliminazione del terrorismo internazionale; la Dichiarazione e il Programma d’Azione di Vienna adottati dalla Conferenza Mondiale sui diritti dell’uomo; la Dichiarazione di Copenhagen ed il Programma d’Azione adottati dal
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Summit Mondiale per lo sviluppo sociale; la Dichiarazione dell’UNESCO sulla razza ed i pregiudizi razziali; la Convenzione e la Raccomandazione dell’UNESCO contro la discriminazione nell’insegnamento, Considerando gli obiettivi del terzo decennio della lotta contro il razzismo e la discriminazione razziale, del decennio mondiale per l’educazione ai diritti dell’uomo, e del decennio internazionale delle popolazioni autoctone, Prendendo in considerazione le raccomandazioni delle Conferenze Regionali organizzate nel quadro dell’anno delle Nazioni Unite per la tolleranza conformemente alla risoluzione 27 C/5.14 della Conferenza Generale dell’UNESCO, e delle conclusioni e raccomandazioni delle altre conferenze e riunioni organizzate dagli Stati Membri nel quadro del programma dell’anno delle Nazioni Unite per la tolleranza, Allarmati per l’attuale crescita dell’intolleranza, della violenza, del terrorismo, della xenofobia, del nazionalismo aggressivo, del razzismo, dell’antisemitismo, dell’esclusione, della marginalizzazione e della discriminazione delle minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche, dei rifugiati, dei lavoratori immigrati e dei gruppi vulnerabili in seno alla società, oltre che per l’aumento degli atti di violenza e d’intimidazione commessi contro persone che esercitano la loro libertà di pensiero e d’espressione, tutti comportamenti che minacciano il consolidamento della pace e della democrazia al livello nazionale ed internazionale e che costituiscono altrettanti ostacoli allo sviluppo, Sottolineando la responsabilità degli Stati Membri di sviluppare e favorire il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione fondata sulla razza, il sesso, la lingua, l’origine nazionale, la religione o l’esistenza di un handicap, e di combattere l’intolleranza, Adotta e proclama solennemente questa DICHIARAZIONE DI PRINCIPÎ SULLA TOLLERANZA. Risoluti a prendere tutte le misure positive necessarie per promuovere la tolleranza nella nostra società, per la ragione che la tolleranza non è solo un principio che ci è caro, ma anche una condizione necessaria alla pace e al progresso economico e sociale di tutti i popoli, Dichiariamo quanto segue:
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Articolo 1 – Significato della tolleranza 1. La tolleranza è il rispetto, l’accettazione e l’apprezzamento della ricchezza e della diversità delle culture del nostro mondo, dei nostri modi di espressione e delle nostre maniere di esprimere la nostra qualità di esseri umani. È incoraggiata dalla conoscenza, dall’apertura, dalla comunicazione e dalla libertà di pensiero, di coscienza e credo. La tolleranza è l’armonia nella differenza, non è solamente un’obbligazione d’ordine etico, ma anche una necessità politica e giuridica. La tolleranza è una virtù che rende possibile la pace e contribuisce a sostituire una cultura della pace alla cultura della guerra. 2. La tolleranza non è né una concessione, né accondiscendenza, né indulgenza. La tolleranza è prima di tutto un’attitudine attiva animata dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali degli altri. In nessun caso la tolleranza può essere invocata per giustificare attentati a questi valori fondamentali. La tolleranza deve essere praticata dagli individui, dai gruppi e dagli stati. 3. La tolleranza è la chiave di volta dei diritti umani, del pluralismo (ivi compreso il pluralismo culturale), della democrazia e dello stato di diritto. Implica il rigetto del dogmatismo e dell’assolutismo e conforta le norme enunciate negli strumenti internazionali relative ai diritti dell’uomo. 4. Conformemente al rispetto dei diritti dell’uomo, praticare la tolleranza non è né tollerare l’ingiustizia sociale, né rinunciare alle proprie convinzioni, né fare concessioni a riguardo. La pratica della tolleranza significa che ciascuno ha la libera scelta nell’aderire alle proprie convinzioni e accetta che gli altri fruiscano della stessa libertà. Significa l’accettazione del fatto che gli esseri umani che si caratterizzano naturalmente per la diversità del loro aspetto fisico, della loro situazione, dei loro modi d’espressione, dei loro comportamenti e dei loro valori, hanno il diritto di vivere in pace e d’essere tali quali sono. Significa egualmente che nessuno deve imporre le proprie opinione agli altri.
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Articolo 2 – Il ruolo dello Stato 1. La tolleranza al livello statale esige la giustizia e l’imparzialità in materia di legislazione, d’applicazione della legge e d’esercizio del potere giudiziario e amministrativo. Esige egualmente che ciascuno possa beneficiare di opportunità economiche e sociali senza alcuna discriminazione. L’esclusione e la marginalizzazione possono condurre a frustrazione, ostilità e fanatismo. 2. Al fine di instaurare una società più tollerante, gli Stati devono ratificare le convenzioni internazionali relative ai diritti dell’uomo ed elaborare dove necessario una nuova legislazione per garantire uguaglianza di trattamento e d’opportunità ai differenti gruppi e individui che compongono la società. 3. È essenziale per l’armonia internazionale che gli individui, le comunità e le nazioni accettino e rispettino il carattere multiculturale della famiglia umana. Senza la tolleranza non ci potrebbe essere pace, e senza pace non potrebbe esserci né sviluppo né democrazia. 4. L’intolleranza può assumere la forma di una marginalizzazione dei gruppi vulnerabili e della loro esclusione da ogni partecipazione alla vita sociale e politica, così come può assumere la forma della violenza e della discriminazione nei loro confronti. Così come afferma la Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali: «tutti gli individui e tutti i gruppi hanno il diritto d’essere differenti» (art. 1.2). Articolo 3 – Dimensioni sociali 1. Nel mondo moderno la tolleranza è più necessaria che mai. Noi viviamo in un’epoca segnata dalla mondializzazione dell’economia e da un’accelerazione della mobilità, della comunicazione, dell’integrazione e dell’interdipendenza, delle migrazioni e degli spostamenti di popolazioni su larga scala, dell’urbanizzazione e della mutazione delle forme d’organizzazione sociale. Dal momento in cui non c’è una sola parte del mondo che non sia caratterizzata dalla diversità, la crescita dell’intolleranza e degli scontri costituisce una minaccia potenziale per ogni regione. Non è un pericolo confinato in un paese particolare, ma una minaccia universale.
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2. La tolleranza è necessaria tra gli individui come anche in seno alla famiglia e alla comunità. La promozione della tolleranza e l’insegnamento all’apertura di spirito, dell’ascolto reciproco e della solidarietà deve farsi nelle scuole e nelle università, per mezzo di un’educazione non formale, nelle case e sui luoghi di lavoro. I mass-media sono in una posizione tale da poter avere un ruolo costruttivo nel favorire il dialogo, il dibattito libero e aperto, nel diffondere i valori della tolleranza e nell’enfatizzare i rischi dell’indifferenza verso l’espansione delle ideologie e dei gruppi intolleranti. 3. Come afferma la Dichiarazione dell’UNESCO sulla razza e i pregiudizi razziali, devono essere prese delle misure volte ad assicurare l’uguaglianza nella dignità e nei diritti degli individui e dei gruppi umani ovunque sia necessario. A questo proposito bisogna porre particolare attenzione ai gruppi vulnerabili socialmente o economicamente sfavoriti, così da assicurargli la protezione delle leggi e dei regolamenti in vigore, espressamente in materia di alloggio, lavoro e salute, così da rispettare l’autenticità della loro cultura e dei loro valori, e da facilitare, particolarmente attraverso l’educazione, la loro promozione e la loro integrazione sociale e professionale. 4. Conviene realizzare degli studi scientifici approfonditi e mettere in campo delle reti che coordinino la risposta della comunità internazionale a questa sfida planetaria, compresa l’analisi, secondo il metodo delle scienze sociali, delle cause profonde di questi fenomeni e delle misure efficaci ad affrontarli, come pure attraverso la ricerca e l’osservazione, al fine di sostenere le decisioni degli Stati Membri in materia di politica generale e della loro azione normativa. Articolo 4 – Educazione 1. L’educazione è lo strumento più efficace per prevenire l’intolleranza. La prima tappa in questo senso consiste nell’insegnare agli individui quali sono i loro diritti e le loro libertà, al fine di assicurarne il rispetto e promuovere egualmente la volontà di proteggere i diritti e le libertà altrui. 2. L’educazione alla tolleranza deve essere considerata come un imperativo prioritario. Per questo motivo è necessario promuovere meto-
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di sistematici e razionali d’insegnamento della tolleranza incentrati sulle risorse culturali, sociali, economiche, politiche e religiose dell’intolleranza, che costituiscono le cause profonde della violenza e dell’esclusione. Le politiche e i programmi d’educazione devono contribuire allo sviluppo della comprensione, della solidarietà e della tolleranza tra gli individui e tra i gruppi etnici, sociali, culturali, religiosi e linguistici, e tra le nazioni. 3. L’educazione alla tolleranza deve mirare a contrastare le influenze che conducono alla paura e all’esclusione dell’altro e deve aiutare i giovani a sviluppare la loro capacità ad esercitare un giudizio autonomo, a condurre una riflessione critica e a ragionare in termini etici. 4. Noi ci impegniamo a sostenere e a mettere in opera programmi di ricerca in scienze sociali e dell’educazione alla tolleranza, ai diritti dell’uomo e alla non-violenza. Di conseguenza, è necessario accordare particolare attenzione al miglioramento della formazione degli insegnanti, dei programmi di insegnamento, del contenuto dei manuali e dei corsi e di altri tipi di materiale pedagogico, comprese le nuove tecnologie educative, così da formare dei cittadini solidali e responsabili, capaci d’apprezzare il valore della libertà, rispettosi della dignità degli esseri umani e delle loro differenze, capaci infine di prevenire i conflitti o di risolverli con mezzi non-violenti. Articolo 5 – Impegno all’azione Noi ci impegniamo a promuovere la tolleranza e la non-violenza attraverso programmi e istituzioni nell’ambito dell’educazione, della scienza, della cultura e della comunicazione. Articolo 6 – Giornata internazionale per la tolleranza Al fine di mobilitare l’opinione pubblica, di sottolineare i pericoli dell’intolleranza e di riaffermare il nostro impegno e la nostra determinazione ad agire in favore della promozione della tolleranza e dell’educazione alla tolleranza, noi proclamiamo solennemente il 16 novembre giornata internazionale per la tolleranza.
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Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (dicembre 2000) PREAMBOLO I popoli europei nel creare tra loro un’unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. L’Unione contribuisce al mantenimento e allo sviluppo di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell’identità nazionale degli Stati membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale; essa cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento. A tal fine è necessario, rendendoli più visibili in una Carta, rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici. La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future. Pertanto, l’Unione riconosce i diritti, le libertà ed i principi enunciati qui di seguito. […]
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CAPO II LIBERTÀ […] Articolo 10 Libertà di pensiero, di coscienza e di religione 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. […] CAPO III UGUAGLIANZA […] Articolo 21 Non discriminazione 1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. 2. Nell’ambito d’applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi. Articolo 22 Diversità culturale, religiosa e linguistica L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica. […]
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CAPO VII DISPOSIZIONI GENERALI Articolo 51 Ambito di applicazione 1. Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i princìpi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze. 2. La presente Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati. Articolo 52 Portata dei diritti garantiti 1. Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. 2. I diritti riconosciuti dalla presente Carta che trovano fondamento nei trattati comunitari o nel trattato sull’Unione europea si esercitano alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi. 3. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa. Articolo 53 Livello di protezione Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata
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come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri.
Bibliografia
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