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Italian Pages [562] Year 2007
LUDUSPHILOLOGIAE a cura di Cesare Questa e Renato Raffaelli 16
CESAREQUESTA
LA METRICA DI PLAUTO E DI TERENZIO
(Quattro\mti)
ISBN 978-88-392-0794-4 Volume pubblicato con il contributo
PRJN
dd M.I.U.R.
Copyright © 2007 Edizioni QuattroVenti Sri, Urbino. www.edizioniquattroventi.it e-mail: [email protected] Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.
a Nino Dazzi, ancora, con amicizia più che cinquantenaria
anguilla est: elabitur PLAUT.
Ps. 747
in studying these niceties of early Latin speech one must remember the virtue 'aliqua nescire' and talee the facts as he finds them, without trying to give reasons of everything. W. M. LINDSAY
PRESENTAZIONE
Questo libro ha origini un po' remote. Giusto cinquant'anni fa il mio maestro Ettore Paratore inaugurava alla 'Sapienza' quei suoi eccezionali corsi plautini - Curculio e Pseudolus- destinati a rifondare ab imis gli studi dedicati in Italia al poeta di Sarsina. All'inizio dd 1957 a me, laureato da quattro mesi su tema tacitiano, Paratore volle affidare un corso di esercitazioni di metrica plautina, in particolare sul Curculiooggetto delle sue lezioni. Paratore non aveva molto interesse per la metrica: altra era la sua formazione, altri i suoi più veri interessi, altri i suoi gusti. Sapeva però Paratore che la metrica doveva essere studiata bene (qui agiva per certo la colleganza con Perrotta) e soprattutto sapeva dare in modo direi unico il senso della grande ricerca, della ricerca ad ampio raggio incentrata su grandi problemi e grandi autori, quegli autori che insegnano ai giovani a respirare 'alto'. E cosi, dopo avermi incitato a studiare Plauto in generale, mi gettò addosso le esercitazioni. Risposi: «ma io di metrica plautina non so niente!». Replicò: «Lei la impara ... ». Evitò di usare un baronale congiuntivo imperativo («la impari!»), diatesi verbale molto in uso nell'università di allora (ma il Paratore privato, 'causeur' affascinante, era ben diverso da quel che appariva in pubblico indossando una maschera 'tirannica' destinata a rassicurare soprattutto se stesso). E così cominciai il corso di esercitazioni, trovandomi di colpo, la mattina alle otto, davanti a più di cento persone (li occhi putti mi fissarono); l'anno dopo Paratore volle che le mie scansioni dello Pseudolus figurassero con il mio nome in un'appendice delle sue dispense (li occhi putti mi fissarono più aguzzi). In seguito, profugo felice nella ben munita arx di Carlo Bo, ho potuto dar forma meno incondita a filze di schede non sempre bene ordinate. Un po' alla garibaldina ne sortì un libro - Introduzione alla metrica di Plauto - che ebbe successo. 'Colma una lacuna', si disse; più esatto sarebbe stato dire monoculusin te"a caecorum.Ma dagli anni '70 in poi non ho mai abbandonato l'idea di ampliarlo ed emendarlo da oscuri-
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Presentazione
tà, inesattezze e anche sviste: alcune vergognose, altre né più né meno che buffe. Di qui il non dimenticato Seminario metrico del 1976 (vi parteciparono molti giovani, più d'uno dei quali ora siede su onorata cattedra); i cicli di lezioni che hanno riempito più anni accademici, in particolare quelli 1983/84 e 1984/85, le cui recol/ectaea me così utili si devono all'alacre e svettante Domenico 'Mimmo' Arduini; l'edizione dei canticae, meglio, i Seminari biennali di alta filologia plautina, idea ferace di buona messe del mio Renato Raffaelli; e altre imprese forti, come il Centro Internazionale di Studi Plautini che cura la pubblicazione delle commedie. Non tanto erede quanto dawero sostitutivo del vecchio manuale, questo è un libro nuovo, scritto con la calma della vecchiaia e quindi immeritevole di assoluzioni in ciò che vi si scoprirà di inaccettabile. In primo luogo, direi, il mutato punto di vista circa la co"eptio iambica:in molti casi (lo vedrà il lettore) l'abbreviamento reale della lunga mi pare oggi impossibile. Dal sonno dogmatico mi svegliò il ricco contributo di Maurizio Bettini, centro di un convegno del 1988 (Metrica classicae linguistica)anch'esso organizzato in vista (allora remota) di questo volume: se la pars destruensmi sembrò (e mi sembra) inoppugnabile, non altrettanto mi parve (e mi pare) la proposta avanzata nella pars construens.La ripresa della discussione è auspicabile. Piuttosto credo di poter rivendicare a mio merito la mai intermessa attenzione allo stato del testo. I versi di Plauto e di Terenzio sono sempre citati con occhio attento non solo e non tanto agli apparati, quanto ai manoscritti direttamente controllati: in particolare Terenzio ha offerto problemi difficili stante l'assenza di edizioni dawero affidabili. Se questo libro può avere un merito è d'essere anche, se non in primo luogo, un adminiculum per l'editore critico: questo i poeti fanno, questo no, quest'altro possono fare ... Donde il mio interesse per la storia dell'agnizione delle grandi norme metriche, un tema che mi ha sedotto portandomi a un dialogo con le grandi ombre - da Bentley a Jachmann, da Leo a Ritschl a Hermann a Lindsay che è stato immensa lezione di metodo e di umiltà. Teorie e ipotesi (salvo che per la co"eptio iambica)le ho tenute lontano più che potevo, in particolare quelle della metrica 'storica' (certe implicite, ma quanto esplicite..., ritrattazioni di Fraenkel 'vecchio' mi hanno ben ammonito). Il mio interesse è andato tutto al funzionamento, alla struttura interna della versificazione di Plauto e di Terenzio. Il confronto con la metrica del teatro attico serve a uno scopo euristico: esso fa apparire luce clariusla differenza tra due sistemi, tra due insiemi di codici tra sé incommensurabili: è quel che, a suo modo, aveva fatto il grande Wtlhelm Meyer. Mio intento è stato, per farla breve, indagare i modi in cui si esplica, nella produzione letteraria di una grande civiltà teatrale, un'affascinante rete di segni metrici.
Presentaxione
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Molte persone mi hanno aiutato nella redazione di questa Metrica di Plauto e di Terenzio: menzionandole rischio di dimenticarne qualcuna e dunque prevalga riconoscente silenzio. Questo però non è consentito circa gli amici dolcissimi che hanno soccorso l'autore, alla fine proprio 'spremuto', nella compilazione della bibliografia e dell'indice degli autori citati: Roberto M. Danese, Settimio Lanciotti, Renato Raffaelli, Alessio Torino. Come sempre superiori ad ogni elogio i tecnici delle 'Arti Grafiche Editoriali', in particolare Giuseppe Renzini dalle inesauste perizia e pazienza.
c. Q. Urbino, 10 dicembre 2006
INTRODUZIONE GENERALE
1. - Il latino delle commedie di Plauto e di Terenzio differisce da
quello dell'età cosiddetta classica sia perché ne rappresenta un momento antecedente, sia perché rispecchia almeno nelle sue linee generali (certo meglio del latino di poeti quali Lucrezio, Catullo nei carmina docta, Virgilio, Orazio nelle Odi, gli elegiaci, Ovidio e altri) la lingua parlata dai Romani. S'intende quindi che determinati fatti prosodici, presenti in Plauto, in Terenzio e negli altri poeti scenici di età repubblicana, e assenti, poniamo, in Virgilio, sono da attribuire sia al tempo intercorso tra l'un poeta e l'altro (si pensi, per l'italiano, alle differenze tra Dante, Ariosto e Leopardi; per il francese alle differenze, anche solo nell'ortografia, tra Ronsard, Racine e Valéry) sia al fatto che forme e modi usati nella lingua quotidiana (sermo/amiliaris) e quindi accolti da Plauto e dagli altri comici, non erano ammessi - o non lo erano più - in una poesia di metro e stile diversissimi come quella di Virgilio. Nella fonetica e morfologia plautina e terenziana (in ciò che di esse interessa la metrica, oggetto di questa trattazione) dovremo distinguere dunque fenomeni rubricabili come (*) Plauto è citato secondo l'edizione di W. M. Lindsay (per i cantica la mia) ma tenendo conto di Fr. Leo, Terenzio secondo quella di Lindsay-Kauer ma sogguardando anche J. Marouzeau e J. Barsby, con minimi ritocchi ortografici dove opportuni alla perspicuità della citazione. La sinalefe è indicata inserendo tra parentesi la vocale 'elisa' e ~osì i fonemi caduchi quali -s ed -e;barretta verticale ( I ) indica iato, punteggiata ( ! ) incisione o fine di parola; quattro punti ( :: ) cambio di interlocutore. La rinuncia all'apice ( ' ) non merita spiegazione.
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arcaismi da altri invece rubricabili come colloquialismi, ma distinzione netta tra i due gruppi non è possibile né teoricamente né empiricamente. Un fenomeno a tutti noto come la facoltà di elidere la -s dopo vocale breve e prima di consonante iniziale è certo un colloquialismo, ma è anche un arcaismo, perché la poesia latina, da Catullo compreso (116, 8 è verso parodico: vedi Timpanaro Contr.1 177 n. 42) e Cicerone (d. orat. 161) in poi, l'ha bandita (il fenomeno è ormai raro in Lucrezio: per es. I 159 II 930 e vedi Niedermann Phon. 97, Belardi Not. 114 sgg., Timpanaro Contr.1 165-193): -s finale è stato da allora un fonema perfettamente stabile nella lingua letteraria. Invece -m, debolmente articolato così da ridursi a nasalizzazione della vocale precedente e da permettere sinalefe di questa con la vocale iniziale successiva, mostra un trattamento pressoché costante, dall'età arcaica in poi, in tutti gli scrittori. Parimenti, eius scandito come monosillabo lungo è frequente in Plauto (As. 393 Mii. 62) e Terenzio (And. 115 Haut. 455) e tale misura sembra assodata ancora in Lucrezio (I 149) e in uno dei Cataleptondell'Appendix Vergiliana (IX 35: inutile la particolare scansione suggeritane da O. Skutsch Pros. 57), ma la scansione bisillabica è quella abituale nello stesso Lucrezio e in tutti gli altri poeti coevi e successivi: anche questa volta la lingua poetica ha respinto quella che pare una tipica forma colloquiale. Poiché, tuttavia, la poesia e le clausole delle orazioni sono per noi la fonte per ricostruire la prosodia e non abbiamo testimonianze dirette, resta sempre il sospetto metodico - la questione si fa gravissima circa la co"eptio iambica - se la sparizione di tali forme dalla poesia non si debba al fatto che esse scomparivano nello stesso tempo anche dalla lingua parlata. 2. - Un altro problema molto complesso ci è offerto dall'ortografia delle commedie plautine e terenziane. Il teatro di Plauto e di Terenzio ci è giunto in una veste esteriore assai rammodernata, meno, però, di quanto si credette nell'Ottocento: basti pensare - oltre alla questione delle consonanti doppie, il cui uso sarebbe stato introdotto da Ennio: vedi GRF test. 2 Fun. - che di sicuro Plauto e Terenzio non usavano né y né z (trascritte rispettivamente -u- o -i-, so -ss- nelle parole greche in cui comparivano), mentre queste due lettere sono frequenti, anche se non generalizzate, nei nostri manoscritti
Introduzionegenerale
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plautini e terenziani. È sicuro, nell'insieme, che le vicende della tradizione manoscritta dei due autori hanno portato ad una progressiva perdita di grafie arcaiche, le quali solo la filologia moderna può ricostruire, ma non sempre sicuramente né felicemente (su questi problemi vedi in generale Meillet Probi.28-34, Traina Al/. 11-27 e, per Plauto, Redard Raj. 296-306, ma soprattutto Porzio Gernia Cons. 249-264 con eccellenti osservazioni e bibliografia; e oltre 7 sgg.). 3. - Ma c'è di più. Alcune epigrafi molto arcaiche, come gli elogia Scipionum, ci mostrano grafie fonetiche, grafie, cioè, che rappresentano, certo approssimativamente, la reale pronuncia del latino in un momento assai antico della sua storia. Ma tale consuetudine grafica non sembra essere stata duratura e certo c'era divario, talora assai forte, tra l'ortografia del poeta e la sua pronuncia, sia che questo divario si producesse quasi sempre (per es. nel caso dei gruppi consonantici ancora resistenti nella pronuncia in fine di parola), sia che una sola grafia servisse a rappresentare una parola che poteva essere pronunciata in due modi diversi: l'uno più o meno bene rispecchiato dall'ortografia, l'altro invece da questa lontano in maggiore o minore misura. E quindi probabile che Plauto e Terenzio scrivessero sempre -s ed -m; neppure parrebbe dubbio che la caduta di -e non fosse ancora adeguatamente rappresentata, anche là dove, in prosieguo di tempo, dette origine a grafie particolari. Non si può infatti escludere che Plauto e Terenzio scrivessero atque neue siue (sono queste le 'grafie piene' o 'scriptiones plenae') anche davanti a consonante, dove essi stessi e i loro attori pronunciavano, il più delle volte, ac neu seu ecc., cosi come si scriveva sempre unde (parrebbe) e in certi casi soltanto si pronunciava und'. Un fenomeno analogo, del resto, ci è noto dai più antichi manoscritti in lingua italiana, di Dante per es., in cui, se computassimo le sillabe di un verso in base alla grafia, avremmo più di una volta endecasillabi di ... dodici sillabe (se non di più). Ma chi scriveva sapeva benissimo di pronunciare cammt'n di nostra vita anche se la sua penna aveva tracciato cammino di nostra vita. Si tocca qui con mano uno dei problemi più difficili del teatro latino repubblicano: il divario tra sistema fonematico e sistema grafematico (questo, come più volte, è 'in ritardo' rispetto a quello) si intreccia con la possibilità di doppia (se non triplice) scansione di certe forme
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Introduzione generale
pronominali e aggettivali, la cui natura proteiforme non si lascia precisare neppure in base a ragioni morfologico-sintattiche: noi non sappiamo se, date certe condizioni preliminari 'sine quibus non' per il prodursi del fenomeno, ci fosse poi differenza, e quale, tra ili' ed i/le, und' e unde; come e perché il poeta scegliesse tra hiiius ed hiiliis e così via. 4. - In certi casi nel sistema esiste senza dubbio, o almeno è esistita, opposizione fonologica tra due forme (siue ed atque sono antevocaliche, seu ed ac anteconsonantiche, neque è sempre monosillabico, cioè vale nec, davanti a consonante), ma in certi altri no; oppure, se opposizione c'è stata, essa non è più nella coscienza linguistica dei parlanti: è il caso, quale ne sia l'origine, delle coppie huzus I hiiliis, ezusI élùs, ei"lei (la distinzione, di Lindsay e di altri, tra forme 'enfatiche' e 'non enfatiche' è quanto mai arbitraria e fuorviante); oppure tale opposizione è in via di attenuarsi: se ci sono esempi sicuri di atque anteconsonantico (Poe. 372 Phor. 131), seu antevocalico suscita problemi in Mere. 306 (cf. Lindsay ad l. ed Early 72, 128 n. 1 : F. Skutsch Schr. 95 n. 2 correggeva siue hoc) in particolare se raffrontato con And. 293-294. E non è tutto. Se nell'ambito del teatro di età repubblicana i due generi più importanti, cothurnata e palliata, si oppongono fra loro per lessico metri struttura, all'interno della palliata stessa il panorama non è affatto immobile. Plauto e Terenzio sono in realtà autori molto diversi né tale diversità è imputabile solo al lasso di tempo che li separa. A questo sarà da imputare in buona parte la presenza nell'uno di prosodie e morfemi assenti o in regresso nell'altro e viceversa, ma influente in misura non minore (e talora maggiore) è il tipo di spettacolo messo in scena, l'ethos che lo anima, il pubblico cui di preferenza si rivolge (bellissima la sintesi di Traina Por. 101-104). Di qui, forse, alcune delle forti ragioni di ciò che distingue i due poeti e dunque lo 'spegnersi' della straripante ricchezza prosodica morfologica lessicale e metrica di Plauto a favore di una dizione e di metri che ben rispecchiano i sedati motus cari all'Afro, i quali comportano anche 'regolarità' sul piano morfologico e lessicale. È un fatto ben noto e si ripeterà, a dir poco, nel passaggio da Lucrezio a Virgilio, da Dante a Petrarca, da Comeille a Racine.
lntroduv'one generale
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S. - Nello studio di materia così complessa le fonti antiche ci sono purtroppo di ben scarso aiuto: esse ci dànno solo pochi e brevi cenni di prosodia e metrica arcaica. L'ultimo studioso romano che sembra aver letto - e anche visto sulla scena - i testi del teatro repubblicano con diretta conoscenza e coscienza delle loro peculiarità prosodiche e metriche nonché delle tradizioni esecutive di essi è stato M. Terenzio Varrone (116-27 a. C.), mentre lo stesso Cicerone (106-43 a. C.) ha considerazioni non appieno perspicue circa lo iato (è il celebre passo di orat. 152, una proposta per intendere il quale cosi come dubbiosamente tramandato vedi in Bettini Stu. 10-20 senza dimenticare il buon senso di Lindsay RecForsch.1 208). Sicuro è che la prosodia di Cicerone è già molto diversa da quella di Aedo, cioè di un poeta che era ancor vivo nella prima giovinezza dell'oratore (Brut. 107 pro Arch. 27 Phil. I 36) e di cui questi udi recitare i drammi (ottime osservazioni in Soubiran Ace. 262-270). Le notizie di prosodia e metrica che abbiamo in Cesio Basso, Gellio e nei più tardi grammatici risalgono talora a buone fonti anteriori (specialmente Varrone), ma in più d'un caso sono il frutto di speculazioni mal fondate e comunque da vagliare con estremo rigore (vedi in generale De Nonno Fun. 453-494). Già un grammatico come Sisenna - che non è lo storico: ma vedi Perutelli Proleg.55-62 - pur riconoscendo il metro anapestico di una scena (vv. 713-730) dell'Aulularia, dichiarava difficile l'interpretazione metrica più precisa del brano (apud Ruf gramm. VI 561, 8-10: cf. Hermann Elem. 411, Questa Num. 65-66). Le nostre conoscenze sono quindi fondate sull'esame diretto di Plauto e di Terenzio, senza dimenticare che i numerosi dubbi e casi controversi propri di quest'ambito di studi rendono spesso malsicuro il riferimento ai testi frammentari della tradizione indiretta. 6. - Questioni metriche e questioni testuali sono, come naturale, più d'una volta strettamente connesse e pertanto sono da aver presenti le linee essenziali della tradizione manoscritta di Plauto e Terenzio. Quella plautina è divisa in due rami, da un lato il celebre Palinsesto Ambrosiano (A) del V sec. (Milano, Bibl. Ambrosiana, G 82 sup. [nunc S.P.9/13-20]: CLA III 345); dall'altro i codici Palatini (così chiamati perché uno di essi, molto importante, è ora nel fondo Palatino della Biblioteca Vaticana, dove giunse nel 1622 dalla biblio-
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teca dell'Elettore Palatino in Heidelberg), dei quali ricordiamo appunto il Pal. lat. 1615 del sec. X ex. (B), cui si aggiunge il ms. Heidelberg, Universitatsbibl. Pal. lat. 1613 del sec. X (C : un tempo a Roma anch'esso, ma restituito dopo la Restaurazione) e il gemello di questo, Vat. lat. 3870 del sec. X (D). Essi risalgono, attraverso un modello perduto di età carolina, ad un esemplare, parimenti perduto, del V sec. e il loro accordo viene indicato con la sigla P. Si dà caso, però, che il palinsesto Ambrosiano e i Palatini, pur con le loro ben note differenze, risalgano del pari ad un /ons communis da identificarsi in un manoscritto forse del IV sec., da taluni indicato con O 1• Anche la tradizione di Terenzio si divide in due rami: da un lato il famoso codice Bembino (A) del V sec. o forse VI in. (Biblioteca Ap. Vaticana, Vat. lat. 3226: CIA I 12); dall'altro i numerosissimi codici medievali, una quindicina dei quali sono usati dagli editori per la constitutio textus: questi formano la cosiddetta recensio Calliopiana e il loro accordo si indica con la sigla I:, mentre i due rami in cui pur essi si dividono prendono le sigle y e 6; l'accordo AI: si indica con ro. A questi testimoni si aggiungono due brevi, ma importanti, frammenti di codici papiracei: il POxy XXIV 2401 del IV-V in. (CIA Suppi. 1717) e il PVindob L 103 più o meno coevo (CIA X 1537), le caratteristiche testuali dei quali creano diversi problemi 2 • Infine, men1
Altri codici importanti, della stessa famiglia, sono: V (Leiden, Bibl. der Rijksuniv., Vossianuslat. Q 30, del sec. XI ex.), J (London, British Library, Royal 15 C XI, del sec. XI ex. /XII in.), E (Milano, Bibl. Ambrosiana, I 257 in/er., del sec. XII ex.); K (Paris, Bibl. Nat., lat. 7890 del sec. XV in.). Si aggiungano infine manoscritti, sempre della stessa origine, ma tipicamente umanistici, come M (Firenze, Bibl. Medicea Laur., San Marco 230), S (El Escorial, R Bibl. del Monasterio T II. 8), G (Città del Vaticano, Bibl. Apostolica, Vat. lat. 1629), W (Wien, Oesterr. Nationalbibl., lat. 3168). 2 Sulla tradizione manoscritta di Plauto e di Terenzio vedi, con ampi riferimenti alla bibliografia precedente, Chelius Cod. passim; Danese Rev. 133-157 (e Soubiran G/o. 115-118); Fachechi Il!. 180-226; Raffaelli Tit. 1-10, Prof. 41-102, Rie. 159-201 (e Pag. 3-24 passim); Questa Num. 25-192 passim, Par. 87-267 passim, Lib. 339-349, Tit. 13-57; Questa-Raffaelli Rapp. 139-215; Tontini Bip. 101-147, Cens.1. 271-534, Pres. 229-296, Esc. 33-62, Trad. 91-101, Um. 57-88. Nella nota silloge Texts and Transmission,Oxford 1983, la trattazione di Terenzio (M. Reeve 412-420) non è sufficiente (utile invece, e culturalmente molto ricca, Claudia Villa Lect.), mentre quella di Plauto (R J. Tarrant 302-307) è inficiata da errori non veniali (vd. Questa Cod.
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tre per Plauto possediamo solo indirettamente tracce, pur ampie, dei molti lavori a lui dedicati da grammatici e lessicografi antichi, per Terenzio ci sono giunte direttamente quattro serie di scolli: il commento di Elio Donato (IV sec.) in una redazione peraltro rimaneggiata rispetto all'originale (ed. P. Wessner, Lipsiae 1902); quello di Eugrafio, con testi minori (V-VI sec.), anch'esso edito da Wessner (Lipsiae 1908); gli scholia Bembina, cioè le annotazioni di cui è ricco il Vat. lat. 3226 (ed. H. Mountford, London 1934); gli scholia Terentiana, materiale contenuto nei codici medievali ma risalente almeno in parte a fonti antiche (ed. E Schlee, Lipsiae 1893). Tanto interesse di grammatici e scoliasti antichi si spiega ricordando che Terenzio, non Plauto, fu autore di scuola sia nell'antichità sia nel medioevo. 7. - La tradizione delle commedie di Plauto e di Terenzio è caratterizzata, come dicemmo, da grande incostanza grafica, senza dubbio già presente in origine, poi nella 'antichissima edizione' dell'uno e dell'altro (prima importantissima sistemazione del testo e dei metri) 3 , successivamente in quanto da questa ha tratto via via origine, come il /ons communis delle commedie plautine e quello parallelo di Terenzio. Tale itinerario secolare, che nell'ambito del mondo antico va dal Il sec. a. C. inoltrato all'età costantiniana circa, ha comportato, come già si notò, la sparizione di ortografie più antiche, sentite come 'erronee' da parte di librarii educati ad altre regole grafiche, e l'introduzione di forme recenziori considerate invece 'corrette'. Stando così le cose, risulta oggi assai goffo escludere le grafie (e sono le più) comportanti y z e sorde aspirate come eh ph th, di sicuro non originali ma da secoli e secoli ospiti stabili e, anzi, segno ineliminabile della fortuna del testo nello scorrere del tempo. Lo stesso si dirà del voler correggere in omnis l'ace. pi. omnes e di altri casi affini; lo stesso vale per i non rari esempi di nom. pl. in -is (per es. Cas. 435 e 720a): molto bene, circa Virgilio ma non solo, Timpanaro Contr.1 151-155); viziato da insanabile errore metodico cli fondo M. Deufert Rez. Superiore a tutti, sempre, Lindsay Intr. passim e si abbia un occhio a Billanovich Trad. 289-304. 3 Su queste 'antichissime edizioni' vedi Questa Num. 23-78, Questa-Raffaelli Rapp. 158-162.
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318-320 con bibliografi.ae vedi Questa Ed. 72-73. D'altro canto resta fermo che le grafi.earcaiche vanno conservate dove tràdite, ricordando che, in ambito plautino, i Palatini - e in particolare B - non la cedono al Palinsesto, come aveva già notato Ritschl Opusc.2 179-180 e Opusc.' 319-320. Quindi in Mere. 303 conserveremo eire di A contro ire di P, in Mos. 852 leggeremo eire di P contro ire di A, in Cas. 71 Cartagini di P (forma non aspirata: vedi Cic. orat. 160), in Cas. 168no Murrina ancora di P contro My"hina di A (ma in Ps. 24 Sibulla di A contro Siby/la di P). Le grafi.eantiquioresdovranno inoltre essere restaurate là dove esse giustificano errori della tradizione: in Mos. 969 et re di B1CD ci riconduce a eire (ire A e, per buona congettura, ire B3 ), in Cur. 491 firi nasconde ein'. Tutto ciò premesso, è del pari evidente che quando una particolare ortografia, nell'ambito degli abbondanti doppioni fonetici e morfologici degli autori qui considerati, crea difficoltà metrica dovremo scartarla o avvertirne il lettore. Per tempo i metri plautini e terenziani divennero un enigma né di essi, comunque, si davano minimamente pensiero i /ibrarii antichi, i quali erano propensi non solo ad abolire forme vetuste e 'strane', ma anche ad introdurle fuor di luogo, per ipercorrettismo. Non si tratta solo di sostituire mi a mihi o ni/ a nihi/ secondo particolari criteri che tengano d'occhio anche la 'comodità' del lettore moderno 4 , ma, in particolare nel caso delle forme pronominali con la particella deittica -e, di sostituire l'una all'altra dovunque il metro lo richieda con sicurezza: in Cas. 362 si impone compn·me istum di Pylades (comprime istunc P : A manca) senza che peraltro ci sia lecito ritoccare istunc che segue poco dopo nello stesso verso. Non diversamente è inutile sostituire il/ud con i//uc in Ps. 503 considerato che la prima forma non crea imbarazzi metrici e che nel lessico plautino esse coesistono. In altri casi basterà dare un cenno in apparato: in Cas. 373 il secondo emistichio non inizia con un elemento bisillabico perché neque antecons. vale nec, come tutti sanno, e nello stesso verso è ovviamente monosillabico neque che precede censeo finale (d. Cas. 678). In genere, si noti, davanti a consonante è tramandato ◄ Mi riferisco a quanto messo in atto da chi scrive nell'edizione dei cantica dietro gli esempi di Leo e di Lindsay (ma un corpus di tutte le commedie compona una problematica più vasta e complessa).
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nec, ma i librarii sono l'incongruenza personificata: in· Amph. 275 abbiamo, sempre davanti a consonante, nec... neque... neque. Terenzio non è da meno: haecine ace. n. pl. anteconsonantico vale sicuramente haecin in Ad. 379 e 390, dove la forma piena, oltre a tutto, violerebbe la norma di Hermann-Lachmann (oltre 213); haecin sarà da riconoscere anche in Ad. 408, dove la forma piena sarebbe in teoria tollerata dal metro (sede con licenza: oltre 221): tra gli editori Lindsay-Kauer optano per la forma tronca, così da far intendere la caduta della -e davanti a cons., ma la forma piena potrebbe essere conservata a condizione che la si interpreti quale puro grafema (la conserva Marouzeau ma con incertezze metodiche non veniali nel Comm. métrique ad /. che ritornano purtroppo in Soubiran Ess. 131: cf. Questa RecSou. 68-69). 8. - Lo stesso vale per le forme piene di sum (siem sies siet sient) rispetto a sim sis sit sint. Plauto e Terenzio le usano entrambe, privilegiando, ma non sempre, per quelle piene fine di verso o di emistichio (le forme piene regrediscono in Terenzio), ma la tradizione ce le fa trovare dove creano difficoltà metriche e le ha abolite dove invece sono necessarie. Nel primo caso possono essere arbitrio di librarius semidotto o antiche scriptionesplenae: se le si vuol conservare per scrupolo documentario, sarà indispensabile avvertire il lettore del loro vero valore nel metro, ma è parimenti lecito correggerle; nel secondo è di rigore reintrodurle. Così in Eun. 240 tr 7 il secondo emistichio termina nei Calliopiani con in te siet tibi, dove siet è conservato da Lindsay-Kauer (cf. Lindsay Early 184), ma con segno del valore monosillabico e dunque della perfetta equivalenza con sit di cui è solo variante grafica (inaccettabili le considerazioni di Soubiran Ess. 181); altri invece preferiscono sit offerto da uno dei correttori di A (che ha essei, errato, di prima mano) e da Donato (nonché da un ms. medievale, p). In Hec. 737 ia7 i Calliopiani e Donato leggono siet, assolutamente necessario, mentre A legge sit contro il metro. Altrove si può essere più sottili: atque antecons. con sicuro valore di ac è attestato da A e P in Ep. 522 e qui pare legittimo il sospetto che si tratti di scriptiopiena assai antica, risalente almeno ad O, che merita di essere conservata o almeno opportunamente segnalata (su questa linea Lindsay, sempre molto attento a fatti del genere). Più forte cau-
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tela ancora, sempre di fronte all'accordo AP = O, si userà nei cantica: vedi Cas. 749 e Questa ad l. Si ponga mente infine ai falsi arcaismi: in Cas. 92 ibeis di A (e cf. Mere. 526) è un vero mostro perché il dittongo ei non può in sé rappresentare, neanche a livello di puro grafema, la ì' (ibì's): si tratterà di svista per eibis, in effetti tramandato da A in Mil. 1422 dove il dittongo è etimologico, fosse o no pronunciato (sviste del genere sono però in qualche epigrafe). Questa problematica, già in sé ampiamente irta e contorta, lo diviene ancor più per responsabilità degli editori moderni, discordanti tra loro né conseguenti con se stessi né alieni talora da soluzioni strane e svianti.
9. - In linea generale i fenomeni tipici della prosodia del teatro latino di età repubblicana possono essere raggruppati sotto le seguenti rubriche: (I) conservazione di quantità e gruppi consonantici originari; (II) caduta di fonemi finali; (III) prodelisione, fonemi intervocalici e anaptissi; muta cum liquida; (IV) osservazioni sulla morfologia; (V) co"eptio iambica;(VI) abbreviamento per enclisi; (VII) incontro di fonemi vocalici. Ricordiamo ancora che il sistema linguistico latino, nei centocinquant' anni all'incirca che vanno da Livio Andronico ad Aedo, non rimane immobile affatto: ecco dunque che, come accennato, anche al di là di ogni meditata scelta di gusto e di stile Terenzio ci mostra la sensibile o forte regressione di fenomeni che magari in Plauto già appaiono in via di sparizione, così come lo sviluppo di fenomeni che nella lingua del tempo di Plauto sono appena all'inizio. Si comprenderà a questo punto perché le pagine che seguono siano semplici note orientative, destinate ad essere integrate da ampie dirette letture e soprattutto dall'assidua esperienza con la scansione del testo. La prosodia plautina, né quella terenziana è da meno, sfida più volte ogni norma - Proteo ribelle ai freni - e molto, molto di rado ci consente le parole 'mai' e 'sempre'. 10. - I versi dei poeti greci e latini, sino almeno al II sec. d.C., sono fondati esclusivamente sulla quantità delle sillabe, come si conviene in lingue il cui accento era melodico, e non intensivo quale nell'italiano moderno (cenni ben ordinati e precisi in Bernardi Ferini
Introduzionegenerale
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Ace. 3-14, poi Lepschy Probi. 199 sgg. passim, Luigi E. Rossi Probi. 119-134 e, con altri argomenti, Oniga Apof 195 sgg. passim; altra bibliografia e discussione in Bettini Corr. 333-334): l'ordinato succedersi delle sillabe brevi o lunghe secondo lo schema ideale (o metrema) del verso crea il ritmo del verso stesso. Come ovvio, la versificazione dei poeti della scena latina di età repubblicana non fa eccezione a questo principio costitutivo, anche se per parecchio tempo, almeno da Bentley alla metà circa del Novecento, si è spesso erroneamente creduto, in particolare da parte di studiosi di cultura tedesca, che alla quantità si aggiungesse altro fattore ritmizzante, di natura eminentemente intensiva, ritenuto già presente nella declamazione degli attori antichi '. Si è trattato in realtà di un colossale equivoco (spazzato via per i versi greci, in cui pure si era insinuato, dal giovane Nietsche: vedi Barchiesi Nev. 294-298 con eccellente rassegna di studi e messa a punto dei problemi), che ha prodotto, protraendosi nel tempo, danni concettuali insigni, cui però hanno reagito, già nell'Ottocento, studiosi quali N. Madvig, H. Weil e L. Benloew. Tale aberrante convinzione è finalmente morta (e speriamo nessuno ne evochi il lurido fantasma), in particolare dopo gli interventi decisivi di P. Maas RecFraen.2244-2248 e di W. Theiler RecDrex.799 sgg., 850 sgg., cui oggi si possono aggiungere cenni assai apprezzabili di Soubiran Ess. 307-336 (ma vedi, bene, anche Oniga Apof 217-225). Questi studiosi, tuttavia, erano stati preceduti da acute considerazioni, affini se non identiche, di H. Weil e L. Benloew in un libro poi dimenticato (Ace. 77-104) e per lo studioso italiano è emblematico il marciaindietro di Pasquali (Preistoriadella poesia romana, Firenze 1936, 9 n. 2, 16 n. 1 = ibid. 19812 , 98 n. 15, 103 n. 26) appena cinque o sei anni dopo aver approvato la più ambiziosa sintesi delle ' Quasi oracolare Bentley Sched.u, convinto in ottima fede, da quel grande studioso che era, di aver finalmente ritrovato il 'suono' del verso scenico antico: «horum autem accentuum [apposti da Bentley su quelli che noi chiamiamo primo, terzo, quinto longum del senario giambico] ductu (si vox in illis syllabis acuatur, et par temporis mensura... inter singulos accentus servetur) versus universos e od e m m o d o Lector efferet, q u o o 1i m a b A c t o r e i n S c a e n a ad tibiam pronuntiabantur [spaziati miei]»; e vedi ancora Sched. XVIII.
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secolari teorie anglo-tedesche, subito peraltro ripudiata in silenzio, ma per sempre, dal suo stesso celebre autore di fronte alle obiezioni di Maas citate più sopra. Finché dunque il latino fu una lingua quantitativa con accento melodico non esistette alcuna differenza fra il 'suono' di un periodo ciceroniano e quello di un dialogo plautino. Si ritenga pertanto la chiara enunciazione di S. Boldrini Rom. 36: «i Latini leggevano [e intendi anche: declamavano in teatro] i versi esattamente come la prosa, ed il ritmo era provocato da successioni di quantità che, se rispondenti alle aspettative che il modello ideale comportava, erano identificate come verso».
11. - Quanto alla cosiddetta 'lettura metrica', essa è soltanto un espediente di antichissima origine, nato nelle scuole del Basso Impero quando, perdendosi il senso della quantità, occorreva in qualche modo rendere percettibile la differenza strutturale fra poesia e prosa. Essa (Boldrini Rom. 36) «è un'invenzione libresca di chi, non riuscendo più ad intendere il vero ritmo del verso latino, ha cercato di ricrearne uno, per differenziare in tal modo il tracciato fonico della poesia da quello della prosa»; e sulle sue origini, sulle oneste motivazioni ma spesso inamene conseguenze informano in modo eccellente Norberg Réc. 123-134 e Stroh Ars. 87-117. Essa consiste, come noto, nel dare rilievo con l'accento intensivo ignoto ai Greci e ai Romani di età classica a quegli elementa del verso - un tempo detti arsi che sono necessariamente realizzati da sillaba lunga o da due brevi (in questo caso l'accento colpisce la prima di esse). Naturalmente «tale tipo di lettura avrebbe fatto voltare nella tomba gli antichi poeti» (Fusillo Introd. 86). Essa ha però una sua rozza, pratica utilità, meramente euristica: serve - a noi oggi - per rendersi conto non già del ritmo antico irrimediabilmente perduto, ma semplicemente della struttura del verso e quindi, per es., della ammissibilità o meno di questa o quella variante testuale (la varia lectio o la congettura contra metrum in tal caso cadono immediatamente per ragioni fattuali); in pari modo essa può essere d'aiuto nello scoprire altri più reconditi guasti. La 'lettura metrica', insomma, solo come ancilla della critica del testo? No, non soltanto. Di un quadro, perduto il colore, si può
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almeno recuperare il disegno; perduto il 'suono' del verso antico, dove talora alle quantità sillabiche si univa anche l'intonazione musicale come nei cantica plautini, si può almeno gustare la sagacia con cui Virgilio alterna lunghe e brevi entro quanto gli consente il metrema esametrico; si può cogliere un lampo della raffinata abilità di Plauto nel regolare la presenza o meno di certe sillabe brevi in un canticum bacchiaco (Tri. 223-231). In questo giudizio concordano ormai le opinioni di grandi studiosi che mai hanno creduto in sé valida la tradizionale 'lettura metrica' scolastica: vedi per es. Maas Metr. §§ 78-80, Tunpanaro Noz. 44-45 6 • Ma prima, e forse meglio, si era espresso in pieno Ottocento uno studioso del livello di Madvig Sprach. 474 n.*, prontamente ripreso nell'edizione italiana del suo manuale, con minimi ritocchi per il lettore di casa nostra (Gramm. 459 n. *): «si deve anche guardarsi dal ritenere che gli antichi accentuassero le sillabe lunghe... (mediante un cosiddetto accento metrico [ted. Versaccent], ictus metncus) e che di questo mezzo si servissero per far sentire e percepire l'andamento del verso, accentuando così le parole affatto diversamente dalla pronuncia prosastica (p.e. Arma virumque can6 Troùie qui primus ab oris, ftaliam fato pro/ugus Lavinaque venit Litora) ... In latino e in greco (dove l'accento tonico non aveva importanza né meno in prosa, e si faceva al contrario ben sentire la quantità) l'armonia del verso si faceva sentire e si percepiva appunto con l'avvicendamento delle lunghe e delle brevi. Ma siccome noi moderni non possiamo assolutamente né in prosa né in verso fare altrettanto, siamo costretti, recitando i versi antichi, ad accentare in certo modo le sillabe in arsi [vedi sopra] e dare così ad essi versi una qualche somiglianza coi nostri» 7 • A queste considerazioni andranno aggiunte quelle, sulla stessa linea, di Louis Benloew Ant.
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Altri importanti cenni di Tunpanaro, che coinvolgono anche la fortuna (e la sfortuna ...) degli studi italiani di metrica classica, in Cult. 17-31. 7 Madvigsi era espresso con chiarezza ed energia già nel 1842: Anz. 872 sgg. (in particolare 881-884); sulla stessa linea di Weil-Benloew il loro maestro August Boeckh Ber. 270-273 facendo ammenda di sue precedenti convinzioni 'bentleyane', in quel lasso di tempo fondamento dei Prolegomenadi Ritschl (1848: poi in Opusc.5 285-551).
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7-8, piene oltre ogni dire di 'clarté' francese e di affabile compren-
sione per una prassi scolastica che il buon gusto del lettore moderno, conscio come Benloewdelle origini e dei fortissimi limiti che essa reca in sé, deve saper ben temperare 8 •
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Ma non sarà inutile ricordare che contro la scansione scolastica dell'esametro, così ben censurata da Madvig, si era già pronunciato proprio Bentley Sched. xvu che, citando Aen. l 1-4 e notando sulle parole il 'normale' accento latino, chiosava: «qui perite et modulate hos versus leget, sic eos, ut hic accentibus notantur, pronuntiabit; non, ut pueri in Scholis, ad singulorum pedum initia, ftaliam fato pro/ugus Lavinaque vénit, sed ad rythmum totius versus». Dove si vede molto chiaramente che l"accento metrico' era per Bentley questione del verso scenico, non di altro: ciò che fu presto dimenticato, con i guai che ne vennero. Ha quasi valore di epigrafe Pfeiffer Hist. 155: «in the 'Schediasma' Bentley also inevitably carne up against the tantalizing problem of the ictus in Latin and even in Greek verse. Despite the efforts of modem scholars to reach a plausible solution, confusion and mistakes seem to have increased, and if we want to see things clearly, we had better go back to Bentley's 'Schediasma' of 1726» (lascia infatti perplessi, per così dire, leggere ancor oggi in Gerick Quadr.24 «ist im Gegensatz zu der von der griechischen Metrik stiirker beeinflussten daktylischen und lyrischen Poesie in den Szenischen Dialogmassen das Streben nach E i n h e i t von V e r s i k t u s und W o r t a k z e n t unverkennbar» [spaziati miei]: vedi anche oltre 413 n. 59).
PROSODIA
I
CONSERVAZIONEDI QUANTITÀ E GRUPPI CONSONANTICIORIGINARI
la. - Tutte le sillabe finali chiuse conservano in Plauto la quantità originaria, a meno che non siano abbreviate per co"eptio iambica (CI: oltre 85 sgg.) Sono quindi da scandirsi lunghe: -at: nel presente indicativo della prima coniug., nel presente congiuntivo della seconda, terza, quarta coniug., nel suffisso di imperfetto -bat di tutte le coniugazioni; -et: nel presente indicativo della seconda coniug., nel presente congiuntivo della prima coniug., nel futuro indicativo della terza e quarta coniug., nell'imperfetto e piuccheperfetto congiuntivo di tutte le coniugazioni; -it: nel presente indicativo della quarta coniug., nel presente congiuntivo di possum (possit), nel perfetto indicativo di tutte le coniug., nel perfetto congiuntivo di tutte le coniug.; ma -it è breve in Plauto (perché sempre stato tale) nella terza persona singolare del presente indicativo della terza coniug. (dicì't),nel suffisso di futuro -bit, nel futuro anteriore di tutte le coniugazioni 1; 1
I temi dei verbi in occlusiva possono a volte oscillare nel latino arcaico tra il suffisso -i- (che prevarrà decisamente nel latino classico) e quello -i-: cosi non devono stupire faci'se /acit (Amph. 555 Truc.555) accipit(As. 469: vedi O. Skutsch Pros. 44; incerto Eun. 1082) cupis (Cur. 363) percipil (Men. 921), le quali forme presuppongono */acire,*accipiree cupire (questa forma ancora in Lucr. I 72); Plauto ha
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Prosodia
-ar: nel congiuntivo pres. passivo della seconda, terza, quarta coniug., nel futuro della terza e quarta coniug., nei sostantivi neutri (calcar); -er: nei sostantivi (mater,pater, ma vedi anche oltre), nel congiuntivo pres. passivo della prima coniug., nel congiuntivo imperf. passivo di tutte le coniugazioni; -or: nei sostantivi (soror,imperator),negli aggettivi al comparativo (concordior,facilior), nella prima persona sing. del presente passivo indie. di tutte le coniug., nella terza persona plurale dell'imperativo pres. passivo (dicuntor,amantor); anche in nomi di divinità: Castor e quindi Castorisin Cur. 481 2 ; -al: nei sostantivi come tribuna!, anima!, bacchanal(d. i gen. tribunalis, bacchanalisecc.) che derivano da più antiche forme con caduta di -e(tribunale' si legge ancora in CIL 12593 del 64 a. C.: tracce di tali ortografie sono forse ancora reperibili in Plauto, ma par sicuro che tale -enon avesse più valore sillabico). Avremo dunque: adgrediarEp. 126 Sti. 583, /ateor As. 62, conspicor Cap. 926, uxor Mere. 800 Sti. 140, pater Au. 779 As. 831 (su questo verso vedi Raffaelli Rie. 32 n. 25), lubet Sti. 698, auscultet Amph. 300, amat Cas. 49, ad/lieta/Mere. 648, optigft Sti. 384, reppertt sempre potitur, e non potitur, come quasi ovunque la poesia classica (unica eccezione sicura Lucil. 200 M citato da Prisc. gramm. II 502, 20-24 e vedi Th!L X 2, 327, 48 sgg.): si pensi ad un verbo come orior che ha sempre oscillato tra le forme a suffisso -i- (oreris oritur orerer ...) e -i- (ori"rz),sulla cui morfologia vedi ancora Th/L IX 2, 991, 65-80. Circa il verbo atematico dare, abbiamo in Plauto diis e dii (Poe. 868 Men. 541), ma sempre diitur, come in tutta la latinità; niente prova diit (ancora incerto Lindsay Early 197, comunque attenuando quanto aveva detto in Lànge 127-128, perché in Cas. 44 Cur. 161 Men. 101 niente si oppone a diit):in Rud. 1072 (e Mos. 601?) il monosillabo forma elemento in locus Jacobsohnianus: oltre 279. Al perfetto ind. sembra doversi supporre anche -lt: oltre 50 n. 3 (ma dedtt Rud. 849). 2 Anche in questi casi si badi bene a distinguere le finali brevi in origine: mulzer (mai muliér-.gen. mulieris), iubar (gen. iubaris). 3 A sua volta originato da *tribunalr(nominativo sing. neutro a desinenza zero con il normale passaggio di -l > -e: Sommer Form. 145); animale agg. è ancora in Lucrezio I 227 III 635.
Quantità originarie
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Sti. 746, uixft Ps. 311: in questi esempi la quantità è sempre sicura perché la sillaba realizza un elementum longum e quindi metodicamente la stessa quantità va riconosciuta anche altrove: per es. habitiit Cas. 35 e 36, arbitrar Cas. 283, soror Sti. 147.
lb. - Terenzio presenta un panorama più complesso. Troviamo infatti augeiitAd. 25, eriit Phor. 654 (ma non certo per le ragioni addotte da Laidlaw Pros. 62), concrepui'tAnd. 682, stetti Phor. 9, ueni't Eun. 844, discruciorAd. 610 (vedi Questa Num. 399 sgg.), mater Eun. 116 (non certissimo), pater And. 950 (ma forse pater: vedi Raffaelli Rie. 48 n. 54). Però audiret è sicuro in Ad. 453 (sequore sequar in Hec. 879 e And. 819 possono essere effetto di CD e ciò rende, in teoria, malsicura la quantità della sillaba finale di augeret Phor. 160, obtundat Eun. 554, accidet Phor. 250, dove l'azione della CI è del tutto esclusa. In linea metodica riconosceremo in Terenzio fatti di prosodia recenziore solo là dove il metro ce ne dia certezza, come in Ad. 453, considerando altresì come in casi quali Phor. 160 e gli altri appena citati la quantità lunga della sillaba finale consenta una scansione più piana (sul problema, variamente dibattuto, precisi cenni in Raffaelli Rie. 48 n. 55 e 68 n. 20) 4.
2a. - Gruppi consonantici in fine di parola, più di una volta derivati da assimilazione della consonante finale del tema con la desinenza o la particella deittica -ce, sono ancora conservati nella pronuncia del latino del tempo di Plauto.
( < *hod + ce: cf. hoccine < *hod-ce-neancora in Bacch. 1090 e altrove, da intendere hoccin;antevocalico in As. 509), istuc(c) illuc(c) nom. ace. neutro sing. ( < *istud+ ce, *il/ud+ ce)': -e(e): hoc(e)
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La trattazione della prosodia e dei metri terenziani in Laidlaw Pros. è purtroppo ispirata a criteri troppo spesso fallaci o inaccettabili e neppure esente da errori di fatto non veniali, sl che ogni affermazione ne va rigorosamente controllata; al Laidlaw sono inoltre da imputare scansioni molto opinabili o errate suggerite da Marouzeau nei Commentairesmétriques della sua edizione terenziana. ' lstiic e iliiic come aw. di luogo hanno origine da altra formazione e in essi la sillaba è lunga per natura; si ricordi altresl la differenza tra i/Ile < "'il/e+ce e illic < *11/i+ ce nom. sing. l'uno, dat. sing. o aw. di stato in luogo l'altro (così istic istzc).
Prosodia
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As. 864 (tr 7 ) hoc ecastor est quod i//(e) it ad cenam cottidie
Cas.460
(ia6)
illiic est, i//uc quod hic bune feci/ uz1icum Cas. 184/85 (ba4 ) amo t(e), atqu(e) istiic expeto scire quid sii
Ep. 659 (tr7 ) suppetias mi cum sorore /e"e :: /acil(e) istiic erit (e vedi Amph. 666 Bacch. 205; istuc(c) sembra la sola forma nota a Plauto e, secondo alcuni, a tutto il teatro di età repubblicana: cenni in Lindsay Comm. ad 964, ma vedi più oltre circa Terenzio).
-rr. cor(r) < *cord, originario nominativo neutro a desinenza zero, caratteristica anche del greco, per eredità indoeuropea, in siffatti sostantivi; ter(r), originariamente *tris, gr. 'tQlç, da cui *trs > *ters > ter(r) 6 : Bacch. 1127 (ba4 ) rerin ter in anno tu I has tonsitari? Mil. 1088 (an7 ) atqu(e) ade(o) - audin? - dici/o doct(e) et cordat(e) ut cor ei saliat.
-ss: miles(s) diues(s) compos(s) hospes(s) eques(s) sospes(s) da tema in dentale+ -s del nominativo maschile sing.; es(s) indicativo e imperativo (cf. ion. Èoot) 7 : As. 330 (tr7 ) t(um) igitur tu diues es /actus? :: mille ridicularia Au. 528 (ia 6 ) miles impransus asta/, aes censet dari Per quanto concerne hoc hoccine ecc. la tradizione grammaticale conserva ottima traccia dell'antico stato di cose e lo spiega in modo del tutto attendibile: vedi Prisciano gramm. II 592-593, Velio Longo gramm. VII 54, 6-15 (e oltre 476). 6 Il gruppo -" sembra essersi conservato solo nei monosillabi; notare edepol(l), come sembra dimostrare Cas. 327: vedi Gagnér Pari. 16-17. 7 Tracce di ess sono presenti, ma assai oscurate, nei codici plautini: vedi Mere. 489 (A) Rud. 240 (B) e inoltre Hodgman Verb 108 circa una serie di passi del Tru-
culentus.
Quantità originane
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Cas.629a (wil) quae sui'st impos animi
Ps. 610 (tr7 ) quid tu, seruusn(e) es an liber? :: nunc quid(em) etiam seruio (su questo verso vedi anche oltre 33).
2b. - In Terenzio istuc(c)è assicurato dal metro in Haut. 110 346 348 e va metodicamente riconosciuto anche altrove: per es. And. 572 Eun. 1019; poiché tale forma sembra caratteristica del teatro latino arcaico, in Phor.524 si leggerà istuc con i Calliopiani e non istud con A. Però And. 941 è problematico: o vi si riconosce istuc (così per es. Lindsay Early 138-139 e altri) o si corregge in istud (così Luchs Comm.1 12-13 e molti editori: vedi oltre 65, 134); del pari in Eun. 830 istucine, non meno problematico, è stato inteso come istuc(i)ne: d. Lindsay Early 90 e ThlL VII 2, 496, 14-15. Nessun dubbio, invece, circa es(s) in Haut. 707 985 Ad. 696. Si noti infine che né Plauto né Terenzio conoscono il nom. m. sing. hic(e), testimoniato solo a partire da un esametro di Lucilio (117 M.) e non comprovato da Phor. 955 e And. 478, quale che sia, in questo verso, la falsa grafia di taluni manoscritti.
II CADUTA DI FONEMI FINALI
Alcuni fonemi finali, vocalici o consonantici, sono particolarmente deboli nella lingua di Plauto, di Terenzio e degli altri scenici d'età repubblicana; essi possono (non: debbono) cadere con minore o maggiore frequenza, anche tenendo conto del metro e del tipo di parola (sostantivo, verbo, particella, pronome) cui appartengono e del sintagma in cui di volta in volta si trovano. I fenomeni principali si hanno con:
la. - -d: questo fonema è già caduto ai tempi di Plauto dopo vocale lunga di polisillabo: il poeta non conosce in alcun tipo di verso forme come agrodrosadlupod marid, già da Nevio sentite come arcaismi solenni adatti alla poesia epica in saturni, ma non al linguaggio 'corrente' del verso scenico recitato e neppure ai cantica di stile elevato. Ma -d si mantiene ancora nei monosillabi lunghi pronominali (med ted), però anche in questo caso il poeta usa con maggior frequenza le forme me te, che entrano in sinalefe o iato prosodico (discussione ed esempi oltre 185 sgg.), mentre non sembrano esserci prove sicure di red supposto un tempo da Lindsay Ab!. 550 in versi come As. 224 Ps. 19 per evitare iato. Qualche esempio: med è necessario al metro e conservato da tutta o parte della tradizione in Cas. 143 AJ, Cap. 405 BD, Men. 492 me4 A; è da restituire contro tutta la tradizione in Men. 514/15, ma è inutile supporlo in Ep. 192 Men. 598 dove il pronome realizza elemento davanti a incisione mediana; è tramandato contro il metro in Amph. 1038 P. La stessa casistica per ted,
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Prosodia
che è necessario al metro e conservato da tutta o parte della tradizione in As. 299 P, As. 772 B, Cas. 90 O, Cas. 232 B3J; ted va restituito in Bacch. 1100, ma la tradizione (P) lo tramanda contro il metro in Cur. 454. Peraltro -d non cade mai dopo vocale breve e quindi apud anteconsonantico va considerato tale per CI (vedi per altre questioni i casi di apiid me apiid uos: oltre 92 sgg.): su tutto F. Skutsch Rom. 5-6 Schr. 97-100 e 243-244; Lindsay Early 39-40 e 120-121, entrambi con giusto rifiuto di Leo Forsch.248-252; Calderan Vid. 152; Porzio Gernia Contr. 171-179, 248-273, 297-301 dove però si impongono riserve circa la trattazione dello iato come fatto metrico. Si notino infine le forme baud antevocalica (haut è recenziore, a quanto pare) e hau anteconsonantica (Sommer Form. 274-275), ma l'opposizione non sembra essersi conservata e, se hau non è mai tramandato davanti a vocale, haud (haut) appare largamente anche davanti a consonante, dove anzi è la grafia prevalente.
lb. - In Terenzio non esiste più traccia della -d, già caduca in Plauto, né è necessario restituirla metri causa;del pari la forma hau è rarissima (per es. Hec. 591 A) 1• 2. - -e:può cadere, oltre ai casi in cui è già correntemente scomparsa ai tempi di Plauto, davanti a iniziale consonantica. Per certe parole il fenomeno è costante, per altre la forma abbreviata coesiste con quella in -e:nemp(e)2 e mai nempe (cf. F. Skutsch Rom. 30-40), ma dic due /ac alternano ancora con le forme piene 3 • Inoltre la me1
Gli editori plautini e terenziani seguono criteri diversi: c'è chi, come Lindsay, con Ritschl, nell'edizione di Plauto scrive sempre hau antecons. e baud antevoc.; altri si comportano diversamente, in particolare circa Terenzio. 2 L'uso di trattatisti e di editori di Plauto, come Lindsay, è di indicare spesso con l'apostrofo la caduta di -eanche quando il latino possieda grafie particolari per le forme abbreviate. Ma non c'è uniformità: più d'uno, non a torto, scrive seu neu ac dove il metro lo esige. Peraltro un buon editore dovrebbe indicare in apparato la forma piena tramandata ove nel testo accolga quella postulata dal metro, oppure indicare in apparato il valore prosodico della forma plenior in caso contrario (i due criteri possono coesistere secondo il tipo di parola); per nemp(e) cf. Rud. 565 567. 3 Vedi più oltre 28 sgg. Non è mai esistito */ereimper. di /eroperché questo verbo ha nella forma /er l'imperativo originario atematico e a desinenza zero.
Cadutadi fonemi /inali
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trica e le norme generali della Cl ci permettono di supporre, con minore o maggiore verosimiglianza, la caduta di tale fonema in altre forme di imperativo, soprattutto della terza coniugazione se al singolare, anche delle altre se al plurale (desinenza -té); davanti a consonante abbiamo quasi soltanto proin e dein (anche se nei manoscritti si incontrano le scriptiones plenae proinde e deinde) nati da proind(e) e deind(e), mentre unde e inde coesistono con und(e) e ind(e) anche davanti a consonante ◄, e parimenti si hanno quipp(e) e quippe.Atque e neque sono, di per sé, forme antevocaliche, mentre ac e nec sono forme anteconsonantiche: questo fatto almeno per ac è rispecchiato piuttosto bene nella grafia dei manoscritti plautini, ma non mancano casi in cui atque è scritto per ac (Ps. 1315 Poe. 372 Mii. 367 Ep. 522); invece non esistono prove di neque bisillabico anteconsonantico quale che sia il comportamento dei mss. (vedi Questa RecSou. 68-69). Va ricordato peraltro che nell'opposizione tra forme anteconsonantiche e antevocaliche il sistema linguistico plautino non è coerente, sicché atque in un certo numero di casi è sicuro anche davanti a consonante '. La -epuò infine cadere in particelle e congiunzioni enclitiche come -ne interrogativo (frequentemente), -que, -te (tute> tut') e addirittura in esse; infine -e è spesso caduca nel pronome il/e (diverso peraltro il comportamento di t"ste:sui pronomi vedi oltre 62 sgg.). In linea generale -eanteconsonantica tende a mantenersi 'in pausa', cioè quando l'interruzione del nastro fonico-semantico del discorso 4
Lindsay Early 72 crede di vedere opposizione, davanti a consonante, tra unde interr. e und(e) relativo, ma l'ipotesi non trova conferma; si ricordi che deindi si trova davanti a consonante solo in pausa: cf. F. Skutsch Rom. 51 sgg., 58 n. 1, 89-90. ' Osserviamo ancora: nam può essere antevocalico o anteconsonantico, ma namque è solo antevocalico; assai meglio conservata è l'opposizione si'ui antevoc. / séù antecons.: né Plauto né altri poeti latini usano seu antevocalico (assai dubbio Mere. 306: sopra 4) e lo stesso può dirsi di neui I néù, ricordando però che non manca qualche esempio anteconsonantico di neue (Mere. 332: Lindsay Early 71). Si notino altre coppie fonetiche del latino (la forma piena è antevocalica, se appare antecons. è quasi sempre in pausa metrica o sintattica): anne I an, nonne I non, i/lisce biscelillis bis, sicineI sicin;si è anche riconosciuto /ort(e) tibì' e anche in quello di amet antevocalico ad amet, non si riesce ad attribuirgli pari effetto - consideratane altresì la natura eminentemente melodica finalmente assodata - nel passaggio senectutem > senectutem, amicitia > amì'citia, secondo quanto invece voluto dalla tradizionale legge della CI. A cause eguali devono infatti corrispondere, a parità di condizioni, effetti eguali e pertanto, almeno nella prosodia degli scenici, noi dovremmo trovare s e m p r e le misure senectutem amì'citia e così via, almeno nei versi giambico-trocaici. Ma invece abbiamo visto (sopra 101 sg.) senectuti 1-tem in Sti. 568 Tri. 398 senectutem in As. 18, mentre Terenzio ha senectutem in Phor. 434 senectutem /-ti in And. 887 Hec. 119; lo stesso accade per uoluntdtis ecc. Quanto alle forme flesse di uoluptas, la seconda sillaba è 'abbreviata' in sedici versi plautini, in dieci no (tutti giambico-trocaici), cui si aggiungono due versi bacchiaci, secondo quanto atteso. Le misure di amicitia e pudicitia, che comportano il raro 'abbrevia-
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mento' di sillaba lunga per natura, sono del pari istruttive, in particolare quella di pudidtia. Ai tre casi complessivi sicuri di Plauto e di Terenzio con CI (su Ep. 541b si potrebbe discutere) fanno riscontro i sei + uno di Plauto che ne sono privi: a chi volesse osservare che la sillaba 'abbreviata' si riscontra questa volta solo nei versi giambici, come se in questi apparisse ancora }"accento metrico' qual fantasma implacato, si obietterà subito, ricacciando il revenant nella sua cripta, che amtdtia è invece in un verso trocaico e che le forme non 'abbreviate' si distribuiscono fraternamente tra giambi, trochei e persino anapesti...; sarà allora ovvio constatare che la formulazione tradizionale della CI è incapace di render conto di fenomeni come questi; g) c'è di più: in vocaboli come cauì'llati6nese sequenze come at ì'ndiligénter,per oppressi6nem,ben(e) euenisse, et zn dete"éndo la sillaba 'abbreviata' non è seguita da tonica, la quale è anzi più volte assai 'lontana': quale meccanismo faceva in tal caso scattare !"abbreviamento'? (per sequenze come quid apstulisti eg(o) opsondbo qualcuno potrebbe aggrapparsi alla tonicità di quid interrogativo e del pronome personale epperò far rientrare quid apstulisti nel tipo u- > uu: ma vedi più oltre); h) abbiamo visto al nr. 7 che nei versi anapestici plautini, dove istituzionalmente non vige la norma di Hermann-Lachmann, parola eretica può di frequente venire 'abbreviata' in parola dattilica: d'ignì'or > dignzor.In Ps. 165-168, 174-184 si contano cinque esempi: glandium 166 conuenzt 178 praehibeose. praebeo 182 improbae 183 pantices 184 (inutile ricorrere a forme di sinizesi per i vv. 166 e 178); in Per. 777-791 machinas 785 compedzs786; ancora in Ps. 594/95-598 septumas 597 symbolum 598. Come spiegare questi 'abbreviamenti' con la tradizionale legge della CI? L'accento infatti - l'unico accento latino storico - non è sulla breve (né poté mai esserci per la legge del trisillabismo) né si trova, almeno nella grande maggioranza dei casi, sulla sillaba che immediatamente segue la parola eretica (tutto, ahinoi, era invece chiaro e semplice per chi invocava !"accento metrico' di cattiva memoria ...: vedi già chi scrive Intr. 67-68): donde l'imbarazzo degli studiosi di vari orientamenti metodici ben esemplificato dalla dossografìa raccolta e discussa da Bettini Co". 336-338, cui si aggiungano, purtroppo sfuggenti e confuse, le affermazioni di
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Soubiran Ess. 209-210, 274, 314 (della possibilità di 'stilizzazioni' artistiche della prosodia e di 'licenze poetiche' per certi tipi di CI come il passaggio di perdidi a perdidi parlava già chi scrive in Intr. 70, pur fiducioso, allora, nell'abbreviamento reale). Ma nei versi giambici e trocaici di Plauto siffatto 'abbreviamento' si incontra nelle sedi con licenza, dove la norma di Hermann-Lachmann è 'in sonno' non meno di quella di Ritschl (su tutto, molto utile, Pavone Lic. 175-203). Sicché, come in Rud. 513 ia6 (vedi anche Au. 504 Rud. 526 940) abbiamo pisa"'busin alto, credo, praebent pabulum, così in Poe. 1348 ia6 abbiamo nem{nem uenire qui istas adsereret manu; come in Truc. 262 tr 7 abbiamo compri'me sis iram :: eam quidem hercle tu, quae solita's, comprime (vedi anche Au. 781 Mos. 842), così in Sti. 526 tr 7 omn{um me I exilem atque inanem /edt aegritudinum (vedi anche Tri. 933); e si possono aggiungere Cap. 833 ia8 Rud. 944 ia4 , Cas. 931 e 931a ia4 • Terenzio ha soltanto 5 deroghe dalla norma di Hermann-Lachmann e in esse la casistica con CI non ricorre (Hec. 281 non prova nulla: Pavone Lic. 196, 201). Si può dunque concludere che l'abbreviamento è consentito e fruito solo là dove il metro lo 'desidera' (anapesti) o lo 'tollera' (sedi con licenza): solo la liceità metrica, insomma, consente a Plauto neminem uenire in un verso giambico e machinas molitust in uno anapestico; z) al di là di queste considerazioni, che tutte concorrono a dimo-
strare quanto sia insufficiente e contraddittoria la tradizionale legge della CI, ne resta una - a nostro avviso di forza irresistibile - su cui sembra non si sia mai voluto riflettere a fondo neppure da parte di studiosi veramente grandi (F. Skutsch, per es.) che a Plauto e alla CI in particolare hanno dedicato studi che sono tuttora il nostro fondamento. Ritorniamo a Ps. 593 an7 già visto (sopra 124) lubet scire quid hic uellt cum machaer(a) et hùic quam r(em) agat, bine dab(o) lnsidias:
questo verso comporta l"abbreviamento' di tre bisillabi giambici per natura uscenti altresì in consonante, e della sillaba iniziale di polisillabo lunga per natura e chiusa (in più hìiic). Dei tre bisillabi solo agat è davanti a inizio vaocalico (bine), mentre gli altri due sono seguiti da una (cum) o due consonanti (sdre). Dato e non concesso che già in
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Plauto agat passasse più facilmente, così situato, ad agat e suonasse veramente come tibl e ubl, come potevano suonare v e r a m e n t e brevi la seconda sillaba di lubet e uelit, quella iniziale di insidias? Insomma: il passaggio di u- a uu come poteva concretamente avvenire così da essere pienamente avvertito dall'ascoltatore, in modo, per intendersi, che all'orecchio di questo lubet scire suonasse identico a rosa nascitur19 ? È per quanto riguarda dab(o) lnsidias, cercando a caso nella vasta silloge già esaminata, come poteva suonare v e r a b r e v e la sillaba 'co"epta' in quid apstulisti, chiusa da due consonanti (aps o abs) e seguita da una terza (tulistt)? E in per oppressionem, dove la sillaba iniziale, 'abbreviata', è chiusa (p/p) e seguita da altra consonante (r)? In un senario come Ad. 40 (sopra 122) atqu(e) ex m(e) hic natus non est sed ex /ratr(e): is adeo
è, più che legittimo, doveroso chiedersi come si 'abbreviava' ex, preposizione uscente in consonante doppia seguita da due consonanti invocan(/r-)? Chi ha il coraggio di pensare ad una vera breve do magari anche qui la tonicità di cui sed è stato da noi stessi gratificato in altri sintagmi, così da far rientrare sed ex nello schema tradizionale 0- > 0u? Oppure si preferisce pensare al gruppo sed ex /rtitre, coinvolgendo l'accento che segue il giambo da 'abbreviare'? Il problema rimane identico: è il vero valore fonico, il vero 'suono' di ex in questa circostanza, emblematica di tante altre identiche nella struttura sillabica. Si sarebbe desiderato insomma, ma non mi consta essere avvenuto, che gli studiosi della CI si ponessero istituzionalmente questo problema a conclusione delle loro affermazioni e spie19
Poiché Ps. 593 è un verso di canticum qualcuno potrebbe invocare l'accompagnamento musicale che in qualche modo doveva rivestire i versi lirici: esso avrebbe facilitato, in misura più o meno sensibile, il mutamento di quantità nelle sillabe esaminate. Questa sarebbe però spiegazione assolutamente inverificabile, direi meglio mitica, e contraddetta altresì dal fatto che, in ambito greco, noi conosciamo, per es., sillabe brevi 'protratte' dal rivestimento musicale, non fenomeni avvicinabili a quello plautino (Ps. 593 non è esempio isolato). Egualmente mitica l'ipotesi che in eretici e bacchei agisse del pari la musica, ma in senso opposto, 'impedendo' cioè la CI e 'facilitando' il recupero di quantità come mihi ubi ecc. ormai uscite dalla lingua d'uso (vedi anche oltre 147 n. 26).
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gazioni, troppo spesso teoriche, piamente elaborate al lume delle lucerne: aveva invero cominciato bene lo stesso F. Skutsch Rom. 152-153 a segnalare che quodqu(e) in Mii. 508 doveva suonare quoc, quomqu(e) in Mii. 1072 quonc, quodne in Cur. 705 quonn, e cosl via. Ma su questa strada né egli né altri procedettero, forse perché la strada stessa non c'era né era possibile aprirsela; I) a dire il vero Lindsay sembra essersi posto in qualche modo il problema del 'suono' della sillaba 'abbreviata' se in Comm. 30-31 così scriveva enunciando e commentando la legge della CI quale da lui accettata nel 1900: «after a short syllable an unaccented syllable, long by nature or by 'position', was pronounced 'half-long' and scanned by the Dramatists either long or short, when the accent fell on the following syllable or on the preceding (short) syllable. Wether the syllable was definitdy shortened, or retained most of its proper long pronunciation, was a matter which depended on the nature of the word and the force of the accent (stress-accent) of the neighbouring syllable». Come si vede, la CI è connessa con l'esistenza, in latino, di accento di intensità (stress-accent), beninteso della parola e non metrico 20 , capace di risolvere di volta in volta in un senso o in un altro !"ambiguità' quantitativa di certe sillabe da Lindsay definite empiricamente 'half-long'. Ma come e perché fossero ambigue Lindsay non dice (vedi anche, su questo passo, Bettini Co". 294-295) ed è assai indicativo che tutti i suoi esempi (a p. 30) di siffatta 'ambiguità' riguardino quei bisillabi che ben conosciamo come 'quasipirrichii', di cui Lindsay osserva qui il comportamento prosodico con implicito riferimento alla lingua quotidiana e non al verso, che di questa lingua, secondo una convinzione da Lindsay mai rinnegata, è da ritenersi eco sincera. Del pari indicativo è che l'unico polisillabo considerato sia ministerium, di cui Lindsay cita due esiti romanzi: antico it. mestiero, fr. métier (senza dimenticare mistery di Chaucer). Essi 20
Come ben noto, Lindsay ammetteva anche l'esistenza di un 'accento metrico', sul quale peraltro non si pronunciò mai precisamente: di sicuro tuttavia fu tanto fieramente quanto giustamente ostile a quello ipotizzato come causa della CI da taluni studiosi tedeschi, di cui si fece beffe in un famoso versus /ictus (Comm. 31 n. 1) riprodotto a p. vm n. 1 dell'edizione delle commedie: vedi Bettini Co". 313-314.
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risalgono ceno a una forma *minsterium, alla quale però si sarebbe giunti, sempre secondo Lindsay, attraverso ministérium. Ma l'esempio non sembra scelto felicemente: ministerium non è parola plautina (in Ps. 772 ministeriis, da misurarsi con la seconda 'breve', è solo congettura di Acidalio che lo stesso Lindsay non accetta) e neppure terenziana. Per il resto, ipotesi su ipotesi sulle ragioni del fenomeno, silenzio (che pare imbarazzato) sul concreto risultato del fenomeno stesso: questo, ricordiamolo, non concerne versi scanditi più o meno bene da probi professori nella tranquillità dei loro studioli, ma versi declamati da histriones, talora veri divi, davanti a un pubblico riottoso e pronto al fischio, un pubblico, diciamo noi, da arena domenicale. Premesse queste considerazioni, si può proporre l'ipotesi. Sempre in attesa che un fonetista o un metricista particolarmente espeno spieghi come lubèt scire potesse avere l'identico 'suono' di rosa niscitur e uoldptatem quello di uolutsti 21 , sarà opportuno lasciar 21
È altamente istruttivo che Soubiran, sostenitore con tanti altri di 'vero' abbreviamento delle sillabe investite dalla Cl, prenda in considerazione per esse solo sequenze dove brevis e 'brevianda' siano separate da consonante e siano quindi impossibili sinizesi e fatti dello stesso ordine (Ess. 243 «les mots abregés que nous alléguerons comportent tous une consonne qui sépare les deux syllabes I...J!.l»).In parallelo Soubiran concede infatti estensione assolutamente abnorme, e inaccettabile sotto ogni punto di vista, a sinizesi e 'consonantizzazioni', in particolare di i ed u, esemplificate da grafie come pwer= ptJer,/wit = /t,/it, syet = siet, certo di nobile ascendenza bentleyana (Sched. XIV e altrove), ma che oggi (l'ho scritto altrove) dànno al latino del benemerito dotto francese un colore 'turchesco' (Ess. 179, 181, 253 ecc.). In questo modo i casi di 'vero' abbreviamento si riducono di un bel po', confermando tuttavia proprio così la loro natura di 'pierre d'achoppement' di ogni ragionare sulla Cl quando giunge al nodo del 'suono' reale di questa. Però è lo stesso Soubiran Ess. 184 e 245 che in Ep. 195 misura, invero con imbarazzo, il raggricciante per ìirbem, credendo che il verso sia tr7 • Ma esso trocaico non è per niente e Soubiran doveva accorgersene almeno insospettito dal monstrum prosodico. Infatti Ep. 194-195 sono sicuramente ia8 e così vengono scanditi da Leo e Goetz-Schoell. Soubiran dev'essere stato sedotto e traviato da Emout (dove Ep. 190-305 sono tr7 ), il quale ha letto in fretta, senza suo proprio controllo sul testo, il conspectusmetrorum di Lindsay, in verità qui poco perspicuo ma dove almeno i vv. 194-195 sono chiaramente definiti tizmbici.Un dubbio può rimanere circa il v. 193, ia8 per Leo, Goetz-
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spazio almeno come ipotesi ragionevole - a quanto concluso dal Bettini Co". 390-391. Dopo aver accumulato, e ben più di noi, contraddizioni e dilemmi fra le tante teorie e 'spiegazioni' circa la CI, egli scrive: «tutte queste contraddizioni scompaiono se si ammette una verità assolutamente elementare: che la co"eptio della brevianda è re a 1e e linguistica [spaziato d'autore] nei bisillabi tipo mihi caue, ecc., ovvero in tutti i bisillabi giambici uscenti in -it -at -or, etc., ove si abbrevia una vocale lunga seguita da consonante diversa da -s 22 • Tutti gli altri casi (da uoluptatem a quid ergo, da licet vos a cìivlllationes, etc.) debbono essere riguardati semplicemente come 1 ice n z e metriche [c.s.]: ovvero ammettendo che i poeti scenici, in alcuni tipi di versi, avessero la possibilità di costruire un elemento bisillabico anche nella forma u- oltre che uu, soprattutto quando tale lunga non fosse costituita da sillaba ton i ca [c.s.]». Bettini intende inoltre in modo assai estensivo, cioè come riferito anche al tipo di elemento bisillabico da lui ipotizzato (u- = uu), il famoso passo di Cicerone orat. 184 sui senarii... abiecti dei Comici e Schoell (e chi scrive), tr7 per Lindsay come i precedenti 190-192. Qui ci vuole un poco cli 'esprit' (che comunque non risolve il problema): il v. 193 è legato per contenuto ai precedenti, mentre }"affetto', avrebbe detto un musicista del Settecento, muta nei vv. 194-195. Daremo allora ragione a Lindsay o riterremo che Plauto abbia voluto concludere con il nuovo metro anche }"affetto' precedente? Per finire: l'abbreviamento 'vero' è così tormentoso (lo è, o lo è stato, per chiunque lo sostenga, me compreso) che Soubiran Ess. 246 non chiude la porta a sillabazioni come uo/ul ptalem uetulstatem (ma allora immaginarsi uolulnlatem iuue/ntutem e via discorrendo ...). Va da sé, inoltre, che in Ennio se. 225 V2 tu de/inquis (così R Stefano, de/inquas la princeps unica nostra fonte) ego arguor non si scandirà per niente eg(o) irguor, come vorrebbe, allarmato, Soubiran Ess. 295 e 377 (che cita se. 235 Warm.): bastavano Lindsay Ear/y 102 e Tunpanaro reeEnn. 363 per allontanare il mons/rum prosodico (accolto, ahimé, nell'edizione di A. Klotz) e accettare invece l'irregolarità metrica, ben più lieve, identica a quella di se. 55, discussa sopra 34 n. 11. E circa Eun. 459 stupisce la facilità con cui O. Skutsch Pros.84-85 'digerisce' (è proprio il caso di dirlo) emilterum, forse per solo spunto polemico: vedi invece Jachmann Stud. 16 (su Rud. 1405 inutile spendere parole). E si tenga presente Eun. 472: sopra 126 sg. 22 Qui Bettini si esprime piuttosto sinteticamente: /oquor uelil amit sono possibili davanti a vocale, come detto più volte, da Terenzio in poi (e non sempre): in questo caso la CI si incrociò con l'abbreviamento generalizzato delle finali chiuse ('Endsilbenkiirzung'); sui rapporti tra i due fenomeni il meglio è ancora in Jachmann Pros.66-72.
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in modo analogo quello non meno noto di Orazio ars 270 sgg. Osserviamo subito che, ammessa come vera questa ipotesi tanto audace, diverrebbe a mio avviso meno tormentoso un altro problema (vedi per es. Soubiran Ess. 252). Quando la poesia scenica non tollerò più la 'licenza' che noi chiamiamo CI ed il senario diventò addirittura trimetro ampiamente ricalcato sul trimetro greco (ottime osservazioni su questo mutamento in Soubiran Ace. 257 sgg. e soprattutto Trag. 69-80 Trim.1 83-96 Trim.2 109-124, cui si può aggiungere Questa Num. 203-223), come venivano recitati i testi i cui metri tale 'licenza' comportavano? Come era recitato, in concreto, lo Pseudolus che Cicerone presuppone v e d u t o da giudici, imputati e pubblico del processo in cui difese l'attore Roscio 23 ? Come, ancora, fu cantato il brano dell'Armorun iudicium di Pacuvio (Suet. lui. 84, 2), nei ludi funebri allestiti in occasione delle esequie di Cesare, che suscitò gli spettatori contro i cesaricidi 24 ? Pare evidente che né declamazione né canto, che certo avranno visto l'opera di histriones ben addentro alla tecnica del loro mestiere, comportavano 'abbreviamenti' bizzarri, ma semplicemente quanto era lecito in versi dove era tollerata - a determinate condizioni - la presenza di u- al posto di uu. Si devono ancora a Bettini Co". 392-393 considerazioni pertinenti circa la necessità che brevis e 'brevianda' formino un solo elemento, l'unico fatto su cui vi sia veramente consenso, da lungo tempo, fra gli studiosi (con l'eccezione, già notata, di un singolare 'silenzio' 23
Vedi pro Roscio com. 20, ampiamente commentato con riferimenti anche ad altre testimonianze ciceroniane circa il teatro repubblicano ancora inscenato ai tempi dell'oratore, in Questa-Raffaelli Rapp. 162-174. Cicerone, è chiaro, presuppone lo Pseudolus noto teatralmente anche ai l e t t o r i del testo della sua arringa. 24 La frase di Suetonio (inter ludos cantata sunt quaedam ad miserationem et inuidiam caedis eius accomodata ex Pacuuii Armorum iudicio [v. 40 RJ] 'men seruasse, ut esseni qui me perderent?' et ex Electra Acili [se. Atil,J ad similem sententiam) fa comprendere chiaramente che si trattò di un 'concerto' di brani (direi piuttosto 'arie') secondo l'uso ellenistico (l'Electra di Atilio [Aquilio?] va identificata con la rielaborazione da Sofocle citata da Cicerone in fin. I 2, 5). Comunque si interpreti accomodata ('adatti' oppure 'adattati', come deve aver fatto daudio Esopo con l'Andromacha enniana? vedi ancora Questa-Raffaelli Rapp. 166 sgg.), si trattò di contenuto, non già di metri o simili. Del fatto si serbò memoria non caduca, come dimostra Appiano civ. II 120.
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di Lindsay almeno al tempo dell'Early latin verse)2': tale necessità «costringe già di per sé a pensare che si abbia a che fare con un fenomeno di natura metrica, e non linguistica [c.s.]». Sembrerebbe possibile aggiungere qualche spunto a quest'ordine di argomenti. Già Bentley aveva osservato, non solo per Terenzio (Sched.XII-XIII), che quella che noi oggi chiamiamo CI si manifesta assai più all'inizio del verso che altrove (si tratta sempre di versi giambici e trocaici). Bentley, nell'insieme, aveva ragione nel rivendicare a sé la scoperta del fenomeno, anche se ne dava spiegazione oggi inaccettabile 26 • La CI appare più all'inizio del verso perché questo proprio lì ha il maggior numero di elementi bisillabici; meno invece nel prosieguo perché vi diminuiscono tali elementi: come ben noto, il verso, qualunque verso, è più severo e più rigidamente regolato e 'infrenato' nella parte finale, che ha evidente funzione ritmizzante (e meno CI sono nei versi dei Tragici, a quanto pare, perché i versi di questo genere teatrale sono più severi di quelli della commedia). Jachmann, come abbiamo visto, credeva esclusa la CI da taluni elementi, ma abbiano del pari constatato che alcuni sue 'limitazioni' difficilmente superano le obiezioni statistiche di O. Skutsch. A questo punto, però, devo ammettere di essere assai inquieto di fronte alla 'limitazione' riguardante l'ultimo longum (sopra 132 sgg.): versi come Amph. 104 e 1131, Cur. 354 e 530, As. 736 e magari Mii. 1353 sono davvero rarissimi in Plauto e forse unico è in Terenzio Phor.
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' Vedi sopra 138; sulla necessità che la CI sia 'racchiusa' in un solo elemento - quale esso sia - assai bene anche Soubiran Ess. 242, 250-251. Seguendo Lindsay accenai un tempo deos in Haut. 879, dove invece deos è necessario: mi pento e rinvio a Raffaelli Rie. 57-59, Minarini Stud. 112-113 e 136-145 passim, Bettini Co". 329-331. 26 Bentley Sched. XII pensava ad una recitazione 'rapida' all'inizio del verso, quando l'attore, «in fine prioris versus anima recepta», poteva «plenum rapidumque spiritum effundere». Soubiran, senza citare Bentley suo evidente predecessore, suggerisce a lungo una spiegazione simile, parimenti inaccettabile (Ess. 242 sgg.), precisandola altresl nella formula, sonora ma inane, dell'«élan vocal» (Questa RecSou. 76-77). In uno studioso attento come Soubiran non avremmo voluto leggere, infine, certe considerazioni sull'«accompagnement musical» e la CI nel tr7 (Ess. 295).
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806. Accostiamo allora a questi versi certe singolarità delle sedi 'con licenza', cioè dei due primi elementi dei versi giambici e trocaici. In tali sedi troviamo lecito il 'sonno' delle norme strutturali fondamentiali - che sono norme metriche - di questi versi (esse, naturalmente, anche lì vengono tuttavia rispettate molto più che eluse); in tali sedi troviamo del pari singolarità prosodiche, connesse con tale a -uu. 'sonno', come il passaggio, esso pure rarissimo, di -uNon basta. Altra singolarità prosodica, che si intreccia con la 'licenza' metrica, può essere quella (vedi già sopra 117 n. 11) testimoniata in pochissimi versi (tre in Plauto: Cur. 245 Mii. 1388 Tri. 598; uno solo sicuro in Terenzio: Eun. 131), dove sembra riscontrarsi 'abbreviamento' della sillaba iniziale di istaec illic istac eius senza la necessaria sinalefe tra questo vocabolo e quello precedente. Sarà allora da iscrivere anche questo fatto fra le 'licenze' che il metro tollera eccezionalmente qui, non diversamente dal tipo, parimenti eccezionale, neminem uenire (Poe. 1348) e omnium primum (Tri. 933) 27 ? E sempre fra ciò che il metro tollera nella 'licenza' del principio di verso e, di regola, non altrove - non sarà da porre anche il tipo di CI sed uxor, attestato, guarda caso, all'inizio di Cas. 1000 e Rud. 895? Accanto a queste incidenze, che si pongono a cavallo tra prosodia e metrica, un fatto invece squisitamente metrico, che non investe la CI. Com'è ampiamente noto, Vid. 75 ia6 , verso di lettura e supplemento sicuri, suona in opus ut sese collocauit quam o, dove le prime tre sillabe realizzano i primi due elementi con violazione - almeno apparente - del severissimo tabu Ifacere I all'inizio di verso giambico (sul problema vedi ampiamente oltre 232-244). Su questo verso c'è una piccola bibliografia, cui ha partecipato anche chi scrive, ma trovo in Calderan Vid. 155 questa osservazione: «nella difesa del testo tradito si è agevolati, perché in opus si trova nel primo piede». Essa mi pare più densa di significato di quel che forse l'autore stesso non pensasse. Non sarà il tormentoso in opus da collocare - come fatto 27
Troppe incertezze testuali vietano di prendere in considerazione And. 439 809 e, tantomeno, Eun. 343: vedi Pavone Lic. 193-194 e anche oltre 222 n. 6. Se l'ipotesi sopra prospettata coglie nel segno, si esce dall'aporia onestamente confessata da O. Skutsch Pros. 55-57 (e vedi già sopra pp. 113 e 117 n. 11).
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metrico indubbiamente eccezionale - accanto a sed uxor, ad au/er lstaece altre incidenze già discusse o da vedersi più oltre 221 sgg.? Una serie di indizi, dunque, che da un lato allargano il ventaglio delle licenze metrico-prosodiche all'inizio del verso, dall'altro sembrano con ciò corroborare l'interpretazione 'metrica' della CI, per cui è ammessa la possibilità, a certe condizioni, di avere un elemento bisillabico ove la sequenza u- ha - per convenzione - il valore metrico di uu. Questa possibilità, questa convenzione potrebbero avere peraltro anche un 'aggancio' linguistico (non ci si accusi di incongruenza metodica in ambito tanto incerto e difficile), così come prospettata dal Bettini Co". 393-394: «possiamo pensare, infatti, che la prosodia 'doppi a', realmente doppia, di bisillabi tipo mod8, abbia costituito il modello su cui costruire anche quld ergo e voluptatem:fornendo a questo tipo di elementi bisillabici con secondo sub-elemento lungo una sorta di riscontro linguistico. L'uso di elementi bisillabici del tipo mod8 o mì'hi - in cui l'oscillazione prosodica reale della seconda vocale introduceva di necessità un carattere di minor definizione quantitativa nella seconda parte dell'elemento - può aver spinto questo tipo di 'licenza' anche fuori dei tradizionali bisillabi giambici».28 In questa considerazione, si noti, a me sembra essere presente un'eco, non esplicita ma non insensibile, di quanto Lindsay (sopra 143) aveva scritto sulle sillabe 'half-long' e alla loro 'ambiguità' di volta in volta definita in un senso o nell'altro dalla frase (e, oseremmo aggiungere, anche dalla stringa metrica, ma, come ovvio, senza la presenza di alcun accento proprio di questa). Un giovine di vaglia, Salvatore Monda, mi ha obiettato (per litteras) che il riluttare di sillaba tonica all"abbreviamento' suggerisce piuttosto una spiegazione linguistica della CI, dovendosi riconoscere minima importanza, in una meSi vedrà (oltre 286 sgg.) come talvolta gli dementi di ia6 e tr 7 che godono ddla 'libertà di Jacobsohn' siano realizzati dalla seconda sillaba dei 'quasipirrichii', cioè proprio da qudle sillabe 'half-long' ricordate per tutt'altro proposito da Lindsay (vedi ad es. Cur. 163 195 202 547 ego tibi mihi nd terzo demento, 294 ego 340 ibi ndl'undecimo): pregevole osservazione in Calderan Vid. 158 sg. commentando il v. 90 (e già RamaioScan. 442-443). 28
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Prosodia
trica quantitativa, all'accento grammaticale (e il Monda è propenso a vedere connesse CI ed 'Endsilbenkiirzung': uoluptates, insomma, e condisciit > condiscat).L'obiezione è assai pertinente, ma non altrettanto cogente. Plauto conosce solo il tipo condisciit,Terenzio (vedi sopra 19) può oscillare tra condisciite condisca!,ma entrambi oscillano liberamente tra uoluptates e uoluptates (sopra 101 e 139), finché la dizione poetica e le clausole ciceroniane, uniche fonti da noi controllabili, ammetteranno solo uoluptates (dunque con la lunga), in netta controtendenza rispetto alla 'Endsilbenkiirzung', fenomeno del pari irreversibile, ma, appunto, opposto. Ma c'è di più. La renitenza della sillaba accentata alla CI ha una spiegazione che, parrebbe, è sostenuta dall'ipotesi 'metrica' in modo non inadeguato. Infatti l'accento latino, musicale come ormai tutti ben sanno, comportava intonazione ascendente con un intervallo avvicinabile al nostro do / fa, do / sol. Questo faceva sì che indubbiamente la sillaba accentata, 'culmine' della parola stessa come la glottologia ci insegna, suonasse, per così dire, 'di più' delle altre e quindi non si prestasse che in casi eccezionali (inizio di verso, per es.) a entrare nella convenzione - squisitamente metrica - che a certe ineludibili condizioni, tra cui il formare un solo elemento, consentiva di equiparare u- a uu. E per finire. La CI è stata indagata soprattutto con riferimento, esplicito o implicito, a Plauto: in Terenzio, dove pure Bentley lo 'scoprì', il fenomeno è stato indagato assai meno. Invece una risposta più precisa ai quesiti che abbiamo posto innanzi tutto a noi stessi, con poco riguardo a 'idées reçues' (e 'reçues' a suo tempo anche da chi scrive), potrà venire proprio da una puntuale indagine della poesia terenziana, per tanti lati così diversa da quella plautina: diversità chiama diversità, anche - è da credere - nella fruizione della CI. A colpo d'occhio anche la CI sembra comportarsi diversamente in Terenzio: pare infatti diminuire percentualmente e, di più, limitarsi a precise tipologie, sì che il senario di Terenzio, e di altri dopo di lui, che ammette ancora la CI, approderà a quello di Cicerone che non l'ammette più (fr. 70 Traglia in Tusc. II 8, 20). Ma come studiarla in modo debito e sicuro se di Terenzio non si dispone di un'edizione affidabile? Né la si vede all'orizzonte (fanno eccezione, ma non bastano, buoni commenti a singole commedie, come quello del-
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l'Eunuchus di J. Barsby) 29 • Le sparute schiere dei filologi classici orientati sul latino privilegiano - lo notava già Billanovich in modi· santamente aspri che scandalizzarono le anime belle 30 - pagine su pagine onanistiche su Virgilio Orazio Ovidio, dove (magari auctore il Cagliostro di Berggasse 19) si commenta il già commentato ad uso precipuo dei 'colleges' per figlie di petrolieri texani.
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Di Barsby è altresì davvero pregevole l'edizione di tutto Terenzio (2001) nella 'Loeb Classica! Library', purtroppo senza apparato stanti le nonne della collana. 30 Le tradii.ioni dei classici latini e la letteratura italiana tra medioevo e umanesimo, in La critica del testo (Atti del Convegno di Lecce 22-26 ottobre 1984), Roma 1985, 289-304. Vedi a p. 289 e sg.: «la filologia classica fino a ieri tenne corona e scettro nelle facoltà umanistiche; e oggi vi resta la dama nobile che ogni onesto cavaliere è tenuto a difendere a lancia e spada contro il drago della barbarie che incalza. Ma, signora anziana, mantiene costumi antiquati e facilmente indulge a loquacità senile; ... gli oziosi del borgo - Dio li conservi - faceziano tra tesi e congressi, su temi esausti 'Virgilio e la natura', 'Ovidio e l'amore', 'Apuleio e la magia'». Si può aggiungere, a piacere, 'Virgilio e il principe' o dicasi 'Il principe e Ovidio', 'Orazio e l'epicureismo' o dicasi 'Epicuro e Orazio' e via blaterando sugli chagrins, le depressioni, i reumatismi e magari i coitus ante portas del medesimo poeta o degli altri.
VI ABBREVIAMENTOPER ENCLISI
L'abbreviamento per enclisi è il fenomeno per cui una sillaba lunga può diventare breve se riceve accento d'enclisi dalla parola successiva. Questo fenomeno è oscuro e complesso, non meno della co"eptio iambica,e neppure si manifesta regolarmente, ma, in latino, solo con alcune parole e neanche tutte le volte che queste ricorrono. Il fenomeno ha tuttavia lasciato nella lingua tracce indubitabili, confermate dalla prosodia della poesia classica1; nella prosodia degli scenici repubblicani l'abbreviamento si constata largamente con la parola quidem e proprio quandoquideme stquidem sono, oltre che in Plauto e in Terenzio, nei poeti classici. Così abbiamo quandoquidemin Catullo 64, 218 e 101, 5; Lucrezio I 296; Virgilio Bue. III 55 Aen. VII 547 XI 487; Fedro III 10, 52; Giovenale X 146; stquidem manca in Virgilio e Orazio, ma è in Ovidio Am. III 7, 17 e Met. X 104. Daremo ora alcuni esempi significativi, senza tralasciare, per confronto, i casi in cui il fenomeno non si manifesta e quelli, niente affatto rari, in cui dal punto di vista metodico l'una e l'altra scansione sono accettabili: come ben saputo, più d'una volta si può rimanere in 1
Si riteneva hodie derivato da *ho die (vedi Sommer Form. 129), ma oggi l'opinione degli studiosi è diversa: vedi Wackemagel Beitr. 1091, Emout-Meillet Dici. 297 (e Th/L VI 3, 2848, 45-48); del pari non si accetta più la discendenza di quasi da *quamsi(Wackemagel ibid.); circa equidem è solo ritenuta possibile la derivazione da *equidem(cf. ecastor):Wackemagel ibid., Emout-Meillet Dict. 557; il latino a noi noto conosce in ogni caso soltanto equidem, ampiamente attestato negli scenici.
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dubbio tra due figure ritmiche entrambe ammesse in quella sede del verso. Seguiremo anche noi l'uso prevalente degli editori plautini e terenziani di scrivere come una sola parola il gruppo in cui si verifica l'abbreviamento e come due distinte parole quello in cui non si verifica. 1) quando quidem I quandoquidem
a) Plauto Sti. 559 (tr7 ) hercle qu(i) aequum postulabat i/le senex, quando quidem (si noti anche la probabile misura ilf; quando quidem anche in Sti. 483 verso di dubbia autenticità) Men. 1024 (tr 7 ) liber(em) ego te? :: uerum quandoquid(em), ere, te seruaui :: quid est? (sull'ottavo elemento bisillabico vedi oltre 320 sgg.) Mere. 618 (tr7 ) perg(e), excrucia, eamu/ex, quandoquid(em) oeeepisti semel (e vedi anche Men. 1024 Mere. 171 180 933).
b) Terenzio Ad. 956 (ia 6 ) quid istic? dabitur quando quid(em) hie uolt :: mi pater! (il testo non è sicuro e la scansione sopra accolta, di Lindsay-Kauer, presuppone la CI quid ì'stie, cui niente obbliga; sarebbe l'unico caso terenziano di quando quidem: in sostanza non esiste) And. 487 (ia8 ) déòs quaes(o) ut sit superstes, quandoquid(em) ipse (e)st ingenio bono (quandoquidem è la misura in tutti gli altri versi di Terenzio: And. 608 Haut. 1064 Eun. 374 Phor. 405 Hee. 492 Ad. 640; tutti i passi plautini e terenziani sono benissimo esaminati in Scherer Pari. 137-143). 2) si"quidem I sfquidem
a) Plauto As. 712 (ia7 ) datisn(e) argentum? :: si quidem mi statu(am) et aram statuis
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Mii. 28 (ia6 ) al indiligenler iceram :: poi si quidem (si noti la mancanza dell'abbreviamento in fine di verso o di colon: vedi As. 712) Cur. 211 (tr 7 ) sì'quid(em) bere/e mi regnum detur, numqu(am) id potius persequar (l'ipotesi di una CI si quld(em) bere/e è meno facile; anche altrove la misura slquidem evita durezze prosodiche: vedi Cur. 268 Bacch. 356 Per. 579) Tri. 593 (ia6) si quid(em) ager nobis saluus est; ets(t) admodum (la misura slquidem darebbe invece questa volta un inizio di verso giambico non amato dal poeta: slquld(em) ager, così come in Mii. 419 Truc. 177: preferire quindi si quidem) Amph. 1006 (ia6 ) slquidem uos uoltis auscultand(o) operam dare (è possibile misurare anche si quldem uos uoltis ... , cioè con la CI di quidem) Cur. 703 (tr 7 ) slquidem uoltis quod decrere /acere :: tibi permillimus (anche questa volta è possibile si quldem uoltis ... : vedi Mere. 872 slquidem mecum I si quldem mecum, Rud. 972 slquidem cepi I si quldem cepi e ancora Bacch. 356 Per. 579 Au. 688; in realtà la scansione con CI è teorica perché questo fenomeno è rarissimo nelle sedi con licenza, oltre 221, o nell'ottavo elemento di tr 7 con incisione mediana quale Per.579, sopra 128 sgg.: l'abbreviamento per enclisi è pertanto la misura poziore).
b) Terenzio Ad. 969 (tr 7 ) deniqu(e) hic vult fieri :: uin t(u) hoc fieri ? :: cupio :: si quid(em) hoc (in fine di verso come Mii. 28 e vedi As. 712 in fine di colon) And. 465 (ia6 ) quid eg(o) audi(o) ? actum (e)st, slquid(em) haec uera praedicat (la scansione si quld(em) hàéc uera comporterebbe una dura CI, altamente improbabile; slquidem è necessario o del tutto preferibile nelle altre ricorrenze terenziane: Haut. 324 331, Eun. 50 182 446 717 828
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1019, Phor. 302, Hec. 560, Ad. 976 979; sf quidem in Ad. 969 resta dunque esempio isolato, giustificato dalla clausola).
3) forme dd pronome personale con quidem a) Plauto Cap. 120 (ia6 ) sumus quam seruimus :: non uider(e) ita fii quidem Cur. 564 (tr7 ) sed quid agit meum mercimoni(um) apud te:: ni/ apud me quidem (si noti la doppia CI di apud, su cui sopra 92-94) Ps. 1154 (tr7 ) uera memoras :: hoc argent(um) ut mi dares? :: si fii quidem (e)s (me quidem in clausola As. 920 Rud. 244 1165 1416 Sti. 602, nel corpo del verso Cur. 402 Men. 857 Mt1. 396; tii quidem in clausola Cap. 574 Mere. 571 Mii. 322 1111 Mos. 361 Rud. 1320, nel corpo del verso Mere. 163 617; te quidem in clausola Truc. 751, nel corpo del verso Mere. 905 Truc. 647: altro materiale da ricontrollare sulle edizioni moderne in Luchs Comm. 1 19-21; si noti infine mihi quidem e tibi quidem all'inizio di Mere. 762 e Poe. 412 con la rara misura giambica dei pronomi) Ep. 99 (tr7 ) tiiquid(em) anthac a/iis solebas dare consi/ia mutua (vedi già Buechder Schr.3 119; altro esempio Ep. 667) Poe. 280 (tr 7 ) enim uer(o), ere, facis de/icias :: de tequid(em) haec didic(z) omnia (l'abbreviamento per enclisi evita dure e improbabili CI: vedi più sopra i casi plautini e terenziani di slquidem; mtquidem Cap. 866 Mii. 158 dove mihi è puro grafema: vedi oltre Haut. 423 ).
b) Terenzio Ad. 391 (ia6 ) patris et /aci/itas praua :: /ratris me quidem Hec. 233 (tr7 ) gaude(o), ita me di ameni, gnati causa; nam de te quidem (la sequenza non abbreviata ricorre qui, come in Plauto, in fine di verso,
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ma Terenzio per es. conosce anche te quidem nel primo emistichio di Haut. 810 e Pbor. 687, versi che peraltro hanno qualche incertezza testuale)
Haut. 423 (ia6) nam mibi quidem cotidi(e)augescitmagis (mibi quidem è puro grafema equivalente a mi quidem, che nel primo emistichio ritroviamo per es. in Haut. 542 Hec. 606) And. 225 (ia8 ) m(quid(em)bere/e non fit ueri simi/(e);atqu(e) ipsis commentum placet (mi qu{d(em) bere/e è meno probabile per le ragioni esposte circa Cur. 211; per motivi identici o affini m{quidem e mequidem sono da ritenersi sicuri in versi come Pbor. 686 Ad. 337 379 Haut. 396 Ad. 899) Eun. 731 (ia8 ) uidere mi quam dudum :: certe tuquidem poi mult(o) bi/arior Haut. 707 (ia7 ) satis sanus es et sobrius ? tuquid(em) i/lum piane perdis (in entrambi i casi l'abbreviamento per enclisi evita durezze metricoprosodiche; nel secondo verso si noti es, cioè ess). 4) forme dd pronome dimostrativo con quidem
a) Plauto
Ampb. 660 (tr7 ) meus uir b{cquidemst:: sequer(e)bac tu me :: nam quid ill(e) reuortitur? Cap. 823 (tr7 ) eugepae!I edictionesaediliciasb{cquid(em)babet (la presenza dell'abbreviamento per enclisi è qui illusoria: come accennato sopra 64, nei pronomi dimostrativi la presenza di quidem esclude la presenza di -c(e): abbiamo quindi in realtà b{quidem istequidem i/lequidem, in teoria persino bunquidem buiquidem, e al plurale baequidem istaequidem i//aequidem, forme in seguito spesso oscurate nella grafia dalle vicende del testo plautino, come osservò benissimo Luchs Comm.2 15-16, al quale appunto si deve (ibid. 3-16) la scoperta della vera forma plautina e terenziana; cenno riassuntivo in Lindsay Ear/y 119-120 che suggerisce l'uso della grafia bi(c)quidem, da lui effettivamente adottata nell'edizione di Terenzio)
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Mii. 353 (tr 7 ) sic opsist(am)hac quidem poi certo uerba mi numquam dabunt Mii. 1259 (ia7 ) naso poi i(am) haecquidemplus uidet quam I oculis :: caec(a)amorest (nel primo verso Lindsay suggerisce implicitamente la scansione hac quì'dem, mentre nel secondo hàé(c)quzdemcon l'abbreviamento del pronome per accento d'enclisi; ma anche nel primo nulla sembra opporsi ragionevolmente ad ha(c)quzdem per via dello stesso fenomeno; inutile dire che in entrambi i versi è possibile misurare hac quzdem, haec quì'dem: proprio per Mii. 1259 sembra suggerirlo Lindsay Early 92 correggendo se stesso; vedi anche Amph. 696).
b) Terenzio Eun. 228 (tr7 ) sed quis hic est qu(i) huc pergit? :: atta/ hì'cquidem(e)st parasitusGnatho Eun. 681 (ia6 ) ne comparandushicquid(em)ad illumst: ill(e) erat (come dovunque altrove in Terenzio hicquidem = hzquidem, giusta quanto osservato a Cap. 823; non ci sono prove in Terenzio di ho(c)quidem, hae(c)quidem, ha(c)quidem, dove semmai sono sicuri i casi in cui l'accento d'enclisi non ha agito, come Phor. 904 Ad. 803 Haut. 852 Ad. 943; già Luchs Comm.2 16 aveva osservato l'apparire in Terenzio di sintagmi in cui quidem gode di maggiore autonomia accentuativa rispetto a quanto precede, diversamente dall'uso plautino).
5) forme del pronome relativo con quidem a) Plauto Poe. 1213 (tr7 ) sed quis homost? :: amicus uobis :: quzqui'd(em)znzmicusnon siet (la scansione del verso è sicura: vedi anche Lindsay Comm. 25; per le quattro brevi dopo incisione mediana vedi Poe. 282 e anche Cur. 547; considerato questo esempio, è possibile, ma niente costringe, misurare quaequidem in As. 2 Ep. 180, quaquidem in Bacch. 888 e altrove; però quae quidem Sti. 260).
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b) Terenzio Ad. 268 (ia8 ) eg(o) 11/(am)bere/e uer(o) omitto quì'qutdem t(e) habeam /ratr(em): o m(i) Aeschine (l'abbreviamento è sicuro: vedi anche Lindsay Comm. 25; misurando invece omillo qui qutdem te avremmo un impossibile ia8 con settimo elemento lungo davanti a incisione mediana: oltre 304; vedi qui Eun. 365) Haut. 193 (ia8 ) quid re/icuist quin habeiit quaequrd(em) in homine dicuntur bona? (questa volta Lindsay suggerisce la scansione quae quidem, che peraltro sembra da respingere perché comporterebbe anch'essa ia8 con incisione mediana e settimo elemento lungo habeiit quae quidem; quae quidem è invece sicuro in Phor. 678) Eun. 365 (tr7 ) o /ortunat(um) ist(um) eunuchum qutquid(em) in hanc detur domum (la scansione con abbreviamento, suggerita da Lindsay, è certo possibile, ma non necessaria: nulla osta a nono elemento lungo e decimo bisillabico qui qutd(em) rn; vedi comunque sopra Ad. 268).
A conclusione di questa problematica difficile e oscura si consideri Amph. 749 (tr 7 ) hanc roga :: me quidem praesente numquam Jactumst, quod sàam:
Luchs Comm.1 19 difende la scansione hiinc roga:: me quì'dempraesente; altri prima di lui (Goetz-Loewe) hiinc rogii :: me quì'dempraesente; Lindsay infine, acquisito il concetto di abbreviamento d'enclisi ancora ignoto a Luchs, misura hiinc rogii :: mequì'dempraesente; Leo stampa me quidem, forse d'accordo con Luchs ... e forse no. 6) altre forme con quidem
In tutti i casi finora esaminati quidem è posposto a parola uscente in vocale lunga o dittongo, ma taluni hanno ritenuto che l'abbreviamento d'enclisi potesse agire anche con sequenze come hiis quidem (Cap.668 Ps. 25 30), oppure con parola contenente vocale breve ma uscente in occlusiva, sibilante o nasale. Così, se id quidem è sicuro in
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And. 399 Phor.615 Ad. 578, ldquidem sarebbe possibile (ma, aggiungiamo subito, non necessario) in Phor. 850 e in As. 149 (in questo verso per evitare CI in elemento bisillabico davanti a incisione mediana: sopra 128 sg. e vedi Lindsay Early 165, Danese ad I. e qui più oltre); ancora quodquidem possibile (ma non necessario) in Ep. 638 Phor.578 689 (vedi più oltre Ad. 590). Nessuna ragionevole possibilità si può concedere ad itquidem Bacch. 677, utquidem Poe. 316, dumquidem As. 870 Bacch.226; tantomeno ad lsquidem Ad. 293 (fs quidem sicuro Hec. 699). Neppure appaiono casi cogenti di etquidem (vedi per es. And. 967 Phor.209 471 Hec. 195), anche se in Ad. 974 etquidem è preso in considerazione, ma con scetticismo, da Jachmann Stud. 35 n. 50 per le stesse ragioni addotte circa As. 149. Per dare un'idea della tormentante polimorfia dei fatti prosodici del verso scenico repubblicano si consideri Ad. 590 (tr 7 ) nam i(am) abib(o) atqu(e) unum quicquid, quod quid(em) erit bellissimum
del cui secondo emistichio abbiamo dato la scansione suggerita da Lindsay nell'edizione. Ma di questo stesso emistichio si dànno altre due possibilità di scansione: quod quid(em) ent bellissimum
cioè senza la CI di erit, mentre la terza implicherebbe l'abbreviamento per enclisi (vedi anche Ad. 692): quodquid(em)
eritbellissimum.
Il problema di fondo è in realtà altro, assai simile a quello dell'effettivo 'suono' della sillaba 'abbreviata' per CI. Come poteva l'accento d'enclisi - da supporsi, oggi, anch'esso melodico - neutralizzare la sequenza di due consonanti, di per se stesse eterosillabiche, così da consentire, ai fini del metro, una realizzazione che suonasse all'incirca *lquidemI ldtdem, *equidemI etidem, *quoquidemI quodidem? Tale, insomma, da assicurare le due brevi assolutamente necessarie al me-
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tro? 2 Di qui, si può credere, il rifiuto di quest'aspetto del fenomeno in Lindsay Early 73-74, 165 172, peraltro troppo rigido circa altre occorrenze, come subito vedremo. Non è soltanto quidem l'enclitica, o posposmva, che determina fenomeni prosodici nel latino di età repubblicana: un congruo numero di esempi coinvolge il pronome / aggettivo indefinito quis (qut) e il pronome/ aggettivo interrogativo ecquis (ecqut). 1)
sf quis I stquis, sf quid I s{quid3 a) Plauto Sti. 67 (tr 7 ) slquis me quaeret, ind(e) uocatot(e) a/iqui; i(am) egomet hic ero (il verso è sicuramente trocaico, e non l'ottonario giambico escogitato da Lindsay per evitare sì'quis, che è altresì pirrichio o per Cl o, meglio, per caduta di -s: vedi già F. Skutsch Rom. 9 n. 2) Sti. 182 (ia6 ) nulli negare soleo, sfquis m(e) essum uocat
Al Seyffert Jber.1 7-9 si deve, salvo errore, l'estensione dell'abbreviamento d'enclisi ai tipi is quidem, id quidem; lo stesso studioso, se in RecAu. 310 stampa i(d)quidem discutendo As. 478, sembra aver proposto, rendendo esplicito quanto si avverte sottinteso nella trattazione precedente, anche una caduta di fonemi per effetto dell'accento d'enclisi. Wackemagel Beitr. 1092 suggerì più raffinata spiegazione senza toccare il problema - peraltro assolutamente ineludibile - delle due consonanti cterosillabiche e del loro 'suono' nella sequenza che dovrebbe 'abbreviarsi' nella prima sillaba. 3 L'uso degli editori di Plauto e di Terenzio non semplifica il quadro: Lindsay alterna siquis e si quis a seconda che accetta o no la forma abbreviata, ispirandosi a criteri talora molto personali (in genere annota in apparato i suoi dubbi circa siquid ccc.: ma perché giungere a fare di Sti. 67 un impossibile verso giambico?); Leo stampa quasi sempre si quis, si quid lasciando arbitro (ma arbitro dubbioso ...) il suo lettore; nell'edizione di Terenzio Lindsay ha dovunque siquis siquid: soluzione eguale e contraria, con gli stessi effetti, a quella leonina per Plauto; Marouzeau stampa sem• pre si quis, si quid ignorando di massima, nei Commentaires métriques, i problemi connessi. Stranamente nessun cenno ai veri o presunti effetti dell'accento d'enclisi nel pur diligentissimo Bemardi Perini Ace. 40-45. 2
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(Lindsay Early 172 'riscrive' il verso per evitare siquis dopo averlo accettato in Comm. 25; anche qui il pronome è pirrichio o per CI o per caduta di -s; vedi oltre Ad. 539 941)
Au. 340 (ia6 ) turb(a) istic nulla tib(i) erit: siquid uti uoles (questa volta Lindsay sembra ammettere siquid, come già in Comm. 25, ma citando in appar. la correzione di Camerario si qui, dove qui è avv. indefinito: vedi qui Tri. 855) Mere. 1023 (tr7 ) sf quis prohibuerit, plus perdei clam quasi praehibueritpalam (anche questa volta Lindsay sembra suggerire siquis: in questo caso sarà da misurare prohibuerit di 4 sillabe, come normale al perfetto cong., ma praehibuerit di 5, misura invece problematica: vedi Early 140; la scansione che qui si accetta è quella proposta a suo tempo da Seyffert Plaut.1 455-456) Tri. 855 (tr7 ) quo modo quidqu(e) agerem;nunc adeo st quid eg(o) addider(o) amplius (il metro consente anche siquid ego, così come in Tri. 1128 possiamo avere st quid amicum I siquid amicum; in Ep. 729 siquid fmprudens, di Lindsay, è forse preferibile alla CI st quid imprudens: ma Lindsay stesso propone in appar. st qui come Camerario in Au. 340) Cis. 67 (tr7 ) siquid est quod doleat, dolei; s(t) autem non est... tamen hoc hic dolei (è possibile anche st quid est dove il pron. indef. 'abbrevia' la forma verbale per CI, come in Vid. 19 ed Ep. 526, scansione ovunque preferita da Lindsay; ma siquid sembrerebbe misura più piana: vedi F. Skutsch Rom. 9 n. 2 O. Skutsch Pros. 30-31 e Questa ad Ep. 526).
Nulla si ricava da versi incerti e corrotti come Amph. 391 Men. 556 o, peggio ancora, Sti. 715 e 717. b) Terenzio And. 159 (ia6 ) simul sceleratusDauus si quid consili (si quid è misura pressoché costante in Terenzio: And. 333 678 712 713 737 981 Ad. 115 372 454 547 Phor. 440, Phor. 553 su cui anche Minarini Stud. 138 n. 62, Eun. 522 Haut. 555)
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Ad. 539 (tr7) siquid rogabit, nusquam tu m(e) ...: audistin? :: potin ut desinas? Ad. 941 (tr 7 ) age, quid siquid te maius oret? :: quasi non hoc sit maxumum (in questi due versi siquid sembra sicuro e la parola è altresì pirrichia per CI; siquid è probabile anche in Haut. 551, su cui vedi O. Skutsch Pros. 56 n. 1) Phor. 643 (ia6 ) quid? nimium; quantum libuit :: die :: si quis darei (in questo verso si quis è certissimo perché siquis darei comporterebbe impossibile violazione della norma di Bentley-Luchs: oltre 371 sgg.; del pari sicuro si qui avv. in Ad. 521) And. 258 (tr7 ) quod si ego resciss(em) id prius, quid /acerem siquis nunc me roget (la misura siquis è riconosciuta da Lindsay Comm. 25 e vedi già F. Skutsch Rom. 9 n. 2; si noti ego ove si accetti priu' suggerito da Lindsay nell'edizione, ma ego con la misura giambica di prius preferita da F. Skutsch; nell'insieme prevalgono in Terenzio le misure 'classiche' si quis, si quid: manca peraltro uno studio complessivo) 4 • 2) ecquis (ecqui) I ecquis, ecquid (ecquod) I ecquid (ecquod)
a) Plauto uzp. 459 (tr7 ) eadem percontabor ecquis bune adulescentem nouent (per lajuis vedi Lindsay Comm. ad I., la cui scansione alternativa è peraltro del tutto inaccettabile: vedi oltre 169 n. 5)
4
L'invariabile misura plautina e terenziana nescioquis(anche nescio quis), dove il verbo è desemantizzato e il sintagma forma un vero e proprio pronome indefinito, (cf. italiano 'un nonsochi', 'un nonsoché') ha suggerito l'ipotesi che la quantità della -o sia dovuta anch'essa all'abbreviamento d'enclisi: così Wackemagel Beitr. 1091 interpretando i dati della precisa, esauriente ricerca di A. Luchs Plaut.1 264-273. Va da sé che ove il verbo riprenda il suo pieno valore, per es. come reggente di una interrogativa indiretta quale nescio quid /ecen·t, esso appare con la sua misura nesciò: Luchs ibid. 266 sgg.; le poche eccezioni segnalate da Lindsay Early 173-174 appartengono a versi incerti o si giustificano in altro modo (vedi anche sopra 95 n. 5).
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Prosodia
Tri. 870 (tr 7 ) aperit(e) hoc, aperit(e).heus, ecquis bis foribus tutelam geni Per. 108 (ia6 ) sapis mult(um) ad genium :: sed ecquid meministin bere (ecquid anche in Per. 107 Sti. 338, in Per. 225 ecquid o ecquid e poi ecqutd tu; ecquis anche in Ps. 1139 Sti. 352) Bacch.980 + 980a (tr4 e tr 4 ) quid quod te mis(i), ecquid egisti? :: rogas?congredere:: gradior (ecquid anche in Cur. 131, commentato in modo incomprensibile da Lindsay Early 173, e in Tri. 717 che però ha testo incerto) Mos. 354 (tr7 ) ecquis homo (e)st qui Jacer(e)argenti cupiat aliquantum lucri (sarebbe possibile anche ecquis ho-, ma, considerando che la 'licenza' è sgradita al poeta come fatto metrico, la scansione sopra suggerita sembra poziore; vedi anche Truc.542 ecquidamas me oppure ecquidamas me).
In altri passi plautini il comportamento di ecquisI ecquid suscita problemi più complessi: talora il rigore delle norme metriche permette di decidere circa la prosodia (vedi già sopra Ad. 268 Haut. 193 Phor. 643), talora no. Vediamo dunque: Ps. 740 (tr7) quid, s(i) opus sii ut dulce promat indid(em), ecquid habet? :: rogas ? (la scansione ecqurd habet :: rogiisè impossibile perché il 12° elemento -quid ha- risulterebbe formato contro la norma di Ritschl: oltre 207; la scansione ecquid habet :: rogiisviolerebbe la norma di Bentley-Luchs: oltre 371 sgg.; l'unica scansione possibile è dunque ecquid hahet :: rogiis, dove il pronome realizza 11° e 12° elemento, habet pirrichio per CI il 13° bisillabico, rogasil 14° e il 15°: vedi anche Num. 437 n. 8; che lungo tragitto per avere la conferma di ecquid!) Amph. 1020 (tr7 ) aperit(e) hoc. heus ecquis hic est ? ecquis hoc aperit ostium ? (abbiamo prima ecquis e poi ecquis per le stesse ragioni di Cap. 459 Tri. 870 Ps. 1139 Sti. 352; ecquis e poi ecquis in Truc. 254/55) Rud. 413 (ia7 ) heus ecquis in uillast ? ecquis hoc recludi! ? ecquisprodit ? (per ecquisvedi Amph. 1020 e i versi ivi citati, ma cf. Lindsay Ear~v89).
Abbreviamentoper enclisi
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Il passo più problematico sembrano essere i w. 581-583 delle Bac-
chides (ia6): /ores pultare nescis. ecquis in aedibust? heus, eaJuis hic est? ecquis hoc aperit ostium? eaJUÌSexit? :: quid istuc? qu(ae) istaec est pu/satio? (vedi oltre 169 n. 5 la discussione cui questi versi hanno dato lo spunto). b) Terenzio
And. 25 (ia6 ) ut pernoscatisecquid spei sit relicuum (circa spei monosillabico vedi Lindsay Early 217; ecquid ancora in And. 871 Phor. 474 798 Haut. 595 Eun. 279 456, Ad. 877 su cui Minarini Stud. 138 sgg.; ecquod Eun. 519) Eun. 530 (ia6) non bere/e ueniam terti(o). heus, heus ecquis hic? Eun. 522-523 (ia6 ) eaJuisc(um) e(a) una; quid habuisset quom perii; eaJuis eam posset noscer(e).haec cur quaeritet? (Eun. 523 è da aggiungere all'elenco di Pavone Lic. 192; in Eun. 1031 eaJuisè sicuro anche ritenendo il verso ottonario giambico: così Marouzeau, ma a torto; ecqua Eun. 521 ecquem Hec. 804).
Terenzio, dunque, non sembra mai avere le problematiche ambiguità prosodiche riscontrate in Plauto. 3) altre forme con quis I quid a) Plauto
nequis è stato supposto in Cap. 791 e nequzd in Cis. 531, ma l'uno e l'altro verso hanno tali incertezze testuali da non consentire alcuna decisione; invece in Sti. 576 (tr7 ) quin uocauist(i)homin(em) ad cenam ? :: ne quid adueniens perderem
Prosodia
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è stato proposto di intendere nequ{d id-, ma è lecito anche ritenere che quid possa 'abbreviare' la sillaba iniziale di adueniens per CI e possa misurarsi ne qu{d adueniens (ma sul verso cf. oltre 247);
nìimquid è stato ritenuto possibile in Men. 548 (se non si accetta l'intervento testuale di Acidalio); più tentatore è Mere. 282, dove l'abbreviamento per enclisi ovvia a difficoltà metriche serie (vedi l' appar. ad l. di Lindsay), ma anche qui sono state proposte correzioni seducenti (adieereSchoell e Lindsay Early 91); in Per.551 a nìimquid si può opporre niim quid, con successiva CI, non diversamente da Sti. 576. b) Terenzio non presenta mai i casi problematici caratteristici di Plauto: ne quid è sicuro in Haut. 555, niim quid in Eun. 475 Phor. 474. 4) altre forme di indefiniti
qu{squisè stato ritenuto possibile in Sti. 686 tr 7 , ma Lindsay Early 57 e 173 ha invocato la caratteristica confusione grafica (ma non solo) fra quisquis e quisque e ha letto (cf. anche O. Skutsch Pros. 31): quisqu(e) praetereat comissatum uo/o uocari :: conuenit (quisque, in tal caso, può essere suggerito nel passo affine di Amph. 309, corretto da altri in altro modo; si noti la caduta di -eantecons.);
qu{dquidè stato proposto per scandire Mere. 337 Mii. 311 True.253, dove peraltro è meglio intendere ancora quid quid (così Leo Forseh. 261 e vedi O. Skutsch Pros. 14), mentre in Tri. 218 ia6 la congettura di Acidalio (quidque al posto di quid.quid)è accettata da Lindsay Early 173 (vedi più sopra circa Sti. 686; ancora quid.quidnell'edizione, forse considerando l'accordo AP): und(e) quidqu(e) auditum dicant; nis(z) id appareat.
Inutile rilevare l'estraneità di Terenzio a simili problemi.
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Il fenomeno dell"abbreviamento per enclisi' fu osseivato per la prima volta da Buecheler («ALL» 3, 1886, 144-146 = Schr.3 117-119) discutendo il v. 475 Marx di Lucilio (quod uiscus dederas tu quidem, hoc est: uiscera largi), di non facile interpretazione complessiva in una con quanto lo precede, ma almeno testualmente sicuro perché tramandato due volte in modo identico da Nonio (271 e 775 L). Buecheler nota che il verso - un esametro - esige tu quidem, prova, secondo Buecheler, ancora in un autore di età graccana, della forza ('Macht') dell'accento nel latino arcaico, tale che esso accento può 'ridurre' la quantità. Buecheler cita ampiamente i risultati di Luchs in Comm. 1-2 circa l'enclisi di quidem e, secondo lui, è dunque proprio per effetto dell'accento d'enclisi ricevuto da tu che il pronome si abbrevia (di qui la grafia tuquidem, destinata a non piccola fortuna). Ma Buecheler sa bene che Plauto e Terenzio conoscono anche tii quidem, me quidem e così via: pensa dunque che i Romani - fino a che nella lingua letteraria e per opera di questa stessa si pose fine ad un fenomeno della lingua parlata - avessero, accanto alla pronuncia 'distesa' e 'oratoria' con due accenti (cioè, si deve intendere, tu quidem), una pronuncia 'rapida', sotto un solo accento (cioè tuquidem) che comportava l'abbreviamento della sillaba rispetto alla quale in questo caso quidem risultava enclitico. Buecheler ebbe buon gioco a ossetvare che, ciò ammesso, un verso come Ep. 99 (sopra 156) risultava perfettamente scandibile senza più ricorrere alla goffa correzione tu equidem, mezzuccio a lungo usato dagli editori di Plauto per 'far sparire', lì e altrove, una scomoda lunga: t(u) equidem. Aggiungiamo che Marx approvò senz'altro la scoperta prosodica di Buecheler (vedi C. Lucilii carminum reliquiae, ree. F. M., II, Lipsiae 1905, 177 ad v. 474). Dalla breve, acuta nota di Buecheler prendono le mosse gli interventi successivi (vedi nn. 2 e 5), tutti intesi, tranne Wackemagel che ha altri interessi e resta caso a sé stante, ad allargare la portata del fenomeno: in particolare lo studio del Vollmer Ton. 3-32, che peraltro è del tutto inattendibile. Un solo esempio: la scansione di Ps. 740 (sopra 164) proposta in Ton. 19 non pare degna di uno studioso impegnato sul serio in queste ricerche; e gli esempi si potrebbero moltiplicare. Si deve, crederei, anche a questo infelice contributo l' arroccarsi di Lindsay (nel volume del 1922) su posizioni talora estreme,
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Prosodia
talora esitanti, talora da rifiutare senz'altro; in ogni caso, però, da considerarsi, da parte di noi epigoni, con interesse e rispetto: quod
licet lovi non licet bovi. In particolare un'affermazione di Lindsay merita di essere ricordata. Nel 1900 egli scriveva (Comm. 25): «in our present state of knowledge we can hardly feel perfectly certain of any shortening like dassical szquidemquandoquidemexcepting the dosely analogous mequidem, tuquidem, tequidem. These three are quite sufficiently guaranteed». Quest'affermazione sembra implicare non solo un riferimento al primus i'nventorBuecheler, ma, ancor più, la sostanziale limitazione dell"abbreviamento per enclisi' ai casi in cui l'enclitica (che Lindsay pare inoltre ridurre a quidem) è preceduta da vocale lunga o, al più, dittongo: nessuna apertura, nel 1900, al tipo fdqui-
dem. In epoca successiva (1922) il netto rifiuto di questo tipo, che si evince senza difficoltà dai passi dell'Early commentati a n. 5, da un lato trascina con sé l'ingiusto rifiuto anche del tipo sfquis, dall'altro potrebbe anche essere motivato dalla consapevolezza (mai peraltro esplicitata ...) dell'estrema difficoltà fonetica di tale 'abbreviamento' (eppure Lindsay non arretrava di fronte a durissime co"eptiones iambicae, tuttavia da lui 'ancorate' eroicamente al 'parlar quotidiano'!). Accanto ai tipi ammessi dal Lindsay del 1900 ammetteremo dunque, trascinati dall'analogia con mequidem ecc., anche sfquis (perentorio però Lindsay Early 217 «perhaps never sfquis»), accettando del pari che slquid anteconsonantico possa essere pirrichio per CI (Ad. 539 e 941); non impossibili, ma incertissimi, nequis nequid (troppo cursorio il cenno di Devoto Dist. 61, che poteva avere sviluppi utili). Non è tutto. Il rifiuto di ldquidem e simili sta anche al fondo di un altro sostanziale 'no' lindsayano: quello che ha colpito il tipo ecquis. Il problema è davvero tormentoso perché gli 'escamotages' cui ricorre con splendida indifferenza il grande studioso sono perfino irritanti, come vedremo a n. 5. Non si può invece negare, è davvero il caso, che «in our present state of knowledge» esempi di ecquis ecquid siano - in Plauto - irrefutabili. Dovremo spiegarli, e la spiegazione dovrà procedere dalla glottologia e dalle conoscenze oggi acquisite circa l'accento melodico dei Latini: tutti gli studi fin qui citati, compresi quelli di Lindsay, presuppongono un accento latino in-
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tensivo, mostruosità come l"accento metrico' et similia. Circa ecquis, c'erano forse una pronuncia 'scandita' ecquis (Lindsay avrebbe detto 'emphatic' ...) e una pronuncia 'rapida' (ricordiamoci di Buecheler...) tale che la velare e e la labiovelare qu si riducessero ad un solo fonema consentendo e(c)quis? Qualcosa di simile aveva suggerito Lindsay stesso, come sappiamo, e i glottologi dovranno riesaminare il problema tenendo conto, si capisce, anche dell'etimo (vedi per es. Emout Morph. 98 «ecquis... avec la meme particule ec- que l'on a dans ec-cee que l' on retrouve dans la thème démonstartif osco-ombrien *eko-»)'. ' La prosodia di ecquis è stata - ed è tuttora - una sorta di 'pietra dello scandalo' della metrica plautina (non di quella terenziana). Una rassegna delle opinioni avanzate dagli studiosi da Ritschl agli ultimi anni dell'Ottocento è in F. Skutsch Rom. 9 n. 2, al quale si deve, in sostanza, la giustificazione del tipo ecquis come effetto dell'accento d'enclisi. Questa spiegazione è tuttora accettata con consenso: si veda la discussione, eccezionalmente lunga, dettagliata e polemica, di J.B. Hofmann in Th/L V 2, 51, 77 sgg. (il fascicolo fu pubblicato nel 1931). A suo tempo Ritschl Opusc.5 374, dopo aver constatato che ecquìs sembrava avere talora valore di pirrichio, pensò di poterlo correggere in ecquì e così emendò Bacch.583 nella sua edizione delle commedie (Bonnae 1848-1849), lasciando tuttavia ecquìs nei due versi precedenti. Il verso pertanto risultò così scandito:
ecqu(i) exit? :: quid istuc? qu(ae) istaec est pulsatio? Subito dopo (1850) A. Fleckeisen segul in tutto Ritschl nel passo delle Bacchides della sua edizione plautina, ma a p. xx della prefazione propose di leggere ecqui non solo in Bacch.583, ma anche in Amph. 1020 Bacch.582 e Cap. 830 (il cui secondo emistichio è certamente integro). I tre versi, identici nel testo anche se di metro differente, sarebbero stati da leggere e scandire così:
.... ecqu(i) hoc aperit ostium? L'opinione di F. Skutsch tuttavia prevalse, come sappiamo, e la correzione di Ritschl cadde in discredito, anche per due motivi che non possono essere elusi: ( 1) ecqui è attestato in Plauto s o l o in Stì. 202 (AP) e davanti a consonante, come nello stesso verso qui pronome interrogativo (P, quis A) appare anch'esso davanti a consonante: dovunque secondo la legge fonetica; (2) davanti a vocale l'interrogativo è in Plauto quis (e non qui, forma, se caso, anteconsonantica, come ora visto): cf. l'eccellente nota di Lindsay Comm. ad Cap. 835. Chi peraltro si mostrò scettico, e più che scettico, nei confronti di un'opinione ormai vulgata è stato proprio Lindsay. In Comm. 25 egli accenna alla scansione pirrichia di ecquis in Bacch.583 «and many other lines», ma alla forma tràdita accosta la grafia (o forma vera e propria ?) equis, come giustificazione - parrebbe - dell'ostico
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Prosodia
Ma l'irta, sconcertante tipologia plautina trova una paradossale conferma proprio nel ridursi essa in Terenzio fin quasi a non più sussistere. Gli esempi raccolti più sopra sono di evidenza palmare: se per es. quzquidem,dal sapore plautino, è assicurato dal metro in Ad. 268, quodquidemin Ad. 692 è del tutto illusorio e da respingere. Di-
pirrichio. Ancora in Comm. ad Cap. 459 egli osserva che ecquis «may bave pyrrich scansion», soggiungendo che nel quarto piede di tr 7 (noi diremmo settimo e ottavo elemento) «ecqu'ishunc is not illegittimate». Del tutto a torto però, perché lo strappamento dell'ottavo elemento è almeno problematico e, soprattutto, -quis non può 'abbreviare' hunc da cui è separato da fine assoluta di parola (ma Lindsay non era giunto ancora a questa conclusione, di O. Skutsch, anche se qua e là la sfiora: per es. Early 46 sgg., 89). In Comm. ad Cap. 830 afferma che all'inizio del secondo emistichio di tr 7 ecquis hoc (dunque ecquis) è possibile: quanto al metro sì (sede 'con licenza'), ma di nuovo la CI è impedita dalle ragioni che la impediscono in Cap. 459 (è peraltro assai curioso che, dubitativamente, Lindsay non se la senta di escludere neppure ecquis hoc...). Nell'Early latin verse egli, sia detto con ogni rispetto, appare addirittura capriccioso. In Early 73 afferma che mequidem e siquzdemnon autorizza. no a misurare né siquis (ma qui Lindsay ha torto) né ecquis;in Early 89, discutendo Bacch.583 e Rud. 413, egli oscilla tra ecquis e il riproporre la correzione ritscheliana ecqui, che più decisamente viene ricordata in Early 172, dove peraltro lo studioso non arretra di fronte a una scansione di Bacch.582
heus ecquis hic est? ecquis hoc iiperit ostium? impossibile per il 'proceleusmatico' strappato (e la solita fine assoluta di parola fra brevis e 'brevianda'), che in Early 95 ha invano tentato di paragonare a un 'falso' strappamento come propter iimorem. Ma non è tutto: appare anche la grafia (o forma?) e(c)quis, già vista in Comm. 25 (equis); non perspicua, né senza bizzarrie, la scansione di ecquid che segue. In Early 246 Lindsay discute ancora Bacch. 583 e questa volta si decide per la correzione di Ritschl: ecqui. Perfettamente in linea, quindi, con le convinzioni che emergono dai passi citati, la perentoria affermazione di Early 198 (con rinvio a Eariy 172-173): «ecquis probably always a trochee, except · after a 'brevis brevians', e.g. Pers. 108». Pare evidente che la questione vada nuovamente affrontata in sede glottologica, tenendo conto dei dati che ci fornisce la tradizione plautina, in una con tutta la problematica dell"abbreviamento d'enclisi'. In questa sede si può soltanto osservare, limitandoci al materiale raccolto sopra, che ecquis è possibile anche in Mos. 354, ecquid possibile o sicuro in Tri. 717 Truc. 542. L'appello alla forma 'ritscheliana' ecqui (cui si oppongono le difficoltà sopra enumerate), può farsi, oltre che negli 'archetipici' Bacch.581-583, in Amph. 1020 Cap. 459 e 830 Rud. 413 Sti. 352 Tri. 870 Truc.663 (?). Ma ecquid sembra ineludibile in Per. 107 225 Sti. 338 ('abbreviamento' giambico in Per. 108).
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remo allora che l'abbreviamento per enclisi (quale che possa essere la spiegazione che se ne vorrà proporre) è certamente un fenomeno in regresso e sottoposto via via a 'regolamentazione' (Buecheler aveva visto benissimo): Plauto ha una volta (o due?) quando quidem e poi quandoquidem come i poeti classici; Terenzio conosce in sostanza solo questa misura. Lo stesso si dirà di s'i quidem I slquidem: la seconda misura, dei classici, è quasi regola in Terenzio. Questi, certamente, può ancora permettersi mlquidem e mequidem ecc., come pochi anni dopo Lucilio si permette tuquidem; può ancora, Terenzio, permettersi slquis, ma non conosce più l'intrigante alternanza di écquis ed ecquis (non sfuggirà che queste residue 'libertà' terenziane riguardano solo la sequenza vocale lunga (dittongo)+ enclitica: un'altra ragione sottesa a Lindsay Comm. 25?). Poi 'legge ed ordine' e a conclusione scomparsa dell"abbreviamento' giambico e di quello per enclisi da ogni tipo di verso 6 •
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Considerazioni analoghe suggerisce il comportamento dell'allitterazione dall'un poeta all'altro: vedi Oniga A/I. 124 sgg. pur nella ben nota difficoltà di definire il fenomeno stesso (sulle occorrenze definite allitteranti di pp. 130-133 ho tuttavia talune riserve).
VII INCONTRO DI FONEMI VOCALICI
L'incontro di due vocali, nell'interno di una parola o quando l'una è in fine di parola e l'altra all'inizio, dà occasione a diversi fenomeni prosodici, che saranno qui discussi nel modo che si è cercato di rendere più semplice ed empirico possibile: è questa, dopo la CI e con l"abbreviamento d'enclisi', la parte più difficile e spesso incerta della prosodia del teatro di età repubblicana. 1) sinizesi e sinalefe 1 'totale'
a) Plauto In questo autore la sinizesi si produce soprattutto con i seguenti gruppi vocalici: -ua-, -uo- : suòrum sfiàrum, ttiòrum tfiàrum, duòrum diiàrum Ps. 5 Tri. 626 Sti. 551 Tri. 1053 sono la regola, come sempre -fià- in sfiàdeo 1
Oppure elisione: i due termini sono usati promiscuamente in tutto questo libro, lasciando ad altri ogni tentativo di distinzione concettuale e persino pratica di un fenomeno i cui ultimi esiti ci sfuggono senza rimedio: il pur meritorio volume di Soubiran Élis. ne è prova eloquente. Non sembra invece inutile ammonire che talune raffinate nonne che in quest'ambito si impongono i poeti augustei (con i precedenti di Catullo e Cicerone poeta esametrico; ben diverso quello giambico: Soubiran Trag.71-74), anche sull'esempio della poesiagreca ellenistica, non hanno luogo presso i poeti della scena repubblicana (bene Lindsay F.arly255), il cui fortissimo rigore metrico si rivelain altri modi.
Prosodia
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stiàuis e loro composti, non diversamente, in questo, dalla latinità successiva; invece tuorum Poe. 766, tuiirum Bacch. 637, duiirum Mii. 150 sono eccezionali; duobus Bacch.675 Mii. 1246 Per. 684 Poe. 872 alterna con duòbus Amph. 568 Bacch. 975 Cas. 1011 Mii. 290 Sti. 540; è stato supposto -Ta-in Cis. 297: vedi sopra 103; -ue- : /uere è la misura consueta (Bacch.1135 Cap. 524 Cis. 156 Poe. 60 84 476), ma in Sti. 581 abbiamo /uere e in Bacch. 1087 /uerunt; normali sono perduellis e duellum, ma duello Amph. 189 e vedi Questa ad Amph. 642; sempre -ue- anche nei composti di suesco (Plauto non sembra conoscere la forma semplice) sia verbali che nominali (mansues); -ui- : sono frequenti /iàsse (per es. Bacch.283 422 953) e /iàsti (per es. Cap. 629 Mere. 470), ma/iiisse Mii. 776/uft Cis. 700a/uf Rud. 217; -ie- : Dièspiter Poe. 869 Jlèbus Poe. 1207 ueni Cur. 244 e uenosus Cas. 414 se il nom. è lien (cf. Prisc. gramm. II 149, ma anche Jachmann Stud. 19-20); abbiamo inoltre quiètus Ep. 338 e quièsco Mere. 448, ma adquzescereMere. 137 2 ; -ea-, -eo- -eu- : meorum mearum (mai meorum meiirum), deorum dearum (isolato deorum in Mos. 712: Questa ad l.), eorum earum (eccezionali eorum As. 554 eiirum Poe. 1139), éàmus (eiimus solo tre volte a quanto pare: Cas. 357 Mere. 1008 Poe. 502; abbiamo però sempre o quasi eiitis eiitur eiindum eiintem: vedi Jachmann Stud. 45); spessissimo eodem eadem, eorundem earundem, eosdem easdem, éùndem; infine sinizesi si ha in composti con co- ( < com) e de: diàccedunt Cur. 344, coègiBacch.981a, coèmptionalisBacch.976, cfiàgmentaMos. 829, coèpulonusPer. 100, deosculerCas. 136, deartuatusCap. 641 (altri esempi in Lindsay Early 149-150): in questi casi si tratta per lo più di grafie etimologiche di parole pronunciate già contratte ai tempi del poeta; si noti che, se abbiamo coegi e non di rado coepi (Cas.
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Per gruppi vocalici che componano la presenza di u ed i, più che di sinizesi si dovrà parlare di consonantizzazione delle semivocali: dl,lllrum,/tJisse, diebus ecc. Ai fini metrici il fatto è però irrilevante (vedi anche oltre 182).
Incontro di fonemi vocalici
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651 701 Mere. 533), costante è la scansione déòrsum, cui si affianca seorsum (addirittura nella grafia sorsum I sursum). b) Terenzio
I fenomeni sono affini a quelli riscontrati in Plauto, ma già si affacciano le misure che diverranno d'obbligo per la poesia successiva:
-ua-, -uo- : suorum Phor. 887 ma sìiarum Haut. 225, diiàrum Haut. 326 ma diiobus Hec. 393; -ue- : /uere è consueto come in Plauto (Haut. 121 And. 810 740), ma /uère Phor. 625 Haut. 399; -ui- : /iiìsse And. 42 929 Eun. 300 Phor. 380 Hec. 641 Ad. 160 e /iiìssem Phor. 155, ma /uzsse And. 664 Eun. 823 (niente prova fi:iisse), /iiìsti Haut. 568 987 Hec. 229; -ea-, -eo- -eu- : meorum méàrum come in Plauto (And. 453 Haut. 574 Eun. 1034 Hec. 361 Ad. 294), ma meorum Phor. 587; deorum And. 959 ma deorum Haut. 693; éàmus è in Eun. 377 459 612 Phor. 562 809 1054, ma eimus in And. 171 556 Phor. 102 981; exeuntem ed euntem in Hec. 551; eundem eandem éàsdem in Eun. 226 Ad. 812 Hec. 18, ma eundem Eun. 1022 (in Eun. 7 Hec. 71 Haut. 442 il metro non consente di decidere); deorsum Eun. 278; si noti infine che Plauto e Terenzio misurano quasi sempre di deaeque,sintagma fisso, ma che in Mos. 655 abbiamo di deaeque,verso ripreso alla lettera da Terenzio in Phor. 976 (caso sospetto): Lindsay Early 64, ma Hec. 102 (e Mi!. 725); eorum And. 64, eorum And. 575. A questo punto si comprende facilmente come un problema particolare sia costituito da quei bisillabi giambici di uso frequentissimo cioè le forme declinate di meus tuus suus, eum, eam (pronome e verbo), eo (pronome verbo awerbio), eos, eas (pronome e verbo), deae deos deas, die diu, duo duos duas - i quali, non essendo le loro sillabe separate da consonante, possono ammettere sinizesi e, se davanti a vocale, sinalefe 'totale' ove anch'essi terminino con vocale 3 • 3
Per parole come die diu duo la sinizesi pare in realtà da escludere (qualcuno l'ha riproposta di recente per die, ma Truc.907 non è prova): questi vocaboli sono pirrichii,
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Prosodia
Di queste forme Plauto e Terenzio conopeono ed usano: 1) la scansione bisillabica, specialmente in fine di colon o verso: Cap. 99 (ia6 ) inhonest(um) et maxim(e) alien(um) ingenio suo
Cap. 879 (tr7 ) ut ego uidi :: meum gnatum? :: tuiim gnat(um) et genium mèiim (si noti tuum bisillabico e misurato come giambo; metodicamente nulla si può invece dire circa il primo meum, che ammette sinizesi o misura pirrichia per CD Poe. 879 (tr7 ) scin t(u) eorum tuiim m(eo) er(o) ess(e) inimicum capitalem? :: scio (anche qui tuum bisillabico e misurato come giambo) Hec. 108 (ia6 ) numquam tam dices commod(e) ut tergum mèiim
Ad. 875 (tr7 ) it(a) èos meo labor(e) eductos maxum(o) hic fecit suos (notare èos e respingere, perché indimostrabile, meiJ proposto da Lindsay) Hec. 137 (ia 6 ) quae consecuta (e)st nox èiim, mhilo magis Hec. 799 (tr7 ) edepol ne me(am) erus ess(e) operam deputai parui preti (meam è bisillabo in sinalefe 'parziale')
And. 535 (ia8 ) meam nubere tuo gnat(o); id uiso tun(e) an ill(i) insaniant (il verso è ampiamente discusso da Raffaelli Rie. 34-36 e 56-58, che mostra come la scansione proposta da Lindsay sia arbitraria: nulla prova mèìim ed essendo il quarto elemento 'strappato', -berè tu-, non si può
quando lo sono, per CI, che non mancò di istituzionalizzarsi in composti come diiitius (ma diiitius Rud. 93 in fine di verso) diiitinus, duodenus,diequinte I diequinti (d. Gellio X 24,1-7); duos e duas sono sempre giambici o in sinizesi (d. Studemund duos 550-552) confermando la renitenza alla CI delle sillabe lunghe terminanti in -s.
Incontro di fonemi vocalici
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ammettere tuo dovendo la sequenza giambica 'abbreviata' per CI formare un solo elemento). 2) la scansione monosillabica, che è provata
a) da ragioni metriche, in quanto la scansione bisillabica darebbe un verso ipermetro, come in Sti. 39 (an4 ) quia poi m(eum) anim(o) omnis sapientis
oppure un verso in cui si avrebbe un elemento che in quella sede non può essere bisillabico per questa o per quella ragione, in particolare se coinvolge una CI sgradita o proibita, come in Amph. 1066 (ia8 ) exsurgite, inquit, qui terrore m(eo) occidistis prae metu (la scansione -re me(o) occidistis darebbe un elemento bisillabico formato contro la norma di Ritschl: oltre 207; una scansione -re me(o) occidistis va scartata per le ragioni esposte oltre 178-178)
As. 72 (ia6 ) struer(e) et beneficiis m(e) emere gnatum suum stbi Mii. 148 (ia6 ) glaucum(am) ob oculos obiciemus eumqu(e) ita Eun. 698 (ia6 ) quicum? :: cum Parmenone :: norasn(e) éùm prius? (in tutti questi tre versi la sinizesi è comprovata dalla indubbia renitenza dei poeti alla CI negli elementi prossimi alla fine del verso: sopra 132) Hec. 257 (ia7 ) si metuis satis ut meae domi curetur diligenter (la CI è evitata anche negli elementi prossimi all'incisione mediana: meae è pertanto escluso come visto più sopra 128) 4 ;
4
La sinizesi di meae eum meus è per es. sicura all'inizio di versi come Poe. 1349 Rud. 322 Tri. 559, quale che sia il valore da attribuirsi a quidem per eventuale ipotesi di 'abbreviamento d'enclisi'. Invece l'accusativo femm. singolare del pronome anaforico appare di solito bisillabico in sintagmi come in etim rem, ob etim rem; del
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Prosodia
b) da motivi prosodici, là dove, per es., dovremmo ammettere CI contro le norme generali: Mii. 555 (ia6 ) et ib(i) osculantem m(eum) hospitem c(um) ist(a) hospita (me(um) hos- è difficilissimo perché hos- è sillaba tonica) Mii. 262 (tr7 ) n(am) i//(e) non potuit quin sermone s(uo) alì'quém /amiliarium (su(o) altquem è impossibile sia perché siffatto 'proceleusmatico' è evitatissimo sia perché parola o fine di parola anapestica non si 'abbreviano' per CI: sopra 99 e F. Skutsch Rom. 111, Jachmann Pros. 41) Rud. 1405 (tr7 ) dic mih'i quant(i) i//(am) emisti t(uam) alteram mulierculam (tu(am) alteram è intollerabile per le ragioni già viste a Mii. 555 e 262; da respingere la scansione simile di Eun. 459 suggerita da O. Skutsch Pros. 84-85: sopra 126 sg.) Hec. 48 (ia6 ) m(eae) auctoritati /autrix adiutrixque sii (il possessivo è monosillabo per sinizesi, come in Hec. 257, e in sinalefe 'totale': del tutto inaccettabile l'ipotesi lindsayana di sinalefe 'parziale' e conseguente 'abbreviamento' di auc- sillaba lunga uscente in cons.; non diverso il caso di Eun. 958);
va infine avvertito che per die (Per. 264 Truc. 907) non abbiamo prove sicure di sinizesi e quindi di possibile sinalefe totale (vedi Questa ad Per. 264); lo stesso si dica per diu in Mos. 293 (vedi sopra 175 n. 3). Tutto ciò premesso, si presenta un altro quesito generale. Le varie forme di meus tuus suus, sostantivi verbi numerali pronomi quali eum eam eo eas deae deos deas duo duos come devono essere misurati là dove il metro di per sé consente di scegliere tra la quantità pirrichia per CI o quella di monosillabi lunghi per sinizesi? E, considerato che casi di sinizesi sono sicuri, quando siffatte parole, se terminano in vocale, si trovano davanti a inizio vocalico, come le misurerepari abbiamo solitamente quid meii re/eri ecc., e non mea. Nei eretici la CI è rarissima, se non esclusa (oltre 415 sgg.): quindi méò e meam in Cap. 237-238.
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mo ove il metro non consenta decisione (vedi più sopra i casi opposti di Sti. 39 Amph. 1066 Hec. 48 da una parte e di Poe. 879 Hec. 799 dall'altra)? Con sinalefe 'parziale', cioè della sola sillaba finale, o con sinalefe 'totale', cioè di tutto il vocabolo, in particolare là dove la sinalefe 'parziale' comporta Cl della sillaba iniziale del vocabolo successivo? Dal punto di vista metodico non temiamo di affermare che prudenza vuole si misurino siffatti vocaboli come monosillabi lunghi per sinizesi, a meno che il metro non provi il contrario. Ciò, in particolare, proprio dove sinalefe 'parziale' comporterebbe Cl - la cui problematicità è anche troppo nota - della sillaba iniziale del vocabolo seguente. Dunque in Ps. 347 tr 7 misureremo quid eg(o) ex t(e) audio? I :: amicam t(uam) esse Jactam argenteam
e non tii(am) esse; del pari in Haut. 323 tr 7 scandiremo t(uum) ess(e) in potiundo periclum non uis: hau stulte sapis
e non tu(um) esse; del pari in Ps. 667 d(i) immortales e non dr fmmortales,in Hec. 85 m(e) oblectauie non me oblectaui.In altri sintagmi si può pensare che non si avessero né sinalefe né, tantomeno, iato prosodico con Cl della sillaba successiva, bensì una sorta di sinizesi, per cui in As. 42 (ia6) eti(am) amplius :: nam qu(o) usqu(e)? :: usqu(e) ad mortem uolo
si sarà forse pronunciato quoùsque (resta peraltro imprecisabile il reale esito della -e nei due usque) e in Amph. 699 (tr 7 ) nam dud(um) ante /uc(em) et istunc et te uidi :: quo in loco?
non quo fn loco, ma piuttosto quoìn loco. Tutto ciò perché noi siamo costretti a leggere, a scandire i versi dei poeti antichi - e quelli del dramma latino repubblicano in particolare - senza la speranza di ritrovarne il vero suono: tale nobile illusione è
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stata di grandissimi studiosi, cui va la nostra venerazione, ma ha condotto a costruzioni crollate di colpo o ad arbitri da cui ha ricevuto danno la stessa constitutio textus. Noi moderni non dobbiamo dimenticare che interpretiamo faticosamente al tavolino testi che tutto presupponevano fuorché lasciare la loro naturale destinazione: scena e recita. Di qui il nostro impari combattimento con raffinate variazioni prosodiche innervate sia nella lingua parlata sia nella stilizzazione metrica e lo sconsolato ripiegare su quella che la tradizione dei nostri studi definisce (con una certa ipocrisia) 'correttezza metodica' (resta pur sempre l'ammirazione per l"inaccettabile' Lindsay, su cui sopra 127-128). Come notissimo, la sinalefe è possibile - ma non necessaria - in cambio di interlocutore, dove è del pari possibile - ma non necessario - lo iato, una tipologia del quale anticipiamo pertanto qui come indissolubilmente legata al suo fenomeno polare (più avanti toccheremo altra peculiarità dell'elemento davanti a cambio di persona). lato in cambio di interlocutore abbiamo visto sopra in Ps. 347, sinalefe invece in As. 42, a tacere di versi citati altrove per altre ragioni; ancora iato (qui coincidente con quello in incisione mediana) abbiamo in Poe. 1243 ia7 ni/ tec(um) ag(o), absced(e) obsecro I :: atqu(e) hercle mec(um) agendumst;
ancora iato è in Poe. 1136 ia6 eh(o) an hu!ùs sunt i//ae fi/iae I :: it(a) ut praedicas.
Ma sinalefe troviamo in Poe. 1162 ia6 quid s(t) eamus i//is obui(am)? :: al n(e) interuias
e ancora in Mos. 566 ia6 sed occupab(o) adir(e) :: hic ad m(e) it saluu(s) sum.
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La casisuca terenziana è, come prevedibile, assai più ristretta, perché il poeta privilegia la sinalefe (vedi anche Barsby 298-299), come in Eun. 101 ia6 hoc primum, potin est hic tacer(e)? :: egon? optume
o come in Hec. 811 tr 7 nil aliud did.am)? :: etiam: cognoss(e) anul(um) illum My"inam.
Sono insomma rari versi come Eun. 409 ia6 perpaucor(um) hominum I :: immo nullor(um) arbitro,
ed Eun. 697 ia6 (Eun. 371 ha incertezze testuali: vedi Barsby 153 ad I.) /ratern(e)? :: ita :: quando? I :: hodie :: quam dudum :: modo.
Sinalefe in cambio di interlocutore è, come tutti sanno, ben nota anche al teatro greco, comico e tragico, in particolare di quegli autori come Euripide (nei drammi tardi) o Menandro, che ammettono versi con CÌvtlÀa~al (cito a caso Eur. Or. 1239 Hel. 1628 Ion 531; Men. Dysk. 41 O 512). In questi testi l'uso tradizionale dell'apostrofo, ignoto a quelli latini, può far credere ad una completa 'elisione' della sillaba coinvolta, ma crederlo sarebbe marchiano errore. Anche in questi casi, diremmo s o p r a t t u t t o in questi casi, la sillaba non 'spariva' anche se la sua concreta realizzazione ci sfuggirà per sempre stante la nostra totale e irrimediabile ignoranza dei modi di recitazione degli antichi. Si pensi del resto ad un verso del Saul alfi.eriano (II 3, 2), come figura mettendo fra parentesi le sillabe 'elise' quasi fosse un verso plautino, e come suona invece nella concreta recitazione dei quattro personaggi-attori che si ripartiscono le cinque battute (il colmo sarebbe usare l'apostrofo invece delle parentesi ...): che veggi(o) .' :: oh ciel.' :: che /est(i)? :: audac{_e) ... :: ah, padre.'
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Prosodia
Noi percepiamo in teatro un vibrante endecasillabo, molto 'alfìeriano', e non diversamente gli antichi avranno percepito in teatro armoniosi trimetri o senari dei loro grandi poeti (la pagina scritta era del tutto fuori del loro orizzonte; essa è parimenti fuori dell'orizzonte di chi ascolta Alfieri, almeno in siffatto momento). Ad ogni modo, se è sicuro che la sillaba in elisione o sinalefe non 'spariva' se non in casi limitatissimi, tanto meno dunque 'spariva' una parola in sinalefe o elisione 'totale' nella pronuncia dell'attore: il nostro modo di dire significa soltanto che quella sillaba, quella parola 'non contavano più' ai fini della realizzazione del metrema (benemerite le note, organiche considerazioni di Luigi E. Rossi Pro. 433-447, anche contro una rozza ma antichissima prassi scolastica; meno utile il troppo diffuso Soubiran Élis. passim, dove riscontri, raffronti, confronti d'ogni tipo talora rischiano di frastornare il lettore). Come mero esercizio intellettuale, non privo di una certa futilità, possiamo anche chiederci come in concreto si realizzasse la cosiddetta sinalefe o elisione 'totale'. Per tu- e su- si poteva avere passaggio dalla semivocale a completo valore consonantico: quindi SIJ(o)hospite ttJ(am) amicam, come già veduto circa tiiòrum suàrum ecc.; per -ea-eo- e tutti i casi in cui forme di ire o del pronome anaforico si trovano in siffatta sinalefe o dicasi elisione, il processo fonetico era forse diverso ed è stato ipotizzato un 'attenuarsi' del suono della e (ipotesi valida, si può pensare, anche per il tipo méòrum ecc. visto più sopra). E infine: alla ben nota obiezione per cui la sinizesi sarebbe in generale esclusa dal fatto che tuo meo ecc. non si hanno mai con valore monosillabico in una sede indiscutibile come l'ultimo elemento del verso, più che Lindsay Early 161-162, ha risposto adeguatamente Leo Forsch. 350 facendo osservare che il monosillabo finale è raro ed evitato: il poeta quindi, misurando in fine di verso tiio tiiiim ecc., esclude una scansione sgradita. Si potrà anche ricordare, contro opinioni talora riemergenti, che è metodicamente errato ricorrere alla sinizesi per giustificare il tipo omnium + cons. ridotto a quattro tempi nei versi anapestici plautini o nelle sedi con licenza: si dovrà invece ammettere omnzìim + cons. per effetto di pur problematica CI e non omnli;m + cons. (cioè omnium ...), così come solo la CI può giustifica-
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re improbae rispetto a improbae (sopra 99-101): osservazioni ancora utili in F. Skutsch Schr.232 sgg., ma ancor meglio in Meyer Beob. 92 n. 1 '. 2) vocslis snte vocalem brevis est
Questa ben nota caratteristica della lingua latina si applica anche alla prosodia degli scenici repubblicani ed è anzi, come vedremo qui più avanti, a fondamento del fenomeno dello iato prosodico. Vi sono peraltro eccezioni, di cui alcune sono comuni alla prosodia classica, come fio /iam dief fide[, altre invece riguardano la conservazione di quantità originarie e sono limitate agli scenici, come i già visti e[ (Plauto e Terenzio) aquar (solo Plauto) /ur I /urt (solo Plauto), che peraltro sono in forte regresso e coesistono con le forme destinate a diventare usuali già in Plauto stesso e, naturalmente, in Terenzio. In Plauto meritano di essere considerate in particolare le forme di /io: le quantità classiche µerf µeret /rerent sono all'inizio oppure nel corpo del verso (Amph. 593 693 891 Rud. 55 606 1290..., Amph. 82 Au. 605 742 Men. 682 Mii. 950...), mentre /ierf /ieret /ierent si incontrano solo alla fine (Amph. 487 587 702 851 Bacch. 788 Cap. 988 Rud. 1035 1205 1404) o nel corpo dei versi 'lenti' (Amph. 567 ba4 ) 6• Caratteristica di Plauto è del pari la desinenza -u[ (talora) del perfetto di alcuni verbi in -uo: constitueramPs. 549 institui Mos. 85 pluit Men. 63 perpluit Mos. 164 (vedi anche Prisciano gramm. II 504, 23-27).
' La materia qui trattata è stata anche troppo lungamente discussa, ma oggi la sinizesi è giusta opinione comune: possono orientare, in ogni caso, Miiller Pros.1 456-475 (molto invecchiato), F. Skutsch Schr. 105 sgg. 227 sgg. (con discussione di trattazioni precedenti), Lindsay Comm. 26-30, Ahlberg Corr. 153-168, Radford Syn.1 158-210 Syn.2 153-168, Jachmann Stud. 36 sgg., Lindsay Early 59-64 141-150 161 sgg., Boldrini Anap. 33-41, Lofstedt Hiat. 80-92, Ceccarelli Sin. 387-406. 6 Né troppa informazione né troppa chiarezza in ThlL VI 1, 84, 41 sgg. (meglio Jacobsohn Quaest. 20). Nessun esempio di /iam né in Plauto né altrove (ma si noti /il in Cap. 25) e sono oggi da respingere le ipotesi di pius proprius prior un po' avventurosamente avanzate da Lindsay con non buoni risvolti sull'edizione.
Prosodia
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La nonna sopra enunciata trova applicazioni, talora, anche all'interno di composti (deamo dehortorprehendo < praehendo).Plauto inoltre usa secondo la prosodia 'latina' parole di origine greca (in greco la nonna non opera, oppure opera in modo diverso), evidentemente da tempo entrate nell'uso, ben diversamente dai poeti augustei che ostentano la conservazione delle quantità greche (vedi già sopra 82-84): di qui Chi'um Cur. 78 Chi'o Poe. 699 (gr. Xtoç), gynaeceum Mos. 759 e quindi anche Mos. 755 908 dove il metro non consente di decidere (gr. yuvatxEtov); lo stesso in nomi propri: Pelleo As. 333 (ma Pelleo o PellaeoAs. 397), Aleis Cap. 24 ecc. Aleum Cap. 875 (gr. J\ì..t:toç forma dorica per 'Hì..t:toç 'abitante dell'Elide'), Epfus Bacch. 937 ma Epeum (Epi'um)Jr. V. 120 Monda, Diceae Diceam Mii. 436 808 (cf. gr. Otxai.a: Mii. 438). Vale invece per tutta la latinità platea come resa del gr. 1tMl1:Ei.a (se. ~ 1tÀ.ooòç): vedi Plauto Cur. 287, Terenzio Eun. 344, Catullo 15, 7, Orazio epist. II 2, 71 (da platea l'it. 'piazza' e gli altri esiti romanzi) 7 • La sovrana disinvoltura plautina nel servirsi del tesoro prosodico della lingua del tempo appare lampante da tre versi dei Captiui: 1035 (tr 7 ) et si placuimus nequ(e) odio /ìizmus, sign(um) hoc mittite 262 (tr 7 ) captus est? :: ita :: non igitur nos so/(1) ignaui /uzmus 555 (tr 7 ) quibus insputari saluti /uit atqu(e) is pro/uit.
Terenzio, come prevedibile, ci offre un quadro un po' diverso: sempre /uf /uft (anche pirrichii per CI come And. 294 Eun. 847), mentre in Phor. 862 la quantità di gynaeceum,unica ricorrenza del vocabolo, è imprecisabile; il poeta peraltro alterna ancora µerf in fine
7
Altri esempi di passaggio di parole greche a siffatta caratteristica prosodica del latino vedi in Questa Num. 341 sgg. (sarà mero errore di stampa platea in Ernout-Meillet Dict. 513).
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di verso (Haut. 307 785), ma ha sempre /ten nel corpo di esso (And. 305 529 Eun. 532 Ad. 969) e così /(eret (due volte in Ad. 690).
3) iato L'incontro di due vocali senza che fra esse si produca sinalefe lo iato - è, in linea di massima, evitato nel verso plautino e terenziano come, del resto, nel verso degli altri poeti latini. Tuttavia si deve ammettere che ogni poeta può avere, entro certi limiti, preferenze sue proprie e che, appartenendo i versi di Plauto e Terenzio al genere scenico e avendo essi pertanto forti radicamenti, nei vari modi ben noti, nella lingua parlata, sinalefe e iato siano regolati da consuetudini (meglio che norme) le quali possono anche sembrarci oscure e problematiche, ma sono in ogni caso diverse - e non per questo meno raffinate - da quelle cui ci hanno assuefatto l'esametro di Virgilio e di Ovidio, il trimetro giambico di Seneca. È consuetudine distinguere tre tipi di iato:
a) iato semplice o metrico, in determinate sedi del verso; b) iato logico o 'stilistico', per es. dopo un'interiezione o vocabolo equivalente (specialmente al vocativo) o in pausa sintattica o per ricerca di particolari effetti di stile (per es. As. 751-809, Rud. 528-539; anche Cur. 46?). e) iato prosodico, quando sillaba uscente in -m (come questa suo-
nasse in latino vedi sopra 181 sgg.) 8 o in vocale lunga o dittongo si trova davanti a inizio vocalico di parola: la sillaba uscente in -m non entra in sinalefe mentre le altre si abbreviano (questo tipo di iato è frequente con parole monosillabiche come i pronomi me te, assai meno con bisillabi o parole più estese).
8
Nulla si può oggi concedere all'opinione di Leo Forsch. 330-333 (e di altri) secondo cui -m in età repubblicana era anicolata più sensibilmente che nell'età classica, onde era più facile evitare la sinalefe: si veda ancora Porzio-Gemia Contr. passim.
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Prosodia
Poiché lo iato è dunque l'incontro di due vocali senza che si abbia l'attesa sinalefe (fenomeno, questo, naturalmente insito nella lingua latina prima di qualunque convenzione metrica, almeno secondo una famosa affermazione di Cicerone orat. 153), ne consegue che lo iato metrico, essendo 'in pausa', cioè trovandosi in una sillaba che forma un elemento del verso che è sentito, o può essere sentito, come più o meno 'staccato' dal successivo, non è per la verità autentico iato perché l'immediato concursus vocalium in tali condizioni non si verifica. A questo tipo di iato si può avvicinare, con moltissime cautele, quello in 'pausa sintattica'. Lo iato metrico, infatti, più d'una volta può accompagnarsi a pausa sintattica, ma guai a credere che questo fatto sia in qualche modo una 'regola' perché, anzi, i poeti spesso cercano deliberatamente il contrasto tra i due fenomeni: anche in questo caso, peraltro, lo stacco sintattico evita l'immediato concursus vocalium che di per sé comporterebbe sinalefe. Resta ad ogni modo fermo che lo iato, anche con incisione mediana, è solo una possibilità, mentre la sinalefe è la consuetudine. Va ritenuto inoltre che lo iato prosodico è detto iato piuttosto impropriamente perché in realtà, come anticipato (sopra 183), questo fenomeno è solo un'applicazione della norma fonetica 'vocalis ante vocalem brevis est': come questa è tipica dell'interno delle singole parole grammaticali (deamo da deamo, institui da institiii, fui da fui e così via), così lo iato prosodico è anche caratteristico di taluni sintagmi, in cui le parole si collocano secondo un ordine fisso (si me amas, ita di me ament), formando un tutto semanticamente indivisibile, sì da non consentire stacco fra l'una e l'altra: flagitiu~minis (As. 473 Cas. 552 Men. 489 709) 'mascalzone', nequam homo (Bacch. 558 ma vedi 557) 'ribaldo' ecc. Questi due esempi, inoltre, ci fanno comprendere che lo iato prosodico con parole uscenti in -m (quasi sempre monosillabiche) va spiegato con la stretta connessione che si istituisce, o può istituirsi, tra questa parola e quella successiva, per cui la sillaba in -m viene in realtà a trovarsi all'interno di una sequenza non interrotta e quindi la -m è pienamente articolata (quem amo? come amamus), donde casi quali cum hac cum istac (Cas. 612) accanto ai ben più frequenti e(um) istac ecc. Resta peraltro da spiegare meglio perché la lingua avesse, l'uno accanto all'altro, e di volta in volta assicurati dal metro, i tipi tu amas (Cas. 724) e t(u) amas, cum istac e c(um) istac e
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ancora introibis Bacch. 907 ma intr(o) ibo Per. 77, circumirier Cur. 451: 9 libera scelta, anche metri causa, o selezione fondata su ragioni semantiche ed espressive che ormai ci sfuggono (quasi) del tutto? Vedi più oltre Mos. 392.
Lo iato è dunque la po s si bi 1i t à (fatta eccezione per l'ultimo elemento del verso, in cui non si può avere sinalefe con l'inizio vocalico del successivo; alcuni opposti esempi terenziani sono piuttosto pseudoesempi, come si vedrà), non una necessità, fatti salvi i sintagmi già visti che del resto sono per verità eccezioni apparenti perché si comportano come una singola parola grammaticale. Lo iato metrico è limitato a certi elementi del verso, almeno in linea generale; quello prosodico invece no, ed esempi se ne possono trovare in tutti gli elementi, per cui è totalmente falsa e da respingere l'idea che i longa ammettano di per sé iato prosodico più facilmente degli ancipitia o dei bicipitia anapestici magari in grazia (lo si è creduto a lungo) dell'abominevole 'accento metrico'. La realtà è che noi moderni possiamo constatare la presenza di iato prosodico solo dove l'elisione ci condurrebbe ad avere un verso ipometro. Quindi senza esitazione scandiremo così Men. 789 (tr 7 ) quid il/e /aciat ne id obserues quo eiit, quid rerum gerat
Per.650 (tr 7 ) quom et ipsus prope perditust et beneuolentis perdidit Poe. 1372 (ia6 ) quam rem agis miles? qui lubet patruo meo Eun. 1080 (tr 7 ) nequ(e) istum metuas ne amet mulier: facile pellas uhi uelis 9
Gli editori sono soliti stampare come due parole i casi in cui si ha sinalefe
(Per. 77), come una sola quelle in cui si ha il tipo deamo (Bacch. 907 Cur. 451). Plauto per es. misura sempre tum t(u) igitur (lo notava già Luchs Plaut.2 105-106); Plauto e Terenzio misurano abitualmente t(am) etsi, ma tametsi è sicuro in Ps. 244 ba◄: discussione ed esempi di questa arruffata casistica in Lindsay Early 186-187, i cui criteri per decidere tra sinalefe e iato prosodico (con o senza cn sono assai sog-
gettivi (io abbiamo detto, con rispetto, anche troppe volte). Ampio e utile elenco di monosillabi in sinalefe aveva dato a suo tempo F. Skutsch Schr. 137-140.
Prosodia
188
perché un longum è formato da sillaba lunga oppure da due brevi, come un biceps di verso anapestico è formato da due brevi o da una lunga (e infatti ecco sicura in Cas. 724 an4 la scansione tu amas A
eg(o) essurr(o)et srtro. Per quanto invece concerne gli ancipitia che, in se stessi, possono essere realizzati da sillaba breve, lunga o anche due brevi, ci manca spesso possibilità di controllo, a meno che l'eventuale ipometria, come in Cas. 612 (ia6 ) cum hac, cum istac cumqu(e) amic(a) etiam tua
As. 706 (ia7 ) Dem(am) bere/e iam de hordeo tolutim ni badiz.as,
non ci avverta che il metro esige, e comprova, cum hac cum istac e de
hordeo. Ma un altro verso ci pone nuovamente di fronte ai 'misteri' della prosodia plautina: Mos. 392 (tr 7 ) ub(i) eg(o) ero? I :: uhi maxim(e) esse uis: cum hac, c(um) istac eris.
Qui cum hac è assicurato dal metro, il quale però ammette anche cum ì'stac- con iato prosodico dello stesso tipo e CI, come frequentissimo, della prima sillaba del pronome dimostrativo - e così infatti scandisce Lindsay Early 229-230 (nessun cenno nell'edizione, dove peraltro è adottata una scansione, corretta ma indimostrabile, del v. 395 fondata sugli stessi principi). Ma altrove sono le raffinatissime norme metriche di Plauto e di Terenzio che, per nostra fortuna, ragguagliano con sicurezza circa la prosodia: negli esempi che seguono l'eventuale sinalefe 'totale', o elisione che dir si voglia, di qui si nam ecc., invece della loro fruizione in iato prosodico, comporterebbe infrazione alla norma di BentleyLuchs (vedi oltre 373):
Incontro di fonemi vocalià
189
Au. 20 (ia6 ) It(em) a me contra/actum (e)st, nam it(em) obiit diem (n(am) item comporterebbe la clausola erronea -iii diem) Per. 733 (ia 6 )
redis tu tandem? :: redeo :: ne eg(o) hodre tibi (n(e) eg(o) comporterebbe la clausola erronea -die tibr)
Ps. 800 (ia6) sed cur sedebasin /oro si eriiscoquus (s(i) eras darebbe clausola sbagliata: s(i) eriis coquus) Ad. 143 (ia6 ) m(e) aegrepat(i) illi nolui. nam itiist homo (n(am) itiist homo sarebbe errore metrico) Eun. 400 (ia6) uerbis saep(e)in se transmouetqui habet salem (qu(i) habet salem sarebbe errore metrico). 10
E all'opposto è solo l'impossibilità di un verso ipermetro che in molte altre circostanze ci assicura della sinalefe e non dello iato prosodico: vedi per es. Men. 444 511 Tri. 310 Phor. 899 901 Eun. 1071.
In ogni caso pare sicuro (le eccezioni sono pochissime e malcerte) che nell'uso dei monosillabi in iato prosodico i poeti latini, scenici e no, si sono posti questa limitazione (vedi già Bentley, oltre 191)
un monosillabo in iato prosodico forma sempre la prima parte, non la seconda, di un elemento bisillabico. Anche per questa ragione è da giudicare più che sospetto un verso come 10
Si noti che, in teoria, si potrebbe misurare eras itast habet per CI, ma già conosciamo, tra l'altro, la fone renitenza del verso ad accogliere tali 'abbreviamenti' nella pane finale: in ogni caso si deve sempre ammettere lo iato prosodico dei monosillabi. Au. 20 e Per.733 potrebbero tuttavia presentare ragionevole eccezione alla norma di Bentley-Luchs: oltre 373 n. 20.
Prosodia
190
Amph. 69 (ia 6 ) siue qui'ambissentpalmam I histrionibus (oltre a qui' noteremo che siue anteconsonantico è almeno sorprendente e lo iato dopo palmam raro e dubbio: verso postplautino? vedi però Amph. 438 e la scansione orribile di Lindsay in appar. al v. 439: oltre 283; Cas. 134 ha 'libertà di Jacobsohn' nell'ottavo elemento: oltre 279).
Si può aggiungere qualche considerazione. La categoria dello iato logico o 'stilistico' è per sua natura la più malcerta e metodicamente pericolosa: oltre a tutto, iato metrico e iato prosodico possono essere più d'una volta anche 'logici' o 'stilistici' (sintagmi inscindibili, pausa metrica coincidente con pausa di senso e così via), mentre sulla valenza dello iato 'stilistico' (per es; nelle enumerazioni, nelle repliche 'a sorpresa' di un personaggio) è bene essere più che cauti: un vero filologo starà sempre all'erta di fronte al seducente chiacchiericcio della cosiddetta 'semantica metrica'. Inoltre, se lo iato prosodico sembra comportarsi in tutti i poeti in modo più o meno costante, fatte salve le preferenze di ognuno, lo iato metrico molto guadagna in comprensione se si considera diacronicamente il sistema della metrica latina scenica. Per es. niente si oppone a iato in incisione mediana di tr 7 ia7 ia8 di Plauto, ma Terenzio, Ennio e forse altri non hanno più siffatto iato di tr 7 e Terenzio lo evita (non lo proibisce) anche al mezzo di ia7 e ia8 ; Aedo invece sembra tornare, quanto al tr 7 , ad una tecnica più libera 11• Non va dimenticato, d'altronde, che la tradizione manoscritta può essere ritenuta responsabile di più d'uno iato. Non sono metodicamente sicuri quelli che spariscono con la facile trasposizione di parole brevi: queste, appunto in quanto tali, nelle vicende scrittorie subiscono facilmente spostamenti dall'ordine originario; del pari gli iati che si eliminano correggendo i/le i/la i/li in illic illaec illi'c (ma vedi sopra 8 sg.) e, in Plauto, me te in med ted o ristabilendo forme arcaiche banalizzate (-ai' per -ae): sempre fondamentale la lettura di Lindsay Introd. Ma la 'caccia allo iato', un tem11
Queste affermazioni vanno prese con beneficio di inventario: i Comicorum e Tragicorumlatinorum fragmenta erano già canuti e rugosi nella terza pur indispensabile edizione (Lipsiae 1903). Quanto venuto dopo è tuttavia spesso ben peggiore: Ribbeck sapeva la sua metrica, e la sapeva bene; altri proprio no, come possono mostrare esempi raccapriccianti tratti da recenti edizioni perpetrate in Italia e fuori.
Incontro di fonemi vocalici
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po praticatissima, in particolare nelle edizioni plautine e terenziane di Alfred Fleckeisen, è oggi davvero passata cli moda considerato che approdò a risultati di incredibile goffagine, peggiori del 'male' cui voleva porre rimedio. In particolare l'opinione di Leo Forsch.1-6 che proprio la più antica tradizione manoscritta fosse responsabile di molti iati originati da corruttele del testo non sanate da grammatici del II secolo d.C., i quali avrebbero ritenuto lo iato caratteristica plautina, si è rivelata fallace: per es. sono troppi gli iati in incisione cli ia6 cli Plauto per poterli credere, ove non eliminabili nei facili modi più sopra ricordati, frutto di più grave e antica corruttela. Sembra quindi lecito suggerire, almeno come ragionevole ipotesi, che la struttura del ia6 fosse per Plauto differente da quella che il medesimo verso mostra in Terenzio, la tradizione del quale non ha traccia cli iato in incisione cli ia6 (e vedi qui n. 16). Plauto invece, forse per influenza dei tr 7 , avrebbe costruito i suoi ia6 concedendo ad essi, e sia pure con certi ritegni, iato in incisione, parificandola in certo modo all'incisione mediana dei 'versi lunghi'; i poeti successivi avrebbero operato poi diversamente, obbedendo ad altri modelli (Ennio? i Greci?): notizie in Questa Num. 445-446 con breve discussione di studiosi precedenti (e vedi qui oltre). Ancora qualche considerazione. a) circa lo iato prosodico c'è fra gli studiosi consenso in ciò che concerne la sua presenza, piuttosto diffusa in Plauto meno in Terenzio, a proposito del quale Bentley ne formulò peraltro la 'regola', valida anche per Lucrezio, Virgilio, Orazio (vedi anche sopra 189). Dato il tipo omnes qui amant (And. 191) e altri identici o affini, egli scrisse Sched. XIV-XV: «in his autem aliisque similibus Tria sunt observanda; numquam hoc fieri nisi in verbo Monosyllabo; quod verbum si in vocalem exit, oportet syllabam esse Longam; lctum denique habere in prima syllaba Anapaesti». Queste parole hanno pesato moltissimo e sono state a lungo la guida degli studiosi: riecheggiano ancora in Lindsay Early 226-228, in particolare 229, e si trasformano, per es., in una sorta cli 'legge' per Laidlaw Pros. 84 (a tacere d'altri). Ad esse si deve, purtroppo, anche la falsa convinzione, già ricordata, che lo iato prosodico fosse tipico dei longa (un tempo detti 'arsi', con
Prosodia
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tanto di 'accento metrico') e poco ammesso invece, se non escluso, dagli altri elementa del verso (un tempo detti 'tesi') 12 • Nel segmento terenziano sopra citato e in tutti gli altri menzionati da Bentley il monosillabo in iato prosodico forma infatti non solo la prima parte del1'elemento, ma questo stesso elemento è un longum (per Bentley 'arsi'), come appare chiaro dall'intero verso (ia8 ): hoc quid sit? omnes quì' amant grauiter sibi dar(i) uxorem /erunt.
In seguito la problematica si è ampliata e ha coinvolto i bisillabi giambici, ritenuti capaci di passare a quantità pirrichia non per CI ma per iato prosodico, come: Ampb. 622 (tr 7 ) non sole(o) ego somniculose I eri' I imperia persequi (nulla da eccepire, peraltro, al primo iato, che è in incisione mediana) Men. 389 (tr 7) egon te iussi coquere? :: certo, tibr I et parasi/o tuo
Per.61 (ia6 ) und(e) ego I bune quaest(um) optine(o) et maiorum locum Ps. 650 (tr7 ) suìim I bue ad nos, cum I e(o) aiebat uelle mitti mulierem (possibile, ma non probabile, c(um) eo I aiebat, cioè elisione della preposizione e iato del pronome).
Ma lo iato con questi bisillabi è un gruppo né vasto né sicuro e certo non lo si deve postulare là dove il verso non lo richiede: da usarsi quindi con la massima cautela il materiale raccolto e commentato da 12
Circa lo iato in andpitia e longa seria discussione, con la terminologia tradizionale, in Pelz Pros. 15-48. Va osservato, fatto notevole, che Lindsay Ear/y 229 nel formulare la 'legge' si guardò bene dal rifarsi, 'tedescamente', ad 'arsi' e 'tesi' (anzi, Hebung und Senkung ...) ed evocò ancora la prediletta 'pronuncia quotidiana': «monosyllables ending in a long vowd (or -m) were left in 'Prosodie' Hiatus (i.e. with shortening of the fìnal) before iambic words whlch began with a vowel (or h-). This scansion, which is only rarely departed from and that through metrica! exigencies (e.g. at the end of a line), w a s a n e eh o o f t a 1k [spaziato mio]». I grandi studiosi si manifestano sempre. Poco attendibile, spesso arbitrario e comunque prigioniero dell"accento metrico' Rau Probi. 145-153.
Incontro di fonemi vocalici
193
Lindsay Early 248-254 (meglio ritenere il grigio ma sicuro Pelz Pros. 48-67). Terenzio non ha esempi siffatti: lo notò già Lindsay Early 250 e se ne accorse persino Laidlaw Pros. 92. b) la categoria dello iato 'logico' e I o 'stilistico' è stata, per la sua stessa evanescenza, il contenitore di scansioni arbitrarie o di fiducia accordata imrneritarnente a testi più che dubbi. Citiamo ad ogni modo come esempio di iato dopo un'interiezione o un vocativo (altro materiale, ben discusso, in Lindsay Comm. 53 ed Early 243-244): Cas. 536 (tr7 ) sed eccum I egreditur, senati columen, praestdium pop/i Mos. 686 (ia 6 ) eug(ae)! optim(e) eccum I aedium dominus /oras (la sinalefe è pur sempre preferita e qui difatti investe l'esclamazione eugae, come si vede anche in Mii. 470 545 Mere. 332 ecc.)
Per.617 (tr7 ) uirgo, I hic homo probus est :: credo :: non di(u) apud hunc seruies. Non mancano in Plauto altri esempi di iato logico e I o stilistico, come Au. 712 (ia6 ) attat, ecc(um) ipsum. I ib(o) ut hoc condam domum Men. 898 (ia6 ) atqu(e) ecc(um) ips(um) hominem. I obseruemus quam r(em) agat Mos. 484 (ia6) ego dic(am), ausculta. I ut /oris cenauerat.
Noteremo che, al contrario degli esempi citati più sopra, non solo in questi versi eccum è sempre in elisione o dicasi sinalefe, ma che lo iato si colloca in incisione al quinto el.: se questo tipo, come crediamo, è da giudicare tra gli iati metrici inoppugnabili, si constata questa volta l'agire concorde di due ordini di motivi: quello metrico e
Prosodia
194
quello 'logico' o 'espressivo'. In Au. 712 e Men. 898 infatti abbiamo l'annuncio dell'arrivo di un nuovo personaggio; in Mos. 484 Tranione, dopo un'opportuna pausa evidenziata certo dalla recitazione, inizia il falso - ma terrifico - racconto delle apparizioni del fantasma. Un bell'esempio offrono i Captiui (531-532): ... maximas I (ia6 ) nugas ineptus incipisso.I haereo (Tindaro sente di 'perder la testa'). Terenzio si comporta, ovviamente, in modo del tutto diverso: non ci sono iati dopo eccumI eccam e i pochi esempi di iato «in pausa» citati da Laidlaw Pros. 88-89 sono tutti incerti testualmente o frutto di scansioni arbitrarie (vedi ancora oltre 196 n. 16). Citiamo solo due esempi: Eun. 701 (ia6 ) dicebat éùm esse. I is dedit m(i) hanc. :: occidi (Lindsay presuppone anche eum in sinalefe 'totale', ma la difficoltà non è solo questa: i Calliopiani leggono hanc uestem, taluni editori correggono mihi dedit hanc) Hec. 1 (ia6) Hecyr(a) est huic nomen /abulae. I haec quom datasi (è inutile citare, con Laidlaw Pros. 89, l'ipotesi della 'libertà di Jacobsohn' dopo l'ottavo demento di senario: Terenzio ignora questa peculiarità metrica plautina, come ha visto Raffaelli Rie. 58 e n. 75; qui c'è veramente forte pausa sintattica, sempre che il passo, che appartiene al problematico 'primo prologo' delI'Hecyra, non sia guasto: vedi anche Leo Forsch.2 n. 2 e oltre, ampiamente, 251 e 307).
infine lo iato metrico. Nessuno ne impugna la liceità - sempre come fatto possibile, non già vincolante - nell'incisione mediana dei 'versi lunghi' plautini (tr7 ia7 ia8 an7 an8 ), in quella di altri versi se parimenti con tale incisione (ba4 cr4 ) e ancora, talvolta, in quella di versi formati da un membro maggiore e uno minore (o viceversa) quali ba2 bac, cr4 ere ecc. Ammessa ancora da tutti è la possibilità di iato in cambio di interlocutore: a questo iato noi aggiungiamo fiduciosamente, come accennato, quello in incisione al quinto el. di ia6 e quello degli elementi di ia6 tr 7 che fruiscono della 'libertà di Jacobsohn' (o dicansi loci ]acobsohniam):vedi più avanti. Tutti questi iati e)
Incontro di fonemi vocalici
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sono da noi ritenuti istituzionali, vale a dire previsti a priori, ma sempre e solo come possibilità, dai metremi in quanto tali. Tuttavia dura da quasi duecento anni 13 la discussione fra gli studiosi circa l'esistenza o meno di altri iati istituzionali, tali cioè da non dover suscitare, ipso facto, il dubbio dell'editore. Un'utile, chiara rassegna della discussione diede a suo tempo Calderan Vid. 131-134, dalla quale si ricava tuttavia la desolante immagine di uno stridulo cicaleccio di professori, fine a se stesso o, peggio, inteso a dimostrare che il collega non è stato abbastanza attento e preciso: che, insomma, non ha capito niente della 'gravissima' questione. Indimenticabile il commento di Bettini Sot. 70 n. 37 alla lite, da opera buffa napoletana, tra due decorsi 'sopramaestri' circa i sotadei (ma personaggi di ben altro pondo fecero anche di peggio). Vediamo di tentare un'altra via. Nell'Asinaria, appartenente alla prima fase poetica del Sarsinate (Paratore Storia 123, 132), noi troviamo, nei primi 125 versi tutti ia6, questi iati 14 : al v. 5 iato 'logico' (ma si potrebbe scandire anche altrimenti), al v. 20 in incisione al quinto el., al v. 85 in 'libertà di J acobsohn', al v. 93 iato prosodico, al v. 98 in incisione mediana (nel ia6 questa incisione è davvero rara, tanto più con iato), al v. 103 in incisione al terzo el. E nei successivi 126-152 abbiamo iato in incisione mediana di cr4 (v. 135), al v. 141 in 'libertà di Jacobsohn' (meum è monosillabo per sinizesi), al v. 148 due iati prosodici con forte rilievo stilistico, al v. 150 altro iato prosodico stilisticamente rilevato. Dal v. 851 al v. 947, tutti tr 7 , abbiamo nove iati, nessuno dei quali può ingenerare ragionevoli sospetti; se ne aggiungono due consecutivi, nel v. 921, questi sì esigenti medicina. Saranno forse, questi iati, tutti o quasi segno di corruttela 1'? La sola legittima considerazione - già avanzata più volte - sarà piuttosto aver per fermo che la tecnica plautina differisce di molto da quella dei 13
Vedi Linge (Lingius), Quaestionum plautinarum liber I sive de hiatu in versibus plautinis, Vratislaviae 1817, una delle prime trattazioni ex pro/esso, ch'io sappia. 14 È quanto si ricava, per questa commedia, da testo e apparato di Danese. 1 ' Va da sé che ci sono iati dawero del tutto improbabili: vedi per es. Questa ad Ps. 160 (si dovrà tener conto che il poeta potrebbe comportarsi in un modo nei versi recitati e in un altro nei cantica: un cenno in Pdz Pros. 67-80 considerando lo iato prosodico); nell'Asinana solo i w. 98 e 921 sono per me fonte di veri sospetti.
Prosodia
196
poeti successivi, Terenzio in particolare 16, e che essa poteva semmai aver avuto un riscontro in Nevio comico, a noi tuttavia per sempre irragiungibile. L'autore di queste note non ebbe mai la tentazione di occuparsi ex pro/esso dello iato plautino e in ogni caso da tale tentazione lo avrebbe distolto la voce oracolare di Eduard Fraenkel, che non nascondeva forte scetticismo (o anche fastidio...?) per la questione. Ricerche anche recentissime dimostrano che l'oracolo, come tutti gli oracoli, non parlava invano 17•
16
Decisiva l'affermazione di Leo Forsch. 2 n. 2 al termine di un serrato confronto tra Bembino e Calliopiani: «die Uberlieferung lehrt uns also, dass Terenz iiberhaupt keinen Hiatus zugelassen hat» (e sulla mancanza di iato nell'incisione mediana di tr 7 in Terenzio vedi Hermann Elem. 150). Poco felice il tentativo di A. Klotz Hiat. 317 sgg. di 'nuancer' l'affermazione leonina (vedi le conclusioni a p. 337). 17 Un cenno bibliografico solo orientativo: rari nantes in gurgite vasto e il gurges è anche molto inquinato. Meritano ancor oggi ricordo, magari per aver infJuenzato la constitutio textus di Plauto, di Terenzio e degli altri scenici (talora in modo benefico, talora no) Miiller Pros.1 485-766, F. Skutsch Schr. 130-148, Lindsay Comm. 43-55, Leo Forsch. 1-6 330-340, Krawczynski Hiat., Lieben SynaJ.,Ax Hiat. (ancora molto utile), Lindsay Ear/y 221-254, Pelz Pros. (con bibliografia e buone discussioni), Laidlaw Pros. 82-95 116-117 (sviante), Soubiran Élis. (la vasta materia è distribuita in più rubriche, a volte ricche di dati e confronti preziosi, a volte troppo diffu. se e ripetitive), Deufert Rez. 340-380 (inaccettabile per falsa idea circa l'origine del testo plautino); meglio Boldrini Anap. 117-150, con qualche riserva.
METRICA
PREMESSA
1. - I versi di Plauto e di Terenzio, come quelli di ogni altro poe-
ta latino o greco sino alla tarda antichità, sono quantitativi. Come ben sappiamo, la quantità, e questa soltanto, crea il ritmo del verso grazie al succedersi degli elementi secondo un determinato schema. Tuttavia, ed è considerazione fatta più volte, si deve ricordare che più nulla può ridarci il suono del verso antico, in particolar modo di quello scenico. Al lettore moderno non resta che prendere atto di alcuni fatti importanti, talvolta senza cercarne ambiziose spiegazioni perché queste non potrebbero uscire dal soggettivo e dall'ipotetico (ne abbiamo visto esempi più sopra). In modo particolare si impone forte cautela nel giudicare i metri antichi, e quelli di Plauto e di Terenzio fra essi, in base a criteri di gusto peculiari a noi moderni, ma assolutamente estranei agli autori latini e greci. 2. - Il ritmo del verso è dunque ottenuto grazie alla ordinata successione degli elementi formanti il verso stesso (Maas Metr. §§ 28-31, 52) 1• 1
È assai più facile 'descrivere' (Maas Metr. SS 32-44) gli elementa o elementi (in questa trattazione non distingueremo tra fonna latina e italiana) che definirli. Gli elementi sono un'astrazione rispetto ai fonemi che, raggruppati in sillabe, fonnano il verso; essi sono una sorta di 'formula di concordanza' (come, in glottologia, i.e. *pater rispetto a lat. pater, gr. :n:UTIJQ, a.i. pitir) o, se si vuole, la virtualità dello schema metrico, che contiene in sé tutte le fonne possibili di un determinato verso. Indicato con gli elementi, lo schema di un verso è anche paragonabile alle figure geome-
200
Premessa
Gli elementi si distinguono in a) elementa brevia ( u ): sono formati da una sillaba breve b) elementa ancipitia ( x ): sono formati da una sillaba breve o lunga, eventualmente due brevi e) elementa bicipitia ( 88): sono formati da due sillabe brevi o da una lunga d) elementa longa (-): sono formati da una sillaba lunga, eventualmente due brevi e) elementa indif/erentia ( r.'I ): sono formati da una sillaba breve o lunga, mai da due brevi 2 • I brevia e gli indifferentia, dunque, sono sempre monosillabici; gli altri elementi, invece, salvo particolari dei singoli versi e dei singoli elementi del verso, possono essere rappresentati, specialmente nella versificazione di Plauto e di Terenzio, da due sillabe brevi: in questo
triche come appunto considerate dalla geometria: questa infatti studia il triangolo rettangolo quale modello ideale di tutti i triangoli rettangoli esistenti. E quanto al verso stesso - ma non sarebbe ceno questa la sede per dame una definizione - potremmo dire che è un segmento di discorso in cui si percepisce un ritmo grazie alla ripetizione di uno stesso schema (o di accenti o di quantità) identico o riconosciuto come tale dal destinatario. In astratto l'estensione del segmento è, in se stessa, indefinita; in pratica nella versificazione delle lingue classiche e moderne il segmento è di estensione piuttosto limitata per meglio assicurare quella ripetitività che, percepita. assicura il ritmo. 2 L'elementum indiff erens è normalmente quello posto alla fine del verso, seppure i metri degli scenici repubblicani conoscano al loro interno elementi il cui trattamento li avvicina moltissimo agli indifferentia finali: oltre 299 sgg.; è poi intuitivo che un elemento finale, indiff erens in una unità metrica usata xa,;à o-tlxov, non lo è più se questa è usata xa-tà OUO'tTjµacon la necessaria sinafia tra i vari cola; analogo trattamento variabile subisce l'elemento mediano dei 'versi lunghi' a seconda che questi abbiano o no incisione mediana. Su sillaba breve apena in elemento indifferente ho segnato la quantità reale, su sillaba chiusa con vocale breve ho posto segno di lunga senza nascondermi che la quantità non era precisa nemmeno per gli antichi stessi: vedi le preziose testimonianze addotte e illustrate benissimo da Luigi E. Rossi Anc. 66 n. 1 e la discussione delle medesime sillabe in latino che fece a suo tempo Marouzeau Ali. 344 sgg. In egual modo mi sono componato con sillaba in cambio di interlocutore e in incisione (d. Questa 55-56).
Premessa
201
caso parleremo per brachilogia di longum bisillabico, anceps bisillabico, biceps bisillabico. 3. - Nel verso degli scenici repubblicani, a differenza del verso scenico greco, i brevia sono pochissimi: quasi tutti i brevia del verso greco sono rappresentati da ancipitia e alla loro volta questi sono spesso bisillabici. I longa latini 'corrispondono' invece ai longa greci, ma rispetto a questi sono molto più facilmente bisillabici. Neppure la successione di longum bisillabico e anceps bisillabico, evitata di regola dai Greci, è estranea ai Latini, sebbene non la si incontri frequentemente (per es. Rud. 43 Per. 353 Eun. 149) 3 • Sussiste invece pienamente la distinzione fra ancipitia e bicipitia (sebbene in certi tipi di versi, come i cola Reiziana, gli ancipitia mostrino talora analogie di struttura con i bicipitia bisillabici): diverse sono le norme che il poeta si impone nella formazione degli uni e degli altri, in particolare se bisillabici. 4. - Non solo il verso del teatro repubblicano vede quasi tutti i brevia volti in ancipitia, ma i poeti latini, come norma generale, trattano gli ancipitia bisillabici nello stesso modo in cui trattano i longa bisillabici: è questo un fatto su cui non si insisterà abbastanza. La ragione non è chiara, e forse poco importa chiarirla, ma potrebbe essere cercata nel fatto che, scomparsi quasi del tutto i brevia che nel verso greco con la loro presenza nelle sedi canoniche garantiscono la regolarità e la chiarezza del ritmo, tali regolarità e chiarezza furono ottenute con il sottoporre tutti gli elementi che possono essere bisillabici (longa o ancipitia) alle stesse norme severe. Quanto cioè i Latini acquistano in libertà con gli ancipitia al posto dei brevia, altrettanto perdono in libertà nel rapporto fra gli elementi e le sillabe che li realizzano concretamente nel verso (sviluppa ora questo spunto, in modo utile, Bettini Lavor. 13 sgg. e vedi oltre 204 n. 4). Parimenti, nel modo con cui sono trattate le varie incisioni, il verso scenico latino è più severo del 'corrispondente' verso greco. 3
Vedi MaasMetr. S 42, Martinelli Strum. 110 e n. 121. Ma l'essenziale è ovviamente già in Hermann Elem. 97-98, 127, 131 sgg., che riprende con ben altra lena un discorso iniziato in Metr. 156 per quanto riguarda i versi degli scenici latini.
202
Premessa
5. - La metrica della scena latina repubblicana è retta da un codice, o sistema di segni, che, come tale, obbedisce a norme strutturali chiare e semplici: abbiamo già visto qualche caso in cui queste possono orientarci nel maneggiare un materiale prosodico quanto mai vario e incoerente. Le norme valgono per tutti i tipi di verso usati da Plauto e da Terenzio: l"eccezione' più vistosa - quella dei versi anapestici plautini - in realtà non è tale e dipende solo dalla natura stessa di questi versi, i quali peraltro non mancano di mostrare almeno una, ma 'forte', analogia strutturale con gli altri (lo stesso deve dirsi di alcuni, ma pochissimi, versi lirici). Non si insisterà mai abbastanza sulla fondamentale unità della 'langue' metrica dei poeti scenici latini, di commedia o tragedia, da Livio Andronico ad Accio. Naturalmente entro il sistema esistono anche possibilità di libere scelte dei singoli poeti: per es. presenza o meno di iato nell'incisione mediana dei versi lunghi (e presenza, in generale, dello iato stesso), presenza o meno della 'libertà di Jacobsohn', assenza o presenza, a certe condizioni, di monosillabo in fine di verso o di colon, e così via. Ed è certo avvertibile anche la tendenza a distinguere verso tragico da verso comico. Ma si deve affermare nel modo più energico che circa le norme che definiscono il codice e condizionano sull'asse paradigmatico la realizzazione del metrema non vi sono differenze di sorta. La tragedia, semmai, cerca di 'opporsi' alla commedia ricorrendo innanzi tutto, come naturale, a diversità di lessico, poi a 'preferenze' in questioni di metrica verbale (la minor presenza, che pare certa, di elementi bisillabici) e, in particolare, a codificazioni metriche di 'secondo grado' come la norma di Lange-Strzelecki (Questa Metr. 535-536), che tuttavia viene già anticipata da chiara tendenza del verso comico (Questa Num. 219-220, e soprattutto Raffaelli Rie. 61-77 con osservazioni definitive). Nella nostra trattazione distingueremo dunque tra le costanti norme strutturali generali o 'di primo grado' - la cui 'rete' obbliga anche poeti come Orazio (secondo il genere coltivato) e Seneca tragico; e altre che possiamo classificare come variabili - o norme strutturali 'di secondo grado' - tali cioè che il loro silenzio (taluno direbbe il loro 'sonno' ...) non pregiudica la realizzazione del metrema, seppure in più di un caso mostrino valore paradigmatico.
Premessa
203
6. - Esistono poi norme, non meno chiare e precise, che invece caratterizzano i singoli tipi di verso: esse si innestano, per così dire, sulle costanti 'di primo grado' e del pari hanno valore paradigmatico nell'ambito di quei versi. Così, per addurre subito un esempio, la norma di Bentley-Luchs ha valore assolutamente paradigmatico per i versi giambici e trocaici (a clausola giambica) destinati alla scena reale o /icta, non già per i trimetri giambici lirici degli epodi di Orazio; la norma di Lange-Strzelecki dà per valida e operante quella di Bentley-Luchs e, nel verso dei Tragici, si 'sovrappone' a questa - beninteso dove se ne diano le condizioni - fino ad approdare alla cosiddetta /ex Diomedis (gramm.I 507, 11-13) caratteristica di Seneca tragico. E per dare un altro esempio: né Plauto né Terenzio (e neanche i Tragici, beninteso) possono permettersi (vedi già sopra 105 sg.) ia6 come Cas. 60 quale attestato da P ill(e) autem postquam sensi/ filiiim suiim
di cui invece A reca la versione metricamente corretta: il/(e) autem postquam filium senstt suiim;
o un tr7 come As. 896 secondo la lezione di JE ain tandem ? I edepol ne t(u) istuc cum magno malo tuo
mentre BD hanno il testo sano: ain tandem ? I edepol ne t(u) istuc cum malo magno tuo.
Orazio invece, per limitarci al primo epodo, ha quattro versi ( 11 13 15 31) con la clausola proibita agli scenici Jeremus et te uel per A/plum iuga
cui si aggiunge l'altra clausola, evitatissima dai Tragici repubblicani, se non è loro addirittura proibita come poi lo è a Seneca, per via della norma di Lange-Strzelecki (vv. 1 7 17 21) utrumne iussi persequemur otziim;
Premessa
204
e lasciamo da parte l'epodo XVII che è cosa a sé (Questa Num. 219)
4
•
7. - Tra le norme strutturali generali distinguiamo dunque: a) costanti di 'primo grado', norme che riguardano la realizzazione degli elementi bisillabici e il loro vicendevole rapporto: 1) norma di Ritschl
2) 3) 4) 5)
norma norma norma norma
di Hermann-Lachmann delle 'sedi con licenza' di Fraenkel-Thierfelder-Skutsch della 'compensazione'.
Queste norme sono più propriamente strutturali: senza di esse non si dà realizzazione del metrema come tale e ogni violazione di esse, fuor dei casi previsti e consentiti, è indice di passo sospetto. b) costanti di 'secondo grado', norme meno rigorose, che concernono soprattutto la realizzazione degli elementi davanti a 'pausa': 'libertà' di Jacobsohn 2) norma dell'elemento davanti a 'pausa' 3) norma del monosillabo e del bisillabo finali. 1)
In queste norme meglio si constata il movimento diacronico del sistema della metrica scenica latina: in esse sono date ai poeti possibilità di scelte 'stilistiche' non stringenti per essi stessi né irrevocabili per i poeti successivi. 8. - I versi usati da Plauto e da Terenzio possono raggrupparsi nelle seguenti specie: 1) versi giambici (ia) 2) versi trocaici (tr)
4
Le considerazioni esposte in questi paragrafi non esisterebbero senza quanto a suo tempo scritto dalla mente luminosa di W. Meyer: vedi in particolare Beob. 36-42 e qui oltre 277-278.
Premessa
3) 4) 5) 6) 7) 8) 9)
versi eretici (cr) versi bacchiaci (ba) versi anapestici (an) versi e cola reiziani (v cr) versi eolici (wil gl ecc.) versi ionici (ion) altri versi lirici.
205
I COSTANTI DI PRIMO GRADO
1) norma di Ritschl
la prima breve di elemento bisillabico non può essere realizzata da sillaba finale di polisillabo (divieto dell'elemento 'strappato') Da quanto enunciato si ricava in particolare: a) monosillabo breve, o parola divenuta monosillabica per sinalefe, possono realizzare la prima parte di elemento bisillabico senza che questo debba dirsi strappato; b) due monosillabi brevi, anche tali per sinalefe, possono realiz-
zare elemento bisillabico. Sono dunque da ritenersi in tutto conformi a quanto affermato versi come Bacch.70 (tr7 ) pro galea scaphium,pr(o) insigni sit corollap/ectilis (il secondo elemento è formato da gaie-, il quarto da scaphi-) Mii. 1284 (ia6 ) a/i(um) a/io pacto propter amorem ni sciam (propter amorem, preposizione+ sostantivo, formano 'parola metrica' e
Metrica
208
pertanto il settimo elemento non può dirsi strappato: vedi anche Cap. 287 Mere. 385 Tri. 623 e oltre 211 Oss. 1) 1 Tri. 478 (ia6 ) uerecundari nemin(em) ipud mensam deeet (l'ottavo elemento è realizzato da ipud, pirrichio per CI come (quasi) sempre quando precede un sostantivo: sopra 92-94; non è possibile misurare -mì'n(em) ipiid mensam perché la norma di Ritschl verrebbe violata nel settimo elemento) Mere. 385 (tr7 ) e(o) eg(o) ut quae mandat(a) amidis imicis trad(am) :: immo mane (d. Mii. 660, il cui testo è peraltro assai dubbio: la sequenza amicus amicis si è pensato formi 'parola metrica': così Lindsay Early 102, ma vedi già Ritschl Opuse.2 399 e oltre 273 sg.) 2 Cis. 673 (ba4 ) qu(ae) in tergum meum ne uenì'ant male Jormido (il settimo elemento è realizzato da uent-) Cur. 149 (cr4 ) gerit(e) amanti mihi mor(em), amoenissumi (il primo elemento è formato da geri-) Eun. 257 (ia7 ) eetarii linì'i eoqui Jartores piscatores (il quinto elemento è formato da linì'-) Cas. 114 (ia6 ) ex sterculino ecfosse, t(ua) illaee praeda sii? (si può anche misurare -se tu(a) il- con CI dell'iniziale del pronome, ma inammissibile l'elemento strappato -se tu(a) il-) 1
Qualche esempio terenziano della medesima tipologia: propter amorem And. 155 inter eos And. 852 Eun. 726 734 inter eas Hec. 178 180 305 313 479 propter eam Haut. 190; singolare Ad. 386 istuc est sapere,non quod ante pedes modmt (già citato come falso strappamento da Miiller Pros.2 13) dove, almeno in teoria, si potrebbe avere pedes per CI: in tal caso non avremmo più il nono elemento realizzato da -te pe- e il decimo da -des, ma il nono realizzato da -te e il decimo da pedes (ma sulla problematicità di questa scansione vedi sopra 98). 2 Ancora una volta, e sia l'ultima, ricordiamo che -s non si elide davanti a vocale e che pertanto è inammissibile, qui e dovunque, una scansione amicu(s)amiciscon successiva sinalefe o, per es., in Tri. 1127 aedibu(s) absque te /oret, e così via (sull'opposta errata opinione di Leo, che rende talora inaccettabile il suo testo, vedi ancora sopra 32 sgg. e qui più oltre 215, 231 anche circa versi problematici come Amph. 55 Bacch.614 Mos. 40 e altri).
Costanti di pn·mo grado
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Ps. 1182 (tr7 ) in' malam cruc(em)? :: ire lieebit tibi tamen hodie temperei (-re Il- formano il sesto elemento solo in apparenza nel modo proibito: intendere ir(e) con Lindsay Early 103 e vedi sopra 28 e oltre 216 Ps. 82; il verso dava già problemi a Miiller Pros.2 15).
Devono invece ritenersi eccezionali, corrotti o molto sospetti versi come As. 382 (ia7 ) Demaenettis uhi dicitur habitar(e). i, puere, pulta (il quarto elemento è realizzato da -ttis ti-: vedi qui Eun. 264, oltre 212 Oss. 3 e Raffaelli Rie. 52)
Cap.94 (ia6 ) n(am) Aetoli(a) haee est, illie est capttis in Alide (è un verso altamente problematico - illic oppure illie? e poi -ttis in Alide - sul quale si veda la mirabile discussione di Lindsay Comm. ad I. preceduta da utili cenni di Miiller Pros.2 16) Cap.246 (tr7 ) perqu(e) conseruitium commiine quod hostica euenit manu (il verso è problematico per la presenza di ottavo elemento bisillabico, piuttosto raro, e qui anche strappato: vedi Lindsay Comm. ad I., Early 101-102; molto brutta la Cl quod hostica suggerita da Leo e già in F. Skutsch Rom. 152)
Men. 268 (ia6 ) tu magntis amator mulierum (e)s, Messenio (magnus P magis A) (la lezione di P è inaccettabile per ragioni metriche non sanabili con magnu(s): d. Mere. 385; magis di A accolto da Lindsay può dispiacere per ragioni di senso ed è almeno da citare magnus tu di Bothe: d. Miiller Pros.2 15; opinabile la scansione di Tri. 1163 in Lindsay Early 103 e aspra quella di Leo)
Poe. 240 (ba4 ) soror cogit(a), amabo, I item nos perhiberi (sui tentativi di emendare il verso vedi Questa ad I. e cf. Tri. 478) Rud. 1119 (tr7 ) ut id oeeepi dieeri, senex, eam te quaeso cistulam (sul verso vedi Questa RecSou. 70; eam, senex Lanciotti dub.)
210
Metnca
Rud. 1114 (tr 7 ) eo tacent quù1 taciti bonast mu/ier semper quam /oquens (così suona il verso come tramandato, con due strappamenti e un problema grammaticale perché manca, pare, un comparativo che regga quam: donde tacitasi bona di alcuni, tacitasi < melior > di altri, la scansione -ti bonist di Lindsay contro una legge della CI da lui mai direttamente riconosciuta: sopra 138, 146 sg.; decisivo l'intervento di Tunpanaro Contr.1 39 sgg., che ha comprovato il testo tràdito dal punto di vista grammaticale (positivus pro comparativo) e, per il metro, raccomanda tacita bona < erit > di Ussing che elimina i due strappamenti e non tocca il costrutto tipicamente plautino; vedi anche Questa RecSou. 70 n. 5) Bacch. 83 (tr7 ) ubi tu lepide uoles esse tibi, 'mea rosi' mmi dù:ito (questa volta i due strappamenti sono difesi anche dalla ricercata simmetria metrico-stilistica, ma circa -si ml- e i loci Jacobsohniani vedi oltre 291 sgg.) Ad. 139 (ia6 ) qu(om) it(a) ut uolo (e)st. iste tìius ipse sentiet (è stata invocata una problematica enclisi di tuus: vedi anche oltre 250) Hec. 367 (tr7 ) postquam m(e) aspexer(e) anci//(ae) adueniss(e), ilk(o) omnes simu/ (il verso è già stato discusso sopra 119 per omnes; ben più grave la difficoltà metrica: vedi qui 212, donde atque per i/ico di Lindsay ad /.; la tradizione va corretta anche in Ad. 475 e 950: Lindsay Ear/y 95, 90) Eun. 264 (ia7 ) uocabuli, pirasit(i) it(a) ut gnathonici uocentur (vedi qui sopra As. 382; ia8 con strappamenti vedi oltre 249) Ad. 553 (tr7 ) age /amen eg(o) hunc amouebo :: sed eccum sceleratum Syrum.
Non fanno invece alcuna difficoltà elementi realizzati come osservato al punto a): Bacch. 161 (ia6 ) occisus hrc homo (e)st. ecquid in mentem (e)st tibi (il quarto elemento è formato dal monosillabo hic e da ho-)
Costanti di primo grado
211
Cas. 618 (ia6 ) quoi sic tot amanti m(i) obui(am) eueniant morae (il terzo elemento è formato dal monosillabo tot e da a-) Eun. 485 (ia6 ) ubi tempus tib(i) erit, siit hiibet si tum recipitur (il quarto elemento è formato da llb(i) monosillabico per sinalefe e da e-, il sesto dal monosillabo sat e da ha-).
Altrettanto legittimi sono gli elementi realizzati come osservato al punto b): As. 720 (ia 7 ) opt(a) id quod ìit contingat tibi uis :: quid s(i) optar(o) ? :: eueniet (il terzo elemento è formato dai monosillabi quod ut, il secondo dei quali è breve per
cn
Cur. 596 (tr7 ) rogai und(e) habeam 'quzd rd tu quaeris'? 'quia mi quaesitost opus' (il quinto elemento è formato dai monosillabi quid id, il secondo dei quali è breve per
cn
Mere. 358 (ba 4 ) mercat(um) ire iussit, rb(i) hoc miil(um) eg(o) inueni (il nono elemento è formato da mal(um) eg(o)) Hec. 60 (ia6) uel hrc Pamphilus iurabat quotiens Bacchidi (il primo elemento è formato dai monosillabi uel hic, il secondo dei quali è breve per
cn.
OSSERVAZIONI
sembra quasi ovvio affermare che quanto proibito dalla norma si riferisce ad elemento bisillabico diviso tra due parole fra loro autonome, non a quelle che formano una sola 'parola metrica' per effetto di enclisi, proclisi e, dicono taluni, 'associazione abituale'. Ma proprio circa enclisi, proclisi e così via si ricordino le osservazioni fatte a più riprese nelle pagine precedenti, in particolare discutendo la CI: 'parola metrica' è concetto di cui si è spesso abusato, sostanzialmente infido, e non si dimentichi, in ogni caso, che la lingua latina ha caratteri1)
Metrica
212
stiche e comportamento prosodico-metrico diversi dalla lingua greca, nell'ambito della quale esso è stato elaborato (approda a Maas una lunga serie cli studi illustri iniziata con l'Ottocento: Porson, Hermann ...: breve rassegna tanto chiara quanto importante in Martinelli Strum. 25-26). L'autonomia della parola latina, nel nastro fonico-semantico del discorso, è più sensibile e coinvolge anche, in qualche modo, enclitiche e proclitiche (a tacer d'altro) 3 • È poi assolutamente fondamentale rammentare che la sinalefe, o elisione, tra due parole non fa cli esse in questo caso 'parola metrica': ai fini della norma enunciata esse rimangono assolutamente autonome e distinte, sicché una sequenza come perdtd(i) amorem può realizzare un elemento solo nelle sedi 'con licenza' (oltre 221): vedi quanto sopra osservato circa Tri. 478 Poe. 240 Hec. 367. Le sillabe in sinalefe, o elisione, l'abbiamo più volte osservato, continuavano in qualche modo ad essere avvertite come, prima e meglio cli ogni altro, aveva già ammonito il grande Meyer cli Beob. 22-23, 48 n. 1, 60-61 (vedi anche oltre 218 Oss. 2); 2) elementi strappati sono vietati con severità nel verso greco tragico (Maas Metr. §§ 104, 111), meno severamente nel verso comico (Maas Metr. § 110), ma la tecnica dei versi giambici e trocaici cli Plauto (soprattutto) e cliTerenzio è per vari aspetti più vicina a quella dei Tragici che a quella di Menandro quanto a incisioni, trattamento dei monosillabi e simili; 3) eccezioni alla norma di Ritschl, fuori delle sedi 'con licenza', sono in pratica escluse dagli ancipitia, si che versi come Men. 268 Cap. 94 Hec. 367 mostrano segno fortissimo di corruttela. Circa i 3
Per fare un solo esempio, ma eloquente, ricorderemo che in greco, data la sequenza -quimini dal momento che parola e finale di parola anapestica rifiutano la Cl: sopra 99; vedi comunque F. Skutsch Rom. 107 n. 2, Pavone Lic. 201, Guastella Probi. 442 e Voce 83 n. 14: Lindsay Early 20 suggerisce sequfmfni :: /ortass(e) ecc., che rimedia alle anomalie osservate; Mrneriiii è difficile in Bacch. 893: vedi ancora Ear/y 207). e) eccezioni alla nonna di Ritschl in versi trocaici
La licenza può considerarsi certa, accompagnata o meno da CJ, nei seguenti versi Bacch. 90 (tr 7 ) i//(e) qufd(em) hanc abduce!: tu nu//us ad/ueris si non /ubet (il verso ha problemi: vedi Pavone Lic. 189 con opportuna discussione e Questa Comp. 421 n. 20; forse eccezione apparente) Cis. 62 (tr 7 ) indrd(em) und(e) oritur /acit(o) ut /acias stu/titiam sepe/ibilem (il verso è importante anche per quanto concerne la norma di FraenkelThierfelder-Skutsch e conseguenze: vedi più oltre 23 7, 246)
228
Metrica
Mii. 220 (tr 7 ) amp(e) op(em) auxi/iumqu(e) ad hanc rem: proper(e) hoc, non placide decet Per. 545 (tr 7 ) haecì'n(e) ìl/ast /urtiua uirgo ? :: iuxta tec(um) aeque scio (cf. anche Rud. 1100 e vedi Pavone Lic. 190; qualcuno potrebbe suggerire haec(i)n(e) il/ast ecc.).
Scansione con licenza iniziale sembra inoltre largamente poziore in Sti. 331 tr 7 (vedi Pavone Lic. 190 contro O. Skutsch Pros. 34), Tri. 301 tr 7 , Tri. 880 tr 7 (qui la licenza evita 'proceleusmatico' con CI che sappiamo poco gradito: sopra 130 e oltre 366 sgg.); l'inizio di Per. 232 tr 7 va sicuramente emendato (vedi Pavone Lic. 189-190), mentre discussione più precisa meritano Cis. 526 (tr 7 ) et quid(em) bere/e nisi pedatu terti(o) omnis e/flixero Sti. 58 (tr7 ) qui mane/ ut monetur semper seruus hom(o) o/ficium suum Sti. 718 (tr 7 ) baud t(uum) istuc est te uereri I érì'p(e) exore tibias
nei quali ha fatto difficoltà la licenza a capo del secondo emistichio (decimo elemento): donde per es. e/flixero omnis tertio di Leo in Cis. 526 (Leo poteva essere anche allarmato da omnis, su cui sopra 118 sgg.: ma vedi Lindsay Early 103); in Sti. 718 la sincope er(z)pesuggerita un tempo da E Skutsch Rom. 46 n. 2; in Sti. 58 il considerare seruus homo 'parola metrica' già in Miiller Pros.2 13 sgg. (qui Leo certo considerava caduca la -s di seruus con successiva sinalefe). Oggi però l'opinione degli studiosi è diversa e su Cis. 526 vedi per es. Lindsay Early 103 O. Skutsch Pros. 39 (chi volesse, potrebbe però ancora accostare *erpe al sicuro surpui di Cap. 8 760 1011: vedi anche Lindsay Early 219): daremo più avanti esempi di licenza nel decimo elemento di tr7 rispetto alla norma di Hermann-Lachmann; quanto a Tri. 347 tr 7 multa bona bene part(a) habemus, bene s(i) amico feceris
Costantidi primo grado
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un verso intorno al quale si era già affaticato Ritschl Opusc.5 461, ci sembra oggi (cf. Questa Comp. 422 e già O. Skutsch Pros. 32) che i primi due dementi siano realizzati da multa, il terzo e il quarto rispettivamente da bona e bene, che insieme formano un 'proceleusmatico', la cui presenza non va in nessun caso esclusa dai trochei plautini, come vedremo più avanti 260 sgg. passim. Altrove le peculiari ambiguità prosodiche della lingua degli scenici repubblicani consentono di scandire senza ammettere licenza, come In
Mii. 1353 (tr7 ) it(e) cito, i(am) eg(o) adsequaruos: cum I ero pauca uolo loqui (it(e) è sicuro in Poe. 1237 e consente di evitare una misura ile aio ...; vedi anche O. Skutsch Pros. 12 e sopra 31)
Cur. 543 (tr7 ) scire uolo quoi reddidisti.:: lusco liberto tuo (circa la misura scire uolo..., così come scir(e)sulla scona di ir(e) notato in Ps. 1182, vedi Questa Comp. 427 n. 30, 421 n. 20 e cf. Tri. 880; su Ep. 544 vedi Questa ad/.) 9
mentre la -ecaduca di esse consente di non ammettere licenza (in un caso anche con impossibile CI) in Cap.243 (tr7 ) ut qu(i) erum me tibi /uiss(e) atqu(e) ess(e) nunc conseruumuelint (esse nunc sarebbe Cl contro la legge generale)
Mii. 1370 (tr7 ) dicant seruorumpraeter me I ess(e)/idelem neminem (metodicamente inutile ammettere una licenza esse/idelem).
9
Anche Ep. 573 tr 7 ammette per es. nd secondo emistichio due e forse tre scansioni: (1) con licenza rispetto alla nonna di Ritschl quis istaec est quam tu osculum mi /me iubes? :: tua fi/ia; (2) con 'procdeusmatico' e CI ... /erre iubes? :: tua filia; (3) ipotizzando una forma ferr(e) ... ferr(e) iubes? :: tua /ilia (vedi O. Skutsch Pros. 76-77): vedi meglio oltre 368. Mii. 660 tr 7 non consente alcuna decisione circa il secondo emistichio.
Metrica
230
Terenzio offre una casistica ridottissima perché solo due versi mostrerebbero di lasciar tacere la norma di Ritschl: And. 377 (tr 7 ) ipsu(s) sìb(z) ess(e) iniurius uideatur, nequ(e) id iniuria And. 857 (tr 7 ) trzstì'(s) seueritas inest in uult(u) atqu(e) in uerbis fi,des (ci sono incertezze testuali, su cui vedi Pavone Lic. 195 n. 2; Phor. 528 tr 7 ha testo dubbio: vedi già Lachmann Comm. ad II 719 e ora Pavone Lic. 196; nessuna licenza a capo dd secondo emistichio in Eun. 716; in And. 377 in teoria possibile ipsiis sìb(i) ess(e) in-). 10
d) eccezioni alla norma di Hermann-Lachmann in versi trocaici La licenza può considerarsi sicura, con o senza CI, nei seguenti versi plautini Au. 781 (tr 7 ) nòscere :: fili(am) ex te tu I habes :: immo I eccillam domi (nessuna obiezione ai due iati; non si prendono in considerazione Amph. 391 Tri. 1156 per forti dubbi testuali) Mos. 842 (tr7 ) latlu(s) demumst operae preti(um) iuisse :: rect(e) edepol mones (manca nella lista della Pavone Lic. 188-189) Sti. 97 (tr 7 ) qu(em) aequlust nos potior(em) habere quam te? postidea, pater (vedi anche Pavone Lic. 190) Sti. 526 (tr 7 ) òmnlum m(e) exil(em) atqu(e) inanem /ecìt aegritudinem (la stessa licenza, con la stessa parola, in Trz·.933: vedi Pavone Lic. 191; è, naturalmente, esclusa ogni ipotesi di sinizesi omnhJm e sui problemi di Truc. 262 vedi Pavone Lic. 189 n. I).
10
In Comp. 422-423 non ho tenuto conto - a torto - di And. 377. dimenticato da Pavone Lic. 195, e ho invece dato troppa fiducia a Phor. 528. Ma per fortuna nulla cambia nella fenomenologia metrica: anche il terzo elemento di And. 377 è realizzato da sillaba lunga, come il terzo di And. 857.
Costanti di primo grado
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Pochissimi versi propongono la presenza di licenza anche all'inizio dd secondo emistichio (vedi più sopra quanto a licenza circa la norma di Ritschl): Rud. 1040 (trì) n(e) ist(e) baud sai quam condiàonem tetìilerit. ib(o) ad arbztrum (Leo in appar. ad/. rinvia ad Amph. 718 che del pari inizia il secondo
colon con un 'proceleusmatico', strutturato peraltro nel modo più regolare: bisillabo pirrichio + due brevi iniziali di parola; qui invece le quattro brevi appartengono ad una sola parola, cui si aggiunge la CI di -it: ma vedi anche O. Skutsch Pros. 82 n. 1 e oltre 366-367) 11
M,1.721 (tr7 ) censer(em) emon;- ceczdissetu(e) ebrtìis aut d(e) equ(o) uspiam Tri. 1127 (tr7 ) n(am) exaedificauisset m(e) ex his aedibìis absque te Joret (questi due versi, cui va aggiunto Vid. 58, hanno identica tipologia: chi, come Leo, riteneva caduca la -s anche davanti a vocale eliminava d'un colpo la licenza: Forsch. 266, donde i dubbi di O. Skutsch Pros. 36-39;
la licenza va invece accettata con Lindsay e altri: vedi l'eccellente discussione di Calderan Vid. 150-151 e Monda in appar. ad Vtd. 58; Tri. 1127 ha costituito un delizioso problema di filologia plautina a partire almeno da Lachmann Comm. ad II 719: vedi oltre 267 sgg.) Cap. 408 (tr7 ) numqu(am) erit t(am) auarus quin te gratìis emittat manu (la CI è di per sé ineccepibile e taluni tentativi di correggere il verso sono peggiori del male: cf. Lindsay Comm. ad/.; lo stesso può dirsi di Bacch. 411 perdldù e Rud. 646 audeat, mentre più o meno incerte sono le licenze in Cap. 840 Men. 916 Mere. 879: vedi F. Skutsch Schr. 111 n. 1, che rivede Sti. 718; per Sosta med in Amph. 438 cf. Jacobsohn Quaest. 34 e oltre 284; in Ep. 233 possibile certnìim con Lindsay).
Come si vede, più d'un dubbio ha investito la presenza di licenze nel decimo elemento di tr 7 plautino: ciò è in perfetta rispondenza con
11
La CI della fonna verbale sparirebbe attribuendo già a Plauto confusione tra il suffisso di congiuntivo perf. (lungo) e quello (breve) di futuro anteriore (famoso esempio polare in Catullo 5, 10: /ecerimus fut. ant.).
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Metrica
l'ambiguo carattere dell'incisione mediana di questo verso e con il trattamento dell'elemento ottavo: vedi quanto diremo oltre 309 sgg.; le licenze paiono invece nell'insieme più sicure nella medesima sede di ia7 e ia8 • Ciò può essere dovuto al fatto che i poeti, Plauto in particolare, sono vincolatissimi circa la formazione di ancipitia bisillabici, meno invece circa quella dei longa (in particolare circa la norma di Ritschl); inoltre negli ia8 plautini l'incisione mediana potrebbe 'separare' due emistichi non ancora ben 'saldati' insieme (preziosa osservazione già in Hermann Elem. 160); infine c'è il fatto che ia7 e ia8 sono versi di canticum o insomma con modulazione musicale, mentre i tr 7 sono versi essenzialmente recitati, quali che siano le indicazioni dei manoscritti plautini. Solo quattro, a quel che pare, gli esempi di 'sonno' della norma di Hermann-Lachmann in Terenzio: Hec. 281 (tr8) nemfnf plur(a) acerba cred(o) ess(e) ex amor(e) homin(i) umqu(am) oblata Hec. 380 (tr 7 ) omnibu(s) nobis ut res dant ses(e) ita magn(i) atqu(e) humiles sumus (licenza con identica parola in Ad. 971; Hec. 283 è ovviamente falsa licenza perché hacine = hacin: sopra 32) Phor. 566 (tr 7 ) qua ui(a) istuc /acies? :: dic(am) in ftfnere modo t(e) bine amoue (la licenza all'inizio dd secondo colon ha suscitato dubbi: Bentley correggeva itere e su altri problemi vedi Questa RecSou. 70-71).
Abbiamo già detto (sopra 221 sgg.) che un verso giambico può iniziare, lasciando 'in sonno' la norma di Hermann-Lachmann, con parola dattilica quale pisczoìis(Rud. 513) o desine (Eun. 348), ma non con parola di tre brevi quale /acere o genera;del pari è rarissimo (ma non in assoluto proibito) un inizio quale zia mea (Mos. 685) o era mea (Eun. 834) dove le sillabe -ta me- e -ra me- formano il secondo elemento precedute da altra breve che realizza il primo; nessun impedimento, invece, a versi, pur rari assai, come uéndit eas (Poe. 88) o unìis et (And. 77). Quanto ai versi trocaici, nulla in essi di tutto questo: Men. 1039 inizia con nimia, Men. 863 con capere,And. 334 con /acite, Hec. 879 con sequere; e poi troviamo in Plauto male /;;qui
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(Cur. 570) bene uocas (Cur. 564) dove il primo demento bisillabico è formato da male, bene e il secondo dalla sillaba breve immediatamente successiva; Terenzio ci offre iti pitrem (Phor. 731), iti uelim (Phor. 855) e così via. Quello che, con modo di dire molto diffuso, chiameremo anche noi il 'tabù di /acere' attraversa tutta la versificazione giambica latina, almeno sino al II secolo d. C. Non ne sono esenti Catullo e Cicerone e, dopo di loro, non Orazio, non Seneca, non il Petronio della Iliou halosis (Sat. 89), che pure scrivono trimetri giambici e non senari; al tabù non si sottraggono neppure i dimessi senari di Fedro. Tuttavia Luciano Miiller, in un lavoro a suo tempo molto fortunato (Metr. 168), credette, uomo di molte bizzarie qual era, di trovare un'eccezione in Seneca Med. 447 Jugimus, Iason, /ugimus: hoc non est nouum
intendendo anche la prima forma verbale come presente (/ugimus) anziché come perfetto (/iigimus),purtroppo seguito da Lindsay Early 18 (ma c'era già stato chi aveva rimesso le cose a posto) 12, con curiosi e non pochi risvolti sulla traduzione del verso stesso 13• Un cedimento 12
Traviato da Lindsay a suo tempo, chi scrive fu ben presto ricondotto sulla via della virtù: vedi «A&R»9, 1964, 78 n. 3 e Lib. 352 n. 22 (il perfetto iniziale /iigimus, in antitesi che più senecana non si può con il presente fugimus, fu riconosciuto da Leo: vedi il secondo tomo della sua edizione delle tragedie a p. 379 e qui la nota seguente). 13 Un florilegio è anche troppo lungo: je /uis, je /uis, Jason (Herrmann); me ne vado, Giasone, me ne vado (Paratore); fuggo, Giasone, fuggo (Gentili); vado in esilio, Giasone, in esilio (Traina). Dànno un po' di ristoro: già una volta sono fuggita, Giasone, anche ora fuggo (Giardina); ci siamo andati in esilio, Giasone - anche ora ci andiamo (Viansino);j'ai été une exilée, Jason, j'en suis encore une (Chaumartin), di cui è goffo ricalco sono stata un'esiliata, Giasone, ed ancora una volta io sono (Annalisa Németi): gli ultimi due esempi risentono assai di Costa che, ad I., commenta e traduce come si deve. Ma tutti sono stati anticipati da Corneille Méd. 773 e 775 (su cui richiama l'attenzione Soubiran Ess. 212 n. 5): Accotumée à fuir, l'exil m'est peu de chose / ... I C'est pour vous que /ai fui, c'est vous qui me chassei.. Dietro questa perfetta traduzione-amplificazione ci sarà forse stata la felice esegesi di qualche squisito latinista dei RR.PP. della Compagnia nd Collegio di Rouen? Ma è pur vero che i Padri, degantissimi e spesso vigorosi versificatori 'à la manière de Sénèque' senza incorrere in peccaminosi strappamenti o satanici doppi giambi finali, ignorano del
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del codice sembra riscontrarsi ai vv. 4-6 della periochadell'Hecyra,attribuita, come le altre, dal solo Bembino a C. Sulpicio Apollinare, grande 'homme de lettres' del II secolo d. C., che suonano così: dederat amicae Bacchidi meretricu/ae; dein pro/ectus in Imbrum (e)st; nupt(am) baud attigit. hanc mater utero grauidam, n(e) id sd'iit socriis.
Essi sembrano un'antologia di quanto il giambo latino mai tollerò fino a quel lasso di tempo: nel v. 4 dederat con marchiana infrazione del tabù (che si conoscesse ancora la misura antica dederat è impensabile); nel v. 5 dezn forse tollerabile (Seneca ha proinde in Ag. 141 e f!_roinha il II priapeo), ma certo intollerabile lo strappamento -tus rn Imbrum; nel verso 6 la clausola scìat socriis è ammessa negli epodi oraziani (sopra 203), ma vietata agli scenici (ancora sopra 203 e oltre 371 sgg.) 14 • Quello che avviene in seguito, per es. nei versi giambici tutto il tabù: vedi Questa Mod. 170 con altre notizie (già l'abbé de Marolles traduceva ai suoi tempi come Herrmann; involontariamente umoristico il commento al passo corneliano del suo curatore pleiadico). 14 Era inevitabile che la brutta metrica del v. 5, attestata da Bembino e Calliopiani, invitasse all'emendazione (cf. già Luchs Quaest. 65): Umpfenbach dein pro/ectus [in] Imbrum est, ecc. sostituendo un lativo a in+ ace.; Dziatzko pro/edus dein in Imbrum est, ecc., che, oltre allo strappamento, ovvia all'inelegante déin (e questo testo è ora accolto da Barsby). Ma mi chiedo se la brutta metrica (non dimentichiamo i vv. 4 e 6: il secondo 'riscritto' troppo bene da Dziatzko) non sia da imputare all'autore della periocha e se questi pertanto sia davvero Sulpicio Apollinare. L'amico Salvatore Monda mi rinvia al carme Anth. lat. 712 (I 2 p. 176 Riese), conservato solo dal perduto codex Bellovacensis (cf. ibid. p. 167 in appar.) e scritto in senari, che si presenta come traduzione o rielaborazione di Apuleio da una commedia di Menandro altrimenti ignota: l' AVEXÒµEVoç.Il componimento, nel complesso assai mal tramandato, è l'elegante ma veristica descrizione del coito e presenta un sicuro 'anapesto' strappato al v. 7, dove lo stile vieta di correggere con Riese, per cui tanto vale conservare anche lo strappamento presente al v. 4, a suo tempo emendato dal Binetus certo per eccessivi scrupoli sintattici. Ma il contenuto del carme ne rende difficilissima, direi impossibile, l'attribuzione, anche in nuce, al poeta ateniese e ciò trascina con sé dubbi altrettanto forti circa il 'traduttore' latino. Non mi sento, insomma, di attribuire ad Apuleio, ancor meno che a Sulpicio Apollinare, scorrettezze metriche: si tratterà dunque, di un lettore di Apuleio, questo è certo, ma di età più tarda e non precisabile (troppo rapido e non precisissimo Meyer Beob. 112, cui però
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di Prudenzio, non ci riguarda più, essendo in essi la quantità faticata conquista (o riconquista) di chi parlando non la possiede più come portato naturale dello strumento linguistico. Ancora una notizia. Il tabù 'lacere', come tutti sanno, è ignoto al verso giambico greco, sia comico sia tragico: cito, come capita, Menandro Dysc. 287 (3ttlQEXE)307 (i:xavòv) 679 (Eµt:ÀEv), Sofocle El. 279 (1ta'tÉQa) 539 (1tÒ'tEQOV).Ma poteva Plauto non riservarci una sorpresa, naturalmente all'inizio di verso, là dove si annidano le altre licenze ? Ed ecco infatti Vid. 75 (ia6 ) in opus ut sese collocauitquam o (preposizione+ nome cui si riferisce formano, o si ritiene debbano formare, 'parola metrica': se così è, il verso violerebbe all'inizio il tabù, proprio come Ad. 822, discusso sopra 217, violerebbe la norma di Hermann-Lachmann ma fuori della sede con licenza: sul sottile problema, abbastanza tormentoso, vedi l'imbarazzato Thierfelder 1kt. 362 n. 1 e poi Questa Num. 205-211 passim, Calderan Vid. 155 con la sua osservazione già ricordata: sopra 149 n. 28; in ogni caso siamo ammoniti ad usare con ogni cautela il concetto di 'parola metrica': è utile ricordare anche Soubiran Ess. 161). 15
non sfuggì un brutto 'anapesto quarto' nel v. 8; di Sulpicio Meyer non fa parola). Le periochaeattribuite - dal solo Bembino - a C. Sulpicio Apollinare piacquero molto, un tempo, ad A. Mazzarino Pers. 173-174, il quale riservò a quella dell'Andria un feIVido commento che è poco definire 'paleocrociano'; e poco prima, Pers. 166, egli aveva scritto di slancio «le periochaedelle /abu/ae terenziane portano, con unanime consenso dei codici, Sulpicius Apollinaris; anzi il Bembino aggiunge il praenomen, Gaius». Non è tutto. Marouzeau, forse leggendo in fretta l'apparato ad l. di LindsayKauer, ha creduto che il nome di Sulpicio non figuri, nel Bembino, a capo della periocha dell'Eunuchus:egli pertanto l'intitola Argumentum come ovunque i Calliopiani, che tutti seguiamo per l'Andria, ma lì A manca (però d. i Co"igenda). 15 Sulla scorta di quanto afferma Donato ad And. 371 = I p. 137 Wess. ('quid ita': una pars orationis)si pensò di essere di fronte a vera parola unica, dal comportamento del tutto eguale a facere o genera. Di qui una serie di acrobazie metricoprosodiche, delle quali peraltro un Lindsay mostrò di essere consapevole: vedi Early 116. Circa le 'parole metriche' in Plauto vedi il comportamento di enim (che risulta per niente 'pospositivo' ai fini del metro) quale si ricava dagli attenti cenni della Pavone Par. 172-174 (a suo tempo anche Luchs aveva fatto osservazioni sul variare dd comportamento di quidem da Plauto a Terenzio: sopra 158 a Eun. 681).
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Prima di riprendere più oltre la discussione del tabù e suggerirne una motivazione, conviene considerare l'elemento immediatamente successivo a quello realizzato 'con licenza'. Per quanto concerne i versi giambici, sia di Plauto sia di Terenzio, tanto il 'sonno' della nonna di Ritschl quanto il 'sonno' della nonna di Hermann-Lachmann fanno si che l'elemento immediatamente successivo - che è un anceps - sia preferibilmente realizzato da sillaba breve, meno frequentemente da sillaba lunga, ma i da due brevi. Ecco alcuni esempi del tipo più frequente As. 773 (ia6 ) n(e) il/a mznìis aut plus quam tu sapiat :: satis placet Haut. 679 (ia7 ) niil/a mihr res posthac potesi i(am) interuenisse tanta Rud . .513 (ia6) pisa"biis rn alto, credo, praebent pabulum Hec. 701 (ia6) omnìbìi(s) modis miser sum nec quid agam scio;
e alcuni del tipo rariore Poe. 88 (ia6 ) uendi't eis omnis, et nutric(em) et uirgines
Tri. 20.5 (ia6 ) qu(i) omnza se simulant scire neque quicquam sciunt Eun. 348 (ia6 ) deszne, iim conc/amatumst :: alias res agis.
Considerato lo stato di cose preferiremo agi(s) in Eun. 99 e notiamo che anche nei pochissimi versi che iniziano con un 'tribraco' anomalo (sopra 224) il terzo elemento è realizzato da sillaba breve (ita mea ecc.: Mos. 685). Nei versi trocaici la situazione è differente perché il terzo elemento, che è un longum, permette in quanto tale due sole realizzazioni: sillaba lunga o due brevi. Constatiamo questa volta che in caso di 'sonno' della norma di Ritschl il terzo elemento è realizzato da sillaba
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lunga, però m a i da due brevi, come del resto esige - lo vedremo subito - la norma di Fraenkel-Thierfelder-Skutsch. Ecco due esempi: Mii. 220 (tr 7 ) iirri'p(e)op(em) auxi/iumqu(e) ad hanc rem: proper(e) hoc, non placide decet
Tri. 1010 (tr 7 )
iiddegrad(um), iidpropera. iam dudum Jactumst qu(om) abiisti domo
che hanno una sola, curiosa eccezione (Cis. 62), già vista sopra 227 e che rivedremo immediatamente (solo da congettura Cis. 671). Nel caso invece di 'sonno' della norma di Hermann-Lachmann in versi trocaici, su quattordici casi che mostrano di sicuro questa licenza, undici realizzano il terzo elemento con sillaba lunga Mos. 842 (tr 7 ) latTu(s) demumst operae preti(um) iuisse :: rect(e) edepol mones Hec. 380 (tr 7 ) omnìbu(s) nobis ut res dant ses(e) ila magn(i) atqu(e) humiles sumus
ma tre con due brevi (vedi Questa Comp. 423 n. 24), fra cui citiamo Poe. 834 (tr 7 ) omnTa genera recipiuntur; itaqu(e) in totis aedibus.
La norma di Ritschl e quella di Hermann-Lachmann hanno evidente valore paradigmatico: esse vincolano in modo predeterminato tutti gli elementi del verso cui sia concesso l'essere bisillabici, sì che il loro 'sonno' deve essere considerato eccezione o 'licenza' ben di rado ammessa: non sarà infatti sfuggita l'estrema esiguità del loro numero assoluto rispetto alle migliaia di versi giambici e trocaici dei due poeti. E possiamo rammentare che nel corpo del verso infrazioni alla norma di Hermann-Lachmann in qualunque elemento e a quella di Ritschl negli ancipitia sono nella quasi totalità inaccettabili: resta solo un certo numero, ma anch'esso piuttosto esiguo, di longa bisillabici realizzati contro la norma di Ritschl: sopra 212-213. Nulla invece è predeterminato circa il terzo elemento: esso nei giambi è un anceps
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e ammette di per se stesso tre realizzazioni; nei trochei è un longum e pertanto due sole, come osseivato. Se dunque il 'sonno' delle norme si accompagna nei modi veduti alla realizzazione del terzo elemento 16 , par chiaro che esso 'sonno' costringe «una certa unità metrica a darsi regole strutturali di ordine sintagmatico» (Bettini Sot. 96). Il secondo elemento di questi versi «comunica un messaggio», cioè se stesso, e nello stesso tempo attiva un codice 17 : se realizzato 'iuxta leges', questo secondo elemento consente al terzo tutte le possibilità assicurategli dal paradigma; in caso contrario, le limita nei modi veduti. La realizzazione del terzo elemento allora «non dipenderà qui da principi di selezione posti 'prima' del verso, ma dalla presenza o meno di qualcosa che c o e s i s t e nel verso... Diventa determinante ... ciò che 'circonda' l'elemento in questione, il suo contesto: la selezione viene operata, qui, su base sintagmatica» (Bettini Lavor. 22 e vedi ibid. 21). Sulla scorta di queste considerazioni diremo allora che il secondo elemento possiede valore 'autoritativo' se regolare ('autorizza' ogni realizzazione del terzo); valore 'esclusivo' se 'con licenza' ('esclude' nel terzo la realizzazione con due brevi e preferisce, dove possibile, quella con singola breve). Al fondo di tutto questo è visibile un'esigenza metrico-ritmica che vedremo più oltre affacciarsi imperiosa anche nel corpo del verso: un"irregolarità' che colpisce la struttura degli elementi bisillabici, in sé gelosamente tutelata dal paradigma, deve essere 'compensata', 16
Va da sé che le medesime regole debbono essere considerate valide anche per l'undicesimo elemento dei versi lunghi con incisione mediana, ma è altrettanto chiaro che, stante la eccezionalità delle licenze in questo punto del verso, si tratta di ipotesi piuttosto teorica. 17 Ho presenti, e in parte parafraso, le considerazioni di Bettini Sot. 98-105 e Lavor. 20-22; miei sono i termini 'compenso' ('compensazione') o 'meccanismi compensativi', mentre Bettini Lavor. 24 n. 18 preferisce, nello stesso ordine di idee, 'regola di riaggiustamento' che, egli dice, «ha il vantaggio di inserire il problema in una prospettiva generativa», nei confronti della quale io invece sono piuttosto indifferente. Si dà caso, infatti, che una metodologia la quale potrebbe condurre a conclusioni interessanti nell'ambito degli studi di metrica sia più d'una volta nelle mani di persone di greve ignoranza: come, per es., Maria-Kr. Lotman Bound. 1-12. La sventurata blatera a lungo fra schemi e diagrammi ignorando tranquilla la differenza, in nome e in fatti, fra senario e trimetro ... 'Il resto non dico'.
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nella stragrande maggioranza dei casi, con }"escludere' altra sequenza di due brevi, pena, in caso contrario, lo 'sfarinarsi' del ritmo. Per rendere meno astratte queste considerazioni supponiamo ora, come di sicuro avrebbe fatto un grammatico antico, un verso giambico /ictus quale nulla re/iciendatibi hodi'edicampater. poiché il secondo elemento sarebbe formato da -li re-e il terzo da -µd-,ne risulterebbe un 'procdeusmatico' -ull..AAJ, cioè del tipo proibito. In un giambo parimenti /idus come omnia /adenda tibi hodie dicam pater, -nii formeil terzo, sì che ne risulterebbe un rebbero il secondo elemento e -/aci'proceleusmatico' - uulL,'\.J, del pari proibito. Quanto ai versi trocaici, un inizio come adde simt1iaper/idiosecomporterebbe un secondo elemento, anceps, realizzato da -desi- e un terzo, longum, da -mdi-, ciò che darebbe ancora un 'proceleusmatico' del tipo vietato -uluuu- (e vedi subito oltre la norma di Fraenkel-Thierfelder-Skutsch). Il 'proceleusmatico' manca nei giambi greci 18 (per non dire nei trochei) e i Greci, come noto, evitano anche quello che risulterebbe dalla sequenza 'dattilo' (o 'tribraco')+ 'anapesto'. Il verso della scena romana repubblicana, invece, non rifugge dalla sequenza di quattro brevi né in giambi né in trochei (qui certo è più rara), vuoi da quella che risulta da anceps bisillabico + longum bisillabico, vuoi da quella inversa, che coincide con il divieto greco di 'dattilo'+ 'anapesto'. Si tratta dunque di un'innovazione romana rispetto a quei 'modelli' greci che sono però da collocarsi in una preistoria nell'insieme inattingibile e 'mitica': è evidente, qui, la mia distanza da W. Meyer e da quanti hanno tentato o tentano, con zelo, la 'storia' o la 'preistoria' dei versi della scena romana (da ultimo Gerick Quadr. 9-42 con ampia bibliografia). Il 'proceleusmatico', comunque, di sicuro latita nei giambi che si leggevano srotolando Euripide o Difìlo o si ascoltavano recitati in qualche JtÒÀ.t.çdell'Italia del Sud. Ma ogni libertà, abbiamo detto, necessita di 'freni' o 'compensi'. La sequenza di quattro brevi deve essere ritmicamente ben perspi18
Ottima messa a punto della problemaùca in Martinelli Strum. 110, con precisa analisi delle questioni poste dalle nuove scoperte menandree. Menandro è stato un po' maltrattato, circa la metrica, da editori italiani: cominciò Benedetto Marzullo (vedi Gallavotti Met. 47 sgg. passim) e ha seguitato di recente Antonio Pantaleo Martina (vedi Austin Com. 77).
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cua. Non può risultare realizzata in modo equivoco o, peggio ancora, profittando del 'sonno' delle nonne paradigmatiche poste a guardia severa - vedi caso - degli elementi bisillabici. Tutto ciò premesso, si ottiene una ragionevole giustificazione del raro tipo omnì'agenera recipiunturnei versi trocaici. La sequenza è sì distribuita \..JVluu, ma essa risulta non già da longum bisillabico + anceps bisillabico, ma da anceps bisillabico + longum bisillabico, esito ben più gradito dell'altro e anzi canonico, in un inizio giambico, nella forma tìbì' uolui o ì'tatìbì'. Alla possibilità di 'licenza' iniziale si dovrà, in particolare, che questa volta l' anceps bisillabico sia tollerato in fine assoluta di parola. Abbiamo già conosciuto (sopra 128-131) le perplessità suscitate dalla presenza della CI nella realizzazione del 'proceleusmatico', in particolare di quello un tempo definito 'discendente', cioè risultante dalla sequenza longum bisillabico+ anceps bisillabico (poco propriamente 'dattilo'+ 'anapesto'). Anche tenendo conto delle acute obiezioni statistiche di O. Skutsch, sussiste salda la vera rarità di siffatta sequenza come cifra assoluta. In attesa di un vero sondaggio abbiamo comunque notato, nei giambi di Terenzio, l'assenza di questo tipo con CI (sopra 131) e, nello stesso poeta, l'eccezionalità della sequenza di quattro brevi: per il momento si può rinviare, con le solite cautele, a Laidlaw Pros. 37-39 e 42-43 (qui anche un cenno sull'assenza del 'proceleusmatico', di qualunque tipo, nei versi trocaici di Terenzio). Non basta. Cicerone 'giambico', per più lati ancora legato alla tecnica degli scenici come ha dimostrato Soubiran, evita tuttavia ogni tipo di 'proceleusmatico' diversamente dai suoi modelli 19• Il campione è ristretto e il caso potrebbe aver giocato la sua partita; lo stesso però non vale per i trimetri di Seneca, che mostrano 16 / 17 'proceleusmatici' non tutti sicuri e comunque tutti racchiusi nei pri-
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Per esemplificare la presenza del 'proceleusmatico' nei Tragici repubblicani Soubiran cita tre versi: due sono adatti (Accio 269 Warm. = 282 Rl; lnc. 31 Warm. = 207 R3 ), non così Accio 210 Warm. = 245 R3 quia neque uetustas neque mors [mos R3] neque grandaeuitas. Soubiran non riesce a convincersi che neque antccons. vale nec negli scenici (e altrove). Del pari inattendibili gli elenchi di CI in Accio: vedi Ace. 264 n. 2 e Trag. 75 (lo stesso Soubiran si corregge, opportunamente, in Ace. 269). Sul 'proceleusmatico' vedi anche oltre 262 sgg.
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mi due elementi del verso (Soubiran Trag. 80). Un poco diverso il quadro offeno dai senari di Fedro (come mi suggerisce S. Boldrini con riferimento ad Havet nella pane finale della sua edizione, Parisiis 1895: Disquisitionum criticarum pars prior: de re metrica in Phaedn· senariis): ci sono 'procdeusmatici' in prima sede (I 30, 11; IV 25, 14; m 2, 4), ma anche altrove, seppure molto rari: per es. IV 11, 3 e App. 3, 10 (come criterio generale Havet non li impugna). Tutto ciò veduto, ritorniamo al tabù '/acere' o 'genera'. Posta all'inizio di ritmo trocaico la parola di tre brevi non crea equivoci: una breve all'inizio di verso siffatto evoca immediatamente un'altra breve a compimento del longum iniziale, in questo caso bisillabico. La terza breve formerà obbligatoriamente il secondo elemento, in questo caso un anceps, né esiste la possibilità di collegarla ritmicamente ad altra breve, iniziale della parola successiva, stante il vero horror per la sequenza uuulu e, direi ancor di più, stante il fatto che, soddisfatta l"attesa' di due elementi completi (uno bisillabico, il secondo monosillabico), la sillaba iniziale della parola successiva, se breve, non può a sua volta che 'volerne' un'altra per realizzare il secondo longum, in questo caso anch'esso bisillabico. Non sono poi tantissimi, è noto, i versi trocaici che iniziano con un 'tribraco' coincidente con parola di tre brevi, ma può ricavarsi qualcosa di utile considerando versi come
Mere. 611 (tr 7 ) mulìer allenata (e)st abs te I :: Eutyche, capitai /acis
Tri. 906 (tr 7 ) capere soleo :: quid est ei nomen ? :: quod edepol homini probo Tri. 1061 (tr 7 ) emere mellust qu(oi) imperes :: poi eg(o) em(z) atqu(e) argentum dedi
e qualche altro si potrebbe ancora citare 20 • Nei versi il cui terzo elemento è realizzato da sillaba lunga ogni ambiguità è per forza assente, come in
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Per es. Tri. 307 308 335(?) 390 1091.
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Tri. 1031 (tr 7 ) uetera quaerit, ueter(a) amar(e) bune more maiorum scias.
Diversa, anzi opposta, la situazione ritmica dei versi giambici. Come 'distribuire' tra gli elementa in modo ritmicamente corretto le tre brevi di genera? All'inizio di verso giambico le prime due sillabe possono in teoria distribuirsi così: ( 1) ge- realizza il primo elemento quale anceps monosillabico, -nera il secondo quale longum bisillabico; (2) gene- realizzano il primo elemento quale anceps bisillabico e -ra, a questo punto, non potendo realizzare da solo il secondo elemento, che è un longum, esige dopo di sé un'altra sillaba breve per realizzare il longum stesso, anch'esso bisillabico. Ma in questo caso il rapporto sillaba / elemento approderebbe al solito risultato proibito del 'proceleusmatico' uuulu. Di qui, chiaramente, la grande difficoltà di accettare il testo o la scansione vulgati di versi come Cas. 564 Mere. 29 Mii. 1392, i dubbi che sorgono circa Rud. 68 e il valore di 'esempio unico' di Eun. 107 (sopra 224), verso da porre accanto all'altro 'esempio unico' offerto da Vid. 75 (sopra 235). La parola di tre brevi, dunque, in una metrica rigorosamente quantitativa come quella scenica, dà un segnale ritmico u n i v o c o all'inizio di verso trocaico (il rapporto sillaba / elemento è n e c e ss ari amen te quello sopra illustrato), mentre è del pari ritmicamente equivoca all'inizio di verso giambico, la cui 'evidenza' all'orecchio (quello, prima di tutto, di chi declama e recita) è turbata dalla possibilità - sempre presente e nel tempo stesso falsa e ingannatrice - di attribuire al primo elemento due sillabe, lasciando poi 'allo sbando' la terza, che da sola né può realizzare il secondo elemento né 'collegarsi' con una breve iniziale della seconda parola del verso, pena l'apparire del 'proceleusmatico' vietato. A questo punto è inevitabile il confronto con il giambo scenico greco, confronto che tuttavia può anche apparire ingombrante residuato di quelle teorie metriche che tutto credevano di spiegare con il 'tricche-tracche zumzùm' dell"accento metrico' e, anzi, più d'ogni altra cosa in tal modo 'spiegavano' il divieto di genera 'giambico' in latino di fronte al lecito òvoµa 'giambico' in greco. Si potrebbe op-
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porre, oggi, che al centro del nostro interesse è assai più il funzionamento, la struttura (persino quella 'profonda' ...), insomma la segnicità delle due metriche. Ha perso infatti fascino e, diciamolo, legittimità metodica la dimensione diacronica o, piuttosto, 'genealogica' per la quale ci manca ogni sufficiente documento. E ad ogni modo: perché un ia6 non può iniziare con genera e un trimetro giambico invece con òvoµa ? Alla prima domanda si è già suggerita una risposta, alla seconda se ne può dare una che si aggiunge alla prima e la corrobora. I Romani, lo sappiamo, conoscono un solo tipo di senario giambico (e l'osservazione vale per ogni altra sorta di verso giambico): non esiste un giambo tragico che si 'opponga' ad un giambo comico. Le differenze, in latino, stanno nella lingua e nello stile, nella maggiore o minore presenza di elementi bisillabici (e quindi di CD; identiche sono invece le norme strutturali di primo grado (Ritschl ed Hermann-Lachmann) e quelle proprie dei versi giambici e trocaici (Bentley-Luchs e Meyer); identica la prosodia (mai pat I rem!). La norma di Lange-Strzelecki, propria del verso tragico latino, è 'secondaria' (Questa Num. 220-221) e non solo appare già come tendenza forte nel giambo dei Comici21, ma è l'opposto di quel che vuole presso i Greci la norma di Porson nel verso tragico: fatto di gran peso per valutare in modo giusto il funziona-
21
Vedi Raffaelli Rie. 76-79, il quale, assodata la larghissima prevalenza del quartultimo elemento di ia8 terenziano realizzato da sillaba lunga, aggiunge: «ciò pennette di guardare con occhi un po' diversi alla cosiddetta 'nonna' di LangeStrzelecki, che vieta nel verso tragico sillaba breve realizzante l'ultimo anceps... in fine di polisillabo. La mia analisi mostra infatti che un fenomeno simile è già presente, almeno come tendenza generale, nei versi a clausola giambica dei Comici: si dovrà avere quindi la massima cautela nel considerarlo un tratto distintivo della tecnica metrica dei Tragici. Si potrà meglio pensare che i Tragici si siano limitati a portare avanti una tendenza già presente nei Comici, stilizzandola, certo, ma senza fame forse una vera legge, almeno sino ad una certa epoca (non precisabile per ora) della letteratura latina». Seguono poi osservazioni assai pertinenti sulla maggiore severità di Terenzio: nel poeta più giovane la clausola esse postules, vietata o evitata nei Tragici, cala di quasi un 12% rispetto a Plauto; ma cala anche, in Terenzio, il tipo oportuit, di per sé non soggetto a tabù. Il tutto è ricondotto da Raffaelli ibid. 78 «alla più generale tendenza ad evitare 'ritornello giambico' finale, comunque realizzato quanto a 'métrique verbale'». Vedi ampiamente oltre 378-383.
244
Metrica
mento del sistema versificatorio latino nei confronti del 'modello' greco 22 • Del tutto diverso il quadro del giambo scenico greco (o non, piuttosto, attico?). Rispetto al giambo tragico, in quello comico alle differenze di stile, lingua - e prosodia - si aggiungono differenze metriche con valore paradigmatico, come l'assenza della norma di Porson. Ma il verso comico greco è chiaramente un posterius anche temporale di quello tragico, rispetto al quale si concede, tra l'altro, 'anapesto secondo' e 'quarto' (i famosi 'brevia bisillabici' che turbavano Maas) e persino il 'dattilo quinto'. Quanto all"anapesto' iniziale, esso è frequente nel verso comico (tale lo ha confermato senza meraviglia il 'nuovo' Menandro), ma tale non è - come si è sempre saputo - nel verso tragico. A orecchio greco il 'modello ritmico' generale del giambo scenico, quello evocato dalla 'memoria auditiva', comportava, nel caso di più brevi iniziali, un 'orientarsi' di queste, rispetto agli elementi, in senso 'puro', cioè a formare un inizio u + uu, tanto più che una ritmizzazione uu + u rendeva impossibile la realizzazione del secondo elemento. Un orecchio greco, insomma, l'orecchio di uno spettatore attico aveva nel suo orizzonte d'attesa ritmico un trimetro iniziante con un 'giambo', uno 'spondeo', un 'tribraco' e solo in ultima linea con un 'anapesto', un 'piede' che avrebbe comportato l'immediato 'associarsi' delle due brevi. L'assenza, invece, presso i Romani di uno statuto del verso scenico comportante davvero giambo tragico vs giambo comico, in questo caso all'inizio della stringa, creava ai Romani forte impaccio alla corretta interpretazione ritmica di genera; la sua presenza, invece, la favoriva, se addirittura non l'imponeva, ai Greci con parole come ovoµa: 'tribraco' coincidente con parola di tre brevi gode anzi di preferenze all'inizio di trimetro tragico (Martinelli Strum. 89) 23 • 22
Solo Orazio scrisse trimetri giambici vincolati anche dalla nonna di Porson, oltre che da quella di Bentley-Luchs. Il risultato mediocre di epod. XVIl non ebbe seguito, ch'io sappia: certo non influenzò Seneca tragico (Questa Num. 219). 23 Sull"anapesto' nd trimetro tragico vedi ancora Martinelli Strum. 89-92 e l'ironia di Fraenkel Sem. 73. Naturalmente anche il trimetro comico ha le sue severità, diverse da quelle non meno rigide del senario latino: vedi un fulmineo cenno di Fraenkel Beitr.1 440, riprova, in sé neppure necessaria, del diverso funzionamento delle due metriche.
Costanti di pn·mo grado
4)
245
normadi Fraenkel-Thierfelder-Skutsch biceps o anceps strappato vieta che sia bisillabico il longurn immediatamente successivo
La nonna riguarda: a) versi anapestici e cola reiziani Mii. 1055 (an7 ) exprome benfgn(um) ex t(e) ingenium, I urbicap(e), occisor regum (sarebbe impossibile exprome beneuol(um) ex t(e) ingenium ecc., come nota Thierfelder 1kt. 361 n. 2)
Per.492 (an7 ) ita me di I ament, ut ob istanc rem tibi multa bon(a) fnstant a me (tollerabile il testo di Ritschl in Cis. 671: d. qui oltre Cis. 62) Ps. 910
(an8 )
tum poi eg(o) interi(t) homo s(i) ill(e) abiit nequ(e) hoc opìi(s) quod uolu(i) hodi(e) e/ficiam (non può invece essere considerato strappato il biceps formato da due monosillabi: il secondo questa volta è 'breve' per CI).
Sono invece legittimi, seppure rari, i versi in cui il biceps è realizzato da due brevi finali di polisillabo (la nonna di Hennann-Lachmann non vige nei versi anapestici), come Ps. 948 (an8 ) ibid(em) un(a) aderii mulier lepida tibi saura super sauia quae det (citato da Thierfelder 1kt. 361 n. 2 con altri casi; notare super per CI) 24 •
O. Skutsch Pros. 8 sgg. ha successivamente osservato che l'elemento strappato manca nei cola reiziana in cui il longum immediatamente successivo è bisillabico, mentre è testimoniato il tipo identico a Ps. 948 come in 24
Sono rari, ma insindacabili, versi come Men. 361 an4 animìile mi, mi mira uidentur, oppure etiam mi quoque stimulo fodere liibet te (secondo emistichio di Cur. 131 an 8 ).
Metrica
246
Au. 438 (vr) mear(um) aedi(um) et conclauium (notare anche qui la
cn
mi perufiim /acftis
ma trattandosi di versi lirici potrebbe darsi più d'una eccezione 25 • b) versi trocaici In questi versi l'agire della norma è stato constatato da O. Skutsch Pros. 30 sgg. nell'ambito delle sue ricerche sull'operare della CI. Egli ha notato come anche nei versi trocaici un anceps strappato - presente in modo lecito in questi versi solo come secondo elemento realizzato con licenza - vieta la bisillabicità del terzo, che è un longum, per cui abbiamo Tri. 1010 (tr 7 ) adde grad(um), iidpropera. iam dudum factumst qu(om) abiisti domo (vedi quanto osservato sopra 237)
e solo la sinalefe fra le due brevi dell'elemento strappato (così O. Skutsch Pros. 34) giustifica il terzo elemento bisillabico nel già citato (sopra 227, 237) Cis. 62 (tr 7 ) indfd(em) iind(e) orftur /acit(o) ut /acias stultitiam sepelibilem.
Singolare il caso di Cur. 170 tr 7 , la scansione del quale come i'psìi' s(e) excrudat qu(i) homo ecc., suggerita da Lindsay nell'edizione, è sicuramente da respingere stante, per la legge generale della CI, il divieto di fine assoluta di parola tra brevis e 'brevianda'. O. Skutsch Pros. 32-33 ha infatti buon gioco nel respingerla citando lo stesso Lindsay Early 57 che rifiuta la funzione 'abbreviante' di -u(s), affermazione da intendersi oggi come acuto anticipo del divieto di cui sopra. Il verso andrà pertanto misurato così: fpsiis s(e) excrudat qu(i) homo ecc. Problematico è anche 25
Irrite anche per ragioni di metodo le obiezioni alla nonna di L. Ceccarelli 397 n. 42).
Ri/l 171-184 (vedi oltre
Costantidi pnmo grado
247
Sti. 576 (tr7 ) quin uocauist(t) homin(em) ad cenam? :: ne quid aduen{ens perderem
dove esiste la possibilità di nequld (sopra 165 sg.) che cancellerebbe la difficoltà, ma può restare assai dubbio se, misurando con la necessaria CI né qufd iduenfens, qufd id- formino veramente un anceps strappato, tale da non tollerare bisillabico (-uenf-) il longum successivo (vedi ancora Cis. 671 sopra 245); ci sono anche false eccezioni, come Ep. 624 (tr7 ) estne consimilis quasi quom signum pictum pulchr(e) aspexeris? (intendere estn(e), forma anteconsonantica, perché estne con- è CI impossibile per la legge generale)
oppure versi corrotti come Per. 232: vedi sopra 228. Come si ricava dagli esempi citati, in ciò che riguarda i versi trocaici la nonna in realtà si trova ad aver anticipato solo una parte di quanto, grazie ad ulteriori studi, abbiamo visto in vigore dovunque il verso giambico o trocaico inizia con una licenza: la nonna, infatti, rientra nel più generale divieto del 'proceleusmatico' -uluvu. Ma anche più significativo è che i versi anapestici - il paradigma dei quali ignora le nonne di Ritschl ed Hennann-Lachmann - mostrano anch'essi di evitare questo tipo di 'proceleusmatico': biceps per così dire strappato 'esclude' ogni possibilità dell'elemento successivo di essere bisillabico, con un comportamento - di chiara impronta sintagmatica e 'lineare' - perfettamente sovrapponibile a quello dei versi giambici e trocaici là dove il secondo elemento di questi sia realizzato con il 'sonno' della nonna di Ritschl 26 • E c'è un fatto nuovo, che 26
Sembra oggi superfluo far osservare che la nonna qui studiata non ha niente a che vedere con il cosiddetto 'accento metrico' e il suo cosiddetto rapporto con l'accento delle parole regolato esclusivamente dal trisillabismo. Una sequenza come esse/iicile, impossibile nei versi trocaici anche per la nonna di Hennann-Lachmann ma da questa non esclusa nei versi anapestici che non ne sono vincolati, è proibita negli anapesti al pari di magni /iici0ra: l'una avrebbe 'contrasto' fra 'accento metrico' e accento di parola, l'altra no: ma questa seconda, che pure non violerebbe nei trochei la nonna di Hennann-Lachmann, è in pari modo proibita in anapesti e trochei dalla nonna esposta. Questo vale anche per uno dei più annosi falsi problemi -
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Metrica
sembra di gran peso: non soltanto l'inizio, ma questa volta tutta l ' e s t e n s i o n e della stringa metrica anapestica è regolata dalla norma che viene qui illustrata. Abbiamo così identificato un tratto (il bando al 'proceleusmatico' -uluuu) che unifica nel profondo versi di specie differente, un gruppo dei quali, gli anapesti, è stato invece sentito, in passato, 'anomalo' rispetto al resto dei metri della scena repubblicana: un giudizio, un'impressione avvalorati senz'altro dalla loro 'durezza' prosodica e, ancor più, direi, dal loro mancare del tutto in Terenzio.
S) norma della 'compensazione'
Come ampiamente veduto, la realizzazione di un elemento con il 'sonno' delle norme strutturali, o comunque in modo che comporti un turbamento della chiarezza ritmica, esige un 'riaggiustamento' o 'compensazione', in ispecie quando la struttura del verso parrebbe consentire, secondo il paradigma, libertà quasi illimitate quanto a elementi realizzabili da sillaba lunga o da due brevi 27 • In Metr. 518 chi scrive aveva affermato che nei versi giambici e trocaici un longum strappato n e l c o r p o d e l v e r s o s t e s s o (ancipitia strappati sono esclusi con sicurezza, questi sì, per costrizione di paradigma, al pari di ·longa e ancipitia formati contro la norma di Hermann-Lachmann) comporta la brevità dell'anceps precede n t e . L'affermazione era tanto perentoria quanto eccessiva. In realtà la 'compensazione' deve essere piuttosto cercata altrove, cioè come avrei dovuto intendere prontamente - d o p o l'elemento strappato, d o p o che il ritmo ha subito una sorta di vulnus tale da turbarne la percezione. Per quanto dunque riguarda il c o r p o d e I v e r s o (le sedi che in varie fonne fa ancora capolino qua e là - della metrica scenica, cioè la collocazione nel verso delle parole del tipo '/aci/ius': su di esso vedi i cenni di Ramain Scan. 429 sgg. e soprattutto di Guastella Voce90 n. 28, che rivede le considerazioni di Soubiran Ess. 216 sgg., degne in ogni caso di attenzione (ma vedi soprattutto oltre 405 n. 54). 27 Vedi quanto fa notare Bettini Lavor. 16-20.
Costanti di pn'mo grado
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con licenza sono per ora fuori dalla problematica) noteremo con Raffaelli Rie. 57 che nei circa 870 ottonari giambici terenziani (Raffaelli Rie. 33 e n. 30) «l'anceps che segue il longum strappato ... è realizzato cinque volte da sillaba breve (Haut. 189, 216, Phor. 162; in An. 598 e Ad. 262 da due bisillabi 'quasipirrichii': ub{ e sib{) e cinque volte dalla sillaba finale di parola giambica per natura o per 'posizione' (An. 535, Ad. 343, 346, 598; in Haut. 217 erit davanti a inizio consonantico)»; ai dieci casi di strappamento da lui riconosciuti il Raffaelli non aggiunge And. 950 ia8 solo per scrupolo metodico: vedi Rie. 48. Poco ci giovano, di Terenzio, i settenari giambici (meno di 400 versi) per i quali Raffaelli Rie. 52 e 57 n. 73 può citare due soli esempi di strappamento: Eun. 264 (sopra 210) ed Hee. 771: anche in questo caso l'elemento successivo una volta è realizzato da sillaba breve, una volta da lunga. Più frutto ha dato l'esplorazione dei tr 7 terenziani, iniziata ancora dal Raffaelli Rie. 58 n. 75 e precisata con utile minuzia dalla Minarini Stud. 105-146. Nell'ambito dei ventinove longa strappati che si contano nei quasi 1370 tr 7 terenziani 28 - si noti subito l'esiguità in cifra assoluta degli strappamenti stessi - l'elemento che segue immediatamente quello realizzato contro la norma di Ritschl è di sicuro breve 19 volte: si arriva a 20 ove in Phor.553 si consideri opis pirrichio per caduta di -s (come assai verisimile); invece l'elemento è realizzato da sillaba lunga - ad affermarlo ci costringe la norma generale della CI - in 9 casi, a meno che non si considerino 'già pirrichii' prima dell'inserimento nella stringa del verso parole come erat in Phor. 1013, oppure homo in Eun. 1082, giusta le ben note ambiguità prosodiche terenziane 29 • Possiamo comunque proporre un primo bilancio e af28
La MinariniStud. 106 n. 4 ha tenuto presente, con saggezza, il conspectus metrorum di Lindsay-Kauer, conscia peraltro dell'ambiguità di taluni versi lunghi: tr 7 oppure ia8 ? (a p. 138 n. 62 lo scrupolo prosodico è persino eccessivo: in Terenzio misureremo sempre ecquid e si quid prevale largamente su siquid: sopra 162 sg.). 29 Vedi le prudenti considerazioni della Minarini Stud. 140-141. Ma in Eun. 214 essa (Stud. 116) ha misurato istum traviata dal segno di breve apposto da Lindsay secondo i suoi propri criteri; in Ad. 568 invece abbiamo per certo idem neutro: nell'insieme il rilevamento e le conclusioni statistiche restano invariate (giustamente non è mai stato preso in considerazione Haut. 955 dove la giusta misura eiecerit esclude lo strappamento, su cui male Laidlaw Pros. 33: vedi Raffaelli Rie.
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Metrica
fermare che, nei 'versi lunghi' terenziani, l'elemento che segue immediatamente quello strappato è realizzato con assai larga preferenza da sillaba breve, con minore frequenza da sillaba lunga 30 , ma i da due brevi. Uno studio esaustivo, sotto questo ed altri punti di vista, dei circa 3270 ia6 di Terenzio ancora manca e la lacuna è aggravata dall' assenza di un testo critico moderno 31 • Può essere peraltro metodicamente accettabile che tre esempi da tre commedie diverse ci diano un'idea abbastanza precisa di quanto potrebbe rivelarci con maggior esattezza un'analisi a tutto campo 32 • Vediamo dunque And. 23 (ia6 ) ma/edicere, ma/e/acta ne noscant sua Haut. 803 (ia 6 ) et simu/ conficiam Jaci/ius egoquod uolo 33 Ad. 139 (ia6 ) qu(om) it(a) ut uo/o (e)st. iste tuus ipse sentiet (vedi già sopra 210)
35 n. 35). C'è da aggiungere che Ad. 523 è tr8 con strappamento nel secondo emistichio secondo la scansione di Lindsay-Kauer e di R Martin (nella sua ediz. commentata della commedia, Cambridge 1976), mentre ora il Barsby ne fa un tr 7 a prezzo di una dura Cl (gli uni et il/ud rus null(a) alia causa tam mal(e) odi nisi quià propest; l'altro et il/ud rus nu/l(a) alia causa tam mal(e) odi nisi quia propest); inutile Laidlaw Pros. 39. 30 Più precisamente 19 ( + 1) elementi brevi nei tr 7 , 5 nei ia8 , 1 nei ia7 ; 10 (-1) elementi lunghi nei tr 7 , 5 nei ia8 , 1 nei ia7 • n Raffaelli e la Minarini hanno edito criticamente essi stessi, con un gran merito, i versi discussi rifacendosi di prima mano a tutti i tradizionali portatori di varianti. 32 In cifra assoluta tutti gli esempi dovrebbero essere piuttosto pochi ove si tengano presenti gli spunti di Lindsay Ear/y 85-86 e persino di Laidlaw Pros. 32 sgg., qui più infelice del solito, e ricordando come anche la Minarini Stud. 135-136 abbia notato la maggiore libertà dei versi trocaici nell'ambito che ci interessa. n Questo verso non entra nella problematica dei loci jacobsohniani, una peculiarità metrica plautina, e magari d'altri autori, ma non terenziana: vedi Raffaelli Rie. 54, 58-59 e, sulle sue tracce, Minarini Stud. 136-137 (ciò che vale per giambi 'lunghi' e tr 7 vale a fortiori per ia6 ): vedi anche oltre 291 sgg.
Costanti di primo grado
251
Ad. 394 (ia6 ) tu quantus quantu's nil nisl saplentia es (nisi sembra impensabile in Terenzio: in Plauto quattro soli esempi di cui due in versi bacchiaci Cas. 699 Poe. 243; su Poe. 325 Rud. 1092 vedi Jachmann Stud. 7 e oltre 287)
ovviamente scattando casi come Hee. 2 Eun. 403 Ad. 839 Phor. 1047 (qui si corregga satis tibin), ma aggiungendo Eun. 484 }◄• La vindemiatio dà il risultato prevedibile: l'elemento strappato è seguito da elemento realizzato da breve, altrove potrà esserci quello realizzato da lunga: manca, e mancherà di ceno, quello realizzato da due brevi 35 • Passiamo ora a Plauto, circa il quale possediamo il rilevamento completo del Raffaelli (Rie. 20 sgg., 55 n. 69) per gli ottonari giambici. Su meno di 400 versi ci sono infatti, sicuri, solo due longa strappati: Ep. 334 e Poe. 1194 }6 • In essi l'anceps successivo allo strappamento è realizzato da sillaba breve nel primo caso, da lunga nel secondo. Il risultato è un po' magro, ma può indicarci, se non una norma, almeno una tendenza in perfetta linea con quanto già constatato. Quanto ai settenari giambici, Raffaelli Rie. 21-22 e 52 cita As. 382 (sopra 209), Ep. 179 (sopra 226) e Ep. 332 (ia7 ) alicund(e) ab aliqu(i) aliqua tzbr spes est /ore mecum fortuna Poe. 239 (ia7 ) nimi(a) omnia nimt(um) exhibent negot(t) hominibus ex se
H La scansione di Hec. 2 quale stabilita da Lindsay nell'edizione è (diciamo) stupefacente e ancor di più lo è quella suggerita in alternativa in Early 85 (il verso andrà letto con noua, < ei> nouum etc. di Bentley, come ora fa Barsby, o altro supplemento: bellissimo il ritocco di Leo Forsch. 346 n. 2 nouae nouum citato da Jachmann Pros. 51 n. 1); in Eun. 403 si intenderà sic ubi ecc. dimenticando Laidlaw Pros. 36 e la sua obscurad,1igentia;in Ad. 839 misuro scilicet con Lindsay Early 85. 35 So benissimo di peccare di 'outrance' (hybris è parola troppo grave per siffatte quisquilie) e sono pronto a pentirmi. 6 J Su As. 831 Cis. 27 Ps. 146 da non prendere in considerazione vedi Raffaelli Rie. 31-32 (e su As. 831 anche Danese ad/.).
Metrica
252
Ps. 160 (ia7 ) numqui mini1s
eagratza tamen
omnium I oper(a) utor ?
cui si può aggiungere Ps. 171 (sopra 225). Ma Ep. 179 può essere corretto anche troppo facilmente, Ps. 160 avrebbe nel secondo colon un altro strappamento con iato davvero poco invitante e anche di Ps. 171 è stata proposta una correzione. Gli esempi di strappamento al di là di ogni dubbio sono dunque tre, magari quattro (As. 382 Ep. 332 Poe. 239 e Ps. 171) 37 su circa 1320 versi. Considerando per prudenza tutti i sei versi qui comunque menzionati, tre volte l'elemento successivo è realizzato da sillaba breve, tre volte da sillaba lunga: ma i da due brevi. Nell'insieme, dunque, nell'ambito dei versi lunghi giambici Plauto mostra una significativa renitenza alla presenza di longa strappati: due su quattrocento negli ottonari, tre >).Infatti: «Plautus Captivis I, 2, v. 82 [185] nam meus scruposam victus com meta t viam. lta codex vetustissimus Camerarii cum aliis Palatinis apud Paraeum. enim Vulgo commeat (ut hic apud Terentium) perperam: raro aut nusquam in sede quinta Jambum pedem usurpa n t Com i ci Latini [spaziato mio]». Bentley si riferisce alla seconda edizione di Pareo 23 , dove questi in effetti legge commetat (e non più commeat, come nella prima edizione del 1610) e annota a p. 57: «commetat] ita diserte V(etus) C(odex) et Pal(atinus) pr(imus) sec(undus) quart(us), quint(us) commutai, tert(ius) sext(us) commeat». Il commento di Pareo esige a sua volta un commento 24 : egli attinge al nostro Pal. lat. 1615 (B), in quel momento ancora ad Heidelberg, e ad una serie di recenziori della medesima biblioteca, per nostra fortuna conservati alla Vaticana nello stesso ordine della n È del 1619, o almeno dopo il 1617 (Neustadt), ma Bencley la consultava nella ristampa francofurtana del 1623, ancora conservata, con sue note, alla British Library: vedi E. A. Sonneneschein, in appendice a T Macci Plauti Captivi with an introd . ... and appendix by E. A. S., London 1880, 135 sgg. 24 E il commento del commento, perché la terza edizione pareana (Francoforte 1641) è felicemente un poco più diffusa: «commetat] sic omnino V(etus) C(odex) et M(anuscriptus) Pal(atinus) pr(imus) sec(undus) quart(us) ut et M(anuscripti) Lang(iani). Et inde est quod in quint(o) exstat commutai. In tert(io) et sexto repperi commeat quod editos nonnullos occupavit perperam. alterum enim probum ex antiquitate verbum, de quo vide Nonium Marcellum».
Metrica
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Palatina, così che non è difficile l'identificazione 2'. Commetat non è solo lezione di B, ma della buona tradizione, questa volta ben compatta (DVJKS2 : testimoni tutti ignoti a Pareo; con loro anche Merula), ma non senza che la variante commeat, tanto facilior quanto innocua al senso, si affacci qua e là (ES1) e si insinui nelle edizioni a stampa (per es. la prima dello stesso Pareo e, davvero strano, quella di Camerario che pure poteva giovarsi di B). Pareo aveva buon naso stilistico, ceno sollecitato anche dal lemma noniano commetare (p. 128 L), ricordato appunto nella terza edizione; e buon naso, direi migliore, aveva Bentley, che menziona anche lui Nonio. Bentley ignorava soltanto che in Haut. 444 il guasto comune ad A e ai Calliopiani trova per noi il suo rimedio in uno degli scholia Bembina (ad l. f. 39v = p. 68 Mountf.), che ha commetat. Ma questo dato, allora a tutti ignoto, nulla toglie all'acutezza mostrata anche in questa circostanza dal grande studioso, il quale nel commento a Terenzio (1726) stampò, come naturale, commetare in Haut. 444, difendendo il suo intervento in una lunga e pungente nota (ove peraltro un minimo riferimento al metro non riguarda il digiambo corrotto, finalmente espunto da Cap. 185). Chi legga l'observatio di Bentley corroborata dall'esempio che egli stesso adduce (la vulgata ... commeat uiam è da respingere di fronte alla corretta tradizione ... commetat uiam) può avere l'impressione che egli avesse già enunciato la norma quale suona a noi oggi, seppure in forma molto sintetica. L'impressione è però fallace e comunque non è quanto nell' observatio bentleyana lessero Hermann, Ritschl e tanti altri loro eguali, maggiori, minori e minimi. Di Hermann vedremo tra poco: sicuro è intanto che questi della norma non parla (discute invece con puntiglio, negli Elementa, le observationes di Porson e della scuola inglese circa il trimetro giambico greco). Toccò dunque a Ritschl diventare l'esegeta dell'oracolare passo bentleyano (Opusc5. 446-448 = Proleg. ccx-ccxi). Ritschl, citato non testualmente Bentley, notò subito che la «lex (sive elegantiam dicere malueris)» 26 riguarda anche i settenari trocaici; che nel Trinummus, sua commediaUn cenno già in Ritschl Opusc.2 230 n.*, con le inesanezze dei tempi: vedi, meglio, Daniela Fugaro Perd. 148-149. 26 Di «elegantia» in peculiarità metriche Ritschl parlerà di nuovo poco tempo dopo a proposito dell"anapesto strappato': sopra 272. 2
·~
Versi giambici e trocaici
381
campione, sono circa cinquanta i senari e circa altrettanti i settenari trocaici i quali presentano in clausola un giambo prima del giambo finale; che il doppio giambo finale tuttavia «perraro» consta «duobus iambici vocabulis», in ogni caso mai preceduti da una terza parola giambica(. .. malo/adt suo è escluso). Dunque il doppio giambo finale è certo raro, ma «nihil offensionis» hanno clausole come hercle niinti'iisTri. 56 scelestus est Tri. 527 /tdiicfae Tri. 117, le quali rientrano per Ritschl nel centinaio di versi, fra giambi e trochei, già citati da lui come lecitissimi. Invece il doppio giambo finale si dà in modo rarissimo («perraro») solo quando è formato da due vocaboli giambici: Ritschl può citare, unendo le Bacchidesal Trinummus,solo tre casi (rarissimi, ripetiamo, ma non già proibiti sì da rendere sospetto il testo): Tri. 533 ager/uit (vedi sopra 374), Tn·. 598 e Bacch.902 malam
crucem. Lo studioso moderno resta sconcertato, diciamolo, nel constatare che l'observatiodi Bentley venne intesa - da un Ritschl - come quella che avesse soltanto messo in evidenza la scarsità di clausole del tipo di Rud. 138 periissepraedicis rispetto a Rud. 140 causi cfrcumfs, Ps. 763 posse perderea Ps. 754 omnem /ibulam, Rud. 158 sacerrumiis a Rud. 131 compliisculos- e d'altro canto la vera rarità (ma non il divieto) del tipo ager/uit 27 ; silenzio, infine, ricopre il tipo commeit ui'iimI commetit ui'iim.Ma una particola del vero Ritschl l'aveva pur colta: vedi oltre 410. Stando così le cose, non meraviglia più che tanto vedere Luchs Quaest. 20 sgg. elencare, con certo sotteso agrume, una serie di versi plautini, terenziani e di poeti in frammenti male editi da Ritschl stesso (inevitabile date le premesse), Miiller, Geppert, Fleckeisen, Lorenz
27
Una riprova dello strano equivoco è in Opusc.' 447 n. * dove Ritschl osserva che in Tri. 33 ... metere messem mixumim sarebbe in ogni caso da difendere contro chi preferisse ...messem metere mixumim; e vedi ibid. n.** circa Tri. 875 (non 874) e Ps.691. Strettamente correlata al quadro che Ritschl si era fatto del 'doppio giambo' in clausola è la nota dissertazione di Fr. A. Lange, Quaestiones metricae, Bonnae 1851 circa il divieto del tipo hercle niintìiis nei tragici e altrove (approderà alla norma di Lange-Strzelecki: sopra 203 ). Ma sul nesso della norma di Bentley-Luchs con quella di Lange-Strzelecki vanno meditate le considerazioni di Raffaelli citate sopra 243 n. 1 (e vedi, con ampiezza, oltre 403 sgg.).
Metrica
382
e persino Hermann. Alcuni esempi. Se Luchs avrebbe potuto astenersi (Quaest. 30) dal rimproverare Camerario d'aver edito Mii. 492 ... ne magno malo /uat al posto del tràdito e correttissimo ... ne malo magno/iiat (forse Camerario pensava a Cas. 60 letto ovviamente con P), tuttavia ha piena ragione nel far vedere ibid. che Bacch. 334 (ia6 ) nesci/ quid facial auro :: mihi dederit uelim
nelle mani di un Hermann, preoccupato in pari modo dal 'proceleusmatico discendente' (mì'hrdede-)e dalla 'impossibilità' di accettare la medicina di mi 'in arsi', sia stato 'corretto' (Hermann 1) in nesci/ quid faciat auro :: mrhi diitt uelzm
seguito prontamente da RitschP, il quale non fu da meno nel 'sanare' Sti. 620 con ... id satis erti mz1:/i(Luchs Quaest. 45) 28 • E ancora: Fleckeisen, partendo dalla cosiddetta lex Ritschelii secondo cui mihi tibi sibi possono essere solo pirrichii mai giambi, 'corresse' (Luchs Quaest. 32) la tradizione Cap. 981 (tr 7 ) falsa memora/ :: aut eg(o) aut tu nam tibt quadrimulum
in questo modo falsa memorat :: aut eg(o) aut tu nam quadrimilliim trbi.
28
Sempre Hermann Elem. 132, per evitare in Rud. 43 (sopra 201) la sequenza - u.; u.; -, cioè 'dattilo'+ 'anapesto', approva i «viri docti» che correggevano fidicinio (hapax assoluto, come oggi sappiamo grazie al Th!L) in fidicino, ottenendo così eam uidit ir(e) e ludo fidicino diimum. Ad altri l'intervento sarà stato suggerito dalla forma ignota e quindi sospetta, ma Hermann lo approva per ragioni metriche, senza che l'observatiodi Bentley circa il digiambo finale lo metta in sospetto (solo dopo Luchs sappiamo che il verso così corretto rientrerebbe nell'ecc. a alla norma: cf. sopra Cur. 86). In regola con le nostre conoscenze metriche, ma in sé di marchiana inutilità, ... fi'dicini diimum di Schoell, forse ancora turbato dal hapax, nell'editio maior ritscheliana (1887).
Versi giambici e trocaici
383
E basti citare ancora Mii. 639, la cui clausola, tramandata corrotta in P (A manca), è stata via via supplita con neu riiges/iirfs RitschP, ne riiges/iirisMiiller Pros.1 561 (ne quaeras/oris Luchs Quaest. 35). Gli esempi possono fermarsi qui, ma non senza che si ricordi l'infortunio di Vahlen circa Ennio se. 178 V2 , che il grande editore del poeta pubblicò in questa forma (tr7 ) quae mea comminus machaer(a) atqu(e) hast(a) hostibì'tis manii
dove la correzione hostibitis del tràdito hospius non è felice, ma poco importa: essa è - subito - metricamente inaccettabile, come, con altri, ha notato Bettini Stu. 94 n. 12. 29 b) norma di Meyer
nel quarto e nell'ottavo elemento di ia6 , nel quarto e dodicesimo elemento di ia7 e ia8 (e ottavo, se con incisione dopo il nono elemento), nel settimo e undecimo elemento di tr 7 e tr 8 è vietata fine assoluta di polisillabo se l'elemento precedente è lungo o bisillabico
29
Ma nessuno rimprovererà a Vahlen di aver accettato in se. 228-229 p/ebes in hoc regi antistat loco: licét I lacrumare plebi, regi honeste non licei; e in se. 340 zbi quid agat secum cogitai, parai, putit: vedi Opusc.1 105-106 (si potrebbe invocare anche lo stesso ordine di motivi cui si appella Leo per Mii. 204); iratissimis Musis, questa volta, gli interventi di Luchs e (non stupisce) di Ribbeck da Luchs citato (Quaest. 70), mentre non sono coinvolti dalla norma versi come Ps. 447 o Truc. 247. È necessario aggiungere che, al di là del passo enniano, gli esempi di infrazione di Bentley-Luchs citati da Soubiran Ess. 387 o sono più che problematici o offerti in testi per certo corrotti (vedi Questa RecSou. 72-73); si deve poi di sicuro ad una scheda sviata che l'autore ritenga esempio unico milam crucém di Phor. 368: unico esempio sì, ma di Terenzio! Meglio era invece citare (e non a p. 400) Eun. 706 ... pau/uliim: sit ést con i dubbi di Lindsay in appar. (oggi recepiti da Barsby: ... etiam nunc paulliim: sii est) a favore della correzione di Faemo, che però in sé non riguarda il digiambo finale, così come non lo riguarda la nota di Bentley ad I. (IV 4, 38) che approva Faemo (ma vedi anche Luchs Quaest. 64).
384
Metrica
J
4
7
8
X-~-'x-~..:::X } 4
X - ~ -'x l
4
7
8
7
8
- ~ -'x
X - ~ ..::X- ~ -'x 6
- X - X - ~ 6
7
ia6
- UD Il
12
Il
12
- ~ ..::X- D - ~ -'x
- UD
10 Il
..::X- ~ ..::X- U D 7
- X - X - ~ -'x
10 Il
- ~ -'x
-
X -D
ia7 ia8 tr 7
tr8
Cap. 131/ (ia6 ) is indì'to catenas singularias
Ps. 402 (ia6 ) 78 quaerit quod nusquamst gentì'iimst, reperii tamen Haut. 34 (ia6 ) alias nJuJs nisi /inem maledictisJacit Phor. 929 (ia6 ) 78 qu(am) hic per flagiti(um) ad inopiam rediga!patrem As. 602 (ia7 ) numquam bJn;e frugi sient dies noctesquepotent As. 448 (ia7 ) Il 12 conticuit. nunc ade(am) optumum (e)st priu(s) qu(am) inà'pit tinnire
t
Eun. 552 (ia7 n(e) hoc gaudì'iimcontaminet uit(a) aegritudin(e) aliqua Haut. 726 (ia7 ) 11 12 aut quom uenturam dixer(o) et constituero, qu(om) is certe Amph. 215 (ia 8 ) ") 4 1112 propere sìiis de /inibus exercitiisdeducerent As. 847 (ia 8 ) 14 un(um) hunc dTemperpetere quoniam libi polestatem dedi
Versigiambici e trocaici
385
Eun. 316 (ia8 ) t(am) etsi biinlst natura, reddunt curuatura iuneeas Ad. 536 (ia 8 ) ,!I 12 uirtutes na"o :: meas ? :: tuas: homin(i) itlci5 laerimae eadunt Mere. 923 (tr7 ) 6 7 mater irata (e)st patn- uehementer quia seortum sibi Rud. 1054 (tr7 ) IO Il tuus hie seruust ? :: meus est :: em I ì'stue optìime quando tuust Hee. 880 (tr7 ) 67 /ec(i) imprudens quam sciens ant(e) bune di(em) umquam :: plaudite Hee. 879 (tr7 ) 6 7 sequere m(e) intro, Parmeni5 :: sequor, equidem plus hodie boni (per questo verso vedi anche sopra 129-130 circa Cur. 621 e altri versi simili; sequor in Terenzio può non essere più CI: sopra 12, 97) Phor. 951 (tr7 ) IO 11 adeo depex(um) ut dum uiuat meminent semper mei.
Altri esempi, fra i tanti, vedi in Cap. 33 Ps. 1074 Haut. 137 Phor.752 ia6 , Eun. 257 Haut. 698 726 ia7 , Ad. 535 578 ia8 , Amph. 277 Hec. 869 Ad. 549 550 555 tr 7 • In tutti i versi qui raccolti, come si vede, fine di polisillabo negli elementi considerati dalla norma è rigorosamente preceduta da elemento realizzato da sillaba breve. Se invece essi appartengono a parola in sinalefe con la successiva, i vincoli cadono perché, come sappiamo ampiamente, la sillaba in sinalefe non 'spariva' e pertanto gli elementi quarto e ottavo ecc. non risultano finali di parola, come appare da qualche esempio: Cas. 483 (ia6 ) 7 H ego iuss(i), et dixit se /iictur(am) uxor mea
As. 408 (ia7 )
)
4
Liban(um) in tonstrin(am) ut iusseram uenir(e), is nullus uenit
Metrica
386
Eun. 7 (ia6 } 4 qui bene uorténd(o) et easdem scribendo male Eun. 390 (iaf) 4 numquam défugì(.am) auctoritatem. sequere :: di uortant bene Rud. 988 (tr 7 ) 6 7 uidulum piscem cépiss(e) aut protuliss(e) ull(um) in forum Rud. 586 (tr 7 ) 10 11 quin abe(o) bue in Veneris fan(um) ut edormisc(am) hanc crapu/am.
Per altri esempi, piuttosto frequenti, vedi Au. 16 Eun. 198 Haut. 133 ia6, As. 494 Hec.776 792 ia7 ,Amph. 212 Eun. 311 ia8 , Cur.329 Rud. 772 tr 7 • La norma di Meyer sembra avere più d'una eccezione, taluna ragionevolmente spiegata, talaltra no Uachmann Pros. 43 n. 2): è comunque certo che vi sono versi ineccepibili per lingua e stile i quali presentano anomalie che sarebbe arduo o pericoloso eliminare per via di congetture. Sono peraltro ammesse generalmente due eccezioni: a) negli elementi considerati dalla norma, contigui a fine di verso o sede assimilata, è ammessa fine assoluta di polisillabo se questo è seguito da quattro elementi realizzati da una sola parola grammaticale o 'metrica', oppure da 'gruppo quadrisillabico' 30 , come Tri. 410 (ia6 ) 7 8 quam si tu obicias /ormicis papauerem Tri. 476 (ia6) et quod illi p/aceat praen"pì'im potissimum (triplice allitterazione finale) And. 7 (ia6) 7 8 ueteris poetae maledictis respondeat (cf. Hec. 191 488 506 Phor. 949) , Bacch. 968 (ia 8 ) 4 e(um) eg(o) ade(o) iino mendacio deuic(i), un(o) ict(u) extempulo
30
Vedi qui 378 n. 22 circa il 'gruppo quadrisillabico'. Ma ci sono esempi di altro tipo, come Cur. 44 ... habitat :: recte tenes e altri versi ricordati qui più oltre.
Versi giambici e trocaici
387
Cap. 914 (ia8 ) Il 12 adueniens deturbauit totum cum carni carnarium (cf. Raffaelli Rie. 46 n. 51; triplice allitterazione finale) Ps. 158 (ia 8 ) Il 12 te cum securi caudicali prae/rdo prouinciae (si noti l'allitterazione finale) Hec. 320 (ia8 ) Il 12 pro/ecto, Parmeno, me celant :: uxorem Philumenam (cf. Hec. 191 623, dove la presenza del nome proprio giustifica ad abundantiam l'eccezione alla norma) As. 159 (tr7 ) IO Il ego poi istum portitorem priuabo portorto (cf. Amph. 84 l Rud. 651; si noti la triplice allitterazione finale) As. 879 (tr7 ) )V Il cum coron(a) amplex(um) amicam), si uldeas cognoscere (cf. Rud. 587) Phor. 343 (tr7 ) IO 11 quid istuc uerbist ? :: uhi tu dubites quid siimas potissimum Cur. 275 (ia6 ) 7 8 estn(e) hic parasitus qui missiist in Cariam (in Cariam formano 'parola metrica') Mii. 1095 (ia6) 7 8 de concubina ? nam nullo pacto potesi (l'eccezione alla regola può essere giustificata ricordando che nullo pacto è frase fissa: cf. Bacch. 179 479 Mos. 1054 Ps. 94 e non sfugga l'allitterazione finale; vedi inoltre ullo pacto Cap. 131 Tri. 377; Terenzio spezza il sintagma: cf. And. 247 nullon ...pacto ?, Phor. 301 nullo ... pacto) Amph. 1013 (tr7 ) IO Il in medicinis, in tonstrinis, apud omnis aedis sacras (può aedis sacras, 'templi', essere considerato 'gruppo quadrisillabico' perché modo di dire fisso? così Hingst Spon. 50) Per. 408 (ia6 ) 7 8 impur(e), inhonest(e), iniur(e), in/ex, labes pop/i (può labes pop/i essere considerato gruppo quadrisillabico ? meglio sem-
Metrica
388
bra considerare la sequenza dei quattro aggettivi composti tutti con il prefisso negativo in-: di essi, iniure è hapax assoluto e neoformazione plautina; inlex è hapax plautino e neoformazione dd poeta, come prova il riecheggiamento dd passo in Cecilio Stazio v. 60 R} quid na"as, barbare cum indomitis moribus, in lit tera te ? in le x es, uniche attestazioni letterarie ma entrambi gli aggettivi sono noti a lessicografi e glossari: in questo caso potremmo dire che 'la forma crea il metro' o, meglio, che giustifica l'eccezione; vana, oggi, la difesa dd verso quale suggerita da Hingst Spon. 42-43).
Però in linea generale i poeti, davanti al gruppo tetrasillabico finale comunque formato o giustificato, preferiscono rispettare la norma: vedi per es. Amph. 383 503 507 798 1016, Rud. 56 63 72 559 654 843 (e oltre 390). b) negli dementi considerati dalla norma è ammessa fine assoluta
di polisillabo quando questo è seguito da parola monosillabica, come per es., in Cap. 702 (ia6 ) } ◄ qui nunc proptér me meaque uerha uinctus est Bacch. 856 (ia6 ) 7 8 dixin tib(i) eg(o) ill(um) inuentiirum te quali(s) sii ?
Mii. 1135 (ia6 ) 7 8 nam quis uider(e) exoptabiim me maxume Cur. 628 (tr7 ) 6 7 Phaedrom(e), obsecro, séruii me tamquam m(e) et genium meum Hec. 489 (ia6 } 4 nam /uiss(e) érgii me mir(o) ingeni(o) expertu(s) sum Hec. 63 (ia6) 7 8 em duxit! :: ergo proptereii te seduto (Cap. 702 è eccezione apparente perché propter me pare 'parola metrica' e così Hec. 489 erga me; gli altri versi sono stati in parte giustificati invocando l'enclisi o la debole tonicità del pronome personale, ma è argomento, come sappiamo, assai aleatorio: vedi qui Bacch. 669)
Versigiambicie trocaici
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Ps. 1039 (ia6 ) ) 4 uer(um) baud mii/tii post faxo scibis accubans Bacch. 669 (ia6 ) ) ◄ quid uos maestiis tam tristisqu(e) esse conspicor? (si è pensato che post, come in Mos. 440 triennio post, sia in posizione enclitica, non diversamente da tam posposto in Bacch. 669 come suppone Leo ad /.; sono tuttavia argomenti deboli, come mostrano gli esempi che seguono, dove essi non sono proponibili: bene, su questo particolare, Soubiran Ess. 365 sg.)
As. 449 (ia7 )
l
4
quam mox m(i) operiim das :: eh(em) optume: quam dudum t(u) aduenisti? (cf. Danese ad/. per la scansione)
Per.372 (ia6 )
l
◄
uer(um) ei r(ei) operiim do n(e) a/ii dicant quibu(s) licei
Per.614 (tr 7 ) do tib(i) eg(o) operam :: tib(i) 'ftrdlm das ubi tu tu(um) amic(um) adiuuas (l'eccezione è stata giustificata con la fissità del sintagma operam dare: cf. Mii. 1095 sopra 387) Cur. 327 (tr7 ) sed quod te misi nrtr/J sum certior :: nihi/ attu/i (enclisi di sum? ma cf. l'incisione di Cur. 329; nrbrlo vale nuo) Bacch. 224 (ia6 ) l 4 ueniat quando uo/t atqu(e) ita ne mihi sit morae Tri. 397 (ia6 ) l ◄ miser ex iinfmo /it, factius nihi/o facit Eun. 561 (ia7 ) l 4 nemost homfniim qu(em) ego nunc magis cuperem uidere quam te Phor. 113 (ia 6 ) postrem(o) res rediit. adulescentulo.
ikle6
Ma, come abbiamo osservato circa l'eccezione a, i poeti preferiscono la regolarità, sì che la norma è rispettata anche in presenza
390
Metrica
di monosillabi, pur se enclitici (quis) o debolmente tonici (almeno in ipotesi): Cap. 45 ~a6 ) plus insdens quis feci/ quam prudens boni Rud. 60~ iia6) in ius uocàl me I ib(i) ego nescioquo modo Amph. 308 (tr7 ) 6 7 cingitur, certe exped'ft se :: non /ere/ quin uapuiet (cf. As. 241 Ps. 637 Truc. 300).
Ci sono infine versi per i quali non sono state avanzate giustificazioni attendibili o che si è tentato di emendare: Bacch. 245 ) (ia6) 4 quin tu pn-miim saiutem reddis quam dedi (salutem primum Bothe) Bacch. 1018 (ia6 ) 7 8 ead(em) istaec uerba dud(um) illi dix(i) omnia Cap. 118 (ia6 ) ) 4 satis est, niimquiim postilla possis prendere (si potrebbe leggere postilla numquam, ma si noti che Leo non tocca il testo tràdito confrontandolo con Cur. 529 dove abbiamo la successione numquam postilla; si consideri inoltre la triplice allitterazione finale) Cas. 447 (ia6) 7 stimulorum loculi, proto/lo mortem mihi (è stato proposto mortem proto/lo, ma la coppia allitterante in fine di verso, più volte sopra notata, è stilema caratteristico di Plauto: cf. Cap. 118) ~
Cur. 649 (ia6 ) 7 8 timid(am) atque pauidam, nec u'fuiim nec mortuam (espressione idiomatica, ancora presente nell'italiano odierno: cf. Truc. 823 nec uiuus nec mortuus sum, verso già richiamato da Hingst Spon. 37)
391
Versi giambici e trocaici
Men. 294 (ia6 ) 7 8 Cylindrus ego sum: non nost'i nomen meum? (si consideri la triplice allitterazione: d. Cap. 118 Cas. 447)
Mere. 10 (ia6 )
H
7 8
eadem latine Mercator Macci Titi (sia nel verso greco, sia in quello latino il nome proprio giustifica sempre eccezione a nonne e convenzioni metriche) Ji
Cap.631 (tr7 ) 6 1 I al ego te uideo mazor maiorem: em rusum tibi (si dovrà considerare il poliptoto) Hec. 39 (ia6 ) 7 prim(o) actu placeo; qu(om) interea rumor uenit. ~
Si può aggiungere qualche particolare circa Terenzio che, al solito, ne caratterizza la tecnica metrica come diversa da quella plautina e preplautina: oltre 392 sgg. 410. Meyer Beob. 43 aveva osservato che i tragici, a differenza dei comici, vincolano alla norma anche l'inizio del tr7 : dunque - J, ~- Ciò sembra accettabile, almeno come tendenza, anche per Terenzio (Soubiran Ess. 361-362), di cui si possono citare versi come Hec. 751 2} sanctriis quam iusiurand(um), id pollicerer tibi Lache
H Sull'allitterazione in fine di verso in relazione con la norma di Meyer e sulla necessità di non stravolgerla (anzi...) per ottenere una clausola 'corretta', rapide ma buone considerazioni in Hingst Spon. 13-15; su altro, più vasto, piano Bettini Lavor. 31-43, non senza audacie. Ma è da respingere quanto Hingst Spon. 44-46, a pur giusta difesa della tradizione in Cas. 447 Men. 294, dice circa l'enclisi delle forme flesse del pronome personale e dell'aggettivo possessivo, per cui ... mortem mihi, ... nomen meum sarebbero in realtà assimilabili a veri quadrisillabi; se così fosse, troveremmo clausole come pater mrhi. pater meiis: ciò che, come notissimo, non avviene (sopra 105-106). Jl Ciò che Hingst Spon. 65-66 scrive circa questo verso neppure avrebbe dovuto essere pensato: ma a tanto non poteva non portare la perversa confusione tra accento di parola e (cosiddetto) 'accento metrico', di cui le osservazioni dello studioso sono uno dei tanti frutti attoscati: vedi anche oltre 405 n. 54.
Metrica
392
Ad. 2550J
obsicrii uide n(e) i//(e) huc prorsus s(e) inruat :: etiam taces? Hec. 759 2 ' nec /iuliirem uobis, quibus est minim(e) aequ(om) eum uiderier
senza che però manchino versi come Hec. 760 2 ' inmirùii; nam meritis de me (e)st quod que(am) i//(i) ut commodem
o altri cui la sinalefe, come sappiamo, fa dudere la norma Hec. 372 2 ' me ueniss(e) eg(o) eius uidendi cupidus recta consequor.
Quanto alla seconda metà dd verso, il rispetto della norma appare in Terenzio veramente sensibile, come lascia trasparire il forte ritegno all'uso dd quadri- pentasillabo finale, frequente assai in Plauto ove la norma sia infranta (sopra ecc. a e oltre 402 sg.). Si ricava infatti da Hingst Spon. 7-13 passim che7 in Terenzio manca 8 nei giambi (dementi 7 / 8) il tip.o Cap. 40 docte /a/laciam e si7 8ha 7 8 solo sei volte il tipo Hec. 506 accéssitpecuniae (d. Rud. 14 abiurint pecuniam); che nei10 trochei (dementi 10 / 11) si• ha un solo esemnio 11 fo 11 come Phor. 343 sumas potissimum e manca il tipo Mere. 206 dixisti uerissimum. Ancora da Hingst Spon. 90-93 passim risulta nei senari 7 8 (elementi 7 / 8) un solo caso come7 Haut. 771 superést /allaciae e 8 due soli casi come Haut. 481 nequitiém pate/eceris (cf. Phor. 590); nei settenari (elementi 10 / 11) nessun esempio come Sti. 684 holit" IO Il ate conuiuium e uno solo come Haut. 320 mu/timodis iniurius. C'è naturalmente da tener conto dd regredire, in Terenzio e in altri poeti postplautini, dei polisillabi finali in quanto tali (sopra 295), ma non è meno notevole la netta propensione terenziana per uno stile metrico ormai diverso, in questo come in altri particolari. Ancora parlando di «clash» fra 'accento metrico' e accento di parola nel quarto piede spondaico del senario, non amato ma tollerato da Plauto, Lindsay aggiungeva (Ear/y 18): «if Terence had been properly edited, we should like to have shown that this dislike is rather heightened in the younger poet». Questo è vero al di là di ogni fan-
Versigiambici e trocaici
393
tasmatico «clash»: Terenzio ha maggiore 'orecchio' per la struttura dipodica di giambi e trochei (Plauto ha un 'orecchio' del tutto diverso) e Lindsay, riconosciutala nei modi a lui peculiari, si sentirà per es. autorizzato, nell'edizione di Terenzio, ad elidere -s dovunque ciò sia lecito, così da far 'emergere' quanti più sia possibile elementi 3 / 7 brevi (e gli elementi corrispondenti degli altri versi). La norma di Meyer, a differenza di quelle illustrate nelle pagine precedenti, ha contorni meno definiti: le eccezioni non sono facilmente codificabili e le motivazioni, in particolare, ne possono apparire sfuggenti, più forse di quanto avvenga di solito - beninteso agli occhi di noi moderni - entro la rete segnica del proibito / voluto di ogni versificazione antica. Soltanto di recente, per es., sembrano essere state colte le ragioni del tabù di Porson (e di Havet), che però riguarda solo il verso tragico n, mentre !"anapesto secondo' e 'quarto' del trimetro comico imbarazzano, per così dire, anche un Maas Metr. § 51. Sicuro è peraltro che la norma è giustamente denominata anche 'norma delle dipodie' perché essa concerne quegli elementi del verso giambico e trocaico dove i Latini hanno sostituito la possibilità di avere - / UJ all'obbligato, o quasi, elementum breve dei Greci. Può tuttavia giovare a meglio capire la norma apprendere per sommi capi per quali vie essa sia stata riconosciuta dagli studiosi. Versi con certe caratteristiche non erano sfuggiti a Bentley che scrive (Sched. XIX) « .. .in verbo trisyllabo duos Ictus recipiente, si id butobtav trochaicam inchoat, media erit ex arte brevis 34 [Hec. 280 tr7 ] Nisi poi fi/ium mu/timodis éxpeto ut redeat domum.
Ita recte hic editum, non Exspecto;ut et alia plurima quae ante nos vitiosa ferebantur, in omni versuum genere hic corriguntur». Dunque Cf. Snell Metr. 5. Più latamente si deve intendere, detto in modi moderni, la successione - x - x nel caso che il secondo elemento sia realizzato da sillaba lunga. Tale successione si ha infatti anche nel senario giambico dopo la semiquinaria, come vedremo subito nella discussione bentleyana di due versi del Miles. H
34
394
Metrica
Bentley non ammette exspecto(tràdito da A e Calliopiani, commentato da Donato) perché }"accento metrico' ne colpirebbe prima e terza sillaba (della sinalefe -t(o) ut Bentley non pare curarsi) pur essendone la sillaba mediana lunga e come tale (aggiungiamo noi) portatrice dell'accento di parola; leggendo invece expeto, chiosiamo ancora noi, accade che nella sillaba iniziale 'accento metrico' e accento di parola coincidano, un fatto che, lo vedremo subito, non restò senza eco presso gli studiosi successivi. Si può ricordare che nella nota ad l. (Hec. II 3,7) Bentley si limita a dire che expeto 'è gratificante' per testo e metro senza dire perché rinviando ad Eun. IV 6, 5 (743), dove però c'è difesa di expeto solo sotto l'aspetto del senso e dello stile. L'argomento metrico, adombrato oracolarmente nello Schediasma,ritorna invece con maggior ampiezza e perspicuità nel commento ad Ad. IV 2, 52 (591), discutendo la lezione vulgata - sorbillans- e la variante offerta da un codice: sorbilans(Bentley non sa, a quanto pare, che questa variante è sicuramente attestata anche dal Bembino e oggi da tutti accolta). Così suonano Ad. 590-591 (tr7 ) nel testo di Bentley, qui identico a quello degli editori moderni: Ndm iam adibo, atque unum quicquid, qu6d quidem erit bellissimum, cdrpam, et cyathos s6rbilans pauldtim bune producdm diem.
Bentley sa che Faemo e la maggior parte dei manoscritti leggono sorbillans, e aggiunge: «sed unus ex Meadianis n sorbilans.Recte, secunda brevi, ut Ventilans».Citato Poe. I 2,183 (191) con l'avverbio sorbilo ('goccia a goccia') che chiude il verso con sicura penultima breve e discusso un verso di Cecilio (vd. 395 n. 36), Bentley prosegue «ceterum id sedulo cavetur, ne verbum ex tribus longis factum, ut Sorbtllans,duplicem accentum habeat [se. s6rbilldns:si tratta di 'accento metrico', come éxspect6]:auribus enim id ingratum; quas rogo consulas dum hunc Plau-
n Si tratta di un ms. della raccolta di Richard Mead (1672-1754), celebre medico, collezionista d'arte e di libri; buon umanista, pubblicò un'edizione di Nicandro cui collaborò Bentley che gli era amico (Pfeiffer Hist. 155). Le collezioni andarono all'asta dopo la sua morte e il cenno di Bentley potrebbe essere utile a identificare il codice terenziano, se ancora esistente (altre notizie dà N. Moore, «Dict. of Nat. Biography» 13 (1909) 181-186 s.v.).
Versigiambici e trocaici
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ti senarium legis. Mil. II, 6, 22 [502] Nisi mihi suppliciumvirgarumde te datur.Ecquid sentiunt scabri et absoni ? sed Poetae ipsi noli vitio vertere: sic enim ipse dederat, Nisi mihi suppliciumvirgeum de te datur, ut mox ibi v. 31 [Mz1.511] Nisi mihi suppliciumstimuleum de te datur.Vides iam, quantum intersit, non Grammatico sed Poetae, Sorbillanshic legeris, an Sorbilans».J6 Proviamo ora noi a scandire Ad. 591 e Mii. 502 nel testo rifiutato da Bentleye vedremo i due versi infrangere la 'nostra' norma di Meyer, Mii. 511 rispettarla 6
7
carp(am), et cyathos sorbtllans paulat(im) bune producam diem 7 8 nisi mihi supp/icium uirgariim de te datur 78 nisi mihi supp/icium stimu/eùm de te datur
ma l'infrazione sparisce leggendo sorbrlanse uirgeum.H 36
La tradizione grammaticale è massicciamente concorde nella forma sorbii/o, accostata ad altri verba diminutiva come cavillo garrulo e così via: vedi Diom. gramm. I 345, 23; Prisc. gramm. II 431, 20; Don. gramm. IV 382, 3; Cled. gramm. V 54, 32; Pomp. gramm. V 221, 1; Consen. gramm. V 376, 24; Comm. Eins. gramm. suppi. 253, 25. La medesima forma in Apuleio Met. II 16 e III 14 (ma qui la tradizione ha sorbilantibus).Gli Schol. Bemb. ad Ad. 591 (p. 98 Mountf.) si limitano a chiosare adsidue sorbens senza lemma, come gli Schol. Ter. ad I. (p. 157, 25 Schlee). Conferma della lezione di A viene invece da Don. ad Ad. 764 ... lauteque munus administrastituum, ove leggiamo, a commento, ut quicquid esset be//issimum carperes cyathosque sorbi I a re s, palmare parafrasi di Ad. 591. Costante invece sorbilo come raro avverbio: Poe. 397, Cels. III 22, 14 e, per bella e sicura congettura di Bentley, Caec. com. 73 R3 (tramandato da Fest. 454, 33 L) proposta proprio nel comm. ad Ad. 591 citato più sopra. - Quanto a uirgeum, è congettura già di Guieto ma non crederei per ragioni metriche, piuttosto dietro suggestione del paritetico Mii. 511 nisi mihi supplicium s ti m u I e u m da te datur. Ma c'è una difficoltà: se stimu/eus è hapax assoluto (Mos. 57 non è in gioco), uirgeusè aggettivo ignoto a Plauto e ai comici: compare due volte in Catone agr. 152 (più il titulus), tre in Virgilio (Georg. I 165 III 320, Aen. VII 763), una in Seneca (epist. 90, 17), Calpurnio Siculo (ec/. 5, 114), Plinio il Vecchio (n.h. XV 124), Stazio (Theb. VII 393), in scrittori tecnici come Columella e Palladio, cui si aggiunge qualche raro esempio tardo. Virgeum nel passo plautino è accettato da Ritschl1 e, con una certa sorpresa, anche da Leo, mosso, questi, forse più da ragioni stilistiche (questa nota deve moltissimo a Gaia Clementi che ha consultato per me gli schedari del ThlL con il consenso amichevole dell'Istituzione). 37 In Hec. 280 il testo tràdito ... exspecto ut redeat domum è per noi libero dai vincoli della nonna grazie alla sinalefe -t(o) ut.
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Bentley, ben lo sappiamo, fece scuola. È dunque nell'ordine delle cose che Hermann Elem. 141, constatato che i «veteres Latini» ammettono dovunque nel senario ' 8 lo spondeo tranne che alla fine, soggiunga «curarunt illi tamen, ut plerumque minus durus ad aures accideret spondeus iste. bine illud in primis caverunt, ne accentus vocabulorum, in quibus spondeus est aliquem e paribus locis tenens, e u m i et u pugnar et [spaziato mio]. ltaque raro invenias versum, qualis hic Ennii est paltimmutireplébeiopiaculumest [se.331 V 2 ]. Recteque Bentleius ad Ter. Adelph. IV. 2, 52. in Plauti Milite II. 6, 22. uhi vulgo legitur nisi mlhi supplicium vlrgarumde té datur, virgeum, probatum etiam a Reizio 39 , reponi iussit». La menzione della ripugnanza latina a certi spondei riscrive in modo più chiaro l'observatiobentleiana, ma è molto più forma che sostanza, come dimostra la citazione quasi letterale del commento ad Ad. 591. Alla parola di tre lunghe, o molossica, si sostituisce ora, e con evidente valore generalizzante, lo spondeo 'in sede pari' nel quale appaia il 'clash', dirà ancora Lindsay, tra accento di parola e 'accento metrico'. Ma ciò può accadere solo con fine di parola spondaica, o clausola spondaica di polisillabo, nel quarto e nell'ottavo elemento del senario. Niente da obiettare quindi a
Rud. 541 (ia6 ) l
4
7
8
tzb(i) ausciiltiiui, tu promittebas mihi
ma riservare i sospetti a ... omnrsaedis sacras,... rnlex labespop/i, ... satis est numquim e ai passi corrispondenti degli altri versi plautini (e di poi terenziani) subito coinvolti. Lo dimostra la trattazione di Ritschl Opusc.' 455-458 = Pro/. ccxx1-ccxxm, dove compaiono come atteso anche le parole / fini di parole anapestiche (ma è quanto di più tormentosamente contorto e oscuro abbia scritto il venerabile
sospitatorPlauti). Il contributo di Meyer aveva liberato il verso del dramma repubblicano dalla dialettica ingannevole dell'accento di parola con 8
Hennann, come noto, parla di trimeter. cf. Questa Rii. 18 n. 27. Fonte di Hennann sono per certo i marginaliadi Reiz, ricopiati con ammirevole cura da Hermann stesso nel proprio esemplare plautino d'uso: cf. Questa Rit. 16-18. '
39
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!''accento metrico', lasciando però sussistere questo; Meyer era andato coraggiosamente contro una catafratta tradizione di studi, sì che da un lato non stupiscono il pronto consenso di Leo (sopra 278), dall'altro critiche non pertinenti (Langen Bem. 401-420) o il silenzio che ne ricopre il nome nel brevissimo cenno bibliografico di Hingst Spon. 5 40 • D'altro canto la 'struttura profonda' dipodica dei giambi e dei trochei degli scenici era apparsa ormai innegabile e dunque i problemi si spostarono al comportamento, entro tale struttura, delle parole, o clausole di parole, spondaiche e anapestiche. Ma ciò avvenne con un grave errore di fondo, una sorta di stizzito (contro Meyer) 'ritorno indietro', che faceva riapparire, spettro implacato, il viluppo perverso di accento di parola e 'accento metrico'. Esempio preclaro la dissertazione di Hingst. A provarne l'impostazione 'surannée' basterà citare la titolatura di un paragrafo (Spon. 50: «de spondiacis in antepaenultimo pede vocabulis, quorum gravem accentum poetae in thesi amoverunt»), che si rivela anche troppo solo quale amplificatiodel celebre passo hermanniano citato sopra 396, contro il quale con animo si era mosso Meyer nelle prime pagine del suo lavoro (Beob. 11-15). Recuperato così, ben poco felicemente, il vecchio armamentario, la diligente raccolta di materiali, redatta in chiaro latino accademico e qua e là venata da buone osservazioni sullo stato dei testi presi in esame, fallisce però del tutto uno degli scopi principali 41 • Da Hingst, sia pure con riserve aggiunte alla lode, dipende nell'insieme, in consensi e dissensi, il Lindsay di Early 11-18 e seguenti: pagine tra le più labirintiche, e inutilizzabili, del sommo studioso. Cerchiamo allora, se praticabile, un'altra via 42 • Dal punto di vista 40
I 'silenzi' delle bibliografie sono fragorosi: Meyer, per es., parlando della norma di Bentley-Luchs non fa mai il nome dd secondo, preferendo rinviare alla secca observatiocli Bentley stesso: vedi Beob. 40 n. 1. Genus irritabilephilologorum. 41 L'esistenza di rl/e f/.lae cosl via con prima sillaba 'naturalmente' breve, un'idea sempre cara a F. Marx, maestro di Hingst (vedi Spon. 77-88), che talora riappare inopinatamente ancora oggi (peggio che inutile tutto Hoischen Ace.). 42 Per fondamentale divergenza di metodo non considero L. Ceccarelli, il quale scrive (La norma di Meyer nei versi giambici e trocaicidi Plauto e Terenzio, Roma 1988, 44): «non accetto la limitazione per la quale brevis e brevianda dovrebbero appartenere allo stesso demento» (e d. ibid. n. 12). Vedi invece sopra 85.
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metodico abbiamo oggi due forti vantaggi: il primo è che ci siamo sbarazzati di ogni presenza dell"accento metrico'; il secondo è l'assodata natura musicale dell'accento latino, forse già intuita da Meyer Beob. 5-6 (sopra 278) e di Meyer si potranno ricordare anche le osservazioni, decisive, circa la famigerata quaestio delle clausole dell'esametro: Beob. 8-10. Ciò premesso, è allora strettamente vincolante, per ovvio rigore di buon metodo, esaminare la norma di Meyer tenendo presente l'unico fondamento dei versi plautini e terenziani: la quantità e solo la quantità. Ci si deve dunque distaccare nel modo più netto dagli spazi che le molte pagine di Soubiran sulla norma (Ess. 337 sgg.) concedono - ora più, ora meno, con eloquenti oscillazioni 43 - all'accento di parola 44 • Per noi l'affermazione di Ess. 367 (e cf. 311-312) «ce qui reste assuré c'est que la loi de Meyer n'est pas explicable par des facteurs uniquement quantitatifs» - l'Ombra di Hermann ... - è metodicamente insostenibile. Utili suggerimenti vengono invece da un breve contributo del Perret Équiv. 589-594, il quale ha avvicinato la problematica meyeriana a quella di Porson nell'interpretazione di Snell già ricordata, anche se una riserva molto forte dovrà imporsi. Se consideriamo la norma di Meyer secondo i criteri della 'metrica lineare' appare chiaramente, limitando per comodità l' observatio al senario, che gli elementi 3 e 7 hanno duplice valenza di tipo prevalentemente sintagmatico 4 '. Se realizzati da sillaba breve, essi hanno 0
Vedi la citazione di Hermann E/em. 141 (non 91!) in Ess. 338, sia pure circondata da riserve. In Ess. 311 il commento a Cic. orat. 189 e 222, due passi famosi, è eccellente: cf. tuttavia, con rammarico, Ess. 309, cui tuttavia si può contrapporre Ess. 366, dove l'autore mostra di saper bene che anche la celebre tesi (un vero dogma ...) dell"intensità iniziale' è ora «sinon totalement abandonée, en tout cas très contestée» (vedi qui oltre 405 n. 54). Le citazioni di passi contrapponibili potrebbero aumentare. 44 Si ha talora l'impressione di leggere il latino di J. Draheim Iamb. 240: «coniecturam facimus: dipodiam Graecorum esse quodammodo a Terentio observatas, nimirum syllabam longam guae accentum ferat, quoad fieri possit, esse evitatam in priori thesi dipodiae trochaicae sive in altera dipodiae iambicae» (non sarà poi molto diverso Hingst citato più sopra): vedi Meyer Beob. 44 n. 1. 4 ' Con altre parole fa in sostanza affermazioni dello stesso ordine Bettini Lavo,. 25-26, di cui si riterranno anche osservazioni su istruttive simili valenze della norma
Versi giambici e trocaici
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funzione autoritativa: 'autorizzano', cioè consentono senza peraltro imporla, fine assoluta di parola dopo gli elementi 4 e 8. Il poeta detta perciò un ineccepibile inizio di verso tanto con Haut. 34 alias n6uas... Cur. 13 dictum scfis, quanto con Mii. 592 rede(o)in sl4 ' nitum; e può avviarsi a concludere il verso tanto7 bene con Rud. 57 7 8 8 9 ...clancìiliimconduciturquanto con Rud. 19 ... iudlcitam iudicat. Ma i medesimi elementi 3 / 7, cioè i brevia obbligatori della struttura dipodica iuxta Graecorum/eges, ove siano realizzati da - / u.J assumono funzione esclusiva: 'escludono', cioè proibiscono, fatte salve l le 4 dovute eccezioni, un inizio di verso quale Bacch.245 quin tu l 4 primiim... Rud. 11 qui /at(a) homlniim..., oppure una conclusione 7 8 7 8 quale Rud. 7278 ...inuenlet ueniam sibi, Rud. 93 ...detlnìi'fdiutius, Rud. 872 ...in neruom conrepere.Ma ogni norma metrica esclusiva ha due facce come una moneta: se A è proibito, al suo posto necessariamente si vuole B. E infatti in questo caso la norma, e s c 1u d e n d o di per sé segmenti quali Bacch.245 e Rud. 27, v u o 1e inizi dil verso 4 come Mii. 580 m(i) habent ueni/em e Men. 262 nusquam perhlbetur l 4 (oersino Men. 334 tua uerb(a) exp.,eri'or), clausole come Rud. 81 de .., 8 7 8 lenone uirginem o Cas. 489 tam uorsiiti uiuitis. Vale a dire la norma esige un ponte tra l'elemento 4 / 8 preceduto da 3 / 7 realizzato con - I u..J, e l'elemento 5 / 9 successivo. È precisamente quanto illustrato dallo schema offerto sopra 384, sì che potremmo anche per il latino parlare di 'ponte di Meyer'. Si tratta ora di indicare le ragioni del ponte. Nel trimetro raffinato dei giambografi e dei tragici greci una sillaba lunga finale davanti alla clausola ',t,! u - suona 'più lunga', 'troppo pesante' q u a n t i t a ti va mente (ci sono, accanto a quelle di Snell, forti considerazioni di lrigoin dello stesso ordine, già richiamate sopra 298-299). Diversa, come sappiamo, la sensibilità, meglio l"orecchio', dei comici greci, i quali, or qui or là, si permettono 'anapesto' secondo e quarto: mai però 'spondeo'! Nell'ambito del latino - lingua quantitativa ad accento musicale come il greco - constatiamo la medesima sensi-
di BentleyLuchs; sul vicendevole rapporto di questa con la norma di Meyer vedi oltre 403 sgg.
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bilità, ma orientata diversamente e pertanto con azioni e conseguenze differenti (almeno in questo sono d'accordo con Perret). Spariti dal paradigma quei 'points de repère' fissi che nel verso greco sono gli elementi 3 / 7, ne sono necessari altri - o almeno di altro tipo (è il nocciolo delle considerazioni di Meyer, talora citato da chi non l'ha mai letto). La funzione autoritativa di 3 / 7 realizzati da singola breve si comprende senza difficoltà. Nei casi, davvero rari, di assenza della semiquinaria 46 , fine di parola al quarto elemento (tipo alias nouas) assicura comunque il connotato giambico (vorrei dire la 'giambicità' ...) del segmento. Questo invece è compromesso dai tipi Bacch.245 quin tu priiniim e Rud. 11 qui /at(a) hom(niim. Per greci e latini, infatti, il connotato giambico è assicurato da una penultima obbligatoriamente breve (fatta eccezione, nota a tutti, per i versi catalettici, in cui allora è l'ultimo 'piede' integro a subire precisi vincoli): è nello stesso ordine di idee Luigi E. Rossi quando parla, in questi casi, di possibile 'equivoco anapestico' (RecQue. 63). Si comprende a questo punto la funzione esclusiva (e iussiva) di 3 - / UJ. Circa il settimo elemento si riproducono le medesime circostanze. 7 8 Il segmento x u - dopo la semiquinaria (Poe. 648 in plagas lepide 7 8 lupum, Cur. 87 m(e) ad /ores, fi m(i) obsequens) custodisce bene il connotato giambico, da tutelarsi ancor più severamente mentre il verso si avvia alla conclusione. Tale connotato, invece, rischia7 in tipi ,l 8 8 come Cur. 44 qu(i) hic haoltat :: recte tenes e Cas. 444 proto/lo mortem mihi: pertanto 7 - / UJ attiva immediatamente la propria funzione esclusiva. A queste considerazioni si devono aggiungere quelle di Perret, sia pure con forte riserva, e quanto diremo alla fine di questo capitolo esaminando la dialettica fra norma di Meyer e norma di Bentley-Luchs. Non solo una lunga in fine di parola può essere anche in latino percepita come 'più lunga' 47 , ma certo la sequenza "6!-,
46
Sulla rara possibilità di constatare l'agire della norma di Meyer nd primo emistichio del senario proprio per il larghissimo prevalere della semiquinaria vedi già Hingst Spon. 5-6 che vi rinunciò ex professo. 47 La tendenza all"escamotage' delle sillabe finaliin latino (considerato dal Perret Équiv. 592) non può valere per Plauto; diverso semmai il caso di Terenzio, dove infatti la norma di Meyer assume altra /acies e il senario altro 'suono'.
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quattro tempi, in fine di segmento testuale 48 poteva risultare 'lunga' e 'pesante' ultra modum. Va da sé che in lingue come il greco e il latino l'accento di parola non ha niente a che fare con tutto questo: la presenza di sillaba tonica - di tono musicale, come assodato - è in iuesto caso solo effetto del trisillabismo (cf. oltre 41O sg.). Perret Equiv. 592 parla di una «langue [il latino] où cette impression d'une longueur particulière est donnée par les longues (ou les groupes de deux brèves) pénultièmes», senza aggiungere altro, ma in Décl. 167 n. 1 dice anche troppo chiaro, nella sua terminologia, che negli elementi 3 / 7 è evitata «la tranche tonique d'un polysillabe» (talora si ha l'impressione, inquietante, che Weil-Benloew, Maas, Theiler abbiano scritto invano: sopra 10-14). Si potrà meglio dire a questo punto, 'capovolgendo' il dettato della norma e regredendo dagli elementi 4 / 8 agli elementi 3 / 7, che questi due elementi devono essere brevi (o, se vogliamo, devono 'tornare ad esserlo', alla greca) quando la fine di parola dopo 4 / 8 renderebbe la sequenza """- difficilmente tollerabile per difetto di perspicuitas ritmica, causata dall'accumulo di quattro tempi 'rinserrati' in se stessi. Il fenomeno, ripetiamo, è rigidamente legato a fatti quantitativi e solo quantitativi. Ma 3 / 7, se lunghi o bisillabici, hanno funzione esclusiva e pertanto in positivo vogliono il ponte a collegare 4 con 5, 8 con 9. La ragione del ponte è7 abbastanza semplice. Innanzi, / tutto il tipo Mil. 8 8 580 m(e) habent uenalem, Men. 262 nusquam pemtbetur evita l"accrescimento' quantitativo, con l'oscuramento del ritmo, che abbiamo visto prodursi in caso di fine di parola dopo 4 con 3 - / 1..,U, ma più ancora il ponte estende il primo segmento del verso sino all'incisione semiquinaria, che - fortemente motivata com'è nel sistema d'attese del fruitore - equilibra il verso stesso. Ciò spiega inoltre, crediamo, la presenza di monosillabi realizzanti il quinto elemento nel caso di violazione della norma: talora avremo enclisi (se accettabile) e pertanto 'parola metrica' con eccezione apparente (propter me, erga me); talora invece un minimo 'rilassamento' della norma stessa (che non è 48
Va da sé che l'eventuale coppia di brevi non sarà mai finale di polisillabo in ossequio alla norma di Hermann-Lachmann: vedi anche Bettini Lavor.26-27 e qui 412 n. 57. Se poi il quarto demento è realizzato da bisillabo giambico la norma di Meyer non ha luogo a procedere.
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quella di Bentley-Luchs o Hermann-Lachmann: mai dimenticare la nel caso di Bacch. 224 ueniat sai!i!ezza di Meyer Beob. 14), come C1f' ◄ l 4 quandouolt o Tri. 397 miser ex animofit. Ma il 'rilassamento' è sanato, ci pare, dall'incisione attesa che lega il monosillabo a quanto precede, più d'ogni ipotizzabile enclisi o fatto affine. In ogni caso abbiamo qui un soccorso alla ritmicità del primo segmento del verso, indebolita invece - non può negarsi - in versi come Bacch.245 o Cap. 118 che prolungano l'attesa del fruitore fino alla semisettenaria. Il ponte fra 8 / 9 ha innanzi tutto la stessa funzione del precedente, evitare cioè un indebito 'accrescimento' quantitativo, ma inoltre quella di 'predisporre' il verso (come vedremo più oltre) alla clau1 8 sola più comoda e 'liberatoria': in Rud. 75 desolueruntin scaphamco1 8 sì come in Rud. 2 ciultate caelitum il varco è aperto a parola o 'gruppo metrico' eretico. Nei casi invece in cui settimo elemento breve 7 8 autorizza di per sé fine di parola dopo l'ottavo (Rud. 101 intellego 7 8 totam mihi, Rud. 133 sacru/tciitsemperpetunt) scattano, come si vede, i vincoli della norma di Bentley-Luchs, eludibili con quadrisillabi (Rud. 131 compliisculos,Rud. 93 diiitius) o pentasilabi dello stesso valore (Rud. 52 mulzerculae).Si deve aggiungere che nel caso di infrazione alla norma in questo segmento del verso la clausola penta- quadrisillabica sembra così preferita da costituire quasi un obbligo (sopra ecc. a). Nei primi 184 senari della Rudens ho contato, escludendo il problematico v. 113, sette infrazioni alla norma; di esse, cinque comportano clausola quadrisillabica, una pentasillabica e un solo verso 7 8 (Rud. 27) suona quam qui scelestusinuenìet ueniam sibi, nelle cui due ultime parole nessuno, oggi, vorrà vedere unum verbum (e cf. Cur. 44 già citato sopra 386 n. 30). Quando invece la norma è rispettata (23 casi, scartando il dubbio Rud. 49) abbiamo dodici volte clausola quadri- pentasillabica, nove volte bisillabo (trisillabo)+ bisillabo e due volte (Rud. 18 apud iudicem, Rud. 34 propter mare) 'parola metrica' abbastanza affidabile. Sembra dunque doversi concludere che l'infrazione alla norma, nella delicatissima conclusione del verso 4 '\ voglia essere, per così dire, compensata e garantita dall'immediato interveni49
Sul rapporto fra norma di Meyer e 'libertà di Jacobsohn' vedi sopra 287: indicativi versi come Rud. 7. 70, 183. Sulla norma di Spengd-Meyer in eretici e bacchei vedi oltre 442-444.
Versi giambici e trocaici
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re della 'parola pesante' ' 0 • Così Plauto (Terenzio è un'altra volta differente: sopra 295, 296) e così, lo notava Hingst Spon. 102, già Livio Andronico trag. 40 R3 7 8 puerarum manibus con/ectiim pulce"ume.
Può essere interessante vedere se e quale nesso esista tra la norma di Bentley-Luchs e la norma di Meyer dal momento che, in apparenza, le due norme sembrano opposte: la prima v u o 1e nel quartultimo e terzultimo elemento del verso proprio ciò che - alla stessa condizione: fine di parola nel secondo dei due elementi implicati - la seconda p r o i b i s c e in precedenti elementi del verso. Per chiarezza ci limiteremo a confrontare le due norme solo in senari e settenari, di cui ripetiamo lo schema generale ' 1 specificando le possibilità degli elementi 7 / 10, 8 / 11, 9 / 12, 10 / 13 7
8
UJ
x-x-x_u_u_Ur.) IO li
-X-X-X-X-----Ur.)
9
IO
UJ
ia6 12
v v
B
tr 7
Appare chiaro il valore critico che assume la posizione dell'elemento 9 I 12 in rapporto a quello immediatamente precedente e seguente: a) se c'è fine di parola nell'elemento 9 / 12 a) gli elementi 7 / 10 e 8 / 11 sono liberi dalla norma di Meyer ~) gli elementi 9 I 12 e 10 / 13 sono liberi dalla norma di Bentley-Luchs 0 ~
Ho discusso proficuamente versi di Rudens e di Curculio con l'amico Settimio Lanciotti. H Escludiamo l'eventualità che gli elementi siano formati da monosillabo lungo o bisillabo pirrichio e va da sé che le norme menzionate si intendono comprensive delle loro eccezioni (per comodità tipografica darò agli elementi, negli schemi, il numero che essi hanno nel senario).
Metrica
404
l'elemento 9 / 12 può essere breve o lungo, ma è sempre monosillabico per la norma di Hermann-Lachmann
y)
7 u..,
u-
b)
8
-
9
:
10
u:\..V -:UI':)
I
se c'è fine di parola nell'elemento 10 / 13 a) gli elementi 7 / 10 e 8 / 11 sono liberi dalla norma di Meyer, di cui non ricorrono le condizioni 52 ~) gli elementi 9 / 10 e 12 / 13 sono vincolati dalla norma di Bentley-Luchs y) l'elemento 9 / 12 è penanto lungo o bisillabico 7 u..,
R
9
10 :
u -~ -iul':)
e) se c'è fine di parola negli elementi 8 / 11 e 10 / 13 a) gli elementi 7 / 10 e 8 / 11 sono vincolati dalla norma di Meyer ~) gli elementi 9 / 12 e 10 / 13 sono vincolati dalla norma di Bentley-Luchs y) l'elemento 9 / 12 è penanto lungo o bisillabico
d) se l'elemento 9 / 12 e gli elementi successivi sono realizzati tutti da una sola parola grammaticale o 'metrica' o anche da 'gruppo quadrisillabico' o equipollente 53 a) gli elementi 7 / 10 e 8 / 11 possono essere liberi dalla norma di Meyer 52
Infatti fine assoluta di parola dopo l'ottavo elemento è ipotizzata nel gruppo d; se dopo il nono, nel gruppo a. 53 Vedi già sopra 378 n. 22 con esempi.
Versigiambicie trocaici
405
f3)gli
elementi 9 / 12 e 10 / 13 p o s s o n o essere liberi dalla norma di Bentley-Luchs y) l'elemento 9 / 12 p u ò pertanto essere breve 7
8
U,J
9
10
:~
U-'u
- UI':')
A quanto sopra schematizzato si riferiscono gli esempi che seguono a) Cur. 68 (ia6) 7 8 9: petit(um) argent(um) a meo soda/i': mutuum Ps. 852 (ia6 ) 7 8 9 : nisi miluinis aut aqurli'ni'si ungu/is Phor. 283 (ia6) 7 8 9 ; uentumst, non potuit cogftiita i pro/oqui Cur. 576 (tr 7 ) 1.2,;1 12 : i(am) ego te /aci(am) ut hic /ormicae /rusttttiiti'm i di/ferant Hec. 763 (tr 7 ) , 1011 12 nunc qu(am) ego t(e) esse praeter nostr(am) opintonem i comperi Hec. 810 (tr 7 ) 10 Il 12: quid rei' (e)st? :: tua quod ni/ re/eri: percontiiri'i desinas.
Al posto della parola di quantità eretica si trova più d'una volta parola di quantità peonica ' 4 , del tutto identica quanto alla funzione metrica, come in 4
Naturalmente, come il tipo reperiasè equivalente al tipo comperi,così a questo tipo equivale in scaphamRud. 75, baud malus Rud. 35 e via dicendo. La presenza di parole di quantità peonica in fine di verso ha dato origine ad un equivoco vecchio di secoli circa l'accento delle parole latine. BentleySched. XVII aveva scritto: «iam vero id Latinis Comicis, qui Fabulas suas populo piacere cuperent, magnopere cavendum erat ne contra Lingua e geni u m [spaziato mio] Ictus seu A c c e n t u s in quoque versu s y 11a b a s verborum u I t i m a s occuparent [c.s.]». Ciò premesso, Bentley,commentando Haul. II 3, 30 (271: ia6) corresse itinere della tradizione in itere perché scandendo il verso risultava questo 'accento metrico': '
Metrica
406
Cis. 560 (ia 6 ) ì 8 9 : ubi tu /ocer(e) in /ucu/entam i /amlliam
Ps. 979/80 (tr 7 )
w ,P 12 : eg(o) enim uer(o) is s(um) :: ut uestitu's, es peryiissor, partetum
e(a) obiit mort(em) ex ips(a) in itfner(e) hoc alterae. Ma osservò Bentley ... «quadrisyllaba ista brevia plerumque apud antiquos primam acuunt: mulieres propemodum périerim inopiam itinere». Citati a conferma Tri. 882 e 794, Cas. 66 egli concluse: «hoc apud cornicos paene perpetuum est: et certe operae pretium est id saeculo buie [cioè a noi moderni] indicasse, ut quomodo Romani pronunciaverint, sciamus». Pronto, un secolo dopo, il consenso di Hermann Elem. 63-64. Non bastano, a conoscere l'accento dei Latini, le incerte testimonianze degli antichi stessi, «sed videndum etiam, quid ipsi [noi moderni] ex poetarum usu eruere possimus, cuiusmodi non pauca Bentleius, qua erat sagacitate, deprehendit». Il riferimento al passo del commento a Terenzio sopra ricordato è ben chiaro e difatti Hermann così prosegue: «ita quum traditum sit ab antiquis, accentum non ultra tertiam a fine syllabam reiici, tamen in vocabulis tres breves syllabas ante ultimam habentibus constanti propemodum usu poetae quartam a fine acuunt, miseria,/timiliam, tétigeris, rédiero dicentes». Questa affermazione, sommandosi anni dopo alla convinzione della presenza nel latino preletterario di un 'accento (di intensità) iniziale' adatto a spiegarne le peculiarità del vocalismo ('Anfangsbetonung' nella terminologia tedesca), portò ad affermare che il latino di Plauto e di Terenzio aveva ancora conservato traccia di tale accento almeno nel tipo di quadrisillabi segnalati da Bentley e Hermann e che pertanto, come proprio aveva affermato Bentley, ftimtlia e così via era la pronuncia dei Romani almeno fino al II sec. a.C. inoltrato. L'equivoco di Bentley ha un'origine chiarissima: stando che molti versi sono conclusi dalla 'liberatoria' parola eretica o dattilica (diceren/ I dicere) dove lo sgradito conflitto di 'accento metrico' con accento di parola non appariva, era aperta la porta a credere che gli e q u i v a I e n t i n e l m e t r o /amìtia rediero ecc. avessero del pari un accento sulla prima della coppia di brevi rimpiazzanti la lunga. Tutto questo, come è ben evidente oggi, nasce dalla confusione concettuale e terminologica fra 'accento metrico' e accento di parola e per fortuna è ormai fuori di ogni seria problematica scientifica. L''accento metrico' è stato spazzato via e la stessa convinzione dell'esistenza, in epoca preletteraria, di un 'accento (di intensità) iniziale' è battuta in breccia dagli studiosi più aggiornati (vedi con molti meriti Bettini Sol. 80 n. 80, Oniga Apof 217-228 passim, cui si aggiunga Monteil Élém. 91 e cf. sopra 398 n. 43 ). Di un accento /timilia negli scenici restano ancora convinti solo studiosi marginali: per es. Meiser Form. 51-52 e Pfister Form. 74 (e 79), il quale sembra parafrasare Hermann citato sopra. Meritamente antesignano, invece, lo scetticismo di Jachmann Bem. 541-542. E in ogni caso, se l'accento 'protosillabico' (questa la terminologia italiana) ci fu, nessuna eco ne resta in certe parole del latino del III-II sec. a.C.: ancora Oniga ibid. L'origine dell'equivoco patet ut in votiva tabella.
Versigiambicie trocaici
Ad. 31 (ia 6 )
7 8
9
407
:
irata qu(am) i/la quae parentes ! propltii Eun. 812 (tr 7 ) IO Il 12 : u/tro :: credis? :: immo certe : nou(i) [ngenliim ! mìillerum Phor. 1012 (tr 7 ) 78 9 : haecine erant itiones crebr(ae) et manslones i diìitinae
e si può aggiungere che, come le parole di quantità eretica, così quelle di quantità peonica concludono comodamente anche versi fuori della dialettica delle due norme, come Phor. 300 (ia6 ) a/icund(e) :: a/icunde? nil est dictu i/acllius Cur. 587 (tr 7 ) uel quingentos curcu/iones pr(o) uno /axo i reperias Haut. 395 (tr 7 ) ut numqu(am) ull(a) amori uostr(o) inczdere possit I ca/amitas
b) Cas. llO (ia 6 ) 7 8 9 10: rur(i) incubab(o) usqu(e) in prae/ectiira i mea Poe. 416 (ia 6 ) 7 8 9 10: dedi dudum, prius quam m(e) euocau[st[! /oras Hec. 94 (ia6 ) 7 8 910: n(am) il/(i) haud licebat nisi praé/inito ! loqui Hec. 122 (ia6 ) 7 8 9 10 : pudorin ann(e) amor(i) obsequeretiir i magis Phor. 902 (ia6 ) 7 8 9 10 : ne non id /acerem quod recepissem ! semel Rud. 1008 (tr 7 ) 10 Il 12 IJ: i(am) ego t( e) hic, itidem quasi peniculus nouos exsiiger[ ! solet
408
Metrica
Hec. 870 (tr 7 ) Myrrin(a), ita Phidippo dixit iur1i;Jr:JnJ3 i meo (e vedi anche Cas. 432 Poe. 1186 Hec. 59 Phor. 89 Cas. 465 Mere. 246 Men. 733) e)
Cas. 482 (ia6 ) 7 8 : 9 10 : ut hic sii secum, s(e) adiiiuet i seciim ! cuhet Poe. 648 (ia6 ) 7 8 : 9 , ,JO : canes compellunt in plagiis! lepì'ae! lupum Phor. 953 (ia6) 7 8: 9 10: nisi me dixisse nemfni i certo ! scio Per. 567 (tr 7 ) 1011 : 12 c(um) optumis uiris r(em) hahehis, gratì'iim! ciipì'ent! tuam I)
:
Rud. 637 (tr 7 ) IO li : 12 et tih(i) euentur(am) hoc anno I uherem ! messem ! mali I)
:
Phor. 859 (tr 7 ) )O 11 : 12 Il: ut mod(o) argentum tihi dedimus apud Joriim ! rectii! domum
ma, come già veduto, la norma di Meyer presenta eccezioni problematiche, quali Poe. 286 (tr 7 ) 10 11 : 12 Il : non enim polis est quaestusfieri, ni siimptiis ! sequì'tiir,! scio (d. il quasi identico Poe. 287 e Cas. 447 Men. 294 Mere. 10 citati e commentati sopra 390-391)
d) Ps. 883 (ia 6 ) 78: 910 ut quisque quidque conditiim ! giistiiuerit Rud. 89 (ia6 ) 78: 910 et uos a uostris abdiixi ! negotiis Rud. 541 (ia6 ) 7 8 : 9 IO i//(i) esse quaestum maxiimiim , meretri'cihus
Versi giambici e trocaici
409
Phor. 619 (ia6 ) , IO 9 7 8 uisumst m(i) ut eius temptiirem i sententiam Phor. 632 (ia6 ) 78 : 9 ,}O postqu(am) homin(em) bis uerbis sentfo i moltirier Hec. 492 (ia6 ) 7 8 : 9 10 quandoquid(em) ill(am) a me distrahft : necessitas Haut. 481 (ia6 ) 78 : 9 ,)O quantam Jenestr(am) ad nequillem ' pateJeceris Cap. 482 (tr 7) }O Il : 1j, Il dic(o) unum ridiculum dictum de aictis , metforibus 1011 : 12 Il Cap. 1033 (tr7) huiusmodi paucas poetae reperfunt ' comoedias
7
Cap. 1024 (tr ) \9 Il : 12 Il quasi per nebul(am) Hegionem meum patrem , uociirier Eun. 755 (tr 7 ) IOII : 12 Il mi/item sec(um) ad te quantas cop'fiisi iidducere Haut. 320 (tr 7 ) IO , ,!I : 12 I} enimuero reticere nequeo multfmoais i iniuriis Phor. 343 (tr 7 ) IO Il : 12 Il quid istuc uerbist ? :: ubi tu dubitas quid sumiis i potissimum Phor. 1017 (tr 7 ) 1911 : 1111 uinolentus Jer(e) abhinc annos quindecim i mìitferculam Phor. 1027 (tr 7) sic dab(o): age nunc Phormionem qui u6lit
i fic'lssito.
Abbiamo definito comoda, anzi 'liberatoria', la clausola realizzata da parola eretica o equipollente (sopra 402, 405 n. 54): in effetti essa fa sì che il verso giambico, o trocaico a clausola giambica, sfugga ai vincoli delle norme di Meyer e di Bentley-Luchs, restando inibito solo un nono elemento realizzato contro il tabù di Hermann-Lachmann. Per il resto i poeti sono liberi di concludere il verso vuoi con cogitata proloqui vuoi con sodalf mutuum. Raffaelli Rie. 61-79 ha notato, nel1'ottonario giambico terenziano e plautino, la relativa infrequenza del tipo esse postules (=cogitata proloqui), anzi il suo decrescere da Plau-
Metrica
410
to a Terenzio, ricavandone considerazioni istruttive già richiamate (sopra 243) circa la norma di Lange-Strzelecki. Un pur minimo sondaggio da me condotto nei primi 125 versi di Poenulus ed Eunuchus circa le due clausole possibili mostra il medesimo fenomeno 55 • Nel Poenulus ci sono 32 versi del tipo tacitae rideant I osori mulferum contro 7 del tipo /uere /iliae; nell' Eunuchus 34 del tipo pergét laedereI /undi calamitas contro 7 del tipo signa cetera I /acere studuerit. La differenza tra le due opzioni, offerte ai poeti in modo in apparenza adiaforo, è davvero assai sensibile. Si può aggiungere che, nell'ambito della parimenti comoda clausola quadri- pentasillabica 56, il Poenulus ci presenta 23 incidenze, di cui 16 del tipo ciirarierI sapfentius e soltanto 7 del tipo sace"umo. In Terenzio, come sappiamo, questo tipo di clausole va scemando come tale (sopra 295): ad ogni modo le dieci incidenze delI'Eunuchussi ripartiscono in 8 del tipo intercipit e due sole del tipo lacessere.Già Ritschl, possiamo ora dirlo con maggior chiarezza, pur essendogli sfuggito il vero meccanismo della 'nostra' norma di Bentley-Luchs, aveva ampiamente riscontrato - né poteva accadere diversamente a tanto studioso - la rarità di sequenze giambiche in fine di verso, comunque realizzate (sopra 380-381). Entro questi fatti, uno appare particolarmente significativo:la preferenza nettissima per il tipo pergét laedererispetto al tipo signa cetera.È questo un fenomeno polarmente opposto a quello che la norma di Porson esige nel verso tragico greco e se ai poeti greci spiace, sino a diventare divieto, una lunga che rischia di suonare 'troppo lunga', è chiaro che agliscenici latini questa lunga che poteva suonare 'troppo lunga' è almeno gradita: diventa anzi obbligatoria, pare, nei tragici e comunque approda alla !ex Diomedis. Dunque non una sillaba 'troppo lunga', ma piuttosto 'più lunga' e per questo ricercata e sentita opportuna alla fine del verso. E aggiungiamo che, realizzando la sillaba un anceps, questa
55
Escludo dai miei computi i versi in cui parola o gruppo eretico è in sinalefe con quanto precede (Poe. 45 imperi(o) histrico), quelli che coinvolgono sillabe di quantità imprecisabile (Poe. 116 tenetis I teneti(s); ho ammesso però il tipo Eun. 8 non bonas, Eun. 69 et dabis, Poe. 94 baud diu e, come naturale, il tipo a patre Poe. 65. Limitando il sondaggio alle sole parole grammaticali di quantità eretica il risultato non cambierebbe. 56 Considero solo parole grammaticali, non in sinalefe con parola che precede.
Versigiambicie trocaici
411
volta lungo, in fine di parola, essa è d i n e c e s s i t à preceduta da 8 9 lun~a ? da due brevi che realizzano il longum precedente (pergetlaedere I piriter pro/oqut);e che queste sillabe a loro volta sono di ne cessit à, solo per la legge del trisillabismo, portatrici di accento-tono musicale - dunque del tutto irrilevante quanto al metro - non diversamente dall'accento-tono musicale delle parole greche. Veniamo ora alla norma di Bentley-Luchs quale si manifesta nei gruppi b e c. Fine di polisillabo nel decimo elemento, un longum, fa sì che il nono, cui in questo caso è vietato essere breve, sia realizzato da lunga tonica o da coppia di brevi tonica sulla prima: l'accentotono musicale è di nuovo presente d i n e c e s s i t à e solo per la legge del trisillabismo. La clausola del senario, dunque, a partire dal nono elemento compreso in poi, mostra un sovrabbondare di elementi realizzati da sillaba lunga o da due brevi, vuoi per necessità metrica vuoi per elezione, diciamo, 'stilistica'. Gli elementi realizzati da lunga, quale ne sia la ragione, sono in fine di parola: perget laedere,prae/ecturiimea, seciim cubet. Saranno, questi elementi, stati sentiti come 'più lunghi' propio perché in fine di parola? Non sarei alieno dall'ammetterlo, d'accordo con lrigoin e (ma in parte) con Perret, una volta sbarazzato il campo da ogni funzione dell'accento di parola nella sillaba precedente (l'Ombra di Hermann rieda placata nei Campi Elisi...). Se dunque così è, possiamo tornare per un momento alle motivazioni della norma di Meyer. Fine assoluta di polisillabo nel quarto elemento preceduto da terzo lungo o bisillabico faceva suonare il tutto, e forse specialmente il quarto elemento stesso, 'troppo lungo' n e I c o r p o d e l v e r s o , di cui oscurava il ritmo rendendolo 'equivoco'; e lo stesso accadeva nell'ottavo elemento: si ricordi quanto più detto sopra 399 sgg. Ma la 'pesantezza' degli elementi lunghi in fine di parola, preceduti da elemento 'impuro', poteva - doveva... - assumere altro valore e suono nella clausola, cioè negli ultimi quattro elementi del verso (in questo caso del senario, nostro corpus vile). Stante la realizzazione obbligata dell'undecimo elemento - assolutamente un breve - era necessario evitare quanto più possibile il 'ritornello giambico' o, comunque, il senso di un'anticipata fine del verso. È un'osservazione spesso ripetuta circa la norma di BentleyLuchs (vedi per es. Luigi E. Rossi RecQue. 64), ma da integrarsi
Metrica
412
adesso nel quadro più complesso di quanto fin qui esposto. Infatti anche il nono elemento del tipo perget laederepreferito a signa cetera rientra in questo quadro (faccio tesoro del Raffaelli citato più sopra). Gli elementi 9 / 10, comunque realizzati nella catena sillabica n, devono concorrere tutti a mettere in rilievo - 'esaltare' direi - la giambicità degli elementi 11 / 12, rassicurante 'point de repère' conclusivo di una stringa ritmica in cui - se eccepiamo le ricercate, severe incisioni - sono ben troppe le libertà (ancora Bettini Lavor. 17-20, sanamente provocatorio). E chiaro poi che se per davvero fine di parola in elemento realizzato da lunga nelle forme viste rendeva questo 'più pesante', proprio questo 'eccesso' risultava funzionale all"esaltazione' del giambo finale. Come la norma di Porson obbedisce a idiosincrasie di certo giambo greco, così il 'nesso' conclusivo di norma di il Meyer e di Bentley-Luchs ' 8 obbedisce a idiosincrasie di tutto giambo latino (e dei trochei a clausola giambica, s'intende) perché i latini non distinguono, nel verso scenico, in ragione dei generi letterari: la norma di Lange-Strelecki è davvero 'secondaria' perché rende obbligatorio, e forse solo da un momento in poi, ciò che appare ben più che in nuce nei comici. Sempre nello stesso ordine di idee si spiega il favore per il tipo ciirarierI sapTentiusrispetto al tipo lacessere: quasi che persino un quadrisillabo a inizio giambico fosse una sorta di impedimento alla netta percezione del giambo conclusivo. Insomma: sarà da riconoscere una sorta di opposizione funzionale, in difesa della perspicuitasmetrica, tra gli elementi 9 / 10 e 11 / 12. Va da sé che questa affascinante rete di segni agisce in ambito modulato unicamente dai valori quantitativi. Parecchio tempo addietro (Intr. 205) mi accadde di notare che in un verso come Amph. 277 (tr 7 ) 10 11 12 lJ perge Nox ut occepisti:gere patri morem meo 7
Ma sempre nel rispetto dei tabù di Ritschl ed Hennann-Lachmann, che ancora una volta si confermano quali ferree 'costanti di primo grado' (vedi sopra 401 n. 48). 8 ' In RecQue. 63 Luigi E. Rossi sembra pensare che io abbia visto un'«opposizione inconciliabile fra le due leggi». No: in Intr. 202 io ho scritto «in apparenza ... sembrano opposte», consapevole, magari meno chiaramente di oggi, della 'dialettica' fra le due nonne. Quarant'anni trascorsi giovano al 'regard éloigné'. '
Versigiambicie trocaici
413
il poeta ha spezzato il consueto sintagma morem gerere perché una sequenza IO 11
12 I)
gere morem patri meo
avrebbe comportato nello stesso istante violazione delle norme di Meyer e di Bentley-Luchs, vincolanti invece con il loro unico, ma ineludibile, aspetto quantitativo ' 9 • Si possono aggiungere, a piacere, Cas. 60 (commentato con altri versi sopra 203, 373) Poe. 439 e ancora
Bacch.490
(tr 7 )
IQ).I
q).l
capitis non perdam? perire me mìitis mitim modis
dove un più regolare succedersi delle parole 1.Q,1J
JJ,11
vd-
me mattm matts mo ts
comporterebbe di nuovo violazione delle due norme.
I.:agnizione delle norme metriche, lo si sarà compreso scorrendo le molte pagine che vi abbiamo dedicato, è stata ottenuta per vie assai faticose. Ciò che è per noi pacifica quanto preziosa acquisizione - di cui non saremo mai abbastanza grati a coloro che ce la procurarono - può aver trovato anche curiose negazioni e strani equivoci, ma di sicuro oggi nessuno studioso degno di questo nome inciampa più nella trappola in cui a suo tempo inciampò Fr. Beckenbauer Ped. 21 pubblicando un tormentoso tr 7 di poeta tragico 'emendato' in modo che qui si ricorda 'ad perpetuam rei memoriam' (vedi invece già Theresius Wispah Pap.7):
.
.
l"
I.!) IJ
IJIJ
v-
neque te mer mrseret, surge et sepe r natum tuum pnus.
59
Vedi ancora Theiler RecDrex.800 n. 8, 802-803, L. E. Rossi Probi. 130 e n. 22 e non si mediterà mai abbastanza Safarewicz RecFraenk.195-198 RecDrex.299-312. L. Nougaret Obi. 460 sgg. ha considerato con finezza aspetti della morfologia e del lessico dei Comici cui questi sono più volte costretti dal penultimo elemento breve. Osserva poi che per sfuggire a certa monotonia espressiva Plauto e Terenzio sono ricorsi al noto artificio della 'disjonction'. Niente da eccepire, ma in Amph. 277 non c'è (Obi. 466) doppia 'disjonction', bensl il vincolo adamàntino del metro quantitativo.
IV VERSI CRETICI E BACCHIACI
I versi eretici e bacchiaci sono fra i più usati da Plauto nei cantica (di Terenzio diremo poi), siano questi monodici o dialogati, e sono regolati in modo severo. In particolare, tutte le costanti di 'primo grado' sono vigenti con rigore per quanto concerne la formazione degli elementi bisillabici ove se ne diano le circostanze; gli stessi elementi bisillabici sono rari, più rari nei eretici che nei bacchei; nei versi eretici e bacchiaci non ci sono di regola casi di CI, fatta eccezione per i bisillabi 'quasipirrichii', dei quali peraltro è frequente la misura secondo la quantità giambica originaria; parimenti si evitano sinizesi, caduta di -e, abbreviamenti 'per enclisi'; lo iato è assai raro, anche in incisione mediana. Caratteristiche di eretici e bacchei sono la chiarezza e la regolarità ritmica. 1) versi eretici
Plauto usa i seguenti tipi di eretici 1: 1
La differenza che esiste nei versi giambico-trocaici fra struttura per metra o dipodie, tipica del greco, viene meno del tutto nei versi eretici e bacchiaci, dove piede e metron coincidono: di piede si continuerà a parlare (ma talora anche di metron) per uniformità terminologica (è anche troppo evidente, in casi come questi, la funzionalità della terminologia maasiana). Sui eretici è ancora imprescindibile Hermann Elem. 205-222, cui si aggiungono Leo Cant. 8-23, Lindsay Comm. 89-93 Early 291-2%, Jachmann Pros. 39-72 Bem. 527-547 (del tutto inaccettabile Kroll lamb. 152-160); sui bacchei di nuovo Hermann Elem. 294-316, Leo Cant. ibid., Lindsay Comm. 80-89 Early 289-291, Jachmann ibid. Cledissertazioni di A. Spengel, De ver-
416
Metrica
1) monometro eretico (cr 1): -
u . ( u r.'I di po di a o dimetro crettco cr..2): - u- - - (~) ternario eretico (cr3): - u - - tJ- - tJ r.'I quaternario eretico (cr4 ): - u - - u - - u - - u cola eretici (ere): - u - x r.'I , - - - u r.'I
2) 3) 4) 5) 6) sistemi eretici (cr5Y)
r.'I
1) il monometro eretico (cr 1), di uso assai raro, forma la prima parte di un verso composito, nell'ambito del quale è distinto quasi sempre da fine di parola:
Cas. 158 (cr 1 tr2) flagiti persequentem Cur. 113 (cr 1 cr) eense(o) bine appelland(am) anum
Ps. 264 (cr 1 ith) Balll(o), bue cum lucro respì'd'as? (cf. Ps. 269 1269; diversamente Per.251 279). Singolare la presenza del cr 1 nella seconda scena dell'Epidicus. Nei w. 85-95 si ripete sei volte la struttura metrica formata da due cr 1 e un tr 7 , già identificata come tale dall'antichissimo editore dei cantica 2, di cui si cita qui la prima (Ep. 85 85a 86) nequ(e) ego nunc quo modo m(e) expedit(um) ex impedito Jaciam consilium placet suum creticorum usu plautino, Berolini [1861] e di O. Seyffert, Quaestionum metricarum particula: de bacchiacorum versuum usu plautino, Berolini [1864] hanno oggi solo valore storico di reazione a Ritschl; del pari per la massima parte superato Spengel Re/ 1-134 e 198-284 e totalmente inattendibile Crusius Resp. 1-143 passim). L'agnizione di eretici e bacchei quali metri della scena repubblicana si deve a Bentley nel comm. a Tusc. III 19, 44 (ove Cicerone cita Ennio se. 86 sgg. V2) e a Tusc. Ill 12, 26 (ove Cicerone cita Ennio se. 349 sgg. V2 ): vedi M. Tu/li Ciceronis Tusculanarum disputationum libri quinque, ex ree. loannis Davii. Accedunt emendationes... Rie. Bentleii, Cantabrigiae 1709. 2 Vedi Questa ad Ep. 85a.
Versiereticie bacchiaci
417
dove i singoli monometri sono sempre distinti da fine parola ed essi stessi formati quasi sempre da due o anche da una sola parola (89a fzlio, 91a alteram, 92a senserit). Nei vv. 96-98a abbiamo poi la successione di di due cr 1, due tr 4 " e ancora due cr 1, dove i monometri hanno le stesse caratteristiche dei precedenti; va notato altresì che i monometri dei vv. 91 e 98 hanno forma coriambica (-u.; -) e che non è escluso (vedi il v. 85 citato) un primo elemento bisillabico (la presenza di cr 1 con le medesime caratteristiche è da riconoscere anche nei vv. 9 29 52 57 65 della prima scena della commedia): su tutto vedi ora Questa Danz. 13-27. 2) la dipodia eretica (cr2) compare assai raramente da sola (circa una dozzina di casi), come in Ps. 1331-1333 te sequiir :: quin uociis spectiitiiress'fmiil ? :: hercle m(e) ist(i) hau solent
e talora serve da clausola Ps. 1107-1108
(tr 7 cr2)
luxantur, lustrantur, comedun/ quod habent, i nomen diu serultiitis/eriint.
Molto più di frequente il cr2 forma la prima parte di un verso unitario la cui seconda, quasi sempre distinta da fine di parola con valore di incisione mediana, è un ere oppure, più di rado, ith thy tr 4 " o infine tr2; tra i moltissimi esempi (circa 120 versi: Danese Dip. 638 n. 6) citiamo Mos. 108 (cr2 ere) iitqu(e) illiid siiepe/it Rud. 210 (cr2 cr) nec loci gniira siim
tempestas uenit nec prlìis hic /iii
Rud. 212 (cr2 sp 1) aut uì'(am) aut semltiim (cf. Rud. 216 237)
monstret, lta niinc
Metrica
418
Mos. 336 (cr2 ere) niim non ufs m(e) obuliim Mos. 340 (cr2 thy) siilu(e), imicfsslme
I
bis et'r(e)inlme mi?
m(1) omnl(um) hiimlniim
Mos. 696 (cr2 thy) uoluit in cìibkul(um) iibdiicerem(e) iniis (in Mos. 336 abbiamo iato fra i cola; in Mos. 340 il sesto demento del cr2 è realizzato da sillaba breve, caso non frequente considerato il rigore ritmico dei eretici; in Mos. 696 è attenuata l'incisione mediana, come in Mos. 701).
In una dozzina di questi versi il cr2 non ha il penultimo elemento conservato nella sua funzione di breve, attesa davanti a incisione mediana (riassumo qui la meritoria analisi di Danese Dip. 637-646), così che il tipo attestato in Bacch. 658 (cr2 ith) uerslpellem /riigi conuenit ess(e) hiimlnem
ritorna in Mos. 113 703 Ps. 1312 Rud. 203 209 677 (si può aggiungere Cap. 213), mentre in quattro casi l'elemento considerato è addirittura bisillabico: si veda Ep. 166a (cr2 ere) ubl pudendiim (e)st. lb(i) eos
deserit piidor
e con lui Mos. 704 705 Per. 268a. Ma in tutti questi casi il secondo elemento resta realizzato da sillaba breve, sì che Danese ha opportunamente riconosciuto in ciò un altro caso di 'metrica lineare', ove la realizzazione del secondo elemento condiziona quella del quinto 1: su questo ritorneremo. Sono allora da giudicare assolutamente eccezionali e giustificati solo da peculiarità stilistiche o dall'insieme metricoritmico 1
Danese Dip. 642 e 645 n. 32.
Versi eretici e bacchiaci
Ep. 166 (cr2 ere) pleriqu(e) homfnes quos ciim (vedi Danese Dip. 639-640)
419
nit re/ert pìidet
Mos. 140 (cr2 cr) detiirbiiu'it detexitqu(e) ii m(e) ilko
dove i cr2 non hanno alcun elemento realizzato da singola sillaba breve e invece in un caso lo hanno persino realizzato da due brevi. Ancora differente il caso di Ps. 1300-1301 (cr2 crC, cr2 thy) :: quid, lìibet? perg'in riictiir(e) tnos mmi? :: suaul's riictiis mmi (e)st. sic sì'ne, Sfmo
dove la mancanza di incisione mediana nel v. 1300 (assai rara: vedi Danese Dip. 645 n. 32) può ben giustificare il quinto elemento lungo, non diversamente dal problematico Mos. 140 (ma non saprei quanto sia rilevante allo stesso fine la sinalefe tra i cola in Mos. 133 703 Ps. 1312 Rud. 677): in ogni caso Ps. 1300 ha breve il secondo elemento 4 • 3) il trimetro eretico (cr3) è testimoniato poco più di dodici volte, cui si aggiungono quattro versi di struttura particolare (vedi subito oltre). In questi versi gli elementi secondo, quinto e ottavo sono quasi sempre realizzati da sillaba breve, come in Rud.2 201 5 8 uecta mec(um) 'in scaphiist, exdd'it (cf. Bacch. 623 Cap. 234 Cas. 150 Poe. 254 254a Ps. 1277a Rud. 200 eiu(s))
ma formano legittima eccezione i tre versi in cui il secondo elemento è realizzato da sillaba lunga Il primo colon di Mos. 324 potrebbe avere il quinto elemento breve, ma il secondo bisillabico: la prosodia però non è sicura (vedi Questa ad I. e quanto diremo oltre circa i cr4 Per. 758 Truc. 598 624). 4
420
Metrica
Per.2 803 ludiis me /acitì's,intellego (cf. Ep. 327 329)
non diversamente dai longa realizzati da due brevi: il primo (Cap. 234 Cas. 150 Ps. 1277a), il quarto (Per. 803), il settimo (Rud. 200). Ma del tutto isolato è Bacch.624a, peraltro di scansione certa, in cui il quinto elemento è realizzato da due brevi 5
perdì'dim(e) iitqu(e) operiim Chrysali.
Ci sono infine quattro versi formati da cr3 in sinafìa verbale o metrica con tr2 Per. 805 8 quin elud(e), iit so/es, quiindii liber lociist hic Per. 806 8 hu1 babae! bìisilzcet(e) intiilist(i) et facete Ps. 1314 8 iit negiibiisdatiir(um) esse te mi: tìimen das Rud. 674 8 sed nunc ses(e) iit /eriint res /ortiinaeque nostrae
dove per due volte il penultimo elemento del cr3 è realizzato da sillaba lunga: ciò può essere stato ritenuto possibile perché in realtà il verso non 'finisce' con il nono elemento e pertanto è tollerabile l'ottavo realizzato due volte in modo altrimenti anomalo (su Ps. 1314 vedi già sopra 357 n. 14). 4) il quaternario eretico (cr4 ) è uno dei versi più usati nei cantica plautini. In esso gli elementi quinto e undecimo hanno lo statuto di brevia (la possibilità di quinto elemento lungo non trova appoggio in Amph. 231 Mos. 723; Cis. 691 può essere letto e scandito in modo diverso da come figura nell'edizione di Lindsay e nei miei Cantica)e il secondo elemento, se può essere realizzato da sillaba lunga (vedi subito oltre), appare di sicuro bisillabico solo in Truc.624 (già rilevato da Lindsay Early 292 che cita anche i monometri ricordati più
Versiereticie bacchiaci
421
sopra): in Per. 758 non si può escludere it(e) e il testo di Truc.599 è congetturale (vedi anche qui 419 n. 4). Il verso ha molto spesso una caratteristica incisione mediana, l' elemento davanti alla quale può trovarsi, ma di rado, in iato o essere realizzato da sillaba breve: Bacch.647 regìascopìasi aureasqu(e)optuli As. 134 nam mar(e) baud est mare i uos mar(e) acerriimiim
Ps. 1277 occépidenuo Ii hoc modo:nolui Rud. 199 is nau(em) atqu(e) omnia i perdidit in mari
senza che siano escluse incisioni al quinto o al settimo elemento Amph. 228 . consona/terra, i c/amor(em)utrimqu(e) ecferiint
Ps. 1303 Massicimontis iibe"ìimos quallìior 1
Rud. 250 litus hoc persequamiiri :: sequor quo lubet
oppure sinalefe in incisione mediana Ps. 1306 und(e) oniistam celòc(em)agere te praedicem?
Il secondo e l'ottavo elemento possono essere realizzati da sillaba lunga, seppure non di frequente Rud. 6]0 ort(a) in nos est mod(o) hic intus ab nostr(o) ero (vedi anche Mos. 137 Rud. 673 674)
422
Metrica
Mos. 734 8 non taces? prospere uobis ciinct(a) iisqu(e) adhiic (vedi anche Rud. 276 Ps. 1278) Ps. 1298 2 8 qu(ae) istaec audacìast te sic interdfiis (vedi anche Mos. 720 729/30 Rud. 233 681 ).
Quanto ai longa, possono essere bisillabici sia il primo, sia il decimo elemento, come in Cur. 149 1 gerft(e) amanti mrhi mor(em) amoenissumi Rud. 680 o sa/iitis meae spes :: tac(e) iic bon(i) anfmo (e)s
ma più raramente si incontrano due elementi bisillabici Mos. 110 do,;,rnus indilrgens redder(e) alras neuolt
e certo a ricercato effetto stilistico si deve Rud. 277 I W mrseri'iiriimque t(e) iimbiir(um) uti mrsereiit.
Nell'insieme il poeta sembra preferire i versi in cui non solo ogni piede è 'puro', ma risulta per di più formato da singolo trisillabo o gruppo trisillabico: Bacch. 648 iit domo siimeret neu Joris quaereret Cas. 883 conli5co,fii/do, mollìo, blandtor.
5) i cola eretici (ere) usati da Plauto s1 distinguono m due tipi grazie allo statuto del secondo elemento:
Versiereticie bacchiaci
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a) se il secondo elemento è un breve, il quarto è un anceps: il secondo elemento riveste pertanto funzione autoritativa (- u - x r.'1)
a 1 2 3 4 5 6 7
-u-uv..,U-U-Uv..,U-u---Uv..,-v..,Uv..,--U-v..,-
Mos. 136 Mos. 705 Mos. 112 Bacch. 633 Per. 251 Rud. 273 Tri. 246
iliÌ-.,_
cr4 ba 4
Come si vede dallo schema, la possibilità di avere bisillabici secondo e ottavo elemento di cr4 è, lo sappiamo, sostanzialmente da escludere e ad illustrare la norma, valida in principio anche nei versi eretici e bacchiaci di minore estensione, valgano gli esempi che seguono: Amp1. ?,25 (cr 4 ) Rq conuenit, uict(i) utri sint eo proelio (cr 4 ) Cap. 2?3, 8 9 sed maliim maxumum, s(i) id palam prouenit (vedi anche Rud. 207 e 208) 4 ) Amph. 557 (l>, 1011 scelestam, sceliis, linguam abscidam :: tuiis sum
Mos. 871 (ba4 ) 34 ,1011 malum quom impluit ceteris, ne imptuat mi (d. anche Amph. 567 e 568).
Si veda invece la libertà di cui godono gli elementi 3 / 9 di cr4 e 5 / 11 di ba4 quando gli elementi considerati dalla norma non sono in fine di parola oppure questa si trova in sinalefe con la parola successiva:
Versiereticie bacchiaci
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Ampf,. 3220 (cr4 ) 8 9 dispertiti uiri, dispertit(i) ordines Ampf,. 216 (cr4) 8 9 hostes crebri eadunt, nostri contr(a) ingruunt (vedi anche Rud. 267 e 272) Amph. 565 (ba4 ) li 1 /un me, uerber(o), audes erum ludffeeiiri? Mere. 567-568 (b, 4 ), iam I bine ol(im) inuitum dom(o) extrusit ab Sfo li mercat(um) ire iussit: ib(i) hoc mal(um) eg(o) inueni.
Poiché gli elementi 3 / 9 e 5 I 11 tendono di per sé ad essere realizzati da sillaba breve al di là dei vincoli imposti dalla norma, le eccezioni sono davvero pochissime: Amph'l 22} (cr4 ) nos nostriis more nostr(o) et mod(o) instruximus Mos. ~08,-109 (cr2 ere) atque/ll~d saepe fit :: tempestas uenit con/rtngit tegulas imbrieesqu(e) : ibi (vedi anche Ps. 1277) , Mos. 101 (ba4 ) 4 aedes qu(om) extemplo sunt parat(ae) expolitae
Mos. 121 4 (b~4 ) i /undamentiim substruunt liberorum.
Come già constatato da Meyer Beob. 95-100, l'obseroatiodello Spengd (Re/ 128 sgg., 213 sgg.) rientra nell'ambito della norma che Meyer stesso ha stabilito essere a fondamento dei versi giambici e trocaici nella metrica scenica: le motivazioni della norma stessa sono dunque identiche a quelle da noi individuate esaminando i versi giambici e trocaici (sopra 397 sgg.). Si può dd pari ricordare la considerazione di Meyer secondo cui il comportamento dei eretici avvicina questi versi ai trochei e quello dei bacchei ai giambi (abbiamo già veduto la facilità con cui questi versi possono rispettivamente mescolarsi fra loro). Ma va da sé che
444
Metrica
ogni parentela genetica è da escludere. Oltre a quanto sopra affermato circa la tendenza di cr4 e ba4 ad evitare ancipitia lunghi o bisillabici e all'implicito rispetto della norma che ne consegue, si ricorderà che l'incisione dopo il quinto elemento è frequente nel primo emistichio del verso. Quanto al secondo emistichio del ba4 la norma di Spengel-Meyer si combina con la norma generale per cui il monosillabo è evitato in fine di verso (con le solite eccezioni: vedi qui sopra Amph. 557 Mos. 101 871): se peraltro questo è presente, l'ultimo anceps del verso è obbligatoriamente breve; per lo stesso principio è breve il quarto elemento quando in un verso con incisione mediana il sesto elemento è realizzato da monosillabo (vedi, anche per altri dettagli, Lindsay Comm. 84, 89 Early 342-346, 350-351; O. Skutsch Scen. 360-365; obiezioni non cogenti alla norma sono state avanzate da T. Del Vecchio Nor.1 141-148 e Nor.2 125-137).
V
VERSIANAPESTICI
Plauto ha fatto largo uso di versi anapestici in ogni forma e struttura (Terenzio li ignora del tutto) che, in quanto appartenenti al ytvoç i.oov, non sono vincolati dalle norme di Ritschl e Hermann-Lachmann. Anche i versi anapestici, tuttavia, regolano con attenzione la sequenza di quattro brevi (vedi oltre) e, pur non potendosi parlare metodicamente di 'sedi con licenza', mostrano, ma non di frequente, talune libertà (o eccezioni) prosodiche all'inizio di verso o di emistichio degli 'anapesti lunghi' (an7 e an8 ): vedi Questa ad Bacch.1106 con cenni bibliografici e più in generale sopra 147-149. I versi anapestici non mostrano particolari vincoli nella presenza di monosillabi (vedi sopra 325), ma lasciano ampio gioco - più di ogni altro verso della scena repubblicana - all'agire della CI, sempre tuttavia con il rispetto delle regole fondamentali del fenomeno, ivi compreso il problematico (e caratteristicamente 'anapestico') passaggio di parola da quantità eretica (perdidi)a quantità dattilica (perdidn: vedi le considerazioni già esposte sopra 99 sgg. Aggiungiamo che, ove sia in teoria possibile scegliere, in tali parole, tra sinizesi e co"eptio iambica, è stata metodicamente preferita la seconda: pertanto aureiSti. 25 (e non auréì),praehibeo = praebeoPs. 182 (e non praebéò).È infine di grande importanza rammentare che qualunque verso anapestico deve avere a 1m e n o un elemento - longum o biceps che sia - realizzato da d u e brevi (le eccezioni sono quasi inesistenti 1: fanno tuttavia caso a sé un 1
Le eccezioni riguardano an4 in strutture sistematiche: vedi Boldrini Anap. 34, dalla cui lista oggi espungo Cas. 204/05; su versi come Cas. 171 o Tri. 279 vedi ancora Boldrini Anap. 37 n. 16, 38 n. 17.
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Metrica
piccolo gruppo di an4 " e gli anapesti del Mi/es, su cui vedi più oltre). A realizzare tale elemento, presente di rigore, non compaiono mai parole come mihi nihil eum eos (se. eos), che dunque dovevano essere percepite dal poeta e dal suo pubblico, quasi ovunque, come monosillabi lunghi e in ogni caso incapaci di assicurare senza equivoco la caratteristica ritmica richiesta: un argomento importante a favore di quanto affermato più sopra 175-183 (vedi di nuovo BoldriniAnap.33-41). Plauto usa questi tipi di anapesti 1) 2) 3) 4) 5) 6)
dipodia anapestica (an2 ): 83-83(:') quaternario anapestico acataletto (an4 ): ::;::;- ::;::;- ::;::;- ::;::;r.) quaternario anapestico catalettico (an4 "): ::;::;- :::;- ::;::;- r.) settenario anapestico (an7 ): 83-83-83-83-:- i::;::;-::;::;-::;::;-(:') ottonario anapestico (an8 ): 83-:::;::;-::;::;-::;::;-i::;::;-::;::;-::;::;-::;::;r.) sistemi anapestici (an5Y)
1) la dipodia anapestica (an2 ) è rarissima e più d'una volta il riconoscerla quale versetto a sé stante o colon di sistema dipende dai criteri degli editori (istruttiva la nota di Leo ad Sti. 330). Fra gli esempi meno insicuri possiamo citare Men. 366 ove an2 chiude una serie stichica di an4 e ia4, Per. 769a 772 773a 792a ove il versicolo è frammisto a quaternari anapestici, 'anapesti lunghi' e cola reiziani. Del tutto sicuri invece Sti. 7 7a 8 perché fondati sulla colometria di A e su quella, ricostruibile, dei Palatini (cioè B: vedi Questa ad /.), con colon reiziano conclusivo (v. 8a): nostr( um) offecium nos facer(e) aequomst nequ(e) id magi(s) /acimus quiim nos monet pìetas.
2) il quaternario anapestico acataletto (an4 ) è assai presente, vuoi in strutture stitiche vuoi (soprattutto) xa'tà CTUO'tflµa. Nel primo caso possiamo citare Tri. 255-258, 1115-1119, Rud. 955-962a 2 • Sicu2
Su Rud. 955-962a è da vedere Boldrini Anap. 109-112, che ne coglie la singolare oscillazione (anche di altri passi plautini) tra sistema e versi stichici, suggerendo il termine di 'parasistema' ('structura systemati similis' Questa ad/.).
447
Versianapestici
ro uso stichico di an4 si ha in piccoli gruppi di versi come Cas. 646-646a e 660-661, Ps. 913-913a, Cis. 688 688a 689; né mancano an4 isolati: Cur. 98. È ancora il quaternario anapestico a formare la prima parte di alcun versi costruiti sullo schema del vr (per es. Cur. 123 124): oltre 477-478. Molto frequenti sono i sistemi anapestici costituiti da an4 in genere conclusi da an4 ": si va da alcuni brevissimi di sei dipodie o metra (Bacch. 1158-1159a) sino a quello che pare il più ampio (Bacch. 1092-1098) di ventotto dipodie. Come esempio di sistema anapestico già riconosciuto come tale dagli antichissimi editori di Plauto, la cui colometria è giunta a noi ottimamente conservata tanto in A quanto in B (vedi Questa Num. 100 n. 12), si può citare Sti. 18-28 (sistema di 22 dipodie): haec rés uttae me, soror, saturiint, haec mi di'uì'dl(ae)ét senì'o siint. :: né liicrumii, soror, neu tu(o) rd anì'mo /iic quod tibì' [tuus] pater /acere mì'niitiir: spés est eum melì'iis /iictiiriim. nou(zJ eg(o) ì1liim: iocul(o) istaec dictt nequ(e) ì1le sibi mereiit Pérsiiriim monti's, qu(tJ éss(e) aurfi perhibéntùr ut ì'stiic/aaas quod lii metui's. /amen si /acta/, mì'nì'm(e) iriisci decet nequ(e) rd immerit(o) euemet.
18 20
25
Si noti l'interrompersi della sinafia al v. 25 e ai successivi vv. 40 e 42 3: Plauto è meno rigoroso dei Greci. Altrove, invece, essendo insufficiente o equivoca la testimonianza della tradizione manoscritta, sono gli editori moderni a riconoscere il sistema anapestico, concluso dal consueto an4 ", come in Bacch. 1084-1086 (vedi Questa ad l.)
' I singoli cola, ovvero unità metriche minime di un sistema (in questo caso an4 ), non possono ammettere, come a tutti noto, elemento conclusivo trattato come inclifferens (può quindi essere bisillabico, almeno in teoria) perché il sistema è paragonabile ad unico lunghissimo verso che ha pausa, e dunque elemento indifferente, solo alla fine, usualmente sancita anche da colon catalettico.
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Metrica
niinc Mnesilochiim,quod miindaui, uis(o) ecquid e(um) iid uirtiit(em) aut iid /riig(em) operiisua compulertì,sic ut eiim, si conuenit, scio/eciss(e): eost ingenio niitiis
1084 1084a 1085 1085a 1086
dove indizio forte della struttura sistematica è il prepositivo (ad) che termina il v. 1084a. Lo stesso diremo dei vv. 1099a-1101a (sistema di 10 dipodie), 1089-1091a (dodici dipodie) e cosi via, sempre nella scena finale delle Bacchides.Si riterrà che, nei sistemi, dopo ogni quaternario la dieresi è di rigore (assai meno dopo ogni dipodia), ma che il quaternario catalettico conclusivo può trovarsi in sinafìa verbale con il colon precedente: vedi Bacch. 1085a-1086 appena citati e Cur. 141-141a. 3) il quaternario anapestico catalettico (an4 ") è usato spessissimo, come già veduto, quale clausola di sistema (un uso avvicinabile a quello dd paremiaco nella versificazione greca). Tuttavia ci sono esempi non rari in cui esso viene preposto o posposto ad una serie di 'anapesti lunghi': per es. Bacch. 1196-1206, dove si succedono 5 an7 , an4 ", 2 an7 , an4 ", 3 an7 • E ancora Bacch. 1166-1168a dove an4 " (v. 1166) precede il sistema di otto dipodie (vv. 1167-1168a), il cui ultimo colon è, come atteso, an4 ". Ricorderemo a questo punto che le clausulaepossono anche iniziare un canticum o parte di esso: sopra 330 n. 3. Non di rado si hanno serie di an4 " xai:à O'tlxov (a quanto sembra) frammisti ad 'anapesti lunghi' o a sistemi oppure a versi di natura differente, come Ps. 909-909a dedit uerba mih(i) hercl(e),ut opinor ma/u(s) dim malo stii/te ciiut
dove precede un sistema di sedici dipodie (vv. 905-908a) e seguono tre an 8 (910 911 912); poco dopo tre an4 "
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Versianapestici
Ps. 916-918 nimi'(s) tiind(em) eg(o) aps te contémnor :: quipp(e) ego té ni contémniim stratiotì'cus homo qui clueiir?
sono preceduti da giambi e seguiti da giambi, eretici e trochei. Una forma caratteristica di an4 " è quella in cui tutti gli elementi sono realizzati da sillaba lunga: trascurando oggi Cas. 204/05 (vedi Questa Num. 119-120 e sopra 441 n. 1), citiamo Sti. 314-318 dé/éssiis siim piiltiindo: hoc postrémiimst. uae uobis! :: ib(o) iitqu(e) hiinc compélliibo. saluiis sis. :: ét tii salué :: iiim tii pisciitor /actii's? :: quiim pridém non édisti?
cui vanno aggiunti i successivi 322-324/25. Essi sembrano aver anche influenzato talune caratteristiche ritmiche dei sistemi anapestici che precedono e seguono, dove troviamo i rarissimi an4 olospondaici (Boldrini Anap. 36-39). 4) il settenario anapestico (an7 ) è di uso frequentissimo in cantica sia monodici sia dialogati. Quasi sempre esso presenta incisione mediana dopo l'ottavo elemento (e sono ricercate le incisioni minori dopo ogni dipodia, specialmente nel primo emistichio: vedi Boldrini Anap. 73-74): Bacch. 1087-1088 • 8 • quiciimqu(e) fbì' siint i q~~/iiériint i quique /ùtiiri siint posthac stiilti stolrdi, i fatui /iingi, ! bardi blenni biicconés
Cas.875
,
8
,
néc quo /ùgti.im ! nequ(e) uhi liiteiim i nequ(e) hoc dedeciis quo modo celém
dove è ammessa sinalefe Cas.877
.
8
.
.
ì'ta niinc pude(o) atqu(e) 1 ita niinc paue(o) atqu(e) i it(a) inrzaicìilo i sumus ambo
Metrica
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mentre in incisione sono vere eccezioni sia iato Ps. 946 ut ego t(e) iccipr(am) hodre /epuli, Ii ub(i) e/feceri'shoc opus... :: hahahe! (in Bacch. 1149 Ps. 1327 lo iato è in cambio di interlocutore)
sia l'ottavo elemento realizzato da sillaba breve: vedi Tri. 837 citato sopra 300. C'è invece più d'un esempio, raro ma difficilmente oppugnabile, di ottavo elemento bisillabico (elenco in Questa ad Bacch. 1106 e vedi sopra 304), vuoi seguito da incisione Per.756
8
eas uobzs grates habe(o) atqu(e) ago, 1 qula probe s(um) u/tus m(eum) tntmiciim
o con sinalefe Truc. 614 8 : tange modo, i(am) ego t(e) hzc agnum /acr(am) ! et medrum dzstruncabo
o persino senza incisione mediana Per. 778 8 so/us eg(o) omnrbus iinttdeo /acrle, mtse"rmus homrn(um) ut uzuam (sul verso vedi anche Boldrini Anap. 77 n. 108).
L'esigenza di avere almeno un elemento realizzato da due brevi è comprovata da Bacch. 1178 8 : leptdum t(e)! :: at scin quo pacto m(e) ad! te intr(o) abducas? :: mec(um) ut sis Ps. 236-237 8 non possum :: /ac possis :: quonam pacto passim? :: uinc(e) antmum in rem quod sit praeuortaris qu(am) in r(e) aduors(a) antm(o) auscultes
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i quali, tra l'altro, proprio in questo modo ci assicurano dell'unitarietà del verso, che non è sentito quale giustapposizione di an4 e an4 " se il necessario elemento bìbreve può essere o all'inizio o alla fine di tutto il verso (d. Boldrini Anap. 40-41). Nell'ambito dei settenari anapestici un posto particolare è tenuto da Mii. 1011-1093 4 • In questi versi l'incisione mediana è rigorosamente rispettata e una sola volta è seguita da iato (il testo del v. 1049 non è sicuro): 1033 quia tis egea!, quia te careat. \ ob eam r(em) bue ad te missa (e)st 1055 exprome benign(um) ex t(e) ingenium, durbicap(e), occisor regum (in tutto il brano gli iati sono evitati al massimo: sicuro però quello in cambio di interlocutore al v. 1057);
talora si può trovare monosillabo in inc1s10nemediana, in sinalefe, come di consueto, con la parola precedente 1027 con/audato /orm(am) et /aci(em) et\ uirtutes commemorato (cf. 1066 su cui Boldrini Anap. 69 e vedi qui sopra Bacch. 1178, oltre Rud. 221);
in incisione mediana si può avere sinalefe con l'emistichio successivo: vedi il v. 1014 discusso sopra 303. I longa bisillabici, in genere non strappati, sono assai rari, sì che, nel brano, quasi eccezionale appare un verso come
4
Questi anapesti sono stati agniti per la prima volta da Hermann Elem. 405: «quem locum olim Reizii auctoritate adductus metrum putabam habere asynartetum ex dimetro trochaico acatalecto et iambico dimetro catalectico [cf. Metr. 391-396], nunc autem persuasum mihi est, anapaestis eum scriptum esse» (né più né meno che folgorante l'agnizione degli anapesti di Cas. 217 sgg.: Elem. 413-414). Alle osservazioni pur sempre fondamentali di Jachmann Stud. 37-38 si aggiunga la ricerca di Boldrini Anap. 43-94, cui ho attinto anche dove non ricordata.
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Metrica
1054 nam nfsf t(u) il/i /ers suppetias, i(am) i//(a) iinimum despondebit
che presenta anche due volte la successione biceps lungo e longum bisillabico (cosiddetto 'dattilo') perché in generale il poeta qui rifugge degli elementi bisillabici come tali, semmai limitati ai bicipitia, presenti di preferenza all'inizio del primo e / o del secondo colon con chiara funzione di segnaletica ritmica, come in 1036 memfni et praeceptis parebo. :: uocon erg(o) hanc quae te quaerit?
Ma ci sono almeno 13 versi con u n s o 1 o elemento bisillabico (undici volte il biceps: 1021 1029 1042 1045 1046 1059/60 1071 1077 1085 1090 1093; due sole volte il longum: 1014 1080); versi che, come il citato 1036, ne hanno due soltanto (in tutto quindici) e persino tre versi (1051 1052 1072) che non hanno elementi bisillabici e sono ritmizzati dal contesto (per necn(e) d. sopra 27): 1051 quae per tuam niinc uitam uiuit: sii necn(e) sit spes in t(e) iini5 (e)st.
Un problema molto specifico di questo gruppo di versi concerne infine la sequenza biceps bisillabico + longum bisillabico (cosiddetto 'proceleusmatico ascendente') e quella inversa longum bisillabico+ biceps bisillabico (cosiddetto 'proceleusmatico discendente'). Va premesso che la sequenza di quattro brevi, comunque distribuita, è anche nei settenari anapestici innovazione latina, a quanto pare, rispetto al 'modello' greco. Non desterà stupore, quindi, che essa in generale non sia frequente e, di contro, sia accuratamente 'tutelata', come ovunque (sopra 218 sgg. 238 sgg. e 366 sgg.; per gli anapesti Boldrini Anap. 91-92 e qui oltre 458 sg.). Ancora meno stupirà che la sequenza sia rara nella prima forma, rarissima nella seconda in questi particolari settenari anapestici. Si dànno infatti solo otto casi di biceps + longum entrambi bisillabici (1011 1016 1030 1037 1063 1068 1087: aggiungo il v. 1043 perché /iiìtdi Boldrini Anap. 73 n. 92 e 76 n. 99 non è accettabile), di cui dà esempio il v. 1011
Versianapestici
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erit et tibi exoptat(um) optinget, bon(u,,l; hab(e) ai1rmum, ne Jonnida
e solo tre della sequenza contraria (1024 1076 1084: non tengo conto del mio v. 1073 che ha testo congetturale; del v. 1082 che si può scandire diversamente: Questa ad I.; e sta infine a sé il tormentoso v. 1062: Boldrini Anap. 67, 83), di cui dà esempio il v. 1024 1024 /l: 13 ag(e) ag(e) ut tibi maxime concinnum (e)st ·· nullumst hoc stotfdlu(s) saxum:
in essa ha sempre un significato l'assenza di CI (sopra 130 sg.). I vv. 1011-1093 del Mi/es presentano dunque un singolare ventaglio di peculiarità prosodico-metriche: colte con la solita chiarezza da Jachmann (Stud. 38 «nec tamen verurn est canticum sed versus sunt canticorurn proprii ad diverbii tenorem compositi»), sono state riprese e fatte proprie da Boldrini Anap. 92-93 con riferimento alle caratteristiche e alle esigenze della 'troupe' in quel momento a disposizione dell'autore. Questa stilzzazione del settenario anapestico può essere agevolmente avvicinata a quella del versus reizianus in Au. 415-446: vedi oltre 470. 5) Circa gli ottonari anapestici (an8 ) premettiamo che quanto è stato detto dei settenari anapestici può essere in gran parte riferito anche a questi versi, ma si presenta una difficoltà preliminare. Essa consiste nel poter decidere dove abbiamo an8 xa'tà CJ'tLXOVe dove invece sistemi di an4 • Spesso infatti l'antichissima edizione di Plauto pare aver disposto su di una sola linea due an4 (d. quanto sopra 353 n. 9 già osservato circa gli ottonari giambici, ma vedi ancora Rit. 140 n. 248) e ciò per parecchi versi consecutivi, rinunciando, per motivi a noi oscuri che non siano il volgare risparmio di spazio, alla perspicua disposizione per quaternari, invece conservata o almeno ricostruibile, per es., nei passi ricordati dello Stichus o della Rudens. Non sempre, insomma, l'editore di Plauto si imbatte in brani come Tri. 820-842a dove la testimonianza, pur incompleta, di A permette di riconoscere che l'antichissima edizione riteneva i vv. 820-839 una serie di an8
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Metrica
conclusa da un piccolo sistema (vv. 840-842a) '. Del pari, an8 conclusi da an7 e poi un sistema di an4 concluso dal rituale an4 " sono da riconoscersi in Au. 713-720 e 721-726 (indizi sicuri nella tradizione manoscritta, qui rappresentata da B dei Palatini). Stando così le cose, un criterio metodico moderno, che dà risultati non troppo incerti, consiste nel cercare se nel brano vi sono iati o longa realizzati con sillaba breve in incisione mediana o alla fine degli 'ottonari'; se c'é o meno un verso catalettico (apparentemente an7 , in realtà an4 e an4 ") alla conclusione della serie dei creduti an8 • Se tali indizi mancano ed è presente un colon catalettico alla fine della sequenza, allora è almeno verosimile che si debba supporre una struttura xa"tà OU